Massimo Pulpito
I TRE LIVELLI DELLONTOLOGIA
PARMENIDEA
www.giornaledifilosofia.net Gennaio 2012
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I TRE LIVELLI DELLONTOLOGIA PARMENIDEA
Massimo Pulpito
Tra i diversi inizi che sono stati attribuiti a Parmenide di Elea, uno di quelli su cui vi
maggiore consenso tra gli studiosi lavvio di quel ramo particolare della ricerca filoso-
fica che chiamiamo ontologia. Si tratta, certamente, di una paternit problematica, tanto
quanto lo la nozione stessa di ontologia. La ragione di questa attribuzione data dal fat-
to che Parmenide il pensatore che ha introdotto la nozione di essere nella filosofia occi-
dentale. E lontologia, nellaccezione pi larga e meno caratterizzata, , appunto, la
scienza dellessere. In realt, Parmenide ha un primato soprattutto di carattere lessicale,
giacch egli fu il primo a porre al centro della riflessione proprio le due parti del termine
seicentesco ontologia, da un lato lon (nel dialetto ionico di Parmenide, eon), lente, e
dallaltro, il logos, il discorso argomentato.
Questo basta per poter dire che nei frammenti dellopera di Parmenide sia rinvenibile
una compiuta teorizzazione di tipo ontologico? Evidentemente no. Per lauroralit delle
sue tesi, per il fatto che egli affrontava problemi che non sono pi i nostri, e per le ogget-
tive difficolt dinterpretazione del suo pensiero, necessario avere cautela nellattribuire
a Parmenide lelaborazione di unontologia nel senso contemporaneo (se pure si pu par-
lare di un senso), cio volta a rispondere ai problemi che affronta lattuale riflessione on-
tologica, consapevole dei confini che dividono le diverse discipline e provvista di un les-
sico specifico. La disinvoltura in questo senso condurrebbe dritti nelle trappole
dellanacronismo. Cionondimeno, tuttaltro che irragionevole pensare che nella conce-
zione parmenidea della realt si celi quella che noi riconosciamo come unontologia pi o
meno strutturata, e non quindi inutile tentare di portarla alla luce.
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
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Per farlo, dobbiamo dare per assunti due presupposti. Il primo che per ontologia in-
tendiamo la disciplina che si occupa di ci
che esiste. Tra i vari sensi con cui questa parola stata utilizzata nelle diverse tradi-
zioni, noi scegliamo quello che la qualifica come descrizione delle classi di oggetti che
costituiscono larredo delluniverso. Il secondo presupposto riguarda linterpretazione
di Parmenide. Tra gli studiosi del poema parmenideo (testo in cui coesistono argomenta-
zione rigorosa, narrazione mitica, teologia tradizionale e teoria fisica, in un intreccio che
mette a dura prova gli interpreti) il consenso leccezione, e anche l dove lo si raggiun-
ge, tale accordo verte quasi sempre su questioni di dettaglio (cio convive con il disac-
cordo su molti altri punti), tanto che pressoch impossibile disegnare precisi fronti in-
terpretativi. Per questo non sar possibile proporre una presentazione dellontologia
parmenidea, partendo dai punti fermi dellinterpretazione del poema: gli unici punti fermi
sono infatti le parole stesse di Parmenide (e nemmeno tutte, visti i numerosi problemi e-
cdotici che pongono i frammenti conservati). La ricostruzione che segue non potr che
essere parziale, esprimendo il punto di vista (non arbitrario) di chi scrive. Ciononostante,
si cercher di tenere conto, laddove possibile, delle interpretazioni maggioritarie, e di
giustificare le tesi che verranno presentate, sia da un punto di vista argomentativo (cio
mostrandone il pi possibile la coerenza con linsieme delle tesi di Parmenide), sia da un
punto di vista testuale (facendo diretto riferimento ai versi a noi pervenuti o alle testimo-
nianze posteriori)
1
.
1. Com ci che
Parmenide il filosofo dellessere, si diceva. La sua riflessione ruota attorno a questa
nozione generalissima, semplice ed enigmatica al tempo stesso. Pi precisamente, sebbe-
ne Parmenide faccia uso anche dellinfinito einai, il centro del suo ragionamento costi-
tuito dal participio eon, che significa essente, essendo, ma che nelluso sostantivato
1
Mi preme ribadire in apertura di questo studio, che esso non dedicato al poema e al pensiero di Parme-
nide in tutti i loro aspetti e problemi. Inevitabilmente verranno tagliate fuori tantissime cose, e non saranno
presi in esame passaggi cruciali, questioni testuali dirimenti, cos come importanti aspetti del suo pensiero
(certamente non meno importanti del tema di cui mi occupo qui), per non parlare delle numerose interpre-
tazioni alternative sostenute dagli studiosi. Questo perch, se ha senso parlare di ontologia a proposito del
poema parmenideo, non bisogna dimenticare che questo resta soltanto uno degli aspetti della sua opera.
Molte delle polemiche tra gli studiosi nascono proprio da dimenticanze come queste.
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che ne fa Parmenide attraverso laggiunta di un articolo (ad es. in B4.2, B8.32, 35, 37
2
,
ma vi sono occorrenze senza articolo, che sembrano veicolare lo stesso significato), indi-
ca lente, ci che .
Gi qui va rilevata una difficolt. Se stiamo al significato di ontologia che abbiamo ri-
cordato sopra, e cio il ramo della filosofia che si occupa di ci che c, ci che esiste,
limpegno di Parmenide in una riflessione su ci che sembra proprio andare nella di-
rezione della ricerca ontologica, ed appunto la ragione per cui, si detto, Parmenide
pu essere considerato ad honorem il padre di questa disciplina. Tuttavia, la convergenza
si ferma qui, perch dallontologia noi ci aspettiamo che ci dica che cosa sia ci che c o
esiste, cio quali sono le cose che esistono (e quindi, per contrasto, quali no). Il primo e-
nigma della dottrina parmenidea sta proprio nel silenzio su questa questione. Di fatto, il
padre dellontologia non ci dice quali cose esistano. Egli, infatti, chiama ci che esiste,
semplicemente e tautologicamente, ci che esiste
3
. Come vedremo, il suo sforzo non
teso a riempire una lista di esistenti, al fine di descrivere larredo ontologico del cosmo. Il
suo obiettivo un altro, e cio dirci quali propriet possieda ci che esiste. Il frammen-
to pi lungo tra quelli che ci sono stati conservati, B8, consiste per buona parte in una si-
stematica argomentazione (la prima della storia del pensiero occidentale, tanto che Par-
menide stato indicato anche come il padre della logica o addirittura della filosofia stes-
sa) dei caratteri delleon. Ma che cosa sia questo ente, Parmenide non ce lo dice mai
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Tutte le citazioni dei frammenti e delle testimonianze di Parmenide e degli altri presocratici menzionati
seguiranno la classica numerazione della raccolta Diels-Kranz. Riporter la traduzione italiana di Giovanni
Reale (G. Reale, L. Ruggiu, Parmenide. Poema sulla natura, Rusconi, Milano, 1991), sulla quale pure
manterrei delle riserve, ma che adotto perch una delle pi diffuse e al tempo stesso una delle meno carat-
terizzate dal punto di vista interpretativo.
3
Accolgo qui linterpretazione esistenziale dellessere parmenideo. Ricordo, per, che non tutti gli stu-
diosi concordano sul fatto di identificare leon con lesistente. Alcuni interpreti ritengono che leinai par-
menideo non abbia valore esistenziale (essere nel senso di esistere), ma predicativo (essere nel senso di
essere [qualcosa]) o veritativo (essere nel senso di essere vero, essere proprio cos). Tra i pi importanti
sostenitori della lettura predicativa vanno ricordati A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study
of Word, Image, and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven-London, 1970 (new,
revised edition including a new introduction, three additional essays and a previously unpublished paper by
G. Vlastos, Parmenides Publishing, Las Vegas, 2008); A. Nehamas, On Parmenides Three Ways of In-
quiry, in Deucalion, XXXIII-XXXIV (1981), pp. 97-111; P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic
Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton, 1998 (second edition with a
new introduction, Parmenides Publishing, Las Vegas, 2004). Ha sostenuto la lettura veritativa, invece,
Ch.H. Kahn, The Greek verb to be and the concept of Being, in Foundations of Language, II (1966),
pp. 245-265. Non possibile qui prendere in esame queste proposte. Rimando a N.-L. Cordero, Le deux
chemins de Parmnide. dition critique, traduction, tudes et bibliographie par N.-L. Cordero, Appendice
I La signification du verbe einai dans la littrature pr-parmnidienne, a J. Vrin-Ousia, Paris-Bruxelles,
1984 (2 ed. augm. 1997), per un rifiuto argomentato di queste alternative sulla base di puntuali considera-
zioni di carattere storico-linguistico. Per parte mia, ho discusso la lettura predicativa nella versione propo-
sta da Curd, mostrandone analiticamente i problemi, in M. Pulpito, Monismo predicazionale. Sui limiti di
uninterpretazione epistemologica delleleatismo, in Mthexis, XXIII (2010), pp. 5-33.
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
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(perlomeno non lo dice in ci che resta del suo poema), lasciando il soggetto della dedu-
zione nella sua nudit esistenziale, un anonimato ontologico che, com immaginabile, ha
aperto un altro fronte di discussione tra gli interpreti. Per poter identificare la natura di
tale oggetto, non resta che conoscere gli attributi con cui Parmenide lo presenta, e quindi
chiedersi quale tra gli enti che costituiscono il potenziale arredo ontologico del cosmo
possa corrispondere a tali caratteristiche.
Intanto va detto che nei cosiddetti frammenti metodologici (in linea di massima da B2
a B7) la Dea a cui Parmenide affida la rivelazione della verit e che si rivolge ad un kou-
ros, un giovane (cio lo stesso Parmenide) che lascolta, giunge ad una conclusione che
costituisce la premessa di tutta la deduzione degli attributi dellesistente: senza di essa
largomentazione mancherebbe di fondamento. La tesi questa: non si pu (cio non si
deve) fare alcun riferimento a ci che non (o, il che lo stesso, non si deve attribuire il
non essere a ci che ). Parmenide adduce a sostegno di questa tesi la ragione secondo
cui ci che non non pu essere n conosciuto (e concepito) n espresso. Definire con
precisione largomento di Parmenide (se pure vi un argomento compiuto) operazione
tuttaltro che semplice ed esula dal tema di questo articolo. Osservo soltanto che, stando
al testo, le interpretazioni pi plausibili sono due: una di tipo epistemologico e laltra di
tipo semantico. Secondo la prima, Parmenide avrebbe ritenuto il riferimento al non essere
come estraneo ad ogni discorso e conoscenza che vogliano dirsi veri. Una conoscenza e
un discorso sono veri se hanno per oggetto ci che . Conoscere ed esprimere ci che non
, vuol dire conoscere ed esprimere il falso. Ci sarebbe confermato dalla caratterizza-
zione parmenidea della via dellessere come via della verit
4
. Secondo
linterpretazione di tipo semantico, invece, il riferimento, per Parmenide, implicherebbe
sempre lesistenza del suo oggetto, poich riferirsi a ci che non esiste vuol dire non rife-
rirsi affatto. Per cui, pensare a ci che non equivarrebbe a non pensare; parlare di ci
che non significherebbe non parlare. Entrambe le letture (e soprattutto la seconda)
pongono enormi problemi, che qui non possibile affrontare. Ci che risulta chiaro che
per leleate, qualunque fosse largomento di fondo, non vi alcuno scarto tra epistemolo-
gia e ontologia.
Cos, atteso che in un discorso vero e sensato non si pu fare riferimento al non essere,
Parmenide ritiene conseguente espungere tutte quelle propriet delle cose che implicano
4
Sebbene Parmenide non parli di via dellessere e di via della verit, entrambe le espressioni rendono
bene ci che troviamo scritto ai versi B2.2-4.
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un riferimento pi o meno indiretto al non essere di ci di cui si parla. da qui che pren-
de le mosse il suo ragionamento.
La prima sezione del frammento B8 (vv. 1-49) presenta una precisa struttura argomen-
tativa. I primi versi propongono una sorta di abstract dei caratteri da dimostrare, cui se-
guir la lunga deduzione dei singoli attributi approssimativamente nellordine in cui sono
presentati nel prospetto iniziale. Anche sulla struttura della deduzione vi sono delle incer-
tezze: tra gli studiosi non c consenso su quali e quanti siano i caratteri annunciati nella
sintesi introduttiva, cos come vi sono divergenze nellindividuazione dei versi esatti in
cui sarebbero collocati i diversi momenti della dimostrazione
5
. Cionondimeno, al di l
delle differenze di dettaglio, ritengo che si possa concordare sul fatto che gli attributi
dellessere parmenideo siano fondamentalmente (o quantomeno) quattro: ingenerabilit
(cui Parmenide fa corrispondere il carattere complementare dellimmortalit), indivisibi-
lit (e continuit), immobilit (e immutabilit), completezza (ossia perfezione, cui corri-
sponde la finitezza). Ognuno di questi caratteri giustificato mettendo a nudo limplicita
presupposizione del non essere da parte del carattere opposto, che viene dunque rifiutato.
Cos, Parmenide nega che lesistente possa essere nato, giacch nascere vuol dire ve-
nire ad essere, ma ci implica che prima di nascere esso non fosse, il che impossibile,
stando allargomento da cui parte la deduzione. Allo stesso modo, lesistente non pu fi-
nire dessere: la ragione probabilmente simmetrica a quella che giustifica
lingenerabilit, ma Parmenide non lo dice esplicitamente. Per questo lesistente senza
inizio e senza fine, e quindi eterno
6
. Poi, lesistente indivisibile e continuo, perch,
5
Si tenga conto che il prospetto iniziale, proprio per il fatto di racchiudere in pochi versi il cuore della tesi
parmenidea, si esponeva facilmente ad essere citato a memoria e quindi a corrompersi, come testimonia il
fatto che ci sia giunto in versioni leggermente diverse.
6
Per eternit qui intendo la perpetuit, lessere infinitamente nel tempo, da sempre e per sempre. La lettura
classica di Parmenide gli ha attribuito lideazione di uneternit di tipo diverso, ossia extratemporale, in
quanto fondata sulla presunta estraneit dellessere al divenire temporale. In tal caso, Parmenide avrebbe
anticipato Platone nellimmaginare limmutabilit degli enti come condizione di trascendenza rispetto al
tempo. Si tratta, tuttavia, di uninterpretazione che pone numerosi problemi di carattere teorico e testuale, il
cui unico fondamento un solo verso, B8.5 (nel quale apparentemente Parmenide negherebbe che lente
abbia passato e futuro, cio in definitiva che sia nel tempo) non a caso inserito nel sintetico prospetto dei
caratteri, di cui si gi ricordata la problematicit (si veda la nota precedente). Per gli argomenti contrari a
questa interpretazione tradizionale, si vedano H. Frnkel, Wege und Formen frhgriechischen Denkens.
Literarische und philosophiegeschichtliche Studien, Beck, Mnchen, 1955, p. 191 n.1; L. Tarn, Par-
menides. Text, Translation, Commentary and Critical Essays by L. Tarn, Princeton University Press,
Princeton, 1965, p. 175-188; J. Whittaker, Parmenides fr. 8,5, in Id., God, Time, Being. Two Studies in the
Trascendental Tradition in Greek Philosophy, in Symbolae Osloenses, fasc. suppl., XXIII (1971), pp.
16-32; D. OBrien, Temps et intemporalit chez Parmnide, in Les tudes Philosophiques, LV (1980),
pp. 257-272; M. Pulpito, Quanto dura to eon? Parmenide e la presupposizione del tempo, in L. Ruggiu e
C. Natali (a cura di), Parmenide: ontologia scienza mito, in corso di pubblicazione [Atti del convegno,
Parmenide: ontologia scienza mito. I risultati della ricerca internazionale a confronto, Venezia, 2010].
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
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dice Parmenide, tutto uguale: in esso non c un di meno che possa impedirgli di essere
un tutto unito, ma non c nemmeno un di pi. Infatti, non ha senso un di pi di essere. O
si , o non si : questa la krisis, il discrimine, come afferma Parmenide in B8.15-16,
allinterno dellargomentazione dellingeneratezza. Poich dunque non vi sono alternati-
ve allessere, leon tutto omogeneo, e quindi le sue parti non possono essere separate.
Se lo fossero, dovrebbero essere separabili da qualcosaltro: ma laltro dallesistente ci
che non . Quindi, non divisibile, tutto compatto. Ancora, non pu muoversi e muta-
re: esso resta sempre nello stesso luogo e nella stessa condizione. Parmenide non propone
un argomento chiaro a favore dellimmobilit (e dellimmutabilit) ma sembra collegare
questo carattere allingenerabilit (e immortalit)
7
. Linterpretazione pi probabile che
egli stia proponendo unanalogia tra le due argomentazioni: come nascere vuol dire pas-
sare dal non essere allessere, cos muoversi vuol dire passare dal luogo in cui non si
pi, al luogo in cui si (un ragionamento simmetrico si pu fare per la morte). Infine,
con lultimo carattere sembra che Parmenide intenda rimuovere lidea che lesistente ab-
bia un profilo tutto negativo. I primi tre attributi, infatti, hanno tutti forma negativa, pro-
prio perch negano condizioni, stati e processi, che implicano pi o meno indirettamente
il non essere: lente non nasce e non muore, non divisibile, non si muove e non cambia.
