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DELL'INSURREZIONE SICILIANA
E DELLE GL0RI0SE GESTA
Dl l'USEPPE MARIBMDl
compilata su note e documenti trasmessi dai luoghi ove accadero
DA GIOVANNI LA CECILIA
-
volume
II.
MILANO
LIBRERIA DI FRANCESCo sANVITo
1862.
S TO RIA
DEGLI
ULTIMI RIVOLGIMENTI SICILIANI
Vole IM,
-
~~~~ ~~~~*
STORIA
I)EGLI
IIIIIIIIIIIIIMINIIIIN
DELLA CADUTA DEI BORBONI
E DELLE GL0RI0SE GESTA
DI I GIUSEPPE GARI I 3A A DI I
COLLA DESCRIZIONE
delle celebri battaglie e combattimenti di Marsala, Calatafimi,
Palermo, Milazzo, del Volturno, dell'Umbria, della presa d'An
cona, del bombardamento ed espugnazione di Gaeta fino alla
proclamazione del Regno d'Italia
P E R
GIOVANNI
LA-CECILIA
Vol. II
FIRENZE
T- atti se
a me nn m rars am as met,
Propriet letteraria
Tip. gi Boniotti, diretta da F. Gareffi, Corso di Porta Ticinese N. 15
CAPIT0L0 P RIM 0
Presa di S. Leo. Viaggio del re.
Le Marche e l'Umbria erano cadute intieramente nelle mani
dei nostri. In una campagna di pochi giorni, come dissopra
notammo l'esercito del papa era stato distrutto; generali e sol
dati tutti prigionieri; incorporati nell'esercito sardo gli Italiani,
e gli stranieri mandati a casa loro. Le fortezze o smantellate
o rese, ed ogni ombra di forza dissipata. Non restava che la
libera manifestazione del voto popolare perch queste due pro
vincie seguissero la sorte delle Romagne e degli altri piccoli
Stati romani che si erano annessi al Piemonte. In uno dei
precedenti capitoli accennammo alla partenza del re da Torino
per Ancona; ora il tempo di parlare a lungo di questo
viaggio fatto in mezzo alle feste ed agli applausi di popolazioni
nuove, che per la prima volta salutavano in lui il loro re. Ma
prima di metterci a questa narrazione uopo narrare del forte
di S. Leo e del modo come esso si rese, ultima di tutte le for
tezze delle Marche.
La posizione vantaggiosa alla guarnigione, e da altra parte
il piccol numero della guarnigione stessa, fecero s che il ge
nerale Cialdini marciasse diritto per Pesaro ed Ancona senza
darsi premura del forte di S. Leo, donde non poteva venire
scorreria di soldati n male alcuno alle vicine popolazioni. Per
la piccola citt soffriva i soprusi d'ogni maniera che la guar
nigione vi esercitava, e questi furono ancora un motivo perch
le popolazioni soggette al governo clericale sentissero sempre
pi la immoralit e la inettezza di quel governo, non che l'in
gordigia, e la ferocia di quegli stranieri che dall'Austria e da
altri paesi d'Europa erano venuti a difendere, come essi dice
vano, la religione cristiana, e i diritti della Chiesa cattolica.
Gi disopra lungamente parlammo dello spirito che animava
cotesta gente accogliticcia, e non sar superfluo ripetere an
cora una volta, che essa non aveva religione alcuna, che com
poneva una milizia di ventura, la quale ignorava quale fosse
veramente la questione italiana, e come i pretesi diritti del
papa-re dovevano sparire in faccia alla
tutta la nazione, tendente alla completa
narrazione dei fatti della nostra truppa
Il maggiore del genio, sottodirettore a
maestosa volont di
unificazione. Ecco la
sul forte di S. Leo.
Rimini, recavasi il di
16 settembre, d'ordine superiore, presso il forte S. Leo onde
intimarne la resa a nome del comandante del 4 corpo d'ar
mata. Rifiutatasi la guarnigione anche con modi grossolani, il
maggiore predetto, credendo indispensabile l'impiego dell'ar
tiglieria per espugnare quel forte, ne faceva fin d'allora una
accurata ricognizione.
Giace la citt ed il forte S. Leo su d'una roccia di forma quasi
circolare, del diametro di circa 400 metri, tagliata tutt'attorno a
perpendicolo, con altezza inaccessibile. La citt occupa la parte
pi bassa verso mezzogiorno, ed il forte quella pi alta e da mez
zanotte. Un solo accesso in un angolo rientrante del promon
torio, mette nella citt per un ponte levatoio, e per una ri
strettissima strada tagliata nella roccia. Quest'accesso difeso
da una caserma munita di feritoie per fucileria, e per spin
garde. Il forte domina la citt che sta in basso; ed ha il suo
fronte pi importante verso la valle della Marecchia, lungo la
quale corre la strada praticabile di S. Leo. Su questo lato rin
forzato da una ridotta in terra recentemente costruttasi, era
preparata la maggior difesa con due cannoni da 18, austriaci,
e con 6 spingarde molto grosse. Il fronte verso levante, molto
pi debole del primo, non conteneva che un cannone da 18
con tre spingarde. Tanto esso che la citt tutta sono dominati
da un colle detto della Casa Nuova, a cui si pu accedere ve
nendo dalla valle del Mazzocco, e pel colle detto S. Severino
di S. Leo, per strade molto cattive, ma per praticabili con
piccoli carri tirati da buoi di quei luoghi stessi. Si seppe dopo
la presa del forte, che il lato verso levante era stato quasi inte
ramente abbandonato, perch non tenevasi accessibile con ar
tiglieria la strada del colle della Casa Nuova.
Ritornato il maggiore in Rimini, il comandante del 4 corpo
d'armata veniva informato sul rifiuto della guarnigione di ar
rendersi.
Il giorno 21 settembre un dispaccio telegrafico del conte
Cavour prescriveva al maggiore comandante il circondario di
Rimini, di mettere a disposizione del maggiore del genio due
pezzi ed un distaccamento d'artiglieria, per l'espugnazione del
forte S. Leo. Un altro dispaccio del generale comandante il
4 corpo d'armata prescriveva allo stesso comandante d'assi
curarsi che le artiglierie fossero ben guernite e non corressero
pericolo d'essere sorprese dal nemico. Concertatisi allora i
predetti due maggiori intorno alla spedizione che intrapresero
pienamente d'accordo disposero perch il materiale composto
da due obici e due mortai da 15, e le truppe composte di
un distaccamento di settanta uomini d'artiglieria con dieci uo
mini del genio si ponessero in marcia per le ore due del mat
tino del 22 settembre con 20 carri tirati ciascuno da due pa
riglie di buoi. Giunti alle ore due pomeridiane a Pietra Acuta,
sulle sponde del torrente Mazzocco, si presero carri di pi
ristretta carreggiata, e si percorse in tal modo per 5 chilometri
il letto del torrente Mazzocco; e per altri 5 chilometri una
strada di montagna ripidissima, stretta ed in alcuni punti molto
pericolosa. Il convoglio giunse a S. Severino di S. Leo alle
ore otto di sera dopo una marcia continuata di 18 ore, durante
le quali il distaccamento d'artiglieria comandato dal capitano
sig. Excoffier, e quello del genio comandato dal sottotenente
sig. Gambillo furono ammirabili per l'entusiasmo con cui s'ado
perarono a sospingere i carri ed a riparare i tratti di strada
pi pericolosi. Fu disposto tosto perch le due compagnie di
volontarii assicurassero gli avamposti e restassero pronte a pren
der le armi, per impedire una sortita del nemico. I nostri sol
dati si portarono intanto al lavoro per preparare la batteria
degli obici e quella dei mortai, nei luoghi preventivamente scelti
dal maggiore Morando. La batteria degli obici venne collocata
quasi alla stessa altezza del forte a 900 metri circa di distanza
ed a ridosso d'una strada sulla vetta del colle Casa Nuova, co
perta da folte siepi. Quella dei mortai fu collocata a nord del
forte sul colle detto Montiglione, framezzo a piante che la na
scondevano.
I soldati tutti, senza prender alcun riposo, lavoravano con
indicibile a spianare il terreno, preparare gabbioni e
formare i parapetti: in guisa che nella sera del 23 un buon
ardore
parapetto di 5 metri di spessore copriva i nostri pezzi dal
forte.
Nella notte si trasportarono con molta fatica i pezzi e le
munizioni ai loro posti, e segatesi le piante che coprivano le
batterie si apriva allo spuntare del giorno 24 un vivissimo fuoco
contro il forte.
Tutte le operazioni pel collocamento dell'artiglieria, furono
condotte con tanta segretezza, che quando cominci il nostro
fuoco il comandante della piazza, secondo fu in seguito rife
rito, gridava dal suo alloggio, che si guardasse donde prove
nivano i tiri, e la guarnigione del forte dava in quella stessa
notte una festa da ballo, per festeggiare preventivamente la vit
toria, che credeva facile a riportarsi, con una sortita sui vo
lontarii che l'assediavano, i quali in quei giorni erano stati ri
dotti a meno di duecento. Prima che i cannonieri del forte si
fossero portati al loro posto, i nostri avevano talmente aggiu
stato il loro tiro che il cannone del forte che ci stava di fronte,
pot appena mandarci cinque palle, quando il furiere d'arti
glieria Matianda, gli gettava tre granate di seguito nella canno
niera, le quali scoppiando framezzo i cannonieri si videro questi
a fuggire abbandonando il loro pezzo. Fu vista allora la guar
nigione a riunirsi presso la porta della citt, nello scopo di
fare una sortita, ma avendo i nostri, diretti alcuni colpi contro
il ponte levatoio ed il tamburo che lo precede la guarnigione
fu obbligata a ritirarsi. Alcune granate scoppiate nella citt
avevano talmente spaventata la popolazione, che tutta intera
erasi rifuggiata in chiesa, per cui dopo poco tempo, volendo
i nostri risparmiare maggiori danni alla citt, fu inalberata
bandiera bianca, intimando al comandante del forte di arren
dersi a discrezione, sotto pena di esser passato a fil di spada.
Rispose chiedendo gli onori e privilegi militari. Si rifiut, ma
appena suonata la ripresa del fuoco, il comandante usc dalla
piazza preceduto da bandiera bianca, e venne ad arrendersi
a qualunque condizione. A mezzogiorno i nostri entrarono con
cinquantacinque uomini nella piazza e si disarm la guarnigione
di centoquaranta uomini e cinque uffiziali, chiudendo i primi
in una chiesa, ed i secondi con guardia alla porta nel loro al
loggio comune. Giunse nella notte seguente il generale Griffini,
venutovi d'ordine del generale in capo del 4. corpo d'armata,
e dopo nominata una giunta governativa, e date molte dispo
sizioni, specialmente intorno ai prigionieri, ripart lasciando un
ordine del giorno molto lusinghiero per le truppe.
Nel giorno 25 si restituirono ai loro proprietari 27 capi di
bestiame, del grano, farina, ed altri oggetti rinvenutesi nella
piazza e provenienti da requisizioni. Quest'operazione fu ese
guita coll'intervento di due membri della Giunta e con tutte le
garanzie necessarie.
La mancanza di truppe regolari obblig i nostri di coman
dare di guardia, ai duecento e sei detenuti comuni nel forte
di S. Leo, una compagnia di soldati volontarii, scrivendo im
mediatamente all'intendente di Rimini perch mandasse una
compagnia di guardia nazionale. In questo tempo fuggirono due
prigionieri dal forte, per cui occorrendo di nominare senza ri
tardo un direttore delle carceri, carica prima esercitata dal co
mandante di piazza, si credette conveniente di nominare prov
visoriamente al comando del forte, ed alla direzione del carcere,
il comandante in 2 dei volontarii, capitano Giovannini Luigi.
Il Solari, comandante le due compagnie dei volontarii, inca
ricato dal generale Griffini e dal commissario regio di Pesaro
delle funzioni di commissario regio in S. Leo, ricevette in con
segna il governatore civile di quella citt, il quale per sfavore
voli informazioni ricevute nei dintorni, fu conveniente dichia
rarlo prigioniero.
Vennero fatti inventari di tutto ci che esisteva nel forte,
sia in materiali da bocca che da guerra, e di accasermamento.
La compagnia di guardia nazionale di Rimini giunse in
S. Leo il giorno 26, dove le venne tosto affidata la custodia
del forte. I prigionieri di guerra vennero spediti per Rimini
il d 27.
I fondi della compagnia stata presa prigioniera di guerra, fu
rono rimessi al maggiore comandante di Rimini in presenza
del generale Griffini, e le carte di tutto il denaro requisito
dalla stessa compagnia durante l'assedio, formarono l'oggetto
speciale di un resoconto che fu trasmesso unitamente agli altri
inventarii.
Nell'ingresso dei nostri in S. Leo si present un commo
vente spettacolo nella popolazione, la quale si gettava ai piedi
del nostri baciando loro le mani per averla salvata dal despo
tismo della guarnigione austriaca che occupava il loro paese, e
la sera un illuminazione generale festeggiava il fausto avve
nimento.
Dopo quel giorno la bandiera pontificia non isventol pi in
nessuna citt o castello delle Marche e dell'Umbria, e queste
due provincie furono da parte del papa irreparabilmente per
dute.
Il re Vittorio Emanuele partiva da Torino il di 29 settem
bre alle due e mezzo precise. La popolazione accalcavasi in
piazza Castello, empiva la via dei Conciatori, ed occupava la
piazza ed i dintorni della stazione per salutare il re soldato.
Dentro la stazione stavano i ministri, il sindaco di Torino e
parecchi deputati, quivi raccolti per salutare il re. Pochi mo
menti prima della partenza era giunto l'annunzio uffiziale della
resa di Ancona, che tosto pubblicatosi per la citt accrebbe
l'entusiasmo della popolazione. Curiosa coincidenza! in quel
l'ora medesima giungeva in Torino il napolitano Silvio Spa
venta, espulso dalla sua terra nativa per ordine del general Ga
ribaldi. Lo Spaventa, dopo essere stato uno dei pi coraggiosi
deputati al parlamento napolitano nel 1848 e nel 1849, venne
arrestato, processato e condannato all'ergastolo, dove pass 10
anni. Liberato, e rientrato in Napoli divenne uno dei pi sma
niosi annessionisti, e tocc a lui la sorte toccata in Palermo
al La Farina.
Vittorio Emanuele accompagnato dal ministro dell'Interno
Farini, la sera del 29 giungeva a Bologna dove il popolo lo
ricevette fra gli applausi e le pi vive manifestazioni di sim
patia. Qual fosse lo spirito pubblico in quei giorni si pu fa
cilmente conoscere dal considerare che le notizie delle pro
vince meridionali e le voci di partiti repubblicani che quivi
agitavansi avevano messo in timore tutti i buoni italiani, e per
ci questi salutavano il viaggio del re verso il mezzogiorno
d'Italia come il pi pronto e salutare rimedio ai mali che mi
enacciavano. Era questa una delle ragioni che moltiplicava gli
applausi e l'entusiasmo dinanzi ai passi del re galantuomo.
L'indomani giorno 30 settembre una grande rivista mili
tare aveva luogo nei prati di Caprara, vicino a Bologna; il re
era presente e fu acclamato dalla truppa e dal popolo. Pas
sando per la citt ed in tutto quel tratto di strada che mette
alla villa di S. Michele in Bosco, il popolo si accalcava a de
stra e a sinistra, e la citt tutta brillava per vessilli e tap
peti che ornavano le fronti delle case.
- Alle tre pomeridiane del primo ottobre il re col suo seguito
lasciava Bologna per recarsi a Ravenna; in lmola, in Faenza,
in Forli ed in tutte le altre citt e paesi dove passava era
sempre ricevuto col medesimo entusiasmo, quantunque in al
- - --
- ---
-- - -
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E manuele in Ancora
.----
cune di quelle citt giungesse di notte e non facesse che
transitarle.
Alle 11 antimeridiane del giorno 2 arrivava in Ravenna. La
citt era ornata a festa: Vittorio Emanuele volle visitare i
principali monumenti di che abbonda quella citt, e la sera
assistette ad una rappresentazione al teatro. Alle due pome
rediane del giorno 3 il re disbarcava in Ancona, dove fu sa
lutato, ed acclamato re liberatore dal popolo e da numerosa
guardia nazionale, che in pochissimi giorni, come per incanto
erasi organizzata.
Dai vicini paesi e citt delle Marche molta gente era ac
corsa in Ancona per vedere il nuovo re; la citt era tutta
-
adorna di festoni, di trofei e di bandiere, sparsa d'iscrizioni e
di fiori, le bande suonavano gli inni nazionali, e dopo tanta
schiavit ed oppressione di dominio clericale Ancona abbando
navasi all'ebrezza della libert.
Il giorno appresso volle il re visitare gli accampamenti, e
fu indescrivibile l'entusiasmo con cui l'armata lo accolse. Quei
bravi soldati che avevano combattuto per l'Italia vedevansi
ora quasi ricompensati delle loro fatiche dalla visita affettuosa
che loro faceva il valoroso re soldato.
Per fu veramente grande la gioia, quando si seppe che il
re mettevasi alla testa dell' esercito e che ne prendeva il co
mando.
Il giorno 4 infatti, un ordine del giorno del re diceva:
Soldati !
Sono contento di voi, perch voi siete degni dell'Italia.
Colle armi avete vinto i nemici, col contegno i calunniatori
del nome italiano. I vinti che rimando liberi parleranno del
l'Italia e di voi alle genti straniere. Essi avranno imparato che
Dio premia chi lo serve colla giustizia e colla carit, non chi
opprime i popoli e conculca il diritto delle nazioni. Noi dob
biamo fondare nella libert la forte monarchia italiana. Ci aiu
teranno i popoli coll'ordine e la concordia. L'esercito nazio
nale accrescer sempre pi la gloria, che da otto secoli splende
sulla croce di Savoja.
.
-
Soldati!
Io piglio il comando. Mi costava troppo non trovarmi il
primo l dove pu essere il pericolo .
Storia della rivol. Sicil. Vol. II.
10
Simile linguaggio non poteva non produrre forte impres
sione nell'animo degli Anconitani, quelle parole specialmente
che accennavano a Dio premiatore di chi lo serve colla giu
stizia e colla carit, e non di chi opprime i popoli e conculca
il diritto delle nazioni; perciocch il dominio clericale dal 1848
in poi erasi sforzato a persuadere ai sudditi che il libero Pie
monte aveva tutte travolte le religiose credenze e che ora av
viluppato nell'eresia e nelle censure ecclesiastiche non poteva
vedere ombra di bene. Il sentire adunque un linguaggio re
ligioso dalla bocca di un re soldato fu un gran colpo contra le
mene clericali, perch il popolo disse che Vittorio Emanuele
era giusto, e che Iddio diffatti lo aveva aiutato con tante vit
torie e col farlo divenire di giorno in giorno pi grande e pi
potente. D'altronde quelle popolazioni erano stanche del do
minio clericale, Ancona specialmente, da molto tempo foco
lare di congiure e di cospirazioni contro il dominio dei papi.
Vedersi ora messi a parte delle fortune italiane e godere degli
stessi diritti delle altre libere provincie era per quel popolo
consolazione grandissima; e il clero che erasi sempre lusin
gato di godere l'amore e la fiducia dei popoli delle Marche, in
quel giorno comprese di essersi illuso, e conobbe la verit, e
in s stesso dovette dire che il potere temporale dei papi era
finito.
Un altro ordine del giorno fu diretto dal re alla marina;
esso diceva:
Soldati di marina!
Voi avete ben meritato di me e della patria. Le vostre
gesta sotto le mura d'Ancona sono degne degli eredi delle glorie
- di Pisa, di Venezia, di Genova.
Soldati!
La nazione vi guarda con orgoglio; il vostro re vi rin
grazia. Sono grandi i destini della marina italiana .
Ambedue questi ordini del giorno furono pubblicati il giorno
4 di ottobre, e quel giorno fu di grande consolazione percioc
ch tutti interpretarono benignamente le parole del principe.
A tutto questo aggiungevasi un decreto dato due giorni
prima a Ravenna, col quale veniva accordato un generale con
11
dono, ai militi della guardia nazionale del regno, di tutte le
pene portate da sentenze di condanna dei consigli di disciplina
anteriori alla pubblicazione del decreto, e che ancora non ave
vano ricevuta perfetta esecuzione. Quello stesso decreto ac
cordava l'amnistia per tutte le infrazioni commesse dai militi
prima della promulgazione del decreto, per le quali sarebbero
soggetti a procedimento innanzi ai consigli di disciplina.
La ragione di questo decreto stava nella necessit di amni
stiare quei soldati che avevano disertata l'armata regolare per
correre in aiuto di Garibaldi nell'Italia meridionale. L'atto ge
neroso e benigno contribuiva a conciliare sempre di pi l'animo
dei nuovi popoli verso il nuovo sovrano.
Per dare un'idea di ci che questi popoli sentivano verso
Vittorio Emanuele basta leggere il seguente indirizzo fatto
dalla Giunta provinciale di governo di Macerata. Quell'indirizzo
diceva:
Maest.
Vi hanno delle gioie che labbro umano non sa descrivere,
e la vostra venuta in queste provincie gioia a fronte della
quale resta muto ogni altro affetto, tranne quello della pi viva
ammirazione, della riconoscenza pi profonda al pi magna
nimo dei principi, al valorosissimo dei guerrieri. La provincia
di Macerata, non ultima fra quelle delle Marche, come stata
sollecita d'implorare la protezione di V. M. per essere libe
rata dalle soldatesche straniere, cosi ha ora la nobile ambi
zione di umiliare a vostri piedi la lealt di tali sentimenti, e
dirvi che essa benedice ai sofferti dolori, da che appunto val
sero a commuovere il cuore di V. M. e ad affrettarne la re
denzione.
-
Sire!
Nelle private famiglie il figlio ultimo a nascere fatto
segno alle pi tenere cure dei genitori ! mentre i nostri fra
telli sono da tempo orgogliosi di chiamarvi lor padre, e ma
turi procedono nel cammino della nuova civilt, a noi solo
da
" giorni che fu
miglia
dato di nascere alla grande italiana fa
12
Sire.
su noi che specialmente si spanderanno i benefici del
paterno reggimento vostro, che non ne siamo indegni ve lo mo
streremo nell'umanimit delle votazioni, e ve lo manterremo
a prezzo di sangue .
Questo linguaggio che certamente sorge dal cuore e porta
l'impronto del pi vivo e tenero entusiasmo dimostra il con
tento dei Marchigiani, nel passare dal dominio clericale al li
bero governo di re Vittorio Emanuele.
Fra i molti indirizzi che in Ancona vennero presentati al re
Vittorio Emanuele, meritano considerazione speciale quelli
fatti a nome degli Abruzzesi, dei Napolitani e dei Siciliani,
perciocch essi invitavano il re a venire nelle provincie meri
dionali, e quindi erano ordinati ad abbattere il governo gari
baldino con tutte le sue aspirazioni.
Un indirizzo a nome delle popolazioni abruzzesi diceva:
Sire.
Inviati dalle popolazioni degli Abruzzi, che per l'organo dei
loro municipii ci hanno eletti, noi pieni di riverenza, di amore
e di viva fiducia ci presentiamo alla M. V. dichiarandole che
nel proclamarla a nostro re, quelle popolazioni obbedivano al
pi spontaneo impulso del proprio cuore, dappoich fu sem
pre in cima ad ogni nostro desiderio il vederci chiamati al
consorzio delle oneste e sincere libert che allietano la supe
riore Italia sotto lo scettro del pi leale e del pi valoroso dei
re. Ora all'ansia di veder compiuto questo ardente voto si ag
giunge l'urgente bisogno di vedere ripristinato l'ordine fra noi
turbato dal morente dispotismo che ci minaccia da un lato e
dalla intemperanza di uomini non accetti alla pubblica opinione,
ed aventi una fede politica diversa da quella per cui l'Italia si
sta rigenerando, che ne spaventa, dall'altro.
Supplichiamo perci istantemente V. M. di affrettare il
momento in cui i nostri voti siano coronati dalla sua accetta
zione, ed in cui sia a noi dato di entrar diffatto nella gran fa
miglia italiana per godere all'ombra del migliore dei sovrani i
benefici della libert e dell'ordine congiunti insieme .
13
Questo indirizzo comunque moderato parlava gi della in
temperanza di uomini non accetti alla pubblica opinione, e che
avevano una fede politica diversa da quella di tutti gli Italiani.
Chiaro si vede come il ministro di Torino maneggiasse le cose
in Napoli e negli Abruzzi, e come ne facesse venir fuori si
mili indirizzi per giustificare la prossima entrata del re nelle
provincie meridionali, e preparare gli animi alla sconfitta di
coloro, che in nome di Garibaldi reggevano le cose delle due
Sicilie.
Un certo Francesco De Blasis presentava il giorno 5 ottobre
nelle mani del re un altro indirizzo che diceva:
Sire.
Quaranta municipii degli Abruzzi, le di cui originali deli
berazioni ho l'onore di rimettere nelle mani di V. M., mi
hanno dato l'onorevole incarico di esprimere alla M. V. i senti
menti unanimi di quelle popolazioni; sentimenti che si riepi
logano nel desiderio immenso di riunirsi alla grande famiglia
italiana, che sorge splendidamente all'altezza di nazione libera
ed indipendente e nella venerazione senza limiti per la vostra
real persona verso di cui gli occhi di tutti i popoli civili son
volti con ammirazione, ed i cuori di 27 milioni d'Italiani con
immenso affetto. E chi non sarebbe orgoglioso di appartenere
a una s grande nazione e di assicurarne la libert e la pro
sperit stringendosi intorno al trono di un re, si largo nel con
cedere, si leale nel mantenere, s saggio nei consigli, si valo
roso sui campi ? Chi potrebbe senza esultanza salutare nel
proprio sovrano il valoroso soldato di Palestro e S. Martino, ed
il principe generoso che, senza esitanza ad ogni pi sospinto
espone la vita ed arrischia l'avita corona, tutto sacrificando al
grandioso pensiero di fare una, libera ed indipendente l'Italia?
Ma quanto pi grande l'intensit e l'unanimit di questi
sentimenti in tutte le popolazioni abruzzesi, tanto pi grave
l'ansia ed il palpito che ad esse cagiona il triste spettacolo di
una fazione stolta ed incorreggibile, che osa attraversare una im
presa si nobilmente cominciata e si avventurosamente prossima a
compiersi, velando prima con iniquo artificio, e smascherando
poi con inqualificabile audacia tendenze politiche impossibili, e
respinte dall'universale avversione, esse sentano perci il bi
sogno di dichiarare nettamente che non sanno comprendere
14
altro modo di fare una ed indipendente l'Italia che di racco
glierla tutta all'ombra della M. V. degno rampollo di una
stirpe valorosa e leale, la quale ebbe sempre in cima d'ogni
suo pensiero la grandezza d'Italia, la quale sola alle popola
zioni, mature per gli ordinamenti rappresentativi, concesse
libert sincere fedelmente mantenute, ed ampliate alle occo
renze. Supplicano pertanto per mio mezzo la M. V. a volere
accogliere una tale dichiarazione che parte dall'intimo dei
cuori, ed a volere sperdere l'ostacolo imprevisto, che la stol
tezza di un cieco partito osa di opporre all'altissimo scopo,
occupando con le sue valorose truppe le provincie minacciate
dal disordine e dell'anarchia; ed annettendole indilatamente
a quel savio e libero governo che destinato a far grande e
prospera l'Italia .
In questo secondo indirizzo si d dello stolto e dell'incor
reggibile, non che del fazioso a quel partito che circondava
Garibaldi. Il governo di Torino perci era riuscito ad accen
dere le ire e gli sdegni nelle masse e a fare cadere nel con
cetto delle popolazioni, quegli uomini che avevano rovesciato
il trono di Francesco II.
Anche l'elemento clericale figur negli indirizzi; e l'arci
vescovo di Trani supplicava il re con le seguenti parole :
Sire,
L'arcivescovo di Trani e Nazaret, nel proprio nome e
del suo gregge, supplica V. M. a venire in Napoli per sug
gellare la grande opera dell'Unit Italiana e per restaurare
la tranquillit e la pace fra i popoli di queste ridenti
contrade.
Si degni ascoltare questi voti supplichevoli, ed il Signore
degli eserciti ricolmi la M. V. delle sue celesti benedizioni .
Il clero napoletano diviso in due partiti, liberale uno, re
trogrado l'altro, ambedue per fini diversi desideravano che
Vittorio Emanuele oltrepassando i confini si recasse in Na
poli. I preti liberali, paghi della caduta di Francesco Borbone
vagheggiavano un nuovo ordine di cose in mezzo al quale
molti speravano spingersi avanti ad alti posti e a cariche lu
crose; era infatti naturale che insieme al Borbone cadendo
15
la parte del clero protetta, aprivasi un campo vasto alle am
bizioni di quei chierici che fino allora erano stati o non cu
rati dal governo o perseguitati. Quanto al clero alto e retro
grado diremo che esso temeva un qualche scompiglio religioso
in quei momenti di fanatismo e di esaltazione morale. Gari
baldi in certi suoi pubblici discorsi erasi mostrato non troppo
amico di Roma n della Chiesa quale Roma l'intendeva, il
padre Gavazza, di cui altre volte parlammo pareva volesse pro
testantizzare la popolazione napoletana, i garibaldini non
molto scrupolosi in fatto di religione sembravano atei agli
occhi del clero e del popolo ambedue superstiziosi, e nelle
cose di religione, oltre ogni credere, materiali; libri osceni o
zeppi di false dottrine serpeggiavano per la citt; tutto questo
accennava, come dicemmo, ad un probabile moto religioso,
di che l'episcopato molto temendo affrettava anche contro sua
voglia l'arrivo di Vittorio Emanuele, sperando che il suo
governo valesse a mettere un sistema e ad impedire i mali
che intimorivano il clero.
Vittorio Emanuele non cercava di meglio; pregato dalle
deputazioni municipali e dell'episcopato acquistava in qualche
maniera il diritto di entrare nello Stato napoletano e di pren
dere le redini del governo. La mattina del giorno nove partiva
da Ancona alla volta di Macerata, pubblicando al momento
della sua partenza il seguente manifesto diretto agli abitanti
delle Due Sicilie:
AI POPOLI
DELL' ITALIA
MERIDIONALE.
Manifesto.
In un momento solenne della storia nazionale e dei de
stini italiani, rivolgo la mia parola a voi, popoli dell'ltalia
Meridionale, che, mutato lo Stato nel nome mio, mi avete
mandato oratori di ogni ordine di cittadini, magistrati e
deputati de municipii, chiedendo d'essere restituiti nell'or
dine, confortati nella libert, ed uniti al mio regno.
Io voglio dirvi quale pensiero mi guidi, e quale sia in me
la coscienza dei doveri che deve adempiere chi dalla Prov
videnza fu posto sopra un trono italiano.
lo salii al trono dopo una grande sventura nazionale.
Mio padre mi diede un alto esempio, rinunziando la corona
16
per salvare la propria dignit e la libert de' suoi popoli,
Carlo Alberto cadde coll'armi in pugno, e mor nell'esilio:
la sua morte accomun sempre pi le sorti della mia famiglia
a quelle del popolo italiano, che da tanti secoli ha dato a
tutte le terre straniere le ossa de suoi esuli, volendo riven
dicare il retaggio di ogni gente che Dio ha posto fra gli stessi
confini, e stretta insieme col simbolo d'una sola favella.
Io mi educai a quello esempio, e la memoria di mio
padre fu la mia stella tutelare.
Fra la corona e la parola data, non poteva per me es
sere dubbia la scelta, mai. .
Raffermai la libert in tempi poco propizii a libert, e
volli che, esplicandosi essa, gittasse radici nel costume dei
popoli, non potendo io avere a sospetto ci che a miei po
poli era caro. Nella libert del Piemonte fu religiosamente
rispettata la eredit che l'animo presago del mio augusto
genitore avea lasciato a tutti gli Italiani.
Colle franchigie rappresentative, colla popolare istruzione,
colle grandi opere pubbliche, colla libert dell'industria e dei
traffici, cercai di accrescere il benessere del mio popolo: e
volendo sia rispettata la religione cattolica, ma libero ognuno
nel santuario della propria coscienza; e ferma la civile auto
rit, resistetti apertamente a quella ostinata e procacciante
passione, che si vanta la sola amica e tutrice dei troni, ma
che intende a comandare in nome dei re ed a frapporre
fra il principe ed il popolo la barriera delle sue intolleranti
passioni.
Questi modi di governo non potevano essere senz'effetto
-
per la rimanente Italia. La concordia del principe col popolo
nel proponimento dell'indipendenza nazionale, e della libert
civile politica, la tribuna e la stampa libera, lo esercito che
aveva salvata la tradizione militare italiana, sotto la bandiera
tricolore, fecero del Piemonte il vesillifero e il braccio d'Italia.
La forza del mio principato non deriv dalle arti di un oc
culta politica, ma dallo aperto influsso delle idee e della pub
blica opinione.
Cos potei mantenere, nella parte di popoli italiani riu
nita sotto il mio scettro, il concetto di una egemonia nazio
nale, onde nascer doveva la concorde armonia delle divise
provincie in una sola nazione.
L'Italia fu fatta capace del mio pensiero, quando vide
17
mandare i miei soldati sui campi della Crimea accanto ai
soldati delle due grandi potenze occidentali. Io volli far en
trare il diritto d'Italia nella realt dei fatti e degli interessi
europei.
Al congresso di Parigi i miei legati poterono parlare per
la prima volta all'Europa de' vostri dolori. E fu manifesto
come la preponderanza dell'Austria in Italia fosse infesta al
l'equilibrio europeo, e quanti pericoli corressero la indipen
denza e la liberta del Piemonte, se la rimanente penisola non
fosse francata dagli influssi stranieri.
Il mio alleato, l'imperator Napoleone Ill sent che la
causa italiana era degna della grande nazione sulla quale im
pera. I nuovi destini della nostra patria furono inaugurati
da giusta guerra. I soldati italiani combatterono degnamente
accanto alle invitte legioni della Francia. I volontarii accorsi
da tutte le provincie e da tutte le famiglie italiane sotto la
bandiera della croce sabauda, addimostrarono come tutta l'Italia
mi avesse investito del diritto di parlare e di combattere in
Il0Ine SuO.
La ragione di Stato pose fine alla guerra ma non a suoi ef
fetti, i quali, si andarono esplicando per la inflessibile logica
degli avvenimenti e dei popoli.
Se io avessi avuta quell'ambizione che imputata alla mia
famiglia, da chi non si fa addentro nella ragione dei tempi, io
avrei potuto essere soddisfatto dell'acquisto della Lombardia.
-
Ma io avevo sparso il sangue de' miei soldati non per me,
per l'Italia.
Io aveva chiamato gli Italiani all'armi: alcune provincie
italiane avevano mutati gli ordini interni per concorrere alla
guerra di indipendenza, dalla quale i loro principii abborrivano.
Dopo la pace di Villafranca, quelle provincie dimandarono la
mia protezione contro il minacciato ristauro degli antichi go
verni. Se i fatti dell'Italia centrale erano la conseguenza della
guerra, alla quale mi avevano invitato i popoli, se il sistema
delle intervenzioni straniere doveva essere per sempre sban
dito dall'Italia, io doveva conoscere e difendere in quei
popoli il diritto di legalmente e liberamente manifestare i
voti loro.
Io ritirai il mio governo: essi fecero un governo ordinato;
ritirai le mie truppe, essi ordinarono forze regolari ed a gara
di concordia e di civili virt vennero in tanta riputazione e forza,
Storia della rivol. Sicil. Vol. II.
18
che solo per violenza d'armi straniere avrebbero potuto esser
vinti.
Grazie al senno dei popoli dell'Italia centrale, l'idea mo
narchica fu in modo costante affermata, e la monarchia mo
der moralmente quel pacifico moto popolare. Cos l'Italia
crebbe nell'estimazione delle genti civili e fu manifesto all'Eu
ropa, come gl' Italiani siano acconci a governare s stessi.
Accettando l'annessione, io sapeva a quali difficolt eu
ropee andassi incontro. Ma io non poteva mancare alla parola
data agli Italiani nei proclami della guerra. Chi in Europa mi
taccia di imprudenza, mi giudichi con animo riposato che cosa
sarebbe diventata, cosa diventerebbe l'Italia il giorno nel quale
la monarchia apparisse impotente a soddisfare il bisogno della
ricostituzione nazionale!
Per le annessioni, il moto nazionale se non mut nella
sostanza, pigli forme nuove accettando dal diritto popolare
quelle nobili e belle provincie; io doveva lealmente ricono
scere l'applicazione di quel principio, n mi era lecito il mi
surarlo colla norma de' miei affetti ed interessi particolari. In
suffragio di quel principio io feci per utilit dell'Italia il sa
crificio che pi costava al mio cuore, rinunziando due nobilis
sime provincie del regno avito.
Ai principi italiani che han voluto essere miei nemici, ho
sempre dati schietti consigli, risoluto, se vani fossero, ad incon
trare il pericolo che l'acciecamento loro avrebbe fatto correre
ai troni, e ad accettare la volont dell'Italia.
Al granduca io aveva indarno offerto la alleanza prima della
guerra. Al sommo pontefice nel quale venero il capo della re
ligione dei miei avi e dei miei popoli, fatta la pace indarno,
scrissi offerendo di assumere il vicariato per l'Umbria e per
le Marche.
Era manifesto che quelle provincie contenute soltanto dalle
armi di mercenari stranieri, se non ottennessero la guarentigia
di governo civile ch'io proponeva, sarebbero tosto o tardi ve
nute in termine di rivoluzione.
Non ricorder i consigli dati per molti anni dalle potenze
al re Ferdinando di Napoli. I giudizii che nel congresso di
Parigi furono proferiti sul suo governo, preparavano natural
mente i popoli a mutarlo, se vane fossero le querele della pub
blica opinione, e le pratiche della diplomazia.
Al giovine suo successore, io mandai offerendo alleanza
19
per la guerra dell'indipendenza. L pure trovai chiusi gli
animi ad ogni affetto italiano e gli intelletti abbujati dalla pas
sione.
Era cosa naturale che i fatti succeduti nell'Italia settentrio
nale e centrale sollevassero pi e pi gli animi nella meri
dionale.
In Sicilia questa inclinazione degli animi ruppe in aperta
rivolta. Si combatteva per la libert in Sicilia, quando un
prode guerriero devoto all'Italia ed a me, il generale Garibaldi
salpava in suo aiuto. Erano italiani: io non poteva, non doveva
rattenerli!
La caduta del governo di Napoli rafferm quello che il mio
cuore sapeva; cio quanto sia necessario al re l'amore, ai go
verni la stima dei popoli!
Nelle due Sicilie il nuovo reggimento s'inaugur nel mio
nome. Ma alcuni atti diedero a temere che non bene inter
pretasse per ogni rispetto quella politica che nel mio nome
rappresentato. Tutta l'Italia ha temuto che all'ombra di una
gloriosa popolarit e di una probit antica, tentasse di rian
nodarsi una fazione pronta a sacrificare il vicino trionfo nazio
male alle chimere del suo ambizioso fanatismo.
Tutti gli Italiani si sono rivolti a me perch scongiurassi
questo pericolo. Era mio obbligo il farlo perch nell'attuale
condizione di cose non sarebbe moderazione, non sarebbe senno,
ma fiacchezza e imprudenza il non assumere con mano ferma
la direzione del moto nazionale, del quale sono responsabile di
nanzi all'Europa.
Ho fatto entrare i miei soldati nelle Marche e nell'Um
bria disperdendo quell'accozzaglia di gente di ogni paese e di
ogni lingua, che qui si era raccolta, nuova e strana forma di
intervento straniero, e la peggiore di tutte.
Io ho proclamata l'Italia degli Italiani e non permetter
mai che l'Italia diventi il nido di sette cosmopolite che si rac
-
colgono a tramare i disegni o della reazione o della demagogia
universale.
Popoli dell'Italia meridionale!
Le mie truppe si avanzano fra voi per raffermare l'ordine.
Io non vengo ad imporre la mia volont, ma a far rispettare
la vostra.
20
-
Voi potrete liberamente manifestarla, la Provvidenza che
protegge le cause giuste, inspirer il voto che deporrete nel
l'urna.
Qualunque sia la gravit degli eventi, io attendo tranquillo
il giudizio dell'Europa civile e quello della storia, perch ho
la coscienza di compiere i miei doveri di re e di italiano!
In Europa la mia politica non sar forse inutile a ri
conciliare il progresso dei popoli colla stabilit delle mo
narchie.
In Italia io so che chiudo l'ra delle rivoluzioni.
Dato da Ancona addi 9 ottobre 1860.
VITTORIO EMANUELE.
FARINI.
Nei giorni di sua dimora in Ancona il re abitava al Posa
tore e proprio nella Villa Colonnelli. La sera dell'8, sulle prime
ore della notte il popolo anconitano erasi proposto di recarsi
in massa a quella villa per dargli l'addio, ma taluni conside
rando che allo spuntare del di egli sarebbesi messo in viaggio
si mut pensiero, ed invece, tutte le alture d'intorno furono
illuminate a fuoco di bengala.
Alle 6 del mattino, il re accompagnato dal ministro del
l'interno parti per Macerata; l'esercito, levate le tende da An
cona si mise in marcia; parte delle truppe erasi imbarcata la
sera precedente sui legni della regia marina alla volta di Na
poli; nell'ora stessa in cui il re con l'esercito moveva per
terra, la squadra italiana salpava dal porto.
La commissione municipale interprete dei desiderii della
popolazione salutava il re che partiva con le seguenti parole:
Sire.
Il municipio d'Ancona tributa omaggio di gratitudine al
suo generoso liberatore.
In altre citt sorelle gi vi si porge simile tributo, Ma
niun forse ve lo dovette e ve lo deve s fervido; ch ultimo ad
entrare nel novero delle redente, Ancona pi a lungo gem
sotto l'oppressione di chi imperava nel nome di quel re man
21
sueto che aveva pur detto esser leggero il suo peso, soave il
suo giogo.
La prode vostra armata, nelle cui file Ancona vede con or
-
goglio parecchi suoi figli ha compiuto il gran patto. E voi come
ancor consigli il vostro cuore gentile correste sollecito in mezzo
alla nuova famiglia, che anelava da lunghi anni esser vostra, e
che attende al fraterno amplesso altri ancora cui la divina prov
videnza congiunse, l'umana politica separ,
A raggiungere questo santo scopo, occorreranno dei sa
crifici e niuno ve ne sar che paja grave agli Anconitani. Essi
vi offrono sostanza e vita. Sire, disponetene, sono vostre.
Voi muovete a nuove battaglie. Ed Ancona la quale sa
bene che per voi combattere vincere, affretta coi suoi voti
quel di fortunato in cui l'alloro trionfale che cinger la vostra
fronte sar l'immortale corona del regno d'Italia .
Lungo la strada che mena da Ancona a Macerata sul pas
saggio del re affollavansi le popolazioni dei vicini paesi; a Ma
cerata giungeva circa il mezzogiorno; ed abbench il tempo non
fosse bello, tutto il popolo corse a festeggiarne l'arrivo.
Il giorn 10 and a Loreto, ma appena arrivato si rec alla
Santa Casa, al cui ingresso fu ricevuto da numeroso clero e
con ogni solennit di rito. Assegn la somma di lire 50,000
pei restauri della chiesa; visit l'ospedale dei soldati feriti sta
bilito nell'antico collegio dei gesuiti; avvicinandosi al letto degli
ammalati li confort con amorevoli parole e lasci loro largo
sussidio. Alle 3 partiva a cavallo con tutto il suo seguito per
Civitanuova; tutto il popolo di Loreto ed un gran numero degli
accorsi dai paesi vicini, per lungo tratto di strada lo accom
pagn plaudendo.
Sempre festeggiato da popolazioni curiose ed entusiaste, il
giorno 13 giungeva a Grottamare, ove gli si present la depu
tazione napolitana, della quale parlammo in uno dei precedenti
capitoli. Essa aveva dovuto fare un lunghissimo viaggio, per
ciocch la parte settentrionale del regno essendo poca sicura,
per le truppe borboniche che l'occupavano fino ad Isernia e
per le bande reazionarie che percorrevano gli Abruzzi, fu co
stretta a girare tutta l'Italia Centrale per Livorno ed Ancona.
Vittorio Emanuele accolse benignamente la deputazione com
posta di nomi grandi dell'aristocrazia e del foro napolitano. Si
trattenne con essa una buona ora, discorrendo della sua deter
a , "Aa
-
- --
VA
.
-
-.
22
minata volont di riparare le ingiustizie fatte sino allora all'I
talia dalla fortuna e dall'Europa, e di combattere sempre per
soddisfare i desideri di quei popoli che fidavano in lui. Disse
che gli Italiani avevano dato prova di molto coraggio e valore;
lod i Lombardi, i Toscani, i Romagnuoli; aggiunse che dai
Napolitani non isperava meno, giacch egli stesso gli aveva visti
combattere al suo fianco a Goito nel 1848. Parl delle pre
senti condizioni d'Italia, e dei sacrifici che ancora era uopo
consumare per giungere alla meta sospirata di assembrare in
una sola famiglia tutte le provincie italiane. Si lod delle po
polazioni delle Marche e commend altamente l'unanime sentire
di tutte le classi circa gli interessi essenziali della causa ita
liana. Mostr nudrire eguale fiducia nelle popolazioni dell'Italia
meridionale e concluse dicendo, che l'Italia poteva far molto
purch lo avesse fortemente voluto.
Queste parole erano dette dal re in risposta a Ruggiero Bon
ghi, che come capo della deputazione napoletana present al
re la deputazione stessa e l'indirizzo del municipio con le se
guenti parole:
Sire.
Si presenta innanzi a voi la deputazione del municipio di
Napoli, accompagnata da cittadini, di cui a pi solenne testi
monianza del voto pubblico, essa si voluta circondare; essa
viene a voi con un desiderio conforme a quello che vi ha
nato innanzi le deputazioni dei municipii di Lombardia, di
scana, di Romagna, delle Marche, e dell'Umbria.
Sire, noi vogliamo essere sudditi vostri, perch noi
gliamo essere liberi e italiani, e non si liberi e italiani
con voi e per voi.
me
To
vo
che
-
Sire, un antico disordine, sotto falso nome di diritto, h
da lunghi anni sconvolto il regno e turbato gli animi, e spezzato
i vincoli morali della civil societ. Giuseppe Garibaldi, uomo
meraviglioso per la felicit del suo genio e per la lealt del suo
animo, ha dissipato davanti a s i satelliti sostenitori della ti
rannide che ci opprimeva. Ora, sire, resta che voi, legittimo
e proclamato re, desiderio comune dei cittadini e di chi oggi
regge, a nome vostro, i destini del regno, cominciate, con un
governo come il vostro, riparatore degli antichi danni, a risa
nare le piaghe che covrono l'infelicissimo corpo del Reame
v,
23
di Napoli, il quale oggi diventa la pi fedele delle provincie
d'Italia.
Sire, l'animo vostro stato commosso dalle grida di dolore
di quei popoli d'Italia, che la vostra spada e la vostra fede
ha liberati, sinora i nostri dolori non dovevano avere, n hanno
avuto meno efficacia sul vostro animo. Giacch voi avete gi
pronunciata la sperata parola che noi venivamo ad implorare
da voi, voi avete gi promesso di soddisfare colla maggiore
sollecitudine in poter vostro il pi ardente, il pi unanime voto
del popolo napolitano, vedere e salutare il suo re.
Interpreti di questo voto, noi, depositiamo nelle mani
vostre l'indirizzo del municipio di Napoli; ma una maggiore
prova con una maggiore testimonianza vi aspetta, l'immensa
gioia e l'unanime applauso delle popolazioni del regno.
Per tra tutte le parole del re meritano singolare attenzione
le seguenti:
Non ho ambizione, diss'egli, ma amo l'Italia e la causa della
sua indipendenza; a questa causa ho consacrato gli atti di tutta
la mia vita. Il passo al quale mi sono risoluto ardito, e potr
suscitare i miei nemici in Europa. Ma, per ottenere la libert
dell'Italia, non temo di affrontare alcun pericolo. L'Italia
degna d'una sorte migliore di quella che non ha avuta sinora. I
suoi figli sono stati esuli per ogni parte d'Europa; tempo che
il popolo italiano riposi dai suoi dolori, e l'Italia viva tranquilla
e indipendente. Io avrei voluto anche prima d'ora alleviare i
vostri dolori, ma molte difficolt si sono opposte. Voi avete fi
ducia in me, e potete essere sicuri che tutte le mie forze sa
ranno consacrate allo scopo comune. Noi potremo compiere
coll'aiuto di Dio l'opera, colla concordia e coll'ordine. Io sono
Soldato ed amo l'ordine. Quando avr fatta dell'Italia una na
zione forte, avr compito il sogno della mia vita, il disegno
che m'era proposto salendo al trono. I soldati italiani hanno
gi dato prova del loro valore. Gli uni dopo gli altri mostra
rono, che non sono gli uni da meno degli altri in coraggio.
I Lombardi al paragone, non si sono trovati minori dei miei
Vecchi piemontesi, hanno combattuto con eroico coraggio.
Alcuni volevano porre in dubbio l'attitudine militare de To
Scani, ma essi hanno fatto mostra nell'ultima campagna d'una
fermezza degna di vecchi soldati. 1 Romagnoli hanno confer
24
mata l'antica fama della loro bravura. I Napoletani io li co
nosco, li ho visti nel 1848 combattere a Goito al mio fianco
con risolutezza ed audacia.
Grandi sono le inquietudini che circondano la vita di
un re, ma vi ha un gran compenso in questa vita, ed quello
di poter fare il bene di un popolo. L'amarlo stata tutta la
mia politica. Non intendo come si possa desiderare altrimenti
di governare. Io non sono contento che quando vedo la gente
felice intorno a me. Ho sempre creduto che la lealt e la
verit fossero la migliore delle politiche. Il fine che mi pro
pongo generoso, esso voluto da miei popoli, io devo
compirlo .
Egli notevole, come il linguaggio di Vittorio Emanuele
fosse sempre generoso quanto spontaneo. I diplomatici non
vorranno forse accordare a questo re quella parte di senti
mento che non suole allignare nel cuore dei principi. Ma la
storia che giudica dai fatti i caratteri degli individui dir, forse
con pi ragione di quanto possiamo noi dirlo adesso, che Vit
torio Emanuele come aveva braccio potente e grande coraggio
sui campi di battaglia, cos possedeva cuore disinteressato e
generoso verso i destini della nazione italiana.
Prima di parlare dell'entrata del re nel regno di Napoli,
egli , duopo narrare i fatti accaduti in quei medesimi giorni
nelle provincie
capitolo.
napoletane; ci che faremo nel seguente
C AP IT 0 L 0 II
Concessione
delle strade ferrate, EDecreto
del Dittatore in favore della societ Rubat
tino. Trivulzio Pallavicino prodittatore.
Proclama del prodittatore. Lettera di
Pallavicino a Mazzini. Risposta di Maz
zini al prodittatore.
Una delle grandi opere da intraprendere nel regno di Na
poli, era certo una grande rete di strade ferrate per mettere
in comunicazione le diverse provincie, per animare il com
mercio, e per affratellare la popolazione di quelle regioni,
le quali per mancanza di vie vivevano sconosciute fra loro
come popolazioni straniere. Il governo borbonico non erasi
messo a quest'opera per due ragioni; una di questa era il
non volere aggravare di debiti lo Stato, l'altra il non volere
in mezzo ai suoi sudditi la rapida ed immediata comunica
zione d'idee e di opinioni.
Errore gravissimo il primo, perch impediva lo sviluppo delle
interne ricchezze e privava i popoli della prosperit immensa
che poteva loro toccare in sorte avuto riguardo alla fecondit
del terreno, alle miniere, ai boschi e tanti altri prodotti di
che quel terreno ricco; errore gravissimo il secondo, per
ch le idee e le opinioni si propagano sempre, e sovente
sformandosi per le distanze riescono pi nocive ai governi. .
In tutta Italia il sistema delle strade ferrate aveva fatto grande
progresso. Molte ne aveva il Lombardo-Veneto, quasi compita
era la rete del Piemonte, la Toscana aveva fatto in quel ramo
quanto aveva potuto fare ; solo il Borbone ed il Papa non
Storia della rivol. Sicil. Vol. Il.
26
si determinavano a tanto per erronei calcoli economici e per
timori politici. Era questa una delle ragioni di malcontento
nei popoli, i quali non potevano tollerare, che altri Italiani
stessero nell'uso delle nuove scoperte, a livello della Francia
e dell'Inghilterra, mentre s stessi vedevano condannati a re
stare stazionari, senza poter partecipare n ai commodi n
ai vantaggi del progresso.
Garibaldi quindi trov essere occasione molto favorevole
questa, di fare nelle provincie napoletane quanto i Borboni
non avevano fatto, e affezionare quei popoli alla rivoluzione
della quale cominciavano a godere i frutti e i favori. Ma eravi
ragione pi possente ancora, quella cio di dar lavoro a tante
braccia che la rivoluzione aveva messe nella inazione, e abi
tuare alla fatica la razza scostumata dei lazzaroni usi a mar
cire nell'ozio, a vivere di elemosina e di vilt e a consumarsi
in tutti quei vizii che vengono dall'accidia. Inoltre erano co
minciati a manifestarsi segni di reazione, che proveniente da
malcontento sarebbe stata impedita se il lavoro e la speranza
di guadagnare avesse attirati ad onesto vivere gli sfaccendati
di Napoli e delle provincie. Dobbiamo aggiungere ancora, che
i banchieri di Livorno, Adami e Lemmi avevano fatte molte
pratiche presso il governo del Dittatore, onde determinarlo
al decreto di concessione, in vista forse di grandi guadagni
che a loro sarebbero venuti da un contratto fatto in tempo
di rivoluzione, e con uomini non molto pratici di quelle cose.
Coteste pratiche ebbero il loro effetto: e noi registriamo
tutto intero il documento che riguarda le concessioni di quei
lavori; perciocch alcuni giorni dopo, quando tutta l'ira del
ministero e dei ministeriali si precipit spietatamente sopra il
dottore Bertani, una delle calunnie gittate sopra di lui fu ap
punto il precipitato atto di concessione.
Ecco il documento di che parliamo.
neano
d'Italia,
VITTORIO EMANUELE RE D'ITALIA
add ventotto settembre milleottocentosessanta.
Innanzi a noi Ferdinando Cacace
del fu
Giosu,
notaio
certificatore reale di Napoli, e sottoscritti testimoni son
comparsi:
27
Il signor colonnello Agostino Bertani del fu Francesco,
segretario generale della Dittatura, qual rappresentante del go
verno dittatoriale nell'Italia meridionale, in virt di decreto del
Venticinque settembre corrente anno, domiciliato strada Toledo
nel palazzo di Angri; ei signori cavaliere Pietro Augusto Adami
di Davide, di Livorno, ed Adriano Lemmi del fu Fortunato,
anche di Livorno, qui di passaggio, tanto nel nome proprio,
che quali gerenti la Societ anonima sotto la ditta Societ
italiana meridionale . Li medesimi sono noti a me notaio e te
stimonii e ci han data comunicazione di un decreto dittatoriale
del tenor seguente:
Italia e Vittorio Emanuele,
IL DITTATORE DELL'ITALIA MERIDIONALE.
Volendo procacciare a queste popolazioni il pi pronto,
copioso ed utile lavoro, e riparare nel tempo stesso alla di
menticanza nella quale fu fino a qui lasciata la costruzione delle
ferrovie, ha giudicato espediente di prendere in immediata
considerazione l'offerta della Societ rappresentata dai signori
cavaliere Pietro Augusto Adami e Adriano Lemmi di Livorno,
e presa intima notoria delle morali ed economiche condizioni
di essa Societ, della sua deliberata intenzione di dare pre
ferenze negl'impieghi e nei lavori a quelli che si potranno
presentare come benemeriti veterani dell'esercito liberatore,
in forza delle pubbliche esigenze e degli straordinarii suoi
poteri, e di precedenti promesse gi fatte alla detta Societ
per le ferrovie di Sicilia in data 27 giugno 1860
Decreta:
Art. 1. Le linee ferroviarie che la Societ, rappresen
tata dai signori Pietro Augusto Adami ed Adriano Lemmi
di Livorno dee compiere, sono le seguenti:
a) La congiunzione delle ferrovie napoletane a quelle
dello Stato Romano, tanto nel versante del Mediterraneo,
quanto dell'Adriatico.
b) I lavori di quelle linee di congiunzione collo Stato
Romano, che erano gi in corso per conto regio, saranno
immediatamente ripresi.
-
28
c) Le linee da Napoli a Foggia, e da Salerno a Po
tenza, e quindi nella duplice direzione di Bari e Taranto e
di Cosenza e Reggio.
d) Le linee della Sicilia da Messina a Catania e Siracusa
e di Catania a Castrogiovanni e Palermo, colle traversali da
Palermo a Girgenti e Marsala.
Art. 2. Le ferrovie di cui si tratta saranno eseguite per
interesse dello Stato e per conto del governo che lo rap
presenta.
Art. 3. La Societ sunominata assume i seguenti in
carichi:
a) Di fare il tracciamento sommario di ciascuna delle
suddette linee, giusta le norme che saranno convenute col
governo.
b) Di compiere i progetti di dettaglio e di stima dei
singoli tronchi, fino a che siano dichiarati soddisfacenti da
Commissione a tal uopo dal governo delegata.
c) Di eseguire senza eccezione tutte le opere in essi
dettagli determinate ai convenuti prezzi di stima e dentro i
termini di tempo determinati nei singoli progetti.
d) Di fornire per ciascun tronco tutto il materiale
d'esercizio.
e) D'assumere anche l'esercizio dei singoli tronchi qua
lora al governo piaccia d'intraprendere fino dall'atto del
l'approvazione dei progetti, per offerire immediatamente la
voro, le stazioni di Palermo, Messina, Napoli e Reggio.
f) Di costruire le grandi officine di riparazione e costru
zione delle macchine, vagoni, ecc.
g) Di condurre lungo le ferrovie tutte le comunicazioni
telegrafiche e le officine attinenti.
Art. 4. Le larghezze del piano stradale e dei ponti, ri
dotti, e gallerie; la forma, lunghezza e forza delle ferramenta;
le distanze e forza delle dimensioni, e l'interna disposizione
tanto delle stazioni, delle case di guardia, e dei magazzini,
nonch la forma e forza delle locomotive, e di tutti i rotabili,
strumenti e apparati di riparazione e costruzione, si dovranno
tenere esattamente uniformi a ci che si trova gi stabilito
nelle ferrovie dell'alta ltalia, riservandosi il governo il diritto
di determinare in tutto ci se debba preferirsi il sistema adot
tato dal Piemonte o quello dell'antico Regno Lombardo-Ve
neto. Lo stesso si dica per ci che riguarda l'ordinamento
29
-
dell'esercizio e dell'amministrazione in modo che ad opera
compiuta tutto possa offrire un carattere di radicale unit.
Art. 5. Il governo liquider le somme convenute a mano
a mano che le singole sezioni ferroviarie e telegrafiche, e le
grandi officine di riparazione e costruzione e le stazioni sa
ranno compiute, consegnate, approvate, deducendosi prima le
penali per difetti e ritardi.
Art. 6. Il governo far i pagamenti ai prezzi ricavabili dai
-
corsi delle Borse, in titoli al latore, simili in tutto e per tutto
a quelli dei due gran libri del debito pubblico di Napoli e
Sicilia.
Art. 7. La Societ mandataria tenuta ad aver compiuti
i tracciamenti sommarii due mesi dopo che il governo le avr
comunicata, per ciascuno di essi, le relative norme.
Art. 8. La Societ tenuta ad aver compiuto i progetti
di dettaglio entro mesi due, dal giorno in cui le sar comu
nicata l'approvazione delle singole sezioni di tracciamento
sommario.
Art. 9. La Societ tenuta a compiere le
zioni di lavoro entro i termini di tempo stabiliti
di dettaglio a contare dal giorno in cui le verr
l'approvazione di questi.
Art. 10. La Societ si obbliga a depositare
singole se
da progetti
comunicata
prima d'in
cominciare i lavori cinquecentomila lire italiane in effettivo,
o in altrettanti titoli dello stesso governo, in garanzia dei la
vori, e con diritto di ritirare detto deposito un anno dopo la
totale costruzione delle ferrovie.
Art. 11. Il governo adotter un sistema di sorveglianza
col mezzo di una commissione, sia per sindacare l'economia
della spesa, sia per la buona condotta dei lavori, e nei modi
che creder di suo maggiore interesse nella costruzione,
Art. 12. I concessionarii formeranno una Commissione
di generale direzione per l'amministrazione e sorveglianza dei
lavori, con la quale si metter in relazione diretta la Commis
sione del governo per tutto ci che riguarda l'intrapresa.
Art- 13. Ogni mese la Commissione direttiva dei con
cessionari presenter alla Commissione del governo le note
legali dei lavori compiuti per esserne subito rimborsate con
le somme ricavate dalla vendita dei titoli, aggiungendo sul
l'ammontare delle spese effettive una provvisione del cinque e
mezzo per cento. Questa provvisione andr in compenso delle
30
spese che sono a carico esclusivo dei concessionarii, cio
spese dei primitivi studii degli ingegneri a ci addetti, della
montatura di ufficii, viaggio e corrispondenze, la quale prov
visione compenser ancora i concessionarii delle loro fatiche,
e sar prelevata sul costo totale ed effettivo delle ferrovie.
Art. 14. La Societ in ogni caso di ritardo prender il
premio, ossia provvisione contenuta nell'articolo precedente,
sia in tutto, sia in parte come il governo giudicher equo.
Art. 15. A misura che un tronco di via ferrata potr
essere messo in esercizio ad uso del pubblico, i concessionarii
ne faranno legale consegna al governo, il quale curer nel
suo interesse di organizzare il servizio nei modi di sua con
venienza, quando non volesse darne l'incarico ai concessionarii
medesimi, sotto condizioni da combinare d'accordo e con quel
sistema di tariffe che il governo creder di applicare.
Art. 16. I concessionarii avranno sulle linee consegnate
il diritto di trasporto gratuito,
a) Dei materiali inservienti alla costruzione delle fer
rovie ;
b) Della corrispondenza postale del servizio della fer
rovia;
c) Dei personale addetto ai lavori, alla sorveglianza ed
all'amministrazione delle ferrovie.
Art. 17. Avranno innoltre l'uso gratuito de'dispacci elet
trici al servizio delle ferrovie.
Art. 18. I concessionarii si obbligano ad impiegare nei
lavori materiali e di sorveglianza esclusivamente gente del
paese, oltre a dar impiego alle persone che verranno racco
mandate per servigi resi nell' esercito dittatorio, come nel
proemio del presente, salvo le persone particolarmente addette
alla direzione.
Art. 19. I concessionarii sono obbligati a trovare i ca
pitali, e perci esclusivamente incaricati della vendita dei titoli,
come all'articolo sesto, a misura che gli richiederanno, e me
diante una provvisione bancaria stabilita sino d'ora all'uno e
mezzo per cento. Questa provvisione va in compenso dell'ob
bligo assunto di negoziare i titoli, delle commissioni, senserie,
trasporti di denaro, e le altre spese a cui dar luogo la ven
dita di quei titoli.
Art. 20. I concessionari formeranno una societ ano
nima, che si costituir sotto il nome di Societ Italiana meri
51
dionale, la quale dovr per la vendita dei titoli valersi
della Banca David Pietro Adami e Compagni di Livorno,
che sar organo fra la Societ costruttrice delle ferrovie ed i
banchieri dell'Italia e dell' estero, che acquisteranno i men
zionati titoli. l servizii che la detta Banca render alla Societ
costruttrice non costeranno nulla al governo, essendo compresi
nella provvisione di cui all'articolo precedente.
Art. 21. Venendo il governo nella determinazione di
far pagare i frutti semestrali, ossiano cedole nelle altre citt
d'Italia e dell' estero, la Banca David Pietro Adami e Com
pagni di Livorno dovr pure prestarvisi gratuitamente per
quelle cedole che, alle rispettive scadenze, si presentassero al
loro Banco, salvo ad intendersi col governo per i fondi, onde
a ci dare effetto.
Art. 22. Ogni legge, decreto, regolamento anteriori che
possono essere contrarii al presente, sono revocati.
Art. 23. Il segretario generale della Dittatura incari
cato dell'esecuzione del presente decreto. Esso segretario ed
i concessionarii formeranno un capitolato conforme pei patti e
le condizioni al presente .
Data in Caserta, il d 25 settembre 1860.
Il generale Dittatore Garibaldi.
Il segretario generale
Col. Agostino BERTANI
Questa concessione dai nemici di Garibaldi e di Bertani fu
giudicata rovinosa alle finanze; e vi fu chi giunse a conside
rare quell'atto illegale per la sua stessa immoralit.
Noi non sappiamo in verit scorgere tanta rovina in una
concessione che ha il merito singolare di essere stata fatta ad
una societ italiana, contro il costume del governo sardo e
di tutti gli altri piccoli governi italiani che per l'addietro con
trattavano sempre con societ straniere dando il guadagno a
loro e privandone le case bancarie e le societ italiane. Egli
duopo confessare che a guarentire la prosperit e la ric
chezza interna di un paese, bisogna sempre trovar modo che
il governo faccia guadagnare i propri cittadini. Questo non
era stato mai fatto dal governo sardo, ed esso scusavasi
col dire che non erano in ltalia societ ricche e potenti da
52
valere a prestar sicurezza in opere gigantesche. Scusa insi
piente perciocch se realmente coteste societ non esistevano
in Italia, toccava al governo il crearle e con agevolazioni e con
favori di ogni sorta. L'operato adunque di Garibaldi era da
questo punto di vista oltremodo lodevole, esso affidava una
grande opera ad una societ italiana, e ove anco vi fossero
state delle larghezze, eran quelli guadagni che rimanevano in
Italia e che presto o tardi, in qualche occasione potevano ser
vire al governo stesso, il quale avrebbe potuto vantare in faccia
agli stranieri le grandi risorse del paese.
In appresso vedremo come finalmente lo stesso governo
sardo dovette cedere alle esigenze della giustizia e concedere
alla societ Adami e Lemmi la costruzione delle ferrovie del
l'Italia Meridionale.
I nostri lettori ricorderanno come Garibaldi co' suoi mille
volontarii partisse da Genova sopra i due vapori il Piemonte
ed il Lombardo, appartenenti alla societ Rubattino. Era giu
stizia indennizzare la societ la quale fino a quel giorno gene
rosamente non erasi fatta sentire. La voce corsa dopo la par
tenza di Garibaldi da Genova fu che la spedizione si fosse im
padronita a viva forza dei due battelli, e ci per non implicare la societ Rubattino nei delitti di Stato e nei reclami delle
leggi e dei diritti internazionali. Ma veramente la societ Ru
battino era intesa di tutto, e volontariamente aveva dati i due
vapori, certa che le sarebbero stati pagati o da Garibaldi stesso
o dalla nazione perch adoperati per causa eminentemente na
zionale. Ora che appressavasi il giorno in cui il governo sardo
doveva prendere le redini del governo di Napoli, era conve
niente che il dittatore prima di ritirarsi dal potere decretasse
il pagamento dei due battelli alla predetta societ. E Gari
baldi adempi scrupolosamente a questo suo dovere il giorno
5 ottobre con un decreto in data di Caserta, col quale or
din fosse pagata in cartelle del debito pubblico dello Stato
la somma di 750 mila franchi, /, dalle finanze di Napoli e
un /, dalle finanze di Sicilia.
Ecco il decreto.
Considerando ch' giustizia ed obbligo di riconoscenu
nazionale che la societ di navigazione a vapore Raffaele zR
battino e compagni di Genova, venga indennizzata dei danai
sofferti per la perdita dei due battelli il Lombardo ed il Pine
53
monte, i quali servirono alla prima e fausta spedizione in Si
cilia nel maggio ora scorso;
Considerato quindi il prezzo dei due battelli al 5 maggio
passato, desunto da stima fatta due anni prima, per cura
della societ stessa;
Considerato il lucro che poteva recare alla societ l'eser
cizio di quei due battelli nei mesi trascorsi;
Considerato il danno che venne alla societ per le an
gustie in cui trovossi mancandole due del migliori battelli suoi
nell'esercizio dell'imprese avviate, e degli obblighi contratti;
Considerata la perdita che soffrirono delle loro robe molti
marinai del Lombardo, e tutti quelli del Piemonte.
Sentendo che la nazione deve equamente proporzionare
le ricompense, a chi pati per la causa della sua libert, e che
giova si rassodi la confidenza di ogni proprietario ed indu
striale nelle imprese, per quanto ardite della patria redenzione,
-
Decreta.
Art. 1. Sar pagata in cartelle del debito pubblico dello
Stato una somma corrispondente ad effettivi franchi 750 mila
a carico per l, parti della finanza di Napoli, a di quella
della Sicilia, alla societ di navigazione a vapore Raffaele Ru
battino e compagno di Genova, in compenso della perdita dei
battelli a vapore il Lombardo ed il Piemonte, i quali saranno
riparati e conservati in memoria dell'iniziativa del popolo ita
liano, nella guerra d'indipendenza ed unit nel 1860.
Art. 2. Il ministro delle finanze di Napoli e nello stesso
dicastero in Sicilia, sono incaricati, per quanto ad ognuno con
cerne della esecuzione del presente decreto .
Caserta, 5 ottobre 1860.
Il dittatore, GARIBALDI.
Il pensiero di conservare in memoria della memorabile
spedizione i due vapori il Lombardo ed il Piemonte degno
di Garibaldi, il quale non vanitoso per s stesso, era sempre
altamente superbo di tutto ci che potesse recare lustro ed
onore alla nazione italiana. Ad un governo regolare forse non
sarebbe venuto in testa di conservare come fasto di una grande
epoca e di un grandissimo avvenimento due vapori, ma il go
verno rivoluzionario lo ha pensato e lo ha fatto, e merita lode
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
34
da quanti non calcolano negli avvenimenti politici i guadagni
materiali, ma i fatti dello spirito umano concitato dalle pi no
bili passioni e dai sentimenti pi sublimi di nazionalit e di
patria. Fino a quando quei due battelli solcheranno il mare
chiunque li vedr si fermer a considerarli, sentir in s stesso:
queste due barche portarono un giorno da Genova a Marsala
l'eroe del secolo e i mille prodi che lo seguirono. Esse por
vano allora pi che mille uomini, la redenzione di 9 milioni
d' Italiani, il fulmine distruttore del trono borbonico, e i nobili
destini dell'Italia unita.
La storia che parler ai pi tardi nepoti della prodigiosa
spedizione dei mille, e tramander mille nomi immortali ai se
coli futuri, parler eziandio dei due vapori il Piemonte ed il
Lombardo della societ Rubattino.
Intanto all'appressarsi del re e dell'esercito ai confini del
regno tutte agitavansi le passioni politiche. Il partito di azione
vedevasi fuggire il potere di mano, e il piano di spingere avanti
i fatti verso Roma e Venezia veniva ad essere distrutto.
Noi parliamo ora di cose affatto misteriose, e che solamente
in avvenire saranno portate alla luce. Non pertanto diremo,
che il segretario generale colonnello Bertani essendo al potere
e concentrando in s la politica del partito di azione vedeva
di mal occhio l'avvicinarsi delle regie truppe, e avrebbe vo
luto impedirne l'entrata nel regno. Ma gli fu gioco forza cedere
alla imponenza delle circostanze e forse anco alla certezza che
l'esercito italiano sarebbe entrato malgrado le opinioni del go
verno dittatoriale. Richiesto il Bertani dai governatori degli
Abruzzi se dovevano o no protestare contro l'entrata dell'eser
cito, il Bertani rispondeva non conoscere ancora la volont
del dittatore Garibaldi; ma quando il dittatore venne personal
mente richiesto, rispose, accogliete i soldati piemontesi come fra
telli. La calunnia, arma ordinaria delle anime vili e di quanti
servono agli interessi dei partiti, giunse a pubblicare dei pretesi
dispacci telegrafici, per mezzo dei quali il Bertani avrebbe or
dinato di ricevere a fucilate i Piemontesi se per avventura vo
lessero entrare nel regno di Napoli. Il partito ministeriale com
prese che per aprirsi la strada a Napoli e Sicilia, bisognava
perseguitare Bertani e costringerlo a ritirarsi dal potere, quindi
adoper tutti i mezzi per farlo cadere nel discredito generale,
descrivendolo come fiero repubblicano, perturbatore dell'or
dine pubblico, avverso al re e alla monarchia, e che avrebbe
55
trascinata a rovina l'Italia piantando il dualismo, o cospirando
per la repubblica. La guerra ministeriale fu tanto fiera e po
tente che Bertani dovette soccombere; e Garibaldi trovossi
nella necessit di allontanarlo dal potere e di chiamare a pro
dittatore un uomo che alla meglio avesse conciliate le cose in
modo da evitare i mali minaccianti ed a far s che la causa
italiana non naufragasse per passione di partiti.
Garibaldi era da molto tempo amico di Trivulzio Pallavi
cino, antica vittima delle persecuzioni austriache; a lui scrisse
pregandolo ad accettare la prodittatura e a portarsi imman
tinente in Napoli. Pallavicino accett l'incarico a condizione
che il Bertani fosse allontanato, e portossi in Napoli, dove
dopo essersi inteso con Garibaldi sulle cose pi essenziali venne
creato prodittatore con decreto dittatoriale il giorno 3 otto
bre 1860. Ecco il decreto:
Il dittatore, sulla proposta del segretario di Stato all'im
mediazione, decreta:
Art. 1. Il marchese Giorgio Pallavicino Trivulzio no
minato prodittatore in Napoli, invece del maggior generale
Sirtori, che se ne dimette volontariamente per attendere alla
guerra nazionale.
Art. 2. Tutti i ministri e il segretario di Stato sono in
caricati dell'esecuzione del presente decreto, il quale sar in
scritto nella collezione degli Atti del governo.
Caserta, 3 ottobre 1860.
Il dittatore G. Garibaldi,
Il segretario di Stato
F. CRISPI.
La nomina di Pallavicino a prodittatore fece varia impres
sione secondocch varie erano le opinioni verso di lui in tutta
Italia. Come liberale nessuno dubitava dei suoi principii e
quindi della sua politica nella via della libert; ma qualche
timore sorgeva per le sue precedenti relazioni col governo
di Torino. Triulzio Pallavicino era uomo alquanto vano e dif
ficilmente poteva essere appagato nelle sue ambizioni. Il suo
martirio sotto l'Austria gli aveva accresciute le pretese in un
governo libero italiano, e molti dicevano che si tenesse mal
56
contento del governo sardo, il quale fino allora non lo aveva
usato nelle grandi cose di Stato. Realmente il governo di
Piemonte verso Pallavicino non aveva fatto che piccole cose,
le quali compendiavansi in semplici onori, in decorazioni ed in
vuote carezze, insufficienti ad appagare l'ambizione di un
uomo che viveva in mezzo ai rivolgimenti politici, pei quali
spesso dalla oscurit salgono al potere uomini non conosciuti
n rinomati per sagrifici e per opere patrie. Si temette per
ci che Pallavicino malcontento andasse in Napoli a piantare
il dualismo italiano e a continuare sotto altra forma la stessa
politica di opposizione che avevano adoprata Crispi e Bertani,
e che Mordini adoperava ancora in Sicilia. Si disse di pi
che Triulzio Pallavicino prima di partire da Torino per Na
poli non era stato a visitare n il re n Cavour, ci che si
tenne per cattivo segno, giacch ove le sue mire fossero state
annessioniste, egli avrebbe dovuto intendersi prima col governo
del re per prender da esso le norme e le regole di governare
ed affrettare l'annessione delle provincie napoletane al rima
nente d'Italia libera.
Le cose per andavano diversamente; perciocch il nuovo
prodittatore anzicch fare opposizione al governo aveva pen
sato rendergli un grande, un immenso servigio affrettando
l'annessione, e cavandolo dalle mille difficolt in cui ritrova
vasi. Difatti, comunque suonasse diversa la voce pubblica,
Pallavicino prima di partire per Napoli era stato a colloquio
col conte di Cavour, e secolui erasi inteso sul da fare per
condurre a bene le cose dell' Italia
meridionale. Una delle
cose stabilite fu di realizzare l'annessione per plebiscito senza
convocare le assemblee come il partito di azione desiderava ;
ma di questo parleremo pi avanti. Quanto alle provincie na
poletane l'elezione del nuovo prodittatore piacque, si perch
erano alquanto messe in sospetto di Bertani e di Crispi, si
ancora perch anelavano togliersi alla precariet ed entrare in
una vita normale. In tutti i modi, era una elezione fatta da
Garibaldi e questo bastava, tanto grande era la venerazione
che verso lui nudriva il popolo di Napoli e delle provincie.
Per altro, le novit piacciono ai popoli immaginosi, molto pi
in momenti di rivoluzione e di guerra, ed il popolo napole
tano si compiacque eziandio di questa novit che gli dava
un nuovo prodittatore, quindi probabilmente una nuova poli
tica, ed un nuovo andamento nella interna amministrazione.
57
Come nei precedenti capitoli abbiamo detto, Mazzini trova
vasi da alcuni giorni in Napoli, con lui trovavansi molti altri
suoi amici, e dello stesso colore politico. La presenza di lui e
del suo partito produceva nella popolosa citt delle opinioni
avanzate e faceva raffreddare in parte l'entusiasmo popolare
verso Vittorio Emanuele. La sua casa era frequentata da molti
i quali nel nuovo ordine di cose facilmente lasciavansi tra
scinare a partiti estremi. Egli era perci di ostacolo non lieve
alle opinioni annessioniste e sconcertava, anche non volendolo,
l'andamento delle cose. Per siccome dal suo arrivo in Na
poli in tutta Italia erasi destato gravissimo risentimento, pens
a rassicurare gli animi con un opuscolo che scrisse e che fece
pubblicare col titolo N apostata, n ribelle. - Quest'opu
scolo fu come una protesta fatta da lui in faccia all'Italia e
all'Europa con la quale intendeva persuadere a tutti che se
da una parte non disertava dalla sua propria bandiera repub
blicana, dall'altra non avrebbe mai cospirato contro l'unit
italiana che si attuava sotto la monarchia costituzionale di
Vittorio Emanuele. Per quanti conoscevano la sua vita dif
ficilmente inducevansi a credere che egli volesse rimanersi
inerte in Italia, e tanto pi lo temevano, quanto pi le sue
proteste erano insolite ed assolute. Per altro egli non aveva
smesso il suo linguaggio antico, e nella lettera scritta al mini
stro Farini, e che pubblicammo nel precedente volume aveva
detto: che un giorno avrebbe nuovamente cospirato per la
repubblica, e che ne avrebbe avvertito il governo stesso.
Il nuovo prodittatore di Napoli non poteva adunque vedere
di buon occhio la presenza di Mazzini nella popolosa citt, e
l'allontanamento di lui certamente gli avrebbe fatto comodo.
La difficolt per stava nel trovare il modo di persuaderlo a
lasciar Napoli, tanto pi che non gli era permesso vivere in
qualsiasi delle altre provincie italiane, e che perci lasciando
Napoli doveva ritornare in esiglio.
uopo inoltre notare che le provincie meridionali d'Italia
vano qualche simpatia per lui, perciocch dal 1848 in poi
il solo che propagasse in quelle provincie le idee liberali era
Mazzini, e i suoi proclami e la sua propaganda avevano
uto per dodici anni accese le speranze della libert e pre
rivoluzione. In questo modo se il popolo non seguiva
le sue opinioni politiche, tuttavia mal volentieri avrebbe tolle
parata la
la persecuzione contra di lui. Triulzio Pallavicino pens
38
agire generosamente, e di proprio pugno gli scrisse una lettera
pregandolo a fare per l'Italia il sagrifizio di allontanarsi.
Noi pubblichiamo questa lettera la quale di certo sar uno
dei documenti della storia contemporanea.
Al chiaro signor Giuseppe Mazzini.
L'abnegazione fu sempre la virt dei generosi. lo vi credo
generoso, ed oggi vi offro un'occasione di mostrarvi tale agli
occhi dei nostri concittadini. Rappresentante del principio re
pubblicano, e propugnatore indefesso di questo principio, voi
risvegliate dimorando fra noi, le diffidenze del re e de' suoi
ministri. Per la vostra presenza in queste parti, crea imba
razzi al governo e pericoli alla nazione, mettendo a repentaglio
quella concordia che torna indispensabile all'avanzamento ed
al trionfo della causa italiana. Anche non volendolo, voi ci di
videte. Fate dunque atto di pattriottismo allontanandovi da
queste provincie. Agli antichi aggiungete il nuovo sacrificio che
vi domanda la patria; e la patria ve ne sar riconoscente.
Ve lo ripeto: anche non volendolo, voi ci dividete; e noi
abbiamo bisogno di raccogliere in un fascio tutte le forze
della nazione. So che le vostre parole suonano concordia, e
non dubito che alle parole corrispondano i fatti. Ma non tutti
vi credono: e molti sono coloro che abusano del vostro nome
col proposito parricida d'inalzare in Italia un'altra bandiera.
L'onest v'ingiunge di metter fine ai sospetti degli uni ed ai
maneggi degli altri. Mostratevi grande, partendo, e ne avrete
lode da tutti i buoni.
lo mi pregio di dirmi
Napoli, 5 ottobre 1860.
Vostro devotissimo
GioRGIO PALLAVICINI .
Porteremo su questa lettera il nostro giudizio. Il dire che
la presenza di Mazzini metteva in diffidenza il re ed i suoi
ministri non era niente affatto una ragione per cui Mazzini
dovesse lasciare l'Italia. Mazzini non stava in Napoli n col
permesso del re, n con quello dei ministri i quali ancora non
avevan che fare colle provincie meridionali. Mazzini stava in
Napoli sotto il governo di Garibaldi, in libere provincie non
59
governate n dal re n dai ministri. Egli vi stava in nome della
libert e come cittadino italiano.
Il pretendere poi il sagrificio di andarsene volontariamente
in esiglio era esigenza n giusta n onesta, perciocch amara
cosa abbandonare il sorriso della patria per vivere in terra
straniera la vita del cospiratore.
-
Mazzini non stette in silenzio e dopo tre giorni rispondeva
al prodittatore colla seguente lettera:
Al signor Giorgio Pallavicini !
Credo d'essere generoso d'animo, e per questo rispondo
alla vostra lettera del 3, con un rifiuto. S'io non dovessi ce
dere che al primo impulso e alla stanchezza dell'animo, par
tirei dalla terra ch'io calco, per ridurmi dove la libert delle
opinioni sacra ad ogni uomo, dove la lealt dell'onesto non
posta in dubbio, dove chi ha operato e patito pel paese non
crede debito suo di dire al fratello che ha egli pure operato
e patito: partite.
Voi non date ragioni della vostra proposta, fuorch l'af
fermazione, ch'io, anche non volendo divido. Io vi dir le ra
gioni del mio rifiuto.
lo rifiuto perch non mi sento colpevole, n artefice di
pericoli al paese, n macchinatore di disegni che possono
tornargli funesti, e mi parebbe di confessarmi tale cedendo
perch Italiano in terra italiana riconquistata a libera vita,
credo di dover rappresentare e sostenere in me il diritto che
ogni Italiano ha di vivere nella propria patria quand'ei non
ne offende le leggi, e il dovere di non soggiacere a un ostra
cismo non meritato perch dopo aver contribuito a edu
care, per quanto era in me, i popoli d'Italia al sagrificio, mi
par tempo di educarlo coll'esempio alla coscienza della dignit
umana, troppo sovente violato, e alla massima dimenticata da
quei che s'intitolano predicatori di concordia, e moderazione;
che non si fonda la propria libert senza rispettarne l'altrui:
- perch mi parebbe, esiliandomi volontario, di far offesa al
mio paese, che non pu senza disonorarsi agli occhi di tutta
Europa, farsi reo di tirannide; al re che non pu temere d'un
individuo, senza dichiararsi debole e mal fermo nell'amore del
sudditi; agli uomini di parte vostra, che non possono irritarsi
della presenza di un uomo dichiarato da essi a ogni tanto solo
M0
e abbandonato da tutto quanto il paese, senza smentirsi:
perch il desiderio non viene come voi credete, dal paese, dal
paese che pensa, lavora e combatte intorno alle insegne di
Garibaldi, ma dal ministero torinese, verso il quale non ho
debito alcuno, e che io credo funesto all'unit della patria; da
faccendieri e gazzettieri senza coscienza d'onore e di moralit
nazionale, senza culto fuorch verso il potere esistente, qual
ch'esso sia, e ch'io per conseguenza, disprezzo; e dal vulgo
dei creduli inoperosi, che giurano, senza altro esame, nella
parola d'ogni potente, e ch'io per conseguenza, compiango
finalmente perch'io, scendendo, ebbi dichiarazione, non
rivocata finora dal dittatore di queste terre, ch'io era libero
in terra di liberi.
Il pi grande dei sacrifici che io potessi mai compiere,
l'ho compiuto, quando interrompendo, per l'amore dell'unit
e della concordia civile, l'apostolato della mia fede, dichiarai
ch'io accettava, non per riverenza ai ministri e ai monarchi,
ma alla maggioranza, illusa o no, poco monta, del popolo ita
liano, la monarchia, presto a cooperare con essa, purch fosse
fondatrice dell'unit, e che se mai mi sentissi un giorno vin
colato dalla coscienza a risollevare la nostra vecchia bandiera,
io lo annunzierei lealmente anzi tratto, e pubblicamente ad
amici e nemici. Non posso compirne altro spontaneo.
Se gli uomini leali, come voi siete, credono alla mia pa
rola, debito loro d'adoprarsi a convincere, non me, ma gli
avversi a me, che la via d'intolleranza per essi calcata il solo
fomite d'anarchia che oggi esiste. Se non credono ad un
uomo che da trent'anni combatte come pu per la nazione,
che ha insegnato agli accusatori a balbettare il nome d'unit
e che non ha mai mentito ad anima viva, tal sia di loro. L'in
gratitudine degli uomini non ragione perch'io debba sog
giacere volontariamente alla loro ingiustizia e sancirla.
Napoli, 6 ottobre 1860.
Questa risposta di Mazzini venne pubblicata dai giornali, e
produsse in quanti la lessero profonda impressione. Scritta
con molta dignit ed informata a liberi principii, accennava a
fatti pur troppo reali, la persecuzione cio contro un uomo
che aveva educata l'Italia a balbettare unit italiana. Tutta
quella iettera, nella sua brevit compendia una storia, ed la
storia di trent'anni, nei quali succeduta la giovine Italia alla
41
setta dei Carbonari, il movimento politico italiano era dive
nuto pi determinato e preciso, e dietro alla giovine Italia
eran venute la giovine Ungheria, la giovine Polonia, e fino la
giovine Europa. L'Italia specialmente dopo il 1848 in mezzo
ai saturnali della ristaurazione aveva provato all'Europa, che
Mazzini avevala educata a quella fortezza per la quale unica
religione la patria, e per cui si disprezza eziandio la morte.
Nel 1849 i soldati austriaci, barbari sempre e feroci, ave
vansi tolto l'impegno di purgare lo Stato del pontefice dai
liberali, e adempirono a cotesto impegno fucilando quanti ca
devan loro fra mani, e sovente quanti per particolare vendetta
erano scelleratamente denunziati da una spia pontificia. Da
Ancona a Ferrara, in tutte le Marche e nella Romagna non vi
fu citt, paese o villaggio in cui non venissero fatte delle ese
cuzioni, e i liberali ad otto e a dieci cadevano tutti i giorni
mietuti dalla spada dei carnefici di Vienna. In Ravenna, in
Lugo, in Imola giovanetti stimati innocenti dalle stesse auto
rit del governo papale vennero giustiziati senza processo, ma
con la sentenza precipitata ed inappellabile delle corti marziali.
Or bene, coteste vittime cos prima come nel momento di ese
cuzione mostrarono coraggio incredibile, fortezza d'animo im
pareggiabile. Mai s'indussero n a confessarsi, n ad usare
degli altri sacramenti; stettero saldi alle prediche dei missio
nari che nelle prigioni andavano per convertirli. Dalle car
ceri camminando verso il luogo del supplizio mostravansi in
differenti e lieti, disprezzavano tutti gli apparati di morte e
morivano finalmente levando un evviva all'Italia e a Mazzini.
Vi fu chi disse che Mazzini aveva insegnato agli Italiani il
saper morire. Ei non pu negarsi che molta fortezza d'animo
gli Italiani avevano tratta dalla parola del grande cospiratore;
e noi osiamo dire: che il 1859 non sarebbe stato cosi pro
pizio ai destini d'Italia se Mazzini non avesse preparato il ter
reno con trent'anni d'incessanti fatiche. Gravi errori, vero,
aveva commesso; ma cos gli errori come le verit politiche
giovano ai popoli che si educano a libert e sono una scuola
senza la quale la sapienza politica sarebbe impossibile.
La risposta di Mazzini a Pallavicino Trivulzio conteneva
adunque delle verit innegabili, e se il primo atto del prodit
tatore era stato lodevole quanto alla forma, non lo era stato
del pari quanto alla sostanza.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
A2
Registriamo adesso il proclama del prodittatore ai cittadini
delle provincie napolitane.
Cittadini !
Chiamato dall'eroe che vi redense con una serie di mi
racoli, io vengo a dividere con voi le fatiche ed i pericoli che
accompagnano la grande impresa da noi assunta in pro d'I
talia. Incanutito nelle battaglie della libert, io avrei diritto
a quel riposo che suol concedersi al soldato dopo lunga e la
boriosa milizia; ma la patria mi chiama, ed io non fui mai
sordo all'appello della patria.
Cittadini !
In nome del Dittatore, io vi prometto uno splendido av
venire : prometto a queste nobili provincie, regnando Vittorio ,
Emanuele, l'ordine colla libert. E ci significa, o cittadini,
amministrazione imparziale della giustizia, base d' ogni go
verno civile; sollecito riordinamento dell' esercito e della
flotta; accrescimento e migliore organamento della Guardia
nazionale, scuole popolari, strade ferrate, incoraggiamenti di
ogni maniera all'agricoltura, al commercio, all'industria, alle
arti, alle lettere, ed alla scienza; rispetto alla religione ed
a suoi ministri ove costoro sieno davvero gli apostoli di Cri
sto, e non quelli del Borbone.
Ma, sopratutto, il nuovo governo promuover l'unifica
zione, bisogno supremo d'Italia. Non salver l'Italia la fiducia
nel patrocinio straniero, non la sonora ciancia delle sette im
potenti ; ma la concordia e le armi italiane. Armiamoci dun
que ed uniamoci tutti sotto il vessillo tricolore della croce
Sabauda, che tiensi inalberato dal salvatore delle Due Si
cilie. Ecco l'orifiamma, ecco il palladio della nazione. Ranno
diamoci intorno ad esso, gridando: Viva Garibaldi ! Viva il
re galantuomo! Viva l'Italia! Italia una e indivisibile.
L'Italia degli Italiani.
Napoli, 6 ottobre 1860.
Il prodittatore
GioRGIO TRivULzio PALLAVICINO.
- - -
--
Pallavicini Trivulzio,
Prodittatore di Napoli.
CAPIT0L0
IlI
Decreti e proteste di Francesco II. Par
tenza di Winspeare da Torino. Protesta
della Spagna
Mentre questo avveniva in Napoli, ed altre cose si face
vano come appresso vedremo, Francesco II di Borbone coi
suoi fedeli soldati pensava a difendersi in Capua ed in Gaeta,
tenendosi padrone di quella parte di paese che va fino agli
Apennini. Era sua intenzione aspettare quivi il nemico per
rintuzzarlo; o spingere una sortita fino alle mura di Napoli,
ed organizzare insieme la reazione. Per le speranze di una
rivincita erano tenuissime, non solo perch i suoi soldati erano
scoraggiti, ma principalmente perch il popolo entusiasta di
Garibaldi era divenuto nemico ai Borboni pi di quanto lo
era prima. D'altra parte non era agevole tenere una forte
armata senza introiti di sorta. Egli vero che molto denaro
aveva portato con s da Napoli, ma immense somme abbiso
gnavano al mantenimento della truppa, allo ristauro di alcune
fortificazioni, e a corrompere or questo or quello per servir
sene nell'opera reazionaria.
In quelle circostanze nulla era tanto politico quanto il non
indisporre l'animo di quella parte di popolo che ancora ubbi
diva a lui, prima perch esso non avrebbe temuto nemici in
terni, secondo perch di quei pochi sudditi avrebbesi potuto
servire nella difficile opera che andava meditando. Ci non
pertanto, la difficolt della situazione, e forse anco la smania
di spogliazione indussero Francesco II ad imporre una tassa
di guerra di 500,000 ducati sopra piccoli distretti ai quali
non che le ricchezze, mancava il puro necessario.
A4
Se le tasse di guerra ovunque e sempre dispiacciono ai
popoli, e nuociono alla stima dei principi, molto pi questo
doveva accadere a Francesco II che era di gi un principe
caduto. Se in date circostanze si pu esercitare un barbaro
diritto impunemente, vi ha delle circostanze ancora nelle quali
un solo errore, una sola imprudenza politica distruggono la
situazione intera di una potenza.
La tassa di guerra imposta da Francesco II, alien da lui
gli animi di quei pochi sudditi, i quali si videro cos spo
gliati dell'ultimo denaro.
Ecco il decreto di quella tassa:
Regolamento per una tassa di guerra da riscuotersi nella continenza
della provincia di Terra di Lavoro.
Attesocch le spese ingenti e straordinarie, che tuttodi
occorrono allo scopo di riformare ad ordinato e legale reg
gimento civile quelle masse traviate le quali hanno sconvolta.
ogni istituzione di ben diretta societ, manomettendo i pi
sacri diritti degli onesti cittadini, obbligano a ricorrere anche
a mezzi di straordinaria risorsa per lo Stato, nella stessa guisa
che in tutti i tempi per circostanze simili sono stati costretti
di praticare i pi civili governi d'Europa.
Il governo del re (D. G.) suo malgrado, ha dovuto emet
tere le seguenti disposizioni:
Art. 1. I distretti di Mola, Sora, Pedimonte ed il teni
mento di Venafro sono sottoposti ad una tassa di guerra
per la somma di ducati cinquecentomila (500,000), da ripar
tirsi proporzionatamente, e secondo le rispettive possidenze,
tra i proprietarii, industrianti, e commercianti.
Art. 2. Siffatta tassa dovr essere soddisfatta nel corso
di 10 giorni dalla pubblicazione ed affissione del presente, e
riscossa dalle autorit militari con Boni visitati dal commissario
civile maresciallo Scotti, in favore di ciascun contribuente, i
quali Boni saranno poi esigibili dalla Tesoreria di Napoli, non
appena costituito l'ordine legale.
Art. 3. Tutta la somma dei ducati 500,000 verr per
ciascun giorno trasmessa in deposito nella Tesoreria stabilita,
nella real piazza di Gaeta con fogli di riscontro, ed a seconda
dei quotidiani incassi di cui dovr tenersi registro dal com
A5.
missario civile, sottoscritto dai contribuenti, ciascuno al mar
gine della rispettiva partita da lui depositata.
Gaeta, li 5 ottobre 1860.
I ministri fir. FRANCESCO CASELLA. LEoPoLDO DEL RE
cav. PIETRo. ULLOA, barone CARBONELLI.
Per copia conforme all'originale il ministro segretario della guerra,
firmato CASELLA.
Per copia conforme il maresciallo di campo, regio commissario con
alter ego LUIGI SCoTTI DouGLAs.
Per copia conforme il segretario della sottintendenza LoPoLDo CABIAN
CHI. Visto il sottintendente funzionante ENRICO SANillo.
Per copia conforme 10 ottobre 1860.
Visto il Sindaco.
Il Cancelliere communale.
Nel primo volume notammo come in Napoli disbarcassero
alcuni battaglioni di truppe sarde in quei giorni stessi nei
quali stava a Torino un rappresentante diplomatico di Fran
cesco ll. Quei battaglioni portavano bandiera e divisa sarda,
talch riusciva inesplicabile come la corte di Torino potesse
in faccia all'Europa agire con tanta immoralit e cooperare
apertamente alla conquista di un paese non suo, e di cui ri
spettava l'indipendenza tenendo presso di s il diplomatico
Winspeare.
Sulla qual cosa diremo: che la politica sarda intesa ad
esautorare Garibaldi e i suoi amici del governo di Napoli,
aveva cominciato a mandare i suoi soldati nell'Italia meridio
nale molti giorni prima che arrivassero al re Vittorio Ema
nuele gli inviti di recarsi col. A provare per che l'invio di
quelle truppe non accennava a conquiste ma solamente al man
tenimento dell'ordine in tempi tanto anormali si accusava il
piccolo numero di quei soldati; per quanti conoscevano il
movimento italiano ed il punto in cui esso trovavasi, videro
nell'invio di quelle truppe il primo atto di possesso fatto sulle
provincie meridionali dal governo di Piemonte. Eravi della
immoralit in quell'atto, perciocch il governo di Vittorio
Emanuele non doveva imporsi a nessuna delle provincie ita
liane, ma doveva aspettare che queste provincie lo chiamas
46
sero. L'opera dell'unificazione italiana era cmpito della rivo
luzione; e la rivoluzione doveva compiere quell'opera affinch
la diplomazia non potesse accusare lo spirito conquistatore
del governo. Non dee negarsi che se sul grande movimento
unitario d'Italia qualche cosa ebbero a dire le nazioni stra
niere e se qualche cosa dir la storia, la colpa tutta del go
verno sardo, il quale per gelosia e per intemperanza fece
pi volte ci che non doveva n poteva fare.
Francesco ll istruito di ci che accadeva nella popolosa
citt da lui abbandonata volle protestare per mezzo del suo
ministro in faccia a tutta l'Europa, e quella protesta, come
appresso vedremo, valse a suscitare altre proteste da straniere
potenze contra l'operato del governo sardo.
Ecco il documento diplomatico di cui parliamo :
PROTESTA DI FRANCESCO II.
5 ottobre.
Il ministro della guerra, incaricato del portafoglio degli
affari esteri, dirigeva in data 5 ottobre, la seguente nota ai
rappresentanti esteri, accreditati presso S. M. il re:
Il governo di S. M. ha ricevuta la notizia dello sbarco
a Napoli di un certo numero di battaglioni piemontesi. Non
sono questi i volontarii che in numero cosi formidabile sono
usciti pubblicamente dal Piemonte, per rivoluzionare ed inva
dere il regno delle Due Sicilie. Sono soldati dell'armata reale
di Sardegna, appartenenti alle truppe regolari del Piemonte,
che vengono con la loro organizzazione e disciplina ad aiutare
Garibaldi e le sue bande nelle operazioni di Capua e del
Volturno.
Malgrado gli strani avvenimenti che da ben cinque mesi
si succedono nell'isola di Sicilia e nel continente napoletano,
il re mio augusto signore ha esitato a credere un simile at
tentato contro il diritto universale delle genti, contro la lealt
dei sovrani, e la fede delle nazioni.
Tra il regno delle Due Sicilie ed il piemontese, non
esiste nessuna cagione di rottura di guerra. La buona intelli
genza non stata alterata mai da parte del governo del re,
ed il mondo intero sa fino a qual punto ha portato S. M. si
la7
ciliana il suo desiderio di una alleanza intima col Piemonte.
In questo momento esistono ancora ne due regni i ministri
accreditati dalle due corti ; e, malgrado i giusti e conosciuti
motivi che aveva il governo del re per lagnarsi della condotta
della Sardegna, non ha voluto dare pretesto di niuna sorta
per una rottura delle relazioni tra due Stati.
E dunque in una posizione di pace fra i due governi e
senza dichiarazione di guerra, che le truppe regolari dell'ar
mata sarda invadono il regno di Napoli, combattono contro il
re, e prestano aiuto a suoi nemici.
Il sottoscritto ministro, provvisoriamente incaricato del
portafogli degli affari esteri, si vede un'altra volta nella dis
piacevole necessit di denunziare attentati di questa natura
alla giustizia dell'Europa.
Per ordine del suo augusto sovrano, egli adunque pro
testa nella forma la pi solenne ed esplicita contro questa in
vasione di soldati dell'armata sarda, e nel pregare S. E. ecc.
di recare questa protesta a conoscenza del proprio governo,
profitta della favorevole opportunit per rinnovarle gli attestati
dell'alta sua considerazione.
Contemporaneamente un ordine di Francesco II giungeva
in Torino a Winspeare perch questi lasciasse quella citt. Il
barone Winspeare diffatti, in data del 7 comunicava nel modo
che segue la sua partenza al conte di Cavour:
Eccellenza !
L'occupazione del regno delle Due Sicilie per parte delle
truppe piemontesi, della quale io ebbi notizia mediante la co
municazione di vostra eccellenza, in data d'ieri, un fatto
tanto apertamente contrario alle basi di ogni legge e di ogni
diritto, che sembrerebbe quasi inutile ch'io mi dilungassi a
mostrarne l'illegalit. I fatti che hanno preceduto questa in
vasione ed i vincoli di amicizia e di parentela tanto intimi
quanto antichi che esistevano fra le due corone, la rendono
tanto straordinaria e tanto nuova nella storia delle nazioni
moderne, che lo spirito generoso del re, mio augusto pa
drone, non sapea risolversi a crederla possibile; ed infatti,
nella protesta che il generale Casella, suo ministro degli af
fari esteri, indirizzava il 16 settembre scorso da Gaeta a tutti
18
i rappresentanti delle potenze amiche, era chiaramente di
mostrato che S. M. aveva la fiducia che S. M. sarda non
avrebbe mai potuto dare la sua sanzione agli atti d'usurpa
zione compiuti sotto all'egida del reale suo nome nel seno
della capitale delle Due Sicilie. parimente cosa superflua
per me il cercar di dimostrare a vostra eccellenza che questa
protesta solenne, unita a vari proclami del mio augusto so
vrano ed agli eroici sforzi fatti sotto le mura di Capua e di
Gaeta, rispondono in modo incontestabile alla strana argomen
tazione dell'abdicazione di fatto di S. M. ch'io fui sorpreso di
leggere nella comunicazione suaccennata di vostra eccellenza. L'anarchia ha trionfato negli Stati di S. M. Siciliana in con
seguenza di una rivoluzione invaditrice della quale, fino dal
primo momento, tutti presentivano manifestamente i disordini
futuri, ed alla quale il re, mio padrone, proponeva gi da
gran tempo, ma invano, a S. M. il re di Sardegna, di op
porre, con un comune accordo, una diga affinch esso non
potesse traripare, e non potesse mettere in pericolo, coi suoi
eccessi, la vera libert e l'indipendenza d'Italia.
In quest'ora fatale in cui uno Stato che conta 10 milioni
d'anime, difende colle armi in mano gli ultimi avanzi della
istorica sua autonomia, sarebbe cosa vana il ricercare da chi
questa rivoluzione sia stata sorretta, tanto da diventare un co
losso ed in qual maniera essa abbia potuto arrivare a tanto
da effettuare tutti quegli sconvolgimenti ch'essa aveva proget
tati. Quella Provvidenza divina, della quale vostra eccellenza ha
invocato il santissimo nome, pronnuncier prima che scorra
gran tempo, le sue decisioni all'ora del combattimento estremo;
ma, qualunque sia per essere questa suprema decisione, la
benedizione del cielo non discender sicuramente sopra coloro
che si apprestano a violare i grandi principii dell'ordine so
ciale e morale, facendosi credere gli esecutori di un mandato
di Dio. La coscienza pubblica, dal canto suo, quando sovra
di essa non peser pi il giogo tirannico delle passioni poli
tiche, sapr determinare la vera indole di un'impresa usurpa
trice, cominciata coll'astuzia e terminata colla violenza.
La cortese accoglienza fattami da questa popolazione ge
nerosa e leale, accoglienza della quale sar sempre viva nel
mio cuore la rimembranza, mi vieta d'addentrarmi pi ancora
nella critica severa degli atti del governo di S. M. Sarda; ma
vostra eccellenza vorr ben intendere le ragioni per cui un
A9
pi lungo soggiorno a Torino del rappresentante di S. M. Si
ciliana sarebbe incompatibile colla dignit di S. M. come pure
colle usanze internazionali. E per questi motivi, protestando
solennemente contro l'occupazione militare dei sacri diritti di
S. M. il re del regno delle due Sicilie, gi intrapresa, e che
sta per essere tentata, per opera del governo di S. M. il re
di Sardegna; riservando, inoltre, nello stesso tempo al re Fran
cesco II, mio augusto padrone, il libero esercizio del potere
sovrano, che a lui spetta, di opporsi con tutti quei mezzi che
egli stimer pi opportuni a queste aggressioni ed usurpazioni
ingiuste; come pure di fare gli atti pubblici e solenni che egli
stimer esser pi utili alla difesa della sua real corona, per
questo, io dico, io mi appresto ad abbandonare questa resi
denza, appena avr terminato di porre in ordine alcuni affari
particolari di S. M. relativi alla successione dell'augusta sua
madre, di santa memoria.
Prima di partire, io avr l'onore di presentare a V. E. il
signor De Martini, il quale sar semplicemente incaricato di
trasmetterle le comunicazioni che il governo del re, mio pa
drone, trovasse pi tardi conveniente di indirizzare ancora al
governo di S. M. Sarda.
Mi permetta, signor conte, di prendere congedo da V. E.
ringraziandola degli atti cortesi che ella ha ben voluto usare
con me nelle nostre relazioni personali ed aggradisca, ecc.
7 ottobre.
WINSPEARE.
a
Nulla diremo di questo documento perciocch disopra ab
biamo di gi manifestate talune delle nostre opinioni. L'im
pressione che esso produsse quando venne pubblicato da tutti
i giornali fu varia secondo che varie erano le opinioni degli
Italiani in quei giorni di politiche combustioni. Taluni trova
rono dignitoso il linguaggio del barone Winspeare ed accu
sarono il governo Sardo di avere macchiata la grande impresa
italiana, altri risero delle proteste come di cose da giuoco le
quali non avevano valore di sorta perch l'Italia era finalmente
padrona dei suoi destini. In generale per rincrebbe che la
Politica del governo Sardo avesse dato un motivo ad una pro
Storia della rivol. Sicil. Vol. Il.
e,
50
testa, la quale in faccia alla coscienza generale come in faccia
alla diplomazia un'accusa terribile dei maneggi del gabi
netto di Torino, e perci un manco di giustizia e di genero
sit e di spontaneit nel pur troppo giusto e spontaneo movi
mento italiano.
Due giorni dopo, una protesta del governo spagnuolo fu
presentata al conte di Cavour e che noi registriamo in questa
storia per dirne poi qualche cosa.
A S. E il ministro degli affari esteri di S. M. il re di Sardegna.
Torino il 9 ottobre 1860.
Eccellenza!
Il governo di S. M. la regina di Spagna mi ordina di pro
testare contro l'ingresso dell'esercito sardo nel regno delle
Due Sicilie, e contro l'annessione progettata degli Stati di
S. M. Francesco II alla monarchia del re di Sardegna. Fino a
che i dolorosi avvenimenti, dei quali l'Italia meridionale oggi
il teatro, procedettero in modo che si pot prestar fede alle
reiterate proteste del gabinetto sardo, colle quali assicurava
di non aver avuto partecipazione alcuna a quegli atti, compiti
contro qualunque diritto internazionale, il governo della re
gina di Spagna dovette ristringersi a condannare gli atti me
desimi d'accordo con tutte le potenze d'Europa, e chiedere
al governo di S. M. il re di Sardegna ch'egli rimediasse ad
uno stato di cose da lui medesimo disapprovato, e ad indi
cargli le conseguenze funeste che da simili fatti non avrebbero
potuto non derivare per la causa d'ltalia e per la pace d'Eu
ropa. Questa condotta riservata del governo spagnuolo era
una prova di pi dei vivi desiderii ch'esso nutriva di conser
vare l'amichevole relazione in cui trovavasi verso il governo
di S. M. il re di Sardegna, e tendeva a modificare l'azione
moderatrice dei ministri di S. M. sarda in faccia ai pericoli
della rivoluzione. Ma in mezzo ad avvenimenti ufficiali e pub
blici che l'Europa contempla con dolorosa sorpresa, il silenzio
della Spagna equivarrebbe ad un'abdicazione, all'abdicazione
del diritto, e, nel tempo medesimo, del dovere ch'essa ha di
difendere l'esistenza legittima d'una dinastia unita a quella di
S. M. la regina Isabella dai legami pi sacri, e di mantenere
5i
insieme i diritti che i trattati del 1759, riconosciuti dalla Sar
degna e dall'Europa intera, guarentiti e ratificati da stipula
zioni posteriori, assicurono a S. M. cattolica sul regno delle
Due Sicilie. I trattati, che costituiscono il diritto pubblico sul
quale riposa l'equilibrio e la pace d'Europa, non possono es
sere stracciati dal suffragio universale posto in pratica nelle
condizioni e nel modo in cui per esserlo nel mezzogiorno
d'Italia. L'Europa non ammetter giammai ne suoi rapporti
da nazione a nazione un criterio politico che rovescierebbe
qualunque diritto legittimo e qualunque patto internazionale.
Per condannare la serie di fatti che condussero il regno delle
Due Sicilie allo stato in cui trovasi oggidi, il sottoscritto non
ha bisogno di ricorrere alle pi semplici nozioni di diritto, n
all'opinione d'Europa, n ai principii di un'alta morale, ba
standogli di riprodurre il giudizio severo, ma giusto, pronun
ciato dallo stesso governo sardo sulle invasioni armate di Si
cilia e di Napoli, e di richiamare la disapprovazione chiara e
solenne, dalla quale, con documenti ufficiali ed in nome di
S. M. il re di Sardegna, furono colpiti coloro che violavano il
territorio di una potenza amica, recando guerra ad una nazione,
che trovavasi in piena pace colla Sardegna. E invano preten
derebbesi di giustificare quest'intervento ostile al re delle Due
Sicilie col desiderio di metter fine ad una anarchia nata da
volontarie aggressioni e coll'intenzione di impedire che la ri
voluzione demagogica divenisse padrona dell'Italia meridionale.
Gli spiriti retti e i governi veramente conservatori sosterranno
a buon diritto che la violazione di tutti i principii internazionali
e l'ostracismo di legittime dinastie non potrebbero giammai es
sere un mezzo efficace di arrestare lo sviluppo degli elementi
rivoluzionari in Italia ed in Europa. Il governo di S. M. la re
gina di Spagna, che non ha perdonato ad alcuno sforzo, nella
sfera della sua influenza, per ottenere una stretta alleanza fra
i due principali Stati della penisola italiana e che ha sempre
secondato qualunque tendenza diretta a congiungere gli inte
ressi dei principi con quelli dei loro popoli, contempla con
profondo dolore la serie di avvenimenti che, cominciando dal
l'attacco ai diritti legittimi di un innocente orfanello, nella per
sona del duca Roberto I, e continuando coll'invasione degli
Stati della santa sede, finisce colla conquista del regno delle
Due Sicilie e coll'annessione dell'Italia meridionale ai possessi
ereditarii di S. M. il re di Sardegna.
52
Nel suo vivo desiderio di vedere assicurata fermamente la
pace del continente, allontanata qualunque causa di turbamenti
futuri, e chiusa in Italia l'ra delle convulsioni, che la scossero
profondamente, il governo di S. M. la regina di Spagna, mentre
riserva i diritti legittimi che la violenza e la forza non potreb
bero distruggere, vuole ancora sperare che la Sardegna sapr
fermarsi sopra un declivio funesto e che, prorogando scio
glimenti che non potrebbero essere definitivi, lascier al
l'Europa l'alto ufficio di por fine ai lutti d'Italia e alla pro
fonda inquietudine delle nazioni europee, consultando i veri
voti dei popoli italiani, e tenendo conto di diritti sempre de
gni di rispetto.
Io colgo quest'occasione, bench penosa per me, per
rinnovare a V. E. i sentimenti della mia alta considerazione.
Firmato DIEGo CoELLo DE PoRTUAL.
Questa protesta della Spagna non sorprese nessuno, co
munque essa venisse da un governo che doveva rispettare i
risultati della rivoluzione, perch la sua condizione d'allora
non era che l'opera della rivoluzione. Ma ragioni di parentela
spinsero quel governo a protestare contra le conquiste del
governo sardo. N pertanto a tacersi che come in quasi
tutti i governi stranieri cos anco nella Spagna il movimento
italiano fosse sconosciuto. Tutti gli stranieri governi attri
buivano al gabinetto sardo ci che in gran parte era l'effetto
di una rivoluzione da lunga mano premeditata dai popoli
italiani. Si attribuiva all'ambizione di Vittorio Emanuele II
ci che era desiderio ed aspirazione popolare dalle Alpi alla
Sicilia; si credeva frutto della sola propaganda politica ci
che insieme era frutto della situazione italiana, la quale non
poteva diversamente essere assestata che con l'unit della
Penisola sotto la monarchia costituzionale di Casa Savoia. Ad
ogni modo, la Spagna era una delle potenze che credevano
al diritto divino, e non poteva cos di un tratto riconoscere
i fatti compiuti in Italia senza cambiar la sua fede e credere
nei diritti della rivoluzione e nella grande autorit del suf
fragio universale.
N dobbiamo nascondere che l'influenze clericali molta parte
ebbero in questo procedere della Spagna, e che il governo
55
di Madrid credette far cosa grata non pure al clero di Roma,
ma eziandio alla popolazione spagnuola, fanatica in fatto di
religione, perch non poteva veder di buon occhio le imprese
della corte di Torino, quando per esse anco il papa veniva
spogliato de suoi temporali dominii, e quasi ridotto a non
possedere un palmo di terra.
Ma anche il popolo spagnuolo aveva fatti i suoi progressi,
che perci rimase indifferente alle proteste del proprio go
-
verno come dinanzi a cosa che non gli apparteneva. La parte
intelligente poi e libera di quella nazione, che un di ebbe
pur le sue glorie, condann l'atto diplomatico del governo,
e quando le occasioni le furono favorevoli estern senza esi
tazione, come appresso vedremo, le sue simpatie pel governo
di Vittorio Emanuele e per la causa italiana.
Dai documenti diplomatici pubblicati in questo stesso ca
pitolo si possono conoscere quali fossero le condizioni di
Francesco II e quali le sue almeno ostentate opinioni. Egli
per non aveva perdute affatto le sue speranze e molta fede
metteva negli amici che aveva lasciati in Napoli, e nella cor
ruzione stessa del suo popolo, della quale voleva valersi in
circostanze propizie. Francesco II pensava esser cosa facile
suscitare una terribile reazione nelle Calabrie e negli Abruzzi,
che, secondo il costume di quei popoli, prolungata, avrebbe
stancato il nuovo governo. E non v'ha dubbio che in altri
tempi tai fatti reazionarii erano accaduti in quelle provincie
da spaventare il governo pi coraggioso e intraprendente.
L'oro versato a larghe mani avrebbe armati contro il nuovo
ordine di cose i montanari, e questi fieri e sanguinarii avreb
bero sgomentato le provincie e messo sossopra ogni cosa.
Inoltre fidava che l'esercito volontario comandato da Gari
baldi, demoralizzato dai vizi di Napoli ed evirato dalla mol
lezza di quel clima, stanco oramai e decimato non avrebbe
Ptuto fare quei miracoli di valore per cui tanto si distinse
elle battaglie di Calatafimi e di Milazzo. Quando la reazione
esse infierito dappertutto, quando l'esercito garibaldino
n fosse pi in istato di battersi fortemente e coraggiosa
nte, allora un supremo sforzo gli avrebbe data la vittoria
i suoi nemici e lo avrebbe ricondotto in Napoli. Questo
Psava Francesco II, questo pensavano i suoi generali, e gli
i che lo circondavano non si attaccavano che a questa
l fondata speranza. Perci anzich
sciogliere il suo eser
54
cito pens aumentarlo di numero con una leva decretata in
quel piccolo paese che stava ancora soggetto a lui, accom
pagnando il decreto con larghe promesse e con lusinghe non
poche, che infine non erano che inganni di politica, la quale
calcolava sui bisogni e sulla credulit di quei miseri popoli.
Ecco il decreto di leva che porta la data di S. Germano:
IN NOME DEL RE N. S. (D. G.)
ordino quanto appresso.
Verranno formati dei battaglioni di volontarii comandati
da ufficiali del reale esercito.
Tutti quelli che vorranno arruolarsi per la causa dell'or
dine, si presenteranno ai sottointendenti di Mola, Sora e Pie
dimonte, che li spediranno al deposito generale di S. Ger
IlaIl0.
Ad ogni volontario sar corrisposto carlini due per
giorno.
L'et dei medesimi dovr essere dai 17 ai 40 anni.
Coloro che si ascrivono come volontarii potranno dichia
rare, se loro piace, di voler prendere servizio regolare nelle
milizie. In tal caso avranno un premio di ducati 120, vale a
dire, duc. 30 nell'atto della loro reggimentazione, e duc. 90
finito l'ingaggio.
Riconquistate le provincie dai volontarii, verr loro con
tato come servizio militare tutto il tempo che avranno ser
vito come volontarii.
-
S. Germano, il 8 ottobre 1860.
Il maresciallo di campo, commissario del re con alter ego
Luigi Scotti,
Questo decreto non accrebbe che di poco l'esercito del Bor
bone; primo perch pochi mostraronsi volonterosi ad accor
rere in aiuto del caduto principe, secondo perch gli stessi
generali di Francesco II pensarono che poco conto potevasi
55
fare di soldati nuovi, per l'istruzione dei quali era necessario
molto tempo ancora; terzo perch non si volle seminare il
malcontento in quella poca gente che costituiva tutto il po
polo del Borbone. In appresso vedremo come questo povero
esercito andasse sbandato e disperso senza guida, senza casa,
senza convincimento politico, senza coscienza.
C AP IT 0 L 0 IV
Avviso del prodittatore Pallavicino agli esuli
volontarii. Nota del ministro prussiano.
Il plebiscito. Politica di Crispi. Pro
clama di Garibaldi. Parole del ministro
Conforti. Cose di Sicilia,
La partenza di Francesco II da Napoli e l'avvicinarsi di
Garibaldi e de suoi avevano dato luogo all'allontanamento di
molte famiglie napolitane, alcune delle quali si erano imbar
cate per Marsiglia, altre avevano preso la strada di Roma,
ed altre avevano esulato in Malta, a Corf e a Trieste. Queste
famiglie che avevano esulato volontariamente potevano distin
guersi in due classi, la prima comprendeva famiglie attaccate
da lunga pezza alla corte e quindi odiate dal partito liberale;
la seconda componevasi di famiglie ricche e timorose le quali
vollero cos sfuggire ad un possibile giorno di anarchia in
cui potevano essere saccheggiate. Prima diremo delle famiglie
attaccate alla corte borbonica.
I Borboni non mancarono mai di politica per formarsi in
Napoli un partito se non molto numeroso, potente almeno
per le ricchezze, per la nobilt dell'origine e per la sua in
fluenza sul popolo basso. Splendida era la corte dei Borboni,
e quello splendore attirava alla casa del re tutta l'aristocrazia
la quale col faceva mostra del suo fasto, della sua istruzione
e di quanto la distingueva e la innalzava sul popolo povero
ed ignorante. La corte borbonica usava maniere affabili ed
amichevoli con quella classe fortunata, tanto da stringerla a
57
s anche con sentimenti di benevolenza. Di pi, come in tutti
i governi dispotici, cos, sotto il governo borbonico i signori
di Napoli godevano se non di diritto, certo di fatto, molti
privilegi, e la giustizia che tanto spesso si vendeva dalla cor
rotta magistratura a chi meglio poteva pagarla, stava ancora
a disposizione di cotesti favoriti dalla fortuna che tutto otte
nevano supplicando il re. Mai al mondo si vide governo tanto
arbitrario quanto quello dei Borboni: tutto dipendeva dalla
volont del principe, e questa volont prodigava favori a quelle
famiglie specialmente che erano pi attaccate al sovrano,
ond'era che facessero a gara per accostarsi sempre pi alle
persone regali e per rendersi meritevoli di grazie e di favori.
Sovente i delinquenti che dovevano essere condannati all'er
gastolo uscivano in libert per protezione di aristocratici; e
sovente per mancanza di questa protezione colpe leggiere ve
nivano severamente punite da giudici immorali, che vendevano
alla loro volta i gradi della pena. In un momento di rivolu
zione quelle famiglie correvano perci il pericolo di essere
assassinate dal popolo il quale soffre, vero, lungamente, ma
in un solo istante si vendica.
La seconda classe delle famiglie esulate era stata invasa
dal timore. In una citt popolosa nella quale molti sono i
poveri e pochi i ricchi, questi ultimi ragionevolmente temevano
il saccheggio e la spogliazione. Pi di trentamila lazzaroni,
pi di altri trentamila viventi per rei mestieri e per mezzi
disonesti aggiravansi per Napoli. In un momento di rivoluzione
nessuna forza, nessun principio avrebbe potuto
frenare
quelle masse scostumate, le quali sarebbersi abbandonate alla
rapina e al furto gettando lo scompiglio e l'orrore in tutta
la citt. Parve quindi prudente allontanarsi dal pericolo e cer
care rifugio o in terra straniera o in Roma o sotto il governo
austriaco. Furono questi i motivi che spinsero quelle non poche
famiglie ad esulare volontariamente.
Per in faccia all'Europa poteva sembrare una dimostra
zione a favore di Francesco II; ed il nuovo prodittatore di
Napoli provvide perch questo argomento a favore del prin
cipe caduto venisse meno alla diplomazia europea, richiamando
gli esuli volontari ed assicurandoli dell'ordine e del rispetto che si avrebbe avuto cos ad essi come alle loro sostanze.
Ecco il proclama di Pallavicino.
Storia della rivol. Sicil. Vol. II.
58
Parecchie onorevoli famiglie, o troppo timide o mal con
sigliate, esularono spontaneamente per timore della rivolu
zione. Ma qui non esiste la rivoluzione demente: quella ri
voluzione che troppo spesso s'accompagna coll'anarchia; parlai
al popolo e la libert maritavasi all'ordine.
In questo stato di cose, io invito gli assenti a ritornare
assicurandoli che un governo forte ed onesto sapr proteg
gerli contro qualsiasi sopruso dei partiti estremi. Lo prometto
sull'onor mio.
Dunque fiducia nel governo, inaugurato da Garibaldi sotto
gli auspici di Vittorio Emanuele. Questi due nomi sono arra
di sicurezza per noi tutti. Tenersi lontani dalla terra natale,
in queste congiunture non prudenza, delitto verso la
patria.
Napoli, 7 ottobre 1860.
G. PALLAVICINO.
Per non ritornare in appresso sopra questo stesso argo
mento diremo che malgrado questo avviso e queste promesse
del prodittatore di Napoli, poche furono le famiglie che in
quei giorni ritornarono in patria; la maggior parte rimase
fuori, e non perch non prestassero fede alle parole del pro
dittatore, ma perch speravano che Francesco II rioccupasse
Napoli, nel qual caso esse avrebbero avuto il merito presso
la corte borbonica di aver sofferto per essa i disagi dell'esi
glio. Coteste speranze non erano senza fondamento, perciocch
oltre alla possibilit che il Borbone guadagnando una battaglia
sarebbe tornato padrone de' suoi Stati, eravi l'atteggiamento
minaccioso della Germania che altamente disapprovava i fatti
di Vittorio Emanuele tanto nell'invasione delle Marche e del
l'Umbria, quanto nell'imminente passaggio delle frontiere na
politane. Educate quelle famiglie ai principii dell'assolutismo
pensavano che il loro preteso diritto divino avrebbe presto o
tardi trionfato della rivoluzione, e che le cose sarebbero ri
tornate allo stato di prima. Roma scomunicava tutti, l'Austria
minacciava e prometteva aiuti agli spodestati ; la Francia al
meno apparentemente non favoriva le conquiste del Piemonte,
la Russia si riteneva amica, e la Prussia veniva fuori con una
nota per la quale protestava contra ai fatti che accadevano
59,
in Italia. Noi riportiamo questa protesta la quale allora fece
molta sensazione, perciocch si pensava che la Prussia vo
lendo usufruttuare il grande movimento degli spiriti in Eu
ropa facesse in Germania ci che Vittorio Emanuele faceva
in Italia. Che anzi tra le molte proteste, la pi dura e quella
che pi si avesse una grande portata politica, fu appunto
questa della Prussia.
Nota del sig. di Schleinitz, al sig. conte Brassier di Saint-Simon,
ambasciatore di Prussia a Torino.
Coblenza, 15 ottobre 1860,
Signor conte!
Il governo di S. M. il re di Sardegna comunicandoci, col
mezzo del suo ministro a Berlino, il memorandum del 12 set
tembre, sembra averci voluto impegnare a fargli parte delle im
pressioni che gli ultimi suoi atti e i principii con cui cerc di
giustificarli produssero nell'animo di S. A. R. il principe reg
gente. Se oggi soltanto noi rispondiamo a questo atto l'E.
V. avr saputo ben prima apprezzare i motivi di questo ritardo;
perocch da un lato ella sa come noi desideriamo mantenere
buone relazioni col gabinetto di Torino, e dall'altra le regole
fondamentali della nostra politica sono troppo presenti alla di
lei mente, perch'essa non abbia potuto presentire la profonda
divergenza di principii che qualunque spiegazione dovea neces
sariamente constatare tra noi e il governo di Vittorio Ema
nuele. Ma dinanzi al procedere sempre pi rapido degli av
venimenti, noi non sapremmo prolungare un silenzio che po
trebbe dar luogo a spiacevoli malintesi e mettere in falsa luce
i nostri veri sentimenti. E per, a prevenire erronei giudizii,
per ordine di S. A. R. il principe reggente, io le esporr senza
riserva il modo in cui noi riguardiamo gli ultimi atti del go
verno sardo e i principii sviluppati nel predetto suo me
morandum.
Tutti gli argomenti di questo documento conducono al
principio del diritto assoluto della nazionalit. Certamente noi
siamo lontani dal voler contestare l'alto valore dell'idea na
60
zionale, essa il movente essenziale ed altamente manifestato
della nostra propria politica, la quale in Germania avr sem
pre per iscopo lo sviluppo e la riunione delle forze nazionali
in una organizzazione pi efficace e potente. Ma attribuendo
pure al principio della nazionalit un'importanza maggiore, il
governo prussiano non potrebbe trovarvi la giustificazione di
una politica contraria al principio del diritto. Al contrario,
lungi dal risguardare come incompatibili questi due principii,
esso pensa che unicamente nella via legale delle riforme e ri
spettando i diritti esistenti, sia permesso ad un governo rego
lare di realizzare i voti legittimi delle nazioni. Secondo il
memorandum sardo tutto dovrebbe cedere alle esigenze delle
aspirazioni nazionali, ed ogni qualvolta l'opinione pubblica si
pronunciasse in favore loro, le autorit esistenti non avrebbero
che ad abdicare il loro potere davanti tale dimostrazione. Ora,
una massima cos diametralmente opposta alle regole le pi
elementari del diritto delle genti non potrebbe trovare appli
cazione senza i pi gravi pericoli per la tranquillit d'Italia,
per l'equilibrio politico e per la pace d'Europa. Sostenendo
questa massima si abbandona l'ra delle riforme per gettarsi in
quella delle rivoluzioni.
Frattanto appoggiandosi sul diritto assoluto della nazio
nalit italiana, e senza poter allegare altro motivo, il governo
di S. M. il re di Sardegna ha domandato alla santa sede il
licenziamento delle sue truppe non italiane, e senza averne
nemmeno atteso il rifiuto, ha invaso gli Stati pontificii, dei
quali occupa adesso la maggior parte.
Sotto lo stesso pretesto, le insurrezioni che scoppiarono
in seguito di questa invasione furono sostenute, e l'armata che
il sovrano pontefice aveva formato per mantenere l'ordine pub
blico stata attaccata e dispersa. E lungi di arrestarsi in
questa via, ch'esso percorre a spregio del diritto internazio
nale, il governo sardo ha dato l'ordine alla sua armata di pas
sare su vari punti le frontiere del regno di Napoli collo scopo
manifesto di soccorrere l'insurrezione e di occupare militar
mente il paese. Nel tempo stesso alle camere piemontesi fu
presentato un progetto di legge, tendente ad effettuare nuove
annessioni in virt del suffragio universale, ed invitare cos le
popolazioni italiane a proclamare formalmente la decadenza
dei loro principi. Egli in questo modo che il governo sardo,
invocando sempre il favore del non intervento in vantaggio del
61
l'Italia, non indietreggia dinanzi le pi flagranti infrazioni
dello stesso principio ne suoi rapporti cogli altri Stati italiani.
Chiamati a pronunciarci su tali atti e su tali principii, noi non
possiamo che deplorarli profondamente e sinceramente, e cre
diamo adempiere ad un rigoroso dovere esprimendo nel modo
pi formale la nostra disapprovazione e di questi principii e
dell'applicazione che si creduto poterne fare.
Invitandovi, signor conte, a dar lettura del presente di
spaccio al conte di Cavour ed a rilasciargliene copia, colgo l'oc
casione, ecc.
ScHLEINitz.
Non analizzando il merito politico di questa protesta, ci li
meteremo a ripetere che essa valse ad incoraggiare il partito
borbonico, ed a fermare gli esuli nell'esilio con la speranza di
ritornare in patria per ritrovarvi Francesco II nuovamente in
tronizzato.
Ma come tutte queste speranze si dileguassero, appresso
vedremo. Il prodittatore Pallavicino aveva assunta la mis
sione di affrettare l'annessione di Napoli al regno sardo.
Questo per volevasi fare col consenso di Garibaldi tanto per
ch le popolazioni secondassero quell'opera, quanto perch
il partito avverso restasse sgominato e vinto. Garibaldi aveva
fede nel prodittatore, amava Vittorio Emanuele ed in faccia al
l'Europa come in faccia all'Italia voleva apparire quale real
mente era, disinteressato e non attaccato alla vanit di go
Vernare. Queste ragioni avevano in parte determinato Gari
baldi a lasciare che l'annessione si facesse; d'altronde il par
tito annessionista erasi fatto potente, e tai passi aveva dati che
l'annessione poteva ritenersi come fatta. Eravi ancora una ra
gione potentissima, l'imminente arrivo di Vittorio Emanuele
in Napoli. Non era pi possibile tenere le redini del governo
quando il re alla testa del suo esercito veniva in Napoli; da
quel momento i popoli napoletani non erano pi nel dovere
di rispettar i decreti del dittatore, essi quindi avrebbero pro
clamato Vittorio Emanuele loro re, ci che sempre significava
"essione. Se ostacoli si fossero messi dal governo dittatoriale
all lto di annessione non ne sarebbero nati che disordini inu
pel partito d'azione, nocivi alla grande causa italiana. In
a a questa verit non si poteva non cedere senza uno di
62
quegli atti di ostinazione che umiliano anco uomini eminentis
simi e che osteggiano l'andamento naturale della politica.
Con questi argomenti Pallavicino persuase Garibaldi perch
segnasse un decreto in forza del quale i popoli del napoletano
venissero legalmente autorizzati a manifestare la loro volont,
ed a votare secondo che la coscienza ed i loro interessi vole
vano. Garibaldi non era pi in caso di star saldo ai suoi prin
cipii; il suo spirito era stanco ed abbattuto dalle fastidiose
cure di governo, le lotte politiche, le passioni e gl'interessi di
partito erano giunti ad infastidirlo per modo da abbandonare
volentieri la dittatura e ritirarsi per godere tranquillit e riposo. Comunque diversamente persuaso da Crispi e da coloro
che per allora non volevano l'annessione, cedette ai consigli
dell'amico Pallavicino e determin emanare il decreto del ple
biscito e finirla con tutti i contrasti che portavano tanta per
dita di tempo. Dopo avere studiato i modi come il plebiscito,
doveva essere attuato; dopo avere agli amici che lo circon
davano fatto conoscere chiaramente le ragioni ed il bisogno
che lo avevano spinto a quella determinazione, il giorno 8 ot
tobre emanava il seguente decreto:
Italia e Vittorio Emanuele.
IL DITTATORE DELL'ITALIA MERIDIONALE.
Sulla proposizione del ministro dell'interno,
deliberata in consiglio dei ministri,
Decreta :
Art. 1. Il popolo delle provincie continentali dell'Italia
meridionale sar convocato pel di 21 corrente mese di ottobre
in comizii, per accettare o rigettare il seguente plebiscito:
ll popolo vuole l'Italia una indivisibile, con Vittorio
Emauele, re costituzionale, e suoi legittimi discendenti?
Il voto sar espresso per s o per no col mezzo di un
bollettino stampato.
Art. 2. Sono chiamati a dare il voto tutti i cittadini che
abbiano compiuti gli anni 21, e si trovino nel pieno godimento
dei loro diritti civili e politici.
-
65
Sono esclusi di dare il voto tutti coloro i quali sono
colpiti da condanne, sieno criminali, sieno correzionali, per im
putazioni di frodi, di furti, di bancarotta e di falsit.
Sono esclusi parimenti coloro i quali per sentenza sono
dichiarati falliti.
Art. 3. Dal sindaco di ciascun comune saranno formate
le liste dei votanti, a termine dell'articolo precedente, le quali
verranno pubblicate ed affisse nei luoghi soliti pel giorno 17
ottobre.
I reclami avverso le dette liste saranno prodotti fra le
ore 24 seguenti dinanzi al giudice di circondario, che deci
der inappellabilmente per tutto il d 19 detto mese.
Art. 4. I voti saranno dati e raccolti, in ogni capo
luogo di circondario, presso una Giunta composta dal giu
dice presidente, e dai sindaci dei comuni del circondario me
desimo.
Si troveranno nei luoghi destinati alla votazione, su di
un apposito banco, tre urne, una vuota nel mezzo e due late
rali, in una delle quali saranno preparati i bullettini col s e
nell'altra quelli del no perch ciascun votante prenda quella che
gli aggrada e lo deponga nell'urna vuota.
Art. 5. Compiuta la votazione, la giunta circondariale, in
seduta permanente, invier immediatamente l'urna dei voti
chiusa ed assicurata, per mezzo del giudice, suo presidente, alla
giunta provinciale.
Art. 6. In ogni capo-luogo di provincia vi sar una giunta
provinciale, composta dal governatore presidente, dal presidente
e procuratore generale della gran corte criminale, e dal presi
dente e procuratore regio del tribunal civile. Tale giunta, anche
in seduta permanente, proceder allo scrutinio dei voti, raccolti
nelle giunte circondariali, ed invier immediatamente il lavoro,
chiuso e suggellato, per mezzo di un agente municipale e di
altre persone di sua fiducia, al presidente della corte suprema
di giustizia,
Art. 7. Lo scrutinio generale dei voti sar fatto dalla in
dicata suprema corte. Il presidente di essa annunzier il risul
tato del detto scrutinio generale da una tribuna che verr ap
sitamente collocata nella piazza di S. Francesco di Paola.
Art. 8. Per la citt di Napoli la votazione si far presso
ciascuna delle dodici sezioni, nelle quali divisa la capitale.
La giunta di ogni sezione sar composta dal giudice di
64
circondario presidente, dall'eletto e da due decurioni, all'uopo
delegati dal sindaco.
Saranno applicate per la citt di Napoli tutte le regole
stabilite per gli altri comuni, in quanto alla formazione delle
liste ed alla discussione dei reclami.
Art. 9. I ministri dell'interno, e della giustizia sono in
caricati dell'esecuzione.
Napoli, 8 ottobre 1860.
Il ministro dell'interno e polizia
fir. B. Conforti.
Il prodittattore
fir. GioRGfo PALLAviciNo.
Questo decreto la dava vinta al ministero di Torino e a
tutte le mene che da molto tempo si usavano per giungere a
tale meta. Coloro che facevano opposizione alla politica del
conte di Cavour compresero che con questo decreto tutto
era finito per loro; quindi posero tutto l'impegno per far co
noscere a Garibaldi essere dell'interesse d'Italia convocare le
assemblee per stabilire un'annessione condizionata e per det
tare leggi al governo sardo; si studiarono persuaderlo che le
popolazioni cos di Napoli come di Sicilia volevano non il
plebiscito ma le assemblee, e che cos solamente potevasi at
tuare l'annessione senza offendere i diritti di Sicilia e di Na
poli, provincie che gi avevano avuto altre volte un parla
mento. L'idea delle assemblee era di Mordini, e pare che egli
volesse quella costituente particolare, donde sarebbe poi ve
nuta la costituente generale, per la riforma della costituzione
italiana. Era perci naturale che Crispi si opponesse alla pub
blicazione del plebiscito; anzi corse voce che egli voleva si
dividesse la prima dalla seconda parte della formola cio si
chiamasse a votare: se i popoli dell'Italia meridionale vole
vano l'Italia una ed indivisibile; e quindi: se volevano a re
Vittorio Emanuele ed i suoi discendenti. Pallavicino, sapute
queste operazioni del Crispi si rec a Caserta, ma fu da Ga
ribaldi accolto con freddezza talch offri la sua dimissione;
questa non venne accettata, ma la notizia sparsasi in Napoli
65
ingener dei malumori. Il giorno 12 ottobre, prima del mez
zogiorno, Garibaldi giungeva in Napoli e radunava il consiglio
dei ministri; dopo una seduta che fu animatissima, si sparse
la voce che l'indirizzo politico di Crispi e di Bertani ritor
nava in iscena. Gli annessionisti colsero questa occasione per
agitare il popolo e tanto, che per precauzione la guardia na
zionale venne chiamata sotto le armi, e le forze dei soliti
posti vennero raddoppiate. A notte, la dimostrazione assunse
un carattere grave, ma tosto si calm quando venne pubblicato
il seguente proclama :
Proclama di Garibaldi ai Cittadini napoletani.
Domani Vittorio Emanuele il re d'Italia, l'eletto della na
zione, infranger quella frontiera che ci divise per tanti secoli
dal resto del nostro paese, ed ascoltando il voto unanime di
queste brave popolazioni comparir qui tra noi.
Accogliamo degnamente il mandato dalla Provvidenza e
spargiamo sul suo passaggio, come pegno del nostro riscatto
e del nostro affetto, il fiore della concordia, a lui cos grato,
ed all'Italia cos necessario.
Non pi colori politici, non pi partiti, non pi di
Scordie...
L'Italia una, come la segnano saviamente i popolani di
questa metropoli, ed il re galantuomo siano i simboli perenni
della nostra rigenerazione, e della grandezza e della prospe
rit della patria.
Napoli, 10 ottobre 1860.
G. GARIBALDI.
-
L'indomani Garibaldi parlava al popolo dal palazzo della
Foresteria; le sue parole che furono una ripetizione del pro
clama del giorno precedente, vennero accolte col solito entu
siasmo. Il generale della guardia nazionale si rec dal dittatore
per esporgli i voti dei suoi subordinati, che rimanesse cio
prodittatore Pallavicino, e che fossero allontanati quanti in
quei momenti erano avversi al plebiscito.
il
Qel di medesimo anche il ministro Conforti parl al popolo
Parole confortanti, il cui senso era questo:
Storia della rivol. Sicil, Vol. Il.
66
Cittadini !
Vittorio Emanuele alle nostre porte, e l'Italia sar, per
ch i suoi destini sono affidati al re leale e guerriero. Voi ne
avete la promessa nel programma di Garibaldi che da tanti
anni combattendo le battaglie della libert, assunse tra noi quella
dittatura, che gi gli conferiva la pubblica opinione. Cittadini!
Non ostante una secolare tirannide, voi avete conservato un
senso squisito di moralit ed un affetto profondo per l'Italia,
il cui santo nome voi non potevate pronunziare senza delitto.
La sola vostra virt poteva operare un tanto miracolo. Rin
graziamo la Provvidenza, la quale non permette che le na
zioni periscano per volere dei tiranni.
Quando il generale Garibaldi ci conferiva il potere, noi lo
accettammo non come un beneficio, ma come un dovere, ri
soluti di compierlo con coraggio e perseveranza. Le vostre
benevoli dimostrazioni ci assicurano che noi, secondo le nostre
forze, lo abbiamo compiuto, e siate certi che noi non lasce
remo i nostri posti, se non quando vi saremo costretti da una
suprema necessit.
-
Tranquillatevi: la nostra politica non sar abbandonata, per
ciocch la sola politica che si possa seguire senza pericolo
e con onore; la sola politica per cui in breve il cittadino
potr dire con orgoglio: Io sono italiano.
Viva Garibaldi, Viva Vittorio Emanuele, Viva l'Italia.
Parole generose furono queste, che grande effetto produssero
in quel popolo immaginoso e fantastico il quale vedeva gi alle
sue porte un nuovo re, un re preceduto da grandissima fama
e che Garibaldi aveva fatto conoscere colla potenza e since
rit della sua parola. I Napolitani non amavano i Borboni; il
pi basso popolo ove anco non avesse avuto ragioni politiche
di detestarli si abbandonava volentieri alla imminente novit per
la quale caduta una dinastia, un'altra e nuova veniva a go
vernarlo. I popoli sono naturalmente amanti delle grandi novit,
siano esse buone o cattive. Non poco innoltre era accarezzato
quel popolo dalla parola Italia, ed unit italiana. Il trovarsi proo
simo al plebiscito, il dovere coi propri voti sanzionare un fatts
67
grandissimo, a cui aveva accennato Garibaldi, e a cui sospi
ravano tutte quante le popolazioni italiane era tale un avveni
mento da scuotere fortemente il popolo e da sollevarlo alle
sfere, fino allora ignote, della vita politica.
Non minore fu l'effetto in tutte le provincie quando un
decreto del ministero convocava i Comizii, ed invitava tutto
il popolo a votare l'annessione del proprio paese al rimanente
della libera Italia, gi governata da governo italiano, e di cui
era re Vittorio Emanuele II.
Ecco la circolare del governo prodittatoriale di Napoli ai go
vernatori delle provincie.
Signor governatore.
Ella ha ricevuto per mezzo di telegrafi, il decreto che
convoca il popolo per accettare o rigettare il seguente plebi
scito. Il popolo vuole l'Italia una ed indivisibile con Vittorio
Emanuele e suoi legittimi discendenti. L'importanza di que
sto grande atto, che deve decidere delle nostre sorti ad in
tegrare la nazione, visibile e manifesta, ed io crederei offen
dere il patriottismo della signoria vostra, se spendessi molte
parole a dimostrarlo. Ho creduto per mio debito esporle al
cune considerazioni in proposito affinch sia noto all'univer
sale che il ministero sente e conosce i supremi doveri che im
pongono le presenti necessit. Ella quindi trasmetter a tutti
i luoghi della sua giurisdizione la presente circolare.
Un feroce despotismo, che non ha riscontro nelle storie, aiu
tato da forze mercenarie e dalle arti pi inque e pi vili, com
primendo fortemente il popolo, era un potente ostacolo alla
restaurazione della patria italiana. Ma un eroe, seguito da un
pugno di prodi, con una serie di prodigi, che hanno sorpreso
il mondo, rompea quel fascio di forze che sostenea l'oscena ti
rannide e ci liberava. Innanzi e dietro i passi dell'uomo straor
dinario, le nostre popolazioni insorsero e la Monarchia, fuggi
tiva, cogli ultimi avanzi del suo esercito, appena ebbe tempo
di nascondersi nei propugnacoli di Capua e di Gaeta. Infrante
le nostre catene, risorto il popolo a vita novella, acquista ora
il prezioso diritto di pronunziarsi intorno a suoi futuri de
stini. Bisogna quindi, signor governatore, ch'ella faccia altamente
sentire, che ora appartiene al popolo di queste provincie con
68
tinentali di accertare per sempre la sua redenzione e quella
dell'intera Italia.
La sentenza che uscir dall'urna del di 21 del corrente
mese riveler alle nazioni, che la terra del Sannio e della Magna
Grecia, ove s'udi per la prima volta il nome santo d'Italia, ed
ove sorse la prima civilt di Occidente, sia degna di far parte
della gran famiglia italiana.
Il ministero ha fiducia che le genti napolitane per italia
nit e fermezza di proposito non si mostreranno minori di quelle
della Toscana e dell'Emilia, e che esse compiranno l'opera stu
penda del patrio risorgimento, fondando con libero voto la
grande monarchia italiana.
Signor governatore, ella adotter i pi efficaci provvedi
menti, affinch sia rispettato il diritto che hanno tutte le opi
-
nioni di manifestarsi liberamente. Impedisca qualunque violenza
che, sotto qualsiasi pretesto, possa turbare la coscienza dei cit
tadini, n permetta che con minaccie ipocrite o faziose sia al
terato l'atto solenne. Il re magnanimo alle nostre porte. In
vitato dal dittatore, egli non viene sospinto d' ambizione di
nuovi dominii, ma da quella nobilissima di rendere l'Italia agli
Italiani. Egli viene a capo del possente esercito che in pochi
giorni liberava dalle orde mercenarie due nobili provincie.
La pi bella accoglienza che noi possiam fargli, si quella
di proclamarlo con libero ed unanime suffragio re d'Italia.
Cosi il popolo di questa meridional parte della penisola avr
la gloria di suggellare il patto d'amore che gi stringe con nodo
indissolubile l'Italia e Vittorio Emanuele.
GioRGIo PALLAVICINO RAFFAELE CONFoRTI GIURA PAsquALE
SCURA AMILCARE ANGUIssoLA GIACOMO CoPPOLA.
Mentre questo accadeva in Napoli e nelle provincie tutte, dif
ficilissima rendevasi la situazione di Francesco II di Borbone
assediato in Capua ed in Gaeta. Gi i legni di guerra imbloc
cavano Gaeta ed il blocco veniva pubblicato officialmente a tutte
le potenze per le ragioni di commercio. Garibaldi conosceva be
nissimo che fino a quando o da Roma o dalla Spagna o dal
l'Austria fossero venuti soccorsi al Borbone, difficile rendevasi
la presa di Gaeta; quindi venne alla determinazione del blocco,
per il quale, mancando di munizioni e di vettovaglie l'asse
69
diato principe era costretto o a cedere o a scemare il suo eser
cito, ci che a Garibaldi ed alla causa italiana sarebbe stato
oltre modo vantaggioso e proficuo. Ma Francesco II non po
teva credere che in faccia all'Europa quel blocco potesse avere
effetto di sorta. Il nuovo governo di Napoli era governo ri
voluzionario, Garibaldi in faccia al caduto Borbone non era
che un pirata e i suoi atti erano atti di pirateria; egli perci
riteneva come certo che le potenze non avrebbero riconosciuto
quel blocco, e che perci gli aiuti che sino a quel momento
aveva ricevuti, avrebbe potuto ancora ricevere. Sulla qual cosa
non sar superfluo fare talune riflessioni.
Generalmente i caduti credono forniti di virt e di fortezza
i proprii amici e sperano dalla loro generosit ed amicizia ogni
possibile protezione. Francesco di Borbone pensava che l'Au
stria, la Spagna e qualche altra potenza volessero implicarsi
con un intervento nelle cose italiane per dare a lui una mano
protettrice ed amica. Francesco di Borbone non credeva che i
fatti compiuti avessero tanta forza in faccia alla stessa diplo
mazia, e quindi andavansi lusingando che gli atti di Garibaldi,
reputati generalmente nulli ed ingiusti, venissero rigettati e
provocassero lo sdegno specialmente di quei gabinetti che sta
vano ancora attaccati al diritto divino, e che per esso esistevano.
Francesco II sperava forse che la sua misera condizione avesse
mossi a piet i potentati europei e che da loro potesse otte
nere ci che altre fiate erasi veduto, il soccorso dei legittimisti
ad un detronizzato. Molto poi lo addolorava il vedersi bloccato
dai suoi medesimi legni da guerra, e perci assediato da quelle
medesime armi che egli aveva in pronto per assediare e vin
Cere la rivoluzione e i rivoluzionarii. -
Queste riflessioni abbiamo voluto fare prima di pubblicare la
seguente protesta.
Il governo di S. M. il re (D. G.) ha ingiunto, in data 11 andante ai rap
presentanti della maest sua all'estero di dirigere la seguente nota ai
rispettivi ministri degli affari esteri dei governi presso i quali si tro
VanO accreditati.
Il ministro degli affari esteri del governo rivoluzionario
che si stabilito in Napoli ha passato, in data del 6 andante,
una comunicazione al corpo diplomatico e consolare che rap
presenta le potenze amiche del re, augusto sovrano del sot
70
toscritto, dichiarando in essa il blocco dei porti di Messina e
di Gaeta; annunciando le spedizioni dei bastimenti di guerra
necessarii per farlo effettivo; invocando i principii riconosciuti
nel trattato di Parigi nel 1856, e notificando questa misura
perch serva di regola al commercio straniero.
Non sa il governo di S. M. che alcuni de ministri e dei
consoli abbia riconosciuto una disposizione cos contraria al
diritto delle genti.
Ma in ogni modo, crede necessario protestare, nella forma
la pi energica ed esplicita, contro questo nuovo attentato ai
principii che formano base della esistenza delle nazioni.
Il legittimo sovrano del regno delle due Sicilie ridotto dalla
pi scandalosa invasione a difendersi nella linea militare di
Capua e di Gaeta, non soltanto assalito in terra dalle forze
della rivoluzione ma si rivolgono contro lui i bastimenti della
sua propria marina per bloccarlo.
Le potenze europee non possono riconoscere il blocco de
cretato da un potere illegittimo per imporre alle altre nazioni
il sacrificio della libert marittima e l'interruzione del loro com
mercio, bisogna essere governo pubblicamente ed ufficialmente
riconosciuto dagli altri.
Garibaldi non rappresenta un governo; Napoli rivoluzio
naria non una nazione. La sola nazione riconosciuta dai trat
tati il regno delle Due Sicilie; ed il sovrano di questo re
gno, riconosciuto da tutti gli altri si trova adesso a Gaeta.
Essendo cos, il blocco di Garibaldi illegittimo, e nes
suna nazione pu accettarne le conseguenze. Ma gli atti il
legittimi di ostilit marittima, la interruzione arbitraria del
commercio de' neutri sono, secondo il diritto delle genti, atti
di manifesta pirateria.
Non credibile che l'Europa incivilita del secolo deci
monono possa tollerare la pirateria del Mediterraneo, n si
pu ammettere per un momento, che le potenze marittime as
sistano impassibili a questi fatti, che rovesciarono i principii
di diritto pubblico ed internazionale, assicurati a costo di tanti
ripetuti sforzi.
con questa confidenza che il sottoscritto, ecc. ha l'onore
di dirigersi a S. E. ecc., per ordine espresso del suo augusto
sovrano; pregandola a voler mettere questa nota sotto gli
occhi di S. M. ecc., si attende una risposta, che egli si au
gura concorde coi principii del diritto delle genti e della giu
stizia.
71
Abbiamo detto di sopra che Mordini prodittatore di Sicilia
fosse pi per l'assemblea che pel plebiscito; abbiamo detto an
cora le ragioni che a questo inducevano gli uomini della de
mocrazia. Ora decretato il plebiscito per le provincie napole
tane, non era possibile adottare l'espediente dell'assemblea per
la sola Sicilia.
Garibaldi era ancora il dittatore di Sicilia e di Napoli; quindi
se per le popolazioni napolitane aveva dovuto venire al plebi
scito, la medesima misura doveva adottarsi per la popolazione
della Sicilia. E ci era cosa naturalissima; ed ove anco Mor
dini avesse voluto opporsi, le sue opposizioni sarebbero an
date a vuoto, non essendo pi possibile segnare ai popoli di
Sicilia per venire alla loro meta, vie diverse di quelle che per
Napoli si adottavano. Ci non pertanto il partito ministeriale
volle umiliare senza ragione il prodittatore Mordini con un in
dirizzo al dittatore, col quale invece dell'assemblea si doman
dava il plebiscito.
-
Di sopra abbiamo notato le intemperanze, forse anco la ridi
colaggine della condotta degli annessionisti, incapaci di costi
tuire un forte partito, e trionfare sopra la politica di Mordini ;
impotenti a distruggere l'influenza infinita del possente nome
di Garibaldi, i ministeriali adoperavansi secondo le occasioni
ad osteggiare da lontano il governo prodittatoriale ove e quando
era facile la vittoria; ci che in verit non faceva onore n a
Cavour, n alla missione politica che volevano e non sapevano
adempiere.
Il decreto del plebiscito erasi gi pubblicato in Napoli; esso.
necessariamente doveva essere adottato nell'Isola; non era per
ci necessario un indirizzo, ed era superflua qualunque peti
-
zione a tale riguardo fatta al grande dittatore. Ma pure l'in
dirizzo fu fatto; forse perch si dicesse in Italia ed in Europa
che la politica del prodittatore di Sicilia fosse stata sventata
dal buon senso del popolo, e che gli annessionisti avessero final
mente vinto sopra l'indirizzo politico della democrazia. Ecco
la petizione dei Siciliani, quale fu formulata dagli agenti del
Conte di Cavour.
AL GENERAL DITTATORE
GARIBALDI
Signore!
Noi siamo venuti all'istante decisivo, in cui le sorti del
nostro paese debbono votarsi dal popolo. Siamo tra l'esperi
mento per l'assemblea o pel plebiscito; l'assemblea, anche sola
non risolverebbe il partito, perch in forza del diritto pubblico
riconosciuto per le provincie italiane gi costituite, dovrebbe
sempre venirsi al suffragio diretto.
I momenti in che ora versiamo tengono in grande agita
zione il paese, ed ogni indugio sarebbe fatale alla causa nazio
nale. Noi vi esponiamo, il desiderio vivissimo, affinch voi,
che il potete, consumiate questo atto magnanimo con cui com
pirete la liberazione della Sicilia.
Riunite i comizi, convocate il popolo, fate che l'annessione
si compia per il solo plebiscito.
Bramosi di venir all'atto di compiere quella tanto desi
derata unit di famiglia italiana, voi, ne abbiamo tanta fiducia
nel vostro eroico patriottismo, ci aiuterete nel nostro voto ar
dentissimo.
Palermo, 14 ottobre 1860.
Abbiamo accennato di sopra come il general Garibaldi fosse
stanco delle cure di governo, e come non altro desiderasse
che di sottrarsi a tanti dispiaceri e ritornare alla quiete di
una vita ritirata. Questo momento affrettavasi, e volle prevenirlo
con un decreto a cui gli dava diritto la sua illimitata autorit
di dittatore.
Il general Garibaldi dittatore delle Due Sicilie, poteva de
cretare l'annessione senza consultare n i voti delle assemblee,
n il risultato del plebiscito. Ma perch le altre provincie ita
liane eransi annesse alla corona sabauda col suffragio univer
sale, quindi conveniva seguire l'esempio per non dare alla di
plomazia argomenti di sorta a far differenza tra provincie e
provincie e tra i modi di annessione.
Pure il dittatore non volle derogare ai suoi diritti e co
munque il plebiscito dovesse giustificare l'annessione delle pro
vincie meridionali, come aveva giustificata quella dell'Italia
I5
Centrale, volle colla forza del proprio diritto decretare solen
nemente l'annessione delle provincie da lui liberate al grande
regno italiano. Fu anco politica che gli consigli quell'atto, af
finch i suoi nemici non dicessero che l'annessione fossesi fatta
contro la sua volont e contro la sua opinione.
Ecco il decreto di annessione firmato dal dittatore delle Due
Sicilie.
Per adempiere ad un voto indisputabilmente caro alla na
zione intiera decreto:
Che le Due Sicilie, le quali al sangue italiano devono il
loro riscatto e che mi elessero liberamente a dittatore, fanno
parte integrante dell'Italia una ed indivisibile, con suo reco
stituzionale Vittorio Emanuele e suoi discendenti.
Io deporr nelle mani del re, al suo arrivo, la dittatura
conferitami dalla nazione.
I prodittatori sono incaricati dell'esecuzione del presente
decreto .
S. Angelo, 15 ottobre 1860.
G. GARIBALDI.
La vita di Giuseppe Garibaldi unica nell'epoca nostra non
solamente pel suo valore e pel suo coraggio, ma si ancora per
quella abnegazione che sempre distingue gli uomini consa
crati alla causa dei popoli e delle nazioni.
Comunque maltrattato dal governo di Torino, comunque
stanco di vedere e di sentire le macchinazioni del partito mi
nisteriale intorno a s, Garibaldi docile e disinteressato oltre
misura gi decretava l'annessione dell'Italia meridionale all'Italia
una ed indivisibile.
Il prodittatore di Sicilia aveva intanto messo fuori il decreto
che convocava l'assemblea; dopo il decreto del plebiscito ema
nato dal Dittatore, le assemblee si rendevano impossibili;
quindi era uopo emanare altro decreto e convocare i comizii.
Mordini aveva, vero, le sue opinioni e le sue idee, ma aveva
pure tanta politica da non tirarsi addosso l'opposizione forte
e decisa del partito ministeriale per cosa divenuta ora impos
sibile. Egli per altro non dimenticava che essendo prodittatore
sopra fibero popolo non poteva non secondare le aspirazioni
dei suoi governati, quindi in data del 15 ottobre 1860 ema
Storia della rivol. Sicil. Vol. II.
10
74
nava il decreto in forza del quale convocava pel 21 ottobre
gli elettori a votare pel plebiscito l'annessione della Sicilia al
l'ltalia una ed indivisibile.
Ecco il decreto:
In nome di S. M. Vittorio Emanuele re d'Italia
il prodittatore
In virt dei pieni poteri a lui conferiti;
Sulla proposta del segretario di Stato per l'interno;
Udito il consiglio di Stato;
decreta e promulga
Art. 1. I comizi elettorali, convocati pel 21 ottobre,
in luogo di procedere all'elezione dei deputati, dovranno vo
tare per plebiscito sulla seguente proposizione:
Il popolo siciliano vuole l'Italia una indivisibile con
Vittorio Emanuele re costituzionale e suoi legittimi di
scendenti.
2 Art. 2. Il voto sar dato per bullettino stampato o scritto,
portante la scritta s o no. Ogni altro bullettino sar reputato
nullo.
Art. 3. Lo spoglio dei voti sar fatto nel modo pre
scritto dal decreto del 5 ottobre; e proclamatone il risultato
ne sar trasmesso verbale all'Intendente del circondario, e da
questo al governatore della provincia che le spedir immedia
mente al presidente della corte suprema di giustizia.
Art. 4. La corte suprema di giustizia, in seduta per
manente, raccolti tutti i verbali, proceder allo scrutinio gene
rale. Il risutato finale sar proclamato dal presidente della su
prema corte dal balcone del palazzo dei tribunali.
Art. 5. Il segretario di Stato dell'interno incaricato
dell'esecuzione del presente decreto.
Ordino che il presente, munito del suggello dello Stato,
sia inserto nella raccolta degli atti del governo, mandando a
chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare
Dato a Palermo il 15 ottobre 1860.
Il prodittatore Mordini.
-
Il segretario di Stato dell'interno
E, PARISI.
75
Quel medesimo giorno faceva appello alla grandezza e ge
nerosit del popolo siciliano e lo confortava con un proclama
particolare a votare l'annessione. In questo modo Mordini usciva
dall'ardua questione quasi invulnerato, e poteva in faccia all'Ita
lia dire che nel suo governo non aveva fatto che secondare li
beralmente le tendenze e i desiderii del libero popolo. Ecco il
proclama pubblicato il giorno stesso in cui fu emanato il de
CretO:
ITALIANI DELLA SICILIA
Io vi dissi, giungendo al potere: La vostra storia vi
obbliga ad esser grandi. Ora forza mostrar che lo siete.
Ad affrettare il compimento dei vostri destini, io scelsi, or sono
pochi di, una via che altri popoli d'Italia avevano percorso col
plauso d'Europa. E la scelsi perch aveva l'approvazione del
dittatore, perch non escludeva la successiva applicazione di
un altro principio che mi ebbe sempre appassionato cultore.
Oggi nuovi casi han cangiato le condizioni dei giorni passati.
bando alle esitanze. Qui si tratta di fare colla concordia
la patria.
Italiani della Sicilia !
Dal fondo dell'urna, ove il giorno 21 si decider del vostro
avvenire, fate che sorga questo commovente annunzio ai po
poli della penisola. In Sicilia pi non sono partiti. Sar per
Garibaldi la miglior prova d'affetto; sar il mio conforto nel
separarmi da voi.
Palermo, 15 ottobre 1860.
Il prodittatore Mordini.
C AP IT 0 L 0 V
Agitazioni in Napoli Proclama del proditta
tore. Proclama del generale Tirr. Pena
sieri di Garibaldi. Linguaggio del partito
ministeriale. Ultimi contrasti prima del
plebiscito,
La determinazione del generale Garibaldi circa il plebiscito,
comunque fosse accettata e subita dai capi del partito demo
cratico, suscit serie agitazioni in quella parte della democra
zia, la quale non vede la necessit degli eventi e la combina
zione delle circostanze, e crede poter col chiasso delle dimo
strazioni sostenere e far prevalere le proprie opinioni. Solito
malvezzo di quella plebe o insensata o ignorante che senza
coscienza segue cosi alla cieca la bandiera di un partito, sia
essa o no vantaggiosa ai comuni interessi.
Taluni capipopolo pensarono agitare cotesta plebe in Na
poli ed in guisa da poter compromettere la quiete, la pace
della citt. Si pretese che l'agitazione venisse da alcuni parti
giani ed amici di Mazzini i quali intendevano per tal modo
mostrare che la maggioranza stava pi per l'assemblea che
pel plebiscito; molte occasioni furono facilmente rinvenute per
siffatte dimostrazioni le quali non ebbero eco e riuscirono
invece a scemare l'opinione degli amici di Garibaldi, ed a con
solidare nella mente dei molti la politica di annessione del
prodittatore Pallavicino Trivulzio.
In realt dopo un decreto di Garibaldi non era pi il tempo
di cangiare l'ordine delle cose; buono o cattivo bisognava
77
subirlo ; molto pi che in ogni maniera salvava il paese a
quella precariet che nuoceva a tutte specie d'interessi. Le
dimostrazioni democratiche quindi lungi di trovare corrispon
denza furono generalmente disapprovate, e la guardia nazio
nale per mostrare il suo talento fece una dimostrazione im
ponente in favore del prodittatore, significando cos che essa
voleva il plebiscito e che in tutto accomodavasi alla politica
di annessione.
E da dirsi che il partito ministeriale era riuscito a susci
tare nella citt una forte avversione contra Mazzini e contra
i suoi amici, proclamandolo nemico d'Italia, e per le sue idee
demagogiche perturbatore dell'ordine pubblico. Noi abbiamo
veduto di sopra come il terribile grido di morte a Mazzini
giungesse fino all'orecchio di Garibaldi, e come questi se ne
risentisse rispondendo morte a nessuno. Ora nella dimostra
zione fatta dalla guardia nazionale cotesto grido fecesi nuova
mente udire e venne disapprovato dal prodittatore, il quale
in quei momenti comprendeva che versar sangue sarebbe stato
lo stesso che accendere un vulcano terribile.
Il giorno 15 ottobre veniva pubblicato il seguente proclama;
esso la risposta di Pallavicino alla guardia nazionale.
S I GN O R I UFFICIALI E MIL IT l
DELLA GUARDIA NAZIONALE.
Ieri tutto commosso per l'affettuosa dimostrazione onde
vi piacque onorarmi, non seppi esprimervi con parole la gra
titudine che sento vivissima nel profondo dell'anima. Io vi rin
grazio, cittadini, della prova di stima e d'affetto di cui mi
foste cortesi; e v'assicuro che il vostro plauso mi sar sprone
a proseguire animosamente in quella via, che dee condurci
alla meta dei nostri desideri. Noi vogliamo una patria armata
e forte, noi vogliamo l'Italia una ed indivisibile; e noi l'a
vremo !
Ora cessino le popolari dimostrazioni, le quali se conti
nuassero, sarebbero inopportune ed anche pericolose. Calma
ed ordine. lo da voi spalleggiato sapr imbrigliare e punire
i felloni, essendo fellonia l'agitare e il dividere il paese, quando
i cittadini sono chiamati a votare l'unificazione d'Italia.
78
Signori ufficiali e militi della Guardia Nazionale.
Continuate ad aver fiducia in me: io sento di meritarla,
e di meritar quella del Dittatore che volle temporaneamente
affidarmi le sorti di queste nobili provincie. Ancora pochi
giorni, e l'Italia sar in gran parte del popolo italiano. Ecco
dunque, o signori, l'opera nostra felicemente iniziata e pro
seguita: al tempo il terminarla.
Intanto mi piace ripetervi le parole del dittatore:
Morte a nessuno e viva l'Italia.
Napoli, 15 ottobre 1860.
Il prodittatore
GioRGIO PALLAVICINO TRIVULZio.
Notammo di sopra che il partito di opposizione aveva e
trovava ben molte occasioni per fare delle dimostrazioni e
tenere in sconcerto il governo. Una di queste occasioni fu il
forte Sant'Elmo che, come altra volta dicemmo, venne conser
vato dallo stesso Garibaldi. In quei giorni adunque di confu
sione e di trambusti il popolo torn a gridare abbasso S. Elmo;
e quanto a questo non aveva tutto il torto; perciocch in li
beri paesi conservare quelle fortificazioni che vennero edifi
cate per reprimere il movimento delle citt un anacronismo.
Ma Garibaldi sin dal principio aveva gi disposto e detto che
quella fortificazione sarebbe stata consegnata alla guardia cit
tadina e da essa per sempre presidiata. Quindi il generale
Trr comandante la citt e provincia di Napoli, per acquietare
il popolo e far cessare la dimostrazione emanava questo pro
clama:
Il nostro dittatore Garibaldi, col suo discorso di ieri l'al
tro, ha detto che allorquando il popolo desidera qualche cosa
da lui, gli invii una deputazione. Perci il popolo di Napoli
consideri come nemici della libert coloro i quali cercano di
riunirli per farli gridare abbasso i castelli o di spingerlo ad
altre dimostrazioni. Perci che riguarda S. Elmo, Garibaldi
79
ha promesso che sar sempre in mano della forza nazionale,
e il re galantuomo manterr certamente questa promessa.
Garibaldi figlio del popolo e come tale non far mai
altro che bene al popolo. Fidatevi pertanto intieramente in
lui.
Napoli, 15 ottobre 1860.
Il generale comandante la citt e provincia di Napoli ,
S, Tirre
Cotesti proclami, la vigilanza della polizia e della guardia
nazionale, il contegno della maggioranza imposero sopra le
dimostrazioni e sopra i dimostranti, in modo che tutto ritorn
nella quiete ed in quella tranquillit che era indispensabile
perch il popolo si preparasse al plebiscito, e consumasse
questo solenne atto di politica che doveva decidere dei suoi
destini.
Cosa strana noi ora rapporteremo; diciamo strana perciocch
niuno avrebbe creduto che l'uomo della guerra e delle poli
tiche passioni concepisse il pensiero di invitare l'Europa tutta
alla pace e ad un assestamento tale da attuare ci che stato
sempre il voto dei grandi pubblicisti, l'idea di quanti si sol
levano sopra le meschine gare di popoli, di governi e di
nazioni per pensare all'umanit e alla felicit sociale.
Vivente sopra i campi di battaglia, bagnato ancora del sangue -
dei suoi nemici versato sulle rive del Volturno, alla vigilia
forse di nuove battaglie e di nuovi eccidii, Garibaldi in uno
di quei momenti di genio, proprio di chi sta sopra la comune
dei pensatori, sollevavasi al grande ed immenso concetto della
pace europea, alla soluzione del gran problema politico, alla
questione pi ardua del diritto pubblico, e che o presto o
tardi deve divenire una realt.
Il memorandum che riproduciamo l'opera di quest'uomo
meraviglioso le cui idee erano nobili e grandi come la forza
del suo braccio potente, come il coraggio del suo animo in
vitto. Ma prima diremo sopra argomento tanto sublime alcune
nostre opinioni.
La filosofia come qualunque studio dell'uomo, non tenendo
conto della religione, c'induce a pensare che gli uomini non
siano creati per uccidersi e sbranarsi l'un l'altro, ma per amarsi
80
e convivere, onde trovare nell'amore, nell'amicizia, nella con
vivenza la propria felicit. Ci che si dice dell'uomo dicasi
pure dei popoli e delle nazioni, le quali per quanto possano
essere distinte per contrada, per lingua, per genio, non sono
mai nemiche fra esse, che anzi abbisognando di scambievoli
aiuti sono naturalmente ordinate a tenersi unite cn tutti i
rapporti di mutualit e di amicizia. Soggiogare una nazione
non mai nell'interesse di un'altra nazione; tenere schiavo
un popolo non mai nell'interesse di un altro popolo; il do
minio insomma non istinto di nazioni e di popoli, ma di
governi, di dinastie, di re. La storia dell'umanit storia di
guerre e di sangue: ma chiunque rimonti alle origini di quegli
avvenimenti dolorosi trover sempre l'ambizione dinastica, l'in
teresse di un conquistatore, l'ostinazione di un despota, mai
l'interesse di una nazione, e le ragioni di un popolo.
V'ha infatti le guerre di conquista; esse quasi tutte sorgono
dalle ambizioni di un re, di un capitano, di un fortunato; v'ha
le guerre intestine; esse vengono dall'ostinazione di un prin
cipe, di un sistema di governo, e molto pi se questo di
spotico, ci che indispone poco a poco, le masse e suscita le
rivoluzioni. Si tolga la ragione di conquista, si tolga l'assolu
tismo dei governi, rientri ogni nazione nei suoi naturali di
ritti e confini, e tutto ritorner nella quiete e nella pace, come
nello stato normale.
Libert di popoli, ed indipendenza di nazioni sembrano a
noi i due cardini sui quali debba aggirarsi la social convi
venza e la vita politica di tutta quanta l'umanit. I numerosi
eserciti che i governi son costretti a tenere sotto le armi sono
tante braccia che mancano all'agricoltura, alla pastorizia, al
commercio, ad ogni specie d'industria. Non parliamo di ci
che viene a mancare ad una povera famiglia quando si strappa
dal suo seno il pi robusto dei figli e sovente colui, che coi
proprii sudori il sostegno dei vecchi genitori e di numerosa
famiglia. Lo stato presente, come il passato perci uno stato
anormale, a cui non si ripara che col grande principio di as
sociazione, per il quale le nazioni divengono sorelle, e ciascuna
tenendosi nei suoi confini, tutte insieme si aiutano con la mu
tualit, col commercio, col ricambio delle cose necessarie
alla vita.
Garibaldi levavasi proprio a questi concetti; e sul campo di
battaglia scriveva questi pensieri ai quali dava pubblicit per
81
ch la culta Europa riflettesse sopra ci che pu migliorare
le sue sorti nell'avvenire.
Ecco lo scritto di Giuseppe Garibaldi, di cui certo faranno
tesoro le future generazioni.
alla portata di tutte le intelligenze, che l'Europa ben
lungi di trovarsi in uno stato normale e convenevole alle sue
popolazioni. La Francia che occupa senza contrasto il primo
posto fra le potenze europee, mantiene sotto le armi seicento
mila soldati, una delle prime flotte del mondo, ed una quan
tit immensa d'impiegati per la sua sicurezza interna.
L'Inghilterra non ha il medesimo numero di soldati, ma
una flotta superiore e forse un numero maggiore d'impiegati
per la sicurezza de' suoi possedimenti lontani.
La Russia e la Prussia, per mantenersi in equilibrio, hanno
bisogno pure d'assoldare eserciti immensi.
Gli Stati secondarii, non foss'altro che per ispirito d'imi
tazione, e per far atto di presenza, sono obbligati di tenersi
proporzionalmente sullo stesso piede.
Non parler dell'Austria e dell'Impero Ottomano, dannati
per il bene degli sventurati popoli che opprimono, a crollare.
Uno pu alfine chiedersi: perch questo stato agitato e
violento dell'Europa ? Tutti parlano di civilt e di progres
so !... A me sembra invece che, eccettuandone il lusso, noi
non differiamo molto dai tempi primitivi, quando gli uomini
si sbranavano fra loro per strapparsi una preda. Noi passiamo
la nostra vita a minacciarci continuamente e reciprocamente,
mentre che in Europa la gran maggioranza, non solo delle
intelligenze ma degli uomini di buon senso, comprende per
fettamente che potremmo pur passare la povera nostra vita,
senza questo perpetuo stato di minaccia e di ostilit gli uni
contro gli altri, e senza questa necessit, che sembra fatalmente
imposta ai popoli da qualche nemico segreto ed invisibile del
l'umanit, di ucciderci con tanta scienza e raffinatezza.
Per esempio, supponiamo una cosa:
Supponiamo che l'Europa formasse un solo Stato.
Chi mai penserebbe a disturbarla in casa sua, chi mai si
avviserebbe, io vi domando, di turbare il riposo di questa so
vrana del mondo ?
Ed in tale supposizione, non pi eserciti, non pi flotte;
e gli immensi capitali strappati quasi sempre ai bisogni ed
Stor della rivol. Sicil, Vol. II.
11
82
alla miseria dei popoli per essere prodigati in servizio di ster
minio, sarebbero convertiti invece a vantaggio del popolo, in
uno sviluppo colossale dell'industria, nel miglioramento delle
strade, nella costruzione dei ponti, nello scavamento dei ca
nali, nella fondazione di stabilimenti pubblici, e nell'erezione
delle scuole, che torrebbero alla miseria ed alla ignoranza
tante povere creature che in tutti i paesi del mondo, qualun
que sia il loro grado di civilt, sono condannate dall'egoismo
del calcolo, e dalla cattiva amministrazione delle classi privi
legiate e potenti all'abbrutimento, alla prostituzione dell'anima
o della materia. Ebbene l l'attuazione delle riforme sociali che
accenno appena, dipende soltanto da una potente e generosa
iniziativa: quando mai present l'Europa pi grandi probabi
lit di riuscita per questi benefici umanitari ? Esaminiamo la
situazione. Alessandro II in Russia proclama l'emancipazione
dei servi. Vittorio Emanuele in Italia getta il suo scettro sul
campo di battaglia, ed espone la sua persona per la rigene
razione di una nobile razza, e di una grande nazione. In In
ghilterra, una regina virtuosa, ed una nazione generosa e sa
via, che si associa con entusiasmo alla causa delle nazionalit
oppresse. La Francia finalmente, per la massa della sua po
polazione concentrata, per il valore de' suoi soldati, e per il
prestigio recente del pi brillante periodo della sua storia mi
litare, chiamata ad arbitra dell'Europa.
A chi l'iniziativa di questa grand'opera?
Al paese che marcia in avanguardia della rivoluzione !
L'idea di una confederazione europea, che fosse posta innanzi
dal capo dell'impero francese, e che spargerebbe la sicurezza
e la felicit nel mondo, non vale essa meglio di tutte le com
binazioni politiche, che rendono febbrile e tormentano ogni
giorno questo povero popolo? Al pensiero dell'atroce distru
zione che un solo combattimento tra le grandi flotte delle po
tenze occidentali porterebbe seco, colui che si avvisasse di
darne l'ordine, dovrebbe rabbrividire di terrore, e probabil
mente non vi sar mai un uomo cos vilmente ardito per as
sumerne la spaventevole responsabilit. La rivalit che ha
sussistito tra la Francia e l'Inghilterra dal XIV secolo fino ai
nostri giorni, esiste ancora; ma oggi noi lo constatiamo a
gloria del progresso umano, essa infinitamente meno intensa
di modo, che una transazione tra le due pi grandi nazioni
dell'Europa, transazione che avrebbe per iscopo il bene del
83
umanit, non pu pi essere posta tra i sogni e le utopie degli
uomini di cuore. Dunque la base di una confederazione eu
ropea naturalmente tracciata dalla Francia e dall'Inghilterra.
Che la Francia e l'Inghilterra si stendano francamente, leal
mente la mano, e l'Italia, la Spagna, il Portogallo, l'Ungheria,
il Belgio, la Svizzera, la Grecia, la Romelia verranno esse
pure, e per cos dire instintivamente, ad aggrupparsi intorno
a loro. Insomma, tutte le nazionalit divise ed oppresse, le
razze slave, celtiche, germaniche, scandinave, la gigantesca
Russia compresa, non vorranno restar fuori di questa gene
razione politica, alla quale le chiama il genio del secolo. Io so
bene che una obiezione si affaccia naturalmente in opposizione
al progetto che precede. Che cosa fare di questa innumere
vole massa d'uomini impiegati ora nelle armate e nella ma
rina militare? La risposta facile. Nel medesimo tempo che
sarebbero licenziate queste masse, saremmo sbarazzati delle
istituzioni gravose e nocive, e lo spirito dei sovrani, non pi
occupato dall'ambizione delle conquiste, delle guerre, della
distruzione, sarebbe rivolto invece alla creazione d'istruzioni
utili e discenderebbe dallo studio della generalit a quello
degli individui. D'altronde coll'accrescimento dell'industria, con
la sicurezza del commercio, la marina mercantile reclamer
dalla marina militare sul momento tutta la parte attiva di
essa; e la qualit incalcolabile di lavori creati dalla pace,
dall'associazione, dalla sicurezza, ingoierebbe tutta questa po
polazione armata, fosse anche il doppio di quello che oggi.
La guerra non essendo quasi pi possibile, gli eserciti diver
rebbero inutili. Ma quello che non sarebbe inutile il man
tenere il popolo nelle sue abitudini guerriere e generose, per
mezzo di milizie nazionali, le quali sarebbero pronte a repri
mere i disordini e qualunque ambizione tentasse infrangere
il patto europeo.
Desidero ardentemente che le mie parole pervengano a
-
conoscenza di coloro cui Dio confid la santa missione di fare
del bene, ed essi lo faranno certamente, preferendo ad una
grandezza falsa ed effimera, la vera grandezza, quella che ha
la sua base nell'amore e nella riconoscenza dei popoli.
G. GARIBALDI.
84
Noi non faremo commento a questi pensieri e parole del
dittatore delle Due Sicilie. un linguaggio troppo chiaro ed
insieme sublime perch abbisogni di spieghe. Si potrebbe as
serire che l'intera societ aspiri oggi a cotesta felice situazione
in cui con la pace si avrebbero e lo sviluppo dell'interna pro
sperit, ed il progresso delle scienze e delle arti, non che
tutto quel complesso di beni che ha luogo sempre in paese
libero e in stato normale.
Abbiamo riportato cotesto documento perch cos i nostri
lettori avranno un altro mezzo come conoscer meglio la mente
ed il cuore del grande Garibaldi, e formarsi idee pi chiare
circa il suo intendimento negli affari sociali. Ora ritorneremo
al filo della nostra storia.
Notammo disopra come il partito democratico volesse l'as
semblea anzi che il plebiscito. Non sar superfluo il notare il
linguaggio dei ministeriali di allora, perch cos si compren
der quali fossero gli argomenti che i due partiti usavano per
abbattersi e confutarsi. Il partito ministeriale diceva: alla vi
gilia di un voto popolare, mentre corrono pei popoli del Na
politano i pi gravi momenti, opera di suprema empiet far
sorgere il terrore e la diffidenza; e noi siamo dolentissimi,
che la nostra rampogna debba indirizzarsi ad un partito che
si vanta di amar l'Italia e che ha sopportato le pi crude
persecuzioni della tirannide. La legge che appella i cittadini
a manifestare liberamente il proprio voto , senza alcun dub
bio al mondo, la pi larga applicazione del principio demo
cratico. Ma no ; i nostri avversari reclamano una Costituente.
Siffatta Costituente esser dovrebbe l'espressione del popolo.
Ma questo popolo (chi oser negarlo?) superlativamente
compreso dalla necessit (suprema legge) di raccorsi a for
mare un regno di ventidue milioni d'Italiani sotto lo scet
tro del re galantuomo per chiedere all'Europa la liberazione
delle provincie ancora oppresse dal giogo straniero, ed ove la
voce della diplomazia non valga, essere in grado di tentare
con tutte le forze una guerra decisiva che assicuri per sempre
l'unit della penisola e per sempre ne scacci lo straniero.
Perch dunque uomini, che pur sempre invocano le sovranit
del popolo, oggi vorrebbero far prevalere le idee e le aspirazioni
individuali, in onta alla gran maggioranza della nazione ita
liana? Ci si dira: Voi travolgete i desideri del popolo; il
popolo non con voi, non divide i vostri intendimenti. Ci
85
contenteremo di rispondere che l'urna popolare accetta ogni
voto, favorevole o contrario, e tocca ad essa il decidere o
disingannare coloro che si illudono. Essa offre ai nostri con
traddittori il solo terreno, su cui possono onorevolmente lot
tare.... Ma non temiamo di nulla; vani sono tornati tutti i
mezzi tendenti a dividerci poich decreto della provvidenza
che l'Italia sia fatta. Noi anderemo a deporre il nostro voto
nell'urna al grido d'Italia e Vittorio Emanuele. E questo il sim
bolo cos gloriosamente propugnato dal nostro illustre Ditta
tore e le gare dei partiti, le ambizioni personali, che che fac
ciano non giungeranno ad offuscarlo.
Cos circa il plebiscito, quello stesso partito ministeriale usava
ogni maniera onde far comprendere al popolo di Napoli l'im
portanza di quell'atto e muoverlo ad accorrere per compierlo.
Bisogna, esso diceva, che tutti si facciano un'idea chiara del
l'importanza di un atto cos solenne. Da che esiste la mona chia di Napoli, questa la prima volta, che noi siamo chia
mati a decidere liberamente sul modo con cui vogliamo essere
governati. Il suffragio universale esprime la volont di tutto il
popolo, ed il popolo riconosciuto come giudice e padrone
dei suoi destini. L'avvenire nelle nostre mani, e d'ora innanzi
non avremo pi scusa, se invece d'essere liberi e felici, saremo
di nuovo infelici ed oppressi. Vittorio Emanuele, che ha avuto
il nome di re galantuomo, colui che tutta Europa ci invidia,
e il re che vuole la felicit dei suoi sudditi, che espone la vita
pel bene del suo popolo. Il suo governo porta la ricchezza, il
lavoro, l'industria, il commercio; insomma la felicit dei suoi
sudditi. Tutta l'Italia centrale, per essere governata da lui, ha
dato denaro, uomini, sangue; ha corso ogni pericolo, ha fatto
ogni sacrificio, non ha voluto sentire parlare di altri che di
Vittorio Emanuele re d'Italia. E quando in quei paesi fu con
cesso il suffragio universale, tutti andarono a deporre il loro
voto, non manc un solo. Oggi tocca a noi. Vogliamo unirci
ai nostri fratelli italiani che sono quei medesimi che sbarca
rono a Marsala ed in Calabria, quelli che sparsero tanto sangue
per noi; quelli che ora sono sotto le mura di Capua; che com
battono e muoiono, per impedire che i Borboni tornino a sac
cheggiare, a bruciare, a distruggere; vogliamo unirci a loro?
l'Italia unita significa una grande nazione, una nazione libera,
padrona di s stessa, capace di fare sentire la sua voce nel
mondo e farsi rispettare. L'Italia divisa significa una nazione
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debole, oppressa, conquistata, calpestata nuovamente dallo stra
niero e da Francesco II. Noi tutti dobbiamo appuntare lo sguardo
sul re soldato e galantuomo, che unifica nella sua mano potente
le file delle varie parti d'Italia. Di poi il parlamento italiano
far il resto, e risolver le peculiari e municipali questioni. In
questo giorno memorando lasciamo cader gi dall'animo i
bassi rancori, e confondiamo in un bacio di amore Cavour e
Garibaldi, il diplomatico ed il guerriero dell'Italia moderna.
Infine rendiamo grazie alla nazione che governa il corso delle
cose umane, la quale quando l'ora della rigenerazione d'Italia
suonata ha fatto sorgere una triade meravigliosa che ci con
durr al posto sospirato da tanti secoli. Presto diremo all'Eu
ropa col nostro voto: Siamo noi pure Italiani! diremo alle
nazionalit oppresse: sperate, perch il giorno della giustizia
arriver anco per voi, come per noi arrivato! diremo in ul
timo ai nostri nemici: inchinatevi nella polvere, perch il regno
d'Italia fatto, ed nostro il vanto di averlo proclamato. Il
plebiscito porr sul trono di questo regno, un principe, che
ha la coscienza di compiere i suoi doveri di re e d'Italiano,
e che sa purtroppo quanto sia necessario ai re l'amore, ai
governi la stima dei popoli. Esercitando un gran diritto, noi
adempiremo egualmente ad un grande dovere, il quale c'im
pone di accorrer tutti quanti siamo alle urne, dalle quali uscir
irrevocabile il supremo decreto della volont nazionale.
Era questo in sostanza il linguaggio del partito ministeriale
parlato al popolo per mezzo dei giornali, per mezzo dei pro
clami, e con tutti i modi di pubblicit. Buona politica era questa,
per la quale dovevasi riuscire a far che il popolo facesse con
piacere e risolutezza ci che si voleva dagli annessionisti, con
vinto insieme che per tal modo non si riusciva a dispiacere,
ma a contentare il Dittatore. Finalmente venne ancora un ultimo
momento di crisi, o diremmo meglio un ultimo breve contrasto
prodotto dalle diverse opinioni dei due partiti democratico e
ministeriale. Narreremo brevemente quest'ultimo avvenimento,
il quale merita essere registrato in questa nostra storia perch
gitta anch'esso un raggio di luce sull'animo singolare di Giu
seppe Garibaldi.
Verso la met del mese di ottobre il ministero e Pallavicino
avevano presentate le loro dimissioni; ora il Dittatore si rec
in Napoli, e convoc in sua presenza il marchese Pallavicino,
e tutti i ministri. Mostr di non essere pienamente soddisfatto
87
della politica seguita per due principali motivi: che si erano
esonerati dal governo di alcune provincie uomini di azione,
compagni suoi negli ultimi gloriosi fatti; e che non gli si
erano spediti colla sollecitudine che impongono le necessit
attuali i fondi richiesti per i bisogni dell'esercito e della guerra.
Al che rispose il ministro degli affari interni, che se aveva
dovuto con suo rincrescimento revocare alcuni governatori, lo
aveva fatto perch si erano mostrati poco esperti nei loro uf
ficii, e perch nello stato in cui si trovava il paese era con dizione e necessit suprema riordinar subito le amministrazioni.
Anche la pace, come la guerra ha le sue imperiose necessita;
onde conchiuse che pure stimando ed ammirando gli uomini
di azione, egli doveva provvedere senza umani riguardi alla di
gnit del ministero.
Il ministro delle finanze dimostr medesimamente che non
aveva tardato in alcun modo a dare i fondi richiesti, e conti
nuarono simiglianti discorsi; se nonch il ministro Conforti
osservando che il dittatore si mostrava alquanto dubbioso, lo
veggo, o mi par di vedere, disse, che il Dittatore non mostra
nel ministero quella intera fiducia che questo crede meritare;
permetter quindi che noi ci ritiriamo, e che il potere passi
in altre mani. Alle quali parole prima di rispondere, Garibaldi
medit alquanto, poi soggiunse: Ebbene, si faccia come dice
il ministro Conforti, per locch questi scrisse la dimissione
che fu firmata dagli altri colleghi. Il generale nell'accettarla preg
i membri del consiglio di rimanere in officio provvisoriamente
finch non fosse composto un altro governo. Cos il consiglio
si sciolse, ed i ministri si accomiatavano. Ma dopo alcuni mi
nuti, il ministro dell'interno ritorn indietro per avere una
copia della data dimissione; e fu allora che trov presso il ge
nerale l'ammiraglio Persano, che egli non conosceva e dal quale
non era conosciuto. Le osservazioni che egli fece innanzi al
Dittatore ed all'ammiraglio dimostravano se non altro la sua
franchezza.
Nel giorno seguente il dittatore invit il marchese Pallavicino
a recarsi nel palazzo della sua residenza, alle due pomeridiane;
e avendo questi domandato se gli era permesso di condurre
anche il ministro degli affari interni, rispose Garibaldi che anzi
lo desiderava. Nel palazzo d'Angri all'ora indicata, il marchese
Pallavicino ed il ministro Conforti trovarono Cattaneo, Crispi,
Saliceti, De Luca; ed era anco presente il generale Trr. Si
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discute, cominci il dittatore, se convenga convocare dopo il
plebiscito, un'assemblea napolitana alcuni opinano pelsi, altri
pel no. Vorrei che si cercasse un mezzo di conciliazione fra i
pareri opposti. Pallavicino e Conforti dichiararono che la con
ciliazione cercata era impossibile, che essi avendo consigliato
l'atto che chiama il popolo a decretare se vuole l'unione di
queste provincie al regno italico, rimanevano fermi, ove si vo
lesse convocare un'assemblea nella gi data dimissione. Invece,
Cattaneo sostenne che l'assemblea era necessaria dopo il ple
biscito, come quella che dovea accettarlo o respingerlo, si di
chiar federalista; manifest il pensiero che un'assemblea del
l'Italia meridionale doveva fare alcune condizioni al patto di
unione con l'Italia settentrionale. Aurelio Saliceti difese con
vari argomenti la stessa opinione del Cattaneo. Questa opi
nione per venne respinta, e con molta energia, e con molta
copia di argomenti dal prodittatore Pallavicino, a cui venne
compagno il ministro Conforti, e sostenne che alla sovranit
del popolo, che si manifesta con suffragio universale e diretto,
non pu soprastare alcuna assemblea, che l'assemblea sempre
delegata e mandataria del popolo, e che non pu disfare e
giudicare ci che il popolo ha decretato. Chiam le condizioni
che si volevano imporre al governo di Vittorio Emanuele, il
pomo della discordia gittato nel campo italiano, ed opin che
avrebbero resa l'unificazione della penisola, se non impossibile,
assai difficile. E poi, egli soggiunse, noi opporremmo parla
mento a parlamento; chi non prevede che il parlamento di
Torino vota la proposta di non accettare annessioni condizio
nate? Sarem dunque noi creatori di scisma italiano? eterneremo
il provvisorio? e daremo ragione agli stranieri che ridono delle
nostre discordie? No; noi Napoletani non dobbiamo fare con
dizioni che son cose da medio evo. Noi non ci diamo ad una
potenza straniera, a cui sia necessario imporre dei patti. Noi
ci diamo a noi stessi, alla nostra gran patria che fu il sospiro
di tanti secoli; all'Italia una ed indivisibile. Dall'altra parte,
gli Italiani dell'Emilia e della Toscana, di quella gentile To
scana che vanta si nobili memorie non posero condizioni, ma
si preoccuparono solo di riunire le sparse membra della ita
liana famiglia. Questa idea grande, che dee dominare tutte le
altre; perch dobbiamo non imitare i nostri fratelli? perch
dobbiamo domandare privilegi quasi non fossimo figli della
medesima patria? e conchiuse con molto calore: noi Napoletani
89
non consentiremo giammai a quest'onta che alcuni ci vorreb
bero imporre; noi che fummo tanto calunniati nel mondo, noi
non vorremo certo con le nostre pretese municipali tramutare
le vecchie calunnie in novelle accuse; noi non vogliamo altro
se non che si faccia l'Italia, e presto. E mi meraviglio come
una questione siffatta si possa tanto agitare in presenza del ge
nerale Garibaldi, che la personificazione dell'unit italiana. .
Dopo le quali parole, il Dittatore esclam con forza: Non
voglio assemblea; si faccia l'Italia!
Or anche questo uno degli avvenimenti che mettono in
chiaro la sincerit di animo dell'immortale Garibaldi. Egli
amava grandemente, infinitamente l'Italia, e la voleva una ed
indivisibile; quindi ogni qual volta dovevano superarsi degli
ostacoli perch questa unit si affrettasse, egli era il primo al
l'opera ed ai sagrificii.
Compreso infatti che l'assemblea potea essere un inciampo
all'unit, egli pi non la volle; e disse parole memorande :
L'Italia si faccia.
Da quel giorno in poi, non si parl pi di assemblee, ma so
lamente di plebiscito.
Stor della rivol. Sicil. Vol. II.
CAPIT0L0
VI
Il Plebiscito,
-
Spuntava il giorno 21 ottobre, giorno destinato a quel
voto solenne che doveva con l'annessione dell'Italia meridio
nale affrettare l'unit italiana. Alle 7 del mattino le campane
delle chiese principali di Napoli, suonarono a stormo per dieci
minuti onde annunziare ai cittadini l'apertura dei comizii, sa
lutata eziandio dai cannoni dei forti.
I luoghi nei vari quartieri destinati alla votazione, si videro
tantosto affollati dal popolo il quale era pure ansioso di de
porre nell'urna quel voto che doveva unirlo alla libera fami
glia italiana.
La guardia nazionale, tutta sotto le armi, fu vista portare
alle rispettive sezioni il suo voto d'annessione, in mezzo agli
applausi della popolazione festante, per poi sfilare lungo To
ledo fra gli evviva a Vittorio Emanuele, a Garibaldi, al
l' Italia.
Le bandiere di tutti i quartieri della citt erano portate da
preti e frati seguiti da moltitudine di popolo, il quale
preceduto dalle bande cittadine faceva risuonare l'aere dei
gridi d'entusiasmo.
La via Toledo percorsa da musiche, da canti, da una dop
pia fila di carrozze, offriva imponente spettacolo. Allegro era
l'aspetto dei palazzi e delle case, i cui balconi ornati di ban
diere nazionali, erano zeppi di gente. Un dispaccio telegrafico
annunciava in quei momenti una vittoria del generale Cialdini
alle falde del Macerone. Cotesto annunzio accrebbe la gioia
di quel giorno. Un altro dispaccio telegrafico giungeva dalla
91
citt di Castrovillari, annunciava che clero e popolo avevano
unanimamente in quella citt votato pel s. Verso un'ora po
meridiana, il popolo levossi a strepitose acclamazioni; esso
accoglieva cos Garibaldi, il quale con la sua presenza volle
rendere pi solenne quella memorabile giornata. Egli dopo
avere percorso la via Toledo e quella di Chiaja, ripartiva per
Caserta festeggiato sempre da quel popolo che veramente lo
alimaVa.
La gioia della popolazione prolungossi fino a notte avan
zata, e la via Toledo sfolgorante di luce per una generale il
luminazione, offriva alla sera uno spettacolo ancor pi impo
nente di quello della mattina. Quantit infinita di carrozze
adorne di bandiere con fiaccole accese seguite da immenso
popolo che facea rintronare l'aria di patriotiche canzoni, per
correva quella magnifica via.
Verso le 9 pomeridiane, un assembramento di sei o sette
mila persone preceduto da una cinquantina di bandiere par
tiva dal largo di Mercatello. Tre o quattro cittadini gridavano
ad alta voce: volete voi l'Italia una con Vittorio Emanuele nostro
re? La moltitudine che la seguiva rispondeva sempre s, e
questa scena si ripet un centinaio di volte prima che la co
mitiva giungesse al largo di Palazzo, ove proruppe in accla
mazioni affatto frenetiche. Il teatro S. Carlo era illuminato a
giorno per la fausta occasione del plebiscito. Quivi pure l'ar
gomento di un ballo nuovo riscosse dal numeroso pubblico
grida di entusiasmo. Quel ballo era intitolato: un episodio della
guerra d'Italia nel 1859: esso chiudevasi coll'annuncio della
battaglia di Magenta. Era mezzanotte e la grandiosa citt di
Napoli offriva ancora lo spettacolo d'immenso popolo che si
moveva, che cantava, che gridava.
Simili feste di certo non recavano meraviglia a chi cono
sceva un poco la natura del popolo in generale, e quella dei
Napolitani in particolare. Le novit destano sempre prima la
curiosit, poi il movimento delle popolazioni; ove poi per
avventura si tratti di libert e di indipendenza, della caduta
di un principe e della elezione di un altro, ove insomma oc
corrano dei grandi cangiamenti politici, i popoli applaudiscono
sempre, e quasi sempre senza tutta comprendere la portata
degli avvenimenti.
Il ppolo napoletano immaginoso per natura e fantastico,
amante delle novit che lo distraggono dalla vita monotona.
-
92
facilmente si slancia alle feste entusiastiche. Il 21 ottobre
aveva poi una grande importanza, e tale che in parte poteva
essere compresa dalla massa popolare; si trattava di libert,
d'indipendenza, di unit italiana; si trattava di dichiarare de
caduta per sempre dal trono di Napoli la dinastia borbonica, e
di elegere a re quel Vittorio Emanuele di cui tanto bene aveva
detto il generale Garibaldi. Posto ci dovere della storia la
sciare libera alla fantasia di ciascuno l'immaginare ci che
fosse e ci che facesse in quel giorno il numeroso popolo na
politano.
Le sezioni in cui dividevasi la citt erano dodici, in cia
scuna sezione eravi un locale adorno di tricolori disposti
in varie guise, ed ivi stavano i giurati di ciascun rione,
perch la votazione procedesse in regola. Quando gente del
popolo sopravveniva, uno dei giurati, mostrandole le due ceste
del s e del no, e avvertendola della libert del voto, e della
coscienza franca con cui conveniva darlo, soggiungeva: ebbene,
si tratta di votare per Francesco o per Vittorio; voi sapete che
cosa l'uno e l'altro; indi spiegava brevemente ci che essi
fossero e lasciava libera quella gente a votare. Sul peristilio
del luogo in cui in ciascuna sezione si votava, eravi scritto a
grandi caratteri: comizi del popolo, 21 ottobre 1860; dentro, so
lamente al posto in cui stavano i preposti alla votazione stava
scritta la formola: Il popolo vuole l'Italia una e indivisibile sotto
il regno costituzionale di Vittorio Emanuele II e suoi legittimi
discendenti.
ln tutte le provincie di terraferma la votazione fu unanime;
noi la registreremo in questa storia quale fu officialmente
pubblicata dal governo prodittatoriale.
Catanzaro. Votazione soddisfacentissima; lo stesso si an
nunzia da altri punti della provincia.
Gallipoli. Votazione gi compiuta con gran concorso; i ri
sultamenti saranno superiori ad ogni aspettativa.
Lecce. La votazione compiutasi con calma, dignit e gran
frequenza, stata unanime pel s. Il clero vi ha concorso
con entusiasmo.
Maddaloni. Gran concorso di votanti; fra i quali due soli
han votato pel no.
Cosenza. Unanime la votazione pel s; lo stesso avvenuto
in vari paesi del distretto, di cui sono gi pervenute le urne
al capoluogo.
95
Lagonegro. Votazione unanime pel s. Su duemila voti si
contano quattro soli pel no. Il popolo in festa. Corrieri spe
diti da Latronico, Castelluccio inferiore e superiore, Lauria e
Nemoli assicurano lo stesso risultato.
Potenza. Notizie qui pervenute da vari comuni della pro
vincia arrecano che dappertutto il concorso dei votanti stato
numerosissimo; e tutto proceduto con ordine.
Paola. Ad unanimit si votato pel s. Gran festa nella
citt.
Amantea. La votazione proceduta in modo eccellente e
con piena tranquillit.
Salerno. Il capoluogo e molti comuni della provincia hanno
gi compiuta la votazione. Il clero secolare e regolare con
corso innanzi agli altri. Festeggiamento universale.
Monteleone. Unanime votazione pel s con immensa dimostra
zione di gioia,
Ariano. Di tremila votanti inscritti oltre nove decimi hanno
dato il loro voto e tutti pel s. Gran festa nel paese. In Pa
rolise, Contrada, Torino, Chiusano, Salsa, Sanpotito ed altri
comuni, simile risultato. Pochi assenti, i pi per causa d'in
fermit.
Ventotene. Persona giunta di col a Puozzoli assicura che la
votazione fu unanime pel s.
Trani. Di 5963 votanti appena mancato un centinaio o
poco pi per infermit o per assenza. Tutti han votato pel s.
La citt in gran festa.
Ischia. Numeroso concorso di votanti. La votazione si ese
guita con la massima tranquillit ed ordine. Grandissima mag
gioranza pel s.
Rozzano. 3400 votanti; nessun no. La citt animatissima.
Lurino. Votazione unanime pel s, e affollatissimi i votanti.
Caserta. La votazione volge al suo fine con ordine e tran
quillit. L'esercito prende parte al voto. Ciascun corpo col
suo capo alla testa.
Ostuni. La popolazione nella votazione ha esaurite le car
telle del s. -
Brindisi. Compiuta la votazione, soddisfacentissima per con
corso, spontaneit ed entusiasmo. Altrettanto si riferisce di
molti comuni del distretto.
Sala. Unanime votazione pel s. Gran gioia nel popolo.
Atripalda. Tutti s. Nessuna astenzione. Lo stesso in Mon
teforte, Cesinale, Belizzi, Capriglia, Servo.
94
Avellino. Finora tremila s e nessun no. La votazione conti
nua. Applausi ai preti e ai frati votanti.
Lagonegro. I comuni di Trecchina, Teano, Fardella e Moli
terno appartenenti a questo distretto hanno votato unanime
mente pel s.
Nola. Nel distretto la votazione seguita in modo soddisfa
cente e con la massima regolarit.
Amantea. I comuni di questo Circondario e del vicino di
Ajello han tutti votato pel s.
Pozzuoli. Compiuta la votazione in modo soddisfacentissimo.
Quattromila e pi s, quattro soli no. Immensa esultanza.
Procida. Milleseicentotr voti pel si, dieci soli pel no. Il
clero si astenuto.
Bari. Votazione unanime pel s; lo stesso in Trani, Molfetta,
Menopoli e Polignano.
Avellino. Ad unanimit si votato pel s. Vi han preso parte
i Capuccini e gli Scolopii. Simili notizie si hanno da Cervi
nara, Volturara, Montefusco e Montemileto. In Sant'Angelo dei
Lombardi il clero e i cittadini han votato pel s, e solo parte
dei contadini si sono astenuti.
Ottajano. La votazione procede con ammirabile alacrit e
moderazione.
Potenza. La votazione riuscita numerosa ed unanime in
Moliterno e Lugonegro. Financo alcuni infermi sonosi presen
tati a votare. Solo in Cancellara e Carbone piccoli comuni
l'ordine stato turbato da alcuni tristi che volevano impedire
la libera manifestazione del voto.
Castellamare. In questo comune del pari che in Torre An
nunziata, Lettere e Gragnano, la votazione stata unanime, e
pochi si sono astenuti dal votare.
Reggio. Si compita la votazione col massimo ordine e
tranquillit.
Cotrone. La votazione stata eseguita con entusiasmo.
Il risultato dello spoglio dei voti della citt e provincia di
-
Napoli fu il seguente: inscritti 229,780. Pel s 185,468. Pel
no 1,609.
Lo splendido risultato del suffragio universale sarebbe stato
una prova luminosissima di un grande progresso alla libert
nelle popolazioni del Napolitano, se si potesse credere che i
Votanti tutti conoscessero ci che si facevano, e se non altro
che coscienza ed amore di libert e d'indipendenza li avessero
95
spinti a quell'atto. Ma dovere della storia notare che in si
mili atti sovente manchi la riflessione e vi si trovi o quell'in
certo spirito di novit o la molla dell'interesse materiale che
trovasi nelle promesse come nelle speranze.
Ci non pertanto, uopo constatare che se i popoli di quelle
provincie avessero avuto amore verso la dinastia borbonica,
essi non avrebbero concorso a votare la sua caduta e la suc
cessione di un altro re al suo trono. Posto pure che quei po
poli non odiassero i Borboni conviene pur dire che non li ama
vano; e veramente quella dinastia aveva tutto fatto per non
meritarsi l'amore n la fiducia del popolo.
superfluo il dire come le nuove dell'unanime votazione
rallegrassero Italia tutta, e come ovunque si festeggiassero
quegli splendidi risultati. Abbench non si dubitasse della riu
scita in un fatto cotanto essenziale alle sorti dell'unit ita
liana, pure l'avere officiali comunicazioni di tanto trionfo era
per s stesso una grande festa italiana, una gioia universale,
una contentezza incredibile.
Fino le donne vollero dare un attestato di simpatia al re
Vittorio Emanuele, e lo diedero con un indirizzo nobile e ben
sentito, e che merita un posto nella storia contemporanea.
Le donne napolitane, quelle specialmente che hanno qualche
istruzione sono proclivissime alla libert fino a quando non
le guasta o spirito di parte o materiale interesse.
Ecco l'indirizzo di quelle donne meridionali, scritto in lin
guaggio meridionale.
SUFFRAGIO DELLE DONNE DELL'ITALIA MERIDIONALE
PER S. M. RE VITTORIO EMANUELE.
Sire,
L'umana societ, non sappiamo se pi ingiusta o ingrata,
mentre alla donna accorda i diritti civili, le nega affatto ogni
diritto politico; quasi che essa non fosse la parte pi viva e
pi influente dell'umano consorzio. L'avvenire della societ
confidato nelle nostre mani per il delicato magistero della
nostra famiglia, che da noi riceve l'indirizzo morale, che non
pu spaiarsi del politico e civile. Per la qual cosa, o sire, se
96
in questi solenni momenti i voti tutti di un popolo vi procla
mano padre e sovrano della giovine ed unita Italia, se il suf
fragio universale di tutta una regione alla nobilissima corona
che vi orna il capo, congiunge due altre elette gemme delle
due splendide provincie di Napoli e Sicilia, non sapremmo noi
donne di Napoli non far eco ai loro ardenti voti, ed accogliervi
e festeggiarvi come unico nostro re e padre della patria. Voi
siete stato il sospiro dei nostri cuori per ben due lustri; Voi
abbiamo susurrato unica speranza della nostra salvezza nei se
greti colloqui del santuario dei domestici lari; per voi abbiamo
palpitato, quando coraggioso correvate a mietere gli allori di
Palestro, di S. Martino e di Solferino. Voi abbiamo indicato
ai nostri figli fin dalla culla, unico sostegno del comune risor
gimento; ritemprandoli nell'amor della patria, noi abbiamo
cinto la spada della vittoria al fianco de nostri martiri, ed ab
biamo loro accennato il vostro vessillo, sotto il quale si adu
nano per mettere in bando l'usurpatore straniero; e quando
questo novel Leon di Giuda, Giuseppe Garibaldi, al suon di
Italia e del vostro nome sgominava le orde feroci dello schia
vaggio borbonico, inneggiando la gioia del trionfo, voi siete
stato l'oggetto dei nostri tripudii. Accogliete dunque i liberi
suffragi delle donne tutte dell'Italia meridionale, le quali, men
tre vogliano l'Italia una ed indivisibile, vi proclamano re di essa
costituzionale. Possa la storia, fedele interprete dei fasti e della
vita dei popoli, ricordare all'avvenire che, quando Napoli e
Sicilia, rassembrate sotto il vessillo della Croce Sabauda, fa
cevano l'Italia degl'Italiani libera ed una, le donne, figlie non
degeneri delle Cornelie, delle madri di Coriolano, dell'eroine
di Sivigliano e di Tortona e di Vigevano e di Saluzzo, ebbero
un palpito ed un'aspirazione per la patria indipendenza, e po
sero ancor esse una piccola pietra al grande edificio della na
zionalit italiana.
Napoli, 21 ottobre 1860.
La votazione in Sicilia non fu seconda a quella di Napoli;
che anzi risult pi unanime, pi concorde, pi universale.
Prima di accennarla per ci conviene portare l'attenzione so
pra alcune particolarit che hanno qualche importanza quando
si voglia ben giudicare delle intenzioni e dei fatti di un popolo.
Abbiamo altre volte notato come due partiti si contendes
97
sero l'animo dei Siciliani, il partito ministeriale che voleva
l'annessione immediata, ed il partito democratico che inten
deva protrarla ad altri tempi. Abbiamo eziandio notato come
fosse pensiero dei democratici e specialmente del prodittatore
Mordini di convocare un'assemblea, per cos in forza di una
costituente portare delle gravi modificazioni alla politica del
governo sardo. Ma il partito ministeriale la vinse, e noi dob
biamo rivelare le ragioni vere di tale vittoria.
Ai Siciliani la precariet non poteva piacere e non piaceva
difatto, non pure per quegli interessi materiali che nei movi
menti rivoluzionari vanno sempre in rovina, ma ancora pel
grande interesse politico di non tornare pi sotto i Borboni,
o come essi dicevano, sotto i Napoletani. Il 1849 aveva dato
ai popoli dell'isola un grave insegnamento, quello di non fi
darsi alla momentanea vittoria e di temere la ristaurazione.
Nella rivoluzione del 1848 e 1849 la Sicilia poteva dirsi li
bera e indipendente; i Borboni erano confinati nella citta
della di Messina d'onde non potevano uscire che per farsi
ammazzare dal furore popolare. Venne la ristaurazione; il
Borbone riconquist l'Isola; il generale Filangeri fece in nome
del re mille promesse che poi non mantenne, e la Sicilia,
senza saper come, si trov nuovamente sotto il vecchio dispo
tismo e peggio. Ci particolarmente che diede a pensare fu il
trovarsi abbandonati da tutti, in balia della ferocia borbonica
e senza difesa di sorta. Ora questo fatto poteva rinnovarsi, ed
i Siciliani volevano evitarlo; come evitarlo intanto? non eravi
che una via, quella di darsi a re Vittorio Emanuele, il quale
accettando i voti dei Siciliani sarebbe stato nell'obbligo di aiu
tarli e di difenderli da qualunque conquista.
Vero che Garibaldi era vittorioso anco in Napoli, ma una
disfatta nelle varie vicende della guerra non sarebbe stata im
possibile; conveniva perci far presto per trovarsi in condizioni
migliori e senza aver nulla a temere.
Per altro, il partito annessionista che non cessava dai suoi
segreti lavori, fra le altre adduceva ancora questa ragione, la
quale valeva moltissimo. Talch si pu dire che Sicilia tutta
fosse pel plebiscito e per l'immediata annessione. Mordini in
faccia a tale situazione dovette smettere i suoi progetti di as
semblea e di costituente, ed accettare e mettere in atto il de
creto di Garibaldi. Quindi sin dal 17 ottobre pubblicava il se
guente proclama.
Storia della rivol. Sicil. Vol. Il.
13
98
ITALIANI DELLA SICILIA !
La parola venerata e solenne del vostro gran Dittatore
viene a sciogliere la sua promessa. Egli col decreto del 15 ot
tobre, vi addita esser giunto il momento della desiderata an
nessione. Fra quattro giorni, il vostro plebiscito porr suggello
al gran patto che stringer in una sola indivisibile famiglia ven
tidue milioni d' Italiani.
Ed intanto io, chiamato a compiere quest'ultimo voto del
Dittatore, non appena giunga fra voi un rappresentante di re
Vittorio Emanuele, depositer nelle sue mani il potere che mi
fu affidato.
Italiani della Sicilia 1
La storia narrer un giorno ai meravigliati nepoti come in
soli sei mesi un uomo, pi grande della sua fama, redimesse a
vita di popolo libero met della nazione.
A quell'uomo, a Garibaldi, l'Italia innalzer un monumento
imperituro di riconoscenza nel cuore delle generazioni ven
ture. E i popoli della penisola si scopriranno il capo al solo
udirne pronunciare il nome, non altrimenti che i figli della li
bera America al gran nome di Washintgon.
Voi sarete i primi a darne l'esempio.
Viva l'Italia, viva Vittorio Emanuele, viva Garibaldi/
Palermo, 17 ottobre 1860.
Il prodittatore MoadINI.
Il 21 ottobre spunt per la Sicilia pieno di moto e di vita
come per Napoli, ed anco in Palermo si videro le mille ban
diere, le bande musicali, la guardia nazionale, i canti pa
triottici, il movimento generale, l'entusiasmo indescrivibile.
Tutto procedette con ordine, con moderazione, con disciplina
e non si ebbe a deplorare disordine alcuno. La votazione fu
quale si desiderava.
Palermo in 40,507 iscritti, ebbe 36,267 votanti. Pel
si 36,232; pel no 20, nulli 15.
99
Termini. Elettori inscritti 3414. Votanti 3239. Pel s 3239.
pel no nessuno.
Patti. Elettori iscritti 1646. Pel s 1646.
Noto. Elettori iscritti 2147. Votanti 2145. Pel s 2118. Pel
120 neSSU1I)0,
Alcamo. Votanti 3038; pel s 324; pel no 14.
Paceco. Elettori iscritti 877. Votanti 862. Pel st 862.
Cefal. Elettori iscritti 2363. Votanti 1687. Pel s 1682.
Pel no 4.
Avola. Elettori iscritti 1676. Votanti 1646. Pel s 1643. Pel
no 3.
Montallegro. Elettori iscritti 345. Votanti pel si 345.
Naso. Elettori iscrittti 1372. Votanti 1321 tutti pel s.
Molo di Girgenti. Elettori iscritti 883, votanti 754 tutti pel s.
Favara. Elettori iscritti 2337. Votanti 2227 pel s tutti.
Piazza. Votanti 370 tutti pel s.
Sciacca. Votanti 3264 pel s 3251, pel no 6.
Raffadali. Votanti 1012, pel s 1007.
Milazzo. Pel s 2012.
Modica. Pel s 1 106.
Mazzara. Votanti 1948, pel s 1919, pel no 21.
Itala. Votanti 210, pel s 210.
Messina. Votanti 24739. pel s 24730, pel no 8.
Siracusa. Elettori iscritti 3661. Votanti 3523. Pel s 3522,
pel no 1.
Scicli. Elettori 1699. Votanti 1678. Pel s tutti.
Palazzolo. Votanti 2163. Pel no solamente uno.
Caltanissetta. Votanti 2026. Pel s 2021, pel no 5.
Santa Caterina. Votanti 1913. Pel s tutti.
Trapani. Votanti 5467. Pel no solamente due.
Marsala. Votanti 5475, tutti pel s.
Tutte le altre citt abbiamo tralasciato come non neces
sarie a rivelare l'unanimit della votazione. Le soprascritte
essendo di tutte le classi, secondo la quantit della popolazione,
bastano per dimostrare come le aspirazioni dei piccoli paesi
fossero simili a quelle delle grandi citt, e come ovunque re
gnasse la medesima concordia, la medesima unanimit, la stessa
determinazione.
Nel risultato generale bisogna notare che quasi tutti votarono
l'annessione; i contrarii furono pochissimi, e pochi ancora co
loro che si astennero.
100
ora necessario rifarci un passo indietro
per narrare di
quelle cose che avvennero in Palermo prima del plebiscito e
proprio dopo il decreto che lo aveva ordinato. Comech si
sapesse Vittorio Emanuele avanzarsi verso Napoli, il consi
glio civico di Palermo discusse e risolse la mozione di spedire
una commissione per complimentare il re galantuomo ed in
vitarlo a venire in Palermo. A componenti quella deputazione
furono scelti il pretore della citt, duca della Verdura, il pre
sidente del consiglio, principe di Resottana ed i signori Gae
tano Laloggia, principe di Torremozza, Filippo Santocanale,
Pier Lorenzo Camineci, Francesco Cantone e abate Valdes,
tutti membri del consiglio. Ai rimanenti venne data libert di
associarsi alla commissione. Il governo inoltre mise a dispo
sizione della commissione un vapore. Nella stessa seduta fu
dal consiglio civico data autorizzazione al pretore di spendere
qualunque somma avrebbe creduta necessaria, perch fosse
ben preparata la citt a ricevere il re e a festeggiarne la pre
senza.
