Questo ebook è stato realizzato e condiviso per celebrare il
Centenario della Rivoluzione russa
1917-2017
mm
Scrittori del mondo: i Nobel
La U T ET ringrazia il Club degli Editori che ha ideato que
sta collana nonché le Case Editrici che ne hanno consentito la
realizzazione concedendo i diritti e le traduzioni delle opere
prescelte per la pubblicazione.
IVAN BUNIN
Un ion e Tip ogr afico- Ed it r ice Tor in ese
IVAN BUNIN
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Un ion e Tipogr afico- Ed it r ice Torin ese
Edizione speciale della U TET
per concessione del Club degli Editori
su licenza della Carabba Editore e
della Arnoldo Mondadori Editore
© I934> by Arn oldo Mondadori Editore
Prefazione © 1 9 6 9 Club degli Editori - Milano
A cura di Ettore Lo Gatto
Le opere
CA M P A G N A
V A LSEC C A
U N A BE LLA V IT A
L ’A M O R E D I M IT IA
RA C CO N T I
Ivan Bunin
In un breve racconto, che è piuttosto un ricordo let
terario commentato da riflessioni personali, Bernard,
Ivan Bunin nel 1930, dopo circa quarant’anni dall’i
nizio della sua attività di poeta e narratore, ma non
ancora alla fine di essa, offriva allo storico della lette
ratura che avrebbe dovuto parlar di lui, una form ula
sem plice ma molto persuasiva. Questa form ula era n el
le parole dell’eroe — eroe veramente di M aupassant e
non di Bunin - il m arinaio, dal cui nome il racconto
prende il titolo, Bernard : « Credo di essere stato un
non cattivo m arinaio » ( secondo le parole citate in rus
so; «Je crois bien que j’étais un bon m arin » secondo
il testo francese origin ario).
La deduzione che troviam o nelle parole dello scrit
tore: « Ognuno, ognuno di noi deve m eritarsi il dirit
to dì dire in una certa ora quel che disse, morendo,
Bernard », e che in altra versione suona anche com e:
« M i sem bra che, come artista,'io abbia m eritato il di
ritto di dire di me, nei m ìei ultim i giorni, qualcosa dì
sim ile a ciò che disse di sé, m orendo, Bernard », non
era sintom o di superbia; direm m o anzi che lo era di
um iltà, pure am m ettendo che, nel senso stretto di Ber
nard, il quale riteneva di aver com piuto il suo dovere
come m arinaio, Bunin non ign orava che, sul suo piano,
um iltà e superbia erano m anifestazioni, solo in appa
renza diverse, di una stessa coscienza. Bernard aveva
X IVAN BUNIN
navigato da bon marin tra burrasche e venti contrari,
sem pre portando in porto il suo battello, sicuro di sé,
del suo mestiere. N on m inori burrasche e non sempre
venti favorevoli aveva incontrato nella sua navigazione
lo scrittore che, come tale, poteva già serenam ente guar
darsi indietro, ancor prim a che tale diritto gli fosse ri
conosciuto universalm ente con V assegnazione del Premio
N obel nel 1933.
Chi prenda in m ano i dodici volum i dell’edizione
delle opere di Bunin, quale egli la volle tra il 1934
e il 1939, non può non notare subito una caratteri
stica, che potrebbe dirsi esteriore, ma nell’intenzione
dello scrittore doveva avere un significato spirituale, ri
velatore della sua personalità dì poeta e narratore in
sieme. Le poesie cioè — specialm ente nei prim i volum i
- si accom pagnano alla prosa, quasi appunto a voler
ricordare al lettore che l’autore fu nella stessa epoca nar
ratore e poeta, cosa a cui il lettore non rivolge di solito
l’attenzione, anche quando si tratta di scrittori notoria
mente narratori e poeti nello stesso tem po, se le due
m anifestazioni form ali della loro com plessa personalità
artistica sono tenute editorialm ente separate.
N ell’attività di Bunin, con l’avanzar degli anni la pro
sa passò in prim o piano e poesie in fatti non si trova
no di regola negli ultim i volum i delle sue opere; ma
come poeta egli aveva iniziata la sua carriera di scritto
re e alle sue origini di poeta rim ase sem pre fedele, dan
do alla critica motivo di mettere in rilievo il carattere
lirico della sua ispirazione, anche nei m om enti in cui
nella sua prosa si afferm ava scrittore realistico.
Di Bunin poeta, specialm ente nel senso form ale della
parola del suo attaccamento alla struttura del verso e
della strofa, la critica russa dovette occuparsi assai pri
ma che di Bunin prosatore. Com e poeta egli aveva e-
sordito nel 1887, a diciassette anni. In questo esordio
IVAN BUNIN XI
non era ancora chiaro il motivo che si sarebbe svilup
pato nella sua lirica, e poi subito dopo nella sua pro
sa n arrativa: l’entusiasmo per la bellezza e la gran dio
sità del mondo esteriore e il suo corrispondente ripie
gam ento sulla piccolezza dell’uom o; esso era però già
in pieno nelle liriche che seguirono, specialm ente in
quelle dette paesaggistiche, riflesso della vita che il poe
ta aveva trascorso fino ad allora in cam pagna, « nel grem
bo della natura ». In questa prim a raccolta di liriche era
evidente anche la tendenza che doveva svilupparsi nel de
cennio seguente, il richiam o cioè a quella sem plicità e
nobiltà di espressione che era già allora considerata ca
ratteristica della tradizione poetica nata con Pusk in e che
per Bunin si riallacciava anche a Žukovsk ij.
Per Žuk ovsk ij, al quale lo legava anche la discenden
za fam iliare, Bunin giovinetto aveva avuto un vero cul
to, pur mettendolo accanto ad A .S. Pusk in e a M .fu.
Lerm ontov, dei quali non è difficile ritrovare il tim bro
e il conio nelle sue liriche, influenzate poi anche da poe
ti posteriori, quelli cioè più o meno giustam ente detti
poeti dell’« arte per l’arte », in ogni m odo intenti, alla
perfezione form ale che per Bunin era una im prescindi
bile esigenza dell’espressione lirica. Se come traduttore
di Lon gfellow , di Tennyson e di Byron affrontò anche
la poesia epica e narrativa, come poeta originale egli ri
mase sem pre lìrico e fu appunto al poeta autore di lìri
che perfette nella grande tradizione russa, e di cui il vo
lum e La caduta delle foglie del 1901 fu il m omento più
alto, che l’A ccadem ia Im periale delle Scienze assegnò il
Premio Pusk in, a cui seguì, nel 1909, la nom ina a m em
bro dell’A ccadem ia.
Bunin era rim asto sem pre estraneo a tutti gli esperi
menti di « rinnovam ento » della poesia, che ebbero la
duplice designazione iniziale di « decadentism o » e di
« sim bolism o » e anche quella di « neorom anticism o ».
XI I IVAN BUNIN
Più tardi, parlando di questa sua estraneità, egli la pre
sentò come vera e propria avversione, dando dell’epo
ca, in cui mirò a mantenersi fedele alla cosiddetta tra
dizione « classica », una caratteristica che in realtà è in
giusta oltre che non giustificata. « A bbiam o superato -
scrisse - il decadentism o e il sim bolism o e il neonatu
ralism o, e la pornografia denom inata soluzione del “pro
blema del sesso”, e il m ovim ento dell’ateism o e la crea
zione dei m iti e non so quale anarchism o mistico, e Dio
niso e A pollo, e i “voli nell’eternità” e il sadism o, e
lo snobism o e “Vaccettazione del m ondo” e la “non ac
cettazione del moneto” e le falsificazioni dello stile rus
so popolare, e l’adam ism o e l’acm eism o e siam o arrivati
al più piatto teppism o, che si è battezzato con l’assur
do nome di “futurism o”. Una vera e propria notte di
V al pu rga! »
Probabilm ente l’aum entato interesse per la prosa con
tribuì a lasciar fuori il poeta dalle correnti secondo lui
negatrici del passato classico, mentre la narrativa, sia pu
re con notevoli alterazioni di prospettive, al passato era
ancora ancorata. Ciò spiega come, mentre l’A ccadem ia
russa prem iava in Bunin il poeta, questi fosse più noto
al pubblico —e anche alla critica - per una serie di rac
conti, in cui senza dubbio era egualm ente vivo il m oti
vo decisivo, del rapporto tra la natura e l’uom o, proprio
della sua poesia lirica, ma lo era più nel senso di ricerca
form ale di espressione della realtà circostante che non in
quello di effusione passionale im m ediata.
N on è naturalm ente agevole dire fino a che punto lo
scrittore ne fosse conscio quando fece la scelta sem pre
più severa delle sue liriche; da un confronto tra le pri
me edizioni delle raccolte liriche e quelle successive, si
può comunque dedurre che i m otivi lirici conservati fu
rono quelli più « concreti », più « terreni », quelli cioè
più vicini alla prosa.
IVAN BUNIN XIII
La coesistenza della lirica e della narrativa buniniana
nel periodo tra il 1892 e il 1911 trova in questo carat
tere descrittivo che hanno in comune, una sua spiegazio
ne, nel senso di preparazione alle opere m aggiori, che
non furono in versi ma in prosa, avendo della poesia
tuttavia la form a mitica del passato fuso col presente, in
una fusion e quale nessun altro dei contemporanei di Bu
nin aveva raggiunto e che doveva restare una nota sua
caratteristica.
Questa nota caratteristica Bunin l’aveva cercata. Ri
cordando più tardi gli anni della sua form azione, do
po aver rilevato che aveva cominciato a scrivere più in
prosa che in versi, egli stesso aggiun geva che non pen
sava a quel che aveva scritto dopo averlo stam pato, ma
« si torm entava nel desiderio di scrivere qualcosa del tut
to diverso... ». « Form are in se stessi, da ciò che è dato
dalla vita, qualcosa di sinceram ente degno di essere scrit
to, quale vera felicità è questa, quale fatica spirituale!
E così la m ia vita andò sem pre più trasform andosi in
questa lotta con l’irrealizzabilità, nella ricerca e nello
sforzo di afferrare questa m afferrabile felicità, inseguen
dola e pensandovi senza tregua... »
L ’accenno a questo tormento dello scrittore ha la sua
ragione d ’essere per il periodo dei suoi inizi come pro
satore. Essi coincisero quasi con la conoscenza che egli
fece nel 1895 di A .P. čech ov. Egli stesso raccontò che
proprio in uno dei prim i incontri Cechov gli aveva do
m andato se scrivesse molto e alla sua risposta che scri
veva poco, aveva ribattuto : « Fate male. Bisogn a, sape
te, lavorare... Senza ferm arsi m ai tutta la vita ». N el
1895 čech ov aveva già al suo attivo la m aggior parte
della sua opera di narratore e cercava la via del tea
tro; Bunin come prosatore era veramente agli in izi; i
racconti che dovevano dargli fam a di narratore doveva
no venire più tardi, ma già una delle sue note più sa-
XIV IVAN BUNIN
lient!, la visione dei « poveri villaggi » e delle tenute
provinciali nobiliari sem iabbandonate e in rovina, aveva
suggerito i tem i dei prim i racconti, da Tan ’ka a Notizie
da casa e Alla fattoria. Erano ancora tentativi, ma con
Le mele Antònovka, del 1900, Pini e La via nuova del
1901, i tentativi avevano dato un risultato, m ostrando
quello che a lungo fu detto /’« indifferentism o » buni-
niano, nel senso di una descrizione minuta, precisa, dia
gnostica, senza una partecipazione ideologica - pur non
m ancando quella emotiva — al problem a dei rapporti re
ciproci tra tenuta nobiliare e villaggio.
Occorre dir qui che i problem i, in quanto tali, se
possono essere visti nel fon do dell’opera narrativa bu-
niniana, non furono quasi m ai punto di partenza della
sua creazione e che anche quando, dopo aver conosciuto
Gor’k ij, egli accettò di collaborare alla serie periodica
“La conoscenza” (Z n an ie) e per uno dei volum i delle
serie diede un racconto Humus (La terra nera: in russo
Cernozem^ che rispondeva alla tendenza realistica socia
listizzante, non intese con questo, e lo disse, aderire ad
una tendenza, ma affrontare ancora una volta, come nei
prim i racconti, il compito di scrivere « qualcosa di d i
verso ». Che questo compito fosse più stilistico che i-
deologico vide del resto lo stesso Gor’k ij, il quale a tal
riguardo si espresse chiaram ente: « Egli \cioè Bunin'f
ha cominciato a scrivere una prosa tale che se di lui si
dirà che è il m igliore stilista contemporaneo non sarà
esagerato >>. Gor’k ij non intendeva con questo apprezza
mento estetico della prosa di Bunin dim inuire l’interesse
che derivava secondo luì anche dal contenuto dei rac
conti, ma m ostrava di avere inteso il carattere anche di
questo contenuto, che per Bunin poeta era im portante
non tanto in sé e per sé, ma in quanto aveva avuto una
form a corrispondente, segno perciò non di indifferen
tismo, ma di equilìbrio, precisam ente quell’equilibrio per
IVAN BUNIN XV
il quale la critica ha poi tanto insistito nel parlare di Bu
nin come dell’ultim o rappresentante del classicism o, di
« artista di stam po pusk iniano-tolstoiano ».
A noi im porta rilevare che questo stam po non signi
ficò m ai im itazione; neppure in quei prim issim i raccon
ti di cui abbiam o fatto cenno, allo stesso m odo come
non significò im itazione dei poeti orm ai considerati
« classici » nel senso « pusk iniano », lo stam po tipico
delle poesie di Bunin, sulla lin ea cioè di una tradizio
ne di una perfezione form ale considerata non meno es
senziale del contenuto.
Bin dai suoi prim i racconti Bunin affrontò dunque la
descrizione o rievocazione artistica di una situazione a
lui ben nota fin dall’in fan zia e che fin dall’infanzia, pri
ma ancora cioè di pensare che un giorno ne sarebbe d i
ventato il rievocatore, aveva avuto occasione, attraverso
le proprie letture, di paragonare a quella da cui aveva
no preso lo spunto un S.T. A k sak ov per la Cronaca
di famiglia, un I.A . Goncarov per /'Oblomov, un I.S.
Turgenev per Un nido di nobili e anche un Bulk in per
la tenuta dei Larin nell’Evgenij Onegin (sebbene in Pu-
skin siano, in altre opere, dipinte anche situazioni di
verse). Il carattere della narrativa nobiliare tradizionale
era stato fondam entalm ente idealizzatore : nei « nidi di
nobili » letterariam ente aveva dom inato l’atm osfera idil
lica, e la conoscenza, con relativi ricordi più tardi, della
propria tenuta fam iliare aveva avuto per Bunin un carat
tere tutt’altro che idillico. Può darsi che egli avesse let
to ancor giovinetto anche I signori Golovlëv di M.E.
Saltykov-SPedrin, in cui la crisi di decadenza dei cosid
detti « nidi di nobili » era stata rappresentata coi colo
ri di una tragedia shakespeariana. N on è facile dire quan
to il confronto con l’idillio della lontana tradizione e
quanto quello con l’anti-idillio della narrazione saltyko-
XVI IVAN BUNIN
viana contribuissero ad aprir gli occhi di Bunin sulla
realtà che gli diede la tram a dei suoi racconti, da quel
li giovanili già ricordati a quelli della prim a maturità,
La campagna e Vaisecca, che egli stesso non chiamò né
racconti né romanzi, ma « poem i ». Probabilm ente egli
non ebbe stim oli letterari o forse li ebbe in senso ne
gativo, di spinta cioè a cercare — come egli stesso, del
resto, disse in seguito in form e diverse — una propria
espressione a proprie im pressioni.
Se abbiam o insistito nel parlare degli inizi poetici di
Bunin, anteriori a quelli prosastici, l’abbiam o fatto an
che per spiegare, alm eno storicam ente, perché egli desse
alle sue due prim e com posizioni di piu am pia mole dei
precedenti racconti il sottotitolo di « poem i ». N on sap
piam o dire se anche il termine « m iniatura », con cui
furono caratterizzate più tardi alcune com posizioni m i
nori, fosse adoperato già dalla critica prerivoluzionaria:
esso si trova di frequente nella critica posteriore e forse
fu suggerito dallo stesso scrittore, sem pre malcontento
della designazione di « racconto ».
N on è forse errato ricordar qui, pur senza stabilire
né parentela, né derivazione, che a qualcosa di sim ile
aveva pensato a suo tem po Gustave Flaubert, scrivendo:
« V oler conferire alla prosa il ritmo del verso, lascian
dola prosa, e molto prosa, e scrìvere la vita ordinaria
come si scrìve la storia o l’epopea, senza snaturare il
soggetto, è forse un’assurdità. A volte mi chiedo se non
lo sia davvero. Forse è anche un gran tentativo e vera
mente origin ale! ».
Può darsi che Bunin conoscesse questa idea di Flau
bert, comunque anche se non la conosceva, anche se la
denom inazione di « poem a » da lui data a La campa
gna e a Vaisecca dovette essergli suggerita piuttosto dal
precedente de Le anime morte d i Gogol’, la coinciden
za nell’aspirazione dei due scrittori, il francese e il russo
IVAN BUNIN XVII
(la cui arte, del resto, da qualche critico è stata anche
chiamata “flaubertiana”) è interessante.
Se le designazioni di « poem a » e di « m iniatura »
danno alla narrativa buniniana, epica e pittorica nello
stesso tempo, un suo particolare significato da un punto
di vista di riferim enti, sia pure indiretti, letterari e pit
torici, non bisogna dim enticare che a suggerirle contri
buì probabilm ente anche un m omento biografico, che
genericam ente è stato detto « esotism o » m a fu senza
dubbio qualcosa di più perché ebbe oltre ad un signifi
cato form ale, anche un significato spirituale, nel senso
che per Bunin non fu soltanto interesse di artista, ma
anche sofferenza di uom o. Quest’elemento biografico fu
la passione che Bunin, proprio nel periodo di m atura
zione delle sue due opere m aggiori anteriori alla rivolu
zione: La campagna e Vaisecca, ebbe per i viaggi, per
la conoscenza di paesi diversi dalla sua Russia, una pas
sione che lo portò non soltanto a Capri (dov e scrisse
alcuni dei suoi racconti più « russi ») ma anche e soprat
tutto in Oriente. N on sono forse senza significato da
una parte la circostanza che, preparando l’edizione del
le proprie opere, Bunin stesso nel prim o volume, ac
canto alle note autobiografiche di varie epoche e con le
poesie dal 1888 al 1907, inserisse, per il loro significa
to autobiografico, anche i ricordi di viaggio, così ricchi
di m otivi epici e perfino escatologici nel senso orienta
le riuniti col titolo II tempio del sole, e dall’altra, tenen
do conto del rapporto tra questi viaggi, il pensiero del
la Russia e il contenuto um ano-universale delle sue o-
pere sotto l’egida di una concom itanza form ale l’osser
vazione dello stesso Bunin in una nota autobiografica
del 1915 che suon a: « a parlar con le parole di Bara-
tynskij, da ogni luogo a voi veniva, o patrie steppe, il
XVIII IVAN BUNIN
mio prim o am ore... mentre vagavo e osservavo la stirpe
um ana ».
Che le peregrinazioni per paesi lontani e diversi dalla
Russia influissero sullo scrittore, così im bevuto di « rus-
sicità » nel senso di dargli la nostalgia, sia pur torm en
tosa, della propria terra, era cosa n aturale; quel che ca
ratterizzò però in m odo particolare questo periodo di
peregrinazioni dello scrittore fu ch’egli cercò di con
cretare da un punto di vista artistico-form ale la crisi spi
rituale da lui vissuta. Il contatto con altri popoli, spe
cialmente con quelli orientali, lo portò a un distacco
« dal Dio russo », il che significò dare alla propria co
scienza religiosa un accordo (e per accordo ci riferia
mo ad un lin guaggio m usicale) di religiosità um anita
rio-estetica al di sopra di qualsiasi confessione costitui
ta. Se l’aggettivo « um anitaria » vale per il contatto con
le m anifestazioni religiose orientali, l’aggettivo « esteti
ca » è conseguenza del fatto che, proprio nello stesso
periodo, Bunin si interessò per Byron e la sua celebra
zione della sfida lanciata dall’uom o a Dio.
Che da questo com plesso di riflessioni potesse nasce
re un ’incertezza sui destini spirituali della Russia nelle
cornici della nostalgìa per la propria terra, non è per
ciò meno naturale della nostalgia stessa. A lcune date so
no a tal proposito molto significative, per dare il giusto
significato alla creazione de La campagna e di Vaisecca.
Il rom anzo-poem a La campagna porta in calce due date:
settembre 1909 e luglio 1910. N on sono l’indicazione
dì un principio e di una fine, ma dei due m om enti in
cui lo scrittore lavorò. Ora le prim e parti che com pon
gono i ricordi di viaggio dello scrittore portano le date
1907 e 1908, le ultime le date 1909 e 1911. E la poe
sia che più delle altre rivela quella che possiam o anche
chiam are crisi di Bunin, porta, indipendentem ente dal-
IVAN BUNIN XIX
la data, lo stesso titolo dell’ultim o saggio dei ricordi:
Il tempio del sole. Si aggiun ga che prim a di compiere
i suoi viaggi Bunin era stato testim one della rivoluzione
del 1905 e che, nonostante il suo cosiddetto « indiffe
rentismo » di artista, ne aveva avuto anch’egli - come
tutti gli scrittori del tem po, anche non partecipi alla ri
voluzione - un trasalim ento. N on per nulla egli si con
siderava interprete, sia pure non dei problem i, ma della
realtà della cam pagna russa. Interprete secondo tutti quei
concetti che abbiam o indicato, con in più la particolare
concezione della creazione in prosa di chi, come abbia
mo veduto, riteneva tale form a di espressione non in
contrasto ma correlativa a quella di cui egli si serviva
per dare espressione alla propria ispirazione, sia contem
plativa che concettuale.
A lla luce di queste considerazioni possiam o m eglio
intendere sia la genesi sia la struttura delle opere bu-
niniane del perìodo. E ancora una volta ci giova un’os
servazione di carattere estetico-pittorico, quella che a pro
posito de La campagna fu fatta già nel 1930 da R. Pog
gioli, che cioè il romanzo è costruito come un « polit
tico ». Questa osservazione vale non soltanto dal punto
di vista estetico ma anche da quello concettuale, come
cercheremo di m ostrare, sviluppandone il punto di par
tenza. Si tratta in fatti di tre quadri legati tra loro, ma
con un diverso punto di osservazione, il prim o e il se
condo essendo centrati nelle figure dei due protagonisti,
il terzo, che non sta del resto neppure del tutto a sé,
ma tra gli altri due e ne form a insieme lo sfondo, cen
trato piuttosto in un protagonista anonim o, quale è la
m assa dei contadini. Senza questo protagonista anonim o
non sarebbero possibili neppure le vicende dei due veri
protagonisti, i due fratelli Tichon II’if e Ku z ’ma II’if,
vicende condizionate dallo sfondo, e in particolare qua
le esso si presentava a Bunin, dopo le esperienze della
XX IVAN BUNIN IVAN BUNIN XXI
rivoluzione del 1905. Occorre rilevare che in un certo no e di utopista, è uno dei nuclei ideologici più evidenti
senso lo scrittore si identifica in più di un mom ento coi del rom anzo-poema.
suoi eroi, specialm ente con Tichon II’if, attraverso i cui M a a noi im porta qui non il momento ideologico ma
occhi balena lo spirito di osservazione del suo creatore. l’arte con cui Bunin, senza volere, lo nasconde, dando
A questo proposito, ricordando che Bunin fu per lungo con la stessa apparente « indifferenza » o « freddez z a»,
tem po, soprattutto in quanto autore de La campagna e non soltanto i più minuti, ma più salienti, particolari
di Vaisecca ritenuto scrittore cupo e triste, si sarebbe delle m anifestazioni di vita e di morte nei rapporti con
tentati di dire che lo era proprio in quanto, per guar l’uom o, o i conflitti che ne derivano, ma anche quei
dare a fon do nell’anim a del contadino e della m assa dei moti spirituali per cui nell’anim o del lettore riecheggia
contadini dell’epoca (e in Vaisecca d i un’epoca più lon no gli interrogativi che tanti dei suoi person aggi si pon
tana, rievocata per mostrare la continuità del paesaggio gono : « Che cosa sappiam o, che cosa capiam o, che cosa
naturale e spirituale), egli s’era identificato con uno di possiam o? » e sim ili, sotto questa o quella form a, in
essi, con Tichon, e aveva potuto capire le ragioni per qualsiasi circostanza e chiunque sia chi se li pone. Que
cui la cam pagna presentava un quadro così cupo e lu sta osservazione ci è suggerita dal fatto che Bunin a tut
gubre. N on tanto il fatto che, contadino di origine ma to dava, o in tutto trovava, un particolare ritmo, sen
arricchitosi, Tichon II’if viene selvaggiam ente ucciso dai za del quale il riecheggiam ento, data la « alm eno ap
parente freddezza », nell’anim o del lettore non si sareb
suoi confratelli contadini in rivolta, form a in fatti il nu
be avuto. Ora questo ritmo non era proprio della prosa
cleo della narrazione, quanto la tranquillità avita con
in generale, ma di una data prosa, quella dell’arte nar
cui i contadini mescolano, nella loro violenza selvaggia,
rativa uscita dalla poesia, e forse per questo Bunin non
devozione e svergognatezza.
indugiò m ai nel mettere in evidenza, anche se talvolta
Questa mescolanza in Russia si era concretata, fuori
a torto, il legam e tra la sua narrativa e la sua poesia.
della m assa scatenata, assai spesso nella figura dello ju-
Se ciò si vede ne La campagna, ancor più chiaramente
rodivyj, l’idiota, il povero di spirito, noto generalm ente
si rileva in Vaisecca, a cui perciò forse con più ragione
fuori della Russia per la sua apparizione nel Boris Go
egli diede il sottotitolo di “poem a”, inteso a segnare
dunov di Pusk in, ma frequente in molte altre opere poe una denom inazione che più di quella di rom anzo o rac
tiche e narrative. Era per così dire inevitabile che essa conto è indicatrice del processo tipico nell’arte buninia-
apparisse anche in Bunin, sebbene sia dubbio se ne na della trasform azione del ricordo in memoria. Il ri
La campagna la figura di A kim sia proprio quella di un cordo personale aveva finito col trasform arsi ne La cam
jurodivyj, pur essendo il sim bolo dell’accennata mesco pagna in una forse eccessiva obiettività: la rievocazione
lanza di devozione e svergognatezza, o alm eno il sim in Vaisecca, dovuta alla mem oria di un tempo non co
bolo di uno stato di cose dal quale il contadino russo nosciuto personalm ente, divenne trasfigurazione epica. È
non pensava di uscire se non per sfogare quanto in lui evidente che le vicende lontane di Vaisecca che nel rac
era di selvaggio. Il dialogo che con A k im ha il fratello conto figurano come rievocate dagli ultim i discendenti
di Tichon, Ku z ’ma, curioso tipo di autodidatta contadi dei proprietari della tenuta, i Chrusf'èv, sono presentate
XXII IVAN BUNIN
come « mem oria » di un passato che continua a diventar
passato anche nel presente che « invecchia » — e come
una creatura um ana non se ne rende conto sarebbe
stato im possibile altrim enti rievocare con tono, oltre che
epico anche elegiaco, di rim pianto, tem pi che non era
no scom parsi e che anzi, nonostante fossero trascorsi de
cenni, erano più che m ai presenti nella realtà. Questa
realtà, descrivendo l’attaccamento alla terra, all’« Umi-
da-m adre-terra », della poesia epica popolare, e rivelan
do come, in fon do, in Russia, e solo in Russia, si po
tesse parlare di « aristocrazia contadina », data la fu
sione sem pre m aggiore che s’era avuta tra padroni e
servi (« Il sangue dei Chrusc'év - vi è detto - si è me
scolato col sangue dei contadini e della servitù della gle
ba fin dai tem pi dei t e m p i»), questa realtà m ostrava
che se in tem pi passati proprio il rim pianto era stato
causa di idealizzazione, ora esso era nutrimento di chi
sapeva che, data la dissoluzione di certi legam i, solo esso
era rimasto, ma si sarebbe anch’esso dissolto nella real
tà stessa trasform atasi, è opportuno fare qui un rilievo
filologico ma di valore concettuale, che cioè la parola
toskà di cui si serve lo scrittore parlando della sua m a
linconia ha il significato anche di nostalgia, oltre a quel
lo più generico di angoscia. Parlando di sé Bunin di
ceva che nella sua narrazione « predom inava una specie
di antica malinconia », in cui se anche l’accento è da far
cadere su « antica », è pur sem pre la « m alinconia » del
lo scrittore quella che dà il tessuto connettivo, ma non
tanto ideologico quanto musicale, della narrazione. A n
che più tardi, quando, nelle due opere m aggiori del pe
riodo postrivoluzionario, L’amore di Mitja e La vita di
Arsen’ev, lo sfon do della cam pagna russa avrà un colo
rito meno cupo, l’antica malinconia si farà sentire, oltre
che attraverso la perfezione poetica della struttura delle
opere, anche attraverso il loro valore musicale, non mi-
IVAN BUNIN XXIII
nore di quello di Vaisecca, anche se in Vaisecca il va
lore musicale è dato, oltre che dalla frase in sé e per
sé musicale, altresì dall’elemento canzone che accom pa
gn a le m anifestazioni dei person aggi, soprattutto di quel
lo, senza del quale l’opera non si svolgerebbe come si
svolge nel tem po e nello spazio russi, cioè N atal’fa, la
contadina che era stata njanja dei due ultim i superstiti
della stirpe, i nipoti di quegli avi che avevano abitato la
tenuta, quando essa non era ancora un mucchio di rovi
ne, qua e là nascoste dalle erbe selvatiche.
Che la veridicità artistica sia il tratto più caratteristi
co dell’arte di Bunin è stato riconosciuto sem pre dalla
critica, sia che essa fosse rivolta a metterne in rilievo gli
aspetti form ali (lin guistici, pittorici, m usicali) sia che
cercasse di trarne elementi di questa o quella problem a
tica sociale o psicologica. N on bisogna però confondere
questa veridicità con una tendenza alla « russicità », per
ché nulla f u più alieno a Bunin dal voler dim ostrare
qualche cosa di specipcam ente russo per mezzo della rap
presentazione della realtà. N on è il caso di riportar qui
le polem iche suscitate più volte dalle opere di Bunin
proprio a proposito della « russicità ». Che egli fosse
avverso a qualsiasi ricerca di una russicità form ale, dato
che il contenuto era russo, è certo, e si sarebbe tentati
perfino di pensare che egli intenzionalm ente narrasse vi
cende d i terre e di persone lontane da quelle russe, per
mostrare come la sua arte fosse sem pre quella e che la
sua verità non era nel realism o dei « problem i russi »,
ma nel realism o della « verità um ana universale ». A tal
proposito fra i m olti sono caratteristici due racconti di
contenuto russo, come Ignat del 1912 e L’ultimo giorno
del 191 ì , e tre racconti di contenuto non russo, Fratelli
del 1914, Il signore di San Francisco del 1915 e I so
gni di Chang del 1916.
XXIV IVAN BUNIN
È da notare in fatti che i due di contenuto russo fu
rono scritti a Capri e che dei tre di contenuto non russo,
il secondo e il terzo furon o scritti in Russia e solo il
prim o, Fratelli, a Capri. Questo riferim ento ai luoghi
acquista ancor più im portanza, se si considerano gli an
ni della creazione, di poco anteriore alla rivoluzione del
1917: esso ci spiega come fosse possibile per Bun in ,
dopo il volontario esilio in Francia, continuare a scri
vere della Russia come se sentisse ancora intorno a sé
l’atm osfera nella quale era nato e aveva vissuto.
Ignat è uno dei racconti più realistici di Bunin sulla
cam pagna russa. Il racconto ha un intreccio: l’am ore di
un pastore innocente, Ignat, per una serva sgualdrina,
Ljubk a; le loro nozze, la partenza del pastore come sol
dato, la pessim a condotta di lei, V im provviso ritorno di
luì, mentre lei è con un mercante di passaggio, il qua
le muore di sincope proprio mentre lgn at con una scu
re sta per uccidere Ljubk a che gli grida di im padronirsi
del denaro del morto. Ë uno dei racconti più inquietan
ti di Bunin, non soltanto per il fatto narrato, ma per
la fredda logica con cui, attraverso il comportam ento dei
personaggi, sono analizzati i sentim enti. In un certo sen
so sì tratta di un fatto di cronaca che potrebbe essere
accaduto in qualsiasi parte del m on do; l’atm osfera è rus
sa e come tale è dipinta da Bunin, il quale crea come
un cerchio magico intorno ad lgn at e Ljubk a, ma il let
tore potrebbe anche dim enticare che essi sono russi, tan
to acutamente, dietro all’elemento « terreno » dell’acca
duto, si sente la tragedia eterna, che Bunin in quegli
anni che precedettero la rivoluzione seppe cogliere nel
la « russicità », trasform andola attraverso l’arte in « sen
timento dell’um anità ». Che, scrivendo il racconto a Ca
pri, egli potesse riprodurre con tanta vivezza la realtà
russa in un’atm osfera così diversa, è stato sem pre con
siderato dalla crìtica un miracolo della sua arte. Cosa
IVAN BUNIN XXV
che si può dire anche di altri racconti, pure a sfondo
realistico, tra ì quali citiamo alm eno L’ultimo giorno, in
cui un proprietario di cam pagna che ha venduto a un
piccolo borghese la sua tenuta, prim a di partirne, « l’ul
timo giorno », distrugge tutto quel che non vuol lascia
re al nuovo proprietario e ordina ai servi di im piccare
agli alberi anche i suoi sei cani levrieri. Il lettore, leg
gendo le righe in cui è descritta non l’im piccagione dei
cani, ma le riflessioni dei contadini su quanto hanno ri
cevuto in compenso, non può non sentire un brivido.
N ei racconti di contenuto non russo la Russia sem
brerebbe dover essere lontana anche dallo spìrito dello
scrittore: nel racconto Fratelli l’azione si svolge a Co
lom bo e ne sono eroi un riksha locale e un inglese che
si fa da luì trasportare, m a la tristezza delle riflessioni
che il racconto suscita tocca il destino di tutta l’um a
nità. Le riflessioni del lettore sono suscitate da quelle
dell’inglese, il quale in una notte di fronte all’abisso
del mare ricorda tutti i luogh i che ha visitato e le per
sone che ha incontrato (in queste pagine l’inglese è co
me un alter ego dello scrittore) per arrivare alla conclu
sione che la cosa più terrìbile è che l’uomo ha cessato
di sentir la paura. M a non meno im portante, secondo
noi, è l'an alisi dei sentim enti del riksha che ha il suo
« am ore »; e tanto fatica nel suo m estiere per guadagn a
re . abbastanza da poter conoscere « la gioia » e finisce
poi, apprendendo del tradim ento della fan ciulla am ata,
per suicidarsi facen dosi mordere da un serpente vele
noso.
Qualcosa di sim ile si può dire del racconto I sogni
di Chang, il cui tono è abbastanza diverso da quello
dei racconti della stessa epoca in quanto l’eroe, attra
verso ì cui occhi e attraverso la cui coscienza si svolgo
no gli avvenim enti che riguardano la vita di un capi
tano di lungo corso, è un cane dal capitano stesso com-
prato in Cina. A nche qui la m olla segreta, m a meno na
scosta che in Fratelli, è una tragedia che potrebbe dirsi
d’am ore, in apparenza volgare, ma trasfigurata dal sen
timento dell’eroe e dall’arte dello scrittore che lo f a suo,
questa volta non servendosi della figura di un essere ap
parentem ente « inferiore » come il riksha di Fratelli, ma
di un cane, che vive la tragedia stessa del suo padrone.
N on senza ragione il racconto comincia con una frase
che potrebbe essere un ’epigrafe e vale per tanti racconti
di Bun in : « N on è indifferente di chi si parla? Ogn i
essere che ha vissuto e vive sulla terra, merita che se ne
parli ». La tragedia del capitano è nel fatto che egli ha
sparato contro la sua bella m oglie. E da allora la sua
vita felice è diventata quel che diventa sem pre la vita
dopo che la felicità è scom parsa. E il capitano raccon
ta a un am ico pittore, che diventerà poi il padrone di
Chang, le proprie vicende. Chang spesso è ubriaco, per
ché il capitano gli ha insegnato anche a bere ed è in
questo stato, eccezionale per un cane, che esso ascolta
quel che il padrone dice: « A m ico mìo, io ho visto tut
to il globo terracqueo, la vita è dappertutto la stessa.
Tutto ciò di cui sem brano vivere gli uom ini è m enzogna
e assurdità: essi non hanno Dio, né uno scopo ragione
vole dell’esistenza, né amore, né amicizia, né onestà -
nemmeno la sem plice pietà. La vita è un noioso giorno
d ’inverno in un’osteria sporca, niente più... ». Molte
delle afferm azioni negative del capitano il lettore dei pre
cedenti racconti di Bunin le aveva potute far da sé, an
che senza trovarle espresse da un person aggio; Bunin co
munque non le aveva espresse m ai in tono così sim boli
co, quale è quello che risuona sulle labbra di un uomo
semplice qual è il capitano e ha la sua eco nella co
scienza del lettore attraverso la coscienza di un cane,
che continua a elucubrare quelle che il lettore non sten
ta a capire essere le riflessioni dello stesso Bunin, in un
IVAN BUNIN XXVII
momento così oscuro, quale quello in cui il racconto fu
scritto, la vigilia cioè della rivoluzione.
D a questo stesso punto di vista è da considerare quel
lo che è forse il capolavoro di Bun in : Il signore di San
Francisco, in cui vien raccontato solo come un m iliona
rio americano, in viaggio di diporto con la m oglie e la
figlia, appen a giunto a Capri, im provvisam ente muore, e
sullo stesso piroscafo col quale è arrivato torna nella sua
terra, ma in una bara. Quel carattere di « universalità »
dei sentim enti che abbiam o rilevato nei racconti prece
denti è alla base di questo episodio di vita narrato con
una efficacia realìstica forse non m inore di quella che ca
ratterizza Ignat. La sem plicità e perfezione del realismo
buniniano ha qui il suo vertice, ma nello stesso tempo
raggiun ge il suo vertice anche quella non preconcetta
ma inevitabile, istintiva, deduzione filosofico-morale che
ne è al fondo. E per di più con una ancor più accen
tuata m usicalità della prosa, quella m usicalità cioè che
Bunin aveva sperim entato con successo in Vaisecca e sa
rebbe tornata in pieno in seguito soprattutto ne L’amore
di Mitja e ne La vita di Arsen’ev.
Pur am m ettendo che giudicare Bunin da un punto di
vista diverso da quello artistico, significa spostare il suo
significato nella storia letteraria russa su di un piano a
luì, artista, quasi estraneo, occorre dire che una valuta
zione alm eno parzialm ente sociale della sua narrativa vi
fu in Russia prim a della rivoluzione e si è ripetuta di
recente nell’URSS dopo la pubblicazione di una parte
delle sue opere. È stato osservato tra l’altro che l’allon
tanamento di Bunin dalla vita sociale sarebbe reso evi
dente dal fatto che egli rappresenta lo spegn ersi delle
tenute padron ali e della cam pagna patriarcale intesi liri
camente, in tono estetizzante, con un processo cioè che
equivarrebbe a un avvizzirsi della vita del m ondo. Che
XXVIII IVAN BUNIN
in Bunin, soprattuto in Bunin poeta, vi fosse una ten
denza pessim istica, è vero, m a è dubbio che il pessim i
smo, m antenendosi poi sem pre nello sfon do psicologico-
sentim entale della concezione buniniana della vita, vo
lesse significare un intenzionale allontanam ento dalla pro
blematica sociale, che Bunin artista sentiva come non
conciliabile non tanto con la sua concezione della vita,
quanto con la sua concezione dell’arte che non può es
sere al servizio di fini che non siano artistici. Che Bu
nin scrivesse intenzionalm ente il racconto Fratelli come
atto d ’accusa agli sfruttatori im perialisti contrapponen
do il colonizzatore bianco all’infelice riksha di colore, è
da escludere, anche se la pittura realistica possa aver co
me risultato un senso di fastidio nei riguardi del bian
co e di pietà nei riguardi dell’uomo di colore adattatosi
a far da bestia da tiro. Lo stesso è da dire a proposito
del racconto II signore di San Francisco, in cui la figu
ra dell’anonim o m ilionario americano può senza dubbio
essere considerata come quella del tipico « rappresentan
te del mondo capitalistico », di uno di coloro che « sul
la base delle ultim e notizie politiche e di borsa deci
dono del destino dei p o p o li» (le parole sono dello
stesso Bu n in ), purché tuttavia si tenga conto che l’inten
zione dello scrittore non era stata, o alm eno non era
stata soltanto, quella di una presa di posizione sociale,
essendo i suoi interessi al disopra proprio delle distin
zioni sociali, in una sfera più larga di situazioni um a
ne, che era quella alla quale si ispirava la sua coscienza
di artista. N on sappiam o se Bunin pensasse in quel tem
po a Čechov, ma non ci pare fuori luogo notare che,
come Cechov, egli avrebbe potuto dire che non appar
teneva a nessun partito o corrente, ma voleva essere sol
tanto artista. La differenza tra lui e Cechov era però nel
fatto che Cechov non riusciva a nascondere la propria
IVAN BUNIN XXIX
tristezza, mentre Bunin vi riusciva per la diversa coscien
za che aveva del legam e tra l’artista e l’uomo.
Osservazioni analoghe a quelle fatte a proposito dei
due racconti Fratelli e II signore di San Francisco, sono
state fatte anche a proposito di altri racconti e soprat
tutto a proposito de La campagna e di Vaisecca che of
frono, non diciam o un m aggior fondam ento a tale va
lutazione, ma un più evidente rilievo storico-sociale, a-
nalogo a quello di certe descrizioni di contadini in Če-
chov e in Gor’k ij, che, diverse dal punto di vista arti
stico, hanno con quelle di Bunin in comune la pittura
delle qualità negative del contadino russo, sia pur con
trobilanciate da qualità positive diversam ente rappresen
tate.
Ricordati i nom i di Cechov e di Gor’k ij, dobbiam o
aggiungere che proprio ad essi si è richiam ata di recen
te la critica sovietica. Già sappiam o del giudizio entu
siastico dì Gor’k ij sullo stile di Bunin quando questi,
come prosatore, era ancora ai suoi in izi; anche se i buo
ni rapporti tra i due scrittori più tardi peggiorarono,
Gor’k ij nei riguardi di Bunin fu sem pre meno severo
di quanto non fosse Bunin nei suoi. Per quanto si rife
risce a Čechov è giusto il richiamo a lui di quei critici
che si ferm ano in particolar m odo ad un raffrotìto for
male. Tale è per esem pio quello dello scrittore L. N i
kulin che nel 1955 ripresentava Bunin ai lettori sovie
tici: « Bunin im parò da Cechov la brevità... Lo avvici
na a Cechov anche la “invenzione dei particolari arti
stici” ». Il N ik ulin ricorda inoltre come Bunin, preparan
do l’edizione delle proprie opere, spietatam ente cancel
lasse tutto ciò che gli sem brava innaturale e artificioso,
ed osserva come egli possa essere sem pre distinto da un
qualsiasi altro scrittore per la « costruzione ritmica del
la frase », un riconoscimento che va a tutte le opere
XXX IVAN BUNIN
dello scrittore dalle più antiche a quelle posteriori alla
rivoluzione.
Purtroppo la rivoluzione del 1917 interruppe per un
lungo periodo di tem po l’attività creativa di Bunin, è
interessante rilevare qui come sia stato diverso in se
guito il giudizio sul rapporto tra la rivoluzione e l’at
tività dello scrittore, secondo che fosse pronunziato da
un critico dell’em igrazione o da un critico sovietico. Per
il critico dell’em igrazione che ricordiam o qui a prefe
renza di altri perché di Bunin fu in un certo senso il
biografo “autentico” in quanto la sua biografa fu rive
duta dallo scrittore stesso, cioè K. Z ajcev : « Bunin non
com prese subito il significato e il carattere della rivolu
zione; presto però evaporarono, scom parvero per lui
quelle concezioni ottimistiche che furon o tanto caratteri
stiche per le persone del suo am biente, anzi per tutta
quasi P intelligenrija russa. L ’estate del 1917 Bunin la
trascorse in cam pagna e chiaramente si rese conto d i do
ve andasse la Russia. M a come avviene con gli uom ini
che si avvicinano al pericolo della morte, in lui ancor
più si acuì il senso della vita ». Quest’ultim a frase ha
un valore eccezionale, anche se scritta a posteriori, per
comprendere come e perché Bunin potesse creare opere
di tale profondità di pensiero e di sentimento e di tale
perfezione artistica quali sono, tra le opere dell’esilio,
L’amore di Mitja e La vita di Arsen’ev. Secondo il ri
cordato N ik ulin invece: « Rileggendo le opere di Bu
nin dei suoi anni giovanili, alcuni intelligenti e belli,
altri cattivi e falsi, ci si convince che egli stesso fu col
pevole del fatto che visse lun gh i anni all’estero e morì
lontano dalla patria... Nonostante che egli sapesse il va
lore della “genìa nobiliare”, non riuscì a superare il rap
porto dì “signore” di fronte al più grandioso rivolgi
IVAN BUNIN XXXI
mento nella storia dell’um anità che si verificò nell’otto
bre del 1917.
A l periodo dell’attività di Bunin nell’em igrazione, ac
cenna in poche righe anche il critico A .A . V olk ov nel
la Storia della letteratura russa dell’A ccadem ia delle
Scienze dell’URSS per osservare che « i racconti di Bu
nin del periodo dell’em igrazione sono caratterizzati dal
pessim ism o, dall’aum ento degli stati d ’anim o individua
listici, da una interiore desolazione ». Che la concezio
ne della vita di Bunin fosse pessim istica è indubbio, ma
forse più giustam ente il critico filosofo Stepun l’ha chia
m ata « tragica ». Che gli stati d’anim o di Bunin fosse
ro individualistici fin dalle origini, era stato già nota
to anche prim a della rivoluzione; se essi appaiono in
m aggior numero ciò è dovuto ad un ripiegam ento dello
scrittore su se stesso nel ricordo del passato, non ad
una desolazione interiore che fosse sopravvenuta dopo
l’abbandono della patria, che fu una tragica esperienza
(e Bunin stesso lo disse anche in più di una poesia)
ma non dim inuì la forza creativa, ritornata dopo la pau
sa delle « peregrin azioni » prim a che l’esilio avesse in i
zio, e in un certo senso fattasi consolatrice dell’artista
nella tristezza dell’uomo che, attraverso la tragedia, sen
tì più acuto il senso della vita.
Degli anni in cui Bunin tacque' come narratore ci
son rim aste testim onianze nei suoi versi e in un diario
pubblicato più tardi in form a abbreviata. Dei versi ba
sti ricordarne alcuni per capire che di una desolazione
interiore non si può parlare: « E i fiori e i calabroni
e l’erba e le spigh e / e l'azzurro cielo e l’afa del m erig
gio... / V errà il momento e il Signore dom anderà al
figliuol prodigo: / “Sei stato felice nella vita terrena?” /
Ed io dim enticherò tutto / -ricorderò solo ecco, questi
sentieri tra i cam pi tra le spigh e e le erbe / e a causa
delle dolci lacrim e non riuscirò a rispondere, / caduto ai
XXXII IVAN BUNIN
piedi del m isericordioso ». Più che desolazione chiam e
remmo un tale atteggiam ento serenità. E orgoglio spi
rituale sì, ma non sintom o d i individualism o l’esclam a
zione del Diario; « La R u ssia! Chi oserà m ai insegnarm i
ad am arla? ». Tutto o quasi tutto ciò che Bunin scriverà
ritornato al suo tavolo di lavoro, mirerà a dim ostrare
questo am ore. La parte polem ica di questa dim ostrazio
ne è del resto la sola caduca nella sua opera che non
tardò ad essere nuovam ente artistica.
L’anno della ripresa di Bunin, il 1924, si apre col
racconto lungo L’amore di Mit ja che per la sua am piez
za f a eccezione a tutta la produzione di quell’anno che
fu di racconti brevissimi, scritti durante la com posizio
ne stessa del racconto lungo, come ci dicono le date se
gnate in calce ad ognuno di essi. L’amore di Mitja quan
do apparve produsse un’im pressione enorm e su tutti i
russi dell'em igrazione, im pressione che si ripetette nei
paesi in cui il racconto fu presto tradotto.
Diciam o prim a di tutto che nel racconto erano quegli
stessi elementi che avevano caratterizzato l’arte di Bu
nin dagli in iz i: la descrizione della natura con relativo
rapporto tra la natura e l’uom o in tutte le sue vicende,
la perfezione form ale con la m usicalità della frase, la
ricchezza dei colori, l’invenzione delle im m agini per la
resa dei particolari narrativi, descrittivi e psicologici. Sa
rebbero bastati questi elementi per ricollocare senz’altro
Bunin nel corso della storia della letteratura russa; an
che la sem plicità dell’intreccio e l’alm eno apparente
« non eccezionalità » dei person aggi, rientravano nelle
cornici della sua fisonomia.
Il titolo stesso del racconto dice al lettore quale ne
è il contenuto: l’am ore di M itja. Il giovane M itja ama
la fanciulla Katja che ricam bia il suo amore, ma è nel
lo stesso tem po attratta dal teatro. Sono tutti e due stu
den ti: Katja della scuola teatrale, il cui direttore eser
IVAN BUNIN XXXIII
cita su di lei un gran de fascino. M itja che lo sa è
geloso e soffre, ma oltre a torm entar se stesso, torm en
ta anche la fanciulla. Per mettere a prova i loro reci
proci sentimenti, essi decidono che M itja partirà per la
cam pagna, mentre Katja resterà ancora in città; si scri
veranno per arrivare, attraverso il proprio esame, a una
decisione. M itja naturalm ente continua a vivere del suo
amore, ma non meno naturalm ente Katja è trascinata
dall’atm osfera della scuola del teatro e dal fascino del
suo direttore. Lo scam bio di lettere dura poco: ben pre
sto M itja non riceve risposta alle sue e cade preda della
m alinconia prim a, della disperazione poi. M a la vita ha
le sue pretese e qualcuno, l’anziano del v illaggio dov’è
la tenuta in cui vive M itja, notando la m alinconìa del
giovane, lo tenta, facen dogli avvicinar delle ragazze. La
resistenza dì M itja, il cui sentimento è legato a Katja,
è tenace, ma anch’egli finisce per cadere e il giorno do
po si uccide. Tram a molto sem plice, ma non è nella tra
ma la vera sostanza del racconto. La tram a anzi in quan
to tale, e l’an alisi psicologica del suo protagonista, non
erano del tutto nuove nell’opera di Bun in ; il quale nel
1913, nel racconto Presso la strada, aveva descritto un
am ore puro, spontaneo, elementare in una fanciulla con
tadina spinta dalla disperazione addirittura al delitto e
alla pazzia.
N on saprem o dire con precisione se e fino a qual pun
to L’amore di Mitja si presti ad essere esam inato dal pun
to dì vista delle teorìe di Freud: l’am ore aveva sem pre
interessato Bunin anche nelle sue m anifestazioni m orbo
se, il racconto Presso la strada è notevole in fatti anche
perché rivela l’interesse dello scrittore per il delitto, un
interesse che occupa nella sua opera un posto non meno
rilevante forse di quello per l’am ore: basti rievocar certe
pagin e de La campagna, la fine dì Ignat, a cui possiam o
aggiungere, tra i racconti m inori Ermil ( che in orìgine
2.
XXXIV IVAN BUNIN
era intitolato proprio Un delitto) e Orecchie accartoc
ciate (in russo Petlistye usi con un aggettivo non regi
strato nei lessici). In questo ultim o racconto è la sen
ten za: « La passione per uccidere e in generale per qual
siasi crudeltà si trova, come è noto, in ognuno. E vi son
di quelli che provano una sete di uccidere del tutto in
vincibile... ». La sentenza è m essa sulle labbra di un m a
rinaio che, senza un’apparente ragione uccide una pro
stituta, m a è evidente che essa ha per lo scrittore un
valore universale non sm entito teoricamente. Il raccon
to tuttavia non m ira a dim ostrare questa tesi, m a solo a
rappresentare il processo per cui il m arinaio realizza la
sua idea. Sarebbe certo assurdo pensare che, dopo la
guerra e la rivoluzione e le proprie tragiche esperienze
Bunin scrivendo L’amore di Mitja, ritenesse che il suici
dio del suo eroe fosse l’unica logica conseguenza dell’a
m ore puro, nobile e in un certo senso estatico-contem-
plativo che ve l ’aveva condotto. L ’unica no, m a una tra
le possibili sì; e ciò spiega la più o meno diretta pole
mica che il rom anzo sollevò, anche indipendentem ente
dal suo valore artistico. Bunin aveva sem pre m edita
to sulla duplice realtà dell’am ore e nel suo racconto
intorno alle vicende dell’am ore di M itja, pur dando ana
lisi di una acutezza e profondità, delle quali egli solo for
se era capace, aveva tuttavia, nel tragico epilogo, con
cluso che un amore solam ente puro estatico-contempla-
tivo non possa esistere. Può darsi che scrivendo L’amore
di Mitja, egli ripensasse a quanto avevano scritto i poeti
Lerm ontov e Tjutčev. M a sia Lerm ontov che Tjutcev era
no stati suoi m aestri nella sua giovinezza poetica e la so
stanza delle loro riflessioni gli era certo entrata nel san
gue. « L’am ore - aveva scritto Lerm ontov - ovunque
l’amore, cioè l’oblio dì se stessi, la pazzia, chiam atelo co
me volete... m a se vi si mescola l’im m aginazione, guai
all’in felice! Per non si sa quale strana contraddizione, il
IVAN BUNIN XXXV
più sacro dei sentim enti porta allora alle più gran di scel
leratezze; questo sentimento alla fine diventa così grande
che il cuore dell’uomo non lo può ospitare e deve pe
rire, spezzarsi e con un colpo abbattere il suo idolo. » E
Tjutcev: « Chi nel rigoglio delle sensazioni / quando
ribolle e si rigela il cuore, / non ha conosciuto le vostre
tentazioni / suicidio ed am ore? ». N on è esagerato dire
che sia le riflessioni di Lerm ontov sia quelle di Tjutcev
sono applicabili a M itja e con lui al narratore della sto
ria del suo amore.
Da analogh e considerazioni ci pare debba essere par
tito il critico filosofo Stepun scrivendo che « quanto più
si va avanti nella lettura de L’amore di Mitja, tanto più
si sente che dietro ai due pian i esteriori - quello cioè
della natura e della vita quotidiana e quello individuale
psicologico, ce n’è anche un terzo, quello m etafisico:
la sventura dell’am ore di M itja non è del tutto sua; in
essa Bunin mette in luce la tragedia di ogni am ore um a
no, che emana dalla situazione cosmica dell’uom o, come
essere che si trova tra due m ondi ».
I due m ondi sono appunto quelli dell’am ore sacro
(l’aggettivo è usato da Lerm on tov) e dell’am ore profa
no, dell’am ore sentim entale e dell’am ore sessuale. M a è
proprio a proposito dei due m ondi in cui l’uom o che
am a sì trova diviso, che Stepun polem izza con l’analisi
che de L’amore di Mitja aveva dato a suo tem po la
scrittrice Z in aida Gippius, la quale era arrivata alla con
clusione contraria a quella dello Stepun, che cioè Bunin
non aveva giustam ente rappresentato il processo psicolo-
gico-spirituale di M itja perché « un giovanetto in na
morato che sente per la prim a volta il soffio di una gioia
non terrena, imm ancabilm ente diventa casto, appassion a
tamente casto, fino alla selvatichezza e che perciò M itja
avrebbe dovuto fuggire l’anziano del villaggio con le sue
tentazioni e tapparsi le orecchie con le m ani ». Lo Ste-
XXXVI IVAN BUNIN
pun ribatte riconoscendo come giusta la soluzione data
invece da Bunin.
Interessante è anche quanto lo stesso Stepun obietta a
quei critici che hanno rim proverato a Bunin di avere
abusato ne L’amore di Mitja della sua m aestria nella de
scrizione della natura, osservando che la natura, ne L’a
more di Mitja non è uno sfon do nel quale il dram m a
di M itja si svolge, ma il principale e più attivo person ag
gio del romanzo. È un’osservazione in generale esatta;
noi abbiam o del resto rilevato già per più di uno dei
racconti precedenti che la natura, anche se sfondo, è de
scritta da Bunin sem pre in relazione con le vicende del
l'uom o.
In questo processo seguito da Bunin il ricordo persona
le è perciò in m olli particolari elemento essenziale non
soltanto per le descrizioni della natura, ma anche per
quelle della vita che si svolge intorno a M itja e che, se
pure è osservata da questi con gli occhi dei suoi partico
lari stati d ’anim o, è tuttavia valida in una sua realtà uni
versale. Pur ammettendo, come noi am m ettiam o, che lo
scrittore talvolta ceda alla vera e propria descrizione rea
listica, si deve riconoscere che la sua m aniera trasfigura-
trice ha ne L’amore di Mitja il particolare colorito della
« mem oria », nella quale il ricordo dell’uomo è diventa
to già sostanza del sentimento e del pensiero dell’artista.
In questo senso L’amore di Mitja può essere considerato
anche un racconto autobiograpco. A utobiograpci sono in
fatti gli elementi descrittivi di vita, trasfigurati dalla m a
linconia-nostalgia (la già ricordata toskà russa) che in
Bunin s’era sem pre più identificata con la sua maniera.
Si potrebbe pensare, avendo noi fatto cadere l’accento<
forse più sui racconti senza una tram a, o nei quali la-
trama è ridotta al minimo, che la narrativa di Bunin giu
stifichi l’osservazione che egli fu molto apprezzato prim a
IVAN BUNIN XXXVII
della guerra ma letto assai meno che non gli scrittori suoi
contemporanei così diversi da lui come artisti, ma tanto
più suscitatori di interesse come narratori, quali furono
Gor’k ij e A ndreev. Che la tram a o intreccio non sia l’e
lemento essenziale della narrativa huniniana è gen eral
mente am m esso, ma L’amore di Mitja attrae anche per
la sua sem plice tram a, attraverso la quale il lettore è
messo di fronte, grazie alla m agica struttura, a problem i
di carattere universale, cui non nuoce la « russicità » del
la situazione e dell’eroe collocato nel proprio ambiente.
Il problem a dell’am ore, per tornare ad esso, anche se non
considerato dall’artista un aspetto della problem atica del
tempo, era stato alla base anche di racconti dei suoi pri
mi passi come per esem pio nel racconto Velga che era
già come un piccolo poem a in prosa, come lo furono più
tardi Autunno e Vecchia canzone che precedettero quelli
più realisticam ente tragici, da noi già ricordati, Presso
la strada e Ignat e più tardi Vecchia storia, tutti più o
meno sullo stesso pione delle « storie d ’am ore » che pre
cedettero, anche se non prepararono, per la diversa strut
tura artistica, L’amore di Mitja. I più lontani fra questi
racconti sarebbero comunque potuti entrare anche nella
serie di quelli che de L’amore di Mitja furon o contem
poranei.
Giunti a questo punto occorre sofferm arsi sul fatto che,
proprio dopo L’amore di Mitja, Bunin, pur non rinun
ziando al racconto più o meno lungo, nel cui tessuto
gli fosse possibile introdurre le proprie riflessioni sui pro
blem i spirituali che sem pre più lo interessavano e an go
sciavano, cedette alla tentazione di fare di questi pro
blemi il nucleo di brevi narrazioni al solo scopo di esem
plificarne l’enunciazione, che in tal m odo diveniva più
im portante del racconto stesso, suscitando l’im pressione
spirituale attraverso la breve struttura form ale, che abbia
mo già più volte detta musicale. Basti ricordare a tal pro-
XXXVIII IVAN BUNIN
posito il brevissimo racconto Musica, in cui Bunin enun
cia la sua angoscia di uom o e artista insiem e: « Che cosa
è m ai questo? Chi ha creato? lo che in questo m om en
to scrivo queste righe, e penso e ho coscienza di m e? O
qualcuno che esiste in me, indipendentem ente da me, se
greto perfino per me stesso e che, in m odo indicibile più
potente in confronto di me, ha coscienza di sé in questa
esistenza di ogni giorn o? » oppure l’altrettanto breve rac
conto, o nucleo di racconto, intitolato Ida, nel quale
un compositore narra ad alcuni am ici come una donna
gli abbia detto di am arlo, ed egli non se ne era accorto,
già da cinque anni, e l’abbia poi baciato, scom parendo in
fine per sem pre. È stato osservato, a proposito di que
ste pagine, m a l’osservazione vale anche per molte altre,
che Bunin m ostra qui con eccezionale vigore ed efficacia
quel che di inafferrabile separa nella vita um ana l’accor
do (in un senso squisitam ente m usicale) dalla catastrofe
che è, s’intende, spirituale. N on è invece facile ritrovare
gli sparsi elementi della concezione dello scrittore dopo
la loro trasform azione artistica nel corpo di un racconto
per breve che esso sia. Occorre piuttosto aggiungere che
questa form a di creazione non escluse nella stessa epoca
che Bunin introducesse elementi analogh i in racconti più
lun gh i con una leggera trama, come Un colpo di sole
o con una tram a più com plicata come L’affare dell’alfie
re Elagin che suscitano nel lettore l’im pressione di essere
stati scritti proprio per trarne una deduzione di valore
universale, come, per esempio nel prim o: « Com ’è stra
no, com’è assurdo ciò che è di tutti i giorni, ciò che è
consueto, quando il cuore è colpito, sì, colpito - egli
ora lo capiva - da questo terribile “colpo di sole”, da
un am ore troppo grande, da una troppo grande felici
tà », o nel secondo la giustificazione dell’assassino : « N o,
n o! Può darsi che io sia colpevole davanti alla legge
umana, colpevole davanti a Dio, ma non davanti a lei! ».
IVAN BUNIN XXXIX
Le citazioni potrebbero essere qui numerose, e si po
trebbero trarre anche da qualche racconto anteriore alla
rivoluzione, come I sogni di Chang e Le orecchie accar
tocciate, proprio accanto ai quali nel 1923 Bunin aveva
pubblicato vari racconti m inori, riuniti col titolo di uno
di essi La rosa di Gerico ed entrati poi nelle “Opere
Com plete” col titolo dell’ultim o del gruppo, Primavera
fuori tempo.
Sotto l’influenza delle esperienze degli anni seguiti
alla rivoluzione Bunin aveva cercato nuove strade per
esprim ersi, abbandonandole ove non rispondessero al
le sue possibilità di artista; per esem pio quella del rac
conto popolare, quella della parabola, quella dello schiz
zo di vita, o del piccolo quadro di riflessioni sul tema
ossessionante della morte, e così via, fino a quella del
poem etto in prosa che si prestava più che ogni altra alla
sua teiìdenza a ridurre al m inimo le proporzioni di un
racconto rinunziando anche all’intreccio. Fu proprio que
sta tendenza al poem etto in prosa che ebbe come con
seguenza l’accentuazione di quello che era stato già con
siderato tratto caratteristico di Bun in ; la musicalità, nel
senso di una rispondenza concettuale e stilistica, qua
le si ritrova, sia pure con gradazioni diverse, net gran di
compositori. Un critico, A . Levinson, non ha esitato, per
esempio, a chiam are il racconto I falciatori, una rapso
dia, esam inandolo senz’altro in term ini m usicali; così co
me a term ini m usicali ha fatto ricorso il critico P.M .
Bicilli, nell’an alisi di tutta la m aniera buniniana, parago
nandola dal punto di vista stilistico a quella di Schu
mann, dal punto di vista tem atico a quella di W agner.
Ci pare che, pur correndo il rischio di esagerare nel ri
chiamo, anche quelli che sono i tem i dei racconti di que
st’epoca, si possano considerare da un punto di vista m u
sicale: nel racconto, o poem etto in prosa, Musica che
abbiam o già citato, e accanto al quale se ne possono met-
XL IVAN BUNIN
tere m olti altri, tra cui I « lapti » (le calzature di scorza
d ’albero dei contadini russi), L’onomastico, Il libro, Le
mosche, Gli scarabei, La dea, in due dei quali, L’ono
mastico e Gli scarabei, l’azione si svolge in sogno. R i
corderemo solo Gli scarabei, sogno di una visita al M u
seo del Cairo e della visione di una collezione di scara
bei portati alla luce dalle tombe, in cui ornavano le
m umm ie e collocati sotto gli occhi dei visitatori, una vi
sione che, dopo il sogno, suggerisce allo scrittore una
riflessione preziosa per spiegare tanta parte del suo pen
siero : « Cinquem ila anni di vita e di gloria e come ri
sultato una collezione di pietruzze sim ili ad un balocco!
Eppure queste pietruzze sono il sim bolo della vita eter
na, il sim bolo della resurrezione! Ridere am aram ente o
rallegrarsi? N onostante tutto, rallegrarsi. Inestirpabile è
la fede dell’uomo nella vita, nella sua vittoria sulla m or
te. E con quale entusiastica ferm ezza dicevo io a me stes
so in sogno che, nonostante tutto, occorre rallegrarsi ».
Ricavando da ogni racconto di questo periodo questa
o quella riflessione dello scrittore si potrebbe mettere in
sieme un piccolo trattato sullo svolgim ento del suo pen
siero fino al m omento in cui in lui « nacque l’idea di
non guardarsi soltanto intorno, riflettendo su quanto av
veniva nel m ondo circostante, sia pure visto attraverso i
suoi occhi, ma di guardare in se stesso per riscoprire
quella che era stata la sua via dai giorn i più lontani del
l’infanzia, per arrivare a quella m aturità spirituale che
gli aveva rivelato di aver dentro di sé - come ogni uo
mo che in se stesso si ripieghi - tutto il m ondo, essendo
nello stesso tem po parte delle sue m anifestazioni ». N on
altrim enti si può spiegare la genesi de La vita di Ar
sen’ev, un’opera, a realizzar la quale lo scrittore era con
scio di aver già da tem po raggiunto anche la m aturità
artistica.
IVAN BUNIN XLI
La critica che si è m ossa intorno a La vita di Arsen’ev,
con soggezione e prevenzione nello stesso tem po, si è po
sta la dom anda se sia giusto chiamarla romanzo ( l ’am
monimento veniva dallo stesso Bunin che aveva chia
mato « poem i » La campagna e Vaisecca) o « autobio-
grafia », ritenendo sufficienti a tale seconda denom ina
zione il fatto che la narrazione è in prim a persona e si
presenta da principio come le consuete autobiografie, pur
allontanandosene presto per la form a, se non per il con
tenuto; o non addirittura « poem a », ma già non più nel
senso gogolian o de La campagna o di Vaisecca, sibbene
nel senso di « liricizzazione » delle esperienze materiali
in esperienze spirituali. A bbiam o già chiamato « poem et
ti in prosa » alcuni dei racconti buniniani dell’epoca de
L’amore di Mitja; non è forse inutile ricordar qui an
che che abbiam o accennato a quelle pagine che racconti
in senso stretto non possono dirsi, m a ne potrebbero es
sere il nucleo, le pagine cioè riunite da Bunin nella se
rie che si apre con Le cicale e in parte furono scritte du
rante la com posizione de La vita di Arsen’ev, in parte
dopo di essa, rivelando come il processo, iniziato con
l’opera m aggiore, fosse continuato nello scrittore proprio
nel senso di una « liricizzazione » delle proprie espe
rienze.
Una liricizzazione, ripetiam o, di valore spirituale, co
me può vedersi ne Le cicale, da cui m eritano di essere
citate alm eno alcune riflessioni che ci appaiono come un
punto ferm o del processo: «V i sono due categorie di
uom ini. In una, enorme, gli uom ini di un loro dato m o
mento, gli uom ini della costruzione della vita, dell’ese
cuzione, uom ini per così dire senza passato, senza ante
nati, sicuri anelli di quella catena, di cui parla la sag
gezza indian a; che im porta loro che così terribilm ente
scivolano nello sconfinato principio e fine di questa ca
ten a? N ell’altra, relativam ente piccola, non soltanto uo
XU I IVAN BUNIN
m ini non fattivi, non costruttori, ma autentici distruttori,
che hanno già conosciuto la vanità, l’inanità del fare e
del costruire, uom ini del sogno, della contemplazione,
della m eraviglia di sé e del m ondo, uom ini del “ripie
garsi sul ragionam ento” che hanno già risposto all’anti
co appello: “Esci dalla caten a!” — che già hanno sete
di dissolversi, di scom parire, nostalgici di tutti quei vol
ti, di quelle incarnazioni nelle quali essi sono stati, e
specialm ente di ogni istante del proprio presente ».
Pur ridotta al m inimo, la citazione fa comprendere il
contenuto delle riflessioni dello scrittore rivolte al tema
che col tem po era diventato il più urgente della sua ispi
razione: il tema della morte. In fon do, nella rievocazio
ne di tanta vita passata, La vita di Arsen'ev era per lo
scrittore la logica, inevitabile deduzione della sua appar
tenenza alla seconda categoria di uom ini indicata ne Le
cicale. Se, data questa prem essa, si vuol comprendere il
significato del contenuto de La vita di Arsen’ev come
autobiografia trasfigurata liricam ente si può anche am m et
tere la valutazione che ne è stata data, di « poem a filoso-
fico-religioso » in quanto « autoripiegam ento riflessivo »
(in russo razdum'e) sui destini dell’uom o. V olendo pe
rò escludere un vero e proprio colorito religioso (n on o
stante che il problem a della morte sia in Bunin legato
al problem a di D io), non si può non considerare come
valida la definizione di tutta l’opera di Bunin come
« contem plazione del m ondo con occhi saggi », data dal
lo Stepun, il quale, per quanto riguarda poi specifica-
mente La vita di Arsen’ev, dopo avere osservato che non
si tratta di un romanzo nel senso tradizionale della pa
rola, ma di qualcosa del tutto a sé, si dom anda che cosa
sia e rispon de: in parte un poem a filosofico, in parte un
quadro sinfonico. Egli stesso osserva, è vero, che la de
nom inazione è in fon do indifferente, e che la forza e la
sostanza de La vita di Arsen’ev deriva dall’incontro e
IVAN BUNIN XLIII
fusione di due temi, quello m etafisico-psicologico, per
cui i ricordi personali diventano m em oria eterna, e quel
lo storico-realistico della rovina della Russia zarista. Il
carattere autobiografico del libro, anche se portato su
dì un piano più astratto che concreto, non può non es
sere considerato, anche se il parlare di un A rsen ’ev-Bu-
nin nel senso che le riflessioni di A rsen ’ev sono quelle
dì Bunin, possa sembrare esagerato, dato che la sostan
za dell’opera sono le cose e le vicende umane, a cui le
riflessioni si rivolgono. Secondo lo Stepun il processo
avverrebbe su quattro piani div ersi: quello della natura,
quello sociale, quello storico e infine quello metafisico,
ma l’analisi che egli dà del processo è secondo noi in suf
ficiente a spiegarne la sostanza più intim a se non si con
fronta il quadro della Russia che sorge dalle sue pagine
con quello già datone dallo stesso Bunin nel passato.
Questo confronto è necessario in quanto il processo della
rievocazione buniniana della Russia, rivela che tutta la
sua creazione di artista posteriore a La campagna e đ Vai
secca, considerati come punti di arrivo di tutta la narra
tiva e poesia precedenti, era stata diretta a vedere, dietro
i cupi colori del « suo » realism o, quanto di lum inoso
vi si nascondeva, ma non poteva essere visto che con un
anim o rasserenato. Qualcuno ha detto anche che, invec
chiando, Bunin era ringiovanito. M a l’ha detto a propo
sito degli ultim i racconti, quelli d’am ore di Viali oscuri,
mentre a noi pare che il ringiovanim ento dì Bunin sia
piuttosto da considerare nella creazione de La vita di Ar
sen’ev, nella quale la giovinezza è veduta attraverso la
serenità dell’età matura, macerata dalle dolorose esperien
ze, ed il passato (n on di A rsen ’ev ma della Russia) è
come trasfigurato nella m em oria che ha superato il ri
cordo. Secondo il già citato Zajcev, la Russia dì A rsen ’ev
è spiritualizzata, nel senso che vi splende una verità su
periore, che ne La vita di Arsen’ev è im presso il volto
xu v IVAN BUNIN
della Russia non tem poraneo e alterato, ma eterno, illu
m inato metafisicamente. Poiché, come sappiam o, la bio
graf a dello Z ajcev fu nota allo scrittore, dovrem m o con
siderar 1‘insistenza del biografo sul valore religioso del
la spiritualizzazione della Russia come giustificata. V ien
tuttavia fatto di dom andarsi se non sia piuttosto il caso
di parlare di trasfigurazione anziché di spiritualizzazio
ne, dato che metafisica è anche la creazione artistica. A l
qual proposito ci par giusto ricordare quel che scrisse a
suo tem po un altro critico, V .V . V ejdle, per il quale il
tema de La vita di Arsen’ev non è la vita, ma la con
tem plazione della vita, non è la giovinezza di Bunin-
A rsen ’ev, ma la contemplazione e la esperienza di que
sta giovinezza per opera dell’io dell’autore fuori del tem
po, non soltanto come passato, ma anche come presente,
come insiem e dei mom enti della memoria, dietro ai quali
si nasconde il senso oscuro non espresso, ma tuttavia im
mobilm ente in essi presente.
N on è il caso di ripetere ancora una volta per La vita
di Arsen'ev le osservazioni sull’arte di Bunin che ab
biamo fatto a proposito di varie opere precedenti e in
particolare a proposito de L'amore di Mitja/ le qualità
artistiche di Bunin in alcune pagine de La vita di Ar
sen’ev ci appaiono più raffinate ma sostanzialm ente sono
le stesse sia nella riproduzione della natura e dei suoi
legam i con l’uomo (n on soltanto realistici m a spirituali),
sia nella resa musicale del lin guaggio al fine di riprodur
re la m usicalità della visione o per dare a questa una m u
sicalità che non avrebbe se mantenuta soltanto sul piano
della descrizione realistica. Tutto ciò fa parte di quella
che ne La vita di Arsen’ev è la trasfigurazione artistica,
non meno evidente che nelle altre opere di Bunin, in
cui la Russia è protagonista non meno dei person aggi che
in essa si muovono.
M a fino a che punto questa trasfigurazione artistica
IVAN BUNIN XLV
vale a negare quel carattere autobiografico da più d ’un
critico riconosciuto a La vita di Arsen’ev? Bunin stesso
negò alla sua opera questo carattere in più occasioni,
senza naturalmente riuscire ad im pedire che biografi ed
esegeti cercassero nell’eroe tratti della sua fisonom ia e
nel libro addirittura paralleli tra episodi della sua gio
vinezza ed episodi della giovinezza del suo eroe. Un
accenno al rifiuto di Bunin si trova nella biografia dello
Zajcev.
« Che cosa è verità e che cosa è invenzione? », si
dom anda lo Z ajcev a proposito di Lika, l’eroina del ro
manzo intitolato col suo nome, ed entrato poi nella ste
sura definitiva de La vita di Arsen’ev, e risponde alla
propria dom an da: « Ciò non è essenziale. Il poeta non
è legato dai fatti; egli si sottom ette non alla verità bio
grafica, ma alla verità artistica, metafisica. Esistette Lik a?
Tale quale essa è rappresentata nel rom anzo non esistet
te mai. M a, rivivendo daccapo la propria vita, il poeta
la vide proprio così, la creò e di nuovo si innam orò di
questa figura da lui creata, se ne innam orò in m odo da
sperim entare la beatitudine e le sofferenze dell’am ore e
della gelosia... N e La vita di Arsen’ev tutto quel che vi
è di autobiografico bruciò senza lasciare avanzi nella
fiam m a della creazione artistica ».
N on è forse fuori luogo ricordar qui che qualcosa di
sìm ile s’è verificato a proposito dei person aggi di Guer
ra e pace, di alcuni dei quali s’è ritrovato senza dubbio
il prototipo nella vita di Tolstoj. Com unque, questi già
nel 1868 afferm ava : « M i dorrebbe se la som iglianza dei
nom i inventati con quelli reali facesse pensare a qualcu
no che io ho descritto questo o quel personaggio reale:
in particolar m odo perché l’attività letteraria che consìste
nella descrizione di persone esistenti o esistite, non ha
nulla in comune con quella di cui io mi occupo... ».
è evidente che, giustificata o non la protesta di T ol
XLVI IVAN BUNIN
stoj, il problem a dell’esistenza o meno di prototipi inte
ressa poco il lettore di Guerra e pace. La stessa cosa
deve dirsi della rispondenza o meno dei person aggi de
La vita di Arsen’ev a persone vissute, anche se, dato il
carattere del libro buniniano scritto in prim a persona,
potrebbe lasciare più largo am bito al pensiero di un’auto-
biografia, nonostante che ciò sia negato all’autore.
Sui due scrittori che ebbero per lui un’im portanza ol
tre che spirituale artistica, T olstoj e Čechov, Bunin si
espresse più volte pno a quando nel 1937 sul prim o
scrisse e pubblicò un libro La liberazione di Tolstoj in
cui la parola « liberazione » era adoperata nel senso che
vi aveva dato T olstoj stesso parlando, come ne parla Bu
nin, di « liberazione dalla morte »; sul secondo prepa
rava anche un libro, purtroppo rim asto incom piuto, ma
che nella form a di appun ti e fram m enti è stato pubbli
cato di recente, nel 1935, a cura della vedova dello scrit
tore, che in una prefazione biograpcam ente preziosa, rie
voca tutti i particolari dei rapporti tra i due scrittori e
la genesi del libro.
La congenialità di Bunin con Tolstoj può essere det
ta indiscutibile dal punto di vista spirituale, anche se
artisticam ente l’autore de La campagna, di Vaisecca, de
La vita di Arsen’ev, si differenzi dall’autore di Guerra
e pace e di Anna Karenina per l’originalità strutturale
del periodare, per la particolare forza delle im m agini nel
la loro concisione. Ciò non significa naturalmente mag
giore originalità, o maggiore forza o maggiore concisio
ne; significa differenza, il che vale anche per il confron
to tra la struttura di certi racconti di Bunin e la strut
tura del racconto di Cechov (per esem pio tra la descri
zione della cam pagna buniniana e quella della steppa ce-
choviana). Per tornare a Tolstoj è da rilevare che Bu
nin nello scrivere il suo libro su Tolstoj si servi di un
IVAN BUNIN XLVII
processo enunciato più volte dallo stesso T olstoj: « la
com prensione non per mezzo della intelligenza, ma per
mezzo della vita », processo molto arduo, data la diffi
coltà di capire T olstoj come uomo oltre che come artista.
N on per nulla la m oglie del grande scrittore ebbe a di
re, poco prim a di morire, che aveva vissuto con lui qua
rantotto anni e non aveva conosciuto che uomo fosse
egli m ai!
Bunin non m ostra la pretesa di averlo conosciuto, ma
riesce a rilevare quanto dì falso su Tolstoj era stato detto
da altri esegeti ed in ciò è l’im portanza del suo libro,
anche per capire un certo aspetto del suo spirito, quello
cioè polem ico di cui sono im bevuti i Ricordi pubblicati
nel 1950, che rivelano un Bunin aspro nei riguardi di
tutta la letteratura russa contem poranea come nessun al
tro era stato prim a di lui e irriconciliabile con essa fino
a commettere gravi errori di valutazione, come nelle pa
gine contro Gor’k ij, Blok , Esenin, che dim ostrano so
prattutto come, ripiegato in se stesso, tutto compreso del
la propria coscienza di artista, egli non si accorgesse del
la propria ingiustizia, della propria incom prensione di
certi m om enti del tem po che fu suo e che dovevano es
sere giudicati con una certa partecipazione, non estra
niandosene.
M a questo m omento dell’attività di Bunin non dim i
nuisce la sua grandezza di scrittore, giovando forse in di
rettamente a far m eglio intendere il significato della sua
personalità, sem pre fedele alla propria concezione del
l’arte come espressione di una profon da sofferenza, e del
la aspirazione a superarla nella trasfigurazione che l’arte
dà alla vita um ana, senza per questo alterarne i valori
spirituli, di fronte alla serena grandiosità e alla tragica
bellezza insiem e del m ondo in cui essi si afferm ano e che
appunto si ritrovano nelle opere di Bunin.
Ettore Lo Gatto
Il bisnonno dei Kràsovy, tra la servitù soprann o
min ato Zin garo, era stato fatto dilan iare dai levrieri
del capitano di cavalleria Durn òvo. Zin garo aveva
portato via a costui, suo padrone, l’amante. Durn ò
vo aveva dato ordine di condurre Zin garo nei campi,
fuori di Durn òvka, e di farlo sedere sopra un rialto
di terra. Lui poi si era mosso con una muta di cani
e aveva gridato: « Su, pigliatelo! ». Zin garo, che se
deva come stordito, se la dette a gambe. M a fu ggire
dai levrieri non conviene.
Al nonno dei Kràsovy, non si sa perché, era stato
concesso l ’affrancamento. Egli se ne an dò con la fa
m iglia in città e presto si rese celebre: divenne un
ladro famoso. Aveva preso in affitto a Cjòrn aja Slo-
bòda un a capanna per la m oglie, ve l ’aveva in stal
lata a far trine per ven dere; lui poi con un certo
Bjelokopÿtov, un m jescjan ìn 1, se ne era andato in
giro per la provincia a saccheggiare le chiese. Un
paio d ’anni dopo fu acchiappato. Ma anche al pro
cesso si comportò in modo tale che per lun go tem
po si ripeterono le risposte da lui date ai giudici:
se ne stava, a quanto si diceva, in caffettano di fel
1 . Cittadino di condizione inferiore, soggetto a tributo, per
lo più artigiano.
6 CAMPAGNA
pa, con l’orologio d ’argento e gli stivali fini di ca
pretto, e incatenato, con aria in solente muoveva gli
zigomi e gli occhi e con la m assim a deferen za con
fessava anche le più piccole tra le sue innumerevoli
imprese.
— Proprio così. Proprio così.
Il genitore dei Kràsovy poi era un piccolo riven
ditore. Viaggiava per il distretto, era vissuto un tem
po a Durn òvka - vi aveva messo su una cantina e
una botteguccia — ma si rovinò, si dette a bere, ri
tornò in città e vi morì. Dopo aver servito in città,
avevano trafficato anche i suoi figliuoli, Tìch on e
Kuzm à, quasi coetanei. Solevano trascinarsi sopra un
carro con la parte davanti in tagliata, una cassetta nel
mezzo e con voce malinconica gridavan o :
— Do-onne, merce! Do-onne, merce!
La merce - specchietti, pezzi di sapone, ditali,
filo, fazzoletti, aghi, ciambelline - era n ella cassetta.
Sul carro poi c’era tutto ciò che avevano acquistato:
gatti morti, uova, tela grezza, cenci...
Ma, dopo aver girato per qualche anno, un gior
no mancò poco che i fratelli non si accoltellassero -
secondo le voci, per motivi d ’interesse - e si divisero
per evitare una disgrazia. Kuzm à si im piegò da un
mercante all’in grosso, nei dintorni di Jelèts, Tìchon
prese in affitto un albergh etto sulla strada rotabile
presso alla stazione di Vòrgol, a un cinque v erste da
Durn òvka. Lo prese in affitto e aprì un a bettola e
una botteguccia : « vendita di merceria tè zuccaro,
tabacco sigari e altri generi ».
Verso la quarantin a la barba di Tìch on già co
minciava a somigliare ad argento niellato. M a bello,
CAMPAGNA 7
alto, slanciato lo era come prim a: con la faccia se
vera, bruna, lievemente butterata, largo di spalle e
asciutto, nella conversazione autoritario e rude, nei
movimenti rapido e agile. Soltan to le sopracciglia
cominciavano a corrugarsi sempre più spesso e gli
occhi a brillare ancor più penetranti di prim a: gli
affari lo esigevano!
In faticabile, correva dietro ai commissari rurali,
in quei tetri giorn i d ’autunno allorché si esigon o i
tributi e per le campagne è un susseguirsi di ven
dite all’asta. In faticabile, comprava dai possidenti
il gran o ancora in erba, pren deva in affitto da que
sti e dai contadini il terreno a lotti, senza disdegn a
re nemmeno una mezza desjat'm a \ Visse per lun
go tempo con la cuoca muta — « una muta non an
drà a spifferar n ulla! » - ebbe da lei un bambino
che essa senza accorgersene soffocò dormendo, e d i
cono che volesse sposarla. Sposò invece la matura
cameriera della vecchia prin cipessa Sach ovàja. E am
m ogliatosi, presa la dote, finì di rovinare il discen
dente dei Durn òvo decaduti, un barcjùk 2 grosso,
affabile, calvo a venticin que anni, ma con una m a
gnifica barba castagn a, un « progressista », come di
cevano con arguzia i possidenti, accennando alla pa
ralisi progressiva. E i contadini cacciarono un « ah! »
d ’orgoglio quando egli prese la piccola proprietà di
Durn òvka, circa centocinquanta desiatin e : sfido, qua
si tutta Durn òvka era popolata dai Kràsovy!
Cacciavano degli « ah ! » anche nel vedere come
egli riuscisse a resistere : trafficare, comprare, an- 12
1. La d e sjat )n a =et t ar i 1,092.
2. Espressione popolare per indicare un figlio di signori.
8 CAMPAGNA
dar quasi ogni giorno nella proprietà, tener d’oc
chio come un avvoltoio ogni palmo di terreno...
Cacciavano degli « ah! » e dicevano:
— Si sa, con noi, diavoli, con le bone non si fa
nulla! Però che padrone! Non ce n’è di più giusti!
E li aveva convinti di questo lo stesso Tìchon
Iljìc. Nei momenti buoni insegnava:
— Viviamo senza sprecare, se ci capiti sotto ti
mettiamo la corda al collo. Ma con giustizia. Io, fra
tello, son russo, di campagna.
Nei momenti cattivi, mandando lampi dagli oc
chi, tagliava corto:
— Porco! Non c’è uomo più giusto di me.
“Porco, ma non io” pensava il contadino, stor
nando gli occhi dal suo sguardo.
E sottomesso borbottava:
— Dio mio! Che forse non si sa?
— Lo sai, ma te ne sei dimenticato. Del tuo,
gratis non ne ho bisogno: del mio non ti darò un
bel nulla! Ecco io ho un fratello: è un malvivente,
un ubriacone, eppure l’aiuterei se venisse a inchi
narsi. Com’è vero Dio, l’aiuterei! Ma dargliele vin
te no, bada bene, non gliele darò. Io, fratello, non
sono un c h o c h ò l 1 scervellato.
Nastàsja Petròvna poi, che camminava come una
anatra, con le punte dei piedi in dentro, barcollan
do - per le continue gravidanze che finivano sem
pre con bimbe morte - gialla, gonfia, coi capelli radi,
biondicci, gemendo gli faceva eco:
— Oh! semplicione che sei, ti sto a sentire! che
1. Soprannome dato ai piccoli russi. Letteralmente: ciuffo.
CAMPAGNA 9
stai a affaticarti con quello stupido? Che è forse il
tuo socio? Tu gli insegni la ragione e lui non se ne
dà per inteso. Guarda come tien le gambe scoste,
come se fosse l’emiro di Buchara!
Essa « andava matta » per i maiali e il pollame, e
Tìchon Iljìc si era messo ad ingrassare porcellini,
tacchini, galline, oche: dietro la stazione vi era uno
stagno demaniale. Ma soprattutto egli aveva preso
passione al travaso del grano nel silo. In autunno
accanto alla sua corte, che da un lato dava sulla
strada rotabile, dall’altro verso la stazione, era uno
stridere lamentoso di ruote: i carri svoltavano di su
e di giù. Nella corte poi passavan la notte cavallai,
mereiai ambulanti, venditori d’uccelli, ciambellai,
falciatori, pellegrine. E ogni momento strideva la
puleggia ora della porta che metteva nella bettola,
dove stava Nastàsja Petròvna, ora della porta della
bottega buia, sporca dov’era un odore acre di sa
pone, di aringhe, di tabacco ordinario, di panforti
alla menta, di collari da cavallo, di prosciutti affu
micati, di petrolio. E ogni momento si sentiva dir
nella bettola:
— U-uh! Se è forte la tua acquavite, Petròvna!
M ’ha persin dato alla testa, che possa sprofondare!
— Che in bocca ti sia zucchero, caro mio!
— O che ci metti del tabacco da naso?
— Ecco l’hai detta una stupidaggine!
Nella bottega poi c’era ancora più gente.
— Iljìc! una libbretta di prosciutto me la pesere
sti?
— Di prosciutto io, quest’anno, fratello, grazie
a Dio, son così provvisto, così provvisto!
10 CAMPAGNA
-V E quanto costa?
— Poco!
— Padrone! Della pece buona ce n ’avete?
— Della pece simile, caro mio, il tuo nonno non
ce n ’aveva nemmeno alle n oz ze M
— E quanto costa?
E sembrava che dai Kràsovy non si fossero mai
fatti altri discorsi all’in fuori di questi : quan to co
sta? quanto il prosciutto, quanto il legname, quanto
i gran i, quanto la pece?...
La perdita della speran za di aver figlioli e la chiu
sura delle bettole furon o avvenimenti gravi. Tìch on
Iljìc visibilmen te invecchiò, quan do non vi fu più
dubbio che padre non sarebbe stato. Sul principio
scherzava :
— N o davvero, quel che voglio l ’otterrò! — di
ceva ai conoscenti. — Senza figli un uomo non è
uomo. È così, come un pezzo di terra senza sem i
na... È tutt’altra cosa quan do per casa ti sgambettan o
di quei tombolini...
Poi fu preso persin o da spaven to: che è questo?
un a l ’ha soffocato nel sonno, l ’altra li partorisce m or
ti! E il periodo dell’ultima gravidan za di N ast àsja
Petròvna fu un periodo duro. Tìch on Ilijc si finiva,
s’incattiviva; Nastàsja Petròvna di nascosto pregava,
di nascosto pian geva e faceva pen a e fastidio quan
do piano pian o scendeva la notte dal letto al lume
della lampadin a, credendo che il marito dormisse,
e comin ciava a mettersi a fatica in ginocchio, a cur
varsi sul pavimen to mormoran do, a guardare con 1
1. Sottin teso: per spalmarne gli stivali.
CAMPAGNA 11
angoscia le icone, e poi dolorosamente, con movimen
ti senili, si tirava su. Un tempo, prim a d ’an dar a
dormire, scimmiottava la sua prin cipessa: si metteva
le pianelle, la giacchetta, pregava distratta, e, dopo
aver pregato, le piaceva passare in rivista i conoscen
ti e den igrarli. Adesso davanti all’immagin e stava
una semplice donnetta con un a gon n a corta di bam
bagina, le calze di lan a bianca e una camicia che
non le copriva il collo e le braccia grasse da vec
chia. Fin d all’in fan zia, senza risolversi a con fessar
lo nemmeno a sé stesso, Tìch on Iljìc non amava le
lampadine, la loro fallace luce di ch iesa: per tutta
la vita gli era rimasta nella memoria quella notte di
novembre, quando n ella min uscola, sbieca capanna
a Cjòrn aja Slobòda ardeva pure una lam padin a -
così placidamente e dolcemente melanconica — ap
pena si muovevano le ombre gettate dalle sue cate
nelle, era una quiete di morte; sopra una panca, sot
to alle immagin i dei santi, immobile giaceva il p a
dre, con gli occhi chiusi, il naso puntuto volto in su,
e incrociate sul petto le mani gran di, ceree, pao
nazze, e presso a lui, di là dal finestrino su cui era
appesa un a tendina rossa, con canti impetuosamente
nostalgici, con clamori e con organetti stridenti fuor
di tempo passavano i coscritti... Adesso la lam padin a
ardeva di continuo. E Tìch on Iljìc sentiva che Nastà-
sja Petròvna aveva qualche misterioso commercio
con le forze occulte. E non soltanto con quelle cele
sti, ma anche con quelle impure.
Attorno alla locanda gli scatolai di Vladim ir bia
davano i cavalli, e in casa comparve un « Nu ovo
completo Oracolo e m ago predicente il futuro se
12 CAMPAGNA
condo le domande che gli vengono fatte con r a g
giun ta del più facile sistema di divinare e in dovin a
re sulle carte, sulle fave e sui gran i del caffè ». An
che N ast àsja Petròvna la sera in forcava gli occhiali,
arrotolava una pallin a di cera e si metteva a gettarla
sui cerchi dell’Oracolo. Tìch on Iljìc poi di tanto in
tanto vi dava qualche occhiata. M a le risposte erano
tutte volgari, m align e e insulse.
— Mi ama mio m arito? — domandava N ast àsja
Petròvna.
E l’Oracolo rispon deva:
— Ti ama come il cane il bastone.
— Quanti figli avrò?
-— La sorte ti ha destinata a morire, la m ala erba
via dal campo!
Allora Tìch on Iljìc diceva:
— D a’ qui, che la getto io...
E dom an dava:
-— Devo intentar causa a una persona di m ia co
noscenza ?
Ma anche a lui veniva fuori una sciocchezza.
-— Con ta i denti che hai in bocca.
E l ’Oracolo fu sostituito da Cjugun òk.
Cjugun òk, un contadino di Durn òvka - basso,
tarchiato, con la cassa toracica straordinariamente al
ta e solida, gli occhi vivaci castagni nella faccia lar
ga e bruna — era un contadino buono e capace, ma
con qualche stranezza: cantava le canzoni con voce
di tenore, cosa che in cam pagn a è ritenuta sconve
niente per un uomo ammogliato, e cantava per lo
più con le donne e come le donne, era un gran
CAMPAGNA 13
chiacchierone e pettegolo, curava con malie ed in
fusi, poteva fare, in sole ven tiquattrore, una corsa
in città - « non rimaneva addietro a una tròjk a! » -
ed era in relazione cón gli stregoni di cui da tempo
immemorabile Basòvka, un villaggetto distante un
tre v erste da Durn òvka, era piena. Ed ecco che pro
prio questo Cjugun òk Tìch on Iljìc lo sorprendeva
spesso in certi colloqui misteriosi con N ast àsja Pe
trovna che d ’un tratto venivano interrotti al suo ap
parire. Lo sorprendeva, e all’istante si dava l’aspetto
di persona che non si era accorta di nulla, fingeva
di non saper niente delle bottigliette d ’acqua strega
ta che Cjugun òk continuamente procurava a N ast à
sja Petròvna. Egli si sentiva solo un po’ a disagio,
perché, in fon do all’anima, an ch’egli sperava che
Cjugun òk sarebbe stato di aiuto.
Ma si potevan forse avere gran di speran ze? Un
giorno, dato uno sguardo alla cucina aperta, Tìch on
Iljìc vide la m oglie accanto alla culla del bimbo del
la cuoca. Un pollastrello screziato, pigolan do, girava
sul davan zale, picchiava col becco sul vetro per ac
chiappare le mosche, ed essa, seduta sul soppalco,
don dolava la culla e con voce pietosa, tremante can
tava una vecchia nin n a-nanna:
Dove giace il mio piccino?
Dov’è mai il suo lettino?
Egli è in alto nell’alcova,
Nella culla tutta pinta.
Che non entri qui nessuno,
Che nessun bussi all’alcova!
S’è addormito, ora riposa,
Da cortine ricoperto,
14 CAMPAGNA
Da cortine scure scure,
Da un fiorito taffettà...
E la faccia di Tìch on Ìljìc si mutò tanto in quel
momento che, guardan dolo, N ast àsja Petròvna non
si confuse, non si perse di coraggio, solo si mise a
piangere e, soffiandosi il naso, disse pian o:
— Conducimi, per amor di Cristo, da un uomo
di Dio...
E Tìch on ìljìc la condusse a Zadòn sk. M a per via
pen sava che Dio doveva ugualmente punirlo perché
lui, sempre in faccende e fastidi, soltanto la vigilia
di Pasqua andava in chiesa, e viveva come un tar
taro... E poi gli venivano in testa pensieri sacrile
gh i: si paragon ava sempre ai genitori dei santi che
anch’essi per lun go tempo non avevano avuto fi
gli. Non era una cosa sensata, m a già da un pezzo
egli si era accorto che in lui c’era un altro essere,
più stupido di lui. Prima di partire aveva ricevuto
un a lettera dal Mon te Athos : « O benefattore pieno
dell’amor di Dio, Tìch on ìljìc! Pace a voi e sal
vezza, con la Benedizione del Sign ore e la Santa In
tercessione della Gloriosa Madre di Dio dal di Lei
asilo terreno, dal sacro Mon te Ath os! H o avuto la
fortun a di udire delle vostre buone opere e che voi
con amore assegnate oboli per la costruzione e l ’ab-
bellimento dei tempii di Dio, per il che il Signore
non lascerà neppur voi senza la sua grazia, secondo
le parole: “Beati i misericordiosi, perché sarà loro
usata misericordia” . Al presente il mio tugurio è dal
tempo ridotto in tale stato di rovina... ».
E Tìch on ìljìc man dò per la riparazione di quel
CAMPAGNA 15
tugurio un foglio da dieci. Da molto era passato
quel tempo, allorché egli con ingenuo orgoglio cre
deva che davvero fino al Mon te Ath os fosse giun ta
la fam a di lui, ben sapeva che ormai troppi tuguri
sul Mon te Athos erano in rovina, eppure lo man dò.
Ma anche questo non servì a n ulla; la gravidan za
terminò con un vero torm en to: prim a di partorire
l ’ultim a creatura morta, N ast àsja Petròvna spense la
lampadin a per la notte, poi, addormentatasi, prese
a sussultare, a gemere, a cacciar grida, a scoppiare
in urla e lacrime. Secondo le sue parole, in un atti
mo veniva presa in sonno da un ’allegria selvaggia
unita ad un indicibile spavento, perché, appen a si
assopiva, subito cominciavano i sogn i : ora attra
verso i campi vedeva venire verso di lei la Regin a
del Cielo tutta lucente nei paramenti dorati e da
qualche parte giun geva un canto armonioso che an
dava sempre crescendo; ora di sotto al letto sbuca
va fuori un diavoletto, che per l ’oscurità non si di
stin gueva bene, m a era chiaramente visibile con la
vista interiore, e si metteva a strimpellare così so
noramente e bravamente, con intervalli, un ballabile
sopra un ’armonica a fiato, che il cuore si staccava e
volava via lontano in un abisso, in una voragin e...
Meglio sarebbe stato dormire non in un ’atm osfera
asfissiante, sui piumini, ma all’aria aperta, sotto la
tettoia dei depositi. M a N ast àsja Petròvna aveva
paura :
— I cani verrebbero ad annusarmi il capo...
Il mon opolio 1 fu come sale sulla ferita. Quan-
1 . Il monopolio statale dell'acquavite.
16 CAMPAGNA
do svanì la speran za di aver figli, sempre più spes
so cominciò a venire in testa a Tìch on Iljìc : “Ma
per chi poi tutta questa galera, che possa sprofon
d ar e?” . Ma i pensieri sono i pensieri e la vita è
la vita! E dalla rabbia gli comin ciarono a tremar le
mani, a corrugarsi e sollevarsi morbosamente le so
pracciglia, a storcersi l ’an golo di sin istra del labbro
superiore, specialmente nel pronunziar la frase che
sempre aveva sulla lin gua : « tenetelo presente ».
Diritto e ben fatto era Tìch on Iljìc come prima, ma
un poco in grassato. Come prim a si dava delle arie
da giovan otto: portava eleganti stivali di vitello e
la camicia russa ricamata sotto alla giacca a doppio
petto. Ma la barba si faceva bianca, rada, intricata...
E l ’estate, quasi a farlo apposta, fu calda, arida.
La segale andò tutta perduta. E divenne un piacere
lamentarsi cogli avventori.
— Si smette, si smette! — diceva Tìch on Iljìc
con gioia, scolpen do ogn i sillaba, a proposito del
suo commercio di vino. — Eccome! Al ministro gli
è venuto voglia di trafficare un p o’!
— Oh, ti sto a sentire! — gem eva N ast àsja Pe
trovna. — Finirai per comprometterti coi tuoi di
scorsi. Ti cacceranno là dove nemmeno il corvo le
ossa non ce le porta!
— N on mi fate paura! — rispon deva Tìch on
Iljìc sollevan do le sopracciglia. — Nossign ore! Non
ogni bocca si può tappar col fazzoletto!
E di nuovo, scolpen do in modo ancor più netto
le parole, si rivolgeva all’avventore:
— E anche la segale è un piacere venderla! Ten e
telo presen te: è un piacere per tutti! La notte, lo
CAMPAGNA 17
credete, la notte!, anche allora si vede. Vai sulla so
glia, guardi il campo al lume di lu n a: traspare tutto
come una pelatura! Esci fuori, gu ardi: lo vedi luc
cicare!
-— E tu fai causa! — gli gridò una volta, trovan
dosi per caso a un discorso simile, Trìfon di Dur-
nòvka, un vecchio noto per la sua in solenza e m a
lign ità e per essersi senza tregua querelato tutta la
vita contro chiunque gli capitava e per i motivi più
futili, molto magro e alto con occhi mobili, verdi,
una rada barbetta grigia a punta, in camicia lun ga
e gran di l àp t i 1 coi lacci incrociati sulle gam be sot
tili sopra le pezze da piedi.
E questo fu così inatteso che Tìch on Iljìc rimase
lievemente turbato.
— E a chi dovrei far causa? — domandò solle
vando le sopracciglia.
— A quelli che ti fan torto! — gridò Trìfon e
picchiò il bastone per terra. — Ai coltivatori!
Tìch on Iljìc crollò il capo.
— Oh, poco ti hanno frustato, diavolo dalla pel
le dura che sei! — disse con compassione.
— Bugiardo! — urlò Trìfon . — Molto invece!
Sarebbe bastato per dieci! M a io non cederei. Fino
allo Zar andrei. Ecco, fa ’ come ti dico io.
Duran te le feste di S. Pietro Tìch on Iljìc passò
quattro giorn i in città, alla fiera, e si rimescolò an
cora di più, per i pensieri, per il caldo, per le not
ti insonni. Di solito si recava alla fiera molto volen
tieri. Su ll’imbrunire si ungevano i carri, si caricavan
1. Calzature da contadini, di corteccia o fibra intrecciata.
3.
18 CAMPAGNA
di fieno; ad uno, quello su cui an dava lo stàrosta \
venivan legati i cavalli e le mucche destinate alla
vendita; n ell’altro, su cui andava il padrone stesso
col vecchio operaio, venivan messi dei guanciali e
il caffettano di panno. Si partiva tardi e si viaggiava
lentamente, sin o all’alba, sui carri dalle ruote cigo
lanti. Da principio facevano amichevoli discorsi, fu
mavano, si raccontavan l ’un l ’altro vecchie paurose
storie di mercanti uccisi per via e nelle stazioni di
fermata. Poi Tìch on Iljìc si coricava, ed era così
piacevole udir tra il sonno le voci di quelli che s’in
contravano, sentire come becch eggiava la t eljèga che
pareva scender sempre per una china, come la guan
cia si sfregava al guanciale, si rovesciava il berretto
e la brezza della notte rin frescava la testa; era an
che piacevole svegliarsi prim a del sorger del sole,
insieme al mattino roseo e rugiadoso, tra i campi
di gran o d ’un verde opaco, vedere in lontananza,
n ell’azzurra immensa bassura, la città giocondamente
biancheggiante, il luccichio delle sue chiese, sbadi
gliar forte, farsi il segno della croce in risposta a un
lontano suono di campane e prendere le redini dalle
mani del vecchio mezzo addormentato che batteva
le palpebre con aria colpevole, in debolito come un
bimbo al freddo mattutino, pallido come creta alla
luce dell’alba... Adesso Tìch on Iljìc aveva mandato
i carri con lo stàrosta e lui era partito sui b je gu n k ì 1
2.
La notte era tiepida, chiara, rosea di luna; egli an
dava veloce, m a avvicin andosi alla città si sentì mol-
1.
Podestà rurale, anziano del paese.
. Carro stretto a quattro ruote con un’asse imbottita tra una
2
sponda e l'altra, su cui si può stare a cavalcioni.
CAMPAGNA 19
to stanco; i lumicini della fiera, della casa di pena
e dell’ospedale, che sono all’entrata della città, eran
visibili nella steppa a un dieci verste di distanza e
sembrava che non sarebbe stato mai possibile arri
vare fino ad essi, a quei lontani assonnati lumicini.
Nella locanda poi della piazza Scepn àja faceva un
tal caldo e lo mordevano tanto le pulci, così di fre
quente si sentivano voci al portone, facevano un tal
fracasso i carri che entravano nel cortile lastricato
e così di buon ’ora cominciarono a cantare i galli, a
tubare i colombi e a imbiancarsi il cielo n elle finestre
aperte, che egli non potè chiuder occhio. Poco dor
mì anche la seconda notte che provò a passare alla
fiera, sul carro: nitrivano i cavalli, ardevano i lumi
nelle baracche, intorno camminavano e discorrevano,
e all’alba, quando gli occhi si chiudevan proprio, co
minciarono a suonar le campane della casa di pena
e dell’ospedale, e proprio sul capo gli cacciò un m ug
gito terribile una mucca...
— Un a galera! — ad ogn i istante gli veniva in
mente in quei giorn i e in quelle notti memorabili,
come l’anno passato, quando s’aspettava il parto.
La fiera che si stendeva lun go il pascolo per una
intera versta era, come sempre, chiassosa, caotica.
Si vendevano bene soltanto le cose di cui la cam pa
gn a si provvede per la stagion e lavorativa: scope,
falci, bidoni, pale, ruote. Era un vociare disarmo
nico che non si chetava un momento, stridii di ruo
te, nitriti di cavalli, trilli di fischietti, marce e pol
che delle orchestrine strepitanti nelle giostre. Un a
folla oziosa, loquace di contadini e donne dal matti
no alla sera si riversava a fiotti per i viottoli polve
20 CAMPAGNA
rosi, cosparsi di letame, tra carri e tende, cavalli e
vacche, baracche e viveri da cui veniva un vapore
fetente di padelle unte. Come sempre, vi era un ’in
finità di sensali che conferivano una veemenza stra
ordinaria a tutte le dispute e contrattazioni; in teo
rie interminabili con le loro nenie n asali sfilavano
ciechi e- straccioni, mendicanti e storpi con grucce e
sui carretti; lentamente si muoveva tra la folla la
tròjk a tintinnante di son agli del capo di polizia, trat
tenuta dal cocchiere in sopravveste di felpa senza
maniche e col berrettino ornato di penne di pavo
ne... D i avventori ve n ’erano molti. Ma tutto finiva
solo in discussioni e chiacchiere. Si avvicinavano zin
gari dai capelli d ’un nero turchino, ebrei della regio
ne del Sud-Ovest dalle facce terree, rossign i, pol
verosi, in palandrane di tela e stivali logori. Si avvi
cinavano piccoli possidenti nobili, abbronzati, in pod-
d jòv k a 1 e berretto, il commissario della polizia ru
rale col brigadiere, il ricco mercante Safòn ov, un
vecchio in caffettano, obeso, sbarbato, col sigaro, che
parlava con voce di basso; si avvicinava un bell’us
sero quarantenne, il prin cipe Bàchtin, con la m oglie
vestita d ’un abito all’inglese, o il decrepito eroe di
Sebastopoli Chvostòv, alto ed ossuto, coi tratti spic
cati sul viso scuro grin zoso, con lo sguardo ottuso
da vecchio, in uniform e lun ga e calzoni pendenti,
stivali dalle punte largh e e berretto ampio con vi
siera gialla sotto alla quale erano pettinati sulle tem
pie i capelli tinti d ’un color fulvo sbiadito... Tutti si
atteggiavano a in tenditori, discorrevano di mantelli
1 . Cappotto nazionale senza maniche generalmente usato dal
popolo.
CAMPAGNA 21
e di andature, parlavan o dei loro cavalli. I piccoli
possidenti mentivano e si vantavano; Bàchtin non
si abbassava a parlare con Tich on Iljìc, benché quel
lo con deferen za si alzasse davanti a lui e dicesse:
« Ecco un cavallo proprio adatto a Vostra Eccellen
za ». Bàchtin si gettava soltanto in dietro per guar
dare l ’animale, tratteneva un sorriso nei baffi e scam
biava cenni con la m oglie dondolando la gam ba nel
calzone da cavallerizzo di color ciliegia. Chvostòv
poi, strascicatosi sin o al cavallo che lo guardava di
sbieco con occhio di fuoco, si ferm ava in modo che
sembrava stesse per cadere, si appoggiava sul brac
cio sinistro, sollevava la gruccia destra e per la de
cima volta con una voce sorda che non esprimeva
n ulla dom an dava:
— Quanto chiedi?
E a tutti bisogn ava rispondere... D alla n oia Tìch on
Iljìc comprò alla fiera un libriccino : « Samuele e
Rebecca, raccolta di scenette di moda, di facezie e
racconti delle avventure dei nostri ebreucci », e, se
duto sul carro, più volte si era accinto a leggerlo.
M a appen a cominciava : « A tutti, signori, è noto
che noi giudei amiamo straordinariamente i ghe-
sèft ’... » ecco che qualcuno lo chiamava. E Tìch on
Iljìc alzava gli occhi e rispondeva, ma a fatica, ser
rando le sopracciglia.
Era molto abbronzato, dimagrato, im pallidito, co
perto di polvere e sentiva u n ’angoscia terribile e de
bolezza per tutto il corpo. Si era guastato lo stomaco
tanto che gli cominciarono i crampi. Gli toccò an-1
1 . Affari (dal tedesco Gesch äft ).
22 CAMPAGNA
dare all’ospedale. M a là aspettò un paio di ore il
suo turno, seduto in un rumoroso corridoio a fiutare
l ’odore ripugn an te di guaiacolo e di acido fenico, e
non si sentiva di essere Tìch on Iljìc, ma come se
fosse n ell’anticamera di un padrone o di un superio
re. E quando il dottore, che sembrava un diacono,
rosso, dagli occhi chiari, con un a gran barba rossic
cia, in un soprabito nero poco pulito con le falde
corte che sapeva di rame, tronfiando, poggiò l’orec
chio freddo sul suo petto, egli si affrettò a dire che
« la pan cia gli era quasi passata » e soltanto per ti
midezza non rifiutò l’olio di ricino. Ritornato poi al
la fiera, tran gugiò un bicchiere di acquavite col pe
pe, col sale e di nuovo si mise a m an giare quel che
capitava, cibi asciutti, salame e pane, a bere tè, ac
qua cruda, min estra di cavolo agro, e con tutto ciò
non potè estinguere la sete. Dei conoscenti lo chia
marono « a rinfrescarsi con la birra » ed egli andò.
Un o zoppo venditore di k v as 1 urlava:
— Ecco il k v as, mon ta al naso! Un boccale per
una copeca, la m igliore delle limonate!
E lui ferm ava il venditore di k v as.
— E-ecco il gelato! — con voce di tenore gr id a
va il gelataio calvo e sudato, un vecchio panciuto
con la camicia rossa.
E lui - come un mon ello —m an giava col cucchiai
no d ’osso il gelato, quasi tutto neve, che gli faceva
doler forte le tempie.
Polveroso, calpestato dai piedi, dalle ruote e da
gli zoccoli, cosparso d ’immondizie e di sterco, il pa- 1
1. Bevanda fatta con pane di segale fermentato.
CAMPAGNA 23
scolo già cominciava a vuotarsi, la fiera si andava
disperdendo. Ma Tìchon Iljìc, quasi volesse far di
spetto a qualcuno, continuava a tenere al caldo e
alla polvere i cavalli non venduti, rimaneva ancora
sul carro. Come se non dal male, egli fosse oppres
so, ma dal quadro della grande miseria, della gran
de indigenza che da tempo immemorabile domina
vano in quella città e in tutto il suo distretto. Signo
re Iddio, che regione! Un terriccio nero dello spes
sore di un arsc ìn 1 e mezzo, e ancor quale! Eppure
non passavan cinque anni senza carestia. Un a città
rinomata in tutta la Russia per il commercio del gra
no, e mangiavano il pane a sazietà cento persone
in tutta la città. E la fiera? Di mendicanti, scemi,
ciechi e storpi - talmente mostruosi da far orrore e
ribrezzo a guardarli, - addirittura un reggimento
intero!... E Tìchon Iljìc ritornò a casa non del solito
umore.
A casa andò in un mattino caldo di sole passando
per la Vecchia strada grande. Passò prima per la
città, per il mercato, davanti alla cattedrale, attra
verso un fiumicello basso che mandava un puzzo
acre a causa delle fabbriche di cuoio, e oltre il fiu
micello andò su in salita attraverso Cjòrnaja Slobò-
da. Al mercato in altri tempi aveva passato nove an
ni, servendo insieme al fratello nella botteguccia di
Matòrin. Adesso al mercato tutti gli s’inchinavano.
A Slobòda era trascorsa la sua in fanzia: lì, a mezza
salita, tra le casupole 2 affondate nel suolo coi tet-
1. Misura che equivale a 75 cm.
2. In russo m az àn k a, casupola fatta di fango, terra e paglia
trita.
24 CAMPAGNA
ti marciti e anneriti, tra il letame che veniva sec
cato al sole per farne combustibile, tra il sudiciu
me, la cenere e i cenci, gran gioia era per lui fab
bricare e mandare in aria aquiloni, oppure con gri
da e fischi lanciarsi dietro a un miserabile maestro
della scuola distrettuale da tempo cacciato dal servi
zio, un vecchio onanista maligno che d ’inverno co
me d ’estate andava in stivali di feltro, mutande e
pastrano corto col bavero di castoro spelacchiato,
noto in città sotto lo strano nomignolo : « Pistola
da cane ». Adesso non v’era più nemmeno traccia
di quella casupola ove era nato e cresciuto Tìchon
Iljìc. Al posto suo si ergeva una nuova casetta di
legno con una vecchia insegna arrugginita sopra
l’entrata: «Sar t o ecclesiastico Sòboljev ». Tutto il
resto poi era rimasto a Slobòda come prima: porci
e galline per le viuzze; lunghe pertiche ai cancelli
e sulle pertiche delle corna di montone; le facce
bianche, grandi delle merlettaie che spiavano di die
tro ai vasi di fiori, dalle minuscole finestrelle; mo
nelli scalzi con una sola bretella sulla spalla che
mandavano in aria un aquilone di carta con la coda
di stoppa; quiete bimbe biondicce che giocavano
presso i rinterri delle isbe al gioco preferito: i fu
nerali delle bambole... Sul colle poi, in aperta cam
pagna, egli si fece il segno della croce in direzione
del cimitero, oltre il cui muro di cinta, tra vecchi
e folti alberi, era una volta la tomba paurosa del
ricco e avaro Zykov, sprofondata nel momento stes
so in cui la ricoprivano di terra. E, pensatoci un
po’, egli voltò il cavallo verso il cancello del cimi
tero.
CAMPAGNA 25
A questo gran cancello bianco sedeva sempre e
suonava un campanellino col manico e un sacchetto
un monaco guercio, in tonaca nera, cappuccio nero
e stivali gialli, molto forte, arruffato e d ’aspetto tru
ce, ubriacone, maestro nel dir bestemmie in giuriose
ed oscene. Adesso il monaco, per fortun a, non c’era:
al suo posto sedeva e faceva la calza una vecchia, so
miglian te alla vecchia della favola, con gli occhiali,
il naso adunco, le labbra in fossate, un a delle vedove
che vivevano n ell’asilo presso il cimitero.
— Salute, nonna! — gridò affabile Tìch on Iljìc,
legan do il cavallo a un palo vicino al cancello. —
Puoi far la guardia al mio cavallo?
La vecchia si alzò, fece un profon do inchino e
biascicò :
— Sì, bàt ju sk a \
Tìch on Iljìc si levò il berretto, stravolgendo gli
occhi si fece un ’altra volta il segno della croce da
vanti all’immagine dell’Assun ta che era sopra al can
cello ed aggiu n se:
— Siete molte qui adesso?
— Siamo in dodici vecchiette, bàtjusk a.
— E vi leticate spesso?
— Spesso, bàtju sk a...
Tìch on Iljìc, fatto un sorriso, senza fretta si av
viò tra i vecchi alberi e le croci, per il viale che
conduceva a una vecchia chiesa di legno, dipinta a
ocra. Alla fiera si era tagliato i capelli, pareggiata
e accorciata la barba, ed era assai ringiovanito e im
bellito. Lo facevano più giovan e anche la magrezza1
1. Letteralmente: piccolo padre.
26 CAMPAGNA
e l ’abbronzamen to: non bian ch eggiava che la pelle
delicata dei triangoletti rasati sulle tempie. Lo rin
giovanivan o i ricordi dell’in fan zia e della gioventù
e il nuovo berretto di tela. Il volto era pensoso.
Egli aveva sorriso alla risposta della vecchia e ora
si guardava con tristezza da tutti i lati... Come bre
ve e in sulsa è la vita! E che pace e riposo all’intor
no in quella calma solatia, nel recinto del vecchio
cimitero! Un vento caldo correva sopra le cime lu
min ose degli alberi, trasparenti sul cielo senza nubi,
diradati anzi tempo dalla canicola, agitava sulle pie
tre e sui monumenti le loro ombre diafan e e lievi.
Quan do poi quello si calmava, il sole riscaldava for
te i fiori e le erbe, dolcemente cantavano gli uccel
li nei cespugli, in dolce voluttà lan guivan o sui sentie
ri in fuocati le farfalle dagli sfarzosi colori... Su una
croce Tìch on Iljìc lesse:
Che terribili taglie
La morte impone agli uomini!
M a nulla di terribile era intorno. Egli s’inoltrava
quasi con piacere osservan do che il cimitero si e-
stendeva, che erano comparsi molti nuovi magnifi
ci mausolei tra quelle antiche pietre, fatte a guisa
di bare poggiate su piedi, tra le pesanti lastre di
ferro e le enormi, rozze e già putride croci di cui
il cimitero di Cjòrn aja Slobòda era pieno. « Morta
il 12 Novem bre 1819 alle cinque del mattino », leg
gere queste iscrizioni metteva un senso di paura;
non è bella la morte all’alba di un giorno piovoso
d ’autunno, in una vecchia città di provincia! M a lì
accanto luceva tra gli alberi per il suo candore un
CAMPAGNA 27
angelo di marmo con gli occhi volti verso il cielo
azzurro e sotto di esso, sul gran ito nero e cristallino,
era scolpito in lettere d ’oro : « Beati i morti che
muoiono nel Sign ore! ». Presso alla chiesa, sul m o
numento di ferro, iridescente per effetto delle piog
ge e del tempo, di un qualche assessore collegiale
si potevano decifrare questi versi:
Lo zar con lealtà servì,
Il prossimo di cuore amò,
Fu dagli uomini stimato...
E questi versi parvero a Tich on Iljìc menzogneri.
Ma lì anche la men zogn a commoveva. Poiché -
ov’è la verità? Ecco in terra tra i cespugli una m a
scella umana, che sembra fatta di cera sporca -
tutto ciò che è rimasto di un uomo... M a è poi
tutto? Marciscono i fiori, i nastri, le croci, le bare
e le ossa nella terra: tutto è morte e putrefazion e!
Ma an dò oltre Tich on Iljìc e lesse : « Così sarà alla
resurrezione dei morti: è seminato in corruzione e
risusciterà incorruttibile »... « Caro figlio nostro, la
tua memoria non morrà nei nostri cuori in eter
n o!... ».
Con giun gen do le sopracciglia sempre più triste e
severo, egli si toglieva ogni momento il berretto e si
faceva il segno della croce. Era pallido e ancora de
bole dopo la malattia, ripen sava alla sua infan zia, al
la gioventù, a Kuzm à... An dò in quel remoto an golo
del cimitero ove erano seppelliti tutti i suoi cari: il
padre, la madre, la sorella morta ancora bambina. Le
iscrizioni in modo commovente e pacato parlavan o
di quiete e di riposo, della tenerezza verso i padri,
28 CAMPAGNA
le madri, i mariti e le m ogli, dell’amore, che sembra
non sia e non abbia ad esser mai sulla terra, di quella
devozione dell’uno per l’altro e sottomissione a Dio,
di quelle ardenti speranze nella vita futura e n ell’in
contro in un ’altra beata regione alle quali si crede
soltanto lì, parlavan o di qu ell’uguaglian za che è data
solo dalla morte : di quegli istanti allorché un morto
mendico è baciato in bocca con l’ultimo bacio, come
un fratello, viene uguagliato agli Zar e ai potenti e
su di lui vengon dette le più sagge, le più alte e so
lenni parole... E là nel remoto an golo del recinto,
nei cespugli di sambuco e di fusaggin e sonnecchian-
ti in pieno sole, là ove un tempo erano delle tom
be ed ora soltanto rialzi e avvallamenti ricoperti d ’er
ba e di fiori bianchi, vide Tìch on Iljìc una piccola
tomba recente di bimbo, una croce, e sopra la croce
due versi:
Piano, foglie, non frusciate,
Il mio Kòstja non destate!
e, sovvenutosi della sua creatura, soffocata nel son
no dalla cuoca muta, cominciò a batter le ciglia per
le lacrime che vi salivano...
Per la strada che si allun ga davanti al cimitero
e si perde tra i campi on deggian ti non passa mai nes
sun veicolo. Vi cammina soltanto qualche vagabon
do dalle gam be svelte, che va a riposarsi nel vil
laggio natio prossim o alla città: qualche ragazzo
dalla camicia rosa sbiadita senza cintura e con le
brache fatte di toppe multicolori. La gente passa
invece lì accanto per la strada traversa polverosa. Per
questa si avviò anche Tìch on Iljìc. Anzitutto gli
CAMPAGNA 29
venne incontro rapidamente un a vettura scorteccia
ta - vanno veloci i vetturini di provincia! - e n el
la vettura un cacciatore, un im piegato di banca; ai
piedi un cane da ferm o chiazzato, sulle ginocchia
il fucile nel fodero; i piedi calzati di stivali alti da
palude, benché paludi nel circondario non ve ne
fossero mai state. Poi, sprofon dan do nelle carreg
giate polverose, passò il giovane postino arram pi
cato sopra un velocipede alto all’antica, a due ruote,
di cui una enorme, l’altra, quella di dietro, min u
scola. Spaven tò il cavallo e Tìch on Iljìc irritato strin
se i denti : a far l’operaio bisogn erebbe mandare
questo buono a n ulla! Il sole di mezzogiorno scot
tava, il vento soffiava caldo, il cielo senza nubi si
faceva di ardesia. E, pen san do alla brevità e assur
dità della vita, sempre più irritato si stornava T ì
chon Iljìc dalla polvere che si sollevava lun go la
strada, sempre più preoccupato guardava di sbieco
il gran o sterile che anzi tempo seccava...
A passo cadenzato, appoggiate ad alte pertiche,
andavano folle di pellegrin e estenuate dalla stan
chezza e dalla calura. Esse facevano a Tìch on Iljìc
dei profon di, umili inchini, ma questi inchini gli
sembravano furbeschi.
— Gattemorte! e si azzuffano, senza dubbio, ne
gli asili notturni come cani! — borbottò.
Sollevan do nuvoli di polvere, facevano trottare
le rozze i contadini ubriachi di ritorno dalla fiera,
- quasi una decina per ogn i carro - rossicci, gr i
gi, neri, bion di, ma tutti ugualmente mostruosi, scar
ni e arruffati. E, sorpassan do i loro carri stridenti,
Tìch on Iljìc tentennava il capo:
30 CAMPAGNA
— Uh , accattoni vagabon di, che possiate sprofon
dare!
Un o, con la camicia di percalle a brandelli, dor
miva, sbattendosi da una parte all’altra come un
morto, coricato sulla schiena, con la testa gettata in
dietro, la barba in san guin ata e il naso gonfio lordo
di sangue raggrum ato volti in su. Un altro, che rin
correva il cappello portato via dal vento, inciampò,
e Tìch on Iljìc con gioia m align a gli allun gò un col
po di frusta. Si imbattè in un a t eljèga carica di stac
ci, pale e donne; queste, sedute con la schiena ver
so il cavallo, si scuotevano e saltellavan o; una aveva
in capo un berrettino nuovo da bimbo con la visiera
volta indietro, u n ’altra cantava con la bocca piena
di pane, una terza gesticolava e sgh ign azzan do ur
lava dietro a Tìch on Iljìc:
— Zio, hai perso il cavicchio!
Ed egli trattenne il cavallo, si fece raggiun gere e
allun gò un colpo di frusta anche alla donna...
Qualcosa di speciale avveniva n ell’animo suo in
quei giorn i, tanto che non parlava quasi con n essu
no delle sue contrarietà n egli affari. Si ricordava di
rado anche del gran o che per via della siccità an dava
tutto perduto. Ma appen a fu arrivato in aperta cam
pagn a, subito si risovvenne di ogn i cosa. E passata
la barriera, dove la strada girava, dove i carri stri
denti erano rimasti indietro e lo afferravano il si
lenzio, le immense distese e l’ardore della steppa,
di nuovo egli sentì che tuttavia la cosa principale
nel mon do è « l’azione ». Con gran disprezzo pen sò
ai possidenti che si davan o tanta im portan za alla
fiera coi loro meschini tiri a tre... Eh! Quanta m i
CAMPAGNA 31
seria tutto attorno! I contadini sono rovinati, nulla
è rimasto n elle fattoriucce immiserite, sparse per il
distretto... Un padron e qui ci vorrebbe, un padro
ne!
— M a non tu, fratello, puoi essere un padrone!
— con sorriso m align o disse a se stesso. — Tu stes
so sei un miserabile. E ora ti tolgon o anche i rima
sugli.
A mezza strada c’era Ròvn oje, un grosso villag
gio popolato da odn odv òrtsy b Un vento secco pas
sava lun go le strade deserte, sui piccoli salci bru
ciati d all’arsura. Sulle soglie le gallin e rabbuffavan
le penne e si seppellivan o nella cenere. Rozza si
ergeva nel pascolo nudo la chiesa di un colore gr i
giastro. Oltre la chiesa luccicava al sole uno stagno
basso, argilloso, sotto a un a diga di letam e: acqua
gialla den sa in cui stava immerso fino al ventre un
branco di mucche, che ad ogni istante facevano i
loro bisogn i, e un m uzik nudo si in saponava la te
sta. An ch ’egli era entrato n ell’acqua sino alla cinto
la, sul petto gli luccicava una croce d ’ottone, il col
lo e il viso erano neri dal sole e il corpo straordi
nariamente sbiadito e bianco.
— Leva il morso al cavallo — disse Tìch on Iljìc
entrando con la bestia nello stagn o che sapeva di
mandra.
Il m uz ik gettò il pezzo di sapon e marmorizzato di
turchino sulla riva nera di buina e, con la sua testa
grigia di schiuma, coprendosi vergognoso, si affret
tò ad eseguire l’ordine. Il cavallo avido si attaccò1
1. Campagnuoli liberi, di origine nobile, nel sec. XVII stabi
litisi nelle regioni di confine.
32 CAMPAGNA
all'acqua, ma l ’acqua era così calda e disgustosa che
alzò il muso e si rivoltò. Fisch iettan dogli, Tìch on
Iljìc agitò il berretto:
— Ma che acqua ci avete! È possibile che la be
viate?
— O che voi forse ce l ’avete inzuccherata? —
affabile e allegro replicò il m uzik . — Son m ill’an-
ni che si beve! M a che importa l ’acqua? è il pane
che non c’è...
E convenne tacere : anche a Durn òvka l ’acqua non
era m eglio, e anche lì il pane mancava... N é vi sa
rebbe stato... Passato Ròvn oje, la strada si stende
va di nuovo tra la segale, m a quale! Stentata, de
bole, quasi senza spiga, tutta piena di fiordalisi...
Presso a Vyselki poi, sotto Durn òvka, a nuvole sta
vano le gracchie, coi becchi argentei spalancati, so
pra un citiso n odoso e scon torto: di Vyselki era
rimasto in quel giorno soltanto il nome, soltanto
le nere carcasse delle isbe tra le macerie! Dalle m a
cerie si sollevava un fum o azzurro latteo, si sen ti
va un odore acre di bruciato... E il pensiero di un
incendio come un lampo balenò a Tìch on Iljìc. “È
un affaraccio!” pensò im palliden do. Non aveva nulla
di assicurato, tutto poteva in un ’ora an dar distrut
to...
D a quella vigilia di S. Pietro, da quel mem ora
bile viaggio alla fiera Tìch on Iljìc cominciò a bere,
e assai spesso, non fino all’ubriachezza, ma fino ad
aver la faccia discretamente rossa ed eccitata. Q ue
sto però non era per niente di ostacolo agli affari,
e nemmeno, a sentir lui, alla salute. « L ’acquavite
purifica il san gue » diceva; e, in verità, d ’aspetto
CAMPAGNA 33
s’era fatto ancor più robusto di prima. N on di rado
anche adesso chiamava la sua vita galera, nodo scor
soio, gabbia d ’oro. M a il suo carattere s’era m eglio
definito, le forze gli si eran fatte più salde e più
mature, e Tìch on Iljìc camminava per la sua strada
sempre più sicuro senza fare attenzione né alle in
temperie né al cammino. N ella sua casa non vi fu
rono più se non giorn i feriali e alcuni anni passa
rono così un iform i che tutto si fuse in un unico gior
no di lavoro. I nuovi gran di avvenimenti furon o i
più im previsti: la guerra col Giappon e e la rivo
luzione.
Le voci di guerra cominciarono, s’intende, con
delle fan faron ate. « Il cosacco la leverà presto di
mezzo la pelle gialla, fratello! » M a durò così poco
questa debole imitazione delle fan faron ate d ’un tem
po! Presto si udirono altri discorsi. Presto si ebbe
la sensazione ch’essi eran possibili...
— Della nostra terra non si sa che farn e! — con
tono severo, autoritario diceva Tìchon Iljìc, forse
per la prim a volta in tutta la sua vita ragion ando
non di quella di Durn òvka, ma di tutta la terra rus
sa. — N on è una guerra, ma una vera assurdità!
Si m an ifestava anche un altro e millenario im
pu lso: schierarsi dalla parte di chi avrebbe vinto.
E n ell’entusiasmo si riportavano notizie di terribi
li disfatte dell’armata russa.
— Oh i, alla grazia! Così gli sta bene, così si m e
ritano!
Si an dava in visibilio anche per le vittorie della
rivoluzione, si an dava in visibilio per gli assassin i:
— Se proprio a questo ministro gli potessi dare
34 CAMPAGNA
un pugn o sotto allo stomaco —- diceva talvolta Tì-
chon Iljìc nella foga dell’entusiasmo, — se glielo
potessi dare, neppur la polvere rimarrebbe di lui!
Ma cresceva anche l'in quietudine. N on appena si
prese a parlare della terra, cominciò a destarsi il
rancore. « Sono sempre i giudei che lavoran o! Sem
pre i giudei, e anche quegli scapigliati di studen
ti! » E, cosa strana, più di tutto pareva irritasse Tì-
chon Iljìc il fatto che si diceva social-democratico il
figlio del diacono di Uljàn ovka, un seminarista che
si era piantato in casa del padre e non faceva nulla.
E poi era una cosa in com pren sibile: tutti dicevano
rivoluzione, rivoluzione, m a all’in torno tutto era co
me prima, come tutti i giorn i: il sole brillava, nei
campi fioriva la segale, i carri andavano alla stazio
ne...
I contadini, ai quali giun gevan o anche meno n o
tizie, andavano essi pure in visibilio per i giappo
nesi, benché crollassero il capo:
— M a quanta gente, quanta gente crepa per n ul
la!...
Si entusiasmavano anche di quello che avrebbe
« ridotto in polvere »...
Dopo essersi tanto entusiasmati, a un tratto tac
quero. E Tìch on Iljìc si mise a dire con in quietudi
ne ormai palese:
— Se è sornione il popolo! Fa proprio paura co
nfié sornione!
E dimenticandosi dei « giudei », soggiun geva:
— Ammettiamo che anche tutta questa musica
non sia difficile. Cambiar govern o e spartire ugual
mente la terra, questo anche un bimbo lo capisce.
CAMPAGNA 35
Dun que è chiaro per chi sta il popolo. Ma, s’inten
de, sta zitto. Bisogn a dun que tenerlo d ’occhio e fare
in modo che stia zitto. Non dargli mano libera! Se
no povero t e: fiuterà il successo, fiuterà l ’imbraca
sotto la coda, e te la man derà in mille pezzi!
Quan do leggeva o sentiva dire che avrebbero tolto
la terra soltanto a quelli che possedevan o più di cin
quecento desiat in e \ anche lui diventava « agitato
re ». Finanche con quelli di Durn òvka si metteva
a disputare. Accadeva che se ne stesse presso la
sua bottega un con tadin o: s’era comprato alla sta
zione un a bottiglietta di acquavite, in bottega un
carpione e delle ciambelline, si era tolto il cappello;
ma continuava a rimandare il godim en to del pasto
e diceva:
— N o, Iljìc, non ragion are così. Secondo una sti
ma giusta, è possibile pigliarla. Ma così no, non sta
bene...
Si sentiva l’odore del legn ame di pin o scaricato
accanto ai m agazzin i di fronte alla corte. Si sentiva
l’odore irritante dei carpion i e del tiglio di canapa
in cui erano infilate le ciambelline. Di là dagli al
beri e dai fabbricati della stazione si udiva la loco
motiva calda del treno merci sbuffare e man dar fu o
ri il fumo. Senza cappello Tìch on Iljìc se ne stava
accanto alla bottega strizzando gli occhi e sorriden
do furbescamente. Sorrideva e rispon deva:
— Chiacch ierone! E se lui non è un padron e,
ma un vagabon do?
— Ch i? il proprietario?1
1 . Cfr. nota a pag. 7 .
36 CAMPAGNA
— N o, l ’erede!
— Allora è un ’altra faccenda. Un o così anche
sbudellarlo non è peccato!
— Ah ! ecco, proprio qui sta il pun to!...
Ma giun geva un ’altra notizia - che avrebbero tol
to anche le terre di estensione in feriore a cinquecen
to desjat ìn e\ - e di colpo la svagatezza, la diffidenza,
la voglia di attaccar briga si impadronivan o dell’a
nimo suo. Tutto ciò che si faceva per la casa co
minciava a sembrargli odioso.
Jegòrka, il garzone, portava fuori di bottega i sac
elli della farin a e si metteva a scuoterli. La sua te
sta ricordava quella dello scemo di città « M òtja te
sta d ’anatra ». Il cocuzzolo a punta, i capelli ispidi
e folti, - « e perché gli scemi li hanno così folti ? »
- la fronte breve e schiacciata, la faccia come un uo
vo storto, gli occhi sporgen ti e le palpebre con le
ciglia bianche da vitello quasi tese su di essi: pare
va che man casse la pelle, che se il ragazzo chiudeva
le palpebre dovesse spalan care la bocca, se chiudeva
la bocca dovesse spalan care le palpebre. E Tìch on
Iljìc arrabbiato gridava:
— Grullon e! Perché la scuoti addosso a m e?
La cuoca portava fuori un bauletto, lo apriva, lo
capovolgeva e si metteva a picchiare sul fon do col
pugno. E, capito di che si trattava, Tìch on Iljìc ada
gio tentennava il capo:
— Ah, m assaie, che vi possan o!... Fai uscir fuori
gli scarafaggi?
— Qui ce n ’è proprio un nuvolo! — giocon da
mente rispondeva la cuoca. — Se vedeste, un ’ira di
Dio!
CAMPAGNA 37
E, facen do scricchiolare i denti, Tìch on Iljìc usci
va sullo stradale e a lun go guardava i campi on deg
gianti dalla parte di Durn òvka.
Le sue camere, la cucina, la bottega e il deposito,
dove prim a era la rivendita di vino, tutto questo
formava un solo corpo sotto un unico tetto di ferro.
D a tre lati vi si appoggiavan o strettamente le tettoie
delle stalle ricoperte di paglia, e ne risultava un co
modo quadrato. La scalinata e tutte le finestre era
no volte a mezzogiorno. Ma la vista era impedita
dai depositi di gran o situati di fron te alle finestre
dall’altra parte della strada. A destra era la stazio
ne, a sin istra la strada rotabile. D i là dalla strada
un boschetto di betulle. E quan do Tìch on Iljìc vo
leva sentirsi al largo, usciva sulla strada. Come un
bianco n astro sinuoso, di colle in colle essa fu ggiva
verso mezzogiorn o, abbassan dosi sempre insieme ai
campi e sollevan dosi di nuovo all’orizzonte solo a
cominciare dal lontano casotto dove era tagliata dalla
via ferrata che veniva da sud-est. E se accadeva che
qualche m uzik di Durn òvka an dasse ad Uljàn ovka
- s’in tende qualcuno tra i più bravi, intelligenti, ad
esempio Jàkov, che tutti chiamavano Jàk ov Mikì-
tič 1 perché era avido, conservava da due anni una
bica di gran o e possedeva tre buoni cavalli - Tìch on
Iljìc lo fermava.
— Se almeno tu ti comprassi un berrettino! —
gli gridava con ironia.
Jàkov in cappello, lun ga camicia di canapa, bra
1. Giacomo di Niceta. Chiamare col patronimico unito al no
me di battesimo è segno di rispetto. Il popolo, familiarmente,
omette l’uno o l'altro.
38 CAMPAGNA
che corte di fatica e scalzo, sedeva sulla spon da del
la teljèga. Tirava le briglie di corda per ferm are la
ben pasciuta cavalla.
— Salute, Tìch on Iljìc — diceva ritenuto.
— Salute! È ora, ho detto, di regalare il tuo cap
pello alle gracchie perché vi facciano il nido!
Jàkov, con un furbo soggh ign o, volto a terra, crol
lava il capo.
— Questo... come dire?... non sarebbe male. Ma
è il capitale, per dir così, che non me lo permette.
— Basta discorrere! Vi conosciamo bene voi, or
fan i di Kazàgn 1! La figliola l ’hai maritata, al ra
gazzo hai dato m oglie, i denari ci sono... Che altro
puoi desiderare dal Sign ore Iddio?
Questo lusin gava Jàkov, m a lo rendeva ancor più
riservato.
— O Sign ore! — sospiran do m ormorava con vo
ce tremante, quasi sghignazzante. — I denari... Da
me, per esempio, non sono mai stati in uso... Il
ragazzo non dà consolazione, bisogn a dirla franca:
non dà consolazione!
Era Jàkov molto nervoso, specialmente quan do si
trattava della sua fam iglia, della sua casa. Era m ol
to chiuso, ma in quel momento il n ervosismo pren
deva il sopravvento, benché si svelasse soltanto nel
suo parlare a scatti, tremante. E per turbarlo del tut
to, Tìchon Iljìc con interessamento dom an dava:
— Non dà con solazione? Senti un p o’! E tutto
per via della sua don n a?
1 . Nome dato agli antichi principotti tartari di Kazàgn spos
sessati, divenuto poi sinonimo di finto povero, di falso accattone.
CAMPAGNA 39
Jàkov, guardan dosi intorno, si grattava il petto
con le unghie.
— Per la sua donna.
— È geloso?
— Sì, geloso. Mi han fatto passare per uno...
sn och ac 1.
— Uh m ! — con interessamento replicava Tìch on
Iljìc, benché sapesse ben issimo che lì il fum o non era
senza fuoco.
M a già gli occhi di Jàkov erano in moto :
— E s’è lamentata col marito, s’è lamentata. Ma
che! avvelenarmi voleva! Qualche volta, per esem
pio, se sei raffreddato... ti metti un po’ a fumare...
Ebbene, lei se n ’era accorta... e mi ficcò sotto al guan
ciale una sigaretta... Se non ci avessi guardato, sarei
stato finito!
— O che sigaretta?
— Pestò delle ossa di morto e ce le versò invece
di tabacco...
— È il ragazzo che è stupido! Se le avesse dato,
a quella maledetta, una lezione alla russa!
— M a che dici! Invece mi saltò addosso, per e-
sempio... E intanto si torceva come una serpe. Lo
ch iappo per la testa, to’, la testa è rasata! Lo chiappo
per le spalle... strappar la camicia rincresce!
Tìch on Iljìc tentennava il capo, stava un momen
to zitto e infine si decideva:
— E come vanno le cose da voi? Aspettate sempre
una som m ossa?
M a a questo punto a Jàkov ritornava di colpo la
1 . Suocero che vive maritalmente con la nuora.
40 CAMPAGNA
riservatezza. Sorrideva e faceva un gesto con la mano.
— M a che! — borbottava in fretta. — Che som
mossa d ’Egitto! Da noi la gente è tran quilla... è
tran quilla la gente...
E tirava la briglie, come se il cavallo non stesse
fermo.
— E perché domenica c’è stata l ’adun anza? —
ad un tratto malign amente buttava giù Tìch on Iljìc.
— L’adun an za?... Chi ne sa n ulla! H an fatto un
po’ di schiamazzo, per esempio...
— Lo so perché hanno schiamazzato! Lo so!
— E che, io non ne fo un mistero... Chiacchie
ravano, per esempio, che era uscita, diremo, una
disposizione... che era uscita, pare, la disposizione
di non lavorare in nessun modo per il prezzo di pri
ma...
Era molto irritante il pensare che per una Dur-
nòvka qualsiasi le braccia smettevano di lavorare.
E di case in quella Durn òvka ve n ’erano in tutto tre
decine. Ed era situata in uno sprofon do del diavolo:
un largo burrone, da un lato le isbe, d all’altro la
villetta padronale. E questa villetta scambiava del
le occhiate con le isbe e di giorn o in giorn o aspet
tava non so che « disposizione »... Eh, poter fare
venire un po’ di cosacchi con le fruste!
M a la « disposizione » venne davvero. Si diffuse
una domenica la voce che a Durn òvka c’era un co
mizio e si preparava un piano d ’assalto alla villa.
