Il 100% ha trovato utile questo documento (1 voto)
480 visualizzazioni70 pagine

Ernst Bloch - Sul Progresso

Il documento tratta del concetto di progresso secondo il filosofo Ernst Bloch. Bloch analizza il concetto di progresso distinguendo tra diverse accezioni e sfumature del termine. Egli sostiene che il progresso non è un concetto univoco ma plurale e differenziato, e che è necessario considerare gli aspetti positivi e negativi associati ad esso.

Caricato da

Nicolás López
Copyright
© © All Rights Reserved
Per noi i diritti sui contenuti sono una cosa seria. Se sospetti che questo contenuto sia tuo, rivendicalo qui.
Formati disponibili
Scarica in formato PDF, TXT o leggi online su Scribd
Il 100% ha trovato utile questo documento (1 voto)
480 visualizzazioni70 pagine

Ernst Bloch - Sul Progresso

Il documento tratta del concetto di progresso secondo il filosofo Ernst Bloch. Bloch analizza il concetto di progresso distinguendo tra diverse accezioni e sfumature del termine. Egli sostiene che il progresso non è un concetto univoco ma plurale e differenziato, e che è necessario considerare gli aspetti positivi e negativi associati ad esso.

Caricato da

Nicolás López
Copyright
© © All Rights Reserved
Per noi i diritti sui contenuti sono una cosa seria. Se sospetti che questo contenuto sia tuo, rivendicalo qui.
Formati disponibili
Scarica in formato PDF, TXT o leggi online su Scribd
Sei sulla pagina 1/ 70

ERNST BLOCH

SUL PROGRESSO
A CURA DI
LIVIO SICHIROLLO

GUERINI
E ASSOCIATI
1990 EDIZIONI ANGELO GUERINI E ASSOCIATI SRL.
VIA A. SCIESA 7 - 20135 MILANO
PRIMA EDIZIONE: APRILE 1990
RISTAMPA V IV III II 1993 1994 1995 1996
TITOLO ORIGINALE:
DIFFERENZIERUNGENIM BEGRIFF FORTSCHRITT
1963, 1970 SUHRKAMP, FRANKFURT
GRAFICA DI CARLOTTA CERNIGLIARO E FRANCESCA AJMONE
ISBN 88-7802-142-3
SOMMARIO
5
LIVIO SICHIROLLO PREMESSA
10
SUL PROGRESSO
51
GIUSEPPE BEVILACQUA
POSTFAZIONE
APPUNTI SU ERNST BLOCH
E L’ITALIA
«Ernst Bloch, professore emerito dell’Università di Lipsia,
classe 1885, nato a Ludwigshafen, autore di Geist der Utopie,
Thomas Münzer ah Theologe der Revolution, Spuren, un crociato
mediterraneo, emigrante in America, scrittore, filosofo...
questo Bloch, lo si è detto sovente, ha l’aspetto di un profeta
del Vecchio Testamento, ribelle e saggio. Capelli
bianchissimi, occhi potenti dietro lenti spesse, fronte dai
solchi profondi, il volto contratto tra naso e labbra quasi a
forma di prua, concentrato sul triangolo mento-occhi... ma
non è che l’apparenza. Solo la lingua dà al suo volto intenso
e veramente umano i contorni giusti. E che lingua solenne -
spirito sopra le acque, respiro e alito, materia in cui
prendono consistenza associazioni fugaci: dalla chiacchiera
al concetto, dalla battuta di spirito (Witz o storiella
chassidica) alla citazione storica, dall’informazione precisa
all’aneddoto. Si stava forse parlando di Carmen, di Mosè, di
George oppure di Artemide, di sigari, delle vetrine dei
negozi, del trambusto prenatalizio, di Engels o del Messia?
La sua voce profonda, con leggero accento renano, si è ormai
da tempo liberata dai punti fermi nel tempo e nello spazio:
l’intera successione dell’accadere è in lui contemporanea ».
Così Walter Jens, filologo classico dell’Università di
Tübingen e critico militante già celebre presentava l’anziano
amico su «Die Zeit» (18 dicembre 1959), il noto filosofo
comunista e marxista che, molto discretamente, stava per
lasciare la DDR e la cattedra di filosofia di Lipsia per passare
nel meno austero Occidente, in un’altra università famosa, a
Tübingen.
Inutile presentare Bloch oggi in Italia. Le sue opere
maggiori sono tradotte, intorno alla sua filosofia della
speranza e dell’utopia si è acceso un dibattito ampio nei
tardi anni Sessanta e in seguito, poi le celebrazioni, i
congressi e le pubblicazioni in occasione del centenario della
nascita (1985) hanno fatto il resto. E non dimentichiamo che
in quell’anno cadeva anche il centenario di Lukàcs, l’amico e
poi fratello nemico con il quale attraversò quel singolare
fosforo e incendio culturale e politico che furono gli anni del
primo dopoguerra in Germania. Anche se la sua opera,
profondamente problematica, drammatica, culturalmente e
letterariamente raffinata, potente e suggestiva, continua a
essere più ammirata che conosciuta, più citata che discussa
(non fosse che per le enormi difficoltà di intendimento
linguistico), Bloch resta uno dei pensatori più colti, acuti e
sensibili del secolo, il solo che seppe dare forma positiva, in
qualche modo sistematica, a un materiale incandescente,
ricco, contraddittorio, talora anche ambiguo e pericoloso: la
cosiddetta cultura di Weimar. Riuscì a trarne
un’interpretazione del tutto originale del marxismo, che
volle inserire nella tradizione ebraica, nel naturalismo
rinascimentale italiano, l’una e l’altro nutrendo alle fonti
delle più diverse tradizioni, apocalittiche, utopistiche,
anarchiche. Un marxismo continuamente autocritico,
autorinnovantesi, proiettato in avanti, in un futuro che non è
visto più come la fine della storia e tanto meno come il
superamento della natura: uomo-natura-storia debbono
poter fare tutt’uno, nel senso di confluire l’uno nell’altro, «
in un umano non ancora presente, ma di certo anticipabile».

Detto questo, mi limito ad alcune indicazioni essenziali. A


Bloch sono stati dedicati due fascicoli di «aut aut»: n. 125,
settembre-ottobre 1971, e n. 173-174, settembre-dicembre
1979; recente è la monografia di Laura Boella, E. Bloch. Trame
della speranza (Jaca Book, Milano 1987): rinvio alla sua
introduzione per le informazioni bibliografiche italiane e
tedesche. Remo Bodei, Multiversum. Tempo e storia in E.
Bloch, Bibliopolis, Napoli 19842, ci ha offerto il lavoro forse
più vicino e attento al saggio che qui pubblichiamo.
Differenzierungen im Begriff Fortschritt (Differenziazioni nel
concetto di progresso) è il testo di una conferenza letta
nell’ottobre nel 1955 , in Sitzungsberichte der dt. Akademie der
Wissenschaften zu Berlin, Klasse für Philosophie,
Geschichte..., 1955, n. 5, pubblicata in estratto nel 1956, 19572.
Il testo è stato ripubblicato in Tübinger Einleitung in die
Philosophie, vol. 1, Suhrkamp, Frankfurt 1963, riveduto nella
forma, senza il paragrafo «Progresso secondo
l’imperialismo» e senza la seconda parte del paragrafo «
Volontà d’arte... » (a partire dal capoverso: « Lo sviluppo
disuguale infrastruttura-sovrastruttura... » e con una breve
aggiunta alla fine del saggio dopo il corsivo a partire da:
«Ma più vicino a noi un ampio Omega...»); infine nel voi.
XIII della Gesamtausgabe, presso Suhrkamp, 1970.
La traduzione italiana, a cura di Giancarlo Scorza,
apparve per la prima volta in Ernst Bloch, « Differenze » 1,
1962 (presso l’editore Argalia di Urbino), con una poesia di
Peter Huchel e scritti di H.H. Holz e G.A. Zehm,
rispettivamente sullo stile filosofico di Bloch e sui difficili
anni di Lipsia. Riveduta, la traduzione fu ripubblicata nella
silloge blochiana Dialettica e speranza (Vallecchi 1967, nella
collana «Socrates» diretta da A. Massolo), a cura di chi
scrive.
Per la presente edizione, che inaugura questa nuova
piccola collana, ho seguito il testo dell’ultima edizione nella
Gesamtausgabe, ma ho lasciato, in parentesi quadre, i brani
soppressi dell’edizione presso l’Accademia berlinese del
1955-1957. Ho riveduto la vecchia traduzione, e sono
intervenuto fino a modificarla talora in modo radicale, in
parte rifacendola (sono grato a Laura Boella che mi ha
gentilmente aiutato nella revisione e correzione di numerosi
luoghi). A volte sono stato costretto ad allontanarmi dal
testo, almeno dalla sua lettera. I lettori, gli studiosi di Bloch
possono capirlo. Diciamo la verità: il suo dettato appare
tanto più difficilmente traducibile quanto più se ne
frequenta la lettera e più ci si avvicina allo spirito.
Ne dice qualcosa Giuseppe Bevilacqua, che ebbe lunga
consuetudine con Bloch, nelle poche intelligenti pagine che
riprendo qui come postfazione, un ricordo caro della
primavera 1960 trascorsa insieme a Tübingen, con Bloch e
Walter Jens (Werk und Wirkung Ernst Blochs in Italien è il testo
di una conferenza tenuta il 6 febbraio 1986 presso l’Europa-
Zentrum di Tübingen, poi presso l’Istituto Universitario
Europeo di Firenze, apparso nel volume Identität und
Solidarität. Aspekte europapolitischer Bildungsarbeit, hrsg. v. M.
Bosch e G. Schulten, Saarbrücken-Scheidt 1988; trad. it. di
Anna Ruchat, già in Tramonto dell’Occidente?, a cura di G.M.
Cazzaniga, D. Losurdo, L. Sichirollo, QuattroVenti, Urbino
1989).
Perché questa ristampa in una nuova collana? Perché Bloch?
Perché uno scritto sul progresso - un concetto che da
qualche decennio tanti illustri pensatori e storici
contemporanei ritengono stupido come quel XIX secolo che
ne fece l’apoteosi? Le ragioni stanno nella ristampa stessa.
Chi vuole capire non ne ha bisogno, chi non vuole capire ne
fa volentieri a meno.
Chiusi i banali e debolissimi anni Ottanta, penso sia bene
rimettere in circolazione un concetto forte, sostenuto da un
pensatore forte, con qualche idea e convinzione di come
debba o almeno dovrebbe essere il mondo - intendo la
società e la storia, noi stessi.
Dedico la mia rilettura e revisione delle pagine blochiane
al secondo centenario della Rivoluzione francese, in
particolare al tartufare acutissimo, e riccamente rimunerato,
dei suoi critici.
Ai quali non par vero di potersi servire di questa
occasione e di quanto succede nel mondo per una ennesima
liquidazione di Marx. Sbagliano. Leggano o rileggano queste
poche pagine, serenamente. C’è un Marx nuovo qui, a
dispetto di ciò che di più datato sembra di poter cogliere -
un’accettazione entusiastica (e talvolta non critica) dei
tentativi storici di realizzare il socialismo: un Marx più vivo
che mai, come del resto era vivo negli anni Cinquanta: ma
anche allora Bloch predicava nel deserto. Un Marx che apre
la storia alla natura, inserisce natura e storia naturale nella
storia sociale umana, e toglie di mezzo qualsiasi visione
antropologica dell’universo, umano e naturale; un Marx,
ancora, che aiuta a pensare il compimento dell’unità del
genere umano, a vedere le forme della sua possibile
esistenza comune. È il fondamento teorico delle nostre
chiacchiere sull’ambiente, l’ecosistema, la qualità della vita,
il nuovo rapporto col mondo esterno; è il risultato essenziale
di quanto la tradizione classica ha consegnato ai suoi
posteri. Bloch comincia là dove Marx stava per finire (penso
agli inediti sulla tecnologia e le macchine, al terzo volume
del Capitale).
Queste pagine videro lontano - più di quanto il loro
stesso autore potesse immaginare: le sue ormai antiche
riflessioni sono diventate i problemi, vitali, dei nostri giorni.
Smettiamo, di grazia, di continuare a metterle
accuratamente da parte.

L.S.

Ringraziamo caldamente l’editore Suhrkamp per aver autorizzato la presente


pubblicazione italiana straordinaria.
SUL PROGRESSO
Un buon concetto

Vi sono termini che agiscono da sé in modo del tutto chiaro.


Hanno lineamenti schietti, e ci si lascia convincere senza
difficoltà. Il loro significato, quindi il loro concetto, sembra
essere così limpido e semplice che nulla vi è più da obiettare.
Ad essi appartiene in prima linea il concetto di progresso,
uno dei più importanti nella nostra lotta e uno di quelli che
noi con il mattino abbiamo indubbiamente al nostro fianco.
Questo concetto radioso e positivo agisce anche
formalmente in modo chiaro, come se ciò che esso esprime
fosse difficile da conquistare ma facile da comprendere. Il
suo significato appare così non soltanto chiarificatore ma
finanche semplice e manifesto.

Il prezzo del progresso

Ma è sempre stato altrettanto chiaro che un progredire, per


essere proficuo, non occorre che sia anche assolutamente
identico: qualcosa può andare perduto, è evidente come nel
destarsi del bambino al giovane, del giovane all’uomo. Jean
Paul perciò parla del bambino dormiente come di un duplice
bambino: egli ha voluto esprimere una cosa ben diversa dal
ben noto sorridere. Nel crescere
qualcosa non giunge a compimento, e non sempre avviene
«un superamento»: la semplicità del bimbo può diventare
nel giovane generosità. Un confronto non è possibile;
tuttavia, per una stessa necessità, accade che una situazione
precedente confrontata con una susseguente appaia
migliore: anche nell’evolversi sociale infatti non tutti i volti
sono lieti. È noto come sia triste la situazione della classe
lavoratrice in Inghilterra al tempo della rivoluzione
industriale senza dubbio progressiva. Certo,- questa miseria
formava la premessa per l’inizio dello scatenarsi delle forze
produttive capitaliste; il lato negativo, il completo
abbrutimento, venne da essa stessa creato dialetticamente.
Tuttavia, che spaventosa perdita si produsse qui col
progresso, un «progredire» come lo sviluppo dello scorbuto
o della tubercolosi! Una carenza non solo nello scopo della
comune sovrapproduzione, ma proprio nel più genuino
dilatarsi delle forze produttive. Questo è caratteristico di
tutta la nascente condizione capitalistica: progressiva, e pur
tuttavia tristemente progressiva.