Il Senato di Palermo riunito in seduta straordinaria nel di
18 ottobre confer ad unanime voto la cittadinanza ad An
tonio Mordini prodittatore della Sicilia. L'atto portante que
sta deliberazione fu presentato dal pretore e dai Senatori i
quali lo accompagnarono col seguente indirizzo. A voi, che
chiamato dal sommo Italiano a reggere le sorti della Sicilia,
sapeste con senno politico e sentito patriottismo rispondere
a tanto mandato, il Senato di Palermo, interprete del pubblico
voto, ne addimostra gratitudine e lode. Accogliete quest'atto
di cittadinanza, in attestato delle vostre virt cittadine .
Mordini grato a quell'atto d'affezione e di ossequio rispon
deva nella forma seguente: Voi foste larghi verso di me
del pi ambito fra tutti gli onori, conferendomi la cittadinanza
di questa illustre citt. Nel vostro atto spontaneo e nelle be
nevoli espressioni che lo accompagnano, pi che un docu
mento incancellabile per me, che sono s poca cosa, io ravviso
una nuova prova di affetto indirettamente al liberatore, di cui,
mia gloria trovarmi rappresentante tra voi. E invero, se la
mia amministrazione ha pure avuto qualche merito agli occhi
vostri, questo dovuto tutto alle ispirazioni ricevute dal sommo
Italiano, nel quale tanto affetto dest Sicilia schiava da dargli
forza di rinnovare i portenti dei tempi eroici. In nome adun
. -
101
que di lui, che ama tanto Palermo, ed s grande; in nome
di lui assai pi che di me stesso, io vi ringrazio d'avermi
accordato l'onore di chiamarmi vostro concittadino, d'avermi
dato il diritto di deporre domani nell'urna elettorale il mio
s, come lo deposi otto mesi or sono in quell'altra, da cui si
splendido usc il favore dell'unit nazionale, il plebiscito to
SC3I)0 .
Prossimo al fine del suo governo, Mordini affrettavasi ad
assestare nel miglior modo possibile le cose di Sicilia; in data
del 18 ottobre un decreto diceva essere adottata nella Sicilia
la legge sulla pubblica istruzione pubblicata a Torino il
novembre 1859, salvo poche modificazioni; essere creata
amministrazione generale delle contribuzioni dirette e
Demanio; essere dichiarati debiti dello Stato tutti i debiti
13
un'
del
dei
Comuni di Sicilia che facevano parte della spesa ordinaria e
che trovavansi rappresentati da rendite costituite o che deri
vavano da titolo certo, liquido e legalmente riconosciuto; es
sere accordata amnistia ai reati commessi a tutto il 27 mag
gio 1860. Un altro decreto dichiarava adottate in Sicilia, salvo
alcune lievi modificazioni, le leggi sulla guardia nazionale, pro
mulgati in Torino il 4 marzo 1848 e 27 febbraio 1859. Di
moto proprio Mordini decretava che la stanza da letto occu
pata dal generale Garibaldi in Palermo, nel padiglione annesso
al palazzo reale sopra porta Nuova, fosse conservata in per
petuo nello stato in cui si trovava e coi mobili di cui era allora
fornita, facendo incidere il suo decreto sopra una tavola di
marmo che venne collocata all'ingresso della stanza.
Questi ed altri decreti vennero pubblicati in quei giorni,
per mezzo dei quali la Sicilia mano mano venivasi assimilando
al Piemonte, e alle provincie ad esso riunite; dal che si vede
come il prodittatore Mordini avesse la politica di piegarsi in
faccia alle necessit e di agire, anco contra sua voglia, a se
conda delle circostanze.
Ad ogni modo, il plebiscito era gi un fatto compiuto, e la
Sicilia seguiva in questo modo i destini comuni delle altre li
bere provincie d'Italia.
C AP IT0L0 VII
Una protesta di Francesco II. Un'altra pro
testa contro Persano Proelama del Coa
mitato nazionale ai fratelli della Venezia
Lettera di Pio IX
Rapporto del colon
nello Peards La decorazione dei Mille di
Marsala,
Prima di continuare il filo della nostra storia, ci conviene
accennare a cose slegate che accadevano in varie parti d'I
talia, che avevano qualche rapporto con le cose delle Due
Sicilie, e che per conservare l'ordine cronologico degli avve
nimenti vogliamo ora narrare.
Un decreto dittatoriale aveva confiscate alcune somme dei
principi e delle principesse della casa Borbone; ed il giornale
officiale che riportava quel decreto lo aveva accompagnato con
parole poco modeste, e poco convenienti alla sventura di una
dinastia. Francesco II volle, come al solito, protestare nel se
guente modo.
S. E. il ministro della guerra incaricato del ministro degli
affari esteri ha diretto in data del 5 del volgente mese (ot
tobre) il seguente dispaccio a tutti i rappresentanti di S. M. il
re all'estero. Dopo avere spogliato il re nostro signore dei
suoi Stati, la rivoluzione trionfante, lo spoglia pure della sua
privata e legittima fortuna; con essa sono stati confiscati i
maggiorati dei principi, le doti delle principesse, il prodotto
delle loro particolari economie, tutte le propriet insomma,
102
che costituite dalle leggi civili sono in tutti i paesi inciviliti
e dai pi anarchici governi rispettati. Ma questo attentato non
meriterebbe altro che lo sdegno di S. M., che avrebbe cre
duto al disotto di sua dignit farvi attenzione se allo spoglio
non si accompagnasse la calunnia. Il giornale di Napoli del 20
settembre numero 5, nel rendere conto di questo fatto al
pubblico, procura raccomandarlo o scusarlo, dicendo che, sa
pendo il ministro di polizia di Garibaldi come grandi ric
chezze avessero a scapito del popolo, accumulate i principi di
casa Borbone, si diede a veder modo onde una parte almeno di
esse fosse reintegrata al tesoro dello Stato, raccontando poi
la trasmissione violenta di una somma di 184,608 ducati di
rendita ed aggiungendola ad un'altra di ducati 317,186 pro
dotto annuo dei maggiorati ed economie private della casa re
gale, calcola il capitale di questa doppia rendita in undici mi
lioni, legittimamente, aggiunge, rivendicati alle finanze dello
Stato. Mentre che negli inqualificabili atti che hanno luogo
nell' invasione del regno, s'invoca soltanto il diritto della ri
voluzione, il governo di S. M. lascia alla provvidenza, all'opi
nione pubblica e alla giustizia dell'Europa il giudizio di
uno stato di cose che opponendosi a tutti i principii sociali,
non pu essere n accettato n durevole. Ma quando si parla
di legge o di diritto, nello stesso tempo che si conculcano
tutti i diritti e tutte le leggi, il governo di S. M. non crede
dover lasciare agli invasori e ai rivoluzionarii il beneficio del
l'impunit delle calunnie. Le rendite occupate violentemente
dal signor Conforti e violentemente confiscate dal governo di
Garibaldi si compongono di quelle due partite accennate nel
suddetto giornale di Napoli; la prima, cio, quella di 184,608
ducati rappresenta l'eredit lasciata ai suoi dieci figli ed ai
poveri del defunto re Ferdinando II; questo il frutto delle
economie personali di trent'anni di regno, e dichiarare ille
gittima questa eredit val tanto che attaccare la legittimit
della lista civile e del patrimonio che hanno posseduto tutti
i monarchi delle Due Sicilie. L'altra partita si compone nella
maggior parte dei maggiorati dei regali principi e delle doti
delle regali principesse costituite in virt di antiche e sinora
sempre rispettate leggi; l stanno pure piccole economie, fatte
in favore di orfani durante la loro infanzia, come pu rile
varsi dalla lista stessa pubblicata nel giornale della rivoluzione
trovandosi due sole partite appartenenti al re nostro signore;
104
una di cinquemilaquattrocentoquindici ducati, economie della
sua assegnazione di principe ereditario, ed un'altra di sessanta
settemilacinquecentonove, interessi composti ed accumulati du
rante ventitr anni della dote ed eredit propria della sua il
lustre e venerabile madre Maria Cristina di Savoia. La dote
di questa principessa piemontese stata confiscata dal governo
di Garibaldi in nome del re di Piemonte, e si contesta al figlio
un diritto a questa santa e legittima eredit di sua madre,
dovutagli in virt di un trattato con la Sardegna. Nel permet
termi, dopo le istanti mie preghiere, di trasmetterle queste
necessarie spiegazioni, mi ha ordinato il re nostro signore di
prendere per base la pubblicazione stessa fatta dal governo
rivoluzionario che si impadronito dei suoi Stati in nome
del re di Sardegna, non certo l'animo di S. M. di lagnarsi
dello spoglio di tutta la sua fortuna particolare. S. M. ne aveva
fatto il sagrifizio quando costantemente, anche nei giorni pi
minaccianti della lotta e della invasione, si rifiut ostinata
mente a far vendere le sue rendite di Napoli per piazzarle
con pi sicurezza in altri e pi fortunati paesi. Potrebbesi
compiangere la sorte di nove fratelli e sorelle condannati
senza altro delitto che il loro nome, a vedere confiscati dalla
rivoluzione tutti i loro mezzi di fortuna; ma qualunque sia il
loro avvenire, la loro sorte, vivere nell'esilio e nelle pi dure
privazioni, S. M. sicura che sapranno sopportare l' avver
sit con costanza degna della loro stirpe e del rango in che
per esempio dagli altri li fece nascere la provvidenza. In mezzo
a queste miserie della rivoluzione, splende pi alta e pi glo
riosa la magnanimit del nostro augusto sovrano. I palazzi, i
musei che ha lasciato nel partire pieni di tesori dell'inesti
mabile eredit dei suoi antenati, attestano al mondo il com
pleto disinteresse e la generosit d'animo di Francesco II;
unita la sua causa a quella dei suoi popoli non ha voluto il re
trasportare fuori del paese nemico la sua particolare fortuna,
come se sdegnasse salvare per s una tavola nel naufragio
generale del regno. La sua indifferenza pei beni materiali
della vita proverbiale; neppure i grandi dolorosi avveni
menti che hanno avuto luogo nel breve ma difficile periodo
della sua assunzione al trono avrebbero permesso queste cure
ad uno spirito esclusivamente occupato della pace e della
prosperit dei suoi sudditi. Non sono necessarie queste spie
gazioni per quelli che conoscono lo stato delle cose in Napoli,
105
ma come potrebbe avvenire che trovasse eco in cotesti paesi
la calunnia, credo del mio dovere tenerlo al corrente dei fatti
perch sia in grado di smentirla. Non sono tesori che la casa
di Borbone port seco nell'abbandonare la capitale; sono i
suoi palazzi, i suoi musei, e la santa eredit dei suoi antenati
che lascia come monumento della generosit nel suo sempre
amato regno, senza curarsi delle eventualit dell'avvenire. La
dote della madre del re, l'eredit particolare di suo padre, i
maggiorati, l'economie dei principi e delle principesse, tutto
quanto costituisce la fortuna privata della famiglia regale,
quanto assicurano le leggi civili, quanto rispetta il diritto co
mune dei popoli, tutto stato confiscato dal governo rivolu
zionario di Napoli, senza che il re si degnasse neanche pro
testare contra questo scandaloso spoglio trovando al disotto
della sua dignit occuparsi dei suoi interessi particolari quando
cadono in rovina i grandi interessi dello Stato; n avrebbe
annuito alle rappresentazioni rispettose e ripetute dal suo go
verno, se non fosse dovere dei suoi ministri respingere con
indignazione le false imputazioni che possono agire sugli spi
riti prevenuti ed ignoranti. Ella autorizzata a fare di questa
comunicazione l'uso che stimer nella sua prudenza conve
niente, e rilasciarne copia a cotesto ministro degli affari
esteri .
Questo documento era inteso a rendere odioso l'atto del
governo dittatoriale nella confisca di quei beni particolari ap
partenenti ai principi ed alle principesse della regale famiglia.
Noi non esitiamo a riprovare quell'atto, il quale poco si addice
alla generosit di chi lo fece e alla sventura di coloro che
ne erano colpiti. Ci sembra che la sventura, qualunque essa
si sia, vuole essere rispettata, non aggravata per atti che hanno
tutto l'aspetto di una vendetta. Siamo per altro convinti che
non Garibaldi, sibbene il suo governo si spinse a quell'atto,
il quale una delle macchie della rivoluzione. Nel 1860 dee
stimarsi delitto ci che nella rivoluzione vi ha di avaro, d'in
discreto, d'ingiusto, d'indegno. Le grandi cause si propu
gnano e si sostengono con animo e con fatti generosi, e
grandezza e giustizia, se per avventura
trovansi frammiste a bassi divisamenti e ad interessate riso
scemano della loro
luzioni. La numerosa famiglia dei Borboni di Napoli, la gio
vinezza di Francesco II, e l'esser figlio di una principessa di
Storia della rivol. Sicil. Vol. II.
14
106
Casa Savoia formavano un titolo perch gli si usasse rispetto
in tanta sventura. Ma la rivoluzione ha le ore di cecit, ed
proprio allora che incrudelisce terribilmente, ci che noi figli
della civilt non sapremmo lodare giammai.
E giacch siamo alle proteste, parleremo di un'altra che
in data del 19 ottobre dirigeva Francesco II alle potenze
contra il governo sardo, il quale riceveva nel suo porto di
Genova i legni da guerra che Garibaldi spedivavi, facendoli
inoltre comandare dall'ammiraglio Persano, ufficiale al ser
vizio del re di Piemonte. Ecco quest'altro documento storico.
Il conte Persano, vice-ammiraglio della marina di guerra
di S. M. il re di Sardegna ha accettato pubblicamente il co
mando dei bastimenti della real marina delle Due Sicilie, che
il governo rivoluzionario di Napoli ha messo alla sua dispo
sizione,
I bastimenti di guerra, insorti contro l'autorit legittima
di S. M. sono stati mandati da Garibaldi al porto di Genova
dove hanno ricevuto provvisioni e nuovi equipaggi dal Pie
monte. Non contento di ci l'uffiziale pi altamente graduato
della marina del re di Sardegna, il vice ammiraglio Persano,
ha inalzato la sua insegna sulla fregata ad elice la Borbone,
appartenente a S. M. il re del regno delle Due Sicilie.
Questa appropriazione di tutta la flotta napoletana fatta
dal governo di Sardegna, un atto che non ha esempio nei
precedenti della storia. Senza dichiarazione di guerra, senza
conquista, mantenendosi ancora le relazioni uffiziali di buona
intelligenza, un paese profitta degl'imbarazzi interni dell'altro,
ed accettando il dono della rivoluzione, un sovrano s'impadro
nisce della flotta d'un sovrano amico.
Il sottoscritto ministro degli affari esteri crederebbe of
fendere l'alta interpretazione di S. E. ecc. aggiungendo com
menti di qualche sorta alla semplice narrazione dei fatti. Ma
nello adempimento de' suoi pi stretti doveri, e per ordine
espresso del suo augusto sovrano non pu fare a meno di
protestare contro questo inqualificabile atto e le sue conse
guenze; pregando S. E. ecc. di portare questa nota a cono
scenza del suo governo .
Puossi dire che il governo di Francesco II in Gaeta nulla
lasciava passare inosservato, ed usava protestare contro tutti
107 ,
quei procedimenti che venivano dalla rivoluzione e che erano
contrarii ai suoi diritti. Francesco II pensava in tal guisa su
scitare l'indegnazione delle Corti europee contro il governo
sardo, o per lo meno serviva cos all'Austria la quale non
potendo trovar modo di vendicarsi istigava il Borbone a pro
testare e a rivelare officialmente non solo quanto la rivolu
zione operava, ma quanto il governo sardo per mezzo della
rivoluzione faceva.
Ci che queste proteste fruttassero, appresso vedremo.
Mentre Francesco II lamentavasi delle usurpazioni del re di
Sardegna, e protestava altamente contro il blocco di Gaeta,
opera del general Garibaldi per mezzo dell'ammiraglio Persano,
dall'altra estrema parte d'Italia lo sguardo dei poveri Veneti
si fissava sull'uomo del fato e sperava da lui, dal suo coraggio
e dai suoi miracoli la propria redenzione. Garibaldi aveva
sempre parlato di Venezia e di Roma come di due tappe che i
volontari doveano fare ancora colla loro marcia gloriosa perch
tutta Italia potesse dirsi redenta, libera ed una.
Gli abitanti della Venezia purtroppo sapevano come la pace
di Villafranca e i trattati di Zurigo impedissero al governo
sardo di poter prendere l'iniziativa di una guerra suprema
contro il dominio straniero. Conoscevano per che ove Gari
baldi coi suoi avesse tentato un colpo, e suscitata la rivolu
zione, il governo di Torino sarebbe stato costretto ad interve
nire in aiuto della rivoluzione ed in soccorso di miseri Italiani
meritevoli anch'essi di libert e d'indipendenza. Era inoltre
probabile che il grande Dittatore delle Due Sicilie mettesse
sotto le armi un esercito di centomila Italiani, i quali animati
dal fuoco della libert potevano riuscire grandemente molesti
agli Austriaci specialmente in quei giorni di generali commo
vimenti. A modo di vedere di quegli schiavi infelici la marcia
di Garibaldi cominciata a Marsala doveva finire a Venezia.
E convien dire che a Garibaldi non mancasse il coraggio n
l'audacia di tentare quel colpo, e forse forse lo avrebbe tentato,
se le cose non fossero andate diversamente. Certo per che
circa la met del mese di ottobre la Venezia si commuoveva
fortemente e pareva che presto dovesse scoppiare una rivo
luzione disperata, o mossa da Garibaldi, o fatta per determi
nare i volontari dell'esercito meridionale a marciare verso il
P. Questo movimento di animi venivasi concitando sempre di
pi per certe notizie le quali portavano esser la flotta napo
108
letana preparata ad un viaggio misterioso, trasportando un forte
nerbo di truppe.
Gi in Venezia ed in altre citt della provincia comincia
vano serie dimostrazioni le quali minacciavano una rottura fra
il popolo e la truppa straniera. Ma il comitato segreto che ve
deva le cose non secondo le aspirazioni, ma secondo la realt,
comprendeva quanto il soccorso di Garibaldi fosse in quei
giorni difficile, e si affrett ad acquietare gli animi con un
proclama, il quale se da una parte consigliava il popolo a non
commettere imprudenze e a non tirarsi addosso flagelli ancor
pi terribili, dall'altra parte conservava, anzi rinvigoriva la sa
lutare speranza che presto Garibaldi sarebbe venuto, e che
solamente allora la rivoluzione sarebbe stata ragionevole e di
probabile successo.
Ecco il proclama del comitato nazionale ai figli della Ve
nezia; esso porta la data del 16 ottobre:
AI FRATELLI DELLA VENEZIA.
Fratelli ! I tempi corrono solenni per l'Italia. Il cielo se
conda la nostra patria, e le sue sorti saranno fra non molto
poste in sicuro. Fu detto che Napoli era la chiave d'Italia, e
Napoli cadde in potere di Garibaldi. Fu detto che la via per
Venezia passava per Palermo e pel Faro, e questa via sacra
ad ogni ltaliano, piena di perigli quanto di gloria, fu dai va
lorosi Italiani, e dai figli dell'infelice Venezia percorsa in
trionfo. Or lo scopo presso ad esser raggiunto. Ma intanto,
guardatevi, o fratelli, dall'abbandonarvi all'impazienza dei vostri
nobili cuori. Voi che nel 1849 proclamaste il motto resistere
fino all'estremo, e col vostro alto contegno meritaste ammira
zione e stima dai fratelli, e stima da tutta Europa, serbate tran
quillit severa ancora per qualche tempo. Un moto affrettato
potrebbe essere cagione di nuovo spargimento di sangue che,
accrescendo i dolori d'Italia la costringesse ad inutili sacrificii.
Fratelli! volgete i vostri occhi al mare, e quando vedrete
di lontano agitarsi al vento il benedetto vessillo tricolore, allora
dite che Garibaldi viene a voi coi figli di Venezia. Ma aspet
tate la voce del comitato. Per, finch venga il tempo, tran
quillit ad ogni costo. Bando ad ogni odio privato, ad ogni
109
amarezza del vostro cuore, perch tutto deve sull'altare della
patria essere offerto in sagrificio. Intorno a questo altare ve
nitevi raccogliendo, abbracciatevi fra di voi, affinch la nazione
nel d del pericolo, vi trovi forti. Allora unanime sorger il
grido dall'Alpi al Quarnero:
Viva l'Italia / Viva Vittorio Emanuele / Viva Garibaldi /
Venezia, 16 ottobre 1860.
ll Comitato Nazionale.
Cotesto proclama ed altri maneggi del comitato nazionale
produssero salutare effetto. Lo spirito rivoluzionario si tem
per alquanto; le dimostrazioni cessarono, ed arresi ai con
sigli di prudenza, i Veneti si stettero rassegnati ad aspettare.
Oh, essi non pensavano allora che tanto lunga doveva essere
e tanto dolorosa la loro aspettazione!
Per altre ragioni, ma sempre per opera della rivoluzione
un'altra corte stava afflitta in ltalia; era questa la corte romana
che dopo le Legazioni, perdute pure le Marche e l'Umbria tro
vavasi confinata in una piccolissima sfera, con le finanze rovi
nate, coi debiti sempre crescenti, e col timore di essere di
giorno in giorno assalita dall'esercito sardo, o scompigliata dalla
rivoluzione. Roma in faccia alla situazione non sapeva a chi
rivolgersi n d'onde aspettarsi aiuto e soccorso. Negli stessi
Francesi che la presidiavano non aveva fiducia, perciocch
la tenebrosa politica di Napoleone IIl dava pi a temere che
a sperare. Per altro se Garibaldi avesse tentato un colpo contro
Roma, i Francesi si sarebbero essi battuti contro i volontarii
italiani? Napoleone III avrebbe egli per difendere il papa voluto
perdere la popolarit acquistata in Italia col sangue dei soldati
francesi versato a Magenta e a Solferino? o forse non avrebbe
avuto piacere che la rivoluzione avesse messo fine al potere
temporale dei papi, ed in tal modo da rendersi impossibile il
soccorso francese senza una guerra scandalosa tra la Francia
ed il popolo italiano?
Roma non comprendeva nulla della politica di Napo
leone Ill; perci grandemente temeva. Quindi secondo il
suo costume spediva continue circolari ai vescovi dell'Orbe
110
Cattolico inculcando loro la preghiera a Dio. L'episcopato in
vitava a quella preghiera il clero inferiore e mano mano ve
nivasi cos costituendo quella specie di sanfedismo che poco
dopo doveva svilupparsi e levar alta la testa cos in Italia come
fuori.
Era specialmente in Francia che si fissavano gli occhi del
cardinale Antonelli; in Francia ove l'episcopato esercitava
una grande influenza, ove esistevano molti partiti discordi fra
loro ma concordi a procurare la caduta di Luigi Napoleone.
Se questi partiti fossersi ravvicinati, e postisi tutti sotto la ban
diera del cattolicismo, essi avrebbero potuto spingere contro
l'imperatore dei Francesi una forte reazione e detronizzarlo.
In vista di queste speranze, calde raccomandazioni vennero
fatte da Roma all'episcopato di Francia affinch in tutti i
modi e francamente protestasse contro ci che accadeva in
Italia, ci che era un protestare contro Napoleone III che
aveva con la guerra favorita la rivoluzione italiana, e che ora
la spingeva al trionfo col principio del non intervento.
E l'episcopato francese rispose facilmente all'invito di Roma;
e da quei momenti stessi cominci a dimostrare in varie guise
a favore del Papa, contro la rivoluzione italiana, e contro la
politica dell' imperatore.
Uno dei mezzi di dimostrazione erano gli indirizzi al Papa,
le lettere di condoglianza che venivano pubblicate, alle quali
il Papa rispondeva, e le risposte stesse si stampavano e si
traducevano in tutte le lingue per suscitare lo spirito dei cat
tolici contro il movimento rivoluzionario.
Il clero della diocesi di Parigi, sul finire degli esercizi
spirituali del mese di settembre faceva un indirizzo a Pio IX,
e Pio IX rispondeva l'11 ottobre nel seguente modo:
PIO IX SOVRANO PONTEFICE
Ai nostri cari figli salute ed apostolica benedizione.
E con grandissima gioia che noi abbiamo ricevute le
vostre lettere 22 settembre scorso, piene d'un profondo sen
timento di fede, di piet, d'amore e di venerazione verso di
noi e della sede di San Pietro. In queste lettere, o cari figli,
111
voi mi attestate l'amaro dolore e l'indignazione che vi fanno
provare l'invasione empia e sacrilega, e la spogliazione del
nostro principato civile e della sede apostolica, consumata da
quegli stessi uomini che, nemici d'ogni giustizia, hanno di
chiarata la guerra la pi accanita alla Chiesa cattolica, a noi
ed a questa Santa Sede. I vostri eccellenti sensi, cos degni
d'elogi, non ci furono di poca consolazione in mezzo alle an
goscie ed alle amarezze che ci opprimono.
Continuate, o cari figli, a dirigere a Dio ottimo mas
simo delle preci ognor pi fervide, acci ch'Egli dissipi una
cos violenta tempesta e liberi la sua santa Chiesa da cos
grandi e numerose calamit; che le accordi sulla terra de'nuovi
e pi splendidi trionfi; che ci aiuti, ci fortifichi, e ci consoli
in tutte le nostre tribolazioni.
Siccome voi conoscete benissimo la dolorosa guerra che
desola in questi tempi luttuosi la nostra santissima religione,
abbiate a cuore, o cari figli, ricordandovi della vostra voca
zione e del vostro dovere, ed appoggiati al concorso celeste di
combattere strenuamente, sotto la condotta del vostro arci
vescovo, le battaglie del Signore, di difendere con coraggio
la causa di questa religione, di vegliare con zelo alla salute
delle anime, di rifiutare i numerosi e perniciossisimi errori
degli uomini avversi, di guardarvi dagli agguati, di respingere
gli attacchi. Siate fermamente persuasi che noi domandiamo
umilmente al padre clementissimo delle misericordie, che
spanda su voi tutti i doni della sua bont. Come pegni di
questi doni, ed in testimonianza del nostro affetto paterno
per voi, noi vi accordiamo la nostra apostolica benedizione,
con effusione e dal pi profondo del cuore.
Dato a Roma, in S. Pietro, l'11 ottobre 1860.
Pio IX, sovrano Pontefice.
Per un singolare contrapposto tra questi lamenti del Papa
e le fortune della rivoluzione riportiamo il rapporto del co
lonnello Peard diretto a Garibaldi circa il combattimento av
venuto presso S. Angelo il 17 ottobre nel quale tanto si di
stinse la legione inglese.
112
Questo documento segner nella storia il concorso di coloro
che sentivano profondamente la santit della causa italiana e
che quantunque stranieri venivano a combattere per essa.
Eccellenza.
Ho l'onore di riferire che, dopo aver preso la posizione
assegnatami secondo l'ordine che ricevetti, posi una compagnia
in appoggio della batteria nel centro della posizione, ed in
viai la 10. compagnia ad occupare una fattoria situata di
fronte, mandando nello stesso tempo due compagnie a sinistra
e due a sostenere la compagnia avanzata del 1. battaglione.
Udendo un vivo fuoco di fronte, io andai in persona alla fatto
ria ove era appostata la 10. compagnia, ed ordinando a tre
compagnie del 2. battaglione di salire, io avanzai due com
pagnie (la 10." e la 7.") in catena. Il fuoco continuando for
temente, ed i bersaglieri sul colle sembrando pressati, ordi
nai alla 2. in catena di avanzare in loro soccorso, e nello
stesso tempo avanzai due compagnie per occupare la linea
che avevano tenuta la 10. e la 7. Andai innanzi colle com
pagnie che si avanzavano accompagnato dai seguenti ufficiali:
capitano Hoskin, maggiore di brigata: capitano Sarsfield, se
gretario militare; capitano Hare; A. D. C. luogotenente Cri
bell; luogotenente Campbell; luogotenente Ilnapman. Gli
uomini si avanzarono in ordine ammirabile, ed aprirono il
fuoco con gran precisione. Io ebbi allora da deplorare la
perdita del signor Tuker, interprete della brigata, che cadde
essendo in avanti della linea dei combattenti. Il nemico, es
sendo in gran forza, ordinai al mio aiutante di ritornare a
condurre un rinforzo. Perci condusse i numeri 4 e 5 al
fronte. Il fuoco era eccessivamente grave; ma, uniti ai bersa
glieri, noi potemmo non solo resistere, ma respingere i ne
mici entro le loro linee, con gran perdita. Dalla parte della
brigata io ho da lamentare due uccisi, ed otto feriti, senza
mensionare le contusioni, cio: uccisi Alfiere B. Tuker,
interprete; comune Luigi Mitchell, compagnia 10." Feriti
comuni Giovanni Clarck, Guglielmo Ritchie, G. Prosser,
M. Carthy, Vison, caporale Rennet; comuni, Matthewes e Bats.
Non posso parlare mai abbastanza bene della condotta de'miei
soldati ed officiali. Uomini che per lo pi non hanno per lo
113
innanzi mai veduto un nemico, e che per la maggior parte
sono stati arruolati solo poche settimane fa, non solo si avan
zarono sotto un vivo fuoco nel modo pi valoroso, ma si ri
tirarono quand'io stimai necessario di farlo, colla regolarit
e la precisione dei veterani. Si condussero tutti cos bene che
sarebbe ozioso il particolareggiare, ma sarei ingiusto se tras
curassi di recare a vostra notizia la valorosa condotta del
capitano Styels, che, con tutta la sua compagnia, si offr vo
lontariamente di attaccare alla baionetta il nemico nell'ultima
posizione che occupava, dopo essere stato impegnato tutto il
giorno. Mi rincrebbe che, per il bene del servizio, quest'of
ferta non potesse essere accettata. Permettete che richiami
particolarmente la vostra attenzione sui servigi renduti da
Carlo Munday della compagnia granatieri, i chirurghi della
brigata non essendo presenti, egli, avendo studiato medicina,
rec un importantissimo servigio, coll'esercizio di quella pro
fessione ai feriti. I seguenti soldati, cio, i comuni Valker,
Valson e Prosser mi sono pure rammentati come degni di
raccomandazione. Ho l'onore di essere, generale, il vostro de
votissimo
J. W. PEARD, Colonnello brigadiere.
Contrapposto pi singolare ancora era quello che avveniva
in Palermo il giorno 24 dello stesso mese di ottobre in cui
furono decorati i valorosi della prima spedizione, avanzo dei
mille prodi venuti con Garibaldi dall'alta Italia a liberare le
Due Sicilie dalla tirannide borbonica. E fu fortuna che il mu
nicipio di Palermo avesse decretato una medaglia di onore
a quei generosi, perocch senza di essa sarebbero rimasti
oscuri e dimenticati, non solo senza una ricompensa ma an
cora senza un segno che ricordasse ai posteri quello straordi
nario e singolare avvenimento.
Non si pu pensare alla famosa spedizione dei mille di Mar
sala e alla dimenticanza in cui caddero, senza deplorare alta
mente quel vizio pur troppo comune alla societ di mostrarsi
nei grandi avvenimenti politici ingrata verso i generosi che
offrono sangue e vita pei destini di una nazione.
I volontari che sotto Garibaldi combatterono in Lombardia,
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
M5
114
a S. Fermo, a Varese, a Como nel 1859 non ebbero ricom
pensa di sorta, che anzi si fece di loro tristo governo, e senza
onori n premii furono mandati alla loro casa; eppure ave
vano anch'essi vinto lo straniero; anch'essi avevano consumata
una lunga campagna tollerando tutti i sacrifici e le privazioni
della vita militare.
Ma la spedizione per la Sicilia aveva proprio del singolare,
quasi dell'incredibile, e non pare che la sociale ingratitudine o
quella di un governo potesse giungere a tanto da non curare quei
gloriosi avanzi e da ritenerli come uomini indifferenti simili
a quella vile massa che applaudisce dopo i pericoli e che nei
momenti difficili si tiene lontana dal movimento ed in luoghi
sicuri. La ricompensa dei mille eroi fu l'entusiasmo momen
taneo del popolo, la gloria di aver vinto, la voce della co
scienza che loro diceva: voi avete fatta l'Italia; e la speranza
che la storia avrebbe un giorno parlato di loro come fino a
quei tempi aveva parlato e parla tuttora di Leonida e dei tre
cento della Termopili. Grande ricompensa questa, non v'ha
dubbio; ma la societ, la patria, il governo, per doveri di
riconoscenza avrebbero dovuto ricompensare con altri mezzi
e per altre vie quei valorosi che seguendo l'impulso del pro
prio cuore avevano segnata la pagina pi gloriosa della na
zione italiana.
Dimentichiamo le ingratitudini sociali e governative e con
tinuando la nostra storia occupiamoci di questo giorno me
morabile in cui i rappresentanti del popolo posero sul petto
dei figli del popolo la medaglia dei mille di Marsala.
Il 24 ottobre fu una memoranda giornata per Palermo. Il
suo Municipio, interprete dei voti di Sicilia intera, dell'Italia
e del mondo, invitava i prodi della prima spedizione di Mar
sala, che per ferite o per uffici commessi col si trovassero, per
essere fregiati della medaglia d'onore che a loro era stata
decretata. Al largo della Vittoria convenivano i battaglioni tutti
della milizia nazionale, che insieme al drappello dei piccoli
Garibaldini, carabinieri reali, e poca mano di milizia, si schie
ravano in quadro, chiudendo in mezzo il magnifico padiglione
eretto con fascie dai tre colori nazionali. Alle 12, quei valo
rosi, accompagnati dal pretore, da molta ufficialit e da un
battaglione della 3. categoria vi si recarono fra una folla di
popolo plaudente. Il prodittatore accogliendo le preghiere del
municipio, volle di sua mano, quale rappresentante di Gari
-
--
***
**
**
**
**
ss
-*--
- - -- - - - - - --
a IIIW Ie leu||sp el|bep u 0Ie ul 30 sinni Isp tulpi W 310'equipo. Il
115
baldi, decorare quei prodi (1). In questa fausta occasione,
lesse il seguente discorso:
(1) Diamo i nomi dei Mille. Essi meritano di essere raccomandati alla
storia.
1. COMPAGNIA
Capitano
Tenente
Bixio Nino
Dezza Giuseppe
Sergente Mario Lorenzo
Piva Domenico
Caporale Rebeschini Giovanni
Sottotenente Cosovich Marco
Paccarano Marco
Castion Gaetano
Buttinoni Francesco
Scopini Ambrogio
Caporal fur. Molena Giuseppe
Sergente
Sartori Eugenio
Filippini Ettore
Dallara Carlo
Zeiner Pietro
Furiere
Calamandri Gioachimo
Della Santa Vincenzo
Crispino Luigi
Spangaro Pietro
Cambiaghi Giovanni
Ottavi Antonio
Cardinale Natale
Pedrazza Giacomo
Della Casa Andrea
Ghiglione G. Battista
Roccatagliata Gaetano
Banchieri Carlo
CoeSol Manuele
Messaggi Stefano
Cogito Guido
Taddei Rainero
Fossa Giovanni
Tasca Matteo
Carpanedo Francesco
Camillini Giuseppe
Astengo Angelo
Picazzo Gio. Battista
Benvenuto Bartolomeo
Guarnaccia Francesco
Cartagenova Filippo
Zoli
Olivari Stefano
Stella Innocente
Armanini Giovanni
Buso Gio. Battista
Turola Pasquale
Traversa Quirino
Baiasco Vincenzo
Cozzari Raffaele
Lampugnani Cesare
Campi Giovanni
Boggiano Ambrogio
Marin Gio. Battista
Giandi Francesco
Carlutti Francesco
Roggieretta Gio. Battista
Molinari Giuseppe
Gasparini Giovanni
Decol Luigi
Donati Angelo
Alpron Giacomo
Grafigna Giuseppe
Marconzini Giuseppe
Ferrari Filippo
Gadioli Francesco
Piroli Pietro
Olivieri Pietro
Rissotto Luigi
Gorgoglione Giuseppe
Pagano Tomaso
Montegrifo Francesco
Dallepiane Gio. Battista
D'Ancona Giuseppe
De-Negri Gio. Battista
Venturini Ernesto
Cattaneo Francesco
Marchese Giovanni
Zago Ferdinando
Lertora Santo
Dicambi Lorenzo
Sivelli Egisto
Pigazzigo Giovanni
Malatesta Luigi
Demicheli Tito
Decol Francesco
Garibaldi Stefano
Razeto Enrico
Galetto Alessandro
116
L'Italia : la fece il plebiscito del 21.
Siamo 22 milioni d'Italiani, sotto una legge sola, sotto
una sola bandiera, che affermiamo il nostro diritto di nazione,
Trever Salvatore
Mazzoli Ferdinando
Cappelletto Giuseppe
Crivellano Francesco
Roazi Stefano
Passano Giuseppe
Cocella Stefano
Catagnola Domenico
Pasqualetti Giuseppe
Zoppi Cesare
Cambiaggio Biagio
Ventura Pietro
Bottera Ernesto
Baderna Carlo
Garibaldi Gaetano
Traverso Andrea
Solari Camillo
Minicelli Luigi
Baruffato Giuseppe
Bellagamba Angelo
Porta Giuseppe
Cortonigo Andrea
Fransinetti Ernesto
Carbone Luigi
Profumo Giuseppe
Roccolo Tomaso
Maroni Lorenzo
Pavanini Ippolito
Wagner Carlo
Inant Angelo
Campiano Bartolomeo
Gariboto Giuseppe
Evangelisti Emilio
Gambino Giuseppe
Gnecco Giuseppe
Prendola Giovanni
Scotto Achille
Gandolfo Emanuele
Traverso Francesco
De-Ferrari Carlo
Gennari Vincenzo
Garibaldi Giovanni
Testa Gio. Battista
Giambruno Nicola
Marcone Gerolamo
Caferata Francesco
Sologiotaba Martoro
Tigne Giovanni
Simone Ignazio
Belisio Luigi
Ratti Antonio
Bucari Lorenzo
Montaldo Andrea
Solari Luigi
Tarrone Felice
Fralda Carlo
Marazzo Gio. Battista
Barabino Tomaso
Dellaciola Giuseppe
Tarpino Gioachino.
Firpo Pietro
2. COMPAGNIA
Capitano
Orsini Vincenzo
Tenente
Forni Antonio
Velasio Nicol
Caporale Maneschi Eugenio
-
Giunti Egisto
Fanucchi Alfredo
Sottotenente Sgarallino Jacopo
o
Ragusin Francesco
Furiere
Armanni Vincenzo
Bertini Giuseppe
Granucci Giovanni
Menotti Cesare
Plex Francesco
Traverso Pietro
Marchelli Bartolomeo
Pecchioni Pietro
Gattai Cesare
re
Sandri Petronio
Pavesi
Sergente
-
Petrucci Giuseppe
Militi
Cocconi Giovanni
Buffa Emilio
Braccini Gustavo
Arretocca Ulisse
Misari Mansueto
Delf Alessandro
Cici Giovanni
Ricci Enrico
117
pronti a difenderlo contro tutti, se occorre: siamo ventidue
milioni che con una voce sola esprimiamo un solo volere.
Ancora un passo:... e poi... un altro... e Italia forte e temuta
sar, protetta dalla cintura delle sue Alpi, e da suoi due
Vannucci Angelo
Ghia Antonio
Della Vida Cesare
Adorni Angelo
Sperti Natale
Maffioli Jacopo
Rabboni Daniele
Galvani Medardo
Cristiani Cesare
Minardi Mansueto
Caldarini Dalmazio
Premuri Giovanni
Chicca Giuseppe
Righi Giovanni
Favilli Luigi
Pezzuti Pietro
Monardi Oreste
Muzio Luigi
Lazzerini Giorgio
Scheggi Cesare
Ricci Giuseppe
Rossi Antonio
Cecchi Silvestro
Franzoni Domenico
Malinverno Carlo
Castagnoli Natale
Borgheresi Jacopo
Bianchini Massimo
Cipriani Cesare
Paoli Antonio
Riccioni Filippo
Scotto Pietro
Gigli Domenico
Coscetto Guido
Roventini Antonio
Pacini Andrea
Gastarelli Gaetano
Baldini Raffaele
Agri Vincenzo
Cortese Francesco
Bollani Francesco
Miani Giovanni
Fuochi Camillo
Boni Fedele
Rondina Vincenzo
Romani Tomaso
Alberti Clemente
Paolini Giuseppe
Facchetti Alessandro
Pasquinelli Giacinto
Carmagnato Luigi
Baja Luigi
Tofani Oreste
Rotta Carlo
Ragli Olinto
Quarenghi Carlo
Azzolini Carlo
Canali Carlo
Cantoni Lorenzo
Soncini Lorenzo
Baldini Dario
Curti FranceSCO.
Madi Demetrio
Ghitti Emilio
Mattioni Angelo
Bonetto Francesco
Furia Lanfranchi
Cerera Celestino
Gandini Giuseppe
Bocchi Luigi
Ardrini Ermenegildo
Pagani Angelo
Raimondi Luigi
Mezzera Pietro
Manni Luigi
Tagliarini Pietro
Pascini Eugenio
Poli FranceSCO
Montagna Giuseppe
Lodigiani Gustavo
Giola Giovanni
Boveretto L0renzo
Ceccarelli Jacopo
Vicini Francesco
Bontempi Rinaldo
Pierotti, Augusto
Pasquali Einanuele
Bajocchi Pietro
Terzi Pietro
Colombo Luigi
Bianchi Ciro
Ughi Enrico
Tommasini Gaetano
Piroli Enrico
Cantoni Angelo
118
mari. Allora si vedr che possa il genio di una terra la quale,
fu gi madre di tre civilt.
Una serie funesta di colpe ridusse l'Italia mancipia dello
straniero: ma le lagrime, i ravvedimenti, gli odii, i magnanimi
5. COMPAGNIA
Capitano G. Lamasa
filiti
Ferrari Domenico
Piccoli Raffaele
Lamensa Stanislao
Mascolo Gaetano
Sprovieri Francesco
Damis Domenico
Stocco Francesco
Plutino Antonio
"
Maldacca
Sirino Ovidio
Bagnara
Argentino Achille
Patella Filippo
Carbonara Raffaele
Pessolani Giuseppe
Rocco Morgante
Colafiore Michelangelo
Sant'Elmo Antonio
Padula Vincenzo
Del Mastro Michele
Del Mastro F. Paolo
Curzio Francesco
Carbonelli Vincenzo
Mignogna Nicola
Vinciprova Leonino
Braico Cesare
Nicolazzi
Venturini Ernesto
Trisolini Tito
Magnone Michele
Oddo Giuseppe
Oddo Giacomo
Bianchi Ferdinando
Donati Angelo
Sprovieri Vincenzo
Pentusaglia
Toja Alessandro
Miceli Luigi
Mauro Domenico
Rossi
De Paoli Cesare
Mauro Raffaele
De Nobili Alberto
(Mancano gli altri).
A, COMPAGNIA
Minutilli Filippo
Guazzoni Giuseppe
Sottotenente Rota Giuseppe
Gramignola Innocente
o
Capitano
Tenente
Furiere
Sergente
-
Caporale Bonafini Francesco
Rizzardi Luigi
-
Azzi Adolfo
Semenza Antonio
Viola Lorenzo
Baracchi Gaetano
Marelli Giacomo
Monna Francesco
Pistoia Luigi
Scarpari Michele
filiti
Mustica Giuseppe
Scognamillo Andrea
Di Giuseppe Gio. Battista
Busseni Vincenzo
Vian Antonio
Palizzolo Mario
Pentasuglia Gio. Battista
Occhiopinto Ignazio
Oddo Giuseppe
Fuxa Vincenzo
Moro Antonio
Amistani Giovanni
Valentini Pietro
Pianeri Pietro
Bellanoli Giuseppe
Speranzini Francesco
Mezzadri Marco
Tamagni Giuseppe
119
propositi, i gloriosi martiri, le sante ire, prepararono i giorni
delle battaglie vendicatrici, e spianarono la via al compimento
del disegno provvidenziale che manifestamente vuole la in
dipendenza reciproca e l'affratellamento delle Nazioni.
Barbieri Innocente
Calzoni Secondo
Guazzoni Carlo
Fattori Antonio
Tessari Giacomo
Vaiani Giovanni
Capuzzi Giuseppe
Carvaggi Michele
Scarpari Vincenzo
Schiavoni Santo
Diana Retilio
Strillo Giuseppe
Ronchi Pietro
Desiderati Emilio
Scordelli Antonio
Guzzago Giuseppe
Prina Luigi
Baignerra Crescenzio
Cingerotti Santo
Bay Luigi
Tonegani Pietro
Ferrari Paolo
Berretta Giacomo
Crescini Gio. Battista
Plona Giovanni
Facchetti Giovanni
Milani Angelo
Zuliani Gaetano
Toccal Domenico
Follin Marco
Armellini Bortolo
Castellazzi Antonio
Berardi Giovanni
Bonni Alessandro
Ferriti Marsilio
Botticella Giovanni
Antonelli Stefano
Barbetti Isnardo
Bajocchi Pietro
Carrara Cesare
Molinari Giosu
5. COMPAGNIA
Capitano
Anfossi Francesco
Tenente
Crescanini Giuseppe
Sottotenente Tanara Faustino
Sergente Berna Giovanni
Rai Felice
Caporale Fumagalli Angelo
Taschini Giuseppe
Zanotti Attilio
Torri Tarelli Carlo
Foglia Pietro Pilade
Bonsignori Eugenio
Preda Paolo
Imbaldi Francesco
Fattori Antonio
Furiere
Paris Cesare
Perelli Valeriano
Gnocchi Ermogene
Chiesa Liberio
Raimondi Luigi
Sergente
Fiorini Edoardo
Patresi Gilberto
Marchesi Pietro
Militi
Cipriano Bonaventura
Fontana Giuseppe
Zancani Camillo
Armani Antonio
Guidolini Antonio
Barberis Giovanni
Barberis Enrico
Gilieri Gerolamo
Gabrielli Raffaele
Maiola Quirino
Piantoni Giovanni
Antonini Marco
Romanello Giuseppe
Totti Nicol
Montanari Achille
Gera Domenico
Garmazzini Luigi
Riva Luigi
Ventura Giovanni
Sartori Pietro
Pietroboni Lorenzo
Rovatti Giuseppe
120
Non solo le presenti, ma le venture generazioni lunga
mente s'affaticheranno intorno all'epopea del risorgimento
italico
del decimonono secolo.
Bianchi Angelo
Roveda Giuseppe
Martinelli Ulisse
Grasso Carlo
Miani Giovanni
Crema Enrico
Dellatorre Ernesto
Ligostolo Giovanni
Strazza Achille
Costardelli Guido
Adamoli Carlo
Rigoni Luigi
Pernigetti Giorgio
Cambiaso Gaetano
Anedia Tomasello
Ceccarelli Vincenzo
Cavalleri Giuseppe
Bonacini Luigi
Palleni Carlo
Raso Paolo
Stettel Antonio
Orlandi Bernardo
Santussi Antonio
Nelli Stefano
Bonvecchi Luigi
Arcari Luigi
Rettaggi Giovanni
Valligari Giuseppe
Cerona Giovanni
Berti Enrico
Maspero Gio. Battista
Pasquali Pietro
Maccaro Guglielmo
Pini Pacifico
Pini Antonio
Caneto Francesco
Pezzati Pietro
Torri Tarelli Giuseppe
Gasparini Gio. Battista
Nizzato Coriolano
Pedotti Ulisse
Custolo Giovanni
Gatti Pietro
Rizzi Felice
Berino Michele
Nodari Giuseppe
Bonduan Pasquale
Miotti Giacomo
Donetti Andrea
Caneto Antonio
Riva I.
Giuliera Giuseppe
Carretti Antonio
Pila Giuseppe
6. COMPAGNIA
Capitano
Carini Giacinto
Tenente
Ciaccio Alessandro
Campo Giuseppe
Sottotenente Cipollini Achille
Rovighi Giulio
Brano Giuseppe
Furiere
Borgomaneri Carlo
Sergente
Goldberg Antonio
Sergente
Bottoni Vincenzo
Erba Filippo
Raccubia Antonio
Caporale Vitale Bortolomeo
-
Giacomelli Pietro
Scolari Luigi
Plana Carlo
Ghia Antonio
Militi
Marini Gio. Battista
Giusti Giuseppe
Beffagona Alessandro
Barbieri Gerolamo
Bergamini Gennaro
-
Girardi Omero
Torola Romeo
Buriani Federico
Teresini Rainero
Bottorini Antonio
Zanetti Napoleone
Imperatori Napoleone
Fantini Giovanni
De-Marchi Domenico
Borsoni Eligio
Tagliabue Baldassare,
Gatti Stefano
Bendini Gustavo
121
A noi basti che siamo a tanto di felicit arrivati, da
poter dire sicuri ormai dell'avvenire:
L'Italia : la fece il plebiscito del 21.
Ma chi rese possibile questo glorioso plebiscito?
Barbesi Alessandro
Lobianco Francesco
Zambeccari Antonio
Zincatto Gio. Battista
Pellegrino Antonio
Castellani Egisto
Frigo Bartolomeo
Goglia Domenico
Valtolina Federico
De-Martini Gennaro
Flessinati Giuseppe
Alessio Giuseppe
Volpi Giuseppe
Tonati Gio. Battista
Daniele Carlo
Arimani Vincenzo
Zanini Luigi
Zamarioli Antonio
Borzola Candido
Bisi Gio. Battista
Delmasio Antonio
Ravetta Carlo
Andretta Domenico
Alba Giuseppe
Ayerenti Gerolamo
Pollido Giovanni
Briasco Vincenzo
Galfini Antonio
Chiassone Vincenzo
Dionesi Eugenio
Conti Luigi
Bensasa Nicol
Pistoia Marco
Rossi Lorenzo
Strina Giuseppe
Marchesini Luciano
Venzo Venanzio
Rossotti Carlo
Rienti Odoardo
Marchi Ignazio
Goglia Domenico
Bonafede Giuseppe
Ajello Giuseppe
Decrestina Giuseppe
Simonetta Antonio
Moneta Enrico
Defranco Vincenzo
Lusiardi Giovanni
Capello Enrico
Bignami Claudio
Delughi Giuseppe
Margherita Francesco
Deboni Giacomo
Bensasa Giovanni
Vacheri Giuseppe
Campanella Antonio
Calloppini Paolo
Raimondi Alessandro
Parini Antonio
7. COMPAGNIA
Capitano
Cairoli, Benedetto
Tenente
Vigo Pelizzari Franc.
Caporale Fabio Luigi
Sottotenente Perducca Biagio
Furiere
Salterio Nazaro
Bellisomi Aurelio
Sergente
Mazzuchelli Luigi
Rebuschini.
Cairoli Enrico
Casali Alessandro
Gherardini.
Carini Gaetano
Rutta Camillo
Campagnoli
Novaria Luigi
Rizzi Pompeo
Cadei
Colombi . . .
Militi
Archetti
Butteroni Luigi
Arcangeli
Agazzi
Belloni
Boretti.
Beretta Odoardo
Bertozzi
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
816
122
Non esito a dirlo; fu Garibaldi coi suoi prodi.
Sicilia, la bella, la forte Sicilia che aveva nel 1848 ban
dita e con larga copia di sangue sostenuta la crociata dei
popoli contro i tiranni, s'alzava pi deliberata che mai nel
Bianchi
Baruffardi
Boni
Bonanomi
Bussacchi
Baldi Francesco
Bonardi
Bresciani
Calcinardi
Covini
Cattoni
Caravatti
Castiglioni
Caccia
Cristofoli
Corbellini
Coelli
Cavalli
Conti Lino
Mammoli Enrico
Melchiorazzi
Mantovani Antonio
Micheli Cesare
Morganti Alfonso
Maestroni Ferdinando
Novaria Enrico
Nardi Ermenegildo
Pasquinelli Agostino
Peroni Giuseppe
Pavoleni Augusto
Pozzi Gaetano
Pezze Gio. Battista
Poma Giacomo
Portioli Gaetano
Pollini Angelo
Pavesi Ercole
Prignacca Luigi
Cantoni Luigi
Pavesi Urbano
Parini Giovanni
Cella Gio. Battista
De-Vecchi Carlo
Piva Remigio
Peregrini Paolo
Dezorri Ippolito
Dagna Giovanni
Ricci Ermentario
Risetti
Donati Carlo
Ellero Enea
Ricci Carlo
Rigamonti Giovanni
Escoffi Luigi
Rossi Luigi
Faccioli Baldassare
Frascada
Fornoni
Fattori
Fabris
Giurioli
Gilardelli
Ricotti Daniele
Ravini Luigi
Rovatti Carlo
Salterio Lodovico
Scaglioni Enrico
Sacchi Achille
Sghira Giovanni
Galli Carlo
Scaratti Pietro
Ghislotto
Guida
Sisti Giuseppe
Gruppi
Griggi Giuseppe
Tessera Federico
Tonibasa Achille
Locatelli Francesco
Turati Giulio
Tronconi Pietro
Lippi Giuseppe
Tibaldi Rotolando
Lampugnani Giuseppe
Lavezzi Angelo
Tozzi Giuseppe
LOSsato Riccardo
Menini Domenico
Trchiana Pompeo
Tamburini Antonio
Tabacchi Giovanni
Muselli Achille
Valcarenghi Antonio
Manenti Leopoldo
Merighi Augusto
Vaj Romeo
Vecchi Giuseppe
123
l'aprile 1860 giurando abbattere la mala dinastia, che un de
lirio sistematico s'era prefisso per compito, il regresso del
secolo ai pi nefasti giorni della barbarie.
Vecchio Achille
Zocchi Achille
Cagnetta Domenico
Zanardi Giacinto
Fusi Giuseppe
Forni Luigi
Antongina Carlo
Antongina Alessandro
Galimberti Giuseppe
Galimberti Giacinto
Bellini Antonio
Barboglio
Arconati
Cova Giovanni
Casati Enrico
Colpi Gio. Battista
Erter Odoardo
Foresti Giovanni
Carminati
Suzzi Mattia
Tambelli Giulio
l Rossetti Giovanni
Cirimbelli
Carini
Martinelli Clemente
Rigetto
Ciotti Marsiano
8. COMPAGNIA
Capitano Bassini Angelo
Militi
Tasca Vittore
Maironi Alessio
Delloro Enrico
Piccinini Daniele
Rotta Rossi Carlo
Nicoli Pietro
Parpani Giacobbe
Isnenghi Enrico
Pagani Giovanni
Mapelli Clemente
Cattaneo Giuseppe
Bassani Enrico
Zambelli Annibale
Brizzolari Odoardo
Calderini Enrico
Maranesi Giuseppe
Sirtoli Carlo
Cristofori Giacomo
Conti Carlo
Ruggeri Sperandio
Bettinelli Giacomo
Carioli Romeo
Negri Giulio
Comi Cesare
Perico Samuele
Ceribelli Carlo
Zoligo Giuseppe
Fumagalli Angelo
Sacchi Ajace
Sanda Luigi
Caccia Ercole
Panzeri Alessandro
Milesi Gerolamo
Torri Giacomo
Muro Giuseppe
Lorenzi Venceslao
Marchetti Elia
Nicora Fermo
Bianchi Ferdinando
Tironi Giuseppe
Pedralli Costantino
Oberti Andrea
Torri Luigi
Copler Giuseppe
Polletti Giovanni
Carrara Giuseppe
Donizzetti Paolo
Lucchini Battista
Tironi Giacomo
Gaffuri Eugenio
Fumagalli Antonio
Corti FranceSCO
Ferri Pietro
Pesenti Giovanni
Gamba Barnaba
Maironi Eugenio
Crescini Riccardo
Carrara Antonio
Butti Alessandro
Maggi Giovanni
124
Di tanto siculo ardimento meravigli, tem l'Europa uf
ficiale; tripudiarono ansiosi i popoli. Se non che sprovveduta
di armi, e senza capitano, mal poteva reggere la insurrezione
Oberti Giovanni
Corea Celestino
Donadoni Enrico
Pedralli Costantino
Panzeri Aristide
Garibaldi Gaetano
Pavoni Lorenzo
Bertacchi Mauro
Firpo Pietro
Armonici Giovanni
Alfieri Benigno
Natali Mauro
Vanoncini Alessandro
Tressini Carlo
Invernici Pietro
Antognoli Federico
Silva Guido
Tommasi Bortolo
Tommasa Angelo
Mongardini Giovanni
Invernici Carlo
Riccardi Gio. Battista
Perla Luigi
Pizzigalli Lodovico
Masnada Giuseppe
Amati Fermo
Mesfera Pietro
Gagni Federico
Colombo Quintilio
Dolcini Angelo
Piantanida Brucio
Sora Ignazio
Piccinini Enrico
Zanchi Carlo
Asperti Battista
Bontempelli Carlo
Bianchi Achille
Scuri Enrico
Moscheni Giuseppe
Canferi Pietro
Mazzola Giuseppe
Mori Giovanni
Medici Alessandro
Boschetti Battista
Asperti Luigi
Lura Agostino
Cattaneo Angelo
Testa Giovanni
Valenti Carlo
Zanetti Carlo
Buttinelli Gerolamo
Tibelli Gaspare
Lucchini Battista
Testa Luigi
Lazzaroni Battista
Dilani Giuseppe
Sala Antonio
Carrara Giuseppe
Bandiani Attilio
Ballicco Enrico
'Bolis Luigi
Arcangeli Febo
Astori Felice
Bonetti FranceSCO
Brontini Pietro
Capitanio Giuseppe
Esposito Giovanni
Biffi Adolfo
Marchi Giovanni
Ghidini Luigi
Baroni Giuseppe
Brambilla Prospero
Viganoni Giuseppe
Gualandris Enrico
Bottagisi Enrico
Giupponi Giuseppe
Pesenti Giuseppe
Rotta Carlo
Valenti Giuseppe
Quarenghi Antonio
Bettoni Faustino
Scipiotti Alessandro
Boni Pietro
Volpi Pietro
Gritti Emilio
Carminati Agostino
Serranga Giovanni
Bottagisi Luigi
Riva Celestino
Panzeri Giuseppe
Bottagisi 4.
Caltinoni Giovanni
Artiffoni Pietro
Tatti Edoardo
Bottagini Luigi
Rossignoli Francesco
125
isolana contro i trentamila Borbonici avidi di stragi, d'incendii
e di rapine.
'. Allora una voce unanime si lev da tutti i petti italiani
dall'Etna al Cenisio, e proclam unica salute il braccio dei
soldato cittadino, dell'eroe di Montevideo, di valle Intelvi, di
Varese e di Como.
CARABINIERI GENOVESI
Sergente Burlando Antonio
Tenente Savi F. Bortolomeo
Caporale Cervetto Stefano
Furiere Belleno Nicol
Sartorio Luigi
Capitano Mosto Antonio
Sergente Canzio Stefano
Uziel Davide
Militi
Dapino Stefano
Della Cella Ignazio
Cicala Ernesto
Casaccia Enrico
Rivalta Francesco
Casaccia Emanuele
Faziola Andrea
Mosto Carlo
Pienovi Raffaele
Profumo Angelo
Ercole Angelico
Malatesta Luigi
Giudice Giovanni
Cassanello Tomaso
Finocchietto Domenico
Destefanis Gio. Antonio
Perotti Luigi
Terruggia Giovanni
Frediani Francesco
Damele Pietro
Della Casa Giovanni
De Amesaga Luigi
Malatesta Pietro
Casbone Francesco
Lucca Delfino
Capurro Gio. Battista
Galleano Francesco
Pozzi Giuseppe
Uziel Davide Capitano
Fasce
Cereseto Angelo
QUARTIER GENERALE
Garibaldi Giuseppe
Parodi,
Gusmaroli
Cenni Guglielmo
Bandi
Stagnetti
Crispi Francesco
Tukari
v,
Basso Giovanni
Fruscianti
STATO MAGGIORE GENERALE
Sirtori Giuseppe
Manin Giorgio
Maiocchi Achille
Bruzzesi Giacinto
De Amici
Calvini Salvatore
Borchetta
Calona Ignazio
INTENDENZA
Acerbi Giovanni Bozzetti Romeo
Richiadei Enrico Uziel En
rico - Magistretti Riva Giuseppe Scipiotti Ferdinando Rossi
Antonio - Nievo Ippolito Bovi Magistretti Giuseppe Colli An
tonio.
126
L'eroe, che gi pendeva intento sui fatti di Sicilia, che eran
pur quelli d'Italia, studiando i modi del soccorso, ud l'appello,
accolse i voti, e a s chiamati i pi prodi fra i prodi delle bat
taglie combattute a Roma, e in Lombardia, salp da Genova su
navi mercantili, sbarc a Marsala, sotto il fuoco delle fregate
nemiche, vinse una battaglia da giganti a Calatafimi, si affacci
alla capitale del Parco, retrocesse con marcia meravigliosa alla
Piana dei Greci, cal rapidamente a Misilmeri, come fulmine
ricomparve, e piomb dentro Palermo, il resto voi tutti meglio
d'ogni altro il sapete, che foste spettatori e in pari tempo attori
GUIDE
Missori Nullo Cariolato Tirelli Candiani Damiani
Nuvolari Rizzotti Prignacca Martignoni Dec Schiaffino
Tranquillini Bezzi Manci Terrighi Fiorentini Zazio
Pansera Fasola Bruzzesi Garibaldi Menotti.
AMBULANZA
Ripari Pietro Ziliani Boldrini.
ARTIGLIERIA
Orsini Vincenzo Dalla Pal Giulini Luigi Termanini Arturo
Pievani Antonio Sampieri Gamba Rosso
Premi Bulo Sirtoli Melchiorre Barattieri Scaluggia - Fa-,
cioli Zamarioli Fanelli Velasca - Scarpa.
Siliotto Antonio
RISULTATO NUMERICO
Comando Generale .
. .
. . .
Indiv.
Stato Maggiore Generale .
Intendenza .
Ambulanza .
Guide
. .
.
.
.
.
.
.
.
.
-
11
8
9
3
22
Carabinieri Genovesi
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
Compagnia
. .
158
122
39
72
96
93
150
158
Artiglieria .
Totale Numero
998
Mancher qualche individuo della 3, Compagnia, della quale non si
potuto n conservare, n raccogliere Ruolino esatto.
127
nelle asprissime e gloriosissime pugne che ebbero per effetto di
rendere la Sicilia ai Siciliani e all'Italia.
Cinque mesi non sono ancora trascorsi dopo il 27 maggio,
e gi la storia assume nelle menti popolari le proporzioni della
favola, tanto fu la grandezza dell'impresa.
Volontarii della prima spedizione !
Il municipio di questa illustre citt, facendosi interprete
del voto universale, decret una medaglia destinata a fregiare
il vostro petto glorioso. Oggi ha desiderato che la pompa
maestosa d'una pubblica solennit, aggiungendo pregio alla of
ferta, sia d'esempio e di sprone alla forte giovent siciliana.
Chiamato come rappresentante di Garibaldi ad appuntare
sul vostro petto il nobile distintivo, ho volentieri aderito al
desiderio dell'inclito municipio.
Ma perch la fortissima legione non qui tutta raccolta?
La patria non si acquista che a prezzo di sangue generoso;
e voi pur troppo vedeste diradato dal piombo nemico l'in
vitto vostro drappello Onore immortale ai forti che non
sono pi.
Altri qui mancano trattenuti da gloriose ferite, altri pi
numerevoli e pi fortunati stanno cingendo sulle rive del Vol
turno di nuovi allori la fronte.
Voi soli restaste, rappresentanti dell'intera legione; poich
il lento rimarginare delle ferite o l'ubbidienza tanto meritoria
del soldato non vi permise di prendere ancora parte alle in
vidiose fatiche del campo.
Or venite o prodi della prima spedizione, venite figli di
letti d'Italia, a ricevere, in mezzo alle acclamazioni di un po
polo riconoscente, la pi splendida riconoscenza del soldato
cittadino. Venite, ma prima udite ci che mi resta a dirvi, ci
che deve essere per tutta la vostra vita il pi bel titolo d'onore.
In nome di Garibaldi, io vi proclamo benemeriti della
patria .
-
Viva l'Italia, viva Vittorio Emanuele, viva Garibaldi.
CAPIT0L0 VIII
Decreto di Garibaldi. Protesta del gene
rale dei gesuiti diretta a Vittorio Emanuele,
Ruggiero Settimo Lettera di don Juan
di Borbone a Vittorio Emanuele II. a Ma
rinai veneti. Protesta del duca di Gram
mont contro il governo pontificio. Rispo
sta alla protesta. Nota di Lord Russell.
Lettera del generale di Glascovia a Garibaldi.
Prima di rimetterci sul filo della nostra storia ed accompa
gnare il re nel suo viaggio a Napoli, parleremo di altre cose
in qualche modo slegate, ma che pure per ragione di tempo
hanno qualche rapporto con gli argomenti che andiamo trat
tando.
Una delle piaghe che affliggeva il governo di Napoli e ne tra
vagliava fortemente i governanti era il numero immenso di
petizioni fatte da coloro che per ragioni politiche avevano sof
ferti disastri di fortuna. Questi veramente non eran pochi, n
irragionevoli possono chiamarsi le loro domande, perciocch
ciascuno ha diritto alla riparazione quando giungono i tempi
della giustizia; ed un governo che si stabilisce sopra i sagrificii
di tante famiglie ha il sacro dovere di ricompensare i sagrificii
stessi, e mostrarsi grato a chi gli ha aperta la strada. Ma i
Napolitani mostrarono in questo poca delicatezza, n ebbero
riguardo alle difficolt in cui versava nei primi tempi il go
verno dittatoriale. A gara migliaia e migliaia di famiglie e di
individui presentavano suppliche d'ogni genere, ora chiedendo
impieghi, ora pensioni, ora indennizzi, e sempre danaro;
129
Garibaldi, giusto e molto condiscendente avrebbe voluto conten
tare tutti, ma gli mancavano i mezzi. Occupati gli impieghi non
c'era modo a provvedere ad altre domande, le finanze esauste
non permettevano n pensioni n indennizzi; i bisogni sempre
crescenti pel mantenimento dell'esercito esaurivano le poche
somme dello Stato. Al che devesi aggiungere che le entrate
eran venute meno, come sempre accade in tempi di rivoluzione;
molte tasse non si pagavano, molte altre erano in ritardo, l'esa
zione in generale procedeva lentamente. Bisognava perci ri
correre a qualche espediente onde venire in soccorso di tanti
infelici che domandavano aiuto, e fare che il popolo rimanesse
contento delle provvidenze del governo dittatoriale.
Di sopra abbiamo veduto come fossero state confiscate alcune
rendite dei Borboni e poste a benefizio dello stato; Garibaldi
gitt lo sguardo sul valore di quelle rendite e pens provve
dere in questo modo all'urgente bisogno che lo circondava. Giu
stizia vuole che si lodi questa condiscendenza di Garibaldi verso
le domande di quanti avevano diritto ad essere considerati
martiri della libert. La gratitudine e la riconoscenza sono po
tenti ragioni, perch il sentimento del sagrificio continui, e per
ch non venga meno quella generosit di sentire, senza la
quale pochissimi sagrificherebbero e s stessi e le loro fortune
a pr della libert e della patria.
In data del 23 ottobre 1860, il Dittatore dell'Italia meri
dionale emanava il seguente decreto:
Italia e Vittorio Emanuele,
IL DITTATORE DELL'ITALIA MERIDIONALE.
Considerando che nel giorno nefasto 15 maggio 1848 il
governo dei Borboni ruppe il patto giurato, riemp la citt di
terrore e di sangne, e all'autorit della legge sostitu l'arbitrio
e la violenza.
Considerando che il governo emerso da quella cittadina
catastrofe infieri con pertinacia spaventosa pel corso di dodie
anni, e non lasci involato il santuario della giustizia e delle
famiglie; onde uomini onorati ed amanti della patria furono
condannati a pene criminali, popolate le prigioni di vittime, ed
Storia della rivol. Sicil. Vol. Il.
17
130
un gran numero di cittadini costretti ad abbandonare lo Stato,
e rifuggire in terre ospitali italiane e straniere;
Considerando che i danni e i mali prodotti da siffatta ef
ferata tirannide furono immensi;
Considerando che debito di giustizia degna di un go
verno italiano e libero, compensare per quanto possibile i
danni patiti per la causa che ora trionfa;
Decreta :
Art. 1. Dal valore delle rendite inscritte confiscate ai
Borboni, e poste a benefizio dello Stato per antecedente di
sposizione, si distaccher la somma effettiva di sei milioni di
ducati i quali con equa estimazione saranno distribuiti alle vit
time politiche del 15 maggio 1848 in poi, di queste provincie
continentali.
Art. 2. Sar nominata a tal uopo dal governo una giunta
d'integerrimi cittadini, i quali faranno la distribuzione del
l'accennata somma a vantaggio di quelli che soffrirono sac
cheggi nel 15 maggio 1848; di quelli che furono incarcerati
o condannati per causa politica; di quelli che emigrarono in
conseguenza di un mandato di arresto, sia dall'autorit giudi
ziaria, sia dall'autorit politica; di quelli che vennero violen
temente espulsi dallo Stato per causa politica; di coloro che
furono costretti per causa politica a dimorare in un Comune
diverso da quello ove avevano stabilito il loro domicilio; final
mente da quelli che si resero latitanti in conseguenza di un
mandato d'arresto per causa politica.
Art. 3. La Giunta medesima, nel determinare la misura,
valuter nella sua prudenza il compenso che a ciascuno deve
essere attribuito per i danni sofferti.
Art. 4. Il diritto al rifacimento si pu anche esercitare
dagli ascendenti e discendenti di coloro che vanno inclusi in
alcune delle suindicate categorie.
Art. 5. Le dimande dei danneggiati debbono presentarsi
alla Giunta nello spazio di quattro mesi, dopo che i com
ponenti la medesima saranno pubblicati nel giornale ufficiale.
ll termine di quattro mesi sar improrogabile.
Art. 6. Tutti i ministri sono incaricati dell'esecuzione del
presente decreto.
Napoli, 25 ottobre 1860.
Il Dittatore G. GARIBALDI.
131
Curioso avvenimento accadeva in quei giorni; esso era una
protesta che il generale della compagnia di Ges indirizzava
a Vittorio Emanuele II circa gli interessi della compagnia me
desima perseguitata in tutta Italia dai governi liberali.
Da un pezzo gl'Italiani si erano messi in sospetto dei padri
gesuiti, e un poco avevano scoperto la trista missione che
consumavano nella societ coll'insegnamento, con la predica
zione, con le influenze d'ogni maniera che esercitavano nelle
famiglie. Inoltre conoscevasi in quai rapporti stessero con tutti
i governi dispotici d'Europa e come fosse loro divisamento e
mestiere appoggiare l'assolutismo e combattere a tutta ol
tranza la libert sotto qualunque aspetto si manifestasse. Vec
chi misteri svelati dalle circostanze e dal tempo avevano messa
in uggia quella societ circondata sempre di misteri, e gli
stessi indifferenti al movimento politico avrebbero voluto di
sfarsi di questi frati che costituivano non una religiosa com
munit, sibbene una setta potente per ricchezze e rapporti,
influente per protezioni, onniveggente per le infinite affiglia
zioni che diramansi in tutto il mondo.
Gl' Italiani rammentavano ancora il cambiamento fatale di
Pio IX nel 1848, e sapevano che grande parte vi ebbero i
gesuiti, i quali giunsero a funestare la mente del pontefice coi
timori di uno scisma gi preparato com'essi dicevano nelle
chiese cattoliche d'Austria e di Germania. L'assassinio di
Pellegrino Rossi, che in principio si attribu al partito mazzi
niano, poco a poco prese colore gesuitico, e Carlo Farini
aveva scritto nelle sue storie che sul cadavere del povero
Rossi sorrisero coloro stessi che poi furono l'avanguardia del
l'esercito austriaco nella restaurazione del papa e dei duchi.
I Gesuiti non potevano per mille ragioni esistere in paesi che
sorgevano a libert.
La rivoluzione del 1789 aveva provato purtroppo che per
scuotere il giogo della tirannide era necessario scuotere an
cora il giogo clericale personificato nel gesuitismo, e che al
Sangue dei tiranni e degli aristocratici doveva mescolarsi
quello delle sette ecclesiastiche. Carlo Alberlo soleva dire ai
tempi di movimenti politici, che si trovava sempre tra il pu
gnale dei demagoghi e il cioccolatte dei gesuiti. Il Piemonte
educato da lunga mano al gesuitismo, anzi cresciuto sotto
l'insegnamento e la scuola della compagnia, non appena surse
a libert dovette scacciare i gesuiti dal suo seno e riformare
152
l'insegnamento che essi vi avevano stabilito. Appena la Lom
bardia fu libera i gesuiti dovettero fuggire da Brescia. Dal Par
migiano, dal Modenese, dalla Romagna dovettero sgombrare;
nelle Marche e nell'Umbria vennero immediatamente soppressi.
Insomma eravi incompatibilit tra la compagnia di Ges e la
bandiera tricolore. Garibaldi gli aveva cacciati dalla Sicilia e
da Napoli: onde che molti di essi eransi riconcentrati a
Roma, ed altri avevano preso la via della Svizzera, della Fran
cia, del Veneto e della Germania. Perch siffatta specie di
persecuzione non sembri pazza ed astiosa, rapporteremo taluni
fatti particolari che mostrano fino all'evidenza quali fossero le
aspirazioni gesuitiche in Italia.
In Fano, piccola citt delle Marche esisteva un collegio ge
suitico di educazione dove specialmente le famiglie romagnuole
mandavano i loro figli. I costumi delle scuole di quei padri,
accordano dei premi ai giovanetti che danno prova d'ingegno
e di religione. Uno di essi, appartenente a buona ed onesta fa
miglia di Lugo, ebbe il diritto di chiedere questo premio che
doveva ricevere dalla sua propria famiglia. Innocente bambino,
a nove anni solamente, il premio che domand fu l'uniforme
di tenente austriaco. da riflettere che egli forse non aveva
mai veduti ufficiali austriaci e quindi la sua domanda dovette
essere un consiglio de'suoi maestri. Meno disonorevole sarebbe
stato il domandar l'uniforme di tenente papalino, perciocch
anco il papa aver i suoi tenenti; ma la compagnia di Ges
aveva ragione di fidar pi nelle baionette dell'Austria che
nelle spade arrugginite dei pochi ed indisciplinati soldati della
Chiesa.
In Napoli non eravi collegio di educazione, scuola o semi
nario di cui i gesuiti non fossero direttori; fino nel collegio
militare avevano la loro mano, e se loro fosse stato concesso
avrebbero pi che volontieri presa la direzione di tutta la so
ciet napoletana, nelle curie vescovili, nelle carceri, negli er
gastoli, negli ospedali non si trovavano altro che gesuiti; essi
eran tutto; tutto veniva regolato da loro, come se il reame
delle Due Sicilie non fosse che una grande comuit gesui
tica. Scacciati da tutte le provincie italiane, i loro beni passati
allo Stato; minacciati dappertutto, vedevansi vicini all'estrema
rovina e forse tra tutti i preti e i frati erano i soli che poco o
nulla fidassero nell'aiuto di Dio. Quando le arti umane vennero
meno e pi non trovarono modo di resistere al torrente rivo
133
luzionario che incalzavali da tutte parti, seguirono il costume
degli spodestati e abbandonaronsi alle armi pur troppo deboli
delle proteste.
Noi registriamo questo documento ; esso basta a tutta rive
lare l'ira di quella setta schiacciata e che vedevasi nell'im
possibilit di risorgere. Le ingiurie, gli oltraggi alla persona
del re provano fino a qual termine sappiano i gesuiti rispettare
le teste coronate quando sono contrarie ai loro interessi di ric
chezze, d'influenze e di dominio. Ecco la protesta del gene
rale della societ.
Sire!
Il proposto generale della compagnia di Ges ricorre ri
spettosamente al trono della M. V. per ottenere giustizia e ri
parazioni delle gravi ingiurie onde il suo ordine fatto segno
da qualche tempo in Italia, e se ia vano aspettarla, per pro
testare almeno pubblicamente contro di quelle.
Coi primi commovimenti italiani, al fine del 1847 sugli
inizii del 48, tutte le case ed i collegi, che aveva la compagnia
di Ges negli Stati Sardi, dall'una e dall'altra parte del mare,
furono soppressi, i suoi beni confiscati, ed i suoi membri di
spersi ignominiosamente sbanditi.
Per dare qualche ombra di legalit a quegli atti d' in
giustizia, fu pubblicato in seguito un decreto, che sopprimeva
-
la compagnia di Ges, ne confiscava i beni, e sottoponeva i
suoi membri a varie prescrizioni, gratuitamente vessatorie. Un
tal decreto fu dato senza la conoscenza di Carlo Alberto, au
gusto genitore della maest vostra, anzi contro le sue inten
zioni; in quanto quel re oltre ad essersi in tutto il tempo
del suo governo mostrato benevolo al nostro Ordine, sul primo
rompere della tempesta, confort i padri a star saldi, e ve
dendo la paura di taluni, ne mosse lamenti coi superiori, quasi
non fidassero abbastanza o nella lealt della sua parola, o nel
volere della sua protezione. Quel decreto per quanto non po
tesse aver forza retroattiva, nondimeno fu invocato per legit
timare l'iniquo fatto, e fu mantenuto e messo in pieno vigore
dal governo che d'allora in poi presiede ai destini del regno.
Dal tempo della guerra italiana nello scorso anno fino al
di d'oggi, la compagnia perdette nella Lombardia 3 case e col
13 i
legi, nel ducato di Modena 6, nello Stato pontificio 11, nel
regno di Napoli 19, nella Sicilia 15. Dappertutto poi essa com
pagnia fu spogliata di tutti i suoi beni mobili ed immobili nello
stretto rigore della parola. I membri della medesima, in nu
mero d'un migliaio e mezzo circa, furono scacciati dalle case
e dalle citt; furono tradotti come malfattori a mano armata
di paese in paese, detenuti in carcere, maltrattati ed oltrag
giati atrocemente; furono impediti persino di cercarsi un asilo
in seno di qualche famiglia pietosa, ed in molti luoghi non si
ebbe neanche il riguardo alle canizie degli anni, allo stremo
delle infermit e dell'impotenza.
Tutti questi atti si sono consumati senza apporre a coloro
che ne furono vittima nessuno atto colpevole innanzi la legge,
senza alcuna forma di giudizio, senza lasciar modo a giustifi
carsi; in somma si proceduto dispoticamente alla maniera
selvaggia.
Se tali atti si fossero compiuti in un tumulto popolare da
una plebe furiosa ed acciecata, sarebbero forse da sopportarsi
in silenzio. Ma perciocch quegli atti si vollero legittimare dalle
leggi sarde, ed i governi provvisorii istituiti negli Stati Estensi
ed in quelli della santa Chiesa, e lo stesso Dittatore delle
Due Sicilie si appoggiarono sulla autorit del governo sardo;
e perciocch, a dar forza a quegli inqui decreti ed alla loro
pi iniqua esecuzione, fu invocato e s'invoca il nome della
Maest Vostra, non mi pi lecito di restare spettatore si
lenzioso di tanta ingiustizia; e nella mia qualit di capo su
premo dell'Ordine, sento lo stretto debito di domandare giu
stizia e soddisfazione, o certo di protestare innanzi a Dio ed
agli uomini, affinch la rassegnazione della mansuetudine e della
pazienza religiosa non sembri degenerare in debolezza, che
possa interpretarsi o confessione di colpa, o abbandono dei
diritti.
Protesto dunque solennemente, e nella forma che posso
migliore contro la soppressione delle nostre case e collegi, contro
le proscrizioni, gli esilii, le prigionie, contro le violenze e gli
oltraggi fatti soffrire a miei religiosi fratelli.
Protesto innanzi a tutti i cattolici in nome dei diritti della
santa Chiesa sacrilegamente violati.
Protesto in nome dei benefattori e dei fondatori delle
nostre case o collegi, le cui espresse volont ed intenzioni
per tante opere pie a vantaggio dei defunti e dei viventi riman
gono prive d'effetto.
155
Protesto in nome del diritto di propriet vilipeso e calpe
stato colla forza brutale.
Protesto in nome del diritto di cittadinanza ed inviolabilit
personale, di cui nessuno pu esser privato senza colpa, giu
dizio e sentenza.
Protesto in nome dei diritti dell'umanit oltraggiata sver
gognatamente in tanti vecchi infermi, impotenti, scacciati dal
loro pacifico asilo, abbandonati da ogni necessaria sussistenza,
gettati sulla pubblica via, senza ricovero, senza mezzi di sus
sistenza.
Che se disgraziatamente al maggior numero dei miei re
ligiosi, io non posso dare altro conforto, essi almeno vedranno
da questo mio atto che il loro padre comune non indiffe
rente alla loro sorte.
Questa protesta io indirizzo alla coscienza della M. V. La
depongo sulla tomba di Carlo Emanuele IV, illustre predeces
sore della M. V. Egli dal trono, ov'ella regna al presente, scese
volontariamente, sono appunto nove lustri, per morire tra noi
vestito dell'abito, legato dai voti della compagnia di Ges, pro
fessando nel noviziato di Roma dove ora riposano le bene
dette sue ceneri, quella maniera di vita cui il governo della
M. V. vitupera e persegue con odio cos calunnioso e cos
feroce.
La memoria della benignit, che l'illustre Casa di Savoia
nei tempi andati costantemente dimostr verso la compagnia
di Ges ed il sublime carattere di cui investita la M. V. deb
bono ispirarmi fiducia che le mie suppliche e proteste non ri
marranno senz'effetto.
Ma se la voce di tanti diritti conculcati non trova ascolto
nei tribunali della terra, io mi appello finalmente a quel tri
bunale supremo e tremendo di un Dio santo, giusto ed onni
potente, dove l'innocenza oppressa sar immancabilmente ri
vendicata dal giudice eterno, re dei re e padrone dei domi
manti. Nelle mani di questo Dio io rimetto tutt'intera la nostra
causa; e pienamente sicuro di noi, lo supplico d'inspirare alla
M. V. ed agli uomini che la consigliano sentimenti di giustizia
e di equit, verso tanti innocenti miei figliuoli ingiustamente
perseguitati ed oppressi.
Intanto io co'miei religiosi anderemo consolati d'essere
trovati non indegni di qualche cosa pel nome di Ges renden
doci la propria coscienza testimonianza di non aver data altra
156
occasione a quella recrudescenza degli antichi odii, salvo quello
di predicare la croce di Ges Cristo, il rispetto e l'obbedienza
alla santa Chiesa ed al capo di lei, il sovrano pontefice, la
sommissione e la fedelt ai principi ed a tutte le autorit da
Dio costituite.
Di V. Maest
Roma, 24 ottobre.
Umilissimo servo PIETRo BECKx
Prep. generale della compagnia di Ges -.
A che poteva valere questa protesta? a qual fine i gesuiti
ne vollero dai giornali francesi la pubblicazione? quale effetto
poteva essa produrre nell'animo degli Italiani? risponderemo
brevemente a coteste domande. Tutti conoscono come la com
pagnia di Ges sia estesa in tutto il mondo e come abbia
ovunque delle grandi e potenti affiliazioni. In quei giorni di
fortuna per Vittorio Emanuele, il clero erasi determinato a su
scitare ovunque dei malumori contro di lui, malumori che tanto
pi avrebbero dovuto divenire minacciosi quanto meglio erano
informati a principii ed interessi religiosi. Il generale della com
pagnia di Ges pens che protestando in simil guisa avrebbe
fatto comprendere al mondo cattolico, che la politica piemon
tese non tendeva solamente a fare un'Italia una, ma a rove
sciare ancora dalle sue fondamenta la Chiesa cattolica. Era un
pezzo che le fraterie insegnavano al mondo la Chiesa star fon
data sopra il sacerdozio e specialmente sulle religiose comu
nit, come quelle che pel tenore di loro vita si prestavano
meglio al culto ed a rappresentare le virt di Cristo in terra.
La conseguenza di queste belle osservazioni era, che il go
verno sardo sopprimendo le religiose comunit, non faceva
che distruggere le fondamenta della Chiesa e cos mandarla
in fasci e rovina. In tal modo il sentimento cattolico oltre al
minacciato dominio temporale del papa, sarebbesi spinto a ve
dere nel re di Sardegna e nel suo governo i feroci persecutori
della Chiesa di Cristo.
Ma anco questa protesta fu sterile di effetti; nessuno si ri
senti, nessuno deplor la perdita della compagnia, perch tutti
finalmente aveano potuto conoscere come i gesuiti non costi
tuissero che una setta.
157
In quei medesimi giorni corse per tutta Italia una lettera,
una lettera simpatica che diede molto peso alla politica dell'an
nessione e che sui democratici non produsse effetto molto pia
. cevole. Il venerando Ruggiero Settimo, il veterano dei liberali
italiani, il martire della sua patria, scriveva questa lettera. Sin
dalla sua entrata in Palermo Garibaldi aveva direttagli una let
tera a Malta invitandolo a tornare nella libera Sicilia e a ral
legrare della sua presenza i Siciliani, ma vecchio e cadente
nella salute, dovette rinunciare a questo supremo piacere. Ora
giunto il 21 ottobre questo veterano della libert volle dare il
suo voto e lo diede con la seguente lettera.
Illustrissimo signore!
In questo giorno solenne, in cui la Sicilia chiamata a
compiere la costituzione dell'Italia, mi duole di non potere
anch'io personalmente deporre nell'urna il voto per l'annes
sione al regno costituzionale del re Vittorio Emanuele e i suoi
discendenti. Ma non saprei neanco astenermi dallo esprimere
il mio assentimento a questo stupendo fatto, che, formando
l'Italia forte, indipendente e libera, assicura nel tempo istesso
la libert e la prosperit dell'isola nostra.
Ora che i tempi sono maturi perch la famiglia italiana
riunisca in uno i suoi membri e tutte le sue forze, consumate
sltanto in lotte fratricide, sarebbe strano il persistere in aspi
razioni ed idee convenienti ad altre circostanze e a tempi
andati. Nelle molte vicissitudini della mia lunga vita ho la co
scienza d'aver voluto agire senza alcun personale riguardo, e
soltanto per il bene della patria. Colla stessa coscienza pre
sento a lei questo mio voto, che spero sia conforme a quello
di cotesti miei concittadini e di tutta la Sicilia.
Passo a rassegnarmi
Malta, 21 ottobre 1860.
Devotis. ed obb. servo
t
RUGGIERO SETTIMo.
Ruggero Settimo nel 1848 e 1849 aveva governata la Sicilia
quasi da Dittatore; il suo governo comunque non fosse ricco di
Storia della rivol. Sicil. Vol. II.
18
158
politica e di energia, pure era stato sincero, e sotto tutti i rap
porti liberale. Costretto ad emigrare dopo la restaurazione
dei Borboni si ferm finalmente in Malta ove era corteggiato
sempre dagli altri emigrati siciliani, e rispettato grandemente dal governo inglese. La sua vecchiezza non gli permise di es
sere all'estero un uomo di azione, ma la sua volont fu im
mutabile circa i principii liberali, e la speranza che sempre
nudriva di veder libera ed indipendente la Sicilia e l'Italia.
Un curioso documento ci tocca registrare in questa storia;
ma prima esporremo alcune nostre idee.
Le potenze o non vedevano o fingevano non veder la na
tura del movimento italiano; quindi si appoggiavano ai vecchi
diritti ed in forza di questi facevano domande e proteste se
condo che loro saltava meglio in capo. A considerar bene i
trattati del 1814 e 1815 erano fondati sopra questi pretesi
diritti delle potenze europee; ora Napoleone III e Vittorio
Emanuele ll a Magenta ed a Solferino avevano lacerato co
testi trattati in faccia a tutta l'Europa. Il riconoscimento dei
fatti compiuti parve e fu realmente migliore politica, percioc
ch solamente cos si poteva ovviare alle rivoluzioni ed alle
guerre sterminatrici di che tutta Europa era minacciata. Le
potenze non volevan capire che la rivoluzione distrugge i vec
chi diritti, ed altri nuovi ne stabilisce, e quindi, come se
l'Italia nulla potesse fare senza la loro annuenza e consenti
mento, avevano preso il costume di protestare sempre contra
tutti gli avvenimenti che si succedevano in Italia.
La Spagna, come abbiamo veduto, aveva gi protestato;
essa si designava come l'erede al trono di Napoli, ove per
avventura quella dinastia fosse venuta meno o caduta. Ora
don Giovanni di Borbone protestando contra la protesta della
Spagna, da una parte design s stesso a vero successore dei
Borboni di Napoli, e da un'altra parte cedette i suoi diritti
a Vittorio Emanuele II. In questa protesta, o lettera che si
voglia chiamare avvi una logica stringente contra i vantati di
ritti di Napoli e di Roma. Questi due gabinetti infatti, sola
mente riconoscendo i fatti compiuti avevano potuto ricono
scere il governo della regina di Spagna; la Spagna quindi
era nell'obbligo di riconoscere i fatti compiuti d'Italia; e l'at
taccarsi al diritto divino e sostenerlo era lo stesso che dist
gere le fondamenta della sua stessa esistenza. Comunque "ug
testa cessione di diritti di don Giovanni Borbone non
-
ti
0SS0
139
stimata in verun modo necessaria, piacque nonpertanto agli
Italiani, i quali in tal modo vedevano un buon argomento
contro i difensori dei principi spodestati; ed una delle tante
fortune che accompagnavano la stella di Vittorio Emanuele II
destinato dalla Providenza a divenire il re di tutta Italia.
Ecco intanto la lettera che il diseredato Borbone scriveva
da Londra il 24 ottobre 1860 a Vittorio Emanuele.
A Sua Maest Vittorio Emanuele.
Sire !
Ho rilevato che il governo spagnuolo diresse una nuova
protesta relativamente agli avvenimenti di Napoli, e colla idea
manifesta di sostenere i diritti eventuali dei Borboni di Spa
gna al trono delle Due Sicilie. Allorch io ebbi la prima no
tizia di tali mene, ordinai al mio segretario di dirigersi al
vostro ministro presso questa corte, affinch per suo mezzo
V. M. conoscesse quali erano i miei sentimenti circa gli even
tuali diritti che io, io solo, potrei al caso reclamare. Veggo
ora confermarsi pure la notizia che il governo spagnuolo
cerca dare un appoggio al governo temporale del papa. Tale
condotta mi mostra che quel governo, quantunque di origine
rivoluzionaria, ha la pretesa di superare lo spirito di reazione
del governo di Sua Santit e dello stesso re di Napoli. L'uno
e l'altro hanno riconosciuto la regina di Spagna, a dispetto
dei diritti della mia famiglia, che oggi io rappresento, e per
la forza dei fatti compiuti riconobbero cos ci che credettero
essere la volont nazionale. Se il governo spagnuolo non si
trovasse spinto sul pendio reazionario, di che pare egli vada
superbo, non si sarebbe punto immischiato in un affare che
per nulla lo riguarda; perch, dal lato legale, non si potr
dubitare dei diritti eventuali, e nessuno ha ricevuto da parte
mia l'incarico di tutelarli; e dal punto di vista politico, esso
non certamente l'interprete dello spirito nazionale. Una tale
condotta sarebbe al suo posto, se l'antico partito assolutista
fosse al potere.
Io, che ammetto come principio il diritto dei principi
-
non avere ancor valore senza il consenso e l'affetto dei po
poli, io non potrei che rispettare oggi le decisioni del popolo
140
italiano, come rispetterei domani quelle del popolo spagnuolo.
Io non tendo a sollevare diritti che non hanno alcuna impor
tanza tranne quella di manifestare simpatie politiche in con
trasto coll'epoca nostra. Come capo di famiglia dei Borboni
di Spagna, io rinuncio a tutti gli eventuali diritti alla sovra
nit d'una parte qualunque d'Italia. E come spagnuolo, nella
situazione eccezionale in cui mi trovo, essendo ben certo di
essere il fedele interprete dei voti della nazione, io protesto
contro tutti gli atti del governo che potessero compromettere
la simpatia dei due popoli fratelli.
Io vengo, o sire, a deporre nelle vostre mani la rinuncia
di questi diritti e la protesta ch'io faccio in nome del po
polo spagnuolo; io non dubito che V. M. non riconosca che
io compio un dovere, ed ho la certezza che gli Spagnuoli ve
dranno con piacere ch'io rivendichi le simpatie che essi me
ritano dal popolo italiano.
Io felicito, o sire, V. M. dell'alta posizione ch'ella ha sa
puto crearsi come rigeneratore della stirpe italiana; e se non
mi dato d'essere un giorno suo eguale in Spagna, io posso
assicurare V. M. che non sar mai meno il suo leale e devoto
amico.
Londra, 24 ottobre 1860.
JUAN Di BoRBoNE.
Trista era la condizione della marina italiana in quei giorni;
perciocch cresciuti i legni non aveano potuto crescere cos
di un tratto i marinai. Per un errore fatale gli equipaggi della
marina napolitana eransi sciolti sotto il governo dittatoriale;
comunque in vari modi s' invitassero a tornare a prendere
servizio, essi rimasero alle loro case nell'inerzia e nell'ozio.
Inutile sarebbe la minuta ricerca delle ragioni tanto della dis
soluzione della marina come della renitenza dei marinai a
prender servizio. Diremo solo che ad equipaggiare i legni da
guerra della marina meridionale, e i nuovi che dai cantieri
sardi uscivano, molti uomini abbisognavano; quello che pi
importava era di trovarli belli ed addestrati al mare per po
tere tosto prestar servizio specialmente nell'assedio di Gaeta.
Il comitato segreto veneziano fece con un caldo e lu
singhiero appello ai veneti marinai consigliandoli anco alla
141
diserzione dal servizio austriaco. Due vantaggi ottenevansi a
questo modo; il primo era di scemare alla piccola flotta au
striaca dell'Adriatico i marinai veneti che erano i pi abili
ed esperti, e l'altra di provvedere la marina italiana di quegli
uomini dei quali abbisognava. Era pur commovente il vedere
come la povera e schiava Venezia pensasse alla flotta italiana
ed a migliorare le condizioni della marina del nuovo regno.
Davvero che quella provincia di giorno in giorno facevasi co
noscere degna di migliore fortuna, e tale da meritare che Italia
tutta s'interessasse delle sue presenti sventure. Gi molti Ve
neti trovavansi al servizio della nascente flotta italiana; molti
altri emigrati da qualche tempo lavoravano nei cantieri di Ge
nova; or si voleva mandarne ancora di pi per dimostrare che
comunque schiava, Venezia era provincia italiana e pensava
alle sorti d'Italia.
Ecco il proclama del comitato segreto; che se non pro
dusse i desiderati effetti valse almeno a provare che solo la
sorveglianza della feroce polizia austriaca poteva impedire lo
slancio dei figli della laguna.
IL COMITATO CENTRALE DI VENEZIA
ai marinari veneziani.
Marinai della costa veneta! giunto anche per voi il mo
mento di prestare utili servigi alla patria. Sia che apparte
niate alla marina mercantile, o serviate costretti sui navigli
austriaci, non potete non sentire quanta la condizione vostra
sia piena d'avvilimento. La flotta austriaca non pi quella
che chiamavasi regia veneta, e che aveva ufficiali e marinai
italiani. Ora non comandano che tedeschi, e gli infelici ma
rinai italiani, sono costretti a servire sotto il bastone. La ma
rina italiana, e voi l'avete sentita tuonare sotto Ancona,
quella che liberer la povera Venezia, e solamente in questa
dovete servire. Venezia non ha pi navigazione, non ha com
mercio, non ha denaro pei marinai, e nulla pu dar loro prima
di essere liberata. Perci anco i marinai dei navigli mercantili
farebbero molto meglio prendere servigio sui vapori di Na
poli, di Ancona, di Genova, dove sventola il santo vessillo tri
colore, per ritornare di l vincitore in patria ed assicurare
142
la libert e la prosperit di Venezia. Mandate almeno i pi
giovani e pi sperimentati di voi, in modo che ci rappresen
tin nella marina italiana come fanno tanti altri nell'esercito
di Vittorio Emanuele e di Garibaldi. Quando Venezia sar li
bera, riprenderemo i lavori nei nostri arsenali; e nei nostri
cantieri avremo un numeroso naviglio da guerra, sul quale i
marinai di Venezia acquisteranno onore come nei bei giorni
di Venezia; avremo legni mercantili da intraprendere ricchi
commerci. I legni veneziani riempiranno i porti d'Oriente, e
l'agiatezza ritorner nelle famiglie dei naviganti. L'Italia aspetta
molto dai coraggiosi marinai della costa veneta, da voi che
faceste per tanto tempo rispettato e temuto sui mari il Leone
di san Marco.
Viva Vittorio Emanuele re d'Italia! viva Garibaldi!
viva l'ammir. Persano il vincitore d'Ancona! viva Venezia liberat
Venezia, 25 ottobre 1860.
In quei medesimi giorni un fatto singolare accadeva in Roma
tra il governo del papa e l'ambasciata francese. Noi lo rappor
teremo perch esso vale a gittare un nuovo raggio di luce
sopra la politica di Napoleone III, e sopra le ire della Corte
pontificia. Una polemica sorta tra i contrarii partiti della Francia
e dell'Italia provoc una rivelazione del governo pontificio per
difendere da una parte il generale Lamoricire su cui cade
vano tante accuse, e per gittare sempre delle colpe sopra le
intenzioni e sopra i fatti dell'imperatore dei Francesi. Il duca
di Grammont ambasciatore francese in Roma prima della guerra
delle Marche e dell'Umbria, aveva fatto conoscere al governo
del papa che ove per avventura l'esercito sardo avesse invaso
le provincie del pontefice, l'imperatore Napoleone III sarebbe
stato costretto ad opporvisi. Questa opposizione interpretata
nel senso pi largo della parola dava ragione al comandante
supremo delle armi pontificie di tenersi sicuro, non avendo a
combattere che contra Garibaldi ove questi da Napoli avesse
tentato un colpo sulla parte meridionale del patrimonio di
S. Pietro.
Il giornale di Roma del 24 ottobre per vincere la polemica
pubblic le assicurazioni date dal duca di Grammont dicendo
143
che l'imperatore aveva scritto al re di Sardegna per dichia
rargli che se egli attaccava gli Stati del papa vi si opporrebbe
colla forza .
Due errori stavano in questa rivelazione; il primo era quello
di avere aggiunte le parole colla forza, il secondo di aver pub
blicato una dichiarazione confidenziale che l'ambasciatore fran
cese aveva fatta alla Corte pontificia. Molta scaltrezza era
nell'uso di queste frasi; perciocch esse dimostravano che
Napoleone IIl o era venuto meno alle sue promesse, o aveva
tradito iniquamente il governo pontificio.
Non v'ha dubbio che la politica di Napoleone III fosse oscura
e che spesso nascondeva i suoi misteri sotto alle parole; ma
in verun modo era lecito al governo di Roma aggiungere alla
confidenziale dichiarazione parole che ne alteravano il senso,
e che mettevano il governo dell'imperatore dalla parte del
tOrt0.
Quando il duca di Grammont ebbe letto nel giornale di
Roma quella rivelazione salt sulle furie, mand un dispaccio
a Parigi, donde gli venne risposto di protestare energicamente
cos contro l'abuso di confidenza, come contro le parole ag
giunte per falsare la verit.
ll di 25 ottobre il duca di Grammont dirigevasi al car
dinale Antonelli e gli mandava la seguente protesta:
Roma, 25 ottobre.
Sig. cardinale!
Lessi nel giornale di Roma di ieri un articolo che mi
riesc di dolorosa sorpresa. Io fo appello alla lealt di V. E.
per pregarla di far rettificare una grave inesattezza che si trova
annunciata.
Secondo quell'articolo, il signor pro-ministro delle armi
avrebbe spedito, il 10 settembre, al generale Lamoricire a
Spoleto un dispaccio telegrafico annunciante che l'ambasciata
di Francia aveva ricevuto la notizia - che l'imperatore aveva
Scritto al re di Piemonte per dichiarargli che, s'egli attaccava
gli Stati del papa vi si opporrebbe colla forza .
La notizia ricevuta dall'ambasciata fu inesattamente ri
prodotta dal signor pro-ministro delle armi, e V. E lo sa
144
meglio di chiunque, perci io gliela comunicai direttamente.
Il signor pro-ministro delle armi vi aggiunse le parole
colla forza, che non vi erano, e lo scopo di questa alterazione
non isfuggir a nessuno.
Il dispaccio pervenuto all'ambasciata diceva, che, nel caso
di un aggressione del re di Sardegna, l'imperatore sarebbe
forzato ad opporvisi, ma non si mai parlato di far la guerra
al Piemonte.
Io avrei il diritto di stupire che il giornale di Roma sia
stato autorizzato a pubblicare un dispaccio del governo del
l'imperatore, di cui io non aveva data copia a V. E. e mi
astengo poi dal dire quale fu la mia impressione, rilevando che
il testo ne era stato falsificato.
- Vorrei, signor cardinale, non dover soggiunger nulla alle
penose osservazioni che vi ho fatte; ma mi impossibile non
protestare contro l'abuso col quale, impadronendosi, negli uf
fici d'amministrazione dei telegrafi pontificii, di un dispaccio
privato, da me diretto ad uno degli agenti posto sotto a miei
-
ordini, il governo pontificio si permetta di divulgarlo in modo
da ferire ad un tempo le convenienze e le leggi reciproche
della corrispondenza telegrafica. Che governi ostili, dopo es
sersi impossessati colla forza delle stazioni telegrafiche, ren
dano pubblici i dispacci nemici caduti in loro potere, ci si
comprende sino ad un certo punto, senza per scusare; ma
che un governo amico approfitti della sicurezza che dovrebbe
ispirare la sua onest per violare le regole pi elementari del
diritto delle genti ed abusare della fiducia che gli si accorda,
un procedere che spetta alla coscienza pubblica di giu
dicare.
lo termino, rinnovando a V. E. la mia domanda di ret
tifica; e non devo nasconderle che se, contro la mia aspetta
tiva, questa domanda non fosse presa in considerazione, io
mi riservo di adottare quella misura che trover conveniente
a ristabilire la verit dei fatti, e chiarire al pubblico che l'ar
ticolo del giornale di Roma ha evidentemente per iscopo di
trarre in errore.
Prego V. E. di aggradire le assicurazioni de' miei pi di
stinti sentimenti di considerazione.
firmato GRAMMONT.
145
Per mezzo dello stesso giornale il governo pontificio rispon
deva in questo modo alla protesta dell'ambasciata francese.
Il signor ambasciatore francese ha manifestato il desiderio
che venisse rettificata una espressione usatasi nel dispaccio
telegrafico riportato al N. 244 di questo giornale 24 corrente
ottobre con dirsi che l'imperatore dei Francesi aveva scritto
al re di Piemonte per dichiarargli, che se esso attaccasse gli
Stati del papa egli vi si sarebbe opposto colla forza.
Ci diamo perci cura di notare che il dispaccio comunicato
dal signor ambasciatore fu precisamente in questi termini, cio
che se le truppe piemontesi, entrassero nel territorio pontificio
l'imperatore sarebbe obbligato ad opporvisi, e che l'ordine
era stato dato di aumentare la guarnigione di Roma.
Queste espressioni fecero nascere quasi in tutti il pensiero
di una reale importanza, ed hanno certamente contribuito a
far incorrere nell'inesattezza che si rileva nel sopraccitato di
spaccio del 10 settembre. Per servire per maggiormente alla
verit, aggiungiamo che tre o quattro giorni dopo si ebbe
altra comunicazione nella quale l'imperatore diceva che si sa
rebbe opposto en antagoniste.
Questa risposta non dovette garbare alla Francia, e tanto
pi che eravi l'aggiunta di una seconda dichiarazione per la
quale sarebbesi aumentata la guarnigione di Roma ove l'eser
cito piemontese avesse assunto l'atteggiamento di ostilit.
Veramente in quelle due dichiarazioni era tanto da bastare
per far concepire delle speranze alla Corte di Roma; ma
reca meraviglia come questa Corte gi adusata alla politica
di Napoleone III potesse cos di leggieri credere che l'impe
ratore dei Francesi volesse far guerra contro gl' Italiani affin
ch il papa non perdesse l'Umbria e le Marche,
Per ragione di contemporaneit a noi conviene parlare ora
di una nota che lord Russell dirigeva a sir James Hudson il
27 ottobre 1860 e per la quale l'Inghilterra veniva ad appro
vare la politica ed i fatti del governo sardo ad onta che tutte
le grandi potenze avessero gi protestato contro quelle innova
zioni. All'Inghilterra giovava farsi amica l'Italia e rendersi do
cile il grande movimento liberale che agitava in quei giorni
tutta l'Europa. Invida dell'influenza che l'imperatore dei Fran
cesi esercitava sulla penisola; invida ancora della gratitudine
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
19
146
che gl'Italiani professavano alla Francia, l'Inghilterra volle in
quei momenti dare prova di simpatia verso la causa italiana,
la quale riusc tanto pi gradita in quanto che in mezzo alle
proteste e alle rimostranze di tutte le Corti europee, fu la sola
che parl in nostro favore.
Ecco la nota di cui parola.
Nota di lord John Russell a sir James Hudson.
Foreing-Office, 27 ottobre 1860.
Signore,
Sembra che gli ultimi atti del re di Sardegna sieno stati
fortemente disapprovati da alcune delle primarie corti d'Eu
ropa.
L'imperatore dei Francesi, all'annunzio dell'invasione
degli Stati papali per opera dell'esercito del generale Cialdini,
ritir il suo ministro da Torino, manifestando nello stesso
tempo la disapprovazione del governo imperiale per l'invasione
del territorio romano. L'imperatore di Russia, ci si dice, ha
manifestato con severe espressioni la sua indignazione per
l'ingresso dell'esercito del re di Sardegna nel territorio napo
litano, ed ha ritirato tutta la sua legazione da Torino. Il
principe reggente di Prussia ha creduto anch'egli necessario
di esprimere alla Sardegna il proprio disgusto, ma non ha
creduto necessario di dovere richiamare il ministro prussiano
da Torino. Dopo questi atti diplomatici, non sarebbe cosa
giusta verso l'Italia, n rispettosa verso le altre grandi potenze
d'Europa, se il governo di S. M. indugiasse ancora a mani
festare la sua opinione.
Cos facendo, tuttavia il governo di S. M. non ha inten
zione di sollevare una disputa rispetto ai motivi che furono
assegnati, in nome del re di Sardegna, alla invasione degli
Stati romani e napolitani. Che il papa potesse o no aver ra
gione nel difendere la propria autorit, col mezzo di soldati
stranieri, che si possa o no dire che il re di Napoli abbia
abdicato sintantoch egli mantiene ancora la sua bandiera a
Capua e a Gaeta, non sono questi gli argomenti dei quali il
governo di S. M. intende ora discutere.
147
Le grandi quistioni, che a giudizio del governo di S. M.
devono ora decidersi, sono queste: avevano ragione i popoli
d'Italia nel chiedere l'assistenza del re di Sardegna acci li
liberasse da governi dei quali erano malcontenti? Ed aveva
ragione il re di Sardegna, accordando l'appoggio delle sue
armi ai popoli degli Stati romani e napolitani ?
Sembra che due sieno stati i motivi che indussero i po
poli degli Stati romani e napolitani a concorrere spontanea
mente al rovesciamento dei loro governi. Il primo di questi
si fu che il governo del papa e quello del re delle Due Si
cilie provvedevano tanto male all'amministrazione della giu
stizia, alla protezione della libert personale, ed all'universale
prosperit dei loro sudditi, che quei popoli riguardavano l'e
spulsione dei loro reggitori, come un atto preliminare neces
sario per qualsiasi miglioramento del loro Stato.
Il secondo motivo era questo: che dopo il 1849 erasi
dappertutto diffusa la convinzione che l'unico modo in cui gli
Italiani potessero assicurare la loro indipendenza dal dominio
straniero, si era quello di formare un forte governo per tutta
quanta l'Italia. La lotta di Carlo Alberto nel 1848, e la sim
patia che il presente re di Sardegna ha dimostrata per la
causa italiana hanno naturalmente condotto all'associazione del
nome di Vittorio Emanuele con quell'unica autorit sotto la
quale gli Italiani aspirano a vivere.
Considerando la questione sotto questo aspetto il governo
di S. M. deve ammettere che gli Italiani sono essi medesimi.
i migliori giudici dei loro propri interessi.
L'eminente giurista Vattal, discutendo la legalit dell'as
sistenza data dalle provincie unite al principe d'Orange, quando
questi invase l'Inghilterra e rovesci dal trono Giacomo II,
dice:
L'autorit del principe d'Orange ebbe, senza dubbio, una
influenza sulle deliberazioni degli Stati generali, ma essa
non li condusse a commettere un atto di ingiustizia, perch
quando un popolo, con buone ragioni impugna le armi
contro un oppressore, non che un atto di giustizia e di
generosit l'assistere uomini valenti nella difesa delle loro
libert.
In conseguenza stando ai detti di Vattal, la quistione si
risolve in questo; i popoli di Napoli e degli Stati romani im
pugnarono le armi contro i loro governi per giusti motivi?
148
Sopra questo grave argomento, il governo di S. M. ri
tiene che i popoli di cui si tratta sono essi medesimi i mi
gliori giudici dei loro propri affari. Il governo di S. M. non
crederebbe di poter essere giustificato, dichiarando che i po
poli d'Italia meridionale non avevano buone ragioni per sot
trarsi all'obbedienza verso gli antichi loro governi. Il governo
di S. M. non pu quindi pretendere di biasimare il re di Sar
degna per averli assistiti. Rimane nondimeno a decidersi una
questione di fatto. I partigiani dei governi caduti sostengono
che i popoli degli Stati romani erano affezionati al Papa, ed
i popoli del regno di Napoli alla dinastia di Francesco II,
ma che gli agenti sardi ed avventurieri stranieri, colla forza
e coll'intrigo rovesciarono i troni di quei sovrani.
E non pertanto cosa difficile a credersi, dopo i meravigliosi
fatti da noi veduti, che il papa ed il re delle Due Sicilie go
dessero l'amore dei loro popoli. Come mai, si potr doman
dare, fu impossibile al papa raccogliere un esercito romano,
e si trov egli costretto ad appoggiarsi quasi interamente sulle
armi di mercenari stranieri? E come avvenne che Garibaldi
conquist quasi tutta la Sicilia con duemila uomini, e si avanz
da Reggio a Napoli con cinquemila? Come poteva ci farsi,
se non per l'avversione universale delle popolazioni delle Due
Sicilie verso il governo del re?
N si pu dire che questa manifestazione della volont po
polare sia stata fatta per capriccio o senza motivo. Quaran
t'anni or sono il popolo napolitano fece regolarmente e mo
deratamente un tentativo per riformare il governo sotto la re
gnante dinastia.
Le potenze d'Europa raccolte a Lubiana decisero, ad ec
cezione dell'Inghilterra, di reprimere quel tentativo colla forza.
Esso venne represso, ed un numeroso esercito straniero di
occupazione fu lasciato nelle Due Sicilie per mantenere l'or
dine sociale.
- -
Nel 1848 il popolo napolitano tent nuovamente di con
seguire la libert sotto la dinastia dei Borboni, ma i migliori
patrioti scontarono con dieci anni di prigionia il loro tentativo
-
di liberare il proprio paese.
Quale meraviglia adunque se nel 1860 i Napolitani spinti
da diffidenza e da rancore abbiano rovesciato i Borboni come
nel 1688 l'Inghilterra aveva rovesciato gli Stuard?
Si dee senza dubbio confessare che il proscioglimento dei
149
vincoli che stringono assieme un sovrano ed i sudditi di lui,
in s stesso una sventura. Le idee di sudditanza diventano
confuse; la successione al trono disputata, i partiti avversi
minacciano la pace della societ, vi sono diritti e pretese op
poste che turbano l'armonia dello Stato. Ma dall'altro canto
deve pure confessarsi che la rivoluzione italiana fu condotta
con moderazione e temperanza singolare. Il rovesciamento dei
poteri esistenti non stato seguito come spesso avviene, da
uno scoppio della vendetta popolare. Le dottrine estreme dei
demagoghi non hanno prevalso. L'opinione pubblica ha fer
mato gli eccessi del pubblico trionfo. Le forme venerate della
monarchia costituzionale vennero associate al nome
di un
principe che rappresenta un'antica e gloriosa dinastia.
Tali essendo le cause della rivoluzione d'Italia, il governo
di S. M. non pu vedere sufficiente ragione per la severa cen
sura con cui l'Austria, la Francia, la Prussia e la Russia
hanno riassunto gli atti del re di Sardegna. Il governo di S.
M. volger con maggiore soddisfazione lo sguardo al grato spet
tacolo di un popolo che sta innalzando l'edificio delle proprie
libert, e che consolida l'opera della propria indipendenza, in
mezzo alle simpatie ed agli augurii dell'Europa.
Sono, ecc.
firmato J. RUSSELL.
Quanto coraggio ispirasse cotesta nota al governo d'Italia
ed agl'Italiani superfluo il dire; non solo l'Inghilterra mo
stravasi cos nostra amica, ma naturalmente vedevasi che la
Francia in quei tempi legata ad essa nella politica dovea presto
o tardi seguirne l'esempio e tornare manifestamente alla pri
mitiva amicizia ed alleanza.
Un' altra nobilissima dimostrazione veniva in quei giorni
stessi dall'Inghilterra all'Italia; era una lettera che il generale
di Glascovia indirizzava al generale Garibaldi.
Il Dittatore delle Due Sicilie aveva una grande predilezione
per la nazione inglese, della quale gli piaceva l'amor di pa
tria, l'educazione alla vera libert, e tutte le liberali istituzioni.
Egli faceva educare in Inghilterra, uno dei suoi figli. Gl'In
glesi avevano per Garibaldi una grande ammirazione, forse
150
quanta ne avevano gl'Italiani. Quando il grande Nizzardo faceva
le campagne di Sicilia e di Napoli molti signori inglesi eran ve
nuti a conoscerlo di presenza, a combattere sotto di lui, e
portavano via un suo fazzoletto, una penna, una cosa, qualun
que che gli appartenesse come una sacra reliquia. Garibaldi
mostravasi sempre verso di loro gentilissimo e grandemente
cortese. Coteste simpatie e l'amicizia che l'Inghilterra aveva
sposata per la causa italiana determinarono questo indirizzo
oltremodo onorevole e a Garibaldi e a tutti gl'Italiani. Appresso
avremo ragione di dimostrare come gli stranieri rispettassero
quest'uomo straordinario pi che non lo rispettasse il governo
italiano. Stranezze non rare nella storia delle nazioni e dei
popoli, e troppo frequenti nella storia dei governi e della
diplomazia. "
Ecco l'indirizzo di cui parola:
Abbiamo l'alto onore e la felicit di rassegnarvi questo
indirizzo e presentarvi le nostre sincere congratulazioni su la
meravigliosa serie dei vostri trionfi inaugurati a Marsala e cul
minanti nella vostra gloriosa ed incruenta occupazione della
citt di Napoli.
La vostra prima brillante e intemerata carriera nell'Ame
rica meridionale, in Roma e nell'Italia settentrionale ci aveva
ispirato i pi profondi sentimenti di fiducia nel vostro puro e
disinteressato patriottismo, nel vostro perfetto genio e nel vostro
cavalleresco valore. Ma la susseguente campagna da voi fatta
in Sicilia ed a Napoli ha vieppi accresciuto la nostra ammi
razione per le vostre virt, e la nostra confidenza nella vostra
abilit. E noi siamo sicuri di esprimere l'opinione del libero
popolo e di questo libero paese, quando affermiamo che nessun
eroe degli antichi tempi, o di moderni abbia sviluppato, tanto
nelle prospere quanto nelle avverse sorti, un tal congiungimento
delle pi alte qualit dell'umana natura, e che la storia non
ricordi un uomo somigliante che al par di voi abbia, coi soli
propri meriti indubitati e riconosciuti, comandato l'entusiastica
e spontanea ammirazione e la stima di ogni amante delle li
bert costituzionali per tutto il mondo civile.
L'Italia degna della vostra cavalleresca crociata. Padrona
un tempo del mondo e centro di civilt, essa cadde della sua
altezza, per secoli di cattivo governo, per crudele dispotismo
151
politico, e per lunghi inganni delle menti, divenne lo sprezzo
delle civilizzate nazioni. La vostra missione, o generale, di
ritornare la vostra classica e amatissima patria, cos benedetta
da Dio, ma cos dispregiata dall'uomo, al suo posto tra le li
bere nazioni, e rialzarla alla sua prisca grandezza. Noi abbiamo
la pi viva fiducia, nel felice risultato di cos grande obbietto,
e se gl' Italiani sono fedeli a loro stessi, ci sar offerto uno
dei pi grandi spettacoli che il mondo abbia mai veduto, il
risorgimento alla vita politica d'una nazione, operato da un
uomo solo.
Mentre il nostro governo saggiamente si astiene dall'in
tervenire nelle presenti complicazioni, nostro il privilegio,
come popolo libero, di offrirvi l'espressione della nostra pi
calda ammirazione e di stringervi la mano assicurandovi della
viva simpatia che sentiamo per la vostra incrollabile determi
nazione di compiere la grande opera per tutta la penisola. E
-
noi abbiamo la pi illimitata fiducia che ci che voi avete fatto
finora con tanti buoni auspicii sar menato a felice compi
mento la merc delle benedizioni della divina provvidenza.
La Gran Brettagna per mala ventura ebbe una parte nel
l'opera d'imporre governamenti stranieri al popolo italiano.
dunque nostro dovere, come nostro desiderio, l'aiutare a can
cellar questa macchia della storia del nostro paese.
E perciocch non possiamo aiutarvi colla nostra presenza
sul campo di azione, abbiam riputato un onore e un privilegio
d'aiutarvi colle nostre contribuzioni, che vi abbiamo di tempo
in tempo inviate. Siffatte sottoscrizioni non sono che una de
bolissima espressione della simpatia che il popolo scozzese ha
per voi personalmente e per la nobile e legittima causa della
libert ed unit d'Italia, di cui voi siete il riconosciuto e de
gno rappresentante; imperciocch nessuna somma di denaro
pu mai adeguatamente esprimere l'universalit e l'intensit di
un tal sentimento.
Facciamo i nostri pi sinceri e caldi voti all'eterno Dio, che
vi ha cos meravigliosamente guidato e protetto tra tante dif
ficult e pericoli, e vi ha condotto di vittoria in vittoria, pe'suoi
Sapientissimi fini; ed il preghiamo che risparmii sempre la
Vostra preziosa vita, talch possiate compiere il grande oggetto
di stabilire un Italia libera e unita; che possiate vedere l'Italia
grande e florida con un popolo felice e buono, e che possiate
a lungo goder quegli onori che avete cos nobilmente acqui
-
152
stati, e che un paese riconoscente sar troppo altero di con
cedervi. Vi assicuriamo da ultimo che nessuno si rallegrer
pi cordialmente e sinceramente della vostra prosperit quanto
i sottoscrittori dei Fondi per Garibaldi, i quali hanno l'onore di
sottoscriversi vostri devotissimi amici.
(Seguono le firme).
CAPIT0L0 IX
Viaggio del re. Battaglia del Macerone
presso Isernia. Il re a Teano. Garibaldi
a Calvi. Movimento delle truppe. In
contro di Garibaldi col re,
Da Grottamare il re era partito in mezzo alle ovazioni del
popolo che lo acclamava sempre coi titoli di re galantuomo e
di liberatore d'Italia. Egli continuava il suo viaggio verso Na
poli; e per singolare combinazione passava per quelle pro
vincie giusto in quei momenti nei quali le popolazioni si pre
paravano a votare l'annessione, dalla quale doveva venir fuori
l'unit italiana. Il giorno 15 a mezzo giorno giungeva a Giu
lianova, dove un popolo entusiasta lo aspettava. Nel maggior
tempio fu data la solenne benedizione, e fu cantata l'orazione
di uso pel nuovo re Vittorio Emanuele II.
Il di 18 alle 5 pomeridane arrivava a Chieti. L'arcivescovo
della diocesi con tutto il clero secolare e regolare lo aspett
in tutta pompa alla porta della cattedrale, ove fu data la be
nedizione. In tutto il viaggio, specialmente da Pescara a Chieti,
le acclamazioni del popolo, che dalle vicine campagne accor
reva al suo passaggio furono grandissime. La citt fu in festa
e con ogni maniera di dimostrazione salut l'arrivo del re.
L'indomani usciva da Chieti, circondato da pochi, fra cui
il ministro Farini ed il generale Fanti, tutti a cavallo. Nessun
seguito, nessuna scorta. Egli era nelle mani del popolo. Prima
i giungere a Teano, un pugno di ufficiali dei cacciatori del
Vesuvio, alla cui testa era il colonnello Teodoro Pateras, cor
reva ad incontrare il corteggio reale. Il re ferm il suo ca
Stor della rivol. Sicil. Vol. II.
20
154
vallo, e sorrise al colonnello che gli rivolse le seguenti parole:
Maest, i cacciatori del Vesuvio son ben fortunati d'essere
i primi dell'armata del sud che hanno l'onore d'inchinarsi
al re d'Italia , ci detto quei garibaldini circondarono il ca
vallo del re, e questi volle loro concedere la grazia di accom
pagnarlo in tal modo per sette miglia fino a Popoli. Il re ri
volse continuamente la parola al colonnello Pateras, al capitano
Raimondi ed al tenente Savoia prendendo informazione di tutto.
Mostr gran premura nell'informarsi della salute del generale
Garibaldi e nel voler conoscere esattamente la lista dei morti
e feriti dei cacciatori del Vesuvio; e quando seppe che l'al
fiere de Angelis moriva nel combattimento del 3 ottobre, re
spingendo i borbonici a Civitella Rosata e lasciando 7 figli
orfani, promise di non dimenticare la sventurata famiglia.
Finalmente il corteggio giunse a Popoli ove non si pu de
scrivere l'entusiasmo con cui una massa straordinaria di po
polo manifestava la sua gioia. Era un delirio, un fremito ge
nerale che scoppiava da quei popoli con tutta l'esaltazione me
ridionale.
Il clero, il municipio, la guardia nazionale numerosissima
furono ad incontrarlo alle porte. Il municipio e varie deputa
zioni gli presentarono i voti di quei paesi di far parte inte
grante del suo regno.
Il d 20 giungeva a Sulmona in sul far della sera; prese al
loggio all'antica abbazia dove ricevette le deputazioni del mu
nicipio e del clero.
Dopo otto ore di marcia perveniva a Castel di Sangro; nei
-
paesi pei quali passava le popolazioni unanimi, guidate dal
clero andavano a votare il plebiscito. Finalmente giungeva ad
Isernia, infelice citt pochi giorni prima devastata dai rea
zionari e dove ferm per pochi giorni il suo quartiere generale.
Prima di procedere avanti ci convien parlare della battaglia
data da Cialdini ai Borbonici sulla cresta del Macerone. Mar
ciava verso Isernia l'avanguardia della 4. divisione, cos com
posta: 2 battaglioni di bersaglieri, 2 reggimenti di cavalleria, ed
una sezione d'artiglieria, il maggior generale Griffini ne aveva
il comando. Un'ora e mezza dietro l'avanguardia marciava la
brigata Regina, alla cui testa stava Cialdini; quindi il resto
della divisione, cio brigata Savona e l'artiglieria col Parco. Al
cune vedette di cavalleria salite alla cima del Macerone, sco
prirono colonne d'armati avanzarsi da Isernia lungo lo stradale:
155
avvertitone il generale Griffini, questi fece marciare avanti i
due battaglioni bersaglieri; ma prima che essi arrivassero sulla
vetta, tutte le circostanti alture si trovavano gi coperte di
soldati borbonici, i quali distesi in circolo da cacciatori, im
pedivano il passo ai nostri, nel mentre una colonna nemica
marciando dietro un rialzo, tentava girare la nostra sinistra.
Si scambiarono sulle prime alcune fucilate, le quali sentite da
Cialdini, questi ordin tosto alla brigata Regina di forzare la
marcia; intanto il cannone tuonava d'ambo le parti, mentre il
nemico continuava ad ingrossarsi sulla sinistra e riusciva ad
occupare un'altura di fianco ai nostri. Arrivava la brigata Re
gina; Cialdini manda il primo battaglione a sinistra, ed un altro
fa girare a destra onde prender di fianco i nemici. Alla testa
del 1. battaglione marcia il tenente colonnello Piola, capo di
Stato maggiore del 4. corpo d'armata, il quale incoraggia i
soldati guidati dal maggiore Parocchia; s'incomincia un attacco
alla baionetta; i nostri soldati corrono gridando viva il re d'I
talia; arrivati a quindici passi dai nemici, costoro non hanno
il coraggio di attenderli, e gi per le roccie si danno a pre
cipitosa fuga. I bersaglieri si gettan gi al passo di corsa per
le colline e ricacciano i nemici al basso, il grosso della loro co
lonna scappa verso Isernia, Cialdini manda allora Griffini alla
testa del 1. squadrone dei lancieri di Novara onde pigliarli
nella ritirata, e con ordine di marciare fin dove trovassero i
cannoni nemici. I nostri lancieri corsero gi a gran trotto per
quelle rapide discese, e finalmente arrivati sul piano della strada,
si mettono alla carica ed entrano risolutamente in mezzo alla
colonna nemica, la quale si apre, si getta a destra e a sinistra,
gi pei fossati, dietro alle siepi perdendo perfino le armi. Il
generale Griffini, innanzi a tutti e seguito solo dai suoi aiutanti
di campo e da quattro lancieri, continua a galopnare fino al
centro, ove trova il generale nemico che si d
In
"
tanto un sergente borbonico tira un'archibugiata contro il Grif
fini, ma lo sbaglia. Griffini si volta con pacatezza e dice ad un
lanciere, segnando col dito il sargente nascosto dietro la siepe
infilzami quello l . Il lanciere risponde s signore .
mette la lancia in resta, salta la siepe e passa da parte a parte
il sergente. Tutti i nemici depongono in fretta le armi e si
danno prigionieri; intanto i bersaglieri arrivati dalle colline,
si gettano nelle campagne e pigliano tutti i fuggiaschi.
Poche furono le nostre perdite, un morto e sette feriti. Dei
156
borbonici 15 morti ed una trentina di feriti che si poterono
raccogliere; ma molti altri furono portati via da un battaglione
fuggito sulle montagne. Pi di 700 furono i prigionieri, fra
questi il generale Scotti, un colonnello e molti altri ufficiali;
fu presa ancora una bandiera e due obici; il resto della co
lonna che ammontava a quattromila circa con 800 villani rea
zionarii, si sbandava per le campagne.
Dicesi che il generale Scotti, piacentino, arrivato in faccia
a Cialdini dicesse io sono prigioniero; ma ritengo che i miei
soldati si sono battuti bene; a cui Cialdini ridendo rispose
sar, ma sono scappati anche bene .
Il generale Scotti con quella truppa borbonica e con quelle
squadre di contadini, trovavasi alla testa della reazione; uomo
feroce e barbaro non aveva che il coraggio di attaccare il
fuoco ai villaggi e di far trucidare inermi famiglie. L'avvici
narsi dell'esercito sardo scomponeva tutti i disegni della Corte
di Gaeta, e costringeva l'esercito borbonico e i reazionarii a
ritirarsi precipitosamente dentro alle mura della fortezza. Il ge
nerale Scotti volle dare prova del suo coraggio ; approfittando
delle vantaggiose posizioni del Macerone pens incontrar quivi
il nemico. Ma lo slancio dei nostri bersaglieri gli cacci ad- .
dosso tanta paura che dopo poche fucilate ordin la riti
rata, anzi la fuga. L'esercito borbonico aveva gi perduta la
fiducia di s stesso; ed il nemico fosse Garibaldi o Cialdini
si presentava alla sua fantasia come invincibile. In pochi mesi
contavano gi molte disfatte; a Calatafimi, a Palermo, a Milazzo,
a Reggio, al Volturno, ovunque non avevano toccato che gravi
perdite. Pareva un esercito fulminato da una potenza soprana
turale, e condannato a perder sempre anco in faccia al nemico,
piccolo di numero e sfornito di armi. Coteste sventure subite
l'una dopo l'altra, lo avevano scoraggiato per modo che disa
nimato e senza fede non sapeva pi battersi e fuggiva vil
Inente.
Al Macerone non poteva vincere, ma pure il luogo lo favo
riva a potere resistere e a dar prove di fortezza prima di de
porre le armi; forse anco avrebbe potuto far patti alla resa e
cadere con gli onori militari; nulla di tutto questo: come un
pugno di paglia che il vento sfascia e disperde, cos quattromila
uomini sgominati cadono prigionieri e si disperdono pei monti
e pei boschi in un momento.
N sar superfluo riflettere ancora una volta come al soldato
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& 0, biju
00\u00. Jog iu p |
157
privo di fede politica manchi lo spirito di morire per una causa
giusta. Il soldato del Borbone, ignorante fino alla compassione
non poteva conoscere la giustizia della questione che allor si
agitava. Egli combatteva perch era pagato; amore pel suo re
non aveva, perch non ne avea per la patria; la propria vita
gli era cara come a qualsiasi altro cittadino, insomma egli non
era soldato. La stessa ferocia del selvaggio gli serviva nelle
opere inique di reazione, non sui campi della gloria; e quanto
baldanzoso e crudele era nel saccheggiare villaggi , altret
tanto era stupido e vile in faccia ad un nemico che si batteva
sui campi.
Ci duole far queste riflessioni sopra uomini nati in Italia e
appartenenti a quella stessa nazione a cui appartenevano i
volontarii di Garibaldi e i bersaglieri di Cialdini; ma l'im
parzialit della storia esige anco questo e concluderemo col
dire: che non v'ha carattere nazionale il quale possa conser
varsi sotto l'influenza di un governo dispotico; tutto sotto a
quei governi si guasta e si corrompe e l'uomo nato alla ge
nerosit e all'eroismo diviene ladro, vile, assassino.
A determinare meglio il carattere di questo scontro sulla
vetta del Macerone, registriamo il breve rapporto fattone dallo
stesso generale Cialdini; non una relazione di battaglia, ma
la semplice notizia di uno scontro, che per altro fu pei Bor
bonici una gravissima perdita pei molti prigionieri e pei mol
tissimi sbandati.
Rapporto del general comandante del 4 corpo d'armata.
Questa mattina fra le 7 e le 8 la mia pi avanzata avan
guardia fu attaccata sull'alto del Macerone da tre colonne ne
miche, sommanti fra tutte da cinque a seimila uomini circa, cio
tremila gendarmi di fanteria, mille e cinquecento uomini del 1.
di linea, mille e duecento o millecinquecento urbani, due pezzi
d'artiglieria. Il generale Griffini trovossi per un'ora e mezza
solo con due battaglioni bersaglieri ed una sezione d'arti
glieria sull'alto del Macerone, l dove scavalcato dalla strada
postale, osservando i movimenti delle tre colonne nemiche,
una delle quali saliva direttamente per la strada onde attac
care il centro; le altre due, pei due contrafforti laterali, tende
vano a girare la posizione.
158 ,
Arrivai il pi celeremente che si poteva per la lunghissima
salita colla brigata Regina, e spingendo subito qualche battaglione
a destra e a sinistra, ed avanzando contemporaneamente al
centro, in poco pi di mezz'ora, sbaragliammo completamente
il nemico, troppo al disotto del vigore de nostri soldati.
Uno squadrone di lancieri Novara (capitano Montiglio)
condotto dallo stesso generale Griffini e seguito alla corsa
dal 7. bersaglieri, si rovesciarono sui fuggiaschi ed arrivarono
ad Isernia prima di loro.
Non posso indicare ancora il numero dei prigionieri che
abbiamo fatti e stiamo facendo. Dir soltanto che il generale
Douglas-Scotti, comandante di tutte queste truppe, alcuni uf
ficiali superiori, altri inferiori, e molte centinaia di soldati sono
a quest'ora in nostro potere.
Il generale Griffini, e quindi lo squadrone Montiglio, il 6.
ed il 7. bersaglieri ed il 1. battaglione del 9. fanteria si
sono molto distinti: essi fecero tutto.
Accompagnato dal mio aiutante di campo conte Borromeo,
mando a Sulmona il generale Scotti, che piacentino. Questa
singolare giornata diede risultati non pochi; noi non abbiamo
avuto che un morto ed un numero insignificante di feriti.
Il generale comandante il 4. corpo
CIALDINI.
Il d 16 il re giungeva a Teano. Qual fosse la situazione in
quei giorni tanto dell'esercito regolare che dei garibaldini, lo
descriveremo colle parole stesse di persona che trovavasi sul
luogo, testimone di curiosi episodii.
Teano, 27 ottobre.
Vi scrivo da Teano, citt vescovile, antichissima, citt
greca e posta su una collina che scorre intorno con valli ric
che di ulivi, di olmi, di viti. Il re nostro Vittorio Emanuele
dorme a poca distanza dal luogo ove io scrivo; in un palazzo
che da un lato prospetta sulla cattedrale e dall'altro sulla rampa
che dalla porta della citt scende a varie svolte e si congiunge
alla grande strada consolare sulla pianura. Sono le dieci della
Sera; tutte le case sono occupate dagli ufficiali venuti col re.
Jeri l'altro sul tardi, con un battello a vapore, spedito
159
appositamente giunta in Napoli una deputazione mandata
dal comune di Palermo per invitare il re a visitare al pi
presto la capitale dell'isola. Insieme sono giunte varie altre
deputazioni da parte del clero, da parte della guardia ditta
toriale e della guardia nazionale e di vari altri comuni. Se ne
aspettano altre di altri corpi morali della Sicilia. Sar un bel
giorno quello in cui il re V. E. le ricever solennemente
in Napoli. Alla testa della deputazione della citt di Palermo
il pretore o presidente del Municipio, il duca della Verdura,
il principe di Resuttana, il patriarca per anzianit, dopo Rug
gero Settimo, dei liberali dell'aristocrazia siciliana, e final
mente il dottor Gaetano la Loggia, il quale si presenta anco
come capo della guardia dittatoriale. Questa guardia si com
pone di tutti coloro che stettero intorno a Garibaldi nei giorni
che egli entr in Palermo e che poi si batt sulle barricate.
La Loggia recava anco dispacci del prodittatore Mordini per
Garibaldi; pens dunque egli stamane di partire per trovare
Garibaldi, e trovare il re nostro, trovarli dovunque fossero,
presentarsi loro a nome della citt di Palermo. Fecero lo
stesso pensiero con lui altri di altre deputazioni; non avendo
il foro e la magistratura mandato ancora nessuna deputazione,
pensai di presentarmi io, se non a nome della magistratura
e del foro, non avendo io questo mandato, ma come uno ap
partenente a queste due classi, e insieme per conto mio pro
prio. Si parti da Napoli con un treno straordinario, diretto
per Santa Maria, ove trovammo Milbitz, comandante generale
della stessa piazza. Egli ci ha fornito di vetture per la nostra
peregrinazione e cos ci siamo avviati.
Appena usciti da questa citt, vediamo un accorrere di
gente e alcuni ufficiali garibaldini tutti in grande eccitamento
gridare: il re qui; il resta per arrivare; il re viene. Noi fum
mo lieti di poterlo veder subito, ma camminammo per gran
tratto, e non vedendolo comparire non sapevamo che pensare.
Intanto incontriamo Assanti, ora generale di divisione; il suo
corpo composto di pi battaglioni, la pi parte siciliani, marcia
a poca distanza di lui; sfilando innanzi a questa truppa esul
tante di riconoscerci e di salutarci, andiamo ancora innanzi,
e dopo un duecento passi, incontriamo una lunga tratta di pri
gionieri condotti e guardati da pochi dei nostri. Sono prigio
nieri fatti dal re il giorno innanzi. I pi di essi sono austriaci
qui battezzati di Bavari; hanno barbe bionde ; sono luridi e
a
150
sporchi, e vestiti con cappotti grigi; marciano scompigliata
mente con volti dimessi, alzando verso di noi di traverso gli
occhi, e non osando guardarci a fronte alta. Di protervi, di
insolenti e con guardature rabbiose, non vediamo che pochi
Napolitani che ci vien detto essere ussari borbonici. Proce
diamo ancora innanzi, accanto alla strada; questa strada co
steggiando la pianura su cui giace Capua arriva sino al monte
che ha a levante sant'Angelo, e a ponente il Volturno. Ve
diamo un ridotto guernito di artiglierie, opera fatta dai Sici
liani, e fatta, come lo potrebbero, antichi soldati del genio.
Pi innanzi, a destra della via, vediamo uno dopo l'altro i corpi
dei garibaldini, siciliani, lombardi, di tutte parti d'Italia; le
loro armi son messe in fascio, ed essi stanno tutti l intorno,
senza quasi nemmeno capanne, indizio che essi l han biva
cato all'aria aperta. Infine, sotto il monte detto poc'anzi, dal
lato che tocca al fiume, su una piccola pianura con varii cam
noni, e muli, e cassoni di munizion vediamo gli artiglieri pie
montesi. Arriviamo inalmente alla scafa della Formicola, ponti
a battelli sul Volturno. La scafa si rotta in un punto; si
dovuto la mattina stessa accomodare alla meglio. Ivi, da un
ufficiale piemontese ci detto difatto come era ito l'affare del
re, che quei garibaldini avevano gridato essere per giungere
a Santa Maria. Il re solo con un ufficiale era giunto sino al
ponte; lo aveva passato; ivi si era incontrato con Medici e
con altri generali di Garibaldi, e si era intrattenuto lunga
mente con loro. Poco dopo aveva ripassato il ponte, racco
mandando al maggiore piemontese che presiedeva alla scafa
di far passare al pi presto i carretti dei viveri destinati alla
sua truppa. Il re dal ponte era partito quasi solo, con l'unico
ufficiale con cui si trovava.
Avendo noi passato il ponte, tutti ci dicevano di avere
incontrato il re, e che egli doveva essere andato a Bellona o
a Calvi, paesi che stanno sulla via per Teano. Intanto le no
stre carrozze procedevano al di l del ponte, su una pianura;
a poca distanza si vedono ancora le capanne di sarmenti e di
rami coperti di paglia che si formarono per alloggiare ivi le
truppe borboniche. Da Capua a Teano, a Calvi, e ad altri
paesi posti sulla destra del Volturno vi ha una strada magni
ica; a noi tocc per dover percorrere le strade vecchie;
queste sono chiamate cupe; sono come corsi profondi di
torrenti che tagliano i campi. Ma si era detto che il re era
l61
a Bellona, Garibaldi a Calvi; procedevamo dunque allegra
mente. Si arriva a Bellona; la strada ingombra di carri e
di viveri. A Bellona tutta la popolazione festante. Essa ci
dice di avere visto il re, ma il re non era tornato da quel lato.
Difatto egli era disceso verso Capua, quasi solo si era avan
zato agli avamposti, e sotto il tiro del cannone di quella mal
augurata piazza. Andiamo innanzi a Pignataro; li, il figlio di
Garibaldi, Menotti, con un battaglione di Lombardi, ci dice che
suo padre a Calvi, che il re era passato di l il mattino,
ma al ritorno non si era pi riveduto. Andiamo dunque in
nanzi per vedere l'eroe di Varese, il redentore dei popoli,
In un'altra citt intermedia troviamo, gi essendo buio, un
battaglione di Calabresi: son vestiti di tuniche rosse; hanno
cappelli calabresi larghi e ricurvi di falde, e che sulla testa si
ristringono e si alzano in cono lungo e arrotondato. Dalla punta
di tali cappelli pende e si stende quasi sulle spalle un fiocco
di pi striscie di feltro nero riunite. Con questi abiti e con
tali cappelli, stanno sulla piazza con paglia per letti; e intanto
non essendo ancora il momento di dormire, schiamazzand con
certe voci nasali e strillano inni nazionali a loro modo. Dagli
uffiziali superiori ci viene confermato che Garibaldi a Calvi
e il re a Teano. Proseguiamo dunque imperterriti in mezzo
alle scolte che ad ogni pi sospinto ci fermano e ci doman
dano la parola d'ordine e che cosa andiamo a fare.
Finalmente giungiamo a Calvi. Erano le otto della sera.
Garibaldi era l. Calvi appena un villaggio. Le poche case
decenti, durante le oscene immanit dei soldati borbonici che
sino a ieri l'altro scorrazzavano su queste terre, sono state
abbandonate dai padroni, che tutti per isgomento se ne sone
fuggiti. Le case loro sono tutte chiuse; Garibaldi non ha vo
luto che si sforzassero e si aprissero in assenza dei proprie
tarii. Dato ci, gli toccato di alloggiare nell'antico corpo di
guardia dei carabinieri. Noi lo trovammo due ore fa in questo.
Figuratevi una sola stanza quadra, con un tetto a cupola bassa.
Le pareti nere dal fumo; non pavimento, ma nuda terra sotto
i piedi; non sedie, non letti, nemmeno quel che gi vi doveva
essere, tavolati per istendervisi su e dormire. Garibaldi ci ha
ricevuti in questa sua dimora di quella notte. Sedeva su una
scranna di corda, posando le braccia su un tavolo di legno
fracido, con un lume di rame che mandava per cattivo olio
una luce affumicata. Quando noi giungemmo, per rischiarare
Storia della rivol. Sicil. Vol. Il.
21
I02
alquanto pi, uno de' suoi vi aggiunse una stearica ficcata e
tenuta alta sul collo di una bottiglia. Garibaldi ci accolse con
quell'affetto che proprio di lui. Aveva il suo solito cappello
in testa. Dalle braccia gli traspariva il suo solito pled scozzese,
e dalle spalle e dal collo ove era appuntato, gli scendeva sul
largo petto e gi innanzi fin presso ai ginocchi uno sciallo
di lana grigio. Disse aver caro che questa deputazione che
viene per re Vittorio Emanuele, si fosse ricordata di lui. Egli
ricordar sempre i Siciliani che lo hanno con tanto entusiasmo
secondato in quei primi momenti da cui dipendeva la libert
di tutta l'Italia meridionale. Non aveva che offrirci ; se voles
simo zigari, egli non avevane che uno ; ma date qua, disse
a suoi compagni che erano l, e subito questi portarono sul
tavolo una decina di zigari che egli gentilmente ci offriva. Disse
poi della necessit della concordia; che l'Italia ha verso la
Venezia un debito di fratellanza e un debito di onore che l'I
talia tutta deve pagare; che per la primavera l'Italia dovrebbe
aver pronti almeno quattrocentomila soldati, e che ei si pro
metteva che i Siciliani volessero in tal senso pagare degna
mente e come avevano fatto fin allora il debito loro. Noi tutti
gli dicevamo che egli dovesse venire in Palermo, che dovesse
cangiare in Palermo la sua Caprera, che la deputazione aveva
portato seco le medaglie che il Municipio di Palermo aveva
fatto coniare pei mille sbarcati con lui in Marsala. Ci ringrazi
e ci commise di ringraziare i Palermitani, popolo pieno, disse,
di entusiasmo e di fermezza, e di cui egli stimavasi concittadino.
Vedrete, aggiunse, il re Vittorio; vedrete un vero galantuomo;
io lo amo come un fratello; sarete certo contenti. Ecco poi
una sua lettera. La aperse; era un foglio tutto scritto di mano
del re. Gli diceva averlo cercato tutta la giornata, ed essere
dolente di non averlo potuto vedere; che domani egli avrebbe
attaccati i Borbonici sul Garigliano e sperava ricacciarli e pas
sare il fiume; che avrebbe attaccato Capua, e che egli perci
co suoi si calasse verso quella piazza. Il re dava, nella lettera,
del Lei a Garibaldi. Garibaldi la leggeva commosso.
Il medesimo testimonio oculare di quanto andiamo narrando,
il giorno 28 ottobre da Napoli scriveva quanto appresso:
Ripiglio qui in Napoli la mia narrazione, cominciata ieri
in Teano. Garibaldi, mentre noi parlavamo, stava sempre in
165
piedi. Gli demmo notizia del plebiscito di Sicilia, ed ei mostr
esultarne; quelli che erano della deputazione di Palermo, gli
parlarono della unanimit e della tranquillit che Mordini pro
dittatore era riuscito ad ottenere in Sicilia. Egli disse che
aveva riconosciuto sempre in Mordini un uomo di anima tem
perata, di buoni sentimenti, e di devozione intiera verso lui.
Ho detto, soggiunse, ieri al re, che gli uomini i quali mi
sono stati attorno, hanno accettato il mio programma con tutta
coscienza e lealt ; che si ha torto a voler ravvisare ancora
in loro dei repubblicani. Costoro, ho detto, seguiva a raccon
tare Garibaldi, sono repubblicani come sono repubblicano io;
siam gente, cio, che vogliamo il bene ad ogni costo e non
per secondi fini, e che purch il bene ci sia, ci contentiamo
di non far questioni di forme, n delle nostre opinioni parti
colari. il discorso and in lungo; il volto di Garibaldi era
sempre pieno di una passione tranquilla, dolce, affezionata
come le sue parole. In quell'abbigliamento, con quello sciallo
grigio, che gli scendeva sulla persona come una larga stola,
pi di uno, anzi tutti noi ravvisavamo in lui pi che un guer
riero, un profeta e qualche cosa che richiamava la mente al
contegno del Cristo. E se Cristo redense in un senso i popoli,
Garibaldi viene a redimere le nazioni in un altro senso. Per
l'uno l'idea di redenzione delle masse comincia, per l'altro
sorge rapida verso il compimento. Era tardi, e volendo arri
vare a tempo per vedere il re la stessa sera, se fosse possi
bile, bisognava dividerci. Tutti vollero stringergli la mano, io
con la confidenza di un amico lo abbracciai e lo baciai.
Ripigliammo la via con le nostre vetture; passiamo gi
tra scolte piemontesi, segno che ci avvicinavamo l dove erano
intorno non pi i soldati di Garibaldi, ma truppe regolari;
sapemmo che il re era a Teano; cosa bizzarra, ci avvicinammo
al palazzo dove era alloggiato il re; il portone di strada era
chiuso, ma non una sentinella, non un corpo o picchetto di
guardia li innanzi. Il re era li, ma dormiva senza custodia
come un semplice privato. Le finestre erano tutte chiuse; non
un lume traspariva; nella casa ed intorno regnava un silenzio
profondo. Andammo dal sindaco; mentre eravamo da lui nel
piccolo pianterreno, in cui stava col suo segretario, giunge
vano i numerosi prigionieri fatti il di innanzi dal re stesso
vicino a Sessa. Il sindaco ci narrava che tredici battaglioni di
bersaglieri borbonici erano stati contra il re, che da sua parte
1 64
non ne aveva che due soltanto, e che pur cos il re gli aveva
sbaragliati, e ne aveva fatti prigionieri una parte. Ci narrava
poi le immanit che i Borbonici avevano commessi su di loro;
ci diceva che il generale Scotti, quello preso giorni fa pri
gioniero da Cialdini, a lui sindaco rimostrante della povert
del paese e della impossibilit di sopperire alla richiesta sua
di foraggi, viveri e danaro, avevagli in quel suo gergo risposto
che la guerra da loro si faceva con due cose, distruzione e
requisizione, e che questo era il loro motto d'ordine. Sog
giungeva che Francesco II aveva con la sbirraglia di Sicilia
e di Napoli organizzato due reggimenti, a cui aveva dato nome
di saccheggiatori e che tristo il paese, le case, le famiglie, ove
questi fossero capitati. Saria lungo raccontare le infamie che
il sindaco ed il suo segretario ci narravano sopra ci. La di
struzione e la requisizione sono state dai Borbonici effettuate
in questi dintorni in enormit inimmaginabile. Lasciammo il
sindaco, dopo che i suoi sforzi per darci un giacilio od al
meno un tetto riuscirono vani, e riparammo entro un caff
che si era fatto aprire appositamente. Ivi, dopo preso un caff,
scrissi il mio precedente rapporto. Quando fummo stanchi
non potemmo che adagiarci nelle nostre vetture; non tutti ci
entrammo, ma solamente in due, e dovemmo stare all'aria
aperta, al freddo della notte. Avevamo dirimpetto il palazzo,
che per quella notte era la regia di Vittorio Emanuele; da
tutti i lati forgoni e diligenze, e vetture appartenenti al seguito
del re, e dietro a noi la cattedrale. Verso le tre e mezzo
cominciarono a sopravvenire cavalli e ad andar via forgoni, e
pi tardi alcune delle vetture sparse d'intorno. Questo mo
vimento dur fino alle sei, era un gridare, uno scrosciare
dei sonagli dei cavalli, uno strepito di carri che partivano; e
intanto il re dormiva ancora. Ma verso le cinque si era aperto
il portone, e di l, al lume di due fievoli lucerne, che rischia
ravano l'atrio della scala andava e veniva gente. Alle sei la
chiesa si apriva ; i preti avevano, in mezzo alla grande cap
pella, preparato pel re un faldistorio, come se si trattasse di
un prelato, di un arcivescovo. Il cappellano del re sopravve
nendo disse che non era il caso, trattandosi del re, difaldisto
rio, ma di un genuflessoio semplice. Verso le sei e mezzo, gi
l'altare era illuminato come a festa. Montati al palazzo ove
era il re, dicemmo del perch eravamo venuti. Ci fu detto
attendessimo che il re ci avrebbe visto con gran piacere. Nella
165
sala che precedeva altri due salotti, ove poi vedemmo il re,
c'incontrammo col signor Lauria e Gian Andrea Romeo che
era li con suo figlio Pietro. Questi, come deputati di Reggio,
Lauria e Gian Andrea come deputati del consiglio di Stato di
Napoli, erano in abito nero e in guanti gialli. La nostra toe
lette era semplicemente da viandanti. Essi furono ricevuti i
primi, e stettero col re gran pezzo; mentre veniva la volta
nostra il medico Tomasi, professore a Pavia, e l'ingegnere
De Vincenti ci vennero a salutare. Essi hanno seguito il re
da Ancona fin qui, e lo seguiranno fino a Napoli. Vedemmo
in quella grande sala, dietro a paramenti, tavolini, che ave
vano dovuto servire a segretari per scrivere dispacci, vedemmo
la padrona della casa, una bella e giovane signora, a braccio
ora di un generale, ora dell'altro, e infine il marito di lei, un
vecchio con la croce dei santi Maurizio e Lazzaro attaccata al
petto; egli girava intorno per rimettere diligentemente in as
setto tutto. Dovemmo comprendere che il re per gratitudine
del buono alloggio datogli, lo avea poc'anzi decorato, e che
la signora si accaparrava gi la benignit dei generali. Piace
tanto l'avere amici potenti. Finalmente venne per noi il mo
mento solenne. Il generale Salaroli c'invit ad entrare. In
fondo a due stanze che traversammo, ci si scopr ritto, con
piglio ilare, il re. Noi dicemmo che appartenendo a deputa
zione di Sicilia, che avrebbe avuto la bont di ricevere pi
tardi officialmente, avevamo voluto correre a lui per potere
tra primi salutarlo personalmente re d'Italia. Il re parl molto,
parl bene, con una fluidit guerresca, ma prontissima. Io ne
compendio il discorso alla meglio. Disse che ciascun uomo ha
una ragione di dovere verso la patria, che egli aveva da parte
sua sentito questo dovere. Io aveva dei mezzi, egli disse, e
me ne sono valso per giovare alla patria comune. In me quello
stato il pensiero di tutta la mia vita. Io gli rammentai che
dieci anni fa, egli mi aveva detto francamente di queste sue
intenzioni per l'Italia; il re con bel piglio volgendosi a me
soggiunse: e vedete che non ho cangiato. A questa parola che
mi commosse profondamente gli presentai la mia mano, il re
me la strinse con viva commozione. La cosa, ei continuava a
dire, andata felicemente; ora siamo al compimento. Avrei
voluto risparmiare il sangue dei soldati borbonici, perch
ben sangue italiano, e ne ho tentato tutti i mezzi (alludeva
con ci alle proposte fatte ai soldati di Capua per arrendersi)
166
domani li attaccher sul Garigliano. Vi saranno delle morti, il
che mi dispiace profondamente, ma bisogna si faccia finita, e
Capua e Gaeta siano presto prese. Il governo che hanno sof
ferto i popoli dell'Italia meridionale stato orribile. Tutte le
popolazioni intorno sono sgomentate, inorridite delle immanit
borboniche; io ne ho raccolto i documenti e li presenter al
l'Europa. Cose veramente inimmaginabili; ho trovato in un
luogo confitto a dieci pali dieci teste; ho trovato tra le altre
carte l'ufficio di un capitano che domanda sessanta ducati per
tre teste che ha tagliato di tre galantuomini, e disse altro che
non ricordo, ma con una sincerit maschia tale che si sentiva
e si vedeva in lui il re galantuomo, il re che fu perch il suo
cuore lo spinge, e perch in lui il cuore, la parola, la mano
sono in un accordo perfettissimo. Gli demmo notizia del ple
biscito, quasi unanime di Sicilia; ed egli: ne ringrazio i Sici
liani, questo popolo generoso che ha cominciato la redenzione
dell'Italia meridionale; mi sar caro di visitare l'isola, di ve
dere un popolo che tanto ha fatto per la comune libert, ma
qui pel momento ho da fare; a suo tempo bisogner pure ri
storare quel povero paese dei lunghi danni sofferti, e pensare
a promuovere nel suo suolo cos ferace l'agiatezza e la pro
sperit. Il re ci aveva trattenuti al di l di venti minuti. Parve
a noi di accommiatarci; egli ci salut tre volte; ci segu fino
alla portiera della stanza in cui egli era, e non si ritir che
quando noi eravamo per uscire. Scendemmo; era l'ora che
egli doveva andare in chiesa; l'organo suonava; dalla gran
porta tutta schiusa vedevamo illuminato a festa il grande al
tare; la popolazione era affollata sulla via, per la quale doveva
passare il re; di un tratto echeggiano da tutti i lati gridi di
evviva Vittorio Emanuele, evviva il re d'Italia; ed il re d'Italia
a gran passi scuotendo il suo berretto in atto di saluti repli
cati al popolo plaudente e con occhi esultanti, con viso da
leone, passa, entra in chiesa, poco dopo esce, e acclamazioni
nuove seguono. Quando fuori della porta della citt, gli
menato innanzi il cavallo; egli monta; le grida raddoppiano,
cos parte, discende la rampa che va gi alla pianura, seguito
dai generali, dallo stato maggiore, di una compagnia di ussari,
e da altra di gendarmeria a cavallo. Cos prende la via di
Sessa. Noi torniamo indietro per la medesima via. Giunti al
di l di Bellona sentiamo tuonare frequente il cannone verso
Capua. Alla Scafa della Formicola, il ponte stato rimesso
i 07
dai marinai della flotta italiana. Intanto di frequente le trombe
danno segni probabilmente di appressarsi. Sul ponte passa
una compagnia di ussari ungheresi, salmerie, cannoni, carri di
viveri. Passato il ponte dopo l'aspettare di quasi tre ore, vi
percorriamo la strada verso Santa Maria. Tutti i battaglioni
di garibaldini che il giorno innanzi avevamo visti al di l del
Volturno, oggi li incontriamo al di qua, e la pi parte schie
rati e in atto di partenza. Sulla cima di Sant'Angelo si vedono
camicie rosse; il cannone dal lato di Capua continua a an
dare; questo il modo con cui i garibaldini dicono che il
cannone tuona. Sotto gli alberi dal lato di Capua vediamo
lampeggiare armi e replicati spari di fucileria.
Abbiamo voluto riportare questi episodii perch ai nostri let
tori torni facile formarsi un'idea dello stato fisico e morale
degli uomini in quei giorni e luoghi di azione, in cui si deci
devano le sorti del nostro paese,
Intanto dacch l'esercito del re aveva messo piede sul ter
ritorio napoletano; dacch aveva incontrati i mercenari del
Borbone; non ebbe a riportare che facili vittorie. Battuti a san
Giuliano, i regii comandati da Salzano si erano ripiegati prima
su Teano, poi sopra Sessa. E Sessa una piccola citt fabbri
cata a cavaliere d'un'eminenza che domina la vasta pianura
del Garigliano e che unita alla grande catena degli Abruzzi
dalle eminenze della Serra e della Cortinella. Era facile il di
fenderne il passo, ma sebbene il generale Salzano vi avesse
concentrati dodici battaglioni di cacciatori ed otto batterie di
campagna, non pot resistere all'assalto dei nostri e dopo un
ora di combattimento pens bene ritirarsi al di l del Gari
gliano. Questa inaspettata ritirata del nemico consigli il re ad
inviare le due divisioni che Garibaldi aveva condotte a Calvi,
alle loro antiche posizioni di S. Angelo.
La divisione de Sonnaz che gi aveva occupato Cajazzo era
gi ritornata, ed era stata messa a disposizione del generale
della Rocca.
Due giorni prima il re aveva passato in rivista le divisioni
dell'esercito meridionale a Monte Croce, donde erasi portato
al ponte di S. Angelo per visitare quelle posizioni. Cavalc
poscia verso Capua e di l si rec a Cajazzo. I soldati gari
baldini accolsero il re con continui evviva; egli cavalcava a
168
fianco di Garibaldi. Diremo ora sull'incontro tra Garibaldi e
il re. Quando Vittorio Emanuele giunse a Teano, il milanese
Carlo Missori fu l'ufficiale incaricato da Garibaldi per recargli
i suoi omaggi. Missori fu accolto con distinzione, ed il re gli
porse la mano dicendogli: colonnello, provo grandissimo
piacere nel conoscervi personalmente . Nel mattino del 26,
nelle vicinanze di Teano Garibaldi incontr Vittorio Emanuele;
il Dittatore era accompagnato da Sirtori e da altri ufficiali.
Il re veduta a qualche distanza la schiera dei cavalieri, le mosse
incontro con aria ilare. Garibaldi scopertosi il capo e alzando
vigorosamente il braccio destro esclam: Salute a voi, re d'I
talia! Al che sua maest rispose: Salute a voi, mio migliore
amico / Indi successe uno scambio di cortesie tra il re e Ga
ribaldi che venne festeggiato con vera espansione da tutto il
seguito di Vittorio Emanuele. Il re parl con la sua abituale
franchezza; disse tra le altre cose, che finalmente si trovava
nel suo naturale elemento, giacch non sapeva fare altro me
stiere che quello del soldato; annoiarlo la diplomazia e le
sofisticherie degli avvocati; preferire i cannoni ai protocolli,
persuaso che il cannone e non le note avrebbero sciolta la qui
stione italiana. Mostr inoltre grande dispiacere che fossesi la
sciato disciogliere l'esercito napoletano, osservando che se ne
avrebbe potuto cavare un gran partito per le possibili even
tualit della prossima primavera, ma sperare che in tre o quattro
mesi sarebbesi riuscito a ricostituirlo, e mettere cos in piedi
un esercito di 350 mila uomini, il quale farebbe, occorrendo,
rispettare i diritti della nazione. Poi chiese a Garibaldi: eb
bene, generale, come vanno le vostre truppe? e Garibaldi
rispose: sire, assai stanche: sono cinque mesi che si bat
tono senza interruzione . E il re soggiunse: Ben lo credo,
che saranno stanche. Sono giovani ammirabili, si sono battuti
da eroi .
Poco dopo il re passava a rassegna le truppe dell'esercito
settentrionale, ed i corpi di Garibaldi che trovavansi in linea
con le medesime. Il giorno dopo comparve improvvisamente
in mezzo all'accampamento dei garibaldini a S. Angelo, ove
venne accolto in mezzo alle fragorose acclamazioni di viva il re
d'Italia.
Erano intanto a S. Maria verso Capua circa 35 mila uomini
che disponevansi a battere la fortezza. Garibaldi era partito
160
per Caserta col generale Eber; Medici era rimasto a S. An
gelo; Milbitz era a S. Maria col generale della Rocca. Non
mancava che il generale Bixio che pochi giorni prima caduto
col suo cavallo in un fosso avevasi fratturata una gamba.
.
Il giorno 27 e 28 i Borbonici avean fatte delle sortite da
Capua ma erano stati vigorosamente respinti. Tutto accennava
al prossimo attacco dei nostri contro le fortificazioni di Capua.
Steria della rivol. Sicil. Vol. II.
C A PIT 0 L 0 X
Resa di Capua. Cialdini passa il Volturno,
La flotta fulmina i fuggitivi. Proclami
del ministro Ulloas Proclama
di
Fran
cesco M. Lettere di Garibaldi ai prodit
tatori. Programma del sindaco di Napoli
per le feste del nuovo re.
Una delle prime operazioni militari che era necessario com
piere per francare il regno dalla presenza dei Borbonici era
la presa di Capua. In questo modo il nemico sarebbe stato co
stretto a chiudersi dentro le mura di Gaeta donde era facile
lo snidarlo o assediando la fortezza, o battendola coi cannoni.
Dopo la famosa giornata del 1. ottobre, Garibaldi aveva rivolto
il suo pensiero a questa operazione, e comunque i suoi vo
lontari fossero pochi e stanchi, non pertanto bastavano e cer
tamente sarebbero riusciti alla espugnazione di Capua. L'eser
cito regolare del re non dovette quindi che camminare sulla
via da Garibaldi tracciata, per recare ad effetto il suo piano.
Noi nel precedente capitolo abbiamo veduto come Vittorio
Emauele intendesse a questo sin dal suo arrivo, e come studiasse
il modo di espugnare Capua.
Il di 29 ottobre i Borbonici fecero varie sortite per impe
dire i lavori gi cominciati dai nostri intorno alla piazza; in
quei piccoli scontri i nostri ebbero varii feriti e fra questi un
colonnello. A lusingare e sostenere le forze del suo esercito,
Francesco II usava mezzi inauditi: requisizioni forzate di uo
mini e di danaro nei paesi circonvicini; rapine e violenze nelle
171
terre a lui soggette contro i proprietarii e i gentiluomini; pa
reva si trattasse non di sostenere un diritto ma di sfogare
una rabbia. Promoveva frequentemente gli uffiziali, prometteva
loro larghe ricompense, usava tutte le male arti dei principi
quando sono in pericolo, e cos trascinava nella sua stessa ro
vina uomini degni di causa migliore.
Il quartiere generale del re era sempre a Sessa. Vittorio
Emanuele aveva ordinato che il bombardamento di Capua do
vesse incominciare il 1. novembre alle 4 pomerid., egli per
ci si port al campo verso le 3 per vedere i primi colpi ti
rati contro la fortezza. La mattina di quel giorno stesso, Ga
ribaldi dopo aver visitato le linee di S. Angelo, verso le due
erasi ritornato a Caserta prima che giungesse il re. Sintomi
di malumore gi cominciavano tra i generali dell'esercito sardo
e Garibaldi. Sulla qual cosa non sar superfluo l'enunziare le
nostre opinioni, comunque possano riuscire sgradite ad uomini
che hanno di presente un gran nome e che pi volte sono stati
dichiarati benemeriti della patria.
Garibaldi colle sue gesta e con le sue imprese maravigliose
aveva oscurato i nomi dei generali dell'esercito regolare. La
rapidit delle sue marcie, l'ardire mostrato in tanti fatti, le
pi difficili imprese consumate con la massima facilit, la for
tuna che coronava con la vittoria tutti i fatti d'armi del suo
piccolo esercito, avevano suscitata l'invidia di molti, e questi
molti, baldanzosi per scienza, per ciondoli e per gradi, sen
tivansi trascinati a disperdere la fama di un tanto uomo e a
trovar modo o di umiliarlo o di allontanarlo dal campo di
azione. Deplorabili miserie sono coteste attaccate troppo spesso,
alle anime anco di coloro che dovrebbero sollevarsi a pi
alta sfera di sentimento e di pensiero.
Pervenuti sul campo di azione i generali sardi, e special
mente il general Della Rocca comandante l'esercito nell'impresa
di Capua, volle che l'esercito garibaldino dipendesse da lui e
che anco Garibaldi stesse ai suoi ordini. Noi ignoriamo fino
a qual punto coteste esigenze potessero essere ragionevoli, di
remo solo che Garibaldi era ancora il Dittatore delle Due Si
cilie e che quindi nessuna autorit, neppure quella del re
stesso gli era in quei giorni superiore. Un simile procedere
mostr subito quale fosse la politica del governo sardo, esau
torare cio Garibaldi cominciando dal togliergli il comando
della guerra. Questo passo dovette rincrescere e non poco al
-
172
l'animo generoso del re, ma il passo fu dato e quali conse
guenze ne venissero, la nostra storia appresso dir. Il dispaccio
reale che ordinava a Garibaldi di mettersi d'accordo col ge
nerale Della Rocca per regolare le operazioni di assedio contro
Capua lo ebbe siffattamente offeso che la sera stessa inviava
il colonnello Nullo al re, notificandogli la sua intenzione di ri
tirarsi nella sua isola di Caprera e rinunziando a tutte le ono
rificenze che re Vittorio aveva gli offerto. La lettera di Gari
baldi impression siffattamente l'animo onesto del re che
questi in risposta gli scrisse tali cose da persuaderlo a non
ritirarsi. Fu questa una fortuna, perch sparsasi nel campo la
novella infausta dell'offerta dimissione, i volontarii ne furono
cos commossi che ove fosse stata accettata, l'armata garibal
dina sarebbesi sciolta in un giorno. Deplorabilissimo avveni
mento sarebbe stato questo, perciocch si era a fronte di una
fortezza quale Capua e di un esercito ben ordinato al di l
del Garigliano. Pure Garibaldi comprese ci che contra lui si
operava e quindi comunque acconsentisse a rimanere sino al
fine della campagna, non pertanto licenziava in parte gli ufficiali
del suo stato maggiore.
Quando il tempo e le circostanze avranno meglio rischiarato
questi misteri di umana politica si comprender meglio che ai
cuori ingenui e generosi come quello di Garibaldi toccano in
sorte le vittorie sul campo di battaglia, e le disfatte sul ter
reno politico. Garibaldi vincitore dei suoi nemici e dai nemici
d'Italia venne umiliato da coloro che dovevano essere suoi
amici perch erano amici della causa italiana.
Il di 29 il re aveva ordinata una ricognizione per vedere
quale forza avesse il nemico sulla sponda diritta del fiume.
Comandava la ricognizione un colonnello di cavalleria il quale
vedendo come i nostri bersaglieri manovrassero ora a destra
ora a sinistra ordin al maggiore di quelli di spingersi sul ponte
di ferro che attraversa il torrente. Il ponte fu passato a corsa
ma le batterie coperte del nemico aprirono tale un fuoco su
quei valorosi che un terzo dei soldati rimasero morti e feriti
ed una quarantina caddero nelle mani dei Borbonici. Quella
ricognizione prov che il campo trincierato del Garigliano era
difeso da molti pezzi di posizione, e che i generali di Fran
cesco II non lasciavano mezzo intentato per sostenersi.
Alle ore 4 del 1. novembre fu inalberata al quartiere gene
rale dai nostri la bandiera rossa, segnale convenuto per aprire
I75
il fuoco contro Capua. Le nostre batterie si enumeravano nel
modo seguente. Batteria di 3 pezzi da 13 rigati, comandata
dal conte Anirani; una 2. di 3 mortaj comandata dal tenente
Piola e dal capitano Gusberti. Al centro, fra S. Maria e S. An
gelo una 3. con 2 mortaj, comandata dai maggiori Locascio
e Laimi. Sulla strada consolare da S. Maria a Capua la bat
teria detta Bouvette dal nome del capitano del genio che l'ha
eretta, contava 4 obici da 80 e 2 mortaj da 12, ed era ser
vita da artiglieri piemontesi. Al sito detto la foresta di Car
ditello una batteria da 16 rigata con 6 pezzi, anche questa
servita da piemontesi e comandata dal capitano Orfengo. Al
l'estrema sinistra sul Volturno, un'altra batteria piemontese
di 6 pezzi fulminava la citt dalla parte occidentale.
La piazza rispose con fuoco ben nudrito e ben diretto alle
nostre batterie. Era un diluvio di bombe, di palle infuocate,
di proiettili d'ogni sorta. Il re stava sull'altura di S. Angelo
per assistere a quell'orribile spettacolo. Le granate scoppia
vano da ogni parte con poco danno dei nostri.
Alle 9 il fuoco rallentava e solo di quando in quando udi
vasi il rimbombo del nostro cannone a cui rispondeva quello
della piazza. In quelle 5 ore di fuoco, Della Rocca ed i gene
rali Menabrea e Brignone stettero fermi sul punto di azione.
Tutta la notte il fuoco, abbench lentamente continu, la
mattina del 2 la bandiera bianca sventolava sul baluardo di
Capua. Giungevano parlamentarii al quartiere generale Della
Rocca, il generale borbonico De Liguori, con tre altri ufficiali
dello stato maggiore. Essi chiedevano una tregua di 24 ore
per potere inviare messi a Francesco II. Della Rocca ricus e
rispose al De Liguori dicendo: Signor generale, io non posso
darvi che un'ora, non un minuto di pi; se non vi arrendete
allo spirare di quel tempo, le mie batterie incomincieranno
il fuoco . De Liguori accett ie condizioni imposte. Il gene
rale De Cornet, comandante di Capua, ed i suoi soldati si
resero prigionieri.
Capua era ottimamente fortificata; eranvi 10 mila e 500
-
uomini, 290 cannoni in bronzo, 160 affusti, 20 mila fucili,
10 mila sciabole, 80 carri, 240 metri di ponte, 500 cavalli, ed
una abbondante provvisione. I danni sofferti dal breve bom
bardamento furono lievissimi, e non si saprebbe comprendere
per qual ragione la fortezza non abbia resistito ancora di pi
se non accennassimo a circostanze che resero necessaria la
dedizione.
174
Il popolo capuano soffriva di mal genio la probabile distru
zione della citt; molto pi che presto o tardi i Borbonici do
vevansi rendere ; il cardinale arcivescovo ed il clero divide
vano le opinioni del popolo, e mal volentieri soffrivano i pe
ricoli a cui trovavansi esposti per una inutile resistenza. Il
generale De Cornet videsi perci circondato dal popolo ca
puano e specialmente dalle donne che lo pregavano a smettere
la difesa ed a salvare la citt da certa rovina; il clero e l'ar
civescovo gli diedero i medesimi consigli, gli dirizzavano la
stessa preghiera; dicendogli inoltre che qualsiasi puntiglio di
onore e di gloria non vale il sangue e la vita dei soldati e
dei cittadini. De Cornet sulle prime stette fermo ne' suoi pro
ponimenti; ma quando vide che il popolo dalle preghiere pas
sava alle minaccie, e che un'interna rivoluzione avrebbe po
tuto metterlo in mezzo a due fuochi, si decise alla resa. N
nasconderemo un'altra ragione potentissima che lo spinse a
quel passo. I soldati o avviliti o irritati dalle sofferte sconfitte
erano caduti in un pensare sospettoso circa i loro capi; dap
pertutto non vedevano che tradimenti e traditori; quindi
minacciavano anch'essi e la posizione rendevasi pi difficile
e scabrosa. Per tutti siffatti motivi, al quale aggiungeremo
quello della paura, la resa divenne inevitabile; e fu pei nostri
e pei Borbonici fortuna, perciocch molto sangue venne ri
sparmiato, e la citt fu salva.
Gli articoli della capitolazione mostrano come Capua si
rendesse senza esser presa; e come i generali italiani tenes
sero il costume di non umiliare l'esercito nemico, e di dargli
tutti gli onori della guerra.
Ecco la capitolazione.
CAPITOLAZIONE DI CAPUA.
e Sulla capitolazione di Capua combinata di mutuo accordo,
d'ordine di S. E. il generale Della Rocca (comandante il corpo
dell'armata sarda) comandante il corpo d'assedio, e d'ordine
di S. E. il maresciallo di campo De Cornet, comandante la
piazza, dai commissarii sottoscritti, e quindi ratificata dai ri
spettivi generali comandanti.
Art. 1. La piazza di Capua, col suo intero armamento,
bandiere, magazzini a polvere, d'armi, di vestiario, di vetto
175
vaglie, equipaggi da ponte, cavalli, carri e qualsiasi altra cosa
appartenente al governo, tanto del ramo militare quanto civile,
verr consegnata al pi presto, cio nelle ventiquattro ore
dopo la sottoscrizione di questa capitolazione, alle truppe di
S. M. Vittorio Emanuele.
Art. 2. A tale effetto saranno immediatamente conse
gnate alle truppe della M. S. le porte della citt e le opere
tutte di fortificazione.
Art. 3. L'intiera guarnigione della piazza di Capua com
presi tutti gli impiegati militari, o che si trovino presso l'ar
mata in detta piazza, esciranno cogli onori militari.
Art. 4. Le forze che compongono la guarnigione esci
ranno colle bandiere, armi e bagaglio (ossia zaino pei soldati
e bagaglio proprio per gli ufficiali), successivamente di ora in
ora, a duemila uomini per volta. Esse dopo aver resi gli onori
militari, deporranno le armi e bandiere a piedi dello spalto
(eccettuati gli ufficiali d'ogni grado che riterranno la sciabola
o la spada), e saranno avviate a piedi a Napoli, d'onde ver
ranno trasportati in uno dei porti di S. M. il re di Sardegna.
Tutti i suddetti militari, meno gli ammalati, esciranno
dalla citt per la porta di Napoli, domattina 3 del corrente
novembre, a principiare dalle ore 7 precise, e saranno trat
tati quali disertori di guerra quelli che vi rimanessero senza
essere impossibilitati a marciare.
Art. 5. Gli ufficiali di ogni grado (ad eccezione dei ge
gerali che saranno trasportati a Napoli colla ferrovia) marce
ranno colle truppe proprie. Le famiglie di militari non po
tranno seguire la colonna.
Art. 6. I feriti e gli ammalati saranno lasciati a Capua
sotto la garanzia delle truppe occupanti. Ad essi, se ufficiali si
permette di ritenere presso di loro la propria ordinanza, ossia
soldato di confidenza.
Art. 7.0 Le parti contraenti nomineranno una commis
sione mista e composta per ciascuna di esse di un ufficiale
d'artiglieria, un ufficiale del genio e un segretario d'intendenza
militare, per ricevere e dare in consegna tutto quanto esiste
nella piazza e dipendente, di pertinenza governativa. D'ogni
cosa si far l'opportuno inventario.
Art. 8. Mentre si far la consegna delle porte e delle
fortificazioni, il capo dell'amministrazione militare a Capua e
tutti i contabili d'ogni corpo ed azienda militare e del governo
176
faranno fare la consegna del denaro che ritengono, quale sar
dimostrato dai loro registri verificati dagli ufficiali dell'inten
denza del corpo assediante.
Art. 9. Gli ufficiali recheranno seco i semplici bagagli.
Art. 10. convenuto che niuna carica dovr esistere
nella piazza, dopo la sottoscrizione della presente. Ove si
-
rinvenissero, la presente capitolazione sarebbe nulla, e il pre
sidio si esporrebbe a tutte le conseguenze di una resa a di
screzione.
Art. 11. Nulla pure si riterrebbe questa capitolazione
ove si trovassero pezzi inchiodati e armi messe fuori d'uso.
Art. 12. Le famiglie degli ufficiali che sono in Capua
come le altre dell'armata di S. M. Francesco II sono messe
sotto la protezione dell'armata di S. M. il re Vittorio Ema
nuele.
Art. 13. I cavalli di spettanza dei signori ufficiali si la
sciano in loro propriet.
Fatta in duplice copia al Quartier Generale di Santa Maria, addi
2 novembre 1860.
GiRoLAMo DE LIGUORI brigadiere
GIAN LUCA DE FoRNARI
Il maresciallo di campo
Commendatore De Cornet.
Il generale d'armata
IDella Rocca.
Risoluta la resa, l'uscita della milizia fu eseguita in questo
modo: precedettero i varii distaccamenti di cavalleria, che
stanziavano nella piazza; poscia la fanteria, indi il genio col
maggiore Scamardi, e finalmente l'artiglieria con gli uffiziali
superiori Melograno e Gutt. Giunti alla porta detta di Napoli,
i soldati borbonici rendevano e ricevevano gli onori militari,
e lasciavano i cavalli, le armi, le bandiere ed anche i kepy,
covrendosi col berretto. L'artiglieria consegnava le batterie;
agli uffiziali si lasciava cavalli ed armi, inviati tutti per la fer
rovia in Napoli. Intanto grandissimo numero di cittadini delle
vicinanze di Capua, con bandiere italiane, ed acclamando i
vincitori, dimandava di entrare a Capua, ma il generale Mil
bitz stava alla porta per impedirlo fino a tanto che gli Italiani
177
non si fossero impadroniti della piazza. Al loro ingresso fu
rono incontrati dalla spaventata popolazione capuana, con entu
siastiche acclamazioni, e (cosa incredibile) con molte bandiere
tricolori, fregiate dello scudo di Savoja, delle quali erano
altres ornate parecchie abitazioni. Precedettero i garibaldini,
ed essendo gi sull'imbrunire seguivano i soldati dell'esercito re
golare, i quali creduti dai Capuani, sulle prime, soldati borbo
nici, cessarono le acclamazioni e disparvero le bandiere; ma
tosto la gioia rinacque pi viva. Il generale Della Rocca ordin
che la sua artiglieria, per precauzione fosse uscita dall'altra
porta detta di Roma, e vi rimanesse ad un tratto con le micce
3CC0Se.
Cos fin la fortezza di Capua; e sempre pi restringevasi il
dominio di Francesco II.
Intanto nella notte del 1. al 2 mentre De Cornet decidevasi
a trattare con Della Rocca la resa di Capua, il generale Cial
dini movendo da Teano, passava arditamente il Volturno, a
Sulo e Martola. Costeggiando Traetto usciva nella pianura di
Scauri, ove incontrava i Borbonici, e dopo breve combattimento
li batteva.
Ma grave sventura attendeva quei poveri fuggitivi.
Ritirandosi disordinati da Traetto verso Mola, dovettero
percorrere uno stretto sentiero tra la montagna di Scauri ed
il golfo di Gaeta. Il Carlo Alberto, la Maria Adelaide e quattro
barche cannoniere erano allor giunte nel golfo, e si erano im
bossate a mezzo tiro dalla spiaggia. Al passaggio dei fuggitivi
i legni cominciarono a tirare in modo spaventevole. Testimonii
oculari di questo fatto attestano che l'ammiraglio Persano erasi
messo tutto per distruggere in pochi momenti quei fuggitivi
soldati, e che col fatto ne fece strage. Vi fu chi osserv avere
il Persano oltrepassati tutti i confini dell'umanit, di quell'uma
nit che pure ha la sua parte ed esercita le sue influenze sui
campi di battaglia.
Dolorose storie sono queste, perciocch i posteri vedranno
con orrore gli Italiani distruggersi a vicenda in modo feroce,
combattendo per differenti principii e per cause diverse. Non
pertanto nostro dovere notare che Garibaldi, sia per politica,
sia per bont di animo, fu nella guerra generosissimo, affronte
degli altri generali dell'epoca in cui questi fatti accaddero.
Il di 3 novembre tutte le colonne dell'esercito sardo di ope
zione sul Garigliano attraversarono Mola e Castiglione, sempre
Stor della rivol. Sicil. Vol. II.
25
178
correndo dietro ai Borbonici che a passo di corsa rientravano
in Gaeta.
Questi risultati ultimi portano la nostra riflessione ad un
fatto accaduto pochi giorni prima, e di cui la storia deve te
nere parola. Il generale Cialdini prima di cominciare le opera
zioni contro Capua aveva chiesto un abboccamento al gene
rale Salzano per indurlo a deporre le armi ed a non fare una
guerra inutile in difesa di un potere gi caduto e di una causa
che non aveva pi al mondo simpatia di sorta. In quel col
loquio, Cialdini disse al comandante supremo dell'esercito bor
bonico: l'armata napoletana rinserrata ormai su un palmo di
terreno, pu rendere le armi: essa non pi in istato di com
battere, il re Vittorio Emanuele essendo gi a Venafro . Ed
il generale Salzano rispose: il palmo di terreno sar difeso
pollice per pollice; ed io non riconosco che l'augusto re Fran
cesco II che si trova fra Sessa e la fortezza di Gaeta .
Le parole del Salzano non condanniamo, che anzi commen
diamo i sentimenti generosi di un soldato che non si piega in
faccia alla sventura; ma il risparmiare il sangue di tanti infelici
sarebbe stata umanit e virt.
Da questo fatto si tolse argomento per incoraggiare i sol
dati; ed il ministro della guerra, il di 30 ottobre emanava il
seguente proclama:
ORDINE DEL GIORNO DI S.E. IL MINISTRO DELLA GUERRA
del 30 ottobre 1860.
Soldati!
Senz'avviso, senza franca e leale dichiarazione di guerra,
l'armata sarda ha invaso il regno ed discesa dietro le no
stre spalle. Cosi nei combattimenti d'Isernia e di Venafro avete
trovato davanti a voi, non pi la sola armata della rivoluzione,
ma un'altra armata numerosa, disciplinata, agguerrita, l'armata
di un governo che conservava ancora le apparenze di amicizia
col nostro augusto re Francesco II.
La situazione dunque cambiata; ma essa molto pi
onorevole per voi, e la resistenza sar pi gloriosa.
Il comandante in capo fu invitato avanti ieri ad un ab
boccamento insidioso e perfido e il generale piemontese gli ha
179
detto: l'armata napoletana, rinserrata ormai su un palmo
di terreno, pu rendere le armi, essa non pi in istato di
combattere, il re Vittorio Emanuele essendo gi a Venafro .
Il luogotenente generale Salzano gli ha risposto da vero sol
dato: Il palmo di terreno sar difeso pollice per pollice, ed
io non riconosco che l'augusto re Francesco ll che si trova
fra Sessa e la fortezza di Gaeta .
Questa risposta guider la nostra condotta; l'Europa civile
nel XIX secolo non pu rimanere spettatrice indifferente di
cos grandi, cos numerose e inaudite enormit. Ma certamente
alla nuova del glorioso fatto d'armi del 26 e di quello d'ieri
sulle rive del Garigliano e alle gole del Cascano, sapr rimeri
tare la vostra bravura, la vostra costanza, e si vedr come in
mezzo a milie difficolt crescenti, si mantenga nell'armata na
poletana, nei capi, come nei subordinati, il medesimo spirito
d'onore militare .
Il generale direttore della guerra
firmato ANTONIo ULLoA.
Non a nascondere intanto l'effetto di questi proclami sopra
l'esercito; di questo esercito convien dire che sentiva non
poco il sentimento dell'onore, tanto pi che non conoscendo
per quale causa pugnasse, e contro quali principii combattesse,
abbandonavasi pi facilmente alla determinazione di non ce
dere e di restar fermo al suo posto. Conviene per altro ag
giungere che i generali borbonici usavano tutte le arti per na
scondere alla truppa il vero stato delle cose, e la forza special
mente del nemico. Tutti questi argomenti contribuivano a man
tenere sotto la bandiera borbonica un esercito ancor nume
roso, ma per il quale non eravi veramente speranza alcuna di
vittoria.
L'indomani un altro ordine del giorno lodava la bravura
dell'artiglieria, e deplorava la morte del brigadiere Matteo
Negri.
180
ORDINE DEL GIORNO DEL MINISTRO DELLA GUERRA
31 ottobre 1860.
Soldati !
all'abilit e pi ancora alla bravura dell'artiglieria che
si deve la gloria del felice combattimento dato avanti ieri sulle
rive del basso Garigliano. Ma la gloria del trionfo rattristata
dalla morte del giovine valoroso e intelligente brigadiere
Matteo Negri, che ferito non ha voluto cessare di combattere,
e distinguendosi per zelo ed ardore, fino a far l'ufficio di sem
plice artigliere, fu morto da un secondo colpo.
L'augusto re Francesco II ha ordinato che s'innalzi al
prode soldato un monumento che ricordi il suo nome, affinch
la sua condotta serva di esempio a tutti quelli che seguono la
carriera delle armi.
La guarnigione intera di Gaeta ha reso oggi al defunto
gli ultimi onori funebri con gran pompa militare; e l'armata,
alla nuova d'una perdita cos grave comprender che, se delle
grandi speranze furono spente con lui, le resta per la sua
cara memoria, e l'orgoglio del suo nome, de' suoi atti e delle
sue virt.
Il generale direttore della guerra
firmato ULLoA ANTONIo.
-
Il brigadiere Matteo Negri era giovine intelligente, corag
gioso, e quel che pi molto liberale. Egli era molto stimato
anco dal partito rivoluzionario, il quale ne deplor la morte.
Pochi invero della milizia borbonica sollevavansi alla sfera dei
principii, perci pochi erano i generosi. Matteo Negri era uno
di questi pochi, e fra essi forse era il primo. Noi non ci oc
cuperemo ad indagar le ragioni che lo tennero fedele alla ban
diera borbonica in tanto sconvolgimento di cose. Esso trov sul
campo morte onorata perch, fedele al proprio convincimento,
non volle n seppe transigere colle attuali circostanze.
Ad animare vieppi le truppe venivano a quando a quando
i proclami di Francesco II. La sua giovent, l'essere sposo di
181
giovine regina, figlio di ottima madre, e dal giorno stesso del
suo innalzamento al trono, sempre sventurato, gli acquistava
rispetto e premura dai suoi soldati.
Ecco uno di questi proclami; esso porta la data del pre
cedente:
ORDINE DEL GIORNO
Soldati!
Allorch dopo due mesi di generoso slancio e d'abnega
zione perfetta, di marcie e fatiche, noi credevamo di terminare
la nostra opera, distruggendo e rovesciando l'invasione rivo
luzionaria nel nostro paese, sopravvenuta l'armata regolare
di un sovrano amico, che, minacciando la nostra linea di riti
rata, ci ha obbligati ad abbandonare le nostre posizioni. Qua
lunque cosa avvenga, l'Europa intera nell'apprezzare il fatto,
e nel giudicarlo, non potr a meno di riconoscere il valore e
la fedelt d'un pugno di bravi, che resistendo a delle sedu
zioni perfide ed alla forza di due armate, ha saputo, non so
lamente resistere, ma anche illustrare l'istoria dell'armata na
poletana, coi nomi di S. Maria, Cajazzo, Treflisco, S. Angelo
ed altri.
Questi fatti rimarranno indelebilmente segnati nel mio
cuore. Per perpetuarne la memoria sar coniata una medaglia
in bronzo colla leggenda: Campagna del settembre e ottobre 1860,
ed al rovescio: santa Maria, Cajazzo, Treflisco, sant'Angelo, ecc.
La medaglia sar sospesa ad una fettuccia cilestre e rossa. De
corando il vostro nobile petto, essa ricorder a tutti la vostra
fedelt e il vostro valore, i quali saranno sempre un titolo di
gloria per quelli che porteranno il vostro nome.
Gaeta,
31 ottobre 1860.
FRANCESCO II.
Non furon queste parole vane; appresso vedremo come
questo pugno di soldati restasse saldo al suo posto nelle mura
di Gaeta, lottando con la fame, col tifo, con le bombe e con
le rovine della citt distrutta.
Tornando a parlare della resa di Capua noteremo come
Ga
182
ribaldi non fosse personalmente presente al combattimento.
Gi sin dal giorno 30 egli aveva deposto i suoi poteri nelle
mani del re. Ora che Vittorio Emanuele II trovavasi col suo
esercito nelle provincie napoletane; ora che il plebiscito aveva
fatto risultare l'annessione, non era pi possibile la dittatura
di Garibaldi. Ma cotesta cessione di poteri fu affrettata dalla
politica dei generali sardi, i quali come di sopra notammo
fecero s che Garibaldi fosse esautorato anco militarmente.
Garibaldi voleva partire, e ne aveva ragione; non lo trattenne,
come dissimo di sopra, che la lettera del re per la quale ve
niva pregato a restare. perci che il d 30 ottobre egli
scriveva al prodittatore Pallavicino in questi sensi:
Signor prodittatore!
Oggi stesso avendo deposto i miei poteri nelle mani del
re, v'invito a voler dipendere da S. M. per tutti gli atti del
governo che ebbi l'onore di delegarvi.
Colgo quest'occasione per ringraziarvi dello zelo e della
devozione con cui avete adempiuto a cos importante ufficio.
Colla vostra intelligenza e coll'opera vostra, mi avete facili
tato, in queste provincie, l'assunto lavoro dell'unificazione na
zionale. a voi dovuta la pi parte di questo lavoro, e vi
assicuro che io ne serber memoria fino agli ultimi anni della
mia vita.
Accogliete i sensi della maggior mia stima
Caserta, 30 ottobre 1860.
G. GARIBALDI
I nostri lettori si ricorderanno che Garibaldi sin dal prin
cipio della sua dittatura aveva inviati ministri presso alcune
Corti onde tenere le relazioni colle potenze amiche. Cessata
la dittatura, essi non erano pi necessarii e i loro poteri dove
vano essere naturalmente esercitati dagli ambasciatori che la
Corte di Torino teneva presso le altre Corti. Garibaldi depo
nendo i suoi poteri nelle mani di Vittorio Emanuele II si af
frett a scrivere a cotesti rappresentanti; i sensi della sua let
tera li troviamo compendiati in quest'altra che egli scriveva a
Mordini prodittatore di Sicilia.
185
l),
l:
fi
Noteremo intanto che Mordini rimaneva prodittatore fino
all'arrivo del re in Sicilia; era questa una necessit se non
si voleva lasciare l'isola senza governo.
Ecco la lettera di Garibaldi a Mordini:
tilt,
li
il)
Signor prodittatore!
it,
l,
gi
il
il
Ho scritto oggi stesso il seguente dispaccio ai nostri in
caricati di affari in Parigi ed in Londra:
I decreti degli 8 e 15 del cadente mese, che invitavano il
popolo dell'Italia meridionale a dichiararsi pel regno di Vit
torio Emanuele, han dovuto prevenirvi che noi tocchiamo alla
meta che ci eravamo prefissi colla guerra nazionale. Il ver
detto popolare oramai pronunziato, ed io siccome lo avevo
promesso in varii atti, vo' a deporre i miei poteri nelle mani
di quel re fortunato, cui la Provvidenza destin a raccogliere
in una sola famiglia le divise provincie della patria nostra. In
conseguenza di ci, il mio governo cede il posto al governo del
re, e la vostra missione presso la Corte di S. M. cessa ipso
facto, le rappresentanze all'estero del re d'Italia assumendo il
debito di sostenere, presso i governi in cui sono accreditati,
tutti gli atti della politica nazionale.
Nel richiamarvi intanto dall'ufficio che, nell'interesse del
paese, io vi aveva affidato, sento il dovere di dichiararvi, che
nelle circostanze difficili in cui lo esercitaste, avete meritato
la mia piena soddisfazione. Abbiatevi dunque i miei pi vivi
ringraziamenti, e siate sicuro che il ricordo dei vostri nobili
e disinteressati servizi rester sempre impresso nella mia
II16 DIROTla.
Parteciperete questa mia risoluzione a . . . . dal quale
vi congederete, presentandogli i miei complimenti.
N do a voi comunicazione per l'uso conveniente .
Napoli, 29 ottobre 1860.
G. GARIBALDI.
La immensa popolazione napoletana sapeva che il re era
Vicino e pensava che presto giungesse in Napoli. La curiosit
faceva sembrar lunghi quei giorni, e nei crocchi come nelle
184
conversazioni non d'altro si parlava che della venuta del re,
del suo arrivo in citt, delle feste che sarebbero fatte in me
moria di un tanto avvenimento.
Il municipio diedesi all'opera di preparar tutto in modo che
la citt rispondesse alla grandezza, alle circostanze, alla sin
golarit stessa di un principe che da quel momento potevasi
chiamare il primo re d'Italia. Era sindaco di Napoli il nobile
Colonna; egli aveva ricevuto il mandato di preparare le feste
e la solennit, non avendo riguardo n a dispendii n ad altro.
Il di 25 ottobre, egli parlava in questo modo ai suoi con
cittadini:
Tutte le citt di questa nostra Italia, cui occorsa l'in
vidiata fortuna di godere l'augusta presenza del nostro re Vit
torio Emanuele, han gareggiato in ricevere degnamente il mo
narca galantuomo, chiamato dalla libera volont degli Italiani
a reggere i destini di questa patria comune.
Egli per giungere fra noi.
Riserbandosi il municipio di pubblicare il programma delle
feste, che ha potuto in tanta ristrettezza di tempo preparare,
sicuro che il popolo non si mostrer meno sollecito in or
nare con fiori, con bandiere, con arazzi, con damaschi i pri
vati edificii, imbiancarli e rinnovarne le tinte, illuminarli splen
didamente nelle ore della sera, in cui le botteghe tutte si ter
ranno aperte, per accrescere coll'interna illuminazione, la
gaiezza della citt.
Il patriottismo del Napoletani non ha bisogno d'incita
mento, per manifestare in siffatto modo la sua esultanza in oc
correnza cos solenne.
Le localit poi delle pubbliche amministrazioni, le officine
militari, i corpi della guardia nazionale, le societ commer
ciali, ed ogni istituto, a qualunque branca appartenesse, con
correranno ( sicuro) ad accrescere il gaudio universale, con
preparare luminarie congegnate, con bande, con trofei, e con
tutto ci che il buon gusto sapr suggerire per ben rispondere
al giubilo universale .
Monteliveto, 25 ottobre 1860.
Il sindaco ColoNNA.
185
Ma questo non bastava; era d'uopo ancora enunciare come
un programma dell'incontro e dell'entrata di Vittorio Ema
nuele II affinch cos gli impiegati come i cittadini di tutte le
classi si disponessero a far dalla parte loro quanto potevano per
contribuire in modo conveniente a quell'opera.
Nessuna citt prestasi tanto a feste di simil genere come
Napoli; non solo per la grandezza della citt, ma eziandio per
lo spirito entusiasta del popolo, e per quel genio suo proprio
in forza del quale suole improvvisare cose assai pi belle che
non sarebbero studiate. Noi diamo questo programma, nel
quale trovasi la sapienza politica del municipio e del proditta
tore nel far s che il nuovo re non si scostasse dalle cerimonie
di uso in fatto di religione. I Borboni con le loro ostentazioni
religiose avevan sempre domato lo spirito dei Napoletani; Vit
torio Emanuele II doveva apparire religioso anch'esso perch
quel popolo materiale non restasse formalizzato.
Ecco il proclama del municipio:
Nel giorno destinato da S. M. al suo ingresso in Napoli,
e ne due giorni consecutivi, la citt far festa. Le ammini
strazioni, i tribunali, ed ogni altra officina sospenderanno le
loro occupazioni. I militari vestiranno la gran tenuta. La citt
nelle tre sere sar illuminata negli edifici pubblici, ne teatri,
ne' larghi, ed i cittadini sono invitati a fare altrettanto, sia nelle
botteghe, che debbono stare aperte, sia nell'esterno delle ri
spettive abitazioni.
Appena la M. S. giunger nel sito, ove il corpo di citt
rimane a riceverlo, tutte le castella, ed i legni in rada, appar
-
tenenti alla marina militare, debitamente pavesati, faranno la
salva, che continuer fino a quando la M. S. non sar giunta
al palazzo; ne due giorni consecutivi praticheranno altrettanto
all'alba, a mezzogiorno ed alla sera.
Al primo colpo di cannone le campane di tutte le chiese
suoneranno a distesa, ossia a festa per mezz'ora continua. La
guardia nazionale in tenuta di gala, con le rispettive bande,
e la truppa dell'esercito meridionale, che si trover in Napoli,
formeranno ala dal sito del Grande Albergo dei Poveri, lungo
il Largo delle Pigne, Studii, Largo del Mercatello, Portalba,
S. Pietro a Maiella, strada Tribunali, fino al Vescovado. Ed a
mano a mano che avanzer il regio corteo, la guardia nazio
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
24
186
nale, e le truppe, che son rimaste dall'Albergo dei Poveri a
Portalba si situeranno da questo ultimo sito, per Toledo, fino
al palazzo reale. Al di sopra del tunnel, che sovrasta il co
minciamento del cammino ferrato da Napoli a Caserta sar
formato un padiglione elegante, ove la M. S. si fermer un
momento, onde accogliere gli omaggi del corpo di citt, decu
rionato e notabili di tutte le classi, che saranno invitati. Ci
terminato si avanzer il regio corteo per la strada Arenaccia
fino all'albergo dei Poveri, e di l pel Duomo, percorrendo le
strade suindicate, su le quali situata a cordone la guardia
nazionale, preceder un drappello di guardia nazionale a cavallo,
e faran seguito il comandante generale di essa guardia, e suo
Stato-Maggiore e tutti gli ufficiali superiori dell'esercito me
ridionale.
Il corpo di citt per via pi breve si porter al Duomo
per ricevere la M. S. Ivi converranno pure, e prenderanno
posto in chiesa, una deputazione di distinte signore, ed altre de
putazioni che rappresentano la notabilit del paese, in tutte
le classi che invitansi dal municipio.
Tutti vestiranno indistintamente sottabito nero lungo, frack,
e cravatta bianca, all'infuori dei militari, che terranno la pro
pria divisa. Nel Largo avanti la porta maggiore del Duomo si
schierer un battaglione della guardia nazionale in giro. Nel
Largo medesimo sar disteso un tappeto in tela d'oro, su il
quale si fermer il regio corteo.
Ivi si troveranno il corpo di citt e gli ecclesiastici. S. M.
sar accompagnata da quel sito fino alla porta della chiesa,
ove il capo del clero porger alla M. S. l'acqua benedetta, ed
indi lo accompagner insieme al corpo di citt fino al sito, in
cui preparato il trono, dal lato dell'Evangelo.
A dritta ed a sinistra si situeranno il corpo di citt, il
decurionato ed i generali della guardia nazionale e dell'ar
mata. Terminata che sar la benedizione del Santissimo, S. M.
accompagnata nell'istessa guisa fino alla porta della chiesa,
s'avvier col suo corteo, come innanzi disegnato, per le strade
Tribunali, Port'Alba, e Toledo, alla reggia, ove trover con
venuti tutti i corpi costituiti dello Stato. Gli edifizii lungo le
vie per le quali passer la M. S. saranno ornati di festoni, ban
diere, arazzi, damaschi, e quant'altro sapr praticare il popolo
napoletano in questa avventurosa congiuntura. Nel secondo
giorno il corpo di citt, il decurionato, i corpi costituiti, le
187
commissioni che rappresentano tutte le classi dei cittadini, ap
positamente invitati, si aduneranno nella chiesa nazionale di
S. Lorenzo, per un solenne Te Deum in musica, in rendimento
di grazie all'Altissimo, per aver benedetto il desiderio che da
tanti secoli annida nei cuori degli Italiani.
Dopo di ci, saranno estratti a sorte 168 maritaggi, de
stinate a donzelle della citt, povere ed oneste, vale a dire 14
per sezione, alla ragione di ducati 60 per ognuno. Nel terzo
giorno saranno preparate pel popolo le cos dette coccagne o maji
nel Largo delle Pigne, Santa Teresa, Largo del Castello, Mer
catello, Mercato, e corso Vittorio Emanuele, con premii cia
scuno di ducati 70,
Nella sera, il popolo godr lo spettacolo di svariati fuochi
d'artificio preparati sulla collina Certosa di S. Martino. Sar il
pubblico avvertito con altro avviso dell'arrivo di S. M.
Dal palazzo municipale, 27 ottobre 1860.
li
Il sindaco A. Colonna.
Il cancelliere maggiore
LUIGI MoLTEDI.
Come queste feste andassero, appresso diremo.
CAPIT0L0 XI
Lode del re all'esercito garibaldino. Presa
di Mola di Gaeta. Entrata del re in Napoli
La reazione
Le passioni politiche che agitarono lungamente gli uomini
grandi di quell'epoca impedirono che si portasse esatto giu
dizio sulla natura degli avvenimenti che di giorno in giorno si
succedevano, e che perci vi potesse dare meritamente lode
o biasimo a chi comandava le cose della guerra, secondo il me
rito o il demerito di ciascuno.
Nel precedente capitolo abbiamo notato come nei generali
dell'armata italiana sorgesse spirito di gelosia, e fors'anco d'in
vidia non solo verso Garibaldi e la gloria di che si era rico
perto, ma eziandio verso i suoi generali e l'esercito tutto dei
volontarii. Non sar oggi disdicevole muovere quella questione
di onore ed insieme di gloria, cio se Garibaldi e i suoi sa
rebbero stati sufficienti a costringere Capua alla resa. Diciamo
questione di onore e di gloria, perch pi tardi fur visti i
meno nobili comandanti dell'armata regolare strombazzare la
propria abilit e valore e dare a s stessi tutto il merito della
vittoria. Si giunse a voler persuadere agli Italiani e all'Europa
tutta che senza l'aiuto dell'armata regolare, non solo Garibaldi
non avrebbe mai prese Capua e Gaeta, ma ancora che presto
o tardi le truppe borboniche avrebbero dovuto e potuto pren
dere il sopravvento sopra l'esercito dei volontarii, disperdendo
in un giorno solo l'opera di tanti mesi.
Noi siamo di contraria opinione, e pensiamo invece che Ga
ribaldi vincitore a Calatafimi ed a Milazzo non poteva essere
189
perditore sotto le mura di Capua e di Gaeta. L'uomo che
con pochi volontarii sbaraglia un poderoso esercito provveduto
di tutti i mezzi di guerra, non pu secondo le ragioni pi
probabili toccare una sconfitta quando gi conta esercito nu
meroso, e trovasi a fronte del nemico rimpiccolito, scorag
giato, vinto ben dieci volte in sei mesi. Gli vero che in mezzo
alle grandi fortificazioni pochi uomini possono lungamente re
sistere, ma verissimo che a loro, ridotti in misera condi
zione, non sar mai dato di vincere; la questione di tempo
non di forza e un prolungato assedio d sisura la vittoria.
La resistenza di Capua, come abbiamo veduto, fu tanto de
bole e breve da darci diritto ad asserire che Garibaldi solo
sarebbe bastato a quell'impresa. N questo tutto; perciocch
nel breve combattimento, i garibaldini vi ebbero parte anche
essi e tale da essere encomiati dal re stesso in un ordine del
giorno. Noi lo riportiamo come uno dei documenti storici che
riguardano l'esercito meridionale.
-
QUINTO GRAN COMANDO MILITARE.
ll re Vittorio Emanuele con un telegramma inviatomi que
sta notte, m'incarica di esternare l'alta sua soddisfazione alle
truppe comandate dall' E. V.
Io sono lietissimo di essere prescelto a portare a cono
scenza dell'E. V. tali sovrani sentimenti: e sono tanto pi lieto
inquantocch fui in questi pochi giorni testimonio dell'eccel
lente spirito militare che regna nell'esercito meridionale.
Il pronto successo ottenuto si deve in gran parte alla co
raggiosa e longanime operosit di un esercito, che perseverando
nel combattere giornalmente le forze nemiche, le prostrava in
modo da farle cedere al primo urto.
Debbo poi personalmente ringraziare l'E. V. per la cor
diale ed efficacissima cooperazione prestatami in questa circo
stanza dai suoi generali e dalle sue truppe.
Spero che le buone relazioni tra i due eserciti si faranno
ogni giorno pi intime. La concordia di tutti gli Italiani l'arra
pi sicura del trionfo della causa nazionale.
Dal quartier generale di S. Maria, il 5 novembre 1860.
Il generale d'armata
DELLA ROCCA.
A Sua Eccellenza il Dittatore general Garibaldi in Caserta.
190
Cotesto documento prova due grandi verit; la prima che
i generali e le truppe dell'esercito meridionale abbiano avuto
parte alla presa di Capua; la seconda che le giornaliere bat
taglie date dai garibaldini avevano ridotto a tale estremo
l'esercito borbonico da dover cadere al primo urto.
Ora noi domandiamo se mai possibile che un'armata ri
dotta a tanta miseria possa aver la rivincita sopra l'esercito ga
ribaldino, il quale abbench stanco, cresceva ogni giorno di
numero e rinforzavasi di nuovi elementi? Domandiamo in oltre
se sia lecito spogliare per gelosia o per invidia di una gloria
con lunghi sacrifici acquistata uomini generosi che esponevano
il sangue e la vita per la causa italiana.
Sventuratamente ci tocca concludere, che le debolezze non
risparmiano qualsiasi classe della societ, e che anco nelle
cause pi nobili e sante prenda parte la pazza umana superbia
e la vile ambizione degli egoisti.
l Borbonici vinti al Macerone, a S. Germano ed a Sessa,
rotti nel piano di Isernia, mostraronsi finalmente decisi a di
fendere il passo di Mola che pu considerarsi come un borgo
di Gaeta. E Mola un villaggio che sorge sulla spiaggia del golfo,
discosto da Gaeta non pi di due miglia.
Il giorno 4 novembre i regii vi si erano trincerati in nu
mero di 12 mila erigendo barricate nelle contrade e facendo
delle case altrettante bastite. I Bavaresi, gli Austriaci, e gli
Svizzeri, in una parola quell' accozzaglia di gente ale
manna in gran parte arruolata dall'Austria, eransi appostati alla
forte barricata che difendeva l'entrata del villaggio. Alcuni
battaglioni di cacciatori napolitani col 1., 4., 7., 8. di linea
guarnivano le finestre, i tetti, i sotterranei delle case per ser
rare i nostri entro una cerchia di fuoco appena avessero a pre
sentarsi. Il generale De Sonnaz che aveva divisa la sua gente
in due colonne di attacco, appena giunto all'entrata del villaggio
fu ricevuto con tale un fuoco d'artiglieria e con s viva fuci
lata che per non esporsi a perdite considerevoli si vide co
stretto ad ordinare l'assalto della barricata principale. Un bat
taglione di bersaglieri ricevette quindi l'ordine di attaccarla di
fronte, mentre un secondo era avviato attraverso un viottolo per
offenderla di fiat . L'azione una volta impegnata all'entrata
di Mola, si estendette presto all'estremit opposta, avendo gi
De Sonanz dato l'ordine ad una delle sue colonne di attaccare
da quella parte. Il combattimento divenne allora generale, e nei
Orlo
Emanuele e Cia ribaldi ambedue
ne l a
stessa Uarrozza
191
suoi risultati micidialissimo. Si pugnava disperatamente con ac
canimento da ambe le parti. I Tedeschi contendevano palmo a
palmo il terreno delle contrade e il limitare delle case. I nostri
non di meno si avanzavano, ma a rilento, e passando sui ca
daveri dei loro compagni. Sebbene sin dal principio dell'as
salto fosse facile il comprendere che Mola sarebbe stata in breve
corso di tempo occupata, pure l'ostinato combattere del nemico,
ed in ispecial modo dei soldati mercenarii consigliava l'ammi
raglio Persano ad aprire tosto il fuoco delle sue artiglierie contro
il villaggio. Aperto il fuoco, cominciata quella pioggia di palle,
ogni resistenza divenne impossibile. Mola fu quindi evacuata,
la ritirata del nemico incominciava, ma quale ritirata? disor
dinati per lo scoppio delle bombe, inseguiti da vicino dai nostri
bersaglieri, i Napoletani si gittarono confusamente in Gaeta, n
arrestarono la loro corsa sino a che giunsero sotto la prote
zione delle artiglierie del forte. Una parte di quell'esercito fu
costretto a prender la via di Terracina e passare la frontiera
dello Stato romano; ma di questo parleremo appresso.
Il giorno 6 novembre giungeva in Napoli il cavaliere Farini.
Il tempo stato fino a quel giorno bellissimo, nella notte divenne
pessimo, ed accaddero rovesci di acqua fortissimi; i lavori per
decorare la citt rimasero molto indietro del loro compimento.
Per il giorno 7 fu avvisato l'arrivo del re per l'ora delle 10
antimeridiane. Il sindaco della citt di Napoli ne pubblic l'av
viso e raccomandossi caldamente ai cittadini affinch adornas
sero le finestre ed i balconi delle loro case, supplendo cos
alle feste che non potevansi fare perch incompleti i numerosi
archi di trionfo e gli altri preparativi.
Anzicch alle dieci il re giunse alle 9. Il vento aveva por
tato via varie tende del padiglione eretto alla stazione della
strada ferrata. Il re si mise a passeggiare col sopraintendente
generale di casa reale; le dame ed i gentiluomini sopraggiunti
per riceverlo rimasero impacciati vedendosi prevenuti. Rinun
ciando ad ogni forma solenne, Vittorio Emanuele entr con
Garibaldi e i due prodittatori Pallavicino e Mordini in una ca
rozza a due cavalli, e si rec alla reggia sotto la pioggia ed in
mezzo ai clamorosi applausi di tutto il popolo, stivato dietro
le file dei soldati nella lunghissima via da Foria al palazzo re
gale. Anche il Duomo era pieno di invitati; il numero degli
ecclesiastici fu maggiore dell'aspettazione. Il clero palatino
esegui con grande pompa la religiosa cerimonia. Il re sal sul
trono con Garibaldi,
192
Nella reggia e proprio nella stanza del trono, Vittorio Ema
nuele ricevette uno per uno alcuni grandi corpi dello Stato,
ma avanzando l'ora ringrazi i rimanenti. La sera il teatro
S. Carlo era ornato di ceste di fiori ed illuminato con una
splendidezza straordinaria. Il re apparve nel palco grande, e
gli applausi e le acclamazioni furono entusiastiche, tanto che
ne fu sorpreso e commosso. Il numero degli spettatori era im
menso, lo sfarzo ed il lusso delle signore grandissimo. Quan
tunque stanco per essersi levato alle 4 del mattino, il re si trat
tenne buona pezza, dicendo che per rispetto ai Napoletani, egli
avrebbe atteso fin quasi al termine del ballo. Si apr lo spet
tacolo con un inno scritto dal signor Bolognese e musicato
dal maestro Petrella. La scena rappresentava Napoli col Vesuvio
che mandava nuvola di fumo, e nel cielo era una grande croce
a trasparente. I cantanti figuravano gruppi di garibaldini, di ca
labresi e altri paesani di quelle provincie. Durante lo spetta
colo Vittorio Emanuele si trattenne particolarmente col ministro
Farini, col principe di Lequile sopraintendente di casa reale, e
col duca di S. Donato sopraintendente dei regii teatri.
La sera, cessata la pioggia, le luminarie private riuscirono al
quanto brillanti. Toledo era splendidamente illuminato. Gli edi
fizi pubblici non erano illuminati, altro che il palazzo delle fi
nanze, la facciata di S. Carlo, la gran-guardia, il teatro del
Fondo e due pilastri dell'arco al Mercatello.
Certo che l'entusiasmo popolare non fu quale erasi preve
duto, e comunque se ne volesse dare colpa al cattivo tempo
ed alle pioggie dirotte, non fu estranea a cotesta indifferenza
una ragione che or ora diremo.
In Napoli era corsa voce che Garibaldi presto sarebbesi riti
rato a Caprera, disgustato dalla politica del conte di Cavour e
pi ancora dalla condotta dei generali sardi che avevano gi co
minciato a fargli opposizione. Il popolo che non giudica gli av
venimenti secondo le regole della politica e della diplomazia,
ma secondo i dettami della giustizia, della morale e del cuore,
senti di mal genio l'infausta nuova e fu quello il primo senti
mento di antipatia concepito dal popolo napoletano contro il
governo sardo; sentimento che come appresso vedremo fu causa
di lunghi disordini e di gravi sventure.
Il popolo nella sua semplicit non poteva persuadersi come
quello stesso Garibaldi che gi donava due corone a Vittorio
Emanuele, fosse ora costretto a ritirarsi dal teatro della guerra
193
agli ozii ed al silenzio della sua Caprera. Qualunque fossero
le divergenze il popolo non poteva persuadersi che il governo
sardo n il re avessero potuto trovar modo di conciliare le cose
tanto che Garibaldi, senza rinunziare alla sua dignit avrebbe
potuto rimanere in Napoli al comando dei suoi volontarii,
molto pi che la guerra non era ancora finita. Il nuovo go
verno appariva perci in faccia al popolo di Napoli come col
pevole di una ingiusta persecuzione mossa al pi leale degli
uomini, al pi valoroso e grande Italiano.
Furono queste le vere ragioni dell'indifferenza e quasi fred
dezza con cui fu ricevuto in Napoli Vittorio Emanuele II.
Prima di parlare della partenza di Garibaldi da Napoli, e
dei primi atti del nuovo governo, ci conviene gittare uno sguardo
sopra la reazione la quale gi da qualche tempo scompigliava
alcune provincie del Napoletano.
Chiunque abbia letto le storie, conosce di leggieri quali di
sposizioni stiano negli animi di quel popolo meridionale, e
quanto esso sia facile a spingersi agli ardimenti della guerra in
testina. Prima di ogni altro pubblicheremo un rapporto del
cavaliere Farini. Esso ci aprir la strada a conoscere qual fosse
la natura di quella reazione feroce.
A. S. eccellenza il presidente del consiglio dei ministri Torino.
Sessa, 31 ottobre 1860.
Eccellenza !
Ho l'onore di trasmettere all'E. V. un primo rapporto sui
fatti accaduti in Isernia ed in altri paesi della provincia di Mo
lise e della Terra di Lavoro, per opera della reazione e dietro
incitamenti ed ordini del governo di Gaeta.
In prova degli strani fatti esposti in questo rapporto vi
unisco i documenti ufficiali, ad eccezione di un piccolissimo nu
mero che furono lasciati ad Isernia, ove sono assolutamente ne
cessari alla istruzione dei processi criminali che stanno per es
sere ultimati.
Appena giunto in Napoli, mia prima cura sar di ordinare
sull'istante un'inchiesta regolare e giudiziaria pei fatti della
stessa natura, accaduti tanto qui quanto nelle altre parti del
ex-regno e ne trasmetter intanto a V. E. i risultati.
FARINI.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
25
194
Francesco II dopo essere stato scacciato da quasi tutto il
suo regno, ed essersi ritirato con una parte delle sue truppe
nella provincia di Terra di Lavoro, tra Capua e Gaeta, co
minci col mettere in istato d'assedio tutti i paesi da lui oc
cupati e fece man bassa su tutte le casse di beneficenza comu
nale ed altre istituzioni private: impose gravissime tasse; di
strusse qualunque libert; licenzi la guardia nazionale, di
sarm la borghesia, e vi sostitui un'accozzaglia di plebe armata,
servendosi riguardo a quelli che infestavano le strade, di gen
darmi travestiti per promettere a tutti eguale impunit per
qualunque furto, assassinio o delitto che potessero commettere
in nome di S. M.
Infatti, appena s'install il governo borbonico a Gaeta, in
cominciarono la reazione, gli assassinii, le spogliazioni, gl'in
cendii, i quali evidentemente erano eccitati o ordinati dal
governo.
Degli innumerevoli fatti sono venuti a nostra conoscenza
durante il breve tempo che durato il nostro soggiorno, noi
citeremo i seguenti:
1. Francesco II con decreto 6 ottobre investiva dei pi
estesi poteri, coi titoli di alter ego, il maresciallo Luigi Scotti
Douglas, e quest'ultimo alla testa 1200 soldati e pi migliaia
di contadini da lui arruolati ed armati, percorse il distretto di
Piedimonte e di Isernia, sollevando dappertutto l'infima plebe
contro la borghesia, ci che prova la terribile reazione che si
manifestata ad Isernia e nei paesi limitrofi al momento stesso
del suo passaggio. Egli medesimo attacc i Piemontesi sul Macerone e com
-
pletamente battuto in poco volger di tempo, si rese prigio
niero al generale Cialdini con un gran numero di ufficiali e
parecchie centinaia di soldati.
2. Il governo di Gaeta ha arruolato in tre battaglioni, per
opera dello stesso generale Scotti, una massa di gente detti vo
lontarii, che si componeva in gran parte di galeotti usciti o fatti
uscire dai bagni dello Stato e di ladri confinati nelle isole di
Ponza e Ventotene.