Con gli occhi pieni di gioia m align a, con un a sen sa
zione di straordin aria forza e temerità, pronto « a
spezzar le corna anche al diavolo », Tìch on Iljìc
gridò di « attaccare ai bjegu n k ì lo stalloncino » e
CAMPAGNA 41
dieci minuti dòpo già lo lanciava lungo lo stradale
verso Durnòvka. Il sole tramontava dopo una gior
nata piovosa tra le nuvole grigio-rosse, i tronchi nel
boschetto di betulle erano vermigli, la strada, che
bruscamente risaltava per il suo fango nero violaceo
tra l’erba fresca, era faticosa. Dalle anche dello stal
loncino, dall’imbraca che andava di qua e di là ca
deva una schiuma rosea. Ma egli non aveva tempo
di pensare allo stallone. Facendogli schioccar forte le
briglie addosso, Tìchon Iljìc girò a sinistra del ca
sotto lungo la strada ferrata, prese a destra per la
via dei campi e, veduta Durnòvka, ebbe un attimo
di dubbio sulla verità delle voci riguardo alla som
mossa. Un silenzio di pace era intorno, pacificamente
cantavano i loro canti della sera le allodole, si senti
va un semplice e calmo odore di terra umida e il
profumo dolciastro dei fiori di campo... Ma ad un
tratto il suo sguardo cadde sul maggese accanto al
la villa, tutto cosparso di meliloto giallo: nei prati
pascolava il gregge dei m u z ik ì\ È cominciata dunque!
E, dato uno strattone alle briglie, Tìchon Iljìc pas
sò rapidamente davanti al gregge, davanti all’aia
ricoperta di bardana e di ortica, davanti al ciliegeto
dalle piante basse, pieno di passerotti, alla scuderia e
all’isbà della servitù e, precipitatosi nella corte, ri
mase ancora più turbato: la corte era assolutamente
vuota!
E poi avvenne qualcosa di assurdo: nel crepu
scolo, quasi paralizzato dalla rabbia, dallo sdegno e
dallo spavento, Tìchon Iljìc sedeva sui b je g u n k i nel
campo. Il cuore gli martellava, le mani tremavano,
la faccia bruciava, l’udito era fine come quello di un
42 CAMPAGNA
animale. Stan do a sedere, udiva le grida che giun
gevano da Durn òvka, e ricordava come la folla, sem
bratagli enorme, si era riversata, avendolo scorto, at
traverso il bosco, nella villa, aveva riempito la corte
di clamore e d ’insulti, si era raccolta alla scalinata e
lo aveva stretto contro la porta. In mano egli non
aveva che la frusta. E l ’agitava ora in dietreggian do,
ora gettan dosi disperatamente sulla folla. M a con
gesti ancor più largh i e arditi agitava il bastone il
sellaio che si faceva avanti : cattivo, magro, col ven
tre in fossato, il naso aguzzo, in stivali e camicia di
percalle color viola. A nome di tutta la folla - era
strano vedere tra essa N ik òlk a il Grigio, il conta-
dinuccio più miserabile di tutta Durn òvka, Cjugun òk
e persino Jàkov! - urlava che era venuta la disposi
zione di « liquidare questa storia », di liquidarla n el
lo stesso giorno e n ella stessa ora in tutta la pro
vincia : cacciare da tutte le aziende i braccianti di fu o
ri, sostituirli con braccianti locali - per un rublo al
giorn o! - e in quanto ai padron i pigliarli per la col
lottola e cacciarli via fin dove li portavan le gambe.
E Tìch on Iljìc urlava più furiosamen te ancora, cer
cando di soffocare la voce del sellaio:
— A-ah! È così! ti sei sveltito, vagabon do, dal fi
gliolo del diacon o? Ti sei levato la voglia d ’abbaiare?
E il sellaio afferrava a volo le sue parole, come il
cane fa col pane :
— Sei tu un vagabon do! — gridava fino a diven
tar rauco, con la faccia iniettata di sangue. — Sei un
vecchio imbecille! Che senza il figlio del diacono non
ho vissuto? che forse non lo so quanta terra h ai?
Quanta, scorticatore? Duecen to? E io - diavolo! -
CAMPAGNA 43
io ne ho in tutto quanto è gran de la sua scala. E per
ché? Chi sei tu? Chi sei tu> ti dom an do? Di che
pasta sei fatto?
— Oé, ricò-òrdatelo, Mìtka! — gridò infine Tì-
chon Iljìc impotente e, sentendo che la testa gli si
annebbiava, si gettò attraverso la folla verso i bjegu n -
k ì. — Ricordatelo bene!
M a nessuno aveva paura delle minacce, e un vo
ciare concorde, ruggiti e fischi lo seguiron o... D i se
ra poi girò a lun go in vettura attorno alla villa, trat
tenendo il fiato, stando in ascolto. Si avanzava sulla
strada, sul crocicchio e si voltava dalla parte del
crepuscolo, verso la stazione, pronto ogn i istante a
sferzare il cavallo. Vi era una gran quiete, l’aria era
calda, umida, scura. La terra, che si sollevava all’o
rizzonte, dove ancora durava una debole luce rossi-
gna, era nera come una voragine.
— Fe-erma, carogna! — mormorava tra i denti
Tìch on Iljìc al cavallo che si muoveva. — Fe-erma!
E da lontano giun gevan o ora grida, ora risate, ora
canti. E tra tutte le voci si distin gueva quella di
Vàgn ka il Rosso, che già due volte era stato nelle
miniere del Don jèts... Poi al disopra della villa si
sollevò ad un tratto un a colonna di fumo e di fu o
co: i contadini avevano fatto cadere in giardin o,
scuotendoli, tutti i germ ogli degli alberi fruttiferi,
avevano dato fuoco a una capanna, e un a pistola di
menticata là dal giardin iere, che se n ’era fu ggito,
per il fuoco aveva preso a sparare...
In seguito si seppe che, in verità, si era compiuto
un fatto prodigioso : in uno stesso giorno, alla stessa
ora, i contadini si erano rivoltati quasi in tutto il di
44 CAMPAGNA
stretto. E gli alberghi della città per lun go tempo
furon o pieni zeppi di possidenti che cercavano dife
sa presso le autorità. M a in seguito Tìch on Iljìc con
gran vergogn a ricordava che l ’aveva cercata anche
lu i: con vergogn a perché tutta la som m ossa finì che
quelli di Durn òvka schiamazzarono, fecero il dia
volo a quattro e poi si calmarono. Il sellaio ben pre
sto, come se nulla fosse successo, cominciò di nuo
vo a farsi vedere n ella bottega a Vòrgol e rispetto
samente si toglieva il cappello sulla soglia, quasi
non s’accorgesse che Tìch on Iljìc si faceva scuro in
viso dalla rabbia al suo apparire. Tuttavia ancora cor
revano voci che quelli di Durn òvka si preparavano
ad uccidere Tìchon Iljìc. Ed egli aveva un p o’ pau
ra di far tardi ritornando da Durn òvka, si tastava
in tasca il grosso b u ll- d o g 1 che gli dava fastidio
tirando in giù la tasca dei braconi, giurava a se
stesso di bruciare una bella notte Durn òvka fino
alle fondamen ta... di avvelenare l’acqua nei suoi sta
gn i... Poi cessarono anche le voci. M a Tìch on Iljìc
cominciò a pensare seriamente a disfarsi di Durn òv
ka. “Non contano i denari che tiene la nonna, ma
quelli che hai in sen o!” 2 Eppoi i contadini s’eran
fatti più arditi nel trattare, e si mostravano miste
riosamente bene in form ati...
— Ma che hai letto questo nei giorn ali? — do
mandò una volta Tìch on Iljìc al tartaglione Koby-
ljàj, divenuto fam oso per esser stato un a volta « ac
chiappato » in mezzo a un branco di cavalli.
1. Rivoltella.
2. Proverbio.
CAMPAGNA 45
— N ei ggiorn ali? — si meravigliò Kobyljài. —
Ecchi ce li ha ddati?
E in verità: nessuno li dava. M a pure quelli di
Durn òvka sapevano « tutto per filo e per segn o »,
e già solo per questo era sciocco affidare la sorve
glian za e la direzione degli affari nella villa ad ope
rai di Durn òvka... Eppoi staro sta era Ròdka.
In qu ell’anno, il più agitato di tutti gli ultimi,
Tìch on Iljìc toccava già i cinquan t’anni. E il pen
siero che la sua vita ormai era sul declino lo invase
nuovamente. Lo in vadeva di tempo in tempo anche
un desiderio con fuso di cambiarla in qualche m a
niera. Ma continuava a vivere come prima. Voci in a
spettate, in aspettati eventi ed umori lo facevan o di
continuo uscire dalla carreggiata abituale. N on per
lungo tempo però : su ogni cosa, come una volta, do
min avano soltanto la preoccupazione del guadagn o
e il sogn o di divenir padre. E proprio questo so
gn o lo fece urtare con Ròdka.
Ròdka, uno spilun gon e tetro di Uljàn ovka, era
andato due anni prima in casa del fratello di Jà-
kov, Fedòt. Prese m oglie, seppellì Fedòt, morto per
aver troppo bevuto alle nozze, e andò a fare il sol
dato. La sposin a poi, slanciata, dalla pelle molto
bianca e delicata, il colorito fine, le ciglia sempre
abbassate, andò a lavorare in villa, a giornata. E
quelle ciglia turbavano terribilmente. Portano le don
ne di Durn òvka « le corna » sulla testa : appena
terminata la cerimonia nuziale, le trecce vengon rac
colte sul sommo del capo, coperte da un a pezzuola,
e formano un che di selvaggio, come due corna di
vacca. Portan o delle gonne all’antica di un lilla scu
46 CAMPAGNA
ro con gallon i, un grem biale bianco a guisa di sa
rafan 1 e i làpti. Ma la Sposin a - le era ormai ri
masto questo soprannome, — anche in questo costu
me era bella. E una sera, su ll’aia buia ove essa sola
finiva di rastrellare le spigh e, Tìch on Iljìc, datosi
uno sguardo attorno, in fretta le si avvicinò e in
fretta, ansando, le disse:
— Porterai scarpette, fazzoletti di seta... Un bi
glietto da venticinque non lo risparmierò!
M a la Sposin a taceva come morta.
— Mi senti, che? — gridò Tìch on Iljìc soffocan
do la voce.
Ma la Sposin a pareva impietrita, mentre stava a
capo chino e gettava via il rastrello.
E così egli non ottenne n u lla: per due anni in
teri. Quando ad un tratto comparve Ròdka: prim a
del termine, cieco d ’un occhio. Avvenne questo po
co dopo la sommossa dei contadini di Durn òvka e
Tìch on Iljìc im piegò subito Ròdka insieme alla m o
glie in villa, allegan do il fatto che « di un soldato
adesso non si poteva fare a meno ». La vigilia di
S. Elia, Ròdka era andato in città e la Sposin a la
vava i pavimenti in casa. Scavalcando le pozze, T ì
chon Iljìc entrò in camera, guardò la Sposin a pie
gata a terra, i suoi polpacci bianchi schizzati di ac
qua sporca, tutto il suo corpo allargato e in grassa
to... E ad un tratto fece scricchiolare la chiave nella
porta e, dominando in modo particolarmente abile
la sua forza e il suo desiderio, fece un passo verso
la Sposina. Quella svelta si dirizzò, sollevan do la
1. Costume nazionale delle donne russe.
CAMPAGNA 47
faccia eccitata e rossa e, tenendo in mano il cencio
molle, con voce strana gridò :
— Ora ti un go io, ragazzo!
V ’era un odore di risciacquatura calda, di corpo
ancora più caldo, di sudore... E, afferrata la mano del
la Sposin a, strin gen dola bestialmente, e fattole cadere
il cencio con uno strattone, Tìch on Iljìc con la de
stra agguan tò la Sposin a per la vita, la strinse a sé,
in un certo modo che le scricchiolarono le ossa, e la
portò in un ’altra stanza dove c’era un letto. Arrove
sciata la testa, spalan cati gli occhi, la Sposin a non si
dibatteva più, non faceva più resistenza...
Dopo questo divenne per lui un tormento vedere
la moglie, un tormento vedere Ròdka, sapere che
quello dormiva con la Sposina, che bestialmente la
picchiava, ogn i giorno e ogn i notte. Presto poi co
minciò a provare un senso di angoscia. Imperscru
tabili sono le vie per cui arriva alla verità un uomo
geloso. E Ròdka vi giunse. Magro, cieco di un oc
chio, con le braccia lun gh e e forte come una scim
mia, con la piccola testa nera rasata, che egli sem
pre curvava, guardan do di sbieco col suo occhio luc
cicante molto in fossato, egli divenne spaven toso. Fa
cendo il soldato aveva preso le parole e l ’accento
dei c h o c h lj 1. E se la Sposin a ardiva replicare ai
suoi discorsi brevi ed aspri, egli calmo pren deva la
frusta di cuoio, le si avvicin ava con un soggh ign o
malvagio, e calmo le domandava tra i denti :
— Voi che dite?
I. Plurale di ch och òl. Gfr. nota a pag. 8.
48 CAMPAGNA
E allun gava tali colpi che gli occhi le si oscura
vano.
Un a volta a Tìch on Iljìc stesso capitò di trovarsi
presente a questo castigo e, non potendo trattenersi,
gridò :
— Che fai, mascalzon e che non sei altro?
M a Ròdka tran quillo si mise a sedere sulla panca
e soltanto lo guardò di sbieco:
— Voi che dite? — domandò.
E Tìch on Iljìc si affrettò a sbatter la porta...
Cominciarono a balen argli dei pensieri selvaggi:
avvelenare la moglie, per esempio, col gas di carbo
ne, combinare in modo che Ròdka rimanesse schiac
ciato in qualche luogo sotto un tetto o sotto una
fran a... Ma passò un mese, ne passò un altro, e la
speranza, quella speran za che suscitando di questi
pensieri Io rendeva ebbro, lo in gan n ò crudelmente:
la Sposin a non era rimasta incinta! Tutti a Durnòv-
ka erano convinti che colpa della sua sterilità fosse
Ròdka. Era convinto di questo anche Tìch on Iljìc,
e sperava forte. Ma un giorn o a metà settembre,
comparso all’improvviso in villa, mentre Ròdka era
alla stazione, Tìch on Iljìc rimase a bocca aperta scor
gen do il bel volto gen tile della Sposin a contratto dal
lo spavento.
— Che di nuovo sia pron ta? — gridò correndo
sulla scalinata.
E alla Sposin a si sbiancarono le labbra, il naso si
fece di cera, si annerirono e dilataron o gli occhi co
me in uno stato di catalessi. Essa si aspettava un col
po mortale sulla testa e in volontariamente la rove
sciò indietro. Ma Tìch on Iljìc si trattenne, la colpì
CAMPAGNA 49
solo una volta sulla guancia ed emise un gemito dal
dolore e dalla rabbia...
Dopo un istante se ne ritornò via, e da allora
Ròdka non ebbe più motivo di essere geloso. Aven
dolo intuito, Ròdka cominciò ad esser timido con
Tìchon Iljìc. Ma quello aveva ora nel cuore solo
più un desiderio: toglierselo via di torno e al più
presto... Ma con chi sostituirlo?
Con quelli di Durnòvka Tìchon Iljìc si teneva
ancora sulle sue. Il commissario rurale, il brigadiere
li invitava a casa, offriva loro da bere. Ma che van
taggio aveva da loro? Il brigadiere - che si chiama
va Orlòv, ma pronunziava il proprio nome accentan
done la prima sillaba - veniva da lui, ma poi non
faceva altro che bere « alla salute della molto rispet
tabile Anastàsja Petròvna! », mangiare qualcosa e
vantarsi della sua libertà di pensiero criticando con
molta disinvoltura « il primo ministro », senza dare
al padrone la possibilità di dire nemmeno due paro
le sui suoi affari. Quando poi rimaneva per la notte,
dormiva fino alle dieci del mattino, e si metteva an
che il caffettano del padrone allungando di sotto ad
esso i piedi sporchi con le unghie lunghe come quel
le di un cane...
Lo tolse d'impaccio il caso. Inaspettatamente T ì
chon Iljìc fece pace col fratello e lo convinse ad as
sumersi la direzione di Durnòvka.
Aveva saputo da un conoscente in città che Kuz-
mà aveva smesso di bere, era rimasto vedovo e servi
va già da tre anni come contabile dal possidente
Kasàtkin e, cosa più di ogni altra stupefacente, era
diventato « autore ». Già, pareva fosse stato- pubbli
4.
50 CAMPAGNA
cato tutt’un libretto di suoi versi e che sul rovescio
fosse indicato : « In vendita presso l ’autore ».
— Gua-arda un p o’! — strascicando le parole
disse Tìch on Iljìc n ell’udir questo. — Lui, Kuzm à,
ma non c’è male! E permettete la domanda, è stato
proprio stampato così: opera di Ku zm à Kràsov?
— Sul mio onore — rispose il conoscente, fer
mamente convinto, del resto, come molti altri in cit
tà, che i suoi versi Kuzm à li « rubacchiasse » dai li
bri e dalle riviste.
Allora Tìch on Iljìc, senza alzarsi dal posto, sedu
to a una tavola nella trattoria di Dàjev, scrisse al
fratello un biglietto breve e deciso : era tempo che
dei vecchi facessero la pace, si pentissero. E in trat
toria avvenne il rappacificamento, quasi tacito e ra
pido. E il giorn o dopo si parlò anche d ’affari.
Era di mattina, la trattoria era ancor vuota. Il
sole brillava sulle finestre polverose, illuminava i ta
volini ricoperti da tovaglie rosse umidicce, il pavi
mento scuro, lavato allora con la segatura, che sa
peva di stalla, i garzon i in camicie e calzoni bianchi.
N ella gabbia un canarino, quasi che non fosse vivo,
ma bensì caricato con una m olla, si effon deva in
canti su tutti i toni. Lì presso, a S. Michele Arcan
gelo, si suonava a messa, e il suono grave e giocon
do faceva scuotere i vetri, vibrava, tremando, sopra
la testa. Tìch on Iljìc, con la faccia nervosa e seria,
sedette a una tavola, si fece portare dapprim a sol
tanto due tè, ma non seppe resistere e prese il car
toncino : un a novità che faceva ridere tutti i frequen
tatori di Dàjev. Sul cartoncino era stampato a grosse
lettere: «U n a bottiglietta di acquavite con an tipa
CAMPAGNA 51
sto - 25 copechi. Con un buon an tipasto - 40 co
pechi ». E Tìch on Iljìc si fece portare una bottigliet
ta da 40 copechi; con avidità vuotò due bicchierini
e stava per berne un terzo, quan do al suo orecchio ri
sonò una ben nota voce:
— Dun que buon giorn o di nuovo.
Si vestiva Ku zm à tal quale il fratello. Era più
basso di statura, più ossuto, più asciutto, di spalle
un tantino più largo. Aveva una faccia gran de, m a
gra, con zigomi lievemente sporgen ti da vecchio bot
tegaio intelligente di origin e rustica, sopracciglia gr i
ge corrugate, occhi piccoli verdognoli, sguardo sem
plice e fermo. Ma cominciò in modo poco sem plice:
— In primo luogo ti esporrò, Tìch on Iljìc — co
minciò non appena Tìch on Iljìc gli ebbe versato il
tè — ti esporrò chi sono io, perché tu sappia... —
e sorrise — con chi ti legh i...
Anche lui aveva il vezzo di scolpire le sillabe, di
sollevare le sopracciglia, di sbottonare e abbottonare,
discorrendo, il primo bottone della giacca. E dopo
averlo abbottonato, con tin uò:
— Io, vedi, sono anarchico...
Tìch on Iljìc alzò bruscamente le sopracciglia.
— Non aver paura. Di politica non mi occupo.
Ma di pen sare non si proibisce a nessuno. E danno
non te ne viene affatto. Con durrò l’azienda con cor
rettezza, m a lo dico francamente, non scorticherò la
gente.
— Del resto i tempi non son quelli — sospirò
Tìch on Iljìc.
— Per questo i tempi son gli stessi. Si può an
cora scorticare, dico. Ma no, non sta bene. Con dur
52 CAMPAGNA
rò l’azienda e il tempo libero lo consacrerò alla mia
istruzione... cioè alla lettura.
— Oh, tienlo presente: se leggerai troppo, non
arriverai a contare quel che hai in tasca — disse
scuotendo il capo e storcendo l’angolo del labbro
Tìchon Iljìc. — E poi forse non son cose per noi.
— Oh! io non la penso così — replicò Kuzmà. —
Io, fratello, come dirti? sono uno strano tipo russo.
— Anch’io sono un russo, tienlo presente — in
serì Tìchon Iljìc.
— Ma diverso. Non voglio dire che io sia meglio
di te, ma diverso. Ecco tu, vedo, sei fiero di esser
russo, mentre io, fratello, oh, son ben lontano dal-
l ’esser slavofilo! Di discorrer molto non è il caso,
ma te ne dirò una: non vi vantate, per l’amor di
Dio, di esser russi! Siamo un popolo selvaggio, noi,
sonnolento, senza fermezza. Non siamo né con Dio
né col diavolo... Ma di questo discuteremo ancora
in seguito.
Tìchon Iljìc, accigliandosi, tamburellava con le di
ta sulla tavola.
— Questo, magari, è vero — disse, e lentamente
riempì un bicchierino. — Un popolo selvaggio. Ec
co, qui sta il punto.
— Io, posso dire, ho girato assai il mondo; ebbe
ne? non ho proprio veduto in alcun luogo tipi più
uggiosi e più pigri. Chi poi non è pigro — Kuzmà
dette un’occhiata di sbieco al fratello — anche quel
lo è senza criterio. Strappa, rovina il suo nido, e che
senso c’è?
— Come sarebbe a dire: che senso? — doman
dò Tìchon Iljìc.
CAMPAGNA 53
— Proprio così. Anche il nido bisogna costruirlo
con criterio. Se lo costruisco, devo poi anche viver
ci umanamente. Ecco, con questo e con questo.
E Kuzmà si batté col dito sul petto e sulla fronte.
Tìchon Iljìc si versò un secondo bicchiere di tè.
Kuzmà, inforcati gli occhiali d ’argento, beveva dal
piattino l’acquetta calda ambrata, ed egli lo guardò
fisso con gli occhi luccicanti; poi riflettendo, disse:
— Si vede, fratello, che noi non abbiamo il ca
po a queste cose. « Vivi un po’ in campagna, mangia
la minestra scura di cavolo e porta i làp t i rotti! »
— Li abbiamo portati! — rispose Kuzmà. — È
il secondo millennio, fratello, che li portiamo. È
il secondo millennio che pestiamo l’acqua nel mor
taio... Buttiamo via la fatica. E di chi è la colpa?
A questo risponderò : sarebbe tempo che ci vergo
gnassimo di riversar la colpa sul vicino e sempre sul
vicino! I tartari, già, ci han soffocati! Noi, già, siamo
un popolo giovane! Ma anche laggiù, in Europa,
sono stati oppressi non poco, da ogni sorta di mon
goli! E anche i tedeschi non sono più vecchi... Ma
questo è un discorso speciale.
— È vero — disse Tichon Iljìc. — Parliamo piut
tosto d ’affari.
Kuzmà rivoltò il bicchiere vuoto sul piattino, si
mise a fumare e terminò il discorso:
— In chiesa non ci vado...
— Vuol dire che sei un m o lo k àn 1? -— domandò
1. Da m olok ò , latte. Membro di una setta religiosa che ripu
dia le forme esteriori del culto e ogni forma di autorità, con
danna qualunque spargimento di sangue e perciò si astiene dal
consumar carne. Di qui il suo nome.
54 CAMPAGNA
Tìch on Iljìc e pen sò: “Son perduto! Si vede che bi
sogn a disfarsi di Du rn òvka!” .
— Un a specie di m olok àn — rispose sorriden
do Kuzm à. — Già, e tu ci vai? D a quando sei al
mon do non hai mai pensato a Lui come si conviene!
Se non fosse la paura e il bisognetto, l ’avresti del
tutto dimenticato.
— Per questo, non son io il primo, né l ’ultimo
— replicò Tìch on Iljìc accigliandosi di nuovo. —
Siam tutti peccatori. È pur detto : per un sospiro tut
to vien perdonato.
Kuzm à crollò il capo.
— Parli per abitudin e! — disse severo. — Ma
tu fermati e rifletti: come è possibile? H o vissuto,
vissuto tutta la vita come un porco, poi un sospiro
e tutto vien levato via con un colpo di mano! C ’è
qui un senso oppur n o?
Il discorso si faceva penoso. “Ë giusto anche que
sto” pensò Tìch on Iljìc guardan do la tavola con gli
occhi luccicanti. M a come sempre voleva evitare i
pensieri e i discorsi su Dio, sulla vita, e disse la pri
ma cosa che gli venne in bocca :
— Sarei contento di andare in paradiso, m a i pec
cati non mi ci lasciano.
— Ecco, ecco, ecco! — riprese Kuzm à picchian
do con l’un gh ia sulla tavola. — La nostra cosa pre
ferita, il tratto nostro più pern icioso: un conto è
dire, un conto è fare! Musica russa, fratello: vive
re malamente da porci, e con tutto ciò vivo e vivrò
da porco!... Sei un tipo tu, fratello! Un tipo!... Via,
ora parla d ’affari...
Il suono delle campane era cessato, il canarino si
CAMPAGNA 55
era acquetato. In trattoria comin ciava a venir gen
te, ai tavolini cresceva il rumore delle voci. Il gar
zone aprì una finestra: si udì un chiacchierio che
veniva anche dal mercato. M a essa non dava diretta-
mente sul mercato, bensì sopra un vicoletto di pas
saggio, dove la gente si ferm ava, e di là venne un
odore acuto di ammoniaca e di umido. In una bot
tega in modo straordinariamen te distinto e sonoro
gorgh eggiava una quaglia. E mentre si svolgeva la
conversazione d ’affari, Kuzm à la stava tutto il tem
po ad ascoltare e ogn i tanto a mezza voce l ’accom
pagn ava: «B r a v o !». Finito di parlare, picchiò sul
la tavola il palm o della man o ed energicamente disse:
-— Su, dunque, va bene, non stiamo a contra
starci! — e messa la mano nella tasca laterale della
giacca, tirò fuori tutto un mucchio di fogli e fo
glietti, trovò tra essi un libriccino con la copertina
grigia marmorizzata e lo pose davanti al fratello.
— Ecco! — disse. — Cedo alla tua pregh iera ed
alla m ia debolezza. Il libretto vai poco, i versi non
son meditati, sono di tanto tempo fa... M a non ci
si può far nulla. T o ’, pren dili e nascondili.
E di nuovo Tìch on Iljìc, già molto rosso d all’ac
quavite, fu turbato dalla consapevolezza che suo fr a
tello era un autore, che su quella copertin a grigia
marmorizzata era stam pato: «V e r si di K. J. Krà-
sov ». Rigirò il libretto tra le man i e disse tim ida
mente :
— E se tu leggessi qualcosa... Eh ? Fam m i questo
piacere, leggi tre o quattro versetti!
E abbassata la testa, leggermente commosso, tenen
do il libretto molto discosto da sé, e guardan dovi con
56 CAMPAGNA
aria severa attraverso gli occhiali, Kuzm à cominciò
a declamare ciò che di solito declamano gli autodi
datti : imitazioni di Koltsòv, di Nikitin , lamenti sul
destino e sulla povertà, sfide alla nube porcellosa che
s’avvicina... An ch ’egli, è vero, sentiva che tutto ciò
era vecchio e falso... Ma sotto alla form a altrui e
falsa era la verità - quel che una volta fortemente e
acutamente egli aveva vissuto - e sugli zigomi scarni
apparvero delle macchie, la voce a volte tremava.
Luccicavano gli occhi anche a Tìch on Iljìc. N on era
importante se i versi erano belli o brutti, importan
te era che li aveva composti il suo fratello german o,
un uomo povero e semplice che sapeva di cattivo ta
bacco e di vecchi stivali di vitello...
— E noi, Kuzm à Iljìc — disse egli quando Ku z
mà tacque e, toltosi gli occhiali, abbassò lo sguardo
— e noi abbiamo un solo canto...
E in modo spiacevole, amaro storse il labbro:
— N oi abbiamo un solo canto : quanto costan le
setole ?
In stallato il fratello a Durn òvka, egli si dette a
questo canto ancor più volentieri di prima. Avanti
di consegnare in mano al fratello Durn òvka, se la
prese con Ròdka per certe corde nuove che i cani
avevan rosicate e lo licenziò. Ròdka rispose con un
sorriso impertinente e calmo andò n ell’isbà a pren
dere la sua roba. Anche la Sposin a stette ad ascol
tare il licenziamento apparentemente calma, essa, se
paran dosi da Tìch on Iljìc, di nuovo usò il sistema
di tacere e di non guardarlo n egli occhi. Ma mezz’o
ra dopo, quan d’eran già pronti, Ròdka venne in sie
me con lei a chiedere perdono. La Sposin a stava sul
CAMPAGNA 57
la soglia, pallida, con le palpebre gonfie dalle lacri
me e taceva; Ròdka teneva la testa bassa, sgualciva
il berretto e anche lui cercava di pian gete e faceva
delle smorfie antipatiche; Tìch on Iljìc poi sedeva alla
tavola, storceva le sopracciglia e, tentennando il ca
po, faceva schioccar le pallin e sulla tavoletta dei cal
coli. Tutti e tre non potevano alzar gli occhi, spe
cialmente la Sposin a che si sentiva più colpevole di
tutti, e le supplich e rimasero vane : Tìch on Iljìc fece
grazia su un punto solo: non defalcò il prezzo delle
corde.
Adesso era forte. Sbarazzan dosi di Ròdka e pas
san do gli affari ai fratello, si sentiva bene, pieno di
vigore. « D à poco affidamento, mio fratello, parreb
be un uomo poco serio, ma per ora andrà! » E, ri
tornato a Vòrgol, si dette da fare, calmo e in fatica
bile, tutto l’ottobre. Nastàsia Petròvna era sempre
malaticcia — le gonfiavano e in giallivan o i piedi, le
mani, la faccia - e Tìch on Iljìc già pen sava qualche
volta alla morte di lei e con sempre m aggiore con
discendenza sopportava le sue debolezze, la sua in et
titudine nelle faccende di casa e in bottega. E, quasi
in armon ia col suo umore, tutto ottobre il tempo si
mantenne magnifico, assolato, limpido e allegro... Ma
d ’un tratto si mutò, - vi furon o temporali, piogge
dirotte — e a Durn òvka avvenne qualcosa di assolu
tamente inaspettato.
Ròdka lavorava in ottobre lun go la linea della stra
da ferrata, e la Sposin a senza occupazione viveva in
casa, sopportava i rimproveri della madre, si strug
geva n ell’attesa di un posto e solo di tanto in tanto
guadagn ava quindici o venti copechi lavoran do nel
58 CAMPAGNA
giardino contiguo alla villa. Ma si comportava in
modo strano: a casa taceva, piangeva, in giardino
invece era rumorosamente allegra, rideva forte, e
senza posa cantava delle canzoni con Dògnka Makà-
rova, una ragazza molto stupida e bella che somi
gliava a una egiziana ed era soprannominata Kozà 1:
certo per la stupidità, i movimenti bruschi e gli occhi
senza espressione. Kozà viveva con un m je sc jan ìn 2
che teneva in affitto il giardino, e la Sposina, che non
si sa perché aveva fatto amicizia con lei, occhieggia
va in modo provocante il fratello di lui, un ragazzet
to sfacciato sui diciott’anni, e, occhieggiandolo, dava
a capire coi suoi canti che si consumava per qualcu
no. Se tra di loro ci fosse qualcosa, non si sapeva,
ma è un fatto che tutto ciò finì con un gran guaio:
recandosi per la Madonna di Kazàgn in città, i due
m je sc jàn je 3 organizzarono in una loro capanna una
« piccola serata » : invitarono Kozà e la Sposina, tut
ta la notte sonarono su due organini, cantarono can
zoni, offrirono alle amiche panforti, dettero loro da
bere tè e acquavite, e all’alba, quando già avevano
attaccato la t e ljè g a, all’improvviso, con grandi risa
te, gettarono a terra la Sposina ubriaca, le legaron le
mani, le alzarono le gonnelle, gliele raccolsero a trec
cia sulla testa e si misero ad attorcigliarle con una
corda. Kozà se la dette a gambe, andò a nascondersi
dallo spavento tra l’erbe fradice, e quando fece ca
polino di là, dopo che il carro coi m je sc jàn je a corsa
fu uscito dal giardino, vide che la Sposina, nuda sino
1. Capra.
2. Cfr. nota a pag. 5.
3. Plurale di m jescjan ìn .
CAMPAGNA 59
alla cintola, era appesa ad un albero. Era una triste
alba nebbiosa, nel giardino mormorava una piogge
rella minuta, Kozà piangeva a calde lacrime, batteva
i denti mentre slegava la Sposina, giurava sulla testa
del padre e della madre che piuttosto il fulmine a-
vrebbe ucciso lei, Kòza, anzi che si fosse venuto a
sapere nel villaggio quel che era accaduto in giardi
no... Ma non passò nemmeno una settimana che per
Durnòvka corsero voci sullo scandalo della Sposina.
Appurarle, s’intende, era impossibile : « vedere,
nessuno aveva visto, in quanto a Kozà ci metteva
poco a inventare ». E la Sposina stessa, invecchiata
in quella settimana di cinque anni, rispondeva a quel
le dicerie con ingiurie così sconce che finanche la
madre si spaventava nel veder la sua faccia in quei
momenti. Tuttavia i discorsi suscitati da queste voci
non cessavano e tutti con grande impazienza aspet
tavano la venuta di Ròdka e il castigo che avreb
be inflitto alla moglie. Agitandosi —uscito di nuovo
di carreggiata — aspettava anche Tìchon Iljìc che
aveva saputo la storia del giardino dai suoi operai:
questa storia infatti poteva pur finire con un omi
cidio! Ma finì in modo così inaspettato che ancora
non si sa che cosa maggiormente avrebbe stupito
Durnòvka, se un omicidio o una fine simile: nella
notte dopo la festa di S. Michele Ròdka, venuto a
casa « per mutarsi la camicia », senza aver toccato
nemmeno con un dito la Sposina, morì « di male di
ventre »! A Vòrgol si seppe questo la sera tardi, ma
Tìchon Iljìc ordinò di attaccare immediatamente il
cavallo e nell’oscurità, sotto la pioggia, corse dal fra
tello. E nel primo impeto, dopo aver bevuto duran
60 CAMPAGNA
te il tè una bottiglia di liquore, con parole esaltate,
con gli occhi smarriti, gli confessò:
— È colpa mia, fratello, è colpa mia!
Kuzmà a lungo stette zitto ascoltandolo, a lungo
camminò per la stanza torcendosi i diti uno dopo l’al
tro e facendo scricchiolare le articolazioni. Alla fine
disse :
— Ma pensa un po’ : c’è forse qualcuno più bru
tale del nostro popolo? In città, dietro a un ladrun
colo che ha portato via da un banco una pasticca
da nulla, tutto il mercato si mette a correre, e se lo
agguanta gli fa mangiare del sapone. A un incendio,
a una rissa tutta la città corre, e come le rincresce
che l’incendio o la rissa finiscano presto! Non crol
lare, non crollare il capo: le rincresce! E come si bea
no quando qualcuno picchia a morte la moglie o
frusta un ragazzetto come la capra di Sìdor ‘, o lo
dileggia! Questo poi è il tema più allegro di quanti
ce n e. « Ragazzi, chi ha un coltellino? Via, levia
mogli i calzoni, diamogli un taglietto... »
Tìchon Iljìc domandò:
— Ma perché dici queste cose?
— Per la festa! — rispose burbero Kuzmà e con
tinuò: — Ecco qui per Durnòvka va bighellonando
quella scema di Fjòsa. Ebbene, i ragazzi prendono
con sé gli ultimi spiccioli, la fanno sedere sul prato
e lì a darle colpetti sulla testa tosata: per ogni tre
copechi dieci colpetti! E lo fanno per cattiveria que
sto? Sì, per cattiveria, per cattiveria, e per una stu-1
1. Adagio che significa : picchiare senza pietà.
CAMPAGNA 61
pida cattiveria, che sia maledetta!... Ed ecco così han
fatto anche con la Sposina.
— Tienlo presente — con calore lo interruppe
Tìchon Iljìc — di sfrontati e di stupidi ce n’è sempre
stati molti dappertutto.
— Sì. Ma tu stesso non ti sei portato quello... su,
come si chiama?
— Mòtja testa d ’anatra forse? — domandò T ì
chon Iljìc.
— Sì, ecco, ecco... Non te lo sei portato a casa
tua per divertirti?
Anche Tìchon Iljìc sorrise: se lo era portato dav
vero. Una volta anzi gli avevan fatto arrivare Mòtja
a casa per ferrovia, in un barilotto da zucchero. La
città era a due passi, conoscevano il capostazione e
così glielo avevano fatto arrivare. E sul barilotto a-
vevano scritto: «Fr agile. Un imbecille baston ato».
— E per divertirsi insegnano a questi imbecilli a
masturbarsi! — amaramente continuò Kuzmà. — Un
gono di pece i portoni delle povere fidanzate! Aiz
zano i cani contro i mendicanti! Per sollazzo fan ca
dere dai tetti i colombi a sassate! Mangiare poi questi
colombi, vedete, è un gran peccato. Lo stesso Spirito
Santo, vedete, prende forma di colomba!
Il sam ov ar da tanto era divenuto freddo, la can
dela colava, nella stanza era un fumo denso turchi
niccio, la polosk àteln itsa 1 e il vassoio eran pieni di
mozziconi puzzolenti inzuppati. Il ventilatore - un
tubo di latta all’angolo superiore della finestra —
era aperto e di tanto in tanto qualcosa vi comincia-1
1. Vaschetta per risciacquare le tazze, che si mette in tavola
insieme al sam ov ar.
62 CAMPAGNA
va a stridere, a girare e a gemere uggiosamente, “co
me negli uffici del comune”, pensava Tìchon Iljìc.
Ma la stanza era talmente piena di fumo che non
sarebbero bastati anche dieci ventilatori. Sul tetto poi
batteva la pioggia e Kuzmà camminava, come un
pendolo, da un angolo all’altro e diceva:
— E i nostri proverbi, Tìchon Iljìc “Per un ba
stonato, due non bastonati”... “La semplicità è peg
gio del rubare”...
— Dunque, secondo te, è meglio vivere come uno
stupido sgangherato? — domandò ironicamente Tì
chon Iljìc.
E Kuzmà, senza rispondere, con gioia si appigliò
alle sue parole:
— Sicuro, ecco, ecco! non c’è nessuno al mondo
più miserabile di noi, ma però non c’è anche nes
suno più sfacciato in questa stessa miseria. Come si
potrebbe pungere in modo più maligno? Toccando
la povertà. « Diavolo! Non hai nulla da pacchiare... »
Già eccoti un esempio: Deniska... via, quello... il
figlio del Grigio... il calzolaio... giorni fa mi dice...
— Aspetta — lo interruppe Tìchon Iljìc — e co
me sta il Grigio?
— Deniska dice che « crepa di fame ».
— È una carogna quel m u z ik ! — disse Tìchon
Iljìc convinto. — E tu non mi cantar la canzone ri
guardo a lui.
— Io infatti non la canto — burbero rispose Kuz
mà. — Ma bisognerebbe. Il suo casato, lo sai pu
re, è Kràsov... Sì, ma questo è un altro discorso...
Sta’ a sentire piuttosto di Deniska. Dunque lui mi
racconta : « Accadeva, in un anno di carestia, che
CAMPAGNA 63
noi garzoni di bottega s’andava nei pressi del cimi
tero a Cjòrnaja Slobòda, e là di quelle prostitute ce
n’era un subisso! E affamate, le pellacce, arciaffama
te! Le dai una mezza libbra di pane per tutto il la
voro e lei se lo divora tutto davanti a te... Era una
cosa da ridere... ». Nota! — gridò severamente Kuz-
mà fermandosi: — « Era una Cosa da ridere! ».
— Ma smettila, per amor di Cristo — di nuovo
10 interruppe Tìchon Iljìc — lasciami dire una pa
rola d’affari!
Kuzmà si fermò.
— Su, parla — disse. — Soltanto che c’è da par
lare? Come ti devi contenere? In nessun modo! Dar
loro del denaro: ecco tutta la storia, a farla corta.
Perché pensa un po’ : non hanno di che far fuoco,
non hanno di che mangiare, non hanno con che fa
re una sepoltura! Dunque, la cosa più santa è quella
di dar denari... E anche qualcos’altro: patate, un ca
rico di paglia, o due... La Sposina poi devi prender
la in servizio. Venga da me, come cuoca...
E Tìchon Iljìc sentì d ’un tratto come se un ma
cigno gli fosse caduto dal cuore. In fretta tirò fuori
11 portamonete, ne cavò un biglietto da dieci rubli
e con gioia fu d ’accordo anche per tutto il resto...
Ma all’improvviso, con aria sofferente e pronunzian
do in fretta, domandò:
— E che non sia lei che l’ha avvelenato?
Ma Kuzmà per risposta alzò soltanto le spalle.
Se l’avesse avvelenato o no, pensare a questo era
spaventoso. E a casa Tìchon Iljìc ritornò appena gior
no, con un mattino freddo e nebbioso, quando an
cora si sentiva un odore di covoni bagnati e di fu
64 CAMPAGNA
mo, assonnati cantavano i galli nel villaggio nasco
sto dalla nebbia, dormivano i cani accanto alla sca
linata, dormiva il vecchio tacchino selvatico appol
laiato presso la casa sopra il ramo di un melo mezzo
spoglio, chiazzato di morte foglie d’autunno. Nel
campo a due passi di distanza non si vedeva nulla
tra la densa nebbia grigia, sospinta dal vento. Di
dormire Tìchon Iljìc non ne aveva voglia, ma si
sentiva sfinito e, come sempre, faceva trottare la be
stia, una grossa cavalla baia con la coda legata, tut
ta fradicia, e che perciò sembrava più magra, più
elegante, più scura. Voltò le spalle al vento, si tirò
su dalla parte destra il bavero freddo e umido del
caffettano inargentato dalle minutissime perline di
pioggia che lo ricoprivano tutto; attraverso le fredde
goccioline che gli pendevano dalle ciglia guardava
come sempre più spessa si avvolgeva la terra nera vi
scosa alla ruota in moto, come davanti a lui zampil
lava senza interruzione tutta un’alta fontana di gru
mi di fango che già gli si erano incollati agli stivali
e ai ginocchi, dava occhiate di sbieco all’anca in mo
vimento della cavalla, alle sue orecchie serrate av
volte nella nebbia... E quando, con la faccia schizzata
di fango, arrivò finalmente a casa, la prima cosa che
gli capitò sotto gli occhi fu il cavallo di Jàkov le
gato ad un cavicchio. Attorcigliate in fretta le redini
sul davanti del veicolo, saltò giù, corse alla porta
aperta della bottega, e si fermò preso da spavento.
— Grullo-one! — diceva di dietro al banco Na-
stàsja Petròvna, evidentemente imitando lui, Tìchon
Iljìc, ma con voce malata, dolce, e sempre più si chi
nava verso la cassetta dei denari, rovistando tra le
CAMPAGNA 65
monete di rame tintinnanti e non trovando al buio il
denaro per dare il resto. — Grullone! Dov’è più a
buon mercato al giorno d’oggi?
E non trovando il resto, si drizzò, guardò Jàkov
che stava davanti a lei in cappello e pastrano, ma
scalzo, la sua faccia leggermente sollevata e la bar
ba storta di un colore indeciso, e aggiun se:
— Ma che non sia lei che l'ha avvelenato?
E Jàkov in fretta borbottò:
— Non è affar nostro, Petròvna... Chi ne sa nul
la... Affar nostro è tenerci in disparte... In disparte,
per esempio...
E tutto il giorno a Tìchon Iljìc tremarono le ma
ni al ricordo di questo borbottio... Tutti, tutti pensa
vano che l’avesse avvelenato lei!
La sua vita era di nuovo scombussolata. Per fortu
na il mistero rimase mistero: Ròdka prima di mo
rire ebbe la comunione; la Sposina, accompagnando
la bara, singhiozzava in modo così sincero che era
persino indecente - poiché quell’urlio doveva essere
non manifestazione del sentimento, ma compimento'
del rito - e a poco a poco l’inquietudine di Tìchon
Iljìc si calmò. Ma per molto tempo ancora egli ri
mase più fosco di un nuvolone.
Dopo i funerali di Ròdka, quando ormai fu chia
ro che il pericolo era passato, egli, chissà perché, si
mise a esortar la moglie ad andare per un po’ di
tempo dalla principessa o da alcuni conoscenti in cit
tà; ma assentarsi le era impossibile — si macellavano'
e mettevano sotto sale le pecore, si tritavano i ca
voli - ed egli dovette con tutte le sue forze soffocare
nell’animo un incomprensibile astio per quella di
66 CAMPAGNA
sgraziata vecchia, divenuta per lui una perfetta estra
nea. E quando essa finalmente si recò in città, per la
messa in suffragio di un’amica defunta, egli cominciò
ad andar sulle furie perché non aveva né mai avrebbe
avuto un aiuto, perché gli operai erano stupidi e pi
gri, perché il tempo era infame - non c’era modo
di andare né a piedi né in vettura per via della piog
gia e del fango - perché si moriva addirittura di
noia...
Da fare ne aveva fino alla gola, come sempre,
ma aiuti, punti. Come braccianti Tìchon Iljìc tene
va soltanto degli « avventizi » : fino al digiuno di
autunno Ed essi se ne erano già andati. Erano ri
masti soltanto i lavoratori annui: la cuoca, un vec
chio guardiano, soprannominato Žmych, e ancora un
ragazzo sui diciassette anni, Òska, pigro e cattivo,
« un baggeo di prima forza ». Molte pecore erano
state ammazzate e messe sotto sale, ma pure venti ca
pi dovevano svernare. Nel porcile erano sei verri ne
ri, dall’aria sempre tetra e malcontenta. Nella stalla
tre vacche, un torello, una giovenca rossa. In corte
undici cavalli, e in scuderia uno stallone grigio, cat
tivo, pesante, con una lunga criniera e il petto ro
busto, un m u z ik , che però costava un quattrocento
rubli : il padre aveva un attestato, era costato mille
cinquecento rubli. E tutto questo esigeva occhi e an
cora occhi.
Verso sera, dopo la partenza di Nastàsja Petròvna,
passava per la strada rotabile davanti alla casa, te
nendo il fucile dietro le spalle, il capo dell’ufficio1
1. Il digiuno di S. Pietro.
CAMPAGNA 67
postale di Uljànovka, Sàcharov, noto per la sua ma
nia di farsi mandare i listini - dei fucili, delle se
menti, degli strumenti musicali - e per il modo bru
tale di trattare i contadini, tanto che essi dicevano:
« Quando gli dai una lettera, ti treman le mani e le
gambe ». Tìchon Iljìc, dalla noia, gli andò incontro
verso la strada. Sollevato un sopracciglio, dette uno
sguardo all’impiegato di posta e pensò:
“Vecchio imbecille! Guardalo, bighellona per il
fan go” .
E affabile gridò:
— Buona caccia, Antòn Màrkic?
L’impiegato si fermò. Tìchon Iljìc si avvicinò a
lui e lo salutò.
— Buona caccia, dico, o no? — domandò ironi
camente.
— Ma che caccia! — rispose cupo l’impiegato,
enorme, curvo di spalle, con folti peli grigi che gli
spuntavano dagli orecchi e dalle narici, le sopracci
glia a grandi archi e gli occhi profondamente in fos
sati: un vero gorilla. — Ho fatto così due passi per
via delle emorroidi — disse pronunziando con spe
ciale attenzione l’ultima parola.
— Ma tenete presente — con foga inattesa re
plicò Tìchon Iljìc stendendo la mano con le dita
spalancate —- tenetelo presente: si son fatte deserte
le nostre parti! Non si sa più cosa siano né gli uc
celli, né le bestie selvatiche...
— Dappertutto hanno tagliato i boschi — disse
l’impiegato di posta.
— E come ancora! Come li hanno tagliati! A co
tenna! — fece eco Tìchon Iljìc.
68 CAMPAGNA
E all'improvviso soggiunse:
— Muda. Tutto muda!
Perché gli fosse sfuggita di bocca questa parola,
lo stesso Tìchon Iljìc non lo sapeva, ma sentiva che
pure non era stata detta invano. “Tutto muda” pen
sò, “ecco come il bestiame dopo un lungo e duro
inverno...” E, salutato l’impiegato postale, rimase a
lungo sulla strada guardandosi attorno malcontento.
Di nuovo cadeva una pioggia minuta, soffiava un
vento sgradevole, umido. Sui campi ondeggianti —
seminati, lavorati, coperti di stoppia - e sui bruni
boschi novelli si faceva scuro. Il cielo fosco sempre
più si abbassava verso la terra. Le strade molli di
pioggia luccicavan qua e là come fossero di stagno.
Alla stazione si aspettava il diretto che ogni giorno
ritardava di un’ora e mezza circa. Soltanto dai segna
li di campana, dai fischi, dal fracasso, dall’odore di
carbon fossile e di sam o v ar si sapeva nella corte di
Tìchon Iljìc che il treno arrivava e partiva: la sta
zione era nascosta dai fabbricati. Anche adesso si
sentiva odore di sam o v ar, e questo suscitava un de
siderio nostalgico di comodità, di una stanza calda
e pulita, di una famiglia, ovvero di partire per qual
che luogo... Ma d ’un tratto questa sensazione si mutò
in meraviglia: dal bosco spoglio di Uljànovka era
uscito e si dirigeva verso la strada carrozzabile un
uomo col cappello sodo e la sola giacca, e, dopo aver
lo guardato bene, Tìchon Iljìc riconobbe Zicharjòv,
che da molto tempo non faceva che ubriacarsi, figlio
di un ricco possidente. Il cuore gli si strinse sgrade
volmente. “Ma tant’è” pensò Tìchon Iljìc con un
senso di angoscia, “è meglio chiacchierare un po’ con
CAMPAGNA 69
lui, dargli, alle brutte, un mezzo rublo... Non vai
la pena d ’irritare un vagabondo, un uomo cattivo...”
Tuttavia Žicharjov si avvicinò quella volta assai
fiero, tutto raccolto in sé, ma con la testa nella bom
betta da teppista riversa all’indietro e agitando le
mascelle serrate nel masticare il bocchino di carta di
una sigaretta da tempo finita e spenta.
Aveva la faccia paonazza dal freddo, gonfia dal
l’ubriachezza, gli occhi rossi, i baffetti arruffati. Al
zato il colletto della giacca tutta sbottonata e ficcate
le punte delle dita in tasca, ardito guazzava nel fan
go con le scarpe gialle logore che uscivano dai pan
taloni corti, stretti alle ginocchia.
— A-ah! — strascicò tra i denti, masticando il
mozzicone. — Chi vedo! Tìchon Iljìc visita in per
sona i suoi possessi!
E con voce quasi rauca si mise a ridere.
— Buon giorno, Ljev Lvòvic — rispose grave Tì
chon Iljìc. — Aspettate il treno?
— Sì, l’aspetto e non viene mai! — alzando le
spalle disse Žicharjov. — Aspetta, aspetta, dalla noia
me ne sono andato a girellare verso il bosco. S’è
chiacchierato, s’è fumato... Ma, probabilmente, c’è
da aspettare ancora un’eternità! C’incontreremo al
la stazione? A voi, mi pare, piace... alzar il gomito?
-—• Dio m ’ha fatto la grazia — rispose Tìchon Iljìc
col tono di prima. — Perché non bere? ma per ogni
cosa bisogna sapere il suo tempo.
— Chiacchiere — disse rauco Žicharjov saltan
do assai agilmente attraverso una pozzanghera e, co
me si fosse dimenticato di Tìchon Iljìc, con anda
tura di passeggio si diresse verso la stazione.
70 CAMPAGNA
Aveva un aspetto meschino, e Tìchon Iljìc a lun
go guardò con disgusto i suoi calzoncini che a guisa
di sacco pendevano di sotto alla giacca corta.
“Partirà o non partirà?” pensò. “Sarà una cosa
poco allegra se di notte gironzolerà da queste par
ti!...”
La notte piovve di nuovo, il buio era tale da po
tersi cavar gli occhi. Tìchon Iljìc dormì male; fa
ceva scricchiolare i denti dolorosamente. Era scosso
da brividi - certamente aveva preso freddo stando
fermo la sera sulla strada carrozzabile - il caffettano
con cui si era coperto era scivolato sul pavimento,
ed allora aveva sognato ciò che sin dall’infanzia lo
perseguitava, quando la notte i brividi gli correvano
per la schiena: crepuscolo, certi stretti viottoli, una
folla che correva, i pompieri che sobbalzavano sui
carri pesanti trainati da focosi morelli di Bitjùg 1...
Un momento si riebbe, accese un fiammifero, guardò
l ’orologio che ticchettava - segnava le tre — sollevò
da terra il caffettano e, addormentandosi, di nuovo
con un senso di angoscia ricordò Žicharjov. E tra il
sonno cominciò ad agitarlo il pensiero ossessionante:
svaligeranno la bottega, porteranno via i cavalli...
A momenti gli sembrava di essere nella locanda
di Dànkovo, che la pioggia notturna crepitasse sul
tettuccio del portone, che ogni istante si tirasse e
suonasse il campanello che ne pendeva: erano i la
dri ch’eran venuti, in quel buio impenetrabile, ave
vano portato via il suo stallone e, se avessero potuto
sapere che lui era lì, lo avrebbero ucciso... A mo
1. Cavalli speciali da trasporto della città di Bitjùg.
CAMPAGNA 71
menti poi ritornava la coscienza della realtà. Ma an
che la realtà era inquietante. Il vecchio guardiano
camminava sotto le finestre col picchiotto, ma ora gli
pareva che fosse lontano lontano, ora che il cane
da pastore dilaniasse qualcuno rimanendo senza fia
to, che con furibondi latrati fuggisse nel campo e
d’un tratto ricomparisse sotto le finestre svegliandolo,
che seguitasse ad abbaiare ostinato, fermo in un po
sto. Allora Tìchon Iljìc si accingeva ad uscire, per
vedere che fosse mai, se tutto era in ordine. Ma
appena veniva il momento di decidersi, di alzarsi, più
fitta e più potente cominciava a strepitare sulle fine
strino buie una pioggia grossa e obliqua, che il vento
sospingeva dai campi scuri sterminati, e più caro del
padre e della madre gli sembrava il sonno...
Finalmente sbattè la porta, entrò un’ondata di
freddo umido, e il guardiano Žmych, con fruscio,
strascicò nell’ingresso un fascio di paglia. Tìchon Iljìc
aprì gli occhi : erano le sei, spuntava un’alba torbi
da, acquosa, i vetri delle finestre erano appannati.
— Accendi, accendi la stufa, fratello — disse T ì
chon Iljìc con voce rauca dal sonno. — Andremo
a dar da mangiare alle bestie, e poi vattene a dor
mire.
Il vecchio, dimagrato durante la notte, tutto pao
nazzo dal freddo, dall’umido e dalla stanchezza, lo
guardò con occhi infossati e smorti. Col cappello
fradicio, con un fradicio pastranuccio corto e i làp t i
logori impregnati di acqua e di fango, mormorò qual
cosa sordamente, mentre a fatica si metteva in ginoc
chio davanti alla stufa, la riempiva di strame freddo
e odoroso e accendeva uno zolfanello.
72 CAMPAGNA
— Ma che la vacca ti ha mangiato la lin gua? —
gridò rauco Tìchon Iljìc, scendendo dal letto e sol
levando da terra il caffettano. — Che borbotti sotto
il naso?
— Tutta la notte in giro, adesso dar da mangiare
alle bestie — brontolò il vecchio senza alzare il ca
po, come se parlasse a se stesso.
Tìchon Iljìc lo guardò di sbieco:
— L’ho veduto come sei stato in giro!
Si sentiva tutto rotto, ma tuttavia indossò la p o d -
d jò v k a e, vincendo un lieve tremito al ventre, uscì
sulla piccola scalinata tutta pesta dai cani, alla fre
scura gelida di quel mattino scialbo e piovoso. Dap
pertutto si erano formate delle pozzanghere plumbee,
tutti i muri si eran fatti scuri dalla pioggia...
“Operaiucci!” pensò Tìchon Iljìc malignamente.
Piovigginava appena, “ma, certamente, a desinare
verrà giù di nuovo” pensò. E con meraviglia guardò
lo scarruffato Bujàn che si era slanciato verso di lui
uscendo di sotto alla tettoia; con le zampe infangate,
ma tutto schiumoso, con gli occhi luccicanti, la lin
gua fresca e rossa come il fuoco, il respiro sano, cal
do che sapeva proprio di cane... E questo dopo tut
ta una notte di corse e di abbaio!
Prese Bujàn per il collare e, guazzando nel fango,
fece un giro per verificare tutte le serrature. Poi lo
legò alla catena sotto alla tettoia, ritornò nell’ingres
so e dette uno sguardo alla vasta cucina, nell’isbà.
Nell’isbà era un fetore caldo e disgustoso; la cuoca
dormiva come un sasso sopra una nuda cassapanca,
sotto alle immagini dei Santi, con la faccia coperta
dal grembiale e le mani intrecciate sotto di essa, spor
CAMPAGNA 73
gendo l’osso sacro e tenendo ripiegati verso il ventre
i piedi calzati di vecchi ampi stivali di feltro con le
suola ispessite dal sudiciume raccolto sui pavimenti.
Öska giaceva sul pancaccio con la faccia in giù, in
pelliccia corta e làp t i, con la testa sprofondata in
un guanciale sudicio e pesante.
“S’è andata a legare, anima dannata, con un bim
bo!” pensò Tìchon Iljič con ribrezzo. “Ve’, tutta la
notte l’ha passata in orgia, e verso il mattino giù sul
la panca!”
E dato uno sguardo ai muri neri, alle piccole fi-
nestrucce, al bigoncio delle rigovernature, all’immen
sa stufa tarchiata, dopo esser rimasto un momento in
mezzo a quel silenzio e a quel puzzo di morte, gridò
con voce forte e severa:
— Ehi! Signori padroni! È ora di saper la misu
ra!
Mentre la cuoca, grattandosi il capo e sbadiglian
do, accendeva la stufa, faceva bollire le patate per i
maiali e ravvivava il fuoco nel sam o v ar , Òska, sen
za cappello, inciampando per la sonnolenza, portava
una balla di foraggio ai cavalli e alle mucche. Tìchon
Iljìc aprì da sé la porta stridente della stalla e per
primo entrò nel locale caldo e sporco circondato da
tettoie, da chiusi e da stabbioli. Il letame arrivava
più su della caviglia. Sterco, orina, pioggia: tutto si
era mescolato e formava un sugo denso e bruno. I
cavalli, già scuri per il pelame vellutato d ’inverno,
erravano sotto le tettoie. Le pecore in una massa gri
gio-sporca ondeggiante si erano raccolte in un an
golo. Un vecchio castrone baio, con le orecchie e il
labbro inferiore pendenti, sonnecchiava presso la
74 CAMPAGNA
mangiatoia vuota sporca di pastone. Dal cielo ostile,
nuvoloso sopra al quadrato della corte cadeva e ca
deva una pioggerella fine, ma il cavallo non si ac
corgeva di nulla. I maiali dolorosamente, insistente
mente si lamentavano e grugnivano nel porcile.
“Che n oia!” pensò Tìchon Iljìc e subito urlò bru
talmente contro il vecchio che portava un fascio di
strame :
— Dove lo getti, nel fango, vecchia carogna?
Il vecchio gettò lo strame per terra, lo guardò e
disse calmo:
— Da una carogna me lo sento dire.
Tìchon Iljìc dette un rapido sguardo attorno -
per vedere se il ragazzo era uscito — e, assicuratosi
che era uscito, in fretta e anch’egli in apparenza cal
mo, si avvicinò al vecchio, gli dette un manrovescio
sui denti, e tale che gli fece scuoter la testa, lo affer
rò per il collo e a tutta forza lo spinse verso il por
tone.
— Via! — gridò, ansante e fattosi pallido come
creta. — Che qui non si senta più nemmen l’odore
del tuo fiato, pezzente che non sei altro!
Il vecchio fece un volo fuori del portone, e dopo
cinque minuti, col sacco dietro le spalle e il bastone
in mano, già se ne andava per la strada rotabile ver
so Uljànovka, a casa sua. Tìchon Iljìc poi con le ma
ni tremanti abbeverò lo stallone, da sé gli versò l ’a
vena fresca - quella del giorno prima era stata sol
tanto smossa e sporcata di bava - e a passi larghi, af
fondando nel sugo di letame e nello sterco, andò
nell’isbà.
— Che è pronto? — urlò, socchiudendo la porta.
CAMPAGNA 75
— C’è tempo! — rispose ruvidamente la cuoca.
L’isbà era avvolta da un vapore caldo, stucche
vole che usciva dalla marmitta di ferro, dalle pa
tate. La cuoca, insieme al ragazzo, rabbiosamente le
schiacciava col pestello cospargendole di farina, e per
via del rumore Tìchon Iljìc non potè udir la rispo
sta. Sbatacchiata la porta, andò a bere il tè.
Nel piccolo ingresso urtò col piede contro una
coperta da cavallo sporca e pesante che era sulla so
glia e si diresse verso un angolo dove, al di sopra
di uno sgabello con un bacino di stagno, era inchio
dato un mesciacqua di rame e su di una tavoletta
era un pezzetto di sapone di cocco mezzo consumato.
Egli già si era calmato, ma, mentre faceva rumore
col mesciacqua, gonfiò le narici, senza poter fermare
10 sguardo cattivo, mobile; e, spiccicando le parole,
diceva :
— Uhm! No, che operaiucci sono? Non c’è verso
con loro oggigiorno. Prova a dirgli una parola, te ne
dice dieci! Digliene dieci, e lui cento! Ma no, frot
tole! Non andiamo, no, verso l’estate e di voialtri,
diavoli, ce n ’è tanti! Avvicinandosi l’inverno, fratello,
ti verrà voglia di pappare, verrai, figlio di un cane,
ve-errai, t’inchi-inerai!
L’asciugatoio che serviva ai padroni e a quelli di
fuori era appeso accanto al mesciacqua dal giorno
di S. Michele. Era molto lungo e talmente sporco che,
guardandolo, Tìchon Iljìc serrò le mascelle.
— Oh! — disse chiudendo gli occhi e crollando
11 capo. — Oh, Vergine Santissima!
E buttato l’asciugamano in terra, si asciugò con la
falda ricamata della camicia che usciva dal panciotto.
76 CAMPAGNA
Nell’ingresso vi erano due porte. Una, a sinistra,
dava nella camera dei forestieri, lunga, semibuia, con
le finestre verso la stalla; vi erano due grandi diva
ni, duri come pietre, ricoperti di incerato nero, pie
ni zeppi di cimici vive, schiacciate, seccate, e sul tra
mezzo era appeso il ritratto di un certo generale con
due bellicose fedine che parevano di castoro; il ri
tratto era contornato da piccole fotografie degli eroi
della guerra russo-turca e sotto era l ’iscrizione:
« Per molto tempo i figli nostri e i fratelli slavi
ricorderanno le gesta gloriose, come il padre nostro,
guerriero ardito, sconfisse Sulej man-pascià, vinse i
nemici infedeli e passò coi suoi figli per tali dirupi
dove si libravano soltanto le nebbie e i re dei pen
nuti ».
L’altra porta conduceva nella camera dei padro
ni. Là, a destra, presso l’uscio luccicava una ve
trina, a sinistra biancheggiava la stufa-lettiera 1; una
volta questa stufa si era screpolata, avevano stucca
to la crepa bianca con l’argilla, e si era formata una
figura come di un uomo magro spezzato che dava
molto fastidio a Tichon Iljìc. Di là dalla stufa si
ergeva un letto per due persone; sopra al letto era
attaccato un tappeto di lana verde-torbo e mattone
che raffigurava una tigre baffuta con le orecchie rit
te da gatto. Di fronte alla porta, contro la parete,
stava un cassettone coperto da una tovaglia fatta
all’uncinetto, sulla tovaglia il cofano di nozze di
Nastàsja Petròvna, nel cofano c’erano il contratto
con gli operai, alcune boccette di medicinali da mol-
1. Nelle case di campagna la stufa russa è spesso munita di
un piano sporgente, detto lez àn k a, su cui ci si corica.
CAMPAGNA 77
to tempo guasti, dei fiammiferi, le chiavettine di un
orologio...
— Favorite in bottega! — gridò la cuoca, apren
do a mezzo la porta.
— C’è tempo a portar le capre al mercato 1! —
rispose burbero Tìchon Iljìc, e uscì in fretta.
In lontananza si stendeva una nebbia acquosa, di
nuovo si faceva un’aria di crepuscolo, piovigginava,
ma il vento aveva girato, soffiava da settentrione, e
l’aria era rinfrescata. Più allegro e più sonoro che
in tutti quegli ultimi giorni, fischiò alla stazione il
treno merci che partiva.
— Salute, Iljìc — disse, facendo un inchino col
berrettone fradicio di pelo, come quelli di Manciù-
ria, un contadino dal labbro di lepre che teneva pres
so la scalinata un cavallo pezzato.
— Salute — chinando il capo rispose Tìchon Iljìc.
— Che vuoi?
E pesatogli in fretta del sale e del petrolio, in
fretta ritornò nelle stanze.
— Non ti danno nemmeno il tempo di farti il
segno della croce! — brontolò per via.
Il sam ov ar , che era sulla tavola accanto al tra
mezzo, strepitava, gorgogliava; lo specchio appeso
al di sopra della tavola si era coperto di uno strato
di vapore bianco. Si erano appannate le finestre e
una oleografia inchiodata sotto allo specchio : un con
tadino gigantesco in caffettano giallo e stivali di ma
rocchino rosso, con lo stendardo russo in mano, die-
1. Sottin teso: perché, tanto, il denaro che se ne ricaverà sarà
presto speso. Adagio che vale : non c’è fretta, si arriverà sem
pre in tempo.
78 CAMPAGNA
tro al quale si vedeva il Cremlino di Mosca con le
sue torri e le sue cupole. Alcune fotografìe in cor
nici di conchiglie circondavano questo quadro. Al
posto d ’onore era appeso il ritratto dell’arciprete in
abito talare di amoerre, con la barbetta rada, le guan
ce un po’ gonfie e gli occhietti piccoli, penetranti.
E dopo averlo guardato, Tìchon Iljìc si fece debita
mente il segno della croce davanti all’icona nell’an
golo. Poi tolse la teiera dal sam o v ar gorgogliante,
versò un bicchiere di tè che sapeva forte di scopino
sbollentato, e si mise a sedere.
“Non ti danno nemmeno il tempo di farti il
segno della croce” pensò aggrottando per sofferen
za la fronte. “Ti ammazzano, che siano maledetti!”
Gli sembrava di dover ricordare qualcosa, riflet
tere a qualcosa, oppure semplicemente coricarsi e
fare una buona dormita. Aveva voglia di tepore, di
riposo, di limpidi e fermi pensieri. Si alzò, si av
vicinò alla vetrina, in cui tintinnarono vetri e sto
viglie, prese da un palchetto una bottiglia di li
quore di sorbe, un bicchierino panciuto su cui era
scritto: «qu esto anche i monaci l’accettano»...
— O forse non bisogna? — disse ad alta voce.
Ma la fermezza mancava. Contro la sua volontà
gli balenò in testa l’adagio : « bere è morire e non
bere è morire ». Ed egli versò e bevve, versò an
cora e bevve ancora. E mangiandovi dietro una gros
sa ciambella, di nuovo si sedette alla tavola.
Sentiva dentro un piacevole bruciore, avidamen
te sorseggiava dal piattino il tè caldo, succhiava, te
nendolo sulla lingua, un pezzetto di zucchero. Il
corpo si sentì meglio. Ma l’anima continuava a vi
CAMPAGNA 79
vere la sua vita tetra e angosciosa. I pensieri si so
stituivano l’un l’altro, ma non avevano senso. D i
stratto e sospettoso egli guardava di sbieco, mentre
sorseggiava il tè, il tramezzo, il contadino dal caf
fettano giallo, le fotografie nelle cornici di conchi
glia e persino l’arciprete con la sottana di amoerre.
“Non abbiamo il tempo di pensare alla religio
ne, noi porci!” pensò e, come per giustificarsi di
fronte a qualcuno, volgarmente aggiunse : “Vivi un
po’ in campagna, mangia un po’ la minestra di ca
volo agro!”
Dando uno sguardo traverso al prete, sentì che
tutto era dubbio... persino, così gli sembrava, l ’u
suale sua venerazione per quel prete... dubbio e non
meditato. A rifletterci bene... Ma qui si affrettò a
trasportare il suo sguardo sul Cremlino di Mosca.
— Ë vergogna a dirlo! — mormorò. — A Mo
sca non ci sono stato mai!
“Sicuro, non ci sono stato. E perché? I maiali
non me lo permettono! Ora il traffico non mi ci la
sciava, ora l’albergo, ora la bettola, ora Durnòvka...
Adesso ecco non mi ci lasciano lo stallone e i maiali-
Ma che dico: Mosca! Nel boschetto di betulle che
è di là dalla strada carrozzabile, son dieci anni che
inutilmente ci voglio andare. Speravo sempre di tro
vare una serata libera, prender con me un tappeto,
il sam o v ar, sedermi sull’erba, al fresco, tra il ver
de, ma tant’è, non l’ho trovata... Come acqua tra le
dita scorrono i giorni, non ho avuto il tempo di
tornare in me, che i cinquanta son suonati, ecco
presto verrà la fine di tutto, e ti par molto che cor
revo senza brache? Proprio ieri!”
80 CAMPAGNA
Immobili e taciti guardavano i volti dalle cornici
di conchiglia. Ecco una scena che non era mai avve
nuta e non poteva essere avvenuta: per terra, tra
la segale fitta son sdraiate due persone - Tìchon
Iljìc e il giovane mercante Rostòvtsev - e tengono
in mano dei bicchieri riempiti a metà di birra. Che
amicizia pareva essersi allacciata tra Rostòvtsev e Tì
chon Iljìc! Come era rimasto impresso nella memo
ria quel giorno grigio di carnevale quando si erano
ritrattati! Ma in che anno era? Dove era sparito Ro
stòvtsev? Era morto a Vorònjcz, e adesso egli non
aveva neppur la certezza se fosse vissuto a questo
mondo o no... Ed ecco ritti, allineati e impietriti,
tre borghesi, pettinati lisci con la riga diritta, le
camicie abbottonate da un lato e ricamate, sopra
biti lunghi e stivali lucidi, Bucnjòv, Vystavkin e
Bogomòlov. Vystavkin, quello di mezzo, tiene da
vanti al petto il pane e il sale sopra un piatto di
legno coperto da un asciugatoio con dei galli ri
camati, Bucnjòv e Bogomòlov tengono ciascuno un’i
cona. S’erano fatti ritrattare in un giorno polvero
so, ventoso di maggio, quando si benediva l ’eleva
tore, quando erano venuti il vescovo e il governato
re, quando Tìchon Iljìc era così fiero di esser capita
to tra il pubblico che dava il benvenuto alle autorità.
Ma che era rimasto nella memoria, di quel giorn o?
Questo solo, che per cinque ore avevano aspettato
presso l’elevatore, sulle nuove rotaie brunite, l’ar
rivo del governatore, che a nuvoli volava la polvere
bianca al vento, che polverosi erano i vagoni e gli
alberi, che il governatore, un vero cadavere, lungo,
in calzoni bianchi dalle bande dorate, in uniforme
CAMPAGNA 81
di ciambellano ricamata d’oro e tricorno, si muove
va verso la deputazione con straordinaria lentezza,
che avevano provato un gran terrore quando egli si
era messo a parlare, prendendo il pane ed il sale,
che tutti erano stati impressionati dalla straordinaria
magrezza e bianchezza delle sue mani, dalla loro
epidermide finissima e lucida come la pelle tolta da
un serpente, dagli anelli brillanti e tersi sulle dita
asciutte e sottili con le unghie lunghe, trasparenti...
Adesso quel governatore non era più tra i vivi, non
era tra i vivi nemmeno Vÿstavkin... E tra cinque,
dieci anni così avrebbero detto anche di Tìchon
Iljìc:
— Il defunto Tìchon Iljìc...
La stanza si era fatta più calda e più conforte
vole per effetto della stufa che ardeva. Lo specchio
era divenuto limpido, ma dalle finestre non si ve
deva nulla, i vetri biancheggiavano per un vapore
opaco, segno che fuori faceva sempre più fresco.
Di più in più distinto giungeva dalla stalla il ge
mito uggioso dei maiali affamati, e d’un tratto que
sto gemito si mutò in un ruggito concorde e poten
te: certamente i maiali avevano udito la voce della
cuoca e di Òska che portavano loro un pesante bi
goncio di pastone. E, smettendo di pensare alla mor
te, Tìchon Iljìc gettò la sigaretta nella p o lo sk àt e l-
n it sa, prese la p o d d jò v k a e si affrettò alla stalla.
Camminando a passi larghi e fondi sul letame che
sguazzava, aprì egli stesso il porcile, e per lungo
tempo non potè distogliere gli occhi avidi e ansiosi
dai maiali gettatisi sul trogolo, in cui era stato ver
sato il pastone fumante.
5.
82 CAMPAGNA
Il pensiero della morte era stato interrotto da un
altro : defunto, sta bene, ma questo defunto sareb
be forse stato portato ad esempio. Chi era stato? Un
orfano, un pezzente che nell’infanzia era rimasto
anche due giorni senza mangiare un tozzo di pane...
E adesso?
-— Bisognerebbe scrivere la tua biografia — iro
nicamente aveva detto una volta Kuzmà.
Ma di burlarsi, forse, non c’era di che. Dunque
c’era una capocchia sulle spalle, se da un misero
monello che appena sapeva leggere ne era venuto
fuori non un Tìska ’, ma un Tìchon Iljìc...
Ma ad un tratto la cuoca, che anch’essa guarda
va fissa i porci che si spingevano l’un l’altro ed en
travano nel trogolo con le zampe davanti, emise un
singulto e disse :
— Oh, Signore! Basta che oggi non ci capiti qual
che guaio! Ho visto stanotte in sogno come se aves
sero cacciato il bestiame nella nostra corte, ci avevano
cacciato pecore, vacche e maiali d ’ogni genere... E
tutti neri, tutti neri!...
E di nuovo gli si strinse il cuore. Sicuro, proprio
quel bestiame! Per il solo bestiame c’era da impic
carsi. Non eran passate ancora tre ore, e già biso
gnava di nuovo prender le chiavi, di nuovo portar
il mangime a tutto il cortile. Nel chiuso comune
dove le bestie stavano il giorno vi erano tre mucche
da mungere, in quelli separati la giovenca rossa, il
toro Bismarck: a questi adesso bisognava dare il
fieno. Ai cavalli, alle pecore a desinare spettava la1
1. Diminutivo spregiativo di T ìch on .
CAMPAGNA 83
biada, allo stallone poi il diavolo stesso non avrebbe
saputo che dargli! Si era del tutto guastato. Aveva
messo il muso nel graticolato sopra alla porta, e fiu
tava qualcosa, faceva le smorfie: sollevava il lab
bro superiore scoprendo le gengive rosee e i denti
bianchi, storceva le narici... E Tìchon Iljìc, con una
rabbia che egli stesso non si aspettava, ad un tratto
gli urlò :
— Fa’ meno storie, maledetto, che il fulmine ti
schianti!
Di nuovo si bagnò i piedi, fu preso dal freddo —
cadeva il nevischio - e di nuovo bevette del li
quore di sorbe. Mangiò delle patate con olio di gi
rasole e cetrioli salati, della minestra di cavoli con
condimento di funghi, della k àsa ' di miglio... La
faccia gli si fece rossa, la testa pesante.
— « Ottantasei anatrotto » — lesse sul muro del
la finestra, dove Nastàsja Petròvna scriveva con la
matita qualche appunto di casa e sorrise torvo. —
Dice giusto Kuzm à: la nostra propria lingua non
la sappiamo : « Ottantasei anatrotto », ma che lin
gua è questa, mi domando? — Una volta gli era
venuto voglia di conserva di fragole - aveva bevu
to - aperta la vetrina s’era messo a rovistare tra i
barattoli, e sui barattoli c’erano delle etichette con
su scritto da Nastàsja Petròvna: « Farvole ». E con
piacere maligno ricordò come un giorno Nastàsja
Petròvna aveva messo fuori sulla scalinata, alla piog
gia, dei vasi di fiori, e dalla corte era saltato su il
porco Fomkà e si era dato a mangiare il ficus, ma-1
1. Una specie di polenta che si usa fare con varie qualità di
grano.
84 CAMPAGNA
sticando rumorosamente. Gli operai eran corsi, ma
esso aveva strappato il fiore, lo aveva portato via
dal vaso insieme alla radice ed era scappato... Mam
ma mia, che pandemonio aveva sollevato Nastàsja
Petròvna!
— Il picus s’è pacchiato! Il picus s’è pacchiato!
— Eccoti il picus! — disse Tìchon Iljìc dilatando
le narici.
Per effetto dell’acquavite, del cibo e dei pen
sieri insulsi gli si piegava la testa. Senza svestirsi,
dopo essersi tolto, sfregando un piede contro l’al
tro, gli stivali sporchi, si coricò sul letto. Ma lo agi
tava il pensiero che da un momento all’altro si sa
rebbe dovuto di nuovo alzare: ai cavalli, alle muc
che e alle pecore verso sera bisognava dare nuova
mente della paglia d ’avena, allo stallone anche... op
pure no, era meglio mescolarla col fieno e poi ba
gnarla e salarla per bene. Ma egli avrebbe senza
dubbio lasciato passar l’ora, se avesse potuto fare
a modo suo. E Tìchon Iljìc si allungò verso il cas
settone, prese la sveglia e si mise a caricarla. E la
sveglia si animò di colpo, cominciò a battere, e nel
la camera parve crearsi un’atmosfera più calma, più
allegra per quel suo tic-tac veloce e cadenzato. I
pensieri si confusero...
Ma si erano appena confusi, quando all’improv
viso risonò un canto di chiesa forte e rozzo. Aperti
gli occhi con spavento, Tìchon Iljìc sul principio
non capì che una cosa: urlavano con voce nasale
due contadini e dall’ingresso entrava freddo e odor
di cappotti fradici, di làp t i muffosi e di pezze da
piedi. Poi scattò su, si mise a sedere e, veduto bene
CAMPAGNA 85
che contadini fossero mai, d'un tratto si sentì mar
tellare il cuore: uno era un cieco, grosso, butterato,
con un naso piccolo, il labbro superiore allungato
e raso, il cranio grande, tondo e i capelli tagliati
all’ucraina, l’altro poi era lo stesso Makàr Ivànovic!
Era Makàr Ivànovic, un tempo semplicemente Ma-
k àrka1 — così tutti lo chiamavano : « Makàrka il
pellegrino » - ed era entrato una volta nella bettola
di Tìchon Iljìc. Se ne andava per lo stradone in
làp t i, papalina e zimarra unta, ed era entrato da lui.
Nelle mani un bastone alto, di color verde-rame,
con la croce in cima e il puntale in fondo, dietro le
spalle lo zaino e una gamella da soldato; i capelli
lunghi, gialli; la faccia larga, color mastice, le na
rici enormi, impudenti come due bocche di fucile,
il naso spezzato che ricordava un arcione, gli occhi
poi, come spesso sono con tali nasi, chiari, lustri e
penetranti. Sfrontato, sagace, solito a fumare avi
damente sigaro dietro sigaro facendo uscire il fu
mo dalle narici, con una parlata rozza e a scatti, con
un tono che escludeva ogni replica, egli era piaciuto
molto a Tìchon Iljìc e appunto per questo tono, per
ché si vedeva subito che era « un figlio di cane ma
tricolato ».
E Tìchon Iljìc lo fece restare a casa sua come ma
novale. Gli tolse il vestito da vagabondo e lo fece
rimanere. Ma Makàrka si rivelò un ladro tale, che
lo si dovette picchiare crudelmente e cacciar via. Ma
di lì a un anno Makàrka divenne noto in tutto il
distretto per le sue predizioni, talmente sinistre che
1. Diminutivo spregiativo di M ak àr.
86 CAMPAGNA
si cominciò ad aver paura delle sue visite come del
fuoco. Se si accostava alla finestra di qualcuno e co
minciava la sua lugubre cantilena « riposa coi san
ti », o se porgeva un pezzetto di incenso, un piz
zico di polvere, in quella casa c’era poi immancabil
mente un morto.
Adesso Makàrka, col vestito di prima e il basto
ne in mano, stava sulla soglia e cantava. Il cieco
lo accompagnava roteando sotto la fronte gli occhi
lattiginosi, e per una certa asimmetria dei suoi trat
ti Tìchon Iljìc lo qualificò subito un galeotto eva
so, una bestia spaventosa e spietata. Ma più spa
ventoso ancora era ciò che quei vagabondi cantava
no. Il cieco, agitando tetro le sopracciglia rialzate, si
sgolava arditamente a cantare con orrenda voce na
sale di tenore. Makàrka, mandando lampi dagli oc
chi immobili, faceva risuonare il suo basso feroce. Ne
risultava un che di oltremodo sonoro, rozzamente
armonico, simile ad un antico canto di chiesa, au
toritario e minaccioso :
Piange, piange l’umida madre terra, singhiozza!
cantava il cieco.
Pian-ge, pian-ge, sin-ghioz-za !
convinto e brusco faceva eco Makàrka.
Dinanzi al Salvatore, dinanzi all’immagine,
urlava il cieco.
Forse i peccatori si pentiranno!
minacciava Makàrka dilatando le sfrontate narici. E,
CAMPAGNA 87
fondendo la sua voce di basso con quella tenorile del
cieco, pronunziava con fermezza:
Non sfuggiranno al tribunal divino!
Non sfuggiranno al fuoco eterno!
E ad un tratto s’interruppe — a tempo col cieco,
- raschiò in gola e semplicemente, col suo solito to
no sfacciato, ordinò:
—- Fateci riscaldare, mercante.
E, senza aspettare risposta, oltrepassò la soglia,
si avvicinò al letto e ficcò in mano a Tìchon Ujìc
una vignetta.
Era un semplice ritaglio dalla rivista “Ròdina” 1
ma, guardandola, Tìchon Ujìc si sentì un freddo im
provviso alla bocca dello stomaco. Sotto alla vignetta,
che raffigurava alcuni alberi piegati dalla bufera, un
bianco zig-zag lungo le nubi e un uomo che cadeva,
era scritto :
« Jean Paul Richter, ucciso dal fulmine ».
E Tìchon Ujìc rimase turbato.
Ma subito ritornò in sé. “Ah, mascalzone!” pen
sò. E lentamente strappò la vignetta in pezzetti mi
nuti che gettò per terra. Poi scese dal letto e, infi
landosi gli stivali, disse:
— Va’ a spaventare qualcuno più imbecille di me.
Io, fratello, ti conosco abbastanza! Piglia quel che
ti spetta, e va’ con Dio.
Poi andò in bottega, portò a Makàrka, che stava
col cieco accanto alla scalinata, due libbre di ciam
belle, un paio di aringhe e ripetè ancora più severo:
1. “La Patria” . Rivista illustrata di carattere popolare.
88 CAMPAGNA
— Va’ con Dio!
— E un po’ di tabacco? — chiese sfacciatamente
Makàrka.
— Di tabacco non n ’ho che un sacco.
— Va bene! — disse. — Il tabacco a voi, qual
che biglietto a noi, e così si fumerà.
— Dietro la bettola della cuccagna sta seminando
il tabacco la cagna — lo interruppe Tìchon Iljìc. —
Nel dir frottole non mi vinci, fratello.
E, dopo un breve silenzio, aggiunse:
— Impiccarti, Makàrka, è poco per le tue mara
chelle!
Makàrka guardò il cieco che si teneva diritto, fer
mo, con le sopracciglia molto alzate, e gli domandò :
— Uomo di Dio, che ne pensi tu? Impiccare o
fucilare?
— Fucilare è più sicuro — rispose serio il cieco.
— Così, per lo meno, ci si va diretti.
Imbruniva, le file di nuvole compatte si facevan
turchine e fredde, spiravano un’aria da inverno. Il
fango si faceva più denso. Accompagnato fuori Ma
kàrka, Tìchon Iljìc stropicciò i piedi sulla scalinata,
prendendo freddo, poi entrò in camera. Là, senza
spogliarsi, si mise a sedere nella semioscurità sopra
una seggiola accanto alla finestra, accese una siga
retta e ricominciò a pensare. “Che far altro, se non
pensare?” disse mentalmente a qualcuno. Come pri
ma, i suoi pensieri erano senz’ordine, ma chiari, lim
pidi. Si sovvenne dell’estate, della sommossa, della
Sposina, del fratello, della moglie... e che non aveva
ancor finito di pagare per la stagione delle opre.
Egli aveva l’abitudine di mandare in lungo i paga
CAMPAGNA 89
menti. I ragazzi e i giovanotti che venivano da lui
come giornalieri stavano poi nell’autunno giornate
intere sulla sua soglia, a lagnarsi che avevano estre
mo bisogno, si irritavano, dicevano talvolta delle in
solenze. Ma lui era inflessibile. Urlava, chiamando
Dio a testimonio, che « in tutta la casa non c’eran
due soldi, anche a cercarli! » e rovesciava le tasche,
il borsellino, con finta rabbia sputava come stupito
per la diffidenza dei postulanti, perché essi « non
avevano coscienza »... E questa gli parve allora una
cattiva abitudine. Con la moglie era spietatamente
severo, freddo, e le si sentiva estraneo al punto che
talvolta si dimenticava affatto della sua esistenza. E
ad un tratto anche questo lo colpì : Dio mio, ma
egli non aveva neppur un’idea di quel che essa era!
Se fosse morta in quel giorno, due parole non avreb
be saputo dire, perché era vissuta, che cosa aveva
pensato, sentito durante i lunghi anni vissuti con
lui, durante quegli anni fusisi in un anno solo e fug
giti come un baleno in continue faccende e preoc
cupazioni... E a che cosa aveva condotto tutto quel-
l’affannarsi?
Gettò via la sigaretta, ne accese un’altra... Uh, è
ben intelligente quel furfante di Makàrka! E s’è in
telligente, non può forse indovinare chi, quando e
che cosa ci aspetti? In quanto a lui, Tìchon Iljìc, lo
aspetta senza dubbio qualcosa di brutto. E poi non è
più un giovanetto. Quanti suoi coetanei sono all’al
tro mondo! E dalla morte e dalla vecchiaia non v’è
scampo. Non l’avrebbero salvato nemmeno i figli. E
anche i suoi figli egli non li avrebbe conosciuti, e ai
figli sarebbe stato estraneo, come è estraneo a tutte
90 CAMPAGNA
le persone vicine, ai vivi e ai morti. Di gente al mon
do ce n ’è come di stelle in cielo; ma è così breve la
vita, così presto gli uomini crescono, si fanno adulti
e muoiono, così poco si conoscono l’un l’altro e co
sì presto dimenticano tutto quel che han visto e vis
suto, che c’è da diventar matti a pensarci come si
deve!
Ecco egli poco prima aveva detto di sé:
— Converrebbe descrivere la mia vita...
Ma che cosa descrivere? Nulla. Nulla, o non ne
valeva la pena. Egli stesso non ricordava quasi nien
te di questa vita. Si era, per esempio, del tutto di
menticato dell’in fan zia: così, gli balenava talvolta
alla mente un qualche giorno d ’estate, un qualche
fatto, un coetaneo... Una volta aveva dato fuoco al
gatto di non so chi : fu frustato. Gli venne rega
lata una piccola frusta con un fischietto: fu una gioia
indicibile. Il padre ubriaco l’aveva un giorno chia
mato affettuosamente con tristezza nella voce:
— Vien da me, Tìsa, vieni, caro!
E all’improvviso l’aveva afferrato per i capelli...
Se fosse stato vivo ora il rivendugliolo Iljà Miro
nov, Tìchon Iljìc avrebbe mantenuto il vecchio pa
dre per misericordia senza conoscerlo, vi avrebbe
fatto appena attenzione. Era pur stato così con la
madre; se ora gli avessero domandato: ricordi tua
madre? egli avrebbe risposto: ricordo una vecchia
curva... faceva seccare il concime, accendeva la stu
fa, beveva di nascosto, brontolava... E più niente.
Quasi dieci anni era stato impiegato da Matòrin,
ma anche quei dieci anni si erano fusi in un giorno
o due: una pioggerella d’aprile cade a gocce minu-
CAMPAGNA 91
te e punteggia le lastre di ferro che con fracasso e
tintinnio vengon gettate sul carro presso la bottega
vicina; un mezzogiorno grigio, gelido, dei colombi
a stormi rumorosi si abbattono sulla neve accanto al
la bottega dell’altro vicino che commercia in fari
na, grani, crusca, tubano, volteggiano, sbattono le
ali, mentre lui e il fratello con una coda di bove
pigliano a sferzate una trottola che ronza sulla so
glia... Matòrin era allora giovane, forte, rosso-pao
nazzo, col mento ben rasato, le fedine rossicce ta
gliate a metà. Adesso si era fatto povero, se ne an
dava con la sua andatura senile, in un caffettano sco
lorito dal sole e un berretto fondo, di bottega in bot
tega, da un conoscente all’altro, giocava a dama, se
deva alla trattoria di Dàjev, beveva a piccoli sorsi,
diventava brillo, e intanto soleva dire :
— Noi siamo piccoli uomini : s’è bevuto, s’è man
giato qualcosa, s’è pagato, e a casa!
E incontrando Tìchon Iljìc, non lo riconosceva e
sorrideva con un’aria meschina:
— Ma che sei tu, Tìsa?
Lo stesso Tìchon Iljìc, del resto, al primo incon
tro, in autunno, col fratello germano, non l’aveva
riconosciuto: “Ma è possibile che sia Kuzmà col
quale per tanti anni s’è girovagato per i campi, i
villaggi e per le vie traverse?”.
— Sei invecchiato, fratello!
— Un pochetto, è vero.
— Ma è un po’ prestino!
— Per questo son russo. Da noi si fa presto.
E, Dio mio, come tutto si era mutato dal tempo
in cui trafficavano! Come il Tìchon Iljìc di adesso
92 CAMPAGNA
non somigliava affatto al mezzo zingaro nero al pari
di un calabrone, allegro e testa matta, al rivendu
gliolo Tìsica!
Accendendo una terza sigaretta, Tìchon Iljìc con
aria ostinata e interrogativa guardava dalla finestra:
— Ma è possibile che anche negli altri paesi sia
così ?
No, non poteva essere. Dei conoscenti erano stati
all’estero - ecco, prendiamo il mercante Rukavìs-
nikov - e avevan raccontato... E poi anche senza
Rukavìsnikov ci si poteva immaginare. Per esem
pio, i tedeschi della città o i giudei : tutti si compor
tavano in modo sensato, corretto, tutti si conosce
vano l’un l’altro, tutti erano amici - e non solo per
ubriacarsi insieme - e tutti si aiutavano a vicenda;
se si separavano, continuavano a scriversi per tutta la
vita; i ritratti dei padri, delle madri, dei conoscen
ti venivano trasmessi di famiglia in famiglia; i fi
gli li ammaestravano, li amavano, passeggiavan con
loro, con loro discorrevano come con uguali, ecco
che un bambino aveva da ricordare qualcosa. Da
noi invece tutti eran nemici tra loro, invidiosi, pet
tegoli, andavano a trovarsi l’un l’altro una volta al
l’anno, se ne stavano nelle loro tane, si dibattevano
come asfissiati quando per caso qualcuno veniva, si
mettevano a pulir le stanze... Ma che dico! Un cuc
chiaio di marmellata lesinavano a un ospite! Senza
chiederlo, l’ospite un bicchiere di più non lo avrebbe
bevuto...
Davanti alle finestre passò una t rò jk a. Tìchon Iljìc
la guardò attentamente. I cavalli bai erano sfiancati,
CAMPAGNA 93
ma parevano focosi. Il t aran t às 1 era in ordine. Di
chi poteva essere? Nei dintorni nessuno aveva una
t rò jk a simile. I proprietari dei dintorni eran tali pez
zenti, che stavano senza pane anche tre giorni; gli
ultimi ornamenti di metallo delle icone li avevano
venduti, non avevano di che mettere un vetro rotto,
di che aggiustare un tetto, stoppavano le finestre coi
guanciali, e sul pavimento, quando pioveva, mette-
van qua e là catini e secchi, dai soffitti colava l’ac
qua come da uno staccio... Poi passò Deniska il cal
zolaio. Dove andava e con che? Forse con una yä-
ligia? Oh, che imbecille! Signore, perdonami! {
Macchinalmente Tìchon Iljìc si gettò sulla p o d -
d jò v k a un caffettano, infilò i piedi nelle calosce e
uscì sulla scalinata. Uscito e respirata profondamen
te l ’aria fresca di quel crepuscolo turchiniccio pre
invernale, di nuovo si fermò, si mise a sedere sul
la panchina... Sì, anche quella è una bella fam iglia:
il Grigio col suo figliolo! Mentalmente Tìchon Iljìc
fece la stessa strada che Deniska aveva percorsa at
traverso il fango con la valigia in mano. Vide Dur-
nòvka, la sua villa, il burrone, le isbe, il crepuscolo,
un lumicino in camera del fratello, lumicini per le
case... Kuzmà certo era seduto a leggere. La Spo
sina era nell’ingresso buio e freddo, accanto alla stu
fa appena tiepida, si scaldava le mani, la schiena,
aspettava che le dicessero: «cen are! » e, stringendo
le labbra invecchiate e avvizzite, pensava... A che?
Forse a Ròdka? Tutte bugie che fosse stata lei ad
avvelenarlo, bugie! Ma se l’avesse avvelenato...
1. Specie di vettura rustica a quattro ruote.
94 CAMPAGNA
Dio mio! Se l’avesse avvelenato, che cosa doveva
sentire? Che pesante pietra sepolcrale gravava sulla
sua chiusa, strana anima! E come era avvenuto ciò
che essa si era decisa di fare, resa folle dall’odio
contro Ròdka, dalle brutali percosse — forse anche
dagli oltraggi che ferivano il suo sentimento per lui,
Tìchon Iljìc - e dalla vergogna, dallo spavento che
Ròdka venisse infine a sapere di quell’obbrobrio?
Oh, se la batteva lui! Già, buono anche Tìchon Iljìc...
Però Dio lo avrebbe castigato...
Mentalmente dalla scalinata della sua casa di Dur-
nòvka egli dette uno sguardo a Durnòvka - ribel
le anche lei! - alle isbe nere lungo la costa di là
dal burrone, alle aie e agli orti dietro le case... Ol
tre i campi, a sinistra, sull’orizzonte, il casotto del
la strada ferrata. Al crepuscolo lì davanti passava il
treno: correva una catena di occhi infuocati. Ma -
cosa strana! - il sordo fragore del treno arrivava a
Durnòvka solo quando quella catena spariva; e co
me se venisse di sotto terra... Poi cominciavano a
brillar gli occhi per le isbe. Imbruniva, si provava
un senso di conforto, ma un sentimento spiacevole
si svegliava in lui ogni qual volta guardava le isbe
della Sposina e del Grigio, situate quasi nel cen
tro di Durnòvka, a tre case di distanza l’una dal
l’altra : né in questa né in quella vi era lume. E co
sì quasi tutto l’inverno! I fìglioletti del Grigio, co
me talpe, accecavano e diventavan matti dalla gioia
e dalla meraviglia quando riuscivano in qualche fe
lice serata ad illuminare l’isbà...
—• No, è male! — con fermezza disse Tìchon Iljìc
e si alzò. — No, è empio! Bisogna almeno un poco
CAMPAGNA 95
riparare a questo stato di cose — disse dirigendosi
verso la stazione.
Gelava, più profumato del giorno prima giunge
va dalla stazione l’odore del sam o v ar. Più limpidi
brillavano i lumicini ai cancelli, di là dagli alberi
gelati d ’un gelo vigoroso, quasi spogli, trasparenti
per il rado fogliame. Più sonori tintinnavano i so
nagli della t rò jk a. Quella sì che era una t rò jk al In
vece a guardar le brenne dei m u z ik ì vetturini, i loro
piccoli carri sulle ruote storte mezzo sgangherate,
ricoperte di fango, era una pena! Scricchiolava e sor
damente sbatteva oltre il giardinetto nudo la porta
della stazione. Sorpassatala, Tìchon Iljìc salì l’alta
scalinata di pietra su cui brontolava il sam o v ar di
rame capace di due secchi d’acqua, con la graticola
rossa come una dentatura infuocata, e s’imbatté per
l’appunto in chi doveva, in Deniska.
Deniska soprappensiero, con la testa bassa, stava
sulla scalinata e teneva nella destra una valigiuccia
grigia da pochi soldi, copiosamente cosparsa di ca
pocchie di latta e legata con una corda. Deniska por
tava una vecchia p o d d jò v k a che aveva l’aria di es
ser molto pesante, con le spalle spioventi e la vita
molto bassa, un berretto nuovo e gli stivali rotti.
Alto non era venuto, le gambe, in proporzione al
torso, erano molto corte. « Non ci ho che il tronco »
ridendo diceva talvolta di sé. Adesso, con la vita
bassa e gli stivali scalcagnati, le gambe sembravano
ancora più corte.
— Den is? — lo chiamò Tìchon Iljìc. — Come
mai sei qui, rompicollo?
Deniska, che non si meravigliava mai di nulla,
96 CAMPAGNA
alzò su di lui gli occhi scuri e languidi, melanconi-
camente sorridenti, dalle lunghe ciglia, e si tirò giù
il berretto di capo. I capelli li aveva di color topo
e oltremodo folti, la faccia terrea e come se fosse
unta, ma gli occhi eran belli.
— Buon giorno, Tìchon Iljìc — rispose con una
vocina canterellante e tenorile non da contadino e,
come sempre, un po’ vergognoso. — Vado... pro
priamente... a Tùia.
— E perché, si può domandare?
— Forse mi capiterà qualche posto...
Tìchon Iljìc l’osservò attentamente. In mano la
valigia, dalla tasca della p od d jòv k a spuntavano al
cuni libretti verdi e rossi arrotolati. La p od d jòv k a
doveva essere di qualcun altro...
— Ma non sei troppo elegante per Tùia!
Anche Deniska si guardò.
— Per via della p od d jòv k a? — domandò mode
stamente. — Che importa, ecco a Tùia guadagnerò
un po’ di soldi e mi comprerò una giacchetta all’un-
garese. L’estate alla meglio me la son cavata! Ven
devo i giornali.
Tìchon Iljìc si piegò sulla valigia:
— E cotesto che affare è?
Deniska abbassò le ciglia.
— Una valigia mi son comprato.
— Certo una giacchetta all’ungherese senza va
ligia non è possibile! — disse ironicamente Tìchon
Iljìc. — E in tasca che ci hai?
— Così, cianfrusaglia diversa...
— Fa’ vedere.
Deniska mise la valigia sulla scalinata e tirò fuori
CAMPAGNA 97
di tasca i libretti. Tìchon Iljìc li prese e li esaminò
attentamente uno per uno. Raccolta di canzoni “Ma-
rùsja”, “La moglie dissoluta”, “La fanciulla inno
cente nei ceppi della violenza”, “Poesie di augurio
ai genitori, agli educatori e ai benefattori”, “La fun
zione”...
Qui Tìchon Iljìc s’inceppò, ma Deniska, che lo
seguiva, pronto e modesto suggerì:
— La funzione del proletariato in Russia.
Tìchon Iljìc crollò il capo.
— Son novità! Non hai da pacchiare, ma le va-
lige e i libretti te li compri. È vero, non per nulla
ti chiamano sovversivo. Dicono che tu bestemmi sem
pre lo Zar! Bada, fratello!
— Via, non mi son mica comprato un podere —
rispose Deniska con un sorriso triste. — Questi son
libretti buoni. È uno scritto di Bàrkov. E lo Zar io
non l’ho toccato. Contro di me ne spaccian tante,
come contro un morto. E non mi è passato neppur
per la mente. Ma che son forse un lunatico?
Stridette la puleggia della porta, comparvero il
guardiano della stazione - un soldato in riposo dai
capelli grigi col respiro fischiante e rauco — e il cre
denziere grosso con due occhietti chiusi dal grasso
e i capelli unti.
— Scansatevi, signori mercanti, lasciatemi pren
dere il sam o v ar...
Deniska si scansò e di nuovo prese la valigia per
il manico.
— L’avrai sgraffignata in qualche posto? — do
mandò Tìchon Iljìc, indicando la valigia e pensan
do all’affare per cui era andato alla stazione.
98 CAMPAGNA
Deniska stette zitto e chinò il capo.
— Ed è vuota?
Deniska si mise a ridere.
— Vuota...
— Allora ce l’hai solo per figura?
— Sì, per figura...
— Che ti han cacciato via dal posto?
— Me ne sono andato da me.
Tìchon Iijìc sospirò.
— Il padre tale e quale! — disse. — Anche quel
lo dice sempre così : lo cacciano a pedate da un po
sto e lui : « me ne sono andato da me ».
— Che mi scoppino gli occhi, non dico bugie.
— Via, va bene, va bene... A casa ci sei stato?
— Due settimane.
— Tuo padre è di nuovo senza lavoro?
— Adesso è senza.
— Adesso! — lo contraffece Tichon Iijìc. — Ah,
campagna zoticona! E ancora rivoluzionario! Vuoi
fare il lupo e hai la coda di cane.
“Mi pare che anche tu sei della stessa pasta” pen
sò Deniska con un risolino, senza alzare il capo.
— Dunque il Grigio se ne sta a casa e ogni tanto
piglia la sbornia?
— È un uomo senza testa! — disse convinto De
niska.
Tìchon Iijìc gli diede un colpetto sul capo con le
nocche.
— Almeno se la tua scemenza non la mostrassi!
Chi mai parla così del padre?
— Vecchio cane e non padre s’avrebbe a chia
mare — rispose Deniska calmo. — Se sei padre,
CAMPAGNA 99
allora mantienimi. Ma lui m’ha mantenuto di mol
to?
Ma Tìchon Iljìc non finì d’ascoltarlo. Cercava il
momento opportuno per cominciare a parlar d’af
fari. E senza stare a sentirlo lo interruppe :
— Già, sei venuto su un ciancione... Ha vendu
to Jàkov la cavalla?
Deniska all’improvviso si mise a ridere di un riso
volgare e rumoroso. Ma rispose sempre con la stes
sa vocina canterellante di tenore:
— Jàkov Mikìtic? Che dici! Diventa sempre più
ricco e più spilorcio. È stato un ridere ieri!
— Per che cosa?
— Ma come? Gli è crepato un puledro, e allora
lui che ha inventato? Le zampe con gli zoccoli, an
che quelle ha utilizzate. Ci mancava nella siepe dei
pioli, e lui ha preso e ci ha piantato quelle zampe...
— Ministro e non m uz ik ! — disse Tìchon Iljìc.
— Non fa il paio con voi, senza brache. E tu dun
que te ne vai a Tùia senza biglietto?
— Ma a che serve il biglietto? — rispose De
niska. — Entro nel vagone, e difilato, che Dio me
la mandi buona, sotto la panca! Mi basta di arrivare
a Uzlòvska.
— E che è cotesta Uzlòvska? Vuoi dire Uzlòva?
—- Ebbene Uzlòva, è la medesima. Arrivo fin lì
e poi anche a piedi non è lontano.
— E i libretti dove li leggi? Sotto la panca non
li puoi leggere.
Deniska pensò un po’.
— Ecco qui! — disse. — Non sempre sto sotto la
100 CAMPAGNA
panca. Mi ficco nella latrina, e lì leggo magari fino
a giorno.
Tìchon Iljìc serrò le sopracciglia.
— Dunque sta’ a sentire — cominciò. — Sta’ a
sentire : tutta cotesta musica è tempo che tu la smet
ta. Non sei un bimbo, uno stupido. Vattene indie
tro a Durnòvka, è ora di mettersi a lavorar sul se
rio. Se no a guardarvi vien nausea. Da me laggiù...
i consiglieri di corte 1 vivon meglio. Ti aiuterò, se
così ha da essere... nei primi tempi. Si sa, per com
prare un po’ di merce, gli strumenti... E ti manter
rai te e a tuo padre almeno qualcosa potrai dare...
“A che cosa vuol arrivare?” pensò Deniska.
Ma Tìchon Iljìc si decise e finì:
— Anche di prender moglie è tempo.
“Ho capito!” pensò Deniska, e senza fretta co
minciò ad arrotolare una sigaretta.
— E che! — rispose calmo e un tantino melan
conico, senza alzare le ciglia. — Io non starò a fare
il difficile. Prender moglie si può. Andar dalle pro
stitute è peggio.
— Ecco, proprio qui sta il punto — agitandosi
riprese Tìchon Iljìc. — Soltanto, fratello, tienlo pre
sente: bisogna pigliar moglie con giudizio. Loro, i
figlioli, con un capitale si allevan bene.
Deniska si mise a rider forte.
— Che hai da sghignazzare?
— Ma come! Allevare! Come le galline o i porci.
— Non meno delle galline e dei porci chiedon
da mangiare.
1. Così il popolo chiama scherzosamente i cani da guardia.
CAMPAGNA 101
— Ma chi devo prendere? — con un sorriso me
lanconico domandò Deniska.
— Ch i? Ma... chi vuoi.
— La Sposina forse?
Tìchon Iljìc si fece rosso rosso.
— Imbecille! e alla Sposina che le manca? È una
donna tranquilla, lavoratrice...
Deniska stette un po’ in silenzio, raspando con
l’unghia una capocchia di latta sulla valigia. Poi si
mise a far lo scemo.
— Di loro, di Sposine, ce n’è tante — disse stra
scicando le parole. — Non so di quale discorrete...
Di quella che ci vivevate voi?
Ma Tìchon Iljìc si era già ripreso.
— Se ci vivevo o no, questo non è affar tuo, por
co — rispose e così presto e con aria di tanta au
torità che Deniska borbottò umilmente :
— Ma a me mi fa lo stesso... Io l’ho detto solo
così... per parlare...
—- E allora non ciarlare a vuoto... Ne farò degli
uomini di voi. Hai capito? La dote vi darò... hai
capito?
Deniska rimase soprappensiero.
— Ecco vado a Tùia... — cominciò.
— Il gallo ha trovato una perla! Che bisogno hai
di andare a Tùia?
— Troppa fame ho fatta a casa...
Tìchon Iljìc si spalancò il caffettano, mise la ma
no nella tasca della p o d d jò v k a - quasi deciso di dare
a Deniska un ventino. Ma si riprese, è sciocco but
tar via i denari, eppoi questo furbone mangerà la
102 CAMPAGNA
foglia, “mi voglion comprare” penserà - e fece fin
ta di cercare qualcosa.
— Ah! Le sigarette ho dimenticate! D a’ qui che
me ne arrotolo una.
Deniska gli porse la borsetta del tabacco. Sopra
alla scalinata avevan già acceso il fanale e alla sua
luce fioca Tìchon Iljìc lesse ad alta voce queste pa
role ricamate sulla borsetta con del filo bianco : « A
chi amerò la donerò amerò di core la darò per sem
pre al mi amore ».
— Bene! — disse dopo aver letto.
Deniska vergognoso abbassò il capo.
— Dunque c’è già la bella?
— Quante ce n ’è in giro di quelle cagne! — ri
spose Deniska spensierato. — Ma di pigliar moglie
non mi rifiuto. Ritornerò a carnevale e che il Signo
re ci benedica...
Di dietro al giardinetto, tintinnando e con fra
casso, si avvicinò a corsa alla scalinata una teljèga
tutta schizzata di fango, con un contadino seduto
sulla traversina e in mezzo, sulla paglia, il diacono
di Uljànovka, Gòvorov.
— È partito? — gridò inquieto il diacono, tiran
do fuori dalla paglia un piede calzato di una calo
scia nuova.
Ogni capello della sua testa rossa, arruffata si ar
ricciava prepotente, il cappello di finto castoro gli
era caduto sulla nuca, la faccia si era fatta rossa dal
vento e dall’agitazione.
— Il treno? — domandò Tìchon Iljìc, — No,
ancora non è partito. Buon giorno, padre diacono.
— Oh! grazie a Dio! — con gioia e in fretta
CAMPAGNA 103
disse il diacono, e tuttavia, saltato giù dalla t e ljè g a,
a gambe levate si lanciò verso la porta.
Tìchon Iljìc crollò il capo. « Eh, fuor di tempo
è capitato questo zazzerone! C’è il caso che l’affare
non riesca! » Però posando la mano sulla maniglia
della porta, disse fermo e sicuro :
— Dunque siamo intesi. Dunque a carnevale.
Nella stazione si sentiva un odore di mezze pel
licce e di lap t i bagnati, di sam o v ar , di cattivo tabac
co, di petrolio. Il fumo era tanto che raspava la
gola, le lampade facevano appena luce tra il fumo,
nella penombra umida e fredda cigolavano e sbat
tevano le porte, si affollavano e vociavano dei con
tadini con la frusta in mano: vetturini di Uljànovka
che aspettavano un passeggero a volte per una setti
mana intera. Tra essi, con le sopracciglia rialzate, si
aggirava l’ebreo Gradus, un mercante di cereali, in
cappello sodo, pastrano col cappuccio e l’ombrello
sulla spalla. Presso la cassa i contadini strascinava
no sulla stadera le valige e le ceste, foderate d ’in
cerato, di qualche signore; contro i contadini urlava
il telegrafista che faceva le veci di sottocapostazio
ne - un giovanotto corto di gambe con una gran
testa e un ciuffo di capelli gialli ricciuti che, alla
rosacea, gli usciva di sotto al berretto sulla tempia
sinistra - e sul pavimento sporco tremava tutto un
p o in t e r chiazzato come una rana, con degli occhi an
gosciosamente umani.
Fattosi strada tra i contadini, Tìchon Iljìc si av
vicinò alla porta della prima classe, accanto alla qua
le era appesa sul muro una cornice di legno con
lettere, giornali e telegrammi che talvolta giacevano
104 CAMPAGNA
anche per un anno. Lettere per lui non ce n ’erano.
Vi erano soltanto tre numeri del “Messaggero di
Orlòv”. E Tìchon Iljìc stava già per andare al ban
co del ristoratore a chiacchierare un poco con la cre-
denziera. Ma accanto al banco, su uno sgabello, era
seduto un ubriaco con gli occhi celesti come vetri
ficati, la faccia lustra paonazza, in berretto grigio
rotondo con un bottone e caffettano, magazziniere
nella distilleria del principe Lobànov. Sollevando le
spalle, cercando di vincere l’ubriachezza, egli parla
va con voce forte e sorda ai contadini che gli si af
follavano intorno :
— Di tutto ho fatto. Ho fatto di tutto. Però n ’ho
veduto di mondo! Ho conosciuto della bra-a-va gen
te! Ho cantato al Piccolo Teatro di Mosca... Quan
do intonavo...
A questo punto si alzò barcollando e con gesto
convulso si batté col pugno sul petto.
— Quando intonavo — egli sbraitò con voce di
basso :
O c-cara! Tu mi senti-irai !...
Ma Tìchon Iljìc si voltò e si spinse in fretta ver
so l’uscita, verso la scalinata. Il magazziniere era una
sua conoscenza e, se gli fosse capitato sott’occhio,
per un giorno intero non se ne sarebbe spicciato...
E poi era uno sciocco, un bugiardo... Sulla scalina
ta stava ancora Deniska.
— Una cosa volevo chiedervi, Tìchon Iljìc —
disse più timido che mai.
— Che c’è ancora? — burbero domandò Tìchon
Iljìc. — Denari? Non te ne darò.
CAMPAGNA 105
— No, ma che denari! Di leggere la mia lettera.
— Una lettera? A chi?
— A voi. Ve la volevo dare poco fa, ma non ho
osato.
— Ma riguardo a che cosa?
— Così... la mia vita ho raccontato...
Tìchon Iljìc prese dalle mani di Deniska un pez
zetto di carta, se lo ficcò in tasca e a gran passi si
affrettò a casa, per il fango elastico e congelato.
Adesso era d ’umore virile. Aveva voglia di lavo
ro e con piacere pensò che c’era da fare: dar da
mangiare alle bestie. Ecco, peccato che mi son lascia
to trasportare, ho cacciato via Zmych, mi toccherà
non dormire la notte. Su Òska c’è da contar poco.
Ë capace che dorma di già. O se ne sta con la cuo
ca e ingiuria il padrone... E, passando davanti alle
finestre illuminate dell’isbà, Tìchon Iljìc entrò quat
to quatto nell’ingresso, inciampò al buio nella pa
glia fredda, odorosa e accostò l’orecchio all’uscio.
Di là dalla porta si udì una risata, poi la voce di
Òska :
— Eppoi c’è ancora una storia. Viveva nel vil
laggio un contadino, povero, strapovero; più pove
ro non c’era in tutto il paese. E andò una volta, ca
ri miei, questo contadino a lavorar la terra. E gli si
appiccicò un cane chiazzato. Il contadino arava e il
cane fiutava per il campo e raspava sempre in un
punto. Scava, scava, eppoi giù a abbaiare! che roba
è questa? Corse il contadino, guardò nella fossa, e
là c’era una marmitta di ferro...
— Una mar-mitta? — domandò la cuoca.
— Ma sta’ a sentire. Era una marmitta, sì, ma
106 CAMPAGNA
nella marmitta c’era dell’oro. Un subisso! Ebbene,
il contadino arricchì...
“Ah! che frottole!” pensò Tìchon Iljìc e avido si
mise ad ascoltare quel che ne sarebbe stato dopo del
contadino.
— Arricchì il contadino, si mise a vivere come
se fosse un mercante...
— Non peggio del nostro Gambesode — osser
vò la cuoca.
Tìchon Iljìc sorrise di nuovo: sapeva che già da
tanto tempo lo chiamavano Gambesode... Non v’era
persona senza soprannome!
E Òska continuò :
— Ancora più ricco... Già... Ma ecco che il cane
ti crepa. Come fare? Non ne poteva più dal dolore
per il cane, bisognava sotterrarlo con onore...
Risonò uno scoppio di risa. Si mise a ridere an
che il narratore, e ancora qualcun altro con una tos
se da vecchio.
— Ma che sia Zmych ? — trasalì Tìchon Iljìc.
— Be’, sia ringraziato Iddio. L’avevo pur detto a
quel grullo : rito-ornerai !
— Andò il contadino dal prete — continuò Òska
— andò dal prete: così e così, padre, m ’è crepato il
cane, bisogna sotterrarlo...
La cuoca di nuovo non seppe trattenersi e gioio
samente urlò:
— Non c’è sprofondo che ti pigli!
— Ma lasciami finire! — gridò anche Òska e di
nuovo ritornò al tono narrativo raffigurando ora il
prete, ora il contadino : « Così e così, padre, biso
gna sotterrare il cane ». Come si mise a pestare i
CAMPAGNA 107
piedi in terra il prete : « Come sotterrare ? Dove
sotterrare? Al camposanto? Ma ti farò marcire al
l’ergastolo, ma ti farò mettere in catene! ». « Padre,
ma questo non è un cane comune: quando è crepa
to, cinquecento rubli d’argento v’ha lasciato! » Co
me scattò su il prete: « Balordo! Ma che forse io ti
rimprovero perché vuoi sotterrarlo? Grido perché
penso: dove sotterrarlo? Lui nel recinto della chie
sa va sotterrato! ».
Tìchon Iljìc tossì forte e aprì la porta. Presso la
tavola, accanto a una lampadina che fumava, sul cui
vetro rotto era appiccicata da un lato della carta an
nerita, sedeva, con la testa abbassata e la faccia tut
ta ricoperta dai capelli fradici, la cuoca. Rideva for
te, si pettinava con un enorme pettine di legno e at
traverso i capelli guardava il pettine alia luce. Òska,
col sigaro tra i denti, rideva forte, riverso indietro
e facendo dondolare i làp t i. Accanto alla stufa, nel
la penombra, rosseggiava un lumicino : una pipa.
Quando Tìchon Iljìc spinse la porta e comparve sul
la soglia, il riso d ’un colpo cessò, e quello che fu
mava la pipa timidamente si alzò dal posto, se la
tolse di bocca e la mise in tasca... Sì, era il guar
diano! Ma come se al mattino non fosse successo
nulla, Tìchon Iljìc vivace e affabile gridò:
— Ragazzi, a dare il foraggio...
Con la lanterna vagavano per la stalla, illuminan
do il letame gelato, la paglia sparsa, la mangiatoia,
i pali, gettando ombre gigantesche, svegliando le
galline che erano sulle reti da pesca sotto la tettoia.
Le galline volavan giù, cadevano, inciampavano e,
108 CAMPAGNA
chine in avanti, assopendosi nella corsa, fuggivano
dove capitava. Gli occhi grandi, violacei dei cavalli,
che avevano volto la testa alla luce, luccicavano e
guardavano con un’espressione proprio umana. Il lo
ro respiro formava un vapore, come se tutti fumas
sero. E quando Tìchon Iljìc abbassava la lanterna e
guardava in alto, con gioia vedeva sopra al quadra
to del cortile nel terso cielo azzurro le stelle vivide,
multicolori. Si udiva su per i tetti il secco fruscio del
vento di settentrione e attraverso le fessure il soffio
di un’arietta gelata... Sia ringraziato Iddio: l’in
verno!
Sbrigate le faccende e ordinato il sam o v ar, Tìchon
Iljìc con la lanterna andò nella bottega fredda e pre
gna d’odori, scelse un’aringa marinata, la migliore:
— Non è male prima del tè mangiare qualcosa
di salato!
E col tè davanti, se la mangiò, bevve alcuni bic
chierini di liquore di sorbe dolce-amaro di un rosso
giallastro, versò una tazza di tè fino all’orlo e av
vicinò a sé una vecchia grossa tavoletta dei conti.
Ma ripensatoci, trovò la lettera di Deniska e si mise
a decifrare i suoi scarabocchi.
« Dèn ja 1 ricevette 40 rubli eppoi raccolse la su’
roba... »
“Quaranta!” pensò Tìchon Iljìc. “Ah, pezzente!”
« Andò Denja alla stazione di Tuia e per lap-
punto lo derubarono gli portaron via Tutto insino
a na copeca non sapeva indove ficcarsi e lo Prese
na pena al core... »
1. Diminutivo di D en is.
CAMPAGNA 109
Decifrare questa bugiarderia era difficile e noio
so, ma la serata era lunga, egli non aveva nulla da
fare... Il sam o v ar gorgogliava affaccendato, la lam
pada mandava una luce calma, ed era nel silenzio e
nella quiete della sera un senso di tristezza. Caden
zato batteva il picchiotto sotto alle finestre, compo
nendo sonoramente nell’aria gelata come un balla
bile...
« Eppoi mi venne na gran voglia d’andà a casa,
ma troppo gliera fiero mi padre »...
“Che imbecille, che Dio mi perdoni” pensò Tì-
chon Iljìc. “Sarebbe il Grigio che è fiero!”
« Me ne vo andà nel fitto dun bosco e cercarmi
l’abete più alto e pigliare da un pan di zucchero la
cordicella che ce legato e sistemarmici su per la vita
eterna colla giacca nova le brache nove ma senza-
stifali... »
— Senza stivali forse? — disse Tìchon Iljìc, sco
stando molto dagli occhi affaticati il foglio. — Ec
co quel che è giusto è giusto...
« Eppoi salza un vento forte de’ nuvoli turchini
e singrossa un nuvolone vien giù na bona pioggetta
grossa esce il sole insu dal bosco la cordicella si co
mincia a marcire a marcire e dun corpo si schianta
e Denja casca interra sarrampicano le formiche su
di lui cominciano a lavorare eppoi sarrampica un
porcospino e na biscia e un granchio verde... »
Gettata la lettera nella p o lo sk àt e ln it sa, Tìchon Iljìc
bevve una sorsata di tè, mise i gomiti sulla tavola,
guardando la lampada... I vetri si erano appannati,
in modo distinto, con vivacità invernale, diceva il
picchiotto qualcosa di buono... E come quelle sera
Ilo CAMPAGNA
te d ’inverno si rassomigliavano lun a all’altra! Eh,
se avesse avuto dei figli! Se avesse avuto magari
un’amante buona, invece di quella vecchia gonfia che
era venuta a noia coi suoi eterni discorsi sulla prin
cipessa e sulla pia monaca Policarpia che in città
chiamavano PolucarpiaL. Ma era tardi, tardi.
Sbottonatosi il colletto ricamato della camicia, Tì-
chon Iljìc con un sorriso amaro si tastò il collo, le
infossatine sul collo dietro gli orecchi... Primo se
gno di vecchiaia queste infossature, la testa comin
ciava a prendere un aspetto cavallino! E anche il re
sto non c’era male. Piegò il capo, affondò le dita nel
la barba... Anche la barba era grigia, arida, intrica
ta. No, basta, basta, Tìchon Iljìc!
Beveva, diveniva ebbro, sempre più strette serra
va le mascelle, sempre più fissamente, battendo le
ciglia, guardava ardere con luce uguale il lucignolo
della lampada... Ma pensate: dal fratello germano
non poteva andare: i maiali non ce lo lasciavano,
porci! E se anche ce Io avessero lasciato, c’era poco
da gioirne. Kuzmà gli avrebbe recitato un sermone,
sarebbe stata lì in piedi, con le labbra strette e le
palpebre abbassate, la Sposina... Già quei soli occhi
abbassati lo avrebbero fatto scappare!
Il cuore gli veniva meno, gli doleva; la testa dol
cemente gli si annebbiava... Dove aveva udito que
sto canto?
Giun t’è la sera uggiosa,
Non so che incominciar.
Giun t’è del cuor l amico.
Mi ha preso a carezzar...
CAMPAGNA 111
Ah, sì, era a Lebedjàgn, alla locanda! Se ne sta
vano sedute in una sera d’inverno le ragazze mer
lettaie a cantare... Stavano sedute a far la trina e,
senza alzare le ciglia, con voci sonore di petto mo
dulavano :
Mi bacia, poi m'abbraccia,
Addio egli mi dice...
La testa si annebbiava; ora gli sembrava che tutto
fosse ancora di là da venire - e gioia, e libertà, e
spensieratezza - ora morbosamente, disperatamente
cominciava a dolergli il cuore. Ora diceva:
— Se avessi dei soldi in tasca, potrei comprar
tutto!
Ora con rabbia guardava la lampada e borbot
tava, alludendo al fratello :
— Maestro! Predicatore! Filarete il Misericordio
so!... Diavolo pezzente!
Finì di bere il liquore di sorbe, fumò tanto da
oscurar l ’aria... A passi incerti, sull’assito traballan
te, uscì in sola giacchetta nell’ingresso buio, sentì il
fresco rigido dell’aria, odor di paglia, di cane, vide
due luci verdognole balenanti sulla soglia...
— Bujàn! — gridò.
E a tutta forza colpì Bujàn con lo stivale sulla
testa.
Poi stette ad ascoltare il picchiotto, accompagnan
dolo col batter del piede, bagnandosi sui gradini
della scalinata, e aggiungendo mentalmente :
Vien diritto verso me!
Guarda dritto verso me!
112 CAMPAGNA
E, avviandosi verso la strada carrozzabile, gridò:
— Soffia nella coda allo scoiattolo: diventerà più
grossa 1!
Un silenzio di morte era sopra la terra che mol
lemente nereggiava alla luce stellare. Brillavano i
disegni multicolori delle stelle. Debolmente bian
cheggiava la strada che andava a perdersi nell’oscu
rità. In lontananza, sordo come se venisse di sotto
terra, si sentiva un rumore sempre più crescente. E
d’un tratto esplose e si ripercosse tutto all’intorno:
risplendendo di un chiarore bianco con la catena
di finestrini illuminati a luce elettrica, sciogliendo,
come una strega volante, trecce di fumo rischiarate
da una luce rossa dal di sotto, fuggendo lontano,
tagliando la strada, passò l’espresso...
— Passa davanti a Durnòvka! — disse Tìchon
Iljìc tra i singulti. — Davanti al Grigio! Ah, bri
ganti, maledetti...
La cuoca assonnata entrò nella camera fescamen
te illuminata dalla lampada che finiva di ardere e
ammorbata dal tabacco, portò una piccola marmitta
unta, piena di minestra di cavoli, reggendola con
cenci neri di grasso e di fuliggine. Tìchon Iljìc det
te un’occhiata sbieca e disse:
— Vattene via all’istante.
La cuoca, senza posar la marmitta, girò indietro,
spinse l’uscio col piede e sparì.
Allora egli prese il calendario Gattsùk, intinse
1. Non si comprende bene che cosa voglia dire Tìchon Iljìc,
ma l’espressione ricorda la nostra : se vuoi prendere il merlo
(o altro uccello), mettigli un pizzico di sale sulla coda.
CAMPAGNA 113
una penna arrugginita in un inchiostro rugginoso e
si mise, serrando i denti e guardando assonnato con
occhi di piombo, a scrivere senza fine in lungo e in
largo sul calendario :
— Gattsùk Gattsùk Gattsùk Gattsùk...
6.
P a r t e Se c o n d a
Kuzmà quasi tutta la vita aveva sognato di scri
vere e di imparare.
Che erano i versi! A far versi si era divertito da
piccolo. Aveva voglia di raccontare come andava in
rovina, di dipingere con una spietata sincerità senza
precedenti la sua miseria e quella esistenza terribile,
nella sua usualità, che l’aveva reso un invalido, un
fico sterile.
Riflettendo sulla sua vita egli si condannava e si
giustificava.
Sicuro, lui povero borghesuccio di provincia, qua
si sino a quindici anni aveva letto sillabando. Ma
la sua storia era la storia di tutti gli autodidatti rus
si. Era nato in un paese che aveva più di cento mi
lioni di analfabeti. Era cresciuto a Cjòrnaja Slobòda
dove ancora si battevano a morte nei pugilati. Ave
va veduto nell’infanzia sporcizia e ubriachezza, pi
grizia e tedio. L’infanzia gli aveva dato una sola im
pressione poetica: vi era uno scuro bosco adiacente
al cimitero, e un vastissimo pascolo sul poggio di
là da Slobòda, e più oltre un’ampia distesa, l’aria
calda tremante della steppa e una remota capanna
bianca sotto a un pioppo. Ma persino contro quella
capanna gli avevano inculcato avversione: ci abita-
118 CAMPAGNA
vano dei ch o ch lj, ed essi erano così stupidi che alla
domanda : « C h o cb lj, dove sono le vostre marmit
te ? » rispondevano : « Che dobbiam dirlo a voi che
stanno sotto ai carri? ». A scriver le lettere dell’al
fabeto e le cifre a lui e a Tìchon aveva insegnato il
vicino, il fabbricante di calosce Bjèlkin; e soltanto
perché non aveva mai lavoro, perché tirare qualcu
no pei ciuffi è sempre piacevole, e perché non era
possibile sedere eternamente sul rinterro intorno ai-
fi isbà discinto, con la testa arruffata curva al sole,
sputando nella polvere tra i piedi scalzi e violacei.
Nella botteguccia di Matòrin i fratelli impararono
presto a leggere e scrivere, cominciò Kuzmà a pren
der gusto anche ai libri che gli regalava uno del
mercato, libero pensatore e tipo bizzarro, il vecchio
organettista Balaškin. Ma si poteva mai pensare a
leggere in bottega? Matòrin molto spesso gridava:
« Ti tirerò le orecchie per il tuo Guak ’, diavoletto
che non sei altro! ».
Questa era una storia vecchia, ma anche i costumi
del mercato Kuzmà voleva ricordare. Al mercato
aveva assimilato molte cose vergognose. Là lui e il
fratello avevano imparato a canzonare la miseria
della madre, perché essa, abbandonata dai figli fatti
grandi, si era messa a bere. Là una volta fecero que
sto scherzo: davanti alla porta posteriore della bot
tega passava ogni giorno per la strada, tornando dal
la biblioteca, il figlio di un sarto di Vitebsk, un
ebreo sui diciassette anni, con una faccia di un pai- 1
1. Probabilmente un libre di avventure.
CAMPAGNA 119
lore livido, terribilmente magro, orecchiuto, con gli
occhiali, e per via leggeva attentamente, ed essi get
tarono sul marciapiede dei rottami, e l’ebreo —« quel
lo studioso! » - fece un volo così ben riuscito che si
contuse a sangue ginocchia, gomiti, denti... Là Kuzmà
s’era messo anche a scrivere, aveva cominciato col
racconto di un mercante : come era andato durante
un terribile temporale, di notte, per le foreste di
Mùrom, come era capitato dai briganti ed era stato
sgozzato. Kuzmà aveva con passione descritto le sue
preghiere prima di morire, i suoi pensieri, il suo do
lore per la sua empia e « sì presto troncata vita... ».
Ma il mercato senza pietà lo aveva inondato di ac
qua fredda.
— Ma sei un bell’originale, che Dio ci perdoni!
— gli disse con allegra impertinenza per bocca di
Tìchon. — « Presto! » Da tanto era ora che morisse
quel diavolo panciuto! E come hai fatto a sapere
quel che pensava lui? O non l’avevano ammazzato?
Allora Kuzmà scrisse alla maniera di Koltsòv 1 il
canto di un paladino decrepito che aveva lasciato
per testamento al figlio un cavallo fedele. « Mi ha
portato in gioventù! » esclamava nel canto il pala
dino. Ma Tìchon anche qui crollò soltanto il capo.
— Va bene! — disse — ma quanti anni aveva
cotesto cavallo? Ah, Kuzmà, Kuzmà! Faresti meglio
a comporre qualcosa di positivo, via, magari sulla
guerra, per esempio...
E Kuzmà strappò a pezzi il suo canto. E, adattan
dosi al gusto del mercato, cominciò a scrivere con1
1. Noto poeta russo venuto dal popolo.
120 CAMPAGNA
foga su ciò di cui allora il mercato discuteva, sulla
guerra russo-turca : come
L’anno sette più settanta
Volle il turco guerreggiar,
Spinse avanti le sue orde
Per la Russia conquistar.
e come queste orde si nascondevano
In orrendi berrettoni
Sotto al gran cannone zar 1...
Con dolore ebbe poi a riconoscere quanta stol
tezza, quanta ignoranza fosse in tali versi, che cosa
valesse quella lingua servile, quel disprezzo russo per
i berretti stranieri. Con dolore ricordava molte altre
cose ancora... per esempio, Zadònsk 2. Una volta lo
aveva preso una sete ardente di pentimento, il ter
rore che la madre, morta quasi di fame, con ama
rezza raccontasse nel cielo la sua triste vita, e a pie
di andò da un uomo di Dio; e poi non fece altro
che leggere con gioia maligna agli ammiratori un
« foglio » che lo aveva particolarmente colpito : co
me a un certo scritturale di campagna era venuto
in testa di non riconoscere le autorità e la chiesa,
ma Dio si era talmente incollerito che « quell’aristo
cratico si era messo a letto per non alzarsi più » e
la sua malattia era questa : « pacchiava più di un
porco e gridava che era sempre poco, e si era risec
chito fino ad essere irriconoscibile »... E tutta la gio
ventù di Kuzmà era passata in tali storie! Si pen
1. Gigantesco cannone esposto in un cortile del Cremlino.
2. Città sul Don , in provincia di Vorònjez.
CAMPAGNA 121
sava, si professava una cosa, ma se ne diceva, se ne
faceva un’altra. Quando sognava di scrivere, tirando
le somme della propria vita, Kuzmà, preso da ango
scia, tentennava il capo: «U n tratto proprio russo!
Han seminato il pisello a metà col cardo ».
Gli sembrava di essere stato in gioventù allegro,
buono, tenero, comprensivo, avido di sapere. Ma era
proprio così? Certo lui non era Tìchon... Ma perché
mai anche lui, come Tìchon, così presto aveva fatta
sua la rozzezza di quelli che lo circondavano? Per
ché lui, buono e delicato, così spietatamente aveva
dimenticato la madre? Perché il mercato aveva an
cora per tanto tempo dominato il suo cuore che con
tanto entusiasmo aveva studiato sui libri?
Quasi tutto il suo guadagno lo raccoglieva nel sal
vadanaio comune Tìchon : essi avevano deciso di
metter su una loro propria azienda. Kuzmà dava i
denari con una fiducia buona, cordiale, una fiducia
che Tìchon non aveva mai avuta. Ma la madre, la
madre! Egli gemeva ricordando come essa, mendi
ca, lo aveva benedetto, gli aveva regalato l’unico suo
tesoro, ricordo di giorni migliori, custodito in fon
do al baule : una piccola immagine d ’argento. E il
fatto che egli gemeva era anche un buon segno, ma
i denari tuttavia erano pure andati a Tìchon...
Lasciata la bottega e venduto ciò che era rimasto
dopo la morte della madre, avevano cominciato a
trafficare con quei denari, erano andati dai ch och ly
a Vorònjez. Di andare nella città natia gli capitava
spesso e con Balàskin Kuzmà era come prima in
rapporti amichevoli; i libri che Balàskin gli dava o
indicava li leggeva avidamente, e non come Tìchon.
122 CAMPAGNA
Anche Tìchon, quando non aveva nulla da fare, ama
va leggere; poteva stare anche un anno senza pren
dere un libro in mano, ma se lo prendeva, lo legge
va presto sino all’ultima riga; però, dopo averlo
letto, troncava d ’un colpo ogni legame col libro; les
se una volta in una notte un volume intero del “Con
temporaneo” 1, non capì molto, ciò che aveva capi
to definì interessantissimo, - e poi si dimenticò per
sempre del “Contemporaneo” . Anche Kuzmà non ce
ne capiva molto, nemmeno in Bjelìnskij 2, Gògol,
Pùskin. Ma la sua capacità di comprendere cresce
va non di giorno in giorno, ma di ora in ora, egli
sapeva afferrare la sostanza delle cose e fissarsela in
cuore a meraviglia... Ma perché, pur afferrando le
parole di Dobroljùbov 3, al mercato diceva parolac
ce e pronunziava « ch v ak t » invece di « f ak t »4?
Perché, discutendo con Balàskin su Schiller, si strug
geva di chiedere in prestito una « lìv je n k a »56
? En
tusiasmandosi di “Fumo” 0 egli tuttavia asseriva che
« chi è intelligente, ma non istruito, ha pur senza
studio molta luce ». Dopo essere stato sulla tomba di
Koltsòv, con ammirazione tracciò un’iscrizione da
analfabeta sulla lastra: « Sotto questo monimento è
soterrato il corpo del m je se jan ìn alesèj vasìljevic
Kaltsòv, compositore e poeta di Voronjež ricompen
sato dalla grazia riale illuminato senzastudi dalla
natura... ».
1. Rivista letteraria diretta un tempo dal poeta Njekràsov.
2. Il grande critico russo (1810-1848).
3. Altro famoso critico (1836-1860).
4. Fatto.
5. Parola alterata in luogo di grìvjenk a, cioè dieci copechi.
6. Il romanzo di Turghènjev.
CAMPAGNA 123
Lo ricondusse alla ragione — e lasciò una solida
impronta nel suo animo - Balàskin.
Vecchio, enorme, magro, vestito d’inverno come
d’estate col caffettano divenuto verde e il berretto
spesso, grosso di faccia, sbarbato e con la bocca stor
ta, Balàskin a volte era quasi spaventoso coi suoi di
scorsi maligni, con la sua voce di basso profondo
da vecchio, con le setole argentate, pungenti sulle
gote grige e sul labbro e con l’occhio sinistro verde,
sporgente, scintillante e storto dalla parte dove si
storceva anche la bocca. E come aveva strepitato una
volta dopo aver ascoltato un discorso di Kuzmà « sul
l ’istruzione senza studi », che lampi aveva mandati
da quell’occhio, gettando via una sigaretta che era
andata a spargere il tabacco sopra una scatola di
sardine!
— Mascella d ’asino! Che rumini? Hai pensato
bene che vuol dire questa nostra « istruzione senza
studi »? La morte della Žadovskaja: ecco il suo sim
bolo diabolico.
— E che c’entra la morte della Zadovskàja? —
domandò Kuzmà.
E Balàskin urlò furioso:
— Te lo sei dimenticato? Poetessa, riccona, si
gnora, e si è affogata nella latrina! Te lo sei dimen
ticato ?
E di nuovo prese la sigaretta e si mise a urlare
con voce sorda:
— Dio misericordioso! Pùskin l’hanno ucciso.
Ljèrmontov l’hanno ucciso, Pisarev l’hanno affoga
to... Ryljèjev l’hanno impiccato, Poljeààjev l’han
mandato a fare il soldato, Scevcènko l’hanno schiaf-
124 CAMPAGNA
fato in prigione per dieci anni... Dostojèvskij è sta
to trascinato alla fucilazione, Gògol ha perso il cer
vello... E Koltsòv, Nikitin, Rjesòtnikov, Pomjalòv-
skij, Ljevìtov? Oh, ma che c’è forse ancora un pae
se simile al mondo, un popolo simile, che sia tre
volte maledetto?
Stiracchiando inquieto i bottoni del soprabito lun
go sino a terra, ora abbottonandosi, ora sbottonan
dosi, aggrottando le ciglia e sorridendo, Kuzmà dis
se in risposta:
— Un popolo simile! Un popolo grandissimo e
non « simile », lasciate che ve lo dica.
— Non ti permettere di distribuire attestati! —
gridò di nuovo Balàskin.
— No, me lo permetto! Questi scrittori son pur
figli di questo popolo.
— Sì, anatema che non sei altro, George Sand
non era da meno della tua Zadovskàja, eppure non
si è affogata!
— Platòn Kar atàjev1: ecco il tipo riconosciuto
di questo popolo!
— E perché non quel mascalzone di tuo fratello,
perché non Tìska Kràsov?
— Platòn Karatàjev...
— I pidocchi si son mangiati il tuo Karatàjev!
Non vedo qui un ideale!
— E i martiri russi, gli eroi, gli uomini di Dio,
gli scemi cari a Cristo, i dissidenti?
— Che-e? E il Colosseo, le crociate, le guerre di
religione, le innumerevoli sette? E Lutero in fin dei
1. Personaggio di Guerra e Pace divenuto ormai una figura
rappresentativa del contadino russo nelle sue qualità migliori.
CAMPAGNA 125
conti? No, scherzi! A me d’un colpo non me lo
rompi il grugno!
— E allora che fare secondo voi? — gridò an
che Kuzmà. — Fasciarci gli occhi e fuggire in capo
al mondo?
Ma qui Balàskin aU’improvviso si placò. Chiuse
gli occhi e la sua faccia grigia, enorme prese un’e
spressione di profonda, penosa vecchiaia... Ficcò la
mano in seno, ne cavò un pesante cronometro d’ar
gento, legato al collo con una lunga catena, pure d ’ar
gento, per lungo tempo stette a pensare con la te
sta china, e infine borbottò:
— Che fare? Non lo so... Una cosa sola io so:
siam rovinati noi. L’ultima rivista, “Gli Annali del
la Patria”, anche quella l ’hanno ammazzata! Ma tu,
imbecille, di una sola cosa hai bisogno : di stu
diare...
Già, aveva bisogno di una sola cosa: di studiare.
Ma quando, dove?
Cinque anni interi di traffico, e nel periodo mi
gliore della vita! Gran fortuna sembrava persino l’an
dare in città. Riposo, conoscenti, odore di forni e
di tetti di ferro, il selciato della via Torgòvaja, tè,
panini e marcia persiana alla trattoria “Kars” . I pa
vimenti nelle botteghe innaffiati con gli sgoccioli del
le teiere, il freschetto vespertino, i trilli della famo
sa quaglia alla porta di Rudakòv, l’odore del mer
cato di pesce, di finocchio, di tabacco forte... Il sor
riso buono e terribile di Balàskin quando vedeva av
vicinarsi Kuzmà.... Poi tuoni e maledizioni contro
gli slavofili, Bjelìnskij e invettive oscene, incoeren
te e appassionato scambio di nomi, di citazioni... E
126 CAMPAGNA
alla fin fine le più disperate conclusioni : « Adesso
poi davvero si va a rotoli, a tutto fiato si corre in
dietro, verso l’Asia! » tuonava il vecchio, e d ’un trat
to, abbassando la voce, si guardava attorno : « Hai
sentito? Dicono che Saltykòv 1 sta morendo. L’ulti
mo! L’hanno avvelenato, dicono... ». E al mattino,
di nuovo la t e ljè ga, la steppa, la canicola o il fan
go, la lettura tormentosa in uno stato di tensione
tra gli scossoni delle ruote che correvano... Lunga
contemplazione della steppa lontana, una modulazio
ne dolcemente nostalgica di versi entro di sé, inter
rotta dal pensiero dell’incasso fatto o dello scambio
di offese con Tìchon... Sconcertante odore della stra
da: di polvere e pece... Odore di biscotti alla menta
e puzzo asfissiante di pelli di gatto, di vello sporco,
’d i stivali unti con grasso di balena... In verità erano
stati estenuanti quegli anni: stanchezza, camicie non
mutate per due settimane, cibo asciutto, piedi zoppi
canti per via dei calcagni scorticati a sangue, notti
passate in famiglie estranee, in isbe estranee e negli
ingressi!
Kuzmà si fece un largo segno di croce, quando
alfine si svincolò da quella schiavitù. Ma già era vi
cino alla trentina, era divenuto tutto grigio, s’era
fatto più sobrio, più serio, aveva smesso di far versi,
aveva smesso di leggere; si era abituato alle tratto
rie e alle bevute. Fu per un po’ di tempo impiegato
da un mercante di bestiame presso a Jelèts, andava
per affari di quello a Mosca, poi si licenziò. A Vo-
rònjez da molto tempo aveva cominciato una rela
1. Lo scrittore satirico Saltykòv-Scedrìn (1826-1888).
CAMPAGNA 127
zione amorosa, un legame con la moglie di un altro,
e là si sentiva attratto: anche in amore era destina
to a essere un parassita, benché al suo paese si fosse
diffusa la voce del suo matrimonio! E per quasi die
ci anni si piantò a Vorònjez — accanto al silo — fa
cendo il sensale e scrivendo sui giornali degli arti-
coletti riguardo alla questione del grano, consolan
dosi o, più giustamente, avvelenandosi il cuore con
articoli di Tolstoj e satire di Scedrìn 1. E si tormen
tava sempre con l’idea fissa che la sua vita andava
in rovina, che si era rovinata.
— Ecco — diceva, ricordando quegli anni — ec
co che vuol dire l’istruzione senza studi! Ma non ba
sta : a Glùpov 2 sei nato e a Glùpov, sotto il potere
di Djerzì-mòrda 3, creperai!
Al principio del novanta morì per un’ernia Ba-
làskin, e poco prima Kuzmà lo aveva veduto per
l’ultima volta. E che incontro era stato quello!
-— Scrivere bisogna — arcigno e rabbioso si la
mentava l’uno. — S’intristisce come la bardana nel
campo...
