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ILDEGARDA DI BINGEN : ORIENTAMENTO INTRODUTTIVO

22 OTTOBRE 2001 Sr. ANGELA CARLEVARIS osb

Ildegarda di Bingen è, se vogliamo definirla, come un diamante sfaccettato, una personalità


complessa e, nello stesso tempo, anche semplice. Lei si dichiara appunto tale, una persona semplice,
forse in un altro senso, quello di ignorante, indotta, ma lo è veramente? Ogni sua opera inizia così:
“Libro - il titolo del libro – “di una persona semplice” e non dà mai il suo nome. La sua vita è
ricca di contrasti e lei stessa li porta in sé, essendo una personalità così ricca, ma in una specie di
conciliazione degli opposti, per usare un’espressione diventata classica di un autore più tardo,
Niccolò Cusano, che la usa, non parlando di lei, ma che conosceva le opere di Ildegarda.

Ildegarda è l’ultima figlia, la decima, di una famiglia numerosa e come tale viene offerta dai
genitori, gente molto pia, a Dio come la loro “decima”, secondo le prescrizioni della Scrittura, come
troviamo nei libri di Esodo e Levitico per esempio. Del padre e della madre conosciamo solo i nomi:
il padre, Ildeberto, e la madre, Metilde. Essi, benché impegnati negli affari del mondo e
dispondendo di una ricchezza fuori dell’ordinario, ricchi di beni terreni e di beni spirituali, non
erano ingrati nei confronti del Creatore e offrirono la loro figlia al servizio di Dio. Ildegarda era una
bimba dalla salute cagionevole, intelligentissima, e dotata sin dalla più tenera età di un dono mistico
straordinario. I genitori si sentivano la responsabilità per questa loro figliola e, secondo quanto
leggiamo nella Vita e, forse proprio per questo motivo, l’offrirono a Dio.

Il dono straordinario di Ildegarda ha una certa attinenza alla mistica di San Benedetto. Nel racconto
della Vita del Santo, troviamo nel secondo libro dei Dialoghi di San Gregorio Magno che
Benedetto, dopo un colloquio spirituale con il diacono che l’osservava, si era portato al piano
superiore della torre dove abitava; non era ancora l’ora della preghiera notturna. Stando in piedi
davanti alla finestra, si era messo a pregare, quand’ecco nel cuore della notte una luce abbagliante,
più chiara della luce del giorno, rompere le tenebre e, fatto ancora più straordinario, come egli
stesso raccontava in seguito, si presentò ai suoi occhi il mondo intero, quasi raccolto tutto insieme
in un solo raggio di sole. Ildegarda sperimenta qualcosa di simile e non una sola volta, ma in
maniera continua. Ascoltiamo quanto lei ci dice:

“Dio, già nel formarmi, quando nel seno di mia madre mi spirò l’alito vitale, impresse nell’anima
mia questa visione”. Così dice nei ricordi autobiografici che troviamo nella Vita scritta da due
monaci. E prosegue: “Già all’età di tre anni vidi una luce così grande che la mia anima ne fu
sgomenta, ma a causa della mia tenera età, non ero capace di esprimere quanto provavo. Da
quando a otto anni avevo lasciato i miei per essere offerta alla vita spirituale fino a quindici anni,
ero solita a raccontare con semplicità quanto vedevo nella mia visione, sicché chi mi ascoltava se
ne stupiva, chiedendosi da dove e da chi io conoscessi quanto dicevo. E io stessa me ne
meravigliavo, perché mentre nell’anima mia avevo la visione di tante cose, continuavo a vedere
anche quanto mi stava intorno”. Ildegarda insiste sempre che aveva questa visione, per così dire,
continua, senza mai perdere contatto con la realtà e dice di non aver mai avuto nessun’estasi.
“Queste cose però non succedevano ad altre persone, me l’aveva assicurata la mia nutrice (=
governante), mentre invece avevo sempre creduto che fosse così e allora mi spaventai e cercai
perciò per quanto mi era possibile di tener nascosto quello che provavo. D’altro canto, debole
com’ero di salute, avevo pochi rapporti con le altre persone e conoscevo poche cose della vita
comune. Questa visione, invece, mi metteva a contatto con tutto il mondo”.

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Ancora una volta, già più avanti negli anni, quasi alla fine della sua vita, Ildegarda descrive in una
lettera in risposta ad un giovane monaco vallone, Guibert de Gembloux, che voleva essere
informato a riguardo: “Sin dalla prime infanzia e fino all’ora presente - ha più di settant’anni -
trovo la mia gioia in questa visione; in questa visione la mia anima sale fino alle altezze del
firmamento. Quanto io nella visione vedo, non l’avverto con gli occhi che vedono quanto sta di
fuori, né l’ascolto con le orecchie esteriori, né l’avverto con il pensiero del mio cuore, né con altra
mediazione dei cinque sensi. Piuttosto lo vedo nell’anima mia ad occhi aperti, perché mai ho
provato la perdita di conoscenza propria dell’estasi, mentre questa visione io l’ho da sveglia, di
giorno come di notte. E la luce che io vedo non ha a che fare con il luogo in cui mi trovo; è molto,
molto più luminosa di ogni nube che porta con sé il sole e non riesco a scorgerne né altezza, né
lunghezza, né larghezza. Mi è stato fatto conoscere il suo nome: ombra della luce vivente. Come il
sole, la luna, le stelle si specchiano nell’acqua, così in questa luce mi si presentano, sfavillanti,
scritti, parole, virtù, azioni e quanto lo vedo e apprendo nella visione lo conservo a lungo nella
memoria, perché mi basta di vedere alcunché nella visione per ritenerlo a mente, Vedo, ascolto e
so, tutto nello stesso tempo e in un istante apprendo perfettamente quello che poi so…non so nulla
che non abbia veduto”.

Neanche Ildegarda stessa può spiegare ciò che le succedeva. Interessante è notare che Ildegarda qui,
come nelle altre volte quando parla delle sue visioni, insiste sul fatto che le ha da sveglia e non nel
sonno o in sogni. Per esempio, autori come il celebre Ruperto di Deutz, uno scrittore che ha
commentato tutta la Scrittura in non so quanti volumi, le sue visioni le ha avuti in sogni, ma c’era
questa differenza nell’interpretazione dei sogni al tempo di Ildegarda: che i sogni degli uomini
avevano valore, invece quelli delle donne, no. Così Ildegarda dice qui che quello che ha visto non
ha nulla a che fare con i sogni.

I genitori di Ildegarda l’affidano ad una giovane, perché l’introduca alla vita religiosa. Nel capitolo
59 della Regola di San Benedetto leggiamo che i genitori possono offrire il figlio ancora bambino a
Dio, basta che avvolgano la carta dello scritto della loro donazione e la mano del bambino nella
tovaglia dell’altare e così l’offrono. E questa offerta è definitiva. Ildegarda più tardi, quando parla
di questo tipo di offerte, le giudica negativamente; dice che bisogna dare al figlio, giunto all’età
adulta, ai quindici – vent’anni, la possibilità di decidere egli stesso. Non è giusto farne l’offerta; lei
non è la sola a pensare così.

Ildegarda lascia la famiglia all’età di otto anni, prima per venire educata da una pia vedova, Uda di
Gingelheim, insieme alla quattordicenne Jutta di Spanheim, che aspirava alla vita eremitica. Il luogo
dove avrebbero dovuto vivere, l’eremitaggio sul monte Disibodo, era ancora, per così dire, un
cantiere edile, un monastero fondato nel VI-VII secolo da un monaco irlandese, di cui poco o nulla
sappiamo da altre fonti, ma che troviamo nominato nel martirologio di Rabano Mauro, nella prima
metà del IX secolo. Questo monastero era passato attraverso varie vicende, in parte dovute ad
invasioni nemiche, per esempio gli Unni nell’899, in parte alle vicissitudini politiche e alle decisioni
dei vescovi da cui il convento dipendeva, allora dal vescovo di Magonza.

Disibodo, questo santo, aveva scelto per sé una regola di vita molto austera, ma ai suoi monaci
aveva prescritto la Regola di San Benedetto e in seguito nel X secolo questo monastero da
benedettino era trasformato dal vescovo Willigis in una casa di canonici ed era ritornato ai
benedettini solo più tardi verso la fine del XI secolo e nel 1106 definitivamente con il vescovo
Ruthard. Dal 1106 fino al 1112, l’anno in cui Ildegarda insieme a Jutta vengono a Disibodenberg, si
sta ricostruendo un monastero che durante le varie vicende era stato quasi completamente distrutto.
Jutta di Spanheim, di sei anni maggiore di Ildegarda, si era decisa per la vita eremitica, incoraggiata
in questo dal fratello. Il 1° novembre del 1112 Ildegarda insieme a una coetanea segue Jutta
nell’eremitaggio sul monte di San Disibodo. Con il passare degli anni la piccola comunità si fa

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conoscere e i membri a poco a poco aumentano. Ventiquattro anni dopo, alla morte di Jutta, sono
circa quindici. Ildegarda viene eletta successivamente con il titolo di Maestra nel 1136.

Da quest’anno la vita di Ildegarda procede fino al 1141 al suo ritmo abituale tra preghiera e
semplici occupazioni casalinghe nel raccoglimento e nella solitudine dell’eremo. Quali fossero
queste occupazioni lo veniamo a conoscere da una lettera che parecchi anni dopo il Priore di
Disibodenberg, Adalberto, scrive a Ildegarda, la quale ormai da anni ha lasciato Disibodenberg per
il nuovo convento da lei fondato sul monte di San Ruperto. Le scrive ricordando il passato: “Ti
conosciamo dalla tua fanciullezza giacché tu hai vissuto presso di noi molti anni. Sappiamo come
tu sei cresciuta presso di noi, come sei stata educata e hai vissuto la vita religiosa. Sappiamo pure
che tu ti dedicavi solo ai lavori femminili e che non avevi altri libri per istruirti che il solo
Salterio”. E qui c’è il problema che uno deve affrontare quando si occupa degli scritti di Ildegarda,
cioè che questi scritti mostrano che lei ha una conoscenza molto profonda di problemi filosofici,
teologici, di scienze naturali, eccetera, mentre lei afferma di non aver mai studiato e qui sentiamo
dal Priore Adalberto la conferma di questa affermazione. Così viveva Ildegarda nella “semplicità e
purezza della buona santa conversazione”, come dirà più avanti nella sua lettera il Priore.
Quand’ecco presentarsi un fatto nuovo imprevedibile, straordinario: una visione diversa dalla solita.
Nella stessa lettere vi si trova un accenno: “Tu vivevi in semplicità ma il paterno amore di Dio ti ha
colmata come egli volle di celeste rugiada e ti ha svelto la grandezza dei suoi misteri”.

Questa visione straordinaria esige una risposta e vuol dare alla vita di Ildegarda una nuova
direzione. Di questo avvenimento Ildegarda stessa dà la data con precisione, meglio ancora, con
solennità. Lei introduce così la descrizione: “Nell’anno 1141 dell’Incarnazione di Gesù Cristo,
Figlio di Dio, quando io contavo quarantadue anni e sette mesi vidi un grandissimo splendore: in
esso si fece udire una voce dal cielo che mi disse: ‘O essere fragile, cenere da cenere e putredine
da putredine, scrivi quello che vedi e odi’”. Questa visione è per Ildegarda una specie di battesimo
di fuoco; la descrive così: “Una luce fiammeggiante con bagliori simili a quelli di un fulmine venne
dal cielo e scese su di me, m’inondò il cervello, mi penetrò pure il petto con una fiamma che non
consuma ma riscalda, come fa il sole per quanto cade sotto i suoi raggi. E d’improvviso mi aprì il
senso delle Scritture, del Salterio, del Vangelo e degli altri libri del Vecchio e del Nuovo
Testamento, il loro senso, non il significato parola per parola, o altre regole retoriche. ‘Scrivi
quello che vedi e odi’, così la voce”.

Per Ildegarda non fu facile aderire all’ingiunzione divina. Era troppo convinta della sua pochezza ed
ignoranza. Vi si aggiungeva poi l’insicurezza di fronte alle cose straordinarie di cui era oggetto.
“Tutto ciò che ho descritto” ci spiega “io l’avevo visto e udito, tuttavia rifiutavo di descriverlo, non
per ostinazione, ma nella convinzione della mia incapacità, a causa dei dubbi, dell’opinione non
favorevole e delle diverse interpretazioni che vi si davano, fintanto che, come Dio vuole, caddi
malata e infine, costretta nelle molte sofferenze, misi mano a scrivere”. Dice in latino: ‘manus ad
scribendum opposui”. Così inizia la sua attività di scrittrice e anche di questo inizio ci dà la data,
mettendola in relazione con gli avvenimenti del tempo e del luogo in cui viveva: “Al tempo di
Enrico, vescovo di Magonza, e di Corrado, re di Roma, di Kuno, abate di Disibodenberg, sotto
Eugenio, papa, successero queste visioni e parole. Ed io le dissi e scrissi non secondo il mio
sentire, o quello di altre persone, ma secondo come le vidi e le udii e ricevetti dal cielo per le vie
misteriose e nascoste di Dio”.

Ma l’insicurezza le rimaneva. La visione poteva venire sì da Dio, ma sarebbe stato accolto il


messaggio da una donna “semplice”, cioè, incolta? Assicurarla poteva soltanto una persona che alla
profondità della dottrina unisse alla santità di vita e una tale persona era nell’anno 1147 non
lontana: Bernardo di Chiaravalle era allora a Treviri per il Sinodo a cui prendeva parte pure un altro
cisterciense, papa Eugenio III. Diamo qualcosa della lettera che Ildegarda gli scrive e della risposta

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di Bernardo. Ildegarda: “Sono in pena per questa visione che mi si rivela nell’anima in maniera
misteriosa. Mai ne ho presa coscienza con gli occhi di carne. O mite Padre, nella Tua bontà
rispondi alla Tua indegna serva che dall’infanzia mai ha vissuto una sola ora di sicurezza… Io mi
affretto a venire a Te… Tu sei l’aquila che fissa lo sguardo nel sole”. E Bernardo risponde, poche
parole, chiare e rassicuranti: “Ci rallegriamo con Te per la grazia che Dio opera in Te. Per quanto
mi riguarda, io Ti esorto e scongiuro di stimarla come una grazia e di corrispondervi con tutta la
forza del Tuo amore dell’umiltà e della dedizione”.

Intanto l’abate del monastero di Disibodenberg, Helinger, ne parla con il vescovo e Ildegarda stessa
racconta nell’eremitaggio di Disibodenberg parla della sua incertezza con Jutta, la quale la consiglia
di parlarne con un monaco, che molto probabilmente è lo stesso che più tardi sarà il segretario di
Ildegarda. Il monaco ne parla con l’abate e l’abate parla con il vescovo. Il vescovo infine ne parla
con il papa. Il papa che si trova in quel periodo a Treviri, a poca distanza da Disibodenberg, manda
per questo motivo due suoi legati a Disibodenberg, incaricandoli di fare conoscenza personale di
Ildegarda, di prendere informazioni molto precise su di lei e di chiedere pure di leggere il libro che
Ildegarda sta scrivendo, lo Scivias, che verrà portato a termine nel 1151. Riguarda al titolo Ildgarda
dice: “Nella mia visione ho saputo che a questo mio libro che dovevo scrivere per incarico di Dio
dovevo dare il nome di ‘Sci vias Domini’”. Generalmente questo titolo viene tradotto “Conosci le
vie del Signore”, ma non credo che questa sia la traduzione giusta, anche per quanto Ildegarda dice
in seguito, facendo questa osservazione: “Ho conosciuto le vie del Signore”. È la sua
testimonianza sulla vita dell’uomo, sulla Chiesa, sulla storia.

Come leggiamo negli Atti della canonizzazione, Eugenio III stesso lo legge personalmente ai
membri del Sinodo. A quanto ci racconta, Bernardo di Chiaravalle sarebbe intervenuto
personalmente presso il papa con la preghiera di non lasciare che una simile lucerna restasse
nascosta e il papa si mostra non solo favorevole nella richiesta ma esorta pure Ildegarda con una
lettera, che abbiamo, a corrispondere alla grazia a lei fatta e a scrivere quanto verrebbe a conoscere
nelle sue visioni, Così gli anni della solitudine e del silenzio volgono alla fine e nello stesso tempo,
quasi per rendere più evidente la nuova direzione in cui procedere viene ingiunta in visione a
Ildegarda di lasciare l’eremo e come nuova sede per la piccola comunità, che ormai contava diciotto
persone, le viene indicato il monte di san Ruperto, il Rupertsberg, nella vicinanza di Bingen, sul
Reno, dove, secoli addietro, questo giovane santo era vissuto e morto.

Dice Ildegarda di Bingen, riferendosi a questo monastero da lei fondato: “Dalla periferia al centro,
dall’eremitaggio alla confluenza del Nahe e del Glan - dove era vissuto finora – ai colli sulla riva
del Reno” - alla confluenza del Reno e del Meno, laddove da tutte le direzioni, da tutti punto
cardinali passavano le vie di comunicazione, oltre a quelle fluviali, sul Reno e sul Meno. È un punto
centrale, per cui ha facilità di comunicazione con persone, conventi, in tutta la Germania e con altri
paesi, con il Belgio, per esempio e con i paesi dell’Est.

Il distacco da Disibodenberg non avvenne senza difficoltà. Per i monaci la presenza di Ildegarda
significava più che mai un’attrattiva spirituale che si veniva a perdere. Un’altra perdita, materiale e
rilevante, era quella della dote sua e delle altre sue compagne, che fino a quel punto era stata
amministrata dal monastero. La questione restò aperta per anni, lo vediamo dalle lettere, forse fino a
1170. Ildegarda continua a chiedere la restituzione, perché ne aveva diritto e anche bisogno per la
sua comunità e anche perché la giustizia era per lei il fondamento della santità. In una lettera
all’abate Helinger si rivolge a lui senza tanti riguardi, incominciando col dirgli quanto ne vede nella
sua visione, per continuare molto energicamente: “Ora, ascolta e apprendi, perché Tu abbia da
arrossire, se sei capace di assaporare nell’anima quello che io Ti dico. A volte Ti comporti come un
orso, che in segreto brontola tra sé e sé, a volte pure come un asino. Non Ti prendi cura di quello
che devi fare e Te ne stai zitto e sotto certi aspetti pure con imperizia e così di quando in quando

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non ci riesci a portare all’effetto la malvagità dell’orso. Per questo Tuo comportamento il Padre
celeste dice: 'Guai, guai a Te; questa instabilità non è secondo la mia volontà’”. Verso la fine della
lettera conclude: “Il Tuo cuore non prenda beffa dell’opera di Dio, perché non sai quando la sua
spada può colpirTi”.

La lite durò a lungo fino a che col tempo si giunse a una soluzione accettabile da ambe le parti. Tra
il riconoscimento dell’autenticità delle visioni di Ildegarda da parte di papa Eugenio nel 1147 e il
trasferimento dal monastero di Disibodenberg a Bingen trascorsero circa tre anni, durante i quali
venne costruito, sebbene non completamente, il nuovo monastero. Di questo cambiamento c’erano
anche dei motivi politici. I tempi antichi non erano sempre così tranquilli, come si è portati a
credere. Nell’anno 1146, quando Ildegarda era ancora a Disibodenberg, fu solo per l’influenza di
Bernardo di Chiaravalle, che per poco non pagò il suo intervento con la vita, che la comunità
ebraica di Magonza, ricostituita da non molto, dopo il pogrom di 1096, poté salvarsi non senza aver
patito gravi perdite. Un fatto molto doloroso era successo, il gruppo di ebrei si era rifugiato presso il
vescovo, il vescovo era venuto a Rudersheim e aveva promesso di proteggerli. Avendo visto che
non lo poteva, li lasciò andare ed erano stati uccisi forse nelle vicinanze di Eibingen e del nuovo
monastero.

Più da vicino ci toccano le vicende del successore del vescovo Enrico di Magonza, Arnoldo. Sul
vescovo di Magonza in quanto tale correva il detto: “Maguntinus post Imperatorem princeps est
principum” (=subito dopo l’Imperatore, il vescovo di Magonza è il principe dei principi). Arnoldo
era stato eletto dal re Corrado, come Cancelliere dell’Impero. Siamo in quel momento cruciale in
cui si comincia il sorgere dell’indipendenza delle città e anche il lento sorgere della borghesia.
Arnoldo cercò di ristabilire il potere del vescovo nella città e venne a trovarsi in conflitto con il
conte Palatino, Ermanno di Stahleck, uno dei più grandi benefattori di Ildegarda. La contesa ebbe
per conseguenza saccheggi, devastazioni, destruzione delle chiese, dei villaggi, dei castelli, delle
fattorie. Barbarossa cercò di mettere pace e tra altro sottopose nobili facinorosi a una gran pena
molto disonorevole, detto das Hundetragen, il portare a spasso un cane. Era il tempo in cui il
Barbarossa preparava la spedizione contro Milano. Arnoldo aveva più volte pregato l’Imperatore
per non prenderci parte, però invano. Ma i suoi sudditi magontini si rifiutavano di pagare il tributo
per la guerra e per questo motivo, egli, dovendo partire per l’Italia, lanciò loro la scomunica.

Prima del suo ritorno alla domenica delle Palme del 1160 la rievocò e sembrava che tutto fosse in
pace; quando Arnoldo cercò di regolare i conti con i magontini, la lotta ricominciò più che mai. Poi
avvenne un fatto dolorosissimo ricordato da tutte le cronache dei monasteri della Francia, della
Germania, dell’Inghilterra dell’epoca: il 24 giugno dell’anno 1160, l’abate di San Giacomo di
Magonza, da dove erano partiti i fondatori per il convento di Disibodenberg, invita il vescovo
Arnoldo al monastero e lì il vescovo viene ammazzato. Pare che Ildegarda abbia annunziato ad
Arnoldo questa sua fine. Negli annali del tempo di un convento della Germania troviamo che:
“C’era in quel tempo una santa, una vergine di nome Ildegarda, che in una visione spirituale vide
che Arnoldo, di cui abbiamo parlato, sarebbe morto in pochissimo tempo. Gli scrisse: ‘O Padre, sta
ben attento a Te, perché sono state sciolte le funi che tenevano legati i cani che Ti inseguono’. Ma
egli non diede retta ad alcun monito”. Questa lettera citata si trova nel convento e non
nell’epistolario di Ildegarda. Abbiamo un’altra in cui, con tono rispettoso, vengono dette delle
parole di ammonizione e di rimprovero e che termina così: “Surge ergo ad Deum, qui ad tempus
cito venit!” (= sorgi, volgiti dunque a Dio, il tuo tempo verrà presto!)

Arnoldo è stato poi un grande benefattore di Ildegarda, quando aveva concesso l’indipendenza al
suo monastero. Un altro benefattore è Federico Barbarossa, il quale, in data di 18 aprile 1163 dà la
piena indipendenza amministrativa per il monastero di Rupertsberg, senza obbligo di ricorre ad un
curatore o ad un tutore, sia dalla parte laica che quella ecclesiastica. Ildegarda, questa

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contemplativa, era una persona estremamente pratica e non voleva assolutamente ingerenze alcune
per la vita del suo monastero, né dalla parte del clero, né dalla parte dei benefattori laici. Voleva
poter decidere lei stessa. Così, dalla semplicità della vita eremitica, sotto la tutela del monastero
maschile, Ildegarda giunge alla piena indipendenza.