Questi battaglioni tanto per la loro origine, quanto per le
loro azioni principalmente nei distretti di Sora ed Avezzano,
erano comunemente chiamati battaglioni di saccheggiatori, e gli
195
ufficiali borbonici stessi li distinguevano con questo titolo,
per non andar confusi sotto il medesimo stigmate d'infamia,
I furti, gli assassinii, gl'incendii, commessi da questi bat
taglioni sono innumerevoli.
3. Dal ministro di Francesco II, Pietro Ulloa, fu emesso
un gran numero di biglietti reali e distribuiti alla feccia del
popolo rotta ai delitti, dando ai portatori il diritto di chie
dere l'appoggio dell'autorit e della forza pubblica per qualunque
atto volessero consumare, e ben si conosce che da cotesti uomini
derivarono tutte le reazioni.
E ancora un fatto pubblicamente constatato che questi me
desimi uomini distribuirono ai contadini, abusando della loro
credulit, dei piccoli pezzi di carta bianca, assicurandoli che
erano stati inviati da Francesco II, il quale accordava loro per
otto mesi, in virt di questa carta, la facolt di commettere
qualunque specie di delitto purch tornasse in favore della causa.
4. La citt d'Isernia stata il teatro delle pi grandi
atrocit. Si riun un gran numero di contadini e di gendarmi,
che, ad un'ora fissata, non solo saccheggiarono tutte le case
dei borghesi e bruciarono il palazzo del signor Jadossi, stato
deputato al parlamento nel 1848, ma pugnalarono e fecero a pezzi
suo figlio dell'et di 21 anni circa, dopo avergli tolti gli occhi an
cor vivo.
Nella stessa notte furono trucidati Cosimo di Bagis ricco
ed onesto proprietario ed altri molti. Il giudice del circondario
si salv solo, perch perduto i sensi, cadde a terra, dopo cinque
gravi ferite ricevute alla testa.
Simili carneficine, ebbero luogo nel tempo istesso in altri
paesi circonvicini, e specialmente a Forli e Civitanuova, nella
qual terra un onorevole sacerdote fu tagliato a pezzi.
In un processo sommario istrutto da noi ad Isernia due te
stimoni oculari, Franc. Taradisori, e Desimone, ci hanno fatto
raccogliere i nomi degli autori di tali atrocit: questi nomi sono
precisamente quelli che sono notati in margine ad una sup
plica diretta da essi a Francesco II, nella quale domandarono
armi e munizioni e narrano come il 1. ottobre svaligiarono
due vetture e mandarono il prodotto del furto al palazzo di Gaeta:
che innoltre, essi avevano arrestati parecchi individui, fra i quali
un giudice ed un prete, ch'essi tenevano rinchiusi nelle prigioni di
Forli. La concordanza dei nomi pronunciati dai detti testi
moni con quelli notati nella detta supplica, in cui si legge
196
inoltre la scrittura autografa di Francesco II prova ad evidenza
donde siano partiti gli ordini di tutti cotesti orrori.
6. Nelle istruzioni del detto processo fu interrogato un
malvivente di Civitanuova, uno tra i capi della rivoluzione ac
cusato d'aver messo in brani il corpo di un sacerdote, come
sopra si disse. Questo colpevole, nominato Solideo Ricci, nella
deposizione che ha firmato assicur che il vescovo d'Isernia,
ora
tati
diti
fuggiasco, proclamato aveva dal pergamo i diritti illimi
che S. M. Francesco II accordava a suoi fedelissimi sud
per la difesa della propria causa.
La supplica indirizzata da Antonio Lelli e Nicola Onorato
di Forl a Francesco II nella quale dopo d'aver rammentato, come
essi disarmassero la guardia nazionale del loro paese, ed impri
gionassero il giudice ed altri molti, armarono in seguito il po
polaccio e si recarono a Casteldisangro per eccitare il popolo
contro i borghesi, ed invitarlo ad imitare l'esempio di Forli.
Essi aggiungono che quella plebe obbed alle loro istiga
zioni, fer il giudice del luogo Antonacci e due altri liberali, e in
cendi un palazzo alle grida di viva Francesco II. Per questi mo
tivi i supplicanti domandano un impiego a Francesco II.
Questi di propria mano l'8 ottobre segn con matita a
tergo dell'istanza per la remissione di essa al ministero dell'in
terno, dal quale con decisione dell' 11 andante ottobre in data
di Gaeta, indirizzata al sottoluogotenente d'Isernia, N. 357,
rinviossi l'istanza medesima perch si facesse rapporto in me
rito ai postulanti, onde poter dare alla loro richiesta la debita
evasione.
8. A Teano, il general Alfieri di Nivera, l' 11 settembre,
alla testa delle sue colonne, mentre passava in vicinanza del
l'abitazione del prete D. Tommaso Fumo, uomo benemerito
per aver mantenuto l'ordine nel paese, eccit a tal punto la
truppa e la plebe, che la casa del detto Fumo ne and saccheg
giata ed incendiata, e minacciate di morte tutte le oneste
per
sone che trovarono solo scampo nella fuga.
A Roccaguglielma i reazionari composti di gendarmi e della
feccia del popolo, s'impadronirono del barone Rosselli e del
fratello di lui, dopo averli sottoposti a mille torture, li decapi
tarono, e per pi giorni tennero le loro teste affisse a picche
innanzi alla caserma. In pari tempo bruciarono il palazzo Ros
selli, e quello di Fontesone; e, dopo aver sostenuto tutti i cit
tadini li condussero a Gaeta, ove sono ancora in prigione.
197
Il giudice di Roccaguglielma ha tentato invano di procedere
contro i carnefici di Rosselli, poich n'ebbe divieto da Fran
cesco II, oltre a ci tutte le persone che avevano preso parte
a tali eccessi furono arruolati col soldo di 45 grana per giorno,
che ricevono tuttora.
Ma oltre alle prove sopra dette, ci che meglio fa com
prendere che tutti siffatti orrori traggono origine dagli ordini
di Francesco II, emanati da Gaeta, il fatto dell'imprigiona
mento di gran numero di onesti uomini, che sono stati con
dotti a Gaeta, dove sono di presente, dai medesimi paesani
armati, che commisero gl'incendii e i massacri .
Teano, 21 ottobre 1860.
FARINI.
Cotesto primo rapporto basta a rivelare d'onde movesse la
reazione, e a qual disperato partito fossesi gittato Francesco Il
per riconquistare la ormai perduta corona. Noi non possiamo
che deplorare altamente le triste conseguenze di tanta scel
lerata determinazione, molto pi che essa non poteva in verun
conto valere a riconquistare al Borbone il potere perduto. La
libidine di sovraneggiare spinge sempre i principi a tali ec
cessi da parer favole a chi non li vede coi proprii occhi. Se
v ha cosa che possa in parte scusare questo giovine re, gli
appunto la sua stessa giovinezza, la inesperienza delle cose
politiche, la necessit in cui trovavasi di abbandonarsi ai perfidi
consigli di quegli iniqui che lo circondavano, i quali fecero si
che egli cadesse incompianto anzi esecrato come un piccolo
tiranno, il quale infinite scelleratezze avrebbe consumate se per
isventura d'Italia fosse rimasto sul trono. Gli uomini che cir
condavano il giovine Borbone erano affatto scellerati; ad essi
non era concesso vivere in Italia, essi prevedevano i dolori del
l'esiglio; quindi vennero al disperato partito di spingere colui
che chiamavano loro padrone, ad atti indegni, a carneficine
inumane, a crudelt inaudite.
Ora passeremo a dar notizie pi precise di questa feroce
reazione, che former nelle moderne storie una pagina nera
ed insanguinata.
Come disopra notammo la corte borbonica assediata nelle
fortificazioni aveva concentrate tutte le sue speranze nella rea
I98
zione, per altro tradizionale nel reame di Napoli, e che forma
una delle pagine pi terribili della storia napoletana. Disopra
accennammo come i luoghi fossero favorevoli al brigantaggio,
e come molta fatica debba durarsi per isnidare da monti al
tissimi e da immensi boschi anche pochi assassini.
In qual modo i popoli specialmente della Calabria e degli
Abruzzi pratichino il brigantaggio non necessario dire; solo
accenneremo che la selvagezza dei costumi mista alla fierezza
del carattere formano in quei paesi tali uomini da dirli quasi
invincibili, e coi quali non poche volte il governo borbonico
dovette transigere a fare patti come soglionsi praticare tra
nemici sui campi di battaglia. N in tutto stimolo di bassi
interessi; vi ha eziandio alti sentimenti di generosit che sa
rebbero lodevolissimi se non fossero impiegati in cause ingiuste
e se cos sovente non si adoperassero versando il sangue degli
inermi. Gli abitanti degli Abruzzi pi che alla natura degli Ita
liani, dolce e mite, partecipano a quella degli Arabi terribile e
fanatica.
I ministri di Francesco II facevano quanto umanamente po
tevasi fare affinch la reazione si sollevasse gigante e mettesse
in mezzo a due fuochi l'esercito garibaldino e quello setten
trionale; avevano fatti a questo oggetto larghe promesse; ave
vano disseminate infinite speranze, data quasi la certezza della
vittoria.
Aggiungevasi a questo l'irrompere dei disciolti soldati bor
bonici, i quali tutti non rientravano nel regno che per coa
diuvare la reazione. Il clero, quello specialmente che ubbi
diva alle insinuazioni di Roma, consigliava in tutte maniere
come opera santa il muovere guerra ai garibaldini ed ai pie
montesi e il proclamare il regno legittimo di Francesco II.
Fomentata da tanti mezzi la reazione cominciava nel mese di
settembre 1860, e proprio in quelle libere citt che pi si avvi
cinavano a Capua ed a Gaeta.
Da Isernia certo Vincenzo di Ciurcio, in data dell' 11 ot
tobre, spediva a Francesco II il seguente rapporto dei fatti
reazionari accaduti dagli ultimi di settembre fino a quel giorno
199
A SUA SACRA REAL MAEST FRANCESCO II
re del regno delle Due Sicilie.
-
Sire /
Il contadino Vincenzo Ciurcio alias Pagano d'Isernia fe
delissimo suddito, devotissimo ed attaccatissimo alla maest
sua (D. G.), l'espone ch'egli ha mossa la popolazione e mes
sosi alla sua testa, non escluso l'artigiano signor Raffaele Se
nape, che molto si cooperato, si assalt la sera del 30 il
corpo della guardia nazionale; vi si tolsero le armi; si disar
marono per le case le guardie nazionali; si ruppero le corde
elettriche, e si pose la pubblica sicurezza nelle mani dei con
tadini, per opera dell'esponente.
Il giorno seguente 1. ottobre, la popolazione distrusse
qualche individuo della maest sua, furono arrestati i corrieri
-
e i corrispondenti dei garibaldini da esso esponente, il quale
fece pure aprire il commercio dei generi per Capua, stato
impedito dai detti garibaldini, onde far morire di fame i regii;
ripristin gli stemmi e la bandiera borbonica; attiv il ser
vizio urbano, al numero di circa mille scelti tra i migliori,
pagando gr. venti il giorno per ognuno di danaro tolto dalla
cassa che si sapeva stata fatta per mantenimento del corpo
della guardia nazionale; accompagn due ufficiali ed un si
gnore di Sulmona, gi presentatosi alla maest sua, liberati
dalle carceri da lui, fino in Venafro al comandante delle reali
truppe, da cui l'umiliante fu nominato capo urbano, e fece
accompagnare anche da Venafro dagli urbani volontarii otto
gendarmi, che erano stati arrestati in quartiere per molti
giorni.
Nei giorni due e tre ha vegliato a mantenere la pubblica
sicurezza, specialmente la sera del giorno tre in cui venne una
forza di aiuto di cento gendarmi.
Nel giorno quattro si cantato l'Inno ambrosiano in onore
di S. Maest ed il popolo era pieno di gioia, quando alle ore
dicianove giunse una colonna di circa mille garibaldini a piedi
ed a cavallo, e fu attaccato fuoco, circa due miglia fuori l'abi
tato, particolarmente dall'esponente, dal nominato signor Se
nape, dai gendarmi e dagli urbani volontariamente; fuoco
200
proseguito fino alle ore 23 circa dentro il paese, allorch finita
la munizione si dovette retrocedere ed essere in Venafro, per
avere forza maggiore dalle reali truppe.
Nel giorno 5 quest'ultime aiutate dall'esponente, dal detto
sig. Senape, da costui nominato sotto-capo urbano, confermato
anche dal signor maggiore Gardi comandante superiore delle
truppe qui riunite, e dagli urbani volontarii, si fugarono i
garibaldini nella massima parte; altra parte fu arrestata e spe
dita alla maest sua, insieme ai sospetti del paese, ed altra
parte fu ammazzata, lasciandosi in pace i contadini, pochi ar
tigiani e pochi galantuomini stati fedeli alla maest sua, cose
che sono durate sino ad oggi dal giorno 6, nel quale si sta
bilirono anche gli avamposti, e sono rimasti fissi cento dieci
urbani, volontari, che si pagano col detto denaro della cassa
nazionale, ritrovata dall'esponente e dal detto sotto-capo ur
bano, che prossima a terminare; e non si sa come pagare
in appresso.
Ora pregata la lodata maest sua dare gli ordini ne
cessarii su ogni punto umiliato, e pi di tutto come deve farsi
per gli esiti urgenti dei corpi di guardia disarmati, e si com
piacia sua maest che l'esponente col sotto capo proseguono
nel loro impegno, come pure se in caso di bisogno possono
ottenersi altre truppe reali.
Umilmente le bacia i reali piedi .
Isernia, 11 ottobre 1860.
VINCENZO DI CIURCIo, capo urbano.
RAFFAELE SENAPE, sotto capo urbano.
Il governo borbonico arbitrario affatto e non avente altra
legge che la volont del principe ed i capricci dei suoi mi
nistri riusciva a disseminare la immoralit specialmente nella
classe bisognosa del popolo; onde non era nuovo vedere con
sumarsi un delitto per averne un premio, e divenir scellerato
per avere ricompensa sovrana; come non era nuovo vedere
il governo premiare i delitti e ricompensare con impieghi le
scelleratezze dei tristi, dalle quali aveva potuto cavare un qual
che vantaggio.
A noi pare impossibile che si possa sollevare al trono di
un re la domanda di premiare un assassinio, senza avere di
201
quel re un concetto ben tristo. Eppure un uomo con le mani
bagnate ancora di sangue osava chiedere a Francesco II una
ricompensa. Questo documento sar nelle storie una prova di
quanto possa cadere in basso un uomo sotto un governo
Iniquo.
Dal rapporto del cavaliere Farini, di cui parlammo poco
prima, i nostri lettori han potuto conoscere come il figlio del
Borbone rispondesse alle vili domande dei reazionarii; ora pub
blichiamo il documento che segue, proprio quale fu scritto da
Pietro Venditi calzolajo, anima vile che cercava col delitto un
tozzo di pane per s e per la sua famiglia.
A S. R. M.
Sire !
-
Pietro Venditti fu Giuseppe del comune di Carpinone,
calzolaio, divotamente l'espone quanto appresso.
Il petente, nel giorno 4 stante funzionava da capo urbano
in detto comune; e con venti paesani di mia fiducia feci ar
restare undici rivoltosi, e li consegnai al tenente di gendar
meria in Isernia, nel giungere i garibaldini furono posti in
libert.
Il giorno 5 corrente, ammazzai un tenente garibaldino, e
lo disarmai, ed il fucile con la baionetta, per ordine del mag
giore Gardi, lo consegnai al comandante d'Isernia. Il petente,
a tal bravura non pu pi avvicinarsi alla sua famiglia, temendo
di perdere la vita, e rimanere la sua famiglia desolata in
mezzo di una strada, di tenera et; un solo figlio potrebbe
dare un tozzo di pane alla sua famiglia, ma ritrovandosi al
servizio della M. S. nel reggimento di artiglieria nella decimot
tava compagnia.
La beneficenza della M. S. mi dia ordine onde poter ar
restare coloro che si ritrovano latitanti, che sono rivoltosi con
tro la real corona, e mi limito una forza per agire contro i
medesimi.
Se la clemenza della M. S. mi fa la grazia di potermi lu
crare un tozzo di pane per la famiglia sarebbe la seguente:
In Carpinone un venditore patentato di sale e tabacco
ritrovasi arrolato coi garibaldini, e non pu pi far parte della
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
26
202
M. S. il petente bramerebbe occupare un tal posto per soste
nere la sua famiglia, se la M. V. li fa la grazia. Tanto supplica,
e lo avr.
Sangermano, 15 ottobre 1860.
L'animo inorridisce a pensare a tanta umiliazione di un
uomo che cercava in ricompensa di un omicidio dalle mani
stesse del re l'impiego di venditore di tabacco.
E possibile trovare cittadini scellerati sotto qualunque forma
di governo; ma solamente sotto i governi assoluti possono ri
trovarsi esseri simili al calzolaio Venditti; pure duopo con
venire che una causa la quale ha di tali difensori sia assoluta
mente perduta.
-
Nel settembre gravi sciagure accadevano in Sora. Una co
lonna capitanata dal generale Kikels de la Grange suscitava
negli Abruzzi la reazione in nome di Francesco ll e del papa.
Essa formata da volontarii sanfedisti e dagli sbirri della caduta
polizia napoletana seminava il terrore in quelle povere con
trade. A Piano di Sora commetteva atrocit inaudite. Taluni
patrioti furono abbruciati, sgozzati alquanti fanciulli, le donne
violate e poi barbaramente uccise. Lo stesso generale De La
Grange rimase siffattamente inorridito da quelle scelleratezze,
che fece arrestare i capi della reazione. Nella fazione di Sora
circa cento prigionieri vennero condotti a Mola di Gaeta, dove
alcuni di essi furono fucilati; tra questi contavansi tre preti e
due vecchi ottagenari.
A Chieti scoppiavano il giorno 19 settembre moti reazio
nari; ed alcuni della guardia nazionale di Vasto furono quivi
chiamati dall' intendente; coll'idea pure di concentrare col
una forza imponente per mettere un argine alla banda di Sora,
se mai avesse voluto rivolgere la sua marcia verso quelle
contrade.
In Gallo si videro le stesse scene di sangue; in quella citt
due dei pi conosciuti liberali furono scannati. Rocca Gu
glielmo e S. Pietro in Carolis, distretto di Gaeta, furono an
ch'esse insozzate di sangue cittadino. Stragi orrende vennero
consumate a Montefalcone ed a Castel di Sangro. In quest'ultimo
comune fu massacrato il giudice regio. Un forte corpo di
Borbonici avvicinossi ad Arpino; tanto che il capitano Pateras
coi suoi volontarii bisogn accorrere contro di esso. Pel di
203
4 ottobre giorno dedicato a S. Francesco erasi macchinata una
generale reazione; e diffatti moti parziali scoppiarono a Castro
villari, a Pietrabbondante. A Santa Croce, a Portici ed a Torre
del Greco si grid viva Francesco II. In Napoli stesso la po
lizia pass all'arresto di non piccol numero di reazionarii, i
quali, nella pi grande fiducia della vittoria dei Borbonici e
del ritorno di Francesco nella metropoli avevano preparato
bandiere bianche ed andavano eccitando la plebe delle vicine
Campagne.
Bande armate percorrevano commettendo ogni genere di
delitti in Contado di Molise, ove accorso un corpo di gari
ri
fi
r
l'
43
i
l
baldini, il quale sopraffatto dal numero soffr ingenti perdite,
essi non erano che circa 700, e si trovarono in mezzo a quasi
7000 nemici tra regii e reazionari. I nostri si batterono di
speratamente, ma finalmente dovettero cedere e caddero al
cuni morti, altri feriti, altri prigionieri ed il rimanente and
disperso. Fra i prigionieri trovossi il capitano che venne ta
gliato a pezzi; tre ufficiali furono barbaramente feriti lungo la
via e poi rinchiusi in una stanza, ove furono lasciati senza
cibo n assistenza di sorta; fra questi era un giovinetto di 14
anni, chiamavasi Salvadore Nobile, che era stato ferito da due
palle al capo.
Noi non staremo a descrivere pi oltre i fatti crudeli della
reazione perciocch amore della dignit umana ci costringe a
ricoprire di un velo tante scelleratezze commesse in nome del
diritto divino. Diremo per sommi capi, che taluni preti predi
carono al popolo di poter fare ci che loro piaceva contro i
liberali, e che sarebbero stati ricompensati da Dio e da Fran
cesco II; diremo che gli sventurati caduti nelle mani dei san
fedisti, prima di essere uccisi, erano tormentati in varie guise
e sempre crudeli; diremo che le stesse donne mostrarono
inaudita ferocia, quale non pare del debole sesso; e che tutti
coloro che si raccolsero sotto la bandiera reazionaria furono
egualmente scellerati ed iniqui.
Ci che accadeva nelle provincie, ripetevasi in Napoli, ma
sotto le sole forme di speciali dimostrazioni. Non passava
giorno in cui non si dovessero vedere degli assembramenti nu
merosi in qualche quartiere della citt, che sovente gridavano
evviva Francesco II. La polizia arrestava quei fanatici e ne
riempi le carceri, ma altri ne sorgevano e si era sempre da
capo. Il governo non temeva la reazione, ma era continuamente
204
molestato da quelle dimostrazioni che gli formavano ostacoli
nel progresso dell'amministrazione. Il governo nel punire i rea
zionari procedeva con troppa lentezza, e fors'anco mostravasi
debole; quindi i Borbonici prendevano animo, e come se mai
dovessero esser puniti, si sfrenavano a continue manifestazioni
contra il governo. Anche degli omicidii accadevano, ma questi
erano fatti particolari che solamente da lontano accennavano
allo spirito reazionario.
Facile cosa sedurre un popolo ignorante come quello di
Napoli; e i gesuiti ed i loro affigliati mettevano in opera tutti
i mezzi per sedurlo e trascinarlo nell'errore. Quanti insieme
ai Borboni erano caduti da alti posti, ed erano mal visi al po
polo per antiche prepotenze ed ingiustizie, tutti dandosi l'un
l'altro la mano si affaccendavano a tradire la plebe ed a spin
gerla in mezzo ai disordini; dallo Stato pontificio continuavano
a discendere i soldati borbonici, che organizzandosi a squadre
infestavano le provincie e gittavano dappertutto la confusione
e lo spavento.
Le forze regolari erano occupate prima intorno a Capua ed
a Gaeta, poi solamente intorno a quest'ultima fortezza; non
era perci possibile estirpare la reazione, non potendosi inviare
sufficienti truppe sui luoghi minacciati.
Solamente la guardia nazionale guarentiva le citt; ed essa
fece prodigi di valore e lavor indefessamente per fare che
l'ordine non venisse turbato, e che i disordini fossero arre
stati in sul nascere. Non esitiamo a dire che la guardia nazio
nale di Napoli sia stata la vera salvezza di quel paese.
La lode non si dee solamente alla guardia nazionale di Na
poli, ma a quella altres di altre citt e paesi dove sempre
prontamente accorreva onde rimetter l'ordine quando fosse
turbato. Si pens pure a mobilizzare alcuni battaglioni della
guardia nazionale dell'alta Italia, che furono spediti nel Napo
letano; cos contemporaneamente fur visti risiedere a Napoli
un battaglione della guardia nazionale di Torino, a Capua un
secondo di Firenze, ed a Venafro un terzo di Milano. Costoro
mobilizzati per quaranta giorni prestarono molti servigi alla
patria; non curarono le privazioni d'ogni sorta in cui si trova
rono, e come tanti carabinieri perlustravano i monti, arresta
vano i briganti e davano luogo alla truppa perch venisse de
stinata in punti pi essenziali.
Oltre a questo recavano altro vantaggio grandissimo a quelle
popolazioni o ignoranti o selvagge ed era la civilizzazione che
vi portavano. Infatti non era possibile vedere le guardie na
zionali lontane dalle citt natie lavorare giorno e notte per
la quiete di quelle provincie senza sentirsi elevare all'altezza
della grande causa che si agitava in Italia, quella cio dell'unit
italiana. da calcolarsi eziandio il salutare effetto dell'affratel
lamento; perciocch era quella la prima volta in cui gl'Ita
liani del nord vivevano come fratelli in mezzo agli Italiani
del sud.
Ma comunque siffatti espedienti giovassero, non erano baste
voli a sbarbicare la mala pianta della reazione la quale di tratto
in tratto scoppiava in diversi punti del reame, bagnando sempre
di sangue cittadino i luoghi sfortunati ov'essa alzava la testa.
Per questo si chiedeva continuamente nuove forze a Torino, ed
il governo non tralasciava di inviare truppe a Napoli; ma come
la reazione durasse, ed in che modo venisse fomentata dai
preti e dai Borbonici appresso diremo.
Per ora ci basti il notare che presa Capua, e ristretta alla
-
sola Gaeta la dominazione borbonica, venivano meno le trame
reazionarie, ed il pericolo andavasi attenuando.
Noteremo ancora che la disciolta truppa del Borbone, vero
strumento di reazione, scoraggiata dalle perdite di Francesco II,
mano mano ritiravasi al proprio focolare lasciando il tristo e
pericoloso mestiere del brigantaggio.
Intanto una colonna mobile, comandata dal generale Pinelli,
uomo risoluto e fors'anco terribile, giungeva negli Abruzzi dove
trovava lo stato di assedio proclamato dal governatore della
provincia di Aquila, e parendogli quella misura alquanto salu
tare la conferm e l'estese a tutti quei comuni della provincia
che vieppi erano minacciati. Ecco il decreto del generale
Pinelli:
Visto la proclamazione dello stato d'assedio pubblicato dal
governatore della provincia d'Aquila al maggior generale co
mandante le truppe di S. M. il re Vittorio Emanuele II stan
ziato in questa provincia, dichiara:
1. Lo stato d'assedio con tutte le sue conseguenze avr
luogo dal giorno 4 novembre. .
2. I
comuni nei quali dichiarato lo stato d'assedio sono i
seguenti:
Nel distretto di Aquila.
I comuni di Arischia, Pizzoli, Barete, Cagnano, Montereale
e circondario, Lucoli, Preturo, Rocca di Mezzo, Rocca di Cam
bio, Ocre, S. Demetrio.
Nel distretto di Civita Ducale.
Civita Ducale.
L'intero circondario di Fiamignano.
L'intero circondario di Borgo Colle Fegato.
Nel distretto di Avezzano.
L'intero distretto.
Finalmente in tutti gli altri comuni in cui venissero a solle
varsi disordini, per parte dei reazionarii s'intender ipso facto
proclamato lo stato d'assedio.
3. Viene istituita una corte marziale, composta dai membri
qui infrascritti, la quale dovr prendere cognizione di tutti i
delitti commessi dagl'individui appartenenti alle sedicenti bande
borboniche, e giudicare tutti coloro che a causa di reazione
trovansi o verranno tenuti ed accusati di avere attentato e co
spirato contro il governo e l'ordine stabilito; di avere illegitti
mamente ritinita ed usata la forza armata, di avere sciente
mente e con volont somministrati mezzi, od altrimenti coo
perato; di averne taciuto la rivelazione, di avere distrutto, ab
battuto od in altro modo sfregiato lo stemma sabaudo, l'im
magine o la statua del re Viltorio Emanuele II, o la bandiera
nazionale italiana; di avere portato le armi contro le truppe
del re Vittorio Emanuele ll od i rappresentanti e partigiani
della causa nazionale, o di aver commesso violenze o rapine
nei comuni della provincia, o di essere stati autori e promotori
dei disordini che hanno perturbato il territorio di essa in questi
ultimi giorni.
4. I colpevoli saranno giudicati colle pene portate dallo sta
tuto penale militare per il regno delle Due Sicilie.
Composizione della corte marziale.
Luogotenente colonnello cavaliere Pietro Quintini coman
dante il 40. reggimento fanteria. Presidente.
207
Membri.
Maggiore nobile Annibale Cavalchini del 40. fanteria.
Maggiore cavaliere Giulio Caldellari, comandante il 9. ber
saglieri.
Capitano Enrico Franchini del 9.
idem.
id.
Francesco Sforza del 40. reggimento fanteria.
id.
id.
Michele Cavanna.
Cavaliere Carlo Ceresa
id.
id.
Membri supplenti.
Signor maggiore Paolo Carlo Ferrero del 48. reggimento
fanteria.
Capitano Carlo Prevignano del 9. battaglione bersaglieri.
id.
Eugenio Giustetti del 40. reggimento fanteria.
id.
Cesare Cavanna.
Il signor capitano marchese Corelli Achille del 40. reggi
mento fanteria, adempir le funzioni di capitano relatore.
Il signor giudice Michelangelo Naldi assumer le funzioni di
istruttore e di uomo di legge presso della corte marziale, e le
funzioni di cancelliere verranno assunte dal sargente Baldessera
Giuseppe del 40. reggimento.
La corte terr le sue sedute in una delle sale del palazzo
comunale di questa citt.
Aquila, 5 novembre 1860.
Il maggiore generale
FERDINANDO PINELLI.
Coteste energiche misure intimorivano i reazionarii, e mo
stravano che il governo voleva agire risolutamente; ond' che
in vari punti del reame i governatori spinti dal governo stesso
procedevano con animo forte e risoluto contro i perturbatori
dell'ordine pubblico.
Il corpo dei cannonieri marinari, erasi disciolto sotto il go
verno dittatoriale e gl'individui che lo componevano tornando
alla propria casa, e o non avendo di che vivere, o non volendo
lavorare si davano al brigantaggio
-
Come per incidente ripeteremo che errore gravissimo fu
208
questo commesso dal governo dittatoriale, perciocch se non
difficile improvvisare un'armata di terra, non possibile im
provvisarne una di mare. Lungo esercizio e pratica sono ne
cessarii in quel mestiere, e sciogliere un corpo gi bello e for
mato, per mettersi all'opera di formarne uno nuovo tale uno
sbaglio da non potersi perdonare. Molto pi che proprio in
quei giorni la flotta era necessariissima alla rivoluzione.
L'altra sinistra conseguenza fu l'avere accresciuto per questo
modo il numero dei malcontenti e dei reazionarii.
Verso la met di ottobre in Cosenza e nei vicini paesi i
cannonieri marinai avevano suscitati disordini, ed il governo
servendosi di quella circostanza pens correggere l'errore pre
cedente, dispose quindi di richiamarli al servizio e venne pub
blicato a tal uopo il seguente manifesto, che noi togliamo da
un giornale che stampavasi allora in Cosenza, il Monitore Bruzio.
La condotta, serbata nei passati giorni dagl'individui del
disciolto corpo di cannonieri marinari, stata riprensibile.
Laonde il ministero della guerra, in seguito di superiori or
dini, ha adottato i provvedimenti che qui appresso verranno
indicati, e sappia ognuno che saranno scrupolosamente e rigo
rosamente fulminati contro gli inadempienti.
1. Chiunque di essi cannonieri marinari non ha terminato
il triennale impegno di nuova leva, o quello di anni otto di
pianta, deve compierlo, non essendovi alcuna ragione in con
trario.
2. Chi lo abbia terminato sar congedato. Per il corso
regolare delle carte dovr camminare per mezzo dei propri
superiori, e questo diritto non potr sperimentarsi se non da
coloro i quali, ubbidienti agli ordini che ricevono non se ne
mostrano ricalcitranti.
3. Coloro quindi che abbiano commesso la mancanza di
abbandono delle rispettive destinazioni, sia di terra che d'im
barco, non si mostrano docili alla presentazione, sar loro
apposta la caratteristica di disertori, e sommessi a tutto il
rigore delle leggi, saranno arrestati e detenuti nelle carceri
di Castel Capuano.
Epper si pregano vivamente i municipii e i coman
danti le guardie nazionali d'insinuare ai cannonieri marinari
di presentarsi spontaneamente ed immediatamente alle auto
209
rit costituite, onde compiere il loro impegno, e cos non in
correre nel meritato castigo, facendo pure loro comprendere
quanto sia onorevole e meritorio l'attuale servizio, che si presta
in favore della comune patria italiana.
Cosenza, il 26 ottobre 1860.
Pel governatore, il segretario generale
LUIGI DE MATERA.
Il governatore di Teramo, De Virgilii, uomo energico, com
prese anch'esso il bisogno della forza per reprimere il bri
gantaggio; e quindi usando della risoluzione presa in consiglio
dei ministri, dichiarava anch'esso lo stato di assedio. Per i
suoi ordini molto somigliavano a quelli della polizia borbonica.
Eccone un esempio.
IL GOVERNATORE DELLA PROVINCIA DI TERAMO.
Vista la risoluzione presa in consiglio dei ministri con
cui si concedono ai governatori delle provincie poteri eccezio
nali ed illimitati per reprimere il brigantaggio ed i disordini
che in alcune di esse si vanno manifestando;
Visto il decreto del 17 settembre ultimo;
Visto lo statuto penale e l'ordinanza di piazza per la pro
clamazione dello stato d'assedio e la creazione dei consigli di
guerra subitanei,
Ordina:
1. Tutti i comuni della provincia, dove si sono manife
stati e si manifesteranno movimenti reazionarii e briganteschi,
sono dichiarati in istato d'assedio, e vi saranno sottoposti di
diritto al primo manifestarsi del minimo disordine.
2. ln tutti i detti comuni, fra le 24 ore dell'affissione
della presente ordinanza, sar eseguito un rigoroso e gene
rale disarmo da comandanti di distaccamento in essa accan
t0nati.
3. I cittadini che mancheranno alla esibizione, entro il
detto spazio di tempo, delle armi di qualunque natura, di cui
siano detentori, saran puniti con tutto il rigore delle leggi mi
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
27
210
litari, da un consiglio di guerra subitaneo che verr stabilito
da rispettivi comandanti.
4. Gli attruppamenti saran dispersi con la forza. I rea
zionarii, presi colle armi alla mano saran fucilati. Gl'illusi ed
i sedotti, che al giungere delle forze nazionali, depositeranno
le armi e si renderanno avran grazia. Ai capi e promotori non
si accorder quartiere, purch non si rendessero a discrezione
e senza la minima resistenza; nel qual caso, avran salva la
vita e saranno rimessi al poter militare.
5. Gli spargitori di voci allarmanti, e che direttamente
o indirettamente fomentano il disordine e l'anarchia, saran con
siderati come reazionarii, arrestati e puniti militarmente e con
rito sommario .
Teramo, 2 novembre 1860.
Il governatore P. De Virgilii.
Il segretario E. MEzzoPRETI.
Furono queste le misure prese dal governo per compri
mere lo spirito reazionario. Ma esse non bastarono e la rea
zione non ispenta in sul nascere continu come appresso ve
dremo ad incredulire specialmente nelle provincie abruzzesi.
CAPIT0L0
XII
Protesta di Francesco II. La guarnigione
della cittadella di Messina, Cose delle
Marche e dell'Umbria. Protesta del cardi
nale Antonelli,
Nulla fa tanto conoscere in che modo il giovine Fran
cesco II s'illudesse sull'aiuto delle potenze amiche quanto le
continue proteste che faceva in faccia all'Europa su quanto
accadeva cos per opera dei garibaldini, come per opera del
l'esercito sardo. Noi per nulla tralasciare di quanto appar
tiene alla storia ritorniamo un passo indietro ad assistere
agli ultimi sforzi diplomatici della corte borbonica in Gaeta.
I nostri lettori ricorderanno come i regii usassero crudelt
sui prigionieri garibaldini e tanto che Francesco II con un or
dine del giorno dovette rammentare a suoi soldati quei sen
timenti di umanit che sono scritti in caratteri indelebili nel
cuore dell'uomo e che imperano eziandio sui campi di bat
taglia. Ora quei garibaldini stavano ancora prigionieri in Gaeta;
quando Cialdini alle falde del Macerone fece prigioniero il ge
nerale Scotti ed altri ufficiali e soldati, fece sapere al luogo
tenente generale Ritucci che ove per avventura ad un solo ga
ribaldino venisse torto un capello egli avrebbe fatto rappre
saglie tanto sul generale Scotti che sopra gli altri prigionieri.
Questa dichiarazione del Cialdini parve immeritata alla corte
borbonica, la quale pensava di aver ben trattato i prigionieri
garibaldini, e di avere anzi molto diritto a dolersi che simili
riguardi non si fossero usati ai prigionieri borbonici i quali
stovenivano mandati in Genova e quivi incorporati ai batta
glioni dell'esercito sardo.
212
Ricorderanno ancora i nostri lettori come Cialdini invitasse
a colloquio il generale Salzano e come si studiasse di per
suaderlo a non voler durare una inutile resistenza ed a ri
sparmiare il sangue e le stragi. Ora in quella occasione accadde
un fatto che narreremo.
Salzano recavasi presso Cajanello, luogo determinato al
l'abboccamento, accompagnato da un peluttone di cavalleria
per sua scorta. Incontrava a Teano un distaccamento di truppe
garibaldine ed avvertiva il capo di esso che il peluttone di
cavalleria lo lasciava a Teano con ordine di aspettare, e che
continuava solo il cammino fino a Cajanello. Or quando Sal
zano tornava, pi non rinvenne il peluttone che i garibaldini
avevano gi fatto prigioniero.
Cotesto avvenimento parve al Borbone un grave delitto; tale
da dover suscitare lo sdegno delle potenze, come se le po
tenze volessero trovare un'occasione per dichiararsi in suo
favore e per farla finita con le usurpazioni di Vittorio Ema
nuele.
Aveva di pi il Cialdini pubblicato un proclama col quale
dichiarava che chiunque avesse impugnato le armi contro l'e
sercito di Vittorio Emanuele e suscitati interni disordini con
reazioni ed assassinii sarebbe stato issofatto fucilato; ora il
Borbone avrebbe voluto che Cialdini considerasse i reazionari
e gli assassini come soldati di un esercito nemico, e a tale
uopo faceva pompa della sua clemenza usata non solo ai ga
ribaldini che dovevano essere estimati come privati, ma ai
sudditi stessi napoletani che avevano impugnato le armi contro
il loro legittimo sovrano, e che a motivo della guerra erano ca
duti prigionieri. o
Sopra siffatti argomenti veniva scritta e presentata ai rap
presentanti delle potenze estere la seguente protesta:
Il sottoscritto ha l'onore di dar conoscenza a S. E. di al
cuni fatti che hanno seguito l'ingresso dell'esercito piemontese
nel regno, e che bastano a determinare il carattere di questa
ingiusta invasione. Dopo il primo scontro colle regie truppe,
il generale Cialdini avendo fatto prigioniero il generale Scotti,
si creduto autorizzato di ordinare al giudice di Venafro
d'indirizzare al luogotenente generale Ritucci una comunica
zione con cui dichiaravasi che, se si toccasse un sol capello dei
213
prigionieri garibaldini, sarebbesi usata rappresaglia sul generale
Scotti e sugli altri prigionieri fatti nell'armata regia.
Senza parlare del carattere ingiurioso di questa comunica
zione da parte d'un generale comandante un corpo di truppe
regolari ad un altro generale che si trova in una posizione af
fatto simile alla sua, chiaro che tali minaccie non erano in
nulla giustificate da fatti precedenti, conoscendo tutti con quanta
umanit, ed anche generosit, sono trattati a Gaeta per ordine
del re, i nemici prigionieri.
I feriti ed i prigionieri garibaldini medesimi i quali avreb
bero meritato secondo le leggi militari riconosciute e praticate
finora da tutte le potenze civili, la pena che viene comune
mente inflitta ai pirati, furono trattati con tutti i riguardi pos
sibili, e sono fin anco nutriti, vestiti ed alloggiati meglio dei
soldati fedeli al re, e possono renderne testimonianza essi me
desimi; mentre che i prigionieri regii fatti da Garibaldi nel 1.
ottobre, condotti a Napoli, erano costretti a partire per il Pie
monte, ove erano forzati ad arruolarsi nelle truppe della Sar
degna. Un'altra circostanza, sulla quale il sottoscritto ha l'o
nore di chiamare l'attenzione di S. E. come assolutamente
contraria alle prime nozioni del diritto di guerra, alle abitu
dini ed all'onor militare, la condotta tenuta dal generale Cial
dini nell'abboccamento da lui stesso richiesto al generale Sal
zano, comandante in capo provvisorio dell'esercito.
Il generale del re si recava nel luogo disegnato per l'ab
boccamento presso Cajanello, accompagnato da un peluttone di
cavalleria per sua scorta, ch'egli lasci indietro a Teano, per
andar tutto solo al suo abboccamento, secondo il desiderio
espresso dal generale Cialdini. Avendo incontrato a Teano un
distaccamento di truppe garibaldine, il generale Salzano av
Vertiva il capo di quella truppa che il peluttone di caval
leria
formava la sua scorta, che lo lasciava a Teano con ordine
di aspettare, e che continuava il suo cammino per abboccarsi
Senza testimonii col generale Cialdini, come erasi convenuto.
vano ripetere le parole del generale Cialdini le quali non
avevano altro scopo che di provare l'inutilit di combattere,
appoggiandosi sull'estensione dell'usurpazione del Piemonte
sugli angusti limiti ne quali esercitata la legittima autorit
di S. M. Siciliana. Il generale Salzano rispose a quella pro
P0sta coi sentimenti di fedelt e di onore che gli sono proprii,
dichiar che il suo re legittimo regnava a Gaeta, e che era
-
214
preparato a difendere l'autorit e gli Stati del re sintanto che
restasse in vita ed avesse un soldato da combattere con lui.
Ma il generale Cialdini non si accontent di cercar di abbat
tere la costanza delle truppe rimaste fedeli al re e dei loro
bravi capi con artifizii famigliari ai luogotenenti del re Vit
torio Emanuele; il generale Cialdini ha anche permesso che
si commettesse un delitto senz'esempio della civilt moderna e
che sollever certamente l'indignazione di tutti coloro che ap
prezzano l'onor militare.
Allorch il generale Salzano si fece a ritornare a S. Agata
per Sessa, dopo aver terminato un colloquio che non poteva
aver nessun risultato, rientrando in Teano non trov pi la
Sua SCOrta.
Essa era stata fatta prigioniera dal capo del distaccamento
garibaldino ch'erasi visto conferire agli avamposti dell'esercito
piemontese durante l'abboccamento del generale Salzano col
generale Cialdini.
L'ultimo fatto che deve essere sottomesso, come quelli
che precedono, al giudizio dell'Europa civile il proclama
recentemente pubblicato dal generale Cialdini con cui si an
nuncia che tutti i paesani, che avranno preso le armi per la
difesa del loro legittimo sovrano, saranno fucilati senza
quartiere.
Basta confessare l'esistenza di tali bande di volontarii
regii che hanno gi raggiunto una certa importanza, per ri
conoscere la poca sincerit della pretesa unanimit del voto
popolare in favore d'un cangiamento di governo, ma bisogna
anche osservare che il Piemonte, pretende in virt d'un nuovo
diritto di guerra riservarsi il privilegio esclusivo d'impiegare
il nuovo elemento di forze militari di cui esso pel primo fece
uso, vale a dire delle milizie volontarie.
Non sar inutile aggiungere che mentre S. M. siciliana
fa grazia della vita non solo agli stranieri che furono fatti pri
gionieri in una guerra di banditi, ma anco a suoi propri sud
diti, cittadini forviati od ingannati, che sono caduti nelle mani
delle regie truppe, allorquando servivano nelle file delle bande
garibaldine, i luogotenenti del re di Sardegna s'arrogano il
diritto di porre a morte sudditi fedeli al legittimo sovrano,
che prendono le armi animati da un giusto e santo ardore
per difendere il loro re e la loro patria contro la pi iniqua
delle nemiche aggressioni.
215
Il sottoscritto si astiene da ogni altra considerazione sui
fatti esposti. I fatti a qualificare l'ingiusta guerra fatta dal
Piemonte a S. M. il re delle Due Sicilie, e questa guerra,
sempre fedele all'idea rivoluzionaria che l'ha ispirata, viola ogni
fede, calpesta i pi sacri diritti, e arriva sino a violare le leggi
militari che nobilitano la vita e la professione del soldato .
-
CASELLA.
Con siffatte proteste intendevasi tentare la compassione delle
potenze amiche, ma esse tornavano vane, ch le potenze ri
man vano nel silenzio, e gi stimavano affatto perduta la causa
del Borbone. Per la corte di Gaeta fidava nella reazione, e
sperando che a poco a poco prendesse grandi proporzioni si
studiava a tener fedeli e forti i pochi soldati che ancor le re
stavano. La cittadella di Messina tenevasi ancora dai regii,
anzi essi si ostinavano a tenerla, tanto che coloro i quali ave
vano compiuto il loro tempo di servizio vollero continuare a
servire. Questo fatto che noi sotto l'aspetto militare lodiamo
altamente forni un argomento di proclama ben appropriato
per rassodare le truppe nella virt della fedelt pel loro legit
timo re Francesco ll, e nella speranza di essere generosamente
ricompensati da una corte che pareva si commovesse a quelle
prove di virt.
Ecco il proclama.
Gaeta, 5 novembre.
Sono gi quattro mesi che la guarnigione di Messina,
chiudendo l'orecchio a tutte le seduzioni e minaccie, respinge
gli attacchi del nemico, e non lascia sfuggire alcuna occasione
di mostrarsi ferma e decisa a sostenere la causa dell'augusto
Francesco II.
Ma test diede una prova ben pi luminosa, ch'essa pre
ferisce le sofferenze, le fatiche ed i pericoli della guerra alle
dolcezze della famiglia e alle cure domestiche. Tutti i soldati
ed i sotto ufficiali che, avendo compiuto il loro tempo di ser
vizio, hanno diritto ad un congedo definitivo, presero l'ono
revole risoluzione di rimanere sotto le bandiere fino alla fine
della guerra. S. M. volendo consacrare la memoria d'un sen
216
timento cos generoso, e rendere quei militari superbi di s
bella e marziale risoluzione, ha ordinato che siano tutti deco
corati della medaglia d'argento dell'ordine di Francesco II ,.
Il generale direttore della guerra
ANTONIo UlloA.
Tale era la situazione della corte borbonica in quei giorni
di sventura, tali erano le sue speranze, e tali gli espedienti
ai quali era costretta ricorrere per tentare ancora la sorte.
In condizione quasi eguale trovavasi la corte di Roma che
aveva gi perduto le Marche e l'Umbria, e che temeva di per
dere lo stesso patrimonio di san Pietro sotto la rapida succes
sione di fatti inaspettati.
Comunque questa storia debba limitarsi alla insurrezione di
Sicilia, ed alle prodezze di Garibaldi, pure non possiamo fare
a meno di dir poche cose su quelle provincie pontificie, primo
perch tutti i fatti si legano intimamente, secondo perch si
deve alla rivoluzione siciliana il rapido scioglimento della que
stione dell'Umbria e delle Marche.
Non appena le truppe sarde entrarono dalla parte di Pe
saro e di Arezzo nelle provincie soggette al papa, tutte le
citt ribellaronsi ed alzarono la bandiera tricolore con lo
stemma di casa Savoia. La provincia di Viterbo, appartenente
al patrimonio di san Pietro segui l'esempio di Perugia e di
Ancona, abbass le armi papali e stabili in nome di Vittorio
Emanuele un governo provvisorio. L'invasione delle Marche
e dell'Umbria scosse fortemente il partito clericale d'Italia e
specialmente quello di Francia. Napoleone III per versare un
poco di balsamo sulla piaga gi viva diede segni di disappro
vazione, e fece passi perch la camera rimanesse libera al
papa, n i Piemontesi vi mettessero piede. Fu necessit quindi
richiamare sotto l'antico dominio clericale la provincia di Vi-.
terbo, ci che rec infinito dispiacere all'Italia tutta. Il go
verno provvisorio di Viterbo protest contro i disegni della
Francia, ma quelle proteste non valsero; un distaccamento di
truppe francesi recossi a Viterbo a restaurarvi il governo del
papa, e ve lo restaur realmente. Ma i Viterbesi vollero dimo
strare contro tale misura, ed i pi ricchi e liberali cittadini
emigrarono in massa nelle vicine provincie, protestando alta
-
217
mente contra la violenza che loro veniva usata. Noi ripor
tiamo un indirizzo all'imperatore Napoleone; esso merita per
la dignit con cui scritto di essere registrato nella storia.
A S. M. L'IMPERATORE DEI FRANCESI.
Abbiamo lasciato la patria, il tetto dei padri nostri, le
mogli ed i figli, per non sopportare il dolore di vedere la ban
diera di Solferino restauratrice della mala signoria dei preti.
Abbiamo lasciato le dolcezze della vita domestica, abbiamo
abbandonato il lavoro, sospeso il nostro commercio, affron
tate le sciagure e le lagrime dell'esiglio, per mostrare a voi,
che noi pure vogliamo esser liberi cittadini di una grande na
zione. Abbiamo dato cos partendo il nostro voto alla mo
narchia costituzionale di Casa Savoia, al sovrano generoso che
per restaurare fra noi l'ordine morale, ha affrontato lo sdegno
della diplomazia. Lo seguiremo dovunque.
Sappia l'Europa che, perduta la patria, sacrificheremo
anche la vita per concorrere al riscatto d'Italia. Sire, sap
piamo che si tenta impedire che la nostra voce, che le nostre
querele giungano sino a voi. I nostri nemici osano dire che
abbiamo applaudito al ritorno dell'odiato governo. Non li
credete, maest, essi studiano ingannarvi. Credete a noi che in
voi amiamo l'alleato del nostro re, il generoso soldato che
espose la sua vita per liberarci dal giogo straniero.
L'Italia non ingrata, sire: l'ingratitudine per voi la pro
fessano coloro ai quali oggi le vostre schiere hanno reso l'in
felice nostra provincia .
Cotesto nobile indirizzo una viva manifestazione di quel
l'amore che i Viterbesi sentivano per le istituzioni liberali, e
dell'abborrimento che provavano verso il governo dei preti.
Cadute le Marche e l'Umbria, il governo di Torino vi mandava
immantinenti due commissari generali straordinari per go
vernarle; uno per le Marche residente in Ancona, l'altro per
l'Umbria residente in Perugia. Cotesti commissarii governa
rono per pochi giorni quelle provincie uscite allora dal dominio
clericale, e diedero opera perch le liberali istituzioni comin
ciassero ad esservi attuate. Ma ci che pi importava era il ple
biscito; perciocch in quei momenti di entusiasmo esso po
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
28
218
teva riuscire generale ed unanime e dare cos al governo pon
tificio una prova di pi che i popoli non potevano pi tol
lerarlo. Per altro, senza il suffragio universale il governo sardo
non avrebbe avuto che il diritto di conquista. Napoli e Sicilia
gi si affrettavano, era necessario convocare i comizii generali
anco nell'Umbria e nelle Marche. In data del 21 ottobre i com
missari straordinari pubblicarono proclami e decreti, e segna
rono i giorni 4 e 5 novembre alla votazione. Ecco il pro
clama ed il decreto del commissario delle Marche, Lorenzo
Valerio.
-
ITALIANI DELLE MARCHE.
Con decreto d'oggi io vi chiamo a determinare per vota
zione solenne la vostra sorte politica. Avrei desiderato di far
precedere a questo atto l'organamento completo delle vostre
provincie, alle quali la natura diede tutto per farle prospere,
e una dominazione ora fiacca, ora violenta, ingiusta sempre,
tolse ogni cosa, e avrebbe rapito anche il libero ingegno e
l'onore agli uomini se orma di Dio si potesse cancellare. Ma
oggi gli avvenimenti si succedono con una rapidit ignota ed
impossibile in altri tempi, ed al loro confronto le previsioni
pi sollecite divengono tarde. trascorso poco pi di un mese,
dacch voi faceste pervenire al re il grido del vostro dolore, e
gi foste non solo liberati, ma rallegrati dalla vista del libe
ratore. I baluardi d'Ancona, che furono tante volte difesi in
felicemente, ma con lungo ed ostinato valore, dalle armi ita
liane, ora da armi italiane furono in pochi giorni espugnate;
e da questa citt che ebbe cosi rapida vicenda d'angoscia, e di
gioia, usciva il manifesto reale del 9 ottobre, quella magna
nima dichiarazione dei diritti e degli interessi dell'Italia, che
la storia chiamer il manifesto d'Ancona, e che nessuna as
semblea popolare avrebbe potuto fare o pi liberale o pi
franco. Come i fatti s'incalzano cos gli animi divengono im
pazienti. Pi fortunate di voi, altre provincie sorelle vi prece
dettero nell'opera dell'unificazione italiana. Modena, Parma, le
Romagne e la Toscana eziandio che pure avevano una signoria
meno dura della vostra e tradizioni di autonomia di non pic
colo conto, statuirono gi da tempo come signore di s, ed
oggi stesso i popoli dell'Italia meridionale si raccolgono nei
219
comizii a stabilire non tanto il proprio, quanto il destino del
l'Italia. Or bene: io rompo gl' indugi e vi chiamo a decidere.
Ma voi direte che la vostra intenzione gi manifesta.
Si, vero: voi avete gi votato cogli sforzi tante volte
ripetuti per torvi di dosso la mala signoria, avete votato cogli
esigli, colle prigioni, colle torture d'ogni specie che avete sof
ferte, e coi patiboli che non avete temuti, col sangue dei vostri
volontarii, cogli applausi onde accoglieste il re e l'esercito;
ma pi di tutto coll'ordine mirabile che serbaste in questo reg
gimento provvisorio, nel quale il solo nome del re f l'auto
rit e la forza. La vostra libert piena, ma delitto, o vendetta
o intemperanza di parte non la contamina.
Tutto questo vero. Ma dopo aver ottenuto dalle po
tenze, che riconoscano ai popoli il diritto di far legge a s
stessi, egli giusto che il popolo lo eserciti anche coi modi
solenni della votazione e ch'egli usi di quelle forme che sono
-
la guarentigia della libert del voto. Alle nazioni amiche la
volont degli Italiani deve mostrarsi aperta e indubitabile, alle
potenze ostili deve togliersi ogni pretesto o possibilit di
dubbiezza.
Soffrite perci che vi rammenti essere obbligo d'ogni
buon cittadino il votare. Ma il voto libero, pienamente li
bero; n chi parla e regge in nome di Vittorio Emanuele, po
trebbe mai tollerare una pressione fisica o morale che lo
menomasse. I termini di paragone sono ormai evidenti. O
esser parte di una grande nazione, o provincia di un piccolo
Stato. O commilitoni di Vittorio Emanuele colla gloria di San
Martino, o soldati di Lamoricire e suoi pari coi nomi di
scherno. O eguali avanti le leggi che i vostri deputati con
correranno a formare, e quindi reggitori di voi medesimi, o
Servi all'arbitrio di una classe privilegiata. Dipende da voi ap
Partenere ad uno Stato civile, che vi dia la giustizia, la sicu
rezza, l'istruzione, avere industrie e commerci, o nulla di thtto
questo, come non aveste nulla sinora. A voi la sentenza. Per
me, che vi conosco, non dubbia, ma, qualunque fosse per
essere, sar rispettata.
Viva l'Italia.
Dato in Ancona, 21 ottobre 1860.
Il governatore della provincia di Como,
R. Commissario gener. straord. nelle provincie delle Marche
LoRENzo VALERio.
220
Il decreto preceduto da considerandi che compendiano
la storia di un decennio; egli vero che la propaganda po
litica del Piemonte molto influ al movimento liberale di quelle
provincie, ma vero altres che il governo clericale non sod
disfaceva ai bisogni veri dei cittadini inciviliti, e che questi
intendevano a cangiare la loro politica condizione in uno Stato
libero e sotto un governo costituzionale.
La corte pontificia nulla aveva tralasciato per ingannare la
diplomazia sul vero stato de' suoi sudditi, ma gli inganni di
leguaronsi in faccia ai fatti, e la rivoluzione, come il contento
dei popoli sotto il nuovo regime mostrarono che aspirazioni
liberali gi risiedevano nei petti dei sudditi del papa, e che
essi non erano n faziosi, n sedotti, n trascinati, ma con
vinti di ci che desideravano, e dei vantaggi che ne avrebbero
CaVat0.
Ecco i considerandi ed il decreto.
IN NOME DI S. M. IL RE VITTORIO EMANUELE II
IL GOVERNATORE DELLA PROVINCIA DI COMO
R. Commissario generale straordinario nelle provincie delle Marche.
Considerando che i popoli delle Marche da oltre un de
cennio con ogni maniera di manifestazioni protestarono contro
la mala signoria clericale, che, protetta da forze straniere, li
opprimeva ;
Considerando che la volont di questi popoli di far parte
della grande famiglia italiana fu nobilmente attestata dai vo
lontari accorsi in gran numero nell'anno passato tra le file
del regio esercito a combattere la guerra dell'indipendenza,
e da quelli che nell'Italia meridionale combattono ancora
contro la monarchia pi volte spergiura, ed alleata ai nemici
d'Italia;
Considerando che il giusto malcontento popolare irruppe
nel mese di giugno 1859 e fu compresso da mercenarii stra
nieri; che aggravati i mali, e resa insopportabile la quotidiana
offesa al diritto di cittadini ed alla dignit duomini, questi
popoli insorsero di nuovo nel settembre di quest'anno; e che
il grido degli insorti proclam l'una volta e l'altra l'annes
221
sione alla monarchia costituzionale ed italiana di Vittorio
Emanuele II;
Considerando che i municipi ed ogni ordine di cittadini
-
di queste provincie con deputazioni ed indirizzi invocarono il
soccorso delle armi del re Vittorio Emanuele, esprimendo fin
d'allora la decisa volont d'appartenere alla sua gloriosa mo
narchia, la quale volont poi coll'universale entusiasmo con
fermarono al re stesso nel suo passaggio per queste provincie;
Considerando il diritto imprescrittibile di questi popoli
alla nazionalit italiana;
Considerando che tutti i popoli dell'Italia aspirano con
meravigliosa concordia a costruire una grande nazione in uno
Stato solo, forte, libero e civile ;
Considerando che gli Stati pi civili d'Europa o si fon
dano sulla larga base del voto universale o vi riconoscono il
diritto; e che questo voto espresso nell'Emilia e nella To
scana, condusse ad un assetto politico, che la nazione intera
preparata ad ogni evento di mantenere o difendere;
Considerando che giova constatare regolarmente la ferma
volont di questi popoli in modo che assicuri la verit, la li
bert e la sincerit del voto;
In virt dei poteri conferitegli col decreto reale del 12
Settembre 1860,
Decreta:
Il popolo delle provincie delle Marche convocato pei
giorni 4 e 5 del novembre prossimo in Comizi per stabilire
con plebiscito sulla seguente domanda: Volete far parte della
monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele ? Il voto sar
espresso per s o per no col mezzo di un bollettino scritto o
stampato ed a scrutinio segreto.
Sono chiamati a dare il voto tutti i cittadini che hanno
compiuti i 21 anno domiciliati nel comune, e che si trovino
nel godimento dei diritti civili.
Sono esclusi dal dare il voto tutti coloro i quali sono
colpiti da condanna per imputazione di frode, di furto, di ban
rotta con falsit, come pure quelli i quali per sentenza sono
dichiarati falliti.
Ecco ora il decreto per le provincie dell'Umbria:
222
In virt dei poteri conferitigli da S. M. il re Vittorio
Emanuele :
Considerando che queste popolazioni insistono con pub
bliche solenni dimostrazioni per essere chiamate a deliberare
sulle proprie sorti;
Considerando che urgente procurare uno stabile e le
gale assetto;
Considerando che la patria che domanda i cittadini di
queste provincie perch col libero loro voto mostrino all'Europa
se intendono consacrare le aspirazioni di unit monarchica co
stituzionale sotto lo scettro di Vittorio Emanuele la di cui
lealt e coraggio hanno disciplinata la rivoluzione e restaurato
in Italia l'ordine morale;
Decreta:
Art. 1. Il popolo di queste provincie solennemente
convocato in Comizii i giorni 4 e 5 novembre 1860, per di
chiarare la sua volont sulla seguente proposta :
Volete far parte della monarchia costituzionale del re Vit
torio Emanuele?
Art. 2. Sono chiamati a dare il voto tutti i cittadini
che hanno compiuto i 21 anno e che godono dei diritti civili.
Se i principii liberali del governo italiano non incontra
vano le simpatie del governo pontificio, molto meno poteva
essere approvata la teoria del suffragio universale la quale
rovesciava sin dalle fondamenta il diritto divino sostenuto da
Roma non solamente per s ma per gli altri governi italiani
gi caduti.
In vero nessuna teoria tanto micidiale e funesta alla le
gittimit delle dinastie quanto quella del suffragio universale;
secondo essa i popoli fanno la rivoluzione, vincono, esauto
rizzano i principi e passano all'elezione di nuovi re e di
nuove forme governative. Di pi la teoria del suffragio univer
sale accarezza l'orgoglio dei popoli e quindi viene da essi fa
cilmente abbracciata. Nel momento del suffragio, il popolo
che vota il padrone delle sue sorti e de suoi destini; egli
popolo sovrano. Ora nessuna dottrina tanto avversa alla
dottrina romana quanto questa della sovranit dei popoli;
perciocch secondo le dottrine ecclesiastiche il popolo sem
225
pre bambino cos nell'ordine delle cose religiose come in
quello delle cose politiche; il popolo secondo certi principii
ecclesiastici dee rispettare sempre la grande forza dell'autorit
sia essa ecclesiastica sia governativa.
Roma doveva perci protestare contro il suffragio universale
decretato nell'Umbria e nelle Marche e protest infatti, aggiun
-
gendo esplicazioni sulle mene piemontesi per provare che il
suffragio stesso non poteva seguire i dettami della coscienza.
Il cardinale Antonelli pubblic la protesta che siegue, giusto
il 4 novembre quando le popolazioni convocate deponevano i
loro voti nell'urna. Si volle in questo modo contrapporre alla
voce della nuova dottrina quella della dottrina antica del di
ritto divino, e della legittimit dei re.
Roma, 4 novembre 1860.
Fu gi argomento di lagnanza e di proteste dalla parte
del governo della santa sede, la violenta
chie provincie degli Stati pontificii, dopo
nella Romagna, da un vicino governo, il
l'ambizione stravagante di estendere il
invasione di parec
quella gi compiuta
quale, dominato dal
suo regno su tutta
l'Italia colle spoglie degli altri legittimi sovrani, ha impreso
e tuttavia prosegue in questo perverso disegno, ignorando e
calpestando ogni diritto, come colui che non cura alcun osta
colo per soddisfare la sua sbrigliata voglia e la sua usurpa
zione. Essendosi impadronito delle dette provincie cio delle
Marche e dell'Umbria, e d'una parte del patrimonio, mediante
una grande violenza ed una guerra fatta secondo l'uso della
pirateria pi mostruosa, il governo piemontese ora empie la
misura della sua violazione dei diritti della sovranit ponti
ficia con una frode impudente, gi da lui messa in opera nel
territorio innanzi usurpato; e coll'appellarsi alla volont na
ionale pretende di creare un valido elemento per legittimare
l'estensione del dominio che ha ottenuto ad onta dei diritti
degli altri. Non necessario qui ricordare gli artifizi ignobili
frodolenti coi quali si usa d'apparecchiare e regolare il pre
so appello alla volont nazionale, in modo che ci pu es
re giustamente qualificato come il prodotto d'una vera pres
ne, cui si osa chiamare il risultato della libera manifesta
one dei desideri del popolo.
La cosa facilmente dimostrata; ma non importa ora di
224
far considerare o rilevare quale sia la maniera con cui si ot
tiene questo voto sedicente. Quel che ora importa di cen
surare altamente e rimproverare il grande inganno e il dis
ordine con cui si cerca introdurre un principio eminente
mente rivoluzionario, distruttivo dei diritti d'ogni sovrano le
gittimo. Quali che possano essere a questo riguardo le idee
d'un governo il quale, in alleanza stretta colla rivoluzione, se
ne fa capo e promotore, certo che il principio che si pre
tende stabilire riceve la sua piena condanna dalle leggi im
mutabili della giustizia, delle massime generali dei diritti delle
nazioni, dalle ragioni fondamentali dell'ordine sociale e ci
vile, e dal sentimento di tutte le nazioni ben regolate. E in
verit, se si pone un principio tanto pericoloso, quale sovra
nit, sebbene forte nel suo diritto, potrebbe mai stimarsi si
cura dal pericolo d'essere arbitrariamente e da un momento
all'altro scossa e distrutta? A quali fatali incertezze non rimar
rebbero i governi costantemente esposti, e con essi tutta la
societ civilizzata, sotto l'influenza d'un principio, per sua na
tura tanto pieno d'agitazioni, di perturbamenti e di disordini
intesi a trascinare ad una confusione generale? adunque
per cos gravi considerazioni che il governo pontificio si trova
costretto a protestare contro l'oltraggio commesso; e che con
tinua ad essere commesso dal governo usurpatore col preteso
appello al voto delle popolazioni affinch decidino sul fatto
del loro sovrano; oltraggio che equivale all'introduzione d'un
principio che ignora e vilipende ogni cosa; calpesta i diritti e
le prerogative delle sovranit legittimamente costituite; dif
forma e sovverte la legge la quale, sulle basi dei solenni trat
tati e delle convenzioni internazionali, regola il governo degli
Stati; tende a rovesciare le invariabili ed eterne massime
della giustizia, stabilisce il mostruoso diritto delle usurpa
zioni, e insinua nella societ un germe di continua inquietu
dine e di fatale turbolenza. I sentimenti di alta riprovazione
con cui gli altri governi si sono espressi riguardo alla poli
tica prevaricante del Piemonte, e rispetto all'attitudine usur
patrice da lui assunta, tanto in altri Stati che in quello della
santa sede, non lasciano dubitare che tutti concorderanno con
quest'ultima protesta fatta dal governo pontificio in difesa e
protezione della sovranit temporale del romano pontefice,
contro l'iniqua condotta con cui l'usurpatore persiste nell'au
dace e terribile invasione delle sopradette provincie, condotta
225
che egli ha gi tenuta in quelle parti degli Stati della Chiesa
prima appropriatisi. E v'ha ogni ragione per credere che i
governi di cui si parlato, saranno disposti ad accordare il
loro sostegno efficace alle giuste rimostranze della santa sede,
sostenendo ad un tempo stesso il buon diritto.
Questo governo sente che suo dovere rendere respon
sabile il sovrano o il governo della Sardegna per tutto il de
trimento che risulta dall'invasione ostile effettuata e mante
nuta nei dominii della santa sede e di domandare e attendere
la completa restituzione dagli invasori. E, in tale persuasione,
il sottoscritto cardinale, segretario di Stato di Sua Santit, vi
invita a comunicare al vostro governo la presente nota.
G. cardinale ANTONELLI.
Cos il governo borbonico ed il governo pontificio a poco a
poco morivano sempre protestando, e l'Italia una andavasi
formando ridendosi delle proteste.
Torneremo altra volta a parlar dell'Umbria e delle Marche
per vedere gli sforzi fatti dall'episcopato contra le istituzioni
liberali del nuovo governo.
Storia della rivol. Sicil. Vol. Il.
29
C A P IT 0 L 0 X III
I cittadini di Acquapendente. Proclama del
re ai popoli napoletani e siciliani. Istitu
zione di una luogotenenza in Napoli. Primi
decreti e relazioni del luogotenente. IDea
corazioni offerte dal re a Garibaldi, Let
tera di Garibaldi al re. Proclama di Ga
baldi ai suoi soldati.
-
Mentre il governo pontificio protestava altamente contro il
plebiscito, ed accusava il governo di Torino di mene ed in
trighi rivoluzionarii, quasich i cittadini delle Marche e del
l'Umbria nulla operassero spontaneamente, e tutto facessero
per influenza della propaganda politica, le popolazioni prote
stavano in tutti i modi possibili e cos energicamente da far
conoscere colla massima chiarezza che erano gi stanchi del
governo clericale e che ambivano mettersi al livello dei liberi
popoli italiani. Noi abbiamo veduto come si regolassero gli
abitanti di Viterbo all'arrivo delle truppe francesi; eguale
dignit mostrarono i cittadini di Acquapendente, citt posta
ai confini del patrimonio di San Pietro verso Toscana. Erano
le 9 del mattino del 2 novembre quando si seppe in questa
citt che i Francesi si appressavano per ristaurarvi il governo
del papa. La commissione municipale in unione ad altri citta
dini si contentarono di esulare dal luogo nativo, anzich ve
dere abbassato il vessillo nazionale. Poco dopo la partenza
della commissione, i Francesi entravano in citt. Il popolo gli
accoglieva composto a muta dignit protestando col suo silen
zio contro la caduta di quel governo nazionale che aveva pro
227
clamato quando da s stesso si affrancava dalla clericale schia
vit. E perch il dispiacere del popolo non rimanesse nascosto,
per tutta la citt si vedevano affissi ove a grandi lettere si leg
geva: noi vogliamo il governo costituzionale del magnanimo
re Vittorio Emanuele II . Le truppe francesi rispettarono
cotesta dimostrazione del popolo Acquese, n mostrarono ri
sentimento alcuno; che anzi ricevettero una protesta del mu
nicipio sulla quale diremo alcune parole. Vivamente scolpita
stava la gratitudine nel cuore del popolo italiano verso il
governo francese; non si poteva resistere colla viva forza alle
sue operazioni senza tirarsi addosso l'accusa d'ingrato; ma
da altra parte non si poteva fare a volont dei Francesi
senza protestare, che tirandosi addosso l'accusa di vili e di
ciechi servitori di forza straniera. In questa situazione non
restava che protestare dignitosamente; protestare con l'andare
volontariamente in esilio; protestare con pubblici atti affinch
come documenti della volont popolare presto o tardi valessero.
Ecco la protesta:
PROTESTA DEL MUNICIPIO DI ACQUAPENDENTE
All'arrivo delle truppe francesi.
Signor comandante.
L'avanzare delle truppe che sono sotto gli ordini delle
S. V. ci costringe ad abbandonare la nostra citt per non ve
dere dalle vostre mani ristaurato il clericale governo, e rialzato
lo stemma pontificio.
Siamo parimente costretti ad abbassare la nostra ban
diera che quella stessa che un anno fa sventolava dappresso
alle vostre fila, per non esporla agli insulti che potrebbe rice
vere sotto l'ombra delle gloriose armi vostre.
Eletti dal popolo per reggerlo, a nome del magnanimo
nostro re Vittorio Emanuele II, noi mantenemmo l'ordine il pi
perfetto, rispettammo le opinioni di tutti; gimmai le persone
e le propriet furono maggiormente assicurate. Costretti dalla
forza ad emigrare, noi non pieghiamo che davanti ad una ban
diera amica, e ci ritiriamo nella ferma speranza di aver presto
giustizia quando il nostro grido sar giunto fino al magnanimo
Vostro imperatore, e saranno rispettati i voti nostri come quelli
228
delle altre popolazioni. Che se anche questa speranza ci venisse
tolta, noi, sacrificando tutto, e portando i nostri figli in libera
terra, abbrucieremo anche il tetto degli avi nostri, piuttosto
che vederlo sotto alla mala signoria dei preti.
Gradisca, signor comandante, i sensi della nostra pi alta
considerazione .
Acquapendente, 2 novembre 1860.
La commissione municipale provvisoria
G. TAURELLI SALIMBENI Gio. BATTISTA CINI
Silvio BioNDI G. PASCHINI.
Non sar superfluo riflettere su quella nobile espressione
della protesta che dice: Che se anche questa speranza ci
venisse tolta, noi sagrificando tutto, e portando i nostri figli
in libera terra, abbrucieremo anche il tetto degli avi nostri
piuttostoch vederlo sotto la mala signoria dei preti. Di certo,
non era possibile a lungo stare soggetti all'assoluto e dispotico
governo pontificio, quando a pochi passi di distanza vivevano
Italiani liberi, sotto libero governo e ricchi di tutte le guaren
tigie della politica libert.
Non considerando il mal governo dei preti, la vicinanza di
-
popoli liberi bastava per suscitare il desiderio delle guarentigie
costituzionali.
La stessa commissione municipale provvisoria pubblicava
pria di partire un proclama diretto ai cittadini per spiegare
loro le ragioni del suo operare e per raccomandare ai citta
dini stessi il contegno necessario a tenersi in faccia alle truppe
francesi.
Ecco il proclama:
Cittadini !
L'avanzare delle truppe francesi ci costringe ad allonta
narci; noi non cediamo che davanti alla forza di una bandiera
amica.
Finch queste truppe resteranno nel vostro paese, vi esor
tiamo a mantenere quell'ordine che avete fin qui tanto lode
volmente conservato.
Noi ci ritiriamo tranquilli dal mandato che ci affidaste.
Cittadini!
Addio a tempi migliori e non lontani .
Acquapendente, 2 novembre 1860.
La commissione municipale provvisoria
G. TAURELLI SALIMBENI Gio. BATTISTA GINI
S. BioNoi G. PASCHINI.
Ma fatto ancor pi nobile compivano in quel giorno i cit
tadini di Acquapendente insieme a quelli di Onano e Grotte
di Castro ed altri paesi limitrofi. Appressandosi il giorno del
plebiscito, decretato nelle Marche e nell'Umbria vollero prima
che i Francesi giungessero dare col suffragio generale una
prova pi evidente del loro amore per il governo costituzio
nale, e del loro abborrimento pel governo di Roma. Affret
tarono il plebiscito; chiamarono i cittadini a votare; raccol
sero le schede e depositandole presso un pubblico notaio ne
fecero un atto che presto o tardi doveva produrre i suoi effetti.
singolare che tanta unanimit di voti siasi trovata in mezzo
a popolazioni che gi vedevano appressarsi la ristaurazione del
governo pontificio, e fuggirsi dinanzi la bandiera e gli em
blemi della emancipazione.
Molti sono gli atti che condannano l'esercizio del potere
temporale di Roma; molti documenti ha raccolto la storia
circa quel cattivo governo, ma la storia stessa raccoglier come
un tesoro il plebiscito di Acquapendente, e gittando questo
documento in faccia agli accusatori del governo di Torino, dir:
che se la propaganda politica venne dal Piemonte, il malcon
tento gi esisteva, e da molti anni, in mezzo ai sudditi del
papa-re.
Ecco il pubblico atto di questo unanime plebiscito.
NEL NOME SANTISSIMO DI DIO.
Governo provvisorio.
L'anno dell'era cristiana 1860, oggi giorno di venerdi
due novembre, alle ore quattordici italiane. Indizione romana
quarta.
230
Avanti di me Giovanni Rotili, notaio pubblico, ecc., ecc.
Nel giorno 19 del p. p. mese di settembre la citt di
Acquapendente, Onano, le Grotte di Castro, ed alcuni paesi
limitrofi, spinti dal sacro amore di patria, senza alcuna con
correnza di forza armata, ma per solo spontaneo movimento
e per decisa volont, emancipandosi dal duro giogo del go
verno dei chierici, si pronunciarono in favore della causa na
zionale, con solenne protesta di voler far parte della grande
famiglia italiana, sotto lo scettro costituzionale del re Vittorio
Emanuele secondo.
Fu questa per la suddetta citt e per gli annessi comuni
un'epoca di generale tripudio divenuto in seguito assai pi
grande per la fausta notizia che il capoluogo Viterbo si li
ber esso pure dal servaggio dei preti. Per cui ordinate le
cose a norma delle leggi sarde ed istituito in Viterbo il regio
commissario, venne da questi spedito in Acquapendente il
giurisdicente, e furono nominate le commissioni municipali:
e cos le popolazioni sen vivevano liete, tranquille e pacifiche,
quantunque prive affatto di forza armata, e mantenendo l'or
dine il pi perfetto, osservavano scrupolosamente le leggi che
venivano pubblicate dall'illustrissimo sig. commissario regio.
Per tali fatti istorici, le suddette popolazioni, concepirono
e mantennero la speranza di un felice successo, se non che
si sentirono tratte nell'avvilimento udendo che nei giorni
quattro e cinque novembre per le sole provincie delle Marche
e dell'Umbria era ordinata la pubblica votazione. Se per altro
tutto questo oper molto per abbattere gli spiriti delle pre
dette popolazioni, che vedevansi dileguare le vagheggiate spe
ranze d'essere comprese nei dominii di S. M. costituzionale
re Vittorio Emanuele II, chi potr dire la impressione ad essa
accagionata dalla notizia che al giorno 2 novembre doveva
giungere la forza francese onde ristabilire quel governo dal
quale con tanto coraggio si sottrassero, e contro cui con tanta
perseveranza seppero fin qui mantenersi libere ? innarra
bile l'effetto che provarono. In tale stato di cose adunque han
veduto le suddette popolazioni la dura necessit di cedere
loro malgrado e chinare la fronte a quella potenza che, quan
tunque strappi dalle loro mani l'adorato vessillo, pur nondi
meno sono costrette di rispettare ed onorare.
E perci che i membri componenti la commissione mu
nicipale delle nominate popolazioni, non potendo non valutare
231
la spontaneit dei cittadini, hanno permesso che questi depo
sitassero le loro schede, onde poi chiuse e suggellate, tras
metterle a chi di ragione, affinch sia salvo e rispettato mai
sempre il diritto nazionale spiegato col fatto e col voto.
Per le quali cose i lodati signori membri della commis
sione municipale di Acquapendente, dichiarando di avere per
ispeciale incarico ritirato tutte le schede di Onano e delle
Grotte, hanno queste, insieme alle proprie, a me notaio esi
bite, onde, formatone qui sotto distinto specchio dimostrativo,
siano quindi, chiuse e sigillate, trasmesse al loro destino.
Acquapendente. Popolazione della sola citt anime tremila
Ottocento circa.
Presunti elettori, secondo le norme di computazione, il
quinto della popolazione e perci numero di elettori settecen
tosessanta circa.
Hanno votato spontaneamente numero seicentoventinove.
Pel s numero seicentoventinove.
Pel no nessuno.
Onano. Popolazione duemiladuecento circa anime.
Presunti elettori, il quinto; perci numero quattrocento
quaranta circa.
Hanno votato spontaneamente numero quattrocentoven
tinove.
Pel s numero quattrocentoventinove.
Pel no nessuno.
Grotte di Castro. Popolazione, anime duemila circa.
Presunti elettori, il quinto; e perci numero quattro
cento circa.
Hanno votato spontaneamente, numero duecentoquaranta.
Pel s numero duecentoquaranta.
Pel no nessuno.
Dopo tutto ci, ho, io notaio infrascritto, formato delle
suddette schede tre pacchi separati, chiudendo e suggellando
quelle di Acquapendente con tre sigilli di cera lacca rossa
rappresentanti
parimenti con
lettere iniziali
pure con tre
le due iniziali in cifra S. B. Quelli di Onano
tre sigilli di cera lacca rossa portanti, le due
in cifra M. U. E finalmente quelle delle Grotte
sigilli di cera lacca rossa indicanti le lettere
iniziali in cifra F. C. R.; e quindi ho dato e consegnato gli
enunciati pacchi ai surriferiti signori membri municipali in
sieme al presente atto originale, che, attesa l'oppressione del
252
l'odiato governo pontificio, dichiaro di non aver potuto sot
toporre alla tassa del bollo registro.
Sopra di che, io notaio pregato, ne ho redatto il presente
brevetto, ecc., ecc.
Cos ; Giovanni Rotili, notaio pubblico rogato; in fede.
Noi ritorniamo a parlare delle cose di Napoli come quelle
che pi davvicino interessano il nostro assunto, e dove cam
peggiano i pi vivi elementi e le opere pi grandi della ri
voluzione.
Vittorio Emanuele era entrato nella grande citt in mo
menti poco propizii; perciocch sparsasi la voce che Gari
baldi sarebbesi ritirato, e che l'esercito meridionale sarebbe
probabilmente disciolto, cominciava tal serio malumore da
far prevedere un avvenire tempestoso e pieno d'infinite dif
ficolt. ll cos detto partito d'azione vedendosi prossimo ad
essere esautorato gittava gi gli elementi dell'interne dissenzioni
spargendo voce che il governo piemontese presto avrebbe
portata la sua mala amministrazione nelle provincie meridio
nali, e che gl'impiegati come le autorit sarebbero tutte ve
nute da Torino, con discapito dei Napoletani stessi. Momenti
difficili erano ancora perch Francesco II stavasi tuttavia a
Gaeta, ed il suo partito in Napoli andava insinuando la pos
sibilit del ritorno di lui sul trono delle Due Sicilie. Momenti
difficili erano perch la reazione alzava sovente la testa ora
in una ed ora in altra provincia degli Abruzzi.
Non eravi che un solo fatto che si potesse chiamare gran
demente favorevole allo spirito di concordia ed alla causa
italiana: questo fatto era il plebiscito che aveva avuti splen
didi risultati, e mostrato tanta unanimit nelle politiche aspira
zioni da potersi ripromettere in mezzo alle tempeste future
un fondamento stabile su cui innalzare ad onta delle difficolt
e degli ostacoli il grande edificio dell'unit italiana.
Vittorio Emanuele prese il plebiscito come punto di ap
poggio che gli dava forza e diritto di parlare ai Napoletani
ed ai Siciliani come a popoli suoi, e prevedendo la natura
delle difficolt future, raccomandare lo spirito di concordia e
la cessazione di tutti i partiti tanto nocivi ed infesti all'im
presa di ricostruire e vivificare la nazionalit italiana.
Le prime parole da re Vittorio Emanuele pronunziate in
233
mezzo ai nuovi popoli furono infatti in questo senso, n lasci
il re galantuomo di appellarsi alla cooperazione della gente
onesta; talch se il suo linguaggio era linguaggio di re, ser
bava pure i caratteri di chi parla come padre ed amico a figli
ed amici.
Il giorno stesso del suo arrivo in Napoli, fu pubblicato il
seguente proclama:
AI POPOLI NAPOLETANI E SICILIANI.
Il suffragio universale mi d la sovrana podest di queste
nobili provincie. Accetto questo alto decreto della volont na
zionale, non per ambizione di regno, ma per coscienza di
Italiano.
Crescono i miei, crescono i doveri di tutti gl'Italiani. Sono
pi che mai necessarie la sincera concordia e la costante ab
negazione. Tutti i partiti debbono inchinarsi devoti davanti alla
maest dell'Italia, che Dio solleva. Qui dobbiamo instaurare
un governo, che dia guarentigie di libero vivere ai popoli, di
severa probit alla pubblica opinione. Io faccio assegnamento
sul concorso efficace di tutta la gente onesta. Dove nella legge
ha freno il potere e presidio la libert, ivi il governo tanto
pu per il pubblico bene quanto il popolo vale per la virt.
All'Europa dobbiamo addimostrare che se la irresistibile
forza degli eventi super le convenzioni fondate nelle secolari
sventure d'Italia, noi sappiamo ristorare nella nazione unita
l'impero di quegli immutabili dommi, senza dei quali ogni so
ciet inferma, ogni autorit combattuta e incerta .
-
rimarchevole che prima ancora dell'entrata di Vittorio
Emanuele in Napoli, il governo di Torino avesse gi pensato
ad istituire per quelle provincie una luogotenenza, e gi crea
tovi luogotenente Carlo Luigi Farini. Il re non entr in Na
poli che il 7 novembre, ed il luogotenente era gi stato creato
il giorno 6.
Al conte di Cavour premeva che Garibaldi ed i suoi fos
-
Sero presto esautorati; ci che a nostro modo di vedere non
fu buona politica, perciocch con quei modi indispose gli
animi di molti, suscit una viva opposizione al governo e cre
Storia della rivol. Sicil. Vol. II.
50
254
in Napoli un partito avverso alla politica piemontese, facili
tando per tal modo al partito borbonico le vie della reazione
e i mezzi di ingenerare disordini. Come vedremo fu anche
questa la causa dell'opposizione incontrata dal luogotenente
Farini il quale finalmente dovette cadere senza nulla avere or
dinato in quelle provincie, lasciando anzi gravi imbarazzi e
disordini ai suoi successori. Ma tutto questo vedremo pi chia
ramente in appresso.
Ecco il decreto del governo che istituisce la luogotenenza
di Napoli.
VITTORIO EMANUELE II RE DI SARDEGNA ecc. ecc.
Vedute il risultato del plebiscito del 21 ottobre scorso,
esprimente il voto delle provincie napoletane;
Sulla proposta dei consigli dei ministri;
Abbiamo decretato e decretiamo:
Art. 1. Un luogotenente generale, nominato da noi,
incaricato di reggere e governare, in nostro nome e nostra au
torit, questa provincia continentale dell'Italia meridionale, e
alla immediazione, allorch saremo presenti nelle medesime.
Egli inoltre autorizzato ad emanare, sino a che il par
lamento sia adunato, ogni specie di atti occorrenti a stabilire
e coordinare l'unione delle anzidette provincie col resto della
monarchia, ed a provvedere ai loro straordinarii bisogni.
2 Art. 2. Agli affari esteri ed a quelli della guerra e della
marina, sar direttamente provveduto dal nostro governo cen
trale.
A quella parte degli affari esteri che specialmente con
cerne gl'interessi internazionali dei privati sar provveduto dal
nostro luogotenente generale.
Art. 3. Il cavaliere Luigi Carlo Farini nominato luo
gotenente generale nelle provincie napolitane.
Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello
Stato, sia inserito nella raccolta degli atti del governo, man
dando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare .
Dato
dal nostro
quartier generale di Sessa, a di 6 novembre 1860.
VITTORIO EMANUELE.
CAvoUR.
255
Se atto impolitico fu quello di affrettare l'istituzione della
luogotenenza per le provincie napoletane, atto pi che impo
litico fu quello di aver creato luogotenente il cavaliere Farini.
Sin dal tempo in cui egli era dittatore dell'Emilia erano sorte
delle dissenzioni fra lui e Garibaldi; dissenzioni che si accreb
bero e giunsero al grado d'interna inimicizia quando da mi
nistro dell'interno il Farini con una sua circolare proibiva l'ar
ruolamento per Garibaldi.
Il giorno 8 il nuovo luogotenente iniziava la sua carica con
la seguente relazione diretta al re :
Sire !
piaciuto alla M. V. di affidarmi il governo di queste
nobili provincie, nel momento solenne in cui esse entrano,
anche pei rispetti politici e sociali, in quella comune vita ita
liana alla quale apportarono in tutti i secoli largo tributo di
glorie intellettuali.
Nell'adempiere all'ufficio del quale fui onorato; io pren
der per guida le massime che la M. V. espresse ne' suoi ma
nifesti, i quali furono per tutta la nazione il programma e
l'inviolabile promessa del principato italiano; prender ad
esempio quei modi di governo che, col plauso delle genti ci
vili e colla gloria di cos meravigliosi risultati, furono tenuti
nelle vostre antiche provincie, che sopra tutto vi sono rico
noscenti dell'essere state, per opera vostra, lo strumento prin
cipale della liberazione d'Italia.
Gl' Italiani conoscono, sire, come si eserciti quell'auto
rit, la quale s'intitola col vostro nome. Il vostro governo
chiama in aiuto la libert e la civilt, perch la patria nostra
tanto pi presto sar prospera e forte, quanto maggiore sar
il progresso morale e sociale del popolo. Esso sollecito del
l'istruzione ed educazione religiosa del popolo, degli incre
menti del sapere e di quelli dell'industria e dei traffici, pei
quali crescono il benessere e la soddisfazione delle popola
zioni. Nel tempo stesso il vostro governo fa opera costante per
rinnovare in tutta l'Italia la tradizione e verificare lo spirito
militare, che non soltanto un elemento di forza, ma an
cora l'educazione morale, perch tempra le nazioni alla virt
della disciplina e al culto del dovere.
256
Ma l'ordinamento di un governo liberale e civile non
il solo fine che oggi gl'Italiani debbono, con ogni studio rag
giungere. Essi debbono anche consociare in unit di Stato le
sparse membra della comune famiglia.
v
La vita italiana fu variamente divisa secondo i dolorosi
destini della nostra storia, ma le separate provincie diventarono
per la naturale virt delle schiatte, altrettanti centri gloriosi di
civilt e di morali tradizioni. La lunga esistenza degli antichi
Stati d'Italia cre molti speciali interessi. Queste tradizioni
e questi interessi devono essere rispettati in tutto ci che non
offende e non debilita l'unit.
L'Italia, la quale sa di non poter trovare pace e pro
sperit durevoli, se non sia unita sotto la vostra dinastia,
da un provvido istinto avvertita di conservare, come una gua
rentigia di civilt e di libert, contro le usurpazioni di una
centralit soverchia, il tradizionale sviluppo della vita locale.
Questo duplice intento della politica italiana in nessuna
parte si mostra cos spiccante come nelle provincie napoletane,
e per la importanza dello Stato che prima costituivano, e pel
sistema di forte centralit che le reggeva, e perch sono rap
presentate in una splendida capitale che una delle pi popo
lose ed illustri citt dell'Europa.
In questa condizione di cose, appare manifesto, che se
il governo che qui s'instaura nel nome e per l'autorit della
M. V. deve tosto pigliare l'indirizzo da quei sommi principii,
ai quali s'informa il vostro principato civile, l'assetto termi
nativo di queste provincie nell'ordinamento generale d'Italia,
appartiene di diritto alle decisioni ed alle deliberazioni di quel
parlamento che rappresenter la nazione.
Non sar impossibile alla intelligenza ed al senso pratico
degli Italiani il costituire ordini pei quali le grandi provincie
d'Italia rimangono libere nell'amministrazione dei particolari
interessi loro, pure conservandoli strettamente collegate nella
forte rappresentanza dello Stato.
Grazie a cosiffatti ordini, il patriottismo e l'operosit
civile potranno sempre manifestarsi nella triplice sfera dello
Stato, della provincia e della citt; e le varie capitali d'Italia
accresceranno di splendore in ragione della comune vita na
zionale, cosa dappertutto pi efficace e vigorosa.
Questa l'opera riserbata al parlamento, e che il solo
parlamento pu compiere, perch esso il supremo rappre
257
sentante della volont di tutti, e perch in un paese retto a
libert, giusto che il governo lasci alla libert il merito
e l'onore di avere dato alla nazione le sue fondamentali istru
zioni.
L'autorit affidatami dalla M. V. sar da me esercitata col
principale intendimento di compiere le preparazioni necessarie
perch, nel pi breve tempo possibile, queste provincie sieno
convenientemente ordinate per l'atto solenne delle elezioni.
Sar mio debito frattanto di rassicurare l'ordine materiale
e morale, che non tanto soffri alterazione pel naturale effetto
delle mutazioni politiche, quanto per la mala e corrompitrice
opera della caduta signoria. Faranno sicurt alla pubblica co
scienza di giusto ed onesto governo quelle guarentigie di li
bert e di pubblicit che non tolgono, ma accrescono forza ad
un'amministrazione riparatrice.
. . . . . Grandi sono i bisogni di un paese dove gli stessi
materiali interessi furono negletti per avere balia maggiore di
impedire lo sviluppo intellettuale e morale. Ad alcuno di questi
bisogni si potr prontamente soddisfare; molti altri beneficii
dovranno aspettarsi dall'effetto spontaneo delle nuove istitu
zioni, dalla libert, dalle virt operose dei popoli. Far tosto
e diligentemente studiare i disegni delle grandi opere pubbliche
e delle strade che devono agevolare le comunicazioni, ravvivare
l'agricoltura e l'industria; far studiare i modi pei quali va
riformata la pubblica istruzione popolare la quale ha virt di
unire in pi intima comunione le varie classi della societ; e
volger il pensiero alla pubblica beneficenza, che non degna
di questo nome se non dispensa al povero insieme col pane,
l'educazione morale e il sentimento dell'umana dignit.
Io non sarei il degno interprete delle intenzioni della
M. V., se nel rispetto di tutte le coscienze e di tutte le oneste
pinioni non informassi il mio governo a quello spirito di con
rdia che a nessuno pu essere pi cara che a voi, o sire,
che siete il simbolo della concordia italiana.
Io prender per norma le nobili parole che la M. V. pro
ziava nell'aprire quel parlamento, nel quale per la prima
lta si trovavano riuniti i rappresentanti di undici milioni d'I
taliani,
e mi rammenter che delle antiche sette altro non
ve rimanere che la memoria delle comuni sventure e della
mune devozione all'Italia.
Io sento quanto sia arduo l'assuntomi ufficio pel quale
238
t
chiedo e spero quella cittadina cooperazione, senza cui ogni
governo riesce impotente a fare il bene.
lo desidero di essere confortato dai consigli di tutti i buoni.
Necessario mi il concorso di alcuno di quei prestanti uo
mini e chiari patrioti dei quali abbondano queste provincie.
Essi serviranno a me di consiglio, e, nel tempo stesso, reg
-
geranno quei dicasteri nei quali si divide la regolare ammi
nistrazione del paese e prepareranno tutte quelle innovazioni
legislative che saranno reputate indispensabili.
Si degni la M. V. manifestarmi se le idee qui sopra ac
cennate incontrino la sua reale approvazione .
-
Napoli, 8 novembre 1860.
Firmato FARINI.
Quello stesso giorno venivano firmati e pubblicati i seguenti
decreti:
Il luogotenente del re nella provincia di Napoli decreta:
E istituito un consiglio di luogotenenza composto di con
siglieri in conformit di uno o pi dicasteri.
-
Vi saranno inoltre non pi di tre consiglieri di luogotenenza
senza incarico di dicastero.
Vi sar un segretario del consiglio di luogotenenza.
istituito un dicastero di agricoltura e commercio e ne sono
stabiliti i dipartimenti .
Un decreto del giorno 9 stabiliva:
A consiglieri di luogotenenza sono nominati ed incaricati
dei dicasteri, i signori:
-
Gaetano Ventimiglia, ora direttore del Demanio o gran Li
bro, all'interno e polizia; professore avvocato Giuseppe Pisanelli,
a grazia e giustizia e affari ecclesiastici; comm. professore An
tonio Scialoja, alle finanze; cav. professore Raffaele Piria,
istruzione pubblica; Ridolfo d'Afflitto marchese di Montefal
cone ai lavori pubblici; Giuseppe De Vincenzi all'agricoltura
e commercio.
Sono nominati consiglieri di luogotenenza senza incarico
di dicasteri, i signori:
-.
259
Pasquale Stanislao Mancini, deputato avv. commendatore,
professore, ecc.; Giuseppe Ferrigni, consigliere della corte
superiore di giustizia; Camillo Caracciolo marchese di Bella.
E nominato segretario del consiglio di luogotenenza il si
gnor prof. Ruggero Bonghi, deputato.
Ai consiglieri di luogotenenza assegnata l'indennit men
suale di ducati quattrocento; al segretario del consiglio di
luogotenenza (in virt del maggior lavoro che gli toccher)
assegnata indennit mensuale di ducati duecento (il du
cato 4 fran. 25 cent.) .
Il generale Garibaldi determinato a ritirarsi sin dall'arrivo
del re, affrett questa sua decisione a motivo dei pochi ri
guardi che il governo gli usava appena istallatosi in Napoli.
La storia dee registrare cotesti errori del governo perch
servano d'insegnamento ai governanti dei popoli, e perch
sono la causa vera dei mali che poco dopo sopravvennero ad
agitare ed affliggere la popolazione napoletana.
Il governo, forse non conoscendo ancora pienamente l'a
nimo del Dittatore delle Due Sicilie credette poter acquietare
tutto e contrabilanciare il colpo che dava al governo dittato
riale con larghe decorazioni, gradi ed onorificenze. Infatti,
Vittorio Emanuele II, offerse a Garibaldi il collare dell'An
nunziata, il titolo ed il grado di primo maresciallo d'Italia, ed
il figlio Menotti chiamava al suo stato maggiore. Gl'insigniti
del collare dell'Annunziata sono i pi altamente decorati, tal
ch si appellano cugini del re. Il grado di primo maresciallo
d'Italia, oltre ad essere nuovo elevava Garibaldi al primo
posto della gerarchia militare; il chiamar poi Menotti al suo
stato maggiore era poi lo stesso che metterlo a fianco degli
uomini amati e preferiti, e diremo quasi di sua confidenza.
Garibaldi non accett le offerte generose del re, rifiut le
onorificenze ed i gradi, e disse che accontentavasi del bene
che aveva fatto all'Italia, e che in verun modo cercava sovrane
ricompense. Noi non sapremmo condannare questo contegno
del grande Italiano: il re galantuomo non meritava in vero il
dispiacere di un rifiuto alle sue offerte, ma considerando che
nei governi costituzionali anche le offerte d' un re servono
alla politica del governo, lodiamo Garibaldi di non essersi la
sciato sedurre dalla politica, e di aver conservato la dignit
di uomo offeso e maltrattato in faccia all'Italia e all'Europa.
2A0
Taluni pensarono che le suscettibilit di Garibaldi ecce
dessero i limiti di un uomo generoso. Costoro fondarono
il loro giudizio sul riflesso che la parte di Garibaldi era fi
nita e che quella del governo doveva cominciare; conclude
vano da questo principio che il ritiro del Dittatore delle Due
Sicilie era una assoluta necessit. A noi non pare; Garibaldi
rappresentava la rivoluzione, e la rivoluzione non era ancora
finita; Garibaldi nel suo libero linguaggio accennava all'unit
italiana, e l'unit italiana non era ancora raggiunta; Garibaldi
colla sua influenza poteva moltissimo sulla immaginazione e
sul cuore dei popoli meridionali, ed i popoli meridionali non
erano ancora assestati nella nuova vita politica; quindi il
tempo del suo ritiro non era ancora arrivato; e l'averlo af
frettato fu errore gravissimo del conte di Cavour, di quel
Cavour che in molte cose pi che gl'interessi veri del paese
consultava il suo amor proprio, e quelle vanit che si di so
vente trovansi attaccate anche all'anima dei grandi uomini.
Altro errore del governo fu questo: ll re insigni del collare
dell'Annunziata il prodittatore di Napoli marchese Pallavicino
Trivulzio, e non offerse decorazione alcuna al prodittatore di
Sicilia, Mordini. Pallavicino Trivulzio e Mordini avevano con
sumata la stessissima missione, che anzi il secondo era stato
al potere assai pi del primo, e le cose di Sicilia aveva ben
guidate, se non nella parte amministrativa, certamente nella
parte politica. Di pi Garibaldi era amicissimo di Mordini, ne
stimava l'ingegno e l'energia, ne appressava i sentimenti de
mocratici, ne lodava la sottomissione alle sue opinioni. Ora
il veder decorato Pallavicino Trivulzio e non Mordini fu per
Garibaldi un'altra offesa che vieppi lo convinse della perse
cuzione che il governo gli muoveva e dell'intendimento di
esso a volere cio esautorare assolutamente il partito di
azione, raccogliendone i frutti. Tutte queste concause con
corsero a rassodare vieppi Garibaldi nei suoi proponimenti.
Ai fastidii non pochi n piccoli di sei mesi di governo in
mezzo a popoli alquanto immorali per effetto del regime bor
bonico, aggiungevasi ora la persecuzione del governo; alle
contraddizioni di che da qualche tempo il governo di Torino
retribuiva il pi grande benefattore dei popoli italiani, aggiun
gevasi ora il proponimento di istallare nuovo governo e nuovi
governatori fors'anco per rivelare gli errori del governo dit
tatoriale e predicarli al mondo. Indegnato da questo proce
24.I
dere, stanco di tutti i raggiri politici, certo di non potere con
tinuar la sua marcia trionfale verso Roma e Venezia, Garibaldi
risolse di partire, e subito, per la sua Caprera. Ma carit di
patria mai non raffreddavasi in lui; ad onta delle ingratitudini
pensava sempre ai destini del suo paese, malgrado la naturale
indegnazione volgeva uno sguardo a quella Italia per la quale
tante volte avea esposta la vita, ed aspirando a nuove imprese
ed a nuove battaglie, dirigeva prima di partire la sua parola
ai suoi volontari, parola piena di energia e di speranze, pa
rola viva e robusta come in momenti solenni esce dal cuore
dei grandi uomini.
AI MIEI COMPAGNI D'ARMI.
Penultima tappa del risorgimento nostro, noi dobbiamo
considerare il periodo che sta per finire e prepararci ad ul
timare splendidamente lo stupendo concetto degli eletti di
venti generazioni, il di cui compimento assegn la provvidenza
a questa generazione fortunata. S, giovani! L'Italia deve
a voi un' impresa che merit il plauso del mondo. Voi
vinceste; e voi vincerete, perch voi siete oramai fatti alla
tattica che decide delle battaglie! Voi non siete degeneri
da coloro che entrarono nel fitto profondo delle falangi mace
doniche e squarciarono il petto ai superbi vincitori dell'Asia.
A questa pagina stupenda della storia, ne seguir una pi
gloriosa ancora, e lo schiavo mostrer finalmente al libero
fratello un ferro arruotato che appartenne agli anelli delle
sue catene. All'armi tutti tutti: e gli oppressori, i pre
potenti sfumeranno come polvere. Voi, o donne, rigettate
lontano i codardi essi non vi daranno che codardi e
voi figlie della terra della bellezza volete prole prode e gene
rosa! Che i paurosi dottrinarii se ne vadano a trascinare
altrove il loro servilismo, le loro miserie Questo popolo
padrone di s. Egli vuol essere fratello degli altri popoli, ma
guardare i protervi colla fronte alta: non rampicarsi, mendi
cando la sua libert egli non vuol essere a rimorchio d'uo
mini a cuore di fango! No! no! no!
La provvidenza fece dono all'Italia di Vittorio Emanuele.
9gni Italiano deve rannodarsi a lui serrarsi intorno a lui.
Accanto al re galantuomo ogni gara deve sparire, ogni rancore
-
Stor della rivol. Sicil. Vol. II.
31
242
dissiparsi! Anche una volta io vi ripeto il mio grido: all'armi
tutti! tutti! Se il marzo del 61 non trover un milione d'Italiani
armati, povera libert! povera vita italiana.... Oh no, lungi
da me un pensiero che mi ripugna come un veleno. Il marzo
del 61 e se fa bisogno il febbraio, vi troverete tutti al posto.
Italiani di Catalafimi, di Palermo, del Volturno, di Ancona, di
Castelfidardo, d'Isernia, e con noi ogni uomo di questa terra
non codardo, non servile, tutti, tutti serrati intorno al glo
rioso soldato di Palestro, daremo l'ultima scossa, l'ultimo
colpo alla crollante tirannide !
Accogliete, giovani volontarii, resto onorato di dieci bat
taglie una parola d'addio. Io ve la mando commosso d'affetto
dal profondo della mia anima. Oggi io devo ritirarmi, ma per
pochi giorni. L'ora della pugna mi ritrover con voi ancora ac
canto ai soldati della libert italiana.
Che ritornino alle loro case quelli soltanto chiamati da
doveri imperiosi di famiglia e coloro che gloriosamente muti
lati, hanno meritato la gratitudine della patria. Essi la servi
ranno nei loro focolari col consiglio e coll'aspetto delle nobili
cicatrici che decorano la loro maschia fronte di venti anni.
All'infuori di questi, gli altri restino a custodire le gloriose
bandiere.
Noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme al ri
scatto dei nostri fratelli, schiavi ancora dello straniero, noi
ci ritroveremo fra poco per marciare insieme a nuovi trionfi .
G. GARIBALDI.
Garibaldi non poteva rispondere in modo migliore ai suoi
nemici che con questo proclama diretto ai suoi volontarii.
Non pi l'uomo indegnato che parla; ma il generoso che
si fa superiore ai partiti ed alle misere gare e che pronunzia
parole di concordia e di amore cos ai soldati di Castelfidardo
e di Ancona come a quelli di Calatafimi e di Milazzo; l'uomo
che vuol tutti fratelli nella grande impresa dell'italica rige
razione e che non guarda a distinzioni di sorta; l'uomo che
riconosce gli alti sentimenti del re e che intorno a lui vuol
che si assembrino tutte le forze del paese: l'uomo insomma
che abborrendo e sprezzando la bassezza dei raggiri politici,
piega la fronte e venera i generosi ardimenti e quell'andare
245i
diritto alla meta dell'italiche aspirazioni. Le parole pronun
ciate pe'suoi compagni d'armi valsero molto e furono la sola ri
compensa che quei generosi si ebbero ai grandi sacrificii e
alle lunghe fatiche durate per sei mesi in uno incessante stato
di guerra.
L'amore che Garibaldi portava ai suoi volontarii era amore
di padre; severo sul campo di battaglia, era loro amico e
fratello in ogni circostanza e in ogni luogo, quindi altamente
premevagli la loro sorte, e prima che ad altro ad essi pensava
raccomandandoli a Vittorio Emanuele con la seguente lettera
che inseriamo in queste nostre storie affinch i posteri pos
sano conoscere come Garibaldi nulla lasciasse intentato pel
bene dei suoi soldati e come il governo mal corrispondesse a
questi suoi desiderii. La lettera di Garibaldi in data del
29 ottobre; essa raccomanda prima i dieci milioni d'abitanti
che dava alla sua corona, indi i suoi soldati.
Caserta, 29 ottobre 1860.
Sire!
Quando, toccato il suolo siciliano, assunsi la dittatura, lo
feci nel nome vostro e per voi, nobile principe, nel quale tutte
raccolgonsi le speranze della nazione. Adempio adunque ad un
voto del mio cuore, sciolgo una promessa da me in varii
atti decretata, deponendo in mani vostre il potere, che per
tutti i titoli vi appartiene or che il popolo di queste provincie
si solennemente pronunziato per l'Italia una, e pel vostro re
gno e dei vostri legittimi discendenti.
Io vi rimetto il potere su dieci milioni d' Italiani, tor
mentati fino a pochi mesi addietro da un despotismo stupido
e feroce, e pei quali oramai necessario un regime riparatore.
E l'avranno da voi che Dio prescelse ad instaurare la nazione
italiana, e renderla libera e prospera all'interno, potente e ri
spettata allo straniero.
Voi troverete in queste contrade un popolo docile, quanto
intelligente, amico dell'ordine, quanto desideroso di libert,
pronto ai maggiori sagrifici qualora gli sono richiesti nell'in
teresse della patria, e di un governo nazionale. Nei sei mesi,
che io ne ho tenuta la suprema direzione non ebbi che a lo
darmi dell'indole, e del buon volere di questo popolo, che ho
244
la fortuna di rendere - io co' miei compagni - all'Italia, dalla
quale i nostri tiranni lo avean disgiunto.
Io non vi parlo del mio governo. L'isola di Sicilia, mal
grado le difficolt suscitatevi da gente venuta da fuori, ebbe or
dini civili e politici, pari a quelli dell'Italia superiore; gode
tranquillit senz'esempio. Qui nel continente, dove la presenza
del nemico vi ancora di ostacolo, il paese avviato in
tutti gli atti all'unificazione nazionale. Tutto ci merc la so
lerte intelligenza dei due distinti patrioti, ai quali affidai le
redini dell'amministrazione.
Vogliate intanto, maest, permettermi una sola preghiera,
nell'atto di rimettervi il supremo potere. Io vi imploro, cha
mettiate sotto la vostra altissima tutela coloro che m'ebbi e
collaboratori in questa grande opera di affrancamento dell'I
talia meridionale e che accogliate nel vostro esercito i miei com
militoni che han bene meritato di voi e della patria.
Sono, sire,
Vostro
G. GARIBALDI.
Il giorno 9 novembre Garibaldi accompagnato da alcuni
suoi amici, sul vapore il Wasington lasciava Napoli e partiva
per Caprera. Egli era partito da Genova coi suoi mille il 5 mag
gio. In sei mesi di campagna aveva conquistati all'Italia due
regni, i pi ricchi della penisola.
ele le Jael o lae uobuse Jode A ins e o equi, s a ode N p alled ipeque
CAPIT0L0 , XIV
Lettera di Ruggiero Settimo. Cose di Sicilia
Cose di Napoli.
-
Prima di parlare degli atti del nuovo governo di Napoli,
l'ordine cronologico che abbiamo finora seguito vuole che
qualche cosa si dica sopra gli ultimi avvenimenti di Sicilia e
gli atti del prodittatore Mordini.
I nostri lettori ricorderanno come Garibaldi dopo la sua
entrata in Palermo scrivesse una lettera d'invito a Ruggiero
Settimo in Malta pregandolo a voler lasciare la terra dell'esilio
e a fare ritorno alla sua patria gi libera dalla borbonica
schiavit. Ricorderanno ancora la risposta gentile dell'illustre
Siciliano il quale scusavasi con la sua malattia e mostravasi
dolente di non poter presto rivedere quella terra dove aveva
avuti i natali.
Ruggiero Settimo trovavasi realmente cotanto male in sa
lute da non potersi muovere dalla sua camera e molto meno
da intraprendere un viaggio per mare, comunque breve.
Quando il governo dittatoriale non camminava d'accordo
col governo di Torino, Ruggiero Settimo avrebbe potuto essere
un buon rimedio al male, ove si fosse determinato a ritor
nare in Sicilia. Vecchio e sempre a parte di tutti i rivolgi
menti politici d'Italia, egli poteva chiamarsi il Nestore dei libe
rali; la sua onest, la severit dei suoi costumi, la immuta
bilit dei suoi principii lo avevano reso caro e venerando ai
Siciliani tutti; il suo esilio, ed i patimenti che ad esso si as
sociano avevanlo reso pi venerando ancora, e non era dubbio
che se egli fosse apparso in Palermo, la sua parola ed il suo
246
consiglio avrebbero avuto un grande peso sulla bilancia delle
cose politiche, e tanto da potere tirare al suo partito la mag
gioranza della popolazione siciliana. Il conte di Cavour a cui
nulla sfuggiva, appena il re fu nelle provincie napoletane, di
resse lettera a Ruggiero Settimo pregandolo a fare ritorno alla
sua terra natia e mettendo a sua disposizione un vapore e qua
lunque altra cosa avesse desiderato.
Ruggiero Settimo grato e riconoscente a tali affettuose di
mostrazioni scriveva la seguente lettera di risposta, la quale
una prova ancora dei sentimenti liberali dell'illustre paler
mitano e della soddisfazione che sentiva nel vedere libera e
redenta la sua patria diletta.
Eccellenza !
Malta, 5 novembre 1860.
In questi momenti di supremo interesse per l'Italia e per
l'umanit, ella ha voluto ricordarsi di me, ed in nome del
governo del re invitarmi a ritornare alla terra natia. Non so
rinvenire frasi che esprimino convenientemente la mia grati
tudine a tanta lusinghiera memoria. Cittadino d'Italia, sento
pel re e pel suo governo la divozione di chi per opera loro
la vede redenta dalla secolare oppressione e costituita a na
zione. Italiano, nato in Sicilia, devo a lui gratitudine maggiore
per la giusta estimazione del sentimento nazionale che ha di
retto i miei concittadini, poich ella con ragione ha veduto con
la politica seguita dal governo provvisorio di Sicilia del 1848
la tendenza alla nazionalit italiana sotto la dinastia di Savoia,
sebbene si manifestasse nella forma che le condizioni poli
tiche di quell'epoca permettevano. Personalmente mi sento
di troppo onorato della stima colla quale ella si degna giu
dicare la mia vita politica. Testimone ed in parte bench me
noma, attore della lotta che, dallo scorcio del secolo passato,
l'umanit sostiene per liberarsi dal dispotismo d'ogni sorta
che la conculca, mi sono da lunga pezza convinto che la li
bert e la prosperit d'uno Stato dipende dalla sua prima in
dipendenza, e che questa si collega alla sua potenza, e per
il bisogno della costituzione, di grandi associazioni, delle na
zionalit. Mi sono altres convinto che la libert non pu esi
stere senza l'ordine interno, garanzia della prudente conserva
247
zione del saggio progresso. Tutti questi beni, li pu soltanto
garantire la costituzione dell'Italia in monarchia costituzionale
sotto quel re che alta ed incontaminata ha mantenuta la ban
diera dell'indipendenza e della libert italiana. Tutte le varie
regioni d'Italia hanno compreso questo vero, e quindi la no
bile gara a sagrificare sull'altare della patria i vieti e dannosi
pregiudizii del gretto municipalismo.
La Sicilia non voleva n poteva essere meno italiana delle
altre regioni; il suo unanime ed entusiasta voto per l'annes
sione ne fa prova. Le felici e grandiose conseguenze di questo
fatto per l'Italia e l'unanimit in generale non possono es
sere dubbie.
La Sicilia nel governo normale e saggio del re, nella sua
unione col resto della famiglia italiana, trover quel riposo
di cui sente tanto bisogno, quella prosperit che i favori della
naturale danno diritto ad augurarsi. Sebbene sia conscio di
poter nulla o poco giovare coll'opera mia, e sia convinto al
tempo stesso della valentia degli uomini, cui sua maest affi
der il governo della Sicilia, pur nondimeno, conoscendo quanto
ne sia difficile lo incarico nello stato in cui la Sicilia trovasi ri
dotta, sento che sia debito d'ogni onesto cittadino devoto all'Ita
lia di prestarvi la sua opera secondo le proprie forze permettono.
Onde che per questa ragione e per l'onorevole invito rice
vuto, mi ritengo obbligato ritornare in Sicilia tosto che la malat
tia, che in questi giorni pi severamente mi ha travagliato, lo
renda possibile; ritorno cui mi spinge pure il desiderio di
rivedere la patria ed i miei concittadini, ai quali sono gratissimo
di tenero affetto. Se mai questo mio voto non potesse compirsi,
se mai dovessi terminare la mia lunga vita nella terra ospitale
del mio esilio, sarei tranquillo sull'avvenire dell'Italia e della
Sicilia sotto ad un re leale, sotto un governo tanto saggio.
Si assicuri della mia devozione al re, della mia rispettosa
stima per l'E. V. mentre coi sensi della pi alta considera
zione sono:
RUGGIERO SETTIMO
Questa lettera dimostra come l'animo del grande liberale
fosse contento di quanto andavasi maturando in Italia, e come
deplorasse le condizioni a cui il governo prodittatoriale aveva
ridotta la Sicilia. Sulla qual cosa da notarsi: che egli non
248
poteva calcolare le ragioni delle passioni politiche che in quei
giorni dividevano gli uomini di azione dagli uomini di go
verno o meglio il partito democratico dal partito ministe
riale, a capo del quale stava il conte di Cavour. Talch le
cose considerate nella loro generalit, ed il movimento italiano
guardato dal punto di vista della monarchia costituzionale di
Casa Savoia portavano naturalmente una condanna ai partiti,
ed un consiglio alla conciliazione generale perch tutto finisse
col governo unico di Vittorio Emanuele II, e con l'attuazione
della prudente politica ministeriale in tutte le provincie ita
liane. .
Ruggiero Settimo nel suo severo giudizio accennava giusto
a questa opinione, ed affrettava coi voti la cessazione dei go
verni particolari e la istallazione del governo del re.
Questo governo per altro avanzavasi verso il suo trionfo, e
gliene dava ragione il plebiscito, unanime, dappertutto, e spe
cialmente in Sicilia.
In uno dei precedenti capitoli parlavamo gi delle ragioni
che spingevano gli abitanti dell'isola a votare pel governo di
Vittorio Emanuele e per l'Italia una ed indivisibile; ad onore
di quella popolazione ci conviene ora riferire che il giorno
della votazione fu per loro un vero giorno di patria solennit.
Non distinzione di casta, non ragioni di et o di lontananza
poterono impedire che la votazione procedesse compatta ed
universale da potersi veramente dire la viva ed energica espres
sione di tutto il paese. Il clero stesso non si mostr diffe
rente dal popolo, che anzi i parrochi colle loro concioni spie
garono dal pulpito il dovere di votare e di manifestare libera
mente e coscienziosamente i proprii desiderii. L'aristocrazia
da qualche tempo malmenata dal governo borbonico accorse
anch'essa a deporre nell'urna il voto solenne che detronizzava
la mala signoria, ed eleggeva il re galantuomo. Tutto il resto
del popolo avverso per principio al caduto governo, e per
sentimento amantissimo della libert non manc al suo dovere
ed accorse anch'esso numeroso a votare per l'Italia una e
libera. Le bande accompagnavano con le loro armonie la pa
triottica funzione e le bandiere nazionali sventolavano dapper
tutto come segno di gioia e di festa in quell'opera di patrio
riscatto.
Eravi, si pu dire, un certo spirito di vendetta che spin
geva gli animi a votare contro quel potere che per tanto tempo
249
aveva sgovernata, tradita, calpestata la povera Sicilia, spoglian
dola e dei suoi diritti politici, e delle sue sostanze, e d'ogni
bene di Dio. Per altro era Garibaldi che chiamava la Sicilia
alla votazione, e questo sarebbe bastato, tanto era possente
nell'Isola la voce e la volont di quell'uomo straordinario.
Fatto lo spoglio delle schede, come anteriormente notammo,
la votazione fu trovata unanime, concorde, imponente, ci che
accrebbe in tutte le citt ed in tutti i paesi dell'isola la fe
sta e la gioia. Non mancava che l'atto legale, e questo venne
adempito appena conosciuto il risultato della votazione.
Il presidente della corte di giustizia lesse dinanzi al Pro
dittatore l'indirizzo contenente il felice risultato del plebiscito,
al quale indirizzo fu risposto dal Prodittatore Mordini con
generose parole.
Ecco l'indirizzo:
Signor Prodittatore!
Onorato il supremo collegio della magistratura del no
bile ministero dello scrutinio dei voti, con cui il siciliano po
polo ha risposto alla proposizione, e vogliamo l'Italia una e
indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale e suoi di
scendenti io che ho l'onore di presiedere lo stesso collegio
nello speciale, non men che nobile ufficio di far la promulgazione
del risultato finale di tal plebiscito, avendo gi adempito al
debito nostro, veniamo a presentarvi, o signore, il solenne do
cumento che attester alle et future il gran compito che
abbia fornito un popolo nella carriera de'suoi destini, dandosi
libero, spontaneo un governo analogo ai tempi e alla presente
civilt, che attester la parte, e non tenue che questa nobile
provincia ha tolta alla fondazione dell'opera gloriosa del
l'italica nazionalit una e indivisibile sotto lo scettro costitu
zionale di un re, il cui nome passer nei fasti del mondo col
glorioso attributo unico di re galantuomo, opera immortale,
in primo luogo del gran cittadino che ha gi riempito il mondo
di una fama imperitura, in secondo luogo della eletta schiera
dei nostri fratelli del continente, che divisero coi nostri prodi
i pericoli ed i sagrifizii di sangue e di fortuna, e finalmente
del concorso efficace vostro, o signore, che siete stato sinora
il supremo reggitore delle cose nostre .
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
52
250
Il Prodittatore rispondeva:
Signor Presidente,
Signori consiglieri della suprema corte di giustizia.
Mi grato ricevere da voi, vigili e sapienti guardiani delle
leggi, il documento solenne ch' legge fondamentale della Si
cilia, e che deve attestare al mondo l'unanime vostro volere.
Questo documento dell'anima veramente italiana e della
fermezza eroica di un popolo grande, che volle santificare la
propria vittoria sulla tirannide, proclamando la unit e la in
divisibilit della nazione, nelle mie mani un sacro deposito.
Io, tra brevi ore, avr l'onore di presentarlo al glorioso
Dittatore che lo rese possibile; ed egli, in nome dei due mi
lioni d'ltaliani redenti a libert, rivendicati allo esercizio del
proprio diritto, potr farne immediato omaggio al re prode,
al re galantuomo, che ha giurato di vincere o morire per
l'unit italiana.
Viva Vittorio Emanuele re d'Italia!
Toccava al Prodittatore presentare al re il plebiscito. Mor
dini risolse perci partire per Napoli ove il re avvicinavasi.
Prima di lasciare Palermo pubblic un breve proclama, col
quale espose la ragione del suo momentaneo allontanamento
dall'isola, raccomandando l'ordine e la tranquillit del paese:
Ecco le parole del Prodittatore:
Cittadini!
Il grande atto compito.
Custode e propugnatore io del programma di Garibaldi,
esulto di vederlo consacrato dal vostro senno e dalla vostra
virt.
E poich ancora non giunto nell'isola alcun rappre
sentante di quel re, che rispondendo ai gridi di dolore delle
italiche genti, si chiam, e fu primo soldato della indipendenza
nazionale, mi grato offrire a Garibaldi il compiacimento di
presentare egli stesso il vostro voto e di ottenerne la imman
chevole accettazione.
25I
Io far pronto ritorno tra voi per segnar l'atto, che
deve chiudere la mia missione e dirvi addio.
Intanto, nella brevissima assenza porto la convinzione che
il paese serber quel savio contegno che lo fece ammirando
negli ardui giorni dell'incertezza, e che oggi si ammanta di
ben naturale, civile entusiasmo.
Alla guardia nazionale, questo soltanto io dico partendo,
che in lei supremamente confido .
Palermo, 4 novembre 1860.
Il prodittatore MoRDINI.
Dopo la pubblicazione di questo proclama, Mordini parti
per Napoli, e noi di sopra abbiamo riferito come egli andasse
incontro al re, e come con lui entrasse in Napoli. Il giorno 8
il municipio e la corte suprema di giustizia offrirono al re il
plebiscito. La citt fece cantare il Te Deum a san Lorenzo Mag
giore. La chiesa era addobbata con molto gusto; l'orchestra
numerosa di 500 professori, che esegu mirabilmente alcuni
componimenti del maestro Pistilli; Monsignor Caputo vescovo
della diocesi di Ariano diede la benedizione; v'intervennero
magistrati, ufficiali civili e militari, e molto popolo.
Il giorno 9 Vittorio Emanuele usciva in vettura a quattro
cavalli. La piazza del palazzo era zeppa di popolo e di car
rozze che col traevano per poterlo vedere ed acclamare. Per
corse la contrada di santa Lucia a Chiaia e mostrossi cortese
con tutti. Alcuni giorni passarono ricevendo numerose depu
tazioni che venivano da quasi tutte le citt del regno; il re
diceva a quelle rappresentanze affettuose parole, onde che
tornavano alle loro citt contenti del contegno del re galan
tu0m0.
Il luogotenente Farini volendo forse annunciare al partito
democratico che la politica del governo aveva finalmente
trionfato, scrisse in data del 9 al marchese Trivulzio Palla
vicino la seguente lettera ringraziandolo della sua cooperazione
a quanto era avvenuto in Napoli.
252
A S. E. IL MARCH. GIORGIO PALLAVICINO TRIVULZIO
Cavaliere dell'ordine supremo
della SS. Annunziata, ecc., ecc. Napoli.
Eccellenza!
La virt dell'animo e la fermezza de' propositi con cui
ella, rimovendo gravi ostacoli, secondava l'ardente desiderio
che avevano queste popolazioni di pronunciare il voto di
unione alla rimanente Italia, hanno avuto ed avranno gran
parte al finale compimento di questa maravigliosa impresa.
L'Italia ne serber grata memoria, ed io son lieto di signi
ficarle, in nome del re, l'alta sua soddisfazione perci ch'ella
ha, con tanto zelo ed affetto, cooperato a pro della patria
COIIllIl 0.
Ella si compiacer di esprimere altres, a nome di S.
M. simili sensi ai ministri della dittatura per la parte che loro
spetta nell'avere cooperato coll'E. V. al conseguimento del
lodevole fine, che ora raggiunto coll' universale compiaci
mento dell'intera nazione.
per me una buona ventura quella di farmi interprete
dei sentimenti di S. M. e di aggiungerle l'espressione della
particolare mia stima ed osservanza .
Napoli, add 9 novembre 1860.
Devotis. ed obbligatis.
FARINI.
Il prodittatore Pallavicino aveva avuto la missione di spin
gere avanti il plebiscito; egli vi riusc perch Garibaldi aveva
molta stima di lui, e perch le cose venute a momenti difficili
gli resero facile l'impresa non solo dalla parte di Garibaldi,
ma eziandio da parte di molti generali garibaldini i quali
pensarono che in quei momenti tutto sarebbesi salvato col
l'annessione dell'Italia Meridionale al regno italiano. La lettera
del luogotenente Farini non in sostanza che un ringrazia
mento al prodittatore di Napoli perch avevala vinta sopra
la democrazia, e perch era riuscito nella sua missione. Noi
255
chiameremo questo modo di procedere intemperante, antipo
litico, contrario ai principii di concordia che in quei giorni
volevano essere propugnati a tutt'uomo, e leggera manifesta
zione di sentimenti affatto avversi al governo dittatoriale. Fa
rini era venuto nella falsa determinazione di distruggere quanto
Garibaldi, in fatto di amministrazione interna, aveva edificato;
e fu questo errore grandissimo, perciocch non si poteva ro
vesciare l'opera del Dittatore, buona o cattiva che si fosse,
senza tirarsi addosso l'avversione di tutti i partigiani di Gari
baldi che non erano pochi.
Sin dal 21 ottobre Garibaldi aveva delegato al generale
Sirtori il comando dell'esercito meridionale; il giorno 9 no
vembre Sirtori pubblicava quest'ordine del giorno:
Il generale Garibaldi mi trasmise il comando dell'esercito
meridionale colla seguente lettera in data di Caserta 21 ot
tobre:
Generale Sirtori !
Abbisognando alcuni giorni di cura, io lascio a voi tem
porariamente il comando dell'esercito .
Firmato GIUSEPPE GARIBALDI.
Fino che egli rimase fra noi, io pregai il generale Ga
ribaldi di conservare il comando; ora egli allontanandosi per
alcun tempo, mi ordin di pubblicare la presente lettera:
Ufficiali e soldati dell'esercito meridionale l'
la terza volta che il generale Garibaldi mi affida il
comando dell'esercito, e per la terza volta io spero di resti
tuirlo dopo breve tempo al grande uomo che amiamo siccome
padre, anzi come padre della patria .
Caserta, 9 novembre 1860.
Il comandante dell'esercito meridionale
SIRToRi.
254
Garibaldi nella sua marcia trionfale da Marsala al Volturno
aveva sempre usata molta deferenza pel generale Sirtori; per
questa ragione a lui affidava, quando necessit lo voleva, il
comando dell'esercito. Sirtori era uomo di forti propositi,
molto amico dell'ordine e della disciplina, e grandemente af
fezionato alla causa italiana. Nell'assedio di Venezia del 1849,
aveva mostrato molta energia. Questi titoli gli avevano acqui
stata la stima di Garibaldi e tanto da preferirlo a chiunque
nel comando dell'esercito. Non sar superfluo il notare che il
generale Sirtori essendo prete congiungeva al valore militare
una grande dose di prudenza, e di moderazione, virt neces
sarie in chi comanda un esercito di volontarii. Di pi Gari
baldi desiderava che il governo si fosse mostrato generoso e
conciliante verso l'esercito meridionale; ad ogni modo era
necessario mettere al comando di questo esercito un uomo di
coscienza e di energia, affinch facesse valere presso il governo
stesso le ragioni dell'esercito garibaldino.
Intanto la guardia nazionale di Napoli per mezzo dei suoi
comandanti, luogotenente generale De Sauget e luogotenente
generale Topputi veniva rappresentata dinanzi al re col se
guente indirizzo:
Sire l
Ricevendo voi dal magnanimo vostro genitore il gran
retaggio di far libera l'Italia, nel giro di pochi anni non solo
avete innalzato il vostro governo alla dignit dei maggiori
Stati dell'Europa, ma a capo del vostro valoroso esercito, fa
cendo supremo obbligo del vostro cuore il bene della patria
comune, avete liberato i popoli della penisola dall'interne ti
rannidi, erigendola a nazione.
Ieri ancora, divisi e da pi principi governati, credevamo
che la libert della penisola dovesse passare per difficili prove;
oggi con l'ardire delle vostre schiere, secondate dal forte de
siderio, e deciso volere dei popoli, ci ritroviamo uniti noi
Italiani e subitamente ordinati a nazione.
Niun re seppe fare ci che la M. V. con tanta pertinacia
di proposito ha saputo fare a beneficio dell'Italia, perch
niun re, come voi, amb la nobile gloria d'esser chiamato il
primo cittadino ed il primo soldato del suo popolo.
255
I popoli dell'Italia Meridionale che, battuti non ha guari
della mala signoria dei Borboni, a voi si rivolgevano come a loro
sicura speranza, se eguagliarono gli altri popoli dell'Italia nel
l'amor della patria indipendenza, li eguaglieranno ancora nella
fedelt a quel principe che con unanime consentimento eles
sero a loro re ed a re d'Italia.
In voi, o sire, l'Italia si personifica, e voi la provvidenza
divina suscit perch questo gran popolo che super gli altri
tutti nelle opere dell'ingegno, li superi ancora in quella della
grandezza civile e nazionale.
La guardia nazionale a noi affidata altera di poter sa
lutare in voi il re d'Italia ed il liberatore sublime della na
zione. Il vostro nome, o sire, sar la pagina pi bella della
nostra storia italiana, che voi aprite, e sar eterna quanto l'u
mana civilt.
Gli affetti che per la nostra bocca vi esprime la guardia
nazionale sono non solo di devota gratitudine al principe che
li liber, ma di profonda ammirazione pel principe che volle
e seppe essere il primo degl'Italiani .
Napoli, 8 novembre 1860.
A quest'indirizzo il re rispose: conoscere quanto la guardia
nazionale aveva fatto per conservare l'ordine pubblico minac
ciato, ed essergliene grato; la guardia nazionale di Napoli,
nel tempo che aveva dovuto prestare il pesante servizio della
guarnigione, essersi comportata con zelo ammirabile; indi sog
giunse: ringraziate in mio nome la guardia nazionale: io non
dimenticher mai i segnalati servigi resi alla patria .
Questa lode era ben meritata dalla guardia nazionale che
dal giorno in cui parti Francesco II fino a quel momento aveva
veramente conservato l'ordine pubblico attraverso infinite diffi
colt ed innumerevoli pericoli in quei tempi di politica transi
zione. La guardia nazionale presidiava i forti, perlustrava la citt,
accorreva ovunque era chiamata dal bisogno, e di giorno e di
notte, indefessa nella fatica e sempre instancabile tutelava la citt
immensa abitata da mezzo milione di anime. Se la guardia
nazionale non fosse stata, Garibaldi non avrebbe potuto di
sporre di tutto il suo esercito nelle giornate di S. Maria e del
Volturno, e i disordini sarebbersi in tal modo moltiplicati in
256
Napoli e mettere in pericolo quanto il grande italiano aveva
operato.
Pi tardi vedremo come si debba alla milizia cittadina di
quelle provincie la salvezza deil'Italia meridionale, e quindi
l'unit italiana. Per ora ci basti il ripetere che in paese li
bero il cittadino diviene di un tratto vero soldato, perciocch
egli ha una bandiera da difendere, una patria da salvare, una
nazione da guarentire e la causa pubblica che egli propugna
causa sua propria. Differenza gradissima fra il soldato mer
cenario del desposta, e il soldato cittadino della patria.
Da buon re, Vittorio Emanuele largiva incessantemente nu
merose decorazioni le quali di certo sarebbero tornate utili
alla concordia degli animi se i ministri pi esperti o meno
deboli di fronte alle politiche passioni non lo avessero mal
consigliato. Si videro infatti decorati molti borbonici e mol
tissimi che nulla avevano fatto per la causa nazionale, e dimen
ticati coloro che prima nell'esilio e poi nei campi di battaglia
avevano date sufficienti prove di patriottismo. Una delle deco
razioni ben largite fu quella della collana dell'Annunciata al
marchese di Villamarina il quale non solo aveva serbato presso
la corte di Napoli lodevolissimo contegno, ma eziandio erasi
molto adoperato pel trionfo della causa italiana. Ministro del
governo sardo in Napoli, il marchese Villamarina doveva non
attraversare il movimento italiano di quelle provincie, n fa
vorirlo tanto da diventare un emissario sardo n un cospira
tore contro il governo di Francesco II. La condotta del Vil
lamarina, fu irreprensibile; questo funzionario ebbe l'accor
tezza, mancata al Buoncompagni in Toscana, di non fare ap
parire il proprio governo come macchinatore di congiure contro
gli altri principi italiani.
Intanto il nuovo luogotenente non potendo per la difficolt
dei tempi riorganizzare l'amministrazione interna, opera per
altro difficilissima anche in tempi normali, riordinava ed or
ganizzava dicasteri, con che se non altro manifestava le sue
intenzioni per l'avvenire. Istituiva un dicastero di agricoltura e
commercio composto ed ordinato come appresso: 1. del ri
partimento di agricoltura e commercio che allora faceva parte
del ministero dell'interno; 2. dell'amministrazione delle acque,
foreste e caccia dipendente allora dal ministero dei lavori pub
blici; 3. delle scuole di agricoltura, e di arti e mestieri, del
l'istituto d'incoraggiamento e delle societ economiche che
257
appartenevano al ministero della pubblica istruzione, e dell'e
sercizio della veterinaria, rimanendo l'insegnamento all'istru
zione pubblica. Leg inoltre al dicastero d'agricoltura e com
mercio la proposizione di tutti i provvedimenti generali intesi
a tutelare la propriet agraria ed a promuovere il migliora
mento del territorio ponendosi di accordo col consigliere inca
ricato dei lavori pubblici in quanto concerneva quel dicastero,
al quale rimanevano salve le sue antiche attribuzioni tanto pei
progetti d'arte come per la loro esecuzione. L'approvazione
della societ di credito e di altre societ o stabilimenti com
merciali e marittimi ascrisse tra le attribuzioni del dicastero
delle finanze. Quelle societ ed istituzioni poi che avevano
attinenza all'industria dell'agricoltura dovevano essere regolate
dal consigliere delle finanze d'accordo col consigliere incari
cato del dicastero d'agricoltura e commercio.
Sebbene l'agricoltura ed il commercio in Napoli abbisogna
vano di una particolare attenzione perch potessero rifiorire e
dare allo Stato ed alla popolazione i vantaggi che da essi emer
gono, pure l'accrescere il numero dei dicasteri non ci sembra
lodevole, tendendo oggi la scienza economica alla pi stretta
semplificazione del sistema amministrativo.
Ma la questione pi difficile ed insieme pi delicata era
quella dell'esercito meridionale; si trattava infatti di riconoscere
o no i gradi conferiti da Garibaldi ai suoi volontarii, si trat
tava di conciliare con le esigenze dell'esercito regolare i di
ritti dei volontarii; si trattava di trovar modo onde contentar
tutti senza in nulla offendere la disciplina e gli essenziali re
golamenti dell'armata.
Il governo credette poter sciogliere la questione colle di
sposizioni contenute nei seguenti decreti.
VITTORIO EMANUELE II.
Sentito il nostro consiglio dei ministri;
Sulla proposta del presidente del consiglio, nostro ministro
segretario di Stato per gli affari esteri e del ministro della
guerra,
Abbiamo decretato e decretiamo:
Art. 1. I volontarii italiani attualmente sotto le armi for
meranno un corpo separato dell'esercito regolare. La durata
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
55
258
della ferma per la bassa forza sar di due anni. Gli ufficiali
avranno la speciale loro scala di anzianit e di avanzamento.
Art. 2. I vantaggi e gli obblighi s dei soldati che degli
ufficiali sono interamente pareggiati a quelli dell'esercito re
golare.
Art. 3. Una commissione mista determiner i gradi e
l'anzianit degli ufficiali del corpo dei volontarii avuto riguardo
ai servizi da essi resi ed al loro precedenti.
Art. 4. Il governo si riserva di far passare nell'esercito
regolare ufficiali del corpo dei volontarii, in modo da rispettare
i diritti acquisiti dagli ufficiali dell'esercito regolare.
Art. 5. Le condizioni precedenti non dispensano alcuno
dagli obblighi civili e militari che possa avere verso lo Stato.
Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello
Stato, sia inserto nella raccolta degli atti del governo, man
dando a chiunque aspetti di osservarlo e di farlo osservare .
Dato a Napoli l'11 novembre 1860.
Vittorio Emanuele.
C. CavouR.
M. FANTI.
Il giorno appresso veniva pubblicato quest'ordine del giorno
che contiene le definitive determinazioni prese rispetto all'ar
mata di Garibaldi:
COMANDO GENERALE DELL'ARMATA
Ordine del giorno.
n
L'armata dei volontarii comandata nell'Italia meridionale
dal generale Garibaldi ha bene meritato della patria e di noi.
Mentre io col mio governo do opera ad ordinarla definitivamente
secondo la legge ed i regolamenti dello Stato,
Determino:
1. Che quanto ai gradi dei signori ufficiali una commissione
di generali ed ufficiali superiori scelti nelle due armate mi
far le convenienti proposte sopra i relativi documenti.
259
2. Che gli uffiziali, sottouffiziali, caporali e soldati i quali
sonsi resi inabili al servizio militare per ferite riportate in
guerra sia applicata la legge sulle pensioni vigenti negli an
tichi Stati.
3. Ai sottofficiali, caporali e soldati i quali desiderino
tornare in seno alle loro famiglie verr rilasciato il congedo e
saranno dati i mezzi di trasporto per mare e sulle ferrovie ed
inoltre a titolo di gratificazione per spese di viaggio avranno
un trimestre di paga. ll congedo non esonera chi abbia ob
blighi verso lo Stato o l'armata a termini delle vigenti leggi.
4. l volontarii i quali vogliono rimanere sotto le armi
debbono prendere la ferma di due anni dalla data del presente.
Essi saranno organizzati conformemente agli altri corpi dell'e
sercito.
5. Agli ufficiali che daranno la loro dimissione accor
data una gratificazione per spese di viaggio, ragguagliata a sei
mesi di stipendio.
6. Agli ufficiali e militi delle guardie nazionali mobili che
fanno parte dell'armata meridionale ugualmente accordata
una gratificazione ragguagliata ad un mese di stipendio.
Dato in Napoli 11 novembre 1860.
VITTORIO EMANUELE.
A quest'ordine del giorno fece seguito quello di Sirtori che
del tenore seguente.
Soldati !
Ritornando alle vostre case, o rimanendo sotto le armi,
io spero che sarete sempre e dovunque degni di voi stessi e
delle vostre gesta, degni dell'armata che, rendendo all'Italia
ed alla libert dieci milioni d'Italiani, merit la gratitudine della
presente e futura generazione.
Soldati, per essere degni del prestigio che circonda la
vostra giovine armata, e della gloria che l'attende, vi duopo
associare la virt al valore e mostrarvi in ogni cosa osservatori
severi dei doveri del soldato e del cittadino. Giovani soldati,
260
la patria sar pienamente soddisfatta di voi, se imiterete la di
sciplina e le solide virt militari della vecchia armata .
Il comandante in capo l'esercito meridionale
SIRTORI.
Il decreto del giorno 11 accenna alle disposizioni del go
verno di conservare il corpo dei volontarii e di regolare i
gradi degli ufficiali senza offendere in nulla i diritti dell'uffi
zialit dell'esercito regolare. Sarebbe stato in vero forse l'u
nico modo di sciogliere la questione senza ingenerare un dua
lismo cos facile a prodursi tra le due armate settentrionale
e meridionale; ma l'artic. 3. che voleva una commissione
mista per determinare i gradi dell'anzianit dei volontarii in
contr un'opposizione facile a prevedersi; perciocch la mag
gior parte che aveva combattuto sotto il comando di Garibaldi
non doveva i suoi gradi che ai fatti di valore mostrato sui
campi di battaglia. Quindi la commissione mista avrebbe col
suo elemento regolare messo a calcolo l'istruzione e gli anni
di servizio, ci che i volontarii non potevano affatto vantare.
Per altro era nato tale spirito d'indipendenza nell'esercito me
ridionale, e la fortuna aveva in tal guisa esaltati gli spiriti
che gli ufficiali garibaldini presumendo forse troppo di s stessi
credevansi superiori di gran lunga agli ufficiali della truppa
regolare. A questo aggiungeremo che la partenza di Garibaldi
aveva disanimati i volontarii e il maltrattamento del governo
gli aveva in siffatta guisa indegnati che la maggior parte di
essi risolse abbandonare la vita del campo e ritornare al pro
prio focolare. Quindi venne il decreto del giorno 12 nel
quale provvedendo al viaggio dei volontari e largendo loro
una gratificazione con un trimestre di paga apriva la strada
allo scioglimento di quel corpo. Fu questo un fatto impruden
tissimo, e la colpa vuol essere tutta attribuita al generale Fanti,
il quale oltre ad invidiare la gloria di Garibaldi non poteva
tollerare l'esistenza di un corpo di volontarii, avvezzo come
era all'antico sistema dei collegi e dell'educazione militare.
Cosi basse passioni produssero mali innumerevoli e sciolsero
e dispersero un corpo di 30 mila uomini.
Vero che Garibaldi aveva graduato moltissimi e qualcuno
di questi immeritevole del posto, ma vero altresi che in
261
tempo di pace Garibaldi avrebbe corretti tutti gli errori com
messi in tempo di guerra, ci che avrebbe modificato l'eser
cito meridionale e resolo pi disciplinato e pi affine all'eser
lto regolare. Ma torneremo spesso su questo ingrato argo
mento, e vedremo in appresso le dolorose conseguenze di que
Sta politica falsa del governo di Torino.
Intanto la condizione economica del popolo napoletano era
deplorabile, e non meno deplorabile era lo stato della pub
blica
opinione relativamente alla strettezza economica. Un au
torit governativa
che avea tutto accentrato per poter tutto
pi agevolmente opprimere, che aveva chiuso tutte le vie alle
industrie, al commercio ed alla operosit individuale, che aveva
infine ammiseriti tutti per poter tutti corrompere, aveva abi
tuati i popoli del Napoletano a non riconoscere che nel go
Werno la sorgente di ogni bene come di ogni male e a non
Cercare che nel governo i provvedimenti ed i rimedi per tutti
gl'inconvenienti dal governo stesso creati. L'amministrazione
borbonica aveva lasciato al nuovo governo questa tristissima
eredit. Nelle classi bisognose della popolazione napoletana il
caro del pane era una forte ragione di malcontento. Questa
Carestia derivava da ragioni naturali e da ragioni ammini
Strative.
Vigeva ancora la legge che proibiva l'esportazione dei grani
permettendone l'importazione dall'estero. Gli effetti di questa
legge riuscivano affatto contrari alle intenzioni del legislatore;
s'insisteva perci perch l'importazione e l'esportazione fos
Sero lasciate libere, e a questa insistenza spingevano l'esempio
del Piemonte e dell'Inghilterra dove quella libert di com
mercio era coronata dal pi favorevole successo.
Il governo borbonico e dittatoriale avevano adottato il prov
vedimento di far distribuire farina e vender pane ad un prezzo
pi mite di quello del mercato, ed il di pi rimettere dal pub
blico denaro; circolo vizioso, perciocch il danaro pubblico
usciva dai privati in un modo e ritornava ad essi sotto forma
di carit. Questa condizione infelice era aggravata dalla scar
Sezza e quasi mancanza completa di lavoro che rendeva pi
streme le povere famiglie costrette a vivere del prodotto quo
tidiano delle fatiche di un solo.
Il governo che avrebbe dovuto pensare, anco con sagrificio di
denaro, a dar lavoro agli operai, cercava accontentarli invece con
attuare lo Statuto nelle provincie meridionali e con introdurre
262
la legislazione sarda. Fu questo un altro errore, perciocch il
popolo napoletano non aveva bisogno di leggi ma dell'adem
pimento delle leggi, che anzi tutti convenivano non esservi in
Italia legislazione cos saggia come quella delle Due Sicilie.
Non pertanto lo Statuto voleva essere attuato per far gu
stare a quei popoli il beneficio della vita libera sotto libero go
verno, e specialmente in quelle cose voleva essere attuato
dalle quali dipendevano molti gravi interessi di tutta intera la
nazione italiana. Era necessario pubblicare le leggi per le ele
zioni politiche, perciocch era intenzione del governo centrale
sciogliere il parlamento sardo per convocare il primo grande
parlamento italiano. Su questo diremo che il conte di Cavour
colla sua solita accortezza politica non voleva mettere tempo
in mezzo alla formazione del nuovo parlamento, perciocch
esso avrebbe in faccia all'Europa rappresentata l'Italia gi
fatta, e determinate certe vie da percorrere nel governo della
penisola, ed unificate col fatto le varie popolazioni italiane.
Gi le potenze, e gli spodestati continuavano a protestare contro
quanto compivasi in Napoli ed in Sicilia; non eravi modo mi
gliore per rispondere a quelle proteste che presentare un par
lamento veramente italiano, rappresentante i voti, gl'interessi
e le aspirazioni politiche d'Italia tutta.
Farini il giorno 12 novembre emanava perci il seguente
decreto:
IL LUOGOTENENTE GENERALE DEL RE
nelle provincie napoletane.
Volendo preparare la compiuta attuazione dello Statuto
costituzionale della monarchia in queste provincie;
Sulla proposizione del consigliere di luogotenenza, incari
cato del dicastero dell'interno e polizia;
Udito il consiglio di luogotenenza;
Decreta:
Art. 1. estesa a queste provincie continentali dell'Italia
meridionale la legge elettorale del 20 novembre 1859 vigente
nelle altre provincie della monarchia e se ne ordina la pub
blicazione.
263
A spiegazione dell'art. 3. della stessa legge dichiarato
che sono elettori anche i membri ordinarii dello istituto di
incoraggiamento e dell'accademia pontoniana di Napoli, e
delle societ economiche delle varie provincie.
Art. 2. La determinazione del numero dei deputati e la
circoscrizione dei collegi elettorali, nelle varie provincie, for
meranno oggetto di un successivo decreto.
Art. 3. Le circoscrizioni elettorali saranno preparate col
parere di commissioni provinciali, che saranno a tal fine ra
dunate dai governatori nei capoluoghi delle rispettive provincie
di cui faranno parte due membri per ciascuno dei distretti
componenti la provincia, in conformit dell'istruzioni che ri
ceveranno dal dicastero dell'interno.
Il consigliere di luogotenenza del dicastero dell'interno
incaricato della esecuzione del presente decreto, il quale
sar pubblicato nelle forme volute dalla legge, ed inserto nella
raccolta degli atti ufficiali del governo.
Napoli, 12 novembre 1860.
FARINI - VENTIMIGLIA.
Una delle grandi piaghe delle popolazioni meridionali era
la mancanza della pubblica istruzione. L'ignoranza piace ai
governi dispotici, per poter meglio tiranneggiare i poveri e
disgraziati sudditi. Ma nessun popolo di Europa era stato ab
bandonato cos all'ignoranza come quello delle provincie na
poletane.
Il re che voleva e doveva mostrarsi generoso ed interes
Sato delle sorti di quel popolo volle largire del suo la somma
di duecentomila franchi per l'apertura di scuole popolari.
Ecco la lettera di Vittorio Emanuele II a Farini:
Mio caro Farini !
Giunto in questa citt volli essere informato intorno alle
ndizioni ed ai bisogni delle classi meno fortunate, e fui do
lorosamente commosso nel sapere come sieno stati finora
Pco curati gli istituti d'educazione popolare.
L'istruzione, l'educazione religiosa e civile del popolo fu
264
rono l'assiduo pensiero del mio regno. Io so che per esse
s'aumenta l'operosit e la moralit di tutta la nazione. Le
istituzioni liberali largite da mio padre e da me custodite, per
esser utili a tutti, devono esser intese da tutti e far del bene
a tutti.
Sono sicuro ch'ella sar interprete fedele delle mie in
tenzioni. Ma all'incremento della educazione popolare, che mi
st tanto a cuore, voglio io stesso concorrere personalmente.
Per questi motivi dispongo che dalla mia borsa partico
lare sia presa la somma di duecentomila lire italiane da di
stribuirsi in questa beneficenza delle menti e degli animi.
Nell'impiego di questa somma, ella vorr aver presente
il vantaggio che ne deriva in una grande citt dalle istituzioni
degli asili popolari per l'infanzia.
Ella dar inoltre le opportune disposizioni perch, anche
nelle provincie, sia studiato il grave argomento della educa
zione del popolo. Desidero che i rappresentanti del governo,
le autorit municipali, le associazioni cittadine sieno, per
opera sua, incoraggiate ed aiutate nel promovere quest'o
pera di progresso cristiano e civile alla quale, e come uomini,
e come governanti, dobbiamo ogni pi sollecita cura .
Napoli, 14 novembre 1860.
VITTORIO EMANUELE.
Per non era cosa facile ottenere cos presto queste scuole
di popolare istruzione, specialmente nelle interne provincie
dove pi se ne sentiva il bisogno. In Napoli la plebe era
egualmente ignorante, ed aprire le scuole pei figli del popolo
almeno nella capitale sarebbe stata opera lodevolissima, ma
quasi sei mesi passarono prima che a questo si venisse, e
tutto sempre per mancanza di operosit nel governo. Farini
tentava cavarsi d'impaccio in ci che pi lo molestava, la mi
seria, cio, della popolazione; quindi con decreto del 16 no
vembre aboliva i dazii di consumo esistenti nella citt di Na
poli sopra le seguenti derrate: grano, granone, farina, farina
di granone, semola, pane biscotto, paste lavorate, riso, farro,
ceci, fave; la tariffa dei dazi di consumo sopra derrate ed
altre merci diverse dalle indicate, ordinava fosse riveduta nel
duplice scopo di metterla in armonia colla nuova tariffa doga
265
nale e di ridurre per quanto era possibile i dazii sopra quelle
materie che erano pi utili alla buona alimentazione del po
polo. Sanciva inoltre che i consiglieri pei dicasteri dell'interno
e delle finanze si mettessero d'accordo col municipio di Na
poli per compiere tal revisione nelle forme prescritte dalle
leggi e proporla all'approvazione del luogotenente. Ordinava
pure che la riscossione dei dazi di consumo si facesse dal go
verno per conto della citt di Napoli. Tra la finanza e il mu
nicipio sarebbesi stabilito un accordo da sancirsi dal luogote
nente con apposito decreto per determinare la quota delle
spese di riscossione ed amministrazione che il governo riter
rebbe dal prodotto lordo dei dazi suindicati.
Ma la questione urgente e che mai risolvevasi, e che sciolta
o di un modo o di un altro doveva recare delle gravi con
seguenze era quella dell'esercito meridionale. Fanti e Cavour
persistevano nella falsa via di sciogliere quel corpo e di di
sperderlo affatto per cos non avere a contrastare nell'indi
rizzo governativo con l'elemento democratico; ma la pubblica
opinione si mostrava contraria perciocch erano troppo freschi
i fatti di quei valorosi perch la nazione potesse tollerare tran
quillamente un atto d'ingratitudine verso di loro da parte del
governo. Il re stesso nella bont e sincerit del suo cuore non
dimenticava una lettera di Garibaldi colla quale affidava alla
sua consueta generosit i suoi bravi commilitoni. Ma il re non
poteva fare ci che i ministri non volevano, e bisognava usasse
tutta la prudenza possibile per indurre il ministero ad una
transazione. Aveva egli in questo l'appoggio di Farini, il quale
bench non amico di Garibaldi pure sentiva l'alto dovere di
giustizia, perch i vincitori di Milazzo e del Volturno non
fossero trattati indegnamente. Tutta l'opposizione veniva da
Cavour e da Fanti. Fu per ci che Vittorio Emanuele ricorse
ad un espediente, quello di manifestare ai generali Turr e
Cosenz la volont che fosse da essi compilato un progetto de
finitivo per la riorganizzazione dei volontari garibaldini. A
itale effetto tutti i comandanti delle divisioni dell'esercito me
ridionale si riunirono prima presso il generale Bixio, e poi
in casa del generale Turr insieme al generale Sirtori. Lunghe
furono le discussioni, ma finalmente il progetto di quella rior
ganizzazione venne compilato e presentato al re. Esso non
ebbe effetto; ma noi lo pubblichiamo perch i lettori di que
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
54
266
sta storia conoscano in qual guisa i generali stessi di Gari
baldi intendessero organizzare l'esercito di quei valorosi.
Progetto di riorganizzazione di un corpo d'armata
che si chiamer i Cacciatori delle Alpi.
Art. 1. Il corpo d'armata si comporr di quattro divi
sioni, ogni divisione di due brigate, ogni brigata di quattro
battaglioni, ogni battaglione di quattro compagnie.
Art. 2. Saranno chiamati a far parte di questo corpo,
1. tutti i volontari appartenenti all'esercito meridionale che
vorranno rimanere; 2. tutti coloro che per leggi non sono
soggetti alla leva militare; 3. tutti gli uomini idonei alle
armi delle provincie italiane non libere; 4. potranno anche
essere accettati, sotto condizioni da stabilire, dei volontari
stranieri.
Art. 3. I gradi degl'ufficiali appartenenti all'esercito me
ridionale saranno ricompensati a parit di quelli dell'esercito
nazionale, salvo quelle eccezioni che una commissione, com
posta come all'articolo seguente, trover giusto di stabilire.
Art. 4. (La composizione della commissione fu lasciata in
bianco onde il governo stabilisse il numero dei componenti).
Art. 5. Per gli ufficiali, sott'ufficiali e soldati che cesse
ranno di far parte del corpo, si prenderanno delle misure di
giustizia e di compenso, che sar cura della commissione di
proporre.
Art. 6. Gli ufficiali riconosciuti, come all'articolo terzo,
saranno muniti di brevetto regio, avranno gli stessi diritti degli
ufficiali dell'armata nazionale, come dalla legge sullo stato degli
ufficiali.
Art. 7. Sar obbligatoria pei volontari la ferma di 18 mesi,
ed in caso di guerra, sino ad un mese dopo la conclusione
della pace. Per tutto il resto il corpo d'armata sar sottoposto
ai regolamenti in vigore per l'esercito nazionale.
Art. 8. In caso di scioglimento, gli ufficiali e soldati
avranno la facolt di passare all'esercito regolare.
Art. 9. Il vestiario del corpo dei cacciatori delle Alpi
sara formato di una giubba di panno rosso alla foggia dei ber
saglieri, di un cappello egualmente alla foggia dei bersaglieri,
267.
di pantaloni e cappotto simile a quelli della linea. I cacciatori
saranno armati di carabina .
E giacch parliamo di garibaldini non sar superfluo rife
rire come il tredici novembre si compisse in Caserta una so
lennit che ricordando il nome di Garibaldi dava il debito
onore ad uno dei corpi pi benemeriti del volontarii. Una ricca
bandiera era stata regalata quindici giorni prima al generale
Garibaldi, affinch la serbasse come memoria della ricono
scenza per le maraviglie da lui operate a favore dell'unit ita
liana. La bandiera era tricolore, ricamata in oro, con varii
smeraldi ed altre pietre preziose. Sui quattro canti aveva, da
ambe le parti, i nomi dei siti in Sicilia e sul continente resi
illustri dalle segnalate vittorie del generale. Spiccavano fra
questi nomi Calatafimi, Palermo, Milazzo, ecc. Nel mezzo della
bandiera era rappresentato il generale a cui l'Italia, incoro
nata di torri, additava il leone di S. Marco stretto in catene
e dietro un mostro rappresentante l'Austria.
Sotto le figure si leggeva: A Giuseppe Garibaldi le dame
del comitato nazionale. Garibaldi volendo, prima di partire,
premiare uno dei corpi pi distinti, don la bandiera ai cac
ciatori genovesi, e ben essi la meritavano. Pochi di numero
avevano fatto prodigi di valore a Calatafimi, a Palermo, a Mi
lazzo, al Volturno ed in tutti gli scontri avuti coi regi; talch
di pochi erano divenuti pochissimi, segnati a dito dagli altri
garibaldini e dalla popolazione come l'onorato avanzo di un
corpo di generosi che aveva saputo combattere e dare il san
gue per l'Italia.
Garibaldi amava tutti i suoi soldati, gli amava come padre,
come fratello, come amico ; ed era questo il vero mistero
della sua potenza sul loro cuore, e della cieca obbedienza dei
volontari tutti a suoi ordini qualunque essi si fossero. Mai al
mondo fu visto uomo che sui campi di battaglia esercitasse
tanta influenza nel cuore di giovani guerrieri, n mai si vide
obbedienza cos cieca e pronta in qualunque milizia alla voce
del suo capo. Ma sopratutti il corpo dei carabinieri genovesi
aveva dato prove di valore indescrivibile, di fortezza somma,
di abnegazione singolare, di antico eroismo, onde che Ga
ribaldi avesse giustamente per loro quella predilezione che i
generosi sanno meritarsi da chi li vede e pi ancora da chi
li comanda.
268
Non potendo in altro modo ricompensarli volle che fosse
a loro donata quella preziosa bandiera affinch essi la posse
dessero e la custodissero come memoria delle loro prodezze,
come segno dell'amore di Garibaldi, e come stendardo nazio
nale destinato a sventolare per il primo appena le patrie bat
taglie che dovevano compire l'Italia una, avessero cominciato.
Il giorno 13 adunque il maggiore Mosto a Caserta ne faceva
la presentazione al suo battaglione leggendo l'ordine del giorno
seguente:
Fratelli e compagni d'armi /
Nel congedarmi da voi sono lieto di potervi presentare
questa bandiera, con cui il Dittatore si compiaceva di dare
ai carabinieri genovesi un attestato di stima per l'intrepidezza
e valore mostrato in tutti i combattimenti. Io sono orgoglioso
d'aver comandato un corpo che ha meritato s nobile distin
zione da parte di Garibaldi fra tutti i corpi dell'esercito me
ridionale, e di custodire questa bandiera con religiosa vene
razione, finch il generale del popolo non ci chiami un'altra
volta a spiegarla a Venezia ed a Roma.
A Genova festeggieremo nuovamente questa preziosa
memoria delle campagne di Sicilia e di Napoli. Facendola
sventolare per la superba vostra citt proveremo col fatto
che i concittadini di Colombo e Doria non sono degeneri
dalle virt che fecero gloriosi i loro antenati, e che hanno
lasciato nella storia d'Italia una pagina cos luminosa.
lo intanto, sulle mosse per ritornare alla citt natia, con
dolore mi separo da voi che conobbi sempre prodi e gene
rosi. ll mio addio vi sia promessa che divideremo ancora i
rischii delle battaglie, quando dallo scoglio di Caprera verr
l'invito a compiere l'opera felicemente avviata.
Ai vostri fratelli, che attendono desiderosamente il vostro
ritorno, io dir: Erano molti ed animosi, ed oramai quest'i
taliana citt ha acquistato il diritto alla riconoscenza della
nazione.
Ai molti delle provincie sorelle che con noi concorsero
a nobilitare il nome genovese, io porgo ringraziamenti a
nome di Genova. Essi hanno coi loro sagrifici prestato alla
Mosto
Ml
Caaggiore
dei
Corpo
al
Caserta
in
consegna
ricca
una
Genovesi
rabinieri
Garibaldi
da
regalata
tandiera,
269
patria il pi grande servigio, e colla comunanza degli sforzi
hanno reso testimonianza alla solidariet nazionale.
Addio dunque, commilitoni; forse ci raccoglieremo presto
sotto questa bandiera, e sar, speriamo, per l'ultima volta.
Viva l'Italia libera ed una l Viva Garibaldi !
La festa si chiuse fra gli evviva dei carabinieri e del po
polo, mentre la bandiera era portata trionfalmente per le vie
di Caserta.
CAPIT0L0 XV
Risposta del conte di Cavour al governo di Ber
lino Protesta di Francesco II contro il
plebiscito, Altra protesta di Francesco II
contro un decreto di Vittorio Emanuele,
Continuazione delle cose di Napoli.
Mentre queste cose accadevano in Napoli, la diplomazia eu
ropea non lasciava di occuparsene e di protestare contro tutto
ci che offendeva le teorie del diritto divino e gli articoli dei
trattati. Anche la Prussia volle spezzare una lancia contro il
governo di Torino, e protest, ma in modo da dare al conte di
Cavour larga copia di argomento per rispondere come si con
veniva ad un ministro italiano.
La Prussia non disconosceva i principii di nazionalit, ma
da altra parte non voleva calpestati i vecchi trattati delle grandi
potenze. Questa falsa situazione in che si metteva la Prussia
con le sue proteste, mostra, come essa non spontaneamente pro
testasse, ma costretta dall'Austria probabilmente o da alcuni
piccoli Stati della Germania. Due principii non poteva negare
la Prussia all'Italia senza negarli a s stessa, quello di na
zionalit e quello di libert. Ora la nazionalit italiana era
una chimera senza la completa indipendenza dallo straniero,
e la libert diventava una derisione se non era lecito ai po
poli italiani eleggersi un re ed una forma di governo.
La Prussia per le sue tendenze al dominio di tutta la Ger
mania non avrebbe dovuto muovere accusa contro il governo
sardo il quale finalmente non altro faceva che ricomporre le
sparse membra della povera Italia. Oltre a questi due prin
271
cipii favorevoli in tutto alla politica ed alle imprese del nostro
governo, venne ora un terzo che interessava tutti, coloro spe
cialmente ai quali interessava conservare in Europa il governo
monarchico. Il movimento italiano terminavasi nella monarchia
costituzionale, e reprimeva quella rivoluzione democratica che
tendeva di sua natura alla repubblica. D'altronde era impos
sibile reprimere affatto la rivoluzione; dunque o il governo
italiano doveva secondarla modificandola e dirigendola, o do
veva lasciarla padrona di s stessa ed aspettarsi che presto o
tardi tutta Europa tornasse in combustione.
Queste riflessioni abbiamo voluto fare per notare che tra
tutte le potenze europee la sola che non doveva protestare era
appunto la Prussia, e perch queste stesse riflessioni trovano
appoggio nella risposta che il conte di Cavour diresse al go
verno prussiano. Questa nota va registrata nella storia, per
ciocch uno di quei forti ragionamenti coi quali il grande
ministro italiano soleva far tacere i lamenti e le proteste della
diplomazia europea.
Ecco la risposta del conte di Cavour:
Al sig. conte di Lannay, inviato straordinario e ministro
plenipotenziario di S. M. a Berlino.
Torino, 9 novembre 1860.
Sig. conte.
Il signor conte Brassier de Saint-Simon mi diede comu
nicazione d'un dispaccio, in data di Coblenza, 13 ottobre
scorso, nel quale il signor barone di Schleinitz, attestando pure
il desiderio di mantenere buoni rapporti colla Sardegna, ci fa
conoscere la divergenza di opinioni che esiste tra il governo
del re e quello del principe reggente sul giudizio degli avveni
menti compiutisi in Italia.
Il barone di Schleinitz, dopo aver fatto osservare che la
politica del governo del re, esposta nel memorandum del 12 set
tembre si fonda sul diritto assoluto delle nazionalit, si affretta
a soggiungere ch'egli
dell'idea nazionale, idea
tamente professato dalla
Ma agli occhi suoi
lontano dal contestare l'alto valore
che anzi il movente essenziale, al
politica prussiana in Germania.
questo principio non deve mettersi
272
in opposizione colle regole del diritto convenzionale delle genti,
sotto pena di turbare il riposo dell'Europa e di trascinare po
poli e governi nella via delle rivoluzioni.
Noi siamo lieti di vedere che il governo del principe reg
gente, non solo riconosca l'idea nazionale come uno degli
elementi essenziali del diritto pubblico, ma si onori altres
d'essere il nobile rappresentante di quest'idea in Germania.
D'altra parte se noi dobbiamo oggi deplorare il veder disap
provata l'applicazione necessaria d'un principio rispettato, ci
nondimeno permesso sperare che il gabinetto di Berlino meglio
illuminato sulla vera importanza degli avvenimenti, potr un
giorno considerarli in modo pi benevole ed equo.
Avvi un punto che importa di ben definire e sul quale
noi dobbiamo insistere, cio che la questione delle Marche,
dell'Umbria e delle Due Sicilie, una questione puramente
italiana e come tale essa non tocca punto i diritti positivi delle
altre potenze.
Infatti, il diritto pubblico di tutti i tempi ha riconosciuto
per ogni nazione la facolt di regolare i proprii destini, di
darsi istituzioni conformi ai suoi interessi, di costituirsi, in
una parola, nel modo ch'essa giudica pi proprio a tutelare
la sicurezza e la prosperit dello Stato.
Questo diritto non fu mai dichiarato contrario alle leggi
internazionali. Esso ne anzi il fondamento; perocch, se fosse
disconosciuto e violato, non vi sarebbe pi in Europa n indi
pendenza, n libert.
Ma ci si oppone: le divisioni territoriali dell'Italia sono
state sancite da solenni trattati. In Europa v ha perci una
giurisdizione, cui non potrebbe abdicare senza rinunciare nel
tempo stesso a tutte le tradizioni del passato, senza esporre
l'avvenire all'ignoto delle rivoluzioni ed ai pericoli dei tra
sporti popolari.
Io non esaminer qui sino a qual punto le stipulazioni in
ternazionali, alle quali si fa allusione, fossero dettate nel vero
interesse dell'Italia. Ma il fatto in s stesso, vale a dire le
disposizioni d'un trattato, possono esse implicare l'abdicazione
compiuta e perpetua della nazione all'ordinamento della pro
pria costituzione interna? Il gabinetto di Berlino non vorrebbe
certo sostenere siffatta dottrina.
La storia degl'ultimi quarant'anni ci dimostra che le con
venzioni pubbliche son destinate a subire le modificazioni ri
275
chieste dai tempi, e che l'Europa non crede contraddirsi,
rispettando prima e poscia riconoscendo i cambiamenti com
piutesi al di fuori della propria iniziativa.
L'Europa aveva da lungo tempo ammesso che la situazione
dell'Italia doveva essere modificata nell'interesse della pace e
dell'ordine. Il gabinetto di Berlino, coll'organo del barone
Schleinitz, vi ha pi di una volta, signor conte, parlato
in questo senso, ed il suo linguaggio era conforme a quello
della maggior parte degli altri gabinetti. Ma oggi dinanzi a
quanto accaduto nelle Marche ed a Napoli, ci si dice: la vostra
condotta non fu sempre corretta; il tale atto contrario alle
massime del diritto; il tal altro stabilisce un precedente peri
coloso.
Ma io credo che, alla nostra volta, noi abbiamo il diritto
di domandare: forse colpa nostra, se l'Italia ha lasciato la
via delle riforme, che ci raccomandata dal governo prussiano
e di cui noi abbiamo dato per dieci anni l'esempio ? Non si
devono dimenticare le cause allorch si tratta di giudicare i
fatti. Sono i piccoli Stati dell'Italia centrale, la santa sede
ed il governo di Napoli, che, quando n'era il tempo, hanno ri
fiutato tutti gli spedienti di conciliazione colle popolazioni esa
cerbate ed oppresse. l'Austria che, attaccando nell'anno
scorso il Piemonte, ha precipitato gli avvenimenti; dessa che
prov agl'Italiani come la penisola non avrebbe n sicurezza,
n indipendenza reale finch non fosse riunita in un solo
Stato.
Noi non insisteremo pi oltre su questo fatto, che do
mina tutta la situazione, e domandiamo quale il lagno che
si muove contro il governo del re. Lo si accusa di essere ac
corso in aiuto di popolazioni che eransi liberate dal loro go
verno, d'un governo col quale da quarant'anni esse erano in
lotta. Ma quello che noi abbiamo fatto in circostanze che da s
sole giustificherebbero la nostra condotta, non lo fecero pure
i vari Stati d'Europa in altri tempi, ed in altre circostanze, le
quali nondimeno erano lontane dall'offerire la stessa giustifi
cazione? La Francia e l'Inghilterra, allorch prestarono il loro
appoggio alle Fiandre sollevate, calpestarono forse le leggi in
ternazionali? E queste leggi erano forse infrante da Luigi XIV,
allorch egli dava aiuto all'insurrezione ungherese; dagli Stati
generali, allorch sostenevano Guglielmo d'Orange contro Gia
como II; da Luigi XVI, che ha s nobilmente concorso all'e
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
55
27%
mancipazione degli Stati Uniti d'America; dall'Europa cri
stiana, che sottrasse la Grecia alla dominazione ottomana?
Noi non possiamo adunque accettare il biasimo che gli
ultimi atti del governo del re hanno incontrato a Berlino, e
che si trova espresso nel dispaccio del 13 ottobre. Noi siamo
dolenti di vedere cosi rigorosamente giudicata da un gabinetto
liberale e conservatore la nostra condotta, la quale si sempre
inspirata a codesti due principii. Noi ne siamo dolenti, perch
l'Europa non deve ingannarsi a questo punto sugli avveni
menti di cui la penisola teatro. L'Europa non dovrebbe per
der di mira che il governo del re in Italia il solo potere
conservatore atto ad opporre un argine allo spirito veramente
rivoluzionario, e a domarlo.
Non n giusto n prudente l'indebolire questo potere,
isolandolo e costringendolo, per cos dire, ed appoggiarsi in
date circostanze ad elementi che potrebbero divenire pericolosi.
Si dovrebbe invece associarsi a suoi sforzi nell'interesse del
l'ordine e della pace, aiutandolo a vincere le difficolt di cui
circondato.
Noi non abbiamo nulla a nascondere, nulla a dissimulare.
Noi siamo l'Italia, noi agiamo in suo nome. Ma noi siamo nel
tempo stesso i moderatori del movimento nazionale; i nostri
sforzi, le nostre cure le pi costanti, non hanno altro scopo che
quello di dirigerlo, di contenerlo nelle vie regolari e d'impe
dire ch'esso non degeneri per impuri elementi.
Noi siamo i rappresentanti del partito monarchico il quale
in Italia era scomparso nei cuori prima che rovesciato dalla
vendetta popolare. Noi abbiamo rialzato questo principio, noi
lo abbiamo ritemprato, gli abbiam dato una nuova consagra
zione. Esso al presente la nostra forza, e sar il nostro scudo
per l'avvenire.
Fidenti nella giustizia della causa che difendiamo e nella
rettitudine delle nostre intenzioni, noi abbiamo la speranza
di risolvere e di vincere e difficolt della situazione. Ed al
lorch il regno d'Italia sar costituito sulle basi incrollabili del
diritto nazionale e del diritto monarchico, noi siamo convinti
che l'Europa non ratificher il severo giudizio, che ora si fa
pesare su noi.
Vogliate, signor conte, dar lettura al barone di Schleinitz
di questo dispaccio, e lasciargliene copia, se lo desidera.
Aggradite, ecc.
C. CAvoUR .
-
275
Alle proteste esterne aggiungevansi quelle interne che Fran
cesco II continuamente emanava dalla sua Gaeta. Il caduto
principe volle protestare contro il plebiscito e disse cose in
gran parte vere e rivel alcuni errori del nostro governo, che
in qualche modo possono chiamarsi inescusabili. Diffatti un
plebiscito attuato mentre nel regno stavano le armi piemon
tesi, un plebiscito che si votava quando lo stesso V. Ema
nuele II entrava nelle provincie meridionali; un plebiscito che
aveva luogo in momenti di entusiasmo e di passione politica
doveva necessariamente apprestare ai nemici d'Italia suffi
cienti argomenti di proteste.
I ministri di Francesco II considerarono la questione giusto
da questo punto di vista, e la loro protesta sarebbe forse riu
scita utile, se la causa di Francesco II non fosse stata sin dal
primo giorno di rivoluzione assolutamente perduta. Ecco la
protesta fabbricata in Gaeta, che per quanto sia ragionata non
riusc a cangiare in nulla i rapporti della situazione meridio
nale coi gabinetti d'Europa.
Signore l
-
Gaeta, 8 novembre 1860.
Tutti i giornali hanno portato alla vostra conoscenza che,
contemporaneamente alla ingiustificabile invasione delle truppe
sarde sul territorio del regno, il governo rivoluzionario di
Napoli ha decretato un plebiscito, secondo il quale il popolo,
riunito in comizii, doveva votare, a suffragio universale, l'as
sorbimento della monarchia, la decadenza della dinastia che
regna da oltre un secolo, ed il passaggio della corona al re
di Sardegna.
In Sicilia ove la rivoluzione aveva deciso la convocazione
d'un parlamento per risolvere questa questione, la misura fu
rivocata, ed, in conformit alle istruzioni date da Napoli, lo
stesso plebiscito fu dichiarato colla stessa forma: il popolo
vuole l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele, re co
stituzionale, e suoi legittimi discendenti?
Il plebiscito stato votato, ed il risultato fu quale le cir
costanze dovevano darlo. Il popolo intero parve accettare
-
senza discussione, senza ostacolo e senza differenza d'opinioni
un cambiamento cos radicale dei suoi destini. Per rendere
276
pi verosimile questa commedia rivoluzionaria, si appena
fatto figurare un numero insignificante di voti negativi.
Bench le circostanze che hanno preceduto ed accom
pagnato questo strano atto non possano permettere alcun er
rore sulla mancanza assoluta di sincerit in queste voto, per
volere di S. M. il re io mi dirigo a voi, invitandovi a prote
stare nel reale suo nome contro la nuova usurpazione dei suoi
diritti ed a spiegare al gabinetto presso il quale siete accre
ditato le ragioni che, agli occhi di tutti i governi, rendono
illegittima e nulla la predetta decisione.
Che il popolo quando il trono vacante, possa scegliere
una nuova dinastia, che possa stabilire le condizioni del suo
nuovo governo, che la forma che deve reggerlo venga sotto
messa al suffragio universale, ci si pu fare senza offendere
i diritti di alcuno e senza mettere in pericolo la tranquillit
dell'Europa, ma quando si tratta d'un popolo travagliato dalla
rivoluzione, abbandonato ad una moltitudine di avventurieri,
che lo soggiogano e non riconoscono altra legge, per la loro
sfrenata dominazione che la dittatura la pi illimitata; quando,
ci non bastando, entra sul territorio con una potente ar
mata il sovrano che domanda la corona, quando il re legit
timo occupa ancora una parte del suo regno, v' ha in ci una
violazione manifesta di tutti i diritti riconosciuti dalle leggi e
dai trattati, violazione che non si pu giustificare dalla vo
lont popolare, attesoch essa imposta e dalla rivoluzione
al di dentro e dalla forza delle armi straniere.
Accettando solo per un momento, in tutta la sua esten
sione la dottrina della sovranit nazionale, e ammettendo che
non fosse permesso ad un popolo solamente di cambiare la
forma del suo governo e d'espellere il suo sovrano, ma ancora
d'alterare, con un atto di sua volont, la circoscrizione terri
toriale dell'Europa, la prima condizione almeno, per la lega
lit di un tale atto, sarebbe che la volont popolare fosse
libera.
Ma nel regno delle Due Sicilie, non si nemmeno con
servata la minima apparenza della libert. Eccettuati alcuni
movimenti in Sicilia, prodotti dallo straniero e dalle sue cre
scenti provocazioni, e per confessione degli stessi rivoluzio
narii quasi interamente sedotti, il reame intero era perfetta
mente tranquillo quando Garibaldi sbarc con la bandiera di
Sardegna. I suoi avventurieri poco numerosi, ingrossati con
277
tinuamente da spedizioni partite dal Piemonte, divennero ben
tosto una vera armata, ove figuravano avventurieri di tutte le
nazioni.
La forma di governo ch'essi stabilirono in Sicilia non fu
punto la libert; ma la dittatura, cio l'istituzione che confisca,
senza eccezione, tutti i diritti di un popolo, per concentrarli
nelle mani del governo. E quando gli avvenimenti militari, il
segreto dei quali sar un giorno conosciuto dall'Europa, per
misero all'armata rivoluzionaria di attraversare il Faro, di do
minare le Calabrie e d'occupare infine la capitale del regno,
il governo creato sul continente fu ancora la dittatura, e Ga
ribaldi fu chiamato dittatore delle Due Sicilie.
Si cominci d'allora in poi a vedere un singolare spetta
colo. Nessuna legge fu rispettata, finanze, amministrazione,
sentenze giudiziarie, diritti della Chiesa coi suoi rapporti collo
Stato, tutto fu rovesciato a diverse riprese, e contraddizioni
innumerevoli, per le quali i popoli poterono comprendere che
non vi sono n diritti, n leggi sotto la dittatura.
Nullameno tutto questo non sembr sufficiente per assi
curare il successo della rivoluzione. La Sardegna, che aveva
procurato fin allora di nascondere la sua potente azione, si
determin tutto ad un tratto di assumere con un'audacia im
prudente la direzione del movimento. L'ammiraglio sardo s'im
padroni della flotta napoletana, e sbarc truppe, artiglieria e
munizioni per combattere l'armata del re e costringere pi
strettamente ancora la volont del popolo.
Cotesta impresa non bast ancora a dare questi popoli al
re di Sardegna, e mentre davasi opera al plebiscito, quel so
vrano, alla testa delle sue truppe regolari, venne in persona a
reclamare, sotto l'imperio delle sue baionette, i voti dei paci
fici abitanti del regno e a gettare la sua spada nella bilancia
dello scrutinio.
Alla vista di questi fatti pubblici e decisivi, niuno cer
tamente oser dire che si lasciata la libert al popolo di
manifestare la sua opinione; non si potr neppure pretendere
che l'artificio rivoluzionario abbia almeno salvate le apparenze.
Per aprire gli occhi ai pi ciechi sul grado di libert che il
governo rivoluzionario aveva risoluto di concedere allo scruti
nio, il Dittatore Garibaldi, con decreto del 15 dello scorso
mese, vale a dire sei giorni prima della convocazione dei co
mizii, prevenendo la volont popolare e decidendo egli stesso
-
278
in nome del popolo, aveva deliberato solennemente in virt
della sua dittatoriale autorit, che le Sicilie fanno parte in
tegrante dell'Italia una e indivisibile sotto il re costituzionale
Vittorio Emanuele, e suoi discendenti . Tali sono le parole
del decreto da S. Angelo, che precedette di sei giorni la vo
tazione.
sotto questi auspicii, senza guarentigia d'alcuna sorte,
che il popolo fu chiamato a votare. Ed affinch nessuna circo
stanza, per minima ch'ella si fosse, non mancasse a provare la
coercizione che esercitavasi, gli elettori furono obbligati a de
porre la loro scheda pubblicamente, in presenza delle autorit
rivoluzionarie e delle guardie nazionali, in urne separate, per
ch potessero vedere chiaramente, per un tal cumulo di vio
lenze, ch'essi avevano a superare, in pari tempo, la rivolu
zione interna e l'oppressione straniera.
Tale si presenta al mondo il risultato del plebiscito.
Nessuno uomo di buona fede non potr ammettere, nep
pur per un istante, ch'ei sia l'espressione sincera della volont
nazionale.
Comunicando queste considerazioni, colla vostra abilit e
lealt conosciute, le farete valere presso il governo di... ed
mio dovere aggiungere che S. M. il re non ha veduto nello
scrutinio del 21 ottobre che un nuovo atto di violenza com
messo dalla forza straniera contro il suo popolo, stimando che
un tal atto non potr mai invalidare i diritti della sua corona,
n distruggere l'indipendenza e l'autonomia del regno delle
Due Sicilie.
Siete autorizzato a dar lettura e lasciar copia di questo
dispaccio al ministro degli affari esteri .
CASELLA.
Di un'altra protesta ci d'uopo parlare, anche questa a
nome di Francesco lI e diretta alle potenze d'Europa. Vittorio
Emanuele II con un decreto dell' ottobre largiva delle ricom
pense e delle indennit a coloro che il 15 maggio 1848 ave
vano sofferto dei danni per opera della reazione borbonica. In
quel decreto detto che il 15 maggio Ferdinando II ruppe il
patto giurato, emp la citt di terrore e di sangue, sostitu l'ar
bitrio e la violenza alla legge, e che d'allora incominciarono
279
le persecuzioni politiche. Quel decreto indennizzava le fami
glie impoverite per ragioni politiche coi beni sequestrati alla
casa reale. Prima di riportare la protesta diremo sul propo
sito alcune nostre opinioni.
Non v'ha dubbio, i Borboni avevano impoverito il reame
di Napoli a forza di tasse e di balzelli; quanto essi privata
mente possedevano era sangue del popolo, ed era perci na
turale che il giorno della caduta dei Borboni il popolo, o chi
lo rappresentava riprendesse ai caduti la roba di malacquisto.
Ma se questo era lecito ad un governo popolare o dittatoriale,
per lo meno non conveniva al governo di un re quale era
Vittorio Emanuele II, generoso, ed in tale condizione d'aver
sopra di s e de suoi atti, gli sguardi di tutta Europa. Se
tante somme versavansi per altri interessi, potevasi anche ver
sarne per indenizzare i danneggiati politici senza toccare il pa
trimonio di principi che per la loro sventura meritavano com
passione. Francesco II infatti, volendolo, avrebbe potuto por
tar seco a Gaeta gli oggetti preziosi del suo palazzo ed opere
d'arte pregievolissime che trovavansi al palazzo degli studii e
in altri luoghi di propriet del governo. Questi oggetti venduti
avrebbero potuto stabilire pei principi del sangue un patrimo
nio sufficiente al loro mantenimento. D'altronde noi pensiamo
che alle grandi sventure non debba mai aggiungersi quei pic
coli mali che sembrano onta e sfogo di crudelt. Non sapremmo
quindi scusare il ministro Farini di un decreto che di certo
non onora il governo di Vittorio Emanuele, n la generosit
della nazione italiana. Quel decreto diede motivo ad una nuova
protesta, la quale fra tutte le proteste venute da Gaeta la
pi atta a mettere in uggia il governo del re d'Italia.
Ecco la protesta di cui parola firmata dal solito ministro
Casella:
Gaeta, 15 novembre 1860.
Col mio dispaccio del 5 ottobre, vi ho fatto conoscere
come il governo rivoluzionario di Napoli spogli il re, nostro
padrone, e tutta la famiglia reale, della lor fortuna privata, e
aggiungeva la calunnia alla violazione di tutte le leggi. Non
bastava essersi impadronito delle immense ricchezze artistiche,
le quali, S. M. bench gli appartenessero per eredit, ha
sempre voluto lasciare a disposizione del suo popolo, facendo
280
affluire cosi alla capitale tutte le intelligenze; non bastava con
fiscare cos arbitrariamente i maggioraschi dei principi, le doti
delle principesse, le risorse delle orfanelle, i legati fatti ai po
veri da Ferdinando II, l'eredit della santa principessa di Sa
voia, madre adorata del re nostro padrone; bisognava obbe
dire alla logica dell'anarchia, distribuendo la fortuna privata
della famiglia reale agl'individui che da dodici anni non ces
sarono di congiurare contro la dinastia, il trono, l'ordine so
ciale, e contro tutti i principi costituenti la base del diritto
universalmente riconosciuto.
Voi comprenderete, signore, non essere gli uomini di sin
cera opinione quelli che hanno combattuto e sofferto nella
lotta contro il governo stabilito, che non sono quelli gli uo
mini che approfitteranno di tale disposizione sovversiva.
Le persone oneste, non importa la loro opinione, respinge
ranno con indignazione ogni partecipazione a quest'atto di ra
pina. La rivoluzione trionfante deve fare le sue elemosine ai
rivoluzionari indomabili, agli agitatori per condizione e per
mestiere. Dopo la glorificazione del regicidio, coloro che si
vantano d'aver pi volte giurato l'assassinio di Ferdinando II,
devono avere una parte preponderante nel bottino delle ric
chezze della sua famiglia. La giustizia della rivoluzione vuole
che i figli siano costretti a rimunerare gli attentati commessi
contro i loro parenti.
Nel decreto qui incluso notate il considerando e la data.
Vi si dice che il giorno 15 maggio 1848 Ferdinando II
ruppe il patto giurato, emp la citt di terrore e di sangue,
sostitu l'arbitrio e la violenza alla legge, e che da allora in
cominciarono le persecuzioni politiche .
Se un governo ebbe mai diritto alla resistenza, fu in
quel giorno. Per la prima volta i rappresentanti del popolo
si riunivano secondo la costituzione giurata dal sovrano e dalla
nazione, quando ad impedire la pacifica inaugurazione dei la
vori parlamentari scoppi la rivoluzione. Tutto il mondo sa
che il governo prese tutte le misure della conciliazione innanzi
a quelle della forza, e che dopo la compressione ed il suc
cesso, ei si affrett a convocare secondo la stessa costituzione,
una nuova camera. Si pu giudicare differentemente gli avve
nimenti posteriori, ma la condotta tenuta dal governo in quel
giorno non era in nulla attaccabile.
Il decreto in discorso sottoscritto dal re Vittorio Ema
281
nuele, come gli altri; che la data del 23 ottobre posteriore
di due giorni al plebiscito che attribuiva a Vittorio Emanuele
la sovranit delle Due Sicilie, e di undici giorni alla determi
nazione presa dal re di Sardegna di non attendere neppure il
plebiscito e di passare la frontiera del regno per impadronirsi
colla forza degli Stati posseduti dalla casa dei Borboni.
L'oltracotanza di questi atti evidente; poich il re di
Sardegna ha cospirato contro il trono del re delle Due Sicilie,
e, violando le leggi divine ed umane, si port in persona a
consumare un odiosa aggressione, ed oggidi presta il suo
nome, la sua autorit, la sua forza armata all'esecuzione di
queste enormit, che egli os prenderne la responsabilit innanzi
all'Europa ed alla posterit.
Ho creduto mio dovere volgermi a voi, o signore, perch
facciate conoscere al gabinetto, presso cui siete accreditato,
in qual modo il governo del re consideri i fatti, e perch pro
testate formalmente e solennemente da parte di Francesco II
contro il decreto rivoluzionario del 23 ottobre ultimo.
Vogliate lasciar copia di questo dispaccio al ministro de
gli affari esteri e accusarne ricevuta .
CASELLA.
Notammo sin da principio che l'accoglienza fatta dai Na
poletani a Vittorio Emanuele non fu n calda n entusiastica.
Ci non isfugg all'attenzione del governo di Torino, n allo
sguardo di quei Napoletani che parteggiano pel nuovo ordine di
cose. Quindi furono studiate le maniere di sollevare lo spirito
pubblico all'entusiasmo e di far s che la presenza del re ga
lantuomo trionfasse sopra l'indifferenza popolare. Il re mo
strossi infatti cortese e gentile con tutti, ma Farini pare si stu
diasse di renderlo invisibile e misterioso, ci che non era buona
politica. I Napoletani conoscitori della popolazione condanna
vano questa politica di Farini, e dalla parte loro facevano
quanto era possibile onde scolpire il nome e le buone qualit
del nuovo re nella mente e nel cuore di tutti. Troviamo a que-.
sto proposito un ordine del giorno del generale della guardia
nazionale Toputti pubblicato dopo le parole dette dal re alla
rappresentanza della guardia nazionale di che parlammo di
Sopra.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
36
282
COMANDO DELLA GUARDIA NAZIONALE.
Ordine del giorno 9 novembre.
Compreso l'animo della pi viva gioia, porto a conoscenza
della guardia nazionale di Napoli che ieri il nostro amatissimo
re si benign comunicarmi di dirgli in suo nome, conoscer
lui pienamente gli utilissimi e pi che straordinari servigi
resi alla causa dell'ordine, della indipendenza e della libert
per quattro mesi da questa guardia nazionale; come del pari
si benign darmi l'incarico di far giungere a tutti gl'individui
la espressione del suo sovrano compiacimento. L'ottimo re
pose termine alle sue parole, esprimendo non solo la speranza,
ma la certezza, che la benemerita guardia nazionale di Napoli
non volesse vedere compiuta anche la sua missione, e che con
tinuasse per l'avvenire con lo stesso zelo, energia e patriot
tismo.
Voi ufficiali, sotto-ufficiali e militi, cui ho l'onore essere
preposto, se mai aveste bisogno di premio delle dure fatiche,
o di novello sprone per l'avvenire, ne troverete certo in que
ste parole che il re, da voi liberamente eletto, ha voluto per
mio mezzo rivolgervi. .
ToPPUTI.
Quest'ordine del giorno, quantunque meritato dalla guardia
nazionale, valse a far parlare del buon cuore di Vittorio
Emanuele, e ad affezionargli sempre pi la guardia nazionale.
Intanto l'esercito meridionale andavasi sciogliendo di giorno
n giorno, e tanto soldati che ufficiali domandavano il congedo
per ritornare alle loro case. Deplorabili fatti, perciocch l'I
talia abbisognando di soldati, e non pochi, era costretta a ri
correre alle solite leggi della leva, quando gi nelle provincie
meridionali aveva trentamila volontari sotto le armi. Appresso
vedremo quali ostacoli avesse incontrato il governo nella leva
dell'Italia meridionale.
Dovendo il governo provvedere ai viaggi, il ministero della
guerra eman un decreto, il quale fu comunicato ai soldati
di Garibaldi dal generale Sirtori colla seguente circolare:
283.
CIRCOLARE.
In adempimento dell'ordine di S. M. 12 andante novem
bre, verr primieramente in ciascuna compagnia presa nota
di quelli che vogliono ricevere il congedo.
Raccolti gli elenchi dai capi di battaglioni, verranno pre
sentati ai rispettivi comandi di divisione e di corpi speciali, i
quali trasmetteranno senza alcuna dilazione allo scrivente lo
stato numerico di detti individui coll'indicazione del porto di
mare ove vanno a sbarcare, e stabilendo quindi il quantita
tivo per ogni distinta destinazione, onde possa essere spedito
un competente numero di fogli di congedo ad ogni corpo del
l'esercito, e provveduto ai mezzi di trasporto.
Ciascun comandante attender alla confezione
di tutti
i congedi per gl'individui da s dipendenti, sopra i modelli
che verranno distribuiti, e li conserver in ufficio, aspettando
dal comando generale gli avvisi pei successivi rilasci di quan
tit determinate di congedi per ognuna delle localit.
Saranno da avvertirsi i signori ufficiali, che restando loro
la facolt di chiedere la dimissione, non sar questa accordata,
n potranno esimersi dai proprii incumbenti prima che siano
terminate le necessarie operazioni pel congedo e trasporto
dei sotto ufficiali e soldati .
Il generale comandante in capo dell'esercito meridionale
SIRTORI.
Da quel giorno in poi furono seguite queste norme e a
poco a poco i volontari tutti, pochi eccettuati, ritornarono alle
loro famiglie.
ll cattivo tempo e le pioggie quasi mai interrotte non ave
vano permesso ancora le luminarie preparate dalla citt per
festeggiare il nuovo re; esse ebbero luogo solamente circa ai
20 novembre. L'effetto per fu minore di quanto si aspettava;
scarsi e poveri i lumi, ed in gran parte spenti, i fuochi di ben
gala in piazza del Regio Palazzo, erano radi, e dalle nove ore
in poi, come se fosse tutto finito non furono pi accesi. Il
popolo napoletano amante di chiasso e di feste, si vers per
984
le vie a guisa di un vasto e continuato torrente. Due carri
di forme bizzarre rallegrarono quella sera; l' uno era una
nave posta sopra sei ruote e tratta da due coppie di bovi; essa
veniva montata da marinai vestiti con camicia rossa ed alla
poppa stava scritto: i Luciani riconoscenti. Il popolo di S. Lu
cia aveva inteso dimostrare in quel modo, che, bench ac
cusato di amore ai Borboni, ora ravveduto, acclamava Vittorio
Emanuele a re d'Italia. Un altro carro attravers Toledo, dif- .
fondendo canti e suoni. La folla si stringeva intorno a que
st'ultimo per udire un coro bellissimo eseguito dagli alunni
di S. Pietro a Maiella e scritto da Mercadante. L'effetto fu
grande e molti gli applausi.
La mattina del 20 vi fu rassegna al campo. La guardia
nazionale in bell'ordine schierata aveva accanto quei grana
tieri e quella cavalleria che tanto gloriosamente combatterono
a Montebello e Solferino. Gli occhi di tutti si rivolgevano alla
bandiera
del 2. reggimento
dall'asta fregiata
di due crocigranatieri.
d'onore. Pochi cenci pendevano
l
Il re seguito dal suo stato maggiore, pass in rassegna prima
la guardia nazionale, indi i granatieri, la cavalleria e l'arti
glieria con bell'ordine disposta in battaglia. Vittorio Ema
nuele fu ricevuto al grido unanime di evviva al re d'Italia.
Ma tutte siffatte dimostrazioni e feste riuscivano fredde
povere per le ragioni che di sopra abbiamo accennate.
Diede il re un pranzo a corte di sessanta coperte, gl'invitati
furono quasi tutti militari, vi siedettero eziandio Pepoli e Va
lerio venuti dalle Marche e dall'Umbria per presentare al re
il plebiscito di quelle provincie, e furono commensali quattro
maggiori della guardia nazionale di Napoli. Per sifatti mezzi
nulla ottenevasi di cangiamento, perciocch l'indifferenza era
nel popolo, ed il popolo non vedeva ancora nel re quelle
esterne manifestazioni che avrebbero potuto procurargli affetto.
Farini poi per la smania di distruggere quanto Garibaldi
aveva fatto, commetteva di giorno in giorno errori gravissimi
e finiva col disgustare tutti. Uno di questi errori fu l'occupa
zione del forte S. Elmo per parte della truppa. I nostri lettori
ricorderanno che i Napoletani dopo l'entrata di Garibaldi vo
levano distrutto quel forte come di pericolo alla citt, e perch
triste memorie si associavano a quel baluardo della tirannide.
Garibaldi per viste sue proprie non volle privare la citt e la
guarnigione di una fabbrica utilissima all'alloggio dei soldati
285
e alla conserva delle provviste; ma per assicurare la popolazione
aveva decretato che il forte S. Elmo venisse consegnato per sem
pre alla guardia nazionale e da essa sola presidiato. Questa mi
sura fu per s stessa sufficiente a rassicurare i cittadini, per
ciocch era facile il comprendere che in nessuna circostanza
la guardia nazionale avrebbe tirato coi cannoni della fortezza
contro la propria citt. Ora Farini con un nuovo decreto or
dinava che il forte di S. Elmo venisse occupato dalla truppa
regia. l Napoletani ne furono fortemente indignati, e troppo
corrivi al sospetto pensarono che il nuovo governo volesse
tenerli soggetti come il governo borbonico, e quindi comincia
rono forti dimostrazioni e fortissimi lamenti, giusti per altro
per parte di un popolo il quale non era una conquista.
Altro errore di Farini fu quello di richiamare in Napoli l'ar
civescovo cardinale Riario Sforza. Questo prelato attaccatis
simo alla borbonica dinastia, avversava, per quanto gli era con
cesso, il nuovo ordine di cose. Garibaldi lo aveva fatto partire
da Napoli dando cos una soddisfazione al popolo ed al clero
liberale e allontanando dalla citt un soggetto pericoloso. Fa
rini, per accontentare forse le domande di pochi, lo richiam
e cos aggiunse ai segreti cospiratori borbonici la presenza di
questo nuovo cospiratore. Questa misura fu tanto pi scon
sigliata inquantoch il giorno 19 novembre i preti liberali della
citt avevano fatta una grande dimostrazione di adesione al
nuovo re. Quel giorno gran numero di preti e frati, in bell'or
dine e preceduti da bandiere tricolori percorsero la lunga via
di Toledo acclamando all'Italia ed a Vittorio Emanuele.
I nuovi governanti chiamati da Farini non contentavano la
pubblica opinione, e ci non faceva che suscitare ostacoli ed
pacci alla riorganizzazione interna. La popolazione dolevasi
specialmente di vedere affidata la somma dei pubblici negozii
Persone quasi tutte state per un decennio fuori paese, e
ndi ignare del personale e delle ultime condizioni dell'ex
ne.
Vedevasi male il ritorno di Carlo de Cesari all'uffizio
di girettore della finanza, per la sua dubbia fede politica; si
"iderava
maggiore
energia
nel dicastero frenata,
di giustizia,
percioc
la reazione
non era
convenientemente
e nelle
gran
ch
" criminali, si mantenevano per l'ufficio di ministero pub
""
deboli e pieni di peritanza verso i prevenuti per
i disordine.
Guardavasi di mal occhio al dicastero dell'interno il signor
286
Ventimiglia, che fu uno dei soscrittori alla petizione per abolir
lo Statuto costituzionale del 1848 e che in seguito aveva mo
strato poco amore alle riforme, molto agli uomini illiberali.
Il direttore di polizia Arditi ritenevasi come uomo debole e
da poco; lo stesso dicevasi del ministro per la pubblica
istruzione. In generale si era malcontenti di tutti e di tutto e
andavasi buccinando che gli uomini del governo sardo vole
vano piemontizzare l'Italia meridionale.
Mentre tali cose si passavano in Napoli, ben trista era la
condizione di Francesco II in Gaeta, vedendo di giorno in
giorno svanite le speranze di un qualche aiuto dalle potenze
amiche e legittimiste. Pubblichiamo la seguente circolare, su
cui diremo dopo qualche cosa.
Eccellenza !
Quantunque la rivoluzione delle Due Sicilie avesse con
maravigliosa rapidit condotta a termine la compiuta rovina
del regno, che con arti misteriose ed inique andava da lunga
mano preparando, pure la maest del re N. S. non ha mai
cessato di resisterle, ed in quest'opera, non meno gloriosa
che sventurata, di ostinata difesa, si son fatti eroici sforzi di
costanza e di energia, che rimarranno monumento immortale
nella storia.
A ci spingeva la M. S. la coscienza di due doveri forte
mente radicati nel suo real animo, i cui nobili pensieri s'in
formarono mai sempre a quella legge morale, che norma
suprema delle azioni degli uomini e massimamente dei principi.
Tali doveri sono:
1. L'obbligo di conservare e di difendere la monarchia
delle Due Sicilie, augusto retaggio confidatogli dai suoi mag
giori;
-
2. Il rispetto di quel fraterno vincolo che dovrebbe
stringere insieme i monarchi in conseguenza del mandato di
vino che hanno comune fra loro e della conformit dei loro
interessi.
Non duopo ragionare lungamente della prima obbliga
zione che incombeva alla M. S. n del modo come venne
compita.
Ogni governo, che duri da secoli, avendo la sua ragione di
287
essere in s stesso, nelle tradizioni storiche e nelle condizioni
dei popoli, consta per suo primo debito quello di mantenersi,
di difendersi, e di combattere chi ne minacci l'esistenza.
Ora a tutti noto come l'esercito fu sgominato e disciolto
dagli artifizii malvagi della rivoluzione, la marina disertata e
perduta, il tradimento e l'ignavia penetrati sin nell'istessa
reggia e nel consiglio, spaventevolmente accennassero ad una
imminente catastrofe ed alla dissoluzione totale del regno.
Nondimeno il re N. S. resistendo con eroica virt ai vili
consigli di coloro che lo invitavano a vergognosa fuga si ridusse
fra i primi baluardi del reame, e quivi ponendo in opera ogni
diligenza ed ogni studio, riusc in brevissimo tempo a racco
gliere ed a ricostruire un esercito ben poco numeroso, ma
fornito di tanta fede e valore, da poter ritentare la sorte dei
combattimenti.
Le imprese gloriose di quel pugno di prodi son note a
tutta l'Europa, e la stessa stampa bugiarda e maligna della
rivoluzione non seppe, non os smentirle.
Il nemico fu respinto nelle sue aggressioni e scacciato
dalle sue forti posizioni, la vita preziosa dei reali principi
venne esposta a gravi pericoli sui campi ove celebraronsi le vit
torie dei loro antenati; il re medesimo si mostr primo fra i
combattenti, e vide cadere ai suoi fianchi i martiri che s'immo
lavano per la sua santissima causa.
La rivoluzione ne rimase atterrita e confusa, il popolo fe
dele, che impaziente soffriva il suo tirannico giogo, incomin
ciava ad agitarsi, e tutto presagiva il prossimo trionfale ritorno
del legittimo re nel seno della sua capitale; quando un altro
sovrano fedifrago e disleale, a capo di un potente esercito, ad
un tratto discese negli Stati del re, onde l'Europa intera sa
pesse che quella rivoluzione era opera sua, e ch'egli non voleva
perderne il vergognoso frutto.
Allora fu forza rinunziare al primo pensiero della guerra,
limitarsi alla sola difesa, non potendo un piccolo esercito, gi
stanco dei disagi, delle privazioni e dei pericoli sofferti, con
tinuare il suo cammino in avanti, lasciandosi alle spalle un
forte ed ordinato nemico, che veniva ad aggredirlo.
Una serie di strategiche ritirate, fra le quali l'esercito pie
montese non pu contare alcuna decisiva vittoria, fu da quel
momento intrapresa, e le regie milizie si videro in parte co
strette a varcar la frontiera pontificia, ed in parte stringersi
sotto le mura di Gaeta.
288
Nel momento in cui le scrivo al re non rimane altro che
la sola fortezza di Gaeta e quella di Messina, ultimi baluardi
dell'autonomia e della indipendenza del bellissimo e gi forte
reame delle Due Sicilie.
Essi saran difesi con quel valore e quella costanza che sono
virt propria dell'augusta dinastia dei Borboni, ma poich la
resistenza delle fortezze dipende necessariamente da mille di
verse cagioni, che non duopo enumerare, assai probabile
che questa difesa non potr essere cos lunga come i sovrani
d'Europa sembrano desiderarla.
Giunta che sar l'ora fatale ed inevitabile della resa, il
nostro augusto sovrano, fra le lagrime dei suoi fedeli, e con
quella dignitosa rassegnazione che pure carattere distintivo
della sua augusta famiglia, discender dal suo trono, e rammen
ter con nobile ed augusta fierezza di non aver fallito all'adem
pimento di niun suo dovere.
Mi rimane ora ad esaminare se la M. S. pagando genero
ramente il debito che lo stringeva agli altri sovrani, n ha ri
cevuto in cambio quelli aiuti e quei buoni uffizi, che aveva
il diritto di attendere; ma ella comprender che questo mio
-
secondo compito non sar cos facile e concludente come il
primo.
Da sette mesi che nel regno infierisce la rivoluzione, sem
pre pi apertamente favoreggiata da un governo perverso e
spergiuro, il re N. S. altro non pot ottenere dai pi potenti
sovrani d'Europa, cui sperava fosse cara la sua causa, che
espressioni inefficaci di affettuosa simpatia.
I gravi pericoli di un piccolo esercito, le urgenti ed
estreme strettezze del regio erario, le sfrontate violazioni del
diritto delle genti, l'ambizione sconfinata di una rivoluzione,
non si fermer giammai, tutto insomma fu messo sotto gli oc
chi delle grandi potenze d'Europa, ed a tutto con altro non
si seppe o non si volle rispondere che con voti e consigli.
N gl'interessi delle dinastie, n i pericoli comuni, n i
vincoli di sangue, n quelli di antiche amicizie ed alleanze val
sero a rimovere i gabinetti d'Europa dall'indifferentismo poli
tico, di che han dato prova assistendo impassibili alla caduta
di una secolare monarchia.
Il solo imperatore dei Francesi (ed debito di giustizia e
di riconoscenza il confessarlo altamente) dette il generoso
esempio di voler uscire di questo stato di universale apatia,
289
e la leale e monarchica Inghilterra os rimproverarglielo aspra
mente, e gli altri gabinetti si contentavano di lasciarlo arri
schiarsi solo nella magnanima impresa che tentava.
L'invio della squadra nelle acque di Gaeta e l'accoglienza
fraterna fatta sul territorio pontificio ai fedeli e valorosi avanzi
delle reali milizie dai soldati della Francia son tali fatti che
rimarranno per sempre scolpiti nel cuore del re N. S., e che
sopravanzano di gran lunga le verbali proteste di amicizia of
ferte alla M. S. dalla rimanente Europa.
Sperava in ultimo il re nostro signore che dal convegno
di Varsavia sorgesse l'idea di un congresso europeo, che fu
caldeggiato da quasi tutti i governi d'Europa, e che solo
avrebbe potuto porre un argine alle brutali violenze della forza,
la quale atterra e schernisce ogni pi antica e sacra legge.
Al nuovo principio della sovranit popolare, di che si
fece s strano abuso, era mestieri contrapporre l'antico diritto
pubblico, frutto della sapienza e della morale dei secoli, onde
dalla pacifica discussione dei loro opposti principii e dalla im
parziale disamina di tutte le pretese contrarie, nascesse un or
dine novello, affidato all'unanime concordia dei principi ed
al senno universale dei popoli ritornati alla ragione ed alla
tranquillit.
Fuori dall'attuazione di questa grande idea non vi sar
mai pace per l'Europa, ed ogni Stato limitandosi alla sola di
fesa materiale dei suoi interessi immediati, spianer la via alla
-
rivoluzione, che intende allo scrollamento successivo di tutti
i troni, poich si distaccher da quella grande associazione
dei principii che fu salvaguardia delle corone e garanzia di pace
e prosperit pei popoli.
Premesse tali cose, ella intender facilmente di qual do
lore sarebbe amareggiato l'animo del nostro augusto sovrano,
se venisse a conoscere che un s grandioso disegno debba an
dar fallito per opera di qualche potenza, la quale voglia ante
porre i suoi particolari rancori o questioni d'importanza se
condaria ai grandi principii dell'ordine universale e della si
curezza dei troni.
Laonde nel real nome io la incarico di farsi propugna
tore dell'idea esposta presso il gabinetto ove trovasi accredi
tata, ed ove questa non sia valutata allo stesso modo che fac
ciamo noi, di richiedere formalmente cotesto ministro degli af
fari esteri delle intenzioni del suo governo relativamente alla
Stor. della rivol. Sicil.-Vol. II.
37
290
imminente ed ultima sciagura che ci sovrasta della caduta della
monarchia.
In conseguenza di tale sovrano comando ella dar riser
vatamente copia e lettura del presente dispaccio allo stesso
ministro, e mi riferir immediatamente il risultato di questa
comunicazione, onde S. M. possa prenderne norma per rego
lare la sua futura condotta .
Gaeta, 12 novembre 1860.
CASELLA.
Altra volta ebbimo occasione di parlare in queste medesime
storie delle opinioni della corte borbonica circa l'attitudine
delle potenze europee in quel tempo in cui decidevasi la sorte
del reame di Napoli. Questo documento comprova ancora di
pi che il giovine Francesco II molto sperasse nell'aiuto delle
potenze amiche e specialmente nell'Austria, nella Germania
e nella Russia. Egli pensava che queste potenze avessero do
vuto intraprendere una guerra per sostenerlo sul trono di
Napoli contro l'aggressione della Sardegna, non vedendo come
ci non poteva avvenire senza una guerra europea; percioc
ch Francia ed Inghilterra avrebbero continuato a sostenere
il principio di non intervento; quindi ove una potenza fosse
venuta in aiuto di Francesco II la guerra europea diveniva
inevitabile. Il giovine principe pensava ancora, che sostenendo
lui, le potenze avrebbero sostenuto s stesse difendendo il
principio monarchico e legittimista contro i sovvertimenti della
rivoluzione; non pensava, e forse non conosceva ancora l'e
goismo dei gabinetti, come dagli uomini diplomatici fugga la
coscienza ed ogni altra umana virt, eppure la storia avrebbe
potuto farlo consapevole di tutto, ma l'esperienza viene con
gli anni, e Francesco II era giovine. Altra riflessione faremo
sul modo suo di apprezzare l'aiuto che gli dava la Francia con
la presenza delle sue navi da guerra nel mare di Gaeta. L'o
perazione della Francia in quella circostanza riducevasi ad
una semplice compassione e non tendeva che a salvare la
regia famiglia alla caduta di Gaeta, perch non restasse nelle
mani dei generali sardi; intenzione in s stessa lodevole, e
che un poco tendeva ad accarezzare le altre dinastie d'Europa
con un atto di rispetto ad un principe sfortunato. Ultima spe
-
291
ranza di Francesco II stava nel convegno di Varsavia, donde
cretleva dovesse sorgere un congresso europeo.
Di questo convegno diremo: che l'Austria pei suoi inte
ressi tendeva in vero a farne sorgere un congresso, ma la
politica di Napoleone Ill ed i rancori della Russia, non aiu
tata dall'Austria nelle guerre di Crimea, mandarono a vuoto i
disegni del gabinetto di Vienna. Quel convegno non dur in
fatti che pochissimi giorni; l'imperatore della Russia con le
scuse della malattia della madre lasci Varsavia e torn a
Pietroburgo, e in questo modo il convegno si sciolse senza
aver nulla deciso, e solo gittate le basi di una politica generale
ed indeterminata.
I lamenti di Francesco II sono un'accusa al governo di suo
padre, ed al governo suo stesso legati ambedue alle fortune
austriache. Francesco II perdeva il trono a motivo dell'Austria,
e l'Austria e le altre potenze dispotiche nel grande momento
del pericolo e del bisogno gli erano solamente generose d'in
coraggiamenti e di consigli.
Abbiamo altrove riferito che l'ammiraglio Persano erasi re
golato poco cavallerescamente nella ritirata a Gaeta delle
truppe borboniche, dicemmo che egli mitragliando dai suoi
bastimenti i Borbonici in ritirata ne aveva fatto strage senza
bisogno, e con un accanimento affatto riprovevole. Anche di
questo volle servirsi la corte borbonica per scuotere le po
tenze contro il Piemonte e per rivelare le ingiustizie ed i so
prusi che gli venivano usati. Su questo abbiamo altrove mani
festato le nostre opinioni, e se in generale la condotta dell'e
sercito italiano fu generosa e cavalleresca, vi furon dei fatti par
ticolari che non si possono lodare e che anzi meritano il bia
simo della nazione incivilita. Ecco su questo argomento la
Protesta del governo di Gaeta.
-
Eccellenza!
Il sottoscritto, presidente del consiglio dei ministri, inca
ato del portafoglio degli affari esteri, ha l'onore di parte
pare a V. E. che nuovi atti degni di riprovazione, commessi
dall'esercito d'invasione, vennero a confermare le giuste la
8anze espresse nella nota del 16 ottobre p. p.
: Per sottrarre le truppe scaglionate lunghesso il Garigliano
bombardamento che la squadra piemontese dirigeva contro
292
il campo, fu necessario ordinare un movimento di ritirata, che
fu cominciata la sera dell' 11 novembre.
Immediatamente la squadra piemontese prese posizione
lungo la marina, che costeggia la strada, e si mise a far fuoco
sulle truppe regie, le quali l'arme al braccio, e in buon or
dine, eseguivano il movimento prescritto.
Il nemico non cess dal tirare il cannone per tutta la
notte e una gran parte del giorno seguente, ino alla fine della
ritirata di queste truppe senza difesa, a cui non potevasi vol
gere altro rimprovero che quello d'aver troppo contato sulla
formale assicurazione fatta loro che non sarebbesi attaccato
dalla parte del mare.
Trovandosi cos tutto l'esercito del re chiuso tra Mola di
Gaeta, e le frontiere del regno, quella medesima squadra pie
montese si arrest nella notte del 3 al 4 davanti a Mola, e
per quasi sei ore di seguito, fin dopo il mezzogiorno del 4
non cess di lanciare su quella sventurata citt bombe, gra
nate ed altri proiettili, di cui veggonsi ora le traccie sangui
nose e devastatrici delle private propriet, negli ospitali e tra
pacifici e inoffensivi abitanti.
Nei tempi trascorsi ogni qualvolta il sovrano legittimo
delle Due Sicilie si vide obbligato, con suo gran dolore, a
ricorrere alle tristi necessit della guerra, per ridurre all'obbe
dienza quelle citt ribelli, i difensori ufficiosi dei sudditi in
sorti non mancarono di contrastare, con un linguaggio pieno
d'oltraggi, al governo regio il primo diritto d'ogni governo,
quello di mantenere la sua propria autorit e di proteggere
l'ordine pubblico.
Oggidi, gli eserciti e le squadre d'un governo che si dice
regolare e incivilito invadono senza dichiarazione di guerra uno
stato vicino ed amico, combattendone le truppe con tutti i mezzi
sleali e indegni, quando non pervengono, con vili artificii, ad ab
batterne la fedelt e l'onore; quegli eserciti e quelle squadre si
danno con accanimento a distruggere ogni elemento di forza e
di prosperit presso un popolo che osa ancora chiamare col
nome di fratello; e finalmente se ne bombardano le pacifiche
e innocenti popolazioni, senza che una sola voce si levi in
Europa, contro una serie d'enormit, che sono senz'esempio
nella storia.
tempo che le ipocrisie e le perfidie della politica pie
montese siano svelate all'Europa sotto il loro vero aspetto,
293
e il governo del re, deciso ad adempiere fino all'estremo il
dovere di combattere, anche colle armi della pubblicit, i
fautori del disordine morale e della rivoluzione sociale, ha
dato incarico al sottoscritto d'informare l'E. V., perch il suo
governo abbia conoscenza di questi fatti.
Sollecito di adempiere il dovere che gli confidato il sot
toscritto approfitta dell'occasione per rinnovare a V. E. l'assi
curazione della sua pi distinta considerazione .
Generale CASELLA.
Male procedeva intanto il riordinamento dell'interna ammi
nistrazione. Farini aveva commessi degli errori gravissimi, che,
come sopra notammo indisposero la popolazione; d'altronde
egli non conosceva nulla di Napoli e perci credeva poter
trovare il modo di riuscire nella sua impresa cambiando con
tinuamente il personale del governo. Con un decreto del 21 ot
tobre separava i due dicasteri dell' interno e della polizia, gi
prima riuniti. Incaricava del dicastero dell'interno il marchese
di Montefalcone, Rodolfo d'Afflitto, consigliere di luogotenenza.
Silvio Spaventa nominava a consigliere di luogotenenza e
ad incaricato del dicastero di polizia.
Riuniva il dicastero di agricoltura e commercio a quello
dei lavori pubblici ed eleggeva ad incaricato il consigliere Giu
seppe De Vincenzi. Separava i due dicasteri di grazia e giu
stizia, e degli affari ecclesiastici, gi prima riuniti. Giuseppe
Ferrigni consigliere di luogotenenza veniva incaricato del di
castero degli affari ecclesiastici, e Giuseppe Pisanelli rima
neva a quello di grazia e giustizia. Gaetano Ventimiglia, prima
incaricato del dicastero dell'interno veniva ritornato al posto
di direttore dell'amministrazione generale della cassa d'ammor
tizzazione e del gran libro.
Queste nomine in parte incontrarono la pubblica opinione,
ed in parte vennero avversate ; quella specialmente di Spa
venta al dicastero della polizia fu dal partito democratico for
temente condannata, perciocch lo Spaventa affatto ministeriale
non poteva in momenti di opposizione piacere agli oppositori
del governo.
Intanto per affrettare la soluzione della grande questione
del momento, quella cio circa ai gradi degli ufficiali dell'e
sercito meridionale, un decreto del re creava una commis
294
sione mista, come gi era stato deciso, e a questa commis
sione vennero affidate le sorti degli ufficiali garibaldini.
Ecco il decreto che nomina la commissione e determina le
norme delle sue operazioni:
Sulla proposta del ministro segretario di Stato per gli af.
fari della guerra,
Visto il decreto in data 11 corrente, con cui instituita
una commissione coll'incarico di esaminare i titoli e far pro
poste al nostro governo, relativamente agli affari ufficiali dei
corpi volontarii del generale Garibaldi;
Abbiamo decretato e decretiamo:
Art. 1. nominato presidente della commissione so
pradetta il generale d'armata conte Enrico Morazza della Rocca,
comandante del 5. corpo d'armata.
Art. 2. Sono nominati membri della commissione i se
guenti ufficiali generali, Salaroli, Sirtori, Medici, Cosenz;
ed i signori ufficiali superiori:
Colonnello brigadiere Gozani di Treville cavaliere Ales
sandro, comandante la brigata granatieri di Sardegna.
Colonnello comandante il 4. reggimento di Lombardia,
Ferreri cavaliere Maurizio Emilio.
Art. 3. La commissione proporr al ministro della guerra
il quale far esaminare dal comitato dell'arma a cui corri
sponde l'interessato, e me ne proporr la risoluzione.
Art. 4. In caso di assenza prolungata o di malattia di
uno o pi dei signori membri della commissione, il presi
dente, sentito il parere dei restanti membri, mi proporr, per
mezzo del nostro ministro della guerra, il loro rimpiazzo tem
porario o definitivo.
Art. 5. ll nostro ministro della guerra trasmetter alla
commissione le norme generali, che devono servire di base e
guida pei lavori della commissione.