— Sì, sì — brontolava l’altro, guardando ormai
assonnato di sbieco col suo occhio smorto, muoven
do a fatica la mascella e non riuscendo a mettere
il tabacco nel rotoletto di foglio. — È detto: ogni
ora impara, ogni ora pensa... guarda attorno tutti i
guai e le miserie nostre...
1. Cfr. nota alla pagin a precedente.
2. Città immaginaria descritta da Saltykòv nella sua Storia
di una città.
3. Nome di un personaggio della commedia L’Ispettore di
Gògol, divenuto sinonimo spregiativo di poliziotto, gendarme.
128 CAMPAGNA
Poi timido sorrise, mise in disparte la sigaretta e
ficcò la mano in seno.
— Ecco — borbottò, rovistando in un pacco di
carte sgualcite e di ritagli di giornali. —- Ecco qui,
amico, vi è un mucchio di bene... Grande, che sia
maledetta, è stata la fame. E io ho sempre letto e
preso note... Se morirò, servirà a te, è un materiale
diabolico. Sempre scorbuto e tifo, tifo e scorbuto.
In un comune tutti i bimbi son morti, in un altro
han mangiato tutti i cani... Dio è testimone che non
dico bugie! Ma aspetta, te lo troverò subito...
Ma rovistò, rovistò senza trovare, si mise a cer
care gli occhiali, a frugare inquieto per le tasche, a
guardare sotto il banco, si estenuò e scosse la mano.
E, dopo averla scossa, corrugò la fronte e crollò il
capo :
— Ma no, no, tu per ora guardati dal toccar que
sto! Sei ancora un ignorante, di cervello debole. Fa’
gli affari tuoi. Su quel tema che ti detti riguardo a
Suchonòsov, hai scritto? Ancora no? Ebbene, sei
una bella mascella d ’asino. Che tema era quello!
— Sulla campagna bisognerebbe scrivere, sul po
polo — disse Kuzmà. — Ecco, voi stesso dite : Rus
sia, Russia...
— E Suchonòsyj non è popolo, non è Russia? Ma
essa è tutta un villaggio, scolpiscitelo bene sul naso!
Guardati attorno: è città questa, secondo te? Ogni
sera il gregge si trascina per le strade, dalla polvere
non si vede il vicino... E tu : « città »! O ciocco stu
pido, anche a spezzarti un bastone sulla testa, non
arriverai a scriver mai nulla...
E chiaramente, fermamente comprese Kuzmà che
CAMPAGNA 129
una santa verità aveva detta Balàskin : lui non avreb
be scritto. Ecco Suchonòsyj... Per molti anni non
potè uscirgli di testa quell’abominevole vecchio di
Slobòda, di cui tutta la proprietà consisteva in un
materasso insozzato dalle cimici e in una cappa rosa
dalle tignole, ereditati dopo la morte della moglie.
Egli andava accattando, si ammalava, soffriva la fa
me, trovava ricovero per cinquanta copechi al mese
in un cantuccio presso una rivenditrice del « merca
to dei commestibili » e, secondo il parere di lei, po
teva benissimo aggiustare i suoi affari con la ven
dita dell’eredità. Ma egli l’aveva cara come la pu
pilla degli occhi e, s’intende, niente affatto per te
nerezza verso la defunta : essa gli dava la consape
volezza di avere una incomparabile proprietà. Gli
sembrava che costasse diabolicamente cara : « Al gior
no d ’oggi di tali cappe non se ne trovan più! ». Non
era contrario, non era affatto contrario a venderla,
ma chiedeva un prezzo così assurdo che faceva ri
maner di stucco i compratori. E Kuzmà capiva be
nissimo quella tragedia di Slobòda. Ma quando co
minciava a riflettere al modo di esporla, egli comin
ciava a rivivere tutta l’esistenza complicata di Slo
bòda, i ricordi dell’infanzia, della gioventù e si con
fondeva, affogava Suchonòsov nella grande abbon
danza dei quadri che gli assediavano l ’immaginazio
ne, si lasciava cader le braccia, schiacciato dal biso
gno di rivelare la sua propria anima, di esporre tut
to ciò che aveva mutilato la sua propria vita. E in
questa vita la cosa più terribile era che essa era
semplice, comune e con una rapidità incomprensi
bile si sperdeva in minuzie... E poi non sapeva seri
130 CAMPAGNA
vere: e nemmeno sapeva pensare giustamente e a
lungo; si tormentava come un cucciolo sulla paglia
che avesse preso la penna... La profezia fatta da Ba-
làskin prima di morire lo fece tornare in sé: qui
non era il caso di scrivere racconti! E per la prima
volta gli balenò l’idea di scrivere “Il totale”, un epi
taffio severo ed aspro per sé...
Da allora però erano passati ancora dodici anni
infruttuosi. Aveva fatto il sensale a Voronjež, poi,
quando morì di febbre puerperale la donna con cui
aveva vissuto, fece il sensale a Jelèts, commerciò in
una bottega di candele a Lipetsk, fu commesso nel
l’azienda di Kasàtkin. E la sua vita scorreva ugua
le, nel lavoro, nelle preoccupazioni di tutti i gior
ni, fino a che al bevicchiare non succedettero quasi
all’improvviso degli accessi di ubriachezza. Sembra
va fosse divenuto un appassionato seguace di Tol
stoj : da un anno non fumava, non assaggiava ac
quavite, non mangiava carne, non si staccava dalle
“Confessioni” e dal Vangelo, aveva già quasi de
ciso di lasciare l’impiego e stabilirsi nel Caucaso
presso i d u c h o b ò ry 1... Ma ecco che fu incaricato
di andare a Kiev per affari. E, dopo esser partito,
provò quasi una gioia morbosa, come se inaspetta
tamente dopo una lunga schiavitù gli avessero da
to piena libertà. Era un limpido scorcio di settem
bre, e tutto sembrava leggero, bello: e l’aria pura
e il sole non caldo, e il correr del treno, e i fine
strini aperti e le foreste in fiore che balenavano da
vanti ad essi... Nel treno risuonava la parlata ucrai
1. Setta di dissidenti che respingono tutti i dogmi e i pre
cetti della Chiesa, ammettendo soltanto la preghiera mentale
CAMPAGNA 131
na, e gli ricordava la giovinezza... A un tratto, alla
fermata di Njèzin, vide Kuzmà una gran folla al
la porta della stazione. La folla circondava qualcu
no e urlava, si agitava, disputava. Kuzmà si sentì
battere il cuore e corse ad essa. In fretta si spinse
avanti e vide il berretto rosso del capostazione, il
berretto bianco del cuoco, che sembrava un gh èt-
m an e il cappotto grigio di un altro gendarme che
redarguiva tre ch och ly che stavano davanti a lui sot
tomessi, ma ostinati, in caffettano corto di panno
grosso, stivali solidi enormi e berretti color cannel
la di pelle di montone. Questi berretti si reggevano
appena su qualcosa di spaventoso: sulle teste ton
de fasciate di garza indurita dal marciume dissec
cato, sopra agli occhi gonfi, sopra alle facce enfie,
vetrificate, ricoperte da ecchimosi verdi-gialle e da
ferite coagulate e annerite : i ch och ly erano stati
morsicati da un lupo arrabbiato e mandati a Kiev
all’ospedale, e quasi ad ogni stazione grande sta
vano per giornate intere senza pane e senza un co
peco. E, venuto a sapere che adesso non li lascia
vano partire perché il treno si chiamava diretto,
Kuzmà d ’un tratto si era inferocito e, accompagnato
dalle grida di approvazione di alcuni ebrei tra la
folla, si era messo a pestare i piedi contro il gen
darme. Fu trattenuto, venne steso il verbale e, in
attesa del treno successivo, per la prima volta in vi
ta sua bevve Kuzmà fino a perder conoscenza.
I ch och ly erano della provincia di Cernìgov. Egli
se l’era sempre raffigurata come una regione di fo- 1
1. Capo dei cosacchi all’epoca della loro indipendenza.
132 CAMPAGNA
reste selvagge, con un fosco, nebuloso cielo bluastro
sopra di esse. Ai tempi di Vladimir, all’antica roz
za vita dei m u z ik ì in mezzo ai boschi di pini, lo
fecero pensare quegli esseri che avevano esperimen-
tato la lotta a corpo a corpo con una fiera arrabbia
ta. E mentre beveva, versando i bicchierini con ma
ni tremanti dopo lo scandalo, Kuzmà si entusiasma
va: «A h , che tempi eran qu elli!». Soffocava dal
la collera e contro il gendarme e contro quei bruti
sottomessi in caffettano. Ottusi, selvaggi, che siano
maledetti... Ma la Russia, la vecchia Russia! E la
crime di gioia ubriaca e di forza, che alteravano
ogni aspetto della realtà sino a fargli acquistare del
le dimensioni anormali, velavano gli occhi di Kuz
mà. « E la non resistenza? » ricordava ogni tanto
e crollava il capo sorridendo. Con la schiena volta
verso di lui, alla tavola comune, pranzava un gio
vane ufficiale tutto lindo; e Kuzmà con aria affabile
e impertinente di sbieco guardava la sua tunica bian
ca, così corta, con la vita così alta che gli veniva
voglia di avvicinarsi e di tirargliela giù. “E se mi
avvicinassi!” pensava Kuzmà. “Quello scatterebbe
su, urlerebbe, e giù un pugno nel muso! Eccoti la
non resistenza”... Poi si recò a Kiev e, lasciati an
dare gli affari, per tre giorni, ebbro e gioiosamen
te eccitato, girò per la città, per le alture a picco sul
Dnjeper. E nella cattedrale di S. Sofia, durante la
messa, molti osservavano con meraviglia quel k at-
sàp 1 magro e largo, quel borghese della Russia del
nord che stava davanti al sarcofago di Izjaslàv. Era1
1. Soprannome dai Piccoli Russi dato ai Grandi Russi.
CAMPAGNA 133
vestito decentemente, aveva in mano un berretto nuo
vo, teneva un contegno educato, ma aveva un aspet
to strano: la messa era terminata, la gente usciva e
apriva le porte, i guardiani spegnevano le candele,
dalle finestre di sopra cadevano in un polvischio az
zurro le strie dorate del caldo sole di mezzogiorno,
e lui con le labbra strette, la barba rada, brizzolata
china sul petto, chiusi gli occhi profondamente in
fossati con un’espressione di sofferenza felice, ascol
tava il suono delle campane che, melodioso e sordo,
si ripercuoteva sopra la cattedrale: antico suono che
un tempo accompagnava le crociate contro i pece-
n jè g h i 1... Prima di sera poi videro Kuzmà al mo
nastero. Sedeva di fronte al cancello sotto un’aca
cia mezza appassita, presso un ragazzetto storpio,
fumava e, socchiudendo gli occhi con aria pensosa
e furba, guardava i muri e i recinti bianchi, le pic
cole cupole dorate nel cielo terso di autunno. Il ra
gazzetto era senza cappello, con una borsa di gros
sa tela a tracolla, con luridi cenci sul corpo scar
no; in una mano teneva una ciotola di legno con
un copeco nel fondo, con l’altra poi cambiava sem
pre di posto, come se non fosse sua, come se fosse
un oggetto, la sua gamba destra deforme, denuda
ta sino al ginocchio, senza forza, di anormale sotti
gliezza, abbronzata, fino a esser nera, dal sole e co
perta di peluria dorata. Non vi era nessuno all’in
torno, ma, con aria assonnata e malaticcia tenendo
riverso indietro il capo tosato, ruvido dal sole e dal
la polvere, facendo sporgere le clavicole sottili da
1. Antica popolazione di razza turca stabilita nel sec. IX sulla
costa del Mar Nero.
134 CAMPAGNA
bimbo e senza badare alle mosche che gli succhia
vano il moccio, il ragazzetto senza posa cantilena
va:
Guardate, o mamme,
quanto siamo infelici, sofferenti !
Ah, che Dio ci liberi, o mamme,
Da tante sofferenze!
E Kuzmà gli faceva eco: «Così, così! Canta, di
sgraziato, canta. È giusto! ». E nel suo cervello ubria
co durava ostinato uno scaltro e arguto pensiero:
che ancora una volta gli era bravamente riuscito di
tirare le somme: le somme di dodici interi anni
che con tanta rapidità lo avevano insensibilmente
condotto verso non so quale impensato precipizio...
Vinta la lunga ubriachezza, divenuto posato, si
sentì già vecchio. Era sempre chiuso in sé: difficile
perciò accorgersi del rivolgimento operatosi nell’a
nima sua. Ma il rivolgimento s’era compiuto. Dal
viaggio a Kiev erano passati tre anni. E in questo
tempo indubbiamente era avvenuto in lui qualcosa
di molto importante. Come fosse avvenuto, nem
meno lui aveva tentato di definirlo. Troppo insolita
era stata la vita in quegli anni, e la sua propria e
quella sociale. Certo, ancora a Kiev aveva capito
che da Kasàtkin non sarebbe rimasto molto e che
avanti a lui era la miseria e la perdita di ogni sem
bianza umana. E così accadde. Durò ancora per due
stagioni, ma in una posizione molto umiliante e du
ra: sempre mezzo ubriaco, trascurato, rauco, impre
gnato di tabacco, facendosi forza per nascondere la
sua inabilità nell’impiego... Poi cadde ancora più in
CAMPAGNA 135
basso: ritornò nella città natale, consumò gli ulti
mi quattrini; pernottò tutto l’inverno in una stanza
comune nella locanda di Chòdov; di giorno ammaz
zava il tempo nella trattoria di Avdjèic al Mercato
delle donne. Di quei quattrini molti se ne erano
andati nell’autunno del ’905 in un’impresa stupida:
nella pubblicazione di un volumetto di versi, e d’in
verno gli convenne poi bighellonare tra gli avven
tori di Avdjèic e affibbiar loro il libro a metà prez
zo... E non basta: per poco non diventò un buffone!
Una volta, in un gelido mattino di sole, si trova
va al mercato accanto alle botteghe di farina e guar
dava un pezzente che faceva delle smorfie dinanzi
al mercante Mozžuchin, uscito sulla soglia. Mozzù-
chin, enorme, con un’aria sonnacchiosamente bef
farda, con una faccia simile a quelle che si rifletto
no nei sam o v ar , più che di lui si interessava del
gatto che gli leccava lo stivale lucidato. Ma il pez
zente non la smetteva. Si dette col pugno un colpo
sul petto e, sollevando le spalle, con voce rauca co
minciò a declamare:
Chi agisce da ubriaco,
quello agisce con senno...
E Kuzmà, con gli occhi gonfi, luccicanti, d ’un
tratto fece eco:
Evviva Eallegria
Evviva il vino!
E una vecchietta, una m je sc jàn k a1 che passava
di lì, con una faccia da vecchia leonessa, si fermò,
1. Femminile di mjescjatiìn. Cfr. nota a pag. 5.
136 CAMPAGNA
lo guardò con la coda dell’occhio e, sollevata la
gruccia, staccando le parole, malignamente disse:
— Certo, la preghiera non l’hai imparata così
bene!
E, Dio mio, con quali occhi guardarono Kuzmà
dalla testa ai piedi anche tutti gli altri che erano lì
intorno!
Cadere più in basso era divenuto impossibile. Ma
fu appunto questo che lo salvò. In marzo ebbe al
cuni terribili accessi cardiaci, e d’un colpo cessò di
ubriacarsi. E pure d’un colpo gli tornò la freschezza
di mente, insieme con la ferma decisione di comin
ciare la più semplice vita di lavoro, di prendere,
per esempio, in affitto giardini, orti, di comprare
in qualche luogo del distretto natale un alveare, giac
ché gli erano ancora rimasti un centocinquanta ru
bli...
Quest’idea da principio lo rallegrò. “Sicuro, que
sto va benissimo” pensava con quel sorriso doloro
samente ironico che da così poco tempo aveva messo
su, “è ora di andare a casa!” E in verità il riposo
era necessario e si aveva desiderio di una nuova vi
ta. Da così poco tempo ancora era cominciato quel
colossale sommovimento in lui e intorno a lui! Ma
esso aveva già compiuto l’opera sua, il suo principio
non era più nella nebbia. Forse perché era passato
dinanzi a lui in una specie di ebbro dormiveglia?
Sì, ma c’erano anche altre ragioni: tutto ciò che si
era compiuto negli ultimi anni era stato presentito
e vissuto nell’intimo molto tempo prima. Altrimen
ti come spiegare che egli non fosse punto stupito,
per esempio, di veder cominciare la guerra e le ri-
CAMPAGNA 137
volte? Perché aveva accolto come naturale anche tut
to quello che seguì: e quelle migliaia di notizie dei
giornali su inauditi e sbalorditivi eventi, e il fatto
che lui, tolstojano, era diventato a un tratto un fu
rioso difensore dei più atroci assassini? Sempre mez
zo ubriaco, tremante, con la mente e gli occhi tor
bidi, egli tuttavia ogni mattina si gettava avidamen
te sul giornale o sulle notizie sanguinose recate dal
le persone che lo circondavano. Adesso non c’era
sforzo di memoria capace di cogliere il momento
nel quale era cominciata quella vita tutta tesa, nu
trita di politica e di essa soltanto. Quell’avidità, si
intende, non era propria di lui solo e cresceva così
naturalmente come al sole il mercurio sale in alto.
Il sole si avvicinò al tramonto e anche il mercurio
cominciò a scendere; non essendosi stupito del prin
cipio, Kuzmà non si stupì nemmeno della fine : oi-
bò, così doveva essere nella santa Russia, ognuno
ha quel che si merita. Ma Kuzmà, lui, non tornò più
quel ch’era stato prima. Del tutto ingrigiata era la
sua barbetta, si erano diradati e avevan preso un
color ferro i suoi capelli pettinati con la riga nel
mezzo, che si arricciavano in punta, più scura e an
cor più magra era divenuta la faccia dai larghi zi
gomi. Più acuta si era fatta la vista, la facoltà d ’os
servazione, la scettica intelligenza. L’anima si era
affinata, era divenuta morbosamente sensibile, ben
ché egli lo sapesse nascondere dietro lo sguardo in
genuo, serio e talvolta persin fermo dei suoi piccoli
occhi sotto alle sopracciglia lievemente oblique. Si
era tutto raccolto, aveva cominciato a pensar meno
a se stesso, più a ciò che l’attorniava... Ma tuttavia
138 CAMPAGNA
aveva voglia di andare « a casa », di riposarsi; ave
va voglia di un lavoro semplice, uguale, che più del
mestiere di sensale, delle botteghe e degli uffici ri
spondesse all’anima sua. E si ridestò in lui la fan
tasia - non più agitata, non più malsana - di ac
cingersi a scrivere 1’« epitaffio », nel quale non era
più necessario, ora lo sentiva, mettere sé medesimo
in primo piano...
In primavera, qualche mese prima di far la pace
con Tìchon, Kuzmà aveva sentito dire che si affit
tava un giardino a Kazàkovo, un villaggio del di
stretto natale, e si affrettò ad andarvi : la località
era morta, con terra ricca di umo, nei pressi di quel
la dove eran radicati i Kràsovy, dove Kuzmà era
stato soltanto nella sua prima giovinezza. Ora non
poteva neppure immaginarsi come fosse Durnòvka
e, avendo deciso di prendere in affitto il giardino di
Kazàkovo, decise di fare assolutamente dei soggior
ni anche a Durnòvka.
Non gli riuscì però né una cosa né l’altra. E Kuz
mà ritornò in città coi denti digrignati.
Si era ai primi di maggio; dopo un periodo di
caldo eran venuti il freddo, le piogge, si avanza
vano sulle città delle fosche nubi autunnali. Kuzmà
in un vecchio caffettano e un vecchio berretto, sen
za calosce, coi soli stivali di vitello scalcagnati, cam
minava a gran passi verso la stazione di là da Puš-
kàrnaja Slobòda e, tentennando il capo, con le so
pracciglia aggrottate a causa della sigaretta che ave
va tra le labbra, con le mani di dietro, sotto al caf
fettano, sorrideva: proprio allora gli era corso in
contro un ragazzetto scalzo con un fascio di gior-
CAMPAGNA 139
nali sotto l’ascella che correndo aveva gridato, tutto
vispo, le solite parole:
— Sciopero generale!
— Sei in ritardo, ragazzo — disse Kuzmà. —-
Non c’è qualcosa di più nuovo?
Il ragazzetto, con gli occhi luccicanti, si fermò.
— Le notizie nuove il g o r o d o v ò j 1 alla stazione
me l’ha levate — rispose allegramente.
— Già, forse la costituzione! — disse allegro an
che Kuzmà e andò oltre, saltando tra il fango, sot
to agli steccati marciti, anneriti dalle piogge, sotto
ai rami dei giardini bagnati e alle finestre delle ca
supole sbieche, in discesa, fino al fondo della stra
da. “Cose dell’altro mondo!” pensava saltando. Pri
ma, con un tempo simile, per le botteghe, per le
trattorie si sbadigliava, si scambiava appena qual
che parola. Adesso, per tutta la città, discorsi sulla
Duma, sulle sommosse e sugli incendi, sul fatto che
« Mùrontsev aveva aspramente rampognato il primo
ministro »... Ma già, non per molto la rana tiene
la coda! Nel giardino municipale già suona l’orche
stra delle guardie... Di cosacchi ne han mandati un
centinaio intero... E ier l’altro in via Torgòvaja uno
di loro, ubriaco, si è avvicinato alla finestra aperta
della biblioteca pubblica e, sbottonandosi i calzoni,
ha proposto alla signorina bibliotecaria di compra
re « l’arinmetica ». Un vecchio vetturino che si tro
vava lì lo ha svergognato, e il cosacco, tratta fuori
la sciabola, gli ha dato un colpo sulla spalla e con
bestemmie oscene si è dato a rincorrere per la stra
1. Guardia di città, qui di servizio alla stazione.
140 CAMPAGNA
da i passanti, andassero a piedi o in carrozza, che,
resi folli dallo spavento, fuggivano all’impazzata...
— Scorticagatti, scorticagatti, sotto il muro ti
rimpiatti! — con voci sottili si misero a strillare die
tro a Kuzmà delle bimbette che saltavano sui sassi
del basso ruscelletto di Slobòda. — Là si spellano i
gattini, gli daranno gli zampini!
— Ah, rognose! — gridò loro, facendo l’atto di
gettare una scatola di ferro un conduttore che an
dava avanti a Kuzmà con un cappotto terribilmen
te pesante, anche a vedersi. — Bel coetaneo che
han trovato!
Ma dalla voce si poteva capire che tratteneva il
riso. E Kuzmà ripetè con tono già diverso : « La co
stituzione! ». Le vecchie calosce fonde del conduttore
erano coperte di fango disseccato. La martingala del
cappotto pendeva da un bottone solo... Un ponti
cello di travi, su cui passava, giaceva di traverso.
Più lontano, presso ai fossi lavati dall’acqua di pri
mavera, crescevano dei salici stentati. E Kuzmà me-
lanconicamente li guardò, e guardò i tetti di paglia
lungo la salita di Slobòda, le nubi turchinicce e co
lor fumo sopra ad essi, un cane rossigno che ro
sicava un osso nel fossato. In fondo a questo se
deva accoccolato un m je scjan ìn col panciotto sopra
alla camicia di percalle abbottonata da un lato e
con un sorriso goffo e stupido spalancava in su gli
occhi sporgenti che biancheggiavano sul viso rosso
per lo sforzo. Egli si raggricciava perché non lo ve
dessero di sopra, dal villaggio, e quando Kuzmà
lo raggiunse, egli, sentendosi a disagio, disse:
— È dietro a voi che le bimbette gridavano?
CAMPAGNA 141
Ve’ le diavolette, da piccole si abituano a essere im
pertinenti !
— Siete voi che glielo insegnate — rispose Kuz-
mà, aggrottando le sopracciglia.
“Già, già” pensava, andando in salita. “Non per
molto la rana tiene la coda!...” Finita la salita, re
spirato il vento umido dei campi, veduti tra i campi
verdi deserti i fabbricati rossi della stazione, sorrise
di nuovo. Parlamento, deputati! Ieri era ritornato
dal giardino dove, in occasione di una festa, c’era
l’illuminazione, si mandavano in alto dei razzi e le
guardie suonavano “Toreador”, “Presso il fiume,
presso il ponte”, la “Matchiche” e “Tròjka”, ur
lando nel bel mezzo del galoppo: «Eh i, cara-a! »
e, giunto a casa cominciò a suonare al portone di
servizio del suo albergo. Tirò, tirò il (U di ferro tin
tinnante: non un’anima. Non un’anima anche in
torno, silenzio, crepuscolo, un cielo freddo verdo
gnolo dalla parte del tramonto, dietro la piazza, in
fondo alla strada; sopra al capo nuvole... Alla fine
qualcuno si strascica di là dal portone, ansa. Fa
stridere le chiavi e borbotta:
— Sono diventato zoppo sul serio...
— E come mai? — domandò Kuzmà.
— M ’ha colpito il cavallo — rispose quello che
aveva aperto e, spalancato il portello, aggiunse: —
Be’, adesso ce ne sono ancor due da venire.
— Quelli del tribunale, eh?
— Del tribunale.
— E non lo sai perché sia venuto il tribunale?
— A processare un deputato. Dicono che vole
va avvelenare il fiume.
142 CAMPAGNA
— Un deputato? Imbecille, ma che i deputati si
occupano di queste cose?
— Ma il diavolo li conosce...
All’estremità del villaggio, presso la soglia di una
casupola fatta d ’argilla e paglia, stava un vecchio
alto in o p ò rk i 1. In mano il vecchio teneva un lun
go bastone di noce e, veduto il passante, si affrettò
a fingersi molto più vecchio di quello che era: pre
se il bastone con tutt’e due le mani, sollevò le spal
le, fece una faccia stanca, triste. Un vento umido,
freddo che soffiava dai campi scompigliava le cioc
che dei suoi capelli grigi. E Kuzmà si sovvenne del
padre, dell’infanzia... « Russia, Russia! dove corri! »,
- gli venne in mente l’esclamazione di Gògol... —
« Russia, Russia!... ». Ah, chiacchieroni, non v’è a-
bisso che vi inghiotta! Questa è ancor più bella:
« un deputato voleva avvelenare il fiume »... Sì, ma
a chi si deve chieder conto ? « Il disgraziato popolo
è soprattutto... disgraziato!... » E nei piccoli occhi
verdognoli di Kuzmà spuntarono due lacrime, al
l’improvviso, come spesso gli succedeva negli ulti
mi tempi. Era entrato poco prima nella trattoria
di Avdjèic al Mercato delle donne. Era entrato nel
cortile affondando fino alla caviglia nel fango, e
dal cortile era salito al secondo piano - « l ’appar
tamento nobile » - per una scala di legno comple
tamente marcia, così fetente che persino a lui, che
ne aveva vedute d ’ogni sorta, venne nausea; a fati
ca aprì la porta unta, pesante, tutta ciuffi di feltro
e brandelli di stracci invece di imbottitura, col con
1. Vecchie scarpe scalcagnate e scucite.
CAMPAGNA 143
trappeso fatto di corda e mattoni, e si sentì acceca
re dal vapore di carbone, dal fumo, dal luccichio dei
riflettori di latta dietro le lampade a muro; si sentì
assordire dall’acciottolio delle stoviglie sul banco, dal
vociare, dal trepestio dei camerieri che correvano da
tutte le parti e dall’urlio nasale del grammofono.
Poi passò l’ultima stanza dove c’era meno gente, si
mise a sedere a un tavolino coperto di una tovaglia
rossa umida, chiese del miele... Sotto ai piedi, sul
pavimento tutto pedate e sputacchi, fettine di limo
ne succhiato, gusci d ’uovo, mozziconi... E accanto
alla parete di fronte sedeva un contadino lungo in
làp t i e beatamente sorrideva, tentennava la testa ar
ruffata, porgendo ascolto al grammofono urlante. Sul
tavolino una sò t k a 1 di acquavite, un bicchierino, del
le ciambelline. Ma il contadino non beveva, tenten
nava soltanto il capo, si guardava i làp t i e d ’un trat
to, sentendo sopra di sé lo sguardo di Kuzmà, aprì
gli occhi gioiosi, sollevò la faccia buona raggiante
con la barba rossa ricciuta.
— Ho dato qui una capatina! — esclamò gioio
so e stupito. E si affrettò a soggiungere per giusti
ficarsi : — Io, signore, ci ho qui un fratello servi
tore... Un fratello germano... — E, asciugatosi le la
crime, Kuzmà serrò i denti. Oh, maledetti, fino a
che punto hanno calpestato, inebetito il popolo! « Ci
ho dato una capatina! » E da Avdjèic! Non basta:
quando Kuzmà si alzò e disse: — Allora addio! — ,
in fretta si alzò anche il contadino e, gonfio il cuo
re di felicità, con profonda riconoscenza e per la
1. Bottiglietta contenente la centesima parte di un vedrò. (Il
vedrò è litri 12,29.)
144 CAMPAGNA
luce e per il lusso della mobilia e perché avevano
con lui parlato umanamente, in fretta rispose:
— Non v’adirate...
In treno prima si discorreva soltanto delle piogge
e dell’arsura, si diceva che « i prezzi del pane li sta
biliva Iddio ». Adesso in mano di molti frusciava
no i fogli dei giornali e i discorsi cadevano di nuo
vo sulla Duma, sulle franchigie, sull’espropriazione
delle terre; nessuno si accorgeva nemmeno della
pioggia dirotta che batteva sui tetti, benché viaggias
se gente sempre bramosa di piogge primaverili : mer
canti di grano, contadini, borghesi proprietari di
masserie. Passò un giovane soldato con una gamba
tagliata, itterico, dagli occhi neri melanconici, zop
picando, picchiando in terra il piede di legno, to
gliendosi il berretto alla foggia di Manciuria e fa
cendosi, come un mendicante, il segno della croce
ad ogni elemosina che riceveva. E si sollevò un vo
ciare rumoroso e indignato sul governo, su Linjèvic,
su Stachòvic, sul ministro Durnòvo e su certa ave
na demaniale... Facendosene beffa ricordarono ciò
di cui prima ingenuamente si entusiasmavano: co
me « Vitja » ', per spaventare i giapponesi a Ports
mut, aveva dato ordine di preparargli le valige...
Un giovane seduto di fronte a Kuzmà, coi capelli
tagliati a spazzola, si fece rosso, cominciò ad agi
tarsi e si affrettò a intervenire:
— Scusate, signori! Ecco voi dite: libertà... Io
sono impiegato come segretario dell’ispettore delle
imposte e mando articoletti ai giornali della capita- 1
1. Il ministro W itte.
CAMPAGNA 145
le... Che forse questo lo riguarda? Egli assicura che
anche lui è per la libertà, ma però, venuto a sapere
che io avevo scritto sul funzionamento anormale del
nostro servizio di pompieri, mi fa chiamare e dice:
« Se tu, figlio di un cane, scriverai ancora queste
cose, ti staccherò la testa! ». Scusate: se le mie opi
nioni sono più di sinistra che le sue...
— Opinioni? — con una voce di contralto da
nano gridò a un tratto il vicino del giovane, un
grosso e grasso sk o p è t s 1 dagli stivali fatti a botti
glia, il mugnaio Cernjàjev che lo aveva guardato tut
to il tempo di sbieco coi suoi piccoli occhietti. E,
senza dargli il tempo di riaversi, si mise a strilla
re :
—- Opinioni? Tu hai delle opinioni? Tu sei più
di sinistra? Ma io t ’ho veduto ancora senza brache!
Sicuro, tu crepavi di fame, non peggio di quell’ac
cattone di tuo padre! All’ispettore tu gli devi lavare
i piedi e poi bere quell’acqua!
— Co-sti-tu-zione — con voce sottile, interrom
pendo lo sk o p è t s, si mise a canterellare Kuzmà e,
alzatosi dal posto, urtando le ginocchia di quelli che
sedevano, si diresse passando per il carrozzone verso
la porta.
Lo sk op è t s aveva i piedi piccoli, grassi e ripugnan
ti come una qualsiasi vecchia massaia, anche la fac
cia era da donna, grande, gialla, compatta, come di
guttaperca, le labbra sottili... Buono era anche Po-
lòzov - maestro di scuola, quello che così affabil
mente chinava la testa ascoltando lo sk op èt s e ap-1
1. Gli sk optsy sono una setta che pratica l’evirazione.
7.
146 CAMPAGNA
poggiandosi alla canna - un uomo tarchiato, molto
curato della persona, in stivaletti con gambali sotto
ai calzoni grigi, in cappello grigio e grigia mantel
lina, dagli occhi chiari, un nasino tondo e una ma
gnifica barba bionda che gli copriva tutto il petto.
Era un maestro, ma nell’indice aveva un pesante a-
nello d’oro a sigillo. E già aveva la sua casetta, do
te portatagli dalla figlia dell’arciprete \ Anche i pie
di aveva piccoli, le mani brevi, le dita mozze; era di
una pulizia e precisione rare, ogni giorno andava
a bagnarsi... Ed era un « anatema », dicevano, che
Dio ce ne liberi! No, pure i contadini e i piccoli
borghesi non potevano stare alla pari con gente si
mile. E, aperta la porta che dava sulla piattaforma
del carrozzone, Kuzmà respirò profondamente la fre
scura acuta e profumata della pioggia. La pioggia
sordamente batteva sulla tettoia della piattaforma,
ne grondava a rivoli e su Kuzmà volavano gli spruz
zi. Dopo la città l’aria dei campi, mista all’odore
sconcertante del fumo della vaporiera, rendeva eb
bri. I carrozzoni, beccheggiando, strepitavano tra il
rumore della pioggia, sollevandosi e abbassandosi
fuggivano i fili del telegrafo, ai lati correvano i
margini folti color verde tenero d ’un bosco di noc
ciòli. Un gruppo multicolore di ragazzetti a un trat
to sbucò fuori da un rialzo di terra e forte, in coro
cominciò a gridare qualcosa. Kuzmà si mise a ride
re dal piacere e tutta la faccia gli si coprì di rughe
minute. Alzati gli occhi, vide sulla piattaforma di
fronte un pellegrino: una faccia rustica, buona, pa-1
1. È noto che ai preti russi è concesso il matrimonio.
CAMPAGNA 147
tita, una barba grigia, un cappello dalle falde lar
ghe, un cappotto di panno legato alla vita da una
corda, un sacco e una teiera di latta dietro le spalle,
i piedi sottili calzati di làp t i. Anche il pellegrino
sorrideva. E Kuzmà tra lo strepito e il rumore gli
gridò :
— Come ti chiami, nonno?
— Antòn... Antòn Bezpàlych — cortesemente
premuroso, rispose con un debole grido il pelle
grino.
— Da un pellegrin aggio?
— Da Voronjež...
— Che li bruciano là i possidenti?
— Li bruciano...
— E benissimo!
— Come?
— Benissimo, dico! — urlò Kuzmà.
E voltosi, con le mani tremanti, battendo le ci
glia per far cader le lacrime che gli salivano agli oc
chi, si mise ad arrotolare una sigaretta... Ma i pen
sieri già di nuovo si erano confusi. “Il pellegrino è
popolo, ma lo sk o p è t s e il maestro non sono forse
popolo? La schiavitù è stata soppressa soltanto qua
rantacinque anni fa, che si può dunque pretende
re da questo popolo? Sì, ma chi ha colpa di que
sto? Il popolo stesso. La Russia sotto il giogo russo,
i diversi fr atelli1 sotto quello turco, quelli di Ga
lizia sotto l’austriaco; in quanto ai polacchi, non
c’è nemmeno da parlarne... Sì, proprio la gran fa
miglia slava!” E la faccia di Kuzmà di nuovo si fe-1
1. I fratelli slavi dei Balcani.
148 CAMPAGNA
ce scura e lunga. Sbirciandosi attorno, cominciò a
tirarsi i diti uno dopo l ’altro e a torcerli facendo
scricchiolare le giunture.
Alla quarta fermata scese e prese una carretta. I
m u z ìk ì vetturini prima chiesero sette rubli — fino a
Kazàkovo c’erano dodici v erste - poi cinque e mez
zo. Alla fine uno disse :
— Se mi dai un biglietto da tre, ti porto, se no
non c’è bisogno di menar la lingua per nulla. Oggi-
giorno per voi non è come una volta... — Ma non
seppe sostenere il tono e aggiunse la frase abituale:
— Eppoi il foraggio è caro... — E lo condusse per
un rublo e mezzo. Il fango ostruiva la strada, la
t e ljè ga era piccola, e quasi andava a pezzi, la rozza
orecchiuta come un asino, priva di forze. Lentamen
te si strascicarono fuori dal cortile della stazione. Il
m u z ik che sedeva sulla traversina faceva fatica a
tirare le briglie di corda, quasi volendo con tutto
l’essere suo aiutare il cavallo. Si era vantato che
« non c’era verso di frenarlo » e adesso, evidente
mente, si vergognava. Ma quel ch’era peggio di tut
to era proprio lui stesso. Giovane, enorme, pienot
to, in làp t i e pezze bianche da piedi, con un sopra
bito corto cosacco legato a crespe alla vita e un
vecchio berretto sui capelli gialli diritti. Sapeva di
isbà affumicata, di canape, — un vero coltivatore dei
tempi del re Goròch 1 e basta! - la faccia bianca,
senza baffi, la gola poi gonfia, la voce rauca.
— Come ti chiami? — domandò Kuzmà.
1. Letteralmente: Pisello. Espressione analoga alla nostra «a i
tempi del re Pipino » per indicare un’età antichissima.
CAMPAGNA 149
— Mi han chiamato Achvanàsij 1...
“Achvanàsij !” pensò Kuzmà con rabbia.
— E poi?
— Megnsòv... I-ih, ancicristo 2!
— Che è un male cattivo? — e Kuzmà indicò
la gola.
— Purtroppo è cattivo — borbottò Megnšov gi
rando gli occhi da un’altra parte. — Ho bevuto del
k v as freddo...
— E a inghiottire ti fa male?
— A inghiottire no, non mi fa male...
— E allora non chiacchierare a vuoto — disse
Kuzmà severo. — Ë meglio che tu vada all'ospe
dale al più presto. Certo sarai ammogliato?
— Ammogliato...
— E allora vedi. Verranno dei figlioli e tu farai
loro un bel regalo.
— Questo, già, è sicuro come bere un bicchier
d’acqua — acconsentì Megnsòv.
E con fatica si mise a dar strattoni alle briglie.
— I-ih... Non ce la posso con te, ancicristo! —
Alla fine lasciò quell’inutile occupazione e si calmò.
Per un pezzo stette zitto, poi ad un tratto doman
dò :
— Che Than radunata la Duma o no?
— L’han radunata.
— E Makàrov, dicono, è vivo, solo non vole che
si dica...
Kuzmà scosse soltanto la man o: “Razza di oche!” .
“E che ricchezza!” pensava stando a sedere in mo
1. Nome alterato in luogo di A fan àsij.
2. Per anticristo.
150 CAMPAGNA
do scomodissimo, con le ginocchia ripiegate, sul fon
do nudo della t e ljè ga sopra una manciata di pa
glia ricoperta da tela da sacchi, e guardando attor
no la strada. Si era fatto ancora più freddo, ancor
più fosche si avanzavano da nord-ovest le nubi su
quella regione ricca di umo, satura di piogge. Il
fango per le strade - turchiniccio, grasso; il verde
degli alberi, delle erbe, degli orti - scuro, fitto, e su
tutto quella tinta turchiniccia dell’umo e delle nu
vole. Ma le isbe, d ’argilla, piccole, coi tetti di con
cime. Accanto alle isbe i carri per il trasporto del
l’acqua che si sconnettevano dalla secchezza. N el
l’acqua, s’intende, c’erano i girini... Ecco una casa
ricca. N ell’orto, dietro ai vecchi salici, dietro a un
arniaio e a un giardinetto con tre o quattro meli,
un vecchio granaio scuro. Stalla, portone, isbà, tut
to riunito sotto un solo tetto di stoppie cardate. L’i
sbà è di mattoni e comprende due corpi, i muri so
no dipinti a calce: su di uno c’è un bastoncino e
lungo questo, all’insù, dei rametti: un abete; sul
l’altro qualcosa di simile ad un gallo; anche le fi-
nestrucce incorniciate di calce, a dentelli. “Ecco del
l’arte!” sorrise Kuzmà. “Età delle caverne, che Id
dio mi castighi, delle caverne!” Sulle porte dei
fienili croci disegnate col carbone, alla scalinata
una grossa pietra sepolcrale; evidentemente il nonno
o la nonna l’avevano preparata in caso di morte...
Sì, era una casa ricca. Ma fango tutt’attorno fino al
ginocchio, sulla scala era accucciato un porco e so
pra ad esso, barcollando e sbattendo le aiucce, cam
minava un gallettino giallognolo. Le finestrine mi
nuscole, e la metà abitata dell’isbà era certamente
CAMPAGNA 151
buia e sempre ingombra: il soppalco, il telaio, una
voluminosa stufa, il bigoncio con le risciacquature...
E la famiglia grande, molti figli; l’inverno agnellini,
vitelli... E umidità e un tale gas di carbone che era
nell’aria un vapore verdognolo. I bimbi poi piagnu
colavano e strillavano pigliandosi degli scapaccioni;
le nuore si insolentivano — « che il tuono ti fulmi
ni, cagna randagia! » — si auguravano scambievol
mente « di strozzarsi con un boccone nel giorno di
Pasqua »; la vecchia suocera ogni momento faceva
volare palette, ciotole, si gettava sulle nuore con le
maniche rimboccate sulle braccia scure, tendinose,
schiantava dagli strilli ingiuriosi, schizzava sputi e
maledizioni ora sull’una, ora sull’altra... Cattivo, ma
lato, anche il vecchio levava tutti di sentimento coi
suoi ammaestramenti e le sue vanterie. Tirava per
i capelli i figli ammogliati e questi a volte piange
vano in modo fastidioso, da contadini...
— Di chi è questa casa? — domandò Kuzmà.
— Dei Krasnòvy — rispose Megnsòv ed aggiun
se: — Anche loro tutti con la malattia cattiva...
Passati i Krasnòvy girarono verso il pascolo. Il
villaggio era grande, il pascolo pure. Su questo si
preparava la fiera. Già qua e là spuntavano le car
casse delle baracche, erano ammucchiate ruote, sto
viglie di terra; fumava un fornello incalcinato alla
meglio, si sentiva odore di frittelle; grigio si ergeva
il carrozzone degli zingari, e presso alle sue ruote
erano dei cani da pastore alla catena. A sinistra si
scorgevano le isbe, a destra un deposito di legname,
due botteghe, una panetteria, lo « spaccio di vini di
mele » di un certo Zlatovjerchòvnikov. Né presso
152 CAMPAGNA
alle botteghe, né sul pascolo c’era un’anima. Ma
più lontano, accanto a una rivendita di alcool, stava
una folla compatta di ragazze e contadini e risuona
vano delle grida.
— Se la spassa il popolo — disse pensoso Megn-
sòv.
— Perché è in festa? — domandò Kuzmà.
— Spera...
— In che?
-— Si sa in che... Nel d o m o v ò j 1!
E in verità: in un enorme pascolo deserto, in un
giorno freddo e nebuloso, quegli strilli e il suono di
due organetti che si regolavano l’uno sull’altro, sem-
bravan meschini, si sperdevano in qualcosa che sa
peva della vita di tutti i giorni, di tedioso e di vec
chio. “Il popolo vive alcunché di nuovo, festeggia
qualcosa, ma crede poi nella sua festa? Oh, è ben
difficile!” pensava Kuzmà mentre la carretta si av
vicinava, guardando le gonne bianche, rosa, verdi
delle ragazze, le facce indifferenti, rozzamente di
pinte, i fazzoletti arancione, oro e lampone. La te-
Ijè ga, raggiunta la folla, si fermò. Megnšov non
ne distoglieva gli occhi e scopriva i denti sorriden
do. Qui i suoni non sembravan già più meschini,
gli organetti si facevano eco furiosamente, e a tem
po con essi, tra il vocio di approvazione degli ubria
chi, arditi risuonavano degli adagi.
— I-ih! — gridò qualcuno accompagnato da un
forte e sordo pestar di piedi:
1. Spirito del focolare.
CAMPAGNA 153
Non arare, non falciare,
Alle bimbe leccornie portare!
E un contadino piccoletto, che stava dietro la fol
la, d ’un tratto si mise ad agitare le mani. Tutto in
lui era ordinato, lindo, solido : e i lap t i e le pezze
da piedi e i calzoni nuovi, pesanti e il gonnellino
della p o d d jò i’k a increspato, tagliato molto corto, di
panno grigio grossissimo. Egli, probabilmente, non
aveva mai ballato in vita sua, ma ora ad un tratto
leggero e agile batté i làp t i in terra, agitò le mani e
con voce di tenore gridò: « Fa’ largo, lascia che
il mercante guardi! » e, fatto un salto nel cerchio
che si era aperto, si mise ad agitare disperatamente
i calzoni davanti a un giovanotto alto che, col ber
retto da un lato, diabolicamente gettava in fuori gli
stivali e, nel gettarli, si toglieva via, dalla camicia
nuova di percalle, la p o d d jò v k a nera. La faccia del
giovane era assorta, cupa, pallida e sudata, ma tan
to più forti e inattesi sembravano i suoi urli in to
no di falsetto.
— Figliolino! Amor mio! — gemeva ad alta vo
ce, tra il baccano e il fitto calpestio, una vecchia
con una gonna increspata, tendendo le mani. — Ba
sta, per l’amor di Cristo! Amor mio, basta, morirai!
E il figliolino ad un tratto rovesciò la testa indie
tro, strinse i pugni e i denti e con una faccia in fe
rocita, pestando i piedi, urlò tra i denti :
Zitta, vecchia, col tuo cu-cù!...
— E lei anche l’ultima tela ha venduto per lui
— diceva Megnsòv, trascinandosi per il pascolo. —
154 CAMPAGNA
Gli vuole un bene pazzo, si sa, è vedova, e lui qua-
si ogni giorno gliene dà sul muso, quand’è ubriaco...
Si vede che se lo merita.
— Come sarebbe a dire « se lo merita »? — do
mandò Kuzmà.
— Ma così... Non gli dar mano!...
Molte volte poi Kuzmà ricordò quel giorno, sen
za mai potersi spiegare perché tutto gli fosse parso
così sconsolato. In città, sul treno, per le campa
gne, per i villaggi, ovunque si sentiva qualcosa di
insolito, l’eco di una gran festa, di una gran vitto
ria e di grandi aspettative. Ma già in paese aveva
compreso Kuzmà che, quanto più si inoltrava in
quei campi sconfinati, sotto un cielo freddo e neb
bioso, tanto più sordo, insulso e angoscioso si fa
ceva quell’eco. Ecco, essi si erano allontanati e già
di nuovo eran divenuti meschini il trepestio, i gio
chi e le grida della folla presso allo spaccio. Là è
festa, cercano di « divertirsi », ma poi verranno i
giorni di lavoro, grigi e indifferenti, e davanti di
nuovo orti, salici, due file di isbe senza camini, car
ri con botti piene d ’acqua di stagno fetente, e in
fondo alla strada campi, il freddo turchino della
lontananza, una piccola foresta scura sull’orizzonte,
nuvole basse...
Presso a un’isbà - con un vetro rotto e una ruo
ta sul tetto marcio 1 — era seduto sopra una panchi
na un contadino lungo, malato : i defunti nella ba
ra hanno miglior cera. Egli somigliava a Njekrà-
1. È usanza in certe località di mettere sul tetto una ruota
affinché la cicogna possa farvi il nido, il che è creduto sia di
buon augurio.
CAMPAGNA 155
sov. Sulle spalle, sulla camicia lunga e sporca mes
sa sopra i calzoni era gettata una vecchia pelliccia
corta; le gambe, come bastoni, erano infilate negli
stivali di feltro, le mani grandi senza vita posava
no pari pari sulle ginocchia angolose, sui calzoni
lisi. Il cappello era calato sulla fronte all’uso dei
vecchi, gli occhi tormentati, imploranti, la faccia inu
manamente magra, tirata, le labbra color cenere mez
ze aperte...
— Quello è Cjùcen — disse Megnsòv, indican
do il malato. — Dal mal di ventre è il secondo an
no che sta per morire.
— Cjùcen? Che è? un soprannome?
— Un soprannome ’...
— Ë stupido! — disse Kuzmà.
E si voltò per non vedere una bimbetta accanto
all’isbà seguente: essa, riversa all’indietro, teneva
in braccio un piccolino in cuffietta, guardava fissa
i passanti e, mettendo fuori la lingua, masticava, pre
parava per il piccolo un boccone di pane nero da
dargli a succhiare... All’uscita del villaggio, poi, nel
l’ultimo orto-aia frusciavano al vento i salici, si sba
tacchiava lo spauracchio con le maniche vuote ri
verso da un lato. L’aia che va a finire nella steppa
è sempre poco allegra, noiosa, e lì ancora quello
spauracchio, le nubi d’autunno, e il vento che fi
schiava dai campi, gonfiando le code delle galline
che gironzolavano per l’orto ricoperto di spinacio
ne, accanto a un granaio con la spina del tetto sco
perta, accanto a una trebbiatrice dipinta di azzurro.1
1. Da cjùcja, spauracchio, mostro.
156 CAMPAGNA
E sulla traversina della t e ljè ga avanzante dal villag
gio nel fango turchiniccio della strada che si perde
va in un mare di avena e segale verde, era seduto
un cretino di enorme corporatura e dalla faccia scial
ba, con le ciglia bianche e grandi come quelle di
un vitello, con la gola enfiata...
Un boschetto turchineggiante all’orizzonte — due
lunghi avvallamenti di terreno ove era cresciuto un
querceto - si chiamavano Pòrtocki. E presso a que
sti Pòrtocki fu colto Kuzmà da pioggia dirotta e
grandine che lo accompagnarono fin proprio a Ka-
zàkovo. Megnsòv, avvicinandosi al villaggio, spinse
la rozza al galoppo, mentre Kuzmà, chiusi gli oc
chi, sedeva sotto una balla fradicia e fredda. Le ma
ni si erano irrigidite dal freddo, dal colletto del caf
fettano colavano rivoletti gelati, la balla, fatta pe
sante dalla pioggia, sapeva di madia ammuffita. Sul
capo gli picchiavano i chicchi di grandine, volava
no spruzzi di fango, nelle carreggiate, sotto alle ruo
te, gorgogliava l’acqua, in qualche parte belavano
degli agnelli... Alla fine Kuzmà si sentì talmente
soffocare che gettò via la balla dal capo e avidamen
te aspirò una boccata d ’aria fresca.
La pioggia si era fatta più rada, imbruniva, ac
canto alla t e ljè ga per il pascolo verde passò cor
rendo verso le isbe una mandra. Una pecora nera
dalle zampe sottili si era allontanata e una donna
scalza, copertosi il capo con la gonna bagnata, fa
cendo balenare i polpacci bianchi, la rincorreva. A
occidente, di là dal villaggio, il cielo si rischiarava;
a oriente, sullo sfondo bluastro polveroso di una
nube, sopra ai campi di grano, erano due archi di
CAMPAGNA 157
color verde-violetto. Si sentiva un odore acuto e umi
do di erba di campi e un odore caldo di abitato.
— Dov’è qui la casa padronale? — gridò Kuz-
mà a una donna spalluta in camicia bianca e gonnel
la rossa di lana.
La donna stava sopra una pietra accanto all’isbà
del sò t sk ij 1 e teneva per la mano una bimba di for
se due anni che strillava. La bimba strillava così fu
riosamente che la domanda andò perduta.
— La casa? — ripetè la donna. — Di chi?
-—- Padronale.
—- Di chi? Non si sente nulla... Ma che tu ti pos
sa strozzare, che tu possa rimanere stecchita! — gri
dò scuotendo la bimba per il braccio così forte che
quella fece una giravolta e, sdrucciolata dalla pie
tra, rimase sospesa.
S’informarono a un’altra casa. Attraversata una
strada larga, presero a sinistra, poi a destra e, pas
sando davanti a un’antica tenuta di non si sa chi
con la villa chiusa ermeticamente, cominciarono a
discendere per una ripida china, verso il ponte che
era sopra a un ruscello. Dalla faccia, dai capelli,
dalla sopravveste cosacca di Megnsòv cadevano del
le gocciole. Il suo viso grosso slavato con le ciglia
da vitello pareva ancora più ottuso. Con curiosità egli
gettava delle occhiate a qualcosa più avanti. Vi guar
dò anche Kuzmà. Dall’altro lato, sul pascolo in pen
dio, lo scuro giardino di Kazàkovo, un vasto cor
tile chiuso da annessi cadenti e dalla cinta di pietra
in rovina; in mezzo al cortile, dietro a tre abeti sec
1. Guardia locale che in origine aveva la vigilanza su cento
case di contadini.
158 CAMPAGNA
chi, ricoperta da assicelle grige, la casa, col tetto
rosso ruggine. Sotto, presso al ponte, un gruppo di
contadini. Venendo incontro a loro poi, per la stra
da ripida scavata, si dibattevano nel fango, si tra-
scinavan su tre magri cavalli da fatica attaccati a un
t aran t às. Un operaio tutto strappato, ma bello, ben
fatto, pallido con una barbetta rossiccia, con gli oc
chi bruni intelligenti, era accanto ai cavalli, tirava
le briglie e, facendo terribili sforzi, gridava: « I-ih!
I-ih! ». I contadini con schiamazzi e fischi facevano
eco: « Ferma! ferma! ». E a ogni loro parola di
speratamente tendeva le mani avanti una giovane
donna seduta nel t aran t às, vestita a lutto, che ave
va delle grosse lacrime sulle ciglia lunghe e il vi
so malaticcio sconvolto dallo spavento. Spavento
e tensione erano anche negli occhi glauchi di un
uomo grosso dai baffi rossi che le sedeva accanto.
L’anello matrimoniale gli brillava sulla mano destra
che stringeva la rivoltella; con la sinistra continua
va a far gesti e, certamente, aveva molto caldo con
la p o d d jò v k a di pelo di cammello e il berretto dei
nobili h calato sulla nuca. Dalla panchina poi di
fronte al sedile con mite curiosità si guardavano at
torno un bimbo e una bimba, pallidi dal freddo e
dalla stanchezza, avvolti in scialli.
— Quello è Mìska Sìverskij — a voce alta e
rauca disse Megnsòv, passando oltre la t rò jk a e guar
dando indifferente i ragazzi negli occhi. — Gli han
dato fuoco alla casa ieri... Si vede che se lo meri
tava...1
1. I nobili di campagna per distinguersi portavano un berret
to coll'orlo rosso.
CAMPAGNA 159
I Kazàkovy erano quattro: la padrona, una ve
dova, due giovinetti e lo zio scapolo, un massaro
che s’era mangiato tutto. Gli affari li amministrava
lo st àro st a , ex soldato di cavalleria, uomo di alta
statura e rozzo. E a lui, nel tinello, bisognava ri
volgersi, come aveva detto a Kuzmà un operaio che
entrava nel cortile con un barroccio carico di grossa
erba verde, bagnata. Ma allo st àrost a eran capitate
quel giorno due disgrazie e Kuzmà fu accolto assai
poco affabilmente. Il mattino gli era morto un bim
bo, già il nono in tredici anni di matrimonio, e gli
era crepata una vacca nera. Alla morte del bimbo,
s’intende, erano stati indifferenti, ma a veder la vac
ca andava perfino la padrona. Quando Kuzmà, la
sciato Megnsòv fuori del portone, si avvicinò al ti
nello, la moglie dello st àrost a, tutta in lacrime, por
tava dal giardino una gallina screziata che se ne sta
va tranquilla sotto la sua ascella. Tra le colonnette
in cima alla decrepita scalinata era ritto un uomo
giovane, alto, i calzoni larghi, stivali alti e camicia
russa di percalle, e, veduta la moglie dello st àrost a,
gridò :
— Agàfja, o indove la porti?
— A tagliarle il collo — rispose quella seria e
triste, fermandosi presso alla ghiacciaia.
— D a’ qua, glielo taglio io.
E il giovane si diresse verso la ghiacciaia, senza
badare alla pioggia che di nuovo aveva cominciato
a cadere minuta dal cielo che si rannuvolava. Aper
ta la porta della ghiacciaia, prese di sulla soglia l’ac
cetta e dopo un minuto risonò un breve colpo, e la
gallina senza testa, col moncone rosso del collo, cor
160 CAMPAGNA
se per l’erba, inciampò, fece una giravolta scuoten
do le ali e seminando da ogni parte penne e schiz
zi di sangue. Il giovane gettò via l’accetta e si diresse
verso il giardino, la moglie dello st àrost a poi, pre
sa la gallina, si avvicinò a Kuzmà:
— Tu che vuoi?
— Riguardo al giardino — disse Kuzmà.
— Aspetta Fjòdor Ivànovic.
— E dov’è?
— Verrà subito dai campi.
E Kuzmà si mise ad aspettare accanto alla fine
stra aperta del tinello. Vi dette uno sguardo, vide
nella penombra una stufa, un pancaccio, una tavo
la, una tinozzetta sopra una panca vicino alla fine
stra: era una piccola bara fatta come una tinozza
dove giaceva un bimbo morto con una testina gros
sa quasi pelata e una faccina paonazza... Alla ta
vola sedeva una grossa ragazza cieca che con un
gran cucchiaio di legno prendeva da una ciotola del
latte con pezzi di pane. Le mosche, come api nel
l’alveare, le ronzavano attorno, giravano sul visino
morto, poi cadevano nel latte, ma la cieca, seduta
dritta come una statua, con gli occhi bianchi fissi nel
buio, mangiava e mangiava. Kuzmà provò un sen
so di terrore e si voltò da un ’altra parte. A tratti
soffiava un vento freddo, le nubi rendevano l’aria
più scura. In mezzo al cortile s’innalzavano due pali
con una traversa; alla traversa, come un’icona, era
appesa una gran lastra di ferro : dunque la notte
avevano paura, e perciò vi si picchiava su. Per il
cortile giacevano alcuni magri levrieri. Un bimbo
CAMPAGNA 161
sugli otto anni correva tra essi, conduceva sopra un
carrettuccio il fratellino biondo con un gran berret
to nero, e il carrettuccio strideva in modo orribile.
La casa era grigia, pesante e doveva essere tremen
damente tediosa in quei crepuscoli. “Se almeno ac
cendessero il lume!” pensò Kuzmà. Era stanco mor
to, gli sembrava di esser partito dalla città quasi da
un anno. D ’un tratto si udì un urlo, un latrato, e
dal cancello del giardino balzarono spaventati, ti
randosi l’un l’altro, di fianco, saltando a casaccio,
guardandosi attorno e cercando di azzannarsi, due
cani - una cagna da corsa e un cane da cortile -
con la testa rivolta in diverse direzioni. Dietro a
loro, schiamazzando, correva un ragazzotto discin
to, senza cappello, strisciando i pesanti stivali. E
dietro al ragazzotto un signorino...
La sera e la notte Kuzmà le passò nel giardino
in un vecchio bagno. Lo st àro sla, ritornato a caval
lo dai campi, aveva detto burbero che « il giardino
era affittato da un pezzo » e, alla richiesta di per
nottare, aveva espresso un insolente stupore.
— Sei ben furbo! — cominciò di punto in bian
co a gridare. — Un albergo hai trovato! Di voial
tri ce n ’è tanti che bighellonano adesso... — Ma si
degnò di fargli grazia, e gli permise di andare nel
bagno... Kuzmà pagò Megnsòv e, passando davanti
alla casa, si avviò verso il cancello di un viale di
tigli. Dalle finestre buie spalancate, di dietro al re
ticolato di ferro messo a riparo dalle mosche, veniva
il suono di un piano soffocato da una magnifica vo
ce di tenore-baritono, con vocalizzazioni ingegnose
162 CAMPAGNA
che non si adattavano affatto né alla serata, né alla
villa. Per la sabbia sporca del viale battuto, in fon
do al quale, come in capo al mondo, biancicava fo
sco il cielo nebuloso, senza fretta veniva incontro
a Kuzmà un contadinotto basso, rosso scuro, con un
secchio in mano, anche lui senza cintura, senza cap
pello e in stivali pesanti.
— Sentilo, sentilo! — diceva beffardamente per
via, stando ad ascoltare la voce tenorile. — Sen
tilo, se la gode, che gli scoppi la pancia.
— Chi se la gode? — domandò Kuzmà.
Il contadinotto alzò il capo e si fermò.
— Ma il signorino — disse allegro, biascicando
forte l’erre. — Dicono che sia sett’anni!
—- Ma qual è? quello che rincorreva i cani?
— No-o, l’altro... Questo ancora non è nulla.
Qualche volta, quando si mette a urlare : « Oggi tu,
domani io... », è proprio un guaio!
—- Studia, senza dubbio?
— Bello studio!
— E quell’altro, che fa?
— Quello là? — Il contadinotto, con un sorriso
ironico trattenuto, prese fiato. — Ma nulla... Che gli
manca? Il mangiare è bono, il divertimento ce l’ha;
Fèdka butta in aria delle bottigliette e lui ci spara
su; a volte compra la barba di un contadino, glie
la taglia e ne carica il fucile, per ridere... Eppoi i
cani : da noi ce n ’è proprio un subisso. La dome
nica, quando cominciano a dar giù sulle campane,
attaccano tutti insieme... è un vero buscherio! 1er
l’altro han morso un cane di contadini... e i conta
CAMPAGNA 163
dini tutti fuori: « Pagacene un v ed rò 1 e basta. Se
no si fa subito sciopero »...
— E gliel’han dato?
— E come no? L’hai a da-are, fratello! Qui c’è
un mugnaio... Andò difilato alla scalinata e disse:
« Il vento, signori nobili, soffia dai campi! ». Ca
piscilo, se ti riesce. Il signorino voleva fare il bravo :
« Ma che vento è cotesto ? » « Ma così » dice « io
t’ho fatto l’indovinello e tu pensaci... ». Lo guarì
d’un tratto, fratello!
Tutto questo era stato raccontato quasi con non
curanza, alla leggera, a intervalli, ma con tale mor
dace ironia, con l’erre così biascicata - « a un fa t
to, f’atello! » - che Kuzmà guardò attentamente il
contadinotto. Sembrava uno scemo. I capelli lisci, a
scodella, lunghi. La faccia piccola, insignificante, di
tipo russo antico, pareva un lavoro di Su zd àl2. Gli
occhi sotto alle grandi palpebre assonnate eran da
avvoltoio, con un cerchio dorato intorno alle pupil
le. Quando abbassava le palpebre, era un piccolo
scemo che biascicava l’erre; quando le sollevava, si
provava quasi un senso di paura.
— Tu lavori in giardino? — domandò Kuzmà.
— In giardino... E dove ancora?
— E come ti chiami?
— Io? Akim... E tu?
— Io volevo pigliare in affitto il giardino.
— Già... l’hai trovato!
E Akìm tentennò il capo con aria beffarda e se
1. Un vedrò — litri 12,29.
2. A Suzdàl si facevano le icone antiche.
164 CAMPAGNA
ne andò pensieroso per la sua strada, evidentemente
scordandosi subito di Kuzmà.
Pareva una sera d ’ottobre, ma il vento soffiava
sempre più impetuoso, spargendo spruzzi dagli albe
ri di un verde vivido; oltre il giardino, in qualche
luogo basso, brontolava un tuono sordo, baleni az
zurri pallidi illuminavano il viale e dappertutto can
tavano gli usignoli. Era assolutamente incomprensi
bile come potessero con tanta cura, in così ostinato
oblio, con tanta forza e dolcezza cinguettare, trilla
re ed effondersi in gorgheggi sotto quel cielo pe
sante e plumbeo, tra gli alberi che si curvavano dal
vento, nei fitti cespugli bagnati. Ma ancor più in
comprensibile era come le guardie notturne passas
sero con quel vento la notte, come dormissero sul
la paglia umida sotto alla tettoia di una gran ca
panna marcia in fondo al viale!
Facevano la guardia in tre. E tutti erano ma
lati. Uno giovane, magro, simpatico, ex fornaio, li
cenziato l’autunno prima per aver fatto sciopero, ora
pezzente, senza aver ancora perduto i tratti del vil
lico, si lagnava della febbre; un altro, anch’esso pez
zente, ma ormai inveterato, era tisico, benché dices
se che non sentiva nulla, « solo un po’ di freddo tra
le scapole »; Akìm soffriva della così detta « ceci
tà delle ga llin e »1: per l’anemia ci vedeva male al
crepuscolo. Il fornaio, pallido e affabile, quando si
avvicinò Kuzmà, sedeva accoccolato accanto alla ca
panna, e rimboccate sulle braccia deboli e scarne le
maniche di una giacca ovattata da donna, lavava in
1. Il nome scientifico è emeralopia.
CAMPAGNA 165
un ciotola di legno del miglio. Il tisico Mitrofàn,
basso di statura, largo, ma orribilmente magro e
scuro di faccia, rassomigliante a un negro del Da
homey, tutto brandelli bagnati, con gli o p ò r k i 1 lo
gori e ruvidi come un vecchio zoccolo di cavallo,
stava accanto al fornaio e, sollevate le spalle, con
gli occhi castagni, lucenti, dilatati e senza espres
sione, guardava il suo lavoro. Akìm aveva portato
un secchio d ’acqua e accendeva il fuoco, soffiando in
una stufetta di terra di fronte alla capanna. En
trava nella capanna, vi sceglieva dei fasci di paglia
più asciutti, e di nuovo ritornava al fuoco che sotto
alla marmitta faceva puzzo e fumo, sempre borbot
tando qualcosa, respirando col sibilo e sorridendo
con aria beffardamente enigmatica, noncurante delle
canzonature dei compagni, troncandole talvolta abil
mente e con malignità. Gli altri o dovevan pen
sare addirittura ch’egli avesse un ramo di pazzia
o semplicemente si erano abituati a quel suo to
no. Kuzmà poi chiudeva gli occhi e stava ad ascol
tare ora i discorsi, ora gli usignoli, seduto accanto
alla capanna, sopra una panchina umida, che si ri
copriva di spruzzi gelati quando lungo il viale, sot
to al cielo fosco tremolante per i pallidi baleni, pas
sava il vento umido e sordo brontolava il tuono. Si
sentiva stringere la bocca dello stomaco dalla fame
e dal tabacco. Il k u ljè s 2 sembrava non sarebbe stato
mai pronto, e non gli usciva di capo il pensiero che,
forse, lui stesso avrebbe dovuto vivere una simile
1. Cfr. nota a pag. 142.
2. Pietanza preparata con miglio, o piselli, e lardo, piuttosto
liquida, specie di kàsa.
166 CAMPAGNA
vita da bestie, come quelle guardie notturne... e che
davanti a sé aveva soltanto vecchiaia, malattie, so
litudine e miseria. Il corpo gli doleva, e lo irritava
no le folate di vento, il tuono monotono, lontano,
gli usignoli, il lento, noncurante e mordace biasci
care di Akìm e la sua voce stridente.
— Se tu, Akìmuska, ti comprassi almeno una cin-
turetta — con falsa semplicità diceva il fornaio, met
tendosi a fumare, continuando a prenderlo in giro
e dando continue occhiate a Kuzmà, per invitarlo
ad ascoltare Akìm.
— Aspetta un po’ — distratto e ironico rispon
deva Akìm, versando dalla marmitta bollente nel
la ciotola un sugo bianco. — Ecco lascia che si fi
nisca l’estate dal padrone, poi gli stivali con lo scric
chio ti comprerò.
— « Con lo scricchio! » Ma io non te li chiedo.
— Ma però porti gli o p ò rk i!
E Akìm premuroso si mise ad assaggiare il li
quido col cucchiaio.
Il fornaio si confuse e finse di sospirare:
— Che stivali possiamo mai portar noi!
— Ma finitela — disse Kuzmà — dite piuttosto,
non mangiate altro tutti i giorni che k u ljè s e k u ljè s ?
— E tu che vorresti, dei pesciolini, un po’ di pro
sciutto? — domandò Akìm senza voltarsi. — Non
sarebbe male: un quartuccio d’acquavite, un tre lib-
brette di anguilla, una coda di prosciutto, il tè di
frutta...
— E che c’è? Dell’anguilla! — sorrise Kuzmà.
— Che pesce è poi questo?
Akìm si voltò.
CAMPAGNA 167
— Stupido — disse convinto — forse che c’è del
pesce cattivo? In quanto a questo, non è un k u-
Ijès, ma si chiama k àsa lunga. Il k u ljè's si mangia
per antipasto.
— E la minestra di cavoli, la zuppa, la fate?
— Ne abbiamo avuta, fratello, di minestra di ca
voli, e quale! A gettarla sul cane, gli andava via il
pelo!
— Almeno un po’ di zuppetta...
— E dove s’hanno da prendere le patate? Dai
m n ž ik t, da quei diavoli, caro mio, non ce le com
pri! A un m u z ik nel colmo dell’inverno non gli ca
vi neppure un po’ di neve.
Kuzmà crollò il capo:
— È dal male che sei così cattivo! Se tu ti cu
rassi un pochetto...
Akìm leccò il cucchiaio e, senza rispondere, si ac
coccolò davanti al fuoco. Il fuoco già si spegneva,
sotto alla marmitta rosseggiava un mucchietto di tiz
zi sottili; il giardino si faceva sempre più scuro e
i baleni azzurri, tra le folate di vento che facevano
gonfiare la camicia di Akìm, ormai debolmente il
luminavano le facce. Mitrofàn sedeva accanto a Kuz
mà, appoggiandosi sul bastone che teneva tra le gam
be; il fornaio su un ceppo sotto a un tiglio. Udite
le ultime parole di Kuzmà, si fece serio.
— E io la penso così — disse sottomesso e tri
ste — che non può essere altrimenti, che tutto di
pende da Dio. Se Dio non ti dà la salute, nessun
dottore ti può aiutare. Ecco Akìm dice giusto: prima
della morte non si more.
— I dottori! — riprese Akìm, guardando i tiz-
168 CAMPAGNA
zoni e in modo particolarmente caustico pronunzian
do questa parola: « dotto’i! »... — I dottori, fratel
lo, badano alle loro tasche. Io a lui, al dottore di
qui, le budella gli farei uscir fuori per quel che fa!
— Non tutti ci badano — disse Kuzmà.
— Io tutti non l’ho veduti.
— E allora non t ’inventare, se non l’hai veduti
— disse severo Mitrofàn, e si rivolse al fornaio: —
Sì, anche tu sei buono : sentilo come piange mise
ria! Se tu non ti fossi rotolato per terra come un
cane, la febbre non ti scoterebbe in cotesto modo.
— Ma io... — stava per dire il fornaio.
Ma qui la calma ironica d ’un tratto abbandonò
Akim. E facendo roteare i suoi stupidi occhi da av
voltoio, a un tratto scattò su e con la veemenza di
un idiota si mise a gridare:
— Che? A me non t ’inventare? Che ci sei stato
tu all’ospedale? Ci sei stato? E io ci sono stato! Ci
son rimasto sette giorni, me ne dava molti panini
il tuo dottore? Molti?
— Ma imbecille — lo interruppe Mitrofàn —
i panini non spettano a tutti: secondo le malattie.
— Ah! Secondo le malattie!... Ebbene che ci si
strozzi coi panini, che gli scoppi la pancia! — gridò
Akìm.
E, guardandosi attorno furioso, gettò il cucchiaio
nella « k àsa lunga » e andò nella capanna.
Là, respirando col sibilo, accese una piccola lam
pada e nella capanna ci si sentì subito bene. Poi
tirò fuori da un certo posto di sotto al tetto i cuc
chiai, li gettò sulla tavola e gridò:
— Che lo portate il kuljès\
CAMPAGNA 169
Il fornaio si alzò e andò a prendere la marmitta.
— Favorite — disse passando davanti a Kuzmà.
Ma a Kuzmà era spiacevole mangiare insieme con
Akìm. Chiese del pane, lo salò ben bene e, masti
cando con piacere, ritornò sulla panchina. Si era fat
to del tutto scuro. La luce azzurro-pallida, sempre
più estesa, più frequente e più vivida, quasi gonfia
ta dal vento, illuminava gli alberi che stormivano,
e ad ogni baleno il fogliame verde smorto per un
attimo diventava visibile come di giorno, dopo di
che tutto era avvolto da un buio sepolcrale. Gli usi
gnoli avevano cessato di cantare, soltanto uno con
voce dolce e forte trillava e gorgheggiava, proprio
sopra la capanna. Nella capanna poi, intorno alla
lampadina, di nuovo si era avviata una conversazione
pacifica e ironica insieme. “Non hanno nemmeno do
mandato chi sono, da dove ven go!” pensò Kuzmà.
“Che gente, potesse sprofon dare!” E mentre mastica
va gridò scherzoso verso la capanna:
— Akìm, non m ’hai neppur domandato chi sono,
da dove vengo?
— O a che mi servi tu? — rispose Akìm in dif
ferente.
— Ecco io un’altra cosa gli domando — si udì
la voce del fornaio — quanta terra si crede di ri
cevere dalla Duma? Che ne pensi, Akimuška? Eh ?
— Io non son scritturale — disse Akìm. — Tu
dal letame lo vedi meglio.
E il fornaio probabilmente si confuse di nuovo:
per un minuto vi fu silenzio.
— Questo lo dice riguardo a voialtri — comin
ciò Mitrofàn. — Tempo fa gli raccontai che a Ro-
170 CAMPAGNA
stòv la povera gente, il proletariato cioè, l’inverno
si rifugia nel letame...
— Se ne va fuor di città — riprese gioioso Akim
— e giù nel letame! Ci si sprofonda non peggio d’un
porco e non pensa più a nulla.
— Imbecille! — lo interruppe Mitrofàn e così
severo che Kuzmà si voltò. — Perché schiamazzi?
Cieco imbecille, sciancato! Se ti coglierà la miseria,
ti ci sprofonderai anche tu!
Akìm, posato il cucchiaio, con aria assonnata lo
guardò. E con la stessa improvvisa veemenza di pri
ma, spalancò i suoi occhi vuoti da avvoltoio e in fu
riato urlò:
— A-ah! La miseria! T ’è venuto voglia di lavo
rare a ore?
— E come? — gridò furente anche Mitrofàn, di
latando le narici da negro del Dahomey e guar
dando fìsso Akìm con gli occhi luccicanti. — Venti
ore per un ventino?
— A-ah! E tu vorresti un’ora per un rublo?...
Troppo avido sei, che la pancia ti scoppi!
Ma l ’alterco si spense così presto come si era ac
ceso. Dopo un momento Mitrofàn già diceva calmo,
scottandosi la lingua col k i/ljè s :
— Proprio lui che non è avido! Ma se lui, dia
volo cieco, per un copeco si appiccherebbe sull’al
tare! Lo credete? la moglie per quindici copechi ha
venduta! Parola d ’onore, non scherzo. Da noi a Li
petsk c’è un certo vecchietto, Pànkov si chiama, an
che lui prima faceva il giardiniere, ebbene adesso
è in riposo e queste cose gli piacciono molto...
CAMPAGNA 171
— O che anche Akìm è delle parti di Lipetsk? —
lo interruppe Kuzmà.
— Di Studjònka, della campagna — disse Akìm,
indifferente, come se non si parlasse di lui.
— È vero, è vero — confermò Mitrofàn. — È
un m u z ik di razza. Vive dal fratello, ha la terra, la
casa a mezzo con lui, ma soltanto però gli è come
se tenesse il posto di uno scemo, e la moglie, si sa,
gli è già scappata: e perché è scappata? appunto
per quello stesso motivo: fece il patto con Pànkov
per quindici copechi di farlo entrare invece di lui
la notte nella stanza, e ce lo lasciò.
Akìm taceva, picchiettando col cucchiaio sulla ta
vola e guardando la lampadina. Aveva già mangiato
a sazietà, si era asciugato la bocca e adesso pensava
a qualcosa.
— Contar bugie, ragazzo, non è lavorar la terra
— disse alla fine. — E anche se ce l’avessi lasciato
entrare: si sarà scolorita lei?
E mentre stava ad ascoltare, sorrise, sollevò le
sopracciglia, e la sua faccina da icona di Suzdàl si
fece gioiosa e triste, e si coperse di grosse rughe che
parevan di legno.
— Ecco dargli una fucilata! — disse con voce
particolarmente stridula e biasciando l’erre. — La
farebbe una bella capriola!
— Ma di chi parli? — domandò Kuzmà.
— Ma di quell'usignolo lì...
Kuzmà strinse i denti e, pensato un po’, disse:
— Sei una carogna di m u z ik . Una bestia.
— E tu baciami il ... — rispose Akìm macchi
nalmente. E, dopo aver fatto un singulto, si alzò:
172 CAMPAGNA
— O perché per nulla s’ha da tener acceso il lu
me?
Mitrofàn cominciò ad arrotolare una sigaretta, il
fornaio a riporre i cucchiai, e lui si alzò da tavola,
voltò la schiena alla lampada e, fattosi in fretta tre
volte il segno della croce, di slancio si inchinò ver
so l’angolo scuro della capanna, scosse i capelli lisci
di stoppa e, sollevata la faccia, mormorò una pre
ghiera. Egli proiettava su certe casse di legno una
grande ombra spezzata e parve a Kuzmà ancor più
piccolo di prima. Kuzmà si sovvenne di essere stato
un tempo lontano alla leva : eran chiamate sotto le
armi cinquecento persone, se ne dovevan prendere
in tutto centoventi, a lui toccò il numero quattrocen-
tonovantadue, e tuttavia mancò poco che non do
vesse svestirsi : tanti ne scartavano di quegli ado
lescenti nudi simili a passerotti spelacchiati con le
loro braccia sottili come giunchi e i ventri grossi e
tesi. Akìm tornò frettoloso a farsi il segno della
croce e di nuovo fece un inchino di slancio, e Kuz
mà lo guardò questa volta con odio. Ecco Akìm
pregava, ma si provasse un po’ a domandargli se
credeva in Dio! Dall’orbita gli sarebbero schizzati
fuori gli occhi da avvoltoio! A lui già sembrava che
nessuno al mondo credesse tanto quanto lui. Fino al
profondo dell’anima era convinto che per far cosa
grata a Dio, e anche per non esser biasimati dalla
gente, occorreva col massimo rigore osservare anche
i minimi precetti relativi alla chiesa, ai digiuni, alle
feste, alle opere buone; che per la salvezza dell’a
nima - non per bontà s’intende! — conveniva senza
indugio far tutte queste cose, mettere le candele, in
CAMPAGNA 173
quaresima mangiar pesce e olio, e quanto alle feste
poi festeggiarle e far contento il p o p con focacce e
pollame... E, conoscendo queste sue convinzioni, tut
ti credevano fermamente che Akìm fosse una per
sona molto religiosa, benché in tutta la sua vita que
sto Akìm non avesse neppure una volta pensato : che
era mai il suo Dio? come non aveva mai pensato
né al cielo né alla terra, né alla nascita né alla mor
te... che aveva da pensar lui! Per lui avevano riflet
tuto gli altri! Lui per tutto aveva le sue risposte,
calme, preparate da m ill’anni. Lui sapeva bene : nel
cielo il paradiso, gli angeli, i santi; nell’inferno i
diavoli e i peccatori; sulla terra gente che lavora
i campi, costruisce, commercia, guadagna denari,
prende moglie, vive per il suo piacere... Non tutti,
certo, di gran lunga non tutti, ma che ci si poteva
fare? Tuttavia gli uomini a questo dovevano aspi
rare — e sarebbe certo venuto il momento buono, si
sarebbe fatto conoscere Akìm! — pensò Kuzmà, con
stupore e terrore, come sempre, ricordando i mas
sacri. In quanto al mistero della nascita e della mor
te, questo non riguardava Akìm. Quando si nasce,
bisogna venir battezzati e all’uso nostro, russo, e
non da cani, all’uso turco o francese. Al momento
della morte, assolutamente comunicarsi - altrimenti
non si scampa dall’inferno - meglio però d’ogni
cosa, ricevere il viatico. Ed ecco tutto. C’erano an
cora sulla terra insetti, fiori, piante, uccelli, anima
li... Ma ai fiori e agli insetti Akìm non si abbassava
a pensare: si dovevano semplicemente schiacciare.
Delle piante vedeva solo quelle che portavano frutti,
bacche, o servivano come foraggio. Gli uccelli vola
174 CAMPAGNA
vano, e la cosa più piacevole era uccidere per man
giarli quelli che a questo erano adatti, e i non adatti
per divertimento. Le fiere bisognava distruggerle tut
te fino all’ultima, gli animali domestici poi trattarli
in vario modo: i propri ingrassarli per utilità pro
pria; a quelli degli altri e a quelli vecchi dar fru
state sugli occhi, romper le zampe...
“E che importa a lui” con angoscia pensò Kuzmà
“che importa a lui, una volta che non si occupa del
la masseria, che per una settimana piova, grandini,
rombi il tuono, lampeggino i baleni... che adesso ri
schiarino il morto visino livido nell’isbà buia, piena
di mosche, dove dorme come un sasso quella ragaz
za cieca...”
Gli sembrava di esser partito dalla città un anno
prima e che mai ora ci sarebbe potuto arrivare. Gli
pesava il berretto bagnato, gli dolevano i piedi fred
di, stretti negli stivali sporchi. La faccia in un sol
giorno si era arrossata all’aria, gli bruciava. Il corpo
era spossato dalla t e ljè ga e dai disagi, dalla brama
insoddisfatta di riposo. Ma dormire no, non si sa
rebbe ancora addormentato. Alzatosi dalla panchi
na, Kuzmà andò incontro al vento umido verso il
cancello che dava in un campo, nel terreno incolto
di un cimitero da lungo tempo abbandonato. Dalla
capanna cadeva sul fango una luce fioca, ma appena
Kuzmà si fu allontanato, Akìm soffiò sulla lampa
dina, la luce scomparve e d’un colpo si fece notte.
Un baleno azzurrognolo luccicò ancora più vivo e
inaspettato, scoperse tutto il cielo, tutto il fondo del
giardino fino agli ultimi meli lontani, dove era il
bagno, e ad un tratto sommerse tutto in un buio così
CAMPAGNA 175
nero che gli fece girar la testa. E di nuovo bronto
lò in basso un tuono sordo lontano e, tra lo stor
mire degli alberi e il brontolio del tuono, giunse un
guaito a scatti, un latrato: una rissa di cani che die
tro al giardino facevan baldoria con una vacca mor
ta. Rimasto lì un momento e scorto un fioco spira
glio di luce al portone, Kuzmà uscì sulla strada che
si stendeva lungo una scarpata davanti a vecchi ti
gli e aceri che stormivano e si mise a camminare
lentamente avanti e indietro. Sul berretto, sulle mani
di nuovo cominciò a gocciolare la pioggia. Ma egli
aveva voglia di finire le riflessioni incominciate. A
un tratto di nuovo si squarciò profondamente il buio
nero, brillarono le gocce di pioggia e nella landa de
serta, alla luce di un azzurro smorto, si delineò la
figura di un cavallo bagnato dal collo sottile. Un
campo d ’avena pallido, di un verde metallico, bale
nò di là dalla landa su uno sfondo d’inchiostro, il
cavallo alzò la testa, e Kuzmà ebbe un senso di
paura. Il cavallo presto scomparve nell’oscurità, ma
di chi era? perché non era impastoiato? perché gi
ronzolava tutta la notte senza sorveglianza?... E Ku z
mà ritornò al cancello. Nel fosso sotto alla scarpata,
tra la bardana e l’ortica molli di pioggia, qualcuno
non si sa se ruggiva o russava. Inciampicando, ten
dendo, come un cieco, le mani avanti, Kuzmà si av
vicinò al fosso.
— Chi è là? — gridò.
Ma il russare era di persona ubriaca fradicia, for
te, ma soffocato. E tutto attorno dormiva di un son
no profondo. I baleni si andavano spegnendo, gli
alberi assonnati, invisibili nell’oscurità stormivano sot-
176 CAMPAGNA
to la pioggia sordamente e cupamente... Quando poi
Kuzmà a tastoni arrivò infine al bagno, la pioggia
si riversò sulla terra con una forza tale che, come
nell’infanzia, gli cominciarono a balenare pensieri
spaventosi sul diluvio. Sfregò uno zolfanello, vide
un pancaccio largo accanto alla finestrina e, piegato
il caffettano, lo gettò dalla parte del capezzale. Al
buio montò sul pancaccio e con un sospiro profondo
vi si distese, si coricò come i vecchi sulla schiena e
chiuse gli occhi stanchi. Dio mio, che viaggio insul
so e gravoso! E come era potuto capitar lì? Anche
nella casa padronale adesso era buio, e i baleni pas
sando rapidi furtivamente si riflettevano negli spec
chi... Nella capanna, sotto la pioggia dirotta, dor
miva Akìm... Ecco in quel bagno più d ’una volta,
certo, avevano veduto i diavoli: ma credeva Akìm
come si deve almeno al diavolo? No. Vi credevano
mille anni addietro; in quanto ad Akìm, soltanto
macchinalmente aveva accettato quell’eredità, ma sen
za credervi, raccontava tuttavia con convinzione come
il suo defunto nonno proprio il nonno e proprio
defunto - era andato una volta nel granaio a pren
dere una balla di strame, e il diavolo se ne sedeva
là su una cavezza, con le gambe incrociate, arruffa
to come un cane... E, ripiegato un ginocchio, Kuzmà
si mise la mano sulla fronte e cominciò, con sospi
ri e un senso d’angoscia, ad assopirsi...
L’estate la passò in attesa di un posto.
Quella notte, nel giardino di Kazàkovo, aveva ca
pito chiaramente che il suo sogno di affittare dei
giardini era sciocco. Ritornato in città, e dopo aver
riflettuto bene sulla sua posizione, si mise a cercare
CAMPAGNA 177
un posto - di commesso, di contabile; poi cominciò
ad adattarsi a qualunque posto - pur di avere un
pezzo di pane. Ma ricerche, sollecitudini, richieste
erano vane. E fu preso dalla disperazione : ma come
mai non aveva veduto che lui non poteva nemmeno
sperar nulla! In città da tanto tempo passava per un
grande originale. L’ubriachezza e la disoccupazione
avevan fatto di lui uno zimbello. La sua vita dap
prima aveva stupito la città, poi era cominciata a
sembrare sospetta. E in verità: dove si era mai vi
sto che un rn jescjan h i , all’età sua, vivesse in un rico
vero, fosse scapolo e povero come un suonatore di
organetto : tutto il suo avere era un bauletto e un
vecchio ombrello pesante! E Kuzmà cominciò a guar
darsi allo specchio: che razza d ’uomo, infatti, era
davanti a lui? Pernottava in una « stanza comune »,
tra gente estranea che andava e veniva, il mattino
si trascinava al caldo per il mercato, nelle trattorie,
per poter afferrare qualche voce a proposito degli
impieghi; dopo desinare dormiva, poi, seduto alla
finestra, leggeva Kostomàrov ', guardava la strada
bianca polverosa e il cielo azzurro pallido dalla cal
dura... Per chi e per che cosa viveva al mondo quel
m je icjan h i dalle ossa larghe, ma magro e già canuto
dalla fame e dai pensieri gravi, che si diceva anar
chico e non sapeva con criterio spiegare che cosa
significasse anarchico? Sedeva, leggeva; sospirava,
passeggiava per la camera; si accoccolava davanti al
lungo divano, apriva il suo bauletto; riassettava con 1
1. Grande storico russo (1817*1885).
178 CAMPAGNA
un po’ più d’ordine i libri e i manoscritti sciupati,
due o tre camicie alla russa scolorite, un vecchio
soprabito dalle falde lunghe, un panciotto, la fede
di nascita tutta logora. E si lasciava cader le braccia.
A che pro tutto questo? Quale miseria, quale solitu
dine! In quanto a ciò che l’aspettava, al solo pen
sarci era preso da paura. Tìchon non aveva figli, era
ricco, ma nemmeno per il suo trasporto funebre
avrebbe dato un centesimo...
E l’estate passava interminabilmente lunga. La Du
ma era stata sciolta, ma questo non aveva rotto la
monotonia dei giorni lunghi e caldi. Si aspettava una
gran sommossa nelle campagne, ma nessuno mosse
ciglio quando proprio nulla di grande avvenne. Si
organizzavano nuovi feroci massacri di ebrei, un gior
no dietro l’altro avvenivano esecuzioni capitali, fu
cilazioni, ma la città aveva persino cessato di inte
ressarsene. Nella provincia, per le ville si aveva un
po’ di paura, specialmente dopo quel famoso giorno
quando i contadini si erano sollevati per una certa
« disposizione » di non si sa chi. Ma che importava
alla città della provincia? Di cosacchi ne era stato
mandato ancora un centinaio, tutti a una voce li
maledicevano, ma li sopportavano. Il giornale loca
le fu sospeso tre volte ed infine fu soppresso del
tutto, la vendita di quelli della capitale fu proibita.
Sugli affissi teatrali di nuovo si cominciò a stam
pare: « Col permesso delle autorità, di passaggio
per questa città... », e anche gli affissi di nuovo tor
narono a essere indecorosi: erano giunti dei Piccoli
Russi che cercavano di attirar gente alla rappresen
CAMPAGNA 179
tazione «d e l famoso dramma storico Taràs Bù lb a1,
uccisore del proprio figlio » coll’annunziare che « vi
partecipava tutta la compagnia », e poi col go p àk 2,
coi « sontuosi costumi » o i « regali gratuiti » : una
mucca e un servizio da tè « del costo di settantacin-
que rubli »; erano comparsi corridori e divinatori del
destino, certi imbroglioni che facevano vedere la mo
struosità umana: gemelli attaccati, una donna barbu
ta, una ragazza che pesava oltre duecento chilogram
mi, un « miracolo del secolo XX, un mostro vivente
acchiappato nel mar Rosso » che giaceva morto in
una tinozza di latta dietro a una tenda di percalle...
I militari avevano rialzato la testa e andavano in
carrozza a ubriacarsi, chissà perché, alla stazione, e
là facevano delle orge, gridavano che « gli ufficiali
sono una sola famiglia », sghignazzavano leggendo
le richieste di amnistia, di soppressione della pena
di morte, e ciascuno pensava di dir cosa molto nuo
va esclamando : « che prima i signori rivoluzionari
cessino i loro assassini! » oppure dimostrando che il
socialismo non è che una sciocchezza : « Scusate, che
vuol dire questo: il vostro orologio è il mio orolo
gio, mia moglie è vostra moglie? ».
— Che sia maledetto il giorno della mia nascita
in questo tre volte maledetto paese! — diceva tal
volta Kuzmà, gettando sulla tavola il giornale, chiu
dendo gli occhi e serrando i denti. — A tutto il
mondo bisognerebbe gridare adesso : ci aiuti chiun
que crede in Dio!
1. Tratto dal racconto di Gògol.
2. Danza nazionale della Piccola Russia.
180 CAMPAGNA
— Ecco griderai finché ti sentiranno — gli ri
spondeva calmo qualcuno.
E faceva cadere il discorso sulla raccolta, sulla
siccità. E Kuzmà taceva e si tranquillizzava anche lui :
gli avvenimenti erano così atroci che la sensibilità
umana non bastava.
In provincia di tanto in tanto era caduta qualche
pioggia, ma in città dal maggio all’agosto, un gior
no dopo l’altro, fu un’arsura infernale. La casa di
angolo del ricovero notturno bruciava al sole. La
notte dall’afa il sangue dava alla testa e ogni rumore
che veniva dalla finestra aperta svegliava. Nel fieni
le poi non era possibile dormire dalle pulci, dal can
to dei galletti e dal puzzo che veniva dalla conci
maia, e anche di fumare era proibito: il padrone
era grosso, debole e nervoso come una vecchia don
na... Tutta l’estate la speranza di andare a Vorò-
njež non lasciò Kuzmà. Ah, come non aveva ap
prezzato i giorni della giovinezza! Anche da un tre
no all’altro girare per le vie di Vorònjez, guardare
i ben noti pioppi, quella casetta azzurra fuori di cit
tà!... Ma perché? Spendere dieci, quindici rubli, e
poi privarsi di una candela, di un panino? E poi
era vergogna per un vecchio abbandonarsi a ricordi
d ’amore. E che gl’importava di Klàsa ’, era forse
ancora figlia sua? L’aveva veduta un due anni ad
dietro : sedeva alla finestra, faceva la trina, con un
aspetto grazioso e modesto, ma somigliava soltanto
alla madre... Che le avrebbe detto, se anche si fosse
deciso ad entrare? Con che occhi avrebbe guardato1
1. Diminutivo di Klàv dja (Claudia).
CAMPAGNA 181
il vecchio Ivàn Semjònic?... E il tempo scorreva in
sopportabilmente tedioso. Non v’erano nemmeno fo
restieri. In tutto luglio si era fermato soltanto un
giovane diacono, come tutti i seminaristi, un po’ buf
fo. Era venuto a trovarlo un parente, ma se ne era
andato con le pive nel sacco: il diacono era al mer
cato e il suo casato - Krasnobàjev - l’aveva scritto
sulla lavagna in latino : Benediktov...
Verso l’autunno Kuzmà si persuase che era ne
cessario o andarsene per i luoghi santi, in qualche
monastero, o lasciar che tutto andasse come voleva
e di nuovo darsi a bere, a dispetto di qualcuno. Un
giorno, aperto il bauletto, egli trovò “La confessio
ne” di Tolstoj, l’aprì e lesse una nota a matita fatta
da lui in stato di ubriachezza, quand’era da Ka-
sàtkin: «Disaw ezzare tutti dall’acquavite è impos
sibile ». Un due mesi addietro avrebbe soltanto ag
grottato la fronte - che nota sciocca! - adesso inve
ce sorrise e pensò : “E non sarebbe meglio mandar
tutto al diavolo, bruciar tutto fino all’ultimo filo, e
darsi un bel colpo alla gola col rasoio?”. Si avan
zava l’autunno, ma a che aspettar l’autunno? Già
al mercato si sentiva odore di mele e di susine. Eran
ritornati gli alunni del ginnasio. Eran cominciate le
corse. Il sole già tramontava dietro la piazza Šcep-
nàja: se si usciva la sera dalla gran porta e si svol
tava a sinistra, attraversando il crocicchio si rima
neva abbagliati: a sinistra tutta la strada, che anda
va a sboccare in lontananza nella piazza, era avvolta
da un luccicore basso, uggioso. I giardini oltre gli
steccati eran tutti polvere e ragnatele. Veniva incon
tro Polòzov: portava la mantellina, ma al cappello
182 CAMPAGNA
aveva sostituito un berretto con la coccarda. Nel giar
dino pubblico non un ’anima. Chiuso il padiglione
dei bandisti, chiuso il chiosco dove l’estate si ven
deva latte fermentato e limonata, chiuso lo spaccio
di bibite dalle pareti di assi. E una volta, seduto pres
so a quel padiglione, Kuzmà si sentì preso da tale
angoscia che pensò sul serio al suicidio. Il sole tra
montava, la sua luce era rossiccia, volava un minuto
fogliame roseo lungo il viale, soffiava un vento fred
do. Nella cattedrale si suonava a vespro, e, a questo
scampanio denso e cadenzato del sabato di provin
cia, l’anima doleva insopportabilmente. Ad un tratto
di sotto al padiglione si udì un colpo di tosse, un
gemito... “ Mòtka” pensò Kuzmà. E davvero: di sot
to alla scala sbucò fuori Mòtka testa d’anatra. Por
tava degli stivali rossicci da soldato, un’uniforme da
studente di ginnasio molto lunga, cosparsa di fari
na - evidentemente il mercato si era divertito —e un
cappello di paglia molte volte capitato sotto le ruote.
Senza aprire gli occhi, espettorando e traballando per
la sbornia, gli passò davanti senza neppur chiedere
da fumare. Kuzmà, trattenendo le lacrime, lo chiamò:
— Mot! Vieni, si chiacchiera un po’, si fuma...
E Mòtka tornò indietro, si mise a sedere sulla
panchina, cominciò assonnato, movendo le soprac
ciglia, ad arrotolare una sigaretta, ma sembrava non
capisse bene chi era accanto a lui, chi a lui si la
gnava della propria sorte...
E il giorno dopo quello stesso Mòtka portò a Kuz
mà il biglietto di Tìchon. E il cappio che di nuovo
stava per strangolare Kuzmà d ’un tratto schiantò...
Alla fine di settembre egli si stabilì a Durnòvka.
La tenuta presso Durnòvka era condotta a mas
seria. Essa infatti prima si chiamava masseria. I Dur-
nòvo possedevano diverse tenute e ne occupavano la
principale, a Zùsa. Afanàsij Nìlyc, che aveva fatto
dilaniare Zingaro, si fermava soltanto a Durnòvka
sulla via del ritorno dalla caccia. Nil Afanàsjevic,
maresciallo della nobiltà, non aveva tempo di oc
cuparsi delle masserie: tutta la sua vita aveva orga
nizzato pranzi e bevuto xeres al circolo, era famoso
per la sua grassezza, il suo appetito, il suo bisbi
gliare sonoro - egli aveva la gola d ’argento - per
la sua munificenza, i suoi motti di spirito e la sua
distrazione. Raramente dava una capatina a Durnòv
ka anche suo figlio, un ulano che portava il nome
del nonno. L’ulano era ritenuto ancora un gran pos
sidente. Andato in riposo, decise di guadagnare mi
lioni, di mostrare come si deve condurre un’azienda.
Ma abitare nei campi non piaceva all’ulano, e poi
lo rovinava la smania di comprare: comprava quasi
tutto ciò che gli capitava sott’occhio. Lo rovinavano
anche i viaggi a Mosca, e la sua facilità ad innamo
rarsi... Al figlio, che non aveva finito il liceo, non
toccarono che due masserie: Laùchino e Durnòvka.
E il liceista le mandò talmente in rovina, che nel-
186 CAMPAGNA
l’ultimo anno di sua permanenza a Durnòvka face
va la guardia alla villa una vecchia sguattera che gi
rava la notte col picchiotto, in una pelliccia rossa di
lontra.
“Ebbene” pensò Kuzmà, rallegrato fino alle la
crime dalla proposta di Tìchon e celando in fondo
al cuore la sua gioia. “Una masseria, vada per la
masseria! Questo è il bono: per lo meno è un vero
deserto, un paese da tartari!”
Un tempo Iljà Mirònov aveva vissuto un paio di
anni a Durnòvka. Kuzmà era allora molto piccolo
e non gli erano rimaste nella memoria che le pro
fumate canapaie verdi scure in cui affogava Durnòv
ka, e poi ancora una buia notte d’estate: non c’era
un lume nel villaggio - di sicuro dormivano tutti
- e davanti alla loro isbà passavano, con le camicie
biancicanti nell’oscurità, « nove ragazze, nove spose,
la decima una vedova », tutte scalze, a capo scoperto,
con scope, randelli, forche, ed era un frastuono as
sordante e un batter su coperchi, su padelle, soffo
cato dal canto selvaggio di un coro: la vedova tra
scinava un aratro, accanto a lei andava una ragazza
con una grande icona, le altre poi suonavano, batte-
van colpi e, quando la vedova con voce bassa into
nava:
O morte che falci le vacche,
Non venire nel nostro villaggio!
il coro, a guisa di nenia funebre, ripeteva, strasci
cando :
Noi ariamo...
CAMPAGNA 187
e, angosciato, con voci stridule, gutturali riprende
va:
Con l’incenso, con la croce...
E col santo Vlas...
Adesso l’aspetto di Durnòvka era quello grigio di
tutti i giorni. Le canapaie erano scomparse, e anche
indipendentemente da questo l’autunno aveva denu
dato campi, orti, retrocortili. Era partito Kuzmà da
Vòrgol allegro e leggermente brillo. Tìchon Iljìc
gli aveva offerto a pranzo del liquore e Nastàsja Pe
trovna, al tè dopo desinare, due qualità di marmel
late; Tìchon Iljìc era stato molto buono in quel gior
no, aveva ricordato la gioventù, l’infanzia - come
mangiavano le prugnole, come davan la baia a Pi
stola di cane e andavano a imparare da Bjèlkin -
aveva chiamato la moglie zietta, l’aveva presa in gi
ro per i suoi viaggi a fine di salvazione dalla mona
ca Polucarpia, e perché lei, Nastàsja Petròvna, qual
che volta cantava in sogno con una voce sottile e tre
mante: «Cr ist o è r isorto...», aveva detto riguardo
allo stipendio di Kuzmà : « faremo i conti, fratel
lo, faremo i conti, non ti tratterò male... », aveva
brevemente espresso la sua opinione sulla rivoluzio
ne: «pr esto l ’uccelletto si è messo a cantare, purché
il gatto non se lo mangi... ».
Tornava Kuzmà da Vòrgol in un ch ar-à-ban cs ti
rato da un vecchio castrone dal pelo liscio, e intorno
a lui si stendeva un mare di campi arati bruni, a-
sciutti. Il sole quasi estivo, l’aria trasparente, il cie
lo limpido, azzurro pallido, tutto lo rallegrava, e
gli prometteva una lunga quiete. Di assenzio gri-
188 CAMPAGNA
giastro, ritorto, divelto dagli aratri insieme alla ra
dice, ve n’era tanto che lo trasportavano coi carri.
Proprio vicino alla villa stava nel campo una rozza
con le lappole attaccate al ciuffo e una t e ljè ga ca
rica di assenzio, e lì accanto era sdraiato Jàkov scal
zo, in calzoni corti polverosi e camicia lunga di ca
napa, con un berretto da vecchio, e, schiacciando col
fianco un grosso cane bianco, lo teneva per l’orec
chio. Il cane ringhiava e lo guardava di sbieco.
— Che morde? — gridò Kuzmà.
— È feroce, non c’è modo di tenerlo! — rispose
in fretta Jàkov, sollevando la sua barba storta di
colore indefinito. — Si getta sul muso ai cavalli...
E Kuzmà si mise a ridere dal piacere. Il m u z ik
ha da essere m u z ik , la steppa, steppa!
E la strada faceva una curva e scendeva, l’oriz
zonte si restringeva. Avanti verdeggiava il nuovo
tetto di ferro del granaio che affondava nel giardino
folto dalle piante basse. Oltre il giardino, sulla costa
opposta, era una lunga fila di isbe di mattoni e ar
gilla ricoperte di paglia. A destra, di là dai campi,
si stendeva un gran borro che andava a finire in
quello che separava la villa dal villaggio. E là dove
i borri s’incontravano, luccicava al sole uno stagno,
e sulla lingua di terra che era tra di essi spuntavano
le ali di due mulini a vento aperti, circondati da al
cune isbe di od n o d v òrt sy 1 - i Mysòvy 12, come li chia
mava Òska - e biancheggiava sul pascolo la scuola
imbiancata a calce.
1. Cfr. nota a pag. 31.
2. Da mys, appunto la lingua di terra di cui sopra.
CAMPAGNA 189
—- Ebbene, studiano i bimbetti ? — domandò
Kuzmà.
— Di certo — disse Òska. — Ci hanno uno sco
laro terribile!
— Che scolaro? maestro, vuoi dire?
— Be’, maestro, è la stessa cosa. Li ha ammae
strati, te lo dico io, bisogna vedere. Dei soldati. Pic
chia dove capita, ma però con lui tutto fila diritto!
Ci si andò una volta con Tìchon Iljìc, come scattaron
su tutti insieme e come si misero a urlare : « Augu
riamo salute, vostra nobiltà! »'.
E Kuzmà si mise di nuovo a ridere.
Quando poi ebbero attraversato l’aia, percorso una
strada battuta davanti a un ciliegeto, e girarono a
sinistra in una corte lunga, prosciugata, d ’oro sotto
il sole, persino il cuore gli cominciò a battere: ec
colo finalmente a casa. E, messo il piede sulla scali
nata, oltrepassata la soglia, Kuzmà dette un sospi
ro e, fattosi il segno della croce, fece un inchino pro
fondo davanti alla scura icona nell’angolo dell’in
gresso...
E per molto, molto tempo non ebbe voglia di pen
sare se il popolo russo avesse un avvenire o no. In
contrandosi col fratello, parlava del popolo in tono
ruvido, brusco, imitando Balàskin. Ma la ruvidezza
era finta. “Oh, quanto mi sono inacidito!” pensava
talvolta. “Vedo soltanto il brutto...” Ma anche i suoi
pensieri avevan poca profondità. “Sciocchezze, non
sono inacidito per nulla: dov’è mai il bello?” Ma
soprattutto aveva altro per il capo. Troppo bello era1
1. Saluto alia voce dei soldati ai loro superiori.
190 CAMPAGNA
sentirsi in pace, sentirsi padrone. E Kuzmà girava
per la villa, si affacciava alla stanza della servitù, nel
giardino - sempre cercandosi da fare - andava in
paese, per ore intere sedeva sulla soglia delle isbe,
nelle aie, osservando quelli di Durnòvka, godendo
della possibilità di respirare l’aria fresca, di chiac
chierare con nuovi vicini.
Alla svolta dell’aia, a sinistra, verso la corte, c’e
rano la stalla e la casa dei servi. Dietro a questa un
ciliegeto; all’estremità di esso sonnecchiava al sole
una vecchia casetta; quasi dirimpetto, di là dalla cor
te, volgendo le spalle a Durnòvka e al largo borro,
si stendevano i magazzini. Dalla scalinata si vedeva
metà del villaggio, di là dai magazzini lo stagno e
parte del m y s 1: il mulino a vento e la scuola. Il so
le sorgeva sull’orizzonte a sinistra, dietro ai campi,
dietro alla strada ferrata. Al mattino lo stagno luc
cicava in un vapore chiaro e fresco, e dal giardino
giungeva un odore di foglie rosse e nere, di mele, di
erbe alte, di rugiada. Le stanze erano piccole e vuo
te. Nello studio, tappezzato di vecchia musica, era
stata versata della segale, in « sala » e in « salotto »
c’era soltanto qualche seggiola viennese coi sedili fo
rati e una gran tavola allungabile. Le finestre del sa
lotto davano nel giardino, e quasi tutto l’autunno
Kuzmà vi dormì la notte sopra un divano di seta
vergata sfondato, senza chiudere le finestre e senza
svestirsi. Il pavimento non veniva mai spazzato; fa
ceva da cuoca provvisoriamente la vedova Odnod-
vòrka, ex amante del giovane Durnòvo, che doveva1
1. Cfr. nota 2 a pag. 188.
CAMPAGNA 191
e correre dai suoi figlioletti e cucinare qualcosa per
sé e per Kuzmà e l’operaio. Kuzmà da sé preparava
al mattino il sam o v ar , poi si sedeva sotto alla fine
stra in sala e beveva il tè con le mele. Nel luccichio
mattutino, oltre il vapore chiaro sui campi arati, pas
sava il treno e sopra ad esso correvano indietro dei
cerchi rosa. Dai tetti del villaggio saliva un fumo
denso. Il giardino esalava un buon profumo di fre
sco, sui magazzini era una brina argentea. A mezzo
giorno poi il sole era alto sul villaggio, nella corte
faceva caldo, e c’era una gran luce, in giardino ros
seggiavano gli aceri e i tigli lasciando cadere dol
cemente le foglie, e l’ampia distesa, l’aria asciutta,
trasparente dei campi erano piene di silenzio e di
pace. I colombi, riscaldati dal sole dormivano tutto
il giorno sul tetto in pendio della casa dei servi, gial
lo per la paglia nuova nel limpido cielo turchino.
Dopo il desinare l’operaio riposava, Odnodvòrka
andava a casa sua. E Kuzmà gironzolava. Se ne an
dava nell’aia, rallegrandosi del sole, della strada in
durita, della gramigna seccata, della bietola che si
era fatta bruna, del grazioso fiore tardivo della cico
ria azzurra e della lanugine dei soffioni che dolce
mente volava per l’aria. I solchi arati nei campi luc
cicavano al sole per le seriche ragnatele appena vi
sibili che si stendevano lungo uno spazio immenso.
Nell’orto, su cespugli secchi di bardana se ne sta
vano i cardellini. Nell’aia, tra un silenzio profondo,
in pieno sole, ardentemente cantavano i grilli... Dal
l’aia Kuzmà attraversava il fossato, ritornava alla vil
la passando per il giardino, lungo l’abetaia. In giar
dino chiacchierava coi m je sc jàn je affittuari di esso,
192 CAMPAGNA
con la Sposina e con Kozà che raccoglievano le frut
ta cadute, si ficcava con loro nel fitto dell’ortica dove
erano le più mature. Talvolta se ne andava in paese
alla scuola... Aveva un aspetto fresco, si era abbron
zato, si sentiva quasi felice.
Kozà lo meravigliava per la sua salute, per la sua
gioconda ottusità, per i lucenti occhi egiziani senza
espressione. La Sposina era bella e strana. In sua
presenza, come in presenza di Tìchon, essa taceva,
non le si cavava una parola di bocca; se egli si allon
tanava, si metteva a ridere bruscamente, a dir bar
zellette con gli affittuari, a cantare all’improvviso :
Che mi picchino, m'insultino,
Gli occhi miei ciglio non battono...
Il soldato-maestro, stupido per natura, in servizio
aveva perso il cervello del tutto. All’aspetto era il
più comune dei contadini, dai capelli rossicci, sotto
la quarantina. Ma parlava sempre in modo così spe
ciale e diceva tali sciocchezze che non c’era da far
altro che lasciarsi cader le braccia. Egli sorrideva
sempre con la più gran furberia, guardava con con
discendenza l’interlocutore, strizzando gli occhi, alle
domande non rispondeva mai subito.
— Come ti si deve chiamare? — gli domandò
Kuzmà entrando per la prima volta in scuola.
Il soldato abbassò gli occhi, si mise a pensare.
— Senza nome anche la pecora è montone —
disse alfine, senza fretta. — Ma anch’io vi doman
do: Adamo è un nome o no?
— È un nome.
CAMPAGNA 193
— Va bene. E quanta gente, per esempio, è mor
ta da allora?
— Non lo so — disse Kuzmà. — Ma perché me
lo domandi?
— Proprio perché questo noi non s’arriverà mai
a capirlo. Prendiamo sia pure un agitatore qualsiasi.
Ti ribelli ? Ribellati, caro mio : può essere che tu
diventi un fìt-maresciallo '. Ma però è anche possi
bile che ti si distenda nel miglior modo senza bra
che per fustigarti. Sei un m u z ik ? Lavora la terra.
Sei un cerchiaio? Anche tu devi sapere il tuo me
stiere. Io, per esempio, sono soldato e veterinario.
Poco tempo fa vado alla fiera, guardo: un cavallo
col cimurro. Subito dal delegato: è così e così, vo
stra eccellenza. « E sei capace di ammazzare questo
cavallo con un penna? » « Con gran piacere! »
— Con che penna? — domandò Kuzmà.
— Ma di oca! La presi, la temperai, gliela ficcai
nell’arteria, ci soffiai dentro un pochetto, sì, nella
penna, e bell’e fatto! La cosa, parrebbe, è semplice,
ma vien qua, provatici!
E il soldato con astuzia strizzò un occhio e si pic
chiò la fronte col dito:
— Qui ce n’è ancora del cervello.
Kuzmà alzò le spalle e tacque. E solo passando
davanti a Odnodvòrka, seppe dal suo Sègnka come
si chiamava il soldato. Si chiamava Parmjòn.
— E che lezione vi ha data per domani? — ag
giunse Kuzmà guardando con curiosità i ciuffi color
fuoco di Sègnka, i suoi occhi verdi vivaci, la faccia1
1. Corruzione popolare di feldmaresciallo.
194 CAMPAGNA
butterata, il corpicino scarno e le mani e i piedi
screpolati dalla sporcizia e dalle piaghe.
— Dei problemi, dei versi — disse Sègnka, so
stenendo con la mano sinistra i calzoni corti e con la
destra prendendosi un piede e saltellando sul posto.
— Che problemi?
— Contare le oche. Volava uno stormo di oche...
— Ah, lo so — disse Kuzmà. — E poi che an
cora ?
— Eppoi i topi...
— Contare anche quelli?
— Sì, sei topi camminavano, sei g r o s c ì 1 per cia
scuno essi portavano — in fretta borbottò Sègnka,
dando un’occhiata sbieca alla catena d’argento del
l’orologio di Kuzmà. — Un topo più debole ne
portava due... Quanti erano in tutto?
— Benissimo. E quali versi?
Sègnka lasciò andare il piede.
— I versi « Chi era? ».
— Li hai imparati?
— Li ho imparati...
— Sentiamoli.
E Sègnka ancor più in fretta si mise a borbottare
la storia di un cavaliere che andava lungo la Neva
per boschi dove erano soltanto
Abeti, pini e musco cannuto...
— Canuto — disse Kuzmà — e non cannuto.
— Allora canuto — acconsentì Sègnka.
— E quel cavaliere chi era?1
1. Il gros è mezzo copeco.
CAMPAGNA 195
Sègnka si mise a pensare.
— Ma uno stregone — disse.
— Già. Ebbene, di’ a tua madre che ti tagli al
meno i ciuffi sulle tempie. Così, è peggio per te,
quando il maestro te li tira.
— Ma lui troverà gli orecchi — disse Sègnka
noncurante, prendendosi di nuovo per il piede, e si
mise a saltare per il prato.
Mys e Durnòvka, come sempre avviene tra i vil
laggi limitrofi, vivevano in continua ostilità e reci
proco disprezzo. Quelli di Mys consideravano quelli
di Durnòvka briganti e accattoni, e viceversa. Inol
tre Durnòvka apparteneva alla « signoria », mentre
a Mys vivevano i galm àn y , gli od n od v ò rt sy - o me
glio, i residui degli od n od v ò rt sy trasferitisi nella pro
vincia di Tomsk - e questo accresceva la ostilità:
uno di Mys non poteva passare di sera o di notte
senza ricevere di punto in bianco una sassata alla
testa. Al di fuori di ogni ostilità, di ogni contesa si
trovava soltanto Odnodvòrka. Piccola, magra, pre
cisa, era vivace, equilibrata, di maniere piacevoli,
osservatrice. Conosceva, come la sua, ogni famiglia
di Mys e di Durnòvka, era la prima a far sapere in
villa ogni minimo avvenimento del villaggio. E an
che la sua vita tutti la conoscevan benissimo. Essa
non aveva celato mai nulla a nessuno, con calma e
semplicità raccontava del marito, di Durnòvo, di co
me era diventata mezzana, quando egli era partito.
— Che fare? — diceva con un lieve sospiro. —
La miseria era terribile, il pane non bastava nem
meno sino al nuovo raccolto. Il mio tm t iìk , bisogna
dir la verità, mi voleva bene, ma pure ci si dovè
196 CAMPAGNA
piegare. Tre carichi interi di segale dette per me il
padrone. «C h e si deve fa r e ?» dico al m u z ik . «È
chiaro, vacci, » dice lui. Andò a prender la segale,
ne portava una misura dietro l’altra, e le lacrime in
tanto gli colavan giù, giù...
E, dopo aver pensato un po’, sorrideva:
— Eppoi, quando anche il padrone se ne andò e
mio marito partì per Rostov, cominciai a far incon
trare qualche ragazza con chi capitava... Viziosi siete
voi, cani, che il Signore mi perdoni!
Discorrere con lei era piacevole, ma quando lo si
poteva? Il giorno essa lavorava senza fermarsi un
momento, la notte rattoppava, cuciva, andava a ru
bare quel che trovava sulla strada ferrata. Una volta,
la sera tardi, Kuzmà era partito per andare da Tì-
chon Iljìc e, montato sulla scarpata, rimase senza
fiato dallo spavento: al di sopra dei campi che spa
rivano nell’oscurità, in una stria appena lucente di
tramonto, crescendo e ondeggiando si avanzava ver
so Kuzmà qualcosa di nero e di enorme...
— Chi è là? — egli gridò debolmente, stringen
do le briglie.
— Ohi! — con voce fioca, presa da spavento gri
dò anche quella forma che così rapidamente cresceva
ondeggiando nel cielo, e con uno schianto crollò a
terra.
Kuzmà si riprese, e subito riconobbe nel buio Od-
nodvòrka. Era lei che correva verso di lui coi suoi
leggeri piedi scalzi, curva, carica di due enormi assi,
di quelle che si soglion metter l’inverno lungo la
strada ferrata contro i turbini di neve. E, rimessasi
dallo spavento, con un riso sommesso mormorò:
CAMPAGNA 197
— Mi avete fatto una paura da morire. Si corre
di notte, si trema tutta, ma che fare? Tutto il vil
laggio riscalda le stufe con queste, e solo così tiria
mo avanti...
Chi invece non era affatto interessante era l’ope
raio Kòscel. Non c’era di che parlare con lui, e poi
anche lui non parlava volentieri. Come la maggior
parte di quelli di Durnòvka, non faceva che ripetere
vecchie, insignificanti sentenze, affermare ciò che da
tanto tempo si sapeva. Il tempo si guastava e lui
guardava il cielo:
— Il tempo si guasta. Un po’ di pioggia per la
verdura adesso è la prima cosa.
Si lavorava il maggese e lui osservava:
— Se non si ara di nuovo, si rimane senza pane.
Così i nostri vecchi dicevano.
A suo tempo anche lui aveva fatto il servizio mi
litare, era stato nel Caucaso, ma la vita del soldato
non aveva lasciato in lui alcuna traccia. Non sapeva
dire la parola « posta », diceva: « sposta ». Non po
teva raccontare proprio nulla del Caucaso, se non
che là c’erano montagne su montagne, che dalla ter
ra sgorgavano delle acque terribilmente calde e stra
ne : « Ci metti la carne di montone, in un momento
si cuoce; ma se non la levi a tempo, di nuovo rin
crudisce »... E non era per nulla fiera di aver girato
il mondo; trattava anzi con disprezzo le persone che
molto avevan veduto : la gente « bighellona » sol
tanto per forza o per miseria. A nessuna voce cre
deva - « dicon tutti bugie! » - ma credeva, giurava
che poco tempo addietro nei pressi di Bàsovka, sul
l’imbrunire, era passata una ruota di t e ljè ga — una
198 CAMPAGNA
strega, - e un contadino, che non era stupido, andò
e acchiappò la ruota, ficcò nel m oz z o la cintura e la
legò...
— Ebbene, e allora? — domandò Kuzmà.
— E che? — rispose Kòscel. — Si svegliò quella
strega il mattino presto, guardò : la cintura le usciva
dalla bocca e dal di dietro, e era legata alla pancia...
— E perché non la slegò?
— Si vede che il nodo era segnato con la croce.
— E non hai vergogna di credere a queste scioc
chezze ?
— E che devo vergognarmi? La gente dice bu
gie, le dico anch’io.
Amava Kuzmà soltanto ascoltare le sue melodie.
Se ne stava egli seduto al buio presso alla finestra
aperta, non un lumicino da nessuna parte, il villag
gio nereggiava appena di là dal borro, vi era una
quiete tale che si sentiva il cader di ogni bacca nel
boschetto dietro l’angolo della casa e Kòscel lenta
mente camminava per la corte col picchiotto alla cin
tura e con voce melanconicamente dolce se la can
tava in falsetto : « Fa’ silenzio, uccellino, canari
no »... Fino alla mattina faceva la guardia alla villa,
il giorno dormiva, lavoro non ne aveva quasi : gli
affari di Durnòvka Tìchon Iljìc li aveva quell’anno
sbrigati presto, del bestiame aveva lasciato soltanto
un cavallo e una vacca. E nella villa era quiete, era
persino un po’ noioso.
Alle giornate limpide erano succedute giornate
fredde, grigio-bluastre, silenziose. Cominciarono i
cardellini e le cingallegre a fischiettare nel giardino
spoglio, i picchi a martellare sugli abeti, comparve-
CAMPAGNA 199
ro i tordi, i fringuelli e certi minuscoli uccellini non
frettolosi che a stormi volavano da un posto all’altro
per l’aia dove già erano spuntati fili d’erba verdi chia
ri; a volte uno di questi uccellini silenzioso, legge
rissimo si posava solitario su qualche stelo d’erba
nel campo... Negli orti, tra i granai, di là da Dur-
nòvka, si finiva di estrarre le ultime patate. E talvol
ta, verso sera, qualcuno dei contadini vi si tratteneva
a lungo pensieroso a fissare il campo, con una gerla
piena di spighe dietro le spalle. Imbruniva presto e
in villa si diceva : « come passa tardi il treno ades
so! » benché l’orario dei treni non fosse affatto cam
biato... Kuzmà, seduto sotto la finestra, leggeva un
vecchio numero della “Ròdina” ; aveva appuntato il
suo viaggio primaverile a Kazàkovo e i discorsi con
Akìm, prendeva nota in un vecchio libro di conti di
ciò che vedeva e udiva in campagna... Più di tutti
lo interessava il Grigio.
Il paese era vuoto. Molti erano andati alla falcia
tura del trifoglio. Trìfon, della cui malignità e ma
nia litigiosa si parlava con entusiasmo, era morto
per l’Assunzione: si era soffocato, rompendo il di
giuno, con un pezzo di prosciutto crudo. Komàr,
uno dei principali agitatori, famoso per la sua forza
e intelligenza e per il suo ardire nel trattare i si
gnori, si era impiegato al principio di settembre in
una distilleria presso a Jelèts, si era addormentato
ubriaco nel seccatoio ed era morto asfissiato. Non
sapendo che fosse lì, avevano chiuso la porta a cate
naccio. Komàr lo aveva curvato, tentando di uscir
fuori all’aria, ma si vede che era destinato a morire
in quel modo. Un altro agitatore, Vàgnka il Rosso,
201) CAMPAGNA
di nuovo se ne era andato alle miniere di Donjèts.
Il sellaio lavorava per le tenute, Ròdka sulla strada
ferrata. Deniska chi sa dov’era andato a finire. E
tutti ipocritamente compiangevano il Grigio, appro
fittando dell’occasione per farsi beffa e del figlio e
del padre. A Jàkov, quando cominciava a parlare
del Grigio, tremavano le mani. E non potevano non
tremargli: che ne aveva fatto quel Grigio della terra
che Jàkov era pronto a « divorare a manate » ? Nes
suno in tutta Durnòvka aveva sofferto neppur la cen
tesima parte di quello che aveva sofferto Jàkov, quan
do erano corse voci di sommosse, di incendi dolosi,
di espropriazioni di terre. Egli taceva soltanto per
quella celata, sorniona dissimulazione che avevano
succhiata col latte della madre migliaia di suoi an
tenati. E il fiato gli sarebbe mancato se si fosse mes
so a parlare. Adesso che le voci si facevano sempre
più sconsolanti, per aver la terra persino col figlio
Vàska aveva fatto pace. Il figlio era un ragazzo but
terato, rozzo, tarchiato, a vent’anni aveva una barba
larga, riccia e così vigorosa che con le tanaglie non
se ne sarebbe strappato nemmeno un pelo. Con que
sta barba, i capelli tagliati corti e la camicia rossa,
il figlio sembrava un detenuto, ma la moglie la ve
stiva di borghesuccia. Per cupidigia somigliava al pa
dre e già aveva cominciato a trafficare di nascosto
con acquavite, tabacco, sapone, petrolio. E Jàkov ave
va fatto pace, sperando di aver terra a sazietà con
l’aiuto del figlio, di arricchire e cominciare a pren
derla in affitto. Ma perché si era rappacificato il
Grigio con Deniska che più di una volta « gliele
aveva son ate»? In che sperava elemosinando e an-
CAMPAGNA 201
dando a zonzo come l’ultimo dei pezzenti? La terra
l’aveva affittata, nei posti non reggeva. A casa sof
friva il freddo e la fame, ma non pensava che a pro
curarsi da fumare : senza pipa non poteva stare nem
meno un giorno. Andava a tutte le assemblee dei
contadini, ma vi giungeva sempre alla fine. Non tra
lasciava un matrimonio, un battesimo, un funerale,
benché si tenesse stretto alla porta e, quando tendeva
la mano al padrone che serviva in giro gli ospiti,
non di rado ricevesse brusche riprensioni. Di vino
il Grigio non era avido, ma le bicchierate 1 non av
venivano senza di lui : egli si intrudeva non soltan
to in tutte quelle della comunità, ma anche in quelle
dei vicini; dopo ogni compra, vendita, permuta. E
i vicini vi eran già talmente abituati che non si me
ravigliavano neppure quando il Grigio si avvicinava.
E poi era interessante starlo ad ascoltare.
— A parole, conquista città — dicevan di lui. Ed
era proprio così : quando aveva l’animo calmo — ed
era calmo quando aveva il sacchetto pieno di tabac
co — che contadino attivo, serio poteva sembrare il
Grigio!
— Ecco adesso bisogna dar moglie al figlio —
ragionava senza fretta, tenendo la pipa tra i denti e
tritando con forza le radichette sul palmo della ma
no. — Se piglia moglie, ogni copeco porterà a casa,
diventerà avido di lavorare, si darà da fare attorno
alla casa come lo scarabeo nella buina... E il lavoro,
fratello, non ci farà paura! Che ce ne dian soltanto!
1. Propriamente: quelle fatte per coronare un affare con
cluso.
202 CAMPAGNA
Ma né tranquillità, né lavoro il Grigio non ne
aveva quasi mai. Il suo aspetto giustificava il so
prannome : grigio, magro, di mezza statura, le spalle
spioventi, una pelliccetta corta, lisa, gli stivali di
feltro logori e ricuciti col cordino, del cappello poi
non c’era da parlarne. Seduto nell’isbà, senza mai
levarsi questo cappello, né togliersi la pipa di bocca,
rimuginando preoccupato qualcosa, aveva un aspetto
tale come se qualcosa sempre aspettasse. Ma, secon
do lui, aveva una disdetta del diavolo. Quand’erano
in famiglia, i Kràsovy vivevano senza povertà; quan
do si furon divisi, tutto andò a rotoli. A dir vero,
il fratello maggiore anche adesso mangiava a sazie
tà; ma il minore era sfortunato: non gli capitava
un lavoro adatto e basta! E perdersi in bazzecole
non ne aveva voglia. Ognuno, certo, s’ingegnava di
sparlare...
— Si sa, la lingua è senz’ossa — diceva il Gri
gio. — Prima dammi il lavoro in mano, poi sbal
lane quante vuoi.
Di terra ne aveva parecchia: tre d e sjat h ie . Ma le
imposte eran per dieci. E perse il coraggio di lavo
rarla : « Per forza devi affittarla, la terra : lei, la
madre terra, va tenuta in ordine, ma che ordine c’è
mai qui! ». Lui non seminava più di mezzo campo,
e anche quello lo vendeva in erba : « Ho dato via
quel che m ’è caro per quel che non m’è caro » dice
va. E di nuovo si metteva a ragionare : « Provati a
aspettare! Ë sempre meglio, per esempio, aspetta
re... » borbottava Jàkov guardando da un ’altra parte
e sorridendo malignamente. Ma sorrideva anche il
Grigio con tristezza e disprezzo.
CAMPAGNA 203
— Meglio! — piagnucolava. — Fai presto a di
scorrere: la ragazza l’hai maritata, al giovanotto hai
dato moglie. Ma io, guarda, ci ho un mucchio di
bimbetti. Non son mica d’altri. Ecco tengo una ca
pra per loro, ingrasso un porcellino... Si sa, anche
loro voglion bere e mangiare.
— Via, la capra, per esempio, in questo non ci
ha che fare — replicava, arrabbiandosi, Jàkov. —
Noi, per esempio, non s’ha per il capo che l’acqua
vite e la pipa... la pipa e l’acquavite...
E per non leticarsi col vicino senza scopo, si af
frettò ad allontanarsi dal Grigio. E il Grigio calmo
e assennato gli lanciò dietro quest’osservazione:
— A un ubriaco, fratello, la sbornia gli passa
dormendo, a uno stupido la stupidaggine non gli
passa mai.
Fatta la divisione col fratello, per molto tempo
girò per le case, si impiegò in città e nelle tenute.
Andò anche alla fienagione del trifoglio. Ed ecco a
questa fienagione gli andò bene una volta : « gli ca
pitò un buon affare ». Una squadra d’artigiani, a cui
s’aggiunse il Grigio, s’era assunta una grossa partita
in ragione di ottanta copechi per p u d , ma ecco che
il trifoglio rese più del doppio. Venne trebbiato, il
Grigio s’era assunto di batterlo, con la trebbia. Ver
sò nei serbatoi i semi e li comprò. Così s’arricchì :
in quello stesso autunno mise su un’isbà di mattoni.
Ma non aveva previsto tutto: l’isbà doveva esser ri
scaldata. E con che, se è lecito? Non aveva nemmeno
di che mantenersi. E convenne bruciare la copertura
dell’isbà, e stette questa un anno senza tetto, si annerì
tutta. Il camino poi servì per comprare un collare
204 CAMPAGNA
da cavallo. Era vero che il cavallo non c’era ancora;
ma si doveva pure cominciare una volta a mettere su
il necessario... E il Grigio lasciò andar tutto: decise
di vendere l’isbà, di costruirne una più a buon merca
to, d ’argilla e paglia. Ragionava così : nell’isbà vi
saranno, mettiamo anche, alle brutte, diecimila mat
toni, per ogni mille mattoni danno cinque e anche
sei rubli; viene a essere dunque più di cinquanta
rubli; e con cinquanta rubli... Ma risultò che i mat
toni erano tremila e cinquecento, per la trave mae
stra dovette prendere non cinque, ma due rubli e
mezzo. E per lungo tempo al posto della magnifica
isbà si innalzò, indurendosi sotto la pioggia, un nu
do mucchio di rottami : non c’era con che portarli
via, le braccia cadevano inerti. Jàkov ammaestrava:
« Bisognava, per esempio, far subito in modo che
costasse meno ». “Ma diavolo, può forse durar mol
to quel che è a buon mercato?” pensava il Grigio.
E cercandosi preoccupato una nuova isbà, per un
anno intero non fece che contrattare quelle che non
erano affatto per la sua tasca. E si adattò a prendere
quella che abitava solo nella ferma speranza di aver
ne in futuro una solida, spaziosa, calda.
— In questa, lo dico francamente, non mi sento
a casa mia! — disse brusco una volta.
Jàkov lo guardò attentamente e scosse il capo.
— Va bene. Dunque aspetti che le navi vengano
a riva?
— E verranno — rispose il Grigio enigmatico.
— Oh, smetti di fare il matto — disse Jàkov —-
impiegati in un posto qualunque e dentici attaccato
coi denti, per esempio...
CAMPAGNA 205
Ma il pensiero di una buona casa, dell’ordine, di
un vero e serio lavoro avvelenava tutta la vita del
Grigio. Nei posti si annoiava.
— Si vede che il lavoro, anche a casa propria,
non è miele — dicevano i vicini.
— Sarebbe, sì, miele, purché la casa fosse come
si deve!
— Va bene. E ti impieghi sempre mese per mese
e solo sino alla stagione dell’opre?
— Sicuro. In casa la sorveglianza è necessaria sì
o no?
— Ma quando sei a casa te ne stai a fumar la
pipa ?
— E che devo fare? nemmeno fumare si può
adesso ?
E il Grigio, rianimatosi a un tratto, si toglieva di
bocca la pipa vuota, fredda e cominciava la storia
preferita, come, quand’era scapolo, per due anni in
teri aveva onestamente servito dal prete nei pressi
di Jelèts.
— E anche adesso se ci vado, a braccia aperte mi
pigliano! — esclamava. — Basterebbe dire una pa
rola: «Sar ei venuto, p a p à i a 1, a lavorare un po’ da
voi, mi prendete o no ? » « Ma che stai a doman
darmelo, caro? ma che forse non ti conosco? Ma
Signore, rimani qui anche per sempre! » E allora,
per esempio, ci anderei...
— Ci anderei! Sentilo, e tutto quel mucchio di
ragazzetti! Si sa: i guai degli altri, si metton dietro
le spalle... E qui un uomo per nulla va in malora...
1. Diminutivo rispettoso di papà, babbo.
206 CAMPAGNA
Per nulla si era rovinato il Grigio anche quel
l’anno. Tutto l’inverno con aria preoccupata l’aveva
passato a casa senza luce, soffrendo il freddo e la
fame, in quaresima si era in qualche modo occupato
dai Rusànovy nei pressi di Tù ia: nei suoi posti non
lo prendevano più. Ma non passò neppur un mese
che la masseria dei Rusànovy gli venne a noia peggio
di una radica amara.
—- Ohi, ragazzo! — gli disse una volta l’impie
gato. — Ti vedo attraverso: ti attacchi a tutto per
prendere il largo. Pigliate, figli di cani, i quattrini
anticipatamente e poi cercate di svignarvela.
— Sarà forse un vagabondo qualunque che se la
svigna, non noi — gli troncò la parola il Grigio.
Ma l’impiegato non capì l’allusione. E convenne
agire più energicamente. Una volta fu ordinato al
Grigio di portare verso sera una balla di foraggio
per le bestie. Lui andò nell’aia e si mise a caricare
un carro di paglia. Si avvicinò l’impiegato:
— Che forse non te l’ho detto in russo: riempi
la balla?
— Non è il momento di riempirla — rispose
tranquillo il Grigio.
— E perché?
— I padroni di giudizio danno il foraggio la mat
tina e non sulla notte.
— E tu che maestro sei?
— Non mi piace far morire di fame le bestie.
Ecco qui tutto il maestro.
— E porti la paglia?
— Per ogni cosa bisogna sapere il suo tempo.
— Smetti subito di caricarla!
CAMPAGNA 207
Il Grigio si fece pallido.
— No, il lavoro non lo lascio. Il lavoro non lo
posso lasciare.
— D a’ qua la forca, cane, e allontanati per non
farmi peccare.
— Non sono un cane, ma un uomo battezzato.
Ecco la porto via, poi me ne vo. E del tutto me
ne vo.
— Via, fratello, non è facile! Te ne andrai, ma
tornerai presto indietro, ce lo rificcherai il muso in
questo comune.
Il Grigio saltò giù dal carro, gettò la forca nella
paglia :
— Io ce lo rificcherò?
— Proprio tu!
—- Ohi, ragazzo, guarda di non ficcarcelo tu! Ne
sappiamo delle belle anche sul conto tuo. Nemmeno
di te è contento il padrone...
Le grosse guance dell’impiegato si iniettarono di
sangue bluastro, il bianco dell’occhio gli schizzò fuo
ri, col dorso della mano egli spinse il berretto sulla
nuca e, col respiro affannoso, articolò in fretta:
— A-ah! Ecco come! Non è contento? Su parla,
quando è stato, per che cosa?
— Io non ho nulla da dire — borbottò il Grigio
sentendo che a un tratto gli si erano appesantite le
gambe dallo spavento.
— No, fratello, sei un bugiardo, lo dirai!
— E dov’è andata a finire la farina? — gridò
all’improvviso il Grigio.
— La farina?? Ma che farina?
— Quella di frodo. Del mulino...
208 CAMPAGNA
L’impiegato con una stretta soffocante agguantò il
Grigio per il colletto, per il petto e per un attimo
tutti e due rimasero immobili.
— Tu che fai, per i ciuffi vuoi agguantare? —
domandò il Grigio calmo. — Strozzare mi vuoi?
E a un tratto si mise a strillare furiosamente:
— Su, picchia, picchia, finché ti bolle il sangue!
E rimase di nuovo immobile. Poi all’improvviso
dette uno strattone, si svincolò e afferrò la forca.
— Ragazzi! — si mise a urlare l'impiegato, ben
ché intorno non vi fosse nessuno. — Andate a chia
mar lo st aro stai Sentite: mi voleva sgozzare, figlio
di un cane!
— Non ficcare il naso che te lo rompi — disse il
Grigio tenendo la forca in bilico. — Se Dio vuole,
non son più per voi i tempi di prima!
Ma qui l’impiegato lasciò andare un manrovescio,
e il Grigio a capofitto fece un volo nella paglia...
L’angoscia che, col cambiamento del tempo, aveva
di nuovo cominciato a impadronirsi di Kuzmà, an
goscia in parte morale, in parte derivante dagli ac
ciacchi della vecchiaia - la podagra, i reumi — cre
sceva sempre a misura che egli veniva a conoscere
Durnòvka e il Grigio. Dapprima la cosa gli riusciva
soltanto triste e buffa: che uomo balordo! Poi fa
stidiosa e ripugnante: un degenerato! Tutta l’estate
l’aveva passata sulla soglia dell’isbà, aspettando i fa
vori della Duma. Tutto l’autunno aveva bighellona
to da una casa all’altra, sperando di allogarsi presso
qualcuno che andasse alla falciatura del trifoglio...
In un giorno caldo di sole aveva preso fuoco una
nuova bica alzata in fondo al villaggio: il Grigio
CAMPAGNA 209
per il primo era comparso sul luogo dell’incendio
e, urlando fino a diventar rauco, si era strinato le
ciglia, si era infradiciato fino al midollo delle ossa,
dando ordini a quelli che trasportavano l’acqua, a
quelli che con le forche si gettavano nell’immensa
vampa rosa dorata e sparpagliavano da ogni parte
le forcate fiammeggianti e a quelli che semplice-
mente si agitavano tra il calore, lo schianto, lo scro
sciar dell’acqua, il baccano, tra icone ammucchiate ac
canto alle isbe, tinelli, conocchie, coperte da cavalli,
donne singhiozzanti e foglie nere che cadevano dai
salici bruciati... Ma che fece di sensato? In ottobre
quando, dopo piogge dirotte e bufere di neve, lo
stagno si era ghiacciato e un porcello dei vicini era
sdrucciolato giù da un rialzo di terra gelato e, rotto
il ghiaccio, stava per affogare, il Grigio per il primo
si era buttato a correre attraverso il borro e con tutto
lo slancio s’era tuffato nell’acqua, per salvarlo. Ma
perché? Per essere l’eroe del giorno, per avere il
diritto di correre dallo stagno alla casa dei servi e
pretendere acquavite, tabacco, antipasti. Dapprima,
mentre si rivestiva con panni d ’altri, di Kòscel, era
tutto livido, batteva i denti, muoveva appena le lab
bra bianche. Poi si rianimò, si fece un po’ ebbro,
cominciò a vantarsi, e di nuovo a raccontare come
aveva onestamente servito dal prete e con quale abi
lità aveva qualche anno prima maritata la figlia. Già
imbruniva, nella stanza comune si faceva buio e lui,
seduto alla tavola, masticava avidamente, ingoiava
pezzi di prosciutto crudo e soddisfatto di sé nar
rava:
- Va bene. Dunque se l’intendeva lei, Matrjùs-
9.
210 CAMPAGNA
ka, con quel Jegòrka... Be’, se l ’intese per molto tem
po. Me ne stavo una sera sotto alla finestra, vedo
Jegòrka passare una volta davanti all’isbà, due vol
te... e la mia non faceva che accostarsi alla finestra...
Vuol dire che han combinato qualcosa, penso tra me.
E dico alla donna: tu va’ a dare il foraggio alle
bestie, e io me ne vado, han convocato un’assem
blea. Mi misi a sedere sulla paglia dietro l’isbà, sto
lì e aspetto. Già la prima neve era caduta. Vedo
che Jegòrka torna a rimpiattarsi di sotto, s’avvicina
e toc toc in un angolo dell’isbà... Ed eccoti anche
lei. Girano dietro la cantina, poi via nell’isbà, in
quella nuova, vuota, lì accanto. Aspettai qualche
poco...
— Bella storia! — disse Kuzmà e fece un sorriso
doloroso.
Ma il Grigio prese queste parole per una lode en
tusiastica della sua intelligenza e furberia. E, sen
tendosi eroe, continuò ora alzando la voce, ora ab
bassandola con acrimonia:
— Un momento, sta’ a sentire quel che vien do
po. Aspettai, dico, qualche poco, poi dietro a loro...
Feci un salto sulla soglia e proprio addosso a lei
capitai! Presero uno spavento da morirne. Lui cascò
in terra come un sacco, - lo potevi fare a pezzi -
lei poi rimase senza fiato, giaceva come un’anatra...
« Su, dice, ora picchiami. » Questo lo dice lui. « Di
picchiarti, dico io, non n ’ho bisogno »... Presi la sua
p o d d jò v k a dal soppalco, la giacca anche, lo lasciai
in mutande sole, quasi come sua madre l’aveva fat
to... « Su, dico, ora vattene dove ti pare »... E io
m’avviai verso casa. Guardo, e lui vien dietro: la
CAMPAGNA 211
neve era bianca, e anche lui era bianco, camminava,
sbuffava... Non sapeva dove andare, dove correre?
La mia Matrjòna Nikolàvna poi, appena fui uscito
dall’isbà, via nel campo! Se la dette a gambe, a fa
tica la vicina proprio sotto a Bàsovo l’agguantò per
la manica, me la portò. La lasciai riposare, poi le
dissi: « Che siam gente povera o no? ». E lei zitta.
« Tua madre è scema di cervello o il cervello ce
l’ha? » E lei sempre zitta. « In che modo ci hai
svergognati? Eh ? Che vorresti riempirmi la casa di
codesti rigetti, e io devo stare a guardarti? Con la
nostra miseria devi stare attenta a quello che fai e
non darti bel tempo e bighellonare, carogna che
sei! » E cominciai a dargliene, ci avevo lì accanto
una frustina ammodo... Insomma, a dirla corta, tutt’i
fianchi le ammaccai, a tal segno che ai piedi mi si
strascicava, baciandomi gli stivali, e lui se ne stava
a sedere sulla panchina e piangeva forte. Poi co
minciai con lui, con l’amoroso...
— E gliel’hai data in moglie? — domandò
Kuzmà.
— Eccome! — esclamò il Grigio e, sentendo che
la sbornia si impadroniva di lui, cominciò a raccat
tar dal piatto i pezzi di prosciutto e a ficcarli nelle
tasche dei calzoni. — E che nozze s’è fatto! Alle
spese, fratello, non ci sto a guardare...
“Che bel racconto!” per lungo tempo pensò con
angoscia Kuzmà dopo quella sera... Intanto il tempo
si guastava. Di scrivere non ne aveva voglia, la no
stalgia cresceva. Eppoi Kuzmà la provava in modo
diverso da prima: la sua nostalgia stava diventando
quella di un vecchio e lo spingeva verso la gente,
212 CAMPAGNA
e in solitudine poi aveva talvolta quasi un suo fa
scino doloroso. La miseria, la mancanza di terra del
Grigio e di Deniska l’avevano impressionato: la
campagna imputridiva! La storia bestiale della Spo
sina in giardino, la morte di Ròdka l’avevano stor
dito. La vita di Tìchon Iljìc lo stupiva. Ed era pro
prio lui che si poteva far stupire! Era lui che non
conosceva il suo paese, la sua gente! Con amarezza
e irritazione apriva il suo cuore a Tìchon Iljìc, lo am
moniva, lo pungeva... Ma se avesse saputo Tìchon
Iljìc con che gioia Kuzmà si slanciava alla finestra
quando presso la scalinata, sotto la pioggia, vedeva
il suo calesse, il suo caffettano, il berretto, la barba
grigia! Come aveva paura che il fratello non rima
nesse per la notte, come cercava di trattenerlo più
a lungo, di trascinarlo a discorrere, a ricordare...