Regresso e così detta insegna dell’Araldo

Ombre in contrasto vi sono ovunque e son per questo


inerenti allo stesso progredire. Ma che sarà se in quello
svolgersi delle vicende che presuppone sempre il dopo, il
più tardi, come il meglio, in una evoluzione non solamente
numerica - che sarà se questo procedere porta a regressi del
pari enormi? E a dire il vero per nulla dialetticamente
necessari come nel caso dell’accresciuta miseria dello
sfruttamento e della rivoluzione industriale:
Hitler, per esempio, non era in nessun modo la negazione di
cui il socialismo aveva bisogno per la sua vittoria. Non v’è a
questo riguardo nessun indice sicuro dell’evoluzione
temporale del progresso, secondo il quale nella storia, in
ogni caso o anche soltanto nel complesso, il successivo

12
significhi proprio un di più rispetto a ciò che precede.
Questo sembra ovvio. A Hegel comunque non parve tale: la
guerra del Peloponneso dopo l’età di Pericle, la guerra dei
Trent’anni dopo il Rinascimento posero serie difficoltà al suo
concetto di negazione, altrimenti generale, ausiliario del
progresso. Il pungolo di quella verità lapalissiana sollecitò a
tal punto Rousseau che, per amore del progresso
democratico borghese, rappresentò l’intera storia sino ai
nostri giorni, « quando la disuguaglianza tra gli uomini si
manifestò», come un peggioramento, togliendo di mezzo
persino la civilizzazione sino allora realizzata come un triste
tratto di tempo a paragone del felice evo remoto, lo stato
naturale. Tesi astratta, assurdamente esagerata, sottolineava,
tuttavia, gli esistenti regressi dell’avvicendarsi contro una
idolatria del tutto astratta della successione del tempo in sé.
Infatti, la temporale-feticistica idea del progresso significò,
presso la socialdemocrazia che seguì, addirittura un concetto
autonomo del progresso stesso motivato con dati’ in
apparenza economici attraverso un preteso sviluppo
autonomo del capitalismo nel socialismo «successivo a
quello». Questa specie di euforia del progresso non servì,
come è noto, al progresso medesimo. Impediva piuttosto il
vero progredire, così come serviva per lo più da ideologia
per il malcontento, impediva a se stessa di essere una ruota
nell’ingranaggio della storia. Il segno più, dice Hermann
Cohen, e l’affermazione è opportuna, è la mazza araldica del
tempo; ma il semplice tempo venne anche raffigurato, non
sempre a torto, con l’immagine della clessidra, come vetro,
con sabbia che scorre verso il basso, e la falce. Il segno «più»
come insegna araldica in capo alla marcia suppone in ogni
caso, anche in tempi obiettivamente favorevoli, e tanto più
in tempi di reazione o in terreni difficili, uomini
d’avanguardia che la portino avanti. Altrimenti il progresso,
che non sempre è agevole e mai formale, diviene appunto il
feticcio di un semplice succedersi e in certi casi un
apportatore di danno e di paralisi. Come con Hitler secondo

13
il sedicente tout va bien di tipo automatico o proprio perché
automatico.

[Progresso secondo l’imperialismo

Anzi una certa, per così dire, specie bianca di questo


concetto poté persino venir utilizzata in modo del tutto
indegno. Non soltanto lo scorbuto o la tubercolosi o il
numero dei giovani delinquenti nelle grandi città occidentali
aumenta, ma si estende proprio quella superba dilatazione
degli affari che avanzò al comando «avanti a pieno vapore»,
e ha lasciato dietro di sé, in due guerre mondiali, milioni di
cadaveri. In questo «progresso» pervertito è persino più
chiaro, che non in quello del semplice susseguirsi, un fine
efficiente: infatti, senza riferimento a un fine, nessun
succedersi in genere può venir concepito e valutato come
qualcosa che si accresce in qualità. Ogni progresso è tale
rispetto a qualcosa a cui tende, e quasi come sinonimo viene
così usato anche il concetto di evoluzione, perfezionamento
— a differenza del semplice sviluppo, dell’evolutio nel
significato primitivo del vocabolo. Nondimeno se questa
aggiunta di una meta finale non viene a lungo mantenuta
come qualcosa di conforme a uno scopo umano prezioso,
positivo e valido, anche una palese distruzione, per il solo
fatto che essa aumenta e crescendo diviene formidabile, può,
come si è visto, presentarsi quale progresso e come tale
ingannare. Quest’ultimo concetto è degno di grande
attenzione; infatti non soltanto l’epoca guglielmina lo aveva
magnificamente incrementato e voleva portarlo al massimo
rendimento, ma anche il tramontante imperialismo lavora
ancora, a tratti, con un concetto errato di progresso. Perciò,
una classe che storicamente non ha più futuro ha sempre
interesse a negare il vero progresso nella storia (come
vedremo poi) - tuttavia è di moda il progresso corrotto, con
obiettivi inumani e di valore negativo: sia a mezzo di una

14
scienza, di una tecnica senza dubbio sviluppate ma i cui
motori, in ultima analisi, sono avviati e mantenuti in
funzione specialmente per il fine della guerra; sia soprattutto
col gioco di «sempre nuove fasi» (cioè artifizio o bolle di
sapone) del capitalismo, come se ad esso fossero ancora
aperte infinite elusive carriere, carte da giocare di fronte al
socialismo. Prevale appunto proprio quest’ultimo gioco:
come se un eunuco rimproverasse l’impotenza a Ercole
infante. All’interno degli Stati imperialisti, quindi, la
reazione viene spacciata per lo meno come un progresso
temporale non appena essa riesca a presentarsi di fronte alle
sue vittime come nuovo «avanti a tutto vapore». Con
l’apparenza dunque della massima «modernità», e a
differenza del marxismo, che già Goebbels chiamò «il più
profondo diciannovesimo secolo». Di conseguenza, non c’è
più proletariato come non ci sono capitalisti, tutto questo
deve anzi considerarsi sorpassato insieme al materiale
economico che Marx aveva a suo tempo esibito. Al suo
posto, si dice, è subentrata una nuova «classe media», con
crescente partecipazione al « prodotto sociale », e inoltre una
«classe di amministratori», la quale non avrebbe niente in
comune con i precedenti capitalisti se non l’iniziativa, e
anche questa, essendo iniziativa di amministratori, non
sarebbe più iniziativa privata. La dottrina della nuova classe
media non è a vero dire altro che l’antico revisionismo; e
siccome questo avanza — sostenuto dall’energia del capitale
monopolizzato - con ideologico passo da gigante pieno di
apparenti miracoli economici, può mascherarsi da
progresso. Grottesco, s’intende, un progresso che spesso -
come apertamente si ammette - tende al nulla, e tuttavia tale
da presentare punte illusorie con carattere di avanguardia.
Per lo meno agli occhi di coloro la cui arretrata coscienza
politica punta sulla «modernità» e crede di trovarla in
quell’ultimo stadio del capitalismo che s’impone con
risultati spettacolari.

15
È quindi necessario separare il puro e semplice
susseguirsi dal suo falso splendore. Tanto più che l’abuso
del concetto di progresso ha anche la capacità di camuffare
gli uomini. Non tanto in casa propria, dove l’asserita
elevazione del quarto stato può venir verificata troppo
facilmente sul cuore o i reni, specialmente sul primo.
Elevazione e progresso in paesi lontani, presso « la gente di
colore», vengono da tempo presentati come fatto
sentimentale, in un senso ideologico-coloniale. «The white
man’s burden», disse una volta Kipling, ed egli intendeva
l’assistenza ai negri e anche agli indiani da parte dei loro
altruistici dominatori ed educatori che tanto per essi si
adoperavano. Non si tratta più, qui, di una superiorità del
nuovo revisionismo sul sorpassato Marx, ma della
superiorità delle bianche divinità, sempre accettate anche
quando i minatori delle loro colonie dovevano chiamarle
diavoli bianchi. Come dicono coloro che utilizzano Kipling,
benché siano tutt’altro che poeti, il colonizzatore spagnolo
non ha forse fatto scomparire i sacrifici umani degli Incas e
degli Aztechi? Non ha forse la Compagnia delle Indie
orientali messo le basi perché gli inglesi, sia pure soltanto
nel diciannovesimo secolo, proibissero, per legge, che le
vedove fossero bruciate con il cadavere del marito? Infatti,
questi miglioramenti del costume esistono, sebbene siano
stati pagati con orrori senza numero (Cortez, Pizarro,
Hastings). Ammesso pure che una determinata parte della
colonizzazione abbia, come cosa accessoria e decorativa,
portato un «progresso» di fronte alla «nativa barbarie», il
concetto di progresso non è qui particolarmente degenerato
e diretto a uno scopo il cui preteso umanitarismo sbocca
esclusivamente nel guadagno? Per cui lo scopo umanamente
negativo trionfa alla fine come sin dal principio era inteso:
un progresso cioè operante in funzione del massimo
guadagno con solo qualche beneficio per la predica
domenicale. Ma l’Africa, che era quasi completamente
smembrata in colonie, è chiamata continente oscuro; l’India,

16
con l’ottanta per cento di analfabeti alla fine della
dominazione inglese, vedeva il sacrificio delle vedove
sostituito dalle carestie più spaventose della sua storia.
Questi popoli hanno scambiato i propri signori feudali con il
freddo dominio del capitale produttivo; il quale alla fine
divenne, grazie alla loro economia mantenuta primitiva, la
porta d’entrata dei popoli delle colonie verso la cultura
europea. Ciò a cui serviva prima il «cristianesimo » dei
missionari (Bibbia a parole, cotone nell’intenzione), serve,
nella nuova ideologia coloniale, la « cultura atlantica», come
ingannevole progresso contro corrente: anch’esso, anzi esso
soprattutto, con intenti esclusivamente imperialistici. Il
progresso, lasciando da parte il miraggio di Atlantide, può
venir pervertito anche da un fine troppo europeo; proprio la
limitatezza di questo fine porge, senza che lo si voglia, un
aiuto. Infatti, il ristretto limite che tale progresso si propone
può estendersi dalla ghiacciaia sino al Partenone: dopo di
che, reso addirittura canonico, può venir adoperato dalle
divinità bianche in una prospettiva atlantica. Con altre
parole, bisogna considerare se non possa servire
all’ideologia dell’imperialismo coloniale una
sopravvalutazione, sollecitata da tutt’altre ragioni, del
concetto di classico, configurato dall’Europa come se fosse
quello che pone tutto il resto nell’ombra. Il Partenone (ci
atteniamo a questo grande esempio per nulla togliere alla
complessità del problema) non è cresciuto sullo stesso
terreno della plastica dei negri né sul terreno dei templi
indiani o delle pagode cinesi; ma in ogni cultura v’è, in
forme nazionali, una propria classicità. Nella stessa Europa,
infatti, l’arte greca è soltanto una delle forme giunte a
maturazione, e confrontata con il Gotico o col Barocco non è
la sola a essere normativa. In ogni caso un classicismo tratto
da ciò che è classico per i bianchi, in quanto si presenta
ovunque come canonico, può innalzare fino alle stelle la
«supremazia dell’uomo bianco». Non soltanto le costruzioni
di vetro americane, ma anche la facciata più classica non è

17
per i popoli dell’Asia un progresso connaturale, ammesso
che lo sia nell’architettura europea. Questo sia scritto nel
libro delle memorie anche dei nostri classicisti, serva alla
loro nobile ingenuità, alla loro non sempre innocua
grandezza, per evitare conseguenze che essi invero non
avrebbero voluto. Se la vecchia politica, nient’affatto
classicistica, di spoliazione mondiale, che si presenta sempre
sotto l’aspetto relativamente luminoso del progresso, vuol
riferirsi al preteso incivilimento e pacificazione fra i popoli
delle colonie, si può sempre opporre che il regime coloniale -
anche se col capitalismo avesse diffuso risultati di
incivilimento - non era affatto necessario al raggiungimento
di tali effetti. Basta un solo esempio per togliere al
colonialismo l’ultima apparenza di progresso luminoso e di
necessità inevitabile: la Cina, che soltanto su alcuni tratti
delle coste, e anche là molto tardi, si era adattata a criteri di
colonialismo imperialista, balza da forme semifeudali alla
tecnica e al razionalismo - a quello giusto. E questo con
accanto l’Unione Sovietica, e non a mezzo del progresso da
iene dell’imperialismo e del suo tempo ormai sorpassato.]

Ineguali sviluppi nella infrastruttura tecnica e


nella sovrastruttura

È tempo di prendere in considerazione quella nobile


regione, nella quale soltanto vive un vero impulso in avanti.
Anche in questo paese appaiono, tuttavia, non poche
effettive aporie nel concetto di progresso che esigono
differenziazioni più precise. La differenziazione sorge qui, in
forma del tutto materiale, nell’oggetto stesso; essa necessita
soltanto di venir raffigurata filosoficamente (certo non si può
fare a meno della filosofia). Il progresso nell’infrastruttura,
conquistato non in modo tenebroso e perverso, non è affatto
eguale nella misura e nella forma. Esso, anzi, è molto
diverso, da un lato nel gruppo funzionale: forze produttive e

18
condizioni di produzione (base economica); e dall’altro nel
gruppo ugualmente funzionale (non soltanto riflesso), ma
dal primo regolato: sovrastruttura. Le forze produttive,
infatti, come anche le condizioni di produzione, potrebbero
segnare un progresso a cui eventualmente la sovrastruttura
non solo non tiene dietro, ma è talvolta persino contraria,
con particolare danno per la cultura. Un esempio, piccolo
ma assai evidente, attraverso uno stesso tipo di oggetto, è
offerto appena lo si osservi dallo sviluppo della tecnica
dell’illuminazione che è o era rappresentato con significativi
esemplari nel Museo della Tecnica di Monaco. Dalla fiaccola,
dalla lucerna di terracotta trascorse un lungo periodo, con
progressi tanto tecnici quanto estetici, fino al lampadario
romano, bizantino, alle lampade da moschea (che sono vere
fiabe orientali), e anche in seguito la corsa verso il migliore e
più bello continua. Finché le vie del progresso tecnico ed
estetico, che rimasero sin qui unite, si separano: giunge la
lampada a petrolio, sempre più chiara, ma anche sempre più
brutta, la calza di Auer, abbagliante, in verità, solo
fotometricamente, quindi la nuda lampadina a
incandescenza, all’inizio così abbacinante e che soltanto a
poco a poco, per mezzo di un vetro opaco o di schermi,
viene attenuata fino a che il suo considerevole chiarore più
non trafigge. Ma il candelabro sui vecchi tavoli di mogano
diffonde veramente anche oggi un lume non solo più mite
ma anche più festoso.
Come si è detto questo è un piccolo esempio, uno di quelli
che non possono nemmeno venir forzati. Andarono certo di
pari passo per lungo tempo l’illuminazione tecnicamente
migliore con la più bella, ma ciò non deve essere motivo di
sentimenti romantici. Nelle cose grandi, importanti, nel
punto d’incontro della tecnica e della cultura, si verifica,
talvolta, la famosa norma di Marx della «disparità di
sviluppo». Marx accenna, nell’introduzione alla Kritik der
politischen Oekonomie, alla diversità tra elevato sviluppo
artistico e modesto sviluppo tecnico in Grecia, e alla

19
condizione affatto opposta nel mondo capitalistico moderno.
Innanzi tutto, secondo Marx, il grande poema epico può
venir creato solo a un livello di civiltà tecnica relativamente
primitivo; sì che il progresso può procedere, nelle forze
produttive da un lato, nella sovrastruttura culturale dall’altro,
in modo assai diverso. E qualcosa di simile vale anche per il
progresso nei rapporti di produzione, cioè propriamente nella
infrastruttura in relazione alla sovrastruttura; così, con
impressionante contrasto, Bach e Leibniz non corrispondono
affatto alla miseria della Germania di allora. I loro piedi ne
sono stati appena sfiorati, mentre d’altro lato uno sviluppato
capitalismo avrebbe potuto essere anche avverso alle Muse.
«La produzione capitalista molto pronunciata», dice Marx
nelle Theorien über den Mehrwert, «è nemica di certi settori
spirituali della produzione, come l’arte e la poesia». Senza
questa visione, senza questa separazione di una prosperità
economica e sociale da un’epica non altrettanto fiorente, si
arriverebbe alla « illusione dei francesi del diciottesimo
secolo, di cui Lessing si faceva beffe con tanta grazia»; il che
significa a sua volta: politica e arte nei riguardi
dell’elevazione borghese non furono sempre vasi
comunicanti. Per quanto sia stretta la connessione materiale
fra la base determinante e ciò che essa determina, la
sovrastruttura, sulla prima a sua volta operante, il progresso
in ambedue non avviene necessariamente nello stesso modo,
nello stesso tempo e soprattutto al medesimo livello. Vi si
aggiunge qualcosa di estremamente decisivo, che concerne
proprio il diverso grado: il fine, ovunque così essenziale alla
categoria del progresso. Un’opera, se non è soltanto
importante, ma progressivamente importante, importante in
modo sempre più vasto, si identifica con il fine al quale essa,
come opera in divenire, è preordinata, fine che è spesso
molto al di là della così detta « totalità » di una società.
Altrimenti sarebbe escluso il fatto che essa non partecipa al
superamento di una passata infrastruttura e anche di una
parziale (politica) sovrastruttura. Non ci sarebbe, altrimenti,

20
nessuna operante eredità culturale: non intendo quella che si
manifesta nelle parrucche (nei balli mascherati o nei costumi
teatrali), bensì in Bach e Leibniz; e non quella della politica
dei principi del Rinascimento, ma della cultura del
Rinascimento - tanto sono intramontabili simili rilevanti
eredità, a differenza di vasti settori delle loro infrastrutture e
anche di una parte delle sovrastrutture. Anzi, queste eredità
sono operanti in un loro specifico progredire, ben lungi
dall’essere raggiunto, con sempre nuove possibilità del loro
contenuto. V’è anche motivo sufficiente per parlare di
sviluppo ineguale, di un progresso eccedente nel Werther,
ma anche del tutto localizzato nel tempo nel codice civile
prussiano del 1794 o anche nella Laune des Verliebten. E
motivo sufficiente per associare la sovrastruttura in sviluppo
del Werther o della Zauberflöte o del Faust, tenuto conto del
loro fine, posto molto lontano e molto in alto, a un progresso
diverso da quello che risulta dalla transitoria armonia delle
forze produttive con le condizioni di produzione.