Quanto ai signori ufficiali generali, riservato al nostro
ministro della guerra, l'esame dei loro titoli facendone al se
guito le relative proposte.
-
Il nostro ministro predetto incaricato dell'esecuzione del
presente decreto .
Napoli, 22 novembre 1860.
VITTORIO EMANUELE.
FANTI.
295
Come di sopra notammo cotesta disposizione governativa
non piacque all'esercito garibaldino il quale avrebbe voluto
confermati i gradi conferiti da Garibaldi senza ulteriori osser
vazioni, ma noi d'altra parte non sapremmo dar torto al go
verno di Vittorio Emanuele, trattandosi d'una questione cos
delicata quale quella della disciplina e dell'istruzione nel
l'esercito.
Farini continuava a trovarsi impacciato, e, con un nuovo de
creto istituiva una consulta generale, con l'ammissione, che si
vede nei seguenti articoli:
-
DECRETO :
Art. 1. instituita una consulta generale composta da
30 membri al pi.
L'ufficio di consultore gratuito.
-
Art. 2. La consulta chiamata a dare avviso sopra quei
provvedimenti d'interesse generale che le siano proposti, e
ad eseguire quelle inchieste, di cui le sia dato incarico dal
luogotenente.
Essa si divider in sezioni, ognuna delle quali si elegger
nel suo seno un presidente ed un segretario.
Art. 3. La proposta degli affari potr essere diretta
mente fatta a ciascuna sezione nel qual caso questo potr se
paratamente avvisare.
Art. 4. La consulta generale sar convocata dal luogo
tenente ogniqualvolta lo crede opportuno.
Essa sar presieduta dal luogotenente, ed in sua as
senza, da un vice-presidente, che la consulta medesima eleg
ger nel suo seno.
Art. 5. Le sezioni della consulta saranno convocate dai
rispettivi presidenti.
Art. 6. La istituzione della consulta non impedisce la
formazione di speciali commissioni, delle quali in ciascun di
castero possa essere sentito il bisogno.
Art. 7. I funzionari pubblici, da quelli in fuori che ap
partengono alla pubblica istruzione, non potranno far parte
della consulta.
Art. 8. I consiglieri ed il segretario del consiglio di luo
gotenenza potranno intervenire alle discussioni delle sezioni o
della consulta.
296
Art. 9. A membri della consulta sono nominati i signori:
Avellino Francesco, Avossa Giovanni, Baldacchini Saverio,
Balsamo Luigi Bonaventura, De Blasiis Francesco, deputato al
parlamento nazionale, Capuano Gabriele, Ciccone Antonio, Co
lonna Giuseppe, Conforti Raffaele deputato al parlamento na
zionale, Carrera Francesco, Cosenz Enrico deputato al parla
mento nazionale, Crisci Costantino, Dino Ferdinando Salva
tore, Giordano Luigi, Imbriani Paolo Emilio, Laterza Antonio,
Leopardi Pier Silvestro, Massari Giuseppe deputato al parla
mento nazionale, Nolli barone Rodrigo, Pica Giuseppe, Poerio
Carlo deputato al parlamento nazionale, Ranieri Antonio, Set
tembrini Luigi, Stocco Francesco.
Art. 10. L'esecuzione del presente decreto sar affidata
a tutti i consiglieri di luogotenenza incaricati di dicastero .
Fir. G. PISANELLI.
Fir. FARINI.
Coteste misure del luogotenente Farini, ottime in s stesse
per sviluppare in tempi di quiete la prosperit interna di un
paese, valevano poco o nulla in tempi di politici commovi
menti e quando trattavasi di dovere assestare un nuovo or
dine di cose in una provincia tanto vasta, e bisognosa di
tutto. Appresso vedremo come niun bene recassero tutti co
testi espedienti; e come fosse riserbata al Farini la trista
sorte di dovere ritirarsi dalle provincie meridionali lasciando
dietro di s l'anarchia ed il disordine.
Ci che riusciva inesplicabile al popolo napolitano era il
contegno che di giorno in giorno andava prendendo Vittorio
Emanuele, contegno impopolare, perciocch esso non facevasi
pi vedere ed a pochissimi era permesso il parlargli.
Quando, cessate le pioggie, la citt volle fare la festa da
tanto tempo preparata, allora speravasi poterlo finalmente ve
dere. Si erano spesi centoventimila ducati in preparativi; la
via di Toledo era la strada trionfale dove aspettavasi il re.
Le finestre erano state pagate 30 ducati, un solo posto pa
gavasi 20 carlini, 100 mila persone l'attendevano; tutto era
pieno di fiori di bandiere.
Pass la guardia, pass la truppa, e la gente aspett il re
dalle 9 antimeridiane alle 3 pomeridiane, ma il re era passato
per altra via ed il popolo torn a casa mesto di non averlo
veduto.
-|-----
--
|-|-|------
eos] ,[n ip que qe Iod ep oleififiai saj ? 'ialde) e oumi ipequey
297
Quando dal palazzo a Capo di Monte recavasi alla reggia,
vi si recava in tale modesta vettura che nessuno poteva rav
visarlo. Molte dame vennero rinviate dall'anticamera senza po
terlo vedere; Antonio Raineri, l'amico di Leopardi, ed il ge
nerale Dellifranci uscito allora allora dalle galere, ambedue
liberali e vecchi venerandi non ebbero la sorte di vedere e
parlare a Vittorio Emanuele. Narrasi che un popolano azzard
dire a sua maest: Sire, il nostro popolo desidera vedervi;
questo popolo incolto sente il culto che deve al gran guerriero
e al monarca; ama vedervi: mostratevi, ve ne prego . Il re
assentiva collo sguardo, quanto un alto funzionario interruppe
il popolano con parole imprudenti poco decorose all'autorit
del re, ed alla dignit del popolo napoletano. In questa guisa,
mentre Garibaldi aveva tanto faticato per far s che il popolo
napoletano amasse Vittorio Emanuele anche prima di vederlo
e di conoscerlo, Farini e Fanti con una falsissima politica riu
scivano a farlo disamare ed a gittare il malcontento in quel
popolo che tanto facilmente passa dagli amori agli odii, dall'en
tusiasmo alla freddezza.
Per uno di quei contrasti che tanto facilmente accadono tra
gli uomini del governo e quelli che si fanno interpreti dei
voti della nazione, ci conviene parlare di un atto di gratitudine
che onorevoli persone di Genova vollero mostrare verso l'il
lustre Garibaldi.
Farini aveva stabiliti onorarii ricchissimi per s e pei suoi
segretarii, e tanto ricchi da oltrepassare i confini di un go
verno onesto. Noi comprendiamo che gli alti funzionarii deb
bano vivere comodamente per potere, senza pensare ad altro,
attendere al governo, ma comprendiamo del pari che il troppo
sia poco onorevole ai funzionarii stessi perciocch per quanto
bene facciano la nazione pu dir loro: voi mi avete servito,
ed io vi ho pagati.
Garibaldi era partito da Napoli povero, forse pi povero
ancora che non era il giorno della sua partenza da Genova per
Marsala. Dicesi che da Napoli non portasse con s che pochi
carlini, un sacco di patate, e poca pasta; certo questo che
giunto in Caprera non aveva di che pagare il lavoro che al
cuni muratori avevano fatto nella sua casetta; ed era stato
il Dittatore di due regni per sei mesi continui, ed aveva la
vorato giorno e notte per l'Italia, ed aveva esposta venti volte
la vita sui campi di battaglia per redimere dalla borbonica ti
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
58
298
rannide nove milioni d'Italiani. Partito Garibaldi, il luogo
tenente Farini e gli altri segretarii stabilirono per s, come di
sopra notammo, vistose paghe quali non avevano neppure i
ministri di Torino. Tanto la differenza, che passa tra l'uomo
che ama l'Italia per s stessa e gli uomini che a tutto uni
scono i propri particolari interessi. E tutti parlavano di Fa
rini e dei suoi, e niuno ricordavasi della povert dell' ex Dit
tatore delle Due Sicilie, di colui che tutta Europa salut col
nome di Wasington dell'Italia. Finalmente nacque il pensiero
in alcuni di fare all'eremita di Caprera un dono nazionale, e fu
tosto tradotto in fatto. Prima di riportare il proclama di questi
buoni cittadini diremo che la soscrizione al dono nazionale
frutt pochissimo e quel pochissimo fu dono dei figli del po
polo, perciocch l'aristocrazia non concorse per nulla, mostran
dosi anche in questa circostanza per quella casta sprezzante
che stata sempre di qualunque virt che alberghi nel cuore
dei figli del popolo.
Ecco il proclama del comitato per il dono nazionale di cui
parliamo :
Giuseppe Garibaldi ha compiuto un'impresa grande quante
altre mai ricordi la storia. Una via sacra per vittorie immor
tali percorsa da Marsala a Capua: popolazioni infelici redenti
da spaventevole tirannide; l'Italia restituita ad una terza parte
dei figli suoi, ventidue milioni d'Italiani ricongiunti in nazione;
l'unit e l'indivisibilit della gran patria proclamata con voto
unanime ed assicurata in vicino avvenire, ecco i destini che
parevano illusioni il 5 maggio, quando il grand'uomo salpava
da Quarto co' suoi mille, e che pure egli recava sulla sua nave
e compieva in cinque mesi. Il mondo stupefatto applaude agli
eventi meravigliosi; ed ammira non pi la terra delle antiche
memorie e dei grandi sepolcri, ma la sede rinnovata del genio,
del diritto.
Intanto l'iniziatore ed il duce di questa splendida epopea
scompare dalla scena. Rimessa nel fodero la gloriosa spada,
attende pensoso sul romito scoglio di Caprera che nuove ispi
razioni del genio d'Italia o la maturit dei tempi lo muovano
a prendere ancora in mano le sorti e compiere l'unit della
patria.
-
Per le grandi cose operate in suo pr essa non pu of
frire a Garibaldi, n compensi, n premii, ne onori, niun com
299
penso eguaglierebbe il beneficio; i premi ed onori rifiuta il
magnanimo, che da un regno trionfato ritorna alla sublime po
vert d'una vita tutta consacrata al bene del suo paese.
Unico premio degno a Garibaldi, la gratitudine dei suoi
concittadini. E un debito sacro della nazione. Tutti lo sentono.
L'amore, la venerazione, l'ammirazione, la riconoscenza per
il grande liberatore commuovono profondamente i cuori di
tutti gl' Italiani. Ma sentire il debito non basta: bisogna sod
disfarlo con pubblica e solenne testimonianza.
Non gi che ai grandi uomini, per i magnanimi fatti
bisognino monumenti. La coscienza del genere umano, assegna
severa ad essi nella storia, senza paura e senza adulazioni, il
posto che hanno meritato, ed altissimo lo assegner all'uomo
di Marsala. Ma la riconoscenza ai suoi benefattori misura
della civilt d'un popolo: come l'ingratitudine e la mancanza
di sensi generosi prova di morale decadenza.
Non dunque per onorare Giuseppe Garibaldi che noi
-
ci rivolgiamo agli Italiani, ma perch la storia non accusi un
giorno d'ingratitudine i suoi contemporanei.
Mossi da questi pensieri, noi sottoscritti accettando l'in
vito che ce ne venne dalla stampa ci siamo costituiti in com
missione promotrice di sottoscrizioni per un dono nazionale
al generale Garibaldi.
Noi intendiamo aver merito in un'idea che nella mente
e nel cuore di tutti, e che gi trov eco nel pubblico. Ma pen
sammo che il comune concetto dovesse pur da qualcuno es
sere afferrato per tradursi in fatto. Ed importava che pi non
si tardasse, perch il ritardo non paresse gi un principio d'in
gratitudine. Forse ancora aspettavasi dall' Italia che l'iniziativa
partisse da questa antica Liguria che diede a Garibaldi il sangue,
e la patria d'origine, da questa citt,
dov'egli s'inspirava del
forte pensiero nazionale, si educava alla potente sua vita,
donde moveva per il grande riscatto.
E perci invitiamo tutti gl'Italiani senza distinzione di par
-
titi politici, a questa grande sottoscrizione nazionale. Gli esor
tiamo a costituire in ogni citt comitati per raccogliere le of
ferte. E pregheremo i comitati a porsi in corrispondenza colla
nostra commissione, finch raccolte le somme che il patriot
tismo italiano verser per questo nobile scopo, i rappresen
tanti loro deliberino insieme con noi il dono che dar al ge
nerale Garibaldi l'Italia riconoscente.
500
Condizioni della sottoscrizione.
1. La quota di sottoscrizione una lira italiana, perch
tutti possano concorrere al dono. Ma libero ad ognuno il
sottoscriversi per qualunque numero di quote.
2. In ogni citt d'Italia saranno costituiti comitati per
raccogliere le offerte nei modi che a ciascun d'essi parranno con
venienti.
3. Le somme provenienti dalle offerte saranno dai col
lettori e dai comitati versate al tesoriere della citt di Genova
che ha gentilmente accettato l'incarico.
4. Tutte le sottoscrizioni saranno pubblicate.
5. Raccolte le offerte, i rappresentanti dei comitati si
riuniranno in assemblea generale per deliberare la natura e
il modo del dono.
6. A cosa finita, sar pubblicato il conto generale di tutte
le operazioni.
Cesare Gabella, pres. Vincenzo Ricc deputato Lo
-
renzo Pareto idem. Michele Casareto idem. Stefano
Castagnola avvocato Augusto Fagnoni Emanuele Ce
lesia, segretario .
Continuando a parlare delle cose di Napoli non possiamo
tralasciare di fare un cenno sulle dimostrazioni di che la citta
dinanza napoletana volle onorare il marchese di Villamarina.
Questo diplomatico, come di sopra accennammo erasi rego
lato con molta prudenza nella sua difficile situazione. Egli
come ministro del re di Piemonte in Napoli si trovava nella
malagevole via di non cospirare contro il governo borbonico
presso il quale era accreditato, e di non opporsi a quella pro
paganda rivoluzionaria che pur veniva dal Piemonte e che ten
deva a formare l'Italia una. Il Villamarina seppe conciliare
questi suoi doveri con una sagacia non comune e cos giunse
solo tra i diplomatici di quell'epoca a non meritarsi la disap
provazione dei popoli n quella dei gabinetti europei. Posse
deva ottime qualit per farsi amare e rispettare da chiunque,
le cose proprie sapeva condurre con molta prudenza, tanto
da lasciare agli eventi la forza di compiere i destini d'Italia
che egli stesso fortemente desiderava.
301
Non isfugg all'occhio dei cittadini napoletani cotesta nobile
condotta del ministro sardo onde che concepirono per lui
grandissima simpatia, come di persona del loro stesso paese
e che aveva con essi interessi comuni.
Quando poi entr Garibaldi e le sorti di Napoli si muta
rono in senso nazionale allora il Villamarina fu fatto segno a
pubbliche dimostrazioni di affetto, e dimostrazioni cordiali e
sincere. Si aggiunga che dopo il mutamento delle cose poli
tiche, e nei tempi della dittatura di Garibaldi, Villamarina con
serv sempre la sua dignit, e se le circostanze lo costrinsero
ad ingerirsi negli affari di Stato lo fece sempre in modo da
non urtare imprudentemente contro il partito democratico, e
da cavare dalle combinazioni politiche un qualche vantaggio per
la grande causa italiana.
-
Arrivato Vittorio Emanuele in Napoli, il Villamarina venne
da lui onorato con amichevoli dimostrazioni, e con quelle de
corazioni che sono dei primi dignitari dello Stato.
Ora il Villamarina doveva lasciare Napoli per ritornare in
Torino; i Napoletani vollero attestargli la loro riconoscenza
con un indirizzo firmato dai principali cittadini fra i quali sono
primi i nomi di Poerio, di Leopardi, di Spaventa, di Massari,
di Ranieri, di Vacca, d'Imbriani, Pironti, Tommasi, Baldac
chini, e dai generali Stocco e Dellifranci.
Ecco il testo dell'indirizzo:
ancora a voi, italianissimo signore, che tutte le quindici
provincie del continente di Napoli sentono il bisogno di espri
mere le pi fervide azioni di grazia, per la prudenza e la sa
pienza onde vi siete governato durante la vostra ambasceria
nei lunghi e tristi giorni in cui queste contrade erano staccate
dal resto d'Italia. Voi vi siete mischiato (e sempre con ama
bile dignit), fra tutti gli ordini di questa popolosa metropoli,
ne avete considerato le virt ed i difetti, e ne avete compu
tato la speranza e i timori, rispettivamente al santo scopo cui
tutti intendevamo. Voi avete saputo dare all'Europa quel che
ra dell'Europa, ed all'Italia quel che era dell'Italia! E con
la sola vostra presenza avete saputo scoraggiare la tirannide
la demagogia, ed incoraggiare coloro che volevano il vero
bene, che avventuratamente sempre il solo possibile. Ora
che questa grande e bella parte d'Italia gi unificata come
302
la madre comune, e che le virt patrie ne diventeranno pi in
tese, anche alle vostre virt sar renduto quel giusto culto,
che invano si sarebbe sperato nei reggimenti caduti .
Napoli, 15 novembre 1860.
Nello stesso tempo il municipio, facendosi interprete del
voto di tutti volle onorarlo della cittadinanza di cui aveva gi
insignito Garibaldi e Pallavicino. Le provincie non vollero re
stare addietro, e quasi tutte, compresa la stessa Benevento,
inviarono indirizzi firmati dai pi nobili cittadini, dal clero,
dalle guardie nazionali e dalle autorit. La sera del 19, bench
la pioggia cadesse dirotta, una bella dimostrazione di popolo,
preceduto da fiaccole e da bande musicali, si condusse dinanzi
alla casa del ministro ad applaudirlo caldamente. Villamarina
ringrazi affettuosamente il popolo a cui diresse parole, il senso
delle quali u presso a poco il seguente:
Signori,
Non trovo frasi sufficienti per dirvi tutto ci che il mio
cuore prova in questo momento. Ma voi sapete che talvolta
il silenzio pi eloquente delle parole. Serber eternamente
grata memoria del modo benevole ed affettuoso con cui mi
avete accolto, in dal primo mio giungere in Napoli, non che
dell'assistenza prestatami in momenti difficilissimi e penosi
per tutti.
Col voto che avete deposto nell'urna avete fatta l'Italia,
-
ed a questo vostro voto accresce valore la continuata presenza
nel regno d'una dinastia invisa, la quale si ostina a prolun
gare una guerra fratricida, sperando forse diminuire cosi le
file di un esercito che avrebbe fatto pi tardi parte del grande
esercito italiano, cui saranno confidate le sorti della patria.
Per tal guisa questa dinastia dopo aver compromesso il passato,
tenta compromettere il presente e l'avvenire.
Voi troverete forse queste mie parole troppo severe, ma
sappiate che ho percorso provincie che trovai nel lutto e
nella desolazione. Ho visti interi villaggi saccheggiati, case in
cendiate, famiglie distrutte, e giovent crudelmente assassinata,
di null'altro colpevoli che di avere avuto aspirazioni liberali.
303
Ma viva Dio, finch esister un Vittorio Emanuele i destini
d'Italia non potranno essere compromessi ! Pi che un re
voi avrete in Vittorio Emanuele un padre, un amico, e un
guerriero, che sar sempre il primo nel pericolo ad indicarvi
la via della vittoria. Se non vi bastano otto secoli di lealt,
di onest, di eroismo che distinguono l'augusta Casa di Sa
voia rammentatevi che Carlo Alberto, padre di Vittorio Ema
nuele piuttosto che mancare alle promesse fatte, scese dal
trono, esul, e mor in terra straniera. Rammentatevi che
Vittorio Emanuele dal primo momento che sal sul trono fu
il primo soldato d'Italia esponendo senza riguardo la propria
vita pel bene della comune patria, ed oso dire che un Vittorio
Emanuele, potea nascere solo in Italia.
Signori, Dio con noi, ed con noi la giustizia. La prov
videnza e le libere istituzioni risveglieranno il genio che man
tenne sempre grande l'Italia nostra, malgrado le catene con
cui vollero tenerla avvinta la perversit di alcuni governi e le
ambizioni di stranieri potentati. La provvidenza e le libere isti
tuzioni le daranno ben presto quel lustro e quello splendore
con cui le pi malvage passioni non potranno interamente oscu
rare. Facciamo dunque degli evviva all'Italia, al senno, alla
generosit ed al valore di cui gl'Italiani fecero mostra dal 48
in qua. E qui permettetemi, o signori, di rendere il meritato
omaggio alla guardia nazionale di tutto il regno, che in mo
menti assai difficili e pericolosi fu vero modello di virt e co
raggio cittadino. Mi sia pure permesso di tributare la debita
lode all'egregio signor conte di Cavour che si degnamente e
si nobilmente merit e merita tuttora della patria nostra, avendo
contribuito cos potentemente a questo nostro glorioso riscatto.
Viva Vittorio Emanuele ! Viva l'Italia una, forte e potente! .
Il popolo accolse con piacere le parole di Villamarina, e ne
sent grande entusiasmo talch pi che mai si parl per tutta
la citt delle belle doti di che era ricco il ministro sardo.
Altro avvenimento che compivasi in Napoli era la presenta
zione dell'indirizzo al re dalla camera dei deputati redatto e
presentato per l'approvazione alla camera stessa dal deputato
Giorgini.
Il pensiero di questo indirizzo fu una nobile risoluzione
per la quale la camera dei deputati affrettava coi suoi voti
504
l'annessione delle provincie meridionali, e pronunziava parole
di ringraziamento e di encomio al re galantuomo.
La camera dei deputati non aveva allora un forte partito
d'opposizione; e dove anche l'avesse avuto anche questo sa
rebbesi trovato d'accordo sul fatto dell'indirizzo. A parte dif
fatti quanto fino allora aveva operato Vittorio Emanuele per
l'unit italiana; a parte il valore mostrato ed i pericoli corsi
nelle due battaglie di Palestro e di S. Martino, l'ultima sua
partenza dalla capitale per Ancona ed il suo viaggio per en
trare alla testa dell'esercito nelle provincie napoletane lo ave
vano reso pi caro e rispettabile in faccia a tutta la nazione
italiana. Era giusto dunque che questa nazione per mezzo dei
suoi rappresentanti facesse sentire la sua gratitudine all'augusto
monarca, e a lui dimostrasse che gli sguardi degl'Italiani sta
vano sempre fissi sopra di lui che tanto bene faceva per la
causa nazionale.
Era anche questo un modo di far conoscere all'Europa che
quanto il re faceva tutto era secondo le opinioni e le aspira
zioni della nazione intera e che perci i gabinetti europei
non avrebbero potuto disapprovare la politica di Vittorio Ema
nuele senza disapprovare insieme le aspirazioni tutte dell'ltalia.
E convien pur dire che l'unit italiana era divenuta necessaria
non solamente per forti ragioni politiche, ma eziandio per mo
tivi nazionali, perciocch tutta intera la nazione voleva l'unit
italiana.
Come notammo di sopra una commissione parlamentare si
rec da Torino a Napoli per presentare l'indirizzo al re, e
diffatti dopo alquanti giorni del suo arrivo, fu solennemente
presentato.
Quell'indirizzo diceva:
Sire /
Questa camera che deve la sua origine alle recenti an
nessioni dell'Emilia e della Toscana, sar presto sciolta da un
evento egualmente fortunato, l'annessione di nuove e pi estese
provincie, per la quale potr dirsi, se non in fatto, certo vir
tualmente compita la liberazione e l'unificazione dell'intera
penisola. Cos nessun parlamento avr mai una storia pi
gloriosa di questa, perch i termini tra i quali si trova com
303
presa la sua breve esistenza sono veramente e resteranno i
fatti pi grandi del nostro nazionale risorgimento perch a
lui fu dato di ratificare il primo di quei due fatti, e di appa
recchiare il secondo mediante il pieno e leale concorso che
si gloria di aver prestato alla politica del governo vostro.
Ma i deputati delle provincie che gi si chiamano, o presto
si chiameranno antiche, non potrebbero separarsi senza pen
sare che a voi principalmente, o sire, si deve il merito dei me
ravigliosi successi ai quali ebbero l'onore di cooperare. Ma
essi crederebbero di non essere stati interpreti fedeli della
nazione che rappresentano, se il loro, forse ultimo atto, non fosse
un'espressione solenne di quella profonda e devota ricono
scenza che in tutti i modi e in tutte le occasioni vi ha mani
festata l'Italia. E nessun momento per far giungere sino a voi
l'omaggio della nazionale riconoscenza potrebbe essere pi
opportuno di quello nella quale la M. V. alla testa del suo
valoroso esercito, affretta il compimento dell'alta impresa che,
assicurando coll'unit del regno, l'indipendenza della nazione
italiana, e il libero e regolare svolgimento delle sue grandi
facolt apre all'Europa una nuova ra di prosperit, di pro
gresso e di pace.
Possa, o sire, l'affetto e la fede che l'Italia ripone in
-
voi, sostenere il vostro ed il nostro coraggio tra le difficili
prove che forse ci dividono ancora dal giorno in cui un nuovo
e maggiore parlamento, riunito intorno a voi, acclami il libe
ratore col titolo augusto che deve associare indissolubilmente
i destini d'Italia e quelli della sua nobile stirpe.
Uno strano fatto ci convien ora registrare in questa sto
ria. Vittorio Emanuele era gi in Napoli, aveva di gi accet
tato il suffragio universale; tutta Italia gridava unit italiana,
Quand'ecco apparire per le stampe una lettera di Luciano
-
Murat la quale veniva ad accennare le pretensioni del suo au
tore al trono delle Due Sicilie.
Molto senso fece in principio questa lettera la quale fu cre
duta
ispirazione dell'imperatore dei Francesi; ma le appren
loni presto si dileguarono e la lettera apparve e spar come
na cometa. Il foglio di Murat diretto ad un duca di cui non
anifestasi il nome; essa diceva:
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
39
06
Caro duca !
Non da voi solamente, ma da moltissimi fui, alcuni mesi
sono, esortato ad iniziare un moto nelle cose di Napoli.
A voi rispondendo a tutti risposi facendo pubblica la mia
lettera.
Senso di dovere patrio dett allora le mie parole. Il mio
pensiero rifugg all'idea che il mio nome, le amicizie mie po
tessero essere ostacolo all'impresa dell'unificazione italiana.
Per non osteggiare, anzi per aiutare quest'impresa, basta
vami la rimembranza paterna; e per, rispondendovi dichiarai
ch'io non poteva sommuovere veruna difficolt, e che, in caso,
religiosamente avrei rispettato il supremo decreto della vo
lont nazionale.
Tanto scrissi; altro avrei aggiunto, ove avessi ascoltati
certi presentimenti, che mi facevano dubitare del successo e
delle arti adoperate per ottenerlo.
L'impresa dell'unit italiana fondata sul principio della
sovranit dei popoli, rimpetto al quale sorge minaccioso an
cora, quantunque a met vinto, il regio diritto divino. Questo
visse per molti secoli, suscit e mantenne potenti monarchie,
la cui storia, giova riconoscerlo, s'immedesima gloriosamente
con quella della civilt e del progresso; visse venerato, e l'uni
versale venerazione, di che per tanto tempo si circond, era
il frutto del regio sapere, delle regie virt. Oggi se ne va in
ruina; ma perch si dilegui dal mondo, senza pericoli, senza
danno, necessario che, pareggiato e superato anzi, venga
nel sapere e nelle virt dal nascente popolare diritto. Tale
il mio culto per questo diritto, che mi astenni per non fo
mentare discordie che avrebbero profittato ai suoi nemici.
Ma siccome dal fonte puro della scienza e dei nobili istinti
sgorga la vita del progresso, lamento che l'avvenimento in
Italia della popolare sovranit non abbia il debito corteggio
delle schiette virt cittadine. Ben veggo piantata nelle pubbliche
piazze l'urna dello scrutinio, ma sdegno che intorno a quel
l'urna vadasi aggirando la corruzione e la violenza. Duolmi
intendere che siasi fatto in Napoli un mercato di magistrature,
d'interessi pubblici, venerati dai padri della civilt italiana,
C0me inviolabili e santi.
367
Recenti sono gli avvenimenti del quarantotto, e ben pos
sono continuare ad esserci documento ed esempio.
Cadde la repubblica francese, perch tutto minacci e di
strusse, e nulla seppe creare o riedificare. Le sette collegate
ch oggi dominano l'Italia, non dimentichino questa lezione.
Talora pi tiranniche si mostrano che gli abbattuti governi.
Male s'inizia la libert col sospetto, con la tirannia. E che
cosa significa il disarmo di tanti comuni napoletani e la legge
di guerra promulgata in tante provincie? Queste cautele non
mi paiono verificare la spontaneit dell'universale suffragio e la
fiducia del nasccnte governo.
-
Il genio della nazione noi preservi da novelle calamit.
Finch si manifestano pi felici auspicii in Italia, io rester
spettatore desiderando virt, senno e patria carit, a chi im
prese a rigenerare un popolo, esempio all'umanit di glorie e
di sventure.
Consigliai la Federazione, perch pi idonea la credo
all'indole storica, ai costumi, agl'interessi d'Italia; la con
sigliai sopratutto per l'abborrimento che mi inspira la tirannia.
So che durevoli non sono i subiti edifizii della violenza; e tutta
violenta ed artificiale parmi la presente unificazione degli Stati
italiani. Credo che dalla sola federazione pu sorgere l'unit
destinata a conciliare gl'interessi e le libert locali colla po
tenza dell'autorit nazionale.
Quando sar Italia durevolmente ordinata a libert e a
grandezza, vedr adempito il mio voto pi caro, il voto supremo
del padre mio.
Aggradite, caro duca, l'espressione cordiale della mia af
fezione e della particolare mia stima .
Castello di Buzenval, 25 novembre 1860.
LUCIANO MURAT.
Nei non sappiamo se realmente esistesse in Napoli un par
partito Muratista; in tutti i modi non poteva essere che una
piccolissima frazione impotente sotto tutti gli aspetti. La let
tera di Luciano Murat venne in tempo importuno, proprio
quando la maggioranza dei liberali era rivolta a Vittorio Ema
nuele e aspirava all'unit d'Italia.
Per altro Luciano Murat nulla aveva fatto pel popolo napo
508
letano quando questo gemeva sotto il dispotismo borbonico;
esso perci non aveva diritto alcuno alla simpatia di quei po
poli. Ripeteremo che quella lettera comparve e spari come
una cometa senza lasciare dietro di s traccia di sorta. .
Il governo continuava fra di tanto la sua difficile opera d'in
terna riorganizzazione nella quale incontrava ad ogni passo in
numerevoli ostacoli. Viste diffatti le difficolt che si presenta
vano per potersi, conforme al decreto dittatoriale del 14 ot
tobre, applicare nelle provincie napolitane le tariffe del regno
circa le paghe degli uffiziali impiegati militari ed individui di
truppe, fu decretato che essi avendo fin allora percipito le paghe
regolate sulle antiche tariffe, avrebbero continuato, fino a nuovo
ordine, ad essere pagati allo stesso modo e colle norme che
erano tuttavia in vigore.
Un altro decreto istituiva presso il dicastero delle finanze
una Giunta consultiva di finanza. Fecero parte di questa Giunta
sotto la presidenza del consigliere di luogotenenza incaricato
del dicastero medesimo, il controllore generale della real te
soreria, i direttori generali, e tre individui estranei all'ammi
nistrazione della finanza. Gli amministratori generali, i capi
di servizio e gli ufficiali di ripartimento dei dicasteri e delle
direzioni generali potevano, invitati dal presidente della Giunta,
intervenire alle sedute per riferire in iscritto o verbalmente
gli affari sottomessi all'esame della Giunta o per dare infor
mazioni. L'incaricato del dicastero poi venne autorizzato a po
tere consultare la Giunta 1. sui progetti di atti e provvedi
menti che, spettando al dicastero o ad uno dei suoi rami, erano
d'interesse generale; 2. sui disegni d'istituzione risguardanti
il credito ed il commercio, e la cui disamina spettava al dica
stero delle finanze; 3. su tutti gli affari pei quali, veduta la
loro importanza il consigliere del dicastero reputava giovarsi
dell'avviso della Giunta.
Altri decreti vennero pubblicati fra i quali il seguente che
riguarda provvedimenti per gli ufficiali ed impiegati ammini
strativi del disciolto esercito borbonico, e che facevano ade
sione al nuovo governo.
COMANDO GENERALE DELL'ARMATA
Relazione a S. M.
Sire /
Per determinare la posizione dei signori ufficiali, impie
gati amministrativi, ufficiali sanitarii e cappellani, procedenti
dall'esercito regolare dello scaduto governo delle Due Sicilie, i
quali giustifichino di aver fatto regolare adesione al nuovo or
dine di cose, ho l'onore di proporre a V. M. il seguente
decreto:
Vittorio Emanuele, ecc. ecc.
Sulla proposta del nostro ministro segretario di Stato per
gli affari della guerra,
Abbiamo decretato e decretiamo quanto segue:
Art. 1. Sar nominata una commissione mista di ufficiali
che appartennero all'esercito regolare del gi regno delle
Due Sicilie, per esaminare i titoli degli ufficiali a quest'ultimo
appartenenti, i quali abbiano fatto adesione al nuovo ordine
di cose.
Art. 2. Detti signori ufficiali dovranno presentare alla
commissione;
a) un atto giustificativo che debitamente comprovi la loro
fatta adesione;
b) una loro dichiarazione di essere pronti a prestare il
giuramento di fedelt alla nostra dinastia ed alle leggi dello
Stato;
c) copia del loro estratto matricolare, vidimato dalla dire
zione per gli affari della guerra in Napoli;
d) i loro brevetti originali ed i titoli ufficiali comprovanti
i varii gradi avuti nell'esercito da cui procedono.
Art. 3. La commissione autorizzata a richiedere per
mezzo del suo presidente, alla direzione generale per gli af
fari della guerra in Napoli tutti quei documenti od informa
zioni che possono occorrerle sui signori ufficiali di cui caso.
Art. 4. La commissione, in seguito all'esame dei titoli
degl'interessati, ed alle informazioni che avr creduto prendere
a loro proposito, compiler quattro elenchi di proposte:
510
a) degli ufficiali, impiegati militari, cappellani ed ufficiali
sanitarii, idonei al servizio attivo;
b) di quelli i quali, bench non idonei al servizio attivo,
possono essere impiegati nel servizio delle piazze, veterani e
simili;
c) di quelli che, per cause temporarie, debbono essere
posti in riforma, disponibilit ed aspettativa;
d) di quelli che, per la loro et, stato di salute ed altre
circostanze, avendo raggiunto gli anni o le cause volute dalle
leggi militari, vigenti nel gi regno delle Due Sicilie, per con
seguire la pensione di ritiro debbono essere collocati a riposo.
Tali elenchi vorranno essere trasmessi coi documenti di
cui all'articolo 2. al nostro segretario di Stato per gli affari
della guerra.
Art. 5. Riguardo ai signori ufficiali generali, riservato
al nostro ministro segretario di Stato per gli affari della guerra
l'esame dei titoli di cui all'art. 2., il quale mi far in seguito
le relative proposte al loro riguardo.
Art. 6. Agli ufficiali sopracitati saranno computati i gradi
acquistati nel gi esercito regolare delle Due Sicilie a tutto il
7 settembre dell'anno corrente.
Art. 7. riserbato al nostro ministro segretario di Stato
per gli affari della guerra, in seguito a proposta della commis
sione di tener calcolo del maggior grado che detti ufficiali aves
sero conseguito per anzianit o a titolo di ricompensa per me
rito di guerra in difesa della causa nazionale.
Il nostro ministro incaricato dell'esecuzione del pre
sente decreto che sar registrato alla corte dei conti .
Dato a Napoli il di 28 novembre 1860.
VITTORIO EMANUELE
M. FANTI.
Intanto nelle provincie i malumori crescevano, e la reazione
alzava la testa ora in uno ed ora in un altro luogo.
Il governo o non conosceva o fingeva non conoscere i mo
tivi veri di queste contraddizioni dello spirito pubblico, e perci
si studiava di rimediarvi con provvedimenti buoni ma poco
efficaci. Le riforme volevano essere radicali; il partito bor
311
bonico doveva essere schiacciato; i liberali volevano essere
I'llmunerati.
Farini nulla fece di tutto questo, che anzi volle proteggere i
Borbonici e perseguitare i liberali.
Pure ci piace una circolare diretta a tutti i governatori del
dicastero dell'interno e polizia e che noi riportiamo:
DICASTERO DELL'INTERNO E POLIZIA
Circolare ai governatori.
Nei primi dieci giorni di ciascun mese mi attendo da lei
una relazione informativa, la quale valga a darmi colla mag
giore esattezza queste notizie;
a) Fatti positivi e coi loro particolari, i quali stiano con
tro lo spirito di concordia e che continua la storia di comuni
SUenture.
b) Soprusi ed eccedenze, per atti che vadano fuori dalle
leggi, e da chi commessi.
c) Lamenti e doglianze contro il bramato corso degli af
fari a qualunque autorit affidati, particolarmente indicando
su chi cadono le osservazioni, per quale fatto e possibilmente
per quali ragioni.
d) Prezzi del genere che pi servono per l'alimento dei
poveri, e se siano questi monopolizzati, e da chi, e con quali
mezzi.
e) Proposizione netta, e tale da potersi subito eseguire,
di tutti quei mezzi che si credono i pi accomodati, per ov
viare, per quanto si pu, a quei mali che avr studiati, e per
riparare quelli per avventura esistenti.
Il governo un fatto, non una continuata dottrina; esso
deriva da questo; ma poi rimane nelle enciclopedie, e non si
avverte che il fatto ; io stimerei il senno governativo, di cui
-
tanto ella abbonda, quando io mi avr questo sintesi della
energia delle sue cure. Niun fatto contro alle leggi di ordine
generale, perch: 1. niuno di essi va fuori dei termini dell'il
legalit; 2. il cammino degli affari di ogni natura celere
e solo la legge ne guida; 3. al povero non manca discre
tamente il pane, perch lavora.
E se il lavoro non dubbia origine e conseguenza della
pace, io mi attendo, come applicazioni dette nella categoria (c),
512
la indicazione speciale di ci che ha da mettersi nelle mani
del lavoratore; perch con l'opera delle mani solamente, si
pu mettere nella bocca affamata dei figli e della compagna il
pane, ed in ultimo nella propria, che sovente noi diventiamo
satolli solo perch veggiam esserlo i nostri cari .
Il consigliere, G. VENTIMIGLIA.
Ottimo provvedimento se i disordini fossero venuti da pochi
male intenzionati e non, come realmente era, da errori go
vernativi. Vedremo in appresso quali conseguenze venissero
da questi errori e falsa politica del governo.
C A PIT 0 L 0 XVI
Preparativi per l'arrivo del re in Palermo.
Programma del municipio. Proclama di
Mordini, Arrivo del re, Proclama del
re ai Siciliani. Dimora del re in Pa
lermo,
-
Vittorio Emanuele aveva promesso alle deputazioni siciliane
che sarebbesi recato in Palermo ad appagare i desiderii di
quei nuovi suoi sudditi, e che ci presto sarebbe avvenuto.
Nessuna partenza stata cos di giorno in giorno prorogata
come quella di Vittorio Emanuele per la Sicilia. Le cose di
Napoli erano tanto incerte e in tal modo potevano di momento
in momento cambiarsi che tante volte determinata la partenza
del re per Palermo, fu sempre impedita da circostanze po
litiche. La presenza del re in Napoli era grandemente neces
saria; essa in qualche modo non faceva sviluppare tutto il
malcontento che doveva naturalmente insorgere per gli errori
di Farini. Di pi, la questione dell'esercito meridionale pren
deva di momento in momento tali vaste proporzioni da ab
bisognare la presenza del re per potere all'uopo rimediare. Da
questo stato di cose nasceva che in Sicilia si spargesse pi
volte la certa notizia dell'arrivo del re, e che pi volte venisse
smentita, lasciando tutta quella popolazione con l'ansia di que
sto grande avvenimento, e pi spesso ancora con argomenti
di fare mille congetture e di dare ai fatti diverse interpreta
zioni. Dicevasi per esempio che il re non sarebbe andato in
Sicilia perch gravi affari di Stato lo richiamavano a Torino,
dicevasi che la Sicilia fosse riserbata ad altri destini e non a
Stor. della rivol. Sicil. Vol II.
A0
314
quelli dell'unit italiana, e che perci Vittorio Emanuele mo
stravasi indifferente a quel viaggio; ma voci ed opinioni di
popolo erano queste, mentre il governo prodittatoriale ed il
municipio di Palermo avevano gi la certezza dell'arrivo
del re.
Un telegramma arrivato in Palermo da Napoli annunciava
l'arrivo del re pel giorno 27 novembre. Sparsasi la voce per
la citt, fu accolta con entusiasmo. Una immensa folla di cit
tadini si port alla piazza della Vittoria applaudendo al re e
Garibaldi. In quella occasione il prodittatore Mordini pronunzi
queste parole:
Cittadini !
Vi devo partecipare una buona novella. Luned prossimo,
il nostro re Vittorio Emanuele partir da Napoli, e marted
sar in Palermo. Voi dunque avrete il sospirato piacere di
festeggiare il primo soldato dell'indipendenza il re d'Italia una
ed indivisibile.
lo so che Vittorio Emanuele vi trover qual sempre
foste, un popolo unito e concorde, pronto ai grandi sacrificii,
per la patria, determinati ad esser liberi cittadini italiani. Or
bene, in questa vostra concordia, in questa vostra divozione
al sacrificio, in questa vostra determinazione pel mantenimento
del sommo bene dell'uomo civile e culto, la libert, il nostro
re trover la forza per affrontare l'ultima lotta per l'affranca
mento di quelle provincie della nostra Italia ancora schiave
dello straniero.
Fra pochi giorni io vi lascier per andare in altra parte
d'Italia; ma porter meco la grata rimembranza della vostra
benevolenza per me e del vostro amore per la patria comune.
Garibaldi a Napoli dicendomi addio, mi abbracci per
voi, suo diletto popolo siciliano, e, tenendomi stretto al
petto, m'ingiunse di dire nel mio addio ai Palermitani che
Garibaldi, io ed il popolo di Sicilia ci troveremo sempre
l dove l'onore ci chiama ed il dovere ci comanda. Si,
miei concittadini, ed il nostro dovere ci chiamer l dove
bisogna il braccio di uomini liberi per cacciare lo straniero e
render l'Italia agl'Italiani. Viva Garibaldi, viva il nostro re
dentore! Viva l'Italia una ed indivisibile! Viva il nostro re
Vittorio Emanuele ! .
515
Ma il 27 il re non giunse per una di quelle ragioni che ab
biamo di sopra accennate.
Queste poche parole del prodittatore Mordini valgono an
ch'esse a gittare un raggio di luce sulle intenzioni del partito
democratico nell'Italia meridionale. Il linguaggio di Mordini
grandemente moderato; esso parla del re e dei suoi diritti
sul popolo siciliano con molta venerazione, rispetto, e diciamolo
pure entusiasmo. Vero che le cose eransi per tal modo can
giate da non lasciar pi campo di agire alla democrazia, ma
vero altres che il linguaggio dei democratici era il pi forte
ed il pi acconcio a sostenere ed a propagare in mezzo al po
polo il principio monarchico.
Fino al di 26 tenevasi certa la venuta del re pel di 27.
Onde che il prodittatore Mordini, il giorno 26 pubblicava
con generale soddisfazione il seguente proclama:
Italiani della Sicilia 1
Due milioni e mezzo di voci si alzeranno domani dal
l'isola per acclamare il re eletto che gloria e speranza della
nazione.
Pronunziato da Garibaldi, guidato dalla stella d'Italia, ei
viene fra voi a stringere un sacro patto di amore e di fede.
L'Italia una e indivisibile, grid Sicilia col glorioso plebi
scito del 21 ottobre. Domani far degno riscontro alla maest
del voto popolare la solenne accettazione del re prode, del re
galantuomo.
E cos posto il finale suggello alla memoranda vostra ri
voluzione, si aprir quel periodo tanto invocato di storia ita
liana che deve chiudersi, e si chiuder colla liberazione di
Venezia e di Roma.
Italiani della Sicilia!
Quando, per ordine del Dittatore Garibaldi, io tolsi a
reggere lo Stato in momenti difficilissimi, vi dissi: asso
ciate i vostri sforzi ai miei, perch mentre i vostri figli com
battono sul continente le battaglie della patria unit, l'isola
appena redenta presenti al mondo civile lo spettacolo di un
popolo che sa praticare la vera libert.
Ora io sono lieto di potere dichiarare che vi siete col
516
fatto mostrati degni dell'Italia e dell'eroe che vi guarda oggi
da Caprera.
Il giorno ch'io mi separai in Napoli da lui, per far ritorno
in Sicilia, egli stringendomi forte al petto, mi rivolse queste
parole: Addio: noi ci ritroveremo sempre sulla via del
dovere e dell'onore. Queste stesse parole a voi, o Siciliani,
a voi, fratelli miei, io rivolgo ora coll'animo commosso: Addio;
noi ci ritroveremo sempre con lui sulla via del dovere e del
l'onore.
Viva Vittorio Emanuele, re d'Italia.
Palermo, 26 ottobre 1860.
Il prodittatore MoRDINI.
Anco queste parole accennano a quanto di sopra abbiamo
detto; che se si annunziano pure le solenni verit e aspira
zioni di Venezia e di Roma, ci aveva rapporto con un grande
diritto italiano altamente propugnato da tutti ma specialmente
dai democratici.
Anco il municipio, come naturale parlava al popolo delle
prossime gioie e feste che l'arrivo del re avrebbe recato, e
gi fin dal 18 novembre, un proclama diceva:
Cittadini l
Nobili e cittadine gioie ed espansioni di liberi cuori si
appressano, ove ognuno addimostrer quel fervente desiderio
e quel profondo sentimento italiano, che vissuto occulto fra
i patimenti, e si manifestato eroicamente fra le armi e gli
eccidii.
Il re galantuomo sar in breve tra noi, animato dai po
polari
inviti e dalla solenne votazione, che unisce la sua sorte
alla nostra. Egli calcher questa terra gloriosa per tanti eventi
e patria elettiva dell'invitto Garibaldi che qui compi i pi
eroici fatti della sua vita di soldato dell'indipendenza d'Italia.
Il municipio prepara feste, che, se non condegne alla
grandezza dell'avvenimento, rivelano qual sentimento di gra
titudine e di affetto che citt italiana e redenta deve manife
stare al suo re.
Voi cittadini che tanto soffriste, e tanto nobilmente sen
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517
tite, preparerete affettuosa accoglienza all'invitto, intorno a
cui si stringe libera la finora divisa famiglia italiana.
Arazzi, bandiere, trofei, illuminazioni: ecco quanto il po
polo di Palermo, far per accrescere il lustro di una festa,
rara nella vita di un popolo che redento, accoglie per la prima
volta colui nel cui nome ha combattuto e vinto, ed ha eletto
a sovrano dei suoi futuri destini.
Palermo, 18 novembre 1860.
Il pretore funzionante SALVATORE CUSA.
Si vuol notare che tale e tanto era l'amore del popolo si
ciliano verso Garibaldi, che quasi non era lecito n a prodit
tatori, n a municipii, n a chiunque parlare o scrivere sui
prossimi avvenimenti di Sicilia senza nominare il grande eroe
che con mille uomini salvava due regni. Ed perci che sempre
ripeteremo esser stato gravissimo errore del governo l'avere
maltrattato quell'idolo dell'Italia meridionale e perseguitato
quel
per fatti poteva
testa, partito
almeno che
apparentemente,
stavachiamarsi
Garibaldi.eroico, e alla cui
e
Il municipio di Palermo pose ogni studio per preparare feste
condegne al merito del primo e grande re d'Italia. Noi par
leremo di queste feste nel corso di questo capitolo limitandoci
per ora a riportare il programma tale quale fu pubblicato dal
pretore della citt.
PR00RAMMA
Nella fausta ricorrenza dell'arrivo in Palermo di S. M. il
re Vittorio Emanuele, la citt sar in festa per tre giorni con
secutivi, quello compreso dell'arrivo del re.
Durante questi tre giorni, le pubbliche amministrazioni
sospenderanno i loro ufficii. I militari vestiranno il grande uni
forme.
Appena il telegrafo aereo segnaler trovarsi in vista la
reale flottiglia, tre colpi di cannone ne daranno avviso alla
-
citt.
Quando la reale flottiglia sar giunta all'altezza del mo
lino dell'Aranella, il forte ne saluter la presenza con ! ceri
318
di cannone. Ed all'arrivo della medesima in porto, i legni da
guerra ancorati in rada, e pavesati sino dall'alba, faranno una
salva reale, secondo le ordinanze. Anche i legni mercantili sa
ranno tutti pavesati.
Sua maest sbarcher a Porta Felice, ed al suo porre
piede a terra, tutte le campane della citt suoneranno a festa.
Giunta a terra, la maest sua sar ricevuta, nel padiglione
appositamente eretto, dal pretore del Senato, dal consiglio ci
vico, dal comandante la guardia nazionale col suo stato mag
giore, e da alcune rappresentanze di cittadini espressamente
invitati.
Il servizio al padiglione sar fatto dalla guardia nazionale
e dalla guardia dittatoriale.
In vicinanza al padiglione, si terranno pronte le carrozze
di Corte e quelle del Senato Ivi rester pure la milizia ur
bana a cavallo.
La prefata maest sua dal padiglione entrando per Porta
Felice si recher alla cattedrale, percorrendo il corso Vittorio
Emanuele.
La guardia nazionale e la truppa saranno schierate al suo
passaggio.
Giungendo dinanzi alla porta maggiore della cattedrale,
sua maest sar ricevuto allo sportello della carrozza dal Se
nato, ed all'ingresso del tempio da monsignore arcivescovo e
da altri dignitarii ecclesiastici.
Nel tempio, il servizio sar parimente fatto dalla guardia
nazionale e dalla guardia dittatoriale.
Ivi saranno altres raccolte le autorit e le persone appo
sitamente invitate.
Mons. arcivescovo compartir la benedizione, e presenter
la reliquia di S. Rosalia a S. M.
Dalla cattedrale la maest sua si recher al palazzo reale,
ove si troveranno ad attendere, per fargli omaggio, i corpi co
stituiti, civili, militari ed ecclesiastici, non che altre rappresen
tanze cittadine.
E il municipio di Palermo, a festeggiare sempre pi l'au
spicatissimo arrivo, estrarr a sorte 120 legati di maritaggio
di onze 15 per ognuno destinati a donzelle della citt.
Palermo, 25 novembre 1860.
Il pretore: DUCA DELLA VERDURA.
32,
Per la parte poi militare ecco quanto venne disposto dal
capo dello stato maggiore A. Forni. Quando la flottiglia che
accompagna S. M. sar segnalata dal telegrafo, la citt sar av
visata con varii colpi di cannone posti in differenti luoghi. A
simile avviso le truppe tutte prenderanno le armi, e si por
teranno nel luogo di loro formazione. La guardia nazionale
si schierer lungo la via Toledo, appoggiando la sua destra al
padiglione costruito a Porta Felice pel ricevimento di S. M.
Alla sinistra del padiglione, e di fronte alla guardia nazionale,
sar schierato il reggimento fanteria di marina. Le truppe di
linea, per ordine di anzianit, daranno la destra alla guardia
nazionale. Le truppe continentali dell'Italia settentrionale sa
ranno collocate nel largo della Vittoria, come disporr il loro
generale. Le bande della guardia nazionale e della linea sa
ranno disposte dietro ordini del brigadiere comandante la
piazza di Palermo. Queste bande all'apparire di S. M. suone
ranno la marcia reale, e quindi si riuniranno al rispettivo loro
battaglione o reggimento. La cavalleria dar uno squadrone
montato colla rispettiva fanfara, e si piazzer in battaglia al
largo marina, di fronte al palazzo delle finanze, dietro la linea
formata dalla guardia nazionale; detto squadrone staccher
un peluttone comandato da un uffiziale, per situarsi dietro
le guide della guardia nazionale, che dovranno prender posto
di fronte al padiglione di Porta Felice, e dietro la linea della
fanteria della stessa guardia. La guardia dittatoriale divisa in
tre picchetti d'onore, collocher uno di questi al padiglione di
Porta Felice, un altro alla cattedrale, ed uno al real palazzo.
Tre distaccamenti di carabinieri reali, ognuno della forza di
dodici uomini, comandati da un maresciallo d'alloggio, si tro
veranno pure al padiglione, alla cattedrale ed al palazzo ; un
capitano dei sopradetti carabinieri insulari forniranno un eguale
contingente di quello dei carabinieri reali, per prestare lo stesso
servigio negli stessi luoghi. La guardia del palazzo sar com
posta delle compagnie di guardia nazionale solita, e d'una
compagnia della truppa continentale; queste compagnie mon
teranno la guardia colla bandiera a norma dei regolamenti.
Quando S. M. si avvier per Toledo, sar preceduta a 20
o 25 passi da due carabinieri a cavallo, in posizione in atto
armi, e scortato dal comandante superiore delle truppe, unita
tamente allo stato maggiore della guardia nazionale, e della
truppa di linea. Dietro agli uffiziali dei sopradetti stati mag
320
giori, marcieranno le guide della guardia nazionale, ed un pic
chetto a cavallo delle reali truppe carabinieri di terra-ferma e
insulari. Il pelottone di cavalleria posto a Porta Felice chiu
der il corteggio. Il colonnello dei carabinieri reali di terra
ferma si terr vicino allo sportello della carrozza di S. M.
come sua guardia particolare. Il brigadiere comandante i ca
rabinieri dell'isola, in qualit di capo di corpo, si unir agli
stati maggiori. Quattro ufficiali di cavalleria montati in perfetta
tenuta, si troveranno a Porta Felice, per ricevere gli ordini
del comandante generale. Tutti gli ufficiali isolati, in montura
di parata, si troveranno al palazzo.
Alla ritirata le bande tutte si porteranno sul luogo loro in
dicato dal comandante della piazza all'arrivo del re, per suo
nare durante la luminaria.
Pel luogotenente generale comand. gen. la provincia
Il capo dello Stato Maggiore, A FoRNI.
Intanto il giorno fortunato arrivava; il 30 nov. ad un'ora
pomeridiana il re partiva da Napoli e giungeva nel porto di
Palermo il 1. dic. alle 10 ant. Pi di 1500 barchette piene
zeppe di gentili signore in ricca toilette, e degli uomini pi
importanti della Sicilia, circondavano la fregata reale, seguita
dall'Elettrico, quando gitt l'ncora a due tese da terra.
Sua maest scesa in una specie di galleria, graziosamente
addobbata. Aveva con lui i signori Cassinis e Fanti. Il prodit
tatore Mordini che l'aspettava a Palermo gli era andato in
contro a bordo dell'Adelaide.
Il re disbarc a Porta Felice, ove era stata costruita una
tenda per riceverlo. Il Senato gli fece un discorso; molti alti
funzionari
ai Senatori, ed una deputazione di no
bili signores'erano
gli fu uniti
presentata.
r
Allora sali in una carrozza a quattro cavalli insieme coi
suoi due ministri, e col prodittatore Mordini.
A pochi passi di l, senza che si sapesse come, furono
staccati i cavalli dalla carrozza, ed il popolo si mise a tirarlo
in vece loro.
Appena il re s'avvide di questa sostituzione, si sforz ad op
porvisi e si alz ben due volte in piedi, per pregare il po
polo di permettere che si tornassero a mettere i cavalli al ti
TT
!
|
Il
popolo palerm itano stacca i cavalli e tira la Carroz Za
ele tto, Vittorio Emanuele
-
321
mone; ma la sua voce fu soffocata dalle acclamazioni frene
tiche che s'innalzavano intorno a lui.
Di fatti gli evviva straordinari assordavano il cielo. Il re
non potendo parlare con Mordini a causa delle grida della
folla, si rassegn a tacere, ed attese in mezzo ad una pioggia
di fiori, che quell'olezzante inondazione avesse riempito la ca
rozza fino a coprirgli le ginocchia.
Nello stesso tempo si gettava della polvere d'oro innanzi
a lui, e da grandi e numerosi balconi, che coprono le fac
ciate delle case, e che erano piene di signore si staccavano quasi
s'involassero dalle loro gabbie nuovi messaggieri d'amore,
colombe e lodolette, che portavano al collo dei nastri tricolori.
Si giunse cos alla cattedrale. Ci volle pi d'un'ora a trascor
rere meno di un miglio.
Dove sta dunque la cattedrale ? domandava ad ogni mo
mento il re, il quale temeva che, in mezzo ad una folla cosi
fitta, cos entusiasta e frenetica, sopraggiungesse qualche di
sgrazia che attristasse la pubblica gioia.
Alla cattedrale il re scese, dando immediatamente l'ordine
che fossero riattaccati i cavalli alla carrozza.
Alla porta fu ricevuto dal duca della Verdura, e dal car
dinale arcivescovo.
Durante il tragitto Mordini gli aveva fatto osservare le ruine
lasciate dai soldati borbonici. Si trovavano lungo la strada
Toledo una trentina di case spaccate in mezzo, colle porte
e le finestre fracassate, e con i tetti sfondati.
Quella vista attrist profondamente il re.
La cattedrale era illuminata a giorno, e piena zeppa come
un teatro in giorno di gran gala. Sua maest fu salutata con
una triplice salva d'applausi; tutte le signore gittavan fiori
e sventolavano in aria i loro fazzoletti. Dopo il Te Deum e la
benedizione, l'arcivescovo condusse il re in sacristia, gli fece
vedere il tesoro, e gli diede a baciare le reliquie di santa
Rosalia.
Il re trov alla porta della cattedrale la carrozza attaccata
come desiderava. La sua casa militare lo circondava a piedi.
Si prese la via del palazzo reale.
Il re vi era aspettato da tutti i corpi costituiti. Egli non fece
che entrare per ricomparire al balcone. La piazza era piena
come la cattedrale. Pi di cento cinquantamila persone ne
nascondevano completamente il terreno colle loro teste.
Stor. della rivol. Sicil. Vol II.
Al
22
Quando si conosce il popolo siciliano, allora, solo allora,
si pu farsi un' idea del delirio che lo invase alla vista
del re.
Fu per questi obbligato di ritirarsi dal balcone, per rice
vere i corpi costituiti e rispondere ai loro discorsi. Egli lo
fece colla precisione e colla franchezza d'un militare.
Alle quattro di quel giorno medesimo ricevette un gran nu
mero di deputazioni giunte da tutte le parti dell'isola. Questo
ricevimento trattenne il re fino alle sei; mezz'ora dopo ri
cevette Mordini e s'intertenne con lui ragionando degli affari
della Sicilia. Alle ore 8 insieme al prodittatore e ai due mi
nistri and al teatro. Rappresentavasi l'Aroldo di Verdi e fu
preceduto da un inno composto per quella occasione. Nell'en
trare in teatro ripetuti applausi salutarono il re. Le acclama
zioni erano evviva Vittorio Emanuele, evviva l'Italia una, evviva
il re d'Italia.
Vittorio Emanuele rest in teatro fino alle 10,
e nel sortire trov gli stessi applausi, lo stesso entusiasmo,
gli stessi delirii. Quel di medesimo veniva pubblicato il se
guente proclama del re ai popoli della Sicilia.
Popoli della Sicilia!
Coll'animo profondamente commosso io metto il piede
in quest'isola illustre, che gi, quasi augurio dei presenti de
stini d'Italia, ebbe per principe uno degli avi miei; e che ai
giorni nostri elesse a suo re, il mio rimpianto fratello, e che
oggi mi chiama con unanime suffragio a stendere su di essa
i benefizii del viver libero e dell'unit nazionale.
Grandi cose in breve volger di tempo si sono operate,
grandi cose rimangono ad operarsi, ma ho la fede che con
l'aiuto di Dio, e della virt dei popoli italiani, noi condur
remo a compimento la magnanima impresa.
-
Il governo ch'io vengo ad instaurare sar governo di ri
parazione e di concordia. Esso, rispettando sinceramente la
religione, manterr salve le antichissime prerogative che sono
decoro della chiesa siciliana e presidio della potest civile,
fonder un'amministrazione la quale ristauri i principii d'una
societ bene ordinata, e con incessante progresso economico,
facendo rifiorire la fertilit del suolo, i suoi commerci e l'at
tivit della sua marina, renda a tutti proficui i doni che la
provvidenza ha largamente profusi sopra questa terra privi
legiata.
Siciliani !
La vostra storia, storia di grandi gesta e di generosi
ardimenti; ora tempo per voi, come per tutti gl'Italiani, di
mostrare all'Europa che, se sapemmo conquistare col valore
l'indipendenza e la libert, le sappiamo altres conservare col
l'unione degli animi e colle civili virt.
Palermo 1. dicembre, 1860.
VITTORIO EMANUELE
Il guardasigilli ministro di grazia e giustizia e degli affari ecclesiastici
G. B. CAssiNis.
Il giorno appresso che fu domenica, venne inaugurato dalla
presenza del re alla cappella di palazzo. Alle 11 di quel giorno
ebbe luogo la grande solennit del plebiscito. Il prodittatore
Mordini parl al re in questa guisa :
Sire l
Il popolo di Sicilia, convocato nei comizii dichiar, con
voti affermativi quattrocento trentaduemila e cinquantatr
contro seicentosessantasette, volere l'Italia una ed indivisibile
con Vittorio Emanuele re costituzionale e i suoi legittimi di
scendenti.
Questo plebiscito degno ugualmente, e del principe va
loroso e leale che giur restituire la patria all'antica gran
dezza, e del popolo generoso e forte che lo pronunzi, dopo
aver liberato s stesso ed aver gagliardamente concorso a li
berare sette milioni di fratelli italiani dalla pi efferata tiran
nide. Accoglietelo ora, gran re d'Italia, e la vostra solenne
accettazione sia per le genti libere e per quelle tuttora schiave
della penisola, pegno novello d'amore e di fede, di speranza
e di vittoria.
Alle belle parole del Mordini il re rispose ringraziando, con
la sua solita affabilit il prodittatore ed il popolo di Sicilia.
G24
Dopo l'accettazione del plebiscito Vittorio Emanuele ricevette
parecchi distinti personaggi coi quali s'intertenne sugli affari di
Sicilia. Trovavasi fra costoro Francesco Crispi col quale il re
parl pi di mezz'ora. Una deputazione di signore palermi
tane fu ammessa in presenza del re; quella deputazione ve
niva da parte di tutte le signore di Palermo ad offrirgli un
magnifico Album.
Volle quel giorno Vittorio Emanuele visitare il collegio mi
-
litare di Garibaldi, istituto veramente filantropico perch com
posto di trovatelli, d'orfani, e di fanciulli poveri.
Quegli allievi avevano gi la loro banda, e formati in bat
taglione facevano la parata a Porta Felice, quando il re entr
in Palermo.
Il re si mostr contento dell'istituto, e promise di fare per
quei giovani alunni quanto pi poteva.
Rapporteremo un curioso aneddoto. Dopo il plebiscito Mor
dini aveva chiesto al re il permesso di presentargli una depu
tazione della guardia dittatoriale istituita da Garibaldi e scelta
fra gli animi pi risoluti, ed i cuori pi generosi. Tutti co
loro che ne facevano parte avevano chi pi chi meno sofferto
per la patria. A questa proposizione di Mordini il re con la
sua solita naturale impazienza e con la sua franchezza mili
tare rispose: Immediatamente. Mordini si trov molto imba
razzato. Per fortuna gli stavano intorno quattro o cinque
guardie dittatoriali. Egli le prese per mano e le present al
re. Il re ricevette quei pochi con la pi grande affabilit e li
venne interrogando; il caso volle che essi posti in prigione da
Maniscalco avevano subita la tortura. Due avevano sofferto il
tormento della cuffia del silenzio, altri erano rimasti per trenta
giorni in guisa da dover mangiare come gli animali; essi rac
contavano al re i loro martirii. Il re nell'ascoltarli impallidiva
e pareva non potesse credere a tali orrori. Costoro conclu
devano la loro narrazione facendo al re questa domanda: Sire!
comprendete voi il nostro odio per quei miserabili? Il re
batt leggermente con la mano sulla spalla di uno di essi e
con accento di convincimento rispose: Certamente, signori, lo
comprendo.
-
Alle sei pomeridiane fu imbandito un lauto pranzo per ot
tantasei persone. Nell'ora che precedette il pranzo il re parl
con Mordini sullo stato delle strade interne della citt, delle
strade maestre e comunali, dell'industria, del commercio e
325
dell'agricoltura della Sicilia, cose tutte ridotte a lagrimevole
stato, e per le quali mostrava la pi grande premura. La sera
la citt era illuminata a giorno, Vittorio Emanuele anco quella
sera and al teatro e mostrossi sempre contento del popolo
palermitano.
Questo popolo pi lo avrebbe amato e pi sarebbesi affe
zionato alla sua dinastia, se Vittorio Emanuele avesse fatta in
Palermo pi lunga dimora, e tanto meglio se avesse intrapreso
un viaggio per l'interno dell'isola visitando eziandio Catania e
Messina. Ma il governo trovavasi nella via degli errori, e giorno
non doveva passare senza che ne commettesse dei nuovi e gra
vissimi. Fu affrettata la partenza del re per Napoli, e cos si
vide il popolo siciliano, amantissimo di Vittorio Emanuele, non
curato, ed il popolo napolitano freddo ed indifferente, acca
rezzato dalla presenza del sovrano. La storia deve occuparsi
di cose tali che apparentemente sembrano piccole, ma che
pure hanno grande importanza ove si considerano da un punto
di vista pratico e che domina le antipatie e le simpatie di due
popoli.
Non superfluo il ricordare che tra il popolo siciliano e
-
quello di Napoli esisteva da lungo tempo antipatia grandis
sima come suole accadere tra i dominatori e i dominati. Qua
lunque segno di preferenza verso Napoli doveva riuscire dis
piacevole ai Siciliani. Il fatto comprov questo che noi diciamo.
Quando fu annunciata la breve dimora del re in Palermo
ed il suo ritorno in Napoli, la cittadinanza palermitana mor
mor e lamentossi della politica governativa la quale nel re
golare nuovi popoli non voleva mettere a calcolo anco le pas
sioni e le gelosie municipali.
Il giorno 6 Vittorio Emanuele lasciava Palermo. La sua
partenza conosciuta da pochi non pot essere festeggiata come
lo era stato l'arrivo. Pure il re d'Italia non dimenticher mai
le dimostrazioni di affetto e di entusiasmo fatto dalla Sicilia
tutta a lui. Conviene anco dire che questo buon re non lasci
occasione alcuna per esternare la sua commozione, e per ma
festare le sue amorevoli intenzioni verso il popolo siciliano.
Diffatti nella lettera diretta al luogotenente generale, sono me
morabili le seguenti parole: Nel breve mio soggiorno in
questa nobile e gloriosa parte d'Italia, soggiorno che avrei
prolungato se le cure dello Stato non mi chiamassero al con
tinente, io riconobbi che se la natura dot largamente queste
generose popolazioni di svegliato ed acuto ingegno, pur tut
tavia in esse la istruzione del popolo richiede attenta vigi
lanza, direzione, soccorsi. Ebbi del pari a convincermi che per
moltiplici cagioni, fra cui non ultime le passate vicende poli
tiche, non poche persone trovansi ridotte a dolorose stret
tezze. A questi bisogni sta provvedendo con lodevole gara la
cittadina beneficenza, e nel mentre io le rendo questo giusto
tributo mi pur grato di associarmi ad essa. Ho quindi or
dinato che dalla mia cassetta particolare sia prelevata la somma
di lire duecentomila italiane per essere distribuita in aiuto
della istruzione popolare ed in opere di beneficenza. Ella avr
cura nel tempo stesso di studiare con la massima sollecitu
dine i pi urgenti bisogni delle provincie tutte dell'isola e
di presentarmene quanto prima apposita relazione . Da queste
espressioni e generosit, lecito inferire come Vittorio Ema
nuele avesse da parte sua tutta la buona volont per l'imme
gliamento della Sicilia.
Ma tutte le speranze si dileguano in faccia ai nuovi errori
commessi dal governo e specialmente dal conte di Cavour,
il quale facilmente lasciavasi strascinare da piccole passioni e
da bassi interessi. Ne parleremo nel seguente capitolo.
CAPIT0L0 XVII
Relazioni dei segretarii di Stato al proditta
tore di Sicilia. Partenza del prodittatore
Mordini. Nuovo governo in Sicilia.
La missione del proditattore Mordini era gi finita. I se
gretarii di Stato si affrettarono quindi a presentargli le rela
zioni ciascuno del proprio dicastero, alla vigilia di abbando
nare i loro scanni. Queste relazioni danno il quadro vero
della situazione della Sicilia. Comincieremo dal rapporto del
segretario di Stato per l'interno.
-
L'atto pi grande a cui naturalmente esso dovette rivol
gere l'attenzione era il plebiscito. Bisognava illuminare le varie
classi sul voto che stavano per dare, dileguare i dubbii, im
pedire qualunque influenza sulla libert del voto. Questo
grande atto era gi compiuto felicemente.
La guardia nazionale era stata la seconda cura del segre
tario di Stato per l'interno; esso ne aveva curato l'armamento,
l'organamento, la nomina degli uffiziali superiori, nulla trala
sciando perch questo palladio delle libert costituzionali si
elevasse all'altezza delle circostanze. Lo squilibrio nelle finanze
comunali, per l'abolizione del dazio sul macinato e ie spese
a carico dei comuni per il trionfo della causa nazionale, era
stato gradatamente riparato con imposte pi eque e soppor
tabili, dietro proposta dei consigli civici.
La pubblicazione della legge 23 ottobre 1859 sull'ordina
mento comunale aveva dato a pensare sulla scelta del perso
nale; ma il segretario ebbe la soddisfazione di potere asse
528
rire che la generalit dei reggenti le provincie e i comuni
erano persone su cui potevasi contare pel bene della patria.
Il consiglio di Stato era stato rifuso con uomini ligii alle li
bert costituzionali ed al nuovo governo.
Gli stabilimenti di pubblica beneficenza, lasciati dal governo
borbonico in condizioni miserevoli, e per fallite risorse man
-
canti allo scopo, erano stati dal governo dittatoriale sorvenuti.
Questi stabilimenti avevano uopo presso che tutti di radicale
riforma.
Si era tramutato l'ospizio di beneficenza in collegio mili
tare. Erasi stabilito coi rettori dell'ospizio Ventimigliano un
asilo sussidiario al collegio militare pei fanciulli che per l'et
non potevano essere accolti nel collegio militare principale.
Il medesimo segretario di Stato aveva rivolte le sue cure
ad indennizzare i danneggiati dal bombardamento borbonico,
e per ci fare si erano raccolte oblazioni volontarie, e cos
erasi giunto ad apprestare a molti infelici gli oggetti pi neces
sarii alla vita.
Erasi ancora pensato innoltre agli orfani dei martiri della
patria, agli inabili al lavoro per ferite ricevute, assegnando
loro pensioni, o sussidii, o oneste posizioni. Anco alla salute
pubblica avevasi avuto riguardo ed era stata pubblicata una
legge per tutelarla.
Sciolta con decreto dittatoriale l'antica direzione centrale
di statistica, perch fatta su basi ristrette ed insufficienti, se
non erasi potuto, ricomporre, erano per preparati molti la
vori statistici all'uopo utilissimi.
Il grande archivio e gli archivii principali trovandosi in con
dizioni materiali e morali deplorabilissime, e richiedendo l'at
tenzione del governo, questo aveva gi spedito a Napoli il si
gnor Benedetto Castiglia per istudiare il grande archivio di
quella capitale.
Anche dei condannati il governo aveva preso cura eleg
gendo una commissione per istudiare lo stato del carcere cen
trale di Palermo e per proporne i miglioramenti. Per erasi
provveduto ad un maggiore nutrimento ai carcerati.
Il segretario di Stato per l'Interno, Enrico Parisi, chiu
dendo il suo rapporto, diceva che se il fatto era poco al con
fronto del molto da farsi, era stato non pertanto tutto il pos
sibile nel breve tempo della gestione.
La relazione del segretario di Stato per la guerra signor
539
Fabrizi riducevasi a quanto segue. Primo suo cmpito fu ri
conoscere e classificare gli aventi diritti alla riconoscenza della
patria, per ferite toccate in sua difesa. Fu perci decretato un
ospizio per gl'invalidi militari, il quale ora sorge affidato alle
cure di un distinto veterano.
La formazione di un esercito fu nelle speranze del segre
tario di Stato; ma egli trov una gran quantit d'ufficiali, e
fra questi persone intruse, per improntitudini poco degne ed
anche affatto indegne del grado per cui l'organizzazione del
l'esercito fu cosa difficilissima.
Alcuni degli ufficiali combattevano ed erano senza brevetto
di nomina; molti invece, oziosi in Sicilia, erano muniti di
regolare brevetto di nomina. L'irregolarit dei soldi, per al
cuni affatto abusivi, fu un altro incaglio. Mentre gli ufficiali
combattenti si accontentavano di due franchi al giorno, gli
oziosi avevano due terzi del soldo di tariffa, altri avevano
soldo intiero, altri soldo di deposito, e le contabilit perci
erano complicatissime.
Il segretario di Stato per la guerra determin che i due
terzi del soldo corressero per gli ufficiali in attivit e i due
-
franchi al giorno per gli ufficiali oziosi. Finalmente egli ap
plic la tariffa nazionale pel soldo delle truppe, ugualmente
per tutte.
Si fece un primo scrutinio degli ufficiali, semplificando la
situazione ad un ulteriore generale scrutinio; nominando una
commissione mista di militari d'antico servizio e cittadini co
noscitori degl'individui siciliani, o in posizione di poterli co
Il0SCOI'8.
La segreteria di Stato per la guerra era ingombra di per
sonale, ma non si pot ridurre per opposizione costante a
questa misura.
Il ministro segretario di Stato per la guerra si loda del corpo
del genio e dell'artiglieria, che, composto tutto di persone tec
niche, diede ottimi risultati.
La formazione del corpo dei reali carabinieri fu una delle
maggiori attenzioni del segretario di Stato: ed ora due reggi
menti di carabinieri, formati da persone morali ed intelli
genti, concorrono a mantenere l'ordine pubblico in Sicilia.
Gli ospedali militari, i comandi militari di provincia, i tri
bunali militari ora esistono e funzionano regolarmente.
L'amministrazione e l'intendenza militare trovarono diffi
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II,
42
530
colt immense: eppure le truppe furono tutte vestite, se non
giusta i modelli di regolare abbigliamento, almeno coperti di
cappotti passabilmente uniformi. L'intendenza pot vestire di
cappotti financo la guardia nazionale di varie provincie. Tutti
i corpi furono armati, e formata parte della guardia nazionale.
Nessuna nomina nuova d'ufficiale venne fatta, se non dopo
esame e scrutinio.
I decreti di nomina non si pot regolarli come si sarebbe
pur voluto, e il segretario di Stato affermava che gran parte
degli ufficiali del contingente siciliano in terra-ferma, cio di
quelli che fecero la campagna, mancavano di brevetto regolare
e non erano notati sui quadri della segreteria di guerra. Il se
gretario di Stato trovava di suprema necessit uno scrutinio
che facesse giustizia al merito.
Finalmente il ministero della guerra stava organizzando la
leva ed anzi era gi seguito il sorteggio in certe divisioni,
quando il prossimo succedere di un nuovo governo consigliava
a sospenderla.
Il segretario di Stato per gli affari di grazia e di giustizia,
signor Scroffani nel suo rapporto diceva come il decreto dit
tatoriale del 14 maggio atterrava l'edificio della siciliana ma
gistratura e come era primo dovere e primo bisogno il rico
struirlo.
A questo aveva inteso il segretario per gli affari di grazia
e giustizia, onde era che l'edificio nuovo cominciasse gi a
sorgere. L'abolizione delle decime personali, la conversione in
denaro di qualunque prestazione ecclesiastica che fosse dovuta
in natura, la redimibilit di esse furono le altre cure del si
gnor Scroffani, merc le quali molte propriet rurali che da
lungo tempo giacevano in abbandono vennero restituite al
commercio.
Il rapporto del segretario di Stato per l'istruzione pubblica
e per il culto diceva: che la pubblica istruzione era stata osteg
giata sempre e per sistema dal governo borbonico, che quindi
miserrimo era lo stato di essa allo installarsi del governo dit
tatoriale; diffatti solo nelle citt principali e nei comuni pi
popolati dell'isola vi erano scuole elementari; la massima
parte dei villaggi ne erano sprovvisti, o non gli avevano che
di nome. Nessuna scuola tecnica, e, eccettuato qualcuna di
fondazione privata, nessuno istituto d'insegnamento speciale.
Tre licei soli in tutta l'isola per l'insegnamento secondario
531
classico, pochi ginnasii fondati per la maggior parte dai pri
vati o dai comuni, e retti con vecchi metodi. Le universit seb
bene in numero di sole tre, trascurate dal governo in modo
che, molte cattedre di scienze naturali, e molte della facolt
filosofica e letteraria mancavano. L'insegnamento del diritto
e delle discipline sociali imperfetto e monco nelle sue parti
vitali.
I gabinetti e musei sprovvisti di tutto, i professori rimune
rati con poco pi di due franchi al giorno, e di tre quelli della
capitale Palermo, ridotti perci a penare la vita.
Una riforma radicale era divenuta necessariissima; quindi
fu pubblicata la legge sull'istruzione promulgata in Torino il
13 novembre 1859, con qualche modificazione richiesta dalle
impellenti necessit dell'isola. Non volendo per altro scemar
nulla di quel poco di buono che vi avevano lasciato i Borboni
si mantennero le tre universit di Palermo, Messina e Catania,
procurando un maggiore sviluppo alla prima, e distribuendo
gl'insegnamenti in modo che, fra tutte e tre, le universit
presentassero un tutto compiuto e perfetto.
Lo stipendio dei professori fu pareggiato a quello del re
sto d'Italia; furono convenevolmente dotati i laboratorii ed i
gabinetti scientifici, coll'aver loro assegnata la somma di sei
milioni sul bilancio dello Stato. Si fondarono ginnasii in tutte
le citt Capi-circondarii e licei, nelle citt Capo-provincie ag
giungendovi delle scuole tecniche. I Municipii vennero obbli
gati all'istruzione elementare. In Palermo, Messina e Catania
si formarono scuole normali pei maestri.
Essendo stati devoluti al Ministero dell'istruzione i beni
dei gesuiti e dei liguorini, e considerando che alcuni citta
dini di Modica avevano lasciato pingue eredit a quegli ordini,
affinch curassero l'istruzione, si eresse in quella citt un liceo
invece di un ginnasio.
I beni dei gesuiti e liguorini erano stati messi in vendita
affine di trarne somma utile per l'istruzione, e fare un bene
al paese rendendo a mani vive i molti tenimenti degli ordini
soppressi.
Un ginnasio ed un liceo sorgevano di gi in Palermo, mo
dello agli altri; eransi creati posti gratis per facilitare lo studio
alle classi meno agiate.
Passando all'altro dicastero, il Culto, il signor Gregorio
Ugdulena diceva nel suo rapporto essergli mancato il tempo
52
di attivare una radicale riforma che pure abbisognava in quel
ramo di pubblico servizio e che era anzi una necessit.
ll governo non aveva adunque potuto far molto, ma un prov
vedimento gi adottato sarebbe tornato utilissimo al paese;
questo provvedimento era la censuazione dei beni delle mani
morte. Il governo aveva provveduto ancora affinch i beneficii
e le chiese vacanti venissero coperti da persone probe ed as
sennate. Aveva esercitato sulla disciplina ecclesiastica quella
sorveglianza che compete al capo dello Stato e specialmente
in Sicilia dietro privilegio di Urbano II e la bolla di Bene
detto XIII. Questo privilegio era stato intaccato da Pio IX
nel 1856 con un Breve; ma il governo aveva dichiarato nullo
il Breve del papa. Indi il segretario di Stato per il culto pas
sava a giustificare con la sua relazione il decreto del 19 otto
bre col quale si revocava il rescritto di Ferdinando II che
dava forza al Breve pontificio.
Il rapporto del segretario di Stato per la pubblica sicu
rezza diceva che sebbene all'epoca in che il signor Tamaio as
sunse il suo ufficio, l'insurrezione fosse cessata, lo spirito di
essa perdurava ancora; era perci assai difficile l'incarico as
sunto, per il Tamaio aveva trovato molte cose operate dai
suoi predecessori come i decreti 17 e 19 maggio, la milizia
a cavallo, le commissioni speciali colle leggi 8 e 9 giugno,
quindi la legge organica sulla questura del 17 agosto e 30
detto che chiamava in vigore le leggi 13 novembre 1859, 8
e 9 gennaio 1860 su questo argomento pubblicato nell'alta
Italia.
Il segretario aveva quindi provveduto ai funzionarii, all'ar
mamento di essi ed al riordinamento della segreteria. Difficile
incarico era stato quello di formare i quadri degli agenti at
tivi della polizia, stante l'odio e lo sprezzo che si erano me
ritati gli agenti borbonici; pure erasi arrivato ad ordinare un
buon numero di questi funzionari che gi facevano regolare e
bonissimo servizio. Le compagnie dei militi a cavallo non erano
ancora a buon punto di organizzazione, ma si sperava che lo sa
rebbero stato fra non molto.
La mendicit, l'accattonaggio appositamente trascurati da un
governo che non trov mai bastevoli i mezzi a conculcare la
umana dignit, aveva destato tutte le sollecitudini del Tamaio,
il quale vi aveva provveduto coll'istituire un ricovero di men
dici ed un ospedale, vigilando sull'igiene pubblica e su quanto
poteva influire sulla classe misera della popolazione. Aveva
inoltre ripristinati i passaporti per l'interno, i permessi d'armi,
e vietato giuochi d'azzardo nelle pubbliche vie. Aveva volto le
sue sollecitudini eziandio al contrabbando ed alle prigioni: al
primo con ordini appositi, alle seconde con provvedimenti
transitorii in attesa di una radicale riforma nel sistema peni
tenziario. Finalmente il segretario di Stato per la pubblica si
curezza parlava del suo mandato politico dicendo che l'odio
al Borbone essendo universale in Sicilia non l'obbligava a com
battere con partiti nemici al nuovo regime.
Nel rapporto del segretario di Stato per le Finanze dicevasi
che la soppressione del dazio sul macinato e di quello della
carta bollata, che rendevano alle Finanze 3,883,000 ducati
annui aveva reso assai difficile l'incarico del segretariato per
le finanze, giacch oltre a questa rendita mancata per diritto,
lo Stato di disorganizzazione dell'isola aveva annullata e quasi
impossibilitata la percezione delle altre rendite nel momento
che pi aumentavano le spese.
In tali disperate circostanze, il signor Peranni, segretario di
Stato per le Finanze aveva ricorso al credito. Il tesoro del
banco essendo rimasto intatto, il governo aveva potuto pagare
gli stipendii e le spese indispensabili, non che gl'interessi del
debito pubblico, talch i fondi avevano sempre mantenuto un
corso al di l del pari.
Le spese per armi, navi, munizioni, abbigliamenti, vettovaglie,
ed altro erano state sostenute senza imporre nuovi balzelli,
tranne quello del due per cento sui beni dei corpi morali ec
clesiastici.
Il predecessore del Peranni, con decreto 27 agosto, aveva
creato 800 mila ducati di nuova rendita, ma riconosceva nel
tempo stesso il prestito siciliano nel 1848, talch l'effettivo
entrato realmente in cassa aveva raggiunto solo la cifra di du
cati 1,545,653. 37 essendosi scambiate colle cartelle del nuovo
prestito quelle del 1848 per un valore di ducati 1,164,587.71;
avendo cosi provveduto ai primi bisogni delle finanze, il Pe.
ranni aveva pensato alle dogane ribassate dal suo predeces
sore con decreto 2 settembre; e dietro una maggiore custodia
delle spiaggie, e con altre acconce misure adottate, si erano
accresciuti i prodotti doganali. Il prezzo d'entrata dell'olio era
stato ridotto, distrutto ogni ostacolo, al libero commercio dei
cereali.
554
La mancanza di forza nell'interno dell'isola aveva ritardato
le riscossione della tassa finanziaria e di quella del 2 per /o
sui beni dei corpi morali. Quindi era stato adottato di far
pagare una multa a chi ne avesse ritardato di otto giorni il
pagamento dalla data delle scadenze in aprile e in agosto, ed
altri espedienti erano stati presi atti a far entrare le rendite
nelle casse dello Stato.
Da molto tempo gl'interessi del commercio reclamavano in
Sicilia la istituzione di una banca di circolazione. Con decreto
18 ottobre era stato concesso ai signori Vincenzo e Ignazio
Florio di costituirsi in societ commerciale, per tenere somme
in deposito gratuitamente, fare anticipazione, scontare effetti
di commercio, trarre o rimettere all'interno e all'estero, e
riscuotere e pagare per conto della finanza.
I municipii di Sicilia gemevano da pi secoli sotto il peso
di gravi debiti costituiti, di spettanza per dello Stato intero,
talch era giustizia alleviarli e sollevare le popolazioni per
mettendo ai Comuni di ribassare il dazio di consumo. Con
decreto 31 ottobre erasi stabilita la libert di commercio tra
la Sicilia e il resto d'Italia. Coi decreti 17, 18, e 20 ottobre
e col regolamento 3 novembre erasi ordinata la vendita dei
beni dei gesuiti. Una tassa ingiusta ed odiosa menomava gli sti
pendii degl'impiegati; essa era stata abolita, estendendo l'a
bolizione alle tasse sulle pensioni.
Era urgente riorganizzare la gran Corte dei Conti, e lo fu
col decreto del 14 ottobre.
La segreteria di Stato per le finanze, rigurgitante di impie
gati erasi organizzata con decreto 10 ottobre, e riorganizzati
egualmente erano stati gli ufficii della tesoreria generale e della
direzione del gran libro, riducendo di 40 il numero degl'im
piegati. Fra tutte le cure, quella del personale era stata la pi
spinosa.
Finalmente il segretario di Stato per le Finanze, come egli
stesso diceva, lasciava l'erario nazionale, n in posizione lu
singhiera, n in posizione disperante.
Il segretario di Stato per gli affari esteri e commercio nel suo
rapporto esponeva che il governo borbonico dipingeva all'estero
con neri colori la rivoluzione siciliana, e che perci era stato
suo primo dovere combattere l'opera dei Borboni; perci si
erano spediti a Torino il conte Amari, a Londra il principe Pan
dolfina, a Parigi il principe di San Cataldo, formolando poscia
-
555
un programma che annunziava ai governi esteri le ragioni che
avevano mosso i popoli di Sicilia a sottrarsi al giogo di un go
verno tirannico.
Era urgente garantire gl'interessi commerciali e personali
dei Siciliani all'estero. Era urgente un ufficio che provvedesse
di carte legali coloro che recavansi fuori dell'isola; era final
mente importante pensare ai modi di dotare la Sicilia di quelle
istituzioni commerciali che potevano accrescere la ricchezza
pubblica.
Ora, i rappresentanti della Sicilia all'estero avevano avuto
per solo ed inalterabile programma: L'Italia una sotto lo scettro
di Vittorio Emanuele. I consoli e vice-consoli dell'isola all'estero
avevano avuto ordine di sorvegliare con cura le relazioni com
merciali dei Siciliani. Si erano nominati sensali di commercio
ove il bisogno di essi erasi fatto sentire. Si aveva presentato
al governo del re un progetto di cabottaggio, e finalmente il
signor Piraino diceva che questo progetto, condotto a termine
dal segretario reggente la finanza era stato coronato da feli
G1SSIII10 SUlCC0SS0.
Da questi rapporti dei segretarii di Stato si pu in qualche
modo dedurre la situazione politica ed amministrativa della
Sicilia, e formarsi una qualche idea degli effetti buoni o cat
tivi del governo prodittatoriale.
N i prodittatori, n i segretarii di Stato che essi sceglie
vano erano uomini di governo. Atti a sostenere ed a propu
gnare un opinione politica, essi non avevano la pratica del go
vernare, n potevano perci conoscere i bisogni tutti del paese,
n sapevano trovar modo di soddisfarli quando li avessero co
nosciuti. Alla insufficienza degli uomini vuole essere aggiunta
la difficolt dei tempi e delle circostanze; difficolt che hanno
gran peso nella bilancia della giusta estimazione, e che gran
demente influiscono sul nome e sulla reputazione delle per
sone. Il popolo siciliano, abbandonato dal goveruo borbonico
all'ignoranza e alla rozzezza non poteva comprendere la na
tura di quella libert politica alla quale sorgeva, n il valore
delle istituzioni liberali, n il rispetto che si doveva alle nuove
leggi. Generalmente parlando, i popoli nei tempi di rivoluzione
Vogliono un poco fare da s come signori e padroni di s stessi,
ed ordinariamente inclinano a procurarsi dei vantaggi mate
riali ed a sfogare delle basse passioni. Poi quanto meno un
popolo istruito tanto pi trascorre in miserabili eccessi che
tanto nuocciono alle cause giuste della umanit.
Il popolo siciliano dal giorno della rivoluzione in poi erasi
mostrato renitente a pagar le tasse, e molto corrivo agli omi
cidii ed alle particolari vendette. Il governo mancava della forza
necessaria per farsi rispettare, la poca forza che aveva non vo
leva usare per non dispiacere alle popolazioni, e perci era una
assoluta necessit il mal governo.
Aggiungeremo a questo la potentissima cagione di molti
mali che era l'opposizione aperta e violenta che i partiti si
facevano l'un l'altro. Questa opposizione aveva la sua sorgente
nell'essere pi o meno annessionista, nell'essere o no cavou
riano, nell'appartenere al partito democratico o alla consor
teria di Torino. L'opposizione non limitavasi alle semplici di
scussioni, essa scendeva nelle piazze e manifestavasi con im
ponenti dimostrazioni, qualche volta minaccianti forti e molte
plici disordini. Or l'opposizione da una parte recava continui
cangiamenti nei segretarii di Stato, e dall'altra creava infinite
difficolt all'attuazione delle leggi, ed all'assestamento delle
cose. Segretari nuovi nulla potevano fare senza prima infor
marsi di tutto e conoscere in che stato si era e a quale stato
si doveva giungere. Segretari in opposizione di altri partiti tro
vavano in questi partiti gli ostacoli non piccoli alle proprie ope
razioni. Talch puossi dire che in tutti, sopra l'amore di patria,
prevalessero le passioni politiche, gli interessi personali, e che
le ambizioni misere di alcuni intriganti mettevano in pericolo
ci che i valorosi sui campi di battaglia acquistavano a prezzo
del proprio sangue.
Ad ogni modo, il governo prodittatoriale aveva gittate al
cune basi per edificare l'avvenire della Sicilia; molto pi
avrebbe fatto se anch'esso non si fosse costituito in consor
teria, e se non avesse obliato anch'esso i veri liberali. Per
ciocch giusto si dica che la democrazia che accusava di
consorteria il ministero di Torino, era una consorteria essa
stessa, e forse pi ristretta, pi esclusiva, pi assoluta, pi
parziale.
Il seguente indirizzo di Mordini ai segretarii di Stato rivela
ancor meglio ci che erasi fatto, ci che dovevasi fare, il cm
pito che doveva adempiersi dal suo successore.
557
Signori segretarii di Stato !
Vicino a separarmi da voi sento il dovere di rivolgervi
una parola d'affetto e di riconoscenza.
Voi mi foste compagni fedeli, consiglieri sagaci in una
delle missioni pi ardite che ricordi la storia, ed merito
vostro in grandissima parte se con tanta felicit io potei con
durre a salvamento la cosa pubblica.
La lealt delle intenzioni, la franchezza del dire, l'amore
della conciliazione trasportato con assidua cura dalle parole
nei fatti, e la perseverante fatica nel bene sono state le sole
arti da me coscienziosamente indicate, da voi diligentemente
praticate.
Oggi che una mirabile universale concordia lega in un pro
posito solo le menti tutte e i cuori dei Siciliani, oggi che la
vittoria di tutti, e la disfatta di nessuno, oggi meglio che in
-
un altro momento passato ci dato misurare i pericoli corsi,
le difficolt superate, felicitarci del presente e bene augurarci
dell'avvenire di questa nostra isola diletta.
Se di qualche cosa possiamo dolerci solo del tempo che
inesorabilmente breve, non ha permesso che per noi si com
pisse il glorioso mandato lasciato da Garibaldi.
Ad ogni modo non ci rattenne certo considerazione di sorta
dal porre con ardimento la mano all'opera della grande ri
parazione sociale e civile a favore d'una terra destinata
alla pi florida civilt, ma che la tirannide troppo spesso tent
di condannare alla barbarie.
. E se dovemmo necessariamente rinunciare sin da prin
cipio all'idea consolante di lasciar compiuto il riordinamento
dello Stato trovammo nel nostro cuore e nelle nostre convin
Zioni tanta forza da trar profitto d'una rara opportunit per
v
dichiarare almeno, e praticatamente avviare alcuni grandi
principii di governo civile.
Lanciammo dunque senza esitanza a piene mani i semi
econdi
delle migliorie reclamate dalle condizioni attuali della
Sicilia, fidenti che il governo di Vittorio Emanuele compir
alacremente l'opera nostra, che del resto aspetta il finale sug
gello del gran parlamento nazionale.
Alla eguaglianza provvedemmo col distruggere gli ultimi
avanzi di vieti privilegi.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
15
558
Alla fratellanza, col fare del perdono il nobile strumento
di riabilitazione civile da un lato, di sicurezza interna dello
Stato dall'altro.
All'autorit riordinando l'amministrazione governativa nelle
provincie e nei circondarii, ricostituendo la magistratura, collo
cando sopra solide basi la istituzione dei reali carabinieri e
delle guardie di pubblica sicurezza.
Alla educazione popolare ed alla pubblica istruzione, lar
gamente dotandole, fondando sale d'asilo in tutta l'isola, de
cretando scuole maschili e femminili in tutti i Comuni, gin
nasi, licei, istituti d'arti e mestieri, agronomici, veterinari, nau
tici, e la riforma delle tre Universit di Palermo, Catania e
Messina.
Alla prosperit materiale, sdebitando i comuni, perch si
apra gradatamente la via alla soppressione dei dazii di consumo
che colpiscono la classe pi povera della societ, abolendo le
decime, decretando la vendita dei beni demaniali, dando a
censo, tesoro inestimabile, tutti i beni delle mani-morte, creando
sotto la scorta dei pi savii principii di pubblica economia
una banca di sconto, d'emissione e di circolazione.
Questo facemmo nel breve spazio di un mese, senza par
lare della probit privata e della onesta politica tenute in ono
ranza massima e considerata come perno della civile ammini
strazione, senza parlare della riconoscenza nazionale verso i
gloriosi feriti nelle battaglie immortali della libert, ai quali
abbiamo assicurato l'avvenire decretando le pi legittime di
tutte le promozioni, ed assegnando le pi onorate di tutte le
pensioni, senza parlare della pubblica beneficenza, visitando con
amore studioso del meglio i numerosi stabilimenti che da quella
prendono il nome in Palermo, e soccorrendo alla miseria non
meritata e modesta ovunque fu data scoprirla.
Ma ci ha un atto governativo che ad ogni modo non posso
trascurare di ricordarvi, voglio dire la creazione d'un consiglio
di Stato straordinario e temporaneo, incaricato di studiare ed
esporre al governo del re quali sarebbero, nella costituzione
della gran famiglia italiana, gli ordini e le istituzioni su cui
convenga portare speciale attenzione, perch rimangano perfet
tamente conciliati i bisogni peculiari della Sicilia con quelli ge
nerali dell'unit e prosperit della nazione italiana. Ora se i
Siciliani m'ascoltano, io credo aver loro offerto nel consiglio
di Stato straordinario tale un argomento di concordia, tale un
539
campo di operosit fratellevole, tale un incamminamento a pi
sicuro avvenire, da ritenere che l'autorevole risultato dei suoi
lavori, abbench l'indole meramente consultiva, possa meri
tare la pi seria considerazione da parte del governo del re
e del nazionale parlamento, e procacciare che la vita regio
nale dell'isola liberamente ed ampiamente si svolga, con ar
monia impareggiabile, in quella generale della gran patria
COIIlllIl0.
Signori, al pari di me, voi non nudrite certo la meschina pre
tensione di non avere errato mai durante la gestione vostra;
ma tanto voi che io abbiamo la coscienza che il buon volere
da me promesso quando assunsi il potere dittatoriale, non ci
venuto mai meno, che non siamo stati mai Governo di par
tito, e che non abbiamo risparmiato fatica alcuna, che in qual
che modo potesse contribuire al pubblico bene.
Ampia ricompensa del nostro lavoro abbiamo gi ottenuto
nella soddisfazione di vedere conservata, come se avessero
traversato tempi normalissimi, la pubblica tranquillit. Esito a
citare le testimonianze, perch dovrei invitare tutta una gente,
amici e avversari compresi, ma se taccio di tutti debito mio
come prodittatore d'un popolo, che, appena nato alla libert,
gi grande s'alza e promette vincere i pi provetti, debito
mio d'invocare davanti al tribunale della pubblica opinione
d'Europa, tutta meravigliata di sentire che in nome del pi
virtuoso, del pi puro degli uomini, io potessi fare aspro go
verno d'un popolo generoso, e colle male arti, e col terrore
schiudermi la via al tradimento.
Ricompensa anche pi ampia e pi bella avemmo, o signori,
nella giornata d'ieri. Il popolo, da me amato perch lo cono
sco, lasciato padrone assoluto di s, vendic s, vendic voi,
vendica me col pi stupendo contegno che penna di storico
possa mai registrare. Fu giornata degna dei pi bei tempi di
Grecia e di Roma, l'isola tutta volle porgere al mondo lo stesso
esempio di questa citt.
Signori, io mi rallegro con voi per questi splendidi risul
tati della politica, ch'io ebbi la fortuna d'iniziare in Sicilia.
Io mi rallegro con voi, e vi ringrazio perch merc vostra
io potr quanto prima depositare rispettata e circondata di pre
stigio, nelle mani dell'onorando personaggio che viene in Sicilia
rappresentante il Re Galantuomo, l'autorit dittatoriale alle mie
mani affidata da Garibaldi.
340
Gradite, signori segretarii di Stato, gli attestati della mia
gratitudine e della mia stima.
Il prodittatore MonDINI.
Dal precedente documento si rileva la creazione d'un Con
siglio di Stato straordinario e temporaneo destinato a studiare
i veri interessi dell'isola e a riferire al governo del Re i modi
come assestare la Sicilia nel grande compaginamento delle va
rie provincie italiane,
A meglio comprendere le ragioni che avevano indotto Mor
dini a creare questo Consiglio di Stato bisogna conoscere che
per la sistemazione generale d'Italia si agitava in Torino un
sistema detto regionale che volevasi adottare per lasciare alle
Provincie una certa autonomia amministrativa. Questo progetto
siccome accarezzava gl'interessi delle grandi citt era stato al
tamente lodato da molti, e pareva dovesse essere adottato
unanimemente dalle Camere alla prima apertura del Parlamento.
Autore del progetto era stato il ministro Farini, ed il suo suc
cessore ministro Minghetti continuava a sostenerlo.
Sulla certezza perci che finalmente il sistema delle regioni
prevalesse nei consigli del governo, Mordini poteva creare
quel Consiglio di Stato che avrebbe messo sotto gli occhi del
governo la situazione economica della Sicilia, ed additategli
le maniere di reggerla e governarla per potere sviluppare tutta
la sua interna ricchezza, e per riuscire cos a rendere van
taggi grandi allo Stato ed alle sicule popolazioni.
Il sistema regionale non fu adottato perch parve in oppo
sizione all'indirizzo politico per il quale Italia tutta camminava
onde pervenire alla sospirata meta della unit nazionale.
E per fermo, le regioni avrebbero in qualche modo lasciato
sussistere in Italia le antiche delimitazioni e quei vecchi con
fini che indicavano la penisola in pezzi divisa sotto varii do
minatori; gli Italiani avrebbero avuto sempre una Lombardia,
un Piemonte, una Toscana, una Sicilia, ecc. ci che appunto
volevasi distruggere perch questa Italia fosse veramente una.
Il sistema di accentramento, contrario a quello regionale se
non aveva tutti i vantaggi economici, aveva di certo per s tutti
i vantaggi politici.
Come la
Sicilia venisse in appresso governata dai
Luogo
341
tenenti del re, i nostri lettori vedranno dai futuri capitoli. Per
. ora ci limitiamo a concludere che se il governo dittatoriale
non aveva saputo n potuto far molto, poteva per lo meno van
tare molta buona volont, ci che pure qualche cosa ove si
parli di persone.
Mordini lasciava la Sicilia accompagnato dai voti e dalle fe
licitazioni dei liberali. Come tutti gli uomini di governo egli
lasciava dietro di s amori ed odii, contenti e malcontenti,
amici e nemici. Nell'insieme per l'isola mostravasi contenta
del suo operato, forse per la semplice ragione che egli era un
liberale e un buon amico di Garibaldi.
Passeremo ora a parlare del nuovo governo di Sicilia, del
governo del re, stabilito e decretato dal conte di Cavour.
Mai fu cos vero che gli uomini grandi cadano in errori gran
dissimi quanto in questa circostanza del nuovo governo di Si
cilia. Dopo i fatti che si erano anteriormente passati, il conte
di Cavour per ira, a lui connaturale, era giunto a detestare
Garibaldi e ad abborrire, anzi ad odiare il partito democratico.
Anzich amore e carit di patria parlarono in quei giorni
al suo cuore gli odii ed i rancori personali, e da queste basse
passioni miseramente trascinato, non solo mise in pericolo la
quiete d'ltalia, ma port macchia al proprio nome, e fecesi
compatire da tutta Italia, non esclusi i suoi stessi amici. I
nostri lettori ricordano come Garibaldi cacciasse dalla Sicilia
La Farina e Cordova, e come la popolazione dell'Isola ripro
vasse altamente le mene di questi due agenti ministeriali.
Ora il conte di Cavour aveva giurato di vendicarsi, e non
appena il governo dittatoriale finisce, egli manda in Sicilia La
Farina e Cordova per coadiuvare Montezemolo, luogotenente
del re in Palermo. Lo stesso Montezemolo parve scelto ap
posta per irritare il cuore di Garibaldi, perciocch governatore
di Nizza quando quella provincia fu ceduta alla Francia era ap
punto Montezemolo.
Quando per tutta Italia corse voce dei nuovi governatori
di Sicilia, tutti unanimemente ne furono sdegnati, gridarono
la croce al conte di Cavour, e dissero che il primo ministro
avrebbe dovuto rispettare Garibaldi, e non provocare malu
mori nuovi in Sicilia, in quella terra che a Garibaldi aveva
alzato un altare, e formato un culto.
Noi pensiamo che il conte di Cavour non abbia recato tanto
male al proprio nome cedendo Nizza e Savoia alla Francia,
542
quanto ne rec mandando successore di Mordini Montezemolo
e segretarii di Stato La Farina e Cordova. Un governo cos
pazzamente creato, e ad onta della pubblica opinione di tali
uomini costituito, non poteva reggersi a lungo, e realmente non
pot reggersi, come i lettori di queste storie vedranno.
Il giorno 4 dicembre, il marchese di Montezemolo, luogo
tenente generale del re nominava con suo decreto consiglieri
di luogotenenza ed incaricati i signori:
Giuseppe La Farina consigliere di Stato del dicastero del
l'Interno e della sicurezza pubblica.
Avvocato Matteo. Reali, del dicastero di grazia e giustizia e
degli affari ecclesiastici.
Filippo Cordova, del dicastero delle finanze, agricoltura e
commercio.
Barone Casimiro Pisani, del dicastero della pubblica istru
Z10Ile.
Principe Romoaldo Trigona di S. Elia, del dicastero dei la
vori pubblici.
Segretario generale della luogotenenza era nominato il ba
rone Giacinto Tholosano di Valgrisanche.
Fu nominato segretario generale del dicastero dell'istruzione
-
pubblica il professore Paolo Morello. A segretario del dicastero
dei lavori pubblici, il professore Federico Napoli, a segretario
del dicastero dell'Interno e sicurezza pubblica l'avvocato
Gaetano Deltignoso. A segretario del dicastero di grazia e giu
stizia ed affari ecclesiastici, il barone avvocato Bartolomeo
Dondes Rao. Nomi tutti mediocri ove si eccettui quello di
Paolo Morello, versatissimo nelle scienze e nelle lettere, di
anima e di coscienza immacolata.
Intanto il giorno 5 dicembre Montezemolo parlava ai Siciliani
col seguente proclama:
Siciliani,
I vostri voti furono compiuti. Vittorio Emanuele, il re
galantuomo, che primi nell'Italia meridionale voi invocaste, in
sorgendo in nome del diritto nazionale e della libert, stende
su quest'isola gloriosa il suo scettro costituzionale per assi
curare i diritti della nazione italiana e la libert cittadina. Il
patto di fiducia e di amore tra la Sicilia e la dinastia Sabauda
545
antico. L'atto del 2 dicembre 1860 che con solenne sanzione
consacra l'espressione del voto universale si rannoda per voi
all'atto dell'11 luglio 1848 con cui i vostri rappresentanti
deferivano ad un augusto e rimpianto principe la corona sici
liana, e la storia li rannoder entrambi ai fatti del 1713 al
lorch la bianca croce di Savoia sventolando contemporanea
mente sull'Alpi e sull'Etna rivel il grande concetto politico
che dato finalmente all'erede di Vittorio Amedeo di recare
in atto a benefizio e gloria della patria italiana.
Siciliani
Ponendo il piede nell'Italia meridionale il re ha detto:
noi dobbiamo instaurare un governo che dia guarentigia di
viver libero ai popoli, di severa probit alla pubblica opinione.
E toccando la spiaggia palermitana disse: il governo che qui
vengo ad instaurare sar governo di riparazione e di concordia.
Onorato dell'alto officio di portare a compimento le generose
e provvide intenzioni del re nelle provincie siciliane, io do mando pel suo governo il concorso delle intelligenze e della
volont vostra; io domando spirito di conciliazione e di con
cordia. Domando rispetto all'ordine, sola base su cui possono
stabilmente fondarsi la sicurezza e la prosperit pubblica. Aspet
tando che il parlamento italiano rechi a compimento l'edifizio
gloriosamente innalzato dal re e dai popoli d'Italia, sar cura
di questo governo il recare negli ordinamenti della Sicilia
l' indirizzo e le riforme strettamente richieste dall'acclamata
comunanza di destini e d'istituzioni politiche con la monarchia
nazionale.
Noi dobbiamo mantenere inviolato l'impero della reli
gione, conservando intatte le immunit della chiesa siciliana
ed i diritti della societ civile, agevolare a tutte le classi del
popolo per mezzo della pubblica istruzione il conseguimento
di quei beni materiali ed immateriali che accompagnano un'a
vanzata civilt; dare impulso e vita alle industrie ed ai com
merci, tutelandone la libert, aprendo le necessarie comunica
zioni, e patronando quelle istituzioni che conferiscono allo svi
luppo della loro attivit. Noi dobbiamo istantemente provve
dere alla finanza, stremata nel corso di un periodo di crisi
col portare una scrupolosa economia nella distribuzione del
pubblico danaro, ed attivando le fonti dell'erario esausto, il
544
governo del re consacrer a questi grandi fini tutte le sue
forze, tutte le sue cure.
Siciliani /
Voi foste grandi nella lotta, e guidati da un eroe a cui
un'aureola di virt antica fa riverente quanto grato ogni buono
italiano, voi daste prova all'Italia della vostra forza e del vo
stro valore. Recate del pari nel campo delle pacifiche attivit
eguale alacrit di propositi ed eguale costanza, e non fallir
alla patria il premio dei sagrificii incontrati.
Popolo di Sicilia!
Qui a tempi remoti l'Oriente e l'Occidente apersero con
proficui commerci le fonti di una rigogliosa prosperit; qui
son il primo vagito della causa italiana; qui la natura larga
dei suoi doni fa vividi gli ingegni, ubertosa la terra, dolci le
aure, facile la vita. sorto il giorno in cui sotto l'egida di un
re forte e generoso nella securit di un gran consorzio nazio
nale, avvivati dall'alito della libert, tutti questi elementi che
una trista dominazione ha si a lungo isteriliti dovranno frut
tare per quest'isola nuova prosperit e nuovi trionfi per la
civilt italiana. Ciascuno di voi cooperi al grande scopo, al
grido di viva Italia, viva il re Vittorio Emanuele .
Questo proclama del luogotenente, comunque prudente verso
Garibaldi e carezzevole all'amor proprio dei Siciliani, pure non
incontr ne applausi n lodi perch parve concepito da chi si
apprestava a far tutto nuovo sin dalle fondamenta, o da chi
credeva che per lo innanzi il governo dittatoriale nulla avesse
saputo fare di buono.
Ma ci che indispose l'animo dei Siciliani tutti fu il lin
guaggio tenuto dal consigliere per l'Interno, Giuseppe La Fa
rina. Questi tenne tale linguaggio da dare a conoscere che
tutta Sicilia fosse per lui e con lui; e dove doveva tacere,
non rammentando le cose che precedettero il plebiscito, volle
parlare, e rincrudi la piaga che aveva lasciata viva nel cuore dei
molti amici e dei moltissimi ammiratori di Garibaldi.
Il giorno 10 dicembre adunque, il La Farina indirizzava ai
governatori di Sicilia la seguente circolare.
34 i
Signor governatore!
Il nostro governo intende d'essere governo di riparazione
e di concordia. Il plebiscito del 21 ottobre ha dichiarato e
solennemente dimostrato la unanimit della Sicilia. Qui vi po
tranno essere uomini pi o meno savi, pi o meno prudenti,
ma nemici dell'attuale ordine di cose non debbono esservi. Si
cancellino quindi dai nostri cuori e fino dalla nostra memoria
i nomi che ci divisero, e si disperda ogni ricordanza delle
lievi divergenze, che precedettero il plebiscito. Il governo in
tende fare, come dicevano i nostri antichi, libro nuovo, ed
ogni uomo onesto e capace pu contare di essere risguardato
come suo amico. Bisogna smettere il malvezzo dell'arbitrio,
ma bisogna nel medesimo tempo rimettere in vigore la scru
polosa osservanza delle leggi. Chi viola le leggi, non isfugga
al rigore della legge, chiunque egli sia, qualunque merito
egli abbia. Al delitto deve seguire la punizione, rapida, irre
vocabile, si che i tristi se ne sgomentino ed i buoni si rassi
curino, vedendo che il re forte e galantuomo regna non di
nome ma di fatto su questa bella parte d'Italia. E nostro
precipuo dovere di mantenere dove esiste, di ristabilire dove
manca la pubblica sicurezza: bisogna che ogni cittadino abbia
sicuri non solamente la vita e i beni, ma anche l'onore e la
libert; e ad ottenere questo supremo beneficio del viver ci
vile, il governo risoluto di non risparmiare n dispendii n
cure. Ma bene si sappia che la severit del governo cadr
non solamente sui malfattori, ma anche su quei pubblici fun
zionarii che per pochezza di animo non compissero il dover
loro.
Io amo di credere che nessuno dei pubblici funzionarii di
cotesta provincia possa meritare questo rimprovero, ma credo
utile che ella faccia conoscer loro le intenzioni del governo :
chi non sa fare osservare le leggi si ritragga dai pubblici uf
ficii. Noi nel ramo della pubblica sicurezza abbiamo bisogno
di uomini onesti, intelligenti, e senza paura. I cittadini sono
gi chiamati ad eleggere le rappresentanze municipali e pro
vinciali, base e fondamento di ogni libert. Noi vogliamo che
le elezioni siano sincere e liberissime. La guardia nazionale
cos benemerita dell'ordine pubblico si riorganizza secondo la
legge in vigore nelle antiche provincie del regno italiano. La
Stor. della rivol. Sicil. Vol II.
44
346
stampa divien libera con la promulgazione della legge, che as
sicura la manifestazione legittima del pensiero; e reprime que
gli abusi che nuocerebbero alla stessa libert. Insomma lo stato
eccezionale cessa, e la Sicilia come le altre provincie italiane
va a godere di quegli ordini e di quelle istituzioni per i quali
tanto sangue si sparso, tanti sacrifici si sono sopportati.
La nazionalit, la libert non debbono pi essere vane parole.
ma fatto. La malvagia e stolta dominazione dei Borboni inari
dendo ogni sorta di onesto guadagno, spingeva necessaria
mente i cittadini non forniti di beni di fortuna, nella scarsa e
lenta carriera degli impieghi; questa piaga che si inaspriva ad
ogni mutamento politico oggi divenuta tale, che senza ener
gici rimedii condurrebbe a certa rovina la nostra patria. Il
governo nella necessit e nel dovere di conciliare l'inte
resse supremo della finanza coi riguardi dovuti ai servigi pre
stati, ed io spero che si trover modo di mettere d'accordo
le esigenze di una giusta economia e di una benefica equit.
Ma affinch questa difficile opera riesca possibile indispen
sabile aprire nuove vie di onesti guadagni all'attivit dei citta
dini. Non tocca a me di parlare del commercio e dell'industria,
ma attenendomi solo a quella parte di lavori che dipendono
dalla iniziativa dei singoli cittadini, dei municipii e delle pro
vincie, io esorto caldamente lei, signor governatore, ad eccitare
lo zelo operoso dei suoi sottoposti ed amministrati. Bisogna
che si faccia molto in un paese ove tutto da farsi, e che si
faccia senza quegli indugi coi quali si procedeva nel passato;
e non solamente come cosa che risguarda la civilt, il comando,
l'adornamento della Sicilia, ma anche come cosa che altamente
risguarda la pubblica sicurezza.
Avendo sua eccellenza il luogotenente generale affidato il
governo delle provincie siciliane ad uomini ragguardevoli per
alto ingegno e provato patriottismo, io non intendo in nulla in
ceppare l'azione dei governatori, oltre al necessario per man
tenerne l'unit direttiva. Ogni ingerimento non necessario dello
Stato nella nazione, della regione nella provincia, della pro
vincia nel municipio un'offesa alla libert. Ella agir quindi
liberamente e francamente nell'esercizio delle sue attribuzioni,
ed esorter gli intendenti ed i municipii a fare altrettanto, spa
stoiandosi dagli antichi ceppi della servit,
, Ci torner in benefizio della libert e del pubblico ser
vizio, e scemer negli uffici quell'enorme ingombro di carteggi
347
inutili, dietro ai quali restano soffocate le faccende importanti.
Cos
la macchina governativa incontrer meno attriti e si muo
ver pi spedita .
Palermo, 10 dicembre
1860.
LA FARINA.
Per far meglio comprendere di quale spirito fosse animato
La Farina, e come credesse poter tutto dominare con la forza
del suo spirito riporteremo una circolare diretta agli intendenti
ed al Questore di Palermo, riguardante interessi di pubblica
sicurezza; ma prima daremo alcuni ragguagli sulla istituzione
delle compagnie di armi gi da tempo esistenti in Sicilia. Ognuna
di queste compagnie era composta di 36 uomini a cavallo,
alla testa della quale stava un capitano. Ogni distretto aveva
la sua compagnia. Missione di esse era scoprire i ladri che com
mettevano furti nelle campagne, e dove non riuscissero a sco
prirli erano tenuti a pagare essi il furto ai derubati. Quindi
ogni capitano doveva prestare una cauzione, e poi riteneva
parte del soldo dei suoi militi, affinch contribuissero tutti alla
comune responsabilit. Siffatta istituzione era molto giovevole,
per essa in qualche modo venivano assicurate ai cittadini le
loro propriet di campagna. E s che raro avveniva che gli au
tori di un furto non fossero scoperti.
Ora nel tempo della rivoluzione alcuni capitani delle vec
chie compagnie erano stati dimessi o avevano dovuto ritirarsi
per odio acquistatosi coi servigi sbirreschi prestati al governo;
quindi altri capitani erano stati creati, alcuni dei quali non ave
vano ancora prestata la loro cauzione. D'altronde i furti nelle
campagne erano molti e senza freno; lo stato di rivoluzione
non faceva adempiere alle compagnie i loro obblighi, era ne
cessaria una riforma, ma il tutto stava nel modo di compierla.
Ora il La Farina pubblic su tal proposito e diresse agl'in
tendenti ed al Questore di Palermo la circolare che segue:
Signore!
Principalissima cura del nuovo governo si la sicurezza
Pubblica, senza di che vano sperar frutti dalle libere e ci
vili istituzioni, di che queste nobili provincie siciliane vengono
a partecipare per effetto del grande rivolgimento politico, gi
felicemente compiuto. E parte primissima di questo grave ramo
di servizio pubblico si la sicurezza delle campagne, affidata
alla responsabilit dei militi a cavallo, al cui stato ed organiz
zazione ho a preferenza rivolto le mie prime cure.
Ma con mio dolore devo manifestare che lo stato attuale
e l'organismo di queste compagnie ben lungi d'ispirare ap
pagamento e fiducia.
Non poche sono le anomalie di questo servizio, tra cui
principalmente questo, che molti capitani non han tuttavia
prestato la cauzione, che rende effettiva la loro responsabilit,
ci che forma la base ed il perno di tutta la istituzione, e senza
di cui sarebbe a dirsi piuttosto dannosa che utile.
Varii termini e proroghe sonosi per l'obietto accordati
dalle precedenti amministrazioni, ma questa indulgenza forse
necessaria nei primi trambusti della rivoluzione sarebbe oggi
inopportuna, e questo stato anormale deve prontamente cessare.
E come ch il capitano di cotesto circondario fa credere che
la sua cauzione pronta, ed il vincolo di essa in corso, cos
prima di venire a quelle misure di rigore che saranno imman
cabilmente adottate, io la interesso a partecipargli subito la in
giunzione di realizzare senz'altra dilazione il vincolo della sua
cauzione, mentre il governo, in caso di ritardo, senz'altri ter
mini o proroghe, provveder al suo rimpiazzo, come decaduto
dal beneficio dei termini precedentemente accordati.
Il consigliere LA FARINA .
Per quanto questo linguaggio fosse nei limiti della giustizia
e della necessit, pure i mod sanno di assolutismo o per lo
meno di quella imprudenza che sovente trascina i governanti
a rompersi contra gli scogli che la rivoluzione sparge nel cam
mino della politica.
La Sicilia trovavasi in condizioni assolutamente anormali;
politica voleva che si moltiplicassero gli amici del governo,
ma a far questo pei Siciliani non vale la parola assoluta di
chi comanda, ma le maniere persuasive di chi consiglia. La
Farina e Cordova, e gli altri consiglieri tutti corsero incontro
a mille ostacoli, e come appresso vedremo, dovettero final
549
mente dimettersi per non aver saputo usare col popolo sici
liano e palermitano specialmente, quelle maniere alle quali so
lamente cede e per le quali solo si modifica e cammina ala
cremente non solo nella via del bene, ma in quella altres del
l'eroismo e dei sagrificii.
Prima di cominciare a parlare degli atti del nuovo governo
di Sicilia accenneremo la sua istituzione e le sue attribuzioni
contenute in un decreto reale con data da Palermo 2 dicem
bre 1860. Quel decreto diceva: veduto il risultamento del ple
biscito del 21 ottobre scorso, esprimente il voto delle popo
lazioni delle provincie siciliane; sulla proposta del consiglio
dei ministri, abbiamo decretato e decretiamo:
Art. 1. Un luogotenente generale nominato da noi inca
ricato di reggere e governare in nostro nome e per nostra au
torit le provincie dell'isola di Sicilia ed alla nostra imme
diazione allorch saremo presenti alle medesime.
Egli inoltre autorizzato ad emanare, fino a che il Parla
mento sia adunato, ogni specie di atti occorrenti a stabilire
e coordinare l'unione delle anzidette provincie col resto della
monarchia, ed a provvedere ai loro straordinarii bisogni.
Art. 2. Agli affari esteri e a quelli della guerra e della
marina sar direttamente provveduto dal nostro governo cen
trale.
Art. 3. Il senatore del regno marchese Massimo Cordero
di Montezemolo nominato nostro luogotenente generale delle
provincie siciliane.
Ora in forza di questo decreto il nuovo governo di Sicilia
era autorizzato ad emanare ogni specie di atti onde coordinare
l'unione delle provincie siciliane al resto d'Italia. Non incep
pata per questo modo l'attivit del governo, n limitata la
sua autorit; molto bene potevasi fare alla Sicilia, e se non
fu fatto la colpa tutta dei governanti e dei loro falsi sistemi;
molto pi che il re, nella bont sempre eguale a s stesso
aveva con sua lettera del 4 dicembre diretta al luogotenente,
incoraggiato il nuovo governo a fare tutto il bene possibile.
Riportammo di sopra alcuni brani di questa lettera, ora ripor
tiamo intero cotesto interessante documento. Esso dice:
Il favorire e promuovere l'educazione e l'istruzione po
polare fra i primi e pi essenziali doveri d'ogni civile go
350
verno, perch merc di esse specialmente possono le nazioni
progredire e prosperare.
Nel breve mio soggiorno in questa nobile e gloriosa parte
d'Italia, soggiorno che avrei prolungato se le cure dello Stato
non mi chiamassero al continente, io riconobbi che, se la na
tura dot largamente queste generose popolazioni di svegliato
ed acuto ingegno, pur tuttavia in esse la istruzione del popolo
richiede attenta vigilanza, direzione e soccorsi.
Ebbi del pari a convincermi che per molteplici cagioni,
fra cui non ultime le passate vicende politiche, non poche
persone trovansi ridotte a dolorose strettezze.
A questi bisogni sta provvedendo con lodevole gara la
cittadina beneficenza; e nel mentre io le rendo questo giusto
tributo mi pur grato l'associarmi ad essa. Ho quindi ordi
nato che dalla mia cassetta particolare sia prelevata la somma
di ital. lire 200.000 per essere distribuite in aiuto della po
polare istruzione ed in opere di beneficenza, tenendo special
conto delle eccezionali condizioni in cui versano alcuni isti
tuti pii di questa citt, a norma delle istruzioni che le ho
particolarmente manifestate.
Ella avr cura nel tempo stesso di studiare colla mas
sima sollecitudine i pi urgenti bisogni delle provincie tutte
dell'isola e di presentarne quanto prima apposita relazione.
Egli diffatti mediante un'accurata e profonda cognizione
dello stato morale ed economico delle provincie stesso, egli
coll'imprimere all'agricoltura, all'industria, al commercio un
vigoroso impulso, egli vivificando insomma tutte le naturali
fonti di pubblica e di privata ricchezza, onde quest'isola co
tanto abbonda, che il mio governo sar in grado di procu
rarla, insieme ai benefizii del viver libero e dell'unit nazionale,
quelli ancora della generale prosperit.
Ella sar presso i buoni Siciliani, che qui accorrendo da
ogni parte in numerose deputazioni, mi resero men grave il
rammarico di non poter per ora visitare l'isola tutta, inter
prete dei sentimenti d'affetto onde compreso l'animo mio
verso di loro per le commoventi accoglienze ch'io mi ebbi,
e delle quali serber incancellabile memoria.
Non dubito infine che ella sar per fare quanto star in
lei perch i sovraccennati miei propositi sortiscano il loro
pieno effetto.
351
La buona volont del re fu accetta alla popolazione sici
liana, ma quanti osservavano le cose dal punto di vista poli
tico compresero che cotesta buona volont non poteva essere
tradotta in atto n da Montezemolo, n da La Farina, n da
Cordova, ai quali se non mancava la scienza governativa, ci
che era un dubbio, mancava certamente la simpatia del po
polo per la semplice ragione che essi erano stati se non ne
mici, certo oppositori della politica di Garibaldi. Tutti previ
dero che il partito di azione doveva creare infinite difficolt
al nuovo governo, e che doveva cercar modo di spingergli
contra la pubblica opinione ; tutti finalmente previdero che
Specialmente Cordova e La Farina non sarebbero rimasti al
potere che pochissimo tempo, e che avrebbero dovuto cedere
ad altri il loro posto. Grave era stato l'errore del conte di
Cavour e gravi per l'ordinamento interno dovevano essere le
funeste conseguenze. Tutte queste previsioni tosto comincia
rono ad avverarsi, e noi ne parleremo brevemente.
Il governo dittatoriale aveva abolito il dazio del macinato
tanto odioso ed intollerabile ai Siciliani. Ora la prima voce
che si sparse fu quella che il nuovo governo voleva ripristi
nare l'odioso tributo. Quella voce suscit in breve tanto e tale
malumore che il governo dovette smentirla officialmente con
le seguenti frasi da qualche giorno si spargono voci di ri
stabilimento del dazio sul macinato. La presenza nel consiglio
di luogotenenza degli uomini che nel 1848 proposero e fecero
adottare in parlamento l'abolizione di quel dazio odioso ed
ingiusto dovrebbe bastare a smentire queste voci calunniose.
Il paese stia in guardia contro le false notizie che diffondono
pochi tristi ai quali non pu giovare lo stabilimento di un or
i
dine di cose, in cui la Sicilia, nel benefizio dell'unit nazionale,
:i
sagrifizi che ha sopportati . I pochi tristi erano naturalmente
gli uomini del partito di azione, giudicati in questo modo dallo
goda quella pace e quella libert, alla quale le dan diritto i
spirito di parte; ed era imprudenza lo sfidarli in tal guisa;
era mancanza di politica; era prova evidente di non conoscere
li
affatto la propria situazione, difficile perch contraria alle sim
patie della popolazione che amava Garibaldi ne' suoi amici
di Sicilia.
N al partito di opposizione mancavano ragioni di suscitar
malumori, che anzi ne abbondavano a dismisura, colpa questa
del governo centrale di Torino e poi di quello di Sicilia che
non pensava ai bisogni essenziali della nuova vita politica.
Mancavano le comunicazioni col continente; non si aveva che
un piroscafo, il quale erasi impegnato di arrivare in Palermo
il luned o marted di ciascuna settimana, e partirne il merco
ledi direttamente per Genova; vedevasi poi di tanto in tanto
qualche altro legno napoletano, ma senza alcuna regola, ed
incaricato soltanto della posta di Napoli. Cos passavano sette
giorni per aver la posta del continente italiano e dell'estero,
e perci con molto ritardo i Siciliani potevano sapere ci che
accadesse in Italia, e l'Italia ci che accadesse in Sicilia. A
ci si aggiunga che qualche volta quell'unico piroscafo man
cava, ed allora l'indegnazione era generale. Il partito di op
posizione gridava quindi al malgoverno, e provava che l'an
nessione non era valsa ad altro che a far dimenticare la Si
cilia, a renderla una seconda Sardegna, abbandonata dal go
verno di Torino che concentrava altrove tutte le sue cure e
sollecitudini.
Il caro dei viveri fu altro motivo di opposizione. I tempi
correvano tristi per la ricolta, e la pasta ed il pane eran cre
sciuti di prezzo. Il giorno 23 dicembre alcuni del basso po
polo fecero una dimostrazione contra i pastai e i fornai; ac
corse la guardia nazionale e la dimostrazione ebbe fine; ma
l'opposizione al governo si faceva sempre pi generale e pi
forte perch ai governanti si attribuiva tutto ci che sul po
polo pesava. N sempre a torto, perciocch diremo che il go
verno borbonico nulla faceva di bene, ma quando vedeva il
caro del pane tosto vi riparava. Ora non essendo possibile che
di un tratto si facessero comprendere a tutti i principii di
sana economia e di libero commercio, il governo luogotenen
ziale avrebbe dovuto provvedere in via eccezionale alla diffi
cile posizione economica che grandemente influiva sulla posi
zione politica.
Nell'universit accadevano disordini non lievi sempre per
-
l'imprevidenza del governo. La mattina del 27 dicembre la
scolaresca che aspirava ad ottenere la matricola di ammissione
nelle diverse cattedre d'insegnamento si trascin a deplorabili
eccessi. Da molti giorni essa gridava nella cancelleria dell'u
niversit per ottenere cotesta matricola di ammissione senza
produrre il documento comprovante il deposito della quot
della laurea secondo la tariffa prescritta dal regolamento un
versitario. Il cancelliere per calmare quei giovani condusse
555
luni di essi nell'appartamento del rettore ove era radunata la
deputazione; fu peggio! alle osservazioni dei deputati i gio
vani studenti risposero gridando: abbasso la deputazione 1 e
tosto la deputazione si sciolse. Il rettore, calmata l'agitazione
prese il partito di chiudere l'universit e farne rapporto ai
consiglieri della luogotenenza dell'interno e della istruzione
pubblica per dare le opportune provvidenze. Ma queste prov
videnze erano state gi chieste prima, ed il governo aveva
promesso ed aveva dimenticato. Non si pu lodare la condotta
della giovent studiosa, ma come, e da chi si loderebbe la
condotta di un governo liberale che lasciava sugli studi le odiose
imposizioni dei governi tirannici che resero per tanto tempo
il santuario della scienza un indegno mercato?
Messo sulla via degli errori, il governo di Sicilia precipi
tava di male in peggio. ll consigliere incaricato del dicastero
di pulblica istruzione, aveva dichiarato con ispeciale ordinanza
che : gli antichi professori ed impiegati delle universit degli
studii si pagasse il soldo loro assegnato dalle leggi borboniche,
e che pi professori eletti sotto la dittatura la loro nomina
fosse tenuta come provvisoria. A questa dichiarazione in pru
dente ed ingiusta, il corpo dei professori dell'universit di
Palermo si riun per prendere una deliberazione in proposito.
Esso decise di protestare, anche per le stampe, contro l'or
dine governativo. L'ordine dei soldi dei professori discendendo
da una legge dittatoriale del 13 ottobre, era d'uopo di altra
legge per essere abrogato. Le nomine dover essere ritenute
come valide perch fatte da un governo legittimo. A volere
operar ciecamente per perdersi non si poteva fare di peggio!
negare ai professori dell'universit il soldo degli altri profes
sori d'Italia era ingiustizia, quando gi l'annessione era un fatto
compiuto; dichiarar provvisori i professori eletti dal governo
dittatoriale era lo stesso che mostrare di voler continuare la
guerra contra Garibaldi e i suoi atti. Quindi l'indegrazione
cresceva, ed il governo, pochi partigiani eccettuati, cadeva nel
l'odio generale. Era ormai necessit che esso si dimettesse,
e fu i fatti costretto a dimettersi in faccia ad una imponente
din estrazione popolare, della quale brevemente diremo.
Un sottotenente della guardia nazionale co' suoi militi tro
vandosi a cena mentre era di guardia al palazzo delle finanze,
dopo vari brindisi a Garibaldi, grid: Morte a La Farina. La
sua gente gli fece eco, i giornali dell'opposizione ne parlarono
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
45
354
accarezzando quasi il tristo detto. Il capitano e gli altri uffi
ciali di quella stessa compagnia davano la loro dimissione,
ma il general brigadiere ispettore della guardia nazionale del
l'isola, andando in giro pei corpi di guardia, diceva male del
governo, e la guardia nazionale spingeva all'opposizione. Gli
oppositori da quel momento trovarono appoggio nella guardia
nazionale, e per loro bast. Le dimostrazioni cominciarono e
passarono impunite; la prima accadde l'ultima sera dell'anno,
e si grid abbasso e morte per La Farina e Cavour. Cosi pass
pi di un'ora, durante la quale, la guardia nazionale, spetta
trice indifferente, con la sua stessa indifferenza non faceva
che incoraggiare l'opposizione. Il domani il governo pens
uscire dalla legalit per evitare il peggio ed ordin l'arresto
di coloro che erano reputati capi del popolo nella dimostra
zione. Designati all'arresto furono il chirurgo Raffaele, l'av
vocato Ferro, e Francesco Crispi. Ma Crispi non si fece tro
vare, e Ferro veniva liberato da alcuni della guardia nazionale
che lo dicevano arrestato illegalmente. La sera nuova dimostra
zione, e la guardia nazionale sempre inerte ed indifferente.
Per il giorno 2 di gennaio il governo credette poter vincere
la prova, e pubblicava un'ordinanza della questura, che vie
tava gli attruppamenti. Un capitano della guardia nazionale,
scorrendo la citt con una pattuglia di sua scelta and strac
ciando l'ordine del governo. I consiglieri di luogotenenza, sa
puto il fatto, e comprendendo come fosse impossibile il so
stenersi in mezzo a tanti e tanto contrari elementi chiesero
ed ottennero da Montezemolo la loro dimissione. Montezemolo
incaric allora il marchese di Torrearsa, ritiratosi da qualche
tempo in Trapani, a costituire il nuovo consiglio.
In questo modo ebbe fine il primo consiglio di luogotenenza
istituito dopo il governo prodittatoriale; e non poteva essere
diversamente quando si vogliano considerare le ragioni che
di sopra abbiamo addotte.
Ci resta a dire che cotesta malaugurata circostanza nocque
grandemente alle cose d'Italia per le conseguenze che ne de
rivarono. E prima di tutto: il conte di Cavour scem nella
opinione pubblica, e di molto, perciocch nel suo operato si
vide una bassa vendetta contra Garibaldi e i suoi amici; scem
nella pubblica opinione perch insult la pubblica opinione
stessa, la quale in mille modi aveva fatto conoscere come n
La Farina, n Cordova dovessero andare cos presto a gover
555
nar la Sicilia, quando pochi mesi prima dalla Sicilia con or
dine dittatoriale erano stati espulsi. Il popolo palermitano
prese baldanza e pi e pi si abbandon alle dimostrazioni
dopo aver visto che qualche cosa fruttavano; molte popola
zioni italiane si istruirono a quell'esempio, e crebbe anco in
mezzo a loro la smania delle dimostrazioni e degli attruppa
menti; il governo in genere perdette molto avendo dato prove
di debolezza in faccia alla dimostrazione palermitana. In
somma si moltiplicarono le difficolt al governo, e l'assesta
mento interno della penisola divenne sempre pi una diffici
lissima operazione. In questa guisa un errore, figlio di pas
sione, produsse altri errori e mali gravissimi.
CAPIT0L0 XVIII
Il governo del luogotenente del re in Napoli
Avvenimenti e fatti nelle provincie napo
letanea
Ritorniamo a parlare di Napoli, della grande citt ove dif
ficolt infinite incontrava sempre il governo, e grandi cose era
necessario fare per ovviare alla meglio ai mali innumerevoli
di che era Napoli ripiena.
Gravissima piaga ed intollerabile era l'accattonaggio
mestiere; spettacolo orribile e schifoso in cui l'umanit
vava sdegno ed afflizione insieme. Il governo borbonico
solo non aveva mai pensato a medicar questa piaga, ma
per
tro
non
per
fini politici tenevala sempre viva, tanto da essere ormai can
crenita. Pi di quarantamila accattoni, laceri, seminudi, luridi
infestavano le strade, le chiese, i caff, i negozi, gli atrii dei
conventi. Cotesta gente viveva accattando dalla mattina alla
sera, coi modi pi strani e sconci che mai si possano ideare.
Il Borbone a quando a quando spendeva per loro vistose
somme, ed allora per tutta Napoli si parlava della generosit
del re, della sua carit verso i poveri, della sua religione nel
soccorrere la miseria. La maggior parte di quella gente pi
tocca godeva ottima salute e poteva lavorare per vivere one
stamente, ma i Borboni non pensarono mai a dar lavoro, n
a cambiare in qualsiasi maniera la condizione di questi scia
gurati che dormivano per le strade di di e di notte, infasti
dendo la popolazione. Altri erano malaticci e ricoperti di
piaghe; ma invece di andare all'ospedale per curarsi accon
557
tentavansi di vagare per la citt facendo mostra delle piaghe
stesse per muovere a piet ed ottenere un'elemosina.
Ai poveri della citt si aggiungevano quelli dei vicini paesi
i quali lasciavano i luoghi natii e venivano in Napoli dove
trovavano da vivere. La notte gli accattoni divenivano ladri,
borsaiuoli, mezzani di tresche, oscene cose a dirsi, orribili a
leggersi. Sotto un governo dispotico questa piaga era un fatto,
ma sotto un governo liberale la voleva esser guarita e presto.
Non eranvi che due vie, la repressione e l'aiuto. Punire co
loro che, potendo lavorare, marcivano nell'ozio, aiutare quegli
altri che realmente avevano bisogno di carit e di soccorso.
Per l'impresa non era facile, perciocch si trattasse di di
struggere in quei pitocchi l'inveterata abitudine di vivere senza
lavorare. Bench non fosse tal classe da poter fare opposi
zione alle disposizioni del governo, pure riusciva quasi im
possibile vigilare sopra quarantamila sciagurati che nulla te
mevano, e che sfidavano la polizia non avendo nulla da per
dere, e stimando la prigione come luogo n incomodo n dis
onorevole.
Il nuovo governo si affrett a porre un rimedio a questo
male ed il prefetto De Blasio, in via di polizia eman la se
guente circolare:
PREFETTURA DI POLIZIA.
Signori,
Flleno non possono ignorare che la piaga sociale della
mendicit non vuol essere perduta di mira dalle autorit pre
poste al mantenimento dell' ordine pubblico. Abbandonata a
s stessa, potrebbe crescere a disinistra, prestando il suo cri
minoso contingente alle diverse classi pericolose, che da ogni
banda infestano le grandi capitali.
A mettere freno al crescente male e a dar opera a quel
lavoro di riordinamento che sta in cima ad ogni mio pensiero,
ho stimato opportuno pubblicare l'ordinanza che troveranno
qui inclusa. E per vero sarebbe stato far torto alla nostra
civilt, al decoro nazionale in faccia agli stranieri tollerando
ulteriormente quello sciame di pitocchi che finora impuden
temente hanno ingombrato i luoghi pi frequentati della citt
ed i pubblici ritrovi.
358
La sventura per non vuole essere confusa ad un fascio
col vizio, l'improba mendicit coll'impossibilit di potersi pro
curare per fisici malori i mezzi alla vita, ed ecco la ragione
della distinzione, per effetto della quale, se dall'un canto si
commesso alla giustizia la punizione del vizio, soccorrevol
mente dall'altro stato mestieri aprire alla miseria le porte
della beneficenza.
A dovizia dotato il nostro paese d'istituti di pubblica ca
rit, a quest'ultima bisogna destinato a provvedere l'Albergo
dei poveri, largamente all'uopo sovvenuto dal municipio del
l'ingente somma di ducati trentamila annui.
Unicamente coi mezzi repressivi e senza preparare nel
l'ordine economico una sufficiente somministrazione di lavoro
alla classe indigente, sono pur certo che il male della mendi
cit in questa dominante e le sue tristi conseguenze non sa
ranno per scemare ad un tratto; ma la vigilanza accorta, at
tiva ed incessante delle SS. LL. sul pauperismo, di fermo
giover a restringerlo in una sfera pi limitata di azione, e
renderlo meno molesto all'universale.
Laonde fo un appello sul riguardo allo zelo ed attivit
delle SS. LL., acci le mie vedute non rimangano frustrate;
e sono sicuro che sapranno corrispondere alle mie premure
per raggiungere lo scopo propostomi colla menzionata ordi
IlaIlZ3.
Il prefetto FILIPPO DE BLAsio.
A questa circolare tenne dietro la seguente disposizione:
PREFETTURA DI POLIZIA.
Visto che il numero di accattoni in questa dominante sia
cresciuto a dismisura, avendosi da molti oziosi l'accattare sic
come l'esercizio di un mestiere lecito e di una speculazione
vantaggiosa;
Ritenuto che sia contrario ad ogni elemento di civilt il
veder girovagare per la citt, ed in tutti i pubblici locali,
gente lurida e cenciosa, che per richiamare l'attenzione del
l'altrui piet in mille guise fan mostra delle infermit pi schi
fose e ributtanti, spesse volte simulandole;
-
559
Che all'autorit preposta all'ordine pubblico incombe met
tere un freno, acci la piaga sociale della mendicit colpevol
mente non si allarghi, e metta radici maggiori;
Avuto riguardo da ultimo che annualmente dal municipio
napoletano corrispondesi la vistosa somma di ducati 30,000
all'Albergo de' poveri, vi sia modo a stendere una mano soc
correvole alla vera miseria;
Il prefetto dispone:
Art. 1. Rimane vietato in modo assoluto l'accattare per
le strade; ed in qualunque altra specie di sito.
Art. 2. Ove siano trovate, comunque mendicando, persone
acconce al lavoro, saranno esse tradotte innanzi ai giudici or
dinari per l'applicazione delle pene comminate dalle leggi pe.
nali contro l'improba mendicit.
Art. 3. Gli individui inabili per difetti od altri mali fisici
a procurarsi i mezzi alla vita, che fossero sorpresi questuando,
saranno tradotti e ristretti nell'Albergo de'poveri.
Art. 4. Gli accattoni ed ogni altra specie di mendici,
che non siano nativi della capitale, saranno immediatamente
obbligati a rientrare nei propri comuni, ed affidati alla vigi
lanza delle rispettive autorit municipali.
Art. 5. Gli agenti della polizia ordinaria ed i rappre
sentanti tutti della pubblica forza cureranno per le vie legali
la esecuzione della presente ordinanza.
Napoli, 30 novembre 1860.
Il prefetto Filippo DE BLAsio.
Scem il numero dei poveri, ma l'accattonaggio non fini,
perciocch, come sopra dicemmo, era impossibile vigilare sopra
quarantamila sciagurati, usi a non rispettare n leggi, n au
torit, a non temere n pene n castighi, a fare il proprio
mestiere in onta a qualunque disposizione governativa.
Qual poi fosse lo stato dell'amministrazione napoletana,
quale venne lasciata dal governo prodittatoriale andremo de
sumendo dalle relazioni dei consiglieri di luogotenenza.
Il consigliere Scialoia incaricato del dicastero delle finanze
Presentava negli ultimi di novembre al luogotenente del re
360
la seguente relazione, che riportiamo a parola perch molto
interessante alla storia.
Eccellenza.
In tutte le amministrazioni, la parte che concerne le per
sone di grande importanza; ma nell'amministrazione giudi
ziaria, quest'importanza massima.
V. E. quindi permetter ch' io la intrattenga di questo
argomento; e che, prendendo occasione dalle speciali condi
zioni in cui presentemente il personale dell'amministrazione
a cui ho l'incarico di attendere, le proponga di sancire certe
norme, che a me sembrano le pi acconcie a raggiungere il
nobile scopo di sostituire la regola all'arbitrario, sia nello eli
minare, sia nello ammettere impiegati. La regola, vero, po
tr riuscir dura per taluno; essa per sar giusta ed eguale
per tutti; ed in un paese in cui lo spettacolo perenne dell'ar
bitrio riusc a corompere nelle moltitudini la fede nella giu
stizia de'governanti, preferibile la dura imparzialit della re
gola alla flessibile equit del favore.
Presentemente a lunque la sola amministrazione finanziaria
ingombra da 289 impiegati di pi del numero consentito
dalle piante organiche; ed in conseguenza, lo erario pubblico
gravato della somma di 65,476 ducati al di l di quella che
per legge avrebbesi a spendere per lo stipendio degli impie
gati del dicastero e delle amministrazioni che ne dipendono.
Ecco lo specchietto di questa eccedenza:
Nell'interno del dicastero, due ufficiali di carico di primo
rango, due di terzo rango; cinque ufficiali di prima classe se
condo rango, e due di seconda classe secondo rango, de'quali
tutta una parte occupa tre posti inferiori lasciati apparente
mente scoperti. Sicch, fatta comparazione, si ha una spesa in
pi della pianta di annui ducati 7,440. Nella gran corte dei
Conti, cinque consiglieri al di l del numero, ducati 9,000.
Nell'amministrazione del registro e bollo quattro ispettori con
trollori, otto verificatori e sei minori impiegati, oltre la pianta;
annui ducati 7.308. Nell'amministrazione della lotteria qua
rantacinque impiegati di pi; ed annui ducati 4,728. Nell'am
ministrazione generale dei dazii indiretti centotrentacinque
commessi, ventisei soprannumeri, dodici controllori, ventitr
561
tenenti, sei ispettori territoriali, sette ricevitori; annui du
cati 37,000.
Eccedenze d'impiegati non meno considerevoli sono sulle
antiche piante organiche degli altri dicasteri e delle loro di
pendenze, siccome il Tesoro mi fa notare e siccome i miei
onorevoli colleghi, con rincrescimento eguale al mio, hanno
avvertito.
E quasi che ci fosse poco, trovo un numero non piccolo
d'individui, ai quali si dato con appositi decreti affidamento
d'impiegarli alle prime vacanze.
Per quanto gravi possono essere le ragioni che scusano
questi fatti, essi non cessano di essere tali quali li ho
esposti.
Le rigorose regole dell'amministrazione mi imporrebbero
-
intanto di sospendere il pagamento dei ducati 65,476 di sti
pendii che superano il limite permesso dalla legge. Ma io
chieggo a V. E. il permesso di continuarlo, per riguardi verso
coloro che, confidando nei decreti di nomina fatti in tempi
straordinarii, assunsero il loro uffizio.
mio dovere per, come vostra intenzione a me pi
volte manifestata, di ricercare i mezzi pi efficaci a far cessare
ogni sperpero di denaro dei contribuenti.
Per adempiere questo dovere, nel caso presente, a mio
avviso, indispensabile, una risoluzione ch'io propongo a V. E.
facendo grave resistenza a questi effetti che possono essere
virt di privato cittadino, allorch dispone delle sue private
sostanze, ma che sarebbe condannevole debolezza di chi am
ministra la cosa pubblica, che cosa non sua, ma di coloro
che lavorano e pagano.
Fa d'uopo adunque che, di mano in mano, il personale
delle amministrazioni si riduca nei termini delle piante orga
niche, le quali peccano di larghezza nel numero, anzich del
vizio contrario. Ci richiede del tempo. Ma intanto, per av
viarsi verso questo scopo e per raggiungere un altro intento,
quello cio di esaminare se mai nell'amministrazione esistano
elementi incompatibili col credito, che da essa deve derivare
dalla probit e dalla capacit de' suoi agenti, io reputo che
convenga fare una calma e riposata revisione del personale,
informato ai principii della giustizia, della morale e dell' inte
resse del pubblico servizio, il quale suol talvolta ricevere
detrimento dallo stesso soperchio numero degli impiegati.
Stor della rivol. Sicil. Vol. II.
A6
562
Cos, per esempio, con mio grande rammarico debbo pure
dirle, che l'aumento di 209 impiegati nelle dogane non ha
servito punto ad impedire che il contrabban lo sia negli
ultimi tempi diventato scandaloso, che l'entrata dei dazii indi
retti era meravigliosamente diminuita. Il ribasso della tariffa
ha fatto scemare il contrabbando. Una disciplina pi rigorosa
e le riforme del personale aranno il resto.
lo penso quindi che sia opportuno provvedimento il circon
dare me ed i capi d'amministrazione di persone che, per cogni
zioni, per esperienza e per morale, siano tra le pi onorate, ed in
vitarle a riunirsi in commissioni delegate a rischiararci col loro
avviso intorno a questa difficile materia. impossibile altri
menti che in amministrazioni, nel cui complesso sono migliaia
d'impiegati, possa un solo bastare all'arduo e fastidioso com
pito di esaminare se vi sono, nel numero, individui a cui
manchino le doti precipue che ogni impiegato deve avere,
cio la probit e l'abilit sufficiente al proprio uffizio; non
che all'altro ben giusto cmpito di distinguere i pi meri
tevoli per tutelare non solo la sorte loro, che primo debito
di ogni capo di amministrazione, ma si ancora per miglio
rarla.
L'essersi in breve tempo succedute tre mutazioni di go
verno, l'aver esse avuto luogo in mezzo a vicende straordi
rie, e l'eredit lasciata da una signoria assoluta, esclusiva e
persecutrice, sono ragioni sufficienti a giustificare da una
parte questa revisione del personale amministrativo, e dall'al
tra a scusare un fatto eccezionale di cui siamo testimonii, e
sul quale sono costretto a richiamare la vostra attenzione.
Mentre che il numero degli impiegati, siccome sopra ram
mentato, supera di gran lunga le piante organiche delle am
ministrazioni tutte, ed in ispecie di pi centinaia quelle del
l'amministrazione finanziaria, le domande per nuovi impieghi
n0n CeSSan0, anzl SOnO numeroSISSlme.
Queste domande servono a provare come, pel mal go
verno, che lo aveva isolato e prostrato, il paese non offra al
l'attivit di tutti i cittadini campo sufficiente per occuparsi in
traffici ed industrie private, o nelle arti e professioni che
prendono da esse il loro alimento; e come d'altra parte fosse
prevalsa l'erronea opinione che gl'impieghi ponessero la gente
in grado di procacciarsi riguardi eccezionali, e pi facili van
taggi di quelli che derivano dalla privata industria.
363
La libert, l'istruzione, l'esempio ed il buon governo ap
porteranno a poco a poco un rimedio efficace a questo male;
ed i lavori pubblici, che fra breve s'intraprenderanno, mediante
anticipazioni prese in gran parte sull'avvenire, saranno al certo
sufficienti a scemarne in certo andare di tempo la intensit.
Questo il solo modo onesto ed equo di attenuare gli effetti
del passato sistema; quello di accrescere impieghi, non fa
rebbe che aggravarli, aumentando il numero di coloro che,
soperchi al servizio della cosa pubblica, sarebbero a carico dei
contribuenti, e sciuperebbero una parte della rendita nazio
nale, di cui pu esser fatto un uso proficuo nell'interesse ge
nerale.
Di coteste domande d'impieghi, una parte priva di
fondamento.
Un'altra parte ancora da parecchi di coloro che in realt
han sofferto gravi danni, e che sono stati pi o meno tormen
tati da politiche immeritate persecuzioni. Ora, essendo essi
non tutti forniti di sufficienti mezzi di sussistenza cercano di
occuparsi in impieghi.
Io sono certo che non pochi tra loro, persuasi delle con
dizioni attuali dell'amministrazione da me sopra esposti si ri
tireranno volontariamente dal far concorrenza agli altri; pre
ferendo la gloria di aver fatto nobile sagrifizio alla patria e
di aver generosamente adempiuto al debito loro di cittadini,
senza attenderne altra rimunerazione che quella altissima ed
inestimabile di veder un giorno il proprio paese fatto libero
e degno della grandezza a cui l'Italia destinata.
Quanto ai pi bisognosi tra i meritevoli di riguardi, non
dissimulo all'E. V. che per me grave cordoglio l'essere im
possibilitato a secondarne le domande.
Niuna resistenza , quanto questa penosa al mio cuore.
Ma non potendo io n altri creare nuovi posti e aggravare l'e
rario, non mi dato che di provvedere altrimenti che inviando
a commissioni, a cui sopra ho accennato, le domande tutte che
-
mi son pervenute, e che mi vanno pervenendo; perch nel
caso che mi restino posti scoperti da provvelere, indichino
quali fra le molte richieste sono quelle che partono dai pi
meritevoli. Ed alle commissioni medesime non meno che ai
capi d'amministrazione, a cui spetta per legge la proposta, rac
coman Ier che, in pari condizione di moralit e di attitudine,
sieno preferiti coloro a cui l'ufficio possa riescire di sollievo
364
ad una nobile povert, cagionata dall'arbitrio della mala si
gnoria.
Intendo altres che, in tutti quei casi in cui le leggi or
ganiche prescrivono i concorsi, non si debba trascurarli, sic
come stato fatto talvolta ai bitrariamente. Anzi far studiare
se convenga introdurre anche in altri casi non preveduti quel
lodevole sistema, per virt del quale l'impiegato che ottiene
la palma non deve ad altro che a s medesimo il posto che si
guadagna.
ll che accresce ad un tempo autorit ed indipendenza.
Attuando questo mio disegno, e dando pubblicit a que
sti propositi, ove l'E. V. li approvi, son certo che i petizio
narii, i quali ora credonsi non curati, intenderanno facilmente,
come non sia trascuraggine di esame, ma impossibilit asso
luta di accordare impieghi che non esistono, quella che non
fa dare sfogo alle loro domande. Io quindi propongo all'E. V.
di sancire, con norme, a cui io sia tenuto di conformarmi per
ordine vostro, le idee che ho avuto il pregio di rassegnarle.
Essendo motivate dalla condizione stessa delle cose e
dalla necessit della presente situazione, esse gioveranno ad
arrecar rimedio agl'inconvenienti attuali, nel solo modo in cui
questo rimedio pu essere apprestato da un governo che, per
dovere suo e per sua deliberata volont, sapr mostrare e pro
vare all'universale, che esso intende di reggere la cosa pub
blica fissando regole conformi alla giustizia, ed osservandole e
facendole osservare inalterabilmente, senza parzialit di effetti
n timori di arbitrio.
I lettori di queste storie possono giudicare da questa rela
zione lo stato in che trovavasi l'amministrazione napoletana.
Colpa primaria ne erano stati i Borboni, ma il governo pro
dittatoriale aveva anco i suoi torti, perch l'interesse di reg
gersi e di aver degli amici lo trascinava naturalmente ad am
ministrar male la cosa pubblica.
N il dicastero di grazia e giustizia trovavasi meno im
brogliato. Il signor Pisanelli incaricato di quel dicastero faceva
la sua relazione, la quale incirca diceva: deputato a reggere
il dicastero di grazia e giustizia sento il debito di richiamare
l'attenzione della magistratura sopra le nuove sorti che dalle
felici mutazioni politiche gi avvenute, le sono apparecchiate.
565
A noi, a cui toccato di veder compiuto il voto di tanti se
coli, la reintegrazione della patria italiana, e il supremo be
neficio di vederla riunita sotto lo scettro di Vittorio Emanuele,
incombe il grave obbligo di mostrarci consci dei nuovi de
stini a cui la provvidenza ci ha chiamati, e istrutti dai do
veri che essi ci impongono.
La magistratura, investita di uno dei pi cospicui poteri
dello Stato, destifata ad adempiere il principale dei suoi
attributi, l'attuazione della giustizia. Per le sue sorti vanno
inevitabilmente congiunte a quelle dello Stato, e non d'uopo
rinacerbire tristi memorie, ricordando ai Napoletani come scade
il decoro della magistratura quando lo Stato si corrompe.
Ben mi caro poter loro garantire che, fondato le Stato sulla
sua base naturale, la nazionalit, e renduto a nuova vita con
l'alito della libert, la magistratura napoletana ripiglier quelle
gloriose tradizioni, che la fecero veneranda a queste genti, e
resero la sua voce autorevole nelle altre parti d'Europa.
Solo nel regime costituzionale, il potere giudiziario rag
giungendo con effetto la meta che la scienza vi assegna, si
scioglie dagli altri poteri sociali, e fatto indipendente si col
loca in un punto ove non perviene il fiotto delle passioni di
parte, e si mostra come suprema guarentia di tutti i diritti,
cio della vita civile. Il solo limite che incontra allora la sua
azione quello della legge stessa da cui trae la sua forza:
perocch nei governi costituzionali la legge ad un tempo
la fonte e il limite di tutti i poteri dello Stato.
Sicch il reggimento politico a cui siamo chiamati ren
der alla magistratura la sua piena indipendenza ch' la con
dizione pi essenziale per la retta amministrazione della giustizia
e per la dignit del giudice. La coscienza del magistrato non
sar pi tormentata da influenze sinistre e da bieche inqui
sizioni, ma si sentir sicura ed inviolabile.
Queste promesse non sono nuove fra
come si dileguarono. Ma i popoli dell'Italia
loro che vissero lungo tempo in mezzo ad
testare come tali promesse abbiano pieno
noi; e sa ognuno
settentrionale, co
essi, possono at
effetto dal re ga
lantuomo.
Potrebbero anch'essi attestare come in un governo libero
non siano pi temibili le ingerenze dei potenti che nei go
verni assoluti spesso insidiano la giustizia; come non manca
ai deboli la protezione delle leggi. Divenendo veramente uguale
366
la condizione civile di tutti, e come infine sia chiuso il campo
ai maneggi e raggiri a cui talvolta il privato interesse incita
i litiganti.
3 ln un governo assoluto spesso la nomina, la destinazione
e la promozione pei magistrati sono guidate o da cieco arbi
trio o da rei fini politici; e spesso ancora la pravit merito,
la virt delitto. Ma negli ordini costituzionali ove l'opinione
pubblica che a tante manifestazioni non pu essere impune
mente abusata, l'arbitrio assai difficile, la prevaricazione
delle potest giudiziarie impossibile; ed impossibile pure
falsificare il vero merito delle opere del giudice.
Il vigore che acquista l'opinione pubblica nei governi li
beri, sorregge la costanza del magistrato nelle prove difficili,
in cuori tiepidi, e rende immancabile ai meritevoli il com
penso, che dopo quello della propria coscienza il maggiore
che possa sospirarsi, il plauso del buoni. Questi vantaggi, che
alla magistratura procacciano le franchigie costituzionali sa
ranno ricambiate largamente quando l'opera sua corrisponder
all'alto fine a cui ordinata. Quando, in vero, la podest giu
diziaria rettamente esercitata si costituisce come esempio
luminoso di giustizia, come propugnacolo di tutti i legittimi
interessi, e, raffermando nell'anima del singoli cittadini il sen
timento del dovere, avvalora e fortifica l'autorit dello Stato.
L'unione delle varie provincie italiane, togliendo la scienza
giuridica dalle angustie a cui stata finora costretta, assicura
anche alla magistratura quella maggiore e pi desiderabile au
torit che viene dalle scienze. Entrando i magistrati napole
tani nella gran famiglia della magistratura italiana diverranno
comuni a tutti gli studi e le dottrine finora divise, ed il pa
trimonio della scienza domestica si trover accresciuto ed
atto a procacciare anche sotto a quest'aspetto, la indipendenza
da ogni straniera e soverchiante influenza.
Ma, per raggiungere questi beni, duopo che l'opera dei
magistrati risponda all' alto concetto della sua destinazione,
cio che essi possano e vogliano adempire esattamente i loro
doveri.
Aspetta al governo provvedere al primo punto ponendo
agli uffici coloro che sono veramente abili a sostenerli, facendo
che essi siano degnamente retribuiti, dotando gli ordini giu
diziarii di buone leggi, correggendo quelle che si mostrano
difettose.
367
Il governo adempir a questo suo debito con pondera
zione e con fermezza. Esso non guarder al tempo in cui fu
rono nominati gli attuali magistrati, per averlo come norma di
sospetto di fiducia, ma sibbene alle opere loro ed al loro me
rito. Nella creazione de nuovi magistrati, valuter, innanzi tutto
la capacit e la probit ; ma terr conto delle sofferenze ono
ratamente patite per cause politiche. Ne terr conto per re
stituire agli ufficii, a cui legittimanente avrebbero potuto giun
gere, quelli che per le loro opinioni politiche furono allonta
nati dalla magistratura; ne terr conto per facilitare le prime
vie degli ufficii a coloro che le trovarono per lo innanzi spie
tatamente chiuse; ne terr conto come titolo di preferenza in
parit di condizione. Ognun sente che qui si tratta di suprema
giustizia; e tale senza di cui il governo, rinegando s stesso,
assumerebbe il tristo incarico di suggellare le iniquit com
IneS.Se.
Nel provvedere ai posti vacanti, il governo volger pure
il suo sguardo agli avvocati, e si sentir lieto di poter onorare
la magistratura dei nomi di coloro che nell'esercizio dell'avvo
cateria si segnalarono per dottrina e per la probit della loro
vita. Una e indistinta la via su cui camminano gli avvocati
e i magistrati, concorrendo tutti, bench con modi diversi,
al medesimo fine. Quella via si divide quando il governo pre
occupato dai suoi particolari interessi, intende a costituire la
magistratura, come una casta governativa, quando guarda con
sospetto quelli che non ritraggono da esso l'autorit di cui go
dono, e sprezza l'opinione pubblica. Ma il fatto di una legitti
ma esclusione, non pu mutarsi in titolo di una esclusione per
petua. Un governo ragionevole non pu avere altri interessi
che quelli del paese, a cui proposto; e l'interesse supremo
del paese, quando si tratta dell'amministrazione della giustizia
e ch'essa sia confidata a coloro che sono pi atti a bene am
ministrarla. Ci diritto irrepugnabile de contribuenti ed
obbligo del governo.
Questo medesimo principio, deve, a mio avviso, prevalere
nel determinare la preferenza per le promozioni tra magistrati;
e solo quando non vi sia chi vinca gli altri per riconosciuto
merito, non dee recare offesa alla regola dell'anzianit. Tanto
nella scelta de nuovi magistrati, quanto nelle loro promozioni,
avr cura il governo di rivolgere i suoi sguardi indistintamente
in ciascuna di queste provincie perocch tutte meritano eguale
568
sollecitudine e dappertutto vi sono uomini onorati e degni dei
pubblici ufficii.
N il governo deve attendere le dimande di costoro, ma
esso debito cercarli, talvolta i pi insistenti sono i meno me
ritevoli. Credo di aver provato in quanto conto io tengo que
st'obbligo; perocch alla maggior parte di quelli che mi onorai
di nominare altra volta ad alti ufficii giudiziari giunse la loro
nomina inaspettata. Quanto alla destinazione della residenza
de magistrati un governo scevro da sospetti e da puntigli, da
cui spesso muovono le deliberazioni di un potere assoluto, ha
l'obbligo di conciliare, per quanto possibile, l'interesse dei
magistrati con quello della pubblica amministrazione.
N tralascier il governo di pubblicare tutte quelle leggi
che tendono a stabilire l'unione di queste con le altre provincie
italiane, e che possono anche giovare alla retta amministrazione
della giustizia.
Ma se alcuni dei vizii che si notano nell'amministrazione
della giustizia derivano dal soverchio accentramento di essa,
dalla poco considerazione in cui sono stati finora tenuti i mi
nori uffiziali dell'ordine giudiziario, e da altri difetti che fanno
desiderare nuovi provvedimenti legislativi, ve ne ha pure ta
luni che i magistrati possono da s stessi emendare. Tali sono
quelli che nascono dalla osservanza delle norme gi prescritte
dalle leggi, o dalla prevalenza di alcune pratiche che, sebbene
non sieno apertamente dalle leggi disdette, pure tornano dis
dicevoli al decoro degli uffiziali dell'ordine giudiziario, gravi
ai litiganti, pericolose all'amministrazione della giustizia.
Il primo obbligo del magistrato quello di conferirsi al
posto a cui destinato e di non allontanarsi da esso senza
esserne legittimamente abilitato. Eppure io veggo con dolore
parecchi magistrati lontani dalla loro residenza, ed alcuni col
legi giudiziarii affatto chiusi. Dovr io qui esporre i pericoli
che porta questo stato di cose, e i danni che possono se
guirne? lo tacer; ma spero che a magistrati ancora lontani
dal loro posto parler la lero coscienza.
Precipua, tra le garanzie ordinate dalle leggi nostre, la
pubblicit delle discussioni. Essa, meglio di ogni altro mezzo,
riesce a mettere in chiaro il vero, a preservare la coscienza
de giudici da ogni insidia, a rassicurare i litiganti, a concedere
all'opinione pubblica quella salutare ingerenza che deve avere:
essa nobile palestra per gl'ingegni che coltivano la coscienza:
5(9
giuridica; scuola per tutti. E nondimeno, sono informato
che in molti collegi giudiziari, nelle cause civili, la pubblica
discussione trasandata; e che tavolta si cerca di covrire la
violazione della legge merc il consenso dei difenso i. So
quanto si debba in taluni casi concedere ai bisogni che crea
la molteplicit degli affari, ma non mai troppa la circospe
zione del magistrato per premunirsi contro certe esigenze,
che lo spingono fuori della via sicura che gli segnata dalla
legge.
Quanto ai giudizi penali, son certo che la pubblica di
scussione non sar pi, come talvolta stata per lo innanzi,
un vano simulacro destinato a coprire con le forme della legge
-
sinistri disegni; ma che, restituita alla sua piena verit, di
venti un campo di luce feconda per la coscienza de'giudici, e so
lenne documento della giustizia delle loro sentenze.
Sono parimente informato che presso alcuni collegi, le
commissioni agli architetti giudiziarii non siano sempre, fatte
imparzialmente. Dalla eguale distribuzione di tali incarichi Len
pu dipartirsi il magistrato senza gravi e positive ragion.
Un solo atto del magistrato che possa con ragione esser so
spettato di deferenza, basta ad offendere la sua riputazione
e a trarre in discredito l'amministrazione della giustizia.
Mi asterr, per ora, di accennare ad altre pratiche che,
introdotte nei tempi andati per consuetudine, durano anche
oggi; e non senza rincrescimento tralascio d'intrattenermi par
ticolarmente sopra una di esse, che tendono a snaturare agli
occhi de'litiganti, e quindi anche nell'opinione pubblica, l'uf
fizio del magistrato, facendo i suoi atti, alle parti vincitrici,
piuttosto come un favore, che come lo adempimento e un
alto dovere.
Ma io spero che, senza il bisogno di altre parole, le pra
tiche a cui accenno possono fra breve essere dimenticate
Ho aperto alla magistratura di queste provincie con piena
franchezza il mio animo. Spero ch'essa trover ragionevoli i
miei propositi, e confido che con zelo vorr concorrere a 1 e
carli in atto.
Sar per tutti un giorno ben augurato quello in cui po
tremo dire: noi abbiamo una magistratura davvero rispettabile
e altamente rispettata.
Stor della rivol. Sicil. Vol II.
47
370
Diremo impertanto come in realt la magistratura napoli
tana abbisognasse di essenziale riforma, e come il Pisanelli
male non si apponesse nella relazione sopracitata. La magistra
tura napolitana poteva dirsi unica in Italia quanto alla dottrina
ed istruzione; essa era anzi profonda nella conoscenza delle
leggi quanto qualsiasi altra magistratura europea. Il male di
essa stava nella morale, ed era di morale la riforma di che
abbisognava. E come mai egli possibile conservare la buona
morale sotto un governo come quello dei Borboni di Napoli?
Le leggi erano lettera morta, i re mettevano mano nel san
tuario della giustizia e vi dispotizzavano come in ogni altra cosa
del loro reame. Le pene, i processi, le sentenze, tutto dipen
deva dalla volont capricciosa del principe; quindi poco a poco
i magistrati finivano col perdere la coscienza e col vendere la
giustizia; osceno mercato in cui i pi ricchi vincevano sem
pre ed avevano ragione. Tutto in Napoli si otteneva a forza di
danaro; coloro che dovevano essere condannati a morte usci
vano sovente in libert, e tanti altri sventurati ai quali manca
va oro ed argento venivano per lievi colpe condannati a pene
terribili. La popolazione alla scuola di tanta ingiustizia per
deva anch'essa la coscienza e la moralit, e cos tutto guasta
vasi e corrompevasi in modo affatto deplorabile. Fatti son que
sti che provano fino all'evidenza, che sotto governi dispotici
nessuna virt alligna, e che la immoralit travolge cose e
persone.
Altra faccenda che metteva il governo in pensiero era la li
bert della stampa. Comech di simili larghezze non si debba
abusare per non nuocere alla cosa pubblica, il governo che ve
deva le disposizioni degli animi, temeva forte una grande oppo
szione, e la creazione di nuove difficolt. E per fermo, i par
titi fervevano in Napoli, e ve ne erano d'ogni colore, repub
blicani, borbonici, clericali, antipiemontesi. La libert di stampa
avrebbe messo nelle loro mani gli organi delle proprie opi
nioni, e fatto nascere quindi lotte e polemiche imprudenti,
smodate, nocive alla concordia interna ed a quella quiete della
quale si aveva assoluto bisogno per potere assestare le intern
cose di quelle provincie. Da altra parte, la libert della stamp
era un beneficio del nuovo stato di cose che tutti volevan pre
sto godere, ed affrettavano in vari modi la promulgazione
della legge. Non potendosi evitare di mettere la popolazione
delle provincie napoletane al livello delle altre libere popola
751
zioni italiane, fu giuoco forza concedere la libert di stampa:
Non restava al governo che minacciare le pene agli abusi, e
questo venne fatto dal consigliere Pisanelli nella relazione pre
sentata al luogotenente del re prima che la legge venisse pub
blicata.
Ecco la relazione.
Eccellenza !
La libert della stampa da tutti e giustamente ricono
sciuta come una delle pi importanti garanzie dei governi
costituzionali. Ma perch essa raggiunga con effetto la sua alta
missione, duopo premunirsi contro i suoi trasmodamenti.
Per quanto salutare la voce della libera stampa quando
inspirata da nobili principii e dal sentimento del bene del paese,
altrettanto funesta quando mossa, da volgari passioni, di
viene licenziosa e turbolenta. Onde, riconosciuto il principio
della libert della stampa, si mostra indispensabile una legge
che ne reprima gli abusi. Le leggi che qui avevamo, emanate da
un governo che aveva perduta ogni fiducia, abusate e disdette
dall'autori medesima che le aveva stabilite, riguardate con
sospetto da tutti, non potrebbero pi avere e non hanno l'ap
poggio della coscienza pubblica.
Per messo il governo nella necessit di provvedere con
nuova legge, non poteva esser dubbioso sul modo di adem
piere al suo compito. Una legge sulla stampa veniva pubblicata
in Piemonte nel 1848; era tra le pi liberali che avesse l'Eu
ropa; i felici risultati che ha avuti negli Stati Sardi pel corso
dei dodici anni l'hanno accreditata nella coscienza degli Italiani,
e tutte le provincie che novellamente si votarono a Vittorio
Emanuele accolsero con gioia questa legge e se ne mostrarono
degne. Avremmo potuto noi fare alle provincie napolitane una
sorte diversa? ll solo dubbio sarebbe stato ingiurioso. Qui gli
spiriti son pronti, qui abbonda l'immaginativa, qui l'opinione
pubblica non ancora formata; ma qui pure abbonda l'inge
gro, ch' l'occhio d'ogni regola, d'ogni misura, del vero e del
giusto; ed appunto perch l'opinione pubblica ancora in
certa e durano ancora le tracce de' passati disordini, la sola
libert pu apportare rimedio a mali passati e indirizzare il
paese sulle vie del bene. La piena confidenza nella libert
la pi sincera guarentia dei governi liberi.
572
La nuova legge che io propongo alla sua approvazione
si mostra, in quanto alle sanzioni, grandemente disaccorda
dalle leggi penali che qui abbiamo, essendo quelle assai pi
mit, ma io spero che in breve possa essere tutto il sistema
penale armonizzato; informandosi di principii pi conformi
alla ragione ed alla giustizia. Senza esitanza dunque io sotto
pongo alla sua sanzione quella parte della legge piemontese
del 1848 che concerne la difinizione dei reati di stampa e la
determinazione delle pene. Solo ho creduto necessario di ag
giungervi quelle dichiarazioni, che gi si trovano nel codice
penale pubblicato nel 1859, e che servono a completare la
legge sulla stampa.
Quanto alla giurisdizione e competenza pe reati di stampa,
si potea dubitare se potesse attribuirsi ai giurati, ovvero ai
tribunali da cui amministrata la giustizia penale in queste
provincie. Deferire i giudizii di stampa alle corti criminali sa
reb e stato lo stesso che creare una eccezione alle regole or
dinarie della giurisdizione gi molto lamentata per altri fatti,
ed assurda pe'reati di stampa. Affidandola a giudici regii si
sarebbero spogliati i giudizi di stampa di quelle maggiori
guarenti e che sono in esse desiderabili, e si sarebbero espo
sti a quegli indugi che spesso rendono perfino vano il giu
dizio.
D'altra parte la istituzione dei giurati pe giudizi di stampa
un principio irrepugnabile; ed pi avventurosamente og
gin per l'Italia un fatto generale.
-
'o spero che tra poco ci sar dato di estendere il giuri
ane a tutti gli altri reati, ma in ogni modo era per noi indi
spensabile adottarlo pe reati di stampa.
Quanto alla composizione del giuri e alle procedure n
cessarie, non ci era lecito innovare su questo punto la legi
slazione da cui son rette le altre provincie italiane, ma era
necessario accordarla con le leggi che qui governano i giu
dizi penali. Onde ci stato mestieri introdurre nella legg
-
sulla stampa molte disposizioni che si trovano nel codice di
procedura penale Sardo necessarie per regolare l'andament
del giudizio pei giurati.
-- -
Un temperamento provvisorio per la costituzione del giur
era anco per noi indispensabile non essendosi ancora app
noi formate le liste elettorali ed ordinata l'amministrazion
pubblica in conformit delle leggi dello Stato.
575
Io confido che la legge che ho l'onore di proporle por
ter presso di noi i medesimi risultati che ha ottenuti nelle
altre provincie italiane, e che la stampa napolitana compier de
gnamente la sua nobile ed alta missione.
e
G. PISANELLI.
Convien confessare che tali e tante eran le cose da farsi
nelle provincie napoletane da abbisognare di uomini grandi
al governo. Uno dei grandi mali di quelle sventurate provin
cie era appunto la mancanza di strade ferrate, di ponti, di
vie rotabili, di mezzi di comunicazioni. Eppure erano esse
grandemente necessarie al commercio, all'industria, e forte
mente reclamate dalla civilt e dal progresso. I Borboni non
eransi mai interessati di cotesti miglioramenti, perciocch a
loro giovava governar sopra gente povera ed infelice, e tenerla
disgiunta e come separata da tutto il mondo per la difficolt
delle strade. I Borboni sapevano di esser tiranni e di avere
nei popoli non altro che nemici. Era loro politica impedire la
comunicazione delle vie affinch i sudditi non si intendessero
fra loro, e mai potessero giungere al organizzare una vera e
generale congiura. Quindi eccettuate le vicinanze di Napoli,
dove eranvi delle strade pi da diporto che altro, il resto
del regno era cos abbandonato da dover pericolare la vita
ove la necessit volesse che si intraprendesse un viaggio.
Il nuovo governo per far sentire gli effetti buoni del mu
tamento di sistema si affrett a migliorare questa parte di
opera, e molto pi avrebbe fatto, se il ministero di Torino
gretto e spilorcio non si fosse negato a prestar larghi aiuti
alle provincie del mezzogiorno.
Aggiungeremo che la reazione alzando in vari punti la
-
testa faceva sentire la necessit di dar lavoro alla gente e di
apprestarle cos gli onesti mezzi di sussistenza. Quando ap
presso parleremo della reazione saremo in grado di dimo
strare, che la non sarebbe stata n cos feroce n cos ge-
nerale se sin dal principio il governo avesse offerto lavoro ai
poveri delle provincie napolitane. Per ora ci limiteremo a dire
che tutta la stampa italiana grid in quei giorni lavoro, la
voro, ma il conte di Cavour che aveva acquistato l'abito di
ridersi della pubblica opinione fece orecchio da mercante, e
574
lasci che le cose andassero lentamente, e che la reazione si
ingagliardisse.
Pure alcune somme furono messe in pronto, altre si spe
rava potere avere in appresso, e con questi pochi fondi da
potere disporre, il consigliere dei lavori pubblici dirigeva ai
governatori delle provincie la seguente circolare :
Signore.
Chiamato a reggere un dicastero che tanto intimamente
si connette colle fonti principali della ricchezza pubblica e pri
vata e col benessere nazionale, mio debito di venir ricercando
gli svariatissimi bisogni di queste provincie ed i mezzi come
provvedervi. Or che abbiamo la ventura di essere rientrati
nella gran famiglia italiana, e che siamo retti da un glorioso
principe, destinato dalla provvidenza a ritornar l'Italia alla
sua antica grandezza noi dobbiamo fare ogni opera per rav
viare queste provincie a quella floridezza e prosperit, cui
sono destinate di natura. Ho rivolto le mie prime cure alle
vie di comunicazione, perch la loro mancanza il maggiore
ostacolo che si oppone al progresso dell'agricoltura, dell'in
dustria e del commercio, ed alla prosperit civile in queste
provincie. Strade-ferrate, ponti, strade ordinarie, tutto sventu
ramente fra noi da fare, e sollecitamente dobbiamo venirvi
provvedendo.
Ma mentre stiam facendo egni opera per animare la coo
perazione dell'industria privata delle grandi intraprese delle
strade ferrate e dei porti, che dovranno ridonare novella vita
a queste contrade, fa mestieri che ci rivolgiamo alacremente
alle strade ordinarie, che immediatamente potranno portare per
ogni dove la prosperit ed il benessere.
Le condizioni in cui si ritrovano quasich tutte queste
-
provincie quanto alle vie di comunicazione sono deplorabilissi
me: vi ha delle estensioni immense di territorio senza strade:
vi ha fin delle citt principali senza via che vi meni. Evvian
cora alcuna provincia in questa parte meridionale d'Italia, ove,
sopra una superficie di circa 3,000 chilometri quadrati, e con
una popolazione di 320,000 anime, non si rinviene che 76 chi
lometri di strada, cio vi ha un chilometro di strada per ogni
39 chilometri quadrati di territorio e per ogni 4,210 abi
575
0": i
is
li i
tanti, quando vi sono altre provincie, in altra parte d'Italia,
ve vi ha un chilometro di strada per ogni chilometro qua
drato di territorio e per ogni 160 abitanti. Queste cifre son
Pur troppo desolanti, ma tanto pi c'impongono il dovere di
fa i
Provvedere per ogni modo a queste stringenti necessit, per
cui sempre urgentemente, ma vanamente, sono stati reclamati
Provvedimenti da queste popolazioni. Richiamo dunque, si
gnor governatore, tutta la sua cooperazione su questo ramo
principalissimo di pubblico servizio. Ho gi disposto che fran
cht 860,000 (ducati 200,000) siano per ora immediatamente
Spesi dal tesoro dello Stato, non solo per le strade regie, ma
ancora per le strade provinciali, affin di dare un aiuto alle
provincie.
Dovr esser sua cura di metter mano immantinenti ai
lavori, e se mai vi fossero dei fondi provinciali addetti alle
opere pubbliche non ancora spesi, curer che siano impiegati
senza alcun ritardo. N cos solo darem opera alle strade, ma
verremo in soccorso delle classi bisognose coll'unico mezzo con
cui vi si pu efficacemente, ossia coll'accrescimento della do
manda del lavoro.
E perch il governo possa venir provvedendo secondo la
vera importanza della cosa, necessario che ella, signor go
Vernatore, mi mandi quanto pi presto pu, tutte le notizie
che io le chiedo cogli annessi stati intorno alle strade, sia
compiute, sia in costruzione, sia in progetto. Inoltre, ella, si
gnor governatore, dovrebbe unitamente alla deputazione pro
vinciale, facendo tesoro degli avvisi degli uomini pi intelli
genti della provincia, e tenendo presenti i voti emessi dai pas
sati consigli provinciali, ricercare e farmi conoscere quale sa
rebbe la miglior rete di strade di cui potesse esser ricoverta
Cotesta provincia, facendo che non vi sia alcuna contrada o
centro di popolazione che abbia a difettare di strade e prov
vedendo ad un tempo al commercio speciale dei comuni e
della provincia ed agli interessi generali dello Stato. Un si
stema ben inteso di strada la principale sorgente della pro
Sperit di un paese, ed io reclamo non solo la sua attenzione,
Signor governatore, e quella della deputazione provinciale, ma
l'attenzione di tutti, e specialmente quella dei municipii e delle
societ economiche e dei pi intelligenti cittadini su questo
importantissimo argomento. In uno Stato libero, debito d'o
gni libero cittadino di concorrere secondo le proprie attitudini
-
576
al bene della cosa pubblica, ed ognuno deve essere persuaso
che un governo veramente libero non che il risultamento
come della volont, cosi della cooperazione dell'universale.
Sar mia cura poi, valendomi dei consigli e dell' opera
dei vostri eminenti ingegneri di ponti e di strade, di ordinare
tal rete stradale per tutte queste provincie, che ne possa de
rivare la nostra maggior prosperit.
Intanto dalle provincie giungevano lamenti infiniti, e questi
non capricciosi, non pazzi, ma giusti e fondati. La ricolta era
stata poca, e la miseria cresceva; il caro dei viveri facevasi sen
tire in modo spaventevole, n vi era mezzo a riparare. La rea -
zione rendeva pi difficile quello stato di cose, perciocch i
proprietari pi non erano padroni dei loro beni, e sovente i
loro averi venivano in un sol giorno derubati e nelle campagne
e nelle citt dai briganti.
Vi aveva lamenti di altra natura, essi riguardavano i magi
strati, che continuavano sotto il nuovo governo a fare ci che
fatto avevano sotto l'antico; vendere cio la giustizia ed in
grassarsi col pane del delitto. Neppure il governo dittatoriale
avea potuto riuscire a mondare di tanta lebbra quelle popola
zioni sventurate. E quasicch neppure questo bastasse aggiun
gevasi la piaga del disciolto esercito borbonico. Quei soldati
eran tornati alla loro casa, ma non trovando di che vivere o
davansi al furto, o correvano a raggiungere le squadre dei bri
ganti che accrescendo sempre di numero andavano scorrazzando
per le montagne, spogliando i viandanti, e saccheggiando paesi
e borgate.
Questo stato non poteva durare. Per ripararvi si voleva che
-
i mali veri e reali fossero conosciuti nella loro estensione e
profondit, e che dalle provincie stesse venissero indicati i
mezzi efficaci alla difficile opera. Il consigliere per l'interno,
diresse a tal fine una circolare a tutti i governatori di quelle
provincie, e che noi riportiamo, affinch i nostri lettori cono
scano i mali di che allora le provincie napolitane erano mi nacciate.
Ecco la circolare:
Gl'Italiani lungamente travagliati dal represso desiderio
di riunirsi in una grande famiglia e di costituirsi in libera ed
indipendente nazione, veggono oramai il loro voto quasi intie
-
577
ramente compiuto sotto il potente e leale patrocinio del ma
gnanimo nostro re Vittorio Emanuele. Questa prodigiosa ri
voluzione che non trova riscontro nella storia, si operata
senza grandi commovimenti e con insperata rapidit per virt
di un volere concorde ed irresistibile. Pure alcuni interessi do
vevano rimanerne necessariamente turbati, sopra tutto in que
ste provincie dove per mala ventura stato inevitabile di
Combattere un esercito composto in parte di stranieri, in parte
da uomini sedotti dalle male arti, di un governo che repu
diato unanimemente dai popoli e colpito da universale ripro
vazione, non trovava rifugio che nella forza materiale.
Cancellare ogni traccia di tali turbamenti certamente il
primo cmpito dei governatori delle provincie. La loro azione
essere deve benefica, paterna, riparatrice, ma in pari tempo
ferma e risoluta, e penetrare dovunque sia una sventura da
soccorrere, un merito da premiare, un malvagio da sorpren
dere e punire. Convinti che ormai tutti gli onesti cittadini in
distintamente circondano col loro amore il trono costituzio
nale di Vittorio Emanuele, debbono essi prenderli tutti egual
mente in benigna considerazione senza studio di parte, ma
benanche senza mai dimenticare essere pure altamente coman
dato dalla giustizia, che per quanto possibile, siano rimu
nerati coloro ai quali finora un generoso sentimento di patria
carit fu imputato a delitto, ed al cui merito ogni via fu
chiusa.
Ma non basta provvedere ai casi particolari; fa duopo che
siano essi dai governatori raccolti insieme, raffrontati e stu
diati in guisa che si possa scoprire quali siano nelle corrispet
tive provincie le sorgenti di prosperit quali i germi di cor
il
ruzione e rivelarli al governo, perch possa questo coi pi
larghi suoi mezzi andar promovendo le prime ed estirpando
gli altri.
Primo ed urgentissimo bisogno certamente il purificare la
pubblica amministrazione e conciliare quel rispetto e quell'auto
rit senza di cui, l'esercizio del potere riesce oppressivo ed inabile
a procacciare il bene. Onde mestieri che i governatori delle
provincie, circondati dagli uomini che in ciascun capoluogo
siano pi stimati, e per possano meglio farsi interpreti della
pubblica opinione, procedano senza indugio a scrupoloso esame
della condotta di tutti gli agenti dell'amministrazione. Sulle
lor proposte, il governo da una parte prender in conside
Stor della rivol Sicil. Vol. II.
48
578
razione i nomi di tutti coloro che saranno giudicati merite
voli di premio, ma dall'altra non tarder ad allontanare dal
maneggio della cosa pubblica quelli che si fossero disonorati
con illeciti lucri, e che tenendo i loro uffici non dal merito
proprio, ma dal favore del passato governo, furon prima com
plici delle sue colpe ed ora ne sono i continuatori.
In questo anno la natura non ha largamente compensato
gli stenti dell'agricoltore, e, comunque questo danno sia men
grave che negli ultimi anni, pure non deve sfuggire alle cure
d'un provvido amministratore. Ci conviene innanzi tutto illu
minare il volgo mostrandogli come l'ingerenza governativa, non
che apportar rimedio al male, lo aggravi; che infatti il caro
del grano e delle altre biade, divenuto oramai quasi costante,
se in parte da imputare alle vicissitudini atmosferiche ed al
calo del valore della moneta, in pi gran parte ancora l'ef
fetto delle viziose pratiche del caduto governo. Le quali vio
lentando ed intralciando il commercio, hanno impedito l'accu
mulazione del capitale destinato all'agricoltura, e sviato una
parte di esso dalla coltivazione delle varie specie di biade, per
forma che la produzione non ha potuto pi seguire il naturale
incremento della popolazione. Solo la piena libert pu dun
que ora riparare al male, e ad essa il governo affidandosi,
non omette di far pubblicare in molte piazze le nostre mer
curiali per istimolare il commercio a recarvi quella derrata dai
luoghi dove sia men cara che tra noi.
Ma non bisogna a ci arrestarsi: debbono anche i gover
natori provvedere alla piena libert del commercio interno, sia
vietando severamente che i comuni produttori di grani ne im
pediscano l'uscita ed affamino cos gli altri, sia col restituire
la necessaria sicurezza alle vie di comunicazione e pr tal
modo agevolare i traffichi di quella derrata e far che equa
mente si spanda su tutta la superficie di questa provincia.
A tal fine saranno in tutte le strade istituiti frequenti posti
di vigilanza e di perlustrazione, i quali, in mancanza di altra
forza pubblica, saran coperti dalle guardie nazionali, che ri
marranno responsabili di qualunque attentato sar commesso
nei tratti alla loro custodia affidati.
Con questi temperamenti giova sperare che sar atte
nuato il male. Ma sopra ogni altra cosa fa duopo trovar modo
di procacciare abbondante lavoro a chi non vive che delle sue
fatiche, e per promuovere principalmente le opere comunali
579
che portano la vita fino all'ultimo villaggio, fino al pi me
schino tugurio. Ed a quest'uopo, poich non ignoto al go
verno la distretta in cui sono la maggior parte dei municipii,
il luogotenente generale ha voluto ch'io mi ponessi d'accordo
col mio collega incaricato del dicastero delle finanze per sus
sidiare i comuni col credito del governo, ed in tal guisa render
loro possibile di prendere a prestanza il denaro necessario per
menare a compimento importanti lavori. Le nostre cure non
sono state infruttuose; utili trattative son gi bene avviate,
ed io invito i governatori a convocar subito i decurionati dei
comuni posti nelle rispettive provincie, perch dichiarino quali
opere siano pi urgenti, qual capitale vi occorra, ed assumano
l'obbligo di pagare una modica annuit, che comprenderebbe
non pur l'interesse, ma anche la rata necessaria ad operare
l'ammortizzazione del capitale.
Il pagamento di questa annuit riuscir per avventura lieve
alle aziende amministrative se il parlamento nazionale vorr,
come non dubito punto, accogliere un progetto di legge che
sto preparando per disgravare i municipii di tutte le spese estra
nee alla loro amministrazione.
Dovranno poi portare i governatori particolarmente le
loro cure sulla pubblica beneficenza. Anche in essa era pene
trata la corruzione del passato governo, e si davano, e forse
si dan tuttora, mensuali assegnamenti, non a sollievo degli
infelici, ma a rimerito di segreti e pravi servigi renduti.
superfluo il dire come di questo scandalo ogni vestigio debba
sparire; ma pur necessario che i governatori delle provincie
avvisino ai modi di semplificare e rendere meno costosa l'am
ministrazione degli istituti di carit e restituirli alla loro vera
destinazione. L'attenzione del governo volta particolarmente
a questo importante obbietto, e la consulta stata dal luogo
tenente generale richiesta di prestare anche intorno a ci il
concorso dei suoi lumi.
Da ultimo debbono i governatori con ogni sforzo cercar
di menar a termine i litigi pendenti per ripartizione di de
manii o scioglimento di promiscuit. tempo oramai che si
dia sfogo a quanto vi ha di legittimo nelle insistenze di pa
recchi comuni, e s'imponga silenzio agli ingiusti clamori. Dal
canto mio, non perdoner a cure ed a fatiche fino a quando
quest'importantissimo scopo non sar raggiunto.
* Tralascio di parlare della pubblica istruzione, poich il
380
mio collega di quel ramo fervorosamente intende ad istruirla
ed ordinarla, ed io non dubito che i governatori delle pro
vincie vorranno secondare le sue cure in questa grande opera
intesa a moralizzare i popoli e a spingerli nelle vie del pro
gress0.
Dopo questo breve cenno di quel che il governo centrale
ha potuto comprendere in uno sguardo rapido e generale,
non posso ora che attendere dallo zelo e dai lumi dei gover
natori delle provincie particolareggiati rapporti, affinch si
possa portar rimedio, quando la natura delle cose consenta a
quei mali che da condizioni locali prendono origine.
Grave certamente il carico del governo e dei preposti
all'amministrazione delle provincie in questo breve periodo che
ancor ci divide dalla sospirata riunione di quel parlamento che
deve annunziare al mondo che 21 milioni d' Italiani costitui
scono oramai una grande nazione. Applicando il sistema elet
tivo, non pure al centro dello Stato, ma alla provincia ed al
coInune, la vita politica si spander da per tutto; e quella re
sponsabilit che ora pesa intera sul governo sar divisa coi
legittimi rappresentanti del popolo. Onde l'interesse dei go
vernatori si unisce ora a quello dei popoli per inculcarci di
affrettare l'attuazione di tutte le leggi organiche, senza le quali
i varii corpi rappresentativi non potrebbero sorgere. Gi i go
vernatori sono stati incaricati delle circoscrizioni elettorali, e
si attendono i lumi della consulta sull'ordinamento delle guardie
nazionali e dei municipii. Lo zelo dei governatori pel pubblico
bene sar principalmente giudicato in ragione dell'alacrit con
cui presteranno l'opera loro nella esecuzione di questo impor
tantissimo servigio.
Le nostre cure saranno largamente rimeritate se potremo
nutrir lusinga di aver contribuito all'opera di riparazione e di
rinnovamento a cui il governo del re altamente intende.
Napoli, 6 dicembre 1860.
D'AFFLITTo.
Quali effetti producesse questa circolare i nostri lettori pos
sono deteggere considerando lo stato in cui allora trovavansi
le provincie napolitane. Poco bene ne risult, perciocch il
consiglio di luogotenenza era quasi sempre ingannato dai rap
581
porti dei governatori, che in quei momenti di subbuglio cer
cavano proteggere i loro amici e partigiani, e vendicare an
tiche ingiurie contra i loro nemici.
La citt intanto non era tranquilla, ed alcuni del disciolto
esercito garibaldine si spingevano a fatti dispiacevoli. Tra tanti
ne narreremo alcuno.
Il teatro Nuovo era diventato il campo di battaglia di pa
recchi vagabondi, che avendo addosso una camicia rossa, senza
forse aver mai combattuto, credevano aver diritto a suscitare
disordini. In mezzo a loro eranvi garibaldini veri, ma mal
contenti pel cattivo trattamento ricevuto dal nuovo governo, e
venuti quindi nel partito di opposizione. Si recitava in quel
teatro un'operetta intitolata Esultanza Napoletana, ed avveniva
che quando suonavasi la marcia reale, essi facendo urli impo
nevano che si cantasse l'inno di Garibaldi; n paghi di una
sola volta, quattro e cinque volte in ciascuna sera volevasi ri
petuto. Dall'altra parte avveniva che buon numero di spetta
tori domandasse alla sua volta la ripetizione della marcia
reale, onde ne venivano gridi, fischi e spesso percosse e sfide.
Le autorit cercavano mettere fine a cotesti scandali adope
rando la guardia nazionale che con gentili maniere affatica
vasi a conciliare gli animi, e poi per mezzo degli ufficiali ga
ribaldini stessi che si prestarono all'uopo. I mezzi adoperati
dall'autorit andarono a vuoto e per evitare gli arresti fu fatto
chiudere il teatro.
Il giorno della chiusura disgraziatamente era stato affisso
l'annunzio della recita della solita opera. Giunta la sera, pa
recchi incominciarono a gridare che volevano a viva forza aperto
il teatro; si cercarono rompere le porte, e furon vane le pre
ghiere dell'accorsa guardia nazionale. Di l i tumultuanti an
darono al posto di guardia della polizia di cui era commis
sario Francesco Vespa, antico martire della libert. Si grid
abbasso il commissario; questi invano gli esort a rientrare
nell'ordine; invano la guardia nazionale accorse una seconda
volta, i tumultuanti tornarono al teatro Nuovo, ne aprirono a
viva forza le porte, accesero i lumi e saliti sul palco scenico
si diedero a cantare l'inno di Garibaldi. Indi si grid abbasso
il prefetto di polizia, morte ai birri. Dopo il teatro corsero per
Toledo, e non cessarono di schiamazzare se non quando ne
furono stanchi.
Triste cose erano queste in tempi tanto difficili, ma anco
382
in ci il governo aveva la sua parte di colpa, perciocch esso
da qualche tempo cominciava a mostrarsi avverso alle dimo
strazioni che si facevano in onore di Garibaldi.
Intanto l'opera della dissoluzione militare continuava ed il
generale Cosenz dirigeva alla sedicesima divisione il seguente
ordine del giorno.
Soldati !
Prima di separarci, abbiatevi da me un addio. Abituato a
stare in mezzo a voi, sento il dolore della bench forse momen
tanea separazione.
Cacciatori delle Alpi, passaste il Ticino, e primi a combat
tere, vinceste un nemico che meno nel coraggio, vi era in
tutto superiore.
Armati cittadini nelle Romagne, faceste argine alle vanda
liche truppe del pontefice. All'appello dell'insorta Sicilia, non
ultimi giungeste in Palermo.
A Milazzo ricordaste le vittorie di Varese e di Como.
Non un lamento per le lunghe e faticose marcie, per le
tante privazioni.
Intrepidi nello eseguire l'ardimentoso passaggio del Faro,
minacciati a tergo dalla flotta nemica, ai fianchi dalle arti
glierie dei forti, di fronte dalla sold tesca che avrebbe voluto
impedirvi lo sbarco, voi la respingeste a Favazina, la vinceste
e fugaste a Solano.
Da prodi combatteste sotto Capua il primo e secondo ot
tobre con ripetuti attacchi alla baionetta, in pi punti fugaste
il nemico; v'impadroniste di cannoni, di cavalli, di bandiere.
I duecento del primo bersaglieri alla difesa di Castelmorone
sono superiori ad ogni elogio.
-
Nel blocco di Capua molestati di continuo dal nemico,
tutti i giorni vedevate aumentarsi il numero dei feriti, degli
uccisi, per le ingiurie della stagione crescere le malattie; ep
pure, fermi al vostro posto non diceste un solo lamento.
Ora non avendo pi nemici da vincere, anelate correre
a riabbracciare la famiglia, gli amici. Fate per che nessuno
manchi all'appello se un giorno la patria avr ancor bisogno
di voi per compiere il gran programma: l'Italla libera dalle
Alpi all'Adriatico.
CosENz .
585
Si pensava fra di tanto all'ordinamento interno delle pro
vincie. La consulta si radunava nella sala della luogotenenza.
Fu presieduta dal luogotenente che l'inaugur con una breve
parlata, in cui espose il doppio fine che quella istituzione
avvebbe avuto a compiere giacch le sarebbe stata affidata la
preparazione non solo della maggiore e pi rilevante parte
delle leggi, che in quel breve periodo transitorio si sarebbe do
vuto promulgare, ma anche delle inchieste di polizia civile e
morale pei disordini penetrati in uno o in altro ramo d'ammi
nistrazione durante il governo della cessata dinastia. E scen
dendo a particolari preg i consultori di volere prontamente
avvisare su quattro diversi oggetti che avrebbe per i primi
proposti alle loro deliberazioni. I quali erano: la legge comu
nale e provinciale e di sicurezza pubblica, il cumulo degli im
pieghi che allora aveva vigore nell'alta Italia, e le materie della
beneficenza e quella dei beni comunali.
La consulta procedeva quindi alla nomina del suo vice-pre
sidente, il barone Carlo Poerio era eletto all'unanimit.
Ma una quistione essenziale affacciavasi, ed era la forma
zione dei collegi elettorali per la elezione dei deputati al
parlamento.
Le leggi erano gi stabilite; e quindi il consigliere di luo
gotenenza per l'interno indirizzava ai governatori delle pro
vincie la seguente circolare:
Signor governatore,
Ad oggetto di provvedere con sollecitudine alla formazione
dei collegi elettorali in queste provincie napoletane, secondo
le norme segnate dal parlamento nazionale, e gi dal governo
del re stabilite per l'Italia superiore, il luogotenente generale
del re ha risoluto fissarsi il numero dei deputati da eleggersi
in ciascuna provincia, e di incaricare le commissioni provin
ciali, istituite col decreto del 12 novembre 1860, della for
mazione del progetto di circoscrizione dei detti collegi.
In esecuzione dei voleri del luogotenente generale, io mi
affretto a farle conoscere che il numero dei deputati da eleg
gersi in questa provincia di . . . . . . e ad invitarla a convo
care, al pi presto possibile, la commissione provinciale, pre.
scegliendo per ciascun distretto due persone, che, la cono
584
scenza delle condizioni locali, siano atte a ben compiere il loro
mandato.
La commissione provinciale, come prima sar riunita,
dar opera a dividere le provincie in circoscrizioni elettorali di
un numero pari a quello dei deputati, di sopra indicato.
In questa operazione non terr conto dell'articolo 62 della
legge elettorale intorno alla ripartizione dei collegi per distretti,
e curer principalmente che il numero degli abitanti della pro
vincia sia equamente distribuita tra i varii collegi elettorali,
per quanto il consentano le condizioni locali.
Questo lavoro, che non presenta gravi difficolt, sar com
piuto nel pi breve termine possibile, ed io lo attendo pel
giorno venti di questo mese al pi tardi.
Mi assicurer per telegrafo di aver ricevuto questo ufficio,
e di averne incominciata la esecuzione .
Napoli, 1. dicembre 1860.
Il consigl. di luogotenenza
R. D'AFFLITTO.
Abbiamo detto di sopra essere grave questione quella del
l'elezione dei deputati; non si dee dimenticare, che un partito
avverso al governo si adoperava a mandare alla camera uomini
di opposizione; e neppure vuol essere dimenticato che in paese
nuovo alla politica libert i brogli elettorali tornarono faci
lissimi.
La luogotenenza emanava per l'istituzione delle Giunte mu
nicipali incaricate della formazione delle liste elettorali il se
guente decreto:
Art. 1. istituito presso ciascun comune una giunta mu
nicipale, esclusivamente della formazione delle liste elettorali
per le nomine dei deputati al parlamento italiano.
Art. 2. Essa sar costituita dal sindaco di ciascun comune
o di chi ne fa legalmente le veci, e di quattro membri, nei co
muni la cui popolazione non sorpassi i tremila abitanti, di sei in
quelli la cui popolazione non sorpassi i ventimila abitanti, di
otto in quelli la cui popolazione ecceda i ventimila abitanti,
e di ventiquattro nel comune di Napoli.
385
Art. 3.0 l decurionati nomineranno dal proprio seno la
met dei membri dell'indicata giunta, a maggioranza assoluta
dei voti. L'altra met sar dai rispettivi governatori nomi
nata fra le persone pi intelligenti ed oneste di ciascun co
II) UD 0.
Art. 4. Nella citt di Napoli la giunta si divider in 12
sezioni, ciascuna delle quali composta dell'eletto, di un mem
bro scelto dal decurionato nel suo seno, e di un cittadino
nominato dal governatore ; si incaricher della formazione
delle liste per la sezione che la riguarda.
Art. 5. Queste giunte si riuniranno e pubblicheranno gli
avvisi, di cui si fa menzione nell'art. 19 della legge elettorale,
il giorno 20 dicembre.
Art. 6. L'esecuzione del presente decreto affidata al
consigliere di luogotenenza incaricato del dicastero dell'in
tern0 .
-
Napoli, 9 dicembre 1860.
FARINI.
Il dicastero di grazia e giustizia si pensava far la propo
sta di un nuovo codice civile da doversi presentare al parla
mento nazionale. Il consigliere Pisanelli ne fece comunicazione
alla corte suprema ed alle gran corti civili colla seguente
lettera:
Il movimento nazionale manifestatosi potentemente dopo
il 1848 faceva volgere il pensiero di tutte le menti all'unifi
cazione della legislazione. Vittorio Emanuele aveva con alto
animo assunto la magnanima impresa di ristaurare la naziona
lit italiana; e quindi il suo governo tolse a cura di unificare
la legislazione dei varii Stati della penisola. Con questo pro
posito statuiva una commissione per la proposta di un nuovo
codice civile. Compiuto il lavoro, il ministro di grazia e giu
stizia cavaliere Cassinis lo comunicava ai due rami del par
lamento invitandoli a creare rispettivamente una commissione
per rivederlo, e nel tempo stesso lo comunicava pure ai ma
gistrati delle varie provincie italiane, che si trovavano allora
riunite allo Stato, per ottenere da essi quelle osservazioni
che il loro sapere e la loro esperienza sapeva suggerire.
Stor, della rivol. Sicil. Vol. II.
49
586
Ora che sotto lo scettro di Vittorio Emanuele si trovano
anche felicemente riunite queste provincie napolitane dove la
scienza delle leggi stata sempre attivata da eletti ingegni che
hanno tanto contribuito alla gloria d'Italia, il governo centrale
del re ben lieto di potersi giovare dell' opera sua e delle os
servazioni della magistratura napolitana. A questo fine le tras
metto una copia del suddetto progetto. Son sicuro che ella
ed il collegio, compresi dell'importanza dell'incarico, lo com
piranno con alacrit; tenendo conto dei principii della scienza,
dei bisogni del paese e delle dottrine del Foro; e cos con
correranno nabilmente in un'opera destinata a compiere nei
gli ordini civili la sospirata unificazione della patria comune.
Quando alla proposta, gi maturata dagli studii di chiari giu
reconsulti, saranno aggiunte le osservazioni di tutta la magi
stratura della penisola, il governo del re si trover in grado
di sottoporre a quel parlamento in cui si raccoglieranno i
rappresentanti di tutte le provincie d'Italia, un progetto meri
tevole de loro suffragi, e noi potremo con fiducia sperare
che avremo in breve un codice degno del nome italiano.
Argomento di molta importanza erano in Napoli le riforme
da introdursi nell'amministrazione del grande Albergo dei
poveri. La seguente relazione del luogotenente al re Vittorio
Emanuele dimostra in quale stato esso si fosse sotto i Bor
boni:
Sire!
L'Albergo de'poveri, al quale V. M. ha volto il pensiero
e le sollecitudini sue, fu istituito nel 1751 da Carlo II, con
l'intendimento di farne un asilo pe'poveri di tutto il regno,
dove i vecchi e gl'infermi avessero ospizio, e dove fossero
educati ed istruiti gli abili al lavoro ed i fanciulli abban
donati.
Il vasto e splendido edificio fa a noi testimonianza di
quella magnificenza colla quale anche la carit innalz in
Italia i suoi monumenti.
Ma come l'esterna magnificenza, cos il pensiero che
ordin l'istituto parve informarsi piuttosto alla liberalit
dell'intento, che ai concetti particolari e pratici della bene
ficenza.
387
L'amministrazione e la direzione dell'Albergo dei poveri
furono pi volte ed in diverse maniere modificate; la qual
cosa addimostra come i risultamenti ottenuti dai disegni pre
concepiti si discostassero dal fine desiderato, per modo che
lo stesso governo, alieno dalle novit, era condotto in neces
sit di mutare ed innovare.
Avvenne adunque, per decreti successivi, l'Albergo dei
poveri, incominciasse ad esser sciolto dalla suggezione alla
commissione centrale di beneficenza che amministrava tutti i
luoghi di carit, e che, al pari degli altri grandi istituti, fosse
dotato d'amministrazione propria.
In appresso fu conosciuta la necessit di gratificare le sin
gole provincie di particolari istituti di carit, e l'Albergo dei
poveri, destinato alla provincia napolitana, continu ad ac
cogliere dalle altre solamente i ciechi ed i sordo-muti.
Una sola amministrazione ebbe potest di governare sette
altri ospizii, istituiti ed ordinati a diversi fini, cosicch oggi
cotesta amministrazione, che piglia il nome dell'Albergo de'po
veri, ha una rendita annua di circa ducentocinquantamila du
cati, ed accoglie una famiglia di cinquemila trecentocinquanta
ospitati.
Alcuni mesi fa raggiunsero il numero di cinquemila e
seicento.
Gli ospitati, a non parlare degli infermi, sono divisi in
categorie diverse, e mentre la cadente vecchiaia e la incurabile
infermit vi hanno asilo per tutta la vita, i trovatelli, gli or
fani poveri dei due sessi, i figli di genitori mendici, i fan
ciulli abbandonati e discoli, vi sono temporaneamente accolti
ed istruiti in qualche arte. Dovrebbero a tal fine aversi scuole
ed officine diverse, ma poche ve ne ha, n le poche son
ben governate, sicch dalla buona intenzione non segue l'ef
fetto.
Pare a me che, prima d'ogni altra cosa, si debba esa
minare che non sia opportuno lo sceverare le diverse classi
degli ospitati per usare le diligenze particolari che sono ad
dimandate dalle particolari condizioni fisiche e morali dei ri
coverati. E parmi fuor di dubitazione che si debba studiar
modo di diminuire, se non togliere, gli sconci delle troppe
vaste amministrazioni, il pericolo di intorpidire nel forma
lismo burocratico l'opera solerte e molteplice della benefi
CeD 2 Ol-
588
Intanto per autorevoli testimonianze e sicuri docu
menti manifesto che nello Albergo de'poveri la istruzione
negletta, che languono le manifatture, e che le scuole per
gli artieri eran vent'anni addietro pi numerose di quello che
ora nol siano. Pare che il caduto governo altro non avesse
in mira che farne un vivaio di giovani destinati a cambii mi
litari.
Era impossibile che anche sulla pubblica beneficenza non
imperassero gli influssi di quel sistema politico pel quale un
vigile sospetto d'ogni aumento di vita morale prendeva volon
tario aspetto di mancanza e d'obblio.
A quel modo che male sono raggiunti i fini morali del
l'istituto, cos il metodo di economica amministrazione, ri
chiede provvedimenti di efficace riforma.
L'Albergo de' poveri com'ebbi l'onore di dire alla mae
st vostra, ha una rendita di circa ducati dugentocinquan
tamila.
Senz'entrare in minuti particolari, noto che s'incontra un
disavanzo annuo di pi di ducati ventimila. Questo disavanzo
annuo e le conseguenti considerevoli passivit sono da rife
rirsi in parte alla eccedenza del numero di ricoverati sul nor
male numero di cinquemila, che serve di base a calcoli pre
suntivi. Egli quindi anzi tutto necessario di dare una re
gola costante e scevra di arbitrii all' amministrazione, per
modo che le spese siano pareggiate alle rendite. Ma pigliando
a sindacare le spese, egli manifesto come il concetto delle
riforme amministrative non possa scompagnarsi dal concetto
delle sostanziali riforme, delle maniere e dei metodi.
Per lo contrario, se si volga il pensiero alle rendite, si
pu senz'altro ricercare se le rendite attuali siano quelle che
si possono ragionevolmente ottenere colle migliori diligenze
dell'economia domestica e colle provvisioni che sono reputate
migliori, per la economia dei corpi morali possidenti. In un
istituto di beneficenza l'amministrazione e la beneficenza non
devono essere confuse cos come si pratica all'Albergo dei
poveri.
Esso un grande proprietario di terre situate in varie
provincie e coltivate in vario modo. Non accenner qui gli
sconci soliti delle amministrazioni rurali della mano morta,
n ricercher come si possa cavar frutto migliore dalle pro
priet rurali dell'Albergo de'poveri, sembrandomi prima d'ogni
389
altra cosa opportuno il ricercare se convenga il modificare la
natura istessa di questa propriet.
e l
li
a
Taccio delle pratiche dannose ed arbitrarie che, per
colpa forse pi del sistema che degli uomini, si introdussero
nell'istituto. Basti il dire che, da lunghi anni, l'amministra
zione giva innanzi col fare debiti, e che, nel mentre la legge
ordina uno stato discusso quinquennale, e uno stato annuale
di variazione, a contare del 1817 l'amministrazione non ha
presentato che uno stato discusso nel 1817, il quale continu
ad essere prorogato sino al 1851, ed un altro nel 1851 che
venne poi prorogato insino ad oggi.
Da quanto ho avuto l'onore di esporre alla M. V. si fa
l,
manifesto, che se le condizioni dell'Albergo de'poveri rendono
necessaria una profonda riforma, per un problema com
plesso che vuole essere, per tutti i rispetti, attentamente stu
diato.
Una innovazione parziale e precipitata o riuscirebbe inef
ficace, e varrebbe forse solo a far comprendere come ogni lato
della questione si colleghi strettamente a tutti gli altri. Per
questi motivi, se la M. V. si compiace approvare, io reputerei
buon consiglio il provvedere intanto al buon governo del pio
luogo e lo incaricare la consulta di studiare il quesito nella sua
intierezza, avendo l'animo a tutti gl'intenti della carit religiosa
e civile ed a tutte le pure sollecitudini del bene. La riforma
promessa non sar per questo rimessa ad un lontano ed in
certo avvenire. L'opera oggi incominciata non potr essere
differita, perch la sollecitudine del governo prender parte
continua ai lavori della commissione ed ai risultamenti dei
suoi studii.
La beneficenza ha per impulso perenne un sacro istinto
dell'umana natura, ma le sue applicazioni si trasformano,
come si trasformano i bisogni della societ che progredisce.
Pcchi paesi possono, al paragone delle provincie napole
tane, vantare maggior copia d'istituti di carit e pi dovizio
samente dotati.
Ma troppo raramente un pensiero di progresso civile e
una cura di provvida economia presiedettero all'esercizio di
tanta carit. Un governo, che la pubblica opinione ha da lungo
tempo giudicato, si pose dappertutto a ritroso della civilt d'un
paese che ha dato all'Italia i pi gloriosi cultori della scienza
sociale.
390
Per esso fu o non curato o corrotto il vero concetto della
beneficenza che educa, che previene e che ripara. I varii
provvedimenti non furono coordinati alla varia indole, agli
scopi pi saviamente determinati d'ogni istituto.
Nella popolare repugnanza, l'ospizio di carit par quasi pa
reggiato al luogo di pena. E troppo noto, vero, quale
doloroso contrasto offrono certe reggie della povert fra l'e
steriore magnificenza e l'interno squallore.
Frattanto una lurida torma, di mendicanti deturpa que
sta ridente citt ed cagione d'immeritati sospetti contro la
carit cittadina.
Io so, o sire, come sar grato all'animo vostro il sapere
quanto sia grande l'opera che in queste provincie rimane a
fare al governo in soccorso delle classi sofferenti.
Intorno a tutto questo bene da compiere, a queste ripa
razioni da darsi alla civilt, io ho ferma fiducia che il pensiero
del paese si raccoglier calmo ed operoso. Placata l'ardente
gara degli uomini e di partiti, che naturale conseguenza dei
rivolgimenti politici, tutte le forze vive e morali della societ
si rivolgeranno allo studio del progressi civili. E, sia che aiu
tino il governo, sia che procedano nella libert del proprio
diritto, vi troveranno un arringo di concorde attivit, la sod
disfazione d'aver compiuto un gran dovere .
Visto si approva
VITTORIO EMANUELE.
FARINI.
Ma uno degli elementi di discordia in Napoli era la que
stione delle leggi transitorie che dovevano reggere quelle pro
vincie fino alla definitiva organizzazione. La consulta che de
liberava in tale proposito sotto la presidenza del barone Poerio
non cessava di affaccendarsi. Esistevano molti lagni contra il
Piemonte che con le sue leggi invadeva il sud dell'Italia. Pure
questa lotta non era molto pericolosa. Ci che allora accadeva
in Napoli, un anno prima era accaduto in Lombardia, ci che
cagion il rovesciamento del ministero Rattazzi. Questo con
trasto derivava dalla circostanza che trovandosi alcune buone
istituzioni di dettaglio in tutte le provincie della penisola, lo
591
spirito pubblico si allarmava contro la possibilit d'un lavoro
legislativo che venisse a distruggere tutte le cose buone locali
peristabilire una unit conveniente al tutto insieme, ma con me
diocri o cattivi particolari tolti al Piemonte, il quale era gi in
dietro su molti punti di legislazione. Ma come sopra dicemmo,
queste erano questioni di famiglia dalle quali nulla aveva a spe
rare il partito legittimista. Eppure Francesco II appoggiavasi
a questi argomenti di discordia ed incoraggiava le sue truppe
a restare fedele alla loro bandiera. Questo rileviamo da un
proclama suo in data del 4 aprile, e diretto ai suoi soldati.
Esso diceva:
Soldati !
Superati dal numero e non dal valore de'nemici, dopo
numerosi combattimenti, noi ci troviamo chiusi gi da un mese
in questa piazza.
L'Europa ha ammirato i vostri sforzi nei mesi di settem
bre e di ottobre; ella si aspetta ora di vederli continuare du
rante l'assedio.
La brava guarnigione di Messina, rimembrando quella
che nel 1848 e nel 1849 difese valorosamente la cittadella,
disposta a fare di tutto, a soffrire tutti gl'incomodi e le
privazioni da cinque mesi, altera di difendere la causa del di
ritto e l'onore della bandiera napoletana.
Voi avete a rivaleggiare con una guarnigione di un'epoca
pi antica, quella che nel 1806 resistette in questa piazza,
sprovvista di mezzi di difesa che ora possiede, con un valore
senza pari agli assalti dei primi soldati del mondo. La storia
glorifica ancora quelle pagine, quei fatti memorabili.
Ora che la fortezza perfezionata, dopo molti anni di
lavori, di cui voi stessi avete eseguiti una parte, voi dovete
difenderla con gloria eguale e migliore successo.
Dopo tante spese e fatiche per ottenere che questa piazza
potesse resistere ad un lungo assedio, dopo che l'esercito na
politano ha acquistato in campo aperto sul Volturno e sul Ga
rigliano, onore e rinomanza, quest'esercito sapr certamente
acquistare altra gloria ed una pi grande riputazione, per la
ferma difesa cominciata contro un nemico che viene a rapirci
la nostra antica indipendenza, calpestando tutti i principii
dell'onest e della religione.
592
La vostra disciplina si manterr: ufficiali, sott'uffiziali e
soldati, rivaleggiando a tutto potere; voi saprete ottenere cos
la riconoscenza della vostra patria, che vi ammira, e la stima
dell'Europa che vi guarda.
FRANCEsco.
Non sar superfluo il ricordare ancora una volta che la
corte borbonica in Gaeta molto fidava nella reazione e nella
lotta dei partiti interni che erano in continua agitazione. Vero
che in quei momenti di entusiasmo generale per la libert e
l'indipendenza italiana difficilmente sarebbero nati disordini
tali da offrire un campo di vittoria ai nemici; ma vero al
tres che i partiti avevano sempre recato grave nocumento al
l'Italia e che trista era la storia del paese. Per altro France
sco ll non voleva mostrarsi n debole n timoroso; cadere
colle armi in mano, e resistere fino all'ultimo estremo fu il
suo divisamento onde conservare un certo diritto alla corona
gi perduta delle Due Sicilie.