A questo punto vorrei dire alcune cose, anche se molto succintamente sulla sua famiglia. Di lei si
diceva che era figlia di una famiglia dipendente dei conti di Spanheim, la famiglia di Jutta. Invece
studi recenti hanno fatto conoscere vari membri della sua famiglia. Su un registro cominciato l’anno
dopo la morte di Ildegarda che raccoglie tutte le donazioni di beni che sono state fatte al convento, a
cominciare dall’anno 1147, l’anno della fondazione. Fra questi donatori si riesce a trovare i vari
nomi, tra cui Ildeberto di Bernersheim, Ugo, figlio di Ildeberto, “Ugo cantore”, primo cerimoniere
del vescovo di Magonza, che viene nominato anche da Ildegarda nelle sue lettere. Attraverso questo
nome di Ugo si riesce a trovare i fratelli di Ugo, in modo che si ricostruiscono i nomi di otto
membri della famiglia di Ildegarda: Ugo, Drutwin, Odilia, Irmingarda, Jutta, Clemenzia, Rorich;
mancano solo due. Tutti questi fratelli fanno donazione completa al convento di Rupertsberg,
cosicché sembra che la famiglia si sia estinta. Forse gli altri due erano donne sposate, tuttavia nei
più di mille documenti esaminati non si trovano altre tracce di nomi che si riferissero a questa
famiglia. Bisogna pensare che era il tempo della seconda crociata (1146-49) e che se erano maschi,
forse vi avevano partecipato e erano morti.

Conosciamo dei nipoti dalle lettere e da altri documenti e il cugino di Ildegarda, il vescovo di
Treviri, Arnoldo di Walencourt, una famiglia della Lorena. Lui scrive in una sua lettera:
“L’amicizia tra parenti è cosa celeste, l’età non le porta impedimento, anzi l’accresce, è sincera,
non conosce tregua, piuttosto aumenta di giorno in giorno. Ma mentre entrambi noi sin dal
principio della nostra vita siamo stretti da vera amicizia, ci chiediamo con meraviglia perché mai
Voi (Ildegarda) abbiate più caro l’adulatore del vero amico, mentre il profeta dice: ‘l’olio del
peccatore non impingua il mio capo’, e il nostro fratello, il prevosto di Sant’Andrea in Colonia, noi
lo riteniamo un adulatore. Ildegarda gli risponde in una lettera molto amabile, ma sulla parentela
non una parola, forse per l’allusione negativa fatta da lui al riguardo del fratello Wezelin.

Si vorrebbe maggior informazione sulla famiglia di Ildegarda, ma ciò che risulta è che aveva
moltissimi contatti con la famiglia di Staufen. Lo zio di Federico Barbarossa aveva i suoi
possedimenti confinanti con quelli di Bermersheim, i luoghi della famiglia di Ildegarda. Il primo
benefattore del nuovo monastero di Rupertsberg è il conte Palatino Ermanno di Stahleck, la cui
moglie era sorella del re Corrado. Ildegarda ottiene l’esenzione per il suo monastero dall’Imperatore
Federico Barbarossa, in data del 18 aprile 1163. A lui scrive lettere con una straordinaria audacia,
muovendogli rimproveri e minacciandogli dei castighi di Dio, quando alla morte dell’antipapa
Vittorio IV Federico si accinge di eleggere il suo successore, Pascasio III. Dice: “Nella mia visione
mistica vedo Te come fossi un pargolo e uno che vive senza ragione dinanzi agli occhi del Dio
vivente”. E in un’altra lettera dice: “Dio dice così: ‘Guai, guai, io distruggo la protervia
orgogliosa, la superbia e la contraddizione di quelli che mi disprezzano. Riduco in frantumi la mia
stessa opera. Guai, guai a Te, ascolta quel che Ti dico se vuoi vivere, altrimenti la mia spada Ti
percuoterà”. Così erano i suoi rapporti con Federico Barbarossa. Dopo la sua morte il fratello di
Federico, Corrado, conte Palatino di Tureno, fondò una donazione in suo nome a favore di
Rupertsberg e depone anche un lascito alla sua memoria.

La franchezza di linguaggio che aveva Ildegarda con i potenti di questo mondo è forse in parte
dovuta alla sue condizione sociale, per cui se lo poteva permettere. E soprattutto dovuta al suo
profondo senso di giustizia. Ci restano trecentonovanta lettere, di cui è stata ultimata qualche
settimana fa l’edizione critica. Si rivolge ad abati, a sacerdoti, a laici, a persone semplici,

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all’Imperatrice di Bisanzio, al re d’Inghilterra, a membri di tutte le classi sociali con una franchezza,
una chiarezza e un coraggio indicibile.

Gli anni che seguono dal 1151 fino alla morte di Ildegarda sono ricchi di avvenimenti e pieni di
attività esterne. Delle difficoltà di ogni genere all’inizio, a causa del rifiuto dei monaci di
consegnare alla monache la loro dote, Ildegarda dice: “Io rimasi in quel posto con venti giovani
monache di famiglie ricche e nobili, alle quali era finora nulla mancato, in una grande penuria.
Non vi era altra abitazione nel vicinato che quella di una persona anziana e dei suoi figli e figlie”.
Poi si aggiungeva a questa situazione difficile la critica assai malevola della gente a proposito. “I
monaci e la gente del vicinato si chiedevano per qual motivo avessimo lasciato una regione ricca di
pingui campi e vigne, com’era Disibodenberg, e così amena, per andare a finire in un luogo arido e
solitario, in cui non c’era da aspettarsi alcun vantaggio e si mettevano insieme per andarci contro
e c’era chi mi diceva vittima di false apparizioni”.

Non ultima cosa a farla soffrire era la reazione di alcune sue figlie: “Si separarono da me e alcune
più tardi vivevano così disordinatamente, da far dire a molti che il loro operato di per sé rivelava
che avevano peccato contro lo Spirito Santo e contro chi mosso dallo Spirito parlava loro. Quante
poi mi volevano bene si domandavano con stupore come mai io venissi così provata, mentre non
altro volevo che fare del bene”. Anche in seguito per alcuni anni ebbe a soffrire da parte delle sue
figlie, che, come lei diceva, avendole viste nella visione, “…erano avvolte nella rete di spiriti aerei,
che combattevano contro di noi e che le avevano catturate per mezzo di vanità. Alcune mi
guardavano con occhi torvi e di nascosto mi mordevano con le loro critiche, dicendo che non
potevano sottomettersi alla stretta della disciplina regolare, alla quale io le volevo costringere. Ma
Dio mi diede sollievo per mezzo delle altre consorelle buone e sagge”. Nel Liber vitae meritorum
(= “Libro dei meriti di vita”), la seconda grande opera di Ildegarda, in cui sono stati descritti
trentacinque vizi, si dice che per descrivere questi vizi lei non dovesse fare altro che guardare
alcune delle sue figlie!

Poco a poco la vita a Rupertsberg prende un corso regolare. Già lo Scivias e il riconoscimento di
papa Eugenio a Treviri della missione di Ildegarda avevano fatto sì che la fama delle sue visioni si
spandesse in una larga cerchia. Ben conosciuta, stimata, ricercata per consigli da vicino e lontano,
da persone di ogni condizione sociale, intraprese anche dei viaggi, seguendo il corso del Reno verso
il nord, verso il sud, il corso del Meno e il corso della Mosella; probabilmente viaggiava sempre
lungo i fiumi. C’erano dei conventi che si trovavano in situazioni molto difficili che chiedevano il
suo consiglio, c’era un abate che chiedeva se doveva o no dare le dimissioni, altri chi dovevano
accettare l‘incarico.

Gli ultimi mesi della sua vita furono duramente provate dal famoso interdetto. Ildegarda aveva
permesso che fosse sepolto nel cimitero del monastero un giovane che era stato scomunicato, ma
che si era convertito poco prima di morire e aveva ricevuto l’assoluzione. Il vescovo di Magonza in
quel tempo era a Roma e il clero di Magonza non era molto favorevole verso Ildegarda, perché lei
aveva scritto alcune lettere, precisando cose che Dio non voleva trovare tra loro. Essi non vollero
riconoscere la conversione del giovane prima della morte e pretesero che Ildegarda facesse
asportare il cadavere dal cimitero. Lei si oppose, nascose il luogo preciso dove era sepolto e accettò
la scomunica per sé e per il suo monastero. Il che voleva dire che non si poteva recitare l’Ufficio,
non si poteva assistere alla Messa, ricevere la comunione e gli altri sacramenti. Morì il 17 settembre
dell’anno 1179 e alla sua morte ci fu un segno celeste, un segno di croce in cielo.

Le opere di Ildegarda

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La prima è lo Scivias, in tre libri, che tratta nel primo libro sei visioni della storia del mondo e della
la creazione, per la quale nel dodicesimo secolo ci fu un grandissimo interesse. Il secondo libro
tratta i sacramenti e la vita religiosa e il terzo libro tratta le virtù, gli angeli, l’influsso delle virtù
sulla vita dell’uomo e come bisogna servirsi delle virtù per vivere secondo Dio. Per Ildegarda la
storia del mondo non era la storia umana, ma la storia dell’uomo con Dio e tutta la storia è storia
sacra che procede attraverso tante vicende, cominciando con il peccato dell’uomo, poi la redenzione
che dev’essere realizzata e vissuta dagli uomini e si conclude con la celeste armonia. Vedremo poi
quale importanza ha il concetto dell’armonia per Ildegarda. Il libro finisce con la descrizione di
come tutte le anime sono unite nell’armonia celeste e si rallegrano e gioiscono davanti a Dio. Il
concetto di armonia vuole dire per Ildegarda tutto: il ritorno al disegno iniziale di Dio; egli ha fatto
tutto bene, l’uomo ha sciupato questo bene con il peccato, non ha voluto osservare la legge di Dio.

È anche interessante come Ildegarda considera la legge: non è la legge esterna, è data dalla natura di
ogni cosa, per l’uomo e per le varie cose; vuol dire scoprire l’interiorità delle cose, la nostra
interiorità e la nostra armonia e quanto si sciupa la nostra armonia. Il nostro sforzo dev’essere di
riportare l’armonia alla nostra vita. Armonia vuol dire ordine, vuol dire anche cosmo. Ogni cosa
deve aver il suo posto e l’uomo deve avere il suo posto, che è voluto da Dio, secondo Ildegarda,
prima del peccato e ancor prima della creazione. Dio ha sempre pensato all’uomo come all’essere al
centro della creazione, il quale, attraverso malgrado il peccato, doveva ritornare alla sua posizione
iniziale. L’uomo riassume in sé il mondo, è un piccolo mondo, perché è l’unica creatura dotata di
ragione e avvalora tutto quello che Dio ha creato. Non è il centro del mondo, il centro del mondo è
Dio; però è al centro del mondo, se è in Dio. Ed essendo in Dio, tutto diventa armonia, tutto diventa
cosmo. E così finisce lo Scivias.

Nel Liber vitae meritorum ci sono vari motivi che si intrecciano, il motivo della creazione, quello
degli elementi, il motivo di Dio, centro del mondo, il motivo della lotta fra il peccato, i vizi, e le
virtù. Le virtù e i vizi si affrontano; la cosa interessante è che la virtù è semplice nel suo modo di
esposizione, mentre il vizio parla bene, si presenta bene, dà buoni consigli, ma la descrizione che
Ildegarda ne fa è orrenda: del vizio sentiamo gli allettamenti, ma non ne vediamo la realtà com’è.
Ildegarda ce lo dimostra in questo modo.

Il terzo libro è il più bello, il più interessante e certamente il più difficile: è il Libro delle operazioni
di Dio, in cui fa vedere come l’uomo è in rapporto con tutto il mondo. Il mondo non è indifferente a
come l’uomo si comporta e l’uomo è legato in certo senso con il mondo, perché, secondo Ildegarda
e gli altri autori del suo secolo, la creazione stessa, essendo opera di Dio, è un libro che va letto e la
creazione ci può istruire sugli intenti di Dio. Ed è per questo che si trova un linguaggio simbolico in
lIdegarda, perché, guardando il mondo e vedendo, per esempio, le costellazioni delle stelle, lei
capisce che queste sono una parola di Dio che bisogna cercare di comprendere e interpretare.

Queste sono le grandi opere, ma scrive ancora delle Vite di santi, di San Disibodo, di San Ruperto,
un’interpretazione della Regola di San Benedetto, non completa, scrive anche delle risposte a
questioni teologiche che le vengono poste dai monaci del monastero di Villers, e settanta canti con
la musica; dice di non aver mai imparato la musica, però scrive una musica eccezionale, bella, che
presenta, come tutti gli scritti di Ildegarda, anche moltissimi problemi, perché sono sempre una
fonte di ricerche. C’è sempre da scoprire qualcosa su Ildegarda; è talmente ricca in quello che dice,
riassume sempre diversi aspetti, che si riesce a capire solo poco per volta.

Scrive anche, un problema ancora scottante di cui mi sto occupando, ma di cui sono ancora lontana
dal trovarne una risoluzione, quasi mille parole in una lingua ignota che usa un alfabeto ignoto, di
cui lei dà la traduzione in latino e tedesco medioevale. Per quale motivo aveva scritto queste mille
parole, tutte sostantivi, e le aveva difese in una lingua che lei stessa forma? Cerchiamo di studiarlo e

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capirlo senza finora riuscirci, certamente non senza motivo, perché Ildegarda è una persona
estremamente pratica, ogni cosa che fa ha uno scopo. Se lei scrive questa lingua ignota, certamente
lo fa con uno scopo, per aiutare a far capire certe cose. Delle volte pensavo che forse fosse una
reazione al movimento filosofico dei nominalisti, per cui le cose non avevano valore in sé, ma il
mistero rimane.

Scrive la spiegazione del Simbolo di Sant’Atanasio e infinite lettere, un piccola dramma teatrale,
Ordo virtutum,(= Il coro delle virtù), che è stata rappresentata varie volte, forse anche a Milano, in
Germania molte volte, anche in Inghilterra, in Italia a Siena. Presenta l’assalto che il Diavolo fa
all’Anima e la difesa che l’Anima trova nelle Virtù. Le Virtù cantano, mentre il Diavolo grida
soltanto, non conosce la musica, perché per lui l’armonia non esiste.

Riassumendo cercheremo la volta prossima di vedere del XII secolo quali elementi Ildegarda
accolga in sé dei movimenti, delle aspirazioni, dei nuovi indirizzi di questo secolo aureo, che è
quasi il rinascimento del Medioevo. Sono i nuovi aspetti, le nuove tendenze che Ildegarda in sé
assume, perché in ciascuna delle sue opere c’è qualcosa di queste nuove aspirazioni che
commuovono e muovono la sua epoca.

Una precisazione sulle Lettere di Ildegarda

Nel Medioevo la lettera come genere letterario era sempre una cosa pubblica, sarebbe stata una
vergogna, un’offesa, una cosa inaudita se uno avesse ricevuto una lettera, l’avesse presa e letta per
sé. Quello che noi possediamo delle lettere di Ildegarda sono lettere ufficiali. Le lettere personali, in
cui, per esempio, lei chiedeva dei manoscritti da leggere, o riferiva una necessità pratica, non
esistono. Abbiamo solo lettere ufficiali e forse già corrette per pubblicazione, perché esiste di lei un
libro di lettere, emendate e corrette ad uso per la lettura.

La grande difficoltà dell’edizione delle sue lettere era appunto questa: abbiamo parecchi
manoscritti, ma nessuno ha tutte le lettere e le redazioni sono molto diverse, per cui si vede la lettera
come doveva essere all’inizio e poi nel famoso Riesenkodex, ancora conservato a Wiesbaden, in cui
c’è la redazione ufficiale, il libro delle Lettere, che va letto per aver consigli, ma non si tratta delle
lettere stesse originali che Ildegarda scriveva a Federico Barbarossa, all’abate di Disibodenberg e
così via. È quindi molto interessante il confronto tra queste varie redazioni di lettere, un lavoro fatto
con molti anni di grande fatica, che in parte è ormai concluso; manca ancora la Vite di Disibodo e di
Ruperto, che inizia con una lettera di presentazione, queste non sono state ancora edite, ma il lavoro
verrà completato.

A proposito delle traduzioni integrali in italiano delle opere di Ildegarda

C’è una traduzione integrale del Libro dei meriti di vita e un’altra della breve trattazione sulla
Regola di San Benedetto. Ci sono traduzioni integrali in tedesco e in inglese, ma non di tutte le
opere. Tradurre Ildegarda rappresenta una fatica enorme! Quando devo preparare una conferenza, ci
vuole più tempo per tradurre le brevi citazioni, che per fare il resto, perché il testo è talmente
condensato, il latino è medioevale, ma esprime tutto quello che lei vuole esprimere. Bisogna leggere
i testi nell’originale per quanto possibile, o ci sono delle buone traduzioni in tedesco, alcune, però,
non complete.

Le opere di Sant’Ildegarda

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Nell’introduzione al “Libro dei meriti di vita” – Liber vitae meritorum – (1158-63), la seconda
grande opera dopo lo Scivias, Ildegarda elenca gli scritti composti nel periodo che va dal 1151, fine
dello Scivias, al 1163.

Essi sono: un trattato di scienze naturali e di medicina (Subtilitates naturarum diversarum


creaturarum), una raccolta di canti ed una sacra rappresentazione (Symphonia harmoniae
caelestium revelationem; Ordo virtutum), una raccolta di lettere (Responsa et admonitiones tam
minorum quam maiorum plurimarum personarum), l’elenco di quasi mille vocaboli di una lingua
ignota con il rispettivo alfabeto (ignota lingua et litterae), lettere con alcune esposizioni (litterae
cum quibusdam expositionibus), sotto il cui nome s’intendono probabilmente le cinquantotto
esposizioni dei Vangeli delle domeniche e di alcune feste (Exposisitiones evangeliorum) e vari
scritti minori, cioè: la Spiegazione della Regola di San Benedetto (Explanatio Regulae S.
Benedicti), la Spiegazione del Simbolo di Sant’Anatasio (Explanatio Symboli S. Athanasii); la Vita
di San Disibodo (Vita Sancti Disibodi) e la Vita di San Ruperto/Roberto (Vita Sancti Ruperti); le
Soluzioni delle trentotto questioni su argomenti riguardanti per lo più la Sacra Scrittura (Solutiones
triginta octo quaestionum). Non abbiamo l’originale del Liber subtilitatum diversarum naturarum
creaturarum, di cui ci sono pervenute redazioni più tarde, mentre la parte riguardante le scienze
naturali è stata divisa da quella sulla medicina; possediamo così, giunte per tradizioni diverse, due
opere: l’una, la più ampia, con il titolo di Fisica (Physica); l’altra sotto quello di Cause e cure
(Hildegardis causae et curae). Della numerosa corrispondenza sono rimaste trecentonovanta lettere.

La terza grande opera della cosiddetta Trilogia, e senz’altro la più significativa ed importante, in cui
Ildegarda mostra la piena maturità del suo pensiero e la straordinaria ricchezza delle sue
conoscenze, è il “Libro delle opere divine”, Liber divinorum operum, che va anche sotto il titolo di
“Libro dell’operare di Dio”, Liber de operatione Dei. Nel capitolo introduttivo ne viene datata la
composizione (1163-1170). Ma la redazione finale deve essere più tarda. Ildegarda, insicura delle
sue conoscenze di grammatica latina, faceva rivedere i suoi scritti dal monaco Volmaro, perché ne
correggesse gli eventuali errori e nel 1175, alla morte del fedele segretario, aveva ancora bisogno di
aiuto per poter portare a termine l’opera. Lei stessa ricorda in seguito con riconoscenza i nomi di chi
fu pronto a prestarglielo.

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LA SPIRITUALITÀ DI SANT’ILDEGARDA
NEL QUADRO DEL XII SECOLO

29 OTTOBRE 2001 Sr. ANGELA CARLEVARIS, osb

Prima di incominciare il tema d’oggi, vorrei dire due cose: una riguardante il XII secolo, e l’altra
riguardante Ildegarda. Vorrei che si pensasse a lei in modo corrispondente a lei stessa. Sento dire
spesso che Ildegarda è “una donna dei nostri tempi”; direi piuttosto: è una donna dei suoi tempi, o
meglio, di tutti tempi, per quel che personalmente vale e per quel che personalmente può dare, ma è
una donna del suo tempo. Che cosa dice Ildegarda di se stessa? Vi abbiamo accennato anche la
volta scorsa. La prima cosa: che lei è “creatura Dei, ipsius gratia”, creatura di Dio, per la sua
grazia. Il fatto d’essere creature di Dio è da lei pienamente inteso e compreso, ne conosce il
significato; è una gran cosa, essere creatura di Dio e questo lo è ciascuno di noi, una creatura di Dio,
per la sua grazia. Di se stessa dice in particolare che è “la poverella, la persona semplice, fragile e
indotta”, che “fa parte della discendenza della fragile costola d’Adamo”, “cenere di cenere,
putredine di putredine”, timorosa quando deve parlare, che non conosce nessun insegnamento dei
maestri umani, “non sa leggere con intelligenza le opere dei filosofi”. Ma nello stesso tempo dice
pure che lei è “docta interius per mysticum spiramen (= lei ha avuto l’insegnamento nell’intimo per
il soffio dello Spirito Santo. Questa è Ildegarda, una donna semplice e, nello stesso tempo, per
grazia di Dio, una grande donna.

Che cosa dice Ildegarda della donna e dell’uomo? Anche questo è da sapere per evitare falsi giudizi
sulla dottrina d’Ildegarda, considerandola come un’iniziatrice del femminismo. Commentando il
passo di San Paolo della prima lettera ai Corinzi (1 Cor 7) dice che, come la donna è stata formata
dall’uomo, così pure l’uomo è formato per mezzo della donna. Ogni cosa poi viene da Dio, lei dice
così, iniziando con la formula che usa quasi sempre quando commenta la Scrittura: “La donna è
stata creata per l’uomo e l’uomo è stato fatto per la donna, cioè, per mezzo della donna, perché,
come Eva è stata tratta dall’uomo, così anche l’uomo nasce dalla donna; essi collaborano ad
un’unica opera. Essi fanno come l’aria e il vento, che s’implicano a vicenda nella loro opera. In
che modo? L’aria è mossa dal vento e il vento s’intreccia con l’aria, cosicché nel loro ambito, là
dove sono, quanto vive e cresce dipende da loro. Così l’uomo e la donna sono impegnati insieme
nell’opera filiorum, nella procreazione di figli. L’uomo e la donna esistono e per volontà e secondo
le disposizioni di Dio, perché Dio li ha fatti secondo la sua volontà”. Penso che, incominciando
questa spiegazione, dica: l’uomo e la donna sono diversi; appunto, l’uno si chiama ‘uomo’ e l’altra,
‘donna’.

Quanto riguarda il XII secolo, non vorrei pronunciarmi sul XII secolo in generale, ma sul XII secolo
in Germania. La storia della cultura ha uno sviluppo diverso nei vari paesi: la spiritualità della
Germania del XII secolo forse non corrisponde in tutto alla spiritualità in Italia nello stesso secolo.
Mi rifaccio in parte alle poesie e composizioni di carattere popolare piuttosto che ai documenti
culturali, che pure citeremo. Nel XII secolo troviamo una grande ricchezza di motivi e novità di
interessi. Se, come spesso si è fatto nel passato, il Medioevo è considerato come un tempo di
oscurantismo, si vive in un malinteso di un tempo scuro, in cui la filosofia è schiava della teologia e
la storia della cultura europea è vista esclusivamente in due tempi: quello della cultura classica
greco-romana e quello del Rinascimento; in mezzo, le tenebre.

