Flora Terranova
FRANCESCO LANZA E I MIMI DI ERODA: STORIA DI
UNA PARENTELA FORZATA
Tesi di laurea
Relatore
Chiar.mo Prof. Antonio Di Grado
INDICE
INTRODUZIONE 1
I. FRANCESCO LANZA E I MIMI SICILIANI 9
I.1 Biografia 9
I.2 Lanza scrittore nel quadro storico-letterario del primo novecento 16
I.3 I Mimi siciliani 30
I.3.1 La natura 43
I.3.2 L’erotismo 52
I.3.3 Sacro e profano 68
I.3.4 Poveri e poveri 81
I.3.5 Il caropipano e il piazzese 85
II. ERODA E I MIMIAMBI 93
II.1 Biografia 93
II.2 Eroda, il mimo e l’ellenismo 98
II.3 I Mimiambi: teatro o letteratura? 116
II.4 I Mimiambi 121
II.4.1 La mezzana 123
II.4.2 Il lenone 128
II.4.3 Il maestro di scuola 131
II.4.4 Le donne al tempio di Asclepio 132
II.4.5 La gelosa 134
II.4.6 Le amiche a colloquio segreto 136
II.4.7 Il calzolaio 138
II.4.8 Il sogno 139
III. ERODA E LANZA: STORIA DI UNA PARENTELA FORZATA 143
CONCLUSIONI 154
BIBLIOGRAFIA 156
2
Introduzione
Il lettore moderno che affronta un testo letterario greco si trova spesso a
proprio agio, in una sensazione di profonda sintonia con quegli autori,
nonostante il divario di tempo e spazio che li separa. Il contatto con la cultura
greco-latina non rientra solo nella categoria dell’utile, ma in quella
fondamentale e fondante dell’emozione e della bellezza. I classici sono
considerati unanimemente depositari di contenuti concettuali e morali e di
lezioni formali di portata universale, utili perché ci riportano al senso della
storia e della memoria, ci aiutano a comunicare, fornendoci ‘parole’ e non solo
vocaboli. Essi, inoltre, agiscono come elemento di coesione tra due mondi, di
ieri e di oggi, mantenendo viva l’idea di un patrimonio comune.
La Sicilia, in particolare, deve molto del suo patrimonio culturale e
sociale al mondo greco, ma la letteratura siciliana sembra ad alcuni aver in
parte saldato il suo debito nei confronti dei greci con i Mimi siciliani di
Francesco Lanza, un autore che, nei primi decenni del Novecento, “in una
scrittura essenziale e stilisticamente perfetta, seppe fissare i nuclei originari
dell’anima siciliana, la vocazione al mito, alla saggezza, alla fatica, stemperata
spesso dalla coscienza del grottesco di cui si appesantisce la quotidianità dei
semplici”1. Lo scrittore siciliano, a parere di molta parte della critica, ha avuto
il merito di aver colmato la distanza inevitabile, naturale, che separa un
1
S. Li Bassi, Premessa a Francesco Lanza, Palermo, Ila Palma, 1989, p. 7-8
3
‘classico’ greco dalla nostra modernità, adattando un genere dai connotati
molto precisi, il mimo, al sentire moderno e isolano. L’accostamento che ha
riscosso più successo nella critica è stato quello con i Mimiambi di Eroda,
poeta greco della prima metà del III secolo a.C., che compose dei quadretti
vivaci e forti in versi, puntando la sua verve ironica sulla società
corrotta,volgare e superficiale delle grandi città, in uno stile molto curato.
Si cercherà di dimostrare, seguendo con attenzione il percorso umano e
letterario dell’autore, che Lanza non è, in realtà, il nuovo Eroda o un
mimografo siciliano del Novecento, ma un curioso e attento sperimentatore di
generi, che ha incontrato nel suo percorso anche generi che possono
richiamare alla memoria il mimo antico, ma ha, soprattutto, rivalutato
l’importanza della cultura orale, mezzo esclusivo di trasmissione per i greci
fino all’epoca ellenistica, raccogliendo per i suoi mimi i racconti popolari della
sua terra, patrimonio comune a tutti.
Si dimostrerà, in questo lavoro, che egli è riuscito ad attualizzare quel
mondo e quella letteratura, filtrando i frammenti del passato, metabolizzati
attraverso la lettura, e mantenendo nel cuore la Sicilia e nell’anima la Grecia.
Le assonanze, però, si fermano qui. Lanza non ha voluto rispolverare un
genere lontano nel tempo in modo consapevole; la sua materia necessitava di
modi narrativi molto precisi che non si possono far risalire certo al III secolo
a.C. La sua formazione culturale ha spinto molti a guardare indietro verso il
4
mondo greco, e la fortuna della sua opera più nota, i Mimi siciliani appunto, si
deve, forse, proprio al titolo scelto per lui da Ardengo Soffici.
Verranno esaminate le posizioni della critica nei confronti della
personalità artistica di Lanza e del suo percorso narrativo, condividendo, però,
solo il parere espresso da Salvatore Di Marco a proposito dell’affrettata e
ingiustificata parentela tra i Mimi di Lanza e i Mimiambi di Eroda.
A lungo la critica letteraria ha ignorato questo scrittore o, quando ha
voluto degnarlo di attenzione, è rimasta prigioniera del sistema letterario,
dell’ansia ordinatrice, delle tassonomie e delle classifiche. È sorprendente che
nell’ “anemica fioritura di prose d’arte”2 e frammenti, sia passato inosservato
uno scrittore vivo, corposo e vitale come Francesco Lanza. Forse l’altalenante
fortuna critica è dovuta al fraintendimento della sua opera più nota, i Mimi
siciliani appunto. Sono piccole storie, a volte solo poche frasi, che raccontano
il mondo dei paesi, delle campagne, in un linguaggio vivo, un italiano
intarsiato di termini dialettali, che non abbassano, però, il livello artistico
dell’opera. Questa, anzi, in apparenza così frammentaria, acquista compattezza
proprio grazie alla potenza unificatrice del linguaggio.
Nel giudizio dell’opera, però, ci si è fermati spesso solo alla veste
folkloristica o a certa materia un po’ sboccata, facendone quasi un librettino di
storielle divertenti, di basso umorismo. I mimi non sono questo, o non solo.
Sono dialoghi veloci, ma non affrettati, leggeri ma densi, di persone semplici,
indicate con la generica definizione dei paesi d’origine (il piazzese, il
2
L. Sciascia, La corda pazza, Milano, Adelphi, 1991, p.166
5
caropipano, il barrafranchese...). Ad ogni toponimico sembra corrispondere un
vizio, un’abitudine, ma è un’impressione dovuta alla prima lettura. I nomi dei
paesi sono soltanto un espediente letterario per far sfilare davanti agli occhi
del lettore una galleria di personaggi, di “tipi sbalzati dalla piattitudine della
vita attraverso il grottesco e l’assurdo”3, che possono appartenere a qualunque
luogo. C’è, poi, un’ulteriore tipizzazione, basata sul gioco delle antinomie,
tipica della novellistica popolare, che vede affrontarsi, ad esempio, lo sciocco
e il furbo, il marito un po’ ingenuo e il compare sornione. Lo scambio di
battute tra i personaggi è il risultato di un lungo e attento studio delle
tradizioni e narrazioni orali dell’universo contadino, rivitalizzate dal tessuto
narrativo composto ed elegante. Lo scopo non è quello di condurre il lettore
alla facile risata, ma neanche di fornire lezioni morali. Lanza non assume toni
da predicatore, che addita nei villici comportamenti fuori dal normale,
neanche quando descrive scene e atteggiamenti ferocemente blasfemi. Il suo è
un affresco ironico e divertito, in un gioco leggero e pungente, della società
contadina che conosce, delle credenze religiose, delle debolezze, delle ‘euforie
sessuali’, come le definisce C. Sofia nella sua introduzione ai Mimi del 1991. I
suoi protagonisti non ingaggiano battaglie ideologiche, essi sembrano, a volte,
ignorare il senso di certi rituali o, comunque, hanno un approccio naturale,
primordiale, tribale con la religione e i suoi simboli; lo stesso rapporto che
hanno, a volte, con la natura. Lontano da ogni idealizzazione bucolica della
natura, Lanza ne offre, anzi, una visione degradata; i suoi contadini hanno un
3
V. Santangelo, “Mimi di F. Lanza”, in Francesco Lanza, Palermo, Ila Palma, 1989, p.66
6
approccio possessivo, cannibalesco, aggressivo, ma anche disincantato e
ingenuo con la natura. L’uomo descritto da Lanza è ‘ingenuamente primitivo’
e, forse, proprio in virtù di quest’atteggiamento i protagonisti dei mimi sono
indicati con denominazioni etniche, da clan.
Altro elemento essenziale del mondo dei mimi è il sesso. C’è, nei mimi,
un susseguirsi di tresche e tradimenti, di assalti impetuosi e false ingenuità,
scene boccaccesche e grottesche, altre favolose e assurde. La maliziosa e
attenta regista del circuito erotico è sempre la donna, che, pur oggetto di
attenzioni sessuali, resta soggetto attivo. È lei a tirare i fili dei due burattini, il
marito e il compare, nel triangolo amoroso. E questi ultimi, pur ‘combattendo
su fronti opposti’, riescono spesso a trovare spazio e tempo per una
collaborazione che è resa necessaria da varie esigenze contingenti (la cura del
campo, le necessità della povera moglie lasciata sola, dimenticanze nella
procreazione...). La scoperta del tradimento, delle corna, non crea, però, né
imbarazzo né vera gelosia da dramma popolare, al contrario dà occasione per
chiarimenti surreali e gestualità esilaranti. Non c’è il senso del peccato, la
punizione per una colpa. L’eros è vissuto in modo naturale e primitivo, e così
è anche descritto da Lanza. La franca oscenità di certe scene è mitigata, quasi
trasfigurata, dal linguaggio materiato di ironia e dalla naturalezza verbale e
scenica di Lanza. Profondamente siciliana è, poi, all’interno di questi quadri,
la sentita esigenza che della ‘mancanzella’, come viene definita, la vittima non
rechi traccia. L’onore è importante sopra ogni cosa e, quindi, tutto va bene
7
purché il cornuto o l’adultera non riportino segni visibili del fattaccio, la
‘stampa’.
Nella sua arte c’è una perfezione che è dovuta alle due componenti di
fondo della sua scrittura, la “radicalità siciliana” e la “terrestrità ellenica”. Il
lettore di Lanza si troverà di fronte pagine di una “scrittura classica, ma non
antica, perché quella classicità investe tutto l’uomo stagliato nel paesaggio
mitico della <sua> terra natale”4, pagine che hanno “un carattere di classicità
intima, connaturale, che sembra in lui discesa da qualche atavo greco e che si
manifesta soprattutto in quei suoi naturali e divertenti mimi”5.
La biografia dell’autore ci accompagnerà lungo i fecondi e travagliati
primi decenni del novecento, mostrando il percorso umano e letterario di uno
scrittore sensibile al fascino del passato, che si affida al presente, nella
speranza di migliorare il futuro della sua terra. Il suo percorso letterario
comprende, infatti, non solo l’avventura dei mimi (passato), ma anche articoli
giornalistici (presente) e opere che potremmo definire didattiche (futuro).
Nella seconda parte di questo lavoro si ripercorrerà la storia più antica
del mimo, dalle sue origini all’opera di Eroda, per poter meglio cogliere le
differenze che si incontreranno nella lettura dei due testi assunti in questa tesi
per il confronto.
Ci si riferirà al mimo come ad un tipo di letteratura del quotidiano,
tipica dell’età ellenistica, costruita a piccoli quadri, con protagonisti non più
4
G. Cottone, “Profilo di Francesco Lanza”, in Francesco Lanza, Ila Palma, Palermo, 1989,
p. 16-17
5
C. Pelizzi, Le lettere italiane del nostro secolo, Milano, Hoepli, 1929, p. 388
8
eroi ma gente del popolo, con un linguaggio infarcito di termini dialettali, ma
non per questo rozzo o popolare, anzi spesso frutto di un attento studio. E si
vedrà che dal mimo antico Lanza, in effetti, sembra raccogliere per sé il
carattere episodico, la propensione all’azione parlata e gesticolata, il tentativo
(riuscito) di risolvere tutto in un’unica scena.
Nella terza e ultima parte si raccoglieranno i risultati dell’analisi dei
due autori. Si vedrà che Eroda ebbe, proprio negli anni in cui Lanza viveva e
si affacciava al mondo della letteratura, una notevole risonanza. La scoperta e
pubblicazione dei suoi mimi risale al 1891, e in un periodo in cui
imperversava il verismo egli dovette sembrarne l’antesignano. Lanza nasce
pochi anni dopo, nel 1897, e muore prematuramente nel 1933, dopo una vita
segnata da eventi luttuosi, ma rischiarata dalla levità profonda della sua
scrittura e della sua personalità.
Si procederà alla ricerca forzata di assonanze stilistiche, tematiche,
verbali per dimostrare che la scelta del titolo per il libro lanziano fu dettata
dall’entusiasmo per i Mimiambi appena tradotti in Italia e dalla superficiale
lettura di quelle che erano state pensate come Storie di Nino Scardino. Non si
condannerà, tuttavia, la scelta di Soffici, perché le si riconoscerà il merito di
aver contribuito ad una diffusione più ‘colta’ del libro lanziano e di aver
fornito una chiave di lettura che lo affrancasse dal triviale dell’umorismo da
bar di provincia.
9
Concluderà questo lavoro un appello, attraverso le parole di M. N.
Zagarella, ad una più attenta, cosciente e appassionata lettura dei Mimi
sicilani.6
6
Si è scelto per questo lavoro di far riferimento all’edizione dei Mimi siciliani curata da I.
Calvino, 1971; per i Mimiambi di Eroda ci si riferirà all’edizione di Q. Cataudella, 1948.
10
Capitolo I
Francesco Lanza e i Mimi siciliani
L’autore oggetto di questo studio è, purtroppo, ancora poco noto e i
manuali di storia della letteratura e le antologie riportati in bibliografia sono
gli unici esempi di citazione di Lanza tra i ‘grandi e piccoli’ autori della
letteratura italiana. Solo una ristretta parte della critica e un gruppo, forse più
consistente, di appassionati conosce a fondo la vita e l’opera di Francesco
Lanza. Per tutti questi motivi sembra necessario dover presentare un profilo,
che si spera accurato e completo, dell’autore, a partire dalle sue vicende
biografiche e dalla sua collocazione, ancora discussa, all’interno del quadro
storico-letterario della cultura italiana, prima di affrontare l’esame della sua
opera forse più nota, i Mimi siciliani.
I.1 Biografia
Francesco Lanza nacque a Valguarnera (allora provincia di
Caltanissetta, oggi Enna) il 5 luglio 1897, quarto di sette fratelli, figlio
dell’avvocato Giuseppe e di Rosaria Berrittella. Conseguì la licenza liceale a
Catania nel 1915 e si trasferì a Roma per studiare Giurisprudenza, ma la vera
vocazione restò quella degli studi umanistici, base fondamentale e preziosa per
11
la futura attività letteraria, portando egli dentro il “delizioso bacillo delle
lettere”7.
Le lettere scritte all’amico Aurelio Navarria rappresentano per noi una
fonte importante per documentare la vastità e varietà delle sue letture: i greci e
latini, come Aristofane, Luciano, Virgilio, Ovidio; i conterranei Verga, Pitrè,
Meli; i classici italiani e stranieri; scrittori politici e storici.
La sua breve vita fu scandita, purtroppo, da alcuni avvenimenti
dolorosi. Nel 1916 lo colpì un lutto familiare, la morte in guerra del fratello
Antonino, che egli celebrò con componimenti poetici a volte intrisi di retorica
rappresentazione dell’eroismo, altrove, invece, percorsi da venature
malinconiche piene di sincerità umana. Partecipò egli stesso, nel 1918, alla
prima guerra mondiale come ufficiale di artiglieria e pochi anni dopo
contrasse la febbre spagnola, che lo segnò profondamente, costringendolo a
una lunga convalescenza nel suo podere nella natia Valguarnera. La sosta
forzata ebbe il merito, almeno, di consentirgli di dedicarsi alla lettura e alla
scrittura; sono di questi anni, infatti, la raccolta delle liriche scritte fin
dall’adolescenza e la farsa in tre atti Il vendicatore. La debilitazione dovuta
alla malattia e il rifugio nelle lettere non lo portarono, tuttavia, a tralasciare la
partecipazione attiva alla vita politica e sociale della sua città. Fondò, infatti,
nel 1920, la sezione locale del Partito Socialista, diventandone il primo
segretario. È, forse, in questo periodo della sua vita che più si rese conto delle
“tristezze e deficienze” della vita delle classi più povere della sua terra (Nicola
7
G. Titta Rosa, “Piccola guida di F. Lanza”, La Fiera letteraria, 26/6/1927
12
Basile, in Storie e terre di Sicilia8, sospetta che la sua adesione al socialismo
sia stata quasi d’ispirazione letteraria e umana, più che genericamente
ideologica). Visse il suo impegno politico, però, con quell’ironia che
ritroveremo anche nelle sue pagine. In una lettera del 20 dicembre 1921 scrive
all’amico Aurelio a proposito della sua vita politica: è “una cosa seria di cui
rido come un pazzo”; si vanta di ricevere “calunnie, insinuazioni, minacce [...]
come un vero uomo politico”; prende in giro i tanti suoi compaesani che
vogliono ‘recuperarlo’, e, tra questi, un prete, che, in seguito alla minaccia di
uno schiaffo da parte del Lanza difensore del suo partito, tace “per non
trovarsi nella necessità di dare l’altra gota”9.
Riprese gli studi universitari e si laureò a Catania nel 1922 e proprio a
Catania fece il suo primo incontro importante, con Giuseppe Lombardo
Radice, che gli propose di occuparsi della parte letteraria di un progetto, di cui
l’insigne pedagogista avrebbe curato la parte didattica: l’Almanacco per il
popolo siciliano. Il progetto nasceva dalla necessità di risollevare da una
preoccupante condizione di ignoranza una parte del popolo siciliano e, quindi,
a consigli di ordine pratico doveva essere data una veste letteraria.
L’Almanacco vide la luce nel 1923 (senza la collaborazione di Lombardo
Radice, avviato nel frattempo ad altri progetti) con lo scopo dichiarato di
fornire ai contadini una sorta di prontuario letterariamente elaborato, che
8
N. Basile, Francesco Lanza, Storia e terre di Sicilia e altri scritti inediti e rari,
Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1953, p. 6
9
Tutte le citazioni dalle lettere ad Aurelio Navarria sono tratte dal volume di S. Zappulla
Muscarà , F. Lanza.1897-1933. Opere, Catania, La Cantinella, 2002, p.821 e sgg.
13
potesse aiutarli nelle difficoltà quotidiane del loro lavoro e risollevarli dalla
condizione isolante di analfabeti. Lo stesso spirito, lo stesso istintivo
umanitarismo verso le classi più disagiate della sua terra, che già lo aveva
spinto nell’avventura politica del socialismo, lo convinse al nuovo obiettivo.
Scrisse in questi stessi anni delle brevi storielle d’umorismo popolare,
come le definisce egli stesso nella corrispondenza con Aurelio Navarria; e,
proprio a Navarria, ne invia una nel 1921, dal titolo “Il buco”, per averne un
parere10. Sono i primi abbozzi di quelle che poi diventarono le Storie di Nino
Scardino.
Nel 1923, per seguire da vicino le ultime fasi della realizzazione
dell’Almanacco, giunse a Roma e iniziò a frequentarne gli ambienti letterari.
Conobbe Emilio Cecchi, Prezzolini, Ardengo Soffici, che lo chiamò a
collaborare alla terza pagina del “Corriere Italiano” (dove pubblicò i primi
saggi dei Mimi) e alla rivista “Galleria”. Nel giro di pochi anni collaborò alle
più importanti riviste letterarie e pubblicò, prima su “Galleria” (con il titolo di
Mimi rustici siciliani) e poi sulla “Fiera letteraria”, quasi tutte le sue Storie di
Nino Scardino, titolo originario di quelli che poi diventarono, per
suggerimento di Ardengo Soffici, i Mimi siciliani.
Dopo un breve periodo ‘siciliano’ in cui tentò l’avventura degli affari,
ritornò a Roma, adattandosi al giornalismo di professione, che gli permetteva
comunque di viaggiare e conoscere altri piccoli mondi. Riprese, quindi, le sue
10
Sappiamo da Sciascia (“Note pirandelliane”, in La corda pazza, Torino, Einaudi, 1970,
p.144) che la stessa novella fu poi inviata anche a Pirandello.
14
collaborazioni, con “La fiera letteraria”, “Il Tevere”, “Il Selvaggio” e, nel
1927, fondò, con la collaborazione di Nino Savarese, un periodico mensile, il
“Lunario siciliano”, siciliano per il luogo di edizione, Enna, e per i contenuti,
con il desiderio di trasmetterli al di fuori dei confini isolani. L’avventura ebbe
breve vita, nonostante le collaborazioni prestigiose dei conterranei Aurelio
Navarria, Elio Vittorini, e quelle di Emilio Cecchi, Silvio D’Amico, Riccardo
Bacchelli, Enrico Falqui, Ardengo Soffici. Intensificò la sua attività
giornalistica, collaborando con “L’Italia Letteraria” (nuova versione di quella
che era stata “La fiera letteraria”), “Il Resto del Carlino”, “L’Ambrosiano”, “Il
Lavoro Fascista”, la “Gazzetta del Popolo”. Nel 1928 pubblicò in volume, per
la Alpes di Milano, i Mimi siciliani, che non riscossero, però, grande successo.
In una lettera all’amico Corrado Sofia, dopo essersi raccomandato di non far
cadere quel libro in mani femminili dato il contenuto quasi pornografico,
conclude che forse di buono c’era soltanto l’edizione. Dice Lanza: “è un libro
che non ha avuto fortuna: forse se fosse uscito in Francia, come diceva
Prezzolini che mi consigliò di pubblicarlo, avrebbe avuto il successo delle
Storielle Ebree di Jahier”11. L’avventura del Lunario si chiuse definitivamente
nel 1931, con Lanza lontano, nella sua Valguarnera, ancora una volta
ammalato. Scrisse, in quegli anni, oltre ai suoi resoconti di viaggi e agli
articoli per le rubriche che curava, anche opere teatrali (tra queste anche
commedie in dialetto siciliano) nelle quali erano centrali i temi dell’amore,
dell’adulterio, dell’erotismo infedele, che tanta parte avevano anche nei Mimi,
11
C. Sofia, Sicilia come trappola, Siracusa, Ed. dell’Ariete, 1989, lettera del 21 maggio 1931
15
e curò una raccolta di scritti del Meli, che sarà pubblicata postuma. Agli inizi
degli anni Trenta, viaggiò molto in Europa come corrispondente giornalistico
e si recò anche in Tripolitania, viaggio che gli ispirò le pagine dei Mimi arabi.
Negli ultimi anni della sua breve vita aderì al fascismo, mostrando,
come già in passato per il socialismo, un interesse specifico e ‘umanitario’ (la
prospettiva di soluzione del problema agrario siciliano), più che
convintamente ideologico. Egli stesso, nelle pagine della sua corrispondenza
con l’amico Aurelio Navarria, chiarisce le ragioni della sua posizione e
specifica di non aver certo avuto in cambio favori o promesse, che non gli
interessavano. Scrive: “Tu sai che io non ho avuto nulla dal fascismo – da otto
mesi anzi sono in cerca di un impiego che mi permetta di vivere in pace senza
l’ossessione di dover tramutare in racconto o in articolo di terza pagina la
pagina bianca [...] - [...] ma brigherò di diventare segretario politico [...] per
vedere se con un po’ di fascismo bene applicato non sia possibile insegnare un
po’ di civiltà [...] ai villanzoni del circolo e dei feudi”12. La svolta
mussoliniana è sorprendente in una personalità come quella di Lanza, così
mite e candida, come la definisce Enzo Barnabà nel suo articolo “La pagina
nera di Francesco Lanza”. Barnabà riporta un brano di un reportage in
Romania per “Il Tevere”, in cui Lanza si abbandona a commenti razzisti nei
confronti della comunità ebraica, seguendo senz’altro le direttive del direttore
Telesio Interlandi. L’antisemitismo sembra, però, riservarlo alle occasioni, per
così dire, pubbliche, tenendosi strette nella sfera privata le amicizie come
12
Lettera del 4 settembre 1931.
16
quelle con Otto Pohl, diplomatico austriaco di religione ebraica che aveva
scelto la rivoluzione socialista. La conclusione che Enzo Barnabà trae è che
anche Lanza fu afflitto da “nicodemismo, la sindrome opportunista che
durante il ventennio infierì tra gli intellettuali italiani”13.
Distrutto moralmente dalla morte della madre, avvenuta nel 1931,
recuperò la fede cristiana, non avendo mai perso comunque lo ‘spirito
cristiano’, ossia il sentimento profondo di solidarietà umana, di amore verso
gli umili e i più poveri, di cui aveva pervaso molte delle sue opere. Angosciato
dal rimorso per non aver rivisto la madre per l’ultima volta, iniziò a sentire
anche il paese estraneo, poiché lei era la sua vera casa; eppure, leggiamo nelle
sue lettere, si sente “attaccato al paese in modo profondo e doloroso”. Quel
paese “maledetto, dove non si parla che di debiti, scadenze, di miseria”, a cui
dice di dovere la maggior parte dei suoi mali, che si vendica nei suoi confronti
per il solo motivo che l’ ha troppo amato; un paese “afoso, pesante,
indifferente” che gli toglie “ogni volontà, estro, felicità di lavorare”, come
scrive all’amico Corrado14.
Abbattuto dalle difficoltà economiche, si lasciò, per qualche tempo,
“trascinare dal pigro fiume delle cose”15; cercò alla fine un lavoro
‘impiegatizio’, al qual scopo diceva di aver preso la laurea in legge, e lo
ottenne, nel 1932, in un ministero a Roma, ma, per le precarie condizioni di
13
E. Barnabà, “La pagina nera di F. Lanza”, pubblicato la prima volta sul sito web
www.paroledisicilia.it, il 12 dicembre 2006; ora anche sul sito dedicato
www.francescolanza.it
14
C. Sofia, op.cit., lettera del 14 maggio 1931
15
C. Sofia, op.cit., lettera del 27 settembre 1932
17
salute, dovette far ritorno a Valguarnera. Ricadeva nella trappola, e a
Valguarnera morì il 6 gennaio 1933.
I.2 Lanza scrittore nel quadro storico-letterario del primo
novecento
Gli anni in cui Lanza vive e scrive sono tra i più fecondi di
cambiamenti della vita italiana. L’attenzione sulla sua attività va posta dalla
metà degli anni venti in poi, quelli della piena maturità, ma è utile, per una
piena comprensione, tracciare un quadro del decennio precedente.
Il primo quindicennio del novecento, la cosiddetta età giolittiana, per la
dominante figura dell’allora capo del governo Giovanni Giolitti, era sembrato
a tutti duro e inquieto, ma fu poi visto, alla luce dei pesanti avvenimenti degli
anni successivi, quasi come un’era felice. Giolitti aveva vagheggiato l’idea di
integrare le varie forze sociali, sopendone i conflitti, ma aveva visto il
fallimento del suo disegno sotto le sempre più forti spinte nazionalistiche,
favorite dal clima precipitosamente ottimista, dovuto all’incremento rapido
dell’industrializzazione e al progresso economico, che favoriva disegni
autarchici. La nuova situazione politico-sociale favoriva, del resto, un dibattito
culturale intenso e vario, che si sviluppava soprattutto sulle riviste o sulle terze
pagine dei giornali, quelle affidate, appunto, all’informazione e alle
problematiche culturali. Tra le riviste, la più notevole era “La Voce”. Essa,
fondata nel 1908 a Firenze, in una prima fase, sotto la direzione di Prezzolini,
18
si era battuta per un rinnovamento della letteratura che coincidesse con il
rinnovamento della società italiana, superando il distacco della letteratura dalla
realtà, ma poi sotto la direzione di Papini era ritornata alla pura letteratura,
pubblicando ogni forma di racconto o lirica; sotto la seconda direzione di
Prezzolini diventò rivista politica; alla fine sotto la guida di De Robertis si
arrese ad una concezione aristocratica e rarefatta della poesia, che doveva
trovare la sua dimensione nel frammento, liberato dalle parti impoetiche. La
rivista sospese le pubblicazioni nel 1916.
Si era trattato di una sorta di fuga dal reale, verso il frammento puro e
avulso da inquinamenti ‘psicosociali’ e la stessa esigenza di fuga si era
manifestata anche nella narrativa e, in generale, la svolta irrazionale aveva
pervaso tutta la cultura europea; i nuovi artisti e letterati sentivano inadeguato
e limitativo l’indirizzo realistico dei decenni precedenti, volevano andare oltre
il fenomenico. Si era verificata una frattura tra artista e società che aveva
avuto, però, esiti diversi: per un verso si era assistito all’esibizione
compiaciuta della propria superiorità e raffinatezza letteraria, dall’altro alla
descrizione del senso di smarrimento e sradicamento dell’uomo e dell’artista,
per ultimo all’esaltazione dell’io, alla ricerca dell’attivismo, dello
sperimentare a tutti i costi. Quest’ultimo esito aveva portato alla fusione di
letteratura e orientamento politico aggressivo-imperialista.
19
Questo clima trovò, nell’agosto del 1914, il suo tragico sbocco nello
scoppio della prima guerra mondiale e l’anno successivo vide l’ingresso in
guerra dell’Italia.
La guerra e gli anni del dopoguerra acuirono, invece di risolvere, i
contrasti sociali e politici. Le masse contadine ancora affamate di terra, i
reduci da reinserire nella società, coloro che durante la guerra si erano resi
avvezzi al comando che mal si adattarono alla grigia routine: questo ed altro
preparò la strada alla nascita del fascismo.
Il dibattito letterario del primo dopoguerra è segnato dal rifiorire delle
riviste, che raccoglievano gruppi omogenei di intellettuali. La prima in ordine
cronologico è la “Ronda”, fondata a Roma nel 1919 da un gruppo di letterati
tutti dal passato vociano; è una rivista che non si può definire politica in senso
stretto, ma che, comunque, riflette una sorta di richiamo all’ordine tipico della
borghesia di quegli anni, che avversa il socialismo e che propone una sorta di
aristocratica astrazione dalla realtà grazie alla letteratura, e, quindi, una
supervalutazione di essa. Si guarda alla lezione dei classici, all’estrema pulizia
formale, al senso d’equilibrio e della misura, ad una prosa d’arte che deve
evocare più che descrivere e che chiude il letterato nel suo mondo fatto di
belle lettere e fuori dalla realtà. L’attenzione si concentra, in particolare, sul
Leopardi, visto come teorizzatore di eleganza, punto di partenza per una
poetica che rivaluta la perfezione formale fine a se stessa. La rivista chiuse i
battenti nel 1923. Sotto la formula ‘ritorno all’ordine’, però, possono essere
20
comprese un po’ tutte le tendenze culturali del ventennio, perché essa non
indica contenuti ma, piuttosto, atteggiamenti: c’è il rifiuto dell’esagitato e
dell’avanguardistico e si auspica il ritorno alla compostezza, da ricercare nel
passato o da ricreare per il futuro.