Sarebbe, per, un travisamento profondo del pensiero di Parmenide ritenere che questo
oggetto, definito attraverso una serie di esclusioni, sia segnato da una intrinseca manche-
volezza. Al contrario, nellultimo momento della deduzione la Dea attribuisce
allesistente il carattere della completezza, cio, si potrebbe dire, della mancanza di qual-
siasi mancanza. Lesistente in senso pieno, se tale, ha gi tutto ci che gli serve per es-
sere: appunto, ha lessere, e come Parmenide ha gi affermato, rievocando il bivio del fr.
B2 nella krisis di B8.15-16, lunica alternativa allessere il non essere: non ci sono gra-
di nellessere, non si pi essere pi o meno, non si danno terze vie. Dunque, lesistente,
avendo lessere, ha tutto. Ma se non manca di nulla, allora perfetto.
Su questultimo carattere sembrano convergere i primi tre. Infatti, se lessere dovesse
completarsi, ci che gli manca dovrebbe nascere dal nulla, il che negato dal primo attri-
buto delleon. Se invece ci che gli manca esistesse gi, la sua incompletezza deriverebbe
dal fatto che esso separato dalla parte mancante, il che negato dal secondo attributo.
Ancora: tale separazione potrebbe essere superata, in funzione del completamento, solo
7
Ma immobile, nei limiti di grandi legami / senza un principio e senza una fine, poich nascita e morte /
sono state cacciate lontane e le respinse una vera certezza (B8.26-28).
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se leon potesse raggiungere (o essere raggiunto da) la parte mancante, il che negato dal
terzo attributo. Restano due possibilit: o leon da sempre e per sempre compiuto, op-
pure da sempre e per sempre incompiuto. Ma questa residua possibilit (leterna in-
compiutezza) negata dal quarto attributo.
Lesistente , quindi, perfetto, perch compiuto, secondo un presupposto tipicamente
greco (o comunque pitagorico) che intende limperfezione come incompiutezza. Parme-
nide traduce questo concetto in termini spaziali, come limitatezza. Lessere finito, e ci
segna una differenza sostanziale da Melisso, il cui ente possiede pressoch tutte le carat-
teristiche dellente parmenideo, ma se ne distingue appunto per linfinit. Se lente fosse
infinito, infatti, non avrebbe limite, e quindi, secondo Parmenide, sarebbe incompiuto, il
che impossibile per le ragioni che si sono dette. Leleate esprime questa condizione at-
traverso limmagine della sfera. Lesistente, dice Parmenide, paragonabile alla massa di
una sfera ben arrotondata (B8.43), in cui ogni punto della superficie equidistante dal
centro.
Su questo passaggio della deduzione la critica si divisa tra chi sostiene che
limmagine della sfera sia soltanto unefficace similitudine, in grado di rappresentare la
perfezione dellessere
8
, e chi, invece, ritiene che essa rappresenti la forma reale
dellesistente
9
. A ben vedere, tuttavia, i risultati della deduzione e il modo stesso in cui
Parmenide argomenta i caratteri delleon, fanno propendere per una lettura realista. In-
nanzitutto, la negazione della nascita e della morte fa pensare che lesistente in questione
sia un oggetto materiale nello spazio, paragonabile ad un corpo che nasce e muore, e non
una qualsiasi entit (come eventi, pensieri o altro). Il riferimento a ceppi, legami e cate-
ne, pi volte evocati da Parmenide (B8.14, 26, 31, 37), e la rappresentazione delleon
come unentit racchiusa entro alcuni limiti, sembrano difficilmente interpretabili come
metafore, e invece lasciano pensare ad un oggetto esteso. Ancora, linsistenza sulla con-
tinuit e indivisibilit dellente va in questa stessa direzione: leon non si pu dividere,
perch gli eonta si stringono tra loro ( il senso pi ovvio di B8.25). Limmagine ine-
quivocabile, e comunica lidea di una serie di enti materiali che fisicamente si ammassa-
8
Ad es., P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1939, p. 148 n. 38; L. Tarn,
Parmenides, cit., p. 155; P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation,
Marquette University Press, Milwaukee, 2007, p. 53.
9
Ad es., A. Patin, Parmenides im Kampfe gegen Heraklit, Jahrbcher fr classische Philologie, 25
(1899), Supplementband, p. 579; K. Bormann, Parmenides. Untersuchungen zu den Fragmenten, Felix
Meiner, Hamburg 1971, p. 175; T.M. Robinson, Parmenides on the Real in Its Totality, in The Monist,
LXII (1979), pp. 54-60.
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
9
no e comprimono, formando un solo ente. Che senso avrebbe dividere un evento, un pen-
siero o altre entit esotiche?
10
Infine, a meno di intendere anche limmobilit in senso
metaforico (il che insostenibile, data la presenza dellinequivocabile topon allassein,
cambiare luogo, B8.41, nellelenco degli abbagli dei mortali), la negazione del movi-
mento mostra chiaramente come lentit su cui sta riflettendo leleate, sia un oggetto teo-
ricamente in grado di muoversi (in caso contrario la confutazione non avrebbe senso), e a
muoversi sono solo i corpi nello spazio. A tutto ci si pu aggiungere il fr. B4, che negli
ultimi due versi, afferma che lente non pu essere realmente separato dallente, n co-
me disperso dappertutto in ogni senso nel cosmo, n come raccolto insieme (B4.3-4).
Anche qui, la doppia dinamica di dispersione e raccoglimento avrebbe poco senso, se
leon di cui parla Parmenide non fosse un oggetto esteso.
Tutto ci fa pensare che lesistenza a cui pensa Parmenide sia quella degli oggetti ma-
teriali nello spazio
11
: si potrebbe dire, con tutta lapprossimazione del caso, che egli abbia
una concezione reista dellesistenza, come forse tutti i primi presocratici. Si obietter che
nella sua generalit leon, poich denota tutto ci che esiste (stando ad una delle interpre-
tazioni possibili dellente parmenideo), non potr che includere anche i corpi, il che spie-
gherebbe perch certi momenti della deduzione sembrino attagliarsi agli oggetti fisici. Il
10
Vi stato chi ha inteso la continuit in senso temporale, interpretando in tal modo gli eonta che si strin-
gono tra loro come eventi nel tempo pi che come oggetti nello spazio: cos, ad es., il classico G.E.L.
Owen, Eleatic Questions, in Classical Quarterly, X (1960), pp. 84-102, in particolare pp. 96-98. evi-
dente che se si accetta questa lettura, difficilmente poi si pu intendere limmobilit in senso letterale.
11
interessante osservare, in proposito, che in Metaph. 1001b 7-11 Aristotele attribuisce a Zenone di Elea
la tesi secondo cui lesistenza implicherebbe necessariamente la grandezza e la corporeit (lo chiama
lassioma di Zenone). Ma per tornare a Parmenide, unobiezione che spesso viene mossa a chi sostiene la
tesi della materialit delleon parmenideo (idea non molto comune tra gli storici della filosofia da Hegel in
poi, e talvolta caratterizzata con laggettivo grossolana o rozza) consiste nel sostenere che non avrebbe
senso chiedersi se lessere di Parmenide fosse materiale o immateriale, giacch leleate precederebbe tale
distinzione concettuale. Ci probabilmente vero, sebbene non abbiamo modo di valutarlo pienamente,
poich se pure Parmenide avesse operato quella distinzione, improbabile che lo avesse fatto negli stessi
termini dei suoi successori, non fosse altro che per il fatto di essere il primo a farlo: come chiamare infatti
la materia, quando non se ne ha gi una nozione a disposizione? Platone parler di chra, regione, trat-
to di terra; Aristotele di hyl, foresta, legname. Per quale ragione Parmenide non avrebbe potuto parla-
re di eon, quel che c, nello stesso senso? Ma al di l di ci, ammettendo la validit del presupposto
dellobiezione, essa in genere viene utilizzata per suggerire lidea che lessere parmenideo non fosse con-
cepito n come materiale, n come immateriale, il che per vuol dire attribuire a Parmenide e a tutti gli altri
predecessori della distinzione in questione, non solo lincapacit di immaginare entit materiali (il che stu-
pisce non poco: davvero, ad esempio, la terra e lacqua di cui parla Senofane non erano concepite come en-
tit materiali?), ma soprattutto lideazione di una misteriosa condizione terza, n materiale, n immateriale.
plausibile? Io ritengo che precedere storicamente la presa di coscienza di una distinzione tra due piani
non significhi non poter pensare n luno, n laltro, ma essere incapaci di pensare luno separatamente
dallaltro. In altre parole, se davvero Parmenide non distingueva corporeo e incorporeo, vuol dire che attri-
buiva alle cose corporee i caratteri degli incorporei e viceversa: il che, a fortiori, vuol dire che leon fosse
concepito anche come un ente materiale, sebbene Parmenide non avesse gli strumenti per isolare concet-
tualmente questo aspetto del suo oggetto di riflessione.
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problema , per, che questi momenti dellargomentazione si addicono soltanto a tali og-
getti.
Ora, se tutto questo vero, se Parmenide ha davvero un approccio di tipo reista
allesistenza, allora il riferimento alla sfera non pu essere letto in senso puramente meta-
forico. molto probabile che Parmenide pensasse davvero alleon come ad un ente di
forma sferica. Lobiezione pi forte che stata mossa contro questa ipotesi quella se-
condo cui, se Parmenide avesse sostenuto la sfericit reale dellente, non avrebbe potuto
non chiedersi che cosa ci sia fuori della sfera. Evidentemente, non pu esserci qualcosa
di esistente, perch in tal caso lente non sarebbe finito; n pu esserci linesistente, per-
ch impossibile. Come se ne esce? Intanto, va detto che questo rilievo colpisce non solo
la limitatezza spaziale, ma lidea stessa di finitezza: se, infatti, lesistente ha una fine
(spaziale o no), ci si pu sempre chiedere da che cosa lo separi quel limite. A poco serve
indebolire le tesi parmenidee, rispondendo che qui si tratterebbe solo di similitudini e
metafore, di linguaggio immaginifico che non va preso sul serio fino in fondo: se cos
fosse, avremmo a che fare con unimmagine inefficace, giacch pi che comunicare per-
fezione, lascia passare lidea di una compresenza di essere e non essere, separati da un
metaforico confine. Tuttavia, farsi scudo con un classico tu quoque non porta molto lon-
tano: per chi sostiene linterpretazione realista della sfera, lobiezione resta intatta.
Ora, innanzitutto va notato che questo rilievo non imped, ad esempio, ad Aristotele,
che pure negava lesistenza del vuoto (Phys. IV 213b 30-214b 35), di concepire il cosmo
come finito e sferico (De Coel. I 278a 25-279a 35, II 286b 10). La domanda retorica su
che cosa ci fosse fuori del cosmo, evidentemente non gli parve unobiezione fondata
12
.
Ma per restare alleleate, un modo per rispondere allobiezione mi sembra possa essere il
seguente. Per Parmenide non ha senso parlare del non essere: ebbene, chiedersi che cosa
ci sia fuori dellessere, non significa proprio parlare del non essere? Lunica cosa sensata
che si pu dire del non essere che non . Il che implica semplicemente che il fuori
dellessere non esiste. Per questo la domanda che chiede che cosa ci sia fuori della sfera
dellessere, una domanda insensata, appunto perch non esiste alcun fuori
13
. un po
12
Ma, ad onor del vero, Aristotele non era compromesso nellesclusione del non essere cos come lo era
stato Parmenide.
13
Non il fuori unentit esotica che mette in discussione il supposto reismo parmenideo? In fin dei conti,
fuori non un oggetto corporeo, e quindi non pu esistere. Ora, a parte il fatto che Parmenide starebbe ap-
punto negando che possa esserci un oggetto di questo tipo, ma fuori una nozione spaziale e non va di-
menticato che per i Greci il luogo sempre il contenitore di un corpo. Negare lesistenza di un luogo vuo-
to non contraddice affatto il reismo.
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11
come chiedere che cosa ci sia scritto nel frammento B100 di Parmenide: non esiste alcun
frammento B100
14
.
2. Eliminativismo melissiano
Torniamo alla domanda da cui siamo partiti. Quale ente pu corrispondere ad un og-
getto con queste caratteristiche: un ente senza inizio e fine, senza divisioni interne, im-
mobile, immutabile e perfettamente compiuto? Innanzitutto, va chiarito se leon sia un
ente in senso numerico oppure una tipologia di enti. Vi sono infatti letture
15
che ritengo-
no leon una sorta di schema o modello vuoto, che presenti i caratteri formali degli enti
reali. Si tratta di una questione molto discussa in passato, ma per certi versi ancora attua-
le, che ruota attorno alla nozione di monismo. Parmenide era un monista? Rifiutava la
pluralit degli enti? Nel poema vi un solo riferimento, e del tutto marginale, allunit
(hen, B8.6), la cui autenticit stata altres messa in discussione
16
.
Ci detto, per innegabile che leon rappresenti per Parmenide un ente in senso nu-
merico (la sola cosa che esiste) e non distributivo (ogni cosa che esiste). La ragione per la
quale Parmenide non insiste sullunit sar chiara pi avanti, ma gi adesso si pu notare
come paradossalmente sia proprio il riferimento alla pluralit degli enti che sembra e-
mergere in almeno due passi del poema, a deporre a favore della tesi monista. In B8.25
Parmenide scrive: eon gar eonti pelazei (lente si stringe allente). Come si gi detto, il
senso chiaramente laffermazione della compattezza tra i diversi enti, che presuppone la
14
La risposta ha una sua forza intrinseca, giacch qui il limite indica la fine di qualcosa (e quindi la sua
perfezione, completezza) e non un confine (tra un dentro e un fuori), e tuttavia se ne pu discutere
lefficacia ragionando sul concetto di limite, o comunque di come, in un modo o nellaltro, il riferimento al
non essere, parlando di un essere sferico, sia inaggirabile (si potrebbe dire, infatti, che se il fuori
dellessere equivale al non essere, e se il concetto di sfera implica necessariamente lesistenza di un fuo-
ri, giacch una sfera tale solo se c un fuori da cui guardarla, allora la sfera dellessere implica il non
essere). Sono problemi seri di cui per non possibile occuparsi in questa sede. Si noti, tuttavia, che anche
laddove il problema risultasse insolubile, ci non implicherebbe affatto che Parmenide non avesse potuto
sostenere la sfericit reale delleon. Il fatto stesso che Melisso non seguisse Parmenide su questo punto po-
trebbe essere indice del fatto che egli (cio un lettore del poema di primissimo ordine per la vicinanza tem-
porale e filosofica a Parmenide) riconoscesse il problema e ritenesse che leleate non lo avesse risolto ade-
guatamente.
15
Ad es. J. Barnes, Parmenides and the Eleatic One, in Archiv fr Geschichte der Philosophie, LXI
(1979), pp. 1-21, e P. Curd, The Legacy of Parmenides, cit. (sebbene questultima, come si detto, accolga
la prospettiva predicativa).
16
Fu Untersteiner a sottolineare con forza sia linsostenibilit teorica del monismo parmenideo, sia
linfondatezza testuale di hen syneches in B8.6a, luogo per il quale egli preferiva una variante che non fa-
ceva alcun riferimento allunit, oulophues, attestato anche in Empedocle B62.4 (M. Untersteiner, Parme-
nide. Testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, Firenze, 1958, pp. XXVII-L).
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12
pluralit. Lesito di tale compattezza , per, una indistinzione tra gli enti che si stringo-
no, giacch lessere non interrotto dal non essere, un tutto continuo, omogeneo. Gli
enti potrebbero teoricamente dividersi per il tipo di enti che essi sono (ad es., acqua e o-
lio) ma non per il fatto di essere: da questo punto di vista, essi costituiscono un unico en-
te (linsieme di acqua e olio un esistente pi un esistente: poich non c alcuna discon-
tinuit esistenziale tra lacqua e lolio, essi sono un unico esistente indivisibile). Tale li-
nea di ragionamento confermata dal gi citato fr. B4, laddove Parmenide, immaginando
una ipotetica condizione di raccoglimento e dispersione cosmica, esclude che ci possa
implicare una divisione reale tra le cose.
Ebbene, se questo vero, evidente che Parmenide non sta parlando delle caratteristi-
che che possiederebbero gli enti, separatamente gli uni dagli altri, ma proprio del fatto
che essi non possono separarsi, e quindi che la pluralit ammessa per ipotesi (sulla base
di ci che presenta lesperienza), di fatto non possa essere accolta dal punto di vista ge-
nuinamente ontologico. Un ente con queste caratteristiche, che cio assorbe e trascende
ogni eventuale ente singolo, non potr essere una classe di enti, ma un ente vero e pro-
prio.
E allora, che cosa leon? Credo che le possibilit siano quattro, con alcune sottoarti-
colazioni.
(1) Leon una divinit materiale ( la Senofane) o unaltra entit fisica indeterminata,
che non esclude lesistenza di ulteriori enti, ma convive con essi. In tal caso, o (a) es-
so occupa uno spazio extracosmico, oppure (b) esso interpenetra il cosmo, condivi-
dendone interamente lo spazio, ma senza identificarsi con esso, o ancora (c) esso lo
ingloba, superandolo in estensione.