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Questa visione di comprensione unilaterale di quello che è cultura, avrebbe per conseguenza di non
portarci a conoscere Ildegarda di Bingen, o considerarla come la monaca indotta che parla solo sotto
l’ispirazione dall’alto e ci renderebbe quasi impossibile di giungere alla conoscenza di questa
personalità che unisce, insieme ai doni spirituali straordinari, un’acuta intelligenza e comprensione
dei problemi del tempo e un vivo interesse per ogni campo di sapere. Ildegarda vive nel suo tempo
nel conoscerne le aspirazioni, in parte condividendole. Ne prova le difficoltà, ne sente pure i
pericoli.

Come data dell’inizio del Medioevo ci sono varie proposte: 365, 395, 476 a.D. Non importa. Anche
per la fine ci sono varie proposte: la scoperta d’America, o, prima, la caduta di Costantinopoli.
Attraverso i primi autori cristiani il Medioevo ci trasmette quanto di positivo ha fatto il Medioevo
per la cultura: un patrimonio di cultura antecedente non indifferente; non solo dal II secolo in poi,
ma anche del periodo classico. Autori classici sono letti, studiati, copiati. Per dare un esempio, nella
rilegatura di un manoscritto d’Ildegarda, quello del “Libro dei meriti di vita”, (manoscritto nove di
Dendermonde) si è trovato pagine di codice degli Epodi d’Orazio, quindi si vede che quest’autore
fu letto nel convento, dove il manoscritto fu steso.

Ildegarda nasce alla fine del XI secolo e vive durante una gran parte del XII secolo. Il XII secolo è
il frutto più ricco e straordinario del Medioevo; quello che più tardi sarà il Rinascimento, lo è questo
periodo per il Medioevo. Segna una svolta e un inizio della cultura europea. Perché? In parte
possiamo trovarlo nelle condizioni di vita che stanno mutando: le città cominciano ad acquistare
importanza, la vita politica nella città si annuncia nell’interesse degli abitanti nel divenirne partecipi
e a liberarsi dalla dipendenza dai vescovi. La cultura si arricchisce con il contatto con l’Oriente più
evoluto nei campi delle scienze e della filosofia. Ed è appunto la filosofia, quell’aristotelica, che è
curata e sviluppata dagli arabi e che determina un nuovo indirizzo nella ricerca del pensiero. La
teologia, poi, continua con nuovi metodi ad inserirsi nella filosofia, cui a poco a poco, nelle epoche
successive, lascerà il posto. Il che non vuol dire che la teologia non esisterà più.

Caratteristiche e novità del XII secolo rispetto al periodo precedente: la tendenza


all’interiorizzazione e la considerazione dell’individuo. L’io, l’uomo, diventa di una grandezza
importante. C’è un nuovo rapporto con la natura; essa non è soltanto la forza cieca alla quale
l’uomo è sottomesso, se ne vede un nuovo aspetto. Ê immagine e simbolo della realtà di Dio nella
sua opera di salvezza. Da qui, l’uso del linguaggio simbolico; il simbolo non definisce, non pone
limiti precisi, ma allude e quindi è sempre aperto a nuovi aspetti. Si può continuare a considerare la
natura come un’espressione di Dio e trovare in essa sempre cose nuove da meditare.

Un altro punto è la tendenza più forte alla razionalizzazione. Prima di tutto, il rapporto con il mondo
arabo porta gli uomini del tempo ad incontrarsi con nuove forme di cultura. Queste nuove forme di
cultura diventano anche una materia di riflessione. Una nuova importanza assume la logica:
sappiamo che lo studio medioevale era quello del Trivio (la grammatica, la retorica, la dialettica) e
del Quadrivio (l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astronomia). Ora, a questo studio subentrano
cinque altre discipline: la medicina, il diritto canonico, il diritto civile, la teologia e la filosofia.
L'interesse d’Ildegarda per queste discipline è testimoniato nelle e dalle sue opere. Cita spesso il
diritto canonico, per esempio, e il diritto civile e fa tante allusioni ad essi, il che dimostra che aveva
una conoscenza precisa delle norme di legge. Per quel che riguarda la medicina, sappiamo che
Ildegarda si è interessata di medicina e sembra che abbia conosciuto l’opera di colui che è stato il
fondatore della Scuola di Salerno, Costantino Africano.

C’è poi un altro aspetto, il conflitto con l’eresia. Le dimostrazioni su base razionale accanto
all’esegesi biblica entrano sempre più al primo posto. Ildegarda ha delle discussioni che a volte
confinano con l’eresia e ne prende parte. Lo dimostrano le sue lettere contro l’eresia dei catari. C’è

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poi un movimento di riforma nella Chiesa; prima di tutto per assicurare la Chiesa l’indipendenza dal
potere politico, per liberarla dalle infiltrazioni di questi interessi politici ed economici. Anche a
questo Ildegarda non è indifferente e lo testimonia soprattutto la sua corrispondenza. C’è un
movimento di riforma anche negli Ordini religiosi. Ildegarda lascia Disibodenberg e cerca per la sua
comunità una libertà d’organizzazione al di fuori dell’influsso di Cluny, al quale subentra quello dei
cisterciensi, per opera di San Bernardo. L’interesse e la cura della vita spirituale dei laici ce li
dimostrano non poche lettere d’Ildegarda, lettere di consiglio, d’ammonizione, d’incoraggiamento,
che indirizza a loro; non solo a dei laici, ma anche a delle comunità monastiche. La riforma del
clero è un altro pensiero del tempo che interessa Ildegarda, come lo vediamo nelle sue lettere ai
vescovi, sacerdoti, abati e a semplici monaci, e anche nelle sue opere maggiori, specialmente nello
Scivias.

Noi ora tratteremo soprattutto il primo di questi punti d’interesse: l’uomo, la sua importanza e
grandezza e il rapporto dell’uomo con il cosmo. Ripeto, immaginarsi la storia della cultura senza il
Medioevo è come pensare ad un sorgere improvviso del Rinascimento. Se ci si chiede che cosa mai
è la cultura europea, ci troviamo di dovere ad apprezzare sempre di più il Medioevo. Incontriamo i
segni della grandezza di quest’epoca ad ogni passo, per così dire, nei meravigliosi prodotti
dell’architettura e della pittura, che non sono pure imitazioni, ma frutto di creatività. Attività
creativa si trova pure in vari campi, particolarmente in quelli della religione e della politica.
L’Europa comincia a seguire il proprio cammino; non ha più una cultura da imitare, conosce ormai
la cultura classica, ne conosce un’altra, che le pone dei punti interrogativi. Quando poi nei secoli
successivi la nuova cultura europea si sarà formata e affermata, succederà quanto succede in casi
simili, che, arrivata in alto, soddisfatta della propria grandezza, guarda indietro, conscia del
progresso fatto, guarda con commiserazione, se non con disprezzo.

A ciò si aggiungerà più tardi la riforma protestante, che porterà a considerare la Chiesa da un punto
di vista negativo. Dirà: quello che era d’imperfetto nel passato ora è stato riconosciuto e corretto e,
per quanto possibile, distrutto. Ora, non voglio fare la glorificazione del Medioevo, che era
un’epoca umana, come ogni altra, e quindi non ha solo lati positivi, ma semplicemente la
rettificazione. Ricordiamo che allora nel VIII-IX secolo c’era un’Europa unita, sotto i Carolingi, e
una corrispondente fioritura di cultura. Quindi, pensiamo del Medioevo come di un’epoca di
trapasso, sì, ma come un’epoca che ha portato molto.

Nei secoli precedenti il XII secolo nei paesi d’Ildegarda, a giudicare dai documenti letterari che ci
sono pervenuti, la situazione del credente era una delle più austere: nel suo stato di peccatore, egli
guardava con ansia all’aldilà. Egli, che viveva nel tempo, poteva giungere a Dio, il Trascendente,
l’Infinito, l’Immenso, l’Eterno solo con la morte corporale, dopo il terribile giudizio. La prospettiva
era tale da infondere l’ansia. Quanto gli spettava di fare durante la vita per giungere a Dio era di
astenersi dal peccato e fare penitenza, quanto in vita poteva fare per arrivare alla meta, era pesato
dalla divina giustizia, per decidere la sua eternità. Questa era la mentalità generale di gran parte del
popolo.

Il rapporto tra Dio e l’uomo è impersonale, non ci s’immagina un’unione con Dio prima dell’entrata
nell’eternità e un compenetrarsi dell’umano con il divino. Si dice, per esempio, che Dio ha creato
gli angeli perché essi indichino agli uomini, che ne sono i sudditi, il retto cammino, mentre manca
ogni accenno al loro compito di servizio a favore degli uomini e ci si rivolge alla Vergine Maria,
quale mediatrice tra terra e cielo, ma non attraverso un rapporto personale.

L’uomo occupa il posto degli angeli caduti, il decimo coro: nove sono i cori degli angeli, il decimo
è dell’uomo, con la conseguenza che anche lui sarà punito com’essi se non vive secondo la legge.
Da che cosa dipende ciò? Non tanto dall’idea che provenga da Dio, come si potrebbe credere al

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primo acchito, quanto dal concetto negativo che si ha dell’uomo. E neppure ci si ricorda della
posizione privilegiata dell’uomo, cosicché ne sia dato la signoria sul creato, né si dà rilievo al fatto
del suo essere creato ad immagine e somiglianza di Dio. Un uomo è definito secondo il suo stato di
peccatore: egli è il discendente d’Adamo. Non è definito secondo il suo privilegio quale signore del
creato e secondo il suo rapporto con Dio in quanto creato a sua immagine e somiglianza. La
distanza tra l’uomo e Dio, come ho detto sopra, sarà superata solo dopo la morte. Certamente, si
conosce il passo del libro della Genesi, in cui è detto che l’uomo è creato ad immagine e
somiglianza di Dio, ma non si pensa ad interpretarlo nel suo pieno significato e di mettere in rilievo
il conseguente valore antropologico.

Nello stesso modo, non si ricorda più che pure Cristo è immagine e somiglianza di Dio e che
l’uomo è chiamato ad essere immagine di Cristo. Noi leggiamo, per esempio, nella Lettera ai
Colossesi: “Cristo è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni altra creatura; poiché in
lui tutto è stato creato, in cielo e sulla terra, le cose visibili e le cose invisibili… Tutte le cose sono
state create per mezzo di lui e in vista di lui…” (1,15.16) “…Perché quelli che egli ha distinti nella
sua prescienza li ha predestinati ad essere a conforme all’immagine del Figlio suo”. (Rm 8,29). La
Chiesa è mediatrice tra Dio e l’uomo e porta la responsabilità per la salvezza dell’anima dell’uomo,
ma il termine “sposa” vale solo per la Chiesa, non per la singola anima, che nel suo rapporto con
Dio è vista solo come membro della Chiesa.

Per circa la metà del secolo XI e quello XII si tende ancora in forme diverse a subordinare i laici
alla Chiesa, rendendoli coscienti del loro stato di peccatori e dell’opera di salvezza di Dio e questo
sempre in vista dell’aldilà, secondo l’influsso cluniacense. Anche nel campo liturgico, i cluniacensi
si dedicano alla preghiera per i defunti, introducono la festa dei morti; invece i cisterciensi
cambiano indirizzo. Il laico non è più contento delle semplici nozioni di fede o di una
partecipazione formale alle funzioni ecclesiali e religiose. Vuole intendere e comprendere,
incomincia a poco a poco a farsi strada una nuova epoca con nuove esigenze.

Si apprezza sempre di più la vita eremitica e si aspira ad una vita religiosa profonda ed intima. Il
malcontento per la riforma cluniacense porta a quella cisterciense. Il desiderio di una vita ascetica
ed austera esige una nuova regola, per esempio, per la vita dei canonici. Nasce così il nuovo ordine
dei Premonstratensi, accanto ai Canonici Regolari di Sant’Agostino. La vita eremitica ha una nuova
fioritura: i Camaldolesi. Predicatori erranti percorrono i paesi, sorgono gli ordini religiosi
cavallereschi. Incominciano a sorgere le università.

L’uomo cerca la salvezza, ma non più solo al di là nella vita eterna, la vuole qui; cerca Dio e
desidera unirsi a lui prima della morte. I contenuti dei dogmi vogliono un’altra, se non
formulazione, almeno un’interpretazione riferita all’uomo. Il rapporto con Dio vuole diventare
personale. Resta incontestato il fatto che il peccato originale ha per conseguenza la perdita della
grazia e l’allontanamento da Dio, ma si affaccia una nuova visione: oltre al peccato, resta il fatto
che l’uomo non è solo discendente di Adamo, ma è anche, e in primo luogo, creatura di Dio.
“Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. La Trinità ha agito nella creazione, le tre
Persone vi hanno partecipato, da ciò risulta che l’uomo non è soltanto immagine di Dio, ma anche
immagine della Trinità.

Ildegarda interpreta questo passo di San Giovanni: “…tre sono quelli che rendono testimonianza: lo
Spirito, l’acqua e il sangue e questi tre sono concordi” (1Gv 5,7.8). Questi tre danno testimonianza
in terra e in cielo, il Padre, il Verbo e lo Spirito. Ildegarda dice: “I tre sono una cosa sola. Lo
Spirito: un uomo non può dirsi uomo se è solo spirito, se non ha la materia sanguinea del corpo. Né
formano un uomo vivente il corpo e il sangue, senza l’anima. Questi due, anima e corpo, non
vengono a nuova vita in grazia della nuova legge, se non per l’acqua della rigenerazione e così

4
sono una cosa sola nella Redenzione”. Come ci sono tre Persone di Dio che formano la Trinità, così
ci sono tre elementi che formano l’uomo.

Dunque, l’anima umana è trinitaria, perché l’originale di cui è immagine è trinitario. Tra l’anima
umana e la Trinità divina c’è un’analogia, se l’anima guarda in se stessa, riconosce in sé Dio in tre
Persone. Il rapporto tra Dio e l’uomo prende il suo inizio dalla considerazione dell’uomo per
giungere a Dio. L’uomo, definisce il suo rapporto con Dio in base alla conoscenza che ha di se
stesso e definisce se stesso non in conformità a concetti d’essenza ed esistenza, ma secondo
l’analogia della Trinità. L’uomo, per il fatto stesso d’essere uomo, è in rapporto con Dio, non è
escluso da Dio. Ildegarda tratta molte volte della Trinità, proprio per l’interesse che ha di far vedere
all’uomo quanto egli è partecipe di essa.

La decisione di creare il mondo, secondo Ildegarda, viene in seguito a quella di creare l’uomo.
L’uomo, secondo Ildegarda e anche degli altri, è il primo pensiero di Dio. Egli è creato dopo la
caduta degli angeli per sostituirli come decimo coro. Il mondo è creato per l’uomo. La condizione
privilegiata dell’uomo è rilevata dal frequente richiamo che si fa sulla sua posizione. L’uomo stat,
sta ritto, ha gli occhi rivolti verso l’alto e il suo capo è eretto, guarda in alto, ha un posto che è in
mezzo, tra la materia e Dio, tra l’immanenza e la trascendenza. Per quanto limitato, può sollevarsi
verso l’alto per rivolgersi all’Infinito. I tre ultimi cori angelici sono legati direttamente a Dio, come
l’anima, nella forma trinitaria: i Troni sono al servizio della Potenza di Dio, il Padre; i Cherubini ne
contemplano la Sapienza, il Figlio; i Serafini ne amano la Bontà, lo Spirito Santo. Essi sono i
mediatori tra la Trinità divina e la triade dell’anima. Per questo Dio ha creato gli angeli, perché
aiutassero l’uomo, per mezzo della triade delle virtù, ad uscire dall’immanenza per muoversi verso
la trascendenza, ad uscire dall’umano per muoversi verso Dio.

Il peccato che porta la responsabilità dell’abisso che si è aperto tra l’uomo e Dio appare ora sotto un
aspetto nuovo. La distruzione del peccato non ha soltanto per fine il rendere possibile l’unione con
Dio nell’al di là, si spera di raggiungere l’unione in questa vita. L’immagine della peccaminosità si
forma dal riferimento al fine: l’uomo che vuole giungere all’immagine e somiglianza di Dio
quaggiù vede il peccato in relazione alla negazione di quest’immagine e somiglianza, di cui Dio è
l’autore. Quindi, questa relazione deve esistere ora e su questa terra. L’uomo vede il peccato, come
ciò che distrugge la nostra via verso il fine.

I comandamenti di Dio sono espressi con il nome di “legge” si vede questa legge come qualcosa
d’esterno, che uno deve osservare per andare a Dio. Invece, si trova che il primo comandamento di
Dio è l’amore di Dio e del prossimo. Questo amore di Dio e del prossimo si esercita rispettando il
prossimo, che vuol dire rispettare la persona dell’uomo, e questo rispetto della persona si esplica
attraverso l’osservanza di questi comandamenti. Non è che i comandamenti ci vengano “dal di
sopra”, “dal di fuori”, i comandamenti sono in noi; siamo noi stessi a rispettare gli altri, se viviamo
secondo questa legge. La legge non è esteriore, è interiore. Diciamo “Gesù ha portato la legge
dell’amore”; ma l’amore si osserva, osservando i comandamenti. Se l’uomo distrugge se stesso,
distrugge la possibilità di arrivare a Dio; se distrugge l’altro, distrugge la possibilità di arrivare a
Dio. Il peccato non è altro che distruggere la via di comunicazione con Dio.

L’uomo può raggiungere quest’immagine e somiglianza seguendo Cristo, può morire e risorgere già
ora, la morte va patita nell’anima per giungere alla vita in Cristo. I gradi dell’umiltà o d’amore sono
i gradi della risurrezione dell’anima dall’impurità alla purificazione, dal buio, dalle tenebre,
all’illuminazione. Importante è per questo motivo il lavoro cui l’uomo deve sottoporsi per giungere
al suo fine. Qui potremmo riportarci alle parole di San Benedetto, “Dobbiamo mettere mano al
lavoro con la fatica dell’obbedienza, per riparare il male della disobbedienza”. Il desiderio di
giungere a Dio porta a formarsi in una mistica sposa di Cristo. “Mistica sposa” non è più soltanto la

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Chiesa, ma anche la singola anima d’ogni uomo. L’anima accoglie Dio; perfino tutta la
Gerusalemme celeste è localizzata nell’anima. Ecco l’importanza d’ogni singolo uomo. Ildegarda
parla di tutto questo nello Scivias e anche nelle altre opere.

La ricerca delle vie che portano dalla lontananza da Dio alla sua vicinanza fa sì che anche il
pensiero vada alla ricerca di strutture che ne siano l’espressione. Giacché l’uomo, immagine creata,
rimandi al primo Essere increato, pure ogni altra cosa deve poter essere trasparente per essere
riferita all’Eterno ed esserne un segno. Egli rende tutte le cose altrettanti segni, punti di riferimento
per l’uomo che gli indica la sua provenienza. La natura non è guardata semplicemente come
“natura”, gli avvenimenti e le cose in loro stessi, ma sono trasparenti, devono essere interpretati da
noi per portarci a Dio. Ildegarda vede tutto quello che succede come una domanda; Dio interviene
attraverso le persone e ci chiede determinate cose: pazienza, sopportazione, un determinato lavoro;
anche un incontro con una persona è una “domanda” di questo tipo, a cui io devo dare una risposta.
Dio non ci parla soltanto nella preghiera, ci parla ad ogni momento. Quello che ci è detto,
dev’essere anche interpretato, non si tratta di un’accoglienza passiva, si tratta di un’accoglienza
attiva, umana. Però, la vita è intesa come domanda e risposta. Ildegarda afferma che finché l’uomo
ha l’esigenza di porre domande a Dio, anche se non trova le risposte, c’è sempre la speranza di una
risposta; l’uomo non deve mai smettere di chiedere, perché Dio ad un determinato punto gli
risponderà al suo modo, anche se non direttamente.

L’aspirazione alla trascendenza ha pure un altro effetto: una nuova valutazione della Vergine Maria.
Se prima ella era una manifestazione della potenza di Dio, è ora inserita a questa possibilità di
comunicare con Dio trascendente e diventa un importante passo intermedio sulla via che porta
l’uomo a Dio. Nell’uso del metodo tipologico, secondo il quale Cristo è il prototipo di Adamo,
Maria è posta di fronte a Eva; Cristo è il nuovo Adamo e Maria, la nuova Eva. C’è un nuovo
principio per giungere a Dio. Maria ha una parte attiva nell’opera d’espiazione e quindi di
redenzione; secondo quest’interpretazione, non è soltanto partecipe dell’opera della redenzione, ma
si trova anche a poter essere invocata come interceditrice.

Nell’opera di Bernardo di Chiaravalle, di Ruperto di Deutz, d’Onorio di Autun e di altri grandi


autori del XII secolo, Maria appare come la sposa di Dio. Questo rapporto di sposa-sposo
costituisce l‘immagine prima dell’amore tra l’anima umana e Dio. Da qui consegue la nascita
spirituale del Figlio di Dio nell’uomo. Ed in quanto questo modello è riferito all’uomo, Maria
rappresenta la mediatrice più alta tra Dio e l’uomo. Per mezzo della sua mediazione, viene dato
all’uomo un aiuto essenziale per uscire fuori dalla sua immanenza e per giungere all’unione con
Dio, al suo destino, qual era nel primo paradiso.

L’interesse del tempo per il sapere è anche aumentato dai nuovi rapporti con il vicino Oriente, della
conoscenza della civiltà araba e della cultura di cui essa è mediatrice. Che cosa pensa della scienza
Ildegarda, “semplice, indotta”, “povera donna senza studi e quel poco che sa, un po’ di latino che
servirebbe a recitare i salmi in coro l’aveva imparato dalla sua maestra, Jutta, che pure non ha
studiato”? Ildegarda mostra grande stima per i dotti, ne ammira il sapere, le qualità per cui si
distinguono, le opere, che ne sono il frutto e ricorda, senza però farne i nomi, gli antichi filosofi, che
erano in amicizia con Dio. I suoi apprezzamenti valgono soprattutto per quelli che fecero oggetto
dei loro studi e le loro ricerche la Parola di Dio nella Scrittura e la resero accessibile ai fedeli in
senso profondo e spesso oscuro dei testi sacri. Grande è il suo rispetto per la sapienza di questi
uomini grandi, mentre per quanto riguarda lei, poveretta, dice solo che la sua scienza si limita a
comprendere il significato dei testi. E questo, per illuminazione concessa da Dio.

Nelle sue opere, è straordinario quindi, che riporti numerose citazioni letterarie, dai vari libri della
Bibbia, il cui commento è sempre attribuito alla voce di Dio. In questi commenti troviamo pensieri,

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quasi echi delle opere dei grandi autori sacri, da Tertulliano a Girolamo, Ambrogio, Agostino, da
Isidoro a Rabano Mauro, sino ai contemporanei, quale Ruperto di Deutz, Onorio e gli altri già
nominati sopra. Stupisce, perché in contrasto con le sue dichiarazioni di completa ignoranza, che si
trovino nelle sue opere anche tracce d’autori assai poco noti, come, ad esempio, Etico Istro e altri
conosciuti per il loro lavoro nel campo filosofico, come Calcidio, o Costantino Africano nel campo
scientifico. Come ciò sia avvenuto, non ci si può spiegare, non ci sono mai citazioni letterali, ma
riferimento ai pensieri.