Al periodo confuso e difficile dell’immediato dopoguerra, seguì un
periodo travagliato e violento che portò alla cosiddetta «marcia su Roma» del
1922, che segnò il confine tra vecchia e nuova era, quella fascista. Ogni forma
di cultura da quel momento fu influenzata, quando non controllata, dai
desideri e dagli interessi del regime dittatoriale e totalitario, tale proprio
perché interviene attivamente in tutti gli aspetti della vita associata. Questo
stesso totalitarismo portò, però, il movimento (poi partito dal 1923) ad
accogliere in sé tutte le forze contraddittorie della società italiana,
contentandosi, in mancanza d’altro, di un riconoscimento e di un ossequio
formale. Si cercò di creare una sorta di koinè culturale che, però, non fu mai
effettivamente realizzata. I vari elementi che in essa confluirono e si
combinarono variamente davano, però, nonostante tutto, l’impressione di unità
e tanto bastava.
Ci fu, paradossalmente proprio in questi anni, un incremento dei mezzi
di comunicazione, violentati però, nella loro funzione primaria,
l’informazione, per condizionare gli atteggiamenti e indirizzare il consenso.
Tra gli aspetti della politica fascista di più stretto interesse letterario ci
fu, poi, la pretesa di un’autarchia culturale che lasciò fuori l’Italia dal processo
21
culturale mondiale coevo. I nuovi letterati si limitarono, allora, a riadattare e
sviluppare temi e motivi della cultura del primo novecento e alcuni
guardarono più indietro al Verga o mossero timidamente alla scoperta di nuovi
autori, quale Svevo.
In poesia si preferirono i componimenti brevi, densi, una sorta di
tendenza al frammento, e gli scrittori che aderirono a questa tendenza furono
detti ‘vociani’, per la loro collaborazione all’omonima rivista. In prosa
prevalse l’opera di fantasia, la riscoperta della memoria (ossia della realtà
filtrata attraverso la memoria), dei sogni, delle descrizioni-invenzioni.
L’interesse dello scrittore si spostò dal volume all’episodio fino alla pagina, al
frammento. Il passaggio inevitabile fu dalla letteratura di contenuto a quella di
stile. Coeva di questa tendenza al ‘frammento’ fu, però, anche quella
influenzata dalle pagine di un’altra rivista, “Solaria”, che volle orientare verso
una dimensione narrativa più ampia. La rivista fiorentina, pubblicata tra il
1926 e il 1936, fu una rivista eclettica, che raccolse l’attenzione allo stile come
voleva “La Ronda”, ma avvertì anche la necessità di un impegno morale e
sociale; infatti, in contrasto con l’autarchia culturale predicata dal fascismo,
favorì la valorizzazione di tanti autori italiani e stranieri. Si ebbe un ‘ritorno al
romanzo’, ma non certo quello ottocentesco; nuovo protagonista è un mondo
retto dall’irrazionale, l’attenzione per il particolare, la deformazione della
realtà, l’uomo qualunque e la sua scoperta del senso tragico della vita. Si parla
22
ora non più di realismo, ma di espressionismo prima e di surrealismo poi,
intesi come forzatura del reale.
All’interno del quadro letterario appena tracciato, sono in molti a non
aver trovato un accordo per la collocazione definitiva della personalità e
dell’opera di Francesco Lanza, soprattutto in riferimento alla sua opera più
famosa, i Mimi siciliani. La stentata costituzione di una tradizione critica può
essere però attribuita, a parere anche di N. Zago16, alla stessa carriera artistica
di Lanza, che, per essere stata interrotta così precocemente, lascia un che di
irrisolto. La sua fisionomia intellettuale, sostiene ancora Zago, presenta una
zona d’ombra, un margine di sfuggente ambiguità e incompletezza che di
solito accompagna le carriere artistiche, per così dire, strozzate.
Il canone di riferimento più immediato sembrerebbe essere quello
verista, ponendo, quindi, Lanza nella schiera di coloro, come si è detto, che nel
rifiuto delle tendenze letterarie del ventennio si rifugiano nel passato appena
trascorso. Giorgio Santangelo, nel tracciare il quadro letterario della Sicilia
dopo il 1860, nelle pagine della sua “Letteratura in Sicilia da Federico II a
Pirandello”, ricorda Francesco Lanza tra quei narratori e autori di teatro veristi
che hanno dato un contributo notevole alla letteratura nazionale. Si era
sviluppata, secondo Santangelo, una letteratura regionale, immediata
conseguenza della poetica veristica allora di moda. Chi voleva fare arte o
letteratura adeguata alla vita contemporanea doveva guardare agli strati più
16
N. Zago, “L’itinerario narrativo di Lanza”, in Francesco Lanza, Palermo, Ila Palma, 1989,
p. 77
23
umili della società, dove c’è più natura e meno società, e dove gli stimoli
letterari sono più vivi e mossi. I primi racconti sembrano a detta di molti (tra
questi Zago) accogliere suggestioni veriste, verghiane in particolare, ma subito
incalzate dal gusto del favoloso o da quello “azzardato e trasgressivo della
gesticolazione mimica”17. Anche i Mimi sembrano calzare perfettamente nella
definizione di Santangelo, tenendo conto, però, che il tono letterario non è di
piena adesione e compassione per quella materia. Lanza, nei Mimi, non
idealizza e non ‘moraleggia’, ma descrive con grazia, leggerezza e ironia i suoi
umili. Pelizzi vede riecheggiare in Lanza “tutti i motivi del verismo antico”,
ma con “lucidità consapevole e con originalità”18. Nell’introduzione al volume
“Gli eredi di Verga”, Barberi Squarotti dice che quell’eredità è “facile e
pacifica” in scrittori come Savarese e Lanza, nel senso di “una fedeltà a una
regionalità come descrizione di costumi e caratteri di essa tipici nel senso
documentario e realista”; distingue però i due scrittori, vedendo in Lanza “un
di più di acutezza pungente di moralista”. Era logico, secondo Rossi19, che, in
particolare una materia come quella dei Mimi, popolaresca, richiamasse subito
alla mente l’esperienza verista, ma a ben guardare il motivo verista vi appariva
ampiamente ridimensionato. Lo stesso Salvatore Rossi conclude che non si
può parlare di alcuna eredità tra Verga e lo scrittore valguarnerese. Nel mondo
di Lanza c’è, secondo Rossi, molta più cultura che nel mondo di Verga, nel
senso che dietro ai Mimi, “a preparare e condizionare [...] c’è tutta una linea
17
N. Zago, op. cit., p. 80
18
C. Pelizzi, Le Lettere italiane del nostro secolo, Milano, Hoepli, 1929, p. 388
19
S. Rossi, “F. Lanza”, in AA.VV. Novecento siciliano, Catania, Tifeo, 1986, p. 133
24
assai lunga cha da Teocrito e dal Virgilio delle Bucoliche giunge fino
all’amato Meli, soffermandosi lungo numerose stazioni narrative dove si
trovano Boccaccio, Sacchetti e Bandello ai quali chiede in prestito il tono
dell’arguzia e della burla”. E ancora: “dietro ai contadini di Verga [...] c’è
l’uomo com’era alle origini, non corrotto dalla civiltà, coi suoi sentimenti
vergini. Il pastore di Verga è l’uomo senza maschera, il contadino di Lanza
l’uomo cui è stata imposta la maschera del pastore”. In definitiva, per Rossi,
non bisogna insistere su Verga come fonte, ma accettare piuttosto altre
parentele che spaziano dal Pitrè a Soffici, Baldini, Savarese, la Ronda e la
poetica del frammento, con un occhio particolare per queste ultime.
Molti pongono, in effetti, Lanza nel gran calderone dei rondisti,
frammentisti e simili, che tanto spazio avevano avuto nel clima letterario degli
anni venti. Lanza doveva per forza di cose sentire l’influsso del clima vociano
e frammentista, che era però, secondo Basile20, moderato dalla contemporanea
influenza di scuola rondista. Il plauso e la promozione data da Ardengo Soffici
ai Mimi risulta, agli occhi di S. Rossi, perfettamente comprensibile, se si
guarda all’adesione di Soffici alla seconda fase della “Voce”, i cui ideali erano
grosso modo vicini a quelli della “Ronda”, ed erano, quegli atteggiamenti,
precursori dei giudizi favorevoli che sarebbero arrivati dalle pagine della
rivista fiorentina. Il rondismo di Lanza è stato, però, vissuto e raccontato in
modi diversi da chi lo leggeva e da chi lo conosceva. Falqui, ad esempio, lo
dice scrittore post-rondesco, e Basile gli risponde che quel ‘rondismo’ nasceva
20
N. Basile, op. cit., p. 5
25
“dal gusto della tradizione umanistica dei suoi studi e dalla vigile predilezione
per le antiche e buone lettere”21, null’altro; perché certo accolse quel nitore
stilistico, ma riesprimendolo con “una vibrazione più terrestre della parola,
regolata dal dono nativo e dalla vena incorruttibile della sua sicilianità”22. Si
può, anzi, parlare di distanza intellettuale dai rondisti, ai quali Lanza riconosce
“buone intenzioni, ma disgraziatamente completa incapacità di attuazioni”;
che definisce “esseri superficiali e frammentari”, che si sono stranamente
accostati con passione al “più grande costruttore moderno (Leopardi) [...]
cattivi discepoli di cotanto maestro”, ma ai quali “in ogni modo bisogna restar
grati ché sono buoni disseccatori di cellule”, come testimonia una lettera
all’amico Navarria23. Anche Santangelo ascrive i Mimi a quella che chiama la
stagione umana e letteraria di Lanza influenzata dal frammentismo rondista,
intesa non come rimando al passato o come espressione entro schemi ben
definiti, ma riconoscendo quella lezione solo nel gusto per la limpidezza dello
stile. Lo stesso Lanza confessa in una lettera che, dopotutto, anche lui e
Navarria dovevano considerarsi vociani, per la smania della cultura e il delirio
dello stile; tuttavia non approva la scelta artistica di rifarsi al Leopardi, anzi in
una lettera confessa di aver trovato magnifico semmai il Notturno di
D’Annunzio, col suo ‘pittorismo’ nelle descrizioni. L’appartenenza alla
poetica del frammento potrà essere meglio accettata se si intende questa come
tendenza innovatrice e polemica nei confronti della forma chiusa. Questo è il
21
N. Basile, op. cit. , p. 19
22
N. Basile, ibidem
23
Lettera del luglio 1921.
26
parere di A. Di Grado24 che ascrive Lanza alla tendenza del frammento
piuttosto che a quella restauratrice della forma chiusa e perfetta del ‘capitolo’.
La presunta lezione rondista, in ogni caso, è stata assimilata da Lanza solo al
livello di una struttura sintattica più rigorosa, ma superata, come dice Cottone,
dal movimento originale della fantasia creatrice. Cottone vede Lanza
perfettamente al centro della temperie culturale dell’epoca perché, negli anni
in cui “continuava ancora [...] l’eco accorata e morbida dei crepuscolari, si
rivelava l’impegno morale dei vociani e il gusto neoclassico dei rondisti”,
Francesco Lanza era “sentimentalmente un crepuscolare, per via [...] del suo
bisogno accorato di rievocare le cose più semplici remote ed eterne del suo
paese, letterariamente un vociano e un rondista insieme”25. Sciascia indica,
invece, nel periodo in cui Lanza visse e scrisse una delle sue più grandi
sfortune, perché “la moda del frammento e il tentativo di una specie di
restaurazione classica venivano a confondere le sue cose col frammento da un
lato, con i risoffiati spiriti classici dall’altro”26. Quella confusione salvò,
comunque, Lanza, sempre secondo il parere di Sciascia, dall’accusa di
regionalismo. In quegli anni di esaltazione di una cultura nazionalista e
unitaria, italianofila per così dire, le culture che si esprimevano nelle lingue
regionali furono osteggiate, e aggettivate, in modi dispregiativi, come
regionaliste. L’essere quindi abbandonato nell’indistinto limbo dei rondisti,
24
A. Di Grado, “Il mondo offeso di F. Lanza”, in Finis Siciliae, Acireale-Roma, Bonanno,
2005, p. 80
25
G. Cottone, “Profilo di F. Lanza”, in Francesco Lanza, Palermo, Ila Palma, 1989, p. 11
26
S. Sciascia, “Francesco Lanza”, in La corda pazza, p.165
27
frammentisti e simili lo allontanò da quel regionalismo tanto sospetto in
politica e letteratura. Prezzolini, volendo forse in parte attenuarne le colpe, lo
dice “buon scrittore regionalista”. Sciascia, nonostante tutto, mostra di
preferire questa definizione alle altre, perché se per regionalista si intende uno
scrittore che affronta e racconta la propria regione con tutte le luci e le ombre
che la caratterizzano, e tenta di trasmetterne i valori e la cultura, come fecero
Verga o Pirandello, allora l’accusa si trasforma in vanto e inserisce lo scrittore
in una tradizione letteraria più ampia, sottraendolo così al “piccolo e
propriamente provinciale fenomeno dei frammenti, degli elzeviri, dei
capitoli”27. La fortuna e il favore di cui Lanza godette presso i rappresentanti
di quelle poetiche potrebbero essere indicati, secondo il parere di Sciascia,
come cause della sua più mite e ridotta fortuna e circolazione in altri ambienti,
operando come una specie di diaframma tra la sua opera e il pubblico che
meriterebbe di avere; ne cita a prova il fatto che nei Quaderni di Gramsci non
vi sia menzione dei Mimi, cosa che attribuisce, oltre alla spiegabile irregolarità
delle informazioni, al poco prestigio di cui godevano agli occhi di Gramsci
coloro che recensivano allora i libri dello scrittore siciliano. Altri, forse
guardando alla produzione complessiva dello scrittore, sentono di escludere
parentele strette con le tendenze dei primi decenni del novecento, scorgendo in
Lanza una dimensione più ampia che può essere spiegata solo guardando più
indietro al suo conterraneo Verga. Ancora una volta verismo, dunque, ma
spiegato in modi differenti. Per Basile, ad esempio, il maestro morale e
27
S. Sciascia, op. cit., p.166
28
stilistico è senz’altro Verga, perché rappresentava allora un passaggio quasi
obbligato per gli autori siciliani, punto di riferimento per il suo stile essenziale
ma “potente nell’inventiva”. Cottone, dopo aver accettato l’influenza di
crepuscolari, vociani e rondisti, chiarisce, però, che “la lezione che lo
restituisce a se stesso, perché gli consente di esprimersi liberamente dalla sua
terra e dal suo popolo [...] è quella del Verga”, una lezione “sociale e stilistica
insieme che prende Lanza dal fondo del suo essere e gli scopre il significato
terreno, tutto siciliano, della propria vita e della propria opera, fino alla
contemplazione mitica (astorica) di un mondo, in cui è protagonista il
contadino nella sua terra”28. Fece sua, dunque, Lanza “la lezione di sobrietà e
dignità letteraria del Verga”, ma, aggiunge Cottone, educando il suo “gusto
georgico [...] con lo studio amoroso di Giovanni Meli, mentre Giuseppe Pitrè
dovette offrirgli la materia più appassionante la sua curiosità di studioso e più
sollecitante la sua vocazione di scrittore”29. Di Marco30, invece, preferisce
affiancare al Verga, come maestro, Pirandello. Parla più esplicitamente di stile
pirandelliano a proposito dei Mimi, forse tenendo d’occhio le Novelle per un
anno, quelle regionalistiche, con la loro rappresentazione della Sicilia e dei
siciliani non distaccata, così come teorizzato dal verismo, ma deformata da
toni aspri, tinta d’umor nero e di violento espressionismo verbale. E parlando
di espressionismo, si arriva all’altra parte della critica lanziana, quella che,
28
G. Cottone, op. cit., p. 11
29
G. Cottone, op. cit., p.13
30
S. Di Marco, “Vita e opere di F. Lanza narratore siciliano”, in Francesco Lanza, Palermo,
Ila Palma, 1989, p. 27
29
soffermandosi sui Mimi, vi scorge parentele più sincere con il Tozzi di Bestie.
Su questa linea, Di Grado ritiene che le definizioni date da Debenedetti31
proprio a proposito di Bestie, siano “utilmente dilatabili al mondo e alle
oltranze dei Mimi siciliani, al caustico impasto di coltissima prosa d’arte e di
brusche impennate d’oscena ferocia”. Nota in Lanza lo stesso furore
espressionistico, ma più “rabbioso, impudente, impartecipe”, con cui Tozzi
aveva “violentato la compatta superficie della realtà esterna e della prosa
tradizionale per liberarne mute epifanie e mostri enigmatici”. Istituire questo
tipo di parentela aiuterebbe anche a liberare Lanza “dall’ipoteca rondista e [...]
affiliarlo a un’area molto più mossa e variegata [...]che dal frammento vociano
sconfina nell’estremismo strapaesano e nel realismo espressionistico” 32.
Un giudizio complessivo su tutta l’opera di Lanza non è agevole; tante
sono le vie percorse nella sua pur breve carriera letteraria: poesia, teatro,
narrativa, bozzetti pedagogici, quadretti mimici; e ad ogni genere corrisponde
una variazione più o meno sensibile di stile e di tono, anche laddove la materia
parrebbe la stessa. Basti un esempio: l’Almanacco per il popolo siciliano e i
Mimi siciliani. Protagonista delle due opere lanziane è inequivocabilmente il
popolo contadino, con le sue difficoltà quotidiane, la vita dura dei campi, la
condizione isolante della lontana provincia siciliana, ma cambia il modo di
raccontare e affrontare la materia, in un modo così evidente da far giudicare,
da più parti, artisticamente schizofrenico l’autore. Si passa dalla dimensione
31
G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971, p. 81-85, p. 305 e
passim
32
A. Di Grado, op. cit., p. 79
30
idilliaca, ottimistica, paternalistica, pedagogica dell’Almanacco a quella
dell’anti-idillio, espressionistica, ironica, deforme e bestiale dei Mimi. La
stessa schizofrenia si può, in realtà, trovare anche all’interno della stessa
opera, nell’unione, per esempio, di materia popolare e stile coltissimo, ma si
può allargare anche a scelte di altro genere, come quelle politiche o di vita
(l’adesione al socialismo e quella al fascismo; la materia blasfema e lo spirito
cristiano).
Ardengo Soffici, a un mese dalla morte di Lanza, scrisse sul “Tevere”
che era difficile in quel momento far passare l’intensità di un’opera “tutta
castità, semplice eleganza, verità e naturalezza”33 come quella dello scrittore
siciliano, perché il mondo delle lettere gli sembrava troppo concentrato sulla
scelta degli artifici o su espedienti di pessimo gusto per poterla apprezzare.
Mariano Lamartina estende quella definizione a tutta l’opera lanziana, pur
sottolineando che la relativa fortuna dei Mimi aveva contribuito a formare di
Lanza un’immagine di scrittore spregiudicato o spiritualmente vivace
(Sciascia lo aveva già definito beffardo, ironico e libertino). In realtà entrambe
le definizioni sembrano calzanti; c’è il Lanza serio, malinconico, coltissimo,
lirico; e quello giambico, irriverente, ironico. I Mimi, pur nella assoluta
particolarità del loro genere, rappresentano un campione ricco degli
atteggiamenti mentali e letterari di Francesco Lanza; una loro analisi, dunque,
potrà fornire un quadro composito e completo della figura dello scrittore.
33
A. Soffici, numero speciale del “Tevere” dedicato a F. Lanza, 6 febbraio 1933
31
I.3 I Mimi siciliani
L’opera più famosa di Lanza acquista forma concreta di libro nel 1928,
per la casa editrice Alpes di Milano, ma la sua storia inizia nel 1923 quando lo
scrittore siciliano volle far leggere alcuni suoi racconti ad Ardengo Soffici, che
aveva incontrato a Roma. Fu quindi Soffici ad apprezzare per primo quei brevi
racconti e a consigliarne la pubblicazione sulle pagine del “Corriere italiano”;
seguirono le uscite su “Galleria”, nel 1924, con il titolo di Mimi rustici
siciliani, e su “La fiera letteraria”, lungo tutto il 1926 e ’27 . Il titolo che
Lanza aveva pensato per quella raccolta di aneddoti era Storie di Nino
Scardino, dal nome del mezzadro di casa Lanza, come a simulare il racconto
di un narratore popolano. La materia, in effetti, all’inizio era divisa in capitoli,
ciascuno dedicato alle storie di un popolano: storie del piazzese, del brontese,
ecc...; erano, quindi, storie raccontate e sentite dal paesano e sul paesano. Il
narratore scomparve, però, per suggerimento di Soffici, che avendo letto
incuriosito i Mimiambi di Eroda, da pochi anni scoperti e pubblicati, ravvisò
nelle pagine di Lanza vicinanze tematico-stilistiche con il testo greco e vi
impose il titolo di Mimi siciliani34. Una nuova edizione si ebbe nel 1946,
quando Aurelio Navarria raccolse i mimi ed altri scritti dell’amico per il
volume Mimi e altre cose di cui curò l’edizione per la Sansoni di Firenze35.
34
La questione della parentela più o meno forzata con Eroda sarà affrontata più avanti.
35
Il volume è diviso in sezioni: Mimi siciliani, Mimi arabi, Novelle, prose dall’Almanacco
per il popolo siciliano, Fanciullezza, Paese.
32
Un’edizione con commento si ebbe, poi, nel 1971, con la firma di Italo
Calvino per la Sellerio (ristampata nel 1984)36.
I Mimi sono una raccolta di storielle popolari, molto brevi (a volte solo
poche battute), di contenuto umoristico, ironico, a volte greve ma, tuttavia, di
stile raffinato, caratterizzate da dialoghi rapidi e sapidi tra contadini della
provincia siciliana; dialoghi che di generazione in generazione e di bocca in
bocca sono arrivati a noi, restando “immutati, con un rilievo plastico dal tocco
classico in cui puoi riconoscere attualissimo il richiamo alla perfezione
ellenica della Sicilia antica”37. Calvino scorge nella scrittura dei Mimi due
movimenti opposti, “quello lieve e attento di una prosa limpida ed evocativa e
quello astioso e tristo del lezzo paesano, del feroce dileggio”38. La particolarità
di queste storielle, continua Calvino, sta nel fatto che “alla comicità
disinteressata della barzellette si sovrappone [...] la carica d’aggressività delle
contese di campanile”39. La materia popolare è trattata, però, con l’ironia
benevola, anche se a tratti graffiante, dell’autore, che fa sì che non scivoli mai
nel popolaresco, così come, nota Santangelo, la partecipazione sentimentale
non scade mai nel sentimentalismo compassionevole. La capacità di scrittura
di Lanza e la sua formazione culturale rendono possibile dare all’esperienza
esistenziale, quotidiana, quello spessore che evita alle sue pagine di essere
solo “uno scialbo rifacimento di una sorte che capita ogni giorno con tratti
36
Per le altre edizioni e raccolte si veda la bibliografia finale.
37
G. Cottone, op. cit., p. 12
38
I. Calvino, Introduzione a Mimi siciliani, Palermo, Sellerio, 1971, p. IX
39
I. Calvino, op. cit., p. X
33
diversi a tutti gli uomini”40 e le trasforma, invece, in fatto letterario. I Mimi
sono l’esito dell’esperienza culturale e umana di Lanza intorno agli anni venti,
quando iniziò ad avventurarsi nei palazzi della narrativa e del teatro: due
tecniche di scrittura che ritroviamo felicemente sposate nelle pagine dei mimi.
La maggior parte dei mimi si può ricondurre ad un “potenziale nucleo
scenico, vivace, veloce”, tale, però, “perché istintivo e poco aggiogato agli
espedienti cui sono legate le opere scritte espressamente per il teatro”41. Nelle
descrizioni e nei dialoghi dei mimi c’è un impasto originale e felice di parlato
popolare, lingua colta, indicazioni scenografiche, pittoriche, elementi figurali
ed icastici, ammantato della soave ironia dell’autore, che rende unica l’opera.
Sarah Zappulla Muscarà ricorda che già nelle prime prove Lanza visita la
realtà “con gli accenti del comico, con toni di distaccata irrisione che non
nascondono, tuttavia, i segni di una tragica conflittualità o di una segreta
sofferenza”, egli “ne occulta la cupezza per poi disvelarla [...] insistendo sulle
categorie parodiche della metamorfosi, dell’ambivalenza, del
rovesciamento”42. È, comunque, il mondo comico, “ignorante e goffo, ma
candido e vitale ad attivare l’immaginario di scrittore”43 di Lanza. Egli gioca
con la sua materia, anche quella più grottesca, e la piega alla sua volontà, ora
esaltandone i caratteri più duri ora abbigliandola di poesia, con le trame dei
suoi periodi colti e delicati. Qui si nota, più che altrove, l’influenza rondesca.
40
V. Santangelo, “Mimi di F. Lanza”, in Francesco Lanza, Palermo, Ila Palma, 1989, p. 68
41
M. Lamartina, “La vocazione scenica nel mimo di F. Lanza”, in Francesco Lanza,
Palermo, Ila Palma, 1989 , p. 55
42
S. Zappulla Muscarà, F. Lanza. Tutto il teatro, Catania, La Cantinella, 1997, p. 9
43
S. Zappulla Muscarà, op. cit., 1997, p. 15
34
All’interno dei suoi frammenti, “dentro le maglie serrate e il giro avvolgente,
squisitamente letterario del periodare rondesco”, egli crea, però, “scarti e
lacerazioni”44 grazie all’intrusione di elementi destabilizzanti, quali
l’inflessione dialettale, il comportamento primitivo, bestiale, le battute a tinte
forti, le bestemmie ‘figurate’. Di Grado avanza l’ipotesi che, forse, neanche
Soffici, che impose a quei brevi racconti il titolo di Mimi, seppe rendersi conto
fino in fondo “della loro irrimediabile e insolente alterità, né delle oltranze e
delle infrazioni”45. Il mimo, come genere letterario, può aver dato forse, a
Lanza, come dice Santangelo, “la possibilità di una celerità inventiva che si
articola in celerità di scrittura senza indugio”46: e in effetti, come vedremo,
non c’è il ricorso ad aggettivazioni che possono diluire il discorso, rendendolo
inessenziale. I caratteri della vita contadina sono espressi “nella loro umana
nudità, con un piglio di rozza e primitiva naturalezza”47; i contadini parlano
con i vocaboli e i costrutti sintattici loro abituali. Lanza mostra di conoscere,
saper apprezzare ed usare il patrimonio della cultura popolare; e in un periodo
in cui altri sembravano battere lo stesso sentiero ( un esempio: “Il Selvaggio”
di Maccari), egli presenta una “visione acerba e severa”, che lo porta a
scrivere i suoi mimi “in decisa opposizione a tutta la letteratura corrente,
regolarmente catalogata dai criticazzi”, come sottolinea Sofia48 citando le
parole che lo stesso Lanza usò per spiegare come furono concepiti i suoi mimi,
44
A. Di Grado, op. cit., p. 79
45
A. Di Grado, op. cit., p. 81
46
V. Santangelo, op. cit., p. 73
47
N. Basile, op. cit., p.14
48
C. Sofia, Introduzione ai Mimi siciliani, Enna, Il Lunario, 1991, p. 9
35
in una lettera all’amico Aurelio Navarria del 21 febbraio 1922. È il metro ad
essere diverso, “intriso di sardonica violenza”49, che lo distingue tra tanti e che
lo avvicina al modo di raccontare che ha la gente del popolo. Rita Verdirame,
pur occupandosi principalmente della struttura linguistica del romanzo
incompiuto postumo50 di Lanza, accenna al mondo e al parlato dei Mimi, e
sottolinea come “l’ottica ruralista, ben presente tra gli aristocratici scrittori
della Ronda ed emergente poi nella tendenza strapaesana del “Selvaggio” di
Maccari, assume in lui un’angolatura diversa. Lanza (era) impegnato nella
continuazione di una linea regionale dove confluisse la specificità culturale
della sua terra e si evidenziasse il bagaglio del sapere antropologico isolano,
allo scopo di rivivificare e mantenere feconda una tradizione”51. Non c’è in
Lanza il tono accondiscendente, buonista, di tante pagine del tempo; per citare
ancora le parole della Verdirame, “l’intento apologetico risulta stravolto e
rovesciato in una lapidaria rappresentazione del mondo contadino sotto il
segno irriverente della lepidezza e dell’erotismo”52. Il linguaggio usato
dall’autore è essenziale, nervoso, finemente inquinato di termini ed espressioni
dialettali, con un dettato pieno di anacoluti che vuol ricalcare o rendere più
credibile la provenienza diretta dalla bocca del popolo. Il lettore viene
introdotto al centro dell’azione con poche battute che delineano già lo
49
C. Sofia, ibidem
50
Ci si riferisce a Vita e miracoli di Giustino Lambusta, Catania, Tringale, pubblicato a cura
di S. Zappulla Muscarà, nel 1975
51
R. Verdirame, Lingua letteraria e lingua regionale nel romanzo postumo di F. Lanza,
“Critica letteraria”, Napoli, a. XIV, fasc.II, n. 51, 1986, p. 348
52
R. Verdirame, op. cit., p. 349
36
sviluppo scenico e che valgono a volte più di tante lunghe descrizioni; altre
volte accede al racconto in modo brutale, quasi come se s’aprisse
d’improvviso un sipario immaginario. “Nessun balzo, nessuna forma inusitata
messa lì per attirare l’attenzione del lettore, ma un procedimento narrativo di
largo richiamo che nulla concede all’astratto e all’ideologico, ancorato com’è
ad un quotidiano sfaccettato nelle sue immense forme”53. Una delle virtù
letterarie di Lanza sta nel pescare dal quotidiano dei contadini siciliani termini
e costrutti dialettali per farli assurgere a poesia, grazie a un’intonazione
generale e sintattica che nulla più ha del dialetto. Basile sottolinea, nelle sue
pagine sui Mimi, l’animazione originale e lo stile preciso, che a volte, dice, sa
di studio, ma che comunque rivela l’intelligenza dello scrittore nel trattare una
materia “popolaresca, azzardata, sorniona”54. Così anche la materia più
pruriginosa sarà presentata al lettore in modo semplice, naturale, con l’aiuto
semmai di alcuni particolari stratagemmi metaforici che, pur sottolineando,
paradossalmente, non involgariscono il testo. L’opinione di Basile è forse
influenzata dalla convinzione che dietro i Mimi si nasconda una “pensosa
lezione morale”, che la cornice mimica serva solo a presentare in modo più
leggero “il costume della consunta società agraria siciliana”; la descrizione
della vita dei rustici nasconderebbe, secondo Basile, la “sottaciuta
aspirazione” che sia “civilmente redenta”55. Dove, dunque, Lanza aveva fallito
53
V. Santangelo, op. cit., p. 68
54
Così lo stesso Lanza definisce le sue storie in una lettera ad Aurelio Navarria del febbraio
1922.