Sempre si tediava Kuzmà nell’autunno inoltrato, oh,
quanto si tediava! più ancora del resto del villaggio,
metà del quale andava a lavorare di qua e di là.
Unica gioia era quando veniva qualche postulante.
Era venuto diverse volte Gololòbyj di Bàsovka - un
contadino completamente calvo con un enorme cap
pello - per farsi scrivere un ricorso contro il com
pare che gli aveva rotto una clavicola. Era venuta la
vedova Butylocka da Mys, — tutta brandelli, tutta
fradicia e gelata dalla pioggia - a far scrivere una
lettera al figlio. Cominciava a dettare, e giù lacrime.
— Città Serpuchòv, presso ai bagni dei nobili,
casa Zoltùchin...
E si metteva a piangere.
— Be’? — domandava Kuzmà, storcendo per la
pena le ciglia, guardando al modo dei vecchi la Bu-
CAMPAGNA 213
tylocka al di sopra degli occhiali. — Ebbene, l’ho
scritto. Eppoi?
— Eppoi? — domandava la Butylocka in un sus
surro e, cercando di dominare la voce, continuava:
— Eppoi scrivi, k asàt ik 1, come meglio sai... Per ri
mettere, dunque a Michàl Nazàryc Chlùsov... nelle
sue proprie mani...
E dopo cominciava, ora fermandosi, ora senza fer
marsi affatto:
— Lettera al nostro caro e diletto figlio Miša, co
me mai tu, Miša, ci hai dimenticati, non s’ha nessu
na notizia di voi... Lo sai anche tu, siamo in un
quartiere, ma adesso ci cacciano via dove s’ha a an
dare adesso... Caro figlio nostro Misa vi preghiamo
per l’amore del Signore Iddio di venire a casa come
più presto gli è possibile...
E di nuovo a bassa voce, tra le lacrime :
— Qui almeno con voi ci scaveremo un ricovero
nella terra e si potrà vivere in sul nostro...
Le tempeste e le bufere di neve, i giorni simili a
crepuscoli, nella villa il fango cosparso di minuto
giallo fogliame di acacia, gl’immensi campi lavorati
e seminati intorno a Durnòvka e le nubi che senza
posa passavano sopra ad essi l’opprimevano di nuo
vo, suscitando un odio atroce verso quel maledetto
paese dove per otto mesi vi erano turbini di
neve, e per quattro piogge, dove per le proprie oc
correnze bisognava andare nella stalla o nel cilie
geto... Quando cominciò il tempo cattivo, si dovette
1. Espressione di tenerezza intraducibile. Letteralm.: iride
(fiore), giaggiolo.
214 CAMPAGNA
chiudere ermeticamente il salotto e passare in sala,
per rimanervi durante tutto l’inverno e a dormire,
e a mangiare, e a fumare, e a passarvi lunghe serate
al lume di una fioca lampada da cucina, camminan
do da un angolo all'altro o stando a sedere davanti
a un numero di “Ròdina”, in berretto e caffettano,
riparati appena dal freddo e dal vento che soffiava
per le fessure. Talvolta accadeva che si erano dimen
ticati di far la provvista del petrolio, e Kuzmà pas
sava l’ora del crepuscolo senza luce, la sera poi ac
cendeva un lumicino qualunque, soltanto per cenare
con una minestra di patate e una k asa di miglio cal
da che gli serviva in silenzio la Sposina, entrata a
far parte della servitù di casa una decina di giorni
dopo la morte di Ròdka... Kuzmà gettava occhiate
con spavento alla sua faccia severa.
“Dove potrei an dare?” pensava talvolta.
Di vicini nei dintorni ve ne erano soltanto tre:
la vecchia principessa Sàchova che non riceveva nem
meno il maresciallo dei nobili, ritenendolo maledu
cato; il gendarme in riposo Zakreàèvskij, proprieta
rio di trecento d e siat in e, un uomo inasprito dalle
emorroidi e presuntuosamente stupido che non avreb
be lasciato entrare Kuzmà nemmen sulla soglia, e
infine il nobile Bàsov, piccolo possidente che abita
va in un’isbà, aveva sposato una donna corrotta, ve
dova di un soldato, e parlava soltanto di collari da
cavalli e di bestiame. Padre Pietro, parroco di Kolò-
dezi, di cui Durnòvka era la parrocchia, andò a tro
vare una volta Kuzmà, per la festa dell’altare, ma
di continuar la conoscenza non venne voglia né al
l’uno né all’altro. Kuzmà offrì al parroco soltanto
CAMPAGNA 215
il tè, e il parroco si mise a rider forte in modo bru
sco e golfo vedendo sulla tavola il sam ov ar. « Il sa
m ov ar cik 1? Benissimo! Vedo che non fate il paio
con vostro fratello : non siete troppo generoso nel-
l’offrire! » Kuzmà francamente dichiarò che non an
dava mai in chiesa per le sue convinzioni, il parroco
si mise a ridere ancor più stupito, più brusco e più
forte. « A-ah! le ideucce nuove! Benissimo! Già, co
sta anche meno. » E quelle risate non gli si confa
cevano affatto : come se fosse un altro che ridesse
per quell’uomo alto, magro, dalle scapole grandi, i
capelli neri e grossi, gli occhi cupidi e mobili, in
quieto e distratto, che pensava sempre a qualcosa,
permaloso e disinvolto senza garbo. « Ma però la
notte, la notte di sicuro te lo fai il segno della croce,
ce l’hai la tremarella? » disse ad alta voce e in fret
ta, mettendosi la cappa nell’ingresso, dopo avere
stancato Kuzmà con domande sull’azienda di casa e
passando improvvisamente al tu. « Mi segno » con
un sorriso triste confessò Kuzmà. « Ma la paura non
è mica fede, e non è dinanzi al vostro Dio che mi
segno. » Ma il parroco lo interruppe con fretta gioio
sa: « Ah, ah! Ma che dici mai! Ecco tu dovresti ca
pitare sotto al padre Zvjèrev di Kazàkovo, quella è
un’intelligenza! ». E scomparve pienamente convin
to che Kuzmà si sarebbe a lungo ricordato di lui.
Non andava spesso Kuzmà neanche dal fratello,
nel suo sudicio nido domestico. Quello poi veniva
soltanto quando per qualche motivo era turbato. E
la solitudine era così disperata che talvolta Kuzmà
1. Dimin. di samovar.
216 CAMPAGNA
si chiamava Dreyfus all’isola del Diavolo. Ma an
cora più spesso pensava con rabbia di avere qualcosa
di comune col Grigio. Ah, anche lui infatti, come
il Grigio, era un miserabile, senza volontà, fuori di
carreggiata e sempre in attesa di giorni propizi per
il lavoro!
Un ricordo spiacevole gli era rimasto della bra
vura, del racconto, della millanteria del Grigio mez
zo ubriaco. Ma di solito, anche nella sbornia, il Gri
gio non soleva esser così : era solo chiacchierone, un
po’ confuso e timidamente allegro. Di ubriacarsi del
resto non gli riusciva più di un cinque volte all’an
no. Non era ingordo di vino come di tabacco. Per
il tabacco era pronto a subire qualsiasi umiliazione,
era pronto a stare per ore accanto a uno che fuma
va, far eco alle sue parole, adularlo, e tutto ciò per
dirgli come a caso, cogliendo il momento opportu
no: «Dam m en e, compare, per una p ip at a...». Era
anche appassionato per le carte, per le lunghe con
versazioni, per le riunioni serali nelle isbe, in quelle
isbe dove le famiglie erano numerose, dove era cal
do, dove ardeva la lampada, dove i battitori di pas
saggio battevano la lana e i sarti girovaghi cucivano
le pellicce corte. Ma per le isbe la gente ancora non
si radunava e il Grigio se ne stava a casa... E, dopo
essere stato da lui diverse volte, Kuzmà sentì che
non bisognava aver rancore contro il Grigio, né can
zonarlo. Viveva il Grigio di quel che guadagnava
durante le opre estive la moglie, una donna quieta,
silenziosa, un po’ stupida, e poi anche di quello che
gli riusciva di ottenere da Deniska, che di tanto in
tanto compariva a Durnòvka, non per lungo tempo
CAMPAGNA 217
e senza che se ne sapesse il motivo —con la valigia,
del pane bianco, e del salame di cui andava pazzo -
e che senza riguardo insultava lo Zar e i signori. Alla
prima neve il Grigio se ne andò in qualche posto e
non si fece vedere per una settimana. Tornò a casa
cupo.
— Che sei stato di nuovo da Rusànov? — gli do
mandarono i vicini.
— Ci sono stato — rispose il Grigio.
— E perché?
— Volevan convincermi a occuparmi.
— Ebbene, non hai accettato?
— Più stupido di loro non lo son stato e non lo
sarò mai... Non mi son mica firmato col sangue!
E il Grigio, senza togliersi il cappello, rimase a
lungo sulla panchina. Al crepuscolo l’anima era pre
sa da angoscia nel guardare la sua isbà. Al crepu
scolo, di là dal largo borro pieno di neve, uggiosa
mente nereggiava Durnòvka, coi suoi granai e salici
dietro le case. Ma si faceva buio, allora si accende
vano i lumicini, e sembrava che nelle isbe vi fosse
pace e si dovesse star bene. Rimaneva sgradevolmen
te buia soltanto la piccola isbà del Grigio, che sor
geva precisamente dirimpetto alla scala di Kuzmà.
Essa era scura, morta. Kuzmà già lo sapeva: se si
entrava nel suo ingresso buio, semiaperto, si aveva
la sensazione di essere sulla soglia di una dimora
quasi di bestie, si sentiva odore di neve, dai fori del
tetto traspariva il cielo fosco, il vento frusciava tra
il letame e il frascame buttato alla meglio sulle tra
vi; se a tastoni si trovava la parete sghemba e si apri
va la porta, si era accolti da freddo e tenebra, da una
218 CAMPAGNA
finestrella gelata che gettava un filo di luce nell’oscu
rità e dal silenzio. Non si vedeva nessuno, ma s’in
dovinava su di una panca il padrone: nell’angolo
rosseggiava la sua pipa; la padrona adagio adagio
dondolava una culla stridente, ove si rotolava un
piccolo rachitico, pallido, assonnato dalla fame. Due
bimbette con indosso la sola camicia azzurrastra di
cenere, si erano rincantucciate sulla stufa appena tie
pida e animatamente, a bassa voce si raccontavano
qualcosa l’un l’altra. Nella paglia putrida sotto al
pancaccio facevan fruscio e si agitavano una capra e
un porcellino, grandi amici. Si aveva paura di rad
drizzarsi per non battere la testa al soffitto. Anche il
rigirarsi presentava un certo pericolo: dalla soglia
alla parete opposta non vi erano che cinque passi.
— Chi è? — si sentiva dal buio una voce bassa.
— Io.
— Kuzmà Iljìc?
— Proprio lui.
Il Grigio si scansa, fa posto sulla panca. Kuzmà
si siede, accende la sigaretta. A poco a poco si avvia
la conversazione. Avvilito dall’oscurità, il Grigio,
con semplicità, con tristezza, confessa le sue debo
lezze. La sua voce a momenti trema...
Venne l’inverno lungo e nevoso.
I campi d ’un biancore livido sotto il cielo tur
chino fosco si fecero più vasti, più spaziosi e più de
serti. Le isbe, i fienili, i salici, i granai spiccavano
nettamente sulla prima neve di autunno. Poi comin
ciarono i turbini e le bufere di neve, se ne ammuc
chiò tanta che il villaggio si sommerse e prese un
selvaggio aspetto nordico, di nero non mostrò più
CAMPAGNA 219
che le porte e le finestrine che occhieggiavano appe
na di sotto ai bianchi berrettoni di neve calcati sulle
isbe e dal bianco ammasso dei rinterri attorno ad
esse. Dietro ai turbini soffiarono sulla distesa grigia
indurita dei campi i venti del nord, strapparono le
ultime foglie brune dagli abbandonati arbusti di
querce nei borri; si mise in giro — affondando nei
cumuli di neve impraticabili, screziati da orme di
lepre - 1'od n od v òret s Taràs Minàjev che somigliava
a un siberiano; si mutarono in blocchi gelati le botti
dell’acqua, si elevarono monticelli sdrucciolevoli di
neve gelata attorno ai fori fatti nel ghiaccio per at
tingervi l’acqua, si tracciarono le strade sui mucchi
di neve e i giorni invernali divennero stabili. Co
minciarono per i villaggi le epidemie: vaiolo, feb
bri, scarlattina, difterite. Ma queste malattie da tem
po immemorabile non abbandonavano i villaggi l’in
verno, e vi si era ormai talmente abituati che se ne
parlava non più che dei cambiamenti del tempo. At
torno ai fori fatti nel ghiaccio da cui attingeva l'ac
qua tutta Durnòvka, al di sopra dell’acqua fetente,
d’un verde bottiglia cupo, per giornate intere stava
no le donne curve, con le gonne rialzate fin sopra
le ginocchia livide, in làp t i bagnati, con le grosse
teste avvolte in scialli. Dalle marmitte con la cenere
tiravan fuori le loro camicie grige di canapa, rin
forzate sino alla cintura di calicò, pesanti brache da
contadino, fasce sporche di bimbi, le risciacquava
no, le picchiavano coi battitoi e si chiamavano tra
loro allegramente per comunicarsi che le braccia « si
erano gelate », che in casa dei Makàrovy moriva di
febbre la nonna, che alla nuora di Jàkov si era chiù
220 CAMPAGNA
sa la gola... Delle bimbette in sola camicia scappa-
van fuori delle isbe, correndo direttamente dalle stu
fe dietro all'angolo della casa, su mucchi di neve
congelata. Dei monelli scivolavano su piccole slitte
giù per le chine, facevan capriole, strillavano, eran
presi da tosse violenta e ritornavano la sera a casa
con la febbre, la testa pesante, confusa. Essi avevano
indosso dei vecchi cenci paterni, dei berretti enormi,
dei làp t i rotti e marciti, delle fasce da piedi che ca
scavano giù, dei calzoncini logori ai ginocchi e dei
gabbanetti così sbrindellati che il villaggio pareva
una colonia di mendicanti. Erano talmente intirizziti
che, tornati a casa, a fatica muovevano le labbra per
chiedere da bere e, dopo aver bevuto, piangendo si
arrampicavano sulla stufa. Ma a quelli che s’amma
lavano neppur le madri facevano attenzione... E si
faceva scuro alle tre e i cani arruffati stavano accuc-
ciati sui tetti che erano quasi allo stesso livello dei
monticelli di neve. Non un’anima nel villaggio sa
peva di che si nutrissero quei cani. Eppure erano
vivi ed anche feroci.
Si svegliavano in villa di buon’ora. All’alba, nel
l’oscurità bluastra, quando per le isbe si accendevano
i lumicini e le stufe senza camino e attraverso le
fessure lentamente usciva un denso fumo latteo, e
nell’ala della casa con le finestre grige gelate comin
ciava a far freddo come nell’ingresso, Kuzmà veni
va svegliato dallo sbatter delle porte, e dal fruscio
della paglia gelata, mista alla neve, che Kòscel stra
scicava dalla slitta. Si udiva la sua voce bassa, rauca:
voce d ’uomo svegliatosi prima di tutti e che a digiu
no si era intirizzito. Faceva chiasso la Sposina col
CAMPAGNA 221
tubo del sam ov ar e scambiava sommesse burbere pa
role con Kòscel. Essa non dormiva nella camera del
la servitù dove gli scarafaggi fino a sangue tormen
tavano mani e piedi, ma nell’anticamera, e tutto il
paese era convinto che questo non era senza motivo.
Il paese sapeva benissimo quel che aveva sofferto la
Sposina durante l’autunno, come l’avevano avvilita
la vergogna, la morte di Ròdka, il fatto che la ma
dre era andata ad accattare, dopo aver affidato a Jà-
kov il novenne Iljùska e aver chiuso l’isbà vuota.
Taciturna, oppressa dal peso del dolore, la Sposina
era più austera e melanconica di un’asceta. Ma che
importavano al paese le tristezze altrui? Esso era an
dato anche oltre : aveva fatto del vecchio l ’amante
della Sposina! Kuzmà già sapeva da Odnodvòrka
quel che si diceva in paese e, allo svegliarsi, se ne
ricordava sempre con vergogna e ribrezzo. Picchiava
il pugno sulla parete per far sapere che aspettava il
sam ov ar e, ansando, accendeva la sigaretta: questo
gli tranquillizzava il cuore e gli alleggeriva il petto.
Se ne stava coricato sotto il t u lù p 1 e, non potendo
decidersi a lasciare il tepore, fumava e pensava:
“Gente spudorata! Eppure io ho una figlia quasi
della sua età...”. Il fatto che di là dalla parete dor
miva una donna giovane lo commoveva svegliando
in lui unicamente una tenerezza paterna. Il giorno
essa era taciturna e seria, avara di parole, timida co
me una fanciulla. Quando poi dormiva vi era in lei
persino qualcosa di infantile, di mesto, un senso di
solitudine. Una volta si era addormentata dopo de-
1. Pelliccia grande di pelle di montone.
222 CAMPAGNA
sinare sul suo baule nell’anticamera, con la testa av
volta in uno scialle di lana, con le gambe ripiegate
e un ginocchio scoperto. Con grazia femminile eran
posati i suoi piedi calzati di làp t i, il ginocchio in
freddolito era bianco come quello di una bimba. E
Kuzmà, passandole accanto, si voltò e la chiamò
perché si svegliasse e si coprisse. Ma forse che il vil
laggio avrebbe creduto a questo? Non vi avrebbe cre
duto nemmeno Tìchon Iljìc: in modo troppo strano
sorrideva talvolta. Già sempre era stato diffidente,
sospettoso, volgare nei suoi sospetti, adesso poi ave
va perso del tutto il cervello: qualunque cosa gli si
dicesse, aveva sempre una sola risposta.
— Hai sentito, Tìchon Iljìc? Zakreàèvskij, di
cono, muore di catarro: khan portato a Orjòl.
— Fandonie! Lo conosciamo noi questo catarro!
— Ma me l’ha detto il jè ld se r h
— E tu dagli retta...
Si stava un po’ zitti.
— Voglio far venire un giornale. Dammi, per
favore, in conto dello stipendio un dieci rubli.
— Uhm! Bella voglia di riempirti la testa di fan
donie. E poi devo dirti che con me non ho altro
che quindici copechi o forse un ventino...
Entrava la Sposina con le ciglia abbassate:
— Di farina, Tìchon Iljìc, ce n’è rimasta ap
pena...
— Come può essere: appena? Ohi, conti frot
tole, donna!
E storceva le sopracciglia. Mentre dimostrava poi1
1. Aiuto medico che non ha conseguito la laurea.
CAMPAGNA 223
che la farina doveva bastare almeno per un tre gior
ni ancora, dava rapide occhiate ora a Kuzmà, ora
alla Sposina. Una volta domandò persino sorridendo :
— E come dormite? avete caldo?
E la Sposina, a cui già erano gravose le sue ve
nute, si fece rossa e, chinato il capo, uscì; a Kuzmà
poi dalla vergogna e dalla rabbia si gelarono le dita.
— Vergogna, fratello, Tìchon Iljìc — borbottò
volgendosi verso la finestra. — E specialmente do
po che tu stesso mi hai confessato...
— E perché si è fatta rossa? — domandò con un
sorriso maligno, confuso e goffo Tìchon Iljìc.
Al mattino più spiacevole di tutto era il lavarsi.
N ell’anticamera veniva dalla paglia un’aria gelata,
come un vetro rotto galleggiava il ghiaccio nella ca
tinella. Kuzmà a volte si metteva a bere il tè, dopo
essersi lavato soltanto le mani, e uscito dal sonno
sembrava proprio un vecchio. Dalla sporcizia e dal
freddo era molto dimagrato e incanutito durante
l’autunno. Gli erano dimagrate anche le mani di cui
la pelle era diventata più sottile, più lucida, si era
ricoperta di certe piccole macchiette violacee.
“I poggi troppo erti han finito il cavallo!” pen
sava, mentre si metteva a fumare dopo il tè e si ac
cingeva alla sua occupazione mattutina: contempla
re il villaggio. Le mattinate erano grige, come sem
pre, con un rigido vento che veniva dal nord. Sotto
alla neve grigia indurita grigio divenne verso N a
tale anche il villaggio. Come una corteccia grigia
gelata pendeva dalle travi sotto la tettoia dei fienili
la biancheria. Gelava intorno alle isbe, dove si ver
savano le rigovernature, si gettava la cenere. Mo-
224 CAMPAGNA
nelli laceri, passando per la via tra le isbe e i gra
nai, si affrettavano a scuola, correvano su per i mon
ti di neve, si lasciavano sdrucciolar giù sui làp t i\ tut
ti avevano dei sacchi di tela greggia con le lavagnet-
te e il pane. Incontro a loro, curvo sotto al palo in
filato in due bigonci e camminando a disagio con
gli stivali di feltro deformati, induriti, ricoperti di
pelle suina, si avanzava, in solo gabbanuccio, il vec
chio, malato, terreo Cjugunòk della cui agilità non
era rimasta traccia; si trascinava da un mucchio di
neve all’altro e, traballando, faceva spruzzar l’acqua
il carro con la botte ricoperta di paglia dietro a cui
correva il tartaglione Kobyljàj dagli occhi chiari;
passavano donne che andavano a farsi imprestare
l’una dall’altra ora sale, ora miglio, ora una ma
nata di farina per fare le schiacciatine o la solom àt a,
una pasta bollita che si mangia con olio di canapa.
Le aie erano vuote, soltanto da Jàkov usciva polvere
dalla porta del gran aio: egli, imitando i contadini
ricchi, batteva il grano nell’inverno. E di là dalle
aie, di là dai salici spogli nelle corti dietro le isbe,
si stendevano sotto al cielo basso, biancastro i cam
pi grigi coperti di neve, le distese ondulate deserte,
e soffiava un vento tagliente. Nel villaggio ci si sen
tiva pur sempre meglio, ma esso sembrava impesta
to: quasi in ogni casa vi era il vaiolo o il tifo pe
tecchiale.
Talvolta Kuzmà andava a far colazione da Kòscel
nel tinello, con patate calde come fuoco o minestra
di cavolo acido del giorno prima. Ricordava la cit
tà dove aveva vissuto tutta la vita e si meravigliava:
non vi si sentiva per niente attratto. Per Tìchon la
CAMPAGNA 225
città era un sogno geloso, egli disprezzava e odiava
la campagna con tutta l’anima. Kuzmà si sforzava
soltanto di odiarla. Adesso con spavento ancor mag
giore di prima esaminava la sua esistenza: si era
del tutto inselvatichito a Durnòvka; non faceva nul
la, era preso da nostalgia, soffriva della sua inazio
ne; non si faceva tagliare i capelli anche per due
mesi, spesso non si lavava, non si toglieva il caf
fettano, con avidità mangiava la minestra di cavolo
da una stessa ciotola con Kòscel. Ma peggio di tutto
era che, pur avendo terrore della sua esistenza, la
quale lo invecchiava non di giorno in giorno, ma di
ora in ora, sentiva tuttavia di averne piacere e di
essere, probabilmente, ritornato proprio su quella
rotaia che, forse, gli era destinata fin dalla nascita:
non per nulla, evidentemente, scorreva in lui il san
gue di quelli di Durnòvka! Con tutto ciò, lo oppri
mevano dolorosamente quegli interminabili inverni
di Durnòvka, quelle isbe, i fori nel ghiaccio, i mo
nelli, i cani sui tetti, il freddo, la sporcizia, le ma
lattie, la pigrizia animalesca dei contadini. Egli qua
si ogni giorno ricordava Megnsòv, Akìmka, il Gri
gio... ed essi gli sembravano dei selvaggi e degene
rati. “Ma non essi soltanto: tutto è degenerato!”
egli pensava. Dove erano adesso quei canti che gli
pareva di aver udito un tempo nell’infanzia? Si di
ce, ecco, che l’inverno passato, nella notte di Nata
le, durante una furiosa tempesta di neve, i contadi
ni di Kolòdjezi abbiano strangolato nel bosco di Ku-
ràsovo un guardiano allo scopo di dividere tra loro,
per certe pratiche di magia, una corda tolta al mor
to. Ma credevano essi alla virtù di quella corda? Oh,
226 CAMPAGNA
ben poco! Quell’insensato misfatto fu commesso con
una spietata crudeltà, ma senza fede, senza convin
zione: si dice che i contadini singhiozzassero in tri
bunale come bambini. Ma essi non hanno fede al
cuna. Se è vero che la Sposina ha avvelenato Ròd-
ka, credeva essa forse di dover agire proprio così?
o quel delitto fu semplicemente un atto di dispera
zione? E Durnòvka non crede al dolore di lei, e
nemmeno a lui, che pure è un vecchio... E lui poi
sempre meno crede a se stesso: ai propri pensieri,
alle proprie parole. E diventa sempre più sensibile...
Dopo colazione passeggiava qualche volta per la
tenuta o per il paese. Andava da Jàkov nell’aia, nel
l’isbà dal Grigio o da Kòscel, di cui la vecchia ma
dre, Baba-Kopyl, viveva sola, passava per una stre
ga, era alta e terribilmente magra, camusa e con den
ti lunghi come quelli della morte, parlava in modo
grossolano e risoluto, fumava la pipa come un con
tadino : accendeva la stufa, si sedeva sul pancaccio
e se ne stava a fumare dondolando la gamba lunga
e sottile in un làp o t ' nero e pesante. Un paio di
volte in tutta la quaresima Kuzmà era andato fuori
di Durnòvka: era stato alla posta e dal fratello. E
queste gite erano state piacevoli, ma gravose: si era
gelato tanto che non sentiva più se aveva i piedi o
no. Al principio di autunno aveva ancora uno sguar
do fermo, un aspetto pulito. Ma ora la fermezza del
lo sguardo era sparita e il vestito era ridotto a bran
delli. Si erano sfilacciati i colletti delle camicie, con
sumati i gomiti della giacca; gli stivali di vitello1
1. Singolare di làpti. Cfr. nota a pag. 17.
CAMPAGNA 227
erano diventati quasi rossi, sottili, in qualche punto
si erano spaccati. Il t u lù p di pelle di montone fo
derato di lanetta era in uso da tanto tempo che si
era tutto spelacchiato. Il vento poi nei campi era
furioso. Dopo un soggiorno a Durnòvka non era pos
sibile saziarsi di respirare il fresco vigoroso dell’aria
d’inverno. Dopo aver contemplato a lungo il villag
gio, colpiva la distesa grigia nevosa; le lontananze
di un color turchiniccio invernale sembravano ster
minate, belle come in un quadro. Baldo, sbuffando,
correva contro al vento aspro il cavallo; grumi ghiac
ciati con rumore volavano di sotto agli zoccoli fer
rati sul davanti della slitta. Kòscel, con una guancia
paonazza gelata, ansando vigorosamente, scattava su
dal sedile nelle discese e nella corsa gli cadeva ad
dosso di fianco. Ma il vento penetrava nelle ossa, i
piedi poggiati sulla paglia compressa insieme alla
neve dolevano ed erano assiderati, la fronte e gli
zigomi erano indolenziti... Nel basso ufficio postale
di Uljànovka poi la noia era tale come può essere
soltanto negli uffici governativi in luoghi lontani e
isolati. V ’era odor di muffa, di ceralacca, il postino
tutto stracciato picchiava col timbro, il cupo Sàcha-
rov, che sembrava un gorilla, urlava contro i conta
dini, arrabbiandosi perché a Kuzmà non era venuto
in mente di mandargli un cinque galline o almeno
un p u d di farina, e a scatti domandava: « Il vostro
nome, il casato? » e, dopo aver rovistato nell’arma
dio, pronunziava con durezza : « Non ci deve esser
nulla ». Accanto alla casa di Tìchon Iljìc turbava
l’odor del fumo della vaporiera, ricordando che al
mondo vi erano città, gente, animazione, giornali,
228 CAMPAGNA
notizie. Parlare un po’ col fratello, riposarsi da lui,
riscaldarsi, anche questo gli era piacevole. Ma la con
versazione non attaccava. Il fratello ogni momento
era chiamato in bottega, per affari di casa, e poi par
lava soltanto dell’azienda, delle fandonie, della vi
gliaccheria e cattiveria dei contadini, della necessità
di sbarazzarsi al più presto, al più presto del pos
sesso. Nastàsja Petròvna faceva pena. Era chiaro che
essa aveva cominciato ad avere una terribile paura
del marito; male a proposito entrava in discorsi, ma
le a proposito lo lodava, lodava la sua intelligenza,
il suo vigile occhio di padrone, il suo intromettersi
in tutte, tutte le faccende di casa.
— È così capace a tutto, così capace! — diceva,
e Tìchon Iljìc bruscamente la interrompeva; Kuz-
mà poi non sapeva che dire, per paura di far nascere
un alterco. Le parti si erano invertite: adesso era
il fratello che lo spaventava, che gli faceva la le
zione: non lui, ma il fratello dimostrava che vivere
in Russia era impossibile. Dopo un’ora di una tale
conversazione, Kuzmà cominciava a sentir voglia di
andare a casa, in villa. “Dove dunque mi ficcherò?”
pensava con spavento, ascoltando il fratello che par
lava della vendita del possesso. “Ed è possibile che
avvenga questo sciocco orribile matrimonio di De
niska con la Sposina? E perché con tanta ostinazio
ne Tìchon afferma che questo matrimonio si deve
fare?” « Ha perso il cervello, ohi, ohi, ha perso il
cervello! » borbottava Kuzmà nel tornare a casa, ri
cordando la faccia truce e cattiva di Tìchon, la sua
riservatezza e diffidenza, e quel suo affaticante ripe
tere sempre la stessa cosa. E ogni tanto dava una
CAMPAGNA 229
gridata a Kòscel, al cavallo, avendo fretta di andare
a nascondere nella sua casetta e la sua angoscia e il
vestito vecchio, freddo e la solitudine e l’intenerimen
to al pensiero del viso grazioso e melanconico della
Sposina, della sua femminilità e della sua enigmati
ca taciturnità. “Eh, come poteva essa non perdersi
qui!” pensava con angoscia, guardando nel crepusco
lo invernale i rari lumicini di Durnòvka...
Durante le feste di Natale prese l’abitudine di an
dare da Kuzmà Ivànuska di Bàsovka. Era questo un
contadino dei tempi antichi, indebolito di mente per
la tarda età, famoso una volta per la sua forza da
orso. Tarchiato, curvo come un arco, con la testa
bruna arruffata che non alzava mai e il suo cammi
nare con le punte dei piedi volte in dentro, egli stu
piva Kuzmà ancor più di Megnšov, di Akìm e del
Grigio. Durante il colera del novantadue tutta la
numerosa famiglia di Ivànuska era morta. Si era
salvato soltanto un figlio, soldato, impiegato adesso
quale casellante della strada ferrata, un cinque v erste
da Durnòvka. Avrebbe potuto finire i suoi giorni
anche dal figlio, ma Ivànuska preferì vagabondare,
andare accattando. Leggero e coi suoi piedi in den
tro si avanzava per il cortile, col bastone e il cap
pello nella sinistra, il sacco nella destra, con la testa,
su cui biancheggiava la neve, scoperta, e i cani chis
sà perché non gli abbaiavano contro. Entrava in casa
senza dir nulla, poi borbottava : « Dio benedica que
sta casa e il padrone nella casa » e si metteva a se
dere accanto alla parete per terra. Kuzmà lasciava
il libro, o il rotoletto che stava riempiendo di tabac
co minuto, e con stupore, con timidezza lo guardava
230 CAMPAGNA
al di sopra degli occhiali, come un qualche animale
di steppa la cui presenza era strana nella stanza. In
silenzio, con le ciglia abbassate, con un lieve sorriso
carezzevole, camminando leggermente coi làp t i, com
pariva la Sposina, porgeva a Ivànuska una ciotola di
patate lesse e tutt’un quarto di pane cosparso di sale
grigio, e si appoggiava allo stipite. Essa si vestiva
ora come una borghesuccia, ma come prima portava
i làp t i, era di spalle robuste, larghe, e la sua bella
faccia appassita era così rusticamente semplice e al
l’antica che sembrava non potesse chiamare Ivànuska
altrimenti che nonno. Ed essa, sorridendo a lui solo,
diceva piano:
— Mangia, mangia, nonno.
E lui, senza alzar la testa, accorgendosi della sua
benevolenza solo dalla voce, gemeva flebilmente in
risposta, a volte borbottava : « Che il Signore ti sal
vi, nipotina » con gesto largo e goffo, come con
una zampa, si faceva il segno della croce e si met
teva con avidità a mangiare. Sui suoi capelli bruni,
fitti e grossi che nulla avevan di umano, la neve si
scioglieva. Dai làp t i colava l ’acqua sul pavimento.
Il vecchio cek m ègn 1 scuro, messo sopra una sporca
camicia grezza, sapeva di isbà affumicata. Le mani
deformate dal lungo lavoro, le dita nodose irrigidi
te a fatica afferravano le patate.
—- Certo avrete freddo col solo cek m ègn ? — ad
alta voce domandava Kuzmà.
— Che? — rispondeva Ivànuska con un gemito
1. Una specie di soprabito che usano portare i cosacchi.
CAMPAGNA 231
fioco, come in sogno, tendendo l’orecchio coperto di
capelli.
— Devi aver freddo, no?
Ivànuska pensava.
— Perché freddo? — rispondeva facendo delle
pause. — Non fa freddo per niente... Nei tempi
passati quanto si gelava di più!
— Ma alza la testa, aggiustati i capelli!
Ivànuska lentamente crollava il capo.
— Oramai, fratello, non l’arrizzi... Si piega ver
so la terra...
E con un sorriso cupo si sforzava di sollevare la fac
cia spaventosa ricoperta di peli, gli occhietti minuscoli.
Dopo aver mangiato sospirava, si segnava, racco
glieva le briciole dalle ginocchia e finiva di masti
carle; poi frugava tastando intorno a sé: cercava il
sacchetto, il bastone e il cappello e, trovatili e tran
quillizzatosi, cominciava una lenta conversazione.
Avrebbe potuto star zitto tutto il giorno, ma Kuzmà
e la Sposina lo interrogavano ed egli, come in so
gno, come da lontano, rispondeva. Raccontava col
suo linguaggio goffo, antiquato che lo Zar era tutto
d’oro, che il pesce lo Zar non poteva mangiarlo -
« era troppo salato » - che il profeta Elia aveva una
volta spaccato il cielo ed era caduto sulla terra:
« era troppo peso » ; che Giovanni Battista era nato
arruffato come un montone e, mentre battezzava,
aveva colpito il battezzando sulla testa con una gruc
cia di ferro perché quello « rinvenisse »; che ogni
cavallo una volta all’anno, nel giorno di Fior e Lavr 1,
1. Due santi russi protettori degli animali.
232 CAMPAGNA
cercava di ammazzare un uomo. Raccontava che nei
bei tempi antichi la segale era così fitta che una bi
scia non ci poteva passare, che la mietevano in ra
gione di due d e sjat ìn e al giorno a testa; che lui ave
va un cavallo che tenevano « a catena », tanto era
forte e terribile; che una volta, un sessant’anni ad
dietro, a lui Ivànuska, avevano rubato un arco 1 tale
che per due rubli d’argento non l’avrebbe dato... Era
profondamente convinto che la sua famiglia era mor
ta non di colera, ma per essere andata a stare, dopo
un incendio, in una isbà nuova e aver passato in
essa la notte prima di averci fatto pernottare un gal
lo, e che lui col figlio si era salvato per caso : dormi
va nel granaio. Verso sera IvanuŠka si alzava e se
ne andava senza badare affatto al tempo, senza ce
dere a nessuna esortazione di rimanere sino al mat
tino... E si prese un’infreddatura da morirne e alla
vigilia dell’Epifania morì nel casotto del figlio. Il
figlio aveva cercato di convincerlo a comunicarsi. Ivà-
nuška non aveva voluto: disse che, se si fosse co
municato, sarebbe morto, e alla morte egli aveva fer
mamente deciso di « non cedere ». Per giornate in
tere rimase privo di conoscenza, ma anche nel deli
rio pregava la nuora di dire, se la morte avesse pic
chiato all’uscio, che lui non c’era. Una volta di not
te tornò in sé, raccolse le ultime forze, scese dalla
stufa e si mise in ginocchio davanti all’immagine, il
luminata da una lampadina. Respirava con affanno,
borbottò a lungo, ripeteva : « Signore Padre, perdo
na i miei peccati »... Poi rimase soprappensiero, stet
1. D u gà: è l’arco che viene attaccato alle stanghe dei vei
coli al di sopra del collo del cavallo.
CAMPAGNA 233
te lungo tempo in silenzio, con la testa abbassata fino
a terra. E ad un tratto si alzò dicendo con fermez
za: « No, non cederò! ». Ma al mattino vide che la
nuora stendeva la pasta per le focacce, scaldava for
te il forno...
— Che sarebbe per il mio funerale? — doman
dò con voce tremante. La nuora rimase zitta. Di nuo
vo egli raccolse le forze, di nuovo scese dalla stufa,
uscì nell’ingresso; sì, era vero, appoggiata alla pare
te era una enorme bara dipinta di viola con le croci
bianche a otto punte! Allora ricordò quel che era
avvenuto una trentina d’anni addietro al vicino, il
vecchio Lukjàn : Lukjàn si era ammalato, gli ave
vano comprato una bara - anche una bara bella, co
stosa — dalla città avevano portato farina, acquavite,
carpione salato: ma eccoti che Lukjàn guarì. Che
dovevan farne della bara? Come rimediare alle spe
se? Per cinque anni avevano poi maledetto Lukjàn
a causa di esse, tormentandolo sin dall’alba coi rim
proveri, facendogli soffrir la fame, lasciandolo ro
dere dai pidocchi e dal sudiciume... Ivànuska, ricor
datosi di questo, abbassò la testa e rientrò rassegnato
nell’isbà. Ma la notte, coricato sul dorso, fuori di
sé, cominciò con voce tremante, lamentevole a can
tare, sempre più piano, più piano, e d’un tratto scos
se le ginocchia, emise un singulto, sollevò alto il pet
to per un sospiro e, con la schiuma sulle labbra aper
te, rimase freddo...
Quasi un mese Kuzmà lo passò nel letto a causa
di Ivànuska. Il mattino dell’Epifania dicevano che
gli uccelli gelavano in volo, e Kuzmà non aveva nem
meno gli stivali di feltro. E tuttavia andò a dare
234 CAMPAGNA
un’occhiata alle mani del morto. Queste mani enor
mi, come di cera sporca, incrociate e irrigidite sotto
al vasto petto, sopra una camicia grezza linda, de
formate nel dorso di ottanta anni interi di dura pri
mitiva fatica da escrescenze callose, erano così roz
ze e spaventevoli che Kuzmà si affrettò a voltarsi
da un’altra parte. I capelli poi, la faccia inanimata,
bestiale di Ivànuska non potè nemmeno guardarli di
sbieco; vi gettò su in fretta il panno di calicò bian
co. E di sotto al calicò uscì d ’un tratto un fetore
dolciastro asfissiante, nauseabondo... Per riscaldarsi,
Kuzmà bevve dell’acquavite e stette un po’ a sedere
davanti alla stufa fiammeggiante. Il casotto era cal
do e pulito a festa, a capo della larga bara violetta
coperta di calicò brillava la fiammella dorata di una
candela di cera appiccicata alla scura immagine d ’an
golo, a colori vivaci risaltava un ’oleografia: Giusep
pe venduto dai fratelli. L’affabile moglie del solda
to sollevava leggermente la pala biforcuta e spin ge
va nel forno le pesanti marmitte di ghisa, parlava
allegramente della legna demaniale e insisteva per
ché Kuzmà rimanesse sino al ritorno dal paese del
marito, sino a che si fosse portato via il morto. Ma
egli era scosso dalla febbre: la faccia gli bruciava
dall’acquavite che come tossico si diffondeva per il
corpo gelato, gli cominciavano a salire agli occhi la
crime senza motivo... E, senza essersi riscaldato, Kuz
mà andò su per le bianche solide onde dei campi da
Tìchon Iljìc. Tutto ricoperto di brina, il cavallo bian
co dal pelo riccio correva forte nitrendo, con la mil
za che gli palpitava, gettando dalle narici colonne
di vapore grigio; cigolava, strideva sonora la piccola
CAMPAGNA 235
slitta coi suoi pattini rivestiti di ferro sulla neve du
ra; dietro, in mezzo a cerchi di gelo, il sole basso
si mostrava giallo; avanti, da settentrione soffiava un
vento pungente che toglieva il respiro; i ramoscelli
si curvavano sotto la brina morbida e fitta e grosse
starne grige a stormi volavano davanti al cavallo,
si sparpagliavano per la strada luccicante, beccavano
lo sterco gelato, per poi di nuovo sollevarsi e di nuo
vo sparpagliarsi. Kuzmà le guardava attraverso le
palpebre pesanti, bianche di brina, sentiva che la sua
faccia irrigidita coi ricci bianchi dei baffi e della bar
ba somigliava ad una maschera di Natale 1... Il sole
tramontava, le onde di neve della steppa assumeva
no una tinta verde funebre nel bagliore arancione,
dalle loro creste e merlature si stendevano delle om
bre azzurre... Kuzmà voltò bruscamente il cavallo e
lo fece trottare indietro verso casa. Ma questo non
gli giovò. Il sole era tramontato; nella casa con le
finestre grige chiuse brillava una luce fioca, era un
crepuscolo bluastro, si sentiva un’aria di disabitato
e di freddo. Il fringuello, nella gabbia appesa a una
finestra che dava in giardino, era morto — certo per
via del tabacco —giaceva colle zampette in su, le ali
aperte, il piccolo gozzo rosso gonfio.
— Ë andato! — disse Kuzmà e portò il fringuel
lo perché lo gettassero via.
Durnòvka, deserta, sepolta nella neve gelata, così
estranea a tutto il mondo in quella sera melanconica,
nell’inverno della steppa, ad un tratto lo spaventò.
È finita! La testa gli bruciava, confusa e pesante, egli
1. Era usanza tradizionale di mascherarsi alla vigilia di N a
tale.
236 CAMPAGNA
si sarebbe subito messo a letto per non alzarsi più...
Facendo scricchiolare i làp t i sulla neve, si avvicina
va alla scalinata la Sposina con un secchio in mano,
con indosso una pelliccetta corta e imbacuccata.
— Mi sono ammalato, Dùnjuska! — disse carez
zevole Kuzmà nella speranza di udire da lei una pa
rola affettuosa.
Ma la Sposina indifferente, secca rispose:
— Devo preparare il sam o v ar?
E non domandò nemmeno che male avesse. Non
domandò nulla anche di Ivànuska... Kuzmà ritornò
nella camera buia e, tremando tutto, pensando con
spavento come e dove sarebbe andato ora per i suoi
bisogni, si sdraiò sul divano.. E le sere si confusero
con le notti, le notti coi giorni, ne perse il conto.
La prima notte, verso le tre, si riebbe e picchiò
col pugno alla parete per chiedere dell’acqua: lo
tormentava nel sonno la sete e il pensiero se avessero
gettato via il fringuello. Ma al picchio nessuno ri
spose: la Sposina era andata a dormire nella stanza
della servitù. E Kuzmà ricordò, sentì di essere mor
talmente malato, e fu preso da tale angoscia come se
fosse rinvenuto entro un sepolcro. Dunque l’antica
mera, donde veniva un sentor di neve, di paglia e
di collari da cavalli, era vuota! Dunque lui, malato
e senza forza, era completamente solo in quella ca-
succia buia e gelata dove le finestre mandavano una
luce fosca, grigia tra il silenzio sepolcrale di quella
interminabile notte d’inverno, e dove era appesa una
inutile gabbia!
— Signore, salvami ed abbi pietà di me, aiu
tami sia pure un poco — mormorò sollevandosi
CAMPAGNA 237
e frugando con le mani tremanti per le tasche.
Voleva accendere un fiammifero. Ma il suo mor
morio era quello di un febbricitante, nella testa in
fiammata aveva una confusione di rumori e di suo
ni, le mani, i piedi erano ghiacciati... Era venuta
Klàsa ', aveva spalancato in fretta la porta, gli ave
va messo la testa sul guanciale, si era seduta sopra
una sedia accanto al divano... Era vestita da signori
na — una pelliccia di velluto, berretto e manicotto
di pelle bianca - le mani odoravano di profumo, gli
occhi luccicavano, le gote venendo dall’aria gelata si
eran fatte rosse... « Ah, come tutto si è accomodato
bene! » mormorava qualcuno, ma non era bene che
Klàsa, chissà perché, non avesse acceso la luce, che
non fosse venuta da lui, ma ai funerali di IvànuSka
che si erano combinati con l’onomastico di Tìchon
Iljìc... che si fosse messa a cantare con l’accompagna
mento di una chitarra : « Chaz-Bulàt, o prode, po
vera è la tua capanna »... Poi tutto questo a un trat-'
to sparì, egli aperse gli occhi, e di tutto il misterio
so turbamento e spavento che gli riempiva la testa
di confusione non rimase traccia. Di nuovo vide la
camera buia e fredda, le finestre che mandavano una
luce grigia; comprese che tutto attorno era semplice,
troppo semplice, che egli era malato e completamen
te, completamente solo...
N ell’angoscia mortale che gli avvelenava l’anima
al principio della malattia, Kuzmà aveva nel delirio
sognato soltanto il fringuello, Klàsa, Vorònjez; an
che nel delirio non lo lasciava il pensiero che tutto1
1. Cfr. nota a pag. 180.
238 CAMPAGNA
era finito... che forse almeno una volta avrebbero
avuto pietà di lui e non lo avrebbero seppellito a
Kolòdjezi. Ma, Dio mio, non era follia sperare nel
la pietà a Durnòvka? Una volta tornò in sé al mat
tino, mentre accendevano la stufa, e le voci sempli
ci, tranquille di Kòscel e della Sposina gli sembra
rono così spietate, estranee e strane, come sempre
ai malati sembra spietata, estranea e strana la vita
usuale dei sani. Voleva dare una voce, chiedere che
preparassero il sam o v ar , ma rimase muto e mancò
poco non si mettesse a piangere : udì il brontolio
arrabbiato di Kòscel che parlava, certamente, di lui,
malato, e la risposta a scatti della Sposina:
— E che me ne importa di lui? Se morirà, lo
seppelliranno...
Poi l’angoscia cominciò ad affievolirsi. Quando la
coscienza si rischiarava, il corpo e l’anima si senti
vano addirittura bene, come quelli di un bimbo. N el
le finestre, attraverso i rami spogli delle acacie, lu
ceva il sole della sera. Vi era un fumo turchiniccio
di tabacco. Presso il letto sedeva un vecchio f è ld se r
che sentiva di medicine e di aria gelata e si staccava
dai baffi i ghiaccioli. Sulla tavola bolliva il sam ov ar
e Tìchon Iljìc alto, grigio, severo, in piedi accanto
alla tavola, preparava il tè profumato. Il f è ld se r fu
mava, ne beveva otto, dieci bicchieri, parlava delle
sue vacche, dei prezzi della farina e del burro, e T ì
chon Iljìc raccontava quanto magnifici e ricchi fos
sero stati i funerali di Nastàsja Petròvna, come era
contento che finalmente si fosse trovato un compra
tore di Durnòvka. Kuzmà capiva che Tìchon Iljìc
era giunto allora dalla città, che Nastàsja Petròvna
CAMPAGNA 239
era morta là improvvisamente mentre andava alla
stazione; capiva che i funerali eran costati a Tìchon
Iljìc terribilmente cari, che aveva già preso una ca
parra per Durnòvka, ed era del tutto indifferente :
lo interessava soltanto il sole della sera.
Svegliatosi una volta molto tardi, non sentendo
né debolezza né tremito alle gambe, infilò gli stivali
nuovi di feltro e la pelliccetta corta di Romànovo —
regalo di Tìchon Iljìc - e si mise a sedere davanti
al sam ov ar. Il giorno era nuvoloso, tiepido, era ca
duta molta neve. Lasciandovi le impronte dei làp t i,
tutte crocette, passò sotto alla finestra il Grigio. At
torno a lui, annusandogli le falde lacere del pastra
no, correvano i cani. Ed egli tirava per le briglie un
alto cavallo baio-sporco, deformato dalla vecchiaia e
dalla magrezza, con le spalle spelate dal collare, col
dorso ammaccato, la coda rada e sudicia. Zoppicava
su tre zampe, la quarta, rotta sotto al ginocchio, la
strascicava. E Kuzmà si sovvenne che due giorni pri
ma c’era stato Tìchon Iljìc e aveva detto di aver or
dinato al Grigio di dare un buon boccone ai cani -
di trovare, condurre e ammazzare un vecchio caval
lo - che il Grigio già prima si occupava di questo
commercio: compra di bestiame morto o inservibile
per levarne le pelli. Al Grigio, aveva detto Tìchon
Iljìc, era accaduto poco tempo addietro un fatto ter
ribile : nell’accingersi ad abbattere una cavalla, si era
dimenticato di impastoiarla, le aveva legato e tirato
da un lato soltanto il muso, e la cavalla, appena lui,
dopo essersi fatto il segno della croce, l’ebbe colpita
con un coltellino sottile nell’arteria vicino alla cla
vicola, con un urlo e coi denti gialli scoperti dal do-
240 CAMPAGNA
lore e dal furore, lasciando scorrere sulla neve un
rivolo di sangue nero, si era scagliata sul suo assas
sino e per lungo tratto come una persona lo aveva
rincorso e lo avrebbe raggiunto, ma « fortuna che
la neve era profonda »... Questo fatto aveva talmen
te colpito Kuzmà, che ora, guardando dalla finestra,
di nuovo sentì un peso alle gambe. Poi prese a bat
tergli il cuore... Si mise a inghiottire del tè caldo e
a poco a poco si riebbe. Fumò un po’, rimase un po’
a sedere... Alla fine si alzò, uscì nell’ingresso e det
te un’occhiata al giardino nudo e rado dalla finestra
che sgelava: in giardino, sul lenzuolo candido della
spianata, rosseggiava una carogna enorme, sangui
nante, col collo lungo e la testa scorticata; i cani pie
gati, appoggiandosi con le zampe alla carne, avida
mente strappavano e stiracchiavano le budella; due
vecchi corvi d ’un nero turchino saltellavano di fian
co verso la testa, si alzavano a volo quando i cani,
ringhiando, si gettavano su di loro, e di nuovo si
abbassavano sulla neve verginalmente candida. “Ivà-
nuška, il Grigio, i corvi...” pensò Kuzmà. Questi
corvi, forse, ricordavano ancora i tempi di Ivàn il
Terribile... “Signore, salvami ed abbi pietà di me,
portami via di qua!”
Il malessere non lasciò Kuzmà per un mezzo me
se ancora. In modo triste e gioioso lo commoveva il
pensiero della primavera, egli aveva voglia di andar
sene al più presto da Durnòvka. Sapeva che dell’in
verno non se ne vedeva ancora la fine, ma lo sgelo
già cominciava. La prima settimana di febbraio fu
scura, nebbiosa. La nebbia nascondeva i campi, in
ghiottiva la neve. Il villaggio nereggiava, tra gli am-
CAMPAGNA 241
massi sporchi di neve stagnava l’acqua; lo st an o v ò j x
era passato una volta per il villaggio coi cavalli at
taccati in fila indiana tutto schizzato di sterco equi
no. Cantavano i galli, dal ventilatore veniva un’umi
dità primaverile che turbava...
Una nuova vita cominciava per Kuzmà : egli lo
sentiva. Ma quale? Se qualcuno gli avesse doman
dato ora del suo « totale », avrebbe soltanto sorriso.
Prima, quando egli si accingeva a scrivere, pensava
spesso al suo passato. Ora invece il passato gli sem
brava così privo di valore, così estraneo, che non vi
poteva credere assolutamente : ma no, non eran co
se successe a lui, e se eran successe a lui, non ave
vano il benché minimo legame con la sua anima.
Ora soltanto aveva capito quanto fosse sciocco so
gnare non so che « totali », sermoni, discussioni su
chi fosse buono o cattivo, su chi avesse ragione o
torto. Che gliene importava? Ma di vivere aveva vo
glia ancora: di vivere, di aspettare la primavera, il
trasferimento in città, di vivere assoggettandosi al
destino e di fare qualsiasi cosa, fosse pure per un
solo pezzo di pane... E, s’intende, di vivere dal fra
tello, comunque egli fosse. Il fratello aveva pur pro
posto a lui, malato, di stabilirsi a Vòrgol.
— Dove ti potrei cacciare? — gli aveva detto,
dopo aver riflettuto. — Anche la bottega con la ca
sa dal primo marzo l’affitto; andiamocene, fratello,
in città, lontano da questi assassini!
E davvero : assassini. Era venuta Odnodvòrka e
aveva riferito i particolari del recente caso avvenuto
1. Funzionario di polizia.
10 .
242 CAMPAGNA
al Grigio. Deniska era ritornato da Tùia poco dopo
l ’Epifania e bighellonava senza occupazione, diffon
dendo per il paese la chiacchiera che voleva prender
moglie, che aveva dei quattrini e che presto avrebbe
cominciato a vivere da gran signore. Il paese da prin
cipio aveva chiamato queste ciance bugie, poi, per
le allusioni di Deniska, comprese di che si trattava,
e vi credette. Vi credette anche il Grigio e cominciò
a cercare d ’ingraziarsi il figlio. Ma, dopo avere scor
ticato il cavallo, ricevuto un rublo da Tìchon Iljič
e guadagnato cinquanta copechi con la pelle, s’inor
goglì e si dette a far baldoria : bevve per due giorni,
perse la pipa e si coricò sulla stufa per smaltire la
sbornia. La testa gli doleva, non aveva con che fu
mare. Ed ecco che, per far sigarette, si mise a strap
par la carta dal soffitto che Deniska aveva ricoperto
nell’estate con giornali e illustrazioni varie. La strap
pava, s’intende, di nascosto, ma pure una volta De
niska lo trovò intento a questo lavoro. Ce lo trovò
e cominciò a urlare. Il Grigio sotto l’azione della
sbornia cominciò a urlare anche lui e Deniska lo tra
scinò giù dalla stufa e lo picchiò a morte fino a che
non accorsero i vicini. È vero, la pace fu conclusa
fin dalla sera del giorno dopo con ciambelline e ac
quavite, ma, pensava Kuzmà, non era forse un as
sassino anche Tìchon Iljìc che con una ostinazione
da pazzo insisteva sul matrimonio della Sposina con
uno di questi assassini?
Quando per la prima volta aveva udito parlare di
questo matrimonio, Kuzmà aveva deciso fermamen
te di non permetterlo. Che orrore, che assurdità!
Poi, quando tornava in sé durante la malattia, ave-
CAMPAGNA 243
va gioito persino di questa assurdità. Lo meraviglia
va e colpiva l’indifferenza della Sposina verso di lui,
malato. “È una bestia, un selvaggio!” pensava e, sov
venendosi del matrimonio, malignamente soggiun
geva: “E benissimo! Così si merita lei!”. Adesso,
dopo la malattia, la risolutezza e il rancore erano
spariti. Una volta cominciò a discorrere con la Spo
sina dell’intenzione di Tìchon Iljìc, ed essa tranquil
la rispose:
— Ma sì, che c’è? io ho già parlato col padrone
di quest’affare. Che Dio lo conservi in salute, l’ha
pensata bene.
— Bene? — si stupì Kuzmà.
La Sposina lo guardò e crollò il capo:
— E come non ha a esser bene? Siete strano, pa
rola d ’onore, Kuzmà Iljìc! Offre del denaro, paga le
spese... Eppoi non ha mica trovato un vedovo qua
lunque, ma un ragazzo giovane, senza vizi... né mar
cio, né ubriacone...
— Ma un fannullone, un manesco, uno stupido
finito — soggiunse Kuzmà.
La Sposina abbassò gli occhi e tacque. Sospirò e,
rigiratasi, andò verso la porta.
— Ma come volete — disse con un tremito nel
la voce. — È affar vostro... Sconsigliatelo... Che Dio
sia con voi!
Kuzmà spalancò gli occhi e gridò:
— Ferma, ma tu sei diventata matta! Che forse
voglio il tuo male?
La Sposina si voltò e si fermò.
— E che non è forse male? — si mise a dire con
calore e ruvidamente, facendosi rossa e mandando
244 CAMPAGNA
lampi dagli occhi. — Dove, secondo voi, dovrei an
darmi a ficcare? In eterno logorar le soglie degli
altri? Rosicchiare le croste di pane degli altri? Bi
ghellonare come un’accattona senza tetto? O cercar
mi un vedovo, un vecchio? Poco disonore ho patito
finora, poche lacrime ho ingoiato?
E la voce le si spezzò. Si mise a piangere e uscì.
La sera Kuzmà la persuase che egli non ci pensava
nemmeno a mandar all’aria la cosa, ed essa infine vi
credette, e sorrise carezzevole e timida.
— Allora, un grazie a voi — disse con quel tono
gentile con cui parlava con Ivànuska.
Ma anche qui sulle ciglia le tremarono le lacri
me, e di nuovo Kuzmà allargò le braccia.
— E adesso perché? — disse.
E la Sposina piano rispose:
— Ma forse anche sposar Deniska non è poi una
gran gioia...
Irritazione e risolutezza sparirono in lui, perché
ora aveva compreso tutto. Aveva compreso Kuzmà
anche l’indifferenza della Sposina verso di lui, ma
lato. Chi era egli per lei? Padre, fratello? Perché
mai dimenticava, stupido vecchio, di essere a Dur-
nòvka? Perché mai s’immaginava che la Sposina com
prendesse il suo modo di comportarsi verso di lei ?
Tìchon sì, certo, agiva crudelmente, da assassino, cer
cando di legare la sua sorte a quella di Deniska, ma,
già, lui conosceva Deniska cento volte meglio. Già,
la crudeltà di Tìchon sembrava crudeltà solamente
a lui, Kuzmà...
Kòscel aveva portato dalla posta i giornali di qua
si un mese e mezzo. Le giornate erano buie, nebbio
CAMPAGNA 245
se, e Kuzmà da mattina a sera leggeva seduto alla
finestra. Finito che ebbe, sbalordito dal numero fan
tastico delle nuove condanne a morte, rimase impie
trito. Prima soffocava dalla rabbia alla lettura dei
giornali, una rabbia sterile perché non bastava la
sensibilità umana per quello che leggeva. Adesso gli
si erano soltanto ghiacciate le dita. Sì, sì, qui non
c’era da andare in furia. Tutto va secondo l’ordine
stabilito... A ogni testa la sua berretta... Alzò il ca
po: obliquo scendeva un nevischio cadendo sul nero
miserabile villaggetto, sulle strade sporche tutte bu
che, sullo sterco di cavallo, sul ghiaccio e sull’acqua;
la nebbia crepuscolare nascondeva i campi stermina
ti, tutto quel grandioso deserto con le sue nevi, fore
ste, villaggi e città, regno della fame e della morte...
— Avdòtja! — gridò Kuzmà, alzandosi dal po
sto. — D i’ a Kòscel di attaccare il cavallo coi pa
raocchi. Vado da mio fratello...
Tìchon Iljìc era a casa. Sedeva davanti al sam ov ar,
in sola camicia russa di percalle, bruno, quasi nero,
con la barba bianca, le sopracciglia grige aggrotta
te, grosso e forte, e preparava il tè.
— Ah, caro fratello! — esclamò affabile, ma con
poca naturalezza, senza distendere le sopracciglia. —
Sei uscito alla luce di Dio? Bada, non sarà presto?
— Mi era venuto troppo a noia, fratello — ri
spose Kuzmà, mentre si baciavano.
— Ebbene, se ti sei annoiato, riscaldiamoci e chiac
chieriamo...
Domandatisi l’un l’altro se non v’erano novità, si
misero, in silenzio, a bere il tè, poi a fumare.
— Sei molto dimagrato, caro fratello! — disse
246 CAMPAGNA
Tìchon Iljìc, strascicando le parole e guardando Kuz-
mà di sottecchi.
— C’è da dimagrare — rispose Kuzmà piano. —
Che non leggi i giornali?
Tìchon Iljìc sorrise.
— Tutte quelle fandonie? No, Dio me ne scampi.
— Quante pene capitali, se tu sapessi!
— Pene capitali? Meritate. Non hai sentito quel
che è successo presso Jelèts? Nella fattoria dei fra
telli Bykovy?... Te li ricorderai, certo... quelli che
tartagliavano?... Erano seduti questi Bykovy, non al
trimenti che noi due, così di sera, e giocavano a
dama... Stavano dicendo ch’era ora d’andar a dormi
re. Ad un tratto che c’è? Un calpestio su per la sca
linata, un grido: «A p r it e !». E non fecero a tem
po, caro il mio fratello, quei Bykovy, a batter ciglio,
che si precipitò dentro un loro operaio, un contadi
no del genere del Grigio, e dietro a lui due liguri,
due malviventi, a dirla breve... E tutti coi paldiferri.
Alzarono i paldiferri e si misero a urlare: «Su le
mani, per li mortacci vostri! ». Capisci: il contadi-
nuccio era lui stesso bianco come un cencio, dalla
paura, con gli occhi fuori della testa, ma urlava più
forte di tutti... I Bykovy, s’intende, si presero una
paura da morirne, scattaron su, gridarono : « Ma che
è q u est o?». E il contadinuccio seguitava col suo:
« Su le mani e su le mani! ».
E Tìchon Iljìc sorrise cupo, e, messosi a pensare,
tacque.
— Finisci dunque di raccontare — disse Kuzmà.
— Ma non c’è nulla da finire... Alzarono, s’inten
de, le mani e domandarono : « Ma che volete dun-
CAMPAGNA 247
que? » « Da’ su il prosciutto! Le chiavi dove l’hai? »
« Figlio di un cane! Non l’hai a sapere tu? Ma ec
cole lì, sulla porta, attaccate a un chiodo... ».
— E tutto questo con le mani alzate? — lo in
terruppe Kuzmà.
— S’intende, alzate... Già, e ne toccheranno ades
so per quelle mani! Li impiccheranno, si dice. Son
già in galera, i merlotti...
— Per il prosciutto li impiccheranno?
— No, per la boieria, perdonami, Signore, il mio
peccato — mezzo arrabbiato, mezzo scherzoso rispo
se Tìchon Iljìc. — Basta, vivaddio, fare il galletto,
darti l’aria di un BalàSkin! È tempo di smetterla...
Kuzmà tacque a lungo, stiracchiando la sua barbet
ta grigia. La sua faccia patita, magra, gli occhi ad
dolorati, il sopracciglio sinistro sollevato da un lato
si riflettevano nello specchio, e, guardandosi, egli
piano assentì :
— Fare il galletto? È vero... che è tempo... da
un pezzo ne è tempo...
E Tìchon Iljìc passò a parlar di affari. Evidente
mente poco prima, durante il racconto, si era messo
a pensare soltanto perché si era ricordato di qualcosa
molto più importante delle pene capitali : di un qual
che affare.
— Ecco ho già detto a Deniska che la finisca al
più presto possibile questa musica — si mise a dire
fermo, deciso e severo, versando il tè nella teiera
dal cavo della mano. — E ti prego, caro fratello, di
interessartene, a questa musica. A me, lo capisci, non
conviene. Dopo poi vieni a star qui. Ce la passere
mo bene, fratello! Una volta che abbiam deciso di
248 CAMPAGNA
mandar tutto a rotoli, non c’è ragione che tu stia là
per nulla. Son soltanto spese doppie. E quando sa
rai venuto, aggiogati con m e: getteremo giù dalle
spalle il fardello, riusciremo, se Dio vuole, ad an
dare in città, e ci occuperemo del travaso del grano
nei sili, ma sul serio. Qui, in questa tana, non ci si
può stendere. Ci scuoteremo dai piedi la sua polve
re, e che precipiti anche nel profondo dell’inferno!
Non ci si può mica rovinar qui! Da me, tienlo pre
sente — disse aggrottando le sopracciglia, tendendo
le mani e serrando i pugni — da me non te la puoi
ancora svignare, è ancora troppo presto perché io me
ne stia coricato sulla stufa! Al diavolo romperei le
corna!
Kuzmà ascoltava, guardando quasi con spavento
i suoi occhi fissi, folli, la sua bocca sbieca che, rapa
ce, scolpiva le parole, ascoltava e taceva. Poi do
mandò :
— Fratello, dimmi per l’amor di Cristo, che in
teresse ci hai in questo matrimonio? Non lo capisco,
Dio è testimone, non lo capisco. Il tuo Deniska non
posso proprio vederlo. Questo tipetto nuovo sarà an
cor peggio di tutti i vecchi. Non badare che ha l’aria
timidetta e si fa passare per scemo, è in realtà un
animale così cinico! Di me va a dire che vivo con
la Sposina...
— Via, in nulla tu sai la misura — accigliandosi
lo interruppe Tìchon Iljìc. — Tu stesso ripeti sem
pre: disgraziato popolo, disgraziato popolo! E ades
so: animale!
— Sì, lo ripeto e lo ripeterò! — riprese con ca
lore Kuzmà. — Ma la testa mi va a processione!
CAMPAGNA 249
Non capisco nulla adesso: un po’ sarà disgraziato,
un po’... Ma sta’ a sentire: eppure tu stesso questo
Deniska lo detesti! Tutti e due vi detestate l’un l ’al
tro! Di te non dice altro che sei « un assassino, che
hai piantati i denti nel collo del popolo » e tu chia
mi lu i assassino! Lui si vanta in paese sfrontatamen
te che adesso è compare del re...
—• Ma se lo so! — di nuovo lo interruppe Tìchon
Iljìc.
— E della Sposina, lui, sai che dice? — continuò
Kuzmà senza ascoltarlo. — È una bella donna, ha
un colorito così delicato, capisci, gli occhi chinati a
terra, e lui, stupido animale, sai che dice? «P a r
proprio di maiolica, sgualdrina! » E poi infine devi
capire una cosa : lui non vivrà mica in paese, un
vagabondo come lui adesso non lo tieni al paese nem
meno con un laccio. Che padrone può essere, che uo
mo di casa? Ieri, l’ho sentito, andava per il paese e
cantava con vocetta sdolcinata : « Bella come un an-
gil del ciel, come un demane astuta e perversa... ».
-— Lo so! — gridò Tìchon Iljìc. — Non ci vivrà
in paese, non ci vivrà a nessun costo! Ma sai, anche
in città ci vive della gente che non è meglio di quel
la di Durnòvka. In quanto a non esser un buon pa
drone, un uomo di casa, allora anche io e tu siamo
proprio dei buoni padroni! Mi ricordo, ti parlavo
d’affari - in trattoria, te lo ricordi? - e tu stavi a
sentir la quaglia... So tutto. E dopo, e dopo che è
stato ?
— Come che è stato? E che c’entra la quaglia? —
domandò Kuzmà e, spalancati gli occhi, tacque.
250 CAMPAGNA
Tìchon Iljìc tamburellò con le dita sulla tavola e
severo, scolpendo le parole, disse:
— Tienlo presente: batti l’acqua, sarà sempre ac
qua. La mia parola è sacra nei secoli dei secoli. Una
volta detto, lo farò. Per scontare il mio peccato non
metto una candela, ma faccio un’opera buona. An
che se darò un obolo solo, per quest’obolo il Signore
mi ricorderà.
Kuzmà scattò su dal posto.
— Signore, Signore! — esclamò con voce di fal
setto. — Che Signore può esservi per noi! Che Si
gnore può esservi per Deniska, per Akimka, per
Megnsòv, per il Grigio, per te, per me?
— Aspetta — domandò severo Tìchon Iljìc —
per quale mai Akimka?
— Ecco io stavo per crepare — seguitò Kuzmà,
senza ascoltare — forse che ho pensato molto a Lui?
Una cosa ho pensato: che di Lui non so nulla e non
vi so pensare! — gridò Kuzmà. — Non me l’hanno
insegnato!
E, guardandosi attorno con occhi mobili e pieni
di sofferenza, abbottonandosi e sbottonandosi, fece
un giro per la stanza, e si fermò proprio davanti alla
faccia di Tìchon Iljìc.
— Ricordatelo, fratello — disse, scolpendo le sil
labe, e gli zigomi gli si fecero rossi. — Ricordatelo :
la nostra canzone l’abbiam finita di cantare. E nes
suna candela noi due ci salverà. Mi senti? Noi sia
mo di Durnòvka. Noi non facciamo al caso né per
Dio né per il diavolo.
E, non trovando parole dall’agitazione, tacque. Ma
CAMPAGNA 251
Tìchon Iljìc già di nuovo stava pensando a qualcosa
per suo conto e all’improvviso assentì:
— È vero. Un popolo buono a nulla! Pensa sol
tanto...
E si rianimò, tutto preso dal nuovo pensiero:
— Pensa soltanto: lavoran la terra da un intero
millennio, ma che dico! più! ma lavorarla ammodo,
non un ’anima lo sa! L’unico loro lavoro non lo san
no fare! Non sanno quando bisogna andare nei cam
pi! quando bisogna seminare, quando falciare! « Co-
m’è la gente, così siam noi », non sanno altro. Nota!
— gridò severamente aggrottando le sopracciglia,
come un tempo gridava contro di lui Kuzmà. —
« Com’è la gente, così siam noi »! Il pane non v’è
una donna che lo sappia cuocere, la corteccia di so
pra se ne va tutta al diavolo, e sotto la corteccia,
acqua acida!...
E Kuzmà, al quale prima era parso che fosse giun
to, finalmente, il momento di dir la cosa più impor
tante della sua vita, di gettare, con l’orrore esaltato
della disperazione, uno sguardo al suo definitivo to
tale, rimase sbalordito. Le idee gli si confusero...
“Ha perso il cervello!” pensò, seguendo con occhi
intontiti il fratello che accendeva la lampada.
Ma Tìchon Iljìc, senza dargli il tempo di tornare
in sé, continuava con foga:
— Il popolo! Sconci nel parlare, bugiardi e così
spudorati che non c’è uno che creda all’altro. Nota
— si mise ad urlare, non vedendo che il lucignolo
acceso fumava e che la fuliggine arrivava fin quasi
al soffitto — non a noi, non a noi, ma tra loro non
si credono! E son tutti così, tutti! — cominciò a gri
252 CAMPAGNA
dare con voce piagnucolosa e calcò il vetro sulla
lampada facendolo stridere.
Di là dalle finestre l’aria si era fatta turchina. Sul
le pozzanghere e sui cumuli nevosi volava la neve
fresca, bianca. Kuzmà la guardava e taceva. La con
versazione aveva preso una piega così inaspettata e
insulsa - e tutto ciò era ormai talmente venuto a
noia! - che persino la veemenza di Kuzmà era scom
parsa. Non sapendo che dire, non sapendosi decidere
a guardare gli occhi afflitti e furibondi del fratello,
egli si mise ad arrotolare una sigaretta.
“Ha perso il cervello” pensava sconsolato. “Sì, do
veva finir così. Fa lo stesso! Tutto, tutto è lo stesso.
È finita.”
Si mise a fumare; cominciava a calmarsi anche
Tìchon Iljìc. Si sedette e, guardando la luce della
lampada, borbottò piano:
— Tu dici di Deniska... Hai sentito quel che ha
fatto Makàr Ivànovic, il pellegrino? Hanno acchiap
pato, lui e un suo amico, una donna per via, Than
trascinata al casotto della sentinella a Kljùciki e per
quattro giorni ci sono andati a violentarla... a turno.
Ecco, adesso sono in galera...
— Tìchon Iljìc — disse Kuzmà carezzevole — che
cosa dici? Perché? Tu non stai bene, probabilmente.
Salti da una cosa all’altra, ora affermi una cosa e
dopo un minuto un’altra... Bevi forse molto, eh?
Tìchon Iljìc stette zitto. Scosse soltanto la mano
e negli occhi, fissi sulla luce, gli tremolarono delle
lacrime.
— Bevi? — ripetè piano Kuzmà.
— Bevo — rispose piano Tìchon Iljìc. — Credi
CAMPAGNA 253
che l’abbia avuta facilmente questa gabbia d ’oro,
credi che sia stato facile viver tutta la vita come un
cane alla catena, e per di più con una vecchia? Per
nessuno, fratello, ho avuto pietà... E anch’io non
sono stato molto compatito!... Tu credi che non sap
pia come mi odiano? Tu credi che non mi avrebbe
ro fatto fare una morte atroce, se gli fosse capitata,
a questi m u z ik ì, l’imbraca ammodo sotto la coda?
se la fortuna fosse stata dalla loro in questa rivolu
zione? Aspetta, aspetta, ne succederanno delle cose,
ne succederanno! Li abbiam stretti al collo noi!
— E per un po’ di prosciutto si devono strozzare?
— domandò Kuzmà.
— Via, proprio strozzare — rispose Tìchon Iljìc
con sofferenza. — Questo l’ho detto così, tanto per
dire...
— Ma pure li strozzeranno.
— Questo poi non è affar nostro. Ne dovranno
render conto all’Altissimo.
E, aggrottate le ciglia, rimase soprappensiero e
chiuse gli occhi.
— Ah — disse accorato con un profondo sospiro.
— Ah, caro il mio fratello! Presto presto anche noi
dovremo comparire dinanzi al trono di Lui per es
sere giudicati! Ecco la sera io leggo il messale e
piango, singhiozzo su questo libro. Resto meravi
gliato : come è stato possibile immaginare delle pa
role così dolci! Già, ecco, aspetta...
E in fretta si alzò, tirò fuori di dietro allo spec
chio un grosso libro con una rilegatura da chiesa,
con mani tremanti si mise gli occhiali e con lacrime
254 CAMPAGNA
nella voce, frettoloso, come se avesse paura di venire
interrotto, cominciò a leggere:
« Piango e singhiozzo quando medito sulla mor
te e vedo la nostra bellezza creata ad immagine di
Dio giacente nella tomba, deforme, muta, priva di
effigie...
« In verità, la vanità umana, l’esistenza è ombra
e sonno. Giacché invano si agita ogni nato sulla ter
ra, come dice la Scrittura: quando avremo conqui
stato il mondo, allora scenderemo nella tomba dove
sono insieme re e mendichi... »
— Re e mendichi! — con voce estasiata e triste
ripetè Tìchon Iljìc e crollò il capo. — È perduta la
vita, fratello! Avevo, capisci, una cuoca muta; le re
galai, a quella stupida, un fazzoletto che veniva dal
l’estero, e le i p rese a p ort arlo al rov escio... Capisci?
Per stupidaggine e per avarizia. « È peccato portarlo
tutti i giorni, aspetterò la festa », ma venne la festa
e non eran rimasti che brandelli... Così ecco ho fatto
anch’io... con la m ia v ita. Proprio così!
E Kuzmà, senza ascoltare, lo guardava sgomento
e stupito, preso dalla tentazione di gridare:
— Tìchon Iljìc, tu esci di senno! Torna in te!
Ma gridare - egli lo sentiva e lo comprendeva
ora chiaramente — era inutile...
Non gridò neppure alle nozze.
Ritornando a Durnòvka, sentiva una cosa sola, un
senso di angoscia ottusa. In ottusa angoscia e malin
conia trascorsero anche tutti gli ultimi giorni che ri
mase a Durnòvka.
In quei giorni cadde la neve e la neve soltanto si
CAMPAGNA 255
aspettava in casa del Grigio affinché la strada si ag
giustasse per le nozze.
Il dodici di febbraio, verso sera, nel buio del
freddo ingresso, si svolse una conversazione a bassa
voce. Accanto alla stufa stava la Sposina con un faz
zoletto giallo a pallini neri calato sulla fronte, guar
dandosi i làp t i. Presso la porta Deniska dalle gambe
corte, senza cappello, in una p o d d jò v k a pesante con
le spalle spioventi. Anch’egli teneva gli occhi bassi
guardando degli stivaletti coi sottotacchi di ferro, che
faceva girare nelle mani. Gli stivaletti appartenevano
alla Sposina. Deniska li aveva riparati ed era venuto
a prendere un cinquino per il lavoro.
— Ma io non ce l’ho — diceva la Sposina. — E
Kuzmà Iljìc deve essersi addormentato. Aspetta sino
a domani.
— Io, veramente, non potrei aspettare — rispose
Deniska, pensieroso, con cantilena, grattando con
l ’unghia il sottotacco di ferro.
— E allora che si ha da fare?
Deniska pensò un poco, dette un sospiro e, scossi
i capelli folti, d ’un tratto alzò il capo.
— Ma a che pro menar la lingua per nulla? —
disse ad alta voce e deciso, senza guardare la Spo
sina e vincendo la timidezza. — T ’ha parlato Tìchon
Iljìc?
— M ’ha parlato — rispose la Sposina. — M ’è
venuto persino a noia.
—- Allora vengo adesso con mio padre. Tanto
Kuzmà Iljìc deve alzarsi lo stesso per prendere il tè.
La Sposina pensò un po’.
— È affar tuo...
256 CAMPAGNA
Deniska mise gli stivaletti sul davanzale e, senza
parlar più dei denari, uscì. E mezz’ora dopo su per
la scala si udì un batter di làp t i ricoperti di neve:
Deniska era ritornato col Grigio e il Grigio aveva
chissà perché la sopravveste cosacca legata alle cosce
con una cintura rossa. Kuzmà andò loro incontro.
Deniska e il Grigio si fecero ripetuti segni di croce
verso l’angolo buio, poi scossero i capelli e solleva
rono la faccia.
— Padre della sposa non sei, ma sei un buon
uomo! — senza fretta cominciò a dire il Grigio con
un tono insolitamente disinvolto e sensato. — Tu
devi maritare la figlia adottiva, io dar moglie al fi
glio. Di buon accordo, per la loro felicità, discorria
mola un poco tra noi.
— Ma lei ha la madre — disse Kuzmà.
— Sua madre non è una padrona, è una vedova
senza tetto, la sua isbà è stoppata e lei chissà dov’è
— rispose il Grigio, senza cambiar tono. — Pensa
bene all’orfana!
E fece un inchino grave, profondo.
Trattenendo un sorriso doloroso, Kuzmà fece dare
una voce alla Sposina.
— Corri, cercala — con voce sommessa, come in
chiesa, ordinò il Grigio a Deniska.
— Ma io son qui — disse la Sposina, uscendo di
dietro alla porta, staccandosi dalla stufa, e fece un
inchino al Grigio.
Seguì un silenzio. Il sam o v ar che era in terra, con
la graticola rosseggiante nel buio, bolliva e gorgo
gliava. Le facce non si vedevano, ma si sentiva che
tutti erano imbarazzati.
CAMPAGNA 257
— E allora, figliola, decidi — disse Kuzmà.
La Sposina stette a pensare.
— Io contro il giovane non ho nulla da dire...
—- E tu, Denis?
Anche Deniska stette un po’ in silenzio.
— Ebbene, prender moglie, tanto, una volta o
l’altra bisogna... Può essere, se Dio vuole, che vada
bene...
E i consuoceri si dettero l’un l’altro il mirallegro
per l’inizio dell’affare. Il sam ov ar fu portato nella
stanza della servitù. Odnodvòrka, che prima di tutti
aveva saputo la novità ed era corsa da Mys con un
semplice scialle addosso, accese nella stanza della ser
vitù una lampadina, mandò Kòscel a prender acqua
vite e semi di girasole, fece sedere la fidanzata col
fidanzato sotto l’immagine dei Santi, versò loro il
tè, lei si sedette accanto al Grigio e, per dissipare
il disagio, con voce alta e stridula si mise a cantare
guardando di tanto in tanto Deniska, la sua faccia
terrea e le sue ciglia grosse:
Per il nostro giardinetto,
Per il verde vigneto
Girellava un giovanotto,
Bianco bianco e bello...
Kuzmà poi girava da un angolo all’altro per la
sala buia e, crollando il capo, aggrottando le soprac
ciglia, borbottava:
— Ah, mamma mia! Ah, che vergogna, che as
surdità, che miseria!...
Il giorno dopo chiunque sentiva dire dal Grigio
di quel banchetto sorrideva e consigliava : « Se tu
258 CAMPAGNA
almeno aiutassi un poco gli sposi! ». Lo stesso disse
anche Kòscel : « È roba di gioventù, i giovani vanno
aiutati ». Il Grigio senza dir nulla se ne andò a casa
e portò alla Sposina, che stirava nell’ingresso, due
piccole marmitte di ghisa e una matassa di filo nero.
— Ecco, nuoretta — disse confuso — to’, la suo
cera te l’ha mandate. Forse a qualcosa serviranno...
Non s’ha nulla noi, se ci avessi qualcosa, t ’avrei dato
anche l’ultima camicia...
La Sposina s’inchinò e ringraziò. Stirava una ten
da mandata da Tìchon Iljìc « invece del velo da
sposa », e i suoi occhi eran umidi e rossi. Il Grigio
voleva consolarla, dire che anche per lui non era
« miele », ma s’impappinò, sospirò e, posate le mar
mitte sul davanzale, uscì.
— Il filo l’ho messo nella marmitta — borbottò.
— Grazie, padre — ancora una volta lo ringra
ziò la Sposina con quel tono carezzevole e speciale
con cui parlava soltanto con Ivànuska, e, non appe
na il Grigio fu uscito, sorrise improvvisamente di
un lieve sorriso ironico e si mise a cantare : « Per
il nostro giardinetto »...
Kuzmà si affacciò dalla sala e la guardò severa
mente al di sopra degli occhiali. Essa tacque.
— Ascolta — disse Kuzmà. — Forse, mandar
all’aria tutta questa storia?
— Adesso è tardi —- rispose piano la Sposina. —
Anche così non ci si salva dalla vergogna... Che
forse non lo sanno tutti coi denari di chi faremo la
festa? Eppoi anche le spese son cominciate...
Kuzmà alzò le spalle. Era vero: insieme alla ten
da, Tìchon Iljìc aveva mandato venticinque rubli,
CAMPAGNA 259
un sacco di farina, uno di miglio e un maiale ma
gro... Ma che dovevano rovinarsi perché avevano am
mazzato quel maiale?
— Oh! — disse Kuzmà. — Che tormento con
voi! « Vergogna, spese »... E che forse tu vali meno
di un maiale?
— Meno, o non meno, i morti dal cimitero non
si riportano — semplice e ferma rispose la Sposina
e, fatto un sospiro, piegò con cura la tenda stirata,
tiepida. — Desinate subito?
La sua faccia era divenuta tranquilla. “Via, ba
sta, qui non si cava un ragno dal buco!” pensò Kuz
mà e disse:
— Allora fa’ tu come sai...
Dopo aver desinato, fumava e guardava dalla fi
nestra. Imbruniva. Nella stanza della servitù, lo sa
peva, già avevano cotto un’enorme ciambella, « una
focaccia guarnita ». Si preparavano a cuocere due
marmitte di gelatina, una marmitta di vermicelli,
una marmitta di cavoli bolliti, una marmitta di k àsa,
tutto con la carne. E il Grigio si dava da fare sopra
un rialzo di neve tra i magazzini e la rimessa. Sul
rialzo, nel crepuscolo bluastro, la paglia gettata sul
maiale ucciso bruciava con una fiamma arancione.
Intorno alla fiamma, aspettando la preda, erano ac-
cucciati i cani da pastore, e i loro musi bianchi e i
petti parevano di seta rosea. Il Grigio, affondando
nella neve, correva, aggiustava il falò, minacciava i
cani. Aveva le falde del gabbano tirate molto in su,
messe dentro la cintura, il cappello se lo gettava
sempre indietro sulla nuca col dorso della mano de
stra in cui luccicava un coltello. Illuminato da una
260 CAMPAGNA
luce vivida e mobile ora da un lato, ora dall’altro,
il Grigio proiettava sulla neve una grande ombra
danzante: l’ombra di un idolatra. Poi davanti al ma
gazzino, per il sentiero che conduceva in paese, pas
sò correndo e sparì dietro al rialzo di neve Odnod-
vòrka che andava ad invitare le « cantatrici » e chie
dere a Domàska l’abete conservato in cantina che
passava da un djev Y sn ik 1 all’altro. Quando poi Kuz-
mà, pettinatosi e sostituito alla giacca coi gomiti fo
rati un soprabito antico dalle lunghe falde, si mise
il cappotto e uscì sulla scalinata imbiancata dalla
neve che cadeva, nell’oscurità morbida e grigia, pres
so alle finestre illuminate della stanza della servitù
già nereggiava una gran folla di ragazze, di giova
notti, di monelli; ver a una gazzarra, un vociare, si
suonavano tre organetti insieme e tutte cose diverse.
Kuzmà curvo, tirandosi un dito dopo l’altro e fa
cendoli schioccare, giunse alla folla, si spinse avanti
e, abbassatosi, entrò nel buio dell’ingresso. Anche
nell’ingresso c’era tanta gente, tutta pigiata. I mo
nelli puzzolenti scivolavan tra le gambe; li acchiap
pavano per il collo e li spingevan fuori, e loro di
nuovo si fìccavan dentro...
— Ma lasciatemi entrare, per l’amor di Dio! —
disse Kuzmà, schiacciato contro la porta.
Lo schiacciarono ancora di più e qualcuno aprì
l’uscio con violenza. Tra cerchi di vapore oltrepassò
la soglia e si fermò allo stipite. Qui si pigiava della
gente più civile: ragazze con scialli variopinti, gio
vanotti vestiti tutti a nuovo. Si sentiva un odore di
1. Festa in casa della fidanzata la sera che precede le nozze.
CAMPAGNA 261
pannine, di mezze pellicce, di petrolio, di tabacco,
di foglie di pino. Un piccolo alberello verde, ornato
di pezzetti di cotonina rossa, era sulla tavola, coi
rami tesi sotto a una fioca lampadina di latta. Attor
no, sotto alle finestre bagnate che sgelavano, lungo
le pareti nere umide sedevano le cantatrici vestite a
festa, rozzamente dipinte e imbellettate, con gli oc
chi luccicanti, tutte in scialli di seta e di lana, con
penne arricciate, iridescenti di coda d ’anatra appun
tate nei capelli, sulle tempie. Per l’appunto quando
Kuzmà entrò, Domàska, una ragazza zoppa dalla
faccia scura, cattiva e intelligente, gli occhi neri pe
netranti e le ciglia nere riunite, con voce robusta e
volgare di contralto aveva intonato un antico cantico
di lode:
Come da noi tardi una sera,
Proprio all’ultimo, al fin della sera,
Festeggiando il djev ìsn ik di Avdòtja...
Le ragazze tutte insieme, in coro discorde, ripete
rono le sue ultime parole e tutte si voltarono verso
la fidanzata: questa sedeva, secondo l’usanza, ac
canto alla stufa, non ancora acconciata, col capo co
perto da un grande scialle scuro e avrebbe dovuto
rispondere al canto con pianto dirotto e lamenti:
« Padre mio, madre mia, come viverci per sempre,
maritata soffrir tutte le pene? ». Ma la fidanzata ta
ceva. E le ragazze, finito il canto, malcontente la
guardarono di sbieco. Poi mormorarono tra loro e,
accigliate, con voce lenta e strascicata si misero a
cantare « il canto dell’orfana » :
262 CAMPAGNA
Riscaldati, piccolo bagno,
Rintocca, campana sonora!
E a Kuzmà tremarono le mascelle serrate forte,
corse un brivido gelato per la testa e per le gambe,
dolcemente gli spasimarono gli zigomi e gli occhi
si riempirono, si offuscarono di lacrime. La fidan
zata si avvolse nello scialle e d’un tratto fu scossa
da tali singhiozzi che tutti con inquietudine si guar
darono l’un l ’altro.
— Basta, ragazze! — gridò qualcuno.
— Basta, cara, basta! —- si mise a dire Odno-
dvòrka, scendendo giù dalla panca. — Non sta bene.
Ma le ragazze non davano ascolto:
Rintocca, campana sonora,
Sveglia il padre mio...
E la fidanzata gemendo lasciò cadere la faccia sul
le ginocchia, sulle mani, soffocando dalle lacrime...
Tremante, barcollante e strillante come per dolore
atroce, la condussero alfine nella stanza non riscal
data dell’isbà, per vestirla.
Poi Kuzmà la benedì. Il fidanzato giunse con
Vàska, il figlio di Jàkov. Aveva calzato gli stivali
di questi; aveva i capelli tagliati corti, il collo, cinto
dal colletto della camicia azzurra guarnito di trina,
era rasato fino a esser rosso. Si era lavato col sapone
ed era molto ringiovanito, era persino passabile e,
sapendolo, grave e modesto abbassava le ciglia scu
re. Vàska, il d ru z k ò 1, in camicia rossa, in una pel
liccia corta di Romànovo, spalancata, i capelli tagliati
1. Specie di compare alle nozze.
CAMPAGNA 263
corti, butterato, forte, come sempre somigliava a un
detenuto. Entrò, corrugò la fronte e guardò di sbieco
le cantatrici.
— Basta romper le orecchie! — disse rozzo e se
vero. — Uscite fuori, uscite fuori.
Le cantatrici risposero in coro :
— Senza tre la casa non si fa, senza quattro canti
l’isbà senza tetto sta. Metti un rublo in ogni canto,
un quinto nel mezzo, e una boccia d’acquavite.
Vàska tirò fuori di tasca una mezza bottiglia e
la posò sulla tavola. Le ragazze la presero, e si alza
rono. Ci si trovò ancora più stretti. Di nuovo si spa
lancò la porta, di nuovo affluì un’ondata di vapore
e di freddo: facendosi largo tra la gente, entrò
Odnodvòrka con una piccola icona di stagnola, e
dietro a lei la fidanzata in un vestito azzurro con
una gala, e tutti fecero un’esclamazione di meravi
glia: tanto era pallida, sottomessa, calma e bella.
Vàska col rovescio della mano dette un colpo vio
lento sulla fronte a un monello spalluto, con un te
stone grosso, con certe gambe storte come quelle di
un tasso e gettò sulla paglia in mezzo all’isbà una
vecchia pelliccia corta di chissà chi. Sopra questa si
misero i fidanzati. Kuzmà, senza alzare la testa, pre
se l’icona dalle mani di Odnodvòrka e si fece un
tale silenzio che si sentiva il respiro sibilante del
monello curioso dal grosso testone. I fidanzati di un
colpo caddero ginocchioni e s’inchinarono ai piedi
di Kuzmà. Si rialzarono e di nuovo caddero giù.
Kuzmà guardò la fidanzata e nei loro occhi, incon
tratisi per un attimo, balenò lo spavento. Kuzmà
impallidì e con terrore pensò: “Adesso butto l’im
264 CAMPAGNA
magine per terra”... Ma le sue mani involontaria
mente fecero una croce nell’aria con l’icona e la Spo
sina, accostandovi appena la bocca, arrivò con le
labbra anche la mano di lui e si tese timida verso le
sue labbra. Egli dette l’icona a qualcuno da parte,
afferrò il capo della Sposina con dolore e tenerezza
paterna e, baciando la pezzuola nuova profumata, si
mise dolcemente a piangere. Poi, senza veder nulla
per le lacrime, si voltò e, facendosi largo tra la gen
te, si diresse verso l’ingresso. Questo era ormai vuo
to. Una folata di vento nevoso lo colpì sulla faccia.
La soglia ricoperta di neve biancheggiava nell’oscu
rità, il tetto borbottava sgocciolando. Oltre la soglia
poi volteggiava un turbine di neve impenetrabile e
la luce che cadeva dalle finestrelle, dall’ammasso del
rinterro nevoso intorno all’isbà, s’innalzava in co
lonne fumose...
La bufera di neve non si calmò neppure al mat
tino. Nel grigio turbinio non si scorgeva né Dur-
nòvka né il mulino di Mys. A momenti l’aria si
schiariva, a momenti pareva che fosse crepuscolo. Il
giardino si era fatto bianco, i suoi rumori si con
fondevano col rumore del vento in cui sembrava
sempre di sentire un lontano suono di campane. Le
creste aguzze degli ammassi di neve mandavan fu
mo. Dalla scalinata - su cui, sbattendo gli occhi,
fiutando tra l’aria fresca del turbine l’odore buono
e caldo che veniva dal camino della stanza dei servi,
erano accucciati i cani tutti ricoperti di neve - a fa
tica Kuzmà distingueva le figure scure, annebbiate
dei contadini, dei cavalli, delle slitte, il tintinnio dei
sonagli. Per il fidanzato era stata attaccata una pari-
CAMPAGNA 265
glia, per la fidanzata un cavallo solo. Le slitte erano
state ricoperte da drappi di feltro di Kazàgn con
arabeschi neri ai canti. Quelli che prendevan parte al
corteo si eran cinti alla vita con cinture variopinte.
Le donne indossavano pellicce ovattate, avevano il
capo coperto da scialli, si avvicinavano alle slitte ti
morose, a passetti brevi, dicendo con voce cerimo
niosa: «M am m a mia, che buio d ’inferno!... ». Raro
era chi vestiva i propri panni : tutto era stato rac
colto dai vicini, dalle vicine, e perciò occorreva una
particolare prudenza per non cadere, bisognava rial
zare più su le pedane dei vestiti. Alla fidanzata ave
vano ripiegato sul capo e la pelliccia e il vestito az
zurro, ed essa si era seduta nella slitta addirittura
in gonnella bianca. Il suo capo, cinto da una gh ir
landa di fiori di carta, era avvolto in scialli e scial-
letti. Si era talmente indebolita a furia di lacrime che
come in sogno vedeva le figure scure tra il turbine
di neve, sentiva il fragore della bufera, il rumor del
le voci, lo squillare festivo dei sonagli. I cavalli
stringevan gli orecchi, scansavano il muso dalle fo
late di vento e neve, il vento disperdeva le voci, le
grida, i comandi, incollava gli occhi, imbiancava i
baffi, le barbe, i berretti, e i partecipanti al corteo
a fatica si riconoscevan l’un l’altro nella nebbia e
nell’oscurità.
— Uh, tu potessi schiantare! — borbottava Và-
ska, abbassando il capo, prendendo le briglie e se
dendosi accanto al fidanzato.
E con voce rude, indifferente gridò al vento:
— Signori boiardi, benedite il fidanzato che va a
prendere la sposa!
266 CAMPAGNA
Qualcuno rispose con debole voce:
— Dio lo benedirà...
E i sonagli cominciarono a tintinnare, i ferri delle
slitte a stridere, i mucchi di neve da essi squarciati
a mandar fumo e a turbinare, ciuffi, criniere e code
ondeggiarono da una parte...
In paese poi, nella sacrestia, dove si riscaldavano
in attesa del curato, tutti si sentivan male per le esa
lazioni di carbone. C’era odor di carbone anche in
chiesa; odor di carbone, freddo e buio a causa della
bufera, delle volte basse e delle grate alle finestre.
Ardevano soltanto le candele tenute in mano dallo
sposo e dalla sposa e quella ch’era in mano del cu
rato nero, magro, dalle grosse scapole, chino sul li
bro su cui era sgocciolata la cera, che leggeva in fret
ta attraverso gli occhiali. Sul suolo erano delle pozze
d ’acqua —con gli stivali e i làp t i avevan portato una
quantità di neve — sulle schiene dalle porte aperte
soffiava il vento. Il curato dava di tanto in tanto
occhiate severe ora alla porta, ora ai fidanzati, alle
loro figure tese, come di chi è pronto a tutto, ai volti
irrigiditi in atto di sottomissione ed umiltà, illumi
nati di sotto dalla luce dorata delle candele. Per abi
tudine, pronunziava alcune parole quasi con senti
mento, staccandone le sillabe in una commovente
preghiera, ma senza pensare affatto né alle parole,
né a quelli a cui erano rivolte.
— Signore immacolato e creatore di ogni creatu
ra... — diceva in fretta ora abbassando, ora alzando
la voce. — Tu che hai benedetto il servo tuo Àbra
mo e gli hai aperto l’alcova di Sara... tu che hai dato
CAMPAGNA 267
Isacco a Rebecca... che hai unito Giacobbe e Rache
le... dai a questi servi tuoi...
— Il nome? — si interruppe da sé con susurro
severo, rivolgendosi al sacrestano. E, afferrata la ri
sposta: «D en is, Avdòtja... », continuò con senti
mento :
— Dai ai servi tuoi Denis e Avdòtja vita pacifica,
longevità, castità... rendili degni di vedere i figli dei
figli... e dai loro la rugiada celeste dall’alto... riempi
la casa loro di frumento, vino, olio... fai che si ele
vino a guisa dei cedri del Libano...
Ma quelli che lo attorniavano, anche se lo aves
sero ascoltato e compreso, avrebbero tuttavia pensato
al turbine di neve, ai cavalli degli altri, al ritorno
nel crepuscolo a Durnòvka, alla casa del Grigio, e
non ad Abramo ed Isacco, e avrebbero sorriso del
paragone tra Deniska e il cedro del Libano. E poi
lui stesso, con le sue gambe corte, calzato di stivali
non suoi, nella p o d d jò v k a, con la vita bassa e le
spalle spioventi, provava disagio nel sapersi più bas
so di statura della sposa, provava disagio e sgomento
nel reggere sul capo immobile una corona da Zar,
una enorme corona di rame con la croce in cima,
affondata sugli orecchi. E la mano della Sposina, che
durante la benedizione nuziale sembrava ancor più
bella e inanimata, tremava, e la cera della candela
che si fondeva gocciolava sulle gale del suo vestito
azzurro...
Ritornare fu più facile. La bufera di neve al cre
puscolo era più spaventosa, ma dava coraggio la
consapevolezza che il peso era caduto dalle spalle:
fosse un bene, fosse un male, la cosa era finita. E
268 CAMPAGNA
spingevano i cavalli a gran trotto, a casaccio, affi
dandosi soltanto alle ombre incerte delle pertiche in
dicatrici 1 e quell’urlona della moglie di Vàgnka il
Rosso stava ritta nella slitta davanti, ballettava, agi
tava il fazzoletto e urlava al vento, nella foschia tur
binosa, tra la neve che volava in bocca e soffocava
la sua voce da lupo:
Il colombo nero-turchino
D’oro ha il capino...
1. Piantate appositamente nella neve per segnare la strada
d’inverno.
VALSECCA
Titolo originale:
SU C H O D O L
Traduzione di Renato Poggioli
Prima edizione: Mosca 1911
Prima edizione italian a: Lanciano 1950
I
In Natalia ci aveva sempre colpito il suo attac
camento a Vaisecca.
Sorella di latte di nostro padre, cresciuta con
lui nella medesima casa, ella visse otto anni interi
in casa nostra a Lùnjevo, e non come una vecchia
serva o una semplice domestica. E per otto anni in
teri ella s’era riposata, secondo le sue stesse parole,
dalla vita di Vaisecca, da quello che Vaisecca le
aveva fatto patire. Ma non per nulla si dice che il
lupo perde il pelo ma non il vizio: dopo averci
portati fino in fondo, dopo averci visti crescere, essa
fece ritorno a Vaisecca.
Mi ricordo degli scampoli delle nostre conversa
zioni infantili con lei:
-— Tu sei orfana, nevvero Natalia?
— Signorsì. In tutto come i miei padroni. Vo
stra nonna Anna Grigòrjevna congiunse tanto pre
sto le sue bianche mani nella bara! Né più né meno
del mio babbo e della mia mamma!
— E loro di che cosa morirono?
— Venne la morte, ed ecco che morirono.
272 V A LSE C C A
— Già, ma perché così presto?
— Dio volle così. I signori avevan mandato il
babbo soldato per una piccolezza, e la mamma non
campò quanto doveva, a causa dei tacchini padro
nali. Io però non me lo ricordo davvero, non sa
rebbe possibile, ma tra la servitù si raccontava così:
lei era a guardia del pollame; sotto la sua cura di
tacchini ce n’era un numero infinito, ma un bel gior
no li chiappò la grandine sull’aia e li ammazzò tutti
fino all’ultimo... Lei si gettò a corsa, arrivò, vide,
e rese l’anima lì.
— E tu perché non hai preso marito?
— Oh, il mio fidanzato non è ancora spuntato.
— No, senza scherzi...
— Ma si dice che sia stata la signora, vostra ziuc
cia, a proibirlo. Ed è per questo che me, peccatrice,
m’han soprannominata « la signorina ».
— Oh, oh, guarda un po’ che « signorina » tu
sei!
— Precisamente una « signorina! » — rispondeva
Natalia con un fine sorriso che le faceva corrugare
le labbra, e se le strofinava con la sua scura mano
invecchiata. — Visto che io sono la sorella di latte
d ’Arcadio Petròvic, la seconda vostra ziuccia...
Con attenzione sempre crescente con gli anni, noi
porgevamo ascolto a quello che si diceva in casa
nostra di Vaisecca; ci diveniva sempre più compren
sibile quello che prima non potevamo capire, più
acutamente si rilevavano le strane singolarità della
vita di Vaisecca. Come non avremmo potuto sentire
che Natalia, che per metà della sua esistenza aveva
vissuto con nostro padre quasi un’unica vita, era
V A LSE C C A 273
una vera parente per noi, signori del ramo princi
pale dei Chrùscev! Ed ecco che si viene a sapere
che questi signori avevan mandato suo padre sol
dato, ed avevan fatto tanta paura a sua madre che
il suo cuore s’era spezzato alla vista dei tacchini per
duti!
— E in verità — diceva Natalia, — come non
cader morta in un caso così? I signori le avrebbero
fatto patire le pene dell’inferno!
Ma poi di Vaisecca noi venimmo a sapere cose
ancora più strane: che signori più semplici e più
buoni di quelli di Vaisecca « non ce n’era in tutto
l’universo », ma poi sapemmo anche che non si tro
vava gente « più calda » di loro; sapemmo che la
vecchia casa di Vaisecca era cupa ed oscura, e che
il nostro nonno impazzito Pietro Kìrillyc era stato
ucciso in questa casa dal suo proprio figlio, Gher-
vàska \ amico di nostro padre e cugino germano di
Natalia; sapemmo che era uscita di mente, per un
amore infelice, anche la zia Tonia, che era vissuta
in una delle vecchie capanne della servitù presso la
villa decaduta di Vaisecca, e che stava là a suonare
con esaltazione delle écossaises su un pianoforte vi
brante e risonante di vecchiaia; sapemmo che aveva
perso il senno anche Natalia, che essa ancora fan
ciulla s’era innamorata per tutta la vita del defunto
zio Pietro Petròvic, e che egli l’aveva mandata in
esilio, alla fattoria di Sòski...
Le nostre appassionate fantasticherie su Vaisecca
erano ben comprensibili. Per noi Vaisecca non era
1. Dimin utivo di Gh ervàsij, Gervasio.
11.
274 V A LSEC C A
che un poetico monumento del passato. Ma per N a
talia? Sentite un po’ quello che un giorno, come
rispondendo a un qualche suo pensiero, ella disse con
grande amarezza:
— Ma come! A Vaisecca si mettevano a tavola
con le fruste! Fa paura perfino a ripensarci.
— Come con le fruste? Con dei frustini? — do
mandavamo noi.
— Ma sì, sempre così — ella disse.
— E perché?
— In caso d’una disputa.
— C’eran sempre dispute a Vaisecca?
— Dio ci salvi! Non passava giorno senza guerra.
Erano tutte teste calde, come vera polvere.
Noi c’incantavamo alle sue parole e ci guardava
mo con esaltazione; a lungo ci rappresentavamo l’im
menso frutteto, l’immensa fattoria, la casa dalle pa
reti di travi di quercia, sotto il pesante tetto di stop
pia annerito dal tempo, e il pranzo nella sala di
questa casa; tutti son seduti a tavola, tutti stanno
mangiando, gettando gli ossi sul pavimento ai cani
da caccia, e si guardan di sbieco l’un l’altro, e cia
scuno tiene un frustino sulle ginocchia; sognavamo
a quell’età dell’oro in cui anche noi saremmo stati
grandi e avremmo mangiato con un frustino sulle
ginocchia. Ma certo noi avevamo ben capito che a
Natalia quei frustini non avevan dato questa gioia.
Nondimeno ella fece ritorno da Lùnjevo a Vaisecca,
al fonte dei suoi tristi ricordi. E qui lei non aveva né
un suo cantuccio né dei parenti prossimi; e già da
tanto a Vaisecca essa non serviva più la sua padro-
V A LSE C C A 275
aa d ’un tempo, la zia Tonia, ma la moglie del de
funto Pietro Petròvic.
Ma via da quella fattoria a Natalia non era pos
sibile vivere.
— Che farci? è un’abitudine — essa diceva mo
destamente — dove passa l’ago, deve andare il filo.
Dove nasci, lì ti pasci...
E non era lei sola a patire del suo attaccamento
per Vaisecca, e non era soltanto attaccamento, ma
qualcosa di molto più profondo, di molto più forte.
Dio mio, che appassionati amatori di ricordi, che
ardenti sostenitori di Vaisecca furon anche tutti gli
altri nostri servitori!
Ma della zia Tonia e del babbo è meglio non
parlarne.
Nella miseria, in una capanna, visse zia Tonia.
Felicità, ragione, perfino figura d’essere umano le
tolse Vaisecca. Ma però non le passò neppure per
la mente, malgrado tutte le esortazioni di nostro pa
dre, d ’abbandonare il nido natale, di stabilirsi a Lù-
njevo:
— Meglio spaccar pietre in una cava!
Nostro padre era un uomo trascurato; per lui
pareva che non esistesse nessuna sorta d’attaccamen
to. Ma si sentiva una profonda tristezza anche nei
suoi racconti di Vaisecca. Ormai era tanto tempo
che egli s’era trasferito da Vaisecca a Lùnjevo, pro
prietà campestre di nostra nonna Olga Kirillovna.
Ma egli rimpianse questa sua vita fin quasi alla sua
fine.
— Un solo, un solo Chmšcev è rimasto ancora
al mondo. E quest’uno non sta a Vaisecca!
276 V A LSE C C A
In verità non di rado succedeva che anche dopo
tali parole, egli si metteva a pensare guardando ver
so le finestre, verso il campo e ad un tratto sorrideva
beffardamente, e prendeva dal muro la chitarra.
— Ma Vaisecca è bella, che il diavolo se la por
ti! — soggiungeva con la stessa sincerità con cui
aveva parlato un minuto prima.
Anche la sua era un’anima di Vaisecca contadina,
un’anima su cui così infinitamente grande era la
forza delle memorie, la forza della steppa e del suo
inerte modo di vivere, di quell’antica familiarità che
aveva fuso in una cosa sola il contado, la servitù
e la casa padronale di Vaisecca. In verità, noi del
ramo principale dei Chrùscev, siamo iscritti nel se
sto libro della nobiltà, e vi furono tra i nostri leg
gendari antenati molti celebri personaggi di secolare
sangue lituano e molti principotti tartari, origine
che si rivelò in noi più d’una volta. Ma ad onta
di tutto questo, noi in realtà siamo contadini. Si
dice che costituivamo e che costituiamo qualcosa
come una classe speciale. Ma la cosa non è forse più
semplice? In Russia c’erano dei contadini ricchi e
c’eran dei contadini poveri, gli uni eran considerati
come dei signorotti, e i secondi come schiavi, ecco
tutta la differenza. Il sangue dei Chrùscev s’è me
scolato col sangue dei contadini e della servitù fin
dai tempi dei tempi. Chi dette la vita a Pietro Kì-
rillyc? Su ciò parlan diversamente le tradizioni. Chi
fu che dette i natali a Gervasio, il suo uccisore? Fin
dai nostri primi anni noi sentimmo dire lo stesso
Pietro Kìrillyc. Da che proveniva una così gran dif
ferenza tra i temperamenti di nostro zio e nostro
V A LSEC C A 277
padre? Anche di questo si parlava in diverse manie
re. Natalia era sorella di latte di nostro padre, e no
stro padre aveva scambiato la sua croce con Gerva-
sio!... Ormai da tanto, da tanto era tempo pei Chrù-
šcev di considerarsi parenti dei loro servi e dei loro
contadini!
N ell’attrazione di Vaisecca, nella seduzione della
sua antichità vivemmo a lungo io e mia sorella. La
servitù del villaggio e la casa padronale di Vaisecca
costituivano una sola famiglia. Avevano ancora go
vernato questa famiglia i nostri trisnonni. E certo
questo si fa sentire per lungo tempo nella posterità.
La vita d’una famiglia, du n a stirpe, d ’un clan è
profonda, ramificata, misteriosa ed in parte anche
paurosa. Ma per la sua oscura profondità, come pure
per le sue tradizioni e il suo passato, essa è anche
ben forte. In documenti scritti e diversi Vaisecca non
è più ricca d ’un qualunque villaggio di steppa della
Baskyrija. Ma in Russia ne tiene il luogo la tradi
zione orale. Tradizioni e canzoni, che veleno per
l’anima slava! I nostri vecchi domestici, appassionati
fanciulloni e sognatori, dove avrebbero potuto rifu
giarsi con l’anima se non in casa nostra? Pietro Pe
tto vie morì presto. Claudia Màrkovna nessuno la
considerava una Chrùscev, seppure essa, nata Ganjé-
scin, ci tenesse a ripetere: « Il nostro sangue, il san
gue dei ChmŠcev... ». Unico rappresentante dei si
gnori di Vaisecca restò nostro padre. E il primo dia
letto con cui noi cominciammo a parlare, fu quello
di Vaisecca. Le prime novelle, le prime canzoni che
ci commossero, erano anch’esse di Vaisecca, di N a
talia, di nostro padre. E chi mai avrebbe potuto can-
278 V A LSE C C A
tare così come nostro padre, allievo della servitù,
con tanta indolente tristezza, con tanto carezzevole
rimprovero, con tanta abbandonata intimità, della
«fed ele, graziosa, sua padron cin a»? Chi mai avreb
be potuto raccontare così come Natalia? E chi c’era
più stretto parente dei nostri contadini di Vaisecca?
Con dispute e alterchi, ecco in che modo, dai tem
pi dei tempi, s’erano resi celebri i Chrùscev, come
ogni famiglia che vive in lunga e stretta unione. E
all’epoca della nostra infanzia ebbe luogo una tale
contesa tra Vaisecca e Lùnjevo, che per quasi dieci
anni nostro padre non mise piede nella casa natale.
E così nella nostra infanzia noi non vedemmo per
questo Vaisecca: ci fummo soltanto una volta, e di
passaggio per Zadònsk. Ma si sa che qualche volta
i sogni son più forti d’ogni realtà. E in maniera
confusa ma incancellabile, noi serbavamo il ricordo
d ’una lunga giornata estiva, di certi campi ondeg
gianti e d’una grande strada sommersa, che c’incan
tava per la sua spaziosità e coi suoi sparsi salici in
cavati rimasti ancora intatti; serbavamo il ricordo
d’un alveare appeso ad uno di questi salici, molto
discosto dalla via, in un campo di grano; alveare
abbandonato alla grazia di Dio, nei campi, presso
una strada ricoperta d ’erbacce; ci ricordavamo una
larga svolta sotto un declivio, un immenso prato
nudo, su cui s’affacciavano delle meschine capanne
affumicate, e il giallore dei fossati sassosi dietro le
capanne, e la bianchezza della ghiaia e del pietrisco
giù nel fondo... Anche il primo avvenimento che
c’impaurì ebbe luogo a Vaisecca: l’uccisione del non
no per mano di Gervasio. E ascoltando la narrazio
V A LSE C C A 279
ne di questo omicidio, noi risognavamo senza fine a
quel giallo fossato che andava a finire chissà dove;
ci pareva sempre che Gervasio fosse fuggito di lì,
dopo aver compiuto il suo terribile misfatto, « come
chiave gettata in fondo al mare... ».
I contadini di Vaisecca venivano a far visita a
Lùnjevo non con gli stessi scopi dei servi, ma con
l’intento di farsi dare più terra; però anch’essi en
travano in casa nostra come nella loro casa natale.
Facevano un inchino a mio padre fino a terra, gli
baciavan la mano, e poi, scuotendo le chiome, bacia-
van tre volte lui, noi e Natalia sulle labbra. Essi reca
vano in dono miele, uova e tovaglioli. E noi cresciuti
in campagna, sensibili ai profumi, avidi di loro non
meno che di canzoni e leggende, serbammo per sem
pre il ricordo di quella specie di sentore di canapa,
singolare e gradevole, che s'avvertiva abbracciandosi
con la gente di Vaisecca; ci ricordavamo anche che i
loro doni odoravano di vecchio villaggio di steppa,
il loro miele di granturco in fiore e d ’alveari di quer
cia tarlata; i loro tovaglioli di tettoie e di capanne
affumicate dei tempi del nonno... I contadini di Vai
secca non raccontavano mai nulla. E cosa avrebbero
avuto a raccontare? Loro non avevan neppure tradi
zioni. Le loro tombe restavan senza nome. E le loro
vite si somigliavan l’un l’altra, così misere e senza
tracce! Poiché i frutti delle loro pene e fatiche non
eran che grano, proprio quel grano che si mangia.
Essi scavavan degli stagni nel letto sassoso della
Kàmjen ka, torrente seccato già da lungo. Ma sugli
stagni c’è poco da contare: s’inaridiscono. Costruivan
degli abituri. Ma i loro abituri eran precari: a una
280 V A LSE C C A
minima scintilla, bruciavan fino all’ultimo pezzo, fino
alla cenere... Che cosa mai dunque ci attirava tutti,
e Natalia più di tutti, perfino al prato nudo, alle ca
panne e ai fossati, alla fattoria rovinata di Vaisecca?
Non era forse quell’antica familiarità, quella no
stra parentela di sangue con la selvatichezza della
steppa?
II
Le nutrici, le vecchie domestiche si usa chiamarle
col patronimico. Ma lei la chiamaron sempre per
nome: prima Natàska, poi Natalia. Essa non pareva
una nutrice: dalla culla fino alla tomba essa restò
una autentica contadina. Del resto anche Vaisecca
somigliava poco a quello che s’usa raccontare sui
nidi dei proprietari.
Nella fattoria, che aveva generato l’anima di N a
talia, che aveva dominato tutta la sua vita, in quella
fattoria di cui avevamo sentito raccontar tante cose,
ci fu dato di penetrare soltanto sulla tarda adole
scenza.
Me ne ricordo come se fosse ieri. Scoppiò un tem
porale con assordanti rombi di tuono e con rapidi
e abbaglianti serpi infuocate di fulmini, quando noi
verso sera arrivammo nelle vicinanze di Vaisecca.
Una nuvola d’un nero paonazzo precipitò pesante
mente a nord-ovest, occupando trionfalmente dirim
petto a noi mezzo cielo. Piatto, stagliato e mortal
mente pallido verdeggiava il pianoro di grano sotto
il suo fondo enorme; chiara e straordinariamente
282 V A LSE C C A
fresca era l’erba fine ed umida sopra la strada mae
stra. Fradici, come dimagriti tutto a un tratto, i ca
valli sfangavano, coi ferri luccicanti, in una melma
azzurra, e il baroccio dava un rumor di sciacquìo...
E ad un tratto proprio alla svolta per Vaisecca, noi
scorgemmo tra le alte ed umide segale una lunga
e stranissima figura in veste da camera e in cuffia,
una figura mezza di vecchio e mezza di vecchia, che
batteva con un vincastro una vacca pezzata e senza
corna. Al nostro avvicinarsi il vincastro cominciò
a lavorare con più forza, e la vacca goffamente, at
torcigliando la coda, se ne fuggì sulla strada. Ma
la vecchia, gridando chissà che, si diresse verso il
baroccio, e giunta lì, si tese verso noi col suo pallido
volto. Guardando con terrore i suoi neri e folli oc
chi, sentendo il contatto del suo naso aguzzo e fred
do, e il suo forte sentor di capanna, noi abbracciam
mo colei che ci era venuta incontro. Era forse la
Baba-Jaga 1 in persona, pensavamo noi, o forse Jvàn
il Terribile resuscitato dalla tomba? Ma un’alta cuf
fia fatta di chissà quale sudicio cencio s’ergeva sulla
testa del Terribile, ed il suo corpo nudo era rav
volto da una veste da camera stracciata e consunta
fino alla cintola, che lasciava scoperte due mammelle
esigue. E il Terribile gridava come se noi fossimo
sordi, come con l’intenzione rabbiosa d ’attaccar bri
ga. A tali grida, noi comprendemmo: era la zia To
ma.
Cominciò a gridare, ma gaiamente, e con l’esal
tazione d’una collegiale, anche Claudia Màrkovna,
1. Orca, strega enorme della mitologia popolare.
V A LSE C C A 283
grassa e piccola, con una barbetta grigiastra, con de
gli occhietti straordinariamente vivi, che, seduta pres
so la finestra spalancata, nella sua casa adorna di
due grandi scalinate, faceva una calza di filo, e con
gli occhiali sulla fronte, guardava un prato che con
tinuava il cortile. Natalia, che stava sulla scalinata
di destra, ci salutò profondamente, con un mite sor
riso: esile, bruciata dal sole, calzata di scarpe di
scorza e vestita d una sottana di lana rossa e d ’una
camicia grigia, largamente aperta intorno al collo
bruno e rugoso. Alla vista di quel collo, di quelle
magre clavicole, di quegli occhi stanchi e tristi, io,
mi ricordo, pensai: ecco colei che è cresciuta con
nostro padre, tant’anni fa, e proprio qui, dove della
casa di quercia del nonno, incendiata tante volte,
non è rimasto che questo abituro così brutto, dove
del giardino non son restate che macchie e qualche
vecchio pioppo o betulla, dove degli edifici di sog
giorno o di servizio non son rimasti che una ca
panna, una rimessa, un granaio d’argilla, e una ghiac
ciaia sommersa sotto l’assenzio e l’amaranto... Ma
si fece sentire l’odore del sam ov ar e fummo assaliti
da domande: apparvero fuori dalle secolari vetrine
dei vasetti di cristallo per le conserve, dei cucchiaini
d’oro assottigliati come foglie d ’acero, dei biscotti
inzuccherati tenuti in serbo in caso di visite. E men
tre s’accendeva la conversazione, forzatamente corte
se dopo la lunga contesa, noi prendemmo a girova
gare per le sale abbuiate, cercando la terrazza, un’u
scita in giardino.
Tutto era annerito dal tempo, semplice e rozzo
in quelle stanze basse e deserte, conservanti la me
284 V A LSEC C A
desima disposizione come ai tempi del nonno, squa
drate nei resti di quelle stesse in cui lui aveva abi
tato. In un angolo della stanza della servitù nereg
giava la grande effigie di San Mercurio di Smoljènsk,
quello i cui sandali di ferro e il cui elmo si conser
vano nell’abside dell’antica cattedrale di Smoljènsk.
Noi avevamo sentito raccontar così: Mercurio era
un nobiluomo e fu chiamato a difender contro i Tar
tari la terra di Smoljènsk dalla voce d’un’immagine
della Madonna Odighitria, la patrona dei pellegrini.
Dopo aver disfatto i Tartari, il santo s’addormentò
e fu decapitato dai nemici. Allora, presa la propria
testa fra le mani, egli si recò alle porte della città
per dar testimonianza dell’accaduto... E faceva pena
guardare questa raffigurazione, a guisa dell’icone di
Suzdàl, dell’uomo decollato, che reggeva con una
mano la sua testa mortalmente paonazza dentro l’el
mo e con l’altra l’immagine della Patrona; quell’ico
na, come dicevano, prediletta dal nonno, che era
sopravvissuta a più d’un tremendo incendio, che s’era
incrinata nel fuoco, incorniciata d ’argento massiccio
e conservante nel rovescio la genealogia dei Chrù-
šcev, trascritta con abbreviazioni. Molto le somiglia
vano le massicce sbarre di ferro che s’appendevano
in su e in giù ai pesanti battenti delle porte. Le
assi del pavimento della sala erano smisuratamente
larghe, scure e sdrucciolevoli, le finestre piccole, con
le intelaiature smontabili. Attraverso alla sala, rim
picciolito doppione di quella stessa dove i Chrùscev
si mettevano a tavola coi frustini, noi passammo in
salotto. Qui, dirimpetto alle porte che davano sulla
terrazza, si trovava un tempo il pianoforte su cui
V A LSE C C A 285
suonava la zia Tonia, innamorata dell’ufficiale Vojt-
kjèvic, un compagno di Pietro Petròvic. E più in là
sbadigliavan le porte spalancate che mettevano nella
sala del divano, una stanza angolare, che una volta
era stata l’appartamento del nonno.
Quella sera era oscura. Fra le nuvole, oltre i con
fini del giardino diboscato, dietro una rimessa semi
nuda e dei pioppi argentati, s’accendevano i lampi,
rivelando per un attimo le montagne roseo-dorate dei
nembi. Il temporale non aveva certamente sorpreso
il bosco di Tròscin, che foscheggiava lontano oltre
il giardino, sui declivi oltre i fossi. Di là giungeva
un secco e caldo sentore di quercia, mischiato col
profumo della verzura, con un vento umido e molle
che trascorreva sulle vette delle betulle ancora rima
ste nel viale, sopra l’alta ortica, le malerbe e i ce
spugli che avvolgevan la terrazza. E la calma pro
fonda della sera, della steppa, della sorda Russia
regnava su tutto...
— Di grazia, venite a prendere il tè — ci gridò
una timida voce.
Chi ci chiamava era la partecipe e la testimone
di tutta questa vita, la sua grande raccontatrice, N a
talia. E dietro a lei, guardandoci attentamente coi
suoi occhi di demente, un po’ piegata, scivolando
cerimoniosamente sul pavimento scuro e liscio, s’a
vanzava la sua signora. Essa non s’era tolta la cuffia,
ma invece della veste da camera ora indossava un
vestito di barège, fuori moda, e sulle spalle s’era
gettato uno scialle di seta d’un oro scolorito.
— O ù êtes v ous, m es en fan t s? -— ella ci gridò,
sorridendo gentilmente, e la sua voce chiara e pene-
286 V A LSE C C A
tränte come la voce d’un pappagallo risuonò strana
mente per le nere stanze deserte...
Grande fu la nostra delusione! Dio sa per quanto
tempo e con quanta bramosia avevamo ascoltato noi
le narrazioni di Vaisecca! Tutti ne parlavano come
d’una proprietà granducale, ed ora noi ne vedevamo
la meschinità e la miseria, e riconoscevamo in una
donna semiselvaggia un’immagine che noi avevamo
romanticizzato. Certo noi non ci eravamo mica raf
figurata Vaisecca sul modello delle ville dei Làrin
o dei Lavrjètskij \ come queste oasi... Ma pure, tut
te quelle tradizioni, tutte quelle poetiche leggende
di Vaisecca moriron per noi quella sera, in quel mi
sero bosco. Oh, allora noi eravamo ancora lontani
dal vero. Ma ora noi lo conosciamo anche troppo!
Oh sì, né di un ragionevole amore, né d’un ragio
nevole odio, né d ’un ragionevole attaccamento, né
d’una sana familiarità, né di lavoro né di vita in
comune era capace nessuno di Vaisecca. Quasi senza
esclusione tutti i Chmšcev avevan sofferto di mali
spirituali e corporali di generazione in generazione,
come pure i loro consanguinei. La cronaca di Vai-
secca è piena di fatti orrendi e terribili. Noi, gli
ultimi di questa cronaca, abbiam rotto gli estremi
legami che ci univano alla terra. Anche lo stesso no
me dei Chrùscev scomparirà presto e per sempre. E
a dire il vero, ora questo pensiero non mi dà che
piacere. Dal passato di Vaisecca noi ne abbiamo co-1
1. « Làrin » è il nome della famiglia a cui appartiene Ta
tiana, l’eroina dell’Eugenio Onjèghiri di Pùskin; « Lavrjètskij »
è il nome del protagonista del racconto di Turghènjev Un
nido di nobili.
V A LSEC C A 287
nosciuto l’anima. Ma certo esso stesso fu creato da
quest’anima. In esso, in modo ancor più netto e
chiaro che nel presente, emergevano i caratteri au
tenticamente slavi di quest’anima, perdutamente iso
lata dall’anima della comune umanità.
Nostro padre veniva considerato il signore di Vai
secca. Ma in effetto anche lui non era che lo schiavo
di Vaisecca. E chi lo perse fu Vaisecca. Nella casa
di Vaisecca egli si distingueva da tutti. Anche di
viso egli somigliava poco agli altri Chrùscev. Ma
a dire il vero l’incapacità di Vaisecca al viver sociale
aveva segnato anche lui, erede d ’un clan degenerato.
Egli era pronto a levarsi per un altro fin l’ultima
camicia di dosso, ma ci fu almeno un caso in cui
il suo dono andasse a finir bene e cadesse in mani
attive e capaci? Egli era buono come un bambino.
Ma rabbiosamente eccitabile come una fiera. Qual
che volta era possibile con un sol grido severo di
ricondurlo alla paura e all’umiltà. Ma talora egli
era capace di gettarsi con le mani disarmate su una
folla munita di forconi. Era stato fornito dalla na
tura di acutezza e vivacità d ’ingegno. Con tutto ciò
capitava che di dieci parole dette da lui, otto fossero
prive di senso comune. Avendo risolutamente detto
a se stesso e a chi lo circondava : « Ecco quello che
io debbo fare », nello stesso minuto agiva compieta-
mente all’opposto. Egli non poteva sopportare né
la normalità né la coerenza nei giudizi. La bravura
e i sogni accesi ad ogni momento davan luogo nel
l’anima sua alla disperazione più completa. Quando
i suoi affari s’arruffavano, s’intricavan coi nodi più
288 V A LSE C C A
stretti, egli, dopo aver fatto qualche brusco e dispe
rato tentativo di scioglierli, immancabilmente finiva
per rigettar tutto via da sé nelle mani del destino,
del caso. Fino a trent’anni egli non mise mai in
bocca nè una goccia di vino né un bocchino di pipa.
Dai trenta in su cominciò a bere e a fumar tanto
da non poter trovare un suo pari in tutto il distretto.
Quanto Pietro Petròvic era meschinamente avido e
sospettoso, altrettanto nostro padre era follemente
generoso e fiducioso. E a quel che sembra tutta la
sua esistenza mirò soltanto allo scopo di non lasciar
intentata nessuna possibilità di preparare alla sua
vecchiaia e alla nostra gioventù la bisaccia del men
dicante.
Noi assistemmo fin dalla giovinezza al principio
dell’impoverimento delle grandi proprietà, e ci me
ravigliammo : come esso giunse improvviso! Ma dav
vero, noi pensavamo, tutta la causa di questo sta
nella rottura delle catene della servitù della gleba,
che legavano il padrone allo schiavo! Ci pareva in
spiegabile la rapidità con cui eran spariti dal volto
della terra i vecchi nidi padronali. Ma non si è for
se esagerato, penso io ora, sulla loro vecchiaia e la
loro durata, e sulla stessa signoria? Chiamateci libe
ramente contadini feudatari! Troppo s’è voluto cre
dere alla resistenza di Vaisecca, trascurando la sua
primitività! Da pochi anni, non secoli, ma anni, s’è
distrutta fino in fondo quest’apparenza di benessere
di cui si gloriava tanto il nostro passato. Dove sta
la cagione di ciò? Non sta forse nel fatto che là
non c’era la solidità, ma l’inerzia? Non sta forse
V A LSE C C A 289
nel fatto che la rovina dell’uomo degenerato di Vai
secca andava incontro nello stesso tempo all’anima
sua, alla sua sete di perdizione, d’autoannientamento,
di rovina, alla sua paura di vivere?
Ill
Come in Natalia, nella sua semplicità contadina,
in tutta la sua bella e pietosa anima, generata da
Vaisecca, c’era un incantesimo anche nella villa ro
vinata di Vaisecca.
Cer a odore di gelsomino nel vecchio salotto dal
l ’assito imbarcato. Il balcone marcito, grigio-azzurro
dal tempo, da cui, per la mancanza di scalini, biso
gnava discender con un salto, era tuffato fra l’ortica,
il sambuco e la fusàggine. Nelle calde giornate, quan
do lo bruciava il sole, quando erano aperte le cadenti
porte vetrate e che l’allegro riflesso d ’un vetro batte
va nel fosco specchio ovale appeso alla parete dirim
petto all’uscio, ci ritornava sempre in mente il pia
noforte di zia Tonia, che un tempo stava sotto quel
lo specchio. Un tempo ella lo suonava, leggendo le
note ingiallite coi titoli arabescati, e lu i stava in pie
di dietro a lei, con la sinistra fortemente poggiata
sul fianco, con le mascelle fortemente serrate e cor
rugando le ciglia. Portentose farfalle, in vesti di velo
screziato e in abbigliamenti giapponesi, e con scialli
di velluto nero-paonazzo, entravano a volo in salotto.
V A LSE C C A 291
Ed una volta prima di partire egli adirato picchiò
con la palma sopra una di esse, che morì freme
bonda sopra la cassa del pianoforte. Ne rimase sol
tanto una polverina d’argento. Ma quando le serve,
per stupidaggine, qualche giorno dopo, la spazzaron
via, zia Tonia ebbe un attacco isterico... Dal salotto
entrammo in terrazza, ci sedemmo sulle assi calde,
e pensammo a lungo, a lungo... Il vento, trascorren
do in giardino, recava fino a noi il serico fruscio
delle betulle, dai tronchi di raso bianco picchiettati
di nero, e dai verdi rami largamente distesi; il vento,
ronzando e stormendo, fuggiva dai campi, e il rigo
golo verde-dorato lanciava il suo grido gaio ed acu
to, filando come una freccia sopra i bianchi fiori
dietro ai loquaci gracchi, abitanti in numerosa pro
genie nei cadenti comignoli e nei cupi camini, dove
c’era odore di vecchi mattoni e dove traverso agli
abbaini cadeva una luce dorata sui mucchi di cenere
grigio-violetta; poi il vento veniva meno, e sonno
lente s’arrampicavan le api su per i fiori della ter
razza, compiendo il loro paziente lavoro; e nel si
lenzio si sentiva soltanto, uniforme e sgorgante come
una fine acquerugiola ininterrotta, il fruscio del fo
gliame argentato dei pioppi... Noi ci aggiravamo per
il giardino, e c’immergevamo nel fitto dei suoi con
fini. Là, su quei confini che si confondevan coi gra
ni, nel bagno del nostro bisnonno dal soffitto crol
lante, in quello stesso bagno dove Natalia aveva
serbato lo specchietto rubato a Pietro Petròvic, ora
vivevano dei conigli bianchi. Oh con quanta mollez
za saltellavan sulla soglia e come bizzarramente,
muovendo i loro baffi e le loro labbra spaccate, sbir-
292 V A LSE C C A
davano con gli occhi così divergenti e sgranati gli
alti cirsi, i ciuffi di giusquiamo e le macchie d’orti
che che affogavano il susino e il ciliegio! Ma nella
rimessa semiaperta viveva un barbagianni. Esso sta
va appollaiato su un traversino nel più oscuro can
tuccio prescelto, rizzando gli orecchi a punta, dila
tando le sue cieche e gialle pupille, e il suo aspetto
era selvaggio e diabolico.
Il sole calava lontano dietro il giardino, in un
mare di grano, e scendeva la sera, pacifica e chiara:
gemeva il cuculo nel bosco di Tròscin, e squillava
tristemente chissà dove, sui prati, la cornamusa di
Stefano, il vecchio pastore... Il barbagianni stava sem
pre appollaiato ed attendeva la notte. Ma di notte
tutto dormiva, e i campi, e il villaggio, e la fattoria.
E soltanto il barbagianni non faceva che gemere e
piangere. Esso volava senza rumore intorno alla ri
messa, per il giardino, volava fino alla capanna di
zia Tonia, leggermente si calava sul tetto, e gettava
il suo grido malato... La zia si risvegliava nel suo
giaciglio presso la stufa:
— O dolcissimo Gesù, abbi pietà di me! — ella
sussurrava, sospirando.
Le mosche, assonnate e scontente, ronzavano al
soffitto della calda e buia capanna. Ogni notte qual
cosa le risvegliava. Ora una vacca si grattava il fian
co alla parete della capanna; ora un topo correva
sui tasti sincopatamente squillanti del pianoforte, e
saltando giù cadeva con fracasso sui cocci, ammuc
chiati con cura dalla zia in un cantuccio; ora il vec
chio gatto nero dagli occhi verdi ritornava a casa
in ritardo chissà di dove e pigramente supplicava
V A LSE C C A 293
di rientrare nella capanna; oppure giungeva a volo
il barbagianni, con le sue grida di malaugurio. E
la zia, superando la sua sonnolenza, cacciando con
la mano le mosche che nel buio le entravan negli
occhi, brontolando e sussurrando preghiere, s’alzava,
frugava sulle panche, sbatteva l’uscio, e uscita sulla
soglia, gettava a caso per aria, verso il cielo stellato,
lo spianatoio. Il barbagianni con un fruscio, rasen
tando con le ali la paglia, scendeva dal tetto, e piom
bava giù in basso, chissà dove, nel buio. Poi, sfiorata
la terra, volava facilmente fino alla rimessa, e alza
tosi a volo, s’appollaiava sul sommo. E nella fattoria
giungeva di nuovo il suo pianto. Esso stava fermo,
come immerso in qualche ricordo, e ad un tratto
gettava un lamento di stupore; si chetava, e ad un
tratto riprendeva a gemere istericamente, a ghignare
e a fischiare; si chetava di nuovo, e poi prorompeva
in querele, in pianti, in singhiozzi... E le notti cupe,
calde, dalle nuvole violette, erano tranquille, tran
quille. Assonnato scorreva e sgorgava il fruscio dei
pioppi in dormiveglia. Un lampo brillava con cir
cospezione nel buio bosco di Tròscin, e c’era un
odore caldo e secco di querce. Nelle vicinanze del
bosco, sui piani d’avena, in uno spiraglio di cielo
fra mezzo alle nuvole, ardeva in un triangolo d’ar
gento, come una croce di camposanto, la croce dello
Scorpione...
Noi facevamo ritorno molto tardi alla fattoria.
Dopo aver respirato la rugiada, la freschezza della
steppa, dei fiori e dell’erbe campestri, salivamo con
circospezione la scalinata, ed entravamo nella buia
anticamera. E spesso coglievamo Natalia in preghie-
294 VALSECCA
ra dinanzi all’immagine di Mercurio. Scalza, minu
scola, con le braccia incrociate, essa stava in faccia
a Mercurio, mormorava qualcosa, si segnava e s’in
chinava fino a terra, al santo invisibile nella penom
bra, e tutto questo con tanta semplicità come se essa
conversasse con qualche suo parente, anche lui sem
plice, buono e misericordioso.
— Natalia?! — noi la chiamavamo a bassa vo
ce.
— Son io...? — con voce semplice e bassa essa
rispondeva, interrompendo la preghiera.
— Perché non dormi a quest’ora?
— Ma Dio voglia che si possa dormire nella
tomba...
Noi ci sedevamo su uno sgabello, schiudevamo la
finestra, ed essa stava sempre ferma, con le braccia
serrate. Misteriosamente brillavano i lampi, rischia
rando le camere buie; una quaglia picchiava lonta
no, chissà dove, nella steppa rugiadosa. Come per
una sveglia d ’allarme gracidava sullo stagno un ’ana
tra insonne.
— Avete fatto una passeggiata?
— Sì, abbiamo fatto una passeggiata.
— Si sa, son cose di gioventù... Noi, ai nostri
tempi, talora facevamo delle passeggiate tutta la
notte durante... Il tramonto ci cacciava fuori, e l’al
ba ci rimandava a casa...
— Si viveva bene prima?
— Ma sì, bene...
E scendeva un lungo silenzio.
— Nutrice mia, perché grida il barbagianni? —
domandava mia sorella.
V A LSEC C A 295
— Oh, grida più del giusto, ed è impossibile che
tarlo. Bisognerebbe che il padroncino gli facesse
paura col fucile. Se no fa troppa pena e si pensa
sempre: che malaugurio farà? E poi spaventa sem
pre la signorina. Eppure si sa che è paurosa da mo
rire!
— E lei come s'è ammalata?
— Eh, si sa: tutte quelle lacrime, lacrime e an
goscia... Poi si mise a pregare... E sempre più cat
tiva con noi altre, le serve, e sempre più adirata coi
suoi fratelli...
E ricordandoci dei frustini, noi le domandava
mo:
-— Vale a dire che non vivevano d’accordo?
— Macché d ’accordo! Soprattutto poi dopo che
lei s’ammalò e che il nonno morì, che cominciarono
a comandare i padroncini e che si sposò il defunto
Pietro Petròvic. Eran tutti di fuoco, come la pol
vere!
— E sferzavano spesso i domestici?
— Questo non usava né da noi né nella fattoria.
Io, che po’ po’ di colpa non avevo commesso?! Ma
andò a finire che in tutto Pietro Petròvic mi fece
accorciare i capelli con un paio di forbici da tosatura,
mi fece indossare una camicia di traliccio e mi man
dò al podere...
-— Ma che colpa tu avevi commesso?
Ma quasi sempre non seguiva per lungo tempo
alla domanda una risposta pronta e diretta. Talora
Natalia raccontava con stupefacente franchezza e pre
cisione, ma tal’altra inciampava e rifletteva: poi so
spirava leggermente, e dalla sua voce, senza vedere
296 V A LSEC C A
il suo volto nella penombra, noi indovinavamo ch’el
la sorrideva mestamente:
— Ma sì, io commisi quella colpa... Voi sapete
che ve l’ho raccontata... Ero giovane e sciocca...
Mi cantava nel giardino
l’usignolo del destino...
— Si sa, son cose che capitano alle ragazze...
Mia sorella la pregava carezzevolmente:
— Balia mia, dicci la poesia sino in fondo.
Ma Natalia si turbava.
— Questa non è una poesia, ma una canzone...
Ed io ora non me ne ricordo più.
— Non è vero, non è vero!
— Via, se voi volete così...
E terminava, mangiando le parole:
Mi cantava del destino...
— No, ecco:
Mi cantava nel giardino
l’usignolo del destino
la sua languida canzone,
e me sciocca risvegliava
a una notte di passione...
— La canzone non dice « sciocca », ma qualche
cos’altro.
— Ma no, è proprio « sciocca ».
E vincendosi con uno sforzo, mia sorella doman
dava ancora:
— Ma tu eri innamorata molto dello zio?
E Natalia, sussurrava un fioco e breve:
V A LSE C C A 297
— Tanto.
— Tu lo nomini sempre nelle tue preghiere?
— Sempre.
— Fu come dicono che ti prese uno svenimento,
quando ti portarono a Sòski?
— Davvero, uno svenimento. Noi altri, domesti
ci, eravamo delicati da far paura... deboli ad ogni
pena... da non paragonarsi con un vecchio agricol
tore! Quando Eusebio il Cornuto mi portò via col
baroccio, io ero stordita dal dolore e dallo spavento.
In città, per esserci disavvezza, per poco non asfis
siai. E quando noi uscimmo sulla steppa, quanta
tenerezza e quanto rimpianto mi venne! Passò via
contro a noi un ufficiale, che pareva tutto l u i : io
detti un grido, e giù come morta! E ritornata in
me, giacevo ancora così in fondo alla carretta e pen
savo: ora tutto m’è bello, come nel regno dei cieli!
— Era severo?
— Dio ce ne scampi!
— Sì, ma nondimeno nevvero che la più bizzarra
di tutti era la zia?
— Proprio lei, proprio lei. Io mi confido con
voi: la portarono perfino da un sant’uomo. Noi
c’eravamo abituate ai patimenti con lei! Ella avreb
be potuto campare dell’altro ed esser viva anche og
gi, come si deve, ma s’insuperbì e la testa non le
disse più il vero... Che bene le voleva Vojtkjèvic!
Invece, guarda un po’...!
— Dicci un po’ : e il nonno?
— Il nonno? Era debole di mente, e si sa, anche
a lui ne capitaron delle belle. A quei tempi eran
tutti di fuoco... Ma in compenso i signori d’allora
298 V A LSEC C A
non spregiavano uno come noi, anche se talora av
veniva che il vostro babbo punisse Gervasio a pran
zo: si meritava ben altro!... Anzi di sera, guarda
un po’, andavano a fare il chilo coi servi e a pizzi
care la b alalàjk a 1 con loro...
— Dicci un po’ : ma era bello, quel Vojtkjèvic?
Natalia rifletteva.
— No, non voglio dire una bugia: era una spe
cie di Calmucco. Ma serio e costante. Le leggeva
sempre dei versi, le faceva paura, dicendole: «M o r
rò e verrò da te... ».
— Nevvero che anche il nonno è impazzito per
amore?
— Sì, per vostra nonna. Qui la cosa era diversa,
signorina, e poi casa nostra era fosca, senz’allegria,
Dio la guardi! Ecco, se voi volete ascoltare le mie
sciocche parole...
E con un sussurrìo senza furia Natalia ci comin
ciava una narrazione lunga lunga.
C’erano in quelle narrazioni degli scherzi, delle
omissioni, delle digressioni : c’era una vivezza, una
fantasia, una semplicità straordinaria. Ma c’era an
cora dell’altro: il mistero, ed un mormorio a mezza
voce, austero e sonoro. Vi predominava una specie
d ’antica malinconia. E tutto quanto era penetrato
dal senso della vecchia credenza nella predestina
zione, senso inespresso e confuso, ma pieno della
sua suggestione costante che ciascuno, ciascuno di
noi deve assumere questa o quella missione, con
forme a questo o ad un altro destino.
1. Specie di chitarra triangolare.
IV
Se si deve dar fede alle tradizioni, il nostro bi
snonno, uomo ricco, s’era soltanto in vecchiaia tra
sferito da Kursk a Vaisecca: egli non amava i no
stri luoghi, la loro folta vegetazione e le loro bo
scaglie. Sì, tanto è vero che questo è passato in pro
verbio: «p r im a c’eran foreste dappertutto...». Gli
uomini, che cent’anni fa percorrevano le nostre stra
de, traversavano fitte boscaglie, e si sperdevan fra
i boschi, il torrente Kàmjen ka, le colline dov’esso
scorreva, il villaggio, la villa e gli ondulati campi
circostanti. Tuttavia i luoghi non eran ormai più
come ai tempi del nonno. Ai tempi del nonno si po
teva vedere un quadro diverso: estensioni semistep
pose, nudi declivi; e nei campi, segala, avena, gran
turco; sulla strada maestra, dei rari salici spaccati,
e su in cima a Vaisecca soltanto ghiaia bianca. Di
tutte le foreste era rimasto soltanto il boschetto di
Tròscin. Ma in compenso il giardino era davvero
stupendo: un largo viale di settanta betulle spar
pagliate, di ciliegi affogati nell’ortica, di macchie
insonnolite di lampone, d’acacia, di lillà e quasi un
300 V A LSE C C A
intero boschetto di pioppi argentati sui confini, che
si confondevano coi campi di grano. La casa era
coperta da un tetto di paglia, ma così grosso, scuro
e compatto che non c e ferro che regga il paragone.