Ildegarda, quando nomina la scienza, si riferisce a quella dei testi sacri. La scienza umana pare che
l’interessi soprattutto in quanto rende evidente la grandezza, sapienza e potenza di Dio, che è il
Creatore e Signore dell’universo. C’è però una scienza che nomina di continuo, perché è quella che
determina la vita dell’uomo: la scienza del bene e del male. Si riferisce al versetto della Genesi,
dove Dio dice: “Ecco, Adamo è diventato come uno di noi, conoscendo il bene ed il male” (3,22).
L’uomo possiede questa conoscenza e quindi la possibilità di scelta; è quindi libero, perché conosce
il bene e il male. Per agire da uomo, in modo responsabile, può compiere opere buone e così ama
Dio, perché ha la scienza del bene. Lo teme, se compie il male, perché questo è il risultato della sua
scelta. Poteva scegliere tra il bene e il male; ha scelto il male. Se avesse una sola di queste due
scienze, non potrebbe, per così dire, distinguere, dice Ildegarda, il giorno dalla notte. Quando fa il
bene, è come il giorno, se fa il male, è come la notte. La sua vita è un continuo rispondere alle
offerte che si presentano, sia per il bene sia per il male. Al bene, per una conferma e
un’accettazione, al male per un rifiuto.

Ildegarda dice: “Tu, o uomo, o donna, perché hai nel tuo cuore la cognizione del bene e del male,
sei posto come ad un bivio. Se tu consideri il male e vuoi fuggirlo, pensa in che modo ti si è
insegnato a declinare e fuggire il male e a fare il bene. Pensa che il Padre celeste non ha
risparmiato il Figlio suo per liberarti e prega Dio che ti soccorra. Tu affermi che non puoi operare
il bene? Sei ingiusto e bugiardo, hai gli occhi per vedere, gli orecchi per sentire, eccetera…Tu devi
scegliere: opponiti al male e fa il bene”. Questo opporsi al male, insiste Ildegarda, è sempre una
lotta. Lo dice tante volte che l’uomo è un soldato, milita nella battaglia per la vittoria di Dio. La
scienza del male ha anche la sua parte positiva, in quanto scienza L’uomo può evitare il male, in
quanto lo può riconoscere.

Privilegio unico dell’uomo, insieme alla scienza del bene e del male, è la razionalità. Dio, per
Ildegarda Ignea ratio, razionalità focosa, consumante, Dio è eterno, l’eternità è fuoco, e questo è
Dio. L’uomo è partecipe di questo fuoco; lei afferma che Dio non è fuoco occulto, o fuoco
silenzioso, ma fuoco che opera. Per Ildegarda, Dio è fuoco, che è in azione sempre. Anche l’uomo è
sempre in azione, in quanto ragiona con la razionalità, sempre in movimento per scegliere il bene o
il male. La razionalità di Dio, l’essere divino nella sua triplice dinamicità è diversità, razionalità è il
pensiero che comporta un’espressione. L’espressione della razionalità di Dio è la sua Parola, il suo
Verbo. È proprio della razionalità il suo comunicarsi. Dio comunica la sua Parola e la sua Parola si
comunica agli uomini, Dio parla con l’uomo. La razionalità di Dio è da prima della Creazione, è
increata. La razionalità dell’uomo è creata. Perché è in possesso della razionalità, egli può
esprimersi con la parola, può conoscere cose terrene e cose celeste. La razionalità è nell’uomo, dice
Ildegarda, come la pupilla nell’occhio. L’uomo ha due occhi, la scienza del bene e del male. La
razionalità penetra e discerne tutto. Per essa l’uomo è partecipe della vita di Dio e della sua forza di
fuoco. L’unico essere creato che ha il potere di scegliere tra il bene e il male è l’uomo.

A motivo della sua razionalità, l’uomo ha un posto speciale nel mondo, ne è al centro. Egli è
“omnis creatura”, ogni creatura, il microcosmo, il piccolo mondo che ha in sé tutti gli elementi che
compongono l’universo. Anche per Ildegarda, come per Giovanni Eriugena, nella sua opera Della
divisione della natura, l’uomo è il punto di mezzo e di raccolta. Dice Ildegarda, la terra è un globo

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luminoso e sta al centro dell’universo e al suo centro sta l’uomo, “…racematio et adunatio, perché
egli ha in sé gli elementi. Posto tra il cielo e la terra, in mezzo, egli può operare il bene e il male ed
è l’unico che può farlo. Con il capo, con le mani e con i piedi, tocca il firmamento. Ha in mano gli
elementi e li muove, come chi tiene in mano una rete…” (così nell’opera Cause e cure) “…Egli
stesso fa parte di questa rete e delle vicissitudini che lo circondano, in quanto è dotato di
razionalità e responsabile di sé e dell’universo”. È come se l’uomo avesse in mano una rete e con
questa rete muove ssegli elementi, cioè, muovesse il mondo.

Ildegarda fa un attento studio dell’uomo, analizzando le facoltà dell’anima come di quelle del corpo
e mettendole in rapporto con i componenti dell’universo e dell’analogia che vi si riscontra lei da
un’esatta descrizione, soprattutto nella terza grande opera, bella, stupenda, ma difficilissima da
leggere e da interpretare. L’uomo è al centro, ma non è il centro dell’universo. Egli è creatura, come
tutte le altre e tra tutte le altre. Come d’ogni oggetto si vede l’ombra, così dell’uomo, ma in un altro
modo: egli è un’ombra, l’ombra di Dio. L’ombra dimostra la realtà dell’oggetto che la proietta, così
l’uomo è la dimostrazione vivente dell’esistenza di Dio onnipotente. Ma è, appunto, un’ombra, vale
a dire, ha un inizio, mentre Dio non ha né inizio, né fine.

L’armonia celeste è l’aspetto della Divinità e l’uomo è lo specchio di tutte le opere mirabili di Dio.
Secondo Ildegarda, l’uomo è l’opera di Dio per eccellenza. Cielo e terra e l’uomo, al centro tra cielo
e terra, al posto datogli da Dio, perché egli, l’uomo, vi eserciti il suo dominio. Signore della
Creazione non è un padrone dispotico, la regge e la difende. Ne ha bisogno per vivere e con il
contributo che le dà per la conservazione della Creazione mostra la sua somiglianza con Dio,
esercitando l’opera che da Dio gli è stata affidata. Egli stesso, poi, è opus splendidum, l’opera più
grande, più perfetta di Dio.

La visione che Ildegarda ha del cosmo pone sì l’uomo al centro, postovi da Dio; l’uomo dipende da
Dio e dalle creature, entrambi. Ma il vero centro dell’universo è Dio, cui l’uomo tende e cui l’uomo
deve tutto. Medioevo, il XII secolo: il secolo in cui l’uomo scopre se stesso nel rapporto con Dio.

Come risposta ad una domanda sul senso che Ildegarda attribuisce al nulla

Ildegarda interpreta l’inizio del Prologo del Vangelo di san Giovanni, “…e nulla è stato fatto senza
di lui…” in un modo diverso da quanto facciamo noi; l’interpreta come “il nulla è stato fatto senza
Dio”. Il male non esiste, in quanto non è una realtà, la sua realtà è proprio di distruggere l’esistenza,
l’integrità di una cosa. Ildegarda ritorna a questo pensiero e anche Agostino accenna alcune volte a
quel versetto del Vangelo di San Giovanni, che nulla esiste che non è stato fatto da Dio, il nulla
esiste senza Dio, è per questo che è nulla. Non ha nulla di positivo, non ha nulla da dare.

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VITA EREMITICA E MONACHESIMO BENEDETTINO
NEL XII SECOLO : LA PREGHIERA LITURGICA
SECONDO SANT’ILDEGARDA

05 NOVEMBRE 2001 Sr. ANGELA CARLEVARIS, osb


Ildegarda, parlando di Jutta, la sua maestra nell’eremo, dice così: “A quella donna, poi, Dio infuse
per sua grazia, quasi un rivo, alimentato da molte acque, sicché ella non lasciò al suo corpo
nessuna quiete, nessun riposo, in veglie, in digiuni ed in altre opere buone, finché non ebbe fine la
sua vita terrena”. Così Ildegarda scrive nelle sue note autobiografiche su Jutta. Assieme a Jutta,
Ildegarda trascorse ventiquattro anni sul monte di San Disibodo, da quel novembre del 1112,
quando con Jutta di Spanheim ed un’altra compagna, sua coetanea, ricevette il velo dalle mani del
santo vescovo Ottone di Bamberga. Fino alla morte di Jutta nel 1136 ci rimase. Precedentemente
Ildegarda aveva trascorso altri sei anni assieme a Jutta sotto la guida della pia vedova Uda di
Gingelheim, non si sa bene, se nella casa di Jutta a Spanheim, oppure a Magonza. Il racconto della
vita di Jutta, scritta da un monaco, farebbe credere che Jutta seguisse l’esempio del San Disibodo,
nell’estrema austerità, digiuni, penitenze, eccetera. Non viene detto se lo esigesse anche dalle sue
compagne. Certo è, che Ildegarda, nella sua spiegazione della Regola di San Benedetto, mostra di
attenersi alla norma del santo, che è ispirata da una saggia discrezione, e non identifica la santità
con digiuni e mortificazioni, che pure non esclude.

Secoli prima, forse nel VII secolo, al tempo della fondazione del monastero sul monte alla
confluenza dei due fiumi Glan e Nahe, che prenderà poi il nome del fondatore, al monaco pellegrino
irlandese Disibodo, era successo qualcosa di simile. Nella vita, che di lui scrisse Ildegarda,
leggiamo: “Egli non aveva preso per sé l’abito della conversazione dei suoi monaci, cioè, non
aveva seguito la loro regola di vita, ma aveva concesso ai suoi sudditi di seguire la Regola del
beato Benedetto, più mite di quanto lo fosse quella sua propria e l’aveva fatto per questo motivo,
affinché egli, nel caso che avesse avuto la regola in comune con loro, senza voler però rinunciare
alla rigorosa durezza di digiuni, veglie ed altre mortificazioni della carne, col sottrarsi
all’osservanza delle consuetudini della Regola di San Benedetto, non avesse a portare alla
distruzione la vita comune”.

La storia del monastero sul monte Disibodo è un susseguirsi di cambiamenti, a volte improvvisi e
violenti, il monastero subì l’invasione degli Ungari, alla fine del X secolo, fu chiuso dal vescovo
Hatto II alla fine del anno 1000, dal suo successore Willigis fu affidato ai canonici della Regola di
Sant’Agostino, che vi abitavano per circa 110 anni. Fu ridato ai monaci benedettini dal vescovo
Ruthard e in un giro di pochi anni, durante l’esilio di Ruthard, fu di nuovo consegnato ai canonici.
Al suo ritorno, venne nel 1106 affidato ancora una volta ai benedettini, che, insieme al nuovo abate,
Burkhardt, erano stati chiamati dal monastero di San Giacomo in Magonza. Quest’ultimo monastero
lo conosciamo per il fatto dolorosissimo avvenuto nel 1160, quando il vescovo Arnold I venne
invitato in monastero e fu ucciso. Dopo 1106 incominciò un periodo di intenso lavoro di
ricostruzione, sicché le future abitanti dell’eremo non vi si poterono stabilire che nel 1112. Da
Ildegarda sappiamo che lei stessa vide costruire la chiesa, che venne consacrata probabilmente nel
1125.

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La vita eremitica
Una descrizione ideale della vita eremitica la troviamo nel secondo libro dei Dialoghi di San
Gregorio Magno, al capitolo 4: “Il nome del solitario ci è ben noto, si tratta del venerabile
Benedetto, vir Domini Benedictus, il luogo dove egli vive è la solitudine di una grotta, il modo, o la
regola, di vita è l’abitare con se stesso, habitare secum”. Abitare con se stessi non è poca cosa,
significa la capacità di vivere in solitudine e in pace con se stesso e in se stesso, la volontà di
conoscere se stesso, accettarsi, senza rassegnazione, senza ribellione e senza illusione. Abitare con
se stesso deve essere in fondo la meta, difficilmente raggiungibile, ma alla quale si deve sempre
tendere, di ogni vita spirituale, eremitica, monastica o laica. Abitare con se stesso domanda una
grande vigilanza, non però ansiosa né scrupolosa, sui pensieri e intimi movimenti dello spirito e una
grande prudenza per prevedere, conoscere in precedenza, la conseguenza di ciò che si fa. Queste
sono le caratteristiche della vita spirituale.

San Gregorio ci parla di Benedetto, definendolo “venerabile”. Il vocabolo in buon latino viene
adoperato unicamente per Dio. Se Gregorio scrive in buon latino e usa questa espressione parlando
di Benedetto, vuol dire che veramente la presenza di Benedetto richiamava a Dio. C’è una regola di
eremiti che non sono ancora venerabili e conosciamo l’autore della Regula solitariorum, Grimlaico,
solo di nome. Egli visse, pare, nel X secolo e dedicò la sua opera ad un altro Grimlaico, questi,
sacerdote e vescovo, di cui ugualmente non c’è noto che il nome. La sua regola di solitari ha
sessantanove capitoli e ci viene trasmessa nella Concordantia regularum, la “Concordanza delle
regole”, di Benedetto d’Aniano, quel monaco che al tempo di Carlo Magno rese la Regola di San
Benedetto, con l’indulto dell’Imperatore, obbligatoria per tutti i monasteri dell’Impero.

Nel primo capitolo, preceduto dalla lettera dedicatoria al vescovo, Grimlaico comincia col dare
delle definizioni. Per prima, quella del nome “monaco”: monaco significa singolare (dice lui) chi
vive da solo. L’etimologia della parola è greca, e significa singolarità. Se questa etimologia è esatta,
non lo so. Ci dà pure un’altra: monaco sarebbe quello che ha un’abitazione fissa, a differenza dai
monaci erranti, vaganti. Monaco, ovvero solitario, è detto, secondo lui, di uno che lascia tutto quello
che ha. Secolari sono quelli che amministrano bene quello che hanno. Due sono i generi dei solitari,
ovvero, dei monaci: uno, gli anacoreti, eremiti; l’altro, i cenobiti, quelli che abitano insieme e fanno
vita comune nei monasteri. Anche di questi nomi ci vengono date le spiegazioni. “Anacoreta” è
quello che si ritira per vivere nella solitudine. “Ana-“ indica in greco un movimento nato in basso e
“-coreo” spostarsi o muoversi. L’eremita ha già indicato nel suo nome il suo programma di vita.
“Eremeo” significa vivere una vita tranquilla, ritirata; “eremizo” vuol dire tranquillizzo.

Grimlaico non parla mai con sdegno o con una certa superiorità, dei laici e delle cose di questo
mondo. I laici, dice, spesso lavorano in maniera eccellente, nel tempo e per il tempo. E quello che
fanno ha pure una conseguenza anche per la vita futura. Tutto ciò che il monaco fa, serve per
l’eternità. Dice: “Ma che giova, aver lasciato tutto, se non si rinuncia poi a se stesso? nisi et
semetipsum abneget?” Qui si pone la domanda, che cosa sia l’abnegazione di se stessi? A questa
domanda, egli dà subito una risposta: “Abnegare se stesso non significa altro che farsi liberi dalla
propria volontà o dalle proprie volontà”. Nella tradizione monastica si fa sempre la differenza tra
“volontà” singolare e “le volontà” plurale. Il modo di scrivere nel Medioevo rende evidente la
differenza. “Volontà” alla fine del Medioevo si scrive “volunctas” e da questo vocabolo nascono
due possibilità: “voluntas” e “voluptas”. Voluptas è il piacere, voluntas è la volontà. Se uno ha
molte volontà, in genere, non ha la volontà, e per questo le volontà vengono sempre ricollegate in
qualche modo con la parola voluptas, per uno che cerca sempre il proprio gusto, il proprio utile.
Abnegare se stesso significa dunque rinunciare alle proprie volontà. In che modo? Egli dà degli
esempi pratici sul significato delle parole abnegare e renuntiare. Chi si libera dai propri beni,
rinuncia ad essi. Chi si libera dalle proprie cattive qualità, abnega se stesso.

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Se diamo un rapido sguardo al capitolo diciassettesimo in cui egli espone il suo pensiero sulla vita
eremitica, vediamo subito che in linea generale e per quel poco che ne sappiamo corrisponde
all’indirizzo seguito nel romitaggio di Disibodenberg. Il titolo stesso del capitolo ci fa conoscere il
suo contenuto: Che i solitari non siano mai meno di due o tre. L’ingiunzione suona categorica ed è
corretta dall’aggiunta: “…se possibile. Ci pare che sia utile e in molti casi addirittura necessario”.
Egli nota: “Una vita che sia sine ullius societate (senza comunanza con nessuno) è un grave
pericolo. Ciò che uno, o nessuno, non può – e nessuno può tutto – lo può l’altro. Se sono in due o
tre, possono scambievolmente aiutarsi, farsi coraggio, incitarsi”. Egli usa qui il vocabolo excitare e
in questo verbo si nasconde il significato dell’estrarre, di tirare fuori qualcosa di nuovo, nel senso di
sviluppare talenti latenti, forse ignorati, che possono farsi strada nella comunanza di vita. Ai solitari
deve venir data la possibilità di comunicare con altri. Il capitolo precedente dice che essi devono
potersi scambiare la parola ed avere la possibilità di “se excitare”, di muoversi scambievolmente
alla preghiera. Letteralmente dice: “all’opera di Dio, al servizio divino”, intesa come recitazione
della preghiera in coro.

Essere almeno in due, continua Grimlaico, serve per meglio affrontare pericoli. Quali sono i pericoli
ai quali è esposta la vita eremitica e la vita spirituale in generale? Il primo e il più grande è il
compiacimento di se stesso e della propria virtù, o almeno di quella che si giudica di essere tale e
che il solitario può provare pensando di aver raggiunto nel suo genere di vita il culmine della
perfezione. A questa sua presunzione il prossimo gli può servire da controllo, da verifica e da
correttivo. Qui non s’intende, e Grimlaico non intende, che l’altro debba di proposito e di continuo
esercitare la sua critica, per metterlo alla prova. La pazienza dell’eremita, la sua carità e mitezza
vengono messe alla prova dalla diversità del suo compagno, dell’altro, dal suo essere diverso da lui,
dal suo comportarsi in altro modo. Anche se il solitario è in possesso di alcune virtù, ci saranno
senz’altro delle altre che non sono così sviluppate. Da sé non riuscirà così facilmente a rendersene
conto. Il confratello potrà aiutarlo a riconoscerlo, incoraggiarlo ed esortarlo. Alla sua debolezza, la
presenza di un altro servirà da sostegno. Non si tratta qui che l’uno debba fare la predica all’altro, lo
sottolinea Grimlaico, ma a vedere l’altro comportarsi in un certo modo e sentire la disapprovazione,
anche se non espressa, aiuta a correggersi.

Ancora, come potrebbe uno comunicare ad altri quel che possiede, se non ci fosse nessuno a cui
darlo? I doni dello spirito sono innumerevoli. Il confratello possiede alcuni, ma sono diversi da
quelli dell’altro. Ne nasce così, se sono in due o tre, la possibilità di uno scambio, per usare le
parole dell’antifona di Natale, è questo uno “scambio meraviglioso” nella vita comune. L’antifona
dice: “O admirabile commercium…”, o scambio meraviglioso alludendo al fatto di Gesù, Dio fatto
uomo, che ci dà la sua divinità e noi gli diamo in cambio la nostra povera umanità. Questo stesso
cambio può avvenire anche in modo più ristretto nella semplice vita comune. Pure contro le insidie
del nemico, quelle esterne come quelle interne, giova assai la vita insieme ad altri - multum iuvat
societas plurimorum – senza parlare poi della preghiera. Perché non è poco l’utile che viene se due
confratelli pregano insieme. Lo dice il Signore stesso: “Qualora due di voi si accordino sulla terra
per domandare qualcosa, questa sarà loro concessa dal Padre mio che è nei cieli, perché dove
sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20). E Grimlaico aggiunge:
“Due pregano più di quanto possa fare uno da solo”. Ma perché non si tragga una falsa
conclusione da quanto ha detto in precedenza, aggiunge alla fine del capitolo: “Abbiamo
raccomandato di vivere la vita eremitica in due o tra insieme, ma non vogliamo con ciò escludere
che uno solo, se già provato in precedenza nella vita cenobitica, possa vivere in solitudine
perfetta”. E in questo si rifà la Regola di San Benedetto.

La vita eremitica in tre fu quella che visse Ildegarda all’inizio a Disibodenberg. Con l’aumento del
numero delle sorelle, Ildegarda riconobbe che era giunto il tempo di una trasformazione. Allora era
ormai la responsabile del gruppo. Dall’eremo di Disibodenberg sorge il cenobio, il monastero di

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Rupertsberg e alcuni anni più tardi quello di Eibingen. C’è una Vita di Jutta, scoperta recentemente,
in cui si nota la differenza nella vita della comunità al tempo di Jutta e al tempo di Ildegarda. In
Jutta prevaleva, sebbene con grande bontà, dolcezza e moderazione, l’indirizzo strettamente
ascetico.

La liturgia
Anche nell’eremo la liturgia avrà avuto uno sviluppo, ma più che altro, le monache avranno
assistito alla liturgia dei monaci. A Rupertsberg e ad Eibingen Ildegarda stessa organizzò la liturgia.
Negli scritti di Ildegarda non mancano reminiscenze di testi liturgici. Anzi sono frequenti, anche se
non sono citazioni vere e proprie, antifone, inni, responsori, orazioni, di cui si trovano tracce, per
così dire, ad ogni passo. Manca, invece, nelle sue opere una trattazione sistematica dei temi secondo
l’anno liturgico, con l’eccezione della sua opera Explanatio evangeliorum, la spiegazione dei
Vangeli delle domeniche e di alcune feste, non però completa. Ogni testo viene spiegato prima
letteralmente e poi secondo il significato morale e due tre volte secondo il suo significato
anagogico, come deve essere interpretato il testo se si guarda in una visione generale dell’anima
fino alla fine del mondo.

Delle sette visioni della seconda parte dello Scivias, che ha per oggetto la Chiesa e i sacramenti, la
sesta, la più ampia, con ben cento capitoli, tratta del santo sacrificio della Messa, Cristo crocifisso
n’è il centro. Egli domina l’altare accanto al quale si vede ritta la figura di una donna, la Chiesa,
congiunta a Cristo nella sua Passione. Il sangue che zampilla dal cuore trafitto di Cristo viene
raccolto dalla Chiesa in un calice. Questo sangue Ildegarda lo chiama la dote della Chiesa, la sua
ricchezza. Da esso risulta la salvezza delle anime, che alla Chiesa sono affidate. Assistere alla
Messa è una grande cosa. Significa vivere con Cristo e insieme a lui non solo la sua Passione, ma
tutta la sua vita. Durante la celebrazione della Messa, appaiono nella visione di Ildegarda in
immagine, come in uno specchio, i misteri di Natale, della morte, della sepoltura, della risurrezione
e dell’ascensione del Figlio di Dio. Il sacramento dell’altare è un mistero di fede e Ildegarda non si
stanca di ripetere quanto sia necessario la fede per chi vi si accosti. Illustra con un’immagine, tratta
dalla Vita di uno dei padri del deserto, della differenza tra le anime che si accostano alla santa
comunione. Alcune sembrano tutte luminose, tutte d’oro, altre pallide, altre pallidissime, altre
insozzate, altre addirittura nere, secondo lo stato dell’anima.