55
N. Basile, op. cit., p. 15
37
con i bozzetti pedagogici dell’Almanacco, ora poteva riuscire con i mimi, che
veicolavano gli stessi messaggi in un linguaggio e in un tono narrativo che
poteva essere meglio compreso dai destinatari. Il senso dell’operazione
autoriale ed editoriale sarebbe: il contadino, analfabeta o poco più, leggendo la
serie infinita di consigli e raccomandazioni paternalistiche può avvertire un
senso di distanza, mentre leggendosi tra le pagine a volte crude dei mimi può
sentire più viva l’esigenza di migliorare il proprio stato, per non riconoscersi
più in quei ritratti. Il parere di Basile è accettato anche da Corrado Sofia56, che
vede nei Mimi un esperimento, riuscito, per scuotere gli animi e le intelligenze
del popolo, attraverso la comicità e la satira. Lanza aggiunse, secondo Sofia,
una “dose di stricnina” all’impasto che aveva già sperimentato per
l’Almanacco, sperando così di ottenere una cura per l’ignoranza più efficace
rispetto alle tante umanistiche descrizioni. Lontano da queste posizioni è,
invece, Salvatore Rossi, il quale ammette che sarebbe facile e sicuro attribuire
al Lanza uomo un’aspirazione a redimere il popolo, così come descritta da
altri, ma non certo al Lanza scrittore dei Mimi. Qui l’atmosfera sembra lontana
da ogni volontà di trasmettere messaggi, se non quello di far ricorso al ludus
per vivere e interpretare la vita; a questo servono quei pregevoli giochi verbali
di fantasia che intarsiano il testo, e che non sono, quindi, più soltanto
testimonianza dell’arguzia siciliana, ma invito al lettore.
Il suo percorso narrativo è, come già si è detto, così vario e a volte
contraddittorio che spesso la critica si è trovata in difficoltà nel tracciarne un
56
C Sofia, op. cit., 1991, p.6-7
38
ritratto. La prosa dei Mimi, in particolare, ha scatenato una gara alla ricerca dei
modelli narrativi di riferimento. C’è chi vi sente almeno “l’eco di modulazioni
tipicamente verghiane”, pur ammettendo la visibile ricerca di un modello
narrativo tutto suo57. Giuseppe Cottone fa qualche passo indietro fino a vedere
più affinità con i Dialoghi delle cortigiane di Luciano, anche per la
testimoniata familiarità di Lanza con l’autore greco. Quei dialoghi, a parere di
Cottone, “oltre alla vivacità e procacità, ci danno con la loro brevità il senso
immediato di scene tolte dalla vita intima ed anzi addirittura sorprese sul
fatto”58. I Mimi “anche nel loro tono popolaresco sono dentro lo spirito
raffinato della cultura dell’autore, come i Dialoghi di Luciano sono dentro lo
spirito raffinato della letteratura comica menandrea”59. Se di realismo bisogna
parlare a proposito dei mimi, bisognerà rintracciarlo nelle atmosfere in cui si
svolgono i fatti e si muovono i personaggi, piuttosto che in essi stessi; il
mondo descritto era quello che Lanza ben conosceva, le campagne, i paesini, i
borghi con i loro rituali, le ristrettezze, i luoghi comuni. La vena lungo cui
scorrevano la sua foga creativa e la sua ispirazione era, come ribadiva in una
sua lettera, folkloristica, popolaresca, sorniona; si diceva attratto da un
umorismo azzardato e denso. Zago, nel tentativo di meglio comprendere
l’attività letteraria di Lanza e la genesi dei Mimi, ritiene si debba considerare
la situazione dei ceti medi intellettuali usciti dall’esperienza devastante della
guerra, con l’irrequietezza e il disagio sociale che spesso si ritrova anche nella
57
S. Di Marco, op. cit., p. 31
58
G. Cottone, op. cit., p. 12
59
G. Cottone, ibidem
39
biografia lanziana. Partendo, dunque, da questa condizione ‘originaria’ di
disagio si noterà meglio “l’intenzionalità mitopoietica, piuttosto che realistica,
dell’idea di Sicilia elaborata da Lanza...la cifra decadente o meglio
novecentesca del suo primitivismo e del suo classicismo”60. Zago rintraccia,
ancora, “nell’epica capovolta e beffarda, sboccata e plebea” dei Mimi
“l’ambizione di risolvere il dissidio con la realtà in favola, in idillio e in
allegoria”61, usando le stesse parole che Lanza usò per descrivere la poesia del
Meli. La ricerca di modelli più o meno evidenti non deve, però, far
dimenticare l’assoluta originalità della scrittura di Lanza, che, soprattutto nei
Mimi, sa giocare con una materia fortemente regionalistica, paesana,
generando un sorprendente ed inedito corto circuito, grazie all’uso degli
artifici retorici della cosiddetta prosa d’arte, ed arrivando “ad esiti
espressionistici degni del Tozzi di Bestie”62. Anche Leonardo Sciascia si è
cimentato nella ricerca di modelli plausibili. In un suo articolo del 1968,
raccolto insieme ad altri nel volume “La corda pazza” e intitolato “Note
pirandelliane”63, Sciascia narra un episodio che appartiene al vissuto artistico
dei due autori siciliani. Lanza inviò due brevi racconti, “Il buco” e
“All’ombra”, tra quelli che intorno al 1921 andava scrivendo, a Pirandello per
averne un parere. Noi non conosciamo il risultato della lettura di quelle storie
ma già i titoli, secondo Sciascia, hanno assonanze pirandelliane da Novelle per
60
N. Zago, op. cit., p. 79
61
N. Zago, ibidem
62
N. Zago, op. cit., p. 80
63
L. Sciascia, op. cit., p. 145
40
un anno, e quindi dovevano essere passibili di buona accoglienza da parte
dell’agrigentino. L’assonanza è più evidente in particolare ‘nel nocciolo’ di
certe novelle, quelle che diventarono o potevano diventare teatro; cita, ad
esempio, “La verità” o “La patente”, e tutte quelle novelle in cui il nocciolo si
può ridurre a poche battute, quindi alle dimensioni del mimo. I due scrittori
condividevano, poi, una sorte per certi versi comune: la scomoda posizione di
non essere compresi nei vari cataloghi chiusi dei critici letterari, dato che per
entrambi sembrava non esistere uno schema adatto per contenerli e
rappresentarli. L’episodio narrato non esaurisce, però, la ricerca di possibili
precedenti o riferimenti letterari. Sciascia vede una parentela, in quanto diretta
emanazione della tradizione orale del popolo siciliano, con un’opera di autore
anonimo del Settecento pubblicato nel 1885 da Pitrè, che ne aveva ritrovato il
manoscritto alla Biblioteca Nazionale di Palermo. Il titolo completo dell’opera
è Avvenimenti faceti per mantenere in amenità innocente le oneste recreazioni
raccolte in diverse città e terre di questo Regno, titolo che potremmo attribuire
con i dovuti aggiustamenti anche ai Mimi siciliani, i quali altro non sono che
fatterelli, avvenimenti faceti appunto, che potrebbero provenire dalla diretta
voce del popolo. In quest’ottica si potrebbe meglio apprezzare una genesi
comune ai mimi e alle novelle pirandelliane. Alla base di entrambi c’è un
avvenimento faceto di tradizione o cronaca locale che funge da spunto; poi,
però, Pirandello ne svela il lato doloroso e assurdo, Lanza, invece, il ridicolo e
l’assurdo. Tornando al manoscritto, Sciascia chiarisce che può rappresentare
41
un precedente immediato per noi, ma non lo fu per Lanza. La materia di base
delle due opere era, per la maggior parte, tradizionale, non solo in Sicilia, ma
in tutta Italia, Spagna e Francia; si trattava di una regionalità divenuta
universale: una sequenza di fatterelli, aneddoti, facezie che possono essere
avvenuti ovunque o in nessun luogo, ma che passando di bocca in bocca e di
paese in paese, acquistano volta per volta colore locale. Tutto ciò non serve a
suggerire che quest’opera o altre possano essere servite a Lanza come fonte
diretta; in effetti, poco importa se quelle storielle le abbia ricreate o inventate
del tutto, poiché nel momento stesso in cui vi diede forma letteraria e le
localizzò, colorandole con i toni delle campagne riarse dell’ennese, le rese
uniche. L’autore degli Avvenimenti faceti, peraltro, conserva nel suo
linguaggio narrativo le forme del dialetto, senza preoccuparsi, però, di stile o
lingua e questo non accade mai nel caso di Lanza, che cura i suoi testi da
‘malato di letteratura’ qual era.
È il caso di accennare che la ricerca di riferimenti letterari è stata
almeno in un caso portatrice di un duplice effetto, positivo e negativo. Ci si
riferisce all’accostamento suggerito, o imposto, da Soffici con i Mimiambi di
Eroda, che ha aiutato il libro lanziano ad avere una maggiore e più evidente
distribuzione, ma ha portato, d’altro canto, a molti fraintendimenti, nella
ricerca a tutti i costi di somiglianze e derivazioni, tutte da verificare: per questi
motivi vi sarà dedicato uno spazio maggiore, nei capitoli successivi.
42
Protagonisti di queste storie sono, come già detto, i contadini e i paesani
dei piccoli centri siciliani (raramente si chiamano in causa i cittadini e solo in
un paio di storielle i ‘cugini’ calabresi). Essi sembrano non possedere nomi
propri e vengono indicati con la generica definizione del paese d’origine.
Questo particolare farebbe pensare, ad una prima lettura, che possa esserci una
corrispondenza facile tra il paese e il vizio o l’abitudine rappresentata, in realtà
proprio l’impersonalità dell’indicazione data dal toponimico fa pensare
piuttosto che quelle scelte fossero del tutto casuali o comunque dettate da
necessità letterarie. Calvino nota, nella sua introduzione ai Mimi del 1971, che
anche a chi legge per la prima volta quelle pagine, “avulso da tutti i
contesti”64, è chiaro che quella geografia è solo apparentemente reale; in realtà
Lanza ha dilatato in tanti paesi quelle caratteristiche che in ogni cultura
popolare e provinciale vengono attribuite ad un generico paese degli sciocchi.
Inutile, quindi, cercare di rintracciarne indicazioni etno-geografiche anche
lontanamente attendibili. Lanza, dunque, mette in scena la stupidità,
mantenendola però a livello aneddotico, non cercando il dramma, che sarebbe
scaturito dall’incontro-contrasto con l’intelligenza. Questa fu, probabilmente,
una scelta dell’autore, il quale, di certo, aveva a disposizione entrambe le
strade offerte dalla tradizione popolare. Se tra astuzia e sciocchezza scelse
quest’ultima lo fece, come sottolinea Rossi, per un senso profondo del ritmo
narrativo, che lo guidava per i sentieri che meglio corrispondevano alla sua
prosa limpida e mossa. I personaggi sono, così, tracciati con una tecnica quasi
64
I. Calvino, op. cit., p. XI
43
pittorica, con rapide pennellate espressioniste, “tra la sbalordaggine e lo
sbalordimento”65.
Leggiamo del cervello fine del contadino siciliano, dell’astuzia e
malizia della donna, del compare pronto ad approfittare di ogni attimo di
distrazione, di chi sbeffeggia e di chi accoglie la beffa: insomma di un mondo
fatto di gente che ha mantenuto nel tempo i caratteri intatti di una civiltà
ancora lontana dal peccato originale o che ne ignora l’esistenza.
Ogni storiella fa perno su un protagonista, che, seguendo Calvino,
potremmo definire comico, ossia colui del quale si ride, e che è indicato da un
toponimico: il piazzese, il carrapipano, ecc. Proprio sulla presenza di
quell’articolo determinativo gravita, secondo Calvino, tutta la violenza
denigratoria, “strumento di una interminabile faida dei poveri”66. Si può
immaginare, infatti, che la vittima di turno abbia la sua rivalsa immediata
raccontando una storiella altrettanto denigratoria nei confronti del confinante,
entrando così in un circolo vizioso, che è inteso a ristabilire un equilibrio, ma
“a un grado sempre più basso”. Oggetto dello scherno, però, come evidenzia
ancora Calvino, non è mai una colpa o un peccato ‘attivo’, quanto piuttosto
una ‘mancanza’. Lanza, quindi, non avrebbe intenzioni moralistiche, non gli
preme sottolineare come ad ogni colpa corrisponda un castigo; vuole solo
esporre o proporre al divertimento dei suoi lettori delle piccole mancanze, che
possono suscitare il riso. In quest’ottica, allora, si dovrà leggere la stoltezza di
65
V. Santangelo, op. cit., p. 66
66
I. Calvino, op. cit., p.X
44
certi suoi protagonisti come mancanza d’ingegno, le corna come mancanza
d’onore o di valore sessuale da parte del malcapitato, la lussuria come
mancanza di pudore (quasi sempre riferito alla donna) e la blasfemia (o
ignoranza sacrilega, come la chiama Calvino) come mancanza di civiltà
religiosa.
Le ‘mancanze’ sopra elencate costituiscono solo una parte delle
tematiche affrontate nei 106 mimi; a volte un mimo ci offre spunti per capire
la visione da parte dell’autore di una sola tematica, più spesso i temi si
intrecciano sullo sfondo appena visibile della natura. Si leggerà di natura, con i
paesaggi sfumati e un campionario zoologico in evoluzione; di sesso, corna e
triangoli amorosi; di religione rivista e corretta alla luce del primitivismo dei
protagonisti; dei compaesani di Lanza e dei più vicini avversari nelle contese
di paese, i piazzesi; di ladri e poveri; di morte; si leggeranno, infine, mimi
molto brevi, composti di qualche battuta, quasi da barzelletta e, sul versante
opposto, pagine venate di sottile e lirica malinconia.
I.3.1 La natura
Il rapporto con la natura nei Mimi siciliani è fondamentale e fondante,
perché è nella natura che vivono immersi i protagonisti. Se si guarda a tanta
parte dei giudizi critici precedentemente citati, essa dovrebbe, quindi, avere
spazio e risalto unici all’interno dell’economia dell’opera. E così è, ma
secondo modi e atteggiamenti che a volte sembrano suggerire il contrario.
45
Calvino, nella sua introduzione ai Mimi del 1971, definisce quel rapporto
“all’insegna della sottrazione”; sottrazione di aggettivazioni, di descrizioni, di
sottolineature. Il paesaggio, più di tutti, non è quasi mai descritto, semmai
evocato, e in questa evocazione sta la misura della grandezza di Lanza
prosatore. Egli riesce con pochi elementi, quasi dei suggerimenti scenici, a
tracciare quadri di grande atmosfera ed efficacia, tanto da far sentire e vedere
la natura anche quando essa non è ‘sulla scena’. Il dettato estremo e
paradossale che caratterizza buona parte dei mimi investe anche la natura, o
meglio la percezione che di essa hanno i protagonisti dei mimi. Basta una luce
di traverso o il buio pesto, un paesaggio innevato o arso dal sole e la fantasia
linguistica dell’autore per far sì, ad esempio, che un’upupa diventi pernice:
Una volta che il raddusano stava con lo schioppo fra le
gambe aspettando le mosche, vide volarsi incontro una
pernice.
Come prima gli venne lasciò partire il colpo, e quella
cadde; ma corso a prenderla, invece di una pernice era
un’upupa.
Andato a casa, se la mangiò come pernice; e dopo, tutto
lieto del bel colpo, lo contava in piazza.
- Lo sapete? Ho ammazzato una pernice ch’era anche
un’upupa.
Il raddusano non rappresenta certo un modello per tutti i cacciatori che
consumano le scarpe per andare alla ricerca di una preda; lui aspetta, in un
46
ozio che a volte risulta produttivo, e, infatti, ecco venirgli incontro il pasto,
che sia upupa o pernice a quel punto poco importa.
Il trasformismo ricorre ancora nelle pagine di Lanza:
Una volta il barrafranchese se n’era ito a caccia, col
trombone alla sgherra; e dopo lungo girare per monti e
per valli capitò sotto una ficaia mora, vasta e frondosa;
e c’era in cima nel folto un fico come una melanzana.
Al muovere delle foglie pareva che quello spiccasse il
volo come una merla, e quindi ristava; e poi daccapo,
sicché si vedeva e svedeva, senza mai si svelasse del
tutto.
Col batticuore, il barrafranchese spianò l’arma; ma non
essendone mai certo, prima gridò:
- O tu, sei un fico o se’ merla, che tiro o non tiro?
E quello zitto.
E lui, più forte:
- O tu, ti dico, sei un fico o se’ merla, che tiro o non
tiro?
E quello zitto.
Allora il barrafranchese chiuse gli occhi, e premendo il
grilletto gridò:
- O fico o merla, tirritùmpete ‘n terra!
E della trombonata rintronò la valle.
Il rapporto con la natura del paesano e del contadino, che pur ne è
circondato quotidianamente, è all’insegna della confusione, dell’incerto,
47
dell’ambiguità. Si è visto un’upupa diventare pernice all’occorrenza, per non
dover affrontare la fatica della ricerca di una preda più appetibile; un fico
sembrar merla a causa del sole e della frondosità della pianta; e ci sono anche
civette che appaiono pasti miracolosi ai calabresi persi in pieno inverno nel
bosco. Ma la bestia con cui il villico sembra avere un rapporto, diciamo così,
più diretto, quasi da pari a pari, è l’asino. Animale per tradizione stupido e
testardo, si rifiuta di obbedire agli ordini dell’aidonese, il quale non si fa certo
pregare e lo sfida a testate finché all’asino non resta che dichiararsi vinto e il
villico può esclamare: “Ah, minchione! Tu puoi vincermi benissimo per
giudizio, ma in quanto a testa non me la fai: l’ ho più dura della tua”. Ed è
sempre l’asino a mostrarsi inaffidabile e a diventare traditore anche davanti a
patti per lui favorevoli; ne sa qualcosa il barrafranchese che chiede il suo aiuto
per catturare dei falchetti, promettendo in cambio una parte del bottino, ma
quello cade giù dal dirupo: “Ah, traditore [...] e che hai guadagnato non
mantenendo il patto? Né io né tu abbiamo i falchetti”. Altri sono i
rappresentanti del mondo animale che mancano di rispetto al villico: i granchi
si ‘slegano’ per sfuggire al barrafranchese che con tanta cura li aveva legati ad
un filo d’erba; il gallo non canta e fa perdere ai gibbisoti a “chi il lavoro chi
l’ozio”; la lepre distrae dagli obblighi coniugali il caterinaro, rovinandogli i
cavoli, e così via.
Gli episodi divertenti o assurdi fanno compagnia, però, a quelli
ammantati di sorda ferocia o, comunque, caratterizzati da un rapporto
48
degradato, “brutalmente rapace e sordidamente possessivo” con la natura,
lasciandoci le immagini di un “universo contadino anti-bucolico [...] in via di
avanzata decomposizione”67. Lo scrittore si era nutrito della natura isolana, ma
la foga delle sensazioni si era tradotta in pagine essenziali, evitando le
descrizioni romantiche ed ornate del paesaggio. Si leggano i mimi che hanno
per protagonista la luna, ispiratrice in tanti altri scrittori di pagine
elegantemente nostalgiche e sognanti. Due mazzarinesi “imbriachi fino alle
nasche” arrivano a scambiarla per il sole e il barrafranchese alla fine uccide
l’asino che gli aveva sottratto la luna, quella luna “valorosa, che luceva come
giorno chiaro, e si specchiava tutta in fondo all’acqua, che pareva un timballo
d’argento”. L’asino continua a bere l’acqua dal pozzo in cui la luna si
specchiava, e, al giungere di una nuvola che la copre, il contadino urla:
- Vomita la luna che mi bisogna, o t’ammazzo.
Tante gliene diede che l’ammazzò davvero; e mentre
l’asino stirava le cuoia, la nuvola si tolse lesta d’innanzi
alla luna, e quella subito ritornò in fondo all’acqua,
bella lucente; e lui tutto soddisfatto:
- Ah, l’ hai intesa ora la ragione? Ben ti stia, che sei
morto come un ciuco che sei. Di te, io n’ ho quanti ne
voglio alla fiera, ma la luna era una, e se non la
vomitavi, i’ restavo al buio ora che n’ ho di bisogno.
67
Sono definizioni di A. Di Grado in “Il mondo offeso di Francesco Lanza”, Finis Siciliae,
Acireale-Roma, Bonanno, 2005, p. 72 e 74
49
L’uso di metafore alimentari e la violenza interrompono bruscamente
la descrizione nobile per riportare tutto alla cosmologia degradata e
‘commestibile’ di cui parla Di Grado. Le metafore, nella descrizione di un
paesaggio, aiutano anche a rendere più visibile un particolare: nel mimo sul
pizzo di Pollina, “che è davanti come un cetriolo” e che faceva ritardare il
sorgere del sole, gli abitanti cercano un rimedio, volendo “lasciarlo intatto per
delizia dei luoghi”, e “chi diceva di buttarlo giù con picchi e con pale, chi di
tagliarlo con uno spago come una ricotta, chi di rompergli il capo come a una
nacchera”; alla fine decisero di tirarlo via con una fune “e sono ancora là che
tirano”. O si veda anche il mimo seguente:
Il catanese, andatosene la mattina per pescare, trovò
che al mare c’era la nebbia; e non sapeva che farsi.
- Mamma mia - andava dicendo - che c’è la nebbia, e
non so dove buttare le reti, e perdo il guadagno.
E la moglie:
- Sentite che facciamo marito mio; con lo staccio
buttiamola di là alla costa, che se ne vada alla piana.
E così fecero tutt’e due con lo staccio come fosse farina,
e quando la nebbia se ne fu andata, dicevano soddisfatti:
- Lo avete visto, che se non era per lo staccio sarebbe
ancora qua?
Non mancano, tuttavia, mimi dove la descrizione nostalgica o
amorevole dei luoghi prende il posto delle assurdità. Si noti nel mimo che
50
segue, intitolato “L’Angelo di Dio”, la contemplazione rapita di una natura
amica e benevola e quasi ‘divinizzata’. Un barrafranchese va a vedere come
cresce il suo campo, che “già spigava, più alto d’un uomo, e a quel venticello
faceva le onde come il mare, fitto e lucente”. Parla al campo, sicuro che
quell’anno gli renderà molto, e sente una ‘risposta’:
Vuoi vedere, così bello com’è che quest’anno va più
valoroso che mai, e mi fa sei salme di frumento più
dell’oro?
Nel mentre, il chiù che s’era assettato sull’olmo, aprì il
becco e gli rispose:
- Più!
- Per Sant’Alessandro - gridò lui con gioia - questo è
l’Angelo di Dio che mi risponde, e dice che m’ha da fare
di più. E quanto allora, otto salme?
- Più, più! - rispose quello.
- E bravo l’Angelo di Dio! - diceva lui - E quanto
allora, che mi conforta: dieci?
- Più!
- Dodici?
- Più!
E così restò tutta la notte, lui a crescere e l’altro a fare
più più.
Nelle rare descrizioni di paesaggi spicca quella del mimo “L’augello
crudo”, che pur si conclude in modo violento, con il comportamento brutale e
51
istintivo dell’uomo, ma per una volta quasi giustificato dalle condizioni della
natura che lo ospita:
Nel più crudo verno, due calabresi, venuti in Sicilia per
lavorare con l’accetta, si smarrirono in un bosco. Il
freddo era grande e la neve copriva tutto dovunque; ed
essi meschini vagavano qua e là senza rifugio e
conforto, e saettati dalla fame, che non avean nulla con
sé. [...]
Guardarono che c’era un olmo con dei rami secchicci, e
il primo vi salì su e con l’accetta li faceva cadere; e
l’altro intanto accendeva un focherello battendo
l’acciarino.
In quella, con istrepito una civetta volò e venne a
posarsi in cima all’olmo ov’era il calabrese.
- Ah, compagnello – gridò l’altro con gioia – sali tosto
alla cima a prendere l’augello. [...]
Il calabrese lasciò andare l’accetta, e di gran lena
cominciò a salire; ma come arrivò alla cima la civetta
aprì l’ali e se ne volò via; e lui dietro per prenderla; e
arrivò a terra freddo di colpo.
Il compagno, non sentendolo più fiatare, andò a
smuoverlo con un piede, e vistagli la bocca piena di
sangue:
- Ah, malnato! – esclamò. – Solo mangiasti l’augello
crudo per non darne a me compagnello, e il sangue l’hai
ancora alla bocca. Ma se vuoi fuoco, prima sputa la mia
parte.
52
E poiché quello non rispondeva nulla, se ne andò solo
dove lo portarono i piedi.
Ancora più rappresentativo della parte lirica ed evocativa della prosa
lanziana è un altro mimo, “Il prizzitano”, che descrive l’avventura forzata
dell’emigrazione di tanti siciliani e delle loro condizioni:
Il prizzitano, non sapendo come sbarcare il lunario a
casa sua, se n’andò fuori via, di là dal mare; ma
vedendo ch’era peggio di prima, pensò di tornare, e per
pietà s’ebbe un posto sur un naviglio.
Il viaggio era lungo, e il tempo nemico; e lui poveretto
all’acqua e al vento intirizziva come una foglia. Or
finalmente una notte che il freddo era più crudo,
avvistarono la costa, e la lanterna del molo lungi ardeva
come un braciere.
- Ah – esclamò egli allora, stendendo le mani di là per
scaldarsi – ora sì che a questo fuoco mi sento ricreare!
La natura in Lanza non è, però, solo cosmo, ossia qualcosa di esterno
all’uomo, ma è una parte dell’uomo. Questo è il parere, ampiamente
condiviso, di Italo Calvino, che in questo modo introduce nel suo commento ai
Mimi la parte dedicata a quelli di contenuto erotico. In questi mimi, che
saranno trattati più avanti, è evidente una differenza essenziale rispetto a quelli
che vedono protagonista la natura: le descrizioni sono accurate e divertite,
anche quando si tratta degli organi sessuali. La natura, intesa come flora e
53
fauna, interviene con autorità per fornire metafore e similitudini alla fantasia
verbale dell’autore.
I.3.2 L’erotismo
La componente erotica caratterizza tanta parte della raccolta di mimi.
Alcuni critici, tra essi Salvatore Rossi, considerano questi come la parte meno
interessante, perché l’ “irriverente, beffardo, ironico e libertino” che Sciascia
aveva indicato come caratterizzanti il Lanza dei mimi erotici, si limita al
livello lessicale e rende quei mimi tra i più freddi o, comunque, i meno
interessanti.
Interessante è, invece, il modo in cui quella materia è trattata da Lanza,
che avrebbe potuto approfittarne per comporre mimi superficiali e distratti dal
punto di vista stilistico, ma che, invece, si applica anche nella scelta dei
vocaboli, delle metafore, delle similitudini giungendo ad esiti espressionistici
notevoli.
Già Calvino, si è detto, nell’affrontare questa parte, si è riallacciato ai
mimi aventi per protagonista la natura, e non a caso. Il sesso è raccontato in
modo semplice e naturale, senza nasconderlo dietro i veli peccaminosi voluti
dalla religione. Dietro quei racconti c’è l’uomo “liberato dal peso del
quotidiano e immerso nel trionfo di una bonarietà istintiva come unica valenza
della gioia del vivere.”68 Esemplare il mimo “Le gambe dei lercaresi”:
68
M.Lamartina, op. cit., p. 57
54
I lercaresi, essendo in festa, se ne andarono in
campagna a prendersi spasso; e buttatisi a frotta su di
un prato, mangiarono, bevvero e si sdraiarono alla
rinfusa come loro meglio piacque.
Ma al punto d’alzarsi, al vedere tutte quelle gambe
mischiate, di maschi e femmine, ognuno nella confusione
non conosceva più le proprie, e facevano a gara:
- O quali sono le mie? e le tue? e cotesta di chi è? Ahi,
che a me ne manca una!
E sono ancora là che se le cercano.
C’è, poi, una sorta di animalizzazione del comportamento umano,
intesa come manifestazione di puro istinto, e di vegetalizzazione
nell’onomastica sessuale, che ci riporta al mondo primordiale, libero dal
peccato originale o privo della coscienza di esso, di quei villici. Bastino pochi
esempi: c’è la moglie del calascibettese che ha “il petto di faraona”, o la
Maddalena “bella e pettuta come una colomba”, e a seguire tutti i termini per
indicare il sesso femminile e quello maschile, che viene anche coltivato in
campi benedetti addirittura da S. Pietro.
Un giorno trovandosi San Pietro a passare di qua, vide
il piazzese che arato il suo campo lo andava seminando:
- O che semini? – gli domandò.
E quello:
- Minchie, per chi non ne ha.
- E minchie sieno – disse San Pietro, facendoci sopra la
benedizione.
55
E alla stagione infatti il campo produsse in abbondanza
grandi minchie e rigogliose; e fu lo spasso delle vedove,
delle vergini e delle maritate, cui una sola non bastava
più.
Lanza, come riferisce Corrado Sofia, nel rileggere certe pagine dei suoi
mimi, sembrava preoccupato di aver troppo insistito sull’argomento; sfumare i
termini o le situazioni raccontate avrebbe fatto perdere, però, gran parte
dell’‘effetto reale’ che quelle storie popolari, per origine e tema, contenevano.
Al centro di molte storie c’è il triangolo formato dal marito, la moglie e
il compare e tra i tre il perdente è sempre il marito, in un alternarsi di tresche e
tradimenti. In questi mimi, però, non avviene mai quello che ci si aspetta. La
scoperta del tradimento, delle famigerate corna, non sfocia mai in tragedia, ma
sfuma in riso; la gelosia, quando insorge, è timida e diventa subito occasione
di chiarimenti liberatori e di gestualità esilaranti. Si veda, ad esempio, il mimo
“Il mistrettese”:
Una volta che il mistrettese era tornato per la vicenda,
bisticciò con la vicina; e quella, con le mani sui fianchi,
si mise a sbraitargli contro ch’era becco e ribecco e che
sulla sua casa, mentre egli pasceva le pecore, ci
spuntavano corna fitte più della gramigna.
Il mistrettese corse a lagnarsene con la moglie, che
quello non era il modo e la maniera:
- Lo sentite, moglie mia, come dice la vicina,
ch’io son becco e ribecco e che sulla mia casa,
56
mentre conduco le pecore, ci spuntano corna fitte più
della gramigna?
E la moglie: - Ah, vi ha detto così, marito mio? Aspettate
che ci penso io.
E fattasi sulla porta, si mise a sbraitare contro la vicina,
anche lei con le mani sui fianchi:
- Che importa a voi se mio marito è becco e
ribecco? Se egli lo è, vuol dire che a me piace così.
Forse le corna gliele piantate voi sulla fronte? S’io
l’adorno, certo è che gli stan bene. Sì, becco ei c’è
stato, c’è e ci sarà, e voi non vi ci dovete
immischiare!
E voltandosi al marito:
- Siete contento, marito mio? Avete inteso
quante gliene ho dette?
Spesso a riscuotere dal torpore il marito cornificato non è tanto la
scoperta o la confessione del tradimento, quanto piuttosto la preoccupazione
che di quell’evento non resti traccia visibile: quella sì sarebbe la vera
vergogna! Ecco allora la capaciota che vuol verificare se ciò che le dice il
marito è vero:
Il capacioto diceva sempre alla moglie:
- Moglie mia, non mi fate le corna, che mi spuntano in
fronte come un becco, e la vergogna è vostra.
Quella [...] per sospetto che non fosse una burla e per la
curiosità insieme, volle tuttavia provare, e ogni volta gli
guardava zitta la fronte.
57
Ma prova e riprova, cotesta gli restava più liscia di
prima; e gli fece stizzita:
- O che mi contavate dunque di corna e non corna,
marito mio? Ve ne ho fatte che non ne posso più, e
ancora non vi spunta manco il bozzo.