Il partito di azione continuava a farsi sentire, e fortemente.
Si voleva nelle elezioni politiche dettare leggi ai deputati,
affinch essi, rappresentando la nazione, in nome di essa
chiedessero la modificazione dello Statuto da farsi in Roma,
ci che importava l'assemblea costituente. A questi provvedi
menti del partito di azione si aggiungeva in quei giorni una
lettera di Vittore Hugo diretta ad Alessandro Dumas. Quella
lettera diceva: Al punto in cui giunta la questione d'I
talia, e con la reazione che vi si fa, debbo astenermi persino
di parlarvi del vostro eroe. Dissi nel mese di giugno, che cosa
aspettava la democrazia, non solo italiana ma europea. Finch
Garibaldi rimane al di qua, dobbiamo tacere tutti. La que
stione la seguente: Garibaldi un Washington o un La
fayette? Bisogna che egli faccia la sua scelta. Intanto silenzio
nelle file . I sensi di questa lettera dell'illustre francese son
troppo espliciti perch possa dubitarsi delle intenzioni del
partito liberale di tutta Europa capitanato dal comitato di
Londra. Senza mover guerra alle opinioni, ci sar lecito dire
che se non altro i tempi non erano opportuni ad un movimento
repubblicano, ne'ricchi di prudenza erano di certo coloro che
tentavano iniziarlo. Contra un movimento repubblicano tutti
595
i potentati d'Europa si sarebbero trovati d'accordo, ed il
partito democratico sarebbe rimasto schiacciato. Comunque
coteste lievi agitazioni non avessero la forza di produrre un
movimento, pure creavano sempre difficolt al governo, e l'o
pera dell' interna organizzazione rendevasi di giorno in giorno
pi malagevole.
Ci che vuol essere registrato in queste storie si l'ope
rosit del consiglio di luogotenenza a voler fare pur qualche
cosa ad onta delle difficolt stesse che incontrava nel suo
cammino. Si pensava al riordinamento dell'amministrazione
del museo nazionale e di quello degli scavi, opere importan
tissime in Napoli. Lo stato di queste amministrazioni era de
plorabile; gli scavi di Pompei erano da pi anni interrotti, de
gradati quei monumenti, trascurati quelli di Capua e di Pesto,
abbandonati dell'intutto quelli di Pozzuoli. Il museo nazionale
obbliato e fatto segno ai lamenti della dotta Europa.
Per riorganizzare queste amministrazioni il signor Piria sot
topose all'approvazione del luogotenente tre decreti diversi,
relativi all'organamento scientifico ed amministrativo del mu
seo e degli scavi, gli stipendi degli impiegati, e la scelta di que
sti. Secondo quelle disposizioni il museo nazionale sarebbe
stato diviso in quattro sezioni cio: Sezione I. Antichit fi
gurata; sezione II. Numismatica ed Epigrafia; sezione llI. Mo
numenti della vita privata; sezione IV. Monumenti del medio evo
e del risorgimento. Tali sezioni sarebbero state ripartite in quat
tordici raccolte. L'officina dei Papiri Ercolanesi, che fin allora
aveva avuto un'amministrazione separata, sarebbe stata conside
rata come parte integrale del museo nazionale insieme agli scava
menti di antichit posti sotto la dipendenza dello stesso. Ciascuna
delle sezioni indicate avrebbe compreso nel modo seguente varie
delle quattordici raccolte di che il museo si componeva. Se
zione I. l. Statue di bronzo. 2. Statue di marmo e basso
rilievi. 3. Dipinture greche e romane, monogrami, mosaici.
4. Vasi italo-greci. 5. Oggetti pornografici. 6. Monumenti
egizii. Sezione II. 7. Medaglie. 8. Iscrizioni. 9. Papiri er
colanesi. Sezione III. 10. Gemme, ori, argenti, commestibili.
1 1. Bronzi, ferri, piombi, avorio, utensili. 12. Vetri e terre
cotte. Sezione IV. 13. Pinacoteca. 14. Antichit del medio
evo ed oggetti del risorgimento.
Il museo nazionale e gli scavamenti di antichit sarebbero
stati rappresentati da un consiglio di direzione.
Stor. della rivol, Sicil. Vol. II.
50
504
Vittorio Emanuele era ritornato in Napoli, trovando sempre
quella popolazione se non fredda alquanto indifferente; aveva
dato un pranzo al quale intervennero molti delle nobili fa
miglie napoletane; il giorno 12 dicembre si condusse al campo,
dove erasi raccolta tutta la guardia nazionale per la benedi
zione delle bandiere, Il re preceduto da un picchetto di guar
dia nazionale a cavallo vi si rec in carrozza verso le undici
e ne ritorn a cavallo verso le 4 pomeridiane. Poche acclama
zioni lo accompagnarono.
A Gaeta giungevano esagerate le nuove della situazione na
poletana; Francesco II ne traeva argomento di speranza, e
in data dell'otto dicembre scriveva e pubblicava il seguente
proclama:
Popoli delle Due Sicilie !
Da questa piazza ove difende, pi che la corona, l'indipen
denza della patria comune, il vostro sovrano leva la voce per
consolarvi delle vostre miserie e per promettervi tempi pi
felici. Egualmente traditi, egualmente spogliati, noi ci rileve
remo insieme dal nostro infortunio. L'opera dell'iniquit non
mai durata molto tempo, e le usurpazioni non sono eterne.
Io lascio cadere con disprezzo le calunnie, guardo con di
sdegno i tradimenti, purch tradimenti e calunnie si rivolgano
solamente sulla mia persona.
, Io ho combattuto non per me, ma per l'onore del nome
che noi portiamo. Ma vedendo i miei amatissimi sudditi in
preda a tutti i mali d'una dominazione straniera, il mio cuore
napoletano batte d'indignazione nel petto, e solo mi consola
lealt della mia prode armata e lo spettacolo delle prote
la
ste che, da tutti i punti del regno, si levano contro il trionfo
della violenza e della astuzia.
ho respi
nato fra
napoletano:
Io sonoaere,
altro
conosco
non non
paesi,a voi,
altrimezzo
non ho visto
rato, altro
affezioni sono nel rea
suolo che il suolo natale. Tutte le mie
la vostra lingua la mia,
me; i vostri costumi sono i miei,
le vostre sono pur le mie ambizioni. Erede d'un antic dinastia
che da lunghi anni regna su queste belle contrade dopo averne
io non vengo, dopo
l'autonomia,
rivendicata l'indipende
aver spogliato gli orfani del loro patrimonio e
nza e
la Chiesa dei
595
suoi beni, ad impossessarmi colla forza straniera della pi de
liziosa parte d'Italia.
Io sono un principe che vostro e che ha tutto sacrificato
al desiderio di conservare fra suoi sudditi la pace, la concordia
e la prosperit.
Il mondo intero lo ha veduto. Per non versare del san
gue ho preferito arrischiare la corona. I traditori, pagati dallo
straniero nemico, s'assisero nel mio consiglio a lato dei fedeli
servitori, nella sincerit del mio cuore io non credeva al tra
dimento. Mi costava troppo caro il punire, mi addolorava l'a
prire dopo tante sciagure un'ra di persecuzioni, e cos la
slealt di qualcuno e la mia clemenza hanno facilitato l'inva
sione che si operata per mezzo di avventurieri, paralizzando
la fedelt de' miei popoli ed il valore de' miei soldati.
Minacciato da continue cospirazioni, io non ho fatto ver
sare una goccia di sangue ed accusarono la mia condotta di
debolezza. Se l'amore il pi tenero pe' miei sudditi, se la
fiducia naturale della giovent nell'onest degli altri, se l'or
rore instintivo pel sangue, meritano questo nome, si certa
mente io fui debole. Nel momento nel quale la rovina pe' miei
nemici era inevitabile, io arrestai il braccio de' miei generali
per non consumare la distruzione di Palermo, preferii abban
donare Napoli, la mia casa, una capitale carissima senza essere
scacciato da voi, per non esporla agli orrori di un bombar
damento, come quello che ebbe luogo pi tardi a Capua e ad
Ancona.
Io credetti in buona fede che il re di Piemonte, che si
diceva mio fratello e mio amico, che mi protestava la disap
provazione sua per l'invasione di Garibaldi, che negoziava col
mio governo un'alleanza intima pei veri interessi d'Italia, non
avrebbe rotto tutti i trattati e violate tutte le leggi, per in
vadere i miei Stati in piena pace, senza motivo, n dichiara
di guerra. Se son tutti questi i miei torti io preferisco i miei
infortunii ai trionfi dei miei avversarii.
Io aveva dato un'amnistia, aveva aperte le porte della
patria a tutti gli esiliati, avevo accordato ai miei popoli una
costituzione. Io non ho certamente mancato alle mie promesse.
Mi preparai a garantire alla Sicilia delle istituzioni liberali che
avrebbero consacrato con un parlamento separato, la sua in
dipendenza amministrativa ed economica, togliendo d'un colpo
tutti i motivi di diffidenza e di malcontento. Io aveva chia
596
mato nel mio consiglio gli uomini che sembravano pi accetti
all'opinione pubblica; in queste circostanze e per quanto me
lo permise l'incessante aggressione della quale sono vittima,
io lavorava con ardore alle riforme, al progresso, alla prospe
rit del nostro comune paese.
Non sono le discordie intestine che mi strappano il re
gno, no, sono vinto da un'inqualificabile invasione di un ne
mico straniero. Le Due Sicilie ad eccezione di Gaeta e di
Messina, ultimi asili della loro indipendenza, si trovano nelle
mani del Piemonte. Che mai ha procurato ai popoli delle
Due Sicilie questa rivoluzione? Guardate la condizione che
presenta il paese. Le finanze, non molto cosi fiorenti, sono
completamente rovinate, l'amministrazione un caos; la sicu
rezza individuale non esiste; le prigioni sono piene di sospetti:
invece della libert lo stato d'assedio regna nelle provincie; e
un generale straniero pubblica la legge marziale, decreta la
fucilazione istantanea per tutti quelli de' miei sudditi che non
s'inchinano davanti la bandiera della Sardegna.
L'assassinio ricompensato; il regicida ottiene un apo
teosi; il rispetto al culto santo dei nostri padri vien chia
mato fanatismo; i promotori della guerra civile, i traditori del
loro paese, ricevono delle pensioni cui pagano i piccoli con
tribuenti. L'anarchia dappertutto. Avventurieri stranieri mi
sero la mano per tutto per soddisfare l'avidit e le passioni
dei loro compagni. Degli uomini che non hanno mai veduta
questa parte d'Italia, o che per una lunga assenza hann ob
bliato i suoi bisogni, costituiscono il vostro governo. Invece
delle libere istituzioni che aveva dato e che desiderava svi
luppare, voi avete avuta la Dittatura la pi stretta, e la legge
marziale ora rimpiazza la costituzione. Sotto i colpi dei vostri
dominatori, scomparir l'antica monarchia di Ruggiero e di
Carlo III; e le Due Sicilie saranno dichiarate provincie d'un
regno lontano. Napoli e Palermo saranno governate da prefetti
venuti da Torino.
Non vi ha che un rimedio a questi mali ed alle calamit
pi grandi ancora ch'io prevedo: la concordia, la risoluzione,
la fede nell'avvenire.
Unitevi intorno al trono dei vostri padri, che l'obblio
cuopra per sempre l'opera di tutti; che il passato non sia mai
pi un pretesto di vendetta, ma una lezione salutare per l'av
venire. Io ho fiducia nella giustizia della provvidenza, e qua
597
lunque sia la mia sorte, rester fedele ai miei popoli, come
alle istituzioni ch'io ho loro accordate. Indipendenza ammi
nistrativa ed economica fra le Due Sicilie, con un Parlamento
separato; amnistia completa per tutti i fatti politici. Ecco
il mio programma. Fuori di questo non rester pel paese che
anarchia e despotismo. Difensore dell'indipendenza della pa
tria, io resto e combatto qui per non abbandonare un de
posito cos santo e cos caro. Se l'autorit ritorner nelle
mie mani sar per proteggere tutti i diritti, rispettare tutte le
propriet, garantire le persone ed i beni de' miei soggetti con
tro tutta la sorte di oppressione e di saccheggio. Se la prov
videnza nei suoi profondi disegni, permetter che l'ultimo ba
luardo della monarchia cada sotto i colpi d'un nemico stra
niero, io mi ritirer colla mia coscienza senza rimproveri, con
una fede incrollabile, con una risoluzione immutabile, e at
tendendo l'ora vera della giustizia, io far il voto il pi fer
vido per la prosperit della mia patria, per la felicit di quei
popoli che formano la pi grande, la pi cara porzione della
mia famiglia.
Il Dio onnipotente e la Vergine Immacolata ed invinci
bile protettrice del nostro paese sosterranno la nostra causa
COII)Ull0.
FRANCESCO .
Egli deplorabile vedere un principe che odiato per ra
gioni dinastiche dalla maggioranza dei suoi sudditi, attribuisca
all'opera di un partito la propria caduta. Egli pi deplora
bile ancora veder questo principe parlare ai perduti popoli
colla ferma fiducia di ritornare al trono dei padri suoi.
Triste erano le condizioni di Gaeta cinta di assedio, di che
appresso parleremo. La molta truppa che vi stava rinchiusa
era superflua alla difesa della citt fortificata; essa non faceva
che esaurire le provviste ed i mezzi di cui ancora Fran
cesco II poteva disporre, e rendere cos meno lunga la re
sistenza. Il governo del Borbone venne quindi alla misura di
licenziare alcuni corpi dell'esercito che gli era ancora fedele,
e tenere solamente quella quantit di forza che fu stimata
sufficiente alla difesa delle fortificazioni.
Per un altro vantaggio esso cavava da cotesto espediente,
598
ed era il mandare nelle provincie soldati che da Gaeta usci
vano col fine di presto o tardi accendere la reazione, e fare
rinascere i tempi deplorabili del cardinale Ruffo e di Fra Dia
volo. Lo stesso si sperava dal corpo, che valicati i confini, erasi
ridotto nello Stato del papa, come sopra notammo.
A questi soldati che dovevano tentare la guerra civile, Fran
cesco II indirizzava le seguenti parole:
Soldati !
Separato da voi dalla forza degli avvenimenti, la mia af
fezione sempre con voi. Il ricordo delle fatiche durate in que
sti ultimi otto mesi e i gloriosi fatti d'armi valorosamente
compiuti, sar sempre la mia memoria.
lo sono obbligato provvisoriamente a disciogliere i corpi
dei quali voi fate parte. Ma ho la ferma fiducia che fra poco
voi sarete riuniti, probabilmente per combattere ancora ed
aumentare la gloria delle truppe napolitane. Voi porterete sui
vostri petti una memoria del vostro valore, colla medaglia che
ricorder tutti i combattimenti nei quali avete dato cos belle
prove di coraggio e di bravura. Voi ritornerete pel momento
ai vostri focolari, dove ritroverete i vostri compagni che com
battendo valorosamente nel 1848 e 1849 seppero guadagnare
le medaglie della fedelt. Unitevi ad essi e sarete com'essi
rispettati ed onorati da tutti i buoni ed onesti cittadini. Un
giorno verr certamente nel quale voi saprete riprendere le
armi che avrete fra le mani per la salute del paese, delle vo
stre famiglie e dei vostri beni.
Cos parlava Francesco II; egli ricordava il valore dei sol
dati napoletani nel 1848-1849 senza pensare che quei valo
rosi altro non avevano fatto che soffocare il grido popolare di
libert e lacerare quella costituzione stessa che egli prima di
abbandonare Napoli aveva gi data ai suoi popoli.
Sotto il nuovo governo la guardia nazionale nelle provincie
napoletane non era ancora organizzata. Il luogotenente gene
rale del re per provvedere a questo bisogno, il giorno 14 di
cembre decretava che in fra 48 ore fossero aperte in tutti i
comuni apposite liste di ascrizioni nella guardia nazionale. Le
dette liste formate dai sindaci col concorso degli eletti, e prese
599
ad esame da un consiglio di ricognizione verrebbero poscia
depositate per cinque giorni nella cancelleria comunale. Fa
cile opera fu organizzare la guardia cittadina, e quanto abbia
giovato all'Italia appresso vedremo.
lntanto le dimostrazioni dei garibaldini non cessavano ; ed
il comandante dell'esercito meridionale generale Sirtori fu co
stretto a pubblicare un ordine del giorno in cui dicevasi: per
l'onore del corpo cui appartengono, raccomando agli uffiziali
e soldati dell'esercito meridionale d'astenersi da qualunque atto
che rassomigli a clamorosa dimostrazione. Uffiziali e soldati
miei commilitoni, or che la campagna finita, quanto meno si
parli di voi, tanto pi sarete onorandi ed onorati. Imitate Ga
ribaldi che si raccoglie nella solitudine pensando a nuove
imprese.
Grave sciagura colpiva il luogotenente Farini: il suo genero
cavaliere Riccardi dopo qnattordici giorni di dolorosa malattia,
moriva la notte del 24 dicembre, ed il Farini stesso era am
malato di itterizia. La sventura di famiglia, insieme agli errori
commessi, ed alle difficolt sempre crescenti determinarono
la dimissione di luogotenente gi divenuta inevitabile.
Vittorio Emanuele lasciava Napoli e faceva ritorno in To
rino. Il suo viaggio nell'Italia meridionale non aveva prodotti
quegli effetti che doveva produrre; e fu colpa del governo di
Torino.
Farini presentava la sua dimissione; il re l'accettava, ed in
viava a nuovo luogotenente di Napoli S. A. R. il principe di
Carignano accompagnato dal Commendatore Nigra, il quale as
" il difficile incarico di fare quanto il Farini non aveva
atto.
CAP i T 0 L 0 X IX
EL e Marciae e l'Umbria,
Torniamo a parlare delle Marche e dell'Umbria, come di
sopra abbiamo promesso; e ci facciamo volentieri primo pei
rapporti che legavano i fatti di queste due provincie coi fatti
dell'Italia meridionale, secondo perch la circostanze di quelle
provincie hanno rapporti immediati con la questione romana.
Vero che gli avvenimenti non risolvono la questione in di
ritto, ma la risolvono di fatto, perch accennano la pubblica
opinione e ci che le popolazioni italiane decisamente vole
vano ad onta delle teorie romane.
La guerra aveva liberate le Marche e l'Umbria dal dominio
dei preti; ma l'assestamento delle cose dipendeva in gran
parte dal clero, secondoch esso avrebbe oppugnato o soste
nuta la nuova politica situazione. Comunque un forte partito
liberale esistesse nelle provincie pontificie, pure il clero eser
citava molta influenza nelle famiglie, talch il nuovo governo
pens far guerra all'episcopato ed accarezzare il basso clero.
Sin dal 28 settembre 1860 con decreto dei commissarii
sardi tutti gl'istituti si pubblici che privati che riguardavano
la istruzione ed educazione venivano sciolti dalla soggezione
e sorveglianza dell'autorit dei vescovi e loro mandatarii, ed
erano sottoposti al governo del commissariato regio. Come
era naturale questo decreto non and a sangue ai vescovi i
quali erano usi a metter le mani in tutto. Molto loro premeva
l'insegnamento e l'educazione della giovent , insegnamento
ed educazione che affidati ai gesuiti producevano popoli pre
giudicati e servi alla volont del prete. I vescovi non sapendo
la 01
dove le cose potessero andare a finire fin da principio mo
stravansi o indifferenti o proclivi pel nuovo governo. L'arcive
scovo cardinale Peni viveva tranquillo in Perugia; cos il ve
scovo Landi in Assisi. Il vescovo di Todi protestavasi in ottima
armonia col governo. Il vescovo di Montefiascone Jura dava
segni di abbandonarsi al partito liberale. Il cardinale Mori
chini arcivescovo di Jesi stava in buone relazioni con Pepoli
e Gualterio; e forse la maggior parte dell'episcopato avrebbe
aderito al governo liberale, se da Roma non fossero venuti or
dini severi che comandavano la reazione.
Intanto i decreti dei commissarii regii si succedevano rapi
damente ; per uno di essi si dava corso legale alla lira italiana
nelle provincie ex-pontificie e ne stabiliva il rapporto con
quelle del governo caduto; un altro toglieva ogni linea doga
nale fra l'Umbria, le Marche e lo Stato ; un terzo aboliva il
tribunale della sacra inquisizione. Si riordinavano le fortifica
zioni della piazza di Ancona; si ampliava il recinto della citt;
si davano disposizioni per migliorare la condizione del porto,
e degli altri stabilimenti per i bisogni della marina militare
e mercantile. Si stanziava a tal uopo sull'esercizio dell'anno
la somma di un milione di lire italiane.
Era urgente provvedere alla questione delle corporazioni
religiose di che le provincie pontificie erano inondate. La que
stione non presentava che una soluzione sola; l'abolizione de
gli ordini monastici, gi divenuti non solo inutili ma di peso
alla societ. Per onde non urtare apertamente contro gl'in
veterati pregiudizii delle masse, e per fare giustizia a quelle
istituzioni che qualche vantaggio recavano alla societ, il de
creto di abolizione comparve con alcune eccezioni che per al
tro incontrarono l'approvazione generale.
Comecch il decreto non potea limitarsi agli ordini mona
stici, fu esteso eziandio secondo le leggi del regno ai capitoli
delle chiese collegiate, ai benefizii semplici, alle cappellanie ec
clesiastiche e simili istituzioni. Ecco il decreto riguardante
le provincie dell'Umbria:
- Sono soppresse tutte le corporazioni e gli stabilimenti di
qualsivoglia ordine monastico e delle corporazioni, regolari o
secolari esistenti nell' Umbria, meno:
Quattro case dei Fate-bene-fratelli.
Quattro case dei Scolopii.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
51
A02
I membri delle case o corporazioni soppresse dei padri
conventuali, addetti al santuario di S. Francesco d'Assisi, i
padri cassinesi di S. Pietro in Perugia, e le cappuccine di Citt
di Castello, faranno vita in comune, e riterranno il godimento
dei loro beni finch essi membri saranno ridotti al numero
di tre, nel qual caso si provveder loro un assegnamento di
lire 800 cadauno.
Sono anche soppressi:
I capitoli delle chiese collegiate.
I beneficii semplici, le cappellanie ecclesiastiche, non aventi
esercizio di giurisdizione e cura d'anime.
Le cappellanie laicali.
Le istituzioni designate col nome generico di fondazioni
e legati pii, ecc. che abbiano un reddito eccedente l'ammon
tare dell'adempimento dei pesi che vi sono inerenti.
I beni delle corporazioni soppresse passano alla cassa ec
clesiastica.
Tutti i religiosi e religiose delle corporazioni soppresse,
salvo le nominate qui sopra, dovranno sgombrare i conventi
entro 40 giorni dalla pubblicazione del decreto, per passare
i mendicanti, ove vogliano, in altri conventi loro assegnati; i
possidenti, a vivere da loro col reddito dei loro beni, quando
per questo reddito non superi lire 600 annue per ciascuno,
se maggiori d'anni 60; di lire 500 se al di sotto di questa
et; di lire 400, se converse o laici maggiori d'anni 60; di
300, se al di sotto di questa et.
I servienti ammessi ai semplici voti, avranno diritto a
lire 240, quando abbiano prestato 10 anni di servizio ed ab
biano compiuta l'et d'anni 40; e di lire 160 quando abbiano
prestato un servizio non minore d'anni 3 ed abbiano com
piuta l'et suddetta.
I canonici delle collegiate soppresse avranno una vita
lizia pensione equivalente alla rendita netta a loro spettante
dal beneficio; cos pure per gl'investiti dei beneficii semplici,
cappellanie, ecc., ecc.
La propriet dei canonicati e di patronato laicale o misto,
si devolver a chi ha diritto di patronato al momento della
cessazione della civile loro personalit, e nei casi di patronato
misto, la porzione del patrono ecclesiastico toccher alla cassa
ecclesiastica.
Il reddito dei beni ecclesiastici delle abbazie, beneficii,
405
canonicati, ecc. tassato in ragione del 5 l, se maggiore di
lire 1000 sino alle 3 mila; del 6 dalle 3 mila alle 5 mila;
del 12 dalle 5 mila alle 10 mila; del 20 sopra ogni maggior
reddito.
La rendita dei benefici parrocchiali: dal 3 p./o se ec
cedenti lire 1200 fino al 2 mila; del 5, se non eccedenti le
5 mila, sulle maggiori nella progressione cui sopra.
La rendita dei Seminari e convitti del 5 o se eccedenti
lire 6,000 fino a 10 mila; del 10 mila fino a 18,000; del 12
fino al 25 mila; del 15 per ogni reddito maggiore.
La rendita degli arcivescovati e vescovati: il quinto del
reddito netto, se maggiore di lire 15 mila pei primi, e di lire
10 mila pei secondi; il quarto, se maggiore di lire 18 mila
pegli arcivescovi e 15 mila pei vescovi ; il terzo sopra le somme
eccedenti pei primi lire 15 mila, pei secondi lire 18 mila.
Il commissario dell'Umbria concedeva la fortezza di Perugia
in libera propriet al comune; quella fortezza era stata fab
bricata per reprimere l'audacia dei Perugini.
Istituiva una tesoreria generale dell'Umbria, e l'affidava alla
cassa di risparmio di Perugia. Sottoponeva i conventi all'ob
bligo di ricoverare gli emigrati. Ordinava che la guardia nazio
nale della provincia somministrasse un battaglione distaccato
per servizio di guerra. Nelle Marche un decreto diceva: che
nessun rescritto, decreto, o atto qualunque emanato da persona
o autorit amministrativa ecclesiastica potesse avere effetto
senza l'ordine di esecuzione emesso dal commissario generale;
che le compre e le vendite di beni stabili di interesse dei
corpi morali non avessero effetto senza l'autorizzazione; e final
mente abrogando leggi, disposizioni e consuetudini contrarie
ordinava che le bolle, encicliche, pastorali ed altri atti del
l'autorit ecclesiastica dovessero prima della pubblicazione es
sere presentate al governo.
Per far sentire le benefiche influenze della libert e del
progresso il commissario Pepoli pensava agli asili infantili, ed
a tal uopo dirigeva la seguente circolare ai commissari delle
provincie :
Il governo clericale ha sempre con ostinata pertinacia com
battuto l'istituzione delle sale d'asilo, e dove le ha permesse
ne ha assunto la direzione e ne ha limitato i beneficii. Io non
A04
scender a discutere il vantaggio di questa istituzione. La ci
vilt l'ha consacrata dovunque ed ogni liberale governo l'ha
protetta.
Ma se negli altri paesi sono necessarii, necessariissimi ap
pajono nell'Umbria, ove innumerevoli fanciulli s'agitano per
le vie mendicando. Essi cos, fin dalla prima infanzia, perdono
il sentimento della propria dignit e diventano facile preda
dell'ozio, sovente del vizio.
Il governo per non debbe assumere direttamente quest'uf
ficio, ma debbe promuovere l'istituzione delle sale d'asilo.
Ella dunque formi dei comitati di cittadini in tutti i paesi,
inviti i municipi a cooperare a questa utilissima opera. Le classi,
ricche ed agiate hanno stretto obbligo di occuparsi delle classi
povere, ed in questa occasione potranno provare alle classi
che soffrono, ch'essi desiderano alleviare le loro sventure.
Ella scelga anche delle signore, poich nei loro animi pie
tosi trover un valevole aiuto, e perch la carit pi efficace
a giovare quando procede in compagnia colla cortesia e colla
gentilezza dei modi.
-
Concorra finalmente la totalit dei cittadini nella rappre
sentanza del suo municipio, somministrando i locali opportuni
e necessarii a questa benefica istituzione sulla quale io insi
sto moltissimo, poich urge provvedere ai fanciulli poveri, ed
ogni giorno che passa un giorno di prevalenza dell'ozio sul
lavoro, del vizio sull'onest .
La storia non pu che lodare coteste misure dei commis
sari regi per le quali le provincie mal governate dai preti ve
nivano finalmente a partecipare a quelle liberali istituzioni che
quali figlie del progresso e della civilt sono di appoggio e di
aiuto ai grandi bisogni della umanit e della buona morale.
Intanto giungeva il tempo del plebiscito, e la votazione riu
sciva unanime ed entusiastica; le stesse citt soggette ancora
alla curia romana, ad onta della sorveglianza della polizia pon
tificia facevano la loro votazione. N questo tutto: dove
arrivavano i presidii francesi per ristabilire il governo papale,
di l molte famiglie ed impiegati emigravano, per dimostrare
quanto abborrissero il governo del papa. E questo governo
acciecato dalle passioni, lungi di affidarsi alla clemenza, la
sola che convenga al sacerdozio, ricorreva al rigore, e contra
gli impiegati prendeva dure misure. Una circolare del car
A05
dinale Antonelli in data del 18 ottobre a questo riguardo
diceva:
Rassegnato alla santit di nostro signore l'opinamento del
consiglio dei ministri intorno le misure da adottarsi verso
gl'impiegati addetti alle pubbliche aziende, i quali al ripristi
namento del governo pontificio nelle provincie violentemente
occupate, si trovassero di aver prestato servizio al potere il -
legittimo, la santit sua si degnata di approvare l'opinamento
medesimo, indicando la osservanza delle seguenti misure:
1. I magistrati, ossiano presidenti dei tribunali, i giudici,
i governatori e gli assessori, per il solo fatto della spontanea
accettazione e prestazione di servizio al potere illegittimo, si
abbiano come dimissionari dal servizio del governo pontificio.
A simile disposizione sono soggetti i segretari generali di
delegazione, i direttori postali, i regolatori delle dogane, i te
legrafisti ed impiegati di polizia, eccettuati i soli messaggieri
e portieri.
2. I conservatori delle ipoteche, i preposti del bollo e
registro, i cancellieri del censo, gli ingegneri ordinari delle
acque e strade, i processanti, i cancellieri, i sostituti, gli scrit
tori e tutti gli altri impiegati amministrativi si mantengano al
posto, quantunque abbiano prestato servizio durante l'invasione;
ben inteso per che non abbiano preso nessuna parte speciale
contro il governo pontificio, ed abbiano tenuto nell'impiego
una condotta meramente passiva.
3. Gli impiegati, i quali coprendo un posto di minore
importanza, ne abbiano accettato altro maggiore e della ca
tegoria di quelli indicati nel primo articolo, si abbiano come
dimissionari dal servizio del governo pontificio; se per la
promozione stata da altro posto della categoria assegnata
nel secondo articolo, essi debbono tornare al loro posto
antico.
4. Gli impiegati e stipendiati comunali, i quali hanno
preso parte con gli invasori, ed al ripristinamento del governo
pontificio si sono allontanati dall'impiego, si considerino come
dimissionari, e si operi subito il concorso per regolare il
rimpiazzo del posto lasciato.
-
5. Ai giubilati e pensionati governativi, i quali avessero
preso servizio col potere intruso, o avessero commessi atti
contrari al governo pontificio, si cassi l'assegno di giubilazione
o pensione dai medesimi goduto .
106
Coteste severe misure adottate dal governo di Roma non
valsero che ad accrescere il numero dei suoi nemici e dei suoi
cospiratori. In tempi quando questo governo non aveva pi
forza materiale, ed era sostenuto dalle armi francesi, non gli
restava che l'opera della clemenza, la quale in parte poteva
acquistarle quella simpatia che nasce dalla sventura e dalla
virt. Ma Roma non la pensava cos, e tutta l'ira ecclesiastica
traboccava da ogni atto e disposizione governativa.
Per nelle provincie delle Marche e dell'Umbria avvenivano
i mali maggiori contra il potere temporale dei papi; percioc
ch assicurate le basi del nuovo potere, molti preti, non avendo
pi nulla a temere dalla sacra lnquisizione e dal governo ro
mano, votarono alacremente l'annessione, e facevano dimostra
zioni ostili al potere caduto. Notiamo fra questi ecclesiastici
il canonico Spenucci, gi vicario generale della diocesi di Pe
saro. Questo monsignore deponendo il suo voto nell'urna pro
nunzi le seguenti parole: Con questo voto che depongo
nell'urna del diritto immortale dei popoli, mentre rigetto il
dominio temporale dei papi come contrario allo spirito ed alla
lettera del vangelo, e perci infausto agli interessi della reli
gione, come impotente a reggere con prosperit la cosa pub
blica, e come ostacolo incessante alla santa liberazione d' I
talia, io mi pronunzio per Vittorio Emanuele II, re generoso,
re grande, re solo degno d'Italia .
In uno dei capitoli precedenti parlando del viaggio di Vit
torio Emanuele II e del suo arrivo in Loreto, notammo che
il clero si fece ad incontrarlo alla porta della chiesa, ed a
dargli la benedizione. Cotesti fatti giunti all'orecchio del ve
scovo di Recanati provocarono la seguente circolare che quel
vescovo spedi a ciascuno dei preti mostratisi favorevoli al
nuovo ordine di cose.
Molto reverendo signore!
mio dovere farle conoscere colla presente, che per ra
gioni a me, a lei, e pubblicamente note, ella incorsa nella
scomunica maggiore latae sententiae, effetto della quale si di
essere sospeso a divinis, cio dell'uso attivo e passivo dei sa
cramenti. Intanto l'avverto che una tale sospensione non viene
da me, ma dalle leggi canoniche, ond'io non posso proscio
glierlo dalla medesima ma il solo R. Pontefice.
407
Io ho tardato a farle una tale dichiarazione, sulla lusinga,
ch'ella pensando seriamente a ci che ha fatto, si ricredesse
spontaneamente, anche per togliere lo scandolo dei fedeli, ve
dendola, ad onta delle leggi ecclesiastiche, salir tuttavia all'al
tare. Del resto io la scongiuro, quanto pi posso, di dar ascolto
alla voce del suo pastore, che l'abbraccier colle viscere di
padre .
Recanati, 14 novembre 1860.
Questa circolare ben considerata la vera manifestazione
della prepotenza episcopale sul basso clero; prepotenza che
da secoli aveva gittato il pomo della discordia in mezzo al
sacerdozio cattolico. L'accennare alle scomuniche e alle cen
sure senza significarne i motivi e provarne la ragionevole ap
plicazione; questo confondere le cose sacre alle profane, ed
estendere le pene ecclesiastiche a colpe che non han che fare
con la disciplina e col dogma, sono prove dell'abuso che l'epi
scopato faceva della sua autorit e dei suoi diritti. Si pu
dire senza tema di fallo che l'episcopato si trovasse fuori del
campo religioso, ignaro della ecclesiastica dottrina, e violatore
della dottrina stessa, e disceso ad agire cos all'impazzata
contra tutto ci che a Roma non piaceva, fosse o no argo
mento religioso.
I preti loretani avuta la circolare del loro vescovo si adu
narono a consiglio, e scrissero una risposta, la pi giusta che
mai si possa dare, perciocch chiedevano spiegazioni sulla
circolare, e desideravano che il vescovo rivelasse i motivi che
lo avevano indotto a quel passo.
Ecco la lettera di risposta:
Eccellenza reverendissima !
Con somma nostra sorpresa abbiamo in questa mattina
ricevuta una lettera dell'eccellenza vostra reverendissima, nella
quale ci manifesta essere suo dovere farci conoscere, che, per
ragioni note a vostra eccellenza ed al pubblico siamo incorsi
nella scomunica maggiore di cui conseguenza la sospensione
a divinis.
* Per incorrere in tali ecclesiastiche censure, fa mestieri
i08
che il sacerdote si renda reo di delitti, la gravezza dei quali
lo renda incapace non solo di esercitare il sacro ministero, ma
bens di far parte della comunione dei fedeli.
Noi per quanto ponderatamente abbiamo interpellato la
nostra coscienza, non ci sentiamo colpevoli di simili enor
mezze, perlocch non potremo attendere il rimarco dell'eccel
lenza vostra reverendissima.
Pertanto, se l'eccellenza vostra e il pubblico crede che
in realt esistano delle ragioni, per le quali noi dobbiamo rite
nerci scomunicati, mestieri che l'eccellenza vostra reveren
dissima esplicitamente e categoricamente ce le manifesti, spie
gandoci, senza riserbatezza di sorta, il titolo reale donde trar
rebbe origine la scomunica e la sospensione a divinis.
Quando questo ci sar noto, potremo con facilit cono
scere se in realt sia tale da importare le scomunicate cen
sure, ed in questo caso con cognizione di causa sottometterci
alle medesime. In caso contrario chiaramente manifestiamo al
l'eccellenza vostra reverendissima che non possiamo gravarcene.
Vostra eccellenza sar gentile di favorirci una relativa
risposta nel termine di giorni tre, nella quale favorir spie
garci, giova ripeterlo, con tutta chiarezza il titolo, di cui
abbiamo fatto parola. Intanto, anche per l'ossequio e rispetto
che nutriamo a vostra eccellenza reverendissima in questi soli
tre giorni, di nostra propria volont, ci asterremo dall'eserci
tare le funzioni del nostro ministero comprensivamente alla
celebrazione del divino sagrificio.
Noi che siamo fermamente convinti, di non avere ope
rato in modo da essere meritevoli della suaccennate, e della
sospensione, non potremmo, dopo trascorsi i suaccennati tre
giorni, continuare ad astenerci dalle funzioni del nostro mi
nistero, mentre in ci consisterebbe realmente quel pubblico
scandalo, che tanto si teme da vostra eccellenza reveren
dissima.
Tanto era nostro debito palesare a V. E., e con sensi
della pi rispettosa stima, ci prostriamo al bacio del sacro
anello, e ci confermiamo .
Le parole dello Spinacci di Pesaro fecero il giro d'Italia,
e produssero salutare effetto in una gran parte del clero, il
quale se non altro cominci a pensare seriamente sulla que
stione dei due poteri; ma pi onorevole ancora per lo Spi
h09
nacci la lettera che egli scrisse al vescovo di Pesaro. Quella
lettera diceva:
In questo momento, dopo d'aver consultato lungamente
la mia coscienza, ho preso la risoluzione di scriverle, come
fo, per rassegnarle l'ufficio di suo vicario generale. Scrivo in
quest'ora perch dimani devo essere staccato dal suo fianco,
per essere in mia piena libert, e perch qualunque atto io
mi faccia, intendo di farlo come privato senza alcuna respon
sabilit di vostra eccellenza. Le lascio unitamente a questa let
tera la chiave dello studio
-
.
-
.
-
Iddio mi testimonio, che io non ho mai abusato del
mio officio per cose di politica, e che mi sono fatto sempre
una religione di servire fedelmente vostra eccellenza. E spero
che, nella sua incorrotta giustizia, mi far ragione contra
qualunque malignit, della condotta irreprensibile che sempre
ho io tenuta dal giorno che ebbi l'onore di trovarmi con lei.
Parlando di me, grideranno forse all'ipocrita! E certa
mente se per ipocrita s'intende quegli che non lascia scorgere
certi suoi sentimenti ed opinioni, io lo fui; ma se per con
trario ipocrita colui che altra cosa ha in su la lingua, ed
altra sente in cuore, io sfido persona viva che possa gettarmi
sul viso questa taccia. Io non ho mai (n poteva farlo contra
la mia profonda e longanime convinzione) non ho mai affettato
tenerezza pel dominio temporale della santa sede.
Sono stato molto e molto combattuto prima di venirne
a questo passo, ed avrei voluto, per suo riguardo, e per la
sincerissima gratitudine e devozione che le professo, astenermi
da qualunque dimostrazione politica, ma il grido incalzante della
patria carit ha potuto sul mio cuore pi assai che qualun
que umano riguardo.
Mi duole pure (e le ne domando infinite scuse) che l'E. V.
si debba trovare in angustia anche per la cattedra di eloquenza
nel suo seminario, che per eccesso di sua bont mi aveva
conferito, e che la lascio cos improvvisamente scoperta. Mi
giova sperare che non le sar difficile provvedersi altrimenti .
Questa lettera la manifestazione tutta intera del prete one
sto che ama la patria sua, e che sa conciliare gli interessi della
Stor della rivol. Sicil. Vol II.
52
A 10
libert con quelli della religione. Torniamo a ripetere, che
gran parte del clero per propria convinzione avrebbe seguiti
questi nobili principii, se Roma non avesse con male arti fatto
del clero stesso una schiera di reazionarii.
I popoli da parte loro nulla tralasciavano per dimostrare le
loro tendenze alla libera vita sotto lo scettro di Vittorio Ema
nuele II. In altro capitolo parlammo della citt di Acquapen
dente e vicini paesi, i quali tutti, ad onta delle truppe francesi
che erano venute a ristaurarvi il governo pontificio, vollero
fare la loro votazione; ora diremo che lo stesso accadde in
Viterbo; che anzi col i votanti depositarono una scheda fir
mata in mano al notaro.
Giova che la storia riporti il numero di queste schede rac
colte nelle provincie di Viterbo, affinch si conosca lo spirito
di quelle popolazioni rapporto al potere temporale dei papi.
Viterbo diede 1600 schede. L'emigrazione Viterbese, 380.
L'emigrazione stessa armata 160. Montefiascone 360. Ve
trallo 260. Civita-Castellana 400. Biedo 341. Canino 357.
Ischio 401. Farnese 422. Cellere 113. Volentano 67. Grotte
di Castro 300. Bolseno 450. San Lorenzo 131. Orto 341.
Fabbrica 125. Castel-Cellese 101. Celleno 307. Craffignano 84.
Subbriano 142. Castiglione di Prorvino 134. Civitella d'O
gliano 101. Rocco del Vaccio 110. Enone 429. Caprarolo 300.
Marta 280. Capo di Monte 200. Canepino 112. Soriano 210.
Volterano 60. Vignonello 90. Bagnaio 187.
Il totale dei voti ascese a 9,924. Per una provincia come
quella di Viterbo, cotesti voti dati alla presenza di soldati che
sostenevano il governo pontificio provano sufficientemente le
tendenze di quelle popolazioni.
Il commissario Valerio per far sempre meglio gustare i be
nefici del nuovo governo decretava che le Marche fossero
dotate di tre licei, tre istituti tecnici, quattro scuole normali
ed un collegio militare. I tre licei erano destinati uno alla
citt di Fermo, un altro a Macerata, il terzo a Sinigaglia. I
tre istituti tecnici uno ad Ancona, il secondo a Fabriano, il
terzo a Pesaro. Le due scuole normali maschili preparatorie
per maestri furono destinati ad Urbino ed Ascoli; e le due
scuole normali femminili ad Ancona e a Camerino. Il collegio
militare fu destinato a Fano.
Stanzi inoltre sul bilancio del 1861 la somma di lire ita
liane 100 mila per sussidio ai comuni poveri, col fine di age
li 11
volare l'istituzione di scuole elementari maschili e femminili.
Dichiar opere di utilit pubblica le forticazioni da costruirsi a
difesa della piazza d'Ancona tanto dalla parte di terra che di
mare. Istitui una commissione tecnica, incaricata di prendere
ad esame i progetti gi esistenti pe'lavori che occorrevano ai
porti-canali di Pesaro e Sinigaglia. Conferm alla Societ del
Lloyd austriaco nei porti di mare delle provincie delle Marche,
tutti i privilegi che alla medesima aveva accordati il caduto
governo.
Questa operosit nello spingere avanti le opere di utilit
pubblica molto giov a convincere gli abitanti di quelle pro
vincie della buona volont del nuovo governo.
E comech il popolo per ragioni d'interesse avversasse il
clero gi ricco oltre misura, il commissario Pepoli in data del 9
novembre imponeva per tutto l'anno 1860 una quota straor
dinaria del 2 per 0:0 sull'estimo censuario dei fondi urbani e
rustici posseduti in quelle provincie dagli arcivescovadi e ve
scovadi, dalle abbazie, dai benefizi, dalle cappellanie di ogni
natura, dalle case religiose di ogni ordine, dai seminarii, dalle
confraternite, dalle fabbricerie ed altre amministrazioni delle
chiese e delle parocchie e dai benefizii aventi cure di anime.
Coteste disposizioni accarezzavano il popolo, il quale vedeva
di buon animo aggravarsi le tasse sulle ricchezze ecclesiasti
che, e venire alleviati gli altri possessori.
Ma da Roma cominciavano a venire disposizioni reaziona
rie, le quali in appresso dovevano rendersi ancora pi spesse
ed intemperanti. Esse riguardavano il clero e dettavano leggi
ad esso come regolarsi. Coteste disposizioni primitive si ridu
cevano ai seguenti sette articoli:
1. Non lecito agli ecclesiastici prestarsi al canto del
Te Deum, se mai fossero richiesti in occasione dello stabili
mento del governo invasore o altre simili circostanze.
2. I parrochi, nella celebrazione di matrimoni di co
loro
che avessero
incorse le censure ecclesiastiche debbono
con ogni sforzo adoprarsi, ut censurati debito modo cum ec
clesia reconcilientur, et si reconciliari recusent et parroco imme
nean grapia damna nisi matrimonio assistat, poterit parrocus
matrnio assistere, et testibus licentiam assistendi impartire,
3. Salve le risposte autentiche che si sperano dalla santa
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sede nell'amministrazione dell'eucaristia e delle penitenze l'av
viso sarebbe:
1. A motivo dei delinquenti pubblici, che possono pre
sentarsi alla comunione rarissimamente intermissam o per un
pretesto o per un altro. Se questi pubblici e notorii delin
quenti si presentassero a chiedere la comunione privatamente,
esporre loro con carit e chiarezza le ragioni per cui non si
pu comunicarli senza trasgredire i propri doveri. Qualora
queste cautele non bastassero ad eludere ogni caso, il parroco
si raccomandi a Dio, e sia forte a far l'obbligo suo, col di
vino aiuto, e si prepari anche al martirio.
2. I delinquenti, che non fossero pubblici, se chiederanno
la comunione pubblicamente potranno essere comunicati; se
privatamente, sar bene, potendo con prudenza e carit, av
visarlo di quello che fanno.
3. Per infermi in pericolo, o in articolo di morte non si pu
declinare dalle regole della Bolla 26 marzo 1860, di esiger
cio la ritrattazione, o pubblica, cio con un solo testimonio
da pubblicarsi solo quando si potr, se il caso pubblico;
privato se il caso privato, e sempre con giuramento di aste
nersi per l'avvenire e di presentarsi al superiore si convale
scerint, alias sub reincidentia.
4. Nel tribunale di penitenza, quelli che il confessore
giudicher prudentemente che non abbiano incorso la censura,
ma hanno dato scandalo esternamente, si potranno assolvere,
ma dir loro che si astengano dal comunicarsi pubblicamente.
Ma, se si pu, sarebbe meglio sospendere l'assoluzione per
qualche tempo discreto, e chiedere consiglio.
5. Per altri casi si attendono le facolt, che gi si sono
chieste, e si dica con carit ai penitenti che tornino dopo
qualche tempo, cio quando pu credersi che siano venute le
facolt.
6. Se i parrochi fossero richiesti dei libri dello stato
civile cos detti, facciano notare colla debita civilt e modestia,
che i parrochi in codesta diocesi non hanno tenuto mai lo
stato civile propriamente detto, perch il governo non ha mai
ingiunto loro una tal cosa. Che solamente fanno in ogni anno
lo stato delle anime, cui per legge sinodale esibiscono in can
celleria vescovile, ritenendone essi una semplice copia per uso
proprio, pel buon governo della parrochia. Se poi dopo tale
risposta avessero nuove richieste, se avranno tempo ricorre
413
ranno di nuovo, altrimenti dichiarino di cedere alla gravit
delle circostanze e lo diano, procurando, per quanto possono
di cavarne la copia.
7. Se saranno i parrochi, benefiziati richiesti degli in
-
ventarii delle loro rendite, ricorrano al vescovo per istruzioni
e facolt necessarie.
Queste disposizioni vennero messe in pratica da molti preti
e ne nacquero innumerevoli scandali, perciocch non pochi
trovando aspri e renitenti i confessori o i parrochi in ci che
da loro esigevano, rendevano tutto di ragion pubblica, e i
giornali pubblicavano quanto accadeva nelle confessioni ac
cennando eziandio i nomi dei confessori e dei parrochi stessi.
L'intenzione del governo pontificio era quella di far acca
dere disordini affinch il clero venisse perseguitato e si gri
dasse al martirio, ma le popolazioni italiane guardarono sem
pre con indifferenza le ostilit clericali e ne fecero oggetto
di scherno; esse camminavano avanti nella via della unifica
zione italiana, e a tal uopo intraprendevano opere patrie e
generose che altamente onorano lo spirito pubblico di quel
l'epoca.
In Ancona la commissione municipale apriva una soscri
zione per costruire una nave da guerra in memoria dell'an
nessione delle Marche al regno di Vittorio Emanuele. Ecco
il testo del decreto:
Considerando che l'accettazione data da S. M. il re Vit
torio Emanuele al voto dei popoli delle Marche di far parte
della sua costituzionale monarchia li rende partecipi della pro
sperit e della grandezza che la sua lealt e il suo valore
hanno assicurato all'Italia;
Considerando che debito di riconoscenza raccomandare
ad un monumento il ricordo di un atto cotanto solenne;
Considerando che uno dei pi possenti istrumenti della
forza della nazione sar la sua marina, della quale il re ha
detto con verit esser grandi i destini;
Considerando che la marina stessa si gi mostrata de
gnissima dello splendido avvenire promessole dal reale presa
gio, nell'eroica impresa dell'espugnazione di Ancona;
Considerando che pertanto da qui ben si conviene che
parta l'eccitamento a promuovere l'incremento del naviglio
nazionale, decreta:
li 14
1. Il municipio d'Ancona promuove nelle provincie delle
Marche una soscrizione per costruire nell'arsenale di questa
citt una nave da guerra, da offerirsi in nome delle provincie
stesse alla marina dello Stato, in memoria della loro annes
sione alla monarchia del re Vittorio Emanuele.
2. L'offerta del municipio d'Ancona di ital. lire cento
cinquantamila.
3. I municipi delle Marche saranno invitati a concorrere
alla soscrizione e chiamarvi i loro cittadini.
4. Una lapide nell'arsenale d'Ancona ricorder i nomi
dei municipi che vi avranno preso parte.
Per provare pi davvicino l'odio in che era caduto il go
verno pontificio riferiamo gli avvenimenti della notte del 25
al 26 novembre in Acquapendente.
Da molto tempo gli emigrati di quella provincia venivano
sollecitati dai cittadini a fare ritorno in patria, onde dar loro
aiuto a scuotere nuovamente il giogo della dominazione sa
cerdotale e liberarsi dalle vessazioni dei gendarmi pontifici
col ricondotti dall'occupazione francese. Nel plebiscito del 2
novembre avevano legalmente e dignitosamente protestato
contro il dominio clericale, votando per l'unione al regno
d'Italia; ma il loro voto fu sconosciuto: ora tornarono a pro
testare colle armi. Presi gli opportuni concerti con la popo
lazione, nella notte dal 25 al 26 s'introdussero in citt 35 cac
ciatori della lega comandati dal capitano Riccardo Boschet e
dall'aiutante maggiore Giuseppe Montanucci, e recatisi al
quartiere dei gendarmi che erano in numero di 19 intimarono
loro la resa. Non vedendo risoluzione alcuna gli assalitori sca
ricarono alcune fucilate verso il quartiere. Un sergente dei
barbacani affacciatosi in questo frattempo ad una finestra del
secondo piano, fu colpito inortalmente nel collo. I gendarmi
si arresero con armi e cavalli. L'unico stemma pontificio che
era rimasto fu fatto in pezzi e collocata in sua vece la ban
diera nazionale in mezzo agli applausi.
Comunque vani riuscissero cotesti sforzi erano sempre una
prova che il governo pontificio non durava che merc il so
stegno delle armi francesi.
L'episcopato infuriava contro quella parte del basso clero
che aveva partecipato alla votazione, e sospendeva a divinis
i sacerdoti che si mostravano proclivi alla causa italiana.
li 15
Il governo per mezzo del regio commissario di Macerata
faceva partecipare ai sacerdoti Giuseppe Salvatori, Nicodemo
Salvatori, Raffaele Pespucci, Francesce Mazzochetti, Serafino
Michelangeli, l'assegno fatto ai medesimi a carico del pubblico
erario di franchi 60 per ciascun mese, perch sospesi a divinis
dal vescovo di Camerino. Lodevole misura che grandi effetti
avrebbe recati, se il governo l'avesse adottata per tutti gli ec
clesiastici caduti in disgrazia dell'episcopato, il quale prendeva
coraggio ad imporre sul basso clero perch questo non aiutato
dal governo era costretto sottomettersi alle leggi delle curie.
Nell'ordine spirituale l'abuso dei vescovi era giunto a tal segno
che essi non si credevano obbligati di dare spiegazioni delle
loro disposizioni. Cos quando il vescovo di Recanati rice
vette la lettera dei preti di Loreto rispondeva ad uno di essi
nel seguente modo:
-
Rispondo a lei, perch l'ho trovato primo sottoscritto
nella lettera da me ricevuta ieri dopo pranzo, e scrittami in
comune con lei dal signor canonico Pichi, don Pasquali, don
Petrolini e don Polverigiani,
Secondo le leggi canoniche, il vescovo pu ea informata
conscientia dichiarare sospeso a divinis qualunque chierico e
sacerdote; cos il Tridentino, sess. XIV, cap. 1 de Reform.,
e Benedetto XVI nel suo libro De Synodo diocesana. Ea
-
informata conscientia pertanto ho dovuto dichiarare sospesi a
divinis lei e i suddetti sacerdoti. Intanto ripeto, che una tale
sospensione non viene da me, ma intimata dalle leggi ec
clesiastiche, onde non io, ma il solo reale pontefice ne li pu
assolvere; cosicch seguitando a celebrare ed amministrare
sacramenti eglino si renderebbero irregolari. Pregandola di
comunicar la presente anche agli altri surriferiti sacerdoti, mi
confermo colla debita stima.
... Ora non v'ha prepotenza che non si possa esercitare quando
il pretesto o i diritti della informata conscientia sono sufficienti
alle operazioni dei vescovi, e quel che pi monta alle severe
pene che essi infliggono. Ma gli esempi della intemperanza
e Piscopale sono molti e vari.
II Vescovo di Poggio Mirtelo udendo vociferare che si vo
lesse invitare il clero della sua diocesi a celebrare una festa
i 16
nazionale protest anticipatamente contro la giunta municipale,
e diresse al capo della stessa la seguente lettera:
Il sottoscritto sente vociferare (lasciando la verit delle
voci a suo luogo) che cotesta illustrissima giunta municipale
voglia inviargli una deputazione all'oggetto di poter congiun
gere ad una dimostrazione o festa, meramente politica, alcun
atto religioso in questa chiesa cattedrale nella futura dome
nica, od altro giorno che sia.
-
A risparmiare al sottoscritto, nonch alla supposta de
putazione una cortese si, ma pure risoluta negativa per parte
ancora del di lui clero, si viene a pregare la bont della S. V.
illustrissima di far dispensare a tale deputazione o ad altri
chicchessia, l'incomodo per l'oggetto indicato.
L'istessa qualifica rivestita dal sottoscritto in questa citt,
le presenta da s stessa tutte le ragioni che addur si potreb
bero a giustificazione di tal negativa, che ella coscienziosa
mente non saprebbe disapprovare.
Il capo della giunta rispondeva con altra lettera in questa
forma.
Ricevendo l'ultima sua epistola mi faccio dovere di signi
ficarle che nessuno della giunta municipale di Poggio Mirteto
ha mai pensato di recarsi in deputazione alcuna alla S. V. R.
e molto meno per pregarla di cantare o di lasciar cantare un
Te Deum per voto politico. I componenti della giunta muni
cipale, e con essi tutti i veri credenti e i buoni italiani, pen
sano invece che Iddio si ringrazia meglio col silenzio, nel
santuario della coscienza onesta e nella osservanza dei doveri
di cristiano e di cittadino.
Se poi la S. V. sente vociferare, pregato a non tenerne
responsabile la rappresentanza municipale.
Cosi cominciavano le discordie tra i vescovi e le autorit
civili, cos lo spirito pubblico cominciava a parlare apertamente
contro le consuetudini di culto che per secoli erano state il
tutto della religione.
Cotesto procedere delle autorit civili piaceva al governo
di Torino, e dalla parte sua adoperavasi perch le nuove pro
vincie sentissero i benefici influssi del nuovo ordinamento.
li 17
in data del 21 novembre fu decretato che il littorale delle
Marche formasse per l'amministrazione della marina mercan
tile un circondario marittimo avente per capoluogo la citt di
Ancona, e che fosse suddiviso in undici compartimenti. Un
altro decreto istituiva una capitaneria di porto in Ancona, da
avere giurisdizione su tutto il litorale delle Marche e su quello
delle Reinagne compreso Pontelagoscuro. Tramutava la ca
pitaneria di Ravenna in luogotenenza; e sopprimendo la luo
gotenenza di Porto Corsini, una ne istituiva in Sinigaglia. Pel
servizio della sanit marittima nel circondario marittimo di
Ancona, venne stabilito in quella citt uno speciale commissa
riato. Fu conservata la paga e gli altri vantaggi di che gode
vano tutti quegli impiegati di qualunque categoria, i quali
pel nuovo ordinamento dell'amministrazione della marina mer
cantile, dei porti e della sanit marittima delle Marche, ri
manssero senza collocamento. Saggio procedere era questo,
che valeva a consolidare le basi del nuovo governo negli abi
tanti delle nuove provincie.
Ma la lotta col clero alto continuava, ed il governo cominci
a mostrarsi rigoroso. ll pro-commissario di Urbino aveva chia
mato dinanzi a s per ragioni d' officio il pro-vicario della
stessa citt. Egli si rifiut, ed il pro-commissario fecelo venir
con la forza. Allora il vescovo Angeloni fulmin la scomunica
contro chi dette ed esegui l'ordine forzoso. Il pro-commissario
fece arrestare il vescovo e lo sottopose a regolare processura.
Il processo era gi condotto al suo termine, e non mancava
che la nomina del difensore per parte del vescovo, quando
le due prime dignit del capitolo metropolitano, il prevosto
don Vincenzo Ciccolini, e l'arcidiacono don Luigi Petrangolini
implorarono a viva voce ed in iscritto, a nome dell'intero ca
pitolo e di tutto il clero della diocesi la grazia della libera
zione del vescovo. Il commissario aderi e pose il vescovo in
libert.
L'istruzione pubblica, negletta dal governo pontificio, fu
uno dei mezzi che i commissarii adoperavano per mettersi in
euore dei cittadini. Un decreto dell'11 dicembre assegnava
centomila lire italiane per coadiuvare l'istruzione e la benefi
cenza nelle provincie dell'Umbria. L'assegnamento e riparti
zione di questa somma vennero poi determinati da quest'al
tro decreto.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
53
418
Art. unico. Il detto assegnamento annuo di lire centomila
viene distribuito nel modo che segue:
a) Al comune di Perugia, a profitto dell'Universit degli
studii lire 18,000, a profitto dell'accademia di belle arti 2,000.
b) Al comune di Rieti lire 10,000 per istituire un con
vitto nazionale.
c) Al comune di Spoleto lire 10,000 per dotazione di
un istituto agrario da istituirsi in detta citt.
d) Ai due benemeriti istituti Crispoldi degli artigianelli
e delle povere fanciulle in Todi lire 2,000.
e) Al comune di Narni lire 4,000 in sussidio per le scuole
ginnasiali.
f) Al comune di Amelia lire 4,000 in sussidio per le scuole
ginnasiali.
g) Alle provincie di Perugia e Orvieto lire 10,000, alla
provincia di Spoleto lire 10,000, alla provincia di Rieti
10,000 in sussidio per la fondazione e pel mantenimento di
ricoveri di mendicit, a profitto di ciascuna intera provincia:
da aprirsi tali ricoveri, per le provincie di Perugia e Orvieto,
nella citt di Foligno; per le provincie di Spoleto e Rieti in
questa citt.
Per riparare poi ai danni dell'accattonaggio, in grandi
proporzioni sviluppato in queste provincie per la poco male in
tesa carit esercitatavi :
Considerando che massimo di essi danni, la perdita
dell'amore al lavoro, tanto necessario alla ricchezza nazionale
e sola fonte di benessere per le classi povere;
Considerando che duopo togliere il doloroso spettacolo
di tanti fanciulli che nell'abbandono delle loro misere famiglie,
limosinando si deturpano l'animo e crescono a tutte le male
fiche conseguenze dell'ozio;
Considerando che oltre ai sussidii dati alle provincie con
decreto d'oggi stesso, per fondazione e mantenimento di ri
coveri di mendicit, urgano provvedimenti istantanei; in con
seguenza della soppressione delle corporazioni religiose, prima
che le cure del governo sortiscano la loro piena efficacia:
Art. 1. Sull'importare della tassa straordinaria del 2 per
cento sui beni ecclesiastici riservata, per una sola volta la
somma di lire italiane 100,000, da essere erogata come
segue:
a) Lire 50,000 in sussidio ad asili d'infanzia, da ripar
li 19
tirsi fra quei comuni che dimostrino di essere pronti ad atti
vare tali benefici istituti.
b) Lire 25,000 in sussidio a titolo d'incoraggiamento
al lavoro, e somministrazione di mezzi necessarii al mede
sim0.
c) Lire 25,000 in sussidii caritatevoli a famiglie bisognose
di operai.
Art. 2. Tali sussidii verranno equamente ripartiti dalle
deputazioni provinciali, che verranno costituite.
Altra disposizione salutare del commissario dell'Umbria,
marchese Pepoli, fu quello di assegnare alcuni conventi di frati
agli usi necessarii di civili istituzioni. Dodici locali di conventi
soppressi vennero assegnati nel modo che segue:
Al comune di Perugia, il locale del convento di S. Dome
nico, ad uso dell'Accademia di belle arti e pinacoteca.
Al comune di Spolet , il locale del convento di S. Ago
stino per uso dell'istituto agrario.
Al comune di Rieti il locale del convento di S. Agostino
per uso di un collegio convitto e del liceo.
Al comune di Orvieto il convento di S. Domenico ad uso
di pubblica istruzione e beneficenza secondo che sarebbe de.
liberato dal consiglio comunale.
Al comune di Terni, il locale dei padri conventuali di
S. Francesco, ad uso di un collegio convitto e del ginnasio.
Al comune di Foligno il convento di S. Nicol ad uso del
ricovero di mendicit.
Al comune di Todi, il convento di S. Filippo ad uso di
pubblica istruzione o beneficenza secondo il volere del con
siglio comunale.
Al comune di Citt di Castello il locale del convento di
S. Domenico.
Al comune della citt della Pieve, il locale del convento di
S. Benedetto.
Al comune di Narni, il convento di S. Agostino ad uso
delle scuole per le fanciulle e di asilo d'infanzia.
Al comune di Assisi il convento di S. Antonio.
Al comune di Amelia il convento dei padri conventuali
di S. Francesco per uso di pubbliche scuole.
In questo modo furono resi di pubblica utilit i conventi,
420
grandi fabbriche fino allora non ad altro usate che a ricove
rare pochi frati.
Il clero cos secolare come regolare infieriva a coteste di
sposizioni, e quindi lavorava ancora pi attivamente contra la
causa italiana. Noi riportiamo un documento intitolato avver
timento ai cattolici, che i vescovi in quei giorni facevano stam
pare a migliaia di copie e diffondere in mezzo alle popola
zioni. Per questo documento si voleva provare anco l'infallibi
lit del papa in materia di cose profane e materiali, come il
potere temporale della Chiesa.
Ecco il curioso documento:
AVVERTIMENTO AI CATTOLICI.
e 1. La Chiesa insegnante, alla quale per divina istituzione
appartengono il sommo romano pontefice come capo, maestro
e pastore, ed i vescovi seco lui uniti in comunione, e infalli
bile nel definire ci che spetta alla fede ed ai costumi, e
questo domma.
2. La Chiesa dunque infallibile nel definire se un'azione
sia giusta o ingiusta, turpe od onesta, giacch questo concerne
i costumi, e questo dogma.
3. La Chiesa ha definito essere ingiusta, inonesta o sa
crilega la usurpazione dei beni e territorii a s spettanti, ed
in questo la Chiesa infallibile.
4. La Chiesa ha ricevuto da G. C. la prima podest di
giudicare e punire le azioni criminali dei suoi figli, e sarebbe
eretico chi dicesse il contrario.
5. La Chiesa, valendosi dell'autorit ricevuta da G. C.
ha fulminato la pena della scomunica contro gli usurpatori
dei beni ecclesiastici e sarebbe da reputarsi eretico chi di
cesse che la Chiesa in ci ha errato, ed ha sorpassato i limiti
dei propri poteri.
6. Anche secondo i pi severi Gallicani, il giudizio del
romano pontefice irreformabile, cio infallibile, quindi vi
si unisce il consenso della Chiesa insegnante; e nel caso no
stro, cio nel condannare l'usurpazione dei dominii temporali
della santa Sede, tutti i vescovi dell'orbe cattolico fecero eco
al giudizio ed alla sentenza del supremo gerarca.
In ci avete, o cattolici, con che regolarvi nelle presenti
A21
circostanze. Non vi seduca il numero o l'autorit di chi pensa
O parla altrimenti. Non vi seduca il numero. Il numero non
salv i delinquenti al tempo di No e di Lot. Non vi seduca
l'autorit. All'inferno c' anche Giuda che pure era uno dei
dodici.
Ascoltate la voce di coloro cui Dio pose a maestri e pa
stori della sua Chiesa, e dei quali ha detto: chi ascolta voi
ascolta me, e chi voi disprezza, disprezza me. Questi sono i pre
cetti di G. C. e se qualcuno non si acquieta alle sane parole del
N. S. G. C. egli un superbo che nulla sa.
Non tralasciamo di dire come fosse opinione di alcuni ve
scovi che la necessit del potere temporale all'esercizio libero
dell'autorit spirituale venisse dichiarato dogma di fede. Ma
il clero romano si guard bene di stabilire questo nuovo
dogma prevedendo la lotta religiosa che ne sarebbe nata, e i
mali a cui sarebbero stati esposti gli altri dogmi di fede.
Non pertanto il documento precedente basta a provare per
quali vie l'episcopato intendesse propugnare la causa del do
minio dei papi.
Intanto la missione dei commissarii nelle Marche e nel
l'Umbria volgeva al suo fine e trattavasi di stabilire un nuovo
ordine di provincie secondo le norme dell'altra parte del re
gno italiano. Il commissario dell'Umbria fece precedere il de
creto delle nuove modificazioni dal seguente proclama:
L'ufficio che la benevolenza di sua maest mi affid volge
al suo termine. Era debito prima di abbandonare queste no
bili e generose contrade provvedere d'accordo col governo
centrale del re all'organamento amministrativo di esse. Le
piccole provincie tornano funeste ai paesi; raddoppiano le
spese; aumentano i tributi. Non hanno in s stesse elementi
durevoli di prosperit. Con ristrette finanze non possono in
traprendere quei pubblici lavori che moltiplicando l'industria,
il commercio, l'agricoltura, schiudono tutte le sorgenti della
nazionale ricchezza.
Le piccole provincie somigliano ai piccoli Stati. L'assicu
razione nazionale, il desiderio di ordinare fortemente l'Italia
condannano le une come gli altri.
Il governo del re, durante i pieni poteri, restrinse il nu
mero delle previncie, armonizz coll' ampliarsi del regno il
h.22
loro ordinamento. L'Umbria e la Sabina disgiunte, erano quat
tro piccole e povere provincie di uno Stato povero e piccolo;
unite ed associando le loro forze produttive, formeranno
una delle pi belle gemme del nuovo e potente regno d'Italia.
Il governo non disconosce che alcuni interessi locali sof
friranno momentaneamente lievi perturbazioni. Esso confida in
quel vivissimo amore all'Italia che a tutti i suoi figli ispir
sensi di concordia ed abnegazione. Esso confida che nell'Um
bria si rinnover il meraviglioso spettacolo che diedero fin
qui le citt italiane, sagrificando al bene della patria le tradi
zioni e gli interessi municipali. Affidando al consiglio provin
ciale liberamente eletto dalla popolazione la sanzione della
nuova circoscrizione, egli ha provveduto con l'interesse alla
dignit di tutte le citt dell'Umbria e della Sabina.
Il governo si lusinga che queste liete si raccoglieranno
attorno a Perugia. Perugia la citt delle sventure e delle lun
ghe battaglie sostenute contra il dominio clericale, Perugia che
soccombendo il 10 giugno 1859, inizi, legittim la spedi
zione delle Marche e dell'Umbria. Non il governo del re
che la presceglie per capoluogo della nuova provincia, ma bens
la riconoscenza e l'affetto della patria redenta .
Ecco ora il decreto:
Art. 1. Le quattro provincie di Perugia, Spoleto, Or
vieto e Rieti sono circoscritte in una sola provincia, la quale
prende nome di provincia dell'Umbria.
Art. 2. La provincia dell'Umbria si divide in sei circon
darii, cio di Perugia, Spoleto, Rieti, Foligno, Terni e Orvieto,
secondo la circoscrizione unita al presente decreto.
Art. 3. La provincia dell'Umbria avr a capoluogo la
citt di Perugia, ove risieder l'intendente generale della pro
VlI) Cl d.
Art. 4. I sei circondari predetti avranno a capoluogo le
citt stesse di Perugia, Spoleto, Rieti, Foligno, Terni e Or
vieto, nelle quali risieder l'intendente del circondario.
Art. 5. I comuni componenti il mandamento di Gubbio
faranno parte della provincia dell'Umbria e del circondario di
Perugia.
Art. 6. I comuni componenti il mandamento di Visso fa
ranno parte delle provincie marchigiane,
425
Art. 7. La nuova circoscrizione sui mandamenti di Gub
bio e Visso non avr effetto se non dietro eguale decreto re
lativo, del regio commissario generale delle Marche .
Mentre tutte siffatte cose accadevano in Italia e particolar
Inente nell'Umbria e nelle Marche, ognuno pu di leggieri com
prendere quale si fosse l'animo del papa e dei cardinali che
lo circondavano e che governavano per lui. Molti mali in quei
di piombavano contemporaneamente sopra la corte di Roma.
Perciocch il ducato di Baden aveva annullato i patti prece
dentemente conchiusi con la santa Sede; in Parigi si pubblicava
un opuscolo, il quale proponeva le chiese nazionali. In Oriente
i cristiani erano fortemente perseguitati dai pagani. Ma su
tutti questi disastri, disastro doloroso era quello delle per
dute provincie, che rovinava le finanze dello Stato ed affret
tava la totale rovina del potere temporale.
Perch i nostri lettori si formino un'idea dello stato della
corte romana e del giudizio che quivi facevasi degli avveni
menti italiani, riportiamo l'allocuzione di papa Pio IX tenuta
nel concistoro del 17 dicembre 1860.
Venerabili fratelli, la Chiesa in dal suo nascimento, scon
volta da molte e gravi procelle, fu fatta segno in questi no
stri sventuratissimi tempi a tanti e tanti violenti assalti de suoi
nemici, da far credere che l'odio degli stessi nemici lunga
mente covato, e il colmo del loro furore sia scoppiato in que
sto nostro pontificato.
-
Non necessario che teniamo dietro a tutti gli eventi do
lorosi e dannosi compiutisi in breve numero di anni, la me
moria de'quali riempie il nostro e vostro animo di immenso
dolore. Ma non possiamo nascondervi che per imprescruta
bili giudizi di Dio finora non fu imposto nessun termine alle
molte calamit, imperocch siamo afflitti per altre che sono
imminenti, sia a cagione dei fautori d'una perversa dottrina,
che sorta dai principii della riforma, in qualche paese ottenne
quasi la forza di diritto pubblico; sia per la scelleratezza de
gli empii, che dicono s stessi figli della Chiesa cattolica, ma
devono essere chiamati figli delle tenebre; sia finalmente pel
furore de pagani, che scoppi violentissimo nelle regioni orien
tali con istrage e rovina de fedeli.
A24
Dobbiamo difatto deplorare sommamente che in molte
parti d'Europa prevalsero errori perniciosi assai relativamente
alla potest ed ai diritti della Chiesa. d'onde l'assiduo impegno
di togliere ogni forza ai patti stipulati colla S. Sede intorno
alle cose sacre. Di che adoperata ogni arte per impedire la
- stipulazione di altre convenzioni nell'avvenire che regolassero
le faccende ecclesiastiche, ed affinch l'autorit civile assestasse
e regolasse da sola cotesti allari. La qual cosa non senza dolore
dell'animo nostro, abbiamo esperimentato test, venerabili
fratelli. Saprete che nello scorso anno abbiamo stipulata una
convenzione coll'invittissimo duca di Baden per adempire ai
doveri del nostro apostolico ministero, e raffermare in quel
ducato le cose ecclesiastiche, ad estinguere i dissensi nati colla
civile potest. Per, contrastando a quella convenzione il pub
blico consiglio o parlamento di quello Stato, venne pubbli
cato un decreto del granduca stesso, col quale si toglie ogni
forza alla convenzione medesima, ed in suo luogo fu pubbli
cata una legge sommamente contraria alla libert della
Chiesa.
Si capisce che ci fu fatto secondo la falsa dottrina dei
protestanti, che opinano la Chiesa esistere nello Stato come un
collegio qualunque e perci non avere altri diritti fuorch i
concessi ed attribuiti dalla civile potest. Ma chi non vede
quanto tale dottrina sia contraria alla verit? Imperocch la
Chiesa fu istituita dal suo autore vera e perfetta societ, la
quale, non limitata da nessun confine delle diverse regioni,
non sottoposta a messun impero civile, esercitando libera
mente la sua podest ed i suoi diritti in tutto il mondo per
la salute degli uomini. N vogliano dire altro quelle solenni
parole di Cristo Signore agli apostoli: Mi fu concessa ogni
potest in cielo ed in terra: andate ad ammaestrare tutte le
genti, insegnando loro ad osservare tutto ci che io vi ho
comandato . Dalle quali parole: gli apostoli banditori del
Vangelo, contro la volont dei re e dei principi, non ispa
ventati da nessuna minaccia, da nessun supplizio, eseguirono
alacremente l'ufficio loro affidato. Noi dunque grandemente
solleciti per la tutela dei salutari diritti della Chiesa, appena
conoscemmo che si pensava e si trattava di abolire la con
venzione, subito abbiamo mandato nostre lettere al granduca
per evitare quel male, e perci per mezzo del cardinale se -
gretario di Stato abbiamo insistito presso quel governo affin
12
ch la convenzione fosse debitamente eseguita. Ma poich tutte
le fatiche e le sollecitudini riuscirono vane, adempiamo al
nostro dovere, lamentandoci apertamente nel vostro consesso,
venerabili fratelli, per l'abrogazione contro le regole della
giustizia e senza il consenso di una delle parti, d'una con
venzione solenne, e ci richiamiamo colla maggior energia pos
sibile pei diritti della Chiesa cattolica e della S. Sede violati
e conculcati. I quali nostri richiami abbiamo ordinato che siano
trasmessi al governo di Baden, ed insieme sia dichiarato al
l'arcivescovo di Friburgo il modo di operare in tanta diffi
colt; e di questo egregio prelato e del suo clero non pos
siamo abbastanza commendare la fermezza nel difender la li
libert della Chiesa, dalla qual fermezza confidiamo che non
si allontaneranno mai neppure in presenza di estremi pericoli.
Mentre ci affliggevamo per le cose sacre sconvolte nel grandu
cato di Baden, e per la Chiesa nuovamente turbata in quella
regione, altra causa di molestia avemmo per lo scelleratissimo
libello test pubblicato a Parigi, nel quale l'autore accumula
tante cose del tutto contrarie alla verit, assurde e contradditto
rie, sicch sembra doversi piuttosto rigettare e disprezzare, che
non confutare. Per non si deve sopportare ch'egli sia giunto a
tale audacia ed empiet da non peritarsi, dopo avere assalito il
sacro e civile principato della Chiesa romana, da inventare una
certa peculiare Chiesa di nuovo genere nell'impero francese,
che si dovrebbe istituire a suo parere, la quale sia sottratta
all'autorit del romano pontefice da lui del tutto divisa. Che
altro questo se non rompere e lacerare la unit della Chiesa
cattolica? Della quale necessaria unit cos Cristo Signore al
padre: Non prego solo per essi, ma anche per loro che cre
deranno in me, mediante la loro parola, affinch tutti siano uno
come tu padre in me, ed io in te . Ma la forza e la ragione
di questa unit esigono che, siccome le membra col capo, cos
tutti i fedeli del mondo siano congiunti ed uniti col romano
pontefice, che vicario di Cristo in terra.
Per la qual cosa il dottore della Chiesa, Gerolamo, scri
veva al nostro predecessore, di santa memoria, Damaso: Mi
tengo unito con tua beatitudine, cio colla cattedra di S. Pie
tro; so che sopra quella pietra fu edificata la Chiesa; chiun
que manger l'agnello fuori di questa casa, profano . Qual
grave ingiuria fa l'autore del citato libello all'illustre nazione
francese, che fermissima nell'unit cattolica credendo di po
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
54
426
terla avviluppare negli errori dello scisma! Quanto grande
la temerit di lui, che spera di distaccare dall'ossequio e dalla
fedelt alla Chiesa cattolica quel clero e quei cospicui prelati
i quali contano tra i loro predecessori Ireneo, pastore della
chiesa di Lione, che scrisse queste belle parole: Alla romana
chiesa pel suo primario principato necessario che convenga
ogni chiesa, cio i fedeli di tutto il mondo , i quali prelati
non abbattuti da nessun timore, non trattenuti da nessun pe
ricolo, sia colla voce, sia cogli scritti combatterono a difesa
dei nostri diritti e della santa Sede, senza lasciar mai di darci
prove certissime della loro devozione! Di questi e degli altri
prelati di tutto il mondo, mentre noi coi meritati encomiilo
diamo la pastorale cura, vigilanza, fermezza, tuttavia non omet
tiamo bench spontaneamente fervidi e pronti alla difesa della
Chiesa cattolica, di esortarli ed eccitarli in queste iniquit di
tempi affinch quanto pi violenti divengono gli assalti nemici,
procurino di sostenerli con animo tanto pi forte a romperli;
perci non lascino di avvertire i fedeli commessi alle loro sol
lecitudini delle fallacie e delle insidie, colle quali uomini astu
tissimi si sforzano di strapparli dal grembo della madre Chiesa.
Intanto da quel dannato libercolo quali siano i consigli del
suo autore e degli altri che si affaticano per togliere alla santa
Sede il principato civile, quasi tolta la maschera, chiaramente
apparisce. Cio non vogliano altro, non faticano per altro, se
non per abbattere i fondamenti della nostra religione santissima.
E ci appunto veggiamo e deploriamo che si attenti con ogni
pi perfida arte, sia nelle provincie ingiustamente sottratte alla
nostra dominazione, sia negli altri paesi d'Italia.
A questo scopo mirano le perverse traduzioni dei sacri
libri sparse dappertutto per corrompere la fede; la grande
quantit di libercoli sozzissimi diffusi per corrompere i costumi
della giovent; la sfrenata licenza del vivere dilatata da per
tutto; la potest della Chiesa disprezzata e conculcata; la sa
cra immunit violata; la pubblica educazione della giovent,
sottratta all'autorit e vigilanza dei vescovi, e loro tolto ogni
governo dell'insegnamento e dei costumi; preposti all'istru
zione pubblica uomini di prave opinioni religiose; pubblicato
nell'Umbria un decreto per discacciare dai loro conventi quasi
tutti i religiosi, per sopprimere i capitoli delle collegiate, per
abolire i benefizi semplici di qualunque genere, e le pie societ,
cd occupare con somma ingiustizia i loro beni; a questo si
127
riferisce l'incarcerazione degli ecclesiastici e degli stessi prelati,
tra i quali il nostro venerabile fratello l'arcivescovo d'Urbino,
test circondato d'armi e tratto in carcere, e il venerabile fra
tello arcivescovo di Fermo decorato della cardinalizia dignit,
con violenza strappato dalla sua sede, confinato altrove ed im
pedito di attendere alla cura del gregge affidatogli, ed anche i
molti prelati e sacerdoti del regno napolitano, o messi in car
cere o costretti alla fuga, a questo si riferiscono (n lo ricordia
mo senza dolore acerbissimo) i templi protestanti aperti in varie
citt d'Italia, ed anche le pubbliche scuole aperte, ove si in
segna impunemente ogni perversa dottrina in danno della cat
tolica religione; finalmente fu pubblicato nell'Umbria un de
creto, col quale il matrimonio chiamato dall'apostolo grande
sacramento viene inceppato con peculiarii regolamenti civili e
quasi sottratto alla potest della Chiesa, forse col divisamento
di sottoporlo poscia alle sole leggi civili, e cos, che Dio nol
voglia, introdurre il concubinato legale con estremo detrimento
delle anime.
E qui, come vuole il nostro ministero apostolico, con
danniamo, riproviamo, ed apertamente dichiariamo nullo, senza
forza ed irrito tutto quanto in qui fu fatto o si far in avve
nire contro i diritti e il patrimonio della Chiesa, contro le
religiose persone e i loro beni. Come siano dappertutto scon
volte tutte le cose pubbliche e private, quanto scossa l'Europa,
e da quanti dissidii sia lacerata l'Italia, chi nol vede e con
noi nol deplora grandemente? Considerando le ferite cos
gravi e cosi numerose, fatte alle cose sacre e civili, siamo
costretti ad esclamare col profeta : La terra infettata da'
suoi abitatori, perch violarono le leggi, mutarono il diritto,
dissiparono il patto sempiterno. Questa congerie di mali si
deve sopratutto attribuire a coloro che per dilatare la propria
dominazione nei confini dell'Italia, violano audacemente i di
ritti umani e divini, e si vantano e si predicano autori della
pubblica felicit, ma in qualunque parte arrivano, come fieris
sima tempesta, lasciano impresse le vestigie del furore e della
strage.
Piacesse a Dio che ritornassero una volta al senno gli
stolti, intendessero cio che, tolta la religione, non resta pi
alcun aiuto alla societ umana sia per la sua stabilit, sia per
la sua quiete. Deh ! si persuadessero essere la religione cat
tolica la sola maestra di verit, nutrice di tutte le virt, sulla
428
quale si fonda l'incolumit e la salvezza delle citt e dei re
gni; si ricordino una volta che questa sede apostolica, non
solo non ha mai avversata la vera e solida felicit dei popoli,
ma che fu sempre grandemente benemerita in ogni tempo di
tutto il genere umano. Imperocch, per opera sua, le genti
barbare furono condotte all'incivilimento, e addottrinate nei
precetti della vera religione, furono sedati i tumulti delle
guerre, promosse in tutti i modi le belle arti e le buone di
scipline, eretti pubblici domicilii della carit a sollievo degli
infelici e degli ammalati, insegnati a promulgare tanto ai prin
cipi, quanto ai popoli anche nei pi grandi sconvolgimenti,
i principii del giusto e dell'onesto. Codeste cose, ed altre
moltissime fatte con tanta provvidenza e sapienza dalla sede
apostolica a pro della societ umana, attestate da molti e
splendidi monumenti, saranno dalla storia celebrate per tutti
i secoli.
Ma gi il nostro paterno cuore richiamato dalla chiesa
d'Oriente da gravissimi mali tribolata, la quale per non cessa
di nobilitarsi e fregiarsi di cruente palme di martiri. Vogliamo
parlare, venerabili fratelli, del regno di Corea, dell'impero
della Cina e dei regni finittimi, ove n per i pi atroci tor
menti, n per i pi crudeli generi di morte non fu mai affie
volita n vinta la costanza dei cristiani nella fede. Vogliamo
parlare dei paesi della Cocincina e del Tonchino, ove, per
estinguere appieno il nome cristiano, rincrudeli in modo atro
cissimo la ferocia dei pagani. Abbiamo bisogno di ricordare i
collegi, i conventi, i templi, gli edifizi pubblici e privati, o
rovesciati al suolo, o dati alle fiamme ? Parleremo dei cri
stiani d'ogni et, condizione e ordine, parte errante qua e l,
costretti di menar una vita pi dolorosa di qualunque suppli
zio, parte cacciati in carcere e tormentati con ogni maniera
di supplizi? eppure questi nel sopportare i tormenti per Cristo
e nel dar per lui la vita emularono la fortezza degli antichi
martiri della Chiesa.
N ci tocca meno il cuore, e ci commove l'infelicissimo
stato dei cristiani della Siria, i quali, bench non pi oppressi
da crudelissima strage, tuttavia sono di continuo agitati dal
timore che l'impeto degli infedeli represso per un momento
dalle soldatesche dell'Europa, non prorompa nuovamente e
con maggior furia in rapine e stragi. A sollievo delle costoro
sventure, procurammo di spedire una somma di denaro, se
129
non pari ai nostri paterni desiderii, tuttavia proporzionata alle
nostre strettezze, giacch la pia generosit delle nazioni catto
liche non ci venne mai meno. Delle quali non vogliamo omet
tere di lodare l'accennato egregio esempio di carit nell'alle
viare colle larghezze loro gli afflitti fedeli della Siria, e quindi
siamo grandemente lieti che non illanguidisca mai nella Chiesa
quella virt che il divin redentore volle che fosse segno pre
cipuo della cristiana religione.
Questo atto deplorando e luttuoso delle cose sacre e pub
bliche, che finora siamo venuti esponendo, grandemente ci
angustia e ci conturba, ed anzi ci riempe di grave tristezza,
-
venerabili fratelli, e non dubitiamo che voi altres, chiamati
a parte della nostra amministrazione piglierete parte al nostro
dolore. Tuttavia non lasciamoci scoraggire, e con ripetute quo
tidiane preci innalziamo gli occhi al monte donde in tante
angustie aspettiamo l'aiuto opportuno. Dio assister la sua
Chiesa, assister la nostra pochezza, e noi, confortati dalla
sua grazia, non ci lasceremo n per timori di pericoli, n
per sopravvenire di sciagure, smuovere dal dovere e dalla co
stanza del ministero apostolico. L'innocente sangue dei cri
stiani, da cui bagnata la terra d'Oriente, ascenda a Dio in
odore di soavit e placato da quello, come a dire, sagrificio,
ci liberi benignamente dalle calamit da cui siamo oppressi
e ci pendono sopra il capo; e per il patrocinio della santissima
madre di Dio immacolata, e coll' intercessione dei beati apo
stoli Pietro e Paolo conceda alla sua Chiesa di riportare vit
toria contro i suoi ferocissimi nemici. Sorga una volta Dio
a giudicare i nemici del suo nome anelanti all'eccidio della
religione, e macchinanti molte iniquit contro la Chiesa; di
sperda e conquida nella forza del suo braccio, ovvero (ci
che maggiormente desideriamo e chiediamo) rischiarati dal
lume della divina grazia, egli che ricco di misericordia, li
riconduca colla sua infinita clemenza sulla via della verit e
della giustizia .
Il linguaggio del pontefice sopra ci che riguardava la que
stione italiana, era tale che non lasciava luogo a speranza al
cuna di conciliazione. La corte romana dopo tali manifesta
zioni non poteva pi ritrattarsi senza dare lo scandalo della
mutabilit in chi si eredeva infallibile. Da altra parte l'Italia
430
erasi spinta troppo oltre nella via della unificazione per po
tere tirarsi indietro ed acconciarsi al dualismo. Non restava
adunque che la disfatta completa del dominio pontificio da do
versi procurare per qualunque via.
Intanto un decreto del re chiamava le provincie delle Mar
che e dell'Umbria a far parte del regno. La missione dei com
missarii finiva, e cominciava quella dei governatori.
Il commissario Pepoli il 29 dicembre 1860 dirigeva il se
guente proclama alle popolazioni dell'Umbria:
Cittadini dell'Umbria !
Un decreto del re nostro vi chiama stabilmente, legal
mente a far parte del suo forte regno; vi chiama a parteci
pare ai benefici di un vivere libero, civile; vi chiama a di
videre con lui i sagrifizi, i pericoli, le glorie del riscatto
d'Italia.
Non pi divisi fra loro, oggi i popoli italiani si stringono
tutti attorno a quel vessillo tricolore, che or fa pochi anni, in
segreti pericolosi ritrovi era custodito a prezzo sovente della
libert e della vita, e che oggi sventola dalle Alpi all'estrema
Sicilia, riverito, applaudito da tutta Europa civile.
La mia missione quindi compiuta. Ad un vostro illustre
concittadino il ministero affida il regolare governo di questa
provincia.
Io sento, nell'abbandonarvi, profondo cordoglio. Voi cir
condaste di affetto l'opera mia e vi mostraste lieti, ricono
scenti, che qui si svolgessero quei benefici principii che ini
ziarono in tutta Europa una nuova ra di civilt e di progresso.
Cittadini! del vostro concorso, del vostro affetto serber
indelebile memoria, ma lasciate che l'ultima volta che io ho
il diritto di rivolgervi la parola, vi dica con sicura coscienza e
col cuore commosso : rammentate che voi formate l' avan
guardia dell'armata della civilt alle porte di Roma: rammen
tate che sta a voi ottenere la prima vittoria morale collo spet
tacolo della vostra concordia, della vostra fermezza, della vo
stra annegazione. Sta a voi il mostrare che libert e reli
gione prosperano l'una accanto all'altra, mentre dove stanno
disgiunte si trasmutano in licenza e in fanatismo.
PEPoLI.
451
Il governatore eletto dal re per l'Umbria fu il marchese
Gualterio, distinto pubblicista, e scrittore di un' opera, nella
quale raccogliendo i documenti storici dei fatti recenti acca
duti in Italia, sparge molta luce sugli avvenimenti politici che
precedettero il 1848.
N bisogna dimenticare che nelle Marche e nell'Umbria Vit
torio Emanuele fosse realmente amato, come lo era da tutti
gli italiani che avevano saputo riconoscere i sagrifici da lui
fatti, e i corsi pericoli per l'indipendenza nazionale. Cotesto
affetto verso il re soldato nuoceva grandemente agli interessi
della curia romana; primo perch le popolazioni si affeziona
vano al nuovo ordine di cose; secondo perch mostrandosi
cosi proclivi ad un governo monarchico non si poteva dire di
loro che fossero strascinati dalle idee demagogiche, o da spi
rito di libertinaggio.
Conviene infatti dire che la causa italiana trattata colle armi
e colla politica si abbia conciliato anco la stima dei governi
europei per la semplice ragione che essa tendeva alla monar
chia costituzionale; e diveniva cos una guarentigia di tranquil
lit per il rimanente d'Europa.
Per dare una prova dell'affetto dei popoli sottratti al do
minio pontificio verso Vittorio Emanuele, diremo delle ova
zioni fatte a lui in Pesaro.
Reduce da Napoli il re giungeva in quella citt a mezza
notte in punto del giorno 28 dicembre. Ad onta dell'ora tarda
e del tempo piovoso e freddissimo, tutta la popolazione era
in piedi per aspettarlo. Vittorio Emanuele veniva salutato con
50 colpi di cannone tirati dalla fortezza, nella quale i fuochi
di bengala mostravano le rovine avvenute in seguito del bom
bardamento a cui era stato costretto il generale Cialdini,
Ricevuto a Porta Romana dalla commissione municipale, e
preceduto dal concerto, giungeva nella piazza dove era schie
rata la guardia nazionale. Un'immensa folla di popolo con faci
e bandiere lo aspettava, ed oltre a trecento signore con torcie
e mazzi di fiori. Il re non discendeva dalla carrozza, ferman
dosi soltanto il tempo necessario per cambiare i cavalli. Nel
breve intervallo recavansi ad ossequiarlo le diverse rappre
sentanze amministrative e giudiziarie che vennero presentate
dal regio commissario. Accoglieva un indirizzo offertogli da
alcuni sacerdoti in nome del clero pesarese; indi un bello e
grande mazzo di fiori che con affettuose parole gli presentava
A32
la contessa Marianna Paoli Mazzetti, in nome delle donne di
Pesaro.
La commissione gli leggeva intanto il seguente indirizzo:
Sire /
Pesaro, che fra le citt sorelle delle Marche fu prima a
provare gli effetti della vostra politica ad un tempo ardita e
conservatrice, vi rinnova per nostro mezzo l'omaggio di sud
ditanza, e vi ringrazia altamente che vi degniate onorarla
di vostra presenza.
Siate dunque il benvenuto, o sire, e possano le cure
dello Stato concedervi fra poco di consolare con meno breve
dimora questi abitanti, che, sebbene nuovi si sentono i pi fedeli e costanti dei vostri sudditi. Si, o sire, l'affetto di questo
popolo per voi non soltanto il frutto di un beneficio recente
ed incomparabile, ma proviene da una fede profonda nei de
stini d'Italia non meno che dalla gratitudine verso il vostro
governo, all'ombra del quale in tempi infelici trovava asilo e
patria un illustre concittadino che poi chiamaste all'onore del
ministero. Vostro dunque questo popolo per antica persua
sione e riconoscenza, e come tale pronto ad incontrare qua
lunque sacrifizio alla vostra chiamata. Ed allorch questa, o
sire, giungesse, uscirebbero dalle nostre mura altri prodi oltre
quelli che combattono volontari sotto i vostri vessilli, e con essi
una compagnia, che la rappresentanza municipale interprete
del voto della popolazione, fin d'ora lieto di offrirvi vestita
ed equipaggiata a pubbliche spese nella gloriosa divisa dei
vostri bersaglieri.
La commissione.
L'illustre concittadino dei Pesaresi, a cui accennava l'indi
rizzo era il filosofo Mamiani, e fu gentile pensiero quello di
ringraziare il re, all'ombra del cui governo egli aveva trovato asilo ed ospitalit.
N sar superfluo il riflettere come i governi italiani ab
biano rovinato s stessi cacciando in esiglio i cittadini pi il
lustri e distinti per merito letterario e scientifico, perciocch
costoro da una parte animavano il governo di Torino a met
tersi alla testa della rivoluzione italiana, e dall'altra facevano
433
proseliti e cospiratori nelle loro citt natie dalle quali erano
stati espulsi.
Senza tema di errare noi possiamo dire che la grande opera
della unificazione italiana sotto lo sceltro di Vittorio Ema
nuele, sia stata incoraggiata, favorita e sostenuta dagli emi
grati che si erano concentrati in Piemonte.
Ma ai mali delle perdute provincie quelli si aggiungevano
ancora delle cospirazioni, le quali avvenivano in Roma, sotto
gli occhi stessi della corte pontificia. Esisteva gi in Roma un
comitato nazionale italiano, il quale intendeva a tener desto
lo spirito pubblico ed a mostrare alle autorit francesi del
l'occupazione militare di Roma, che neanco la citt eterna
voleva rimanere soggetta al governo pretino. Come questo
comitato parlasse per mezzo di proclami, cos al generale
Goyon come al popolo romano si pu vedere dai due docu
menti che seguono. Il primo una protesta del comitato stesso
al generale francese. Quella protesta diceva:
Quando le armi francesi e italiane vincevano in Lombar
dia, voi severamente c'impediste di mostrare la nostra gioia,
e i nostri sensi di riconoscenza verso l'augusto vostro impe
ratore, e ci, come dicevate, per non turbar l'ordine. Ora l'or
dine fu pi volte turbato da dimostrazioni indecenti fatte al
papa-re, da una squadra di legittimisti stranieri, uniti ai di
pendenti dalla polizia papale, n voi l'avete mai impedito,
anzi l'opinione pubblica ve ne chiama quasi complice. L'esi
guit di queste dimostrazioni era tale che i promotori hanno
dovuto cercare altri aiuti, e voi, tutore dell'ordine in Roma,
avete pur tollerato che questa citt si empisse di tutta la
feccia e del rifiuto di Napoli, non ripugnante per istinto e per
educazione borbonica a qualsivoglia delitto.
Con queste schiere e coi tremila birri e poliziotti di
Roma si prepara una dimostrazione al papa per l'ultimo giorno
dell'anno, e si vuol cogliere questa occasione per suscitare
tumulti a sfogo di miserabili vendette, non risparmiando in
sulti e provocazioni al partito nazionale, onde impegnarlo in
una lotta che finirebbe col tirare su di esso la forza delle
armi francesi. Poich il papa, obliando il suo ministero di pace
non abborre dal prestarsi a scene, che potrebbero riuscire
sanguinose, n voi pensate di prevenirle. Il comitato nazio
Stor della rivol. Sicil. Vol II.
55
154
nale di Roma, dopo aver fatto dal canto suo quanto poteva
per inculcare la moderazione e la calma nel popolo giusta
mente irritato, sette il dovere di protestare pubblicamente
e chiamarvi solo responsabile innanzi all'imperatore e alla
nazione francese dell'insulto che si fa alle convinzioni di Ro
ma, e d'ogni disordine o sciagura che potrebbe in ogni caso
funestare questa citt, affidata alla tutela delle armi francesi
da voi comandate.
Roma, 29 dicembre 1860.
Il comitato nazionale italiano.
L'altro documento un proclama al popolo romano a pro
posito di quanto scrisse l'Armonia, giornale clericale che si
stampava in Torino, e che calunniava a dritto e a rovescio
uomini e cose italiane. Quel proclama diceva:
Romani /
Molti fra voi si sono lasciati sdegnare da una calunniosa
corrispondenza dell'Armonia. Hanno avuto torto. Quando que
sto giornale chiama armi straniere le armi di Vittorio Ema
nuele, parla da suo pari. Non un giornale austriaco l'Ar
monia? quando esso mentisce fa il suo dovere. Non pagato
per questo dagli austro-clericali? perch dunque sdegnarsi in
vece di ridere alla sua farsa del Caff Nuovo? ai sognati
suoi cartelli azzurri, e alle lettere di oro, all' attribuire che
esso fa ai Romani il progetto di una dimostrazione papale,
che la polizia pontificia organizza da lungo tempo coi pochi
notissimi sanfedisti, co suoi tremila gendarmi, armati di pu
gnale, e coi poliziotti di Francesco II, sfuggiti alla punizione
delle rapine, degli incendi, dei massacri da loro commessi
negli Abbruzzi, e qua raccolti, onorati, pagati? I Romani del
l'Armonia ei non sono che questi!
Ma questa una provocazione, si dice: bisogna reagire.
Poich il papa si presta a questa commedia; poich il gene
rale de Goyon la favorisce, bisogna salvare il decoro di Ro
ma; reagire violentemente. Questi propositi sono figli di cuor
generoso.
43
Ma vera reazione, violenta, sapete voi dove conduce ? a
ci propriamente che la polizia clericale desidera e ordisce ;
ad una collisione con la truppa francese. Ci non deve ac
cadere. Voi finora evitaste con senno questo fatto, dal quale
verrebbe gran danno a Roma, e forse a tutta la nazione, e
voi l'eviterete ancora. Voi non complicherete maggiormente la
gi falsa posizione di questi generosi figli della Francia, espo
nendoli a scegliere tra i sentimenti del loro cuore, e i doveri
della disciplina militare. Pur troppo un nuovo sagrificio
questo che vi si chiede, ma se voi godete oggi le simpatie di
tutti i vostri fratelli italiani, lo dovete appunto all'aver rego
lato la vostra azione non gi secondo il vostro generoso istinto,
ma secondo l'utile della causa della nazione. Ora questo utile
stesso vi impone di subire anzich di far violenza. Perch
pochi fanatici d'ogni lingua, e gli sgherri papali e borbonici
gridino il papa-re, non per questo gli daranno essi il regno,
e la dignit di Roma sar compromessa. Credete forse cieche
l'Italia e l'Europa? Siate dunque tranquilli. Il tempo utile di
agire fortemente non lontano per voi. Quando la bandiera
italiana sventoler in Gaeta, allora l'Italia vi dir che voglia da
voi, perch Roma si mostr degna di essere la capitale di una
grande nazione, e voi lo sarete.
30 dicembre 1860.
Il comitato nazionale romano.
Questi due documenti provano che il comitato nazionale
romano era del partito moderato e che perci poco giovava
alla causa italiana ed allo scioglimento della pi grande que
stione dell'epoca. Cospirazioni vere non si potevano fare in
Roma a motivo dell'occupazione francese; non eravi dunque
altra maniera per indurre Napoleone III a qualche definitiva
risoluzione che fare che i disordini accadessero. Un comitato
che soffocava lo spirito pubblico non faceva che scemare la
necessit di scioglier presto la questione romana. Non pertanto
il governo stava sempre inquieto vedendo come nella stessa
Roma gi esistessero comitati liberali.
Partito il marchese Pepoli da Perugia, Gualterio iniziava il
suo governo. Egli il 2 gennaio 1861, parlava ai popoli del
l'Umbria col seguente proclama:
456
In nome del governo di sua maest il re Vittorio Ema
nuele II, assumo il governo di questa provincia. I vostri voti
sono compiti, siete entrati nella famiglia italiana, fate parte an
cor voi della grande nazione, siete raccolti ancor voi all'ombra
dello scudo glorioso della Casa di Savoia. Questi giorni avven
turati, che invocaste unanimi nella sciagura, che sapeste me
ritare con il coraggio, con l'abnegazione, con la concordia, e
con una saggia e costante repulsa alle insidie delle fazioni, que
sti giorni di pace e di libert segnano un'ra ancora per voi.
Ora a voi spetta il mostrarvi degni dei novelli destini,
serbando gratitudine a quel re e a quel governo che, bravando
morali e materiali ostacoli, snud per voi la spada e porse
benevole ascolto al vostro grido di dolore. Questo ricordo, tra
mandato come sacro legato ai figli vostri, sar nelle venture
generazioni, fondamento d'imperituro affetto, che parr non
dissimile, non meno devoto, non meno sincero di quello che,
per lungo volger di secoli, le nobili provincie dell'antico Pie
monte serbarono alla reale casa di Savoia, che ne reggeva i
destini e maturava col senno e con la spada i maggiori, dei
quali ora noi siamo testimonii.
Quelle antiche provincie del regno, che, col sangue dei
loro figli e coi sagrifici incessanti dei loro averi cooperarono
all'opera generosa iniziata dal nostro principe prode e leale,
vi accolgono come fratelli, come parte della stessa famiglia.
Emulatene le civili e militari virt per mostrarvi degni del
loro consorzio. Alle loro glorie, alle loro tradizioni accomu
nate le vostre, e sia cos unito e indivisibile ed a tutti comune
il patrimonio delle glorie italiane.
Popoli dell'Umbria, voi non siete indegni del consorzio
e della fratellanza dei belligeri popoli del Piemonte, ed ho fede
che potrete rinnovare le prove gi date da molta parte della
vostra giovent sui campi di battaglia, crescendo (quando a
Dio piaccia serbarvi a nuovi cimenti) di nuovi allori l'onore
delle armi italiane. Io ho fede che la terra che vide nascere in
gran copia i pi valorosi capitani di ventura, i Fortebracci, i
Vitelli, i Biordi, i Piccinini, i Baglioni, la terra ove quei capi
tani reclutavano le valorose schiere, dar all'esercito nazionale
una giovent non indegna dei fratelli d'armi coi quali andr a
dividere gloria e pericoli.
E come col vostro valore io faccio affidanza col vostro
senno. I gentili costumi, il savio e moderato sentire che sempre
437
vi distinse, render a me pi agevole il governo, e far cogliere
a voi pi copioso il frutto delle libere istituzioni delle quali co
mincerete a godere. Lo Statuto, largito ai suoi popoli con
affetto di padre dal magnanimo re Carlo Alberto segna ormai
i vostri diritti di liberi cittadini. Delle costituzionali libert
l'uso anche per voi sar sacro ed inviolabile; ed io confido
che saprete largamente usarne, e comprenderne e rispettarne
i confini. Ogni passione per vorrete sagrificare sull'altare della
patria, ed alle estreme fazioni, qualunque sia il manto di cui
volessero coprirsi, darete voi medesimi quella repulsa e quel
l'ostracismo, del quale le colpiste nei giorni del vostro dolore
allorch si maturavano i vostri attuali destini.
Popoli dell'Umbria! riuniti in una sola provincia, anzi in
una sola famiglia, altra gara non sia tra voi se non quella di
accrescere la gloria della nazione italiana, e di migliorare le
sorti delle citt manomesse ed impoverite in molti secoli di
sciagura. Ridestate tutti quei germi di prosperit, dei quali vi
fu larga la natura pi che molte altre provincie, e ricercata
quella grandezza di cui fruiste in tempi remoti della quale i vo
stri monumenti e la vostra storia fanno solenne testimonianza.
Quanto a me, trover un conforto ed un aiuto alle gravi
cure del governo nell'antico e scambievole affetto che mi ha
sempre legato a questa bella provincia. Le mie cure indefesse
saranno egualmente dedicate a tutte le nobili citt che ne fanno
parte, come agli angoli pi remoti della medesima. Non ignoro
quanto vi da operare e quanti siano i bisogni di un vasto ter
ritorio fino ad ora abbandonato. Confido per nel savio con
corso di tutti i buoni cittadini nei quali sar non meno che
a me a cuore di vedere condotta questa provincia a tal segno
di prosperit, che non abbia nulla a invidiare alle altre pro
vincie sorelle. Congiunte tutte in un medesimo affetto per il
re e per la patria, lavoriamo concordi a quest'opera gloriosa,
e mentre ci prepariamo con animo lieto a tutti quei sagrificii
che ci saranno ad entrambi richiesti per assicurare la magna
nima impresa gi cosi innanzi condotta, poniamo tutta l'opera
nostra a sviluppare quella prosperit che alla nazione italiana,
finalmente risorta, dovr rendere il grado di grandezza e di po
tenza che le si conviene fra le nazioni d'Europa, e che il suo
passato altamente reclama.
I nuovi governatori diedero alle Marche e all'Umbria, il
&38
definitivo assestamento come provincie del grande regno ita
liano. Il papa continu a protestare, ma le sue proteste non
ismossero il popolo. Il governo di Torino adoper opportuna
mente tutti i mezzi per affezionarsi quelle nuove popolazioni,
e vi riusci, perciocch tra tutte le provincie nuovamente an
nesse al Piemonte le pi quiete e tranquille furono quelle delle
Marche e dell'Umbria. L'episcopato continu a protestare an
ch'esso contro le misure che il nuovo governo andava adot
tando circa gli ecclesiastici; taluni vescovi si spinsero a dimo
strazioni affatto ostili e reazionarie. Il governo mostr allora
la sua energia e ne mise qualcuno in arresto tra i quali il car
dinale De Angelis arcivescovo di Fermo che venne condotto
a Torino e quivi tenuto lungo tempo. L'esempio fu salutare per
ciocch gli altri vescovi d'allora in poi cominciarono ad usare
prudenza. Il basso clero si stette indifferente; una parte di esso
fu paga delle nuove leggi perch per esse veniva sottratta alla
pressione e dispotismo delle curie vescovili. Un'altra parte
parve volesse seguire il consiglio dei vescovi, ma vedendo la
risolutezza del governo di Torino, fece senno e rest indiffe
rente. Il papa che credeva dover vedere dimostrazioni e peg
gio contro il governo di Torino, vide al contrario i suoi an
tichi popoli ed il suo stesso clero acconciarsi al nuovo re ed
alla nuova forma governativa cos facilmente e con tanto tra
sporto del partito liberale da essere per Roma un vero disin-,
gann0.
C A PIT 0 L 0 X X
Assedio di Gaeta.
Dopo il 6 novembre 1860, giorno in cui la fortezza di Ca
pua capitolava e cadeva nelle mani dei nostri, non restava a
Francesco II che un solo ed ultimo asilo nel regno; questo era
la fortezza di Gaeta. Era gi a prevedersi che egli sarebbesi ri
tirato in quella citt, per sostenervi i suoi pretesi diritti, e
per mostrare all'Europa che egli non cedeva se non fatti tutti
gli sforzi di difesa. Corse voce in quei tempi che Francesco II
si ostinasse a resistere per consiglio dei suoi ministri e per
benevolenza mostratagli dall' ammiraglio francese Barbier
de Tinan, che allora con una squadra stavasi nelle acque di
Gaeta. Noi invece pensiamo che Francesco II sia stato il vero
autore del progetto di resistenza, favorito in certo modo dalla
presenza della flotta francese il cui ammiraglio per ordine del
suo imperatore aveva apertamente detto, che non permette
rebbe che Gaeta venisse bloccata o bombardata dalla parte di
Illare.
Sulla quale politica di Napoleone III vari furono i giudizi
in quei giorni, e vari sono tutt'ora, perciocch il mistero ha
sempre velati gli intendimenti del nipote di Napoleone I, e i
risultati della sua politica sono stati sempre tali da potersi
estimare come prodotti dalle circostanze e da imperiosa ne
cessit.
Si disse che egli mandasse la sua squadra nelle acque di
Gaeta come proteggitrice della Corte borbonica, per impedire
che altra potenza europea spedisse una squadra in quelle ac
que medesime; si disse ancora che egli cos operasse per dar
440
tempo alle truppe di Vittorio Emanuele a costruire le opere
d'assedio e poi potere con certo risultato battere Gaeta. Noi
pensiamo che Napoleone III usasse sifatte maniere per acca
rezzare il partito legittimista d'Europa mostrando coi fatti che
se egli non poteva, per ragioni di non intervento, difendere
Francesco Il, pure sentiva grande compassione della sua sven
tura e non avrebbe mai permesso che qualcuno della regia
famiglia cadesse prigioniero nelle mani dei generali assedianti.
Certo che l'ammiraglio francese spieg molta energia in
questa sua missione, e che non ebbe difficolt a tirare delle
cannonate contra i legni italiani quando l'ammiraglio Persano
volle accostarsi alle acque di Gaeta.
Per qualunque sia stata la politica di Napoleone III, in
dubitabile che la protezione francese incoraggi Francesco II,
e che molto sangue, inutilmente versato, sarebbesi potuto ri
sparmiare colla partenza di Francesco II dal regno.
Ma quanto non potevasi fare dalla parte di mare, si faceva
dalla parte di terra ed i nostri davano cominciamento alle
opere di assedio. Il giorno 11 novembre i nostri comincia
rono a tirare delle cannonate contra i soldati napoletani che
stavano accampati fra la porta occidentale della piazza ed il
Borgo della citt.
Quel giorno stesso si effettuava lo scambio dei prigionieri,
e cos vennero messi in libert quei garibaldini che da due
mesi languivano in umidi covili e mal nudriti nella fortezza di
Gaeta.
Cialdini s'impossessava della forte posizione di Montesecco,
i soldati si preparavano ad un lungo assedio costruendo con
molta industria baracche in legno e casupole d'ogni sorta.
Nell'esercito borbonico la dissoluzione cresceva in propor
zioni spaventevoli. Il colonnello Pianelli conduceva il 15. bat
taglione cacciatori in una imboscata, e gli faceva deporre le
armi davanti ai generali sardi. Il luogotenente colonnello Nun
ziante lasciava l'ottavo battaglione cacciatore a battersi solo
la mattina del 10 novembre, ed egli ritornavasene in Gaeta.
Il generale Bertolino, capo dello stato maggiore di Salzano,
inviato per visitare gli avamposti, ritornava dicendo: che non
vi era nulla di nuovo, mentre egli non era uscito dalla citt;
fu per questo destituito e scacciato. I generali Salzano, Bar
balunga, Colonna e Polizzi davano la loro dimissione; il Co
lonna osava scrivere che se la sua dimissione non venisse ac
-.
Il Generale Menabrea.
Comandante in capo l'arma del Genio.
Ah 1
cordata sarebbe passato al nemico con le sue truppe. Il gene
rale Vial prendeva il comando della piazza. Era vecchio di
anni 90; ed uno dei suoi figli comandava in Calabria quando
avveravasi il disbarco di Garibaldi nelle spiaggie di Mileto.
Questa demoralizzazione produceva nella citt assediata una
confusione indescrivibile e ai molti mali di Francesco II ag
giungevasi quello gravissimo di non essere servito dai suoi
generali. Un proclama suo fu tenuto nascosto e non fu letto
alla truppa che dopo dieci giorni.
Intanto la fortezza di Gaeta dal giorno 13 in poi faceva
fuoco per impedire la costruzione delle opere d'assedio. Poche
erano le perdite dei nostri; qualche lavoratore, qualche ber
sagliere leggermente feriti e nulla pi. Gaeta tirava special
mente contro il borgo che sorge lungo la spiaggia del golfo
e segna il punto in cui la spiaggia di Montesecco comincia. Era
un inutile opera di distruzione perciocch i nostri non ave
vano intenzione di erigervi fortificazione alcuna.
Il generale Menabrea era stato destinato a dirigere le opere
d'assedio; opere difficili ove si consideri che Gaeta era dive
nuta una delle pi forti piazze d'Europa.
La batteria della Trinit aveva cinque ordini di cannoni, e
quella della Regina 60 obici da 50 che la difendevano. Eranvi
innoltre i seguenti bastioni e batterie: i bastioni di Philipstadt,
S. Andrea, Cappelletti, Cittadella. Vi erano le batterie
di S. Antonio, Annunziata a due ordini di fuoco, Favorita,
Ferdinando, S. Giuseppe, S. Maria, Del Porto, Guastaferro,
Torrion Francese, Trabacco, Carolina, Duca di Calabria, Del
Fico, Di Conca e Falsabracca. Vi erano quelle del trinciera
mento di Porta di Terra, della contro guardia della Cittadella,
le altre della, gran guardia e quelle della Paterna. Da questo
specchio della fortezza di Gaeta si pu dedurre quali dovessero
essere le opere di assedio.
Il corpo diplomatico lasciava Gaeta e recavasi in Roma; esso
che vedeva i preparativi dell'esercito sardo temeva un forte
bombardamento e non voleva esporre la propria vita. Fran
cesco II contribu a questo fatto per rimanere pi libero nella
resistenza. La regina vedova ed i suoi piccoli figli anch'essi re
cavansi in Roma e non restavano in Gaeta che Francesco II,
la giovine regina, e i fratelli e zii del re che per la loro et
potevano stare nella citt assediata e dirigere le opere militari.
Continuavano i lavori di approccio, e negli ultimi di no
Stor, della rivol Sicil. Vol. II.
56
642
vembre 100 grossi pezzi di assedio tra cui 20 mortai erano
in battria. Il ritardo nelle operazioni proveniva principalmente
dalla necessit di trasportare da Torino a Mola di Gaeta le
artiglierie, gli affusti, le provigioni d'ogni specie che occorre
vano per l'armamento delle batterie. Nell'arsenale di Napoli
eravi difetto d'ogni cosa. N la piazza cessava di molestare
i lavori. Le palle lanciate dalla batteria Regina giungevano sino
a Visano e al di l del monte Conca dove i nostri lavoratori
erano occupati nella costruzione delle batterie e delle due
strade che a quelle dovevano condurre. In Gaeta si erano mon
tati cannoni rigati che avevano lunga portata.
Giungeva fradittanto in Gaeta il generale Bosco, stato fino
allora fuori del servizio borbonico per patti di capitolazione
fatti con Garibaldi in Milazzo. Il 29 novembre questo generale
-
alla testa di una colonna di 1500 uomini usciva da Gaeta sotto la
protezione di un terribile fuoco d'artiglieria, e spingevasi con
tra le posizioni dei nostri alla diritta. Il 7. battaglione ber
saglieri oppose forte resistenza e tanto ostinata che dopo un'
ora di combattimento due compagnie di esso bastarono a met
tere in fuga un nemico che erasi avanzato sino alla barri
cata del Borgo da un lato e sulla strada del monte Tortola
dall'altro. La ritirata dei Napolitani incominciata ordinatamente
si cambi in fuga quando i bersaglieri sardi si posero ad in
seguirli a passo di corsa. Fu ventura pel nemico che il fuoco
micidiale della piazza valesse ad arrestare i bersaglieri. Questa
fazione cost ai Borbonici qualche morto e buon numero di
feriti e prigionieri.
Il generale Bosco su questo fatto faceva al ministro della
guerra il seguente rapporto:
Eccellenza !
Jeri sera, un ordine sovrano m'imponeva che questa mane
allo spuntar del giorno, un distaccamento di 440 uomini, dei
quali 200 stranieri ed il resto dei battaglioni 8., 9., 16. cac
ciatori, sotto il comando del bravo luogotenente colonnello
Migg del 2. battaglione straniero, eseguisse una ricognizione
verso il monte Atralina e la collina dei Cappuccini, sino alla
valle di Calegna allo scopo di assicurarsi se il nemico avesse
li h5
costruito delle batterie destinate sia ad attaccare la piazza, sia
a difendersi contro le sortite.
L'augusto monarca sempre previdente, mi ordin di dare
le disposizioni perch una forza di 500 uomini, tolta dal 7.,
8., 9. cacciatori, sortisse dalla piazza come sostegno del di-,
staccamento Migg ed a protezione della sua ritirata.
Per meglio proteggere la colonna d'attacco, chiamai un
devoto veterano, il capitano Steiner, conoscitore perfetto dei
siti, il quale non solamente accett con piacere questa mis
sione, ma mostr molto valore, guidando la colonna centrale e
spingendo la ricognizione con pochi soldati.
Il bel risultato della ricognizione, la quale ci ha data la
sicurezza che il nemico non ha costruiti lavori di nessuna
sorte, n dentro la valle di Atralina, n ai Cappuccini, non
per noi senza amarezza, a causa della grave ferita del luogo
tenente colonnello Migg, che mi prendo la libert di racco
mandare particolarmente alla bont del re. Rimetto a V. E. il
rapporto particolare e dettagliato delle operazioni praticate da
questo distaccamento per la valle di Atralina e sulle colline
dei Cappuccini. Questo rapporto fu redatto dal capitano Steiner,
il luogotenente colonnello Migg non avendo potuto occupar
sene, a cagione del gravissimo stato di sua salute. Io non ta
cer a V. E. che il capitano Steiner vi ha aggiunto che la co
lonna del centro era composta intieramente di soldati nazio
nali. Non devo omettere di dire che ho ammirato il contegno
dei 500 uomini di riserva, che imitando l'intrepidezza del
loro giovine comandante maggiore Galtscher, sono rimasti fermi
al loro posto fino a che l'ultimo uomo del distaccamento Migg
non fu dentro la piazza.
Per arrestare l'audacia del nemico che si era spinto fin
sotto le mura dell'ultimo giardino di fronte alla fortezza, ho
fatto avanzare due compagnie comandate dagli esperimentati
capitani Bellini e Caruba; abilmente sostenute dal fuoco del
l'artiglieria della piazza, che ha fatto tacere quello del nemico,
esse si sono in seguito ritirate con calma, per rientrare in
citt. Ho avuto anzi a lagnarmi dell'ostinazione di qualche
uomo della compagnia Caruba, che si lungo tempo fermato
ai piedi dei ripari per rispondere al fuoco del nemico.
L'angusto monarca ha voluto ch'io assistessi all'insieme
di queste operazioni, io posso dunque in questo rapporto far
notare il valore e l'intelligenza di qualche ufficiale e soldato
che potei osservare coi miei occhi.
444
- Il generale Bosco aggiungeva al suo rapporto nomi e fatti
particolari, dei quali riproduciamo il seguente:
Ho ammirato il primo luogotenente Valenzuola, che, se
guito da qualche cacciatore, si caritatevolmente mosso verso
un preteso ferito, giacente sulla sabbia a sinistra di Montesecco,
molto lontano dal glacis. Sul punto di essere raggiunto, que
st'uomo ha scaricato il suo fucile contro l'ufficiale, e poi si
e salvato a gambe, passando al nemico.
Le informazioni che ci hanno riportate varii ufficiali del
distaccamento Migg, concernenti le forze considerevoli del ne
mico, avendomi fatto sapere che esso si mostrava con due
battaglioni sulla nostra dritta e con un battaglione sulla nostra
sinistra mi obbligarono di pensare solamente di assicurare la
ritirata generale, lo scopo dalla ricognizione essendo stato
raggiunto.
Non posso chiudere questo rapporto senza menzionare
specialmente il distaccamento del 16. cacciatori, che in ra
gione della sua formazione recente, vedendo il fuoco per la
prima volta, per stato fermo al posto, e quando si riti
rato, si ritir con calma e buon ordine.
Debbo aggiungere che il capitano Steiner fece osservare
che il movimento eseguito dalle truppe piemontesi sulla nostra
destra fa supporre che la parte di borgo nella direzione dei
Cappuccini e del suo prolungamento, sia occupata dai soldati.
Dai rapporti parziali risulta che le nostre perdite sono state
di due morti e nove feriti, e fra questi ultimi si trovano cinque
ufficiali, il luogotenente colonnello Migg, il luogotenente Jeger, il
primotenente Rieger, tutti e tre dei carabinieri stranieri; il
luogotenente Napoli, dell'8. cacciatori, e l'alfiere della Noce
del 9.0
Infine un capitano straniero, il signor conte Karkrect si
offerto volontariamente per prender parte alla ricogni
Z! One
Il generale DEL Bosco.
Coteste operazioni delle truppe assediate non erano che se
gni di vita che la corte di Francesco II voleva si dessero. In
fatti non era pi possibile battersi in campo aperto, perciocch
A45
i soldati borbonici erano divenuti pochi di numero, solo suf
ficienti a sostenere l'assedio, aiutati dalla formidabile posi
zione in cui si trovavano.
I nostri continuarono incessantemente i lavori di assedio,
lunghi e difficili per le ragioni che ora diremo. Il governo
borbonico aveva trascurato affatto l'unica strada carreggiabile
che gira intorno alla rada di sinistra e che conduce da Mola
per Castellana ed il sobborgo di Gaeta alla porta terrestre
della fortezza detta dell'Avanzata. Dall'arsenale di Napoli a
quello di Gaeta le comunicazioni si mantenevano ordinariamente
per la via di mare che la pi breve e la pi accessibile. Nel
piccolo porto che si apre all'estremit del promontorio, tra le
due batterie Vico e santa Maria, il forte ha un comodo accesso
che si denomina la porta del mare. Esso serviva con molta op
portunit a bisogni della piazza; quindi essendo le comuni
cazioni terrestri quasi inutili, non vennero tenute in istato di
potersene servire pel trasporto delle artiglierie. Per questo
motivo la strada che da Mola raggiunge il sobborgo di Gaeta si
dovette rifare, ed i nostri soldati prima di potere impiantare le
batterie e fulminare la fortezza, dovettero costruire la strada
principale intorno alla rada. Fu questa la strada maestra lungo
la quale vennero aperte altre comunicazioni, le quali mettevano
ai punti predominanti della montagna che furono estimati i pi
adatti alla posizione dei pezzi d'assedio.
Nel tratto di terreno racchiuso tra il Garigliano e Fondi, la
strada consolare, che da Capua conduce a Roma, quando
ha raggiunto l'altezza di Mola si divide in due. Quella a sini
stra costeggia la rada, e riesce a Gaeta; quella a destra s'in-
noltra per le montagne, toccando l'antico Formianum, che la
moderna ltri. Da Itri a Gaeta, per tutta l'estensione del
promontorio, il terreno si avvalla e si solleva in successive
ondulazioni, che mancavano di comunicazioni carreggiabili. Po
chi sentieri battuti dal pedestre passeggero potevano condurre
dalla vallata alle vette di quelle pendici. Se l'esercito borbo
nico avesse voluto resistere anco fuori della fortezza, avrebbe
potuto difendere ad una ad una queste progressive eminenze
che si sviluppano tra Itri e Gaeta. Battuto sulle alture del
monte Conca che sta di fronte ad Itri, avrebbe potuto con
centrarsi a Monte Sant'Agata; e sloggiato anco da questo
punto, avrebbe potuto gradatamente contrastare il terreno,
sostenendosi al colle sant'Angelo ed al monte dei Cappuccini, e
446
poi al colle degli Agostiniani, e finalmente al monte Atralina,
il cui versante meridionale discende fino al piede della citta
della che circonda il monte Orlando, il punto pi elevato della
fortezza.
Il fondo su cui si lavorava con le zappe e i picconi era
selce viva, coperta da una poltiglia melmosa. I lavori si ese
guivano dai reggimenti di linea della IV e VII divisione con
lo scambio giornaliero. Molta era l'attivit e l'energia con che
questi lavori di giorno in giorno venivano spinti al loro com
pimento.
Il fuoco a quando a quando faceva le sue prove di distru
zione. I cannoni di Gaeta portavano la morte nelle file del
l'esercito italiano, e i cannoni di assedio lanciavano palle in
Gaeta, che rovinavano case ed uccidevano soldati e cittadini.
Napoleone lll negozi un armistizio di quindici giorni, ma que
sto non fu concluso. Era pensiero dell'imperatore dei Francesi
di risparmiare il sangue. La caduta di Gaeta era oramai tor
nata inevitabile; in quindici giorni di armistizio, un buon
consiglio avrebbe potuto arrivare al cuore di Francesco II
per farlo smettere da una inutile resistenza. D'altronde, Na
poleone III aveva assunto l'incarico di proteggere la ritirata
alla famiglia reale di Napoli, ma non volendo con la presenza
della sua flotta nelle acque di Gaeta eternare una situazione
assai difficile, cominci a far sentire, che imperiose circo
stanze lo costringevano a ritirarsi, e che lo stesso principio di
non intervento sarebbe stato di troppo violato se la bandiera
francese fosse rimasta pi a lungo nelle acque di Napoli. Ma
Francesco ll fu contrario alla tregua, ed il fuoco continu.
Tristissime erano intanto le condizioni di Gaeta. La citt,
piccola non poteva contenere il numero dei soldati; i cavalli
perivano di fame. Si sviluppava il tifo e faceva strage di sol
dati e di cittadini; i feriti, gli ammalati di tifo, tutti alla rin
fusa stavano negli ospedali, e mancanti delle cose pi essen
ziali alle cure della loro salute. Numerose famiglie lasciavano
Gaeta, ed erano trasportate nelle isolette vicine, dove se tro
vavano asilo, non trovavan di certo n comodit n mezzi di
sussistenza. Gaeta era squallida, e dinanzi a tanto triste spet
tacolo la truppa borbonica in parte si demoralizzava, e com
prendeva come inutile fosse quella resistenza, e come un
giorno o l'altro fosse necessit il cedere. Ma Francesco ll, che
fidava nella reazione, incoraggiava i suoi soldati, e gli ingan
;
.
l esercito italiano ai lavori d'approccio innanzi a Gaeta
447
nava con isperanze e promesse, e lo stesso faceva la giovine
regina, la cui parola produceva salutari effetti nel cuore dei
soldati che pur compativano la sventura dei giovani principi.
Altra speranza assisteva Francesco ll nella sua ostinazione di
difesa, ed era la voce di una guerra sul Mincio e sul Po da
dovere scoppiare alla prossima primavera. Se realmente
avesse dovuto avvenire, la condizione dei Borbonici sarebbesi
cambiata in meglio; perciocch in una guerra contra l'Austria
il governo di Torino avrebbe dovuto concentrare tutte le sue
forze nell'alta Italia, e lasciare il mezzogiorno o presidiato da
poca truppa, o affidato alla guardia nazionale; in questo caso
sarebbe stato facile tentare una rivincita con i soldati che ri
manevano ancora fedeli, e con le forze della gi macchinata
ed in parte sviluppata reazione. Che Francesco Il nudrisse sif
fatta speranza si conobbe da carte sequestrate dal generale
Cialdini ad emissarii che uscivano da Gaeta, e che si reca
vano nelle provincie interne a comunicare col partito borbo
nico e clericale. Ma le cose andarono diversamente, e noi ve
dremo come il caso rendesse anco men breve la resistenza che
Gaeta doveva fare all'esercito assediante.
Gli ufficiali napoletani, stretti forse dalla volont del prin
cipe, o di qualcuno dei ministri, per mostrare i loro senti
menti e la loro fedelt al re scrivevano, e gli presentavano
firmato da essi stessi il seguente indirizzo:
Sire !
In mezzo ai deplorabili avvenimenti, di cui la tristezza dei
tempi ci rese spettatori dolenti ed indignati, noi sottoscritti
ufficiali della guarnigione di Gaeta, uniti in una ferma volont
veniamo a rinnovare l'omaggio della nostra fedelt dinanzi al
vostro trono reso pi venerabile e pi splendido dall'infortunio.
Cingendoci la spada noi giurammo che la bandiera affi
dataci da V. M. sarebbe da noi difesa anche a prezzo di tutto
il nostro sangue. Ed a questo giuramento che noi vogliamo
rimanere fedeli, qualunque siano le privazioni, le sofferenze
ed i pericoli ai quali ci chiama la voce dei nostri capi: noi
sacrificheremo con gioia le nostre fortune, la nostra vita e qua
lunque altro bene pel trionfo e pei bisogni della causa co
mune. Gelosi custodi di quell'onor militare che solo distingue
h 18
il soldato dal bandito, noi vogliamo mostrare a V. M. ed al
l'Europa intiera che, se molti dei nostri col tradimento e colla
vilt hanno bruttato il nome dell'armata napoletana, fu pur
grande il numero di coloro che si sforzarono a trasmetterlo
puro e senza macchia alla posterit.
Che il nostro destino sia presto deciso, o che un lungo
periodo di sofferenze e di lotte ci attenda ancora, noi affron
teremo la sorte con docilit e senza paura, colla calma fiera
e dignitosa che si conviene ai soldati; noi andremo incontro
alle gioie del trionfo o alla morte dei prodi, innalzando l'an
tico nostro grido di Viva il rel
- Abbiamo detto che questo indirizzo sia stato promosso o
dal re stesso o da qualcuno dei ministri o generali; ci di
cemmo perch, come i nostri lettori appresso vedranno, ca
duta Gaeta molti ufficiali fecero la descrizione dello stato la
grimevole in che gli assediati si ritrovavano, e la di loro in
elinazione a fuggire per togliersi ad uno stato infelice che op
poneva una resistenza inutile. Ma a Francesco II molto inte
ressava che coteste dimostrazioni si moltiplicassero, primo
perch voleva far conoscere al mondo che aveva per s un
partito e la fedelt della truppa, secondo perch aveva molti
raggi di speranza. Egli sperava nella reazione; e l'Austria che
per mille ragioni non poteva aiutarlo con le proprie armi,
lo aiutava coi consigli esortandolo a resistere fino all'ultima
ora, e a non cadere che colle armi in mano. La presenza della
flotta francese gli era stimolo alla resistenza, e in certo modo
guarentigia, perch cos aveva libero il mare, e poteva rice
vere dai governi amici, specialmente dalla Spagna, le provviste
per l'esercito e per la citt. Anco Roma consigliava la resi
stenza, e ci perch anch'essa sperava molto nella reazione.
Dopo l'arrivo in Roma della regina vedova e di alcuni prin
cipi borbonici, la santa citt divenne focolare di brigantaggio,
e dei soldati rifuggiatisi nello Stato del papa alcuni tornavano
nelle provincie napoletane con armi e danaro per accendervi
sempre pi la guerra civile. D'altronde il cardinale Antonelli
aveva fiducia che la stessa reazione potesse propagarsi nelle
Marche e nell'Umbria, e metter cos il governo di Torino in
duri imbarazzi. Cotesti piani degli spotestati rivelano sempre
meglio come essi non conoscessero la natura del grande mo
vimento italiano e come credessero sempre che il popolo non
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Bombardamento di Gaeta
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fosse che un sedotto dalla politica e dalla propaganda rivolu
zionaria. Mentre poi in realt, il popolo aborriva i caduti, e
dal nuovo governo molti vantaggi materiali aspettava.
lntanto l'Europa preoccupavasi della presenza della flotta
francese nelle acque di Gaeta, e non riusciva a spiegare la
politica di Napoleone III. L'Italia se ne adontava, e perci
mal'umori cominciavano a svilluparsi nel partito liberale con
tro il governo di Parigi. La flotta francese era composta dai
seguenti legni: la Bretagne, il Saint-Louis, l'Imperial, il Re
doutable, il Fontenoy ed il Prony, oltre il Tage, ancorato a
Messina, il Brandon e la Mouette, che facevano il servizio di
posta tra Napoli e la squadra, e la Moselle e l'Ariege, che
portavano i viveri da Francia alla squadra. La Francia aveva
quindi nell'Italia meridionale quasi cinquecento cannoni. Il
partito democratico assicurava che la politica imperiale ten
deva ad impedire l'annessione del Napoletano al resto dello
Stato, e che quantunque cotesta annessione in diritto era
bella e compiuta, in fatto non sarebbesi mai avverata; il par
tito del governo si lamentava vero, ma credeva fortemente
che Napoleone III non avrebbe attraversato l'andamento delle
cose italiane, e che tra lui ed il conte di Cavour dovevano
bene esistere delle segrete intelligenze nelle quali stava la
chiave della presente politica.
Continueremo ora a parlare dell'assedio, e per quanto pi
brevamente ci riuscir possibile.
Dal 24 dicembre in poi il fuoco u continuo da ambe le
parti. I nostri tiravano con cannoni rigati. Sulle batterie ne
miche una colubrina venne smontata, due affusti infranti; ma
pochi soldati uccisi e pochi feriti. Molti danni si recavano ai
cittadini ed alle lor case. L'Ospedale di Santa Caterina nel
quale erano stati concentrati gli altri ospedali ricevette copia
di palle rigate e qualche ammalato venne ucciso ed altri mal
conci. I giorni 3 e 4 gennaio 1861 molte palle caddero sul
palazzo di Francesco lI; una penetr fino nella camera si
tuata sopra quella del re e della regina; fu allora che la
famiglia regale lasci il palazzo per ritirarsi nelle casematte.
La storia vuol notare certi fatti che lascier al giudizio dei
suoi lettori. Agli assediati di Gaeta interessava molto conoscere i
luoghi dove i nostri lavoravano; a tal uopo Francesco Il spe
diva ogni giorno degli omissari, i quali presi da Cialdini l'un
Stor. della rivol. Sicil, Vol. II.
57
150
dopo l'altro venivano senza piet fucilati. Nei primi di gen
naio un maggiore del genio borbonico presentavasi al campo
dei nostri e chiedeva che non si tirasse nella citt, perch
una bomba aveva ammazzato una donna che dava latte ad
una sua bambina. Cialdini rispose duramente al maggiore ne
mico dicendogli, che invece di mandare fuori di Gaeta i sol
dati, avrebbero potuto sbarazzarsi delle donne e dei fanciulli
lattanti ; indi soggiunse: dite al Vostro Signore che cessi di
mandare nel mio campo emissari, giacch egli compromette
inutilmente la vita di tanti infelici.
Certo per che ad onta delle misure di rigore adottate
dal generale Cialdini, a Gaeta si conoscevano i luoghi dove
i nostri lavoravano, talch tirando con molta precisione cagio.
navano perdite rilevanti.
Mentre continuavano i lavori di assedio, Cialdini andavasi
premunendo contro i moti reazionari che parea cominciassero
a minacciarlo dalla parte di Roma. Reggimenti di fanteria ven
nero scaglionati ad Itri e sulla strada di Civita Farnese; fu
fortificato Sant'Andrea, e si raccolse in un punto solo tutto
il materiale d'artiglieria che era in vari luoghi disperso. Per
isolare il paese fu impedita ogni comunicazione con Terra
cina e Fondi, fra Mola e Itri. Nessuno pi poteva uscire ed
accostarsi al littorale dal Garigliano al confine pontificio.
Tutto spirava tristezza; la popolazione fuggita da Gaeta andava
dispersa e raminga senza tetto, senza pane, in preda alla pi
desolante miseria. I paesi all'intorno avevano gravi mali da
deplorare. Interrotte le comunicazioni, impedito l'andare in
molti luoghi di campagna; quindi i campi incolti, il raccolto
degli ulivi perduto, il lavoro mancante, la miseria generale.
Gli alberi tagliati per i fuochi dei bivacchi, le mura dei ter
raggi abbattute; le campagne devastate; tutto era distruzione.
Napoleone Ill finalmente riusciva a fare accettare una tre
gua di 10 giorni, spirata la quale, se Francesco II non avesse
ceduto avrebbe richiamata la flotta. Napoleone comprendeva
di non potere stare pi a lungo nelle acque di Gaeta senza
divenire cagione di gravi danni che per altro non sarebbero
stati di giovamento a Francesco II.
Curioso incidente fu questo, che mentre le Potenze abban
donavano l'ultimo dei Borboni al suo destino, il partito legit
timista e clericale, gli procurava degli indrizzi certamente inu
tili per salvare la sua corona. Uno di questi indrizzi gli venne
h51
da Avignone, scritto da uomini che ammiravano in lui uno
straordinario eroismo cattolico. Quell'indirizzo diceva:
Sire l
In mezzo alle terribili prove, alle quali la divina prov
videnza ha permesso, che la vostra augusta persona e il vo
stro regno fossero esposti, i cattolici della Francia sottoscritti
si fanno un dovere di testimoniare a V. M. i sentimenti del
loro rispetto, del loro dolore, delle loro simpatie e delle loro
speranze!
Le detestabili dottrine della rivoluzione hanno sconvolta
l'Europa, e dentro, come fuori dei vostri Stati, hanno armato
contro la vostra corona tutte le cattive passioni, sollevate da
tutti gli errori. Ma, voi Sire, forte del vostro diritto, dell'amore
dei vostri popoli, della devozione d'un esercito rimastovi fedele
a dispetto della fellonia e del tradimento, trionferete dei vo
stri nemici, di quelli tutti della civilt e dell'umanit, e il vo
stro trionfo sar misurato dall'altezza dei vostri pericoli.
Ce ne sta garante quella solenne e profetica benedizione,
che il 28 novembre 1848, in codesta medesima fortezza di
Gaeta, divenuta al presente l'ultimo baluardo della vostra so
vranit, il Santo Pontefice Pio IX invocava sul re Ferdi
nando II, vostro illustre genitore, sulla famiglia reale e sui
vostri popoli.
Figlio d'una santa regina, se (che a Dio non piaccia) la
-
sorte delle battaglie venisse ad eludere il vostro coraggio, V. M.
sa bene che una giusta causa, non mai irrimissibilmente
perduta, quando si pu dir soccombendo: Tutto perduto fuor
ch l'onore /
Si col cuore pieno di questi sentimenti, che i sotto
scritti pregano V. M. a degnarsi d'accogliere l'espressione del
profondo rispetto, col quale essi hanno l'onore di essere, o
Sire, di V. M. gli umilissimi ed obbidientissimi servi.
Cotesto indirizzo non pot esser diretto che da ecclesiastici
e particolarmente da gesuiti i quali dappertutto sconfitti pro
fittavano d'ogni circostanza per protestare contro tutto ci che
accadeva di nuovo in Italia. Ma a questo modo non facevano
che rovinare sempre pi la loro causa, perciocch non es
sendovi modo di conciliazione, la lotta contro i clericali dive
niva pi fiera ed accanita.
452
da notare la terribile giornata dell'8 gennaio nella quale
assediati ed assedianti diedero prove di grande valore. Cial
dini aveva avuto sentore che si sarebbe proposto un armistizio.
Per mostrare al nemico come si fosse alacremente lavorato al
l'opera di approccio, stim conveniente profittare del tempo
ordinando che si aprisse il fuoco di tutte le batterie che fino
allora avevano taciuto. Infatti alle 8 antimeridiane di quel
giorno incominci contro la piazza fuoco vivissimo. Si tirava
da dietro al Borgo, dalla contrada di S. Giacomo, dal Molino,
dal Colle dei Cappuccini, da S. Agata, dai Canali, da Monte
Tortola, dallo stradale di Conca, da Colegna, da Vendice. Una
densa nube di fumo avvolgeva le alture della Catena e la Valle
del Piano. La piazza rispondeva gagliardamente al fuoco delle
nuove batterie, lanciando proiettili d'ogni specie sul Borgo e
sulle alture circostanti. Essa tirava da tutto il fronte di terra
dalla batteria S. Antonio, da quella dell'Annunciata, e tirava
senza interruzione e con molta esattezza. Il terribile duello cess
quando la barca ammiraglia di Francia segnal che la sospen
sione d'armi era stata accettata da Francesco II. Il numero
dei proiettili lanciati dai nostri fu di 6,130, pressoch
tutte bombe e palle rigate. Le batterie borboniche tirarono
circa 2 mila colpi. Le case di Gaeta molto soffrirono. Il nu
mero dei morti non sorpass quello di 20, i feriti meno. Il
fuoco cos bene nudrito dei nostri fu una delle ragioni che in
dussero Francesco II ad accettare l'armistizio.
Riportiamo i due seguenti documenti che sono le obbliga
zioni contratte dai due eserciti belligeranti in faccia all'am
miraglio francese.
Il generale Cialdini, comandante l'esercito d'assedio innanzi a
Gaeta, all'ammiraglio Le Barbier de Tinan.
-
Castellone, 12 gennaio 1861.
Signor ammiraglio!
Ho l'onore di dichiararvi, che fino al cadere del giorno di
cianove, non sar fatto da parte mia alcun atto di ostilit verso
la piazza, n alcun lavoro d'approccio, n alcun aumento nel
numero delle bocche da fuoco in batteria, semprecch la piazza
-.
453
non mi provochi col suo fuoco o co'suoi lavori. In questo caso
io mi considerer come svincolato da ogni impegno, e la so
spensione delle ostilit cesser anche da parte mia. Tuttavia,
signor ammiraglio, io non aprir il mio fuoco, senza prima
avvertirne. Voi sarete giudice allora, e potrete riferire a
S. M. l'Imperatore da qual parte sia stato il torto.
Vogliate aggradire, ecc.
Il generale comandante l'assedio innanzi a Gaeta
CIALDINI.
Il generale Ritucci, governatore della piazza di Gaeta, al sig. vi
ce-ammiraglio Le Barbier de Tinan.
Gaeta, il 12 gennaio 1861.
Signor ammiraglio /
Avendo preso gli ordini di S. M. il re mio augusto pa
drone, ho l'onore di farvi sapere che ino al cader del giorno
19 corrente, non si proceder in questa piazza a nessuna costru
zione di nuove batterie, n a nessun aumento di quelle ora
esistenti, e non saranno eseguiti che i soli lavori di ripara
zione richiesti dalle circostanze.
Se tuttavia gli assedianti ci provocassero, od aumentando
le loro batterie, o formandone di nuove, chiaro che noi re
steremmo liberi da ogni impegno.
-
Per allontanare qualunque falsa interpretazione nel caso che
cominciasse il fuoco della piazza, vi pregherei, signor ammi
raglio, di mandarmi quando sia giunto il momento, uno dei
vostri ufficiali, per giudicare da qual lato sia il torto.
Vogliate, signor ammiraglio, credere all'assicurazione della
mia profonda stima.
Il Luogotenente gen. comand. la piazza di Gaeta.
RiTucci.
Il generale Cialdini, concluso l'armistizio, pubblicava in
mezzo ai suoi soldati il seguente proclama col quale da una
parte informava l'esercito delle ragioni dell'armistizio e dal
454
l'altra lo incoraggiava a compiere l'opera, appena la tregua
losse spirata.
Soldati /
Gravi considerazioni hanno consigliato il governo del no
stro Re di aderire ai desiderii di S. M. l'Imperatore dei Fran
cesi, ordinandomi di sospendere le ostilit sino alla sera del
19 corrente.
La flotta francese deve partire e lasciare nelle acque di
Gaeta un solo vascello che si allontaner pur anche allo spi
rare dell'armistizio.
L'Imperatore vuol forse con ci facilitare alla piazza un'o
norevole mezzo di desistere da una lotta senza speranza, e
di por fine cos ad una inutile effusione di sangue. Non so
quale accoglienza troveranno in Gaeta questi umani intendi
menti, e quest'ultimo diplomatico tentativo. Ma so che in ogni
caso il Re confida e l'Italia spera nel valor vostro, ed in
quello della nostra squadra, per dare all'assedio una solu
zione diversa e pi consentanea ai voti di tutti noi, usi a
combattere, non a trattare, e fidenti nell'armi nostre, pi che
nei diplomatici consigli.
Soldati !
A voi noto da molti anni il sentiere della vittoria. Ri
calcatelo di nuovo e rispondete alla fiducia sovrana; rispondete
alle speranze della patria, penetrando per la breccia in Gaeta
ed inalberando la bandiera italiana e la croce di Savoia sulla
torre antica d'Orlando.
Il vostro generale
CIALDINI.
Intanto all'avvicinarsi della soluzione, era obbligo del go
verno francese esporre in faccia all'Europa ed all'Italia, come
pure dinanzi alla stessa nazione francese le ragioni che lo
avevano indotto a tener la sua squadra nelle acque di Gaeta.
Il giorno 16 gennaio il Moniteur giornale ufficiale di Parigi
faceva la seguente dichiarazione:
455
L'invio della squadra di evoluzione dinanzi a Gaeta aveva
per oggetto d'impedire che il Re Francesco II si trovasse di un
tratto investito da terra e da mare nella piazza ove erasi ri
tirato. L'imperatore voleva dare una testimonianza di simpatia
ad un principe crudelmente provato dalla fortuna, ma S. M. fe
dele al principio di non intervento, che diresse tutta la sua con
dotta rispetto all'Italia dopo la pace di Villafranca, non pre
tendeva prendere una parte attiva nella lotta politica. Prolun
gandosi oltre alle previsioni che l'avevano motivata, cotesta
dimostrazione mutava naturalmente di carattere. La presenza
della nostra bandiera destinata soltanto a coprire la ritirata di
S. M. siciliana in condizioni proprie a tutelarne la dignit, fu
presa per un incoraggiamento alla resistenza, e divenne un ap
poggio materiale. Ne risultarono bentosto incidenti che impo
sero al comandante in capo della squadra l'obbligo di ricor
dare ora ai Napoletani ed ora ai Piemontesi la parte di stretta
neutralit che gli era prescritta, e nella quale gli fu pressoch
impossibile di mantenersi.
Importava tanto pi al governo dell'Imperatore di non ac.
cettare la responsabilit di tale situazione inquantocch le
franche e replicate dichiarazioni non autorizzavano alcuno in
ganno intorno alle sue vere intenzioni. Infatti, sino dalla fine
di ottobre, il vice-ammiraglio de Tinan era invitato a non oc
cultare a Re Francesco II che i nostri legni non potevano ri
manere indefinitivamente a Gaeta per assistere come testimo
nii impassibili ad una lotta che non poteva riuscire se non ad
un maggiore spargimento di sangue. Gli stessi avvisi furono ri
petuti pi volte a S. M. siciliana, il cui coraggio aveva posto
interamente in salvo l'onore.
Nel frattempo, le circostanze sovraindicate si erano aggra
vate e volendo conciliare le esigenze di una politica di neutra
lit col primo pensiero che l'aveva indotto a lasciare a Re
Francesco II il mezzo di effettuare liberamente la sua partenza,
il governo dell'Imperatore si fece l'intermediario di una pro
posizione d'armistizio che fu accolto dalle due parti bellige
ranti. Cessate di fatto sino dall'otto del corrente mese le
ostilit, resteranno sospese sino al 19 gennaio ed appunto
a questa data che il vice-ammiraglio de Tinan si allontaner
da Gaeta.
In questo modo Napoleone III spiegava all'Europa le ra
456
gioni che lo avevano indotto a mandar la sua flotta nei mari
di Gaeta, e tutta intera la sua politica in quelle circostanze.
Il giorno 19 l'Ammiraglio francese con la sua flotta lasciava
le acque di Gaeta. L'armistizio era spirato. Immediatamente s
vide apparire in quelle medesime acque la flotta italiana co
mandata da Persano. La mattina del giorno 20 un battello a
vapore della squadra italiana fu inviato a Gaeta per notificare
il blocco. L'ufficiale, cui era stata affidata quella missione, por
tava cinque dispacci indirizzati ai consoli delle potenze stra
niere. Francesco ll fece rispondere all'ufficiale non esistere a
Gaeta persone che occupavano tale carica. I consoli infatti
eransi allontanati da luoghi divenuti pericolosi. Il parlamen
tario chiese allora se vi fosse qualche ministro straniero a cui
poter fare l'intimazione. Don Bermudes de Castro ministro
spagnuolo ebbe l'incarico di rispondere al parlamentario che
nessuno dei diplomatici avrebbe accettato l'intimazione del
blocco. Giunto il vapore alla nave ammiraglia, il marchese
Persano rimand il messo, dandogli per istruzione che pre
sentasse i dispacci al ministro di Baviera, il quale ove anche
li rimandasse, sarebbe pur costretto a scrivere qualche cosa;
diffatti il ministro bavarese rispose che in Gaeta non essen
dovi le persone designate ne'cinque pieghi, li rimandava per
ch venissero intimati a chi meglio si credeva. In questo
modo le formule volute dalle ordinanze marittime furono esau
rite ed il blocco dichiarato.
Ecco il testo della notificazione del blocco di Gaeta.
Notificazione del blocco.
Considerando il regolare assedio dalla parte di terra gi in
noltrato dalle R. truppe di S. M. dinanzi Gaeta;
considerando che la citt e porto di Gaeta sono una piazza
forte e non una piazza commerciale;
considerando che l'approdo in Gaeta di qualsiasi bastimento
deve essere riguardato come una operazione intesa ad appro
vigionare ed assistere gli assediati;
considerando che l'impedire gli approdi dei bastimenti nella
zona marittima di Gaeta, non pu turbare il commercio paci
fico delle potenze neutre;
io sottoscritto, vice-ammiraglio comandante in capo le forze
navali di S. M. Vittorio Emanuele dinanzi a Gaeta, di con
457
certo con S. E. il generale Cialdini comandante in capo il
corpo d'assedio, dichiaro con la presente, in nome del mio
Governo, e porto a cognizione di tutti coloro che avessero
interesse della cosa, che ho stabilito il blocco effettivo della
piazza di Gaeta, e suo litorale compreso tra Torre S. Ago
stino da una parte e Mola dall'altra, con lo scopo di impedire
qualsiasi approvigionamento agli assediati.
Per gli effetti della presente notificazione si terr conto della
dichiarazione del 16 aprile 1856, stipulata nella conferenza di
Parigi, per riguardo agli interessi delle Potenze neutre.
Dato nelle acque di Gaeta, il 20 gennaio 1861.
Il vice-ammiraglio
PERSANO.
Prima di parlare del fuoco tra la piazza e le opere di
approccio ci conviene riportare una nota circolare del ministro
di Francesco II in data del 18 gennaio il giorno prima cio
dalla cessazione dell'armistizio; curioso documento per i fatti
che vi sono rapportati, ed ultimo lamento che il diritto di
vino levava dalle mura di Gaeta in faccia all'Europa, contro
il nuovo diritto dei popoli.
Gaeta,
18
gennaio 1861.
Signore.....
L'ammiraglio della squadra imperiale ha proposto al re,
nostro augusto signore, a nome dell'Imperatore dei Francesi,
un armistizio. Questa tregua cominciata il 9 deve durare sino
al 19 corrente. L'ammiraglio dichiar a S. M. che, se questa
proposta non fosse accettata, la squadra francese si ritirerebbe
il giorno seguente; se essa fosse accettata, la squadra reste
rebbe sino al cader del sole del giorno indicato qui sopra. Le
ostilit interrotte prenderebbero allora il loro corso, e la flotta
sarda resterebbe libera di bloccare il porto, e di cominciare
dalla parte di mare l'attacco ed il bombardamento di Gaeta.
Questa alternativa era triste, perch i due casi erano seguiti
dalla partenza della flotta, dalla cessazione di tutte le relazioni
e dall'interruzione di tutte
le
comunicazioni
col resto del
mondo. L'armistizio in s stesso ci era sfavorevole giacch
Storia della rlvol. Sicil., Vol. II.
58
A58
noi avevamo tutti i mezzi di difesa al completo, senza pos
sibilit di aumentarli, mentre i Piemontesi avevano bisogno di
questo tempo per trasportare delle munizioni e preparare, se
non compiere, delle nuove e pi potenti batterie.
Ciononostante S. M. accett, non solamente per le conside
razioni d'umanit che prescrivono di ritardare, tutte le volte
che puossi onorevolmente, l'effusione di sangue; ma sopratutto
perch questo armistizio era un desiderio dell'imperatore dei
Francesi. E per questo il governatore di Gaeta accett tutti
gli articoli proposti dall'ammiraglio, e che voi troverete qui
uniti. Ma la presenza di un ufficiale francese per sorvegliare
la sospensione dei lavori delle due parti, condizione che si
rendeva facile per la nostra buona fede, non fu accettata dal
generale nemico. Due giorni dopo il generale Cialdini, di
chiar all'ammiraglio de-Tinan che un ordine del Re di Sar
degna, confermava il suo precedente rifiuto.
Ciononostante noi non rifiutammo di osservare la tregua;
e bench tutti i nostri rapporti confermassero d'ora in ora i
progressi dei lavori nemici, noi l'abbiamo rispettata, e do
mani essa avr fine, senza che alcuno possa accusarci di non
essere stati scrupolosamente fedeli a questo indiretto armi.
stizio.
Da domani il porto di Gaeta resta bloccato e la via
aperta agli attacchi marittimi contro la piazza. Da domani gli
stessi bastimenti di S. M. dati dal pi infame tradimento al
re di Piemonte, verranno a lanciare le loro bombe su famiglie
inermi, rifugiate qui, e sul Re legittimo e sulla regina delle
due Sicilie. Non si pu credere che l'Europa assista ancor
lungo tempo impassibile allo spettacolo d'un Re riconosciuto
da tutte le potenze, spogliato de suoi stati dalla piti iniqua
aggressione, in preda a tutti gli orrori di un bombardamento,
senza altro delitto che la fermezza di difendere coraggiosa
mente l'ultimo baluardo della monarchia contro una vile in
vasione. I sovrani ed i popoli comprenderanno alla fine che
si difende a Gaeta qualche cosa pi che la corona d'una di
nastia; si difendono i trattati, in virt dei quali regnano tutti
i sovrani; il diritto pubblico, sulla forza del quale riposano la
tranquillit e l'indipendenza dei popoli.
-
S. M. il Re risoluto di affrontare sino alla fine tutti i pe
ricoli della sua abbandonata posizione. Bloccato ed attaccato
insieme dal lato del mare e della terra, egli potr cadere sotto
459
le ruine della piazza, egli potr rimanere prigione de suoi ne
mici. Qualunque sia la sua sorte, S. M. parata a sopportarla
con quella grandezza d'animo e quella fermezza, delle quali,
da cinque mesi, d prove numerose e costanti.
Contro ci che accade, contro ci che potr accadere,
non vi ha bisogno di protestare. La legge e la coscienza pub
blica, il sentimento morale di tutte le anime oneste, proteste
ranno per il Re, in queste circostanze decisive. E se l'Europa
abbandona S. M., S. M. non si abbandoner. I suoi doveri
di Sovrano, il Re gli adempir sino alla fine.
Avrete appreso, da tutti i giornali, fino da quelli che di
fendono pi calorosamente la rivoluzione, quale il vero
stato del reame di Napoli e della sfortunata Sicilia: diffidenza,
nessuna sicurezza, rovina. Da ciascun punto dei dominii con
tinentali, le popolazioni si levano spontanee per protestare,
come possono nel generale disordine in favore del loro sovrano
legittimo contro il dominio straniero. E in effetto il Piemonte
li tratta da stranieri. Intanto che i Piemontesi tacciano di bar
barie e di inumanit i mezzi moderati e dolci impiegati da
S. M. per pacificare i tentativi di rivolta, e questo sino al
punto di ordinare alla prima notizia la sospensione del bom
bardamento di Palermo, il Piemonte bombarda ciascun giorno
e senza tregua le citt italiane che gli resistono come Ancona,
Capua, Mola e Gaeta.
La sola pena adottata da suoi generali per comprimere
le popolazioni di fucilare senza misericordia.
In queste circostanze, il Re, volendo non gi salvare la sua
persona, che egli espone ciascun giorno da due mesi a tutti i
pericoli, ma assicurare contro l'umiliazione e contro l'insulto
la dignit reale che egli rappresenta, ha il diritto di sperare che
nella lotta ineguale che sta per continuare, le Potenze d'Europa
dichiareranno se esse riconoscano si o no il blocco che sta per
essere intrapreso senza dichiarazione di guerra, senza notifica
zione regolare della squadra oggidi in possesso del Piemonte.
E, se questo blocco non riconosciuto, S. Maest ha la confi
denza che sar fatta almeno una sommazione collettiva al Re
di Sardegna, per garantire la libert di S. Maest, se i casi di
un assedio disperato, rispetteranno la sua vita, e per assicurare
contro tutti gli oltraggi la persona della giovine Regina, che, con
una magnanimit degna del suo cuore insensibile a tutti i
pericoli personali, ha resistito alle incessanti preghiere, per
460
consacrarsi, negli ospedali, alla cura dei feriti. Voi siete autoriz
zato, signore, a dar lettura del presente dispaccio ecc.
CASELLA.
Di sopra narrammo come il corpo diplomatico fosse partito
'per Roma onde salvarsi dai pericoli di Gaeta. Per negli ulti
mi giorni dell'armistizio Francesco ll li aveva fatti ritornare in
Gaeta; le ragioni di questa sua determinazione son comprese
nella seguente circolare diretta dal Ministro degli affari esteri
ai rappresentanti delle Potenze accreditate presso Francesco II.
E un altro curioso documento in cui si rivela qual fosse l'animo
del giovine principe in quei terribili momenti.
Gaeta, 18 gennaio 1861.
Il sottoscritto, presidente del Consiglio dei ministri, e
incaricato del portafoglio di S. M. Siciliana, ha l'onore di
rivolgersi a S. E. monsignor Gianelli, nunzio apostolico della
Santa Sede nella sua qualit di Decano dell'ordine diplomatico,
per portare alla sua conoscenza che Sua Maest il re suo augu
sto signore, desiderando avere presso la sua persona in questa
contingenza estrema i rappresentanti dei sovrani suoi alleati
ed amici, si deciso d'invitare formalmente tutti i capi delle
legazioni estere, a rimanere a Gaeta, dove per interesse
generale essi sono accreditati.
Se gravissime considerazioni non rendessero questa misura
indispensabile, S. M. il re, il cui cuore cos sensitivo ai
patimenti altrui, non vorrebbe certo imporre agli onorevoli
rappresentanti delle potenze amiche le privazioni ed i peri
coli di una piazza assediata. Per questi sentimenti, due mesi
or sono, S. M. invit il corpo diplomatico a risiedere a Roma,
per risparmiargli le pene e i pericoli d'un assedio, rima
nendo solo il ministro di Spagna in questa occasione presso
S. M., di cui aveva risoluto sin dal principio dividere la sorte
e la fortuna.
Animato da questi sentimenti, il re, mio augusto sovrano,
non ha voluto invitare alcuno dei membri del corpo diplomatico
a Gaeta, malgrado le circostanze ogni giorno pi critiche, e que
sto a motivo del bombardamento che cominciato contro que
sta piazza col 1. di dicembre.
A.61
Fintantoch le comunicazioni erano libere; il re poteva,
almeno indirettamente, rimanere in rapporto col corpo diplo
matico, residente a Roma, risparmiandogli ogni pericolo; e se
una difficile circostanza si fosse presentata, nella quale i suoi
consigli fossero stati necessari, vi era sempre ogni mezzo d'in
vitarlo a recarsi in poche ore a Gaeta. Quest'ultima risorsa pre
sentemente pi non esiste. Dopodimani, le comunicazioni ma
rittime sarebbero interrotte, ogni rapporto tra il re ed il corpo
diplomatico accreditato presso la sua regale persona sar defi
nitivamente impedito, e S. M. non vuole e non pu rinunziare
al piacere di avere presso di s, per illuminarsi dei loro consi
gli, i rappresentanti dei diversi governi.
Un'altra circostanza ha ancora determinata S. M. Quando
nel giorno di ieri, il corpo diplomatico si presentato al re, i
capi della legazione che ebbero l'onore d'intrattenerlo sull'as
sedio di Gaeta, lo hanno incoraggiato a resistere, anche dopo
ch la partenza della squadra francese avesse lasciato il campo
libero ad un blocco, o ad un attacco dalla parte del mare. A
partire da oggi, S. M. mette un prezzo particolare ad ascoltare
gli avvisi di ministri pure importanti. I consigli lungamente
motivati di questi onorevoli rappresentanti sono stati in favore
della resistenza. Dopo aver ricevuti questi consigli, S. M. non
esit pi, essa ha preso immediatamente la risoluzione di
chiudersi in Gaeta e di difendervi sino all'ultimo istante que
sto resto della monarchia.
Ma siccome possibile, se lo stato attuale delle cose conti
nua, che questa piazza, isolata e abbandonata, finisca col cade
re, e che allora la persona del re, quella della regina e dei prin
cipi siano alla merc del vincitore, S. M., che vuol cadere come
re, e come re sopportare la sua sorte, ha bisogno presso di s
ministri esteri per ricorrere in caso di bisogno ai loro consigli,
ed averli per testimonii irrecusabili dei fatti compiuti.
Gli perci che S. M., che ha veduto con molto piacere
il oorpo diplomatico a Gaeta, e che fu riconoscentissimo di
questo attestato di attaccamento e di cortesia, ha profittato dei
consigli che le furono dati in questa occasione che le si pre
sent per pregarlo a restare presso la sua persona. Nel fare
questa comunicazione a S. E. nunzio apostolico, perch la porti
a cognizione di tutte le persone componenti il corpo diploma
tico, mancando il tempo di scrivere particolarmente a ciascuna
di esse, il sottoscritto deve aggiungere che S. M. il re non
li 62
pretende obbligare nessuno a restare, ma che invita tutti, e che
sar riconoscentissimo verso coloro che vorranno dividere con
lui, in quest'ultimo periodo dell'assedio, le privazioni e i
pericoli.
Il sottoscritto ha pure l'ordine di informare S. E. che per
le persone del corpo diplomatico che si decideranno a restare,
fu preparato il locale pi bello e pi sicuro che possa offrire
-
Gaeta; il governo del re s'incarica in tal modo di provve
dere alle loro comodit personali per quanto lo comportino
le condizioni di una piazza assediata. Quanto a coloro che
vorranno mandare a prendere i loro effetti a Roma, o che
crederanno, per circostanze particolari, non dover restare a Gaeta,
un vapore pronto a partire per Civitavecchia e Terracina, ed
da questo momento a disposizione di monsignore il nunzio
apostolico.
Sollecitando dall'Eccellenza Vostra una pronta risposta,
il sottoscritto ha l'onore ecc. ecc.
CASELLA. .
Terminato l'armistizio, il fuoco cominciava da ambe le
parti ora violento ed ora ad intervalli. I nostri continuarono
i lavori di approccio non ancora finiti. Il giorno 22 gennaio fu
terribile; i nostri tirarono contro la piazza dalla parte di
terra e di mare ; la piazza rispose energicamente. Il giorno
6 febbraio un deposito di granate scoppi in Gaeta, e rec
immensi danni; per questo motivo un parlamentario borbo
nico domand al generale Cialdini un armistizio di 48 ore
per seppellire i morti. Cialdini vi aderi, offrendo di sommini
strare al nemico i medicamenti che gli occorressero pe' feriti.
Fu questo un atto generoso che altamente onora il bravo ge
nerale italiano.
Passate le 48 ore il fuoco dei nostri ricominci, ma altra
sventura incolse a Gaeta: lo scoppio di una mina alle porte
della citt che fece nuova strage di soldati, e guasti conside
revoli. A quello scoppio Cialdini fece aprire il fuoco sopra
tutta la linea.
Morivano fraditanto in Gaeta i generali Ferrari e Sancro co -
piti da tifo; i soldati feriti ammontavano ad un numero
considerevole; la popolazione della citt trovavasi in desolazione.
Tutto spirava tristezza; tutto pareva annunciasse delle trattative
per la resa, ma Francesco II volle ancora durarla.
e
-
Scolppio d una poi ver I el
a in
Il
-
Gaeta
465
Ma il giorno 13 il fuoco degli assedianti fece scoppiare un
magazzino di polvere; il bastione Transilvania and rovesciato
dalle sue fondamenta; Francesco II venne a patti e diede fine
alla sua resistenza. Diremo un poco su questi avvenimenti; ma
prima riprodurremo il testo della capitolazione, come uno
dei documenti pi essenziali dell'epoca.
Dalla Villa Caporale in Castellone di Gaeta,
il 15 febbraio 1861.
Art. 1. La piazza di Gaeta, il suo armamento completo,
scuderie, magazzini a polvere, vestiario, viveri, equipaggi, ca
valli di truppa, navi, imbarcazioni ed in generale tutti gli oggetti
dispettanza del Governo, siano militari che civili, saranno conse
gnati all'uscita della guarnigione alle truppe di S. M. Vittorio
Emanuele.
Art. 2. Domattina alle ore 7 saranno consegnate alle truppe
suddette le porte e porterie della citt dalla parte di terra, non
che le opere di fortificazioni attinenti a quelle porte, cio
della cittadella inclusa sino alla batteria Transilvania ed inol
tre Torre Orlando.
Art. 3. Tutta la guarnigione della piazza, compresi gl'im
piegati militari ivi rinchiusi, usciranno cogli onori della guerra.
Art. 4. Le truppe componenti la guarnigione, esciranno
colle bandiere, armi e bagagli. Queste dopo aver resi gli onori
militari, deporranno le armi e le bandiere sull'istmo, ad eccezione
degli ufficiali, che conserveranno le loro armi, i loro cavalli
bardati e tutto ci che loro appartiene, e sono facoltati altres
a ritenere presso di loro i trabanti rispettivi.
Art. 5. Esciranno per le prime le truppe straniere, le altre
in seguito, secondo il loro ordine di battaglia, colla sinistra
in testa.
Art. 6. L'uscita della guarnigione della Piazza si far per
la porta di terra a cominciare dal giorno 15 corrente alle
ore 8 del mattino, in modo da essere terminata alle 4 po
meridiane.
Art. 7. Gli ammalati e feriti e il personale sanitario degli
ospedali rimarranno nella Piazza; tutti gli altri militari ed im
piegati, che rimanessero nella Piazza senza motivo legittimo,
o senza apposita autorizzazione dopo l'ora prestabilita dall'ar
464
ticolo precedente, saranno considerati come
disertori di
guerra,
Art. 8. Tutte le truppe componenti la guarnigione di Gaeta
rimarranno prigionieri di guerra finch non siansi rese la citta
della di Messina e la fortezza di Civitella di Tronto.
Art. 9. Dopo la resa di quelle due fortezze, le truppe
componenti la guarnigione saranno rese alla libert. Tuttavia
i militari stranieri, dopo la prigionia, non potranno soffer
marsi nel Regno e saranno trasportati nei rispettivi paesi.
Assumeranno inoltre l'obbligo di non servire per un anno
contro il governo, a partire dalla data della presente capito
lazione.
Art. 10. A tutti gli officiali ed impiegati militari nazionali
capitolati sono accordati due mesi di paga considerati in tempo
di pace,
Questi stessi ufficiali avranno due mesi di tempo, a partire
dalla data in cui furono messi in libert, o prima se lo voglio
no, per dichiarare se intendono prendere servizio nell'eser
cito nazionale od essere ritirati, oppure rimanere sciolti da
ogni servizio militare. A quelli che intendono servire nel
l'esercito nazionale od essere ritirati. saranno, come agli altri
ufficiali del gi esercito napoletano, applicate le norme del
R. decreto dato in Napoli il 28 novembre 1860.
Art. 11. Gli individui di truppa, ossia di bassa forza, dopo
terminata la prigionia di guerra, otterranno il loro congedo
assoluto, se hanno compiuta la loro ferma, ossia il loro im
pegno. A quelli che non l'avessero compiuto sar concesso
un congedo di due mesi, dopo il qual termine potranno essere
richiamati sotto le armi. A tutti indistintamente, dopo la pri
gionia, saranno dati due mesi di paga, ossia di pane e pre
stito per ripatriare.
Art. 12. I sott'ufficiali e caporali nazionali che volessero
continuare a servire nell'esercito nazionale, saranno accettati
coi loro gradi, purch abbiano le idoneit richieste.
Art. 12. accordato agli ufficiali, sott'ufficiali e soldati
esteri, provenienti dagli antichi cinque corpi svizzeri, quanto
hanno diritto per le antiche capitolazioni e decreti posteriori
fino al 7 settembre 1860. Agli ufficiali, sott'ufficiali e soldati
esteri che hanno preso servizio dopo l'agosto 1859 nei nuovi
corpi e che non facciano parte dei vecchi, concesso quanto
i decreti di formazione, sempre anteriori al 7 settembre 1860,
loro accordano.
-
A65
Art. 14. Tutti i vecchi, gli storpi e mutilati militari qua
lunque essi siano, senza tener conto della nazionalit, saranno
accolti nei depositi degli invalidi militari, qualora non prefe
rissero ritirarsi in famiglia col sussidio quotidiano, a norma
dei regolamenti del gi regno delle Due Sicilie.
Art. 15. A tutti gl'impiegati civili si napoletani che siciliani
racchiusi in Gaeta, ed appartenenti ai rami amministrativo e
giudiziario, confermato il diritto al ritiro che potrebbero re
clamare, corrispondente al grado che avevano al sette set
tembre 1860.
Art. 16. Saranno provvedute di mezzi di trasporto tutte
quelle famiglie dei militari esistenti in Gaeta, che volessero
uscire dalla fortezza.
Art. 17. Saranno conservate agli ufficiali ritirati che sono
nella piazza le rispettive qualit, qualora siano conformi ai
regolamenti.
Art. 18. Alle vedove ed agli orfani dei militari di Gaeta,
saranno conservate le pensioni che in atto tengono, e ricono
sciuto il diritto per domandare tali pensioni, pel tratto avve
nire a termine della legge.
Art. 19. Tutti gli abitanti di Gaeta non saranno molestati
nelle persone e propriet per le opinioni passate.
Art. 20. Le famiglie dei militari di Gaeta che trovansi nella
piazza sono poste sotto la protezione del Re Vittorio Ema
nuele.
Art. 21. Ai militari nazionali di Gaeta, che per motivi di
- alta convenienza uscissero dallo Stato, saranno pure applicate
le disposizioni contenute negli articoli antecedenti.
Art. 22. Resta convenuto che, dopo la firma della presente
capitolazione, non vi deve restare nella piazza nessuna mina
carica; ove se ne trovassero, la presente capitolazione sarebbe
nulla, e la guarnigione considerata come resa a discrezione.
Uguale conseguenza avrebbe luogo ove si trovassero le armi
distrutte a bella posta nonch le munizioni, salvo che l'auto
rit della piazza consegnasse i colpevoli, i quali saranno im
mediatamente fucilati.
Art. 23. Sar nominato d'ambo le parti una Commissione
composta da un ufficiale d'artiglieria, di uno del genio, d'uno
della marina, di uno d'intendenza militare ossia commissario
di guerra col personale necessario per la consegna della piazza.
Stor, della rivol. Sicil. Vol. II.
59
186
Firmati.
Per 'armata Sarda:
Il capo dello Stato Maggiore, colonnello PioLA CAsELLI.
Il luogotenente generale, connan. super del Genio, L. F. MENABREA.
Visto, ratificato ed approvato,
ale d'armata, comandante le truppe d'assedio
CIALDINI.
Per la piazza di Gaeta:
Il tenente colonnello, capo dello Stato Maggiore Gio. DELLI FRANCt.
Il generale della Real Marina, CoBUTI PAsCA.
Il generale capo dello Stato Maggiore, FRANCEsco AMONELLI.
Visto, ratificato ed approvato,
Il governatore della piazza di Gaeta, tenente generale
FRANCESCO MILON.
Elenco delle persone partite da Gaeta. con S. M. Fran
cesco II :
Principe di Ruffano, maggiordomo di S. M. Duchessa
di S. Cesario dama d'onore di S. M. la Regina. Conte di
Capaccio Derda, cav. di compagnia del conte di Trani.
Cavaliere Ulloa ministro. Generale Del Re, ministro.
Monsignor Gallo e suo assistente. Cavalier Ruitz de Balle
stra, segretario di S. M. Tenente generale Riedmotten
Generale Bosco. Generale Schumacher. Generale Pa
squa. Colonnello Pisacano. Tenente-colonnello Besio
Maggiore Winspeare. Ferrari, capitano aiutante del gene
rale Brunnenecio. Colonnello Crisenolo. Capitano Lu
beck, aiutante del generale Riedmotten. Capitano Alfonso
Phiffer, aiutante del generale Schumacher. Secondo te
nente Renda, aiutante del generale Bosco. Alfiere di va
scello Renda, aiutante del generale Pasqua.
l,67
Segretari ed impiegati dei ministri: Orlandi, Polpi,
Monti, Nuco.
Localit ove sarebbero diretti i capitolati di Gaeta:
Nisiola. Castello di Baia. Procida. Capri.
lschia. Ponza. Piano di Bagnoli. Gli esteri a Ge
nova, i marinai ed invalidi a Gaeta.
Il capo di stato-maggiore
G. PiolA RossELLI.
la caduta di questa fortezza devesi al caso, allo scoppio cio
della polveriera, il quale produsse tali immensi guasti e spa
vento da determinare gli assediati a rendersi; non pertanto
molta lode si deve all'esercito assediante, il quale gi ave
va pensato entrare di viva forza nella piazza. Stavano pre
parate alcune barche piene di polvere che dovevano essere
spinte fin sotto le mura di Gaeta, dove scoppiando, e rovinando
le mura dovevano aprire di notte una grande breccia e dare
ai nostri la facilit dell'assalto. I soldati dell'esercito italiano
si mostravano pronti alla terribile impresa e nacque gara fra
i reggimenti per dare il primo assalto. Lo scoppio della pol
veriera risparmi molto sangue, quantunque grandi siano state
le rovine della piazza. Descriveremo Gaeta quale trovossi al
momento della resa.
La batteria dell'Addolorata , munita di circa 80 cannoni, e
che sta di fronte al palazzo reale col quale comunica per mezzo
di una terrazza di un ponte di ferro, rimase quasi intatta, se
si eccettuano i vasi che ornavano la terrazza fatti in frantumi,
e qualche sconcio al ponte.
La batteria
dell'Annunziata
rimase anch'essa incolume.
Quasi 80 famiglie vi si erano rifuggiate; l'abitazione di tanta
gente rassembrava un canile.
La batteria della Favorita, che comunica per mezzo di una
scala col largo della Conca u poco danneggiata.
I maggiori guasti furono alla batteria detta Transilvania, a
quella dei Cappelletti, ed al bastione S. Giacomo. La batteria
della Transilvania, situata all'estremit del promontorio della
Torre d'Orlando, stava unita ad una officina pirotecnica che con
teneva 400 quintali circa di polvere. A questa polvere si attacc
il fuoco e la batteria salt in aria, e circa 50 tra soldati ed
168
artefici vi trovarono la morte. La batteria della Regina e quella
di Philippstadt diroccarono in modo da rendere impossibile la
comunicazione fra l'una e l'altra.
Il bastione S. Giacomo fu dalle palle talmente conquassato,
che se non fosse accaduta la resa, tra poche ore di fuoco la
breccia sarebbesi aperta.
Ma la breccia si apr nella larghezza di 30 metri alla bat
teria a sega di S. Antonio.
La Porta della Citt era un mucchio di rovine; di rovine
era coperta la strada e di cadaveri insepolti; scene orribili. La
seconda porta fregiata del blasone di Spagna ebbe il ponte
fracassato. La via principale detta Porta Terra ebbe otto case
affatto demolite; la via Riccia ove il palazzo reale ed il pa
diglione per gli ufficiali era anch'essa ingombra di rovine. Il pa
lazzo reale ebbe anch'esso dei guasti.
Il re e la sua famiglia abitavano una casa matta nel largo
della Gran Guardia. Grossi assi di noce, posti obliquamente di
nanzi alle finestre armate di gravi inferriate, le difendevano
dalle bombe. Nell'interno un corridoio divideva nella lunghezza
la casamatta. Un salotto a cui lateralmente stavano due stanze
l'una abitata dal duca di Langro e l'altra dal generale Ferrari.
Alia diritta del corridoio stavano disposte una dopo l'altra le
stanze occupate dai duchi di Trani e di Caserta, dal re e
dalla regina. La stanza di questa era lunga 5 iarde e larga 3.
Un logoro tappeto ne ricopriva il pavimento. Un divano co
perto di cotone a righe larghe bianche e di color rosa, alcune
scranne e pochi altri mobili erano il tutto. L'attigua stanza
del re aveva il pavimento coperto da una stuoia; non vi si
trovarono che alcuni giornali.
Il numero dei projettili caduti nella piazza ammont a 90,000.
Si ritrovarono tante provvigioni che distribuite in ragione di
12,000 razioni al giorno, sarebbero bastate ancora per quattro
IdeS].
Tutte le opere di assedio costarono ai nostri 25 milioni
di lire.
Francesco II partendo portava abiti da borghese; la regina
era tutta vestita di nero e portava un cappello bianco.
Alle 7 il vapore la Mouette entrava in porto, il re l'attendeva
in una barca, attorniato dai suoi fedeli.
Francesco II salt
con disinvoltura sulla corvetta francese, sedette su una sedia
con aria sorridente e col suo zigaro in bocca.
L'esercito i tal iano vinci t0re
spiegate
entra in
u a e tra
-
con bandiere
A69
La giovane regina, calma e grave, aveva un abbigliamento
trasandato; essa pareva triste; la duchessa di Renda e la du
chessa di S. Cesario le stavano presso. Intanto che la Mouette
levava l'ncora, Francesco II guardava verso Montesecco; e
quando vide i battaglioni italiani avanzarsi verso Gaeta colle
bandiere spiegate, li salut levando ed agitando in aria il
suo cappello. Allora a bordo si grid Viva il re. Giunto in alto
mare domand se poteva discendere sul territorio romano ;
gli fu risposto che poteva discendere dove pi gli piaceva, non
per nel proprio regno. Egli fece imbarcare la sua roba sopra
un naviglio spagnuolo e disbarc a Terracina, da dove parti ,
per Roma.
Il giorno 14 febbraio egli lasciava ai suoi soldati il seguente
ordine del giorno:
Gaeta, 14 febbraio 1861.
Generali, ufficiali e soldati dell'armata di Gaeta.
La fortuna della guerra ci separa dopo cinque mesi, nei
quali abbiamo sofferto per la indipendenza della patria, divi
dendo gli stessi pericoli, le stesse privazioni; giunto per
me il momento di metter termine ai vostri eroici sagrifici.
Era divenuta impossibile la resistenza, e se il mio desiderio
di soldato era per difendere, come voi, l'ultimo baluardo
della monarchia, sino a cadere sotto le mura crollanti di
Gaeta; il mio dovere di re, il mio dovere di padre, mi co
mandano oggi di risparmiare un sangue generoso, la di cui
effusione nelle circostanze attuali, non sarebbe che l'ultima
manifestazione di un inutile eroismo. Per voi, miei cari fidi
compagni d'armi, per pensare al vostro avvenire, per le con
siderazioni che meritano la vostra lealt, la vostra costanza,
la vostra bravura, per voi rinunzio alla ambizione militare, di
respingere gli ultimi assalti d'un nemico, che non avrebbe
presa la piazza difesa da tali soldati senza seminare di morti
il suo cammino.
Militi dell'armata di Gaeta, da 10 mesi combattete con im
pareggiabile valore. Il tradimento interno, l'attacco di bande
rivoluzionarie straniere, l'aggressione di una potenza che si
credeva amica, niente ha potuto domare la vostra bravura,
stancare la vostra costanza. In mezzo alle sofferenze d'ogni ge
170
nere, traversase i campi di battaglia, affrontando i tradimenti,
pi terribili che il ferro ed il piombo. Siete venuti a Capua
ed a Gaeta segnando il vostro eroismo sulle rive del Volturno
e sulle sponde del Garigliano, sfidando per tre mesi dentro
a queste mura gli sforzi d'un nemico, che disponeva di tutte
le risorse d'Italia. Grazie a voi salvo l'onore dell'armata
delle Due Sicilie, grazie a voi pu alzare la tesa con orgoglio
il vostro sovrano, e sulla terra d'esilio, fin che aspetter la
giustizia del cielo, la memoria dell'eroica lealt de' suoi soldati
sar la pi dolce consolazione delle sue sventure!
Una medaglia speciale vi sar distribuita per ricordare l'as
sedio, e quando ritorneranno i miei cari soldati nel seno
delle loro famiglie, tutti gli uomini d'onore chineranno la
testa al loro passo, e le madri mostreranno come esempii a
lor figli i bravi difensori di Gaeta.
-
Generali, uffiziali e soldati, vi ringrazio tutti; a tutti stringo
la mano, con effusione di affetto e di riconoscenza. Non vi dico
addio, ma a rivederci. Conservatemi intanto la vostra lealt,
come vi conserver la sua gratitudine e la sua affezione il
vostro Re.
FRANCEsco .
Riportiamo ora gli ordini del giorno dell'ammiraglio Per
sano e del generale Cialdini.
Equipaggio della Regia Squadra.
Dopo di aver cooperato, in sul finire del mese di ottobre
dell'anno scorso, alla costruzione del ponte sul Garigliano;
dopo d'aver ai primi di novembre dello stesso anno reso
sgombro e protetto il passaggio delle nostre truppe su quel
fiume, e quindi fatta facile l' espugnazione di Mola, vi siete
ora in pi riprese distinti sotto il fuoco delle formidabili bat
terie di Gaeta, e contribuito alla sua reddizione mediante il
blocco serrato in cui la teneste.
Un drappello di voi, che a terra armava una batteria di
dodici cannoni presi dalle vostre navi, gareggi per giustezza
di tiri e sangue freddo cogli artiglieri del nostro esercito tanto
giustamente decantati.
Voi avete per tal modo confermato il detto di cui il Re si
471
degnava per la sommissione di Ancona: S'io vado quindi su
perbo d'esservi capo, lascio a voi il pensarlo.
In quest'assedio di Gaeta, vi ho scorto mesti nel volger
le vostre offese contro i figli di comune madre, massime voi
di queste meridionali regioni, ma tutti avete saputo vincere i
sentimenti del cuore a vantaggio dell'unit italiana; la patria
ve ne sar tanto pi riconoscente quanto maggiore stato
il vostro sagrificio.
I marinari, fatti qui prigionieri di guerra, entreranno nelle
nostre file; riceveteli siccome fratelli, e pensate che, se han
saputo resistervi, sapran meglio emularvi combattendo al vostro
fianco.
Gaeta, 15 febbraio 1861.
Il vice ammiraglio comandante la regia squadra
C. DI PERSANo.
Ordine del giorno del 17 febbraio 1861:
Soldati /
Gaeta caduta! Il vessillo italiano e la vittrice Croce di
Savoia sventolano sulla Torre d'Orlando. Quanto io presagiva
il 13 dello scorso gennaio voi compieste il 13 del corrente mese.
Chi comanda soldati quali siete voi, pu farsi sicuramente
profeta di vittorie.
Voi riduceste in 90 giorni una piazza celebre per sostenuti
assedii ed accresciute difese, una piazza che sul principio del
secolo seppe resistere per quasi sei mesi ai primi soldati
d'Europa.
-
La storia dir le fatiche ei disagi che patiste, l'abnegazione
e la costanza ed il valore che dimostraste; la storia narrer i
giganteschi lavori da voi eseguiti in s breve tempo. Il Re e
la patria applaudono il vostro trionfo, il Re e la patria vi rin
graziano.
Soldati !
Noi combattemmo contro italiani, e fu questo necessario,
ma doloroso ufficio. Epperci non potrei invitarvi a dimostra
472
zioni di gioia, non potrei invitarvi agli esultanti tripudii del
vincitore.
Stimo pi degno di voi e di me il radunarvi quest'oggi
sull'istmo e sotto le mura di Gaeta, dove verr celebrata una
messe funebre. L pregheremo pace ai prodi che durante questo
memorabile assedio perirono combattendo tanto nelle nostre
linee, quanto sui baluardi nemici!
La morte copra di un mesto velo le discordie umane, e
gli estinti siano tutti eguali agli occhi dei generosi.
Le ire nostre d'altronde non sanno sopravvivere alla
pugna.
Il soldato di Vittorio Emanuele combatte e perdona !
Il generale CIALDINI.
Caduta Gaeta, e partito Francesco lI, non restavano nelle
mani dei Regi che due sole fortezze: la cittadella di Messina,
e Civitella del Tronto. Della resa di queste due fortezze par
leremo in altro capitolo.
C A P IT 0 L 0 X X I
La reazione,
Parlando del viaggio del Re nell'Italia Meridionale ci occorse
accennare la reazione che andavasi sviluppando e che special
mente ad Isernia lasciava terribili segni della sua presenza.
lbbimo allora occasione di riprodurre alcuni documenti pei
quali diveniva manifesto che Francesco II non fosse estraneo
ai moti reazionarii, e che anzi ne fosse il principale motore
premiando le opere degli assassini. Ora ci metteremo a nar
rare i fatti pi salienti della reazione borbonica e i luoghi
infelici nei quali quei fatti accaddero. Pi che l'ordine dei
luoghi, seguiremo l'ordine dei tempi, come abbiamo fatto nel
trattare le altre materie di questa storia.
Negli ultimi di settembre nei villaggi di Rocca Guglielma e
S. Pietro in Carolis (distretto d'Isernia) un'orda di villani la
droni, riuniti da certo Nicola Grassi, dal giudice di quel cir
condario Natale Gagliani, dal sindaco Angelo Grassi, e da un
brigadiere di gendarmeria ausiliaria, Giovanni Avanzo, dopo
essersi ordinato dal giudice in nome di Francesco II il disarmo
della Guardia nazionale, incendiava e derubava le abitazioni
dei patrioti Fontagone e Roselli. Uccisi due di quest'ultima
famiglia, ne furono portate in trionfo le teste sulle punte delle
picche. Poscia quell'orda medesima prendendo possesso dei
due Comuni minacciavano i vicini abitanti. Poco dopo, tre
cento gendarmi borbonici con un maggiore alla testa move
vano da Teano su Mignano per congiungersi a quei di Rocca
Guglielma, onde investire la citt di S. Germano.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II,
60
175
Il giorno 19 settembre 1860, mentre i nostri combattevano
contra i Regi a S. Maria, nei paesetti posti alle falde del Vesuvio
avveniva una dimostrazione reazionaria prodotta da istigatori.
Essa ebbe principio a Poggio Marino, o meglio Scafati, grossa
borgata di dodici a quattordici mila abitanti, di l si estese
ad Angri, Santa Maria la Carit, Sant'Antonio Abate, Lettere,
Santa Maria dei Bagni, Gregnano, fino nel territorio adiacente
a Castellamare. Nei giorni precedenti furono divulgate voci si
nistre; si disse che i Regi avevano riportato vittoria, cagionate
gravissime perdite ai nostri, e che si avanzassero, manomet
tendo e incendiando ogni cosa, alla volta di Napoli. Queste
voci furono sparse da un Bavarese, vestito da borghese; a Torre
Annunziata, a Scafati, due sconosciuti erano passati all'albeg
giare, provocando i campagnoli alle grida di Viva il Re. A
S. Marzano, un frate di San Francesco aveva ripetuto lo stesso
grido; a Gregnano due reazionarii padre e figlio avevano
promosso l'agitazione. Molti campagnuoli che erano intenti ai
propri lavori, lungo la strada, fecero eco alle grida di Viva il
Re. Il moto si limit alle campagne, i contadini erano lavo
ratori di robbia occupati all'estirpamento di questa pianta,
e provenienti dalle provincie di Avellino e Molise.
La Guardia nazionale d'Angri, Scafati e Castellamare, non
che il battaglione del Cilento si recarono immediatamente per
le campagne dove fecero numerosi arresti di contadini. Fra
gli arrestati fu un padre Francescano ed un Terziario. Sirtori
era in quei giorni prodittatore di Napoli, egli credendo che
la manifestazione avesse proporzioni pi gravi, ed indole pi
minacciosa, mand sui luoghi una commissione d'inchiesta
composta del maggiore Damis e del capitano Savi.
Il governo di Francesco lI scendeva all'assassinio per mezzo
della reazione ed in ogni modo incoraggiava ed estendeva il
brigantaggio. Comandanti militari investiti di poteri illimitati,
gran numero di gendarmi, massime travestiti, e molti uomini
di perduta morale forniti di biglietti regi, rilasciati dal ministro
Ulloa che autorizzavano a commettere qualsiasi atto, furono
gli strumenti principali con cui e apertamente e segretamente
vennero attuate queste pessime arti di governo; i risultati delle
quali furono, com' naturale, lo sfrenamento delle basse plebi con
tra tutti gli uomini onesti e contro le loro propriet, e quindi isac
cheggi, gli incendii, ed i pi nefandi eccidii per ogni dove, ed il
rendere ancor pi abborrito il nome di una dinastia, che tante
175
sventure ha cagionate a quelle italiane provincie. N di ci
pago, il governo borbonico arruolava sotto il nome di batta
glioni volontari i condannati per omicidii e furti, traendoli dalle
galere, prigioni ed isole in cui erano rinchiusi e relegati, e
questi battaglioni per le infinite ruberie che andavano com
mettendo venivano comunemente disegnati col nome di batta
glioni saccheggiatori. E per meglio eccitare la plebe alla rapina
ed agli eccidi, gli incitatori e capi della reazione davano, a
chiunque voleva parteggiare con loro un piccolo pezzo di carta
affermando esser quelle carte bianche, che Francesco II inviava
loro da Gaeta, e che a chiunque aveva di quelle carte il re
rimettea per otto mesi ogni specie di delitto. Ecco una lettera
di un soldato delle truppe borboniche, il quale da Venafro
l'11 ottobre scriveva a sua madre in Aquila. Riportiamo questa
lettera tale quale fu scritta.
Dovete conoscere che io mi trovo in Venafro e sono
stato in San Germano, vicino a Sora di campagna.... spero
venire dentro otto o dieci altri giorni, perch andiamo facendo
il disarmo. Siamo cominciati da Teano, e quanto prima verre
mo in Aquila, e faremo lo stesso disarmo. Mare (povero) a
quello che non consegna l'arma; il nostro sovrano ha dato
carta bianca al popolo basso, ed il popolo basso fa gli stragi
degl'innocenti agli rivoltosi .
Ed era proprio una strage d'innocenti, perciocch i primi a
sperimentare il furore della reazione erano appunto i pi onesti
cittadini, le pi innocenti famiglie, le persone le pi buone
ed onorate. In Rocca Guglielma, comune del distretto di Gaeta,
i reazionari composti dalla plebaglia e da gendarmi saccheg
giarono e bruciarono vari palazzi di signori, ed arrestando
tutte le persone civili, le menarono a Francesco ll a Gaeta,
ove furono imprigionati. Durante quegli orrori decapitarono
dopo crudelissime sevizie i due fratelli baroni Roselli, e per
molti giorni tennero esposte le loro teste sopra picche alla
porta del corpo di guardia: l'autorit giudiziaria vanamente
tent di procedere contra i carnefici dei baroni Roselli, perch
il governo di Francesco II interdisse ogni procedimento, anzi
ordin che in nome del re si assoldassero tutti i popolani,
che avevano preso parte a quelle stragi, a quegli incendi ed
a quei saccheggi, a grani venticinque al giorno (fr. 1. 12),
mercede che per qualche tempo continuarono a ricevere.
In Isernia, radunatosi un gran numero di contadini e non
l 76
pochi gendarmi travestiti, ad una data ora, misero a sacco
tutte le case dei signori, incendiarono il palazzo del Jadopi,
gi deputato al parlamento napoletano nel 1848, e trucidarono
e fecero a brani, dopo avergli strappati gli occhi ancor vivo,
un figlio di Jadopi di circa ventidue anni, un ricco ed onesto
gentiluomo, Cosmo de Bagis, e molti altri. Il giudice d'I
sernia camp la vita perch rest tramortito, e fu creduto
morto per cinque gravissime ferite ricevute alla testa. Da un
processo istituito in Isernia in quei giorni fu raccolto che fra
gli altri autori di questa atrocit erano stati non pochi conta
dini, i quali con petizioni indirizzavansi a Francesco ll, perch
loro somministrasse armi, munizioni e grano. Nella qual pe
tizione, fra le altre cose, quei contadini ricordavano aver re
centemente arrestato un giudice, un sacerdote e vari altri che
tenevano nelle prigioni di Isernia e di Forl. Ed il re di
propria mano scriveva sopra quella supplica: Al Ministro del
l'Interno. Gaeta, 10 ottobre 1860.
L'altra petizione che qui trascriviamo, basta da s stessa
per imprimere il pi vergognoso marchio sopra le persone
che riguardano.
-
A S. M. Francesco II, re del regno delle Due Sicilie.
Sire!
Antonio Lilli, e Nicola Onorato, u Pasquale, ed altri di
Guardia, comune di Forli, provincia Molise, distretto d'Iser
nia, umiliano alla Maest Sua quanto segue:
I rimostranti nel di 1. del corrente mese, con altri, di
sarmarono il corpo di guardia gridando Viva Francesco II !
armarono le popolazioni e disarmarono i galantuomini; arr
starono il giudice Calopai, perch questo si dichiarato ne
mico della M. S. e fu condotto ad Isernia con altri.
Pi, sapendo per notizia certa, dal gendarme di cavalle
ria, Pietro di Rosa, che la M. S. avrebbe salito al trono il 3
corrente, l'Onorato si rec in Castel di Sangro, e parl con
molti di quel paese, per del popolo basso, dicendogli che
avessero preso l'esempio di Forli, e cos dicendo ammaz
zarono il giudice con due liberali, bruciarono un palazzo, di
sarmando tutti, dicendo: Viva Francesco II !
Sacra Real Maest.
Gli oratori implorano che sieno guardati con un occhio
benigno, implorando grazia di qualche impiego, perch il Lilli
tiene tre teneri figli, e non agiato; e prostrati a terra, col
baciare i piedi della Maest Sua, si segnano, esponendo la
vita per Vostra Maest.
Forli, 5 ottobre 1860.
ANTONIo Lilli NicolA ONORATo .
E Francesco II, di propria mano scriveva su questa supplica:
Al Ministro dell'Interno Gaeta, 8 ottobre 1860. Ed
il ministro dell'interno, cavalier Pietro Ulloa, con officio del
l'11 ottobre, da Gaeta rimettea questa supplica al sottinten
dente d'Isernia perch riferisse sul conto dei supplicanti af
finch S. M. potesse dare i debiti provvedimenti. La storia che
porter questi fatti ai posteri, forse sar non creduta; per
ciocch parr impossibile che ci potesse accadere nella piena
luce del secolo XIX. Ma quando i posteri ricorderanno che
Francesco ll era uno dei re per diritto divino, e per la grazia
di Dio, cesseranno di maravigliarsi, perch un tiranno capace
di tutto.
La provincia di Teramo era stata per qualche tempo esem
pio di ordine perfetto, ma dopo il passaggio di Vittorio Ema
nuele cominciarono a verificarsi in diversi paesi della fron
tiera e della montagna in prossimit del forte di Civitella,
disordini gravissimi, tendenti ad impedire la riunione dei
comizi, e a ristabilire il caduto governo, ci veniva operato dalla
guarnigione di quella piazza, composta la maggior parte del
l'antica sbirraglia messasi in relazione con Gaeta. I feroci
partigiani di Francesco ll fecero di Civitella, dapprima un covo
di predoni, per aver messo a ruba le terre circostanti, e po
scia il centro ed il lomite della reazione, armando i conta
dini e spingendoli al saccheggio, agli incendii, alle stragi, a
tutte le terribili scene della guerra civile, e facendo loro lar
ghissime promesse d'ogni sorta di premii e d'impunit. Te
ramo fu minacciata e si dovettero barricare le porte della
citt. Ma il governatore de Virgilii, di cui altra volta parlam
mo seppe sventare a tempo le mene reazionarie, riparare ai
178
disastri, cessare i pericoli, armando masse, mobilizzando molte
colonne di Guardia nazionale sotto il comando degli uomini
pi energici e decisi, e chiamando soccorsi da Chieti, dalla
fortezza di Pescara, dal campo piemontese, e sin dalle Marche.
Questa forza unita ad un battaglione di circa sei cento ar
mati, e due pezzi di artiglieria venuti da Ancona sotto il
comando del maggiore Carozzi dopo aver percorso e soggiogati
i paesi reazionari circondarono Civitella del Tronto per as
sediarla, ed impedire che di l uscisse il fuoco della reazione,
e del brigantaggio.
Il Carozzi intim alla piazza la resa; ma la piazza stette
-
salda ed il comandante rispose in questi termini:
Rispondo alla proposizione che mi fa da parte del suo
comandante, che questa piazza di Civitella al mio comando
affidata, si serber sotto all'impero di Francesco Il, sinch
stando egli nel regno non comandi diversamente, e sino a che
star egli sul trono, essendo questo il sovrano volere ,
Il comandante la Regia Piazza
LUIGI APIONI.
Da questa risposta si comprese che Civitella del Tronto
voleva essere espugnata con assedio regolare, per la sua van
taggiosa ed eccezionale posizione.
Ma la reazione voleva alzare la testa anco in Napoli, e le
mene borboniche gi cominciavano a produrre i loro frutti
nella popolosa capitale. Il giorno 14 novembre, nel borgo
detto di Sant'Antonio Abate, ove vive plebe assai misera e
goffa, un prete e certi fratelli, di cognome Napoletano si misero
a spacciare esser tornato Francesco II, e trovarsi gi a Portici;
Vittorio Emanuele esser fuggito, avere Francesco promesso molte
grazie e ordinato si vendesse il pane a sole grana due il rotolo, e
scemassero di prezzo altri commestibili; doversi fare una pu
blica dimostrazione in pro del reduce Sovrano, ed obbligare
i galantuomini a toglier via le bandiere tricolori. Detto, fatto!
quelle donnaccie, in numero di qualche migliaio, si unirono,
guidate da due soldati dei prigionieri di Capua, i quali reca
vano bandiera borbonica. La bordaglia gridava a piena gola:
Viva Francesco II, ed obbligava con minacce di sterminio gli
onesti uomini a togliere dalle finestre le bandiere italiane. Un
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servitore della casa reale borbonica, dimorante in quei luoghi,
inalber da un balcone una grande bandiera borbonica. Erano
cos quelle turbe calate quasi fino alla stazione della ferrovia,
quando la borghesia, poi la Guardia nazionale, accorse in folla,
arrest e leg tutti e menolli nei corridoi del monastero della
Pace, ove era il corpo della Guardia nazionale del quartier
Vicaria; il prete fuggi, e le donne piangendo narrarono la
frode di quel tristo, e degli altri capi, che le avevano spinte
alla dimostrazione.
A provar poi in qual modo le truppe di Francesco ll si
regolassero circa i beni privati di cittadini e di pubbliche be
neficenze, baster leggere il seguente rapporto del sindaco
del comune di Teano, diretto al commendatore Farini, gi luo
gotenente in Napoli; quel rapporto dice:
Eccellenza,
In pronta esecuzione dei vostri rispettabili ordini, ho
l'onore di darvi notizie sugli avvenimenti occorsi in questo
comune relativamente alla violazione di queste casse pubbli
che operata in seguito agli ordini dell'autorit militare, nella
giornata dell'8 ottobre 1860.
Allorch il re Francesco II fece ritirare il suo corpo
d'armata al di l del Volturno, questa citt fu designata come
accantonamento per un numero considerevole di truppe; in
tanto si presentava la quistione dei mezzi finanziari per sov
venire ai bisogni delle stesse sue truppe, tanto pi che la for
nitura delle sussistenze era posta a carico del Comune, in
seguito all'assenza volontaria dei fornitori militari, che ricu
sarono di prestare il loro concorso pi volte reclamato.
Il Comune era in una posizione finanziaria deplorabile
per motivi che inutile raccontare, e non poteva prestarsi ad
anticipare il bench menomo fondo.
Io m' affrettai a far conoscere la situazione al coman
dante superiore maresciallo Gaetano de Rivra, il quale or
din di sequestrare la cassa dell'amministrazione diocesana
per l'annunciato oggetto; locch si oper legalmente, con
processi verbali, il 9 ed il 15 settembre, estraendosene 3070
scudi contanti, e 1350 in tanti pacchetti di grana.
In seguito, il generale che assunse il comando ordin di
180
prendere 500 misure di frumento dal Monte della pubblica
beneficenza, per dare le razioni di pane ai soldati; ci pure
fu eseguito nelle forme legali.
Posteriormente, il generale Fabio Lesgardi, che succe
deva nel comando, ordinava di violare le casse del Monte dei
pegni e del Monte dei morti, la prima forn 1485 scudi e
25 lire, la seconda altri scudi 400, come risulta da distinti
processi verbali del 16 ottobre, regolarmente redatti.
Intanto nei primi giorni del presente mese (ottobre) si
creava in questa citt un ospitale militare, e si ponevano a
carico del Comune le spese per apprestamento di letti, d'af
fitti di locali e nutrimento dei malati, al che occorsero 1300
scudi.
Inoltre, a causa del soggiorno prolungato di s numerose
milizie nella nostra citt, e pel mantenimento del detto ospi
tale, il Comune si vide ben presto allo stremo d'ogni risorsa
pecuniaria, e si dovette ricorrere a numerose requisizioni di
cereali nel circondario stesso comunale, che perci venne in
estrema penuria.
E vero che le casse delle campagne fornivano alcune
somme, ma esse furono prontamente assorbite dall'urgenza e
dalla straordinaria gravit delle spese.
Questi fatti, riferiti in succinto, sono minutamente svilup
pati nel rapporto circostanziato, che sar prodotto, se verr
richiesto.
In conclusione, il Comune al presente ruinato affatto, e
non so come potrebbe provvedere alle proprie spese in avve
nire. E qui conviene richiamare l'attenzione di V. E., che que
sto stesso Comune assolutamente sprovisto di rendite patri
moniali, mantenendovisi ancora il sistema delle imposte straor
dinarie.
Tali sono le notizie che ho l'onore di inviare a V. E. in
-
esecuzione degli ordini summenzionati.
Il sindaco del Comune di Teano
CAMILLO CASTALDo.
La reazione faceva capolino nelle Calabrie, e proprio a
Cinquefrondi, a Carid, a Remani, e finalmente nel grosso
borgo di Gallina, circondario di Reggio. In Gallina si grid vira
181
Francesco II l e fu tutta intera la popolazione. La guardia na
zionale di Reggio si tolse l' incarico di soffocare queste dimo
strazioni, e vi riusc ; ma i germi non furono sbarbicati, e pi
tardi vedremo la mala pianta germogliare una seconda volta.
Le citt del Marsico si sollevavano alla lor volta, ed improv
visavano dimostrazioni reazionarie. Una colonna mobile coman
data dal generale Pinelli le fece rientrare nell' ordine, proce
dendo all'arresto di coloro che ne erano stati i promotori;
pochi di essi riuscirono a sottrarsi alle ricerche militari. Il 23
novembre un numeroso distaccamento di prigionieri venne con
dotto ad Aquila; era fra essi una donna per nome Antonia di
Matteo, che aveva partecipato all'assassinio di un volontario della
guardia nazionale. operando su quella povera vittima infami mu
tilazioni. La sciagurata ebbe l'audacia di portare in trionfo per
la citt il suo trofeo, mentre un altro scellerato portava sopra
una picca la testa dell'ucciso. Un terzo disgraziato, nel momento
in cui si faceva a pezzi il cadavere, mangiava pane bagnato nel
sangue della vittima. Ma a meglio far conoscere qual gente si
fosse quella che gridava viva Francesco II, viva Pio IX, baster
gittare lo sguardo sul seguente avviso, affisso sugli angoli delle
strade di Avezzano per ordine del famoso Giacomo Giorgi,
sottintendente, nominato da Francesco ll, per istabilire il go
verno dell'ordine e del diritto nella provincia:
Sono pregati tutti i cittadini di Avezzano di non tormen
tare il ceto dei Cafoni, perch se ritornano i garibaldini, essi
sonano le campane e si danno allo sfascio delle case dei si
gnori, e sfasciano tutte le botteghe, e se ne vanno, dopo dato
sacco e fuoco dentro e fuori le abitazioni .
Cotesto Giorgi aveva esercitate estorsioni infinite. Valutossi
a pi di centomila ducati la somma rubata in quel solo distretto;
per esso e pei suoi compagni tutto era buono, argento, ce
reali, derrate, coloniali, cavalli e persino interi carichi di ap
provigionamenti da bocca; formaggio, prosciutti e cose simili.
Quando vide che si avvicinava l'ora del pericolo, e che non gli
restava pi nulla a prendere in quelle sventurate contrade, si
ritir a Fellettino, piccolo villaggio dello Stato romano presso
la frontiera, portando seco il frutto de' suoi furti e delle sue
rapine.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
61
182
In Celano, citt del Marsico, fu operato il disarmo e l'ar
resto di molti reazionari; questi adoperarono tutti i mezzi pos
sibili per ingannare le autorit e nascondere le loro armi.
La celebre Madonna di Pietracquaria, tanto venerata dai Cela
nesi, fu chiamata da essi carbonara perch non gli aveva aiu
tati contro le truppe, ed il popolo giungeva, nella sua igno
ranza e ne suoi pregiudizi, a dire che quella Madonna fossesi
venduta per una libra di cera, offertale dalla guardia nazio
nale, al partito della nazione.
Un sergente dei bersaglieri recavasi imprudentemente a Pa
terno, non molto lungi di Avezzano, per eseguire un arresto;
venne assalito da sei individui che gravemente lo ferirono.
Egli, che non aveva per difendersi che la sciabola, schermi va
-
lorosamente alcuni colpi, fer tre assalitori, e gli altri fuggi
l'OI)0.
E qui conviene notare come il desiderio di distruggere la
reazione fosse universale; i bersaglieri della guardia nazionale
mobilizzata bresciana, trovavansi negli Abruzzi a consumare
quest'opera tanto salutare all'Italia. Una mezza compagnia di
questi bersaglieri, comandata da certo Calcinardi, portavasi a
Rocca Sinibalda, ove apprese che a Tiglieto trovavasi un cen
tro di reazionari, di cui faceva parte quasi tutto il basso po
polo, talch i pochi galantuomini del paese, saccheggiati e de
rubati, avevan dovuto fuggire. Il luogotenente Calcinardi, alla
testa de' suoi bersaglieri, ed insieme alla guardia nazionale di
Rocca Sinibalda, si diresse per quartieri quasi impraticabili in
mazzo a dirupi, verso Tiglieto, e alla mattina si trov di
fronte a questo villaggio, che apparisce in alto, ed al piede del
quale scorre il Velino. I briganti avevano levato il ponte di
legno, che serve ad attraversare questo fiume, ma il Calci
nardi senza punto spaventarsi passa il fiume con alcuni dei
suoi e recasi alla riva opposta.
A tal vista i briganti non si trovaron sicuri nemmeno nel
villaggio, e si diedero a fuggire pel monte: al segnale della
marcia, il resto dei bersaglieri passarono il fiume, e riusciti
alla sponda opposta, assalirono il villaggio, ove per non tro
varono nessuno dei briganti. I bersaglieri si diedero ad inse
guire i fuggenti, alcuni dei quali raggiunti, quanto feroci altret
tanto vili, si prostrarono a terra chiedendo piet. Molti arre
stati furono condotti in Rieti, e quivi incarcerati.
Parlammo di sopra dei fatti accaduti in Teano; ora altri se
-
i85
ne aggiungono, dei quali ecco il rapporto diretto al luogote
nente Farini:
Eccellenza,
In risposta ai rispettabili ordini che la S. V. ha fatto
l'onore di indirizzarmi, mi sollecito di renderle conto del modo
col quale ebbero luogo in questo comune l'incendio ed il sac
cheggio del palazzo del prete Tommaso Fumo.
Il 23 settembre, a sette ore di sera, circa dugento operai
della ferrovia, in seguito a segrete intimazioni, per quanto si
crede, e mostrandosi oppositori alle libert costituzionali, fe
cero una dimostrazione pubblica, che fu repressa da alcune
guardie nazionali, aiutate e incoraggiate dal suddetto prete
Fumo.
Il 7 del mese corrente (ottobre) venne in questo comune
acquartierata una divisione di truppe realiste, composte dei
quattro battaglioni di cacciatori, di una mezza batteria, sotto
gli ordini del maresciallo di campo Afan de Rivera.
I soldati, appena arrivati, cominciarono ad insultare e mi
nacciare le guardie nazionali, a tal punto che queste dovettero
togliersi le loro insegue, non montar la guardia, e cos dissol
versi di fatto, per evitare la realizzazione delle minaccie pro
ferite contro di essa dai soldati.
Il popolaccio, nemico delle libere istituzioni, vedendo di
mal occhio i cittadini che ne erano partigiani, pens che i sol
dati sarebbero favorevoli ai suoi sentimenti retrogradi, e gli
inform non solamente dei fatti del 23 dello scorso mese, ma
ancora addit tutte le persone devote alle idee liberali. Allora
i soldati cominciarono ad insultare le persone con parole in
giuriose e con minaccie.
Pi di tutti attirava l'attenzione il prete Fumo, e per evi
tare qualche via di fatto, giudic prudente, nel mattino 11 ot
tobre, di allontanarsi con tutta la famiglia, ci che fece anche
il capitano della compagnia, e Gaetano Corvino, che erano stati
egualmente insultati e minacciati.
Il dopopranzo del suddetto giorno, 11 ottobre p. p.,
piacque al maresciallo di campo Afan de Rivera di far ese
guire a tutta la divisione sotto i suoi ordini una passeggiata
militare; e facendo prendere alla truppa la strada di circon
vallazione della citt, allorch fu alla porta detta della Rocca,
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la quale situata a qualche passo dalla casa del signor Fumo,
e dal posto ove il 23 del mese precedente si era fatta la di
mostrazione, fece fare alto, e si mise a gridare viva il rel
Questo grido fu a varie riprese ripetuto dalla truppa e dal
popolo riunito su questo punto. La truppa si ritir in seguito
nei suoi quartieri, ed il popolo si sparse per la citt correndo
e gridando a tutta voce viva il re l Poco dopo, la truppa,
avendo deposto le armi nelle caserme, usc, e mischiandosi
col popolo, and con lui percorrendo, e facendo rumore per
la citt.
A questo segnale la porzione tranquilla di cittadini, preve
dendo che questa plebe, avida di rubare, non si contentava del
solo gridare, fu presa da spavento, e ciascuno si ritir nella
propria casa per garantirsi il pi possibilmente, chiudendo le
porte.
Non si vedeva nessuna forza che si apprestasse a repri
mere il tumulto, eccitato ed aumentato dalla truppa stessa, a
tal punto che in un accesso di furore, questa masnada di ban
diti appicca il fuoco al palazzo del signor Fumo, una carrozza
del quale, tutta in fiamme, venne trascinata da quei miserabili
per la citt. L'incendio minacciava d'invadere gli altri palazzi
ove abitavano degli ufficiali della guardia nazionale, ma gli uf
ficiali della truppa, che abitavano in questi palazzi, impedirono
questo nuovo eccesso.
Alla notizia dell'incendio io accorsi immediatamente, cos
anche il giudice D. Camillo Sastallo, e il maresciallo di campo
Afan de Rivera; ma, ad onta degli sforzi dei zappatori, non
si pot riuscire ad estinguere il fuoco, e tutto ci che si
conteneva nel palazzo venne bruciato o rubato, e prima del
mio arrivo una buona parte degli oggetti erano stati derubati.
Io non negligentai nulla dei miei doveri per assicurare
sulla causa di tali atti, ed il domani mattina ho fatto fare delle
perquisizioni nelle case sospette per iscoprire gli oggetti in
volati.
Feci qualche arresto e ricuperai varii di questi oggetti, ma
ho dovuto sospendere ogni azione, attesoch si cominciava a
ripetere nel popolaccio e nella truppa che io era un carbonaro
(cos chiamano qui i liberali) e che si doveva mettere il fuoco
alla mia casa, perch lo proteggeva i carbonari e faceva ri
cerca degli oggetti che loro appartenevano.
E le minaccie contro di me non si sono arrestate a sem
185
plici parole; la truppa si diede alle devastazioni delle propriet
appartenenti a mia moglie, e siccome molti abitanti, indignati
da simili atti, pregarono i soldati di non fare tali guasti nelle
propriet appartenenti al giudice, risposero: Noi dobbiamo
bruciarlo anche lui; un carbonaro.
Tali sono i fatti che mio dovere di esporre a V. E.
relativamente al suddetto incendio, ed io sono felice di potere,
in questa occasione, rinnovarle l'assicurazione del mio pro
fondo rispetto.
Il giudice MICHELE MAzzUccoLo .
Cotesti fatti non abbisognano di commenti; essi provano
abbastanza a qual punto fossersi spinti gli animi, e come la
truppa partecipasse ai disordini, ai furti, alle sfrenatezze ed
ai delitti della plebe.
Nei primi giorni del dicembre in Caserta fu tentata la
reazione da poche persone, che in onore di Francesco II uc
cidevano un garibaldino affatto inerme ed innocente. In poco
d'ora, altri garibaldini, accorsi con mazze e pietre, sperpe
rarono quegli assassini, che ricercati dalla polizia vennero
messi in carcere. Una parte degli ufficiali borbonici, unitamente
ai loro soldati furono inviati per ordine del governo luogote
nenziale a Foggia come nucleo del 55. di linea in via di for
mazione. Or bene, tra questi, a cui il governo faceva un fa
vore accettandoli nel servigio militare, dopo ci che avevan
fatto contro la causa nazionale, furonvi alcuni che lungo il
viaggio disturbarono la pubblica tranquillit gridando viva
Francesco II! e volendo che i paesani delle contrade da loro
attraversate facessero il medesimo per suscitare reazioni e di
sordini. Il governatore di Avellino fu costretto a farne arre
stare quattro dei pi tristi. Questi scandali avvennero in Avel
lino, in Pantola e in Dentecane.
In Sora accadevano nuovi fatti dolorosissimi in quei me
desimi giorni. Un certo Chiavone, guardaboschi, alla testa di
quattrocento villani armati, entrava nella citt gridando viva
Francesco II! abbattendo e bruciando gli stemmi nazionali e le
bandiere della libert, e commettendo infamie inaudite. Quel
sotto-governatore radun quanti pi pot guardie nazionali, e
con circa 90 di esse si difese alla meglio contro quei tristi
sostenendo tre ore di fuoco. Ma alla fine dovette cedere alla
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forza tanto superiore dei briganti e ritirarsi ad Atina, paese
poco distante, e la citt rimase preda della reazione.
In Cervinara si rinnovarono fatti atroci. I contadini, istigati
dal clero, da gente ligia alla caduta dinastia, al numero di
pi centinaia, elevando grida di viva Francesco II / invasero il
paese. La guardia nazionale, essendo in picciol numero, non
pot opporre alcuna resistenza, e chiuso il posto di guardia,
gli individui di servizio salirono sulla casa del giudice. Ri
chiesto il capo degli insorti che cosa chiedesse, rispose:
Vogliamo le armi di Francesco II, che stavano nel posto di
guardia, essendo questo il nostro re, e dobbiamo fare la
guardia . Salirono quindi sulla casa del giudice, la quale vi
sitarono minutamente, prendendo dei fucili, e commettendo
ruberie. Non fu possibile farli ritirare con le persuasive, e
misero sossopra il comune. Pochi giorni dopo, recatosi quivi
un battaglione garibaldino, s'impegn breve fucilata, in seguito
della quale gli insorti, parte fuggirono, parte furono arrestati,
ed alquanti rimasero uccisi.