L’ufficio divino è al centro della vita benedettina. Ildegarda ne tratta, vi allude, nella quinta visione
del secondo libro dello Scivias. Ne tratta anche nei vari capitoli della spiegazione della Regola di
San Benedetto: “La via di perfezione, discreta e piana, aperta da San Benedetto attende da chi la
segue con il proposito della conversatio morum nella continua ricerca di Dio, il ritorno a lui”. La
conversione, abbiamo già detto, è un cambiamento di direzione. Quasi senza avvertirlo, ci volgiamo
a quello che ci piace o ci interessa o a noi stessi, dimenticando il nostro fine ultimo, Dio. La
conversione ci riporta a lui e con l’abnegazione della propria volontà giungiamo all’imitazione di
Cristo nella sua Passione, come dice Ildegarda. La Regola è nella linea del Vangelo e non vuole
nient’altro e niente di nuovo, se non che la si metta in pratica. “Se l’insegnamento degli apostoli
può paragonarsi alla prima luce del giorno e l’inizio della vita monastica come l’aurora, il sole
serve a dare un’immagine della vita, quale la vuole San Benedetto da chi segue la sua Regola”.

“L’abito dei monaci - Ildegarda pensa qui alla cocolla, il mantello indossato per l’Ufficio in coro,
con larghe maniche che Ildegarda paragona ad ali - riporta al servizio di lode degli angeli, mentre
designa anche l’Incarnazione e la sepoltura del Figlio di Dio, in quanto chi lo porta si è offerto alla
fortissima obbedienza, come lo fu Cristo, obbediente fino alla morte”. Quando il monaco riceve la
cocolla, rinuncia ad ogni cosa, anche alla sepoltura. L’abito significa che il monaco ha scelto con
volontà pura, senza voler nient’altro per sé nella vita religiosa se non Cristo. La cocolla è un segno

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di elevazione e di mortificazione, nella gioia, però. Ildegarda non è una santa triste e la Regola di
San Benedetto porta ad una donazione gioiosa.

Nella spiegazione della Regola di San Benedetto Ildegarda rileva pure la saggezza pratica del santo.
Le norme che dà per la preghiera nella notte, per le ore di sonno, sono di vantaggio per la salute.
L’ora dell’alzata nella notte, una pratica che generalmente non si fa più, è ben scelta e non nuoce al
processo della digestione. Dormire troppo a lungo, o dormicchiare, come l’oziosità, nuoce al fisico.
La ripetizione poi giorno per giorno dei salmi ne rende possibile l’apprendimento a memoria e
l’esercizio della memoria è di grande utilità.

Ildegarda fa osservare che la Regola in vari punti si rimette al giudizio e alla discrezione dell’abate
e dei fratelli. San Benedetto non regola assolutamente tutto, ma lascia abate e fratelli una certa
possibilità di decisione. La preghiera, quando è prolungata fuori misura non da gioia, ma nella
giusta misura fa sì che la si assolve in gioia e non con noia. La preghiera personale Benedetto la
vuole pura e breve: ognuno la deve fare, interpreta Ildegarda, secondo la propria capacità. Pura, ci si
mette innanzi a Dio – e basta. “Sotto ogni riguardo la Regola tiene lontano dagli eccessi, che fanno
perdere di vista il fine e conduce direttamente alla meta. Questa Regola non è né troppo larga nelle
sue concessioni, né troppo stretta nelle sue prescrizioni, ma mira a destra e non a sinistra, sicché
conduce diritto alla meta colui che l’osserva”.

Per Ildegarda, la discrezione raccomandata dalla Regola deve ispirare ogni scelta. La discrezione,
dal verbo discernere = distinguere, non presuppone semplicemente il lavoro che precede ogni
scelta, discernere il positivo dal negativo per prendere una decisione, dopo un confronto bene
riflettuto e ponderato. Essa prende pure in esame le possibilità del soggetto, le qualità degli oggetti,
la necessità del momento. Nello Scivias, terzo libro, sesta visione, appare come la virtù che sceglie
il meglio tra quanto vi è di buono. “Tiene nel grembo gemme preziose che lascia scorrere tra le
dita. Ella è colei che ogni cosa passa al vaglio della discrezione, cribratrix omnium rerum”. Ha un
abito di colore nero, perché ogni buona scelta presume e richiede la mortificazione della carne, cioè,
il dominio delle proprie facoltà. Porta sulla spalla destra una piccola croce con l’immagine di
Cristo, perché non c’è virtù di discrezione senza la dilezione, l’amore, per lui. La discrezione
suppone saper distinguere il bene dal male, ma anche tra le cose buone è necessario conoscere quale
è il meglio, relativamente alla persona, al tempo e alla circostanza. La discrezione porta ad una
scelta intelligente e conveniente. Nella lista delle virtù in questa visione dello Scivias ha il posto
prima della virtù somma della salvezza dell’anima.

Nel libro Dei meriti di vita, dove entrano non solo le virtù, come nello Scivias, ma anche i vizi, in
una discussione che si estende per tutti e trentacinque libri, la virtù Discrezione ha un dibattito con
il vizio Mancanza di misura, che da nulla vuole astenersi e afferma che le piace agire
semplicemente come a lei conviene, senza tener conto di quello che ne è la conseguenza.
Discrezione, invece, non pensa al proprio vantaggio, sa che tutte le cose create stanno nell’ordine
stabilito da Dio e si rispondono a vicenda. Così la luna risplende della luce del sole, tutte quante le
creature servono quelle più grandi di loro e non vanno oltre i loro limiti. Discrezione considera,
prima di agire, l’ordinamento di Dio e in carità ne tiene in conto. Il concetto di base di Ildegarda è
quello di permetterci di essere penetrati da questa verità, che noi siamo sempre in rapporto: le parti
del
nostro corpo tra di loro, il nostro corpo con la nostra anima, noi stessi con gli altri, tutto quello che
abbiamo ci viene dal rapporto con le creature – e che non dobbiamo considerarci liberi di fare
quello che ci pare, perché dipendiamo da tutti e dipendiamo da noi stessi, nell’uso che facciamo
delle nostre facoltà.

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Questa virtù della discrezione è l’intima regola della vita spirituale per Ildegarda, come già per
Benedetto. Parlando di Benedetto, Ildegarda dice: “Il santo ha posto il chiodo della dottrina al
centro della ruota”. Il chiodo era già per gli antichi, simbolo della stabilità, irremovibile. La ruota è
simbolo dell’universo creato, il simbolo di Dio e anche simbolo dell’uomo. Come simbolo
dell’uomo, la ruota significa che l’uomo è sempre in movimento, sempre cambia, si gira e si muove
nel tempo. L’unico fisso, al centro, è Cristo. Al centro, “…né troppo in alto, né troppo in basso”,
sicché ognuno che vuole possa raggiungerlo, c’è Cristo, che sta al centro della ruota, sta fermo e
vede girare la ruota. Chi si tiene saldo a Cristo è al centro del mondo, sta ritto e non teme, perché sa
che nulla può separarlo da lui.

La preghiera
La preghiera non consta in molte parole, abbiamo già detto. Seguendo la Regola, dice: “…non in
multiloquio sed in puritate cordis ed in compunctione lacrimarum”, non in molte parole, ma nella
purezza del cuore e nella compunzione delle lacrime. In questa attitudine veniamo esauditi,
troviamo ascolto presso Dio e comunichiamo con lui. Trovo molto importante il verbo audire, che
significa qui esaudire, vale a dire, Dio, che ci sembra lontano, non lo è in realtà e ci sente e ci
risponde con precisione. Anche la parola ”obbedienza” non significa altro che stare attenti ad
ascoltare quello che un altro ci dice. L’obbedienza significa appunto, come dicevo prima,
quell’attitudine di apertura all’altro che ci sta di fronte. L’obbedienza non è una virtù militare, è
molto umana, dove manca l’obbedienza, l’attenzione per ascoltare l’altro, manca ogni possibilità di
comunicazione veramente umana. Il corpo e l’anima, l’intelletto e gli affetti devono prendere parte
nella preghiera liturgica, che è un atto di tutta la persona e non soltanto dello spirito. Qui,
l’importanza dell’atteggiamento nella preghiera. La preghiera liturgica porta ad una pietà, ad un
essere pio, che non manca di austerità e, aggiungerei, di stile. È la preghiera che si esprime con
dignità, compostezza, bellezza. Così sono le preghiere formulate da Ildegarda.

Quando, nelle orazioni della liturgia, si parla di “pia devozione”, l’espressione deve essere intesa
per quello che vale. Non ha in sé nulla di sentimentale, che non significa che si escluda il
sentimento. Devotio, la devozione, significa dedizione completa, non è un “atteggiamento pio”. La
pietas, la pietà, significa il rapporto di amore verso i genitori, verso la terra natia, che ci ha dato
quello che siamo. Devotio, devozione, significa l’offerta di se stessi e la pietà è l’amore devoto in
un rapporto naturale e religioso. La pietà liturgica è per Ildegarda, come per la Regola di San
Benedetto, il personale rapporto dell’uomo con Dio, che trova la sua espressione nel culto, per cui
l’intima convinzione e l’atto esterno, il gesto, la parola, l’atteggiamento, sono ugualmente
importanti. La liturgia è la pietà della Chiesa e per questo riveste una grande importanza per
Ildegarda, come, del resto, per noi ed in ogni tempo. È qualcosa di grande e solenne. L’ufficio
divino è al centro della vita benedettina e Ildegarda è una figlia di San Benedetto. Nella sua
spiegazione della Regola commenta i capitoli che lo trattano. La celebrazione del divino Ufficio è
un servizio di lode al Creatore e va fatta in “voce di giubilo”, umilmente e devotamente. È un
servizio angelico, perché l’uomo, per la lode che dà a Dio, è pare agli angeli, mentre con le opere
sante, che cerca di fare, risponde alla sua vocazione, in quanto uomo. Con la lode di Dio e con le
opere, l’uomo rivela le meraviglie di Dio, per questo ne è l’opera perfetta, plenum opus Dei.

Ildegarda scrive più di settanta canti per la preghiera in coro, versi e musica. Due manoscritti
tramandano queste composizioni, la raccolta completa, la Riesenkodex, il “Codice gigante” di
Wiesbaden, e una gran parte dei canti, ma non tutto il Codice nono di Dendermonde, nelle Fiandre.
Questi canti non sono ordinati secondo i tempi dell’anno liturgico, come di solito nelle raccolte
gregoriane, ma secondo il contenuto. Si tratta di antifone, responsori, inni, sequenze in lode della
Trinità, dello Spirito Santo, di Maria, degli angeli, di alcuni santi, particolarmente venerati nella
regione, per esempio, Sant’Ursola, San Martino, San Disibodo e alcuni santi di Treviri,
Sant’Eucario, San Mattia. Anche in queste composizioni Ildegarda è originale. I richiami scritturali

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sono frequenti, senza mai essere delle vere e proprie citazioni. Il pensiero si esprime in sempre
nuove immagini e simboli. La parte melodica, pur non essendo del tutto estranea ai modelli del
tempo, supera, nell’ampiezza degli intervalli, quella caratteristica del canto gregoriano. Ildegarda
definisce l’uomo con varie espressioni. La più bella, la più onorevole al parere mio è la seguente:
“L’uomo è il collaboratore di Dio, in quanto porta a compimento l’opera, è operarius Dei”. In
molti diversi campi lavora l’uomo. In quale più che in ogni altro egli diventa collaboratore? L’uomo
collabora con Dio quando realizza armonia. Armonia è un accordarsi, un concordarsi, un convenire,
un venire insieme di realtà diverse in giuste proporzioni. L’armonia è il contrario di monotonia, un
tono solo, dove tutti pensano nella stessa maniera, dove non si può dire una cosa diversa senza
essere considerati come nemici.

Sentiamo quello che Ildegarda ci dice a proposito, ne fa una specie di storia: “Adamo aveva in
principio una voce che suonava come quella degli angeli, ma la perdette quando fu cacciato dal bel
paradiso, tutto luce. Perché il ricordo della beatitudine e la gioia primitiva del paradiso perduto
non venisse pur essa dileguarsi, Davide e i profeti composero canti. Non solo, ma inventarono pure
strumenti, che con il loro suono li accompagnassero. Il senso delle parole, il suono degli strumenti,
la forma e le particolarità degli strumenti stessi commuovono l’uomo nell’intimo, fanno emergere
in superficie quanto è nascosto nel suo interno e di cui in parte egli non ne è conscio, suscita quasi
la nostalgia della primitiva situazione in paradiso. La musica suscita il ricordo dell’armonia
dell’origine, degli inizi”. La musica è anche per questo importante, per Ildegarda, perché quando
parliamo di arte in generale, diremmo che la musica è la più spirituale di tutte, invece la più
spirituale è l’architettura. La musica invece è quella che più parla al corpo. La musica muove il
corpo e il corpo muove l’anima. La musica ha origine in paradiso e unisce a Dio. Dove Dio è
presente, c’è armonia. Chi conosce e vive nel mondo della musica è portato all’armonia. Lucifero e
i suoi seguaci non possono più cantare. Dove appaiono loro, l’armonia scompare.

Ogni forza che distrugge ha la sua origine dal negatore di Dio. Dagli effetti della distruzione si può
conoscere chi è l’autore dell’opera. L’armonia regnava al principio del mondo e l’armonia regnerà
alla fine. Alla fine tutto quello che è terreno scomparirà. Le diversità che distinguono e dividono gli
uomini non serviranno più a separare, ma ad unire. Ogni uomo, ogni voce, conserverà il suo suono e
la diversità si comporrà in un’unità che è armonia. Il libro dello Scivias chiude la storia del mondo,
la storia della salvezza che dalla caduta di Adamo trova il suo nuovo inizio con la venuta di Cristo,
per giungere al pieno compimento con la seconda venuta. Dopo le drammatiche descrizioni degli
ultimi tempi, chiude dunque lo Scivias con la visione dell’armonia finale, tra tutti gli uomini in
unanimità e concordia. Armonia non è solo da sperarsi nel futuro, ma può realizzarsi già nel
presente, se l’uomo è disposto a farlo. L’uomo risulta da corpo e anima, e la voce dell’anima è voce
di vita. Cito Ildegarda: “Il corpo è l’indumento dell’anima e questa ha una voce che è vita, per
questo è opportuno, è bene, che il corpo insieme all’anima per mezzo della voce canti le lodi di
Dio”.

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LA CONCEZIONE ILDEGARDIANA DELL’ARMONIA
DELLA PERSONA

12 NOVEMBRE 2001 Sr. ANGELA CARLEVARIS, osb

Si è parlato l’altra volta dello sviluppo della personalità; come l’intendiamo noi, è parziale, perché
ci riferiamo generalmente allo sviluppo delle capacità della persona che portano poi ad un risultato,
il quale le dà la possibilità di affermarsi nella vita. C’è però uno sviluppo della personalità che
dovrebbe o precedere o per lo meno svolgersi parallelamente; non si tratta della personalità
“tecnica” e dello sviluppo di una certa capacità, per esempio, quella artistica, ma dello sviluppo di
una personalità che ci permette di diventare veramente esseri umani, uomini. Quello che manca
oggigiorno non è la conoscenza tecnica, ma lo sviluppo della personalità umana, dell’uomo; cose
tremende non succederebbero se gli uomini fossero veramente uomini.

Lo sviluppo della personalità è una cosa non facile, perché sappiamo che la condizione stessa
dell’uomo non è facile, in quanto egli è composto d’anima e corpo; dunque, deve sviluppare l’una e
l’altro. Indipendentemente dai doni che una persona ha, ognuno ha il suo valore, perché occupa un
posto nel mondo e ha un’attività che deve svolgere, ma molto spesso forse non sa quale sia, e così la
sua vera importanza non la conosce. Ogni cosa e ciascuna persona ha una propria mansione, posto e
attività che deve svolgere per sé e per gli altri; esercitando quest’attività si sviluppa se stesso e si
cresce davanti a Dio, secondo il piano di Dio e si aiuta il prossimo.

La prima armonia, quella più importante, di cui parla Ildegarda spesso è quella che ci deve essere
nell’uomo tra scienza e fede. Noi spesso contrapponiamo queste due qualità: scienza e fede, ma, per
Ildegarda, non stanno in contraddizione. Il presupposto per credere è di accettare i limiti della
propria condizione umana e di conoscerli. Per giungere a ciò, l’uomo deve continuare a cercare e
non possiamo fare a meno di ricordare che la ricerca dei Dio è uno dei temi, forse quello più
importante, della Regola di San Benedetto e che Ildegarda, come benedettina, vive di questa ricerca,
vive in essa. Tutto quello che si presenta all’uomo nella vita, il mondo, le creature animate e
inanimate, gli eventi, tutto, è un’offerta che chiede a lui una risposta dopo l’altra, un’accettazione o
un rifiuto e l’uomo può dare questa risposta perché egli è un essere ragionevole, dotato della
conoscenza del bene e del male.

Ildegarda pensa alla luce della fede e per lei essa è fides quaerens intellectum (= la fede che cerca di
capire). Trattazione sistematica dei singoli temi non c’è e quando parla della fede nelle spiegazioni
delle sue visioni, si lascia andare a continue diversioni che non sono mai un’inutile ripetizione di
cose già dette, ma si collegano a riflessioni precedenti, chiarendole e completandole. Per quanto
riguarda quindi il tema di fede e scienza, ci troviamo a dover raccogliere da diverse opere delle
asserzioni che in parte corrispondono, a volte aggiungono nuovi elementi, mentre suscitano in noi
l’impressione che non siano soltanto per caso e che Ildegarda ripensi a quello che ha detto e voglia
completarlo.

La fede per Ildegarda è pure una scienza, quella delle realtà interiori e di quelle divine, una scienza
capace di comprendere queste meglio d’ogni altra. Per mezzo della fede si conosce Dio. Dio è
immenso e quindi la nostra conoscenza è sempre, e lo sarà sempre, parziale, ma è una conoscenza.
La vera fede è “retta, pura, integra, stabile, è cattolica”, vale a dire, crediamo come crede la

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Chiesa. Ancora, la fede è “luce, occhio, chiarezza, splendore abbagliante” e nello stesso tempo è
ombra. Tende sempre ad un nuovo rispecchiarsi in Dio per giungere a conoscerlo sempre meglio,
senza mai giungere a conoscere tutto. Per Ildegarda, che cosa è la fede? Non troviamo una
definizione qui; Ildegarda dice: “L’uomo che per la sua scienza, per l’occhio interiore, riesce a
vedere quello che all’occhio esteriore rimane nascosto e di ciò non dubita, costui crede
fermamente”. Vale a dire, ciò è fede. Così Ildegarda nel secondo libro dello Scivias, mentre
nell’ottava visione del terzo libro rappresenta la fede insieme con altre virtù, in figura umana, essa
discende tra gli uomini dall’alto con l’umanità di Cristo Salvatore, per ritornare in alto con la sua
dignità. Ha un cordone di rosso sanguineo intorno al collo, perché caratteristica della fede è la
fermezza, la forza, la perseveranza nel testimoniare che può giungere fino al martirio, la fedeltà a
Dio fino all’ultimo sangue.

Un’altra immagine ancora: la fede è come un monte, al cui piede sta una roccia immensa, che è
simbolo del timore di Dio, perché la fede è congiunta alla stabilità del timore di Dio, come il timore
è congiunto alla fortezza della fede. Per opera del Figlio di Dio, mandato dal Padre, la vera fede
germina rigogliosa, fondamento d’ogni buona opera, e nasce insieme con altre virtù dal timore di
Dio, che giunge a toccare Dio nella sua inaccessibile altezza. Sappiamo che il timore di Dio, per
Ildegarda e anche secondo San Benedetto, guarda a Dio; non è la paura. Ê il timore filiale, che vuol
fare piacere a Dio e lo guarda, per cercare di non fargli dispiacere.

Ildegarda paragona ancora la fede ad uno specchio, speculum fidei, dice, riportandosi alle parole
dell’Apostolo Paolo in 1 Cor 13,12: “…ora vediamo come attraverso uno specchio, in enigma”.
Con l’occhio della fede si vede che ogni creatura tende al suo Creatore e che questo movimento non
è mai concluso, così come non lo è l’atto di fede, perché mai Dio può essere completamente
compreso dall’uomo. Il nostro atto di fede deve rinnovarsi continuamente. La fede tende ad un
continuo rispecchiarsi in Dio, per giungere a conoscerlo sempre meglio. Qual è il maggior ostacolo
alla fede? Per Ildegarda, è la dimenticanza di Dio, il non cercare Dio, l’oblivio cordis, (= l’oblio del
cuore), come dice lei, il cuore che non si rivolge più a Dio, per guardare solo alle creature, come se
esse potessero dare tutto quello di cui l’uomo ha bisogno.

Per credere, bisogna saper vedere se stessi e il mondo. “’Non abbiamo mai visto Dio’ dicono
alcuni, ma Dio si rivela nella grandezza, nell’armonia del creato. Non si vede forse Dio
nell’avvicendarsi del giorno e della notte? Non si vede nel seme gettato nel solco ed irrigato dalla
pioggia, sicché germini? Perché non cercare Dio nelle Scritture? Dio che è il Creatore. Dio si vede
con la faccia della fede e si abbraccia con la carità”.

Ildegarda ritorna più volte sul pensiero come non c’è carità senza umiltà, non c’è neanche fede
senza carità. Chi pretende di procedere oltre ai limiti segnati dalla propria natura, non raggiunge la
sua meta. Di nuovo una citazione, in cui c’è un’immagine classica: “Alza il dito e tocca le nubi! Ma
non è possibile; così pure è impossibile raggiungere quello che all’uomo non è dato di conoscere.
Non si arriva a Dio con il solo desiderio; ci vuole il serio impegno della vita, senza pretendere di
disporre di lui secondo i propri interessi, ma con il fermo proposito di servirlo”. La fede vuole che
l’intelletto giunga a quella chiarezza che gli è resa possibile dalla sua natura. Fede e intelletto
collaborano senza mai sostituirsi. Ildegarda dice: “Due occhi ha l’uomo per vedere Dio, la scienza
e la fede”. Vedere rappresenta per Ildegarda la prima fase del comprendere. La verità di fede si
rende visibile all’occhio interiore e l’intelletto cerca di esporre quanto ne ha visto e di darne la
ragione. Nella visione contemplativa che lei è propria, Ildegarda riveste concetti della filosofia in un
linguaggio di vita e li esprime appunto per mezzo d’immagini, alle quali premette sempre un
“quasi” o “come” ad indicare che quanto è venuta a conoscere nella visione non può essere reso
completamente dalla parola.