A volte, invece, è l’ingenuo marito a cercare le prove del misfatto, per
verificare se ciò che si dice in giro, non sul conto della moglie ma sulla
“stampa” lasciata dal compare, corrisponde a vero:
Al mazzarinese dissero che sua moglie se la faceva col
compare, e che quello ogni volta ci lasciava la stampa.
Infuriato, corse a casa minacciando lampi e tuoni, e alla
moglie [...] domandò s’era vero che ci lasciava ogni
volta la stampa.
E quella, facendosi la croce:
- La stampa, marito mio?o che vi pare che egli sia un
gonzo? Se non ci credete, possiamo fare la prova alla
vostra presenza.
Mandò a chiamare il compare e gli si mise sotto; e il
mazzarinese intanto aspettava con tanto d’occhi aperti
per non lasciarsi imbrogliare; [...] vedendo che tutto era
meglio di prima, tornò lieto e sereno:
- O che mi andavano dunque contando che ci lasciava
ogni volta la stampa, se qua non c’è niente e anzi così si
coltiva senza che io mi prenda fastidio?
58
Re Guglielmo in persona mette, invece, lo scompiglio in casa del
troinese, emanando un bando per cui tutti i cornuti devono indossare il
cappuccio a pizzo. Niente di più visibile e, così, tornato a casa, il pover’uomo
chiede conferme alla moglie, che ben lieta gli assicura la sua fedeltà, dopo
aver ampiamente inveito contro il re, ma alla fine: “Sentite, marito mio, per il
sì e per il no mettetevelo anche voi il cappuccio a pizzo, e così leviamo
l’occasione.”
È curioso il fatto che, parlando di corna, il cornuto è sempre indicato
con il nome del paese d’origine, mentre il cornificatore mai. Egli non dà il
titolo al mimo, dunque, ma, anche dove non specificato, è da intendersi come
appartenente al paese rivale. Il titolo, se le intenzioni dell’autore sono chiare
come sembrano, deve rappresentare chi si fa interprete di una ‘mancanza’,
quindi colui al quale manca la virilità o l’onore, seguendo i suggerimenti di
Calvino; è chiaro, quindi, che il protagonista, seppur involontario, è il cornuto.
Continuando questa linea di ragionamento, appare chiaro che l’indicazione del
nome geografico non rappresenta certezza di attribuzione di un dato
caratteriale o di comportamento. Se davvero, ad esempio, tutti i mazzarinesi
sono ingenui e cornuti, allora dovrebbe esserlo anche il compare, che si
intende di solito essere compaesano del cornuto. Così non è, come si evince
dalla lettura, e ancora una volta l’indicazione toponimica non aiuta a disegnare
un’ideale mappa dei vizi e dei caratteri.
59
Anche al di fuori del triangolo amoroso poco prima citato, la donna
resta protagonista del circuito erotico, come “soggetto attivo e accorta
regista”69. Di Grado non sa se attribuire ciò ad una superiore intelligenza e
mentalità moderna di Lanza o semmai ad una sorta di esorcismo della paura
ancestrale della donna. Conclude che probabilmente è l’una e l’altra, così che
questa possa aggiungersi alle altre contraddizioni che segnano la vita e l’opera
di Lanza. Resta, nonostante tutto, una patina maschilista su molti mimi, nel
descrivere, ad esempio, certi comportamenti violenti come naturali o, tutto
sommato, ben accetti dalla donna. Si vedano episodi come quelli del mimo “Il
cesarottano”, in cui il marito tornando dal lavoro nei campi assale la moglie
spinto dal desiderio: “ [...] buttata la moglie sul letto partì infuriato come un
toro. Quella si spaurì, e ci mise la mano davanti a difendersi; e gli faceva: -
Piano e col modo, marito mio, che così mi sbudellate! E lui tutto focoso: -
Levatevi la mano vi dico, che ve la buco!” E ancora il mimo del licatese,
stupratore di garbo, come lo definisce Calvino:
Un dì il licatese, colta a tradimento la vicina, la buttò
sul letto e partì per il fatto suo.
Quella se la prese a rispetto, e gli andava facendo:
- O che malcreanza è questa con mia signoria? Non lo
sapete che alla porta chiusa si bussa e alla casa d’altri
si domanda permesso?
E lui:
69
A. Di Grado, op. cit., p.81
60
- O non vedete che per entrarci mi sberretto?
C’è, poi, il mimo “Il mezzo pane” che mette in scena il microcosmo
conflittuale di un matrimonio, in cui la privazione e l’incomunicabilità vanno
di pari passo, e dove, però, neanche la violenza fa virare i toni verso la
tragedia, ma c’è sempre la risoluzione in riso:
Il villarosano quando vedeva il lavoro gli sparava di
lontano; e la moglie mangiava fette di fame, [...]
Quella, meschina, cercava di raddrizzarlo; ma era
tempo perso, che se la spassava invece tutto il giorno
alla taverna, coi compagni dell’arte sua.
Una sera fra l’altre, tornò a casa col vino alle nasche; e
come la moglie cominciava la solita storia, [...] ei si
tolse la cinghia, e quella zitta per non ricevere il
companatico.
Andati a letto, il villarosano se la sentì venire, e partì
per il fatto suo; ma la moglie, [...] lo respingeva [...]:
- Levatevi di qua, malcristiano che siete! Non mi date
pane, e poi vi frulla cotesto?
E lui:
- O non lo sapete che questo è mezzo pane, locca che
siete?
O ancora si vedano quei mimi in cui la donna è descritta,
negativamente, come lussuriosa: peccato che si può perdonare solo ad un
uomo. Ritorna utile, a questo proposito, ricordare il parere di S. Rossi sulla
61
definizione di “libertino”, espressa da Sciascia a proposito di Lanza. Rossi
spiega che, confrontando ciò che si sa sulla biografia dello scrittore con ciò
che traspare dalle pagine dei suoi mimi, appare evidente che Lanza non dà mai
una rappresentazione della donna totalmente reale; è, piuttosto, legato ai due
miti dell’immaginario maschile, la donna-angelo e quella assatanata, e questo
rivelerebbe la paura, nel fondo, della donna reale. L’appellativo di libertino,
dunque, si potrà attribuire a Lanza, sempre secondo Rossi, solo nella misura in
cui si ammetta che in ogni Casanova c’è l’oscura paura dell’impotenza.
Quest’ultimo tema, in effetti, fa la sua comparsa tra le pagine dei mimi,
nell’episodio intitolato “Lu ma”: un padre dà in sposa la figlia a quello che
tutti dicono un buon partito, se non fosse per “lu ma”, ossia l’impotenza.
Grandi pianti e disperazione fino all’epilogo chiarificatore e positivo. Questo
mimo ha fatto compiere a Sciascia un parallelo, seppur cauto, con il Brancati
del Bell’Antonio. Sono tanti, dice Sciascia, i mimi in cui si agita il gallismo, e,
chissà, forse fu proprio Lanza a suggerire a Brancati certe atmosfere e
malinconie erotiche. La differenza, sostanziale, è che ciò che in Brancati porta
il protagonista, la sua famiglia, il suo mondo a precipitare fino
all’annientamento, in Lanza si risolve in balli e riso.
Alcuni mimi non devono, però, ingannare, perché resta il sospetto che
dietro e nonostante certi di essi, ci sia la percezione nell’autore e, forse, anche
in tutti coloro che quelle storielle raccontavano prima di lui, che sia sempre e
comunque la donna a tenere le redini nel gioco erotico, che sia essa maliziosa
62
e astuta o ingenua e istintiva. C’è in questi mimi un mondo “tra stoltezza e
finezza d’ingegno, tra dabbenaggine disarmante e accorata malizia, che fa di
tutto per portare alla ribalta una situazione carica di sottintesi e di rimandi a
cui la falsa ingenuità dà un sicuro taglio caratterizzante.”70
La nicosiana, che è che non è, se la fece col compare; e
tutte intorno a domandarle:
- O come fu, comare? Insegnatelo a noi, che non
siamo pratiche.
E quella:
- Lo volete sapere?Venne il compare e si mise a
toccarmi, e io lo lasciai fare dicendo: - vediamo che
vuol fare il compare. [...] Poi mi montò addosso, e
fece quel che giusto gli parve; e quando finì io
finalmente ne fui accorta, e gli domandai spaventata:
- O che avete fatto compare?- E lui: - E che ne so io?
Ho voluto sentire come eravate di sapore; e siete più
dolce della pasta di casa, e me ne congratulo con
vostro marito.
All’ingenuità recitata con naturalezza dalle comari “non pratiche”, fa
seguito come conseguenza logica quella della nicosiana, che, pur sposata, non
si avvede subito di quanto accade, e anche quella del compare, più
spregiudicata, perché all’atto ‘inconsapevole’ fa comunque seguire i
complimenti per la donna e per il marito. Si legga anche la giovane malizia
70
V. Santangelo, op. cit., p. 67
63
della villarosana, in una storiella che ancora oggi, riveduta e corretta, si
racconta:
La figlia della villarosana, essendo nel fiore, non ci
stava più ferma sulla seggiola e i suoi occhi addosso
agli uomini erano come una nassa di pesci.
Or quando veniva in casa il vicino, la madre, che anche
lei c’era passata, le raccomandava:
- Figlia mia, non ti far toccare dal vicino; e se ti
tocca, dillo a me.
Quella andava a sederglisi accanto, e pungendolo gli
faceva:
- Vicino mio, toccatemi toccatemi, che mia ma’
non vuole, e io ne muoio dalla voglia.
E come quello la toccava, si metteva a gridare:
- Mamma, il vicino mi tocca!(toccatemi, vicino,
toccatemi, che mi piace e l’ho detto alla ma’).
L’ingenuità non è solo donna, ma appartiene anche all’universo
maschile, anche se in questo caso si può più opportunamente parlare di
dabbenaggine. C’è una schiera di mariti creduloni, che, a volte, si credono
anche furbi, mettendosi così ancora più in ridicolo: come il calascibettese, che
diceva alla moglie di non potersi certo accorgere se lo tradiva alle sue spalle,
ma di essere troppo furbo per non accorgersi di un suo tradimento sotto gli
occhi:
Ma una volta ch’erano in campagna col compare, come
[...] montò sulla mula, la donna si buttò a terra, e
64
torcendosi andava gridando che prendeva aria da tutti
quei buchi e se non glieli tappavano con arte sarebbe
certo morta.
Il marito non poteva certo scomodarsi a scendere dalla mula e dà ordine
al compare di ovviare al problema, che ben felice assolve il suo compito,
rendendo felice anche il calascibettese che così non si era ‘scomodato’. C’è,
poi, chi, tornando a casa dopo assenze lunghe anni, trova la famiglia
aumentata e accetta di buon grado le spiegazioni che la moglie gli fornisce:
- Te’, te’ – faceva meravigliato- e chi ve l’ha fatto
cotesto, che l’ha come suo pa’?
- Voi, marito mio, che partendo mi lasciaste la buona
volontà, e l’assommai a memoria.
- E brava la buona volontà! E cotesta che vi succhia la
poppa, [...]?
- Le vostre brache, marito mio, che lasciaste appese al
chiodo. Io me le misi pensandovi, e a’ nove mesi schizzò
fuori come la vedete.
E lui: - E brave le mie brache, che san fare prodezze, più
che ci fossi io dentro col necessario.
C’è, poi, l’aidonese, che, dopo aver chiesto il permesso alla vicina,
“l’assaltò”, ma, “essendo di primo volo e spratico, ora andava di qua ora di là,
senza mai trovare la via giusta”. La vicina lo accusa di non essere all’altezza,
ma lui respinge l’accusa: “O che ve ne mancava largo di pancia, che giusto
65
l’avete in questo malpasso?” L’ inesperienza diventa, invece, gioco di
seduzione per il riesano, che, sposatosi con una giovane ragazza, mostra di
apprezzare anche la suocera e si finge inesperto per ricevere lezioni private da
quest’ultima. Fin qui, ingenui, sprovveduti, ma pronti e disposti all’azione; lo
stesso non può dirsi del castrjannese, che ricopre il ruolo sempreverde del
siciliano pigro e indolente, il quale ai preparativi del suo matrimonio fatti dal
padre e, perfino, alle preparatorie ed insistenti metafore sessuali, risponde: “O
che devo esserci anch’i’?”
Le situazioni più ricorrenti sono, però, quelle che vedono coinvolti nel
circuito erotico marito, moglie e compare. La moglie è sempre “equidistante
tra marito e compare, due satelliti che le ruotano attorno ma non si scontrano
mai, anzi spesso si allineano su un’inconsueta rotta di collaborazione”71. Il
burgitano, ad esempio, dovendosi allontanare da casa, teme per la moglie, che
così resta sola nel cuore della notte; per fortuna c’è il compare che farà
compagnia alla donna al posto suo, “che nel letto c’è buio e non (sa) che le
può accadere.” A volte sono necessità contingenti a spingere i due satelliti a
collaborare, come nel caso del caterinaro, i cui campi erano rovinati da una
lepre, e che chiede il cambio al compare per soddisfare la moglie “se no le
cascano i capelli”, mentre lui corre a catturare l’indesiderato ospite. C’è, poi,
una parte dei mimi dedicata al concepimento ‘in tandem’, dove l’uno completa
il lavoro dell’altro per raggiungere un risultato perfetto. Si legga ad esempio il
71
M. Lamartina, op. cit., p. 60
66
mimo intitolato “I piedini”, dove troviamo la sanfilippana incinta del marito e
disiata dal compare:
[...]
Or avvenne che lasciandola incinta il marito partì; e il
compare, trovatala un giorno sola, si mise a guardarla
tutto trasecolato, [...]
- O che ho compare mio, che mi guardate così?
[...]
- Non v’accorgete, comare mia, che vostro
marito ha dimenticato di fare i piedini al ranocchio
che ci avete dentro?
[...]
- Qua ci vuole uno pratico[...]che gli aggiunga i
piedini dove ci vogliono [...]
A’ nove mesi, la sanfilippana schizzò fuori un figliolo
tutto lustro e guizzante come un’anguilla di fiume, e la
prima cosa che fece spingeva qua e là coi piedini
carnosi come salsiccie.
Il marito, ch’era tornato, se ne andava in sollucchero
[...]:
- Guardate che bei piedini ha il mio figliolo [...]
E la moglie:
- Sì, marito mio, come se vostra fosse la
prodezza!Voi dimenticaste di farglieli, e se non era
per il compare che glieli aggiungesse a tempo debito,
ora non farebbe così.
E il marito, guardandoglieli bene da ogni parte:
- E bravo davvero il compare, che l’attaccatura
neppure si vede!
67
Anche il palagonese sarà costretto a farsi aiutare dal compare per
mettere al mondo un bel figlio, così bello “che non era cosa da uno.” Il
mistrettese, invece, si ritrova in casa mobili nuovi, la moglie adornata di
gioielli e un figliolino, tutte cose che non ha fatto lui, ma il compare, e, dopo
un iniziale delusione per non aver più niente da fare, ringrazia il compare che
gli ha fatto un figlio “tutto somigliante al pa’, per non far perdere la stirpe.”
C’è, poi, una sezione, seppur non vasta, in cui a far da padrone sono i
toni boccacceschi e, a volte, francamente osceni. Tutti, però, assumono
connotazioni irrealmente grottesche che li fanno virare verso l’assurdo,
annullando così l’effetto potenzialmente volgare.
In tutti i mimi, in effetti, “attraverso l’ironia egli trascende nella
metafisica dell’assurdo e ne fa il percorso di una nuova poetica della
narrazione. Tutta la mimografia lanziana è, in fondo, irreale e metafisica”72;
già nel primo mimo c’è “il grottesco e l’assurdo proposto con naturalezza a chi
legge e ricondotto ad un’anima arguta siciliana che ride di tutto e di tutti senza
prestare grande fede alla verità relativa che si atteggia in vario modo”73:
Il brontese maritava la figliola, ch’era lunga e dritta
come una pala di forno. Ma arrivati alla chiesa, la zita
non poteva passare, che la porta era bassa; e non
sapevan come fare [...]
72
S. Di Marco, op. cit., p. 32
73
V. Santangelo, op. cit., p. 65
68
- Largo, signori miei! – gridò il brontese – che
prima deve passare la figlia! – e lui stesso la
spingeva perché passasse, ma le restava tutta la testa
di fuori, lunga e stecchita come avesse inghiottito
uno spiedo.
Allora, chi voleva buttare giù il cornicione, chi sbassare
lo scalino, chi tagliare la testa alla zita e
riappiccicargliela dentro; ma non facevano nulla.
In quella, si trovò a passare l’adernese [...]
L’adernese alzò il braccio e lasciò cadere come venne
una manata sul collo alla zita: quella calò la testa e
passò.
- Bravo l’adernese! – gridarono tutti – che ha
fatto passare la lunga senza tagliargli la testa.
Ogni mimo è ammantato di ironia e assurdo, ed è un atteggiamento,
questo, che porta a sdrammatizzare o a spogliare dal sacro anche tematiche di
area religiosa. Il sesso è vissuto e raccontato in modo tale che non disdice, ad
esempio, paragonare un seno prorompente ad un altare maggiore (il mimo
della caropipana). In senso più lato, si può citare il mimo intitolato “Il diavolo
del calascibettese”, dove le credenze religiose sforano nella superstizione, e
tutto va a sfavore del solito marito cornuto. Protagonista è il villarosano, che,
lavorando a stretto contatto col calascibettese e la moglie, cerca un modo per
sedurre quest’ultima, gabbando l’attenta guardia che fa il marito:
Passa ora passa poi, capitò che il calascibettese
mostrasse grande spavento del diavolo che talvolta gli
69
appariva con le corna di becco sulla testa, il viso
affumicato e muggendo come un toro.
Una notte dunque ch’era buio fitto, il villarosano si
aggiustò sulla fronte un gran paio di corna di becco
attorcigliate e ricamate, si affumicò il viso con la
filiggine della padella e muggendo come un toro s’infilò
sotto le coperte di quelli e saltò addosso alla donna [...]
Il calascibettese atterrito si mise a gridare che fosse; e
la moglie di rimando:
- È il diavolo, marito mio; afferratelo, che ha le corna!
Il calascibettese ubbidisce tremando e sfila le corna al diavolo; se ne
vanta il giorno dopo, imitando il diavolo, e la moglie: “O come vi stanno bene
le corna, marito mio.”
I.3.3 Sacro e profano
Ci sono alcune storie di area, per così dire, religiosa, che, per il modo in
cui sono narrate, hanno fatto dire a Calvino che si tratti di una sorta di anti-
Vangelo. Con questa definizione Calvino non intendeva riferirsi alla
blasfemia, palese o no, di certe scene, ma al fatto che troppo lontana è la
mentalità del contadino siciliano, troppo avvezzo alle ristrettezze, da quella
cristiana che trasforma la mancanza da disvalore in valore. È chiaro, dice
Calvino, all’ormai disilluso contadino siciliano che gli ultimi non saranno mai
i primi. Solo il piazzese sembra immune da tale rassegnazione, tanto che
appena creato, rivendica un posto più importante e chiede al suo Creatore di
70
farsi da parte. È questa “una riedizione mimata del racconto della Creazione,
[...] deteriorata dal tempo”74; un tempo ad Adamo era servito più tempo per
diventare tracotante e sventato, ora il piazzese dà il meglio di sé appena creato:
Una volta Gesù, trovandosi a passare di qua, fece d’un
ciottolo i castrjannesi e d’uno zipolo i caropipani; e
arrivato dove fu Piazza, prese uno stronzino d’asino
ch’era a terra e lo buttò in aria, dicendogli:
Stonzino stronzicolo
Parla piazzesicolo.
Cadde lo stronzino e rotolò quanto gli parve; e
fermatosi finalmente ne sorse su un piazzese come un
piazzese che era. Si sgranchì, si fregò gli occhi coi
pugni, e sputando a terra, gridò al Cristo:
- Ahbo’, che fai tu costì? Lèvati di qua, che sei nel
mio.
E Cristo dovette passare al largo.
Come si evince dalla lettura di questo mimo, c’è il gusto di parafrasare
racconti d’area religiosa, in cui non c’è nessuna tensione tra umano e divino:
c’è San Pietro che benedice campi dove si coltivano membri maschili;
l’assarese che offre simboli fallici alla statua di Santa Petronilla per avere una
grazia, solo per fare qualche esempio. Quanto alla componente “ferocemente
blasfema”, vera o presunta, Di Grado crede che non si tratti, da parte dei
contadini, di un intento cosciente di opporsi ad un “pensoso e strutturato
74
M. Lamartina, op. cit., p. 57
71
universo cristiano”75; che essi incarnino il Cristo in croce durante le sacre
rappresentazioni o maneggino oggetti sacri, hanno sempre un atteggiamento
quasi indifferente, o stupito, o diffidente, ma mai di aggressione cosciente del
simbolo.
È relativamente nutrita la serie di racconti popolari relativi alle sacre
rappresentazioni in uso durante le feste pasquali in Sicilia. In alcuni, il
figurante che impersona il Cristo in croce, viene sconvolto e distolto dal suo
ruolo dalle grazie esposte delle Maddalene di turno. Succede al Cristo di
Mezzoiuso e a quello di Santa Caterina.
A Santa Caterina, il venerdì santo, fecero la Passione: e
spogliato il Cristo lo misero in croce, con ai fianchi una
fascia di carta velina, per nascondergli le vergogne.
Come calò l’ora, vennero le Marie e a pie’ della croce
cominciarono a piangere a gran voce; e il corrotto era
assai. Specialmente la Maddalena, ch’era bella e pettuta
come una colomba, si faceva tenere; con le trecce
disciolte e il petto aperto che c’era l’abbondanza, e se lo
stracciava per il dolore.
Ma il Cristo, che di lassù gli veniva a tiro, a ogni
occhiata a quella grazia di Dio, sentiva stridere e
gonfiarsi la carta velina, e la bozza si vedeva di fuori; e
non sapeva come fare.
Finalmente, non potendone più, per paura di guasto, le
gridò di lassù:
75
A. Di Grado, op. cit., p.76
72
- Mariagrà nasconditi le mamme, se no la carta
velina si straccia!
Non c’è blasfemia in queste immagini, perché, come si è visto nel
paragrafo precedente, il sesso è sempre e comunque un dolce gioco d’istinto,
non c’è peccato per cui chiedere perdono. Il Paradiso terrestre, come ricorda
Lamartina, non fu perso certo per peccati di questo genere, ma per la
presunzione, la tracotanza dell’uomo.
Ci sono, poi, alcuni racconti tessuti sulla “esaltazione di riti materiali e
corporei dissacratori anche del divino”76, come capita al Cristo di Mineo o di
Petralia; ma anche qui, nessun intento offensivo o attacco al divino, semmai la
sottolineatura del ridicolo che sorge naturale per l’evidente differenza
dell’originale e della copia. È sempre l’umano ad essere al centro del dileggio,
non il divino; il rappresentante e non il rappresentato; il riso “erompe dalla
scoperta sperequazione tra il divino e l’umano, tra Cristo vero e fittizio”77.
I contadini dei mimi vivono la religione e i suoi simboli come se, a
volte, ne ignorassero il senso o lo scopo, o comunque, rinominandoli, dandone
nuove letture e avvicinandoli al loro quotidiano. Esemplari due mimi: “Il
diocotto” e “Il Cristo del castrjannese”. Nel primo, il solito piazzese questa
volta si ammala e la moglie gli consiglia di raccomandarsi a Cristo per
chiedere la guarigione. Quando questa non arriva, chiede l’intervento di un
dottore, perché, dice, “Cristo e San Luca son di legno e non m’hanno udito!
76
S. Zappulla Muscarà, op. cit., 1997, p.9
77
M. Lamartina, op. cit., p. 61
73
Voglio invece il medico che è vivo e mi sente”. Il dottore a sorpresa, però, gli
prescrive un diocotto.
[...] la moglie trasse dalla parete, dove c’era da
vent’anni, un crocifisso tutto affumicato e scacato dalle
mosche, e lo ficcò nella pentola, facendolo bollire fino a
notte; intanto il piazzese, girandosi su l’un fianco e
sull’altro, andava gemendo:
- Se Cristo crudo non mi fece nulla, che volete che mi
faccia cotto?
E quella:
- ´Gnornò, marito mio; se il dottore ve l’ha comandato
vuol dire che cotto s’ammollisce, e vi sana. Non lo
sapete che Cristo ha la testa dura?
[...]
La mattina, svegliandosi, egli si sentì sano e sanato, e
non voleva crederci; [...] lo narrava per maraviglia:
- Avete inteso com’è Cristo, che per fare miracoli ha da
esser cotto?
Il castrjannese, invece, deve sposarsi, ma deve prima far la comunione.
Il modo in cui gli viene comunicato crea, però, l’equivoco che dà corpo al
mimo: “Andate in chiesa a inghiottirvi il Cristo”.
Lui se ne andò in chiesa e si confessò tutto, dalla testa ai
piedi; e per scontare la penitenza andò a inginocchiarsi
davanti all’altare maggiore.
74
Là c’era ancora il Cristo risorto, alto come un saracino,
con la piaga rossa nel costato, una gamba qua e una là,
una mano in alto con tre dita aperte e nell’altra la
canna con la bandiera.
A vederlo così, il castrjannese restò come un
castrjannese che era, e guardava a bocca aperta
spaventato.
- Mamma mia[...]e tutto quello mi devo
ingollare?[...]
E andatosene dal prete, lo mise al muro e glielo disse
tondo:
- Sentite, non dico il Cristo con le gambe e le
braccia com’è; ma la canna no e no la pezza, che
certo mi restano qua e mi strozzano!
Colpisce che il rapporto tra l’uomo lanziano e il divino non sia quello
distante e regolato di altra parte della società; quei contadini parlano a Dio
come ad un pari e vi riflettono mancanze e vizi che sono loro. La memoria
riporta all’Olimpo greco, segno che tra tutte le dominazioni che la Sicilia ha
vissuto, quella greca ha messo radici più profonde.
I contadini, seppur ignari di certi rituali o significati simbolici, sentono,
comunque, forte il fascino del miracolo. Anche in questo caso, però, l’azione è
al livello del quotidiano più immediato o si spinge sino all’assurdo, assunto
come vero perché iscritto, appunto, nel capitolo miracoli divini. Nel mimo “Le
canne di Sant’Alessandro”, il sagrestano, sfinito dai ladri che ogni notte
rubavano dal canneto vicino la chiesa, chiede allo stesso santo di far la
75
guardia: “Sant’Alessandro mio, le canne sono vostre, e voi guardatevele. Fate
vedere a S. Rocco di Butera che valete più di lui.” I ladri agiscono di nuovo,
ma lasciano cadere delle canne rilegate in fasci. Il giorno dopo il sagrestano,
dopo un primo momento di delusione: “S. Rocco di Butera è miracoloso, ma
Sant’Alessandro di Barrafranca non è minchione, e all’occorrenza non si fa
gabbare. Gli rubano le canne, ma gliele fece lasciare infasciate come gli
servivano.” Qualche volta il miracolo si spinge oltre i confini del reale e
l’eccezionalità di un evento scatena il tifo tra i devoti di due santi, e la fede si
mescola con la superstizione. Accade a Modica, dove un malato deve
sottoporsi ad esami medici, ma le sue urine vengono scambiate con quelle
della moglie gravida, con risultati immaginabili:
La meraviglia fu grande, e tutti gridavano al miracolo
essendo la prima che un uomo facesse un figlio; e certo
doveva passare la cometa.
- Volete vedere – dicevano i modicani di basso –
che è stato San Pietro a far la gagliardezza?
E quelli di Modica alta:
- ´Gnornò, che è stato San Giorgio.
È stato San Giorgio, è stato San Pietro: vennero come al
solito ai fatti, e ci furon teste rotte e occhi ammaccati.
Le priorità e le necessità quotidiane investono anche la fede e i miracoli
sono anche legati alla natura, al cibo, come nel caso del buterese, che, dopo
aver mangiato un moggio di lumachelle, vede il moggio ancora pieno (poco
76
importa se i gusci sono vuoti) e attribuisce il miracolo a San Rocco. Gli
assaresi, invece, leggono segni divini in una distrazione del paratore. C’è il
Cristo risorto da acconciare, ma il paratore ha sete, svuota il fiasco del vino e
lo appende alle tre dita aperte del Cristo; aperta la tenda, i fedeli in coro: “Viva
il Cristo! [...] Lo vedete che dice? Che il vino uguanno ha da andare a tre
soldi.” I miracoli, però, li fa solo il Cristo di buon legno: così la pensa il
nicosiano.
Il nicosiano aveva nella vigna un pero che non fiori
faceva né frutti, essendo di mala stirpe e duro di linfa
[...] sicché pensò di tagliarlo. [...]
Or dovendosi fare un Cristo alla chiesa, glielo vennero a
chiedere; e volentieri lo donò, che servisse a così nobile
cosa.
[...]
Accadde che al nicosiano si ammalò il figliolo; e corso
subito a’ piedi del Cristo lo pregava [...]:
- Cristo mio – gli faceva – ricordati che io ti
piantai e ti zappai, e io ti tagliai con le mie mani; e
se non era per me, non Cristo ora saresti ma pero
come tanti a Nicosia [...]
[...] e quello stava là giorno e notte con le mani giunte
che gli facesse la grazia; finché una volta non vennero a
dirgli che il malato invece di guarire era morto
- Ahi! [...] pero non facesti mai pere, e Cristo
manco fai miracoli.
77
Il caltagironese, per ingraziarsi San Giacomo, alle preghiere aggiunge
delle offerte in natura, dei fichi, e resta sorpreso, ma non troppo, del fatto che
il santo, o meglio la sua statua, rifiuta alcuni frutti e ne accetta altri, proprio
come farebbe lui.
[...] prese un fico dei più duri e lo buttò in faccia al
santo, per ingraziarselo:
- Tenete qua, San Jacopitto glorioso: mangiate anche
voi.
Ma quello, come gli giunse sulla faccia, lo ributtò e:
- Bravo, San Jacopitto – gridò il caltagironese
ammirato – i duri non vi piacciono, e volete i fatti, come
me che ho la bocca.
Ne prese uno dei più fatti e glielo buttò, e come gli
giunse, vi restò appiccicato; [...]
E quando non ne ebbe più, lo contava fuori per
maraviglia:
- Lo sapete San Jacopitto? I fatti se li mangia, e i duri
li ributta.
Se sulla blasfemia di certe scene si possono avanzare dubbi, non si può
negare, invece, una certa avversione verso i rappresentanti in terra di Dio.
Monaci e priori sono scelti come bersaglio per mostrare che la moralità e lo
spirito cristiano non sempre risiedono in figure che dovrebbero fare da
esempio.
78
Il monaco di Santo Nicola, dopo che s’era ingollato un
gallinaccio intero e un barile di vino, si mise sul
piazzale dinanzi la chiesa, e sbuffava e ruttava, e tutto
sbracato andava su e giù affannatamente.
Gli si avvicinò un poverello, e gli stese la mano:
- Per carità, Vostra Reverenza, mi date un soldo per
un panino, che muoio di fame?
Il monaco lo allontanò con tutt’e due le mani:
- Vattene, figlio, vattene! Non vedi che per mangiare io
sto morendo?