(2) Leon non separato dalle cose: al contrario, coincide con linsieme di tutte le cose.
il Tutto, il cosmo, luniverso nella sua interezza.
(3) Leon una sostanza, la materia di cui sono fatte le cose, ununica entit indetermina-
ta che si manifesta negli enti variegati e divenienti.
(4) Leon lunica cosa che esiste: lesistente senza ulteriori caratteristiche specifiche.
Non classificabile con nientaltro, perch fa classe a s: tutto il resto non esiste. Es-
so, infatti, non convive, interpenetra o ingloba le cose come (1), non coincide con il
loro insieme come (2), e non ne il fondamento materiale come (3): semplicemente
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
13
le esclude. O esistono gli oggetti dellesperienza, o esiste leon. E poich leon
lesistente e non pu non esistere, non esiste nientaltro.
La lettura classica del pensiero parmenideo ha adottato la quarta alternativa, nota co-
me monismo numerico o stretto. Le prime due interpretazioni rientrano in quello che
stato chiamato monismo generoso, mentre la terza coincide con il classico monismo
materiale, tradizionalmente attribuito agli ionici.
Lipotesi (4) una forma di eliminativismo, fondato sullidea di una reciproca esclu-
sione tra le caratteristiche dellesistente riconosciute dalla ragione e quelle attestate
dallesperienza: un contrasto risolto propendendo per levidenza della ragione, e dunque
rifiutando lattendibilit dellesperienza sensibile, che si rivela cos soltanto unillusione.
Di questo eliminativismo radicale abbiamo sicuramente un esempio dello stesso secolo in
cui oper Parmenide. Si tratta del gi citato Melisso di Samo (autore di un trattato proba-
bilmente intitolato Peri physes peri tou ontos), che la storiografia tradizionale fa rien-
trare nella scuola eleatica, per le non poche affinit che ne collegano la dottrina a quella
parmenidea
17
. Nel celebre fr. B8 Melisso scrive:
[] Se, infatti, esistessero i molti, questi dovrebbero essere tali quale io dico che luno.
Se, infatti, esistessero e la terra e lacqua e laria e il fuoco e il ferro e loro e da un canto
ci che vivo e dallaltro ci che morto e ci che nero e ci che bianco e tutte le altre
cose che gli uomini dicono essere vere: se, dunque, tutte queste cose esistono, e noi ve-
diamo e udiamo in modo retto, bisogna che ciascuna di queste cose sia tale quale la prima
volta a noi parve e che non si trasformi n diventi diversa, ma che ciascuna sia sempre
quale . Ora noi diciamo, appunto, di vedere e di udire e di intendere in modo retto.
Daltra parte ci sembra che il caldo diventi freddo e che il freddo diventi caldo, il duro di-
venti molle e il molle diventi duro, che il vivo muoia e che il vivo si generi dal non-vivo e
che tutte queste cose si alterino e che ci che era non sia uguale a ci che ora [] Per
conseguenza, risulta che noi n vediamo n conosciamo cose che sono. Queste cose, dun-
que, non si accordano fra loro. E se anche noi affermiamo che gli esseri siano molti, dotati
di eterne forme e di forza, ci sembra, poi, che tutti mutino e diventino diversi da come o-
gni volta li vedemmo. dunque evidente che noi non vediamo in modo retto e che quelle
17
La posizione di Zenone di Elea su questi temi pi incerta, dato il suo stile filosofico negativo, caratte-
rizzato, cio, pi dalla confutazione di tesi altrui (fosse anche il senso comune) attraverso ragionamenti su
casi esemplari, che da argomentazioni di tesi proprie.
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14
molte cose ci sembrano essere in modo non retto. Infatti, se fossero veramente, non mute-
rebbero, ma ciascuna dovrebbe essere tale quale ci sembrava che fosse.
18
Melisso fa leva su un aspetto dellessere, dedotto per via di ragione, che egli ritiene
imprescindibile, e cio linalterabilit. Come appare ovvio, per gli scopi del filosofo sa-
rebbe bastato osservare che i molti oggetti dellesperienza, a prescindere dalle loro carat-
teristiche (come lalterazione), non sono luno, proprio per il fatto di essere molti. Invece,
Melisso sembra ritenere fondamentale il carattere dellimmutabilit, una propriet
dellessere sostenuta anche da Parmenide attraverso la negazione della generazione, della
distruzione, del completamento e del movimento. Leleate aveva insistito molto meno
sullunicit, che pure, come si detto, una innegabile caratteristica delleon. evidente,
dunque, che dietro la concezione melissiana dellessere, modificata quanto si vuole ri-
spetto a quella parmenidea (non importa se perfezionata o peggiorata), ci sia lo spettro di
Parmenide.
Tuttavia, il fatto che il filosofo samio abbia risentito pesantemente dellinfluenza elea-
tica, non vuol dire affatto che il suo pensiero possa essere utilizzato come chiave di lettu-
ra per linterpretazione di Parmenide, e non solo per la presenza di espliciti punti di rottu-
ra (a partire dal contrasto tra finitezza dellessere parmenideo e infinit dellessere melis-
siano). Entrambe le dottrine argomentano una forma di monismo. Ma con esattezza quale
monismo? inevitabile che entrambi abbiano immaginato uno stesso di tipo di moni-
smo? Detto altrimenti: il fatto che Melisso fosse un monista austero, cio propugnatore
di un monismo stretto, implica che lo fosse anche Parmenide? Non forse un caso se
Melisso parla esplicitamente di uno, e Parmenide lo fa con molto meno enfasi.
Intanto, va detto che il monismo stretto costituisce unopzione filosofica molto pro-
blematica: infatti una tesi che si autodistrugge. Sostenere che esiste soltanto una cosa,
vuol dire affermare linesistenza di tutto ci che non quella cosa, e quindi, ad esempio,
il linguaggio e il pensiero (posto che quella cosa non sia il linguaggio o il pensiero), ossia
nello specifico la stessa tesi che afferma tale inesistenza, oltre al fatto di dichiarare la
propria inesistenza (a meno, anche qui, di non identificarsi con lunico esistente, a prezzo
per di rinunciare alle caratteristiche che fanno di noi ci che siamo lessere nati,
lessere mobili, lessere divisibili e incompiuti e in fin dei conti minare alla base la
18
Riporto qui la traduzione di G. Reale, Melisso. Testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, Firenze,
1970. Ma su Melisso si veda anche limportante studio di R. Vitali, Melisso di Samo. Sul mondo o sull'es-
sere: una interpretazione dell'eleatismo, Argalia, Urbino, 1973.
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
15
stessa possibilit di sostenere tesi, attivit che implica pur sempre un cambiamento ed
uno sdoppiamento tra il locutore e ci che dice). Insomma, lesito una sorta di contro-
cogito cartesiano, un ragionamento che deduce la propria inesistenza. Oltre a ci, se la
verit corrisponde a ci che esiste, allora non esistendo nientaltro al di fuori dellunico
esistente, e quindi non esistendo nemmeno la tesi che afferma questa esistenza esclusiva,
essa non potrebbe essere vera, appunto perch inesistente
19
.
Questo, per, non certamente un problema dal punto di vista storico. Il fatto che il
monismo stretto abbia esiti auto-confutatori, non implica che Parmenide non labbia po-
tuto sostenere. Lammirazione degli antichi verso Parmenide non una garanzia suffi-
ciente del fatto che egli non possa essersi contraddetto in una maniera cos eclatante. E
infatti la tradizione non ha trovato nulla di strano nellattribuirgli lideazione di questa
tipologia di monismo, giudicandolo al tempo stesso un pensatore di grande profondit
20
.
Il vero problema sta, invece, nel testo stesso di Parmenide, in un aspetto della struttura
del poema che lo distingue dal trattato melissiano. Non c, infatti, solo la differenza sti-
19
Ma la contraddizione performativa nelleleatismo sempre in agguato. Un altro punto caldo la tesi
dellindicibilit e impensabilit del non essere, cio il presupposto della deduzione parmenidea, di cui qui
non ci siamo occupati.
20
Per qualche strana ragione, se questa potenziale autodistruzione sempre stata pi o meno perdonata
alleleate, il fatto che il samio abbia potuto appoggiare questa stessa tesi, stato visto, invece, come prova
del fatto che egli non facesse sul serio, o comunque che non fosse un pensatore alla stregua di Parmenide
(ad es. J. Palmer, Parmenides and Presocratic Philosophy, Oxford University Press, Oxford-New York,
2009, pp. 216-224). Questo pu essere senzaltro vero, ma il sospetto che su Melisso continui a pesare un
pregiudizio che risale ad Aristotele (Melisso A7; emblematico, da questo punto di vista, ancora il lapida-
rio giudizio che ne dette Albertelli: il pensiero occidentale pu tranquillamente fare a meno di Melisso di
Samo, P. Albertelli, Gli Eleati, cit., p. 213). Quanto a Parmenide, come si diceva, un dato di fatto che i
pi gli abbiano attribuito questa forma di monismo (cosa che la manualistica generalmente continua a fare).
E tuttavia, su un tema come questo la tradizione stata tuttaltro che compatta. Ad esempio, gi Plutarco
polemizzava con lepicureo Colote di Lampsaco proprio su questo punto, accusandolo di banalizzare il
pensiero parmenideo. Colote, a quanto pare, fu tra quelli che accollavano alleleate un monismo di stampo
melissiano. Plutarco (Adversus Colotem) gli opponeva, invece, uninterpretazione di Parmenide di tipo pla-
tonico, che, cio, separava il piano degli enti sensibili da quello degli intelligibili, senza che ci implicasse
il rifiuto dei primi. Al di l di come distribuire ragioni e torti interpretativi in questantica controversia,
quel che conta che gi nellantichit vi fosse una disputa sulle questioni di cui qui ci occupiamo, e che
quindi linterpretazione eliminativista fosse tuttaltro che scontata. Di pi, se vero che Melisso fu per un
certo periodo il filosofo eleatico pi influente, probabilmente per la sua radicale linearit, al punto da get-
tare unombra persino sul fondatore delleleatismo, altres vero che Platone e Aristotele mostrarono pi
volte esitazione nellaccomunare leleate e il samio in una stessa scuola. Vi un significativo passo del Te-
eteto (180e) in cui Platone segnala una convergenza tra le posizioni dei due filosofi; tuttavia, egli lo fa in
un modo che ne riconferma la reciproca estraneit: egli parla, infatti, di dottrine sostenute da Melissiani
(Melissoi) e Parmenidei (Parmenidai), come contrastanti con le teorie del divenire universale (alla Eracli-
to). Utilizzando i nomi dei due filosofi al plurale, Platone in qualche modo suggeriva che coloro che soste-
nevano le stesse cose di Melisso a rigore non potevano rientrare nella categoria dei seguaci di Parmenide,
sebbene avessero con questi forti affinit. Aristotele dal canto suo (Phys. I 185a 10-11) accus Melisso di
proporre una tesi meno sofisticata (phortikos) di quella di Parmenide, distinguendo, altres (Metaph. I 986b
18-20) tra il monismo teorico di Parmenide (kata ton logon) e il monismo concreto di Melisso (kata tn
hyln).
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16
listica tra la scelta del metro da parte di Parmenide e quella della prosa da parte di Melis-
so (che pure segna uno scarto significativo dal punto di vista delle aspettative
delluditorio
21
). Laspetto pi appariscente che differenzia le due opere sta nel posto che
occupa la deduzione dei caratteri dellessere. Nel libro di Melisso, a quanto ci risulta, non
vi altro che questa deduzione, e suo il trattato si risolve nella sequenza ordinata dei
momenti del ragionamento esposto. Non cos il poema di Parmenide, la cui struttura ap-
pare molto pi complessa.
Nel poema si riconoscono almeno quattro sezioni
22
: (a) un proemio introduttivo che
narra in prima persona il viaggio mitico che Parmenide avrebbe compiuto per raggiunge-
re la Dea (fr. B1); segue il discorso diretto della Dea articolato in (b) una parte metodolo-
gica, in cui sono presentati i presupposti epistemologici della ricerca (indicativamente frr.
B2, B3, B6, B7
23
), (c) una parte ontologica, in cui sono dedotti i caratteri dellesistente
(vv. B8.1-49), (d) una sezione doxastica e fisica, nella quale sarebbero riportati gli errori
dei mortali e un certo numero di teorie fisiche (vv. B8.38b-41, 50-61, e tutti i frammenti
restanti fino a B19). Lelemento che segna la distanza tra le due opere proprio la sezio-
ne (d). Se infatti Melisso liquida immediatamente il problema, affermando che, poich
lessere uno, infinito e immutabile, allora non possono esistere le cose esibite
dallesperienza, e quindi non ha senso parlarne, Parmenide al contrario non solo si occu-
pa delle cose che corredano luniverso in unapposita sezione del poema, ma, a quanto
pare, dedica a tale trattazione la parte pi ampia della sua opera. Di pi: i non pochi dos-
sografi antichi che hanno fatto riferimento a Parmenide nelle loro testimonianze, lo han-
no dipinto pi come un naturalista e uno scienziato, che come un ontologo nemico del
mondo fisico. Di questa lunga parte del poema, in cui troviamo teorie cosmologiche e
biologiche, purtroppo ci sono rimasti sparuti frammenti, poich nel tempo il Parmenide
ontologo ha oscurato il fisico. Ci non toglie che ne abbiamo ancora traccia e che le te-
stimonianze in questo senso siano inequivocabili.
Sappiamo, infatti, che Parmenide si occup della natura degli astri, del Sole, della Lu-
na, della Terra, della Via Lattea, della struttura a corone concentriche del cosmo e delle
divinit che lo governano, della posizione centrale della Terra in equilibrio nel cosmo,
21
Su questo punto si vedano le intelligenti analisi di C. Robbiano, Becoming Being. On Parmenides Tran-
sformative Philosophy, Academia Verlag, Sankt Augustin, 2006, pp. 35-60.
22
Sulla struttura generale del poema il contributo pi recente e dettagliato L. Rossetti, La structure du
pome de Parmnide, in Philosophie Antique, X (2010), pp. 185-224.
23
Molto pi incerta la collocazione di B4 e B5.
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
17
delle zone climatiche terrestri, delle unioni sessuali e della riproduzione, della formazio-
ne del sesso del nascituro, delle differenze tra i sessi, delle cause dellinvecchiamento,
del sonno, dellappetito, della sensazione, della natura dellanima.
3. Compatibilismo parmenideo
La presenza di una fisica nellultima parte del poema non segna soltanto la distanza tra
lapproccio melissiano e quello parmenideo: essa costituisce da alcuni decenni (e soprat-
tutto negli ultimi anni) il problema principale degli interpreti di Parmenide. La lettura
classica non ha mai avvertito seriamente il peso della questione, nonostante levidente
contrasto tra ladesione ad una lettura eliminativista e la presenza di una vera e propria
sezione scientifica, e questo perch in qualche modo faceva rientrare lelemento testuale
di disturbo in uno schema che ne rimuoveva del tutto la validit epistemica, e che aveva
altres il vantaggio di essere apparentemente suffragato dallo stesso Parmenide. Lidea di
fondo (condivisa ancora da alcuni studiosi in forme pi o meno diverse) consisteva nel
ritenere che Parmenide in realt non stesse esponendo teorie sue, cio tesi sul mondo alle
quali conferire credibilit: lultima sezione del poema conterrebbe soltanto un lungo e-
lenco di credenze errate, cui non prestare alcuna fede, eppure importanti da conoscere
perch ritenute vere dal resto del consesso umano; una sorta di messa in guardia di fronte
alle falsit degli umani, alla cui seduzione (perch in accordo con i sensi) si pu resistere
solo conoscendole a mente fredda, in un contesto controllato. Al pi, secondo interpreta-
zioni convergenti, poteva trattarsi di una concessione da parte di Parmenide alle apparen-
ze illusorie del mondo, descritte nel miglior modo possibile (oppure di una concessione
verso il Parmenide pre-critico, per cos dire, ossia ci che il giovane Parmenide pensava
prima di ricevere la rivelazione da parte della Dea). Ad ogni modo, il presupposto di
questa famiglia di interpretazioni lidea che le teorie fisiche descritte nellultima sezio-
ne del poema sarebbero incompatibili con la deduzione dei caratteri dellessere esposta
nella parte centrale
24
.