Per disvelare le arti dei reazionari diremo, che pochi
giorni prima che tali fatti scoppiassero, era corso pel comune
il seguente manifesto:
1. Tutti i sovrani debbono ritornare ai loro posti.
2. Compenso delle spese a chi spetta.
3." Entrati i rispettivi re nei loro troni, si stabilir un
anno di governo militare, e sar deciso dallo stesso potere
della forma di governo.
4. Napoleone si chiamer re di Francia e non gi dei
Francesi.
5. L'Inghilterra sar incaricata a richiamare le truppe
rivoltose e portarle nei loro paesi.
6." Le nazioni estere non possono ricevere emigrati.
7. Una forte squadra russa va in Sicilia per fare sgom
brare i Piemontesi e restituirla a S. M. Francesco II.
8." Riguardo agli affari di Napoli, rimarr Francesco II
e laddove soccomba si proceder come in
" combatterli,
icilia.
Cotesti avvisi, che all'occhio della plebe ignorante avevano
del diplomatico, trascinavano la plebe stessa alla reazione,
Senza sapere che cosa si facesse.
187
La reazione assolutista dell'Abruzzo ulteriore secondo, dopo
essere stata domata nei distretti situati al nord del lago Fu
cino, e che confinano verso il Gransasso d'Italia con le cime
di Monte Reale, Monte di faro Trojano, Monte Intermesole,
Monte Corvo, Monte Tinadano, Montebello, La Scalata, Monte
Pica e Schiena d'Asino, si ridestava con maggior vigore nei
distretti posti al sud dello stesso lago. Spinta dalle colonne
di Pinelli al di qua di Avezzano in valle Roveto, diede il sacco
a Civitella dello stesso nome. Queste nefandezze, rimaste im
punite, eccitarono la cupidigia de villani semibarbari che abi
tano la vallata a sinistra del Siri. Civitadandino, Massa
S. Vincenzo, S. Giovanni, e Balsorano insursero e misero
in armi quasi ottocento villani, che per isfuggire l'incontro
delle truppe nazionali, si portarono nella bassa valle del Liri,
sul confine settentrionale della provincia di Terra di Lavoro.
L'agglomerazione di questa gente, a pochi chilometri da
Sora, fece scoppiare il movimento assolutista lungo il tratto
di confine pontificio, che costeggia la sponda destra dell'alto
Garigliano. Un gruppo di paeselli (a meno di Arpino ) che
trovansi sulla strada montuosa che da Sora discende a Ponte
corvo, gittarono abbasso la bandiera tricolore, ed inalberarono
i gigli di casa Borbone. In poco d'ora tutti i villaggi di con
fine, e che si trovano in comunicazione coi papalini, suo
narono a stormo, e mandarono i pi sanguinari a prendere
armi e ricevere direzione, per cominciare la loro campagna da
saccheggiatori.
Arpino ed Isola furono salvi, perch i capi delle bande,
riuniti in valle Roveto, chiamarono a s questo contingente
di Terra di Lavoro, per marciare riuniti all'assalto di Sora.
Alfine in numero di 2000 e pi, armati e condotti dagli emi
grati borbonici che penetrarono nel territorio per la via che
da Veroli conduce a Sora, si presentarono per la terza volta
alla porta della citt. Dopo ostinato combattimento sostenuto
dalla guardia nazionale, sforzarono il passo, e se ne imposses
sarono compiutamente.
Gente feroce e ladra, capitanata da fanatici sostenitori del
dispotismo monarchico-religioso, si abbandon ai pi schifosi
e ributtanti disordini, pure gridando evviva alla Vergine im
macolata, al Papa, a Francesco II. Nella loro bestiale igno
ranza, credevano dovere di coscienza ammazzare tutti i ga
lantuomini ( i liberali) e bruciare le loro case. Il clero si av
488
vantaggiava di tanta ignoranza e stupidit, e trovava terreno
bene apparecchiato alla reazione.
Anco in Napoli i disordini continuavano sotto gli occhi della
polizia, la quale pareva poco si curasse di quanto accadeva.
Il colonnello Dunn, che erasi cos gloriosamente condotto alla
presa di Milazzo ed alla battaglia del Volturno, trovavasi al
l'angolo diritto della strada Pizzofalcone, verso le sette della
sera, quando intese due persone parlar sommessamente dietro
di lui. Ei non vi fece caso, e prosegu la sua via; ma ad un
tratto intese un colpo di pistola, e si senti colpito al lato di
ritto della regione lombare. Comunque gravemente ferito,
continu a camminare fino alla casa di certo Capecelatro, che
fece chiamare, e sali sostenuto da lui e da un amico fino al
suo appartamento. Ivi si pose a letto e si mand a chiamare
il medico. Nel primo momento la ferita fu creduta pi grave
di quanto realmente era. Non avendo riconosciuto l'assassino,
il colonnello non pot dare precise notizie alla polizia.
Ferimenti ed uccisioni avvenivano di giorno e di notte, n
si sapea trovar modo di ripararvi. Tutti cotesti mali furono
prima creduti opera di soli assassini o ladri, ma pi tardi
il governo dovette convincersi che era la reazione che lavorava,
e che per tali vie giungeva a tenere in sospeso gli animi, il paese
inquieto, il nuovo governo in mezzo a gravissime difficolt.
In tempi cotanto eccezionali, anco piccole e basse passioni
suscitavano disordini grandissimi, e mettevano in rischio la
publica quiete. Una briga avveniva in Cosenza tra i carabinieri
ed i Zuavi Calabresi; ne era stato motivo l'omicidio di una
donna commesso da un carabiniere, il quale per tal fatto ve
niva arrestato dai Zuavi. Recatosi il capitano al quartiere di
questi ultimi per ottenere la consegna del suo dipendente, s'im
batt per istrada con alquanti di tali militi volontari, i quali
proruppero in parole offensive. Allora il capitano volendo ri
condurli al dovere, essi insolentirono viemaggiormente, e
sguainarono le sciabole per aggredirlo; ma il capitano, quan
tunque solo, si difese energicamente, disarm due dei Zuavi, che
erano officiali, un terzo ne fer e cos riusc a mettersi in salvo.
Ma quel fatto fu il segnale di maggiori disordini. Zuavi e
carabinieri corrono ad armarsi, e come incontransi per via si
aggrediscono l'un l'altro, quindi scambio di fucilate, quindi
qualche morto ed alquanti feriti. A tutto questo si aggiunga
il terrore degli abitanti, lo scompiglio della citt, un fuggire,
A89
un chiudersi, un gridare si salvi chi pu. La guardia nazionale
accorse, e fu dopo molto tempo e dopo molte fatiche che gli
venne dato rimetter l'ordine e la tranquillit.
In Chieti il d 30 novembre, verso le 5 pomeridiane, av.
veniva un tumulto a motivo del caro dei viveri, e specialmente
della carne, messa in vendita ad un prezzo esorbitante, e a
quel paese straordinario, Si notava da alcuni giorni nel paese
un grande malcontento, e bast un piccolo incidente perch
prorompesse in aperta dimostrazione.
Un artigiano, avendo comperata una libra di carne, reca
vasi nell'officina del primo Eletto, e lamentando che il beccaio
gli avesse dato maggior copia di osso che di polpa, domandava
che gli venisse fatta giustizia. Gli fu risposto che, a torto si
querelava, laonde se ne fosse andato pei fatti suoi. A questa
parola l'artigiano, che era ubbriaco, usc fuori minaccioso,
corse a casa, tolse il fucile, e ritorn nuovamente in quel
l'officina, dove, reso forte dalla presenza di un gran numero
di passeggieri col soffermati, obblig ad uscire gli agenti del
l'annona che ivi erano, e fermatone l'uscio, intascava la chiave
ed avviavasi verso la casa municipale seguito da una moltitu
dine che sempre pi ingrossava, gridando: abbasso il mal go
verno, abbasso la ventresca a grana venticinque il rotolo. Giunti
alla piazza, accorse tostamente un drappello di guardia nazio
naie, che intim loro di dissiparsi, e procedette all'arresto
dell'artigiano, armato ancora di fucile. Ma la folla incalzando,
ridimand con alte grida l'arrestato, e faceva sembiante di es
sere cos tenace nel suo proposito, che la guardia nazionale
stim prudente rilasciarlo; tanto pi che due uffiziali della
medesima si tolsero l'impegno di prenderlo come in consegna.
Blandita per siffatto modo la moltitudine, in poco d'ora ognuno
si ridusse alle proprie faccende, e la citt fu pienamente ras
sicurata.
La sera stessa leggevasi in su le cantonate delle vie un
avviso della municipalit, che rimetteva i prezzi della carne
alla giusta ragione, ed il seguente manifesto:
Il governatore della provincia di Chieti.
Informato dell'ammutinamento avvenuto quest' oggi in
citt per mezzo di molta gente attruppata che lamentava il
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II
62
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caro del vivere, e minacciava d'irrompere in moti disordinati,
avverte il pubblico che libero a tutti il diritto di petizione,
ma con modi onesti e nelle vie regolari: per lo che se si
rinnoveranno in qualunque modo il subuglio e la perturba
zione, si vedr nella dura necessit di dichiarare il paese in
istato d'assedio con tutte le conseguenze che ne derivano,
ai termini della legge.
-
A prevenire intanto ogni disordine, e provvedere al mi
glioramento della comunale amministrazione va a riunirsi per
domani mattina il decurionato, perch proponga la nomina
del novello sindaco in luogo dell'attuale, che ha rinunziato,
ed a quella di un nuovo Eletto per sopperire alle pubbliche
esigenze, stante la lontananza del signor Porta.
Prima cura dei novelli funzionari sar quella che le
assise e la grascia sieno regolate secondo l'antico solito, sop
pressa ogni novit, e salvi quei miglioramenti che per legge
sono consentiti.
Dato in Chieti, dal palazzo del Governo, questa sera
30 novembre 1860.
Pel Governatore
Il segr. gen. V. DE INNOCENTIIs .
Abbiam voluto riportare il precedente fatto e questo do
cumento per mostrare che quanto pi cresceva nel popolo
l'audacia e l'abuso, tanto pi nei governanti si accresceva la
debolezza. In giorni di rivoluzione, nei tempi di transizioni
politiche nulla tanto necessario quanto la fortezza in chi
governa, e se il popolo poco a poco riconosce la propria forza
e giunge una sola volta a farla trionfare, esso si sfrena e ren
desi superiore a qualsiasi autorit. Ci diciamo dei popoli
poco civilizzati o semibarbari come quelli di alcune provincie
napolitane, conoscendo per altro esservi popoli civili che ri
conoscono la propria forza ed i propri diritti, e che pure
hanno il buon senso di sagrificar tutto e sottomettersi alle
autorit per non nuocere alla causa del proprio paese.
Le gravi sventure accadute nel napolitano per opera della
reazione accaddero in gran parte per la debolezza di chi
governava.
Alla propaganda borbonica, si aggiungeva la carestia; piaga
terribile in giorni di rivoluzioni e di guerra, perciocch la gente,
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spingesi facilmente a mal fare quando le leggi non hanno molto
vigore e quando si pu pescare nel torbido.
Nella provincia di Catanzaro la guardia nazionale non era
ancora organizzata, e mancava di armi; il governo in questo
procedeva tanto lentamente che pareva a tutto pensasse fuor
ch all' organizzazione, della guardia cittadina; eppure in
quei momenti era necessariissima. La mancanza di lavoro si
avvertiva tanto, che la gente onesta moriva di fame, e la faci
norosa alzava la testa e minacciava gravi disordini; il pericolo
del brigantaggio era reale. La mancanza dei viveri era tale,
che il 14 dicembre in un piccolo paese pi di sessanta indi
vidui si presentarono al sindaco dicendogli che andavano a
saccheggiare il magazzino di un proprietario che aveva ri
putazione di monopolista. Il sindaco, non avendo forza, non pot
impedire tanto disordine, e quei sessanta procedettero al
saccheggio. Di simili delitti spesso accadevano; quasi tutti
restavano impuniti; quindi veniva meno la forza morale del
governo, ed il popolo inculto e selvaggio si avvezzava a mal
fare.
Spinti dalla disperazione e dallo spirito di saccheggio, i bri
ganti intanto seguivano a molestare le citt degli Abbruzzi, spe
cialmente le vicinanze di Teramo. La truppa italiana, in numero
di 1400, ed il battaglione Sannita stavano al blocco di Civitella
del Tronto, gi assediata regolarmente. Il generale Pinelli vi
arrivava, proveniente dalla provincia d'Aquila, recando seco
un battaglione di bersaglieri ed altri militari, artiglieri e zap
patori e minatori, e varie compagnie del 39. di linea. Con
questa forza partiva da Teramo la mattina del 7 dicembre per
Civitella del Tronto, facendo nel medesimo tempo muovere
da Giulia altra colonna composta dal 40. di linea e da altri
militari o di scorta o di servizio dei cannoni e mortai col
pure diretti, nel numero di undici pezzi. Il giorno 8, Pinelli
apriva trattative di resa. Egli ed un suo ufficiale dello stato
maggiore recavansi al forte e parlamentarono col comandante
di esso. Le intime di resa, o non vennero accolte, o si re
sero impossibili per condizioni esagerate circa la guarnigione
e i ladri tutti in quel forte ricoverati. Dopo ci le operazioni
di assedio furono intraprese, ed i pezzi vennero piazzati in
tre posizioni non poco favorevoli.
La guarnigione sarebbesi forse resa; gli artiglieri special
mente desideravano cessare da quella vita di privazioni, che
h92
d'altronde non poteva in modo alcuno giovare alla causa
borbonica; ma tutto il comando del forte era concentrato
nelle mani di un giovine capitano di gendarmeria, che fanatico
d'un'impresa impossibile, seppe rendersi forte dell'appoggio
di duecento gendarmi che lo secondavano nelle sue presun
zioni e nelle sue pazze speranze.
La truppa adunque era tutta occupata. Pinelli per mettevasi
al comando delle guardie mobilizzate e nazionali, e con esse
attacc i briganti nelle vicinanze di Teramo. Quasi 400 erano
i reazionari; la lotta fu accanita e lunga; dei briganti 21 cad
dero feriti e 2 morti.
In Penna, nei primi giorni del dicembre avvenivano disor
dini; il popolaccio tent impedire l'asportazione dei grani
dalla citt. Il sottogovernatore vigorosamente attaccato alla
legge dispose che libere fossero le contrattazioni e libera l'e
strazione dei cereali, facoltando la guardia nazionale ad ap
poggiare colla forza le sue disposizioni ed a difendere la legge.
Ma salutare effetto non si vide, perch gli autori del tumulto,
quasi tutti contadini si adunarono, fecero impeto e ruppero la
porta d'ingresso del locale addetto al governo del distretto,
e penetrando nell'ufficio di polizia, ne incendiarono le carte
e gli armadi. Il sottogovernatore corse grave pericolo, fu spo
gliato, cacciato dalla citt e abbandonato solo in una deserta
campagna. La notte seguente si consumarono vari saccheggi
in diverse famiglie. Il sindaco, Antonio de Cesaris, di concerto
col funzionante da maggiore, spieg tutta la forza morale;
dichiar la citt in istato d'assedio e rimise l'ordine. Furono
eseguiti quasi 40 arresti.
La sera del 25 dicembre un certo Felice David, unito a due
soldati borbonici sbandati, Luigi Pisapia e Bartolomeo Vio
lante tentarono destare la reazione nel villaggio di Prigiuto,
poco distante da Napoli, inalberando la bandiera bianca con
le grida di viva il re Francesco II. Accorse immantinente la
Guardia nazionale di Cana, e con attivit e zelo, giunse ad ar
restare trenta reazionari. Un ufficiale della guardia nazionale
prendeva a schiaffi uno degli autori reazionari; l'ordine pub
blico venne tosto ristabilito.
La notte del 29, a Chiaia ed a Santa Lucia accadevano di
mostrazioni in senso borbonico.
Il primo giorno del 1861, il duca di S. Donato recavasi
verso le otto al teatro francese a piedi con due delle sue
493
sorelle. Egli era seguito senza accorgersene da due persone
avviluppate in vasto mantello. Quando il duca fu vicino al
teatro di san Carlo, affidava una delle sorelle a suo fratello
che gli camminava accanto. In quel momento uno dei due
sconosciuti gli tir un colpo di stile. Il colpevole fuggi col suo
complice e si diresse dalla parte del Vico Rotto san Carlo, ove
fu quasi rovesciato da un carabiniere piemontese. Per riusc
a salvarsi e lasci cadere il mantello.
Questo assassinio ed altri innumerevoli che in quei di ac
cadevano non erano estranei alla reazione; si voleva mettere
il disordine e lo scoramento generale, e gli assassinii molto
influiscono sullo stato morale e politico di una popolazione.
La reazione prendeva piede di giorno in giorno; in Napoli si
cospirava, ed eran cospiratori i generali borbonici che pas
seggiavano per la citt. Il governo giungeva a discoprire qual
che indizio della congiura e passava ad arrestare gli imputati.
Nei primi del gennaio 1861, venivano arrestati come cospira
tori i generali Polizzi, Palmeri, Barbalunga, ed il maggiore
De Liguori; ma cotesti arresti non riuscivano a nulla, per
ciocch gli arrestati nulla confessavano, ed il governo non
aveva tale polizia da poter discoprire in tutte le sue attinenze
la cospirazione borbonica. Infelice condizione era questa; in
quei tempi nulla era tanto necessario quanto una vigile po
lizia ed era appunto questa che il governo non aveva, n pen
sava organizzare.
I soldati borbonici sbandatisi nel territorio del papa rien
travano a poco a poco nelle provincie napoletane, e con la
missione di suscitarvi e sostenervi la reazione. Alcuni di que
sti erano rientrati in Palena lor patria, e non volendo se
guire il servizio militare sotto il nuovo governo, e pensando
che i signori del paese dovessero costringerli a questo, misero
in sollevazione il paese, sfasciando prima le porte delle carceri,
per farne uscire un loro compagno carcerato sin dalla sera
precedente; disarmarono il corpo di guardia, rovesciarono e
ruppero lo stemma di Savoia. Passate tre ore in tumulto ed
in baldoria si apparecchiavano, con le grida di viva France
sco II, ad assaltare i palazzi per uccidere e rubare, quando
le guardie nazionali del luogo accorsero, li sciolsero e sba
ragliarono. Dei reazionari due rimasero morti, una ventina
feriti e gli altri, quasi centocinquanta, presi e carcerati.
Due garibaldini capitavano nel rione di san Martino a Bo
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vino, in un'imboscata di tre dei pi sanguinari sanfedisti,
associati ad un abbruzzese ed armati di tutto punto. Uno di
questi tir un colpo di pistola ad uno dei garibaldini, ma
la palla gli sfior la guancia. Si chiam all'armi; corsero gli
altri pochi garibaldini, e le guardie nazionali, e tosto s'im
pegn una viva fucilata, che dur circa un'ora. I reazionari
fuggirono alla sottoposta campagna, donde insieme ad altri
compagni, col appostati, continuarono a far fuoco contro le
mura della citt; ma ai garibaldini venne fatto di catturare
l'abbruzzese, e da lui si seppe, che scopo della congiura si
era di assaltare il corpo della guardia nazionale, aprire le pri
gioni distrettuali e fare la reazione al viva Francesco II; le
fila di questa cospirazione estendevansi fino a Lucera, in cui
si dovevano pure aprire le carceri ed armare i malfattori.
Altra numerosa banda di briganti infestava i territori di
Asquata e di Acquasanta, e teneva in trepidazione i vicini co
muni di Amatrice e di Accumuli.
Un conflitto
avvenne tra
questi assassini e i finanzieri piemontesi; i reazionari dovet
tcro fuggire.
Giuliano fu anch'esso insanguinato da fatti atroci. Tollo,
dopo aver coraggiosamente con poche guardie nazionali e po
chissima truppa respinti i sanfedisti che ascendevano a 300,
credeva essersene liberato per sempre; ma i briganti infor
mati un giorno dopo, del vero stato del paese, lo misero
a sacco e fuoco. Il ricevitore del registro e bollo, certo De
Liberi, salv a stento la vita con la sua famiglia.
La sera del 3 gennaio, verso le ore otto, una banda di
circa 30 persone armate, assaliva le guardie nazionali che in
contrava in Portici, sparando su di esse e ferendone due. Il
popolo ed altre guardie dispersero gli aggressori, arrestan
done 17. Tra gli arrestati si trovarono undici donne con abito
alla garibaldina nascosto da altra sopravveste ed armati di
stili e pistole.
Quella sera stessa, furono in Napoli arrestate dalla guardia
nazionale, dentro un palazzo presso san Pasquale in Chiaia
23 persone, tra le quali 12 donne anch'esse vestite alla ga
ribaldina ed armate di pistole e pugnali.
Ci che pi importa conoscere la mala politica del governo
sul fatto della reazione. I governanti non comprendevano che
la crassa ignoranza del popolo napoletano non gli permetteva
di sposare alle dimostrazioni ostili un'idea politica qualunque
A95
e che quanto esso faceva era opera di capi intelligenti ed at
tivi, che usufruttavano l'ignoranza e la scostumatezza della
plebe. E quando dovevano tener lontani cotesti capi, invece li
richiamavano. Farini aveva richiamato l'arcivescovo di Napoli,
questi ritorn alla sua sede, il popolo se ne indegn e fece
dimostrazioni contro il vescovo, e Riario Sforza non ebbe
difficolt alcuna di scrivere al luogotenente di Vittorio Ema
nuele la lettera che segue:
Eccellenza!
Il desiderio di adempiere ai miei doveri con tutta quella
preveggenza che mi viene comandata dalle circostanze, mi
obbliga a richiamare l'attenzione di Vostra Eccellenza su alcuni
fatti relativi al libero esercizio del mio sacro ministero.
Ella sa come dal secondo giorno del mio arrivo in Napoli,
parecchi malintenzionati cercarono di eccitare un certo nu
mero di persone a fare del tumulto innanzi al palazzo arcive
scovile, onde mostrare la loro disapprovazione per l'invito
che mi venne fatto dal governo di rientrare nella mia diocesi
ed opporsi alla manifestazione della gioia spontanea a cui si
diede in braccio il popolo, rivedendo il suo arcivescovo. Vostra
Eccellenza sa inoltre che la vigilia di Natale, traendo partito
da ci che la cerimonia religiosa non ebbe luogo di notte nella
cattedrale, avvennero nuovi tumulti durante i quali si scaglia
rono pietre e si tir qualche colpo di fucile sul palazzo di mia
residenza, producendo, con generale maraviglia, una seria
pubblica perturbazione tanto in questa seconda, come eziandio
nella prima occasione.
Ora, siccome in questi due avvenimenti i capi degli agitatori
procurarono di giustificare la loro audacia, mettendo innanzi,
coi mezzi i pi violenti, pretese alle quali volevano obbligare
il mio consenso ed eccitando assembramenti da essi guidati
per costringermi a subire la loro volont, non posso astenermi
dal considerare questi atti come altrettanti attentati alla li
bert, alla indipendenza di cui un pastore della Chiesa. deve
godere nell'esercizio del proprio ministero nei rapporti col
governo dello dello Stato e nel regolamento delle sante fun
zioni della Chiesa. Non v'ha esempio che l'arcivescovo di
Napoli sia stato cos violentato, e l'autorit governativa, che
496
in diretta relazione coll'arcivescovo non deve permettere che
si venga colla forza a trattare gl'interessi della Chiesa e far
violenza al suo capo in un modo tumultuoso e senza dar
luogo alla possibilit di fare un qualunque ragionamento.
In occasione del mio ritorno Vostra Eccellenza si compiacque
di assicurarmi che nulla sarebbesi tralasciato, per parte del
governo, ond'io nell'esercizio del mio ministero abbia piena
ed intera libert ed indipendenza d'azione. Quest'assicura
zione non si concilia con le violenze che escludono ogni mezzo
regolare e pongono l'arcivescovo in una posizione servile e
forzata, nella quale potrebbe compromettere i pi delicati in
teressi del suo officio pastorale. Cos io confido che Vostra
Eccellenza, considerando che io non tralascio di adoperare tutte
le mie cure per allontanare, quanto mi possibile, ogni mo
tivo di torbido e di inquietudini per il governo, vorr fare
in modo che il governo stesso impedisca gli atti violenti della
molitudine, e vorr manifestarci direttamente i suoi desideri
nelle circostanze che in avvenire possono presentarsi. Nulla
meno siccome la mia persona potrebbe essere ancora l'oggetto
di tumultuose violenze, sia nel palazzo dell'arcivescovado, sia
altrove, cos voglio declinare la mia responsabilit in tutto
quello che dovesse accadere. Mi affretto quindi di dichiarare
a V. E. ed in ogni caso al governo ed all'intero paese, che
protesto contro ogni parola, atto di consenso od assenso che
potesse essermi strappato da tumultuosi assembramenti, come
quelli che ebbero luogo. Voglio che, quali esser possano le
cose che potessi promettere e far sperare in simili congiuu
ture, sieno considerate sempre come nulle e senza valore.
Tutto ci che allora sar in istato di concedere, dovr essere
pi tardi da me ratificato in istato tranquillo di spirito, perch
abbia un valore qualunque, e faccio questa protesta in vista
specialmente del linguaggio dei giornali che parlano senza mi
sura e verit di cose della mia diocesi, come se si facessero
un dovere di eccitare gli spiriti contro l'ordine pubblico e
la pace della Chiesa.
Ricevete frattanto le assicurazioni della distinta conside
razione colla quale mi dico
-
29 dicembre 1860.
RIARIo, arcivescovo di Napoli
497
Cotesto linguaggio dimostra evidentemente qual fosse la via
politica che l'arcivescovo di Napoli intendeva tenere. Egli non
voleva in verun conto dividere le opinioni del popolo, pure
dal popolo intendeva essere rispettato, ed a tal fine invocava
l'aiuto ed il braccio del governo. Il luogotenente Farini adun
que con la sua falsa politica, richiamando Riario Sforza in
Napoli era riuscito a mettere in casa sua un capo reazionario
di cui doveva rispettare le opinioni retrive e a cui nell' or
dine delle cose religiose doveva lasciare libert di azione.
Insomma si incarceravano i figli del popolo, ignoranti, sedotti,
trascinati alla reazione, e si lasciavano in libert le braccia
del papa e di Francesco II, che congiuravano ed operavano
audacemente contro il nuovo ordine di cose.
Il brigantaggio era divenuto normale nel distretto di Lan
ciano. Ai disastri accaduti, e alle triste voci sparse per man
tenere il pubblico in continua inquietudine, si aggiungeva la
falsa notizia che il principe Luigi fosse entrato negli Abbruzzi,
alla testa dei reazionari e dei soldati sbandati. Dalle citt e
dai paesi non si poteva pi uscire; la banda di ladri esistente
in quei dintorni facevasi di giorno in giorno pi numerosa e
pi ardita e commetteva stragi inaudite ed eccessi da disgra
darne quelli che la storia narra dell' epoca dei Francesi. Un
proprietario fu spogliato in pieno giorno mentre recavasi alla
sua campagna; un capitano delia Guardia nazionale fu messo
in croce, perch liberale e nemico ai Borboni. A tali sciagure
il governo non poteva rimediare perciocch mancava di forze.
Cos i mali si moltiplicavano, e la reazione prendeva propor
zioni gigantesche
Il 3 gennaio, anche San Severino di Foggia lordavasi del
nome reazionario dopo essere stato esemplare per virt ita
liana. Una immensa turba di gente del popolo usciva alla
mattina dalle proprie case armata di baionette, stocchi, scuri,
stili e mazze. Eran quasi tre mila, e presentavasi nella piazza
gridando: pane, evviva Borbone. Si diressero al carcere, ne
sfasciarono le porte, ne fecero uscire i detenuti, minacciavano
di saccheggiare i palazzi. Fortuna volle che istantaneamente si
riunisse un buon numero di guardie nazionali, le quali sulle
prime tentarono di frenarli con le buone, ma fu vano e si do
vette ricorrere alle armi. Dopo un'ora di combattimento i
reazionari furono sbaragliati lasciando sul terreno morti e
feriti. Delle guardie nazionali moriva Domenico Sparavilla; il
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
65
M98
figlio di costui e alcuni altri riportavano gravi ferite. Appena
sedato il tumulto, la guardia nazionale dopo un giudizio sta
tario fucilava due capi della sommossa, e passava a fare nu
merosi arresti. Il procuratore generale della provincia, le guar
die nazionali di Apricena, Foggia e Torremaggiore accorsero
immediatamente. Fra gli arrestati si trovarono molti preti ed
i canonici Brancati, Saltrella e l'arciprete Fito.
Intanto il cav. Farini rispondeva ad una lettera dell'are
civescovo di Napoli, per la quale, egli ed altri vescovi lamen
tavansi degli eccessi della libera stampa.
Riproduciamo questa risposta, come una lezione di civilt
data dal luogotenente di Napoli agli amici del dispotismo.
Eminentissimo,
Ho avuto l'onore di ricevere la lettera che la Eminenza
Vostra, unitamente coll' eminentissimo cardinale arcivescovo
di Capua e agli altri vescovi della provincia ecclesiastica, ha
voluto indirizzarmi.
Questa lettera, nella quale alle religiose sollecitudini del
di lei. augusto ministero si unisce un cos illuminato atto di
ossequio alle istituzioni fondamentali dello Stato, doveva natu
ralmente destare tutta la mia attenzione. L'autorit civile e
l'autorit religiosa non ponno ignorare che per vie distinte e
con mezzi ad ognuno di esse particolari, intendono ambedue
ad effettuare i pi alti fini morali delle umane societ.
Io non provo certamente alcuna difficolt ad ammettere
coll' Eminenza Vostra che la stampa, in queste provincie me
ridionali dello Stato, si abbandoni sovente ad intemperanze
deplorabili, delle quali alcune saranno represse dalla legge ora
pubblicata, altre troveranno il loro rimedio nell' esercizio
stesso della libert. L'Eminenza Vostra mi permetter credere
che questa stampa eccessiva e intemperante altro non sia fuor
ch la manifestazione, a cos esprimermi, irrompente di quei
disordini morali che una mala signoria aveva accumulati nel
seno della societ. Poniamo anche che in queste nobili e sfor
tunate provincie, l'arte di governare non fosse stata scambiata,
come pur troppo fu, coll' arte di corrompere. Rimane pur
sempre essere naturale effetto dei governi abborrenti dalla li
bert, l'occultare il disordine invece di prevenirlo e curarlo.
499
E il male per essere forzatamente silenzioso non diventa meno
fiero, n meno distruttore. Poich l'esperienza la nostra
comune maestra, nello scorgere i timori che assalgono l'a
nimo dell'Eminenza Vostra e de' suoi venerabili colleghi in
torno agli effetti della libera stampa sull' ordine religioso e
morale, il mio pensiero correva alla esperienza ormai fatta
nelle antiche provincie dello Stato dove il sentimento reli
gioso, l'Eminenza Vostra voglia pur crederlo, non meno pro
fondo che qui, n meno scolpito nella coscienza del popolo.
Col pure, come altrove la ragione pubblica, aiutata dalla
stessa libert, seppe richiamare la stampa nella coscienza della
sua missione e de'suoi doveri. E il sentimento religioso trionfa
non solo dell'attacco degli avversari, ma anche, mi forza
dirlo, dell'improvvido patrocinio che una parte politica pretese
esercitare sovr esso.
La legge sulla stampa qu pubblicata la stessa, legge vi
gente nelle altre provincie, e considerata come una delle leggi
organiche dello Stato. L'Eminenza Vostra si fa a discutere
sino a qual punto questa legge possa dirsi in accordo dello
Statuto costituzionale largito dal magnanimo Re Carlo Alberto.
Io non saprei troppo seguitare l'Eminenza Vostra su questo
terreno, poich l'applicazione nelle leggi dei principii consa
crati nello Statuto si fa per l'azione concorde dei grandi po
teri, custodi dello Statuto stesso, e queste leggi sono obbli
gatorie per tutti i cittadini.
L'Eminenza Vostra e i suoi venerabili colleghi mi permet
tano di pregarli a non troppo diffidare della libert la quale
non pu mai riuscire nemica del vero o ad essa pericoloso.
Nessuna potest pu meglio giovarsene della Chiesa, la quale,
intendendo ad un alto ordine spirituale, ha sopratutto biso
gno di quei mezzi spirituali che la libert non contende, non
sorveglia, ma avvalora e diffonde nella loro efficacia. La Chiesa
non ha che a guadagnarvi in prestigio e in indipendenza.
Poich l'Eminenza Vostra non ignora certo che sull'intervento
che la Chiesa chiede allo Stato nelle cose spirituali si misura
poi l'intervento che lo Stato, a norma della responsabilit
che assume, chiamato ad esercitare nell'azione della pote
st ecclesiastica.
Per questo il governo non disconosce gi l'alta missione
della Chiesa nel rassodare quell'ordine morale, senza cui si
sfascia anche ogni ordine materiale.
500
L'Eminenza Vostra pu ben credere ch'io non penso ad
escludere il clero dall'opera dell'educazione, e, poich amo
ripetere le stesse parole dell' Eminenza Vostra, confido che il
clero napoletano si far un dovere e reputer sua gloria di
cooperare col governo perch la educazione religiosa faccia di
questo popolo un popolo civile e morale. Meno poi io penso
ad escludere il clero dall'opera della carit. Nel riordinare
l'esercizio della pubblica beneficenza, il governo intende ap
plicare quei provvedimenti che l'esperienza ha mostrati meglio
efficaci allo scopo. Il governo ha il dovere, con quei mezzi
che gli sono proprii, di promovere il benessere nelle classi
povere, di accrescere le occasioni del lavoro, che fonte di
dignit e di moralit; ma esso conosce pur anco che, mal
grado la scienza, malgrado il progresso, rimarranno pur sempre
sulla terra molte sciagure alle quali potr recare sollievo sol
tanto quel divino sentimento di piet e d'amore che ha nelle
pagini del Vangelo il suo codice immortale.
L'Eminenza Vostra vede quali sono i principii che serviran
no di norma alla mia amministrazione in queste provincie nei
suoi rapporti colla Chiesa. Posto a capo di una nazione cat
tolica, il governo del Re non ismentir mai il suo profondo
e sincero ossequio per la religione, ma sar in riguardo alla
potest ecclesiastica vigile custode dei diritti della potest ci
vile, e creder agire nell'interesse istesso della Chiesa non
permettendo che si confondano due ordini cos distinti, come
quello degl'interessi politici e quello della coscienza reli
giosa.
Se il governo del Re si trova in profondo dissenso col
sovrano temporale di Roma, non cessa per questo dal rispet
tare nel pontefice il capo dei fedeli. Questa distinzione non
solo il governo che la fa, tutta la nazione, e i fatti
lo provano. Anzi il governo pensa che questa ricostituzione
della patria, che cos meravigliosamente si compie sar pure
fausta alla causa della religione. Le passioni rese violente dalla
lunga negazione del nostro diritto si calmeranno dinanzi al
grande spettacolo della giustizia divina che si compie, e la co
scienza pubblica, non pi turbata, cesser dal sospettare nei
ministri della Chiesa una solidariet che ne compromette la
missione, e si trover meglio disposta ad accogliere le grandi
verit della morale e del dovere.
501
Accolgano l'Eminenza Vostra e i suoi venerabili col
leghi l'attestato del mio profondo rispetto.
Napoli, 20 dicembre 1860.
Devotissimo
FARINI.
Abbiam voluto riportare cotesti documenti in questo ca
pitolo perch pensiamo che gli eccessi della libera stampa
molto contribuissero a rendere favorevoli al clero le vie rea
zionarie. E diffatti, non v'ha in Italia popolo cotanto attaccato
alle cose di religione quanto il popolo napoletano; vero che
la sua religione non la religione vera, ma vero altres
che quel popolo fanatico delle sue credenze alle cose di re
ligione; dal momento che la libera stampa cominci ad eccedere
nelle polemiche religiose, i vescovi poterono dire al popolo
che il nuovo Governo era irreligioso, e che la libert politica
non aveva altro fine che quello di combattere contra Roma e
contra la Chiesa. In questo modo gl'Italiani stessi nuocevano
alla causa propria per non sapere usare quei modi che si
convengono con popoli niente affatto inciviliti, e teneri delle
loro religiose devozioni.
In Chieti, il primo gennaio veniva arrestato certo Diaz
comandante un distaccamento di Carabinieri venuti dalla fron
tiera romana. Egli era entrato per spingere una ricognizione -
in quei luoghi. Il disegno dell'insurrezione era in quei giorni
vasto, perciocch si tentava un'invasione nella Marsica. Tre
corpi di briganti erano gi organizzati per operare nello stesso
tempo sopra tre punti differenti; Chiavone sopra Sora; Giorgi
sopra Valle-Roveto, il terzo corpo doveva operare sopra
Carsoli.
Chiavone solo poteva disporre quasi di mille uomini ar
mati; gli antichi soldati dell'armata napoletana bastavano per
portare il corpo comandato da Lagrange a quattro o cinque
mila uomini. Aveva questo corpo cinque pezzi di artiglieria.
Il giorno nove Chieti era timorosa perch una grossa co
lonna di briganti erasi concentrata a Riello, a sette miglia di
distanza. Erano mille e duecento uomini che avevano saccheg
giato e bruciato due villaggi vicini. Da Chieti parti una co
lonna di Guardie nazionali e quattro compagnie di piemontesi
a sorprenderli. La lotta fu accanita; i briganti ebbero molti
502
morti, moltissimi feriti e molti arrestati, gli altri messi in fuga.
Della Guardia nazionale di Chieti otto furono feriti, due dei
quali morirono.
La reazione si macchinava in Roma, di l partivano i
soldati napoletani del disciolto esercito borbonico; ad essi si
univano gli antichi amici del governo di Napoli che dopo l'en
trata di Garibaldi furono costretti ad esulare. Ricoverati nel
convento di Triputti, in quello dei Francescani a Veroli, e nel
tanto rinomato di Casamora, erano liberi a cospirare. Protetti
da monaci mantenevano segrete relazioni con Roma e con Na
poli; monsignor Montieri era l'anima di questi conciliaboli; egli
animava i reazionari a continuare nelle loro imprese, lusingan
doli che presto sarebbe scoppiata in Napoli una rivoluzione
in senso borbonico. I Napoletani lasciavansi facilmente persua
dere dalle menzogne, e senza sapere quello che si facessero
spingevansi alla Campagna. Minacciata in tal guisa la parte
settentrionale del Napoletano, il generale de Sonnaz partiva
a quella volta col 3. reggimento granatieri e con una batteria
d'artiglieria.
Convien notare che le forze di che il governo disponeva
contra il brigantaggio non erano sufficienti, e che perci non si
riusciva che a stancare la truppa senza ottenere lo scopo. Il
10 gennaio, Pinelli spingevasi contra i reazionari fino ad un vil
laggio che era come il covo del brigantaggio. Il villaggio fu per
ordine di Pinelli saccheggiato; il maestro di scuola, il curato,
e due altre persone, i soli rimasti in paese, furono fucilati. Il
fuoco fu appiccato alle case, ma mentre i soldati innebriati dal
vino godevano il piacere della vendetta, i briganti accresciuti
di numero rientrarono nel villaggio arrecando alla truppa
gravi perdite, e la costrinsero a ritirarsi. La ritirata fu eseguita
con ordine perch sei cannoni tenevano in rispetto i nemici.
Pinelli sdegnato di questa sconfitta chiam nuove forze per or
ganizzarle in colonne mobili, e diede ai soldati ordine di incen
diare tutti indistintamente i ricoveri del brigantaggio, col fine
di ridurli a rendersi o a morire di fame nelle montagne o nei
boschi.
Per giustizia vuole che tutto venga rapportato cotesto
avvenimento, per mostrare gli errori, le disgrazie che lo pro
dussero.
Il brigantaggio, era ordinato abbastanza solidamente nel
l'Ascolano; esso faceva centro d'operazione nei monti che
505
sono fra Civitella del Tronto, Ascoli, Amandola, Arguata, ed
Acquasanta.
Il giorno 9 da Ascoli partiva una compagnia per Mozzano,
la quale doveva dare il cambio ad altra col distaccata. Mentre
l'una compagnia marciava per Mozzano l'altra veniva aggredita
dai briganti; il comandante di quest'ultima spediva espresso
al comandante delle truppe in Ascoli per chiedere rinforzo, il
quale distaccava altra compagnia col maggiore cavaliere Lodi
giani; questi doveva assumere il comando e la direzione di
tutte e tre le compagnie, e cos con questo rinforzo prendeva
egli la via dei monti, sia perch di l facevasi sentire il com
battimento, sia perch di l sarebbe riescito a dominare il
villaggio. Infatti, giunto verso le 4 112 sul poggio e villaggio
di Tronzano, si gettava su Mozzano, cacciando i briganti che
l'occupavano. Qui si seppe che la compagnia che presidiava
Mozzano erasi ritirata a Venarotta pei monti, e che l'altra che
doveva dare il cambio, giunta a Mozzano, quando la prima
erasi gi ritirata, aveva fatto ritorno ad Ascoli.
Mozzano (diviso in due parti, superiore ed inferiore) giace
a mezza costa e tutto circondato da alti monti, ed ha a suoi
piedi il Tronto, il quale scorre entro una valle angusta. Il
maggiore Lodigiani colla compagnia di rinforzo, occupava la
parte superiore soltanto, e si premuniva con avamposti sulle
vie di Ascoli, di Acquasanta e di Tronzano, e frattanto spe
diva ordine al comandante della compagni di praesidio a Vac
carotta, di portarsi ad occupare Tronzano, posizione dalla quale
egli poteva essere aggredito dai briganti non solo, ma altres
privato di ogni via di ritirata; nello stesso tempo mand ad
Ascoli ad informare della sua critica posizione il comandante
signor maggiore Finazzi. La notte era buia per folta nebbia.
Alle 10 1p2 furono uditi tre colpi di fucile verso il Tronto;
una pattuglia venne spedita da quella parte, e riport d'aver
trovato colpito al cuore, da palla da fucile, un soldato della
compagnia, il quale, uscito oltre gli avamposti solo, senza av
vertire alcuno, era rimasto vittima dei briganti.
L'indomani mattina un forte numero di briganti, scesi dai
monti di Rosara, vennero quasi sulla riva del Tronto per as
salire Mozzano, ma dopo due ore di inutile fucilata, di nuovo
si cacciarono nei monti; frattanto il maggiore non rice
veva n rinforzi n ordini, ed i briganti nella notte del 10
all'11 , attraversarono il Tronto, e l'indomani circondarono
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in numero imponente, la compagnia che tenevasi in Mozzano
superiore, occupando ogni punto ed ogni sbocco dei monti, e
nello stesso tempo altri tentavano guadare il fiume in faccia al
villaggio, e per tal modo circuire interamente la compagnia ora
detta. Dapprima il maggiore tent ordinare una difesa nelle
case estreme del villaggio verso Ascoli, ma vista questa via
minacciata dai briganti che stavano guadando il fiume si decise
ritirarsi su Ascoli, e per un tratto di pi di due miglia questa
compagnia fu bersagliata dai briganti, postati sulle alture
laterali alle strade e muniti di fucili a lungo tiro. In questo
difficile frangente la compagnia ebbe il capitano ferito e fatto
prigioniero, 9 morti, tra i quali un sottotenente, due sargenti,
tre feriti (ricondotti in Ascoli) e 18 prigionieri, compreso il ca
pitano, probabilmente perch rimaste ferito.
In conseguenza di s grave fatto, il generale Pinelli in per
sona, col tenente colonnello Pallavicini e tenente colonnello
Circana, rannodate sufficienti forze, il giorno 12, part da
Ascoli, formando la sua truppa in quattro piccole colonne
per avviluppare i briganti. Queste colonne erano comandate
una dal tenente colonnello Pallavicini, composta da due com
pagnie e 4 pezzi da montagna; una comandata dal maggiore
Finazzi, composta da 3 compagnie: una comandata dal tenente
colonnello Circana, composta di 6 compagnie e 2 pezzi da
montagna; e finalmente la quarta, comandata dal maggiore
Lodigiani, era composta di altre 3 compagnie: il generale te
nevasi con quella del tenente colonnello Pallavicini.
Le colonne Circana e Finazzi dovevano convenire verso
San Vito, la prima passando per Rosera, la seconda per
Tresino; le altre due dovevano convenire a Mozzano, quella
del tenente colonnello Pallavicini per la gran strada da
Ascoli al villaggio ora detto, l'altra per Gemigliano e Tron
zano. Occupato Mozzano, queste due colonne riunite dove
vano scendere ad Acquasanta, passando il Tronto presso Arli.
Ad Acquasanta eravi gi una compagnia di presidio. Questa
manovra aveva per iscopo di chiudere i briganti raccolti in
torno a Mozzano, tra Acquasanta, San Vito ed il Tronto, e
quindi avanzando da questi due villaggi le nostre truppe, le
une a rincontro delle altre, battere i briganti, nello stesso
tempo che si sarebbe impedito da tutte le parti la fuga. Chi
doveva dare il segnale d'attacco era la colonna Circana, tosto
giunta in Rosara; la quale, infatti, alle ore undici e mezzo,
505
con alcuni colpi di cannone avvertiva il generale Pinelli del
suo arrivo a destinazione. Questi fece tosto attaccare Mozzano
di fronte dalla colonna Pallavicini, mentre quella del maggiore
Lodigiani alla sua volta attaccava le alture di Tronzano. I bri
ganti che occupavano Mozzano in gran parte trovarono salvezza
nella fuga e molti rimanevano vittime. Quelli che occupavano
le alture di Tronzano venivano cacciati sul torrente Iluvione.
Mentre da questa parte del Tronto il combattimento si ani
mava, sulla destra tutto era silenzio, dopo i primi colpi di
cannone. Ci malgrado il generale Pinelli proseguiva la sua
marcia per portarsi a pernottare ad Acquasanta. Sino al di l
di Arli verso il ponte, non ebbe a scoprire pi il nimico, se
non che pochi fuggiaschi sulla vetta dei monti che di tanto in
tanto sparavano colpi molto mal diretti, e pochi altri rinchiusi
in una chiesa allo sbocco d' Arli, i quali si diedero pure alla
fuga dopo pochi colpi di cannone diretti contro della chiesa.
Ma ad un tiro di fucile da Arli dove la valle si richiude da roccie
briganti mostraronsi in numero e minacciosi; infatti
l'avanguardia colla quale era il tenente colonnello Pallavicini,
irte, i
veniva colta da viva fucilata: vennero fatti avanzare i pezzi, i
quali tirarono alcuni colpi a mitraglia ed a granata, ma stante
l'elevazione molto forte dei tiri riescivano senza effetto.
La giornata era avanzata (4 1 2 pomeridiane), il tempo met
tevasi alla pioggia, oscurando maggiormente l'orizzonte, e per
conseguenza il generale si risolveva di rinunziare ad inseguire
i briganti, ed invece spingevasi sollecitamente in Acquasanta,
per non lasciarsi sorpredere in quelle gole di notte e cos di
sponeva l'ordine di marcia siccome richiedeva la circostanza.
Ma non appena la testa della colonna giungeva alla pietra in
dicante i nove miglia da Ascoli, una tempesta di palle incroc
cicchiavasi sulla strada dalle alture laterali non solo ma anche
dai burroni fiancheggianti la strada,
L'ingolfarsi maggiormente per quella stretta, mentre il giorno
spegnevasi era somma imprudenza e per conseguenza decide
vasi di ripiegare su Mozzano. La ritirata si effettuava con or
dine e senza perdite gravi, malgrado il fuoco dei briganti, al
quale i nostri furono esposti per circa quattro miglia di strada.
La pioggia cadeva in gran copia. Mozzano offriva poca o nes
suna risorsa di ristoro, per cui veniva deciso di ripiegare ad
Ascoli, lasciando una compagnia in avamposti in Tronzano, ove
il generale contava di ritornarvi l'indomani.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
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506
La colonna Gircana, occupata Rosara ed i monti circonvi
cini, non pot progredire pei medesimi la sua marcia verso
Acquasanta, a causa delle cattive strade e particolarmente
per la copia grande di neve ivi caduta e per conseguenza il te
nente colonnello Gircana pens abbandonare i monti per se
guire la strada lungo il Tronto al fondo della valle, non incontr
ostacoli che verso Pedana, cio una casa sulla strada che era
occupata dai briganti, come pure le alture circostanti: tutto
questo per venne superato facilmente, ma giunta la colonna
a mezzo miglio circa del ponte d'Arli (verso le 3 1 2 pom.),
ove la strada s'incassava tra i monti a picco, essa veniva ar
restata: perch quella posizione, occupata fortemente dai bri
ganti era impossibile poterla attaccare di fronte, in conse
guenza il tenente colonnello suddetto ordin la ritirata per non
lasciarsi esso pure sorprendere dalla notte. Ci malgrado tro
vando la via gi percorsa battuta dai briganti, e la marcia fa
cendosi perci lenta, la notte sopraggiungeva quando ancora
trovavasi all'altezza di Mozzano. Il maggiore Finazzi colle sue
tre compagnie aveva raggiunto il tenente colonnello Gircana
alle 5 pomeridiane al ponte di Caraceppo. La colonna faceva
alto, si muni di avamposti ed accese i fuochi, sia per riposare
un poco, sia per asciugarsi e riscaldarsi stante che la neve
cadeva in gran copia. Alle 9 circa si rimise in marcia ed alle 10
entrava in Ascoli.
La reazione partiva da Roma, essa sperava favorire i di
segni di Francesco II, che stavasi ancora a Gaeta. La causa
del Papa e del Borbone era la stessa; trattavasi del principio
di legittimit; trattavasi di conquidere lo spirito della rivolu
zione; trattavasi finalmente di sostenere il diritto divino in
tutto e da per tutto. Il Pontefice a Romanon stava meglio di Fran
cesco II a Gaeta; vero che la santa citt non era cinta di
assedio n le bombe venivano a travagliarla, ma le congiure
e la propaganda politica vi avevano stanza e vi facevano con
tinui progressi, talch l'indifferentismo aveva penetrato nel
sentimento delle masse, ed il popolo, sempre pronto a pro
strarsi dinanzi allo splendore, mostravasi freddo in tutte quelle
circostanze nelle quali al Papa vengono fatte ovazioni ed ev
viva. Il partito gesuitico affaccendavasi per riscaldare il popolo
rattiepidito per significare a Pio IX che la popolazione gli rima
neva fedele non pure come a Papa ma eziandio come a Re
di Roma.
507
Nel mese di gennaio 1861 il Comitato sanfedista erasi messo
all'opera di promovere una di queste popolari dimostrazioni,
e l'occasione era bella ed acconcia il 18 gennaio giorno in cui
cade la festa della Cattedra di S. Pietro, ossia la istallazione
del papato in Roma. Il Papa suole in quel giorno fare il Pon
tificale a S. Pietro. I sanfedisti, per mezzo della posta, avevano
spedito migliaia d'inviti a tutti i loro conoscenti, ed anco
ad ignote famiglie.
Le autorit civili facevan chiudere tutte le scuole e tutti i
dicasteri, ingiungendo agli scolari ed agli impiegati di recarsi
a S. Pietro. A quest'opera prendevano parte attiva gli ufficiali
dei Zuavi franco-belgi e quelli degl' Irlandesi. Percorsero le
strade, distribuendo i biglietti d'invito ed esortando indistin
tamente tutti quelli che incontravano ad accorrere a S. Pietro
in Vaticano per dare una prova d'affetto al Pontefice.
Insieme ai biglietti d'invito veniva diffuso il seguente
proclama:
Romani!
La citt vostra, maestra gi di tutti gli errori, quale fu
mentre giaceva immersa nelle tenebre del gentilesimo, addivenne
poi discepola docile della verit allorch Pietro ebbe su di essa
fondata l'infallibile cattedra della cattolica unit. I padri vostri
eran superbi di un santo e nobile orgoglio nel possedere s gran
tesoro, e reputarono grande ventura il poter davvicino osse
quiare divotamente questa cattedra augusta ed accoglierne ob
bedienti gli oracoli. In questa collocarono la grandezza e la
gloria vera di Roma, che la sottrasse tante volte alle ruine dei
barbari e del tempo, alle quali soggiacer dovettero le altre
famose antiche citt delle quali ora si disputa perfino del
luogo.
Pertanto ricorrendo ai 18 di gennaio il solenne anniversario
della fondazione di questa cattedra reverenda, voi accorrete
in si fausto giorno alla tomba del glorioso principe degli apo
stoli, veneratene riconoscenti le sacre ceneri.
Quivi la vostra prece sia prece di pace. Pregate pace alla
Chiesa cattolica osteggiata, pace al Sommo Pontefice trava
gliato amaramente da tanti disgusti, pace a tutto il mondo cri
stiauo, pace infine ai fratelli che ciechi perseguitano i fra
telli.
508
Alla sera poi di quel lieto giorno sfoggiate all'esterno dei
vostri templi, de vostri palagi e delle vostre case in isplendide
luminarie, e cos il mondo vi riconoscer non degeneri degli
avi vostri
Ma tutti cotesti impegni riuscirono a nulla od a poco.
Poca gente trasse a S. Pietro; nella sera l'illuminazione non
ebbe successo; al di fuori del corso nessuna casa era illumi
nata; nel corso si videro lumi ai quartieri degl'impiegati ed
alle case di persone gi conosciute per la loro devozione ai
clericali. Ai conventi ed alle chiese i lumi erano meno che
gli affissi; il popolo non sentiva pi n entusiasmo n fervore.
Mentre questo operavasi per la citt non si tralasciava di
pensare alla reazione del Napoletano e di darle vaste propor
zioni. L'abate Ricci di Faenza partiva in quei giorni con quasi
800 arruolati daccordo con un certo Baldini alla volta di Ca
samora. Quell'orda alla spicciolata e a piccoli drappelli partiva
per Frosinone dove dal delegato veniva segretamente armata.
In questo modo la banda del De-Ruggiero e del Palmieri
riceveva nuovi rinforzi, e la Corte Pontificia tiravasi addosso
la giusta imputazione di mandare nel Napoletano bande di
assassini a saccheggiare e ad incendiare quelle povere pro
vincie.
I soldati napoletani rientrarono negli Abruzzi con armi
e munizioni; i Barbacani (volontari pontifici) vi erano egual
mente introdotti insieme a qualche gendarme; il movimento
era affidato a vecchi ufficiali realisti ed a qualche francese.
Ascoli, capoluogo d'intendenza era intanto infestata dai
briganti che si mostravano spesso fin sulle porte della citt;
tre soldati del 29. di linea che recavansi a Civitella del Tronto,
vennero assaliti improvvisamente, ed uno rimase ucciso, gli altri
due non si salvarono che con la fuga. Gli avvenimenti di Moz
zano portavano dolorose conseguenze; il generale Pinelli volle
tentare un colpo di mano e aprirsi il passo fino ad Acquasanta
dove da un mese stavano tagliate fuori e senza comunicazioni
due compagnie di linea, ma non riusc e dovette limitarsi a pren
dere di viva forza Mozzano; in quel tafferuglio rimase ucciso
il parroco Rossi, uomo eccellente. Un errore molto aveva costato
ai Francesi nel 1789 e ai Piemontesi nel principio del 1861 ;
quest'errore consisteva nel volersispingere avanti, seguendo un'u
nica strada, la strada Solaria; essa si spicca da Ascoli, e proprio
da Porta Romana, e si sviluppa fino al Acquasanta per dodici o tre
509
dici chilometri, rimontando il corso del Tronto in una valle
angusta, fonda, sinuosa, fiancheggiata da rupi e macigni altis
simi, altri tagliati a picco, altri coperti da alberi. Cos non si
poteva esser sicuri ai fianchi, ed i briganti che sapevano pro
fittare dei luoghi facevano molto male alla truppa.
Il popolo di Aquila mosso sempre dalle insinuazioni cle
ricali e borboniche gittavasi anch'esso sul campo della rea
zione. Il maggiore Caldellari con 100 bersaglieri del 9. bat
taglione vi accorreva a marcia forzata da Terni; i signori di
Aquila corsero loro incontro fino ad Antrodoco, e nelle proprie
carrozze li trasportavano in citt; sopraggiungeva il generale
Pinelli col resto del battaglione, il colonnello Quintini col 40.
reggimento, ed uno squadrone di cavalleria Nizza con quattro
pezzi d'artiglieria.
Queste forze si spinsero a Roccadimezzo, ed al loro ap
parire videsi fuggire il colonnello borbonico Lagrange, che si
avanzava con molta gente e con cannoni di montagna per
acquartierasi in citt.
Di l il Pinelli recavasi in seguito verso Pizzoli con poca
scorta, e vi era ricevuto a fucilate; dovette accorrere il 9.
bersaglieri il quale prese di assalto i villaggi di S. Vittorino,
S. Francesco, Pizzoli, Berette, tutti in piena reazione e posti
a tre o quattro miglia da Aquila.
Era un continuo eccidio a cui non sapremmo dare un
nome. Roma mandava assassini e vittime in provincie insan
guinate. Un certo De-Cheston ebbe affidata la parte attiva
delle spedizioni dei soldati borbonici negli Abruzzi, suo coo
peratore era il prete Ricci. Alcuni aristocratici di Roma par
-
teggiavano apertamente per la causa borbonica; fra questi no
tavasi il principe Sciarra che provedeva di cappotti e di al
tri oggetti di vestiario i soldati borbonici che si trovavano a
Velletri e a Terracina.
Quei soldati appartenevano alle truppe estere del Borbone.
Anche il Ministro delle armi romane prendeva cura di quei
soldati, gli armava e come al solito li spediva nelle provincie
napoletane. A Quarcino giungevano da Subiaco circa 400
reazionarii; passavano la notte nell'abbazia di Trisutti, l'in
domani partivano per S. Francesco dove trovavano provviste
e danaro; cinque carri con casse di fucili e di munizioni li
seguivano. Queste armi venivano da Frosinone ed erano quelle
stesse tolte col a duecento svizzeri borbonici e sequestrati
5 10
per ordine del generale Goyon. Il governo pontificio si serviva
di quegli stessi fucili per armare il brigantaggio degli Abruzzi.
Si
osservi che le velleit reazionarie non limitavansi alle
provincie napolitane, ma si voleva eziandio metter disordini
nell'Umbria. Il 26 gennaio, a sera innoltrata giungeva a Pe
rugia la notizia che i soldati pontificii, che si erano presentati
grossi da varii giorni verso Corese, avevano oltrepassato il
confine e fatto prigioniero il posto della Regia Finanza e l'im
piegato di quella stazione telegrafica. L'indomani la nuova di
vulgatasi per la citt vi produsse un'indignazione indescrivi
bile. Le autorit presero le opportune misure per spedire
truppe al confine. Alle guardie nazionali chiamate ai rispettivi
quartieri fu letto il seguente proclama:
Ufficiali e soldati della Guardia nazionale di Perugia !
Il nemico ha osato invadere il nostro territorio. Guardia na
zionale di Perugia, faccio affidanza col vostro volere, col vostro
amore alla patria, con la vostra devozione al Re. Tutta la giovent
animosa, che non sorda alle voci dell'onore si ponga imme
diatamente a disposizione del governo per portarsi ove il bisogno
lo esige. Questa nobile citt non sar inferiore a s stessa ed
alla sua fama, e dar, ne son certo, un nobile esempio a tutte
le citt della Provincia. Viva il Re.
L'intendente generale
GUALTERIO.
Di sopra parlammo di Civitella del Tronto gi assediata;
tempo che se ne parli di nuovo perch quel forte incoraggiava
colla sua resistenza la reazione nella parte settentrionale del
Napoletano. La forza che manteneva l'assedio era costituita
da 195 uomini della 2. e 5. compagnia del 39. fanteria,
200 uomini del 23. reggimento, 83 uomini del 24. 120 uo
mini del 1, 2 e 4 reggimento granatieri, 9. e 15. reg
gimento fanteria, e da un drappello di 16 bersaglieri. Queste
forze occupavano il semicerchio dal lato est di Civitella. Al
l'ovest stava una colonna di Garibaldini, comandata dal tenente
colonnello Curci. Della forza piemontese ebbe prima il comando
311 -
il maggiore Carozzi uffiziale di marina; a lui succedette il
Capitano Oberto del 39. quindi il maggiore Caldellari dei
bersaglieri. Questi tutti tenevano il quartier generale in Pon
zano. Il comando fu poi affidato al maggiore Belli che ferm
la sua residenza in Faraone. Finalmente comand il corpo as
sediante il colonnello Sircana del 27.
Questa forza fu sempre poca per mantenere strettamente
un'estesa e montuosa linea di assedio, ma fu sempre suffi
cente per coraggio ad impedire le sortite che gli assediati
tentavano. Pi volte si fecero delle pratiche per spingere il
forte a capitolazione ma sempre inutilmente.
La guarnigione della fortezza componevasi di 200 gendar
mi, 91 veterani, 38 artiglieri, 25 littorali, e 200 briganti, che
vi si erano rifugiati dopo di aver saccheggiati vari paesi. L'ar
mata di assedio ebbe a deplorare tre vittime che, ferite, fu
rono poi massacrate nel 21 dicembre quando gli assediati
fecero una sortita ed entrarono nel convento di S. Maria sa
pendo che col stavano solamente 27 bersaglieri.
Quando fu stabilito l'armistizio di Gaeta, anche a Civitella
del Tronto il fuoco cess, otto giorni passarono senza tirare
colpi n dall'una n dall'altra parte. In quella congiuntura
furono messi in libert da quelli della fortezza 13 disgraziati
cittadini, che presi nei paesi dalla reazione per tre mesi si
erano fatti languire in un'orrida prigione del forte. La plebe
ignorante degli Abruzzi vedeva nella resistenza di Civitella una
speranza pel Borbone, e perci facilmente lasciavasi trascinare
alla reazione.
Il clero di Napoli a poco a poco mettevasi nella via del
l'opposizione, e ricominciava a concepire speranza che il Bor
bone ritornasse; perci abusava dei confessionali e dei pul
piti per sollevare le moltitudini. Verso la met di gennaio
nella chiesa del Ges Nuovo, gi dei padri Gesuiti, predic
secondo il consueto un prete e senza alcuna riservetezza fece
la difesa e l'elogio di Francesco II. L'uditorio prima si am
mutin, e poi sdegnato corse ad assalire il pulpito. L'oratore
scese precipitosamente e fuggiva nel fondo della sagrestia; il
popolo gi minacciava di dare in eccessi, quando sopraggiun
geva certo Avitabile, capitano della Guardia nazionale, capo
di dipartimento della Questura, e che esercitava grande in
fluenza sul popolo. Egli sed il tumulto, invitando il predicatore
a seguirlo promettendogli di condurlo a casa. Ma non appena
512
usciti in piazza, un drappello di Guardie nazionali presentossi
con l'ordine del Questore di condurre il prete alla Questura,
il prete diede nelle furie, fu compilato un verbale del fatto
e venne inviato alla gran Corte Criminale nella Vicaria. lm
mantinenti giunsero da parte del Vicario generale Monsignor
Maresca ufficii di doglianza per l'arresto che egli diceva fatto
arbitrariamente in chiesa. Il questore rispose l'arresto aver
avuto luogo in piazza e non in chiesa, e sostenendo la legit
timit dell'eseguito ordine conchiuse che egli non si opponeva
che Monsignor Vicario se ne gravasse e al Papa e ai cardi
nali di Roma dei quali non aveva timore alcuno.
Tutti cotesti fatti anzich aiutare la causa dei legittimisti
non facevano che discreditarla in faccia a tutte le popolazioni,
e ci perch gli strumenti erano indegni, e perch le vie trac
ciate mancavano non solo di opportunit ma di moralit ancora.
I popoli italiani specialmente se ne indegnavano fortemente,
tanto pi che le operazioni della Corte Romana avevano della
temerit dinanzi all'umana ragione.
Parlammo di sopra dei fatti accaduti ai confini dell'Umbria,
ora diremo che profonda fu l'indegnazione degli Italiani
quando si seppe che quel tentativo aveva grandi proporzioni.
-
Quell'invasione diffatti premeditata, era coordinata con un piano
di reazione che doveva scoppiare giusto in quei giorni nei quali
due grandi fatti si compivano nell'Umbria cio l'esenzione
del decreto di soppressione dei conventi, e la prima elezione
dei Deputati al Parlamento.
Infatti mentre i mercenari pontifici passavano il Tevere,
una turba di briganti in numero di circa 150 si mostrava in
Acquata presso Norcia. Tosto una compagnia dei cacciatori
del Tevere che stava a Norcia si condusse in Acquata, l' at
tacc, ne uccise e feri molti, altri ne fece prigionieri, ed altri
pose in piena fuga. Nei giorni precedenti circa 70 se ne pre
sentarono a Norcia e furono tutti arrestati da quelle brave
Guardie nazionali e condotte a Spoleto. Altri pochi se ne mo
strarono a Bastia ugualmente arrestati dalle Guardie nazionali.
Dai processi risult chiaramente che avevano ordini in iscritto,
danari ed armi da Roma donde erano tutti partiti. Arruolatore
di costoro era un tal Cercarelli che prendeva gli ordini da un
Belga certo Lover, il quale poi era in istretta relazione con
Monsignor De Merode. Il provveditore di vesti e di danaro
erano Monsignor Nordi ed il Principe Sciarra. Ma i pontifici,
5i 5
vista l'attitudine delle popolazioni e delle Guardie nazionali,
non fecero un passo pi in l di Corese.
Mentre le cose erano in tal guisa disposte per parte della
Corte Romana, le popolazioni dell'Umbria le quali avevano
gi dato pi di 1,000 uomini all'esercito, formato il corpo di
Masi, mobilizzati due battaglioni di Guardie nazionali, crre
-
vano ad iscriversi per marciare contro i Pontificii. Gli studenti
si iscrissero in massa per marciare contra gl'invasori; il 1.
battaglione Umbro di ritorno da Torino si dispose anch'esso
a marciare contro i Pontificii. Questa dimostrazione imponente
mise in pensiero la politica della Corte Romana.
Diremo ora dei fatti reazionarii di Scurcola. Il giorno 22
gennaio, un'ora dopo il tramonto del sole, i Borbonici, in forte
massa tra regolari ed irregolari assalirono Scurcola, che era
presidiata da una compagnia; questa sostenne il fuoco per un'
ora e mezzo. Poco dopo mezza compagnia restava a battersi,
e l'altra mezza ripiegava su Capelle per mantenersi aperta la
ritirata verso Avezzano. Giungevano intanto in Scurcola, gi
randola dalla parte del monte, due compagnie, che presidiavano
Magliano accompagnate da tutta la Guardia nazionale di quel
paese.
Rinvigorita la battaglia, u tre volte battuta la carica. I ne
mici vennero scacciati dal monte e buttati sulla pianura dove
manovrava uno squadrone dei nostri lancieri. Ripieg sopra Scur
cola la mezza compagnia ritirata in Capelle, e quindi tutte
e tre le compagnie con l'aiuto della cavalleria fecero macello
dei masnadieri respingendoli verso Tagliacozzo. Sopraggiunse
un'altra compagnia da Avezzano, ma gi il fatto d'armi era
quasi finito. Cinquanta o sessanta ribelli erano chiusi nel
corpo di Guardia di Scurcola; i nostri sfasciaron la porta, li
presero tutti e li cacciarono in prigione, indi si diedero a per
seguitare gli avanzi di quella banda nei boschi e nei monti.
Sangue spargevasi dappertutto, e Francesco II, assediato in
Gaeta non disdegnava di accendere in modo pi spaventevole
la guerra civile per mezzo dei suoi proclami. Eccone uno di
retto particolarmente alle popolazioni degli Abruzzi.
Abruzzesi !
-
Allorch lo straniero minacciava di distruggere i fondamenti
della nostra patria, allorch egli nulla risparmiava per an
Stor della rivol. Sicil..Vol. II.
65
314
nientare la prosperit del nostro bel regno, e farci suoi schiavi,
voi mi avete dato prova della vostra fedelt. Grazie alla vo
stra severa e nobile attitudine, avete scoraggiato il nemico co
mune e rallentata la marcia rapida d'una rivoluzione che s'a
priva le vie colla calunnia, il tradimento e tutti i generi di
seduzioni. No, io non l'ho mai dimenticato!
Leali Abruzzesi, rivendicate ci che gi foste; che la fe
delt, l'amore del vostro suolo, l'avvenire dei vostri figli ar
mino di nuovo il vostro braccio. Noi non possiamo un solo
istante lasciarci prendere alle insidiose perfidie di un partito
che tutto ci vuole rapire. Noi non ci sottometteremo alla sua
volont, rivendichiamo piuttosto la libert delle nostre leggi, dei
nostri usi, della nostra religione.
-
I miei voti vi accompagnino sempre, e da per tutto. Il Cielo
benedir le vostre opere.
FRANCEsco .
Questo proclama una delle prove innegabili delle spe
ranze concepite da Francesco ll nei moti reazionari; altres
un documento certo della sua cooperazione alla guerra civile.
Ci ne porta a far poche riflessioni sull'andamento della po
litica dei principi quando sono vicini a perdere un trono che
essi dicono ricevuto da Dio, e da loro posseduto per diritto
divino. Nulla tanto terribile quanto una guerra civile; per
ciocch mostruoso vedere i figli della stessa terra, i cittadini
della stessa citt uccidersi l'un l'altro barbaramente, e tra
scendere ad opere tanto inique da far rabbrividire. Nelle guerre
civili sovente i figli dello stesso padre sposano interessi di
diversi partiti e per questa sola ragione si odiano e si am
mazzano scambievolmente quasi fossero di diversa specie, o
come se appartenessero a due distinte e nemiche nazioni. Nelle
guerre civili nessuna cosa rispettata, non vi ha leggi, non
morale, non diritti che governino i combattenti, tutto vien
messo sossoprain modo spaventevole; tutto profanato, tutto cal
pestato, religione, patria, leggi di natura, convenienze di ogni
specie. Se vi ha spettacolo che disonori l'umanit, e riveli il
trionfo dalle pi vili e feroci passioni sui dettami della ragione
e sulle esigenze della giustizia, questo spettacolo certamente
la guerra civile, la carneficina dei fratelli. Ora Francesco ll
515
non rifuggiva di accenderla questa guerra, anzi gi l'accendeva,
l'incoraggiava, la spingeva a tutti gli eccessi, e ci per ricu
perare il trono perduto. Roma anch'essa lodava questa poli
tica, e come sopra vedemmo, cooperava con tutte le sue forze
perch la guerra civile fosse sostenuta ed aiutata. Considerando
da altra parte che il Borbone ed il Papa perdevano i loro
troni per ragioni di dispotismo e di tirannide, ne segue che
secondo i propugnatori del diritto divino i popoli siano tenuti
ad ubbidir sempre e a star soggetti ai loro principi, qualunque
sia il loro modo di governare, ed il loro maltalento nel reg
gere la cosa pubblica. Ora non vi sar mai al mondo ragione
umana che si vorr persuadere di siffatte teorie, e tutti senti
ranno sempre avversione a principii cotanto strani e ad ogni
diritto contrarii.
Negli Abruzzi continuavano intanto i fatti d'armi, e le po
polazioni vivevano misera ed infelice vita, in mezzo alle cru
delt dei briganti e alle vendette della truppa italiana. Quando
le bande armate in Roma giunsero a Casamari, la truppa ita
liana corse a snidarli da quel luogo, e diede il convento alle
fiamme, ed arse la casa di un rinomato capo di briganti che
volle fare resistenza nei dintorni di Sora. Col ebbero avviso
che a Banco erasi riunita un'accozzaglia di settecento uomini;
subito i nostri cercarono di sorprenderli, circondando il paese
e battendolo con la poca artiglieria che avevano. Ma il nemico
fatto ardito dalla posizione che occupava, present una resi
stenza maggiore di quella che avrebbesi potuto aspettare, e
costrinse gli assalitori a correre all'assalto.
Bench la truppa si slanciasse tutta e volonterosa di finirla
con quella banda, mancando le scale e non essendo aperta
alcuna breccia, fu condannata ad aggirarsi per un'ora intorno
alle mura senza frutto alcuno, e sotto il fuoco ben nudrito dei
briganti ed una grandinata di sassi. Perch cessasse l'inutile
sagrificio dei bravi soldati fu suonato a raccolta, non senza
aver sofferte molte perdite, leggiere ove si consideri che pi
volte si spinsero sotto alle mura, dalle quali hascosti e tutelati
i nemici li offendevano senza poter essere offesi.
In tutto i nostri perdettero da 12 a 15 morti, e circa 30
feriti fra i quali quattro ufficiali. Appena per cessato il fuoco,
il nemico si arrese a patti i quali furono: si sciogliesse la
banda, si restituissero le armi al governo papale, tutti giuras
sero di non battersi pi contra la truppa italiana. Vani patti,
516
quella gente era sciolta dalla sua stessa vita sfrenata da qual
siasi principio di onore e da qualunque dovere a mantenerla
parola. Siamo per altro certi che i comandanti la truppa non
sarebbero discesi a queste condizioni con quelle masnade ladre,
se avessero avuta tanta forza da poterli vincere e schiacciare.
Uno dei gravi errori del governo italiano in quelle congiun
ture fu quello di voler reprimere la reazione ed il brigantaggio
con poche forze; ci era impossibile in un paese di grande
estensione come le provincie napoletane, e cos montuoso e
pieno di boschi. Il brigantaggio non represso in principio, si
fece ardito, e prese quelle proporzioni gigantesche che afflisse
per tanti mesi quelle provincie sventurate. I fatti accaduti fu
rono tali e tanti da meritare una storia a parte; storia che
rivelerebbe alle tarde generazioni, come nel bel mezzo del
secolo decimo nono vivesse ancora in Italia un popolo sel
vaggio e feroce, che consumava nefandezze inaudite, e che
sposava a tante sollevazioni il pi ributtante fanatismo reli
gioso. Quella storia apprenderebbe al mondo che i governi
assoluti hanno la forza di imbrutire le popolazioni e di gua
starle per modo da sembrare piuttosto congrega di belve
senza altra legge che quella dell'istinto e della fame. Fur vi
sti infatti in quell'epoca miserabile i briganti prendere i cit
tadini e trascinarli nei boschi imponendo su loro una taglia
di pi migliaia di ducati, quali non pagati o per avarizia o
per impotenza, quei cittadini venivano uccisi, e le loro teste
staccate dal busto venivano collocate sopra i tronchi degli
alberi ad orribile spettacolo dei passeggieri. Donne si videro
incoraggiare i loro rei mariti e i loro corrotti figli a quelle
opere disumane, ed esse stesse correre e prender parte a tali
assassinamenti, e poi gavazzare sopra i cadaveri delle vittime,
in mezzo alle rovine delle case incendiate, e cantare oscene
ed inique canzoni come inni delle loro vittorie. Ai cadaveri
delle vittime venivano da quelle megere tagliati taluni membri
del corpo, che poi legati ad una picca portavano in trionfo
per la citt, seguite da fanciulli, e da vecchi, da uomini e
da donne, che battevan le mani, urlando sempre evviva a
Pio IX ed a Francesco lI. Si attaccava cos per diletto il fuoco
alle case dei liberali, e si godeva di quello spettacolo di di
struzione come di cose festive volute dalla legge e dalla re
ligione. Le messi dei campi al tempo della loro maturit ve
nivano bruciate, e cos consumavasi in poche ore il frutto di
517
tanti sudori, e le speranze dei proprietari e dei coloni an
davano perdute. La miseria per tal modo cresceva, la tenta
zione a divenire brigante si faceva pi potente, ed il bisogno
di guadagnare per vivere trasse molti dai campi e dai lavori,
gittandoli alla reazione e all'assassinio. Sovente i briganti si
uccidevan miseramente fra loro, o per invidia di bottino, o
per gelosia di mestiere, o per avidit di guadagni, o per so
spetto di tradimenti. Nulla diremo di ci che facessero ai sol
dati piemontesi quando qualuno cadeva nelle loro mani; taluni
con le mani legate erano appesi agli alberi, e poi uccisi a
sassate, e coi modi pi crudeli e barbari. Uno di essi fu cro
cifisso, e tormentato in tutte le membra del corpo; altri erano
uccisi coi bastoni, e poi trascinati per le strade a ludibrio del
popolo, e, come i briganti dicevano ad insegnamento dei libe
rali.
Da parte loro le truppe facevan vendetta di atrocit tali, e
quando lo potevano, facevano sangue senza misericordia; in
teri villaggi furono incendiati, interi paesi ridotti in macerie
e rovine. Cosi i figli dalla stessa Italia per opera del dispo
tismo e per insinuazioni clericali si uccidevan l'un l'altro, in
sanguinando intere provincie, e dando alla storia moderna una
pagina terribile e fatale.
C A PIT 0 L 0 X XII
Un ultimo sguardo alla Sicilia Modificazio
ni nel Governo, EPresa della Cittadella di
Messina,
Riprendiamo la storia degli avvenimenti di Sicilia; essa
tanto pi importante quanto meglio ci rileva gli errori del
governo, e gli eccessi a cui lo spirito di parte in quei giorni
sfrenatamente spingevasi. La-Farina e Cordova erano caduti
dal seggio del potere; tutti si aspettavano che anche Montez
zemolo presentasse la sua dimissione; la Sicilia lo desiderava
perch questo luogotenente del Re non incontrava in mezzo a
quei popoli simpatia di sorta. La-Farina e Cardova dovevan
cadere perch la loro esaltazione al potere era un'onta fatta
a. Garibaldi, di cui i Siciliani erano tenerissimi. Quando il
conte di Cavour volle ad onta della pubblica opinione istal
lare questi due uomini nel governo dell'Isola, commetteva uno
di quei grossi errori nei quali spesse volte cadde e quasi
sempre trascinatovi dalla sua naturale ostinatezza e dal vezzo
che aveva preso di ridersi di tutti, e di non calcolar Inai la
voce della pubblica coscienza, Montezzemolo,era anch'egli un
cavouriano, e le sue idee non differivano da quelle di La Farina
e di Cordova; egli era quindi caduto con essi nell'antipatia
popolare, e non aveva ragione di durarla nella carica di luo
gotenente.
519
Inoltre, la Sicilia in quei momenti abbisognava di uomini
di energia, d'iniziativa, attivi, operosi, capaci di conoscere lo
stato del paese, capaci di attuare grandi cose e di far cos
sentire i primi benefici influssi del nuovo governo. La Sicilia
difettava di tutto, tutto voleva essere riordinato, messo in as
setto, tutto. Ora Montezzemolo non era da tanto; egli non aveva
energia, non mente vasta, non forte volont. Buono a governare
un paese quieto e tranquillo, non aveva doti sufficienti per
reggere i destini di una provincia che sorgeva dalla rivoluzione,
per mezzo della rivoluzione, e che lungamente calpestata,
vagheggiava grandi fortune, e cangiamento assoluto di cose in
ogni ramo di pubblica amministrazione.
-
Ma Montezzemolo non si dimise; egli finse di non accorgersi
della pubblica voce che lo invitava a scendere dalla luogotenenza,
e dando a vedere che tutta l'opposizione non era che di par
tito specialmente contra La Farina e Cordova, stette al suo
posto, e come in uno dei precedenti capitoli narrammo, chiam
il marchese di Torrearsa a costituire il nuovo consiglio di
luogotenenza.
Bisogna pur dire che gli ultimi fatti contra La-Farina e
Cordova avevano esaltato il popolo in tale modo da esser di
venuto minaccioso, e da far temere fatti di armi contra il
governo. La citt di Palermo era inquieta; inquiete erano le
minori citt di Sicilia; il malcontento era arrivato al colmo; dal
l'oggi al dimani serii fatti potevano accadere. A modificare
questo violento stato di cose, il 2 gennaio 1861, Montezzemolo
pubblicava e faceva affiggere alle mura della citt il seguente
proclama:
Cittadini e Guardia Nazionale di Palermo!
Voci minacciose per la pubblica tranquillit si spargono,
e turbano gli spiriti. In un paese che con solenne plebiscito,
acclam jeri Italia e Vittorio Emanuele, lo spirito di parte
non pu essere che effetto d'equivoco, non pu aver radice
negli animi, non pu dividere il popolo. Rappresentante del
Re Italiano, io ho diritto di dirvi: abbiate fiducia nel governo
del Re d'Italia, egli il tutore legittimo di tutti gli interessi;
non pu essere n campione, n avversario d'alcun partito.
Fra breve tempo il Parlamento del Regno, gi disciolto
-
520
in data del 28 dicembre, dar luogo al parlamento italiano,
alla grande rappresentanza della Nazione. L i voti, i pensieri,
le concessioni politiche troveranno formula legale e autorit
indeclinabile.
Fino a quel momento noi fedeli al simbolo d'Italia e
Vittorio Emanuele, che per le mani d'un eroe, caro a tutti
i cuori, redense questa isola gloriosa, restringetevi a mante
nere l'ordine, a scegliere i vostri rappresentanti, a preservare
il paese da quelle tempeste, che oltre di turbare il presente,
possono minacciare e rovinare l'avvenire.
Io invito tutti i cittadini e principalmente la benemerita
Guardia nazionale di questa citt che tanto ha operato per l'or
dine, per la libert e per la patria a mantenere la calma, ad
impedire i tumulti, a salvare le istituzioni acclamate dal voto
generale col plebiscito del 21 ottobre.
Palermo 2, del 1861.
Il
luogotenente
generale del Re
MONTEzzEMoLo .
I nuovi consiglieri di luogotenenza furono il marchese di
Torrearsa, per la presidenza e pubblica istruzione; cavaliere
Emerico Amari per l'interno; barone Turrisi Colonna, per la
pubblica sicurezza ; Filippo Orlando, sostituito procuratore
generale alla corte civile, per grazia e giustizia; principe
Sant'Elia, pei lavori pubblici. I nomi dei nuovi consiglieri fu
rono pubblicati il giorno 8 gennaio 1861, e quel giorno stesso
un altro proclama di Montezzemolo diceva:
In un momento d'ansia pubblica io chiesi alla popolazione
ed alla Guardia nazionale di Palermo d'aver fiducia nel go
verno del re, tutore di tutti i legittimi interessi, emanazione
di quella sovranit di cui il plebiscito del 21 ottobre 1860
costituisce la legale espressione. -
Come io fidava nel criterio e nell'intelligenza del popolo,
egli fid nella legalit del governo, e la pubblica quiete con
senti di comporre pensatamente un consiglio di luogotenenza,
nel quale il governo del re certo di trovare quel sussidio
di lumi, di opera, di autorit di cui temporaneamente lo pri
vava il ritiro dei cessati consiglieri.
21
Nel rendere testimonianza al sentimento della dignit ci
vile e della solidariet politica che produssero questo risul
tato, si annunzia che i cittadini chiamati a far parte del con
siglio di luogotenenza. Sono
MoNTEzzEMioLo .
Noi li abbiamo notati di sopra. Ora aggiungeremo: che il
principe S. Elia, travolto nella stessa opposizione di La-Farina
e di Cordova, avrebbe dovuto ritirarsi, e che fece brutta im -
pressione il vederlo perdurare al governo in quest'altra com
posizione governativa; pure l'opposizione per qualche giorno
cess, ed il popolo stette aspettando per vedere ci che i
nuovi consiglieri si sapessero fare. Molto si sperava special
mente da Torrearsa e da Turrisi, nomi simpatici alla Sicilia,
e furono questi nomi che protessero il governo da opposi
zione pi forte e pi dura.
Noi non sappiamo se in momenti di rivoluzione convenga
ad un popolo agitarsi per essere ben governato; sappiamo
per che i governi deboli, senza anima, senza iniziativa, as
sorbenti, e tendenti all'assolutismo, farebbero male se il po
polo con le sue dimostrazioni non li frenasse o non li spingesse
secondoch hanno bisogno di moto o di quiete. Il governo
sardo divenuto governo italiano fece il disegno di disfarsi
della rivoluzione, non essendo abile a governarla, ma cotesto
disegno non si pot compiere, perch la rivoluzione dell'Italia
meridionale faceva sforzi supremi per resistere all'azione go
vernativa, e non lasciarsi spodestare. Napoleone III ebbe gran
parte a questa politica del governo italiano; egli tremava della
rivoluzione e la voleva esautorata in casa anche degli altri,
Il governo italiano ligio in quelle circostanze al volere dell'Im
peratore si mise all'opera di snervar la rivoluzione, e vi sa.
rebbe riuscito se le provincie meridionali con le continue di
mostrazioni di malcontento, non lo avessero persuaso, che
quell'opera non era attuabile ancora e che per lo meno bi
sognavasi lasciare al popolo qualche dimostrazione delle sue
idee e dei suoi convincimenti. Quando il governo di La Fa
rina e di Cordova fu costretto a dimettersi in faccia al popolo
irritato, Montezzemolo comprese che la rivoluzione aveva ener
ia molta in Sicilia e che non conveniva sfidarla, perciocch
Stor. della rivol. Sicil Vol.
66
522
ne sarebbero venuti mali gravissimi; quindi pens imposses
sarsene prevenendola nei suoi onesti e legittimi desiderii.
Appressavasi il 12 gennaio 1861, era l'anniversario della
gloriosa rivoluzione compiutasi nel 1848, e che fu la prima
rivoluzione scoppiata in Italia, e dietro alla quale sorsero le
altre provincie italiane. Il popolo naturalmente avrebbe voluto
festeggiare quel giorno di gloriose memorie, e Montezzemolo
lo prevenne, e all'alba del 12 pubblicava questo proclama:
Siciliani,
Dove il culto della patria nobilita i cuori e sublima il
popolo, la commemorazione solenne dei grandi fatti pure
dovere pei cittadini.
Oggi per la Sicilia ricorre un giorno che splender eterno
nella storia; il giorno in cui un popolo inerme, gettata alla
tirannide armata una fiera disfida, coron una pugna feroce
con generosa vittoria.
Onore al popolo che nel 12 gennaio 1848 apr l'era
italiana !
Siciliani!
Pel governo del re che voi acclamaste vindice del diritto
nazionale e della libert cittadina, questo il primo fasto
italiano, e il dodici gennaio argomento di patriottica com
memorazione.
Io vi invito a consacrare al culto della patria questo giorno
memorabile, che le generazioni future vedranno ricorrere sem
pre con religiosa commozione. Tornando col pensiero ai glo
riosi esordii di una grande impresa, si afforzer la virt che
deve assicurarne il compimento.
Palermo, 12 gennaio 1861.
Sott. MoNTEzzEMoLo.
Piacque alla popolazione palermitana questo atto del luogo
tenente del re; il popolo, che va a salti, concep per lui qual
che affetto, e quasi quasi si pose a scusare la sua inazione
525
nell'amministrazione della cosa pubblica, gittandone la colpa
sul governo di Torino.
Questo fatto in pari tempo dimostra quanto sia facile
governare un popolo di slancio e generoso, quando i sistemi
di partito e le false politiche non mettano i governanti nella
Iagrimevole condizione di doverlo avversare.
l,
L'anniversario
del 12 gennaio
1848 ifuproclami
festeggiato
in tutta
isola;
si not solamente
che in tutti
del governo
e delle autorit civili e militari non si pronunziarono i nomi
di sollevazione, rivoluzione e cose simili; questo fu da molti
osservato, e se ne trasse che il governo rivoluzionario voleva
in siffatta maniera calpestare la rivoluzione e distruggerla,
da non volerne fare sentire il nome ai popoli. Meschinit di
vedute; il popolo sapeva che i fatti del 12 gennaio 1848
quelli del 4 aprile 1860 si chiamavano rivoluzione !
Palermo celebr l'anniversario del 12 gennaio con la so
lennit e con la calma di un popolo libero. I sacri bronzi suo
navano a festa, e l'iride dei colori italiani spiegavasi nei pub
blici e privati edifizii.
Una rassegna di tutti i battaglioni di guardia nazionale fu
passata sul Foro Italico da S. E. il luogotenente generale del
re tra l' affollata moltitudine del popolo. Alla sera la citt
tutta brillava per una magnifica luminaria, e le musiche mili
tari facevano udire le loro liete armonie nelle piazze e nelle vie
principali. Il popolo mostravasi con maggiore frequenza in
quella storica piazza della rivoluzione, l'antica Fieravecchia,
che richiamava tante sacre e gloriose reminiscenze. Il teatro
Bellini splendidamente illuminato e abbellito dal concorso della
pi eletta cittadinanza, accogliea la presenza del luogotenente
generale, ed echeggiava di calde acclamazioni al re ed alla
patria italiana. Dopo l'inno reale, il pubblico volle anche che
si suonasse l'inno di Garibaldi, il cui nome commuoveva sem
pre pi d'affetto e d'entusiasmo il cuore del popolo, che rico
nosceva in lui l'eroe del proprio risorgimento. Tutto fini con
tranquillit ed ordine; la pubblica gioia non fu menomamente
turbata, e cos i cittadini di Palermo come le persone del go
verno ne andarono pienamente contenti.
I nuovi consiglieri si sforzarono a far tutto il possibile onde
rispondere all'aspettazione del paese ed alla buona opinione
che di loro si aveva. Pi compromessa era la sicurezza pub
blica, ed essa reclamava continuamente misure energiche dal
524
governo. Il barone Turrisi Colonna ebbe energia e fortezza,
e giunse ad acquistarsi lodi prodigategli da tutti i partiti. Non
pertanto poco fu fatto in generale, e la Sicilia rest malcon
tenta come prima, perch all'essenziale nessuno badava, e non
si cominciavano quei grandi lavori che erano voluti dal com
mercio e dai bisogni sempre crescenti di lavoro.
Le elezioni politiche furono le prime operazioni a cui la
Sicilia and incontro sotto i nuovi consiglieri. Il governo di
Torino temeva dell'Italia meridionale per il partito di oppo
sizione. Molto poteva, e molta influenza esercitava sull'animo
degli elettori. Quindi diedesi tutto a far prevalere i suoi can
didati, affinch almeno in gran parte i deputati al Parlamento
delle provincie meridionali riuscissero amici del governo e
propagatori della sua politica. Dal lato suo il partito demo
cratico si adoper con qualche vigore e dispendio a vincerla
sul partito governativo, ed in molti collegi ebbe vittoria. Il
maggior numero dei deputati fu pel governo, ma i capi del
partito di opposizione risultarono anch'essi. Noi ora non
descriveremo le arti usate presso gli elettori onde indurli a dare
il loro voto in un senso piuttosto che in un altro; ci limitiamo
a notare che si commisero delle improntitudini da una parte
e dall'altra, e che quelle prime elezioni furono pi l'effetto
dei raggiri dei partiti che della spontanea volont degli elettori.
Il partito democratico ne f contento, ma il governo ebbe
quasi due terzi dei deputati siciliani in suo favore. Il conte di
Cavour cosi si assicurava al potere e prendeva forza per scon
figgere dell' intutto il partito di opposizione.
Fra gli eletti eranvi molti dei consiglieri; questa cagione ed
altre produssero una nuova modificazione nel consiglio di luo
gotenenza, e quindi persone nuove al potere ed al governo
della Sicilia. In data del 7 febbraio veniva fuori il seguente
decreto:
Con decreto del 31 gennaio, il conte Michele Amari fu
nominato consigliere di luogotenenza pel dicastero dell'interno,
in rimpiazzamento del professore Emerico Amari, che ha dato
le sue dimissioni, e con l'incarico di presiedere al consiglio
di luogotenenza.
Il consigliere di luogotenenza avv. Salvatore Marchese
interinalmente incaricato della firma pel detto dicastero.
Con altro decreto del 31 gennaio, il generale cavaliere
525
Giacinto Carini nominato consigliere di luogotenenza pel
dicastero di sicurezza pubblica invece del barone Turrisi Co
lonna, che ha dato le sue dimissioni.
Il marchese di Torrearsa, le di cui dimissioni furono ac
cettate contemporaneamente a quelle degli altri due consi
glieri cessanti, segue a dirigere il ministero delle finanze fino
alla sua surrogazione.
Cos in continui cangiamenti il governo era sempre in prin
cipio delle sue operazioni, e nulla si attuava mai.
Una delle cose importanti di Sicilia era l'occupazione della
cittadella di Messina per parte delle truppe borboniche. Il
generale Fergola la difendeva, e i suoi soldati parevano ri
soluti a sostenersi e a dare il sangue per i diritti di France
sco lI. Le autorit del governo italiano pi volte avevangli in
timato la resa, ma sempre rispose che non avrebbe ceduto,
se non quando Francesco II sarebbe stato costretto a lasciare
Gaeta. Ma Gaeta era finalmente caduta, le autorit governa
tive domandarono al Fergola il mantenimento della parola, ma
il generale borbonico si rifiut, protestando che avrebbe difesa
la cittadella fino all'ultimo sangue. Allora il governo di Torino
per farla presto finita mand ordini al generale Cialdini di
imbarcare truppe, artiglierie e materiali, e di recarsi personal
mente a dirigere l'assedio della cittadella. La regia squadra
agli ordini dell'ammiraglio Persano ebbe pure ordini di recarsi
nelle acque di Messina. Prima di parlare dei fatti che accom
pagnarono la resa del forte di Messina, ci piace dir qualche
cosa sul modo come talune potenze estere si regolassero circa
quella fortezza.
La squadra francese che stava nelle acque di Gaeta imped
per alcuni mesi ai nostri il blocco di quella piazza, e perci
prolung il tempo dell'assedio condannando i nostri a stare
esposti al fuoco dei bastioni. Alcuni vapori francesi si avvici
navano di sovente alla cittadella di Messina, e portandovi da
naro, farine e lettere di Francesco lI, rendevano ostinata la
guarnigione, e difficile la resa. Anco legni austriaci si avvici
navano alla piazza, e i Messinesi ed il governo italiano erano
nella necessit di soffrire che cos apertamente s'intervenisse
dagli stranieri nelle cose italiane; e a dire che chi pi inter
veniva era colui che aveva sanzionato il principio di non in
tervento. Anco la reazione si cerc suscitare, ci che in Si
526
cilia era impossibile, e diversi emissari stranieri caddero nelle
mani della polizia, e che uscivano dalla cittadella di Messina;
e che giungevano in Messina per potere entrare nella citta
della e comunicare col comando di piazza. Cotesta politica della
Francia specialmente riusciva incomprensibile, e non faceva
che spingere l'animo degli Italiani contra il governo e contra
la politica di Napoleone III. Per conoscere fino a qual segno
quella cittadella potesse sostenersi, ne faremo brevemente la
descrizione e la storia.
Il porto di Messina formato dalla natura da un braccio
di terra a fior d'acqua, che, movendo dal lato estremo d'o
riente e mezzogiorno e spintosi a tramontana, volge come go
mito piegato verso ponente in figura di falce; donde veniva
l'antichissimo nome della citt (Zancla). Il braccio, da un ro
mito del secolo XI prese nome di San Riniero, e ripiegandosi
giusto dinanzi al vortice di Cariddi, e queste pericolose acque
e le agitate dello stretto serra in un bacino di maravigliosa
bellezza e sicurezza. In fondo dal mezzodi distendesi il piano
di Terranuova, e donde parte il braccio, a scirocco della citt,
s'innalza la cittadella. Questa fu eretta dopo la guerra che al
1674 bandi la sola Messina a tutta la Monarchia di Spagna;
e dopo varii casi, ridotta ad estremo per i soccorsi che non
solo la casa d'Austria diede a Carlo II, e i paesi dell'Italia
Spagnola, ma per quelli principalmente venuti dalle altre citt
e dai baroni di Sicilia e dal reame di Napoli, datasi in brac.
cio a Luigi XIV, il Grande, fu con borbonica fede tradita e
barattata nella pace di Nimega per tutta la Franca Contea ;
provincia da tanti anni dalla Francia agognata, non mai po
tuta trre stabilmente alla Spagna per forza d'armi; acqui
stata per trattato in baratto d'italiana citt.
Un vicer gi infame per le carneficine di Sardegna, e per
mani sanguinose e ladre, don Francesco Benavides, conte di
Santo Stefano, fu mandato a punire i ribellati con morti e con
esilii. Esularono sedici mila cittadini, e i loro beni furono
messi in pubblico. Con danaro da tal confisca riscosso, il Santo
Stefano innalz la cittadella, gittando al suolo grandi case ed
edificii nobilissimi, che formavano e su quel terreno e su
quello tutto di Terranova popoloso quartiere della citt, abi
tato dai nobili e dai ricchi, con chiese e monasteri d'ine
stimabile valore. Il tedesco Carlo de Nuremberg, architetto di
gran rinomanza nelle fortificazioni militari, studiati nelle guerre
527
di Francia i nuovi modi, detti rasenti, dal Vauban intro
dotti nelle fortezze fiamminghe, e fatto dotto nei libri del
Montecuccoli, elev una piazza che fu fra le pi terribili
d'Europa.
Corpo principale di essa un pentagono, figura a quel
posto sopramodo accommodata, da fosse e canali tutto recinto,
e bastionati agli angoli con ivi polveristi e cavalieri. Ha molti
attorno corpi avanzati, revellini e lunette, guardie e contro
guardie rasenti da marittimi canali, ponti e saracinesche, sepa
rati e congiunti capace in tutto di 300 bocche e pi; accre
sciuta di opere sempre pi appresso, e specialmente dal 48
in poi per fiere batterie avanzate a fior d'acqua dal lato del
porto, ed altre opere regie. Cost allora la somma di scudi
673,937 senza gli armamenti. Cominciata nel 1680 vi si inau
gur il reale stendardo di Carlo al di 4 novembre 1683.
Nel 1718 sostenne lungo assedio, ma contro gli Spagnuoli
che ne ebbero gran travaglio, tenuta dall'austriaco. Nel 1848
bombardando e incendiando la citt intiera non sarebbe senza
lei caduta Messina in mano a Filangeri e suoi diciottomila
svizzeri e napoletani; e fu poco men che tutta la cagione della
rovina della siciliana guerra.
-
Dal 1849 altre scene, altri lutti. Ivi tutti i detenuti politici,
di Messina e dell'isola, senza giudizio, per vendetta o timori
del governo, gittati in fondo a due orridi bagni di forzati,
commisti a scellerati e ladri, i migliori cuori di Sicilia, e gli
uomini pi cospicui che non esularono. Vi stette il Bentivegna;
vi stette un canonico catanese ottuagenario; vi morirono pa
recchi, altri acciaccarono il corpo, sgagliardirono l'animo.
L'elenco dei nomi di tutti sarebbe lunghissimo e molti ne
uscirono pi forti, tra questi il Corrao. Vietato alle famiglie
il confortarli, tementi gli amici, fu visto per pi anni un vec
chio di grande virt, il cui figlio era stato espulso dallo Stato,
piatire permessi, soffrire insulti, sfidar minacce, entrare con
cento pretesti, sedurre agozzini, e infimi inservienti, visitare
i captivi, intrattenere i carteggi e con le famiglie, gli amici
e i cospiratori; confortare, aiutare quei forti. Lo chiamavano
padre, ed esso figliuoli.
Tale era la fortezza di Messina, la quale considerata dal lato
della forza avrebbe potuto lungamente resistere ad un nemico
qualunque, e gittato l'esterminio e la distruzione sulla citt;
ma considerata dal lato politico, essa non aveva ragione a
528
sostenersi perciocch qualunque resistenza sua non avrebbe
potuto in nulla cangiare la condizione miserrima della dina
stia borbonica.
Quindi che l'operato del generale Fergola sotto ogni
rapporto strano ed inqualificabile; egli non sapeva cedere, e
come vedremo non seppe neppure resistere.
Abbiamo detto che dal punto di vista politico la cittadella
di Messina non aveva ragione di sostenersi, questa verit di
mostreremo con le stesse parole del Borbone che troviamo in
una circolare del Casella dopo la resa di Gaeta. In quella cir
colare si diceva:
Signori,
Tra le ragioni bisogna collocare l'ostilit sistematica del
l'Inghilterra, la risoluzione altamente manifestata dall'impera
tore dei Francesi di mantenere il principio del non intervento,
finalmente l'inazione delle altre potenze che non lasciavano
alcuna speranza di pronto soccorso.
Quanto alla questione militare, la piazza aveva orribil.
mente sofferto dal bombardamento prolungato; il tifo deci
mava la guarnigione; l'artiglieria nemica era superiore a quella
della piazza; due breccie erano state aperte dall'esplosione
delle polveriere, l'esplosione a cui il tradimento non era stato
estraneo; e nello stesso tempo in cui i mezzi d'attacco, di cui
disponevano gli assedianti, aumentavano in una proporzione
considerevole, quelli della piazza diminuivano ogni giorno.
Fu in questa circostanza allorquando la difesa non avrebbe
potuto essere prolungata che di qualche giorno ed a prezzo
dei pi grandi sacrificii, che il re credette dover agire piut
tosto come sovrano e come padre che come generale, rispar
miando gli ultimi orrori dell'assedio a truppe pronte a spar
gere fino all'ultima stilla del loro sangue, per il compimento
del loro dovere di sudditi e di soldati.
Ma i fatti che dalla parte dei Piemontesi accompagnarono
le trattative hanno un carattere che necessario di rilevare.
Il generale Cialdini rifiut di sospendere le ostilit du
rante le trattative. Per tre giorni ha coperto la piazza di bombe
e di granate. Tutte le condizioni erano gi stipulate; non man
cava pi, perch la capitolazione fosse compiuta, che la tra
529
scrizione del testo di quel documento e la formalit delle
sottoscrizioni, le batterie piemontesi portavano ancora la morte
in Gaeta, e l'esplosione d'un'altra polveriera seppelliva sotto
le ruine ufficiali e soldati.
Vogliate aggradire, ecc.
CASELLA
Il governo di Francesco ll, parlando in questa circolare
delle difficolt politiche di cui trovavasi circondato accennava
l'ostilit sistematica dell'Inghilterra, il principio di non inter
vento propugnato da Napoleone III, e finalmente l'inazione
delle altre Potenze che non lasciavano alcuna speranza di pronto
soccorso. Dunque era inutile la conservazione della cittadella
di Messina. Se queste difficolt politiche esistevano per Gaeta,
esistevano altres per la cittadella di Messina. L'ostinazione
adunque del generale Fergola non era che una pazza presun
zione la quale non poteva n cangiare lo stato di Francesco II,
n attraversare l'assestamento delle cose italiane, secondo il
principio dell'unit nazionale.
Prima di parlare della resa di questa piazza uopo an
cora rifarci un passo indietro e narrare i tentativi fatti dal
re a questo riguardo. Il governatore di Messina, certo Ugdo
lena diceva da pi giorni aver motivi da credere, che il pre
sidio della cittadella avrebbe ceduto ad un'intima del Re Vit
torio Emanuele. Quindi appena questo principe giunse in Pa
lermo fu pregato dal governo di Sicilia a fare cotesta intima;
il re aderi non con un intima ma con un invito al generale
Fergola, quale invito fu recato dal generale Sanfront, che ac
compagnato dal capitano d'artiglieria Corsini, ufficiale d'ordi
nanza del re si port da Palermo in Messina.
Con tutte le forme e pompe volute in simili casi e con l
assise di gala, e preceduto dalla lettera credenziale, si rec il
-
Saufront alle porte della cittadella, dove il vecchio Fergola
rispose parole composte, ma negative, dicendo dovere assolu
tamente dipendere dagli ordini di Gaeta. Finito con queste
parole l'abboccamento ufficiale s'impegn la conversazione.
Il Saufront fece lungo discorso delle condizioni d'Europa per
le quali mostrava disperata l'intervenzione dei pontentati in
arme e dava per ultimo argomento che l'essere venuto il re
in Napoli e in Sicilia, era ferma prova dell'assenso dei poten
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
67
556
tati. Il Fergola rispondeva sempre con parole che accennavano
una certa incredulit. Ma i suoi ufficiali parlarono pi risolu
tamente di lui, e vi fu fra loro chi accenn alla possibilit che
il re Francesco II tornasse a Napoli in breve tempo. In questa
conversazione il Saufront comprese che il generale Fergola
avrebbe operato diversamente, se fosse stato circondato da
uomini di senno. Certo che Sanfront parti indignato contro
di tutti. Un suo dispaccio al re a Palermo diceva: Fergola
irragionevole e caparbio; ufficiali superiori cattivi; ufficiali in
feriori si crede non d'accordo coi superiori.
iopo questo fu vietata ogni comunicazione con la cittadella.
Salvo le provvisioni di viveri, a prezzo per in contanti, secondo
i patti. Fu proibito da ogni parte l'avvicinarsi delle barche ed
il picciolo commercio che si faceva; l'uscita a diporto dei
soldati, e altre tali cose, tollerate fino allora con la speranza
di rabbonire e condurre la guarnigione agli accordi, ebbero
egualmente fine. Ma sopratutto fu proibito ai cittadini di com
perare nulla dalla cittadella, perch, mancato affatto il denaro,
i Borbonici avevan trovato modo di averne con vendere quat
tromila quintali di frantume di carbon fossile, e poi avevano
messo mano a quantit grande di ferro da essi rubato negli
anni precedenti ai magazzini del porto franco, cambiandolo con
legna e con danaro. Fino i formaggi, lardi e prosciutti di che
avevano per oltre al bisogno di pochi mesi, offrivano in cam
bio di altri commestibili pi necessarii.
Coteste disposizioni del governo tendeano a far conoscere
ai Borbonici della cittadella la mala via in cui si trovavano, e
le misure che il governo italiano cominciava ad adottare verso
di loro.
Fino a questo punto noi non sapremmo condannare la con
dotta militare del generale Fergola; essa diviene riprovevole
dal giorno in cui, caduta Gaeta, si voleva ancora far pompa
d' inutile resistenza.
Solamente vogliamo notare una circostanza, e lasciare al
libero giudizio dei lettori di questa storia, l'estimazione di
essa, e quindi darne lode o biasimo alla guarnigione di Mes
sina. Queste circostanze sono i patti offerti al Fergola dal
Saufront, i quali, ove fossero stati accettati, avrebbero assicu
rato ai componenti la guarnigione il loro grado. Essi erano
cinque:
1. La cittadella di Messina, con tutto il suo materiale di
531
guerra, artiglieria, armi, magazzini e tutti gli oggetti di spet
tanza governativa, sar consegnata alle truppe di S. M. il re
Vittorio Emanuele, appena si presentino.
2. Le truppe napoletane, attualmente costituenti la citta
della di Messina, usciranno colle armi, e saranno imbarcate
per essere dirette ad uno dei porti del regno di S. M. per
tenervi guarnigione.
3. A tutti i signori ufficiali, impiegati amministrativi, uffi
ciali sanitarii che fanno parte dell'attuale guarnigione di Mes
sina, e che appartenevano all'esercito regolare del gi regno
delle Due Sicilie, saranno conservati i gradi acquistati nel suc
citato esercito, a tutto il 7 settembre dell'anno corrente.
4. Alla bassa forza saranno conservati i gradi e la posi
zione attuale, coll'obbligo per che ciascuno abbia ad ultimare
sotto le bandiere di S. M. il re Vittorio Emanuele la forma
di servizio contratta nel gi esercito regolare delle Due Sicilie,
a termini delle leggi militari vigenti in questo regno.
5. All'atto della convenzione saranno consegnati per parte
dei commissarii napoletani al commissario del re appositi
elenchi nominativi, e graduati, tanto pei signori ufficiali come
per la bassa forza, e gli specchi delle bocche a fuoco, e il
materiale da guerra esistente nella piazza.
-
Intanto le disposizioni governative producevano il loro frutto
specialmente dal giorno in cui il presidio rimase senza denaro,
esauriti i modi di farne colla vendita delle merci. Comincia
rono le diserzioni di soldati e di artiglieri, uno di questi di
notte gettatosi gi sulla rena del tamburo del castello il Sal
vatore, a stento trov una barchetta che lo recasse in Messina.
l disertori contavano ai cittadini i malumori gi cresciuti e
soperchianti contro il generale e i suoi primi ufficiali, la dis
sidenza di partiti gi minaccevoli, e la speranza di prossima
dedizione; ma il 13 dicembre sul vapore delle Messaggerie
francesi giungevano due uffiziali di Gaeta con dodicimila du
cati in oro; e dal vapore passando sul vapore il Tage, che era
in porto, e da questo in cittadella sotto il vessillo francese,
andarono a rianimare la guarnigione. Il d appresso, altro
vapore mercantile, il Dohome, arrivava sul braccio di San Riniero,
che congiunge le fortezze, e vi scaricava buona quantit di
vettovaglie e vestiti. In questo modo la politica francese conti
nuava a prestare inutili servigi a Francesco II, manomettendo
il principio di non-intervento, e gettando l'allarme nelle po
532
polazioni italiane. Furono questi i fatti pi essenziali che pre
cedettero gli avvenimenti di Messina quando avvenne la resa
del forte.
Le truppe a poco a poco giungevano da Gaeta su Messina,
e cominciavano a preparare i luoghi da piantarvi le artiglierie.
Cialdini ebbe il pensiero di salvare la citt a costo di prolun
gare l'assedio, che andava disponendo dalla parte di mezzo
giorno. La brigata Regina e alcune compagnie di artiglieri gi
si accampavano da quel lato sulla via di Catania. I vapori
della flotta italiana trasportavano uomini e materiali, ed ap
prodavano in porto, o molto vicino; cos fece il Vittorio Ema
nuole, che il giorno 28 febbraio entrando difilato sotto le
batterie del forte del Salvatore e della Cittadella, disbarc
gli artiglieri. Allora il Fergola dichiar che il nemico aveva
rotto l'armistizio dando sospetto di far approcci, e quindi si
credeva in diritto di usare tutti i mezzi, non solo tirando contro
i lavori militari, ma altres sopra Messina. A questa minaccia
il Fergola aggiunse invito a tutti i consoli e ai comandanti dei
navigli stranieri di sgombrare il porto e porre in salvo i legni e i
sudditi loro. I consoli pensarono alla mediazione; ma essa non
valse, ed il colonnello De Martino, primo tra i consiglieri di
Fergola, rispose duramente. Ma quello che i consoli non pote
rono, lo pot il generale Cialdini, il quale, letta la codarda
minaccia, dett la seguente risposta, che sped immediatamente
al generale Fergola:
Generale,
ln risposta alla lettera che Ella mi ha fatto l'onore di
dirigermi quest'oggi, devo dirle: che il re Vittorio Emanuele,
essendo stato proclamato Re d'Italia dal Parlamento Italiano,
la di lei condotta sar ormai considerata come aperta ribel
lione; che per conseguenza non dar a lei n alla sua
guarnigione capitolazione di sorta, e che dovranno arrendersi
a discrezione ; che se Ella fa fuoco sulla citt, far fucilare
dopo la presa della cittadella, tanti ufficiali e soldati della
guarnigione, quante saranno state le vittime cagionate dal di
lei fuoco sopra Messina; che i di lei beni e quelli degli uffi
ciali saranno confiscati per indennizzare i danni recati alle fa
miglie dei cittadini; e per ultimo, che consegner lei e i suoi
535
subordinati al popolo di Messina. Ho costume di tener parola,
e senza essere accusato di jattanza, le prometto che ella ed i
suoi saranno quanto prima nelle mie mani. Dopo ci, faccia
come crede. Io non riconoscer pi nella signoria vostra un
militare, ma un vero assassino; e per tale lo terr l'Europa
intera .
ll Fergola quando ricevette la lettera del Cialdini si affrett
a rispondere, assicurandolo che avrebbe risparmiata la citt
e sarebbesi limitato a tirare contro quei punti donde la citta
della sarebbe stata minacciata. Cialdini a questa lettera del
generale borbonico rispondeva in questi sensi:
Eccellenza,
Sono lieto di vederla ritornare a sentimenti pi miti e
di veder ricondurre la questione sul suo vero terreno.
Le di lei minaccie mi avevano irritato, e costretto a ri
sponderle con altre gravi ancora. Ci eravamo impegnati tutti
e due in un falso sentiero, e sono lieto, come dissi, di tornare
addietro, e far la guerra anche coll' E. V. come ebbi costume
di farla fin qui, cio a dire, nei limiti della cortesia e del
l'umanit.
La citt di Messina, innocente delle nostre querele, resti
salva dai nostri fuochi. La lotta sia fra le mie e le di lei bat
terie. In tal caso io non saprei offendermi della resistenza che
trovo, potr combattere l'E. V., rispettare i di lei principii,
e darle la mano alla fine dell'assedio, come sogliono gli onesti
militari, che fanno la guerra senza ira, e la finiscono senza
IraInC0l'8.
Voglia l'E. V. gradire l'assicuranza della mia distinta
considerazione.
Messina, 10 marzo 1861.
Il generale d'armata comandante il 4. corpo
CIALDINI.
ll giorno appresso il De Martino, tracotante sempre, diceva
parole ingiuriose pei Messinesi. Il porto fu sgombrato da tutti
2554
i legni stranieri, non vi rimasero che una fregata americana
ed un'altra inglese.
Giustizia vuole che qualche cosa anco si dica sul contegno
della citt.
Il d 28 febbraio, quando s'intese la minaccia del Fergola,
la citt non mostr sgomento alcuno, non si not verun atto
di debolezza
o di dolore: la sera al
teatro Vittorio
Ema
nuele si cant e ball colla solita frequenza di cittadini.
Dal primo marzo in poi il cannone della cittadella facevasi
spesso sentire ma senza frutto. La lettera del Cialdini avea
prodotto i suoi effetti; i cannoni della fortezza non ebbero
l'ardire di tirare sopra la citt, ma dirigevano i loro colpi
col solamente dove i nostri piazzavano i cannoni d'assedio.
Quattro giorni dur il fuoco contro le opere di assedio, re
cando pochi guasti alla citt, ed alla truppa cinque morti e
ventitr feriti. Finalmente il giorno 12 marzo nelle ore pome
ridiane Cialdini ordin il fuoco contro la cittadella. Dopo
quattro ore di bombardamento i nemici alzarono bandiera
bianca, ma il Cialdini continu il fuoco, di cui furono incen
diati tutti i quartieri e alcuni magazzini, anche pel vento di
maestro che tirava fortissimo. E dopo che per cinque o sei
volte fu rialzata la bandiera, si venne a parlamento. I Bor
bonici domandarono ventiquattr ore a risolvere e a stabilire
i patti sopra un legno estero; il Cialdini rispose: Neppure
due minnti, o rendete la cittadella o ricomincer il fuoco.
Uscito allora il De Martino, domand per grazia speciale che
si attendesse fino alle 10 della sera: a quell'ora per fu di
chiarata la resa a discrezione.
Il presidio, essendo prigioniero di guerra, fu momentanea
mente accantonato nei paesi vicini e nudrito con le stesse
provviste della cittadella. Agli artiglieri tutti, ufficiali e soldati,
si fece al mattino del 13 percorrere la spianata di Terra-Nuova.
Il generale Fergola, vecchio com'era, fu condotto innanzi al
vincitore, che gli stese la mano, poi ricevuto sopra una fregata ;
ma i suoi tristi consiglieri ebbero duro trattamente. Al tenente
colonnello Guillomat, che presentava la spada, impose il Cial
dini la consegnasse ad un carabiniere. Sostenuti pure con lui
furono il Gaita, il Cavalieri e lo svizzero Bratt.
Ecco le condizioni imposte dal generale Cialdini alla guar
nigione della cittadella di Messina:
La cittadella resa a discrezione e consegnata nello stato
l
i
Generale Enrico Cialdini
555
in cui si trova alle truppe di S. M. Vittorio Emanuele re
d'Italia, che ne prenderanno possesso.
I generali ed ufficiali tutti verranno mandati a Napoli con
un mese di paga, ed il governo s'incaricher di scegliere quelli
che potranno far parte dell'esercito.
Un consiglio di guerra esaminer se gli ufficiali messi agli
arresti siano colpevoli di qualche reato, e nel caso affermativo
decider sulla pena da infligger loro.
S. M., sempre proclive al bene, e secondando il suo ge
neroso animo, ordina che sian tutti rispettati.
I soldati che non hanno tuttora compiti i cinque anni di
ferma seguiteranno a servire nell'armata.
Gli altri andranno a casa loro con un mese di paga e due
mesi di permesso al primo appello verranno chiamati sotto
le armi .
Ecco l'ordine del giorno che il generale Cialdini dirigeva
al generale Chiabrera e col quale si dichiarava soddisfatto del
servizio della brigata Pistoia, di guarnigione in Messina.
COMANDO GENERALE DEL IV CORPO D'ARMATA.
Messina, 15 marzo 1861.
Ho riveduto col massimo piacere la brigata Pistoia, la
quale non ha certamente smentite le speranze e la fiducia che
fece nascere nell'animo mio, sin da quando per la prima
volta la vidi sotto Ancona. Duolmi che per circostanze impe
riose io debba partire e mi sia tolta l' occasione di passare
una rivista a questa bella brigata.
Ma se della tenuta, dell'istruzione e del contegno io non
ho avuto che un'idea fuggitiva, so per altro quale sia stata
la condotta della brigata nelle difficili condizioni in cui si
trovata a Messina e so come sia stato lodevole, particolar
mente ne' giorni dell'assedio il contegno della brigata.
Prego V. S. Ill. di fare a tutti i suoi subordinati i miei
giusti encomii; e di dir loro che io terr per molta fortuna
il poter conservare la brigata Pistoia nel quarto corpo d'ar
mata.
-
Il generale d'armata, comandante il 4. Corpo
CIALDINI
556
Terminata la sua missione, Cialdini doveva partire per
Torino, ma prima volle lasciare un addio ai Messinesi, che
diresse al governatore della citt. Ecco le sue parole:
Gazzi, 15 marzo 1861.
Nel prendere congedo dall' E. V. la prego di accettare
ed aggradire i miei ringraziamenti per quanto fece di cortese
a me e per quanto oper di utile al paese durante l'assedio
della cittadella.
La prego inoltre di far sentire tutta la mia stima alla
Guardia nazionale e al Municipio di Messina per gl'importan
tissimi servigi che hanno reso, e per la tranquilla fermezza che
dimostrarono nelle difficili circostanze.
Ho ricevuto dai Municipii e dalle Guardie nazionali del
l'Isola e della vicina Calabria, ho ricevuto dai signori uffiziali
appartenenti all'armata dell'illustre mio amico il generale Giu
seppe Garibaldi molte generose offerte che io non dimenti
cher giammai. La nobile gara di cui fui testimonio e la
patriottica concorrenza che qui trovai, restano nell'animo mio,
qual ricordo gratissimo dei pochi giorni da me passati in
Sicilia.
Prego l'E. V. di credere alla nuova assicuranza della
mia distinta considerazione,
Firmato CIALDINI.
A S. E il Governatore della Provincia di Messina
Il gov. DoMENico PIRAINO.
Cos la Sicilia fu affatto libera dalla presenza dei borbonici,
e pot dirsi completamente indipendente. Fortunata nella ri
voluzione e nella guerra, nol fu nel governo, e dovette assog
gettarsi a tutti gli inconvenienti di governanti inetti, e ai mali
interminabili che vengono dalle agitazioni dei partiti.
C A PI T 0 L 0 XXIII
Cose di Napoli. Itesa di Civitella del Tronto,
Egli tempo di rivolgere per l'ultima volta i nostri sguardi
sopra Napoli, a questa citt popolosa nella quale si agitavano
continuamente i diversi partiti e tutte le passioni ed interessi
politici, e quel che pi monta i clericali, i Borbonici e quanti
avevan fondate le loro speranze e le loro fortune nella ristau
razione degli antichi dominatori, e nella disfatta del principio
rivoluzionario.
Come altra volta notammo, il cavaliere Farini, luogotenente
del re, non poteva pi a lungo stare alla testa del governo
di Napoli senza compromettere gravemente la sorte di quel
paese e per conseguenza dell'unit italiana. Molti e gravi errori
aveva egli commesso, e sopratutto quello gravissimo di aver
voluto distruggere in pochi giorni l'edifizio governativo, co
munque imperfetto, della dittatura. Egli per tali errori aveva
suscitati malumori ed odii non solamente contro s stesso, ma
ancora contro il governo di Torino, le cui influenze, secondo
che alcuni dicevano, ingeneravano tutte le confusioni e gli errori
del governo luogotenenziale. Caduto dalla pubblica opinione,
e quasi naufrago in mezzo alle tempeste politiche, egli dovette
ritirarsi, ed doloroso il dire che la sua caduta fu pei Napo
Stor, della rivol. Sicil Vol. II.
68
538
letani una festa e che nessun partito lo compianse. I giornali
umoristici non gli risparmiarono n un frizzo, n il ridicolo,
n l'oltraggio; neppure ebbe quella compassione che in qual
che modo gli aveva meritata la morte immatura del suo ge
nero Riccardi, e la sua stessa malattia, frutto di domestiche af
flizioni, di cose governative e di lotte morali con gli avversi
partiti.
Il governo di Torino elesse a nuovo luogotenente il principe
Eugenio di Savoia-Carignano, n fu cattiva quella scelta, dove
si consideri che i Napoletani desideravano splendore di corte,
e governo d'uomini imparziali. Ma abbisognando in quei tempi
governo energico e risoluto cosi per superare le politiche dif
ficolt dei partiti, come per ispingere avanti lo sviluppo del
l'industria, e quei gran lavori che si volevano per occupare
le braccia di molta gente che voleva lavorare per vivere, la
scelta non fu molto opportuna. A fianco al principe Carignano
si volle mettere il giovine Costantino Nigra, uomo che se qual
che cosa valeva nel ramo diplomatico, nulla sapeva fare in
fatto di amministrazione, e da lui anzich sperare buon go
verno, giustamente si temeva cattiva amministrazione e peggio.
N solo del luogotenente e del Nigra si preoccupavano gli
abitanti dell'Italia Meridionale, ma specialmente delle persone
che dovevano costituire il nuovo consiglio di luogotenenza, non
essendo possibile che restasse al potere quello che aveva coo
perato col Farini a mettere sossopra quelle povere provincie.
Il giorno 13 gennaio 1861, circa il mezzogiorno, il nuovo
luogotenente giungeva nel porto di Napoli, ove veniva salutato
dalla squadra inglese, e riverito a bordo dalle autorit ma
rittime. Accolto a terra dal cav. Farini e dalle autorit muni
cipali, discendeva al palazzo, ove riceveva il municipio, il con
siglio di luogotenenza e l'ufficialit del presidio. Il popolo, co
me al solito, fu indifferente, ci che non riusc di buon au
gurio. Il proclama da lui pubblicato al suo arrivo fu il sg
guente:
Il re m'affid il governo di questa parte del Regno Ita
liano.
Accetto il grave incarico, mosso dall'amore della patria,
dall'obbedienza al re, dalla fiducia nella vostra leale coope
razione.
Queste provincie, separate da lungo tempo dal resto d'Ita
539
lia, manifestarono con unanime suffragio la ferma volont di
far parte indivisibile della patria comune sotto lo scettro co
stituzionale della dinastia di Savoia.
Spetter al Parlamento di dare l'ultima sanzione all'or
dinamento amministrativo del Regno Italiano; ma intanto
cmpite nostro spianargl iprima la via perch esso si raduni con
tinuando e sollecitando l'applicazione a queste provincie di
quelle misure legislative che non si potrebbero differire senza
nuocere all'unit ed all'assetto costituzionale di tutta la mo
narchia.
-
L'unificazione, in quanto possa essere immediatamente
applicabile, sar dunque il primo concetto che informer gli
atti del governo.
Ma perch i primi ordini possano mettere radice, e per
ch il popolo possa provare i benefici effetti di libero reggi
mento, prima e necessaria condizione il mantenimento del
l'ordine, l'osservanza delle leggi.
Il paese pu esser convinto che il governo non verr
mai a transazione col disordine, e ogni tentativo d'agita
zione illegale sar prontamente e severamente represso. Dove
non regnano la sicurezza e l'ordine, ivi non pu allignare la
libert. Per compiere questa parte principale del mio mandato,
faccio assegnamento sul retto senso di tutta la popolazione e
pi specialmente sul patriottismo della Guardia nazionale, che
gi rese grandi servigi al paese, e che fin da suoi primordii
mostr disciplina e contegno, degni di un popolo che ha la
coscienza dei suoi diritti e dei suoi doveri.
Per la stretta ed universale esecuzione delle leggi, per la
repressione d'ogni loro infrazione, io conto in particolar
modo sulla cooperazione energica ed imparziale della magi
stratura, che in ogni paese liberamente ordinato deve essere la
fedele custode della legge, l'espressione della pubblica moralit.
E intenzione del governo che la Chiesa e i suoi ministri
siano rispettati, e che nessun incaglio sia posto al libero eser
cizio del culto. Ma nel tempo stesso egli si ripromette dal
clero l' obbedienza al re, allo Statuto ed alle leggi.
ll governo volger tutta la sua attenzione sulla condizione
economica del paese e sul modo di migliorarla, sullo sviluppo
di cui sono suscettibili le grandi risorse della sua agricoltura,
del suo commercio e della sua industria, e sui lavori di pub
blica utilit, ai quali sar posto mano senza indugio.
540
Sar pure principal cura il promuovere il pubblico inse
gnamento, e sopra tutto l'insegnamento popolare e tecnico.
Istruzione e lavoro, sono le due fonti della moralit e della
ricchezza, i due cardini su cui si appoggiano le societ libere
e civili.
Le finanze di questa parte del regno italiano, scomposte
dai rivolgimenti politici, da esigenze straordinarie, abbisognano
di un pronto ordinamento. Intanto che si preparano gli elementi
di un regolare bilancio da presentarsi al Parlamento, far ap
portare a questo servizio economia e pubblicit. Nobile officio
della stampa sar quello d'indicare al governo con calma e
schiettezza gli abusi da togliere, le riforme da introdurre in
questo, come in ogni altro ramo d'amministrazione.
L'Italia si sta facendo, ma non ancora fatta. Al finale
compimento di quest'opera sublime che fu il sospiro di tante
generazioni, occorrono tuttavia grandi sagrifizii. Voi accoglie
rete, ne son certo, con lieto animo tutti quei provvedimenti
che il governo centrale ed il Parlamento stimeranno necessarii
ad accrescere, riunire e disciplinare le forze di terra e di mare
della nazione.
L'appoggio di tutti gli uomini onesti, il rispetto univer
sale alle leggi, la concordia degli animi risponderanno, spero,
alla fiducia posta in voi dal re e dalla nazione. Tutta l'Europa
tiene in questo momento fisso lo sguardo su questo parte
d'Italia gloriosa per antichissime tradizioni di civilt e di sa
pienza, e per grandezza di sventure patite e per indomabile
affetto alla libert. Voi potete col solo vostro contegno rendere
alla patria comune servizio forse pi grande di quanti le siano
stati resi finora da altre provincie con sagrifici molti d'uomini
e di denaro. Io mi chiamerei fortunato se, caduta in breve,
come cosa debole, l'ultima propaganda della signoria borbo
nica, di poter dire al re ed all'Italia: Se v' occorrono le
guarnigioni e le leve delle provincie napoletane, chiamateli
pure ai nuovi cimenti; questa parte d'Italia pu anch'essa al
pari d'ogni altra governarsi senza soldati.
EUGENIo DI SAvoIA
Pi che proclama era questo un programma politico ed am
ministrativo, e proprio uno di quelli che vengono consigliati
541
dalla politica per ammansire l'opposizione e raddolcire gli
sdegni e le ire prodotte dal cattivo governo. Per diremo che
in quei giorni era falsa politica prometter molto quando si
aveva la coscienza di non poter fare che troppo poco: percioc
ch i Napoletani gi aspettavano da un pezzo reali migliora
menti, e nelle loro speranze erano stati miseramente traditi;
quindi ora imprimevano bene a mente la promessa, che non
adempiuta dava a loro il diritto di lamentarsi pi fortemente
ancora, e di estimarsi ingannati da una politica promettitrice
generosa, e nell'adempimento della promessa o impotente o
avara. A ci si aggiungano le interne difficolt che impedivano
lo sviluppo e l'attuazione di una buona amministrazione; ora
era egli certo il nuovo governo di vincere le difficolt tutte?
E se non le avesse vinte, il popolo avrebbe voluto considerare
queste interne difficolt, e perdonargli in grazia di esse il non
adempimento di qualche lusinghiera promessa? Certo di no;
perciocch il popolo vuol essere ben governato, e non si cura
di altro; e poi, il non sapere e non poter vincere le difficolt
sarebbe stato naturalmente attribuito ad impotenza o insi
pienza governativa.
Ci conviene notare una volta per sempre, che gli uomini di
stato di Torino credettero sempre alla facilit di governare le
provincie napoletane, e che le cattive prove fatte gi da varii
governanti non bastarono a toglierli da questa mala persua
sione.
Ci che di nuovo cominciavasi a mostrare nella popolazione
di Napoli era un affetto sempre crescente verso l'unit italiana,
ed una avversione sempre pi viva ed intensa verso il partito
borbonico; quest'avversione cominciossi a manifestare in modi
poco convenienti, ma il popolo napoletano non sapeva fare
diversamente. Un di una donna della plebe, forse presa dal
vino, si diede a gridare Viva Francesco II l altri della plebe
stessa le si scagliarono addosso, e l'avrebbero finita, se alcuni
della guardia nazionale non li avessero fermati e cacciati lon
tani. Un soldato borbonico, che volle imitare la malaugu
rata donna, trov la stessa sorte; e quasi ogni giorno si ripe
tevano le stesse dispiacevoli scene. L'opposizione all'arcive
Scovo durava formidabile e generale; si pu dire che quanto
all'indirizzo politico il governo non aveva bisogno d'istruire
e di muovere le masse; le sue sollecitudini dovevano perci
limitarsi all'amministrazione, alla sicurezza pubblica ed a svan
542
tare le mene dei piccoli ed impotenti partiti che si sedevano
all'ombra della bandiera repubblicana e borbonica.
Quando il principe di Carignano giungeva in Napoli luogo
tenente del re, le popolazioni meridionali si trovavano trava
gliate dalla febbre elettorale, e i partiti si agitavano fortemente
per vincerla sulle elezioni politiche, ed avere la maggioranza
nel Parlamento nazionale. Il partito governativo, consigliato e
mosso dal conte di Cavour, era operoso nel consigliare alla
sua volta gli elettori affinch dessero i loro voti ad uomini amici
della monarchia e dell'ordine; il partito democratico da parte
sua non tralasciava mezzo intentato affinch le elezioni cades
sero sopra uomini democratici. A quest'uopo si valsero del
nome di Garibaldi, e furono gli amici di lui che vennero pre
sentati quali deputati ai collegi elettorali. Facile era il com
pito della democrazia, perciocch gl'Italiani del mezzogiorno,
stanchi del mal governo e sempre tenerissimi di Garibaldi e
de' suoi amici, volevano ingrossare il partito d'opposizione non
solamente per abbattere il ministero di Torino, ma ancora
per cangiare dell'intutto l'indirizzo politico del governo. Il
partito ministeriale ebbe, vero, la maggioranza nelle elezioni,
ma i democratici, che avevano un qualche nome, quasi tutti
vennero eletti deputati. E molto questi avrebbero potuto fare
se meglio compatti fra loro, e se unificati in un sol programma
politico. Tradita speranza ! ogni deputato dell' opposizione
aveva un programma suo particolare; fra loro non seppero in
tendersi, discordarono sempre, s'ingiuriarono l'un l'altro; il
governo colse il frutto delle loro dissensioni, confermandosi
meglio nell'adottata politica e ridendosi di un opposizione
parolaia debole, in certe circostanze veramente ridicole.
Una delle prime speranze seminate dal nuovo luogotenente
in Napoli fu questa: Il principe di Carignano, il quale era
ammiraglio della flotta italiana, nominava una commissione
coll'incarico dell'immediata organizzazione della marina del
dipartimento del sud. Questo dipartimento, secondo il decreto
del principe stesso, datato da Torino, nella sua qualit di luo
gotenente generale, comprendeva tutto il litorale del regno
di Napoli e di quello di Sicilia. Si assicurava inoltre, che ter
minata quest'organizzazione, sarebbesi fatta una leva di marina,
giusta le disposizioni del succitato decreto.
Come era da prevedersi, il consiglio di luogotenenza, che
aveva circondato Farini preconizzava le sue dimissioni, il luo
l
s
Principe Eugenio
di Savoia Carignano
Luogotenente del Re nelle provincie Napoletane.
Se A, R. il
545
gotenente le accettava, e nel medesimo tempo accettarono l'in
carico di formare la nuova amministrazione Liborio Romano,
Giovanni Ajossa, Paolo Emilio Imbriani e Silvio Spaventa, colla
cooperazione del barone Poerio vice-presidente della consulta.
A nostri lettori non nuovo Liborio Romano, nome che in
momenti difficili ebbe a soffrire avversioni non poche, e a go
dere di favori non comuni. Noi torniamo a dir qualche cosa su
questo personaggio storico che fu ministro di Francesco II,
ed amico degli amici di Garibaldi. Fu detto che la rivoluzione
divora i suoi figli, essa una terribile verit, la quale per
altro non nuoce alle nazioni quando l'opera dei figli della
rivoluzione si compia e rimanga. Liborio Romano aveva per s
non solo le simpatie del popolo napoletano, ma quelle ancora
delle provincie; provincie e popolo avevan veduto operarsi una
rivoluzione senza che si versasse goccia di sangue; questo fatto
racchiudeva in s un merito grande di politica, e tutto si at
tribuiva all'abilit del Romano. Il popolo non guardava pi in
l, ed aveva ragione, perciocch nei momenti di transizione
pi che ad altro si debbe avere riguardo alla salvezza del
paese facendolo reggere da uomini che in qualsiasi occasione
avessero acquistato dominio ed influenza sulla mente e sul
cuore delle popolazioni.
Il principe di Carignano, che vide come gli uomini di To
rino venissero avversati dalle popolazioni meridionali, pens
scegliere uomini del paese, e tra questi volle Liborio Romano,
la cui capacit aveva gi date prove di s, e verso il quale
-
l'opinione pubblica sentivasi trasportata. Questa nomina piacque
e fu lodata da molti, e molto bene Liborio Romano avrebbe
recato all' Italia, se un nuovo partito politico spinto da ambi
zione non lo avesse costretto a ritirarsi gridando all'immora
lit del governo che elevava al potere uomini che favorivano
la rivoluzione e l'unit italiana quando erano ministri del
Borbone. Onde che ci tocchi ancora una volta a ridire che
le passioni dei partiti nuociono grandemente alle sorti di un
paese per favorire le aspirazioni e pi spesso ancora le am
bizioni di pochi uomini.
-
La nomina di Silvio Spaventa irrit fortemente il partito
democratico, il quale cerc di avversarne l'esecuzione con le
solite dimostrazioni. La sera del 18 gennaio una gran folla
partiva dal Mercatello e recavasi sino a Palazzo gridando ev
viva a tutti, abbasso Spaventa l La guardia nazionale accorse
544
tutta in armi, tenne dietro con severo contegno alla folla, chiu
dendola quasi in mezzo. A questo modo la dimostrazione si
protrasse placidamente fino allo sbocco del borgo S. Ferdi
nando, dove, volendosi proseguire ancora, la Guardia nazio
nale si fece avanti e lo impedi collo schierarsi tutta dall' un
canto all'altro della via. L'ufficiale si avvicin alla folla, disse
con urbane parole che bastava, che si era espresso quello che
si voleva, e preg con bella maniera di disperdersi. Cos av
venne, ma nelle ore meridiane del di 19 una seconda dimo
strazione anche numerosissima composta di ogni ceto di per
sone portanti scritto su cartelli abbasso Spaventa, percorse le
strade e giunse fin sotto al palazzo delle Finanze. Quivi fu fatto
sgombrare dalla Guardia nazionale.
-
Non a tacere come la pubblica opinione si manifestasse
in modo pi legale ancora con un indirizzo presentato al prin
cipe luogotenente, corredato di numerose firme. Quell'indi
rizzo diceva:
Altezza,
Nella grave agitazione in cui trovavasi il paese, la venuta
di V. A. era accompagnata dalla speranza di un governo che
rimediasse ai mali della cessata amministrazione.
Or questa fiducia, dobbiamo dolorosamente confessarlo,
scossa. Tra gli uomini chiamati al potere sono alcuni che,
legati al sistema precedente, ricordano fatti e principii che
sono di ostacolo alla concordia degli animi, di cui nelle pre
senti condizioni abbiamo tanto bisogno. Onde i sottoscritti pre
gano l'A. V. a voler ridonare al paese la fiducia, allontanando
uomini incompatibili con la pubblica opinione, e comporre
il governo di elementi omogenei, liberi da precedenti e da
impegni che inceppano il maestoso procedere del nostro anda
mento nazionale.
Coteste dimostrazioni ed indirizzi fruttarono finalmente il
convincimento del governo, che in Napoli non si poteva in quei
giorni agire anco nella scelta delle persone senza tener conto
di quanto la pubblica opinione andava suggerendo. Liborio
Romano incaricato del dicastero dell'Interno venne nella ri
soluzione di render conto al paese di tutto ci che si andava
545
facendo, ed a tal uopo presentava al luogotenente la seguente
relazione:
Altezza reale.
Nei paesi che si reggono con forme liberali, ed in cui le
cose si operano alla luce aperta del sole, gli uomini proposti
al timone dello Stato debbono innanzi tutto fuggir le tenebre
ed il mistero, ed in vece tenersi quasi in presenza del pub
blico con un giornaliero rendiconto degli atti governativi, sia
che questi riguardino l'andamento degli affari in generale, sia
quello dei privati in particolare.
Un tal sistema, come a me sembra, torna grandemente
profittevole ai governanti ed ai governati, perciocch mentre
gli uni dicono chiaro e netto quel che vogliono, e mostrano i
mezzi di che si giovano per raggiungere il loro scopo, gli altri
al contrario, chiamati in certa guisa a recar giudizio sull'in
dirizzo dell'amministrazione e fin sull'uso che fecero del tempo
coloro che vi presiedono, non possono lasciarsi traviare dal
l'altrui malizia, n travolgere essi stessi i fatti ed isnaturarli
a capriccio.
Cosi l'opinione si forma, cos la stampa veramente illu
mina il popolo ed il governo, cos la fiducia sorge e si sta
bilisce come saldo presidio di tutti, e con la fiducia vien del
pari la sicurezza ed il benessere e la prosperit dei cittadini.
Questi convincimenti, che in me e ne miei onorevoli col
leghi sono profondi ed inalterabili, credo che si avranno pure
l'onore dell'approvazione per parte dell'Altezza Vostra. Con
vien solo tradurli nella realt, perch meglio se ne riconoscano
i vantaggi, perch si sappia e si tocchi con mano che il go
verno, anzich perdersi in vane ed infruttuose dissertazioni, si
piace di tenersi ai fatti, nei quali la sua condanna e la sua
forza.
Ed affinch questi medesimi fatti fossero noti ad ognuno
e tutti li valutassero con ponderato e giusto criterio, io penso
che un rapporto settimanale dovesse scriversi da uno dei con
siglieri intorno ai lavori eseguiti in ciascun dicastero sui rap
porti trasmessi dagli altri rispettivi dicasteri; e questo mede
simo rapporto opino che debba inoltre pubblicarsi e diffon
dersi col mezzo del giornale ufficiale, lasciando cos libero il
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
69
546
campo od all'approvazione di coloro che spassionatamente vo
ranno giudicarci ovvero ad una critica ragionata, gentile che
possa rischiararci nell'arduo difficile cammino in cui siamo
entrati, e giovare nel tempo stesso alla verit ed al paese.
Napoli, 18 gennaio 1861 .
Ed il luogotenente approvava che successivamente ciascun
consigliere facesse al segretario generale di Stato il comples
sivo rapporto dei lavori eseguiti e settimanalmente o ad altri
brevi periodi e che si pubblicassero sul giornale ufficiale.
Il governo aveva intanto delle apprensioni e dei timori in
rapporto alla reazione. Era necessario organizzare meglio le
forz ed eseguire tutti quei decreti che lo riguardavano; quindi
Liborio Romano dirigeva una circolare ai governatori incari
candoli.
1. Di occuparsi immantinente della riorganizzazione della
Guardia nazionale in tutte le provincie, matricolando tutti gl'in
dividui che dovevano farne parte, ai sensi del decreto del 14
dicembre 1860.
2. Di far subito conoscere al dicastero dell'interno la si
tuazione della forza e rispettivo armamento in ciascun Comune,
ai termini delle istruzioni del governo centrale che sarebbero
state comunicate.
3. Di preparare colla maggiore possibile sollecitudine i qua
dri delle Guardie mobili, ai sensi del decreto del di 25 di
cembre 1860.
Cotesti provvedimenti accennavano si alla buona volont di
chi governava, ma tendevano sempre ad evitare i mali, piutto
sto che ad impiantare il bene.
Perch i lettori di queste storie possano meglio compren
dere la situazione amministrativa e politica delle provincie na
poletane sotto la luogotenenza del principe di Carignano ci
giova seguire la relazione del Nigra presentata al governo
centrale di Torino dopo il ritorno del principe di Carignano
dalla sua mal compita missione. Cotesta relazione tanto pi
preziosa alla storia in quantoch, il Nigra confessa verit che
forse non avrebbe voluto confessare, e senza volerlo rivela la
falsa politica del governo centrale.
- In quella relazione ei diceva:
Le gravi difficolt incontrate dal governo di Sua Altezza
reale nei quattro mesi trascorsi furono in qualche parte pro
547
vocate da fatti recenti e transitorii; ma la pi gran parte di
esse ha origine da cause remote e pi o meno durevoli. Lo
scioglimento dell'esercito borbonico, le misure prese a riguardo
dell'esercito meridionale sul finire dello scorso anno, i capi
toli di Gaeta che permisero a Francesco II il soggiorno in
Roma, contribuirono senza dubbio a suscitare al governo di que
ste provincie seriissimi imbarazzi. Non qui opportuno di di
scutere le ragioni di questi fatti, alcuni dei quali han dovuto
essere una necessit pel governo centrale. Ma importante di
constatare che l'amministrazione di S. A. R. fu del tutto estra
nea ai medesimi, e che essa dovette solamente subirne le con
seguenze. Ad ogni modo per i fatti accennati non avrebbero
di per s soli, dato luogo ai torbidi scoppiati nelle provincie e
a Napoli stessa senza la coesistenza di una condizione gene
rale di cose, la cui gravit non poteva nemmeno sospettarsi,
se la rivoluzione dello scorso autunno e gli eventi posteriori
non fossero venuti a manifestarla.
Le storie contemporanee, da Coletta in poi, sono piene
de biasimi dell'amministrazione borbonica. Ma nessuna storia
ha potuto svelare tutta quanta la immensa piaga. Fatte le de
bite eccezioni, tanto pi onorevoli quanto pi rare, ben si pu
dire con tutta verit, come ogni ramo di pubblica amministra
zione fosse infetto dalla pi schifosa corruzione. La giustizia
criminale serva alle vendette del principe; la civile, meno cor
rotta, ma incagliata anch'essa dall'arbitrio governativo. Libert
nessuna n ai privati n ai Municipi. Piene le carceri e le
galere di onesti cittadini, commisti a rei de pi infami delitti. lnnumerevoli gli esiliati. Gl'impieghi concessi al favore o
comperati. Gl'impiegati in numero dieci volte maggiore del
bisogno. Gli alti impieghi largamente pagati, insufficientissimi
gli stipendi degli altri. Quindi corruzione e peculato ampia
mente e impunemente esercitato.
Abuso di pensioni, di giustizia e di grazia. Ammessi in
gran numero agl'impieghi governativi ragazzi appena nati, co
sicch contavano gli anni di servizio dalla primissima infanzia.
Istruzione elementare nessuna. La secondaria poca e insuffi
ciente. L'universitaria anche pi poca e cattiva. Trascurata
pi ancora l'istruzione femminile. Quindi ignoranza estrema
nelle classi popolari. Pochi i mezzi di comunicazione. Non si
cure le strade, n le propriet, n la vita dei cittadini. Ne
glette le Provincie. Poco commercio malgrado le risorse im
mense di paese ricchissimo. Pochissime le industrie.
548
Perci aggiunta all'ignoranza la miseria e la fame. Le spese
d'amministrazione molto maggiori d'ogni pi largo calcolo.
Gl'istituti di beneficenza, riccamente dotati, depauperati da
schiera immensa d'impiegati, d'amministratori, d'ingegneri,
d'avvocati. I proventi loro consumati, di regola generale, per
tre quarti in ispese d'amministrazione, e per un quarto sola
mente nello scopo dell'istituzione. Nelle carceri, nell'esercito,
nelle amministrazioni, in tutti i luoghi pubblici esercitata lar
gamente la camorra, il brigantaggio nelle provincie, il latroci
mio dappertutto. La polizia trista, arrogante, malvagia, padrona
della libert e della fama dei cittadini. I lavori pubblici, de
cretati, pagati e non fatti. Ogni potere, ogni legge, ogni con
trolio concentrato nell'arbitrio del principe. Nessuna guaren
tigia del pubblico denaro. Clero immenso, ignorante, salvo
alcune eccezioni meno rare nella diocesi di Napoli, sfornito
di dignit e della coscienza del proprio ministero. Bassa su
perstizione nel popolo. La mendicit esercitata sotto forme
diverse da tutte le classi dei cittadini, non escluse le pi ele
vate. Non giornali, non libri, l'esercito corrotto, non esperto
di guerra, privo di fiducia nei capi.
Fu notato a ragione che se le popolazioni napoletane han
potuto resistere a tanti mali per s lungo tempo, ben doveva
essere tenace la loro tempra, e profonda la coscienza del loro
dritto. Difatti tutto questo corrotto edifizio, a mala pena so
stenuto dall'ostinata volont di Ferdinando II, si sfasci sotto
l'urto d'un pugno d'uomini eroici, a cui tenne dietro il sol
levamento quasi istantaneo dell'intiera popolazione.
Successero la rivoluzione, e il plebiscito con cui fu dichia
rata l'unione al Regno italiano sotto la dinastia di Savoia.
Durante il breve periodo della dittatura, Garibaldi govern
coll' entusiasmo, col prestigio del nome e delle gesta e colla
rivoluzione. I pi noti partigiani dei Borboni fuggirono, furono
-
chiamati al governo ed agli impieghi uomini prima persegui
tati dalla polizia borbonica. Si sollevarono le speranze di tutti.
Ma la dittatura non ebbe il tempo n il potere di portare
un rimedio efficace, durevole, radicale ai mali, da cui tutta
quanta la societ era travagliata in queste provincie. A sradi
care questi mali, due soli erano i mezzi: uno proprio della
rivoluzione, l'altro proprio di governo regolare,
Procedendo rivoluzionariamente, si poteva far tavola rasa di
tutto, per riedificare tutto pi tardi con modi rivoluzionarii.
549
Ma per operare pi tardi questo radicale rivolgimento, conve
niva sottoporsi a tutti i pericoli della rivoluzione, e quindi
alla possibilit di guerre sanguinose interne ed anche esterne.
Per tal modo veniva a compromettersi colla pace d' Europa la
soluzione della questione italiana.
Non rimaneva quindi che l'altro mezzo: quello, cio di proce
dere ad ordinare e regolarmente e successivamente l'ammi
nistrazione di queste provincie, partendo dalla base di quanto
esisteva, eliminando a poco a poco gli elementi corrotti, sur.
rogandoli con elementi buoni, e preparando quanto pi cele
remente si potesse la via all'unificazione, senza respingere
nessuno dei partiti che fosse pronto ad accettare il nuovo or
dine di cose dal voto popolare stabilito.
A questo secondo partito doveva appigliarsi e s'appigli
difatti il governo del re.
Colla spedizione delle Marche e dell'Umbria e colla presa
di possesso delle provincie napolitane, tronc egli ad un tratto
il corso della rivoluzione, che ben presto avrebbe assunto in
questo paese le tendenze sociali. Ma questo sistema, se aveva
per effetto di salvare il paese e la pace dell'Europa e del
l'Italia, non era senza inconvenienti, n senza pericolo. Il go
verno del re accettava tutta l'eredit della rivoluzione senza
potersi valere dei mezzi rivoluzionarii. Potevasi fin d'allora
prevedere che agli antichi mali sarebbersi aggiunte le deluse
speranze dei partiti estremi, il malcontento di quanti si pro
mettevano fortune e favori dal nuovo ordine di cose, l'ostilit
d'infinite suscettibilit offese, lo spostamento di molti interessi
e le difficolt gravissime di rimettere al posto loro tutti i bassi
elementi, che ogni violenta commozione degl'infimi fondi so
ciali fa venire a galla.
Difatti, appena stabilito colla luogotenenza un regolare go
verno, queste difficolt vennero mano mano manifestandosi. Il
clero, rassicurato dalla temperanza del governo del re, rialz il
capo e si port in massima parte apertamente ostile. Una parte
dell'aristocrazia, senza rendersi conto dei rischi a cui li sottras
se, o tenne il broncio al governo, o l'osteggi con colpevoli ma
neggi. Il gran numero di coloro che pensavano che la libert
e la nazionalit fossero sinonimi di ricchezze e d'impieghi e
di pane, si trovarono delusi e malcontenti. Ad essi si aggiun
sero molti fra i componenti dell'esercito meridionale, irritati
del tolto grado o stipendio, i soldati borbonici lasciati liberi
er
550
dalla generosa confidenza del governo, i pochi repubblicani
ed un numero pi grande di autonomisti, tutti per ragioni di
verse malcontenti della nuova amministrazione. La miseria e
la carestia, originate dalle cause fin qui accennate, e fatte pi
sensibili nell'inverno e nella primavera, contribuirono pure
ad ingenerare lo sconforto.
Finalmente non devesi omettere, che per riformare alcune
amministrazioni, il governo stato nella necessit di sciogliere
compagnie di milizie irregolari, di licenziare impiegati super
flui ed operai inetti od immorali in numero assai grande, il
che accrebbero pur essi il numero dei malcontenti.
Non quindi a stupire, se in un paese da lunga mano
esercitato dal brigantaggio, dopo una rivoluzione, ed un cam
biamento completo di dinastia e d'ordini governativi, siansi
manifestati in varie provincie moti parziali, che sotto il colore
politico avevano vero carattere di vessazione e di saccheggio.
A ben determinare quest'ultimo carattere dei recenti moti
degli Abruzzi, di Terra di Lavoro e di Basilicata, giover
l'esporre un altro fatto, sul quale chi scrive chiama l'atten
zione di V. E.
Accanto ai patrioti onesti e liberali, che aiutarono la rivo
luzione in queste provincie, si unirono uomini rei d'ogni de
litto, di perduta fama, sfuggita all'azione della giustizia o alle
carceri, i quali e per far dimenticare i commessi delitti e per
acquistar credito e ricchezza, ed anche per esercitare private
vendette, cooperarono al compimento del rivolgimento poli
tico che stabil il nuovo ordine di cose. Credevano essi che il
nuovo governo seguendo esempii non nuovi nella storia napo
letana, non solo avrebbe dimenticato le loro neguizie, ma li
avrebbe ricompensati. Vedendo invece che le loro malvage
speranze trovavano ostacolo insuperabile nell'onest e nella
giustizia del governo, si diedero all'antico mestiere del bri
gantaggio e dell'assassinio. Citer per tutti un esempio, sul
quale dal governatore del Principato Ulteriore ebbi interessanti
indicazioni. Capo dell'orda dei briganti reazionarii che ultima
mente fu dispersa sui confini del Principato Ulteriore e di
Basilicata era un certo Carmine Donatello. Costui, pastore di
capre in origine, di costumi depravati, analfabeta, reo di
molti omicidii, e di altri gravi misfatti, evaso di galera, si
univa nel settembre scorso ai liberali, prestava il suo braccio
ignominioso alla rivoluzione e siccome era fornito di coraggio
551
personale e di attivit, giungeva perfino ad acquistare una
certa influenza nel suo circondario. Sperava egli dal nuovo go
verno perdono e favore; ma scorgendosi invece pendere sul
capo la mano della giustizia, il Donatello spinto dalla fame
e disperando di ottener grazia, torn all'antica vita di omi
cida e di ladro. Carcerato in seguito a mandato di arresto
l'assassino riusciva ad evadersi aiutato da alcuni suoi amici
facenti parte della Guardia nazionale. Uscito in libert, si
diede a far socii ed a scorrere la campagna. Prima che si
avesse truppa disponibile da mandare sui luoghi, la banda di
venne numerosa ed insolente. Si fu allora che i partigiani del
cessato governo borbonico credettero di poter dare uno scopo
politico alla comitiva, e trasformare il brigante in capo di
partito. Il Donatello vi trovava il suo conto nell'oro che gli
si diede, nella nuova dignit assunta e nella speranza di quei
medesimi compensi, che i Borboni nel secolo scorso accor
davano a Fra Diavolo, a Mammone e ai banditi del cardinal
Ruffo.
Le stesse cose pi o meno si verificarono agli Abruzzi,
in Capitanata e altrove. Fu cio dappertutto un moto di ladri
e di briganti a cui si tent di dare forme e tendenze po
litiche.
La poca truppa che si pot spedire nei luoghi minacciati
ebbe facilmente ragione di quest'orda. Le popolazioni e le
guardie nazionali si riebbero dallo spavento incusso da fatti
reali e da narrazioni esagerate. Insomma con tante cagioni
di malcontento e di malessere il movimento non ebbe seguito.
Se fosse stato un vero moto politico in poco tempo avrebbe
preso le pi vaste proporzioni. Si rammenti V. E. che nel
1799 il cardinal Ruffo con principii assai pi meschini che
non fosse la banda del Donatello, giungeva da pochi giorni
in Napoli dall'ultima Calabria a distruggere la repubblica fran
cese e a scacciarne il presidio francese.
Un altra circostanza degna di nota si , che nelle ultime
elezioni politiche i nomi dei pi avanzati radicali uscirono
, dall'urna di quei collegi appunto, ove le reazioni eransi ma
nifestate.
Il partito borbonico, incoraggiato da questi fatti, e spinto
dalle eccitazioni di Roma, ebbe disegno di approfittare della
circostanza per tentare un vero moto politico. Ma la vigilanza
del governo e l'attitudine della popolazione e massime della
55?
guardia nazionale di Napoli, sconcertarono in sul primo for
marsi il colpevole divisamento. Gli accusati si trovano ora
in mano ai tribunali ordinarii ed a questi toccher il giudicare.
Si noter qui solamente come l'annunzio delle scoperte
trame eccitasse una tale indignazione nella popolazione di Na
poli da togliere ai nemici dell'unit italiana ogni speranza di
SUlCC6SSO.
Da quanto si venne sin qui esponendo appare quanto grave
fosse la posizione del governo di S. A. R. in queste provincie.
Il principe luogotenente dovea reggere il paese, migliorarne
l'amministrazione, preparare l'unificazione in mezzo a tutte
queste difficolt, e ci senza ricorrere a mezzi rivoluzionarii,
senza poter disporre di forza sufficiente, quasi senza gendar
meria, con elementi quasi sclusivamente locali, con poteri
limitati e senza provocare misure inconstituzionali. Doveva
governare senza urtare troppo violentemente le tendenze au
tonomiche del partito considerevole per numero e per in
fluenza, valendosi in gran parte d'impiegati e magistrati an
tichi e perci poco accetti alla popolazione, e in parte d'uo
mini nuovi e quindi privi di esperienza amministrativa; doveva
governare coi mezzi della libert un popolo che non ha lungo
esercizio di libert; e in mezzo agli ostacoli suscitati nel Par
lamento allo stesso governo centrale, ostacoli la cui azione si
faceva ordinariamente sentire in queste provincie. Infine do
veva governare, senza l'aiuto efficacissimo che presta dovunque
ai liberi governi la pubblica opinione, giacch pur duopo
confessare, che in queste provincie la pubblica opinione si
sta pur ora appena formando. In prova di questo fatto il
sottoscritto non ha che a richiamare quanto scrisse in altra
circostanza sulla stampa napolitana. La pubblica opinione
qui esistente ha un carattere quasi esclusivamente negativo.
E per l'antica abitudine di considerare il Governo come
naturale nemico della societ, e per le cause di scontento
superiormente accennate, l'ufficio della pubblica opinione fu
finora quello di indicare i mali spesso esagerandoli, di accu
sare gli uomini e i sistemi, senza indicare i rimedi ge
nerali, senza rendersi conto della possibilit della loro at
tuazione.
Si gridato e si grida continuamente: si migliori, si semplifi
chi, si moralizzi l'amministrazione, si caccino gl' impiegati bor
bonici, si mettano al posto le vittime del cessato dispo
tismo, si dia pane e lavoro al popolo, si facciano strade
ferrate, si fondino scuole, asili e licei, si crei l'industria,
e il commercio, si opprimino le ostilit clericali e borboniche,
si organizzino i Municipii, si diano armi alle guardie nazionali,
si mandino truppe e gendarmi nelle provincie, si compen
sino i martiri e i danni sofferti. Da altri si grida: si cam
mini speditamente nella via dell'unificazione, si distrugga
ogni vestigio di autonomia, passi al governo centrale l'in
tiera responsabilit e l'azione dell'amministrazione locale.
Infine si dice da altri, si rispetti lo spirito autonomico
del paese, si rispettino le tradizioni e le istituzioni locali;
si conservi quanto c' di buono nella legislazione locale; si
trattino con moderazione il clero e i partiti anche avversi; non
si mettino sulla strada i numerosi impiegati antichi si civili che
militari, si chiamino alla direzione della cosa pubblica, meno
uomini politici che esperti amministratori, bench per avven
tura abbiano servito il cessato governo.
Alcuni di questi consigli si escludono a vicenda, altri non
si possono attuare immediatamente, altri non si possono
seguire senza temperamenti, che la pratica delle cose di Stato
indicano indispensabili. Non s'improvvisa in pochi mesi un si
stema di strade ferrate; non si creano scuole senza maestri, e
questi non s'improvvisano egualmente, le industrie e i com
merci non si fondano che colla fiducia, coll'azione lenta delle
libere istituzioni, collo spirito d'associazione e dell'iniziativa
privata; non si muta in un istante un popolo soggetto da
lunghissimo tempo alla schiavit e alla ignoranza in un popolo
colto e civile; l'opinione pubblica non si crea che coll'eserci
zio della libert; non si cancellano ad un tratto le vestigia pro
fonde di una secolare oppressione, non si possono mandar
truppe in numero maggiore di quelle che si hanno; n
in pochi mesi si pu centuplicare il numero de'carabinieri,
la cui istituzione esige tempo e disciplina; non si moralizza in
un istante un'amministrazione corrottissima.
Tuttavia il governo di S. A. R. introdusse nei vari rami del
l'amministrazione tutti quei miglioramenti pratici, che gli fu
rono consentiti dalla difficolt dei tempi. Esso ha la coscienza
di aver preparato il terreno a miglioramenti maggiori, e non
dubita che la storia imparziale, il governo del re, e queste
stesse provincie gli terran conto degli sforzi fatti e delle diffi
colt superate.
Storia della rivol. Sicil. Vol. II.
70
5,54
Esso si astenne dall'urtare troppo violentemente le suscetti
bilit del paese, conciliando questo rispetto col principio del
l'unificazione, vivamente reclamata nell'interesse della grande
patria italiana. Tenne conto d'ogni legittimo diritto relati
vamente alle persone; govern col concorso di uomini del
paese, ed introdusse l'utilissimo sistema della commutazione
degl'impiegati fra la superiore e l'inferiore Italia; chiam
a suoi consiglieri gli uomini, che erano indicati dalla pub
blica opinione e dai pi benemeriti cittadini.
Sciolti gli antichi ministeri napoletani degli affari esteri,
della guerra e della marina, passate le loro attribuzioni
a rispettivi ministeri centrali, si adott un eguale misura
per le amministrazioni delle poste e de'telegrafi. Si abol il
Consiglio di luogotenenza; i consiglieri furono mutati in se
gretarii generali, dipendenti da rispettivi ministeri di Torino.
Furono ridotti a quattro gli otto dicasteri, gli affari e le no
mine pi importanti, furono posti alla dipendenza del governo
centrale. Le misure legislative principali qui pubblicate prima
dell'apertura dal Parlamento, furono generalmente ispirate
dal medesimo concetto d'unificazione.
Non essendo possibile a S. A. R. l' acquistare in breve
tempo esatta e sincera notizia del personale, ha saviamente
determinato che ogni nomina ed ogni dispozione concernente
il personale stesso, prima di essere sottoposta alla sua firma
ed a quella del segretario generale di Stato, fosse discussa
in conferenza del consiglieri di luogotenenza o segretari ge
nerali, e da essi approvata. Malgrado questa precauzione, er
rori han potuto succedere e successero diffatti, ma, se si tien
conto delle circostanze eccezionali del governo, si ha luogo
di credere che questi errori non furono n frequenti, n gravi.
Intorno alle riforme apportate dall' amministrazione degli
affari ecclesiastici il sottoscritto ha riferito all'onorevole guar
dasigilli con ispeciali rapporti, fra cui accenna quello che porta
la data del 24 marzo ora scorso. Il commendatore Mancini,
segretario generale incaricato di questo importante servigio,
diede pur esso ampia notizia dell'operato con particolari rela
zioni, alcune delle quali furono pubblicate. Il sottoscritto
si limita a far qui mensione delle leggi importantissime pro
mulgate coi decreti di S. A. R. del 17 scorso febbrajo. Esse
non furono che l'esecuzione precisa delle istruzioni impar
tite dal governo centrale alla lnogotenenza quando S. A. R.
part da Torino.
355
Con un primo decreto sono richiamati in vigore gli atti
costituenti l'antico diritto pubblico ecclesiastico delle provin
cie napolitane, e si dichiara cessata ogni efficacia del concor
dato borbonico conchiuso colla sede pontificia il 16 febbraio
1818, e dall'altra convenzione 18 aprile 1836. Tali patti
stretti con Roma da due Ferdinando di Napoli, avevano pres
soch distrutta l'indipendenza del principato civile, ed estesa
enormemente l'ingerenza del clero nelle cose meramente se
colari. Nello stesso modo in Toscana il decreto, che dichiar
cessato e disciolto il concordato, stabili l'antica polizia eccle
siastica conosciuta sotto il nome di Leopoldina. Solamente
con ci la potest civile perde tutti i suoi diritti riconosciuti
ed accordati nel gi regno delle Due Sicilie dal concordato
del 1818, bench non possa pi oltre esercitarli in virt del
concordato medesimo, nulla perde, potendo invocare a fonda
mento di essi un diverso titolo nel preesistente diritto pub
blico ecclesiastico napoletano. Una perfetta eguaglianza per lo
esercizio civile e politico stabilita tra i cittadini appartenenti
a differenti culti, la qualcosa conforme a quanto a forza di
apposita legge votata dal parlamento nel 1848 in vigore negli
Stati della monarchia. Ogni privilegio di foro abolito; e gli
ecclesiastici sono assoggettati a tutte le leggi ed a tribunali
ordinarii dello Stato. Queste sono le principali disposizioni
comprese in quel primo decreto.
Ma a prevenire i possibili abusi delle autorit ecclesiastiche
in danno dell'ordine pubblico, fu stimata convenevol cosa intro
durre anche in Napoli quel rimedio di ricorso alla regia prote
zione, che gi sotto il nome di Appello per abuso era in vigore
negli antichi Stati (come in altre contrade d'Europa), e che fu
poscia esteso alle altre provincie italiane che si aggregarono alla
monarchia di Savoia. Tale rimedio provvede anche a conflitti
della potest civile con la ecclesiastica; era riconosciuto ezian
dio prima del concordato del 1818 nel diritto pubblico napo
letano. Ma si volle qui assimilare anche in questa parte le isti
tuzioni vigenti nella superiore e media Italia con quelle delle
provincie napoletane, attribuendo alla cognizione del consiglio
di Stato quei ricorsi, sia per abuso, sia per conflitto di giu
risdizione.
Una prammatica del 12 luglio 1779 aveva in Napoli con
fidata l'amministrazione dei beni delle chiese e de'beneficii va
canti a regii economi e sotto economi, e ci perch i beni me
556
desimi esser debbono sotto la protezione regia, e i frutti dei
benefizii costituiscono una regalia alla corona. Ma il concor
dato del 1818 aveva creato, come si accennato pi sopra,
le commissioni diocesane che ebbero l'effetto di sottrarre tali
beni ad ogni ingerenza governativa, e di confidarli esclusiva
mente nelle mani degli ecclesiastici. Ora un terzo decreto
soppresse le commissioni diocesane e repristin il regio eco
nomato generale per le provincie napoletane, nella forma e
con le norme vigenti nell'Italia superiore.
Un quarto decreto, sull'esempio di quanto si operato nelle
altre provincie della monarchia, la qualit di enti morali rico
nosciuti dalla legge civile alle case degli ordini monastici ed
a capitoli delle chiese collegiate, salvo le eccezioni da determi
narsi specialmente per gli ordini che compissero utili uffizii so
ciali per proprio istinto. Col medesimo decreto sono sciolti
i benefizii e le cappellanie e le abbazie che non abbiano cura
d'anime, n annesso alcun ufficio ecclesiastico che debba com
piersi personalmente dal provvisto. creato pel possesso dei
beni di questi conventi, benefizii e cappellanie, una direzione
della cassa ecclesiastica, dipendente dal governo, dalla quale
sar corrisposta una sovvenzione a membri degli ordini sop
pressi, senza che sia permessa nel medesimi l'ammissione di
nuovi religiosi.
Con un quinto decreto, sono parimenti soppresse le cosidette
conferenze delle missioni. Per comprendere l' importanza di
quest'altro provvedimento, basti il notare che ad una sola di
queste conferenze, quella creata sotto il titolo di Santa Maria
dell'Assunta nel palazzo arcivescovile di Napoli, fu lasciato nel
giro di pochi anni un capitale di 6 milioni di lire per legati.
Quella conferenza, il cui scopo primitivo doveva essere di
spargere nelle provincie la parola religiosa, era diventata stru
mente di governo sotto la cessata dinastia.
Un sesto decreto abolisce ogni disposizione che esclude la
libera attuazione dell'autorit civile, e prescrive il necessario
concorso, e l'esclusiva ingerenza dei vescovi nelle commissioni
di beneficenza, nell'amministrazione e nel governo delle opere
pie laicali, delle cappelle laicali, degli orfanotrofi, dei conserva
torii e ritiri, delle confraternite e pie associazioni, e di ogni
altra corporazione, stabilimento ed istituzione laicale. Questo
decreto riserba la nomina degli amministratori dei pii luoghi
a municipii sotto l'approvazione del dicastero dell'interno.
557
Nello scopo di mettere il governo centrale in misura di de
terminare con conoscenza di causa quali fra gli ordini mona
stici dovessero eccettuarsi dalla misura di soppressionepoch'anzi
accennata, furono nominati, per ordine del governo di S. A.,
commissioni provinciali presiedute dal governatore della pro
vincia e composte di persone ragguardevoli per ingegno, probit
e patriottismo ed immuni da pregiudizii e da eccedenze, sia
nella esagerazione sia nel disprezzo dei principii religiosi. Il
lavoro di queste commissioni provinciali fu compiuto e man
dato all'onorevole guardasigilli, perch il governo centrale
possa, nella sua saviezza, determinare le eccezioni necessarie.
Intorno a questa materia non rimane al sottoscritto che di
insistere vivamente presso il governo centrale, perch voglia,
nel pi breve tempo possibile, togliere gli ordini religiosi dalla
incertezza in cui vivono relativamente ai loro destini. Siccome
fra essi ve ne sono alcuni, i quali e per lo scopo della loro
istituzione e pei servigi resi al paese, non pu cader dubbio
che debbano essere conservati, il sottoscritto proporrebbe che
si fissasse subito una lista di ordini eccettuati, salvo a com
pletarla pi tardi, ove sia stimato necessario.
Intorno ai provvedimenti dati, per l'esecuzione dei decreti
precitati, lo scrivente si riferisce agli speciali rapporti inviati
su questa materia all'onorevole guardasigilli. Non deve trala
sciare di notar qui, a questo proposito, la protesta sotto
scritta dall'episcopato napoletano contro l'esecuzione dei de
creti medesimi.
A complemento di queste brevi notizie sulle cose del culto,
si stima cosa non inopportuna l'aggiungere alcuni cenni in
torno alla statistica ecclesiastica.
Mancano affatto elementi certi per una statistica degli or
dini religiosi; nessuna traccia se ne trov al dicastero degli
affari ecclesiastici, il quale, sotto la luogotenenza di S. A. or
din di compiere sollecitamente questo importante lavoro. Ma
non essendo finora pervenuti al dicastero i dati richiesti alle
varie provincie, non si pu dar qui che un cenno molto ine
satto degli ordini religiosi maschili, e specialmente poi dei
femminili.
Mendicanti. Da un lavoro statistico del 1848, compilato
sulle notizie somministrate dai superiori stessi delle case reli
giose al dicastero degli affari ecclesiastici in Napoli, risul
terebbe che i Mendicanti trovavansi sparsi per le provincie na
poletane sono come appresso:
S58
Alcantarini
Ordini
. . .
Case
27
Persone
653.
Cappuccini
. 234
. 3136.
Osservanti.
Riformati .
Passionisti
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
. 219
. 159
.
.
.
.
. .
. ..
. 2650.
. 2697.
Totale ordini 5.
67.
persone 9203.
case 642.
Tenuto conto per che, nel lasso di tempo trascorso dal
1848 in fino ad oggi un aumento vuol essere sopravvenuto
nel personale anzidetto, si pu, rispetto al momento che corre,
fissare la cifra di membri dell'ordine in dieci o undici mila
persone.
Sebbene mendicanti pure pagherebbero di contributo fondario,
per quanto si pot conoscere, la somma complessiva di annui
ducati 1441 10; ci che darebbe loro complessivamente la
rendita di circa annui ducati, 9,000 e quindi il capitale di
ducati 180,000,
ossia di rendita lire 38,250
e di capitale .
765,000
Possidenti. Dai cenni parimenti consegnati nel lavoro surif
ferito ricaverebbesi per gli ordini religiosi maschili possidenti
disseminati per le provincie napoletane il quadro che segue:
Ordini
Case
Persone
Agostiniani calzi
. . . . . 20
Agostiniani calzi di S. Giovanni . 4
Agostiniani scalzi . . . . . . 1
Benedettini Cassinesi .
Benedettini bianchi
Barnabiti .
Crociferi .
-
.
.
3
3
3
5
Canonici regolari lateranensi
Conventuali lll ordine di S. Francesco.
Cistercensi . . .
Certosini .
Camaldolesi .
A
2
3
i Carmelitani calzi
167.
50.
. 35.
. 109.
l; 5.
55.
44.
42.
4.
13.
15.
. 56.
. 112.
da riportare 57
777.
559
Ordini
Case
Persone
Riporto 57
Carmelitani Scalzi .
Cherici R. R. di S. Tr. Car
18.
Cherici R. R. della Madre di Dio .
40.
Cinesi.
Riporto 777.
. .
68.
34.
Congregazione di S. Vinc. da Paola. 6 .
Congregazione del SS. Redentore. 14 .
. . .
. . .
. 156.
. 275.
Conventuali .
Dottrinarii
. 451.
. 56.
354.
188.
15.
Domenicani .
Gesuiti
.
Mercedarii
. 14
6
. 27
7
. 1
Minimi di S. Francesco di Paola .
133.
Mannarini.
44.
Pii operai
Filippini .
Sacramentini.
SS. Cuore . . . . .
PP. di S. Giovanni di Dio
Scolopii .
Teatini
.
.
-
.
.
.
.
3
8
3
.5
12
8
3
35.
99.
59.
74.
70.
126.
58.
PP. del beato Pietro da Pisa . . 3 . . . . . 76.
Totale Ordini 34. Case 204
persone 3200.
Ritenuto per che, come dai Mendicanti, si detto anche il
numero dei possidenti siasi accresciuto di un quinto dal 1848
in poi, sembra che possa ritenersi oggi come pi vero il qua
dro stesso cos modificato, cio:
Ordini 34 Case 206 Persone 3840
Tutto questo personale pagherebbe annualmente per con
tributo fondiario l'ammontare di ducati 73,251,40 ed avrebbe
d'entrata annua corrispondente ducati 458,590. 96 e quindi
possederebbe un capitale di ducati 9,171,819.22, ossia avrebbe
Rendita L. 1,949.011,58.
Capitale , 38,567,500, 685.
Aggiungendo il capitale di ducati 262,462,49 provenienti dai
legati pii laicali, e ricevuto parte dalle corporazioni religiose
b
mendicanti, e parte dalle possidenti dal 1818 al 1847 risul
560
terebbe come la rendita affetta agli ordini possidenti toccasse
quasi sin d' allora i due milioni di lire.
Monache. Da una statistica del censo di Napoli del 1845
che si pot a stento avere sott'occhio, rileverebbesi che nel
perimetro della citt si avevano allora
N. 13 ordini monastici di donne.
con N. 24 case fra tutti essi ordini.
e N. 1495 persone in esse case.
Fatto quindi caso della popolazione, tenuto conto delle di
verse ragioni che possono favorire o contrastare l'impianto di
case monastiche femminili nelle diverse localit, e
stabilita
pure una qualche proporzione fra il noto numero di case ma
schili e di monaci esistenti in Napoli e fuori, ed il numero di
case femminili e di monache che gi si conoscerebbe per Na
poli crederebbesi poter ascendere il numero delle case di mo
nache fra Napoli e fuori a 250; e assegnando a ciascuna di
esse N. 20 persone tra monache propriamente dette, novizie
e converse, si avrebbe tin totale di monache N. 5000. Attri
buendo, poi nella mancanza assoluta di dati statistici a ciasche
duna casa pel suo mantenimento la rendita di lire 8 mila avreb
besi complessivamente la rendita annua di lire 2,000,000 e
corrispondente alla stessa un capitale di L. 40,000,000. I 13
ordini di religiose, che esistevano in Napoli nel 1845, e si sup
pone vi esistano tuttora, sono i seguenti:
Domenicane, Francescane, Cappuccine, Teresiane, Concezio
niste, Benedettine, Sacramentine o Adoratrici Perpetue, Car
melitane, Teatine, Romite, Canonichesse lateranensi, Agosti
niane, Suore della Carit.
Si noverano nelle provincie napoletane:
N. 20 Arcivescovadi cio quelli di Acerenza e Matera,
Amalfi, Bari, Benevento, Brindisi, Capua, Chieti e Vasto,
Conza, Cosenza, Lanciano, Manfredonia, Napoli, Otranto, Reg
gio, Rossano, Salerno, S. Severino, Sorrento, Taranto, Trani
e Nazaret.
N. 77 Vescovadi cio di Acerno, Acerra, Afile, Andria,
Anglona, Tursi, Aquila, Aquino, Sora, Pontecorvo, Ariano,
Ascoli, Cerignola, Avellino, Aversa, Bisceglie, Boiano, Bora,
Bovino, Caiazzo, Calvi e Teano, Campagna, Capaccio e Vallo,
Cariati, Caserta, Cassano, Castellamare, Castellaneta, Catan
zaro, Conversano, Cotrone, Diano, Foggia, Gaeta, Gallipoli,
561
Gerace, Gravina e Montepeloso, Ischia, lsernia e Venafro, La
cedonia, Larino, Lecce, Lucera, Marzi, Marsico e Potenza, Melfi
e Rampolla, Mileto, Molfetta, Giovinazzo e Terliggi, Monopoli,
Muro, Nardo, Nicastro, Nicotera e Tropea, Nocera de Pagani,
Nola, Nusco, Oppido, Oria, Ortuna, Ostuni, Penne ed Atri,
Policastro, Pozzuoli, Ruvo e Bitunto, S. Marco e Bisignano,
S. Severo, S. Agata de'Goti, S. Angelo de Lombardi e Bisac
cia, Sarno e Cava, Sessa, Squillace, Telese e Cerreto, Teramo,
Termoli, Tricarico, Trivento, Troja, Ugento, Valra e Salmona,
Venosa, Viesti.
La rendita complessiva di tutti i vescovadi e arcivescovadi
suddetti, calcolata per la maggior parte dietro informazioni uf
ficiali e pel rimanente approssimativamente, sarebbe di ducati
A60,287 pari a L. 1,956,219. 75, formanti il capitale di ducati
9,201,720, o L. 39,124,395;
La rendita in media spettante a ciascun titolare. delle di
verse diocesi sarebbe di ducati 4,745 = L. 20,171 40.
Stabilendo un confronto fra il numero dei vescovi e arci
vescovi di Francia e quelli delle provincie napoletane si ricava
anzitutto che il numero d'anime 7,660,618 diviso pel N 97
di circa anime 70,000 per ciascun vescovo.
Laddove in Francia, dove per una popolazione di circa 35
milioni di cattolici non si hanno che 14 arcivescovi, e 66 ve
scovi, cio in tutto 80 pastori, il primo numero (35,000,000
diviso pel secondo 180) darebbe solamente un vescovo per ogni
437,500 anime. Cio la Francia se dovesse mostrarsi sul piede
delle provincie napoletane dovrebbe avere, per la sua popola
zione cattolica di 35 milioni, vescovi 485: e le provincie na
poletane, se fossero sul piede di Francia, dovrebbero conten
tarsi per una popolazione di 7 milioni di vescovi 16. Ora
invece contando gli ultimi vescovi 97 invece di 16, ne risulta
che il numero dei vescovi napoletani rispettivamente alla po
polazione napoletana sta al numero de vescovi francesi a
rispetto della popolazione francese, nella proporzione di 6,6
ad 1.
Il dicastero di grazia e giustizia doveva compiere sotto il
governo di S. A. un doppio mandato, cio quello di procu
rare la maggiore possibile unificazione legislativa con le altre
parti libere della Monarchia e quello di rinvigorire l'azione
della giustizia fino allora lenta e spesso inefficace.
Stor, della rivol. Sicil Vol. II.
71
562
Intorno alla delicata questione della riforma sul personale
della magistratura il sottoscritto richiama all'attenzione di V.
E. quanto scrisse in data dell'11 aprile scorso all'onorevole
guardasigilli e quanto espose verbalmente al conte di Castel
lamonte segretario generale del ministero di grazia e giustizia,
durante la sua missione a Napoli. Baster l'accennare qui le
misure date per fornire di giudici regii un numero grande di
circondarii che ne erano privi a danno dell'azione della giu
stizia, non che il principio sanzionato da S. A. e dal governo
centrale e giova sperare tosto messo in esecuzione intorno al
cambio, nei magistrati tra la superiore e l'inferiore Italia.
Nota pure a questo riguardo il sottoscritto come uno dei
primi atti del governo di S. A. sia stato quello di chiamare
immediatamente alle loro sedi i molti magistrati, i quali con
congedo o senza se ne erano allontanati, e ci sotto pena di
destituzione. Furono soddisfacenti i risultati che si ottennero
da queste misure di rigore, talch al cominciare del febbrajo
quasi tutti i magistrati si trovarono al loro posto. I pochi
che non adempirono a questo dovere furono sospesi dall'uf
ficio.
S'istitu un tribunale provinciale ed una gran corte cri
minale nella citt di Benevento, si diede opera a compiere
il lavoro di scrutinio dei giudici regi (di mandamento) sulle
informazioni pervenute dalle commissioni censorie precedente
mente istituite nelle provincie, e sugli antecedenti posseduti
dall'archivio del dicastero.
Quanto all'unificazione legislativa duopo accennare che
gi prima dell'arrivo di S. A. erasi cominciata l' opera colla
pubblicazione delle leggi di pubblica sicurezza, sulla stampa
e sull'ordinamento amministrativo
consulta.
dei
comuni votata dalla
Il consigliere di grazia e giustizia, sotto la precedente
luogotenenza aveva nominato una commissione legislativa, com
posta di chiari giureconsulti, con incarico di studiare il modo
d'introdurre con opportune riforme in queste provincie il
codice penale, quello di procedura penale, e la legge sulla
organizzazione giudiziaria, vigenti negl'antichi Stati della mo
narchia italiana.
Questa commissione non si era riunita che una sola volta.
Alcuni membri di essa volevano che fossero lasciati in vigore
i codici napoletani con qualche modificazione, e questa dis
565
sidenza aveva prodotto lo scioglimento della commissione. Tut
tavia quei membri di essa, e che erano stati specialmente in
caricati di formare il progetto di legge sulla organizzazione giu
diziaria, completarono il loro lavoro che rimase presso il Di
castero. Il governo di S. A. succeduto alla prima luogotenenza
fece subito pubblicare il Codice Penale Militare gi decretato
dalla precedente amministrazione.
Susseguentemente, nello scopo di porre sollecitamente
in opera la riforma legislativa, la quale faceva anche parte
delle istruzioni date dal governo centrale S. A. nomin una
nuova commissione legislativa composta dei pi distinti ma
gistrati e giureconsulti, della quale affid la presidenza al com
mendatore Mancini. Questa commissione esamin con lode
vole alacrit il Codice Penale, quello di Procedura Penale e il
progetto di legge sull'organamento giudiziario gi presentato
dalla precedente commissione. Questi codici e questa legge,
che sono, salve poche modificazioni, quelli che hanno vigore
negli antichi Stati del Piemonte, in Lombardia e nell'Emilia fu
rono promulgati con decreti 17 febbrajo. Le poche modifi
cazioni apportate dalla commissione napoletana erano consi
gliate o da una maggior conformit a dettami della scienza, o
dal debito e ragionevole rispetto alle tradizioni ed agli usi
locali.
Il codice penale napoletano promulgato nel 1819 fu in
quei tempi reputato buono se non ottimo; ma d'allora in poi
la scienza aveva fatto nuovi progressi, e gi il Coletta aveva
portato di alcune parti di esso severo giudizio. L'abolizione
del medesimo fu quindi ben lungi dal destare il malcontento
che alcuni temevano.
Con altro decreto fu dato immediatamente vigore ed effetto
in queste provincie al R. decreto del 7 ottobre 1859, che at
tribuisce esecuzione in tutta la monarchia agli atti, alle citazioni
ed ai giudicati che hanno luogo nelle diverse provincie italiane.
Con altro decreto furono messi in vigore la legge del
23 giugno 1854 e il regolamento annesso intorno alla promul
gazione delle leggi ed atti del governo.
Con altro decreto furono introdotti nella camera di di
sciplina opportune riforme fondate sul principio della elezione
dei componenti delle medesime da parte degli stessi avvocati.
Si cercato di migliorare la istituzione della statistica
gindiziaria mensuale con apposite circolari.
564
Con altra circolare si esentarono dal registro e bollo i
verbali di deposito nelle cancellerie dei Tribunali civili, del
l'esemplare del processo verbale, delle elezioni politiche, non
che le spedizioni del verbale stesso.
Altre disposizioni sulle prigioni giudiziarie, sulla pronta
spedizione delle istruzioni e dei giudizi pendenti, sulle inu
mazioni dei cadaveri, sulla multazione di reati per transazioni
delle parti offese, sulla repressione dei reati di stampa ecc.
furono accennate dal sottoscritto con speciali rapporti.
-
Fu pure a suo tempo informato il governo centrale dei
primi esperimenti intorno all'applicazione del sistema dei giu
rati ai reati di stampa.
Nello scopo d'applicare contemporaneamente alle varie
vicende italiane un sistema di legislazione uniforme, il governo
centrale decise che l'applicazione delle leggi sovra accennate
la quale doveva aver luogo il 1 luglio prossimo, fosse per al
cun tempo differita. Intanto il governo di S. A. ebbe cura di
fare pervenire al guardasigilli le proprie considerazioni intorno
a questo importante argomento, massime per ci che concerne
la nuova circoscrizione giudiziaria.
Finalmente fu pure pubblicata sotto la luogotenenza di S. A.
la legge vigente negli antichi Stati sulla tutela dei diritti di pro
priet artistica e letteraria.
Per quali ragioni la legge comunale e provinciale, non
siasi potuta applicare pi presto fu riferito dal sottoscritto al
Ministero dell'Interno.
per lieto di annunziare che in questo stesso momento
ebbero luogo le elezioni comunali e provinciali a seconda della
nuova legge in tutte le provincie napoletane, con ordine per
fetto, e con tutta regolarit. L'applicazione di questa legge
importante segna in modo particolare la luogotenenza di S. A.
e sar sorgente per queste provincie di fecondi risultati.
La riorganizzazione della Guardia nazionale si sta pure
in questo momento operando sotto i pi favorevoli auspici.
Si spedirono nelle provincie distinti ufficiali in qualit di or
ganizzatori, e gi dai rapporti ricevuti appare come l'opera
loro sia stata utile ad efficace. Pel riordinamento della Guardia
nazionale della citt di Napoli, il governo pu contare sulla
intelligente sollecitudine degli egregi generali marchese Topputi
ed Enrico Cosenz, comandante l'uno della Guardia nazionale
di Napoli, l'altro ispettore generale. V. E. Sa quanto grandi
565
siano i servizi resi da questa benemerita istituzione in que
ste provincie. Eccellente lo spirito degli ufficiali e dei militi,
lodevoli la condotta e il contegno, come ella avr potuto giudi
care dal battaglione mobilizzato spedito a Torino ed a Milano.
Un altro battaglione fu pure mandato, e trovasi ancora in To
Scana. Non deve per lo scrivente celare come sia indispensa
bile ed urgente che questo benemerito corpo si purghi di al
cuni cattivi elementi, che non hanno diritto di appartenervi, e
che potrebbero compromettere, come gi tentarono di fare,
l'onore dell'intera istituzione. Si deve egualmente notare come
si manifesta nella Guardia nazionale di queste provincie una
certa tendenza ad oltrepassare i limiti delle proprie attribuzio
ni, e si abusi anzi dell'uniforme fuori di servizio. Ma questi
difetti si vanno naturalmente correggendo coll'andar del tempo
a misura che si va acquistando dalle popolazioni la coscienza
delle istituzioni liberali. V. E. si ricorder come nei primi an
ni della sua istituzione la Guardia nazionale del Piemonte pre
sentasse gli stessi inconvenienti che poi a poco scomparvero
del tutto. Lo scrivente ha referito a suo tempo il fatto deplo
rabile del 26 dello scorso mese.
Ora lieto di potere assicurare che quel fatto, opera di
alcuni sconsigliati, spinti dai partiti avversi al governo, ha ec
citato la disapprovazione generale della immensa maggioranza
della Guardia nazionale. E' ne fu prova evidente il banchetto
cordialmente offerto dalla Guardia nazionale e con pari cor
dialit accettato dalle truppe di questo presidio, e che ebbe
luogo in questi di nell'ampia sala del Teatro S. Carlo, in se
gno di mutua fiducia e di vera fratellanza. La R. luogotenenza
provvide pure al complemento dell'armamento della Guardia
nazionale. Ai settantamila fucili gi precedentemente distri
buiti si aggiunsero altri quarantamila fucili messi a disposi
zione della Guardia nazionale di queste provincie dal Mini
stero della guerra. Di questi 40 mila fucili furono distribuiti
oltre a 35 mila nelle varie provincie napoletane.
L'organizzazione del servizio di pubblica sicurezza e della
polizia presentava gravissime difficolt. Gli antichi elementi
non offrivano n fiducia n guarentigia non solo, ma compro
mettevano il servizio e alimentavano il disordine. Convenne
adunque organizzare completamente con elementi in massima
parte nuovi, queste importantissime amministrazioni, opera
lenta di sua natura e piena di difficult. Ma l'energia e l'at
66
tivit del segretario generale incaricato di questo servizio
furono pari alla difficolt dell'impresa. Ora gli ufficii di po
lizia e le guardie di pubblica sicurezza possono dirsi organiz
zati secondo la legge degli antichi Stati nella citt di Napoli
e nelle provincie. La maggior parte degli antichi impiegati di
polizia, di trista rinomanza, furono licenziati dal servizio. A
tutela della pubblica sicurezza, si disseminarono nelle provincie
i carabinieri reali della 7." legione. Essi sono distribuiti nelle
seguenti localit: Capua, Reggio, Teano, Nola, Castellamare,
Capo di Monte, Cosenza, Campobasso, Bari, Lecce, Caserta,
Chieti, Maddaloni, Aversa, Monte Leone, Marano, S. Onofrio,
S. Anastasio, Isernia, Mignano, Proccio, Piano di Sorrento, .
Piedimonte, Ariano, Pomigliano, Boiano, Anione, Catanzaro,
Forl, Forio, S. Domenico Soriani, Foggia, Avellino, Potenza,
Muguiano, Gragnano, Portice, Somma, Pozzuoli, Pizzo, Be
nevento, Casoria, Sessa, Sora, Gerace, Aquila, Solmona, Pe
scara, Pepoli, Torre Varignona, Castel di Sandro.
Altri sono di stazione a Napoli ed alcuni in distacca
mento senza destinazione fissa.
Ma il loro numero di gran lunga inferiore al bisogno.
Per istabilire stazioni regolari in corrispondenza le une colle
altre, occorrerebbero circa sette mila uomini, mentre finora
non poterono essere messi a disposizione della luogotenenza
pi di 1200 carabinieri con 200 cavalli. Il sottoscritto non
pu a meno di insistere sulla necessit d'aumentare, il pi
che si possa, questo numero troppo insufficiente al bisogno.
Nello stesso scopo il luogotenente ordin un'equa distribu
zione delle truppe del 6. dipartimento posto sotto il suo su
periore comando. L'invio di un rinforzo di truppe urgente
mente considerato nelle circostanze eccezionali del paese.
Nelle repressioni a cui si dovette ricorrere per mantenere
l'ordine nelle provincie, i soldati, i carabinieri, e i militi
della Guardia nazionale agirono dovunque nel modo il pi sod
disfacente, la loro condotta merita i pi grandi encomi.
I servizi dipendenti dal dicastero dei lavori pubblici for
marono oggetto di una speciale ispezione, affidata al cavaliere
Ronco, deputato al parlamento, e al conte Reges. Dai loro
rapporti il governo avr potuto formarsi un giusto concetto
di questa amministrazione.
L'amministrazione delle strade ferrate dello Stato presenta
gravi disordini ed inconvenienti sia pel personale, sia pel ma
567
teriale fisso e mobile. I soli modi per porre immediatamente
riparo sono, a giudizio del sottoscritto, o la cessione delle
ferrovie ad industria privata, o il passaggio immediato di
quest'amministrazione sotto la dipendenza del governo centrale.
La rete attuale delle strade ferrate napoletane di bre
vissima estensione. Essa si compone della ferrovia da Napoli
a Vietri per Castellamare, tendente a Salerno, esercitata dal
l'industria privata, e di quella di Napoli a Capua con dirama
zione da Cancello a S. Severino. Amendue queste strade fer
rate sono costrutte secondo metodi antichi con materiali af
fatto insufficienti. quindi indispensabile, per poco che il mo
vimento si accresca di ricostruirle quasi per intero. La prima
di esse non ha nemmeno il servizio telegrafico. Vi inoltre
in costruzione la linea da Capua a Ceprano sul confine ro
mano, opera condotta per conto del governo. Questa strada,
per la natura del terreno intersecato nei 96 chilometri che
essa percorre da frane e torrenti, occasion opere importanti,
fra cui cinque grandi viadotti in parte gi costrutti. Il ponte
sul Volturno ancora da costruirsi intieramente. La strada sar
compiuta fra 18 mesi. Vi lavora sotto la direzione di appal
tatori privati un numero di operai che varia secondo le sta
gioni dai 3 ai 6 mila. Anche questo tratto si costruisce secondo
i metodi antichi, le rotaie sono ancora poste sui dadi di pietra,
e presenta un grave inconveniente alla stazione di S. Ger
mano, ove pel difettoso tracciamento, se non verr corretto,
ogni convoglio dovr necessariamente fermarsi.
Il movimento verificatosi sul breve tratto delle ferrovie dello
Stato attualmente in esercizio presenta pel primo trimestre
del corrente anno le cifre seguenti:
Trasporto di viaggiatori . . 338,890.
lo
Trasporti per conto del governo
Prodotto lordo pei viaggiatori .
Idem
per le merci
22,339.
Ducati 57,859,33
.
3,033,75
Totale ducati 60,893,08
Alla quale cifra se si aggiunge il calcolo secondo la tariffa
dei trasporti gratuiti si ha un prodotto complessivo lordo di
ducati 73,699,30.
Il prodotto chilometrico lordo presenta la cifra di du
cati . . . ,146,36.
568
Ma gli esiti generali oltrepassano la cifra del prodotto,
essendo essi pel detto trimestre di ducati 82,526, 96.
Queste cifre non sono certamente consolanti; ma se si pa
ragona il movimento del primo trimestre dell'anno corrente
col trimestre precedente, si ha un ragguardevole aumento ne
gli introiti, e una non meno ragguardevole diminuzione nelle
spese. Il primo trimestre del 1861 presenta difatti un aumento
d'introito pel trimestre precedente di
ed una diminuzione di spese di . .
Il che forma un aumento reale di .
.
.
ducati 20,115,49
16,270,88
. ducati 36,386.37
Pel difetto preesistente di una scrittura contabile atta a
far rilevare il valore del capitale primitivo impiegato, la quota
di ammortizzamento, non che le effettive spese di esercizio, la
direzione delle strade ferrate non per anco in grado di poter
determinare il prodotto chilometrico netto sugli utili ottenuti.
Ma, gittate gi le basi per una corrispondente scrittura, si
nella fiducia di poter offrire quanto prima gli opportuni ri
sultamenti con sufficiente esattezza. Ad ogni modo, le cifre
sopradescritte dimostrano eloquentemente la necessit di far
passare questa amministrazione alla direzione centrale, e di
cedere le ferrovie all'industria privata.
Sotto la luogotenenza del principe di Carignano fu terminato
e messo in esercizio il tronco di ferrovia da Sarno a S. Seve
rino. Fu pure decretato il tronco che deve mettere in comu
nicazione il precedente con la citt di Avellino. Finalmente,
dopo molte cure e sollecitudini, S. A. R. lascia Napoli con la
certezza che dentro il mese corrente si inaugura la grande
stazione centrale in Napoli, e s'incominciano i lavori sui varii
punti della importante linea destinata a congiungere Napoli col
l'Adriatico e con la valle del Po a traverso degli Appennini.
Questa linea passa per la pi feconda provincia napoletana toc
cando Salerno, Eboli, forando l'Appennino prima di giungere
a Conza, segue l'Ofanto, passa per Ascoli, Foggia, S. Severo,
Termoli, Ortona e Pescara sino al Tronto, lambendo la costa
dell'Adriatico.
In poco meno di quattro mesi furono conchiuse le occorrenti
stipulazioni colle societ Delahaute e Talabot, si fecero gli stu
dii e si proced alla espropriazione dei terreni. In diciotto mesi
questa linea dev'essere messa in esercizio dalla societ intra
569
prenditrice, all'eccezione del breve traforo dell'Appennino,
che esige l'opera di due anni.
Un altro contratto eventuale fu pure stipulato dal governo
centrale per la costruzione delle ferrovie Calabro-Sicule.
I lavori pubblici di conto regio e provinciale eseguiti dal
primo gennaio fino alla met del corrente mese nelle differenti
provincie napoletane presentano la vistosa cifra di ducati
830,821,61 pari a lire 3,522,683, distribuiti come segue:
Lavori per la provincia di Napoli ducati 133,263,019
Idem.. Terra di Lavoro .
Benevento .
Molise .
Principato Ulteriore .
Capitanata .
Terra di Bari .
Terra d'Otranto . .
Abruzzo Citeriore
.
Abruzzo Ulteriore l. .
Abruzzo Ulteriore lI.
Principato Citeriore .
Basilicata ,
Calabria Citeriore
.
Calabria Ulteriore I. .
Calabria Ulteriore ll.
.
.
.
.
.
.
109,806,031
6,650
86,736,013
52,532,082
33,063,029
71,285,029
A9,600
18,828,013
25,000
25,300
87,770
86,978,023
37,250
32,752,095
21,905,027
Totale ducati 830,821,061
Si noti che nelle suindicate somme non sono comprese le
spese di mantenimento delle strade regie provinciali e speciali,
le quali spese, per le regie soltanto, ascendono a circa annui
ducati 280 mila. A questa cifra si devono aggiungere le somme
pagate a comuni per la ripartizione di cinque milioni di lire
destinate alle spese pubbliche giusta il real decreto del 23 gen
naio scorso. Le somme anticipate a tale scopo fino ad oggi a
comuni delle varie provincie danno un totale di duc. 91,914,08
pari a lire 90,625,307. Quindi, senza contare le spese annue
di mantenimento delle strade, si speso per lavori pubblici in
massima parte in costruzione di strade nelle diverse provincie
napolitane, nel breve periodo di quattro mesi e mezzo, la som
ma rilevantissima di lire 3,913,308,07.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
72
370
L'eloquenza di queste cifre prova quanto siano ingiuste
le accuse fatte al governo di poca sollecitudine per le opere
pubbliche.
L'amministrazione delle Poste sotto la luogotenenza del
principe di Carignano pass alla immediazione del governo
centrale. I miglioramenti ed i lavori fattisi dal gennaio in poi
in questa amministrazione sono i seguenti:
Organamento del personale.
Servizio giornaliero per le provincie napoletane con car
-
rozze postali sui cammini consolari e sulle linee traverse.
Idem nelle provincie stesse tre volte la settimana col
mezzo di messaggerie.
Idem per via di mare con le antiche provinvie del Regno
Italico.
Idem tra Napoli e Palermo e tra Napoli e Messina.
Decretazione di oltre a 100 uffizii postali secondarii, e
lavori inerenti ai loro stabilimenti.
Orarii postali stabiliti per maggior comodo delle popola
zioni, per cui gli ufficii sono tenuti aperti dalle 8 antimeri
diane alle 8 di sera, senza interruzione e senza distinzione
di giorni.
Compilazione di tariffe per lo scambio delle corrispon
-
denze tra le provincie napoletane e Malta, Australia, Indie
Orientali, Cina, col mezzo dei piroscafi francesi, ed in virt
della convenzione postale anglo-sarda.
Movimento generale per compiersi intieramente l'orga
nizzazione del servizio.
Fitto di nuovi locali nelle provincie ad uso delle poste.
Compera di mobili e d'utensili, fornitura di bolli e bilancie.
Organizzazione della pedoneria, de corrieri, porta-lettere, e
procacci, ecc., ecc.
Per fornire a V. E. un criterio del movimento delle let
tere, francobolli e vaglia postali, verificatosi sotto la luogote
nenza del principe di Carignano, il sottoscritto offre lo spec
chio del prodotto di aprile ultimo col paragone di quello dello
stesso mese dell'anno scorso. Il prodotto di aprile nel 1860
fu di ducati 81,630,72., quello di aprile ultimo stato di
duc.; 85,078,87, e quindi la differenza in pi stata pari a du
cati 3,448,15. Egli vero che vi stato di pi il prodotto dei
vaglia, ma per una somma poco rilevante. L'aumento non
molto sensibile, ma pur tale che d fiducia che per l'avve
571
nire sar di gran lunga maggiore sulla considerazione che per
ora non gi la conseguenza delle novelle istituzioni, le quali
si possono dire appena iniziate, ma sibbene della maggiore
sorveglianza e della maggiore probit degl' impiegati. Le poste
napoletane sono divise in quattro direzioni compartimentali,
secondo le norme generali dell' amministrazione centrale,
aventi sede una in Napoli, una negli Abruzzi, una nelle Puglie
ed una nelle Calabrie.
L'amministrazione del telegrafi pass pure sotto la di
rezione del governo centrale. Essa divisa nelle provincie
napoletane egualmente in quattro direzioni come le Poste.
I miglioramenti ed i lavori fatti in questo servizio dal gen
naio in poi sono i seguenti:
1. Costruzione di una nuova linea telegrafica, ad un sol
filo, da Avezzano a Sora, della lunghezza di chilometri cin
quanta, coll'apertura di una nuova stazione in Sora.
2. Ricostruzione di un tratto di chilometri cinquanta
circa della linea di Avezzano a Pepoli, distrutto pressoch
interamente per fatto della reazione, e riapertura della sta
zione di Avezzano.
3. Costruzione di una nuova linea da un solo filo da
Napoli a Benevento, della lunghezza di chilometri sessanta,
colla apertura di una nuova stazione in Benevento.
4. Costruzione di una nuova linea da un solo filo da Sarno
a San Severino lungo la ferrovia, della lunghezza di chilometri
quindici, coll'apertura di una nuova stazione a S. Severino.
5. Apertura di una nuova stazione in Bojano sulla linea
tra lsernia e Campobasso.
6. Generali riparazioni sulla linea delle Calabrie, Puglie
ed Abruzzi, ridotte in pessimo stato per causa dei passati po
litici rivolgimenti.
7. Collocazione de due cavi sottomarini nello stretto di
Messina per le comunicazioni telegrafiche del continente del
l'isola di Sicilia.
8. Sostituzioni di apparati. Morse alle macchine Henley,
che funzionavano nelle varie stazioni sopra uno de fili delle
Calabrie, e ritardavano ed impedivano il corso regolare delle
corrispondenze.
9. Collocazione di un secondo filo da Isernia al confine
Umbro, per una lunghezza di chilometri centonovanta; per
facilitare le comunicazioni telegrafiche colle provincie del
l'Alta Italia.
572
10. Trasporto di due fili da pali della destra a quelli
della sinistra, lungo la ferrovia da Napoli a Cancello, per una
distanza di chilometri venti, al fine di dare ora pi conve
nienti disposizioni ne molti fili che si trovavano sui pali del
lato sinistro.
11. Costruzione ora in corso della linea ad un solo
filo da Napoli a Sora passando per S. Germano, della totale
lunghezza di chilometri centosessantasei. Di questa linea se
ne trovano compiuti chilometri quaranta, ed il rimanente sar
portato a termine entro sei settimane.
Finalmente, per dare migliore assetto alle stazioni e ri
parare radicalmente le linee telegrafiche, si sono commissio
nati molti apparati alle fabbriche svizzere, si provveduto tal
filo telegrafico dall' Inghilterra, e si ordinata la confezione
di ventimila isolatori alle fabbriche Ginoni di Firenze, e Ri
chard di Milano, e gi una porzione dei lavori di questi iso
latori trovansi in spedizione.
Il movimento telegrafico del primo quadrimestre del
l'anno corrente offre i dati seguenti:
Dispacci spediti .
43,045
ricevuti . 43,396
transitanti 2,404
Totale 88,845.
Questo movimento comparato con quello del quadrimestre
precedente d aumento totale di dispacci 37,446. Il movi
mento degli introiti pel medesimo primo quadrimestre del
1861 d le cifre seguenti:
Tasse riscosse agli ufficii napoletani.
Lire 77,735.54.
Tasse riscosse in altri ufficii per compe
tenza napoletana . . . . .
31,342.74,
Totale Lire 109,078,28.
-
Questo movimento comparato con quello del quadrimestre
precedente offre un aumento di lire 56,504. 99.
, Intorno alla complicata amministrazione delle finanze in
queste provincie furono somministrati al governo centrale al
l'occasione della trasmissione dei bilanci tutte le informazioni,
che vennero chieste. Anche in questa amministrazione il di
sordine grave ed a portarvi efficace rimedio occorreranno
373
cure molte ed assidue, aiutate dal vigile controllo del Parla
mento. Basti qui dare un'indicazione sommaria degl'introiti
ed esiti effettuati dalla tesoreria di Napoli nel primo qua
drimestre 1861 comparati con quelli del primo quadri
mestre 1860, ed un eguale indicazione pel movimento d'uno
degli speciali servizii di quest'amministrazione, quello delle
dogane.
Stato dei prodotti delle dogane verificati nel primo qua
drimestre 1861, paragonato coll'ultimo quadrimestre dell'anno
precedente.
I quadrimestre 1861, Ducati 1,043,256. 84.
Ultimo quadrimestre 1860. Ducati 952,564.
Ne risulta un aumento per il primo quadrimestre dell'anno
1861, di ducati 90,692. 84.
Il quale aumento non prova che una cosa, cio maggiore
sorveglianza, e maggiore esattezza nella percezione. Ed in
vero se si paragona lo stesso primo quadrimestre 1861 col
primo quadrimestre dell'anno precedente ne risulta invece
una diminuzione di ducati 635,655. 81.
per da osservare che tale diminuzione meramente
relativa, giacch assolutamente parlando vi un positivo ed
evidente accrescimento di consumo e di percezione. La Ta
riffa doganale del primo quadrimestre del 1860 era quasi
tre o quattro volte pi elevata della tariffa italiana vigente
pel quadrimestre dell'anno corrente, oltre a ci tutti i ge
neri italiani entrano ora in cabotaggio, ed i generi esteri sda
ziati in altre dogane italiane erano altres come nazionali.
Malgrado ci la percezione doganale non scemata, che di
un quarto o di un terzo relativamente allo scorso anno, e
tutto porta a credere, che nel venturo anno tale differenza
sar scomparsa.
L'istruzione pubblica nelle provincie napolitane attir la
particolare sollecitudine del governo e del principe di Cari
gnano. Ma per la brevit del tempo e pel disordine completo
in cui era quest'amministrazione l'opera di riforma pu dirsi
solamente incominciata. L'egregio cittadino che fu chiamato
dal principe luogotenente a dirigere questa parte importante
dell'amministrazione ha dovuto lottare con grandi difficolt
fra cui il difetto di personale risoluto e capace di secondare
i nobili suoi sforzi.
L'insegnamento universitario fu riformato colla legge uni
574
versitaria, e colla legge sul consiglio superiore basate amen
due sulla legislazione degli antichi Stati. Ma bench siano
designati i professori e le cattedre non si ancora potuto
ottenere che vi siano i corsi regolari e che l'insegnamento vi
proceda coll' ordine voluto.
La legge sull'insegnamento secondario qui pubblicata form
questa parte della pubblica istruzione. Si istitu il liceo Vit
torio Emanuele forse con soverchia profusione di personale
e con qualche altro inconveniente inevitabile per un primo
esperimento, ma che sar corretto, ed evitato negli istituti
di simil natura che saranno creati nelle provincie. Gli ele
menti ammaestrativi abbondano in queste provincie ma essi
difettano massimamente di elementi direttivi. Sar quindi
utilissimo che si chiamino nell'Italia superiore professori na
poletani e che da essa vengano in Napoli i direttori.
Questo il migliore mezzo che si possa per ora proporre
per rialzare l'istruzione secondaria in queste provincie dove
ci profusione d'ingegno e di coltura ma insufficienza di quella
esperienza, di quell'ordine e di quella severa moralit che si
richieggono in un buon direttore.
L'istruzione elementare non potr per qualche tempo essere
qui in buono stato. Cagione principale la mancanza dei
maestri e delle maestre la cui istituzione richiede pure in
segnamenti e metodi speciali. Tuttavia non si tralasciato
cure n fatiche per ottenere quanto fosse nei limiti del pos
sibile. S'institui una scuola primaria esemplare a spese del
governo: nella quale si d pure un insegnamento domenicale
agli artisti adulti. Una scuola magistrale maschile e femmi
nile fu fondata in Napoli. Una scuola simile fu decretata per
ciascuna provincia, e se ne sta ora preparando l'attuazione.
Il concorso che sul bel principio rese popolata di 300 allievi
e pi la scuola magistrale di Napoli, l'opera solerte degl'in
segnanti a quelli preposti, e sopratutto la vigilanza e solleci
tudine del segretario generale di pubblica istruzione fanno
confidare che fra pochi mesi si avranno ispettori e maestri
se non in numero proporzionato ai bisogni almeno quanti
occorrano per le citt principali.
Come buona preparazione alle scuole elementari si aperto
un primo asilo infantile mascolino alla Vicaria in Napoli. Uno
antico venne riordinato. Quattr altri, due maschili e due
femminili si stanno preparando. Per rendere vitali quest'isti
575
tuzioni si formarono commissioni, s'invitarono a partecipare
alla pia opera i signori pi influenti dei vari quartieri della
citt. Merita speciale menzione l'egregio Alfonso della Valle
di Casanova, il quale con amorosa operosit promosse ed
assistette della sua presenza, de suoi consigli e della sua opera
il sorgere di questi nobili stabilimenti. Stanno pure per
aprirsi le scuole serali, il cui regolamento gi compilato.
L'istruzione tecnica manca affatto, ma questa non cosi fa
cilmente si pu fondare. Prova ne sia lo stesso Piemonte dove
dopo dodici anni di sforzi appena ora si comincia dare im
portanza a questo insegnamento; e si ha un numero suffi
ciente di scolari. Tuttavia sar indispensabile che il governo
fondi alcune di queste scuole in Napoli. Esse potranno svi
lupparsi in seguito collo svolgersi delle altre istituzioni d'in
segnamento, e a misura che si far sentire il bisogno dell'i
struzione nelle officine e nelle case della povera plebe.
Finalmente giova accennar il decretato ordinamento della
Societ reale delle scienze, lettere ed arti, e quello dell'isti
tuto di belle arti, la riforma degli studi pel collegio musi
cale, ed altre utili misure per gli archivi e le biblioteche, gli
scavi operati su larga base a Pompei e sull'anfiteatro di Poz
zuoli ed infini le cominciate riforme dei tre reali Edu
candati di Napoli che sono scuole primarie e secondarie
femminili.
Coi pochi elementi di cui ha potuto disporre, riesce
impessibile al sottoscritto di dare un rendiconto anche in
completo di quanto concerne l'agricoltura, l'industria ed il
commercio. Intorno a questo dicastero ed alle disposizioni
da esso emanate fu riferito con ispeciali rapporti. Si noter
qui solamente come il raccolto del corrente anno si manife
st sotto i pi favorevoli auspici, e come questa eventualit
abbia influito sui prezzi del mercato.
Quando venne in Napoli il principe di Carignano grande
era il timore per l'elevato prezzo dei cereali, degli olii e di
altre derrate e dopo la rivoluzione si verific infatti un an
mento che si manifesta costantemente nei grandi rivolgimenti
politici e pi relativo che assoluto; imperciocch esso risponde
ad un maggiore corrispondente aumento nelle circolazioni del
numerario. Di fatti all'antico numerario in argento esistente
in queste Provincie venne aggiungendosi una considerevolis
sima quantit di oro monetato, il quale prima erasi affatto
-
576
escluso da questo mercato. Del resto l'aumento in quei ge
neri se pu tornare nocevole a quella parte di minuta plebe
cittadina, che era solita vivere d'elemosina, non potr che aiu
tare, come accadde dappertutto altrove, il lavoro quindi la
moralit e la ricchezza. Lo stesso fenomeno accadde in Pie
monte dopo la rivoluzione del 1848. Tuttavia prima che si
stabilisca una scala proporzionale tra l'aumento dei generi e
il corrispondente aumento del prezzo della mano d'opera deve
necessariamente correre un certo tempo. Malgrado questa crisi
non fu la Luogotenenza forzata a ricorrere a veruna disposi
zione contraria ai principii economici la cui applicazione ven
ne anzi adottata da alcune misure, fra cui si cita il decreto
di libera esportazione dell'avena.
La nuova moneta italiana, fu qui introdotta, e si sta co
niando nella zecca di Napoli in questo stesso momento in se
guito a contratto fatto dal governo colla casa Estivant. I pri
mi saggi del nuovo pezzo di cinque centesimi furono gi spe
diti a Torino, e quanto prima si spediranno quelli della moneta
d'argento. Il Governo centrale si preoccupa a buon diritto della
pronta unificazione monetaria. A facilitare questa riforma nelle
provincie napoletane gioverebbe il dare alla moneta d'oro ita
liana nel suo rapporto colla moneta d'argento napolitana, quello
stesso valore uffiziale proporzionato che ha in Francia e in
Piemonte la moneta d'oro verso quella d'argento.
Se la maggior carezza dell'argento fece scomparire quasi
intieramente questa moneta in Francia ed in Piemonte colla
surrogazione dell'oro, non ci ha dubbio che la medesima causa
produrrebbe il medesimo effetto. Gli speculatori troverebbero il
loro conto a comperare l'argento coll'oro e cos troverebbesi
singolarmente facilitata nelle Provincie Napoletane l'opera del
l'unificazione monetaria. Ma perch ci potesse accadere senza
inconvenienti sarebbe duopo che le zecche nazionali potessero
mettere in circolazione e gittare sul mercato tanta quantit
di oro monetato, e massime di pezzi da 10 e 5 lire quanto
sarebbe richiesta dall'esigenze del commercio. In un paese
come questo, ora non esiste ancora una banca nazionale di
circolazione, ove da poco tempo in vigore il sistema dei
vaglia postali, l'invio dei valori nelle Provincie si fa in natura
col mezzo dei procacci e delle poste, non vi ha dubbio che
la surrogazione dell'oro e l'argento offrirebbe un grande
vantaggio.
577
Ma a facilitare le transazioni ed aumentare il credito, a
rendere pi numerose e pi spedite le operazioni industriali
e commerciali, la istituzione di una sede della Banca nazio
nale di circolazione cosa della pi grande urgenza. Quando
il Principe di Carignano venne in Napoli era invalsa l' opi
nione presso i negozianti locali che invece di una sede della
Banca nazionale, dovesse esservi in Napoli una Banca di cir
colazione da quella distinta e separata. Fortunatamente questa
opinione si and man mano modificando, ed ora ammessa
l'idea della fondazione in Napoli di una sede della Banca
nazionale, nella cui costituzione per i capitali e gli interessi
di queste provincie trovassero un ragionevole e giusto gua
dagno.
Per avere risultati certi sul movimento della industria di
queste provincie dopo il rivolgimento politico converr neces
sariamente attendere che lo stato del paese sia pi ordinato
e tranquillo. Per ora chi scrive si limita ad accennare qui di
passaggio l'aumento della industria giornalistica dopo la libert
della stampa.
Prima del 25 giugno in Napoli si pubblicavano circa 30
giornali tra mensuali e settimanali, in massima parte lettera
rii; v'era un giornale di giurisprudenza e tre di medicina e
scienze naturali. Si pu far calcolo che si stampavano circa
11 mila fogli al mese. Dal 25 giugno in poi sono venuti fuori
81 giornali, alcuni dei quali in verit gi spenti. Ma si pu
calcolare che si stampano oltre a 50 mila fogli al mese.
Finalmente non sar inutile il dar qui qualche cenno
delle principali cose fatte dall'onorevole Municipio della citt
di Napoli in questi ultimi tempi.
Fra i provvedimenti presi devono noverarsi l'assegno di
-
mensili ducati 50 a ciascuno degli asili infantili della citt, e
di eguale somma mensile a ciascuna delle scuole serotine, lo
stabilimento di quattro nuove scuole primariamente superiori,
la fondazione di due ospedali pel tifo, qualche miglioramento
nella illuminazione della citt, la quale ancora insufficentis
sima. Furono attivate le seguenti opere gi in corso di ese
cuzione:
1. I cinque grandi edifizii con pubblici lavatoi lungo il
primo tratto della strada delle ferrovie oggi detta Garibaldi.
2. Il secondo tratto di detta strada che da porta Ca
puana conduce a Foria.
Stor. della rivol. Sicil Vol. II.
73
578
3. Le opere al Campo Santo di Poggio Reale, e spe
cialmente il muro monumentale verso l'ingresso principale.
4. Le due strade di Grandoni e del ponte di Chiaja.
5. L'apertura della Porta di Massa.
6. La strada di Mergellina con gli edifizii laterali.
7. La salita di Pontecorvo.
Furono compiuti:
1. Il tratto di strada dell'amenissimo corso Vittorio
Emanuele.
2. La caserma alla Vittoria.
3. L'ampliamento della strada Forcella nell'ingresso del
l'Annunziata.
4. La strada de'Banchi Nuovi col larghetto di S. De
metrio.
5. Ed il vicolo Chiavetteri a Porto.
S'iniziarono :
1. Il secondo tratto del corso Vittorio Emanuele da Ca
riati alla Cesarea.