Nonostante il cinismo della scena, il moto di riso scatta lo stesso,
nell’immaginare quella figura che stona con l’abito che indossa e nel leggere
l’esortazione preoccupata del finale. Alle intemperanze alimentari si
aggiungono quelle sessuali, come nel caso del priore di San Mauro:
Il priore di San Mauro, gli piaceva l’erbetta delle valli;
e quando poteva arrivarci, bizzoche e praticanti, ci si
buttava di lena, senza domandar licenza ai superiori.
Una volta gli capitò tra mano una bizzoca di pel novello,
che Mariagrazia era di nome e di fatto; e assestò il
battaglio alla campana.
Una sera ch’era a cavallo pei fatti suoi, alla chiesa
suonò l’Avemaria. Disceso, si fece lesto il segno della
croce, e incominciò:
- Ave, Mariagrazia prena [...]
E quella, tastandosi la pancia:
79
- Se è, vostra la prodezza, Angelo Gabriele; e vedetevela
voi con lo Spirito Santo!
Le preoccupazioni dei contadini, però, sono anche altre. La paura della
morte fa capolino in un mimo, accompagnandosi però allo stesso spirito
dissacratore degli altri racconti.
Lo sciclitano, ch’era santocchio, per esser più sicuro
voleva sapere l’ora e il modo della sua morte; e ogni
giorno in chiesa lo domandava a gran voce al Cristo,
ch’era sull’altare [...]
Ma il Cristo appiccicato alla croce non moveva le
labbra di sopra la barba; e quello:
- Cristo mio, o che siete sordo che non sentite? E se
non lo sapete voi, o che Cristo siete, d’un soldo?
Tanto lo disse e così forte, che il sagrestano[...]l’udì; e
venutogli in uggia, una volta si mise sull’altare dietro la
croce, e [...] gli gridò irato di lassù, facendo lui il
Cristo:
- Lo vuoi sapere com’hai da morire? Appeso come un
porco all’uncino.
- E tu per cotesta linguaccia sei costà in croce.
In questi mimi c’è una galleria di tipi che “appartengono ad un mondo
che porta la sua richiesta sino all’assurdità e si iscrive in un tragico momento
ove l’eterno e il divino perdono di significato, incalzati come sono da
80
situazioni contingenti che accampano i loro diritti escludendo qualsiasi altra
soluzione”78. Esemplare il mimo “La pappa”:
Proprio che scodellava, e il figlio aspettava col
cucchiaio in mano e la bocca pronta, portarono alla
piazzese la nuova che le era morto il marito come un
piazzese che era.
Quella lasciò subito il mestolo e si mise a gettare le
voci:
- Ahbo’, marito mio! E giusto ora dovevate morire che
stavo scodellando? E ve ne mancava di tempo? [...] E
ora che vi devo piangere, la minestra mi si raffredda e si
sciupa, e non so come fare.
E il figlio, tirandola per la manica:
- O ma’, prima mangiamo la pappa e poi piangiamo il
pa’, che il tempo c’è.
Si rivela un sentimento “che s’impiglia nello spessore degli interessi
quotidiani ove i sentimenti stessi si annullano”79. In almeno un caso, però, i
sentimenti forti varcano le soglie del tempo, rimanendo intatti. Nel mimo “La
figliolina”, due futuri sposi si immaginano e si raccontano il loro futuro
insieme: loro due insieme “come due dita nel miele”, la casa, il campo, la
figlia bella e sana; un pensiero angosciante però li assilla: “Ma se ci muore con
le vajolore?” Si immedesimano a tal punto in questa prospettiva, che a nulla
vale ricordare che stanno piangendo e disperandosi per una figlia che deve
78
V. Santangelo, op. cit., p. 66
79
V. Santangelo, op. cit., p. 66
81
ancora nascere. Un compaesano loro, un pietraperzese, sembra invece
insensibile alla morte, questa sì reale, del padre:
Al pietraperzese era morto il pa’; e tutti lo piangevano a
gran voce. Lo vestirono, lo misero nel cataletto, e
diedero al pierzese da tenere la candela; e lui guardava
con la bocca aperta e gli occhi asciutti, senza ài né bai.
Uno lo tiro per la manica:
- Perché non piangi? Non vedi ch’è morto tuo pa’?
E lui:
- O come posso piangere, che ho la candela in mano?
Il dolore per la perdita è sovrastato nella mente semplice del paesano
dall’importanza e dalla difficoltà del compito assegnatogli.
I.3.4 Poveri e poveri
I protagonisti dei Mimi sono tutti dei “capitalisti del nulla”, come li
definisce Di Grado. La povertà era, anche ai tempi di Lanza, una condizione
per nulla eccezionale, specialmente nelle zone più interne delle campagne
siciliane. L’eccezionalità la crea, però, Lanza con le sue prose. Le necessità
quotidiane, gli stratagemmi o i sacrifici per sbarcare il lunario sono raccontati
con ironia e divertimento, misti a tenerezza in alcuni casi. Nel mimo “Il
grembiule della pierzese” non si può non provare un moto di tenerezza per la
protagonista:
82
La pierzese aveva addosso un grembiule che toppe ce
n’erano una sull’altra da non contarsi più, e a cento
colori; sicché divenuto spesso del doppio pareva invece
la pannicciata dell’asino.
Il marito, che glielo sapeva dal dì delle nozze, non
poteva vederglielo più in mano per rattopparselo, che
non le bastavano mai pezze e le si sfaldava da ogni
parte; e come venne la fiera gliene comprò uno nuovo.
Quella a vederlo non sapeva quanto lodarlo che era a
fiorami; e intanto faceva:
- Che belle toppe si possono tagliare di qua per il mio
grembiule sciupato, e così posso mettermelo anche per
la festa.
E dato di mano alle forbici si mise a tagliare di là le
toppe per quello vecchio; e a lavoro finito, lo mostrava
tutta contenta al marito:
- Guardate, marito mio, com’è ora rappezzato il mio
grembiule, che pare nuovo nuovo.
Chi è abituato a vivere in ristrettezze non è più avvezzo al nuovo; nel
grembiule nuovo di zecca la pierzese, che aveva il suo da anni, non riesce più
a vedere l’insieme, ma le parti, le toppe per quello vecchio. Il vallolmese,
invece, subisce il fascino del nuovo a tal punto da non riconoscere il vero
valore delle cose: perde le mule, sua vera ricchezza, ma si dispera molto di più
per la perdita dei capestri nuovi e lucenti appena acquistati.
83
Il racconto delle difficoltà quotidiane diventa ancora più ironico nel
caso dei tre calabresi, che “non sapendo come sbarcare la vita in Calabria,
pensarono di portare un carico di cipolle in Sicilia”, un po’ come dire: c’è
sempre chi sta peggio di noi. Dalla barca cade una cipolla; è solo una, ma
tanto basta a spingere uno dei tre a buttarsi in acqua per recuperarla. Non
vedendolo ritornare i compagni pensano al ‘peggio’: l’altro ha fatto il furbo e
“s’è presa la cipolla ch’era di tutti e tre”; così si tuffa il secondo, non ritorna e
l’ultimo rimasto pensa di essere lui il vero gabbato e si tuffa. “E fu così che tre
calabresi si persero per una cipolla”, conclude Lanza.
Se i poveri conducono una vita piena di disagi, neanche i ladri hanno
vita facile. In una società di soli poveri è difficile perfino rubare:
Il calabrese, gli rubarono ciò che non aveva, e afferrato
uno schioppo inseguiva il malcapitato; e gli andava
gridando dietro:
- O tu, se corri ti sparo, se ti fermi t’ accoltello, se ti
butti nel pozzo ti perdono.
La ‘mancanza’ indicata da Calvino come il filo conduttore dei mimi,
diventa vera e propria privazione in queste storie, cosicché i protagonisti
cercano di risparmiare e accumulare più che possono:
Il mazzarinese teneva in un canto un sacco col muso
legato fitto. Ogni tanto l’apriva con cura, appena il
84
tempo di fiatarci dentro e lo richiudeva in furia, più fitto
di prima:
- O che fate? – gli domandarono una volta.
E lui:
- Metto in serbo il fiato per quando mi manca.
Il più interessante di questa serie è il mimo del licodiano:
Tant’era ladro il licodiano che, non avendo a chi
rubare, rubava a se stesso, e a chi non aveva nulla
rubava la vista degli occhi, mettendoglisi avanti.
Or pentitosi della sua vita, andò a confessarsi; e
compunto e contrito snocciolava tutte le sue prodezze,
che non finivano più.
Arrivati alla fine, il prete alzò la mano per assolverlo, e
in quella lui, che gliela adocchiava sin dal principio, gli
tolse lesto la stola di dosso, e se la ficcò in tasca.
E prima d’andarsene:
- O della stola non m’assolvete?
Questo mimo è “l’assolutizzazione metafisica di una rapacità fine a sé,
affrancata dalle misure e dagli obiettivi contingenti”80.
In generale ha visto bene Calvino: il povero si consola deridendo il
pezzente, da cui prende le distanze naturalmente, e questo gli basta. Non
troviamo nelle pagine di Lanza lotte tra ricco e povero o tra potere e popolo;
80
A. Di Grado, op. cit., p. 75
85
piuttosto i protagonisti lottano, per così dire, contro se stessi. La distanza tra i
due mondi è tale da non consentire neanche fantasie di lotte, così i contadini
trovano sfogo e conforto nel deridere i loro simili, che vivono ad un gradino
sociale ancora più basso. Il potere, laddove viene citato, è rappresentato in
tono con il resto dei mimi, coprendolo di ridicolo, ma, forse, con un di più di
sarcasmo più che leggiadra ironia. In un solo caso fa la sua comparsa come
coprotagonista il re, che dibatte sulla grazia da concedere al barrafranchese in
un mimo, a dir la verità, poco incisivo. Di sempiterna attualità, invece, il mimo
sui tredici sindaci di S. Cataldo, specchio della politica che si fa solo sulle
poltrone.
A San Cataldo dovevano fare il sindaco. Misero la
bandiera al balcone, e la sera i tredici consiglieri si
radunarono al municipio. Ma, giunti al fatto, non
potevano mettersi d’accordo. [...]
Tutt’e tredici, ognuno diceva la sua, perché così e così il
popolo voleva un sindaco e non un càntaro con la
sciarpa. Consumarono tutta la saliva che avevano in
bocca, e a mezzanotte non avevano ancora concluso
nulla. Finalmente la folla, che assisteva pigiandosi come
le sardelle in un barile, stanca gridò:
- Votazione, votazione!
I tredici si sedettero; e sputacchiando e spurgandosi per
darsi dignità, ognuno scriveva il proprio nome nella
polizza, e con sussiego andava a deporla nell’urna,
dicendo verso la folla, con una mano sul petto:
86
- Questo lo faccio per il bene del popolo.
E quelli battevan le mani.
Così a scrutinio finito, i sancataldesi si ebbero tredici
sindaci.
Lanza scriveva questi mimi negli anni venti, ma potrebbe averli scritti
oggi, raccontando di discese in campo per amore verso la cosa pubblica e di
elettori ancora ingenuamente fiduciosi nelle dichiarazioni d’intenti.
Se la povertà dei contadini è materiale, questa, ben più grave, è morale,
e Lanza, pur non emettendo giudizi morali, la condanna dalle righe della sua
prosa.
I.3.5 Il caropipano e il piazzese
Un paese e un paesano, vale l’altro, si è detto, nella geografia elastica di
Lanza. Tranne, forse, in un caso: quello del piazzese. Gli altri protagonisti,
infatti, si dividono variamente vizi e stravizi, senza caratteristiche fisse, non
così il piazzese, che a partire da un suo intercalare ( “Ahbo’!”) ha un carattere
inconfondibile, quasi una natura diversa. Lo spregio, nota pure Calvino ch'era
lontano dal conoscere la mai sopita antipatia tra caropipani e piazzesi, sembra
più acceso che in altri casi, e conduce Lanza al “delirio verbale
espressionista”, già citato nel mimo della creazione del piazzese. Dio crea gli
altri paesani da pietre o altro, e il piazzese da uno stronzino d’asino:
“Stronzino stronzicolo parla piazzesicolo”.
87
La natura particolare dei mimi dedicati al piazzese è tale che, caso quasi
unico nei mimi, l’autore non sente la necessità di specificare molto nel titolo;
“il piazzese” basta ad indicare che quella storia sarà diversa dalle altre, a
prescindere dal tema. Sono sei i mimi intitolati semplicemente “Il piazzese”;
alcuni esempi:
Tant’era valente il piazzese che non mangiava per non
portarsi il pane alla bocca, e piuttosto che adoperare le
mani preferiva lasciarsi morire di fame.
Si buttò dunque sotto una ficaia carica di frutti maturi, e
aspettava con la bocca aperta che gli cascassero dentro,
senza mai avanzare il braccio o piegare il collo per
prendere quelli d’intorno.
Passa ora passa poi, uno finalmente gli cascò in bocca,
ma per non muovere i denti e ingozzarselo neppure lo
toccò, e rimase così, finché non morì come un piazzese
che era.
La sua appartenenza a una razza a sé stante viene chiarita in un altro
brevissimo mimo:
Andandosene a Piazza un tale, incontrò il piazzese.
- O voi – gli fece – siete cristiano?81
E quello:
- 'Gnornò: piazzese.
81
Il termine “cristiano” è da intendersi nell’accezione generale del lessico popolaresco, come
“persona”.
88
Sembra cittadino di un mondo cui non è dato il lume della ragione. Si
legga il mimo “La trippa”, dove il piazzese compra della trippa e si fa scrivere
su un bigliettino dal macellaio il modo in cui cucinarla, così lui non ci pensa e
a casa se lo fa leggere “da chi ci vede”:
Il macellaio così fece; e lui se ne andò per la sua strada,
la dritta avanti col bigliettino e la manca dietro con la
trippa.
[...]
Andando così, un cane sentì l’odore della trippa e si
mise a seguirlo passo passo, annusando: finché a un
punto con una boccata non gliela strappò di mano, e via
come una lepre.
Il piazzese si volse a guardarlo senza scomporsi, con la
manca dov’era; e levando in aria la dritta col
bigliettino, gli gridò dietro:
- Ahbo’, baggiano, corri quanto vuoi!La trippa
l’hai tu, ma il bigliettino è qua, e non sai come farla.
Il piazzese conosce solo se stesso e il suo mondo, sembra smarrirsi non
appena se ne allontana; a due mazzarinesi “‘mbriachi fino alle nasche come
scimmie”, che dibattevano se la ruota raggiante nel cielo fosse la luna o il sole,
risponde: “Ahbo’ io forestiero sono!”
Il contraltare al piazzese è il caropipano, il compaesano dell’autore,
che, pur coltivando un rapporto d’amore-odio con la sua ‘trappola’, mantiene
una sorta di istinto di protezione nei suoi confronti. I caropipani, infatti, non
89
sono mai descritti come soggetti passivi, cioè sciocchi per mancanza
d’intelletto o cornuti per mancanza d’onore, ma sono sempre attivi: ladri, furbi
e cornificatori. Due i mimi in cui si incontrano caropipani e piazzesi, ed è
sempre quest’ultimo a fare la figura peggiore.
Una volta, andando il caropipano a Piazza incontrò alla
Bellia il piazzese, che a cavalcioni di un grosso ramo di
pioppo dava giù botte da orbo con l’accetta per
tagliarlo.
- O che fate? – gli domandò.
E quello:
- Non vedete che fo? Taglio il ramo che mi serve.
- O come? E se casca quello, non cascate anche voi?
- Cascate voi invece – fece l’altro stizzito – che siete
cristiano, e non io che sono piazzese.
Ma non aveva dati altri due colpi che il ramo crollò e lui
insieme, che restò a terra come il piazzese che era.
L’altro mimo, intitolato “La croce”, è una variazione del triangolo
erotico presente in tanti mimi. Il caropipano va a trovare compare e comare a
Piazza, ma un forte temporale gli impedisce di tornare a casa; il compare gli
propone di restare a dormire e alle obiezioni risponde:
- Se siamo stretti, ci stringiamo di più [...] Voi vi
mettete al muro, mia moglie nel mezzo e io davanti.
90
Così fecero [...] e il piazzese ch’era furbo, per paura che
il compare non gliela facesse a tradimento con la
moglie, ci mise davanti la mano a riparare l’entrata [...]
Or mentre stavano così, un gran lampo dalla finestra
saettò la camera. Nel soprassalto il piazzese atterrito
levò la mano di là per farsi la croce; e in quella,
sgombro il terreno, l’altro saltò addosso alla donna [...]
All’Amen il piazzese tornò con la mano a difendere il
luogo di prima, ma ci trovò invece il compare; e
meravigliato della prontezza, faceva, aspettando che
quello finisse:
- Ahbo’, compare mio, manco il tempo di farmi
la croce mi date?
Una delle altre ‘virtù’ del caropipano la scopriamo in due mimi,
intitolati “I ferri ai piedi” e “L’asino tramutato”. Il caropipano è furbo,
imbroglione e ladro, difetti in altri contesti, ma qui ritratti quasi come esempi
positivi.
Ne “L’asino tramutato”, due caropipani di “professione ladri”, sulla
strada per Piazza vedono un canonico con un asino e si sostituiscono ad esso,
facendo credere al povero malcapitato che l’asino si sia tramutato in uomo:
- Ah, birbante! Tu dunque credevi di potermi
cavalcare impunemente per tutta la vita? Finora è
toccato a me, ma venuta è la tua ora. D’asino io sono
tramutato in uomo, d’uomo tu sarai tramutato in asino
perché così vuole nostro Signore Gesù Cristo [...]
91
Ma non aveva ancora finito, che il canonico, con la
tunica alzata fino al bellico, era già giunto a Piazza,
gridando al miracolo.
E il caropipano ci guadagnò anche la cavezza.
Più azzardata e fantasiosa la trovata di altri due caropipani, che, nel
mimo “I ferri ai piedi”, si fingono morti per poter rubare indisturbati:
Due caropipani, di professione ladri, pensarono di
morire; e buttatisi sul letto non davan più segno di vita.
Gettaron loro le strida, li vestirono, li misero nel
cataletto e li portarono in chiesa. Ma la notte, quelli
buttarono all’aria i coperchi, e più vivi di prima si
diedero a saccheggiare ogni cosa [...] La mattina,
aperta la chiesa, non si trovarono più i morti né le cose
di prezzo, e lo scandalo fu grande.
- Qua bisogna provvedere – gridarono i gabbati – ché
i morti non son morti e fan cose da vivi; [...] fu
finalmente gettato a suon di tamburi e di trombe questo
bando:
- Caropipani, da oggi in poi, chi vuol morire ha da
pensarci due volte; e chi non è sicuro d’esser morto non
muoia, ché quelli che son tali verran ferrati ai piedi
come muli!
E d’allora il poi, così fecero; e di caropipani non morì
più alcuno che non fosse veramente morto.
92
Da questi pochi mimi si può cogliere la bonarietà con cui, nonostante
tutto, Lanza tratta i suoi compaesani. E questo sentimento di protezione
istintiva si amplia fino a coprire tutti i siciliani, prima derisi, quando si
presenta un confronto con i vicini calabresi. Si è già citato il mimo “L’augello
crudo”, con il terribile e assurdo epilogo del calabrese morto, col sangue alla
bocca, che, invece di essere compianto, viene accusato dal compagno di averlo
truffato e viene abbandonato nel bosco. O, a voler parlare di sciocchi, il mimo
dei tre calabresi che vengono a cercar fortuna in Sicilia e per il timore di
essere gabbati dai compagni perdono il carico prezioso.
Anche in questi casi, però, la vena ironica e surreale di Lanza resta
attiva e trasforma un episodio cruento e il rapporto con la giustizia in un
racconto sorprendente, dal punto di vista stilistico:
Il calabrese era nimico a morte col vicino; e un giorno
ch’egli era alla vigna, l’altro venne con lo schioppo, ma
il colpo gli fece cilecca. Allora il calabrese con la zappa
gliele diede sul capo, e lo sotterrò dove cadde.
Preso, fu condotto dinanzi al giudice; e quello:
- Dimmi, dunque, calabrese: sei tu che l’ammazzasti?
E lui:
- Il fatto, signora giustizia, fu così e questa è la
ragione: i’ zappava e lui veniva, fece fuoco ma non gli
allumò; presi la zappa e lo zappettai, ahì ahò.
- Dunque l’ammazzasti tu?
93
- E tira, signora giustizia! Non sentite come fu la
ragione? I’ zappava e lui veniva, fece fuoco ma non gli
allumò; presi la zappa e lo zappettai, ahì ahò.
E il giudice:
- O non l’ammazzasti tu dunque?
E il calabrese daccapo; e tutt’e due sono ancora là che
discutono.
La faida campanilistica lascia il campo alla faida interregionale, per
dirla con Calvino. Interessante è non solo cogliere l’eccezione alla regola in
una raccolta tutta di mimi ‘siciliani’ appunto, ma soprattutto la natura di
quell’eccezione, la sostanza del ritratto che viene fatto del calabrese. Egli è,
oltre che stolto sopra ogni misura, anche violento, di una violenza crudele e
cieca. Tutto ciò viene descritto da Lanza, quasi come a volerne prendere le
distanze, da siciliano. Le sue pagine sembrano quasi voler dire: son cose che
capitano agli altri, non a noi.
94
Capitolo II
Eroda e i Mimiambi
II.1 Biografia
La biografia di un autore antico non è sempre facile a ricostruirsi; nel
caso di Eroda i problemi nascono già a partire dalla corretta grafia del nome. Il
primo passo verso una ricostruzione biografica e artistica dell’autore si fece
molto tardi, alla fine del 1800. Nel 1889, infatti, il British Museum acquistò un
papiro proveniente dall’Egitto. Il testo del papiro fu decifrato dal filologo
inglese Frederic George Kenyon, che lo pubblicò nel 1891. Nel 1892 altri
frammenti si aggiunsero, fornendo questa volta il titolo dell’opera ritrovata,
ma non il nome dell’autore dei versi. Il papiro era stato ritrovato, pare, in una
tomba datata al quattordicesimo anno del regno di Augusto; altre fonti lo
datano più genericamente al I secolo d.C. Il papiro letterario conteneva una
serie di componimenti in versi, in coliambi, definibili mimi. Il primo
ritrovamento dette luogo alla pubblicazione di sette mimi interi e frammenti di
un ottavo; la seconda pubblicazione integrò le lacune e fornì l’inizio di un
nono. Il papiro, però, anche nelle integrazioni pubblicate nel 1892 e 1900, non
riuscì a colmare alcune lacune: la questione del nome, ad esempio, che non
veniva dato. Seppur non indicata, l’identità dell’autore di quei versi è, però,
oggi, indubitabile. Sei dei circa dieci passi citati da eruditi e scoliasti d’epoca
95
romana sotto il nome del poeta Eroda o Eronda si trovano, infatti, nel papiro.
Le incertezze di cui si fasciava la figura di questo poeta antico, in realtà, non
furono del tutto risolte. Si dibatté a lungo se il vero nome fosse Eronda (così
come riportato da Ateneo, II-III sec. d.C.) o non piuttosto e più comunemente
Eroda, o più raramente Erode82. La questione riguarda, naturalmente, l’origine
dell’autore, che potrebbe essere o meno dorico, e, in questo senso, appartenere
all’area geografica e sociale in cui, per tradizione, si colloca l’origine e il
primo sviluppo del mimo. La forma oggi più accreditata sembra essere Eroda,
ed è con tale grafia che l’autore sarà citato in questo lavoro.
Le incertezze sulla collocazione cronologica del poeta furono, invece,
eliminate gradualmente, pur non fornendo una determinazione precisa della
sua età. Ad una datazione sicura nella prima metà del III secolo a.C., con la
conoscenza dell’ambiente alessandrino dei primi Tolemei, dimostrabile
attraverso la lettura dei suoi mimi, fecero seguito le discussioni vertenti sulle
allusioni cronologiche contenute negli stessi mimi. Nel I mimo, verso 3083,
sono ricordate le meraviglie che l’Egitto offre e tra queste “il tempio degli dèi
fratelli e il re buono”. L’attenzione di molti si è, quindi, soffermata sulla
coppia Tolomeo Filadelfo e Arsinoe, cui fu dedicato un tempio nel 271 o 270
a.C. Sulla figura del ‘re buono’, χρηστός in greco, si è discusso più a lungo.
82
Nairn, ad esempio, nell’edizione del 1904, adotta la forma Ἡρωίδας. È molto probabile
che da questa grafia originaria, la iota sia stata in seguito sottoscritta, lasciando spazio alla
forma Ἡρῴδας in dorico e Ἡρῴδης in ionico. La forma Ἡρωίδας, però, non scomparve del
tutto, portando in alcuni testi al fraintendimento della iota come di una N non completa, e da
qui la forma Ἡρώνδας.
83
Per tutte le citazioni si farà riferimento all’edizione di Q. Cataudella, I Mimiambi, Milano,
Istituto Editoriale Italiano, 1948
96
Ad alcuni è sembrato evidente trattarsi del Filadelfo, ma ad altri l’uso di
quell’attributo è sembrato un’allusione al soprannome del successore del
Filadelfo, ossia Tolomeo Evergete, il ‘benefattore’. In tal caso si dovrebbe
pensare al 247, anno in cui l’Evergete salì al trono, e non andare oltre il 245,
perché da quella data decadde l’uso della denominazione di ‘dèi fratelli’,
preferendovi quella di ‘dèi benefattori’. Nel II mimo, verso 16, è ricordata con
il nome di Ace, l’attuale città di S. Giovanni d’Acri. La denominazione ci
offrirebbe un indizio cronologico, perché sappiamo che nel 266 a.C. essa fu
chiamata Tolemaide, e che con tale nome la ricorda Callimaco. In questo caso,
però, l’indizio non è risolutivo; la scelta del nome potrebbe essere stata frutto
di esigenze puramente metriche e, in ogni caso, porre il mimo anteriormente al
266 non comporterebbe conseguenze di rilievo per la cronologia del poeta. Le
allusioni cronologiche del mimo IV, verso 23, 72 e sgg., sono tuttora molto
discusse. Vi si fa riferimento ai figli di Prassitele come viventi e ad Apelle
come morto. Dalle notizie in nostro possesso sappiamo che i primi due
dovevano essere morti intorno al 270 e Apelle intorno al 276, quindi il mimo
doveva essere stato composto dopo il 276 e prima del 270. Alcuni critici, però,
hanno voluto vedere nella prima allusione solo un anacronismo dai fini comici
e nella seconda una interpretazione errata dell’espressione greca usata da
Eroda, la quale indicherebbe un soggetto generico e astratto e non Apelle. Le
date entro cui comprendere la composizione dei mimi sarebbero, quindi, il
276/273 e il 245.
97
Alcuni accenni di autori antichi, come già accennato, ci riferiscono del
poeta Eroda, ricordandolo, come fa ad esempio Plinio il Giovane (I-II sec.
d.C.), accanto a Callimaco; altri lo facevano contemporaneo di Ipponatte,
appoggiandosi al richiamo interno dell’VIII mimo al poeta efesino. Oggi è
comunemente accettata la sua collocazione nella prima metà del III secolo
a.C., in piena età alessandrina, di cui rappresenta uno dei poeti più originali.
Un’altra questione, quella della sua patria di nascita o, comunque, della sua
vita e attività letteraria, ha impegnato per secoli gli stessi studiosi che già si
erano applicati alla stesura di una cronologia affidabile. I problemi nascevano
dal fatto che Eroda mostrava nelle sue pagine una conoscenza approfondita
dell’Egitto tolemaico, ma anche dell’isola di Cos, usata in più di un mimo
come sfondo scenografico dei suoi racconti. Il suo nome, poi, suggeriva
un’origine dorica, e il genere che egli rappresentò prese vita nella Sicilia
dorica: ciò lo fece per alcuni nativo di Siracusa, al pari di un Teocrito o del
lontano predecessore Sofrone. La lingua usata, però, come altri sottolinearono,
era lo ionico. Tutte queste notizie o, meglio, indizi, resero complicato e
confuso disegnare la sagoma dell’autore sul fondo di un ambiente piuttosto
che di un altro. Nessuno degli indizi risultò, poi, essere risolutivo. Non è del
tutto esatto, per esempio, definire la lingua come ionica pura; si tratta, in
realtà, di un impasto artificiale di ionico, dorico e attico, una lingua di ogni
luogo e di nessun luogo. Se ci si vuol fare un’idea della sua figura di uomo e
letterato si può leggere tra le righe (ma neanche tanto) dell’VIII mimo,
98
intitolato “Il sogno”. Qui, sotto la finzione letteraria del sogno, il poeta
esprime il suo programma artistico e ci introduce nella temperie culturale della
sua epoca, al centro delle polemiche o delle invidie letterarie che la sua arte
dovette scatenare. Dice Eroda a partire dal verso 65:
Quello che ho visto in sogno io lo giudico così. Il fatto
che io tiravo il bel capro fuori dal burrone significa che
avrò un dono dal bel Dioniso. Il fatto che i caprai lo
facevano a brani a forza nel celebrare i loro riti sacri, e
si dividevano le sue carni, vuol dire che moltissimi
critici letterari faranno strazio delle mie membra, cioè
delle mie fatiche [...] Il fatto di riportare, io solo, il
premio,[...]vuol dire che o le mie poesie mi chiameranno
[...]a grande gloria a causa dei giambi, o una seconda
istanza mi assegna il compito di cantare ai miei Xuthidi
in metro zoppicante dopo il vecchio Ipponatte.
Gli indizi che ci riportano alla piena età ellenistica sono: lo
stratagemma del sogno e le polemiche letterarie vive. Il riferimento agli
Xuthidi, ossia gli Ioni, ha, invece, fatto deviare molti dall’idea che Eroda fosse
d’origine dorica, sottolineando anche la piena padronanza della lingua usata. Il
reclamare per sé la gloria letteraria tra gli Xuthidi, secondo solo al grande
Ipponatte, non è, invece, un mero riferimento territoriale, ma deve leggersi,
piuttosto, come la piena coscienza umana e letteraria dell’autore di
rappresentare un ‘caso letterario’, quale era stato Ipponatte nel VI secolo. La
personalità di Eroda si potrà meglio comprendere se si guarda al periodo
99
storico e letterario in cui visse e alle novità che apportò al genere che
rappresenta.