24
Un esempio recente di interpretazione limpidamente incompatibilista lo si ritrova in M. Abbate, Par-
menide e i neoplatonici. DallEssere allUno e al di l dellUno, Edizioni dellOrso, Alessandria, 2010, il
quale, tra laltro, scrive: Per quanto ci siano pervenuti pochi versi della seconda parte del poema, e pur
essendo indubitabili le conseguenti difficolt nel tentativo d ricostruire il senso preciso della doxa
nellontologia parmenidea, ritengo che tutti i frammenti concernenti la dimensione doxastica rivelino co-
munque la loro intrinseca incompatibilit con la via della verit e dellessere. [] Se lessere lambito
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18
A sostegno di questo tipo di lettura vi sarebbero le parole stesse della Dea. Allorch
Parmenide incontra la Dea, al termine del suo viaggio, ella dopo averlo accolto con be-
nevolenza, gli annuncia il tema del suo discorso: Bisogna che tu tutto apprenda: / e il so-
lido cuore della Verit ben rotonda / e le opinioni dei mortali, nelle quali non c una ve-
ra certezza (B1.28b-30). Sembra, dunque, che sia Parmenide stesso ad indicarci in che
cosa consista la differenza tra le due parti del poema: da un lato, le sezioni metodologica
(b) e ontologica (c) esporrebbero le tesi sostenute dalla Dea (e quindi approvate da Par-
menide stesso); dallaltro, la sezione fisica (d) riporterebbe le opinioni degli uomini co-
muni sulla natura delle cose, condannate dalla Dea (e da Parmenide). Questa divaricazio-
ne verrebbe, poi, confermata in altri punti del poema, come ad esempio nellultimo seg-
mento del fr. B8, laddove vi il passaggio dalla sezione ontologica a quella doxastica,
anticipato dalla Dea: Qui pongo termine al discorso che si accompagna a certezza e al
pensiero / intorno alla Verit; da questo punto le opinioni mortali / devi apprendere, a-
scoltando lordine seducente delle mie parole (B8.50-52). Vi poi il fr. B19, che, stando
alle parole di Simplicio, segue la presentazione dellordinamento cosmico degli enti sen-
sibili (tn tn aisthtn diakosmsin), nel quale si fa riferimento a ci che la Dea ha ap-
pena esposto, come se avesse carattere opinativo e non veritiero: In questo modo kata
doxan queste cose sono nate e ora sono / e in seguito cresceranno e poi finiranno
25
.
Questa interpretazione, come ho detto, stata per molto tempo la spiegazione classica
della presenza di teorie fisiche in un testo che distruggerebbe dalle fondamenta ogni fisi-
ca, negando molteplicit e divenire. Ma una lettura di questo tipo pu bastare a spiegare
lampiezza (probabile) della sezione fisica, la competenza che Parmenide pare abbia mo-
strato in materia (tanto da essere ricordato come un autorevole naturalista), e soprattutto
la generalit dei suoi interessi? Una volta rimosso il presunto fondamento dellerrore
(cio lammissione del divenire e della molteplicit, ossia del non essere), per quale ra-
gione la Dea avrebbe dovuto elencare con tanta pedanteria gli errori contingenti che gli
della verit e del pensiero, la dimensione della doxa si delinea come mondo dellillusione e del divenire.
Ci significa in sostanza che fra questi due piani non v alcuna possibilit di relazione: si tratta di due pia-
ni fra loro assolutamente incommensurabili (p. 59).
25
Anche qui ho seguito la traduzione di Reale. Ho lasciato, per, senza traduzione lespressione kata do-
xan, per sottolineare la presenza, anche in questo passo, di un riferimento alla doxa, il cui significato prin-
cipale opinione, e che Reale ha in altri punti del poema giustamente tradotto in questo modo. Qui, inve-
ce, per rimuovere la possibilit che il riferimento allopinione al termine della sezione fisica, finisse per fa-
vorire il classico monismo eliminativo, Reale traduce secondo lapparire: una soluzione che lascia per-
plessi, perch introduce una letterale equivocit nel poema, che da un punto di vista metodologico bene
evitare, finch possibile. In questo caso, la perplessit accresciuta dal fatto che lequivocit il prezzo
pagato per venire incontro ad unesigenza di generale coerenza interpretativa, pi che di adeguamento alle
caratteristiche peculiari del testo in questione e quindi di chiarificazione del senso del passo.
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
19
umani (tra i quali lo stesso Parmenide pre-critico) avrebbero compiuto? Parmenide, ad
esempio, ad un certo punto sostiene che la Luna un corpo celeste che splende di luce
riflessa (frr. B14 e B15, ma si veda anche la testimonianza A42). Ora, ha senso inserire
questa informazione nellelenco degli errori dei mortali? Se, infatti, i presunti mortali so-
stenitori di questa opinione errata avessero creduto il contrario, e cio che la Luna fosse
un astro che brilla di luce propria, non sarebbero forse rimasti ugualmente nellerrore?
Stando al monismo stretto che la lettura classica attribuisce a Parmenide, non vi pu esse-
re alcun oggetto denominato Luna, perch non c nientaltro che lunico ente. Dunque,
la natura della luce di cui splende questo oggetto irreale, del tutto irrilevante. Lerrore
credere che quelloggetto esista. Ma per esporre lerrore a Parmenide, la Dea non ha bi-
sogno di entrare nello specifico delle teorie sul mondo, quasi implicando che vi possa es-
sere una fisica migliore di unaltra (o in via positiva, cio esponendola, o in via negativa,
contestandola). Per illustrare lerrore, basta dire che i mortali credono che esistano tante
cose e che queste cose mutino. Insomma, basta fare come Melisso. Parmenide non dello
stesso avviso, e la sua meticolosit scientifica non sembra giustificabile con la tesi
dellillustrazione degli errori: come si detto, anche le tesi opposte a quelle da lui illu-
strate sarebbero errate, e dunque non certo in questo modo che si insegna a qualcuno a
non farsi sedurre dallerrore.
Ma questa non una prova. Il comportamento di Parmenide pu apparire bizzarro, ma
la nostra categoria di bizzarria potrebbe non corrispondere alla sua, e magari la sua elen-
cazione scrupolosa pu essere giustificata dal fatto che quelle teorie in particolare erano
accolte dai suoi concittadini, e quindi era bene sapere a quali seduzioni cosmologiche e
biologiche andava incontro il suo uditorio. Insomma, vero che non importa di quale lu-
ce brilli la luna, ma quella in particolare (e non la contraria) la tesi sostenuta dai citta-
dini di Elea (perlomeno i pi istruiti, o quelli appartenenti ad una scuola filosofica riva-
le): quellerrore doveva essere conosciuto, affinch non avesse alcuna presa sugli uditori,
cui Parmenide voleva disvelare la verit a cui era giunto. uninterpretazione che, per
quanto fragile, non pu essere esclusa. Essa ha pur sempre il sostegno delle parole di
Parmenide.
Il problema che le parole di Parmenide non sono cos perentorie (e inequivocabili)
come la maggioranza degli studiosi ha creduto. vero, infatti, che Parmenide ha distinto
il discorso sulla verit da quello sulle opinioni. Ma anche vero che Parmenide ha fatto
cenno, in maniera questa volta s difficilmente equivocabile, ad una sottoarticolazione
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20
dellultima sezione. Il filosofo, infatti, ha distinto la parte opinativa, cio la sezione (d),
da unulteriore parte, evidentemente quella fisica, che a questo punto dovremmo indicare
con una (e). Alla fine del fr. B1, la Dea non divarica soltanto linsegnamento della verit
dalla messa al corrente degli errori del senso comune: sembra, invece, ansiosa di specifi-
care il senso di quella divaricazione e di evitare equivoci, introducendo ad hoc un terzo
momento del suo discorso, negli ultimi e tormentatissimi due versi del frammento (qui in
corsivo): Bisogna che tu tutto apprenda: / e il solido cuore della Verit ben rotonda / e le
opinioni dei mortali, nelle quali non c una vera certezza. / Eppure anche questo impa-
rerai: come le cose che appaiono / bisognava che veramente fossero, essendo tutte in o-
gni senso. Si possono avere giustificate riserve sulla traduzione di Reale (ad esempio,
discutibile che ta dokounta in B1.31 significhi le cose che appaiono: io giudico preferi-
bile una traduzione come gli oggetti delle opinioni
26
). Resta che il senso pi probabile
di questi due versi sia la presentazione di unarticolazione nellapparentemente rigido
dualismo tra verit certa e opinioni false
27
. Il kouros dovr conoscere sia la verit, sia le
opinioni, ma anche un terzo discorso che riabiliti gli oggetti (reali) delle opinioni (false) e
ne restituisca lordinamento corretto
28
. Insomma, le teorie fisiche non sembrano confon-
dibili con le opinioni errate dei mortali. ci che in qualche modo si ricava dalle parole
stesse della Dea, che alla fine del fr. B8 introduce il resoconto delle opinioni dei mortali
dicendo: da questo punto le opinioni mortali / devi apprendere, ascoltando lordine (ko-
smon) seducente delle mie parole (B8.51-52). La traduzione seducente rende in realt
in modo debole un termine (apatlon) che in senso proprio significa ingannevole, fal-
lace. A questo avvio del discorso sulle opinioni, che ne sottolinea linaffidabilit, fa da
contraltare, pochi versi pi sotto, la presentazione della fisica vera a propria: Questo or-
dinamento del mondo (diakosmon), veritiero in tutto, compiutamente ti espongo, / cos
che nessuna convinzione dei mortali potr fuorviarti (B8.60-61). Come si vede,
lindicazione di Parmenide molto chiara: vi un contrasto palese tra un ordine di parole
(kosmos epen) ingannevole e un ordinamento cosmico (diakosmos) veritiero (qui eoiko-
26
Mi permetto di rinviare al mio Ta dokounta: oggetti reali di opinioni false, in N.-L. Cordero et al., Par-
menide scienziato?, Eleatica 2006, a cura di L. Rossetti e F. Marcacci, Academia Verlag, Sankt Augustin,
2008, pp. 113-121.
27
Si tenga conto che opinioni senza certezza di B1.30 non va inteso come prive di certezza in senso sog-
gettivo, cio incerte, giacch possono essere vere o false. La mancanza di certezza ha una ragione oggetti-
va, cio sono senza la vera certezza, perch false. Parmenide, come si vedr, non pensa ad un generico opi-
nare umano, ma a specifiche opinioni sul cosmo: opinioni che vanno rifiutate.
28
Che sia questo il senso generale del distico, lo indica il termine dokims (B1.32), la cui valenza positiva
indiscutibile.
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
21
ta, appropriato, e quindi corretto, si oppone ad apatlon), il che un indizio evidente
del fatto che la fisica che la Dea sta per illustrare non confondibile con le opinioni erra-
te di mortali. Per di pi, nei frammenti dedicati alla fisica vera e propria, la Dea non parla
come se stesse riportando pensieri altrui: ella si occupa direttamente degli enti fisici sen-
za intermediazione. Emblematico a questo proposito il fr. B10:
Tu conoscerai la natura delletere, e nelletere tutte quante
le stelle, e della pura lampada del sole lucente
le invisibili opere e donde ebbero origine,
e apprenderai le azioni e le vicende della luna errabonda dallocchio rotondo
e la sua natura; e conoscerai altres il cielo che tutto circonda,
donde ebbe origine, e come la Necessit lo guid e costrinse
a tenere fermi i confini degli astri.
Come si vede, qui non si tratta di ci che sostengono terze persone, ma direttamente di
oggetti fisici: la Dea parler di etere, stelle, Sole, Luna, cielo, astri. E che non si abbia a
che fare con i contenuti delle credenze delluomo comune, ma appunto con le cose stesse,
lo segnala con estrema chiarezza il riferimento alla natura (physis, vv. 1 e 5). I contenu-
ti delle opinioni errate, infatti, non hanno natura. Certo, i mortali possono credere che gli
oggetti delle loro opinioni abbiano una natura, ma se la Dea riportasse opinioni altrui non
parlerebbe di natura delle cose, e non la indicherebbe come oggetto di conoscenza per il
suo uditore (tu conoscerai). Piuttosto, presenterebbe questi enti come contenuto di
una credenza: essi credono che esistano etere, astri ecc.. Al pi, avremmo incontrato
una formula come questa: tu conoscerai quale sia la loro natura secondo i mortali.
Invece, in questo come negli altri frammenti fisici il riferimento ai mortali e alle opinioni
scompare del tutto.
Si confronti il fr. B10, appena riportato, con i versi 53-59 del frammento B8, in cui
esplicitamente la Dea riferisce le opinioni dei mortali:
Infatti, essi stabilirono di dar nome a due forme
lunit delle quali per loro non necessaria: in questo essi si sono ingannati.
Le giudicarono opposte nelle loro strutture, e stabilirono i segni che le distinguono,
separatamente gli uni dagli altri: da un lato, posero letereo fuoco della fiamma,
che benigno, molto leggero, a s medesimo da ogni parte identico,
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22
e rispetto allaltro, invece, non identico; dallaltro lato, posero anche laltro per se
stesso,
come opposto, notte oscura, di struttura densa e pesante.
La Dea qui usa sistematicamente la terza persona plurale, e cio evidentemente fa rife-
rimento ai mortali (nominati in B8.39, brotoi): Infatti, essi stabilirono di dar nome
(B8.53); in questo essi si sono ingannati (B8.54); Le giudicarono e stabilirono
(B8.55). Come si vede, non c equivoco possibile. La Dea non introduce Parmenide alla
conoscenza del Fuoco e della Notte (come fa nel fr. B10 per etere, stelle, cielo ecc.); in-
vece, a pi riprese ricorda che non si sta occupando di enti reali, ma, per cos dire, di og-
getti finzionali: non Tatsachen, bens Interpretationen (per di pi interpretazioni sbaglia-
te
29
).
Appare evidente, quindi, che la classica strategia eliminativista, consistente nel ri-
muovere lincongruenza costituita dalla presenza nel poema di un discorso fisico, occul-
tandolo, per cos dire, sotto il tappeto delle opinioni dei mortali, non funziona. Se ne ri-
cava, cos, limplausibilit dellipotesi interpretativa (4), nello schema proposto sopra
circa lidentit delleon
30
.
Sebbene non siano mancati gi in passato contributi che abbiano valorizzato lultima
parte del poema
31
, la tendenza attuale consiste nel tentativo sempre pi marcato di riabili-
tare la fisica parmenidea. I recenti lavori di Giovanni Cerri
32
, Panagiotis Thanassas
33
,
29
Lo dice expressis verbis la Dea stessa (B8.54): in questo essi [scil. i mortali] si sono ingannati (en hoi
peplanmenoi eisin).
30
Come ho gi ricordato, ritroviamo un accenno alle opinioni in B19, che per, stando a quanto afferma
Simplicio, seguirebbe la presentazione del diakosmos. Questo dato sembra offrire un argomento a favore di
chi sostiene lindistinguibilit tra doxa e fisica. Tuttavia, ci non mette necessariamente in crisi la lettura
contraria. Infatti, losservazione secondo cui nei frammenti che presentano teorie fisiche non compaiono
riferimenti alla doxa, resta valido. In B19 non si propone una fisica: si avverte soltanto che le cose di cui si
parlato (gli oggetti del diakosmos, se stiamo alla testimonianza di Simplicio) sono le stesse che i mortali
hanno inteso in un certo modo. Il frammento, in altre parole, direbbe che gli enti fisici sono quegli oggetti
che, secondo opinione, nascerebbero (dal nulla), si svilupperebbero e poi giungerebbero alla fine, e a cui i
mortali hanno dato un nome per identificarli. come se Parmenide dicesse: gli oggetti che ho descritto cor-
rettamente sono quelli che i mortali identificano come cose a se stanti, introducendo il nulla e la divisione
(come si visto persino nella loro cosmogonia), mentre, come sappiamo (sembra suggerire Parmenide im-
plicitamente), la verit unaltra e cio che niente nasce, muta e muore realmente, e niente separato da
tutto il resto (li separiamo solo a parole), perch tutto uno e statico. una considerazione finale tuttaltro
che stonata.
31
Tra i contributi italiani vanno ricordati M. Untersteiner, Parmenide. Testimonianze e frammenti, cit., e
soprattutto L. Ruggiu, Parmenide, Marsilio, Venezia-Padova, 1975 (si vedano ora i saggi contenuti in G.
Reale, L. Ruggiu, Parmenide. Poema sulla natura, cit.) e G. Casertano, Parmenide. Il metodo, la scienza,
lesperienza, Guida, Napoli, 1978 (ora Loffredo, Napoli, 1989), lavori che possono ben dirsi pionieristici.
32
G. Cerri, Parmenide di Elea. Poema sulla natura, cit.
33
P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being, cit.
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
23
John Palmer
34
e lo stesso Nestor-Luis Cordero
35
(che pure in passato aveva adottato
linterpretazione eliminativista
36
), per citarne solo alcuni, nella pur radicale diversit de-
gli approcci ermeneutici, hanno in comune questa prospettiva riabilitativa dellultima
parte del poema, che d forma a interpretazioni di tipo compatibilista, ossia che, a diffe-
renza di quanto avveniva nel passato, ammettono la compatibilit tra lontologia in senso
stretto e la fisica.
Il recupero della fisica, tuttavia, pone il problema del rapporto con la sezione dedicata
alle doxai. Si danno, a questo proposito, tre alternative: i) continuare a ritenere che la fi-
sica appartenga alla doxa, ma abbandonare lidea che questultima rappresenti una de-
scrizione falsa del mondo, semmai pensare che offra soltanto una conoscenza provviso-
ria, rivedibile, ma nientaffatto arbitraria o illusoria (cos, ad es., Cerri e Palmer, e ancor
prima Casertano); ii) articolare la doxa in due sottosezioni, una che presenti le opinioni
infondate dei mortali, e unaltra che invece illustri le opinioni corrette circa le manifesta-
zioni dellessere (cos, ad es. Thanassas, e ancor prima Ruggiu); iii) ritenere che la doxa e
la fisica costituiscano due sezioni diverse, la prima che presenta le opinioni errate dei
mortali, la seconda le teorie corrette (e dunque non opinioni!) sul cosmo (cos, ad es.,
Cordero)
37
. La prima opzione non sostenibile, dato lo scarto evidente che vi tra le teo-
rie fisiche e le doxai, e soprattutto la forte caratterizzazione negativa delle seconde (attri-
buite per di pi ad altri), come si gi visto. La seconda opzione, pi plausibile, di fatto
presuppone lesistenza di una doxa positiva, di cui per nei frammenti non c traccia.