« Volontà d’arte » , giusto movente ma anche ostacolo allo


sviluppo culturale

Una nuova complicazione è connessa al movimento in


avanti: o piuttosto, non al procedere stesso, ma a nuovi
intralci, diciamo, sul suo cammino troppo rettilineo. Le
aporie che ora sorgono derivano prima di tutto da nuove
valutazioni di forme che furono a lungo ritenute semplici
stadi di preparazione a presunte forme più perfette. Per
molto tempo si videro nelle sculture egiziane i rigidi
archetipi di quelle greche; anche perché si giudicò la plastica
egizia in analogia con quella arcaica greca veramente
«rigida». Naturalmente il giudizio di valutazione era dato
dall’ideale classico di bellezza, ed era parziale; alla fine
persino Thorvaldsen, di fronte alla testa di re Zoser della III
dinastia, era considerato un «progresso». Per cui Edipo

21
avrebbe risolto l’enigma non soltanto della sfinge tebana ma
anche di quella egiziana, e la soluzione fu: l’uomo - proprio
nel suo aspetto esclusivamente greco-classico. Oggi, questo
creduto progresso dalla plastica egizia alla greca non è più
così evidente; anzi, appunto in Egitto appare un maggiore
valore plastico in forza della unità di blocco delle sue statue.
Alois Riegl aveva perciò introdotto, al posto della
svalutazione classicistica di tutta l’arte non attica, il concetto
di « volontà d’arte», nel senso di propositi artistici
individuali e problemi di forma in ogni grande cultura. (La
cosa non è nuova in verità: il problema si presentò già nel
xvm secolo nelle Letters on Chivalry and Romance di Richard
Hurts, 1762, nella prima riscoperta del Gotico). Il concetto di
«individuale volontà d’arte» fu in seguito, da Worringer
(Abstraktion und Einfühlung, 1908), reso troppo psicologico,
dualizzato e addirittura irrazionalizzato; tuttavia anche
presso il Riegl (Stilfragen, 1893; Die spätrömische
Kunstindustrie, 1901) manca ancora qualsiasi consapevolezza
di un assunto reazionario; egli eliminava solamente lo
schema classicistico. Nell’orizzonte di questa «volontà
d’arte» sorse, senza mediatori finalmente, l’arte extra-
europea; a un esame più diretto scomparve il presunto
superamento della scultura egizia da parte della successiva
plastica greca. Mentre così l’arte greca non appariva più
indiscutibilmente progredita di fronte a quella egizia, veniva
nello stesso tempo posto il principio per inserire, in modo
diciamo del tutto poetico, nuove aporie nel concetto di
progresso. D’altra parte, poco dopo Riegl, tali aporie
coincisero con l’interesse della borghesia decadente volto a
svalorizzare il progresso come categoria storico-filosofica, a
non considerarlo, per lo meno in questioni propriamente
culturali, come storico. A tal fine venne sfruttata la
molteplice diversità esistente tra fioritura tecnica e culturale,
diversità che fu esagerata fino alla tesi dell’astoricità dell’arte
e della sua intenzionalità. Qui entra anche la sociologia della
cultura di Alfred Weber: essa ammette il progresso nella

22
«evoluzione della società» e nel «processo della civiltà»
tecnico scientifico, ma scorge il «procedere della cultura»,
che deve operare al di là di queste «esteriorità», di questo
«involucro», in «ritmi di vita » del tutto diversi da quelli del
progresso nel suo costante accrescersi. Per Hegel l’intera
storia consisteva ancora in un «progresso nella coscienza
della libertà»; storia era per lui solo il progresso umano
strettamente unitario, conforme al concetto base della sua
filosofia della storia: «Tantae molis erat humanam condere
gentem». Il «salvamento» in sé così meritevole dell’arte sino
allora sottovalutata (anche di quella così detta dei barbari)
portò invece, principalmente nel tempo della decadenza
borghese, dell’antidemocrazia, alla demolizione del concetto
di progresso della cultura. Non soltanto il fascismo sottrasse
alla Nona sinfonia il suo senso di umanità, ma addirittura
annullò il concetto di unità del genere umano, già intuito
dalla Stoa quando il progresso era stato compreso come
coerente e appunto storico-universale. Qualcosa in tutto
questo non collima. [Mentre il cattivo uso del progresso nella
ideologia storico-coloniale era trasparente inganno, la
corrispondente negazione del progresso secondo le conseguenze
riegliane non è affatto trasparente né scevra di problemi.
L’Egitto e la Cina, quali innegabili aporie niente affatto «pre-
greche», ci rendono edotti del concetto di progresso sino ad
ora seguito, di quello, come si è visto, troppo rigidamente
indirizzato all’Europa.] Le aporie del concetto di progresso
seguito finora, troppo rigidamente indirizzato all’Europa,
hanno per sé una vasta storia dell’arte insieme a proprie
valutazioni estetiche assolutamente sostenibili, per lo meno
serenamente discutibili, dell’arte non greca e soprattutto non
europea.
[Lo sviluppo disuguale infrastruttura-sovrastruttura,
divenuto evidente nel precedente capitolo, appare ora,
mutatis mutandis, come discontinuità del progresso tra alcuni
stadi dell’arte nella sovrastruttura medesima. Se queste
aporie non verranno rimosse, se ogni tipo d’arte primitiva o

23
sconosciuta verrà posto ad un medesimo livello, prima o
intorno a una specie di Magna Grecia europea, la
demolizione reazionaria del progresso non soltanto si farà
ancora più grandiosa, ma finirà per utilizzare un materiale
marxista non ancora sufficientemente ordinato ed elaborato.
Se questo materiale viene invece preso in considerazione,
sarà per il nemico la disfatta, ma alla grande causa, alla
causa dell’umanità, che irresistibilmente avanza con tiro a
quattro, servirà per una nuova conquista.
La vera vita dei popoli non è ovunque cercata e
affermata sotto la bandiera rossa e soltanto sotto questa?
L’ampiezza di questa visione non si riferisce anche a un’arte
popolare ancora «bizzarra», «esotica» e a una cultura del
passato anche non ellenica? Ed ecco come si arriva alla
soluzione: il problema Egitto-Grecia posto all’inizio rivela,
quando giunge in mani esperte, la propria funzione di
progresso - sebbene a prezzo di un concetto di progresso
troppo schematicamente applicato, così astratto, che è
escluso appartenga al marxismo, alla sua vita e alla sua ricca
dottrina. Certo, la relativa negazione del progresso si
presenta in interessante contrasto con la sua vile
manipolazione presentata come giustificazione del
colonialismo. Tanto la falsificazione colonialismo-ideologica
quanto l’astorica negazione del progresso sono reazionarie,
ma sono anche tra loro non conciliabili. Se due truffatori si
bisticciano, dice Lessing, l’uomo onesto conserva il suo
denaro: in altre parole un veleno, come la negazione del
progresso culturale, può contenere, senza volerlo, nello
stesso campo, un antidoto contro l’ideologia coloniale e il
suo cosmopolitismo. Il concetto «volontà d’arte» aveva
qualcosa di protettivo, di condiscendente, e il suo irrazionale
procedere da gambero implicava il paradosso della
tolleranza reazionaria, diciamo, tolleranza che si riferiva
certamente solo al dispotismo, alla stregoneria, al cattivo
irrazionale nei «cicli culturali» dei popoli di colore. In ogni
modo il paradosso non può accompagnarsi con la

24
supremazia dell’uomo bianco e con tutte le
snazionalizzazioni che conducono a Washington. Ma si
lascino da parte le contraddizioni che il tardo capitalismo è
costretto a porre nella sua ideologia; al posto di qualsiasi
«individuale volontà d’arte», al posto anche degli
incapsulati «cicli culturali » (di cui parleremo fra poco) una
cosa sola conta: quel cocchio dai molti cavalli si impone
sempre più, l’intelligenza per il folklore e insieme per le
culture nazionali si struttura sull’unità del socialismo. Esse
sole rendono manifesto il loro non sminuito contributo
derivante da mille fonti insieme, secondo un concetto di
valore veramente democratico. Se un Oriente nella «
preistoria » viene sostituito da un’estremamente attuale Cina
o dall’India, che diviene sempre più attuale, o anche
dall’Africa, sorge allora, da quel fine di incivilimento
imposto dai bianchi, qualcosa come il concetto di orgoglio
degli uomini di colore per le culture nazionali non mediate
dall’Europa. E lo stesso Partenone, per il fatto che si presenta
come fondato in forme stilistiche antichissime e preasiatiche,
appare, nella sua vera grande umanità, non classicistico.]

«Cicli culturali», geografismi e posizione della pluralità

Altro ancora si tenta: speculare su ciò che è innegabilmente


difficile, e lo si fa a proprio danno. Ecco, già il termine « cicli
di cultura », gravido di un significato che va ben al di là di
Riegl, addirittura oltre l’arte figurativa. Si fa valere una
nuova aporia nel concetto di progresso, che proviene
anch’essa dalla sua unilinearità, ora strettamente legata alle
pretese di una vera e propria storia universale: l’aporia
dell’insufficiente spazio storico, cioè la difficoltà di sistemare
in modo visibile l’enorme materiale storico extra-europeo. In
tal modo il semplice susseguirsi del progresso, quella
concezione assiale del tempo, europea, se non proprio
tedesca, di cui si erano serviti Herder, Hegel, Ranke -

25
sebbene con molti capitoli contemporanei, marginali e
celebrativi - si vendica. Babilonia e l’antico Egitto possono
essere sì considerati assai semplicemente come passate
culture all’inizio dell’epoca storica, ma una simile
localizzazione non appare giustificata per la Cina e l’India, le
cui civiltà non possono dirsi passate come quella babilonese.
E del resto anche per l’antico Egitto e Babilonia il perdurare
della colossale influenza esercitata dalla loro civiltà, il loro
sistema fluviale ancora vitale, non può trovare adeguata
sistemazione. Questa reazionaria dottrina dei cicli di cultura
non voleva certo porre di nuovo sul tappeto il problema
storico della Cina e dell’India, al contrario. Essa intratteneva
legami con la superimperialistica geopolitica e lavorava in
generale col sistema reazionario dell’egemonia, che poi nel
fascismo, con la penetrante parola spazio, ottenne anche una
propria figura di fronte alla spiacevole parola tempo. Al
posto di uno «storicismo» troppo lineare, con Frobenius,
Spengler e altri « morfologi » e in ultimo anche con Toynbee,
prese il sopravvento una specie di «geografismo»: non con
movimenti progressivi, ma solo con stati biologici di
maturità all’interno dei singoli «spazi di cultura», e alla fine
soprattutto con fenomeni di età. Naturalmente anche questi
processi discontinui dovevano aver valore solo all’interno
dei singoli cicli di cultura, non però all’interno della totalità
e per la totalità del corso storico. A meno che questi fenomeni
di età, ma solo questi, non vengano posti in relazione con la
storia universale: nichilistica totale rovina per tutto il
sistema; e il geografismo frammentario sembra confermarlo
anziché escluderlo. Non soltanto il concetto dell’unità del
genere umano, espresso dalla Stoa, ma soprattutto il
concetto, implicito in Sant’Agostino, di una storia unitaria
del genere umano, viene così abbandonato. E viene
abbandonato proprio il concetto di «processo» storico, con il
quale la borghesia ancora in ascesa aveva avvalorato in
particolare la fredda nozione di « progresso » del
diciottesimo secolo. Avvalorato con una specie di chimica

26
storica, riconoscibile non soltanto nella filosofia naturale del
periodo romantico, ma anche nella filosofia della storia, in
primo luogo in quella di Hegel. Mentre il concetto di
progresso in Hegel parlava di un «erompere dall’interno»
del contenuto, come se si andasse formando nella massa in
fermento della fusione del metallo storico la «folgorazione»
dell’essenziale, proprio in Hegel questo erompere
dall’interno doveva essere in ultima analisi qualcosa di
unitario, con un divenire-per-sé che in funzione di fine-unità
tutto collega. Ma tutto ciò, e anche di più, scompare con la
dottrina dei cicli di cultura, con i compartimenti stagni e le
ipotetiche isole (senza comunicazione), che la «morfologia»
della storia universale di Spengler lasciava sussistere. Non
solo l’Egitto o l’India o la Cina sono mondi a sé stanti, ma
anche la Grecia (con il suo « concetto euclideo di cultura
dello spirito») si presenta radicalmente separata dal più
tardo Occidente (con il suo « concetto faustiano di cultura
dello spirito»). Perciò il geografismo si raccomandava come
spazio di deposito, ampio e particolarmente comodo, per tutte
queste culture e la loro storia. Costruendo la loro storia
soltanto secondo l’analogia infanzia-gioventù-virilità-
vecchiaia, il tempo, che non si può certo negare, veniva
anch’esso assimilato a un ciclo, e una coesistenza di molti cicli
era così resa possibile. Divenuto il tempo un ciclo, come la
vita degli organismi che pure trascorre ciclicamente, il
progresso fu concepito come un arco che alla fine sempre si
ripete. Ma poiché tali archi e cicli trovano un posto quasi
illimitato sulla terra uno accanto all’altro, senza un prima e
un dopo, persino senza una necessaria contemporaneità,
quel sistema spaziale geografico e segregante urta contro il
sistema temporale storico e in evoluzione. L’aporia sollevata
dal concetto unilineare di tempo, appunto per il
collocamento sistematico del materiale storico, specialmente
extra-europeo, era certamente evitata, messa da canto,
diciamo così. A mezzo di una cura radicale però, con la

27
morte dello stesso corso della storia che comprende e unisce
paesi, popoli e tempi.
Anche qui tuttavia l’avversario mette in evidenza ciò che
il progresso così concepito gli toglie immediatamente di
mano. Come nel concetto della «volontà d’arte» e nelle sue
conseguenze, se lo «spazio» non è avvelenato, può dar luogo
a un significato molto diverso da quello che i creatori dei
cicli culturali si erano prefissi. Essi stessi sezionano la storia
in parti, isole, autarchie e affinano parti costruite in modo
fittizio con ulteriore particolare artificio. Nel caso migliore la
storia appare come un circo americano, dove in piste diverse
e del tutto isolati gli uni dagli altri si esibiscono
contemporaneamente ginnasti, cavallerizzi o divoratori di
fuoco. Oppure, dato che ciò non serve alla dottrina dei cicli
culturali, la storia può essere considerata senza scopo e venir
trasformata in un gruppo montuoso circolare e
artificiosamente tracciato, simile a un paesaggio lunare. A
non altro conduce il geografismo reazionario, creato, come
tale, soltanto per la negazione dell’impulso di progresso e
del suo giusto concetto. A tal fine tuttavia - e anche questa è
una specie di astuzia della ragione - non si trova nella
categoria dello spazio che qui appare tanto offesa quanto
esagerata, nessuna difficoltà per sistemare il colossale
materiale storico della terra. Perciò bisogna tener conto, una
volta esaminato il concetto dei cicli culturali, di una specie di
appendice spaziale nella linea del tempo storico — del tutto
estranea alla statica interessata del geografismo. Con altre
parole, bisogna domandarsi se, all’interno del concetto di storia
come un susseguirsi di tempi, non siano per lo meno necessari
teatri contemporanei o molto vicini nel tempo,
rappresentabili press’a poco come accade nell’arte epica.
Certo, gli avvenimenti che la grande epica rappresenta su
vari teatri sono per necessità potentemente concatenati fra di
loro, mentre l’Europa e l’India e ancor più la Cina per
millenni comunicano poco o nient’affatto, e soprattutto sono
tutt’altro che «contemporanei» i diversi livelli sociali