II.2 Eroda, il mimo, l’ellenismo
Eroda, si è detto, visse e scrisse, con molta probabilità, nella prima metà
del III secolo a.C., in piena età ellenistica. L’ellenismo rappresentò un
momento di rottura rispetto alla civiltà classica. La scomparsa, tra il 323 e 322
di grandi figure di riferimento come Alessandro Magno, Aristotele,
Demostene, contribuì a suscitare l’idea della fine di un’epoca. Si assistette alla
frantumazione del grande impero sovranazionale di Macedonia e alla
conseguente creazione, dopo molte lotte, di un sistema di monarchie regionali;
alla dilatazione della civiltà greca in un’area molto più vasta, con la
fondazione di importanti città, che sono anche centri culturali;
all’organizzazione attorno a grandi biblioteche di comunità di dotti,
strettamente legate al potere politico. Il repentino e traumatico mutare delle
strutture politiche e sociali si tradusse, al contrario, in un graduale trapasso in
ambito intellettuale e culturale: i generi letterari restarono più o meno invariati
formalmente, ma furono rinnovati all’interno. Venne meno il rapporto diretto
tra letterato e pubblico, poiché non c’era più la dimensione pubblica della
cultura. Al cittadino subentrò il suddito, non più chiamato a partecipare alla
vita pubblica di una città in tutti i suoi aspetti; il vecchio θεωρικόν, che
permetteva ai ceti meno abbienti di assistere agli spettacoli teatrali, era ormai
100
solo un ricordo; i cittadini, una volta committenti e destinatari principali delle
opere letterarie, erano ora divisi in potenziali fruitori (ceti più elevati) ed
effettivi esclusi (ceti popolari). La divaricazione fu accentuata dal fatto che la
fruizione di un’opera non era più rappresentata dall’aspetto visivo - auditivo
assicurato dal teatro o dalle pubbliche letture; il mezzo quasi esclusivo di
trasmissione diventò la scrittura e per un pubblico di soli lettori. L’autore,
così, non era più costretto a cercare la semplicità e l’incisività della parola che
restasse impressa al primo ascolto, ma poteva elaborare in modo più articolato
il suo testo, sicuro che il suo nuovo ‘pubblico’ avrebbe potuto apprezzare il
lavoro, grazie alla possibilità di tornare più volte sul testo per meglio
comprenderlo.
Le mutate condizioni politico-sociali favorirono, poi, un tipo di
letteratura non più legata ai grandi interrogativi, ai grandi eventi, ai grandi
personaggi. Si assistette al definitivo passaggio dal pubblico al privato.
Nacque il gusto per le piccole cose quotidiane, i luoghi e i mestieri nuovi. Si
abbandonò il monumentale della cultura e letteratura classica per lavorare su
superfici più ristrette. Secondo una definizione diffusa, con tale arte il
realismo si affacciò nella letteratura greca. In epoca classica, invece, ciò che lo
spettatore vedeva svolgersi sulla scena era attinto al mito, cioè faceva parte
della storia sacra della polis, elemento di un patrimonio culturale comune; egli
conosceva già lo svolgimento e gli esiti delle vicende narrate. L’effetto finale
era rassicurante, nessuna sorpresa, solo il piacere di assistere ad una
101
rappresentazione che, per qualche tempo, isolava lo spettatore dai problemi
reali del quotidiano, per proiettarlo in una dimensione fuori dal tempo e dallo
spazio. La stessa voglia di evasione e di rassicurazione persiste e forse
aumenta in epoca ellenistica. L’uomo non ha più sicuri punti di riferimento
sociale come la polis, ma può ricevere gli stessi benefici da un tipo di
letteratura che parla del suo mondo, di quello reale, in modo leggero e quindi
rassicurante.
Fin qui il mondo letterario ellenistico visto nel suo complesso; ma il
settore che a noi più interessa è quello della mimografia.
Una storia del mimo, come genere letterario, non è facile da tracciare.
Ettore Romagnoli84 dice che due correnti animano, parallele lungo il corso dei
secoli, la letteratura greca. Una, che definisce idealista, procede da Omero ed
Esiodo, fino ai lirici, alla tragedia e, in parte, alla commedia. L’altra, detta
‘mimica’, muove, invece, attraverso Archiloco, Senofane, Ipponatte, Sofrone,
in parte Teocrito, fino ad Eroda. Da evitare, continua Romagnoli, è la
semplicistica definizione di mimo come composizione che predilige episodi
brevi, seri o faceti, improvvisati, di contenuto spesso ardito; seguendo questa
linea, infatti, anche i rapsodi di Omero facevano mimi, quando fermandosi
nelle piazze o nelle corti, improvvisavano i loro racconti, in base alla quantità
e qualità del pubblico. Le loro composizioni erano sempre in esametri, ma
Romagnoli, e con lui buona parte della critica, pensa che in tempi già più
antichi, precedenti all’elaborazione dell’esametro, esistessero forme di mimo
84
E. Romagnoli, Eronda e mimici minori, Bologna, Zanichelli, 1938, p. IV
102
in ogni parte del mondo antico, legate all’attività di istrioni. Il percorso
descritto da Romagnoli riguarda, però, il cosiddetto mimo d’arte. Le forme del
mimo popolare, di solito scene brevi senza pretese artistiche, composte per il
solo divertimento, sono molteplici, tali da non poterne tracciare un quadro
sintetico. Romagnoli semplifica in mimi cantati o in poesia, mimi in prosa, e
misti, detti poi ipotesi mimiche. Di tutte queste composizioni si sa che
riscuotevano gran successo nel pubblico, oltre che per la bravura degli attori
mimici, probabilmente anche per la presenza in scena di donne, e forse anche
per la ‘deficienza’ artistica, che le rendeva fruibili ad un pubblico più ampio.
Furono proprio queste forme rozze a costituire la dispensa cui attinsero i
mimografi successivi per le loro opere letterarie. Il fatto che di queste forme
d’arte nulla, però, sia rimasto, neanche i nomi degli autori, testimonia che non
di opere letterarie si trattava.
Le prime espressioni autenticamente letterarie del mimo si hanno in
Sicilia, a Siracusa, per opera di Sofrone, nella seconda metà del V secolo a.C.
Notizie biografiche precise sul suo conto non si hanno; una notizia di Suida85
ce lo fa collocare tra Serse ed Euripide, ponendo, quindi, la sua nascita tra il
500 e il 495. Nessuno, però, ricorda Sofrone prima di Platone. Meglio ancora,
fu Diogene Laerzio, nel ricostruire le vite dei filosofi, a narrare un episodio
85
La "Suda" (o Suida) è un lessico enciclopedico, compilato intorno al 1000 sulla base di
fonti precedenti. Si era pensato che "suda" fosse il nome dell'autore, ma oggi si ritiene sia il
titolo dell'opera, nel significato di 'roccaforte' (del sapere). E' il più vasto lessico greco che ci
sia pervenuto, una enciclopedia generale articolata in circa 30 mila voci, ordinate
alfabeticamente, e attinenti a tutte le discipline: storia, letteratura, filosofia, scienze, ecc.
Fonte importantissima per la conoscenza dell'antica storia letteraria greca, conserva preziose
notizie su opere andate perdute o conservate parzialmente.
103
della biografia di Platone, secondo il quale il filosofo, di ritorno da uno dei
suoi viaggi in Sicilia, portò con sé i mimi di Sofrone, favorendone così la
circolazione in Grecia. Olivieri, nella sua raccolta di mimi siciliani, spiega così
l’interesse che quelle composizioni potevano suscitare nel grande filosofo:
“queste composizioni naturalistiche, imitazioni e riproduzioni più o meno
fedeli di fatti e caratteri umani [...] abbellite da un’arte semplice, ma viva e
spontanea, non potevano non allettare chi del vero, sia pure ideale, aveva fatto
apostolato della sua vita, oggetto continuo del suo pensiero.”86 Da sottolineare,
però, che furono solo Platone (in modo indiretto) e Aristotele, direttamente
nelle pagine della Poetica, gli unici a citare Sofrone, e ciò testimonia la
noncuranza di quasi tutti gli altri autori classici e la sensazione viva che egli
restasse quasi sconosciuto al mondo ellenico. In seguito, è vero, le sue opere
furono utilizzate dai grammatici alessandrini (Apollodoro di Atene, II a.C.,
allievo di Aristarco, ne curò una monografia in quattro volumi), ma solo come
fonte di proverbi e vocaboli desueti, per cui le molte citazioni non possono
aiutarci a ricostruire un profilo completo. Possono aiutare a chiarire il concetto
di µίµησις, posto alla base della poetica mimica, e l’arte stessa di Sofrone, le
parole di Aristotele, che, in un capitolo della sua Arte poetica, affronta la
questione dei mezzi con cui si fa arte, dopo aver chiarito che ogni attività
poetica è in realtà imitativa:
86
A. Olivieri, Frammenti della commedia greca e del mimo nella Sicilia e nella Magna
Grecia, Libreria scientifica, Napoli, 1947, p.61
104
Tutte compiono l’imitazione con ritmo e linguaggio e
musica, ma impiegano questi mezzi singolarmente
oppure congiuntamente. [...] L’epopea fa questo con le
semplici parole solamente, ossia i versi; e con i versi
produce imitazione, sia mescolandoli tra di loro, sia
usandone di un’unica specie, quella poesia che fino ad
ora non ha un suo vero nome. Così non avremmo
nemmeno un nome unico per designare i Mimi di
Sofrone e Senarco insieme ai Dialoghi socratici, anche
se queste opere mimetiche si volessero trasporre in versi
trimetri o elegiaci, o in un’altra qualunque di queste
specie di versi. [...] il nome di poeta spetta a chiunque
riesca a produrre la mimesi.87
Seguendo le indicazioni aristoteliche, sarà degno di essere chiamato
poeta, dunque, chi produca µίµησις βίου, cioè imitazione della natura, del
vero, e non più, semplicemente, chi scriva in versi. Ecco perché sia i Mimi di
Sofrone che i Dialoghi socratici possono essere definite opere poetiche, anche
se non scritte in versi. Aristotele ci fornisce, quindi, un’altra importante
notizia: Sofrone scriveva in prosa. Doveva essere, però, una prosa molto
particolare, vicina al verso, da cui prendeva il ritmo musicale, pur restando
libera nell’organizzazione delle varie parti, una prosa ritmica appunto. Proprio
gli accorgimenti finissimi e la disposizione delle parti del discorso tipiche
87
Traduzione dall’edizione a cura di C. Gallavotti, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori,
1974.
105
della prosa ritmica fanno sì che non si possa negare a questi mimi un’origine
e un’ispirazione letteraria.
Poco, però, ci resta della produzione letteraria sofroniana: 170
frammenti o poco più, di tradizione indiretta, e poche linee su un papiro del I
secolo a. C. Da questa pur esigua produzione riusciamo, però, a scorgere
alcune caratteristiche della sua arte. Sappiamo che divideva i suoi mimi in
maschili e femminili, e ci si è chiesti cosa questo potesse significare: mimi in
cui parlano esclusivamente uomini o donne, o, com’è più probabile, mimi
sugli uomini e le donne? Alcuni titoli possono gettare luce sugli argomenti
prediletti: “Le donne che scacceranno le dee”, “La suocera”, “Le spettatrici dei
giochi istmici”, “Il pescatore di tonni”, “Il pescatore ed il contadino”,
“Indaffarato con la sposa”, tutti temi e situazioni legati al quotidiano, ai
mestieri, ai luoghi comuni su donne e suocere, al cicaleccio futile. Un mimo,
in particolare ha attratto e attrae ancora l’attenzione di tanta critica, quello
intitolato “Le spettatrici dei giochi istmici”. L’argomento, due donne che si
preparano e si recano ad assistere ai giochi, commentando ogni particolare
della loro giornata e lamentandosi l’un con l’altra di mariti brontoloni e serve
fannullone, riscuoterà grande successo anche in seguito, andando a costituire
quasi una tappa obbligata per chi scrive di ‘scene dal vero’. Anche Teocrito ed
Eroda, come si vedrà, scrissero sull’argomento, e in questi casi, come in quello
del mimo sofroniano, non si è in grado di stabilire fino a che punto la fantasia
106
si mescoli con la realtà88. Realistico, senz’altro, è il dialetto usato da Sofrone
per far parlare le due donne, svolgendosi la scena a Corinto, ed essendo il
poeta siracusano: il dorico. Dialetto dorico, farcito, però, di termini della
lingua popolare siracusana e frasi fatte di proverbi ed espressioni a volte
scurrili, o giochi di parole. Il materiale è, tuttavia, insufficiente per definire la
cifra poetica di quest’autore, come ricorda anche Mastromarco89, per cui ci si
deve affidare ad un giro di opinioni più o meno documentate. Nairn e Laloy
esprimono, nell’introduzione alla loro edizione dei Mimiambi, la convinzione
che i mimi sofroniani fossero immagini della vita ordinaria senza alcuna
azione drammatica, specificando, però: “C’est que nous sommes malgré nous
dupes d’un préjugé, suggéré par le usage de notre littérature, qui lie à l’idée
d’imitation celle d’observation directe. Mais le mot chez les Grecs ne
désignait[...]qu’un procédé d’exposition qui fait parler les personnages, sans
parties narratives[...]”90.
Forse Sofrone aveva dato forma letteraria ad un tipo di teatro
tradizionale siciliano, basato su semplici canovacci, cercando il successo che
avevano avuto le commedie, o meglio i drammi, che aveva proposto il
conterraneo Epicarmo (autore, peraltro, del dramma Θεαροί, che tante affinità
tematiche aveva con il mimo precedentemente citato). Sebbene la tematica
88
Ha lasciato perplessa parte della critica il fatto che due donne sposate potessero allora
recarsi ai giochi, essendo loro vietato, per cui si è usato l’argomento per dimostrare che di
opera di fantasia doveva trattarsi e non realistica. La difficoltà si risolve sia ammettendo che
si possa trattare di una licenza poetica dell’autore, sia pensando che di lì a poco le cose
sarebbero cambiate e che, quindi, l’episodio narrato potrebbe essere uno dei prodromi del
cambiamento.
89
G. Mastromarco, “Il mimo greco letterario”, Dioniso, 61, 1991, p. 169
90
J.-A. Nairn e L. Laloy, Mimes. Hérondas, Paris, Les belles lettres, 1991, p.15-16
107
spesso umile portasse a vedere l’opera sofroniana come popolare, dal punto di
vista dell’ispirazione essa è, però, come si è detto, senz’altro letteraria. Sulla
loro rappresentazione in scena non si è sicuri, anche se fonti antiche parlano di
messe in scena a cura di uno o più attori.
Anche il figlio di Sofrone, Senarco, fu autore di mimi. Per lui possiamo
tentare una collocazione nel IV secolo a.C., nel periodo della guerra tra
Siracusa e Reggio, grazie ad una notizia che lo faceva autore di un mimo sugli
abitanti di Reggio, presi in giro per la vigliaccheria, commissionato dal tiranno
Dioniso I, e per colpa del quale entrò in urto con la città calabrese. Il tema del
dileggio a sfondo campanilistico si incontrerà altrove e più avanti. Nessun
frammento di Senarco, però, ci è conservato, rendendo ancora più difficile il
compito di ricostruire una storia del genere. Di sicuro, però, dopo Sofrone e
Senarco la storia del mimo si arrestò, per riprendere solo in età ellenistica.
Per poter godere della lettura di mimi bisogna arrivare al III secolo a.C.
È, infatti, in quest’epoca che troviamo gli unici esempi conservati per intero di
mimi letterari. Sono i cosiddetti ‘mimi urbani’ di Teocrito. Teocrito (Siracusa,
310/300-260 circa) era considerato già nell’antichità come l’iniziatore della
poesia bucolica, di quella poesia, cioè, che vede protagonisti i pastori, i
contadini, e la loro vita nei campi, immersi nella natura. Nell’opera teocritea,
però, c’è spazio per una notevole sperimentazione formale della materia. Nel
corpus degli Idilli91 ci sono, infatti, poemetti mitologici, pastorali, lirici e
91
Furono i grammatici alessandrini a chiamare quei versi “idilli”, da ειδύλλια cioè piccole
tavole, parola con un’accezione piuttosto generica.
108
anche componimenti che per il loro contenuto possono essere definiti mimi: il
II, il XIV e il XV. Nairn e Laloy, in realtà, attribuiscono il nome di mimo a
circa la metà della raccolta teocritea, intendendo con questo termine
qualunque componimento in cui la parola viene data direttamente a uno o più
personaggi. Si prenderanno qui in considerazione solo i tre mimi prima citati.
Il primo dei tre mimi è l’ “Incantatrice” e ha una forma monologica.
Protagonista è una giovane donna, Simeta, che, per ricondurre a sé Delfi, il
giovane atleta che l’ha sedotta e abbandonata, fa ricorso alle pratiche magiche.
Tra una fase e l’altra del rito, Simeta rievoca le ‘tappe’ della sua passione per
Delfi; la rabbia la fa deviare per un attimo dai suoi propositi benevoli,
portandola a pensare di usare la magia per dare la morte al suo amante, ma
subito torna in sé, quasi rassegnata a sopportare la passione. Teocrito, in
questo mimo, dava rilievo alla familiarità della gente comune con le pratiche
magiche. Nel brulichio delle grandi metropoli ellenistiche, i ceti popolari,
abbandonati a se stessi, erano esposti all’influenza di sub-culture, pericolosi
mix di religione popolare, superstizione e ribalderia (come le definisce L.
Canfora92). Teocrito non esprime giudizi morali, ma espone in modo lirico e
letterario le condizioni di vita degli ‘esclusi’, di tutti coloro che non facevano
parte del circuito economico e culturale delle grandi città ellenistiche.
Il secondo mimo, l’ “Amore di Cinisca”, è il più vicino alla commedia.
Questa volta a essere sedotto, tradito e abbandonato è un uomo, Eschine, il
quale si sfoga con l’amico per il tradimento di Cinisca. Il protagonista, forse in
92
L. Canfora, Storia della letteratura greca, Roma - Bari, Laterza, 1986, p. 490
109
quanto uomo, non ricorrerà certo alle pratiche magiche per recuperare l’amore.
La gelosia lo corrode troppo profondamente, preferisce arruolarsi, pur di
allontanarsi da Cinisca; la guerra è il rimedio all’onore ferito.
Nel terzo mimo, “Le Siracusane”, la struttura è più complessa; c’è più
ritmo, ironia e fantasia. È un mimo basato sullo sguardo e sulla chiacchiera,
sull’osservazione e il commento, sulle voci e sullo spettacolo. Le due
protagoniste, donne d’origine siceliota, si incontrano per recarsi in visita al
palazzo del re ad Alessandria e commentano ogni cosa e personaggio sul loro
cammino. Gorgò e Prassinoe, le due ‘comari’, danno vita a tutti i cliché,
letterari e non, del genere: sparlano dei rispettivi mariti, si fanno i complimenti
per gli abiti, maltrattano le serve (sempre pigre, indolenti e un po’ sciocche). A
questi motivi si unisce lo stupore per le bellezze e ricchezze che osservano e
per la bravura dell’artista che intona un canto per Adone. Fanno a gara per
esprimere tutta la loro ammirazione, in quel gergo dialettale che procura loro
la presa in giro da parte dei ‘veri’ cittadini.
In Teocrito non si può parlare, nonostante certe tematiche o la
descrittività di certe scene, di realismo in senso stretto. È, piuttosto, come la
definisce Del Corno93, un’arte della realtà, con esiti che sono un compromesso
tra la concretezza della parola e la forza fantastica del pensiero. Nei casi citati
era caratteristica la struttura dialogata, la quotidianità delle situazioni o dei
sentimenti narrati, l’estrazione sociale dei protagonisti. Non si può parlare di
diretta ispirazione letteraria da Sofrone, perché questi mimi erano destinati
93
D. Del Corno, Letteratura greca, Milano, Principato, 1988, p. 423
110
quasi sicuramente alla lettura, alla circolazione libraria, o, con minore
probabilità, alla recitazione a cura di un solo attore mimico. Erano, poi,
componimenti in versi, in esametri, ossia il metro tradizionalmente più vicino
agli idilli veri e propri piuttosto che a composizioni di contenuto giambico, e
l’ambientazione era urbana e non rurale. Si aggiunga a ciò l’opinione di
Bernini94, il quale nega qualsiasi parentela tra i due, giudicando Teocrito il
meno adatto a riprendere e rinvigorire un genere realistico come il mimo
dorico, per il troppo lirismo dei suoi versi.
Alla prima metà del III secolo a.C. appartiene, infine, il rappresentante
forse più emblematico del genere, Eroda, con i suoi Mimiambi. Eroda, al
contrario di Teocrito, si richiama più esplicitamente alla tradizione mimica e
giambica, sia per la tematica che per la scelta metrica. Il titolo dato alla
raccolta di mimi segna già la differenza programmatica: i suoi sono mimi in
giambi. In realtà i suoi versi sono indicati con questa denominazione in fonti
relativamente recenti (la più antica è Terenziano Mauro, scrittore e
grammatico del II-III d.C.), proprio per indicare l’assoluta novità della sua
poesia: l’uso sistematico di una forma metrica determinata. I suoi
predecessori, come si è visto, preferivano adoperare la prosa, vari metri
combinati o membri ritmici liberamente disposti. Eroda sceglie, invece, il
coliambo, un metro che per il suo andamento disarmonico si rivela il più
adatto a dare un’impressione di realismo ai dialoghi tra popolani. La materia
94
F. Bernini, “Studi sul mimo”, Annali della Regia Scuola Normale Superiore di Pisa,
XXVII, Nistri, Pisa, 1915, p.15
111
dei mimi, però, non deve trarre ancora una volta in inganno; gli ambienti delle
periferie delle grandi città ellenistiche, i piccoli commercianti, le serve, le
comari in visita al tempio, prostitute e lenoni sono i protagonisti di un’opera
che è tutt’altro che rozza o popolare. L’associazione, che spesso viene fatta,
tra Eroda e Ipponatte, il giambografo del VI secolo a.C., può servire anche a
chiarire quanto di letterario e raffinato ci sia nella poesia erodiana. Secondo
molti critici, e a leggere il finale dell’VIII mimo, Eroda sente di essere il
continuatore del giambografo Ipponatte. In Ipponatte egli, in effetti, poteva
trovare quegli elementi che sarebbero stati fondamentali per la stesura dei suoi
versi: la descrizione verista della vita quotidiana, senza idealizzazioni di sorta,
ma anzi sul solco della discontinuità rispetto alla letteratura precedente; una
lingua infarcita di espressioni popolaresche, proverbi, espressioni scurrili,
nomi parlanti; richiami alla tradizione comica e quel metro dal ritmo così
inusuale che lo rendeva particolarmente adatto ad un tipo di letteratura del
quotidiano. Il richiamo ideale a Ipponatte non dovrebbe sorprendere più di
tanto, in un periodo che vide il ritorno o recupero del poeta efesino da parte di
molti letterati dell’epoca (si vedano i Giambi di Callimaco). Il nesso Eroda-
Ipponatte è, però, forse solo meccanico. Ipponatte, infatti, deviava spesso
verso il grottesco, il deformante, mentre Eroda manca di cattiveria, descrive i
suoi protagonisti, anche i più beceri, con occhio benevolo, ne dà una
valutazione quasi affettuosa. Quel che li accomuna, semmai, è il contrasto tra
la loro figura di letterati raffinatissimi, che adoperano vocaboli inusuali ed
112
eleganti, e la dichiarazione d’intenti che sembrerebbe trasparire dalle loro
opere. Ipponatte si definiva il poeta dei bassifondi, per il suo gusto di
trascrivere episodi e personaggi di bassa lega, come Eroda fa parlare lenoni e
vecchie ruffiane, ma quei personaggi parlano una lingua che non è la loro,
raffinata, di lontane reminiscenze omeriche, addirittura, nel caso di Ipponatte,
attenta e regolata. Solo chi possedeva una cultura superiore (e, quindi,
apparteneva ad un ceto sociale elevato) poteva permettersi quel linguaggio, e
Ipponatte ed Eroda erano due coltissimi letterati. Il nesso con Ipponatte è
sembrato più solido a Mastromarco, il quale cita Enzo Degani e i suoi “Studi
su Ipponatte”, per argomentare meglio la convergenza letteraria tra i due. La
poetica ipponattea, verista e nutrita di elementi popolari, era “rispondente in
pieno alle istanze del poeta di mimi che intendeva conferire ai suoi sorvegliati
componimenti la spontanea immediatezza della vita reale”95. Di altro parere
Nicola Terzaghi, per il quale “Ipponatte è [...] un lirico: egli esprime ciò che
sente e ciò che pensa, quasi a sfogar l’amarezza dell’anima sua. Eroda, invece,
vuol richiamare l’attenzione di un più largo pubblico su ciò che descrive, e che
obiettivamente descrive drammatizzando, dando alle sue fantasie l’aspetto di
un’azione.”96
La parentela con Sofrone è stata vissuta, invece, con più naturalezza
dalla critica. Bernini vi vede in comune la “descrizione [...] obiettiva,
95
G. Mastromarco, op.cit., p.173 (citando E. Degani, Studi su Ipponatte, Bari, Adriatica,
1984, p. 53)
96
N. Terzaghi, Prefazione, in Eroda. I Mimiambi, Torino, Paravia, 1925, p. 9
113
naturalistica [...] lirica e commossa, dell’ambiente e dei caratteri”97,
ammettendo come unica differenza la mancanza in Sofrone del licenzioso e
scurrile che spesso si trova, a suo parere, in Eroda. La definizione dei mimi
come scene dal vero o quadretto di genere poco si adatta, secondo Cataudella,
alla produzione complessiva di Eroda, che, tuttavia può in alcuni casi
avvicinarsi ai mimi sofroniani. Il IV mimo, ad esempio, descrivendo la visita
di due donne al tempio di Asclepio, con le tante opere d’arte da ammirare,
riporta alla memoria Le spettatrici ai giochi istmici di Sofrone. Eroda, però, si
allontanò, poi, da questo tipo di mimo, “attuando una forma artistica nuova”
che gli “consentì [...] di dar vita non freddamente generica ai personaggi, e di
trarne effetti d’arte varissimi da più profonde esplorazioni d’anima e da
intraviste possibilità di sviluppi drammatici”98. Cataudella cita i mimi I e V,
che, dice, a prescindere dalla forma, che può anche essere monologica, sono
dei “piccoli drammi in iscorcio, l’azione rappresentata in essi ha un principio e
una fine, una preparazione e una soluzione”99. La questione della recitabilità
dei mimi, non solo erodiani, sarà, però, affrontata più avanti.
Se bisogna scegliere tra Ipponatte e Sofrone, quale ideale progenitore
dei mimi di Eroda, allora sarà più facile trovare una consonanza con il
secondo. I versi di Ipponatte sono pieni di rabbia personale, aggressività,
effetti comici e satirici ricercati, mentre nei versi di Sofrone e di Eroda
“nessun elemento propriamente comico o satirico o parodico è possibile
97
F. Bernini, op. cit., p. 15
98
Q. Cataudella, op. cit., p. IX
99
Q. Cataudella, ibidem
114
cogliere [...] e dove esso c’è, o sembra esserci, non è, probabilmente
intenzionale.”100
La questione della presunta o effettiva parentela artistica di Eroda e
Teocrito investe anche la cronologia relativa alla loro attività; ci si è chiesti,
infatti, chi sia il predecessore dell’altro. Un passo dell’VIII mimo erodiano ha
portato a giudicarli contemporanei; in questo mimo, infatti, sono dei pastori a
sfidare il poeta nel suo sogno, e si è pensato che potessero rappresentare la
poetica teocritea e, di conseguenza, la rivalità tra i due, possibile solo se
contemporanei. L’appartenenza allo stesso ambiente culturale è innegabile, ma
l’opera di Teocrito mostra una varietà che non appartiene alla poesia erodiana.
I pastori non sono, certo, tra i protagonisti prescelti da Eroda per i suoi
dialoghi, ma non è solo questa la differenza tra i due. Si guardi, ad esempio,
alla scelta del metro. Teocrito non abbandona l’esametro dattilico,
d’ascendenza epica, neanche per i cosiddetti mimi urbani e resta fedele, lui
siracusano, allo ionico omerico infarcito di termini dorici; Eroda si proclama
continuatore di Ipponatte, ma non si definisce giambografo, scegliendo il
coliambo e una lingua del tutto artificiale per i suoi protagonisti. Chi vuole
istituire un confronto esente, in teoria, da rischi pensa al mimo XV di Teocrito,
“Le siracusane” e al IV di Eroda “Le donne al tempio di Asclepio”.
L’argomento, in effetti, ha dei tratti comuni in entrambi: due donne che si
recano ad assistere ad una festa o ad una funzione religiosa, le chiacchiere
futili tra le due, le lamentele sulle serve, sui mariti, la natura, presto svelata, di
100
Q. Cataudella, op. cit., p. X
115
popolane, l’ammirazione per le meraviglie viste o udite. Le scene simili o le
espressioni parallele rappresentano, però, dei riscontri che la natura del
soggetto rende inevitabili. Argomento simile avevano anche il già citato mimo
sofroniano delle spettatrici ai giochi istmici, e, volendo guardare più indietro,
anche i Θεαροί di Epicarmo: questo, però, non li rende dipendenti l’uno
dall’altro o contemporanei. La trattazione, peraltro, è diversa nei due poeti
ellenistici: Teocrito fa scorrere la scena senza soluzione di continuità davanti
agli occhi del lettore, non risparmiandosi in particolari, Eroda, invece, divide il
racconto in più scene; scopo evidente del mimo teocriteo non sembra essere la
descrizione dei costumi, come in Eroda, ma la glorificazione di Tolomeo (in
questo senso la storia potrebbe essere un mero presupposto per il canto
finale101). Nairn e Laloy li dicono entrambi poeti della realtà, ma con
sfumature diverse: “Théocrite est un réaliste qui se sauve de la banalité par le
lyrisme. Hérondas trouve dans certains aspects de la nature humaine, pris sur
le vif et degagés du fatras quotidien, les motifs à surprise de sa fantasie
véridique: c’est, comme nous dirions aujourd’hui, un humoriste.”102
È da attribuire, tra gli altri, a Mastromarco, invece, il merito di aver
individuato e sottolineato il “solido filo rosso”103 che lega il mimo letterario e
la commedia. Il critico cita, in particolare, la scelta di alcuni personaggi
comune ai mimi e alla commedia: la mezzana, il lenone, ma anche le
101
Questa è l’opinione di A. Melero, “Consideraciones entorno a los mimiambos de
Herodas”, Cuaderno de filologia clásica, VII, 1974, p.
102
Nairn-Laloy, op.cit., p.30
103
G. Mastromarco, op. cit., p.173
116
confidenze intime delle due protagoniste del mimo VI che trovano riscontro
nel prologo della Lisistrata aristofanea104. Non sembra dubitabile che Eroda
conoscesse la commedia attica, e, anzi, sapeva di certo utilizzarla in suo
favore. A ben guardare, secondo il parere di Melero (che riporta un’opinione
di Smotrytsch), sembrano più i caratteri in comune con la commedia rispetto
alla tradizione giambica: “aunque la dependencia formal y linguística de
Herodas respecto a Hiponacte...es innegable, hay en él un nuevo espíritu que
le aproxima más a la Comedia que a los autores de yambos. El echo de que
Herodas exponga no sólo los rasgos negativos de sus personajes, sino también
los positivos.”105 Bruna Veneroni106 coglie, in particolare, alcuni temi della
commedia che trovano riscontro nei mimi e che, anche se non fondamentali
nell’economia dell’opera, aiutano a studiare la psicologia dei personaggi. Si
riferisce, ad esempio, al tema dell’evasione, ossia a quel particolare stato
d’animo che coglie il personaggio posto di fronte ad una difficoltà, che
sceglie, per necessità sentita, di fuggire invece che affrontare il problema.
Questo tema troverebbe riscontro negli Uccelli di Aristofane, nella scelta
dell’Eschine teocriteo di arruolarsi e, nel V mimo erodiano, nella figura di
Bitinna, che vuol sfuggire ad una decisione che è inevitabile. C’è poi il motivo
dell’auto-accusa, ossia un atteggiamento passivo che scaturisce dalla
consapevolezza della propria colpa e che ritroveremmo nella figura dello
104
Si riferisce in nota ai versi 107-110 e 157-159.