E la casa guardava su un cortile, ai cui lati si suc
cedevano le lunghissime costruzioni ed abitazioni di
servizio, legate in un certo modo tra loro, e dietro
il cortile si stendeva un verde prato sconfinato e lar
gamente si spandeva il villaggio padronale, grande,
miserabile e indolente.
— Tutto come i suoi padroni! — diceva Natalia.
Anche i signori erano indolenti, poco economi, poco
avidi. Simone Kìrillyc, il fratello del nonno, s’era
separato da noi : s’era preso per sé il più e il me
glio, il grosso del patrimonio e ci aveva lasciato
soltanto Sòski, Vaisecca e quattro centinaia di ani
me... E dei quattrocento, a malapena la metà la scam
pò...
Il nonno, Pietro Kìrillyc, era debole di mente.
Egli invecchiò presto, e morì a quarantacinque anni.
Il babbo ci diceva spesso che Pietro Kìrillyc era im
pazzito in seguito ad un temporale scoppiato all’im-
provviso, che scaricò addosso a lui addormentato so
pra un tappeto nel pomario, sotto un melo, un ro
vescio di grossissime mele. Ma fra la servitù, se
condo le parole di Natalia, la demenza del nonno
fu spiegata altrimenti, e si diceva che Pietro Kìrillyc
s’ammalò d ’umor malinconico subito dopo la morte
della nostra bella nonna, e che una grande bufera
passò su Vaisecca prima della sera di quel giorno
in cui essa morì; e che quell’altro temporale che
s’abbatté con il suo nero nembo su Pietro Kìrillyc
V A LSE C C A 301
dormiente, lo scosse col pensiero della sua prossima
fine. E Pietro Kìrillyc - moretto e piegato, con oc
chi neri e attentamente carezzevoli, un po’ somiglian
te a zia Tonia - campò fino alla fine dei suoi giorni
in una tranquilla pazzia. A sentire Natalia, prima
i denari non sapevan dove metterli, ed allora lui, in
stivali di marocchino e in soprabito picchiettato, in
silenzio e pieno di premura vagava per la casa, e
guardandosi intorno, ficcava le monete d’oro nelle
fessure delle travi di quercia.
— Questo è per la dote di Tonia — borbottava
quando qualcuno lo sorprendeva. — È più sicuro,
amici miei, è più sicuro... Ma, anche in questo, sia
fatta la vostra volontà: se non volete, non lo farò
più...
E ricominciava a ficcarle. Ora sgomberava della
pesante mobilia in sala, in salotto, ed attendeva sem
pre l’arrivo di qualcuno, sebbene i vicini non ve
nissero mai a Vaisecca; o si lamentava d’aver fame
e si preparava la panzanella con le sue mani: mal
destramente spezzettava e triturava in una ciotola
una cipolla verde, vi sminuzzava del pane, vi ver
sava un miscuglio di latte fermentato e di farina ari
da, densa e schiumosa, e ci spandeva sopra tanto
grosso sale grigio che la panzanella diventava amara
e non era possibile mangiarla. Quando poi, dopo
pranzo, la vita in villa moriva e tutti si sperdevano
nei loro cantucci preferiti e dormivano a lungo, Pie
tro Kìrillyc tutto solo non sapeva dove andare a
battere il capo, perché dormiva poco anche la notte.
E non potendo sopportare la solitudine, si metteva
a dare un’occhiata nelle camere, nel vestibolo, nelle
302 V A LSE C C A
stanze delle serve e chiamava i dormienti con cir
cospezione :
— Tu dormi, Arcadino? tu dormi, Toniuccia?
E avendo ricevuto una risposta adirata: — Ma
levatevi di torno, papà — , s’affrettava a calmarli :
— Ma su, dormi dormi, anima mia! Io non ti
risveglierò più.
E procedeva più oltre, tralasciando soltanto la
stanza dei servi, perché i servi erano una razza mol
to grossolana. Ma dieci minuti dopo riappariva an
cora sulla soglia e con ancor più circospezione li
chiamava, inventando che per il villaggio era pas
sato un tale coi suoi sonagli da carrettiere : « Che
non sia Pietruccio in licenza dal reggimento? », o che
montava in cielo una paurosa nuvola di grandine.
— Lui, colombini, aveva molta paura dei tempo
rali — raccontava Natalia. — Io allora ero ancora
una bambina coi capelli sciolti, ma però me ne ri
cordo. La nostra casa pareva nera, senz’allegria, che
Dio la guardi. E una giornata d’estate durava un
anno. La servitù non si sapeva dove ficcarla: sol
tanto i lacchè erano cinque... Ora si sa come avvie
ne: i giovani signori dopo pranzo vanno a riposare,
e a veder loro, facciamo lo stesso anche noi, da ser
vitori fedeli. Le ragazze andavano nella loro stanza:
dopo pranzo cominciavano a far rumore con gli ar
colai, ma soltanto per chi stava a vedere, e sparge
vano peluria per tutta la stanza - da noi si confe
zionavano sempre dei piumini - e si stendevan dove
capitava. Ma i servi, loro poi eran proprio imperti
nenti; avevan l’abitudine di star seduti nella loro
stanza, a intrecciare a poco a poco le fruste, a tes-
V A LSE C C A 303
sere delle reti da quaglie, a strimpellare la balalàik a,
senza prendersela di nulla. E s’ingozzavano di fa
rina d’avena o di paglia, e poi giù a dormire. E
allora Pietro Kìrillyc non si sarebbe neppure acco
stato a loro, in ispecie a Gervasio. Ma se chiedeva:
« Lacchè, lacchè! voi dormite? » Gervasio alzava la
testa da una cassapanca, e replicava: «V u oi che
io ti ficchi dell’ortica nei calzon i?» «A chi credi
di parlare, pezzo di fannullone? » « Al d om òv oj/
signor mio : nel dormiveglia ». E allora sì che Pie
tro Kìrillyc veniva sempre più spesso da noi : « Ar-
cadino, tu dormi? Nataliuccia, tu dormi?... ».
— Io sussultavo e trasalivo tutta. E lui : « Ma su,
dormi dormi, anima mia; io non ti risveglierò più ».
E vagava ancora per la sala, il salotto e s’affacciava
sempre alle finestre per guardare in giardino, se si
vedeva la nuvola. E i temporali, a dire il vero, a quei
tempi s’addensavano spesso spesso. E che razza di
temporali! Qualche volta, s’era appena mangiato
quando cominciava a gemere il rigogolo, e molte
nuvole salivano su dal giardino... tutto s’abbuiava
nella casa, cominciavano a frusciare le malerbe e
le dense ortiche, si nascondevan le tacchine coi tac
chinotti sotto la terrazza... era davvero una pena,
una noia! E lui, il nonno, sospirava, si lagnava, s’ar
rampicava ad accendere una candela di cera alle
immagini, ad appendere il tovagliolo personale del
defunto bisnonno - a me quel tovagliolo faceva una
paura da morire! - oppure gettava un paio di forbici
dalla finestra. Questa è la prima cosa da farsi, le1
1. Genietto della casa, nella mitologia popolare.
304 V A LSEC C A
forbici; fa molto bene contro i temporali. E qual
che volta io mi pungevo tutta fina alla cintola, quan
do dopo mi facevano andare a riprenderle fra l’or
tica, in quella grattugia: e sì che da noi cresceva
poco fitta!
Cer a un po’ più di gioia nella casa di Vaisecca
quando ci stavano i francesi: per primo un certo
Louis Ivànovic, un uomo dai larghissimi calzoni, ma
stretti stretti giù alla caviglia, dai lunghi mustacchi
e dagli azzurri occhi di sognatore, che deponeva sul
la sua calvizie un po’ di capelli da un orecchio al
l’altro, e che picchiava senza risparmio i domestici
col bocchino della sua pipa; e dopo di lui l’anziana
m am z elle Sizy, che batteva eternamente i denti. C’e
ra un po’ più di gioia quando per tutte le stanze
rintronava la voce di Louis Ivànovic che rimprove
rava Arcadio : « Andatevene e non tornate più »,
quando si sentiva nello studio:
M aître Corbeau, sur un arbre perché...
e Tonia studiava il pianoforte. I francesi passarono
otto anni a Vaisecca, ci restarono perché Pietro Kì-
rillyc non s’annoiasse anche dopo che i ragazzi fu-
ron mandati al capoluogo di provincia, ma ci lascia
rono proprio avanti il ritorno a casa dei figli per le
vacanze estive. Quando fu passata quell’estate, Pietro
Kìrillyc non rimandò in nessun posto né Arcadio
né Ton ia: era anche troppo, a suo parere, mandar
via il solo Pietruccio. E i ragazzi restaron per sem
pre senza istruzione e senza cure... Natalia diceva:
— Io ero la più giovane di tutti. E Gervasio
e vostro padre erano quasi coetanei, e si capisce,
V A LSE C C A 305
grandi amiconi. Però, a dire il vero, cane e gatto
non vanno d ’accordo. E così, divenuti amici, si giu
rarono fedeltà eterna, si scambiaron perfino le croci,
ed ecco che presto presto Gervasio ne fa una delle
sue: per un pelo non annegò vostro padre nello
stagno! Era rognoso, e già matricolato nei colpi da
brigante. « Sicché » disse una volta al padroncino
« quando sarete grande mi farete frustare? » « Si
curo » « Oh, no! » « Come no? » « Allora sì... » E
sentite un po’ che cosa andò a inventare: c’era una
botte che si teneva sopra gli stagni, proprio sul de
clivio; lui che l’aveva notata, suggerì ad Arcadio
Petròvic d’entrarci dentro e di rotolarsi giù. « Pri
ma » disse « padroncino, correrete voi, e poi io... »
E il padroncino gli dette retta: entrò dentro, dette
una scossa, e rotolò rintronando per il monte, verso
l’acqua, come poteva... O Madonna, Regina del Cie
lo! Non si vedeva che un turbine di polvere!... Ma
grazie a Dio c’eran lì vicino dei pastori...
Finché nella casa di Vaisecca abitarono i francesi,
la casa conservò un aspetto di vita. Al tempo della
nonna v’erano ancora dei signori e padroni, dell’au
torità e della sottomissione, delle stanze addobbate
e delle stanze familiari, dei giorni di lavoro e delle
feste. Questo apparato durava anche al tempo dei
francesi. Ma i francesi partirono, e la casa restò del
tutto senza padroni. Durante tutta l’infanzia dei figli,
pareva che il primo posto fosse di Pietro Kìrillyc.
Ma lui che poteva fare? Chi e a chi comandava: lui
ai domestici o i domestici a lui? Fu chiuso il piano
forte, scomparve la tovaglia dalla tavola di quercia;
si mangiava senza tovaglia e quando capitava, e il
12.
306 V A LSEC C A
passaggio del vestibolo era ingombro di levrieri.
Ognuno tralasciò d ’occuparsi della pulizia, e le scu
re pareti di travi, gli scuri pavimenti e soffitti, le
scure pesanti porte e gli stipiti, le vecchie immagini,
che coprivano con le loro effigia di Suzdal 1 tutto un
angolo della sala, cominciarono presto e del tutto ad
annerire. Di notte, specie quando faceva maltempo,
quando il frutteto rumoreggiava sotto la pioggia, e
ad ogni minuto si rischiaravano nelle sale le effigia
dei santi, si apriva e si spalancava nel frutteto un
tremante cielo rosa ed oro, e poi, nel buio, scoppia
vano con fracasso i colpi di tuono, di notte, in quel
la casa, regnava lo spavento. E le giornate eran pie
ne di sonno, di vuoto, e di noia. Con gli anni Pietro
Kìrillyc s’indeboliva sempre di più, si faceva valer
sempre meno, e divenne allora padrona di casa la
decrepita Daria Ustìnovna, nutrice del nonno. Ma
l’autorità dell’una valeva quella dell’altro. In quanto
al fattore Damiano, non s’immischiava per nulla del
l’amministrazione della casa: egli aveva nozione sol
tanto dei lavori campestri e qualche volta diceva
con un pigro sorriso : « Va là, che io non fo torto
ai miei padroni... ». Tonia era cresciuta e batteva di
già Daria Ustìnovna, ma le ragazze non si curavano
affatto di lei. Il padre, da giovane, non si preoccu
pava per niente di Vaisecca: egli perdeva la testa
per la caccia, per la balalàjk a, per l’amore verso Ger-
vasio, il quale era bensì considerato uno dei servi,
ma per intere giornate si ficcava con lui in quelle
certe paludi di Mescèrskij, oppure nella rimessa dei
1. Città celebre per la fabbricazione d’icone popolari.
V A LSEC C A 307
veicoli, a studiare le virtuosità della balalàjk a e del
la zampogna.
— E così noi lo sapevamo bene — diceva N a
talia; — in casa non faceva che riposare. E se non
riposava vuol dire che era al villaggio o nella ri
messa oppure a caccia: d’inverno lepri, d ’autunno
volpi, d estate quaglie, anatre o folaghe; inforcando
il suo droz k i 1 da corsa, col fucile ad armacollo, chia
mando la sua Diana, se n’andava via con Dio: oggi
al Mulino Centrale, domani nelle paludi di Mescèr-
skij, posdomani nella steppa. E sempre con Gerva-
sio. Egli era il caporione di tutto, ma simulava che
fosse il padroncino a trascinarlo. E Arcadio Petròvic
l’amava, il suo nemico, veramente come un fratello,
ed egli, quanto più avanti procedevan le cose, tanto
più perfidamente si giocava di lui. Qualche volta il
padroncino gli diceva; «Su vvia, Gervasio, prendi
un po’ la b alalàjk a! Insegnami, per l’amor di Dio:
Tramontò dietro il bosco il rosso sole... »
ma Gervasio lo guardava, gettava via il fumo per
le narici, e diceva così, sorridendo un pochino:
« Non tutti i discorsi son proverbi. Baciatemi prima
la mano ». Arcadio Petròvic impallidiva tutto, salta
va su dal suo posto e lo batteva nella guancia con
quanta forza aveva; ma lui scuoteva soltanto la testa
e si faceva ancora più nero, s’accigliava come se
fosse un brigante. « Su in piedi, canaglia! » S’alza
va, si stirava come un levriero, e i suoi calzoni fel
pati gli pendevano giù... e taceva. « Chiedi perdo
1. Veicolo che si monta a cavalcioni.
308 V A LSEC C A
no. » « Son colpevole, signore... » Ma il padroncino
inciampava e non sapeva più che dire. « Macché
signore!... » gridava. « Io, di grazia, colgo ogni oc
casione di trattarti, canaglia, come un mio pari; e,
di grazia, talora penso: io per lui mi dannerei l’a
nima... E tu invece?! tu fai di tutto per farmi ar
rabbiare! lo fai apposta, neh?... » Che affare stra
ordinario! — diceva Natalia. — Gervasio si pren
deva giuoco del padroncino e del nonno, e la si
gnorina di me. Il padroncino, e, a dire il vero, an
che il nonno, andavan pazzi per Gervasio, ed io
per lei... quando ebbi fatto ritorno da Soški, e che
m ’ero fatta un po’ più di ragione, dopo la mia
colpa...
V
Fu con quella colpa che ebbe inizio il suo amore.
E tutta la sua anima di Vaisecca si espresse in que
sto amore.
A tavola coi frustini stavan seduti fin già dalla
morte del nonno, fin dalla fuga di Gervasio e dalle
nozze di Pietro Petròvic, dopo che la zia, già tocca,
fece voto della sua verginità al Dolcissimo Gesù, e
Natalia ritornò dalla benedetta Soški. Ora la zia To
ma era stata tocca e Natalia aveva soggiornato in
esilio per via dell’amore.
I noiosi e sordi tempi del nonno dettero luogo a
quelli dei giovani signori. Pietro Petròvic ritornò a
Vaisecca, dopo essersi ritirato dal servizio all’impre
visto di tutti. E il suo ritorno fu la rovina di N a
talia e di zia Tonia.
Tutte e due s’innamorarono. S’innamorarono sen
za saperlo.
Dapprima parve loro che la vita fosse divenuta
proprio più gaia. Per la prima volta si sentirono gio
vani donne e s’abbandonarono all’incanto di questo
nuovo sentire.
310 V A LSF XT A
Nei primi tempi Pietro Petròvic volse la vita di
Vaisecca verso nuove forme, festose e signorili. Era
giunto con un suo compagno, Vojtkjèvic, s’era por
tato con sé il suo cuoco, un ubriacone rasato, dagli
occhi d’un luccichio acquoso, che sbirciò con disde
gno gli stampi da cotognato, inverditi e scanalati, i
rozzi coltelli e forchette. Pietro Petròvic voleva mo
strarsi cordiale, generoso e fastoso in cospetto al suo
amico, ed agiva maldestramente, come se fosse un
ragazzo. Ed era davvero quasi un ragazzo, molto
delicato e grazioso d’aspetto, ma d’indole acerba e
crudele, un ragazzo temerario e pieno di fiducia in
se stesso, ma che un nulla turbava fin quasi alle
lacrime, e che poi covava a lungo il rancore per
chi l’aveva confuso.
— Mi ricordo, fratello Arcadio — egli disse a
tavola la prima giornata del suo soggiorno a Vai
secca — mi ricordo che nella nostra cantina c’era
un madera mica malvagio...
Il nonno arrossì, voleva dire qualcosa, ma gli man
cò il coraggio e si limitò a spelacchiarsi sul petto
la veste da camera. Arcadio Petròvic fece le gran
meraviglie.
— Che madera?
Ma Gervasio guardò con impertinenza Pietro Pe
tròvic e sorrise.
— Voi vi siete voluto dimenticare di tutto, si
gnor mio — egli disse ad Arcadio Petròvic, senza
neppure tentare di nasconder la beffa. — È verità
che un tempo da noi di questo madera ce n’era tan
to da non saper dove metterlo. Ma tutti noi, ser
vitù, ce lo siam consumato. Era il vino dei padroni,
V A LSEC C A 311
e noi ce lo siam bevuto sbadatamente invece del latte
fermentato.
— Che vuol dir questo? — gridò Pietro Petròvic,
invaso da un cupo rossore.
Il nonno lo sostenne con esaltazione:
— Così, così, Pietruccio! Ancora! — egli gridò
con la sua voce allegra e sottile, ed in procinto di
piangere. — Tu non puoi immaginarti come egli
m ’umilia! Io più d’una volta ho pensato d’accostar-
mi a lui e di rompergli la testa con il pestello di
bronzo... Perdio, l’ho pensato! Io gli pianterò un
pugnale nel fianco fino all’elsa!
Ma Gervasio neppur qui si scompose.
— Io, signor mio, ho sentito dire che per cose
come queste puniscono bene e non male — replicò,
corrugando le ciglia. — E poi non mi riesce di le
varmi di testa il pensiero che per il signore è ormai
tempo d’andarsene al Regno dei Cieli!
Diceva Pietro Petròvic che dopo questa risposta
inaspettatamente sfrontata, egli s’era trattenuto sol
tanto per riguardo alla presenza d ’una persona non
di famiglia. Egli non disse a Gervasio che questo:
« Vattene via sull’istante! ». E poi si vergognò an
che un po’ della sua irritabilità, e scusatosi subito
presso Vojtkjèvic, alzò su lui sorridendo quegli oc
chi incantevoli che non poterono dimenticare per
lungo tempo tutti quelli che avevan conosciuto Pie
tro Petròvic.
Per un tempo anche troppo lungo non potè scor
dare quegli occhi neppure Natalia.
La sua felicità fu straordinariamente breve, e chi
avrebbe potuto pensare che si sarebbe concluso con
312 V A LSE C C A
un viaggio a Sòski quello che era il più notevole
episodio della sua vita?
La fattoria di Soški è in piedi anche ai nostri
giorni, benché già da molto sia passata ad un mer
cante di Tàmbov. Si tratta d’una lunga capanna in
mezzo a una pianura deserta, una rimessa, un pozzo
con la carrucola ed una tettoia, con all’intorno una
piantagione tutta di cocomeri. Tale era certo la fat
toria ai tempi del nonno; ma dev’esser poco cam
biata anche la città che è sulla strada da Sòski a
Vaisecca. E la colpa di Natalia fu questa, che in un
modo del tutto inatteso anche per lei, rubò lo spec
chio pieghevole e montato in argento di Pietro Pe-
tròvic.
Essa scorse questo specchio, dalla cui bellezza fu
tanto colpita, come del resto da tutto quello che
apparteneva a Pietro Petròvic, che non potè resiste
re. E per qualche giorno, finché non s’accorsero dello
specchio, visse nello stordimento del suo delitto, nel
l’incantesimo del suo terribile segreto e del suo te
soro, come nella leggenda del fiorellino scarlatto 1
Andando a letto, ella pregava Dio di far passare
la notte al più presto, di mandar più presto l’alba;
c’era un ’aria festiva nella casa che s’era rianimata e
riempita di qualcosa di nuovo e di miracoloso al
l’arrivo del bel padroncino, elegante, impomatato,
dall’alto colletto rosso dell’uniforme, col viso bruno
ma delicato come quello d’una signorina; c’era un’a
ria festiva anche nell’anticamera dove dormiva N a
talia e dove, levandosi al primo albore dalla sua
1. Allusione ad una tradizione popolare.
V A LSE C C A 313
cassapanca, ella si ricordava ad un tratto che c’è la
gioia nel mondo, perché sulla soglia stavano ad
aspettarla degli stivaletti così puliti e leggeri che li
avrebbe potuti forse portare anche un figlio di re;
ma che la festa e il terrore più grande stava dietro
il giardino, nel bagno abbandonato, dove teneva in
serbo il doppio specchio dalla pesante cornice d’ar
gento; dietro il giardino, là dove, quando tutti dor
mivano, Natalia accorreva segretamente su per l’erbe
rugiadose, per godere del possesso del suo tesoro,
trarlo sull’uscio alla luce, aprirlo al caldo sole mat
tutino e guardarcisi dentro fino al capogiro, e poi
celarlo di nuovo, seppellirlo e ritornare correndo,
per servire tutta la mattina colui sul quale non osa
va levare gli occhi, colui per il quale, con la spe
ranza forsennata di piacergli, ella si guardava allo
specchio.
Ma la leggenda del fiorellino scarlatto finì presto,
troppo presto. E finì nell’umiliazione ed in una ver
gogna senza nome, come credeva Natalia, perché il
tesoro segreto dell’anima sua l’avevan tutti compre
so. Finì così che Pietro Petròvic in persona fece
rasare e sfigurare colei che si voleva far bella, che
si tingeva le ciglia dinanzi allo specchio, e che aveva
creato un così dolce segreto, una vicinanza inusata
fra sé e lui. Egli stesso scoprì e limitò la sua colpa
ad una semplice ruberia, ad un semplice colpo da
donna di servizio, che, in camicia di traliccio, col
volto gonfio di pianto, sotto gli occhi di tutta la ser
vitù, fu messa su una carretta da concio, e disono
rata, strappata ad un tratto da tutto quello che era
connaturato con lei, fu portata ad una qualunque
314 V A LSEC C A
ignota e paurosa fattoria, nelle lontananze della step
pa. Essa già lo sapeva: là, nella fattoria, avrebbe
dovuto guardare le galline, i tacchini e i cocomeri;
là sarebbe stata cotta dal sole, dimenticata da tutto
il mondo; le giornate della steppa le sarebbero par
se lunghe come anni, lì dove in un oscillante mi
raggio annegano gli orizzonti, dove c’è tanto silenzio
e tanto calore che si dormirebbe come morti per
giornate intere, se non si dovesse dare ascolto al cre
pitìo del pisello secco, all’industre brusìo delle co
vatrici sulla terra bruciante, al richiamo serenamente
triste dei tacchini, se non si dovesse seguire l’ombra
fuggente nel cielo ed inquietante del falco, e non
si dovesse allora saltar giù e gridare con una voce
acuta e prolungata: « Scìù -ù !... ». Laggiù nella fat
toria, che si riduceva ad un’unica vecchia contadina,
un’ucraina, che aveva ricevuto su lei potestà di vita
e di morte e che certo attendeva di già con impa
zienza la sua vittima! Un solo vantaggio aveva N a
talia rispetto a coloro che son condotti al patibolo:
la possibilità d’impiccarsi. E soltanto questo pensie
ro la sorresse sulla via dell’esilio, certo a vita, co-
m ’ella credeva.
In viaggio da un capo all’altro del distretto, che
cosa mai essa non vide! Ma non le importava nulla
di questo. Essa non pensava, o meglio non sentiva,
che una cosa sola: la sua vita era finita, il delitto
e la vergogna eran stati troppo grandi, perché essa
potesse sperare nel ritorno! Finora le era rimasto ac
costo un suo parente prossimo, Eusebio il Cornuto.
Ma che sarebbe stato di lei quand’egli l’avrebbe
consegnata nelle mani della vecchia ucraina, e dopo
V A LSE C C A 315
aver pernottato, se ne sarebbe partito e l’avrebbe
lasciata per sempre in un paese straniero? Dopo aver
pianto le venne voglia di mangiare. Ed Eusebio,
con gran meraviglia di lei, considerò tutto questo
con molta semplicità, e mentre mangiavano insieme,
conversò con lei come se nulla fosse successo. Ma
dopo s’addormentò, e si risvegliò ormai in città. E
la città la colpì soltanto per la sua noia, aridità ed
afa, ed anche per qualcosa di confusamente pauroso
e angoscioso, che pareva un sogno che non si può
raccontare. Di quella giornata le restò in mente sol
tanto che d’estate fa molto caldo nella steppa e che
non c’è nulla al mondo di più interminabile d'una
giornata estiva e di più sconfinato delle strade mae
stre. Le restò in mente che per le vie della città
c’eran dei punti, coperti dall’acciottolato, su cui la
carretta rintronava stranissimamente, che da lontano
la città aveva un odore di tetti di ferro, e che in
mezzo alla piazza dove si riposarono e dettero da
mangiare al cavallo, accanto alle tettoie del mercato,
c’era odor di polvere, di catrame, di fieno putrido,
le cui ciocche frammischiate a sterco di cavallo la-
sciavan tracce dovunque s’era fermato un contadino.
Eusebio staccò e voltò il cavallo verso la carretta,
al suo cibo; si buttò giù sulla nuca il berretto trop
po caldo, s’asciugò il sudore con la manica, e tutto
nero per il calore, se n’andò in una bettola. Egli
ordinò a Natalia il più severamente possibile di
« stare con gli occhi aperti » e, in caso, di gridare
per tutta la piazza. E Natalia restò lì a sedere, im
mobile, soffocata da ottusi pensieri, senza levar mai
gli occhi dalla cupola della cattedrale costruita al
316 V A LSE C C A
lora allora, enorme stella d ’argento accesa chissà do
ve, lontano, al di là delle case; restò lì a sedere
finché non fece ritorno Eusebio, masticando ancora
e tutto allegro, e non si mise, con un pane sotto
l’ascella, a riportare di nuovo la cavalla fra le stan
ghe.
— Noi due siamo un pochino in ritardo, regi
netta mia! — borbottò vivacemente, senza rivolgersi
né alla cavalla né a Natalia. — Suvvia, che forse
non c’impiccheranno per questo. Non è mica brucia
to nulla... E appena al ritorno mi metterò a correre;
a me, fratello, preme più la cavalla del padrone
che la tua gola — egli diceva pensando a Damia
no. — Aprì la gola così: «T u , guardami un po’!
io, nel caso che succeda qualcosa, farò in modo di
vedere quello che c’è nei tuoi calzoni... ». Ah ah,
penso io... L’offesa mi faceva male alla pancia! A
me, di grazia, finora neppure i padroni m’hanno
calato i calzoni, e tu non sei un loro pari, muso
nero. «Gu ardati bene! » Da che mi devo guardare?
Non son certo più sciocco di te. Se mi salta il tic
chio, non ritorno neppure: porto la ragazza a desti
nazione, mi faccio il segno della croce, e chi s’è visto
s’è visto... E io mi meraviglio della ragazza: stupi
da, perché te la sei presa così? Credi che il mondo
sia diventato troppo piccolo? Passan tanti zingari
e carrettieri dinanzi alla fattoria: in un battibaleno
ti trovi oltre Rostov nostro padre... e lì, va a saper
tu come ti chiami!
E così l’idea « m’impiccherò » fece luogo nella
testa rasata di Natalia all’idea di fuggire. La carretta
cigolò e vacillò. Eusebio si chetò e condusse la ca
V A LSE C C A 317
valla a un posteggio in mezzo alla piazza. Là, dal
lato dove essi erano giunti, il sole tramontava dietro
il gran chiostro d ’un convento, e le finestre del car
cere giallastro, che s’ergeva dirimpetto al convento,
lungo la stessa strada, scintillavano d ’oro. La vista
del carcere per un istante eccitò ancora di più in
lei l’idea della fuga. Eppure, si campa anche evasi!
Ma però c’è chi dice che gli zingari alle ragazze
e ai fanciulli rubati bruciali gli occhi col latte bol
lente, e li mandano fuori come infermi, e che i
carrettieri li trasportan fino al mare e li vendono
agl’infedeli... Succede anche che i padroni riacchiap
pano i loro fuggiaschi, li caricano di catene e li
gettano in prigione... Eppure anche in prigione non
ci son bestie, ma cristiani, come diceva Gervasio!
Ma le finestre del carcere si spensero, i suoi pen
sieri si confusero: no, fuggire le faceva ancor più
paura che impiccarsi! Ma s’era taciuto e calmato
anche Eusebio.
— Siamo in ritardo, ragazza — egli le disse già
preoccupato, saltando di fianco su una stanga della
carretta.
E la carretta, rientrata nel mezzo della strada
maestra, dette una scossa, traballò e cominciò a rin
tronare rapidamente sul selciato... “Oh, il meglio
di tutto sarebbe stato di tornare indietro” Natalia
ora pensava, ora sentiva, “così, tornare indietro, ga
loppare fino a Vaisecca e gettarsi ai piedi dei pa
droni!” Ma Eusebio cacciava avanti la cavalla. La
stella dietro le case non c’era più. Dinanzi si sten
deva la strada bianca e nuda, una bianca massic
ciata, case bianche, e tutto quanto era rinserrato dal
318 V A LSEC C A
l’immensa cattedrale bianca coperta dalla sua nuova
cupola di latta bianca, e il cielo sovrastante era di
venuto d ’un azzurro pallido e secco... Ma laggiù, a
casa, in quel momento cadeva di già la rugiada, il
giardino odorava di frescura, e si sentiva il profumo
della cucina accesa; lontano, oltre i pianori di gra
no, oltre i pioppi argentati, sui confini del frutteto,
oltre il vecchio bagno segreto, il crepuscolo man
dava i suoi ultimi bagliori, e in salotto erano aperte
le porte che davan sulla terrazza; un riflesso vermi
glio si mescolava alle penombre nei cantucci, ed una
signorina d ’un bruno dorato e dagli occhi neri, so
migliante così al nonno come a Pietro Retrovie, riac
comodava ogni minuto le maniche del suo leggero
e largo vestito di seta arancione, ed assorta leggeva
della musica, seduta con la schiena rivolta al tra
monto, o batteva sui tasti gialli, riempiendo il sa
lotto dei suoni maestosamente squillanti ed appas
sionatamente disperati della polon aise di Oginski '...
E pareva che essa non rivolgesse nessuna attenzione
a un ufficiale che stava in piedi dietro a lei, tar
chiato, scuro in volto, che teneva la mano sinistra
appoggiata sul fianco e che seguiva con accigliata
concentrazione le sue rapide mani...
— Essa ha il suo ed io ho il mio — ora aveva
pensato ed ora aveva sentito Natalia in tali sere con
un gran struggimento nel cuore, per poi sempre
fuggire nel freddo e rugiadoso giardino, penetrare
nel fitto dell’ortica e delle bardane umide e dall’a
cuto profumo, e stare lì ferma, ad aspettare l’im-1
1. Leggi Oghtnsk i: musicista polacco del primo ottocento.
V A LSE C C A 319
possibile, cioè che il padroncino scendesse dalla ter
razza, percorresse il viale, la scorgesse, e deviando
all’improvviso, le si avvicinasse a passo svelto; e lei,
non avrebbe pronunciato una sola parola dalla feli
cità e dal terrore.
Ma la carretta rintronava. La città era lì intorno,
calda e puzzolente, quella stessa città che prima le
si figurava come qualcosa di magico. E Natalia con
doloroso stupore guardava la folla vestita a festa,
che andava in su e in giù sul selciato lungo le case,
i portoni e le botteghe con l’uscio spalancato... E
perché Eusebio aveva voluto passare di lì, essa pen
sava, e come s’era deciso a farvi rintronare la sua
carretta così?
Ma passarono innanzi alla cattedrale e presero a
discendere verso un piccolo fiume, per dei declivi
incavati e polverosi, dinanzi alle nere fucine, dinan
zi alle putride baracche cittadine... Di nuovo risentì
il noto odore caldo dell’acqua dolce, del fango, della
vespertina frescura campestre. Un primo lumicino
brillò in lontananza, sulla montagna dirimpetto, in
una casetta isolata presso la barriera... Ed eccoli rien
trati in libertà, hanno varcato il ponte, son già arri
vati alla barriera, ed ora li guarda negli occhi la
strada deserta e sassosa, vagamente biancheggiante
e fuggente verso una lontananza sterminata, verso
l’azzurro d ’una fresca notte di steppa. E la cavalla
partì d ’un trotto leggero, ma poi, oltrepassata la
barriera, si mise proprio al passo. E si potè di nuovo
sentire che c’è silenzio, gran silenzio nella notte, in
cielo e sulla terra, e non c’è altro che una piccola
campana che piange in lontananza. Essa piangeva
320 V A LSE C C A
sempre più sonora, sempre più melodiosa, e si con
fuse finalmente nel calpestìo cadenzato d’un tiro a
tre, col rumore uniforme d’un paio di ruote che
correvano sulla massicciata e che s’avvicinavano sem
pre più... Guidava il tiro a tre un giovane vetturale,
e nella carrozza, col mento affogato in un mantello
a cappuccio, stava seduto un ufficiale. Quando il
tiro a tre fu all’altezza della carretta, il viaggiatore
alzò per un attimo il capo e Natalia scorse ad un
tratto un rosso colletto, un paio di mustacchi neri,
due giovani occhi rilucenti sotto l’elmo che pareva
un piccolo secchio... Ella dette un grido, venne me
no e perse la coscienza...
Le era lampeggiato in testa il folle pensiero che
fosse Pietro Petròvic, e al dolore e alla tenerezza
che trapassaron come un fulmine il suo nervoso cuo
re di serva, essa ad un tratto comprese che cosa le era
venuta a mancare: la vicinanza di lui... Eusebio
s’affrettò a versarle sulla testa rasata e abbandonata
sulla spalla, l’acqua della brocca da viaggio.
Allora essa rinvenne con un accesso di nausea e
lasciò andare la testa sulla sponda della carretta. Ma
Eusebio fu a tempo a sorreggerle con la palma la
fronte marmata...
Poi, alleggerita, rabbrividendo, col colletto bagna
to, essa giacque supina e guardava le stelle. Eusebio
taceva spaventato, credendo che si fosse addormen
tata, e non faceva che dondolare la testa, e cacciare
avanti la cavalla. La carretta sì squassava e fuggiva.
E alla ragazza pareva di non aver più corpo, e di
non aver più che l’anima. E quell’anima stava « così
bene come in paradiso... »
V A LSE C C A 321
Questo suo amore fu il fiorellino scarlatto sboc
ciato nei giardini della leggenda. Ma nella steppa,
in un cantuccio ancor più remoto che di Vaisecca,
essa portò il suo amore perché lì, nel silenzio e nella
solitudine, ne vincesse i primi dolci e roventi sup
plizi e lo serbasse poi lungamente, per sempre, fin
dentro alla bara, nel fondo della sua anima di Vai
secca.
VI
L’amore a Vaisecca era eccezionale. Eccezionale
era anche l’odio.
Il nonno, che finì in un modo altrettanto orrendo
del suo uccisore e di tutti quelli che morirono a Vai
secca, fu ucciso in quello stesso anno. All’Interces
sione, festa parrocchiale di Vaisecca, Pietro Petròvic
aveva invitato degli ospiti ed era molto agitato: il
capo della nobiltà locale, che aveva dato la sua pa
rola d’esser presente, sarebbe veramente venuto?
D ’allegria e d’incoscienza era agitato anche il non
no. Il capo della nobiltà giunse e il pranzo riuscì
a meraviglia. Ci fu gran rumore e allegria, e il
nonno era il più allegro di tutti. L’indomani mat
tina 2 ottobre, lo trovarono morto sul pavimento del
salotto.
Ritirandosi dal servizio Pietro Petròvic non aveva
nascosto che si sacrificava allo scopo di salvare l’o
nore dei Chrušcev, il nido natale e la natale fat
toria. Egli non aveva nascosto che l’amministrazione
aveva dovuto prenderla nelle sue mani « a malin
cuore ». Avrebbe dovuto anche stringere relazioni
V A LSE C C A 323
per scambi d’idee coi più istruiti ed attivi nobili del
distretto, e in quanto agli altri, limitarsi a non rom
pere i rapporti. E da principio compiè tutto questo
con precisione, visitò anche tutti i più piccoli pro
prietari, perfino la fattoria della zia, Olga Kirillov
na, una vecchia mostruosamente grassa, che soffriva
della malattia del sonno e che si ripuliva i denti col
tabacco da fiuto.
All’autunno nessuno si meravigliò nel vedere che
Pietro Petròvic amministrava la proprietà secondo il
suo solo volere. Ed ora egli non aveva più l’aspetto
del bell’ufficiale in congedo, ma d’un padrone, d’un
giovane proprietario. Se si turbava, il viso non gli
si copriva più d ’un cupo rossore, come prima. Egli
si vezzeggiava, era divenuto pienotto, portava delle
costose vesti da camera, calzava con amore i suoi
piccoli piedi con delle rosse pantofole alla tartara,
ed ornava le sue piccole mani d’anelli con un tur
chese. I suoi begli occhi, con meraviglia di tutti,
si rivelarono non neri, ma castani, come s’addice ad
una pelle bruna. Arcadio Petròvic, chissà perché, era
imbarazzato a guardare in quegli occhi, non sapeva
che dire, cedeva subito in tutto a Pietro Petròvic
e si dedicava esclusivamente alla caccia.
All’Intercessione Pietro Petròvic volle incantare
tutti fino all’ultimo con la sua cordialità e far ve
dere che egli era davvero in quella casa il perso
naggio di maggior riguardo. Ma il nonno si mo
strò terribilmente ficcanaso. Il nonno era beatamen
te felice, ma senza tatto, chiacchierone e compassio
nevole, con un berretto di velluto dove teneva cucita
una reliquia, e con un largo casacchino azzurro non
324 V A LSE C C A
fatto a suo dosso, tagliato da un sarto domestico.
Anche lui si figurò d ’essere un cordiale padrone e
si dette da fare fin da prima mattina, rendendo una
ridicola cerimonia il ricevimento degli invitati. Uno
dei battenti delle porte dall’anticamera in sala da
pranzo restava sempre chiuso. Egli in persona rimos
se le sbarre di ferro in alto e in basso, vi mise sotto
una sedia e vi s’arrampicò sopra tutto tremante;
spalancata la porta, stette fermo sulla soglia, e ap
profittando del silenzio di Pietro Petròvic, che si
sentiva morire dalla vergogna e dal rancore, ma che
era risoluto a sopportar tutto, non si mosse di lì
fino all’arrivo dell’ultimo invitato. Egli non levò mai
gli occhi dalla scalinata, e anche le porte che davan
sulla scalinata bisognò aprirle, come se anche que
sto lo richiedesse chissà quale antico costume; bat
teva i piedi dall’agitazione, e quando scorgeva qual
cuno che entrava, gli si slanciava incontro, faceva
in fretta e furia un passo di danza, poi saltava in
dietro, urtando insieme le gambe, s’inchinava pro
fondamente, e con la strozza alla gola diceva a tutti,
anche a chi non conosceva:
— Oh, come sono contento! come sono contento!
È tanto tempo che non m’avete fatto l’onore... Vi
supplico di farmi la grazia d’entrare... la grazia d’en
trare!
Pietro Petròvic s’infuriava anche per il fatto che
il nonno, chissà perché, raccontava a tutti e a cia
scuno della partenza di Tonia per Lùnjevo, da Olga
Kirillovna. « Tonia è ammalata di umor malinco
nico, se n’è andata dalla zietta per tutto l’autunno. »
Che potevan pensare gl’invitati in seguito a queste
V A LSE C C A 325
dichiarazioni non chieste? C’era da immaginarsi di
certo che ormai fosse nota a tutti la storia dell’a
more per Vojtkjèvic. Vojtkjèvic poteva darsi che
avesse avuto davvero delle serie intenzioni quando
sospirava così enigmaticamente accanto a Tonia, quan
do suonava con lei a quattro mani, quando le leg
geva con voce sorda Lu d m illa 1, o le diceva immerso
in una cupa meditazione: «T i sei promessa a un mor
to — con sacro giuramento... ». Ma Tonia s’infiam
mava furiosamente ad ogni tentativo di lui, anche il
più innocente, di dare espressione ai suoi sentimenti,
per esempio di porgerle un fiore, e Vojtkjèvic partì
improvvisamente. Quando fu partito, Tonia comin
ciò a non dormire più la notte, a restar seduta nel
buio accanto alla finestra spalancata, come per aspet
tare un momento noto a lei sola per scoppiare in
sonori singhiozzi, e risvegliare Pietro Petròvic. Egli
giaceva a lungo, coi denti stretti, ascoltando i sin
ghiozzi e il tenue e sonnolento fruscio dei pioppi
al di là delle finestre nel buio gardino, fruscio che
somigliava a una pioggerellina incessante. Poi an
dava a calmarla. Venivano a calmarla anche le serve
assonnate, e talora accorreva, allarmato, anche il non
no. Allora Tonia si metteva a battere i piedi e a
gridare: «Levatevi di torno, miei nemici m ortali!»
e la cosa finiva con scandalose ingiurie, e ci correva
poco a una rissa.
— Ma capisci, capisci! — sussurrava con ira Pie
tro Petròvic, dopo aver cacciato fuori le serve ed il
nonno, e sbattuto la porta che teneva stretta per la
1. Ruslano e Ludm illa, il primo poema di Pùskin.
326 V A LSE C C A
maniglia. — Ma non capisci, serpente, quello che
si può figurare la gente!
— Ah! — gemeva Tonia fuori di sé — babbino,
egli urla che io sono incinta!
E cacciandosi l'unghie tra i capelli, Pietro Petròvic
si lanciava fuori di stanza.
Anche alla festa dell’Intercessione ebbe voglia più
di una volta di cacciarsi l’unghie tra i capelli. E lo
preoccupava anche Gervasio: e se lui rispondesse
con impertinenza a una sua qualunque parola im
prudente?
Gervasio era cresciuto da far paura. Enorme e de
forme, ma il più notevole e intelligente dei servi,
era vestito anche lui d ’un casacchino azzurro, di cal
zoni dello stesso colore e di molli scarpe di capretto
senza tacco. Un fazzoletto lilla, di pelo, avvolgeva
il suo collo sottile e morato. I suoi neri, asciutti e
grossi capelli li pettinava con una scriminatura obli
qua, e non volendoseli far radere alla polacca, se
l’era fatti tagliare a chierica sulla nuca. Barba da
radere non ne aveva punta, meno che due o tre
radi e nudi ciuffi che gli nereggiavan sul mento e
ai lati della larga bocca, di cui si diceva : « chi ha
bocca fino all’orecchio — sembra un vecchio ». Lun
go di vita, con uno spazioso, anche se piatto ed
ossuto, torace, con una testa minuscola e con pro
fonde occhiaie, labbra fini d’un blu cenerognolo e
grossi denti azzurrastri, questo antico ariano, questo
Parsi di Vaisecca, aveva già avuto il suo sopran
nome: «lev r ier o». Guardando la sua chiostra di
denti, ascoltando i suoi colpi di tosse, molti pen
savano: “levriero, tu creperai presto!”. Ma ad alta
V A LSEC C A 327
voce, unico esempio tra gli altri servi, questo sbar
batello lo chiamavano Gervasio Afanàsjevic
Lo temevano anche i padroni. Nel temperamento
dei padroni c’era la stessa legge che in quello dei
servi : comandare o temere. La temeraria risposta
che aveva dato al nonno il giorno dell’arrivo di
Pietro Petròvic, con gran meraviglia della servitù,
non ebbe alcun seguito per Gervasio. Arcadio Pe
tròvic gli aveva detto brevemente: «T u sei una
bestia, te lo dico sul serio, fratello » ma ne aveva
ricevuto una risposta altrettanto breve: « Io non
lo posso patire, signor mio! ». In quanto a Pietro
Petròvic, Gervasio in persona si recò da lui: si fer
mò sulla soglia, e secondo il suo costume, piantato
con disinvoltura sulle sue gambe smisuratamente lun
ghe rispetto al tronco, coperte dai suoi larghissimi
calzoni, e col ginocchio sinistro spinto in avanti,
chiese d’esser frustato.
— Io sono troppo rozzo e furioso, signore —
egli disse con indifferenza, ammiccando coi suoi oc
chietti neri.
E Pietro Petròvic, sentendo nella parola « furio
so » un'allusione, si spaventò.
— Ci arriveremo sicuro, colombino! — gli gridò
con finta severità. — Esci fuori! Insolente, io non
ti posso vedere!
Gervasio stette un po’ in attesa, in silenzio. Poi
disse :
— Ciò dipende dalla vostra volontà.1
1. Col nome e col patronimico, come si usa coi pari, non
con i servi.
328 V A LSE C C A
Attese ancora un pochino, attorcigliandosi i peli
duri del labbro superiore, mostrò come un cane le
sue azzurrastre gengive, senza dar segno in viso di
nessun sentimento, ed uscì. D ’allora in poi egli si
confermò saldamente nel vantaggio di questo modo
di fare, non dar segno di nulla nel viso ed essere
il più che possibile tagliente nelle risposte. E Pietro
Petròvic non soltanto finì con evitare d’attaccar di
scorso con lui, ma perfino di guardarlo negli occhi.
Anche all’Intercessione Gervasio si comportò con
la stessa enigmaticità e indifferenza. Tutti si fecero
in quattro per i preparativi della festa, dando e ri
cevendo disposizioni, rimproverando e disputando,
lavando il pavimento e ripulendo con della creta
azzurrastra lo scuro e pesante argento delle icone,
tirando calci ai cani che entravano nell’anticamera,
prendendo paura che la gelatina non si ghiacciasse,
che non bastassero le forchette, che fossero stracotti
i budini e i pasticci; soltanto Gervasio rideva tran
quillamente e diceva a Casimiro, il cuoco ubriacone,
che s’arrabbiava: «P iù adagio, padre diacono, che
ti si scuce la tonaca! ».
— Guarda di non bere troppo — disse distrat
tamente, in agitazione per il capo della nobiltà, Pie
tro Petròvic a Gervasio.
— Non ho bevuto da quando son nato — gli
replicò Gervasio come a un suo pari. — Non mi
an teressa 1 per nulla.
E più tardi, in presenza degl’invitati, anche Pietro1
1. Storpiatura del parlare di Gervasio, e in genere, dei conta-
dini russi.
V A LSE C C A 329
Petròvic si mise a prenderlo per le buone e gridava
per tutta la casa:
— Gervasio Afanàsjevic! Non filar via, te ne pre
go. Senza te siam come senza mani.
E Gervasio rispondeva con la massima cortesia e
dignità :
— Signore, non vogliate inquietarvi. Non avrò
l’ardire d’uscire.
E servì come mai aveva servito. Egli giustificava
pienamente le parole che Pietro Petròvic diceva ad
alta voce agl’invitati :
— Fino a che punto osa giungere questo spi
lungone, voi non ve lo potrete mai figurare. Ma
però è uno che sa davvero il fatto suo! Mani d’oro!
Si sarebbe potuto immaginare che proprio queste
sue parole fossero la gocciola che fa traboccare il
vaso? Il nonno aveva inteso quelle parole. Egli pre
se a spelacchiarsi il davanti del casacchino, e ad un
tratto, da un capo all’altro della tavola, cominciò
a gridare al primo rappresentante della nobiltà:
— Vostra Eccellenza! Datemi una mano in aiuto!
Io mi rivolgo a voi come a un padre, con una que
rela contro il mio servo! Contro costui, contro co
stui, Gervasio Afanàsjevic Kulikòv! Egli m’umilia
ad ogni passo. Lui...
Lo interruppero, lo convinsero, lo placarono. Il
nonno era agitato fino alle lacrime, ma si misero
a calmarlo con tanto affetto e con tanto rispetto,
scherzoso, naturalmente, ch’egli cedé e si sentì di
nuovo contento come un ragazzo. Gervasio stava ran
nuvolato addosso al muro, con gli occhi bassi e la
testa leggermente piegata. Il nonno vedeva che la
330 V A LSEC C A
testa di quel gigante era piccola oltremisura, e che
lo sarebbe stata ancor più se se la fosse fatta rasare,
che aveva l’occipite sporgente, e che proprio là sul
l ’occipite aveva molti capelli, grossi, neri, rozzamen
te tagliati e formanti una protuberanza sopra il collo
sottile. Il viso di Gervasio, abbronzato dall’alidore
e dal vento della caccia, era coperto di macchie pal
lide, violacee. E il nonno con paura ed angoscia
spiava ogni tanto Gervasio, ma nondimeno gridava
con allegria ai convitati :
— Bene, io gli perdono! Ma in compenso io non
vi lascerò andare, ospiti cari, per tre giorni interi.
Per nulla al mondo vi lascerò andare! E soprattutto
vi prego di non partire di sera. Come si sta male
di sera! Allora io non son più padrone di me: che
angoscia, che pena! Salgono in cielo le nuvole, e
nel bosco di Tròscin, a quel che si dice, hanno ac
chiappato ancora una volta due francesi di Bona
parte... Io senza dubbio morrò di sera, ricordatevi
di quel che vi dico! Me l’ha predetto Martin Za -
déka...
Invece mori di prima mattina.
Egli aveva tanto insistito, che « per amor suo »
molta gente si trattenne a pernottare; si bevve tè
per tutta la sera, e c’era un’enorme quantità di dolci
d’ogni specie, cosicché bisognò assaggiarli tutti, e
ritornare ad assaggiarne ancora; più tardi si misero
su i tavolini da giuoco, s’accesero tante candele stea
riche che si riflessero in tutti gli specchi e in tutte
le stanze, piene del fumo profumato d’un tabacco
di lusso, di chiacchiericci e di chiasso, e c’era uno
splendore dorato che pareva d’essere in chiesa. Ma
V A LSE C C A 331
quel che importava era che molti eran restati a dor
mire. E ciò voleva dire che s’aveva innanzi non
soltanto un nuovo giorno di gioia, ma anche altre
cure e fatiche: certo che se non ci fossero stati lui
e Pietro Petròvic, la festa non sarebbe mai riuscita
con tanta distinzione, non avrebbe mai avuto luogo
un pranzo così animato e fastoso!
“Sì, sì,” pieno d’agitazione pensò il nonno la not
te, dopo essersi levato di dosso il casacchino e stan
do ritto in camera dinanzi all’altarino, dinanzi alle
candele di cera che v’erano accese, e guardando la
cupa effigie di Mercurio. “Sì, sì, è tremenda la mor
te del peccatore... Signore, che il sole non tramonti
durante la vostra ira!”
Ma qui si ricordò che aveva voluto pensare anche
a qualche cos’altro: curvo e sussurrando il cinquan
tesimo salmo, egli camminò in su e in giù per la
camera, raddrizzò una pastiglia da bruciare che ar
deva sul comodino, prese in mano il Salterio e, aper
tolo, rialzò gli occhi con un profondo sospiro di
contentezza, all’immagine del santo decapitato. E ad
un tratto riacchiappò l’idea a cui voleva pensare, e
brillò d ’un sorriso:
“Sì, sì, il vecchio c’è, e l’ucciderebbe; il vecchio
non c’è, e lo comprerebbe!”.
Timoroso di dormir troppo e di non poter dare
le sue disposizioni, egli non dormì quasi punto. E
di prima mattina, quando nelle stanze non ancora
riordinate e impregnate di tabacco regnava quel si
lenzio singolare che vien soltanto dopo una festa,
entrò in salotto con circospezione, a piedi nudi e
raccattò qualcuno dei gessetti ammucchiati presso
332 V A LSEC C A
gli aperti tavoli verdi, e uscì in un debole «a h !»
d ’entusiasmo guardando in giardino al di là delle
porte vetrate; si vedeva il chiaro splendore del ge
lido azzurro, l’argento della brina che ricopriva per
fino la terrazza, le balaustrate e il fogliame bruno
come cannella delle macchie spogliate sotto la ter
razza, e il tetto lontano del bagno al confine del
frutteto, tra i pioppi ancora fronzuti. Egli aprì la
porta e tirò in su per fiutare: veniva ancora un
odore amaro e spiritoso dai cespugli, come per un’ac
quata d’autunno, ma il profumo si disperdeva nella
frescura invernale. E tutto era immobile, pacato, qua
si maestoso. Il sole, che s’intravedeva a malapena
dietro il villaggio, illuminava le vette del pittoresco
viale, delle seminude betulle, cosparse d’un oro rado
e sottile, bianche di tronco; e c’era una sfumatura
incantevole, gaia, d’un lilla inafferrabile in quelle
bianche vette dorate, che traforavan l’azzurro. Un
cane passò a corsa per l’ombra fredda della terraz
za, facendo stridere l’erba bruciata dal gelo e come
sparsa di sale. Era un rumore che faceva venire a
mente l’inverno, e tirando indietro con contentezza
le spalle, il nonno fece ritorno in salotto, e tratte
nendo il respiro si mise a muovere e a disporre la
pesante mobilia che muggiva sul pavimento, dando
di tanto in tanto un’occhiata allo specchio dove si
rifletteva il cielo azzurro. Ad un tratto, svelto e sen
za rumore, entrò Gervasio senza casacchino, asson
nato, « con un diavolo per capello » com’egli stesso
ebbe a raccontare più tardi.
Egli entrò e urlò brutalmente, con voce stroz
zata:
V A LSE C C A 333
— Ferma tu! perché ficchi il naso in ciò che non
ti riguarda?
Il nonno sollevò il volto esaltato, e con quella
mitezza che non lo lasciava da tutto il giorno avanti
e tutta la notte, rispose a bassa voce anche lui:
— Guarda un po’, che uomo sei tu, Gervasio!
Io ieri ti perdonai, e tu, invece d’esser riconoscente
verso il tuo padrone...
— Tu m’hai seccato, vecchio bavoso, più che la
cattiva stagione! — lo interruppe Gervasio. — Fam
mi passare.
Il nonno guardò con paura l ’occipite di lui, spor
gente ancor più del solito sopra il collo sottile, che
veniva fuori dal colletto della camicia bianca; ma
poi prese fuoco, e sbarrò con la sua persona la
tavola da giuoco, che aveva intenzione di strascicare
in un cantuccio.
— Tu, lasciami passare! — dopo aver pensato un
momento, egli gridò non troppo forte. — Sei tu che
devi cedere il passo al tuo padrone. Tu mi porterai
agli estremi, ed io ti pianterò un pugnale nel fianco!
— Ah! — disse Gervasio infuriato e mostrando
i suoi denti lucenti, e lo colpì di rovescio nel petto.
Il ripiano della tavola era smontato, ed essa era
aperta per metà. Il nonno sdrucciolò sul liscio pa
vimento di quercia, agitò le mani e batté proprio
con una tempia contro lo spigolo aguzzo.
Alla vista del sangue, degli occhi follemente sgra
nati e della bocca spalancata, Gervasio, senza saper
neppur lui quel che facesse, strappò via dal collo
ancora caldo del nonno il medaglione d’oro e la
334 V A LSEC C A
borsetta appesa a un nastro consunto... Poi, svelto
e senza rumore, uscì dal salotto e scomparve come
un sasso nell’acqua.
L’unica persona di tutta Vaisecca che lo rivide in
seguito, fu Natalia.
VII
Durante il suo soggiorno a Soški, si produssero
a Vaisecca altri due avvenimenti importanti : Pietro
Petròvic si sposò e poi i due fratelli partirono vo
lontari per la campagna di Crimea 1.
Natalia ritornò dopo quasi due anni: s’eran scor
dati di lei. E tornando, essa non riconobbe Vaisecca,
come Vaisecca non riconobbe lei.
Quella sera d ’estate in cui la carretta inviata dal
cortile padronale cigolò dinanzi alla capanna della
fattoria, e Natalia balzò sulla soglia, fu Eusebio il
Cornuto che le gridò stupefatto:
— Sei proprio tu, Natalia?
— E chi, se non io? — rispose Natalia con un
sorriso a malapena visibile.
Ma Eusebio dondolò la testa:
— Non ti sei certo fatta più bella!
Invece non era divenuta che diversa dalla vecchia
Natalia: dalla ragazza rasata, col viso tondo e dagli
occhi chiari, ella s’era trasformata in una giovane
1. 18 S3 .
336 V A LSEC C A
donna non troppo alta, ma proporzionata, magrina
ma non malazzata, discreta nelle domande e nelle
risposte. Essa andava scalza ed era vestita d ’una vec
chia sottana e d ’una camicia ricamata, se pur coper
ta d ’un fazzoletto scuro come si porta qui da noi,
un poco abbronzata dall’afa e con la pelle macchiata
di sottili lentiggini di fior di miglio. Ma per Eu
sebio, autentico figlio di Vaisecca, il fazzoletto scuro,
il color bronzino e le lentiggini non avevan certo
nulla di bello. Ed essa stessa credeva che tutto que
sto non avesse nulla di bello. Nondimeno ognuno
avrebbe potuto notare, dal fine sorriso con cui aveva
detto: «e chi, se non i o ?» che era superba de’
suoi mutamenti e pareva soddisfatta di non essere
bella.
In viaggio verso Vaisecca, Eusebio le disse:
— Eccoti dunque, ragazza mia, in età di prender
marito. Tu n ’hai voglia, di prender marito?
Essa si limitò a scuoter la testa:
— No, zio Eusebio, io non prenderò mai ma
rito.
— O bella: e per che gusto? — domandò Eu
sebio levandosi persino la pipa di bocca.
Senza fretta, mezzo per chiasso e mezzo sul serio,
essa gli spiegò: non a tutte è dato di prender ma
rito; lei l’avrebbero certamente destinata alla signo
rina, e la signorina aveva fatto voto della sua ver
ginità a Dio, e naturalmente non l’avrebbe fatta
sposare; e poi essa aveva avuto più volte dei sogni
abbastanza espliciti...
— Che cosa hai sognato? — domandò Eusebio.
— Così, niente di straordinario. Quel giorno Ger-
V A LSEC C A 337
vasio mi aveva fatto una paura da morire, m ’aveva
raccontato le novità, ed io ci avevo riflettuto un po’
troppo... Ed ecco che ebbi un sogno.
— Ma è proprio vero che ha fatto colazione da
voi, Gervasio in persona?
Natalia ci pensò un po’ su.
— Proprio così. Venne e disse: «V en go da voi,
da parte dei padroni, per un grosso affare, ma pri
ma di tutto datemi da mangiare ». Gli si apparec
chiò, come a un viaggiatore. Ed egli mangiò quanto
volle, uscì dalla capanna e mi strizzò l’occhio. Io
corsi fuori, ed egli dietro alla cantonata mi raccon
tò tutto per filo e per segno, e poi se n’andò via pei
fatti suoi...
— E perché tu non hai chiamato la gente di casa?
— Fu così. Egli minacciò d’ammazzarmi. M ’ordi
nò di non dir nulla fino a pranzo. A loro aveva
detto: « Vo a dormire sotto la tettoia...».
A Vaisecca tutti i suoi la guardarono con grande
curiosità. Le sue compagne e coetanee la pressavano
di domande come si fa tra ragazze. Ma alle com
pagne essa rispondeva sempre con la stessa veridi
cità, e come compiacendosi d ’una parte che s’era
scelta da sé.
— Si stava bene — essa ripeteva.
E una volta disse, col tono d’una donna di Dio:
— Dio è tanto ricco di tutto. Si stava bene.
E con semplicità, senza indugi, essa rientrò in
quella vita quotidiana, lavorativa, quasi senza affat
to meravigliarsi che non c’era più il nonno, che i
giovani signori se n’erano andati di buon cuore vo
lontari alla guerra, che la signorina era tocca e gi
13.
338 V A LSE C C A
rellava per tutte le stanze, ad imitazione del nonno,
che su Vaisecca comandava una nuova padrona, estra
nea a tutti, piccola, pingue, molto vivace, più prov
vida, un’ex collegiale di Mosca, già governante dei
signori Cerkizòv, che ora chiamava Pietro Petròvic
con un bravo « Pieruccio ».
La signora gridò a un tratto durante il pranzo:
— Fate venire qui quella... come si chiama?...
Natalia.
E Natalia entrò svelta e senza rumore, si segnò,
s’inchinò verso il cantuccio dove stavan le immagini,
poi alla signora e alla signorina, e stette ferma, in
attesa di domande e di ordini. Naturalmente l’inter
rogò soltanto la signora. La signorina, molto cre
sciuta, dimagrita, col naso affilato, la guardava coi
suoi occhi inverosimilmente neri e fissamente ottusi,
senza dir verbo. La signora decise che lei restasse
a disposizione della signorina. Natalia s’inchinò e
rispose semplicemente:
— Obbedisco.
La signorina, che guardava tutto con la stessa at
tenta indifferenza, la sera si gettò improvvisamente
su lei, e torcendo furiosamente gli occhi, con ferocia
e con intenzione si mise a strapparle i capelli, per
ché le aveva tolto maldestramente una calza. N a
talia scoppiò a piangere come una bambina, ma poi
si chetò: e rientrata nella stanza delle cameriere,
mentre seduta su uno sgabello esaminava le ciocche
strappate, sorrise perfino, attraverso le lacrime che
le pendevan dalle ciglia.
— Oh, che cattiva! — essa disse. — Starò male
con lei.
V A LSE C C A 339
Il mattino dopo, appena svegliata, la signorina
rimase ancora a lungo a letto, e Natalia restò in
piedi sulla soglia con la testa bassa, occhieggiando
alla sfuggita quel pallido viso.
— Che cosa hai visto in sogno? — le domandò
la signorina con una voce tanto indifferente che pa
reva che fosse un altro a parlare dietro di lei.
Essa rispose:
— Nulla, se debbo dire.
E allora la signorina, non meno bruscamente del
giorno prima, saltò dal letto, le scagliò addosso con
ira una tazza di tè: poi ricascando nel letto si mise
a singhiozzare amaramente, con grida. Natalia schivò
la tazza, e in breve tempo apprese a schivare con
straordinaria destrezza. Pare che alle sciocche came
riere che alla domanda sui loro sogni rispondevano:
« Non ho visto nulla » talora la signorina gridasse :
« Allora inventa qualcosa! ». Ma siccome Natalia non
era maestra in bugie, così dovè sviluppare in sé
un’altra abilità: quella di schivare i colpi.
Infine chiamarono un medico per la signorina.
Il medico riconobbe un’« epatalgia polmonare » e
prescrisse molte pillole, molte « gocciole nere ». Per
la paura d ’essere avvelenata, la signorina obbligava
Natalia ad assaggiare per prima queste pillole e
gocciole, ed essa le assaggiò tutte, una dopo l’altra,
senza rifiatare. Poco dopo il suo arrivo ella venne
a sapere che la signorina l’aveva aspettata « come
la bianca luce » : era stata la signorina a ricordarsi
di lei, a star sempre a guardare se venisse nessuno
da Soški, a confidare a tutti con calore che sarebbe
completamente guarita, che si sarebbe liberata da
340 V A LSE C C A
ogni male e da ogni melanconia appena fosse tor
nata Natalia. Natalia tornò e fu accolta con la più
completa indifferenza. Ma non eran per caso le la
crime della signorina l’effetto d ’un amaro disingan
no? Non era forse una crudele trovata quella di
obbligarla ad assaggiare le medicine per un’altrui
brama furiosa di guarigione? Il cuore di Natalia
sussultò quando s’immaginò tutto ciò. Essa uscì nel
l'andito, si mise a sedere su una cassapanca e rico
minciò a piangere. Piangeva adagio adagio, con in
sistenza, inebriandosi delle sue lacrime, e guardava
fissamente traverso alle lacrime, sempre in un pun
to, imitando le contadine, e le tornava in mente lo
specchio, la sua partenza per Soški, tutta la sua esi
stenza laggiù: poi di nuovo storceva il viso come
un bambino e riprendeva a lamentarsi adagio adagio.
— Sicché, ora stai meglio? — le domandò la
signorina quand’essa rientrò con gli occhi gonfi.
— Meglio sì — rispose Natalia con un fil di voce,
benché a causa delle medicine le si gelasse il cuore
e la testa le girasse: poi giuntale accanto, baciò ar
dentemente la mano della signorina.
E in seguito ancora a lungo essa camminava con
le palpebre basse, paurosa d ’alzarle dinanzi alla si
gnorina, intenerita di compassione per lei e per la
propria solitudine.
— Oh, brutta ucraina zittona! — le gridò una
volta una delle sue compagne di servizio, Sološka,
che con più insistenza di tutte aveva tentato di di
ventar la confidente di ogni suo sentimento e se
greto, ma che s’era continuamente rotta la testa con
V A LSEC C A 341
tro le sue brevi e semplici risposte, schivanti ogni
possibile incanto di giovanile amicizia.
Natalia sorrise tristemente:
— Perché no? — disse con aria riflessiva. — È
la verità. Dimmi con chi ce l’hai e ti dirò chi sei.
E poi talora io non rimpiango tanto padre e madre
quanto i miei Ucraini di lassù...
Ma essa non diceva la verità. Essa non poteva
dimenticare Soški e ne avrebbe raccontate molte cose
con entusiasmo, se non ci fosse stata la parte che
s’era assunta di recitare. Ma essa non aveva mai
considerato gli Ucraini come padre e madre.
A Soški dapprima essa non aveva scoperto nes
sun significato in quella novità di cose che la cir
condava. V ’eran giunti verso mattina, e quello che
le parve strano quella mattina fu che la capanna
fosse molto lunga e bianca, e che fosse visibile an
che a grande distanza perché al centro delle pianure
circostanti; che un'ucraina che accendesse la stufa,
la salutasse ospitalmente, e che suo marito non por
gesse ascolto ad Eusebio. Eusebio chiacchierò senza
fermarsi mai: dei signori e di Damiano, del caldo
durante il viaggio, di ciò che aveva mangiato in cit
tà, di Pietro Petròvic e, si capisce, anche dello spec
chio: ma l’ucraino Sciàryj, o il Tasso, come lo chia
mavano a Vaisecca, non faceva che scuoter la testa,
finché a un tratto, quando Eusebio si chetò, lo guar
dò distrattamente, e mugolò, in un modo molto buf
fo, col naso: « Gira e volta, vortice!... ». Poi Natalia
cominciò adagio adagio a rinvenire e ad ammirare
Soški, a trovarvi un incanto sempre più grande e
una strana diversità con Vaisecca. L’unica capanna
342 V A LSEC C A
all’ucraina era bella per questo: il suo biancore e il
suo tetto ben proporzionato, uniforme, tutto fatto
di canne! Come ricco le parve l’ammobiliamento in
terno di questa capanna in confronto alla sudicia mi
seria delle capannucce di Vaisecca! Che preziose im
magini di foglia di metallo v’eran appese nell’angolo,
che stupende ghirlande di carta le incorniciavano, co-
m ’eran ben ricamati i tovaglioli distesivi sopra! E la
tovaglia a fiorami sulla tavola! E le file delle mar
mitte blu scure e delle brocche sull’asse accanto alla
stufa!... Ma, fra tutte le robe, i più straordinari era
no i padroni di casa.
In che cosa fossero straordinari essa non lo capiva
affatto, ma lo sentiva continuamente. Fino allora essa
non aveva mai visto dei contadini così puliti, paci
fici, proporzionati e abili come lo Sciàryj. Egli era
basso, con la testa a punta, capigliatura ben tagliata
e come d’argento massiccio, i baffi —portava soltanto
i baffi - pure d ’argento, sottili, alla tartara, volto e
collo anneriti dal sole, e pieni di rughe profonde,
ma anch’essi proporzionati, precisi, come aventi una
loro necessità. Egli camminava male —i suoi stivali
eran pesi - s’accomodava dentro gli stivali i calzoni
di rozza tela bianca, e nei pantaloni, un’eguale ca
micia, larga sotto le ascelle, col colletto rovesciato.
Camminando, si piegava un pochino. Ma né questo
modo di camminare, né le rughe, né la canizie bave-
vano invecchiato: nel suo volto non si vedeva né la
nostra stanchezza né la nostra flaccidia, i suoi piccoli
occhi avevano uno sguardo acuto, finemente ironico.
Egli ricordava a Natalia un vecchio Serbo, che un
giorno, provenendo da chissà dove, era passato da
V A LSE C C A 343
Vaisecca con un ragazzo che suonava il violino.
Maria l’Ucraina quelli di Vaisecca l ’avevano so
prannominata « la Lancia ». Quell’alta donna cin
quantenne era ancora ben fatta. Un ’abbronzatura gial
lastra copriva egualmente la pelle liscia, così diversa
da quelli di Vaisecca, del suo viso un po’ rosso, ma
fatto quasi bello dalla sincerità e dalla severa vi
vezza degli occhi, né d ’agata né d ’ambra grigia, ma
cangianti come quelli d’un gatto. Ella teneva sul capo,
quasi come un alto turbante, un gran fazzoletto gial
lo-nero a pallini rossi; una nera e corta sottana, che
faceva rilevare fortemente la bianchezza della cami
cia, rinserrava strettamente le sue forme allungate,
quasi virginali. Calzava direttamente i piedi scalzi
negli scarponi chiodati; le sue caviglie nude erano
fini ma tonde, e il sole le aveva fatte diventare come
un legno levigato, giallo-bruno. E quando per caso
cantava durante il lavoro, slargando le sopracciglia,
con una forte voce di petto, la canzone su Pociajòv
assediata dagli infedeli, come la Madonna
al crepuscolo serale
stava già su Pociajòv,
e come la Madre di Dio in persona « guerreggiò »
per il santo monastero, nella sua voce c’era tanto
sconforto e tanta lamentazione e come qualcosa di
chiesastico, ma insieme con questo anche tanta mae
stà, tanta forza e tanta minaccia, che Natalia, in uno
stato di penosa esaltazione, non poteva levarle gli
occhi di dosso.
Gli Ucraini non avevan figli; Natalia era orfana.
E se fosse vissuta presso quelli di Vaisecca, ora
344 VALSECCA
l'avrebbero chiamata figlia adottiva ed ora ladra, ora
n ’avrebbero avuto pietà ed ora le avrebbero cavato
gli occhi. Gli Ucraini invece eran quasi freddi, ma
sempre eguali nei rapporti con gli altri, punto chiac
chieroni né curiosi. D ’autunno per la falciatura e la
battitura del grano facevan venire delle donne e del
le ragazze di Kalùga, e a causa delle loro pezzuole
variopinte le chiamavano « le imbacuccate ». Allora
la fattoria diventava rumorosa e c’era un chiacchie
riccio continuo. Ma Natalia evitava la compagnia del
le « imbacuccate »; esse passavano per dissolute e ap
pestate: eran pettorute, svergognate e insolenti, si
divertivano a scambiarsi ingiurie oscene, ammucchia
vano strani dettati, inforcavano i cavalli a mo’ di ma
schi e galoppavano come indemoniate. Il suo dolore
si sarebbe potuto dissipare nell’esistenza ordinaria,
in confessioni, in lacrime e in canti. Ma le sue can
zoni andavan poco d ’accordo con quelle degli altri.
Le « imbacuccate » intonavano con le loro rozze vo
ci, e accompagnavano stonate e stridule, con singhioz
zi e fischi. Invece Maria in tutte le sue canzoni,
anche in quelle d ’amore, era fiera e solenne, pen
sosamente tetra:
Frusciano in fondo al prato
Gli alberi ch’io piantai.
essa cantava con mestizia prolungata, e aggiungeva,
abbassando la voce, con sconsolata fermezza:
ma non c’è più colui
che un tempo amai...1
1. I frammenti di canzone citati finora, son riportati da
Bùnin in lingua ucraina (piccolo-russo).
V A LSE C C A 345
Ma che poteva sapere Natalia? che cosa era ri
masto a Vaisecca dell’antica canzone slava, là dege
nerata e svanita? Soltanto dei lamenti contro il de
stino, contro padre e madre che
... La voglion dare contro il suo volere
a un uomo che non ama,
alle cognate e ai suoceri cattivi...
oppure dei rimproveri a chi La sedusse e La lasciò:
Non fu ieri innanzi a tutti
ch’egli mi chiamava sua?
E nell’isolamento, in quell’angolo sperduto, essa
si bevve il primo veleno dolce amaro dell’amore non
ricambiato, patì in sé tutta la sua vergogna e la sua
gelosia, visse tutti i sensibili e cari sogni che le ap
parivano la notte, le visioni impossibili e l’attesa che
l'illanguidiva nelle taciturne giornate della steppa.
Spesso al senso cocente dell’offesa succedeva nel suo
cuore la tenerezza, e la passione e lo sconforto pren
devano il posto della rassegnazione, del suo desi
derio di vivere l’esistenza più modesta e inavvertita
accanto a lu i, e d’un amore occulto a tutti per sem
pre, che non le spettasse, né chiedesse nulla. Ma le
notizie, le novità che giungevano da Vaisecca, la ri
scuotevano. Per lungo tempo però non ci furono
notizie, non si ebbe nessuna sensazione della vita
quotidiana di Vaisecca, e Vaisecca cominciò a sem
brarle così bella e così desiderata, che le mancavan
le forze di resistere all’isolamento e al dolore... Ad
un tratto comparve Gervasio. Egli s’affrettò sgarba
tamente a riversarle tutte le novità di Vaisecca, rac-
346 V A LSE C C A
contò in una mezz’ora quello che un altro non avreb
be saputo raccontare in una giornata, senza tralasciare
neppure d’aver « picchiato » il nonno fino a farlo
morire, e poi le disse con fermezza:
— Suvvia, ed ora addio per sempre!
E bruciandola, tutta stordita, col fuoco dei suoi
piccoli occhi, le gridò mentre usciva in istrada:
— Ma sarebbe tempo di levarsi di testa la stu
pidaggine! Egli è sul punto di sposarsi, tu gli vuoi
bene ma non sta a te d’esser la sua amante... Fat
tene ragione!
Ed ella se ne fece ragione. Sopravvisse a quelle
terribili notizie, ritornò in sé, e si fece ragione.
Dopo ciò le giornate si susseguirono monotone
e noiose come quelle pellegrine che camminavano
camminavano sulla massicciata, e passavan dinanzi al
la fattoria e riposandosi un po’, attaccavan lunghe
conversazioni con lei, le insegnavano la pazienza e
la speranza in Domineddio, il cui nome pronunzia
vano sordamente, come in un gemito, e le insegna
vano soprattutto questa regola: non pensare.
— Pensa o non pensa, le cose non andranno mai
a modo nostro — dicevan le pellegrine riannodan
dosi le scarpe, corrugando i loro volti tormentati e
contemplando con lo sguardo affranto l’immensità
della steppa. — Domineddio è tanto ricco di tutto...
Ragazza mia, coglici una cipolla, senza farti vede
re...
Ma altre, come succede, le facevan paura coi pec
cati e con l’altro mondo, e le minacciavano disgra
zie e paure anche peggiori. E una volta fece quasi
di seguito due sogni terribili. Essa pensava continua
V A LSE C C A 347
mente a Vaisecca (dapprima le costava fatica non
pensarci), pensava alla signorina, al nonno, al suo
avvenire, cercava d ’indovinare se sarebbe andata spo
sa, e se ci fosse andata, allora con chi... E questi
pensieri un bel giorno si trasformarono così inav
vertitamente in un sogno, che essa vide con compiuta
nettezza l ’ora innanzi sera d’una giornata ardente,
impolverata e minacciosamente ventosa; essa correva
con le secchie allo stagno, e a un tratto scorse su una
scesa di creta secca un uomo nano, deforme, con una
gran testa, con le scarpe sfondate, senza cappello ma
con delle rosse trecce arruffate dal vento, vestito d’una
camicia rosso-fuoco, discinta e svolazzante. « Non
no? » essa gli aveva gridato pazza di terrore e d’an
goscia. «C h e c’è, un in cen dio?» «T r a poco tutto
andrà in fumo! » il nano le aveva risposto anche lui
con un grido, soffocato da una ventata ardente. « Vie
ne una nuvola mai vista! E tu lascia ogni pensiero
d’andare a marito!... » Ma l’altro sogno fu ancora più
tremendo: essa stava in piedi, verso mezzogiorno a
quel che pareva, in una capanna calda e deserta, te
nuta chiusa da qualcuno dal di fuori, ed essa veniva
meno, non sapeva più che sperare, ed ecco che salta
fuori di dietro alla stufa un enorme montone gri
gio, s’impenna e va così verso di lei, oscenamente
eccitato con gli occhi accesi come carboni, gioiosi, in
furiati e supplicanti. « Io sono il tuo fidanzato! » le
grida con voce umana, accorrendo verso di lei rapido
e goffo, scalpitando minutamente coi suoi piccoli zoc
coli posteriori, e con un salto si precipita sul suo pet
to con le zampe davanti...
Dopo tali sogni essa balzava sul suo letto nell’an-
348 V A LSEC C A
ticamera, e si sentiva quasi morire dal batticuore,
dalla paura del buio, e dal pensiero che non aveva
nessuno che la potesse soccorrere.
— Signore Gesù! — ruminava in fretta e furia:
— Madonnina Regina dei cieli! O santi di Dio!
Ma tutti i santi le apparivano bruni e decollati
come Mercurio, e il suo spavento cresceva.
Quando essa cominciò a riflettere sui sogni, allora
le venne in testa che i suoi anni di fanciulla eran
finiti, che il suo destino era fissato (non per nulla
le era stata destinata la sorte straordinaria d amare
il padrone!), che l'attendevano altre prove, che do
veva imitar le donne ucraine nella loro riservatezza
e le pellegrine nella loro modestia e semplicità. E
così come quelli di Vaisecca godon di recitare una
parte, convincon se stessi delbimmutabilità di quello
che deve accadere, sebbene sian loro stessi a inven
tare questa necessità, così anche Natalia si scelse da
sé la sua parte.
V ili
Le gambe le s'intorpidirono dalla gioia allorché,
balzando sulla soglia la vigilia del giorno di San Pie
tro e sentendo che il Cornuto era venuto per lei, essa
scorse la carretta polverosa e sconquassata di Vai
secca, e vide il berretto strappato sulla testa villosa
del Cornuto, la sua barba arruffata e scolorita dal
sole, il volto stanco e animato, invecchiato e sfigu
rato anzi tempo, inconcepibilmente meschino e spro
porzionato nei lineamenti; quando riconobbe il cane
di sua conoscenza, anch’esso villoso e non privo d’una
certa somiglianza non soltanto con il Cornuto, ma
con tutta Vaisecca: d ’un grigio sporco sul dorso, e
sul davanti col petto e il collo così pelosi, che pare
vano affumicati dalla nera fuliggin e d’una capanna
riscaldata. Ma il Cornuto dette segni di stupore, ed
essa riprese il dominio su sé, si sentì fiera e rientrò
nella sua parte. Il Cornuto chiacchierava di quello
che gli saltava in testa, e soprattutto della guerra;
ora pareva rallegrarsene ed ora desolarsene, e Nata
lia diceva con riflessione:
350 V A LSEC C A
— Si vede proprio che bisogna trucidarli, questi
francesi...
Tutta la lunga giornata di viaggio per Vaisecca
trascorse in una sensazione penosa: quella di guar
dare con occhi nuovi le cose vecchie e note, di far
rivivere, via via che s’avvicina al villaggio nativo, il
suo io primitivo, d’osservare i mutamenti e di rico
noscer la gente che rincontravan per via.
Alla svolta della strada maestra per Vaisecca, sui
maggesi invasi dalla sollècciola, galoppava un pu
ledro di tre anni; un monello, spingendosi con la
gamba nuda contro la redine di corda, si sforzava
d’inforcar l’altra sul dorso, ma il puledro resisteva,
fuggiva e lo scuoteva. E Natalia si commosse di
gioia riconoscendo nel monello Maso Pantjùchin.
S’imbatté con loro anche il centenario Nazareno, se
duto in una carretta vuota non a mo’ di contadino,
ma di comare - con le gambe distese quanto son lun
ghe - e con le spalle rialzate con gran fatica e ten
sione, e gli occhi senza colore, sconsolato, magro a
tal punto che « non c’era più nulla da mettere in
bara », a capo scoperto e con una lunga camicia al
l’antica, grigia di cenere, dal continuo giacer sulla
stufa. E il cuore le trasalì ancora una volta: le ven
ne in mente che tre anni addietro il pur tanto buono
e indolente Arcadio Petròvic voleva frustare questo
Nazareno perché l’avevan sorpreso nell’orto con una
radice di rapa in mano; e lo rivide piangente in
mezzo ai domestici che lo circondavano, più morto
che vivo dal terrore, mentre loro gridavan riden
do :
V A LSE C C A 351
— No, nonno, non ti sporcare: bisogna proprio
calarti le mutande! Non te la svignerai!
E che batticuore quando vide il prato, il filare del
le capanne e la villa: il frutteto, il tetto elevato della
casa, i muri posteriori delle abitazioni delle rimesse,
delle scuderie. Un giallo campo di segala, pieno di
giacinti, arrivava fin sotto a quei muri, alle gramigne
e all’erbacce; un vitello di chissà chi, bianco mac
chiato di scuro, s’immergeva fra mezzo alle avene,
e stava lì fermo, mordicchiando i racimoli. Ogni cosa
intorno a lei era serena, semplice e consueta; ma
tutto cominciò a farsi sempre più strano e preoccu
pante nella sua mente, che poi si turbò sino in fon
do, appena la carretta entrò rotolando velocemente
nel largo cortile, biancheggiante di levrieri addor
mentati come biancheggia di marmi un cimitero; e il
turbamento crebbe ancora quando, per la prima vol
ta dopo un soggiorno di due anni in una capanna,
essa entrò in una casa ventilata e che odorava in un
modo così noto di candele di cera, di fior di tiglio,
di dispensa, del cuoio della sella cosacca di Arcadio
Petròvic buttata su una panca dell’anticamera, e del
legno delle gabbie vuote appese alla finestra, do-
v’eran state le quaglie; e allora ella dette un’occhiata
timida a San Mercurio, che dall’appartamento del
nonno era stato riposto in un angolo dell’antica
mera...
Come già un tempo, la cupa sala era rischiarata
dal sole, che dal giardino veniva a riflettersi sulle
piccole finestre. Un pollastro, capitato chissà come
dentro casa, pigolava perdutamente, vagolando per
il salotto. Il fior di tiglio seccava e dava aroma sui
352 V A LSE C C A
davanzali riscaldati... Sembrava che tutte le vecchie
cose che la circondavano fossero ringiovanite, come
sempre succede nelle case dopo un decesso. In tutto,
in tutto, ma specialmente nel profumo dei fiori, essa
ritrovava una parte dell’anima propria, della sua in
fanzia, dell’adolescenza, del primo amore. Ed aveva
pietà di chi s’era fatto adulto, di chi era morto, di chi
s’era mutato, di se stessa, della signorina. I suoi coe
tanei e le sue coetanee s’eran già fatti grandi, un
gran numero di vecchi e di vecchie, le cui teste al
lora vacillavano di decrepitezza, e che stavano a con
templare dalle soglie delle abitazioni il mondo di
Dio, ora eran scomparsi per sempre da questo mon
do. Daria Ustìnovna era scomparsa. Pure il nonno
era scomparso, lui che aveva paura della morte co
me un bambino e che credeva che la morte si sareb
be impadronita di lui adagio, adagio, preparandolo
così all’ora terribile, e che invece era stato, così al
l’improvviso, come da un fulmine, falciato dalla sua
falce. E non si riusciva a credere ch’egli non fosse
più e che proprio lui imputridisse sotto un rialzo
tombale accanto alla chiesa del villaggio di Cerkì-
zovo. Non si riusciva a credere che quella donna ne
ra, magra, dal naso appuntito, ora impassibile ed ora
infuriata, mossa ora dall’ansia a chiacchierare e a
confidarsi con lei come con una sua pari, ed ora in
vece a strapparle i capelli, fosse la signorina Tonia.
Non si riusciva a capire perché in casa comandasse
una qualunque Claudia Màrkovna, piccola, stridula,
con dei baffetti neri... Un giorno Natalia gettò un’oc
chiata timida nella camera di lei e scorse il fatale
specchio incorniciato d ’argento, e dolcemente le ri-
V A LSE C C A 353
sgorgaron dal cuore tutte le sue paure, le sue gioie,
la sua tenerezza d ’un tempo, le attese della vergo
gna e della felicità, l’odore delle bardane rugia
dose nello splendor del tramonto... Ma essa nascon
deva in se stessa tutti questi sentimenti e pensieri,
e domava e calmava tutto con le parole delle pelle
grine, che le parevano il vertice della saggezza : « Dio
è tanto ricco di tutto... ». Il vecchio, il vecchio sangue
di Vaisecca scorreva nelle sue vene! Essa aveva man
giato un pane troppo sciocco fatto col grano di quel
la terra argillosa che circondava Vaisecca. Essa ave
va bevuto un’acqua troppo scipita da quegli stagni che
i suoi avi avevano scavato nel letto del torrente ina
ridito. Essa non temeva né la frusta né la corda:
temeva soltanto d’esser messa in ridicolo. Non la spa
venta van nemmeno le estenuanti giornate di fatica:
la spaventava soltanto l’eccezionale. Neppure la mor
te le faceva paura; ma la facevan tremare i sogni, il
buio e i temporali, il tuono ed il fuoco. Essa portava
in sé, come una creatura nel ventre della madre, la
confusa aspettanza di chissà quali calamità inelut
tabili. E le calamità giunsero davvero, giunsero an
che troppo presto, interruppero le giornate di lavoro,
e poi rifecero luogo a esse per sempre.
Tale attesa l’aveva invecchiata. E poi ella sugge
riva instancabilmente a se stessa che la sua gioventù
era passata e ne ricercava le prove dappertutto. E
non s’era ancora compiuto un anno dal suo ritorno
che in lei non rimaneva più traccia di quel giova
nile sentimento con cui aveva varcato la soglia della
casa di Vaisecca.
Claudia Màrkovna partorì. Teodosia la guardiana
354 V A LSE C C A
del pollame fu nominata balia e benché fosse una
donna ancora giovane, indossò un vestito scuro da
vecchia, e si fece umile e timorata di Dio. Il nuovo
Chrùscev sgranava di già i suoi occhi lattiginosi e in
sensati, buttava fuori la saliva a grosse bolle, cadeva
in avanti, senz’aiuto, vinto dal peso della sua testa, e
urlava selvaggiamente. Eppure lo chiamavan di già
il padroncino: si sentivano di già dalla camera del
bambino gli antichi, antichi scongiuri:
— Eccolo eccolo il vecchio col sacco... Vecchio,
vecchio! Non venir qui da noi, noi non ti daremo il
padroncino, egli non griderà più...
E Natalia imitava Teodosia, considerandosi anche
lei una nutrice, la nutrice e la compagna della signo
rina malata. N ell’inverno morì Olga Kirillovna, ed
essa ottenne il permesso di accompagnare ai fune
rali le vecchie che restavano ancora in vita nelle abi
tazioni; e là mangiò il riso cotto e inzuccherato 1,
il cui sapore sciocco e dolciastro le suscitò dentro il
disgusto, e ritornata a Vaisecca, raccontò con tene
rezza che la signora stava a giacere « che pareva
viva », mentre invece neppure le vecchie s’eran de
cise a guardare la bara ingombra dal cadavere mo
struoso.
E a primavera portarono dalla signorina uno stre
gone del villaggio di Cermàsnoje, il famoso Klim
Jeròchin, un contadino libero, ricco e di bell’aspetto,
con una gran barba grigia, riccioli pure grigi, pet
tinati con una scriminatura ben diritta, padron di
casa molto attivo e uomo per il solito molto sem
1. Piatto di prammatica nei banchetti funerari.
V A LSEC C A 355
plice e ragionevole nei suoi discorsi, ma che pren
deva figura di mago presso i malati. Il suo vestito
era eccezionalmente solido e pulito: un camiciotto di
tela color ferro, una cintura rossa, stivali. I suoi pic
coli occhi erano maliziosi e penetranti e pareva che
proprio con essi cercasse le immagini; egli entrava
nelle case con circospezione, piegando un po’ la sua
persona ben fatta, e attaccava subito discorso da uomo
che sa il fatto suo. Prima parlava dei grani, delle
piogge e della siccità, poi sorseggiava il tè lunga
mente e meticolosamente, e infine si segnava di nuo
vo; e solo dopo aver eseguito tutto questo, cam
biando d’un tratto di tono, faceva delle domande sul
malato.
-— L’imbrunire... fa notte... è l’ora... — egli di
ceva misteriosamente.
La febbre sconquassava la signorina, ch’era pronta
a gettarsi in convulsioni sul pavimento, quando, se
duta nella penombra della sua camera, attendeva
l’apparizione di Klim sulla soglia. E Natalia, che le
stava vicino, era percorsa da un brivido dalla testa
ai piedi. S’era chetata tutta la casa: anche la signo
ra aveva fatto riempir di ragazze la sua camera e
conversava a bassa voce. Nessuno osava accendere
un fuoco, né alzare la voce. Alla gaia SoloŠka, che
stava di sentinella nel corridoio in caso d’un richia
mo o d’un ordine di Klim, s’offuscavano gli occhi e
batteva il cuore in gola. Ed ecco che egli le passò
dinanzi, e camminando scioglieva un fazzoletto con
tenente degli ossicini stregati. Subito dopo risuonò
dalla camera in un silenzio sepolcrale la sua voce
strana e sonora :
356 V A LSE C C A
— Alzati, schiava di Dio!
Poco dopo la sua testa grigia s’affacciò dalla por
ta.
— Un ’asse — egli gridò, senza vita.
E la signorina fu messa in piedi sopra un’asse
deposta sul pavimento, e girava gli occhi dalla paura
ed era fredda come una morta. Era già così buio che
Natalia distingueva a malapena il volto di Klim. E
ad un tratto egli cominciò a dire con una voce biz
zarra e remota:
— Verrà Filat... aprirà le finestre... spalancherà
le porte... griderà e dirà: angoscia, angoscia!
— Angoscia, angoscia! — egli urlò con un vigore
inatteso e con autorità minacciosa.
Torna, o angoscia, al bosco buio;
quello è il luogo tuo!
Là tra l’acqua deli’odan o...1
Borbottava con voce affrettata, sorda e lugubre:
... Là tra l’acqua dell’oc/àno,
sullo scoglio più lontano,
c’è una cagna viva :
la sua lana è grigia...
E Natalia sentiva che al mondo non c’erano né
ci potevano essere più spaventose parole di quelle,
che le trasportavano ad un tratto tutta l’anima altro
ve, in un mondo selvaggio, favoloso e brutalmente
primitivo. Non si poteva dubitare della loro virtù,
e non avrebbe potuto fare a meno di crederci lo
stesso Klim, che compieva talora dei veri miracoli
1. Anche Klim storpia le parole.
V A LSEC C A 357
sugli ossessi, quello stesso Klim che parlava con
tanta semplicità e discrezione, mentre si riposava in
anticamera dopo l’incantagione, asciugandosi di quan
do in quando il sudore dalla fronte e riprendendo a
bere il suo tè:
— Suvvia, restano ancora due sere... Forse, col
l’aiuto di Dio, ciò la solleverà un pochino... Han
seminato qui del granturco quest’anno, signorina?
Si dice che quest’anno il granturco venga bene! stra
ordinariamente bene!
Per l’estate attendevano il ritorno dei padroni dal
la Crimea. Ma Arcadio Retrovie mandò una lettera
raccomandata con una nuova richiesta di danaro e
l ’annunzio che non potevano tornare prima dell’ini
zio dell’autunno, a causa d ’una ferita di Pietro Pe-
tròvic, non grave ma tale da esigere un prolungato
riposo. Mandarono a chiedere all’indovina Danilovna
a Cerkìzovo se la malattia sarebbe andata a finir
bene. Danilovna si mise a ballare, e fece schioccare
le dita, il che voleva certamente dire che sarebbe
andata a finir bene. E la signora si mise l’anima in
pace. Ma la signorina e Natalia avevano altro da
fare. La signorina dapprima s’era sentita un po’ me
glio. Ma sul finire delle giornate di San Pietro rico
minciò come prima: la solita angoscia e la solita
paura dei temporali, degl’incendi e di un non so che
ch’essa teneva nascosto, e che non era certo la preoc
cupazione dei suoi fratelli. Anche Natalia non se ne
preoccupava. In ogni sua preghiera essa ricordava
Pietro Petròvic, che Dio gli serbasse la salute, come
più tardi doveva ricordarlo per tutta la vita, fino al
la bara, perché Dio gli desse la pace. Ma ormai la
358 V A LSE C C A
signorina le premeva più di tutti. E la signorina le
attaccava sempre più il contagio dei suoi terrori, delle
sue apprensioni di sciagure e di ciò che serbava na
scosto.
Quell’estate fu ardente, polverosa e ventosa, con
temporali quotidiani. Tra la gente correvano oscure
ed allarmanti dicerie, come d ’una nuova guerra, di
rivolte e d ’incendi. Gli uni dicevano che tutti i con
tadini erano in procinto d’acquistar la libertà, gli
altri all’opposto che i contadini avrebbero avuta la
testa rasata come soldati, tutti fino all’ultimo. E come
succede, fecero apparizione un gran numero di va
gabondi, di dementi, di monaci. E per causa loro la
signorina ci mancò poco che non si picchiasse con la
signora, perché distribuiva loro del pane e delle
uova. Arrivò lì un certo Dronia, lungo, rosso, strac
cione fino all’inverosimile. Egli era semplicemente un
ubriacone, ma recitava la parte dell’uomo di Dio.
Quando giunse, attraversò il cortile in direzione del
la casa in aria di così profonda meditazione, che
picchiò il capo nel muro e fece un salto indietro col
viso tutto gioioso.
— O cce llin i 1 miei! — gridò in voce di falsetto,
saltellando e torcendosi in tutte le membra, anche
nel braccio destro, come per farsi schermo dal sole.
— Son volati via, son volati via sotto il cielo, gli
occellin i miei!...
E Natalia, imitando le contadine, lo guardava co
me s’usa guardare gli uomini di Dio: ottusamente
e compassionevolmente. Ma la signorina si slanciava
1. Anche Dronia, come Gervasio e Klim, parla con storpia
ture.
V A LSEC C A 359
alla finestra e gli gridava con le lacrime agli occhi
e con una voce gemebonda:
— O Dronia, o diletto di Dio, prega il Signore
per me, peccatrice!
E a questo grido gli occhi di Natalia diventavano
fissi ed immobili, sotto il peso di terribili supposi
zioni.
Dal villaggio di Klìcin veniva Tìmoscia di Klìcin :
piccolo, grassottello come una donna, grosso di seni,
con una faccia di neonato strabico; inebetito e soffo
cato dalla pinguedine, giallo di capelli, in camicia
bianca di panno e calzoni corti pure di panno. Egli
camminava a passettini affrettati, in punta di piedi,
con le sue gambucce minuscole e ben fatte, e mentre
s’avvicinava alla scalinata, i suoi occhietti serrati da-
van l’idea che fosse uscito allora allora dall’acqua o
che fosse scampato a una catastrofe irreparabile.
— Un malanno! — egli borbottava, anelando. —
Un malanno...
Lo calmavano, gli davan da mangiare, aspettavan
che dicesse qualcosa. Ma egli taceva, tirava in su col
naso e masticava avidamente. E soddisfatta la fame,
si rigettava il sacco sul dorso e cercava ansiosamente
il suo lungo bastone.
— Quando tornerai un’altra volta, Tìmoscia? —
gli gridava la signorina.
E rispondeva anche lui con un grido, con un as
surdo acuto di contralto, storpiando chissà perché
il nome della signorina:
— La settimana santa, Lukjànovna!
E la signorina gli lanciava dietro un grido cosif
fatto da sembrare una confessione:
360 V A LSEC C A
— O diletto di Dio! prega il Signore per Maria
Egiziaca, la peccatrice!
Allora i presenti si segnavano e sospiravano, per
ché davvero non c’era quasi giorno che non venis
sero da ogni parte delle notizie di sciagure, tempo
rali ed incendi: e rinasceva ancora in Vaisecca l’an
tica paura del fuoco. Appena cominciava a offuscarsi
il mare di sabbia gialla dei grani sotto le nuvole
che montavan su dalla villa, appena s’attorcigliava
sul prato il primo vortice e il tuono cominciava a
rotolar pesantemente in lontananza, le comari s’af
frettavano a esporre sulla soglia le scure tavolette
delle iconi, e a preparare delle ciotole di latte, col
quale è risaputo che si vince il fuoco meglio di qual
siasi cosa. E dalla villa si facevan volare le forbici
giù fra l’ortica, si tirava fuori il tremendo tovagliuolo
degli scongiuri, si calavan le tende alle finestre, s’ac-
cendevan con le mani tremanti le candele di cera... O
per chiasso o sul serio, anche la signora fu contagiata
da queste paure. Prima essa diceva che il temporale
è « un fenomeno naturale ». Ora invece si segnava
anche lei, e batteva le ciglia e cacciava un urlo a ogni
fulmine, e per accrescere il suo spavento e quello
delle sue donne di servizio, raccontava sempre d ’un
temporale straordinario che era scoppiato l’anno 1771
nel Tirolo; e che aveva ucciso centoundici persone in
un colpo solo. E le sue ascoltataci rincaravan le dosi
e s’affrettavano a dire ognuno la sua: chi raccontava
d ’un salice incenerito sulla strada maestra da un fu l
mine, chi d ’una donna ammazzata in quei giorni a
Cerkìzovo da un tuono, chi d ’un tiro a tre così stor-
V A LSE C C A 361
dito per via ch’era caduto in ginocchio... Finalmente
cominciò a prender parte a queste cerimonie un certo
Juška, « monaco caduto in fallo », come si definiva
lui stesso.
IX
Di nascita Juška era contadino. Ma egli non ave
va mai mosso un dito a lavorare, e viveva dove Dio
lo mandava, pagando il pane e il sale con gli aned
doti della sua completa fannullonaggine e del suo
« fallo » :
— Io, fratelli, sono un contadino, ma ho un po’
di cervello e la spallatonda come un gobbo — egli
diceva; — macché lavorare!
E d’un gobbo egli aveva davvero anche lo sguar
do, mordace e astuto; non gli cresceva pelo sul men
to, portava le spalle rientrate per una forma di rachi
tismo alla cassa toracica, e si rodeva le unghie; le
sue dita, con cui si rigettava indietro ogni momento
i lunghi capelli color rosso rame, erano affilate ma
forti. Zappare gli sembrava « sconveniente e noio
so ». E così si era recato all’eremo di Kiev, e là era
salito in alto, ma n ’era stato cacciato « per un fallo ».
Allora, considerando che recitar la parte del pelle
grino dei santuari, dell’uomo che cerca di salvar
l’anima sua, era un vecchio giuoco che poteva diven
tare anche costoso, si provò a imbastire un’altra fin-
V A LSE C C A 363
zione: senza gettar la tonaca alle ortiche, cominciò
a gloriarsi apertamente della sua fannullonaggine ed
oscenità, a fumare e bere a più non posso (egli non
s’ubriacava mai), a prendere in giro gli eremiti e a
spiegare la vera ragione per cui l’avevan espulso di
là, a furia di gesti e di mosse indecenti.
— Avete dunque a sapere — egli raccontava ai
contadini strizzando l’occhio — avete dunque a sa
pere che proprio per questo mi presero subito, me,
schiavo di Dio, per il collo. E io son tornato a casa
a rotoloni, per la Russia... Ma non mi perderò mai,
grazie a Dio!
E fu proprio così: egli non si perse mai; la Russia
l’accoglieva, questo peccatore sfrontato, con non mi
nore generosità di coloro che cercan di salvar l’ani
ma: lo sfamava, lo dissetava, lo faceva dormire e
l’ascoltava con esaltazione.
— E così, tu hai giurato di non lavorar mai in
vita tua? — gli domandavano i contadini con gli
occhi lustri, in attesa di salaci rivelazioni.
— Ora il diavolo solo m’obbligherebbe a lavo
rare! — rispondeva Juska. — Io son viziato, fra
tello! Io son più libidinoso del montone d’un ere
mo \ E perfin queste ragazze — maritate non ne vo
glio e ci ho il mio bravo perché! — hanno una paura
di me da morire, ma mi voglion bene lo stesso. Co
me no? Io valgo qualsiasi altro; e se sono un po’
spelacchiato, in compenso l’osso è come si deve!
Quando si fece vedere per la prima volta nella vil
la di Vaisecca, egli entrò direttamente in casa, nel-
1. In taluni cenobi ortodossi vige la clausura perfino per le
femmine degli animali.
364 V A LSEC C A
l’anticamera, come se fosse un contadino libero o un
uomo anziano. Là c’era Natalia che seduta su una
panca, intonava:
... spazzai da bimba l’andito
e ci trovai lo zucchero...
Come lo vide, essa saltò via spaventata.
— Chi va là? — essa gridò.
— Un uomo — rispose Juska, dandole una ra
pida occhiata dalla testa ai piedi. — Avverti la pa
drona.
— Chi c’è? — domandò, anche lei con un grido,
la padrona dalla sala.
Ma Juska la tranquillizzò in un batter d’occhio,
disse che egli era un vecchio monaco e non un sol
dato disertore di ritorno al paese, com’essa aveva
certo creduto. In prova di quanto diceva chiese d’es-
ser perquisito, purché poi lo lasciassero pernottare e
riposarsi un po’. E colpì tanto la signorina con la sua
franchezza, che il giorno dopo potè stabilirsi nella
stanza dei servi, rimasta vuota dopo la partenza dei
padroni, e diventare assolutamente come uno di ca
sa. Durante i temporali egli distraeva le padrone a
forza di racconti, senza stancarsi; una volta gli ven
ne l’idea di sbarrar gli abbaini per assicurare il tetto
contro la folgore, e ai più tremendi scoppi di fulmi
ne usciva un attimo a corsa sulla scalinata per dimo
strare che non c’era pericolo, ed infine aiutava le ra
gazze a preparare il sam ov ar. Le ragazze lo sbircia
vano sentendo sul proprio corpo i suoi sguardi rapidi
concupiscenti, ma ridevan dei suoi scherzi. Ma Nata
lia, ch’egli aveva fermato più d’una volta nell’andito
V A LSE C C A 365
buio per sussurrarle rapidamente : « Io mi sono in
namorato di te, ragazza mia! », non osava alzar gli
occhi a guardarlo. Per di più egli le faceva ribrezzo
per l’odore di pessimo tabacco che gl’impregnava tut
ta la tonaca, e paura, tanta paura.
Ella ormai sapeva fermamente ciò che doveva av
venire. Dormiva sola, nell’andito, accanto alla porta
della camera della signorina, e Juška le aveva già
lanciato il suo : « Verrò. A costo di farmi sgozzare,
verrò. E se gridi, do fuoco e v’incenerisco tutti... ».
Ma quello che più di tutto le toglieva le forze era la
coscienza che stava per compiersi qualcosa d'inevita
bile, che il suo terribile sogno era vicino a compirsi,
e che nel suo destino c’era davvero scritto che sareb
be perita insieme con la signorina. Tutti ormai l’ave-
van capito : ogni notte il diavolo si stabiliva in quella
casa. Tutti avevano capito la vera cagione, tralascian
do i temporali e gl’incendi, che obbligava Tonia a
gemere mollemente e furiosamente nel sonno, e poi
a scendere dal letto con urla così spaventose, che al
loro confronto non eran nulla i più assordanti rom
bi di tuono. Essa gemeva: «I l serpente dell’Eden,
di Gerusalemme, mi strangola... ». Chi era dunque
questo serpente se non il diavolo, se non quel gri
gio montone che va di notte dalle donne e dalle
ragazze? E al mondo c’era forse nulla di più tre
mendo del suo approssimarsi nel buio, nelle notti di
bufera, al rullìo ininterrotto del tuono e ai riflessi
dei lampi sopra le icone annerite? Quella passione,
quella lussuria che parlavan nelle parole sussurrate
a Natalia dall’avventuriero, erano anch’esse una co
sa disumana: com’era possibile resistervi? Pensando
366 V A LSEC C A
all’ora fatale ed inevitabile, seduta di notte sull’as
sito del corridoio, mentre avvolta nella coperta da
letto essa guardava nel buio, piena di batticuore e
con l’orecchio teso ad ogni più piccolo scricchiolìo
e fruscio nella casa addormentata, Natalia provava
di già i primi accessi di quella malattia che in se
guito doveva tanto tormentarla: ad un tratto le co
minciava un prurito alla pianta del piede, la invade
va uno spasimo acuto e penetrante, che le piegava e
le torceva in dentro tutte le dita, e che attorciglian
dole fanaticamente e voluttuosamente le vene, le tra
scorreva per le gambe, per tutto quanto il corpo, fino
al gozzo, finché non le veniva voglia di cacciare un
grido ancor più irreale, dolce e protervo di quelli
della signorina...
E l’inevitabile si compì. Juska venne, proprio quel
la tremenda notte sul finir dell’estate, la vigilia di
Sant’Elia Benefattore, l’antico lanciatore del fuoco 1.
Quella notte non ci furon tuoni né sonno per N a
talia. Ella s’era un po’ assopita, quando si risvegliò
come ad un urto. Era l’ora più sorda e segreta: N a
talia se n ’accorse dal suo forsennato batticuore. Al
lora saltò subito giù dal giaciglio, dette un’occhiata
all’una e all’altra estremità del corridoio; da ogni
parte ardeva, fiammeggiava, tremolava ed abbagliava
coi suoi falò azzurro chiari e dorati il firmamento
taciturno, pieno di fuoco e di segreti. In anticamera
faceva sempre chiaro come di giorno. Essa si mise
a correre, ma si fermò come inchiodata: le travi di
1. La superstizione popolare russa fa assumere a Sant'Elia
molte attribuzioni del dio pagano Perun, il Giove Tonante della
mitologia slava.
V A LSE C C A 367
tremula, che giacevano da tanto tempo sotto le fine
stre del cortile, luccicavano d’una bianchezza acce
cante ad ogni bagliore. Natalia penetrò nella sala:
c’era una finestra aperta, si sentiva l’uniforme fruscio
del giardino e le tenebre eran più fitte, ma tanto più
chiaramente il fuoco lampeggiava dietro ogni vetro;
ma poi tutto veniva sommerso dal buio, e subito do
po sussultava e si riaccendeva qualcosa, ora qui ed
ora là. E così, sull’enorme orizzonte ora dorato ed
ora violaceo, brillava e cresceva, tremava e traspariva
il giardino con tutti i suoi vertici ricamati, e coi fan
tasmi verdi pallidi dei pioppi e delle betulle.
Là tra l'acqua dell 'odano,
sullo scoglio più lontano...
essa proferì indietreggiando, e sentendo che finiva
di perdersi con quegli scongiuri di magia:
... c’è una cagna viva:
la sua lana è grigia...
E appena ebbe dette queste parole piene d ’un’ar-
caica minaccia, essa si voltò e scorse Juška, con le sue
spalle rientrate, ritto a due passi da lei. Un lampo
gl’illuminò il viso e lo rivelò pallido, nero soltanto
alle occhiaie. Egli le balzò addosso senza fare ru
more, svelto l’avviticchiò per la vita come per soffo
carla, ma invece la buttò d ’un colpo in ginocchio:
infine la rovesciò supina sul freddo impiantito del
l’anticamera.
Juska ritornò da lei anche la notte seguente. E
ritornò ancora molte altre notti; ed essa, perdendo
la coscienza per il disgusto e il terrore, s’abbando-
368 V A LSEC C A
nava rassegnata a lui, nemmeno osava pensar di re
sistere, né di chiedere protezione ai signori, alla
servitù, come pure non osava resistere la signorina
Tonia al diavolo che la notte godeva di lei, come
pareva non avesse saputo resistere perfino la nonna,
una superba bellezza, al suo domestico il Tessitore,
ladro e farabutto matricolato, che finalmente fu de
portato in Siberia, in una colonia di forzati... Ma col
tempo Juska si stufò, gli venne a noia anche Vai
secca, e sparì all’improvviso, come all’improvviso era
apparso.
Un mese dopo essa si sentì madre. E in settembre,
all’indomani del ritorno dalla guerra dei giovani si
gnori, la casa di Vaisecca prese fuoco e bruciò a
lungo e terribilmente: e così s’adempì anche la sua
seconda profezia. La casa prese fuoco all’imbrunire,
durante una pioggia dirotta, per una saetta, per un
gomitolo d’oro, che, come diceva Solòska, era roto
lato giù dalla stufa nella camera del nonno ed aveva
percorso saltellando tutte le stanze. Ma Natalia, che
alla vista del fumo e del fuoco era corsa via a rom
picollo dal bagno, da quel bagno dove passava pian
gendo giorni e notti intere, raccontò più tardi che in
giardino s’era scontrata con un uomo che portava una
giubba rossa ed un alto berretto alla cosacca, con ala
mari; anche lui correva a rompicollo per i cespugli
e le bardane bagnate... Ma Natalia non potè mai as
sicurare se ciò fosse realmente successo, o se lei
l’avesse soltanto travisto. Certo si è che il terrore che
la colpì, la liberò dal nascituro.
Da quell’autunno in poi, ella cominciò a scolorire.
La sua vita entrò in un solco di fatiche quotidiane
V A LSEC C A 369
da cui non potè mai uscire, prima della sua fine.
La zia Tonia fu portata a visitar le reliquie d ’un
santo di Voronjèz. D ’allora in poi il diavolo non
osò più accostarsi a lei, ed essa si calmò, cominciò a
vivere come tutti gli altri: lo squilibrio della sua
mente e della sua anima veniva tradito soltanto dai
bagliore degli occhi selvaggi, dalla sua estrema tra
scuratezza e furibonda irascibilità, dall’angoscia che
le dava il maltempo. Con lei si recò pure a visitar
le reliquie Natalia, e in questo pellegrinaggio ritrovò
anch’essa la calma e la risoluzione d ’un nodo da cui
pareva non fosse possibile sciogliersi. Come la faceva
tremare il solo pensiero di rincontrarsi con Pietro Pe-
tròvic! Per quanto ci si preparasse, immaginare quel
l'incontro con pacatezza era superiore alle sue forze.
E Juška, la sua vergogna, la sua perdizione! Ma an
che l’eccezionaiità di quella sua perdizione, l’insolita
profondità delle sue sofferenze, quel non so che di
fatale che c’era stato nella sua mala ventura — non
per nulla il terrore dell'incendio era quasi coinciso
con quella fatalità! e finalmente il pellegrinaggio
dal sant’uomo le avevan dato il diritto di guardare
semplicemente e serenamente negli occhi, non sol
tanto di tutti i circostanti, ma dello stesso Pietro Pe-
tròvic; la mano di Dio aveva segnato anche loro col
suo dito fatale nella persona della signorina; quale
altra cosa ormai essi avrebbero dovuto temere dagli
uomini? Al suo ritorno da Voronj0ž essa entrò nella
casa di Vaisecca come una monaca, come un’umile e
semplice serva di tutti, pura e leggera come dopo
l’estrema unzione, e si mosse senza paura a baciare
la mano di Pietro Petròvic. E soltanto per un istante
14.
370 V A LSE C C A
il cuore le batté d’ingenuità e di tenerezza verginale,
quand’essa sfiorò con le labbra quella piccola mano
bruna inanellata di turchesi...
In Vaisecca si riprese l’esistenza quotidiana. Cor
revano delle confuse dicerie « sull’emancipazione »'
che suscitavano allarmi perfino fra i domestici e i
contadini; come sarebbe andata in avvenire? non
sarebbe andata forse anche peggio? Era facile a dir
si cominciare una nuova vita! E si preparava una nuo
va vita anche pei signori, per coloro che non sapevan
vivere neppure all’antica. La morte del nonno, poi
la guerra, una cometa che seminò lo spavento in
tutto il paese, più tardi l’incendio, infine le dicerie
sull’emancipazione, tutto questo fece rapidamente
cambiare l’anima e i volti dei padroni, tolse loro la
gioventù e la spensieratezza, l’irascibilità e la facilità
a perdonare d ’un tempo, e dette loro in compenso
il rancore, la noia, una greve inimicizia reciproca:
ebbero luogo dei « malintesi », come diceva nostro
padre, e si ritornò all’uso dei frustini a tavola...
Il bisogno ricordò ad essi l’imperiosa necessità di
rimettere in piedi in qualche modo le loro sostanze,
estremamente dissestate dalla guerra di Crimea, dal
l’incendio, dai debiti. Ma nell’amministrazione i fra
telli non facevano che danneggiarsi a vicenda. L’uno
era avido, severo e sospettoso, fino all’assurdità; l’al
tro era altrettanto assurdamente liberale, buono e fi
ducioso. Messisi d’accordo chissà come, ambedue si
decisero a un’impresa che doveva arrecar loro gran
guadagn o: ipotecarono i loro possessi e comprarono1
1. L’abolizione della servitù della gleba, deliberata dallo zar
Alessandro II nel 1861.
V A LSE C C A 371
circa trecento cavalli sfiancati, raccolti da quasi tutto
il distretto con l’aiuto d ’uno zingaro, un certo Elia
Samsònov. Essi intendevan di rimettere in gamba i
cavalli durante l ’inverno e di venderli lucrosamente
a primavera. Ma dopo aver sperperato un’immensa
quantità d ’avena e di paglia, quasi tutti i cavalli,
l’uno dopo l’altro, creparono avanti primavera.
E fra i due fratelli la discordia cresceva a dismi
sura. Più d ’una volta giunsero al punto d ’impugnare
i coltelli o i fucili. E non si sa come sarebbero an
date a finire le cose, se non si fosse abbattuta su
Vaisecca una nuova catastrofe. Un inverno, quat-
tr’anni dopo il suo ritorno dalla Crimea, Pietro Pe
tròvic s’era recato a Lùnjevo, dove teneva un’aman
te. Egli si trattenne due giorni e due notti alla fat
toria, bevendo per tutto il tempo, e prese ubriaco
la via del ritorno. La neve era molto alta: alla slitta,
coperta da un tappeto, era attaccato un tiro a due.
Pietro Petròvic fece staccare il cavallo d’appoggio,
ch’era giovane e focoso, perché affondava fino al
ventre nella neve friabile, lo fece attaccare in coda
alla slitta, ed egli stesso si stese a dormire, con la
testa verso il cavallo. Scendeva un’ombra nebbiosa
e azzurrina. Prima d ’addormentarsi, Pietro Petròvic,
che a forza di maltrattamenti s’era grandemente ini
micata la servitù, e che invece del cocchiere Basiliuc-
cio il Cosacco, da cui temeva d’essere ucciso, pren
deva spesso con sé Eusebio il Cornuto, gli lanciò un
grido: « Partenza! », e gli dette un calcio nel dorso.
Il forte baio di stanga, già tutto bagnato, fumante
di sudore e con la milza indolenzita, li portava via
sulla difficile strada nevosa, nel folto nebbioso del
372 V A LSEC C A
la sorda campagna, incontro a una sempre più fitta
e tetra notte d'inverno... Ma a mezzanotte, quando
a Vaisecca tutti dormivano d’un sonno di morto,
qualcuno picchiò con ansia affrettata alla finestra del
l’anticamera dove dormiva Natalia. Essa balzò giù
dalla cassapanca, e scalza, accorse sulla scalinata.
Presso la scalinata nereggiavan confusamente i ca
valli, la slitta ed Eusebio, ritto con la frusta in
mano.
— Una disgrazia, ragazza mia, una disgrazia —
balbettò con una voce sorda e strana, come in so
gno; — uno dei cavalli ha ucciso il padrone... il
cavallo d’appoggio... Correva, è sprofondato e con
lo zoccolo... gli ha schiacciato tutta la faccia. Sta di
ventando già freddo... Non sono stato io, non sono
stato io: ve lo giuro sul mio crocifisso, non sono
stato io!
Scendendo in silenzio dalla scalinata, affondando
nella neve coi suoi piedi nudi, Natalia s’accostò alla
slitta, si segnò, cadde in ginocchio, abbracciò la testa
ghiaccia e insanguinata, e si mise a baciarla e ad
urlare per tutta la fattoria con un grido di gioia sel
vaggia, soffocata dai singhiozzi e da un riso con
vulso.
X
Quando ci capitava di riposarsi dalla città nella
cheta e meschina Vaisecca, Natalia riprendeva sem
pre di nuovo a raccontarci la storia della sua vita
perduta. E qualche volta i suoi occhi s’incupivano,
s’impietravano e la sua voce diventava un mormorio
basso basso, uniforme e severo. E mi ritornava sem
pre in mente l’immagine del santo, appesa in un an
golo della cappelletta, nella nostra vecchia casa. De
capitato, il santo si muoveva verso i suoi concitta
dini, recandosi il capo mozzo sulle palme, a testi
monianza della sua narrazione...
Eran già scomparse anche quelle poche tracce ma
teriali del passato, che a suo tempo noi avevamo
rinvenuto a Vaisecca. I nostri padri e i nostri nonni
non ci avevan lasciato né ritratti né lettere; e nem-
men uno dei semplici oggetti che usavano nel corso
della loro vita. E quello che avevan lasciato, s’era
perduto nel fuoco. Per lungo tempo rimase in anti
camera una specie di cassapanca, con una guarnitura
di strisce di cuoio di foca indurito e spelacchiato,
che risaliva a poco meno di cent’anni indietro: era
374 V A LSE C C A
la cassapanca del nonno, a scomparti mobili di be
tulla di Cardia, ricolma di vocabolari francesi mez
zo bruciacchiati e di libri di devozione, bisunti fino
all’inverosimile e sgocciolati di cera. In seguito an-
ch’essa sparì. Andò in pezzi e sparì anche il pesante
mobilio che si teneva in sala e in salotto... La casa
deperiva e si sgretolava sempre di più. Tutti quei
lunghi anni che le passarono sopra fin dall’epoca
degli ultimi episodi più su raccontati, furon per essa
gli anni d’una lenta agonia... E il suo passato di
ventava sempre più leggendario.
La gente di Vaisecca vegetava in una sorda e buia
esistenza, ma pur sempre complessa, che conservava
l’apparenza del benessere e d’una tradizionalità di
costumi. A giudicar dall’inerzia di questo modo di
vita, e dalla fedeltà che gli manteneva la gente di
Vaisecca, si poteva credere che esso non avrebbe
avuto mai fine. Ma com’eran pieghevoli e fragili,
« rammolliti per punizione » questi discendenti dei
nomadi della steppa! E come sotto l’aratro che s’a
vanza sul campo spariscon l’uno dietro l’altro senza
traccia i monticelli che ricoprivan finora le gallerie
e le tane sotterranee delle talpe, così pure, rapida
mente e senza traccia, scomparirono sotto i nostri
occhi i nidi di Vaisecca. I loro abitatori morivano
o si sperdevan per il mondo; quelli che rimanevan
chissà come, cercavano d ’ammazzare alla meno peg
gio il tempo che restava loro da vivere. E noi non
vi trovammo ormai più né vita né una regola di
vita, ma soltanto tracce di ricordi e una semiselvag
gia semplicità d ’esistenza. Con gli anni visitammo
sempre più di rado il nostro stepposo paese. Esso
V A LSE C C A 375
del resto ci diventava sempre più estraneo; e senti
vamo sempre più deboli i nostri legami con la tra
dizione e la classe da cui eravamo usciti. Molti dei
nostri parenti di sangue, come del resto anche noi,
son d ’antica e nobile origine. Le cronache fanno
menzione dei nostri nonni; i nostri antenati sono
stati siniscalchi e capitani, magnati e cortigiani in
fluentissimi, perfino imparentati con gli Zar. E se
avessero avuto il titolo di cavalieri e fossero stati
originari d ’un paese più occidentale, con che orgo
glio noi avremmo parlato di loro e per quanto tem
po ancora avremmo resistito alla nostra rovina! Un
erede di cavalieri non sarebbe mai stato costretto a
dire che dopo quasi mezzo secolo un’intera stirpe
è scomparsa dalla faccia della terra, che chi ci dette
la vita è impazzito, ha congiunto le mani nella ba
ra, s’è alcoolizzato, è decaduto o s’è perduto chissà
dove! Egli non sarebbe mai stato costretto a con
fessare, come invece confesso io, che noi ormai non
abbiamo più la minima idea della vita, non solo dei
nostri antenati, ma neppure dei nostri bisnonni, e
che ci diventa sempre più difficile di giorno in gior
no perfino l’immaginarsi come si viveva da noi mez
zo secolo fa!
Il terreno dove una volta s’ergeva la villa di Lù-
njevo, era stato arato e seminato già da lungo tem
po, com’era già stato arato e seminato il terreno
di tant’altre ville. Vaisecca resisteva ancora chissà
come. Ma abbattute l’ultime betulle in giardino, ven
duto a piccoli lotti tutto il terreno arativo, se n ’an
dò via anche il suo proprietario, il figlio di Pietro
Petròvic, il quale entrò in servizio e diventò con-
376 V A LSE C C A
trollore nelle ferrovie. E le vecchie abitatrici di Vai
secca, Claudia Màrkovna, la zia Tonia e Natalia,
camparono penosamente i loro ultimi anni. Alla pri
mavera succedeva l’inverno... Esse avevano perduto
il senso del succedersi delle stagioni, e non vivevano
che di ricordi e di sogni, di dispute e d ’affanni per
la ricerca del pane quotidiano. D ’estate i terreni do
ve un tempo si stendeva largamente la fattoria, eran
sommersi dalla segala dei contadini: più lontano si
vedeva la casa, che n’era quasi assediata.
Il boschetto, rimasuglio del giardino, s’era così
inselvatichito che le quaglie stridevano perfino sul
la terrazza. Ma l’estate non è nulla! « L’estate è un
paradiso per noi » dicevano le vecchie. Ma com’eran
lunghi e penosi a Vaisecca gli autunni piovigginosi
e gl’inverni ghiacciati! Regnavano il freddo e la fa
me nella deserta casa in rovina. L’assalivano le tor
mente di neve, e vi soffiava dentro il gelido vento
della Sarmazia. In quanto a accendere il fuoco, era
cosa che succedeva molto di rado. Di sera brillava
alle finestre, nella camera della vecchia signora, l’u
nica stanza abitata, un meschino lumino di latta. La
signora, con gli occhiali e in pellicciotto e pantofole,
faceva la calza, tutta chinata sul lume. Natalia dor
miva sul freddo giaciglio sopra la stufa. E la signora,
che pareva uno stregone siberiano, sedeva nella sua
capanna e fumava la pipa. Quando la zia non era in
questione con Claudia Màrkovna, Claudia Màrkov
na metteva il lume non sulla tavola ma sul davan
zale. E allora zia Tonia se ne stava seduta in una
stravagante e debole penombra, che dalla casa si
rifletteva nell’interno della sua gelida capanna, ri-
V A LSECC A VI
colma dei frantumi del vecchio mobilio, invasa dai
cocci del vasellame spezzato, ingombra del piano
forte abbattuto. La capanna era tanto fredda che i
polli, alla cui cura era rivolto tutto lo zelo della zia
Tonia, la mattina avevano le zampe congelate per
aver pernottato su quei frantumi e quei cocci.
Ma ora invece la fattoria di Vaisecca è comple
tamente deserta. Son morti tutti i nominati in que
sta cronaca, tutti i loro prossimi e i loro coetanei.
E talora vien fatto di pensare: ma son vissuti dav
vero anche loro in questo mondo?
Soltanto al cimitero si sente che fu davvero così,
e si riscopre anche la nostra dolorosa parentela con
loro. Ma per questo è necessario fare uno sforzo,
sedersi lì, meditare sopra un sepolcro familiare, se
ne potrai trovar uno. Fa vergogna a dirlo, ma non
si può tacerlo: noi ignoriamo quali siano le tombe
del nonno, della nonna, di Pietro Petròvic. Noi sap
piamo soltanto che son situate accanto all’altare del
la decrepita chiesa del villaggio di Cerkìzovo. D ’in
verno è impossibile giungere laggiù: il nevaio arri
va fino alla cintola, e ne spuntano fuori rare croci
e rari capi di macchie nude e cespugli... D ’estate
ci arrivi per una calda, cheta e deserta via di vil
laggio e leghi il cavallo alla cancellata della chiesa,
dietro cui sta a cuocersi al sole una verde-cupa mu
raglia d ’abeti. Al di là d ’un cancello spalancato, die
tro alla chiesa bianca con la cupola rugginosa, c’è
un vero e proprio boschetto d ’olmi ramosi e di fras
sini, ricca dappertutto d ’ombra e di frescura. Tu va
ghi a lungo fra i cespugli, i rialzi e le fosse rico
perte d’un’erba sottile di cimitero, fra le lastre di
Vf VALSKCCA.
pietra quasi sommerse dal terreno, fatte porose dalle
piogge, rivestite da un muschio nero e friabile... Ec
co due o tre monumenti di ghisa. Di chi saranno?
Essi hanno assunto un colore verde dorato, ma le
loro epigrafi non si posson più leggere. Sotto quali
tumuli giaccion l’ossa della nonna e del nonno? Dio
lo sa! Noi sappiamo soltanto che son qui, in qual
che punto vicino. Allora tu siedi, rifletti, sforzandoti
d’immaginare questi Chrùscev dimenticati da tutti.
E il loro tempo ora ci sembra infinitamente lonta
no, ora vicino vicino. E allora vien fatto di dirsi
con gioia:
— Non è così difficile, non è così difficile imma
ginarseli. Basta ricordare che quella storta croce plac
cata che s’erge nell’azzurro del cielo d ’estate, esiste
va anche allora... che la segala s’indorava e matu
rava egualmente nei campi roventi e deserti, e che
anche allora qui c’era ombra, frescura e cespugli...
e fra questi cespugli vagava e pascolava, proprio così
come questo qui d’ora, un vecchio ronzino bianco
con una verdastra criniera spelacchiata e gli zoccoli
rosei, spaccati...
Titolo origin ale :
CH O R O ŠA JA Ž IZ N '
Traduzione di Ettore Lo Gatto
rima edizione: Mosca 1911
"T3 - Ö
rima edizione italiana : Roma 1945
La mia vita è stata bella: tutto quello a cui aspi
ravo l’ho raggiunto. E così sono proprietaria di beni
immobili il mio vecchietto subito dopo le nozze
intestò la casa al mio nome - ho bei cavalli e due
vacche, ed esercitiamo il commercio. Non è un vero
e proprio magazzino, si capisce, bensì, come si dice,
semplicemente una bottega, ma per il nostro sob
borgo va bene. Ho sempre avuto fortuna, però ho
anche un carattere tenace.
In ogni specie di occupazione mi insegnò ancora
il babbo. Sebbene fosse vedovo e dedito al bere,
non meno di me era eccezionalmente intelligente,
attivo e spietato. Perciò, quando venne la liberazio
ne 1 egli mi disse : « E così, ragazza, ora son pa
drone di me stesso, mettiamoci ad ammassar quat
trini. Ne ammasseremo, ci trasferiremo in città, com
preremo una casa per noi, io ti darò in moglie a
un signore per bene, sarò un vero re. Dai nostri si
gnori non è il caso di restare, non se lo meritano ».
I nostri signori, in verità, per quanto buoni, erano
poveri, poverissimi, a dirla semplicemente, dei men
dicanti. E così li lasciammo e ci trasferimmo in un
1. La liberazione dei servi della gleba per opera di Alessan
dro II nel 1861. (N . d. T.)
382 UNA BE LLA V ITA
altro villaggio, e la casa, il bestiame e ogni altro
bene li vendemmo. Ci trasferimmo proprio nei pressi
della città, nel villaggio di Cermasnòe, e affittammo
una cavolaia dalla signora Mescérina. Era una da
migella alla corte imperiale, brutta, butterata, una
zitella già tutta grigia, nessuno l’aveva presa in mo
glie e se ne viveva in pace. Pigliammo, dunque, da
lei in affitto dei prati e ci stabilimmo, parola d ’onore,
in una baracca. Gela; è autunno, ma noi non ce ne
preoccupiamo. Stiamo là ad aspettare i buoni guada
gni e non sentiamo la disgrazia. Invece la disgrazia
eccola, che arriva, e che disgrazia per di più! Il no
stro contratto si avvicinava ormai alla scadenza, era
passato tanto tempo, e a un tratto uno scandalo ter
ribile! Una mattina avevamo bevuto il tè - era festa
- e io me ne sto accanto alla baracca, guardo come
per il prato vien gente dalla chiesa. E il babbo era
andato a raccogliere i cavoli. La giornata era serena,
ma ventosa, ed io guardavo e pure non vidi come
si avvicinarono a me all'improvviso due uomini: un
prete, così alto, in tonaca grigia, col bastone, e la
sua faccia era tutta scura, terrea e aveva una criniera
come quella di un bel cavallo, nera come la pece,
che svolazzava al vento, e l’altro un semplice con
tadino, un suo bracciante. Si fan proprio vicino alla
baracca. Io m’intimidii, m ’inchinai e dissi:
— Buon giorno, bàtjusk a. Vi ringraziamo per aver
avuto l’idea di farci una visita.
E lui, lo vedo bene, è arrabbiato; non mi guarda
nemmeno, sta lì ritto e spezza delle canne col ba
stone.
— E dov’è tuo padre? — dice.
UN A B E L LA V I T A 383
— È andato a raccogliere i cavoli — dico. — Io,
se volete, lo posso chiamare. Ma eccolo che viene.
— Ebbene, allora digli che raccolga tutta la sua
robetta, insieme con questo orribile sam ov ar, e che
si licenzi di qua. Oggi verrà qui il mio guardiano.
— Come — dico — il guardiano? Ma noi abbia
mo pur dato alla padrona dei denari, novanta rubli.
Che dite, b àt ju sk a? (Io, sebbene fossi giovane, ero
già esperta di affari.) Ah, voi — dico — ridete?
Voi -— dico — ci dovete presentare un documento.
— Non far tante chiacchiere — grida lui. — La
signora va a stabilirsi in città, io ho comprato da lei
questi prati, e questa terra adesso è di mia proprie
tà.
E agita il bastone, lo picchia in terra: ci manca
poco che mi dia sul muso.
Il babbo vide questa scena e corse verso di noi
- egli era terribilmente eccitabile - accorre e doman
da:
— Che cos’è questo chiasso? Che avete, bàtjusk a,
che gridate contro di lei, e non ne sapete neppur voi
il perché? Voi non potete agitare il bastone, ma do
vete spiegare francamente in base a quale diritto
la cavolaia è diventata vostra. Noi, è vero, siamo
gente povera, ma andremo in tribunale. Voi — dice
— siete un ecclesiastico, non potete avere animosità
contro nessuno; per queste cose a voialtri è vietato
di accostarvi al Santissimo.
Il babbo, a quanto si vede, non gli disse nemmeno
una parola insolente, ma lui, sebbene pastore d ’ani
me, era rabbioso come il più volgare e rozzo dei
contadini, e perciò, non appena sentì queste parole,
384 UNA BE LLA V ITA
si sbiancò tutto, non potè dire una parola, e gli tre
mavano addirittura le gambe sotto la tonaca. Come
si mise a mugolare e come si avventò contro il bab
bo, per dargli una botta sulla testa! Ma il babbo si
scansò, afferrò il bastone, glielo strappò di mano e
lo colpì sul ginocchio! Quello fece per dargli nel
petto, ma il babbo spezzò il bastone in due, lo sca
raventò via e gridò:
•— Non vi avvicinate, per amor di Dio, reveren
do! Voi — grida — siete grossolano, rozzo, ma
c’è chi è ancor più rozzo di voi.
E lo afferrò per le mani!
Ci fu il processo, e mio padre fu mandato al con
fino. Io rimasi sola al mondo e pensai tra me: che
debbo fare adesso? Si vede che con la giustizia non
si campa, bisogna, si vede, essere più guardinghi.
Pensai un annetto, vivendo in casa della zia, con
vinta che per me non c’era scampo, che dovevo pren
der marito al più presto. Il babbo aveva un buon
amico in città, un sellaio: e lui chiese la mia mano.
C’era un uomo, è vero, che mi piaceva e mi piaceva
molto, ma era povero anche lui, non meno di me,
viveva alla dipendenza altrui e quello invece era
padrone in casa sua. Di dote non avevo un copeco,
ma lui, era chiaro, mi prendeva anche senza niente:
come lasciar scappare un’occasione simile? Ci pensai,
ci ripensai e lo sposai, pur sapendo naturalmente che
era anziano, ubriacone, sempre irritato, per dirla in
breve un brigante... Lo sposai, e da quel giorno non
fui più una ragazza di campagna, ma Nastàsja Se
menovna Žochova, una borghese... Mi pareva, si ca
pisce, una cosa lusinghiera.
UNA BE LLA VITA 385
Con questo marito mi tormentai per nove anni.
Borghesi eravamo solo di nome, ma la nostra pover
tà era tal quale quella dei contadini! Di nuovo litigi
e scandali ogni santo giorno. Ma il Signore ebbe
pietà di me e se lo prese. I figli avuti da lui eran
morti tutti, erano rimasti soltanto due ragazzi, uno,
Vànja, che aveva quasi nove anni e l’altro un lat
tante. Era questo un bambino molto, molto allegro
e sano; a dieci mesi cominciò a camminare, a chiac
chierare - tutti i miei figli nell’undicesimo mese co
minciavano a camminare e a parlare - beveva il tè
da solo, si aggrappava con tutte e due le manine al
piattino e non c’era verso di strapparglielo... Solo
che anche questo bambino morì che non aveva an
cora un anno. Una volta venni a casa dal fiume, e
la sorella di mio marito - noi avevamo preso in af
fitto un appartamentino insieme a lei - mi dice:
— Il tuo Kòstja oggi ha gridato e si è rivoltato
tutto il giorno. Io sono corsa subito da lui e ho fatto
questo e quello, facevo schioccar le mani, gli ho
dato dell’acqua zuccherata, ma soffocava, nient’altro,
e l’acqua gli usciva dal naso. O si infreddato o ha
mangiato qualcosa, sai, loro, i bambini mettono tut
to in bocca, come si fa a stargli dietro?
Io fui esterrefatta. Mi precipitai alla culla, scostai
la cortina, ma lui era già in agon ia: non poteva
nemmeno più gridare. La sorella corse a cercare un
infermiere nostro conoscente; egli venne:
— Cosa gli avete dato da mangiare? — dice.
— Ha mangiato — dico — una polentina di se
molino, e nient’altro.
— E non ha giocato con niente?
386 UNA BE LLA VITA
— Proprio così, ha giocato — dice mia sorella.
— Qui c’era sempre per terra un anellino di rame
d’un collare da cavalli, e lui giocava con quello.
— Be’ — dice l’infermiere — l’ha ingoiato di
sicuro. Che vi si possano seccar le mani! — dice.
— L’avete fatta grossa, adesso vi morirà!
E, si capisce, andò proprio così. Non eran passate
due ore ed era morto. Ci agitammo, ci agitammo,
ma non c’era niente da fare: contro la volontà di
Dio, si vede, non si va. E così seppellii anche quello
e mi rimase solo Vànja. Rimase lui solo, ma già,
come si dice, anche uno solo è signore. Un piccolo
omino, eppure mangia e beve non meno di un gran
de. Cominciai ad andare dal colonnello Nikùlin a
lavare i pavimenti. Era gente questa con un bel ca
pitale, aveva in affitto un appartamento e pagava
trenta rubli il mese. Loro al piano di sopra e sotto
la cucina. E da loro faceva la cuoca una donnetta già
vecchia, bruttina, placida di carattere, ma depravata.
E così rimase incinta, si capisce. Non poteva più
chinarsi a lavare i pavimenti, né a tirar fuori la pen
tola dalla stufa. Se ne andò a partorire, e io svelta
pigliai il suo posto: così abilmente m ’ero saputa
insinuare nelle grazie dei padroni! Io, già, a dir il
vero, fin da giovane ero abile e furba, qualunque
cosa mi mettessi a fare, facevo tutto bene, con esat
tezza, davo dei punti a qualsiasi cameriere, e sapevo
poi anche farmi apprezzare: qualunque cosa dices
sero i padroni, io sempre : « sissignore » e « proprio
così » e « avete perfettamente ragione... ». Mi alzavo
appena spuntava la luna, strofinavo i pavimenti, ac
cendevo la stufa, pulivo il sam ov ar : e quando i si
UNA BE LLA V ITA 387
gnori si svegliavano, avevo già tutto pronto. Anch’io,
si capisce, ero linda e pulita e, sebbene magra, bella.
Qualche volta avevo perfino pena di me stessa: “A
che pro” pensavo “la .mia bellezza e la mia condi
zione vanno sprecate in un lavoro così pesante?”
Pensavo fra me: “Bisogna approfittare dell’occa
sione” . E l’occasione era questa, che il colonnello era
un uomo che scoppiava di salute, e non poteva guar
darmi tranquillamente, e sua moglie era una tedesca,
grassa, malata, di almeno dieci anni più vecchia di
lui. Lui non era bello: massiccio, corto di gambe,
simile a un cinghiale, e lei peggio ancora. Vedo
ch’egli s’è messo a gironzolarmi intorno, a star con
me in cucina, a insegnarmi come si fuma. Appena
la moglie esce di casa, eccolo lì. Spedisce l’attenden
te in città con qualche pretesto, e se ne sta lì. Mi è
venuto mortalmente a noia, ma, si capisce, fingo e ri
do e stando seduta dondolo la gamba, insomma cerco
in ogni modo d'infiammarlo... Si sa, che ci vuoi fare,
la povertà, e qui come si suol dire c’era un ciuffo
di lana, perché farlo scappare? Una volta, il giorno
della festa dell’imperatore, entra in cucina in grande
uniforme, con le spalline, fasciato alla vita dalla
sua cintura bianca come da un cerchio, coi guanti
lustri nelle mani, e ha gonfiato il collo, s’è tutto
abbottonato, è diventato addirittura paonazzo e odo
ra tutto di profumo e gli occhi luccicano, i baffi son
neri, grossi... Entra e dice:
— Ora vado con la signora alla cattedrale; spol
verami gli stivali, che c e tanta polvere: non ho fat
to in tempo ad attraversare il cortile e mi son tutto
impolverato.
388 UNA B E L LA V I T A
Posò il piede sopra un panchetto, un qualunque
sgabello pulito, io mi chinai e mi accingevo a spol
verare lo stivale di vernice, ma lui mi afferrò per il
collo, mi strappò perfino il fazzoletto di capo, poi
mi agguantò per il petto e cercò di trascinarmi dietro
la stufa. Io mi dimenavo di qua e di là; non riu
scivo a svincolarmi in nessun modo, e lui era tutto
accalorato e per l’eccitazione aveva gli occhi iniettati
di sangue: cerca di sopraffarmi, di prendermi il vi
so e di baciarmi.
— Che fate! — dico. — Ora viene la signora,
andatevene, in nome di Cristo!
— Se mi amerai — dice — io per te non rispar
mierò nulla!
— Macché — dico — le conosciamo queste pro
messe.
— Non mi muoverò di qui, che possa morire sen
za penitenza!
E si capisce, tante altre cose simili. Ma, a dirla
in coscienza, che ne capivo io allora? Molto felice
mente potevo lasciarmi lusingare dalle sue parole,
ma, grazie a Dio, non ne venne fuori nulla. Egli
mi strinse un’altra volta fuori tempo, io mi svinco
lai, tutta scarmigliata, inviperita, e in quel momento
ecco la padrona: viene da sopra, agghindata, tutta
gialla e grossa come una morta, geme e fa frusciare
le vesti per la scala. Io mi svincolai e rimasi lì senza
fazzoletto in capo, e eccola proprio verso di noi. Lui
le passa davanti e se la svigna, e io sto lì come una
stupida e non so che fare. Lei si ferma e rimane
di fronte a me, tenendo in mano il lembo della ve
ste di seta - mi ricordo come se fosse ora che si era
UNA B E L LA V IT A 389
abbigliata per andare in visita e aveva un abito di
seta color cannella, dei mezzi guanti, l’ombrellino
e un cappello piccolo come un cestino — rimase lì
un poco, emise un gemito e se andò. Né a lui né
a me, a dire il vero, disse nemmeno una parola. E
quando il colonnello partì per Kiev, ella mi scacciò.
Io raccolsi la mia poca roba e tornai da mia so
rella (Van ja viveva da lei). Andata via da quel po
sto pensai di nuovo: la mia intelligenza va sprecata
senza costrutto, non posso guadagnar nulla, né ma
ritarmi come si deve né fare affari per conto mio.
Dio mi ha fatto torto. Tirerò la carretta daccapo,
pensai, mi arrabatterò in qualche maniera, e piutto
sto crepo, ma raggiungerò quel che voglio avere, un
mio capitale! Pensai, pensai, mandai Vàn ja da un
sarto, a imparare il mestiere e io andai a far la ca
meriera in casa del mercante Samochvàlov, e ci re
sistetti sette anni interi... da allora mi sollevai.
Come salario mi fissarono due rubli e un quarto.
A servire eravamo in due: io e la ragazza Vera. Un
giorno io servivo a tavola e lei lavava le stoviglie,
l’altro giorno io lavavo le stoviglie e lei portava in
tavola. Non si può dire che la famiglia fosse gran
de: il padrone, Matvéj Ivànovic, la padrona, Ljubòv
Ivànovna, due figlie grandi, due figli. Il padrone
era un uomo serio, poco ciarliero, i giorni feriali non
era mai in casa, ma quando era festa se ne stava
in camera sua, di sopra, leggeva ogni sorta di gior
nali e fumava il sigaro, e la padrona era semplice,
buona; anche lei, come me, di condizione borghese.
