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L’epistolario Seneca-Paolo:
Indagini linguistiche
Ilaria Ramelli
Allo studio dell’epistolario, generalmente ritenuto pseudo-
epigrafico, tra Seneca e Paolo ho dedicato molti studi, ed è soltanto
dal concorso di analisi storiche, filologiche, linguistiche, epigrafiche,
filosofiche, intertestuali e stilistiche che si possono trarre conclusioni
dotate di qualche fondamento scientifico rispetto ad una possibile
autenticità di una buona parte di esso. Qui desidero focalizzare
l’attenzione soltanto su un’indagine linguistica, premettendo che i
possibili indizi che ne emergono sono lungi dall’essere gli unici e non
possono essere presi isolatamente se si intende formulare una tesi
riguardo al carattere pseudo-epigrafico o non del carteggio.
L’epistolario tra Seneca e Paolo ci è pervenuto in latino; gli
autori ai quali è attribuito sono una persona di madrelingua latina,
anche se ben istruita in greco (Seneca), e un’altra di lingua greca
(Paolo), che tuttavia poteva ben conoscere il latino in qualche misura,
tanto più che lo si suppone presente a Roma ormai da diversi anni al
tempo della stesura dell’epistolario. Precisamente le carenze di Paolo
in latino inducono Seneca a fargli avere un manuale de copia
verborum, nel desiderio di migliorare la sua fluenza espressiva, non
per adornare i suoi pensieri di fronzoli retorici, ma per rivestirli di una
minima dignità linguistica1.
Sia Pascal sia von Harnack sostennero in passato che
l’epistolario fosse stato composto originariamente in greco2. Il primo
studioso supponeva in particolare che Gerolamo avesse letto una
versione greca dell’Epistolario più ampia di quella odierna, la quale
sarebbe soltanto una traduzione compendiaria in cattivo latino.
Sarebbe stata la versione originale greca a indurre Gerolamo a inserire
Seneca in catalogo sanctorum3; Pascal interpretava sancti come
1
Epp. VII; XIII.
2
Cfr. Ramelli 2000; 2005.
3
«In conclusione presentiamo l’ipotesi che queste lettere così scarne e misere, che
noi possediamo, non sieno [sic] che traduzioni dal greco, fatte in secoli barbarici, di
alcuni estratti della raccolta che era dinnanzi a Gerolamo»: Pascal 1909; von
Harnack 19582, pp. 763-765. Sul bilinguismo latino-greco a Roma nel I sec. a.C.-I
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Rivista online
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Autorizzazione del Tribunale di Roma nr. 320/2006 del 3 Agosto 2006
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«santi» e non si spiegava perché Gerolamo avesse potuto annoverare
Seneca tra i cristiani solo in base alle lettere conservate del carteggio,
le quali infatti non presuppongono una conversione di Seneca al
Cristianesimo, che è leggenda proto-umanistica4. Di qui, per Pascal, la
necessità di pensare che Gerolamo avesse letto qualcosa di diverso da
quanto leggiamo noi, che lo persuase a fare di Seneca un santo.
Tuttavia, sancti nell’espressione di Gerolamo non significa «santi»5, e
neppure semplicemente «autori cristiani»6, bensì autori che hanno
trattato argomenti religiosi o di edificazione morale, fra cui poteva ben
rientrare, agli occhi di Gerolamo7, anche Seneca, che egli conosceva
sia per le sue opere morali e le lettere, sia come autore delle epistole a
Paolo: non c’è bisogno di supporre che egli leggesse una redazione
dell’epistolario diversa dalla nostra.