105
A. Melero, op. cit., p. 312-313
106
B. Veneroni, “Allacciamenti tematici tra la commedia greco-latina e il mimo di Eroda”,
Rendiconti dell’Istituto Lombardo, CVII, 1973,
117
schiavo Gastrone nel V mimo. L’individuazione di precisi episodi ed
espressioni, però, potrebbe procedere all’infinito per ogni parentela letteraria
ipotizzata; quel che importa è che resti la certezza che Eroda, in quanto poeta
dotto, conoscesse ed usasse a suo gusto l’enorme patrimonio culturale che il
mondo greco aveva già accumulato.
Degli altri autori di mimi dell’epoca (Cercida, Fenice, Macone, Sotade)
poco si conosce, e, in ogni caso, i risultati raggiunti dalla loro arte troppo
distanti sono, per qualità, da quelli coevi di Teocrito ed Eroda, deviando essi
verso propositi moraleggianti o degenerando le loro opere in mere raccolte di
insulti contro il potente di turno.
Con Eroda si chiude, quindi, la storia del mimo greco. Un’ultima eco la
troviamo dove meno ci si aspetta, nel II secolo d.C., in Luciano di Samosata. I
suoi Dialoghi delle puttane, però, sono in prosa, ma comunque vicini, per il
mondo che rappresentano, al mimo erodiano; segno che certi temi, come
lussuria, amore, gelosia o avidità, sono senza tempo.
II.3 I Mimiambi: teatro o letteratura?
Resta aperta ancora oggi la questione sulla destinazione dei Mimiambi.
Le diverse opinioni in merito sono strettamente collegate all’individuazione
del precedente letterario più immediato che ciascun critico individua. Chi ha
visto nei mimi erodiani i successori di quelli sofroniani, ammette una loro
possibile messa in scena, o, meglio, la possibilità che essi fossero stati scritti
118
per essere rappresentati; chi, invece, li pone più vicini a Teocrito ne fa un
ulteriore esempio di Buchpoësie, quindi composizioni destinate
esclusivamente alla lettura. Mastromarco, nel suo lavoro “Il pubblico di
Eronda”107, rivede le posizioni di molti critici sull’argomento. Parte
dall’ipotesi di Legrand108, il quale sosteneva che i mimiambi potessero essere
suscettibili solo di una recitazione monologica, ossia a cura di un solo attore
che legge il testo al pubblico; il mezzo di trasmissione prescelto da Eroda,
quindi, non sarebbe stato il visivo – auditivo proposto dal teatro, ma solo
l’auditivo e il pubblico si sarebbe accontentato di essere semplice ascoltatore.
Sulla scorta di Legrand anche Giorgio Pasquali109 nega la recitabilità dei mimi,
proponendone una lettura come Buchpoësie. Chi si oppone all’ipotesi della
messa in scena, di solito usa come argomentazioni a favore: l’assenza di
azione scenica (più marcata in alcuni mimi), l’eccessiva frammentarietà, la
presenza di troppi attori sulla scena (non giustificata dalla brevità del
componimento), i cambiamenti di scena in alcuni mimi. Pasquali, inoltre, si
sofferma sulla difficoltà di distinguere la distribuzione delle battute in alcuni
mimi, fatto che renderebbe impossibile la reale messa in scena. Legrand reputa
che non sia credibile che Eroda “on ait pris la peine d’aménager un cadre pour
y jouer des pièces d’une centaine de vers”110; si riferisce, in particolare, al
107
G. Mastromarco, Il pubblico di Eronda, Padova, Antenore, 1979,
108
Ph. - E. Legrand, “A quelle espèce de publicité Hérondas destinait-il ses mimes”, Revue
des etudes anciennes, IV, 1902, pp. 5-35
109
G. Pasquali, “Se i mimiambi di Eronda fossero destinati alla recitazione”, Xenia Romana,
Roma-Milano, 1907, pp. 15-21
110
Ph. – E. Legrand, op. cit., p. 9
119
mimo IV, il quale per soli 95 versi comporterebbe una messa in scena davvero
impegnativa, con la presenza di statue, decori, quadri e tutte le opere d’arte
presenti nell’Asclepeion. Per motivi simili non è plausibile la presenza in
scena di ben sette attori (di cui solo quattro parlanti) nel mimo VII, per 129
versi. In altri mimi, poi, l’azione risulterebbe frammentaria o incongruente,
come dimostrerebbe la scena ai versi 81-82 del I mimiambo in cui, mentre
Tracia esegue l’ordine di portare un bicchiere di vino, le due protagoniste
restano in silenzio (cosa impensabile per Gillide che non spreca certo il suo
tempo). Queste argomentazioni, così dettagliate, non sono sembrate, tuttavia,
totalmente convincenti a Mastromarco e neanche agli stessi sostenitori della
tesi monologica, che, pur ammettendola come più probabile, non prendono
posizioni nette111. Lo stesso Pasquali osserva, ad esempio, sulla
frammentarietà che “in una composizione così ristretta l’azione non può
svolgersi per intero, ma i capi del filo devono necessariamente pendere da una
parte e dall’altra. Ogni mimo è per sua natura una scenetta, cioè un
frammento.”112 La brevità, quindi, di per sé, non poteva costituire un
impedimento alla rappresentazione, perché i singoli componimenti potevano
essere portati sulla scena uno dopo l’altro nella stessa occasione, in una sorta
di moderno varietà. Mastromarco, a questo punto, procede all’analisi del testo
per cercare una soluzione. In un testo pensato per la sola lettura da parte di un
attore dovrebbe esserci un sistema di avvertimento dedicato ai destinatari, in
111
Tra i sostenitori della tesi monologica ricordiamo anche Vogliano e Melero.
112
G. Pasquali, op. cit., p. 16
120
Eroda, però, un elemento caratteristico è “l’assenza ovvero la sporadica,
casuale presenza di riferimenti espliciti all’ambiente scenico in cui si svolge
l’azione”113. Ciò sorprenderebbe solo se si trattasse di testi da leggere ad un
pubblico di soli uditori, non se si pensa ad una loro destinazione teatrale. A
ben guardare, poi, certe scene risulterebbero vuote e senza attrattiva se non
portate sulla scena, come ad esempio la scena delle frustate al discolo del III
mimo o la presenza della prostituta, indicata da Battaro nella foga del suo
discorso, che doveva costituire un ‘coup de théâtre’. D’altra parte scene come
quelle del IV mimo, con le molte opere d’arte viste e commentate dalle due
protagoniste sarebbero risultate complicate su un palcoscenico. Terzaghi è fra
quelli che vedono, invece, in questo mimo la prova che i mimiambi furono
scritti per essere rappresentati; la descrizione del tempio e dei gruppi statuari
non corrisponde, dice il critico, alla realtà archeologica dell’Asclepeion, che
Eroda doveva ben conoscere, e, infatti, ai due edifici della realtà si sostituisce
l’unico edificio, scelta dettata evidentemente da necessità sceniche114. Anche
la tesi della rappresentazione teatrale non ha riscosso, però, un successo
sicuro. Nairn e Laloy negavano tale possibilità a tutti i mimi, da quelli di
Sofrone a Teocrito ad Eroda, adducendo come argomentazioni i cambiamenti
di luogo frequenti in alcuni mimi, la presenza di personaggi muti, ma,
soprattutto, la rapidità del dialogo che non avrebbe dato il tempo al pubblico di
riconoscersi. Melero aggiunge che, a suo parere, tutti i dettagli sulla scena e
113
G. Mastromarco, op. cit., 1979, p. 100
114
N. Terzaghi, “La recitabilità dei Mimiambi di Eroda”, Aegyptus, 6, 1925, p. 114-116
121
nel corso dell’azione sono continuamente introdotti nel testo; e, inoltre, “la
división dialógica del contenido en más de un personaje es pura aparencia, ya
que no lo divide realmente en discurso – réplica[...] En estas condiciones, la
representación escénica se hace superflua, ya que no puede añadir nada que no
esté en el texto.”115 Non bisogna certo cadere negli eccessi di Terzaghi116 che,
nella prefazione alla sua edizione dei Mimiambi, porta come prova l’effettiva
messa in scena di alcuni mimi anche da parte di studenti napoletani nel 1921.
Più moderato Cataudella che, ricordando la messa in scena di alcuni mimi,
chiarisce che non tutti sono effettivamente passibili di realizzazione scenica e
che il carattere teatrale, riscontrabile in alcuni mimi, non pertiene alla
destinazione originale dell’opera ma solo ad una “felice attitudine”117 del
poeta. Per concludere, è ammissibile che i Mimiambi fossero destinati alla
rappresentazioni nelle corti o nelle case delle famiglie più ricche e colte della
società ellenistica, come suggerisce Mastromarco, ma è anche possibile una
loro contemporanea o alternativa circolazione libraria. Per dirla con
Romagnoli: “ogni opera d’arte d’indole drammatica o narrativa nasce [...]
essenzialmente per la recitazione. [...] Che poi questa realizzazione scenica
avvenga o non avvenga è questione esterna e di minima importanza”118.
115
A. Melero, op. cit., p. 308
116
N. Terzaghi, op. cit., 1925, p. 12
117
Q. Cataudella, op. cit., p. XII
118
E. Romagnoli, op. cit., p. XIII
122
II.4 I Mimiambi
Il termine mimiambi fece la sua comparsa solo tardi, in Terenziano
Mauro, verso la fine del III secolo d.C., e nel Florilegio di Stobeo nel V secolo
d.C. Il termine fu adottato per necessità pratiche dai grammatici dell’epoca,
interessati a distinguere i giambi dei mimi da quelli usati da Babrio per le sue
favole. È probabile che da questa scelta di ordine tecnico si sia creato il caso
‘Eroda’: è un poeta di giambi, intesi non come semplice forma metrica, ma
come genere caratterizzato da attacchi personali e aggressività verbale, o un
poeta che sceglie i coliambi con l’unico scopo di rendere più vivace e credibile
il dialogo tra i suoi personaggi, mescolando ironia e fantasia e tenendosi alla
larga da ogni tentativo di ‘personalizzare’ il testo? La maggior parte della
critica è concorde nel negare al testo erodiano il valore di testimonianza dei
costumi correnti, con propositi moraleggianti più o meno evidenti. Le storie
scelte dal poeta sono certo particolari, ma perché rappresentative non di una
società intera allo sbando, quanto piuttosto di casi eccezionali e, perciò, tanto
più stimolanti per un letterato.
La prima edizione dei Mimiambi risale al 1891, poco dopo la scoperta e
acquisizione del papiro da parte del British Museum, con la cura di F.G.
Kenyon. La prima traduzione italiana si ebbe pochi anni dopo, nel 1893, a cura
di Giovanni Setti119. Quasi tutti gli autori delle varie edizioni concordano sulla
statura poetica di Eroda, descritto come poeta ellenistico colto e originale, che
ha ridato vitalità ad un genere ormai abbandonato da decenni; si registra,
119
Per una selezione delle edizioni dei Mimiambi si rimanda alla bibliografia finale.
123
tuttavia, qualche voce fuori dal coro, ad esempio quella di G. Puccioni che, nel
1950, pubblicò una nuova edizione con lo scopo dichiarato di eliminare tutte
le congetture sul conto dei Mimiambi e del loro autore che, a suo parere, non
poteva essere considerato ‘poeta’, ma “soltanto un letterato, qualche rara volta
abile, ma per lo più mediocre e piatto.”120
Il valore accordato ai versi di Eroda è stato in tutti questi anni
strettamente legato alla loro interpretazione come testo letterario o testo
teatrale. La questione, come si è detto nel paragrafo precedente, non è facile a
risolversi, e anche un esame approfondito del testo poco aggiungerebbe a
quello che già si è detto. Le lezioni del papiro, la distribuzione delle battute e
una serie di altri elementi per così dire tecnici sono, infatti, tuttora discussi.
Quel che è certo, e che aiuta in modo notevole l’interpretazione dei mimi, è
l’appartenenza di Eroda e dei suoi versi al pieno ellenismo. I Mimiambi
appaiono un prodotto tipico della poesia ellenistica del III secolo a.C. : lo
confermano i caratteri presi da sfondi socialmente umili; il rimaneggiamento
letterario di generi sub-letterari; il revival di un metro arcaico; la ricostruzione
libera di un dialetto letterario artificiale; il richiamarsi all’autorità di un grande
del passato quasi per legittimare la propria opera. Qualcosa in più però va
detta sulla preferenza accordata, ad esempio, al mondo cosiddetto degli umili.
Il poeta ellenistico, e così anche Eroda, non guarda a quel mondo con
“istintiva solidarietà di classe e mirando a contestare la società contemporanea
[...] ma dall’alto con l’occhio di chi appartiene ad un mondo diverso e spesso
120
G. Puccioni, Herodae Mimiambi, Firenze, La Nuova Italia, 1950, p. XII
124
con humor”121. Eroda non scrive per tracciare un quadro reale, per fotografare
la situazione delle grandi metropoli ellenistiche, ma si limita a simulare
situazioni che appaiono realistiche grazie all’attento ed elegante lavoro sul
dialetto, la metrica, la psicologia dei personaggi. I caratteri sono “semplici e
piani, senza alcuna complicazione, senza che i personaggi si mettano mai in
una situazione veramente drammatica. [...] La vita degli umili non conosce le
complicazioni dei moderni romanzi psicologici e scorre tranquilla come un
fiume in pianura. E se qualche volta si arresta per una situazione impreveduta,
riprende poi subito il suo ritmo e va e va, senza che dell’ostacolo conservi più
traccia”122.
La lingua usata per far parlare i protagonisti dei mimi è composita come
quella di tutti gli alessandrini. Una base ionica per richiamare a sé l’autorità di
Ipponatte, mista ad atticismi da commedia antica e dorismi in omaggio
all’origine del genere. Ogni personaggio parla una lingua coerente al proprio
ruolo o mestiere e quando ciò non avviene è il risultato di una precisa scelta
artistica: Eroda cerca lo scatto umoristico facendo parlare mezzane come
letterati e lenoni come avvocati.
II.4.1 La tentatrice o la mezzana123
Due le protagoniste di questo mimo: Metriche, la padrona di casa, che
ha il marito lontano, e Gillide, una vecchia mezzana. La scena si svolge
121
L. Di Gregorio, Eronda. Mimiambi I-IV, Milano, Vita e pensiero, 1997, p.XXI
122
N. Terzaghi, op. cit., p. 29
123
ΠΡΟΚΥΚΛΙΣ Η ΜΑΣΤΡΟΠΟΣ ; un’altra traduzione è “La procacciatrice d’affari”.
125
interamente in casa di Metriche, al cui uscio viene a bussare Gillide, per farle
una proposta che giudica allettante: un giovane atleta, ricco e bello, si è
innamorato di lei ed è giusto che la padrona di casa pensi al suo benessere e
ceda alle lusinghe del nuovo amore, invece di aspettare il suo uomo che se la
spassa in Egitto. Usa molti argomenti per convincerla della bontà della sua
proposta: la adula, insinua dubbi sulla fedeltà del suo uomo, fa riferimento alla
ricchezza dello spasimante, ma Metriche rifiuta e la mezzana si ritira. Fin qui
la storia per sommi capi, ma quel che la rende interessante è capire chi è
realmente Gillide e, soprattutto, chi è realmente Metriche.
Il personaggio della mezzana è una figura tradizionale del teatro comico
e del mimo. La troviamo in Sofrone, ma anche nelle Tesmoforiazuse
(Θεσµοφοριάζουσαι) di Aristofane, dove è Euripide ad essere travestito da
mezzana. La caratterizzazione si basa soprattutto sulla vecchiaia e sulla
passione smodata per il vino; che sia vino puro però, cioè non annacquato
com’era d’uso allora tra i Greci. Già questo particolare è indice della rozzezza
culturale e sociale del personaggio, poiché il bere vino puro nel mondo greco
era considerato ‘roba da Sciti’, cioè barbari. La scelta del verbo usato per
indicare il bussare alla porta ci indica ancora che di persona rozza doveva
trattarsi. Eroda usa ἀράσσει, ossia “battere violentemente” e ciò basta a far
pensare a Metriche che si tratti di qualcuno che viene dai campi. In realtà
questa espressione è stata interpretata in modi diversi dalla critica. Dice
Metriche alla schiava Tracia: “Tracia, qualcuno bussa alla porta; non vai a
126
vedere, che non sia qualcuno di casa, che giunge dai campi?” Chi vede in
Metriche una moglie fedele interpreta questa espressione come l’ansia di una
donna che aspetta notizie sul marito e spera che le vengano dagli uomini che
lavorano nei poderi di famiglia124. Altri vi vede un’allusione alla natura rozza
e ‘villica’ di chi ha bussato con tale foga e che deve essere ‘di famiglia’. Lidia
Massa Positano125 vede in Metriche non una moglie, ma un’amante fedele al
suo uomo lontano, una εταίρα, e che ha un sussulto non appena sente bussare
alla porta. Una donna innamorata e ansiosa avrebbe però interrotto il
relativamente lungo scambio di battute tra la schiava e l’ospite, prima che
quella apra la porta. Dopo un breve scambio di convenevoli, una battuta di
Metriche dà occasione a Gillide di entrare più nel merito della questione che la
interessa. Gillide si lamenta di essere vecchia e debole e Metriche le risponde:
“Basta, non calunniare la tua età. Tu sei ancora capace, Gillide, anche di
soffocare altri nella tua stretta!” Anche questo verso è stato variamente
interpretato. L’espressione greca è χἠτέρους ἄγχειν e ha un riconosciuto
doppio senso erotico che si potrebbe tradurre con “togliere il fiato”126. Questo
significato è però ignorato da alcuni critici (tra questi Setti, Romagnoli,
Puccioni e lo stesso Cataudella), che provano a giustificarlo come un
fraintendimento della maliziosa Gillide. Replica la Massa Positano: “Anche il
linguaggio di Metriche[...] è questa volta da etèra; si è appena ai preliminari
del colloquio e Metriche è la prima, nell’ironico complimento rivolto alla
124
Così M. Pinto Colombo, “La poesia di Eroda”, Dioniso, IV, 1934
125
L. Massa Positano, Mimiambo I, Collana di studi greci, LI, 1970
126
Sono di questo parere anche Nairn, Laloy, Cunningham.
127
‘mammina’, ad usare un doppio senso che allude al mestiere antico di
Gillide.”127 Metriche mostra di avere una certa familiarità con la vecchia, detta
ἀµµίη cioè ‘mammina’, il che sembrerebbe riportare ad un probabile ruolo di
nutrice128. La familiarità dei toni indica che le due donne si conoscono, e bene,
e si sono già frequentate in passato, e allora viene da chiedersi perché mai, se
davvero Metriche è solo una buona moglie, dovrebbe aver conosciuto un tale
personaggio, se non ammettendo che possa aver fatto parte del suo
‘entourage’. Il ruolo del personaggio di Gillide si rivela però per gradi. Eroda
inaugura la sua vena ironica al verso 21, quando fa iniziare la lunga rhesis di
Gillide con l’espressione ὦ τέκνον, allocuzione propria della lingua elevata, e
mostrandola esperta dei topoi letterari della letteratura erotica alessandrina.
Tutto ciò si rivelerà poi stonato in rapporto al personaggio.
Ma, o figlia, quanto tempo è ormai che vivi da vedova
consumando sola il letto abbandonato? Da quando
Mandri partì per l’Egitto sono passati infatti dieci mesi,
e non ti manda neppure un rigo di lettera, ma si è
dimenticato di te e ha bevuto a una coppa nuova.
L’espressione τὴν µίαν κοίτην è interpretata da molti come “letto
abbandonato”129, ma la traduzione proposta da Massa Positano sembra più
adatta al ritratto che si vuol fare di Metriche; “il solo tuo letto” sarebbe un
riferimento esplicito, infatti, alla vecchia professione di Metriche, che in
127
L. Massa Positano, op. cit., p. 52
128
Nel mondo tragico e comico greco le due figure, la nutrice e la mezzana, a volte
coincidono.
129
Così anche Nairn, Knox, Cunningham.
128
passato ha ‘scaldato’ tanti letti, ora solo uno. Un altro doppio senso degno di
una mezzana è nell’espressione “ha bevuto ad una coppa nuova”, dove il
termine usato è χείλη ossia “labbra”, che può indicare tanto il bordo di una
coppa quanto le labbra femminili.
Gillide passa, dunque, ad enumerare le mille meraviglie dell’Egitto, a
cui sicuramente Mandris non avrà saputo resistere, e lo fa con totale
entusiasmo, quasi senza riprender fiato, ma, probabilmente, senza rendersi
davvero conto di quel che dice, come se ripetesse lo spot di un’agenzia per
soggiorno e turismo, della serie “Venite a visitare l’Egitto!” E qui si rivela
ancora la sua natura ‘provinciale’. Alla fine dice a Metriche:
Con che cuore tu dunque, disgraziata, te ne puoi stare a
scaldare lo sgabello? Così, invecchierai senza
accorgertene, e la cenere divorerà la tua freschezza
giovanile. Volgi gli occhi altrove e per due o tre giorni
cambia il tuo umore e fatti gaia e guarda verso un altro:
una nave ormeggiata ad una sola áncora non è sicura.
Il riferimento allo sfiorire della bellezza è tipico della poesia erotica, in
più c’è il proverbio di ispirazione marinara che chiarisce in modo esemplare
qual è la cosa giusta da fare. Per convincerla meglio esalta le virtù atletiche del
pretendente, senza omettere le ricchezze di cui potrebbe godere Metriche.
Qualcuno ha voluto notare nel nome dello spasimante un ‘nome parlante’,
ossia che dichiara la natura dell’uomo: Grillo, dal verbo γρυλλίζειν cioè
“grugnire”, come a dire “Porcello”!
129
Nonostante la lunga e allettante rhesis della mezzana, Metriche rifiuta
l’offerta. È interessante però vedere in che modo lo fa:
Gillide, la bianchezza dei capelli rende ottusa la mente.
[...] ti giuro che queste cose io da un’altra donna non le
avrei sentite così tranquillamente,[...]lascia che [...]
scaldi lo sgabello, giacché nessuno ride sul conto di
Mandri.
La sua fedeltà non è sentita, la preoccupa solo che si venga a sapere di
un eventuale tradimento e che ciò renda oggetto di scherno il suo uomo.
La proposta, dunque, è rifiutata. Viene offerto da bere a Gillide come
commiato, e questa si ritira con garbo, come con garbo e naturalezza aveva
parlato prima (segno non della cautela che si deve ad una donna sposata, ma
ad una etèra uscita dal ‘giro’). Nel commiato non rinuncia però ad un
commento ironico, nutrito anche di ‘orgoglio professionale’:
Tu abbimi buona fortuna, figlia, e mantieniti salda. A me
possano rimanermi giovani Mirtale e Sima [...]
II.4.2 Il lenone (il padron di bordello)130
La scena si svolge in un’aula di tribunale. I convenuti sono Battaro, di
professione lenone, e Talete, un mercante di grano. La parte lesa è, a sorpresa,
il lenone, il quale accusa il ricco Talete di essersi introdotto a forza in casa sua
e di essere stato violento nei suoi confronti e in quelli delle sue ‘ospiti’. Inizia
130
ΠΟΡΝΟΒΟΣΚΟΣ.
130
così una lunga arringa che sembra ricalcare quella dei logografi attici o certi
monologhi euripidei. Eroda mette a frutto in questo mimo tutta la sua arte.
Riduce l’azione al minimo e concentra la sua attenzione (e quella del
pubblico) sulle parole pronunciate da Battaro. La messinscena ricorda la
fisionomia dell’oratoria giudiziaria: appello iniziale, captatio benevolentiae,
denigrazione avversario, ostentazione dei propri meriti. Dice Battaro
nell’appello iniziale:
Signori giudici, non è evidentemente della nostra nascita
che siete chiamati a giudicare, né della nostra
reputazione, né se questo Talete ha la nave del valore di
cinque talenti, ed io invece non ho neppure il pane, per
questo egli dovrà prevalere[...]
Battaro sa che la sua professione sollecita pregiudizi e si appella
affinché ciò non avvenga. Richiama, poi, l’attenzione sulla sua miseria fisica,
con l’intento di mettere in ombra quella morale.
Il fulcro della vicenda viene subito presentato dal lenone, cercando di
sottolineare che i suoi meriti non sono inferiori a quelli del mercante:
Forse vi dirà: “Sono venuto da Ace portando del
grano, e così ho fatto cessare la dura carestia”; ed io ho
portato delle prostitute da Tiro: per il popolo questo
cosa vuol dire? Gratis infatti né lui dà il grano da
macinare né io, a mia volta, quella là131.
131
Battaro indica Mirtala, la prostituta oggetto del contendere, che doveva trovarsi in
tribunale.
131
Entrambi, quindi, portano dei benefici alla comunità, per far cessare
carestie di qualunque tipo, ad essere diverso è solo il genere di consumo,
indicato con un ironico gioco di corrispondenze: πυροὺς (grano) e πόρνας
(prostitute). L’ironia si fa più pesante quando dalle espressioni crude e volgari
il tono del discorso si innalza improvvisamente con il richiamo alla prassi
giudiziaria e agli antichi legislatori.
Prendimi, cancelliere, la legge sulla violenza privata e
danne lettura, e tu, galantuomo, tura il foro della
clessidra per il tempo che egli parla, affinché, oltre il
resto, non ci si prenda, dice, è proprio il caso del
proverbio, il culo e la coperta.
Peccato per la conclusione proverbiale; il lenone sembrava procedere
con cognizione di causa. L’arte di Eroda consiste anche in questo, nel piegare
alle proprie esigenze un patrimonio letterario notevole e indirizzarlo ad altre
finalità.
Battaro non si risparmia neanche in colpi di scena, per meglio perorare
la sua causa, e chiama all’ipotetico banco dei testimoni Mirtala affinché mostri
i danni subiti:
Qua anche tu, Mirtala, mostrati a tutti, non avere
vergogna di nessuno. Considera gli sguardi di costoro,
che vedi qua a giudicare, sguardi di padri, di fratelli
tuoi. Vedete, signori, gli strappi che essa ha subito e dal
basso e dall’alto, come a forza di strappare ha reso
spelate queste parti, questo scellerato[...]
132
Battaro partecipa al dolore della sua protetta, sembra impietosirsi per le
sue condizioni, che però non manca di mostrare al meglio, denudandola. Un
ultimo scatto però conclude l’arringa: dopotutto lui commercia e guadagna
come fa Talete, e quindi: “Ami forse Mirtala? Nulla di grave. Io amo il pane:
dammi questo e avrai quello.”
II.4.3 Il maestro di scuola132
Lamprisco è il maestro che dà il titolo al mimo, anche se non sembra il
protagonista del mimo. Buona parte di esso è, infatti, dedicato al colorito
racconto che una madre, Metrotima, fa delle prodezze del figlio, Cottalo. La
madre, infuriata per il comportamento selvaggio e irresponsabile del figlio,
vorrebbe dal maestro un atteggiamento meno comprensivo nei confronti di
Cottalo, che a suo dire merita di essere fustigato. “Questo qua me lo devi
scorticare a spalla, fino a che la sua anima trista non gli rimanga sulle labbra”,
chiede la madre al maestro. E questi non si fa pregare più di tanto. Pronuncia
un breve discorso che inizia con tono ironico e di fredda minaccia per poi
virare verso uno scoppio d’ira:
Lodo, Còttalo, le imprese che tu compi. Non ti basta più
giuocare coi dadi per un attimo come questi qui, ma
frequenti la bisca, dove giochi ai soldi in mezzo ai
facchini? Io ti renderò più accostumato di una fanciulla,
così da non muovere neppure una pagliuzza, se proprio
132
∆Ι∆ΑΣΚΑΛΟΣ
133
questo ti fa piacere. Dov’è la mia sferza dura, il nerbo di
bue, con cui concio gli incatenati e i segregati? Me la si
dia in mano, prima che io soffochi per la bile.
Troppo a lungo aveva trattenuto la sua rabbia il povero maestro, o,
forse, lo scoppio d’ira è dovuto all’umiliazione di dover ricevere istruzioni sui
metodi educativi da una qualunque popolana? Che sia vera questa seconda
ipotesi forse lo dimostra il finale del mimo: Cottalo riesce a sfuggire, il
maestro vede fallire il suo disegno di vendetta e riscatto, la madre si rassegna a
dover provvedere da sola all’educazione del figlio.
II.4.4 Le donne al tempio di Asclepio133
Due popolane si recano in visita al tempio di Asclepio per un’offerta di
ringraziamento e in attesa del rito ammirano le statue e i dipinti che decorano
l’edificio. La tematica ecfrastica era molto comune nella letteratura ellenistica,
perché offriva l’occasione di far sfoggio di cultura e di occuparsi dei
particolari, di quel piccolo mondo di cui i poeti ellenistici si nutrivano. La
cornice mimica, quindi, è sembrata a molti superflua. Certo non è centrale la
rappresentazione veristica della cerimonia rituale, ma è, invece, centrale,
anche in questo mimo, la descrizione dei caratteri delle due protagoniste.
Còccala e Cinno sono senz’altro due donne umili, ma non sono rappresentate
come tipi. Còccala è inesperta, senza volontà, impacciata, remissiva e si lascia
133
ΑΣΚΛΗΠΙΩΙ ΑΝΑΤΙΘΕΙΣΑΙ ΚΑΙ ΘΥΣΙΑΖΟΥΣΑΙ
134
guidare da Cinno, attiva, volitiva, imperiosa. L’ironia del poeta si riversa su
entrambe le donne, quando rappresenta la prima in preda all’estasi, tutta
provinciale, di fronte alle opere esposte e la seconda, sicura di sé, che osa
anche giudizi critici sull’arte di Apelle. Vediamo il testo nelle parole
pronunciate da Còccala:
Ah! Che belle statue, cara Cinno! [...] Guarda quella
ragazzina che guarda in su verso la mela: non diresti di
essa : “Se non prenderà la mela, subito spirerà?” [...]
come quel fanciullo strozza l’oca! Certo se non ci stesse
davanti una pietra, diresti: “Quest’opera da un
momento all’altro si mette a parlare”. [...] Questo
fanciullo nudo, per esempio, se gli do un pizzicotto, non
ne porterà il segno? Giacché le carni che gli stanno
addosso, nel quadro, sono come palpitanti, calde calde;
[...] E il bue [...]? Se non credessi di andare al di là di
quel che a una donna è consentito di fare, avrei urlato
per la paura che il bue mi facesse male [...].
Di fronte a tanta ingenua ed entusiastica ammirazione, Cinno, con
piglio a metà tra una guida turistica e un critico d’arte risponde:
Seguimi, cara, e ti mostrerò una bella cosa, quale non
hai visto dacché sei al mondo. [...] Veritiere, cara, sono
infatti le mani di Apelle di Efeso in ogni genere di
pittura, né si potrebbe dire: “Quell’uomo una cosa vide,
un’altra rifiutò”, ma qualunque soggetto gli veniva alla
mente, l’affrontava con ardore, deciso a toccarvi il
cielo.
135
Il mimo, come si è detto nei paragrafi precedenti, sembra stare sullo
stesso filone dell’idillio XV di Teocrito. Lì però l’attenzione sembra
concentrata sul canto finale, e un accenno ironico lo ritroviamo nella scena in
cui le due siracusane vengono prese in giro per la loro pronuncia e cadenza
dialettale; qui, invece, conta di più descrivere i caratteri singoli delle due
donne, accomunate, pare, solo dalla partecipazione al rito.