28
raggiunti dai popoli della terra. Tuttavia, la
rappresentazione di una molteplicità è qui possibile: una
sistematica ricchezza del tempo e del concatenarsi dei tempi,
un’ampiezza di spazio, quindi, nella descritta evoluzione
storica, che non ha bisogno di nessun geografismo. Se in
certi casi le manchevoli o interrotte comunicazioni fra popoli
e i diversi livelli sociali introducono separazioni, ciò non
turba affatto l’unitarietà del corso: anche una sinfonia, per
citare questo esempio particolarmente adatto, non si svolge
affatto con un continuo di tutte le voci, al contrario. Il corso
unitario della rappresentazione è garantito, qualunque
interruzione si presenti (e si dà forse una realtà senza
interruzioni?), già per mezzo della legge interna di ogni
sviluppo sociale e dal suo sempre presente rapporto base-
sovrastruttura. Il perdurare di una originaria comunità, al di
sopra delle società di classe fino alla maturazione del
socialismo, si trova ovunque; in ogni nucleo di relazioni
sociali c’è un elemento di umanità - dall’antropologico fino
all’umano - che variamente lo colora e lo comprende in
unità. Rappresentare la storia universale come una
successione di periodi è senza dubbio molto più facile che
rappresentarla nella contemporaneità di luoghi e nella
pluralità delle sue voci; questo concetto topografico esige,
infatti, per lo meno quando si presenta come storico-
universale, un multiversum - anche nel tempo. Ma il concetto
di progresso attraverso tale sua maggiore difficoltà è meno
soggetto a perdersi; mentre tutt’altro accade col geografismo
stagnante e incline a soste. L’operante e presente
multiversum delle culture è esso stesso espressione del fatto
che l’umano non è stato ancora trovato, ma ovunque viene
cercato e sperimentato; così questo umano sempre in divenire,
dalle molte vie che ne fanno esperienza per raggiungerlo,
rappresenta la sola meta, veramente consentita, cioè
utopisticamente consentita. E quante più nazioni e culture
nazionali apparterranno al campo umanistico [socialista],
tanto più ampia, più sicura e operante, e perciò

29
comprensibile, diverrà l’unicità della meta per i multiversa
nella nuova storia della cultura.

Il problema di una struttura temporale «elastica» nella storia,


secondo l’analogia dello spazio di Riemann

[Il tempo è lo spazio della storia. Karl Marx]

Il tempo esiste solo perché qualcosa accade e dove qualcosa


accade. Ma finora non si è abbastanza riflettuto se e in qual
modo, nella varia forma del suo accadere, si manifesti anche
la diversa natura di ciò che accade. Nel tempo
semplicemente vissuto è chiarissimo, almeno per ciò che
riguarda un percepire e un rappresentare soggettivo, spesso
troppo soggettivo. L’esperienza del tempo per motivi che
qui non discuteremo, è del tutto contraria alla sua
rappresentazione. Un’ora piena di vita passa in un attimo e
una vuota si prolunga all’infinito; nel ricordo invece le ore
piene o una «grande» giornata si estendono potentemente,
mentre mesi di vuoto si raccorciano nel ricordo fino a
scomparire. Ma da questa diversa misurazione di un
periodo eguale per durata, e talvolta per contenuto, risulta
chiaro che il mero tempo vissuto non dice molto al nostro
problema. In particolare, la concezione soggettiva del tempo
si riferisce soltanto alla lunghezza del periodo, proprio come
per il tempo dell’orologio, esteriormente conchiuso. Una
differenza di contenuto o di qualità viene tutt’al più indicata
con l’espressione tempo «vuoto» o «pieno». In ogni modo si
enuncia così qualcosa che non risulta più nel concetto usuale
di tempo in quanto non soggettivo e metrico formale.
In questa valutazione sono escluse le mutevoli e sempre
inconciliabili misure della pura esperienza vissuta. Il tempo
cronologico è un progredire simmetricamente suddiviso in
spazi eguali; e perciò esso trapassa con violenza
«inesorabile», ossia uniforme. È possibile allora riportarlo a

30
una successione numerica ed esprimerlo grazie ad essa:
quadranti e calendari divengono realizzabili. Ma un
progredire che si può esprimere in tal modo è assolutamente
indifferente ai propri contenuti, che in esso avvengono o anche
non avvengono. È un’astrazione dalla vicenda vissuta, a sua
volta astratta: il tempo rettifica il vissuto, ma a prezzo di una
rigidezza da formulario. Rigidezza inevitabile per la
misurazione razionale del tempo, anche per il tempo
lavorativo (per quanto qualitativamente valorizzato in modo
molto diverso), per la cronologia storica, per la durata
giuridica dei contratti, e il metronomo è nelle arti il cui
campo è il tempo ciò che il regolo è per quelle dello spazio.
Ma neppure il «vuoto» e il «pieno», come denominazioni
appena approssimative di densità, si presentano nel tempo
cronologico: esso è dappertutto ugualmente denso; oppure
come cosa astratta, è ovunque ugualmente vuoto, con il suo
trascorrere o avanzare, in cui naturalmente non si accenna
ad un progredire qualitativo. Con quel formale battere in
avanti non viene indicato nemmeno uno scorrere
inesorabile, dato che vi sono mescolati contenuti di
derivazione molto diversa. Quando la moglie del
maresciallo, nel Rosenkavalier, ferma talvolta, nella notte,
tutti gli orologi perché essi segnano il tempo « che scorre »
verso la vecchiaia e la morte, vecchiaia e morte sono
connesse allo scorrere delle lancette, come per ornamento
negli orologi barocchi si soleva collocare una piccola
immagine di stagno della morte che con la falce batteva
perpendicolarmente le ore. E se è vero che la ruota della
storia, quanto meno alla lunga, non si può far girare
all’indietro, anche se deriva dall’orologio ed è ancora una
cosa sola con l’innegabile procedere in avanti della lancetta,
con quella ruota si indica un tempo-tendenza e quindi
qualcosa di qualitativo e non il tempo in sé neutro
dell’orologio. E sebbene tale tempo, essendo quello della
cronologia, si trovi per necessità alla base di ogni contenuto
storico, non rappresenta altro che il rigido scheletro sotto la

31
carne e il sangue del tempo concepito come tendenza. Se
perciò il tempo cronologico viene assolutizzato, offre
proprio il concetto opposto a ogni tentativo di pensare la
forma del tempo (in certi casi, quando il suo contenuto lo
esige) come non rigida, anzi di pensarlo come «elastico»:
come la nuova fisica, non più euclidea, in determinate
condizioni, minime o soprattutto grandissime, afferra e
comprende lo spazio. Il tempo cronologico batte invece
dopo come prima lo stesso eguale battito cronometrico,
indica la serie astratta del puro uniforme succedersi. Per
comprendere in modo adeguato il tempo storico e i suoi
«tempi» sarà dunque necessario molto di più di un «rubato»
o anche di un semplice mutamento di ritmo del metronomo.
In rapporto alla materia inanimata in movimento il
tempo sembra dapprima un concetto più semplice. Questa
misura, quantitativa, coincide con l’uniforme e continuo
succedersi della serie numerica. E il tempo in generale, da
un punto di vista fisico, non esplica neppur lontanamente la
stessa funzione dello spazio, a lungo ritenuto uniforme per
antonomasia. Il tempo non esplica questa funzione in
Galilei, il quale tuttavia misurò aritmeticamente in
particolare il moto non uniformemente accelerato. E neanche
in Newton: nel suo sistema il tempo t rappresenta soltanto
una variabile quantitativamente «scorrente» e indipendente
per poter stabilire relazioni numericamente esatte. Uno dei
contrassegni essenziali del tempo storico, finalità e
irreversibilità, manca da sempre nelle equazioni fisiche del
tempo. Soltanto il secondo principio della termodinamica,
riguardante la così detta morte del freddo in un sistema
chiuso, conosce la finalità irreversibile nel concetto di tempo,
espresso da una disequazione; ma tale principio, dell’entropia,
è divenuto anche il più strutturalmente estraneo fra tutte le
grandi leggi della fisica. La nuova fisica, caratterizzata dalla
teoria della relatività e dei quanti, ha trattato la categoria del
tempo da punti di vista del tutto nuovi, specialmente per
mezzo della critica di Einstein, che rifiuta l’ipotesi di

32
Newton dell’isocronia di tutti gli eventi molto lontani.
Com’è noto, esiste sincronismo (con differenze così esigue
da essere trascurate) solo per luoghi vicini, ma non
applicabile ai grandi spazi. Luoghi molto lontani non hanno
attimi eguali; non soltanto perché manca la possibilità di
misura della simultaneità (ciò che in fondo sarebbe una
precisazione di carattere idealistico e non reale e
sperimentale), ma perché ogni luogo, secondo Einstein, ha il
proprio tempo, almeno per quanto concerne l’attimo.
Tuttavia, sebbene la teoria della relatività si trovi a
procedere in connessione ai problemi del tempo
(«avvenimento-attimo», ad esempio), e così la teoria dei
quanti (tempo soltanto come aggregato di quanti e non come
unico quanto di azione), è e rimane vero che il tempo - nel
concetto fisico di natura, prima quantificato poi
matematizzato - risulta in conclusione del tutto declassato.
Collegato con le tre dimensioni dello spazio in quanto
unidimensionalità che non emerge in modo particolare, non
produce asimmetria nella pluralità delle quattro dimensioni.
Ogni « punto del mondo» (ora e qui) viene determinato
dalle sue coordinate di tempo-spazio x1, x2, x3, x4, ma queste
formano solo i valori numerici dell’«asse di coordinate» del
tempo, e il tempo da loro determinato non si distingue per
nessun particolare carattere. Insomma nella fisica, di tempo
propriamente storico-naturale, come modo di essere di un
accadere che ha una tendenza, non è il caso di parlare. Ma ben
diverso è il caso dello spazio, inteso ora nella fisica in modo
così nuovo ed elastico, sebbene in esso il tempo, per la sua
totale matematizzazione, sia declassato, e il concetto di
spazio si connetta strettamente col concetto di tempo. Non si
tratta infatti di discutere questa connessione (con un puro
tempo della meccanica e per di più astorico), ma unicamente
la stessa metrica variabile, non più euclidea e quindi riferita
soprattutto allo spazio. Dallo spazio di Riemann, inteso
elasticamente, potrebbe derivare ora un motivo di riflessione
in favore di un non rigido concetto di tempo nella storia -

33
proprio al centro delle aporie del progresso e, strettamente
collegate con esse, delle aporie della sistemazione del
materiale storico. Lo spazio di Riemann non porta affatto in
sé rigidezza, anzi è variabile, permette che le unità di misura
vengano in esso cambiate e questo a sua volta non per
ragioni di calcolo operativo-idealistiche, ma soprattutto per
motivi derivanti dall’oggetto stesso. A tal fine Riemann
obiettivamente ammise (e così fece «posto» alle teorie della
relatività) che il campo metrico non è dato per fisso una
volta per sempre, ma sta in dipendenza causale con la
materia e con essa si trasforma; il campo perciò non
appartiene alla forma quieta e omogenea, ma a quella del
mutevolissimo accadere della materia. Per quanto i postulati e le
amplificazioni della teoria generale della relatività e delle
equazioni di gravitazione di Einstein debbano essere ancora
provate, la suddivisione oggettivamente varia e il diverso
movimento della materia nel cosmo esigono una metrica
variabile e quindi diversa da quella euclidea. Ecco ciò che,
secondo un’analogia lecita e sollecitata, deve essere preso in
considerazione per il concetto storico del tempo, precisamente
in considerazione delle varie suddivisioni del materiale storico.
A differenza del nuovo concetto fisico di spazio, non viene
abbandonato il campo dell’evidenza, e anche l’analogia, se
usata metodicamente, offre solo degli indici, e in ogni caso
solo fortemente modificata da uno spazio conforme a natura
può essere riferita a un tempo storico. Ma la storia corrente
non conosce affatto il problema di una misura variabile del
tempo, e meno ancora il concetto non rigido di tempo,
esaminato in analogia con lo spazio di Riemann, in base alla
diversa partizione della materia storica. Il quadridimensionale
spazio-tempo-universo, come è concepito dalla moderna
fisica soprattutto per le situazioni «macrocosmiche», cioè
astronomiche, non è tale che il tempo vi scorra dentro come
modo di essere del movimento reale. Così mancano al tempo
fisico (ad eccezione di quello dell’entropia) tutti i
contrassegni della finalità, anzi di qualsiasi pensabile

34
singolarità. Tuttavia, proprio per questo, lo spazio fisico può
insegnare qualcosa al tempo, e cioè che, nel suo succedersi
storico, questo dev’essere concepito come non costante e, se
non proprio, curvo, per lo meno a suo modo ricco di curve.
Una «pluridimensionalità» della linea del tempo, come è
necessaria alla ricchezza geografica del materiale storico, è
alla fisica assolutamente estranea. Che la fisica per altro
ammetta «-dimensioni, non giova al concetto «spazio di
tempo» nell’unione tempo-spazio. Anche qui, dunque,
sarebbe necessaria, ogni qual volta la storia, la storia naturale,
viene a contatto con la fisica, una «elasticità» completamente
diversa per rappresentare una determinata evoluzione come
forma variabile dei mutevoli movimenti, delle
trasformazioni cosmogoniche.
Per quanto riguarda gli avvenimenti umani ci si è
accontentati di dividerli in vari tempi. Naturalmente questi
periodi vengono indicati con nomi diversi: Antichità,
Medioevo, Età Moderna, come se il tempo prendesse con ciò
particolari colorazioni. Come se in tali diverse
denominazioni fosse contenuto ciò che in questi periodi
accadde. Tuttavia il colore rimane esterno e marginale, è una
semplice tinta scolorita di ciò che nella società, al confine
delle varie epoche, talvolta comincia o finisce. Il tempo
stesso rimane qui, nonostante tutte le suddivisioni
cronologiche, eguale; tutt’al più gli viene attribuito
figurativamente qualcosa come l’età dell’uomo, «periodo
greco, giovinezza del genere umano», e così via. Si trova
sempre ripetuta un’espressione, di ben scarso valore,
arieggiante a una aurora: «sorgere del secolo», per tacere poi
delle antiche mistico-numeriche accentuazioni (anno 1000 o
anche 1524). Ma ora è assai degno di rilievo che non la storia
come semplice narrazione, ma le «discipline particolari»
dell’essere e della coscienza storici, che tutte insieme
appartengono alla storia, ci hanno fatto conoscere strutture
del tempo proprie e legittime. Prima di tutto troviamo il
concetto, sul piano economico tanto importante, del tempo