Un altro argomento invocato da Pascal riguarda la questione
dibattuta nelle epp. X e XII (XI Bw), decisamente consequenziali,
benché separate dall’inserzione dell’ep. XI (XII Bw), palesemente
falsa, relativa all’incendio di Roma del 648. Nell’ep. X Paolo afferma
di sbagliare mettendo il proprio nome subito dopo quello di Seneca
nelle lettere; Seneca gli risponde (ep. XII) di essere anzi felice di
vedere il proprio nome accanto a quello di Paolo, lo invita a non
provocarlo più perché sa bene che Paolo è cittadino romano e
conclude con una frase sintetica e variamente interpretata: nam qui
meus tuus apud te locus, qui tuus velim ut meus. Gerolamo interpreta:
[Seneca] optare se dicit eius esse loci apud suos, cuius sit Paulus
apud Christianos, «Seneca dice di desiderare essere presso i suoi nella
medesima posizione in cui Paolo è presso i Cristiani» (Vir. Ill. 12).
Secondo Pascal9, Gerolamo avrebbe compreso e reso bene in latino il
presunto greco, mentre il «barbaro medioevale» avrebbe reso i
concetti in modo contorto. Tuttavia, è senz’altro possibile che
d.C.: Swain 2002; Adams 2003. Per la conoscenza del latino tra i Giudei in età
apostolica cfr. Price 2003.
4
Cfr. Ramelli 2004.
5
Faider 1921, pp. 89-104: 91-92; che Gerolamo credesse autentico il carteggio
sostengono oggi sia Corsaro 1987, sia Gamberale 1989, pp. 211-215.
6
Così traducono ad es. Erbetta 1971, p. 1730.
7
Sulle testimonianze dei Padri circa Seneca cfr. Trillitisch 1971; su Gerolamo in
part. Pp. 143-171.
8
Per l’espunzione di almeno questa lettera dal corpus originale dell’epistolario in
base a solide motivazioni filologiche, linguistiche e storiche cfr. Ramelli 1997, pp.
1-12.
9
Pascal 1909, p. 129.
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Gerolamo leggesse precisamente quello che leggiamo oggi e
parafrasasse in modo naturale ed immediato il secondo colon del
periodo di Seneca (qui tuus [est locus], velim ut meus). Quanto alla
pretesa oscurità del passo, non è vero che non si capisca quello che
Seneca intendesse dire; inoltre, sovente il Seneca delle opere
certamente autentiche presenta, come è ben noto, espressioni
sintetiche ed ellittiche, giocate su forti parallelismi verbali e non
dissimili a ben vedere dalla frase in questione.
L’argomento del “cattivo stile” di queste lettere è sembrato
deporre contro la possibilità che l’epistolario non sia
pseudoepigrafico: come dimostrerò, è un argomento debole e
suscettibile di essere ribaltato e di deporre anzi a favore di una
possibile autenticità, una volta dimostrato che il “cattivo stile”
riguarda solo le lettere di Paolo.
Precisamente la convinzione che queste siano lettere “scritte
male”, tanto da rendere impensabile che possano essere state
composte da Seneca, indusse anche Harnack a postulare non solo il
carattere spurio dell’epistolario, ma anche a supporne una redazione
originaria in greco10.
In effetti, alcune tracce di greco affiorano in queste lettere, e in
vari modi, ma non sembra che questo implichi una redazione greca poi
tradotta. Innanzi tutto, colpisce il fatto che i grecismi, sia lessicali sia
sintattici, sono presenti solo nelle lettere di Paolo, particolare tanto più
significativo quanto molto inferiori sono, sia per numero che per
estensione, le lettere dell’apostolo in questo epistolario rispetto a
quelle di Seneca. Ad esempio, nell’ep. II Paolo chiama Seneca censor,
sophista, magister tanti principis («maestro di un imperatore tanto
importante»), inserendo tra i vocaboli prettamente latini censor,
magister e princeps un termine di chiara matrice greca – anche se non
totalmente sconosciuto al latino, però con un significato differente11 –,
10
«Es ist nicht wohl denkbar daß Briefe, in denen auf den guten Stil ein so hoher
Werth [sic] gelegt wird, selbst so schlecht stilisiert gewesen sind, wie sie hier
vorliegen. Auch von hier aus wird ein griechisches Original wahrscheinlich, welches
in den uns erhaltenen Briefen in einer lateinischer Bearbeitung vorliegt».