2.0 La ricostruzione della strada S. Maria del Pozzo, e
parte di quella dell'Arena della Sanit.
3. ll lastricato del largo Trinit Maggiore.
4. Il vicolo Purit a Materdei.
5. Il vicolo lungo a Miracoli.
6. Vico Consolazione, e larghetto Pietrasanta.
7. Il Bazar al vico della Quercia.
8. Pi centinaia di orinatoi in marmo.
Finalmente furono discussi ed approvati i seguenti progetti
di nuovi lavori.
1. Vasti serbatoi per le acque pluviali sulle colline domi
nanti la citt, onde condurle nei siti abitati che ne difettano,
per lavatoi pubblici sulle alture, per fontane ed altri usi. Questa
utilissima opera, concessa ad una compagnia, manca ancora di
superiore approvazione.
2. Prosieguo di lavori di miglioramento e covertura del
canale di Carmignano, che conduce le acque da S. Agata dei
Goti in Napoli.
3. L'edificazione di un nuovo quartiere nella zona dei ter
reni tra le strade Garibaldi ed Arenacce.
4. La nuova ed ampia strada del Duomo da Foria alla
Marina. Questa magnifica opera non si ancora incomin
ciata perch si attende l'approvazione di poter espropriare le
579
propriet private per lo piano stradale e per edificare i nuovi
edifizii delle due zone leterali.
5. La demolizione di una parte del forte del Carmine per
rettificare la comunicazione alla strada Garibaldi, all'altra La
vinaco nonch per avere nuovi suoli edificatorii.
Lo stato politico e morale del paese ben lungi dal ri
spondere a nostri desideri, ma ben lontano da quanto vor
rebbero far credere i nemici dell'unit italiana.
Il partito borbonico non ha nessuna radice nel paese. Non
si dimentichi che il concetto dell'unit italiana nato qui ap
pena ieri, eppure si impadronito della coscienza pubblica; lo
spirito autonomico va decrescendo. Quegli stessi che, or son
quattro mesi, gridavano contro l'invasione del piemontesismo
oggi domandano che l'alta Italia mandi impiegati, amministra
tori e magistrati. In questo tempo il Governo mostri di fronte
a partiti imparzialit, autorit e fermezza. Si frenarono e repres
sero dimostrazioni e reazioni di qualunque partito venissero, e
nessuna concessione fu fatta alle dimostrazioni di piazza. Il prin
cipe di Carignano lascia a chi succede nell'arduo cmpito tutta
quanta intatta l'autorit governativa senza legami, senz'impegni.
Le difficolt politiche e amministrative di queste provincie sono
certamente gravissime, ma non bisogna dimenticare che non si
rovesciano troni secolari, non si compie un'opera smisurata
come quella dell'unit italiana senza incontrare difficult, in
convenienti ed ostacoli. Per poco che si consideri la storia di
questo stesso paese e quella de rivolgimenti politici avvenuti
presso le altre nazioni d'Europa, far anzi meraviglia che i
presenti imbarazzi nostri non siano n pi numerosi n pi
gravi.
Gradisca l'E. V. l'espressione della mia profonda os
S6I'VaDZ3.
NIGRA
Giudicammo opportuno riportar per intero la precedente re
lazione perciocch essa accenna, e con molta verit, a gravi
fatti di politica, e conferma in gran parte i nostri giudizi e le
nstre opinioni sugli avvenimenti memorabili dell'Italia meri
dionale. Si deduce dalla relazione che il Governo di Torino
Spedi le truppe regolari nelle Marche, nell'Umbria, e poi nel
Napletano onde esautorare la rivoluzione ed assestare le cose
580
in via non rivoluzionaria ma governativa. Comunque il Nigra
si sforzi a provare che senza cotesta misura la rivoluzione na
poletana avrebbe messo in pericolo le sorti d'Italia e la pace
di Europa; comunque affermi risolutamente che i rivoluzionarii
del mezzogiorno avessero tendenze sociali; comunque ado
peri ogni cavillo per dimostrare che la rivoluzione voleva es
sere esautorata, confessando poi i mali che da questa politica
vennero, le difficult che dappertutto moltiplicaronsi, le con
seguenze funeste che in larga copia si svilupparono, confessa
che quella politica non fu dell'intutto saggia, e negando quanto
egli senza prove asserisce siamo in diritto di dire, che la rivo
luzione avrebbe assestate le cose napoletane meglio che il Go
verno non seppe e non pot fare.
Le napoletane provincie si erano date alla rivoluzione non
al Governo di Torino; quando questo governo le volle sue ap
parve come conquistatore, come forza intrusa, come autorit
estranea, alla quale nessuno aveva dato ancora il diritto di
governare. N monta l'accennare al plebiscito; perciocch nella
mente del popolo se stava la necessit di darsi all'Italia per costi
tuire l'unit, stava pure che la rivoluzione doveva assestare le
interne cose e proseguire l'opera gi incominciata.
Il Nigra non nasconde le piaghe portate dal Governo Bor
bonico alla morale nelle Provincie napoletane, che anzi ne fa
tale viva e veridica descrizione da doversene concludere che
era necessario far tavola rasa di tutto, e tutto innovare dalle sue
fondamenta. Ora quest'opera non si poteva fare che dalla Dit
tatura e dalla rivoluzione; esautorata la rivoluzione il Governo
regolare di Torino non pot far nulla e le antiche piaghe ri
masero, e piaghe nuove comparvero e fra queste quella terri:
bile della reazione. La reazione che nacque col Governo Luo
gotenenziale, non sarebbe stata possibile con la dittatura e con
la rivoluzione.
Il dire poi che il malcontento fece passare molti dalle linee
rivoluzionarie a quelle del brigantaggio, e dimostrare ci col
fatto del Donatello, ci pare cattivo uso di logica, perciocch
non si possa dal particolare concludere al generale. Egli vero
che nelle rivoluzioni anche l'assassino porti la sua pietra all'e
difizio, egli verissimo che una nazione generosa debba sprez
zare la cooperazione di una mano scellerata alla propria ri
costituzione, ma verissimo che volersi disfare dei rivoluzio
narii tutti sia opera quanto ingiusta altrettanto stolta, e che
581
travolgere nella stessa persecuzione dei pochi colpevoli i molti
innocenti e virtuosi sia pazza cosa che presto o tardi scava
le fondamenta al governo che ne l'autore.
Il governo di Torino non doveva premiare n Donatello n
quanti altri a lui rassomigliavano, ma insieme a Donatello non
doveva n dimenticare, n perseguitare trentamila generosi
che vantavano le cicatrici di Calatafimi, di Milazzo e del Vol
turno, e che portavano stampati in fronte i patimenti, le fa
tiche, i sagrificii di una campagna durata sei mesi, e coronata
di venti battaglie e di venti vittorie.
Or questo appunto fece il governo Sardo; in questa nostra
storia notammo come il luogotenente Farini, appena giunto
in Napoli, si mettesse a distruggere l'intero edifizio fabbricato
dal governo dittatoriale, e come questa mania di distruzione
finisse con lo scioglimento del glorioso esercito meridionale, e
quindi col gittare il sospetto, la diffidenza, l'avvilimento nei
buoni patrioti e con l' accendere le speranze dei tristi, col
facilitare le opere reazionarie, coll'ingigantire il brigantaggio,
col tramutare il clero in setta sanfedista, col paralizzare insom
ma le braccia degli amici e coll' armare le mani del nemici
d'Italia.
Dove poi il Nigra parla della pubblica opinione non esistente
ancora nelle provincie napoletane, o tenentesi nello stato ne
gativo, dove parla del giornalismo diviso in varie opinioni, e
che perci suggeriva varii indirizzi e dava vari consigli, egli
conferma sempre pi il nostro giudizio circa le difficolt che
il governo regolare cre a s stesso dopo avere esautorata la
rivoluzione.
Il giornalismo napoletano di quei giorni dividevasi in due
partiti, uno propugnava l'indirizzo del governo, l'altro, rivo
luzionario ancora, annunziava i voti della coscienza pubblica e
provava minutamente la necessit di seguire l'indirizzo della
rivoluzione. Erano infatti i giornali rivoluzionarii che dicevano
doversi mettere in ritiro tutti gli impiegati borbonici, doversi
vegliare severamente sulla condotta dell'episcopato e del clero,
doversi ricompensare i martiri della patria, e dare un posto
ed un mezzo di sussistenza a chi per la causa italiana aveva
tutto sagrificato. Cotesti erano veramente i bisogni presenti,
coteste le esigenze generali della coscienza pubblica, cotesta
la via da seguire per camminare con l'opinione dei popoli;
ma il governo questo non pot pi fare dal giorno che volle
582
sostituirsi alla rivoluzione, col fermo proposito di non servirsi
mai di qualsiasi mezzo rivoluzionario. In guisa tale che il
governo centrale di Torino come il governo luogotenenziale di
Napoli si trovarono nella fatale necessit di volere tutto edi
ficare senza prima voler nulla distruggere, di dovere edificare
il nuovo sul vecchio, la moralit sopra la immoralit, l'italia
nismo sul borbonismo, la coscienza sulla corruzione, la libert
sopra la schiavit. Ne venne che per quanto questo governo,
s'impegnasse a fare, non riuscisse mai a nulla, condannato a
camminare ciecamente per cento vie senza poterne scegliere una,
e destinato a lasciare nel disordine le provincie meridionali per
aspettare dal tempo e dalla forza stessa delle popolazioni il
rimedio salutare ai mali incurabili.
Aggiungeremo che il governo centrale di Torino, cos su
perbo di s, senza volerlo, cospirasse anch'esso contro il go
verno luogotenenziale di Napoli; perciocch si volevano armi
per la Guardia nazionale, e Torino non ne dava, o cos po
che da essere insufficienti allo scopo; si domandavano strade
ferrate, e i governanti di Torino andavano lentamente ed a passi
di piombo per conchiudere finalmente contratti rovinosi per lo
Stato; si domandava lavoro e tra infinite cose a fare, pochissime
se ne sceglievano, pochissimi lavori si iniziavano; si domanda
vano provvedimenti per la pubblica sicurezza, e non si avevano
gendarmi da spedire a quella volta; si domandava istruzione
per il popolo, e il governo non sapeva trovare n i maestri,
nle maestre, si domandava la creazione della pubblica ricchezza,
e i governanti che non conoscevano le provincie napoletane
non sapevano donde cavarla, n quai principii sviluppare per
poterla ottenere. Insomma il governo centrale che esautor la
rivoluzione per governare con forza, e con mezzi suoi propri,
non aveva n forze n mezzi per reggere i destini delle pro
vincie del sud, e se tutto non and in fasci ed in rovine, si
deve non al governo, ma all'energia del popolo, alla determi
nata volont dei liberali, alla attivit instancabile della Guardia
nazionale, cui le storie dell'italica rigenerazione mai non lo
deranno abbastanza.
Dal detto fin qui vuolsi dedurre che la politica dei gover
nanti di Torino fu sempre falsa, e che essa per ovviare a mali
immaginarii quali eransi quelli della repubblica e del socialismo,
produsse mai reali e gravi che costarono sangue immenso
agli abitanti del Napoletano e ritard molto l'assestamento
585
delle cose interne e il compimento della sospirata unit di
Italia.
Tutto ci non sarebbe certamente accaduto, se il governo
avesse fiancheggiata, temperata, guidata la rivoluzione, e coo
perato con essa al riordinamento delle provincie napoletane,
e finalmente al loro assestamento al livello delle altre provincie.
Ma Cavour, Farini, Minghetti, Fanti, ed altri ministri in To
rino erano troppo superbi e vani per governare a fianco di
Garibaldi, di Crispi, di Longo, di Sirtori, di Mordini, e di altri
della democrazia!
Prima di chiudere questo capitolo riguardante le cose di
Napoli, ci conviene parlare della resa di Civitella del Tronto,
unica fortezza rimasta in mano dei Borbonici dopo la resa della
cittadella di Messina. Ne tesseremo brevemente la storia, quan
tunque alcune cose siano state da noi citate nei capitoli pre
cedenti.
Il comandante di quella fortezza fu in principio certo mag
giore Assionne, il quale erasi proposto di non opporre resi
stenza alcuna, e ci sino dai primi tempi quando la fortezza
non era stata ancora assediata. Ma un cotal Giovine capitano
dei gendarmi ricoverati nel forte opponevasi ad ogni progetto
di resa, e fu il primo a provocare una rivolta contra il co
mandante, quale fatta, egli assumeva la direzione della resi
stenza. Arrivarono le truppe italiane, e si stringeva il blocco.
Succedevano in seguito tutte le peripezie dell'assedio, e l'orda
di banditi e di briganti ricoverati in quel forte poneva il colmo
alle infamie col massacro di tre feriti del 9. battaglione ber
saglieri che vennero da quei barbari bruciati vivi. Fatti glo
riosi compirono i soldati italiani in quell'assedio. Durante
l'armistizio, avvenuto prima del ritiro della flotta francese dal
mare di Gaeta, il capitano Giovine (nominato colonnello dal
Borbone in quel frattempo) prendeva l'impegno di cedere la
fortezza alla caduta di Gaeta.
Gaeta cedeva; ma certo sergente Messinelli, desideroso di
restare in Civitella, ove teneva per amante una pubblica donna,
provocava un complotto e messosi alla testa di esso, ricusava
di accedere agli ordini del Giovine, che suo malgrado vede
vasi costretto di continuare a resistere.
Spinto poscia dal frate Gilli, dell'ordine di S. Francesco, e
da certo Nicolai parroco di Rocca S. Nicola, ambedue tristi
sacerdoti che col mezzo di una vecchia che dicevasi invasa
584
da spirito profetico, esaltavano gli animi della popolazione, dei
briganti, e dai giovani gendarmi superstiziosi ed ignoranti, e li
guidavano, animandoli, alle sortite ed alle opere di saccheggio
e di sangue. D'accordo con certo Tappini di S. Egidio, capo
di briganti, il Messinelli prendeva la direzione della difesa, men
tre il Giovine, vedendo disconosciuta la propria autorit si
evadeva dalla fortezza e veniva a consegnarsi nelle mani delle
truppe assedianti.
Giungevano intanto le artiglierie dell'esercito italiano; con
sforzi lodevolissimi essi venivano poste in posizione di fronte
al forte, si apriva il fuoco, si tentava un assalto nella speran
za che le dissenzioni interne lo avessero favorito; i difensori
domandavano di capitolare, ma secondo il sopravvento del par
tito della resistenza o di quello della resa, le trattative veni
vano interrotte e riprese pi volte. Finalmente giungeva l'ex
generale napoletano Della-Rocca mandato da Francesco II. Egli,
accompagnato da un capitano dello stato maggiore francese,
s'introduceva nel forte ed ordinava la resa.
Tutto pareva combinato, la capitolazione era accettata; l'in
gresso delle nostre truppe doveva aver luogo la mattina se
guente alle ore 9; ma il frate, il Tappini ed il Messinelli met
tevano a profitto la notte, ed avuto di bel nuovo il soprav
vento mettevano avanti nuove e strane pretese; per cui rotte
le trattative si ricominciava il fuoco avvertendo per gli as
sediati che non si sarebbero pi ricevuti che a discrezione.
Le artiglierie italiane ben dirette recavano grandi guasti nella
citt e nel forte divenuti pressoch inabitabili. Giunte le cose
a questo punto, la popolazione e la maggior parte dei gendar
mi, atterriti dalla inevitabile rovina, strascinati dal sergente
Marulli, che sempre aveva opinato per la resa, costringevano
i recalcitranti ad inalberare la bandiera bianca sulle mura del
la citt.
Da principio non davasi attenzione alcuna alla domanda di
parlamento, ed i nostri, gi tante volte ingannati dalla mala
fede dei difensori, continuavano il fuoco; ma abbassato lo sten
dardo rosso del Borbone, che ancora sventolava sulla fortez
za e sostituito dalla bandiera bianca si mandava ad avvertire
il generale Mezzacapo che era in Ascoli, ed a seconda degli
ordini da lui lasciati, si concedeva mezz'ora di tempo alla
piazza per arrendersi a discrezione. Venne a parlamentario il
comandante Assionne e dichiar essergli necessarie per lo
585
meno due ore onde poter aprire le porte, state chiuse di
dentro con fortissime
barricate.
Si fu allora che il tenente
colonnello Pallavicini venuto da Ponzano, sapendo per prova
quanto l'influenza del frate, del Messinelli e del Tappini fosse
potente e non giuscisse loro difficile il poter riprendere il so
pravvento colle solite armi adoperate per l'addietro, offerivasi
di aiutare la guarnigione a sbarazzare la porta e con am
mirabile ardire, seguito da alcuni ufficiali e da una cinquanti
na di soldati, scalava le mura, s'introduceva nella piazza e fatti
avanzare i bersaglieri ai piedi dei bastioni e fuori della porta
rendeva cos impossibile ogni maneggio del frate, del Messi
nelli, del Tappini e dei loro aderenti che gi tumultuavano
nuovamente, e schiudevasi cos la porta.
La guarnigione veniva immediatamente disarmata, le truppe
italiane occuparono la citt e la fortezza, erano arrestati i prin
cipali fra i militari ed i briganti, e sul luogo stesso venivano
fucilati il Messinelli ed il Tappini. Il frate corse a nascondersi.
Trecento e pi tra gendarmi, artiglieri e veterani erano
tradotti in Ascoli prigionieri di guerra, pi di settanta masna
dieri, che avevano cercato rifugio nella piazza, dopo mille
atroci atti commessi nelle vicinanze, venivano rinchiusi in car
cere e con essi il parroco di Rocca S. Nicola ed il frate rin
venuto pi tardi.
Il generale Mezzacapo, al suo giungere da Ascoli recavasi
nella fortezza, gi dai nostri occupata e vi istituiva una Com
missione militare, onde riconoscere e separare dai pacifici
cittadini quei tristi che coprendosi coll'insegna del pontefice
e del ex Re di Napoli, dopo aver devastato ed assassinato gli
infelici paesi della provincia, furono causa delle rovine recate
alla citt di Civitella.
Lode grandissima meritano i soldati italiani, che scarsi di
numero, senza cannoni, senza risorse restarono cinque mesi
fra i disagi, le fatiche ed i pericoli, sotto la pioggia, in mezzo
alla neve, e che pur seppero con ammirabile costanza tenere
rinchiusa quell'orda di barbari, superiore di numero, protet
ta da 27 cannoni e da mura solidissime. A Civitella del Tronto
i soldati italiani furono valorosi come sotto le mura di Gaeta,
e sotto quelle della cittadella di Messina.
La resa accadde il d 20 marzo del 1861. Il giorno 21 il
generale Mezzacapo pubblicava il seguente ordine del giorno:
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II
74
586
ORDINE DEL GIORNO.
Dal quartier generale di Civitella, 21 marzo 1861.
Ufficiali, sott'ufficiali e soldati !
Nel breve spazio di un mese, dacch il blico si tramu
tato in assedio, voi avete espugnata una piazza, la quale, seb
bene piccola, per la sua giacitura favorevole reputata una
delle pi forti.
Cotesto risultato dovuto alla vostra disciplina, costanza
ed abnegazione.
Io sento il dovere di tributare ai vari corpi i meritati en
comii, all'artiglieria per gli ottimi effetti de'suoi fuochi; al Ge
mio per gl'intelligenti ed ottimi lavori, alle altre truppe per la
cooperazione solerte, la costanza e il buon volere nel soste
nere le fatiche e i disagi; e a tutti insomma per il coraggio
e disciplina.
Voi foste coraggiosi nel combattimento, ed ubbedienti alla
voce dei vostri capi, foste generosi nel momento della vitto
ria. Con ci avete mostrato che siete veri soldati di un popolo
civile, forti nella lotta, generosi dopo la vittoria.
Sar grato per me segnalare al Governo le vostre splen
dide qualit militari, ed in particolare i nomi di coloro che
pi si distinsero.
Ufficiali, sottufficiali e soldati !
Io sono orgoglioso d'essere alla vostra testa, e dove per av
ventura si fosse chiamati a nuovi cimenti con tali truppe la
vittoria certa. Viva il Re, Viva l'Italia!
Il Luogotenente generale
MEzzACAPo.
All'annunzio della resa, il Ministro della guerra scrisse per
telegrafo al generale Mezzacapo:
Esprimo le mie congratulazioni alle brave truppe che
ebbero la fortuna di prender parte all'assedio di Civitella.
FANTI.
587
Caduta Civitella del Tronto il potere borbonico non ebbe
pi per s neppure un palmo di terra nel regno delle Due
Sicilie. Quel potere cadde irreparabilmente. Scenderemo ora
a fare alcune riflessioni. La rivoluzione contro i Borboni co
minciava il 4 aprile 1860 nel convento della Gancia, finiva il
20 marzo 1861 in Civitella del Tronto. Quindi in meno di
un anno la rivoluzione rovesci un trono secolare che aveva
per s un forte partito, 130 mila soldati, numerose fortezze,
artiglierie infinite. Fu la rivoluzione che rovesci questo trono;
una rivoluzione potente, invincibile, eroica, fatta dai figli del
popolo, e terminata dal governo di Torino, che trascinato dalla
rivoluzione stessa fu messo
nella necessit o di mettere in
pericolo la corona sabauda o seguire la rivoluzione nel suo
cammino verso l'unit italiana.
I lettori di questa storia hanno veduto le diverse fasi della
-
rivoluzione italiana tendente a formare l'Italia una, e comun
que abbiano potuto scorgere le rivalit dei partiti, la prepo
tenza del Governo sulla rivoluzione, i torti fatti agli uomini
di azione, pure non potranno fare a meno di concludere che
il movimento italiano progredisse sempre verso la sua meta
spintovi ora da Garibaldi ed ora da Cavour, ora dai Volon
tari di Bixio, di La Masa, di Sirtori, ed ora dai soldati di
Cialdini, di Fanti e di Della-Rocca. Ma l'Italia fino a questo
momento non ancora compita. Roma, quantunque dichia
rata Capitale del regno italiano dal parlamento, ancora la sede
del Papa Re; Venezia tuttavia schiava dello straniero. Le
italiche popolazioni per questo non sono ancora in quiete; dura
il loro stato di rivoluzione, n cesser fino a quando non sa
ranno nostre Roma e Venezia. Molto non potr passare e que
sti fausti avvenimenti accadranno. Allora ci sar dato continuare
questo tratto di storia moderna e mostrare per quali mezzi e
per quali vie l'unit italiana siasi potuta attuare.
I fatti si precipitano, gli avvenimenti s'incalzano; tutto ci fa
presentire la vicina soluzione delle due questioni capitali che
agitano ancora non solamente la nostra penisola, ma tutta
l'Europa. Giorno verr, e presto, in cui i diritti delle nazioni
e dei popoli, riconosciuti, trionferanno sopra il dispotismo dei
principi; ed allora l'Italia avr il vanto di essere stata la prima
sui campi di battaglia a riacquistar la libert dei suoi popoli
e la sua indipendenza nazionale.
C A PIT 0 L 0 XXIV
Un ultimo sguardo a Roma.
La politica romana in mezzo a tanti trambusti sostenevasi
immutabile nelle sue vecchie negazioni, che alcuni estimeranno
forse virt e forza di diritto, ma che noi invece giudichiamo
ostinazione cieca per la quale la Chiesa poteva esser condotta
arovina specialmente in Italia. I bassi intrighi del Governo
Pontificio e dei suoi agenti nel promuovere il brigantaggio,
nell'incoraggiarlo e fornirlo di mezzi indisponevano sempre pi
l'animo degli Italiani verso il Capo della Chiesa Cattolica; que
sto Capo stesso che non vedeva mai nel loro vero aspetto le
cose d'Italia e che non conosceva gli uomini dei quali trova
vasi circondato riatiepidiva sempre pi la devozione e l'obbe
dienza degli Italiani al Vicario di Cristo. Ma siccome poco con
to si faceva in quei di della religione e della Chiesa, e la Corte Romana trovavasi tutta immersa nelle cose della politica, era
quindi politicamente che le cose volevano esser trattate. Da
un pezzo Napoleone III faceva precedere i suoi grandi fatti
da opuscoli destinati a preparare gli animi e a fare strada
alle grandi operazioni. Uno di questi opuscoli venne alla luce
col titolo La France, Rome et l'Italie, il quale attaccava pi dav
vicino i mali venuti dalle ostinazioni della Corte Romana. Il
Cardinale Antonelli non volle che quell'opuscolo diffuso in
Car. Antonelli Segretario di Stato.
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589
tutto il mondo passasse senza osservazione alcuna. Quindi diresse
un dispaccio a Monsignor Meglia, incaricato d'affari della Santa
Sede a Parigi, in confuta del sopracitato opuscolo. Noi ripro
duciamo per intero cotesto dispaccio; in esso vedranno i no
stri lettori da una parte i principii politici e morali di Roma
clericale, e dall'altra le astuzie del Governo Papale nella in
terpretazione dei fatti, e nella estimazione delle cose.
Faremo seguire al dispaccio le nostre considerazioni con che
lascieremo Roma ai destini che inevitabilmente l'aspettano.
Il dispaccio del Cardinale Antonelli in data del 26 febbraio
1861 diceva:
Monsignore.
Ella avr gi letto senza dubbio, l'opuscolo pubblicato
recentemente a Parigi sotto questo titolo La Francia, Roma e
l'Italia. Esso contiene una specie di commentario tanto dell'e
sposizione ufficiale della situazione fatta del mese corrente dal
sig. Baroche al Senato e al corpo legislativo di Francia, quanto
alla serie dei documenti pubblicati dal governo francese, ri
guardo agli ultimi avvenimenti d'Italia. Ella si sar accorta
senza dubbio, che lo scopo principale di quest'opuscolo di
riversare sul Santo Padre e sul suo governo la causa dello
stato deplorabile a cui sono giunte le cose in tutta l'Italia, e
specialmente nei dominii pontificii. Ella conosce perfettamente
la serie dei fatti che si sono succeduti in questi ultimi tempi,
e conosce da altra parte i diversi atti emanati da Sua Santit,
come pure il dispaccio da me inviato a Monsignor Nunzio a
Parigi, il 9 febbraio dell'anno scors, e questo gi le basta
per respingere tale ingiusta imputazione. Infatti se si conside
rano con qualche attenzione gli argomenti sui quali essa
appoggiata nell'opuscolo, si vedr di leggieri che non vi ha una
sola asserzione, la quale non sia vittoriosamente confutata
dagli atti di cui le parlai. Tuttavolta, siccome quest'opuscolo,
col mezzo di vaghe generalit e di aneddoti estranei alla que
stione, e d'allegazioni puramente immaginarie, si sforza di
presentare i fatti sotto un falso aspetto per far loro dire il
contrario di ci che esprimono. Io ho creduto opportuno di
opporvi alcune considerazioni pel maggiore schiarimento delle
verit. Questo motivo aggiunto alla considerazione del carat
b90
tere ufficiale, sotto cui l'opuscolo si pretende pubblicato mi
ha indotto ad occuparmene per la parte che riguarda pi da
presso la Santa Sede e il suo governo.
E in prima io non mi fermer qui a qualificare l'atto
di un uomo che osa scagliare pubblicamente un'accusa si
grave contro il capo augusto e venerabile della Chiesa catto
lica; e ci nel momento in cui, tranne i ciechi ed eterni ne
mici d'ogni ordine tutti ammirano e lamentano in lui la vit
toria dell'ingratitudine e della perfidia pi rara che fosse mai.
So bene che l'autore si scusa dall'accusare Sua Santit col dire,
che il suo cuore stato sorpreso ed ingannato da alcuni di
quelli che lo circondano; ma questo artifizio troppo volgare
per evitare il rimprovero d'irriverenza quando si osa biasi
mare colui che ha tanti titoli al pi profondo rispetto, e alla pi
sincera gratitudine e venerazione.
Del resto, ciascuno comprende facilmente che una simile
scusa peggiore dell'accusa medesima.
Ma checch sia dell'apprensione morale, e se si vuole,
politica di questa imputazione veniamo a considerarla in s
stessa e nel suo valore intrinseco. L'opuscolo pretende che
l'ostinazione del Santo Padre a non cedere alcuna riforma e
a rifiutarsi a tutti i consigli e soccorsi benevoli del governo
francese sia la sola e vera cagione di tutte le perdite tempo
rali che soffre al presente la Santa Sede. Non amando da mia
parte le generalit vaghe ed astratte che valgono solo ad oscu
rare e traviare la verit, io chiamo l'autore sul terreno dei
fatti particolari e precisi. Di qual tempo egli parla e di quali
circostanze? Bisogna ben confessare che, se la pretesa ostina
zione cosa reale e non immaginaria, essa ha dovuto mostrar
si in un dato tempo e in una data congiuntura.
Ora, a questo riguardo, si possono distinguere tre epoche;
la prima si estende dai primi anni del pontificato di Sua San
tit fino al suo esilio a Gaeta; la seconda comprende i dieci
anni che trascorsero dal suo ritorno a Roma fino agli ultimi
torbidi sopravvenuti in Italia; e la terza infine i due anni, in
cui ebbero luogo questi scompigli. Sarebbe certo una follia a
voler rifondere la pretesa ostinazione sulla prima di queste
epoche, allorch il mondo intiero salutava nel Sovrano Pontefice
regnante l'iniziatore spontaneo di quelle riforme e di quelle
libert che si potevano accordare senza timore di vederle de
generare in colpevole licenza per opera di coloro che cerca
591
vano di abusarne. Ci tanto vero, che ultimamente ancora
fu confessato dal Ministro di una potenza protestante in una
assembea pubblica.
E se le generose e larghe concessioni del Santo Padre
si sono vedute ricompensate per parte dei perfidi mestatori
della rivoluzione colla pi ingiusta ingratitudine e fellonia, ci
serv a mostrare fin d'allora la vanit della confidenza esage
rata che molti ripongono in si fatti rimedii; vanit di cui per
mala sorte si ha avuto, pochi di fa un nuovo esempio.
Quando il Santo Padre fu ristabilito nel possesso de'suoi
Stati pel favore di tutte le Potenze e col concorso delle armi
cattoliche, in cui la Francia ebbe una si gran parte da meri
tarsi tutta la nostra riconoscenza, come gliela abbiamo espressa
e gliela esprimiamo di nuovo, quali furono allora i desiderii
che gli testimoniarono di comune accordo le potenze cattoliche,
compreso per conseguenza il governo francese ? Si era il
riorganamento delle finanze, scompigliate sopratutto dalle spo
gliazioni dell'anarchia rivoluzionaria, si era l'attuazione delle
riforme convenute a Gaeta coi plenipotenziarii dei principali
Stati cattolici, si era infine la formazione di un esercito pro
prio che potesse mettere un termine alla occupazione con
temporanea della Francia e dell'Austria,
Ora, qual di questi tre desiderii che non sia stato com
piuto? Grazie alla saggezza ed alla continua sollecitudine di
Sua Santit s'era non solo riuscito ad abolire la carta mo
netata, ma anche ad ottenere un eguaglianza perfetta tra le
entrate e le spese, con qualche eccedente dalla parte delle
entrate, e ci senza aggravare di nuove imposte i sudditi.
Quanto alle riforme, se ne eccettuano due, che, a cagione
delle circostanze gravi ed eccezionali provocate dall'attitudine
Ostile e rivoluzionaria del Piemonte furono differite; esse era
no state messe ad esecuzione, come ho dimostrato nel mio
dispaccio precedente, e il rapporto del signor conte di Ray
neval, d'illustre memoria, allora ambasciatore di Francia
presso la Santa Sede, ne aveva gi reso un irrefragabile te
stimonianza. L'esercito nonostante la condizione particolare
dello Stato pontificio in cui esso formasi, come si sa, per via
d'arruolamento volontario, potea dirsi costituito in numero suf
ficiente. Cos quando nei primi giorni del 1859 si voleva tro
vare un pretesto per la guerra d'Italia nella permanenza delle
truppe straniere sul territorio pontificio, Sua Santit pot
592
liberamente invitare la Francia e l'Austria a ritirare, quando
volessero, le loro truppe.
In che cosa adunque consiste la pretesa ostinazione del
Santo Padre nei dieci anni di cui parliamo? L'opuscolo in
questione invece di declamare in termini generali avrebbe fatto
meglio di dire in particolare, e citando fatti e documenti, ci
che avrebbe voluto il governo imperiale e gli altri governi
amici della Santa Sede. Quanto a noi non troviamo in tutto
l'opuscolo niente di specificato su questo punto, salvo le parole
seguenti: la condotta medesima del governo pontificio, il suo
rifiuto persistente di compiere le riforme e le simpatie con
fessate per l'Austria contribuivano ad accrescere le paure del
patriottismo italiano . Col che si intende di stabilire due cose:
il rifiuto delle riforme, e la simpatia per l'Austria. Ma sul
primo punto abbiamo gi dimostrato il vero coll'autorit me
desima del rappresentante della Francia. Quanto al secondo, si
citi un fatto solo in cui Sua Santit abbia esternato maggior de
ferenza pel governo imperiale che per qualsiasi altro governo
cattolico, e specialmente pel governo Imperiale di Francia.
Non si potrebbe invece e con pi fondamento muovere l'ac
cusa contraria?
Resta adunque la terza epoca, quella dell'ultimo movi
mento sopraggiunto in Italia e conviene occuparsi di questo
pi lungamente, giacch pare che a quest'epoca si riferisca
specialmente l'accusa arrecata dall'opuscolo. L'autore descrive
a pagine 21 quale doveva essere in una tale commozione l'at
titudine dell'imperatore dei Francesi, ed ecco le sue parole,
l'Italia rispettata nella sua indipendenza, il Papato protetto
nella sua potenza temporale , tale era dunque il doppio scopo
che doveva proporsi la politica imperiale. In faccia a questa
attitudine dell'imperatore, quale dovea essere quella del Santo
Padre? Il suo compito non era certamente di cominciare una
guerra offensiva contro nessuno, perch il Padre comune
di tutti, e rappresenta sulla terra il Dio della pace. Non do
veva nemmeno concorrere alla spogliazione dei principi le
gittimi, perch egli medesimo l'araldo e il vendicatore delle
leggi eterne della giustizia in mezzo agli uomini.
Infine egli non doveva abdicare di buon grado, n lasciarsi
impunemente strappare i suoi proprii Stati, non essendone
che il depositario in nome della Chiesa, obbligato da giura
menti solenni ed irrevocabili a conservarli nelle loro integrit.
595
e,
Ora, lo ripeto, quale dovea essere il suo contegno affine di
mostrarsi favorevole all'indipendenza italiana, senza mancare
ai sacri doveri di Pontefice?
Non ve ne era altro certamente che di accettare e realiz
Zare, per quanto stava in lui una combinazione qualunque che
gli fosse proposta, e che assicurasse l'indipendenza nazionale,
Senza offendere n i diritti degli altri, n i principii inviola
bili della Chiesa. Ora chi al mondo pu provare che il Santo
Padre si sia mostrato su questo punto, non dir ostinato ma dif
ficile a consentire? Diciamo piuttosto la verit: qual la com
binazione che sia stata giammai proposta a Sua Santit nei
limiti da noi tracciati? Non se ne conosce che una sola, quella
della Confederazione dei diversi principi italiani avente a capo
il sonno pontefice, come presidente onorario. Ebbene, tale
proposta fu mai rigettata dal Santo Padre? Per contrario non
Venne formalmente accettata?
L'autore dell'opuscolo si lagna amaramente che, quando
ha proposto questo aggiustamento fosse accolto con sarcasmi
da Roma e da Parigi; io non so nulla dei sarcasmi di Parigi, ma
quanto ai sarcasmi di Roma, se vi furono non vennero certamente
dal governo pontificio. Non parlo qui d'una proposta che parti
va dauno scrittore privato, il quale, senza dubbio non aveva la pre
tesa di venire considerato come una potenza. vero ch'egli ci dice,
di scrivere avendo l'onore di esporre un programma, ma
solamente oggidi che ci fa questa rivelazione; e l'indole del
suo scritto era ben lontana allora dal farcelo sospettare. La
proposta officiale della confederazione e della presidenza non
venne che in seguito ai preliminari di Villafranca e al trat
tato di Zurigo; e il Santo Padre come ho gi detto, si mo
str disposto ad accettarla, quando, com'era giusto, ne fossero
state definite le basi. L'autore nondimeno dice che allor non
era pi tempo, ma troppo tardi. Per egli non si avvede che
dicendo ci fa ingiuria al suo proprio principe, come se egli
e gli altri avessero proposto, quale punto di partenza di un
trattato solenne e quale mezzo di riconciliazione, una cosa
che non era pi possibile e inopportuna. Checch n sia,
si allora che la proposta venne fatta da colui che aveva l'au
torit di farla, ed ingiusto pretendere che Sua Santit l'a
vesse prevenuto di suo proprio moto. Ora, ripeto, poich non
in seguito ad un rifiuto del Santo Padre che questa com
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II
75
594
binazione non sia riuscita, come si potr senza una spudorata
calunnia, accusarlo giammai in ci d'ostinazione ?
Non trattandosi pi di questo assestamento, il quale da
un lato avrebbe risposto al contegno dell'imperatore dei Fran.
cesi, rispettando l'indipendenza italiana in modo da proteg
gere nello stesso tempo il potere temporale del sommo pon
tefice, e dall'altro lato era d'accordo col contegno conve
niente alla S. Sede, permettendole di concorre nei li
miti della giustizia all'indipendenza italiana, senza sagrificare
la sua propria autorit temporale; qual altra proposta che
riunisse simiglianti condizioni venne mai fatta?
Queii opuscolo entra in un tristo labirinto, riferendo le
proposte che furono fatte in seguito; ma sono costretto a te
nergli dietro, per quanto sia grande la pena che ne provo.
Comincia col riferire la lettera scritta dall'imperatore,
nella quale s'invitava il Santo Padre a cedere al Piemonte il
possesso delle Romagne con un titolo di Vicariato, ed a non
differire pi a lungo la concessione delle riforme reclamate
dall'Europa da trent'anni in qua. Qui vi sono due cose: le
riforme gi mentovate, e la cessione delle Romagne.
Quanto alla prima; fa meraviglia che si parli di riforme
reclamate da trent'anni in qua; quando dieci anni prima
erano state poste ad esecuzione, come si detto pi sopra.
Tuttavia il Santo Padre, comprendendo che sotto queste frasi
si voleva esprimere il desiderio di nuove concessioni, e bench
sapesse d'altro lato che il partito rivoluzionario aveva dichia
rato che esse sarebbero inutili; alfine di evitar di dare alcun
pretesto al rimprovero d'ostinazione che gli getta oggi in
faccia con tanta buon fede il detto opuscolo, acconsent a
nuove trattative, e con soddisfazione dell'ambasciatore del
governo francese stesso determin quali dovessero essere pre
cisamente le dette riforme. Avendo tuttavia riguardo a ci che
esigeva non solo la sua propria dignit, sulla quale nessun
Sovrano, nessun governo pu giammai transigere, ma altres
al bene delle popolazioni; Sua Santit si riserv solamente
di promulgarle quando le provincie in rivolta fossero tornate
all'ordine. Dunque su questo punto non vi fu ostinazione; ma
un'accondiscendenza temperata da una savia riserva.
Viene il secondo punto, che il Vicariato delle Romagne.
A questo il S. Padre rispose con un rifiuto coraggioso; e ve
diamo se avea ragione di farlo. Per me non so davvero come
595
l'autore dell'opuscolo concilia nel suo scritto la parte che
assegna all'imperatore, la quale di proteggere il potere tem
porale del sommo pontefice, colla cessione delle Romagne che
gli viene consigliata. una protezione veramente singolare,
quella che permette la spogliazione, bench palliata e paziale
del suo protetto, e che si duole che questi non lo favorisca
colla propria accondiscendenza. L'opuscolo dice che non si
poteva fare altrimenti, perch era divenuto impossibile ricu
perare le Romagne. Chi le avrebbe ricuperate? l'Austria vinta
non osava; la Francia vittoriosa non doveva, affine di non mancare
a suoi principii, il sommo pontefice non poteva per mancanza
di soldati. Mi astengo qui da ogni indagine sulle circostanze
che impedivano l'Austria di farlo, e dir solamente che essa
aveva preso in mano la protezione del dominio temporale
della S. Sede, come l'opuscolo stesso ne conviene. Se d'altro
lato questa protezione comportava la presenza delle truppe
francesi a Roma, non si vede il perch essa non lo compor
terebbe a Bologna.
Aggiunger finalmente che il sommo pontefice lo poteva,
avendo gi un esercito sufficiente per ripigliare le Romagne,
e se nol fece, l'autore dell'opuscolo deve saperlo meglio di
chicchessia, si perch fu impedito di farlo.
Ma supposto che questo consiglio dato potesse accor
darsi coll'ufficio di protettore, chi non vede d'altro lato che
colla sua accettazione non poteva accordarsi colla coscienza
del Santo Padre ? Dimostrai io stesso nel dispaccio pi volte
citato del 29 febbraio 1860, le ragioni che giustificavano questo
rifiuto, ma desidero di qui ricapitolarle.
Detta accettazione non poteva riconciliarsi colla coscienza
del sommo pontefice perch obbligato da giuramenti solenni
innanzi a tutta la Chiesa di trasmettere integralmente al suo
successore questo Stato che appartiene alla Chiesa stessa ed
all'integrit del quale tutto il mondo cattolico interessato,
come lo provano le solenni testimonianze della cattolicit tutta
quanta. Essa non si conciliava nella coscienza del sommo
pontefice perch era un abbandonare il terzo de'suoi sudditi
alla tirannia di una frazione immorale e irreligiosa, che ne
avrebbe fatto la sua vittima per i costumi e per la piet,
come l'evento ha poscia provato senza contestazione. Anche
un principe laico con una tale prospettiva non avrebbe potuto
in buona coscienza fare simigliante cessione, e come si pre
596
tenderebbe che potesse essere fatta dal sommo Maestro della
morale cattolica? Chi non sa, d'altra parte, da fatti diversi
dell'istoria ci che accadde alla Santa Sede per somiglianti
vicariati ? Ed il Piemonte stesso non ne diede nuovo esempio
in questi ultimi tempi? Farsi illusione sul valore di somigliante
combinazione sarebbe un errore imperdonabile. Non che
un lepido ritrovato che copre una reale abdicazione,
sotto l'apparenza di un falso nome. Egli dunque con ra
gione che non venne accolta neppure la guarentigia offerta
al Santo Padre per il rimanente de suoi Stati, qualora avesse
accettata la proposta del detto Vicariato; poich senza parlare
del reato, avrebbe egli stesso fissato il prezzo di un'abdicazione
che, quantunque velata, rimane sempre inammissibile lad
dove d'altro lato, non si sarebbe potuto capire come l'Europa
che era pronta a guarentire i due terzi degli Stati pontificii,
non poteva guarentirli intieramente.
Non trattandosi neppure della proposta del Vicariato, che
rimane ancora per provare l'ostinazione di S. Santit ? non
avvi pi che la proposta di un corpo d'esercito somministrato
dalle potenze cattoliche per il mantenimento dell'ordine negli
Stati ponteficii, quella di un sussidio pecuniario dato dalle
stesse Potenze, e la domanda di una pronta promulgazione
di riforme gi convenute. Or quanto alla promulgazione di
queste riforme, abbiamo gi date le ragioni, per cui essa non
era conveniente, e quindi inutile di ripeterle. Quanto al
corpo d'esercito non fu rifiutato, ma fu solamente risposto che
S. Santit avrebbe accettato con maggior riconoscenza non gi
il diritto come fu detto nell'esposizione di cui si parlato
sul principio, ma s la facilit di arruolare per suo conto nei
varii paesi cattolici i volontari che avrebbero voluto servirlo
nella difesa della Chiesa. D'altro lato ognuno pu facilmente
capire quale sarebbe stato pi convenevole, sia per evitare le
rivalit tra i corpi dipendenti dalle differenti potenze, sia per
conservare pi pienamente l'indipendenza pontificia, sia infine
per ovviare ad ogni complicazione nelle relazioni in caso di
guerra, tra le potenze che avrebbero somministrato i loro
contingenti.
Finalmente, riguardo all'accettazione dei sussidii bisogna
osservare che, senza parlare d'altri inconvenienti numerosi che
ne sarebbero risultati a detrimento dell'indipendenza e della
dignit del sommo pontefice, avrebbe ancora avuto l'apparenza
597
d'un prezzo fissato per la spogliazione offerta. Ed perci che
il Santo Padre, sull'esempio de'suoi illustri predecessori, pre
feriva l'oblazione spontanea de'fedeli che avrebbero voluto soc
correre G. Cristo nella persona del suo Vicario. L'obolo del
povero era pi onorevole al sommo pontefice nella condizione
ove lo aveva ridotto la perfidia e l'ingratitudine, che non l'oro
che gli era offerto dalle potenze della terra.
Ora riduciamo a loro minimi termini i capi d'accusa.
Mettendo da parte le asserzioni gratuite, le calunnie manifeste,
i fatti estranei alla causa che riempiono l'opuscolo, tutta l'o
stinazione che esso rimprovera al Santo Padre si riduce ad
aver rifiutato un'abdicazione che gli era proibita dalla sua co
scienza; ad avere differito, fino a che le provincie rivoltate
rientrassero nell'ordine la promulgazione delle riforme ul
teriori a cui aveva gi acconsentito; ad avere preferito il soc.
corso spontaneo de'fedeli ad un sussidio pregiudizievole som
ministrato dai governi che non sono tutti, n sempre animati
da intenzioni egualmente benevole.
E questi atti di fermezza, di nobile disinteresse, che sem
brerebbero ad occhi non pregiudicati degni di grandi elogi
che eccitarono e che eccitano ancora l'ammirazione perfino degli
eretici, sembrano al cattolico autore dell'opuscolo meritare
tanto biasimo che non n troverebbe di pi se scrivesse contro
quelli che sono veramente responsabili di lamentevoli disor
dini de'nostri giorni.
Ma questo appunto ci che reca stupore maggiore. Il
governo imperiale di Francia aveva dato del consigli a Sua
Santit; ne aveva del pari dato al governo piemontese. Se
il Santo Padre accusato di non averli ascoltati, il governo
piemontese non pare essere stato pi docile. Anzi bisogna
notare che laddove Sua Santit fece rifiuti, che si possono
chiamare puramente negativi, il governo i piemontese fece dei
rifiuti positivi. Sua Santit non credette espediente fare molte
cose che desiderava il governo di Francia, ma il Piemonte
fece di molte cose che quel governo dichiar pubblicamente
di non volere. Il governo imperiale proibiva che si violasse la
neutralit degli Stati pontifici, ed il governo piemontese ri
spondeva occupando le Romagne. Il governo imperiale disap
provava le annessioni, ed il governo piemontese rispondeva
compiendole.
Il governo imperiale proibiva anche con minaccie, s'inva
598
dessero le Marche e l'Umbria, e il governo piemontese rispon
deva mitragliando il piccolo esercito pontificio, bombardando
Ancona per terra e per mare, e non osservando nemmeno le
leggi della guerra riconosciute da tutte le nazioni civili. Il go
verno imperiale insisteva perch si ritornasse ai preliminari
di Villafranca ed al trattato di Zurigo, e il governo piemon
tese, rispondeva ridendosi del trattato di Villafranca e di Zu
rigo. E cos poi noi potremmo continuare a lungo quest'enu
merazione; ma bastano queste indicazioni.
Ora chi il crederebbe? L'autore dell'opuscolo, che ado
pera cosi crudelmente la sua penna contro il Santo Padre non
trova una parola di biasimo al governo piemontese.
Epputre ognuno sarebbesi aspettato non solo di leggere
parole di rimprovero contro un alleato cos ingrato e com
promettente, ma anche un invito alla Francia di reprimere
una volta e di punire una tale temerit. Nulla di tutto ci.
Chi pu dunque spiegare un tale contegno?
Tuttavia la spiegazione affatto naturale, e l'opuscolo ce
la d infine nell'ultima pagina, dove dice che l'imperatore dei
Francesi non pu sagrificare l'Italia alla Corte di Roma, n ab
bandonare il papato alla rivoluzione: ci che riesce a dire:
doversi sagrificare la Corte di Roma alle esigenze della
Penisola, e doversi abbattere il dominio temporale della
Santa Sede, perch serve d'ostacolo alla costituzione e all'or
ganamento dell'Italia; e bisogna farlo affinch il Papato o il
potere spirituale non vada sotto i colpi della rivoluzione.
L'autore dello scritto ha egli riflettuto che l'Italia, a cui
bisogna sagrificare il dominio temporale del Papa, non avr
altro padrone che questo Piemonte che invade i territori di
coloro che non si danno a lui; che porta il ferro e la strage
in mezzo ai popoli che rifiutano il suo giogo; che viola non
solo la fede dei trattati pi solenni, ora sotto il pretesto della
loro antichit, ora per puro capriccio, ma anche il diritto delle
genti; che infine somministra le armi, e il denaro per solle
vare le masse, affinch essi trovansi dippoi in istato di con
sumare l'atto di ribellione contro i loro Sovrani ? E quale
differenza mette l'autore tra quel governo possibile, al quale
egli d fin qui il nome di rivoluzione e il Piemonte tal quale
, e tal quale si mostrato in quasi tutta la sua condotta ?
E quale sventura maggiore potrebbe incogliere al Papato per
il fatto della rivoluzione, come esso stesso la chiama, che gi
599
il Papato non abbia a soffrire per il fatto del Piemonte? Egli
a nome del re di Sardegna e de suoi ministri che i cardi
nali e i vescovi sono incarcerati, cacciati dalle loro Sedi e
costretti ad esiliarsi, da loro stessi. in loro nome che si abo
liscono gli ordini religiosi, e che si impediscono che quelli, i quali
rimangono comunichino coi loro superiori generali. E in loro
nome che s'inquietano in ogni guisa i ministri dell'altare e
che si giunge persino a sottoporre alla censura la predicazione
della divina parola. Si in nome di questo governo che si
stende la mano sui beni ecclesiastici e che se ne confisca una
parte a profitto dello Stato. sotto di lui che si toglie la bri
glia ad ogni bestemmia nei giornali, ed ad ogni profanazione
delle cose sante nei teatri, mentre si chiude la bocca ai soli
difensori della verit e della giustizia. Si finalmente sotto
questo governo che anche nelle provincie pontificie, che ha
usurpato, non permesso ai Vescovi preconizzati per le sedi
ora vacanti di prenderne possesso, eccetto ch acconsentino
a sottomettersi a condizioni contrarie ai loro doveri.
Privando cos tante anime del loro legittimi pastori, non
si fa che attaccare sempre pi la religione. Su ciascuno di
questi punti l'Eccellenza Vostra trover pi ampi particolari
negli atti pontificii gi citati e ne miei dispacci precedenti che
vi si riferiscono. Tuttavia nonostante questi fatti, e checch ne
pensi l'autore dell'opuscolo una cosa ci rassicura, ed il
pensare che ha contro di s le assicurazioni ripetute del suo
stesso Sovrano e dei ministri di lui, il trattato di Zurigo, in
cui sono riconosciuti e ammessi come incontestati i diritti del
Santo Padre e finalmente lo slancio unanime di tutto il mondo
cattolico.
Con ci che le ho fin qui esposto brevemente V. E. pu
concepire l'idea principale di questo scritto. Tutto ci che
accumula oltre a relazioni per vero dire poco diplomatiche, di
aneddoti, di ciancie raccolte nelle anticamere, di millanterie
esagerate e di proteste religiose in quella che vilipende ed in
giuria il Capo Supremo della Chiesa, tutto questo senza dubbio
non merita che io perda il tempo e la fatica di notarlo. Havvi
per un'allegazione abbastanza grave da non lasciarla pas
sare senza qualche parola di riprovazione. Essa consiste nel
presentare come un'opposizione alla dinastia che regna attual
mente in Francia il movimento dei cattolici francesi in favore
della Santa Sede. questa un'ingiuria che si fa alla magna
600
nima e generosa nazione francese e che la ferisce nel suo sen
timento pi delicato, in ci che forma il suo pi bel titolo
di gloria e il suo immortale eroismo, voglio dire lo slancio
religioso. Ma per smentire questa schifosa calunnia avrebbe
bastato il vedere che questo movimento venne secondato in
Francia da persone ecclesiastiche non meno illustri per virt
e per la loro scienza che per la loro sincerit e loro franchezza.
Attribuire ad uomini del manto della religione per coprire i
loro disegni politici, un'accusa di tale inconvenienza, che
non ho parole da esprimere il disprezzo che merita.
Tuttavia, poich l'opuscolo associa principalmente una
parte del clero francese al Santo Padre, facendogli l'ingiuria
di rappresentarlo come il docile istrumento di astuti intriganti,
sono condotto a confondere tanta audacia con un solo razio
cinio che salta agli occhi di tutti. Il movimento religioso,
in Francia, per la causa della Santa Sede, non fu realmente
diverso da quello che si manifestato nel Belgio, in Alema
gna, in Irlanda e altrove. Un effetto universale dimostra una
causa del pari universale. Si dovr adunque dire che tutta
l'Europa si trasformata in una grande Vandea? Se dalla
Francia, parecchie centinaia di valorosi sono venuti a schie
rarsi sotto la bandiera pontificia, da altre contrade ne venne
un numero ancora pi considerevole.
Si dir forse che l'opposizione dinastica all'imperatore
dei Francesi ha spinto a questo magnanimo sacrifizio i figli
generosi di queste differenti nazioni?
Ma a chi ragionasse in siffatto modo sarebbe tempo per
duto il cercare di rispondere. E vero che in Francia il movi
mento religioso per la difesa del pontefice assalito si ma
nifestato con pi di vivacit e di ardore, ma il motivo me
pi nobile di quello che pensa l'autore dell'opuscolo. Bisogna
cercarne la causa nel giusto timore concepito dalla Francia
cattolica di vedersi strappata dalla fronte l'aureola pi preziosa
che la incorona e sul rischio di prestar la mano alla distru
zione dell'opera di Carlomagno. Carlomagno fu grande per
avere liberato e dilatato i dominii della Santa Sede, assaliti ed
invasi da un re lombardo che agognava, come avviene oggidi,
al possesso dell'Italia intera. Non basta: egli consolid la so
vranit pontificia sulla pi solida base e la fece riconoscere
all'Europa.
Ora si fanno oggidi tutti gli sforzi perch questa grande
60i
opera, che presso il mondo cattolico la gloria pi invidiata
e pi pura della figlia primogenita della Chiesa, cada in ruina,
in disprezzo delle assicurazioni molteplici sia politiche sia
private, colle quali, come ho gi detto quando l'imperatore
dei Francesi, e quando i suoi ministri hanno dichiarato che il
potere temporale non sarebbe scosso, ma invece consolidato.
E se voglionsi ritrovare altre cause di queste apprensioni, si
potrebbero forse rinvenire sia nel famoso proclama imperiale
indirizzato da Milano agli Italiani, sia nell'interpretazione data
comunemente al colloquio ch'ebbe luogo a Chamberi tra l'im
peratore dei Francesi e un generale piemontese; sia nell'in
troduzione del principio del non intervento stesso in guisa da
favorire la rivolta ed impedire le potenze cattoliche d'accorrere
in difesa del sovrano potefice, sia nell'opposizione alle misure
che avrebbero efficacemente arrestato la spogliazione sacrilega
degli Stati della Chiesa, sia nell'offerta di proposte inammis
sibili. Tutte queste cause, per tacerne molte altre si concate
nano col ricordo di ci che avvenne nel congresso tenuto a
Parigi nel 1856.
Io metto fine a questa triste discussione, alla quale mi
condusse, mio malgrado, l'audacia dell'opuscolo. Per conchiu
dere far osservare, che se vero come dicesi nell'ultima pa
gina, che la Santa Sede destituta oggidi d'ogni umano soc
corso (como l'autore sa meglio che qualsiasi altro) non priva
del soccorso di Dio; e Dio senza dubbio pi potente degli uomini.
Checch ne venga, il Santo Padre avr la consolazione di es
sere stato fedele ai doveri della sua coscienza, e nei tempi
di s profondo avvilimento e di s grande perfidia, d'avere
con un'imperturbabile fermezza proclamato e mantenuto in
faccia al mondo i principii eterni della giustizia e del diritto.
Il trionfo morale certo e vale assai pi d'ogni materiale
vittoria.
Le poche considerazioni che vi trasmetto serviranno a
V. E. d'istruzione e di regola, affinch presentandosi il caso,
ella possa confutare le obbiezioni che si potessero trarre
contro la Santa Sede dall'opuscolo suddetto, e sono, ecc.
Roma, 26 febbraio 1861.
G. CARDINALE ANTONELLI.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
76
602
Questo lungo discors del cardinale Antonelli rassomiglia
a tanti altri della corte pontificia cos nella scelta degli argo
menti, come nelle ragioni addotte per iscusare o giustificare la
politica della corte di Roma. Ci conviene notare che nessun
gabinetto al mondo tanto cauto e destro nelle cose diplo
matiche quanto quello di Roma; destrezza che nasce forse
dalla natura dei preti che usi a meditare e a non lasciarsi tra
scinare da momentanei risentimenti o da forti passioni han
l'abito di operare secondo la parola delle leggi, e di tenersi
in salvo. Ma tutte le destrezze e le cautele possibili non po
tevan valere a mettere Roma dalla parte della ragione nelle
vertenze con la nazionalit italiana.
E per fermo, a noi non pare che la provvidenza possa
condannare una nazione del mondo allo stato di debolezza e
perci stesso di schiavit per la semplicissima ragione del po
tere temporale del Papa. Ora da ammettersi che ove vera
mente lodio avesse voluto dare alla sua Chiesa un regno in
Italia, questa povera Italia sarebbe stata condannata ad un fa
tale sbranamento; ella mai avrebbe potuto costitursi sotto un
solo regno e con un solo governo. Ecco lo scoglio in cui si
rompevano e si romperanno sempre tutte le argomentazioni
clericali circa il potere temporale dei Papi; ecco la persua
sione generale degli Italiani tutti, persuazione per la quale la
corte pontificia e l'episcopato restaron Soli in Italia a soste
nere e difendere le proprie opinioni.
N solo in questo modo la posizione del potere tempo
rale era divenuta impossibile, ma per ragione pi potente an
cora, quella cio dei principii adottati dalla corte pontificia
circa i diritti della legittimit. Posto pure che gli Italiani si fos
sero indotti a lasciare al Papa una qualche provincia per eser
citarvi la potest temporale, non solo l'unita restava incom
pleta, ma nel Papa-re i principi spodestati avrebbero sempre
ritrovato un loro amico, un partigiano, un cospiratore eterno
contra i fatti della rivoluzione ed a pro dei diritto divino. In
fatti, come sarebbe stato possibile alla corte pontificia met
tersi in rapporti diplomatici con un gabinetto che a suo modo
di vedere aveva usurpati i domini degli altri principi? come
sarebbe stato possibile vivere in pace col re d'Italia, re rivo
luzionario e fatto grande e potente dalla rivoluzione? Se col
piccolo Piemonte esisteva gi da dodici anni la lotta perch
Roma malediceva la libert di quel regno, la libert di coscienza,
605
la libert della stampa, dei culti, la libert politica, come mai
questa lotta sarebbe cessata con un governo che estendeva
quelle medesime libert a tutta quanta l'Italia?
Di pi, l'episcopato erasi messo apertamente nella via
della reazione, e questa doveva riuscire tanto pi fatale all'I
talia, quanto pi i diritti del pontefice al potere temporale sa
rebbero stati rispettati dalla rivoluzione italiana. Se sotto le
leggi del governo di Torino i preti predicavano la reazione ed
usavano tutti i modi per avversare il progresso e la soluzione
della causa italiana, questa propaganda dove non sarebbesi
spinta se gli Italiani avessero piegato il capo alle esigenze della
Corte Romana, e agli interessi mondani dell'Episcopato? Roma
non era dunque solamente un inciampo all'unit d'Italia; essa
era ancora un'insidia continua, un continuo pericolo, una mi
naccia permanente, una incessante cospirazione contra un gran
regno italiano surto dalla rivoluzione e dalla rivoluzione co
stituito.
Il cardinale Antonelli asseriva non potere il Papa rinun
ziare al suo potere temporale perch legato da giuramento
a conservarlo e tramandarlo ai suoi successori. Strana dottrina
che limitava i diritti del pontefice e facevalo servo al domi
nio terreno. Ma la dottrina era pi strana ancora perch poco
tempo prima, Papa Pio VII aveva cedute alcune provincie al
regno italico, e non pare che la Chiesa ritenga quel pontefice
come uno spergiuro. Dunque se Pio VII aveva potuto disporre
del dominio temporale perch non lo poteva Pio IX? l Papi
fanno vero un giuramento col quale si obbligano di tra
mandare il regno ai loro successori, ma non pare che questo
giuramento debba stare anco in circostanze di rivoluzione ed
in momenti pericolosi alla religione. Non era il Papa che ce
deva il potere temporale, ma era l'Italia che rivendicava i suoi
diritti su una provincia italiana. D'altronde la situazione erasi
fatta a poco a poco tanto scabrosa e difficile che la religione
stessa correva gravissimi pericoli. Era infatti facile cosa che
l'animo degli Italiani cos avversato nelle sue pi nobili aspi
razioni si rivolgesse ad una Chiesa nazionale e si sottraesse al
l'autorit del Papa; era cosa pi facile ancora che il pro
testantismo trovasse assecli e seguaci non tanto per convinci
mento religioso quanto per fare onta all'episcopato divenuto
nemico alla causa italiana; ed ove nulla di ci fossesi avverato
eravi sempre il grave male dell'indifferentismo di giorno in
604
giorno crescente verso il sacerdozio e quindi verso la re
ligione.
Ora tutte siffatte cose portavano sul tappeto la questione
del potere temporale sotto diverso aspetto, sotto altro punto
di vista, e non sarebbe stato n mancare al giuramento, n
venir meno ai propri obblighi cedere in faccia a circostanze
tanto imponenti, ed assicurare gli interessi della religione. Ma
in Roma le cose non si guardavano tanto pel sottile; coloro
che circondavano Papa Pio IX avevano sposati impegni affatto
politici, e volevano vincerla ad ogni costo; quindi descrivevano
al Papa il movimento italiano come demagogico, antireligioso,
sfrenato ad ogni eccesso, ed in tal modo riuscivano a rendere
impossibile la conciliazione.
N si vuol tralasciare di dire come i cardinali stessi fos
sero istigati alla loro ostinazione da gente straniera venuta a
Roma per combattere di l con le opinioni e coi consigli la
causa del legittimismo del proprio paese. Specialmente il par
tito legittimista di Francia inviava i suoi emissarii a sostenere
il Papa per cos fare opposizione a Napoleone III. Vi furono
momenti in cui Antonelli e Merode si lusingarono di una pros
sima rivoluzione in Francia, di un subbuglio generale in tutta
Europa, subbuglio che come al solito doveva finire con la
vittoria dei despoti, con il rinnovamento di una Santa Alleanza,
con la morte della rivoluzione.
Per era dalla Francia che veniva la pi fiera opposizione
alle teorie della curia romana; diciamo dalla Francia perch
se l'opposizione italiana poteva essere giudicata frutto di pas
sioni e d'interessi, quella francese veniva estimata opera di
riflessione che attenevasi strettamente ai diritti nazionali. Circa
il dispaccio di Antonelli di sopra recato, uno scrittore francese,
Lemoinne, scriveva questi, pensieri: Noi udiamo sempre par
lare della necessit per il capo della Chiesa cattolica, di con
servare il potere temporale, per conservare la sua sovranit e
la sua indipendenza. Ora, dove sono oggi di questa sovranit
e questa indipendenza? Da molti anni il Papa non mante
nuto a Roma che da forze straniere. Non c' a Roma che una
successione, che un cambio d'occupazioni. Lasciato solo, il Papa
si troverebbe in capo ad un'ora in faccia ad una rivoluzione
vittoriosa. un non senso il parlare dell'indipendenza del
Papato. Il Papa non era indipendente ieri, e non lo oggi.
Non lo precisamente, perch egli ha una pretesa sovranit
605
temporale, perch l'esercita su di un popolo, che non la vuole,
perch, per esercitarla, ha bisogno di una protezione straniera,
e perch questa protezione straniera bisogna pagarla a prezzo
di quella indipendenza nominale, di cui non resta che il
fantasma.
Accennando poi al diritto dei Romani, scriveva: In verit
non possiamo stancarci di ammirare la semplicit di egoismo
con cui i pretesi difensori della religione, della famiglia e della
propriet dispongono della religione, della famiglia e della
propriet del loro prossimo. V' una citt, la prima del mondo,
un popolo, uno dei pi grandi nella storia, che saranno esclusi
da ogni movimento, da ogni progresso, da ogni libert, che
saranno condannati alla immobilit assoluta e perpetua, men
trecch il resto del mondo procede, perch ci importa alla
sicurezza di alcune vecchie coscienze liberali. E vengono a dire
ai sudditi della Santa Sede, ai Romani: E che volete? Voi
siete un popolo eccezionale o piuttosto non siete un popolo.
Importa ai cattolici della Francia, del Belgio, della Baviera,
della Spagna, dell'Austria, del mondo intero, che il Papa ri
sieda a Roma e che vi sia sovrano e padrone. Roma non
vostra; essa nostra, di chi la vuole. Voi non siete liberi
ma ci appartenete. Questo si dice tutti i di ai Romani, senza
pensare quanto un simile linguaggio sia odioso ed insultante.
Mettiamoci per un momento nei panni di un Romano, a cui si
venga a dire: Voi non avete patria, n diritto di averla. Un
tempo il titolo di civis romanus volea dire, che dappertutto si
era a casa sua, oggi vuol dire che non si in casa propria in
nessun luogo.
- Voi siete un popolo senza personalit, d'un genere inde
-
finito, un capitolo di cantori della cappella Sistina destinati
a recitare i sette salmi penitenziali per tutti coloro che ne
hanno bisogno. Questa terra sulla quale siete nati, e su cui
volete vivere e morire, questa polvere che voi siete ed in cui
volete ritornare, tutto ci non vostro; tutto ci appartiene,
non soltanto ai veri fedeli, ma a tutti quei cattolici di passag
gio che vengono da voi a celebrare, ci che fa lo stesso, o
il carnevale o la settimana santa.
Ma questo franco linguaggio del Lemoinne non era il solo
a combattere le dottrine romane. La stampa liberale di tutto
il mondo si trovava concorde in quell'impresa, e se essa non
valse a persuadere Roma ed a distruggere il fatale non pos
606
sumus, valse certo a convincere la pubblica coscienza ed a
formare l'universale opinione affatto contraria alle dottrine
dell'episcopato.
Roma per non ristava, e non contenta di adoprare la
parola ed il danaro contra la causa italiana, adoperava ancora
il consiglio con che veniva suggerendo a Francesco li, di ag
giunger proteste a proteste e di veder modo come suscitare e
nei gabinetti e nei popoli stranieri odio o per lo meno avver
sione contra le cose italiane. In data del 26 febbraio 1861
Francesco II, indirizzava una protesta, e facevala presentare al
Thouvenel ministro degli Esteri in Francia. Quella protesta di
CeVa:
Nel momento stesso in cui fu presa la dolorosa risolu
zione di abbandonare Gaeta, S. M. il re prese, dopo maturo
esame la risoluzione di far conoscere all'Europa i motivi della
sua condotta.
L'esito al quale giungemmo, dopo gli sforzi pi eroici,
era facile a prevedere, dacch le circostanze particolari delle
grandi potenze d'Europa non permettevano loro, malgrado
gli inviti del governo del re, di por freno all'ambizione del
Piemonte.
Un sovrano che trovasi in mezzo alle condizioni pi dif
ficili, appena salito al trono dei suoi maggiori, al quale il
tradimento e la rivoluzione non concedevano il tempo di stu
diare la situazione del suo paese, era degno di qualche appog
gio e meritava, io credo, efficaci simpatie. E quando questo
sovrano medesimo era slealmente assalito, il giorno in cui ac
cordava una costituzione e le pi larghe guarentigie ai suoi
sudditi, egli poteva credersi in diritto di fare appello al tribu
nale delle grandi nazioni che pel bene comune si posero ar
bitre del diritto pubblico e dell'equilibrio politico del mondo
in diverse circostanze che l'Europa ebbe ad attraversare dal
1815, ed in tempi relativamente remoti, come in altri vici
ni a noi.
Che un sovrano non possa n domandare n sperare al
cun soccorso dall'estero nelle agitazioni puramente interne
dei suoi popoli, che l'intervento straniero non possa venire
ad assicurare alternativamente il trionfo della rivoluzione o
quello dell'autorit, che in una parola governi e popoli si la
scino liberi di modificare il regime politico del loro proprio
607
paese, sembra poter essere ammesso in teoria generale da
tutti ed essere fondato nei principii di libert e di giustizia
che governano la politica dei grandi Stati d'Europa.
Ma quando un monarca combatte lealmente per assicu
rare l'ordine pubblico, per l'indipendenza e la libert dei suoi
popoli, egli pu almeno domandare la garanzia delle leggi co
muni fra le nazioni, che non permettono a un altro governo
di violare il diritto pubblico, i trattati solenni che formano il
solo legame della societ politica d'Europa. Il re delle Due
Sicilie poteva credersi nella posizione degli altri sovrani, e
aveva diritto alla medesima posizione contro l'aggressione stra
niera che non domanderebbero inutilmente la Porta Ottomana,
il vicer d'Egitto e i governi barbareschi dell'Africa.
E non bastava dire, per negare le conseguenze di que
sto principio, che trattavasi d' una questione fra Italiani.
L'Italia, quale la storia l'ha fatta, quale l' Europa l'ha costi
tuita, si compone di Stati diversi con Governi indipendenti.
Ecco il diritto riconosciuto. Che i popoli i quali si costitui
scono siano liberi di spingere, se si vuole, fino all' ultimo
limite la teoria della loro sovranit, e di rinunciare alla loro
indipendenza; ma non si pu permettere, senza calpestare
tutti i principii, che questi popoli stessi vengano invasi senza
dichiarazione di guerra, sotto il pretesto d'unit e di libert,
lasciando che una potenza violi nella sua ambizione la legge
comune delle nazioni.
Il re credette, che se era conforme a suoi doveri di sod
disfare i desiderii legittimi dei suoi popoli e di lottare contro
l'interna rivoluzione, potrebbe d'altra parte rivolgersi al tri
bunale europeo, quando avventurieri di tutti i paesi, official
mente rinnegati dal governo della Sardegna, ma coperti dalla
sua bandiera traversavano a migliaia il Mediterraneo per fare
il loro campo di battaglia del territorio delle Due Sicilie. Un
esercito , ero, marina, artiglieria, munizione, tutti i mezzi
furono posti in opera per seminare la morte e la desolazione
negli Stati d'un Sovrano pacifico come nella barbara antichit.
Colto all'improvviso da siffatti avvenimenti, non trovando
soccorso nella legge comune il re si ritir cogli avanzi del
suo esercito fedele dietro le rive del Volturno, per rispar
miare alla sua Capitale gli orrori di un bombardamento e per
difendere i suoi diritti.
Videsi tosto che le regie truppe erano sufficienti mal
608
grado la scarsezza dei loro mezzi a riconquistare il regno.
Allora senza motivo e senza dichiarazione di guerra, violando
la santit dei trattati, il sovrano del Piemonte entr alla testa
del suo esercito, ed occup il territorio delle Due Sicilie
come un paese di conquista.
Malgrado i sospetti, che la politica sleale della Sardegna
poteva ispirare da lungo tempo, il re non poteva credere,
ch'essa potesse osar tanto e che l'Europa fosse per tolleraria.
Assalire un Sovrano che trovavasi in pace col mondo intiero,
che aveva offerto al Piemonte la sua alleanza e che aveva
ancora i suoi rappresentanti a Torino per conchiuderla, che
aveva a Napoli un ministro del re di Sardegna accreditato
presso la sua persona; violare tutti i trattati, calpestare tutte
le leggi, distruggere a suo profitto il diritto pubblico, era una
enormezza tale che nessuno avrebbe potuto supporre, poich
ogni nazione aveva interesse e dovere di punirla. Il Piemonte
violava il diritto pubblico e massimamente l'impegno preso
a Parigi nel protocollo 14 aprile 1856, giusto il quale la
guerra non avrebbe potuto avvenire fra due Stati, che aves
sero accettato questa dichiarazione, senza sottomettersi pri
ma alla mediazione degli altri. Era precisamente il caso nel
quale trovavansi Napoli ed il Piemonte: comprendesi, che
S. M. non abbia potuto credere possibile l'aggressione, e che,
assalito, abbia potuto e dovuto credere che le grandi potenze
d'Europa l'avrebbero assistito.
La cosa andava altrimenti.
La nota ricordava quali furono i risultati di quest'ag
gressione che non si poteva prevedere: il re forzato ad ab
bandonare le posizioni del Volturno e la difesa sul Garigliano
in seguito alla presenza della flotta sarda, tolta per tradi
mento al re di Napoli, e la sua ritirata a Gaeta, senza finanze,
senza risorse militari, n amministrative, ha resistito per pi
di tre mesi, con un pugno di uomini che combattevano da
un anno con orribili privazioni, agli attacchi incessanti di una
armata che disponeva dei mezzi di pressoch l'Italia intiera.
Confidando nella giustizia della sua causa e nell'interesse
ben inteso degli altri sovrani, il re affront i pericoli d'un
assedio che prolungato poteva recargli delle risorse nella po
litica dei sovrani d'Europa. Si sa la condotta magnanima
della giovine regina, del re, e dei due giovini principi napole
tani durante questa lotta disperata.
-
609
Le circostanze politiche obbligarono infine l'imperatore
a ritirare la flotta da Gaeta. Il re senza farsi illusioni sul ri
sultato di quella lotta ineguale, credette di non dover abban
donare una posizione nella quale, come nelle altre, S. M. di
fendeva la sua corona non solo, ma l'indipendenza de' suoi
popoli, il diritto pubblico e la legge, in virt della quale i so
vrani regnano, e le nazioni sono indipendenti e rispettate.
Senza questa legge non vi giustizia n sicurezza per nes
suno ; questa base della societ che il re fiero d'aver
sostenuto finch lo permisero le sue forze.
La nota insiste nuovamente sulla ineguaglianza della lotta
impolitica, risultando da questo fatto che il nemico si era,
colla corruzione e il tradimento, impossessato del tesoro, de
gli arsenali, dei depositi da guerra, che perci egli poteva
rinnovare ed aumentare tutti i giorni i suoi mezzi d'attacco.
Contro de soldati ogni giorno rinnovati e aumentati, noi
non potevamo opporre che dei prodi soldati affaticati dalle
lotte che sostennero dal mese d'agosto da Palermo a Messina,
da Messina nelle Calabrie al Volturno, dal Volturno al Ga
rigliano, da questo a Mola, da Mola a Gaeta, esposti ai ri
gori della stagione, stesi per terra senza tende n coperte.
Cos alle stragi che faceva in mezzo ad essi il cannone vennero
ad aggiungersi le stragi delle malattie. Il coraggio e la devo
zione loro non fallirono mai in mezzo a cos grandi sagrifici!
Fino al momento nel quale il re sperava un soccorso, credette
di continuare a difendere la causa della giustizia e quella dei
popoli.
La nota mostrava che la conferenza di Varsavia non fece
sperare alcun risultato, e il discorso dell' imperatore, mal
grado i suoi nobili sentimenti, non lasci credere che la Fran
cia potesse o volesse limitare l'ambizione del Piemonte. Il
risultato delle elezioni, fatte sotto l'influsso delle invasioni,
faceva trionfare la politica del conte Cavour, e allontanando
la guerra coll'Austria, dava al governo di Torino il tempo di
concentrare tutti i suoi sforzi contro Gaeta, abbandonata a
s stessa, e contro il re, dolorosamente convinto che la sua
causa, che era quella della monarchia, non era sostenuta da
alcun principe regnante in Europa.
-
La nota mostrava che la superiorit dell'artiglieria dava ai
Piemontesi il vantaggio di trarre dalle alture lontane, accer
chiando la piazza e distruggendola al coperto da ogni pericolo.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
77
640
Fa pure osservare che per tre mesi non osarono accostare le
loro batterie. La resistenza in mezzo a tanti infortunii e stragi,
sarebbesi continuata fino all'assalto senza due contingenze che
diedero ad essa un termine. La nota narrava le calamit de
rivanti dall' esplosione di due polveriere.
La resistenza coi mezzi di guerra diveniva impossibile,
quando il tifo ci coglieva ogni di 60 a 70 uomini; 1500 sol
dati erano all'ospedale. Una suora di carit era morta, sette
erano in letto, non ne rimanevano di sane che 7. Nella ca
samatta del re e della regina il tifo coglieva il duca di San
dro e il signor Ferrari, generale. Temevansi sintomi di peste.
Allora il re convoc un consiglio di guerra composto dei ge
nerali e dei capi di corpo. La resa fu decisa unanimemente.
La guarnigione rinnov, anche in quel terribile mo
mento, il giuramento di fedelt, che non aveva mai pensato
a smentire. Il re avrebbe preferito cadere fra quei prodi,
che avevano alzato s alto l'onore dell'esercito napoletano.
Ma il cuore di un padre doveva limitare i sagrifici dei figliuoli,
sagrificii ormai inutili, privi d'ogni speranza. S. M. diede la
facolt di negoziare. Appena s'ebbe sentore che il nemico,
in luogo di sospendere il fuoco, l'accrebbe in modo barbaro,
coprendo di bombe e materie ignivome una piazza che doman
dava capitolare.
Erasi venuto in accordo sulle basi della cessione, non
mancavano che le formalit e la ratifica, ma il fuoco conti
nuava con crudelt senza esempio in un esercito d'una na
zione considerata civile. Mentre negoziavasi, avveniva una stra
ge di soldati e di famiglie che non avevano pi ove ricove
rarsi.
Permettetemi di fare una digressione che vi prego di
ben notare. In risposta alle osservazioni fatte con modera
zione, con dignit dal generale Ritucci, il generale piemontese
per giustificare la sua condotta dice essersi mancato alla pro
messa di non riparare alla breccia nel tempo dell'ultimo ar
mistizio. Lasciamo da parte il linguaggio per lo meno insolito
dalla parte di un nemico vincitore; rischiariamo il fatto che
ci viene rimproverato.
La nota voleva qui mostrare la falsit di tale accusa.
Il re, desolato di separarsi da suoi prodi, s'imbarca colla
famiglia reale sulla corvetta francese La Mouette, che l'impe
ratore Napoleone lasciava nel porto di Napoli per uso del re.
G1,
Simile cortesia usarono la regina di Spagna e la Russia, la
sciando a Civitavecchia e a Villafranca vascelli agli ordini di
Sua Maest.
Alla partenza del re e della sua famiglia, la guarnigione
facendo ala alla moltitudine, seguendo le LL. MM., piangevano
e acclamavano con grida entusiastiche il loro giovane, valo
roso e infelice sovrano.
Giungendo in questa citt, ove le LL. MM. hanno avuto
le pi cordiali accoglienze dal sovrano pontefice e da un im
menso pubblico, il re cred suo dovere di protestare un'altra
volta ed a suo nome contro la violenza di cui vittima, ri
servando tutti i suoi diritti e deciso ad appellarsene alla giu
stizia dell'Europa. S. M. non vuol provocare agitazioni nel
regno, ma quando i suoi fedeli sudditi, traditi, ingannati, op
pressi, spogliati, leveranno le loro braccia animati da un sen
timento comune contro l'oppressione, il re non abbandoner
la sua causa. Per evitare per lo spargimento del sangue e
l'anarchia che minaccia subissare la penisola italiana, S. M.
crede che l'Europa, riunita in congresso, debba essere chia
mata a decidere sugli affari d'Italia.
Il solo fine della sua politica straniera sar di manife
stare quest'idea e di sperare alla sua realizzazione.
Quanto al regime interno, le sue convinzioni non han
cambiato. Le promesse del manifesto dell'8 dicembre sono
sempre il suo programma unico e invariabile.
Anco in questa nota ritroviamo reclamati dal principe ca
duto i diritti internazionali e quei principii che la rivoluzione
aveva gi distrutti. Pure la forza delle circostanze fece fare
un passo al modo di pensare, e vennesi ad ammettere che
per lo meno nelle questioni tra sudditi e principi il non-inter
vento poteva essere ammesso. Il Borbone e la corte di Roma
che lo consigliava a scrivere di quelle proteste, avevano di
menticato, che giusto nelle lotte tra principi e sudditi gli esau
dorati avevan sempre chiamato in soccorso le armi straniere.
Ma, comech nella soluzione della questione romana, trova
vasi implicata la Francia, reputiamo necessario narrare come
il Corpo legislativo francese la pensasse su quella questione.
40uel Corpo era diviso in due partiti : stava uno per l'Italia,
altro per il papa. Rimarchevole sopratutto fu il discorso del
arone David, il quale nella discussione del Corpo legisla
vo parl dell'Italia nel seguente tenore:
612
Io parler prima di tutto degli Stati della Chiesa, limitan
domi a dichiarare i fatti. Dal 1849 noi siamo stati testimonii
dell'abuso che deriva dal governo de preti, dalla confusione
del potere temporale nel potere spirituale, e che produsse la
separazione delle Romagne, dell'Umbria e delle Marche.
Se le nostre truppe lasciassero Roma, il papa l'abbando
nerebbe qualche ora dopo.
a
La Francia, per evitare la perturbazione che nascerebbe
nel mondo cattolico, aspetter quindi dalla saggezza del Santo
Padre un occasione favorevole per uscire da uno stato di
cose spiacevole. Il timore di mettere ostacolo all'unit ita
liana, non deve far risolvere la Francia ad abbandonare la
Santa Sede, poich lo spodestamento intero del papa dimi
nuirebbe verso la Francia la stima delle nazioni, senza assi
curare l'unit italiana, che io non credo destinata a sussi
Stere.
Si disse al Senato, che nessuno voleva la confederazione
proposta dall' imperatore, n l'imperatore d'Austria, n il
re di Napoli, n il papa, il quale non domandava, se non
che, la conservazione de' suoi Stati, n il Piemonte, il quale
cessava d'ingrandirsi, n l'Italia, che tendeva alla libert col
mezzo dell'unit. Tutte queste ripugnanze sono facili a com
prendersi; poich una confederazione impone nei confede
rati, se non la comunanza delle opinioni, almeno la lealt
delle intenzioni.
Ma gli avvenimenti procedono. Garibaldi caccia il re di
Napoli dalla sua capitale; gl'Italiani del mezzogiorno, abban
donati a s stessi, si gettano nelle braccia di Vittorio Ema
nuele, scegliendo tra parecchi mali il minore. Fino a che
durer in Italia l'entusiasmo, fino a che Venezia rimarr in
potere dell'Austria, l'idea dell'unit potr in Italia conser
varsi, ma essa non andr punto innanzi, poich essa non ha,
come l'unit francese, radici in un passato secolare. Lord
John Russell medesimo non ha dichiarato egli al signor di Per
signy, che sarebbe per tutti preferibile che l'Italia formasse
due grandi Stati separati, l'uno al nord e l'altro al mezzo
giorno ? Aggiungo, che l'interesse della Francia ci dissuade
dal permettere che venga a formarsi sui nostri confini uno
Stato di 25 milioni di abitanti, poich i sussidii dell' Inghil
terra, che hanno tante volte armata l'Austria contro di noi,
potrebbero un giorno andare a Roma invece che a Vienna.
615
L'Italia ormai ingrata. Noi abbiamo sparso il nostro sangue
per lei, l'Inghilterra al contrario le diede da lontano consigli,
e consigli interessati. Ora, nel mezzogiorno d'Italia qual
oggi l'influenza dominante? l' influenza inglese; e Vittorio
Emanuele nel suo discorso ai grandi Corpi dello Stato, tiene
la bilancia eguale per la Francia e l'Inghilterra, come se i
servigi resi fossero stati eguali.
Si nutre speranza che la Francia troverebbe una forza
in una nuova marina secondaria, che sta formandosi vicino a
noi. Ma non potrebbe essa congiungersi alla marina inglese
per distruggere il nostro commercio in Oriente? Abbiamo
avuto torto di distruggere la marina turca a Navarino e la
russa a Sebastopoli. Favorire la formazione d'una marina ita
liana equivarrebbe a creare una rivale, che un tempo o l'altro
congiungerebbesi coll'Inghilterra e coll'Austria, disposta a con
solarsi delle sue perdite in Italia ove potesse ottenere qualche
compenso sul Danubio.
Rispetto agli Stati della Chiesa, l'indipendenza del Santo
Padre sarebbe stata necessariamente legata alla loro conser
vazione ? Quest'indipendenza, che da pi di trent'anni riposa
unicamente sull'influenza straniera, non sarebbe per avven
tura assicurata meglio da un governo pi consentaneo allo stato
degli spiriti e da una fiducia maggiore nella Francia cattolica,
che non possa esserlo da individui ostili all'imperatore, da
neofiti del diritto divino ?
Un grido di guerra sottentr in Roma alla sacra parola:
questo grido ha l'intento di ricondurre i popoli al loro dovere.
Ma non a questo modo la Chiesa ha conquistato le anime:
il sangue de' suoi martiri ha rovesciata la tirannia dei Cesari.
Del rimanente, non difficile comprendere perch la
corte di Roma parteggi per l'Austria. In virt del Concordato
austriaco, le relazioni del clero colla Santa Sede sono fatte del
tutto libere. L'istruzione assoggettata alla controlleria ec
clesiastica. Il libero esame rigorosamente proibito. In Fran
cia, ove traggansi le pratiche del culto, il clero sommesso
alla legge comune. Forse basta questo contratto a render ra
gione della parzialit della Santa Sede per l'Austria. Il ricordo
delle annate, la vecchia imposta del secolo XV, che la corte
di Roma domand nuovamente, mostra la tendenza retrograda
che vi domina.
Checch avvenga, la Francia ha la coscienza di aver fatto
614
tutto ch'era possibile per salvare il poter temporale del papa.
Il progetto d'indirizzo riproduce questi pensieri: esso va net
tamente al fondo delle cose.
Tre opinioni stanno l'una contro l'altra.
La prima dichiara, che il poter spirituale pu vivere senza
il poter temporale, giusta l'opinione; quest'ultimo intrin
secamente guasto, e vuolsi distruggere. La seconda scorge nel
poter temporale un interesse importante, sommesso nondimeno
a certe considerazioni. La terza riguarda il poter temporale
come un interesse francese di primo ordine, ch' necessario
difendere pienamente. Quest'ultima opinione non pratica a
modo alcuno. Essa propugnata dagli amici del governo; io
lo deploro, poich ecco come essa potrebbe essere formulata:
noi domandiamo in ogni caso il mantenimento del poter tem
porale. E nondimeno trattasi di conservare quei consiglieri
ostili al nostro governo, che circondano il Santo Padre, e che
domandano il trono di Francia pei rappresentanti del diritto
divino!
A questo punto una voce disse: Chi domanda questo?
Il barone David continuava:
la politica della corte di Roma. Ma forse poca cosa,
che la religione divenga un'arma formidabile nelle mani dei
partiti? Io sono tra quelli, i quali pensano, che in tale que
stione il potere spirituale non c'entri. Il papa non cesser
mai d'essere il capo dei cattolici francesi. Nondimeno a miei
occhi la caduta del poter temporale sarebbe una grande sven
tura. La Francia desidera di proteggere il trono del pontefice,
ma domanda, se non riconoscenza, almeno equit. Essa non
vuole porre la sua influenza in luogo dell'influenza austriaca,
ma non vuole che a Roma si ascoltino le passioni del par
tito anti-francese. Poco dopo la morte di Pio VI, un de
creto dei conseli parlava nel modo seguente del pontefice che
era passato di vita: Se questo vecchio, rispettabile per le
sue sventure, fu il nemico della Francia, ci dovuto ai con
siglieri ostili, che lo trassero in errore. Oggi trionfano
consigli poco diversi. necessario che si cessi dal porgere
loro ascolto; necessario che in Francia il governo colpisca
i vescovi che abusano del loro potere per suscitare la discordia.
Vuolsi che il governo pontificio acconsenta a sottomettersi verso
i suoi sudditi temporali alle regole dell'amministrazione civile.
S'esso ricusa; ebbene che la Francia si ponga in istato di
615
legittima difesa. Non v' principio, il quale imponga di fare,
suo malgrado, del bene a un nemico. Ritiriamo le nostre truppe
da Roma, e questo contegno risponder al sentimento gene
rale del paese. Il sistema retrogrado e oppressore dell'Au
stria venne a soccombere parimenti anche nell' Italia meri
dionale. Vi aveva ivi un popolo oppresso. Un capo intrepido
trasse felicemente partito dalle condizioni favorevoli. France
sco II abbandona la sua capitale. Come soldato egli ha potuto
conoscere la sua sconfitta, ma non pot rialzare una causa
perduta fino dal giorno nel quale ricus di dichiararsi contro
l'Austria. Io non veggo quali atti di questo re possano essere
soggetto di gloria. Io ho il diritto di parlare del re di Na
poli.....
Una voce interruppe dicendo: Voi combattete le parole
dell'imperatore.
Il barone David continu:
Io non ho a discutere sulle parole dell'imperatore. Io
espongo le mie parole come deputato. Lord John Russell
disse, parlando del governo di Francesco II: non v'ebbe mai
un governo pi abbominevole; e il ministro inglese raceont,
che ad alcune persone arrestate per semplice sospetto, le
quali domandavano di essere giudicate, venne risposto: Giu
dicati voi non sarete. possibile che non siate colpevoli, ma
liberi sareste pericolosi. Voi rimarrete in prigione per tutta la
vostra vita. In questo modo amministravasi la giustizia in
Napoli.
Di tali persone sospette ve ne aveva pi di centomila.
Una persona sospetta non poteva regarsi alla citt vicina alla
sua dimora, n far dare una educazione liberale a figli suoi.
La corrispondenza diplomatica mostra che cosa fosse questo
governo. Nel dicembre 1859 il ministro di polizia ordina di
far arrestare tutte le persone che presentassero qualche ele
mento di colpa e sulle quali cadesse semplicemente qualche
sospetto, e parecchi dispacci del nostro ambasciatore a Napoli
espongono gli effetti di questa circolare veramente selvaggia.
il regno dell'arbitrio. Nessuno, scrive il barone Bra
nier, prima dello sbarco di Garibaldi, pens a fare le neces
sarie concessioni. Il 21 aprile 1860 il signor Thouvenel scri
ve, che un governo non pu metter fiducia ne' suoi sudditi,
n nelle potenze straniere, ov'esso commetta ad agenti non
responsabili la sicurezza e la libert dei cittadini.
616
Si parl delle concessioni di Francesco II, ma esse si
fecero attendere quattordici mesi, e quando vennero concedute,
l'autorit regia era perduta per guisa, che nessuno vi attribui
valore. Non venivano infatti da quel re, il quale, rispondendo
nel 1859 al nostro ambasciatore, che consigliavagli di con
cedere la costituzione, disse: Costituzione rivoluzione .
Ci premesso, mi riesce difficile di essere tocco di piet
alla sorte della famiglia di Napoli. Io compiango molto di pi
le vedove e i figli di quelli che sono morti nelle prigioni di
Napoli. La Francia non poteva adoperare la forza per opporsi
alla rigenerazione d' Italia col mezzo di Vittorio Emanuele,
sarebbe stato riedificare la preponderanza dell'Austria in Italia.
Condannare il re di Sardegna all'inazione, sarebbe stato ab
bandonare la penisola all'anarchia. Il non-intervento della
Francia allontan la probabilit d'una conflagrazione europea.
Quanto a Vittorio Emanuele, i posteri lo giudicheranno.
Due vie stanno aperte dinanzi a lui. La prima volle con
durlo all'unit, ed un'illusione insensata. L'unit assoluta
rivoluzione, Venezia per la prima marcia. La seconda
marcia verso il Danubio, donde l'Europa in fiamme. L'unit
senza Venezia un voler trionfare ad un tempo, il che im
possibile, delle resistenze del clero e dell'impazienza del po
polo, la guerra civile in Italia.
L'altra via che s'affaccia a Vittorio Emanuele, conduce
ad uno scioglimento immediato e pratico per l'Italia, ed la
confederazione. Vittorio Emanuele conserva le provincie del
nord, diventa vicario nelle Marche e nell'Umbria, Roma e il
patrimonio di S. Pietro rimangono al sovramo Pontefice, Na
poli e la Sicilia sono governate da un principe italiano;
l'Austria entra con Venezia nella confederazione. Ecco lo scio
glimento vero .
Non sappiamo come dalle premesse abbia potuto l'oratore
derivare conseguenze cosi contraddittorie.
Konigswarter parl della questione italiana in questo senso:
Il pensiero della Francia fu di infrangere il dominio au
striaco in Italia, di distruggere i trattati del 1815 in quanto
riguardano la penisola, e finalmente di non opporsi se non
per via di consigli all'unit italiana.
Non tocca a me trattare la questione del poter temporale.
617
Altri discuteranno questo gran soggetto; ma io devo dire, che
non sembrami ancora impossibile di trovare uno scioglimento
a tale questione. Per necessario che vengano ascoltati i
consigli della Francia, ai quali, pur forza dirlo, il governo
pontificio rimase sempre sordo.
A Napoli Ferdinando II respinse parimenti i consigli della
Francia, che voleva indurlo ad utili riforme. Ma infine l'osti
nato monarca dovette riconoscere, che i suoi sforzi retrogradi
erano stati vani. Egli mor nel 1859, nel momento in cui
cominciava la guerra d'ltalia. Dio volle dare al suo succes
sore questo avvertimento supremo ; ma pi docile ai consi
gli dei suoi direttori di polizia, che non alla voce della Francia,
Francesco II prepar la sua caduta, e dovette il 6 settembre
1860 abbandonare la sua capitale, nella quale entrava con un
pugno d' uomini Garibaldi.
Vengo alla giustificazione della politica del Piemonte, alla
difesa del re Vittorio Emanuele, del ministro Cavour, di
Garibaldi e dell'Italia liberata, liberazione che gli uomini della
nazione convennero nel chiamare la rivoluzione italiana.
Gi da cinquant'anni la questione italiana pesava sull'Eu
ropa, e nulla ricordava si vivamente i trattati del 1815 quanto
il dominio ognor pi pesante dell'Austria sulle popolazioni di
questa contrada.
Dopo i nobili ma infruttuosi sforzi di Carlo Alberto nel
1849, l'Italia trova finalmente i mezzi di farsi libera, nel con
corso eccezionale dell'imperatore de Francesi, nel coraggio
di Vittorio Emanuele, nella protezione di un uomo di Stato
come Cavour, e nel patriottismo onesto e disinteressato di
Garibaldi .
Seguit l'oratore, riassumendo il processo degli avvenimenti
in Italia, disse che le famiglie le pi considerevoli sono alla
testa del movimento italiano,
che Vittorio Emanuele non
poteva respingere l'entusiasmo delle popolazioni che lo chia
mavano, n lasciare Mazzini prendere il luogo di Garibaldi.
Chiam questi un eroe, il quale non volle altra ricompensa che
di avere servito il suo paese, senza alcun profitto per s; e
seguit :
Dicesi che l'unit d'Italia contraria agli interessi della
Francia, ma io non sono di quest'avviso.
ln primo luogo, io non dubito della riconoscenza di un
popolo liberato dalle nostre armi. Anzi io ho riconosciuto do
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
78,
618
vunque questi sentimenti in un viaggio ch'io feci di recente
in Italia. In secondo luogo, l'alleato pi naturale dell' Italia
la Francia. L'Austria minacciante, la comunanza di origine,
di religione, e la conformit degl'interessi uniscono le due
nazioni. L'unit dell'Italia sar per la Francia il contrappeso
di quella temibile unit germanica, la quale non pi che
possibile, ma che pure risponde troppo alla presente tendenza
d'Europa verso la costituzione di grandi nazionalit, perch
un giorno non debba essere recata ad effetto. D'altra parte
l'Inghilterra la favorisce come una barriera che dovr alzarsi
tra la Francia e la Prussia. Opponiamo vi l'Italia unita tra la
Francia, l'Africa e le Indie accessibili pel canale di Suez. Le
due marine di Francia e d'Italia devono avere le medesime
simpatie pei cannoni inglesi di Gibilterra e di Malta.
Quanto alla Venezia, i sentimenti dei Veneti non sono
punto pi dubbiosi di quelli delle altre popolazioni d'Italia e
i migliori amici dell'Austria, dicono ch'essa avrebbe fatto sag
giamente cedendo la Venezia verso un indennizzazione stabilita.
Considerazioni finanziarie, politiche, militari, glielo consi
gliavano. I popoli non si conservano a lungo loro malgrado.
lo riguardo adunque l'unit italiana come politicamente
consumata. Essa lo sar territorialmente in un avvenire poco
lontano. Le popolazioni che votarono la loro annessione
al Piemonte fecero uso del diritto medesimo, pel quale
la Savoia si di alla Francia. Quelli che negano la sincerit
delle manifestazioni italiane, sono ancora quelli che mettono
in dubbio la sincerit degli scrutinii del 1851 e 1852, coi
quali la Francia affid i suoi destini all'imperatore. Accettia
Ino dunque francamente uno stato di cose gi fatto. Che l'Ita
lia sia ben convinta, che la Francia vede con favore la forma
zione della sua nazionalit, e la sua riconoscenza andr cre
scendo. Usciamo dalle espressioni vaghe, che farebbero dubi
tare del vero significato della politica francese .
E Kolb-Bernard aggiungeva:
E non mi si dica, che la nostra opposizione sta contro
la nazionalit dei popoli. Noi l'abbiamo sempre difesa: e non
pochi tra noi si associarono alla protesta che deve alleviare la
grande iniquit, di cui la Polonia attende riparazione. Noi pro
testiamo parimenti contro l'oppressione politico-religiosa in
619
Irlanda. Quanto all'Italia, noi vogliamo anco per essa rispettato
il principio di nazionalit, vale a dire il diritto pe' suoi popoli
di costituirsi giusta la legge della sua autonomia, e ricordan
dosi che il papato fu l'anima della loro esistenza, e lo scudo
della sua indipendenza. Domandiamo che questo principio di
venga un elemento d' ordine e di riparazione.
E appunto per questo noi respingiamo quell'unit men
zognera, quel regno della forza brutale, che distrugge i pic
coli Stati, e riesce agli atti pi mostruosi. Ecco dove con
dusse questa politica, che trovasi oggi in faccia agli eventi
pi gravi, a capo dei quali stanno le questioni di Roma e
Venezia. Che far la Francia? Si pu considerare una con
dizione migliore per Venezia: ma pu essa divenire la vas
sala di Torino ?
D'altra parte, la Francia pu essa rinunciare al suo vero
interesse nella questione austriaca? Qual la condizione del
nostro esercito a Roma e qual il suo ufficio ? Tra le due
necessit che si pongono, quella che vuole il papa a Roma, e
quella che chiede Roma per l'Italia una, dovr per avventura
prevalere quest' ultima ?
Quanto a me, sarei tentato di dire non so; ma io af
fermo, che voi lascerete Roma, prima che le potenze d'Eu
ropa abbiano deciso della sorte d'Italia. Il congresso si fa
sempre pi difficile. La rivoluzione vi far sentire la sua pa
rola inflessibile: Avanti, avanti ! necessario che voi votate
il papa libero a Roma, che voi rinunciate all'unit d'Italia.
Ne avete voi il potere e la volont? Non lo penso. Dunque
voi consegnerete Roma.
Io so che si disse recentemente, che la riva destra del
Tevere sar data al papa col Vaticano e S. Pietro, e s'egli
rifiuta questa grande prigione, lo si abbandoner adducendo
l' ostinazione e l'ingratitudine dell'augusto vecchio tre volte
sacro, come sovrano, come pontefice e come martire .
Dopo ci il signor Kolb-Bernard disse, che la politica della
Francia era una negazione del cattolicismo, e che avesse per
espressione pratica il socialismo ed il comunismo. La Francia
non essere pi un soldato armato della civilt cristiana, ma
un caporale al servizio di tutte le utopie. Vedere che l'Inghil
terra invadeva tutto colla sua propaganda protestante e col
suo mercantilismo.
:620
I due ministri Billault e Baroche dissero poche parole di
protesta contro un tale discorso.
Billault disse :
Non il mio pensiero di rispondere ora a questo lungo
discorso, ma prima di separarci questa sera protesto contro le
strane cose che avete udite. Noi non possiamo accettare quei
rimproveri di abbassamento indirizzati alla politica imperiale,
quelle minacce di torbidi e di agitazioni, quelle parole d'una
imprudenza e di una violenza inaudita. Dimostrer che la
politica della Francia non cessa di essere cattolica e liberale,
e che tale sar nell'avvenire; non sar romana, ma rester
francese.
Baroche protest anch'egli, fra gli applausi dell'assemblea,
contro la pretesa inquietudine del paese, non esistente che
nei partiti ostili, che si cuoprivano, com'egli diceva, di una
maschera per attaccare il governo dell'imperatore.
Dal detto in qui, chiare si scorgono quali fossero le varie
opinioni dei partiti in Francia circa la questione romana.
Non a negarsi che il partito clericale vi facesse progressi,
ma oltrecch quel partito era una frazione, da aggiungersi
che la rivoluzione in Francia era sempre imponente, perch
anco con la caduta dell'impero si potesse sperare il trionfo
della reazione. In Francia al di l dell'impero non ci era che
la repubblica, e forse questo timore impediva che le passioni
si spingessero oltre per trascinare Napoleone lll ad abban
donare la causa italiana.
ln generale - pu dirsi che in quei giorni tutta Europa trat
tasse questa importante questione, nella quale i liberali tutti
stavano per l'unit italiana e contra il potere temporale,
mentre i retrivi si appellavano ai pretesi diritti della Chiesa,
ai trattati, all'assolutismo. Ci giova accennare eziandio alle
opinioni della Spagna, nel cui parlamento la stessa questione
fu discussa. Il signor Sagasta faceva nel parlamento spagnuolo
un'interpellanza sulla politica di quel governo in Italia. Egli
voleva esaminare se la condotta del governo era stata tale,
quale doveva essere degna, elevata, nazionale, o, se aveva essa
seguito una politica meschina, personale, contraria alla storia ed
all'avvenire della penisola iberica. Fatte poche osservazioni di
interesse speciale, entrava nella questione d' Italia, e dopo
una affettuosa e splendida digressione sulla grandezza e sugli
621
infortunii di questo bel paese, arrivava al presente, e di
C0Va:
Come Colombo in mezzo del suo equipaggio ammuti
nato, nel punto di rivolger le vele verso la Spagna, scopri
una luce ed una spiaggia che gli rivel il nuovo mondo, cos
il governo costituzionale, stabilito in un angolo dell'Italia, ri
vel alla patria italiana un mondo d'idee e di speranze; il
Piemonte rianim negli Italiani la speranza di avere una pa
tria, e questo popolo comprese la sua missione, e si dispose a
compierla; la lotta si accese; da un lato il diritto, dall'altro
la violenza; da un lato un popolo giovine e generoso, dal
l'altro un impero decrepito ed egoista. Per la solidariet che
esiste nelle nazioni importa a tutti l'esistenza di un' Italia li
bera e forte, ed per ci che l'Italia ha per s la simpatia
di tutti i popoli .
L'oratore faceva indi una rivista dello stato dei governi
d'Europa allo scoppio della rivoluzione italiana, quindi par
lava della questione di Roma in questi termini:
La questione di Roma questione terribile e che pi di
tutto abbisogna di un giudizio tranquillo per chi non converte
la Chiesa in un mercato e la religione in una merce. Il cri
stianesimo salv l'uomo levando al cielo la sua coscienza,
ruppe le catene degli schiavi, proclam le grandi verit sociali
della libert, dell'eguaglianza e della fratellanza dei popoli.
Per ottenere tali maraviglie era necessario che fissasse la sua
sede in Roma, perch Roma era la sintesi del mondo. Per,
che relazione vi fra essa ed il potere temporale del Papa?
egli essenziale questo per lo spirituale? Ecco la questione .
Dimostrato con la storia e col vangelo che ci non ,
e facendo un rigoroso esame di tutti gli atti del governo pon
tiicio, concludeva che il governo temporale del papa era, non
ch utile, dannoso alla religione. Toccava le ultime transa
zioni di dividere Roma in due parti, assegnandone una al papa
e l'altra all'Italia, e trovavala inammissibile, e dimostrava nel
tempo stesso che il papa non poteva risiedere che in Italia ed
in nessun altro Stato d'Europa. Ma ove ci non fosse possibile,
aggiungeva: Nell'antico continente avvi una citt la quale fu
la prima che ud la voce del Divino Maestro, che ha ancora
rosse le vie del sangue di Cristo, citt religiosa, citt che tiene
una missione speciale: Gerusalemme. Da essa il Papa potr
estendere i benefici della religione e della civilt all'Asia ed
all'Africa.
622
Indi proseguiva:
Divisa la questione del potere temporale dalla questio
ne del potere spirituale, che tutti rispettano, possiamo
considerare sotto il primo punto di vista l'invasione degli
Stati romani. Prima quistione. La parte d'Italia vessata, op
pressa, martirizzata aveva diritto di chiedere soccorso al Pie
monte? Seconda quistione. Il Piemonte aveva il diritto e il
dovere di accorrere in suo soccorso? il popolo romano sot
tomesso allo straniero, privato d'ogni giustizia, insorse legit
timamente contro i suoi tiranni e si valse del suo diritto chia
mando il Piemonte. La insurrezione contra il tiranno giu
sta e legittima.
Il Re di Roma, armando bande straniere, comprometteva
la tranquillit ed il benessere delle frontiere piemontesi, ed
il Piemonte comp un dovere di umanit concedendo il soc
corso che gli veniva chiesto ai Romani, come concedendolo
ai Napoletani.
Signori, possiamo noi considerare l'attacco del Piemonte
come una guerra di conquista? no, non si conquista la propria
famiglia. D'altra parte che fecero tutte le nazioni che hanno
voluto costituire la loro unit nazionale ?
Si dice: pochi rivoluzionarii sono quelli che hanno stabi
lito questo stato contro la volont dei popoli. Ma, signori, se i
popoli non lo avessero chiamato sarebbe stato possibile a Ga
ribaldi, a questo eroe fra gli eroi, di conquistare con due
mila uomini la Sicilia, e Napoli con cinque mila ? Sarebbe
necessitato al Papa comporre il suo esercito di stranieri mer
cernarii ? La verit che i Siciliani, i Napoletani, i Romani,
gli Italiani tutti, si levarono sdegnosi contro i delitti dei pro
pri governi; essi fecero quello che l'Inghilterra e la Francia
hanno fatto contro gli Stuardi e contro Carlo X, e che noi
stessi abbiamo fatto in altre occasioni.
La storia ci dice che il divorzio fra una dinastia ed un
popolo la caduta certa della dinastia, perch i popoli non
sono per le dinastie, ma queste pei popoli.
-
Indi l'oratore si volse al governo spagnuolo esaminando la
condotta che aveva tenuta in Italia. Su tale argomento egli
disse :
Il governo ha condannato tutto quello che fu fatto in Italia;
vi protegge e difende la reazione, vi procede e vi opera come
potrebbe fare il segretario di un governo assoluto. Che mai
623
potrebbero fare i monarchi assoluti se non protestare contro
la volont nazionale ? Che cosa ha fatto il governo per difen
dere le ragioni dell'Italia con la quale ha eguali tradizioni,
eguali istituzioni, dell' Italia che ha conquistato il terreno
a prezzo del suo sangue ? Ha protestato contro le annes
sioni di ciascun Stato che devono formare una sola nazione;
egli ha condannato in tal maniera il principio della naziona
lit; si opposto alle ispirazioni legittime della nostra unione
col Portogallo.
Quando saremo convinti, Spagnuoli e Portoghesi, che con
giunti potremo essere pi forti, mentre che divisi siamo de
boli, e chiederemo questa desiderata unione, ricordandoci i
principii sulle annessioni emessi da questo malaugurato go
verno, alla porta di quel potere la chiederemo perch non ci
venga contestata? Non vi ha popolo nel mondo che abbia
minor ragione di opporsi alla rivoluzione d'Italia, dello Spa
gnuolo. Quello che l'Italia chiede fra il Mediterraneo e l'A
driatico, quanto aspiriamo noi di avere fra il Mediterraneo
e l'Oceano.
Quali ragioni ebbe il governo per opporsi in questo modo
al nostro avvenire ? In un dispaccio telegrafico del 17 mag
gio, inviato dal nostro ministro di stato al suo ministro in
Torino, dice non potendo essere indifferente S. M. la re
gina sulla sorte del suo illustre parente... Il resto importa
poco; basta si salvi l'illustre parente della regina, si perdano
pure gli interessi della nazione.
Cos continuando, Sagasta passava in rassegna molti atti
diplomatici spagnuoli, e scagliavasi contra i Borboni di Na
poli, dicendo: Signori, l'Italia espulse i Borboni, come la
Spagna espulse i Borboni della famiglia di Carlo V, e l'una e
l'altra non si appoggiavano che ai diritti della nazione. Il go
verno difendendo i diritti che hanno i Borboni alla corona
di Napoli, ruina nella sua base la monarchia di donna Isa
bella II, e se dopo ci vi sar pericolo per la dinastia, la
colpa maggiore sar del governo.
Ma non la pensava cos il ministro degli esteri del governo
spagnuolo; egli in risposta al discorso animato di Sagasta
diceva: Vi sono due ragioni: una propria della generosit
spagnuola che la chiama a proteggere il debole contro il
forte; l'altra la ragione del diritto che oggi, pi di tutto, non
si deve perder di vista. Che, signori! Non nulla il diritto?
624
Non son nulla i trattati ai quali consegnato? Se fosse pos
sibile prescindere dai trattati, che ordine, che sistema po
trebbe esistere? I trattati sono la guida, la norma alla quale
debbono attaccarsi i governi; non possono alterarsi che dalle
potenze che gli hanno segnati. Ha da esser permesso cam
biarli secondo la convenienza di un popolo?
Seguitando di questo passo, il ministro degli esteri veniva
a parlare del suffragio universale opposto ai trattati che chia
mava un principio assurdo. Diceva la votazione d'Italia, non
esser valida perch fatta in un momento d'agitazione, e per
ch pochi avevan voluto, e volendo anche ammettere che fos
sero stati molti, il diritto essere al disopra di tutti. Indi
scendendo a difendere il potere temporale esclamava:
Alla caduta dei troni, alla proclamazione di nuove idee,
ha da essere unita la tremenda ruina del potere temporale del
Santo Padre, potere stabilito da tanti secoli, che tanto ha con
tribuito alla propagazione dell'evangelio e della civilizzazione
in tutto il mondo?
Ah signori, questa idea pu solo proclamarla il prote
stantismo e la empiet.
E impossibile, signori, che il cristianesimo accetti una
simile soluzione.
Il governo, per, in tale questione in quanto ha rela
zione col potere spirituale e temporale del Santo Padre, se
guir tacendo finch lo permetta il principio di neutralit che
si proposto. Vanamente si detto che il governo pensava
mandar soccorsi al Papa; non vi ha mai pensato, perch sa le
conseguenze che queste imprese a grandi distanze sogliono re
care, e perch sa dalla storia gli imbarazzi che altre spedizioni
in Italia hanno occasionato al nostro paese. No, il governo
non ha mai pensato di aiutare il nostro Santo Padre n con
uomini n con denaro.
Ed altre cose disse ancora il Ministro, a cui il Sagasta, ri
prendendo la parola diceva:
Il signor ministro venuto a confessare che il governo
pospone ogni interesse del paese ai diritti di un sovrano fon
dato sui trattati del 1815. Per ha detto che il governo non
si mostrato opposto all'indipendenza d'Italia. In verit, si
gnori, che si mostrato apertamente in contraddizione con
quanto disse, perch come poteva opporsi in questo caso all'unit
d'Italia che la base della sua indipendenza? Egli ha detto
625
che l'unit un'idea nata nel 1859 e che io ho mancato alla
fedelt storica asserendo il contrario. Ma quali erano le aspira
zioni di Dante, Petrarca e Macchiavello? Quali erano le aspi
razioni del partito ghibellino ? No, l'unit d'Italia un'idea
antica, molto antica, e non pot entrare nel campo dei fatti
pei grandi ostacoli che ebbe, uno dei quali fu il potere tem
porale del Papa.
Da questi precedenti chiare emergono le opinioni dei va
rii partiti nella Spagna circa le questioni essenziali che agi
tavano l'Italia. Ci che vuol essere osservato si che il par
tito liberale di tutto il mondo aveva comuni le opinioni, i
convincimenti, le dottrine, anco le teorie. Le dottrine in fatti
del Sagasta in nulla differivano dalle dottrine dei liberali ita
liani; ci una prova del diritto che propugnavano gli Ita
liani e delle possenti ragioni che avevano per sostenerlo.
Chiuderemo quest'ultimo capitolo sulle cose di Roma con
l'allocuzione di Papa Pio IX tenuta il 18 marzo 1861, e per
la quale pi chiaramente si rilevano quali e quanto gravi fos
sero le opposizioni tra il Papato e la moderna civilt. In
quell'allocuzione Pio IX diceva:
-
Venerabili Fratelli !
Avvisammo altra fiata, venerabili fratelli, da quale misero
conflitto, specialmente in questa disgraziata et nostra, sia tur
bata la societ, massime per le lotte tra la verit e l'errore,
tra la virt ed il vizio, tra i principi della luce e delle tenebre.
lmperocch stan da una parte coloro che difendono i precetti
della moderna civilizzazione com'essi la chiamano, e dall'altra
quelli che propugnano i diritti della giustizia e della religione
nostra santissima. Chieggono i primi che il romano pontefice
si riconcili e venga a patti col progresso, col liberalismo, com'ei
lo dicono e colla novella civilt. Gli altri a buon dritto istan
temente domandano che siano custoditi integri ed inviolati gli
immobili ed inconcussi principii dell'eterna giustizia, e che la
forza salutare della divina nostra religione sia serbata illesa
la quale accrescendo la gloria di Dio, reca gli opportuni ri
medii ai tanti mali, da cui afflitto il genere umano, la quale
unica e vera norma da cui i figliuoli degli uomini, istrutta
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
79
626
in ogni fatta virt in questa vita mortale, sono condotti al porto
della beata eternit.
Ma gli avvocati della moderna civilt non vogliono conve
nire in questa differenza, perch affermano di essere veraci e
sinceri amici della religione. E noi vorremmo loro prestar
fede se fatti tristissimi che cadono ogni di sotto gli occhi di tutti,
non mostrassero affatto il contrario. E per verit su questa
terra una sola la vera e la santa religione dallo stesso Si
gnore Ges Cristo fondata ed istituita, la quale, feconda ma
dre ed autrice di ogni virt, respingitrice dei vizii, liberatrice
delle anime, appellasi Cattolica, Apostolica, Romana. Che
cosa debba dunque giudicarsi di coloro che vivono fuor di
quest'arca di salute, gi dichiarammo altra volta nella nostra
allocuzione concistoriale del 9 dicembre 1854 ed ora pur con
feriamo un eguale dottrina. Ma a coloro che c'invitano a
porger la mano alla moderna civilizzazione per bene della
religione, chiediamo se i fatti siano tali da poter indurre que
gli, che qui in terra, fu per divino volere costituito Vicario di
Cristo a difendere la purit della sua celeste dottrina, ed a
pascere con essa gli agnelli ed il gregge, od associarsi, senza
che ne venga grandissimo danno alla sua coscienza e massimo
scandalo a tutti, alla civilizzazione odierna per la cui opera
derivano mali che non mai abbastanza deploriamo, e promul
gansi tante opinioni, tanti errori, tanti principii malvagi ? E tra
codesti fatti nessuno ignora come sino le stesse convenzioni
formalmente corse tra la Santa Sede e principi reali vengono
affatto distrutte, come poco fa accadde a Napoli. Della qual
cosa pure in questo amplissimo vostro consesso grandemente
ci lagniamo, venerabili fratelli, e reclamiamo specialmente
nella guisa stessa che altre volte protestammo contro simili
attentati e violazioni.
Ma questa moderna civilt, intanto che favorisce ogni culto
cattolico, non impedisce agl'infedeli di sostenere pubblici in
carichi e schiude ai loro figliuoli le cattoliche scuole, imper
versa contro le religiose famiglie, contro gl'istituti fondati a
reggere le scuole cattoliche, contro molti ecclesiastici di qua
lunque grado, insigniti anche di amplissime dignit, di cui
non pochi traggono la vita nell'incertezza dell'esiglio, e sono
miseramente in ceppi, e pur contro a rispettabili laici, che a
noi ed a questa Santa Sede affezionati alacremente difendono
la causa della giustizia. Cotesta civilt intanto che largheggia
627
colle persone e cogl'istituti acattolici spoglia dei giustissimi
suoi possessi la cattolica Chiesa, ed usa ogni studio ed ogni
arte per isminuire la salutare efficacia della Chiesa stessa. Di
pi, intanto che concede piena libert ad ogni fatta di parole
e di scritti che avversano la Chiesa, e tutti che gli sono di
cuore devoti, e mentre anima, mantiene e favorisce la licenza,
in pari tempo mostrasi cauta e moderata nel riprendere il
violento e qualche volta inumano modo di agire contro quelli
che pubblicano ottimi scritti; ed usa poi ogni severit nel pu
nire se da questi pensi che si trascorrino anche lievemente i
confini della moderazione.
Ed a tal fatta di civilt potrebbe mai stendere amica la de
stra il romano pontefice e con essa stabilire di buon animo
alleanza e concordia? Rendasi i proprii nomi alle cose, e que
sta Santa Sede apparir sempre a s eguale. Avvegnach essa
fu sempre avvocata e nudrice della vera civilt ; ed i storici
monumenti eloquentemente attestano e provano che, in tutte
le et, e in lontanissime e barbare regioni della terra dalla
stessa Santa Sede fu portata la verace e retta umanit dei co
stumi, la disciplina e la sapienza. Ma quando sotto nome di
civilt voglia intendersi un sistema fabbricato apposta per de
bilitare e forse anche distruggere la Chiesa di Cristo, non mai
per certo questa Santa Sede ed il romano pontefice potranno
convenire con civilt cos fatta. Poich (come sapientemente
esclama l'Apostolo, Epis. II ai Corintii, c. VI. v. 14 e 15)
quale accordo pu essere fra la giustizia e l'iniquit, quale societ
fra la luce e le tenebre? Quale poi convenzione tra Cristo e Belial?
Con quale probit pertanto i perturbatori e gli avvocati della
sedizione levan essi la voce ad esagerare gli sforzi indarno
fatti onde venire ad accomodamento col romano pontefice ?
Questi infatti, che deriva ogni sua forza dai principii dell'eterna
giustizia, a quale patto lo potr mai abbandonare, perch
indeboliscasi la fede santissima, e traggasi certamente l'Italia
al pericolo di perdere il massimo suo splendore e la gloria di
cui da quasi venti secoli rifulge, pel centro, ch' essa presta
alla cattolica verit? N si pu opporre che questa Sede apo
stolica nelle cose del civil principato chiudesse l'orecchio alle
inchieste di coloro, che significarono di pur bramare una pi
libera amministrazione. Per lasciare i vecchi esempi parleremo
di questa infelice et nostra. In fatti quando l'Italia ottenne
da suoi principi pi libere istituzioni, noi con paterno animo
628
associammo una parte de figli del pontificio nostro dominio
nell'amministrazione civile, e diemmo opportune concessioni,
ordinate per a tali appropriati modi di prudenza, che il dono
concesso per animo paterno, non fosse avvelenato ad opera
di uomini malvagi. Da ci che ne venne ?
La innocua nostra larghezza ebbe compenso di sfrenata li
cenza, e l'aula in che convennero i pubblici ministri ed i
deputati, ebbe il limitare cosperso di sangue, e l'empia mano
fu sagrilegamente rivolta contro chi concedeva il benefizio.
Che se, in questi recentissimi tempi, ci furono dati consigli
rapporto alla civile gestione, non ignorate, venerabili fratelli,
che noi li accettammo eccettuato e respinto ci che non risguar
dava l'amministrazione civile, ma mirava invece ad ottenere
il nostro assenso a quella parte di spogliazione che era gi
avvenuta. Non davvero ragione perch parliamo dei ben
accetti consigli n delle sincere nostre promesse di recarli
ad atto, quando i conduttori delle usurpazioni confessavano ad
alta voce di volere, non gi riforme, ma la ribellione asso
luta e la separazione totale del legittimo principe. Ed erano
gli stessi autori ed antesignani del gravissimo misfatto, che
tutti empievano dei loro clamori, e non gi veramente il po
polo, cosicch di loro possa dirsi ci che diceva il venerabile
Beda dei farisei e degli scribi nemici di Cristo (Lib. 4, c. 48
in c. 1 1 di S. Luca): coteste cose erano calunniate non da ta
luni della turba, ma si dai farisei e dagli scribi come gli evange
listi testificano.
Ma la guerra al pontificato romano non solo mira a ci,
che questa Santa Sede ed il romano pontefice siano affatto
privati del legittimo principato civile, ma pur tende a fare,
che s'indebolisca e, se mai fosse possibile, tolgasi affatto la
salutare virt della cattolica religione; e per questo si assale
l'opera stessa di Dio, il frutto della redenzione, e quella fede
santissima, che preziosa eredit a noi derivata dall' ineffa
bile sagrifizio, che si consumava sul Golgota. E che la cosa
sia veramente cos troppo il dimostrano tanto i gi ramme
morati fatti, quanto ci che ogni di vediamo accadere. Quante
diocesi, in fatto, in Italia per frapposti impedimenti, non veg
gonsi orbate dei propri vescovi, plaudendo a ci i fautori
della moderna civilt, che abbandonano senza pastori tanti po
poli cristiani, e fruiscono dei loro beni, sin convertendoli in
pessimo uso ! Quanti sacri antistiti trovansi in esiglio! Quanti
629
(e il diciamo con incredibile dolore dell'animo nostro) quanti
apostati che parlando non in nome di Dio, ma si del demo
nio, e fidenti nella impunit concessa loro da un fatale si
stema di regime turbano le coscienze, spingono i deboli a
prevaricare, e fanno indurare quelli che miseramente caddero
in talune turpissime dottrine, e sforzansi di lacerare la veste
di Cristo sino non temendo di proporre e persuadere le
Chiese, come essi le chiamano nazionali, ed altre siffatte
empiet !
Posciach poi hanno in tal guisa insultato a quella reli
gione che ipocritamente invitano ad associarsi all'odierna ci
vilt, non dubitano, con eguale ipocrisia, di darci eccitamenti
perch ci riconciliamo coll'Italia. Per certo, quando, spogliati
quasi d'ogni nostro civil principato, sosteniamo i pesi di pon
tefice e di principe colle pie largizioni di figli della cattolica
Chiesa, ogni di amorosamente trasmesseci, e quando gratui
tamente siamo fatti segno d'invidia e d'odio per opera di
quei medesimi che ci chieggono conciliazione, ci specialmente
vorrebbero che pubblicamente fosse da noi dichiarato di ce
dere in libera propriet degli usurpatori le gi strappateci pro
vincie del pontificio nostro dominio. Colla quale audace ed
affatto inaudita inchiesta cercherebbero che da questa Sede
apostolica, che sempre fu il propugnacolo della verit e della
giustizia, fosse sancito che una cosa ingiustamente e violen
temente tolta si potesse tranquillamente ed onestamente pos
sedere dali'iniquo usurpatore ; e cos si stabilisse quel falso
principio, che la fortunata ingiustizia del fatto non reca verun
detrimento alla santit del diritto. La quale domanda ripugna
pure alle solenni parole con che in un grande ed illustre
Senato, a questi ultimi giorni fu dichiarato: Il romano pontefice
essere la precipua forza morale nella societ umana.
Da ci consegue non poter essa di guisa veruna acconsen
tire alla vandalica spogliazione, senzach violi quel fondamento
di moral disciplina, di cui egli riconosciuto qual prima forma
ed immagine.
E poi, chiunque o tratto in errore o preso da tema, vo
lesse dare consigli consentanei ai voti ingiusti dei perturba
tori della civile societ, necessario che, specialmente in que
sti tempi, si persuada ch'ei saranno contenti mai, sinch non
veggano tolto di mezzo ogni principio d'autorit, ogni freno
di religione, ogni norma di diritto e di giustizia. E cotesti
630
sovvertitori, nella sciagura della societ civile, tanto gi ot
tennero e colla voce e cogli scritti, da pervertire le umane
coscienze, da indebolire il senso morale, da togliere l'orrore
per la giustizia, e tutto adoperano onde persuadere ad ognuno
che il diritto, invocato dalle genti oneste, non altro che
un'ingiusta volont che debb essere affatto sprezzata. Ahi!
veramente sconciossi e travi la terra e s'indeboli, travi il mondo,
indebolissi l'altezza del popolo della terra, fu infettata dai proprii
abitatori: poich trasgredirono le leggi, mutarono il diritto, dissi
parono il patto sempiterno. (Is. c. 24, vers. 4. e 5.)
Certo in si grande oscurit di tenebre, da che Dio nell'im
prescrutabile suo giudizio permette siano colpite le genti, noi
collochiamo ogni nostra speranza e fiducia nello stesso cle
mentissimo Iddio padre delle misericordie, e Dio d'ogni con
solazione, che ci consoli in tutte le tribolazioni nostre. Poich
lui solo, venerabili fratelli, che infuse in voi lo spirito di
concordia e di unanimit, ed ogni di pi lo infonde, affinch
con noi fortemente e concordemente congiunti siate pronti
a subir quella sorte, che, per arcano consiglio della divina
sua provvidenza, sia ad ognuno di noi riserbata. desso
che congiunge in sacro vincolo di carit fra loro e con que
sto centro della cattolica verit ed unit i sacri antistiti del
mondo cristiano, che istruiscono i fedeli a loro commessi nella
dottrina dell'evangelica verit, ed in tanta caligine mostrano
ad essi il cammino da seguire, annunziando ai popoli santis
sime parole, colla virt della prudenza, lodio stesso diffonde
in tutte le cattoliche genti lo spirito di preghiera, ed ispira
senso di equit agli acattolici, acci retto giudizio degli odierni
eventi.
Cotesto tacito ammirabile consenso nella preghiera di tutto
l'orbe cattolico, i cotanto unanimi segni di amore verso noi,
in tanti e si varii modi espressi (non facili a trovare nelle
trascorse et) mostrano manifestamente come agli uomini ret
tamente animati sia sempre duopo il tendere a questa cattedra
del beatissimo principe degli apostoli, luce del mondo, che
sempre insegn, maestra di civilt e nunzia di salute, e sino
alla fine dei secoli non lascer mai d'insegnare le immutabili
leggi dell'eterna giustizia. E tanto lungi che i popoli d'Ita
lia si astenessero da queste luminose figliali testimonianze
verso la Sede apostolica, che anzi molte centinaia di migliaia
fra loro, ci spedirono amorosissime lettere, non gi coll'idea
631
di chiedere la riconciliazione declamata dagli astuti, ma si per
dolersi grandemente delle nostre molestie, pene ed affanni ,
per confermare il loro affetto verso di noi, e per detestare
pi e pi la nefanda e sacrilega spogliazione del civil princi
pato della nostra sede.
Cos essendo le cose, innanzi di por fine alle nostre parole,
dichiariamo chiaramente ed apertamente in faccia a Dio ed
agli uomini, non esistere affatto causa alcuna perch riconciliar
ci dobbiamo con chicchessia. Imperocch noi, sebbene imme
ritevoli, facciamo in terra le veci di quello che pei trasgres
sori implorava perdono, sentiamo benissimo di dover perdo
nare a coloro che ci odiarono e di dover per essi pregare
affinch per aiuto della grazia divina tornino a resipiscenza,
e meritino cos la benedizione di colui che vicario di Cristo
in terra. Perci volontieri preghiamo per essi, ed a loro, ap
pena saransi pentiti, siamo pronti a perdonare ed a benedire.
Frattanto per non possiamo starci inerti e dubbiosi, siccome
coloro che nessuna cura si prendono della romana calamit;
non possiamo non grandemente commuoverci ed angustiarci,
e non reputare come nostri i danni ed i mali iniquamente
procacciati a quelli che soffrono persecuzione per la giustizia.
Per la qual cosa, mentre presi da intimo dolore preghiamo
Iddio, adempiamo al gravissimo ufficio del nostro apostolato
di parlare, di istruire, di condannare qualunque istituisca e
condanna Iddio e la sua Chiesa, onde compiamo cos il nostro
corso, ed il ministero della parola, che ricevemmo dal Signore
Ges di testificare il Vangelo della grazia di Dio.
Perci se ci si chiedono cose ingiuste non possiamo as
secondare; se invece chieggasi perdono, il daremo, come so
pra abbiamo dichiarato, assai volontieri. Ma perch questa
parola di perdono sia da noi promulgata in quel modo che
pur si conviene alla santit della nostra dignit pontificia, pie
ghiamo le ginocchia innanzi a Dio, ed abbracciando il trion
fale vessillo di nostra redenzione, umilissimamente preghiamo
Ges Cristo, che ci riempia della sua medesima carit, acci
perdoniamo nel modo stesso ch'egli perdon ai nemici suoi,
innanzi di abbandonare il suo santissimo spirito nelle mani
dell'eterno suo Padre. E da lui vivamente preghiamo che,
siccome dopo il largito perdono, fra le dense tenebre in che
fu immersa la terra, rischiar le menti de suoi nemici, che pen
titi dell'orrendo misfatto, tornavano percuotendosi il petto,
652
cosi, in tanto buio dell'et nostra, voglia dai tesori dell'infi
nita sua misericordia dischiudere i doni della celeste e trion
fatrice sua grazia, cosicch tutti gli smarriti facciano ritorno
all'unico suo ovile.
i Qualunque siano poi per essere gli imperscrutabili con
sigli della divina providenza, preghiamo in nome della sua
Chiesa, lo stesso Ges, onde la causa del proprio vicario, che
la causa della sua Chiesa, giudichi, e la difenda contro i
nemici conati e l'adorni e l'accresca con gloriosa vittoria. E
lui pure preghiamo affinch renda l'ordine e la tranquillit alla
societ perturbata, e conceda la desideratissima pace a trionfo
della giustizia, il che da esso unicamente aspettiamo. Poich
da tanta trepidazione d' Europa e di tutto il mondo e di
coloro che han l'arduo peso di reggere le sorti dei popoli,
il solo Iddio che con noi e per noi possa combattere. Giu
dicaci tu, o Dio, e decidi la causa mostra da quella di gente non
santa; concedi pace, o Signore, ai nostri giorni, poich non
altri che combatta per noi, se non tu nostro Iddio .
Quest'ultima allocuzione di papa Pio IX ci d la misura
degli inganni in mezzo ai quali viveva, accerchiato com'era
da uomini che trattavano la politica dopo aver dimenticato di
trattare la religione, o questa almeno curare pi che ogni altro
terreno interesse.
Egli un fatto che il governo italiano, consigliato da quello
di Francia, operava in guisa da vincere non con la violenza,
ma con la longanimit. A tal uopo usava in ogni cosa forse
troppa prudenza, specialmente ove si trattasse di punizioni a
vescovi e preti che contravvenivano alle leggi. E cotesta pure
eccessiva prudenza fu da alcuni chiamata debolezza. e, diciamol
pure, essa non sempre giov alla causa italiana, n al suo svi
luppo e progresso, perciocch il clero, credendosi affatto pa
drone di s stesso anche nelle cospirazioni, si accrebbe in au
dacia, si mostr pi temerario, inve apertamente contro il
re, contro lo statuto, contro il parlamento e contro il mini
Ster0.
Ci non pertanto papa Pio IX credeva che la Chiesa fosse
davvero perseguitata, che alcuni cardinali vivessero misera vita
nel pi triste esilio, e che dei vescovi si fossero incatenati e
tenuti in carcere o in luoghi di pena. Questi errori veni
vano alla mente del pontifice dal gesuitismo che lo circondava
635
e che tendeva ad esacerbare per tal modo l'animo del pon
tefice contra le aspirazioni delle popolazioni italiane.
Il lamento di protezioni e di libert concesse alle sette cat
toliche era anch'esso privo di fondamento, ed aveva per sor
gente un altro errore gravissimo. Certo che sotto libero go
verno ogni religione, ogni culto tollerato, e bisognava la
cerar lo statuto, e distruggere le franchigie liberali per fare
diversamente. Ma egli certo del pari che il governo italiano
non si diede mai cura di proteggere le sette acattoliche. In
Roma si pensava che i sentimenti religiosi potessero aver
parte nell'indirizzo politico di quei tempi; si pensava che si
volesse diffondere in Italia il protestantismo per fare onta alla
corte romana; nulla di pi falso, le persone del governo non
discesero mai a questioni religiose; le religioni tutte, come
tutti i culti eran caduti insieme confusi nello stesso indiffe
rentismo.
Era l'indifferentismo nelle masse, il razionalismo nella classe
istrutta, che divorava cattolicismo e protestantismo, e qualsiasi
altra religione che accennasse a rivoluzione ed a positivismo.
Il Papa finalmente diceva che egli non aveva a riconciliarsi
con nessuno, e che avrebbe perdonati tutti coloro che si fos
sero pentiti del male fatto alla religione ed alla Chiesa.
questo un terzo gravissimo errore che teneva Pio IX nella pi
falsa posizione.
Pio IX non vedeva l'abisso che erasi aperto tra lui e gli
Italiani; e fu eziandio arte gesuitica che gli fece chiudere gli
occhi sopra tanta sventura. A tenerlo saldo nei suoi principii,
a spingerlo avanti nella strada in che si trovava, i gesuiti
asserivano innanzi a lui che tutta Italia non desiderava che il
trionfo della Chiesa e le rovine della libert. Secondo coteste
asserzioni, i nemici della Chiesa erano pochi, pochissimi,
qualche ministro, qualche deputato, qualche generale, ed al
quanti fanatici che con libri e con giornali sviluppavano teorie
e dottrine affatto contrarie a quelle di Roma,
Tutto il resto degli Italiani non pensava o nulla, e se aveva
qualche cosa a pensare questa era l'angustia in che si tro
vava il padre dei fedeli. A conservarlo in questa convinzione
mille arti si usavano, come la colletta pel danaro di San Pietro,
gli indirizzi firmati da alquanti individui, le offerte spontanee
fatte al vicario di Cristo, al re di Roma.
Stor. della rivol. Sicil.
Vol. II.
80
634
Pio IX leggendo quegli indirizzi, ricevendo quelle offerte,
trovando molti che contribuivano alla colletta, inducevasi a
credere che lo spirito degli Italiani fosse tutto per lui, e che
in quei tempi questo spirito non pronunciavasi apertamente
perch subiva una forte pressione per opera del governo di
Torino e dei mestatori politici.
Messo su tale linea di convinzioni egli poteva ben dire che
non aveva con chi riconciliarsi, che i suoi nemici ed oppo
sitori eran pochi, e che questi pochi sarebbero stati da lui
perdonati il di del loro pentimento.
Ma la vera situazione era tutt'altra. I pochi in realt erano
gli amici del Papa, i sostenitori del potere temporale; e
molti erano i suoi avversarii, i nemici della temporale po
test. Quante volte trattavasi della questione italiana il Papa
era malmenato per bocca di tutti; molti dei suoi stessi par
tigiani o disertavano o dicevan che il Papa faceva male a
non transigere, e a non assicurare gli interessi religiosi di
sprezzando gli interessi mondani.
Fra il papato e l'Italia erasi aperto realmente l'abisso, e
nonch su questioni politiche solamente, ma ancora su que
-
stioni religiose il popolo cominciava di giorno in giorno ad
agitarsi. Taluni sacerdoti del partito liberale si spingevano a
predicare che la Chiesa aveva bisogno di riforma, che l'epi
scopato ed il clero dovevansi riformare; e chiunque comprende
quanto sia elastica la parola riforma pu di leggieri conoscere
in quai pericoli si trovasse condotto il cattolicismo per opera
della setta gesuitica, per le intemperanze del cardinale Anto
nelli, ed in generale per opera di coloro ai quali la religione
serviva di pretesto, o di mezzo per giungere a grandezza
mondana.
Ma a meglio vedere quali si fossero le opinioni di Antonelli
circa il potere temporale bisogna volger lo sguardo sui docu
menti che seguono. una tale corrispondenza che getta molta
luce sulle opinioni e sui convincimenti veri di quell'ardua
questione.
Il Conte Cavour approfittando sul principio del 1860 del
l'andata a Roma di un suo amico, Omero Bozino, gli aveva
commesso di scandagliare il terreno a Roma.
Il Bozino vi strinse relazioni col padre Isaia, questi si
aperse delle comunicazioni fattegli dal Bozino coll' avvocato
Aguglia che famigliarissimo col cardinale Antonelli presto lo
655
ebbe invogliato di conoscere quali proposte avesse in animo
di fare il conte Cavour. Appena il Bozino conobbe che le
trattative avrebbero potuto aver luogo ne scrisse immediata
mente a Cavour che col seguente biglietto, che il primo
dei documenti pubblicati, lo chiam a Torino.
Pregiatissimo Signore.
Ho ricevuto il foglio ch'ella mi rivolgeva da Orvieto. L'ar
gomento sul quale si aggira d'indole delicata, che meglio
a voce che per iscritto vuolsi trattare; egli perci ch'io la
pregherei a volersi recare nell'entrante settimana a Torino
per venirne meco a conferire.
Torino, 2 febbraio 1861.
C. CAvoUR .
La partenza della flotta da Gaeta parve il momento favo
revole di venire al nodo della questione, e l'avvocato Aguglia
fu incaricato di sottomettere alla Corte di Roma le seguenti
basi delle trattative.
Basi delle trattative.
Art. 1. Che la Corte Romana riconoscesse e consacrasse
Vittorio Emanuele re d'Italia.
Art. 2. Che il Papa conservasse il diritto di alta sovra
nit sopra il patrimonio di S. Pietro, il quale per sarebbe
governato civilmente da Vittorio Emanuele e suoi successori,
quali vicarii del Sovrano pontefice.
Art. 3. Avrebbe il governo del re stabilito, avessero i
cardinali italiani scudi dieci mila annui.
Art. 4. Che spettasse il diritto ai Cardinali italiani di
sedere in Senato.
Art. 5. Lista civile del pontefice conveniente e decorosa
da costituirsi sopra il patrimonio di S. Pietro.
Art. 6. La transazione e stipulazione per contratto e per
legge oltre ad alti e maggiori garanzie a porgersi dal governo
636
italiano per la esecuzione perpetua di tutte le stipulazioni e
patti a convenirsi.
La seguente lettera dell'Isaia al Bozino rende testimonian
za della favorevole accoglienza che queste basi trovarono
presso il Cardinale Antonelli.
Gentilissimo signor Bozino.
Ieri dal nostro avvocato cose di pi rilievo mi furono
comunicate per ci che riguarda il noto affare. Ho assai go
duto del buon principio, e chi ben comincia alla met del
l'opra. Io non lascio di avvertirvi che il nostro prof. Passaglia,
tenero dell'unit italiana, bench forse non si paleser per
tale, si condotto a Torino e pare vi sia chiamato dal Conte
di Cavour, avendo ottenuto dal Santo Padre il permesso di
trattare. Attendo il vostro preciso riscontro e credo per l'av
venire sia opportuno il mezzo del Console. Dite al conte che
non guardi sagrificii per Roma, la quale sicuramente e paci
ficamente far fruttare la Venezia.
Credetemi con tutta stima.
Roma, 9 febbrajo 1861.
Vostro affezionatissimo
ANTONINO IsAIA.
E gli si rispondeva come segue:
Carissimo D. Antonino.
Vercelli, 17 febbraio 1861.
Ricevo dal Conte Cavour in risposta alla vostra del 9, ma
datata del 14, che trascritta fedelmente a voi recher il Padre
Molinari.
637
Pregiatissimo Signore.
Torino, 14 febbraio 1861.
La prego a voler rivolgere al suo corrispondente di Roma
una lettera del tenore seguente: Avendo parlato col Conte
di Cavour mi sono convinto esser egli disposto ad entrare
in serie trattative colla Corte di Roma, collo scopo di sta
bilire su larghe e salde basi un durevole accordo fra la Chiesa
e lo Stato. Il prefato signor Conte fa caso molto dell'abilit e
dell'ingegno del Cardinale Antonelli; credo quindi ch'egli
s'indurr facilmente, a fare quanto sar opportuno, sia rispetto
all'anzidetta eminenza, sia rispetto alla sua famiglia per ren
derlo favorevole alla progettata opera di pacificazione. Spero
che dietro questa mia comunicazione ella potr farmi rag
guagli pi precisi sulla disposizione delle persone, dalle quali
l'esito dei negozii dipende. Occorrendole di scrivere in pro
posito la prego di consegnare la sua lettera al padre Molinari
Rosminiano, dal quale questa mia la verr ricapitata.
Questa lettera dovrebbe essermi diretta sotto coperta al
mio indirizzo, con sopra l'indicazione riservata, luned pros
simo; il Molinari partendo marted per Roma. Nel rinnovarle
i miei ringraziamenti pel concorso che mi d in opera di
tanto momento, le attesto l'alta mia stima.
C. CAvoUR .
Ho voluto per intiero trascriverla perch il cavaliere Agu
glia possa con pi forza assicurare sua eminenza della buona
fede del Conte Cavour. Non ho nulla da aggiungere, cono
scendo il sincero e potentissimo vostro sentire per la patria.
Gradite un attestato della mia amicizia e credetemi.
Vostro affezionatissim
OMERo BozINo .
Intanto Gaeta cadeva e il cardinale
Antonelli, vista la
mala parata, mostrava grande premura all'Aguglia di calare
638
agli accordi. La seguente lettera dell'Isaia al Bozino la ri
produzione di quanto gli comunicava l'Aguglia in seguito alle
sue pratiche coll'Antonelli.
Carissimo signor Omero,
Sento il dovere di chiarire le poche parole del mio di
spaccio 17 corrente.
Posso francamente dirle che le trattative pel noto affare
presentano tutta la probabilit di un pronto ed onorato ac
comodamento. Senza trattenermi in preamboli e senza fare a
lei il racconto di tutte le ragioni dette, e bene esposte dal
nostro esimio ed abilissimo avvocato al cardinale Antonelli,
come pure tacendone la forte impressione prodotta nell'animo
di costui, mi limito al positivo contenuto in questa prima con
ferenza. Eccolo. Conservare l'alta sovranit al sommo
pontefice sullo Stato patrimoniale della Chiesa, ed affidare so
lamente al re e suoi discendenti perpetuamente il vicariato e
governo civile del medesimo Stato, a patto di avere il ponte
fice del fruttato di essi possedimenti la sua convenientissima
lista civile; il mantenimento dei nunzii esteri per le relazioni
e giurisdizioni ecclesiastiche; il piatto dei cardinali italiani
nella cifra di scudi diecimila annui per ognuno: il mantenimen
to delle congregazioni e tribunali ecclesiastici per materie e
cause meramente ecclesiastiche, nel modo come stanno fon
date, e sono al presente sovvenute; le pensioni vitalizie di
giubilazione pei prelati che stavano o stanno in posti civili
qui e nelle provincie tutte; e finalmente quanto pu occorrere
al Santo Padre come capo della Chiesa cattolica
Cos i maggiori onori e le maggiori convenienti prero
gative ad offerirsi dal re perpetuamente al papa per l'alta sua
sovranit ; conservare salve ed illese le costui convenienze, e
conciliare in modo le cose, che in Roma, ove siede il su
premo gerarca della Chiesa, a lato della civile potest, non
sia un que mai egli n suddito, n ultimo, ma primo ed indi
pendente nel di lui spirituale potere; inoltre si vuole la carica
di senatori di diritto ai cardinali italiani, e finalmente la piena
libert dell'episcopato italiano negli affari ecclesiastici. Ecco
tuttO.
Ma, soggiungeva espressamente il cardinale, poich la
639
esperienza sventuratamente ha mostrato che da tali vicariati
concessi dalla Santa Sede una volta, col volgere degli anni
venuto meno alla stessa il convenuto annuo censo, come dif
fatti successo in Lombardia, in Toscana, in Parma, in Pia
cenza, in Modena, in Napoli, per la famosa ghinea, finalmente
nel Piemonte stesso pel censo di scudi tremila annui; cos
l' avvedutissimo cardinale Antonelli dubita
di non ottenere
cautele sufficienti per assicurare ora e sempre alla S. Sede
le pensioni di sovra enunciate, e perci, caso che se ne voglia
presentare formale progetto d'un trattato al sacro collegio,
per l'accettazione, doversi anzitutto provvedere che egli non
sia rifiutato per deficienza di cautele.
A riparare ci opportunamente, il medesimo cardinale An
tonelli, con la promessa del nostro avvocato del pi rigoroso
segreto e silenzio con chicchessia di tutte le anzidette, e della
stessa iniziativa, ha chiesto per mezzo di costui un progetto
formalmente redatto sulle succitate basi, e portanti cautele
ineluttabili e ineccezionabili sul tutto, e principalmente quanto
alla sicurezza perpetua delle annue pensioni dovute alla Santa
Sede, non esclusa quella, e come patto espresso della riversa-.
bilit ipso facto della sovranit temporale del proprio Stato
in caso di non adempimento in ogni tempo avvenire, per qua
lunque siasi causa o motivo. E trovando il medesimo cardi
nale Antonelli il progetto tale quale realmente deve essere,
allora solamente avrebbe permesso la formale trattativa col
nostro avvocato, e sempre tutto ci in linea di strettissimo
secreto e silenzio sommo, anche coi membri del governo del
re, fino alla definitiva risoluzione. Il Cardinale perci protesta
che, se mai avvenga che il progetto si disveli prima che sia
pienamente conchiuso, gli sar affatto impossibile poterne pi
parlare col sacro Collegio pei lagni, pei pianti, e per le insi
die del partito clericale.
Sebbene per solo amore di brevit, ho voluto tacere il
dettaglio della prima conferenza tra il nostro avvocato ed il
cardinale Antonelli, per non posso affatto dispensarmi manife
starle che anche l'eminentissimo pare di buona fede e intrin
secamente convinto delle convenienze e della necessit di tale
accordo; giacch niuno meglio di lui (sono sue parole) cono
sce lo stato attuale dell'Europa, e che perci nulla ha da
sperare la Santa Sede sulle baionette estere; che quando an
che i tempi volgessero in meglio, innegabile che la mede
640
sima rimarrebbe sempre umiliata, avvilita, dipendente, sfasciata
nella finanza, non libera nell'esercizio dello spirituale, ed in
odio ai proprii sudditi; quando all'incontro, avverandosi l'opera
grande della nazionalit italiana, la Chiesa si colloca nell'an
tico suo lustro; il papato sorger dal fango in cui si trova,
ed un'Italia unita, avente Roma per capitale ed il santo pon
tefice con s e per s, ora e sempre sar accolta e riverita
nel numero delle grandi potenze, e otterr l'autorit che le
dovuta nei congressi e nelle decisioni degli affari europei.
Ha aggiunto dippi che, attuandosi l'accordo anzidetto, l'Au
stria spaventandosene dovr cedere volontieri la Venezia, e
l'Italia risparmier in tal guisa il sangue di tanti italiani come
altres la stessa Francia sar obbligata di camminare sempre
nella via della legalit se non voglia sperimentare per la pri
ma gli effetti del valore italiano.
Nel portare io quindi alla di lei conoscenza tutto il per
messo, mi pregio chiederle al pi presto possibile tale un
progetto e formulato sopra basi da non poter patire ecce
zioni, e molto meno rigettarsi, raccomandandole sempre il
silenzio, altrimenti si perderebbe olio ed opera e quel che
pi non saprei quali tristi conseguenze antivedere per me e
per altri.
Accolga i sensi della mia considerazione e quelli dell'av
vocato nostro, e mi creda.
Di Roma, 17 febbraio 1861.
Affesionatiss. ANTONINO ISAIA .
Cavour vi faceva la seguente risposta:
Pregiatissimo Signore.
Ho ricevuto a Milano la lettera che dietro mio invito ella
scrisse a Roma. Partir domani per mezzo sicuro.
Al dispaccio telegrafico ch'ella mi ha comunicato trovo
oppurtuno il rispondere.
Riceverete di questa settimana una mia lettera, se l'af
fare si combina, vi si daranno le pi grandi garanzie.
Se nel suo desiderio di cooperare al bene della nostra
Italia ella non avesse obiezioni a fare nuova gita a Roma, do
641
vrebbe scrivere per la posta al suo corrispondente;
In ag
giunta alla precedente mia lettera ed al mio dispaccio telegra
fico, le certifico essere pronto a recarmi a Roma onde trattare
direttamente con lei gl'interessi dei nostri due clienti.
Basterebbe che questa lettera fosse spedita i primi giorni
dell'entrante settimana.
Creda alla distinta mia stima.
20 febbraio, Milano.
C. CAvoUR .
Da queste trattative siamo autorizzati a dedurre, che fi
nalmente in Roma il potere temporale non era da tutti ri
guardato come essenziale alla potest spirituale, e che lo
stesso cardinale Antonelli non era lontano dal venirne a patti
con la rivoluzione e cedere in faccia a lei, purch essa avesse
assicurato alla Corte romana quelle guarentigie che per altro
si convenivano e allo splendore di quella corte ed alla supre
ma dignit del pontefice. Per ora non ci dato scandagliare
i motiv
ce mandarono a vuoto le trattative e che resero
impossibile la soluzione pacifica di quella grande quistione;
per ci lecito asserire, che tali ragioni dovettero venire da
Roma.
E per primo: il cardinale Antonelli non aveva certamente
iniziate quelle trattative che all'insaputa di tutti. Era sua in
tenzione condurre l'affare in modo, da provvedere la transa
zione necessaria alla Chiesa. Ma il gesuitismo dovette cono
scere le trattative, e riusc a disperderle. Antonelli non aveva
n la forza n il coraggio di resistere ai gesuiti, molto pi
che il papa era gi caduto nella loro rete. Certo per che
le trattative non furono interrotte per opera del governo ita
liano. Infatti, dalla parte del Piemonte tutto riducevasi a di
spendii pecuniari, ed il conte di Cavour non era uomo da ar
restarsi per s frivoli motivi; egli era anzi disposto a trat
tare pi che generosamente il papa, i cardinali, i vescovi
d' Italia, affinch il mondo cattolico non si prendesse cura
del capo della Chiesa e riconoscesse che il governo italiano
trattavalo generosamente. Altri sagrificii il conte Cavour avreb
be fatti, ed anco non lievi, per aver la gloria di sciogliere la
pi grande ed implicata questione del secolo. In generale, gli
Italiani non avrebbero censurato la condotta di quell'uomo di
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
81
Stato, e tutti gli avrebbero consentito, purch l'unit italiana
fosse divenuta un fatto.
Dunque, se la questione non fu sciolta, se le trattative re
staron sospese, se non fu pi possibile intendersi, ne vuol
essere addebitata Roma, quella Roma in cui dominavano i
gesuiti, e dove i consigli di reazione si succedevano e per
opera di Italiani rinnegati e per opera di stranieri malcontenti,
che volevano rendere il papa e la quistione italiana una spada
a due tagli per ferire ovunque il partito rivoluzionario, per
distruggere l'opera della rivoluzione, per ritornare l'Europa
ai trattati, alle sante alleanze, al dispotismo.
CAPIT0L0 XXV ED ULTIMO
Regno d'Italia,
In tanta difficile situazione di cose, sospeso il corso degli
avvenimenti che dovevano conquistare all'Italia Roma e Ve
nezia, l'attenzione degli Italiani volgevasi al Parlamento, che
gi si adunava, per sentire dalla Camera ci che si dovesse e
potesse fare a pro della causa dell'indipendenza e della li
bert. Ma prima di narrar per ordine i fatti particolari di
questo primo grande parlamento italiano, ci converr dire qual
che cosa sui maneggi dei partiti nelle elezioni dei deputati.
Il conte di Cavour non aveva lasciato mezzo alcuno per
assicurarsi nella Camera una forte maggioranza. In altra parte
gli uomini della democrazia davansi premura per far risultare
uomini del loro colore. I mezzi adoperati da ambedue i par
titi non furono sempre onesti, e ci faceva prevedere come
profonde fossero le animosit, e come terribili dovessero riu
scire le lotte parlamentari. La democrazia specialmente, che
era stata cos malmenata nell'Italia meridionale, cercava di
prendere la rivincita in parlamento, ma s'ingannava a partito,
e non vedeva chiaramente da quale spirito fossero allora do
minati gli Italiani, e quanto avessero lavorato gli uomini del
governo per allontanare dal cos detto partito d'azione le
opinioni politiche della popolazione italiana.
644
Infatti le antiche provincie, la Lombardia, l'Emilia, la To
scana diedero deputati ministeriali, ad eccezione di pochissi
mi che si prevedeva dover essere dell'opposizione. Il terreno
pi favorevole alla democrazia era quello di Napoli e di Sicilia,
per la ragione che ora di emo.
Come altrove notammo, il governo di Torino erasi rego
lato imprudentemente nel distruggere tutto ci che era stato
fatto dai governi prodittatoriali di Sicilia e di Napoli, e nel
cancellare quasi tutti i decreti del dittatore. Siffatta politica
aveva indisposto gli animi delle popolazioni meridionali, e co
mecch di siffatto procedere s'incolpava principalmente il
conte di Cavour, cos era facile rinvenire elettori che per
fare onta al ministro avessero dato volontieri il loro voto ad
un democratico. Gli uomini del partito di azione conobbero
questa disposizione delle provincie meridionali, e pensarono
cavarne partito. A tal uopo cominciarono coi giornali a narrar
per ordine le gesta dei democratici, la parte da loro presa
nelle guerre garibaldine, gli esilii e le prigionie sofferte, e i
dolori patiti nelle persecuzioni dei caduti governi. Ma sopra
tutto adoperavansi a far conoscere come tali uomini fossero
amici del generale Garibaldi, e come Garibaldi approvasse e
desiderasse che questi suoi amici venissero eletti deputati.
Cos si riusci a recare ad effetto alcune elezioni di demo
cratici, ma non tante per da poter fare seria opposizione al
partito del governo. Per giova riflettere che quasi tutti i capi
del partito d'azione, diciamo i pi rinomati o per gesta o per
ingegno, vennero tutti eletti deputati al parlamento. E coloro
stessi contro i quali la pubblica opinione erasi fortemente
pronunziata, vennero eletti nelle successive elezioni.
Tutta Italia guardava attentamente a quello che avveniva,
e giudicava ciascuno secondo le proprie opinioni e secondo i
proprii interessi.
Tutta Europa aspettava l'adunamento della prima grande
assemblea italiana, come se da essa dipendessero in gran parte
non pure le sorti d'Italia, ma la pace eziandio e i turbamenti
d'Europa.
Il giornalismo liberale delle potenze amiche faceva sentire
la sua voce con provvidi consigli; gli amici specialmente di
Francia e d'Inghilterra raccomandavano la calma e la pru
denza affinch l'Italia dasse nelle Camere quelle stesse prove
di saggezza che aveva date nella rivoluzione e nella guerra.
645
Il giornalismo italiano, comunque diviso gi in partiti, non
perdeva di vista i grandi interessi patrii.
Era il d 18 febbraio 1861, giorno destinato all'apertura
delle Camere. Annunziato dal cannone e dalla fanfara, il re
Vittorio Emanuele si avviava alle 11 dalla reggia al palazzo
Carignano, preceduto dalla sua famiglia e seguito dalla casa
militare. Le piazze e le vie , riccamente addobbate, erano
zeppe di gente accorsa dalle cento citt italiane, ed udivasi
ripetutamente l'unanime grido di Viva il re d'Italia!
Assistevano alla memoranda cerimonia il principe Umberto
di Piemonte e Amedeo duca d'Aosta. Nella loggia addetta al
corpo diplomatico notavansi il generale Bonin, ambasciatore
straordinario del re di Prussia, col suo seguito; i ministri di
Prus ia, Inghilterra, Francia, Turchia, Svezia, Belgio. Il re
era circondato dai ministri e dagli alti dignitari della sua
COrte.
l deputati erano quasi tutti presenti: ma mancavano mol
tissimi senatori. Le tribune pubbliche e private riboccavano
d'assistenti.
La lettura del discorso del re fu preceduta dalla prestazio
ne del giuramento per appello alfabetico fatto dal ministro
Cassinis ai senatori ultimamente nominati, e dal ministro Min
ghetti ai deputati.
Terminate quelle formalit, e fattosi nella grand'aula solenne
silenzio, il re con voce piuttosto commossa lesse il seguente
discorso :
Signori senatori! signori deputati!
Libera ed unita quasi tutta per mirabile aiuto della di
vina Providenza, per la concorde volont dei popoli e per lo
splendido valore degli eserciti, l'Italia confida nella virt e
nella sapienza vostra.
A voi si appartiene il darle istituti comuni, e stabile as
setto. Nello attribuire le maggiori libert amministrative a
popoli che ebbero consuetudini di ordini diversi, veglierete
perch l'unit politica, sospiro di tanti secoli, non possa mai
CSSere InenOmata.
L' opinione delle genti civili ci propizia; ci sono pro
pizii gli equi e liberali principiii che vanno prevalendo nei
646
consigli d'Europa. L'Italia diventer per essa una guarentigia
di ordine e di pace, e ritorner efficace strumento della ci
vilt universale.
L'imperatore dei Francesi, mantenendo ferma la massima
del non-intervento, a noi sommamente benefica, stim tuttavia
di richiamare il suo inviato. Se questo fatto ci fu cagione
di rammarico, esso non alter i sentimenti della nostra grati
tudine, n la fiducia nel suo affetto verso la causa italiana.
La Francia e l'Italia, che ebbero comune la stirpe, le tradi
zioni, il costume, strinsero sui campi di Magenta e di Solfe
rino un nodo che sar indissolubile.
Il governo ed il popolo d'Inghilterra, patria antica della
libert, affermarono altamente il nostro diritto di essere ar
bitri delle proprie sorti, e ci furono larghi di confortevoli
ufficii, dei quali durer imperitura la riconoscente memoria.
Salito sul trono di Prussia un leale ed illustre principe, gli
mandai un ambasciatore a segno d'onoranza verso di lui e di
simpatia verso la nobile nazione germanica, la quale io spero,
verr sempre pi nella persuasione, che l' Italia costituita
nella sua unit naturale, non pu offendere i diritti n gli
interessi delle altre nazioni.
Signori senatori ! signori deputati!
Io sono certo che vi farete solleciti a fornire al mio go
verno i modi di compiere gli armamenti di terra e di mare.
Cos il regno d'Italia, posto in condizione di non temere of
fesa, trover pi facilmente nella coscienza delle proprie forze
la ragione dell'opportuna prudenza.
Altra volta la mia parola suon ardimentosa, essendo
savia cosa lo osare a tempo, come lo attendere a tempo.
Devoto all'Italia, non ho mai esitato a porre a cimento la
vita e la corona; ma nessuno ha il diritto di cimentare la vita
e le sorti di una nazione.
Dopo molte segnalate vittorie, l'esercito italiano, cre
scente ogni giorno in fama, conseguiva nuovo titolo di gloria,
espugnando una fortezza delle pi formidabili. Mi consolo
nel pensiero, che l si chiudeva per sempre la serie dolorosa
dei nostri conflitti civili.
L'armata navale ha dimostrato nelle acque di Ancona e
647
di Gaeta, che rivivono in Italia i marinari di Pisa, di Genova
e di Venezia.
Una valente giovent, condotta da un capitano, che riemp
del suo nome le pi lontane contrade, fece manifesto che,
n l servit, n le lunghe sventure valsero a fiaccare le fibre
dei popoli italiani.
Questi fatti hanno ispirato alla nazione una grande con
fidenza nei propri destini. Mi compiaccio di manifestare al
primo parlamento d'ltalia la gioia che ne sente il mio animo
di re e di soldato.
Questo discorso fu grandemente, universalmente applaudito.
Commendato per altezza di concetti e per robustezza di stile,
veniva interrotto ad ogni periodo, quasi ad ogni frase dal
l'applauso unanime degli ascoltanti. Le parole con le quali
insisteva perch nell' ordinamento amministrativo del regno
l'unit politica d'Italia non venisse menomata; le altre con
le quali, raccomandando senno e prudenza, dichiarava di non
aver mai esitato a porre a cimento la propria vita e la co-,
rona; quelle finalmente che si riferivano alle gesta dell'esercito
e della marina, alla valente giovent - condotta da un capi
tano che riemp del suo nome le pi lontane contrade , ri
scossero applausi entusiastici e prolungatissimi. Torino era in gran festa. Immenso numero d' Italiani e di
stranieri erano concorsi per assistere a questo spettacolo,
straordinario nella storia d'Italia. Il municipio aveva procu
rato ogni modo perch la grande cerimonia politica fosse co
ronata da generali illuminazioni, da fuochi d'artifizio, da ogni
specie di divertimenti. Tutto riusc come si desiderava; tutto
and bene. L'Italia diede in quel giorno il primo segno della
sua nuova vita, ed accenn ancora una volta di voler divenire
grande e potente in mezzo alle grandi e potenti nazioni del
l' Europa.
L'entusiasmo suscitato dal grande avvenimento fu generale
in Italia; ed anco ora ci conviene ripetere, che ove un falso
indirizzo politico non avesse quasi spento pi tardi questo
entusiasmo sublime, l'Italia avrebbesi potuto compiere presto
senza aiuti stranieri e senza sfruttare le forze pi o meno pre
ziose in mezzo alle pi strane mistificazioni ed ai raggiri
diplomatici dei gabinetti.
Il giorno 18 febbraio 1861 sar memorabile nella storia
648
italiana; in quel giorno i rappresentanti di tutte le provincie
italiane dicevano al mondo: L'Italia non pi un'espressione
geografica; l'Italia non pi divisa e sbranata da tanti piccoli
re; essa sorge dalle sue antiche umiliazioni, e si presenta al
l'Europa come giovane potenza che conta ventidue milioni di
cittadini, e presto ne conter ventisei, quando saranno nostre
Roma e Venezia.
Occorse quel giorno un fatto curioso che vuol essere notato.
Poco prima dell'arrivo del re nell'aula del palazzo Carignano,
una persona sconosciuta, in abito assai dimesso, erasi intro
dotta nella sala ed andata a sedere fra i senatori e i deputati.
Di mano in mano che quegli entravano, osservavano quell'in
dividuo, che non sembrava ad esse che fosse un loro collega.
Il deputato Chiavarina ed altri si erano recati ad invitarlo ad
andarsene, ma egli ricusava, trovando che stava meglio
OVe 0T3.
Il conte Cavour gli offerse un biglietto per una tribuna,
ma invano, ch egli diceva di non poter muoversi, avendo a
rispondere al discorso della corona.
-
Finalmente, alcuni minuti prima dell'arrivo del re, la guar
dia nazionale lo fece uscire dall'aula e lo consegn alle guar
die di pubblica sicurezza, che lo condussero al palazzo Ma
dama.
Alcuni deputati di Napoli asserivano che lo avevano veduto
nello stesso vapore che li aveva trasportati da Napoli a Genova.
Mille commenti si fecero a questo fatto; e fuvvi chi sospett
che lo sconosciuto dovesse uccidere il re. Alla fine per si
avvidero che il cervello avevagli dato volta, perciocch non
fu possibile che si ritrovassero in lui i segni di perverse in
tenzioni.
Il discorso del re fece buona impressione all'estero, spe
cialmente agli amici della causa italiana. La pubblica stampa
d'Inghilterra diceva a questo proposito: Non nella natura
dei discorsi reali di levarsi all' altezza dei grandi argomenti;
forse perch ad essi mancano gli argomenti sublimi. Il re
Vittorio Emanuele ha posto un grande esempio in questa
come in molte altre cose; esempio che non sar seguito da
molti suoi colleghi nel continente. Capo di una Casa reale, di
cui l'Europa non pu offrire altra pi antica e pi illustre,
egli occupa come principe un grado cui altri sovrani possono
invidiare anzi che approvare. Re amato e careggiato dai suoi
649
soggetti, signore dei loro cuori, egli ha saputo innalzarsi in
sieme coi loro destini, prendendo parte a tutti i loro pericoli,
personificando tutte le loro speranze e le loro aspirazioni,
stretto col suo popolo in cuore, in volont, in forze; egli ha
mantenuto incontaminato il suo onore, incorrotta la sua buona
fede; ed ha vendicato la memoria del padre col valore nelle
battaglie, coll'onest nei consigli. Questo re ha fatto per la
causa della monarchia costituzionale nel decimonono secolo
pi assai che un milione di baionette non avrebbero fatto pel
diritto divino dello spergiuro e delle carneficine.
Sembra essere il destino d'Italia di farsi nuovamente mae
stra di civilt al mondo, e di riacquistare ad un tratto il suo
posto nelle nazioni libere. Non soltanto per la sua valentia
in guerra, ma per il suo consumato sapere politico, per il
suo potere organizzatore, per la sua destrezza, operosit, pruden
za, per la sua sagacia singolare nell'adattare i mezzi ai fini,
per la sua pieghevolezza e decisione, per la sua pazienza, il
suo sobrio giudizio, la sua cooperazione ardita, che l'italia ha
stupefatto gli osservatori i pi avveduti, i critici meno indul
genti. Per la sua fidente equanimit e per la sua moderazione
nelle crisi scoraggianti, non meno che per il suo ardore eroico
e l'arditezza nelle opportunit, ha, la nuova Italia, colpito di
stupore e di rossore le corti e i gabinetti di molte antiche
case regnanti.
-
Le recenti elezioni italiane colla loro condotta ordinata,
colla loro indipendenza nella scelta, col loro discernimento pa
triottico, possono fare arrossire molti collegi elettorali d'In
ghilterra, se pur un collegio elettorale inglese fosse capace di
sentire rispetto di s medesimo. Un discorso inglese del trono
non pu essere paragonato alle migliori imitazioni; poich,
secondo il principio, che felice quel paese che non ha al
cuna storia, l'ammirabile qualit di un discorso reale che
non ha nulla a dire. Ma conviene pure congratularsi coi con
siglieri costituzionali del re d'Italia, e riconoscere che essi
hanno posto sulle labbra del loro sovrano un capo d'opera di
dignit regia, di virile eloquenza, e di robusta semplicit. Certo
ogni re potrebbe ai nostri di parlare al suo popolo con s
stupende parole. Immaginate un Francesso Giuseppe ed un
Guglielmo I, per non parlare di un principe di Baviera e di
Sassonia, che tenesser un linguaggio cos franco, cos cordiale,
cos fermo e pieno di fiducia. Un re deve aver posto la sua
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II
82
650
corona e la sua vita per la sua patria, o almeno deve aver
tenuta la sua parola come un gentiluomo, per essere cosi li
bero nei discorso e non usare il gergo trascendentale comu
nemente usato dai re. Niun uomo comprende oggid il modo
di fare il mestiere di re meglio di Vittorio Emanuele; mai il
vecchio ciarlatanismo reale non stato da lui usato. Nel suo
discorso noi troviamo un lampo dell'eroe di Palestro, vi tro
viamo il gusto di Garibaldi, ed eziandio quello del gentiluomo
dato alle caccie, il quale si tiene pi libero sui campi che
nella reggia. Ma tutte queste diversit caratteristiche, sono
accortamente insieme mescolate dall'arte sottile di quel mini
stro, il quale per destrezza e per fortuna non ha competitore
in alcun gabinetto d'Europa. Il re eletto d' Italia ricorda al
suo parlamento che esso in cotal maniera una assemblea
costituente, dappoich suo ufficio stabilire l'organamento
politico della patria comune. La pi ampia libert amministra
tiva confacentesi colla perfetta unit politica il problema da
risolvere; e, per ventura, da risolversi da un'assemblea im
pareggiabile per compiere quest'opera.
Con giusta alterezza e con istinto ammirabile il re ac
cenna al favore della pubblica opinione presso le pi potenti
ed illuminate nazioni. Il governo francese ha protestato,
vero, richiamando il suo ministro, ma la Francia tuttavia al
bisogno l'amica dell' Italia, e niuna leggiera differenza pu
cancellare il debito smisurato di gratitudine dovuto ai vincitori
di Magenta e Solferino. L'Inghilterra pur essa, sebbene non
abbia combattuto per l'Italia, ha gettato la sua influenza mo
rale sulla bilancia, l'influenza morale dell' antica sede della
libert. Gratitudine siffatta non solo buona in politica, ma
savia per uomini di Stato, e sebbene non convenga ad Inglesi
dire quanta parte ne spetti all'Inghilterra, noi possiamo fran
camente e cordialmente confessare che l'imperatore la me
rita tutta.
Questi giudizi, ed altri che furono dati dalla stampa in
glese, non che dai liberali di Germania, mostrano come la
causa italiana avesse delle simpatie all'estero, e come venisse
lodato l'andamento politico d'Italia.
Intanto il giorno 21 febbraio il conte di Cavour, nella se
duta del senato, presentava il progetto di legge che dava a
Vittorio Emanuele il titolo di re d'Italia per s e per i suoi
successori colle seguenti parole:
65i
I maravigliosi eventi dell'ultimo biennio hanno con ispe
rata prosperit di successi riunite in un solo Stato quasi
tutte le sparse membra della nazione. Alle variet dei princi
pati fra s diverse e troppo sovente fra di s pugnanti per
difformit d'intendimenti e consigli politici, finalmente suc
ceduta l'unit di governo, fondata sulla solida base della mo
narchia nazionale. Il regno d'Italia oggi un fatto ; questo
fatto dobbiamo affermarlo al cospetto dei popoli italiani e del
l'Europa.
Per ordine di S. M. e sul concorde avvenimento del
consiglio dei ministri, ho quindi l'onore di presentare al se
nato il qui unito disegno di legge per cui il re, nostro augusto
signore, assume per s e per i successori suoi il titolo di
re d'Italia.
Fedele interprete della volont nazionale, gi in mille
modi manifestata, il parlamento nel giorno solenne della se
dnta reale, coll'entusiasmo della riconoscenza e dell'affetto,
acclamava Vittorio Emanuele, ll re d' Italia.
Il senato sar lieto di dare per il primo sollecita san
zione al voto di tutti gl' Italiani, e di salutare col nuovo ti
tolo la nobile dinastia, che nata in Italia, illustre per otto se
coli di gloria e di virt, fu dalla Providenza divina serbata a
vendicare le sventure e sanar le ferite, a chiuder l'ra delle
divisioni italiane. Col vostro voto, o signori, voi ponete fine
ai ricordi dei provinciali rivolgimenti, e scrivete la prima pa
gina di una nuova storia nazionale.
Questo progetto di legge oramai inevitabile; necessit assoluta
voleva che Vittorio Emanuele assumesse il titolo di re d'Ita
lia, prima perch le provincie annesse alle antiche costituivano
gi un grande regno, secondo perch in questo modo si ac
cennava ai diritti inviolabili che l'Italia aveva sopra Roma e
Venezia per compiere i suoi destini; terzo perch l'Europa
conoscesse che gl'Italiani non volevansi fermare a mezzo del
cammino, e che la loro meta era dalle Alpi al mare. Biso
gnava infatti abituare la diplomazia a sentir parlare dei diritti
italiani perch a poco a poco facesse loro ragione.
L'ufficio centrale, composto dei senatori De Gori, Giulini,
Giorgini, Niutta e Matteucci presentavano su quel progetto di
legge la seguente relazione:
-
652
Signori Senatori!
L'ufficio centrale cui affidaste l'incarico di riferire sulla
proposta di legge, colla quale Sua Maest Vittorio Emanuele II
deve assumere il titolo di re d'Italia, interprete dei senti
menti del Senato, lieto di poter dare il primo sanzione a
quella legge che i rappresentanti della nazione, nel memorando
giorno della seduta reale avevano invocato con fervorosi segni
di ossequio, di effetto e di gratitudine.
Il vostro ufficio fu unanime nel riconoscere che quella
proposta di legge ha la sua origine e ragione in un fatto gi
solennemente compiuto dalla volont nazionale, che la coscienza
dei popoli civili acclama come un principio d'ordine e di
progresso per l'Europa, e che la Provvidenza ha manifesta
mente promosso coll'aiuto di potenti alleati, e ispirando nel
l'animo degl'Italiani senno, ardimento, concordia, pari alla
grandezza dell'impresa.
Pochi sono i popoli che pi di noi abbiano dalla natura
ricevuto virt tanto caratteristiche che per un'esistenza propria;
pochi i popoli che pi di noi rimanendo deboli e soggetti allo
straniero, come per lunghe e note sventure, gi fummo, nuo
cerebbero alla pace europea, all'equilibrio politico dei grandi
Stati, al progresso dell'ordine civile e morale nel mondo. N
crediamo che amor di patria c'illuda affermando esser questo
il pi solenne esempio che offra la storia di un popolo il quale
per concordia mirabile di volont, giunto a costituire un
grande Stato, stringendo insieme i molteplici elementi della
nazione da tanti secoli divisi e dispersi, e contrapponendo alle
violenze de' suoi nemici, pi che altro, l'influenza invincibile
delle forze morali.
L'augusto nostro alleato l'imperatore dei Francesi ben com
prese queste verit, allorch ci assisteva colle armi a liberare
la Lombardia, e unitamente all'Inghilterra affermava nei con
sigli europei che non doveva essere fatta violenza agli Italia
ni, n impedito loro di costituirsi in uno Stato forte.
Le varie provincie della Penisola non fecero che seguire
le loro naturali inclinazioni, che spegnere gli antichi germi di
debolezza, che provvedere ai supremi bisogni di un popolo li
bero, costituendo in mezzo all'Europa uno Stato potente che
per s e per i vicini un elemento nuovo di pace e di ci
ilt.
653
Questo Stato ha un nome; il regno d'Italia; nome che
comprende il territorio naturale occupato da ogni gente ita
liana e sta a significare la nostra costituzione politica, questo
nome esprime che l'ultimo termine dei rivolgimenti italiani,
la creazione d'una Monarchia nazionale.
Acclamando Vittorio Emanuele re d'Italia, la nazione ha
voluto premiare quella illustre dinastia italiana che col senno
civile, col coraggio militare, con spiriti indomiti d'indipen
denza, rendeva il popolo subalpino degno delle libere istitu
zioni e custode della bandiera nazionale, ha voluto rendere
omaggio alla venerata memoria del magnanimo re Carlo Alberto
ed all'ardito patriottismo del re.
Il titolo di re d'Italia pone in atto il concetto intero della
volont nazionale, cancella i simboli delle nostre interne divi
sioni, per l'animo d'ogni Italiano un pegno di grandezza e
di unione, accresce l'autorit del governo del re nei consessi
europei, ed offre alle grandi potenze, in mezzo alle quali il
regno d'Italia prende posto, degna occasione per accettare il
risorgimento politico di un popolo che ha tanto contribuito alla
civilt universale. Salutando con questo nuovo titolo l'illustre
discendente di una delle pi antiche e nobili dinastie, i grandi
Stati d'Europa stringeranno coll'Italia quei vincoli di concordia,
di fratellanza, d'interessi comuni che sono oramai il solo fon
damento delle relazioni diplomatiche fra popoli liberi e cri
stiani.
Questi Stati, al pari di noi, custodi gelosi della pace e
dell'ordine porgeranno in tal modo nuova forza all'autorit del
governo e del primo parlamento Italiano, affinch, con quella
sapienza e moderazione che devono dominare nei consigli di
un grande regno, possano esser risoluti ai grandi problemi che
interessano la pace dell'Italia e del mondo, non che la gran
dezza e la libert spirituale della Chiesa.
Siffatte convinzioni persuadevano l'ufficio centrale a
proporre al Senato l'adozione del progetto di legge presentato
dal Ministero.
Questa adozione ha per implicita una disposizione legi
slativa, di cui sembra non possa essere contestata la ragione
e la convenienza, e per la quale il patto memorando ed il prin
cipio giuridico della novella Monarchia siano ognora presenti
al popolo italiano e congiunti al nome de' suoi re.
La provvidenza divina, che mai si rivela meglio nella sua
654
bont e nella sua giustizia che quando muove e dirige la vo
lont dei popoli a riconquistare dritti o manomessi o perduti,
la virt, la concordia e la perseveranza italiana, che la mira
bile opera hanno compito, debbono associarsi al nome del re,
siccome la ragione pi sacra e la forza pi salda del regno.
Perci l'ufficio centrale vi propone l'aggiunta di un se
condo articolo, che completa la legge in questo intendimento.
L'ufficio centrale vuol anche esprimere la fiducia che
il governo del re otterr dall'animo affettuoso e benevole del
l'augusto nostro Monarca che il figlio primogenito del re d'I
talia s'intitoli costantemente Principe di Piemonte.
Questo titolo rimarr a ricordare ai nostri re la terra
nativa ed un regno glorioso e civile di otto secoli, sar un
segno imperituro di onoranza reso dagli Italiani tutti a quella
provincia che fu il primo scudo della loro libert ed indipen
denza.
Si augura il nostro ufficio centrale, che vorrete accogliere
il progetto di legge cos ampliato, con quella unanimit di
voti, con quei sentimenti di gratitudine e di riverenza che de
vono accompagnare il primo e pi grande atto che la volont
nazionale compie in cospetto del mondo.
Addi, 24 febbrajo 1861.
MATTEUCCI, relatore .
Questa relazione fu applaudita, essa concordava in tutto con
le idee del governo, del re e della maggioranza della nazione
italiana.
Il 26 febbraio il Presidente del Senato Conte Sclopis dava
lettura del progetto d'indirizzo in risposta al discorso della
Corona compilato dall'Ufficio di Presidenza. Quel progetto
diceva:
Sire,
La voce di V. M. ci annunzia l'avvenimento per cui si
adempie quel voto d'unit politica vagheggiato da tanti eletti
spiriti, promosso da tanti nobili cuori, accompagnato da tanta
piet e tante lagrime.
655
Travaglio di molti secoli, spiegasi ora, merc di un prodi
gioso concorso di cause diverse tutte a noi propizie, la gran
dezza d'Italia. Il valore degli eserciti, il senno dei popoli
hanno raggiunto tale scopo che, pochi anni addietro, pareva
eccedere ogni umana previsione.
Fidando nel vostro appoggio dell'opinione delle genti pi
civili, e nella conformit di principii ispirati da liberali incli
nazioni e sorrette da illuminata esperienza, noi francamente
speriamo che ci si dar modo di mostrare come chi rivendica
il suo diritto e, perci s stesso, pi disposto a rispettare
l'altrui, come l'Italia costituita nella naturale sua condizione
destinata a raffermare, anzich turbare la vera armonia e
il giusto equilibrio delle potenze d'Europa.
Il Senato felice di unirsi alla M. V. nel credere che
l'Imperatore dei Francesi non abbandoner i generosi propo
siti che furono a lui sorgente di splendida gloria, a noi di va
lido aiuto, che vennero consacrati dalle gesta dei prodi, dalle
acclamazioni dei popoli.
Il sangue latino non disdir la sua origine, e le varie
vicende delle sorti passate si confonderanno in un mutuo ac
cordo d'interessi, d'aspirazioni e di affetti.
Quel conforto, che la libera e possente Inghilterra ar
rec nei pi grandi cimenti alla causa dei popoli liberi, non
mancato nelle presenti contingenze all'Italia come non pu
venirci meno nell'avvenire.
Non sar vana al certo la fiducia che noi riportiamo nello
schietto giudizio e nel profondo sentire della generosa Ger
mania, dove ad un principe degno della nazione che regge,
gi si sono per cura sollecita di V. M. aperti i sensi di ono
ranza e di simpatia che gli si addicono.
Fra i valorosi facile sempre l'intendersi. La modera
zione e la calma sono la prerogativa dei forti. E noi, che se
guimmo con procellosa gioia gli ardimenti vostri, Sire, noi
oggi ascoltiamo riverenti i consigli di prudenza che escono
dal vostro labbro. Conoscere le ragioni del tempo presente
assicurarci quelle dell'avvenire.
La nazione intera non potr se non applaudire a tutto che
si faccia onde afforzare l'esercito e l'armata navale, verso di
cui nessun elogio sarebbe mai troppo.
L'indole militare del popolo italiano, che si spiegava con
impeto da una giovent gagliarda, guidata da un capitano di
656
virt antica, e che ben si pu chiamare figlio prediletto della
vittoria, accenna che oramai l'Italia si procaccier colle sue
proprie forze, sotto la protezione della Provvidenza, gli ele
menti tutti della disciplina interna ed esterna difesa.
L'ordinamento del nuovo regno former oggetto delle
pi assidue meditazioni del Senato, affinch rispond a quanto
ricerca il presente e raccomanda il passato.
La casa vostra, o Sire, aveva da pi remoti tempi pi
gliato il grande assunto di vegliare sui casi d'ltalia e di pro
curarne l'indipendenza. Il magnanimo vostro genitore ravviv
ed ampli l'illustre progetto, col largire a suoi popoli le fran
chigie costituzionali e coll' iniziare il moto del nazionale riscatto.
Voi, Sire, foste chiamato alle ultime e decisive lotte, nelle
quali, ponendo a cimento vita e corona, ne riportaste il meri
tato guiderdone, l'amore d'Italia, l'ammirazione d'Europa.
La lettura di questo progetto fu coronata d'applausi. Indi
fu aperta la discussione del progetto stesso di legge. Il senatore
Pareto disse: che avrebbe desiderato che l'iniziativa di questa
proposta fosse partita dal Parlamento e che un decreto Reale
accettando la proposta dei rappresentanti della nazione l'avesse
convertita in legge. Diceva pure che gli avrebbe piaciuto assai
pi, che si fosse adoperato il titolo di re degli Italiani invece
di quello di re d'Italia. Portava in conferma il popolo iran
cese che nel 1830 e pi tardi nel 1848 e nel 1852 volle che
il Capo della nazione si dicesse re od imperatore dei francesi
e non di Francia. Il Conte di Cavour presidente del consi
glio rispondeva in questi sensi alle osservazioni di Pareto:
Intendo da quali sentimenti generosi il senatore Pareto fosse
mosso nell'esprimere il desiderio che la iniziativa di questa
legge partisse dal Parlamento anzich dal governo; tuttavia
considerando la quistione dal lato politico credo che il Senato
vedr esser conveniente che la proposta sia stata fatta dal
Ministero.
Ed in vero se vi fosse stato un qualche dubbio sulla vo
lont della nazione capirei che in noi potesse essere stato
scrupolo gravissimo di prendere l'iniziativa. Ma nel fatto chi
ha preso questa iniziativa? Il popolo che gi ha salutato e sa
luta ancora oggi Vittorio Emanuele re d'Italia.
Due sistemi sono aperti ad un governo illuminato e li
657
berale che voglia procedere in armonia colla popolazione. Il
primo: aspettare che l'opinione pubblica si manifesti, e che
eserciti quasi una certa pressione sul governo. Il secondo cer
car d'indovinare le aspirazioni ed i desiderii della nazione ed
in certo modo spingerla avanti. I casi varii possono far ac
cordare la preferenza all'uno od all'altro di questi sistemi ;
non discuter quale sia il migliore, dir soltanto che io ebbi
sempre l'intendimento di seguire il secondo e credo che gli
eventi mi abbiano dato ragione.
Vengo alla seconda osservazione del senatore Pareto. Cre
do che il solo argomento che potrebbe appoggiare la formola
da lui proposta sarebbe quella che nella formola del progetto
di legge si potrebbe ravvisare qualche cosa di feudale. Mi pare
essere questo un sofisma. Il senatore Pareto adduce l'esem
pio della Francia.
Ma dall'altra parte troviamo il popolo inglese, educato a
-
principii di libert, il quale non si trova meno libero perch
la sua regina s'intitola regina della gran Bretagna. Mi si potr
rispondere l'Inghilterrra essere il paese dove hanno massimo
impero le tradizioni; ma al di l dello Atlantico vediamo il
popolo degli Stati Uniti, popolo democratico e senza tradizio
ne, avere a capo del governo un presidente degli Stati Uniti,
n essersi mai pensato a mutar quel titolo in quello di presi
dente degli Americani.
-
Altri motivi e pi gravi fecero che il governo propendesse
ad accettare il titolo di re d'Italia. Ed infatti perch questo
titolo sulle labbra di tutti? Perch eccita tanto entusiasmo?
Perch la consacrazione di un fatto immenso, la consa
crazione della formazione di uno Stato nuovo, dell'esistenza
di un diritto che era insolentemente negato, convien pur dirlo,
da quasi tutti gli uomini politici d'Europa.
Il progetto di legge fu votato da 131 Senatori. 129 fa
vorevoli, contrari solamente 2.
Per molti giorni la Camera dei Deputati fu occupata a
convalidare le elezioni sulle quali insorsero molte difficult e
questioni, e alla verifica dei poteri. Fu eletto a Presidente
della Camera il Commendatore Urbano Rattazzi, e fu questo
un atto altamente politico del Conte di Cavour, che per tal
modo dava uno splendido seggio a colui che comeuomo di Stato
gli era emulo.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
83
658
Finalmente nella tornata dell'11 marzo il Conte di Cavour
presentava alla Camera dei Deputati il medesimo progetto di
legge che aveva prima presentato al Senato. Egli diceva:
Signori,
Ho l'onore di presentare alla Camera dei deputati il qui
unito disegno di legge col quale il re nostro augusto signore
assume per s e suoi successori il titolo di re d'Italia.
La commozione che desta negli animi cotesta proposta,
il plauso onde fu accolta, significa altamente che un gran fatto
si compiuto, e che una nuova era incomincia.
-
una nobile nazione, la quale per colpa di fortuna e per
proprie colpe caduta in basso stato, conculcata e flagellata
per tre secoli da forestiere e domestiche tirannie, si riscuote
finalmente invocando il suo diritto, rinovella s stessa in una
magnanima lotta per dodici anni esercitata, ed afferma s stessa
al cospetto del mondo.
questa nobile nazione, che, serbatasi costante nei lunghi
giorni delle prove, serbatasi prudente nei giorni della prospe
rit insperata, compie oggi l'opera della sua costituzione, si
fa una di reggimenti e d'istituti come gi la rendono la stirpe,
la lingua, la religione, le memorie degli strazii sopportati e
le speranze dell'intero riscatto.
Interpreti del nazionale sentimento, voi gi avete nel
giorno solenne dell'apertura del Parlamento, salutato Vittorio
Emanuele II col nuovo titolo che l'Italia da Torino a Paler
mo gli ha decretato con riconoscente affetto. Ora mestieri
convertire in legge dello Stato quel grido d'entusiasmo.
Il Senato del regno l'ha di gi sancito con unanime voto:
voi, o signori, io ne son certo, lo confermerete colla stessa
concordia di suffragi, affinch il nuovo regno possa presen
tarsi senza maggior indugio nel consesso delle nazioni col glo
rioso nome che gli competea.
Il presidente Zanolini prima di cedere il seggio presidenziale
al commendatore Rattazzi pronunziava il seguente discorso:
Nel cedere questo seggio all'uomo illustre, sul quale cadde
con voto pressoch unanime la vostra libera scelta, sento il
debito di ringraziarvi dell'animo benevole che mi avete dimo
strato, sento il bisogno di salutare con viva gioia questo giorno
desiderato in cui il Parlamento italiano legalmente costi
tuito.
Gi nelle assemblee costituzionali di grandi nazioni si
udirono oratori, per fama, per grado, per alta consanguineit
autorevolissimi esaltare il nostro risorgimento, ribattere stolti
pregiudizii e calunnie scagliate contro di noi dai nemici d'I
talia e di ogni progresso civile, e dimostrare la necessit che
la nazione italiana si consolidi, si fortifichi, si compia, si
glorifichi, riponendo in Roma la capitale del regno. Ed a noi,
rappresentanti di quest'Italia, costretta di attendere che si ve
rificassero i nostri mandati, fu impedito finora di esprimere
i nostri voti, i bisogni, i diritti sacri di un popolo libero.
Ora non vi incresca che, sciolto dai vincoli che m'im
poneva il temporaneo ufficio, io sia primo a rompere questo
silenzio involontario.
Di provincie divise da secoli e rivali fra loro si di vo
lere concorde formato un regno di ventidue milioni ed stata
opera di pochi mesi.
-
L'Italia nostra, e sono pur nostre quelle parti d'Italia
sventuratamente tuttora distaccate dal regno. Non vi ha chi
ignori, chi in buona fede ponga in dubbio i confini naturali
e la citt capitale d'Italia.
Roma, citt illustre per le vestigia di sue grandezze an
tiche, metropoli del mondo cattolico, la pi gloriosa nella
storia dei popoli, ora ridotta a farsi centro dei nemici d'Italia,
ricovera sgherri e masnadieri, che mandano a ruba ed a sacco
quelle popolazioni infelici; ed assolda, sotto pretesto di di
fendere la religione di Cristo orde raccogliticce in divisa di
mussulmani.
Roma essenziale all'Italia; ma debb'essere la capitale
di un gran regno non di un piccolo dominio. La missione del
Pontefice nobilissima, suprema la dignit, ma la sua sovra
nit temporale una delle pi meschine grandezze di questa
terra, che lo rende soggetto a questo od a quel monarca pi
potente di lui, e gli fa disconoscere l'altezza della sua missione.
Senza la sovranit temporale il capo supremo dei Cattolici
sar superiore a tutti, soggetto a nessuno.
Si sciolga una volta e per sempre il mostruoso connubio
del pastorale e della spada, che rec lagrimevoli danni alla
660
religione cattolica, che al tempo dei nostri padri tenne accese,
per appagare i mondani appetiti dei chierici, discordie fra
terne fra citt e provincie d'Italia, e fino ai nostri giorni ci
strinse e ribad le catene straniere.
Poniamo fede, signori, nei destini d'Italia e nella giustizia
della nostra causa. Non si pu a lungo tollerare che dei figli
di una stessa patria, i pi siano liberi, altri schiavi dello stra
niero. L'Italia una e forte garanzia di pace all'Europa.
Ma se converr ricorrere alle armi, tutta la giovent italiana
le impugner con lieto animo per accorrere, seguendo i nostri
eserciti non a conflitto civile, ma a giusta guerra contro l'op
pressore straniero. L nella sua Caprera sta attendendo quel
l'ora colla mano sull'elsa l'ardito e invitto Capitano.
La vecchiezza, prossima al suo fine, impaziente d'in
dugi; ma una lunga esperienza insegna che non si distrugge
in brev ora l'opera di molti secoli, che da saggio l'adope
rarsi nell'assodare, nell'ordinare, nell'afforzare l'acquisto prima
di mettersi a nuove imprese; che a bene riuscire scopo
s'accompagni la prudenza all'ardire.
Rammentate le parole onorevoli che dianzi vi indirizzava
il re: L'Italia confida nella virt e nella sapienza vostra.
Frattanto diasi al regno appropriato e stabile ordinamento,
savie leggi, ed, avanti tutto, quella forza d'armi che si pu
maggiore, ed io porto ferma speranza, che mi sar concesso,
nonostante la grave et, non solo di assistere alla riunione di
questo parlamento Italiano sulle venerande alture del Campi
doglio, ma ben anco di stringere la mano ai fratelli redenti
della Venezia, e di rendere loro i segni di affetto, che m'ebbi
l sulla laguna, allorch fui tratto da quelle prigioni ad un
esilio di oltre tre lustri.
Ora lasciate pur anco che primo pel privilegio dell'et,
io muova il fausto grido da noi tutti a gran pena rattenuto
finora:
Viva Vittorio Emanuele II re d'Italia .
Vivi e generali applausi coronarono questo discorso di
Zanolini; tanto pi che allontanandosi dalle maniere ordinarie
parlamentari, aveva detto con zelo e con entusiasmo degni
della circostanza singolare, e delle grandi idee e principii e
fatti dei quali la Camera stessa doveva occuparsi.
Il commendatore Rattazzi dopo aver fatte le sue felicita
661
zioni al Zanolini, e dopo averlo abbracciato and ad occupare
il seggio della presidenza; indi disse:
Presiedere al lavoro legislativo di questo nobile consesso
eletto dal suffragio di ventidue milioni di cittadini, che dalle
falde dell'alpi si estendono sino agli estremi lidi della ferace
Sicilia, ufficio che oltrapassa di gran lunga la misura delle
mie forze.
Conscio della mia pochezza, non s vedere nell'onore che
mi venne da voi conferito, altro che testimonianza d'affetto
all'antica Camera subalpina, la quale sostenne per dieci e
pi anni con ogni sorta di sagrifizio il governo del re nelle
tre grandi guerre intraprese per l'indipendenza nazionale.
Il principe ed il popolo camminarono di conserva ispiran
dosi l'uno e l'altro a quel sentimento, da cui cotanta vita si
diffonde nelle pi belle pagini della nostra letteratura e della
nostra storia.
Gli per questo che tutta Italia, prima ancora che si unisse
in un solo Parlamento, e sotto lo scettro del valoroso e leale
monarca che ci regge, era gi una negli animi, negli intendi
menti e nei voleri. Al plebiscito dell'urna precedette quello
dei cuori: il primo non fu che la parola sensibile con cui ma
nifestavasi all'Europa il voto interno che l'esilio, i dolori, la
dignit conculcata, l'indipendenza della patria manomessa ave
vano maturato nell'animo di tutti.
Al ristauro della nostra nazionalit concorsero con mera
vigliosa armonia gl'intelletti e le forze tutte della penisola.
Da Goito a Marsala il soldato ed il volontario mandarono un
solo grido, levarono una sola bandiera. E questa possiamo
dirlo non fu oscurata da macchia, non contaminata da quei
disordini e da quelle vendette, che spesso accompagnano i
repentini rivolgimenti.
Poche nazioni seppero superare tanti ostacoli, e passare
per tante peripezie senza che venissero menomamente turbati
i grandi principii sui quali poggia l'ordine pubblico.
Questo fatto venne test rammentato con parole di lode
dalla tribuna della liberalissima Inghilterra, e da quella del se
nato francese negli splendidi discorsi che col si pronunzia
rono in nostro favore, e specialmente quello dell'illustre prin
cipe che, legato all'Italia da vincoli di sangue, dimostrasi cos
franco propugnatore della sua unit, e cos giusto estimatore
delle nostre condizioni politiche.
652
Il sacro diritto, che cos a noi come a tutti i popoli
della terra compete, di rivendicare la loro indipendenza riport
pure, non ha guari, una segnalata vittoria nell'assemblea di
Berlino rappresentante anch'essa le generose aspirazioni della
nazionalit germanica.
Il riconoscimento del nostro diritto per parte dell'opinione
-
pubblica d'Europa uno di quei fatti, che prenunziano pros
simo il termine delle dolorose vicissitudini cui va da tanti
anni soggetta la nostra patria, e per cui fu condannata sino
ad ora a vivere vita misera, inoperosa, senza coscienza di s,
fatta ludibrio e scherno de' suoi oppressori.
Il tratto di via che ancora ci separa dalla meta ingom
bro da ostacoli di varia natura. Le due citt pi grandi, pi
potenti, pel passato, pi italiane, se cos posso esprimermi, di
tutte le altre della penisola, rimangono ancora fuori della cer
chia della monarchia nazionale. Noi non possiamo non rivol
gere a quelle i nostri desiderii, certi quali siamo, che la gran
legge dell'attrazione morale, a cui obbedisce il nostro moto,
sortir per quelle gli stessi benefici effetti, che gi sorti per
tutte le altre, e che fanno ora parte del nazionale consorzio.
Questa Assemblea chiamata ad ordinare la monarchia ed
a continuare l'opera nazionale non poteva trarre auspici di
pi lieto incominciamento che dalla presa dell'ultimo baluardo
della reazione e del dispotismo. L'assedio di Gaeta porse oc
casione al valoroso nostro esercito ed alla nostra artiglieria
di aggiungere nuovo lustro alle glorie gi acquistate, e di
porre fine ad una guerra provocata dai mali portamenti di
un governo resosi inviso per le sue arti di corruzione e per
l'offesa fatta al sentimento nazionale.
E furono queste le vere cagioni per cui mossero contro
quelle, da tutte le terre d'Italia coraggiosi giovani animati dal
l'amore di far grande e libera la patria e dalla fiducia ri
posta nell'illustre loro capo, di cui mal sappiamo se pi debba
lodarsi in lui o la fede costante nella libert, o l'affetto straor
dinario per l'Italia, o la devozione cavalleresca al pi caval
leresco dei principi.
Il moto popolare dell'Italia meridionale non vuol essere
giudicato col diritto sanzionato dai trattati, ma con quello
che trae la sua forza dalla coscienza pubblica, e dal senti
mento patrio, il quale al di sopra di tutti i trattati e di tutte
le esigenze diplomatiche.
665
L'Inghilterra, la Francia, la Spagna, il Belgio, la Grecia e
l'America obbedirono nei loro moti nazionali, alla stessa legge
e seguirono gli stessi principii. La lotta per l'indipendenza
nazionale antica tanto nel nuovo quanto nel vecchio mondo.
E se tristi avvenimenti c'impedirono di tentarla prima, e se
tentata l'attraversarono, non fecero e non faranno che, ripresa
pi e pi volte con tenacit di volere e con concordia di
proponimento, non sia per condursi a compimento.
Il lavoro legislativo, cui siamo per porre mano, avr appunto
per iscopo di raffermare i legami che corrono fra le nuove
e le vecchie provincie, di rassodare gli ordini di tutto lo Stato,
di moltiplicare i mezzi che si richiedono al conseguimento
dell'assunto nazionale. La variet delle nostre tradizioni, dei
nostri costumi, delle nostre condizioni economiche trover
nella sapienza e nella larghezza dei nostri provvedimenti legi
slativi quegli equi componimenti che l'indole speciale della pe.
nisola comporta.
questa l'opera grande e difficile intorno alla quale do
vremo travagliarci se vogliamo dare forma esteriore e sensibile
alla personalit nazionale dell'Italia.
Lo scioglimento di un tanto problema, mentre agevoler
il cmpito della nostra indipendenza, coroner altres la lunga
e faticosa opera della nostra restaurazione. Cos l'Italia potr
finalmente affermare s stessa al cospetto d'Europa nell'unit
della Monarchia e del Parlamento.
Nell'atto che prendo possesso del seggio di Presidenza credo
di essere interprete della Camera facendo vivissimi e distinti
ringraziamenti al signor presidente decano ed all'intero ufficio
provvisorio per l'opera da loro con tanto senno e con tanto
zelo prestata nella verificazione dei poteri .
Dopo questo discorso, il Presidente del Consiglio present
la proposta di legge, da noi di sopra riportata e propose che
la Camera dasse tosto opera all'esame di quel progetto. Pro
pose altres che la Presidenza nominasse chi doveva redigere
il progetto di allocuzione in risposta al discorso della Corona.
Gli eletti a questo lavoro furono Ricasoli Bettino, Cipriani,
Paternostro, Pepoli Gioachino, Giorgini, Maccio, Audinot, Na
toli, Baracco.
Ecco intanto la relazione della Commissione sul progetto
di legge mediante il quale Vittorio Emanuele assume per s
664
e suoi successori il titolo di re
d'Italia,
e che fu letta alla Ca
mera dal relatore Giorgini.
Signori !
La commissione incaricata di riferire sul progetto di
legge, per cui il re Vittorio Emanuele II assume il titolo di
re d'Italia, ha bisogno appena d'avvertire come questa legge,
tanto per il suo oggetto, quanto per la sua importanza, non
abbia nulla di comune con quelle sulle quali noi siamo d'or
dinario chiamati a deliberare. Dal punto di vista costituzionale
ella potrebbe credersi fors'anche superflua. I titoli del re
Vittorio Emanuele alla corona d'Italia sono scritti in dodici
anni di prodezza, di fede, di costanza. Questi titoli furono rico
nosciuti da migliaia di volontarii riuniti intorno al glorioso ves
sillo ch' egli aveva raccolto dalla polvere di Novara, per innal
zarlo al sole di Palestro e di S. Martino; riconosciuti dalle
cento citt che sotto gli occhi stessi dei loro tremanti oppres
sori piantavano sulle loro torri questo glorioso vessillo; rico
nosciuti, validati, sanciti dal suffragio unanime della nazione.
Il diritto di Vittorio Emanuele II al regno d'Italia emana dunque
dal potere costituente della nazione; egli vi regna in virt di
quegli stessi plebisciti ai quali si deve la formazione del regno
d'Italia.
Il voto che il governo ci chiede non dunque un atto
nuovo destinato a produrre tale o tale altro effetto giuridico ;
la ripetizione, o, per dir meglio, il riassunto finale, il com
pendio magnifico di tutti gli atti, mediante i quali il popolo
italiano ha in tanti modi e in tante occasioni manifestata la
sua volont; e, per dirlo colle parole della relazione che pre
cede il progetto di legge, un'affermazione solenne del diritto
nazionale, un grido d'entusiasmo convertito in legge.
Ma la significazione e il valore morale del voto non dispen
savano la Camera dall'obbligo di considerare le pratiche con
seguenze che per avventura avrebbero potuto derivarne.
Parve anzi alla maggioranza degli uffizii che, se questo grido
d'entusiasmo dovesse essere nel tempo stesso la formola uf
ficiale per l'intestazione degli atti, questa formola non avrebbe
in tutto corrisposto all'essenza vera della monarchia rinno
vellata dal suffragio universale.
665
Ora un tale scopo, al quale mirava la maggioranza, poteva
essere conseguito sia coll'emendare la legge proposta dal go
verno, sia col provvedere per mezzo d'una legge speciale e
successiva.
Gli uffizii non esitarono a pronunziarsi per questo secondo
partito.
Prima di tutto doveva considerarsi per la legge, ehe per la
forma sotto la quale era stata proposta, aveva gi ottenuto
l'approvazione del senato. Emendata da noi, avrebbe dovuto
essere di nuovo sottoposta alle deliberazioni di quell' assem
blea. Sarebbe stato doloroso che un atto politico di tanta im
portanza, aspettato con un'impazienza cos viva e cos con
fidente dall' intera nazione, si trovasse ritardato. Il secondo
partito aveva inoltre il vantaggio di separare appunto le que
stioni secondarie, sulle quali si possono avere opinioni diverse,
del grande atto politico, la grandezza e l'efficacia del quale
starebbe tutta nella prontezza e nell'unanimit dei suffragi.
Ritenuto dunque che non dovesse pi a lungo differirsi,
n subordinarsi a tutti gl'incidenti di una questione parla
mentaria, il primo e solenne atto al quale l'Italia vuole af
fermare s stessa al cospetto del mondo, la commissione non
aveva che a proporvi, da una parte l'approvazione pura e
semplice della legge colla quale il re Vittorio Emanuele II
assume il titolo di re d'Italia, e assicurarsi dall'altra che il
suo governo ci avrebbe, senza indugio, presentato la propo
sta di legge, diretta a mettere negli atti publici l'intitolazione
del re, in armonia col diritto pubblico del regno.
E sebbene l'impegno formale preso dal governo del re
nella discussione di questa medesima legge che ebbe luogo
in senato, bastasse ad escludere ogni dubbio a questo ri
guardo, tuttavia la commissione desider interpellare il pre
sidente del consiglio, che recatosi nel suo seno, conferm e
ripet le dichiarazioni gi fatte nell'altra Camera dal suo col
lega il ministro della giustizia, aggiungendo di pi, come il
solo motivo che aveva finora trattenuto il governo dal presen
tare la proposta di legge sull'intestazione degli atti pubblici,
fosse stato un sentimento di rispetto verso la Camera elettiva,
che non s' anche pronunciata su questa prima legge, della
quale, quella seconda non sarebbe che la conseguenza ed il
compimento.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
84
666
Le questioni che furono sollevate negli uffizii in ordine
alla intestazione degli atti pubblici sono tal modo riservate
alla discussione, che avr luogo quando ci sia presentata la
legge relativa.
Il voto che oggi ci si chiede conserva dunque il carat
tere puramente nazionale che il governo ha voluto dargli, e
la Commissione unanime confida
che sar
veramente
un
grido d'entusiasmo convertito in legge.
Ci sono delle oasi nei deserti della storia; ci sono nella
vita delle nazioni dei momenti solenni, che potrebbero chia
marsi la poesia della storia; momenti di trionfo e d'ebbrezza,
nei quali l'anima, assorta nel presente, si chiude ai ramma
richi del passato come alle preoccupazioni dell'avvenire.
Noi traversiamo una di quelle oasi, noi siamo in uno
di quei momenti, e come mai in tali momenti si sarebbe in
vano fatto appello all'entusiasmo della Camera? Come mai il
nostro voto non sarebbe oggi immediato ed unanime? Quale
tra i sentimenti che ci animano potrebbe essere pi forte di
quello che ci riunisce tutti l'amore d'Italia?
Rendiamoci una volta giustizia! Quanti qui convenuti dalle
varie parti d'Italia vediamo su questi scanni, quanti sediamo
sui banchi di questa Camera, tutti abbiamo diversamente la
vorato per la medesima causa: tutti abbiamo portato la no
stra pietra al grande edifizio, sotto il quale riposeranno le
future generazioni. Qui i volontari di Calatafimi potrebbero
mostrarci sul petto le gloriose cicatrici; qui i prigionieri di
S. Elmo, intorno ai polsi, il callo della pesante catena; qui
colle canizie, colle rughe precoci, oratori, scrittori, apostoli di
quella fede che fece i soldati ed i martiri; qui i generali che
vinsero le nostre battaglie, qui gli uomini di Stato che gover
navano le nostre politiche; di qui parta unanime adunque
quel grido d'entusiasmo ! Qui finalmente l'aspettata fra le na
zioni si levino e dicano: Io sono l'Italia l
GioRGINI relatore.
Nella seduta del 13 marzo il deputato Farini leggeva il
progetto di allocuzione in risposta al discorso della Corona.
Quel progetto diceva:
667
Sire!
Rappresentanti della nazione libera ed unita quasi tutta
noi ci confidiamo nel vostro animo di re italiano e di valoroso
soldato.
Voi sapete che il nostro pensiero si volge tutto pietoso
alla desolata Venezia, e che l'Italia affannosa aspira alla sua
Roma. Le vittorie degli eserciti di terra e di mare, le gesta
dei volontarii condotti da un maraviglioso capitano, le virt
militari delle guardie nazionali hanno ravvivata negli Italiani
la confidenza nelle proprie forze. Ma n questi sentimenti,
ni favori della buona fortuna tolgano pregio ai consigli della
prudenza: sar ristaurata la riputazione col senno, come
quella del valore italiano. Timidi consigli non pu temere
l' Italia da un re, che per la sua libert ha saputo porre a
cimento vita e corona.
L' imperatore Napoleone e la Francia non indarno fanno
a sicurt colla nostra riconoscenza. Quasi nuovo beneficio
scese ne' nostri cuori a passati giorni la franca parola del
principe imperiale, unito a voi per vincoli di sangue ed al
l' Italia per antico affetto.
All'amicizia dell'Inghilterra, fondata nel comune amore
della libert, andiamo grati dei morali aiuti che sono potenti
nelle battaglie della civilt.
Agli ufficii di onoranza degnamente resi per voi al nuovo
re di Prussia, ed alle testimonianze di simpatia verso la no
bile nazione germanica, aggiungiamo una parola grata pel voto
parlamentare propizio all'unit d' Italia.
Questa unit, nella quale sola l'Italia pu trovare stabile
assetto, la Chiesa vera indipendenza, l' Europa naturale equi
librio, questa unit politica, o Sire, sar da noi gelosamente
tutelata nell' opera legislativa, alla quale ci poniamo. Fautori
di ogni maggiore libert amministrativa, ci guarderemo da
tutti i pericoli delle discordie, da tutte le tentazioni delle bo
rie municipali.
Sar lieve ai popoli italiani ogni carica che abbia per
fine di accrescere gli armamenti, come fu caro ai generosi
subalpini il sopportarne tanti per preparare l'impresa che ora
mai si compie.
668
Sire,
Nell'anniversario della vostra nascita i suffragi di tutto
un popolo pongono sul vostro capo benedetto dalla Provvi
denza la corona d'Italia. Questo degno premio hanno la for
tezza degli avi vostri, il sagrificio del padre, la fede che voi,
unico fra gli antichi reggitori d'Italia, avrete tenuto alla causa
della libert e del diritto popolare .
Quest'allocuzione fu molto applaudita ed approvata senza
discussione alcuna, perciocch il parlamento erasi determinato
di non agitare in questa occasione nessuna delle grandi que
stioni politiche.
Crediamo utile alla storia dire quanto intorno a questo
grande avvenimento del regno italiano dicessero alla Camera
i pi eloquenti oratori del partito democratico.
Il giorno 14 marzo, dopo che Giorgini, relatore della
Giunta, lesse dalla ringhiera la sua relazione, sorse l'avvocato
Brofferio, e parl in questi sensi:
L' Italia sorta libera. Onore al popolo che seppe tor
nare sovrano e al re che sostenne e difese ventidue milioni
d' Italiani. Caduta Roma, non vi fu giorno pi bello per l'Ita
lia, esultiamone tutti senza studio di parti. Tutti, colla penna
o la spada, tutti contribuirono a questo maraviglioso risorgi
mento. Ma la gioia presente non ci dee far dimenticare il
passato, i secoli di lagrime e di condanna. Per otto secoli ci
volle tutto il valore e l'ingegno : Dante, Petrarca, Macchia
velli, Foscolo, Alfieri, Dante da Castiglione, Pagano, Pisacane,
e il pi grande di tutti Giuseppe Garibaldi.
L'Italia ora non di un re conquistatore, ma d'un re
galantuomo, e la pi bella corona la sua. Cos rispondiamo
a tutti i Dupanloup, a Laroche Jacquelein e agli altri avvo
cati del servaggio. La creazione di un libero regno risponde
alle imprecazioni straniere. Era lieve cosa dar ragione al voto
universale del popolo. Ma il ministero prese un'iniziativa che
non gli spettava. Quando si tratta della persona del capo
della nazione, essa spetta al parlamento. Il primo a procla
mar Vittorio Emanuele re d'Italia fu il grande agitatore delle
Due Sicilie. Ma se si voleva che il plebiscito avesse compi
660
mento nel parlamento, dovevasi non dar una corona, ma ap
provare l'offerta fatta della corona. Re d'Italia furono i Goti,
i Longobardi ed Eugenio Beauharnais. Non ci faremmo che
loro imitatori; ma non vogliamo seguire quelle tradizioni. Il
nuovo regno d'Italia non sar solo un aggregato di nuove
provincie, ma comprender tutta la nazione, e porta con s il
diritto del popolo. Si deve creare ora il diritto di legittimit
di questo re.
Nel Senato si proponeva una Giunta che il re si dicesse
tale per divina Provvidenza e volont del popolo. Io non
voglio assegnare una parte obbligata alla divina Provvidenza.
Essa entra in ogni atto umano, e non facciamo pleonasmi, non
pronunciamo il nome di Dio invano. Sopra frasi di questo
genere si fond il funesto diritto divino, e i re per grazia di
Dio furono sovente per disgrazia dei popoli. Ma dichiarisi che
il re d'Italia si proclama per sentimento della sovranit nazio
nale. Qual legittimit pi naturale? Quella della nascita
l'idolatria del caso; quella dei trattati ne fa ricordare i lupi
che regolano la sorte degli agnelli.
V ha un'altra questione che sembra di parole sole e
non . La nostra dinastia fu gloriosissima, ma conquistatrice.
L'Italia ora crea un re non conquistatore. Col dire Vittorio
Emanuele II non si ha a seguitarne le tradizioni conquistatrici.
Si disse che il nostro re portava gi quel titolo a Palestro e
a San Martino, e quando compiangeva i mali d'Italia. Vi
sottometter per una proposta di conciliazione, la quale, spe
riamo, sar accolta favorevolmente.
Si disse che la questione si tratter in altra legge, sulla
intestazione delle leggi. Io ho fede nelle solenni promesse del
governo; ma gli ordini del giorno si sa quanto valgono. Senza
che, si dee creare il diritto politico fondamentale, e questo
non pu aver luogo in una legge accessoria. Facendolo ora,
la significazione sar ben diversa. Alla mia proposta premetto
tre cose: 1. che essa tende a togliere l'iniziativa al governo
e recarla al parlamento; 2. a conciliare la diversit delle de
nominazioni; 3. a dar fondamento al nuovo diritto italiano.
Quindi propongo di surrogare all'articolo queste parole:
Vittorio Emanuele II proclamato dal popolo italiano per s e
suoi successori primo re d'Italia.
In questo modo consacrato il diritto nazionale, e si
concilia tutto; speriamo di veder accolta la nostra proposta.
670
In ogni caso deporremo il nostro voto accanto al vostro. Ve
diamo con gioia sorgere i popoli, e fra tutti l'eroica Polonia,
che nuovamente vuol esser nazione. Voglia Iddio che questa
nostra antica sorella d' infortunio sia pur nostra sorella nel
risorgimento. Sar il pi bel giorno quello in cui potremo
stringere la mano ai fratelli di Venezia e di Roma .
Il conte di Cavour rispose che Brofferio non poteva pro
porre un nuovo progetto, che egli poteva proporre una mo
dificazione, ma la Camera non si associerebbe alle sue censure
per avere il ministero presa l'iniziativa. Il conte di Cavour
aggiungeva: ll popolo prese gran parte, ma negli ultimi avve
nimenti l'iniziativa fu presa dal sovrano; al congresso di Pa
rigi il governo prese l'iniziativa per l'Italia, si ispir del sen
timento, dei voti e diritti della nazione, e primo li proclam in
Europa. A questa politica in gran parte dovuta la salvezza
d'Italia. Il governo fece un grand'atto nell'assumere l'ini
ziativa in queste emergenze. La proposta fu accolta con vera
gioia in tutta Italia, e crediamo che anche i nostri oppositori
risponderanno in cuor loro favorevolmente.
Indi il medesimo presidente del Consiglio con entusiasmo
disse:
Il fatto che state per compiere uno dei pi grandi atti
della storia, la risurrezione di un popolo che credevasi mor
to. Importa assai che questo voto si compia con tutta la so
lennit possibile, e non era inopportuno che l'iniziativa venisse
presa dal governo. Cos non pareva il risultato di momentaneo
entusiasmo, di passione popolare, ma di matura saviezza e de
rivata da chi rappresenta i principii conservativi. Perci cre
detti cosa utile ed opportuna che la iniziativa venisse dal go
verno. Esso non vi fu spinto da puerile vanit; le sue azioni
lo assolveranno da tale imputazione.
Non seguir l'onorevole oratore nella sua proposta. Ri
peto alla Camera, che le questioni sollevate saranno riservate,
e fra pochi giorni vi saranno occasioni di discuterle con am
piezza e maggior libert. Io faccio cos la parte bella all'avvo
cato Brofferio, perch non sar combattuto da coloro che de
siderano anzitutto l'unanimit in cotesta occasione. Mi rivolgo
con fiducia a lui, e a nome della concordia e nell'interesse
671
stesso delle questioni, da lui sollevate, lo prego di rimandare
a tempo migliore la proposta.
Non tema che il tempo sia troppo lontano, perch il mio
norevole collega, il guardasigilli, presenter una proposta di
legge nella prossima settimana. Ora l'acclamazione sia la pi
potente risposta a nemici dell'Italia .
A questo discorso Brofferio rispondeva:
Ogni discussione troppo politica sarebbe oggi inopportu
na: ritiro la mia proposta .