Che anche le teorie fisiche siano opinioni poco pi di unipotesi, e tra laltro risente di
una indiretta influenza platonica. Lopinione nel poema sempre caratterizzata negati-
vamente e sempre riferita ai mortali, cio gli uomini comuni che la Dea presenta a pi ri-
prese in termini poco lusinghieri. Lunica caratterizzazione positiva che troviamo nel po-
ema, in qualche modo collegata alle opinioni, non attribuita alle doxai, ma ai dokounta
del verso B1.31. Tuttavia, l Parmenide, con ogni probabilit, fa riferimento non alle opi-
34
J. Palmer, Parmenides and Presocratic Philosophy, cit.
35
N.-L. Cordero et al., Parmenide scienziato?, cit., in particolare pp. 78-80, e soprattutto Id., The Doxa of
Parmenides Dismantled, in Ancient Philosophy, 30 (2010), pp. 231-246.
36
In questo egli seguiva le orme del suo maestro, Leonardo Tarn, uno dei pi autorevoli e convinti soste-
nitori della lettura monista in senso stretto di Parmenide. Si veda lormai classico L. Tarn, Parmenides,
cit.
37
Una posizione specularmente contraria a questultima (di fatto una variante della seconda alternativa) fu
sostenuta da Untersteiner, che identificava le doxai con le teorie fisiche, dallo studioso interpretate come
una descrizione della realt caratterizzata dalla temporalit (mentre leon sarebbe la stessa realt, per vista
dal versante dellatemporalit), e le distingueva dalle gnmai, che invece corrisponderebbero alle opinioni
fallaci dei mortali (M. Untersteiner, Parmenide. Testimonianze e frammenti, cit., p. CXC).
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24
nioni, ma ai loro oggetti: non le y che si pensano delle x, ma le x di cui si pensano le y
38
.
Non resta che accogliere la terza opzione.
In ogni caso, se accanto al discorso vero (pistos logos, B8.50) sulleon, le cui caratte-
ristiche non sembrano ammettere altri esistenti posti sullo stesso piano, vi un discorso
eoiks (B8.60), veritiero (o plausibile, o comunque non falso) su altri enti, se ne ricava
che Parmenide non immaginava un solo piano di esistenza delle cose. necessario intro-
durre almeno un altro livello ontologico.
4. Le forme
Che cosa sono gli oggetti di cui si occupa la presentazione del diakosmos,
lordinamento cosmico? E che rapporto c tra questi oggetti e leon? Nel rispondere a
queste domande, si deve tener conto del fatto che questo livello dellontologia parmeni-
dea non pu che scontare una subalternit rispetto al piano dellesistente: Parmenide
stato chiaro nellindicare loggetto del primo livello con il termine eon, cio con il riferi-
mento a ci che c davvero, e soprattutto a dipingere la via che conduce al riconosci-
mento dei caratteri di questo esistente come la via del convincimento, che conduce alla
verit (B2.4). evidente, allora, che gli oggetti del diakosmos, che pure non sono con-
dannati ad essere illusori, non sono esistenti in senso pieno e il discorso che li descrive
vero solo in modo parziale e relativo. Quale tipologia di oggetti pu rispondere a queste
caratteristiche? E come si concilia questa idea con la tesi parmenidea secondo cui tra esi-
stenza e inesistenza non si danno alternative e gradi, per cui o si (in senso pieno) o non
si ? Una delle proposte che sono state avanzate quella di riconoscere in questi oggetti i
dokounta del v. B1.30, termine che viene reso con lespressione le cose che appaiono.
In tal caso, la fisica tratterebbe di apparenze, non nel senso di entit illusorie, ma in quel-
lo di manifestazioni esteriori di ci che esiste. La traccia interpretativa proposta da questa
38
Questo il punto in cui incomincia il mio disaccordo con Cordero, con cui pure condivido la terza op-
zione (si veda ci che mi obietta lo studioso in N.-L. Cordero, Parmenide scienziato?, cit., pp. 155-156).
Tuttavia, sulla resa di ta dokounta in questi termini cio come oggetti di opinione sono in buona com-
pagnia: la pensa cos, ad es., A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides, cit., p. 210. Quanto al fatto che,
secondo Cordero, ta dokounta non abbia mai avuto il significato sostenuto da me (e Mourelatos), Euripide,
Troad. 613 dimostra inequivocabilmente il contrario. Infine, lo studioso mi imputa amichevolmente di non
considerare il carattere irrealis di chrn (B1.32). Eppure, nel mio testo da lui discusso, scrivevo a chiare
lettere: Si spiega cos il valore passato espresso da chrn, che pu tranquillamente essere inteso nel senso
irreale sostenuto da Kranz e dallo stesso Cordero, cui facevo seguire la spiegazione del modo in cui tale
senso poteva essere ammesso (M. Pulpito, Ta dokounta, cit., p. 118).
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
25
lettura sembra feconda: cionondimeno essa, come si gi detto, poggia su una traduzione
problematica
39
.
Io ritengo che si possa ricavare un significato analogo, e forse pi preciso, in un altro
passaggio del poema. la Dea stessa a suggerire la prospettiva corretta da cui guardare
gli oggetti del cosmo, nel passo che fa da cerniera tra la sezione della verit e quella delle
opinioni umane. Come si gi visto, in questi versi Parmenide presenta una sorta di co-
smogonia dualista, accolta erroneamente dai mortali. I principi di questa spiegazione in-
fondata del mondo sono due elementi dai caratteri opposti: il Fuoco (Pyr) da un lato (poi
indicato anche con il termine Luce, Phaos), e la Notte (Nyx). probabile che Parmenide
stia facendo riferimento ad una spiegazione mitica dellorigine e della struttura del co-
smo, diffusa tra gli eleati. Il termine doxa, infatti, non significa soltanto opinione, ma
anche fama. Mettendo assieme questi due significati, potremmo intenderlo come un e-
quivalente di ci che noi indichiamo con lespressione senso comune. Su quale sia, poi,
la cosmologia popolare a cui Parmenide pensava, non difficile avanzare unipotesi: nel
mondo greco, infatti, era diffusa una teogonia orfica, che riconosceva nella Notte e in
Phans, lInfuocato, i principi primi del cosmo
40
. A questa cosmologia tradizionale, in
contrasto con la sua dottrina (fondata sullassennatezza dellautoevidenza e della conse-
quenzialit
41
), Parmenide oppone la sua fisica. Ma prima egli illustra brevemente (e non
diffusamente, come ritengono i sostenitori della lettura classica, che annette la fisica alla
doxa) i principi di questa falsa cosmologia, che pure ha il consenso dei suoi concittadini
(indicati con il termine mortali, giacch pur sempre la Dea che parla). Comincia ad
entrare nel merito di questa cosmologia popolare, come abbiamo visto, nel verso B8.53:
39
In precedenti studi (Ta dokounta, cit. e Parmenides and the Forms, in N.-L. Cordero (a cura di), Procee-
dings of the International Symposium: Parmenides, Venerable and Awesome (Plato, Theaetetus 183e),
Parmenides Publishing, Las Vegas, 2011, in corso di pubblicazione [Atti del convegno, Parmenides, Vene-
rable and Awesome (Plato, Theaetetus 183e), Buenos Aires, 2007]), ho aderito in parte a questa linea in-
terpretativa, identificando ta dokounta con gli enti di cui tratta la sezione fisica. Me ne distaccavo solo per
il fatto di tradurre il termine in modo diverso: come ho gi ricordato, non si tratterebbe delle cose che ap-
paiono, ma degli oggetti di opinione (cio degli oggetti reali delle opinioni false dei mortali: oggetti che
possono quindi essere descritti correttamente). Il riferimento allapparenza, che pure non ingiustificato,
problematico perch, anche ammettendo (come io credo) che i dokounta non coincidano con le doxai (po-
sizione questa sostenuta con forza da Cordero) essi hanno con queste ultime un nesso innegabile, che la
presunta significazione dellapparenza vanificherebbe. Qui, tuttavia, come si vedr pi avanti, propongo
con pi precisione di non identificare ta dokounta con gli enti fisici (lettura comunque plausibile), ma con
gli oggetti reali che si collocano su un ulteriore livello ontologico, intermedio tra il piano delleon e quello
della fisica, e che hanno un nesso ancora pi forte con le opinioni dei mortali.
40
Arg. Orph. 15.
41
E non a caso i mortali (cio coloro che aderiscono alla tradizione, e non seguono la ragione, tanto da non
capire ci che vedono o odono, B7.4) sono detti dalla Dea senza senno (B6.7).
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26
Infatti, essi stabilirono di dar nome a due forme
Sebbene siano state proposte diverse traduzioni di questo verso, il senso pressoch
identico in tutte le versioni
42
. Lidea di fondo che vi sia stato qualcuno (si sottintendono
i mortali) che in un passato indeterminato ha preso la decisione di nominare due forme,
che corrisponderebbero al Fuoco e alla Notte presentati nei versi seguenti. Questa lettura
ha il vantaggio della linearit, e naturalmente non pu essere liquidata frettolosamente. Il
riferimento ad un passato indeterminato si concilia con lidea di una credenza tradiziona-
le, di cui si smarrita lorigine. La nominazione, di cui Parmenide sembra rimarcare
larbitrariet (infatti, i mortali stabilirono di dare nome, sottolineando come ci sia frut-
to di decisione, pi che di conoscenza) rinforza il senso di vacuit dei contenuti di tale
credenza. E persino il riferimento alle forme come entit con funzione cosmologica sem-
bra rientrare in un discorso centrato sullesteriorit degli enti. Ci che fa problema il
numero delle forme. Il testo greco, infatti, ci stato tramandato in questa forma:
morphas gar katethento duo gnmas onomazein
Ad una prima lettura, che non si soffermi sul contesto, e non faccia scattare alcune
pre-comprensioni, sembrerebbe che ad essere duo non siano le morphas, ma le gnmas.
Questultimo termine solitamente scompare nelle traduzioni, perch viene unito a kate-
thento a formare ununit semantica. Tuttavia, Parmenide utilizza in altri punti katatith-
mi
43
, senza legarlo a gnmn, con un significato analogo a quello di B8.53, e cio stabi-
lire, decidere. Ma il vero problema, come vide correttamente Woodbury
44
, quella
bizzarra separazione tra morphas e duo, che scavalca la cesura e si intreccia con quella
tra katethento e gnmas onomazein. Ciononostante, la maggioranza degli studiosi ha pre-
ferito leggere il verso in questa forma contorta, perch il senso che se ne ricava possiede
unesemplare chiarezza (che tra laltro fa da contraltare alloscuro verso successivo, su
cui la critica si invece accanita). Per di pi, che Fuoco e Notte siano forme (e quindi
siano due) lo confermerebbe la Dea stessa, allorch ai versi B8.55 e B8.59 fa ad essi rife-
rimento utilizzando il termine demas, che tra le altre cose vuol dire figura, aspetto.
42
Qui riprendo le tesi che ho sostenuto in Parmenides and the Forms, cit., cui rimando anche per un par-
ziale status quaestionis.
43
B8.39, 19.3.
44
L. Woodbury, Parmenides on Naming by Mortal Men: fr. B8,53-56, in Ancient Philosophy, 6 (1986),
pp. 2-3.
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
27
Vi , tuttavia, chi ha preferito leggere il verso nel suo senso pi naturale, senza rinne-
gare linterpretazione che si ricava dalla resa tradizionale. Gi Mourelatos
45
aveva imma-
ginato la possibilit di una doppia lettura del verso, e aveva attribuito alle intenzioni stes-
se della Dea unironica ambiguit, sulla base di uninterpretazione complessa, su cui qui
non possiamo soffermarci. Chi ha invece rotto gli indugi, proponendo la lettura pi ovvia
del verso, stato Cordero
46
, seguito poi (sebbene indipendentemente) da Woodbury
47
. Il
senso della frase, nella traduzione di Cordero, viene ad essere: Ils ont tabli deux points
de vue (gnmas) pour donner des noms aux apparences extrieures (morphas). Come si
vede, la traduzione di Cordero segue la struttura pi lineare del testo: il complemento
morphas e il verbo da cui dipende, onomazein, sono agli estremi del verso, separati da un
nucleo centrale compatto (katethento duo gnmas), secondo una composizione che Woo-
dbury ha giudicato pi vicina agli usi della poesia contemporanea a Parmenide. Cionono-
stante, Cordero (come, per certi versi, anche Woodbury) ritorna allinterpretazione tradi-
zionale, ritenendo che stabilire due punti di vista per dar nome alle forme (intese come
apparenze esteriori) non vuol dire altro che porre una dualit di forme.
In realt, questa resa del verso apre una prospettiva sul senso del testo del tutto nuova:
secondo questa traduzione ad essere due sono le gnmas, che opportunamente Cordero
intende come punti di vista, opinioni, ma che possono essere intese anche come chia-
vi di lettura, e quindi principi, sebbene, come si capir ascoltando le parole della Dea,
principi fittizi. Essendo due, questi punti di vista non possono che essere il Fuoco e la
Notte, ossia le due congetture opposte sulla struttura del mondo. Si comprende cos per-
ch pochi versi dopo, cio nei gi citati versi finali del frammento, la Dea affermi: Que-
sto ordinamento del mondo, veritiero in tutto, compiutamente ti espongo, / cos che nes-
suna convinzione dei mortali potr fuorviarti. Ci che Reale traduce con il termine
convinzione non altro che gnm. In altre parole, dopo aver riportato le opinioni dei
mortali, la Dea annuncia di voler presentare una cosmologia veritiera, affinch il kouros
non venga attratto dai punti di vista dei mortali, cio appunto dai principi fittizi che essi
immaginano, confondendoli con i veri principi del cosmo.
Se tutto questo vero, allora bisogna chiedersi che cosa siano le forme che i mortali
stabilirono di chiamare da due punti di vista diversi. Si potrebbe pensare, con Cordero,
che esse siano pur sempre il Fuoco e la Notte, poi indicate con il termine demas. In real-
45
A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides, cit., pp. 228-230.
46
N.-L. Cordero, Le deux chemins de Parmnide, cit., p. 40.
47
L. Woodbury, Parmenides on Naming by Mortal Men, cit., p. 3.
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28
t, demas ha tra i suoi significati principali quello di struttura corporea: infatti etimo-
logicamente imparentato con il verbo dem che vuol dire costruire, fabbricare. Il sen-
so chiaro: i mortali distinsero due strutture materiali con caratteristiche opposte. Non
questo, per, il significato che si pu attribuire a morph, termine che invece rimanda
allapparenza esteriore pi che alla costituzione interna, allimmagine pi che alla struttu-
ra
48
. E non forse un caso se nessuna testimonianza posteriore faccia riferimento agli
opposti Fuoco e Notte di Parmenide come due forme: esse piuttosto parlano di princi-
pi, cause, elementi o addirittura di due dei
49
.
Che cosa sono, dunque, le forme? La risposta la offre il frammento successivo, B9, il
cui ruolo di congiunzione tra la sezione doxastica e quella fisica, viene spesso sottovalu-
tato o comunque frainteso. Il primo verso afferma: E poich tutte le cose sono state de-
nominate luce e notte. Simplicio afferma che i versi di B9 verrebbero poco dopo la con-
clusione di B8. Il senso stesso del verso appena citato sembra rimandare a qualcosa che
Parmenide ha gi detto. Ora, data la prossimit tra i due passi, molto probabile che B9.1
stia richiamando il nostro verso B8.53. Se infatti si legge B8.53 nel modo che abbiamo
indicato, i due versi sembrano possedere unidentica struttura logica. In B 9.1 si fa rife-
rimento ad una attivit di denominazione compiuta, evidentemente, dal soggetto sottin-
teso di tutto il passo, e cio i mortali. Ne ricaviamo tre elementi posti nella seguente rela-
zione: i mortali (A) chiamarono tutte le cose (B) luce e notte (C). Ebbene, tale struttura
sembra sia stata anticipata proprio in B8.53: i mortali (A) stabilirono di chiamare le forme
(B) secondo due punti di vista (C). Se non fosse questo il senso del verso, in B8.53 a-
vremmo il predicativo delloggetto (gli uomini hanno dato questo nome, Fuoco e Notte,
cio hanno stabilito le due nozioni con cui denominare qualcosa: katethento duo gnmas
onomazein) ma mancherebbe loggetto vero e proprio (che cosa hanno chiamato in que-
sto modo? a che cosa hanno dato questo nome?). Dunque, se tutto questo vero, le for-
me esteriori per Parmenide non indicherebbero Fuoco e Notte (che corrispondono in-
vece alle due congetture dei mortali, duo gnmas), ma starebbero per tutte le cose.