35
lavorativo: in esso la stessa ora ha un coefficiente, cioè viene
diversamente calcolata secondo il lavoro qualitativo
esplicato. Si trovano inoltre concetti del tempo
assolutamente particolari nella sovrastruttura; basta solo
accennare ai ritmi musicali e poetici e prima di tutto ai
costruttori della frase. V’è un tempo tranquillo nella forma
della fuga, un tempo teso e pieno d’ansietà nella sonata. V’è
un tempo che si svolge copioso nell’ampio spazio dell’epica,
a differenza di quello del dramma, non artisticamente ma
materialmente complesso o raccorciato o pieno di omissioni
o anche di salti cronologici. Nella costruzione della sonata
come del dramma appare, inoltre, una relazione tonica-
dominante propria del loro tempo specifico: la forma
dell’andamento non è più per così dire cronica, ma acuta,
propria dell’incalzante, imminente e finalmente verificantesi
fausto o infausto accadere. Intere civiltà non solo esistono nel
tempo, ma contengono esse stesse, specialmente nella loro
mitologia o religione, un proprio tempo che si comunica alle
loro singole forme culturali del tempo: basti accennare al
tempo greco quasi privo di futuro e a quello cristiano che ne
è così ricco. Per questo la mitologia greca ha divinità
temporali, divinità del momento: Eos, Nike, Hermes,
divinità alate. Ma quale differenza con il «Dio del tempo»,
Jahwe, che colmo di futuro, innanzi a Mosé, così si definisce:
«Io sarò colui che sarò». E ancora consecutio temporum per
così dire terrena: che cos’ha in comune, non solo in Giovanni
Battista, ma anche in Münzer, il tempo-kairos, un tempo che
in sé «afferma la propria imminenza», «la propria pienezza»,
con il tempo greco, così poco rilevante, o anche con
quell’infinito trascorrere, che Hegel chiama cattiva infinità?
Varietà di strutture temporali non si trovano nella
semplice cronologia di un susseguirsi storico (di nuovo in
relazione soltanto con il tempo-orologio), ma proprio nel
problema di una colorazione del tempo dei singoli periodi
storici e soprattutto, con pieno diritto, nelle singole
sovrastrutture. Tali differenziate strutture del tempo non

36
sono però - come si è veduto - quelle che permettono di
ridurre a un comune denominatore il progresso
nell’organizzazione economica, nella tecnica e nell’arte. Di
qui risulta che fra il molteplice materiale che modifica il
concetto di tempo storico (per forma e contenuto), e lo rende
adatto di volta in volta ai vari contenuti, si trova alla fin fine
il multiforme materiale dello scopo, al quale, come elemento
valorizzante, il succedersi delle serie temporali è talvolta
riferito. Appunto questi riferimenti finalistici non ancora del
tutto omogeneizzati tra loro, variano, oltre alle forme del
progresso, anche le strutture del tempo nelle quali
avvengono quelle differenti e spesso disuguali forme
(organizzazione sociale, tecnica, arte e così via). Di volta in
volta l’insieme delle tendenze sociali si sovrappone certo,
anche come generale tendenza, ai movimenti temporalmente
stratificati della tendenza stessa; tuttavia le diverse correnti
della stratificazione rimangono in questo insieme. Ed esse
esigono particolari concezioni temporali-contenutistiche non
più di forma omogenea - esigono una specie di tempo
riemanniano: un concetto di tempo variamente misurabile,
secondo la partizione, e soprattutto secondo i contenuti
finalistici - ancora vari e molto nascosti - del materiale
storico. Leibniz ha fatto comprendere il tempo e non soltanto
lo spazio come forma attiva delle forze e del loro
movimento, come modo del movimento: una concezione
dinamica del tempo che nelle sue conseguenze non considera
le serie temporali della storia umana come immutabili e
ovunque egualmente costituite. E in primo luogo essa vede
una differenza fra i milioni di anni della preistoria (per non
parlare dei miliardi di anni geologici e persino cosmologici)
e il paio di millenni di storia della cultura a partire dal periodo
neolitico. Qui si manifesta non soltanto una differenza
cronometrica, ma in particolare una distinzione inerente alla
densità dell’essere-tempo, specie nella sua struttura
qualitativa, in breve, una oggettiva variabilità anche nella
successione: con tutta l’insopprimibile unità di connessione dello

37
sviluppo storico, connessione non lineare-temporale, bensì
anche cronologicamente differenziata e federativa, e solo così
utilmente centripeta.
Una postilla. Naturalmente non ci sono tempi o forme di
tempo in sé. Al di fuori della vita sociale del proprio «tempo»
non c’è metrica diversa, discutibile, come se una struttura
temporale come tale vivesse e si muovesse. Ma non c’è
neppure nella storia mero tempo cronologico oppure, il che
è lo stesso, il tempo come contenente neutro astratto.
Soltanto per un’abitudine irriflessa poteva venir ammesso
qualcosa di simile di fronte alle difficoltà di collocazione del
materiale della storia universale. O anche per un interesse
statico di tipo reazionario, come forse in Nicolai Hartmann,
quando afferma che il tempo rimane sempre tempo, e
sempre lo stesso, assolutamente eguale, qualunque cosa
accada. La coscienza filosofica non può, a differenza di
quella storica, «scambiare estensione e dimensione: ciò che
nel tempo si estende non è mai il tempo stesso», il quale
trascorre piuttosto indifferente verso tutto ciò che avviene
(Philosophie der Natur, 1950, p. 144). Ma la presa di posizione
negativa di Hartmann è istruttiva, ci fa conoscere come il
formalismo e la statica categoriale siano l’unica risoluta
presa di posizione contro Leibniz e le sue derivazioni. Di qui
le differenziazioni nel concetto di progresso-serie temporale
possono apparire, secondo i vari punti di vista, soltanto
assurde o pazze. Per lasciar da parte l’immobilismo di
natura reazionaria, ogni irriflessa abitudine al tempo
cronologico mostra poi certe parentele con la separazione
della così detta logica formale dalla dialettica - in questo
caso nella stessa dottrina delle categorie. Infatti, anche con
una reificazione della cronometria è eliminata la nozione dei
mutamenti dialettici, i quali tuttavia appartengono così
inseparabilmente al concetto del tempo come a qualsiasi
altra nozione che rappresenti un processo - e quale concetto
rappresenta processi più genuini di quello del tempo?
Hermann Weyl paragona lo spazio di Riemann, a differenza

38
di quello fisso euclideo, «a un liquido..., a una posizione e a
un orientamento mobili, cedevoli di fronte a forze agenti»
(Philosophie der Mathematik und Naturwissenschaft, 1927, p.
63): come potrebbe questa variabilità non essere adeguata al
punta rhei del tempo? Qui non si tratta, a vero dire, di una
molteplicità n-dimensionale come in una geometria
semplicemente non intuitiva e ampliata, ma della
molteplicità visibile, imposta dalla concretezza della storia,
nella quale i mutamenti cronologici sono localizzabili. Il
progresso non procede solo in una successione omogenea di
periodi, ma scorre anche in diversi sovrapposti o sottoposti
piani temporali. Scorre in una umana unità del trascorrere e
dell’acquistare, a sua volta e soltanto risultato di un processo
molteplice. Il tempo unitario, reale e generale, del processo
storico, anzi del processo universale, germina ovunque per
primo: come forma del tempo di una nascente identità, cioè
del non estraneato nel rapporto fra uomo e uomo e fra uomo
e natura. Ma anche al di fuori di questo problema limite, il
tempo, precisamente come «pura irrequietezza della vita»,
come lo chiama Hegel nella Fenomenologia dello spirito, sta di
fronte ai suoi variabili contenuti non nel rapporto di
esteriorità invariabile. Come modo di essere dei movimenti e
processi materiali, che manifestamente sostiene, vi prende
parte e ne viene determinato, in periodi e in settori di
cultura, in modo concreto e caratteristico.

La serie, fisica e culturale, e il sole di Omero

Se il tempo è solo là dove accade qualcosa, che succede dove


poco o soltanto spaventosamente adagio qualcosa avviene?
O forse una serie che, per così dire, conta solo se stessa e
all’interno della quale quasi nulla si trasforma, può
veramente procedere, come eguale, in una serie ricca di
avvenimenti, «storica»? In altre parole: il tempo, nel quale
l’acqua per centinaia di migliaia d’anni lava sempre le stesse

39
fredde pietre, nel quale le onde si frangono sempre allo
stesso modo sulla riva, è veramente più lungo o non è
egualmente denso che quel solo breve anno russo 1917?
Queste domande devono essere comprese in modo
oggettivo e concreto, non come problemi del tempo vissuto,
il quale non può neanche essere preso in considerazione
quando si tratti di migliaia e milioni di anni geologici. Tutte
le successioni di tempo, non soltanto quella storica, devono
essere comprese in connessione con le suddivisioni
variamente dense dell’accadere storico materiale, delle sue
tendenze e dei suoi contenuti. Esiste una differenza
intensiva e qualitativa del tempo storico stesso di fronte al
tempo-natura come si presenta nella «storia naturale»,
diverso inoltre dall’altro indicato dalla componente t della
fisica. Ora si comprende (si presenterà in seguito un aspetto
del tutto diverso della cosa) che il tempo della natura offre
una minore densità nella sua estensione, formalmente molto
più ampia di quella storico-culturale. Confrontato con
questo, è un meno, dilatato all’infinito, in tempo intensivo-
qualitativo; come anche la natura preistorica contiene un
meno nello sviluppo del proprio essere. E i suoi milioni e
miliardi d’anni, che sono (o sembrano) disposti in serie
apparentemente omogenea prima del paio di migliaia d’anni
della storia umana, sono perciò da usare per un confronto
non troppo stringente ma illustrativo, una specie di tempo
inflazionato a confronto con «l’età dell’oro» storico-
culturale. La formale e tanto più lunga estensione del tempo
della natura, come tempo esistente prima della storia
dell’uomo, è però più lunga solo se applicata al passato, non
al futuro, il quale, secondo il concetto corrente, nella storia
dell’uomo conta infinitamente di più. Quest’ultima appare a
noi come l’unica non conchiusa, e la storia naturale invece
sostanzialmente chiusa — nonostante il suo eterno
movimento da vapore ardente a vapore ardente o anche da
fredda polvere a fredda polvere, anzi grazie a questo
movimento soltanto circolare e quindi sostanzialmente

40
conchiuso. Poiché l’evoluzione da nebbia primordiale a soli
e pianeti e forse a una vita variamente sviluppata porterebbe
sì, all’interno di ciascun processo, al passaggio dal sorgere
delle manifestazioni della vita a cose sempre nuove, ma mai
nulla di nuovo appare quanto ai puri processi inorganici né
riguardo al ciclo del vapore. Essi si aggirano in se stessi,
stereotipi e infruttuosi come se ci si trovasse nella materia
universa prima della storia dell’uomo, anche se questa poi
alla fine prevale, li riconduce a sé. Così appare poi -dal
punto di vista di una natura semplicemente « preistorica » -
un più di tempo storico ricco e denso, di fronte al tempo
della natura dilatato e pigro di processi.
Naturalmente qui si suppone che il tempo delle così
dette cose morte si trovi senza eccezione prima del tempo
umano. E non solo: il tempo della natura, come tutto ciò che
in esso accade, deve essere concepito come un puro passato,
in realtà non deve contenere nulla di nuovo che gli
appartenga. Soltanto così precede la storia dell’uomo: un
guscio dal quale è uscito il grano, qualcosa che ha svolto la
sua funzione, una colossale vuota preistoria e niente altro.
Solo così la storia della natura, procedendo rettilinea, sbocca
nella storia umana che la segue e « incorona» il suo sviluppo
storico. Tempo addietro uno scritto di divulgazione
scientifico fu intitolato: Dalla nebulosa a Scheidemann: anche se
il nome Scheidemann viene sostituito da uno più
significativo, è una realtà storico-culturale che chiude
l’anteriore storia della natura, la lascia dietro come un
semplice antecedente ormai conchiuso, come una macchina
generatrice esaurita che ora continua a correre a vuoto. Un
futuro, ancora da venire, certo, ma positivamente orientato
verso l’umano, non si trova più, da quanto abbiamo detto,
all’interno di un meccanico procedere naturale. La physis,
come base, può anche essere tenuta in molto conto, ma per
una precisazione storico-culturale del suo ante rem essa si
trova nel vicolo chiuso del già avvenuto. Il ricordo di un
falso concetto di passato, proprio nella storia della cultura, si fa

41
subito innanzi: la questione del posto che rimaneva
disponibile a Herder, Ranke e soprattutto a Hegel per le
antiche culture dell’Asia, l’India e la Cina in particolare.
Paesi per Hegel sprofondati nel passato come la terra e la
natura in generale, sebbene esistessero e fossero operanti e
attuali. Ma così per i filosofi evoluzionisti di quel tempo la
natura, specialmente quella inorganica, si avvicinava sulla
linea del progresso, al timido, superato inizio, col suo
«morto linguaggio». Hegel, che sottoponeva interamente la
natura alla storia, ha in un certo senso sanzionato il carattere
di puro antecedente, di preterito assoluto attribuito al
mondo inorganico: «Un tempo la storia è caduta sulla terra,
ora però è giunta alla quiete: una vita che fermentando in se
stessa aveva in sé il tempo, lo spirito della terra non ancor
giunto all’antitesi, il movimento e i sogni di un dormiente,
finché esso si desta e acquista coscienza nell’uomo e si fa
innanzi come tranquilla figura» (Werke, VII, 1, 437; ed.
Lasson, XX, 109; Moldenhauer-Michel, IX, 347).
Decisiva preminenza della storia umana, dunque, che
tutto domina, e può creare un’antichità; mentre la natura
diviene così un semplice preludio, anche il suo tempo deve
apparire del tutto rarefatto e povero di contenuto, come è
stato rappresentato nella prima trattazione del problema. Ma
ora abbiamo la seconda e complementare concezione: la natura
nella storia dell’uomo è una semplice antichità, un campo di
tempo posto senz’altro alle spalle dell’uomo? Non è assurdo
dire che la natura è passata come le crociate, per esempio, e
che, come quelle o altre cose passate, viva soltanto in alcune
conseguenze? Non v’è forse, nel modo più evidente,
l’incessante rapporto dell’uomo all’uomo e alla natura? alla
materia greggia, alle forze della natura e alle loro leggi,
come pure il rapporto estetico dell’uomo con i problemi
della bellezza della natura e dei miti che vi risuonano ancora
ripetutamente? Non risplende anche per noi il sole di Omero
e, per vero, al di fuori di ogni « eredità culturale », proprio il
sole stesso, come qualcosa di veramente non tramontato, che

42
ignora cosa voglia dire esser considerato dalla storia umana
come antico? Sarebbe proprio assurdo dire che l’immenso
universo e il suo corso, del tutto disgiunto da noi con le sue
miriadi di stelle, abbia trovato la sua « continuazione » nella
presente storia dell’uomo e il suo scopo nell’attuale umano
grado di civiltà? L’«Iliade della natura» sarebbe quindi
letteralmente conchiusa e finita nell’umana «Odissea dello
spirito», per cui anche il tempo di tutta la storia naturale
finora svoltasi appare vuoto e a differenza del tempo storico
umano non ha più un futuro degno di nota. Senza un
progresso sui generis, dunque, senza reale possibilità di
raggiungere quell’estremo lontano, ancora così lontano dalla
presente storia e così profondo da parere appena
raggiungibile, che Marx ha prospettato come umanizzazione
della natura.
Pertanto, in una vera «topologia» storico-universale dei
tempi non può non essere preso in considerazione il
problema di una vera e propria serie di tempi naturali che non
dappertutto sbocca nella presente serie storica. Lo svolgersi
lineare, in fila indiana, del prima e del dopo non può
assolutamente sostenersi ad un prima naturale considerato
soltanto come trascorso, ad un dopo della storia della cultura
considerato soltanto come determinante. Parimenti, l’immensa
costruzione della natura si presenta più come uno scenario,
sul quale il dramma che a esso corrisponde per dimensione
non è stato ancora rappresentato nella storia dell’uomo, più
di quanto l’essere e la coscienza storico-umani appaiano
l’occhio già aperto di tutta l’essenza della natura. Un’essenza
della natura che non solo si trova prima della nostra storia e
la sostiene, ma in gran parte l’avvolge, a lungo, come storia
per forme e contenuto ancora in via di mediazione con il
tempo della storia. Certo, non come una storia che debba
rimanere non mediata con il tempo della natura e con i
particolari contenuti latenti, che ne strutturano i periodi -
come una contabilità a partita doppia: meta del progresso
storico («regno della libertà») da un lato, fine dell’evoluzione

43
della natura («entropia») dall’altro. Questo dualismo, anche
se lontano, è una minaccia proprio là dove la natura senza
eccezione è considerata come quel prima della storia che da
ultimo seppellisce in un fumo-caldo, in fredda polvere, quei
periodi storici che, orgogliosamente superiori al tempo della
natura, non sono però ancora in nessun modo con essa
mediati né in essa si preparano a sfociare. Quel dualismo,
cioè, riconduce al semplice prima uguale dopo, al dopo uguale
prima. Anche qui dunque si notano aporie della tanto ricca
storia dell’evoluzione, nel tempo storico e naturale, proprio
qui, ed esse provengono dai già accennati due aspetti di
posizione nel tempo della natura: un conchiuso passato, un
dischiuso mattino della natura. Il relativamente vuoto e privo
di futuro tempo naturale da un lato, il sostanziale e ricco di
futuro tempo naturale dall’altro: sono ambedue presenti e
niente affatto come procedimenti di metodo, ma appunto
quali aspetti reali che si completano. L’uno si trova
nell’aspetto meccanico del passato e di ciò che di
quantitativo e costante a esso corrisponde; l’altro si trova
nell’aspetto anticipante di un’aurora e di ciò che vi può
corrispondere per qualità e possibilità, anzi per il simbolico
nel processo naturale, soprattutto secondo un concetto
goethiano e non newtoniano. Le due direzioni del tempo
non corrono però separate una accanto all’altra, la seconda
non sostiene la prima semplicemente perché ha valore pro
rata: anche per i due tempi della natura esiste un poli-ritmo
interno intrecciato. Dove il tempo di natura del suo concetto
aurorale come umanizzazione della natura è in modo
particolare unito ai contenuti di tendenza del tempo storico-
culturale. Il che significa: la vera «età dell’oro»
dell’antropologia storica non può essere compresa senza
l’altrettanto reale « età dell’oro » di una nuova cosmologia
umanistica - che ha come precedente ricco di conseguenze la
storia umana, e porta così a compimento, infine, la storia
anche in natura, in una misura universale, come possibile-
positivo, anziché seppellirla come un possibile-negativo.