Le loro figlie, Anja e Klascia, le fidanzarono presto
e in un anno solo festeggiarono due matrimoni: le
390 UN A BE L LA V IT A
sposarono a due ufficiali. Fu allora, a dir la verità,
che io cominciai a raggranellare qualche cosa: i due
ufficiali davano moltissimo di mancia. Anche soltanto
per una cosuccia da nulla - se si porgevano i fiam
miferi, o il cappotto e le soprascarpe - eccoti venti
copechi, trenta... E noi andavamo vestite con una
pulizia straordinaria e piacevamo ai due ufficiali. Ve
ra, lei, a dir il vero, delicata e permalosa all’eccesso,
per un niente aggrottava le sue folte sopracciglia;
le labbra, simili a ciliege, cominciavano a tremare
e già le lacrime erano sulle ciglia - belle, davvero
belle, erano le sue ciglia, e grandi; come non ne
ho mai vedute a nessuno! - ma io ero un po’ più
intelligente. Io di solito indossavo un giubbetto li
scio con pettorina, ornato di pizzo, maniche corte;
sulla testa una treccia posticcia con un nastro di vel
luto nero; un grembiule bianco appena appena ina
midato: così che anche solo guardarmi era interes
sante. Vera, lei, si stringeva sempre nel busto - si
stringeva che di più era impossibile e subito le veniva
mal di testa fino alla nausea —io invece non ho mai
neppur conosciuto il busto, e anche così ero grazio
sa... Ma gli ufficiali se ne andarono e le mance co
minciarono a darmele i figli dei padroni.
Il più grande aveva già raggiunto i venti quando
io ero entrata a servizio e il minore era nei quat
tordici. Questo ragazzo era un povero paralitico. Si
rompeva di continuo mani e gambe; quante volte
io stessa ne sono stata testimone! Quando si rompe
va qualcosa, subito veniva il dottore, lo fasciava con
una quantità di ovatta e di garza, poi ci versava su
qualcosa, come una calcina, questa calcina si secca
U N A B E L LA V IT A 391
va appiccicata alla garza, si faceva come una scorza,
e quando arrivava il momento giusto e il dottore
tagliava e levava via tutto, la mano era bella e sal
data. Camminare da sé egli non poteva, e strisciava
sul sedere. Si trascinava su per i divani, attraverso
le soglie e per le scale. Perfino nel giardino entrava
strisciando per tutto il cortile. Aveva una testa gros
sa, irregolare, simile a quella del padre, i capelli
delle tempie ruvidi, rossicci, come il pelo di un ca
ne, la faccia larga, da vecchio. Però come mangiava!
con che avidità: e salame, e bombe di cioccolata, e
croccanti, e sfogliate, tutto quello di cui sentiva vo
glia. Ma i piedi e le mani erano fini, come zampe
di pecora, tutti fratturati e pieni di cicatrici. Per
lungo tempo l’avevano lasciato girare senza nulla
indosso, gli facevano fare soltanto delle lunghe ca
micie, di vario colore, ora azzurre, ora rosee. Gli
insegnava a leggere e scrivere una maestra della scuo
la ecclesiastica che veniva in casa. Studiava di buzzo
buono, era intelligente per davvero! E quando poi
suonava la fisarmonica, nessuno gli poteva tener te
sta a suonar così bene! Suonava e si accompagnava
col canto. La sua voce era forte, penetrante. Era so
lito intonare: «I o son monaco e bello!...». Questa
canzone la cantava spesso.
Il figlio maggiore era sano, ma anche lui una spe
cie di scimunito, inetto a qualsiasi lavoro. Lo aveva
no mandato a studiare in diverse scuole: lo avevano
cacciato da tutte e non gli avevano insegnato niente.
Non appena faceva notte, scappava chissà dove fin
all’alba. La madre tuttavia la temeva e per nulla al
mondo rientrava dall’ingresso principale. Io la sera
392 UNA BE LLA V ITA
finivo i miei lavori e aspettavo: non appena i pa
droni si addormentavano, attraversavo furtivamente
le stanze, aprivo la finestra del suo studio, e torna
vo al mio posto. Lui si toglieva le scarpe nella via, si
arrampicava sulla finestra con le sole calze e non fa
ceva il minimo rumore. Il giorno dopo si alzava co
me se niente fosse e in qualche canto appartato mi
ficcava in mano quel che gli sembrava giusto. Io
perché mi sarei dovuta preoccupare di lui? Accet
tavo con gran piacere! Se si rompeva la testa, era af-
far suo... E a questo punto anche il minore, Nikanòr
Matvéic, divenne per me una fonte di guadagni.
Io miravo allora al mio scopo addirittura giorno
e notte. Ficcatomi in testa quest’unico piano, di assi
curarmi assolutamente l’avvenire e sposare un bra-
v’uomo, m ’ero tenacemente attaccata a questa vita
di economie. Ogni copeco lo mettevo da parte: i
denari, loro, hanno le ali, se li lasci solo andar via
dalle mani! Feci licenziare quella Vera — e di lei,
del resto, a dirla in coscienza, non c’era bisogno -
e dissi ai padroni così : « Me la caverò anche da so
la, voi piuttosto aggiungetemi una sciocchezza » ed
ero rimasta sola a portar la barca. La paga non la
prendevo nemmeno in mano: appena c’erano venti
o venticinque rubli, subito pregavo la padrona di
passar dalla banca e di depositarli al mio nome.
Vestiti, scarpe, tutta la roba della padrona mi an
dava bene, perché avrei dovuto spendere? Feci sol
tanto una spesa, un piccolo ricordo per la tomba di
mio marito, che pagai due rubli e sette griv n y , per
ché la gente non criticasse. E qui, per mia fortuna
UNA BE LLA V ITA 393
e sua disgrazia, s’innamorò di me, che il Signore
mi perdoni, quel poveretto...
Adesso si capisce, mi vien da pensare : forse è per
lui che il Signore mi ha castigato colpendomi nel
mio figliolo! Qualche volta non mi esce dalla testa
- ecco, ora racconterò quel ch’egli fece contro se
stesso — ma anche questo dev’esser preso in consi
derazione, ché ciò faceva rabbia: a volte io guarda
vo quel testone, una tale stizzosa tristezza! “Che ti
prenda il malocchio” pensavo “sei nato con la ca
micia, tu! Ecco, è uno storpio, ma in mezzo a quale
ricchezza vive! Il mio invece è bello, e la festa non
mangia e non beve quel che mangi e bevi tu, senza
fermarti un momento, nei giorni di lavoro!” Comin
ciai a notare che aveva l’aria di essere innamorato
di me e che non mi toglieva mai gli occhi di dosso.
Aveva allora già sedici anni, indossava pantaloni
larghi alla cosacca, stringeva la camicia con una cin
tura e gli spuntavano dei baffi rossicci. Ed era brut
to, butterato, con gli occhi verdi: che Iddio mi liberi!
Aveva la faccia larga, ed era magro come un osso.
Dapprima, si vede, s’era messo in testa di poter pia
cere: aveva cominciato a far lo zerbinotto, a com
prare semi di girasole, e suonava spesso con tanta
bravura la fisarmonica che non ci si stancava di stare
a sentirlo. Davvero, suonava bene! Poi vide che non
riusciva a nulla e si calmò, divenne pensieroso. Una
volta sono sul ballatoio e vedo che striscia per il
cortile con una nuova fisarmonica tedesca —si era di
nuovo raso e pettinato, aveva indossato una camicia
azzurra coi colletto alto, chiusa con tre bottoni, e
tiene la testa rovesciata - evidentemente mi cerca.
394 UNA BE LLA V ITA
Mi guardò, mi guardò, fece gli occhi languidi, tor
bidi, e si mise a cantare a tempo di polka:
Andiamo, andiamo più svelti
insieme a ballare la polka,
ballando io mi sento più ardito
potrò rivelarti il mio amore.
E io, come se non me ne fossi accorta, rovesciai
giù l’acqua dei gargarismi. La rovesciai, ma non ne
fui contenta e mi prese una gran paura: adesso,
pensavo, avrò il fatto mio. E lui striscia su per la
scala, con una mano si asciuga, con l’altra trascina
la fisarmonica: abbassò gli occhi, si fece tutto palli
do e mi dice, così modesto, con un tremito:
— Che vi si secchino le mani! Questo vi porterà
disgrazia, Nàstja.
E nient’altro... Era davvero di carattere dolce. Di
magrava in quel tempo addirittura non di giorno in
giorno, ma di ora in ora, e il dottore aveva già detto
che non sarebbe vissuto a lungo, che era condannato
a morire di tisi. Mi dava un senso di ripulsione il
solo toccarlo. Ma una persona povera, si vede, non
può avere troppe delicatezze; coi denari si può far
tutto, ed egli cominciò a comprarmi. Quando tutti
si appisolavano dopo pranzo, egli subito mi chiama
va a sé: o nel giardino, o nella sua camera. (Egli
viveva separato da tutti gli altri, al piano di sotto,
in una camera grande, calda, ma uggiosa, con tutte
le finestre sul cortile, il soffitto basso e una tappez
zeria vecchia, color cannella.)
— Tu — diceva — sta’ un po’ con me, io per
questo ti darò dei soldarelli. Da te non mi occorre
UNA BE LLA V ITA 395
nulla, ma sono semplicemente innamorato e voglio
restare un po’ con te. A star solo i muri mi hanno
mangiato!
E così io prendo il denaro e rimango un poco.
E in questa maniera misi assieme un mezzo centi
naio di rubli. E coi salari e gli interessi in banca,
ne avevo già quattrocento. “È dunque tempo” pen
so fra me “di liberarsi a poco a poco del giogo.”
E, a dirla in coscienza, mi rincresceva: avrei voluto
resistere ancora un annetto o due, metter da parte
ancora qualche cosetta, e soprattutto, egli si era la
sciato sfuggire che aveva un salvadanaio segreto, con
due centinaia di rubli avuti a spizzico dalla madre:
si sa, spesso era malato, se ne stava in letto tutto
solo, e la madre glieli dava per divertirlo. E io fac
cio finta di niente, e penso: “Perdona, Signore, il
mio peccato, sarebbe meglio che li desse a me quei
denari! Tanto a lui non fan di bisogno, può morir
da un momento all’altro, e io posso mettermi a posto
per tutta la vita”. Aspetto soltanto come realizzar
la cosa il più accortamente possibile. Diventai, si ca
pisce, più affettuosa, cominciai a trattenermi più spes
so con lui. Entro nella sua camera, e a bella posta
mi volto anche indietro, come se entrassi furtivamen
te, chiudo la porta e dico bisbigliando:
— Eccomi qui — dico, — mi son sbrigata di tut
to, stiamo un poco insieme.
E mi do un’aria come se avessimo fissato un ap
puntamento, e come se io fossi timorosa, e contenta
di essermi sbrigata e di poter rimanere con lui. Poi
cominciai a fingermi triste, pensierosa. E lui cerca di
sapere :
396 U N A B E L LA V I T A
— Nàstja, perché ti sei fatta così malinconica?
— Così — dico — ho forse pochi dispiaceri?
Poi sospiro ancora, taccio e appoggio una guancia
alla mano.
— Ma di che si tratta? — dice.
— Forse che la povera gente ne ha poche di
preoccupazioni? ma chi se ne addolora? Io non vo
glio nemmeno annoiarvi con questi discorsi.
Be’, egli indovinò rapidamente. Intelligente, di
co, lo era abbastanza anche per un sano. Una volta
io venni da lui - era, mi ricordo, di mezza quare
sima, con un tempo nuvoloso, umido; c’era la neb
bia, in casa tutti dormivano dopo il pranzo — entrai
da lui con un lavoro in mano, mi stavo cucendo qual
cosa, mi sedetti accanto al letto e mi preparavo già
a sospirare, a fingermi di nuovo triste, a ricordargli
con bel modo la cosa, ma cominciò lui a parlarne.
Era coricato, mi par di vederlo adesso, con indosso
una camicia rosa, nuova, non ancora lavata, in cal
zoni larghi azzurri, gli stivaletti nuovi coi gambali
verniciati, i piedi incrociati e guardava in tralice. Le
maniche erano ampie, i calzoni ancora più ampi, e i
piedi, le mani come dei fiammiferi; la testa pesante,
grossa, e lui piccolo, perfino a guardarlo dava fa
stidio. Se gli davi un’occhiata, ti pareva un ragazzo,
e aveva una faccia da vecchio, benché sembrasse gio
vanile - per effetto del gran radersi - e i baffi erano
folti. Quasi ogni santo giorno si radeva, tanto folta
e dura era la sua barba; aveva le mani butterate e
tutte coperte di peli rossicci. Come ho detto, era
coricato; si rigirò sul fianco, si voltò verso il muro,
grattò la tappezzeria, e a un tratto disse:
UNA BE LLA V ITA 397
— Nàstja!
Io perfino trasalii tutta.
— Che volete, Nikanòr Matvéic?
Sentii il cuore saltarmi in gola.
— Tu sai dov’è il mio salvadanaio?
— No — dico — io questo, Nikanòr Matvéic,
non lo posso sapere. Non ho mai avuto in mente
intenzioni cattive contro di voi.
— Alzati, apri il cassetto di sotto il guardaroba,
prendi la vecchia fisarmonica, è lì dentro. Dammelo
qua.
— Ma perché lo volete?
— Così. Voglio contare il denaro.
Io rovistai nel cassetto, alzai il coperchio della
fisarmonica, e lì nel mantice era nascosto un elefan
te di latta, discretamente pesante, lo sentii. Lo cavai
fuori, glielo porsi. Lo prese, lo fece risuonare, se
lo mise accanto, un vero bambino, per Dio! e si
mise a pensare chissà a cosa. Taceva, taceva, ma poi
sorrise e disse:
— Io, Nàstja, questa notte ho fatto un bel so
gno, che mi ha fatto svegliare prima dell’alba, e
sono stato molto bene tutto il giorno fino all’ora di
pranzo. Guarda un po’, mi sono perfino rasato e fat
to elegante per te.
— Ma voi, Nikan òr Matvéic, andate sempre ben
vestito.
E io stesso non capisco quello che dico, tanto sono
agitata.
— Be’ •—- dice — a quanto pare è all’altro mon
do ormai che mi toccherà andare. Che bel giovane
398 U N A B E L L A V IT A
sarò all’altro mondo, tu non te lo puoi neanche im
maginare!
Mi fece perfino pena.
— Rider di ciò — dico — è peccato, Nikan òr
Matvéic, e a che scopo lo dite? Non lo posso ca
pire. Forse — dico — se Dio vorrà, guarirete an
cora. Ditemi piuttosto, che sogno avete fatto?
Egli si mise di nuovo a parlare per allusioni, si
mise a sogghignare : « Che abitante di questo mon
do son io? » e a sproposito si mise a discorrere del
la nostra vacca: « D i’, per l’amor di Dio, alla mam
ma, che la venda, io non ne posso più, mi è venuta
a noia, sto sul letto e guardo sempre oltre il cortile
la piccola stalla dov’essa si trova, e quella a sua volta
guarda sempre me dalla grata » e intanto non fa che
sbattere il salvadanaio coi denari e non mi guarda
negli occhi. E io ascolto e non capisco la metà di
quel che dice; come due pazzi ci comportiamo, a
parlar di quel che capita, dal Don al mare, infine
non ressi più: “Ecco, da un momento all’altro” pen
so “si sveglieranno tutti, chiederanno il sam ov ar, e
allora il mio affare va a monte!” e mi affretto a in
terromperlo, giocando d ’astuzia:
— Ma no — dico — dite piuttosto che sogno
avete fatto. Qualcosa a proposito di noi?
Volevo, si capisce, dirgli una cosa piacevole e
abilmente l'imbroccai: si scolorò tutto e abbassò gli
occhi. A un tratto prese il salvadanaio, tirò fuori
una chiavetta dai calzoni, lo voleva aprire e non ci
riusciva in nessun modo, non poteva infilare il buco
della serratura, tanto gli tremavano le mani; final
mente l’aprì e se lo rovesciò sul ventre — come se
UNA BE LLA V ITA 399
fosse adesso mi ricordo che c’erano due banconote
e otto monete d’oro - le raccolse in mano e a un
tratto mi disse con un bisbiglio:
— Mi puoi baciare una volta?
Mi si stroncarono le braccia e le gambe dallo
spavento. E lui dà in frenesia, bisbiglia, si allunga
verso di me:
— Nàstecka, una volta sola! Dio mi è testimonio,
non dirò mai più una parola, non te lo chiederò mai
più!
Io mi guardai intorno. “Be’” penso “sarà quel che
sarà!” e lo baciai.
Egli ansò tutto addirittura, mi afferrò il collo, mi
cercò le labbra e per un minuto, credo, non le lasciò.
Poi mi ficcò in mano tutti i denari e si voltò verso
il muro. « Vattene » disse.
Io saltai via, difilato nella mia camera. Chiusi i
denari a chiave, pigliai un limone e giù a strofinarmi
le labbra. Le strofinai tanto che diventarono tutte
bianche. Avevo, lo confesso, una gran paura, che mi
attaccasse la tisi...
E così questa faccenda era riuscita bene, grazie
a Dio, ed io cominciai a combinarne un’altra, un po’
più importante, per la quale mi dovetti rompere la
testa più che per tutto il rimanente. Fiuto uno scan
dalo, ho paura che mi licenzino; “Ora comincerà”
penso “a seccarmi col suo amore, a farmi la predica
per quei denari...” Invece, niente. Non si fa petu
lante, si comporta come prima, esattamente come se
fra noi non ci fosse stato nulla, anzi, mi pare, è an
cora più modesto e non mi chiama nella sua came
ra: mantiene dunque la parola. Allora conduco i
400 U N A BE L LA V I T A
padroni su questo discorso: è ora, dico, che io mi
occupi un pochino di mio figlio, che mi disimpegni
per un po’ di tempo. I padroni non ne vogliono nep-
pur sentire. E non parliamo poi di lui. Gielo ac
cennai una volta: impallidì tutto. Si voltò verso il
muro, e disse con un sogghigno, così:
— Tu — dice — non hai il diritto di far questo.
Mi hai lusingato, mi hai abituato a te. Devi aspet
tare un poco, io morirò presto. Se andrai via, mi
impiccherò.
Bel modesto davvero! Ah, penso, sei proprio sen
za coscienza! Io per te mi son fatta violenza, e tu
per di più mi minacci! Eh, no, non son poi così
stupida! E cominciai ancora più di prima a cercare
un pretesto. Molto a proposito, era allora nata alla
padrona un’altra bambina; le presero una balia, e
io trovai la scusa che con lei non ci potevo vivere.
Era veramente una vecchia cattiva, bisbetica, perfino
la padrona la temeva, e per di più anche un’ubria-
cona, una mezza bottiglia non mancava mai sotto il
suo letto, e accanto a sé non poteva sopportare nes
suno. Cominciò a sparlare di me, a denigrarmi in
tutti i modi. Ora non avevo stirato bene la bianche
ria, ora non sapevo servire a tavola... E se dicevo
una parola, fremeva tutta e correva a lagnarsi. Pian
geva a dirotto, ma si capisce non tanto per l'offesa
quanto per ipocrisia. E di male in peggio; così io
dico ai padroni:
— Così e così, mettetemi in libertà, questa vec
chia mi fa odiare la vita, mi ammazzerò.
Intanto avevo già messo gli occhi su una casa
in via Gluchàja. E la padrona, sentendo il mio pro-
U N A B E L LA V IT A 401
posito, non stette più a trattenermi. Veramente, quan
do si accomiatò da me, m ’invitò di nuovo con grandi
insistenze a tornare da lei o, almeno, a venire qual
che volta alle feste, agli onomastici:
— Ë necessario — dice — che tu venga sempre
a metter in ordine, a preparare. Io — dice — solo
quando ci sei tu sono tranquilla. Mi sono abituata
a te come a una parente.
Al momento in cui andai via mi diede il pane e
il sale 1 - la stizza dunque le era passata - aveva
fatto cuocere un grosso pane bianco e aveva riem
pito un’intera saliera di sale. Io ringraziai in tutti
i modi, ma, si capisce, non è il caso d’aver troppi
scrupoli : penso una cosa e ne dico un’altra. Pro
misi mari e monti, feci dei grandi inchini, e me ne
andai. E, Signore assistimi tu, subito all’opera! Com
prai quella casa, aprii una bettola. L’esercizio si av
viò magnificamente - la sera contavo l’introito: tren
ta o quaranta rubli e anche quarantacinque - e io
pensai di aprire ancora una botteguccia, perché una
cosa si aggiungesse all’altra. La sorella di mio ma
rito da molto tempo aveva sposato un sorvegliante
della Croce Rossa; egli mi chiamava sempre comare
ed eravamo in buoni rapporti; andai da lui: presi
in prestito una bagattella per tutto l’impianto, per le
licenze, e cominciai a commerciare. Per l’appunto
allora Vàn ja aveva finito il suo tirocinio. Mi consi
glio con gente avveduta, domando dove ho da siste
marlo.
1. L’offerta del pane e sale è il simbolo dell’ospitalità russa.
(N . d. T .)
402 U N A B E L LA V I T A
— Ma dove lo vuoi sistemare? — dicono — a te
anche in casa il lavoro non manca.
Era vero. Metto Vanja in bottega e io sto nella
bettola. E cominciò il pasticcio. Io, si capisce, mi
ero dimenticata anche di pensare a tutte quelle scioc
chezze, sebbene, a dirla in coscienza, lui, quel disgra
ziato, si fosse perfino messo a letto quando io stavo
per venir via. Non aveva detto una parola a nessuno
e si era messo a letto proprio come morto, scordan
dosi anche della sua fisarmonica. A un tratto, quan
do meno me l’aspettavo, ecco in cortile la Polkàni-
cha, quella certa balia (i ragazzi l’avevano sopranno
minata Polkànicha). Compare e dice:
— Un uomo — dice -— m ’ha detto di salutarti,
ti chiede di andarlo a trovare ad ogni modo.
Mi sentii salire il sangue alla testa dalla rabbia
e dalla vergogna! Bell’angioletto, penso fra me. Cosa
s’è messo in testa! Bell’amica che s’è trovata! Non
seppi trattenermi e dissi:
— A me i suoi saluti non fan di bisogno, che
pensi alla sua disgrazia, e quanto a te, vecchia stre
ga, è una vergogna tener mano a certi intrighi. Hai
sentito o no?
Lei rimase di stucco. Sta li, tutta curva, mi guar
da di sottecchi con gli occhi gonfi, e solo tentenna
la sua capoccia. Fosse il caldo o la vodka, ma era
inebetita.
— Ehi tu -— dice — non senti proprio nulla!
Lui — dice — l’hai fatto proprio piangere. Tutta
la sera ieri è stato sdraiato con la faccia al muro,
e piangeva da rompersi il petto.
— Che? — dico — dovrei forse inondarmi di
U N A B E L LA V IT A 403
lacrime anch’io? E non ha avuto vergogna, col suo
pelo rosso, di piangere davanti alla gente? Guarda
un po’ che bambinello! O l’avete staccato dal pop
patoio?
E così mandai via quella vecchia senza soddisfa
zione e quanto a me non ci andai. E lui dopo un
mese e mezzo s’impiccò davvero. Allora, si capisce,
mi rammaricai molto di non esserci andata, ma ave
vo altro per la testa. Nella mia casa stessa uno scan
dalo spingeva all’altro.
Due delle camere della casa le avevo date in af
fitto; una l’aveva presa il brigadiere della nostra se
zione, un uomo eccellente, serio, perbene, Ciàjkin
di casato; nell’altra si era stabilita una signorina,
una prostituta. D ’un biondo chiaro, giovane, e quan
to al vivo non c’era male, era bella. Si chiamava Fé-
nja. Veniva a trovarla l’impresario Chòlin, era la
sua mantenuta; be’, io le diedi la stanza, facendo
assegnamento su questo. Ma, nemmeno a farlo ap
posta, sorse tra loro un dissidio, e lui la piantò. Che
farci? Lei non aveva di che pagare, e scacciarla non
si poteva: era in debito di otto rubli.
— Bisogna, signorina — dico — cavar denaro
agli scapoli, la mia casa non è un ospizio.
— Io — dice — faccio del mio meglio.
— Ma il vostro sforzo non si vede — dico. —
Invece di darvi da fare, tutte le sere ve ne state a
casa, sempre a casa. Su Ciàjkin — dico — non c’è
da contare.
— Io mi do da fare. Mi fa perfino male alla
coscienza starvi a sentire.
— A-ah!, quale coscienza, se è lecito?
404 U N A B E L LA V IT A
Mi do da fare, mi do da fare, ma veramente non
si vede. Cominciava già a girare intorno a Ciàjkin,
ma lui non la volle nemmeno guardare. Poi vedo che
si è attaccata a mio figlio. Guardo, guardo: lui è
sempre accanto a lei. Tutt’a un tratto gli venne il
ghiribizzo di farsi una giacca nuova.
— No — dico — devi aver pazienza! Già adesso
ti vesto come uno zerbinotto: ora un paio di stiva
letti, ora un berretto. Io, dico, mi sono privata di
tutto, ho messo da parte ogni copeco, ma a te ho sem
pre provveduto.
— Io — dice — sono un bel giovane.
— Ma, pazzo, che io forse per la tua bellezza
debbo vendere la casa?
Mi accorgo che il mio commercio va peggio. I
conti di cassa non tornano; perdite. Mi siedo a bere
il tè: anche il tè mi disgusta. Cominciai a sorve
gliare. Me ne stavo nella bettola e ascoltavo tutto:
mi appoggio alla parete, mi nascondo e ascolto. Oggi
sento che bisbigliano, domani bisbigliano... Presi a
rimproverarlo.
— Ma a voi — dice — che importa? Può darsi
che io la voglia sposare.
— Ho da sentire anche questa: alla madre non
deve importare!
— Lei mi ama pazzamente, voi non la potete ca
pire, è delicata, timida.
— Bell’amore — dico — da una schifosa sgual
drina qualunque! Lei ti prende in giro, stupido. Lei
— dico — ha la malattia brutta, le sue gambe son
tutta una piaga.
Restò di sasso: guarda dritto davanti a sé e tace.
U N A B E L LA V IT A 405
Bene, penso, che tu sia lodato, Signore, ho toccato
il punto giusto. Ma tuttavia mi spaventai a morte:
è dunque evidente: ha pigliato una cotta, il colom
belle! “Bisogna dunque” penso “ad ogni costo e al
più presto, farla finita.” Mi consiglio col compare,
con Ciàjkin. « Suggeritemi qualcosa » dico. « Che
dobbiamo fare? » « Ma si sa » dice « bisogna pi
gliarla e scaraventarla fuori, ecco quello che si deve
far subito. » E immaginammo questo trucco. Io finsi
di andare in visita. Uscii, passeggiai un po’ per le
strade, e verso le sei, quando cioè Ciàjkin aveva il
cambio, pian pianino, torno a casa. Mi avvicino, spin
go la porta ed è proprio così: è chiusa. Busso: zitti!
Busso un'altra volta, una terza: nessuno risponde.
E Ciàjkin è già dietro la cantonata. Cominciai a pic
chiare alle finestre: tremano perfino i vetri. A un
tratto un colpo di catenaccio: Vàn ’ka. È bianco co
me il gesso. Gli do un urtone nella spalla con tutta
la forza, e difilato in camera. Un vero e proprio fe
stino; bottiglie di birra vuote, vino da tavola leg
gero, sardine, una grossa aringa ripulita, come ambra
rosea: tutto preso in bottega. Fénika è seduta su
una sedia, con un nastro azzurro nella treccia. Ap
pena mi vide, balzò su, ma ripiombò sulla sedia.
Mi guarda con gli occhi spalancati e intanto le lab
bra le si son fatte livide dalla paura (credeva che
mi sarei buttata a picchiarla). Invece io dico sempli
cemente, ma intanto non posso neppur respirare, e
un po’ tiro giù lo scialle, un po’ mi ci avvolgo di
nuovo :
— O che ci avete qui, uno sposalizio? O è l’ono-
406 U N A BE L LA V I T A
mastico di qualcuno? Perché non ci fate accoglien
za, non ci offrite nulla?
Stanno zitti.
— Perché — dico — state zitti? Perché stai zitto,
figliolino? Bel padrone di casa che sei, mio caro!
Ecco, dove se ne vanno i miei soldi guadagnati col
sangue!
Egli aveva già arruffato il pelo:
— Anch’io son grande ormai!
— Ah, sì! — dico — e io allora che ho da fare?
Dovrei dunque, per grazia tua, pigliare in affitto la
bettola da questa cagna? Uscire dalla mia casa? Così,
forse? Ho dunque scaldato la serpe in seno?
Come si mise a urlare contro di me!
— Voi non la potete offendere! Anche voi siete
stata giovane, dovete capire che cos’è l’amore!
Ma Ciàjkin, che ha udito queste grida, è già lì:
fece un salto, senza dire una parola afferrò Van’ka
per le spalle, lo cacciò nello sgabuzzino e diede un
giro di chiave (era un uomo di forza straordinaria,
un vero gigante!). Chiude e dice a Fénka:
— Voi passate per signorina, ma io posso farvi
dare il biglietto del lupo 1.
— Volete questo — dice — sì o n o?... Oggi stes
so lasciaci libera la stanza, che qui non si senta più
neanche il tuo odore!
Lei scoppiò in lacrime. E io aggiunsi ancora:
— Prima però mi dia i quattrini! — dico. — Se
no non le restituirò nemmeno l’ultimo bauletto. Pre
1. Tipo di tessera o passaporto con l'indicazione che il pos
sessore non poteva assumere alcun servizio perché sospetto.
(N . d. T.)
U N A B E L LA V IT A 407
para i quattrini, se no ti screditerò per tutta la città!
E così la misi fuori quella sera stessa. Mentre la
scacciavo, si disperava terribilmente. Piangeva, sof
focava, si strappava perfino i capelli. Si capisce, an
che la sua sorte non era piacevole. Dove rifugiarsi?
Ogni suo avere, ogni suo guadagno l'aveva con sé.
Ma se ne andò. Anche Vànja si acquietò per un po’
di tempo. La mattina dopo uscì di sotto chiave, e
non disse né ai né bai: aveva molta paura e la co
scienza gli rimordeva. Si mise a lavorare. Io mi ral
legrai e mi calmai, ma non per lungo tempo. Il de
naro tornò a volar via dalla cassa; quella schifosa
cominciò a mandare alla bottega un ragazzetto, e lui
la forniva di lesso e di arrosto! Ora le mandava del
lo zucchero, ora del tè, ora del tabacco... Voleva un
fazzoletto e lui mandava un fazzoletto; del sapone e
lui mandava il sapone: tutto quel che gli veniva
sotto mano... Si poteva forse sorvegliarlo? Anche del
vino prese a spillare e si faceva sempre più cattivo.
Finalmente piantò la bottega del tutto: a casa non
ci viveva quasi più, veniva soltanto a mangiare, e
poi di nuovo se la svignava. Ogni sera andava da
lei: una bottiglia sotto la casacca, e via! e quella,
la vodka, era già rincarata. Io mi dibatto come un’a-
sfissiata: dalla bettola alla bottega, dalla bottega al
la bettola, e ormai ho paura di dirgli una parola: era
diventato un vero vagabondo. Era stato sempre bello,
aveva preso da me, davvero; di viso bianco, delicato,
una vera signorina, occhi limpidi, intelligenti, capelli
ricciuti... E ora il grugno gli s’era gonfiato, i capelli
infoltiti gli arrivavano sul colletto, aveva gli occhi
torbidi, era tutto strappato; cominciò a camminar
408 U N A B E L LA V IT A
curvo, e taceva sempre, guardando dritto davanti a
sé.
— Ora non mi seccate! — dice, -— potrei far
cose da galera.
E comincia ad ubriacarsi, ha la bava sulle labbra,
ride di un niente, si fa pensieroso, suona sulla fisar
monica “Il tempo che non tornerà”, e gli occhi
gli si riempiono di lacrime. Vedo che la mia situa
zione è brutta, bisogna che mi rimariti al più pre
sto. Come a farlo apposta mi propongono un vedo
vo, un bottegaio anche lui, di un sobborgo. Un uomo
anziano, che gode di credito e possiede qualcosa.
Proprio quello che cercavo io. M ’informo in fretta
da persone sicure per filo e per segno della sua vita;
magagne vedo che non ce ne sono: bisogna decider
si, bisogna al più presto far conoscenza: prima d’al-
lora la sensala ci aveva soltanto indicati l’uno all’al
tro, in chiesa, bisogna quindi trovare un pretesto,
frequentarsi a vicenda, far le presentazioni. Dap
prima viene lui da me, si presenta: « Ljagùtin Ni-
kolàj Ivànovic, bottegaio ». « Felicissima » dico. Ve
do ch’è un uomo come si deve; di statura, vera
mente, è piccolino, tutto grigio, ma garbato, quieto,
lindo, pieno di maniere e di tatto: si vede, un uomo
economo. « In tutta la vita » dice, « non ho mai pre
so in prestito un centesimo da nessuno. » Poi com
bino con la sensala di andar da lui, come per affari.
Arriviamo. Vedo che ha una cantina e una bottega
con tutto quel che ci vuole insieme col vino: là c’è
del lardo, del prosciutto, sardine, aringhe. La ca
setta è piccola, ma è un vero specchio. Alle finestre
tendine, fiori, il pavimento è scopato bene, nono
U N A B E L LA V ITA 409
stante che egli viva solo. Anche il cortile è in or
dine. Tre vacche, due cavalli. Uno di essi è una
cavalla di tre anni, gli hanno offerto già cinque
cento rubli, dice, ma non l’ha voluta vendere. Sì, io
m ’innamorai addirittura di quella cavalla, tanto era
bella! E lui non fa che sorridere cheto cheto, cam
minare, trotterellare davanti a noi, far scricchiolare
le dita e spiegare, come se leggesse un listino di
prezzi: ecco, qui c’è questo, là c’è quello... Dun
que, penso, qui non c’è da far la sofistica, bisogna
concludere l’affare...
Si capisce, tutto questo io lo racconto adesso in
succinto, ma quello che provai a quel tempo lo sa
soltanto il mio cuscino. Non mi sentivo più le gam
be dalla gioia - ho pur raggiunto il mio scopo, pen
savo, ho trovato il partito per me! - e tacevo, teme
vo, tremavo tutta: e se ora tutte le mie speranze an
dassero a monte? E così per poco non accadde, tutti
i miei sforzi furono a un pelo dall’andar perduti,
e per quale ragione anche ora m ’è impossibile dirlo
tranquillamente: per causa di quel disgraziato, sì,
e del mio caro figliolino! Noi trattammo l’affare in
un modo così discreto, così perbene, che c’era da
pensare non sarebbe arrivato all’orecchio di nessuno.
Ecco invece che già tutto il sobborgo sa dei progetti
fatti da me e da Nikolàj Ivànyc; la voce arrivò, si
capisce, anche ai Samochvàlovy : forse fu la stessa
Polkànicha a riportarla. E lui, quel disgraziato, dico,
ecco che s’impiccò! Come a dire: eccoti, te l’avevo
minacciata, non l’hai creduto, così ora lo farò per
dispetto! Piantò un chiodo nel muro al disopra del
letto, ci attaccò la funicella di un pan di zucchero,
410 UNA BE L LA V ITA
serrò il nodo e si spenzolò dal letto. Non è un gio
chetto difficile, non ci vuole un grande ingegno!
Una sera al tramonto, me ne sto in bottega, faccio
ordine: a un tratto qualcuno picchia, picchia a un’im
posta della casa! Il cuore mi dette uno strappo ad
dirittura. Balzo fuori sulla soglia: la Polkànicha.
— Che vuoi?
— Nikanòr Matvéic vi ha lasciato l’augurio di
vivere a lungo!
Buttò lì queste parole, si voltò, e via a casa! E io
nella foga non rifìettei — dalla paura m’ero sentita
come scottata - mi buttai addosso uno scialle, e via
dietro. Lei corre, col lembo davanti della gonna tira
to su, incespica, si curva, e corro anch’io... Un vero
disonore agli occhi di tutta la città! Corro e non
capisco niente. Penso una cosa sola: “Sono finita!
È forse uno scherzo quello che ha fatto, che Dio
l’abbia in gloria? Fino a che punto” penso “la gen
te è senza coscienza!”. Accorro e c’è già lì una folla
di gente come a un incendio. La porta principale è
spalancata, entra chi vuole: tutti, si sa, son curiosi.
E io stupida, stavo entrando. Ma per fortuna qual
cuno mi dette un colpo alla testa: tornai in me, mi
girai, e dietro-front! Così forse mi salvai, se no avrei
avuto il fatto mio. Se a qualcuno fosse venuto in
mente — magari a quella Polkànicha, per maligni
tà - di dire: « Ecco, signoria, chi sospettiamo sia la
causa di tutto, vogliate interrogarla » era finita. Va’
poi a sbrogliartela! Succede spesso che una persona
non c’entri e te la mettono dentro... Non sarebbe
stato il primo caso!
E così lo seppellirono, e a me cadde un peso dal
U N A B E L L A V IT A 411
cuore. Mi preparo alle nozze, mi affretto a termi
nare le mie faccende, a vendere quello che si può,
senza perdite: a un tratto ecco un nuovo guaio. Ave
vo già le gambe rotte per il gran da fare, ero tutta
arrostita dal caldo - e quell’anno faceva un caldo
addirittura insopportabile, con un polverone, un ven
to infocato, specialmente da noi, alla via Gluchàja,
su quei pendii — e ecco un’altra novità: Nikolàj
Ivànyc s’è offeso. Mi manda quella nostra sensale,
che ci aveva fatto conoscere (era una cagna rabbio
sa, lei stessa, con quegli occhi così vivi, e l’aveva
messo su contro di me): «N ik olàj Ivàn yc» dice
« vi fa dire per mezzo mio che rimanda le nozze al
primo di settembre, perché ha degli affari, e quanto
a vostro figlio, a Vànja, vi raccomanda di pensarci
un po’ meglio e di collocarlo in qualche posto, per
ché, dice, in casa sua non lo prenderà per nulla
al mondo. Sebbene, dice, sia tuo figlio, ci rovine
rebbe tutti e due completamente e disturberebbe
m e ». (E anche, è vero, la sua situazione. Dato che
non aveva mai conosciuto il chiasso, non aveva mai
sollevato scandali, si capisce, temeva di agitarsi: ap
pena si agitava, tutto gli si confondeva sempre nella
testa e non era più capace di dire una parola.) Che
lei se ne liberi, dice. Ma dove ho da collocarlo, dove
ho da metterlo? Il ragazzo è incorreggibile: fra
estranei, penso, perderà la testa del tutto, ma quan
to a liberarmene non c’è che fare. Io stessa mi son
ridotta maluccio con lui fin da quando ha conosciuto
Fén ka: l’ha proprio stregato, la cagna! Durante il
giorno dorme, la notte si ubriaca: la notte piglia il
posto del giorno. Quanti dispiaceri dovetti soppor
412 UNA BE LLA V ITA
tare con lui quell’estate è impossibile dirlo! Mi sfinì
al punto che cominciai a consumarmi come una can
dela, non potevo tenere il cucchiaio, mi tremavano
le mani. Appena si faceva buio, mi sedevo sopra
una panca davanti alla casa e aspettavo che tornasse
dalla strada, temevo che i ragazzi del sobborgo lo
picchiassero. Una volta, dopo essermi angosciata da
morirne, corsi a guardare nel sobborgo: sento un
baccano, delle grida, pensavo che gli accarezzassero
le spalle, e mi rimpiattai nel borro...
E così, avuta notizia da Nikolàj Ivànyc di quella
decisione, lo chiamo da me : « Le cose stanno così »
dico, « figliolo mio; io ti ho sopportato per lungo
tempo, ma tu ti sei lasciato andare e ti sei sviato
completamente, mi hai disonorata per tutto il cir
condario. Ti sei abituato a oziare e a viver comodo,
e finalmente sei diventato un vero vagabondo, un
ubriacone. Le qualità che ci ho io, tu non ce l’hai:
quante volte sono caduta e mi sono ritirata su, tu
invece non sei capace di metterti da parte nulla. Io,
vedi, mi sono guadagnata il rispetto della gente, e
ci ho dei beni immobili, e mangio e bevo non peg
gio degli altri, non devo macerarmi l’anima e tutto
questo perché le mie spalle fin dagli anni più lontani
hanno sopportato di tutto. Tu invece, come sei stato
sciupone, così, si vede, vuoi rimanere. È tempo che
tu non mi stia più sul collo... »
Sta lì seduto, zitto, e gratta l’incerata della tavola.
L’avevo chiamato allora a mangiare qualcosa, perché
prima aveva sempre dormito; il suo grugno era tutto
gonfio.
— Perché stai zitto? — domando. — Non strap-
U N A B E L LA V IT A 413
pare l’incerata, prima guadagnatene una e rispondi
mi.
Continua a star zitto, china la testa e le labbra gli
tremano.
— Voi — dice — vi rimaritate?
— Questo — dico -— se mi rimarito o no, non
si sa, ma se mi rimariterò, prenderò un brav’uomo
che non ti lascerà entrare in casa. Io, mio caro, non
sono la tua Fénka, non sono una sgualdrina qua
lunque.
Come saltò su di un colpo e come si agitò tutto!
— Voi — dice — non valete una delle sue un
ghie!
Bella questa, si o no? Saltò su, si mise a urlare
con una voce che non era la sua, sbattè la porta e
via. E io, sebbene non sia una piagnucolona, mi
inondai di lacrime. Piango un giorno, piango il se
condo: appena penso quali parole ha potuto dirmi
scoppio in pianto. Piango e in testa non ho che un
pensiero: per tutta la vita non gli perdonerò un’of
fesa simile, lo caccerò di casa... Ma lui non viene.
Sento che fa baldoria dalla sua bella, danze, balli,
si beve i quattrini rubacchiati e mi minaccia: lei,
dice, la faccio chetare io; aspetterò che vada in qual
che posto di sera e l’ammazzerò con un sasso. Man
da in bottega — per farsi beffa di me si capisce - a
far compre, ora del panpepato, ora delle aringhe.
Io fremo addirittura per l’offesa, ma mi faccio for
za e consegno la roba. Una volta son seduta in bot
tega; a un tratto arriva lui stesso. È ubriaco, è tutto
sconvolto. Porta delle aringhe —la mattina era venuta
una ragazzetta e ne aveva comprate quattro, coi suoi
414 UNA BE LLA V ITA
denari, s’intende - e come me le scaraventa sul ban
co!
— E voi potete — grida — vendere una por
cheria simile? Puzzano, soltanto i cani le possono
mangiare!
Urla, dilata le narici: cerca un pretesto.
-— Tu — dico — qui non far baccano e non ur
lare, le aringhe non le lavoro io, ma le compro a
barili. Se non ti piacciono, non le mangiare, eccoti
i tuoi denari.
•— E se io le avessi mangiate e fossi morto?
— Ti dico di nuovo, porco, che qui non puoi
gridare: che diritto hai tu di condannarmi? Non
hai un grado, ch’io sappia, molto elevato. Devi dir
le cose come si deve e non piombare in casa altrui
di forza.
E lui tutt’a un tratto afferrò la stadera sulla cassa
e disse sibilando:
— Come te la do sulla testa — dice — vai lunga
distesa!
E via a gambe levate dalla bottega. Ma io, seduta
com’ero sul pavimento, non potevo tirarmi su...
Poi sento che l’hanno conciato per le feste: il Si
gnore lo aveva castigato per aver oltraggiata la ma
dre! Lo portarono a casa in vettura mezzo morto:
ubriaco fradicio, con la testa penzoloni, i capelli tut
ti appiccicati dal sangue e pieni di polvere, gli sti
vali e l’orologio glieli hanno levati, la giacchetta
nuova è tutta a brandelli : fosse rimasto almeno un
pezzetto di panno sano... Io pensai, pensai: quanto
a riceverlo, lo ricevetti e pagai perfino la vettura, ma
quel giorno stesso mandai i miei saluti a Nikolàj
U N A B E L L A V IT A 415
Ivànyc e con fermezza ordino di dirgli che non si
preoccupi più di nulla: con mio figlio, dico, ho bel-
l’e deciso: lo caccerò senza alcuna pietà appena si
sveglierà dopo la sbornia. Anche lui mi risponde coi
saluti e mi fa dire: è una cosa molto assennata e
ragionevole, ringrazio e condivido... E di lì a due
settimane fissò le nozze. Sì...
Be’, per adesso basta, qui la mia storia è finita.
Non c’è quasi più altro da raccontare. Con questo
marito ho passato la mia vita in tanto accordo, che
è proprio una rarità al giorno d’oggi. Quello che
provai, dico, mentre raggiungevo questo paradiso,
è impossibile a dirsi! Be’, il Signore, veramente mi
ha ricompensata : ecco ormai il ventunesimo anno che
vivo col mio vecchietto come dietro un muro di pie
tra e so ch’egli non mi lascerà far torto: che solo in
apparenza è così pacifico! Ma, si capisce, per un non
nulla il cuore fa male. Specialmente, chissà perché,
durante la Quaresima. Se morissi ora, mi vien da
pensare, è bello, c’è pace, in tutte le chiese cantano
a gloria... Davvero ho patito tanto in vita mia, ma
sì ch’è stata perseverante Nastàsja Semenovna! Po
tevo forse, con la mia intelligenza, starmene in un
sobborgo? Mio marito si chiama Skòbelev... Qual
che altra volta è vero, sento la mancanza di Vànja.
Da vent’anni non se n’ha notizia. Forse è morto da
un pezzo e io non ne so nulla. Mi aveva perfino
fatto pena allora, quando l’avevano portato a casa.
Lo trascinammo dentro, lo mettemmo sul letto: dor
mì l’intera giornata d ’un sonno di morte. Salgo da
lui ascolto il suo respiro: è vivo, dico... E nella ca
meretta c’era un puzzo di non so che acido, lui è
416 U N A B E L LA V I T A
disteso tutto sbrindellato, insudiciato, russa e ha l’af
fanno... È una vergogna e una pena guardarlo, ma è
pure il mio sangue! Lo accarezzo, lo accarezzo, sto
in ascolto, poi esco. E mi prese un’angoscia tale!
Cenai a fatica, sparecchiai, spensi il fuoco... Non
posso dormire, e basta, son coricata e tremo tutta...
E la notte è chiara, chiara. Sento che s’è svegliato.
Non fa che tossire, uscir nel cortile, sbatacchiar la
porta.
— Perché — domando — sei sempre in movi
mento?
— Il ventre — dice — mi fa male.
Dalla voce sento che è agitato, angosciato.
— Tu -— dico — bevi dell’artemisia con la vod
ka, là, nello stipo delle icone, ce n ’è una botti-
glia.
Rimasi ancora in letto, e forse mi assopii un po
co, quando sento attraverso il sonno che qualcuno
cammina furtivamente sul tavolato. Saltai su: era
lui.
— Mamma — dice — non abbiate paura di me,
per amor di Dio...
E come piange dirottamente! Si sedette sul letto,
mi afferra le mani, le bacia, le bagna di lacrime, e
intanto soffoca perfino: tanto piange e singhiozza.
Io non ressi più, e cominciai anch’io! Fa pena, si
capisce, ma non c’è che fare: da lui dipende tutto il
mio destino. E anche lui, lo vedo, lo capisce bene.
— Perdonarti — dico — posso, ma ormai, lo
vedi anche tu, non si può far nulla. E vattene dove
che sia un po’ lontano, che io non senta più parlare
di te!
U N A B E L LA V ITA 417
-— Mamma — dice — perché mi avete rovinato
non meno di quel paralitico, Nikanòr Matvéic?
Be’ vedo che non ha ancora la testa a posto e non
stetti a discutere. Pianse, pianse, si alzò e se ne andò
via. E la mattina dopo gettai un’occhiata nella came
retta dove dormiva, ma di lui non c’era più traccia.
Era andato via, si vede di buon’ora, per la vergogna,
e scomparve per sempre. Corse voce che fosse a Za-
dònsk, presso il monastero, poi si fece vedere a
Tsaritsyn e là, credo, si ruppe la testa... Ma a che
chiacchierar di questo? c’è solo da guastarsi il san
gue! Fa’ pure bollir l’acqua, sarà sempre acqua...
Quanto a quello che disse a proposito di Nikan òr
Matvéic, io lo ritengo perfino stupido. Non ho mica
approfittato di gran denari, non glieli ho mica cavati
di tasca. Egli stesso capiva la sua miseria, egli stesso
si annoiava sempre. A volte mi diceva:
•— Il destino, Nàstja, ha fatto di me uno storpio,
e io ho un carattere da matto: ora sono allegro senza
saper di che, come alla vigilia di un guaio, ora ho
un’angoscia tale, specialmente d’estate, con questa
polvere, con questo caldo, che addirittura mi ammaz
zerei! Quando morirò e mi seppelliranno nel cimi
tero di Cjòrnaja Slobòda, in eterno questa polvere
volerà sopra la mia tomba, attraverso il recinto!
— Ma perché, Nikanòr Matvéic — dico — rom
persi così la testa? Noi questo non lo sentiremo.
— Ma che cosa vuol dire che non lo sentiremo?
— dice — il guaio è che in vita ci si pensa...
E, veramente, c’era una noia in casa nostra, dai
Samochvàlovy, quando tutti sonnecchiavano dopo
pranzo, e il vento portava quella polvere! E la vita
418 UNA B E L LA V IT A
se la tolse che faceva un caldo terribile, nell’ora più
morta del giorno. La nostra città è veramente noiosa.
Ecco, io sono stata poco fa a Tuia: che paragone si
può mai fare?
Capri, 1911.
L’AMORE DI MITIA
Titolo originale :
M Ì T I N A LIU BO V '
Traduzione di Rinaldo Kiifferle
Prima edizione: Parigi 1925
Prima edizione italiana: Milano 1934
I
A Mosca l’ultimo giorno felice di Mitia era stato
il nove marzo. Così, almeno, gli pareva.
Egli e Catia risalivano alle undici di mattina il
viale di Tver. L’inverno aveva ceduto improvvisa
mente alla primavera; al sole faceva quasi caldo,
come se davvero fossero venute le allodole e aves
sero portato con sé il tepore, la gioia. Tutto era
bagnato, tutto si liquefaceva, dalle case colavano le
gocciole, i portinai scalpellavano via il ghiaccio dai
marciapiedi, gettavano giù dai tetti la neve appicci
caticela, e dovunque c’era ressa di gente, anima
zione. Le alte nuvole si scioglievano in esile fumo
bianco, fondendosi col cielo di un azzurro umido. In
lontananza, nella prospettiva del viale nereggiava la
folla, pensosa e tutelare si ergeva la statua di Pùskin,
splendeva il monastero della Passione. Ma la cosa
più bella era che Catia, particolarmente graziosa quel
giorno, spirava tutta di candore e d’intimità, pren
deva spesso Mitia a braccetto con infantile confiden
za e lo guardava in viso di sotto in su; egli pareva
anzi felice con un briciolo di altezzosità, camminava
422 L ’A M O R E D I M I T IA
così da campagnolo ch’ella a stento gli teneva dietro.
Vicino a Pùskin ella disse inaspettatamente:
— In che modo ridicolo, con quale cara goffag
gine fanciullesca dilati la gran bocca, quando ridi!
Non avertene a male, ti amo appunto per questo
sorriso, e anche per i tuoi occhi bizantini...
Cercando di non sorridere, vincendo e la segreta
compiacenza e la leggera offesa, Mitia rispose ami
chevolmente, guardando il monumento che ormai
grandeggiava nel cielo primaverile davanti a loro:
— Credo che, nella fanciullaggine, non differia
mo troppo, nonostante i tuoi diciotto anni. Ma sem
bro un bizantino così come tu sembri un’imperatrice
cinese. Avete tutti semplicemente perso la testa per
questa Bisanzio e, in generale, per gli stili, per l’este
tica. Non capisco tua madre!
— Perché? Al suo posto mi avresti rinchiusa nel
gineceo? — chiese Catia.
-— Non ti avrei rinchiusa nel gineceo, ma sem
plicemente non ammetterei in casa tutta questa sedi
cente boh èm e artistica, tutte queste future celebrità
ch’escono dagli studi e dai conservatori, dalle scuo
le di recitazione — rispose Mitia, continuando a cer
care di esser calmo e amichevolmente trascurato. —
Tu stessa mi hai detto che Bukoviezki ti ha già in
vitata per una cena a Strieina, e che Iegorov ti ha
proposto di modellarti nuda, in forma di non so che
morente onda marina, e sei, naturalmente, molto
lusingata di un tale onore.
— Eppure, non rinunzierò all’arte nemmeno per
amor tuo — ribattè Catia. — Può darsi ch’io sia
anche cattiva, come dici spesso — soggiunse, anche
L ’A M O R E D I M I T I A 423
se Mitia non glielo aveva mai detto, -—- può darsi
che io sia corrotta, ma prendimi quale sono. E non
bisticciamoci, smetti di esser geloso almeno oggi, in
una giornata così splendida! Come fai a non capire
che per me sei tuttavia meglio di tutti, l’unico? —
domandò sottovoce e in tono insistente, guardan
dolo negli occhi con artificiosa seduzione, e declamò
lenta e pensosa:
Fra noi esiste un segreto sopito,
l’anima all’anima ha dato l’anello...
Quest’ultima cosa, questi versi urtarono dolorosa
mente Mitia. In generale molte cose erano state spia
cevoli e dolorose anche quel giorno. Spiacevole era
stato lo scherzo sulla goffaggine fanciullesca; non era
la prima volta ch’egli udiva tali scherzi da Caria, e
non erano casuali. Catia si dimostrava spesso, ora in
una cosa, ora in un’altra, più adulta di lui, spesso (e
involontariamente, cioè del tutto naturalmente) pale
sava la propria superiorità, ed egli 1’accoglieva con
dolore, come l’indizio di non so quale segreta vi
ziosa esperienza. Spiacevole era stato quel « tutta
via » («p e r me sei tuttavia meglio di tu tti») e il
fatto ch’era stato detto con voce chi sa perché im
provvisamente sommessa, e particolarmente spiace
voli erano stati i versi, la loro dizione manierata.
Però, anche i versi e quella dizione, cioè proprio
quanto più di ogni altra cosa rammentava a Mitia
l’ambiente che gli toglieva Catia e che acutamente
suscitava in lui l’odio e la gelosia, egli sopportò in
modo relativamente agevole in quel giorno felice del
nove marzo, il suo ultimo giorno felice a Mosca,
come spesso gli pareva in seguito.
424 L ’A M O R E D I M I T I A
Quel giorno, sulla via del ritorno dal Ponte dei
Maniscalchi, dove Catia aveva comprato da Zimmer
man alcune cose di Skriabin, ella prese a parlare fra
l’altro della mamma di lui, Mitia, e disse, ridendo:
— Non puoi immaginare come io la tema in anti
cipo!
Chi sa perché, da quando si amavano, non ave
vano ancora toccato la questione dell’avvenire, di
come il loro amore si sarebbe concluso. Ed ecco che
a un tratto Catia si era messa a parlare della mam
ma di lui e si era messa a parlarne non semplice-
mente, ma come se fosse sottinteso che la mamma era
la sua futura suocera...
II
Poi tutto pareva che andasse come prima. Mitia
accompagnava Catia alla scuola di recitazione del
Teatro Artistico, ai concerti, alle serate letterarie,
e se ne stava da lei alla Kislovka e si attardava fino
alle due di notte, approfittando della strana libertà
che le dava sua madre, una signora che fumava sem
pre, ch’era sempre imbellettata e aveva i capelli color
cremisi, una cara, buona donna che da un pezzo vi
veva divisa dal marito, il quale aveva una seconda
famiglia. Anche Catia passava da Mitia, nella sua
camera d’albergo alla Molcianovka, e i loro conve
gni, come prima, trascorrevano quasi interamente nel
greve stordimento dei baci. Ma a Mitia pareva osti
L'A M O R E D I M I T IA 425
natamente che a un tratto fosse cominciato qualcosa
di terribile, che qualcosa si fosse cambiato, avesse
cominciato a cambiarsi in Catia, nel suo contegno
verso di lui.
Rapido era volato quel tempo indimenticabile, leg
gero, quando si erano appena incontrati, quando, es
sendosi appena conosciuti, avevano a un tratto sen
tito che più di ogni altra cosa li interessava di parlar
solo fra loro (e magari dalla mattina alla sera), quan
do Mitia così improvvisamente si era ritrovato in
quel fiabesco mondo dell'amore ch’egli aspettava in
segreto dall’infanzia, dall’adolescenza. Quel tempo
era stato il dicembre, algido, sereno, il quale ornava
Mosca un giorno dopo l’altro di dense brine e del
rosso-torbido disco del sole basso. Il gennaio, il feb
braio avevano aggirato l’amore di Mitia nel turbine
di una ininterrotta felicità che pareva già raggiunta
o, almeno, lì lì per esser raggiunta. Ma sin da al
lora qualcosa aveva cominciato (e sempre più spes
so) a turbare, ad avvelenare questa felicità. Sin da
allora sembrava non di rado che esistessero due Ca
de: quella che Mitia aveva preso a desiderare, a esi
gere ostinatamente dal primo momento del loro in
contro, e l’altra reale, solita, quella che tormentosa
mente non coincideva con la prima. Eppure Mitia
non aveva provato allora nulla di simile a quello
che provava ora.
Tutto si poteva spiegare. Erano cominciate le pre
occupazioni femminili della primavera, le compere,
le ordinazioni, gli infiniti rifacimenti ora di una co
sa, ora di un’altra, e a Catia toccava realmente di an
dare spesso con la madre dalle sarte, dalle modiste;
426 L'A M O R E D I M I T IA
inoltre era alla vigilia dell’esame nella scuola privata
di recitazione, in cui ella studiava. Del tutto natu
rali potevano essere dunque la sua preoccupazione,
la sua distrazione. E così Mitia cercava di consolarsi
ogni momento. Ma le consolazioni non giovavano.
Quello che il cuore sospettoso diceva nonostante tut
to era più forte e si confermava sempre più eviden
te: l ’intima disattenzione di Catia verso di lui cre
sceva sempre, e insieme crescevano anche la sospet
tosità, la gelosia di Mitia. Il direttore della scuola
di recitazione faceva girar la testa a Catia con le
lodi, ed ella non poteva trattenersi, riferiva a Mitia
queste lodi. II direttore le aveva detto: « Sei il vanto
della mia scuola » —dava del tu a tutti i suoi allievi
- e, oltre le lezioni collettive, si era messo ad im
partirgliene in quaresima anche a parte per farsene
un onore particolare agli esami. Ed era notorio che
egli corrompeva le allieve, ogni estate ne portava con
sé qualcuna al Caucaso, in Finlandia, all’estero. E a
Mitia era cominciato a venire in mente che ora il
direttore avesse delle mire su Catia, la quale, anche
se non ne aveva colpa, tuttavia, probabilmente, lo
sentiva, lo capiva e per questo era come se si trovasse
già con lui in rapporti turpi, colpevoli. E quest’idea
era tormentosa tanto più che troppo evidente era la
diminuita attenzione di Catia.
Pareva che in generale qualcosa avesse cominciato
a distoglierla da lui. Egli non poteva pensar tran
quillamente al direttore. Ma il direttore era il meno!
Pareva che in generale sull’amore di Catia avessero
cominciato a predominare chi sa quali altri interessi.
Per chi, per che cosa? Mitia non lo sapeva, era ge
L'A M O R E D I M I T I A 427
loso di tutti, di tutto, in primo luogo di quell’in
sieme da lui immaginato, di cui, di nascosto a lui,
pareva ch’ella avesse già cominciato a vivere. Gli
sembrava ch’ella fosse ineluttabilmente attratta chi
sa dove, via da lui e, forse, verso qualcosa, a cui era
pauroso anche pensare.
Una volta Catia, metà per scherzo, gli aveva detto
in presenza della madre:
•— Voi, Mitia, in generale parlate delle donne se
condo il D o m o st ro i1. E diventerete un perfetto Otel
lo. Non m’innamorerei mai di voi e non vi pren
derei per marito!
La madre replicò:
— E io non mi figuro un amore senza gelosia. Chi
non è geloso, secondo me, non ama.
— No, mamma — disse Catia con la sua costan
te inclinazione a ripetere le parole altrui, — la ge
losia è una mancanza di stima verso chi si ama. Vuol
dire che non mi si ama, se non mi si crede — sog
giunse, evitando apposta di guardare Mitia.
— E secondo me — replicò la madre — la ge
losia è appunto l’amore. L’ho anzi letto in qualche
parte. Là questo era molto ben dimostrato e anzi con
esempi della Bibbia, dove lo stesso Dio si chiama
geloso e vindice...
Quanto all’amore di Mitia, adesso si manifestava
quasi soltanto nella gelosia. E questa gelosia non era
semplice, ma d'una specie, come gli pareva, parti
colare. Egli e Catia non avevano ancora raggiunto
l’ultimo limite dell’intimità, anche se si permette
1. Titolo di un’opera del sec. XVI sull’organizzazione della
famiglia e della casa.
428 L ’A M O R E D I M I T IA
vano troppo nelle ore in cui restavano soli. E ades
so, in queste ore, Catia soleva essere anche più ap
passionata di prima. Ma ormai anche questo era co
minciato a sembrar sospetto e suscitava a volte un
sentimento orribile. Tutti i sentimenti, di cui con
stava la gelosia di lui, erano orribili, ma ce n’era
uno ch’era il più orribile di tutti e che Mitia non
sapeva, non poteva in alcun modo definire e nem
meno comprendere. Consisteva nel fatto che quelle
manifestazioni passionali, quello che era così dolce
e beato, più alto e più bello di tutto al mondo in
rapporto a loro, a Mitia e a Catia, diventava indici
bilmente turpe e pareva anzi qualcosa di contro na
tura, quando Mitia pensava a Catia e ad un altro
uomo. Allora Catia suscitava in lui un acuto odio e
una ripugnanza addirittura fisica. Tutto quanto, a
quattr’occhi, faceva con lei Mitia era pieno per lui
d ’incanto paradisiaco e di purezza. Ma non appena
egli si rappresentava al proprio posto qualcun altro,
tutto si mutava istantaneamente, tutto si trasformava
in qualcosa d ’impudico, di disgustoso che suscitava la
smania di strangolare Catia e proprio lei prima di
tutto, e non il rivale immaginario.
Ili lI
Il giorno dell’esame, finalmente avvenuto (nella
sesta settimana di quaresima), pareva si fosse con
fermata tutta la legittimità dei tormenti di Mitia.
L ’A M O R E D I M I T I A 429
Qui Catia ormai non lo vedeva, non lo notava
affatto, era tutta estranea, tutta dedita al pubblico.
Aveva un grande successo. Era tutta vestita di bian
co, come una fidanzata, e l’agitazione la rendeva in
cantevole. L'applaudivano concordemente e caloro
samente, e il direttore, un attore soddisfatto di sé
dagli occhi impassibili e tristi, solo per maggior fie
rezza le faceva ogni tanto delle osservazioni, par
lando sottovoce, ma in modo che si udiva per tutta
la sala e sonava per Mitia intollerabilmente.
— Meno recitazione — diceva egli grave, calmo
e così autoritario, come se Catia fosse stata di sua
intera proprietà. — Non rappresentare, ma rivivi —
diceva, scandendo le sillabe.
E questo era intollerabile. E intollerabile era la
stessa dizione che provocava gli applausi. Catia av
vampava di rossore bruciante, di turbamento, la sua
vocina a volte si spezzava, le mancava il respiro, e
questo era commovente, affascinante. Ma recitava,
mettendo in ogni suono la volgare cantilena, la fal
sità e la stupidità ch’erano ritenute come arte supe
riore della dizione in quell’ambiente inviso a Mitia,
nel quale Catia viveva ormai con tutti i suoi pen
sieri : ella non parlava, ma usciva sempre in escla
mazioni con un’importuna languida passionalità, con
una smoderata implorazione per nulla giustificata
nella sua insistenza, e Mitia non sapeva dove cacciar
gli occhi dalla vergogna per lei. Ma più di tutto era
quel miscuglio di purezza angelica e di viziosità
ch’era in lei, nel suo visino accaldato, nel suo bian
co vestito che sul palco, siccome tutti i seduti in sala
guardavano Catia di sotto in su, pareva più corto,
430 L'A M O R E D I M I T IA
nelle sue bianche scarpette e nelle gambe inguainate
in calze bianche di seta. « Cantava una fanciulla nel
coro della chiesa » con artificiosa, smodata ingenuità
diceva (più esattamente, cantava a sua volta) Catia
di una certa fanciulla che sarebbe stata di un’inno
cenza angelica. E Mitia sentiva e l’acuita vicinanza
di Catia - come sempre si sente nella folla chi si
ama - e l’ostilità confinante con l’odio, sentiva anche
l’orgoglio per lei, sentiva che tuttavia ella gli appar
teneva, e insieme una pena che lacerava il cuore : no,
tutto era finito, no, ella non gli apparteneva più!
Dopo l’esame c’erano stati di nuovo giorni felici.
Ma Mitia ormai non ci si abbandonava più con la
leggerezza di prima. Catia, ricordando l’esame, di
ceva: — Come sei stupido! Possibile che tu non sen
tissi che recitavo così bene per te solo?
Egli la teneva sulle ginocchia, baciava, chinando
si, il suo denudato ginocchio di madreperla, baciava
il suo seno scoperto e taceva. Non poteva dimenti
care quello che aveva provato all’esame, e non po
teva confessare che quei sentimenti non lo avevano
abbandonato nemmeno ora, ma insorgevano di con
tinuo in questa o quella misura. Avvertiva i suoi se
greti sentimenti anche Catia e una volta, durante un
litigio, aveva esclamato:
— Non capisco perché mi ami, se, secondo te,
tutto è così brutto in me! E che cosa, alla fine, vuoi
da me?
Ma non capiva nemmeno lui perché l’amasse, an
che se sentiva che il suo amore non solo non scema
va, ma cresceva sempre insieme con quella lotta ge
losa ch’egli sosteneva con qualcuno (non forse, con
L'A M O R E D I M I T I A 431
la stessa Catia prima di tutto?) per quest’amore, per
la sua forza che andava tendendosi, per la sua esi
genza che si approfondiva.
— Ami solo il mio corpo, e non l’anima! — aveva
detto una volta amaramente Catia.
Di nuovo erano parole altrui, teatrali, ma, per
quanto assurde e fruste, sfioravano pure qualcosa di
tormentosamente insolubile. Egli non sapeva perché
amasse, non poteva dir con precisione quel che vo
lesse... Che cosa significava in generale «a m a r e »?
Rispondere a questo era impossibile, tanto più che
né in quello che Mitia aveva inteso sull’amore né in
quello che ne aveva letto c’era una sola parola che
lo definisse esattamente. Nei libri e nella vita pareva
che tutti si fossero accordati una volta per sempre
a parlare o solo di un amore quasi incorporeo o solo
di quello che si chiama passione, sensualità. Il suo
amore, invece, non somigliava né all una cosa né
all’altra, come Catia non somigliava a Carlotta, a
Gretchen, alla Tatiana di Pùskin, alle eroine di Tur-
ghènjev, e nemmeno alle eroine di Zola, di Maupas
sant, come i sentimenti di lui non somigliavano ai
sentimenti di Werther, di Romeo, di Onjèghin o di
quegli innumerevoli eroi ch’erano semplici seduttori.
Che cosa provava egli per lei? Quello che si chiama
amore o quello che si chiama passione? L’anima di
Catia o il corpo lo portava quasi al deliquio, a una
specie di beatitudine di agonia, quando egli slacciava
la sua camicetta e le baciava il seno, paradisiacamen
te incantevole e verginale, scoperto con una docilità
che sconvolgeva l’anima, con l’impudenza della più
pura innocenza?
IV
In aprile Catia si era cambiata ancor di più, era
divenuta addirittura irriconoscibile.
Il successo all’esame vi aveva avuto la sua parte.
Eppure non questo solo l’aveva così mutata. Indub
biamente c’erano anche altre cause. E Mitia non ca
piva, non le sapeva e non faceva che stupirsene. In
un certo modo improvviso Catia si era trasformata
con l’arrivo della primavera in una specie di giovane
signora mondana che sfoggiava quasi ogni giorno
abbigliamenti modesti ma costosi, era animata e si
affrettava sempre chi sa dove. Mitia ora si vergo
gnava addirittura del suo oscuro corridoio, quando
ella veniva lì in carrozza - ora non veniva più a
piedi, ma sempre in carrozza — quando, tutta fru
sc ia le di seta, camminava svelta lungo il corridoio,
dopo essersi calata sul viso la veletta. Ora soleva es
sere invariabilmente tenera con lui, ma invariabil
mente ritardava e abbreviava i convegni, dicendo che
doveva di nuovo andare con la mamma dalla sarta.
— Capisci, facciamo le eleganti a tutto spiano! —
diceva, brillando con gli occhi tondi, allegri e stu
piti, comprendendo benissimo che Mitia non le cre
deva, che le sue parole sonavano artificiose, false, e
tuttavia parlando, perché ormai non c’era proprio
nulla di che parlare.
E ormai non si toglieva quasi il cappellino, e non
lasciava uscir di mano l’ombrellino, seduta sulla spon
da del letto di Mitia e facendolo impazzire coi suoi
polpacci, inguainati dalle calze di seta. E prima di
L ’A M O R E D I M I T IA 433
partire e di dire che anche quella sera non sarebbe
stata a casa - di nuovo doveva recarsi da qualcuno
con la mamma! — faceva invariabilmente la stessa
cosa, con lo scopo palese di stordirlo, di premiarlo
per tutti i suoi « stupidi », com’ella si esprimeva,
tormenti: simulando un’aria furtiva, dava una oc
chiata all’uscio, scivolava giù dal letto e con smode
rata passionalità diceva in un sussurrio frettoloso :
— Be’, baciami, dunque!
E gli cingeva forte il collo, sinuosamente si strin
geva a lui con tutto il corpo e anzi una volta, du
rante un bacio particolarmente lungo, a un tratto fe
ce qualcosa con la lingua, guizzò con le anche rasen
te le gambe di lui e, balzando indietro, mormorò
rapida :
— No, mi fai impazzire!
Questo bacio atterrò del tutto Mitia. Come, dove
poteva ella aver appreso simili baci?! Mitia non ave
va ancora alcuna esperienza nemmeno nei baci — il
primo inverno a Mosca era coinciso col suo primo
amore - ma egli non poteva non capire quanto fosse
insolito, quanto fosse particolare quello che aveva
fatto Catia, baciandolo.
E alla fine di aprile Mitia aveva finalmente deciso
di concedersi una tregua, di andarsene in campagna.
Aveva del tutto sfinito e se stesso e Catia, e que-
434 L ’A M O R E D I M I T I A
sto tormento era tanto più insopportabile in quanto
pareva non aver nessun motivo: che cosa in realtà
era successo, di che cosa era colpevole Catia? E una
volta Catia, con la fermezza della disperazione, gli
aveva detto:
— Sì, parti, parti, non ne posso più! Dobbiamo
separarci temporaneamente, chiarire i nostri rappor
ti. Sei tanto dimagrito che la mamma è convinta che
tu abbia il mal sottile. Non ne posso più!
E la partenza di Mitia era stata decisa. Ma Mitia,
con sua grande sorpresa, anche se era fuori di sé
dal dolore, partiva tuttavia quasi felice. Non appena
la partenza era stata decisa, inaspettatamente tutto
era tornato come prima. Perché egli tuttavia si rifiu
tava appassionatamente di credere a quella cosa or
ribile che non gli dava pace né giorno né notte. Ed
era bastato il minimo cambiamento in Catia, perché
di nuovo tutto si fosse mutato ai suoi occhi. E Catia
si era fatta di nuovo tenera e appassionata senz’al-
cuna finzione - egli lo sentiva con l’infallibile in
tuito delle nature gelose —e di nuovo egli aveva co
minciato a starsene da lei fino alle due di notte, e
c’era sempre qualcosa di nuovo da dire, e quanto più
si avvicinava la partenza, tanto minor senso pareva
aver la separazione, la necessità di « chiarire i rap
porti ». Una volta anzi Catia si era messa a piangere
— ed ella non piangeva mai - e queste lacrime glie-
l’avevano a un tratto resa terribilmente familiare, lo
avevano trafitto col sentimento di un’acuta pietà e
di una specie di colpa di fronte a lei.
La madre di Catia al principio di giugno andava
per tutta l’estate in Crimea e portava via con sé an-
L'A M O R E D I M I T I A 435
che lei. Avevano deciso d ’incontrarsi a Mischor. Mi-
tia doveva procurarsi del denaro e andar pure a
Mischor.
Ed egli si accingeva a partire, faceva i preparativi
per il viaggio, girava per Mosca in quello strano
stato di ebbrezza che si riscontra nella persona ancora
salda sulle gambe, ma già malata di qualche grave
malattia. Era morbosamente, smarritamente infelice
e nello stesso tempo morbosamente felice, commos
so dalla rinata intimità di Catia, dalla sua solleci
tudine per lui —era anzi andata con lui a comperare
le cinghie da viaggio, come se fosse stata sua fidan
zata o moglie — e in generale dal ritorno di quasi
tutto quello che ricordava i primi tempi del loro
amore. E così pure percepiva egli anche tutto quello
che lo circondava, le case, le strade, coloro che vi
camminavano o passavano in carrozza, la stagione che
sempre si accigliava come di primavera, l’odore del
la polvere e della pioggia, l’odor di chiesa dei pioppi
rinverditi di là dagli steccati nei vicoli: tutto parlava
dell’amarezza del distacco e della dolcezza della spe
ranza nell’estate, nell’incontro in Crimea, dove or
mai nulla li avrebbe disturbati e tutto si sarebbe at
tuato (anche se egli non sapeva nemmeno ora che
cosa precisamente).
Il giorno della partenza venne a salutarlo Protasov.
Fra gli studenti del ginnasio, fra quelli dell’univer
sità non di rado s’incontrano giovani che si sono
appropriati la maniera di comportarsi con una ironia
bonariamente tetra, con l’aria di una persona che ha
più età, più esperienza di tutti al mondo. Tale era
anche Protasov, uno dei più intimi amici di Mitia,
436 L'A M O R E D I M I T IA
l’unico suo vero amico, il quale sapeva, nonostante
il carattere chiuso, la taciturnità di Mitia, tutti i se
greti del suo amore. Guardò come Mitia legava la
valigia, vide come gli tremavano le mani, poi sorrise
con mesta saggezza e disse:
— Siete dei veri bambini, che Dio mi perdoni! E
dopo tutto, caro mio Werther da Tambov, sarebbe
tuttavia tempo di capire che Catia è anzi tutto il più
tipico essere femminile e che lo stesso commissario
di polizia non può farci nulla. Tu, essere maschile,
ti arrampichi sul muro, le esibisci le « esigenze su
periori dell’istinto della perpetuazione della specie »
e, certamente, tutto ciò è perfettamente legittimo,
anzi in un certo senso sacro. Il tuo corpo è la ra
gione superiore, come ha osservato giustamente H err
Nietzsche. Ma è legittimo anche il fatto che su que
sta sacra via puoi romperti il collo. Ci sono pure de
gli individui nel regno animale, ai quali tocca addi
rittura per legge naturale di pagare a prezzo della
propria esistenza il loro primo ed ultimo atto d ’amo
re. Ma siccome per te questa legge naturale non è,
forse, del tutto obbligatoria, apri tutte e due gli oc
chi, guardatene! In generale, non aver fretta. « Al
lievo ufficiale Schmidt, parola d’onore, l’estate tor
nerà! » Il mondo è grande, non finisce con Catia.
Vedo dai tuoi sforzi di strangolare la valigia che
non ne convieni affatto, che il mondo circoscritto a
Catia ti è assai gradito. Be’, scusa il consiglio non
richiesto e che San Nicola con tutti i suoi santi ti
conservi!
E quando Protasov, dopo avere stretto la mano a
Mitia, se ne fu andato, Mitia, serrando nelle ein-
L ’A M O R E D I M I T I A 437
ghie il guanciale e la coperta, udì dalla finestra aper
ta sul cortile uno studente che abitava di contro, che
studiava il canto e che si esercitava dalla mattina alla
sera. Costui, provando la voce, rintronò l’aria col
motivo dell’ “Asra”. Allora Mitia si affrettò con le
cinghie, le allacciò alla meglio, afferrò il berretto e
andò alla Kislovka, ad accomiatarsi da Cada. Il mo
tivo e le parole della canzone che lo studente si
era messo a cantare echeggiavano e si ripetevano
così ostinatamente in lui ch’egli non vedeva né le
strade né i passanti, camminava ancor più ubriaco
di tutti gli ultimi giorni. Pareva davvero che il mon
do fosse finito lì, che l’allievo ufficiale Schmidt voles
se spararsi con la pistola! “ Ebbene, se è finito lì, sia
pure”, pensava egli; e tornava alla canzone che di
ceva come « fulgida di bellezza », la figlia del sul
tano avesse incontrato nel giardino un negro prigio
niero che stava presso la fontana « più pallido della
morte », come ella gli avesse chiesto chi fosse e di
dove venisse, e com’egli le avesse risposto, avendo
cominciato sinistramente ma umilmente, con tetra
semplicità :
Mi chiamo Maometto...
e terminato con un urlo estaticamente tragico:
Son della stirpe dei poveri Asri,
dopo aver amato, noi moriamo !
Cada che si vestiva per andare alla stazione ad
accompagnarlo gli gridò affabilmente dalla sua stan
za — dalla stanza in cui egli aveva trascorso tante
ore indimenticabili! — che si sarebbe trovata alla
438 L'A M O R E D I M I T IA
stazione al primo campanello. La cara, buona don
na dai capelli cremisi se ne stava sola, fumava e lo
guardò molto tristemente; probabilmente, capiva tut
to da un pezzo, indovinava tutto. Lui, tutto rosso,
trepidando internamente, le baciò la mano tenera e
vizza, con la testa china in atto filiale, ed ella con
carezza materna lo baciò alcune volte sulla tempia
e gli fece il segno della croce:
— Eh, caro — citò con un timido sorriso le pa
role di Griboiedov — vivete ridendo! Be’, Cristo
sia con voi, andate, andate...
Egli non ricordava come fosse uscito di là, come,
più esattamente, fosse corso fuori; avendo inciam
pato nel tappeto in anticamera, per poco non cad
de, ma in compenso con fermezza particolarmente
rabbiosa batté poi i tacchi giù per la scala.
VI
Dopo aver fatto le ultime cose che c’erano da
fare all’albergo, dopo aver caricato la sua roba in
una sgangherata carrozza a nolo con l ’aiuto dell’in
serviente in camicia russa, egli alla fine sedè goffa
mente accanto alla roba, si mosse e subito avvertì
quel che di particolare che s’impadronisce sempre
di noi alla partenza — è finito (e per sempre!) un
dato termine della vita! - e insieme un’improvvisa
leggerezza, la speranza nell’inizio di qualcosa di nuo
vo. Si acquietò alquanto e cominciò a guardarsi in
L'A M O R E D I M I T I A 439
torno più rinfrancato, come con occhi nuovi. La
fine: addio Mosca e tutto quello che vi aveva pa
tito! Piovigginava, il cielo si offuscava, i vicoli era
no deserti, il selciato era scuro e splendeva, come
di ferro, le case stavano lì malinconiche, sporche.
Il vetturino procedeva con esasperante lentezza e,
per l’odore che emanava da lui, costringeva di con
tinuo Mitia a voltarsi via e a cercare di trattenere
il fiato.
Oltrepassarono il Cremlino, poi la Pokrovka e
di nuovo svoltarono nei vicoli, dove nei giardini
gracchiava rauca alla pioggia e alla sera una cor
nacchia; eppure era primavera, persino nell’ululo e
nei fischi che già si udivano da dietro alla stazione
di Kursk. Finalmente ebbe termine anche questo,
e Mitia si precipitò di corsa in cerca di un facchino
attraverso la sonora e affollata stazione sulla scali
nata, poi sulla terza linea, dov’era già pronto il lun
go e pesante treno di Kursk. E da tutta la grande
e informe folla che assediava il treno, da dietro a
tutti i facchini che con fragore e grida di avverti
mento trainavano le carriole coi bagagli, egli isolò
istantaneamente, vide quella che, « fulgida di bel
lezza », stava solitaria in lontananza e pareva un
essere del tutto particolare non solo in tutta quella
folla, ma anche nel mondo intero. Era già sonato
il primo campanello, stavolta era giunto in ritardo
lui, e non Catia. In modo commovente era arrivata
prima di lui, lo aspettava e si slanciò verso di lui
di nuovo con la sollecitudine di una moglie o di
una fidanzata:
440 L'A M O R E D I M I T IA
—- Caro, occupa al più presto il posto! Ora suo
na il secondo campanello!
E dopo il secondo campanello, in un modo an
cor più commovente ella stette sulla banchina, guar
dandolo di giù, nello sportello di una vettura di
terza classe già zeppa di gente e fetida. Tutto in lei
era incantevole, il suo caro visino grazioso, la sua
piccola figura, la sua fresca giovinezza, in cui la
femminilità si mescolava ancora con l’infantilità, i
suoi occhi raggianti alzati, il suo modesto cappelli
no celeste, nelle cui pieghe c’era una certa squisita
provocazione, e persino il suo abito grigio scuro, di
cui Mitia indovinava con adorazione anche la stoffa
e la seta della fodera. Egli appariva alto, mal fatto,
terribilmente magro, per il viaggio si era messo alti
stivali rozzi e una vecchia giubba studentesca, i cui
bianchi bottoni erano consunti, rosseggiavano di ra
me. Eppure Catia lo guardava con uno sguardo tri
ste e non simulatamente innamorato. Il terzo cam
panello batté così inaspettatamente e bruscamente
sul cuore che Mitia si slanciò giù dalla vettura, co
me un forsennato, e altrettanto follemente, quasi
con orrore, Catia si gettò verso di lui. Egli premè
le labbra sul suo guanto e, tornato nella vettura,
sventolò il berretto con furioso entusiasmo, tra le
lacrime, ed ella raccolse in mano il lembo della
gonna e parve navigare a ritroso insieme con la
banchina senza ancora distogliere da lui lo sguardo
alzato. Si allontanava sempre più rapidamente a mi
sura che il vento scarruffava forte i capelli di Mitia
sportosi dal finestrino, e la locomotiva prendeva l’ai
L ’A M O R E D I M I T IA 441
re sempre più veloce, sempre più spietato, esigendo
con sfrontato, minaccioso urlo il passaggio, e a un
tratto fu come se avessero strappato via e lei e l’e
stremità della banchina...
VII
Era sceso da un pezzo il lungo crepuscolo pri
maverile, oscuro per le nubi piovose, la pesante
vettura rombava tra i campi nudi e freschi - nei
campi la primavera era ancora all’inizio — i con
duttori passavano per il corridoio della vettura do
mandando i biglietti e mettendo le candele nei fa
nali, e Mitia se ne stava ancora presso il tinnulo
finestrino, sentiva l’odore del guanto di Catia, rima
sto sulle sue labbra, avvampava ancora tutto dell’a
cuto fuoco dell’ultimo distacco. E tutto il lungo in
verno moscovita, felice e tormentoso, che aveva tra
sfigurato la sua vita, gli sorgeva dinanzi in una spe
cie di luce nuova. In una luce nuova, anche stavolta,
gli stava dinanzi ora anche Catia... Sì, sì, chi saprà
esprimere chi sia lei, che cosa sia? E l’amore, la
passione, l’anima, il corpo? Che cosa sono? Non
c’è nulla di tutto ciò, c’è qualcos’altro, di affatto
diverso! Questo odore del guanto non è, forse, an-
ch’esso Catia, non è l’amore, non è l’anima, non è
il corpo? E i contadini, gli operai nella vettura, la
donna che conduce alla latrina il suo mostruoso
bambino, le fioche candele nei fanali tùmuli, il ere-
442 L'A M O R E D I M IT IA
puscolo nei deserti campi primaverili, tutto è amo
re, tutto è anima e tutto è tormento e tutto indici
bile gioia!
La mattina ci fu Oriol, il trasbordo, il treno pro
vinciale presso una lontana banchina. E Mitia sentì:
che mondo semplice, quieto e familiare era al con
fronto con quello moscovita che si era già ritratto
in un regno favoloso, al centro del quale stava
Catia che ora pareva così sola, misera, amata sol
tanto teneramente! Persino il cielo, qua e là spal
mato di pallide nubi azzurrognole, persino il puro
venticello campestre era lì più semplice e quieto...
Il treno si mosse da Oriol lento lento, e Mitia senza
fretta mangiò un biscotto di Tuia, seduto nella vet
tura vuota. Poi, quando anche Oriol fu rimasto in
dietro, il treno prese l’aire e lo stordì, lo addor
mentò.
Egli si svegliò solo a Verchovie. Il treno era fer
mo, il luogo era abbastanza affollato e movimentato,
ma pure aveva un’aria sperduta. Veniva un piacevo
le odor di fumo dalla cucina della stazione. Mitia
avvertì la fame. Mangiò con piacere un piatto di
zuppa di cavolo e bevve una bottiglia di birra, poi
si assopì di nuovo, una profonda stanchezza lo in
vase. E quando si riscosse, il treno filava attraverso
un bosco primaverile di betulle, ben noto a Mitia,
prima dell’ultima stazione. Di nuovo imbruniva, co
me di primavera, dal finestrino aperto entrava odor
di pioggia e come di funghi. Il bosco era ancora
nudo; tuttavia il fragore del treno vi si ripercoteva
più distintamente che nei campi, e in lontananza
balenavano già, come di primavera, i mesti lumini
L'A M O R E D I M I T IA 443
della stazione. Ed ecco anche l’alta fiamma verde del
semaforo — particolarmente incantevole in un tale
crepuscolo nel nudo bosco di betulle - e il treno
con strepito cominciò a passare su un’altra linea...
Dio, com’è misero e caro il lavoratore campagnolo
che aspetta il signorino sulla banchina! E la lontana
bellezza cittadina di Catia divampò nell’immagina
zione ancor più vivida...
II crepuscolo e le nubi si addensavano sempre
più, durante il tragitto al grande villaggio, anch’es-
so ancora primaverile, sporco. Tutto si sommergeva
in quel crepuscolo insolitamente morbido, nel pro
fondissimo silenzio della terra, della notte tiepida
che si era fusa con l’oscurità delle indefinite nubi
piovose, sospese in basso, e di nuovo Mitia si stu
piva e si rallegrava: com’era quieta, semplice, me
schina la campagna, queste odorose isbe affumicate,
già da un pezzo immerse nel sonno — sin dall’An
nunciazione la buona gente non attizza il fuoco —
e come si stava bene in quell’oscuro e tiepido mon
do della steppa! La carrozza guizzava nelle buche,
nella melma, le querce dietro il cortile di un ricco
contadino si ergevano ancora del tutto nude, ino
spitali, nereggiavano di nidi di mulacchie. Presso
l’isbà se ne stava a scrutare il buio un contadino
strano, come emerso dall’antichità: piedi scalzi, ca
miciotto lacero, berretto di pelo di montone sui lun
gh i capelli lisci... E cadde una pioggia tiepida, dol
ce, profumata. Mitia pensò alle ragazze, alle giovani
donne che dormivano in quelle isbe, a tutto quel
femminino, a cui egli si era accostato nell’inverno
con Catia, e tutto favolosamente si fuse in una sola
444 L ’A M O R E D I M IT IA
cosa: Cada, le ragazze, la notte, la primavera, l’o
dore della pioggia, l’odore della terra arata, pronta
per la fecondazione, l’odore del sudore equino e il
ricordo dell’odore del guanto di capretto... Mitia si
arrovesciò sullo schienale della carrozza e, tra le la
crime, con le mani tremanti, cominciò ad accendere
la sigaretta...
Vi l i
In campagna la vita cominciò con dei giorni pla
cidi e incantevoli.
La notte, nel tragitto dalla stazione, Catia si era
come offuscata, dissolta in tutto quello che circon
dava Mitia. Ma no, era solo parso così e continuò
a parere per qualche giorno ancora, mentre Mitia
si ristorava col sonno, rientrava in sé, si riabituava
alla novità delle impressioni, note sin dall’infanzia,
della casa paterna, del villaggio, della primavera
campagnola, della primaverile nudità e vacuità del
mondo, di nuovo puro e giovanilmente pronto a
rifiorire. Ma anche in quei giorni Catia era in tutto
e dietro ogni cosa, come un tempo (nove anni pri
ma e pure in primavera, quando era morto il padre
di Mitia) era rimasta a lungo in tutto e dietro ogni
cosa la morte.
La tenuta era piccola, la casa vecchia e semplice,
l’azienda rurale poco complessa, da non esigere una
gran servitù; per Mitia cominciò una vita quieta.
L ’A M O R E D I M I T IA 445
La sorella Ania, allieva della seconda ginnasiale, e
il fratello Costia, un cadetto adolescente, erano an
cora ad Oriol, studiavano, dovevano arrivare non
prima del principio di giugno. La mamma, Olga
Petrovna, era, come sempre, alle prese con l’azienda
rurale, in cui l’aiutava solo il fattore — l’anziano,
come lo chiamavano tra la servitù — andava spesso
nei campi, si recava in fattoria, in città, si coricava
subito all’imbrunire.
Quando il giorno dopo l’arrivo, avendo dormito
dodici ore, lavato, con la biancheria pulita, Mitia
uscì dalla sua stanza soleggiata — le finestre davano
in giardino, a levante - e attraversò tutte le altre,
provò vivo il sentimento della loro familiarità e del
la placida semplicità che acquietava l'anima e il cor
po. Dovunque tutto era al solito posto, come molti
anni prima, e c’era lo stesso odore noto e gradevo
le; dovunque tutto era stato assettato per il suo ar
rivo con una meticolosità particolare - in quanto
egli era venuto ora a casa non più come un ragazzo,
ma come il padroncino — e in tutte le stanze erano
stati lavati i pavimenti. Finivano di lavare solo la
sala, attigua all’anticamera, alla « stanza dei lacchè »,
come ancora la chiamavano. Una ragazza lentiggi
nosa, presa a giornata dal villaggio, stava in piedi
sulla finestra accanto alla porta che dava sul balcone,
si tendeva al vetro superiore, strofinandolo con sibilo
e specchiandosi nei vetri inferiori con un riflesso
azzurrognolo, come lontano. La cameriera Parascia,
scalza, dalle gambe bianche, avendo estratto un gran
de straccio dal secchio d’acqua calda, camminava sui
piccoli calcagni per il pavimento inondato e disse
446 L ’A M O R E D I M I T I A
con una parlantina amichevolmente disinvolta, de
tergendo dal viso acceso il sudore con l’incavo del
braccio scoperto dalla manica rimboccata:
— Andate a bere il tè, la mamma ancor prima
dell’alba è andata alla stazione con l’anziano, non
l’avrete nemmeno sentita...
E subito Catia riapparve imperiosamente: Mitia
si colse nella concupiscenza verso quel braccio fem
minile dalla manica rimboccata e verso la curva fem
minea della ragazza ritta sulla finestra, verso la sua
gonna, sotto la quale andavano a celarsi come pilastri
le gambe nude, e con gioia avvertì il potere di Catia,
la propria appartenenza a lei, sentì la sua occulta
presenza in tutte le impressioni di quella mattina.
E tale presenza si sentiva sempre più viva ad ogni
nuovo giorno e diventava sempre più bella, a mi
sura che Mitia rientrava in sé, si acquietava, si libe
rava dalla morbosa acutezza delle sensazioni, per cui
tutto lo feriva a Mosca, forse anche in realtà senza
un sufficiente fondamento, a misura che sempre più
pienamente egli percepiva la primavera, la campa
gna e dimenticava l’altra Catia, quella abituale che
a Mosca così spesso e così tormentosamente non si
fondeva con la Catia creata dal suo desiderio.
IX
Per la prima volta egli viveva ora in casa da
adulto, da uomo indipendente, col quale anche la
L'A M O R E D I M I T IA 447
mamma teneva un contegno diverso da quello di
prima, e sopra tutto viveva col primo vero amore
nell’anima, attuando ormai proprio quello che tutto
il suo essere aspettava in segreto dall’infanzia, dal
l’adolescenza, unicamente quello per cui cresceva e
maturava, forse, fin dal suo primo giorno sulla terra.
Già nell’infanzia prodigiosamente e misteriosa
mente si era mosso in lui qualcosa d ’inesprimibile
in lingua umana. Chi sa quando e dove, forse pure
in primavera, in giardino, presso i cespugli di lilla
- gli era rimasto nella mente l’odore acre delle
cantaridi — egli, del tutto piccolo, se ne stava con
una giovane donna - probabilmente, con la sua bam
binaia — e a un tratto qualcosa si era come illumi
nato ai suoi occhi di una luce celestiale — fosse il
viso di lei, o la veste sul seno procace - e qualcosa
in calda onda era passato, si era levato in lui, pro
prio come una creatura nell’alvo materno... Ma era
stato come in sogno. Come in sogno era stato anche
tutto quanto era seguito poi, nella puerizia, nell’a
dolescenza, negli anni del ginnasio. C’erano stati
certi particolari entusiasmi, dissimili da ogni altra
cosa, ora per l’una, ora per l’altra di quelle bambi
ne che venivano con le loro madri alle sue feste
infantili; una segreta, avida curiosità verso ogni mo
vimento di questo piccolo essere incantevole, pure
dissimile da ogni altra cosa, col vestitino, le scar
pette, col fiocco di un nastro di seta sulla testolina.
C’era stato (già più tardi, in una città del governa
torato) l’entusiasmo ch’era durato quasi tutto l’au
tunno e ch’era ormai molto più cosciente per una
scolaretta del ginnasio, la quale compariva spesso la
448 L'A M O R E D I M I T I A
sera su un albero dietro lo steccato del giardino
attiguo: la sua vivacità, l’indole burlona, il vesti-
tino color marrone, il pettine tondo nei capelli, le
manine sporche, il riso, il grido sonoro, tutto era
tale che Mitia pensava a lei dalla mattina alla sera,
s’immalinconiva, a volte anzi piangeva, desiderando
insaziabilmente qualcosa da lei. Poi anche questo era
finito chi sa come da sé, era stato dimenticato, e
c’erano stati nuovi entusiasmi, più o meno lunghi -
e anch’essi segreti —ci erano state acute gioie e ama
rezze di un improvviso innamoramento ai balli del
ginnasio, e in quarta classe c’era stato addirittura
quasi un vero idillio con un’allieva del sesto anno,
alta, dalle nere sopracciglia, quando Mitia per la
prima volta in vita sua aveva sfiorato un giorno —
solo un giorno - la soave gota di una fanciulla con
le labbra e aveva provato un tremito così ultrater
reno, simile a quello della prima comunione, che
non ne aveva più provato in seguito uno eguale,
nemmeno con Catia. E poi, quando anche questo
idillio si era come spezzato ed era stato dimenticato,
a lungo c’erano stati i soli languori corporali e, nel
cuore, solo presagi, aspettazioni indefinite. Ora era
particolarmente chiaro che prima dell’incontro con
Catia tutta la sua vita, tutti gli entusiasmi, le fan
tasticherie e le speranze non erano stati che un sogno
con delle visioni confuse, con degli influssi, quando
anche la primavera così indistintamente, sebbene ir
resistibilmente, entrava nella sua anima.
Egli era nato e cresciuto in campagna, ma, stu
diando al ginnasio, trascorreva per forza la prima
vera in città, ad eccezione di un anno, il terzultimo,
L ’A M O R E D I M I T I A 449
quando, venuto in campagna per il carnevale, si era
ammalato e, rimettendosi, aveva passato a casa il
marzo e metà dell’aprile. Era stato un tempo indi
menticabile. Per un paio di settimane era rimasto a
letto e solo dalla finestra vedeva ogni giorno i cieli,
la neve, il giardino, i suoi tronchi e rami che mu
tavano di aspetto insieme col crescere del tepore e
della luce nel mondo. Egli vedeva: ecco la mattina,
e nella stanza il sole diffonde tanta luce e tepore '
che già si trascinano su per i vetri le mosche ritor
nanti in vita... ecco l’ora pomeridiana il giorno do
po: il sole è dietro la casa, dall’altra parte, e nella
finestra la neve primaverile impallidita fino ad ap
parire celestagnola e il cielo marmoreo, grosse nu
vole bianche nell’azzurro, nelle vette degli alberi...
ed ecco, dopo un giorno ancora, nel cielo nuvoloso
ci sono squarci così vividi e sulla corteccia degli
alberi un luccichio così bagnato e giù dal tetto al
di sopra della finestra un gocciolìo tale che non
finiresti di gioirne, di saziartene lo sguardo... Poi
erano seguite calde nebbie, piogge, la neve era stata
disciolta e divorata in pochi giorni, si era mosso
il fiume, aveva cominciato gioiosamente e novamen-
te a nereggiare, a scoprirsi in giardino e nel cortile
la terra... E per lungo tempo era rimasto nella men
te di Mitia un giorno della fine di marzo, quando
egli per la prima volta era andato a cavallo nei cam
pi. Non troppo luminoso, ma così vivo, così giovane
traspariva il cielo nei pallidi alberi non ancora fio
riti del giardino! Nei campi soffiava ancora un vento
fresco, le stoppie erano selvagge e fulve, e là dove
aravano — aravano già per l’avena — oleosamente,
450 L ’A M O R E D I M I T I A
con primitiva potenza nereggiavano i solchi. Ed egli
trottava su quei solchi e su quelle stoppie in dire
zione del bosco che si stendeva in lontananza, nei
borri, e da lontano lo vedeva nell’aria pura - nudo,
piccolo, visibile da un capo all’altro — poi era sceso
in quei borri e gli zoccoli del cavallo avevano fru
sciato sul folto strato di foglie dell’anno precedente,
qua e là del tutto secco, color paglia, altrove bagna
to, color marrone, aveva attraversato burroni che n ’e-
rano ingombri, dove passava ancora l’acqua della
piena, e di tra i cespugli con schianto uscivano pro
prio di sotto alle zampe del cavallo le beccacce d’oro
scuro... Che cosa era stata per lui tutta quella pri
mavera e specialmente quel giorno, quando un vento
così fresco gli soffiava in viso nei campi, e il caval
lo, dopo aver superato le stoppie imbevute di umi
dità e le nere arature, respirava così rumorosamente
con le narici dilatate, sbuffando e gemendo con ma
gnifica forza selvaggia? Pareva allora che proprio
quella primavera fosse stata il suo primo vero amo
re, i giorni di un continuo innamoramento di qual
cuno e di qualcosa, quando egli amava tutte le
studentesse e tutte le ragazze del mondo. Ma come
lontano gli appariva ora quel tempo! Quanto era
allora ragazzo, innocente, ingenuo, povero delle sue
modeste tristezze, gioie e fantasticherie! Ora quel
ragazzo faceva addirittura compassione, una compas
sione mesta e tenera. Un sogno, o piuttosto il ricor
do di qualche sogno prodigioso, era stato allora il
suo amore incorporeo, senza oggetto. Ora invece al
mondo c’era Catia, c’era un’anima che aveva im
L'A M O R E D I M I T I A 451
personato questo mondo e che ne trionfava intera
mente.
Solo una volta, in quel primo periodo della vita
campagnola, Catia si ricordò a Mitia sinistramente.
Una sera, a tarda ora, eccitato da fantasticherie
voluttuose su Catia, Mitia uscì per un momento sul
la scaletta di servizio. Ceran o un gran buio, quiete,
odor di campi umidi. Da dietro le nuvole notturne,
al di sopra dei confusi contorni del giardino, lacri
mavano stelle minute. E a un tratto, chi sa dove,
in lontananza, qualcosa urlò selvaggiamente, diabo
licamente e scoppiò in latrati, strilli. Mitia trasalì,
s’irrigidì, poi scese cautamente giù dalla scaletta,
entrò nell’oscuro viale che pareva tendergli agguati
da ogni parte, si fermò di nuovo e cominciò ad
attendere, a stare in ascolto: che cos’era, dov’era
quello che così inaspettatamente e paurosamente ave
va rintronato il giardino? “È, certo, un gufo, una
strige che compie il suo amore, e nient'altro” pen
sava egli, e tratteneva il fiato come per l’invisibile
presenza in quell’oscurità del diavolo in persona.
E a un tratto risonò di nuovo il sonoro ululo che
aveva scosso tutta l’anima di Mitia; lì presso, nelle
cime del viale, si udirono scricchiolii, fruscii e il
diavolo si trasportò senza rumore in un altro luogo
452 L'A M O R E D I M IT IA
del giardino. Là egli si mise da principio ad ab
baiare, poi cominciò a lamentarsi, a piangere in tono
pietoso, implorante, come un bambino, a batter le
ali e a stridere con tormentosa delizia, cominciò a
gettare strilli, a ridere di un riso così sfacciato, come
se lo solleticassero e torturassero. Mitia, tremando
tutto, aguzzò nel buio e gli occhi e l’udito. Ma il
diavolo a un tratto troncò lì, soffocò e, dopo aver
trafitto l’oscuro giardino con un languido urlo di
agonia, parve essersi sprofondato sotterra. Avendo
atteso invano qualche altro minuto il rinnovarsi di
quest’orrore amoroso, Mitia rincasò piano e si tor
mentò l’intera notte fra il sonno con tutti quei mor
bosi e ributtanti pensieri e sentimenti, in cui in mar
zo a Mosca si era convertito il suo amore. “E chi
sa” pensava egli “dove e con chi si trovi ora Catia
e se non compia anch’ella stanotte il suo amore
animale?”
Tuttavia la mattina, col sole, i suoi strazi nottur
ni si dissiparono presto. Egli ricordò come Catia
avesse pianto, quando essi avevano fermamente de
ciso che egli doveva assentarsi temporaneamente da
Mosca, ricordò con quale entusiasmo ella si fosse
aggrappata all’idea che anch’egli sarebbe venuto in
Crimea al principio di giugno, e in quale maniera
commovente lo avesse aiutato nei suoi preparativi
per la partenza, come lo avesse accompagnato alla
stazione... Estrasse la fotografia di lei, rimirò a lun
go la sua testolina elegante, meravigliandosi della
purezza, della serenità del suo sguardo diritto, aper
to... Poi le scrisse una lettera particolarmente lunga
L'A M O R E D I M I T I A 453
e particolarmente cordiale, piena di fede nel loro
amore, e tornò di nuovo all’incessante sensazione del
la chiara e amorosa presenza di lei in tutto quello
di cui egli viveva e gioiva.
Egli ricordava quello che aveva provato quando
era morto suo padre, nove anni prima. Era stato
pure in primavera. Il giorno dopo quella morte,
avendo timidamente, con perplessità e orrore, attra
versato la sala dove, col petto sollevato e con le
grandi mani pallide congiunte su di esso, campeg
giando con la folta barba nera e il naso bianco, gia
ceva sulla tavola il padre vestito dell’uniforme no
biliare, Mitia era uscito sulla scaletta esterna, aveva
gettato uno sguardo all’enorme coperchio della bara,
guarnito di broccato d ’oro, posto accanto all’uscio,
e a un tratto aveva sentito che nel mondo c’era la
morte! Era in tutto: nella luce solare, nell’erba pri
maverile in cortile, nel cielo, nel giardino... Egli
era andato in giardino, nel viale di tigli screziato
di luce, poi nei viali laterali, ancor più soleggiati;
guardava gli alberi e le prime bianche farfalle, ascol
tava i primi uccelli che cantavano dolcemente e non
riconosceva nulla: in tutto c’era la morte, la pau
rosa tavola in sala e il lungo coperchio guarnito di
broccato sulla scaletta esterna! Non come prima, ma
alquanto diverso brillava il sole, altrimenti verdeg
giava l’erba, altrimenti s’irrigidivano sull’erba pri
maverile, scaldata solo alla superficie, le farfalle;
tutto era diverso da ventiquattr’ore prima, tutto si
era trasfigurato come all’awicin arsi della fine del
mondo, e misera, amara era divenuta la magniti-
454 L ’A M O R E D I M I T I A
cenza della primavera, della sua eterna giovinezza!
E ciò era durato a lungo anche poi, era durato tutta
la primavera, come anche a lungo si era sentito -
o non era che una illusione? — nella casa lavata e
arieggiata molte volte il pauroso pestifero odore dol
ciastro...
Un ’identica suggestione - solo di tutt’altro ordine
- provava Mitia anche ora: questa primavera, la
primavera del suo primo amore, era pure diversa
da tutte le primavere precedenti. Il mondo era di
nuovo trasfigurato, pareva di nuovo pieno di qual
cosa di estraneo, ma non di ostile, non di orribile,
bensì di tale che prodigiosamente si fondeva con la
gioia e la giovinezza della primavera. E questo che
di estraneo era Catia o, più esattamente, era quella
fra le cose più belle al mondo che da lei voleva,
esigeva Mitia. Ora, a misura che passavano i giorni
primaverili, egli esigeva da lei sempre di più. Ed
ora che ella non c’era, che c’era solo la sua imma
gine, non l’immagine reale ma solo quella deside
rata, ella, a quanto pareva, non turbava in alcun
modo quella cosa innocente e meravigliosa che si
esigeva da lei, e ogni giorno sempre più al vivo si
faceva sentire ovunque Mitia gettasse uno sguardo.
XI
Egli se ne convinse con gioia sin dalla prima
settimana della sua permanenza in casa. Allora non
L'A M O R E D I M I T I A 455
era che una specie di vigilia della primavera. Egli
sedeva con un libro in mano presso la finestra aper
ta del salotto, guardava, i tronchi delle picee e dei
pini, lo sporco fìumicello nei prati, il villaggio sui
declivi di là dal fìumicello: ancora dalla mattina al
la sera, instancabilmente, sfinendosi nel beato affac
cendarsi, sulle nude secolari betulle del giardino del
vicino possidente, gridavano le mulacchie, come usa
no solo all’inizio della primavera, e ancora selvag
gio, grigio era l’aspetto del villaggio sui declivi e
i soli vincheti si coprivano ancora laggiù di un ver
de giallognolo... Egli andava in giardino: anche il
giardino era ancora basso e nudo, trasparente, solo
verdeggiavano le radure, tutte screziate di minuti
fiorellini di turchese, e si erano coperte di peluria
le acacie lungo i viali e biancheggiava pallido, fio
riva minutamente il solo ciliegeto nel borro, nella
parte meridionale, inferiore del giardino... Egli usci
va nei campi: erano ancora deserti, grigi i campi,
ancora in spazzole sporgevano le stoppie, ancora
ineguali e violette erano le asciutte strade campe
stri... E tutto ciò era la nudità della giovinezza, del
tempo dell’attesa, e tutto ciò era Catia. E solo in
apparenza costituivano uno svago le ragazze prese
a giornata che facevano ora questo ora quello nella
tenuta, i lavoranti nella stanza della servitù, la let
tura, le passeggiate, il recarsi al villaggio dai con
tadini conoscenti, i colloqui con la mamma, le gite
con l’anziano (un alto, rozzo soldato in congedo)
nei campi sul barroccino da corsa.
Poi trascorse un’altra settimana. Una notte ci fu
456 L'A M O R E D I M I T IA
pioggia dirotta, e poi il sole caldo si rafforzò di
colpo, la primavera perse la sua mitezza e il pal
lore, e tutto intorno cominciò a mutarsi sotto gli
occhi da un momento all’altro. Si cominciò ad ara
re, a trasformare in velluto nero le stoppie, verdeg
giarono i solchi campestri, e diventò più succosa
l’erba in cortile, più denso e vivido azzurreggiò il
cielo, rapidamente il giardino cominciò a vestirsi di
un verde fresco, morbido anche a vederlo, si colo
rarono di lilla e si profumarono i grigi grappoli
delle serenelle e già comparve una quantità di mo
sche nere, grosse, lucenti di un turchino metallico
sul loro liscio fogliame verde scuro e sulle calde mac
chie di sole nei viottoli. Sui meli, sui peri erano
ancora visibili i rami, li aveva appena cosparsi un
fogliame minuto, cinereo e particolarmente morbi
do, ma in compenso tutto il frutteto era già fiorito,
i meli e i peri che dovunque stendevano le reti dei
loro rami storti sotto gli altri alberi si erano tutti
arricciati di un nevischio latteo, e ogni giorno questa
fioritura diventava più bianca, più folta e più pro
fumata. In questo tempo Mitia osservava gioiosa
mente e attentamente tutti i mutamenti primaverili
che avvenivano intorno a lui. E Catia non solo non
si ritraeva, non si perdeva in mezzo ad essi, ma al
contrario vi partecipava e a tutto conferiva se stes
sa, la propria bellezza che fioriva insieme con tutto
il rigoglio della primavera, col giardino che bian
cheggiava sempre più sontuosamente e col cielo che
si tingeva di un azzurro sempre più cupo.
L ’A M O R E D I M I T IA 457
XII
Ed ecco che un giorno, uscito nella sala piena
di sole pomeridiano per il tè, Mitia scorse inaspet
tatamente presso il sam ov ar la posta ch’egli aveva
atteso invano tutta la mattina. Si avvicinò rapida
mente alla tavola — già da un pezzo Catia doveva
rispondere almeno a una delle lettere ch’egli le ave
va spedito — e chiaramente e paurosamente gli ba
lenò agli occhi una piccola busta ricercata, coperta
della nota misera scrittura. Egli l'afferrò e s’incam
minò fuor di casa, poi in giardino, lungo il viale
principale. Se ne andò nella parte più remota del
giardino, là dove lo attraversava un borro, e, dopo
essersi fermato e guardato intorno, stracciò rapida
mente la busta. La lettera era breve, di poche righe
in tutto, ma a Mitia occorse leggerle quattro o cin
que volte per capirle infine, talmente gli batteva il
cuore. « Mio amato, mio unico! » leggeva e rileg
geva egli, e la terra gli mancava sotto i piedi a
queste esclamazioni. Egli alzò gli occhi —al di sopra
del giardino, solennemente e gioiosamente, splende
va il cielo, intorno splendeva il giardino col suo
niveo candore, l'usignolo, già avvertendo la frescu
ra della sera imminente, con tutta la dolcezza del
l’oblio di sé, proprio di un usignolo, trillava netto
e forte nel fresco verde dei cespugli lontani — e
il sangue rifluì dal suo viso, un formicolìo gli corse
nei capelli...
Egli tornava lentamente a casa: il calice del suo
amore era colmo fino all’orlo. E altrettanto cauta
458 L'A M O R E D I M I T I A
mente lo portava egli in sé anche i giorni seguenti,
aspettando quieto e felice, anzi con orgoglio, una
nuova lettera.
XIII
I giorni passavano, si succedevano uno dietro l’al
tro, e la nuova lettera non c’era. “Ci sarà, ci sarà!”
diceva a se stesso senza parole Mitia. Ma la lettera
tardava sempre, e a poco a poco una segreta inquie
tudine cominciò a impadronirsi di lui.
II giardino si rivestiva variamente, il giardino
fioriva.
L’enorme vecchio acero che s’innalzava su tutta
la parte meridionale del giardino e che si vedeva
da per tutto diventò ancor più grande e appariscen
te, si era rivestito fino all’ultimo ramo e verdeggia
va vivido e pomposo ch’era una meraviglia.
Più alto e appariscente si fece anche il viale prin
cipale, su cui Mitia guardava di continuo dalle sue
finestre: le cime dei suoi vecchi tigli che si erano
coperte, se pure ancora con qualche trasparenza, col
ricamo del giovane fogliame, si alzarono e si pro
tesero al di sopra del giardino in stria verde chiara.
E più in basso dell’acero, più in basso del viale
e degli altri alberi rivestiti si stendeva tutto un
mare di arricciata fioritura di panna, olezzante nella
luce solare.
E tutto ciò: l’enorme e pomposa cima dell’acero,
L'A M O R E D I M I T I A 459
la stria verde chiara del viale, il candore nuziale dei
meli, dei peri, dei viscioli, il sole, l’azzurrità del
cielo e tutto quello che germogliava nelle bassure
del giardino, nel borro, lungo i viali laterali e i
sentieri e sotto le fondamenta del muro meridio
nale della casa, cioè i cespugli di lilla, di acacie e
di ribes, le bardane, le ortiche, l’artemisia, tutto
colpiva e rallegrava con la propria densità, freschez
za e novità.
Il pulito cortile verde cominciò a parere più an
gusto per la vegetazione che irrompeva da ogni par
te, la casa pareva essersi fatta più piccola e bella.
Pareva che aspettasse degli ospiti, per interi giorni
erano aperte le porte e le finestre in tutte le stanze:
nella sala bianca, nel salotto azzurro arredato all’an
tica, nella piccola stanza dei divani, pure azzurra e
adorna di miniature ovali, e nella soleggiata biblio
teca, una grande e vuota stanza d’angolo con delle
vecchie icone e dei bassi scaffali di frassino lungo
le pareti. E dovunque guardavano festosamente den
tro le stanze gli alberi variamente verdi, ora chiari,
ora scuri, assiepati intorno alla casa col vivido az
zurro tra i rami.
Ma la lettera non c’era. E Mitia non si sentiva
più a suo agio. Egli conosceva l’incapacità di Catia
per le lettere e il fatto che le riusciva sempre diffi
cile mettersi alla scrivania, trovar la penna, la carta,
la busta, e sopra tutto non dimenticarsi di compra
re il francobollo e di fermarsi presso una cassetta
postale. Egli rammentava a se stesso di esser pure
stato tranquillo due settimane intere fino all’arrivo
della prima lettera. Ma le ragionevoli considerazioni
460 L'A M O R E D l M I T IA
cominciarono di nuovo a giovargli poco. La felice,
anzi fiera sicurezza, con cui egli aveva aspettato per
alcuni giorni la seconda lettera, scomparve; egli lan
guiva e si turbava più fortemente. Perché dopo una
lettera come era la prima, immediatamente, subito
doveva seguire qualcosa di ancor più bello e allie
tante. Ma Catia taceva.
Egli diradò le visite al villaggio, le gite nei cam
pi. Un tempo anzi aveva cominciato a starsene in
biblioteca, a frugare negli scaffali di frassino, a sfo
gliare le riviste che ormai da decine di anni ingial
livano e disseccavano in essi. Alla lettura era poco
incline - Protasov non per nulla lo chiamava « anal
fabeta » - ma nelle riviste c’erano molti bei versi
di vecchi poeti, molte righe magnifiche che parla
vano, naturalmente, di una cosa sola, una cosa di
cui sono pieni tutti i versi e le canzoni dal principio
del mondo, di cui viveva ora anche l’anima sua e
che invariabilmente egli poteva in un modo o nel
l’altro riferire a se stesso, al proprio amore, a Catia.
Ed egli per intere ore sedeva immobilmente in pol
trona presso lo scaffale aperto e si tormentava dol
cemente in tutte le maniere, leggendo e rileggendo:
Gli uomini dormono, amica mia, andiamo nell’ombroso
[giardino!
Gli uomini dormono, solo le stelle ci guardano,
ma anch’esse non ci vedono tra i rami
e non odono - ode solo l’usignolo,
ma non ode neanch’egli : la sua canzone è forte,
senton forse solo il cuore e la mano,
sente il cuore, quante gioie della terra,
quanta felicità abbiamo portato qui !
L ’A M O R E D l M IT IA 461
Tutte queste parole maliose, tutti questi richiami
erano come suoi propri, parevano rivolti ora solo
all’unica, a quella che lui, Mitia, vedeva incessan
temente in tutto e dovunque, e talvolta sonavano
quasi minacciosamente:
Sulle acque cristalline
i cigni agitano le ali
e il fiume s’increspa:
oh, vieni, dunque! Le stelle brillano,
le foglie tremano lentamente
e salgono le nuvole...
Egli, chiudendo gli occhi, agghiacciandosi, per al
cune volte di seguito ripeteva questo richiamo, l’in
vocazione di un cuore colmo di forza amorosa, ane
lante al proprio trionfo, a una beata risoluzione. Poi
guardava a lungo davanti a sé, ascoltava il profon
do silenzio agreste che circondava la casa, e amara
mente scoteva la testa. No, ella non rispondeva, ella
splendeva tacita laggiù, nell’estraneo e lontano mon
do moscovita! Ed era forse là il suo posto? Non
glielo rammentava lui?
Ricordi tu, Maria,
una casa antica,
e i tigli secolari
sullo stagno assopito?
I taciti viali,
l’inselvatichito vecchio giardino
nell’alta galleria
la lunga fila dei ritratti ?
E lacrime incomprensibili gli si accendevano ne
gli occhi, quando egli leggeva le righe che in ap
462 L ’A M O R E D I M I T I A
parenza si addicevano così poco al suo amore, e che
nello stesso tempo chi sa perché lo intenerivano
sino a fargli male:
Sono tuo, foresta natia!
Ma dalle soperchierie della sorte
a implorare un rifugio
non sono venuto da te solo :
ho condotto nella tua ombra sacra
una partecipe nelle preghiere,
la mia giovane sposa
col quieto pargolo sulle braccia...
Ma più spesso egli era trasportato del tutto in un
altro mondo:
Induce alla pigrizia il torrido meriggio,
nelle foglie è morto ogni suono,
in una rosa, magnifica e profumata,
crogiolandosi, dorme il lucente scarabeo,
leggeva e rileggeva egli, e lo afferravano fantasti
cherie appassionate sull’incontro con Catia in Cri
mea, su Mischor. Dio mio, possibile ch’egli non
sarebbe mai arrivato a quel torrido meriggio, alle
rose e ai lauri, al mare che arde in fiamma azzurra
fra i cipressi? Possibile che Dio lo privasse della
felicità di dirle un giorno:
Ricordi una sera, come frusciava il mare,
nel rosaio selvatico cantava un usignolo,
le fronde profumate dell’acacia bianca
ondeggiavano sul tuo cappellino?
Agghiacciandosi e impallidendo per questa do
manda senza risposta, egli guardava ottusamente da
L'A M O R E D I M I T IA 463
vanti a sé, poi la sua testa si chinava lentamente...
E di nuovo lentamente si scioglieva, rifluiva dal suo
cuore la mestizia, la tenerezza, e di nuovo, di nuo
vo cresceva e si allargava qualcosa di crudele e di
sinistro, di appassionato e di minaccioso, come un
ineluttabile esorcismo :
Sulle acque cristalline
i cigni agitano le ali
e il fiume s’increspa:
oh, vieni, dunque! Le stelle brillano,
le foglie tremano lentamente
e salgono le nuvole...
XIV
Una volta, avendo sonnecchiato dopo pranzo —
pranzavano a mezzogiorno — Mitia uscì di casa e
senza fretta andò in giardino. In giardino lavora
vano spesso le ragazze, scalzavano i meli; lavorava
no anche stavolta. Mitia andava a sedersi vicino a
loro, a far con loro due chiacchiere: ciò rientrava
ormai nelle sue abitudini.
La giornata era calda, quieta. Mitia camminava
nell’ombra traforata del viale e vedeva lontano alla
sua destra, sotto il sole, gli arricciati rami bianco-
nivei. Particolarmente forte, densa era la fioritura
sui peri, e la mescolanza di quel biancore col vivido
azzurro del cielo dava un riflesso violetto. E i peri
e i meli fiorivano e si sfogliavano, la terra smossa
464 L'A M O R E D I M I T I A
sotto di essi era tutta cosparsa di petali appassiti.
Nell'aria tiepida si sentiva il loro soave odor dol
ciastro insieme con l’odore del concime riscaldato
e trasudante nel cortile rustico. Talvolta saliva una
nuvoletta, il cielo azzurro diventava cilestrino, e l’a
ria tiepida e questi odori di dissolvimento si face
vano ancor più soavi e dolci. E tutto il tepore aro
matico di quel paradiso primaverile ronzava sonno
lento e beato di api e di calabroni che si rintana
vano nella sua arricciata neve di miele. E di conti
nuo, annoiandosi beatamente, come fanno di giorno,
or là, or qui schioccava ora l’uno, ora l ’altro usi
gnolo.
Il viale terminava in lontananza con un portone
sull’aia. In lontananza a sinistra, nell’angolo del ba
stione del giardino, nereggiava un ’abetaia. Presso
l ’abetaia apparivano screziate fra i meli due ragaz
ze. Mitia, come sempre, svoltò dal mezzo del viale
verso di loro, curvandosi, si avviò tra i rami bassi
e protesi che femmineamente gli sfioravano il viso
e odoravano di miele e come di limone. E, come
sempre, una delle ragazze, la rossiccia e magra Son
ica, non appena lo scorse, rise selvaggiamente e gri
dò: «O h , viene il padron e!». Gridò con simulato
spavento e, balzando giù dal grosso ramo del pero
su cui riposava, si slanciò verso la vanga.
L’altra ragazza, Glaška, fece finta, al contrario,
di non accorgersi affatto di Mitia e, senza fretta,
posando saldamente sulla vanga di ferro il piede
racchiuso nella morbida babbuccia di feltro nero,
dentro cui si erano ficcati dei petali bianchi, inci
dendo energicamente con la vanga la terra e rivol
L ’A M O R E D I M IT IA 465
tando la zolla tagliata, intonò con voce forte e gra
devole : « O giardino, giardino mio, per chi mai
fiorisci? ». Era una ragazza alta di statura, aitante
e sempre seria. Mitia si avvicinò e sedè al posto
di Sonka, sul vecchio ramo del pero. Sonka lo sbir
ciò luminosamente, e ad alta voce, con affettata di
sinvoltura e gaiezza domandò:
— Vi siete appena alzato? Avete fatto un sogno
assai felice? Non avete sentito cantare l’usignolo
sotto la vostra finestra? Chi dorme non piglia pe
sci, state attento!
Mitia le piaceva, ed ella cercava di nasconderlo
in tutti i modi, ma non n ’era capace, teneva in sua
presenza un contegno impacciato, diceva quello che
le saltava in mente, alludendo, però, sempre a qual
cosa, indovinando confusamente che l’aria distratta,
con cui Mitia costantemente veniva e se ne andava,
non era senza motivo. Ella sospettava che Mitia vi
vesse con Parascia o, almeno, cercasse di contrarre
una relazione con lei, n ’era gelosa e parlava con lui
ora tenera, ora aspra, guardava ora languida, dando
a capire i propri sentimenti, ora fredda e ostile. E
tutto ciò procurava a Mitia uno strano piacere. La
lettera si ostinava a non esserci, egli ora non viveva,
ma solo esisteva di giorno in giorno in un’ininter
rotta attesa, languendo sempre più di quest’attesa
e dell’impossibilità di confidare a qualcuno il segre
to del suo amore e tormento, di parlar di Catia,
delle proprie speranze sulla Crimea, e perciò gli ac
cenni di Sonka a un certo amore di lui gli riusci
vano piacevoli: giacché questi discorsi parevano sfio
rare la cosa occulta di cui languiva l’anima sua. Lo
17.
466 L'A M O R E D l M I T I A
turbava anche il fatto che Sonka era innamorata di
lui, e per conseguenza gli era in parte vicina, cosa
che faceva di lei quasi una segreta complice della
vita amorosa dell’anima sua, anzi dava talvolta la
strana speranza che in Sonka si potesse trovare sia
la confidente dei propri sentimenti, sia una certa
sostituzione di Catia: anche Sonka era una fanciul
la, una donna, quella cosa, insomma, paurosa, pro
digiosa, femminile, a cui egli tendeva cosi avida
mente.
Ora Sonka, senza neppure sospettarlo, aveva di
nuovo toccato il segreto di lui : « Chi dorme non
piglia pesci, state attento! ». Egli si guardò intorno.
Per la luminosità del giorno la compatta macchia
verde scura dell’abetaia che gli stava dinanzi pareva
quasi nera, e il cielo traspariva nelle sue cime aguz
ze con un’azzurrità particolarmente magnifica. Il gio
vane verde dei tigli, degli aceri, dei gattici, illumi
nato da parte a parte dal sole che ovunque lo pene
trava, costituiva per tutto il giardino una leggera
gioiosa tettoia, seminava una rete screziata di ombra
e di vivide macchie sull’erba, sui viottoli, sulle ra
dure; la calda e profumata fioritura che biancheg
giava sotto questa tettoia pareva di porcellana, splen
deva, ardeva di luce là dove il sole pure la pene
trava. Mitia pensò:
Al mondo non c’è che un ombroso
tendale di aceri sonnolenti...
Al mondo non c’è che la profumata
scriminatura della cara testolina...
e, sorridendo contro voglia, chiese a Sonka:
L'A M O R E D I M I T IA 467
— Quali pesci mai posso lasciarmi scappare? Tut
to il guaio è che non ho pesci da prendere.
— Tacete, non giuratelo, vi credo anche così! —
gridò Sonka in risposta allegramente e rozzamente,
di nuovo procurandogli piacere con la sua incredu
lità verso l’assenza in lui di affari amorosi e a un
tratto urlò di nuovo, schermendosi da un fulvo vi
tello, il quale, con un bianco ciuffo arricciato sulla
fronte, era uscito lentamente dall’abetaia, le si era
avvicinato di dietro e si era messo a rosicchiare la
gala del suo vestito di cotone a fiorami:
— Ah, che il diavolo ti porti! Che razza di un
figliolo mi ha mandato Dio!
— Dicono che ti hanno chiesta in sposa; è vero?
— domandò Mitia, non sapendo che cosa dire, ma
desiderando di prolungare il discorso. — Dicono,
una casa ricca, un bel giovane, e tu hai rifiutato,
non ascolti il padre...
— Ricco, ma stupido, ha poco sale in zucca —
rispose vivacemente Sonka, alquanto lusingata. —
Io, forse, penso a qualcun altro...
La seria e taciturna Glaška, senza interrompere
il lavoro, scosse il capo:
— N e dici, ragazza, di cotte e di crude sul tuo
conto! — borbottò sottovoce. — Farnetichi da sve
glia, e nel villaggio correrà la diceria...
— Taci, non gracchiare! — gridò Sonka. — Non
sono una cornacchia, in qualche modo me la ca
verò!
— E a chi altro pensi? — chiese Mitia.
— Ve lo confido subito! — disse Sonka. — Ec
co che mi sono innamorata del vostro decrepito pa-
468 L ’A M O R E D I M I T IA
store. Non appena lo vedo, mi scottano i calcagni!
Monto, come voi, sempre cavalli vecchi — soggiunse
in tono provocante, alludendo, evidentemente, alla
ventenne Parasela che nel villaggio era già ritenuta
come vecchia zitella. E, avendo a un tratto gettato
la vanga, con un ardire, a cui pareva aver qualche
diritto in seguito al suo segreto innamoramento per
il signorino, sedè in terra, stese e divaricò legger
mente le gambe, con le calze pezzate di lana e gli
stivali bassi, rozzi e scalcagnati, e lasciò cadere iner
ti le braccia.
— Oh, non ho fatto nulla, e mi sono stancata!
— gridò, ridendo. “Stivali miei cattivi” intonò acu
tamente,
stivali miei cattivi,
punte di vernice,
e le donne, e le ragazze
le hanno eguali !
e gridò di nuovo, ridendo:
— Venite a riposarvi con me nella capanna, so
no disposta a tutto.
Quel riso contagiò Mitia. Sorridendo di un sor
riso largo e impacciato, egli saltò giù dal ramo e,
avvicinatosi a Sonica, si sdraiò in terra e le appoggiò
il capo sulle ginocchia. Sonica lo scosse via, egli ve
lo appoggiò di nuovo, di nuovo pensando coi versi,
di cui aveva letto molto negli ultimi giorni:
Vedo, rosa - la forza della felicità
ha svolto il tuo rotolo sgargiante
e l’ha bagnato di rugiada -
sconfinato, incomprensibile,
L'A M O R E D I M I T IA 469
profumato, benedetto
il mondo dell’amore è innanzi a me...
— Non toccatemi! — gridò Sonka, sinceramen
te spaventata, cercando di sollevare e di scuoter via
la testa ch’egli premeva. — Se no, grido in manie
ra da far ululare tutti i lupi nel bosco! Non ho
nulla per voi, c’era il fuoco, ma si è spento! Sono
svelta e canterina, non adatta per voi!
Mitia aveva chiuso gli occhi e taceva. Il sole,
frantumandosi attraverso il fogliame, i rami e la
fioritura dei peri, gli screziava il viso di calde mac
chie, glielo solleticava. Sonka teneramente e rabbio
samente diede uno strappo ai neri ruvidi capelli di
lui. « Proprio come il crine del cavallo » gridò e
gli coprì col berretto gli occhi. Sotto la nuca egli
sentiva le gambe di lei - la cosa più paurosa al
mondo, le gambe femminili! - col capo le sfiorava
il ventre, sentiva l’odore della gonna di cotone e
della camicetta, e tutto ciò si mescolava col giardi
no fiorito e con Catia; il languido schioccare degli
usignoli in lontananza e, da vicino, il ronzìo inces
sante, voluttuosamente sonnolento d’innumerevoli
api, la tiepida aria melata e persino la semplice
sensazione della terra sotto la schiena tormentava
no, facevano languire con la sete di chi sa quale
felicità sovrumana. E a un tratto nell’abetaia qual
cosa frusciò, rise allegramente e con maligna esul
tanza; poi sonoramente echeggiò: «cuccù! cuccù!»,
e così paurosamente, così in rilievo, così da vicino
e così distintamente che si udiva il rantolo e il tre
mito della linguetta aguzza, e il desiderio di Catia
470 L ’A M O R E D I M I T I A
e il desiderio, l’esigenza ch'ella ad ogni costo desse
immediatamente proprio quella felicità sovrumana,
10 afferrarono così furiosamente che Mitia, con estre
ma sorpresa di Sonka, balzò bruscamente in piedi
e a grandi passi s’incamminò via di là, dopo aver
gridato dalla strada con un riso simulato:
— No, è meglio ch’io vada a bere il tè; se no,
mi fai commettere un peccato!
Insieme con quel furioso desiderio, con quell’e
sigenza di felicità, al suono di quella voce sonora
che improvvisamente si era fatta udire con una così
terribile evidenza al di sopra del suo capo nell’a
betaia e che pareva avere squarciato sino al fondo
11 grembo di tutto quel mondo primaverile, egli a
un tratto aveva immaginato che la lettera non ci
sarebbe stata e non potesse esserci, che a Mosca era
successo qualcosa o stesse per succedere, e ch’egli
era perduto, rovinato!
XV
In casa egli sostò per un momento davanti allo
specchio in sala. “Ella ha ragione” pensò: “i miei
occhi, anche se non sono bizantini, sono, in ogni
caso, pazzi. E questa magrezza, la rozza e ossuta
goffaggine, il tetro color carbone delle sopracciglia,
la ruvida nerezza dei capelli, davvero quasi equini,
come ha detto Son ka?”
E tentò di atteggiare al sorriso la gran bocca con
L ’A M O R E D I M I T I A 471
quella « cara goffaggine fanciullesca » per cui Ca
da pareva amarlo. E infatti, il sorriso, anche simu
lato, subito abbellì tutto: egli stesso avvertì quanto
fosse soave, infantilmente gioioso, da ragazzo indi
feso.
Ma dietro di lui si udì un rapido scalpiccio di
piedi scalzi. Egli si confuse, si volse.
— Si vede che vi siete innamorato, vi guardate
sempre allo specchio — disse con affabile scherzo-
sita Parascia, passando di corsa, col sam ov ar bollen
te nelle mani, verso la terrazza.
— La mamma vi cercava — soggiunse, depo
nendo d ’impeto il sam ov ar sulla tavola apparecchia
ta per il tè e, dopo essersi voltata, gettò su Mitia
uno sguardo rapido e penetrante.
“Tutti lo sanno, tutti lo indovinano!” pensò Mi
tia e con uno sforzo domandò :
— E dov’è?
— In camera sua. Ma ora verrà fuori per il tè...
Il sole, avendo aggirato la casa e passando già
nel cielo di ponente, guardava limpido sotto i pini
e le picee che coi loro rami irti di aghi ombreg
giavano la terrazza. I cespugli di fusaggine sotto di
essi splendevano come d’estate, vitrei. Sulla tavola,
coperta da una tenue ombra e qua e là da calde
macchie di luce, splendeva la tovaglia. Le vespe vol
teggiavano al di sopra del cestello col pane bianco,
sul vasetto sfaccettato della marmellata, sulle tazze.
E tutto questo quadro parlava della magnifica esta
te campagnola e di come si sarebbe potuti essere
felici, spensierati. Per prevenire la comparsa della
mamma che, certo, non meno degli altri capiva la
472 L'A M O R E D I M IT IA
situazione di lui, e per mostrare ch’egli non aveva
affatto dei gravi segreti nell’anima, Mitia andò dal
la sala in corridoio, nel quale davano gli usci della
camera di lui, di quella della mamma e di altre due,
dove d’estate vivevano Ania e Costia. Il corridoio
era in penombra, nella camera di Olga Petrovna era
diffusa una luce turchiniccia. Tutta la stanza era in
gombra con abbondanza e intimità della mobilia più
antica che c’era in casa: stipi, canterani, un gran
letto e una mensola per le immagini, davanti a cui,
come sempre, ardeva il lume votivo, anche se Olga
Petrovna non aveva mai palesato una particolare re
ligiosità. Di là dalle finestre aperte, sull’aiuola in
abbandono davanti all’ingresso nel viale principale,
si stendeva una larga ombra, di là dall’ombra ver
deggiava festosamente e biancheggiava il giardino
illuminato in pieno. Senza guardare tutta quella sce
na ormai abituale, chinati gli occhi con gli occhiali
sul lavoro a maglia, Olga Petrovna, una donna di
quarantanni, grossa e magra, nera e seria, sedeva
presso la finestra in poltrona e rapidamente armeg
giava con l’uncinetto.
— Mi hai chiamato, mamma? — chiese Mitia,
entrando e fermandosi presso la soglia.
— Ma no, volevo semplicemente vederti. Perché
ora non ti vedo quasi mai, tranne che a pranzo —
rispose Olga Petrovna, senza interrompere il lavoro
e in un tono particolare, calmo fuor di misura.
Mitia ricordò come il nove marzo Catia avesse
detto ch’ella, chi sa perché, temeva la madre di lui,
ricordò il segreto senso incantevole che, indubbia
L ’A M O R E D I M I T IA 473
mente, era nelle sue parole... Borbottò con impaccio:
— Ma tu, forse, volevi dirmi qualcosa?
— Nulla, tranne che mi pare tu abbia comin
ciato ad annoiarti negli ultimi giorni — disse Olga
Petrovna. — Potresti, magari, andare in qualche
parte... dai Mescerski, per esempio... Una casa pie
na di ragazze da marito — soggiunse sorridendo —
e in generale, secondo me, una famiglia molto cara
e cordiale.
— Uno di questi giorni ci andrò con piacere —
rispose Mitia a fatica. — Ma andiamo a bere il tè,
si sta così bene in terrazza... E là discorreremo —
soggiunse, sapendo benissimo che la mamma, per
la sua mente perspicace e per il suo ritegno, non
sarebbe più tornata su questo discorso infruttuoso.
Si trattennero in terrazza fin quasi al tramonto.
La mamma dopo il tè continuò a lavorare e a par
lare dei vicini, dell’azienda rurale, di Ania e Co-
stia; Ania aveva di nuovo un esame di riparazione
in agosto! Mitia ascoltava, talvolta rispondeva, ma
provava di continuo qualcosa di simile a quello che
aveva provato prima di partir da Mosca, gli pareva
di esser di nuovo ebbro in seguito a qualche grave
malattia che fosse già entrata in lui e di separarsi
ancora una volta da Catia, di vivere un nuovo di
stacco da lei - indubbiamente, a Mosca era acca
duto qualcosa di fatale! - e stavolta un distacco così
terribile che al suo confronto quello sofferto un
mese prima era la più grande felicità.
E la sera egli camminò un paio di ore senza fer
marsi su e giù per la casa, attraversando da un capo
all’altro la sala, il salotto, la stanza dei divani e la
474 L'A M O R E D I M I T I A
biblioteca, fin proprio alla finestra meridionale di
quest’ultima, aperta sul giardino. Nelle finestre del
la sala e del salotto rosseggiava mite tra i rami dei
pini e delle picee il tramonto, si udivano le voci
e le risa dei lavoranti che si raccoglievano per la
cena nella stanza della servitù. Nel vano delle stan
ze, nella finestra della biblioteca guardava l’azzur
rità eguale e incolore del cielo serale, sormontata
da un’immobile stella rosea; sullo sfondo di que
st’azzurrità si disegnava pittorescamente la verde ci
ma dell’acero e il candore, quasi invernale, di tutto
quello che fioriva in giardino. Ed egli camminava
e camminava, senza più curarsi di come ciò sarebbe
stato interpretato in casa. I suoi denti erano serrati
fino a dargli il mal di testa.
XVI
Quel giorno l’amore di Mitia subì una crisi cru
dele.
Da quel giorno egli cessò di seguire tutti quei
mutamenti che la primavera, l’estate imminente com
pivano intorno a lui. Egli vedeva e persino li sen
tiva, questi mutamenti, ma essi avevano perduto per
lui il loro pregio indipendente, egli se ne delizia
va solo tormentosamente: quanto meglio si stava,
tanto più egli soffriva. Catia era ormai diventata
una vera suggestione; Catia era ormai in tutto e
dietro ogni cosa fino all’assurdità, e siccome ogni
L'A M O R E D I M I T IA 475
nuovo giorno confermava sempre più paurosamente
che per lui, per Mitia, ella non esisteva quasi più,
ch’ella era già soggetta a qualche potere estraneo,
ch’ella compiva qualcosa di mostruoso — ch’ella da
va a qualcun altro se stessa e il proprio amore che
doveva interamente appartenere solo a lui, Mitia -
così tutto al mondo si era fatto diverso da come
avrebbe dovuto essere, aveva cominciato a parere inu
tile, tormentoso e tanto più inutile e tormentoso
quanto più era magnifico.
Tutto intorno a lui continuava a vivere di una
vita eguale, compiendo a misura delle forze il do
vuto e il possibile. Egli solo era fuori di questa vita,
senza compier nulla, ma anelando solo a qualcosa
ch’era pure dovuto, anzi ch’era dovuto cento volte
più di tutto il resto, ma era insieme smisurato e,
come ora diventava sempre più chiaro, perfettamen
te impossibile.
La notte egli non dormiva quasi affatto. La bel
lezza di quelle notti lunari era incomparabile. Quie
to, quieto stava lì il notturno giardino latteo. Guar
dinghi, languendo di mollezza, cantavano gli usi
gnoli notturni, gareggiando a vicenda nella dolcezza
ed esilità delle canzoni, nella loro purezza, diligen
za, sonorità. E la quieta, soave luna, del tutto pal
lida, stava bassa sul giardino, e invariabilmente era
scortata da un’increspatura minuta, indicibilmente
bella, di nuvole celestagnole. Mitia dormiva con le
finestre non velate, e il giardino e la luna vi guar
davano dentro tutta la notte. Ed ogni volta ch’egli
apriva gli occhi e dava uno sguardo alla luna, pro
feriva subito mentalmente, come un ossesso: “Ca-
476 L'A M O R E D I M IT IA
tia! ” e con un tale entusiasmo, con una tale pena
che se ne stupiva egli stesso: come, infatti, la luna
poteva rammentargli Catia? Eppure gliel’aveva ram
mentata, gliel’aveva rammentata in qualche modo
e, cosa ch’era la più sorprendente, addirittura con
qualcosa di visivo! E talvolta egli non vedeva nem
meno nulla: il desiderio di Catia, i ricordi di quello
ch’era stato fra loro a Mosca lo afferravano con
tale forza ch’egli tremava tutto di un tremito feb
brile, batteva i denti e chiedeva a Dio — e, ahimè,
sempre invano! - di vederla insieme con sé, su quel
letto, almeno in sogno. Una volta d ’inverno egli era
stato con lei al Teatro Grande, al Fau st con So-
binov e Scialiapin. Chi sa perché, quella sera tutto
gli pareva particolarmente meraviglioso: e il chia
ro abisso, già afoso e odorante per l’assembramento,
spalancato sotto di essi, e i ripiani rossi di velluto,
con le dorature dei palchi, gremiti di splendide toe
lette, e il luccichio perlaceo del gigantesco lampa
dario su quell’abisso, e i suoni del preludio che zam
pillavano laggiù, di sotto alla bacchetta del maestro,
ora tonanti, diabolici, ora infinitamente soavi e tri
sti: «C e r a un re in Tu ie...». Avendo accompa
gnato dopo lo spettacolo, nel forte gelo della notte
lunare, Catia alla Kislovka, Mitia si era attardato
da lei particolarmente, si era particolarmente este
nuato per i baci e aveva portato via con sé un na
stro di seta, con cui Catia si legava per la notte la
treccia. Ora, in queste tormentose notti di maggio,
era arrivato al punto da non poter pensare senza
un brivido nemmeno a quel nastro ch’era nella sua
scrivania.
L ’A M O R E D I M I T IA 477
E di giorno dormiva, poi andava a cavallo in
quel villaggio dov’erano la stazione della strada fer
rata e la posta. I giorni continuavano a mantenersi
sereni. Cadevano le piogge, passavano temporali e
acquazzoni, e di nuovo brillava il caldo sole che
compiva incessantemente il suo lavoro frettoloso nei
giardini, nei campi e nei boschi. Il giardino sfioriva,
si era sfogliato, ma in compenso continuava violen
temente a infoltirsi e a incupirsi. I boschi erano già
sommersi da fiori innumerevoli, da alte erbe, e la
loro sonora profondità chiamava senza tregua nei
suoi verdi recessi con la voce degli usignoli e dei
cuculi. Già da un pezzo e senza traccia era scom
parsa la vergine, ampia nudità dei campi ormai in
teramente coperti dai getti variamente ricchi delle
messi. E Mitia per interi giorni si perdeva in quei
boschi e campi.
Aveva cominciato a vergognarsi troppo di star
sene ogni mattina in terrazza o in mezzo al cortile
nell’attesa infruttuosa che arrivassero dalla posta l ’an
ziano o un lavorante. E poi non sempre avevano
l’anziano o i lavoranti il tempo di percorrere otto
v erste per delle inezie. Ed ecco egli cominciò ad
andare da sé alla posta. Ma anch’egli tornava a casa
invariabilmente col solo numero della gazzetta di
Oriol o con una lettera di Ania, di Costia. E i suoi
tormenti cominciarono ormai a toccar l’ultimo limite.
I campi e i boschi ch’egli attraversava lo soggioga
vano talmente con la propria bellezza, con la propria
felicità che egli aveva cominciato a sentirsi in petto
un dolore addirittura fisico che se ne stava lì e non
passava, radicandovisi come per sempre. E talvolta,
47? L'A M O R E D I M I T IA
in aperta campagna, egli fermava il cavallo, guar
dava in lontananza a nord — laggiù, a Mosca - poi
si abbatteva sul collo del cavallo e soffocava di la
crime.