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Il valore del cosmo, come quello d’ogni singolo essere creato, ha pure il suo fondamento teologico.
Il pensiero d’Ildegarda non si rivolge in maniera esclusiva all’essere delle cose in sé, a ciò che
appartiene alla loro natura, ma vede ognuna in rapporto con il suo ultimo fine. Tutti vengono da
Dio, tutti tendono a Dio. Possiamo ritenere la sua una filosofia dell’essere che dà una ragione
metafisica: creature che abbiano un valore indifferente non esistono per lei. Ogni essere ha, secondo
Ildegarda, una sua verità, un vero, perché l’eterna verità ha posto in essi un pensiero che deve
realizzarsi nell’ordine assegnato dal loro Creatore. Nell’insieme delle cose create ogni creatura
rappresenta un bene; con un’immagine di quel bene assoluto dal quale essa procede e al quale
ritorna. L’unico vero essere è Dio, che è l’unica vera vita. “Vita” ed “Essere” sono per Ildegarda un
tutt’uno. “«Io sono la vita perfetta», dice Dio,«ed ogni altro essere vivente sulla terra ha in me la
sua origine»”. Nel parlare di Dio, Ildegarda usa in maniera equivalente i termini “vita” ed “essere”
e se preferisce il primo, ciò potrebbe avere la sua ragione nel fatto che lei considera come qualcosa
di vivente, di dinamico, la presenza di Dio nel mondo.

Questo è ciò che vuole dire Ildegarda per quanto riguarda l’armonia tra scienza e fede, tra conoscere
e credere nell’anima e tra accettare il proprio essere di creatura e il viverlo pienamente nella fede.
La natura, il mondo e l’uomo hanno per lei una dimensione teologica; la parola creatrice di Dio
porta l’uomo ad un dialogo esistenziale con la natura. Gli scritti d’Ildegarda offrono
un’interpretazione teologica della natura, che ha il suo fondamento nel e con il rapporto tra il
Creatore e la creatura. Gli elementi della natura che si trovano anche nell’uomo e con i quali egli
opera, con le loro forze cosmiche, i venti, i pianeti, le stelle e le costellazioni sono chiamati da
Ildegarda “firmamento”, ossia, quanto sta saldo nel mondo, opera e, nello stesso tempo, tiene
insieme in un corpo unico l’universo.

Ê questo l’equilibrio delle forze che operano nel mondo, da cui risulta la salda struttura
dell’universo. Non dobbiamo cercare una spiegazione scientifica che soddisfi il grado di
conoscenza che abbiamo; Ildegarda ha sempre davanti la visione del mondo e cerca di collegarla
con Dio. Dice, per esempio, le stelle tengono insieme compatto l’universo, guidano l’aria e
ordinano tutto nell’ambito cosmico; si sostengono a vicenda e tengono insieme il firmamento, come
le arterie dell’organismo che sostengono la vita del corpo umano. C’è sempre un parallelismo tra
l’uomo e il cosmo. Per lei, le stelle sono voci, parole di razionalità; Dio, che è la ratio per essenza,
ha detto una parola e queste stelle, come ogni altra creatura, sono parole di Dio.

Il firmamento ha la sua forza negli elementi: riceve salvezza dal fuoco, come l’argilla cotta nel
fuoco diventa salda per fare le tegole, è mosso dall’aria, sostenuto dai venti, abbeverato dall’acqua,
illuminato dalle stelle. Tutti gli elementi agiscono in tal modo, anche sull’uomo, il quale, a sua
volta, esercita la propria influenza su di essi. Tutto è in intima e reciproca dipendenza, vive in
stretto vicinato. L’universo è in uno stretto rapporto con tutti i suoi elementi cosmici e così pure
l’uomo, che n’è socio. Tuttavia, ogni singola parte segue il suo corso e rimane nella propria sfera, o
almeno così dovrebbe rimanere, senza oltrepassarla.

Ogni elemento nella sua individualità ha la capacità di eseguire il proprio compito; così il puro etere
ha la forza di opporsi alla nebbia mortale che proviene dal fuoco. L’immagine è che l’etere è
circondato da una zona di fuoco e ha la forza di vincere le nebbie che si alzano dai monti, dalle
valli, dalle acque, dalla gran calura, dall’umidità della terra. L’aria è leggera e rende la terra
feconda; il fuoco pervade tutti i cerchi cosmici, sicché lo splendore e la bellezza della natura
toccano anche gli esseri più insignificanti della terra. La forza dei venti, delle violente energie
naturali dell’universo, opera in ognuna delle sfere, secondo un piano prestabilito che ha
conseguenze per tutto l’insieme dell’universo. Fiumi e ruscelli abbeverano la terra e la rendono
fruttifera. L’aria si muove e con il suo calore e la sua umidità fa sì che la terra germogli. In questo
sistema circolare entra pure il mare: c’è un’espressione curiosa che Ildegarda usa più volte nelle sue

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opere, che ho cercato di spiegare senza esserci riuscita, che “I fiumi derivano dal mare” – vanno al
mare, ma ne derivano anche.
Nella natura tutto possiede la viridità, che per Ildegarda è la forza vitale, il verde di vita, la forza
naturale, ciò che è sano, sanante, intatto, sinonimo d’integrità. Si trova nella fiamma come nelle
acque, nelle pietre come umidità e spira nell’aria. Questa spiegazione sugli elementi già dà l’idea di
come, per Ildegarda, tutto il mondo sia in una comunione reciproca, in uno scambio reciproco. La
natura è nelle mani di Dio, è una creazione che vive e cresce secondo le sue leggi ed è in unisono
con il cosmo: una cosa sta sempre in rapporto con l’altra. La terra, con quanto in essa nasce e
cresce, glorifica la potenza di Dio, in quanto è anche materia affidata da Dio all’uomo, il quale è la
materia dell’incarnazione del Verbo. Quindi, si parte dalla terra per arrivare all’uomo, dall’uomo,
per arrivare al Verbo di Dio.

L’uomo è materia dell’incarnazione di Dio; la circolazione, la rivoluzione, il corso cosmico è voluto


da Dio per l’uomo, è in funzione di lui, soprattutto in vista dell’incarnazione di Dio nella materia di
questo mondo. Per Ildegarda, quest’immagine del cosmo abbraccia non soltanto le manifestazioni
naturali, ma si riferisce anche ai fenomeni della cultura e della storia. L’immagine del mondo è
l’uomo, nel Medioevo latino. L’antica corrispondenza macrocosmo-microcosmo, il grande
l’universo e l’uomo, il piccolo universo, è a fondamento della visione cosmologica dell’uomo;
cosmo e l'uomo sono interpretati insieme. Uno scrittore dell’epoca, Onorio d’Autun, descrive questa
comunanza uomo e mondo nella sua opera, L’immagine del mondo.

L’uomo quando scopre, legge e comprende il libro della natura, scopre quale sia il suo posto, la sua
funzione nel mondo. L’uomo, come un’aquila, che porta in alto la sua preda, sublima la natura
sensibile in spirituale e trasforma così la natura esteriore in un mondo che diventa spirituale. In
questo processo l’uomo riconosce la struttura dinamica dell’universo dall’interno e dall’esterno.
Ogni creatura del mondo, dice un altro scrittore dell’epoca, è per noi quasi un libro, un dipinto, uno
specchio, un segno sicuro della nostra vita e della nostra morte, della nostra condizione e della
nostra sorte. Da qui deriva un rispetto per le cose, per il mondo e per le persone.

Ogni creatura ha il suo significato, dice Agostino. Ne deriva quindi una comprensione del mondo,
come un sistema di segni del Creatore. È stato già detto che l’uomo sta al vertice dell’opera di Dio.
Ildegarda, quando parla del mondo, intende anche l’uomo. La storia della salvezza è inseparabile
dall’ordine della creazione della natura e del mondo. Come Ildegarda concepisce il mondo diventa
chiaro, se si cerca di comprenderlo nelle sue caratteristiche. Come un mondo che Dio ha creato in
bellezza e perfezione per l’incarnazione del Figlio di Dio, come pure per la risurrezione dell’uomo
in un cosmo trasfigurato in una visione completa, che porta il sigillo del mistero della Trinità e
rappresenta l’accesso per la comprensione del mondo e dell’uomo, del posto che l’uomo ha nel
mondo e che è illustrato dal modo con cui ella lo rappresenta nelle sue visioni.

Dio non è soltanto l’interlocutore soggettivo dell’anima, ma il Creatore e il Signore del cosmo. Il
mondo è il mezzo e la chiave per giungere alla conoscenza di Dio. Centro del mondo è il Cristo, il
logos, il Verbo nel cosmo. L’incarnazione è come l’immagine del mondo esemplare per la struttura
d’insieme del mondo e per quello dell’uomo. Il mondo è un cosmos, un insieme ordinato, da Dio
creato nella struttura sensibile, perché egli vi possa assumere una struttura umana. La creazione ha
per Ildegarda come fine l’incarnazione e la risurrezione dell’uomo. Cristo è diventato uomo per
santificare e salvare ogni creatura. Dimora di Dio è la creazione, nella quale è stato posto l’uomo,
affinché egli continuasse il suo sviluppo. Con l’incarnazione del Verbo di Dio, il mondo riceve una
causa esemplare cristologica insieme alla sua fondamentale struttura antropologica. Cristo - e
l’uomo insieme - sono il fine del mondo.

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La ricchezza del mondo naturale è strettamente collegata alla vita della grazia. La creazione del
mondo porta il sigillo della Trinità. La decisione per l’incarnazione, secondo Ildegarda, fu presa
prima del tempo, prima della creazione. Il Figlio è l’immagine del Padre e Dio nel Figlio creò la sua
opera, il cosmo. Ildegarda collega l’insegnamento dei quattro elementi all’opera della Trinità: la
terra è la materia per l’opera di Dio all’uomo, nel fuoco dello Spirito Santo sono purificati i sensi. Il
forte soffio dello Spirito ravviva il desiderio del cibo di vita. Con le forze dell’acqua, lo Spirito
ravviva il calore, si scioglie il coagulo del peccato, fa affluire le correnti della verità sull’anima
dell’uomo. Così accanto alla struttura cristologica c’è anche quella trinitaria: su questo Ildegarda
insiste. Le parole tolte dalla sua terza opera che ora citerò riassumono le dieci visioni che
compongono l’opera.

“Dall’operazione di Dio nasce l’uomo, che opera adoperato da Dio: egli nel suo operare deve
operare secondo la similitudine di Dio. L’uomo sta ritto davanti al Creatore nel centro del cosmo,
a braccia aperte in forma di croce, il capo rivolto in alto alle stelle, guarda verso oriente” –
l’oriente è sempre il segno della salvezza, come il settentrione della rovina; ogni punto cardinale ha
un significato simbolico. “La terra è circondata dall’aria lieve e mite, tenuta insieme dall’aria
forte e irrorata dalle acque. L’uomo, nel mezzo del cosmo, è circondato dal puro etere ed
illuminato dal fuoco, come da un arredo di stelle. Il cosmo stesso è mosso da quattro forti venti
spirituali”. Così dice nella terza opera, Le operazioni di Dio. L’uomo è posto nel cuore di Dio, al
centro, con le braccia aperte, e intorno a lui, tutto l’universo.

Ogni cosa nel mondo è secondo ordine e misura; non c’è nulla di superfluo o inutile. L’uomo è
come uno specchio dell’universo e deve compiere la sua opera insieme alle creature del mondo e
con esse deve mantenere un dialogo continuo, un rapporto; è responsabile del mondo e della sua
integrità. Tutto quello che vi è nella natura egli deve conoscere e comprendere, non solo in sé, ma
anche nel suo valore di segno, di simbolo, e conversando con le cose deve ricevere il loro
messaggio. Ogni cosa, oltre al suo fine pratico, ha un significato che l’uomo deve cercare di
cogliere, un messaggio: una cosa creata è una parola di Dio, quindi un suo messaggio. Il Cantico
delle creature di San Francesco, in una forma più semplice, è molto simile a quello che dice
Ildegarda.

L’uomo, che esiste in anima e corpo, è il centro vitale della grande costruzione dell’universo ed in
ogni particolare n’è influenzato. Le forze della natura e le leggi che regolano il mondo vanno
interpretate a misura dell’uomo. Che noi siamo influenzati dall’universo e da quello che succede
attorno a noi, possiamo vedere purtroppo anche in maniera negativa; e non soltanto attraverso il
mondo creato, ma anche attraverso il “mondo”, opera dell’uomo. Creazione e redenzione mirano
all’uomo, hanno entrambi la stessa realtà salvifica. L’uomo è immerso nel mondo, il quale partecipa
con lui alla storia della salvezza. Egli, come pure la natura, non può sfuggire alla sua fondamentale
costituzione: la creazione dell’uomo da parte di Dio è chiamata da Ildegarda constitutio, homo
constitutus, l’uomo costituito da Dio. Ma con il peccato l’uomo, insieme al mondo, partecipa
esistenzialmente al dolore e questa è la situazione dell’homo destitutus, l’uomo decaduto, la
destitutio. C’è per sua grazia l’opera di Dio nell’uomo e quindi il ritorno all’originale struttura:
questo sarebbe la restituzione. Ci sono sempre tre passaggi: constitutio, destitutio, restitutio.
Possiamo costatare in noi stessi questa situazione: constitutio, siamo noi con la nostra natura così
com’è, destitutio, scopriamo i nostri lati difettosi, restitutio, a mano a mano che la grazia di Dio ci
conduce alla conversione.

Lo scorrere di tutta la creazione attraverso i tempi, fino alla fine del cosmo e al suo compimento
nella parusia del Messia, è visto da Ildegarda in una visione divina. Compendio delle creature,
l’uomo deve servire Dio nella creazione del mondo; in un certo senso, deve diventare “creatore” del
mondo. Ognuno di noi deve “creare” di nuovo, restituire il proprio mondo in cui vive. Quindi la

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nostra è una funzione di restituzione: siamo mandati nel mondo, nel piccolo mondo in cui viviamo,
la famiglia, il lavoro, la società, per creare ordine, non disordine. L’uomo è insieme opera ed
operaio attivo e responsabile, opus operis Dei (=opera dell’operare di Dio), ma nello stesso tempo è
l’operaio di Dio, il suo collaboratore.

La dottrina dell’incarnazione della seconda persona della Santissima Trinità aveva delle
conseguenze nella considerazione medioevale del rapporto tra il corpo e l’anima. L’incarnazione è
per Ildegarda la causa esemplare di tutto l’universo e l’interpretazione di essa è strettamente
collegata, soprattutto nella terza opera di contenuto cosmico, a quella del corpo umano. Il
commento al Prologo del Vangelo di San Giovanni, nella quarta parte di quest’opera, tratta della
struttura del corpo umano. In vista dell’incarnazione di Cristo, sono considerate le due prospettive
alte e grandi, due punti di vista: l’opera della creazione in sei giorni e l’apocalisse, la “fine” del
mondo, secondo San Giovanni. Il Verbo di Dio è sin dal principio all’opera, com’è provata dalla
struttura del corpo umano e dal corso della storia. La storia, per Ildegarda è storia sacra.

Anche l’unione del corpo con l’anima trova nell’incarnazione del Verbo la sua analogia nella fede,
come Deus et homo unus Christus (= Dio e l’uomo sono un solo Cristo), così pure l’anima razionale
e la carne mortale formano un’unica persona. L’uomo è l’opus Dei (= opera di Dio) e nello stesso
tempo un opus operans (= un’opera che agisce), è il socio di Dio, che nella sua attività, nella natura,
ha il compito di una seconda creazione. Abbiamo già detto più volte che la creazione è affidata
all’uomo, perché egli l’aiuti a vivere, a moltiplicarsi e a migliorare. Per comprendere la visione che
Ildegarda ha dell’uomo, sono determinanti le tre finalità della destinazione dell’uomo: il
comportamento dell’uomo nel mondo, come egli opera con le creature, il rapporto dell’anima con il
corpo, come egli opera con se stesso, la cooperazione tra l’uomo e la donna, come egli opera con la
compagna, oppure la donna, con il compagno.

Il corpo è il luogo in cui si definiscono i rapporti con il Creatore e le creature. La dottrina


dell’uomo, come microcosmo, è data da Ildegarda nel linguaggio della fede. L’uomo, nella storia
della salvezza, è unito al mondo. La costruzione del mondo è strettamente connessa in maniera
misteriosa nella sua fine con la nostra storia. Questa fine, quest’esito del corso del mondo l’uomo
sperimenta in se stesso. Non può sottrarsi dalla responsabilità verso il mondo in cui vive, come di
fronte al Creatore. L’ordine della creazione abbraccia il mondo degli angeli e la natura terrena, il
mondo delle piante, degli animali e dell’uomo. Un mondo che è uno e comprende quanto alla vita
sensibile, vita dell’anima e vita della grazia. Nel rendere gloria al Creatore l’uomo deve trovarsi in
accordo con la natura e con la grazia, con la materia e con lo spirito, con il corpo - materia - e con
l’anima, con il mondo e con la Chiesa. La nostra personale armonia, che non è soltanto un’armonia
di noi stessi in noi stessi, la dobbiamo trovare lì, dove viviamo, con il mondo in cui viviamo, quello
non animato e quello animato, e con le persone umane. Il luogo in cui l’uomo rende gloria al
Creatore è il corpo, perché il corpo ha un compito importante in tutta l’esistenza dell’uomo, non
soltanto lo spirito e l’anima. Corpo e anima formano un solo uomo.

Ildegarda non disprezza il corpo; lo ammira e lo rispetta come strumento dell’anima, perché tutto
quello che conosciamo, lo conosciamo per mezzo dei sensi, vale a dire, tutto viene a noi attraverso
il corpo. Il corpo da solo non basta, ci vuole anche l’anima, ci vogliono tutti e due, ma il corpo è
stimabilissimo e spettabilissimo e va rispettato. Il simbolo fondamentale d’Ildegarda per l’unità del
corpo con l’anima è la crescita e la figura dell’albero. Ciò che è la linfa nell’albero, lo è l’anima nel
corpo ed essa sviluppa le sue forze spirituali come l’albero sviluppa i rami e le foglie. L’intelletto è
come il verde dei rami e delle foglie, la volontà, come i suoi fiori, l’animo, come i frutti appena
formati, la ragione, come quelli pienamente maturi, i sensi si possono assomigliare al suo estendersi
in altezza e larghezza.

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L’anima è creata da Dio e immessa, invisibile, nel corpo sensibile e visibile, dimora in esso e lo
vivifica. Come Dio, che ha portato tutta la creazione al servizio dell’uomo con la forza invisibile
della sua onnipotenza, la mantiene in vita con la viridità della terra, il calore dell’aria, con l’umore
delle acque, così il corpo serve all’anima come veste e tuttavia resta sconosciuto all’essere spirituale
dell’anima, la cui missione è di vivificare il corpo e di operare tramite esso. Ildegarda, parlando del
corpo, lo chiama “tabernacolo, tenda, veste” dell’anima. La stretta cooperazione dell’anima con il
corpo viene così descritta: “Nonostante le loro diverse nature, esistono entrambi nella comune
realtà, perché, nel pensiero, al corpo lo spirito aggiunge ogni concentrazione di calore con
l’assimilazione dell’acqua, la verde freschezza che dà vita, la viridità e si unisce al corpo. Così vive
l’uomo nella sua costituzione in ogni luogo, sempre nella sua corporeità. L’unità anima-corpo, una
sola opera (= unum opus), corrisponde allo stato originario, allorché l’uomo aveva un corpo
luminoso e risplendente nella sua pienezza di vita. Anima, corpo e spirito erano allora una cosa
sola. Ora ci sono dei movimenti opposti dell’anima e del corpo: in principio, secondo Dio, c’era la
perfetta armonia. La nostra opera, l’opera delle persone viventi, è quella di ricreare in noi
l’armonia”.

Ildegarda considera l’uomo ed ogni singolo membro ed organo del corpo umano in rapporto con il
Verbo di Dio, così come ho già detto, parlando della quarta visione del Libro delle opere di Dio.
Membra e organi del corpo umano sono descritti, collegati all’espressione del Prologo del Vangelo
di San Giovanni. Anche le forze naturali sono confrontate con le varie parti del corpo umano e il
corpo stesso viene, per così dire, proiettato in un paesaggio cosmico. L’uomo, con il suo corpo, è
nel cosmo come misura di esso, come chiave vivente e simbolo personificato, oppure come persona
che ha la sua qualificazione di simbolo. I suoi sensi esterificano la forza creativa del cosmo, che è
un’immagine del Creatore. L’anima, per mezzo delle funzioni dei sensi, di cui è dotato l’organismo,
mette in rapporto con il mondo il vaso corporeo e fa in modo che il mondo e la natura si pieghino a
quello che l’anima vuole.

Ildegarda collega la dottrina degli elementi e la fede nella creazione con la creazione dell’uomo dai
quattro elementi. Mescolato con l’acqua il limo, il fango della terra, prende una forma, nella quale
viene immesso lo spirito di vita, che è fuoco e respiro. Così la carne viene formata dal fango e
dall’acqua, per mezzo dell’aria e dell’etere, l’acqua diventa sangue; dal fuoco il calore, dall’aria il
fiato, dall’acqua il sangue e dalla terra i saldi tessuti. Dio v’immette il suo divino splendore e così
appare il corpo umano in tutta la sua bellezza con l’anima. Pure le funzioni dei sensi corrispondono
agli elementi: dal fuoco, riceve la vista, dall’aria, l’udito, dall’acqua, il movimento e dalla terra, il
suo passo fermo. E come gli elementi tengono insieme il mondo, così sono essi a dare forma e
tenere insieme l’organismo dell’uomo.

Gli elementi nella loro struttura, che li porta ad espandersi e diffondersi nei compiti della loro
funzione, “gli uffici”, come li chiama Ildegarda, operano in tal modo nell’uomo da farlo esistere e
funzionare come un insieme saldamente strutturato e finalizzato. Così come nella natura lo sono gli
elementi stessi, la loro sostanza e il loro campo di azione. Un piccolo esempio: “Lo stomaco è
luogo dell’apertura per il mondo ed è capace del mondo (= capax mundi), atto a prendere in sé il
mondo, perché è capace di ricevere gli elementi per nutrirsene. Da parte sua, l’universo è come
uno stomaco gigante, che, fino a che abbia vita, filtra le materie del mondo attraverso noi stessi.
Attraverso lo stomaco, l’uomo fa proprie le energie intime delle creature e le ridà fuori di sé per
mantenersi in vita e anche per trovarsi in continua corrispondenza con la sua fine”.

All’inizio della vita del Paradiso, cibo e bevanda erano uno scambio di elementi, un dialogo
cosmico, un rapporto con il mondo. Ora, dopo il primo peccato dell’uomo, cibo e bevanda servono
a restaurare le sue forze. Così all’uomo è continuamente ricordato nel suo corpo della sua origine,
della sua debolezza e che dipende dalle altre creature; è ricordato anche della sua situazione di

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dipendenza, in quanto “uomo destituito”. In questo modo, Ildegarda collega le funzioni fisiologiche
dell’uomo ai rapporti cosmobiologici con la natura, che poi nell’uomo si manifestano come realtà
dell’anima, realtà psicologiche.