Il deputato Ricciardi leggeva indi un discorso col quale di
ceva che avrebbe preferito si armasse l'Italia, si differisse
la legge al gran giorno in cui si sarebbero liberate Roma e
Venezia. Allora, diceva egli, acclamerei volontieri Vittorio
Emanuele re dell'Italia indivisibile.
Finalmente il deputato Bixio, il primo ufficiale garibaldino,
prese la parola e disse:
Domando di chiarire le mie intenzioni. Voglio parlare
sopra ogni considerazione di partito; non son venuto per far
opposizione al ministero; e non sono diplomatico, n futuro
ministro. Tuttavia combatter il governo quando creder, per
aver diritto di sostenerlo. Sono alla sinistra, perci voglio an
dare avanti; e se il governo dice facciamo la guerra oggi
dir facciamola adesso . Il governo fece male a togliere
questo fatto all'iniziativa parlamentare. Non vi via di mezzo,
tutto quello che nostro ce l'han da dare, non c' rimedio.
Se siamo riconoscenti alla Francia, anche la Francia deve
molto a noi. Noi siamo il solo popolo che non l'abbia tradita.
Se l'Italia fatta, vi sono per grandi difficolt che il parla
mento potrebbe diminuire. Gl' Italiani hanno ereditato lo
istinto di lottare contro i governi, e non a credere che que
sto cessi subito. Il governo avr ancora a lottare, noi lo so
sterremo: ma se vi fosse un mezzo continuo di rifugio alle la
gnanze, sarebbe bene. Si avrebbe dovuto dare la massima in
fluenza al parlamento come in Inghilterra. A Genova ora si
potrebbe mandare l'esercito a Pechino senza timore che si
turbi la tranquillit, perch il bisogno del governo si ora
672
sentito. Mi riservo poi a combattere il principio della legge,
quando si tratter dell'intestazione delle leggi .
Finalmente fu votata la legge. Due cento novantaquattro era
no i votanti, e duecento novantaquattro furono i voti favorevoli.
Vivi applausi coronarono la votazione, quella votazione che
dopo secoli di sventure e di umiliazioni sanzionava in faccia
all'Europa l'esistenza del regno d'Italia.
La Gazzetta Ufficiale pubblicava indi questo decreto:
VITTORIO EMANUELE II.
-
Re di Sardegna, di Cipro, di Gerusalemme, ecc. ecc.
Il senato e la Camera dei Deputati hanno approvato,
Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:
ARTICOLO
UNICO.
Il re Vittorio Emanuele II assume per s e suoi successori
il titolo di re d'Italia.
Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato,
sia inserita nella raccolta degli atti del governo, mandando a
chiunque spetti, di osservarlo e di farla osservare come legge
dello Stato.
Dato a Torino addi 17 maggio 1861.
VITTORIO EMANUELE.
C. Cavour. M. Minghetti. G. B. Cassinis. S. F.
Pegezzi. M. Fanti. T. Mamiani. T. Corsi. U.
Peruzzi.
Nella tornata del 18 marzo, il ministro di grazia e giustizia
presentava al senato il progetto di legge sull'intestazione degli
atti del governo, facendolo precedere dai motivi che lo det
tarono. Diceva:
675
Vittorio Emanuele II ha assunto il titolo di re d'Italia,
attestando cos in faccia al mondo la ricomposta unit nazio
nale, sospiro di tanti secoli, frutto di tanti magnanimi sforzi
e sagrificii.
La legge che ha consacrato questo grande fatto, gi fu
salutata dagli applausi concordi di tutti gl'Italiani, i quali ri
conoscono in essa la guarentigia dei riconquistati diritti e
l'arra delle maggiori speranze.
Rimane ora che il governo del re soddisfaccia agli im
pegni assunti primieramente da me, quando fu in quest'aula
discussa l'anzidetta legge, e rinnovata dal presidente del Con
siglio dinanzi alla Camera elettiva, ed a quella dava compimento
con la proposta di altra legge, intesa a porre negli atti pub
blici l'intestazione del re in armonia col nuovo diritto pubblico
del regno.
A ci provvede lo schema di legge che, avutane dal re
facolt, ho l'onore di presentare alle vostre deliberazioni.
La formola proposta in questo unico articolo intende
esprimere nella sua prima parte che la monarchia italiana
prende luogo accanto alle altre e vi rivendica gli stessi diritti,
e proclama al par di loro la medesima e indipendente sovra
nit sua in tutti gli atti dimandati dalla sua autorit.
infatti noto come la formola per la grazia di Dio sia
stata introdotta dalle prime origini delle Monarchie moderne,
ma usata da quei principi soltanto che non sottostavano ad
alcun vassallaggio, esercitando un potere non tanto personale,
quanto sociale.
Conservata dalle tradizioni, essa fu la formola non pure
adottata dai pi potenti Sovrani d'Europa, ma ovunque altres
la potest sovrana fosse esercitata col concorso della volont
nazionale.
Noi non presumiamo di repudiare tutta la eredit del pas
sato, n di separarci dalle consuetudini pi generalmente se
guite dalle altre genti civili, n disdice il comporci agli esempi
di quelle contrade in cui si operano grandi e durevoli muta
menti, conservate pur tuttavia le traccie delle antiche istitu
Z10Ill.
N dallo ammettere tale formola dovrebbe rattenerci, o
signori, il pensiero dello abuso che fatto ne abbia qualche
sostenitore delle viete massime del diritto divino; remota essa
da questa nella sua genuina espressione, altro senso racchiude
toria della rivol. Sicil. Vol. II.
85
674
vero e profondo, ed l'augusto concetto della giustizia e della
verit riassunte nell'invocazione della Maest divina, che si
imprime con questa semplice formola negli atti solenni della
vita pubblica e civile.
-
Con la seconda parte della proposta formola si divis
di esprimere il principio giuridico della Monarchia Italiana, il
quale non e non pu essere altro che la volont nazionale.
Questo principio ottenne le sanzione pi splendida nelle
votazioni che si avvicendarono in vari punti della penisola;
esso inviscerato nei sentimenti reciproci che tra di loro
congiungono il principe e la nazione, e, tenuto in tal guisa
ognora presente alla nazione ed al re, rimarr segno dell'u
nione indissolubile che ne accomuna i diritti, i doveri e le
sorti.
Voi troverete, o signori, nella vostra devozione al re ed
alla patria, nei vostri italiani sensi, il vivo impulso ad acco
gliere favorevolmente questa proposta di legge:
ARTICOLO UNICo.
Gli atti del governo ed ogni altro atto che debba essere
intitolato in nome del re sar intitolato colla formola seguente:
Vittorio Emanuele II per grazia di Dio e per volont
della nazione, re d'Italia.
Questa formola avrebbe di certo suscitate gravi questioni se
il ministero non fosse stato molto destro nel cogliere il mo
mento favorevole a farla approvare.
Infatti, come di sopra abbiamo veduto, lo stesso Brofferio
alla Camera dei Deputati aveva ritirata la sua mozione per
amore della concordia e per non suscitare gravi questioni di
politica in momenti di entusiasmo e nei quali tutta Europa
guardava a ci che gli Italiani sapessero fare nel primo grande
parlamento italiano.
Ma ove la questione si consideri proprio in s stessa egli
un fatto che il governo non volevasi discostare dalla for
mula antica n intendeva sottrarre le parole per grazia di Dio.
Tutto l'interesse consisteva, secondo l'opinione dei ministri,
a non fare vedere in tutta la sua grandezza l'opera della ri
voluzione, gli effetti della volont popolare, tutta l'importanza
dei voti di una nazione.
675
Eppure Vittorio Emanuele non era divenuto re d'Italia che
per voto nazionale, per opera della rivoluzione e della guerra.
Nella grande epoca del risorgimento, delle innovazioni,
della riforma sociale in cui la libera penna dei pubblicisti aveva
spinti avanti di molto i diritti del popolo, e dimostrata e san
zionata la sovranit popolare, i governi non potevano difen
dere e sostenere i diritti dinastici che rifuggiandosi sotto le
ali della grazia di Dio, perch nell'avvenire la rivoluzione non
avesse il diritto di eleggersi nuovi re e cangiare affatto la for
ma del governo. Sul quale pensiero ci piace notare che la ri
voluzione quand'ella scoppia non guarda n a diritti n a
trattati n a pretensioni di sorta; e se essa aveva potuto cac
ciare in esilio tanti principi italiani che si chiamavano per
grazia di Dio, lo stesso avrebbe potuto fare verso Vittorio
Emanuele ove per avventura il suo governo avesse preso tal
falso indirizzo da provocare una rivoluzione.
Da questo si vede come i gabinetti mentre profittavano av
vantaggiandosi della rivoluzione, da altra parte intendevano
svigorire la rivoluzione, della quale tremavano anch' essi.
Non nuovo che i governi agiscano in maniere si ambi
gue ed equivoche; che anzi la storia dei gabinetti storia di
contraddizioni. Ma finalmente vengono tempi in cui non dato
a nessuno illudersi sulla ignoranza o dabbenaggine dei po
poli.
Nella tornata del 23 marzo, il relatore Matteucci presentava
al senato pel progetto di legge la seguente relazione dietro
alla quale venne approvato il testo ad unanimit.
Signori Senatori !
Il primo pensiero della legge di cui il sig. Ministro di
grazia e giustizia presentava il progetto al senato nella tornata
del 18 marzo 1861, nasceva nel seno dell'ufficio centrale da
voi incaricato di riferire sulla legge, per cui S. M. il re Vit
torio Emanuele ha assunto il titolo di re d'Italia.
Fu creduto in quell'occasione che un disegno speciale di
legge intesa a porre la intitolazione degli atti pubblici in ar
monia col nuovo diritto pubblico del regno, sarebbe stato pi
conveniente di quello che aggiungere un 2. articolo che avreb
be diminuita in qualche modo la semplicit di quella prima
676
legge, e non lasciato dominare interamente il grande fatto
che essa esprime.
Il governo assunse perci dinanzi al Parlamento l'impe
gno di dar compimento alla prima legge con quel progetto
speciale, che ora sottoposto alla sanzione vostra.
In tutti i tempi e in tutti i grandi Stati, l'intitolazione
delle leggi e degli atti del governo consiste in una formola,
la quale riassume il principio della sovranit da cui quelle
leggi e quegli atti emanano, e che una specie di sanzione
morale, che, secondo le origini diverse dei principati, pre
messa per ricordare la sorgente legittima del potere legislativo
6 SOVI'aIl 0.
Naturalmente la formola per la grazia di Dio la prima
che s'incontra, risalendo colla storia all'origine delle pi grandi
Monarchie moderne, costituite in una propria ed assoluta au
tonomia. In Dio vi il principio e la ragione di ogni auto
rit sopra la terra, e quella autorit umana che da Dio po
tesse dirsi derivata, sarebbe necessariamente buona, giusta,
perfetta, e porterebbe quindi in s il carattere assoluto della
legittimit ed il pieno diritto ad essere ubbidita.
Pur troppo con quella formola s'intitolarono i principi e
i governi i pi assoluti, e i pi contrarii al bene dei loro po
poli. Sicch venne il giorno in cui per il progresso della ci
vilt e della ragione fu dimostrato che la grazia di Dio, come
fonte di bont e di giustizia, non poteva umanamente ricono
scersi se non in quei principi e in quei governi nei quali la
sovranit era stata esplicitamente e tacitamente fondata od ac
cettata per volont di popolo.
Le due parti della formola che le Monarchie popolari
moderne hanno assunto, si completano dunque necessariamente
l'una coll'altra: un principe che regna per volont della na
zione, regna per anche per grazia di Dio, imperocch la
scelta libera di un popolo non pu cadere che sopra un prin
cipe, il quale raccolga in s stesso e nella famiglia da cui ha
origine, quella maggior somma di virt che della grazia di
Dio lo fanno degno, n la sua sovranit potrebbe a lungo con
servarsi se per grazia di Dio non gli fosse pure ugualmente
conservato il possesso delle virt con cui benefica il suo po
p olo.
Il principio giuridico, chiaro, palpabile della Monarchia
italiana, la volont nazionale, cio il voto unanime di tutte
677
le popolazioni della penisola ripetutamente espresso e con
sacrato da quei tanti segni ed atti che collegano indissolubil
mente un popolo ed un principe, una nazione ed una di
nastia.
Tutta la storia degli illustri antenati del nostro re, la
storia di un principato civile, sempre intento a perfezionare gli
ordini pubblici e le patrie istituzioni; in tutte le vicende nelle
quali la monarchia sabauda venuta dilatando via via i suoi
possessi. in Italia non si ha a deplorare una sola sommossa
popolare, e ben si vede che i popoli a lei soggetti ne accol
sero sempre con gratitudine il dominio, perch dominio dolce,
benefico, glorioso nelle armi, geloso custode della nazionale
indipendenza. Iddio dunque second le sorti di questa dinastia,
quelle sorti che la libera volont del popolo italiano strinse.
oramai inseparabilmente con quelle della nazione.
La formola d'intitolazione di tutti gli atti quale espressa
nel progetto di legge, comprende perci il concetto, della
giustizia e della verit nella invocazione della grazia di Dio,
invocazione che ben s'addice ad un principe sempre benefico
per i suoi popoli, e ora regnante sovra una nazione che lo
ha acclamato suo liberatore; essa afferma nel tempo stesso il
fatto solenne ed il principio giuridico della nostra monarchia
nazionale. Questa formola, lo ripeter anco una volta, sta a
significare che il principato sabaudo si trasformato in una
monarchia nazionale per atto spontaneo della sovranit popo
lare, atto manifestamente coadiuvato dalla divina Provvidenza.
Corrispondendo veramente al concetto prevalente nella
mente di tutti, ed essendo la pi rigorosa espressione del
gran fatto che oggi si compie in Italia non poteva quella for
mola ricusarsi, perch notata d'imitazione.
Avvertir finalmente, come gi scritto nella relazione
ministeriale, che l'invocazione della grazia di Dio, nella for
mola d' intitolazione degli atti governativi, non vuol essere
confusa con quella del cos detto diritto divino.
La coscienza del genere umano e la morale evangelica non
hanno mai consentito che vi potessero essere su questa terra
uomini nati solamente per comandare, ed altri per ubbidire
ciecamente, n fu mai trovato conforme alla ragione che Dio
avesse imposto direttamente fuori della famiglia soggezione
d'uomo ad uomo. Perci l'uguaglianza politica e civile degli
uomini, scritta oggi in tutte le leggi, fu proclamata come una
78
delle pi grandi conquiste della civilt moderna. La Chiesa,
che non falli al suo ministero di carit e di pace se non quando
fu travagliata dalle ambizioni e dalle lotte inseparabili da una
meschina sovranit temporale, si alz pi volte in difesa delle
franchigie popolari per riprovare le violenze e gli arbitri del
potere assoluto.
ll vostro ufficio centrale, ravvisando nella formola propo
stavi dal ministero per l'intitolazione degli atti del governo,
l'espressione pi esatta dei principii su cui si fonda la nostra
monarchia nazionale, ve ne propone perci l'adozione, salvo
alcune piccole variazioni di dicitura e trasposizioni di parole
intente, esso spera, ad accrescere la chiarezza e la semplicit
della legge stessa.
Addi 20 marzo 1861.
C. MATTEUCCI, relatore .
Nella tornata del 23 marzo il presidente del Senato met
teva in discussione il progetto di legge per l'intestazione de
gli atti del governo. Il senatore Sforza appoggiava la legge
e diceva:
Vorrei si potesse dire re di tutta Italia. Finora mancano
due parti importantissime. Una in mani tali, che tempo e
fatica si richiederanno a rivendicarla. L'altra in mani ami
che, e si pu avere. I Francesi sono a Roma dal 1849, per
due ragioni: andarono essi perch fossero esclusi gli Au
striaci; restarono per proteggere il papa contro la rivoluzione;
allora i principi italiani erano troppo deboli per farlo, o troppo
ligi all'Austria, la cui influenza appunto volevasi circoscrivere.
Ora questi due motivi non esistono pi. A, Solferino e dopo
la caduta dei principi che le erano devoti, l'influenza austriaca
cessata. Cessata pure la rivoluzione in Italia. Il governo
italiano d'altronde forte abbastanza per proteggere il papa
nel libero esercizio del suo ministero spirituale. Si disse la
Francia figlia primogenita della Chiesa, e spettare ad essa il
posto d'onore presso il papa; ma Italia ne la madre, ed a
lei spetta il diritto di assumerne la tutela. Prego perci il
governo di entrare in trattative con la nostra alleata la Fran
cia pel ritiro delle sue truppe da Roma. Non vi deve essere
difficolt, quando alla provata lealt del re sia affidata la tu
679
tela dell'indipendenza del papa nelle sue funzioni spirituali.
Voler trattare col papa e con la Curia romana sarebbe un
aspettare che l'Austria ci renda volontariamente la Venezia.
Si tratti e subito lo sgombro di Roma dalle armi francesi,
perch dallo stato di violenza non possono ridondare che di
sordini.
Dopo questo breve discorso del senatore Sforza, il presi
dente dava lettura del progetto di legge - Vittorio Emanue
le II, per grazia di Dio e volont della nazione re d'Italia .
Il senatore Gioja prese la parola e disse:
-
Accetto la formola; accetto: Vittorio Emanuele II, per
ch dicendo primo si mancherebbe alla storia ed alla tradi
zione. Quando tutta Italia era serva sotto governi austriacanti,
sola Casa Savoia nel suo piccolo regno mantenne inviolata la
nazionale indipendenza, e resistette allo straniero quanto le cir
costanze ei tempi lo consentivano. A Casa Savoja dobbiamo tanti
esempii di virt e coraggio. Questa nostra eredit dobbiamo
serbarla religiosamente e dar la base al nuovo regno. Mi
caro questo nome e questo titolo che ci fa ricchi del passato e
ci guarentisce l'avvenire.
Accetto per grazia di Dio , questa forma non solo
una reminiscenza del passato, ma ci mostra l'intervento a no
stro favore del Dio delle nazioni; la storia di dieci anni pas
sati ci sforza a riconoscere l'aiuto ricevuto da Dio. Non
una formola vana ed ipocrita; l'evidenza di un fatto.
Accetto - per volont della nazione , volont manife
stata con tanto accordo dall'Alpi al Lilibeo, che il primo, se
non l'unico fondamento della nuova dominazione. Da molte
parti Italia era spartita, divorata, tosata; Dio dielle forza di
risorgere e di non temere quei nemici che ora ci accusano di
esserci tolti alle loro verghe, e ci parlano di trattati e di di
ritti violati, come se esistessero diritti che possano imporre ad
un popolo di essere schiavo e diviso. A ci risponde il voto
della nazione. Consolidiamolo colla unit e colle virt civili e
militari, forza dei popoli.
Molta strada e forse la pi difficile e pericolosa ci resta
a fare, ma son maturi i tempi alla completa rigenerazione na
zionale, che sar pur quella del cattolicismo; perch a dirla
con Dante
La Chiesa di Roma
Per confondere in s due reggimenti
Cade nel fango e s brutta e la soma.
Le nostre forze basteranno contro i nostri nemici; ed al
lora diremo con giubilo : Viva Vittorio Emanuele II per gra
zia di Dio e volont della nazione re d'Italia .
ll progetto di legge venne approvato ad unanimit; non vi
fu contrario che un solo voto.
Non senza ragione che richiamiamo l'attenzione dei po
steri su questo fatto straordinario, che l'unanimit cos dei
deputati come dei senatori d'Italia, nell'aderire a tutto ci
che aveva rapporto con l'indirizzo politico italiano, comunque
vi fosse di mezzo la questione di Roma. Egli un fatto che
le migliori intelligenze d' Italia sedevano nella Camera dei de
putati ed in quella dei senatori; diciamo di pi, vi aveva fra
questi uomini molti religiosissimi e tenerissimi pei diritti della
Chiesa, eppure nessuno di loro contrari la necessit di for
mare l'Italia una ed il bisogno che il papa, cedendo il suo po
tere temporale, divenisse solamente capo della Chiesa e vica
rio di Cristo. Prova questa che la quistione religiosa non
aveva rapporti con la questione politica, e che la Chiesa
avrebbe potuto esistere non solo, ma rifiorire sotto le inno
vazioni che la sgravavano dal peso temporale. Si pu da
questo stesso arguire a quai pericoli la Corte pontificia espo
nesse la Chiesa e la religione, avversando una causa abbrac
ciata da tutti e da tutti fortemente propugnata,
Alla Camera dei Deputati nel giorno stesso 23 marzo il
deputato generale Lamarmora faceva un'interpellanza al Mini
stro della guerra circa alcuni decreti che innovavano l'orga
namento dell'esercito. Egli diceva: Mio malgrado prendo la pa
rola, perch distolgo la Camera dalle sue occupazioni, e le di
scussioni sulle cose della guerra non sono senza inconvenienti.
Ma siccome gli errori commessi sono gravi, a mio credere,
non potrei tacere.
-
Col nuovo decreto il Ministro autorizzato a creare nuove
forze. Non censurer la formazione di nuovi corpi, se vi sono
gli elementi necessari. Il solo ministro sa se questi vi siano,
su quanti militari si possa far capitale, se su quelli dell'an
tico esercito napoletano, e sulle nuove leve. Se si pu applaudo.
681
Ma i reggimenti vecchi non hanno pi di vecchio che il
In0Il6.
Il Ministro fece modificazioni che non devono tenersi per
leggiere. Veggo l'abbandono di un sistema che fece buona
prova, per tornare ad uno che abbandonammo. Credo ora
opportuno qualunque cambiamento.
-
Pens il ministro che obbligato a modificare tutti i re
golamenti ? che non si possono fare facilmente? Molti ufficiali
sono giovani, valorosi, non hanno appena imparato i vecchi
regolamenti, e ora ne debbono imparar dei nuovi. Anche gli
ufficiali vecchi peneranno ad impararli.
In altre contrade si va cautamente su tali cambiamenti.
Vi parlavano sempre della Landwyer come la cosa pi imi
tabile, e pure fu test abolita.
V'erano in Prussia truppe in congedo e permanenti. La
Prussia si risolse a farle tutte permanenti: ha 18 divisioni
tutte permanenti, corrispondenti a 18 milioni d'abitanti, cifra
che non credo si possa oltrepassare. E tuttavia non si mu
tano punto i regolamenti, Interpellai molti in Prussia se si in
tendesse abolire la terza linea, come molti opinavano. Mi
risposero che avevano gi tante cose a fare e non potevano
introdurre innovazioni.
I cambiamenti vogliono essere discussi e provati, e
quando tutto in ordine, ed in tempi normali. Vengo ora
alla formazione dei reggimenti, e non dir cose solo accessibili
ai militari. Basta aver visto truppe ed aver avuto in famiglia
qualche militare. Avevamo quattro battaglioni di quattro com
pagnie: ora si trovano sei battaglioni di sei compagnie. Perch?
Perch il ministro dice che nessuna gran potenza militare non
ammette pi quattro compagnie. Le citazioni sue sono er
ronee. Non conosco alcuna potenza che abbia avuto batta
glioni di cinque compagnie. Per breve tempo le avemmo noi e ce
ne pentimmo. Dice che i battaglioni sono di otto o di nove
cento uomini. La Prussia li ha di 1000 e la Francia di 500
a 600. Mi stupisce l'asseveranza ch'egli mostra. La Russia
e la Prussia hanno tutti i battaglioni di quattro compagnie.
Posso accertar il ministro che la tendenza di tutti gli eser
citi di diminuir il numero delle compagnie per mettersi
su due linee e non far una linea troppo estesa.
In guerra raramente si stacca una compagnia, da un batta
Stor della rivol. Sicil, Vol. II.
86
682
glione e solo per breve distanza. I colonnelli si lagnano poi
sempre dei distaccamenti.
ll sig. ministro trova un altro inconveniente, che niun
capitano comanda la propria compagnia. Posso assicurarlo che
qualunque sia il numero delle compagnie il capitano si trova
sempre nella stessa relazione colla propria compagnia.
In Francia si scem il numero delle compagnie. Poi ha
l'inconveniente delle compagnie scelte, che noi non abbiamo,
e sono contrarie all'opinione pubblica, perch non avranno
pi lunga durata. Credo sapere che i battaglioni francesi sono
da 500 a 600 uomini. E come la Francia fa ad
avere sei
compagnie? Le tiene di 100 uomini. Ma il ministro vuole
150 uomini per compagnia, il che voglio anch'io per econo
mia e consistenza. Ma bisogna che il numero sia minore. Non
si videro mai 900 uomini su due linee; ci produrrebbero in
campagna esitanza e confusione.
-
Il ministro elima perci un battaglione. Ma allora cadiamo
in molti inconvenienti: non si possano far quadrati, non si
possano mandar due battaglioni di sostegno, ecc.
Il ministro cred dover introdurre i luogotenenti colonnelli.
Gli avemmo per 30 anni, ma Carlo Alberto gli aboli, perch
il colonnello e il luogotenente colonnello non andavano mai
d'accordo. Si determinarono le attribuzioni? Ma ben diffi
cile e infatti non si sa pi chi sia il responsabile. Preveggo
che se il tenente colonnello sar pi capace, sar uno scandalo.
Altrimenti non far nulla o si metter ad operare contro il
proprio colonnello. .
-
Fa bene il ministro a creare questi nuovi impieghi, se vuol
migliorare la condizione degli ufficiali, ma non li metta in
falsa posizione.
-
Vengo ora agli aiutanti maggiori. Il ministro crede si debba
dar loro il grado di capitano, perch vi sono molti ufficiali
giovani e devono avere l'autorit necessaria. Io veggo in ci
il germe di molti inconvenienti. Non necessario che chi tra
smette un ordine abbia il grado di chi lo d. Molti colonnelli
desiderano tal cosa, ed comodo avere chi sbrighi facilmente
gli affari. Ma quanta influenza e autorit si d agl'aiutanti di
campo di tanto si scema
dei maggiori. Vedemmo alcuni
acquistar tanta influenza da aver potere su tutto e disporre
i.
perfino degli ufficiali inferiori. Gli aiutanti maggiori terminata
l'istruzione, facevano prendere le armi a tutto il reggimento,
-
683
distribuivano il comando a sott'ufficiali, e quindi andavano ad
esercitarsi in piazza d'armi. Ci era un grave scandalo che
non deve ripetersi.
-
Riconosco che v'erano dei zelanti, fra loro, ma non lascia
vano far nulla agli altri e molti ufficiali ne avevano il pi
gran rincrescimento. Prendevano congedo per questo motivo.
Quando s'istitu il corpo dei bersaglieri, si not che man
cavano gli aiutanti maggiori, e il loro istitutore disse, che pre
feriva assai non averne. Era cosa inusata, e per transazione
si di il nome di aiutante maggiore all'ufficiale pagatore. E
il corpo dei bersaglieri fu mai inferiore agli altri in guerra
o in pace? Dal 1844 in poi non ebbero tuttavia mai aiutante
maggiore.
-
Il ministro mi dir che esagero gl'inconvenienti, che in
Francia vi sono dei tenenti colonnelli e gli aiutanti maggiori,
eppure si vincono battaglie. E vero, ma non mi do vinto per
ci. I battaglioni non hanno i 900 uomini. Ammiro sincera
mente l'esercito francese e per gratitudine, ma ammiro spe
cialmente le sue tradizioni militari, l'amor patrio, l'amore
di corpo, la generosit in grado eminente. Questo il moti
vo principale delle vittorie. Ammiro poi la giustizia e la par
zialit con cui si osservano le leggi e si d a ciascuno ci che
gli tocca. In tutti i cambiamenti che ebbero luogo in Francia,
gli ufficiali meritevoli non furono mai posposti agli altri. Am
miro anche la riservatezza con cui si fanno i cambiamenti. A
torto chiamiamo leggieri i Francesi, ch molto difficilmente
si fanno in Francia cambiamenti. La questione dei due o tre
ranghi una delle pi vitali e fu discussa fin dal secolo pas
sato, e per tutte le guerre dell'impero. Napoleone era per le
due linee, ma tanto era il rispetto suo per quelle leggi che
consigliava e non ordinava quel sistema. Solo dopo la guerra
di Crimea, si adott definitivamente il sistema delle due linee.
necessaria l'uniformit in tutti i corpi, e massime nelle di
visioni, e che tutti abbiano il necessario. Ma sopra la divisione
non si deve pi discutere. I corpi d'armata debbono essere
formati dalle
ivisioni che occorrono. Ci s' visto in Crimea.
Non perci spediente formare corpi uniformi, come fece il
signor ministro.
Ma nell'esercito francese non tutto perfetto, e special
mente ci che riguarda la disciplina ed istruzione pratica.
La Prussia che pi servir di modello non ha aiutanti maggiori
684
n luogotenenti colonnelli. La responsabilit divisa il peggiore
dei sistemi, nel militare, come nel civile.
Ho il dolore di vedere ora distrutto il mio sistema che
gi cominciava a capire. In due memorabili campagne non
avemmo un rovescio, e confesser pertanto che vedo con do
lore introdursi un sistema di 30 anni fa. Precisamente allora
aveva luogo ci che vuolsi adesso, v' lo stesso stile nel
decreto, e credo che sia lo stesso redattore.
Qui il ministro interuppe l'oratore e disse: Non perch
l'ho fatto io.
Lamarmora continua: Vi rassomiglia. Veggo due piccole
porte aperte al favoritismo ed alla protezione. Ed io credo
si debbono chiudere tutte. Trent'anni fa si gridava molto
contro lievi favori, e interi corpi si svolsero per piccoli favori.
E allora v'era un sol potere, ora sono tre, e il nipotismo cre
scerebbe a dismisura. Dunque interesse di tutti chiudere
ermeticamente le porte.
-
Il ministro dice che le sue idee sono sostenute da valenti uf
ficiali. Io non mi dolgo di non essere stato consultato; ma
vorrei che innovazioni si gravi fossero state discusse da appo
site giunte. Se alcuno me ne avesse parlato, avrei potuto far
risparmiare molte inesattezze. Cos per combattere un grosso
battaglione non necessario altro grosso battaglione, ma
meglio averne due piccoli.
Non mancano certi valenti ufficiali nell'esercito, e spero
si sar consultato il valente generale Cialdini. Volontieri avrei
discusso con lui, e specialmente su quelle che il ministro dice
sue idee economiche come quella di risparmiare qualche stato
maggiore. Dopo la guerra discuteva con lui, e lod tutto; solo
not che le divisioni erano troppo forti.
L'oratore prende un po'di riposo.
Si depone la relazione sulla proposta di leva nelle antiche
provincie e in quelle delle Marche ed Ancona.
Indi entr in particolari sul corpo dei bersaglieri, sulla
cavalleria, sull'artiglieria. Questa non pu essere molto dis
seminata, e raccomando vivamente di non traportarla dalla
Veneria dove sta benissimo, e dove si formarono i migliori
ufficiali perch quel luogo ha i requisiti migliori.
Avrei ancora qualche cosa a dire, vorrei mi si dicesse
qualche cosa sulla difesa militare del paese. La sponda si
nistra del Po non difesa. Io aveva lasciati due progetti re
685
lativi, e non ne udii pi parlare. Non saranno perfetti, ma
vorrei sapere se si sostitu qualche cosa.
Molti reggimenti non hanno ancora la loro bandiera. Aveva
lasciati molti modelli a questo scopo.
Non sentii neppure parlare del monumento a Solferino.
So che ora non si lavora, bench siasi stanziata una somma
-
per esso.
Gli ufficiali debbono rovinarsi per le spese che hanno a
fare passando da un corpo all'altro, giacch sono differenti
perfino le bardature dei cavalli. Mancano molte piazze d'armi
a Brescia, a Cremona, ecc., eppure sono necessarie.
Sin quando dureranno i collegi militari provvisori?
Propongo in fine che si faccia esaminare la convenienza
e l'utilit deglintrodotti cambiamenti.
Il Ministro della Guerra rispondeva: Posso assicurare l'ono
revole interpellante che ebbi piena approvazione dal generale
Cialdini .
Il ministro d alcuni ragguagli sulle forze che si poterono
raccogliere nel napolitano. Una parte fu presa prigioniera a
Capua, a Gaeta, a Messina. Si saranno raccolti da 20 a 25 mila
uomini.
In Francia vi sono 8 compagnie, in Baviera, Spagna, Au
stria, Svizzera 6. lo preferisco la Francia. La Prussia quando
in campagna prende la 3." linea e fa due compagnie. Non
il caso qui di fare una discussione scientifica, ma posso in
vocar l'esempio di quelle nazioni.
Se ci fosse una guerra, si potrebbe sempre aumentare
queste o il secondo corpo all'occorrenza.
-
Non nego gl'inconvenienti dei luogotenenti colonnelli, ma
non li credo si grandi, perch io non li rinvenni nei paesi ove
dimorai.
v,
Nella cavalleria non introdussi alcun cambiamento. Gli
Usseri vennero dall'Italia centrale. Molte nazioni hanno assise
pi vistose delle nostre.
Il miristero della guerra si adopera a provvedere quanto
occorre. Ma i dicasteri sono affogati dai lavori.
In 18 giorni si fece la campagna dell' Umbria e delle
Marche e in 24 si and fino al napoletano e si assedi Gaeta.
Ci non si sarebbe potuto ottenere senza grande mobilit nei
corpi.
A Gaeta si dov mandare tutto da Genova, soli 30 pezzi
erano a Napoli. I trasporti costarono un milione.
686
In Lombardia non c'era nulla, nell'Umbria e nelle Marche
nulla, e poco in Toscana. Cattivissime erano le armi trovate
a Napoli, e non v'erano cavalli. Dunque bisogna decentrare l'e
sercito e fare grandi comandi.
Si disse che non sapevano come riempire i quadri. Posso
dire che nel marzo dell'anno venturo saranno riempiti. Si
sono cangiati i fucili, si hanno vestiti per 200.000 uomini,
vennero acquistati in un anno, 12,000 cavalli, 1000 pezzi
di artiglieria e apprestati spedali per 4000 uomini. Si sono
armate e vettovagliate 8 piazze in un anno. Il resto deve ve
nire poco a poco.
Si disse che ebbi la malignit di sciogliere il reggimento
-
di cavalleggieri di Napoli. Sciolto quell'esercito, sarebbe stato
errore conservarne una parte. Ma esso non aveva che 45
cavalli.
Credo che sia un errore stabilire le difese presso il
nemico.
Il Lamarmora non fu convinto delle ragioni del ministro
della guerra e la questione diveniva grave se il presidente del
Consiglio dei ministri non l'avesse sviata coll' appellarsi alla
prudenza del generale Lamarmora.
Dispiacevole incidente ebbe luogo in quella stessa seduta,
perci che il deputato Brofferio mosse lagnanza perch non
si era mantenuta la falange degl' eroi che vinse dapertutto
e che si usava maggiore riguardo agli ufficiali del Borbone
che ai Garibaldini.
Il deputato Crispi voleva dare un voto di censura dicendo
che a Castelnuovo si erano lasciati 60 cannoni di assedio oltre
a 10,000 fucili di precisione.
Il ministro Fanti diceva, grande essere la confusione nel
l'esercito meridionale, che si davano 33,000 razioni al giorno
quando non vi erano che 18,000 soldati; che quel piccolo eser
cito aveva 9,000 ufficiali e che per bisognava venire ad una
depurazione. In questo punto sorse il deputato Sirtori dicendo:
Duolmi che siasi intavolata tale questione la quale non si pu
ora risolvere. L'esercito meridionale fece cose mirabili. ma
confesso che vi erano gravi disordini. Un esercito che ingrossa
ogni giorno non pu tenere i conti molto precisi. L'esercito
sardo poi entr nel Napoletano per combattere noi. Noi ci
saremmo battuti contro il Piemonte, perch noi eravamo
l'Italia. Noi fummo trattati da nemici non da patrioti.
i
687
Queste parole del deputato Sirtori suscitarono una vera
tempesta, taluni confermavano i detti dell'oratore e tali altri
diniegavano. La confusione fu tale, tali le voci e le grida che
il presidente della Camera dovette coprirsi e lasciar sospesa
la seduta.
ll Sirtori aveva pur troppo detta la verit. Comunque si
possa dire che in faccia al Governo di Torino l'esercito meri
dionale non avesse le sembianze di nemico, egli certo che
la politica voleva si combattesse anco contro l'esercito meri
dionale ove questo avesse voluto avanzarsi verso Roma. L'in
fluenza francese premeva cos le cose d'Italia e l'occupazione
di Roma metteva in tale falsa posizione gl'interessi italiani che
senza la prudenza di Garibaldi e la docilit dei suoi, l'Italia
sarebbe stata insanguinata dalla guerra civile. Non pertanto le
parole di Sirtori fecero trista impressione, ed egli da buon
patriota nella seduta del 25 marzo diceva: Dalla lettura del
processo verbale non ho ben potuto comprendere quali sieno state
le parole da ma pronunciate nella precedente tornata. Io non me
ne ricordo, ma ben posso dire che furono interpretate in modo
falso e direi anche iniquo. I miei precedenti sono conosciuti,
e niuno pot mai accagionarmi di essere ostile all'esercito re
golare.
Chiamo tutti in testimonio che il mio scopo fu sempre
di far rispettare ed amare l'esercito regolare, cui proposi a
modello di patriottismo, e ben se ne pu rammentare il signor
Malenchini, ch'io non misi mai in dubbio la virt dell'esercito.
Accuso il ministro, od almeno i suoi agenti, di avere messo
un dissidio tra i due eserciti, di avere stabilito una specie di
dualismo tra l'esercito regolare ed i volontarii. Io mi ado
perai sempre perch questi emulassero le virt dei militari
dell'esercito regolare. E dichiaro che l'esercito gi sardo, ed
ora italiano, pu essere citato come un modello di virt mili
tare a tutti gli eserciti dell'Europa.
Queste dichiarazioni del Sirtori furono coperte di applausi,
e quindi il Ministro della guerra dovette alla sua volta dichia
rare che non aveva mai inteso stabilire un dualismo tra l'esercito
dei volontari e quello regolare, entrambi avendo i loro me
riti speciali e dovendo tutti tendere allo stesso scopo.
Nella stessa seduta del 25 marzo il deputato Audinot
faceva alcune interpellanze sulla questione romana. Era questa
688
la questione pi essenziale del momento, perciocch senza
Roma l'Italia non poteva essere una, l'Italia avrebbe sempre
mancato della sua vera Capitale. Ma la questione pi essenziale
era insieme la questione pi difficile a risolversi perciocch
come altrove abbiamo dovuto notare vi avevano parte il go
verno francese, il partito clericale di tutto il mondo cattolico,
e quelle potenze nemiche all'Italia che sotto il pretesto del
cattolicismo cercavano avversare in ogni maniera gl'interessi
politici della penisola.
Era per altro necessario che il parlamento italiano non
passasse sotto silenzio una quistione cotanto importante, se
non altro per avvertire almeno la diplomazia europea di ci
che l'italia voleva a qualunque costo, della meta alla quale vo
leva assolutamente arrivare ad onta degl'intrighi clericali e
dell'opposizione diplomatica. Il deputato Audinot cominciava
dicendo:
Chiedo, prima di far le mie interpellanze, facolt alla Ca
mera di esporre alcune mie idee. Tutti noi osservammo nel
discorso reale una lacuna. Parlavasi dell'Italia quasi riunita
e invano cerchiamo qui i rappresentanti di due illustri citt,
di Venezia e di Roma. Che abbiano ad appartenere all'Italia
non fa duopo provare. Ma si toccano due questioni europee,
che si possono sciogliere una coll'opinione pubblica e colla
forza, l'altra colla sola forza morale.
L' opinione pubblica sar forse causa che l'Austria si
persuada a cedere la misera Venezia. La Germania vedr, che,
tornando ne'suoi confini, si stabilir salda amicizia fra le due
nazioni. Aspettiamo che venga l'ora a cui alluda il discorso
reale, in cui si potr osare.
Accetto la politica di aspettazione; purch questa sia
operosa e si risolvano intanto le questioni amministrative. Il
paese impaziente ed ansioso su questo. Rendiamo pingue il
tesoro accresciamo le forze di terra e di mare.
L'opportunit della guerra pu arrivare. Se questa ve
nisse e noi non fossimo pronti, non ci mancherebbe l'aiuto
del potente alleato, ma sarebbe forse con grande jattura del
l'indipendenza italiana.
La questione di Roma si risolve solo colla forza morale.
Roma e il Patrimonio di S. Pietro sono occupati dai nostri
alleati. Non fa mestieri di gran parole per provare che il poter
689
temporale moralmente morto e si mantiene solo colla forza.
La sperienza di un mezzo secolo dal 15 al tempo presente,
gli sforzi frustranei della diplomazia per rimodernare quello
Stato e i recenti documenti provano quanto asserisco. Chie
devasi mutazione o secolarizzazione, e il governo papale rispose
coi supplizi e le carcerazioni. La curia romana rispose sempre
col non possumus. Passato il lampo fugace della gloria di
Pio IX quando si volle attuare il fatto dell'indipendenza italiana
e i Piemontesi erano sul Mincio, il Papa rispondeva coll'en
ciclica del 29 aprile. Segnava allora il dissidio perpetuo fra
il potere temporale e l'ltalia. L'enciclica fu cagione dell'anar
chia dello Stato romano, dei disastri italiani. Quando il Papa
riparava a Gaeta, dopo un eserabile misfatto, negava qualun
que transazione e voleva l'impero assoluto. Ricominci quindi
la trista serie delle fucilazioni e carcerazioni e l'intervento
dell'Austria. La costituzione del 1848, sebbene imperfetta,
fu sempre delusa: nessun progetto trov mai la sanzione
del sovrano, e m'appello a miei onorevoli colleghi ed egregi
statisti ch'ebbero la tribolazione d'esser a Roma ministri.
Quando si combatteva a Magenta e Solferino, si ordinavano
le stragi di Perugia, s'insultava la Francia, si deploravano le
vittorie italiane. La Francia voleva salvare una parte dei do
minii papali; e il Papa rispondeva coi zuavi pontefici, e nuove
stragi. Dicono compatibile il governo pontificio colla mo
derna civilt; ma la civilt cattolica che insegnano i gesuiti.
Io lo credo incompatibile colla libert e i principii del 1789.
Nelle cose civili porta quelle immutabilit, che ha nelle eccle
siastiche: non comporta la libert di coscienza, di stampa, e
d'insegnamento, lo stato civile, le riforme economiche quanto
alle mani morte. Nelle materie miste la curia vuol predomi
nare. Si appoggia alle forze cosmopolitiche e, riconoscendo
in s la sovranit, non ammette il suffragio nazonale, base
del nostro diritto. Ci non sanno gli oratori stranieri che con
grande ignoranza sentenziarono delle cose nostre; credono ne
cessario al potere spirituale il temporale, e obbliano la storia
di otto secoli. necessario pel cattolicismo che gl'Italiani si
sobbarchino a quel potere? non conosco alcuna legge per
cui un popolo abbia ad essere propriet di una casta e de
stituito d'ogni libert. Gl'Italiani debbono rispondere in nome
del diritto comune. Dopo la pace di Villafranca, l'Italia re
spinse ogni idea di federalismo, per cui sarebbe debolissima
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
87
690
fra due grandi imperii. Il plebiscito ha deciso la gran que
stione. Vogliamo l'Italia libera ed una. L'Italia ha bisogno di
Roma e Roma d'Italia; perch si tolga lo stato d'irritazione
inevitabile nella presente condizione. L'Italia ha bisogno di
Roma, sua naturale capitale, perch si tolga un centro di cor
ruzione, perch si tolgano le gare municipali, e in questo
estremo lembo d'Italia non la si pu governare per sempre.
Roma centrale. Questa nobile Torino, benemerita d' Italia
festeggi con nobile abnegazione il suo esautoramento, ma non
pu cedere che a Roma.
Un egregio statista, cui dobbiamo molta riconoscenza,
vuole che Roma capitale non sia che un concetto rettorico. E
fu il concetto tuttavia dei pi grandi Italiani da Dante a Gio
berti. Si dice che Roma pu essere un libero municipio, che
viva in buona concordia col resto d'Italia. Ma il popolo ro
mano, circondato da un popolo pieno di vita, non potrebbe
durare senza agitazione. La Curia romana tenderebbe a sof
focare la libert di Roma. Chiamerei piuttosto un concetto
fantastico quello dell'autore. Egli invoca lo spettro del 1848.
Ma i fatti non si rinnovano. Sono altre le circostanze; v'era
allora la Francia in reppublica discorde e l'Italia era tradita
dal Papa. Era impossibile un programma politico. La vertigine
in tutti. Il concorso di quelle circostanze ora impossibile,
e se si rinuovasse anche, vi sarebbe ora quel coraggio civile,
che allora mancava.
Ma nel 1849 si videro pur in Roma grandi virt; molti
uomini divoti all'ordine ed alla monarchia; ma animati da pat
triottismo, combatterono contro l'Austria, e, con loro dolore,
contro la Francia; senza speranza di vittoria, per mantenere
intera la protesta contro lo straniero, e incontaminato l'onore
italiano. In quell'anno due splendidissimi fatti e la difesa im
maculata di Venezia e di Roma.
L'Italia non pu ora combattere ad un tempo l'Austria e
la Francia, che nostra amica. L'alleanza d'Italia utile
pure alla Francia e guarentigia di pace all'Europa. Il Papa sia
privo di qualunque braccio secolare, regoli solo co principii
cristiani, e l'Italia diventa la prima nazione del mondo. Vuolsi
la separazione del potere spirituale dal temporale. Lascio alla
prudenza dei governanti la soluzione della questione, che pure
utile al cattolicismo. Mi rivolgo ora al Presidente del con
siglio.
691
Sono corse voci di pratiche. Dimando alla sua lealt se
ve ne sono e in che consistono.
La Francia e l'Inghilterra proclamarono il non intervento.
Non vego applicato quel principio a Roma e al patrimonio
di S. Pietro. Questo il secondo quesito.
Dimando infine quali sono i suoi principii direttivi sulla
soluzione del gran problema sul potere temporale.
A miei colleghi dimando se debbasi affermar ora che Roma
degl' Italiani e loro capitale, che l'Italia pronta a concor
rere allo splendore del papato.
ln questi ultimi tempi si parl di concordia, e a ragione,
che per compire la nostra emancipazione, non troppo il senno
di tutti gl'Italiani.
politica generosa e
ma vuol affermare
contraria all' unit
Ma cerchiamola negli atti grandi ed in una
prudente, che sa quanto deve all' Europa,
i nostri diritti, respingere ogni transazione
e indipendenza d'Italia,
Questo programma non sar compiuto finch il nostro So
Vrano non abbia vendicato il re martire e non siasi cinta sul
Campidoglio la Corona d'Italia .
A questa interpellanza del deputato Audinot, il conte di
Cavour rispondeva:
-
L'onorevole Audinot con parole gravi ed eloquenti, pro
porzionate all'argomento, anzich fare interpellanza fece una
magnifica esposizione. In fine riassumeva il suo magnifico di
scorso chiedendo notizie sulle pratiche per ottener il non in
tervento a Roma. E conchiudeva domandando qual fosse la
politica che intendeva seguire il governo.
La questione di Roma sollevata e vuol essere trattata am
piamente. Risponder non solo alle sue interpellanze specifi
-
che, ma ricorder anche che la questione presente la pi
importante che sia sottoposta a libero popolo. La sua influenza
si far sentire a 200 milioni di cattolici. La sua soluzione
avr un'influenza immensa non solo politica ma morale. Non
eviter la questione con sotterfugii diplomatici. Non pi il
tempo di mandarla a tempo indeterminato, di mantenersi nella
riserva. La questione fu discussa dovunque, in tutti i paesi
civili. Le mie osservazioni sono sole per porre in avvertenza
sulle gravissime difficult che circondano chi ha l'onore di
parlarvi ora.
Non pu esservi soluzione della questione di Roma, se non
accettata dall' opinione pubblica. Senza Roma, capitale d'I
talia, l'Italia non si pu costituire.
692
L'onorevole oratore disse tal verit proclamata in tutti gli
uomini imparziali tali da non doversi provare. Tuttavia l'Italia ha
ancora molto da fare per sciogliere tutti i problemi della sua
unificazione, e vincere gli ostacoli . i, e si oppongono. Perch
l'opera si possa compiere occorre non sianvi lotte, gare e dis
sidii. Finch non sar sciolta la questione della Capitale sa
ranno perpetuii dissidii. Molti anche in buona fede preferi
scono questa o quella citt. La discussione ora possibile, non
gi se l'Italia fosse costituita. Se la capitale fosse a Roma nes
suno penserebbe a togliernela. Sono dolente ogni qual volta
uomini insigni pongono in campo tali questioni con futili ar
gomenti. Tale questione non si scioglie per topografia od al
tre considerazioni. Se fosse cosi, Londra non sarebbe capi
tale e neppur Parigi. V hanno grandi ragioni morali che la
decidono. In Roma concorrono grandi circostanze storiche.
Essa la sola che non abbia memorie municipali: destinata
ad essere capitale di un grande Stato.
Mi credo in obbligo di proclamare questa grande verit
innanzi al Parlamento. Prego che cessi ogni discussione in pro
posito, onde si possa dire che l'intera nazione proclama la
necessit di aver Roma per capitale.
Proclamo con dolore questa verit, perch non sono
spartano, e duolmi dire alla mia citt nativa che deve rinun
ziare ad avere nel suo seno il governo. I miei concittadini fu
rono sempre rassegnati ai pi grandi sagrifici e non disdi
ranno che Torino pronta a fare questo all'Italia.
t
Questa terra ove si svolse il germe dell'indipendenza, non
trover ingratitudine.
Qui comincia la difficult della risposta dell'onorevole
interpellante. Dobbiamo andar a Roma senza che questo fatto
divenga il segnale della schiavit della Chiesa e lo Stato estenda
il suo dominio sullo spirituale.
5 Sarebbe follia pensar ora di andar a Roma, malgrado la
Francia. Anche quando questa si trovasse ridotta al punto di
non potersi opporre a noi, non potremmo andarvi senza danno
gravissimo. Contraemmo un gran vincolo di gratitudine verso
la Francia. Certi grandi principii morali sono comuni agl'in
dividui ed alle nazioni. Alcuni anni fa, si parl molto di un
detto di uno statista austriaco, che l'Austria avrebbe mera
vigliato il mondo per la sua ingratitudine. Essa mantenne la
parola, e nei congressi di Parigi niuna potenza fu tanto te
a
695
nace contro la pace quanto l'Austria, che non aveva snu
data la spada. Ma a questa ingratitudine debbo le buone re
lazioni tra noi e la Russia, sventuratamente interotte ora, ma
speriamo solo per poco tempo, grazie a quell'illuminato e
liberale sovrano.
Quando nel 59 invocammo l'aiuto francese, non prote
stammo contro gl' impegni presi colla corte di Roma e nol
potremmo ora. Ma se giungiamo a far si che l'unione di Roma
coll'Italia non faccia sospettare alla societ cattolica che la
Chiesa cessi di essere indipendente, la soluzione del problema
sar prossima.
Molti credono in buona fede che, essendo Roma capi
tale d'Italia, il pontefice perda molto della sua indipendenza;
e invece di esser capo della Chiesa sia ridotto alla carica di
gran limosiniere del Re. Se questo fosse, la riunione di Roma,
sarebbe fatale non solo al cattolicismo, ma all'Italia. Sarebbe
un gran male veder riunito nelle stesse mani il potere tem
porale ed il potere civile. La libert scomparirebbe. Sotten
trerebbe il dispotismo. La riunione dei due poteri produsse
sempre lo stesso effetto.
Credo dover esaminare tutti i lati della questione. Prima
dovr esaminare se il poter temporale renda il Papa indipen
dente. Se ci fosse, com'era nei secoli scorsi, esiterei molto.
Ma pu alcuno affermare tal cosa? No, certo, se esaminiamo
la condizione del governo romano. Quando in Europa si ri
conosceva quasi solo il diritto divino e i Re si credevano i
proprietari degli Stati, il papa principe poteva essere indi
pendente, era accettato dai popoli. Fino al 1789 il potere
temporale era garanzia d'indipendenza pei papi. Ma ora i
sovrani si fondano sul consenso tacito od espresso dei popoli.
Persino la Russia si accosta a cotesto principio. Ma ora il
poter temporale manca di fondamento. cosa evidente negli
annali della storia. L'antagonismo si dimostra pochi mesi dopo
la ristorazione. Vediamo sorgere subito quei popoli, alla voce
di un grande guerriero. Pellegrino Rossi proclam nel 1815
il principio dell'indipendenza italiana. Nel 1820, e 1821 si
manifestano nelle Romagne sentimenti pattriottici: dopo la ri
voluzione del 1830 l'antagonismo si mostra con insurrezioni.
L'intervento straniero le soffoca, ma dopo diventa una neces
sit. Dopo il 1848 l'antagonismo si fece pi forte e gli eventi
del 1859 non lo fecero sicuramente cessare.
694
Le Romagne godono ora di tutte le nostre libert, le
elezioni non furono sicuramente violentate. A Bologna si form
un giornale pi clericale dell'Armonia. I prelati poterono pub
blicare tutte le loro proteste. E ciononostante non si mani
fest menomamente un desiderio del passato. Pu tradursi il
malcontento nel censurare questo o quel ministro, o tutto il
ministero, ma non mai in rimpianto del cessato governo. L'Um
bria venne lasciata alle sole sue forze, senza un soldato re
golare, e non diede alcun indizio di voler tornare al passato.
E il numero dei conventi vi era esuberante e non manca
vano gli eccitamenti. Non si manifest menomamente la rea
zione. Taluno mi potr opporre i disordini dell'Ascolano. Non
esito a dichiarare che n il Papa, n i suoi ministri sono re
sponsabili di quegli eccessi. Ma quel governo dispone gli uo
mini al brigantaggio.
V' dunque assolutamente antagonismo tra il paese e la
-
santa sede. Alcuni zelanti cattolici dicono che, essendo neces
sario il potere temporale, si assicuri con truppe e fondi delle
nazioni cattoliche. L'argomento non degno di cristiani, ma
di quella religione che credeva meritorii i sagrifizii umani. Non
si ha da sagrificare un popolo intero, condannarlo al martirio
per mantenere quella sovranit temporale. Altri pi benevoli
e anche liberali dicono che il Papa si pu propiziare i popoli
con concessioni, e insistono presso di lui perch conceda ri
forme, e non si sgomentino delle ripulse. Ma il Papa non pu
concedere nulla, perch si confondono in lui le due qualit
e il capo della Chiesa deve necessariamente superare il so
VranO.
Adunque quando le riforme chieste sono in opposizione
diretta coi precetti, non lo pu concedere. Il papa pu tolle
rare come necessit certe istituzioni, come il matrimonio ci -
vile in Francia, ma non lo pu stabilire come legge nel suo
Stato. Lungi dunque dal far rimprovero al Papa, la sua fer
mezza per me, come cattolico, un titolo di benemerenza.
Nel congresso di Parigi, alcuni amici d'Italia insistevano
presso di me perche mostrassi le riforme che si potevano ap
plicare. Io proclamai privato le stesse dottrine che ora, e
ricusai. Il mio collega Minghetti, che ebbe parte a quelle pra
tiche, come me, addit come solo mezzo di metter la Ro
magna e le Marche in stato normale quello di mettervi un
governo indipendente in Roma. Gli sforzi di questi uomini con
695
ciliativi si romperanno sempre contro la forza delle cose. I
mali non dipendono dagli uomini che oggi furono chiamati a
reggere quelle Provincie. Finch durer la confusione dei due
poteri, il male durer. Da vent'anni l'Europa, si travaglia
per riformare lo Stato ottomano. Vi diedero opera uomini li
beralissimi ma indarno, perch a Costantinopoli come a Roma,
i due poteri sono confusi. La riforma impossibile; l'anta
gonismo irrimediabile, il poter temporale non dunque gua
rentigia d'indipendenza. E se il Papa non indipendente per
causa del suo potere temporale, i cattolici non ne devono es
ser molto teneri. Vuolsi persuader loro essere la libert, anche
pel Papa molto pi proficua.
-
Riteniamo l'indipendenza della Chiesa assicurata colla se
parazione dei due poteri, colla proclamazione del principio
della libert. Se la separazione sar fatta in modo chiaro e
definitivo il papato si trover sopra un terreno molto pi so
lido, e la sua autorit sar pi efficace, senza concordati ed
altri vincoli, che ora gli sono necessarii. Ci non ha duopo
di dimostrazione: ogni buon cattolico deve preferire questa
libert d'azione della Chiesa ai privilegii del potere civile.
Chi dice il contrario dimostra d'aver men rette intenzioni. Si
dir: Come assicurate questa separazione? La Chiesa trover
gran guarentigia nella condizione del popolo italiano, che de
sidera conservare il Pontefice nel suo seno. Vi ha guaren
tigie nell'indole del popolo italiano, che non volle mai distrug
gere il potere spirituale della Chiesa. Arnaldo da Brescia,
Dante, Savonarola, Giannone, Sarpi tutti vollero il potere spi
rituale, nessuno il temporale. Niun popolo pi dell' italiano
sar tenace nella libert del pontefice. Si riconoscer che l'in
dipendenza del Papa sar meglio tutelata dalla volont di 26
milioni d' Italiani, che da non pochi mercenarii al Vaticano.
Finora non fu accolta nessuna pratica dalla corte Romana;
ma il momento non venuto ancora di farne, sopra i larghi
principii che ho esposto. Quando saranno meglio apprezzati i
nostri principii, vi sar maggiore arrendevolezza. La storia ci
fornisce parecchi esempii. Clemente VII vide Roma saccheg
giata dall'orde di Carlo V e strinse pochi anni dopo alleanza
con lui. E il mutamento che si fece in lui per rendere serva
Firenze non potr sperarsi in Pio IX per render libera Roma?
Se rimanesse fermo, non resteremmo dal mantenere i no
stri principi di attuare il principio della libert della Chiesa
696
come inviolabile. Quando non si potr pi dubitare dei veri
sentimenti degli Italiani, ho ferma fede che la gran maggio
ranza dei cattolici assolver gl'ltaliani e far ricadere la respon
sabilit della lotta a chi tocca.
Ma a rischio d'esser detto utopista ho fede che le fibre
italiane, cui il partito reazionario non giunse ancora a svellere
da Pio IX, si ridesteranno; e avremo compiuto nella stessa ge
nerazione due fatti, i pi grandi: riconciliato il papato e la li
bert e ristabilita la nazionalit italiana .
Questo discorso del presidente del consiglio fu un colpo
di stato, grandemente necessario in quei giorni. Gli animi erano
alquanto concitati verso il compimento dell'unit italiana. Si
guardava specialmente a Venezia e si voleva la guerra per sal
vare dal giogo straniero quella sventurata provincia. Si pensava
che liberata Venezia il Papa avrebbe riconosciuta la propria im
potenza a rimettere in Italia l'antico stato di cose, e che in
nanzi a questa impotenza avrebbe finalmente ceduto. Ma l'Ita
lia non era armata, la Francia sconsigliava la guerra; quindi
era indispensabile ritrarre dal veneto gli sguardi degli Italiani
per concentarli a Roma. Cavour ebbe in questo grande de
strezza; egli giunse a dirigere le aspirazioni del popolo a Ro
ma, sapendo come difficilissima fosse la soluzione della que
stione veneta e come per conse. uenza ne dovesse venire di
aver tempo per maturare i progetti, per armare il paese, per
prepararsi prudentemente all'ultima guerra.
Ma il partito d'azione non si lasci illudere; disse che il
conte di Cavour cercava tempo, e che il suo discorso alla ca
mera non aveva altro fine che questo. A noi convien dire che
se in politica qualche volta necessario tenere a bada le
aspirazioni popolari, il conte di Cavour fu abilissimo in que
st arte, e pot in mezzo a non pochi n lievi pericoli stare
al timone dello Stato.
Ma noi seguiremo la discussione della Camera sulla que
stione romana perciocch essa fosse la pi grande questione
dell'epoca.
Nella seduta del 26 marzo il deputato Pepoli diceva:
Ben disse il presidente del Consiglio essere questa la que
stione pi importante come quella che interessa tutti i catto
lici. Le gravi discussioni delle assemblee estere provano quanto
dico, e un Parlamento che rappresenta l'intera Italia non se
697
ne deve dissimulare la gravit! La discussione debb essere
calma. Ma prima debbo difendere l'Italia dalle calunnie di cui
fu fatta segno. Si disse che la votazione non fu libera. Ma
un popolo vot circondato di sgherri, fu quello di Viterbo che
si pales per l'unione all'Italia sotto Vittorio Emanuele. Que
sta la prova pi eloquente. Eppure si os parlare di trame e
di oro piemontese. Il re congiur con l'Italia, esponendo vita
e corona per cacciare lo straniero. Qual meraviglia se l'Italia
si ramment di casa Savoia, quando sola la casa di Savoia si
ramment d' Italia nei giorni del dolore?
Da una parte io veggo principi che non hanno altra am
bizione che liberare l'Italia, dall' altra popoli che dimenticano
tutte le loro tradizioni municipali. Non si vide mai pi sublime
spettacolo.
-
Tratter alcune questioni generali. Ci si parla di pra
tiche per aprirci le porte di Roma. Credo sia piuttosto que
stione di sciogliere l' antico contratto dei due poteri. La vera
soluzione non dare un asilo al pontefice ma dargli l'auto
rit morale che perd. Mille volte udimmo ripetere le parole:
rendete a Cesare quello che di Cesare, ma bisogna anco
ricordarsi dell' altra parte: rendete a Dio quello ch' di Dio.
Vi sono governi che vorrebbero tenere ci che di Cesare,
non dare a Dio ci che di Dio. Alcuni amano un clero sti
pendiato, vi sono liberali che vogliono gendarmi accanto all'al
tare. Io credo invece che se vogliamo togliere il poter tem
porale bisogna dare a Dio ci che di Dio. Il contratto si ferm
nel corso dei secoli, e produsse da una parte il dispotismo,
dall'altra il fanatismo o l'indifferentismo. Allora il Pontefice
era indipendente, quando non aveva potere temporale. Il po
tere religioso divenne dipendente quando fu materializzato ed
ottenne un soglio.
La santa inquisizione fu una conseguenza di quell'infau
-
sto connubio. Ma non ne sorse la fede. Dalla cauzione non
sorse che il razionalismo, la filosofia tedesca e l'indifferenti
smo. La protezione ufficiale pi dannosa alla religione che la
persecuzione. Non v' libert che ove lo stato separato dalla
Chiesa. Chi confonde il regno della coscienza con quello dello
Stato falsifica il vero concetto di entrambi. Informata l'auto
torit temporale, la religione risalir alle sue origini, al tempo
dei pi gloriosi pontefici. Questi non pronunziavano il non pos
sumus, che ora si pronunzia quando si tratta della perdita dei
Stor, della rivol. Sicil. Vol. II
88
698
beni temporali. Applaudo vivamente a Napoleone III che scio
gliendo il Papa dai vincoli temporali, far alla Chiesa pi gran
beneficio che Costantino, e compir la pi gloriosa impresa,
pi grande che la vittoria di Solferino e di Magenta.
Da un lato io veggo Monsignore Affre morir sulle barri
cate predicando pace; dall'altra un papa che benedice chi pose
a sacco una citt cristiana. Chi di questi promosse maggior
mente la fede ?
Gli Italiani non sono ispirati da societ bibliche o propa
gande protestanti, come si dice. Non credono offendere il cat
tolicismo volendo la restituzione della patria, liberando da vin
coli la Chiesa. La libert di coscienza e d'insegnamento, la
libert generale la vera soluzione della questione.
Il presidente del Consiglio non vi diede che rivelazioni
di principii, ma queste suoneranno alto nella coscienza di 200
milioni di Cattolici; ci schiuderanno le porte di Roma, per.
ch noi dobbiamo avere per noi la pubblica opinione. Vorrei
che dal seno della prima camera italiana uscisse una voce che
gridasse: fiducia, santo Padre, nell'Italia e nel suo parlamento .
ll deputato Boncompagni sullo stesso argomento diceva;
il potere temporale moralmente morto; cadr affatto quando
si ritirer la forza che lo sostiene. A Roma bisogna sostituire
ad un governo imposto dalla violenza un governo voluto dal
popolo. Giorni sono, dicemmo Vittorio Emanuele Re d'Italia
e con ci affermammo il nostro diritto al cospetto dell'Europa
Dopo questo fatto non ci lecito, lasciare una menoma parte
fuori del diritto comune. E obbligo del ministero e del par
lamento tendere a tale scopo. Ma non dobbiamo illuderci sulla
difficolt. Noi dobbiamo anzi tutto armarci e cosi ci rende
remo rispettati in tutta l'Europa. L'Europa si persuader non
esservi altro mezzo di dare assetto all' Italia che riconoscerne
i diritti. Dobbiamo sentire molta gratitudine per la Francia,
ma ci non toglie che esprimiamo quanto sentiamo sulla fe
derazione. Essa sarebbe la restituzione degli antichi principii.
Il Piemonte non avrebbe che una voce contra l'Austria ed i
suoi discendenti.
Gli stranieri ci accusano di demagogia, fanno di noi tanti
Erostrati; ma ognuno di noi pu rendere testimonianza di
quanto si oper sin dal 1848 dagli uomini pi moderati per
che si conseguisse il fine cui tutti tendiamo. Cesare Balbo,
Gio
699
berti, Alessandro Manzoni rappresentano le idee moderate. Ma
tutto fu inutile; con mezzi pacifici non si pot ottenere nulla.
Ora giunto il tempo di fare sparire l'ostacolo che non
ci lascia conseguire lo scopo. Il pontificato debb'essere indi
pendente, ma non gli debbono sagrificare le popolazioni ita
liane. Anzi il Papa sar pi grande quando non avr pi il po
tere temporale . M Boncompagni concludeva il suo discorso col
proporre quest'ordine del giorno:
La Camera udite le dichiarazioni del ministero, confidando
che assicurata la dignit, il decoro e l'indipendenza del Pon
tefice e la piena libert della Chiesa, abbia luogo di concerto
con la Francia l'applicazione del principio del non intervento,
e che Roma, capitale reclamata dall'opinione nazionale, sia
resa all'Italia, passa all'ordine del giorno .
Due altri ordini del giorno vennero in seguito proposti, uno
dal deputato Greco che diceva:
La Camera udite le spiegazioni date dal presidente del
consiglio dei Ministri, e rinnovando, ed all'uopo guarentendo
la potest spirituale del Pontefice, proclama Roma capitale del
Regno d'Italia una ed indivisibile, ed invita il ministero ad in
vocare, in nome della Nazione da S. M. l'imperatore Napo
leone Ill lo sgombro delle truppe francesi dalla provincia ro
mana in conformit del principio di non intervento da esso
sapientemente adottato, e passa all'ordine del giorno .
L'altro fu del deputato Ricciardi concepito in questi sensi:
La Camera, persuasa profondamente al pari d'Italia tutta
la sede del parlamento e del governo italiano dover essere in
Roma, afferma innanzi al nondo questo solenne diritto, questo
desiderio concorde della nazione, e passa all' ordine del
giorno .
Cotesti discorsi della Camera non che i varii ordini del giorno
che mano mano venivansi proponendo, provano abbastanza
quanto disopra dicemmo, l'effetto cio del discorso del conte
di Cavour, la concitazione nell'animo dei deputati circa la so
luzione della questione romana.
Proposti gli ordini del giorno surse a parlare i deputato
Ferrari; egli disse:
700
Senza essere assolutamente contrario ai voti espressi in
quest'assemblea, volli invocare la vostra attenzione su alcune
considerazioni che mi parvero neglette. Tutti desiderano di
andare a Roma, ed io sono un antico soldato di questa guerra
immensa contro il pontefice. Era fremente per questo motivo.
Sempre volli andare a Roma, ma degnamente e per istarvi.
Prima di tutto vi rassicurer sulle mie divergenze: Non
chiesi al presidente del Consiglio che vada a Roma prima
dell'ora fissata dal destino. Sento tutte le difficolt visibili,
l'Austria e la Francia, e le invisibili forse pi grandi. Ma non
ritardate neppure un'ora. Si soffre a Venezia e a Roma, le
nostre parole seminano la rivoluzione, v' ansiet dovunque.
Si tratta della repubblica cattolica, della pi vasta associazio
ne. Desidero che se ne indaghi la forza, e con quai disegni il
governo vuol ottenerne lo scopo?
Il presidente del Consiglio ci espose la sua iniziativa, e
disse che questa fase cominci al Congresso di Parigi, che
vi fu grande concordia, che diresse il moto attuale. Si biasim
il re di Napoli, e il biasimo stette sul capo del re. Si chiese
la modificazione dei trattati, e di trattati in trattati, di proteste
in proteste, si giunse a Solferino. Il piano fu sanzionato colle
annessioni, che procederono con meravigliosa celerit. Il suc
cesso fu magico, rendo omaggio ai capi che diressero il mo
vimento, e il grande successo istantaneo mostra che vi sia
qualche cosa pi grande che non una parola venuta dall'alto.
E che cosa c'era di predisposto ? i fatti stavano nella rivo
luzione del 30 quale fu intesa in Italia. Manin fu grande per
aver risorta Venezia nell'antica sua forma. Vide che essa non
poteva pi vivere, e vide rigenerarsi l'Italia, si rivolse al
Piemonte, e gli disse: Sia l'Italia, se no no. Ma il Manin era
il primo che pronunziasse tali parole ? No, v' era una voce
pi antica che l'aveva proferita nel 30! Non vedo perch
dobbiamo usare reticenze in fatti conosciuti da tutti. Il nome
del Mazzini pronunziato dovunque e non lo sar qui? Io
non cospirai mai; il silenzio, le mene individuali mi spiaccio
no ; le cospirazioni, provenienti anche da un seggio di presi
denza, mi ripugnano. Che fece Mazzini? predic, smani pre
cisamente come Manin. Ma egli condannato; lasciamo questa
parte di storia.
, Voi vedeste il moto d'alto in basso, se io di basso in alto
vidi stendersi il regno in Lombardia, nell'Emilia e nella To
701
scana. E mi diceva: avete una riforma intera da compiere, e
pensate ad estendere il regno che gi vacilla. Dovevasi rifar
tutta la legislazione, l'amministrazione, e non vi si pensava
punto. Tutti pensavano solo alle annessioni da estendere. E
che fece il governo ? raccomando questa considerazione, che
schiarir l'ordine del giorno. Il governo sempre diceva : An
diamo a Parma, a Modena, ecc. I disordini si accumulavano,
le popolazioni erano scontente, e crescevano le annessioni. Ed
ora l'ultima carta andiamo a Roma. Ma con quali idee?
Noi porteremo uno stato provvisorio, disordinato, in una
nuova citt aggiunta al regno. Ecco quanto faremo. Il presi
dente del Consiglio ha la responsabilit di ogni cosa. Abbia
mo il disordine nell'armata, ve ne sono anzi due principii
diversi, e non fu possibile, pel breve tempo e altri motivi,
compenetrarle. Col tempo le differenze spariranno ; ma, infine,
ora sono allo stato di ebollizione. Il moto governativo che
parte dall'alto si trova alquanto diverso da quello che parte
dal basso, e possono nascere sconcerti e conflitti. Lo stato
delle Due Sicilie non punto soddisfacente, e il ministero
stesso ondeggia tra la conservazione e l'abolizione delle au
tonomie. Non accuso nessuno, ma il governo trascinato dalla
forza delle cose, deve cambiar tutto, non pu sbrigar la de
cima parte delle cose che deve discutere il Parlamento. Pas
sarono due giorni interi a parlare del palazzo Pollone.
Non potremmo in questa stregua in tre anni spicciar gli
affari.
Osservate l'anomalia della situazione. Riconosco che
l'alleanza francese il solo sistema nostro, e intanto non veggo
nella tribuna l'ambasciatore di Francia. Forse l'amicizia sar
anche pi grande, non ne so nulla, ma non possiamo fidarci
ciecamente della diplomazia.
Non parlo delle gare delle citt. Parliamo di andar a
Roma, intanto perdiamo Mentone e Roccabruna. E piccola
cosa, ma si tratta di un principio. Si tratta di sapere se il
governo francese riconosce come l'Italia tutto quanto sog
getta a Vittorio Emanuele. Allora potr prender Venezia,
Roma, ecc. Se riconosce l'Italia, come Italia, non capisco la
cessione di Mentone e Roccabruna. Mi spiacque la cessione
di Nizza, ma pi ancora il modo con cui si fece, cui non po
teva in alcun modo acconsentire.
Non voglio accelerare n ritardare, ma volli mettere sotto
gli occhi la condizione di un governo che si assume tanta
-
702
responsabilit, n riforma punto. Non attesi rivelazioni dal
governo. La Francia un paese aperto, e leggendo i giornali
sapeva ci che avrebbe fatto. Ma il conte di Cavour ci vor
rebbe metter Roma a parecchie condizioni. Prima condizione
di farla capitale, mettendoci tutte le forze organiche. La se
conda condizione , che vi andiamo di pieno accordo colla
Francia. La terza d'andar d'accordo coi 200 milioni di cat
tolici. La quarta col pi profondo rispetto pel dogma e l'isti
tuzione cattolica. Esaminiamo partitamente questi punti.
Consideriamo Roma come la capitale d'Italia che sia il
centro, la sede del nostro governo. Questa la prima ed as
soluta necessit. Qui posso assicurare che l'accordo unani
me. Roma la capitale naturale dell'Italia. I federalisti, i pon
tefici, gl'imperatori d'Austria e d'Alemagna riconobbero sem
pre questa verit, e a Roma si faceva l'incoronazione. Roma
capitale d'Italia, come Parigi di Francia. Tutti cedono e si
inchinano umilmente a Roma, anche ipocritamente. Questo
desiderio si ritrova in una lettera del guelfo Petrarca. E in
quel tempo che Roma era derelitta, e il papa stava in Avignone,
era tempo di miseria e d' infelicit. Il presidente del Consiglio
continua il sistema del Petrarca. Nessun federale su questo
punto si opporr al governo, anzi hanno simpatia per lui. In
fatti, come fu composto il gabinetto attuale? Unanime era
il gabinetto, e un bel giorno ci si disse che era sciolto.
Ma la nube si aperse, e vedemmo in essa una perfetta fede
razione. Non mi occupo dei misteri che presiedettero alla for
mazione di esso. Federalista l'ufficio della presidenza, per
cui si scelse un piemontese, un toscano, un siciliano, un ve
neto, che rappresentava pure la Lombardia. Nessun federale
sar per principio nemico del governo. Ma andiamo alla secon
da condizione.
L'accordo colla Francia. Lo sappiamo; era inutile ricor
darcelo, ma non aveva duopo di essere richiamato. La Francia
sostenne sempre il papa da Carlomagno, fu sempre guelfa, e
ancora adesso ci parla della necessit di conservare al papa
Roma o parte di Roma. Una gran parte del corpo legislativo
ricord l' opera di Carlomagno.
Veniamo ai 200 milioni di cattolici. Ma questi si ridu
cono all'Austria. La Spagna e il Portogallo potrebbero esserci
contrari, ma non s'ingeriscono da molto tempo nelle cose
d'Europa. Nelle altre parti del mondo non san neppure i cre
denti ove sia situata Roma.
-
705
Non avrei voluto tenervi questo discorso, ma giacch la
discussione ha luogo, bisogna parlarne. I due poteri non sono
punto incompatibili, perch da molti secoli hanno luogo insie
me. Le proteste e le insurrezioni sono antichissime. Si tratta
del fatto pi solenne della storia d'Italia, la soppressione del
governo pontificio. Sottoscrivo tutte le accuse che si fecero a
quel governo, oltre molte che se ne potrebbero fare. Ma sono
fatti quotidiani, e la rivoluzione stessa francese e la Spagna
diedero proteste e critiche amministrative. E non indebolir
la nostra causa adoprar in tal modo ?
-
Gl' iniziatori del moto attuale, e i Rosmini, e i Gioberti,
si fermarono sempre avanti a Roma. In essa troviamo l' al
lettativa del frutto proibito, la lotta. Ma l'aria di Roma per
stifera ai re. Non sar questa la sorte della nostra dinastia.
Ma il nostro paese quello delle conquiste meravigliose, e al
tres delle sconfitte anche meravigliose. Si giunger infallibil
mente a Roma, ma per un ordine superiore alle nostre idee.
La corrente delle idee francesi stabilite nel secolo scorso che
produsse l'89, muove la Francia. Questi principii vogliono la
soppressione del governo temporale del papa. una forza cui
non si pu ubbidire. Trovate una voce contradditoria in Fran
cia. I suoi consigli si mutano. Ogni nazione deve trarre dal
proprio seno l'indipendenza e dai vicini solo le idee. Noi non
abbiamo pur un'Accademia, non abbiamo libert di stampa
in cose religiose. E come mai potremo giungere a Roma?
Sappiate che non andate a Roma, e non vi rimanete che colle
idee mutate.
Altri discorsi, interpellanze e spiegazioni succedettero a que
sto, ma la discussione rimase aperta.
Nella tornata del 27 maggio i deputati Levi, Petruccelli e
Regnoli presentarono nuovi ordini del giorno sulla questione
romana. In quella seduta il deputato Chiaves prese la parola
dicendo:
Credo far bene a restringermi all'ordine del giorno del
signor Buoncompagni e alla risposta del presidente del Con
slglio.
Il Pontefice ridotto a capo spirituale. Si vada a Roma
coll'assenso dell'alleato di Francia. Non ho che a soscrivere a
tale proposta, vedendo soddisfatto cos il sentimento cattolico.
. 704
Il signor Ferrari credeva doversi prima sciogliere la questione
del cattolicismo; ma si aspetterebbe troppo. Il sentimento re
ligioso d'Italia reclama che s'impedisca l'allontanamento del
Pontefice da Roma. Considerando il Piemonte ove nacqui, vidi
che parrebbe incompatibile il sentimento cattolico colle lotte
colla Chiesa, se non fosse profondamente radicato nei cuori.
Il popolo udi il clero tuonar dal pergamo contro la libert e
la dinastia, imprec contro alcuni sacerdoti che stranamente
abusarono del loro uffizio, come si fece col compianto Santa
rosa, e tuttavia non venne meno il suo sentimento religioso.
Il Papa, capo spirituale, allontanato da Roma, sar sempre
considerato come esule. Tal fatto implicherebbe un diritto di
ritorno, si lederebbe il principio di non intervento. Se gli
Stati romani deliberassero di ricollocare il Papa a Roma non
si potrebbe innovare quel principio, perch si tratterrebbe di
una questione religiosa. Perci il governo debbe adoperarsi
perch l'allontanamento non abbia luogo.
Ora avrei bisogno di alcune spiegazioni dal presidente
del Consiglio sopra altra questione. Egli asseri esser d'uopo
si dichiari che Roma si debba dir sin d'ora capitale d'Italia.
Nato in Piemonte, compresi la condotta di questa provincia.
Essa si svesti d'ogni municipalismo quando si tratt di far
risorgere l'Italia. Sapeva sin dal principio che ci l'avrebbe
danneggiato, e tuttavia tent e ritent l'opera. Impar da Pietro
Micca a dar fuoco alla mina, anche a costo di perire.
Si tratta dell'esautoramento di Torino. E gli abitanti sono
tranquilli, bench abbiano interessi di famiglia e propriet, e
sentano mestizia per quel fatto. Scoppiasse pure una tem
pesta in quest'assemblea, uscendo per le vie di questa citt vi
raSSerenereSte.
lo pure mi associo alla voce universale che Roma deve
essere capitale d'Italia. Mi pareva tuttavia intempestiva la di
chiarazione per l'interno e per l'estero. All'estero tale idea
non capita come fra noi. Ma quando il presidente del Con
siglio dice che bisogna proclamarla ora, avr le sue buone
ragioni.
Ma se queste consistono nella necessit di dir ragioni
esplicite su questa ringhiera contro ci che fu detto a Parigi,
bastavano le ragioni di libert e d'indipendenza.
Lasciamo ora la questione dell'opportunit. Dimando qualche
spiegazione su questa traslazione della sede del governo. Sul
705
Mincio e sul Po vi sono preparativi grandi di guerra. Il tra
sferimento importa un gran dissesto, incertezza, indebolimento.
E non ostante le minacce di guerra si far tuttavia questo
trasferimento? Lo Stato attuale di cose d molta fiducia ai
nostri fratelli della Venezia si forti e costanti. Ma vorreste
voi mutare questo stato attuale, privarli anco per un mo
mento della costanza onde hanno tanto bisogno? Si potrebbe
rendere deteriore lo stato delle cose.
Sento dirmi assai sovente: l'opinione generale ci spinge,
ci trascina a Roma . Anzitutto, l'opinione universale qualche
volta di sbaglia, e bisogna concederle solo ci che si concilia
colla coscienza e l'interesse nazionale. Parmi che si sarebbero
dovute arrestare le imputazioni che ad un egregio personaggio
si fecero, per i grandi suoi meriti verso la patria.
Non s'investig molto pel passato tale opinione universale.
Esaminiamola da vicino e vedremo che essa non dice punto
di andar subito a Roma, bench per l'avvenire la proclami ca
pitale d'Italia. La capitale deve essere alla testa della nazione.
Sgraziatamente la vita civile e politica a Roma non tale che
possa metterla a capo della nazione.
Non certamente la strategia n la topografia che fa le
Capitali. La grandezza di Roma non ha che fare con la poli
tica. Dicesi quindi, aspettiamo che la vita politica si svolga
in quella citt, e allora sar veramente capitale d'Italia. Le
nazioni amano di quando in quando piantar termini nuovi di
uno studio di civilt generosa. Ci si far, grazia all'intelli
genza di quella popolazione; per ora, dice anche la opinione
generale, ci non ha luogo.
Le glorie degli avi sono sacre. Ma anche il tempo di
dire che esse debbono essere considerate solo come un in
coraggiamento, un sacro deposito. Si disse per altri che per
-
essi si era fatto tutto, e ci volevano schiavi o neghittosi. Il
popolo italiano si content un po' troppo della gloria degli avi.
A molti ci spiacer, ma il consiglio debb'essere accettato da
questa ringhiera,
La maest del luogo, la grandezza dei monumenti influisce
sugli atti. Certo il prestigio a Roma sarebbe grande. Ma piut
tosto i fatti e gli uomini fanno grandi i luoghi e non vice
versa. L'Isola di Caprera era finora inosservata. Il gran gene
rale vi depone un monumento, la spada, e il navigante che
vi passa vicino la saluta, e tutti guardano a quello scoglio.
Stor, della rivol. Sicil. Vol. II.
89
706
L'opinione universale si adatter ad attendere. Prima
necessario provvedere alla Venezia che geme sotto il giogo
straniero. Un intempestivo traslocamento potrebbe riuscire mi
cidiale. La corona che si deporr sul sovrano a Roma non deve
esser monca. Finch rimane un lutto immenso in famiglia non
si pu compir l'opera a Roma con gioia.
Se i miei timori si avverassero, non avrei mai avuto do
lore si grave.
Il deputato Boggio prese anch'egli la parola e disse:
La questione che trattiamo non solo politica, ma reli
giosa in quantoch la deliberazione del Parlamento pu influire
sulle relazioni della Chiesa con lo Stato.
Noi tutti vogliamo che cessi il poter temporale dello Stato
e Roma sia restituita all'Italia. Due soli si discostano alquanto
dall'unanimit. Il deputato Chiaves, d'accordo nella sostanza
si discosta quanto all'opportunit. Il deputato Ferrari fece
accorte allusioni e manifest pensamenti che dimostrano la
vigorosa sua intelligenza e dottrina, ma si discosta alquanto
altresi dall'oggetto.
Per me l'arrivo a Roma l'ultimo passo per arrivare a
Venezia. Quando Roma sia capitale della Penisola, Venezia
sar nostra, perch l'Italia sar costituita allora in modo de
finitivo. La liberazione di Roma la vera soluzione del pro
blema.
Il signor Ferrari ci opponeva che non potevamo fare
quanto molti tentarono invano. Ci diceva che neppure i bar
bari si poterono fermare a Roma. Ma essa due volte capo della
civilt, non poteva divenir preda dei barbari, che sarebbe stato
un sacrilegio.
Egli non vede unit in Italia, neppure al ministero e
nella presidenza; se cosi il suo federalismo, federalisti vo
-
gliamo esser noi. Se si tratta solo di rispettare le tendenze, le
abitudini, le tradizioni locali, coll'unit politica e il decentra
mento amministrativo, federalista sono pur io.
Dice che il nuovo regno ha sin paura di un individuo,
ed esitava a pronunziarne il nome. E non esito io a dichia
rare che tutti contribuirono a far l'Italia, e anelo al momento
che non vi sia pi un proscritto in Italia, non un servo.
Ci diceva che a Roma troveremo un nemico che non si
707
pu domare, che assorbi forze ben maggiori, ed alludeva al
principio religioso. Crede che ben tosto si restituirebbe al
poter temporale. Ma gli ammaestramenti storici dimostrano
che il poter temporale non mise mai salde radici, si ristabi
lisce e scompare, e fu sempre contrastato. Ne fanno fede cen
tosettanta sollevazioni.
Diceva il sig. Ferrari che non basta andare a Roma, ma
potervi stare e con altre idee: cio che non vi andassimo
come cattolici. Il presidio francese sta a Roma trattenuto da
una forza morale, dagli interessi del cattolicismo. Questi im
pediscono che Roma sia gi capitale d'Italia, perch vuolsi
assicurata la libert della Chiesa. Questa assicuranza della li
bert della Chiesa il punto cardinale della questione; il pi
importante provare che l'occupazione di Roma non un
ostacolo. importante affermar qui ci che intendiamo per
libert della Chiesa. Importa che dal primo parlamento ita
liano dichiarisi, almeno per discussione, che l'indipendenza as
soluta dello Stato implica la rinunzia ad ogni ingerenza nella
Chiesa, che questa nomini liberamente i vescovi, che cessino
i rapporti anormali tra le due societ, le leggi che invadono
il dominio delle coscienze. Perci mi accosto volentieri alla
proposta del sig. Boncompagni. Conchiudo collo sperare che
Pio IX benedir Roma risorta sul Campidoglio.
Il deputato d'Ondes alla sua volta parl cos:
Sar pregio del primo parlamento italiano l'avere agitato
la pi gran quistione del nostro tempo. Convengo col signo
Ferrari che le idee dominano i fatti; ho fiducia nella verit;
altrimenti ogni disussione sarebbe inutile.
La religione cristiana domina ovunque, ma nella esterna
sua costituzione ebbe grandi trasformazioni. In origine furono
miserabili perseguitati, che sparsero la sapienza pel mondo.
-
Quando un imperatore si fece cristiano, la Chiesa si as ise
sul trono e nacque il concetto delle due potest. Gregorio
Magno fu una sublime figura. Seguirono poi i tempi in cui
i Franchi furono invocati contra i Longobardi, e quest'anno
fu il segnale del risorgimento dell'occidente. Poi cominci la
lotta fra il papato e l'impero, per gara di supremazia; ma, se
condo quei tempi, i pontefici fecero un gran beneficio, fre
nando a favore dai popoli la prepotenza dei Re. Innocenzo III,
708
Alessandro III, paragonati a Enrico IV, a Federico Barba
rossa furono pur superiori, bench, come uomini, abusassero
talora del loro potere. Furono allora tempi grandi per l'Italia,
eroici pel papato. Quando Enrico IV stava nel cortile di Gre
gorio VII e il Barbarossa faceva lo staffiero a papa Ales
sandro, la forza brutale s'inchinava alla morale.
Se fosse nell'essenza del papato la potest temporale
non vi sarebbe a discutere. Ma questo non il caso. Il fon
datore del cristianesimo disse: rendete a Cesare quello
che di Cesare, e a Dio quello che di Dio; ma disse
anche: il mio regno non di questo mondo. Non voglionsi
ritener quelle sentenze nel loro senso genuino. Anzi la reli
gione vuole la separazione, colla persuasione si deve cercare
di ottenere questa nuova trasformazione. La forza la dobbia
mo ricavare dalla religione; ogni altra sarebbe vana. Il signor
Ferrari vuole un'altra forza morale, io non la so trovare.
Eterna la potest del pontefice. Intendo che si vada a
Roma, ma quando il sommo gerarca consenta, e si ottenga
la benedizione da lui.
Le parole di questo deputato tornarono quasi ridicole in
faccia alla Camera. E per fermo, basta ammettere di dover
andare a Roma col consenso e con la benedizione del Papa
per non andarvi mai. D'Ondes o non conosceva o aveva di
menticata in quei momenti la storia politica dei Papi.
Il deputato Ricciardi prese anch'egli la parola e disse:
Tutti consentiamo in due punti: l'esautorazione del Papa
come principe, il far Roma capitale. Ma come andremo a Roma?
L'opinione pubblica far forza sullo stesso Napoleone III. Egli
non voleva pure unita Napoli e Sicilia, e che le Marche e
- l'Umbria non facessero parte del regno italiano, e cedette.
Ma la forza morale non basta; ci vogliono armi e cannoni.
Ce ne dia il ministero e gli perdoneremo i suoi peccati. Siami
lecito protestare contra gli altri ordini del giorno. In uno si
allude ad una petizione da mandare a Napoleone Ill, ora il
Parlamento riceve petizioni, noi ne manda altrui.
. Il deputato Maresca volle disfogarsi contra l'episcopato
francese dicendo: Vengo a profferire una parola contra l'epi
scopato francese, che volle sostenere il potere temporale del
Papa. Esso dimentic il principio del suffragio universale su
709
cui si fonda Napoleone III. Io lo vorrei richiamare sul vero
interesse religioso dell' Italia. Luttuosa era la condizione del
cattolicismo in Napoli sotto Ferdinando. Esso aveva costituito
l'episcopato in tal modo che era divenuto giudice dello stesso
Papa; quindi la lotta tra il padre Curci e il governo. E si
vide l' episcopato predicare l'anno 1849, anno delle pi grandi
sventure, come il pi avventurato. Credo che la Chiesa trover
nella libert la vera sua indipendenza.
-
necessaria una nuova professione di fede prima di an
dare a Roma? No, vi andremo con la fede di Balbo e di Gio
berti. Era il concetto del sig. Ferrari che vi fosse piena li
bert di culto, uno svolgimento compiuto di tutte le nostre
facolt? Ma i Francesi sono a Roma. Se mi si permettesse un
concetto, direi non essere necessario che partino. I nostri sol
dati potrebbero abbracciare i Francesi. Essi ci riceverebbero
con piacere avendo combattuto con noi.
Prese per ultimo la parola il deputato Macchi e disse:
Dopo tanti discorsi ci metteremmo a rischio di venir cri
ticati se non venissimo ad una conclusione pratica. Come
possiamo acquistar Roma? allontanandone i Francesi, e quindi
invitando il governo ad adoperarsi in quel senso.
La petizione, che gi conoscete, potrebbe venire all'uopo.
Per non prolungare la discussione, proporei un ordine del
giorno che esprima i nostri sensi unanimi e dia una specie
di soddisfazione ai petenti...
-
Dopo tanti discorsi e disparate opinioni, il Conte di
Cavour per rispondere a tutti disse le seguenti parole:
Esporr le opinioni del governo sulle varie proposte, e
risponder ad alcuni rimproveri e ad alcune dimande che mi
vennero fatte. Escludo per dalle risposte l'onorevole Ferrari,
che fu affatto parlamentare, ma si scost dalla pratica, e per
mancanza di cognizioni bastanti non lo posso seguire sul suo
terreno.
Egli disse che non amava i cospiratori neppure nel seggio
della presidenza. Lo ringrazio : Cospirai dodici anni per pro
cacciar libert alla patria, cospirai nei giornali, nel Parla
mento, nei Consigli d' Europa. Cercai addetti e trovai ad
940 ,
detti i deputati, la Societ nazionale, ed ora ho complici 26
milioni d'Italiani.
Dice che cercai annessioni per evitare le difficolt che in
contrava per via, che voglio andare a Roma per evitarne altre.
L'onorevole Ferrari spieg la politica delle annessioni, e le
disse fatte per ripiego politico. Esso disse che andammo a
Parma perch alcune leggi del ministero precedente non erano
piaciute in Lombardia; esso disse che andammo a Modena,
perch forse si era malcontenti di quel 33 per cento di cui si
tanto parlato, e forse dir che se andremo a Roma, lo faremo
per schivare la grave e spinosa questione delle regioni.
-
L'argomento pi specioso che solido. Sarebbe come
se si volesse rimproverare le mosse ardite di un soldato che
insegue il nemico, dicendogli: ma voi non potete aver cura
della retta amministrazione, della polizia delle armi, e dei
guasti nella tenuta; ma io sono persuaso che quando questo
soldato avesse ottenuto splendidi risultati di guerra, i suoi con
cittadini gli perdonerebbero se, ritornando dal campo di bat
taglia, non si trovasse in quel perfetto stato, in cui si trovava
nel campo della manovra.
Ora prendo commiato da lui per rivolgermi ad altri per ve
nire all'esame degli ordini del giorno. Fra questi l'ultimo pro
-
posto dal deputato Macchi parmi che impicciolisca la questione
volendo prendere argomento da una petizione. Nessuno degli
ordini del giorno mi pare che possa riassumere le idee si lu
cidamente esposte dall'interpellante come quello del sig. Bon
compagni, che inchiude una specie di risposta. Acclamai la ve
rit che Roma debb'essere capitale d'Italia, e che questa ve
rit debbe proclamarsi immediatamente. Il deputato Chiaves
trova la proclamazione intempestiva e troppo esplicita, e chiede
come il governo mander ad effetto il disegno. Vorrebbe si li
berasse prima Venezia. Io credo che se non potessimo va
lerci di questo potente argomento che Roma deve essere la
nostra capitale, non si otterrebbe il consenso del mondo cat
tolico.
Supponete che la sede del cattolicismo fosse in una citt,
collocata ai confini della Penisola senza una grande memoria
storica, come Aquileia, se fosse risorta. Credete che sarebbe
facile ottenere il compenso delle potenze cattoliche alla sop
pressione del dominio temporale in quell'estremo lembo d'Ita
lia? No, o signori.
711
Si trarrebbero in campo parecchie ragioni per negarcelo;
ci si direbbe che l' interesse italiano non deve prevalere sul
l'interesse del cattolicismo. Ed il ministro degli affari esteri
per quanto fosse sussidiato dai professori di diritto interna
zionale, non arriverebbe a convincerle.
Roma, come tale, una condizione del buon esito delle
pratiche che il governo deve fare per giungere allo sciogli
mento della quistione romana.
Si potrebbe invocare il non intervento, ma ci si direbbe
che in politica non v' ha niente d' assoluto, e simili cose.
Quindi la condizione anzidetta necessaria, perch le pratiche
-
abbiano buon esito.
Pare che il signor Chiaves voglia che si educhi il popolo
romano prima del trasferimento. Tale dilazione sarebbe per
me peggio che la rinunzia. Non intendo vincolare il ministero
sul tempo e sul modo del trasferimento; che la Camera si
obblighi a partir per Roma il primo di che sia libera. Sar
oggetto di un voto del parlamento tale atto, non un solo atto
del potere esecutivo. Si esamineranno le difficolt, se con
venga differire. Allora il sig. Chiaves potr proporre i tempe
ramenti che creder utili.
Sollevata questa quistione, aggiunger un solo argomento.
Si provata con tanta eloquenza la necessit, che io aggiun
ger solo l'argomento ab absurdo. Per mostrar le conseguenze
funeste della dilazione, suppongo arrivato il periodo dell'u
nione di Roma col Regno. Se la questione non avesse una so
luzione diffinitiva, tranne per motivi supremi, l'Italia sarebbe
tutta agitata, fra coloro che vorrebbero recarsi tosto, e coloro
che vorrebbero ritardare. Se si trovassero riuniti 200 depu
tati nell'antica Roma, non si troverebbero quasi costretti a
fermarvisi, invece di seguitare la via? Assicurato lo Stato, evi
tato lo sconvolgimento del governo, spero che il sig. Chiaves
ammetter che sia meglio fare il trasferimento prima che
dopo.
Il signor Audinot non vorr che io parli delle pratiche
che si possono fare per sciogliere la questione, che si co
munichino dei dispacci confidenziali. Vi parteciper ora un
segreto. I dispacci ufficiali spargono ben poca luce. Invalso
l'uso di comunicarli, hanno perduto molto del loro valore. I
dispacci pubblici hanno ora pi il carattere di un articolo di
giornale che di atti diplomatici. Ma il ministro vi indic nel
712
modo pi preciso la sua condotta politica; vi pales i suoi
principii; crede che il concerto con la Francia si otterrebbe
quando la societ cattolica si persuadesse della verit, e che
allora il pontefice stesso si arrenderebbe. Non si poteva for
mulare in modo pi schietto il programma.
Non mi illudo; la questione dell'indipendenza del Papa
possa dipendere dal poter temporale un errore provato ma
tematicamente. Quando uno ha a mendicar armi e danari per
sostenere il poter temporale dipendente. Un uomo modesto
che non deve nulla a sua casa pi indipendente che il possessor
di latifondi che non pu uscire senza bersaglieri che lo pro
teggano. I cattolici di buona fede ne devono convenire. Il
Papa otterr pi libert che non abbia ottenuto per tre secoli
a forza di diplomi e di concessioni alle altre potenze. Siamo
pronti a proclamare il gran principio: libera Chiesa in libero
Stato.
Parmi impossibile che il Papa non accetti uno stato in
cui non gli si imporranno pi riforme che egli non pu dare,
in cui non sar costretto ad imporre il celibato a giovani
di 25 anni nel fervore delle passioni, in cui non gli si chie
der la libert religiosa, la libert d'insegnamento che non pu
concedere. Ed io sempre proclamai questi principi, sin da
quando mi opposi nel Parlamento all'incameramento dei beni
ecclesiastici. Noi vogliamo tutta la libert possibile, ed anco
il principio della libert applicato alle relazioni tra lo Stato e
la Chiesa; e in questo avr consenziente l'avvocato Boggio,
autore dell' opera della Chiesa e dello Stato. Queste idee non
tarderanno ad ottenere favore, ed allora ci potremo accor
dare con la Francia.
Ma per ottenere questo scopo necessario che il governo
abbia tutta la forza, e perci prego gli onorevoli proponenti
ad associarsi alla proposta del signor Boncompagni, la quale
non differisce molto dalle loro. Approvate questa proposta e
vi sar dato di conseguire fra non molto la riconciliazione dello
Stato e della Chiesa,
della libert e della religione .
L'ordine del giorno del deputato Boncompagni fu appro
vato ad unanimit. In questo modo e con siffatta promessa il
conte di Cavour dava fine alle interpellanze sulla pi difficile
e grande questione del giorno, e sviando il pensiero degli Ita
liani dalla guerra, contra l'Austria, lo concentrava tutto nella
speranza di veder presto sciolta la questione romana.
715
Ora si convien dire che le cose andavano sempre per il
medesimo verso; che il conte di Cavour non aveva ragione al
cuna di mostrare probabile l'assestamento dei rapporti tra la
Chiesa e lo Stato, e che lo stesso Napoleone III non aveva an
cora datogli a sperare nulla di positivo sopra le sue diffini
tive risoluzioni.
Quanto egli diceva, quanto prometteva, quanto faceva pre
vedere non era che arte di politica o al pi aspirazione e de
siderio individuale di lui.
Un'altra questione di grande interesse trattata dal primo
Parlamento Italiano fu la questione di Napoli, anzi di tutta l'Ita
lia meridionale. Nei precedenti capitoli parlammo minutamente
del mal governo di quelle provincie, cagione del quale era in
parte la difficolt di assestare un paese liberato per rivoluzione,
e in parte ancora l'incapacit dei governanti e i loro errori
nati dallo spirito di opposizione contra tutto ci che il governo
dittatoriale aveva stabilito. Il brigantaggio infieriva, l'ammini
strazione della cosa pubblica era impossibile, le popolazioni per
molti motivi si trovavano agitate, il malcontento divenuto ge
nerale di giorno in giorno si accresceva.
Cotesta situazione richiedeva pronti ed energici provve
dimenti voluti non solamente dall'obbligo di tutelare la vita e
la sostanza dei cittadini, ma anco dalla conservazione dell'u
nit italiana, perciocch non sarebbe stata impossibile la se
darazione dell'Italia meridionale, molto pi che i partiti soffri
vano discordie e gelosie.
Eravi inoltre la questione sul sistema amministrativo, ten
dendo alcuni a conservare l'autonomia amministrativa delle
provincie, ed altri alla centralizzazione di tutto.
Cotesti interessi portarono varie interpellanze al Ministero,
la prima delle quali fu quella del deputato Massari. Questo
deputato diceva nella seduta del 2 aprile:
4 aprile 1861.
Debbo trattenere la Camera sopra un doloroso argomento.
Il pericolo grande, perch la questione amministrativa
pu pregiudicare la politica, e i nemici attendono l'occasione
di poter dire che gl' Italiani non possono costituire la loro
unit. Sollevo una grande questione. Certe questioni non si
possono sollevare senza pericolo, invece di attutare le ire, si
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
90
714
ravvivano. Perci mi sarei taciuto, se alte ragioni non m'aves
sero dissuaso. Gli inconvenienti del silenzio sarebbero anche
peggiori: nei mali della libert il miglior rimedio ancora la
libert. Le interpellanze dimostreranno che il primo parla
mento italiano provvede a quelle provincie. Vengo a sollevare
una questione di principii, non di uomini: non intendo cen
surare alcuno, ma un cattivo sistema. Sono estrano alle ambi
zioni particolari degli uomini, ed escluder qualunque persona
lit dal mio dire.
Un' altra dichiarazione io debbo fare. La questione ch'io
tratter amministrativa, non politica. Non abbiamo che un
programma politico: la monarchia costituzionale sotto Vittorio
Emanuele. Con ci diamo una risposta parentoria agli ora
tori francesi che negavano la nostra concordia.
E duopo conoscere quali cause determinarono quelle
provincie ad abbracciare con tanto calore l'unit d'Italia. Poco
conosciuta la loro condizione; io stesso esule da dieci anni
m'avvidi che il mio giudizio era erroneo. un errore il cre
dere che la rivoluzione sia un frutto d'importazione. Quella
parte d'Italia non aspettava che un impulso. Il concorso che vi
trovarono i volontarii super la loro aspettazione, me ne ap
pello ad essi. L'impulso venne accolto con entusiasmo, perch
sulla loro bandiera era scritto: ltalia e Vittorio Emanuele.
Altro errore che il sentimento nazionale nell'Italia Me
ridionale non sia fervido. Mi dovetti convincere del contrario.
Essi desiderano ardentemente l'unit italiana. L'autonomia na
poletana non so quanto potesse pel passato essere giustifi
cata a Napoli, ma ora essa non ci ricorda che un'ra d'infe
licit ed ripudiata da tutti. Smarrirono quelle popolazioni
ogni coscienza, ogni fede in s medesime. In altri tempi ci
sarebbe una sventura, ora una fortuna.
A produrre questo risultamento concorsero le arti dei
nostri tiranni. Ferdinando II e il suo successore furono a quel
titolo grandemente benemeriti dell'Italia. Perduta ogni fede
nell'autonomia era naturale che si cercasse l'unione. Non vi
forza umana che possa restituire il Borbone a Napoli. Non
conosco un uomo di buon senso nel mio paese, il quale non
sia persuaso che l'unit italiana sia necessaria anche alla tran
quillit del paese.
-
Molti uomini che ora siedono, come me, in questo re
cinto, si occupavano gi assai pi della questione della libert
715
che dell'indipendenza. Ora la questione nazionale sta in cima
di tutte. Scacciati i Borboni si palesarono a Napoli due par
titi, uno per l'annessione immediata, l'altro per la dilazione.
Ma prevalse il primo. Non bisogna dar piena fede alle rela
zioni esagerate di alcune Gazzette. Non erano che risse e gare
municipali, che prendevano consistenza per esservi allora, an
cora il pretendente del paese. Ogni malandrino prendeva pre
testo da ci. Potrei provarvi che le grandi reazioni allegate non
erano che lotte insignificanti. Infatti, caduta Gaeta, non
se ne parl pi. Dunque per sentimento nazionale la popola
zione napoletana volle l'unit italiana.
Desiderava una buona amministrazione. La ottenne ? Credo
poter rispondere con una recisa negativa. La prima condi
zione di buona amministrazione la sicurezza pubblica, e
questa non esiste punto n poco. Se il signor Ministro vorr
assicurarmi che si facciano percorrere da colonne mobili
quelle provincie, mi dar la pi soddisfacente risposta.
Per odio del governo che vigeva si desider l'unit ita
liana. Ma il vecchio edificio sussiste tale e quale e perci che
riguarda le persone, e perci che riguarda le cose. Voleva
parlare dei disordini delle poste e dei telegrafi. Ma il ministro
mi prevenne, avendo soppresso le direzioni relative a Napoli.
Plaudo in ci a tutte le innovazioni del Ministro dei lavori
pubblici.
Esiste la turpe classe a Napoli dei sollecitatori. Chi
vuole pronta giustizia deve ricorrere a mezzi pecuniarii. Altra
piaga di quel paese il numero stragrande degli impiegati.
Se il Borbone fosse divenuto re d'Italia non avrebbe avuto
ad accrescerne il numero. Era sperabile che si cominciasse
a portarvi la falce, e invece il numero degli impiegati in al
cuni dicasteri ancora accresciuto.
ll dicastero di agricoltura e commercio fu applicato agli
interni. Non pareva necessaria la creazione di un direttore e
fu ancora ampliata la pianta del dicastero. Il bilancio viene
strabocchevolmente caricato. Prego il ministro dell'interno che
presenti il quadro di tutti gl'impiegati e pensioni accordate
a Napoli dopo il mese di novembre.
Fu annunziato nella Gazzetta ufficiale di Napoli un con
tratto di strade ferrate per molti milioni. Nella stessa vediamo
accordato un milione per chi sofferse nelle ultime vicende
politiche non so con quali diritti e con quali fondi. Non so
716
se sia da approvarsi il sistema di un'indennit di quel ge
nere: in ogni caso non si poteva arrogare quel diritto l'am
ministrazione di Napoli. Quelle sofferenze non si possono per
lo pi compensare con denaro e un mio nobile amico, cui si
disse che avrebbe potuto ottener un compenso dal re rispose
nobilmente, non voler capitalizzare la sventura.
Altro vizio del governo era l'inosservanza delle leggi. La
legge comunale e provinciale fu promulgata alla met del
l'anno scorso, e non si diede alcuna disposizione per la for
mazione delle liste elettorali.
Sar lieto se il signor ministro mi potr assicurare che si
procede all'attuazione di quella legge. Vi sono poi a Napoli
leggi che si promulgano per non essere osservate e solo acca
demicamente. Cosi la legge della Guardia nazionale. lo mi
rivolgo al ministro perch la mandi tosto ad attuare. Colgo
quest'occasione per far elogio a quelle milizie che rendono
tanti servizii al paese.
Le provincie meridionali sono in balia della Provvidenza,
si difendono da s. Con una circolare furono avvertiti i gover
tori che stava per partire una spedizione da Gaeta. Biso
gnava vedere con che zelo le milizie si adoperavano per
provvedere alla difesa, ed erano o male o punto armate. Sono
invece poi provviste di armi quelli che aggrediscono.
Napoli, o per meglio dire, l'amministrazione che v' sta
bilita, non si ricorda delle Provincie che quando trattasi di
cambiar governatori. Se ve ne ha uno intelligente certamente
malvisto. Il ministero della guerra fece il brutto regalo di
congedo illimitato ai soldati.
Il sistema amministrativo non fu certo informato al princi
pio di unificazione: accenna anzi alla negazione della mede
sima. Si promulgarono le leggi alla vigilia dell'apertura del
parlamento, e ne taccio perch furono utili. Non accenno per
al codice penale e alla legge sui conventi. In questi momenti
avrei voluto evitare una grave causa di discordia. Per quanto
concerne l'autorit giudiziaria, bramerei sapere se le disposi
zioni, verranno prese a Torino od a Napoli. Se saranno prese
a Napoli riusciranno poco accette. Allegher un ultimo fatto:
La circoscrizione della nuova provincia di Benevento. Nel
cessato governo si sentivano prima le persone interessate, poi
il consiglio di Stato. Ora si fa senza interrogar alcuno. Si
sconquassarono senza urgente bisogno cinque provincie. Di
717
mando se autorit locale, temporanea sobordinata possa toc
care la circoscrizione del reame. La prima condizione che
si ha da cercare l'elevata probit politica. Tocco in questo
momento un punto assai delicato e prego la Camera ad es
sermi indulgente. Comprendo che in certi ambienti sia facile
smarrire il senso morale. Ma noi qui stiamo fermi nel dichia
rare altamente i principii. Alcune debolezze possono essere
scusate non glorificate. Perci vidi con dolore, sotto gli au
spici di un augusto principe di Savoia inaugurata un'ammi
nistrazione la quale non si pu sostenere coi principii che ho
annunciato.
La quiete ora non turbata, grazie al contento delle muta
zioni: ma in realt la condizione di quelle Provincie tale
che non pu impunemente durare. Debbo conchiudere il mio
discorso ormai lungo coll'indicar i rimedi. Bramo che si
tronchi il male dalle radici, non si facciano soli mutamenti di
forma. Finora non si amministra nulla e si fecero leggi a bi
zeffe. Le leggi le faccia il Parlamento e prego i ministri di
mandarle ad esecuzione. Si promuova, per quanto possibile,
la promisquit. Non temete di ci che dicono il piemontesismo.
Le nostre popolazioni sanno che il Piemonte diede all'Italia le
sue istituzioni, la sua dinastia, che acquist molti titoli alla
loro gratitudine. Chiedete ai nostri soldati quali sono i senti
menti delle nostre popolazioni verso il Piemonte: chiedetelo
ai militi del battaglione mobilizzato che lasci s buona memoria
di s. I dottori Cornero e Bottero, gi nostri colleghi vennero
inviati nelle Calabrie, e potrete interrogarli a questo proposito.
In forma generica, in quarto luogo vi chiedo l'attuazione dei
lavori pubblici, e specialmente delle vie ferrate. dovere del
governo provvedervi; non volendo pregiudicare la questione,
mi limiter a raccomandarla via degli Abruzzi a Brindisi.
Altro rimedio di decentrare l'amministrazione. Con questo
voi darete alle Provincie la vita che aspettano. Farete venir
a galla il paese. Duolmi dover insistere sulla soppressione dei
Consigli di Luogotenenza. Nel decreto non vedo che cangiati
i nomi. I segretari generali sono nominati a Napoli e dal go
verno Centrale.
interesse del paese che la responsabilit stia nel governo;
ora ha luogo una vera anomalia importante: questa la que
stione. Una grande questione fu ventilata la settimana scorsa:
Ho assistito con profondo sentimento, quando si evocava
71S
l'antica Roma. Ma a me pare che lo scioglimento della que
stione dell'amministrazione di Napoli altresi avr una grande
influenza su tutta l'Italia. Non so se la mia voce sia riescita
grata o incresciosa. Tale pu essere quella che accenna a pe
ricoli. In ogni caso ricordatevi, signori, che il solo bene del
paese mi mosse.
A questa interpellanza tenne dietro quella del deputato Pa
ternostro siciliano. Il ministro erasi riserbato di rispondere
in fine di tutte le interpellanze alla proposta di quei depu
tati che volevano prender parte alla discussione. Il Paternostro
diceva:
Comincier ove ha lasciato il signor Massari. Fate s che
l'Italia meridionale bene organizzata dia il suo contingente
per cacciare il nemico austriaco e avrete bene meritato della
patria. Godo poter dire che i mali sono esagerati, e svani
ranno colla buona volont. Non ci vuole che una cosa sola.
Governate, mentre che fin ora non governaste. Comprendo
che all'indomane d'una rivoluzione il governo Centrale non
abbia potuto esercitare la sua azione in Sicilia. Gli uomini ar
rischiarono la loro popolarit e non poterono far nulla. Io
non accuso nessuno e credo nella buona volont dei governi
passati; ma il governo prenda ora le redini dell'amministra
zione. Lo Stato della Sicilia non prospero; ha bisogno di
lavori pubblici, di amministrazione, di sicurezza pubblica, che
dev'essere riorganizzata. In Sicilia non v' reazione da com
battere, non c' che un partito innazionale.
In un governo nazionale, non comprendo ci che si dice
partito del governo, benche vi possono essere diversi partiti.
Vi esiste un partito della rivoluzione, come sempre vi fu, e
si rilev nel 1848 con molti sagrificii, che continuarono fino
al punto della sua liberazione. Ma tutti concordano ora nel
voler la Sicilia sotto Vittorio Emanuele. La rivoluzione in Si
cilia distrusse la tirannide, ma non ebbe tempo di organiz
zarsi, e da ci i mali della Sicilia.
Togliete il governo di Sicilia dall'influenza della piazza
di Palermo. So che dico cose che susciteranno tempeste, e
offenderanno suscettivit. Ma finch non avrete fatto questo
non avrete nulla ottenuto. Credo dover dire ad ogni costo
la verit, nell'interesse del mio paese. Quand'io parlo della
719
piazza di Palermo non intendo parlare dei buoni che sono i
pi, degl'intelligenti cui amo e rispetto, anche quando dissento
da loro. Parlo di una minoranza sfrenata, di un pugno di
uomini arditi, che fanno consistere tutto nel trionfo delle loro
idee. Essi si assembrano quando non riescono, e brigano per
riuscire nei loro intenti, ed hanno l'anarchia per loro ban
diera.
Mentre che il governo si adoperava perch l'amministra
zione procedesse bene, alcuni o per ottener impieghi o per
altro motivo si rannodarono e fecero dimostrazioni di cui non
si poteva comprendere il motivo. Ora le dimostrazioni si fanno
coi mezzi legali, colla stampa, non in piazza: altrimenti im
possibile il Governo,
Dicono ch'io pecco di soverchio Ministerialismo, che ap
partengo alla destra pura, e simili: Ma io vi metto in mora, vi
accuser se non la rompete con quella fazione ardente, sfre
nata. Degli individui lasciarono casa e famiglia per propugnare
la libert della patria. Ora questi si dice che non si vuole
un esercito composto da loro, che vuolsi piemontezzare tutto.
Bisogna provvedere.
In Sicilia non vi sono strade, n ponti, n altri mezzi
di comunicazione. Ci governino da Torino o di Palermo, ma
facciano qualche cosa. Comprendo le difficult da Gaeta e di
Messina, il Mincio, la diplomazia; ma i Siciliani dicono: dateci
almeno un minuto al giorno. Il popolo vedr allora che fate
qualche cosa, che la rivoluzione gli frutt qualche cosa. Im
piegate qualche milione. Gli intelligenti veggono il bene che
si pu ottenere, ma il popolo ha bisogno di qualche prova
materiale. La maggioranza desidera essere governata. Voi avete
ad assumere l'amministrazione e desidero conoscere il siste
ma che verr applicato. La Sicilia sar sempre fedele al suo
programma Italia e Vittorio Emanuele.
Altri deputati, e sempre sullo stesso argomento presero
poi la parola, e chi con pi chi con meno di senno parlarono
delle condizioni dell' Italia meridionale. Quando essi ebbero
finito di parlare sulle cose le pi rilevanti ed essenziali, il mini
stro dell'interno nella seduta del 3 aprile, rispondeva in questi
sensi:
Ringrazio gli oratori della temperanza che usarono. La
discussione mi parve altres necessaria, perch le popolazioni
veggano che il parlamento provvede loro, e perch all'estero
720
si possa giudicare sanamente delle cose nostre. I partiti ne
mici fanno assegnamenti sui falsi giudizi che si recano.
Bench in quelle provincie vi siano mali, risulter dalla di
scussione che essi sono esagerati, che in gran parte erano
inevitabili, e finalmente che sono riparabili.
Non ci fa meraviglia che siansi esagerati i mali. Le popo
lazioni avevano speranza immensa nei cangiamenti e fanta
sia fervida. Gli ambiziosi si valsero della stampa per falsarne
il giudizio.
Erano pure inevitabili i mali. Gli onorevoli interpellanti
non badarono alla circostanza speciale dell'Italia meridionale.
Le rivoluzioni, anche giustificate, traggono sempre dei mali
con s. E molti furono i cangiamenti a Napoli. Non si avvis
che per ovviare ai mali vuolsi avere una forza. E sino alla ca
duta di Civitella si dovette essa impiegare nell'espugnazione
delle piazze. N potevasi sguernire la linea del Po e del
Mincio.
Sono disposto a render giustizia agli uomini che accetta
rono il potere in tempi si difficili. Attribuisco loro il bene
che si fece, e il male credo si debba alle circostanze. Cessata
la guerra civile, possiamo ora disporre delle forze necessarie,
e conosciamo meglio quel paese.
L'anno scorso dicevasi ingovernabile la Lombardia. Eb
bene da sei mesi, che ho l'onore di sedere nei consigli della
Corona, la Lombardia non diede il minimo imbarazzo, anzi
uno dei pi validi sostegni del nostro regno. Niun' altra pro
vincia si mostr si monarchica e amante del bene dell'Italia.
Credevasi che la coscrizione cagionasse malumore nelle
Romagne e si fecero due leve senz'alcun inconveniente. Lo
stesso dobbiam credere dell'Umbria. In Toscana non v' un
soldato da sei mesi, e quel popolo si mostra sempre il pi
colto e civile. Perci spero che fra qualche tempo anche nelle
provincie napoletane e siciliane si avranno buoni risultamenti.
Ci premesso, passo a rispondere a quanto ci si dimand
dagli onorevoli interpellanti.
La sicurezza pubblica il pi gran bisogno. Una parte
dell'esercito borbonico, si sciolse subito, ma altra fu riman
data a casa. I volontari cercavano la liberazione del paese,
e non volevano, n potevano dar opera alla sicurezza pubblica.
Gli antichi gendarmi erano odiati dalle popolazioni, come
crudeli ministri del governo passato. La Guardia nazionale
72i
non era bene ordinata. Dopo il brigantaggio politico seguono
sempre ladronecci e grassazioni. E tuttavia queste non sono
s frequenti come si potrebbe temere. Vi addurr una testi
monianza che tutti vorremo accettare. Il generale Arnulfi scri
ve da Napoli che in settembre evasero centinaia di servi di
pena, e si sbandarono molti soldati. Questi possono servire
a vendette ed odii privati, ed essere strumenti di partiti. E
tuttavia i delitti a Napoli non sono pi frequenti che in altre
grandi citt.
Per provvedere alla sicurezza pubblica dir quanto in
tenda fare il governo.
Il deputato Massari parl di prevaricazioni. Quali che
siano stati gli scompigli in Italia non abbiamo a lamentare fatti
su quel genere. Si parl dei sollecitatori, della corruzione.
Il governo deve e pu vegliare ai fatti che gli vengono de
nunziati e punirli, ma non pu sradicare ad un tratto le cat
tive abitudini.
Del resto, in tempo di rivoluzione si d facile ascolto
alle calunnie. Vidi vituperati in giornali degli onorandi uomini,
il cui solo nome avrebbe dovuto porli allo schermo da tali
aCCU1S0.
Non dissento che sia in parte vera l'allegazione che sov
verchino gl'impiegati. Vi fu un trapasso dal governo borbo
nico alla dittatura, da questa alla luogotenenza. Da questi can
giamenti si fecero molte nomine, non si bad molto alla pre
cisa distribuzione delle attribuzioni. Si suole molto guardare
alle persone, e si attribuisce loro tutto ci che non va bene.
Tuttavia questo un punto in cui sono necessarie riforme,
ma esse debbono esser dettate dalla sola giustizia. Non amo
la destituzione in massa, n i sospetti. Varii dicasteri furono
accusati di aver accresciuto molto il numero degli impiegati,
e mi fece specie quello singolarmente dell'agricoltura e com
mercio. Ma mi si rispose che in un paese libero tal dicastero
prende una grande importanza. Nel 1848 si diede un grande
sviluppo ad esso. A Napoli si presero da altri dicasteri molti
impiegati, e solo quattordici furono i nuovi.
Quanto al milione di sussidio, il decreto sale all'8 di
gennaio, quando il re era a Napoli. La luogotenenza non ne
responsabile. Essa non suscit alcuna censura nella sua ge
neralit. Il decreto del 17 febbraio non fa che mandare il
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
91
T22
primo ad esecuzione. I sussidii vanno poi alle povere fami
glie che soffersero pe' disastri politici. Non un s grave peso
allo Stato, e, come verr il bilancio, la Camera potr giu
dicare.
, La legge comunale, dicesi, non ancora attuata. Vuolsi
del tempo per la formazione delle liste elettorali. Ai 15 apri
le , posso assicurare, saranno fatte immancabilmente le ele
zioni.
Difficilissimo l'ordinamento della
Guardia nazionale.
Il primo decreto che vi fece provvedere, rendeva ristrettissima
la milizia, e lasciava luogo all'arbitrio. Il generale Garibaldi
provvedeva solo alla citt di Napoli. Che avvenne? la base
era larga nella citt, non nelle provincie. Il cav. Farini in
trodusse con poche variazioni la nostra legge, e ben fece.
Scrissi subito a Napoli, e vidi con piacere che le mie osserva
zioni concordavano con quelle dell' onorevole interpellante.
Aile mie osservazioni si rispose allegando il decreto del
generale Garibaldi. Ma questo era speciale per la citt di Na
poli, e poi era solo dettato da un sentimento di opportunit,
che in tempi normali non poteva pi invocarsi. Affrettavasi
poi l'attuazione della Guardia nazionale secondo le norme vi
genti nelle altre provincie. Esse possono certamente ancora
-
migliorarsi, ma non vi ha alcuna urgenza. Del resto, le mo
dificazioni si avrebbero a fare alla Camera.
Furono consegnate alcune migliaia di fucili presi a
Gaeta, ma essi non sono a precisione, e vorrassi del tempo
per aggiustarli. Speravo di trovarne, ed anzi volevo chiedere
lo stanziamento della spesa. Trattai con molti, ma i fucili o
erano cattivi, o carissimi, o tali che facevano male solo a chi
li adoperasse. Solo a piccole quantit e a rate mensuali ne
potei ottenere dei buoni. Non sar da me che non si facciano
le pi accurate ricerche, e non sar mai mia la colpa, se non
si potr tosto armare tutta e bene la milizia nazionale.
Una parte dei soldati si sband, e una parte fu mandata
a casa in virt di capitolazione, quelli che erano a Gaeta.
Dalle otto classi che erano sotto le armi, le prime quat
tro erano composte in gran parte di padri di famiglia. Era
necessario fare una scelta. Alcuni avevano prese tali abitudini
di cui non si potevano spogliare. Abbisogniamo di un esercito
spigliato, di uomini che si possano adattare alle nostre abitu
dini, non di un esercito come quello di Serse.
725
Si parl della formazione di una nuova provincia. un
argomento dei pi spinosi. La provincia di Benevento, gi
appartenente al papa, bisognava o abolirla o ingrandirla. Ma
essa ha una storia importante. Dittatore Garibaldi, fu gi quasi
sciolta la questione, essendovisi mandati tanti impiegati quanti
ne vuole la provincia. Non si fece ora altro che mettere in
esecuzione quel decreto. Non voglio giustificare appieno quel
l'opera, non avendo le necessarie cognizioni, ma so che ven
ne esaminata la condizione di quelle terre, si cre una tiunta
apposita, si consultarono i rappresentanti dei comuni. Le ac
cuse non sono dunque onninamente fondate. Le provincie con
finanti sono abbastanza vaste e popolate. Come poi si deve
trattare in apposita legge la circoscrizione delle provincie, la
discussione trover allora sede opportuna.
Dovrei ora parlare della Sicilia. Ma gran parte delle ri
sposte che ho date all'onorevole Massari si possono applicare
all'isola. La sicurezza pubblica lascia ancora a desiderare per
mancanza di forze. Se l'influenza della piazza si fece talvolta
sentire anche sul governo, non fu per mancanza di buon volere,
ma per mancanza di forze, e per la malattia che costrinse il
luogotenente a ritirarsi.
Dopo avervi lungamente trattenuti sulle giustificazioni,
passo ai provvedimenti.
Uno lo vedeste gi nei decreti con cui si creano quattro
segretari generali. Non un cambiamento solo di forma.
soppresso il consiglio di luogotenenza, che era un Corpo col
legiale. Sono poi segretari generali del ministero, non della
luogotenenza. Debbono ricevere ordini da Torino. Essi per
dono quel carattere politico che ebbero sinora. Non vengono
pi considerati come ministri.
Vi sar un regolamento che determiner le competenze
sociali, e non ancora finito. Il governo centrale far le nomine
principali.
Non parlo di decreti legislativi o interpretativi di leggi che
non possono pi aver luogo, aperto il Parlamento che il giu
dice supremo. Il potere esecutivo non ha che a far osservare
le leggi. Sar applicato il sistema di promiscuit come gi il
ministro della marina, e far quello degli interni nella nomina
degli amministratori.
-
Il ministero non intende accrescere la pianta degli impie
gati, vuole diminuire gradatamente il personale delle ammini
strazioni.
724
Si mandano le pi vive esortazioni per l'attuazione della
Guardia nazionale.
In Sicilia credo le elezioni comunali siano gi fatte.
Le provincie napoletane non sono affatto sguernite di
truppe, ve n' a Sora, a Salerno, a Foggia, a Taranto, a Ca
tanzaro, a Cosenza, a Reggio. Partiva una colonna mobile,
che avrebbe preso stanza in parecchi luoghi. V' pure ad
Aquila, a Venafro ed altrove delle forze. Nei siti ove pu esser
bisogfo si manderanno altre colonne mobili. Si sa quanto
siano lodevoli per disciplina, coraggio e cortesia i nostri ca
rabinieri. Ma essi non si possono moltiplicare a volont. Con
venne portare quest'elemento delle antiche provincie nelle
nuove. Non si pot ancora ottenere che la met di quanto
occorre. Vi sono 724 nostri carabinieri nelle provincie napo
litane. Il governo ha ragione d'esser contento degli allievi che
si fecero venire di col, ed hanno docilit e ingegno naturale;
ma vuolsi andare con molto riguardo, e appena se ne possono
prender ora da duemila.
vole
In Sicilia v' ancor maggiore bisogno,
Quanto ai lavori pubblici, lascer parlare il mio onore
collega.
Si disse che si doveva abolire assolutamente la luogote
nenza. Dopo lungo esame, il governo cred dover andare a
rilento e migliorare gradatamente. Ci essenziale special
mente per Napoli e Sicilia a cagione delle grandi distanze.
impossibile prender a Torino provvedimento di urgenza
e nominare i bassi impiegati. La Toscana non era passata per
tante fasi, ed era assai pi facile provvedervi. Il governo non
vuole autonomie: ma si deve far in modo che i passaggi si
facciano senza urti e senza scosse. V' una ragione suprema
- poi, ed che il governo presenta gi una legge sull' or
dinamento generale dello Stato, e parve inopportuno e
poco rispettoso pel Parlamento l'introdurre un assoluto e
nuovo grande cangiamento.
La responsabilit cadr maggiormente sul potere centrale,
legalmente l'ha gi, ma moralmente, nei particolari non la
pu avere. Manca a noi la cognizione precisa delle provincie,
colla quale solamente si pu amministrar bene. Ci pu solo
aver luogo in un tempo normale. Conchiuder il mio discorso
esortandovi a dar pronta opera alla legge sull'ordinamento
dello Stato, anzich riandar il passato, che d luogo a molte
recriminazioni. Badiamo anzitutto all'avvenire .
725
Questa risposta o discorso del ministro dell'interno poteva
per poco accontentare qualcuno a cui piacevano le molte di
sposizioni, le nuove leggi, i non pochi decreti, e che pen
sava si potesse per questo modo mettere un argine ai mali
sempre crescenti, e iniziare quel bene che si voleva. Ma quanti
vedevano le cose nel loro vero aspetto, non potevansi accon
tentare, perciocch sapessero le triste conseguenze derivare
da pi alte cagioni che il governo non era in grado di distrug
gere. E per fermo, l'abolizione della luogotenenza di Napoli,
a cui si tendeva, e a cui si andava mano mano, non poteva
che ritardare sempre di pi l' opera della rigenerazione, e
rendere permanenti i mali che contristavano l'Italia meridio
nale. Se il disordine era una sventurata realt, se ingenti erano
i bisogni, se pronti volevano essere i provvedimenti, togliere
al governo di quelle provincie alcune facolt era lo stesso che
inceppare l'andamento dell'opera governativa, rallentar tutto,
e costringere le popolazioni ad aspettare da Torino quei
provvedimenti che urgevano e che erano indispensabili al bene
o al minor male del paese.
D'altronde, in che modo da Torino si poteva governar Na
poli se non appoggiandosi ai consigli della luogotenenza e se
guendo le sue opinioni ? Come si poteva assestare cose che
in Torino non si conoscevano con uomini affatto ignorati dal
ministero? Si voleva, vero, stringere con pi saldi nodi
l'unit italiana, fare scomparire le autonomie ed i privilegi ed
adequare tutte le provincie d'Italia, mettendole nelle stesse
condizioni. Ma se lo stato delle provincie napoletane era uno
stato eccezionale, non era naturale di farlo reggere da go
verno eccezionale ancora?
Il giorno appresso il deputato Ferrari volle prendere la pa
rola; egli elev la quistione e la mise sotto altri punti di
vista; era una continuazione delle interpellanze sulle provin
cie napolitane.
lI Ferrari diceva :
Ieri intesi la risposta del ministro dell'interno sulle in
terpellanze relative alle provincie meridionali. La calma mi
scese al cuore, e guardandomi intorno credeva che queste
colonne fossero di marmo e continuassero una discussione co
minciata da secoli. Trovavano felici e contente la Lombardia,
726
l'Emilia, e la Toscana; quanto all'ex reame delle Due Sicilie,
vedevasi che ad ogni male era stato portato il rimedio.
Noi siamo riuniti da ieri, e ci conosciamo da pochi mo
menti. Siamo ancora compresi del giubilo dei mutamenti suc
cessi. Non sappiamo ove ci riuniremo domani, siamo sorti da
una rivoluzione cui il governo piemontese diede assetto. Ma
alcune voci del mezzo di protestavano contro l'allegata tran
quillit. Invitato dal signor Maresca, che mi cede la parola,
parler perch siamo solidarii della condizione di quelle pro
vincie. lo desidero che si faccia un'inchiesta relativa.
Permettetemi due parole di storia contemporanea. Que
sta discussione continua l'ultima della passata legislatura. Di
che trattavasi allora? Se si dovesse fare subito l'annessione
delle due Sicilie secondo il ministero, essa doveva essere im
mediata perch v'erano germi di disordini, il bisogno di un
governo regolare.
Non potrete, signori ministri, accusar nessuno d'aver in
terrotta l'opera vostra: scomparvero dittatori, prodittatori,
volontarii; trionfaste ovunque. E come profittaste di tanta
concessione ? come impiegaste il tempo ? prendete la conclu
si one di tutti i patti. l Municipii sono quasi come li lasci
Garibaldi. La Guardia nazionale in quattro mesi fu lasciata
come l'avea lasciata Garibaldi. Vi siete fatti amare ? vi per
dono tutto, se avete ottenuto questo scopo. l governatori fu
rono ripudiati, non furono amati. Non faceste nessun progresso
nell'amore del popolo.
Vi sono sempre malandrini che fanno fuoco sulla Guar
dia nazionale e tolgono i dispacci. Vi sono sempre dimostra
zioni. Quelli che le fanno avranno torto, ma intanto reclamano.
Non siete amati.
V' un fatto addotto dal signor Miceli, mi rispose il mi
nistro, e merita esame. Da cento persone avevamo atteso
molte ore un soccorso, e furono pure a colpi di baionette. La
legge voleva che i disordini fossero repressi. Ma se tutti fos
sero stati schiacciati, il governo avrebbe pur sempre perduto.
Sono vietati gli arruolamenti illegali. Ma si autorizzarono
altra fiata fatti consimili, e non ci maraviglieremo se questa
volta si desse ascolto ad inviti di quel genere.
Non vi parler delle finanze. Ma quando Garibaldi giunse
a Napoli la rendita era a 1 12 ora a 80.
Non applaudisco alle accuse fatte dalla stampa alle dila
727
pidazioni contro uomini onorandi. Ma l'anno scorso, delle
accuse di quel genere si facevano pure dalla stampa, che ha
voce d' essere ministeriale.
non
fate
Si dice che furono guiderdonate dai Borbonici. Come
siete amati e poco considerati, debbo conchiudere che
una reazione, che vi dovete imporre colla forza.
Il ministro dice che vi sono esagerazioni e calunnie.
Potrei dimostrarvi che anche l'Austria fu calunniata.
Come provvide il ministro della guerra?
Io non propongo nessun rimedio, vero solo che vi
sono disordini; che all'amore destato da Garibaldi quasi
sottentrato l' odio.
Dite che avete quasi provveduto colla modificazione della
luogotenenza. Che m'importa che gli amministratori dipenda
no dal signor Minghetti o dal signor Nigra ? sono tutti vostri
amici.
Non posso entrare nei particolari dei telegrafi e simili.
Non accuso le intenzioni di alcuno, ma quando ci si di
ceva che avremo una buona forza militare, sentiva in me una
specie di controsenso. Un regno che si offre, si sottomette,
vuol esser di Vittorio Emanuele, abbisogna di gendarmi ve
nuti da Torino e Milano ? Un regno che non sia scompigliato
trova in s i mezzi di difesa. Quando s'inviano truppe e uf
ficiali poco graditi, io temo. Le provincie di Napoli furono
un regno con tradizioni antiche. Colla casa di Savoia sorgeva
una dinastia dei Normanni, quella d'Angi. un regno cen
tralizzato come la Francia. Napoli ebbe le sue gare colle pro
vincie, come Parigi; ancora la terza capitale d'Europa,
grazie alla sua autonomia.
I Borboni l'avvilirono, corruppero le moltitudini, tiran
neggiarono la Sicilia, vero. Perci quando giunse Garibaldi,
il regno svani: non meraviglio maggiormente la fuga delle
truppe regie che le vittorie di Garibaldi.
Spezzerete il regno in pi regioni? una cosa impos
sibile. Voleva si differisse l'annessione perch fosse cosa pen
sata. Ebbi il dolore di essere solo nell'assemblea. V'impe
gnaste in un labirinto, e non sappiamo ancora ove riusci
I'8InO.
Se il tempo avesse potuto consolidare l'opera, e fossimo
potuti uscire dal provvisorio, se niuna discussione si fosse
intavolata sulle capitali o la predominanza di questa o quella
728
provincia, il pericolo sarebbe minore. Ogni regno ha la sua
forza, deve poter commettere qualche errore. Ma la nostra
legalit provvisoria, l'unione recentissima. Furono alquanto
alterati gli Statuti, si diedero al governo pieni poteri, si pro
mise piena separazione dei due poteri, che equivale alla li
bert di coscienza. Se accadesse una disgrazia nelle provin
cie meridionali, le antiche sono fedeli, decise ad una lotta
recatale contro gli antichi governi. Ma esse non sono contente
del proprio stato, e attendono Roma e Venezia. La Lombar
dia non si lagna di pagare il 1900, pagherebbe anche il
doppio. Non si lagnano i Toscani purch andiate a Roma.
Non neppur tanto importante il matrimonio civile, il male
sta nell'autonomia. In Francia s'ebbero pur questi lamenti,
che durarono secoli. L'autonomia trae la sua origine dal pas
sato pi lontano. Sono cose frivole le imposte e simili: ma
la vita freme da un capo e l'altro dell'Italia, e per questo
dovete andar a Roma. Ma quest'andata potr risolvere tutto?
La sola cosa che mi tranquilla l'alleanza della Fran
cia, che sempre dov soccorrere la rivoluzione italiana, ospi
tar gli Italiani in ogni tempo. Per essa sar continuato questo
Parlamento. Quando io vegga la libert albergata in Francia,
la guerra bandita al clero, sento che questo soffio di libert
sosterr la libert italiana. Ma mentre la Francia ci assicura,
essa ha le sue tradizioni, non ha misteri di sorte alcuna, essa
desidera che vi siano due regni.
L'Italia antica ebbe due regni. Questi due regni funzio
narono ai nostri tempi. Nel 1814 il moto venne dalla Sarde
gna e dalla Sicilia. Prima del 1814, quando la si volle rior
dinare, furono creati pur due regni.
Io credo alle annessioni, giurai fedelt al re. Di repub
blica conosco questo solo. Per servire le federazioni si comin
cia dal servire lo Stato cui s'appartiene. A Napoli vi sono
ancora borbonici, v' ancora una tradizione speciale. V' an
cora la memoria di Giacchino re. Se mi permettono, esporr
le mie idee. Ho gi detto ch'io non cospiro, bado alla scien
za. So che in passato vi fu un Murat, un ottimo e cavalleresco
cittadino, che diede al suo regno buone leggi, che mor da
eroe. Se non contentate i popoli meridionali, che cosa po
trebbe nascere ? Sono i popoli che fanno i re, in mezzo alle
ovazioni finiscono col proclamare un re. Voi dovete dunque
procacciarvi amore, dovete fare un'inchiesta. Se volessi par
729
lare de' miei amici, vi direi che con un fatto solo potreste
sanar tutto. Garibaldi tribuno e fedele. Come cominci
l'opera potrebbe finirla. Il re non ha migliore amico di Gari
baldi. A lui penserete forse quando sar troppo tardi.
Tutti concordano nel dire che vi sono gravissimi disor
dini. Tutti possono ingannarsi, illudersi. Ma un'inchiesta del
primo Parlamento italiano che dovrebbe essere sollecitata
dallo stesso governo io la propongo .
Al Ferrari tenne dietro il deputato Scialoja che cerc at
tenuare la difficolt della situazione. Indi Petruccelli della Gat
tina disse:
Si parlato di mali e di rimedii; ma non s'investig la
causa dei mali, che il pi essenziale. Si alleg l'indole del
popolo, le rivoluzioni che producono sempre dei mali. Ma i
delitti sono aumentati dopo la rivoluzione? Vi opposizione
alla riscossione delle imposte? furonvi fallimenti?
I Napoletani non sono un popolo placido. Ma che cosa
chiedono? Maggior libert? no. Autonomia? no. Chiedono pane,
lavoro, magistrati.
Solo i Borboni dicono che i popoli si governano con tre
cose: forca, feste e farina. Non voglio limosine. Ma vi son casse
di sussidio, monti frumentarii che hanno ricchezze immense,
ed il popolo pu ben chiedere soccorsi.
I lavori pubblici non s'improvvisano. Per vi erano per
tre milioni e mezzo di lavori quasi ordinati, non solo di strade
ferrate, ma comunali e provinciali.
Il popolo chiedeva armi, perch non v'erano ancora i
carabinieri, ed aveva bisogno di tutelare la tranquillit pub
blica, la propriet. Poi Roma e Venezia non si acquistano con
canzoni.
Non vi sono giudici, e vi sono ancora quelli che furono
strumento della tirannia borbonica.
Vi sono dieci milioni di moggia che danno una rendita
di 637 mila ducati al demanio. Non si tratta di legge agraria,
ma che si restituisca al comune quella propriet, ove il po
polo abbia ove ricoverare. a temersi una jacquerie. Vi fu
rono gi quattro sommosse nella Basilicata. Potremmo fare
opposizione, ma noi tireremmo i marroni dal fuoco per la
toria della rivol. Sicil. Vol. II.
92
750
destra. Dunque, se diciamo colpevole il governo, gli per
ch nella coscienza lo crediamo tale. Ma degli uomini che
ressero quel paese, Farini, Scialoja, Conforti, Nigra, Romano
erano capaci e li vedemmo tuttavia soccombere.
Era dunque colpa del sistema di Luogotenenza. Persisto
in dire che esso il colpevole; un sistema che riunisce
tutti i mali dell'autonomia. I ministri sanno tanto di quei paesi
quanto vogliono che sappiano i loro agenti, al cui giudizio si
devono rimettere. S'accusavano i Garibaldini dei disordini,
e dopo furono tali che ne fece un'interpellanza un deputato
ministeriale.
Dimando l'assimilazione assoluta di quel paese che ha
sete di giustizia e d'ordine e vuol'essere governato. Il ministro
faccia al pi tosto applicare le leggi dell'amministrazione co
munale e della Guardia Nazionale. Non voglionsi destituzioni
in massa, sta bene, non vi una legge organica sulla pianta
degli impieghi, e qual impiegato fu nominato, dopo vuol'es
sere rimosso. Il ministro debba solo badare alla probit. Si
frughino gli archivi della polizia, della intendenza. Fate anche
una investigazione segreta, ma scegliete i buoni. Napoli sia
governata come l'Emilia e la Romagna .
L'indomani, il deputato Emerico Amari fece le sue inter
pellanze sulle cose di Sicilia, tanto pi che alcuni oratori
nelle precedenti tornate ne avevan parlato con deboli ragioni,
fors'anco ignorando lo stato vero delle cose. I pensieri opposti
dall'Amari furono questi:
Non bado alla superficie delle cose, alla condizione quale
ce la presentano i giornali e gli opuscoli. Quello che pare
talvolta espressione della pubblica opinione non espressione
che di una piccola minoranza.
Le rivoluzioni implicano molte mutazioni e un ribolli
mento di passioni. Quindi non ci stupiremo che in Sicilia la
rivoluzione, maturata lungo tempo, abbia prodotto agitazione
negli spiriti. Quindi interruzione nelle abitudini, nei commerci
e perci quel desiderio di trovare impiego.
Le leggi mutate spostano gl'interessi. Coloro che soffrono
vorrebbero compensi, coloro che guadagnano l'assicurazione
della continuazione. Altra conseguenza la necessit di ri
correre al credito, alle imposte. Lascio la recrminazioni e le
751
vendette private. E alcuni vorrebbero fare scomparire incon
tanente i mali; nascono le brame, i timori, e chi perde dice
che la rivoluzione fallita, che non produsse nulla. Non mi
meraviglio pertanto che siavi ancora un po' di agitazione in
Sicilia.
Avvi un'apprensione economica. Non si sa quali imposte
nuove avranno, e quindi discussioni infinite. Tutti ammettono
che il primo dovere dei cittadini sopperire ai bisogni della
patria. Ma un paese che mai non fu assoggettato alla leva e
non vi si potr sobbarcare che con dolore, il popolo giubi
lante accolse la parola di concordia. Non accuso le intenzioni
di alcuno, credo che tutti bramassero il bene, ma, quel che
ne fosse la ragione, i fatti non corrisposero sempre alle pa
role. Coloro che furono tolti prematuramente alla gloria e
alle battaglie si lagnarono d'esser inviati a casa.
Il generale Garibaldi aveva ordinato che si risarcissero i
danneggiati dai bombardamenti borbonici. Il comune non aveva
i mezzi di dar tale compenso, ma coloro cui s'era promesso
si rammaricarono. Di tutti gli ufficiali di marina non ce ne
erano pi che una trentina.
ll popolo siculo ama con grande amore chi gli fa bene,
come Odia molto chi gli fa male. Esso ama immensamente Ga
ribaldi, dovunque si vede il suo ritratto. Qual meraviglia se
siasi agitato, credendo che lo volessero offendere?
In Sicilia si aspettano leggi sulle enfiteusi, e la propriet
in gran parte fondata su quel principio. Questa fu altra gran
causa d'agitazione.
Si aspetta la legge sui beni comunali. Si minacciano leggi
sulle corporazioni religiose, che in Sicilia sono amate, perch
si mostrarono sempre amici del paese e soffersero molto.
Nel primo parlamento siciliano c'erano pi di 40 membri
-
appartenenti ad essi. La Luogotenenza dov assicurar il paese
su quell'argomento. .
Oltre a queste incertezze, vengono le certezze delle leggi
emanate.
Il sig. Massari disse che a Napoli si fecero leggi di pro
mulgazione accademica. In Sicilia vi sono leggi in contumacia
e non si sa se si attueranno o no. V'era una legge sul su
premo tribunale amministrativo, che aveva grandi attribuzioni.
Molti giudizi si definivano innanzi ad esso. La Consulta pens
che non si potea privare il paese di un Tribunale supremo,
752
e vi sostitu una Sezione del Consiglio di Stato. La legge
esiste ma non applicata.
Si fece la concessione di un banco, ma non ebbe attua
zione, e non si provvide in altro modo. Altre leggi che
inutile enumerare rimasero in asse.
In dieci mesi si promulgarono infinite leggi, si facevano
a vapore Se ne ha tante che non si sa pi quali debbono ser
vire di norma. Leggi antiche, leggi del 1848, leggi della pro
dittatura. Pareva che col plebiscito il diluvio finisse, e tuttavia
la luogotenenza si attribui il potere legislativo. Finalmente si
aperse il Parlamento, e la cosa pareva finita davvero. Eppure
alla vigilia si proclamarono tre codici.
Non contraster al guardasigilli il merito delle sue osser
vazioni, n al signor Scialoja, che con eloquentissima ora
zione ci chiari il vantaggio delle nuove leggi. Il giuri una
gloria italiana, esisteva a Roma, non si tolse di Germania, e
non occorreva dimostrarne i vantaggi. Ma come istituzione, ab
bisogna di grandi preparativi. Voglionsi condizioni politiche
speciali, altrimenti, invece di una guarentigia pu divenir un
pericolo. Non dir che la Sicilia non sia matura per quella
istituzione, dico solo che si dovevano ponderar le circostanze,
se potevasi subito applicar o no a quel paese. E dove sono
i grandi studii occorrenti? Non si improvvisa neppur un gen
darme, come ci disse il signor ministro e s'improvviser una
legge?
Ma eravi poi quel diritto di far leggi? La questione qui
diventa costituzionale. Votato il plebiscito, la Sicilia dichiar
volersi unire al regno di Vittorio Emanuele, che costituzio
nale. Ci significa non potersi far leggi che dal parlamento. La
gioia dell'apertura del parlamento significava la gioia della
cessazione della legislazione arbitraria. Come dunque si pub
blicano leggi si importanti alla vigilia di quell'apertura?
La legge mise il disesto di tutti gli ordinamenti giudiziarii.
Il foro che aveva sempre sofferto, cominciava a prender fiato,
quando si promulg la legge che scompigli tutto, e mut le
circoscrizioni. Agitazione in Palermo, Catania, Siracusa, Gir
genti. I ministri se credettero poter adoperare cos, avranno
avuto le loro ragioni. Cercai gli argomenti. Ma, col rispetto
che devo loro, nessuno n trovai plausibile, da nessuno pu
dedursi il diritto di pubblicar i codici e le leggi organiche.
La legge del parlamento autorizzava il governo a far
753
decreti per accettare le annessioni? Non veggo che se ne pos
sono trarre tali difficult.
Il decreto con cui si accettava l'annessione della Sicilia
-
non dava neppure tale diritto alla Luogotenenza.
S'invoc l'articolo 82 dello Statuto. Ma quest'articolo
affatto transitorio. Carlo Alberto si spoglia con esso della fa
colt di far leggi riservandosi solo a farne prima dell'apertura
del parlamento. Ma esso dov cessare di averne ogni forza di
legge, convocato il parlamento, e non si pu risuscitare, dopo
dodici anni, a proposito della Sicilia. Poi lo Statuto riguarda
solo la legge sulla stampa, la milizia comunale, il Consiglio
di Stato, e la legge elettorale. In nome dello Statuto, vi do
mando dunque sia mantenuta al parlamento intera la facolt
di far leggi.
Questa la grande questione che si possa agitar alla
-
Camera. Guai se non le manteniamo tutti i suoi diritti!
Si fanno con decreti provvisioni che mutano radicalmente
l'amministrazione. In questa via non posso rallegrarmi col mi
nistro dei lavori pubblici, che si disse battistrada del governo.
In un memorabile discorso il presidente del Consiglio disse
non potersi amministrare pi il paese senza l'autorit del par
lamento. Le decisioni di esso saranno sempre rispettate, ma,
mancando il suo suggello, non so se gli ordini otterranno eguale
considerazione.
Aveva intenzione di far interpellanza relativa a quanto ho
esposto, ma ne far argomento di discussione in occasione
della petizione di ottocento cittadini di Palermo, che chieggono
la sospensione delle nuove leggi.
Due parole sui rimedi che si sono proposti.
Si disse che il corpo dei Carabinieri, che rese in Sicilia
importanti servizii, si fosse disciolto.
Il governo ha diritto di applicare il principio della pro
miscuit; ma resta a vedere se convenga qui usarla. Vuol es
-
sere esercitato colla massima riserva. Le comunicazioni col
continente sono imperfettissime. Mandate quanti impiegati vor
rete a Sicilia, e traetene quanti vorrete, ma quando tali co
municazioni si siano fatte.
Si parl di viaggi diretti tra Sicilia e il continente, ma
non ne veggo fatto parola nel capitolato.
Vengo al rimedio supremo, all'abolizione della luogo
tenenza.
754
Si aspetta con ansiet la legge sull'ordinamento dello Stato
che dar luogo a gran discussioni, e non parmi questo il pre
giudicare la questione. Senz' un'autorit centrale forse non
avremmo l'onore di sedere qui nel Parlamento.
Siate forti ma forti delle vostre intenzioni, non transigete
coi vostri doveri, siate padre dei popoli, e i popoli vi rispon
deranno colle benedizioni.
A queste interpellanze il ministro di Grazia e Giustizia ri
spondeva cos: Debbo qualche risposta al sig. Amari. Una
questione si importante quale questa, vuol essere discussa
con molta calma.
Quando una nazione si costituisce in unit politica, cerca
prima di farsi forte contro i nemici esterni, e poi provvede
al suo interno organamento. Con ci ottiene la vera forza e
stabilit.
Il governo, costituita la nazione, mir al diritto pubblico
fondamentale e fece di informare ad esso la sua condotta. Il
dritto interno pubblico o privato, inquantoch riguarda le
relazioni collo Stato, o tra i privati: al diritto pubblico interno
appartiene il codice penale e l'organizzazione giudiziaria. Il
governo doveva anzitutto vegliare che le sue disposizioni fos
sero poste in armonia collo Statuto, il quale sarebbe altri
menti stato una lettera morta. Il codice penale misura del
giusto e dell'ingiusto; determina le azioni dei cittadini. Dove
ha governo assoluto vi sono disposizioni penali che non pos
sono sussistere in un reggimento di libert.
Ci si dice: avevate diritto di pubblicare tali leggi? Non
voglionsi qui seguire le norme dei tempi ordinarii: le leggi
dovevano assolutamente essere mutate e non si opponeva re
cisamente lo Statuto. Vi sono condizioni cos straordinarie
ed anormali che bisogna provvedere subito. La prima cosa di
salvare la patria.
Colla legge era data facolt non pure di accettare le annes
sioni delle provincie italiane che volevansi unire, ma di stabilirle.
-
L'interpretazione di questa parola pu darsi in tal modo che
il governo possa far quanto crede per rendere stabile l'annes
sione. Perch l'annessione non rimanesse un fatto esteriore
e momentaneo erano necessarii dei provvedimenti. Non basta
vano gli atti esecutivi che il governo avrebbe avuto anco senza
una legge. Questa implicava la facolt di far leggi.
755
Nell'intervallo che pass tra la pubblicazione dello Statuto
e l'apertura del Parlamento, il sovrano cred poter pubblicare
leggi, perch volevasi - provvedere ad urgenti bisogni. Cos il
generale Garibaldi pubblic lo Statuto, ma non lo rese esecu
torio. Se vero che lo Statuto non avrebbe avuto la piena
sua forza a Napoli e in Sicilia prima della riunione delle Ca
mere, non si potr accagionare d'incostituzionalit il ministero
se pubblic alcune leggi.
Non posso acconciarmi all'opinione del sig. Amari, che
-
l'art. 83 dello Statuto non sia che una spiegazione dell'82.
Si dissero non urgenti le leggi penali se tanto tempo inter
cedeva tra la loro pubblicazione e l'attuazione. Ma esse non
possono altrimenti attuarsi se non tengono dietro a molte di
sposizioni, che esigono molti studi sulle localit. Non troppo
lungo era l'intervallo del febbraio al luglio per compiere questi
atti. Difficili sono le comunicazioni in Sicilia, il parlamento
sarebbe stato impedito da gravissime occupazioni e dar opera
alla codificazione. Impossibile sarebbe stata tal opera in questa
sessione. ll governo non ambiva fare leggi, voleva far osser
vare quella del 27 ottobre, sulle annessioni, e lo Statuto.
Il mio sistema si riassume in questi tre argomenti: lo Sta
tuto non era obbligatorio: per la legge del 27 ottobre, si do
veva rendere stabile l'annessione: l'articolo 82 dello Statuto
ci dava facolt di far quegli atti che si sarebbero creduti ne
CGSSal'll.
Non crediate del resto che ci possa recare agitazione. Le
popolazioni giudicano le leggi dagli effetti, anzich dall'intrin
seca loro razionalit: ma anche in questo caso non temerei.
Non voglio stabilire un confronto tra i due codici, il nostro
e quello delle Due Sicilie. Dal momento che i giurati furono
introdotti da noi, generale fu la testimonianza della bont di
quell'istituzione. Temevasi alquanto della Sardegna per le vive
passioni, e tuttavia l'istituzione non riusc ivi meno che fra noi.
Credo che eguale effetto si trover nelle provincie meridionali.
Non credo che possa commuovere il veder sostituite alle
leggi delle leggi migliori. Col progredire dei tempi migliorano
le leggi penali, anche sotto lo stesso reggimento, e che diremo
del caso cui esse furono statuite da un reggimento di libert?
Il nostro codice raccolse anche i miglioramenti che si erano
introdotti in quello delle Due Sicilie. Non so veramente come
si possa accusar il governo per aver accelerata l'applicazione
di quei beni a Napoli ed in Sicilia.
-
756
Sicuramente dobbiamo guardare all'interesse generale della
nazione, anzich agl'interessi municipali di qualche territorio.
Se guardiamo ai grandi vantaggi che recheranno alla Sicilia
queste leggi, ci persuadiamo che saremmo anzi da accusare se
non le avessimo adoperate come facemmo. Del resto la Camera
giudichi .
-
Il ministro di agricoltura e commercio parl in questi
sensi:
Il ministro di grazia e giustizia vi prov la legalit degli
atti, io vi dar un rapido sunto degli atti della luogotenenza
in Sicilia e mostrerovvi quanto abbiano giovato alla mia terra
natale. I principii buoni debbono applicarsi sempre: qual sa
rebbe la conseguenza se non si fosse fatto cos? Due muta
menti radicali della legge elettorale si sono fatti in Sicilia sul
censo e sull'et. Se la luogotenenza non avesse avuto che un
potere amministrativo non sarebbero qua i rappresentanti della
Sicilia. Non si sarebbe potuto alterare la tariffa, e coll'altera
zione di essa si cessarono le pi funeste conseguenze econo
miche della proibizione. Si riconobbe il diritto pubblico del
1848. Si desiderava la legge provinciale e comunale e fu
pubblicata. Con gran vantaggio dei paesi si fece la circoscri
zione territoriale, sebbene potesse ledere, come sempre accade,
qualche particolare interesse.
.
Indi prese la
parola il deputato Ugdolena dicendo:
Non voleva prender parte a questa discussione, perch
era difficile evitare ogni personalit, e perch sarebbe stato
meglio indicare i mali e i rimedii in privato ai ministri, che
farne argomento di pubblica discussione; ma giacch si volle
accusare la prodittatura, quali che fossero le parole, e si disse
fallita la rivoluzione, io che feci parte del primo ministero
del generale Garibaldi non potrei tacere senza colpa. Far di
evitare personalit e di dissipare le accuse che vennero lanciate.
L'accusa principale lo spreco del denaro pubblico,
degl'impieghi, e pensioni largite. Col governo borbonico spa
rirono affatto i suoi sgherri, nessuno di essi avrebbe osato pre
sentarsi, perch avrebbe fatto ribollir il sangue ai popolani.
Si parl di un esercito d'impiegati dei dazii, quando i dazii
757
erano gi aboliti. Agl'impiegati secondarii si dov pagar lo
stipendio, perch vivevano d'esso ed erano facinorosi. Era poi
si meschino che sotto il governo borbonico erano costretti a
rubare. Si parl maggiormente degl' impiegati nominati dalla
Dittatura. Nei dicasteri che ressi non erano che 19, e in egual
proporzione negli altri. Tali nomine erano una necessit. Ogni
ministro voleva avere qualche impiegato di sua confidenza e
non osava congedare gli altri.
Quando stava per cessare la prodittatura Mordini, si cerc
di render legale la nomina degl'impiegati che s'erano creati,
per dar loro una specie di benservito, e raccomandarli ai suc
cessori. N il numero ne si strabocchevole come si dice,
bench si possa col tempo scemare. Dicevasi da taluni che si
sfrattassero gl'inetti, e i nominati per capriccio dalla Dittatura.
Respingo la parola capriccio. La prodittatura proclam il prin
cipio che il governo non un partito e i magistrati si nomi
navano senza badare alle loro opinioni purch onesti. Vi potrei
allegare molti nomi, vi allegher alcuni miei amici personali.
Il signor Natoli ora ministro, il deputato Reali furono chiamati
a posti molto alti e ricorder per loro onore che non vollero
accettare. Ma ci basti a scolpare il governo della prodittatura.
Se ne nominarono della Societ Nazionale, che faceva guerra
alla Dittatura. Si vide chi sparlava di essa e al tempo stesso
non si ebbe il coraggio di ricusar l'offertogli impiego. lo pre
feriva nominare de'miei avversarii, anzich amici personali. Essi
continuavano a mantenere le loro opinioni, ed erano creati pro
fessori nelle universit. Lasciai anche de miei nemici al loro
posto, e cos fecero i miei colleghi. Non si pu dunque ac
cusar la prodittatura d'essere stata un governo di partito. Se
alcuno fu trascurato da me, gli perch non conosceva i suoi
desiderii, se ne avessi conosciuta la capacit gli avrei preferiti
a miei amici.
La finanza non fu rovinata da noi ed esistono i conti
da cui si pu chiarire la fedelt con cui amministrammo. Ai
27 maggio, il d che entrava Garibaldi, v'erano in cassa 112,286
ducati: ai 29 novembre, dopo i sei mesi della Dittatura, la
sciammo in cassa 93,147 ducati e in crediti 1,348,816 du
cati, circa 13 milioni di lire. S'erano spesi 3,612,362 ducati
per la guerra, e 1,317,887 per le spese ordinarie: 5,364,669
in tutto. Ecco le enormi spese che facemmo. Sfido chi abbia
retto un paese in tempo di rivoluzione a dare conti migliori.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
93
758
Si sar potuto eccedere in qualche pensione, ma poche
erano quelle di cui poteva disporre il governo, cio solo quelle
che si levavano da abadie o beneficii sotto patronato e da
vansi ad indigenti. Se colpa si pu opporre alla prodittatura
di aver fatto quasi l'apoteosi di Garibaldi, di averlo consi
derato come un nume, anzich di averne lacerati i decreti,
e quest'accusa ci fece fremere ed inorridire.
Fu mantenuta la sicurezza pubblica, quanto si poteva ;
si cerc un corpo di carabinieri e guide a cavallo, e le guardie
di sicurezza pubblica furono applaudite dal popolo. Si decre
tarono lavori pubblici, l'imposta fondiaria, quasi la sola che
rimaneva, era regolarmente pagata, si ordin il censimento
dei beni di manomorta.
Si provvide largamente alla pubblica istruzione e si ap
plic la legge piemontese, bench si dicesse che la dittatura
non voleva aver niente di comune col Piemonte.
Si bandi la libert d'insegnamento, si tolse alle univer
sit ogni monopolio.
Si fecero acerbi rimproveri al governo della prodittatura
perch non decret l'annessione nel giugno dell'anno scorso.
Ma se l'annessione si fosse compiuta allora, e il governo, per
l'ostilit della diplomazia, avesse fatto lo svogliato, come fece
per la Toscana e l'Emilia che vantaggio n avrebbe ricavato
- la Sicilia? Se esso l'avesse accettata, avrebbe dovuto impe
dire qualunque arruolamento in Sicilia e l'unione dell'Italia
non sarebbesi fatta. Si dir che esso poteva chiudere gli occhi
sui preparativi, come fece a Genova. Ma la cosa era molto
diversa. Per la liberazione delle provincie napoletane volevansi
artiglierie, un esercito, un naviglio. La condizione sul conti
nente era diversa, gli animi non si trovavano nella stessa di
sposizione, non per mancanza di spiriti, ma perch il Borbone
vi aveva i suoi centomila soldati. Sicuro di mantenersi sul
continente, poco egli badava all'isola. Il governo del re non
avrebbe allora potuto dire, come quando fece l'impresa delle
Marche e dell'Umbria che andava a combattere la rivoluzione.
Alla politica del governo del generale Garibaldi si deve la li
berazione dell'ltalia.
Possono essersi commessi sbagli: qual governo non ne
commette? Il male quando si perfidia nell'errore. Purch lo
scopo si raggiunga, poco monta il resto, fu riportata una grande
vittoria, ad essa si deve l'indipendenza italiana.
759
In tutte queste discussioni, sebbene si enunciassero grandi
verit, e si svolgessero molti principii, e si disvelassero molti
fatti che ora appartengono alla storia, pure mai, non si veniva
ad una conclusione, n vi si poteva venire. La situazione delle
provincie meridionali era affatto eccezionale, e molte cose
volevano e dovevano essere modificate per equiparare quelle
provincie alle altre del regno. Ma le condizioni generali di tutta
Italia, facevano s, che invece di ristaurare le cose, pi e pi
si spingevano a male.
Uno dei grandi argomenti sui quali dovevano versare le
discussioni parlamentari si era la pubblica istruzione, e spe
cialmente la libert d'insegnamento; su che le opinioni dei
deputati erano alquanto contrarie; perciocch alcuni volevano
si andasse adagio con questa libert, ed altri al contrario vo
levano estenderla ancora di pi e presto attuarla.
Nella tornata del 13 aprile il deputato Alfieri moveva a
questo proposito un'interpellanza al ministro della Pubblica
Istruzione. Noi la riportiamo qual documento del modo come
tale questione era veduta e considerata in Italia.
Il deputato Alfieri diceva:
Io desidererei sapere quale sia ora lo stato della scienza
in Italia, se i mezzi dell'insegnamento siano consentanei alle
istruzioni liberali che ci reggono, se sia possibile riparare ai
danni che si lamentano. E prospero lo stato generale della
scienza, lodevole l'ammaestramento? In Italia vi sono ora
venti universit compresi gli stabilimenti universitarii di Firenze
e di Milano. Quando al regno siano unite Padova e Roma ne
avremo 22. Pochissimi sono i dati che si poterono raccogliere,
ma secondo il poco che conosco non credo andar errato di
cendo che le cattedre solgono a 1200. Io dubito assai che il
governo possa trovare tanti professori valenti. Negli anni scorsi
gl'inconvenienti erano minori perch avevamo soltanto quattro
universit e in Piemonte convenivano eletti ingegni da tutte
le provincie italiane. Ma ora essi poterono rientrare in patria,
e parecchi di quelli che insegnavano nelle nostre universit
danno ora ivi opera all'insegnamento.
La responsabilit che il governo assume superiore alle
sue forze. Ma la difficult consiste solo nella scelta dei pro
fessori, intendo parlare dell' accentramento del potere. Fra
tanti professori non si pu sapere se vadano tutti per le vie del
740
governo. Siano pur essi onesti, molto difficile che non si cada
in una specie d'anarchia, che gl'insegnamenti non prendano
talora vie opposte. Il governo per dar norme uniformi dovr
dare immensi poteri agl'ispettori generali, e siano pur questi
uomini egregi, soverchie saranno le loro attribuzioni. Questo
stato di cose sfavorevole alla scienza. Gl'impiegati ammini
strativi non sono competenti in cose di scienza, dandosi all'am
ministrazione gli uomini che meno riuscirebbero all' insegna
mento. In uno stato la cui base la libert, in un argomento
che comprende l'avvenire della nazione ci un male. Ma era
questo preveduto da coloro che condannavano la via per cui
si mise il governo?
Gli avversari della libert d'insegnamento dicevano che
la libert bisognava insegnarla. Ma questa non s'insegna, si
sviluppa nell'uomo. Dire che non si vuole dare la libert perch
non la si conosce, equivale al non voler lasciare sviluppare le
facolt dell'uomo. Dicevano anche pericolosa la libert d'inse
gnamento per la concorrenza di chi poteva nuocere alla libert.
Io non temo tale concorrenza. Il governo non deve ora temere
la prevalenza di altro insegnamento, avendo egli oramai la forza.
Sono tredici anni ch'esso ha il monopolio dell'insegnamento.
Nei regimi costituzionali il governo rappresenta la mag
gioranza. Le minoranze possono tuttavia far concorrenza, pro
porre altre idee, porre in campo altri principii. Il governo faccia
quanto crede, ma permetta che i privati possano contraporre
alle sue, altre idee.
Adducono un altro argomento contro la libert d'insegna
mento, gl'interessi per cui il governo ha contratto impegni ma
teriali e morali. I governi provvisorii delle provincie liberate
estesero lo stesso sistema: il governo accett la loro eredit.
Se il governo allontana dei professori commette ingiustizie, pro
duce dello scontento. Ma a questo ovvia la libert proclamata
nel pi breve tempo possibile.
V'hanno due sistemi di libert. Al germanico io preferi
rei l'individuale e quello delle corporazioni come ha luogo nel
Belgio. Il germanico richiede certe misure, aumento notabile
di cattedre. Il professore libero non ha stipendio fisso. In pra
tica d poco risultamento. Il sistema del Belgio ammette due
universit, e una di esse stipendiata da associazioni.
ll governo non pu tuttavia passare da un sistema all'altro.
Io chiedo perci solo l'emancipazione, chiedo solo al governo
741
la direzione di alcune universit. Mi rivolgo perci al signor
ministro, perch ammetta almeno da qualche parte la libert
d'insegnamento, perch provveda ad una riforma del sistema
attuale nel senso della libert. L'accentramento ora una
necessit del giorno pel soverchio numero delle universit.
Si potrebbe col numero degli stabilimenti, diminuire l'at
tribuzione di alcuni impiegati, e circoscrivere la loro azione.
Il deputato Tommasi prese la parola e disse:
una questione s grave quella che stata sollevata dal
signor Alfieri, che io non mi vi tratterr molto lungamente.
Noi siamo retti ora nella legge Casati. Il signor Alfieri vor
rebbe che si facesse una parte pi ampia alla libert. Io porto
un opinione diversa. La legge Casati ha l'essenza della li
bert. La Germania non va pi in l di essa.
Nelle loro universit gl'insegnamenti privati possono
fare concorrenza agli altri, ma senza di esse non si pu dare
insegnamento senza dar guarentigia all'autorit. Il sistema
germanico il nostro, e la legge Casati risponde ai nostri
bisogni.
La libert assoluta d'insegnamento esige una condizione:
che la nazione sia tanto progredita nel sapere che non possa
temere gl'incapaci. Una nazione educata alla scienza in po
chi giorni abbandonerebbe un maestro incapace. Ma siamo
noi a questo punto ? Il popolo italiano privilegiato. Dopo
tante miserie, tanta oppressione, avrebbe dovuto perdere il
bene dell'intelletto, e tuttavia esso produsse uomini insigni
per dottrina; ma da questo fatto all' essere molto diffusa la
scienza corre ancora un gran tratto. Per convincerci di ci
basta che guardiamo ai nostri giornali scientifici, e paragonia
mo la loro diffusione con quelli di Francia, Inghilterra e Ger
mania.
Noi ci troviamo ancora assai bassi. Ci troviamo ancora
in bisogno dell' azione governativa.
V' altra cagione che esiste tuttavia, checch siasi detto.
Temo una certa concorrenza d'una classe d' uomini che non
vorrei ammettere. Non posso approvare le ultime proposte
del signor Alfieri, che mentre riconosce una sconfinata libert
d'insegnamento vuol metter limite al pensiero. Bisogna che
certe idee entrino nei costumi. Intanto le
affermazioni del
742
signor Alfieri sono peggiori di qualunque restrizione. Il pen
siero essendo libero, deve essere rappresentato in tutto , la
verit non ha da temere la discussione.
Da ultimo io vo manifestare un pensiero; che l'inse
gnamento ha fra noi bisogno di grandi e pronti rimedii. Il mi
nistro dell' interno doveva dilatare prima d'ogni altra cosa
l'insegnamento popolare. Qualunque legge o regolamento rap
presenta sempre una piccola parte del nostro compito, per
quanto la legge sia buona. Non pu prosperare l'insegna
mento universitario senza il secondario.
Il ministro dell' istruzione pubblica un po' diverso da
gli altri, deve avere poteri discrezionali, e cos potr rimediare
alle mancanze, provvedere buoni professori, fornire il neces
sario, far insegnare bene le scienze. Le universit italiane
erano gi frequentatissime, ma ora non dobbiamo vergognarci
di mandare i nostri a studiare nelle principali universit di
Europa. La libert stessa d'insegnamento potr giovare ad
allargar le idee, ma non rimediare ai mali presenti.
Se all' interpellante piacesse proporre un ordine del
giorno per invitar il ministro a presentare una riforma sulla
legge Casati, da introdurre in tutte le universit, volontieri
la soscriverei. Bisognerebbe per adottare principii radicali
che non si possono formulare con legge .
A questa interpellanza e ad altri discorsi fatti da altri de
putati, il ministro della pubblica istruzione rispondeva:
Credo dover fare alcune dichiarazioni su quanto fu espo
sto dagli onorevoli oratori. Debbo ringraziare l'onorevole
Alfieri, che mi disse sentinella avanzata. Entrando in materia
vorrei un certo ordine per esporre le mie idee. Comincier
ove l'onorevole Alfieri ha finito, coll' incentramento ammini
strativo. Dichiaro che la pubblica istruzione non una mac
china che cammini, v' complicazione di ruote sovracarico.
Devo cominciare da queste: Trovai un cumulo di leggi e rego
lamenti che mi sgomentarono, e anzich ficcarmeli in capo,
mi sarei gettato dalla finestra. Sono regolamenti ammassati
dalle precedenti amministrazioni, costituiscono una scienza ar
cana, di cui pochi sono depositari. Mi associo alle lodi che il
deputato Alfieri fece alle persone. Gl'ispettori sono colti,
esperti ed integri. Questa smania d'istruzioni e circolari per
745
regolare ogni minimo paese, tutto questo cumulo fa s che
l'insegnamento si trova male, e per soverchio zelo. Questa
ingerenza giunge al punto, che gl' impiegati debbono diman
dare istruzioni su tutto.
Il regolamento impone perfino che i temi vengano da
Torino.
Questo stato deve cessare e cesser. Ho gi un disegno
di riforma cominciato perch questa macchina cammini, per
semplificare le prescrizioni.
Si presenta ora un'altra questione. Abbiamo una legge
che regola la pubblica istruzione nelle Due Sicilie. Non esito
a dire molta parte di essa compatibile col regno antico di
Piemonte, ma nel regno nuovo d'Italia deve essere un codice
generale d'istruzione pubblica. Il mio predecessore aveva
sentito il bisogno di una legge generale, incaricato di esami
narla il Consiglio superiore, creata una giunta speciale dei
personaggi pi cospicui d' Italia, scritto ai rettori. Trovai il
cammino in gran parte agevolato, eccetto gli studii prepara
torii. Sentii la necessit di compiere gli studi, mandando due
ispettori generali a Napoli ed in Sicilia, perch mi dessero
ragguagli esatti sullo stato dell'istruzione. Dubito che in que
st anno si possa compilare la legge: potremo sperare che la
Camera l'approvi nel futuro?
La legge Lanza sull'amministrazione degli studii, prepa
rata nel 1855, non si pot approvare che nel 1859; le leggi
sulle scuole tecniche, sull'istruzione secondaria, esigevano de
gli anni, e molte non si potevano pi discutere. Se consul
tiamo gli annali del Parlamento, vediamo molte leggi che non
ottennero l'onore di essere esaminate.
Il Belgio ebbe anch' esso la vanit di voler avere una
propria legge generale d'istruzione, e non ci riusci. Ci vollero
sette anni per l'istruzione primaria, otto per la secondaria.
Per qualche tempo ancora non potremo avere quella legge
generale. Siamo ancora un regno in formazione: dobbiamo
ancora guardarci da un nemico. Perci non posso promettervi
per questo o per quel tempo. Dir, l'ottimo verr quando che
sia, per ora si toglier quanto di difettoso contiene la legge
Casati, si presenteranno i miglioramenti possibili.
illusione credere che lo stato deplorabile dell'istru
zione dipenda dalle leggi. In Napoli, ove tanto di buono
nelle leggi, molte parti dell'istruzione sono nulle, e il male
744
dipende da molte altre cause. Armato dalla legge Casati, credo
poter ristaurare, creare l'istruzione elementare ove non esiste
affatto, provvedere all'istruzione popolare, che molto mi sta
a cuore, non mi contenter che quando l'ultimo degli Italiani
sapr leggere e scrivere.
Le scuole elementari a Napoli non esistono che sulla
carta, poich esse non ponno essere senza scuola normale.
Ora vi si provvide.
Il popolo dimostr d'aver avuto desiderio d'istruzione,
e aperta una scuola da due piemontesi, la popolazione vi si
affoll, e si chiari in tal modo buona, docile e morale.
L'istruzione superiore ora un po' abbassata, non v'
pi quell'amore alla scienza. Che fare perch l'Italia riacqui
sti il primato ? V'ha un ministro che non pi potente, il
nostro risorgimento non sar solo politico ma anche intellet
tuale. Ho tanta fiducia in esso, che il ministro della pubblica
istruzione non ha che ad assicurare piena libert a tutte le
forze vive del paese. L'onorevole Alfieri parla di certe ob
biezioni antiche e moderne. Io ho fiducia che l'Italia abbia
progredito anche in favore della libert d'insegnamento. Anni
sono i liberali ne temevano, oggi possiamo dir tutti che il no
stro sistema la libert. Agli altri la compressione, a noi la
libert.
Temono si desti una confusione nello Stato, un nocumento
al sentimento religioso. E nell'interesse di questo, che al
quanto affievolito, io invoco la libert d'insegnamento. Quanto
v'ha di pi intimo il sentimento religioso, e non vuol es
sere offeso. Non amo gli spiriti forti, n gli scettici, che re
citano paternostri; abbisogniamo di convinzioni, e queste tro
vansi aprendo ogni adito alla scienza. Sapete voi ci che af
fievoli il sentimento religioso? lo spirito esclusivo e stretto.
Che cosa invece lo ravviv e cre una filosofia cattolica? Vol
taire, le lotte di un secolo coll'altro. Gioberti, Manzoni,
Rosmini sorsero da questa lotta per istruzione elementare,
provvedimenti immediati per la superiore libert d'insegna
ment0 .
Il ministro riscosse applausi; ma quando era necessario
non parlare ma fare, allora non si venne a nulla, e la pubblica
istruzione in Italia rest nel suo stato primitivo, aspettando
ancora e sempre condizioni migliori per modificarsi nella via
del perfezionamento.
745
Ultima questione politica che dovevasi discutere alla Ca
mera dei deputati era la proposta di legge relativa all'inte
stazione degli atti del governo, discussa gi ed approvata dal
Senato.
l deputati eransi preparati a discorsi dotti ed acconci, tanto
pi che la generalit degli Italiani avrebbe desiderato quell'in
testazione pi semplice, e Vittorio Emanuele desideravano si
chiamasse Primo Re degl'Italiani.
Nella tornata del 15 aprile la discussione ebbe principio.
Il primo a prender la parola fu il deputato Ferrari, che disse:
L'anno scorso era quello delle annessioni, questo delle
proclamazioni. Si proclam il regno d'Italia, poi la capitale
d'Italia, ora si battezzano le leggi. Vuolsi annunziare con
un' intestazione, un'iscrizione da mettere sulle inonete, sulle
medaglie e sul principio delle leggi.
I giornali variano, le professioni di fede si modificano,
nei discorsi vi hanno espressioni che modificano le idee; ma
l'intestazione laconica, d una significazione superiore a
tuttO.
Vediamo dunque la nuova intestazione: Vittorio Ema
nuele II, per grazia di Dio e per volont della Nazione, Re
d' Italia.
La prima frase che si affaccia per grazia di Dio, la
formola antichissima, quella della legittimit, la formola
di Carlo V e di Luigi XIV. Avevo vagheggiato un'altra Italia
che riconoscesse un altro diritto. Speravo che il voto univer
sale fosse il voto della ragione, giusta i principii dell'89.
Mentre si riconoscono i disordini di Roma, vorrei vedere in
essa il sintomo di una vita, dell'abolizione dell'ultimo feudo
ecclesiastico. Il papa torn perch si riconosceva il suo di
ritto. Fatte le mie riserve su questo punto, lascio la que
- stione.
Mi rinchiudo nell'ra dell'abate Gioberti, dell'abate Ro
smini, nelle bolgie del passato. Esaminer le altre parole del
l'intestazione.
Rinchiuso nel passato riconosco il Regno d'Italia. Esso
non cess mai di esistere legalmente. Nacque dai Goti, fu
nemico del pontefice e del pontificato. Coi Longobardi continu
la tradizione, v'ha la stessa capitale Pavia. Conserva ancora
la sua esclusione da Venezia, da Roma.
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
94
746
I Franchi continuano a riordinare il regno d'Italia, il
regno delle regioni scentralizzate. Dura un secolo.
Continua ancora coi re d'Italia, con Berengario, e dura
quasi un secolo. Cogl'imperatori tedeschi sopravvive il regno.
Anche ora sussiste l'antico regno. L'incoronazione continua
sino al 1530. Se non fu presa poi la corona, fu perch solo
si crede il re sciolto dall'obbligo di risiedere in Italia. La
corona e sempre a Monza. Napoleone non invent il regno
d' Italia, lo ripristin. Se il nostro re si chiamasse Desiderio,
si potrebbe chiamare Desiderio ll, se si chiamasse Berengario,
dovrebbe essere Berengario III; Vittorio Emanuele, deve es
sere primo.
Anticamente le citt ordinate come l'Italia avevano il
diritto di guerra fra loro, tra i principi sabaudi e gli altri
principi italiani eravi diritto di guerra. Aleramo fece la guerra
contro la Lombardia. Era una guerra giusta, organica, feudale.
Ma se la trasportate qui in mezzo al suffragio universale v'ha
un controsenso. Vittorio Emanuele chiamandolo II lo fate suc
cessore di Vittorio Emanuele l , il quale continu le tradi
zioni antiche, ristabili tutte le leggi antiche, persino la tortura.
Nel conservare il titolo di secondo manteneva il re le tradi
zioni, gli usi della sua famiglia. Ma esaminiamo piuttosto gli
usi generali. Se a Chambery fosse prevalso un uso diverso
dell'Europa, non sarebbe per questo motivo di abbracciare.
Quando un re giungeva ad uno stato maggiore assumeva un
nuovo numero di successione. Quando Ottone II di Sassonia
giunse al trono germanico, si chiam primo; Arrigo V di Lus
semburgo si chiam Vll al trono imperiale. Carlo I di Spa
gna si chiam V, assunto al trono germanico. Fu questa pure
la tradizione d'Inghilterra, oveGiacomo VI di Scozia fu Giaco
mo I d'Inghilterra; e di Francia, ove Arrigo III di Navarra,
assunto ai trono di Francia, divenne IV.
L'uso generale fu quello delle cose italiane? Non pos-,
siamo metter alcun dubbio su questo punto. Francesco III di
Lorena fu I in Toscana. Alfonso I d'Aragona fu V a Napoli.
Gli stessi imperatori dimenticavano il loro nome giungen
do sulla nostra terra. Tutte le case italiane seguirono l'uso
dell'Europa. La casa di Savoia non vi derog: Vittorio Ame
deo II, giunto al trono di Sicilia, si disse l. Potete consultare
il medagliere del re, che al Ministero degli esteri o gli ar
chivi. In tutti gli editti soppresse la cifra di II; egualmente
747
nelle monete. In tutti gli editti si pu vedere l'intestazione.
E prima del 1713 usava il titolo di Vittorio Amedeo II. Con
tinua l'uso anche in Sardegna. Carlo Emanuele III si trova
senza numero nelle intestazioni. Il numero si riproduce nelle
medaglie: ma queste sono un monumento di famiglia. Anche
non cambiando titolo relativamente alla Sardegna non derogava
l'usanza dell'Europa, perch non assumeva uno stato maggiore.
N la mia considerazione una semplice sottigliezza. Minore
opposizione della mia non si pu fare: un numero ! Non
una sottigliezza, uno sbaglio, un errore il vostro.
Qualche volta, ripeto, se parte di uno Stato minore per
un maggiore si muta il numero. E in che consiste uno Stato
minore ? Gli Stati si pesano in pi modi per la popolazione,
l'estensione, la ricchezza, l'importanza. Un di Lucca fu messa
in vendita co' suoi ministri e Camere per 50 mila scudi in oro.
Francesco Castracane ne offerse 22 mila, uno Spinola 30 mila.
Questa repubblica, vedete, non poteva essere stimata. Chi la
stimava meno aveva ragione. Eppure la repubblica sopravvisse
fino al 1796. Se per sventura lasciaste quest'intestazione, il
significato sarebbe, che Vittorio Emanuele pass in uno Stato
minore, perch pieno d'incertezze e rivoluzioni. La casa di
Savoia nota per la sua saviezza in tutti i tempi, una delle
pi grandi d'Europa. Se lasciate questa idea nei popoli, che
essa non istima abbastanza l'Italia, nasce la sfiducia. Si di
mander perch diffida di tante ovazioni, di tanto entusiasmo.
Voi vedete la situazione generale, lo sviluppo della questio
ne, si dubiter di tutto, si faranno castelli in aria sul sot
tinteso.
Signori, vi lascio giudici dell' iscrizione, volli solo far
vene notare le conseguenze .
l ministri naturalmente temevano per la proposta di legge
quale era stata formulata da essi stessi: quindi il ministro
di agricoltura e commercio diceva:
Il titolo di secondo non pu destare i timori che crede
l'onorevole deputato, perch quando un re in faccia a tutta
Europa comincia col dire di assumere il titolo di re d'Italia,
fa conoscere abbastanza quali sieno i suoi intendimenti. Il
timore di un avvenire funesto inopportuno.
Prima di entrare in questa disamina, dir, che gli usi
718
addotti dall'onorevole Ferrari non possono regolare questa
materia. Se molti re mutarono la numerazione, molti altri
fecero il contrario. In principio del secolo, Federico II di
Wrtemberg continu il suo titolo sebbene aggrandisse lo
Stato. Il duca di Sassonia, divenuto re, non mut numero.
Nei tempi precedenti Ferdinando V aggrandiva il suo terri
torio notabilmente, e non cambi numerazione per questo.
L'elemento nazionale ci costringe a mantenere al re Vtttorio
il suo titolo.
Un grave fatto vagheggiato da tanti secoli si compiuto.
l'alleanza del principio monarchico col nazionale. Quando
Carlo Alberto, passato il Ticino, pose la croce sabauda sui
tre colori italiani, s' inaugur tale alleanza in Italia.
La monarchia fa causa comune coll' Italia.
Nel 1688 gli Stuart furono cacciati d'Inghilterra, ma
non si volle tuttavia rompere col passato, bensi associarlo al
presente. Nel 1830 si tent pure in Francia di fare tale al
leanza, che non si pot compiere perch la monarchia non
corrispose ai desideri della nazione.
Quando si tratta di un fatto nazionale si grande, non ne
dobbiamo scemare l'importanza. L'alleanza sarebbe sciolta
se si dicesse Vittorio Emanuele I. Egli non sarebbe allora che
un nuovo re, il cominciamento di un ra nuova.
Il nome del nostro re fu portato quando le miserie ita
liane erano al colmo, fu portato a Palestro ed a S. Martino.
Ferdinando IV cambi il suo nome in Ferdinando I. Ma
il suo primo nome non ricordava che delitti. Quello di Vit
torio Emanuele non ricorda che virt cittadine e guerriere, e
non vuol essere abbandonato .
Il deputato d'Ondes volle dare il suo giudizio sulla questione
che si agitava, ed enunci i seguenti pensieri:
L'Italia fu riunita solo sotto Teodorico. Ora non c'era
pi ombra di regno d'Italia. N'era stata divisa in pi regni
e dinastie e popoli che chiamarono ora a loro re Vittorio
Emanuele II. un regno nuovo. Il primo re di un nuovo re
gno vuolsi sia secondo. Mi pare che sia un controsenso.
Mi stup che il ministro Natoli allegasse esempi si pic
coli, doveva recar esempi grandissimi. Rammenteremo alcuni
che riguardano Italia. Federico II divenne in Sicilia Federico I,
7.49
Carlo V Imperatore si chiam I di Napoli, e di Sicilia, Vit
torio Amedeo II nel Parlamento siculo del 1714 fu ricono
sciuto solo come Vittorio Amedeo I. E il cambiamento ora
ben maggiore che non fosse allora.
S'impicciolisce il gran concetto del regno d'Italia col ti
tolo di Vittorio Emanuele II. Non comprendo l'argomento del
ministro dell'agricoltura e commercio. La tradizione rispet
tabile, ma Vittorio Emanuele noi lo vogliamo per le sue virt
non perch fu re di Sardegna, lo vogliamo perch fu migliore
degli altri sovrani e combatt le guerre dell'indipendenza.
Vengo all'altra parte della formula.
Da dieci secoli non s'intese che principe s'intitolasse senza
la formola per la grazia di Dio. Comincia l'uso col padre di
Carlo Magno re de Franchi che tal si diceva per la grazia
di Dio. Dopo d'allora non fuvvi principe debole o potente,
buono o cattivo, che non abbia conservato esser tale per la
grazia di colui che fa e disf i regni. Fu una formola di pro
gresso, in opposizione a Roma pagana, che chiamava Divi
gl'Imperatori. Questa formola ha un significato molto reli
gioso.
Ne da confondersi con quella omnis protestas est a Deo,
intesa male, che tutti i Re siano stati posti direttamente sul
trono da Dio, Dio per felicitar i popoli o per flagellarli ne'
suoi imprescrutabili disegni, innalza Marco Aurelio, o Com
'modo:
Ma consideraste l'impressione che farebbe in Italia e sugli
altri popoli l'ommissione di questa formola? Essa sarebbe do
lorosa.
Noi non scemeremmo per fatto nostro la forza morale,
la quale in fin dei conti la pi potente. A quelli che nel
l'assemblea francese sostenevano doversi togliere la formola
per grazia di Dio, Mirabeau provava eloquentemente doversi
mantenere, perch un punto di riunione di tutti i popoli
della terra; un omaggio reso alla religione.
Per queste considerazioni vi chieggo in nome della io gica che diciate semplicemente Vittorio Emanuele non Vittorio
Emanuele II. Vi chieggo a nome della realt dei fatti che lo
proclamiate re per volont del popolo, e a nome dell'eterna
verit, che lo diciate re per grazia di Dio.
Il deputato Bertolami prendeva indi la
parola
dicendo:
750
La logica vuole che Vittorio Emanuele sia primo o se
condo, ma abbia tin numero. Rispetto gli scrupoli del signor
Ferrari, ma voglio esaminarla questione come conviensi in un
Parlamento.
Lasciamo gli esempi storici. Se si trattasse di una terra
aggiunta all'antica, sarebbe il caso di discutere, e principal
mente se fosse questione di uno Stato nuovo. La cosa evi
dente. Ma ora non il caso. Vittorio Emanuele fu re di una
terra italiana, fu propugnatore dell'indipendenza di tutta la
nazione, e colla cooperazione della nazione intera.
Egli non pu rinnegare le tradizioni della propria fami
glia, e la storia ci dice che egli segu quel principio che pro
dusse gli ottimi avvenimenti. I re di Sardegna furono custodi
dell'Italia, divennero una gloria italiana. La fermezza dei pro
positi fu retaggio di quell'augusta dinastia. Faremmo loro il
rimprovero di non essere principi italiani? Sarebbe il pi strano
rimprovero.
V'ha una ragione pi forte e la esporr schiettamente,
perch il principe deve udire la verit. Io lo adulerei, men
tirei se dicessi che l'Italia deve tutto a lui. Egli continua la
politica di suo padre. Se primo egli avesse detto agl'Italiani
seguitemi sarebbe il caso di discutere sul suo titolo. Ma la cosa
non cos. Carlo Alberto non lasci memoria meno sacra, egli
volle essere Re d'Italia o soccombere. La grand'opera non si
pot allora compire, egli esul; ma si direbbe perci che Vit
torio Emanuele non sia suo continuatore? Il fatto politico che
v'accenno distrugge l'obbiezione. Vittorio Emanuele I fu uomo
non triste, ma raggirato e non conobbe il suo tempo. Ma
nella dinastia vi sono altre memorie e il nostro sovrano ne
il continuatore.
Senza il principio monarchico non avremmo potuto com
pir l'opera nostra, perch si tollerava in Europa Vittorio Ema
nuele, Re rivoluzionario? solo perch sedeva sul trono de' suoi
maggiori.
Vittorio Emanuele non si attiene al diritto divino, in ogni
suo posto rende omaggio al diritto nazionale e gli fedele. Fu
tale quando il proclamarlo in Europa era delitto; per esso
sostenne la guerra colla corte di Roma, che era difesa da tutti,
sostenne la guerra coll'Austria. Ora io domando a questo Re,
che rinunziando al diritto ereditario, abbraccia il popolare,
imporremo noi che rompa le tradizioni di sua famiglia?
751
Noi non eravamo abbastanza preparati pel nostro riscatto,
altrimenti avremmo guadagnato prima la nostra causa. Il Pie
monte era uno stato militare, ma sotto altro aspetto era in
feriore alle altre provincie: non era educato ancora alle idee
che pi tardi dovevano svolgersi. Ebbe molta devozione a suoi
sovrani, e questo riusc poi favorevole alla nostra libert. E
vorrebbesi dire al re voi non dovete aver pi nulla di comune
cogli avi, coprir d'un velo le glorie dei vostri maggiori, di
menticarvi che vostro padre inizi l'opera? La numerazione
ha importanza appunto per le tradizioni di famiglia. Non dob
biamo andar oltre e mostrarci riconoscenti al martire glorioso
d'Italia.
Ecco ora il convincimento del deputato Miceli:
La Monarchia di Savoia comprese la rivoluzione, e sulla
bandiera di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele stava scritto
il diritto degl'Italiani. Le formole antiche non ponno essere
usate pel diritto nuovo.
Vengo alla seconda parte: la grazia di Dio. D'Ondes la
crede indispensabile alla religione.
La formola perd il suo significato antico, e al nome suo
si gettarono i popoli nella miseria, acquist un significato si
nistro, il quale non ricorda che lutti, dobbiamo eliminare le
formole odiose.
Si elimini il titolo di secondo e si sostituisca la formola
-
re dell'Italia una e indivisibile, eccitamento a liberare tutta la
patria nostra.
Poscia parl Petruccelli nel senso qui appresso:
La formola per la grazia di Dio ispirata, si disse, dal
cristianesimo. Ma questa una religione democratica, e quella
formola fu dettata dai papi.
Non si sa poi di qual Dio si voglia parlare. V' il Dio
dei galantuomini, e per questi non v' grazia, ed un pri
vilegio; v' il Dio di Kent e di Fichte, e non pu esser
quello di Vittorio Emanuele. Lasciate adunque quella formola
feudale, che ricorda orrori ed infamie. Il Dio di Vittorio
Emanuele non pu essere quello di Filippo II e di Ferdi
nando.
752
E di qual provvidenza parlate voi? La provvidenza di
Vittorio Emanuele egli stesso, stato l'esercito francese,
fu il Garibaldi che gli port un regno. Fu il Mazzini. Se la
grazia di Dio buona per Vittorio Emanuele, la pure per
Francesco. La politica un altare umano, vive di spedienti
e di violazioni di diritto, non conviene invocar Dio sopra
essa. Volete voi porre quella formola sopra un trattato che
sar violato ? Per Vittorio Emanuele basta la volont nazio
nale .
-
Finalmente parlava il deputato Boggio:
Eliminata la grazia di Dio dalle leggi la avrete eliminata
dalla coscienza? Senza di essa l'uomo si sgomenterebbe del
vuoto. E che altra cosa dev essere la legge che la coscienza?
Senza essa, voi la rendereste imperfetta.
Si disse essersi molto abusato di quella formola: ma di
che cosa non si abusa ? Non si versarono torrenti di sangue
per la libert ? Desidero che la formola sia nelle nostre leggi
perch vogliamo dire che l'Italia ha diritto di essere, di af
fermare la sua nazionalit, che questa ha le sue radici nella
giustizia eterna. Accetto questa formola perch esprime un
concetto giusto. E se si elimina il concetto della divinit, quale
ora possibile ?
Il regno d'Italia noi lo affermeremo, facendolo forte
colle armi, colla nostra concordia, coll'unione delle membra
che ne sono ancora disgiunte, colla civilt. Esso non potr
essere disconosciuto, e di esso si dir ci che fu detto della
repubblica francese paragonata al sole che non ha d'uopo di
esser riconosciuto, cieco chi non lo vede.
Si disse che non cominciava un nuovo ordine di cose,
e volevasi perci un nuovo nome; ma la cosa non nuova,
il compimento della tradizione di otto secoli. L'Italia rac
chiude in s tutti gli elementi della nazionalit, non pu
esser una che con una forma monarchica. Sempre fuvvi ten
denza in ltalia ad unirsi alla dinastia di Savoia, e questa aspir
sempre all'Italia. Enrico IV voleva ai nostri re aggiungere
una provincia italiana.
Facilmente ritiniscono si le nostre provincie. Dopo 150
anni si riconoscono ancora in Sicilia gl'influssi sabaudi. Nel
1848 venne ivi eletto a re un nostro principe. Appena liberata
755
l'isola dal generale Garibaldi, tende ad unirsi all'Italia. Ben
disse un poeta non sospetto parlando di Carlo Emanuele l:
Italia, Italia, il tuo soccorso nato . Si osserv sempre
una doppia tendenza, della dinastia verso la nazione e della
nazione verso la dinastia. E questa non che l'ultima delle
evoluzioni .
La discussione non fu finita, e continu nella seduta del
17 aprile.
Il deputato Carutti fu il primo a parlare, e fece le se
guenti osservazioni:
-
Erami parso che la Camera volesse chiusa la discussione
e perci aveva deliberato di tacermi. Far dunque solo brevi
osservazioni.
La formula proposta dal governo rende solo omaggio alla
divinit, afferma il fatto della volont nazionale.
Sull'ultima parte nessuno fece obiezioni, tutti s'accor
dano nel dire il regno d'Italia esser portato dell'espressione
popolare.
Se qualche sfumatura di diversit potesse esservi, sa
rebbe dalla parte di noi abitanti delle vecchie provincie che
non potemmo acclamare il nuovo re. Ma all'invidia sottentra
un giusto orgoglio che noi non avevamo bisogno di manife
stare un voto, la dinastia era per noi una domestica gloria
otto secoli di comunanza nelle tristi e liete vicende, ci unirono
indissolubilmente alla monarchia sabauda.
Ma perci appunto dobbiamo essere pi guardinghi nel
conservare le domestiche tradizioni. La grazia di Dio incontr
molteplici opposizioni. L'onorevole Ferrari vi scorse un'Italia
diversa da quella ch'egli aveva vagheggiata. Altri vi ravvisava
un pericolo delle libert di coscienza, e per poco non si vi
dero i roghi, le persecuzioni, la notte di S. Bartolomeo. Fuvvi
chi vide i segni della conquista.
L'onorevole Brofferio diceva essere un pleonasmo, un
altro oratore un indizio d'ipocrisia. Permettetemi che mi
fermi alquanto su quest'ultima accusa. Noi usiamo manife
stare apertamente nel Parlamento le nostre opinioni.
Il guardasigilli gi aveva notato essere quella la formula
di tutte le monarchie, un'affermazione d'indipendenza del
capo dello Stato, il quale non tiene la corona di alcuni po
Stor, della rivol. Sicil. Vol. II.
95
754
tentati e non dee render ragione che a Dio e alla nazione.
Il relatore della giunta altres la propugnava.
Aggiungo che essa un omaggio al creatore. Quest'in
tervento mi pare che si debba confessare, principalmente da
chi professa le idee le pi democratiche, perch i popoli cre
dono fermamente; lo avrebbe dovuto ammettere pi di tutti
l'onorevole Ferrari, che l'Italia novella deve trovarsi in un
mondo nuovo, fu grande oppositore delle idee che ci mena
rono al punto in cui siamo, predic nel deserto, e protestava
quando e Lombardia e Parlamento, gridavano contro lui. Ora
che i fatti non gli hanno dato ragione, chi pi di lui dovrebbe
dire che siamo i ciechi strumenti di Dio? Ma forse egli non
teme n i roghi, n le conquiste, n la legittimit; non com
batte le ombre ma la realt. Ma non so bene come mi deva
esprimere con lui.
Gl'Italiani paiono diplomatici per natura. I nunzi-ponte
ficii ebbero sempre rinomanza per la loro valentia. Il popolo
italiano fu tutto diplomatico, quindi non ci meraviglierebbe che
anche il signor Ferrari fosse divenuto diplomatico. Parlando di
Roma, egli diceva dovervisi andare colle idee degli enciclo
pedisti della rivoluzione francese. Le sue frasi destarono se
ho ben detto un po' di rumore in quest'assemblea. Allora
sorse un altro oratore che ne rischiar le idee e le rese pi
gradite. Allora il signor Ferrari conferm quelle spiegazioni
e ci rub il mestiere.
Ieri parl a un dipresso in quel senso e nessuno com
ment le sue parole. Anzi vi fu chi and pi oltre e disse:
di qual Dio parlate? con altre parole ch'io non ripeto.
S'abbia il coraggio delle proprie opinioni ed io l'avr. La
risposta pronta. il Dio che conoscemmo dall'infanzia, il
Dio della nostra religione. A Roma colle vostre idee potrete
andarvi, ma non istarvi. L'Italia senza il cattolicismo non si
comprende, la scienza ve lo dice apertamente; da S. Tomaso
a Galileo e a Volta, da Dante a Manzoni, trovate un inno
continuo per quella religione che ci rese liberi.
In ogni manifestazione dell'umano ingegno troverete Ita
lia e religione congiunte. A Roma disfacendo le credenze cri
stiane, disfacete l'Italia. Voi schiantereste piuttosto quelle mura
di macigno che le credenze dal cuore degl'Italiani.
Passo alla terza questione che riguarda il nome del re.
Dov' il primo re d'Italia che porti il nome di Vittorio
7o
Emanuele? si cambia nome quando si passa da uno stato mag
giore. Ed in sostanza l'obbiezione che ci si fa.
Ma pi di noi non s'acquietano, sentono ripugnanza ad
ammettere le mutazioni, e finiscono col rigettarle. V' una
logica potente, quella del sentimento.
I principi di Savoia non osarono canibiar titolo assunti
a nuovo Stato.
Amedeo VIII diventa duca e non cambia numero. Vitto
rio Amedeo II lo trovate dovunque con quel nome, cos Vit
torio Amedeo III, Carlo Emanuele III e l'infelice IV. Parmi
non sarebbe gentile derogare a quell'uso. Alterare il nome
di Vittorio Emanuele sarebbe una profanazione, un'offesa al
senso morale. Si restitu la corona di Berengario, e non si
debbe torre la gloria a suoi discendenti.
V' qualche cosa di superiore, ed il principio monar
chico. Alcuni si accostano a questo, e quasi lo tollerano gra
zie al nostro re. Altri lo riconoscono come necessario all'uni
t, alla redenzione della patria. Io sono tra questi. Ogni atto
che possa debilitare quel principio dev'essere accuratamente
evitato. Rompendo la tradizione della dinastia se ne meno
merebbe il concetto in Europa. Presso i popoli perderebbe
una parte del prestigio.
L' onorerole Ferrari cit molti fatti antichi, molti prece
denti. Essi sono esattissimi per la maggior parte. Potrei ci
tarne altri, ma dopo ventiquattr'ore, dopo aver potuto rovi
stare libri vi sarebbe poca gloria. Dir solo, che allegando
l'uso di Savoia come contrario al generale, non fu veramente
esatto. Guard gli editti ma solo una parte. Nella nostra mo
narchia non si us mai mettere il numero dopo il nome del
principe. Cos non fece Carlo Emanuele II, n gli altri. I fatti
da lui citati sono per lo pi effetti di trattati e stipulazioni,
per cui il principe mon dava che la sua persona. Ma qui v'ha
un re che diede all'Italia la sua legge, la libert, lo Statuto.
L'Italia accetti da lui non pur la persona, ma quanto egli
rappresenta, cio la monarchia e la libert. Se voi doveste
per esser conseguenti anche dire il primo anno del regno, non
il duodecimo, chi di voi avr il coraggio di cancellare dodici
anni di gloria? Non io!
Il deputato Ferrari non pot starsi in silenzio, e prenden
do la parola, diceva:
756
Mi richiudo nel fatto personale. Una parola sola mi
colpi, bench pronunziata con tono poco amichevole, e fu
quella di esser io diplomatico. Avr mille difetti, ma recai
sempre grande sincerit in quanto dissi. Posso sembrare im
provvido, esser appuntato di contraddizioni. Ma non v' ob
bligo di leggere i miei libri.
Quando tutti acclamavano Pio IX, io solo mi metteva in
opposizione, ed era maledetto. Non fui tuttavia improvvido.
Noi siamo sotto l' impero della religione dominante.
Essa nello Statuto, e ne derivano quindi tutte le conse
guenze. A tutte le obbiezioni fatte a quella formola non po
trei portar pratici argomenti. Non posso recar le mie idee in
Italia, e fu condannato a Casale il mio libro sulla filosofia
della rivoluzione, e il libraio Cattaneo difeso dall'avvocato
Tecchio. L'autore non sarebbe stato risparmiato. La mia
diplomazia sta nella tirannia, nell'impero, se volete, della
legge.
Ringrazio come un angelo il Canonico Maresca, il quale
comprese ch'io non voleva altro che esser italiano; ma libero
nel senso antico. Possono essere erronee le idee di Hegel e
di Strauss: ma io voglio solo la libert, anche la libert del
l'errore. E il sacerdote pubblichi pure liberamente le sue sco
muniche. Non chieggo pene contro le false dottrine della Chiesa
I'OIilaIl3.
Rettificher un altro fatto:
L'amore della libert non lo professo nell'interesse di
un'idea ma di tutto. Per essa arriveremo alla vera emanipa
zione nostra. Gli ostacoli non sono solo gli esterni, ma ne ab
biamo in noi. Noi vediamo nei libri inglesi e francesi le idee
che solo ci mormoriamo negli orecchi.
Non mi stancher dal far gli elogi del medagliere e ar
chivii di Torino. A torto fui accusato di averli esaminati leg
germente. Vittorio Amedeo II enumerato avanti il 1713 non
dopo.
Mi fu opposto che Ferdinando V d'Aragona non mut
coll'acquistare la Spagna. Ma neppur egli acquist la Castiglia,
che era di Isabella.
Se conserviamo per la grazia di Dio rimaniamo sotto
l'impero dell'antico diritto. Il regno italiano sar une delle
solite esplosioni delle rivoluzioni italiane. Se mantenete la
numerazione antica, vorr dire che l'Italia non si redense,
757
non si liber ma che il Piemonte la conquist, che il principe
di Savoia sottomise all'ambizione de'suoi avi, tutta la rivolu
zione italiana e confisc il suffragio de'popoli.
Altri deputati altre cose dissero chi in favore e chi contra
la formola dell'intestazione. Finalmente si venne alla chiusura;
174 voti furono favorevoli, 58 contrari.
Cos la camera che rappresentava la nazione, dopo aver
dichiarato Vittorio Emanuele re d'Italia, ne sanciva il titolo
di Secondo ! In diritto il regno d'Italia era fatto; ma mancavano
ancora Roma e Venezia. L'opera era incompleta, e gli Ita
liani continuarono ad aspettare il compimento dei loro anti
chi voti, l'attuazione del programma rivoluzionario, l'ultimo fatto
a cui era ordinato il grande movimento politico dell'Italia.
CONCLUSIONE.
Anzicch una storia, noi abbiamo fatto una raccolta scrupo
losa di documenti che riguardano l'avvenimento pi memora
bile dell'epoca nostra, la liberazione cio dell'Italia Meridionale
dal giogo borbonico, per cui si rese possibile l'unit italiana.
Storia veramente non si poteva scrivere perciocch molte
cose ancora non si conoscono, e le ragioni che tali e tanti
avvenimenti produssero sono tuttavia misteriose. La diplomazia,
i riguardi internazionali, la politica necessaria ad un paese che
ancora non ha raggiunto la sua meta, vietano che si rendan di
pubblica ragione quei segreti maneggi che prepararono e che
poi compirono quei grandi fatti.
I nostri lettori ci hanno seguito per tutta la serie degli
eventi che si svolsero in tanto poco tempo e con tanta meraviglia
di genio, di potenza, di fortuna. Narrammo i fatti quali accad
dero, recammo i pi importanti documenti che un di servi
ranno alla storia vera, e se in ci ci siamo molto diffusi non
fu nostra la colpa sibbene degli eventi stessi, i quali racchiu
dendo in s le questioni pi ardue dell'umana societ abbiso
gnavano di quella copia di documenti per poter essere meglio
studiati, e meglio approfonditi.
Ma qualunque sia il lavoro che abbiamo fatto, ci pare sia
sufficiente per dimostrare fino all'evidenza che la spedizione
di Garibaldi in Sicilia sia stata un vero prodigio, e che la sua
marcia trionfale fino a Napoli abbia i colori di quei fatti an
760
tichi che la favola ha travisati, e che giungono a noi con tutti
i caratteri dello strano e dell'incredibile. Nella caduta del
trono borbonico e nelle circostanze che l'accompagnarono, si
vede chiaramente che la tirannide non pu durare, e che
quand'essa giunge ad ingenerare nei popoli il malcontento
generale allora vicina alla sua caduta, perciocch i popoli
possono soffrire pazientemente per qualche tempo ma non
sempre n senza dimostrazioni ostili.
La questione del potere temporale pu esser facilmente
sciolta da chi ben considera nella nostra storia tutti quei ca
pitoli nei quali l'opinione generale chiamata a giudicare quella
questione della Chiesa e dello Stato. L'ostilit del clero non
ha profittato nulla n alla Chiesa n alla religione; forse il
clero non pensava che impegnando la lotta sarebbesi trovato
a fronte di tutto il mondo incivilito, e della coscienza univer
sale. La questione finora non sciolta in fatto, ma sciolta in
diritto; il Papa re per la sola ragione che il presidio francese
lo tiene in Roma alla testa di un governo che si estende a picco
lissima provincia. Non crediamo vi siano cattolici che per sen
timento religioso vogliano propugnare l'esistenza del potere tem
porale nelle mani del Vicario di Cristo. Anzi possiamo asserire
che la verit ha trionfato, e che si ha trascinato dietro a poco a
poco i pi ostinati partigiani della Curia romana. La questione
di Roma che pareva nessuno potesse risolvere, stata sciolta
dalla pubblica opinione, dallo stesso sentimento cattolico, dal
basso clero piuttosto inclinato agli interessi italiani, e dal
l'Episcopato stesso il quale invece di difendere le proprie dot
trine con sode ragioni, e critica moderata, si spinto a tali e
tante intemperanze da persuadere a tutti che la causa da esso
difesa ingiusta, e che perci si ricorre alle ire, ai par
titi, alle mene, ed alle cospirazioni. Passer poco e Roma sar
la capitale d'Italia; se il papa rester a Roma non potremmo
asserire, ma certo che Roma sar presto la capitale d'I
talia.
Abbiamo inoltre narrati i fatti della guerra delle Marche e
761
dell'Umbria, uno dei passi pi essenziali nel cammino dell'u
nit italiana, e che si deve alla fina politica del Conte di
Cavour. Nella guerra di cui parliamo la politica di Napo
leone III dovette cedere a quella del Conte di Cavour, e la
Francia fu in quella circostanza rimorchiata dall'Italia.
Finalmente parlammo del parlamento italiano, accennammo
ai pi bravi oratori, alle questioni pi essenziali che vi si trat
tarono, alle decisioni pi importanti a cui si venne, ed alle
diverse opinioni politiche ed amministrative che vi si agita
I'0Il0.
Ma l'Italia non ancora compiuta; essa non ha raggiunto
la sua unit, e non l'avr raggiunta che quando sar padrona
anco della Venezia. Quest'altra questione non pu risolversi
che con la spada; sui campi di battaglia che l'Italia deve
strappare allo straniero la parte nobilissima del Veneto. Tra
l'Italia e l'Austria la lotta non finir che quando il dominio
straniero non sar pi tra noi, quando l'Austria e l'Italia go
verneranno dentro ai loro naturali confini. Di presente pare
che il governo italiano voglia preparare le forze necessarie a
questa guerra suprema che deve coronare l'opera dei gene
rosi, ma non possiamo nascondere che l'armamento ha proce
duto e tuttavia procede lentamente, troppo lentamente. La
popolazione italiana, sempre entusiasta per la causa del suo
paese ha avuti dei momenti veramente sublimi, nei quali
avrebbe dati tutti i suoi figli, tutte le sue ricchezze, tutti i
suoi tesori per rendersi indipendente ed una; questi momenti
sono passati, ed il governo non ha saputo coglierne frutto.
Abbiamo fede per che mai si lever un grido che accenni a
guerra nazionale senza vedere sorgere Italia tutta dalle Alpi
all'Etna e divenire campo di battaglia e popolo di eroi; abbla
mo fede che un ultimo sforzo sar fatto, e che per esso avre
mo l'unit della Patria, ultima corona alla prima nazione del
mondo.
FINE DEL SECONDO ED UL
Stor. della rivol. Sicil. Vol. II.
96
GUIDA PEL LEGATORE
onde collo eare ie vignette contenute nel
VOLUMIE PRIMO.
pe
itratto del generale Garibaldi .
3 pag.
. .
Sbarco del generale Garibaldi e dei suoi valorosi soldati a
Marsala (l'11 maggio 1860)
,
.
Ritratto di Benedetto Cairoli
Ritratto del generale Cosenz
Ritratto di Menotti Garibaldi
Battaglia di Calatafimi
Morte di ROSolino Pilo
.
Ritratto di Rosolino Pilo .
--
65
88
9i
108
112
12!
12:
n
a
150
15 ,
15to
167
i 80
195,
2 lt)
2i
221
22S
Capitolazione tra il generale Letizia e Garibaldi sul vascello
l' Annibal
.
). Ritratto di frate Giovanni Pantaleo .
-
. Garibaldi dando danaro e conforto ai feriti napoletani
. Demolizione del castello di
Palermo
. Palazzo Reale di Palermo,
. La donna di Termini
. Arrivo a Palermo del vapore il Veloce .
. Un fatto della battaglia di Milazzo
. Ritratto del maggiore Filippo Migliavacca
8. Entrata di Garibaldi in Messina
Ritratto del generale Nino Bixio , .
.
. .. . .
. Garibaldi nel Golfo degli Aranci che arringa i suoi soldati
248
252
. Ritratto di Missori
280
2S5
. Garibaldi e Missori formando il piano per l'attacco di Reggio
283
. Sbarco in Calabria della divisione Cosenz
. Garibaldi che da un halcone del palazzo della Foresteria parla
al popolo napoletano
. Ritratto del generale Della Rocca .
.
.
.
.
i. Il generale Cialdini, vinctore nella battaglia di Castelfidardo
trova il generale Pimodan mortalmente ferito ed assistito
dai medici piemontesi .
7. Il generale Della Rocca entra in Perugia
v
-
. Ritratto del vice-ammiraglio conte Persano
. Ritratto di Lamoricire
. Ritratto del generale Turr
generale
Medici
.
. Ritratto di Vittorio Emanuele II re d'Italia
. Ritratto del
n.
5!
571
586
592
,00
. .0
h.96
506
567
NEL VOLUMIE SECONDO
5. Entrata di Vittorio Emanuele in Ancona .
-
54. Ritratto di Pallavicini Trivulzio.
a pag. 9
I2
101
11 ,
cerone si presenta come prigioniero a Cialdini
38. Il giorno 26 ottobre Garibaldi incontra il Re a Teano .
53. Vittorio Emanuele e Garibaldi, ambedue nella stessa carrozza,
entrano in Napoli .
p
a). Ritratto del cav. Luigi Farini .
71 Garibaldi parte da Napoli e s'imbarca sul vapore i ashin
gton per Caprera
I,2. Iitratto del generale Giuseppe Sirtori
'5. Il maggiore Mosto consegna in Caserta al corpo dei Carabi
nieri Genovesi una ricca bandiera regalata da Garibaldi
e
', i Garibaldi, giunto a Caprera, festeggiato dai pochi abitanti
di quell' isola
e
1.5. Ritratto del generale Manfredo Fanti
e
l; 6. Arrivo delle navi da guerra sarde a Palermo .
l.7. Il popolo palermitano stacca i cavalli e tira la carrozza del
156
168
53. Ritratto di Francesco II ex re di Napoli .
56. Il prodittatore Mordini distribuisce in Palermo le medaglie
destinate ai Mille .
57. Il generale borbonico Duglas-Scotti dopo la battaglia del Ma
te eletto Vittorio Emanuele .
18. Ritratto del generale Menabrea .
A9. L'esercito italiano ai lavori d'approccio innanzi a Gaeta .
-
50. Bombardamento di Gaeta .
51. Ritratto dell'ammiraglio Le Barbier de Titian .
52. Scoppio di una polveriera in Gaeta .
35. L'esercito italiano, vincitore, entra in Gaeta con bandiera
spiegata
54. iitratto del generale Cialdini .
53. Ritratto del principe Eugenio di Savoia
-
56. Ritratto del cardinale Antonelli.
37, Carta generale della Sicilia, in fine del secondo volume.
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25S
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. 260
268
297
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517
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515
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OPERE IN CORSO DI STAMPA
CEHE SI PUBIBELICIMEERANNO IN FIBREVE
DAhh ilBRERIA SAI it)
-eaguanea aerea
COLLEZIONE DELLE PREDICIIE
DoMENICALI, di Aurelio
Bianchi-Giovini con prefazione e ritratto dell'autore. Sa
ranno 4 vol. in-16.
CRITICA DEGLI EVANGELI, di A. Bianchi-Giovini. Seconda
edizione originale riveduta ed aumentata considerevoli
mente dall'autore. Vol. 2 in-16 col ritratto dell'autore
PIETRO ARETINO ED IL SUO SECOLO, di Chasles Fila
rete, versione di Massimo Fabi con lettere edite e ine
dite, e documenti storici intorno al suddetto Aretino
Un volume in-16 con ritratto.
IL QUINTO LUSTRO DELLA VITA. Commedia in 5 att
di Paolo Ferrari. Che compir il 4. volume delle opere
di questo autore.
LA CONGIURA DI BRESCIA. Romanzo storico di Luigi Ca
pranica. Vol. 2 in 16 ig.
APPENDICE alle opere di Pietro Giordani e che
former
il volume 14 delle medesime. Un vol. in-16.
ELEMENTI DEL DIRITTO CRIMINALE, dell'avvocato Gio
vanni Carmignani. Versione italiana con note del dot
tore Filippo Ambrosoli. Un volume in-8 col ritratto dei
l'autore.
DANTE A VERONA. Commedia in 5 atti di Paolo Ferra,
che former la parte 1. del vol. 4. delle opere dran
matiche di questo autore. Un volumetto in-16.
|-
|-
aevae