Una volta, prima di sera, attraversava, tornando
dalla posta, una deserta tenuta vicina, situata in un
grande e vecchio parco che si fondeva col circostante
bosco di betulle. Egli cavalcava lungo la « prospet
tiva di precetto », come i contadini chiamavano il
viale principale di quella tenuta, composto da due
file di enormi abeti neri. Magnificamente tetro, lar
go, tutto coperto di un grosso strato di aghi rossicci,
sdrucciolevoli, esso conduceva all’antica casa, posta
proprio al termine del suo corridoio che in lonta
nanza quasi si chiudeva. La luce rossa, asciutta e
calma del sole calante a sinistra di là dal parco e
dal bosco illuminava obliquamente fra i tronchi il
basso di questo corridoio, luccicava sul suo dorato
tappeto di aghi. E un silenzio così magico regna
va intorno - i soli usignoli rintronavano il parco
da un capo all’altro - così dolcemente odoravano
gli abeti e il gelsomino, i cui cespugli cingevano
d ’ogni intorno la casa, e Mitia avvertì in tutto ciò
una felicità così grande — estranea, di altri tempi
- e con una così terribile evidenza gli si rappresentò
a un tratto, sull’enorme decrepita terrazza, tra i
cespugli di gelsomino, Cada nell’aspetto della sua
giovane sposa, ch’egli stesso sentì come un pallore
mortale gli coprisse il viso, e fermamente disse ad
alta voce, così da farsi udire in tutto il viale:
— Se fra una settimana non ci sarà la lettera,
mi sparo.
L ’A M O R E D I M I T IA 479
XVII
Il giorno dopo egli si alzò molto tardi. Dopo
pranzo se ne stava a sedere in terrazza, teneva sulle
ginocchia un libro, guardava le pagine coperte di
stampa, e pensava ottusamente:
“Andare o non andare alla posta?”.
Faceva proprio caldo, le farfalle bianche volteg
giavano a coppie inseguendosi sull’erba ardente, sul
la fusaggine che splendeva vitrea. Egli seguiva con
lo sguardo le farfalle, cacciava via dalla guancia
le mosche appiccicaticce e di nuovo chiedeva a se
stesso :
“Andare o no? Andare, o troncar di colpo, man
dare al diavolo queste gite vergogn ose?” .
In salita, nel riquadro del portone, comparve a
cavallo di un puledro l’anziano. L’anziano gettò uno
sguardo alla terrazza e vi si diresse addirittura. Giun
tovi, fermò il cavallo e, socchiudendo gli occhi, dis
se:
— Buon giorno. Leggete sempre? — E sorrise, si
guardò intorno. — La mamma dorme? — chiese a
mezza voce.
— Credo che dorma — rispose Mitia. — Per
ché?
L’anziano tacque un poco e a un tratto disse se
rio:
— È che, signorino, il libro è una bella cosa, ma
tutto va bene a suo tempo. Perché vivere da mo
naco? Ci sono forse poche donne, ragazze?
Mitia non rispose e chinò gli occhi sul libro.
480 L'A M O R E D I M I T I A
— Dove sei stato? — domandò, senza guardarlo.
— Sono stato alla posta — disse l’anziano. —
E, naturalmente, non c’era nessuna lettera, ma sol
tanto il giornale.
— Perché « naturalmente »?
— Perché vuol dire che la stanno ancora scri
vendo, non l’hanno ancor finita di scrivere — ri
spose l’anziano rosso e ironico, offeso dal fatto che
Mitia avesse lasciato cadere il suo discorso. — Pren
dete, per favore — soggiunse, tendendo a Mitia il
plico sotto fascia, e, mosso il cavallo, si allontanò.
“Mi sparo!” pensò Mitia fermamente, guardan
do il libro senza veder nulla.
Ma nello stesso tempo gli dolevano le cosce, co
me avviene quando si guarda da qualche paurosa
altezza in un abisso. Era chiaro che l’anziano vo
leva proporgli di farlo incontrare con qualcuno...
XVIII
Anche Mitia capiva che non era possibile imma
ginarsi nulla di più insensato di questo: spararsi,
sfracellarsi il cranio, troncar di colpo il battito del
cuore forte, giovane, troncare il pensiero e il senti
mento, diventar sordo, cieco, scomparire da quel
mondo indicibilmente bello che solo ora per la pri
ma volta si era tutto aperto davanti a lui, privarsi
istantaneamente e per sempre di ogni partecipazio
ne a quella stessa vita in cui erano Catia e l’estate
L ’A M O R E D I M I T I A 481
imminente, in cui erano il cielo, le nuvole, il sole,
il vento tiepido, le messi nei campi, i villaggi, le
campagne, le ragazze, la mamma, la tenuta, Ania,
Costia, i versi nelle vecchie riviste, e chi sa dove,
laggiù, Sebastopoli, le porte di Baidar, gli ardenti
monti color lilla coi boschi di pini e di faggi, la
strada maestra accecantemente bianca, afosa, i giar
dini della Livadia e dell’Alupka, la sabbia incan
descente presso il mare lucente, i bambini abbron
zati, le abbronzate bagnanti, e di nuovo Catia, in
abito bianco, sotto un ombrellino bianco, seduta sul
la ghiaia proprio presso le onde abbaglianti che
provocavano un sorriso involontario di felicità senza
perché...
Egli capiva ciò, ma che cosa doveva fare? Come
e dove evadere da quel cerchio magico, in cui tanto
più tormentosamente, tanto più insostenibilmente
scorreva la vita, quanto meglio si stava? Per l’ap
punto ciò era superiore alle sue forze, quella stessa
felicità, con cui lo soggiogava il mondo e a cui
mancava la cosa più necessaria.
Ecco ch’egli si svegliava la mattina, e la prima
cosa che gli colpiva gli occhi era il sole gioioso, la
prima cosa ch’egli udiva era il gioioso scampanìo,
noto sin dall’infanzia, della chiesa di campagna, là,
dietro il giardino rugiadoso, pieno di ombra e di
splendore, di uccelli e di fiori; erano allegre, care
persino le tappezzerie giallognole sui muri, sempre
le stesse che se ne stavano lì gialle anche nella sua
infanzia. Ma subito, con entusiasmo e orrore, gli
trafiggeva tutta l’anima un pensiero: Catia! Il sole
mattutino brillava della giovinezza di Catia, la fre
482 L'A M O R E D I M I T I A
schezza del giardino era la sua freschezza, tutto quan
to di gaio, di giocoso c’era nello scampanìo, si rial
lacciava pure alla sua bellezza, all’eleganza della sua
immagine, le tappezzerie avite esigevano ch’ella di
videsse con Mitia tutta quella familiare antichità
campagnola, quella vita, in cui erano vissuti e morti
lì, in quella tenuta, in quella casa, i suoi padri e
nonni. E Mitia gettava via la coperta, balzava giù
dal letto con la sola camicia, aperta sul petto, con
le gambe lunghe, magro, ma tuttavia saldo, giova
ne, tiepido di sonno, apriva rapidamente il cassetto
della scrivania, afferrava la fotografìa gelosamente
custodita e cadeva quasi in catalessi, guardandola
avidamente e interrogativamente. Tutta la bellezza,
tutta la grazia, tutto quello che d ’inesprimibile, di
raggiante e di attraente c’è nell’elemento verginale,
nel femminino esistente al mondo, tutto era in quel
la testolina alquanto serpentina, nella sua acconcia
tura, nel suo sguardo provocante e insieme innocen
te! Ma enigmatico e con un incrollabile allegro si
lenzio splendeva quello sguardo; e dov’era da pren
dere la forza per sostenerlo, così vicino e così lon
tano, e ormai forse per sempre estraneo, quello
sguardo che aveva rivelato una così indicibile feli
cità di vivere e che aveva così sfacciatamente e pau
rosamente ingannato Mitia?
Così cominciava per Mitia quasi ogni giorno e
trascorreva tutto in un simile tormento, sempre con
gli stessi pensieri, sempre con gli stessi sentimenti
stranamente opposti che dilaniavano l’anima.
La sera, quando egli tornava dalla posta attra
verso quell’antica tenuta deserta col nero viale di
L ’A M O R E D I M I T IA 483
abeti, egli aveva espresso molto esattamente con la
sua esclamazione, inattesa anche per lui, quell’estre
mo sfinimento, a cui era giunto. Stando sotto la fi
nestra della posta, guardando dalla sella, come il
postino frugasse invano nel mucchio dei giornali e
delle lettere, egli aveva udito dietro di sé il fragore
di un treno che si avvicinava alla stazione, e quel
fragore e l’odore del fumo della locomotiva lo ave
vano scosso con la felicità del ricordo della stazione
di Kursk e, in generale, di Mosca. Attraversando
il villaggio nel ritorno dalla posta, in ogni ragazza
di piccola statura che gli camminasse davanti, nel
movimento delle sue anche egli coglieva con spa
vento qualcosa di Catia. Nei campi egli aveva in
contrato una t rò jk a; nella pesante carrozza che i tre
cavalli trainavano veloci, erano balenati due cappel
lini, uno di fanciulla, ed egli per poco non aveva
esclamato: «C a t ia !». I fiori bianchi nei fossatelli
tra i campi si collegavano istantaneamente in lui al
pensiero dei suoi guanti bianchi, le auricole azzurre
al colore della sua veletta... E quando, al calar del
sole, egli entrava in Sciachovskoie, l’asciutto e dolce
odore degli abeti e il sontuoso bianco odore del gel
somino gli avevano dato un così acuto senso dell’e
state e dell’antica vita estiva di qualcuno in quella
ricca e magnifica tenuta che, dopo aver gettato uno
sguardo alla rosso-dorata luce vespertina nel viale,
alla casa, posta nella sua profondità, nell’ombra cre
puscolare, egli a un tratto aveva visto Catia, in tutto
il rigoglio della bellezza femminile, scendere dalla
terrazza in giardino, quasi con la stessa evidenza
con cui vedeva la casa e il gelsomino. Già da un
484 L ’A M O R E D I M I T IA
pezzo egli aveva smarrito di lei la raffigurazione
quotidiana ed ella gli si rappresentava ogni giorno
sempre più insolita, sempre più trasfigurata; quella
sera poi la sua trasfigurazione aveva raggiunto una
tale forza, una tale trionfale vittoriosità che Mitia
ne aveva inorridito ancor di più che in quel merig
gio quando improvvisamente si era messo a cantare
sul suo capo il cuculo. E aveva avuto ragione escla
mando che così non si poteva più vivere. Sì, oc
correva la lettera, magari una lettera qualunque, o
la piena rinunzia ad essa; occorreva il ritorno alla
solita vita umana, al solito amore o al solito distac
co; ma la continuazione di quello, a cui egli era giun
to, era ormai impossibile, superiore alle forze.
XIX
Ed egli cessò di andare alla posta, si costrinse con
un disperato estremo sforzo di volontà a troncare
queste gite. Smise anche di scrivere. Giacché tutto
era stato ormai tentato, tutto scritto: e le furiose
proteste del suo amore, di cui non c’era stato in
terra l’eguale, e le umilianti richieste di amore o
almeno di un’« amicizia », e le sfrontate bugie che
egli era malato, che le scriveva stando a letto - con
lo scopo di attirarsi almeno la compassione, anche
un’attenzione qualsiasi - e persino i minacciosi ac
cenni al fatto che gli rimaneva, forse, una cosa so
la : liberare Catia e i « rivali più fortunati » dalla
L'A M O R E D I M IT IA 485
sua presenza sulla terra. E, avendo smesso di scri
vere e di sollecitare una risposta, costringendosi con
tutte le forze a non attender nulla (e tuttavia spe
rando in segreto che la lettera sarebbe venuta pro
prio quando egli o avesse ingannato la sorte fingen
dosi assai bene indifferente, o quando in realtà fosse
giunto all’indifferenza), sforzandosi in tutti i modi
di non pensare a Catia, cercando in tutti i modi uno
scampo da lei, egli cominciò di nuovo ad andare
al villaggio, a trattenersi nelle isbe, a leggere quel
lo che gli capitava sottomano, a recarsi con l’anzia
no, per gli affari dell’azienda rurale, nei villaggi li
mitrofi e a ripetersi interiormente senza tregua: “Fa
10 stesso, succeda quel che vuol succedere!”.
Ed ecco che, una volta, egli tornava con l’anziano
dalla fattoria, su un barroccino e, come sempre, di
gran carriera. L’anziano che guidava sedeva davanti,
e Mitia di dietro, e tutti e due sobbalzavano agli
urti, specialmente Mitia che si teneva forte al cu
scino e guardava ora la nuca rossa dell’anziano, ora
i campi che saltellavano dinanzi agli occhi. Avvici
nandosi alla casa, l’anziano allentò le redini, mise
11 cavallo al passo, cominciò ad arrotolare una siga
retta e, sorridendo dentro l’aperta borsa da tabacco,
disse :
— Ecco che allora, signorino, vi siete imperma
lito delle mie parole, e a torto. Non vi dicevo forse
la verità? Il libro è una bella cosa; perché non leg
gere nei momenti di ozio? Ma non scappa mica,
bisogna far tutto a suo tempo.
Mitia avvampò e, inaspettatamente per sé, rispose
con simulata semplicità e un sorriso impacciato :
486 L ’A M O R E D I M I T IA
— Ma non ho in vista nessuno...
-—- Come? — disse l’anziano. — Quante donne,
quante ragazze ci sono! Si vede che mi prendete in
giro.
— Le ragazze adescano soltanto — rispose Mitia,
cercando di adeguare il tono a quello dell’anziano.
— Dalle ragazze c’è poco da sperare.
— Ma no; è che non sapete trattarle — ribattè
l’anziano sentenziosamente. — E poi lesinate trop
po. Mentre, come dice il proverbio, il cucchiaio
asciutto lacera la bocca.
“Un perfetto idiota!” balenò nella testa di Mitia,
ma egli sostenne ancora una volta il tono:
— Non lesinerei troppo, se ci fosse un affare di
sicuro esito...
— E se non lesinate, tutto andrà nel miglior mo
do — disse l’anziano, accendendo la sigaretta, e con
tinuò come un poco offeso: — Non il rublo, non
il vostro regalo mi è caro, ma vorrei farvi un pia
cere. Guardo, guardo: si annoia il signorino! No,
penso, questa faccenda non si può lasciarla così. Ten
go sempre in gran conto i miei padroni. Ecco che
vivo da oltre un anno in casa vostra, e né da voi,
né dalla padrona, grazie a Dio, non ho ancora sen
tito una parola cattiva. Agli altri, per esempio, che
cosa importa del bestiame padronale? È sazio bene;
no, che il diavolo lo porti. Mentre io sono diverso.
A me il bestiame è più caro di tutto. Lo dico an
che ai ragazzi: per me, come volete, ma che il mio
bestiame sia nutrito!
Mitia aveva già cominciato a pensare che l’anzia
no fosse brillo, ma l’anziano abbandonò a un tratto
L ’A M O R E D I M I T IA 487
il tono tra offeso e confidenziale e disse, dopo aver
gettato su Mitia uno sguardo interrogativo al di so
pra della spalla:
— E che cosa ci sarebbe di meglio di Alionka?
Una donnetta pepata, giovanina, ha il marito nelle
miniere... Solo anche a lei, naturalmente, va rega
lata qualche inezia. Be’, spendete, poniamo, in tutto
e per tutto cinque rubli. Un rublo, diciamo, per il
rinfresco — prendete qualche liquore, dei semi di
girasole, dei biscotti alla menta — due in mano a
lei... Be’, qualcosa a me per il tabacco...
— Non è una difficoltà, questa — rispose Mitia,
di nuovo contro la propria volontà. — Ma di quale
Alionka parli?
— Di quella del guardaboschi, s’intende — chiarì
l’anziano. — Ma non la conoscete, forse? È la nuo
ra del nostro nuovo guardaboschi. Credo che l’ab
biate vista domenica scorsa in chiesa... Allora ho
proprio pensato: farebbe proprio al caso del nostro
signorino! È maritata da poco più di un anno, veste
bene...
— Ma sì — rispose Mitia, sorridendo, — e tu
combina l’affare.
— Allora, vuol dire, mi darò d’attorno — con
cluse l’anziano, riprendendo le redini. — Io, dun
que, in questi giorni la tenterò. Ma anche voi non
sonnecchiate mica! Domani lei aggiusterà da noi con
le ragazze il bastione del giardino, e voi venite in
giardino... Quanto al libro, non vi scapperà mai, fa
rete in tempo a leggere a sazietà anche a Mosca...
E mosse il cavallo, e il barroccino cominciò di
nuovo a scuotersi e a sobbalzare. Mitia si teneva
488 L'A M O R E D I M I T I A
forte al cuscino e, cercando di non guardare il rosso
collo grasso dell’anziano, guardava in lontananza,
di là dagli alberi del suo giardino e i vincheti del
villaggio che si stendeva sul pendìo verso il fiume,
verso i prati fluviali. Qualcosa di stranamente ina
spettato, di assurdo e insieme tale per cui su tutto
il corpo passava un languore febbrile, era stato com
piuto per metà. E già diverso da prima sporgeva
da dietro le cime del giardino e splendeva con la
croce nel sole vicino al tramonto il campanile noto
a Mitia sin dall’infanzia.
XX
Per la sua magrezza, le ragazze chiamavano Mitia
levriero; egli apparteneva a quella specie di uomini
dagli occhi neri, sempre dilatati, quasi senza baffi
né barba anche nell’età matura, che han solo dei
peli radi e ruvidi, arricciati sul mento. Tuttavia il
giorno dopo il colloquio con l’anziano egli si era
raso sin dalla mattina e si era messo una camicia
di seta gialla che aveva illuminato in modo strano
e bello il suo viso sfinito e come ispirato.
Verso le undici, cercando di assumere un’aria an
noiata di persona forzatamente oziosa, egli si avviò
lentamente in giardino.
Era uscito dall’ingresso principale, a nord. Lag
giù, al di sopra della rimessa e del cortile rustico
e al di sopra di quella parte del giardino dietro cui
L'A M O R E D I M I T I A 489
si affacciava il campanile, stagnava una caligine di
ardesia. E anche tutto il resto era opaco, l’aria vapo
rava e si spandeva odor di fumo dal comignolo del
la stanza della servitù. Mitia svoltò dietro la casa e
si diresse verso il viale di tigli, guardando le cime
del giardino e il cielo. Di sotto alle nubi indefinite
che salivano dietro il giardino, da sud-est, soffiava
un debole vento caldo. Gli uccelli non cantavano
e tacevano anche gli usignoli. Le sole api trasvola
vano in quantità senza suono attraverso il giardino,
tornando dalla raccolta.
Le ragazze, aggiustando il bastione, lavoravano
di nuovo presso l’abetaia, colmavano le brecce aper
te, le passatoie calpestate dal bestiame, le riempi
vano di terra e di concime vaporante, gradevolmente
odoroso, che i lavoranti di quando in quando por
tavano lì dalla corte rustica attraverso il viale; il
viale era tutto cosparso di patacche umide e lucenti.
Di ragazze ce n’erano sei. Sonica non c’era più, l’a
vevano fidanzata ed ora ella se ne stava in casa, pre
parando qualcosa per le nozze. C’erano alcune bam
bine ancor del tutto acerbe che, però, cercavano di
tenere un contegno da adulte e « pronte a tutto »,
c’era la grassa Aniutka, di aspetto grazioso, c’era
Glaška che pareva divenuta ancor più austera e ma
schia, e Alionka. E Mitia la scorse subito tra gli
alberi, comprese di colpo ch’era lei, anche se prima
non l’aveva mai vista, e lo colpì, come un fulmine,
qualcosa di comune che c’era - o gli era solo parso
- tra Alionka e Catia, qualcosa che inaspettatamente
e bruscamente gli era saltato agli occhi. Ciò era così
sorprendente ch’egli sostò addirittura, si smarrì per
490 L ’A M O R E D I M I T IA
un istante. Poi andò risolutamente verso di lei, sen
za distogliere da lei gli occhi.
Ella pure era piccola di statura, svelta. Nonostan
te che fosse venuta per un lavoro sporco, indossava
una graziosa camicetta (bianca con puntini rossi) di
cotone, stretta alla vita da una cintura di vernice
nera, una gonna dello stesso genere, un fazzoletto
di seta rosa, calze di lana rossa e un paio di nere
morbide babbucce, nelle quali (o, più esattamente,
in tutto il suo piccolo leggero piedino) c’era di nuo
vo qualcosa di Catia, cioè di femmineo anzi tutto,
ma mescolato a qualcosa d ’infantile. Aveva anche
una testolina piccola, e gli occhi scuri erano tagliati
e brillavano quasi allo stesso modo di quelli di Ca
tia. Mentre Mitia si avvicinava, lei sola non lavo
rava : come se sentisse la propria particolarità in
mezzo alle altre, se ne stava sul bastione, premendo
il piede destro sul forcone e parlando con l’anzia
no. L’anziano, appoggiato su un gomito, giaceva sot
to un melo sulla sua giacca dalla fodera lacera, e
fumava. Mitia si avvicinò; egli si spostò cortesemen
te sull’erba, cedendogli il posto sulla giacca.
— Sedete, Mitri Palyc, fumate — disse in tono
amichevole e negligente.
Mitia guardò fuggevolmente, di soppiatto, Alion-
ka — molto bene le illuminava il viso il suo faz
zoletto rosa - sedette e, abbassati gli occhi, comin
ciò a fumare (parecchie volte durante l’inverno e la
primavera aveva smesso di fumare, ora aveva ri
preso). Alionka non gli s’inchinò nemmeno, come
se non si fosse neanche accorta di lui. L’anziano con
tinuava a dirle qualcosa che Mitia non capiva, igno
L'A M O R E D I M I T IA 491
rando il principio del discorso. Ella rideva, ma come
se né la mente né il cuore partecipassero a quel riso.
In ogni frase l’anziano con la sua voce rozza, ne
gligente e ironico, inseriva allusioni oscene. Ella gli
rispondeva in tono leggero e puro ironico, facen
dogli capire che in certe sue mire su qualcuno egli
si era comportato stupidamente, troppo a bruciape
lo, e nello stesso tempo anche timidamente, temen
do la moglie.
— Be’, non ti si tappa la bocca — disse final
mente l’anziano, troncando la disputa, come in vista
della sua inutilità venutagli a noia. — Se non fossi
ammogliato, da un pezzo, ragazza, ti avrei stroncato
le ali! Ho domato stalloni anche più focosi! Vieni
piuttosto a sederti qui con noi. Il padrone vuol dirti
una parola.
Alionka stornò gli occhi, si ravviò sulle tempie
le scure anella dei capelli e non si mosse dal po
sto.
— Vieni, ti dico, stupida! — ripetè l’anziano.
E, dopo averci pensato un attimo, Alionka a un
tratto saltò giù agile dal bastione, si avvicinò di
corsa e si accoccolò a due passi da Mitia, sdraiato
sulla giacca, allegramente e con curiosità guardan
dolo in viso con gli occhi scuri, dilatati. Poi rise e
domandò :
— Ma è vero, signorino, che non vivete con le
donne? Come un qualche diacono?
Mitia, tutto rosso, con un sorriso impacciato, mor
boso, guardava il grembo di lei, le sue ginocchia
divaricate, e taceva, mordicchiando uno stelo d ’er
ba.
492 L ’A M O R E D I M I T I A
— E tu come fai a saperlo che non ci vive? -—
domandò l’anziano.
— Lo so •— rispose Alionka. — L’ho sentito di
re. No, il signorino non può. Ce l’ha a Mosca —
soggiunse, dandogli un’occhiata giocosa.
— Non ce ne sono di adatte per lui, e perciò
non se ne impaccia — proferì l’anziano. — Che
cosa vuoi capirne tu dei fatti suoi!
— Come non ce ne sono? — si meravigliò Alion
ka, ridendo. — Quante donne, quante ragazze ci
sono! Ecco Aniutka, che cosa c’è di meglio? Aniut-
ka, vieni qua, c’è un affare per te! — gridò so
noramente.
Aniutka, larga e morbida di schiena, dalle brac
cia corte, si volse —aveva un viso molto aggraziato,
un sorriso molto buono e piacevole - gridò qual
cosa in risposta con voce cantilenante e tornò con
maggior lena al lavoro.
— Ti dicono, vieni! -— ripetè ancor più sono
ramente Alionka.
— Non vai la pena ch’io venga, non me ne in
tendo di codesti affari — canticchiò Aniutka gioio
samente. — Per me non basterebbe tutto il suo ca
pitale.
— A noi Aniutka non occorre, abbiamo bisogno
di qualcosa di meglio, di più nobile — disse sen
tenziosamente l’anziano. -— Lo sappiamo noi chi ci
occorre.
E diede uno sguardo molto espressivo ad Alion
ka. Ella si confuse leggermente, arrossì un poco.
— No, no, no — rispose, celando la confusione
col sorriso, — meglio di Aniutka non troverete nes
L'A M O R E D I M I T I A 493
suno. E se non volete Aniutka, Nastka, anche lei,
veste bene, ha vissuto in città...
— Be’, basta, taci — tagliò corto l ’anziano in
tono inaspettatamente rozzo. — Occupati del tuo
lavoro, hai cianciato abbastanza. Anche così la pa
drona mi rimprovera, dice che non fate che del bac
cano.
Alionka saltò in piedi di nuovo con una legge
rezza straordinaria e diede di piglio al forcone. Ma
il lavorante che aveva scaricato nel frattempo l’ul
timo carro di concime, gridò: «A colazion e!» e,
dando strappi alle redini, rintronò il viale in discesa
con la vuota cassetta del carro.
— A colazione, a colazione!— gridarono in coro
discorde anche le ragazze, gettando le vanghe e i
forconi, scavalcando il bastione, saltandone giù, fa
cendo balenare le gambe nude e le calze variopinte
e radunandosi di corsa sotto l’abetaia intorno ai pro
pri fagotti.
L’anziano sbirciò Mitia di traverso, gli strizzò un
occhio, volendo dire che la faccenda si metteva bene
e, sollevandosi, autorevolmente accondiscese:
— Be’, se si ha da andare a colazione, andia
mo...
Le ragazze, screziando di sé l’oscura muraglia de
gli abeti, allegramente e alla rinfusa si disposero
a seder sull’erba, cominciarono a slegare i fagotti,
a trarne le frittelle e a disporle in grembo tra le
gambe distese, cominciarono a masticare, bevendo
dalle bottiglie quale il latte, quale il k v ass e con
tinuando a discorrere ad alta voce e disordinatamen
te, ridendo a ogni parola e guardando ogni momento
494 L'A M O R E D I M I T IA
Mitia con occhi curiosi e provocanti. Alionka, chi
nandosi verso Aniutka, le disse qualcosa all’orec
chio. Aniutka, senz’aver potuto trattenere un sorriso
incantevole, la respinse con una forza terribile
(Alionka, soffocando dalle risa, si lasciò cadere la
testa sulle ginocchia) e con simulata indignazione
gridò per tutta l’abetaia con la sua voce cantilenan
te:
— Stupida! Perché ridi a sproposito? Che conso
lazione provi?
— Andiamo, Mitri Palyc, a scanso di qualche gua
io — disse l’anziano: — hanno il diavolo in cor
po!
— Signorino! — gridò Alionka dietro Mitia. —
La vostra simpatia con Aniutka non riuscirà! Voi
siete come un diacono, e lei è come una bambina di
cinque anni!
XXI
In cortile si sentiva un grasso odor di fumo pro
veniente dal comignolo della stanza, in cui pran
zava la servitù; i cani, scodinzolando, stavano sotto
le finestre con un’aria servile di postulanti. Il vil
laggio dall’altra parte, oltre i prati, oltre il fiumi-
cello, appariva di un grigio monotono. Tutto era
particolarmente feriale: ci sono dei giorni partico
larmente feriali. L’aria era sempre egualmente opa
ca, in cielo c’erano sempre le stesse indefinite nubi
L'A M O R E D I M I T IA 495
e nuvolette, dal sud soffiava sempre lo stesso vento
debole e caldo.
Entrato in casa, Mitia passò in camera sua e si
gettò sul letto col viso nel cuscino. Egli sapeva, im
maginava che, dopo aver fatto colazione, le ragazze
si sarebbero subito messe a dormire nella tiepida
aria soffocante sotto gli abeti, rimboccando i lembi
delle gonne e coprendosene il capo, tirando sotto
di sé i piedi scalzi o calzati da babbucce... Si sareb
be sdraiata anche Alionka... Al pensiero della pos
sibilità di possederla - ed ora questa possibilità si
era pienamente definita, era certa - il cuore sospen
deva a intermittenza i battiti.
“Ma che cos’è? Ma che cos’è ?” domandava lui,
“possibile ch’io me ne sia già innamorato? E Ca
da? Che assurdità? Come se lei rassomigliasse a
Cada!”
Catia esisteva per conto suo, in un mondo del
tutto diverso, non di tutti i giorni, eppure gli sali
vano alla gola lacrime di acuta tenerezza e di pietà
per lei. Egli sollevò il capo. Il vento di là dalla fi
nestra agitava mollemente il folto e ancor morbido,
tenero verde del giardino, delle sue cime, i rami
oscillavano lentamente, si curvavano e c’erano an
cora in essi i residui della primavera, di Catia... Egli
balzò su, sedette; la camicia gialla, lo spavento e
lo stupore illuminarono il suo pallido viso:
“No, manderò un telegramma, andrò a Mosca!”
gli balenò un pensiero forsennato. “Se tutto ciò fos
se un’assurdità? Se si fosse semplicemente smarrita
una lettera, s’ella si fosse semplicemente ammalata
496 L ’A M O R E D I M I T IA
di qualcosa, si fosse infreddata, avesse passato al
cuni giorni a letto? E poi chi sa, chi sa!”
Ma qui, senza rumore, a piedi scalzi entrò Pa
rasela, gli porse il giornale ed una cartolina, disse:
— Favorite a tavola — e uscì.
La cartolina era di Protasov:
« Mio caro Cavaliere dalla Trista Figura, perdo
nami lo sconcio silenzio in risposta a tutte le tue
lettere; la causa di ciò, ahimè, è estremamente sem
plice: lo sgobbo e la piena assenza di novità, degne
della tua illuminata attenzione... C. l’ho vista al
cune volte, è in uno stato d’animo abbastanza aci
do. In questi giorni, prima della partenza alla volta
dei lari domestici, scriverò più a lungo... »
Mitia, serrati i denti e divenuto di colpo rabbio
samente allegro, gettò la cartolina sulla scrivania
e con passo risoluto andò a tavola.
XXII
Il giorno dopo in giardino non lavoravano, era
festa, domenica.
La notte era piovuto, l’acqua frusciava sul tetto,
il giardino s’illuminava di continuo di una luce pal
lida ma larga, fiabesca. Verso la mattina il tempo
si era, però, di nuovo rimesso, di nuovo tutto era
L'A M O R E D I M I T IA 497
diventato semplice e prospero, e Mitia fu svegliato
da un allegro scampanìo nella luce solare.
Egli si lavò senza fretta, si vestì, bevve un bic
chiere di tè e andò alla messa. — La mamma è già
uscita — lo rimproverò affabilmente Parasela — e
voi siete come un tartaro...
Alla chiesa si poteva accedere attraverso il pasco
lo, uscendo dal portone della tenuta e svoltando a
destra, o attraverso il giardino e l’aia, a sinistra. Mi
tia s’incamminò attraverso il giardino.
Tutto era già estivo. Mitia camminava lungo il
viale proprio incontro al sole che splendeva asciutto
sull’aia e nei campi. E questo splendore e lo scam
panìo pacifico e bello che si fondeva con esso e in
generale con tutta la mattina campagnola, e il fatto
che Mitia si era appena lavato, aveva pettinato i
suoi lucidi capelli neri bagnati e si era messo il ber
retto studentesco, tutto a un tratto sembrò così bello
che Mitia, il quale, di nuovo, non aveva dormito
tutta la notte e di nuovo era passato durante la not
te attraverso i più eterogenei pensieri e sentimenti,
fu a un tratto assalito dalla speranza di una felice
risoluzione di tutti i suoi strazi, da una speranza di
salvezza, di liberazione. Le campane tinnivano e chia
mavano, l’aia davanti splendeva ardente, il picchio,
sostando via via, sollevando la cresta, correva rapi
damente su per lo scabro tronco di un tiglio a rifu
giarsi nella cima verdechiara, inondata di sole, i ne
ro-rossi calabroni di velluto si rintanavano diligen
temente nei fiori sulle radure, al caldo, gli uccelli
cantavano in tutto il giardino dolcemente e spensie
ratamente... Tutto era com’era stato infinite volte
18.
498 L'A M O R E D I M I T IA
nell’infanzia, nell’adolescenza, e così al vivo gli ri
tornò nella memoria il bel tempo spensierato di
prima che a un tratto comparve la certezza che Dio
è miséricorde, che, forse, si poteva vivere al mondo
anche senza Catia. E Mitia si raffigurò com’egli, gio
vano padroncino, suscitando l’attenzione generale, di
lì a un minuto sarebbe salito a capo scoperto nel
fresco atrio, e poi sarebbe entrato nella chiesa cal
da, stretta, piena di sole estivo, nella folla delle
donne e delle ragazze abbigliate, odoranti di tela
nuova, avrebbe visto i puntini dorati dei ceri tre
molanti nell’aria densa, avrebbe udito il coro salmo
diare allegramente e in contrattempo...
“Davvero, andrò dai Mescerski” pensò, immagi
nandosi che presso il recinto della chiesa stesse in
quel momento, agitando i sonagli, qualche tròjk a
dai finimenti di parata, dal cocchiere in caffettano
di felpa senza maniche e cappello piumato.
Pensò anzi con un sentimento particolare, da fi
danzato, alla maggiore delle signorine Mescerski...
Ella nutriva da un pezzo qualcosa per lui... Era sem
pre, nel trattarlo, lenta, benevolmente ironica, ave
va sempre un’aria, come se lei sola sapesse qual
cosa di lui... Ed era tenuta in conto di bella figliola,
alta, maestosa... Aveva una magnifica treccia e una
magnifica femminilità nelle anche grandi, svelte, nel
le linee della gonna che ricadevano snelle e dirit
te...
Ma qui Mitia alzò gli occhi e a una ventina di
passi da sé scorse Alion ka che appunto in quel mo
mento passava davanti al portone. Aveva di nuovo
in capo il fazzoletto di seta rosa, indossava un eie-
L ’A M O R E D I M I T IA 499
gante abito celeste con le gale, aveva un paio di
nuove scarpette ferrate. Camminava lesta, sgonnel
lando, senza vederlo, ed egli bruscamente si fece in
disparte, dietro gli alberi.
Dopo aver lasciato che si allontanasse, col cuore
che gli batteva, tornò frettolosamente indietro, verso
casa. Aveva a un tratto compreso sia ch’era andato
in chiesa con la segreta intenzione di vederla, sia
che vederla in chiesa non si poteva, non si doveva.
XXIII
Durante il pranzo un messo portò dalla stazione
un telegramma: Ania e Costia avvertivano che sa
rebbero arrivati la sera del giorno dopo. Mitia ac
colse la notizia con perfetta indifferenza.
Dopo pranzo egli giaceva supino sul divano di
vimini in terrazza, con gli occhi chiusi, sentendo
il caldo sole che arrivava fin sulla terrazza, ascol
tando il ronzìo estivo delle mosche. Il cuore trema
va, nella testa stava confitta l’insolubile domanda:
come si sarebbe svolta la faccenda di Alionka? Quan
do si sarebbe risolta definitivamente? Perché l’an
ziano non le aveva chiesto francamente, il giorno
prima, s’ella fosse d’accordo e, se sì, dove e quan
do? E accanto a questa lo tormentava un’altra que
stione: se dovesse o no infrangere la sua ferma de
cisione di non andare più alla posta. Non avrebbe
500 L'A M O R E D I M I T IA
dovuto andarci quel giorno ancora una volta, l’ul
tima? Infliggere un nuovo e insensato scherno al suo
amor proprio? Commettere un nuovo e insensato
strazio di sé con quella misera speranza? Ma che
cosa poteva aggiungere ora quella gita (in sostanza,
una semplice passeggiata) ai suoi strazi? Non era
forse ormai perfettamente chiaro che laggiù, a Mo
sca, per lui era finito tutto e per sempre? Che cosa
ormai aveva egli da perdere? Gli rimaneva una set
timana di tempo! Se in quella settimana fosse riu
scito a salvarsi in un modo o nell’altro (con la for
za della volontà o magari per mezzo di Alionka),
bene, se no, accadesse pure l’inevitabile...
— Signorino! — si udì a un tratto una voce som
messa vicino alla terrazza. — Signorino, dormite?
Egli aprì rapidamente gli occhi. Gli stava dinanzi
l’anziano con una nuova camicia di cotone, con un
nuovo berretto. Aveva un viso festivo, sazio e leg
germente sonnacchioso, brillo.
— Signorino, andiamo subito nel bosco — bisbi
gliò. — Ho detto alla padrona che devo incontrarmi
con Trifon per via delle api. Andiamo presto, men
tre lei riposa, ché non abbia a svegliarsi e a cambiar
idea... Prendiamo con noi qualcosa da offrire a Tri-
fon, l’alcool gli darà alla testa, lo terrete a bada
con qualche discorso, e io m’ingegnerò di sussur
rare una paroletta ad Alionka. Infatti, perché tirarla
in lun go? Se è d ’accordo, bene, e se no, vada al
diavolo, e troveremo di meglio. Venite fuori presto,
ho già attaccato il cavallo...
Mitia saltò in piedi, attraversò di corsa l’antica
L ’A M O R E D I M I T IA 501
mera, afferrò il berretto e si avviò rapidamente ver
so la rimessa, dove un giovane ardente puledro sta
va attaccato al barroccino da corsa.
XXIV
Il puledro prese di colpo l’aire e in un turbine
uscì dal portone. Di faccia alla chiesa si fermarono
per un momento presso una bottega, presero una
libbra di lardo e una bottiglia di v odk a e prosegui
rono al galoppo.
All’uscita dal villaggio balenò un’isbà presso cui
stava abbigliata e senza saper che cosa fare Aniutka.
L’anziano per scherzo ma rozzamente le gridò qual
cosa e con una baldanza insensata e cattiva, da uo
mo alticcio, diede un forte strappo alle redini, sferzò
la groppa al puledro. Il puledro corse ancor più
veloce.
Mitia, seduto e sobbalzando, si teneva aggrap
pato con tutte le forze. Il sole gli coceva gradevol
mente la nuca, in viso gli ventava tiepido l’alito
campestre che odorava già di grano germogliante, di
polvere stradale, di grasso delle ruote. Le messi on
deggiavano, con riflessi d’un’increspatura grigio-ar
gentea, come una pelliccia prodigiosa, al di sopra di
esse si libravano ogni momento, cantavano, trasvo
lavano obliquamente e cadevano le allodole, lontano
azzurreggiava mollemente il bosco...
502 L ’A M O R E D I M I T I A
Di lì a un quarto d ’ora erano già nel bosco, e
altrettanto forte, urtando contro i ciocchi e le ra
dici, si erano slanciati lungo la strada ombrosa, ri
dente di macchie solari e d ’innumerevoli fiori nella
folta e alta erba ai lati. Alionka, nel suo abito ce
leste, stese diritte le gambe, coi piedi nelle babbuc
ce, sedeva tra i quercioli che rinverdivano presso la
cantoniera e ricamava qualcosa. L’anziano le passò
dinanzi di gran carriera, dopo averla minacciata con
la frusta, e inchiodò di colpo il cavallo presso la
soglia. Mitia fu colpito dall’amaro e fresco aroma
del bosco, del giovane fogliame delle querce, fu
assordito dal sonoro abbaiare dei cagnolini che ave
vano attorniato il barroccino e riempito tutto il bo
sco di richiami. Essi se ne stavano lì e abbaiavano
furiosamente su tutti i toni, e i loro musi pelosi era
no buoni e le code si agitavano.
Discesero, legarono il puledro sotto le finestre a
un alberello secco, bruciato dalla folgore, e senza
fretta attraversarono l’andito buio.
L’interno della cantoniera era molto lindo, molto
intimo e molto stretto, caldo e per il sole che splen
deva da dietro al bosco in tutt’e due le sue fine
strelle, e per il fatto ch’era stato acceso il forn o: la
mattina avevano cotto il pane bianco. Fedossia, la
suocera di Alionka, una vecchietta dai denti enormi,
ma pulita e decente, sedeva alla tavola, con la schie
na rivolta alla piccola finestra assolata, invasa da
minuscoli moscerini, col gomito del braccio destro
nella palma della mano sinistra, e con la guancia
nel cavo della palma destra. Scorgendo il padron
L'A M O R E D I M I T I A 503
cino, ella si alzò e s’inchinò profondamente. Dopo
aver reso il saluto, sedettero e cominciarono a fu
mare.
— Ma dov’è Trifon ? — chiese l’anziano.
— Riposa in dispensa — disse Fedossia: — va
do subito a chiamarlo.
— La faccenda va bene! — sussurrò l’anziano,
battendo le palpebre, non appena ella fu uscita.
Ma Mitia non vedeva ancora alcun esito. Intanto
si sentiva solo insostenibilmente impacciato - pare
va che Fedossia capisse ormai benissimo perché fos
sero venuti — e in generale oppresso e turbato. Di
nuovo gli balenava il pensiero che già da un paio
di giorni lo faceva inorridire. “Che cosa faccio? Im
pazzisco!” Gli pareva di essere un lunatico, soggio
gato da qualche volontà estranea, il quale cammi
nasse sempre più rapidamente verso qualche abisso
fatale ma irresistibilmente attraente, o un uomo che
disperatamente avesse acconsentito a subire una ter
ribile operazione, indispensabile e unica atta a sal
varlo. Ma, cercando di avere un’aria semplice e tran
quilla, egli se ne stava lì, fumava, osservava la can
toniera... Si vergognava particolarmente al pensiero
che ora sarebbe entrato Trifon , un contadino, a quan
to dicevano, cattivo, intelligente, il quale avrebbe
subito compreso tutto anche meglio di Fedossia. E
insieme c’era un altro pensiero: “Ma dove dorme
lei? Su questi soppalchi o in dispen sa?” . “Certo,
in dispensa” pensò Mitia. La notte estiva nel bosco...
le finestrelle in dispensa erano senza intelaiatura,
senza vetri... per tutta la notte si sentiva il mor-
504 L ’A M O R E D I M I T I A
morìo sonnolento del bosco... ed ella dormiva sola,
del tutto sola. “Oh, Cada, Cada! Oh, che cosa fai!”
pensò egli senza parole, con orrore.
XXV
Fedossia tornò dopo un minuto, disse che Trifon
veniva, e subito si rivolse all’anziano:
— Sei un bel tipo, signor mio; quali fanfaluche
vai spargendo al villaggio sul conto della nostra
Alionka!
L’anziano fece gli occhi stupiti, cominciò a giu
stificarsi. E si accese un discorso incomprensibile per
Mitia. Dalle parole di Fedossia si poteva cogliere
soltanto qualcosa di simile al fatto che l’anziano
avrebbe proposto a un commesso di « abbindolar
gli » Alionka e lo aveva spifferato al villaggio, ed
anzi di più, aveva sparso la voce ch’ella viveva già
col commesso. A un tratto si udirono dei passi die
tro la porta, e Fedossia e l’anziano tacquero di col
po.
Trifon entrò e s’inchinò a sua volta profonda
mente a Mitia, ma in silenzio, senz’averlo guardato
negli occhi. Poi sedè sulla panca davanti alla tavola
e in tono asciutto e malevolo attaccò discorso con
l’anziano: di che cosa si trattava, perché aveva fa
vorito lì? L’anziano si affrettò a dire che lo aveva
mandato la padrona, ch’ella pregava Trifon di ve
nire a veder l’arniaio, che il loro apicultore era un
L'A M O R E D I M I T IA 505
vecchio, sordo imbecille, e ch’egli, Trifon , era forse
il primo apicultore di tutto il governatorato per il
suo senno e intendimento, e senza indugio estrasse
da una tasca dei calzoni la bottiglia di v odk a, e
dall’altra il lardo in una ruvida carta grigia, già
unta da parte a parte. Trifon gettò di sbieco uno
sguardo freddo e ironico, tuttavia si alzò dal posto
e prese di sulla mensola una tazza da tè. L’anziano
offrì la v odk a da prima a Mitia, poi a Trifon , poi
a Fedossia — essa sorbì con piacere la tazza sino
al fondo - e finalmente la riempì per sé. Dopo aver
bevuto, cominciò subito a offrirne in giro una se
conda, masticando il pane bianco e dilatando le na
rici.
Trifon diventò ebbro abbastanza presto, ma non
perse il suo tono asciutto e l’ironia malevola. L’an
ziano cadde in una greve ottusità subito dopo la
seconda tazza. La conversazione assunse esteriormen
te un carattere amichevole, ma gli occhi di tutti e
due erano diffidenti, cattivi. Fedossia se ne stava
lì taciturna, aveva uno sguardo cortese ma sconten
to. Alionka non si mostrava. Perduta ogni speranza
ch’ella venisse, vedendo chiaramente ch’era una fan
tasticheria cretina contar sul fatto che all’anziano
riuscisse di sussurrarle una « paroletta », anche s’el-
la fosse venuta, convintosi che la gita era andata a
vuoto, che aveva portato solo vergogna, tormenti
disgustosi — l’anziano si era semplicemente sbornia
to e aveva ubriacato con certi suoi scopi Trifon a
spese di lui, Mitia — Mitia si alzò e disse severa
mente ch’era tempo di partire.
— Ora, ora, c’è tempo! — rispose l’anziano ac
506 L'A M O R E D I M I T IA
cigliato e impudente. — Ho ancora da dirvi una
paroletta in segreto.
— Be’, me la dirai per strada — disse in tono
contenuto, ma ancor più severo, Mitia. — Andiamo.
Ma l’anziano batté con la palma sulla tavola e
con un’enigmaticità da ubriaco ripetè:
— E io vi dico che per strada non si può dirla!
Venite un momento fuori con me...
E alzatosi pesantemente dal posto, spalancò l’u
scio verso l’andito.
Mitia uscì con lui.
— Be’, di che cosa si tratta?
— Tacete! — sussurrò l’anziano, socchiudendo
dietro Mitia la porta, barcollando, guardandolo con
occhi sonnacchiosi e alitandogli in viso odor di
v odk a.
— Che cosa devo tacere?
— Tacete!
— Non ti capisco.
— Tacete! Sarà nostra! Parola d’onore!
Mida lo respinse, uscì dall’andito e si fermò sul
la soglia, non sapendo se aspettare ancora un poco,
o partir solo, o andarsene semplicemente a piedi.
A dieci passi da lui sorgeva il folto bosco verde,
già immerso nell’ombra serale e perciò ancor più
fresco, puro e bello. Il sole limpido tramontava die
tro le cime degli alberi, attraverso le quali si river
sava in raggi il suo oro di zecchino. E a un tratto
si udì sonora e si ripercosse nella profondità del
bosco, lontano, a quanto parve, dall’altra parte, di
là dai borri, una melodiosa voce femminile, e con
L'A M O R E D I M IT IA 507
una tale ansia di richiamo, con un tale incanto, come
suona solo nel bosco, nel crepuscolo estivo.
— Olà! — gridò a distesa quella voce, eviden
temente divertendosi con gli echi del bosco. — Olà!
Mitia saltò giù dalla soglia e corse sui fiori e le
erbe nel bosco. Il bosco scendeva in un burrone
sassoso. Nel burrone stava in piedi Alionka. Mitia
giunse di corsa sul ciglio del burrone e si fermò.
Ella lo guardava di giù con occhi sorpresi.
— Che cosa fai qui? — chiese Mitia piano, sof
focando per il batticuore.
— Cerco la nostra Maruska con la mucca. Per
ché?
— Vieni, dunque?
— Perché dovrei venire per niente? -—- diss’ella.
— Anche a giornata si viene per denaro.
— Chi ti ha detto eh’è per niente? — chiese
Mitia in un sussurro. — Di questo non preoccu
parti.
— E quando? — chiese Alionka.
— Ma domani... Tu quando puoi?
Alionka stette un po’ sopra pensiero.
-— Domani andrò da mia madre a tosare la pe
cora -— rispose, dopo un breve silenzio, osservando
cautamente il bosco sul poggio dietro Mitia. — La
sera, quando sarà imbrunito, verrò. Ma dove? Sul
l’aia non si può, verrà qualcuno... Volete, nella ca
panna dentro il borro del vostro giardino? Solo guar
date di non ingannarmi; per niente non sono di
sposta... Qui non siete a Mosca — soggiunse, guar
dandolo di giù con occhi ridenti: — là, dicono, le
donne pagan loro...
XXVI
Il ritorno fu scandaloso.
Trifon non era rimasto in debito, aveva messo
anche dal canto suo una bottiglia, e l’anziano si era
così sborniato che non subito era riuscito a montare
sul barroccino: da prima vi era caduto sopra, e il
puledro spaventato aveva dato uno strappo e per
poco non era galoppato via da solo. Ma Mitia ta
ceva, guardava impassibile l’anziano, aspettava ch’e
gli si mettesse a posto, pazientemente. L’anziano
aizzava di nuovo il cavallo con un furore assurdo.
Mitia taceva, si teneva aggrappato forte, guardava
il cielo vespertino, i campi che tremavano e salta
vano rapidamente davanti a lui. Nel tramonto, al
di sopra dei campi, finivano di cantare le loro miti
canzoni le allodole, a levante, già inazzurrato per
la notte, scoppiavano quei lontani, pacifici lampi che
non preannunciano nulla, tranne il bel tempo. Mitia
capiva tutta questa bellezza serale, ma ora essa gli
era del tutto estranea. Nei pensieri, nell’anima c’era
una cosa sola: domani sera!
A casa lo aspettava la notizia ch’era stata rice
vuta una lettera confermante che Ania e Costia sa
rebbero arrivati il giorno dopo, col treno della sera.
Egli inorridì : sarebbero arrivati, corsi di sera in giar
dino, potevano dirigersi alla capanna, dentro il bor
ro... Ma subito si ricordò che dalla stazione li avreb
bero portati non prima delle dieci, poi li avrebbero
rifocillati, ristorati col tè...
L ’A M O R E D I M IT IA 509
— Tu andrai loro incontro? — chiese Olga Pe
trovna.
Egli sentì che impallidiva.
— No, non credo... Non ho voglia... E poi non
c’è posto...
— Be’, poniamo, potresti andarci a cavallo...
— Ma no, non so... Del resto, perché? Ora al
meno non ho voglia...
Olga Petrovna lo guardò attentamente.
— Stai bene?
— Perfettamente — disse Mitia in tono quasi
rozzo. — Solo ho molto sonno...
E andò subito in camera sua, si sdraiò al buio sul
divano e si addormentò, senza spogliarsi.
La notte egli udì una lontana, lenta musica e si
vide sospeso su un enorme abisso, debolmente illu
minato. Esso si rischiarava sempre più, si faceva sem
pre più profondo, sempre più dorato, sempre più
vivido, sempre più popolato, più gioioso, e già del
tutto distintamente, con indicibile mestizia e tene
rezza, vi risonò il canto: « C’era un re in Tuie... ».
Egli trepidò per l’intenerimento, si girò sull’altro
fianco e si addormentò di nuovo.
XXVII
Il giorno pareva interminabile.
Mitia, come un automa, usciva per il tè, il pran
zo, poi tornava in camera sua e si coricava di nuo
510 L ’A M O R E D I M I T IA
vo, prendeva dalla scrivania un volume di Pissemski
che già da un pezzo giaceva lì, leggeva senza capire
una parola, guardava a lungo il soffitto, ascoltava
il fruscio eguale, estivo, come di raso, del giardino
soleggiato di là dalla finestra... Un a volta si alzò e
andò in biblioteca per cambiare il libro. Ma quella
stanza, magnifica per la sua antichità, per la sua
quiete, per la vista da una delle finestre sull’acero
familiare, e dalle altre sul chiaro cielo di ponente,
gli ricordò così acutamente quei giorni primaverili
(ormai infinitamente lontani) quando se ne stava lì,
leggendo i versi nelle vecchie riviste, e sembrò ap
partener talmente a Catia ch’egli si volse e ritornò
rapidamente indietro. “Al diavolo!” pensò con irri
tazione. “Occhi bizantini, Cavaliere dalla Trista Fi
gura! Al diavolo tutta questa poetica tragicità del
l’amore!”
Ricordò con indignazione la sua intenzione di spa
rarsi se non fosse venuta una lettera di Catia, e si
sdraiò di nuovo e di nuovo si accinse alla lettura
di Pissemski. Ma, come prima, non capiva nulla,
leggendo, e talvolta, guardando il libro e pensando
ad Alionka, rappresentandosi il suo corpo, comin
ciava a tremare di un tremito sempre crescente nel
ventre. E quanto più si avvicinava la sera, tanto più
spesso lo assaliva, lo scoteva il tremito. Le voci e
i passi in casa, le voci in cortile — attaccavano già
la carrozza da mandare alla stazione - tutto risona
va, come durante la malattia, quando sei solo a letto,
e intorno scorre la solita vita di tutti i giorni, in dif
ferente verso di te e perciò estranea, anzi ostile. Fi
L ’A M O R E D I M I T IA 511
nalmente, chi sa dove, Parasela gridò : « Signora, i
cavalli sono pronti! »; si udì il sordo brontolìo dei
sonagli, poi lo scalpiccio degli zoccoli, il fruscio del
la carrozza che si avvicinava alla scaletta esterna...
« Ah, ma quando mai finirà tutto questo? » balbettò
Mitia fuori di sé per l’impazienza, senza muoversi,
ma ascoltando avidamente la voce di Olga Petrovna
che dava in anticamera gli ultimi ordini. A un tratto
i sonagli borbottarono di nuovo e, borbottando sem
pre più compatti al rumore della vettura avviata in
discesa, cominciarono a perdersi...
Alzatosi rapidamente dal posto, Mitia uscì in sa
la. La sala era vuota e chiara per il sereno tramonto
giallognolo. Tutta la casa era vuota e in certo modo
stranamente vuota! Con uno strano sentimento, come
di addio, Mitia guardò la fuga delle aperte, tacitur
ne stanze, il salotto, la stanza dei divani, la biblio
teca, nella cui finestra azzurreggiava vespertina la
volta meridionale del cielo, verdeggiava la pittoresca
cima dell’acero e, come un puntino roseo, sovrastava
l’Antares... Poi diede un’occhiata in anticamera, se
non ci fosse Parascia. Accertatosi che anche lì non
c’era nessuno, egli tolse dall’attaccapanni il berret
to, tornò di corsa in camera sua, e saltò fuori dalla
finestra, dopo avere sporto sull’aiuola le lunghe gam
be. Sull’aiuola egli s’irrigidì per un attimo, poi, cur
vandosi, passò di corsa in giardino e subito sguisciò
nel profondo viale laterale, densamente invaso da
cespugli di acacia e di lilla.
XXV III
Di rugiada non ce n ’era, non si potevano perciò
sentire troppo gli effluvi del giardino serale. Ma a
Mitia, nonostante l’incoscienza di tutti i suoi atti in
quella sera, sembrò che mai prima in vita sua - ad
eccezione, forse, della prima infanzia — egli avesse
incontrato una tale forza e varietà di odori, come
allora. Tutto olezzava - i cespugli delle acacie, le
foglie delle serenelle, le foglie del ribes, della bar
dana, l’artemisia, i fiori, l’erba e la terra stessa -
con una vivezza quasi innaturale.
Dopo aver fatto rapidamente alcuni passi col pau
roso pensiero: “E se ella m ’ingannasse, non venis
se?” — ora pareva che tutta la vita dipendesse dal
fatto se Alionka sarebbe venuta o no T dopo aver
colto tra gli odori della vegetazione anche l’odore
del fumo serale portato lì da qualche parte del vil
laggio, Mitia si fermò ancora una volta, si volse per
un attimo: uno scarabeo vespertino volava lentamen
te e ronzava vicino a lui, come seminando il silen
zio, l’acquietamento e il crepuscolo, ma c’era ancora
chiaro per il tramonto che aveva abbracciato metà
cielo con la luce eguale dei primi bagliori estivi,
che stentavano ad estinguersi, e di sopra il tetto del
la casa che si vedeva qua e là da dietro agli alberi
splendeva alta nella trasparente vacuità celeste la
curva e aguzza falce della luna nascente. Mitia la
guardò, si fece un rapido e minuto segno della cro
ce e s’inoltrò nei cespugli delle acacie. Il viale con
duceva nel borro, ma non verso la capanna: biso-
L ’A M O R E D I M I T I A 513
gnava andarci di traverso, prendere più a sinistra. E
Mitia, valicati i cespugli, corse tra i rami largamen
te stesi dei meli, ora curvandosi, ora scartandoli da
sé. Di lì a un minuto era già al posto convenuto.
Si cacciò con paura nella capanna, nella sua oscu
rità che sapeva di vecchia paglia calda, la osservò
attentamente e quasi con gioia si convinse che là
dentro non c’era ancora nessuno. Ma il momento
fatale si avvicinava, ed egli si pose presso la ca
panna, tutto convertito in sensibilità, in attenzione
tesissima. Per tutto il giorno non lo aveva quasi
mai abbandonato una straordinaria eccitazione fisica.
Ora essa aveva raggiunto la massima forza. Ma, co
sa strana, come il giorno, così anche ora essa era
in certo modo indipendente, non lo penetrava tutto,
teneva solo il corpo, senza impadronirsi dell’anima.
Il cuore però batteva terribilmente. E intorno c’era
un silenzio così sorprendente ch’egli udiva una cosa
sola: questo battito. Senza suono, instancabilmente
svolazzavano, volteggiavano morbide farfalle incolo
ri tra i rami, nel grigio fogliame dei meli che in
vari ricami si profilavano sul cielo vespertino, e que
ste farfalle facevano parere il silenzio ancor più quie
to, come se lo ammaliassero. A un tratto dietro di
lui qualcosa scricchiolò e questo fruscio lo colpì co
me un tuono. Egli si volse bruscamente, guardò tra
gli alberi in direzione del bastione e vide che sotto
i rami dei meli rotolava verso di lui qualcosa di
nero. Ma non aveva fatto in tempo a capacitarsene,
a domandarsi che cosa fosse, quando questo nero,
giunto fino a lui, fece un largo movimento e risultò
essere Alionka.
514 L ’A M O R E D I M I T I A
Ella scartò, gettò giù dalla testa il lembo della
corta gonna di tela nera tessuta in casa, ed egli scor
se il suo viso spaventato e raggiante di un sorriso.
Ella era scalza, con la sola gonna e una semplice
camicia grezza, infilata nella gonna. Sotto la camicia
sporgevano i suoi seni di ragazza. La larga scolla
tura le scopriva il collo e parte delle spalle, e le
maniche rimboccate più in su dei gomiti denuda
vano le braccia tondeggianti. E tutto in lei, dalla
testolina, coperta da un fazzoletto giallo, ai minu
scoli piedini scalzi, femminei e insieme infantili,
era così bello, così agile, così affascinante che Mitia,
il quale l’aveva fino allora vista soltanto abbigliata
e la vedeva per la prima volta in tutta la bellezza
di questa semplicità, uscì interiormente in un grido
di ammirazione.
— Be’, fate presto — sussurrò ella allegramente
e furtivamente e, dopo essersi guardata intorno,
guizzò dentro la capanna, nella sua oscurità odo
rosa.
Là ella sostò, e Mitia, serrati i denti per tratte
nerne il battito, si affrettò a infilarsi la mano in
tasca — le sue gambe erano tese, dure, come il ferro
- e le cacciò nella palma un biglietto spiegazzato
da cinque rubli. Ella se lo nascose rapidamente nel
seno e sedè in terra. Mitia le sedette accanto e le
cinse il collo, non sapendo che cosa fare, se dovesse
baciarla o no. L’odore del suo fazzoletto, dei capelli,
l’odor di cipolla di tutto il suo corpo, mescolato
con l’odore dell’isbà, del fumo, tutto era bello fino
a dar le vertigini, e Mitia lo capiva, lo sentiva. E
tuttavia c’era sempre la stessa sensazione di prima:
L ’A M O R E D I M I T I A 515
una terribile forza di desiderio che non diventava
desiderio di anima, beatitudine, estasi, languore in
tutto l’essere. Ella si arrovesciò indietro e si adagiò
supina. Egli le si sdraiò accanto, si gravò su di lei,
stese una mano. Ridendo sommessa e nervosa, ella
gliel’afferrò e la tirò in giù.
— Non si può — disse, tra seria e scherzosa.
Ella aveva allontanato la mano di lui e la teneva
forte con la sua piccola mano, i suoi occhi guarda
vano attraverso l’intelaiatura triangolare della capan
na i rami dei meli, il cielo turchino, già incupito
dietro quei rami, e l’immobile punto dell’Antares
che vi stava ancora solitario. Che cosa esprimevano
quegli occhi? Che cosa bisognava fare? Baciarle il
collo, le labbra? A un tratto ella disse frettolosa
mente, dando di piglio alla corta gonna nera:
— Be’, fate presto...
Quando si alzarono - Mitia si sollevò colpito
dalla delusione — ella, riaggiustandosi il fazzoletto,
ravviandosi i capelli, domandò con un animato sus
surrìo, già come persona intima, come amante:
— Voi, dicono, siete stato a Subbotino. Là il pre
te vende a buon mercato i maialini. È vero?
XXIX
In quella stessa settimana, il sabato, la pioggia,
che era cominciata sin dal mercoledì e che si river
sava dalla mattina alla sera, cadeva a rovesci.
516 L ’A M O R E D I M I T I A
Quel giorno essa si rafforzava di continuo con
particolare accanimento, tempestosa e tetra.
E tutto il giorno Mitia si aggirava instancabil
mente per il giardino e tutto il giorno piangeva
così a dirotto che talvolta si stupiva anche lui della
forza e dell’abbondanza delle sue lacrime.
Parascia lo cercava, gridava in cortile, nel viale
dei tigli, lo chiamava a pranzo, poi a bere il tè: egli
non rispondeva.
Faceva freddo, c’era un'umidità penetrante, le nu
bi oscuravano il cielo; sulla loro nerezza il denso
verde del giardino bagnato spiccava particolarmente
denso, fresco e vivido. Il vento che sopraggiungeva
di quando in quando faceva precipitare dagli alberi
un altro acquazzone, un intero diluvio di spruzzi.
Ma Mitia non vedeva nulla, non badava a nulla.
Il suo cappello bianco si era affloscito, era divenuto
grigio scuro, la giubba studentesca si era annerita,
i gambali erano infangati fino alle ginocchia. Tutto
inondato, tutto inzuppato fino alle ossa, senza una
goccia di sangue nel viso, con gli occhi folli, gonfi
di pianto, egli era pauroso.
Fumava una sigaretta dopo l’altra, moveva larghi
passi sul fango dei viali, e talvolta dove capitava,
sull’alta erba bagnata tra i meli e i peri, imbatten
dosi nei loro storti rami scabri, screziati di umido
lichene grigioverde. Se ne stava a sedere sulle pan
che annerite, gonfiate dalla pioggia, se ne andava
nel borro, giaceva sull’umida paglia della capanna,
in quello stesso posto, dove aveva giaciuto con
Alionka. Dal freddo, dall’umidità gelata dell’aria
le sue grandi mani si erano illividite, le labbra era-
l’altra, e le braccia sotto la t e æ t e g § p . ^ ® ^ g |
giamente il nero tetto di paglia,
grosse gocciole rugginose. Poi le mascelle si serra
vano, le sopracciglia cominciavano ad aggrottarsi.
Egli balzava bruscamente in piedi, estraeva dalla ta
sca dei calzoni la lettera già letta cento volte, insu
diciata e sgualcita, ricevuta la sera prima tardi -
l’aveva portata il geometra, venuto per affari a star
nella tenuta alcuni giorni — e di nuovo, per la cen
tunesima volta, la divorava avidamente:
« Caro Mitia, non serbatemi rancore, dimenticate,
dimenticate tutto quello ch’è stato! Sono cattiva, so
no turpe, corrotta, sono indegna di voi, ma amo
alla follia l’arte! Mi sono decisa, la sorte è gettata,
parto, voi sapete con chi... Siete sensibile, siete in
telligente, mi comprenderete; ti supplico, non tor
mentar te stesso e me! Non scrivermi nulla, è inu
tile! »
Arrivato a questo punto, Mitia sgualciva rabbio
samente la lettera, ricadeva su un fianco e, affon
dando il viso nella paglia bagnata, serrando furio
samente i denti, soffocava dai singhiozzi. Quel « tu »
involontario che così paurosamente ricordava e anzi
pareva ristabilir di nuovo la loro intimità e inon
dava il cuore di una tenerezza insostenibile, era su
periore alle forze umane! E accanto a quel « tu »
la ferma dichiarazione ch’era persino inutile scriver
518 L ’A M O R E D I M I T I A
le! Oh, sì, sì, egli lo sapeva: era inutile! Tutto era
finito e finito per sempre! Ella era caduta, conta
minata per sempre e senza ritorno! E non c’era li
mite alla disperata impotenza, all’amore, alla tene
rezza, e al disgusto verso di lei!
Prima di sera la pioggia che si era abbattuta sul
giardino con forza decuplicata e con improvvisi col
pi di tuono lo sospinse finalmente in casa. Bagnato
dalla testa ai piedi, battendo i denti per un tremito
gelato in tutto il corpo, egli si sporse a guardare
di sotto gli alberi e, accertatosi che nessuno lo ve
deva, andò di corsa sotto la sua finestra, sollevò di
fuori l’intelaiatura — l’intelaiatura era antica, con la
metà scorrevole - e, saltato dentro la stanza, chiuse
la porta a chiave e si gettò sul letto.
E cominciò rapidamente a imbrunire. La pioggia
frusciava da per tutto, e sul tetto, e intorno alla
casa, e in giardino. Il suo fruscio era duplice, di
verso, uno in giardino, un altro presso la casa, con
l ’ininterrotto mormorio e sciacquìo delle grondaie
che riversavano l’acqua nelle pozzanghere. E ciò crea
va per Mitia, caduto istantaneamente in un irrigidi
mento letargico, un’agitazione inesplicabile e insieme
con la febbre, di cui ardevano le sue narici, il suo
respiro e la testa, lo immergeva in una specie di
narcosi, creava una specie di altro mondo, un altro
crepuscolo in qualche altra casa estranea, in cui c’e
ra il terribile presentimento di qualcosa.
Egli sapeva, egli sentiva ch’era nella propria stan
za, già quasi buia per la pioggia e per la sera immi
nente, che là, in sala, alla tavola del tè, si udivano
le voci della mamma, di Ania, di Costia e del geo
L'A M O R E D I M I T I A 519
metra, ma insieme camminava già per chi sa quale
sala estranea dietro una giovane nutrice che andava
via da lui, e lo assaliva un inspiegabile orrore sem
pre crescente, misto però di concupiscenza, di pre
sagio dell’intimità di qualcuno con qualcun altro,
di una intimità in cui c’era qualcosa di ributtante
e di contro natura, ma a cui anch’egli partecipava
in qualche modo. E si sentiva tutto ciò per tramite
di un bambino dal grande viso bianco (ch ’era nello
stesso tempo anche un quadro, il ritratto di Ales
sandro I) che, arrovesciandosi indietro, la giovane
nutrice portava in braccio e cullava. Mitia si affret
tava a oltrepassarla, l’aveva oltrepassata e voleva
già guardarla in faccia - se mai fosse Alionka -
ma improvvisamente si ritrovò nella penombra del
l’aula ginnasiale, dai vetri spalmati di gesso. Quella
che stava là, davanti al canterano, davanti allo spec
chio, non poteva vederlo, egli era divenuto a un
tratto invisibile. Ella indossava una sottoveste di se
ta gialla che fasciava strettamente le anche tondeg
gianti, aveva scarpette coi tacchi alti, fini calze nere
traforate, attraverso le quali traspariva la carne, ed
ella, dolcemente intimidita e vergognosa, sapeva
quello che sarebbe accaduto di lì a poco. Aveva già
fatto in tempo a nascondere il bambino in un cas
setto del canterano. Gettatasi la treccia sulla spalla,
se l'annodava rapidamente e, sbirciando la porta,
guardava lo specchio, dove si riflettevano il suo vi-
sino incipriato, le spalle scoperte e i piccoli seni
latteocelestognoli, dai rosei capezzoli. La porta si
spalancò e, guardandosi intorno baldanzosamente e
paurosamente, entrò un signore in sm ok in g , con un
520 L'A M O R E D I M I T I A
glabro viso esangue, coi capelli arricciati, neri e cor
ti. Egli estrasse un portasigarette piatto, d ’oro, co
minciò ad accendere con disinvoltura una sigaretta.
Ella, finendo di annodarsi la treccia, lo guardò ti
midamente, sapendo il suo scopo, poi lanciò la trec
cia indietro sulla spalla, alzò le braccia nude... Egli
con aria condiscendente l’abbracciò per la vita ed
ella gli cinse il collo, mostrando le ascelle scure,
si strinse a lui, nascose il viso sul suo petto...
XX X
E Mitia si riscosse, tutto madido di sudore, con
la consapevolezza sconvolgentemente chiara ch’egli
era perduto, che al mondo tutto era così mostruo
samente privo di speranza e tetro, come non poteva
essere nemmeno all’inferno, oltre la tomba. In ca
mera stagnava il buio, dietro le finestre la pioggia
frusciava con sciacquìo, e quel fruscio e sciacquìo
erano intollerabili (anche per il loro stesso suono)
al corpo che tremava tutto per i brividi. Ma più
intollerabile e orribile di ogni altra cosa era la mo
struosità contro natura del coito che gli pareva di
aver appena diviso col signore glabro. Dalla sala
si udivano voci e risa. Ed erano anch’esse orribili
e contro natura, perché sonavano estranee a lui, per
ché la vita era brutale, indifferente, crudele verso
di lui...
— Catia! — diss’egli, alzandosi a seder sul letto,
L'A M O R E D I M I T I A 521
calando giù le gambe. — Catia, che cos’è, dunque?
— riprese ad alta voce, perfettamente convinto ch’el
la lo udisse, che fosse lì, che tacesse, che non rispon
desse solo perché fosse schiacciata a sua volta, ca
pisse a sua volta l’irreparabile orrore di quello che
aveva commesso. — Ah, fa lo stesso, Catia — sus
surrò egli amaro e tenero, desiderando di dire che le
avrebbe perdonato tutto, purché come prima ella si
fosse slanciata verso di lui, perché potessero salvar
si insieme, salvare il loro bell’amore in quel bellis
simo mondo primaverile che ancora così di recente
somigliava al paradiso. Ma avendo mormorato:
« Ah, fa lo stesso, Catia! » egli comprese subito che
no, non faceva lo stesso, che la salvezza, il ritorno
a quella visione prodigiosa che gli era stata con
sentita un tempo a Sciachovskoie, sulla terrazza cinta
di gelsomini, non c’erano più, non potevano esserci.
Allora tese una mano verso il comodino, tirò il cas
setto, ne estrasse la pistola e con determinazione,
con voluttà, si sparò in bocca.
Tit olo or igin ale:
DIÈLO KO RNIÈTA ELÀGH INA
Tradu zion e di Rin aldo Kü fferle
Prim a edizion e: Parigi 1925
Prim a edizion e italian a : M ilan o 1934
I
Ë orribile quest’affare, un affare strano, enigma
tico, insolubile. Da una parte è molto semplice, e
dall’altra è molto complesso, simile a un romanzo
di appendice - così tutti lo chiamavano nella nostra
città - e nello stesso tempo potrebbe servire alla
creazione di una profonda opera d’arte... In fondo
ha detto giustamente in tribunale il difensore:
— In quest’affare — ha detto egli in principio
del suo discorso — par che non vi sia luogo per
un dibattito tra me e il rappresentante dell’accusa:
perché l’imputato stesso si è riconosciuto colpevole,
perché il suo delitto e la sua personalità, come an
che la personalità della vittima, la cui volontà egli
avrebbe violentata, paiono quasi a tutti i presenti
in questa sala non meritevoli di particolare indagine
per il loro presunto carattere abbastanza vuoto e
comune. Ma tutto ciò non è affatto così, tutto ciò
non è che una apparenza: c’è di che discutere, ci
sono moltissimi motivi per la disputa e la medita
zione...
E più in là:
528 L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
— Ammettiamo che il mio scopo fosse di otte
nere soltanto l’indulgenza verso l’imputato. Allora
potrei dir poco. Il legislatore non ha indicato da
che cosa precisamente debbano lasciarsi guidare i
giudici nei casi simili al nostro, ha lasciato una
grande libertà al loro intendimento, alla loro co
scienza e perspicacia, a cui tocca per l’appunto alla
fin fine di scegliere questa o quella cornice della
legge che punisce l’atto. Ed ecco che avrei cercato
di agire su questo intendimento, sulla coscienza, mi
sarei sforzato di mettere in primo piano tutto quello
che di meglio c’è nell’imputato, e tutto quello che
attenua la sua colpa, avrei risvegliato nei giudici
i sentimenti buoni e lo avrei fatto tanto più insi
stentemente in quanto ch’egli nega una cosa sola
nel suo atto: la cosciente volontà del male. Tutta
via, anche in questo caso, avrei potuto, forse, evi
tare la disputa con l’accusatore che ha definito il
colpevole né più né meno come un « lupo crimi
n ale»? In ogni affare tutto si può intendere in
diverso modo, tutto si può illuminare così o altri
menti, rappresentare a modo proprio, in una ma
niera o nell’altra. Ma che cosa vediamo nel nostro
affare? Il fatto che, a quanto pare, non c’è nem
meno un tratto, nemmeno un particolare ch’io e
l’accusatore riguardiamo egualmente, che possiamo
rendere, illuminare d ’intesa: «tu tto è così, ma non
è così! » devo dirgli ogni momento. Ma, quello che
più importa, è che « tutto non è così » nell’essenza
stessa dell’affare...
È anche cominciato orribilmente, quest’affare.
Era il 19 giugno dell’anno scorso. Erano le ein-
L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN 529
que di mattina, ma nella sala da pranzo del capi
tano Lichariov della guardia imperiale del reggimen
to degli usseri, l’aria era già chiara, afosa, asciutta
e calda per il sole estivo di città. Tutto, però, era
ancora quieto, tanto più che l’abitazione del capi
tano si trovava in uno dei corpi delle caserme degli
usseri, situate fuori di città. E approfittando di quel
silenzio, e così pure della propria giovinezza, il ca
pitano dormiva profondamente. Sulla tavola stavano
i liquori, tazze con l’avanzo del caffè. Nella stanza
attigua, in salotto, dormiva un altro ufficiale, il ca
pitano in seconda di cavalleria conte Kosciz, e an
cora più in là, nello studio, l’alfiere Sievski. Era,
in una parola, una mattina del tutto solita, un qua
dro semplice, ma, come sempre avviene quando in
mezzo al solito ambiente accade qualcosa d’insolito,
tanto più orribile, sorprendente e come inverosimile
fu quello che improvvisamente accadde nell’abitazio
ne del capitano Lichariov la mattina del 19 giugno.
Inaspettatamente, nel pieno silenzio di quella mat
tina, in anticamera squillò il campanello, poi si udì
come l’attendente guardingo e leggero, a piedi scal
zi, fosse corso ad aprire, e poi risonò una voce
intenzionalmente alta:
— È in casa?
Con la stessa rumorosità intenzionale entrò il so
praggiunto, avendo spalancato con particolare liber
tà la porta in sala da pranzo, pestando con parti
colare ardire i piedi e facendo tinnire gli speroni.
Il capitano sollevò il viso stupito e insonnolito:
davanti a lui stava un suo collega di reggimento,
l’alfiere Elaghin, un uomo piccolo di statura, tozzo,
19.
530 L’AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN
rossiccio e lentigginoso, su gambe storte e straordi
nariamente sottili, calzato con quell’eleganza ch’era,
come gli piaceva di dire, la sua debolezza « capi
tale ». Egli si tolse rapidamente di dosso il cap
potto estivo e, dopo averlo gettato su una sedia,
disse forte: «Eccovi le mie spallin e!». E poi andò
al divano, addossato al muro di contro, vi affondò
con la schiena e incrociò le braccia dietro la testa.
— Aspetta, aspetta — balbettò il capitano, se
guendolo con gli occhi sbarrati: — di dove vieni,
che cos’hai?
-— Ho ucciso Mania — disse Elaghin.
— Sei ubriaco? Quale Mania? — chiese il capi
tano.
— L’attrice Mania Iossifovna Sosnovski.
Il capitano calò le gambe dal divano:
— Ma tu scherzi?
— Ahimè, purtroppo, e forse anche per fortuna,
non scherzo affatto.
— Chi c’è? Che cos’è successo? — gridò il con
te dal salotto.
Elaghin si stirò e con un leggero calcio nella
porta la spalancò.
-— Non urlare — disse. — Sono io, Elaghin. Ho
ucciso Mania con un colpo di rivoltella.
-— Che? — disse il conte e, dopo aver taciuto
per un attimo, a un tratto scoppiò a ridere: — Ah,
ho capito! — gridò allegramente. — Be’, che il
diavolo ti porti, per stavolta sei perdonato. Hai fat
to bene a svegliarci; se no, avremmo dormito im
mancabilmente fino a tardi. Anche ieri ci siamo
spassati fino alle tre.
L’AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 531
— Ti do la mia parola che l’ho uccisa — ripetè
con insistenza Elaghin.
— Menti, amico, menti! — gridò anche il pa
drone di casa, accingendosi a infilarsi i calzerotti.
— E io mi ero già spaventato, credevo che fosse
successo davvero qualcosa... Efriem, il tè!
Elaghin affondò la mano nella tasca dei calzoni,
ne estrasse una piccola chiave e, avendola gettata
con un gesto agile al di sopra della spalla sulla ta
vola, disse:
— Andate a vedere coi vostri occhi...
Al processo il procuratore ha molto parlato del
cinismo e dell’orrore di alcune scene che compon
gono il dramma di Elaghin, più di una volta ha
calcato la mano anche su questa scena. Aveva di
menticato che quella mattina il capitano Lichariov
solo al primo momento non si era accorto del pal
lore « soprannaturale », com’egli si espresse, di Ela
ghin e di qualcosa di « non umano » nei suoi oc
chi, e poi era stato « semplicemente colpito e dal-
l’una cosa e dall’altra »...
II
E così, ecco quello che avvenne la mattina del
19 giugno dell’anno scorso.
Una mezz’ora dopo il conte Kosciz e l’alfiere
Sievski si trovavano già all’ingresso della casa, in
532 L'AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
cui abitava la Sosnovski. Ora non erano più in vena
di scherzare.
Avevano quasi sfinito il cavallo del vetturino,
erano saltati giù a precipizio dalla carrozza, aveva
no ficcato la chiave nella toppa e sonato disperata-
mente, ma la chiave non si adattava e di là dalla
porta c’era silenzio. Perduta la pazienza, andarono
rapidamente in cortile, si misero a cercare il custo
de. Il custode corse dall’ingresso di servizio in cu
cina e, tornato, disse che la Sosnovski, secondo le
parole della cameriera, non aveva pernottato in ca
sa, n ’era partita sin dalla sera prima, avendo preso
con sé un involto. Il conte e l’alfiere si smarrirono:
che cosa dovevano fare in questo caso? Dopo essere
stati un po’ sopra pensiero, con un’alzata di spalle
risalirono in carrozza e si diressero alla sezione di
polizia, avendo preso con sé il custode. Dalla se
zione telefonarono al capitano Lichariov. Il capitano
gridò furiosamente nel telefono:
— Quest’idiota, sul quale sono già pronto a pian
gere dalla rabbia, si è dimenticato di dire che bi
sognava andare non all’abitazione di lei, ma nel
loro covo amoroso: via della Vecchia Città, 14. Sen
tite? Via della Vecchia Città, 14. Una specie di
garç o n n iè re parigina, si entra addirittura dalla stra
da...
Galopparono verso la via della Vecchia Città.
Il custode sedeva a cassetta, un poliziotto, con
una indipendenza contenuta, si era seduto in car
rozza, di fronte agli ufficiali. Faceva caldo, le vie
erano popolate e rumorose, e non si voleva credere
che in una mattina così piena di sole e animata
I. AFFARE DELL'ALFIERE ELAGH LM 533
qualcuno potesse giacer morto in qualche posto, e
rendeva perplessi l’idea che il ventiduenne Saška
Elaghin avesse fatto una simile cosa. Come poteva
essersi risolto a ciò? Per quale colpa l’aveva uccisa,
e per quale ragione e come l’aveva uccisa? Non si
poteva capir nulla, le domande restavano senz’alcu-
na risposta.
Quando, finalmente, si fermarono davanti a una
vecchia e inospitale casa a due piani in via della
Vecchia Città, il conte e l’alfiere, secondo le loro
parole « si scoraggiarono del tutto ». Possibile che
« questo » fosse lì e possibile che bisognasse veder
« questo » anche se erano spinti a vederlo e così
irresistibilmente spinti? In compenso il poliziotto si
sentì di colpo severo, rinfrancato e sicuro.
— Favorite la chiave — disse in tono asciutto
e fermo, e gli ufficiali si affrettarono a consegnargli
la chiave con quella stessa timidezza, con cui lo
avrebbe fatto il custode.
Al centro della casa c’era un portone, oltre il
portone si vedeva un piccolo cortile e un alberello,
il cui verde era di un’intensità innaturale e pareva
tale per i grigio-scuri muri di pietra. E a destra del
portone si trovava per l'appunto quella porta mi
steriosa che dava proprio sulla strada e che doveva
venir aperta. Ed ecco che il poliziotto, accigliandosi,
infilò la chiave, e la porta si aprì, e il conte con
l’alfiere videro qualcosa come un corridoio perfetta
mente buio. Il poliziotto, come avendo intuito dove
bisognasse cercare, tese la mano in avanti, la strofinò
al muro e rischiarò un locale stretto e tetro, in fondo
a cui, tra due poltrone, c’era un tavolino, e su di
534 L'AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
esso stavano dei piatti con gli avanzi della selvag
gina e della frutta. Ma ancor più tetro era quello
che più in là si presentò agli occhi dei sopraggiunti.
Nella parte destra del corridoio si scoprì un piccolo
ingresso nella stanza attigua, pure perfettamente
buia, sepolcralmente illuminata da una lanternetta
opalina, sospesa al soffitto, sotto un enorme ombrel
lo di seta nera. Di qualcosa di nero erano velate
dall’alto al basso anche tutte le pareti di quella
stanza, del tutto cieca, priva di finestre. Lì, pure in
fondo, stava un grande e basso divano turco, e su
di esso, vestita della sola camicia, con le labbra e
gli occhi socchiusi, col capo reclino sul petto, con le
estremità tese, con le gambe leggermente divaricate,
giaceva, biancheggiava una giovane donna di rara
bellezza.
E i sopraggiunti si fermarono e per un attimo s’ir
rigidirono dalla paura e dalla sorpresa.
Ili
Rara era la bellezza della defunta, perché soddi
sfaceva a meraviglia quelle esigenze che si pongono,
ad esempio, i pittori di moda nel raffigurare ideal
mente le belle donnine. Cer a tutto quello che si suol
richiedere: una snella struttura, un bel tono di car
nagione, un piedino piccolo e senz’alcun difetto, la
bellezza infantile, innocente delle labbra, minuti e
regolari lineamenti del viso, magnifici capelli... E
L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN 535
tutto ciò era ormai morto, tutto aveva cominciato
a impietrirsi, ad avvizzire, e la bellezza rendeva la
morta ancor più paurosa. I suoi capelli erano in per
fetto ordine, l’acconciatura era quale avrebbe potuto
presentarsi a un ballo. La testa giaceva su un cu
scino rialzato del divano e il mento sfiorava legger
mente il petto, cosa che conferiva ai suoi occhi fer
mi, semiaperti e a tutto il suo viso un’espressione
come interdetta. E tutto ciò era stranamente illumi
nato dalla lanternetta opalina, sospesa al soffitto, nel
fondo dell’enorme ombrello nero; simile a qualche
uccello che avesse distese sulla morta le sue ali mem
branose.
In generale il quadro aveva colpito anche il poli
ziotto. Poi tutti passarono timidamente a un sopral
luogo più particolareggiato.
Le magnifiche braccia nude della defunta erano
stese lungo il corpo. Sul suo petto, sui pizzi della
camicia, erano posti due biglietti da visita di Ela-
ghin, e ai piedi una sciabola da ussero che pareva
assai rozza accanto alla loro femminea nudità. Il
conte avrebbe voluto raccoglierla da terra per sguai
narla, con l’assurda idea di accertarsi se non recasse
tracce di sangue. Il poliziotto lo trattenne da que
st’atto illegale.
— Ah, certo, certo — borbottò il conte in un
sussurrìo, — per ora, naturalmente, non si può toc
car nulla. Ma mi stupisce il fatto che non vedo in
nessun posto il sangue, né in generale tracce di un
delitto. È, forse, un avvelenamento?
— Abbiate pazienza — disse sentenziosamente il
poliziotto — aspettiamo il giudice istruttore e il me
536 L'AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN
dico. Ma, senza dubbio, sembra anche un avvelena
mento...
E in realtà, sembrava. Di sangue non ce n’era, né
sul pavimento, né sul divano, né sul corpo, né sulla
camicia della defunta. Su una poltrona, accanto al
divano, giacevano i calzoni femminili e l’accappa
toio, sotto di essi una camicetta celeste dai riflessi
perlacei, una gonna di stoffa grigio-scura molto fine
e un mantello di seta grigia. Tutto ciò era stato get
tato sul divano alla rinfusa, ma pure non era stato
lordato nemmeno da una goccia di sangue. L’idea
di un avvelenamento veniva confermata anche da
quello che si trovava sulla sporgenza del muro al
di sopra del divano: su quella sporgenza, tra le
bottiglie di sciampagna e i turaccioli, i mozziconi di
candele e gli spilli da donna, tra pezzetti di carta
scritta e stracciata, stava un bicchiere con l’avanzo
della birra e una piccola boccetta, sulla cui bianca
etichetta nereggiava sinistramente: « O p . P u lì’. ».
Ma proprio nel momento in cui il poliziotto, il
conte e l’alfiere rileggevano a turno queste parole
latine, in strada si udì il rumore della vettura arri
vata lì col medico e il giudice istruttore, e dopo
pochi minuti risultò che Elaghin aveva detto la ve
rità: la Sosnovski, realmente, era stata uccisa con un
colpo di rivoltella. Di macchie sanguigne sulla ca
micia non ce n’erano. Ma in compenso sotto la
camicia fu scoperta nella regione del cuore una mac
chia vermiglia, e al centro della macchia una pic
cola ferita tonda, dagli orli bruciacchiati, da cui co
lava un sangue scuro, senz’avere sporcato nulla in
L'AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 537
seguito al fatto che la piccola ferita era stata coperta
con un fazzoletto da naso avvolto...
Che cos’altro stabilì la perizia medica? Ben poco:
il fatto che nel polmone destro della defunta c’erano
tracce di tubercolosi; che il colpo era stato esploso a
bruciapelo e che la morte era sopravvenuta istanta
neamente, anche se la defunta aveva tuttavia potuto
pronunziare dopo lo sparo una breve frase; che non
c’era stata lotta tra l’uccisore e la sua vittima; ch’ella
aveva bevuto lo sciampagna e aveva preso insieme
con la birra una quantità esigua (insufficiente per
l’avvelenamento) di oppio; e, infine, ch’ella non ave
va avuto, in quella notte fatale, contatto con l’uo
mo...
Ma perché, per quale colpa l’aveva uccisa questo
uomo? Elaghin ripeteva ostinatamente in risposta a
questa domanda: perché tutti e due - ed egli stesso,
e la Sosnovski - erano « in una situazione tragica »,
perché non ne vedevano altra uscita all’infuori della
morte, e perché, uccidendo la Sosnovski, egli aveva
solo eseguito l’ordine di lei. Tuttavia, queste asser
zioni parevano in perfetta contraddizione con le an
notazioni lasciate dalla defunta. Perché sul suo petto
erano stati trovati due biglietti da visita di lui, con
delle righe di mano di lei in polacco (e, a propo
sito, abbastanza sgrammaticate). Su uno stava scritto:
« Al generale Konovnizyn, presidente della dire
zione teatrale. Amico mio! Ti ringrazio per la no
bile amicizia di alcuni anni... Mando l’ultimo sa
luto e prego di versare a mia madre tutto il denaro
per le mie ultime recite... »
538 L'AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
Sull’altro :
« Quest’uomo ha agito giustamente, uccidendo
mi... Madre, povera infelice! Non chiedo perdono,
perché muoio non per mia volontà... Madre! Ci ve
dremo... lassù... Sento ch’è l’ultimo istante... »
Su biglietti simili aveva scritto la Sosnovski anche
le altre sue annotazioni nell’imminenza della morte.
Essi erano sparsi sulle sporgenze del muro ed erano
diligentemente strappati. Li ricomposero, incollarono
e lessero quanto segue:
« Quest’uomo esige la propria morte e la mia...
Viva non ne uscirò...
« E così, è venuta la mia ultima ora... Dio, non
abbandonarmi... Il mio ultimo pensiero è rivolto
a mia madre e alla sacra arte...
« Abisso, abisso! Quest’uomo è il mio destino...
Dio, salvami, aiutami... »
E, infine, la cosa più enigmatica:
« Q u an d m ê m e p o u r t o u jo u rs... »
Tutte queste annotazioni, come quelle ch’erano sta
te trovate in stato integrale così anche quelle che
erano state trovate in pezzetti sulle sporgenze del
muro, parevano in contraddizione con le asserzioni
di Elaghin. Ma per l’appunto solo « parevano ».
Perché non erano stati stracciati quei due biglietti
da visita che giacevano sul petto della Sosnovski
L’AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 539
e su uno dei quali stavano scritte parole così fatali
per Elaghin, come «m u oio non per mia volon tà»?
Elaghin non solo non li aveva stracciati e non li ave
va portati via con sé, ma anzi egli stesso (in quanto
chi altri poteva averlo fatto?) li aveva messi nel
posto più in vista. Non li aveva stracciati nella fu
ria? Nella furia, certo, poteva essersi dimenticato di
stracciarli. Ma come poteva aver messo nella furia
sul petto della defunta annotazioni così pericolose
per lui? Ed era egli in furia? No, egli aveva rimes
so in ordine la morta, l’aveva coperta con la camicia,
dopo aver tamponato la sua ferita col fazzoletto, poi
si era riassettato, vestito egli stesso... No, qui il pro
curatore aveva ragione: ciò era stato fatto senza
furia.
IV
Il procuratore diceva:
— Vi sono due categorie di delinquenti. Anzi
tutto, i delinquenti casuali, i cui reati sono frutto
di un disgraziato concorso delle circostanze e del
l’irritazione chiamato scientificamente « breve fol
lia ». E, secondariamente, i delinquenti che compio
no quello che compiono per un disegno cattivo e
premeditato: sono i nemici innati della società e
dell’ordine sociale, sono i lupi criminali. A quale
categoria dunque ascriveremo noi l’uomo seduto da
vanti a noi sul banco degli accusati? Certo, alla se
540 L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
conda. Egli è indubbiamente un lupo criminale, ha
commesso il delitto, perché si è abbrutito nella vita
oziosa e sbrigliata...
Questa tirata era insolitamente strana (anche se
esprimeva l’opinione quasi generale della nostra cit
tà sul conto di Elaghin) e strana tanto più che al pro
cesso Elaghin se ne stava per tutto il tempo seduto,
con la testa appoggiata sulla mano, celandosi così
al pubblico, e a tutte le domande rispondeva piano,
a scatti e con non so quale timidezza e mestizia da
spezzare il cuore. Eppure il procuratore aveva an
che ragione: sul banco degli accusati sedeva un de
linquente tutt’altro che comune e non colpito affatto
da « breve follia ».
Il procuratore ha posto due domande: anzi tutto,
naturalmente, se il delitto fosse stato compiuto in
stato di alterazione, cioè d’irritazione, e, secondaria
mente, se fosse stato solo un incentivo involontario
all’omicidio, e ha risposto a tutt’e due le domande
con piena convinzione: no e no.
— No — ha detto egli, rispondendo alla prima
domanda: •— non si può parlare di alcuna altera
zione; anzi tutto, perché le alterazioni non durano
per parecchie ore di seguito; e poi, che cosa poteva
aver provocato l’alterazione di Elaghin?
Per la risoluzione dell'ultima domanda il procu
ratore si poneva una quantità di domande secondarie
e subito le respingeva e le derideva addirittura. Egli
diceva :
— Non aveva bevuto Elaghin il giorno fatale
più del solito? No, egli usava bere molto, e quel
giorno non aveva bevuto più del solito.
L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN 541
«E r a ed è l’accusato un uomo sano? Aderisco al
parere dei medici che l’hanno visitato: del tutto sano;
ma perfettamente incapace di frenarsi.
« Non era stata provocata l’alterazione dall’im
possibilità di un matrimonio tra lui e la donna ama
ta, seppure si ammette ch’egli l’amasse realmente?
No, perché sappiamo con esattezza: l’accusato non
se ne era nemmeno preoccupato, non aveva intra
preso alcun passo per l’attuazione di questo matri
monio. »
E più in là:
-— Non gli aveva cagionato l’alterazione la sup
posta partenza della Sosnovski per l’estero? No, per
ché egli era da un pezzo edotto di questa partenza.
« Ma allora la sua alterazione era stata, forse,
cagionata dall’idea di un rottura con la Sosnovski,
della rottura che sarebbe stata il seguito della par
tenza? Di nuovo no, perché di una rottura essi ave
vano parlato anche prima di quella notte mille volte.
E se è così, che cosa infine? I discorsi sulla morte?
L’arredamento strano della stanza, la sua, per così
dire, suggestione, la sua oppressione, come pure in
generale l’oppressione di tutta quella morbosa e pau
rosa notte? Ma quanto ai discorsi sulla morte, essi
non potevano costituire in alcun modo una novità
per Elaghin: questi discorsi si svolgevano tra lui e
la sua diletta incessantemente e, certo, gli erano ve
nuti a noia da un pezzo. E della suggestione è sem
plicemente ridicolo parlare. Essa, infatti, veniva assai
attenuata da cose assai prosaiche: dalla cena, dagli
avanzi di questa cena sulla tavola, dalle bottiglie e
542 L'AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN
persino, scusate, dalla terraglia da notte. Elaghin
mangiava, beveva, soddisfaceva i suoi bisogni natu
rali, usciva nell’altra stanza ora a prendere il vino,
ora il temperino per appuntare la matita... »
E il procuratore ha concluso così:
— Quanto al fatto se il delitto compiuto da Ela
ghin fosse l’esecuzione della volontà della defunta,
non c’è troppo da discutere: abbiamo per la risolu
zione di questa domanda le assicurazioni verbali di
Elaghin che la Sosnovski stessa lo aveva pregato di
ucciderla, e un biglietto della Sosnovski del tutto
fatale per lui : « Muoio non per mia volontà »...
Molte obiezioni potevano essere fatte ai partico
lari nel discorso del procuratore. « L’accusato è del
tutto sano... » Ma dov’è il limite della salute e del
l’insania, della normalità e dell’anormalità? « Egli
non aveva intrapreso alcun passo per l’attuazione del
matrimonio... » Ma, in primo luogo, egli non aveva
intrapreso questi passi solo perché era del tutto sal
damente convinto della loro piena inutilità; e, in se
condo luogo, possibile che l’amore e il matrimonio
siano così strettamente legati fra loro, e che Elaghin
si sarebbe acquietato e in generale avrebbe risolto
comunque il dramma del proprio amore sposando la
Sosnovski? Possibile che non sia noto ch’è strana
L'AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 543
peculiarità di ogni amore forte e in generale non del
tutto comune di evitare anzi il matrimonio?
Ma tutto ciò, ripeto, sono particolari. Mentre nel
l’essenziale il procuratore aveva ragione: l’alterazio
ne non c’era stata.
Egli diceva:
— La perizia medica è venuta alla conclusione
che Elaghin era « piuttosto » in stato tranquillo che
in stato di alterazione; e io confermo che non solo
era in stato tranquillo, ma in uno stato sorprenden
temente tranquillo. Ce ne persuade l’ispezione della
stanza assettata, dov’è stato commesso il delitto, e
dove Elaghin si è anche trattenuto un pezzo dopo
di esso. Poi la deposizione del testimone Jaroscenko,
il quale ha visto con quale calma fosse uscito Ela
ghin dalla abitazione in via della Vecchia Città e
come diligentemente, senza fretta, egli l’avesse chiu
sa a chiave. E, infine, il contegno di Elaghin dal ca
pitano Lichariov. Che cosa, ad esempio, ha detto
Elaghin all’alfiere Sievski, il quale lo persuadeva a
« rientrare in sé », a ricordarsi se la Sosnovski si fos
se uccisa di propria mano? Ha detto: «N o , amico
mio, ricordo tutto o t t im am e n t e ! » e ha descritto lì
stesso come precisamente egli avesse esploso il col
po. Il testimone Budberg « è stato anzi sgradevol
mente impressionato da Elaghin: egli, dopo la sua
confessione, ha bevuto impassibilmente il tè ». E il
testimone Focht è stato colpito anche di più : « Si
gnor capitano in seconda » gli ha detto Elaghin iro
nicamente « spero che oggi mi dispenserete dalle
istruzioni ». « Ciò era così pauroso » dice Focht
544 L'AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
« che l’alfiere Sievski non ha resistito e si è messo
a piangere »... C’è stato, è vero, un momento, in cui
ha pianto anche Elaghin: quando il capitano è tor
nato dal comandante il reggimento, da cui si era
recato a ricever gli ordini sul conto di Elaghin, e
quando Elaghin ha capito dai visi di Lichariov e di
Focht che, in sostanza, egli non era più ufficiale. Ec
co che allora egli si è messo a piangere — ha con
cluso il procuratore: — soltanto allora!
Certo, l’ultima frase è pure molto strana. Chi non
sa che spesso avviene un simile improvviso risveglio
dalEimmobilità nel dolore, nella sventura anche per
qualcosa di perfettamente insignificante, per qual
cosa che capita per caso sotto gli occhi e ricorda a
un tratto all’uomo tutta la sua vita felice di un tem
po e tutta la disperazione, tutto l’orrore della sua
situazione presente? E tutto ciò fu ricordato a Ela
ghin tutt'altro che da qualcosa d ’insignificante, di
fortuito. Perché era come se egli fosse nato ufficiale:
dieci generazioni dei suoi antenati avevano servito
nell’esercito. Ed ecco ch’egli non era più ufficiale. E
non solo non era ufficiale, ma non era ufficiale per
ché non c’era al mondo quella ch’egli aveva amata
veramente più della propria vita, ed egli stesso, egli
stesso aveva compiuto questa mostruosità!
Del resto, anche questi non sono che particolari.
L’importante è che la « breve follia » in realtà non
c’era stata. Ma allora che cosa c’era stato? Il procu
ratore ha ammesso che « in quest’oscuro affare tutto
dev’essere anzitutto ridotto alla disamina dei caratteri
di Elaghin e della Sosnovski e al chiarimento dei
loro rapporti». E ha dichiarato fermamente:
L'AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 545
— Si sono incontrate due personalità che non ave
vano fra loro nulla di comune...
Ë proprio così? In questo per l’appunto consiste
tutta la questione: è proprio così?
VI
Di Elaghin direi anzitutto ch’egli ha ventidue an
ni: un’età fatale, un periodo pauroso che definisce
l’uomo per tutto il suo avvenire. Di solito l’uomo
vive in questo periodo ciò che in linguaggio medico
si chiama la maturità del sesso, e nella vita il primo
amore, il quale si riguarda quasi sempre solo poeti
camente e in generale assai alla leggera. Spesso que
sto « primo amore » è accompagnato da drammi,
da tragedie, ma nessuno pensa al fatto che proprio
in questo tempo gli uomini vivono qualcosa di as
sai più profondo e complesso che non le agitazioni,
le sofferenze, di solito chiamate adorazione dell’es
sere caro: vivono, senza saperlo nemmeno loro, un
terrificante rigoglio, uno sbocciare tormentoso, il pri
mo rito sessuale. Ed ecco che, se fossi stato il difen
sore di Elaghin, avrei pregato i giudici di rivolger
l’attenzione alla sua età precisamente da questo pun
to di vista e anche al fatto che davanti a noi stava
un uomo tutt’altro che ordinario in questo senso.
« Un giovane ussero, un insensato dissipatore della
vita » diceva il procuratore, ripetendo l’opinione co
mune, e a dimostrazione della giustezza delle sue pa-
546 L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
role ha riferito il racconto di un testimone, dell'ar
tista Lisovski : come Elaghin fosse venuto una volta
in teatro di giorno, quando gli artisti si riunivano per
la prova, e come, avendolo scorto, la Sosnovski fosse
balzata in disparte, dietro la schiena di Lisovski, e
gli avesse detto rapidamente : « Zio, nascondimi a
lui! » « Io le feci schermo » raccontava Lisovski « e
questo piccolo ussero, pieno, come un otre, di vino,
a un tratto si ferma lì insensato; se ne sta a gambe
larghe e guarda, perplesso: dove mai si è cacciata
la Sosnovski? »
È proprio così: un uomo insensato. Ma perché
insensato: possibile che lo fosse per effetto della
« vita oziosa, sbrigliata » ?
Proviene Elaghin da una nobile e ricca famiglia;
della madre (ch’era, notatelo, una natura assai esal
tata) restò privo molto presto; dal padre, un uomo
austero, severo, era stato diviso anzi tutto da quella
paura in cui era cresciuto da bambino e poi da adole
scente. Il procuratore disegnava con crudele audacia
non solo l’aspetto morale, ma anche quello fìsico di
Elaghin^ E ha detto:
— Tale, o signori, era il nostro eroe nella pitto
resca uniforme da ussero. Ma guardatelo ora. Ormai
non lo abbellisce nulla; ci sta davanti un giovane
tozzo e di statura bassa con dei baffetti biondicci e
una espressione del viso estremamente indefinita, in
significante, un giovane che nel suo nero soprabituc-
cio richiama assai poco l’Otello, cioè una personalità,
secondo me, con delle peculiarità di degenerazione
fortemente pronunciate, estremamente poco corag
gioso in alcuni casi — come, ad esempio, rispetto
L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN 547
al padre - ed estremamente temerario, incurante di
qualsiasi ostacolo in altri, cioè quando si sente libe
ro dallo sguardo paterno e in generale spera nell’im
punità...
Ebbene, in questa rozza caratterizzazione c’era
molta verità. Ma io, ascoltandola, anzitutto non ho
compreso come si potesse riguardare con leggerezza
tutto quell’insieme terribilmente complesso e tragi
co, per cui spesso si distinguono gli uomini dall’ere
ditarietà fortemente pronunciata, e secondariamente
vedevo in questa verità solo una parte molto piccola
di verità. Sì, Elaghin era cresciuto nella trepidazione
davanti al padre. Ma la trepidazione non è viltà, e
specie davanti ai genitori, e per di più in un uomo,
al quale è dato di sentire doppiamente tutta quella
eredità che lo collega con tutti i suoi padri, avi e
bisavoli. Sì, l’aspetto di Elaghin non è l’aspetto clas
sico dell’ussero, ma in ciò vedo una delle prove
dell’eccezionaiità della sua natura: osservate, avrei
detto al procuratore, più attentamente quest’uomo
rossiccio, tozzo e dalle gambe sottili, e vedrete quasi
con spavento come sia lontano dal genere in sign i
ficante questo viso lentigginoso dagli occhi piccoli e
verdognoli (che evitano di guardarvi). E poi, rivol
gete l’attenzione sulla sua forza di degenerazione:
il giorno dell’assassinio egli era stato alle istruzioni
- naturalmente, sin dalla mattina - e aveva bevuto
a colazione sei bicchierini di v o d k a , una bottiglia di
sciampagna, due bicchierini di co gn ac ed era rimasto
con tutto ciò perfettamente lucido di mente!
VII
In grande contraddizione con la generale bassa opi
nione su Elaghin stavano anche le deposizioni di
molti suoi compagni d'armi. Essi lo hanno attestato
tutti nel miglior modo. Ecco, ad esempio, quale era
il parere del comandante il reggimento:
— Entrato nel reggimento, Elaghin si distinse ma
gnificamente tra gli ufficiali e fu sempre straordi
nariamente buono, premuroso, giusto anche verso i
subalterni. Il suo carattere, secondo me, era contras-
segnato da una cosa sola: dall’instabilità, la quale
tuttavia si manifestava non in qualcosa di spiacevole,
ma solo nei frequenti e rapidi trapassi dalla gaiezza
alla malinconia, dalla loquacità al silenzio, dalla si
curezza di sé alla disperazione sul conto dei propri
meriti e in generale di tutto il proprio destino...
Poi il parere del capitano Lichariov:
— Elaghin fu sempre un buon compagno, ma con
delle stranezze: ora era modesto e timidamente ri
servato, ora cadeva in una specie di sbrigliatezza, di
spavalderia... Dopo esser venuto da me con la con
fessione di aver ucciso la Sosnovski, e dopo che
Sievski e Kosciz si furono affrettati in via della Vec
chia Città, ora piangeva appassionatamente, ora ri
deva mordace e furioso, e quando lo ebbero arrestato
e lo portavano in prigione, con un sorriso strano si
consigliava con noi, da quale sarto dovesse ordinarsi
l’abito borghese...
Poi del conte Kosciz:
L'AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN 549
— Elaghin era, in complesso, un uomo d’indole
allegra e tenera, nervoso, impressionabile, incline
anzi all’entusiasmo. Particolarmente agivano su di lui
il teatro e la musica che spesso lo induceva alle la
crime; era anzi straordinariamente portato alla mu
sica, sonava quasi tutti gli strumenti...
Press’a poco le stesse cose hanno detto anche tutti
gli altri testimoni:
— Un uomo che s’invaghiva spesso, ma che pa
reva sempre attendere qualcosa di vero, d’insolito...
— Ai festini coi compagni era per lo più allegro
e in certo modo graziosamente importuno, ordinava
sciampagna più degli altri e l’offriva a chi capita
va... Dopo aver contratto la relazione con la Sosnov-
ski, i sentimenti verso la quale egli cercava sempre
straordinariamente di nascondere a tutti, si era mol
to cambiato: era spesso pensoso, triste, diceva che si
confermava nell’intenzione di sopprimersi...
Tali sono le informazioni su Elaghin, provenienti
dalle persone che vivevano con lui nella maggiore
intimità. Di dove mai, dunque - pensavo, assistendo
al processo - ha preso il procuratore tinte così nere
per il suo ritratto? O ch’egli abbia delle altre infor
mazioni? No, non ne ha. E resta da supporre che
a scegliere queste nere tinte lo abbiano indotto le
raffigurazioni correnti dell’« aurea gioventù » e quel
lo ch’egli aveva appreso dall’unica lettera di Elaghin
che si trovasse a disposizione del tribunale, a un suo
amico di Kiscenev. In essa Elaghin parlava con gran
de disinvoltura della propria vita:
550 L'AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
« Sono arrivato, amico mio, a una specie d’in dif
ferenza: tutto per me fa lo stesso! Oggi va bene,
be’, e Dio sia lodato, e su quello che sarà domani,
ci sputo sopra, il mattino porta buon consiglio. Ho
raggiunto una reputazione coi fiocchi : sono quasi
il primo ubriacone e imbecille di tutta la città... »
Una tale valutazione di sé pareva collegarsi con
l’eloquenza del procuratore, il quale diceva che « in
nome della lotta animale per i piaceri, Elaghin ha
esposto al giudizio della società la donna che gli
aveva dato tutto e l’ha privata non solo della vita
ma anche dell’estremo onore, delle esequie cristia
ne... ». Ma si collegava in realtà? No, il procuratore
ha preso da questa lettera solo alcune righe. Mentre
integralmente essa diceva così:
« Caro Sergio. Ho ricevuto la tua lettera e anche
se ti rispondo in ritardo, che farci? Probabilmente,
leggendo la mia lettera, penserai: “Che scarabocchi,
come se una mosca, con le zampe intinte nell’inchio
stro, avesse sporcato la carta!”. Ebbene, la scrittura,
dicono, è, se non lo specchio, almeno fino a un certo
punto l’espressione del carattere. Sono lo stesso sca
pestrato di prima, e, se vuoi, anche peggio, perché
due anni di vita indipendente e q u alc o s’alt ro ancora
hanno lasciato la loro impronta. C’è, amico mio,
qualcosa che nemmeno il saggio Salomone saprebbe
esprimere! E perciò non meravigliarti, se un bel
giorno apprenderai che mi sarò spacciato. Sono ar
rivato, amico mio, a una specie d’indifferenza: tutto
L’AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 551
per me fa lo stesso! Oggi va bene, be’, e Dio sia
lodato, e su quello che sarà domani, ci sputo sopra,
il mattino porta buon consiglio. Ho raggiunto una
reputazione coi fiocchi: sono quasi il primo ubria
cone e imbecille di tutta la città. E, insieme, lo cre
deresti? Sento a volte nell’anima una tale forza e
tormento e anelito verso ogni cosa bella, alta, in
generale, il diavolo sa verso che cosa, che mi spezza
il petto. Mi dirai ch’è ancora la giovinezza: ma al
lora, perché i miei coetanei non provano nulla di
simile? Sono diventato terribilmente nervoso; tal
volta d’inverno, di notte, con la tormenta di neve,
col gelo, balzando dal letto, volo a cavallo per le
strade, meravigliando persino le guardie che si sono
abituate a non meravigliarsi di nulla, e nota, del tut
to lucido e non dopo una sbornia. Voglio cogliere
non so quale inafferrabile motivo che mi sembra di
aver udito in qualche luogo, e non lo trovo mai!
Ebbene, a te lo confesserò: mi sono innamorato e
di una donna del tutto, del tutto diversa da quelle
di cui è piena tutta la città... Del resto, basta di ciò.
Scrivimi, per favore, il mio indirizzo lo sai. Ricordi,
come dicevi? “Russia, all’alfiere Elaghin...” »
È sorprendente: come si poteva dopo la lettura
magari di questa sola lettera dir che « si sono incon
trate due personalità che non avevano fra loro nulla
di comune » ?
VII
La Sosnovski era una polacca puro sangue. Era
maggiore di Elaghin, aveva ventotto anni. Suo pa
dre era un funzionario qualunque che aveva finito
la vita col suicidio, quand’ella aveva solo tre anni.
Sua madre era rimasta a lungo vedova, poi aveva
ripreso marito e di nuovo un piccolo funzionario e
di nuovo era rimasta presto vedova. Come vedete,
la famiglia della Sosnovski era di ordine abbastanza
medio; di dove dunque derivavano tutti quegli strani
tratti di anima, per cui si distingueva la Sosnovski,
e di dove quella passione per la scena che, come sap
piamo, si era manifestata molto presto in lei? Credo,
naturalmente, non dall’educazione ricevuta in fami
glia e in quel collegio privato, dov’ella studiava.
Ed ella studiava, sia detto a proposito, assai bene e
nelle ore libere leggeva molto. E, leggendo, rico
piava dai libri pensieri e sentenze che le piacevano -
naturalmente, come avviene sempre in simili casi,
riferendoli in un modo o nell’altro a se stessa - e
in generale faceva alcune annotazioni, teneva una
specie di diario, se si possono chiamar diario i pez
zetti di carta ch’ella non toccava a volte per interi
mesi, e su cui riversava disordinatamente le proprie
fantasticherie e opinioni sulla vita, oppure segnava
semplicemente i conti della lavandaia, della sarta e
altre cose di questo genere. Che cosa precisamente
ricopiava ella?
« “Non nascere è la prima felicità, mentre l’altra
L’AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 553
è di tornare al più presto nel non essere” . Magnifico
pensiero!
« Il mondo è noioso, mortalmente noioso, e l’ani
ma mia anela verso qualcosa d’insolito...
« “Gli uomini comprendono solo quelle sofferenze
per cui muoiono”. M u sse t .
« No, non mi sposerò mai. Lo dicono tutti. Ma io
10 giuro su Dio e sulla morte...
« Solo l’amore o la morte. Ma dove mai in tutto
l’universo si troverà un uomo tale ch’io ami? Un
uomo tale non esiste, non può esserci! Ma come mo
rire, se, come un’ossessa, amo la vita?
« N é in cielo, né in terra non c’è nulla di più
pauroso, di più attraente ed enigmatico dell’amore...
« Mia madre dice, ad esempio, ch’io mi sposi per
11 denaro. Io, io, per il denaro! Quale parola ultra-
terrena l’amore, quanto inferno e bellezza racchiu
de in sé, anche se non ho mai amato!
« Tutto il mondo mi guarda con milioni di occhi
carnivori, come quando da piccola andavo al giar
dino zoologico...
« “Non vai la pena di essere uomini. Angeli nem
meno. Anche gli angeli si sono lamentati e ribellati
contro Dio. Val la pena di essere Dio o una nulli
tà”. K r assìn sk i.
« “Chi può vantarsi di esser penetrato nell’anima
di lei, quando tutti gli sforzi della sua vita sono
diretti ad occultare la profondità della sua an ima?”
M u sse t . »
Finito il corso degli studi in collegio, la Sosnovski
aveva subito dichiarato a sua madre che aveva de
554 L'AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
ciso di votarsi all’arte. La madre, una buona cattoli
ca, da prima, naturalmente, non voleva nemmeno sen
tirne parlare che sua figlia diventasse attrice. Tuttavia
la figlia non era affatto tale da sottomettersi a qual
cuno ed era riuscita anche prima a far capire alla ma
dre che la sua vita, la vita di Maria Sosnovski, non
poteva in alcun modo essere comune e senza gloria.
A diciotto anni si era recata a Lvov e aveva attua
to rapidamente i suoi sogn i: era entrata senza osta
coli di sorta in teatro, e presto vi si era distinta.
Presto si era fatta e presso il pubblico e nel mondo
teatrale una notorietà talmente seria che al terzo an
no di carriera aveva ricevuto l’invito nella nostra
città. Però, anche a Lvov annotava nel suo taccuino
press’a poco le stesse cose di prima.
« “Di lei tutti parlano, per lei piangono e ridono,
ma chi la conosce?” M u sse t .
« Se non fosse mia madre, mi ucciderei. È il mio
desiderio costante...
« Quando esco in qualche luogo fuori di città,
vedo il cielo, così magnifico e senza fon do: non so
che cosa allora avvenga di me. Voglio gridare, can
tare, declamare, piangere... amare e morire...
« Mi sceglierò una bella morte. Prenderò in af
fitto una piccola stanza, la farò tappezzare a lutto.
La musica dovrà sonare di là dalla parete, mentre
io mi sdraierò in un modesto abito bianco e mi cir
conderò d’innumerevoli fiori, il cui profumo mi uc
ciderà. Oh, come sarà prodigioso! »
E più in là:
L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN 555
« Tutti, tutti esigono il mio corpo, e non l’anima...
« Se fossi ricca, farei un giro di tutto il mondo e
amerei su tutto il globo terrestre...
« “Sa l’uomo quello che desidera? È convinto di
quello che pen sa?” K r assin sk i ».
E, infine:
« Farabutto! ».
Chi era questo farabutto che aveva, certo, fatto
quello che non è troppo difficile indovinare? È noto
solo che c’era stato e non poteva non esserci stato.
— Già a Lvov — ha detto il testimone Zauze,
compagno d’arte della Sosnovski a Lvov, — ella non
si vestiva, ma piuttosto si svestiva per la scena, e rice
veva in casa sua tutti i suoi conoscenti e ammiratori
in un accappatoio trasparente, con le gambe nude.
La loro bellezza faceva cader tutti e specialmente i
novizi in una meraviglia estatica. Ed ella diceva:
« Non meravigliatevi, sono le mie », e mostrava le
gambe più in su delle ginocchia. Nello stesso tempo
non cessava di ripetermi, spesso con le lacrime, che
non c’era nessuno degno del suo amore e che la sua
unica speranza era la morte... »
Ed ecco ch’era comparso il « farabutto », col qua
le ella era andata a Costantinopoli, a Venezia, a
Parigi e in casa del quale era stata a Cracovia, a
Berlino. Era un possidente della Galizia, un uomo
straordinariamente ricco. Di lui ha parlato il testi
mone Volski che conosceva la Sosnovski sin dall’in
fanzia:
556 L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
— Ho sempre ritenuto la Sosnovski come una
donna di livello morale molto basso. Ella non sapeva
comportarsi come si addice a un’artista e a un’abi
tante della nostra regione. Ella amava solo il dena
ro, il denaro e gli uomini. È cinico come ella, quasi
ancora bambina, si era venduta a un vecchio cin
ghiale della Galizia!
Proprio di questo « cinghiale » aveva raccontato
la Sosnovski a Elaghin nel suo colloquio prima della
morte. Qui, lasciando cadere le parole, ella si lagna
va con lui:
— Crescevo sola, nessuno si curava di me. Ero
nella mia famiglia, e in tutto il mondo, estranea a
tutti... Una donna — sia maledetta la sua discenden
za! — mi corrompeva, me, bambina credula, pura...
E a Lvov avevo preso ad amare sinceramente, come
un padre, un uomo il quale si è rivelato un tale fara
butto, un tale farabutto che non posso ricordarlo
senza orrore! Ed egli mi abituò Æ h ascisc h , al vino,
mi portò a Costantinopoli, dove aveva un intero
h are m , si sdraiava in qu é X h are m , guardando le sue
schiave nude, e obbligava me pure a spogliarmi;
un uomo turpe, basso...
IX
Da noi, nella nostra città, la Sosnovski era dive
nuta presto la favola del volgo.
— Ancora a Lvov — diceva il testimone Mie-
L'AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 557
škov, — ella aveva proposto a molti di morire per
una notte con lei e ripeteva sempre che cercava un
cuore capace di amare. Ella cercava molto ostinata-
mente questo cuore amante. E nello stesso tempo
diceva di continuo: «I l mio scopo principale è vi
vere e godere della vita. Il vinaio deve assaggiare
tutti i vini e non inebriarsi di alcun vino. Così
deve comportarsi anche la donna con gli uomini ».
E così per l’appunto si comportava lei — diceva
Mieškov. -— Non sono affatto convinto se ella aves
se assaggiato tutti i vini, ma so che si era circondata
di un’enorme quantità di essi. Del resto, può darsi
ch’ella facesse anche questo sopra tutto per crearsi
intorno del rumore, per accaparrarsi degli applausi
gratuiti per il teatro. « Il denaro » diceva ella « è
un’inezia. Sono avida, talvolta avara, come l’ultima
piccola borghese, ma, chi sa come, non penso al de
naro. L’essenziale è la gloria, tutto il resto verrà. »
Ed anche della morte, secondo me, ella discuteva di
continuo solo con questo scopo: di far parlare di
sé...
La stessa vita di Lvov era continuata anche nella
nostra città. E venivano scritte quasi le stesse annota
zioni :
« Dio, che tedio, che languore! Almeno succedesse
un terremoto, un’eclisse solare!
Una sera sono stata al cimitero: era così bello là!
Mi pareva... ma no, non so descrivere questo senti
mento. Avrei voluto restarci tutta la notte, decla
mare sulle tombe e morire dallo sfinimento. Il gior
no dopo ho recitato bene, come non mai... »
558 L'AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN
E ancora:
« Ieri sono stata al cimitero alle dieci di sera. Che
spettacolo opprimente! La luna inondava di raggi le
pietre sepolcrali e le croci. Mi pareva di essere cir
condata da migliaia di morti. E mi sentivo così fe
lice, gioiosa! Ci stavo molto bene... »
E, dopo aver conosciuto Elaghin e aver appreso
da lui un giorno che al reggimento era morto un
maresciallo d’alloggio, aveva ingiunto a Elaghin di
portarla nella cappella, in cui giaceva il defunto, e
aveva annotato che l’aspetto della cappella e del de
funto al lume della luna aveva prodotto in lei « una
impressione sconvolgentemente entusiasmante ».
La sete della gloria, dell’attenzione umana, si era
convertita allora in lei semplicemente in un’esalta
zione. Sì, ella era molto bella di persona. La sua
bellezza era in complesso poco originale eppure c’era
in essa non so quale particolare, raro, non comune
incanto, non so quale mescolanza d ’ingenuità e d’in
nocenza con una malizia animalesca, e, oltre a ciò,
una mescolanza d ’incessante recitazione con la since
rità: guardate i suoi ritratti, rivolgete l’attenzione
allo sguardo che le era peculiare, uno sguardo al
quanto di sottecchi, su labbra sempre leggermente
dischiuse, uno sguardo mesto, per lo più caro, allet
tante, promettente qualcosa, come se acconsentisse a
qualcosa di segreto, di colpevole. Ed ella sapeva va
lersi della propria bellezza. Dalla scena ella irretiva
gli ammiratori non solo col fatto che sulla scena sa
peva particolarmente sfoggiare il rigoglio di tutte le
L'AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 559
sue attrattive, il suono della voce e la vivacità dei
movimenti, il riso e il pianto, ma anche col fatto
che per lo più recitava nelle parti in cui poteva mo
strare il proprio corpo. E in casa ella indossava se
ducenti vesti orientali e greche, con cui appunto rice
veva i suoi numerosi ospiti, aveva destinato una del
le proprie stanze, com’ella si esprimeva, « special-
mente al suicidio » - là c’erano e rivoltelle, e pu
gnali, e sciabole in forma di falci e di spirali, e
boccette con ogni sorta di veleni —e aveva fatto del
la morte l’oggetto costante e favorito delle conver
sazioni. Ma non basta: spesso, parlando di ogni sorta
di mezzi per togliersi la vita, ella a un tratto affer
rava dal muro una rivoltella carica, alzava il grillet
to, si puntava la canna alla tempia e diceva : « Pre
sto, baciatemi o mi sparo subito! » oppure si met
teva in bocca una pillola di stricnina e dichiarava che,
se l’ospite non fosse caduto subito in ginocchio e non
avesse baciato il suo piede scalzo, ella avrebbe in
ghiottito quella pillola. E tutto ciò ella faceva e di
ceva in modo che l’ospite impallidiva dallo spavento
e se ne andava doppiamente affascinato da lei, spar
gendo per tutta la città sul conto dell’attrice proprio
quelle voci che ella tanto desiderava...
— In generale ella non era quasi mai nel suo
vero essere — diceva in tribunale il testimonio Za-
liesski che la conosceva intimamente e da molto
tempo. — Recitare, aizzare era la sua occupazione
abituale. Rendere furioso un uomo con degli sguar
di soavi, enigmatici, con dei sorrisi significativi e col
mesto sospiro di bambina indifesa era la sua grande
maestria. Così si comportava ella anche con Elaghin.
560 L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
Ora lo arroventava, ora gli rovesciava addosso una
doccia fredda... Voleva morire? Ma ella amava car
nalmente la vita, temeva la morte straordinariamen
te. In generale c’era nella sua natura moltissima gioia
di vivere e allegria. Ricordo come un giorno Elaghin
le avesse mandato in dono la pelle di un orso bianco.
Ella aveva allora in casa molti ospiti. E aveva dimen
ticato tutti, tale entusiasmo le aveva cagionato quel
la pelle. L’aveva distesa sul pavimento e, senza ba
dare a nessuno, si era messa a farci delle capriole,
aveva cominciato a far certe evoluzioni che l’avrebbe
invidiata qualsiasi acrobata... Era una donna incan
tevole!
Del resto, lo stesso Zaliesski raccontava ch’ella
soffriva di accessi di angoscia, di disperazione. Il me
dico Sieroscevski che la conosceva da dieci anni e che
l’aveva curata ancor prima della sua partenza per
Lvov - allora si era manifestata in lei la tisi - ha
pure deposto che negli ultimi tempi ella era tormen
tata da un forte esaurimento nervoso, dall’amnesia e
dalle allucinazioni, così ch’egli temeva per le sue
facoltà mentali. Da questo stesso esaurimento l’ave
va curata anche il medico Schuhmacher, a cui ella
assicurava sempre che non sarebbe morta di morte
naturale (e da cui aveva preso un giorno due volumi
di Schopenhauer, « letti molto attentamente e, quel
lo ch’è più sorprendente di tutto, compresi magni
ficamente, com e risultato poi »). E il medico Nied-
zielski ha dato la seguente testimonianza:
— Era una donna strana! Quando aveva degli
ospiti, era per lo più molto allegra, civettuola; ma
accadeva che a un tratto, di punto in bianco, smet
L’AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 561
tesse di parlare, arrovesciasse le pupille, lasciasse
cader la testa sulla tavola... oppure cominciava a
gettar sul pavimento, a rompere i bicchieri, i bic
chierini... In simili casi bisognava sempre affrettarsi
a pregarla: sì, ancora, ancora, ed ella interrompeva
subito quest’occupazione.
Ed ecco che con questa « donna strana e incan
tevole » si era finalmente incontrato l’alfiere Ales
sandro Michailovic Elaghin.
Com’era avvenuto questo incontro? Com’era nata
fra di loro l’intimità e quali erano i loro sentimenti
reciproci, i loro rapporti? Lo ha raccontato due volte
lo stesso Elaghin : la prima volta, brevemente e
frammentariamente, alcune ore dopo l’uccisione, al
giudice istruttore; la seconda volta negli interroga
tori che si sono svolti a distanza di tre settimane
dal primo.
— Sì — diceva egli — sono colpevole di aver
tolto la vita alla Sosnovski, « ma per sua volon
tà... ».
— La conobbi un anno e mezzo fa, nella bigliet
teria del teatro, per tramite del tenente Budberg.
Me ne innamorai ardentemente e credetti che ella
condividesse i miei sentimenti. Ma non sempre n’ero
convinto. A volte mi pareva ch’ella mi amasse più
di quanto l’amassi io, e a volte al contrario. Inoltre,
20.
562 L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
ella era sempre circondata da ammiratori, civettava,
e io soffrivo di una crudele gelosia. Ma alla fin fine,
però, non fu questo a determinare la nostra situa
zione tragica, ma qualcos’altro ch’io non so espri
mere... In ogni caso, giuro di averla uccisa non per
gelosia...
« Io, ripeto, la conobbi nel febbraio dell’anno scor
so, in teatro presso la biglietteria. Le feci una visita,
ma fino all’ottobre non andai da lei più di due volte
al mese e sempre di giorno. In ottobre le confessai
di amarla, ed ella mi permise di baciarla. Una setti
mana dopo ero andato con lei e col mio compagno
Voloscin a cenare in un ristorante suburbano; torna
vamo di là noi due soli e, sebbene ella fosse alle
gra, affabile e leggermente ebbra, sentivo davanti a
lei una tale timidezza che temevo di baciarle la ma
no. Poi ella mi chiese un giorno di prestarle il Pù-
škin e, dopo aver letto le N o t t i E giz ian e , disse: “E
voi avreste il coraggio di dar la vita per una notte
con la donna am ata?” . E quando mi fui affrettato a
rispondere di sì, sorrise enigmatica. Io l’amavo già
molto e vedevo e sentivo chiaramente ch’era un amo
re fatale per me. A misura che cresceva la dimesti
chezza, mi facevo più ardito, avevo cominciato a
parlarle del mio amore sempre più spesso, dicevo
che sentivo di perdermi... già per il solo fatto che
mio padre non mi avrebbe mai permesso di sposarla
e che vivere con me senza matrimonio ella non avreb
be potuto, come attrice a cui la società polacca non
avrebbe mai perdonato un aperto legame illegittimo
con un ufficiale russo. E anch’ella si lamentava della
propria sorte, della propria anima strana, ma evitava
L’AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 563
di rispondere alle mie confessioni, alla mia muta
domanda, s’ella mi amasse, parendo darmi una certa
speranza con queste lagnanze e col loro carattere
confidenziale...
« Poi, dal gennaio di quest’anno, cominciai ad an
dar da lei ogni giorno. Le mandavo mazzi di fiori
in teatro, glieli mandavo a casa, le facevo dei re
gali... Le donai due mandolini, una pelle d’orso bian
co, un anello e un braccialetto di brillanti, decisi di
regalarle una spilla col teschio. Ella adorava gli em
blemi della morte e più di una volta mi diceva che
avrebbe desiderato di ricevere da me una spilla si
mile, con la dicitura in francese: “Q u an d m ê m e
p o u r t o u jo u r s!” .
« Il 26 marzo di quest’anno ebbi da lei un invito
a cena. Dopo la cena ella si diede a me per la prima
volta... nella stanza ch’ella chiamava giapponese. In
quella stessa stanza avvenivano anche i nostri incon
tri ulteriori; ella mandava a letto la fantesca dopo
cena. E poi mi diede la chiave della sua camera da
letto, la cui porta d ’ingresso dava senz’altro sulla
scala... In memoria del 26 marzo ci ordinammo due
anelli di fidanzamento, sul lato interno dei quali fu
rono incise, per suo desiderio, le nostre iniziali e la
data della nostra prima intimità...
« In una delle nostre gite fuori di città ci avvici
nammo in campagna a una croce presso una chiesa
cattolica e le giurai davanti a quella croce il mio
amore eterno, dissi ch’ella era mia moglie davanti a
Dio e che fino alla tomba non l’avrei tradita. Ella se
ne stava lì mesta e pensosa e taceva. Poi disse con
564 L’AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN
semplicità e fermezza: “Anch’io ti amo. Q u an d
m ê m e p o u r t o u jo u r s!".
« Al principio di maggio, una sera che cenavo da
lei, ella prese dell’oppio in polvere e disse: “Com’è
facile morire! Basta solo versarne un poco ed è fat
to!” . E, versata la polvere nella coppa con lo sciam
pagna, si portò la coppa alle labbra. Io gliela strap
pai di mano, gettai il vino nel camino, e spezzai
la coppa contro uno degli speroni. Il giorno dopo
ella mi disse: “Invece di una tragedia ieri è suc
cessa una commedia!” . E soggiunse: “Che cosa devo
fare? Io non mi risolvo, tu pure non puoi, non osi...
Che vergogn a!”.
« E dopo questo cominciammo a vederci più di
rado: ella mi disse che non poteva più ricevermi di
sera. Perché? Impazzivo, mi tormentavo orribilmen
te. Ma oltre a ciò ella era cambiata verso di me, si
era fatta fredda e ironica, talvolta mi riceveva come
se ci conoscessimo appena e scherniva di continuo
la mia assenza di carattere... E a un tratto tutto si
cambiò di nuovo. Cominciò a venirmi a prendere per
far delle gite, cominciò a sedurmi, forse perché an
ch’io stavo per appropriarmi una fredda contegno-
sità nel trattarla... Alla fine, mi disse di prendere in
affitto un appartamento separato per i nostri conve
gni, ma volle che fosse in una via remota, in qual
che tetra, vecchia casa, e fosse perfettamente buio e
rifinito com’ella me lo avrebbe ordinato... Voi sa
pete come precisamente fosse arredata quest’abita
zione...
« Ed ecco che il sedici giugno passai da lei alle
quattro e dissi che l’appartamento era pronto, e le
L'AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN 565
consegnai una delie chiavi. Ella sorrise e, rendendo
mi la chiave, rispose: “Ne parleremo poi” . Nel
frattempo squillò il campanello, entrò un certo
Sckliarevič. Mi affrettai a nascondere la chiave in ta
sca e parlai di inezie. Quando andavo via insieme
con Sckliarevič, ella gli disse forte in anticamera :
“Venite lunedì”, mentre a me sussurrò: “Vieni do
mani, alle quattro” e me lo sussurrò così che mi gi
rò la testa...
« Il giorno dopo andai da lei alle quattro in
punto. Quale non fu la mia sorpresa, quando la
cuoca che aveva aperto la porta mi annunziò che la
Sosnovski non poteva ricevermi, e mi consegnò una
sua lettera! Ella scriveva che si sentiva indisposta,
che andava in campagna da sua madre, che “ormai
era tardi”. Fuori di me, entrai nella prima pasticce
ria che mi capitò e le scrissi una lettera orribile,
pregandola di spiegarmi che cosa volesse dire la pa
rola “tardi”, e mandai questa lettera con un messo.
Ma il messo mi riportò la mia lettera: ella non era
in casa. Allora mi convinsi ch’ella voleva definiti
vamente troncare con me e, tornato a casa, le scrissi
un’altra lettera, rimproverandola aspramente di tut
to il suo gioco con me e pregandola di restituirmi
il mio anello di fidanzamento che per lei non era,
evidentemente, che uno scherzo, mentre per me co
stituiva la cosa più cara della vita, quella che dove
va seguirmi nella tomba: volevo dire con questo
che fra noi tutto era finito, e farle capire che per
me restava solo la morte. Insieme con questa lette
ra le resi il suo ritratto, tutte le sue lettere e gli
oggetti custoditi in casa mia: i guanti, le spille, un
566 L'AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
cappellino... L’attendente ritornò e disse ch’ella non
era in casa, e ch’egli aveva lasciato la lettera e r in
volto dal custode...
« La sera andai al circo, incontrai là Sckliarevic,
un uomo che conoscevo poco, e, avendo paura della
solitudine, bevvi con lui lo sciampagna. A un tratto
Sckliarevic disse: “Sentite, vedo quello che soffrite,
e ne so le cause. Credetemi ch’ella non vale tanto.
Siamo passati tutti attraverso ciò, ella ci ha menati
tutti per il naso...”. Avrei voluto sguainar la scia
bola e sfracellargli la testa, ma ero in un tale stato
d’animo che non solo non feci nulla di simile e
non troncai questo discorso, ma ne ero anzi intima
mente lieto, lieto della possibilità di trovare almeno
in qualcuno la partecipazione. E non so quello che
avvenne di me: io, certo, non mi lasciai scappar
detto nemmeno una parola in risposta a lui, non
dissi una parola della Sosnovski, ma lo portai in via
della Vecchia Città e gli mostrai l’appartamento che
con tanto amore avevo scelto per i nostri convegni.
Provavo una tale amarezza, una tale vergogna di
essere stato così giocato con quest’abitazione...
« Di là spinsi il vetturino al ristorante di Nevia-
rovski; pioveva leggermente, il vetturino volava, e
persino quella pioggia e i lumi che scorgevo davanti
a me mi davano sofferenza e paura. Al tocco di not
te tornai con Sckliarevic dal ristorante a casa e stavo
già per spogliarmi quando a un tratto l’attendente
mi porse un biglietto: ella mi aspettava in strada,
pregava di scender subito. Era venuta con la came
riera in una carrozza chiusa e mi disse di essersi così
spaventata per me che non aveva nemmeno potuto
L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN 567
venir sola, aveva preso la cameriera. Ordinai all’at
tendente di riaccompagnare la cameriera a casa, e
montai in carrozza con lei, e ci recammo in via del
la Vecchia Città. Strada facendo, la rimproveravo,
le dicevo ch’ella giocava con me. Ella taceva e, guar
dando davanti a sé, via via si asciugava le lacrime.
Del resto, appariva tranquilla. E siccome il suo sta
to d’animo di solito si comunicava sempre a me,
cominciai a calmarmi anch’io. Quando fummo arri
vati, ella si rallegrò del tutto, l’abitazione le piacque
molto. Le presi una mano, le chiesi perdono di tutti
i miei rimproveri, la pregai di rendermi il suo ri
tratto, cioè quello che nell’irritazione le avevo ri
mandato. Avevamo spesso dei litigi, e sempre alla
fin fine mi sentivo colpevole e sempre domandavo
perdono. Alle tre di notte la portai a casa. Nel tra
gitto la nostra conversazione s’inasprì di nuovo. Ella
se ne stava seduta, guardando davanti a sé, io non
vedevo il suo viso, sentivo solo l’odore dei suoi
profumi e il suono gelido, cattivo della voce. “Tu
non sei un uomo” diceva ella “non hai nessun ca
rattere; posso, quando voglio, e imbestialirti e cal
marti. S’io fossi un uomo, avrei tagliato a pezzetti
una donna come me!” Allora gridai: “In tal caso ri
prendetevi il vostro anello!” e per forza glielo rimisi
in dito. Ella si volse verso di me e, sorridendo confu
sa, disse: “Vieni domani” . Risposi che non sarei
andato in alcun caso. Ella si mise a pregarmi timi
da, impacciata. Diceva: “No, verrai, verrai... in via
della Vecchia Città...”. E poi soggiunse risolutamen
te: “No, ti supplico di venire, presto partirò per
l’estero, voglio vederti per l’ultima volta, sopra tut-
568 L’AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN
to devo dirti una cosa molto importante” . E di nuo
vo scoppiò a piangere e soggiunse: “Mi meraviglio,
dici che mi ami, che senza di me non puoi vivere e
ti spari, e non vuoi vedermi per l’ultima volta...” .
Allora dissi, cercando di esser contenuto, che se era
così, il giorno dopo le avrei fatto sapere a che ora
sarei stato libero. Quando ci separammo all’ingresso
della sua casa, sotto la pioggia, il cuore mi si spez
zava di pietà e d ’amore per lei. Tornato a casa, con
sorpresa e disgusto trovai lì Sckliarevič che dor
miva...
« Lunedì mattina, diciotto giugno, le mandai un
biglietto dicendo ch’ero libero da mezzogiorno in
poi. Ella rispose: “Alle sei, in via della Vecchia Cit
tà...” . »
XI
Antonina Kovanko, la cameriera della Sosnovski,
e la sua cuoca W anda Linevic, hanno deposto che
sabato, giorno sedici, la Sosnovski, accendendo la
macchinetta a spirito per arricciarsi il ciuffo, aveva
gettato nella distrazione il fiammifero sul lembo del
suo leggero accappatoio, e l’accappatoio prese fuoco,
e la Sosnovski gridò selvaggiamente, scotendoselo,
strappandoselo di dosso; in generale, si spaventò tal
mente che si mise a letto, mandò a chiamare il dot
tore, e poi continuò a ripetere : « Ecco, guardate,
è segno di una grande disgrazia... ».
L’AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 569
Cara, infelice donna! Questa storia, con l’accap
patoio e col suo orrore infantile, mi agita e mi com
muove straordinariamente. Quest’inezia collega e il
lumina per me meravigliosamente tutto quel che di
frammentario e di contraddittorio ne abbiamo sem
pre sentito e di cui si è tanto parlato, e in società
e in tribunale, dal tempo della sua morte, e sopra
tutto suscita meravigliosamente in me la viva sensa
zione di quella autentica Sosnovski che nessuno ha
compreso e sentito veramente - come pure di Ela-
ghin - nonostante tutto l’interesse che le avevano
sempre dimostrato, tutto il desiderio di comprender
la, d ’indovinarla, tutte le infinite discussioni su di
lei durante l’ultimo anno.
In generale, dirò ancora una volta, è sorprenden
te la meschinità dei giudizi umani! Ê avvenuto di
nuovo quello che accade sempre, quando agli uomi
ni tocca di esaminare qualche avvenimento anche ap
pena notevole: è risultato che gli uomini guardano
e non vedono, ascoltano e non odono. Che bisogno
c’era, contro ogni evidenza, come a farlo apposta,
di contraffare a tal punto ed Elaghin e la Sosnovski,
e tutto quello che c’era stato fra loro? Par che tutti
si fossero accordati per non dir nulla, tranne che
delle volgarità. « Che cosa c’è da indagare qui? Egli
è un ussero, un geloso e ubriaco dissipatore della
vita, lei un’attrice, impigliatasi nella sua vita scon
clusionata e immorale... »
« Salotti separati, vino, co co t t e s , gozzoviglie » di
cevano di lui. « Il tintinnìo della sciabola assordiva
in lui tutti i sentimenti elevati... »
I sentimenti elevati, il vino! Ma che cos’è il vino
570 L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
per una natura come quella di Elaghin? “Sento a
volte un tale tormento e anelito verso ogni cosa bel
la, alta, in generale, il diavolo sa verso che cosa,
che mi spezza il petto... Voglio cogliere non so qua
le inafferrabile motivo che mi sembra di aver udito
in qualche luogo, e non lo trovo mai...” Ed ecco
che nell’ebbrezza si respira più facilmente e larga
mente, nell’ebbrezza la cantilena inafferrabile suona
più distinta, più vicina. E che c’entra, se l’ebbrezza,
e la musica, e l’amore alla fin fine sono ingannevoli,
raddoppiano soltanto questa sensazione, indicibile
nella sua acutezza e nella sua sovrabbondanza, del
mondo, della vita?
« Ella non lo amava » dicevano di lei. « Ella lo
temeva soltanto, perché egli la minacciava di ucci
dersi, cioè non solo di gravare l’anima di lei con
la propria morte, ma di farne anche la protagonista
di un grave scandalo. Ci sono testimonianze ch’ella
provava verso di lui anzi una certa ripugnanza. Era
tuttavia stata sua? Ma forse che questo modifica
la cosa? Di quanti mai è stata! Però Elaghin ha vo
luto trasformare in dramma una di quelle innume
revoli commedie amorose che le piaceva di recita
re... »
E ancora:
« Ella si era sgomentata di quella paurosa, smi
surata gelosia ch’egli aveva cominciato a manifesta
re sempre più. Una volta, in presenza di lui, era
ospite da lei l’artista Strakun. Lui se ne stava da
prima lì calmo, solo impallidiva dalla gelosia. E a
un tratto si alzò e uscì rapidamente nella stanza ac
canto. Ella gli corse dietro e, avendogli visto in ma
L’AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 571
no la rivoltella, cadde in ginocchio davanti a lui,
supplicandolo di aver pietà di sé e di lei. E di tali
scene se ne svolsero probabilmente parecchie. Non
è forse comprensibile ch’ella alla fine si fosse decisa
a liberarsi di lui, a intraprendere un viaggio all’e
stero, per cui era già del tutto pronta alla vigilia
della sua morte? Egli le portò la chiave dell’appar
tamento in via della Vecchia Città, la chiave dell’ap-
partamento ch’ella aveva, evidentemente, escogitato
solo per avere il pretesto di non riceverlo in casa
sua prima della partenza. Ella non prese quella chia
ve. Egli cominciò a offrirgliela. Ella dichiarò: “Or
mai è tardi” . Cioè, ormai non mi serve accettarla,
parto. Ma egli le imbastì una tale lettera che, rice
vutala, ella si precipitò di notte da lui, fuori di sé
dalla paura di poter trovarlo già morto... »
Ammettiamo che fosse tutto così (anche se tutti
questi ragionamenti sono in perfetta contraddizione
con la confessione di Elaghin). Ma perché tuttavia
Elaghin era così « paurosamente », « smisuratamen
te » geloso e ha voluto trasformare la commedia in
dramma? Che bisogno ne aveva? Perché non l ’ha
semplicemente uccisa con un colpo di rivoltella in
uno degli accessi di gelosia? Perché « non c’è stata
lotta tra l’assassino e la sua vittima »? E poi: « Ella
sentiva per lui a volte anzi una certa ripugnanza...