Si possono fare due ulteriori considerazioni a sostegno di questa lettura. Innanzitutto,
con la lettura tradizionale il verso chiaro solo perch si presuppone ci che ancora deve
essere detto. Mi spiego. Stando allinterpretazione classica, dopo aver dichiarato che si
chiuso il discorso sulla verit e quindi comincia quello sulle opinioni, la Dea affermereb-
48
Per un parallelo in cui il termine indica lesteriorit fisica, laspetto esterno, si veda Eschilo, Prom. 210.
49
Si vedano le testimonianze A1, 7, 23, 24, 33, 34, 45.
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
29
be che i mortali hanno stabilito due forme, la cui unit, erroneamente, non era per loro
necessaria (stando ad una delle letture proposte di B8.54: sono possibili altre interpreta-
zioni, che per non incidono sul punto a cui voglio arrivare). La Dea, quindi, presente-
rebbe le due forme come opposte, e ne illustrerebbe i caratteri. A questo punto, annunce-
rebbe lordinamento veritiero del mondo. Ma se fosse questa la lettura corretta, il testo
sarebbe tuttaltro che comprensibile. La Dea, infatti, si limiterebbe a dirci che i mortali
hanno immaginato due forme dalle caratteristiche opposte. Come si vede, non ci direbbe
affatto che cosa rappresentino questi due oggetti per i mortali, quale sia il loro ruolo, la
loro funzione nella spiegazione del cosmo. Linterpretazione d per acquisito che si tratti
di due principi cosmologici, due elementi a fondamento del cosmo. Ma esattamente dove
lo direbbe Parmenide? Certo, nel frammento B9, allorch dice che tutte le cose sono state
chiamate Luce e Notte (ed evidente che qui la Luce sia la stessa cosa del Fuoco). Va ri-
cordato per che questo frammento viene dopo lannuncio dellordinamento veritiero che
la Dea fa nei versi B8.60-61, e a meno che non si voglia tornare alla tradizionale indistin-
zione tra fisica e doxa, qui saremmo gi fuori della sezione sulle opinioni. Ma anche se
cos non fosse, e cio anche se con B9 fossimo ancora nella doxa (come ad esempio pen-
sa Cordero), ha senso che la Dea si ricordi di dirci di che cosa sta parlando non prima di
dieci versi (nellinterpretazione pi caritatevole, e cio quella di Cerri
50
, che ritiene pos-
sibile che B9.1 seguisse immediatamente B8.61)? Accogliendo la lettura pi immediata
del verso B8.53, invece, la Dea ci direbbe subito di che cosa sta parlando, gi nel primo
verso della sua trattazione delle opinioni dei mortali: veniamo a sapere, infatti, che essi
stabilirono di dare nome alle apparenze esteriori secondo due congetture, la cui unit non
era, per, presupposta, e in questo si sono ingannati. Da questo punto in poi, la Dea pre-
senta le caratteristiche di questi due enti congetturali. Come si vede, il testo in questo
modo acquista una notevole chiarezza.
Laltra considerazione riguarda proprio il dare nome. In greco il verbo onomazein
significa, appunto, denominare, attribuire un appellativo, ma anche, in un senso pi spe-
cifico, dare una caratterizzazione, classificare, affermare lessenza di qualcosa (dal pro-
prio punto di vista). Che sia questo il senso in cui lo utilizza Parmenide lo si evince, ad
esempio, dal verso B9.1, laddove Parmenide afferma che tutte le cose sono state chiama-
te (onomastai) Luce e Notte. palese (e infatti c unanimit su questa lettura) che qui
Parmenide stia sostenendo che Luce e Notte costituiscano la sostanza di tutte le cose, per-
50
G. Cerri, Parmenide di Elea. Poema sulla natura, cit., p. 255.
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lomeno dal punto di vista di coloro che cos le hanno chiamate. Riferimenti alla nomina-
zione si trovano in altri punti del poema: in B8.38 (sia che si accolga la versione onom
estai, sia che preferisca onomastai), cos come in B19, la nominazione presentata come
unattivit dei mortali, i quali sono convinti, erroneamente, di cogliere la realt; nel pri-
mo caso attribuendo caratteristiche impossibili allesistente, nel secondo dando ad ogni
ente fisico un segno linguistico identificativo. Lo stesso verso B8.17, nel quale Parmeni-
de afferma che la via del non essere impensabile e annumon (termine derivato da o-
noma), fa riferimento alla conoscenza distintiva di qualcosa: la via innominabile, cio
inesprimibile, perch non classificabile, senza alcuna natura, di fatto irriconoscibile. In
tutti questi casi, come si vede, sebbene la nominazione sia riferita alla prospettiva sul
mondo da parte dei mortali, non viene ridotta ad un mero dire, pronunciare. Il nominare
si presenta come un verbo trivalente, dal doppio oggetto: X d a Y il nome Z. In B8.38 la
Dea afferma che il nascere, il perire, il muoversi ecc. sono nomi (Z) che i mortali (X)
hanno dato allesistente (Y)
51
; in B19.3 Parmenide conclude dicendo che gli uomini (X)
hanno stabilito nomi (Z) come segni distintivi per tutte le cose (Y).
Ebbene, se si legge il verso B8.53 nel modo qui proposto, il verbo mantiene le sue ca-
ratteristiche semantiche e sintattiche. Al contrario, se si accoglie la lettura tradizionale, il
significato di onomazein da denominare viene ridotto impropriamente al mero dire.
Che cosaltro significa, infatti, che i mortali stabilirono di nominare due forme? Nel sen-
so che si riconosce solitamente a questo verso, qui nominare non significherebbe dare
ad Y il nome Z (da parte di un soggetto X), ma semplicemente pronunciare il nome Z
(da parte di un soggetto X). Chiamarle, pronunciare il loro nome (inventandolo) qui sta-
rebbe per aver immaginato, aver creato una realt fatta solo di parole. Come si vede,
la trivalenza e il doppio oggetto, in questo modo scompaiono (viene a mancare il referen-
te Y). Seppure ci non grammaticalmente impossibile, di fatto contrasta con luso spe-
cifico che fa del verbo Parmenide in ogni occorrenza, oltre al fatto di banalizzare il senso
del verso. Si potrebbe, tuttavia, affermare che la semantica di onomazein comunque
preservata nella lettura tradizionale, poich il significato di B8.53 sarebbe: i mortali (X)
hanno dato a due forme fisiche (Y) i nomi Fuoco e Notte (Z). Se cos fosse, lavvio
di questa sezione sarebbe ben strano, poich incentrerebbe il suo messaggio o sul fatto
51
Ci valido a prescindere dallinterpretazione che se ne propone. Vi chi intende il passo in senso posi-
tivo, come se affermasse che tutti i nomi fanno riferimento allesistente, che tutto racchiude, e chi lo rende
in senso negativo, come se sostenesse che sono soltanto nomi quelli che i mortali credono veri, attribuen-
doli erroneamente allesistente. In entrambi i casi, la relazione tra i tre elementi non messa in discussione.
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
31
che i due elementi hanno un nome (il che certo significativo, ma come dir proprio il fr.
B19 questo quello che i mortali fanno con tutti gli enti, non certo solo con i principi del
cosmo; non se ne coglie dunque limportanza, se per di pi si pensa che qui ancora non
detto che si tratta di due principi cosmologici) oppure sul fatto che ad avere avuto nome
sono due forme fisiche. Ma come si gi detto, il fatto che siano forme, non vuol dire
che siano principi. Fino a prova contraria esistono tante forme, e si suppone che i mortali
non abbiano nominato solo queste due. Anche in questo caso, il fatto che tale sezione si
apra, invece, con laffermazione secondo la quale i mortali attribuirono alle innumerevoli
apparenze esteriori soltanto due nomi (cio, ridussero le variopinte forme fisiche a due
soli enti fondamentali), come vuole la lettura qui proposta, conferisce al passo notevole
chiarezza e coerenza.
Ora, per tornare alla domanda da cui siamo partiti, e cio in che cosa consistano gli
oggetti del diakosmos, si osserver che in B8.53 la Dea, in fondo, sta presentando le opi-
nioni dei mortali, e quindi ci pu dirci molto poco su che cosa fossero per Parmenide gli
enti fisici. per anche vero che pur sempre la Dea che sta parlando. Come ha scritto
Cordero: We must not forget that it is not mortals who are speaking, but the Goddess,
and therefore she expounds in her terms
52
. difficile pensare che i mortali parlino di
Fuoco e Notte come demas, che elenchino in modo coerente i loro attributi, mostrandone
lopposizione sistematica, come fa la Dea in questi versi. probabile che qui vi sia, per-
lomeno da un punto di vista lessicale, una razionalizzazione di una cosmogonia, che pu-
re nei contenuti presentata fedelmente (secondo un uso poi comune in un periodo di po-
co successivo). Dunque, non improbabile che la Dea di Parmenide faccia riferimento
alle cose che popolano il cosmo e che i mortali riconducono a due entit opposte, utiliz-
zando un suo termine, e cio facendolo nel modo in cui ella chiama gli enti. Daltro can-
to, si comprende altres perch il termine morphai, non abbia nella cosmologia che la
Dea presenter, la centralit che invece ritroviamo nel suo corrispettivo del discorso veri-
tativo, cio eon. Mentre, infatti, eon si caratterizza per il fatto di essere, e dunque non
esprimibile in nessun altro modo, per Parmenide (se giusta la nostra interpretazione)
morphai sono tutte le cose. Per questa ragione tale termine probabilmente si eclissa nella
sezione fisica, e viene sostituito dai nomi delle singole cose: Terra, Sole, Luna, Via Lat-
tea, corone, maschio, femmina, seme ecc. Ma non va dimenticato che di questa sezione la
52
N.-L. Cordero, By Being, It is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Publishing, Las Vegas, 2004, p.
156.
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32
tradizione ci ha preservato una parte irrisoria, e dunque non sappiamo se il termine ricor-
resse ancora.
Sappiamo, per, che dopo Parmenide la tesi secondo cui le cose del mondo siano ag-
gregati formali costituiti da entit materiali soggiacenti, costituir una vera idea-guida. Si
prenda, ad esempio, Empedocle, uno dei filosofi su cui linfluenza di Parmenide pi e-
vidente. Nel fr. B137.1 troviamo la locuzione morphn allaxanta, con la quale egli indica
il giovane che, morendo, ha mutato forma e, divenuto probabilmente un ruminante (per
una ricomposizione delle radici) viene sgozzato dal padre inconsapevole. Nel fr. B21, il
termine compare due volte: al v. 2 c morphi, che fa riferimento alla forma degli ele-
menti, ma dalla lista seguente quelle forme sembrano consistere nelle cose che corri-
spondono a quegli elementi (corpi celesti, cose compatte e solide...); al v. 7 c diamor-
pha che indica la difformit delle cose nel Conflitto.
Per tutte queste ragioni, mi pare estremamente probabile che Parmenide intendesse gli
enti fisici come forme, cio apparenze esteriori. Sarebbe, tuttavia, errato forzare questa
lettura riducendo tali oggetti a mere parvenze illusorie: si ricadrebbe nella fallacia elimi-
nativista. Gli enti non sono evidentemente forme in s, cosa che avrebbe poco senso. Essi
sono forme di qualcosaltro. Ed chiaro che ci di cui sono forme non pu essere altro
che leon, che concede loro consistenza ontologica. altres palese che le forme si collo-
cano su un piano diverso da quello delleon, perch quella consistenza non tale da cede-
re loro le stesse propriet dellesistente fondamentale. Gli oggetti sono molteplici, divisi-
bili, mobili e divenienti, al contrario di ci che lesistente. Se ne deduce, allora, che
Parmenide ammettesse la realt di questi fenomeni (nascita, morte, movimento ecc.), ma
ritenesse che essi non intaccassero lessere delle cose, quanto la loro forma. Facciamo un
esempio: se un tocco di legno brucia e diventa brace, al posto del legno non comparso il
nulla: un ente cera prima, e un ente c anche dopo la combustione. Ci che venuta
meno la forma dellente che cera prima. Detto altrimenti: il fatto di esistere (material-
mente) immodificabile. Ci che si modifica sono le forme di questo esistere. La nascita,
la morte, la divisione, il movimento, il mutamento, il compimento non toccano lesistente
reale. Tali eventi hanno solo un significato formale. Si potrebbe, per, dire che anche una
forma pur sempre qualcosa, e una volta che viene meno, non pi. Ma non questo ci
che pensa Parmenide (che, ricordiamolo, non Melisso, il quale estender la tesi parme-
nidea della staticit e unicit anche alle forme). Per Parmenide una forma n , n non ,
semplicemente perch non ha senso parlare di una forma a s stante. La forma sempre
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
33
forma di qualcosa che : non le concesso essere pi di questo. E anche il suo venire
meno, non incide sul qualcosa che , che la fa da sostegno ontologico (e fisico). Questo
perch per Parmenide, si visto, essere vuol dire esistere in senso materiale.
Adesso che abbiamo unidea su che cosa siano gli oggetti fisici secondo Parmenide,
possiamo tornare a chiederci che cosa sia leon. Abbandonata lidea che per leleate vi sia
soltanto lesistente, perlomeno nel senso del monismo numerico congetturato nella quarta
ipotesi, resta da capire se esso conviva con gli enti ma ne sia separato (1), se coincida con
la loro totalit (2), o se ne sia la sostanza materiale (3). Per ovvie ragioni, la prima ipotesi
non sostenibile: la riduzione degli enti a forme lascia pensare ad un rapporto con leon
che tale ipotesi nega. Per di pi, questa proposta funziona solo se si caratterizza leon in
un modo pi specifico di quanto possa fare il mero concetto di esistente, una caratterizza-
zione che, appunto, impedisca la relazione tra leon e gli oggetti fisici. Ma tale caratteriz-
zazione in ci che resta nel poema manca del tutto
53
. Restano le ipotesi (2) e (3): leon
come totalit e leon come sostrato. Quale delle due aveva in mente Parmenide? Non
facile dirlo. Se da un lato il concetto di forma sembra adattarsi in particolare alla terza i-
potesi, dallaltro in linea con ci che abbiamo detto sin qui lidea che leon coincida
con la totalit di cui le forme sono aspetti parziali. Non da escludere, quindi, che Par-
menide pensasse ad entrambe le cose: lessere uno e si manifesta in forme diverse, ma
poich le include tutte, coincide con la loro totalit: homou pan, / hen, suneches (B8.5-
6). Dunque, dal punto di vista dellipotesi (2) la fisica non altro che una mereologia, dal
punto di vista dellipotesi (3), con pi precisione, la fisica una morfologia.
Fin qui linterpretazione che si avanzata, nonostante la resa non convenzionale di un
verso come B8.53, coincide a grandi linee con altre letture proposte negli anni passati.
Lidea che da un lato leon sia il Tutto (seconda ipotesi), e che dallaltro gli enti fisici
siano la manifestazione di un eon sostanziale (terza ipotesi, sebbene riveduta in un senso
immaterialista), non affatto originale
54
. Linnovazione ermeneutica che io credo sia ne-
cessario introdurre in questo schema interpretativo (comune alle letture compatibiliste)
consiste nel riconoscere allinterno del pensiero parmenideo la presenza di un terzo livel-
lo ontologico, intermedio tra i primi due.
53
Ci ha provato J. Palmer, Parmenides and Presocratic Philosophy, cit., proponendo di intendere leon non
come il mero esistente, ma come lesistente necessario, distinto dalle cose del mondo, intese come esistenti
contingenti. La proposta di Palmer interessante ed sostenuta con argomenti non banali. Essa genera, pe-
r, alcuni problemi sui quali non possibile soffermarsi.
54
Si vedano, a titolo desempio, gli autori prima citati tra gli interpreti favorevoli ad una lettura compatibi-
lista.
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34
5. Le forze
C un elemento che apparentemente non torna in questa ricostruzione. Se vero che
la parte del poema nella quale sono presentati i due principi stabiliti dai mortali, Fuoco e
Notte, quella dedicata alle opinioni fallaci, e se altrettanto vero che questa sezione
non coincide con quella destinata allesposizione della fisica corretta, se ne dovrebbe in-
ferire lassenza di riferimenti a quei due principi nella sezione fisica. Ma non quello che
ricaviamo dalla lettura dei frammenti e delle testimonianze. Non solo nel gi ricordato fr.
B9 (che segue lannuncio della cosmologia corretta) la Dea torna a parlare di Luce e Not-
te, ma anche nel fr. B12, e quindi nel pieno della descrizione della struttura del cosmo,
leggiamo di corone riempite di Fuoco e Notte. Vi sono poi alcuni dossografi che confer-
mano la presenza nella visione parmenidea del cosmo di una dualit di principi. Il primo
a testimoniarlo Aristotele:
Poich egli ritiene che accanto allessere non ci sia affatto il non-essere, necessariamente
deve credere che lessere sia uno e nullaltro che essere; costretto, peraltro, a tener con-
to dei fenomeni, e supponendo che luno sia secondo ragione, mentre il molteplice secon-
do il senso, egli pure pone due cause e due principi.