44
Ancora una volta connessione ovvero progresso
nel «senso» della storia

Rimane chiaro che l’appello che spinge in avanti è tanto


poco cosciente di sé come la cosa che esso significa. Il
concetto di progresso implica un verso dove e a che scopo, e
invero uno scopo che si deve volere e perciò buono, e uno
scopo da conquistare e perciò non ancora conseguito. Senza
un verso dove e un perché il progresso non è neppure
pensabile, non si può riferirlo a nessuna misura e soprattutto
non è assolutamente pensabile come la cosa stessa. L’«a che
scopo» non solo implica una «meta», ma — affinché non
venga senz’altro a coincidere — uno «scopo» e - di nuovo,
perché non sia sempre identico — un « senso » dell’accadere,
per lo meno dell’umano lottare e lavorare. Un accadere per
così dire automatico, anzi la vita stessa, non ha bisogno, per
essere una vita, di avere un «senso» (gli uomini in prima
istanza non vivono per vivere, ma perché esistono). Ma
l’accadere e la vita voluti, pensati e messi in opera come
progresso, non approdano a nulla senza essere dotati di
senso, anzi, senza di questo, tale vita e attività non emerge
neppure, e chi nega realtà a tale senso (anche se non ancora
realizzato) scalza proprio alla base il progresso, sia come
concetto sia come contenuto concreto. Non ancora
concretamente effettuale vuol dire: il suo senso è contenuto
non in uno statico essere presente, bensì nell’oggettiva-
oggettivante possibilità reale e nella tendenza dialettica di
realizzazione di tale possibilità, nei riguardi della volontà di
progresso e del mondo dove esso ha un senso. Senso è
dunque prospettiva, in quanto essa è possibile nel mondo
che dovrà mutare, in quanto ha per sé in potenza un fine
utile nella capacità di perfezionamento del mondo. Questa
prospettiva precede passo passo l’idea e l’esecuzione di ciò
che attualmente è necessario, ma sempre, in questa idea ed

45
esecuzione, il totum di ciò che è necessario deve aver un
carattere intenzionale e sottinteso, affinché senso come
prospettiva e prospettiva come senso siano presenti. Un tale
concetto, come si vede, si estende subito a tutto ciò che
esiste, a tutta la storia, a tutto il senso del mondo. Sempre
come un senso non staticamente presente, ma che
progredendo per mezzo degli uomini si può sviluppare - la
via è imboccata, porti a compimento il viaggio. Certamente
se manca la coscienza universale e la coscienza
dell’universalità di un tale senso, utopisticamente ma
concretamente fondato (per lo meno non ancora reso vano
da una totale inutilità), anche i singoli e particolari contenuti
del progresso storico son privi di un’intima finalità, di una
sostenibile serietà filosofica, cioè universalmente scientifica.
Se il mondo avesse per base soltanto il meccanismo e la sua
«entropia», la storia sarebbe come quando i pesci in un
barile si mordono o rappresentano un dramma d’amore e in
quello entra dalla porta la cuoca con l’assurdo coltello, che a
tutto pone fine. Il senso della storia umana, che si trova
ancora agli inizi, è l’edificazione del regno della libertà;
tuttavia senza un senso positivamente-possibile e
possibilmente-positivo della cosmologia circostante, nella
quale alla fine sfocia ogni storico accadere, il progresso di
questo accadere, almeno a un esame rigoroso e complessivo,
è come non vero, come in realtà non avvenuto. S’intenda
bene: anche un unico giorno può trascorrere denso di
significato, una vita ben diretta e assai produttiva ha
senz’altro il suo senso, specialmente nella valutazione
retrospettiva. Tuttavia questo senso del buon senso, come lo
si può chiamare, è nel suo insieme di qualità mesocosmica
(per adoperare ancora un istruttivo concetto della fisica): le
imprecisioni sono qui tanto insignificanti che possono essere
lasciate da parte. Ma diversamente agiscono le imprecisioni
in un rapporto macrocosmico, in questo caso appunto nella

46
totalità: esse hanno bisogno di un aggiustamento, affinché
anche l’uso secondo il bon sens del concetto di senso possa
reggere a qualsiasi obiezione. Ulteriori implicazioni perciò
sorgono nel concetto di progresso, in virtù del senso che esso
contiene. L’umano come indicazione dominante, riassuntiva
di ogni senso, è certo un campo vasto, non limitabile
semplicemente a un settore antropologico. Proprio nella
categoria progresso ne consegue: non c’è nuova
antropologia marxista senza nuova cosmologia marxista.
Entrambe, profonda fiducia nell’uomo e profonda fiducia
nel mondo, vanno già da molto tempo nella storia della
rivoluzione di pari passo verso il loro scopo, indisturbate da
meccanismi ed estraneità. Ma l’ottimismo militante, come
aspetto soggettivo del vero progresso, implica anche la
ricerca di un verso dove e di un a che scopo sull’intero lato
oggettivo dell’essere progrediente, senza il quale non
esisterebbe coscienza progressiva. E l’umano è così vasto
nella possibilità reale del suo contenuto finale che permette di
ordinare tutti i movimenti e tutte le forme delle civiltà umane in
tempi concomitanti e vari, e con tale forza che non può andare
distrutto di fronte a un mero tempo circolare meccanicisticamente
inteso. Ma più vicino a noi un ampio Omega, questa volta
non come punto d’arrivo che s’orienta solo sull’Occidente,
deve superare la prova della storia extra-europea, dunque la
prova decisiva del risveglio attuale, non meramente storico
dell’Africa e dell’Asia. Per questi continenti il passato bianco
è a malapena il loro passato, e spesso, per i popoli rimasti
senza futuro, la storia è ciò che inizia domani. Quanto più
fallisce la tradizionale accentuazione meramente occidentale
- per non parlare poi del discredito che le è proprio in
quanto imperialista - tanto più può essere d’aiuto una
visione utopisticamente aperta, essa stessa ancora
sperimentale. Solo in tal modo centinaia di culture possono
confluire nell’unità del genere umano che così viene a

47
formarsi, secondo un tempo storico non lineare, secondo un
orientamento della storia non uggiosamente monocorde.
Proprio per amor dell’unità del genere umano, l’Africa e
l’Asia segnano all’unisono un percorso sia poliritmico che
polifonico del progresso verso questa unità, sebbene sotto
un sole sorto, sia dal punto di vista pratico che teoretico, in
Europa, e che vorrebbe illuminare una comunità davvero
senza schiavitù. Dopotutto il concetto occidentale di
progresso non ha implicato nelle sue rivoluzioni vertici
europei (e neppure africani o asiatici), bensì una terra sola,
nel suo insieme migliore.

Tesi

1. Il concetto di progresso è per noi uno dei più cari e


importanti.

2. Il concetto di progresso deve ogni volta venir considerato


e studiato sulla base del suo compito sociale - del suo fine;
infatti, può anche essere usato abusivamente e corrotto
nell’interpretazione ideologico-colonialistica.

3. Il concetto di progresso può valere per le forze


produttive, ma riguardo alla sovrastruttura può essere
relativamente non valido, o per lo meno più debolmente
valido, e viceversa. Qualcosa di simile vale per
sovrastrutture (culture) che si susseguono nel tempo,
particolarmente per la categoria del progresso nell’arte.

4. Il concetto di progresso non sopporta «cicli culturali »,


nei quali il tempo è inchiodato allo spazio reazionario, ma
ha bisogno, in luogo della unilinearità, di un multiversum
ampio, elastico, pienamente dinamico, un continuo e spesso
intrecciato contrappunto delle voci della storia. Per essere

48
giusti verso il gigantesco materiale extra-europeo, non si
può più lavorare secondo una linea retta, senza curve nella
serie, senza una nuova e complessa molteplicità del tempo
(problemi di un tempo «riemanniano»).

5. Il contenuto-fine, che il vero progresso evoca e


promuove, deve essere riconosciuto per così ricco e insieme
profondo che i vari popoli, società e culture sulla terra
-nonostante tutta l’unitarietà dei loro stadi di sviluppo
economico-sociale e le leggi dialettiche degli stessi —
trovino posto in esso e verso di esso. Le vive culture
extraeuropee devono essere rappresentate sul piano
filosofico-storico senza violenza europeizzante o anche
soltanto senza livellamento delle loro specifiche
testimonianze della ricchezza della natura umana.

6. Questo contenuto-fine non è qualcosa di già definito, ma


di non ancora manifesto, un umano concreto-utopistico.
Soltanto così il rapporto al presente, che opera in profondità,
in relazione al quale i diversi corsi storici sono ordinati,
diventa rappresentabile come una profondità tanto ampia
che - in una cronologia riccamente strutturata - trovano
posto i processi evolutivi di tutto il mondo. Per l’umano che
erompe dall’interno, ultimo, preminente punto d’arrivo del
progresso, tutte quante le culture della terra, insieme al loro
sostrato ereditario sono esperimenti e testimonianze in vario
modo importanti. Esse non convergono perciò in una
cultura già presente in qualche luogo, sia pure una cultura
«dominante», di importanza «classica», che per la sua
qualità (pur sempre soltanto sperimentale) sarebbe
«canonica». Le passate, presenti e future civiltà convergono
soltanto in un umano in nessun luogo ancora
sufficientemente manifesto, ma certo sufficientemente
anticipabile.

49
7. Non estraneo al precedente è il ben fondato problema
concreto di un «senso» della storia in relazione a un «senso»
del mondo. Ma l’umano unificante - eschaton nel punto finale
del progresso - non è qui garantito dal risultato-uomo già
manifesto e da quello del mondo cosmico che lo circonda.
Esso si trova sulla linea di prolungamento anche della meta
naturale-umana, posta innanzi, il più lontano possibile: nella
più lontana immanenza, non preclusa all’anticipazione
scientifica, di una reale possibilità dell’uomo e della natura.

50
POSTFAZIONE

APPUNTI SU ERNST BLOCH E L’ITALIA

di Giuseppe Bevilacqua

51
Ernst Bloch mi si fece incontro nello stretto corridoio
semibuio della sua abitazione di Tübingen, im Schwanzer
(oggi Ernst-Bloch-Strasse) 35, emettendo dei suoni di cui
non riuscii assolutamente a cogliere il significato. Questa
volta però non ebbi il coraggio di dire: Come, scusi? e così
mi limitai a sorridere con un’aria un po’ idiota
pronunciando a mezza voce un timido «Ja».
Bloch a quel punto sembrò infuriarsi: « Come sarebbe a
dire “Ja”? » - urlò - «Allora lei mi ha mentito. Lei non è un
italiano. Ogni volta che le parlo in italiano non capisce una
parola».
Poco più tardi - dopo che gli ebbi legittimato la mia
nazionalità e dopo che la rabbia del grande vecchio si fu
placata cedendo all’abituale cortesia - sedevamo entrambi di
fronte a una tazza di caffè e Bloch spiegava a me e ad altri
ospiti la sua teoria della « porosità dell’Italia». Sul concetto
di porosità, ripreso da Benjamin, aveva scritto - a metà degli
anni Venti - un brillante articolo. Dell’articolo torneremo a
parlare più avanti. Prima desidero invece sciogliere l’enigma
di questo buffo malinteso.
La lingua in cui Bloch aveva parlato - quasi con enfasi -
in realtà non era italiano, ma una versione storpiata del
dialetto di Positano e dintorni, dove molti anni prima aveva
trascorso lunghi periodi di vacanza. Fin da allora (ma nella
giusta prospettiva solo oggi) questo fatto mi
aveva indotto ad alcune riflessioni.
Già in altre occasioni le frasi che Bloch aveva tentato di
pronunciare in italiano erano state tanto storpiate da
risultare incomprensibili, tuttavia curioso era il modo in cui
le storpiava, un modo – direi – creativo. Credo che gli
scrittori e i cosiddetti genii linguistici (quale era senz’altro
Bloch) possano avere due tipi di rapporto con la lingua.
Alcuni posseggono uno straordinario potere mimetico, una
capacità di acquisizione quasi lasciva; è la loro stessa poetica
che cerca, richiede e crea questa permeabilità; altri invece,
rispetto alle lingue straniere, risultano impermeabili, o
meglio, la loro permeabilità è condizionata dall’uso di
potenti filtri e lenti multicolori. James Joyce potrebbe ad
esempio essere il prototipo della prima specie. Ernst Bloch -
mi sembra — appartiene piuttosto alla seconda. Bloch - come
sanno bene tutti coloro che lo hanno conosciuto e che lo
leggono — era profondamente radicato nel tedesco, aveva
un rapporto monogamo con la propria lingua, che era per lui
la lingua in assoluto e lo era senza che questo implicasse la
minima tendenza al campanilismo o al purismo
nell’accezione negativa del termine - al contrario! Bloch usa
volentieri parole straniere, ma, incorporandole senza residui
nella propria lingua, le riduce a un puro e semplice
fenomeno lessicale che non modifica minimamente la
struttura del discorso. Il tedesco, l’essenza più profonda di
questa lingua, la sua struttura, rimane in lui sempre
assolutamente dominante. E evidente che questo fatto rende
problematica la traduzione delle opere di Bloch in una
lingua straniera e di conseguenza anche la recezione del suo
pensiero al di fuori dell’area linguistica tedesca. Torneremo
anche su questo punto. Prima desidero sottolineare un altro
fatto. Ciò che Bloch aveva tentato invano di dirmi era - come
venni poi a sapere — un proverbio dell’Italia meridionale in
cui risuonava l’eco della credenza popolare negli spiriti
elementari (monacelli).