Ella in presenza di estranei talvolta lo scherniva, gli
dava dei nomignoli offensivi, lo chiamava, ad esem
pio, cucciolo dalle gambe storte... ». Ma, Dio mio,
in questo è tutta la Sosnovski! Ancora nelle sue an
notazioni di Lvov è detto della sua ripugnanza per
qualcuno: «Egli, dunque, mi ama ancora! E io?
572 L'AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN
Che cosa sento per lui? E amore e ripugnanza! ».
Ella offendeva Elaghin? Sì, un giorno, dopo aver
bisticciato con lui - ciò accadeva spesso fra di loro
- ella chiamò la cameriera e, dopo aver gettato in
terra il suo anello di fidanzamento, gridò : « Pren
diti questa porcheria! ». Ma che cosa aveva fatto
prima di questo? Prima di questo era corsa in cu
cina e aveva detto : « Ora ti chiamerò, getterò que
st’anello in terra e ti dirò di prenderlo per te. Ma
ricordati, sarà solo una commedia, me lo devi re
stituire oggi stesso, perché con quest’anello io mi
sono fidanzata con lui, con questo imbecille, ed esso
mi è più caro di ogni cosa al mondo... ».
Tutt’altro che per nulla la chiamavano « donna
di condotta leggera » e non per nulla la chiesa cat
tolica le ha negato le esequie cristiane, « come a
persona cattiva e corrotta ». Ella apparteneva inte
ramente a quelle nature femminili che danno tanto
le donne pubbliche di professione quanto le libere
sacerdotesse dell’amore. Ma che nature sono? Sono
nature di sesso fortemente spiccato e insaziato, in
soddisfatto, il quale non può nemmeno esser sazia
to. In seguito a che? Ma so io, forse, in seguito
a che? E notate che avviene sempre così: gli uomini
di quel tipo terribilmente complesso e profonda
mente interessante che è (in questa o quella misura)
il tipo atavico, gente per la loro essenza acuitamente
sensuale non solo in rapporto alla donna ma anche
in generale in tutta la loro percezione del mondo,
con tutte le forze dell’anima e del corpo tendono
sempre precisamente verso donne simili, e divengo
no gli eroi di un’enorme quantità di drammi e di
L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN 573
tragedie amorose. Perché? In forza del proprio bas
so gusto, in forza della propria corruzione o sem
plicemente in forza dell’accessibilità di tali donne?
Certo no, mille volte no. No, magari anche perché
tali uomini sentono e vedono assai bene quanto sia
sempre tormentosa, a volte veramente paurosa e ro
vinosa la relazione, l’intimità con donne simili. Essi
10 sentono, lo vedono, lo sanno, e tuttavia tendono
per lo più precisamente verso di esse, irresistibil
mente tendono al proprio tormento e persino alla
propria perdizione. Perché?
Certo, ella non recitava che una commedia quan
do scriveva i suoi biglietti prima di morire, cercan
do di persuadersi che fosse venuta davvero la sua
ultima ora. E non convincono affatto del contrario
i suoi diari - sia detto a proposito, assai volgari e
ingenui - e le visite ai camposanti...
Nessuno nega l’ingenuità dei suoi diari e le tea
tralità delle sue passeggiate ai camposanti, come pure
11 fatto che le piaceva alludere alla sua rassomiglian
za con Maria BaŠkirzev, con Maria Vetzera. Ma per
ché tuttavia aveva scelto precisamente quello, e non
un altro genere di diario, e voleva essere affine pre
cisamente a queste donne? Ella aveva tutto: bellez
za, gioventù, gloria, denaro, centinaia di ammiratori
e godeva di tutto ciò con delizia e trasporto. Ep
pure la sua vita era un continuo languore, una sete
incessante di andar via dal tedioso mondo terreno,
dove tutto non era mai tale da contentarla. In forza
di che? In forza del fatto ch’ella si era rappresen
tato tutto ciò. Ma perché si era rappresentato pre
cisamente questo, e non qualcos’altro? Forse, perché
574 L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
tutto ciò è così abituale tra le donne che si sono
votate, com’esse si esprimono, all'arte? Ma perché
mai questo è così abituale? Perché?
XII
Domenica mattina il campanello da tavolino tril
lò dalla sua camera verso le otto: ella si era sveglia
ta e aveva chiamato la cameriera assai prima del so
lito. La cameriera portò il vassoio con una tazza
di cioccolata e scostò le tendine. Ella sedeva sul let
to e, secondo l’abitudine, di sottecchi, le labbruzze
semiaperte, pensosa e distratta, la seguiva. Poi dis
se:
•— Sai, Tonia, ieri sera mi sono addormentata
subito dopo la visita del dottore. Ah, Vergine San
ta, come mi ero spaventata! Ma non appena egli è
venuto, mi sono sentita così bene e calma! Stanotte
mi sono svegliata, mi sono inginocchiata sul letto
e ho pregato per un’ora intera... Pensa come sarei sta
ta, se mi fossi scottata tutta! Gli occhi sarebbero
scoppiati, le labbra si sarebbero enfiate. Avrei fatto
paura a chi mi avesse guardato... Mi avrebbero co
perto tutto il viso con la bambagia...
Stette lì a lungo senza toccar la cioccolata e restò
seduta, pensando a qualcosa. Poi bevve la ciocco
lata e, preso il bagno, in vestaglia e coi capelli
sciolti, scrisse alla sua piccola scrivania alcune let
tere su carta listata a lutto: si era ordinata già da
L'AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN 575
un pezzo tale carta. Dopo essersi vestita e aver fat
to colazione, partì: fu in villa da sua madre, e tor
nò solo verso mezzanotte con l’attore Strakun ch’era
« sempre un uomo di confidenza in casa sua ».
— Tutti e due arrivarono allegri — raccontava
la cameriera. — Dopo averli incontrati in anticame
ra, la chiamai subito in disparte e trasmisi la lettera
e gli oggetti che in sua assenza aveva mandato Ela-
ghin. Ella mi sussurrò, degli oggetti : « Nascondili
subito, perché non li veda Strakun! », poi aprì fret
tolosamente la lettera e impallidì subito, si smarrì
e gridò, senza badare più al fatto che Strakun si
trovava in salotto : « Per amor di Dio, corri a pre
cipizio in cerca della carrozza! ». Corsi a prender
la carrozza e trovai lei già davanti all’ingresso. Si
volava al galoppo, e strada facendo ella continuava
a farsi il segno della croce e a ripetere : « Ah, Ver
gine Santa, almeno potessi trovarlo ancora vivo! ».
Lunedì ella si recò sin dalla mattina sul fiume,
ai bagni. Erano da lei a pranzo quel giorno Strakun
e un’inglese (la quale in generale veniva da lei
quasi ogni giorno a dar lezioni di lingua inglese
e non ne dava quasi mai). Dopo pranzo l’inglese
se ne andò, e Strakun si trattenne ancora un’ora e
mezzo: fumava, sdraiato sul divano, con la testa
appoggiata sulle ginocchia della padrona, la quale
non indossava che « la sola vestaglia e pianelle giap
ponesi sui piedi scalzi ». Finalmente Strakun se ne
andò, ed ella, accomiatandosi da lui, lo pregò di
venire « stasera stessa alle dieci ».
— Non sarà troppo spesso? — disse Strakun, ri
dendo e cercando in anticamera il bastone.
576 L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
— Oh, no, prego! — diss’ella. — Ma se non
sono a casa, allora, Liussia, non arrabbiarti...
E poi bruciò a lungo nel camino non so che let
tere e carte. Canterellava, scherzava con la camerie
ra:
— Ora brucio tutto, giacché non sono bruciata
io! Ma sarebbe stato bene, se fossi bruciata! Tutta
quanta, però, da incenerirmi...
Poi disse:
— D i’ a W anda di approntar la cena per le dieci
di sera. Perché ora parto...
Partì verso le sei, dopo aver preso con sé qual
cosa di rinvolto nella carta e di simile a una rivol
tella.
Si recò in via della Vecchia Città, ma lungo il
tragitto passò dalla cucitrice Lescinski che aggiusta
va e accorciava l’accappatoio che aveva preso fuoco
sulla sua persona sabato, e, secondo le parole della
Lescinski, « era di caro e allegro umore ». Dopo
aver osservato l’accappatoio e averlo rinvolto nella
carta insieme col pacchetto ch’ella aveva preso in
casa, si trattenne ancora a lungo nel laboratorio, fra
le ragazze apprendiste, continuò a dire: «A h , Ver
gine Santa, come sono in ritardo, è tempo di an
darmene, angeli! » senza mai andarsene. Alla fine
si alzò risolutamente e con un sospiro, ma allegra
mente, disse:
— Addio, signorina Lescinski. Addio, sorelline,
angeli, grazie di aver chiacchierato con me. Mi fa
così piacere di star nella vostra cara cerchia femmi
nile, perché di solito non vedo che uomini e uo
mini!
L'AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 577
E, dopo aver salutato ancora una volta dalla so
glia con un cenno del capo, uscì...
Perché aveva preso con sé la rivoltella? Questa
rivoltella apparteneva a Elaghin , ma ella la teneva
presso di sé, temendo che Elaghin si sparasse. « Men
tre ora si proponeva di restituirla al proprietario,
perché di lì a pochi giorn i partiva per un lungo
soggiorno all’estero » h a detto il procuratore e ha
soggiunto :
— Così, ella si recò al convegno fatale, senza
conoscere che dovesse riuscirle fatale. Alle sette fu
nella casa n. 14 in via della Vecchia Città, nell’ap
partamento n. 1, ed ecco che la porta di quest’ap
partamento si chiuse, e si aperse di nuovo solo la
mattina del 19 giugno. Che cosa avvenne là di not
te? Non c’è nessuno che possa raccontarlo, tranne
Elaghin. Ascoltiamolo ancora una volta...
XIII
E ancora una volta, nel profondo silenzio, abbia
mo ascoltato tutti, tutta la numerosa sala del tribu
nale, quelle pagine dell’atto di accusa che il procu
ratore ha ritenuto opportuno di richiamare alla no
stra memoria e con cui finiva il racconto di Ela
gh in :
« Lunedì, 18 giugno, le mandai un biglietto,
dicendo ch’ero libero da mezzogiorno in poi. El-
578 L'AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN
la rispose: “Alle sei, in via della Vecchia Città”.
« Alle sei meno un quarto ero sul posto e portai
con me degli antipasti, due bottiglie di sciampagna,
due bottiglie di birra inglese, due bicchierini e un
flacone di acqua di Colonia. Ma mi toccò di aspet
tare a lun go: ella arrivò solo alle sette...
« Entrata, mi baciò distrattamente, passò nella se
conda stanza e gettò sul divano l’involto che aveva
portato con sé. “Esci” mi disse in francese “voglio
spogliarmi” . Uscii e di nuovo stetti a lungo solo.
Ero del tutto lucido di mente e terribilmente op
presso, sentendo confusamente che tutto era finito,
che tutto finiva... Del resto, anche l ’ambiente era
strano: me ne stavo con la luce accesa, come di
notte, e intanto sapevo e sentivo che fuori, al di
là dalle mura di quelle sorde e buie stanze, era an
cora giorno, un magnifico giorno estivo... Ella stette
a lungo senza chiamarmi, non so che cosa facesse.
Dietro la porta tutto era perfettamente quieto. Fi
nalmente, ella gridò: “Vieni, ora si può...”
« Giaceva sul divano, col solo accappatoio, con
le gambe nude, senza calze e senza pianelle, e tace
va, guardando di sottecchi il soffitto, la lanterna.
L’involto, con cui era venuta, era sciolto, e vidi la
mia rivoltella. Domandai: “Ma perché l’hai porta
t a?”. Ella rispose non subito: “Così... Parto... Tien-
la piuttosto qua, e non a casa...” . Mi balenò un pen
siero terribile: “No, l’ha portata per qualcosa!”, ma
non dissi nulla...
« E il discorso che cominciò fra noi dopo di ciò
si svolse abbastanza a lungo con costrizione, fred
damente. In segreto ero terribilmente agitato, vole-
L’AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 579
vo sempre capacitarmi di qualcosa, aspettavo sempre
di raccogliere da un momento all’altro i pensieri e
di dirle, finalmente, qualcosa d ’importante e di de
cisivo - in quanto capivo ch’era, forse, il nostro
ultimo convegno o, per lo meno, il distacco per
molto tempo — e non riuscivo mai a dir nulla, sen
tivo la mia piena impotenza. Ella disse: “Fuma, se
vuoi...” . “Ma non ti piace” risposi. “No, o rm ai fa
lo stesso” diss’ella. “E dammi dello sciampagna...”
Ma ne rallegrai tanto, come se ciò fosse la mia sal
vezza. In alcuni minuti vuotammo tutta la botti
glia, mi sedetti accanto a lei e mi misi a baciarle
le mani, dicendo che non sarei sopravvissuto alla
sua partenza. Ella mi scompigliava i capelli e di
ceva distrattamente: “Sì, sì... Che disgrazia ch’io
non possa essere tua moglie... Tutto e tutti sono con
tro di noi; solo, forse, Dio è con noi... Amo la tua
anima, amo la tua f an t asia...” . Che cosa avesse vo
luto esprimere con quest’ultima parola, non so. Guar
dai in alto sotto l’ombrellone, e dissi: “Guarda,
siamo qui come in una cripta. E che quiete!” . In
risposta ella sorrise solo tristemente...
« Così alle dieci disse che voleva mangiare. Pas
sammo nella stanza anteriore. Ma ella mangiò poco,
io pure, più che altro si beveva. A un tratto ella
guardò gli antipasti, da me portati, ed esclamò:
“Stupido, quanti ne hai comprati ancora! La pros
sima volta non arrischiarti più a farlo!”. “Ma quan
do mai sarà ora questa prossima volta?” domandai.
Ella mi guardò stranamente, poi lasciò cadere la te
sta e arrovesciò le pupille. “Gesù, Maria” sussurrò,
580 L'AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
“che cosa dobbiamo fare? Ah, ti desidero follemen
te! Andiamo presto!”
«D o p o qualche tempo guardai l’orologio: erano
già quasi le due. “Ah, com’è tardi!” diss’ella. “Bi
sogna andar subito a casa.” Tuttavia non si sollevò
nemmeno e soggiunse: “Sai, sento che bisogna par
tire al più presto, e non posso muovermi dal posto.
Sento che non uscirò di qua. Tu sei il mio destino,
la mia sorte, la volontà di Dio...”. Anche questo
non potevo capire. Probabilmente, ella voleva dire
qualcosa di comune con quello che scrisse poi :
“Muoio non per mia volontà”. Voi pensate ch’ella
abbia espresso con questa frase la sua mancanza di
difesa di fronte a me. Ma, secondo me, ella voleva
dire un’altra cosa: che il nostro disgraziato incon
tro fosse destino, volontà di Dio, ch’ella moriva
non per propria volontà, ma per quella di Dio. Del
resto, io non diedi allora un significato particolare
alle sue parole, mi ero abituato da un pezzo alle
sue stranezze. Poi ella disse improvvisamente: “Hai
una matita?” . Fui di nuovo meravigliato: perché le
occorreva una matita? Tuttavia mi affrettai a dar
gliela, l’avevo nel taccuino. Mi pregò di darle an
che un biglietto da visita. Quando si mise a scrivere
su di esso qualcosa, dissi: “Ma senti, non è oppor
tuno scrivere a qualcuno sul mio biglietto da vi
sita” . “No, solo così, sono annotazioni per me” ri
spose. “Lasciami qui a pensare un po’ nel dormive
glia.” E, dopo essersi messa sul petto il biglietto
scritto, chiuse gli occhi. Si fece un silenzio così gran
de che fui preso da una specie d ’intorpidimento...
« Così doveva esser passato non meno di mezz’o
L'AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 581
ra. A un tratto ella aprì gli occhi e disse fredda
mente : “Mi ero dimenticata, sono venuta a restituirti
il tuo anello. Tu stesso volevi ieri por fine a tutto” .
E, sollevatasi, gettò l’anello sulla sporgenza del mu
ro: “Forse che mi am i?” diss’ella quasi in un grido.
“Non capisco come tu possa tranquillamente lasciar
mi in vita! Io sono una donna, manco di risoluzio
ne. Io non temo la morte, temo le sofferenze, ma tu
potresti uccider me con un solo colpo di rivoltella,
e poi te stesso.” E qui ancor di più, con paurosa
chiarezza compresi tutto l’orrore della nostra situa
zione senza uscita, e il fatto ch’essa dovesse risol
versi in qualche modo. Ma ucciderla, no, sentivo
che non potevo farlo. Sentivo un’altra cosa: era ve
nuto il momento decisivo per me. Presi la rivoltella
e alzai il grilletto. “Come? Te solo?” esclamò ella,
saltando su. “No, giuro su Cristo, per nulla al mon
do!” E mi strappò la rivoltella dalle mani...
« E di nuovo successe quel tormentoso silenzio.
Io me ne stavo seduto, ella giaceva, senza muoversi.
E a un tratto indistintamente, fra sé, disse qualcosa
in polacco e poi a me: “D a’ qui il mio anello” .
Glielo porsi. “E il tuo!” diss’ella. Mi affrettai ad
eseguire anche questo. Ella si mise in dito il suo,
e mi ordinò di mettermi il mio e parlò : “Ti ho sem
pre amato e ti amo anche ora. Ti ho fatto impazzire
e ti ho sfinito, ma ormai tale è il mio carattere e
tale è la nostra sorte. Dammi la mia gonna e porta
della birra...” . Le porsi la gonna e andai a prendere
la birra, e quando ritornai, vidi che presso di lei
stava una boccetta con l’oppio. “Senti” diss’ella fer
mamente. “Ormai sono finite le commedie. Puoi
582 L'AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
vivere senza di m e?” Risposi di no. “Si” diss’ella
“ti ho preso tutta l’anima, tutti i pensieri. Non esi
teresti a ucciderti? E se è così, prendi anche me con
te. Anch’io non posso vivere senza di te. E, dopo
avermi uccisa, morirai con la consapevolezza che so
no finalmente tutta tua, ormai per sempre. Ed ora
senti la mia vita...” E si sdraiò di nuovo e, dopo
aver taciuto un minuto ed essersi calmata, senza
fretta cominciò a raccontarmi tutta la sua vita dal
l’infanzia... Non ricordo quasi nulla di quel raccon
to...
XIV
« Non ricordo nemmeno chi di noi si fosse messo
il primo a scrivere... Spezzai la matita in due pezzi...
Cominciammo a scrivere e scrivemmo per tutto il
tempo in silenzio. Scrissi, a quanto pare, anzi tutto
a mio padre... Mi domandate perché lo rimproveras
si di “non aver voluto la mia felicità”, quando non
avevo nemmeno mai tentato di chiedere il suo con
senso alle mie nozze con lei? Non so... In ogni
modo, egli non avrebbe acconsentito... Poi scrissi ai
compagni di reggimento, accomiatandomi da loro...
Poi, a chi ancora? Al comandante il reggimento, per
ché mi seppellissero decentemente. Voi dite: avevo,
dunque, la certezza che mi sarei soppresso? Certo.
Ma come tuttavia non feci questo? Non so...
« E lei, ricordo, scriveva lentamente, fermandosi
L'AFFARE DELL'ALFIERE ELAGHIN 583
e pensando a qualcosa; scriveva una parola e di sot
tecchi guardava il muro... Strappava i biglietti da
sé, non li strappavo io. Li scriveva, strappava e get
tava via alla rinfusa... Mi pare che nemmeno nella
tomba possa essere così pauroso, come quando noi
in quell’ora tarda, in quel silenzio, sotto quella lan
terna, scrivevamo tutti questi inutili biglietti... Era
lei a volerli scrivere. Io in generale obbedivo senza
ribattere a tutto quello ch’ella mi ordinava quella
notte, fino all’ultimo momento...
«A un tratto disse: “Basta. E se si ha da fare,
è meglio presto. Dammi della birra. Vergine Santa,
benedicimi!”. Versai un bicchiere di birra, ed ella,
sollevatasi, vi gettò dentro risolutamente un pizzico
di polvere. Dopo aver bevuto più della metà, mi
ordinò di bere il resto. Io bevvi. Ed ella si agitò e,
afferrandomi per le mani, cominciò a pregare: “Ed
ora uccidimi, uccidimi! Uccidimi nel nome del no
stro amore!”.
« Come precisamente lo feci? A quanto pare, la
cinsi col braccio sinistro — sì, certo, col sinistro -
e mi attaccai alle sue labbra. Ella diceva: “Addio,
addio... O no: salve, e ormai per sempre... Se non
ci è riuscito qui, almeno lassù...”. Mi strinsi a lei
e tenevo il dito sul grilletto della rivoltella... Ricordo,
sentivo tutto il mio corpo sussultare... E poi, come
di per sé, il dito diede uno strappo... Ella fece in
tempo a dire in polacco: “Alessandro, amore m io!”.
« A che ora fu questo? Penso, alle tre. Che cosa
feci dopo di ciò altre due ore? Ma ci misi un ’ora
ad arrivar da Lichariov. E il resto del tempo stetti
584 L’AFFARE DELL’ALFIERE ELAGHIN
a sedere accanto a lei, poi chi sa perché misi tutto
in ordine...
«Perch é non mi uccisi io stesso? Me n’ero, chi
sa come, dimenticato. Quando la vidi morta, dimen
ticai tutto al mondo. Me ne stavo seduto e non fa
cevo che guardarla. Poi, in preda a una strana in
coscienza, cominciai ad assettare lei e la stanza... Non
avrei potuto non mantenere la parola che le avevo
data di uccidermi dopo di lei, ma fui preso da una
piena indifferenza... Altrettanto indifferente riman
go anche ora al fatto che vivo. Ma non posso ras
segnarmi che mi si ritenga un boia. No, no! Può
darsi ch’io sia colpevole davanti alla legge umana,
colpevole davanti a Dio, ma non davanti a lei! »
XV
Elaghin deve espiare con dieci anni di carcere la
sua colpa davanti alla legge umana.
Ma davanti a Dio e davanti a lei?
Il giudizio di Dio è ignoto. Ma che cosa direbbe
lei, se fosse in nostro potere di sollevarla dalla ba
ra? E chi oserebbe allora mettersi fra di loro?
Titolo origin ale :
IDA
Traduzion e di Rin aldo Kiifferle
Prim a edizion e: M osca 1925
Prim a edizion e italian a: Milan o 1934
Una volta per le feste di Natale facevamo cola
zione in quattro - tre vecchi amici e un certo Gior
gio Ivanovic - al Gran Ristorante Moscovita.
A causa della festa il Gran Ristorante Moscovita
era vuoto e piuttosto freddo, odorava di fiori fre
schi, di giacinti e mughetti. Attraversammo la vec
chia sala, pallidamente rischiarata dal rigido giorno
grigio, e sostammo sulla soglia della nuova, cer
cando dove sederci più raccolti, osservando le ta
vole, coperte di bianco-nivee tovaglie inamidate. II
maggiordomo, splendido di pulizia e di gentilezza,
fece un gesto discreto e compito in direzione di un
angolo lontano, verso un tavolino rotondo dinanzi
a un divano semicircolare, sotto un folto lauro ver
de-scuro. Andammo là.
— Signori — disse il compositore, entrando nel
lo spazio fra il divano e il tavolino e lasciandosi
andare sul divano con tutto il suo torso tarchiato,
— signori, oggi chi sa perché offro la colazione e
voglio un banchetto coi fiocchi. Inserviente, sten
deteci la tovaglia fatata con la maggior prodigalità
possibile — soggiunse, volgendo al cameriere la sua
larga faccia contadinesca dagli occhi stretti. — Voi
conoscete le mie abitudini regali.
588 IDA
— Come non conoscerle? Ë tempo di saperle a -
memoria — rispose, sorridendo contegnosamente e
mettendogli davanti un portacenere, il vecchio in
telligente cameriere dalla pulita barbetta argentea.
— State tranquillo, Paolo Nicolaievic, cercheremo
di contentarvi...
E dopo un minuto ci comparvero dinanzi bicchie
rini e coppe, bottiglie con la v o d k a di ogni colore,
il salmone rosa, lo storione dalla carne bronzea, un
vassoio con le ostriche aperte sui pezzi di ghiaccio,
il quadrato arancione del formaggio di Cester, un
blocco nero-lucente di caviale pressato, un secchiello
bianco e trasudante di gelo con lo sciampagna...
Cominciammo tuttavia dall’acquavite pepata. Al com
positore piaceva di servirla da sé. Ed egli versò tre
bicchierini, poi esitò scherzosamente:
— Santissimo Giorgio Ivanovic, permettete di ver
sarne anche a voi?
Giorgio Ivanovic, il quale aveva una sola e stra
nissima occupazione - quella di essere l’amico dei
celebri scrittori, pittori, artisti - un uomo assai quie
to e invariabilmente di ottimo umore, arrossì soave
mente — arrossiva sempre prima di dire qualcosa —
e rispose con una certa spensieratezza e disinvol
tura:
— Anzi in abbondanza, peccaminosissimo Paolo
Nicolaievic!
E il compositore versò anche a lui, urtò legger
mente col bicchierino i nostri bicchieri, si rovesciò
la v o d k a in bocca con le parole « Dio conceda! »
e, soffiandosi nei baffi, attaccò gli antipasti. Lo imi
tammo, e ci occupammo di questa faccenda abba
IDA 589
stanza a lungo. Poi ordinammo la zuppa di pesce
e ci mettemmo a fumare. Nella vecchia sala comin
ciò a cantare soave e triste, a ruggire con rimpro
vero il grammofono. E il compositore, col dorso
appoggiato allo schienale del divano, aspirando la
sigaretta e, secondo il suo solito, raccogliendo del
l’aria nel petto sollevato alto, disse:
— Cari e, purtroppo, ormai molto rispettabili ami
ci, oggi, nonostante la gioia del mio ventre, sono
triste. E sono triste perché mi è rivenuta oggi alla
memoria, non appena mi sono svegliato, una piccola
storia, successa a un mio amico, un asino patentato,
com’è risultato poi, giusto tre anni fa, il secondo
giorno di Natale...
— Una storia piccola, ma, senz’alcun dubbio,
amorosa — disse Giorgio Ivanovic col suo sorriso
di fanciulla.
Il compositore lo guardò di traverso.
— Amorosa? — disse freddo e ironico. — Ah,
Giorgio Ivanovic, Giorgio Ivanovic, come farete a
rispondere al Giudizio Universale di tutta la vostra
viziosità e spietata intelligenza? Be’, che Iddio vi
abbia in gloria, f e v e u x u n t ré so r q u i le s co n t ie n t
t o u s, je v e u x la je u n e sse ! — intonò alzando le so
pracciglia, sul motivo del grammofono che sonava
il Fau st , e proseguì rivolgendosi a noi:
— Amici miei, ecco la storia. Cer a una volta
una fanciulla che andava in casa di un signore; era
compagna di studi di sua moglie, e così cara, così
poco ingegnosa che il signore la chiamava sempli
cemente Ida, cioè col solo nome. Sempre Ida e Ida,
egli non ne sapeva bene nemmeno il patronimico.
590 IDA
Sapeva solo ch’era di una famiglia per bene, ma
poco agiata, figlia di un musicista ch’era stato un
tempo celebre direttore d’orchestra, viveva coi ge
nitori, aspettava, come si usa, un fidanzato, e nien-
t ’altro...
« Come descrivervi questa Ida? Il signore era as
sai ben disposto verso di lei, ma di attenzione, ri
peto, gliene rivolgeva, propriamente parlando, zero.
Quando ella veniva, egli le diceva: “Ah, Ida, cara!
Buon giorno, buon giorno, mi rallegro con tutta
l'anima di vedervi!”. Ed ella in risposta sorrideva
soltanto, si levava il cappellino, si toccava con tutt’e
due le mani i capelli, riponeva il fazzolettino da
naso nel manicotto, gettava intorno uno sguardo
limpido, verginale (un poco insensato): “Mascia
è in casa?” “È in casa, è in casa, prego...” “Si può
vederla?”. E si avviava tranquillamente attraverso
la sala da pranzo alla porta di Mascia: “Mascia, si
può entrare in camera tua?” . Una voce di petto,
tale da mettere l’agitazione fin nei precordi, e a que
sta voce aggiungete tutto il resto, la freschezza della
gioventù, della salute, l’olezzo della fanciulla, ap
pena entrata nella stanza dal gelo... poi una statura
abbastanza alta, una bella struttura, una rara armo
nia e naturalezza di movimenti... Ella aveva anche
un viso non comune: a prima vista pareva del tutto
solito, ma a fissarlo c’era da restarne ammirati; il
tono della pelle uguale, caldo —il tono di una mela
di prima qualità —il colore degli occhi violetti, vivo,
pieno...
« Sì, a fissarlo c’era da restarne ammirati. E quel
l’allocco, cioè l’eroe del nostro racconto, la guarda-
IDA 591
va, si lasciava trasportare da un entusiasmo da vi
tello, diceva: “Ah, Ida, Ida, non conoscete nemme
no il vostro pregio!”, scorgeva il suo caro sorriso di
rimando che non sembrava del tutto attento e se ne
andava nel suo studio, e si occupava di nuovo di
qualche bazzecola, chiamata creazione, che il dia
volo lo porti. E così il tempo passava, e così il no
stro signore non aveva nemmeno mai pensato sul
serio a questa Ida; e non si era affatto accorto, figu
ratevi un po’, ch’ella, un bel giorno, fosse scom
parsa. Ida non c’era e non c’era, e non gli veniva
neanche in mente di chiedere alla moglie, dove fos
se andata a finire la nostra Ida. Talvolta se ne ri
cordava, sentiva che gli mancava qualcosa, imma
ginava il dolce tormento con cui avrebbe potuto
cingere la sua vita, vedeva mentalmente il suo ma
nicotto grigio, il colore del suo viso e degli occhi
violetti, la sua mano incantevole, la sua gonna in
glese, ne provava una momentanea nostalgia e se ne
scordava di nuovo. Ed era passato in tal modo un
anno, n ’era passato un altro... Quando a un tratto
egli dovè recarsi in una regione occidentale...
« Si era proprio alla vigilia di Natale. Ma, no
nostante ciò, gli era indispensabile partire. Ed ecco
che, salutati i servi e i familiari, montò il nostro
signore sul cavallo veloce e partì. Galoppa un gior
no, galoppa una notte, e arriva finalmente a una
grande stazione, dove bisogna trasbordare. Ma ci
arriva, si osservi, con un notevole ritardo, e perciò,
non appena il treno cominciò a rallentare la corsa
accanto alla banchina, saltò fuori dalla vettura, af
ferrò pel bavero il primo facchino che gli era capi
592 IDA
tato e gridò: “Non è ancora partito il diretto per
la tal città?”. E il facchino sorrise gentilmente e
proferì: “È appena partito. Il signore è in ritardo
di un’ora e mezzo”. “Come, furfan te? Scherzi? Che
cosa faccio ora? Ti mando in Siberia, all’ergastolo,
al patibolo!” “È colpa mia, è colpa mia” risponde
il facchino “ma nemmeno la spada taglia la testa
di un pentito, vostra altezza. Vogliate attendere l’ac
celerato...” E il nostro illustre viaggiatore chinò la
testa e docile si diresse alla stazione.
« La stazione risultò assai popolata e piacevole,
intima, calda. Già da una settimana infuriava la
tormenta di neve, e sulle strade ferrate tutto si era
imbrogliato, tutti gli orari se n’erano andati al dia
volo, le stazioni erano zeppe di gente. Lo stesso,
naturalmente, avveniva anche lì. Da per tutto c’erano
persone e bagagli, e tutto il giorno erano aperti i
b u f f e t s, tutto il giorno c’era odor di cibi, di sam o
v ar, di caffè, cosa che, com’è noto, non va affatto
male quando fa freddo e c’è tormenta di neve. E
per di più quella stazione era ricca, spaziosa, così
che il viaggiatore sentì subito che non sarebbe stato
un gran guaio passarci anche ventiquattro ore. “Mi
metterò in ordine, poi mangerò e berrò come si de
ve” pensò con piacere, entrando nella sala d’aspet
to, e subito si accinse ad attuare la sua intenzione.
Si rase la barba, si lavò, si mise una camicia pulita
e, uscito dopo un quarto d’ora dalla toeletta rin
giovanito di vent’anni, si diresse al b u f f e t . Là bevve
un bicchierino, poi un altro, assaggiò da prima una
frittella, poi del luccio e stava per bere ancora, quan
do a un tratto udì dietro di sé una voce femminile
IDA 593
terribilmente nota, la più meravigliosa del mondo.
Qui, naturalmente, si volse “bruscamente” e, figu
ratevi un po’, chi vide davanti a sé? Ida!
« Dalla gioia e dalla sorpresa al primo momento
non potè nemmeno proferir parola e non fece che
guardarla imbambolato. Mentre lei - che cosa vuol
dire, amici miei, la donna! - non batté ciglio. S’in
tende che anche lei non poteva non essersi meravi
gliata ed anzi espresse nel viso una certa gioia, ma
conservò, dico, una calma magnifica. “Mio caro”
disse “come mai? Che piacevole incontro!” E si ve
deva dagli occhi che diceva la verità, ma parlava
in un certo modo troppo semplice e affatto, affatto
diverso da come parlava una volta, e sopra tutto...
con una sfumatura d ’ironia, quasi. Il nostro signore,
invece, si smarrì del tutto anche perché Ida si era
fatta irriconoscibile anche in tutto il resto: era me
ravigliosamente rifiorita, come si apre qualche fiore
magnifico in purissima acqua dentro una coppa di
cristallo, e in corrispondenza di ciò era anche ve
stita: un cappellino invernale di grande semplicità,
di grande civetteria e di un prezzo diabolico, sulle
spalle una stola di martora da migliaia di rubli...
Quando il signore impacciato e umile le baciò la
mano dagli anelli abbaglianti, ella scosse leggermen
te all’indietro oltre la spalla il cappellino, disse ne
gligentemente: “A proposito, fate anche conoscen
za con mio marito”, e subito da dietro a lei si avan
zò e modestamente, ma da bravo, alla militare, si
presentò uno studente... »
— Ah, sfacciato! — esclamò Giorgio Ivanovic.
— Un comune studente?
594 IDA
— È che, caro Giorgio Ivanovic, non era affatto
comune — disse il compositore con un triste sorriso.
— A quanto pare, il nostro signore non aveva vi
sto mai in vita sua un viso giovanile così, come si
suol dire, nobile, così magnifico, marmoreo. Vesti
to da elegantone: la giubba dell’uniforme, della
più fine stoffa grigiochiara, quale la portano solo i
più grandi elegantoni, gli cingeva strettamente il
torso tornito, i calzoni con le staffe, un berretto ver
descuro di foggia prussiana e uno sfarzoso cappot
to guarnito di castoro. E con tutto ciò simpatico e
modesto pure a meraviglia. Ida balbettò uno dei
più illustri casati russi, ed egli si tolse rapidamente
il berretto con la mano inguantata di camoscio —nel
berretto, naturalmente, balenò la rossa fodera di
amoerro — denudò rapidamente l’altra mano, sotti
le, pallidamente azzurrognola e un po’ come in fa
rinata a causa del guanto, batté i tacchi e rispetto
samente lasciò cadere sul petto la piccola testa accu
ratamente pettinata. “Questa è bella!” pensò ancora
più stupito il nostro eroe; gettò un altro sguardo
ottuso su Ida, e istantaneamente dallo sguardo ch’el
la fece scivolare sullo studente comprese ch’ella era,
naturalmente, la regina e lui lo schiavo, ma uno
schiavo tuttavia non semplice, bensì tale che por
tava la propria schiavitù con grandissimo piacere
e persino con orgoglio. « Sono molto, molto lieto di
conoscervi! » disse di tutto cuore questo schiavo, do
po avere stretto forte la mano tesagli, e con un
vispo e gradevole sorriso si drizzò sulla persona. « E
sono un vostro antico ammiratore, e ho sentito da
Ida molto parlare di voi » soggiunse amichevolmente,
IDA 595
e già voleva abbandonarsi all’ulteriore conversazio
ne adatta al caso, quando fu improvvisamente in
terrotto. « Taci, Petrik, non confondermi » disse Ida
frettolosamente e si rivolse al signore : « Mio caro,
ma son mille anni che non vi vedo! Vorrei parlare
senza fine con voi, ma non ho nessuna voglia di
parlare in sua presenza. I nostri ricordi non lo in
teressano, si annoierebbe soltanto e per la noia sta
rebbe a disagio, perciò andiamo, facciamo un giro
sulla banchina... ». E detto ciò, prese il nostro servo
di Dio a braccetto e lo condusse sulla banchina, e
lungo la banchina si allontanò con lui di quasi una
v e rst a, dove la neve arrivava fin quasi al ginocchio,
e improvvisamente gli fece là una dichiarazione d’a
more...
— Cioè, come d ’amore? — domandammo noi a
una voce, leggermente smarriti.
Il compositore invece di rispondere raccolse di
nuovo dell’aria nel petto, gonfiando le gote e solle
vando le spalle. Abbassò gli occhi e, alzandosi pe
santemente, trascinò verso di sé dal secchiello d’ar
gento, di tra il ghiaccio frusciante, la bottiglia, si
riempì la coppa più grande. I suoi pomelli si acce
sero, il collo corto si arrossò. Vincendo e cercando di
nascondere il turbamento, egli vuotò la coppa sino
ai fondo, come fosse k v ass, intonò sul motivo del
grammofon o: « L aisse - m o i, laisse - m o i co n t e ?n p le r
t o n v isag e ! », ma subito s’interruppe e, avendo al
zato su di noi gli occhi divenuti ancor più stretti,
disse :
-— Sì, cioè una dichiarazione ch’era d’amore... E
questa dichiarazione fu, purtroppo, la più autentica,
596 IDA
perfettamente seria. Una cosa stupida, strana, ina
spettata, inverosimile? Sì, naturalmente, ma è un fat
to. Fu proprio così, come ora vi riferisco. S’incam
minarono lungo la banchina, e subito ella cominciò
rapidamente e con simulata animazione a interro
garlo su Mascia, su come stesse e su come stessero
i loro comuni conoscenti di Mosca, che cosa in ge
nerale ci fosse di nuovo a Mosca e così via, poi an
nunziò che era sposata da oltre un anno, che aveva
vissuto col marito nel frattempo parte a Pietrobur
go, parte all’estero, e parte nella loro tenuta presso
Vitebsk... Il signore intanto non faceva che seguirla
di buon passo e sentiva già che qualcosa non an
dava bene, che da un momento all’altro sarebbe av
venuto qualcosa di stupido, d’inverosimile, e sgra
nava gli occhi sul candore dei cumuli di neve, i
quali avevano ricoperto in straordinaria quantità tut
to quanto all’intorno, tutte queste banchine e linee, i
tetti delle costruzioni e delle vetture rosse e verdi,
ammucchiatesi su tutti i binari... guardava e con un
terribile stringimento di cuore capiva una cosa sola:
il fatto che, come risultava, egli amava già da molti
anni ferocemente questa stessa Ida. Ed ecco, potete
immaginarvi quello che avvenne poi: poi avvenne
che su una delle banchine laterali più remote Ida
si avvicinò a non so quali cassette, spazzò via da una
di esse col manicotto la neve, sedette e, avendo al
zato verso il signore il viso leggermente impallidito,
gli occhi violetti, gli disse tutto di un fiato, tanto
d ’improvviso da far perdere il lume della ragione:
« Ed ora, mio caro, rispondetemi a un’altra doman
IDA 597
da: avete mai saputo e sapete ora che vi ho amato
per interi cinque anni e vi amo tuttora? ».
Il grammofono, che fino a questo momento aveva
ruggito in lontananza indistintamente e sordamente,
a un tratto rombò eroicamente, trionfalmente e mi
nacciosamente. Il compositore tacque e alzò su di
noi gli occhi tra stupiti e spaventati. Poi proferì
piano :
— Sì, ecco quello ch’ella gli disse... Ed ora per
mettetemi di chiedervi : come rappresentare tutta
questa scena con le stupide parole umane? Che cosa
posso dirvi, tranne che delle volgarità, di quel viso
alzato, rischiarato dal pallore di quella neve partico
lare che c’è dopo le tormente, e del soavissimo, ine
sprimibile tono di quel volto, pure simile a quella
neve, insomma del viso di una giovane bellissima
donna che abbia respirato camminando l’aria nevosa
e che a un tratto vi abbia fatto una dichiarazione
d ’amore e aspetti da voi una risposta a questa di
chiarazione? Che cosa ho detto dei suoi occhi? Vio
letti? Non è questo, non è questo, certo che non è
questo, non va affatto bene. E le labbra semiaperte?
E l’espressione, l’espressione di tutto ciò insieme, cioè
del viso, degli occhi e delle labbra? E il lungo mani
cotto di martora, in cui erano nascoste le sue mani,
e le ginocchia che si disegnavano sotto non so quale
stoffa scozzese verdeazzurra a scacchi? Dio mio, ma
si può forse anche sfiorare con le parole tutto ciò?
E sopra tutto, sopra tutto: che cosa si poteva rispon
dere a questa dichiarazione da cadérne in terra, tanto
era inaspettata, piena di orrore e di felicità, all’espres
sione di attesa di quel viso confidentemente alzato,
598 IDA
impallidito e contratto (dal turbamento, da una spe
cie di sorriso)?
Noi tacevamo, pure non sapendo che cosa dire,
che cosa rispondere a tutte queste domande, guar
dando con stupore gli occhi scintillanti e il viso rosso
del nostro amico. Ed egli rispose a se stesso:
— Nulla, nulla, proprio nulla! Ci sono dei mo
menti, in cui non si può proferire nemmeno un
suono. E, per fortuna, a gran lode del nostro viag
giatore, egli non proferì nemmeno un suono. Ed el
la comprese il suo irrigidimento, ella vide il suo
viso. Dopo aver aspettato qualche tempo, dopo aver
indugiato immobilmente in mezzo all’assurdo e pau
roso silenzio che seguì alla sua terribile domanda,
ella si alzò e, estratta la mano tiepida dal tiepido
odoroso manicotto, gli cinse il collo e lo baciò soa
vemente e fortemente con uno di quei baci che poi
si ricordano non solo fino alla bara, ma anche dentro
la tomba. Sì, e nient’altro: lo baciò e se ne andò.
E così finì tutta questa storia... E poi, basta di ciò —
disse il compositore cambiando bruscamente tono, e
ad alta voce, con simulata allegria soggiunse: —- E
beviamo in quest’occasione da fiaccarci il collo! Be
viamo alla salute di tutti quelli che ci hanno amato,
di tutti quelli che noi, idioti, non abbiamo apprez
zato, con cui siamo stati felici, beati, e dai quali poi
ci siamo divisi, dispersi nella vita per sempre e per
i secoli, e coi quali tuttavia siamo congiunti per i
secoli dal più terribile vincolo del mondo! E accor
diamoci così: a chi aggiungerà una sola parola a
tutto quanto è stato esposto lancerò nel cranio que
sta stessa bottiglia di sciampagna. Inserviente! —
IDA 599
gridò per tutta la sala: — Portate la zuppa di pe
sce! E dello Xeres, dello Xeres, una botte di Xeres,
ch’io ci possa affondare il muso addirittura con le
corna!
La colazione si protrasse quel giorno fino alle un
dici di sera. E poi andammo da Jar, e di là alla
Strieina, dove prima dell’alba mangiammo le frit
telle, dopo aver ordinato la v o d k a più ordinaria, sug
gellata con la ceralacca rossa, e ci comportammo in
complesso scandalosamente: mangiammo, urlammo
e danzammo persino il k asacio k . Il compositore dan
zò in silenzio, con ferocia e entusiasmo, con una
leggerezza insolita per la sua figura. E volavamo
in t rò jk a verso casa già sul far della mattina, terri
bilmente gelida e rosea. E quando stavamo oltrepas
sando il monastero della Passione, si mostrò da dietro
ai tetti un sole rosso di ghiaccio e dal campanile si
staccò il primo rintocco che parve il più pesante e
magnifico e che scosse tutta la gelida Mosca, e il
compositore a un tratto si strappò di testa il berretto
e con quanta forza aveva, tra le lacrime, gridò per
tutta la piazza:
—- Sole mio! Amata mia! Urrà!
Titolo originale:
s ò l n i e c ’n y i u d à r
Traduzione di Rinaldo Kiifferle
Prima edizione: Parigi 1927
Prim a edizion e italian a: M ilan o 1934
Dopo pranzo uscirono dalia sala, inondata di luce
vivida e calda, in coperta e si fermarono presso il
parapetto. Ella chiuse gli occhi, si appoggiò alla
guancia una mano con la palma in fuori, rise di un
riso semplice, incantevole - tutto era incantevole in
quella graziosa donnina — e disse:
— Sono del tutto ubriaca... Sono del tutto impaz
zita. Di dove siete sbucato? Tre ore fa non sospet
tavo nemmeno la vostra esistenza. Non so nemmeno
dove abbiate preso il battello. A Samara? Ma non
importa, siete caro. È la mia testa che gira o svol
tiamo da qualche parte?
Davanti c’erano il buio e i lumi. Dal buio batteva
in viso un vento forte, morbido, e i lumi volavano
chi sa dove in disparte: il battello con l’eleganza
propria del Volga descriveva un ampio semicerchio,
avvicinandosi a un piccolo imbarcadero.
Il tenente prese la mano di lei, se la portò alle
labbra. La mano, piccola e forte, odorava di pelle
abbronzata dal sole. E beatamente e paurosamente
il cuore gli diede un tuffo al pensiero di come, pro
babilmente, fosse salda e abbronzata ella tutta sotto
quel leggero abito di tela dopo essere stata sdraiata
un mese intero sotto il sole del Sud, sulla calda sab
604 UN COLPO DI SOLE
bia marina (ella aveva detto che veniva da Anapa).
Il tenente borbottò:
— Scendiamo...
— Dove? — chiese ella stupita.
— Qui.
— Perché?
Egli non rispose. Ella appoggiò di nuovo il dorso
della mano alla guancia ardente.
— Pazzo...
— Scendiamo — ripetè egli ottusamente. — Vi
supplico...
— Ah, ma fate come volete -— diss’ella, volgen
dogli le spalle.
Il battello urtò di rincorsa con un morbido tonfo
contro l’imbarcadero fiocamente rischiarato, ed essi
per poco non caddero uno addosso all’altro. Sulle
teste passò di striscio il capo della gomena, poi la
nave rinculò e l’acqua ribollì con rumore, strepitò
la passerella... Il tenente si precipitò a prendere i
bagagli.
Dopo un minuto essi attraversarono un assonnato
stambugio di ufficio, uscirono sulla sabbia profonda
fino al malleolo e in silenzio montarono su una
carrozza a nolo. Il pendìo in salita, fra i radi fa
nali storti, sulla strada soffice di polvere sembrò in
terminabile. Ma ecco che, giunti in alto, entrarono
con fragore sul selciato, ecco chi sa quale piazza,
con gli edifici pubblici, la torre, il caldo e gli odori
della notturna estiva città distrettuale... Il vetturino
si fermò davanti a un ingresso illuminato, dietro la
cui porta aperta saliva ripida una vecchia scala di
legno, un vecchio cameriere, non raso, in camicia
UN COLPO DI SOLE 605
rosa e soprabito, prese con aria scontenta la roba e
andò avanti coi piedi frusti. Entrarono in una stanza
ampia, ma terribilmente afosa, che il sole aveva for
temente arroventata durante il giorno, dalle bian
che tendine abbassate alle finestre e con due candele
intatte sulla specchiera, e non appena furono en
trati e il cameriere ebbe richiuso l’uscio, il tenente
si lanciò con tanto impeto verso di lei e tutti e due
soffocarono così furiosamente nel bacio che per mol
ti anni ricordarono poi quel momento: mai più, né
l’uno né l’altro, provarono nulla di simile in tutta
la vita.
Alle dieci di una mattina di sole, calda, felice,
con scampanìo di chiese, con la fiera in piazza da
vanti all’albergo, con gli odori di fieno, di catrame
e di nuovo di tutto quel complesso odoroso di cui
odora ogni città distrettuale russa, ella, questa pic
cola donna, rimasta senza nome, che, scherzando, si
chiamava la bella sconosciuta, partì. Avevano dormi
to poco, ma, quando ella fu uscita da dietro il para
vento presso il letto, dopo essersi lavata e vestita in
cinque minuti, era fresca, come una diciassettenne.
Era confusa? No, assai poco. Era semplice come pri
ma, allegra e, ormai, ragionevole.
— No, no, caro — disse in risposta alla preghiera
di lui di proseguire insieme il viaggio: — no, voi
dovete restare fino al battello seguente. Se partiamo
insieme, tutto sarà guastato. Mi riuscirà molto spia
cevole. Vi do la parola d’onore che non sono affatto
quello che potete aver pensato di me. Non mi è suc
cesso mai nulla di simile a quello ch’è accaduto, e
non mi succederà più. È come se mi si fosse offu
606 UN COLPO DI SOLE
scata la ragione... O, più esattamente, abbiamo rice
vuto tutti e due qualcosa come un colpo di sole...
E il tenente chi sa come non stentò a darle ragio
ne. In uno stato d’animo leggero e felice l’accompa
gnò fino all’imbarcadero, per l’appunto alla partenza
del roseo “Rapido”, in presenza di tutti la baciò in
coperta e fece appena in tempo a saltare sulla passe
rella ch’era stata già mossa.
Altrettanto leggero, spensierato, egli tornò in al
bergo. Però, qualcosa era già cambiato. La stanza
senza di lei parve del tutto diversa da quando c’era
lei. Era ancora piena di lei, e vuota. Era strano!
Cer a ancora l’odore della sua buona acqua di Co
lonia inglese, stava ancora sul vassoio la sua tazza
di tè lasciata a metà, e lei non c’era più... E il cuore
del tenente si strinse di una tale tenerezza ch’egli si
affrettò ad accendere una sigaretta e, battendosi i
gambali col frustino, camminò alcune volte su e giù
per la stanza.
— Una strana avventura! — disse ad alta voce,
ridendo e sentendo che gli occhi gli si velavano di
lacrime. — « Vi do la parola d ’onore che non sono
affatto quello che potete aver pensato di me... » Ed
è già partita... Una donna assurda!
Il paravento era scostato, il letto non ancora ri
fatto. Ed egli sentì che non aveva semplicemente
la forza di guardare ormai quel letto. Lo nascose
col paravento, chiuse le finestre per non udire il vocìo
della fiera e il cigolìo delle ruote, calò le bianche
tendine increspate, sedè sul divano... Sì, ecco ch’era
finita quell’« avventura di viaggio »! Ella era partita
e ormai era lontana, se ne stava, probabilmente, in
UN COLPO DI SOLE 607
un bianco salone a vetri o in coperta e guardava
l’enorme fiume, lucente al sole, le zattere di passag
gio, i gialli banchi di sabbia, la splendida lontananza
dell’acqua e del cielo, tutto quello smisurato spazio
del Volga... E addio, e ormai per sempre, per i se
coli... In quanto che dove ormai potevano incontrar
si? “Non posso mica” pensò egli “non posso mica
di punto in bianco arrivare in quella città, dove sono
suo marito, la sua bambina di tre anni, tutta la sua
famiglia insomma e tutta la sua vita abituale!” E
quella città gli parve chi sa quale particolare città
preclusa, e l’idea ch’ella vi sarebbe vissuta in soli
tudine, ricordandolo, forse, spesso, ricordando il loro
incontro fortuito, così fugace, ed egli non la avrebbe
mai rivista, quest’idea lo sorprese e lo colpì. No,
non poteva essere! Sarebbe stato troppo strano, in
naturale, inverosimile! Ed egli avvertì un tale do
lore e una tale inutilità di tutta la propria vita ulte
riore senza di lei che fu preso dall’orrore, dalla di
sperazione.
“Che diavolo!” pensò, alzandosi, mettendosi di
nuovo a camminare per la stanza e cercando di non
guardare il letto dietro il paravento. “Ma che cosa
ho? Parrebbe, non è la prima che... ed ecco... Ma
che cos’ha lei di particolare e che cosa propriamente
è successo? In realtà, qualcosa come un colpo di so
le! E sopra tutto, come farò a trascorrere ora, senza
di lei, un giorno intero in questo luogo fuor di ma
n o?”
La ricordava ancora tutta, con tutti i suoi minimi
particolari, ricordava l’odore della sua pelle abbron
zata dal sole e dell’abito di tela, il suo saldo corpo,
608 UN COLPO DI SOLE
il suono vivo, semplice e gaio della sua voce... Il
sentimento delle delizie appena provate di tutta la
sua bellezza femminile era ancora straordinariamente
vivo in lui, ma ora l’essenziale era tuttavia questo
secondo sentimento, del tutto nuovo, quello strano,
incomprensibile sentimento che non c’era stato affat
to, finché erano insieme, ch’egli non avrebbe nem
meno potuto immaginarsi, allacciando il giorno pri
ma questa, com’egli credeva, solo spassosa conoscen
za, e di cui ormai non c’era da dir nulla a nessuno!
“E sopra tutto” pensò “non lo potrò dire mai! E che
cosa fare, come trascorrere questa giornata senza fine,
con questi ricordi, con questo tormento insolubile,
in questa cittadina dimenticata da Dio su quello stes
so splendido Volga, lungo il quale l ’ha portata via
quel roseo battello!”
Bisognava salvarsi, occuparsi, distrarsi in qualche
modo, andare in qualche luogo. Egli si mise risolu
tamente il berretto, prese il frustino, attraversò rapi
damente, facendo tinnire gli speroni, il vuoto corri
doio, corse giù per la ripida scala all’ingresso... Sì,
ma dove andare? Davanti all’ingresso stava un vet
turino, giovane, dalla giubba svelta, e fumava tran
quillamente una sigaretta, evidentemente aspettando
qualcuno. Il tenente guardò smarritamente e con stu
pore: come si poteva starsene così tranquillamente
a cassetta, fumare e in generale essere semplici, in
curanti, indifferenti? “Devo essere solo io così terri
bilmente infelice in tutta questa città” pensò, diri
gendosi alla fiera.
La fiera già si scioglieva. Egli si aggirò chi sa
perché sul fresco concime tra i carri, tra i carri coi
UN COLPO DI SOLE 609
cetrioli, tra le nuove pentole e i tegami di coccio,
e le donne, sedute in terra, lo chiamavano a gara,
prendevano in mano i tegami e vi tamburellavano
sopra con le dita, mostrandone la buona qualità, i
contadini lo assordivano, gli gridavano : « Ecco ce
trioli di prima qualità, vossignoria! ». Tutto ciò era
così stupido, assurdo, ch’egli fuggì dalla fiera. En
trò nella cattedrale, dove cantavano già forte, alle
gramente e risolutamente, con la coscienza del dovere
compiuto, poi camminò a lungo, si aggirò nel pic
colo, caldo e abbandonato giardino sulla riva sco
scesa, sulla distesa color acciaio chiaro del fiume a
perdita d ’occhio... Le spalline e i bottoni della sua
divisa bianca da estate erano così arroventati che non
si potevano toccare. La fodera del berretto era in
zuppata di sudore, il viso ardeva... Tornato in al
bergo, egli entrò con delizia nella grande e vuota,
fresca sala da pranzo al pian terreno, con delizia si
tolse il berretto e sedette a un tavolino presso la fine
stra aperta, in cui irrompeva il caldo ma tuttavia ali
tava l’aria, e ordinò una zuppa di pesce e di legumi
in ghiaccio. Tutto era bello, in tutto era una smi
surata felicità, una grande gioia, persino in quell’afa
e in tutti gli odori della fiera, in tutta quella citta
dina sconosciuta e in quel vecchio albergo distret
tuale era essa, questa gioia, e nello stesso tempo il
cuore si spezzava addirittura. Egli bevve alcuni bic
chierini di v o d k a, mangiando poi cetrioli poco salati
col finocchio e sentendo ch’egli, senza esitazione, sa
rebbe morto il giorno dopo, se fosse stato possibile
con qualche miracolo farla ritornare, passare con lei
ancora un giorno solo, quello, passarlo solo per que-
610 UN COLPO DI SOLE
sto, per dirle e dimostrarle in qualche modo, per
suaderla com’egli l’amasse tormentosamente con tra
sporto... Perché dimostrare? Perché persuadere? Egli
non sapeva perché, ma ciò era più necessario della
vita.
— I nervi sono del tutto all’aria — disse, versan
dosi il quinto bicchierino di v o d k a.
Vuotò un’intera bottiglia, sperando d’inebriarsi,
di stordirsi, sperando che, finalmente, quello stato
tormentoso e esaltato si sarebbe risolto... Ma no, esso
si rafforzava sempre più.
Egli respinse da sé la zuppa fredda, chiese un caf
fè nero e cominciò a fumare e a pensare con ten
sione: che cosa doveva fare ora, come liberarsi da
quest’improvviso, inaspettato amore? Ma liberarse
ne — egli lo sentiva troppo vivamente - era impos
sibile. Ed egli a un tratto si alzò di nuovo rapida
mente, prese il berretto e il frustino e, dopo aver do
mandato dove fosse la posta, andò là frettolosa
mente con la frase di un telegramma già pronta nel
la testa: “Da oggi tutta la mia vita è vostra, è in
vostro potere per sempre, fino alla tomba” . Ma giun
to al vecchio edificio dai muri massicci, dov’erano la
posta e il telegrafo, si fermò inorridito: egli sapeva
la città, in cui ella abitava, sapeva ch’ella aveva ma
rito e una figlia di tre anni, ma non sapeva né il
cognome, né il nome di lei! Glielo aveva chiesto
alcune volte il giorno prima a pranzo e in albergo,
ed ogni volta ella rideva e diceva : « Ma perché vi
occorre sapere chi sono? Sono Maria Marievna, prin
cipessa d’oltremare... La bella sconosciuta insomma...
Non vi basta, forse? ».
UN COLPO DI SOLE 611
Sull’angolo, accanto alla posta, c’era una vetrina
fotografica. Egli guardò a lungo il ritratto di un mi
litare dalle grosse spalline, dagli occhi sporgenti,
dalla fronte bassa, dalle fedine sorprendentemente
magnifiche e dal petto vastissimo, tutto adorno di
onorificenze... Com’è strano, com’è assurdo, pauroso
quello ch’è di tutti i giorni, quello ch’è consueto,
quando il cuore è colpito - sì, colpito, egli ora lo
capiva - da questo terribile « colpo di sole », da un
amore troppo grande, da una troppo grande felicità!
Egli gettò uno sguardo su una coppia di novelli
sposi - un giovanotto in lungo soprabito e con la
cravatta bianca, dai capelli tagliati a spazzola, sul
l’attenti a braccetto di una fanciulla col velo di spo
sa - portò gli occhi sul ritratto di una graziosa e
provocante signorina col berretto studentesco sulle
ventitré... Poi, languendo di una tormentosa invidia
verso tutte queste persone a lui sconosciute le quali
non soffrivano, si mise a guardare con tensione lun
go la strada.
“Dove andare? Che cosa far e?” gli stava nella
testa e nell’anima l’insolubile opprimente doman
da.
La strada era perfettamente deserta. Le case era
no tutte eguali, bianche, a due piani, case di mer
canti, con grandi giardini, e pareva che in esse non
ci fosse anima viva; una polvere bianca, densa era
stesa sul selciato; e tutto ciò abbagliava, tutto era
inondato dal sole caldo, infocato e gioioso, ma che
qui sembrava senza scopo. In lontananza la strada
saliva, s’incurvava e s’impuntava contro il cielo puro,
senza nuvole, grigiastro, dal riflesso lilla. In questo
612 UN COLPO DI SOLE
c’era qualcosa di meridionale che ricordava Seba
stopoli, Kerc... Anapa. Ciò era particolarmente inso
stenibile. E il tenente, a capo chino, socchiudendo
gli occhi per la luce, guardandosi assorto i piedi,
barcollando, inciampando, impigliandosi con uno
sperone contro l’altro, s’incamminò indietro.
Tornò all’albergo, così affranto di stanchezza, co
me se avesse compiuto un’enorme traversata in qual
che regione del Turchestan, del Sahara. Raccoglien
do le ultime forze, entrò nella sua grande e vuota
stanza. La stanza era già stata messa in ordine, pri
vata delle ultime tracce di lei; solo una forcella, da
lei dimenticata, giaceva sul tavolino da notte! Egli
si tolse la giubba e si guardò allo specchio: il suo
viso, un comune viso da ufficiale, abbronzato, coi
baffi bianchicci, arsi dal sole, e la bianchezza cele
stagnola degli occhi, i quali parevano ancor più bian
chi per l’abbronzatura, aveva ora un’espressione ec
citata, folle, e nella bianca e fine camicia col duro
colletto inamidato c’era qualcosa di molto giovanile
e di profondamente infelice. Egli si sdraiò sul letto,
supino, con le scarpe impolverate. Le finestre erano
aperte, le tendine abbassate, e un leggero venticello
di quando in quando le gonfiava, alitava nella stanza
l’afa e l’odore dei tetti arroventati e di tutto quel
mondo luminoso del Volga, ora affatto deserto, si
lenzioso e spopolato. Egli giaceva, con le mani die
tro la nuca, e guardava fisso nel vuoto davanti a sé.
Nella testa gli stava un quadro confuso del lontano
Sud, del sole, del mare, di Anapa, si disegnava qual
cosa di fiabesco, quella città che pareva non rasso
migliare ad alcun’altra, in cui, probabilmente, ella
UN COLPO DI SOLE 613
era già arrivata, e maturava l’ostinata idea del suici
dio. Egli chiuse le palpebre, sentendo come di sotto
ad esse colassero acute, ardenti lacrime sulle guance,
e finalmente si addormentò, e quando riaprì gli oc
chi, dietro le tendine rosseggiava ancora giallognolo
il sole vespertino. Il vento si era calmato, nella stanza
l’aria era soffocante e secca, come in un forno... E
la vigilia e la mattina di quel giorno gli tornarono
alla memoria, come se fossero stati dieci anni in
nanzi.
Egli si alzò senza fretta, senza fretta si lavò, sol
levò le tendine, sonò il campanello e chiese il saìn o -
v ar e il conto, a lungo bevve il tè col limone. Poi
ordinò di chiamare il vetturino, di portar fuori la
roba e, salendo in carrozza, sul suo rossiccio sbia
dito sedile, diede al cameriere cinque rubli di man
cia.
— Ma mi pare, vossignoria, di esser stato io an
che a portarvi iersera! — disse allegramente il vet
turino, dando di piglio alle redini.
Quando furono discesi all’imbarcadero, già azzur
reggiava sul Volga la notte estiva, e già molti lumi
cini multicolori erano sparsi sul fiume, e i lumi
pendevano sugli alberi del battello che si avvicina
va.
— Vi ho portato a destinazione in tempo giusto!
— disse il vetturino in tono obbligante.
Il tenente diede anche a lui cinque rubli, prese il
biglietto, passò all’imbarcadero... Così, come il gior
no prima, ci fu un morbido tonfo al suo approdo e
un leggero capogiro per l’instabilità sotto i piedi, poi
il volo di un capo della gomena, il rumore dell’ac
614 UN COLPO DI SOLE
qua ribollente e sospinta in avanti sotto le ruote del
battello che aveva rinculato alquanto... E si ebbe una
sensazione insolitamente accogliente, piacevole dalla
animazione di quel battello ch’era già tutto illumi
nato e odorante di cucina.
Dopo un minuto, riprese la corsa, in su, nella dire
zione in cui era stata portata via anche lei la mat
tina.
L’oscuro tramonto estivo si spense lontano avanti,
riflettendosi cupo, sonnacchioso e variopinto nel fiu
me che ancora riluceva di tremula increspatura sotto
di esso, sotto quel tramonto, e fluivano, e fluivano
indietro i lumi sparsi nel buio intorno.
Il tenente sedeva in coperta sotto la tettoia, senten
dosi invecchiato di dieci anni.
Tit olo or igin ale:
RO MAN GO RBUNÀ
Traduzion e di Rin aldo Kü fïer le
Prim a edizion e: Parigi 1927
Prim a edizion e italian a : Milan o 1934
Un gobbo ricevè una lettera anonima d ’amore,
l’invito a un appuntamento:
« Trovatevi sabato, dodici aprile, alle sette di sera,
nel giardino in piazza del Duomo... Sono giovane,
ricca, libera e, perché nasconderlo?, conosco da un
pezzo, amo da un pezzo voi, il vostro sguardo altero
e triste, la vostra fronte nobile, intelligente, la vo
stra solitudine... Voglio sperare che anche voi, forse,
troverete in me un’anima affine... I miei contrassegni
sono un abito inglese grigioscuro, nella mano sini
stra un ombrellino di seta lilla, nella destra un maz
zolino di viole... »
Ë facile immaginare com’egli fosse stato scosso,
come avesse atteso il sabato: la prima lettera d’amore
in tutta la vita! Il sabato andò dal parrucchiere, si
comprò un paio di scarpe nuove, i guanti, la cravat
ta; a casa, abbigliandosi davanti allo specchio, aveva
annodato senza fine questa cravatta con le dita lun
ghe, sottili, fredde e tremanti dall’agitazione; sulle
sue guance, sotto la pelle sottile, si era diffuso un
bel colore maculato, i magnifici occhi si erano incu
piti... Poi sedè in poltrona, come un ospite, come un
618 IL ROMANZO DI UN GOBBO
estraneo nella sua propria abitazione, e cominciò ad
aspettar l’ora fatale. Finalmente, in sala da pranzo la
pendola suonò gravemente, quasi minacciosamente le
sei e mezzo. Egli si alzò contenuto, senza fretta si
mise in anticamera soprabito e cappello da mezza
stagione, prese il bastone e lentamente uscì di casa.
In strada, però, non potè più dominarsi: accelerò i
passi delle gambe lunghe e sottili, con tutto il sus
siego provocante, proprio del gobbo, ma trepidando
tutto internamente, di quella timidezza, di quella
paura, con cui sempre pregustiamo la felicità. Ma
quando ebbe raggiunto la mèta, quando fu entrato
nel giardino presso il duomo, a un tratto s’irrigidì
sul posto: incontro a lui, nella rosea luce del crepu
scolo primaverile, a passi egualmente lunghi e com
passati si affrettava col suo grigioscuro abito inglese
e un grazioso cappellino, di foggia maschile, con
l’ombrellino nella mano sinistra e con le viole nella
destra, una gobba.
Titolo origin ale :
KRÀ SN YIE FONAR!
Traduzion e di Rin aldo Kü ffer le
Prim a edizion e: Parigi 1927
Prim a edizion e italian a: M ilan o 1934
Calava la sera, tiepida, afosa. Nelle chiese sona
vano i vespri, sul vecchio ponte di legno attraverso
il fiumicello asciutto, con strepito, rotavano le car
rozze a nolo, verso la stazione, al treno serale. Uno
scolaro della seconda ginnasiale, senz’arrivare al pon
te, svoltò e si avviò lungo le case sulla riva stretta
e ineguale. Quelle case erano del tutto particolari,
insolite, turbavano paurosamente: al di sopra dei lo
ro ingressi pendevano grandi lanterne rosse, e lo sco
laro sapeva già che cosa significassero. Fermatosi da
vanti a una di esse, presso il parapetto di legno sullo
scoscendimento verso il fiumicello, cominciò a far fin
ta di esser lì a trastullarsi per ozio: ora montava sul
parapetto - col di dietro — ora smontava, e nello
stesso tempo guardava sempre la casa e aguzzava gli
orecchi.
Ah, come tutto era bello, com’era interessante!
Giù, nel piano seminterrato, se ne stava presso la
finestrella aperta un sottufficiale dai baffi rossicci,
visibile solo fino alla cintola, senza uniforme, con
la sola camicia di cotone variegata. Egli cuciva una
scarpa, infilava e tirava lo spago impeciato e diceva
forte :
— Che cos’hai da far festa, da far l’insolente?
622 LANTERNE ROSSE
Perché ti cacci in una compagnia che non è tua,
quando ho degli ospiti, ignorante? Be’, aspetta, dam
mi tempo, aggiusterò i conti con te!
E qualcuno con voce acuta, ributtante, gli rispose
dal fondo della stanza:
— Cianci! Di nuovo cianci a vànvera! Non sono
uscita, ho bevuto il tè dietro l’armadio!
E sul pianerottolo della scala esterna della casa
c’era una tavola ingombra di scure bottiglie di birra,
e a tavola sedevano un robusto barbuto omaccione
in panciotto e una ragazza in vestaglia rossa e con
delle vecchie scarpe da uomo sui piedi scalzi. Ella,
con le incantevoli braccia nude puntate sulla tavola,
diceva rapidamente qualcosa e rideva in modo pro
vocante. E a un tratto l’uomo che fino allora aveva
taciuto cupo e grave balzò dal posto e, rovesciando
le bottiglie, afferrò la ragazza per la treccia. E un’al
tra, con una camiciola di seta color limone, seduta
prima a rosicchiare i semi di girasole sotto la fine
stra presso la scala esterna, apparve con un grido
sulla soglia e si precipitò a battere l’uomo coi pu
gni nella testa, poi lo afferrò per i folti capelli fulvi
e lo tirò attraverso la tavola. Quello si svincolò, cad
de all’indietro sulla sedia e, alzando in alto le brac
cia, disse con voce inaspettatamente calma:
— Be’, be’, basta, basta! Pagherò tutto...
E una terza ragazza, dalla faccia larga, dal naso
all’insù, in vestaglia di batista di un celeste pallido,
camminava, agitando incantevolmente quella vesta
glia, su e giù lungo il marciapiede e canterellava
qualcosa pensosamente, languidamente. Davanti a lei
correva qua e là un cagnolino dal pelo arruffato. E
LANTERNE ROSSE 623
un commesso che passava di là, venendo incontro al
la ragazza, incantato dalla sua vestaglia e dai piedi
nudi nelle scarpette leggere, ebbe il ghiribizzo di
scherzare, le chiese giocosamente:
— E non si potrebbe portarvi con questo cagno
lino alla sezione di polizia per simili passeggiate?
Ma la ragazza passò oltre fieramente, senza guar
darlo, e di punto in bianco tagliò corto, dilatando
le narici:
— Che non abbiano ad arrestare te, imbecille che
sei!
22.
Titolo originale:
KNIGA
Tradu zion e di Rin aldo KüfFerle
Prim a edizion e: Parigi 1927
Prim a edizion e italian a: M ilan o 1934
Sdraiato sull’aia in un mucchio di pula, ho letto
a lungo e a un tratto mi sono annoiato, anzi indi
gnato. Di nuovo leggo sin dalla mattina, di nuovo
sono col libro in mano! E così di giorno in giorno
sin dall’infanzia! Ho vissuto mezza vita in un mon
do inesistente, tra gente che non è mai stata, imma
ginaria, agitandomi delle sue sorti, delle sue gioie
e tristezze, come delle mie proprie, essendomi legato
fino alla tomba con Abramo e Isacco, coi pelasgi e
gli etruschi, con Socrate e Giulio Cesare, Amleto e
Dante, Gretchen e Ciazki, Sobakevic e Ofelia, Pe-
ciorin e Natascia Rostov! E come faccio ora a di
stinguere tra i compagni reali e immaginari della
mia esistenza terrena? Come dividerli, come definire
i gradi della loro influenza su di me?
L’aia è dietro la tenuta, dietro il villaggio. Io leg
gevo, vivevo delle invenzioni altrui, e il campo, la
tenuta, il villaggio, i contadini, i cavalli, le mosche,
i calabroni, gli uccelli, le nuvole, tutto viveva di una
vita propria, vera. Ed ecco che a un tratto ho sentito
questo e mi sono riscosso dalla suggestione libre
sca, ho gettato il libro nella paglia e con meraviglia
e con gioia, con non so quali occhi nuovi, mi guar
do intorno, vedo acutamente, odo, odoro; sopra tut-
628 IL LIBRO
to, sento qualcosa di straordinariamente complesso,
qualcosa di profondo, di prodigioso, d ’inesprimibile
ch'è nella vita e in me stesso e di cui nei libri non
si scrive mai.
Mentre leggevo, nella natura si compivano segreti
mutamenti. Brillava il sole nell’aria festosa; ora tut
to si è oscurato, acquietato. Nel cielo a poco a poco
si sono raccolte nubi e nuvolette, qua e là, specie a
sud, ancora chiare, belle, e a ponente, oltre il villag
gio, oltre i suoi vincheti, piovose, turchinicce, malin
coniche. Un sentore caldo, molle di lontana pioggia
campestre. Nel giardino canta un rigògolo.
Per l’asciutta strada violetta che si stende tra l’aia
e il giardino ritorna dal camposanto un contadino.
Ha sull’omero una bianca, lucente vanga di ferro
con la terra umida, azzurra appiccicata ad essa. Ha
un viso ringiovanito, sereno. Il berretto è sospinto
all’indietro dalla fronte madida di sudore.
— Sulla mia bambina ho piantato un cespuglio
di gelsomino! — dice egli vivace, passandomi da
vanti. — State sano. Leggete sempre, inventate sem
pre libri?
È felice. Di che? Solo di vivere al mondo, cioè
di compiere la cosa più incomprensibile e miracolosa
al mondo.
Nel giardino canta il rigògolo. Tutto il resto si è
acquietato, si è taciuto, non si odono nemmeno i gal
li. Lui solo canta; emette senza fretta trilli giocosi.
Perché, per chi? Forse per sé, per quella vita, di cui
da cent'anni vivono il giardino, la tenuta, la casa?
O forse la tenuta vive per il suo canto flautato?
« Sulla mia bambina ho piantato un cespuglio di
IL LIBRO 629
gelsomino. » Ma forse che la bambina sa questo?
Al contadino pare che lo sappia e può darsi ch’egli
abbia ragione. Il contadino a sera dimenticherà que
sto cespuglio; per chi, dunque, fiorirà? Eppure fiorirà,
e sembrerà fiorito non per nulla, ma per qualcuno
e per qualcosa.
« Leggete sempre, inventate sempre libri. » Ma
perché inventare? Perché le eroine e gli eroi? Per
ché proprio il romanzo, la novella, il racconto con
l’intreccio e la catastrofe, secondo un dato e conve
nuto modello? L’eterno timore di apparire non ab
bastanza libresco, non abbastanza simile a coloro che
sono celebrati! E l’eterno tormento di tacere sempre,
di non parlare per l’appunto di ciò ch’è veramente
tuo e unicamente reale, di ciò che più legittimamente
esige un’espressione, cioè una traccia, un’incarnazio
ne e la sopravvivenza magari nella parola!
Titolo origin ale :
MO RDÒ VSKI SARAFÀN
Tradu zion e di Rin aldo Küfïerle
Prim a edizion e: Parigi 1927
Prim a edizion e italian a: Milan o 1934
Perché, propriamente, vado da lei, da questa don
na strana e per di più incinta? Perché ho allacciato e
mantengo un’altra conoscenza inutile? Qui, natural
mente, c’è poco da indagare, eppure è una visita
stupida. Stupida, falsa e in generale spiacevole. Di
nuovo ci siamo incontrati ieri al Leontievski e di
nuovo, un sorriso gioioso, un minuto di conversa
zione sconnessa, impacciata, e poi una forte stretta
di mano e la preghiera:
— Venite qualche volta a veglia! Ne sarò lieta di
cuore. Venite, quando volete, sono sempre in casa.
Venite domani, vi mostrerò la mia nuova vestaglia
a ricami...
Ed ecco che ci vado di nuovo ed anzi chi sa per
ché mi affretto.
Mi soffia incontro un vento umido di marzo. Su
Mosca una nera notte primaverile. Davanti a me
splendono nitidi i fanali. In alto, nel cielo neraz
zurro, biancheggiano nuvole gonfie, illuminate di sot
to dalla città. A destra si perdono in esse le cupole
delle chiese che rilucono misteriosamente con la vec
chia doratura. E da ogni parte guardano rossigni gli
innumerevoli occhi delle case che paiono enormi nel
l’oscurità.
634 VESTAGLIA A RICAMI
Naturalmente, ha di nuovo aspettato tutto il gior
no, si preparava, è andata a comprare la frutta e i
biscotti, si è abbigliata... In generale, si è immagi
nata, a quanto pare, che la sua vita abbia a un tratto
acquistato chi sa quale gioioso interesse, che si sia
trovato un uomo « sensibile » che, finalmente, ap
prezzerà la sua anima non apprezzata dal marito.
Al pensiero di tutto ciò provo una tale vergogna che
vorrei svoltare e correre indietro.
Però, ecco anche l’ingresso. Un vestibolo medio
cre, abbastanza poveramente rischiarato, poco dispo
nente alle visite. Un portinaio giovane, in caffettano
senza maniche di cattivo tono. Ho dato appena un
leggero urto, entrando, ch’egli ha subito sollevato
dal di dentro la sua tendina rossa sul finestrino del
la porta e ha guardato fuori con curiosità. Repri
mendo in me l’impaccio, passo oltre con aria indi-
pendente e senza sosta salgo per la stretta scala, co
perta da una passerella consunta. Uh, diavolo, com’è
alto e come in generale tutto ciò è assurdo! Ma fa
lo stesso, ho già sonato. Passi frettolosi dietro la
porta, e la porta viene aperta, e non dalla camerie
ra, ma della stessa padrona.
Di nuovo il sorriso gioioso e, come sempre, chi
sa perché sorpreso, un attimo di confusione reci
proca, e le frasi frettolose, evidentemente preparate
in anticipo:
— Ah, com’è carino che abbiate mantenuto la
promessa, che siate venuto a veglia! Mentre io sono
in perfetta solitudine, ho anzi lasciato andar la do
mestica, perché, sapete, il cinematografo è per loro
VESTAGLIA A RICAMI 635
una vera pazzia... Be’, deponete i paramenti e an
diamo a bere il tè...
E dàlli con questa « veglia »! E per giunta « de
ponete i paramenti », e il bacio senza tatto nella
tempia, quando le ho baciato la mano, e la dichia
razione sull’assenza della domestica. Ormai provo
una vergogna insostenibile; però, entro vispo in sa
lotto, come se nulla fosse, strofinando con disinvol
tura gli occhiali col fazzoletto. E, strofinandoli, pen
so: “Sì, anche i capelli sono pettinati assai bene,
evidentemente dal parrucchiere — dunque avevo ra
gione, mi aspettava, si preparava - e poi questo
vestito color verde palude che scopre un poco i seni
pieni, e la perla fra di essi, e le calze di seta grigia,
e le scarpette di raso...” .
— Sedete, caro Pietro Petròvic, vengo subito...
Ed esce rapidamente. È molto eccitata e, bisogna
dir la verità, tutt’altro che brutta. Non so quale par
ticolare bellezza della gravidanza, un rigoglio me
raviglioso di tutto il corpo. Le labbra sono già leg
germente infiammate, gonfie, ma in compenso sono
magnificamente scuri e scintillanti gli occhi.
Con un sospiro casco con tutto il mio peso sul
divano. L’arredamento è, naturalmente, il solito: un
pianoforte nero verticale aperto, al di sopra di esso
il ritratto del terribile Beethoven dagli zigomi larghi,
lì accanto una grande lampada su un alto sostegno
sotto un enorme paralume rosa, davanti al divano un
tavolino, la macchinetta a spirito per la teiera, pa
ste, frutta, coltellini dorati; e sulle poltrone in pose
spezzate e impotenti giacciono i pupazzi :. una donna
in vestaglia giallorossa, un bravaccio con la camicia
636 VESTAGLIA A RICAMI
russa color fuoco, con un panciotto di felpa e un ton
do cappello dalle penne di pavone, una marchesa con
la parrucca bianca di bambagia, un arlecchino, Co
lombina...
— Be’, eccomi.
Mette la teiera sulla macchinetta a spirito, l’ac
cende, raccoglie dalle poltrone i giocattoli e con un
sorriso me li butta sulle ginocchia:
— I miei nuovi capolavori. Ammirateli e criti
cate.
Ammiro: per un’apparenza d’interesse, di atten
zione e di spassionatezza, escogito dei piccoli appun
ti, alternandoli con l’adulazione. Ella versa il tè -
« Lo desiderate più forte, nevvero? » - e con un
sorriso mi porge la tazza, scartando il mignolo. E
comincia la conversazione, se pure si può chiamarla
così, perché parla, di solito, lei sola. Di che? Di
quello di cui parla sempre. Da prima dei giocattoli
ch’io non posso soffrire, ma che continuo a osser
vare anche durante il discorso, perché sono « la sua
passione, la sola cosa che le serva di sollievo all’ani
ma, creata in sostanza unicamente per l’arte », poi
del marito che finora non ho visto nemmeno una vol
ta e di cui ella parla con una falsa gaiezza — « dor
me fino alle dieci, va in ufficio, pranza, dorme di
nuovo e di nuovo se ne va! » - e, finalmente, del
suo primo bambino, morto. Parla solo di sé. Di me,
nemmeno per convenienza, non dice mai sillaba, non
ha finora e non mostra alcuna intenzione di sapere
chi sia, che cosa sia, dove sia impiegato, se sia am
mogliato o scapolo...
Oggi è eccitata particolarmente. Ed è eccitata e
VESTAGLIA A RICAMI 637
pare molto allegra. Parla senza tregua, con una stra
ordinaria espressività e con una tale esigenza di at
tenzione che presto comincio a intontirmi, a irrigi
dirmi e non faccio che sorridere insensatamente e
smarritamente. D ’improvviso ella salta su - « ah, mi
ero dimenticata la cosa principale! » - e scompare
per un attimo nella stanza attigua e ritorna con un
sorriso trionfante:
— V o ilà! E tutto con le mie mani! È bello, nev-
vero?
Ha in mano qualcosa di strano e di pauroso: una
lunga palandrana di rozza tela campagnola con ap
plicazioni e ricami sulle spalle, sulle maniche, sul
petto e sull’orlo inferiore di seta color marrone scu
ro e indaco. Ella me la mostra per ogni verso, se
l’accosta alla persona, ai suoi seni pieni e al ventre
tondeggiante, e interrogativamente e gioiosamente
mi guarda. Mi alzo e di nuovo con simulata atten
zione osservo, mi entusiasmo, e nel frattempo non ne
posso semplicemente più: qualcosa di tetro, di an
tico, e quasi di sepolcrale è in questa palandrana,
qualcosa di pauroso e di molto sgradevole suscita es
sa in me in relazione con la gravidanza e con la tra
gica gaiezza della donna. “Probabilmente, morirà di
parto” penso. In generale, ella è sulla soglia o di
qualche grave disgrazia o della pazzia.
Dopo aver gettato la vestaglia sul pianoforte, ella
siede di nuovo in poltrona accanto a me, senza di
stogliere da me gli occhi dilatati, comincia a parlare
dei propri sentimenti verso il suo futuro bambino.
Sono insoliti, inesprimibili, questi sentimenti. Il suo
primogenito, il quale è « bruciato così fulmineamen
638 VESTAGLIA A RICAMI
te nel fuoco di questa cosa prodigiosa e incompren
sibile che si chiama vita, il quale è scomparso da
questo mondo, dopo aver appena aperto su di esso
il suo sguardo incantevolmente gioioso, ha suscitato
in lei qualcosa di tale ch’ella non dimenticherà fino
alla tomba ». Ora lei « con orrore ed entusiasmo
avverte in sé una nuova esistenza ed è già piena di
un tale amore, dinanzi a cui qualsiasi amore e spe
cialmente verso l’uomo è sacrilegio, volgarità ». Se
Dio anche per la seconda volta le toglierà quest’amo
re, ella si ucciderà, senza esitare un momento, l’ha
già deciso fermamente... Oppure andrà a rinchiu
dersi in un monastero. L’idea del monastero è una
sua antica, segreta idea. Oh, se non fosse il matri
monio, se non fossero i bambini! Non esiterebbe un
giorno! Già per il solo fatto che per quale cosa mai,
per chi dovrebbe indugiare, per quale cosa mai e per
chi sacrificar se stessa?
— Ditemi, caro, per chi? — mi chiede ardente
mente, fissandomi. — Non , forse, per lui che diffi
cilmente arriva a sospettare ch’io abbia una mia pro
pria vita, le mie gioie e amarezze personali, di cui
non ho da far parte a nessuno in tutto il mondo?
Senza distogliere da me gli occhi, ella tenta di ri
dere, perché, in realtà, pare che suo marito non sia
nemmeno un uomo, ma qualcosa di mostruoso nella
sua smania di dormire alla minima possibilità! Gio
cherellando con la perla sul petto, ella ora si rove
scia sullo schienale della poltrona, ora si spinge in
avanti, mettendo la mano sinistra sul mio ginocchio,
e io sento tutti i suoi odori, del respiro, dei capelli,
del corpo, del vestito. Le sue guance ora ardono, gli
VESTAGLIA A RICAMI 639
occhi sono addirittura magnifici, i movimenti bru
schi, e sul petto, nelle dita, agli orecchi brillano
pietre preziose. E io guardo sempre il suo ventre ton
deggiante sotto il velluto, com’ella accavalcia le gam
be, mostrando fino in alto la sua calza grigia poco
tesa... E a un tratto, avendo compreso ch'è venuto
proprio quel momento, la segreta speranza del quale
mi aveva per l’appunto condotto da lei e non mi ha
lasciato per tutta la sera, prendo la sua mano e, bor
bottando: «Bast a, cara, calm atevi!» l’attiro a me.
Ed ella a un tratto si morde il labbro inferiore, si
porta rapidamente il fazzoletto alle labbra, rapida
mente passa a sedere sul divano e tra le lacrime mi
si abbandona con la testa sul petto...
Me ne ritorno verso le due di notte. Non un’ani
ma per le strade, il vento si è cambiato, si è raffor
zato e odora di mare, in viso mi capitano via via
gocce di pioggia. Le nuvole non biancheggiano più
in alto, una fitta caligine è sospesa su Mosca. E vado
rapidamente avanti, di nuovo contro vento, cammino
come un ubriaco.
“Fuggire, fuggire, domani stesso!” mi sta confitto
nella testa. “A Kiev, a Varsavia, in Crimea, non
importa dove!”
23 a
Tit olo or igin ale:
U SC ’CÈLIE
Tradu zion e di Rin aldo Kiifferle
Prim a edizion e : Parigi 1927
Prim a edizion e italian a: Milan o 1934
Una boscosa gola montana, sul far del tramonto.
Una verde pelle ricciuta di montone calmucco, una
verde pelle di agnello sembra di lontano il folto
bosco che copre i pendii montani di fronte al vil
laggio caucasico. Nel bosco qualcuno ha acceso un
falò, il fumo celestagnolo s’innalza lontano al di so
pra della verde pelle di montone, e il suo odore acre
si mescola alla freschezza mandorlata del bosco.
Il cielo azzurro sopra i monti è chiaro e senza
fondo, solo davanti, dove la gola si chiude, sta obli
qua nell’azzurro una nuvola attorcigliata di batuffoli
bianconivei.
E laggiù, nel villaggio caucasico, suona ininterrot
tamente, piange estaticamente, chiama modulatamen-
te e geme un piffero di corno: un suono gutturale,
selvaggio, malioso e pauroso, ascoltando il quale pen
si agli stambecchi di montagna, al terribile tempo
primaverile della loro passione.
Sono adolescenti tartari che danzano sul tetto di
una capanna: uno se ne sta lì, ha gonfiato le labbra,
ha sbarrato le sclerotiche, suona; altri due, guardan
dosi fissamente negli occhi, con le mani sulle spalle
uno dell’altro, saltellando da stambecchi, pestano for
te i piedi sempre allo stesso posto.
644 UNA GOLA MONTANA
Dove, in quale abisso paradisiaco è fìsso il loro
sguardo teso, gioioso, fermo?
Sulla capanna vicina siede accoccolata, tutta rag
gomitolata e senza distogliere da loro gli occhi, una
bambina-adolescente. Ë magrolina, ma già lunga; non
indossa ancora che la sola camicia, la sua testolina
nera è scoperta; ma gli occhi sono già bellissimi e
paurosi, come quelli di un Arcangelo...
Quale beatitudine da lacerare l’anima è nelle mo
dulazioni e nei gemiti del piffero!
Tit olo origin ale :
ZIKÀDY
Tradu zion e di Rin aldo Küfiferle
Prim a edizion e: Parigi 1927
Prim a edizion e italian a: M ilan o 1934
In villa è buio - l’ora è tarda - e tutto intorno si
scioglie in un ininterrotto mormorio. Ho fatto una
lunga passeggiata sugli scogli a picco sul mare e mi
sono sdraiato in una poltrona di giunchi in terraz
za. Fumo, penso e ascolto, ascolto: in questo mor
morio cristallino c’è non so quale suggestione.
Il notturno abisso azzurro scuro del cielo è riem
pito di stelle multicolori sospese lassù, e tra di esse
splende di un grigio etereo, diafana e pure piena di
stelle, la Via Lattea che in due ineguali pennacchi
di fumo s’inclina verso l’orizzonte meridionale, pri
vo di stelle e perciò quasi nero. La terrazza dà sul
giardino cosparso di ghiaia, rado e basso. Dalla ter
razza si scopre il mare notturno. Pallido, di un ni
tore latteo, esso tace profondamente. E forse perché
tace il mare ho l’impressione che tacciano anche le
stelle. E il monotono tintinnìo cristallino che non si
interrompe un secondo e che zampilla in tutto questo
silenzioso mondo notturno è simile a non so quale
sogno sonoro. Ammaliato di se stesso, par che cre
sca, si allarghi e tuttavia non s’ingrandisce, non si
innalza fino a toccar qualcosa e non si risolve in nul
la. E io giaccio, ascolto e penso, penso.
A che cosa penso?
648 I GRILLI
“Ho deciso di sperimentare con la ragione tutto
quello che si fa sotto il sole; ma questa gravosa oc
cupazione ha dato Dio ai figli degli uomini, perché
si tormentassero... Dio ha creato gli uomini ragio
nevolmente, ma, ahimè, gli uomini si sono abbando
nati a una grande ingegnosità”... E l’Ecclesiaste con
siglia paternamente : « Non essere troppo veritiero e
non indagare troppo »... Ma io mi tormento sempre,
indago sempre. Sono « troppo veritiero ».
A che cosa penso? Quando a un tratto me lo
sono chiesto, volevo ricordare a che cosa precisa-
mente pensassi e ho subito pensato al mio pensiero
e al fatto che questo pensiero, a quanto pare, è la
cosa più sorprendente, più incomprensibile e, senza
dubbio, la più fatale della mia vita. A che cosa
pensavo, che cosa era in me? Come sempre, c’erano
frammenti di non so quali ricordi, non so quali
pensieri su quanto mi circonda e il desiderio di
rendermene chi sa perché conto e d’imprimermelo
nella mente, cioè di conservare, di trattenere in me
questo che mi circonda. Che altro ancora? E an
cora il sentimento di una grande felicità per questa
grande calma e grande armonia della notte e per
il fatto ch’io vedo, avverto questa bellezza, e insie
me il sentimento di non so quale angoscia e di non
so quale avidità che mi estenua, la sete di utilizzare
in qualche modo questa felicità e persino questa
stessa angoscia e sete. L’eterna mia croce!
Di dove deriva l’angoscia? Dal segreto sentimen
to che in me solo non c’è calma, non c’è armonia,
non c’è umiltà e assenza di pensiero. Di dove deriva
l’avidità? Ë una conseguenza del mio mestiere. E
I GRILLI 649
che cos’è il mio mestiere? L’impulso creativo è il
fondamento della natura umana. La vita è una for
ma, un’incarnazione di qualcosa che ci è ignoto. E
sempre noi sentiamo la transitorietà e la labilità di
questa forma e temiamo di scomparire senza traccia.
« Nei giorni avvenire tutto sarà dimenticato. Non
c’è memoria degli uomini di prima. E il loro amore,
e l’odio, e la gelosia sono scomparsi da un pezzo
e ormai essi non hanno alcuna parte in quello che
si fa sotto il sole»... Ed ecco: «H o intrapreso ope
re magnifiche, mi sono costruito case, ho piantato
vigne, mi sono fatto orti e giardini... mi sono ac
quistato servi e ancelle, ho raccolto oro e argento
dai re e dalle province... ». Perché? Perché, lavo
rando e col lavoro pervenendo alla potenza, alla glo
ria, l’uomo si rallegra di questa potenza, di questa
gloria, come della fruttuosità nella sua lotta contro
la morte, disgregatrice delle forme. E colui, al quale
è dato di sentirne particolarmente la labilità e in
stabilità, è particolarmente assillato dalla sete di una
tale lotta. E io appartengo per l’appunto al novero
di questi uomini particolari. Ma perché allora in
dago e mi abbandono all’« ingegnosità » che con
duce alla sterilità e alla saggezza, vecchia come il
mondo, la quale insegna che l’uomo non ritrae al
cun vantaggio da qualunque sua fatica sotto il sole?
Non mi sono forse toccate in sorte per questa lotta
più forze che a molti altri? Sì, ma in misura troppo
inferiore al mio sentimento sempre crescente della
fatale instabilità, labilità della mia forma. Qui c’è
sempre una specie di cerchio magico. Da chi si è
ricevuto di più si esige sempre di più. Quanto più
650 I GRILLI
appassionato è il cantore del Cantico dei Cantici,
tanto più sicuramente egli finisce con l’Ecclesiaste.
A che cosa pensavo? Ma importa poco a che cosa
precisamente pensassi, importa il mio pensiero, atto
per me del tutto incomprensibile, e ancora più im
portante e incomprensibile è il mio pensare a que
sto pensiero e al fatto che non capisco nulla né in
me stesso né nel mondo e nello stesso tempo capi
sco la mia incomprensione, capisco il mio smarri
mento in mezzo a questa notte e a questo mormorio
malioso che ora mi par vivo, ora morto, che ora
sembra insensato, ora mi parla della cosa più recon
dita e più necessaria.
Io mi consolo:
“Questo pensare al proprio pensiero, la compren
sione della propria incomprensione è la prova più
inconfutabile della mia partecipazione a qualcosa di
tale ch’è cento volte più grande di me, e per conse
guenza anche la prova della mia immortalità: c’è
in me qualcosa, un’aggiunta — evidentemente, non
scomponibile, fondamentale - in verità una particel
la di Dio stesso” .
Ma rispondo a mia volta a questa consolazione:
“Cioè, una particella di ciò che non ha né forma
né tempo né spazio e che, per la terra, per la mia
esistenza terrena, è appunto la mia rovina! Questo
qualcosa ci dà la saggezza, in altre parole la morte.
Gustatene, e sarete simili a Dio. Ma ‘Dio è in cie
lo, e noi siamo sulla terra’. Gustandone, moltipli
chiamo la conoscenza, la coscienza, cioè il dolore.
Gustandone, per la terra, per le forme e leggi ter
restri moriamo. Dio è infinito, illimitato, onnipo-
I GRILLI 651
tente, senza nome. Ma appunto queste peculiarità
di Dio sono orribili per me. E se non fanno che
crescere in me, per la mia vita umana, per questo
‘stato’ terreno, io perisco.”
Nereggian o immobilmente gli alberelli in giar
dino.
Tra i rami s’intravede la ghiaia grigia, biancheg
giano i fiori candidi sulle aiuole, e più in là sono
gli scogli a picco, e come un latteo sudario il mare
s’innalza verso il cielo.
C’è del nitore in questa lattescenza; ma l’oriz
zonte è buio, cupo, sinistro: ciò dipende da Giove
e dal fatto che laggiù, nella volta meridionale, non
ci sono quasi stelle.
Giove, aureo, enorme, arde al termine della Via
Lattea così regalmente e di una luce così chiara
che sulla terrazza si stendono ombre appena visibili
dalla tavola, dalle sedie. Esso pare la minuscola
luna di non so quale altro mondo dell’al di là, e
il suo splendore cade in un fascio nebulosamente
dorato nella nitida lattescenza del mare dalla gran
de altezza della volta celeste, mentre all’orizzonte,
in forza del contrasto con la luce, si profila tetra
mente una specie di colle oscuro.
E il tintinnìo incessante, che non tace un secondo
e che riempie il silenzio della terra, del cielo e del
mare col suo mormorio, per così dire, traforato, è
simile ora a milioni di ruscelli che scorrono e con
fluiscono, ora a non so quali fiori prodigiosi che
paiono sempre crescere in spirali cristalline.
E io ascolto, ascolto questo tintinnìo e penso.
Penso a come sono felice di queste notti, del
652 I GRILLI
l’estate, del sud, del fatto che intorno a me ci sono
i promontori meridionali, e che sotto questi scogli,
a due passi da me, riposa nel letargo stellare quella
cosa stupenda che si chiama il mare. E penso inol
tre a come sono infinitamente infelice, languendo
della mia felicità, a cui manca sempre qualcosa e
ch’è così transitoria, senza traccia, e così avvelenata
dalla follia sempre crescente in me: dalla follia del
mio isolamento dal mondo e persino da me stesso,
dello stupore dinanzi ad esso e alla mia propria
esistenza, dell’incomprensione di me, di esso. Così
nell’infanzia mi guardavo talvolta allo specchio: che
cos’era, chi era colui ch’io vedevo, ch’era m e e a cui
io st e sso pensavo, e chi dei due guardava l’altro?
Solo l’uomo si stupisce della propria esistenza.
E in ciò consiste la distinzione principale dagli altri
esseri che sono ancora in paradiso, che non pensa
no a se stessi. Ma anche gli uomini differiscono
tra loro nel grado, nella misura di questo stupore.
Perché dunque Dio mi ha contraddistinto col fatale
segno dello stupore, dell’« indagine », così doppia
mente, perché mai lo stupore cresce sempre dentro
di me? Indagano forse le miriadi di grilli che
paiono riempire intorno a me tutto l’universo con
la loro notturna canzone d ’amore? No, sono in pa
radiso, nel beato sogno della vita, mentre io mi
sono già svegliato e vigilo. Il mondo è in essi ed
essi sono nel mondo, mentre io lo guardo già come
stando in disparte. E a che cosa conduce questo?
“Divora il proprio cuore lo stolto che se ne sta
ozioso... Chi scruta il vento, non semina...”
Ascolto e penso. E perciò sono infinitamente solo
I GRILLI 653
in questo silenzio della mezzanotte, maliosamente
tinnulo di miriadi di sorgenti cristalline, che ines
siccabilmente, con grande docilità e assenza di pen
siero si riversano in non so quale Grembo senza
fondo. La luce eccelsa di Giove illumina paurosa
mente l’enorme spazio tra il cielo e il mare, il gran
tempio della notte, sulla cui Porta Centrale è issato
come il segno dello Spirito Santo. E sono solo in
questo tempio, vigilo in esso da sacrilego.
Il giorno è l’ora dell’operosità, l’ora della schia
vitù. Il giorno è nel tempo, nello spazio. Il giorno
è l’adempimento del dovere terreno, del servizio
alla vita terrena. E la legge del giorno comanda:
sii nell’operosità e non interromperla per renderti
conto di te stesso, del tuo posto e del tuo scopo,
poiché sei schiavo della vita e ti sono dati in essa
una determinata destinazione, un grado, un nome.
Ma che cos’è la notte, e si addice forse all’uomo di
esser desto al suo cospetto, in quello stato incom
prensibile ch’è il nostro pensiero, l’indagine? Era
stato prescritto di non gustare il frutto proibito, ed
ora ascolta, ascoltali, questi cantori dimentichi di sé,
indivisibili dalle loro dolci canzoni d’amore: essi
non ne hanno gustato e non ne gustano! E che
altro, se non un inno di glorificazione ad essi, han
riportato gli Ecclesiastici di tutta la loro saggezza?
Sono stati loro a dire: «Tu t t o è vanità delle va
nità, e l’uomo non ritrae alcun vantaggio da tutte
le sue fatiche! ». Ma essi pure hanno soggiunto :
« È dolce il sonno del lavoratore! E non c’è cosa
migliore per l’uomo che deliziarsi delle proprie ope
re e mangiare in allegrezza il proprio pane e bere
24.
654 I GRILLI
con la gioia del cuore il proprio vino! ». Che cos’è
la notte? È che lo schiavo del tempo e dello spazio
è libero per un certo termine, gli sono tolti la sua
destinazione terrena, il suo nome terreno, il grado,
e gli è preparata, s’egli vigila, una grande tenta
zione: la sterile indagine, lo sterile anelito alla com
prensione, cioè una doppia incomprensione: l’incom
prensione del mondo, e di se stesso, da esso circon
dato, e del proprio principio, della propria fine.
10 non li ho: né il principio, né la fine.
So di avere tanti anni. Ma me l’hanno detto,
cioè che sono nato l’anno tale, il tale giorno e alla
tale ora: altrimenti non avrei saputo non solo il
giorno della mia nascita, e per conseguenza anche
il computo dei miei anni, ma nemmeno che esisto
a causa della nascita. E in generale la mia nascita
non è affatto il mio principio.
11 mio principio è tanto in quell’oscurità (del
tutto incomprensibile per me) in cui sono stato dal
concepimento alla nascita, quanto in mio padre, nel
la madre, nei nonni, nei bisavoli, poiché anch’essi
sono me, solo in forma alquanto diversa, di cui
molto si è ripetuto in me quasi identicamente. « Ri
cordo di essere stato un tempo, miriadi di anni or
sono, un capretto. » E io stesso ho provato una
volta (per l’appunto nel paese di Chi ha detto que
sto, nei tropici indiani) l’orrore di una sensazione
straordinariamente acuta di esser già stato un tem
po in mezzo a quel tepore paradisiaco e alle para
disiache dovizie.
Autosuggestione, autoinganno?
Ma è molto probabile che i miei avi abbiano
I GRILLI 655
abitato precisamente nei tropici indiani. Come dun
que potevano essi che tante volte avevano trasmesso
ai propri discendenti e infine hanno trasmesso an
che a me la forma quasi esatta dell’orecchio, del
mento, degli archi cigliari, come potevano essi non
trasmettere anche un corpo più sottile, impondera
bile, legato all’India? C’è chi ha paura dei serpenti,
dei ragni, ne ha una paura « folle », cioè contro
ragione, e questo è per l’appunto il sentimento di
non so quale remota esistenza anteriore, l’oscuro ri
cordo del fatto, ad esempio, che un tempo l’antico
progenitore di colui che ha paura era continuamen
te minacciato di morte dal cobra o dallo scorpione,
dalla tarantola. Il mio progenitore abitava in India.
Perché dunque alla vista delle palme di cocco, pen
denti dal litorale oceanico, alla vista degli uomini
nudi color marrone scuro nella tepida acqua tropi
cale, non potevo ricordare quello che avevo sentito
un tempo, essendo il mio antenato color marrone
scuro?
Ma non ho nemmeno fine.
Non comprendendo, non sentendo la mia nasci
ta, io non capisco, non sento nemmeno la morte,
della quale pure non avrei avuto la minima rappre
sentazione, conoscenza, e forse nemmeno sensazione,
se fossi nato e vivessi in qualche isola perfettamente
disabitata, senza un essere vivente. Vivo tutta la
vita sotto il terribile segno della morte, eppure in
tutta la vita ho l’impressione di non dover mai mo
rire. La morte! Ma se ogni sette anni l’uomo si rige
nera, cioè muore inavvertitamente, inavvertitamente
risorgendo! Dunque, più di una volta mi sono rige-
656 I GRILLI
nerato (cioè sono morto, risorgendo) anch’io. Mo
rivo e tuttavia vivevo, sono morto già parecchie vol
te e tuttavia sono fondamentalmente sempre quello
di prima, e per giunta sono anche tutto pieno del
mio passato.
Il principio, la fine! Ma sono terribilmente flut
tuanti le mie rappresentazioni del tempo, dello spa
zio. E con gli anni non solo lo sento sempre più,
ma me ne rendo anche conto.
Sono stato distinto da molti altri. Sono state di
stinte la mia immaginazione, memoria, impressio
nabilità, capacità di esprimermi. E sebbene quasi
tutta la mia vita sia la coscienza quasi continua e
tormentosa della debolezza e meschinità di tutte le
mie peculiarità dianzi enumerate, sono, al confronto
con taluni, in realtà un uomo non del tutto comune.
Ma proprio per questo (cioè in forza di una certa
quale mia eccezionalità, in forza della mia apparte
nenza a una categoria particolare di uomini) le mie
rappresentazioni, le mie sensazioni del tempo, dello
spazio e di me stesso sono incerte particolarmente.
Che categoria è, che uomini sono? Sono quelli
che si chiamano poeti, artisti. Che cosa devono pos
sedere? La facoltà di sentire particolarmente forte
non solo il proprio tempo, ma anche quello altrui,
il tempo passato, non solo il proprio paese, la pro
pria razza, ma anche quelli altrui, diversi, non solo
se stessi, ma anche gli altri, cioè, come si suol dire,
la facoltà della reincarnazione e, inoltre, una memo
ria particolarmente viva e particolarmente immagi
nosa (sensuale). E per essere uno di tali uomini
bisogna essere un individuo che abbia attraversato
nella catena dei suoi avi un cammino assai lungo
di esistenze che a un tratto abbia manifestato in sé
un’immagine particolarmente piena del suo selvaggio
progenitore con tutta la freschezza delle sensazioni
di lui, con tutta l’immaginosità del suo modo di
pensare e con l’enorme subcosciente di lui e nello
stesso tempo un individuo smisuratamente arricchito
nel suo lungo cammino e già padrone di un’enorme
coscienza.
Ë un grande martire o un grande felice un uomo
simile? Immancabilmente e l’uno e l’altro. La ma
ledizione e la felicità di un uomo simile sono l’Io
particolarmente forte, la sete di affermarlo sempre
più e insieme (in forza dell’enorme esperienza du
rante la permanenza nell’enorme catena delle esisten
ze) il crescente sentimento dell’inanità di questa se
te, la sensazione acuita del gran Tutto. Ed ecco
Budda, Salomone, Tolstoi...
I gorilla nella giovinezza, nella maturità sono pau
rosi per la loro forza corporale, sono smisuratamen
te sensuali nella loro percezione del mondo, spietati
in ogni appagamento della loro lussuria, si distin
guono per un’estrema immediatezza; nella vecchiaia,
invece, diventano indecisi, pensosi, afflitti, compas
sionevoli... Quale sorprendente rassomiglianza coi
Budda, i Salomoni, i Tolstoi! E in generale, nel
sovrano ordine dei santi e dei genii quanti se ne
possono annoverar di tali che inducono a parago
narli coi gorilla anche per l’aspetto esterno! Ciascu
no conosce gli archi cigliati di Tolstoi, la statura
gigantesca e il bernoccolo sul cranio di Budda, e
gli attacchi epilettici di Maometto quando gli an-
658 I GRILLI
geli nei lampi gli scoprivano i misteri e gli abissi
ultraterreni e in un « batter d’occhio » (cioè fuori
di ogni legge del tempo e dello spazio) lo traspor
tavano da Medina e Gerusalemme, per l’appunto
sulla Pietra Moria che incessantemente oscilla tra il
cielo e la terra e par che mescoli la terra al cielo,
il transitorio con l’eterno.
Tutti questi Salomoni e Budda da prima con
grande avidità accolgono il mondo, e poi con gran
de passionalità ne maledicono le lusinghe inganne
voli. Sono tutti da prima grandi peccatori, e poi
grandi santi, da prima grandi tesoreggiatori, poi
grandi dissipatori. Sono tutti schiavi insaziabili di
Maia - eccola, questa sonante, maliosa Maia, ascol
ta, ascoltala! - e nello stesso tempo avvertono il
Nirvana con la sua eterna beatitudine, tuttavia sem
pre triste per il mortale che in terra non può mai
sino alla fine rinunziare a Maia, alla dolcezza del-
1’« essere ». Si distinguono tutti per una religiosità
sempre crescente con gli anni, cioè per il pauroso
sentimento del loro vincolo col gran Tutto e del
l’inevitabile scomparsa in esso.
Un debole movimento dell’aria, del profumo dei
fiori dalle aiuole e della frescura marina arriva im
provvisamente fin sulla terrazza. E dopo un minu
to si ode il leggero fruscio, il sospiro sommesso
dell’onda sonnacchiosa che lentamente è rotolata chi
sa dove in basso sulla riva. Felice, assopita, priva
di pensiero, docile, morente senza saperlo! È roto
lata lì, dando uno sciacquìo, ha illuminato la sabbia
di uno splendore celeste pallido — di uno splendore
di vite innumerevoli - e altrettanto lentamente si è
I GRILLI 659
trascinata indietro, è tornata silenziosamente nel ma
re, nella sua culla e tomba. E le innumerevoli vite
par che cantino intorno ancora più furiosamente, e
Giove che in un torrente d ’oro si riversa nel grande
specchio delle acque par che brilli nei cieli ancor
più terribile e regale. Dio, com’è beata e come si
affligge l’anima mia, privata del Tuo Eden!
Non sono forse già senza principio, senza fine,
onnipresente ?
Ecco che decine di anni mi separano dalla mia
infanzia, puerizia. E mi è solito un tale sentimento
che i miei giorni d’infanzia che si considerano i
miei primi giorni siano infinitamente lontani. Ma
basta ch’io tenda solo un poco il pensiero perché
il tempo cominci ad abbreviarsi, a sciogliersi. E così
è stato sempre. Più di una volta ho provato qual
cosa di veramente prodigioso. Più di una volta è
successo così: sono tornato da qualche viaggio lon
tano, sono tornato tra quei campi, dove un tempo
ero stato fanciullo, giovinetto, e a un tratto, dopo
essermi guardato intorno, sento che i molti e lunghi
anni, da me vissuti da allora, è come se non fos
sero esistiti. E ciò non è affatto un ric o rd o : no,
sono semplicemente di nuovo quello di prima, sono
del tutto quello di prima. Sono di nuovo in quello
stesso rapporto con questi campi, con quest’aria cam
pestre, con questo cielo russo, in quello stesso modo
di percepire tutto il mondo che avevo avuto qui,
su questo viottolo, nei giorni della mia infanzia,
della mia adolescenza. E non ho le forze per rende
re tutto il dolore e tutta la gioia di questi mo
menti, tutta la loro felicità amara! Dov’è questo
660 I GRILLI
bambino, quest’adolescente così vicino a me? È vi
vo, ma già incorporeo, è me, ma neanche me... sì,
tuttavia, non è più me!
In tali momenti più di una volta ho pensato:
ogni attimo di quello, di cui ho vissuto qui un
tempo, lasciava, imprimeva misteriosamente la pro
pria traccia su non so quali innumerevoli, infinita
mente piccole, occulte lastre del mio Io, ed ecco
che alcune di esse a un tratto si sono animate, svi
luppate. Un secondo, e si offuscano di nuovo nel
buio del mio essere. Ma sia pure; io so di averle.
Nulla perisce, solo si modifica. Ma forse c’è qual
cosa che non soggiace nemmeno alla modificazione,
non la subisce non solo nel corso della mia vita
ma nemmeno nel corso dei millenni? Dopo aver
accresciuto il numero di tali impronte, devo trasmet
terle ancora a qualcuno che succede a me, come
ne è stata trasmessa una grande quantità dai miei
avi a me. Più di una volta mi sono sentito non
solo il me stesso di prima, ma anche mio padre,
nonno, bisavolo: a suo tempo qualcuno dovrà sen
tirsi me.
E pensavo in tali momenti : la ricchezza delle
facoltà, l’ingegno, il genio, che altro sono, se non
la ricchezza di queste impronte (sia ereditarie, sia
acquisite), se non questa o quella sensibilità loro
e la quantità dei loro sviluppi nel raggio di quel
Sole che da qualche parte cade su di esse talvolta,
ora più vivido, ora più debole? E mi dicevo: credi
tranquillamente, non si è perduta e non si perderà
mai nessuna, nemmeno la più piccola particella del
la tua esistenza: ciascuna è impressa e si conserverà.
I GRILLI 661
Tutte quante e ormai per sempre non si offusche
ranno esse per l’eternità, sommerse in quelle ultime
Tenebre, dove andiamo tutti alla nostra ora? Ma
forse non ti è parso più di una volta che anche
durante la vita miriadi di esse fossero perite, aves
sero smarrito la facoltà di rivivere (svilupparsi) e
non ti sei forse sbagliato? E dov’è il limite fra le
tenebre sepolcrali e quelle in cui anche durante la
vita si annida in te la tua vita di prima, cioè l’in
fanzia, puerizia, adolescenza, la quale solo in rari
momenti s’illumina e rivive?
Or non è molto, svegliandomi per caso all’alba,
a un tratto chi sa perché sono stato colpito dall’i
dea dei miei anni. Pareva, un tempo, che fosse un
essere particolare, quasi pauroso, un uomo che aves
se vissuto quaranta, cinquant’anni. Ed ecco che un
tale essere son divenuto infine anch’io. Che cosa
sono dunque, mi son detto, che cosa precisamente
son divenuto adesso? E avendo fatto un piccolo
sforzo di volontà, essendomi guardato come un estra
neo — com’è prodigioso che noi possiamo farlo! -
ho, naturalmente, avvertito del tutto al vivo che ora
sono perfettamente lo stesso ch’ero stato anche a
dieci, a vent’anni.
H o acceso il lume, mi sono guardato allo spec
chio: ma sì, ho i lineamenti più secchi e decisi,
ho le tempie spruzzate d ’argento, si è alquanto sbia
dito il colore degli occhi, ma internamente, nell’a
nima, solo la molta esperienza distingue me di ades
so da quello di prima: lo sento con tutto il mio
essere!
E con insolita leggerezza mi sono alzato dal letto,
662 I GRILLI
mi sono infilato nei piedi le pantofole e sono usci
to nelle altre stanze ch’erano appena rischiarate, an
cora piene di quiete notturna, ma che accoglievano
già il nuovo giorno lentamente nascente, il quale
aveva debolmente e misteriosamente spartito al li
vello del mio petto la loro penombra.
Una quiete particolare, antelucana, regnava an
cora anche in tutto quell’enorme nido umano che
si chiama città. Tacite e altrimenti che di giorno
se ne stavano lì le case dalle molte finestre coi loro
numerosi abitanti, così diversi in apparenza e così
egualmente abbandonati al sonno, all’incoscienza,
all’impotenza. Tacite (e ancora deserte, ancora pu
lite) si stendevano dinanzi a me le vie, ma già ver
di ardevano i fanali a gas nel loro trasparente cre
puscolo. E a un tratto, avendo compreso che quella
trasparenza era per l’appunto la nascita del nuovo
giorno, di nuovo ho provato il sentimento di una
grande felicità, di una dolcezza di vivere infantil
mente confidente che intenerisce l’anima, il senti
mento del principio di qualcosa di affatto nuovo,
buono, bello, e della vicinanza, fratellanza, unità
con tutti i viventi sulla terra insieme con me. Come
capisco sempre in tali momenti le lacrime di Pietro
Apostolo che per l’appunto all’alba aveva così fre
scamente, giovanilmente, soavemente avvertito tutta
la forza del suo amore per Gesù e tutto il male
commesso da lui, Pietro, alla vigilia, di notte, nella
paura davanti ai soldati romani! E mi sono ricor
dato il mio, ahimè, ormai lontano viaggio in Ga
lilea, in Giudea, e di nuovo ho vissuto perfetta
mente come la mia propria quella lontana mattina
I GRILLI M il
evangelica nel bosco degli olivi, sul pendìo roccioso
del monte Eleon, quell’abiura di Pietro. Il tempo
era scomparso. Ho sentito con tutto il mio essere:
ah, quale termine trascurabile, duemila anni! Ecco
ch’io ho vissuto mezzo secolo: basta solo prolun
gare la mia vita di quaranta volte e sarà il tempo
di Cristo, degli apostoli, dell’« antica » Giudea, del-
1’« antica » umanità. Lo stesso sole che un tempo
aveva visto dopo la sua notte insonne il lacrimoso
pallido Pietro, ecco che sta per sorgere di nuovo
anche sul mio capo. E quasi gli stessi sentimenti
che avevano un tempo riempito Pietro in Getsema
ni, riempiono ora me, spremendo anche dai miei
occhi quelle stesse lacrime, di cui aveva così dolce
mente e dolorosamente pianto Pietro presso il fuo
co. Dov’è dunque il mio tempo e dov’è il suo?
Dove sono io e dov’è Pietro? Giacché ci siamo così
fusi sia pure per un attimo, dov’è mai questo mio
Io che ho voluto così appassionatamente affermare
e isolare per tutta la vita e voglio anche in questo
momento? No, non significa proprio nulla il fatto
che mi è destinato di vivere sulla terra non nei gior
ni di Pietro, di Gesù, di Tiberio, ma nel così detto
secolo ventesimo. E poi, vivo forse in esso? Nella
mia vita ormai tuttavia lunga coi suoi pensieri, let
ture, peregrinazioni e sogni mi sono così abituato
all’idea e alla sensazione, come se io sapessi c mi
rappresentassi enormi spazi di luogo e di tempo, ho
tanto vissuto nell’immaginazione di vite altrui c lo»
tane, che mi par d’esser sempre esistito, nei setoli
dei secoli e ovunque. E dov’è il limite tra la mia
664 I GRILLI
realtà e la mia immaginazione, il quale è pure una
realtà, qualcosa di senza dubbio esistente?
Così in tutta la vita, coscientemente e incoscien
temente, non faccio che superare, demolire lo spa
zio, il tempo, le forme. Con mia gioia? Inestingui
bile e smisurata è la mia sete di vita, e io vivo non
solo del mio presente, ma anche di tutto il mio
passato, non solo della mia propria vita, ma anche
di migliaia di vite altrui, di tutto quanto mi è con
temporaneo, e di quello eh’è laggiù, nella nebbia
dei secoli più remoti. Perché? Forse per perdermi
su questa via o, al contrario, per affermarmi, ar
ricchendomi e rafforzandomi?
Ci sono due categorie di uomini. In una, enor
me, rientrano gli uomini del loro determinato mo
mento, della costruzione della vita, dell’azione, uo
mini, per così dire, quasi senza passato, senz’avi,
fedeli anelli di quella Catena, di cui parla la sag
gezza indiana: che cosa importa loro che così pau
rosamente sfuggano nell’infinito e il principio e la
fine di questa Catena? E nell’altra, relativamente
assai piccola, non solo non i fautori, non i costrut
tori, ma gli autentici disgregatori che hanno già co
nosciuto la vanità, l’inanità dell’azione e della co
struzione, gli uomini del sogno, della contemplazio
ne, dello stupore di sé e del mondo, gli uomini
dell’« indagine » che in segreto hanno già risposto
all’antico richiamo : « Esci dalla Catena! », che già
anelano di sciogliersi, di scomparire nel gran Tutto
e nello stesso tempo ancora soffrono atrocemente,
nostalgici di tutti quegli aspetti, incarnazioni, in cui
sono stati, e in modo particolare di ogni attimo del
I GRILLI 665
proprio presente. Questi uomini, dotati di una gran
de ricchezza di percezioni che han ricevute dai loro
innumerevoli predecessori, sentono gli anelli infini
tamente lontani della Catena, sono esseri che hanno
prodigiosamente risuscitato (e non forse per l’ulti
ma volta?) nel proprio viso la forza e la freschezza
del loro progenitore paradisiaco, della sua corpo
reità. Questi uomini sono paradisiacamente sensuali
nella propria percezione del mondo, ma, ahimè, so
no ormai privati del Paradiso. Di qui anche il loro
grande sdoppiamento: il tormento dell’uscita dalla
Catena, il distacco da essa, la coscienza della sua
inanità e del raddoppiato, terribile fascino di essa.
E ciascuno di questi uomini con piena ragione può
ripetere l’antica lamentazione: «Etern o e che tutto
abbracci! Tu ignoravi un tempo il Desiderio, igno
ravi la Sete. Eri immerso nella gran quiete, ma Tu
stesso l ’hai turbata: hai iniziata e condotta una smi
surata catena d’incarnazioni, di cui spettava a ciascu
na d’esser sempre più incorporea, sempre più vicina
al beato Principio. Ora sempre più forte mi suona il
Tuo richiamo: “Esci dalla Catena! Escine senza trac
cia, senza eredità, senza erede!”. Così, Signore, io
Ti odo già. Ma mi è ancora amaro il distacco dal
l’ingannevole e amara dolcezza dell’Essere. Ancora
mi sgomenta il Tuo essere senza principio e senza
fine... ».
Sì, almeno fosse possibile di suggellare quest’in-
gannevole e pure indicibilmente dolce esistenza ma
gari nella parola, se non nella carne!
Anche nei miei giorni antichissimi, migliaia di
anni or sono, misuratamente parlavo del misurato
666 I GRILLI
fragore del mare, cantavo ch’ero gioioso e triste,
che l’azzurro dei cieli e il candore delle nuvole sono
lontani e magnifici, che le forme del corpo femmi
nile sono tormentose per il loro incomprensibile fa
scino. Ed ora? Chi e perché mi ha obbligato a por
tare senza tregua il fardello, gravoso, estenuante ma
inevitabile, di esprimere incessantemente i miei sen
timenti, pensieri, rappresentazioni, e di esprimerli
non semplicemente, ma con esattezza, bellezza, forza
che devono incantare, entusiasmare, dare agli uo
mini tristezza o felicità? Da chi e perché è stata
posta in me l’insaziabile esigenza di contagiarli di
quello di cui vivo io stesso, di comunicar loro me
stesso e di cercare in essi partecipazione, unità, fu
sione con essi? Sin dall’infanzia non sento nulla,
non penso, non vedo, non odo, non odoro senz’a
vidità, senza la sete dell’arricchimento che mi è ne
cessario per esprimermi con la maggior ricchezza.
Sono posseduto dall’eterno desiderio non solo di ac
cumulare, e poi di spendere, ma anche di distin
guermi dai milioni dei miei simili, di rendermi noto
ad essi e degno d ’invidia, di entusiasmo, di stupore
e di eterna memoria. Il coronamento di ogni vita
umana è la memoria di essa; la cosa più alta che si
promette a un uomo sulla sua bara è la memoria
eterna. E non c’è anima che non langua in segreto,
sognando questo coronamento. E la mia anima? Oh,
com’è misera, com’è estenuata da questo sogno —
a quale scopo, per quale motivo? - dal sogno di la
sciare nel mondo sino alla fine dei secoli se stessa,
i propri sentimenti, visioni, desideri, di vincere quel
lo che si chiama la mia morte, quello che immu-
I GRILLI 667
tabilmente verrà per me a suo tempo, e in cui tut
tavia non credo, non voglio e non posso credere!
Instancabilmente grido senza parole, con tutto il
mio essere: “Arrèstati, sole!”. E tanto più appassio
natamente grido che in realtà non sono un uomo
che si edifica, ma che si rovina e che non può esser
diverso, giacché mi è dato di superarli, il tempo,
lo spazio, le forme, di sentire in me l’assenza del
principio e della fine, cioè l’Unità che di nuovo mi
riassorbe come il ragno la sua tela.
E i grilli cantano, cantano. Ed essi la conoscono,
quest’Unità, ma è dolce la loro canzone, per me
solo amara; canzone, piena di paradisiaca assenza di
pensiero, di sommissione infantile, di beato oblio
di sé!
Giove ha raggiunto l’apice della sua altezza. E
l’estremo silenzio, l’estrema immobilità al suo co
spetto, l’estrema ora della propria bellezza e mae
stosità ha raggiunto la notte. « La notte alla notte
trasmette la conoscenza. » Quale? E non forse in
questa sua segreta ora suprema?
Ancor più regale e terribile è divenuto l’immen
so tempio senza fondo del cielo tutto stellato: già
molte grandi stelle antelucane sono sorte nella sua
altezza. E da questa grande altezza già del tutto
verticalmente cade il fascio nebulosamente dorato
dello splendore nel nitore latteo del mare già cinto
di un pieno letargo. E ancor più immobilmente ne
reggiano gli alberelli che son divenuti ancor più
piccoli, in questo esiguo giardino meridionale, co
sparso di pallida ghiaia. E il tintinnìo incessante,
che non tace un secondo e che riempie il silenzio
668 I GRILLI
della terra, del cielo e del mare col suo mormorio,
per così dire, traforato, si è fatto ancor più simile
a non so quali fiori prodigiosi che paiono sempre
crescere in spirali cristalline... Che cosa alla fine
attingerà questo silenzio sonoro?
Ma eccolo di nuovo, questo sospiro, sospiro del
la vita, il fruscio dell’onda rotolata e sparsa sulla
riva, e dopo di esso il leggero movimento dell’aria,
della frescura marina e del profumo dei fiori. Ed
è come se io mi svegliassi. Mi guardo intorno e mi
alzo dal posto. Scendo dalla terrazza, cammino, fa
cendo scricchiolare la ghiaia, per il giardino, poi
corro giù, lungo lo scoglio. Cammino sulla sabbia
e mi siedo proprio al limite dell’acqua e, con rapi
mento, voluttuosamente immergo in essa le mani
che istantaneamente si accendono di miriadi di stil
le luminose, di vite innumerevoli... No, non è an
cora venuto il mio termine! Ancora c’è qualcosa di
più forte di tutte le mie indagini. Ancora, come
la donna, mi è desiderabile questo grembo notturno
delle acque... Dio, lasciami!
E i grilli cantano, cantano.
La v it a
1870, 10 ottobre (v.s. 22) nasce a Voron ež Ivan Alekseevič
Bun in . Trascorre l’in fan zia e l’adolescen za n ella tenuta
fam iliare di Butyrka nel govern atorato di Orel. Com in
cia, ma n on porta a termine gli studi gin n asiali.
1887 Pubblica un a prim a poesia Su lla t om b a d i N ad so n (N ad
m ogiloj Nadson a) poeta ancora caro alla sua gen era
zione.
1889 A causa delle con dizioni fam iliari è costretto, a dician
nove an ni, a lavori diversi per gu adagn arsi la vita :
correttore di bozze, bibliotecario in una piccola biblio
teca provin ciale, cron ista in giorn ali provin ciali.
1891-1898 Pubblica la prim a raccolta di versi col sem plice
titolo Poesie (Stich otvoren ija).
Con tin ua a scrivere versi, m a pubblica an che i prim i
racconti che rich iam an o su di lui l’atten zione della cri
tica.
1895 Fa la conoscenza di A. P. Cechov.
Sposa A. N . Tsak n i, figlia del rivoluzion ario greco
Tsakn i, em igrato in Ru ssia. Il matrimon io non è felice.
I con iugi presto divorzian o.
1898 Pubblica la seconda raccolta di poesie Sot t o l’ap ert o cielo
(P od otkrytym nebom).
Fa la conoscenza di Maksim G or ’kij, allora già molto
noto come narratore.
1900-1901 Escon o nuovi racconti di Bun in che gli dann o già
fam a di n arratore: L e m ele A n t on ov k a (An ton ovskie
jab lok i), I p in i (Sosn y), L a v ia n u ov a (N ovaja d or oga).
1901 Pubblica la terza raccolta di poesie, dal 1886 al 1900:
L a cad u t a d elle f o glie (L ist o p ad , che in lin gua poetica
672 NOTE
ru ssa sign ifica an ch e «A u t u n n o »), Per questo volum e
n ello stesso anno gli vien e assegn ato il “ Prem io Pu-
škin ” per la poesia.
1904 Su in vito di Gor’kij comin cia a dare la sua collabora
zione alla pubblicazion e periodica: “ La con oscen za”
(Z n an ie), dove com pare uno dei suoi più importan ti
raccon ti dell’epoca: H u m u s (Cern ozem ).
1903-1906 Con tin ua a scrivere poesie e traduce M an fred i,
Cain o e Cielo e t erra di Byron, G o d iv a di Ten n yson
e due parti della L e ggen d a d ’o ro di Lon gfellow .
1907-1911 Pu bblica la sua quarta raccolta di poesie compren
dente an ch e le traduzion i preceden ti e il poem a di
Lon gfellow H iaw at h a.
Bun in si sposa un a secon da volta con V. N . Muron-
cova.
Com pie n um erosi viaggi, tra l ’altro in Orien te.
1909 È nomin ato socio on orario d ell’Accadem ia delle Scienze.
1910 Pubblica il roman zo-poema Cam p agn a (D er evn ja); tra
dotto anche col titolo II v illaggio .
1911 Pubblica il roman zo-poema V aisecca (Su ch od ol), il rac
conto U n a bella v it a (Ch orošaja žizn ’) e un volum e di
ricordi ed im pression i di viaggio col titolo II tem pio
d e l so le (Ch ram Soln ca).
1912 Pubblica il racconto Ign at .
1914 Pubblica il racconto Frat e lli (Br at ’ja ).
1915 Pubblica il raccon to II sign o re d i San Fran cisco (Go-
spodin iz San Fran cisk o). Scrive come presen tazion e del
racconto una breve n ota autobiografica.
1916 Per la prim a volta il n ome di Bun in vien e presen tato,
in siem e a quello di Maksim Gor'kij da Rom ain Rollan d
all’Accadem ia Svedese per l'even tuale assegn azion e del
prem io Nobel.
1917 Favorevole alla rivoluzione liberal-socialista di febbraio,
quando questa è vinta da quella bolscevica, si schiera
contro il comuniSmo.
1920 Lascia la Ru ssia per la Fran cia, dove si stabilisce, p r i
ma a Parigi poi a Grasse n elle Alpi Marittime.
1924 Scrive il roman zo L ’am ore d i M it ja (M it in a lju bov’).
1925 Scrive il racconto L ’af fare d ell’alfiere Elagh in (D eio kor-
neta Elagin a).
1927-29 Scrive e pubblica un a serie di n ote autobiografich e
relative ai suoi anni giovan ili e ai suoi in contri letterari
NOTE 673
(con Gor’kij, Sologub, la Loch vickaja, Baran cevič, Gri-
gorovič, Žem čužn ikov e alt r i).
Scrive L a v it a d i A rsen ’ev (Ž izn ’ Arsen ’eva), opera n ar
rativa di tono autobiografico.
1933 Gli vien e con ferito il prem io Nobel per la letteratura.
1937 Pubblica il saggio L a lib eraz ion e d i T o lst o j (Osvobo-
žden ie Tolst ogo).
1939 Scrive il racconto L ik a en trato più tardi come ultim a
parte nel roman zo L a v it a d i A rsen ’ev.
1941 Viaggia in Germ an ia.
1943 Esce il ciclo di racconti I v iali oscu ri (Tëm n ye allei),
ultim a opera n arrativa dello scrittore.
1947 Si m an ifestan o i prim i sin tomi della m alattia che por
terà lo scrittore alla morte sei anni dopo.
1949 Pron un zia a Parigi un discorso in occasion e del 150°
an n iversario della n ascita del poeta A. S. Puškin .
1950 Pubblica I ricord i (Vospom in an ija).
1953 Muore a Parigi l'8 novembre.
1955 Pubblicazion e postum a dei m ateriali per un libro su
Cechov.
Le o p e r e
1886 D erev en sk ij n iseij
1901 L i st o p ad
1902 R assk az y
1904 Cech ov
1903-1906 St ich ot v oren ija
1903-1910 R assk az y
1910 D e rev n ja
1 9 11 Ch ram Soln ca - Pu t ev y e poem y
1911 - 1913 R assk az y tra cui Ch o ro saja z iz n ' e Ign al
1912 Su ch od ol
1912 - I 913 St ich ot v oren ija
1913 - I 915 Čask a z iz n i tra cui: B rat ’ja e Gram m at ik a Iju b v i
1917 G osp o d in iz San Fran cisk o
1921 K rik - N aé al’n aja Iju b oR
1924 R oz a Erich on a - M it in a Iju b ot /
1927 Posled n ie sv id an ie - Soln ecn y j u d ar Su y T h in g I"
edizion e di D e io k orn et a Elagin a
674 NOTE
1930 Ž iz n ’A rsen ’ev a: I. lst o k i d n e j
1931 B o z e d rev o - T en ’ pticy - D e lo k orn ela E lagin a
1937 O sv ob oz d en ie T o lst o go
1939 Ž iz n ’ A rsen ’ev a: I I . L ik a
1943 T'ém n y e alle i
1950 V osp o m in an ija
1955 O Čech ov e
Ed iz io n i e t r a d u z io n i
Opere raccolte e scelte:
Sob ran ie so é in en ij, 5 voli., Pietroburgo 1902-1909; voi. 6° ivi
1910 - Po ln o e sob ran ie soéin en ij, ivi 1915 (Supplem en to alla r i
vista “N iv a” , 5 voli, in 12 fascicoli) - So b ran ie soéin en ij, 12
voli., Berlin o, Petropolis 1934-1936 - R assk az y , V st u p it e !n aja
s t a !ja L . V N ik u lin a, Mosca 1955 - Iz b ran n y e p roiz v ed en ija,
ivi 1956 - Sob ran ie soéin en ij in 5 voli., ivi 1956-59 (contiene
racconti del 1892-1909 e poesie dal 1886 al 1902; l ’edizion e non
è ancora com pleta). “N a k raj sv et a” i d ru gie rassk az y , Pietrobur
go 1897 - List o p ad . St ich ot v oren ija, Mosca 1901 - D e rev n ija, ivi
1910 - Su ch od ol, ivi 1912 ( l ’edizion e contiene an che altri rac
conti degli anni 1911-1912) - G o sp o d in iz San Fran cis k o, ivi
1917 (l'edizion e contiene an che altri raccon ti) - K rik , Berlin o e
Dan zica 1921 - Čask a z iz n i, Parigi 1921 ( l ’edizion e contiene an
che sei racconti e poesie) - R oz a Erich ov a, Berlin o 1924 - M it i-
n a Iju b o V , Parigi 1925 (l’edizion e contiene an che altri racconti
e poesie) - Soln eén y j u d ar, ivi 1927 - Po sled n ie sv id an ie, ivi
1927 - Ž iz n ’ A rsen ’ev a. 1. lst o k i d n ej, ivi 1930 - B o P e d rev o,
ivi 1931 - T en ’ pticy , ivi 1931 - O sv ob oz d en ie T o lst o go , ivi 1937
- Z iz n ’ A rsen ’ev a. II. L ik a, Bruxelles, Petropolis, Parigi 1939 -
T'ém n y e allei, New Yor k 1943, Parigi 1943-1946 ( l ’edizion e
comprende 38 raccon ti) - V o sp o m in an ija, ivi 1950 - Z iz n ’ A st e
n ev a, edizion e com pleta, comprenden te tutte e due le parti:
lst o k i d n ej col titolo Ju n o s! e L ik a, New Yor k 1952 - M it in a
Iju b o V . Soln eén y j u d ar, ivi 1953 - V esn o j v Je d u ee . R o z a E ri
ch ov a, ivi 1953 - Pet list y e u si i d ru gie rassk az y , ivi 1954 -
O Čech ov e, n ez ak on éen n aja ru k op is’, ivi 1955.
Prefazion i di Bun in a: A. I. Ertel’, Sm en a, New Yor k 1934 -
A. V. Neklju dov, St ary e portrety , se m e jn aja let op ìs, Parigi
NOTE 675
1932-33 - Ja . M. Sedych, Z v ez d ocet y I B o sf o ra, New Yor k
1948.
I l v illaggio (trad, di N . Ar tin off), Milan o 1928 - Cam p agn a
(trad, di Y. Dolgh in -Badoglio), Torin o 1930 - L a giov in ez
z a d i A rsen ’ev (trad, di Y. Dolgh in - Badoglio), M ilan o 1930
- I l sign ore d i San Fran cisco e altri racconti (trad, di V.
Dolgh in - Badoglio), Torin o 1934 - L ’am ore d i M it ia ed alt re
p rose (trad, di R. Kiifferle), M ilan o 1934 (con tien e anche:
L ’af f are d e ll’alfiere Elagh in , Id a, Un co lp o d i sole, I l ro
m an z o d i un gobbo, Lan t ern e rosse, I l lib ro, V e st aglia a rica
m i, U n a go la m on tan a, I g rilli) - U n a b e lla v it a (trad, di E.
Lo Gatto in N arrat o ri ru ssi), Rom a 1945 - I l sign ore d i San
Fran cisco (trad, di E. Lo Gatto, in N o v e llie ri sl av i ) ,' Rom a 1946
- L a gram m at ica d ell’am ore (trad, di T . Lan dolfi in N arrat o ri
r u ssi), M ilan o 1948 - V aisecca (trad, di R. P oggioli), Lan cia
no 1950 - D ip art it a (trad, di G. L. Bravo, in N arrat o ri ru ssi
m o d ern i), M ilan o 1963 - L a v it a d i A rsen ’ev (trad, di E. Lo
Gat t o), M ilan o 1966.
La c r i t i c a
A. M . Skabičevskij, T e k u scaja lit erat u ra (I. A . B u n in : N a k raj
sv eta. R assk az y ) in “ Syn Otečestva” , Pietroburgo 1897 - V.
Savodn ik, Sov rem en n aja lirik a in “Russkij Vestn ik” , Mosca,
settembre 1901 - M. Nevedom skij, O sov rem en n om ch udoz e-
st v e (P o p o v o d u sb orn ik ov “Z n an ijcd’ i rassk az a Bu n in a: Cer
n oz em ) in “M ir Božij” , agosto 1904 - A. A. Blok, O lirik e in
“Zolotoe run o” , Mosca, giu gn o 1907 e in Sob ran ie socin en ij
Blok a, vol. V, Mosca-Len in grado 1962 - M. O. Geršen zon, I.
Bu n in in “Vestn ik Evropy” , Mosca, giugn o 1908 - S. Solov’ev,
I. B u n in , in “Vesy” , ivi, agosto 1908 - B. Sadovskoj, I. Bu n in ,
in “Vesy” , ivi, m aggio 1909 - V. Br ju sov, Bu n in in D ale k ie
i Bliz k ie, ivi 1912 - A. Izm ajlov, R an n jaja O sen ’ (P o e z ija i
p roz a I. A . B u n in a) in “Novoe slovo” , Pietroburgo, ottobre
1910 (ristam pato nel libro di Izm ajlov Pesty re z n am en a, M o
sca 1913 - F. Batjuškov, B u n in in R u ssk aja lit erat u ra X X v ek a
a cura di S. Ven gerov, fase. V II, ivi 1918 - V. Vorovskij,
Bu n in in Lit erat u rn y e O cerk i, ivi 1923 - Ju . Ajch en val’d, Bu-
676 NOTE
n in in Silu et y ru ssk ich p isat e lej, III, ivi 1908, 4.a ed., Berlin o
1923 - F. Stepun , Lit erat u rn y e z am et k i in “ Sovremennye za-
pisk i” , XXV I I I , Parigi 1926 - D . Gorbov, M e rt v aja k rasot a
i z iv u éee bez obraiz e in U n as i z a ru b ez om , Mosca 1928 - F.
Stepun , Iv an Bu n in in “ Sovremennye Z ap isk i” , LIV, Parigi
1934 (ristam pato in V st re ii, Münch en 1962) - B. V. Mich aj-
lovskij, T v or cest ro I. A . Bu n in a in R u ssk aja lit erat u ra X X
v ek a, M osca 1939 - V. A. Aleksan drova, I. A . B u n in in “No-
vyj Z u m al” , XII, New Yor k 1946 - L. Rževskij, Pam jat i I. A .
B u n in a in “Gran i” , n. 20, Fr an kfu r t/M ain 1953 - N . U l’ja-
nov, Post e Bu n in a in “Novyj Z u m al” , X X X V I , New York
1954 - B. Narcissov, Bu n in p oet , in “ Gran i” , n. 24, Fr an k fu r t/
Main 1955 - A. Volkov, I. A . B u n in in O cerk i ru ssk o j litera-
tu ry k on ca X I X i n at ala X X v ek ov , M osca 1955 - Ju r ij Ada-
movič, Bu n in in O d in oéest v o i sv ob od a, New Yor k 1955 - S.
V. Kastorsk ij, G or’h ij i Bu n in (I z ist o rii id ejn o- t v oriesk ich
v z aisn ov ot n osen ij) in “ Zvezda” , 1956, n. 3 - Struve, Gleb. B u
nin in R u ssk aja lit erat u ra v iz gan ii , New Yor k 1956 - O. Mi-
ch ajkov, Bu n in i T o lst o j in L . N . T o lst o j. Sb orn ik st at e j o
t v orcest v e , II, Mosca 1959 - L. Niku lin , Čech ov , Bu n in , K u
p rin . Lit erat u rn y e portrety , ivi I960 - K. G. Paustovskij, Iv an
Bu n in in T aru ssk ie stran icy , Kalu ga 1961 - A. Sedych, I. A .
B u n in in D ale k ie, B liz k ie , New Yor k 1962 - T. M. Bon am i,
Ch u d oz est v en n aja p roz a I. A . B u n in a (1887- 1904), Vladim ir
1962 - K. Zajcev, I. A . Bu n in . Z iz n ’ i tv orcestv o, Berlin o, s.d.
R. Küfferle, K art e d i Iv an Bu n in in “Rivista d 'It alia” , Milan o,
aprile 1928 - R. Poggioli, pref. alla trad, di Cam p agn a, T o
rin o 1930 - R. Poggioli, V art e d i I. Bu n in in Piet re d i p ara
gon e, Firen ze 1939 - E. Lo Gatto, G li o t t an t an n i d i Bu n in in
“ La Fiera Letteraria” , V, 43, Roma, ottobre 1950 - R. Poggioli,
T h e art o f Iv an Bu n in in T h e Ph oen ix an d th e Sp id er. A
Book o f Essay s ab ou t som e R u ssian W rit ers an d t h eir V iew o f
th e Se lf, Flarw ard Un iversity Press, Cam bridge (M ass.), 1957
- G. Adam ovič, L a v it a e l’op era d i Iv an Bu n in , in trod. al
volum e su Ivan Bun in n ella collan a “ Premi Nobel per la
letteratura” , M ilan o 1966.
INDICE
I v an B u n in p. IX
Campagna 1
Vaisecca 269
Una bella vita 379
L’amore di Mitia 419
Racconti :
L’affare dell’alfiere Elaghin 525
Ida 585
Un colpo di sole 601
Il romanzo di un gobbo 615
Lanterne rosse 619
Il libro 625
Vestaglia a ricami 631
Una gola montana 641
I grilli 645
N ote 669
QUESTO VOLUME È STATO IMPRESSO
N EL MESE D I MAGGIO D ELL’ANNO
MCM LXIX N ELLE O FFICIN E GRAFICH E
VERO NESI D I ARNOLDO MONDADORI
PER CONTO D ELLA UTET
STAM P ATO I N IT A LI A - P R IN T ED I N ITA LY