II.4.5 La gelosa134
La gelosa del titolo è Bitinna, una ricca e matura signora, innamorata
dello schiavo Gastrone, sospettato di infedeltà. Bitinna cerca la punizione per
lo schiavo ma si fa convincere, pare, a desistere da propositi di vendetta dalla
schiava prediletta Cidilla. Il personaggio di Bitinna si presenta subito come
una donna sensuale, anzi, tutta sensi, che perde il controllo di fronte ad un
presunto torto, ad una mancanza di rispetto, e rifiuta qualsiasi giustificazione.
Romagnoli ha voluto interpretare questo atteggiamento così furioso come la
paura, di una donna ormai fisicamente in declino, di vedersi preferire una
donna più giovane dal proprio amante. Vale la pena soffermarsi su questa
interpretazione per il solo fatto che Romagnoli stesso indica come età
probabile di Bitinna i quarant’anni, definendola “l’età pericolosa”135.
Ammettendo che nel III secolo a.C. le prospettive di vita fossero forse più
134
ΖΗΛΟΤΥΠΟΣ
135
E. Romagnoli, op.cit., p. 84
136
ridotte, e che gli anni Quaranta in Italia rendessero tutti ancora ansiosi rispetto
al futuro, l’annotazione di Romagnoli sul ‘declino dei quarant’anni’ fa,
comunque, sorridere.
Questo mimo ha fatto parlare Cataudella di “dramma in iscorcio”136,
poiché nulla di generico sembra esservi. La stessa Bitinna non è ‘la’ gelosa,
ma ‘una’ gelosa; è “brutale, volgare, sensuale, impulsiva; reagisce al
tradimento[...], non con lo sterile tormento della gelosia, ma in una forma
aggressiva di vendetta e insieme di riconquista; essa odia e ama, ma è tutta, e
solo, senso.”137 Lo provano le sue parole ad inizio mimo:
Dimmi tu, Gastrone, sei così sazio di me che non ti basta
più sbattere le mie gambe, ma stai sopra ad Amfitea, di
Menone?
E ancora, con un velato doppio senso affidato al termine µώραν:
Sono io che ho la colpa di ciò, io, Gastrone, che ti ho
posto fra gli uomini. Ma se allora sbagliai, ora non
troverai più che Bitinna è stolta come tu credi.
Il termine µώραν “alude principalmente a la estupidez e insensatez de
una persona, pero también, en uno de sus usos meno frecuentes pero
136
Q.Cataudella, op. cit., p. 66
137
Q. Cataudella, ibidem
137
suficientemente constatado, puede referirse a la lascivia.”138 In tal modo,
conclude Llera Fueyo, in apparenza Bitinna dice che non sarà più stupida, ma
il pubblico erudito a cui di certo il mimo si doveva rivolgere, percepisce anche
il doppio senso della parola e ne coglie l’humor.
La figura di Bitinna spicca per il confronto con gli altri personaggi,
primo fra tutti lo schiavo Gastrone, umile, sottomesso e supplichevole, che di
fronte alla furia della padrona-amante, implora:
Bitinna, rimettimi questa mancanza. Uomo sono,
mancai: ma quando un’altra volta mi coglierai a fare
qualcosa che tu non voglia, fammi marchiare.
Questo particolare, nella traduzione datane da Cataudella, si rivelerà
utile nel prossimo capitolo, quando si metteranno a confronto i mimi lanziani
con quelli di Eroda.
II.4.6 Le amiche a colloquio segreto139
Metro, signora ‘bene’ di Efeso, va a trovare la sua amica Coritto con lo
scopo di scoprire chi è il valido artigiano che ha forgiato il βαυβών visto in
casa di un’altra donna. L’oggetto del contendere è un fallo di cuoio, “uno dei
ferri del mestiere delle donnine allegre”140, come dice Romagnoli, ma che non
disdegnavano neanche le donne di più alto rango. Metro lo ha visto in casa di
138
L.A. Llera Fueyo, “Humor alejandrino en el mimiambo 5 de Herodas”, Emerita, 61, 1993,
p. 57-58
139
ΦΙΛΙΑΖΟΥΣΑΙ Η Ι∆ΙΑΖΟΥΣΑΙ
140
E. Romagnoli, op. cit., p. 101
138
Nosside, donna non ben vista dalla legittima proprietaria Coritto, che si chiede
come sia finito nelle mani di una donna di tal fatta. Alla spiegazione di Metro
sul giro complicato di prestiti, sbotta:
Donne! Questa donna un giorno mi finirà. Io ebbi pietà
di lei che mi pregava insistentemente, e glielo diedi,
Metro, prima che io stessa me ne fossi servita. Ed essa
lo afferra come una cosa trovata a caso e lo regala
anche a quelle a cui non dovrebbe [...]
Metro cerca di placare l’ira di Coritto, lei così accomodante e remissiva
al confronto, soprattutto perché le preme sapere chi è il bravo artigiano autore
del βαυβών. Presto detto: è il calzolaio Cerdone, definito il calzolaio “più
provvido verso le donne”.
Il mimo, nonostante l’argomento possa fuorviare, è tra i più leggeri. I
caratteri sono tracciati questa volta con mano più leggera, senza eccessivo
approfondimento, e si rinforzano l’un con l’altro. Eroda non voleva qui,
evidentemente, caratterizzare due tipi, come aveva fatto altrove, ma disegnare
un quadro generale della psicologia femminile. Lo fa però usando tutti i luoghi
comuni del caso: la curiosità, l’eccessiva loquacità delle donne, la loro
incapacità a mantenere un segreto, aggiungendovi soltanto uno spunto che fa
contrasto con la dichiarata appartenenza a ceti alti: la disponibilità ad offrire
perfino il proprio corpo per ottenere ciò che si vuole. Tutto ciò senza però
cadere nel moralismo e senza forzare i toni, ma con leggerezza e naturalezza.
139
II.4.7 Il calzolaio141
La scena si svolge nella bottega del calzolaio Cerdone, dove un gruppo
di donne si reca per acquistare. Che si tratti dello stesso Cerdone del mimo VI
sembrano credere alcuni, per i riferimenti alla calvizie, alla loquacità e al
debole per le donne già descritti: e parlano così di dittico. Queste sembrano
però caratteristiche attinenti al tipo rappresentato, e, in ogni caso, poco
aggiunge alla nostra conoscenza dell’arte di Eroda, il sapere se si tratti o meno
dello stesso personaggio. Quel che conta è notare con quale scioltezza il
calzolaio passi da un tono all’altro a seconda dell’occasione: burbero e
intollerante con i servi diventa poi gentile, complimentoso e insinuante con le
clienti.
Bisogna che ritorniate a casa, signore, con le braccia
cariche. Esaminate voi [...] ciò che il cuore di ciascuna
di voi desidera, ditelo, così che possiate comprendere
perché donne e cani divorino il cuoio.
Cerdone sa dove colpire le donne, non al cuore ma al piede!
Suvvia, qua il piedino; che io lo ponga nella scarpa.
Bah! Non c’è proprio da aggiungere o da togliere nulla.
Tutte le cose belle vanno bene alle belle.
141
ΣΚΥΤΕΥΣ
140
Non è una caricatura; la modernità, attualità e verisimiglianza del
personaggio sono facilmente rintracciabili anche oggi, nelle nostre esperienze.
Non c’è venditore, mercante, che non si faccia complimentoso oltre misura
con i clienti, si lamenti per i costi eccessivi del lavoro, degli aiutanti pigri e
indolenti, della perizia del proprio lavoro rispetto a quello di un concorrente.
II.4.8 Il sogno142
Lo stato frammentario in cui si trova questo mimo ha reso difficile la
ricostruzione e la sua interpretazione. Si potrebbe dividere in due parti: nella
prima un personaggio (si discute ancora se sia uomo o donna) sveglia due
schiave dal loro sonno per poi raccontare ad una di esse, sua confidente, il
sogno che ha appena fatto; nella seconda parte, il poeta stesso interviene a
decifrare il significato simbolico del sogno.
Si tratta, come ricorda Bruna Veneroni143, di un sogno allegorico, la cui
forma volutamente oscilla tra realtà e finzione, venendo a spiegare così
l’apparente dissonanza tra le due parti.
Nelle linee essenziali il sogno è questo: il protagonista salva un capro
dal burrone e lo trascina con sé; incontra dei pastori, intenti a celebrare dei riti,
che sgozzano e fanno a pezzi il capro e con la pelle costruiscono un otre sul
quale tenersi in equilibrio; nessuno dei pastori riesce nell’intento, solo il
protagonista; nel momento di ricevere il premio gli si fa incontro un vecchio
142
ΕΝΥΠΝΙΟΝ
143
B. Veneroni, “Ricerche su due mimiambi di Eroda”, Rendiconti dell’Istituto Lombardo,
CV, 1971, p.224
141
che lo minaccia col bastone; accorre un giovinetto che stabilisce la parità fra i
due.
A questo punto c’è l’interpretazione del sogno: il capro salvato dal
burrone e che i pastori fanno a pezzi sono rispettivamente l’opera del poeta e i
critici invidiosi. Veneroni insiste sulla centralità del capro = τράγος, ossia il
termine da cui deriva τραγῳδία (la tragedia o il genere drammatico), perché
pensa che Eroda voglia con ciò rivendicare il carattere drammatico della
propria opera, e, insieme, l’originalità rispetto al modello, che scatena le
invidie dei pastori-critici, abituati a poesia mimetica più superficiale.
Il momento della gara è denso di rustica comicità, con quei pastori tanto
sicuri di sé e così violenti nell’uccisione del capro che ora oscillano
pericolosamente sull’otre e rotolano in terra. Il ridicolo nasce anche
“dall’attrito tra la vacuità dell’impresa e l’impegno con cui tentano di portarla
a buon fine”144.
Il vecchio iroso è sembrato a molti un riferimento ad Ipponatte, che, in
questo caso, si sentirebbe spodestato dal suo ruolo dalla poesia di Eroda. Per
quel che sappiamo della personalità del poeta efesino, è verosimile che possa
trattarsi di lui; i suoi versi erano densi di aggressività e rimostranze. Per
Smotrysch145, invece, non è credibile che si tratti di Ipponatte. L’azione del
mimo si svolge probabilmente ad Alessandria, o è comunque strettamente
legata alla vita letteraria della città in quei tempi, quindi poco c’entra un poeta
144
B. Veneroni, op. cit., 1971, p. 231
145
A. P. Smotrysch, “Eronda e il vecchio”, Helikon, II, 1962, p. 606-607
142
del VI secolo. Si può più facilmente pensare, sempre a parere dello studioso
russo, ad un coetaneo e rivale di Eroda, una sorta di Ipponatte redivivo per le
sue scelte artistiche. In questo caso si dovrebbe allora pensare a Callimaco e ai
suoi Giambi. All’epoca i due poeti seguivano strade diverse; Callimaco
“essendo al servizio dei potenti della terra, nutriva profondo disprezzo per il
popolo semplice; il secondo (Eroda), invece, ritraendo la vita degli uomini
semplici, non aveva timore di richiamare l’attenzione dei suoi contemporanei
sui lati bui di questa esistenza e di manifestare la sua simpatia per la gente
umile”146. Il fatto poi che definisse Callimaco ‘vecchio’ sta ad indicare che le
idee, il programma politico del rivale era destinato a non avere futuro. Ha, in
effetti, più senso vedere nel vecchio iroso un rivale come Callimaco piuttosto
che Ipponatte, che Eroda richiamava come modello; non avrebbe senso, in
questo caso, l’aggressione.
Il giovinetto che interviene per arbitrare la lite è stato riconosciuto
come Dioniso dai più, e in questo modo Eroda avrebbe dunque scelto di
richiamarsi ad un’autorità superiore per affermare la propria arte. Altri, invece,
vi hanno voluto scorgere Tolemeo, il re amante delle lettere e delle arti, il
miglior datore di lavoro possibile per un artista.
Qui terminò il mio sogno. [...] Quello che ho visto in
sogno io lo giudico così.
146
Smotrysch, op. cit., p. 613-614
143
Con queste parole inizia la seconda parte del mimo, dove il poeta si
sovrappone al personaggio che prima gli ha fatto da schermo. Egli interpreta il
sogno, pronunciando una sorta di autocertificazione del proprio talento.
Il fatto che io tiravo il bel capro fuori dal burrone
significa che avrò un dono dal bel Dioniso. Il fatto che i
caprai lo facevano a brani a forza nel celebrare i loro
riti sacri, e si dividevano le sue carni, vuol dire che
moltissimi critici letterari faranno strazio delle mie
membra, cioè delle mie fatiche [...] Il fatto che io
credevo di riportare, io solo, il premio, mentre in molti
erano stati a calpestare l’otre pieno d’aria, e che ho
avuto un trattamento uguale a quello del vecchio in
collera, vuol dire che o le mie poesie mi chiameranno
[...]a grande gloria a causa dei giambi, o una seconda
istanza mi assegna il compito di cantare ai miei Xuthidi
in metro zoppicante dopo il vecchio Ipponatte.
144
Capitolo III
Eroda e Lanza: storia di una parentela forzata
Nel 1890 fu scoperto e poi pubblicato da F.G. Kenyon, filologo inglese,
un papiro egiziano risalente al I sec. a.C., il quale restituiva sette composizioni
intere in coliambi, più frammenti di un ottavo. Quei versi (a cui poi fu
assegnato il titolo di Mimiambi dai grammatici del III sec. d.C.) furono
attribuiti ad Eroda, poeta greco d’epoca alessandrina, di cui poco si sapeva
allora, e poco di più oggi.
La scoperta ebbe grande risonanza in Italia con le traduzioni di G. Setti
e N. Terzaghi, tra le prime. Siamo tra il 1913 e il 1925.
La circolazione e lettura di quei testi avvenne, quindi, in un’epoca in
cui era ancora viva la poetica verista e ciò contribuì a fare di Eroda quasi un
precursore del verismo.
Nel 1927, nel pieno delle emozioni suscitate da quelle letture, furono
pubblicati i Mimi siciliani di Francesco Lanza. Il titolo originario, pensato
dall’autore, era Storie di Nino Scardino, ossia raccolta delle storie sentite da
un uomo del popolo (il mezzadro di casa Lanza). Il titolo finale fu, invece,
suggerito da Ardengo Soffici, a cui lo scrittore valguarnerese aveva affidato le
sue storie. Lo stesso Soffici ci chiarisce quale fu il motivo che lo spinse a tale
scelta: per “quei brevi componimenti di carattere popolare, critico e faceto ad
145
un tempo [...] gli consigliai la definizione di Mimi (avevo allora tra mano
quelli di Eronda)”147. Soffici vide delle assonanze tra i due testi e Lanza
accettò il suggerimento. E fece bene a giudicare dai risultati. Il libro, infatti,
nonostante le lamentele dell’autore sulla sua fortuna, ebbe buona risonanza
allora e in seguito, seppur non con l’ampiezza di pubblico che ci si poteva
aspettare. La critica da subito si dedicò a quelle pagine così innovative e
tradizionali ad un tempo, chissà, forse spinta dalla curiosità che quel titolo
suscitava. Il rovescio della medaglia si presentò però sotto la forma dei giudizi
affrettati e condizionati da una parentela con un genere così lontano nel tempo.
Il primo ad occuparsi in modo più attento di questo problema è stato Salvatore
Di Marco, nel suo volume “Storia incompiuta di Francesco Lanza”148. Le
perplessità di Di Marco nascono già dal fatto che Soffici non si curò di chiarire
in modo critico e motivato la propria scelta. Noi non possiamo conoscerne le
ragioni effettive, ma siamo autorizzati dalle stesse parole di Soffici ad
ipotizzare che si trattasse di “suggestioni del tutto provvisorie [...] e dettate
quasi a caldo [...] subite per la lettura forse non adeguatamente approfondita
dei ‘mimi’ di Lanza”149. Le storie lanziane, infatti, a parer di Di Marco, non
erano state allora ancora ben capite nel loro spirito e valore autentico e quella
scelta, inevitabilmente, portò a “forzature interpretative ambigue e forse
fuorvianti letture”150.
147
A. Soffici, “A Francesco Lanza”, Il Tevere, Roma, 6 febbraio 1933
148
S. Di Marco, Storia incompiuta di F. Lanza, Palermo, Ila Palma, 1990
149
S. Di Marco, op. cit., p. 35
150
S. Di Marco, ibidem
146
Sorte simile sembra aver avuto Eroda. Dice Antonio Melero: “Cuando
en 1891 se publicó por vez primera el texto de Herodas, el nuevo poeta fue
saludado como la revelación de un género insospechado dentro de la poesía
helenística, como el representante de un realismo sin compromisos, como el
antípoda del arte académico representado por el jefe de la escuela: Calímaco.”
E continua: “Era natural [...] que así fuera, ya que el descubrimiento tuvo lugar
en un momento en que se libraba la batalla por y contra el Naturalismo y
Realismo en la literatura moderna. Los juicios que [...] se emitían eran
programáticos y, a fuerza de ser repetidos, pronto se convirtieron en tópicos
obligados de cualquier manual de literatura griega.”151 Si abbinò spesso la
definizione di verista o realista con l’individuazione in Eroda di un poeta
popolare, che prende spunto per i suoi versi dagli ambienti più umili. L’analisi
dei mimiambi nel capitolo precedente ha mostrato quanto poco di popolare e
naturale vi fosse, invece, in quei versi. Allontanandosi dagli entusiasmi
veristici e dai giudizi di poeta “massimamente spontaneo e naturale, è venuto
fuori poco alla volta un poeta dotto, che scrive componimenti d’arte
rinnovando e fissando un genere [...] e che dev’essere giudicato nel fervore di
rinnovamento letterario di cui è caratteristica la prima metà del III secolo”152.
Ciò non significa che nelle sue pagine la rappresentazione realistica delle cose
e dei personaggi sia assente, ma, come dice Mastromarco, l’adesione al
realismo “non è espressione politica di un poeta progressista portatore di una
151
A. Melero, “Consideraciones en torno a los mimiambos de Heroda”, Cuadernos de
filología clásica, VII, 1974, p. 303
152
A. Bartigazzi, “Note ad Eroda”, Athenaeum, XXXII, 1954, p. 410
147
ideologia alternativa, ma piuttosto [...] adesione alla moda letteraria di quella
che è l’élite della società ellenistica.”153 Egli, dunque, filtra la realtà attraverso
la sua esperienza letteraria.
Fin qui i fraintendimenti. Per avere un’idea più precisa di quanto i due
autori possano avere in comune, si potrebbe procedere forzando il gioco della
ricerca, spulciando qua e là tra mimi e mimiambi.
Procedendo dall’universale al particolare, si può dire che in comune i
due hanno senz’altro il fatto di essere due scrittori colti, non certo vergini di
letteratura, che scelgono di guardare agli strati più bassi della società, senza
pronunciare sentenze morali o limitandosi a deriderne i soggetti, e che
adoperano un linguaggio colto anche per descrivere i particolari più sordidi.
Eroda descrive quasi con simpatia e sfumata malinconia il padron di
bordello del II mimo, che si preoccupa della miseria fisica per distrarre
l’attenzione dei giudici dalla miseria morale del suo mestiere; così anche per la
ruffiana del I mimo; descrive con naturalezza e leggerezza le confidenze
intime delle amiche nel VI mimo, prototipi di una donna ‘liberata’.
Lanza rende le donne, anche quelle infedeli e lussuriose, le protagoniste
di storielle divertenti e mai volgari; i cornuti son visti con compatimento misto
a riso e i cornificatori glorificati per la loro astuzia e fantasia.
Un gruppo di mimi e mimiambi potrebbero essere raggruppati sotto il
titolo “Πυροὺς, πόρνας e il ‘mezzo pane’ ”. Nel II mimo di Eroda il lenone fa
153
G. Mastromarco, op. cit., 1979, p. 135
148
presenti ai giudici i meriti, che giudica parimenti importanti, suoi e del
mercante Talete.
Forse vi dirà: “Sono venuto da Ace portando del grano
(Πυροὺς), e così ho fatto cessare la dura carestia”; ed io
ho portato delle prostitute (πόρνας) da Tiro: per il
popolo questo cosa vuol dire? Gratis infatti né lui dà il
grano da macinare né io, a mia volta, quella là154.
Ora vediamo la ‘risposta’ di Lanza:
Andati a letto, il villarosano se la sentì venire, e partì
per il fatto suo; ma la moglie, [...] lo respingeva [...]:
- Levatevi di qua, malcristiano che siete! Non mi date
pane, e poi vi frulla cotesto?
E lui:
- O non lo sapete che questo è mezzo pane, locca che
siete?
Metriche nel I mimo si sottrae alle lusinghe della vecchia mezzana,
vuol restare fedele al suo uomo lontano, ma non per scelta istintiva quanto
perché Mandris non venga deriso per il tradimento.
Gillide, la bianchezza dei capelli rende ottusa la mente.
[...] ti giuro che queste cose io da un’altra donna non le
avrei sentite così tranquillamente,[...]lascia che [...]
scaldi lo sgabello, giacché nessuno ride sul conto di
Mandri.
154
Battaro indica Mirtala, la prostituta oggetto del contendere, che doveva trovarsi in
tribunale.
149
Nel mimo lanziano al mazzarinese cui è stato riferito di un possibile
tradimento della moglie importa solo che del fattaccio essa non riporti la
‘stampa’.
Infuriato, corse a casa minacciando lampi e tuoni, e alla
moglie [...] domandò s’era vero che ci lasciava ogni
volta la stampa.
E quella, facendosi la croce:
- La stampa, marito mio?o che vi pare che egli sia un
gonzo? Se non ci credete, possiamo fare la prova alla
vostra presenza.
[...] vedendo che tutto era meglio di prima, tornò lieto e
sereno:
- O che mi andavano dunque contando che ci lasciava
ogni volta la stampa, se qua non c’è niente e anzi così si
coltiva senza che io mi prenda fastidio?
Anche i commentatori possono aiutare in questo gioco. Calvino nel suo
commento ai mimi lanziani parla del tradimento come di ‘mancanza’,
prendendo spunto dalle parole pronunciate dal nicosiano:
- Moglie mia, non mi fate mancanza, mentre non ci sono,
che al ritorno lo so, e ne voglio ragione.
Ma alla donna non basta “il pane che ha in casa” e l’uomo chiede
spiegazioni:
150
- O che volete, marito mio? Tutti facciamo le
mancanzelle: non ci pensate quando voi perdeste il
falcetto[...] e io non vi dissi nulla e ve la perdonai?
Eroda fa dire, nella traduzione di Cataudella, allo schiavo Gastrone,
accusato di tradimento dalla padrona-amante:
Bitinna, rimettimi questa mancanza. Uomo sono,
mancai: ma quando un’altra volta mi coglierai a fare
qualcosa che tu non voglia, fammi marchiare.
Altro tratto in comune: il racconto non si risolve mai in tragedia, anche
laddove la materia lo permetterebbe. Omicidi, scoperta di tresche e tradimenti,
schiave lagnuse, in entrambi gli scrittori vengono raccontati con il distacco
dell’ironia. Come dice Terzaghi: i caratteri sono “semplici e piani, senza
alcuna complicazione, senza che i personaggi si mettano mai in una situazione
veramente drammatica. [...] La vita degli umili non conosce le complicazioni
dei moderni romanzi psicologici e scorre tranquilla come un fiume in pianura.
E se qualche volta si arresta per una situazione impreveduta, riprende poi
subito il suo ritmo e va e va, senza che dell’ostacolo conservi più traccia”155.
Ricordando la querelle sulla recitabilità dei mimiambi, viene naturale
pensare alle prove a favore addotte da Terzaghi nel commento alla sua
edizione dei Mimiambi. Il critico cita una messa in scena fatta da studenti
napoletani nel 1921, riuscita grazie alla scelta attenta di accorgimenti tecnici.
155
N. Terzaghi, op. cit., p. 29
151
Anche i mimi lanziani sono stati rappresentati ricorrendo ad espedienti che
potessero supplirne i tempi morti o l’eccessiva brevità di alcuni episodi; una
prova è lo spettacolo Muscarìa156, che mescola i mimi con le fiabe dei fratelli
Grimm, avendo cura di scegliere quelle di stolti e furbi, con radici popolari più
marcate.
Volendo esagerare: il mimo ha riconosciute origini doriche. Come si è
visto nel II capitolo è nato, presumibilmente, in Sicilia, o, almeno, qui è
diventato genere letterario con Sofrone prima e Teocrito poi. Si vuol forse
negare che Lanza sia siciliano?
Concordiamo con Di Marco che le storielle lanziane nascono nella
fantasia dell’autore come trascrizioni letterarie di racconti e aneddoti sentiti
dal popolo, mentre Eroda fa letteratura a tavolino. Sembra strano, inoltre, che
dopo Soffici nessuno si sia posto realmente il problema di giustificare quel
titolo. La storia del mimo, come genere letterario, appare tutt’oggi troppo
farraginosa per permettere una disamina completa del genere e dei suoi
accoliti. Certe tematiche, poi, non conoscono tempo e spazio, ciò che varia è il
trattamento che viene loro riservato. Alla luce di tutto ciò, ci sembra azzardato
apparentare i racconti lanziani con i lontani mimiambi. Nonostante ciò, non
giudichiamo condannabile l’operazione voluta da Soffici, che ha prodotto
effetti benefici sulla fortuna e la circolazione del libro lanziano, una buona
scelta editoriale che ha guardato al pubblico più ‘acculturato’ e al modo di
rendere più facilmente accettabili certi aneddoti. Forse di mimo lanziano si
156
Muscarìa, regia di Pietra Selva Nicolicchia, ultima messa in scena 17/09/2006.
152
potrà continuare a parlare dopo la lettura della definizione che un altro
scrittore siciliano, Vincenzo De Simone157, dà del mimo:
Il mimo è frutto della nostra terra; il quale da acerbo
per primitiva scurrilità, è diventato succoso attraverso il
frizzo e il sarcasmo.
Oggi è annotazione narrativa, in cui partecipa alle volte
un solo interlocutore, che con battuta improvvisa fa
ridere e castiga ridendo.158
De Simone, rispetto a Lanza, ha potuto scegliere se chiamare o no i
racconti Mimi. E lo ha fatto ispirandosi a Lanza e non ad Eroda; chiarisce,
infatti, di aver raccolto dalla sua memoria pochi racconti “per averli sentiti a
Bellarrosa, quando ero fanciullo, e taluni dalla voce [...] di mia madre, che
d’ogni cosa del nostro paese andava orgogliosa, anche se fossero parole.”159
Anche l’origine di questi racconti, quindi, non è nella tradizione letteraria di
un popolo, ma nelle tradizioni orali. Leggiamo due mimi di De Simone che ci
sembrano più vicini per spirito.
Il primo si intitola “Il marito che dormiva sol”:
C’era una volta un marito che mal sopportava in letto la
compagnia della moglie, e vi giaceva da solo; ma
quando ne aveva disio, le dava segnale di un fischio, e
quella veniva a posarglisi accanto[...]
157
Poeta e medico siciliano, nato a Villarosa (EN) nel1879, morto nel 1942.
158
V. De Simone, Bellarrosa: uomo serio!, Edizioni Latine, Milano, 1936, p.183
159
V. De Simone, op. cit., p. 183
153
Al marito con gli anni si restrinse il becco e per questo,
ricordando che i bambini si aiutano col fervorino, e
similmente si pratica con gli asini per farli bere, si
aiutava ogni volta egli stesso esortandosi, quando aveva
il pizzicore di cambiar acqua.
E la moglie, di lontano, che sentiva nel sonno:
- Marito mio, a me volete?
E ancora, “Il viaggiatore e le mosche”:
Venne una volta a Bellarrosa uno di quei tanti
viaggiatori che girano il mondo, il quale delle mosche,
che sono in ogni dove, aveva grande fastidio.
E sciò di qua, e sciò di là, a un certo punto sbottò a dire
che al suo paese non se ne vedeva mai una.
Rispose un bellarrosano:
- E la ragione c’è: a Bellarrosa la gente sta sempre con
la bocca chiusa!
Vorremmo concludere questo capitolo e questo lavoro con la speranza
di poter affrancare l’opera lanziana da parentele forzate, per quanto
relativamente feconde, e avviare un processo di rilettura dei mimi che possa
premiare il loro autore. Ci sembra che per fare un buon passo in avanti possa
essere utile quanto ha scritto Maria Nivea Zagarella160 su “La Sicilia” del 6
novembre 2006. Di fronte alla trivialità giustificata dall’audience di tanti
showman e reality e alla “antropologia consumistica della demenza collettiva,
160
M. N. Zagarella, “La trivialità leggera dei Mimi di Lanza”, La Sicilia, 6/11/06
154
che adulterando frammenti di realtà, spaccia per spettacolo e intrattenimento
sciocchezzai grevi di trivialità” ci si rende conto che “l’umana intelligenza e
sensibilità hanno bisogno di altro”. E allora “meglio una buona ‘lettura’, anche
spassosa e piccante, purché condotta con sottile ironia e grande professionalità
letteraria.” I Mimi siciliani abbondano di “sesso, sciocchezza, empietà, ma di
una tale saporosa leggerezza nella misura breve delle storie, nella arguta
tessitura linguistica e para-dialettale, nella analitica, sorridente ricostruzione
del reale contesto antropologico siciliano e paesano dell’epoca, da risultare
alla fine una amena denuncia di nostri ancestrali miti, vizi, limiti e una
implicita proposta di rinnovamento.”
155
Conclusioni
Nella prima parte di questo lavoro si è tracciato un profilo biografico
dei due autori oggetto di studio, mettendo in luce le rispettive personalità e
poetiche all’interno del periodo storico-letterario in cui vissero. Entrambi
rappresentano l’esempio di come si possa far convivere la tradizione con
l’innovazione; l’uno, Eroda, dando nuova vitalità ad un genere vecchio di
secoli e di origine popolare, l’altro, Lanza, ammantando di letteratura e
raffinata arte la materia più antica ed umile: i racconti popolari della tradizione
siciliana.
Nella seconda parte si è proceduto alla ricerca di assonanze all’interno
delle loro opere principali, rifiutando la tesi che li vuole apparentati dalla
scelta del genere. Si è dimostrato come le presunte assonanze stilistiche e
tematiche tra i due siano il risultato di una scelta arbitraria di Ardengo Soffici,
dettata a caldo dalle emozioni che avevano suscitato le recenti e
contemporanee letture dei Mimiambi di Eroda e dei Mimi di Lanza. Non si è
voluto giudicare però del tutto negativa l’operazione editoriale di Soffici, che,
pur forzata, si è dimostrata feconda di risultati, per la buona circolazione e
considerazione critica che ha accordato all’opera di Lanza.
Si è dimostrato, inoltre, come le presunte tematiche in comune siano in
realtà temi senza spazio e senza tempo, che possono appartenere a qualunque
156
letteratura, ieri come oggi. Come dire: tutto è cambiato, nulla è cambiato: non
ci resta che ridere!
157
Bibliografia
La bibliografia finale è suddivisa in due parti, una dedicata a Francesco
Lanza, l’altra ad Eroda.
Si è scelto di adottare per entrambe un ordine cronologico inverso.
158
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