53
Positano allora (negli anni Venti), ancora lungi anche
solo dal rassomigliare a quella località balneare alla moda
che è oggi, era un paese di pescatori. In quel paese Bloch
incontrò il nostro profondo Sud; vent’anni prima che Carlo
Levi scrivesse il suo Cristo si è fermato a Eboli Bloch ha
sperimentato e capito quale straordinaria stratificazione
culturale si nasconde nel meridione d’Italia, una cultura in
cui la credenza nei monacelli e l’antichissima paura
animistica convivono e continuano a operare accanto al
patrimonio empedocleo e pitagorico disseminato ovunque,
accanto all’eroismo normanno che coabita con la scaltrezza
araba, e alla grandezza spagnola che convive con la sobrietà
italica.
Come si diceva fu Walter Benjamin a utilizzare per
primo il termine «porosità». Nel 1924 Benjamin trascorse
qualche mese a Capri e vide — come scrisse a Scholem — «
forse per la ventesima volta Napoli, una città sulla quale ho
raccolto molto materiale, strane e importanti osservazioni
che forse un giorno elaborerò».
L’anno successivo sulla «Frankfurter Zeitung» fu
pubblicato un articolo intitolato Napoli — firmato non da
Walter Benjamin soltanto, ma anche da Asia Lacis (perché
ciascuno alle proprie amiche dona quel che può). Poroso
nell’articolo è innanzitutto il tufo sul quale è costruita
Napoli, poi, per metafora, l’intera città, la sua architettura
così come la delinquenza, la gestualità della gente e tutto il
loro modo di vivere e anche di morire.
Questo concetto dunque - come si diceva - fu ripreso nel
1925 da Ernst Bloch e fu da lui esteso a tutta l’Italia; cosa che
in gran parte si rivelò scorretta. Se si può infatti ritenere
legittima la collocazione di tutta la cultura dell’Italia
meridionale sotto l’egida di questa incisiva metafora, Milano
e Torino invece, ma anche Firenze, Bologna e Venezia si
sottraggono a essa in larga misura. Il «barockes Zueinander»
non comincia a Chiavenna come sostiene Bloch. Non è esatto
dire che «Il rinascimento italiano.[...] è [...] la deviazione del

54
medioevo arabo e bizantino nel barocco piuttosto che una
rinascita dell’antichità; lo stile moresco, mai veramente
superato, e il barocco sono ancora oggi i tratti che
caratterizzano con maggior vigore la cultura italiana nel suo
insieme. Entrambi però ne costituiscono anche la porosità,
entrambi hanno origine da una volontà di pienezza e di
completezza della quale è improprio cercare le radici
nell’antichità ».
Non posso né intendo verificare pedantescamente il
giudizio di Bloch sull’Italia, tanto più che lui in questo
saggio pensa e scrive in una forma molto libera e
provocatoria. Tuttavia ho ragioni per ritenere che la
parzialità della sua immagine non è casuale, perché se da un
lato è frutto della tradizione classico-romantica tedesca, per
altro verso - ed è questa la ragione principale per cui vi
insisto — corrisponde a una autodeterminazione del tutto
cosciente e personalissima del pensatore e dell’uomo Ernst
Bloch. Una immagine dunque, quella blochiana dell’Italia,
che si basa sulla fondamentale esperienza della hice
accecante del Sud, che su di lui deve aver agito come una
sorta di epifania visiva di una tendenza costitutiva della sua
personalità, così come l’esperienza nordafricana, ad
esempio, ha illuminato interiormente pittori quali August
Macke e Delacroix o uno scrittore come André Gide. E
soprattutto sulla « simpatia » che si fonda la posizione di
Bloch nei confronti della realtà fisica del nostro paese, dove
la natura, con i suoi profili marcati e le superfici vibranti, con
la sua luce sfavillante, può forse sembrare più simile che in
altri luoghi alla natura naturans, «un grembo animato e al
tempo stesso il nesso vitale di tutti i fenomeni » — scrisse
Bloch in Zwischenwelten in der Philosophiegeschichte. Questa
«Alma Venus» vissuta nell’immanente, tramite la quale
«genus omne animantum concipitur», viene spesso definita
metaforicamente da Bloch come brace; non fiamma: brace
appunto perché la sua attività è continua e per lo più
dall’esterno non rilevabile. In questo modo si chiarisce e si
precisa cosa Bloch intende, per porosità dell’Italia. Una

55
qualità che si riscontra principalmente, se non
esclusivamente, nella cultura dell’Italia meridionale e
soprattutto negli ultimi duecento anni.
Il tufo è una pietra vulcanica costituita da materiale
piroclastico - direbbe un geologo - il che significa una massa
all’interno della quale un tempo ardeva una brace
incandescente e che ora, dopo il raffreddamento, è diventata
una massa porosa. Le fasi eruttive, nel nostro Meridione,
sono state quelle dell’antichità greca e romana e di pochi
altri periodi, per lo più fugaci vampate. Per il resto questo
paese - aperto a tutte le invasioni - estremamente permeabile
nei confronti delle culture straniere, quella bizantina come
quella degli Staufer, quella saracena come quella spagnola, è
stato poroso proprio come la lava dei suoi vulcani. Che in
questo tufo della cultura sia poi presente ovunque, sul piano
dell’esistenza immediata, «una brace — come dice Bloch —
che non si è mai spenta» e che – come insegnano la
Conversazione di Vittorini o il teatro napoletano di Eduardo
De Filippo - si manifesta nella vitalità allegramente disperata
della gente, questo naturalmente è anch’esso un fatto
innegabile e costituisce probabilmente la ragione principale
del grande fascino che questa terra stupenda, piena di
contraddizioni, esercita sui visitatori e soprattutto su quelli
che provengono dal Nord Europa.

Finora - prendendo le mosse da un piccolo incidente - ho


presentato, per la verità in modo alquanto sommario,
l’immagine che Bloch aveva dell’Italia. Nella seconda parte
della mia relazione desidero trattare, sempre per sommi
capi, il tema «Bloch e l’Italia» prendendo le mosse dall’altro
capo del binomio: mi chiederò dunque che influenza
abbiano avuto in Italia il pensiero e la personalità di Ernst
Bloch.
Richiamandosi a un filosofo italiano, Giordano Bruno,
nei confronti del quale il suo debito è paragonabile solo a
quello contratto con Hegel, Bloch sostiene che ogni pensiero
che trascenda e anticipi la realtà data ha bisogno «anche

56
delle immagini, oltre che delle idee, ha bisogno di analogie
che aiutino a chiarire ciò che trasmettono i sensi». Di
immagini e di analogie (si potrebbe aggiungere di tutti i
possibili tropi e le figure retoriche, con una netta preferenza
per le metafore e per le iperboli) è ricchissima, com’è noto, la
prosa di Ernst Bloch. A questa impronta stilistica
corrisponde una straordinaria maestria e un immenso
piacere per la creazione linguistica. E non da ultimo va
ricordata l’estrema peculiarità della forma letteraria del suo
filosofare, che già in Geist der Utopie è assolutamente
particolare. Tutto questo, la sua lingua, il suo stile
caratteristico, la sua forma, sono, più che per altri pensatori,
parte integrante della sua attività speculativa e del suo
rapporto – come si diceva – estremamente esclusivo e
monogamo con la lingua tedesca.
Bloch scrisse una volta a proposito del dialogo platonico:
« Il dialogo non è semplicemente l’involucro di un contenuto
che esisterebbe indipendentemente da esso, bensì la forma
peculiare del progressivo svolgimento del pensiero
dialogico-dialettico platonico». Questa affermazione vale -
mutatis mutandis – anche per lo stesso Bloch, per il suo stile
inconfondibile, il cui apice fu raggiunto nel gigantesco
trattato rapsodico Das Prinzip Hoffnung.
Ora si cerchi di immaginare cosa significhi tradurre il
Prinzip Hoffnung in un’altra lingua, una lingua per di più non
germanica. È un buon punto di partenza per affrontare il
tema della recezione di Bloch in Italia; ma permettetemi di
collegare di nuovo questo tema con le mie esperienze
personali e con alcuni miei lontani ricordi. Non ho peraltro
intenzione di fornire un quadro esaustivo degli studi su
Bloch in Italia; desidero invece, muovendo dalla mia
esperienza, far luce su alcuni punti di questo processo di
recezione, considerando me stesso quale (indegno)
rappresentante di quella generazione allora giovane di
italiani del dopoguerra, sempre alla ricerca di nuovi interessi
e pronta a dedicarvisi con entusiasmo.

57
Mi imbattei per la prima volta in Bloch nel 1949. Non fu
un incontro diretto, bensì mediato da Georg Lukács. Il suo
volume Saggi sul realismo, uscito un anno prima, conteneva
tra l’altro la polemica con Ernst Bloch sul valore e il
significato dell’espressionismo tedesco, in particolare il
saggio del ’38 Es geht um den Realismus (Si discute di realismo)
e lo scambio epistolare con Anna Seghers. Già dalla
controargomentazione di Lukács ebbi l’impressione che
Bloch stesse dalla parte della ragione o, se non altro, che la
sua posizione corrispondesse meglio a quella che sarebbe
stata la mia in una simile controversia. Allora in Italia «si
discuteva di neorealismo»; da un lato erano schierati tutti gli
intellettuali di sinistra che ruotavano intorno alla rivista «Il
Politecnico», dall’altro gli intellettuali organici ortodossi del
PCI. I primi sostenevano che anche molti scrittori e artisti
dell’avanguardia borghese potevano essere ritenuti in un
certo senso dei «progressisti», o perlomeno dei «non
reazionari»; gli altri lo negavano. Si trattava della stessa
contrapposizione tematica di Erbschaft dieser Zeit e del
dibattito sull’espressionismo dei tardi – e allora ancora vicini
– anni Trenta. Cominciai a cercare le opere di questo Bloch;
non fu facile trovarle, Bloch allora era quasi uno sconosciuto
persino nella Germania Federale. Finché un giorno, nella
libreria antiquaria Eggert di Stoccarda, trovai il Thomas
Münzer ed Erbschaft dieser Zeit, ovviamente la prima edizione
di entrambi (non ce n’erano altre): il Thomas Münzer,
pubblicato a Monaco, presso il Kurt Wolff Verlag nel 1921,
l’altro (pubblicato quando Bloch già si trovava in esilio)
presso la piccola casa editrice Oprecht und Helbling di
Zurigo, stampato nella tipografia Prochaska a Teschen nella
Cecoslovacchia allora ancora libera, seppure per breve
tempo: A.D. 1935 (Oprecht und Helbling era tra l’altro
l’editore tedesco di Ignazio Silone, pubblicò Fontamara e Il
viaggio a Parigi).
Nella libreria Eggert c’erano parecchi esemplari di queste
due rare opere di Bloch. Erano decisamente a buon prezzo.

58
Me li comprai tutti e spedii i doppioni ai miei amici
dell’Istituto di Filosofia di Urbino. Così, qualche anno dopo,
fu pubblicata per la prima volta in Italia un’opera di Bloch,
un volume che Livio Sichirollo e io approntammo con l’aiuto
dello stesso Bloch. Il volumetto conteneva l’ampio saggio
Differenziazioni nel concetto di progresso e qualche altro scritto.
Le Differenziazioni interessavano i miei amici soprattutto dal
punto di vista filosofico-politico, mentre io ero interessato
piuttosto all’aspetto cultural-letterario. Perché se anche la
mia ultima grande scoperta era stata effettivamente quella
della dimensione politica (nel clima febbrile della Resistenza
e nei primi anni del dopoguerra), la penultima era invece
quella della grande lirica moderna del nostro secolo, quella
francese e spagnola in primo luogo, ma anche quella tedesca.
Avremmo voluto poter salvare entrambi gli interessi, magari
conciliarli e utilizzare l’uno per chiarire l’altro. Ci si figuri
perciò cosa provai quando nel risvolto di copertina
dell’edizione zurighese lessi quanto segue:

In ogni società e cultura che stia scomparendo vi sono i germi, i


tratti di quella che le succede; forse tali tratti non caratterizzano
soltanto gli autori del rovesciamento. Il libro pone la questione nei
termini seguenti: non vi sono forse anche nella borghesia che sta per
soccombere delle componenti che saranno determinanti ai fini della
costruzione del nuovo mondo ed eventualmente, quali sono queste
componenti? Forse sussistono all’interno della società borghese
contrastandola, magari si tratta di componenti inconsce o del tutto
isolate e ostili: certo è che sono loro a scatenare il problema
dell’eredità culturale, che da Engels in poi nessuno ha saputo risolvere
una volta per tutte, e che oggi è uno dei più urgenti. Questo libro è
una sorta di diario di bordo del nostro tempo, un diario che
attraversa la nostra epoca ed entra in quella ventura.
Le ultime parole non lasciano dubbi: il risvolto di copertina
non poteva che essere opera dello stesso Bloch.
Nel frattempo – sempre negli anni Cinquanta – era uscito
anche l’opus magnum di Bloch, dapprima all’Est,
poi in occidente. Ancora oggi non so chi, presso l’appena

59
sorta casa editrice II Saggiatore abbia predisposto l’acqui-
sto dei diritti del Prinzip Hoffnung. L’incarico di tradurre
il libro in italiano lo ottenne un mio amico e collega
dell’Università di Heidelberg, Ettore Brissa, che poco
tempo dopo aver accettato fu costretto ad abbandonare
l’impresa a causa delle enormi difficoltà e delle dimensioni
del libro. Brissa mi chiese (si era alla fine degli anni
Cinquanta o all’inizio dei Sessanta) se non volessi occuparmi
io della traduzione di uno dei due volumi, una
proposta che rifiutai a causa delle difficoltà oggettive che
presentava un compito come quello e perché purtroppo
allora non potevo permettermi di investirvi almeno cinque
anni di lavoro.
Ernst Bloch fu molto deluso e la delusione era pari alla
gioia che lo aveva colmato precedentemente, quando la casa
editrice aveva preso la decisione di tradurre il libro. Ogni
volta che ci si incontrava mi chiedeva a che punto stavano le
cose, e dopo le mie risposte poco incoraggianti se la
prendeva con il povero Brissa e soprattutto con la casa
editrice. Anche questa volta storpiava l’italiano con la sua
tipica ostinazione: la casa editrice, dicevo, si chiamava II
Saggiatore, con un’evidente allusione allo scritto polemico di
Galileo che Ernst Bloch, suppongo, conosceva. Ma nella sua
bocca il nome divenne il Saghittatore, e lui mi chiedeva
ripetutamente perché mai quel perfido Saghittatore italiano,
che non rispettava i termini del contratto, avesse voluto
prendere di mira proprio lui, l’innocente Ernst Bloch.
Il motivo per cui Bloch desiderava tanto vedere il suo
Prinzip Hoffnung tradotto in italiano, un desiderio che ancora
oggi non è stato esaudito, è del resto facilmente
comprensibile: lui sapeva che il dibattito politico-ideologico
sulla questione del marxismo — in particolare dopo la
pubblicazione degli scritti di Gramsci — aveva raggiunto in
Italia un livello notevole ed evidentemente voleva prendervi
parte. In effetti Bloch avrebbe potuto dare un notevole
apporto a quella discussione, ed è un vero peccato che non
l’abbia potuto fare.

60
Non voglio giustificare la mancata recezione di Bloch in
Italia in quegli anni con la sola ragione, di per sé valida,
della quasi intraducibilità dei suoi scritti più originali, e
comunque non è mia intenzione attribuire la responsabilità
alla casa editrice. A quell’epoca nella situazione culturale del
nostro paese c’erano anche delle ragioni oggettive che
ostacolavano l’impresa. La speranza - perché in quegli anni
si sperava o ci si illudeva di poter costruire una società
nuova e migliore - la speranza dunque, l’incentivo
dell’attività e dell’impegno politico e culturale, era
concentrata sul presente, non era attesa di una compiutezza
a venire. Inoltre l’utopia era stata messa al bando. Sul già
citato «Politecnico» il direttore Elio Vittorini pubblicò una
parte della comunicazione che aveva tenuto nel 1947 al
convegno internazionale di Bruxelles sul tema Violenza e
utopia. In quel discorso affermava: « Il rivoluzionario si
rifiuta in effetti, e non solo da oggi, di servire un’utopia». E
Vittorini, che di Bloch non conosceva neanche il nome,
distingueva di seguito le utopie prive di radici da quelle che
si originano direttamente dalla realtà storica (quella che
Bloch avrebbe chiamato utopia concreta). Riteneva tuttavia
che queste ultime andassero rifiutate tanto quanto le altre,
perché alla fin fine come le altre istigano a far violenza sulla
situazione presente. E continuava così:

Egli - cioè il rivoluzionario - ha ripugnanza di ogni fine di cui si


potrebbe dire che «giustifichi i mezzi»; e più è un fine capace di
«giustificare», più lo sente pericoloso e ne rifugge, allontanandolo
da sé sotto il nome di utopia. [...] Egli ha paura per quello che ha
veduto di possibile con l’ultima guerra, d’essere portato a degradare
il fine attraverso i mezzi.