11
Alcune non frequenti attestazioni di sophista esistono in latino, ma il termine o
assume valore negativo (ad es. in Cicerone), non come in questa lettera di Paolo,
oppure significa eloquentiae doctor, dicendi peritus (Cic. Or. 19, Iuv. VII 167; Gell.
XVII 15); senso negativo assumono anche i derivati sophistice, sophisticus etc.: si
veda Forcellini 1940, p. 421 ed il CD-Rom del Packard Humanities Institute.
Senz’altro invece nella lettera di Paolo il termine sophista non vuole avere
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che avrebbe avuto un adatto corrispettivo latino in sapiens. Il
corradicale di sophista, sophia, è un altro palese prestito dal greco,
anzi una mera traslitterazione, che raramente si trova in latino ed è
sempre sentita come greca: usata raramente nel lessico poetico (Ennio,
Marziale, teatro antico) e filosofico (Seneca stesso), trova un
corrispettivo latino in sapientia, come già Ennio traduceva la parola:
sophiam, quae sapientia perhibetur. Cicerone cita sempre questo
termine in caratteri greci; Afranio (ap. Gell. XIII 8) lo dice
chiaramente greco: Usus me genuit, mater peperit Memoria, Sophiam
vocant me Graii, vos [Romani] Sapientiam, «mi ha generato l’uso; mi
ha messo al mondo mia madre Memoria; i Greci mi chiamano Sophia,
voi Sapienza»; in Ennio è nome proprio ed è greco; è usato anche da
Seneca, in greco, Ep. 8912. Qui è impiegato nell’ep. XIV in luogo del
latino sapientia: Novum te auctorem feceris Christi Iesu, praeconiis
ostendendo rhetoricis inreprehensibilem sophiam, quam propemodum
adeptus regi temporali eiusque domesticis atque fidis amicis
insinuabis, «ti farai promotore di Gesù Cristo, mostrando con le tue
arringhe retoriche la sapienza irreprensibile che, al modo di un adepto,
insinuerai nel sovrano temporale e nei suoi amici fidati». La σοφία
nel pensiero di Paolo è centrale e ricorre nelle lettere ai Romani e ai
Corinzi13.
In un altro passo dell’epistolario con Seneca Paolo adopera un
vocabolo greco, aporia, impiegato anche nella Vulgata14 nel senso di
«dubbio». Scrive Paolo nell’ep. X: debeo enim ... id observare in tuam
personam quod lex Romana honori senatus concessit, perlecta
epistola ultimum locum eligere, ne cum aporia et dedecore cupiam
efficere quod mei arbitrii fuerit, «devo osservare verso la tua persona
ciò che la legge romana ha concesso in onore al Senato, ossia
scegliere l’ultima posizione, dopo avere riletto la lettera, per non
significato spregiativo, tutt’altro: non v’era dunque ragione di preferire sophista a
sapiens.
12
Sapientia est quam Graeci σοφίαν vocant. Hoc verbo quoque Romani utuntur,
quod et togatae tibi antiquae probabunt et inscriptus Dossenni monumento titulus:
“hospes resiste et sophiam Dossenni lege”, «La sapienza è quella che i Greci
chiamano sophia. Anche i Romani usano questo termine, il che ti attesteranno sia le
togatae antiche, sia la seguente iscrizione sul monumento di Dossenno: “Ospite,
soffermati a leggere la sapienza [sophia] di Dossenno”». Cfr. Forcellini, 1940, pp.
420-421.
13
Wilckens – Former 1979, pp. 829-843.
14
ThlL II, 251: Vulg. Sir 27, 5; Itala, cod. Bezae Cantabrigiensis Lev 26, 16; Lc 21,
35; 2Cor 4, 8; Isid. Orig. II 21, 27.
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desiderare fare ciò che vorrei, con incoerenza e a discapito del
decoro». Qui anche il valore lessicale del termine è quello tutto greco
di «incoerenza» e non quello di «dubbio», quale talora in latino aporia
ha assunto.