55
Ad Aristotele, cos come ad altri autori, dobbiamo la testimonianza del fatto che in
Parmenide vi fosse una fisica vera e propria: essa, per, viene caratterizzata esplicitamen-
te come fondata su di un dualismo di principi, che sembrano coincidere con quelli che
invece la Dea attribuisce ai mortali. Aristotele, infatti, prosegue chiamando i due principi
Fuoco e Terra, i quali, sebbene in un modo non del tutto preciso (probabilmente perch
Aristotele voleva far rientrare questa coppia nella sua lista dei quattro elementi fonda-
mentali), corrispondono evidentemente alla dualit posta dai mortali. Ci un chiaro se-
gno del fatto che nel testo parmenideo vi fosse una potenziale ambiguit, al punto che te-
stimoni successivi (come Plutarco e Simplicio, A34) giunsero a confondere la fisica con
la doxa, secondo una linea interpretativa che, come si detto, ha incontrato il consenso di
non pochi studiosi. Ebbene, la fonte di questambiguit potrebbe essere proprio
lapparente mantenimento del dualismo dei mortali.
55
A24 = Arist., Metaph. I , 986 b 18. Riferimenti ad una dualit di principi fisici anche in Teofrasto (A46),
Cicerone (A35), Clemente (A33), Aezio (A37, A43), Macrobio (A45), Simplicio (A34).
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
35
Perch Parmenide conserv quella dualit? Per poter rispondere a questa domanda,
dobbiamo porcene unaltra. Difatti, seppure lidea che possa esserci da un lato un ente
statico e dallaltro una serie di manifestazioni dinamiche, apparsa ad alcuni interpreti
ragionevole, non ci si per mai chiesti seriamente come possano conciliarsi questi due
piani
56
. La questione , appunto: che rapporto c tra leon e le morphai? Come si passa
dalluno alle altre (cio dalluno ai molti)? La risposta ha una sapore platonico (o meglio,
neo-platonico): dalluno ai molti si passa attraverso il due. questo il livello intermedio
dellontologia parmenidea: vi qualcosa che non lente fondamentale, ma non nem-
meno riducibile alle forme esteriori dellente, perch ci che le fa essere in quanto tali.
Nello specifico, la dualit sembrerebbe essere quella di Fuoco e Notte, che, per, come
sappiamo, sono il discutibile oggetto delle opinioni fallaci. Il punto diviene, allora: che
cosa c di discutibile nelle due gnmai?
I mortali, come ci suggerisce il verso B8.54, hanno commesso lerrore di porre a fon-
damento del tutto non lunit e la coesione, ma la separazione. Hanno ritenuto di poter
spiegare il cosmo facendo ricorso ad una dualit di principi opposti. Ma affidare la costi-
tuzione del cosmo alla polarit tra un principio luminoso ed uno notturno, vuol dire attri-
buire allesistente nella sua totalit la precariet esistenziale degli enti particolari (cio,
delle forme). In questo caso, il problema dato dal fatto che i due principi per definizio-
ne non possono essere coesistenti: tra di essi vi una radicale esclusivit esistenziale.
Quando c la luce, non c il buio; quando c il buio, non c la luce. Ci vuol dire in-
trodurre nella costituzione stessa del mondo il non essere, che invece Parmenide aveva
sostenuto dovesse essere bandito da ogni spiegazione della realt. Poich tale dualit pre-
vede una sorta di intermittenza esistenziale, lalternanza di essere e non essere, essa si ri-
vela inammissibile. Lavvicendamento di luce e notte, lo scambiarsi periodicamente i
ruoli, per la Dea ha un significato soltanto formale, giacch tradisce tutta la sua parzialit,
e dunque non pu porsi a fondamento del cosmo.
Il problema, quindi, come esplicitato dalla Dea nel verso B8.54, la mancanza di
coesistenza. Ma questo avviene perch i mortali hanno immaginato tali gnmai come
56
A dire il vero, alcuni studiosi pi accorti il problema se lo sono posti. Ad es., P. Thanassas, Parmenides,
Cosmos, and Being, cit., p. 72, ha sostenuto che Parmenide non solo il padre del monismo ontologico, ma
anche del dualismo cosmologico, cio di un modello fisico fondato sulla mescolanza di due principi. Cos,
lo studioso sembra interporre tra lessere e le sue manifestazioni la mediazione di una dualit di principi. Il
problema , per, che tali principi sono posti sullo stesso piano degli enti, e la distinzione tra principi ed
enti fisici tutta interna alla manifestazione cosmologica dellessere. In altre parole, i livelli per Thanas-
sas restano due: quello ontologico e quello cosmologico.
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36
demas, strutture materiali. Sono due materie eterogenee, alternative come, si potrebbe di-
re, lacqua e lolio, incapaci di mescolarsi. Dove c luna, non c laltro. Rotta
lomogeneit dellesistente, vige lesclusione esistenziale.
La mossa di Parmenide consiste proprio nellintervenire su questo punto. Egli com-
prende che, se non compromessa lomogeneit dellesistente, la dualit pu essere ac-
colta. Lunico modo per farlo considerare i costituenti non come sostanze materiali di-
verse (n tantomeno come forme, cosa che ridurrebbe i principi costituenti allo stesso sta-
tus degli oggetti costituiti), ma come propriet diverse di una stessa sostanza (dallunica
natura). Ci si potrebbe chiedere che problema ci sia nel porre due materie diverse a
fondamento del cosmo. Sono pur sempre enti entrambi: il Fuoco e la Notte , pur aven-
do due diverse nature. Il punto, per, che qui non parliamo di enti come gli altri, cio
degli enti costituiti dai principi primi, ma dei costituenti del cosmo. Lerrore sta proprio
nel confondere la parte con il tutto. Se i due enti sono entrambi, allora non sono due enti,
ma uno solo, perch hanno in comune il fatto di essere (materialmente). Detto altrimenti,
se sono principi costitutivi del cosmo, e sono opposti, non possono che essere luno la
negazione dellaltro (la presenza delluno consister nellassenza dellaltro, il suo annul-
lamento). Lontologia parmenidea (quella che abbiamo chiamato di primo livello) preve-
de che non possa esserci nessun annullamento, e che tutto sia un ente soltanto. Le nature
diverse possono solo darsi come propriet diverse (e opposte) dellunico ente. ci che
Parmenide afferma nel frammento B9.
E poich tutte le cose sono state denominate luce e notte,
e le cose che corrispondono alla loro forza sono attribuite a queste cose o a quelle,
tutto pieno ugualmente di luce e notte oscura,
uguali ambedue, perch con nessuna delle due c il nulla.
La traduzione non facile: qui riporto ancora una volta la versione di Reale, che una
delle traduzioni possibili. Va detto, per, che nonostante il testo possa essere reso in mo-
do diverso, il senso generale sembra abbastanza chiaro. In particolare, se, come abbiamo
visto, nel verso B9.1 abbiamo un richiamo a quanto detto a proposito delle opinioni dei
mortali (e infatti si fa ancora riferimento alla nominazione, e quindi a ci che hanno sta-
bilito terze persone), dal verso B9.2 si parla di stati di fatto: non ci che posero i mortali,
ma come stanno le cose. Il punto determinante mi pare il passaggio dal modo in cui i
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
37
mortali avevano descritto i due principi, al modo in cui secondo Parmenide li si pu uti-
lizzare per descrivere il mondo. Nelle opinioni fallaci Fuoco e Notte erano demas, corpi,
strutture materiali; qui divengono dynameis, forze, potenze, propriet
57
. Il testo sembra
dire che la denominazione (fallace) di Fuoco e Notte data a tutte le cose (in B8.53 le for-
me) come se queste ultime fossero fondate su strutture materiali opposte, due figure cor-
poree antitetiche, deriva dal fatto che le loro propriet sono riconosciute nelle cose stesse
(distributivamente: a queste cose e a quelle). Dunque, se falsa la tesi di fondo, secondo
la quale il mondo sarebbe costituito da due enti eterogenei, vero invece che le loro pro-
priet si trovano effettivamente nel mondo. In questo senso, e solo in questo, si pu dire
che tutto pieno delluno e dellaltro principio, perch nessuno dei due nulla rispetto
allaltro
58
.
Che cosa vuol dire? Vuol dire che Parmenide ha un atteggiamento, potremmo dire,
dialettico verso le opinioni dei mortali. I due principi sono falsi, non si discute. Tuttavi-
a, sembra dire Parmenide, possiamo chiamarli secondo luso dei mortali, purch ci si in-
tenda sul fatto che non parliamo di due principi materiali, due corpi, ma delle loro pro-
priet. solo in questo modo che si pu ammettere la dualit: non una polarit di enti di-
versi (dal punto di vista ontologico, cio dellontologia di primo livello, quello fonda-
57
Oltre che in B9, il termine dynamis probabilmente compariva anche nella porzione di testo corrisponden-
te al nostro frammento B18, che per ci pervenuto soltanto nella versione latina di Celio Aureliano, il
quale al v. 2 traduce una corrispondente espressione greca con la parola virtus.
58
Lultimo verso del frammento mi pare ci indichi il modo corretto di intendere lerrore dei mortali. Ari-
stotele, nella testimonianza sopra riportata (A24), ha inteso la dualit dei principi come se replicasse
lalternativa tra essere e non essere: il Fuoco starebbe per lessere, la Notte per il non essere. In Aristotele
vi sono indicazioni preziose su come intendere questo passaggio delicato del poema; e tuttavia, qualcosa
potrebbe essere risultato oscuro allo stesso Aristotele, costringendolo ad interpretare (e magari non sempre
in modo corretto). Ad esempio, se pare certo, da diversi riscontri, che per Parmenide il Fuoco era associato
al caldo e la Notte al freddo, molto pi incerto che Parmenide ritenesse che essi fossero lanalogo senso-
riale di essere e non essere. Spia del fatto che Aristotele stia operando una sua interpretazione
lidentificazione della Notte con la Terra, abbastanza dubbia e facilmente spiegabile, come abbiamo gi
detto (cionondimeno, si veda A22). Certamente, la dualit di essere e non essere sarebbe inammissibile per
Parmenide, ma si potrebbe pensare che proprio questo fosse lerrore dei mortali contestato dalleleate. Cos
hanno interpretato alcuni studiosi, recuperando e correggendo la testimonianza aristotelica (ad es. i gi cita-
ti Ruggiu e Thanassas). Tuttavia, difficile pensare che Parmenide contestasse ai mortali di associare alla
Notte il non essere, allorch, riportando il contenuto delle loro opinioni, ci dice che la Notte oscura, den-
sa e pesante (B8.59), cio ha alcuni tratti caratterizzanti, cosa che, secondo Parmenide, impossibile per il
non essere (il quale non ha alcuna caratterizzazione). Si potrebbe allora pensare che lerrore dei mortali
fosse proprio questo, e cio pensare che ci che ha alcune caratteristiche (come il principio Notte) possa
non essere. Ma ci richiederebbe una identificazione esplicita della Notte con il non essere, che per non
presente in nessun passaggio del poema a noi giunto. Al contrario, abbiamo invece, e significativamente,
lultimo verso del frammento B9, che dice (perlomeno nella resa qui proposta, che stata accolta anche da
Ruggiu e in modo analogo da Thanassas) con nessuna delle due c il nulla, cio il nulla non c n con la
Notte, n con la Luce, il che lascia pensare che Parmenide contesti il fatto che per i mortali il non essere
possa stare con entrambi gli elementi (e non solo con la Notte), appunto nel modo da noi indicato
dellintermittenza esistenziale, e che qui stia correggendo il loro errore.
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38
mentale, lente infatti uno solo), ma quella di due forze. Esse possono infatti essere due,
perch non sono enti, ma appunto propriet. E le propriet in quanto tali, dipendono da
un ente che caratterizzano in un certo modo. In questo modo, la dualit pu convivere
nellunit: lo pu fare perch siamo su un livello ontologico diverso, quello delle forze
qualitative.
Ma a quali propriet sta pensando Parmenide? Simplicio ci ha riportato uno scolio
(certamente non parmenideo) agli ultimi versi del fr. B8, nel quale troviamo un elenco di
caratteri collegati ai due elementi: in questo c il raro, il caldo, la luce e il molle e il
leggero; invece con il denso viene indicato il freddo, la tenebra, il duro e il pesante; que-
sti si separano ciascuno a proprio modo. Questa nota chiarificatrice inserita tra i versi,
dovuta a qualche copista, potrebbe elencare sistematicamente, nel luogo in cui compaio-
no per la prima volta i due principi, cio nella sezione sulle opinioni, le dynameis che in-
vece avranno un ruolo nella fisica vera e propria. Tra queste sembra che Parmenide abbia
dato un particolare risalto al caldo (associato al raro) e al freddo (associato al denso), al
punto che si potrebbe dire che leleate recuperi i principi materiali della cosmologia tra-
dizionale (fallace) dei mortali, traducendoli scientificamente (diremmo oggi) in proprie-
t termiche di un ente unico. Diogene Laerzio (A1) scrive: Parmenide fu il primo ad af-
fermare che la terra ha la forma di sfera e che situata al centro delluniverso. Disse che
due sono gli elementi, il fuoco e la terra, e che il primo ha funzione di demiurgo, laltro,
invece, di materia. Disse che la generazione delluomo deriva in primo luogo dal sole e
che due sono le cause: il caldo e il freddo di cui tutte le cose sono costituite. Cos gi
Aristotele, nella testimonianza che abbiamo sopra ricordato e con i problemi che abbiamo
segnalato (A24): costretto, peraltro, a tener conto dei fenomeni, e supponendo che luno
sia secondo ragione, mentre il molteplice secondo il senso, egli pure pone due cause e
due principi: il caldo e il freddo, vale a dire il fuoco e la terra; e assegna al caldo il rango
dellessere e al freddo il rango del non essere. Aezio (A43) afferma che in Parmenide il
caldo corrisponde al raro (e lo ricollega al sole), e il freddo al denso (e lo ricollega alla
luna). Inoltre a Parmenide (secondo Strabone e Aezio, A44) si deve la prima divisione
della terra in cinque diverse zone climatiche. Ma il fatto che caldo e freddo svolgessero
un ruolo costitutivo in ogni aspetto del cosmo, lo confermano anche alcune testimonianze
su questioni di fisiologia: ad esempio, per Parmenide la vecchiaia (Aezio, A46a) e il son-
no (Tertulliano, A46b) non sarebbero altro che forme di raffreddamento. Altre testimo-
nianze (Aristotele, A52, e Aezio, A53) fanno riferimento alla tesi parmenidea secondo
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
39
cui le femmine sarebbero pi calde dei maschi. Ma linformazione pi significativa a ri-
guardo la dobbiamo a Teofrasto, allorch riconosce alle due forze una funzione specifica
nella concezione parmenidea della sensazione:
Parmenide, in generale, non ha fornito una dottrina precisa ma ha detto solamente che, es-
sendo due gli elementi, la conoscenza prodotta dallelemento che prevale. Infatti, se pre-
vale il caldo o invece il freddo, il pensiero diventa diverso; quello che ha luogo ad opera
del caldo migliore e pi puro. Ma anche in questo pensiero deve esserci una certa pro-
porzione [qui cita il fr. B16]. Parmenide dice che la sensazione e il pensiero sono una me-
desima cosa; pertanto memoria o dimenticanza derivano dal caldo e dal freddo e dalla loro
mescolanza. [] Che allelemento contrario per s preso Parmenide attribuisca sensazio-
ni, risulta evidente in quei versi in cui egli afferma che il cadavere non percepisce la luce,
il caldo e la voce, a causa della mancanza di fuoco, ma che, invece, percepisce il freddo, il
silenzio e tutti i contrari di questo tipo.
Le ultime righe sono estremamente significative perch testimoniano che Parmenide,
nonostante la centralit della dualit termica nella spiegazione dei fenomeni, continuava
a chiamare i due elementi Fuoco e Notte (lespressione di Teofrasto a causa di una man-
canza di fuoco fa pensare ad una parafrasi di qualche verso perduto), sebbene stesse ra-
gionando sulle loro dynameis, e sul caldo e il freddo in particolare. Da qui, io credo, de-
riva lambiguit dellultima sezione del poema. In questo senso vanno intesi, ad esempio,
il fr. B12 e le testimonianze in cui viene descritta la struttura del cosmo come uninsieme
di corone di fuoco e di tenebra, quelle in cui il sole e la via lattea sono dette esalazioni
dellelemento igneo, gli astri sarebbero compressioni di fuoco, e la stessa anima avrebbe
natura ignea (Cicerone e Aezio A37; Aezio A38, A39, A40a, A41, A42; Aezio e Macro-
bio A45). In questo caso, Fuoco e Notte starebbero per il riscaldarsi (e rarefarsi) e il raf-
freddarsi (e condensarsi) della materia.
cos, dunque, che si spiega la mossa dialettica di Parmenide. Per i mortali tutti gli
enti sono riconducibili a due cose opposte e impenetrabili tra loro, ognuna delle quali la
negazione esistenziale dellaltra. Per Parmenide i due principi costituenti non possono es-
sere due cose, ma due propriet di una stessa cosa. Tali propriet, infatti, possono coesi-
stere e mescolarsi. questa lidea innovativa di Parmenide: al modello cosmologico
dellopposizione esclusiva (un modello che ebbe successo nel pensiero pre-parmenideo,
da Anassimandro ad Eraclito, passando per i pitagorici), Parmenide sostituisce il modello
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della mescolanza dei coesistenti. I concetti di mixis e krasis ricorrono infatti nei fram-
menti fisici (B12.4, B16.1; in B12.1 c akrtos, non mescolato). Sar questo un model-
lo di cui faranno tesoro i filosofi successivi, i cosiddetti pluralisti. Il vantaggio dal punto
di vista parmenideo evidente: i due principi non si escludono, non sono luno il non es-
sere dellaltro, ma convivono. Certo: dal punto di vista particolare, l dove c il freddo,
non c il caldo, e viceversa (sebbene in una mescolanza, questa esclusivit discutibile).