L’armonia per il corpo, nel corpo e del corpo con il cosmo: tra il corpo umano nel suo schema
elementare, capo, petto, ventre, membra, e le sue funzioni organiche da una parte e la costituzione
dell’universo e quanto in esso accade dall’altra, c’è, secondo Ildegarda, un’analogia di vasto
respiro. Tra la cassa toracica dell’uomo e l’atmosfera, Ildegarda riscontra la seguente analogia: i
polmoni sono la congiunzione, la comunicazione, con la ragione, i reni, con la fecondità della terra,
il fegato, con la sensibilità, la sensitività; la bocca è la portatrice della voce e del suono, le orecchie,
come due ali, fanno entrare ed uscire ogni voce, gli occhi sono strade per gli uomini. Il naso
corrisponde all’aria, comunica il gusto e opera come organo della sapienza, perché l’uomo sappia
orientarsi nel mondo, come anche perché sappia tenersi lontano da ciò che in esso può nuocergli:
per questo simboleggia l’ordine della natura e della cultura. I piedi corrispondono ai fiumi, essi
portano gli uomini attraverso il corso della loro esistenza. Così lo schema elementare del corpo è
posto in rapporto con le forze della natura.

Ci può forse sembrare un gioco, ma Ildegarda vuole continuamente farci sentire quanto siamo
collegati all’universo; come la nostra vita non è una vita singola, che esiste solo per se stessa, ma
per comunicare tra noi e con l’universo. Non c’è separazione tra il cuore dell’uomo e quanto è
costituito dalla materia e neppure tra quanto l’uomo pensa e si propone nel suo intimo e quello che
realizza esternamente. L’uomo, anima e corpo, con entrambi è sempre in azione. Il cuore è la sede
della viridità, questo vigore dell’anima. L’anima stessa opera in ogni parte del corpo, L’uomo esiste
con il corpo, con il quale realizza l’organizzazione delle facoltà dei sensi. Il corpo, per così dire, è il
luogo dove si realizza l’integrazione di quanto proviene dalla materia. Ci fa partecipi del mondo, dà
esistenza, concretizza la vita e fornisce allo spirito, per mezzo dei sensi, materia di conoscenza. In
un certo senso, ci rende avvertibili ai sensi sia il termine che il fine delle creature e del creato, per
arrivare allo spirito dell’uomo. Tutto il mondo vuole arrivare al nostro spirito e ci arriva attraverso i
sensi del nostro corpo. Quindi, all’apice c’è lo spirito, il corpo è in mezzo e tutt’intorno, c’è il
mondo e tutto quello che Dio ci ha messo innanzi, perché lo conoscessimo, ce ne servissimo, lo
avvertissimo e ne traessimo insegnamento.

Come risposta ad una domanda sulle fonti di cui si serviva Ildegarda

Ildegarda non cita mai, però, è straordinaria la conoscenza che dimostra dei Padri della Chiesa,
Agostino, Ambrogio, Gregorio, Leone Magno, Anselmo d’Aosta e pure degli autori a lei
contemporanei, forse conosce anche Boezio. Per quanto riguarda la medicina, lei non fa altro che
trasporre in un campo morale o spirituale le dottrine d’Ippocrate, che erano conosciute al tempo
d’Ildegarda, ma non si può affermare che Ildegarda abbia letto una data opera, senza poter
affermare che abbia avuto accesso ad una certa biblioteca, dove erano conservate le opere
d’Ippocrate. Nonostante le ricerche fatte, non è stato possibile rintracciare tali opere. Conosce
l’autore Costantino Africano, morto nel 1087 circa, monaco benedettino, forse arabo, di origine
musulmana, che aveva tradotto opere mediche dall’arabo. Però, finora non sono riuscita a trovarne i
manoscritti! Si sa, tuttavia, che Ildegarda fece venire sul Rupertsberg degli ebrei, “per porre delle
domande”. Gli ebrei avevano delle opere d’Ippocrate tradotti in arabo ad opera di un certo Isaac nel
IX secolo. Ci possiamo formare delle ipotesi, chiedendoci se, per esempio, ne parlavano quegli
ebrei venuti da Ildegarda, ma non troviamo delle conferme.

Ildegarda stessa dice di non conoscere il latino, però che aveva le sue visioni in latino, che scriveva
e che non aveva mai permesso che fossero corretti i suoi scritti, se non le desinenze. Infatti quando
quel giovane monaco, Wollmar, era per un certo periodo il suo segretario a Rupertsberg, Ildegarda

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disse che non gli aveva mai permesso di correggere nulla. Lei scrive in un latino difficilissimo da
tradurre, non scorretto, ma intricato e denso di pensiero.

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LA FRATTURA DELL’ARMONIA : (PECCATO, MALATTIA,
DEPRESSIONE)

19 NOVEMBRE 2001 Sr. ANGELA CARLEVARIS, osb

Bisogna dire che Ildegarda non ci dà tanto una ricetta per guarire le malattie, soprattutto la
depressione, che è all’origine di tante malattie, ma piuttosto ci dà delle indicazioni e il risultato di
queste indicazioni dipende dall’uso che ne facciamo. Quest’uso costa costanza e forza di volontà.
Forse l’idea principale, ciò che Ildegarda vuole dirci, è quanto sia importante l’interdipendenza, la
relazione, che c’è nel mondo tra gli uomini e il corpo umano. Muovendoci o agendo, siamo sempre
in rapporto con altre cose o persone. C’è un senso di rispetto, ma anche di dipendenza. Non
possiamo tutto, perché siamo dipendenti.

Ricomincio parlando dei quattro elementi, perché, parlando dei singoli elementi, Ildegarda mette in
rilievo quanto anch’essi sono interdipendenti l’uno dall’altro. Dice: “Il fuoco accende l’aria, la
domina; l’aria, però, in quanto elemento più vicino, lo fa divampare, come fosse un mantice, lo
tempera. Il fuoco è, in un certo qual modo, il corpo dell’aria e l’aria, come le viscere oleari, o le
penne, del fuoco. Come il corpo non esiste senza viscere, così non esiste il fuoco senza l’aria,
perché l’aria è la forza motrice del fuoco. Nessun fuoco brucerebbe o potrebbe essere acceso,
senza l’aria. Ancora, il fuoco è l’ardore e il calore dell’acqua e la fa fluire. L’acqua non potrebbe
essere fluida e scorrere via, al contrario, sarebbe più compatta e più forte, come ferro e acciaio, se
non fosse compenetrata dal calore. Come ciò sarebbe, ce lo possiamo immaginare, osservando il
ghiaccio. L’acqua è la sostanza che raffredda il fuoco ed è più forte del fuoco, in quanto può
spegnerlo. Al principio della Creazione, l’acqua era fredda e nel tempo in cui la terra era deserta e
vuota, non aveva correnti, ma lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque e le riscaldava, per fare avere
in sé il fuoco e perché, liquefatte, potessero scorrere da ogni parte. L’acqua, in quanto fredda,
respinge naturalmente via da sé il calore e per questo comincia a bollire. L’acqua infatti ha in sé il
fuoco e il fuoco ha in sé per natura anche la freddezza dell’acqua”. Non vanno presi questi concetti
precisamente da un punto di vista scientifico, ma la spiegazione che Ildegarda vuole darci ci farebbe
comprendere che anche gli elementi dipendono l’uno dall’altro. “L’aria poi e il vento sono un aiuto
per l’acqua, come pure sono un aiuto e un freno per il fuoco e così si può tenere la corrente
dell’acqua in un giusto rapporto. Infatti, se l’acqua non fosse in un giusto rapporto e nel giusto
corso, strariperebbe senza misura e sommergerebbe ogni cosa dove potesse arrivare. Da parte sua,
l’acqua fa sì che l’aria sia mobile e più atta a volare, la rende più fruttifera con la sua umidità, con
la quale presta da parte sua fecondità alla terra, in quanta l’irrora con la rugiada. L’aria è il
mantello della terra, perché la protegge dal calore e dal freddo, temperando le condizioni
climatiche dell’atmosfera e irrigando la terra, che bagna con la rugiada. La terra è, per così dire,
una spugna, è una sostanza fondamentale, che aspira e inghiotte la fecondità dell’aria. Se non ci
fosse la terra, l’aria non potrebbe portare a termine il suo compito e fecondare la terra. L’acqua da
parte sua opera la coagulazione della terra. La collega, la connette, cosicché non si disperda né da
una parte né dall’altra. La terra assorbe per questo l’acqua, la trattiene, la spinge in giusta
direzione e fa sì che in superficie segua il suo giusto corso e sottoterra abbia un livello conveniente.
Nelle profondità sotterranee, l’acqua è nell’oscurità, in superficie, invece, in limiti ben definiti”.

Quattro elementi, quattro umori


Ildegarda ci spiega lo stato attuale di questi umori: “Gustato il male, il sangue dei figli di Adamo si
trasformò in una spugna velenosa, dalla quale vengono generati i figli degli uomini, per questo, la

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loro carne è in principio ulcerata. E questi punti ulcerosi sono gli accessi aperti che permettono
un’entrata violenta e una formazione di fumo umido nel corpo, dal quale si sviluppa, coagulandosi,
la materia del flemma. Il flemma poi è la causa delle diverse malattie dell’organismo umano. I
quattro umori sono: il flemma, a cui corrisponde l’acqua, che è freddo, il sangue, a cui corrisponde
l’aria, che è umido, la bile, a cui corrisponde il fuoco, che è caldo e la bile nera, a cui corrisponde
la terra, che è secca. A questi quattro umori corrispondono le quattro stagioni. Al flemma,
l’inverno, al sangue, la primavera, alla bile, l’estate, alla bile nera, l’autunno”. Tutti gli elementi
entrano nella combinazione delle stagioni. Freddo e umido, per Ildegarda, è l’inverno, umido e
caldo, la primavera, caldo e secco, l’estate, secco è freddo l’autunno.

L’imperfezione del flemma, dice Ildegarda, è la conseguenza di quel primo male, che l’uomo operò
all’inizio. Vale a dire: se Adamo fosse rimasto in paradiso, avrebbe goduto di un’invidiabile salute,
nel luogo migliore che ci sia. “…come il balsamo con intenso profumo effonde dappertutto un
odore gradevole. Ma perché è successo proprio il contrario, l’uomo porta ora in sé il veleno e la
materia del flemma e con ciò la possibilità di ogni specie di malattia”. Tutti gli uomini hanno da
soffrire di varie malattie e ciò ha il suo motivo nel flemma, che in essi è in quantità maggiore del
necessario. Se l’uomo fosse rimasto in paradiso, non avrebbe avuto nel suo organismo questa
materia, dalla quale ha origine tanta sofferenza e la sua carne sarebbe rimasta intatta, senza essere
infetta da questo muco. “Ma poiché egli si era inteso con il male e lo preferì al bene, ritornò ad
essere uguale alla terra, da cui era stato formato, la quale produce erbe buone e dannose e
nasconde in sé umidità ed umori buoni e cattivi”.

La malattia secondo Ildegarda


Salute e malattia vengono opposte da Ildegarda nella visione della temporaneità dell’esistenza
umana, che porta l’impronta della fede nell’opera creatrice e redentrice del mondo e dell’uomo,
opera che Dio, alla fine, porterà a perfezione. Abbiamo già accennato alle tre denominazioni che
Ildegarda dà dell’uomo: “costitutus, destitutus, restitutus”. Nelle sue opere sulle scienze naturali e
la medicina, Ildegarda interpreta salute e malattia secondo l’antico insegnamento degli elementi
della patologia umorale. In questo modo può spiegare la malattia dal punto di vista biologico in
quanto si serve di dati naturali, semplici, e di condizioni che rispondono a leggi determinate. Una
perfetta armonia tra gli umori dell’organismo umano con le qualità degli elementi non è più
possibile per l’uomo. La causa ultima resiede nella perdita dello stato primitivo della luminosità del
corpo umano.

Il corpo che ha perduto la perfezione originale può essere al servizio dell’anima, ma solo
imperfettamente. La natura originale, tutta luce, non è solo la physis, la natura, secondo gli
insegnamenti degli antichi sul cosmo, ma è intesa da Ildegarda come la natura assunta da Cristo, il
sole della giustizia. L’uomo, nella sua struttura corporea, ha il suo posto nella storia della salvezza e
della decadenza. Solo assunto sotto la visione cristiana della storia, Ildegarda ne interpreta l’essenza
e l’esistenza. Nel suo stato di salute fisiologica originario, l’uomo è l’uomo “costituito, fatto da
Dio”, nella sua costituzione prima, l’uomo della genitura mistica. L’uomo dell’origine aveva a sua
disposizione una natura gloriosa. Al suo corpo, che aveva una natura di luce, stava a disposizione il
cosmo. Il suo rapporto con il cosmo era senza impedimenti. Ma l’uomo è venuto meno al suo
compito cosmico. Ha perso, come punto di riferimento, Dio e, con questo, anche il vero rapporto
con il cosmo.

Le conseguenze coinvolgono anche la salute fisica dell’uomo, a cui danno anche un carattere
cosmico. Ildegarda, a questo proposito, nota che con il peccato originale cominciò anche il tempo,
perché da quando c’è il tempo, viene annunziato un inizio e quando viene annunziato un inizio,
viene annunziato per ogni cosa terrena anche la sua fine. Quindi, ogni uomo che nasce nel tempo è

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destinato a finire e questo, senza scampo. Con il peccato, il firmamento cominciò a mettersi in
moto, purificando gli elementi e facendo scorrere il tempo, il quale, come detto, da allora volge alla
sua fine. La materia viene avvolta da un’oscurità inspiegabile e non mostra più con chiarezza il suo
essere. Forze cosmiche entrano nel sistemo degli umori dell’uomo per mezzo dei venti e influiscono
negativamente al suo comportamento fisico e morale. L’uomo si ribella alla natura, distrugge
l’equilibrio cosmico, fragile, segnato dalla morte. Per aver mancato alla sua missione, è diventato
un essere biologico difettoso. Mette in confusione quello che è la sua opera ed è manchevole nel suo
essere, nel suo pensare, nel suo parlare e nel suo agire e perde di freschezza e di vivacità. Come
homo destitutus, l'uomo che ha perduto l'ordinamento voluto da Dio, ha un’esistenza piena di
preoccupazioni e di angoscia. La malattia di questo uomo “destituto”, in paragone alla sua natura
originaria, è una deficienza: all’uomo manca sempre qualche cosa, è un deficit ontologico, non è
una malattia vera e propria, ma uno sviluppo manchevole, che corrisponde, a poco a poco, ad una
forma di distruzione: finiamo tutti con la morte.

Con la definizione escatologica di uomo “restituito”, si viene a trattare il carattere dell’uomo giunto
a salvezza e salute, all’integrità. La ricostituzione dell’uomo è uno stato di salvezza e salute, dono
di Dio, che può giungere a una relativa perfezione. Spiritualmente, diremmo, a una perfezione
assoluta, in Cristo. La restitutio mette l’uomo in relazione con l’incarnazione di Gesù Cristo.

Com’era intesa la medicina nel Medioevo latino?


La scienza medica viene intesa come medicina teorica e pratica. Fa parte dell’insegnamento della
Scuola di Salerno, la prima università del Medioevo. Questa scuola è stata fondata da Costantino
Africano dopo il 1000. Con la teoria si intende l’avviamento allo studio della teoria, che non va mai
separata dalla pratica. La medicina si divide in due parti, teorica e pratica, così già si dicevano gli
studiosi arabi. In parte, queste dottrine si riportano anche a Galeno, nella sua arte della medicina.
Alla filosofia del tempo, viene ad unirsi il sapere greco con quello arabo e accanto a Platone ed
Aristotele ritornano gli insegnamenti dei Presocratici e degli Atomisti.

La dimensione personale nella medicina


Già nei tempi prima di Cristo, al centro della scienza medica veniva posto il rispetto e la dignità
della persona, a cui obbligava il giuramento di Ippocrate. “In ogni casa nella quale io verrò a
trovarmi, entrerò a vantaggio dei malati, libero in coscienza di ogni ingiustizia e malfatto, in
particolare di ogni abuso di uomini e donne, di liberi e schiavi”. Così, già nel III secolo a.C.,
Ippocrate non fa differenza tra liberi e schiavi, mentre nel Codice giustinianeo, nel VI secolo d.C.,
solo l’uomo libero ha il diritto di persona, a differenza dello schiavo. L’uomo è anima, che ha preso
un corpo, un corpo animato, fornito di anima. L’uomo ha un valore in sé, al quale non si può in
nessun modo rinunciare, né egli in sé, né nel suo rapporto con gli altri, indipendentemente dal suo
rendimento e delle sue qualità. Un uomo è un uomo, mai un “caso interessante”.

Inseparabile dalla dignità dell’uomo è la sua responsabilità, unicità e insostituibilità della persona.
L’uomo porta di conseguenza una responsabilità morale insostituibile. Come persona è in primo
luogo responsabile della sua salute e della sua guarigione in caso di malattia. Nel suo essere anima e
corpo è fondamentale, non solo la sua propria individualità, ma anche il suo rapporto dialogico con
gli altri, con il mondo, con la comunità. L’aspetto dialogico è da mettersi in relazione con la
comprensione di ciò che è la persona. Ogni agire o non agire dell’uomo ha direttamente o
indirettamente un influsso sugli altri. La dimensione antropologica della personalità prende in
considerazione anche gli altri e porta alla solidarietà. L’antropologia cristiana intende la persona dal
punto di vista del rapporto con Dio. Il suo concetto di persona include il rapporto dell’uomo con
Dio. Non c’è, quindi, attività medica che non comporti una dimensione divina.

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Il peccato non viene considerato in primo luogo sotto il punto di vista della morale. Vengono fatte
altre considerazioni che servono per spiegare anche questo aspetto. Dio è l’essere in sé, per sé.
Quanto viene da lui, n’è diventato in un certo senso partecipe. Esiste. Dio ha chiamato all’esistenza
il mondo e ogni creatura e tutto quanto egli ha creato era buono, molto buono. Il più bello degli
spiriti creati, quello che eccelleva, Lucifero, volle essere qualcosa di altro, volle divenire pari a Dio.
Aver un proprio ordine e un proprio regno. Ma Dio è il tutto e tutto viene da lui; non vi può essere
nulla se non da lui e per lui, perché egli solo possiede l’essere. Quello che Dio non vuole, non è,
non ha l’essere, è il niente.

Sia il peccato originale di Adamo ed Eva, sia il primo peccato, quello di Lucifero, è un concetto di
quale Ildegarda sempre si rifà perché è l’inizio della storia dell’uomo. Adamo ed Eva vengono
ingannati da questo angelo che, con la menzogna, promise che essi sarebbero diventati quello che
egli aveva voluto per sé e che non aveva potuto raggiungere. Anch’essi, perciò, stesero la loro mano
a quanto non era per loro e annullarono la perfezione, l’armonia, della loro persona e della loro
vita. Anch’essi gustarono, letteralmente, il nulla. Volere quello che non è per noi, è il male. Questo
è il peccato, un nulla che distrugge, perché promette, a chi lo fa, qualcosa che non risponde alla sua
natura, che non è secondo quello che Dio ha voluto per quella determinata natura. Per l’uomo, c’è il
male, quando egli usa quanto non risponde alle esigenza del suo essere e alla sue finalità. Perché
ogni cosa che gli è stato data ha un determinato compito e determinate qualità, che l’uomo può
usare e che possono servirgli.

Il male non voluto da Dio ha la sua realtà nella distruzione dell’uomo che lo compie, a danno del
proprio essere e a danno di quello degli altri. Nessuno compie il male solo per sé, ma in un certo
senso infetta anche gli altri, o almeno li mette in grande difficoltà. Soltanto una creatura che abbia
la libertà, solo l’uomo, può fare il male. Fa il male, chi volontariamente agisce contro la propria
natura, in senso lato, o quello degli altri, a proprio scopo. Il male, come, del resto, anche il bene,
può essere fatto solo dall’uomo. Abbiamo già detto molte volte quanto Ildegarda insista sul fatto
che: “Tu, l’uomo, hai la scienza del bene e del male e tu sei posto al bivio e puoi scegliere, tu
solo”.

La malattia viene trattata nel Medioevo e quindi anche da Ildegarda nel quadro della creazione,
nella quale è considerato l'uomo, sano o malato che sia. Egli è una creatura ed è visto nella sua
dipendenza in quanto creatura. Solo così l’uomo può comprendere se stesso, nella sua dipendenza
dal mondo e nella sua esperienza di vita. Non si può considerarlo isolato in se stesso, perché ad
essere in se stesso c’è solo Dio. La storia della creazione da parte di Dio e la rivelazione dell’Antico
Testamento è un mistero. Ildegarda tratta questo mistero secondo la tradizione patristica, dandovi
un proprio accento. Lo descrive secondo la vita della Trinità. Per lei, Dio trinitario è la chiave per
comprendere tutto il creato. “Per tutta l’eternità Dio Padre porta nel suo cuore il piano della
Creazione. Il Verbo di Dio la realizza, il soffio dello Spirito Santo dà al Verbo la veste della
redenzione”.

L’unità nella Trinità


In principio c’è l’unità.” Tutte le creature”, dice in una lettera, “furono prima del tempo in Dio
Padre. Egli li aveva ordinato in sé e poi il Figlio li tradusse in atto. Dio aveva presso di sé davanti
ai suoi occhi tutte le creature come una luce, Solo quando egli pronunciò il fiat essi si rivestirono di
un corpo. Tutta la creazione sorge della pienezza della definitiva decisione di Dio e ogni creatura
si riferisce all’uomo, perché egli, l’uomo, è il cuore del mondo. Ogni creatura, per quanto piccola e
nascosta, porta in sé le tracce della Trinità”.

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Quando s’inizia la trattazione del tema della malattia, ci si presenta immediatamente la domanda
sull’origine del male, o meglio, del dolore. Perché e da dove? Perché, se è vita, è vita e malattia?
Come è entrato il male nel mondo e quale n’è la radice? Questo l’abbiamo detto; Ildegarda dà le sue
risposte a riguardo del male e quali sono le cause ultime dell’essere malati. Il male non ha un essere,
perché non è stato creato, è semplicemente un danno. Ogni danno a cose o a persone si manifesta
come una perdita di essere, così anche la malattia è una perdita del proprio essere, un nulla. E come
nessun danno è qualcosa di creativo, così pure la malattia è qualcosa che indebolisce e si manifesta
come ciò che toglie, diminuisce, è una rinuncia, un annullarsi. Il fatto patologico si afferma sempre
come un prendere parte al nulla, senza qualità positive e senza sostrato. Non ha nessuna causa
costituente, solo una causa deficiente.

Come si potrebbe comprendere effettivamente questa causa? Quel che lo promuove è, rispetto al
corpo umano, qualcosa di negativo. La sua natura è mancanza, errore, deficienza, decadenza,
caduta, deperimento, declino. Un essere minorato che si minora e si riduce a meno, in tutti i casi,
una distruzione. Così per Ildegarda, la malattia appare sotto l‘aspetto del vuoto, dell’arido, di una
confisca, una decadenza, di un dover essere che non è giunto al suo fine, un essere di meno di
quello che dovrebbe essere, una mancanza di quelle che sono le caratteristiche della vita. La
malattia, per Ildegarda, significa una mancanza di vero sviluppo, una deficienza, un rimanere
indietro, un non avere luogo. La malattia non segna un processo, ma solo una disintegrazione
dell’essere e il fatto che la vita possa distruggersi è sempre un mistero. Riguardo alla genesi delle
malattie, Ildegarda prende posizione non da una tara della materia o di una colpa del malato. Dio
nella sua paterna bontà creò solo quanto è buono. La volontà di essere libero, sbagliando nella sua
scelta, si ribella e cade nel nulla. Questa è la superbia, quel volere di ciò che non è. La superbia è
l’affermazione di un opinione ostinata e riottosa, che prende in considerazione soltanto se stessa e
non pone fiducia in niente. L’uomo, se vuole essere uomo, è sempre in relazione, una buona
relazione. La superbia vuole sempre quello che Dio non vuole e crede sempre e solo quello che lei
stessa ha fissato. È cupa, oscura, perché rifiuta la luce della verità ed incomincia quanto non potrà
mai portare a termine. Per questo è in sé nulla, perché non è stata creata e non è stata fatta da Dio.
Lei si è creata, lo conferma la sua esistenza, solo nel guardare un altro, nel porre fiducia, mentre il
tenere in considerazione soltanto se stessi è l’immagine di quanto estirpa e distrugge ogni valore,
spirituale e biologico. Quanto avviene nel cosmo è sempre in relazione e rapporto scambievole con
il tutto. “Liberi” significa essere in relazione.