Non solo i grecismi lessicali e la loro distribuzione in questo
epistolario mi sembrano estremamente significativi, ma anche – e
forse ancor più, in quanto avrebbero richiesto molta più perizia e
sottigliezza in un falsario – quelli sintattici, come ho dimostrato molto
recentemente15. Infatti, quelli che sembrano costrutti strani e
“scorretti”, caratteristici di un latino tardo, sono in realtà costrutti
greci, che sembrano essere stati trasposti in latino da una persona che
pensava in greco, e di nuovo mi colpisce che questi si concentrino tutti
nelle lettere di Paolo.
Nella Lettera II, oltre al grecismo lessicale sophista, di cui ho
già parlato, c’è la seguente espressione oscura: si praesentiam iuvenis
[…] habuissem, letteralmente «se avessi avuto la presenza del
ragazzo». Ci si aspetterebbe, in latino, si iuvenis adfuisset, «se il
ragazzo fosse stato presente» o simili, cosicché i commentatori si
trovano a disagio e parlano di un costrutto postclassico, tardivo. Così,
ad esempio, Alfons Fürst, pure in uno dei contributi più eccellenti che
io conosca sull’epistolario, constata con un certo smarrimento: «Die
unbeholfene Formulierung si praesentiam iuvenis … habuissem statt
klassisch etwa si iuvenis adfuisset ist nachklassisch und singular», «la
formulazione impacciata si praesentiam iuvenis … habuissem in luogo
di un costrutto classico quale si iuvenis adfuisset è postclassica e
strana»16. In realtà, praesentiam habere non è altro che un perfetto
grecismo sintattico: riproduce in latino il tipico costrutto greco
παρουσίαν ἔχειν, molto ben attestato nel greco classico ed
ellenistico, compreso il Giudaismo ellenistico, e quasi sempre seguito
da genitivo, come ho potuto dimostrare molto dettagliatamente17.
Ancor più: Paolo stesso, nelle sue lettere neotestamentarie
sicuramente autentiche, preferisce la formula παρουσία + genitivo di
persona, ad es. in Fil 2,12 ἐν τῇ παρουσίᾳ μου, «durante la mia
presenza», invece di «quando sono lì», «quando sono con voi». La
Vulgata rende appunto in praesentia mei. Anche nella Lettera IV
15
Cfr. Ramelli 2009, con completa documentazione.
16
Fürst 2006, p. 39 n. 58. Dell’intero volume, per altro ottimo, cfr. la mia recensione
Ramelli 2008.
17
Per tutta la documentazione rinvio a Ramelli 2009.
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dell’epistolario considerato pseudoepigrafico Paolo usa questo
identico costrutto: praesentiam tui. L’uso stesso del genitivo del
pronome personale in luogo dell’aggettivo possessivo è anch’esso un
grecismo sintattico, che oltretutto ritorna nella Lettera 6
dell’epistolario con paenitentiam sui. E nelle lettere paoline del Nuovo
Testamento ci sono molti esempi di παρουσία + genitivo di persona;
invero, tutte le occorrenze di questo sostantivo nelle lettere paoline
neotestamentarie assumono questa forma sintattica, precisamente la
stessa che si trova trasposta in latino nelle lettere di Paolo
dell’epistolario. È pressoché impossibile pensare che un falsario abbia
adottato una simile sottigliezza mimetica.
Mi limito ad un altro esempio di grecismo sintattico
nell’epistolario ritenuto pseudoepigrafico: nella Lettera VI, anch’essa
di Paolo, l’espressione quibus si patientiam demus, «se concediamo
loro pazienza», è generalmente considerata strana e tarda18. Tuttavia,
anche questo in realtà è un preciso grecismo sintattico: ὑπομονὴν
(anche: ἀνοχὴν e μακροθυμίαν) δίδωμι è molto ben attestato,
spesso con il dativo, proprio a partire dalla prima età imperiale19. Il
latino traspone qui un sintagma tipicamente greco.