Allora lo choc di Hiroshima era ancora orribilmente


presente. Ma soprattutto erano state sperimentate delle
utopie perverse, assassine, perché fascismo e
nazionalsocialismo si erano presentati anch’essi come utopie

61
e di conseguenza qualsiasi pensiero utopico veniva
globalmente rifiutato. Così i tentativi miei e di Livio
Sichirollo miranti a trovare un editore italiano importante -
possibilmente uno di sinistra come ad esempio Einaudi - che
fosse disposto a pubblicare in Italia le opere di Bloch non
approdarono ad alcun risultato. Un mio articolo sul Prinzip
Hoffnung uscito nel 1960 fu per molto tempo l’unico. Soltanto
Umberto Eco rispose tre anni più tardi con un breve articolo
sul «Corriere della Sera»
La situazione politica e culturale generale allora non era
ancora pronta per una recezione allargata degli scritti di
Bloch. Ma com’era la situazione nell’ambiente filosofico e
degli studi più o meno accademici, cui peraltro Bloch -
perlomeno in alcune opere - soprattutto si rivolgeva? Anche
qui, in un primo tempo, le condizioni erano tutt’altro che
favorevoli.
Eugenio Garin, nel suo lucido e sintetico panorama della
filosofia del ventesimo secolo, ha distinto due grandi campi:
la filosofia analitica e quella speculativa; da un lato la
filosofia che, per così dire, tende a conformarsi a una scienza
esatta, della quale si propone di adottare anche il metodo e i
fini; dall’altro la filosofia che non vuole rinunciare al suo
tradizionale compito, quello di cercare delle risposte agli
interrogativi di più vasta portata; oppure - per dirla con
Habermas - la filosofia che rimane ancorata al concetto
classico di sé.
Ora, Bloch sembrava aver mancato entrambe le
occasioni. A causa della sua ontologia del «non-ancora-
essere » riusciva necessariamente sgradito non solo a tutti i
neopositivisti, per non parlare dei veri e propri logici e
filosofi del linguaggio, ma anche a quei pensatori di sinistra,
come Galvano della Volpe, che vedevano in Marx il Galileo
del mondo etico e che interpretavano il marxismo come
un’aritmetica dei processi storici. Data la forma empirica e
intuitiva della sua speculazione e data l’impronta messianica
che grava su tutta la sua formazione, Bloch risultava infine

62
sgradito anche alla maggior parte degli Schulphilosophen, il
che è ben comprensibile soprattutto se si considera che lo
storicismo neo-idealista (quello di Benedetto Croce e dei suoi
allievi, imperante nell’Italia della prima metà del nostro
secolo) si fonda proprio su quell’anamnesi hegeliana che
Bloch criticava duramente e rifiutava.
In Italia dunque Bloch non garbava a nessuno. Ma nel
frattempo, nel 1967 a Firenze, Livio Sichirollo aveva
pubblicato un altro volumetto che oltre al già tradotto
Differenziazioni nel concetto di progresso conteneva anche nove
capitoli di Soggetto-Oggetto e gli importanti scritti II motivo
faustiano della Fenomenologia dello spirito e Sulla distinzione del
«metodo» di Hegel dal «sistema» e alcune conseguenze.
Questo nuovo volume negli anni successivi diede luogo
a una discussione sul modo in cui Bloch interpretava il
retaggio culturale hegeliano. I contributi più importanti dà
questo punto di vista sono - mi sembra -da un lato il saggio
Metafisica e Utopia in Bloch che Tito Perlini pubblicò nel 1971
sulla rivista milanese «aut aut» e dall’altro gli scritti di Remo
Bodei.
Gli studi di Perlini e di Bodei sono accomunati da
un’esposizione accurata del pensiero di Bloch e da un
atteggiamento di altissima stima nei suoi confronti, ciò che
comporta anche una notevole convergenza di intenti.
Entrambi gli studiosi tuttavia, seppure da punti di vista
diversi, non rinunciano ad abbozzare una critica, come è
giusto che accada ogniqualvolta ci si proponga di
problematizzare seriamente un tema. Com’è noto Perlini si è
distinto in Italia quale fautore della Scuola di Francoforte.
Non ci si stupirà dunque se nel suo esame del pensiero di
Bloch le critiche riguarderanno prevalentemente quella che
lui definisce la retorica dell’affermatività. Perlini deplora –
peraltro con un involontario ossimoro – il fatto che in Bloch
«il negativo viene sottovalutato».
Scrive:

63
L’utopia positiva è una contraddizione in termini. Anche l’utopia
concreta di cui parla Bloch lascia fortemente perplessi. L’utopia non
ha da legittimare se stessa aggrappandosi a fondamenti di tipo
ontologico-cosmologico tali da convertirla in una sorta di entelechia.
Il suo potere sta unicamente nell’esplicarsi sotto forma di critica.
Essa stessa, in quanto tale, se non vuole ridursi a utopismo
deteriore, deve limitarsi rigorosamente a essere critica dell’esistente.
Ciò esige che essa si rifiuti fermamente di predicare se stessa, di far
propaganda per il proprio avvento. L’idea di salvezza deve restare
avvolta in un velo di pudore reso necessario dall’atrocità del male
che pervade di sé il mondo di cui essa è critica indomita, senza
compromessi. La dignità dell’utopia consiste nel non ostentare se
stessa come tale. Il Bene, il diverso, la salvezza, sono ciò cui bisogna
pensare sempre, non parlandone mai. La denuncia del male e la
descrizione impietosa della negatività celata nel positivo: ecco ciò
che oggi si richiede al pensiero utopico il quale solo risolvendosi
integralmente in critica può esplicare la propria funzione e
giustificare il proprio esserci.

Ora se non altro per ragioni di tempo, mi è impossibile


sottoporre la critica di Perlini a Bloch a una controcritica
dettagliata; non mancherò tuttavia di notare, anche se
l’osservazione è superficiale, che si potrebbe facilmente
ribaltare il discorso e rimproverare a Perlini la sua retorica
della negatività, che può portare al disconoscimento
dell’esperienza, empirica ma incontestabile, di una positiva
auto-regolazione della storia del mondo. D’altronde non
bisognerebbe - a mio avviso - contrapporre a una teodicea
camuffata (ammesso poi che, nel caso di Bloch, si possa
parlare in questi termini) una metafisica del male, né al
preteso provvidenzialismo immanentistico di Bloch una
«storia della perdizione». Se si presuppone - come dice
Perlini - che il bene si deve sempre soltanto pensarlo quando
si parla del male, come si manifesta allora questo solo-
pensato? O non si palesa affatto, nel qual caso il parlare del
male non è altro che puro nichilismo il cui sbocco è
necessariamente un disperato tacere; o si manifesta in

64
qualche modo, e allora la differenza con il pensiero utopico
di Bloch si riduce a una questione di accenti.
Anche in Bloch l’invito «riconosci la situazione» è inteso
seriamente; Bloch non è ottimista ingenuo, non è un «cuor
contento», e tuttavia il filo di Arianna che conduce fuori
dalla terrificante confusione del nostro mondo, lui non lo
lascia pendere nel vuoto, lo segue. La salvezza che nessun
parlante — se non altro perché parla — esclude
completamente, in Bloch non rimane un pensiero celato e
inerte, né un astratto postulato; se riconosciamo che la
salvezza è l’orizzonte necessario di ogni speculazione sul
destino dell’umanità, allora possiamo affermare che Bloch
pretende che ci si muova direttamente nella direzione
dell’orizzonte, nella speranza che questo si apra, presto o
tardi, su di un paesaggio descrivibile. Concludo così, su
Perlini e Bloch, benché il tema sia tutt’altro che esaurito.
Lo studio di Remo Bodei su Bloch è forse meno
ideologico di quello di Perlini e quindi più neutralmente
scientifico. Mi permetto di ricordare qui brevemente che
Bodei ha promosso diverse traduzioni di Bloch. È a lui che
dobbiamo l’ampia scelta di scritti di Bloch sulla personalità e
l’opera di Marx uscita presso il Mulino nel 1971. Sempre
presso il Mulino, e, come la precedente, con brevi ma
intelligenti e chiare introduzioni dello stesso Bodei, seguì nel
1975 la traduzione completa di Soggetto-Oggetto e nel 1981
quella delle Lezioni sulla fitosofia del Rinascimento. Chiaro e
sintetico è anche lo scritto di Bodei Ernst Bloch e la scienza
della speranza. Quando se ne presenta l’occasione Bodei
prende le parti di Hegel di fronte a Bloch, secondo il quale
Hegel sarebbe caduto vittima di una mentalità «
anamnestico-platonica»; Bodei gli contesta questa accusa
anche in alcuni punti del suo ampio studio su Hegel, Sistema
ed epoca in Hegel (Bologna 1975). Ma il contributo più
importante di Remo Bodei alla recezione di Bloch rimane
indubbiamente il volume Multiversum. Tempo e Storia in
Ernst Bloch (Napoli 1979).

65
Lo stimolo principale a scrivere questo libro è stato
probabilmente per Bodei la nostra primissima traduzione,
quella del 1962: perché proprio in Differenziazioni nel concetto
di progresso compare la prima volta - se non erro - il termine
multiversum. Il libro di Bodei non è né puramente espositivo
né tantomeno critico per partito preso. L’autore ha invece
cercato, come afferma nella prefazione, «di pensare iproblemi
accanto a lui [Bloch], di riprenderne e ripercorrerne le
difficoltà, i sentieri interrotti, le soluzioni». Fatto notevole in
questo testo di Bodei è che l’esame della posizione di Bloch
non vi è condotto solo in relazione alla tradizione filosofica
da Platone a Heidegger, ma anche in rapporto ad alcuni
fenomeni storico-politici cruciali.
Da ultimo Gianni Vattimo. Il suo interesse nei confronti
di Bloch meriterebbe più spazio di quello concessogli nel
veloce accenno cui sono costretto a limitarmi. Vattimo da noi
è noto principalmente come interprete di Nietzsche e come
divulgatore della nuova scuola ermeneutica tedesca. Ha
tradotto in italiano Verità e Metodo di Gadamer. Già sedici
anni fa tenne un corso su Bloch che fu poi pubblicato in
forma di dispensa universitaria e - per estratti - sulla torinese
«Rivista di estetica». L’approccio di Vattimo a Bloch è
interessante e piuttosto inusuale, poiché lo studioso torinese,
occupandosi del concetto di letteratura in Bloch, pone a
confronto alcune parti della prima edizione di Spirito
dell’utopia con gli scritti giovanili di teoria della letteratura di
Georg Lukács; la sua posizione nella controversia è
nettamente prò Bloch e contro Lukács. Il Bloch premarxista
viene così giocato contro il Lukács premarxista. Una
tematica che in quei primi anni Sessanta era molto attuale.
A proposito di quegli anni sarà ora inevitabile porsi la
domanda, se anche in Italia, come ovunque altrove, la
recezione dell’opera di Ernst Bloch abbia avuto un riscontro
immediato nel movimento studentesco del 1968. Com’è
naturale quella rispondenza ci fu anche da noi. Non ho però
incentrato la mia esposizione su questo tema perché quei
fenomeni di recezione così ancorati al loro tempo hanno sì

66
un grosso peso da un punto di vista quantitativo, ma spesso
non sono del tutto privi di una certa entusiastica faziosità.
Naturalmente anche nel nostro paese il caso Bloch esplose -
come si suol dire - alla fine degli anni Sessanta prendendo
piede per un verso negli ambienti cattolici postconciliari e
per l’altro nella nuova sinistra. Nel 1971 uscì la traduzione di
Ateismo nel cristianesimo cui seguirono in breve sequenza altri
scritti religiosi, poi il Thomas Münzer, quindi Spirito
dell’utopia. D’altro canto si moltiplicarono le esegesi, le prese
di posizione, i tentativi di appropriazione. Spesso in questo
clima — a voler essere sinceri — la gente quando parla e a
volte addirittura quando scrive, cita soltanto per sentito dire.
I testi più importanti di Bloch, nella loro ambiguità tutta
tedesca rimangono inaccessibili a molti dei disputandi. Ma
sarebbe ingiusto voler fare di ogni erba un fascio. L’interesse
che fermentò in quegli anni ha fruttato studi molto seri da
parte di studiosi sia marxisti che cattolici. Desidero qui citare
ad esempio i lavori di Stefano Zecchi che si è molto
impegnato per diffondere l’opera di Bloch, di Laura Boella,
di Italo Mancini, di Gherardo Cunico, di Giuseppe Pirola, di
Guido Neri, di Giuseppe Cacciatore (quest’ultimo peraltro
piuttosto prolisso).
È naturale e facilmente comprensibile, e anche bello e
giusto, che un’opera vivace come quella di Ernst Bloch sia
entrata velocemente in circolo trovandosi subito a stretto
contatto con la realtà dei movimenti sociali e politici.
Nessuno vorrebbe vedere quest’opera epocale costretta nella
camicia di forza degli studi accademici. D’altra parte essa
merita che nell’esaminarla ci si sottragga all’oscillazione del
pendolo delle tendenze ideologiche. Intrecciata alle vicende
del nostro tempo come dev’esserlo ogni opera filosofica in
quanto tale, quella di Bloch vive tuttavia al di sopra dei
flussi e riflussi del movimento studentesco, per quanto
quest’ultimo sia stato senz’altro di stimolo, se non altro per
coloro che solo allora, e spesso in modo improvvisato,
s’erano muniti di una coscienza politica.

67
Un’adesione affrettata è spesso seguita da un rifiuto
acritico. Il blochismo volgare – se così ci si può esprimere —
fu dunque sostituito ben presto da una «sazietà» superficiale
nei confronti di Bloch. Lo scorso anno Remo Bodei ha scritto
un articolo per la «Frankfurter Allgemeine » dal titolo Ernst
Bloch in Italia dove si sofferma a contestare la posizione di
Bobbio rispetto all’opera di Bloch: « Egli [Bobbio] sostiene di
non avere alcuna speranza, questa dimensione teologica gli
sarebbe estranea». « Al “principio speranza” — glossa Bodei
— viene contrapposto qui il “principio saggezza”, all’utopia,
un’immagine fredda, razionale, disincantata degli eventi».
Ora, niente mi sembra più astratto, più spaventosamente
teologico e per finire così poco saggio come la negazione
totale della dimensione della speranza. Non foss’altro che
dal punto di vista psicologico o da quello antropologico, ma
in verità anche dal punto di vista ontologico, come proprio
Bloch ha dimostrato ampiamente. Questa nuova sconfinata
sobrietà con il suo pathos equivoco mi sembra somigliare
troppo al rovescio della medaglia dei malintesi e degli
entusiasmi di un tempo. E ovvio che gli avvenimenti
abbiano uj/i effetto disincantante, soprattutto su coloro che
all’incanto soggiacciono facilmente. Ma forse che Bloch ha
vissuto in tempi meno cupi e disincantanti?
Quando io, ormai quasi trent’anni or sono, chiesi a Bloch
se voleva proporre un motto per il volumetto che sarebbe
dovuto uscire a Urbino, lui sottopose alla mia attenzione la
poesia che Peter Huchel gli aveva dedicato in occasione del
suo settantesimo compleanno. Con gli ultimi versi di quella
poesia desidero congedarmi da voi e ringraziarvi al tempo
stesso per la vostra paziente attenzione.

Altra traccia indaga l’assorto


Passa tacito accanto al viottolo infossato
Dove fumo dorato si levò dall’albero

Egli è presago di ciò che la notte ancor nasconde,

68
Quando nella gran corrente del tutto
La costellazione dell’inverno ascende lentamente.

69

Potrebbero piacerti anche