Ma ammettendo che le due forze potessero sciogliersi dal loro abbraccio, questa esclusi-
vit varrebbe solo dal punto di vista mereologico, cio, come sappiamo, morfologico. Dal
punto di vista del Tutto, cio dellunico ente integrale, nulla cambia: lente resta costan-
temente isotermico. Sono le dynameis a mescolarsi, senza annullarsi reciprocamente. Le
diverse mescolanze, la diversa preminenza delluna o dellaltra forza, determinano forme
diverse dellente. Ma la quantit del freddo e del caldo allinterno del Tutto, se potesse-
ro separarsi completamente, la stessa (come sembra possa ricavarsi da B9.4: isn am-
photern, uguali entrambi). Ad un aumento del freddo in un punto corrisponder una
perdita del freddo (e quindi un aumento del caldo) in un altro.
Parmenide, allora, continua a parlare di Fuoco e Notte, intendendoli, per, non alla
maniera dei mortali, ossia come due enti alternativi, ma come il nome dellente allorch
caratterizzato da una certa propriet. Laddove leon caldo e rado, verr chiamato Fuo-
co; laddove freddo e denso, verr chiamato Notte. In questo modo, e solo in questo, il
cosmo unico pu dirsi costituito dalla mescolanza di Fuoco e Notte.
possibile, quindi, che la tanto discussa espressione ta dokounta di B1.31, faccia rife-
rimento ai contenuti delle opinioni dei mortali in senso stretto, e cio le gnmas Fuoco e
Notte, le due congetture degli uomini comuni (congetture in senso non proposizionale:
gli oggetti congetturali). Cos, la Dea nei versi finali del fr. B1 direbbe a Parmenide che
egli imparer da un lato la verit, e dallaltro le opinioni inesatte dei mortali: cionondi-
meno, apprender altres in che modo gli oggetti di queste opinioni (ta dokounta, vale a
dire Fuoco e Notte) esistano realmente (dokims). Appunto, non come demas opposte,
ma come dynameis dellunico Tutto
59
.
59
Del caldo e il freddo come dynameis trattava, tra le altre cose, lo scritto ippocratico De prisca medicina,
oltre che Alcmeone, il quale per di pi opponeva limportanza della isonomia delle forze opposte (tra cui
caldo e freddo), alla dannosit della monarchia di una delle due (fr. B4). Non forse un caso se la centrali-
t delle dynameis e lidea dellimportanza costitutiva del loro equilibrio, si ritrovino in classici dellantica
scienza medica, se vero che Parmenide stesso fosse stato un medico, come si ricava da esplicite testimo-
nianze (tra cui alcuni testi della tradizione araba tardomedievale), dalle non poche testimonianze su que-
stioni fisiologiche ed embriologiche, di cui trattano altres alcuni dei frammenti del poema (uno dei quali, il
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
41
6. Unontologia stratificata
Quando si parla dellontologia di Parmenide, anche allorch si sospetta della validit
del paradigma interpretativo eliminativista, generalmente si continua a pensare ad
unontologia ad un solo livello. Ad unattenta lettura, che cio tenga conto di tutto ci
che ci resta del poema, si comprende quanto fosse articolata la sua riflessione, e come,
nello specifico, la staticit dellessere costituisse soltanto un livello di questa ontologia: il
livello fondamentale, ma certamente non lunico. E soprattutto, si desume che non basta
affatto arricchire questa ontologia aggiungendo un ulteriore piano, sul quale si colloche-
rebbero gli enti fisici molteplici e divenienti. Questa integrazione costituisce senza dub-
bio un passo avanti nellinterpretazione del poema, ma non ancora sufficiente, poich
non fa luce su un terzo livello a cui Parmenide fece riferimento, un piano che non coinci-
de con quello fondamentale dellente statico, ma che non si riduce a mera manifestazione
derivata. un piano attivo, che si interpone tra lente e le sue forme.
Se ne ricava, cos, unontologia stratificata, strutturata in tre livelli
60
. Si badi che qui
non si tratta di una triplicit di vie di ricerca immaginata da alcune letture
61
, n della tri-
partizione tra vero, probabile e falso (cui corrisponderebbe, a parte obiecti, quella tra ne-
cessario, contingente e impossibile
62
). I tre livelli corrispondono a tre tipologie di ogget-
B17, si deve significativamente a Galeno, che cita Parmenide allinterno dello scritto In Hippocratis Epi-
demiarum) e dalla scoperta delle iscrizioni a Elea durante gli scavi archeologici degli anni Cinquanta e
Sessanta, su cui si a lungo dibattuto in passato. In ogni caso, che ad Elea-Velia vi fosse unantica scuola
medica un dato certo, che ha numerose conferme archeologiche e storico-letterarie; che Parmenide fosse
stato uno dei capi di questa scuola, una tesi su cui vi un amplissimo consenso tra gli studiosi. Non
senza importanza, poi, linformazione secondo cui le attivit di guarigione del centro medico di Elea pre-
vedevano luso delle acque termali della zona, praticando una terapia del freddo (nello specifico una idro-
terapia fredda).
60
Poich non insensato dire che per Parmenide tutto uno (purch lo si intenda correttamente), si potreb-
be affermare che i tre livelli corrispondono a tre punti di vista diversi sulla stessa realt: il primo livello il
punto di vista dellessere, il secondo quello delle qualit, il terzo quelle delle manifestazioni. Bisogna per
intendersi: i tre punti di vista, seppure compossibili, non sono prospettive soggettive equivalenti. Essi corri-
spondono ad una oggettiva articolazione (gerarchicamente strutturata) della realt. Cos, non sarebbe cor-
retto dire, ad esempio, che limmutabilit cui si perviene dal punto di vista dellessere, non una caratteri-
stica oggettiva della realt, perch da un diverso punto di vista (quello corrispondente al livello delle forme
fisiche) invece ammessa. Non corretto perch i due punti di vista in questione rispecchiano due piani
ontologicamente diversi: per cui limmutabilit senzaltro una caratteristica della realt, e se da un diver-
so punto di vista la realt esibisce il cambiamento, solo perch si guarda ad un altro livello del reale
(quello della particolarit e della mera esteriorit, per di pi un piano meno autentico, per cos dire, proprio
perch parziale). Poich i due piani non sono confondibili, le loro caratteristiche non sono equivalenti.
unobiezione che ho mosso a C. Robbiano, Becoming Being, cit., nella recensione apparsa su Gnomon,
82 (2010), pp. 557-559.
61
Recentemente tornato a sostenere con forza questa lettura il gi citato P. Thanassas, Parmenides, Co-
smos, and Being, cit., pp. 77-84.
62
Cos J. Palmer, Parmenides and the Presocratic Philosophy, cit., capp. 2, 3, 4.
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42
ti
63
, cui Parmenide fa esplicito riferimento nel poema: eon, dynameis, morphai. Vie di ri-
cerca, discorsi espositivi e livelli ontologici in Parmenide costituiscono cose diversissi-
me. Le vie rappresentano i presupposti epistemologici della ricerca e sono solo due (uno
vero e uno falso). I discorsi nel poema sono, invece, tre: un discorso intorno alla verit
assiomatica dellesistente, un resoconto delle opinioni fallaci dei mortali, e quindi
unampia integrazione di parerga e paralipomena al discorso vero, sul modo in cui gli
oggetti dellopinione esistono realmente, costituendo il cosmo. I livelli ontologici, infine,
sono anchessi tre, ma non coincidono pienamente con i discorsi tenuti dalla Dea: solo il
primo livello corrisponde al primo discorso; gli altri due, invece, sono interni al terzo di-
scorso, quello fisico. Il secondo discorso, infatti, appartiene al novero delle falsit e quin-
di non si colloca su nessun livello ontologico (o meglio, essendo costituito da parole sen-
za riferimento oggettivo, flatus vocis ma senza che i mortali ne siano consapevoli so-
no pur sempre forme dellente materiale, come tutte le altre parole, e quindi si posiziona-
no loro malgrado al terzo livello).
Possiamo, ora, ricapitolare i caratteri dei tre strati dellontologia parmenidea.
1. Primo livello: conosce ununica esemplificazione. il livello ontologico in senso
stretto, sul quale si colloca lunico ente davvero esistente. Il discorso che presenta
le caratteristiche di questo ente, lunico discorso certo, poich si pone dal punto
di vista della totalit e, per cos dire, del fondamento autoevidente delle cose. So-
stanzialmente esiste solo leon, che racchiude in s tutto ci che esiste, giacch
tutto ci che esiste (cio tutte le cose che esistono) al fondo non sono che
ununica grande cosa. un oggetto unico, indiviso, statico, senza principio e sen-
za fine. Ma un oggetto fisico, e per di pi sferico, proprio come il cosmo de-
scritto da Parmenide. Questo perch tale ente il cosmo, e la sua figura la sfera,
la forma che racchiude perfettamente tutte le altre forme.
2. Secondo livello: conosce due esemplificazioni. il livello che introduce la dina-
mica: sono le dynameis, forze opposte che qualificano lunico ente. Esse si me-
scolano in proporzioni diverse, e modificano dallinterno le diverse zone
delleon, il quale per, nellinsieme resta invariato e immodificabile. Le due forze
sono infatti in costante equilibrio nellinsieme. E se dal punto di vista del livello
63
forse preferibile parlare di oggetti piuttosto che di enti, poich ente in senso stretto solo leon, ossia
loggetto di primo livello.
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
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dinamico sono due oggetti, dal punto di vista del primo livello restano pur sempre
una stessa cosa, perch sono solo propriet, e non enti veri e propri. Fuoco e Not-
te sono lo stesso ente, luno quando caldo e rado, laltro quando freddo e den-
so. Le propriet, in questo senso, esistono in maniera parassitaria: per essere,
hanno bisogno di un ente vero e proprio. Ma sono qualcosa che si aggiunge
allente: una qualificazione dinamica, non un derivato formale.
3. Terzo livello: conosce innumerevoli esemplificazioni. Gli oggetti di questo livello
sono il prodotto del gioco tra i primi tre oggetti (Ente, Fuoco e Notte). La innu-
merevoli forme sono infatti il risultato della mescolanza delle due propriet dina-
miche dellunico ente statico. il livello pi superficiale. Se non si pu dire che
tali forme siano puro nulla, o parvenze illusorie, esse restano solo oggetti derivati,
lontani di due livelli dallente vero e proprio. Ma, in qualche modo, esistono
anchesse, poich sono forme dellente, che esiste. Il loro limite il fatto che sono
solo parti delleon, mentre lesistente il Tutto. Essi abitano il cosmo, ma non
sono il cosmo. Se tali parti formali vanno e vengono e sono molteplici, il cosmo
nella sua interezza sempiterno e unico. Lerrore nella spiegazione del cosmo
(compiuto dalluomo comune) consiste proprio nel confondere la mereologia-
morfologia con lontologia vera e propria, cio la parte con il tutto (o la forma
con la materia), oscurando il ruolo delle dynameis.
Linterpretazione qui proposta si sforza di tenere conto dei diversi elementi del poe-
ma, e di inserirli in un quadro dinsieme il pi possibile coerente, che per di pi non stri-
da con il contesto di pensiero nel quale Parmenide storicamente si collocava. Ora, se que-
sta interpretazione corretta, la tesi parmenidea potrebbe essere sintetizzata nel modo se-
guente: esiste un cosmo unico, compatto, immodificabile, infinito nel tempo ma finito
nello spazio (la sua estensione coincide con lo spazio stesso). La sua figura sferica. Es-
so corporeo, ma non ha una natura materiale che lo qualifichi (non acqua, aria, fuoco,
terra). una materia indeterminata unitaria. Essa lunica che cosa che esiste. Vi una
prima linea di propriet che lo caratterizza coincidente con il modo di esistere dellente:
appunto, lingeneratezza, lindistruttibilit, limmobilit ecc. Sono caratteri fissi e non in
contrasto tra loro. Non si aggiungono allente, ma lo esprimono per quello che . Vi ,
per, una seconda linea di propriet che non coincidono con lente, ma che si aggiungono
ad esso, pur presupponendolo: sono oggetti di secondo livello. Non sono enti veri e pro-
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pri, ma propriet dellente. Sono le forze del caldo-rado e del freddo-denso che modulano
lente. La parte dellente che conosce la potenza del caldo, Parmenide, secondo luso dei
mortali, la chiama Fuoco; quella che conosce la potenza del freddo, la chiama Notte. La
mescolanza di queste propriet, in proporzioni, punti e momenti diversi dellente, genera
forme innumerevoli, che si collocano cos su un terzo livello. Lente loggetto esistente
per eccellenza, le forze sono i principi dinamici di formazione del cosmo, che si equili-
brano nel tutto, le forme sono il prodotto della loro mescolanza e separazione allinterno
dellente
64
.
Alleliminativismo classico si pu, dunque, rispondere con il realismo (che ritiene gli
enti fisici reali) sostenuto, ad esempio, da Casertano, Cerri e Palmer
65
, oppure con una
forma di riduzionismo (che li reputa riducibili ad una manifestazione delleon), come
hanno ritenuto, ad esempio, Untersteiner, Ruggiu e Thanassas. a questa seconda linea
interpretativa che la lettura qui proposta si avvicina. Il punto su cui essa se ne distacca
appunto linserimento di un livello di propriet dinamiche e sempre esistenti (e quindi
coesistenti) intermedio tra il livello dellente statico e sempre esistente e quello delle sue
forme dinamiche e divenienti (cio non sempre esistenti). Ma, del resto, anche a non vo-
ler accogliere i dettagli dellinterpretazione esposta in questo contributo (gli elementi pi
respingenti per la communis opinio presumo siano la corporeit delleon, la riduzione dei
due principi fisici a dynameis, lidentificazione delle morphai con gli innumerevoli enti
fisici e non con i due elementi opposti) difficile non riconoscere nel discorso della Dea
di Parmenide la presenza di tre diversi livelli di oggetti, non confondibili tra loro: il li-
vello dellente fondamentale, quello dei costituenti opposti Fuoco e Notte, e quello degli
oggetti fisici costituiti che arredano il cosmo. Se tale struttura tripartita viene ben intesa,
una volta rifiutata una superficiale (e pregiudiziale) visione di Parmenide come monista
stretto, vi si pu riconoscere, al contrario, la lontana origine di quella triplicit di piani
della realt, che porter ad esempio alla Dreiprinzipienlehre dei filosofi Medioplatonici.
La differenza sta solo nel fatto che in Parmenide le forme sono un risultato, pi che un
elemento costituente. Per giungere al rovesciamento teorico che vedr proprio nelle for-
me paradigmatiche il piano principale della realt, e nella materia il piano ultimo e im-
64
Il fatto che leon cambi temperatura e consistenza non nega forse la sua immutabilit? No, perch lunico
mutamento che pu accadere a ci che diventare ci che non (in senso esistenziale, non predicati-
vo). E ci non avviene. Per di pi, come si detto, i cambiamenti termici riguardano i particolari: il Tutto,
cio leon, resta costantemente isotermico, e quindi non muta nemmeno sotto questo aspetto.
65
Lunico indebolimento del realismo, in questi autori, dato dallaccoglimento di un probabilismo di
carattere epistemologico (pi accentuato nella visione evolutiva di Cerri).
Massimo Pulpito, I Tre livelli dellontologia parmenidea
45
perfetto, bisogner attendere la sintesi platonica tra il matematismo pitagorico, il concet-
tualismo socratico e lontologia eleatica, interpretata, per, attraverso i vari filtri che nel
frattempo si saranno interposti tra Parmenide e Platone: laporetica zenoniana, il moni-
smo melissiano
66
, leristica sofista e, non ultima, la filosofia megarica.
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stati riprodotti
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Ho sostenuto sopra che sar poi Melisso ad estendere la tesi parmenidea della staticit e dellunicit an-
che alle forme. Lindizio di una polemica con Parmenide sullammissione di ulteriori livelli rispetto a quel-
lo dellessere, livelli nei quali non varrebbero le condizioni del primo, potrebbe essere riconosciuto in ci
che Melisso scrive nel gi citato fr. B8: Ora noi diciamo, appunto, di vedere e di udire e di intendere in
modo retto. Daltra parte ci sembra che il caldo diventi freddo e che il freddo diventi caldo, il duro diventi
molle e il molle diventi duro [] E se anche noi affermiamo che gli esseri siano molti, dotati di eterne
forme e di forza, ci sembra, poi, che tutti mutino e diventino diversi da come ogni volta li vedemmo.
dunque evidente che noi non vediamo in modo retto e che quelle molte cose ci sembrano essere in modo
non retto. I riferimenti alla dinamica caldo-freddo e duro-molle (opposizioni di caratteri che le testimo-
nianze antiche attribuiscono ai due principi parmenidei), cos come laccenno alle forme (eid) e le forze
(ischyn) potrebbero non essere casuali.