Queste sorprendenti coincidenze, presenti soltanto nelle lettere
ascritte a Paolo, in virtù della loro notevole sottigliezza sarebbero state
davvero estremamente difficili da ricostruire per un falsario. I
grecismi lessicali e, ancor più, sintattici non sembrano prove di una
primitiva stesura dell’epistolario in greco e di una successiva
maldestra traduzione latina, proprio perché sono solamente nelle
lettere di Paolo. Più che costituire l’esito di una cattiva traduzione di
un «barbaro medioevale», parrebbero tracce lasciate in epistole latine
da una persona che pensava in greco perché lo conosceva meglio del
latino: nella rosa lessicale a sua disposizione per rendere un concetto,
chiaramente una persona simile si sarebbe attenuta al termine più
vicino a quello greco, per essa più immediato. Similmente, per
chiunque parli o scriva una lingua che non padroneggia perfettamente,
è naturale ricalcare costrutti sintattici della propria lingua madre, o
comunque della lingua che conosce meglio e in cui pensa, e trasporli
nella lingua di destinazione. Questo è ciò che accade nelle lettere
dell’epistolario attribuite a Paolo. E questo, storicamente, era
18
Ad esempio Fürst 2006, p. 46 n. 70, commenta: «Patientiam dare ist eine
singuläre Junktur».
19
Completa documentazione, con decine di esempi, in Ramelli 2009.
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senz’altro il caso dello stesso Paolo di Tarso, il quale pensava in
greco; se mai Paolo avesse dovuto effettivamente scrivere in latino,
conoscendolo poco, vi avrebbe trasposto sicuramente termini e
costrutti greci.
Un ulteriore dato che sembra rafforzare questa impressione e
che contrasta con l’ipotesi di Pascal e di von Harnack riguardo alla
stesura primitiva di tutto l’epistolario in greco è che le frasi veramente
oscure e dubbie, che hanno messo in imbarazzo e in discordanza i
traduttori dell’epistolario e hanno fatto pensare a una scadente
traduzione latina tardiva, si concentrano tutte nelle pur brevi e scarse
lettere di Paolo, esattamente come i grecismi lessicali e sintattici.
Nell’ep. VIII Paolo scrive: licet non ignorem Caesarem nostrum
rerum admirandarum, si quando deficiet, amatorem esse, permittit
tamen se non laedi, sed admoneri. In questo solo periodo due sono i
punti controversi: il primo riguarda il senso di si quando deficiet,
variamente inteso come «nei momenti di rilassatezza» (Franceschini),
«quando è abbattuto» (Erbetta), «quando manca» (Moraldi), «benché
possa un giorno venir meno» (Natali), «se prima o poi non ci verrà
meno» (Bocciolini Palagi, che integra <ni>si quando deficiet), senza
contare le disparate traduzioni straniere20. Paolo potrebbe avere avuto
in mente in questo caso un costrutto greco molto comune, del tipo εἴ
ποτε ἀπολείψει. Neppure il significato di permittit ... se non laedi,
sed admoneri è chiaro, specie in rapporto con il contesto: anche la
tradizione manoscritta è discorde e in parte presenta permittes ... te
non laedi, sed admoneri21.
Altra espressione oscura è verso la fine della stessa ep. VIII, e
dunque rientra di nuovo nelle lettere di Paolo: cuius [dominae] quidem
offensa neque oberit, si perseveraverit, neque, si non sit, proderit,
letteralmente «l’offesa della signora né ci ostacolerà, se persevererà,
né ci gioverà, se non è». Anche se non diremo che si tratti di un
nonsense, tuttavia resta difficoltosa la comprensione dell’esatto
significato del testo, che ha indotto alcuni studiosi a supporre perfino
una conversione di Poppea al Cristianesimo22: sembra anche questo un
indizio di una persona che, non padroneggiando bene il latino,
20
Rispettivamente: Franceschini 1981; Erbetta 1969, 89; Moraldi 1971, p. 1752;
Natali 1995, p. 143; Bocciolini Palagi 1978, p. 144; 1985, p. 113.
21
Lezione preferita da Bocciolini Palagi 1978, p. 145.
22
Per queste ipotesi di Vouaux, Kreyher e Westerburg cfr. Natali 1995, p. 169 n. 45.
L’espressione nonsense è di James 1924, p. 482.
51
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scriveva frasi non totalmente perspicue.
Un ulteriore esempio è la celebre lex Romana honori senatus
dell’ep. X, ove sicuramente lex vale «consuetudine, uso»: tale
accezione è possibile in latino, dove lex significa, oltre che «legge»,
anche «norma, precetto», ma soprattutto si comprende sotto la penna
di una persona che pensa in greco, ove νόμος ha precisamente il
valore primario di «uso, consuetudine, costume»23.
Nelle lettere dell’epistolario attribuite a Seneca, invece, non
compaiono né palesi prestiti dal greco, né espressioni così dibattute e
scarsamente perspicue. Piuttosto, sembrano trapelare alcuni
fraintendimenti del pensiero cristiano di Paolo. Alcune spie in questo
senso possono far riflettere.
Ad esempio, nell’ep. VII Seneca, parlando delle lettere di Paolo
ai Galati e ai Corinzi, dice: profiteor bene me acceptum lectione
litterarum tuarum quas Galatis Corinthiis Achaeis misisti, et ita
invicem vivamus, ut etiam cum horrore divino eas exhibes. Paolo nelle
lettere ai Corinzi, che Seneca dichiara di aver letto, parla di timor
divino come di φόβος θεοῦ τοῦ κυρίου, come in 2Cor 5,11 (cfr. Rm
3,18; 11,21). Un falsario cristiano difficilmente avrebbe parlato di
horror bensì semmai di timor Dei o Domini. Qui Seneca pare
fraintendere il greco delle epistole neotestamentarie autentiche di
Paolo.
Secondo Pascal, il falsario leggeva Seneca ed eventuali
somiglianze tra le lettere ascritte a Seneca nell’epistolario e gli scritti
autentici del filosofo sarebbero da ascrivere alla loro conoscenza da
parte dell’estensore dell’epistolario. Per provarlo, egli raffronta le
lettere autentiche di Seneca con l’ep. XI (XII Bw) del nostro
carteggio: i parallelismi parrebbero convincenti, ma l’ep. XI è
precisamente quella che va isolata dal resto dell’epistolario in quanto
certamente falsa24. Tali dati rafforzano l’impressione che un falsario
abbia composto l’ep. XI basandosi su altri testi autentici di Seneca, ma
23
L’espressione oscura di Paolo è stata addotta anche da Momigliano quale prova
contro l’autenticità dell’epistolario, in quanto non è documentata alcuna legge che in
onore del Senato romano prescrivesse di porre il nome del mittente in fondo alla
lettera e il nome del senatore nell’intestazione: Momigliano 1950. Proponeva invece
la traduzione «uso, consuetudine» già Bocciolini Palagi 1978, p. 157; 1985, p. 120.
Il senso di «norma d’uso» evidentemente toglie valore all’obiezione suddetta.
24
Pascal 1909, pp. 137-138 presenta paralleli con l’Ep. ad Lucilium 91 sull’incendio
di Lione; gli esempi di persecutori che l’ep. XI del carteggio elenca sono in effetti
fra i preferiti da Seneca; ed altri indizi. Sull’espunzione dell’ep. XI cfr. Ramelli
1997, pp. 245-256 e qui supra.
52
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per le altre lettere la questione rimane aperta. Anzi, l’analisi
linguistica delle epistole, condotta parallelamente a quella delle
Epistulae ad Lucilium, che essendo composte negli ultimi anni di vita
di Seneca risulterebbero contemporanee a queste, parrebbe far
emergere – tenuto anche conto della diversità dei due tipi di lettere,
quelle a Lucilio scritti letterari, quelle a Paolo biglietti privati,
estemporanei e informali – significative congruenze stilistiche.
Soprattutto l’ordine delle parole, indizio importante25, risulta spesso
simile a quello delle lettere sicuramente autentiche di Seneca.
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25
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