Ogni creatura per questo deve guardare al suo Creatore, non porre la sua ambizione esclusivamente
alla conquista di una piccola gloria personale, di un vantaggio personale. Nello Scivias, l’inizio
della ribellione trova la sua espressione nel volgere via lo sguardo. Ildegarda vede una grande stella,
Lucifero, che non vuol più guardare Dio. Nel momento in cui non vuol più guardare Dio, si estingue
e, da stella lucentissima che era, si trasforma in nero carbone. L’uomo non può avere un dono
perfetto di sé e da sé, deve riceverlo sempre da un altro. Solo quando impara a conoscere il dono
della gioia che proviene dall’altro e della gioia di donare ad un altro, “…prova giubilo ardente nel
cuore”, così dice Ildegarda nel Libro delle opere di Dio. L’essere dotato di ragione non esce fuori
da sé, non guarda a sé, non ha mai come fine se stesso. La ragione rivolge il suo canto di lode
sempre ad un altro. Per questo il suo canto è per un altro, la sua luce si riflette sempre su di un altro.
Lucifero vuole risuonare per se stesso, non per un altro ed è stato tagliato fuori, lontano dall’essere
divino. Non può più cantare.

Senza necessaria conoscenza e senza tener contro delle altre creature, egli volle costruire il suo
proprio regno al settentrione, lontano da Dio, ma Dio lo colpì, creando dal fango un essere fornito di
anima e corpo, un’unità, e proprio il corpo, con cui Lucifero aveva pensato di allettare l’uomo,
diventa l’esca che lo prenderà prigioniero. Ildegarda pensa a Cristo. L’inganno a Lucifero è riuscito

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e la storia della sua caduta è il tema della storia del mondo. L’opera di Dio, che lo ha cacciato dal
paradiso, già ci ha diviso in terra. Ma attraverso quanto è stato diviso scorre la linea della salvezza.
Il paradiso resta e rimane intatto nella sua luminosità. Tra l’essere e il non essere c’è il ponte e il
punto di contatto. Quello che è, è buono, vitale, attivo, fecondo. Quello che non è, è male in sé,
perdita, morte e vanità. La tendenza di distruggersi da sé è al tempo stesso il castigo per la ribellione
a Dio. E questo lo possiamo forse vedere nella storia.

La depressione, la malinconia
Un semplice umore del corpo, la bile nera, il quarto umore, in quanto non ha origine dal verde e da
tutto ciò che è vita, che non ha origine nella vita e che non ha in sé forza ed energia, fa decadere il
corpo nell’aridità, nello stato di impoverimento, di secchezza, in cui manca quanto alimenta la vita,
e lo fa ammalare. Ecco la conseguenza, la melanconia, nel senso originale della parola, in greco,
melas, nero, kholé, bile, qualcosa che stringe, angoscia, agonia. Con ciò, si intende che in questa
condizione di aridità, venga emessa una secrezione corporea con conseguenze negative. Si tratta di
uno stato completamente diverso dall’integrità, dall’interezza originaria, dalla viridità. Partendo
dall’originaria primitiva integrità del mondo, Ildegarda sviluppa una serie di paragoni. Mentre il
primitivo stato con la costituzione del mondo indica la perfezione della forma dell’uomo, la
perfezione del suo genere di vita, lo stato attuale si riferisce a tutte le degenerazioni e deformazioni
che sono le conseguenze della caduta, attraverso le quali, però, comincia già a realizzarsi lo stato
finale di rigenerazione, di nuova formazione, di riparazione, che allude all’integrità finale e la
prepara.

Nella sua trattazione che Ildegarda ne fa nella sua opera di scienze naturali e medicina, ogni tema
viene presentato con un’immagine che lo illustra in generale e poi minuziosamente lo tratta in
particolare. Ildegarda ci dà un modello di spiegazione dell’origine della malattia dal peccato, da una
natura indebolita e falsata dal peccato, della conseguente frattura spirituale e delle correlazioni
psicofisiche corrispondenti. Poiché l’uomo è anima e corpo, anche la malattia non è soltanto
malattia del corpo, c’è sempre un rapporto corpo-anima. Poiché Adamo conosceva il bene ma fece
il male, cadde in contraddizione e incorse nella melanconia. Questa iniziale catena di reazioni
affettive era sorta in un momento ed ebbe come effetto un cambiamento fisico generale e pieno di
conseguenze. Il succo della bile divenne scuro, nero, mentre prima aveva lo splendore dell’aurora.
La bile, che era come cristallo, lucente, si oscurò. Da allora la melanconia è il sostrato organico di
ogni patogenesi, è l’origine di ogni malattia all’interno dell’organismo, che è diventato fragile. Nei
suoi stati d’animo l’uomo è incerto tra il fare e lasciar fare, ogni cambiamento suscita in lui
incertezza, molte volte riluttanza, e in questo stato cresce la disposizione del fisico alla malattia.
Questo dissenso, disaccordo, senso di fastidio, è il terreno, la base, il principio di ogni minaccia per
la salute.

Quando Adamo riconobbe il bene e tuttavia volle gustare la mela e fece il male, a causa di questo
cambiò di direzione nella sua scelta e si sviluppò la bile nera, che non ci sarebbe stata nell’uomo
senza l’influsso diabolico, Tristezza e disperazione hanno origine da questa melanconia, che Adamo
provò nella sua prima trasgressione. Nel momento in cui Adamo trasgredì l’ordine di Dio, si
coagulò nel suo sangue la bile nera e ciò accadde come quando appena viene spenta la lampada o la
candela, che è la sorgente di luce, il chiarore scompare e quel che rimane è solo un lucignolo
incandescente con la sua puzza. Così accade con Adamo quando si spense in lui il suo splendore. La
bile nera si coagulò nel suo sangue e da lì sorse tristezza e disperazione, perché il diavolo spirò in
Adamo nella sua caduta questa melanconia, con la quale gli uomini furono resi dubbiosi, mutevoli,
incerti.

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Ma poiché l’uomo è così legato al suo corpo, che non ne può uscire del tutto, malgrado la
melanconia, teme ancora Dio ed è triste perché non è in rapporto con lui e qualche volta finisce con
disperarsi, oppure non vuole più credere in Dio e non pensa che Dio continua a tenerlo sotto il suo
sguardo, ma poiché anche formato ad immagine di Dio, egli non può fare a meno di essere timorato
di Dio e non è sempre una facile preda per il negatore d Dio, la cui arte seduttrice si volge all’uomo,
proprio nella melanconia. Quando egli è in una condizione incerta, instabile, allora essa cerca di far
sì che la direzione vada opposta alla parte del bene. Per cui l’uomo viene ridotto alla disperazione,
si logora la salute, si snerva completamente, mentre ci sono degli altri, che di fronte a queste
situazioni, combattono da valorosi. “Così”, dice Ildegarda, “l’uomo è tormentato a causa della
melanconia da sveglio e nel sonno. Se l’anima avverte che qualcosa è spiacevole o dannoso per sé
o per il corpo, il cuore, il fegato e il sistema vascolare si contraggono e si forma e si innalza
intorno al cuore una specie di nebbia, che oscura il cuore”.

L’uomo cade in una specie di turbamento, in una confusione e dalla tristezza s’innalza l’ira, la
reazione irragionevole di fronte a cose o persone. Da questa tristezza e dalla nebbia che essa
produce viene attaccata la bile e anche gli altri umori. La bile messa in movimento fa sì che
dall’amarezza sua venga a formarsi l’ira, prima, silenziosamente e se l’uomo non dà all’ira la
possibilità di manifestarsi, ma sopporta in silenzio, allora anche la bile cade e ritorna allo stato
normale. Ildegarda insiste molto che questi movimenti che sentiamo, di ira, di malcontento, di
cattivo umore, se ce ne accorgiamo e li freniamo, come lo possiamo fare, se agiamo subito e se ci
abituiamo a farlo, allora non avranno nessun effetto sul corpo. Ma se noi lasciamo a questi primi
movimenti libero corso, la bile nera, messa in azione, si sviluppa e intacca altri organi, e così via,
sicché da un movimento puramente affettivo, ne nasce poi un turbamento fisico. Questo emette una
nebbia nerissima e si comunica alla bile e preme fuori da essa un vapore estremamente amaro.
Questo vapore sale fino al cervello dell’uomo ed entrambi gli rendono confuse le idee, poi scendono
fino al ventre, muovono i vasi sanguini, le viscere e lasciano l’uomo colpito in tutto il suo
organismo.

Così l’uomo non è più padrone dei suoi sensi. Dà completo sfogo ai suoi affetti, all’ira, per
esempio, finché egli esce fuori di senno e compie violenze; l’uomo esce dal senno più a causa
dell’ira, che per ogni altro motivo. A causa di quest’ira, l’uomo può cadere in gravi malattie, perché
gli umori, opposti alla bile nera per i troppi frequenti stati di agitazione, finiscono con farlo
ammalare. Egli non può rimanere in piena salute. L’uomo è visto da Ildegarda come lo è in realtà,
come opera di Dio, ma “destituita”, il figlio perduto, che ritorna. In quanto può agire e lavorare, se,
lavorando si rivolge a Dio e lo chiama e lo prega, Dio l’aiuta. Dice Ildegarda: ”Ricordati, lavora
moderatamente. Ricordati che non hai la possibilità di ‘fare’ l’uomo, di agire secondo il tuo parere
sull’uomo. Devi osservare la legge interna, che regola la tua vita”. Raccomanda la moderazione
nell’agire, di agire secondo le proprie forze. “Prega Dio con mitezza, con amore e dedizione,
affinché egli ti dia il meglio. Questo piace a Dio di più: che tu, triste ed afflitto, non finisca di
rivolgergli preghiere e di lavorare senza posa. Dio faccia di te un tempio della vita”.

Il movimento dell’anima ragionevole è l’opera del corpo con i suoi sensi, perché, dice Ildegarda,
“Tutto l’uomo è, anima e corpo. Il corpo e i sensi del corpo devono muoversi in pieno accordo con
l’anima, perché l’anima riceve dal corpo le sensazioni e non può fare a meno del corpo nel
tradurre queste sensazioni in pensieri intellettualmente o spiritualmente e il corpo può realizzarsi
soltanto se è sollecitato dall’anima. In questo modo vanno in pieno accordo con tutte le loro forze e
danno luce sia in alto che in basso. Tutto l’uomo viene illuminato in ogni sua opera se agisce
concordemente, anima e corpo. Questo è l’ottimo stile di vita dell’uomo che in verità è ben
educato”. Riflettendo su quello che Ildegarda dice sul rapporto tra l’anima e il corpo, notiamo che,

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secondo lei, il corpo non solo prende parte al movimento dell’anima, con la quale è in rapporto, ma
pure si sente partecipe di una responsabilità comune. La natura è indifferente all’anima, ma il corpo,
no. “Se l’anima non avesse questa conoscenza del bene e del male, questo ordine di valori non si
manifestasse negli ambiti corporei, allora il corpo sarebbe uno strumento messo a disposizione del
piacere. Sarebbe come un soffietto con il quale il fabbro non può incominciare il suo lavoro”.
Il corpo non è un semplice strumento, esso è in rapporto con l’anima e deve essere in accordo con
l’anima. Se il corpo agisse di per sé, come uno strumento, non ci sarebbe più l’uomo. Abbiamo
parlato della malattia, quando la reazione affettiva comincia, opera di un momento, e poi continua a
mettere in movimento tutto l’organismo. La melanconia è il sostrato di ogni affezione patologica
all’interno dell’organismo. Nella costituzione degli umori, l’uomo non è più capace di reggere il suo
corpo. Ogni cambiamento porta con sé un intimo malcontento e con questo fa crescere il male.
Questa intima discordia, questo malumore, è il fondamento dell’affezione fisica, come anche di un
danno spirituale. L’uomo allora ondeggia, tra l’incertezza e la fiducia, ha le sue ore improduttive e a
volte poi riprende il coraggio. Ma la situazione affettiva del momento può produrre una
disposizione, sia positiva che negativa. Ad esempio, qualcosa è mal riuscita: l’uomo si deprime,
s’irrita e senza accorgersene, quasi, s’irrita di più. Nel corso di questo movimento affettivo, perde il
suo equilibrio biologico, se non riesce a dominarsi e la sua situazione. Se continuano le condizioni
che possono aumentare la sua eccitazione, il suo stato peggiora sempre di più.

Quando le emozioni agiscono in lui, trovano la strada al fegato e al cuore, per lasciarvi i loro stimoli
e questi a loro volta rivolgono ai vari organi specifici e il circolo vizioso continua. La reazione
iniziata viene mantenuta da stimoli esterni; da riguardi sociali, può essere mitigata, può essere
soffocata, stimolata di nuovo dall’esterno e così avanti, se non si riesce a fermarsi al primo
momento. Poi, si arriva allo stato della malattia o della depressione, e allora la via di ritorno riesce
difficile. La persona può riprendere la padronanza di sé, stabilizzarsi psichicamente, ma con grande
difficoltà. Per questo è sempre meglio cominciare subito a porre un freno. Ildegarda dimostra con
saggezza e con acutezza come e con quali fasi si svolga il processo patologico. Per lei questo
processo non è considerato come un avvenimento, semplicemente come qualcosa che accade, ma
come un’omissione: andava fatto qualcosa che si è rifiutato di fare. È un rifiuto, un’azione mal
riuscita. Questo velo di tristezza, quasi una nebbia, che avvolge il cuore, stimola l’umore bilioso, la
bile attacca il cervello e provoca la confusione della coscienza. Si depositano sugli organi della
digestione, mettono sottosopra le viscere, e così l’uomo è attaccato dal capo ai piedi. Egli non si
riconosce più e fa cose di cui non si può più dire responsabile.

Tuttavia, una tale situazione succede solo se ci si lascia andare. Ildegarda insiste che bisogna avere
dominio su se stessi. Un dominio che non deve essere violento, perché non si deve fare nulla con
violenza, ma con dolcezza e ragionevolmente. Bisogna persuadersi, se si è capaci di farlo, che è un
bene. Può verificarsi anche il contrario, che un organo sia malato: questo fatto mette in azione la
parte intellettuale, spirituale, ma anche qui il rimedio è sempre lo stesso. Non è un rimedio che si
possa acquistare da qualche parte, è un rimedio che dobbiamo trovare in noi stessi. Ildegarda ci
mostra come gli affetti sono profondamente implicati nell’apparato del corpo e nel macchinario
della corporeità e l’interpreta in maniera del tutto positiva, come lo dimostra il canto dell’anima alla
carne: “Oh carne, e voi, mie membra, nelle quali ho la mia abitazione, io mi rallegro di cuore di
essere stata messa in voi, perché se voi sarete sempre d’accordo con me, mi porterete voi all’eterna
ricompensa”.

C’è un rimedio, dice Ildegarda, un rimedio spirituale, la contrizione. Alla contrizione viene dato
spesso dagli psicologi un valore negativo, come vigliaccheria, depressione, tendenza a tormentarsi,
e così via. Ma per Ildegarda, la contrizione è una forma di rigenerazione del mondo morale, che si
contrappone al suo continuo venir meno e alla sua decadenza. L’uomo nella contrizione si rende

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conto del suo limite, si rende conto di essere creatura e di dipendere da Dio e incomincia
timidamente, umilmente, a rimettersi in rapporto con lui. Si converte! La contrizione è la via della
conversione. Tutto va fatto però con misura, anche questo desiderio di conversione e di ritorno a
Dio, tutto va fatto nella fiducia in Dio, nella pace e tranquillamente. Ci si converte momento per
momento, finché si giunge a quella serenità, a quel giusto rapporto con Dio, che in parte è stato
aiutato dal giusto rapporto del corpo con l’anima. Ildegarda dice: “Noi siamo un mistero per noi
stessi, pur conoscendo tante cose. Prova te stesso e prostrati, come se non ti conoscessi, Dio non si
ferma in una casa che può sussistere di per sé. Ama di più quella che non presume di conoscersi e a
questa elargisce quanto c’è di meglio”.

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LA VIA DEL RITORNO ALL’ARMONIA ORIGINARIA

26 NOVEMBRE 2001 Sr. ANGELA CARLEVARIS, osb

“L’uomo creatura di Dio”: questa è forse la migliore definizione dell’uomo per Ildegarda, perché
ne definisce nello stesso tempo l’origine e preannuncia il fine. L’uomo viene da Dio e va a Dio.
Ildegarda darà altre definizioni dell’uomo, ma questa, penso, sia la definizione che più risponde a
quello che lei pensa e augura per l’uomo. L’uomo, secondo lei, è ogni creatura, che riassume in sé
ogni altra creatura. È l’opera eccellente di Dio, la sua opera perfetta, celeste e terrestre, angelica e
umana. Distruggere l’uomo è il male più grande che possa essere compiuto, è il fine di Lucifero,
che vuole essere come Dio, a cui Dio poi interpose un essere, che, a differenza di Lucifero, puro
spirito, riuniva in sé spirito e materia. L’inimicizia che Lucifero aveva per Dio la rivolse all’uomo, a
questa opera perfetta di Dio - si potrebbe dire – per vendicarsi di Dio. Il male, di cui Lucifero è
l’autore, ha un solo potere, quello di distruggere. È una forza distruttrice. Siamo spesso portati a
confondere il male con il dolore. Il dolore fa male, ma può condurre al bene. Il dolore è anche una
conseguenza del peccato originale, che ha distrutto l’armonia, ma ci può forse anche servire per il
bene.

Nell’uomo, opera di Dio, tutto si armonizzava, quando egli fu creato, prima del peccato. In lui e
attraverso lui si faceva l’armonia. Anche ora possiamo fare l’armonia in noi e intorno a noi. L’uomo
era in armonia perfetta in paradiso, nel paradiso perduto. Questo paradiso perduto può essere
riacquistato, almeno in parte. L’armonia è possibile, può incominciare qui, sulla terra, in noi, da noi,
per mezzo nostro: paradiso sulla terra. Gesù Cristo ce ne ha indicato la via: egli è Via, Verità, Vita.
Mi pare di aver parlato poco di Gesù Cristo, eppure è il centro di tutto l’insegnamento di Ildegarda.
Se c’è armonia, se c’è speranza, se c’è salvezza, tutto questo lo dobbiamo a Cristo Gesù. Ildegarda
ci indica Cristo nella nostra vita quotidiana, nella riconoscenza che si traduce in lode, perché
l’uomo può lodare Dio come l’angelo. Nel giusto uso delle sue creature, nei nostri rapporti umani,
nella responsabilità che abbiamo verso gli altri, in tutto questo noi facciamo armonia.

Vorrei dire qualcosa sul linguaggio simbolico che usa Ildegarda. È un modo di esprimersi per
enunciare quanto la parola sembra non poter esprimere. Anche la parola è un simbolo, perché indica
qualcosa. “Simbolo” è qualcosa che allude ad un'altra cosa, diversa da se stessa, quindi, anche la
parola è un simbolo. La parola parlata si completa in un simbolo, per diventare corporea. A volte,
quando vogliamo dire di una persona quante qualità eccellenti abbia, ci sembra che la parola non
basti, allora cerchiamo qualcosa di concreto per ciò che vogliamo dire. Nessun simbolo può tradursi
perfettamente con parole. Un vocabolario di simboli non può mai dirci perfettamente quello che un
simbolo significa. Simboli e parabole dicono di più di quello che si cerca di far dire loro. Entrambi
esprimono quanto non può essere altrimenti espresso. Un segno concreto, un simbolo, non è una
dimostrazione, come una parabola non è un paragone, ma viene illustrato con immagini in un
confronto che porta oltre. Il linguaggio simbolico, come già dissi altre volte, viene usato, sia perché
ogni cosa creata ha un valore simbolico, in quanto creatura che ci rimanda al Creatore, sia perché il
simbolo nella sua concretezza suscita in noi immagini svariate, ed è per questo che Ildegarda
incomincia le sue visioni, rappresentando simbolicamente quanto ha visto, o che ha visto in
simbolo. Poi, cerca di spiegarlo. Anche noi, se guardiamo alla sue miniature con attenzione, pur
conoscendo il valore che lei dà loro, vediamo che esse ci aprono una via ad altri pensieri, ad altre
considerazioni. È proprio questa la caratteristica del simbolo.

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Ritorniamo al tema. L’armonia originaria sarà raggiunta definitivamente solo alla fine. Sarà così
alla nostra fine e alla fine del mondo, alla fine dei tempi per tutti gli uomini che sono vissuti,
cercando Dio, o senza cercarlo, se non forse nell’ultimo istante della loro vita, per ogni singolo
uomo, quando sarà entrato in quella vera dimora, nella casa del Padre, che chiamiamo anche il
Paradiso. L’armonia finale è conquista e premio, si prepara quaggiù per gradi, che non hanno un
prima e un dopo, che possono esser successivi, ma spesso si sviluppano contemporaneamente. Più
che gradi di armonia, sono modi, di cui Ildegarda parla spesso. Questi modi si compenetrano
talmente che a volte riesce difficile distinguerli. Il primo segno dell’armonia iniziata è la
conversione. Se diciamo “conversione”, intendiamo con la parola un atto intimo, una decisione per
cui l’uomo, dallo stato in cui si trova e che sconfessa, perché non è buono, si volge a qualcosa
d’altro, dal peccato al bene. La conversione non finisce mai, perché è come una vita. Noi ci
muoviamo continuamente e siamo sempre mutevoli. La conversione è un ritorno alla casa del
Padre: pensiamo alla parabola del figlio prodigo. La conversione è un movimento interiore che
porta su un’altra via. Vivere, cercando solo se stessi, senza alcun rapporto con il Padre e facendo
uso cattivo dei beni da lui avuti, intelligenza, capacità diverse, forze, fino a perdere a poco a poco
tutti, è la via che porta lontano dalla meta.

Giungere a riconoscere i propri limiti e la propria dipendenza dal Padre è la via del ritorno, l’inizio
della conversione. E se si inizia una via, non è per poi fermarsi; la via non è la meta, è fatta per
andare avanti. Così la conversione non è di un momento unico. Tutta la nostra vita, se vogliamo
vivere davvero, è una conversione continua e ci volgiamo sempre dal nostro io a Dio. È meglio
cercare di farlo, quando ce ne accorgiamo. Accanto a questo conversione fondamentale, al
riconoscimento di se stessi come creatura dipendente da Dio e che deve rivolgersi a lui - è questo
l’inizio di un cambiamento di vita - c’è la conversione continua di ogni giorno, di ogni momento,
che si ripete e che, nella sua continuità, assicura la vitalità e insieme la realizzazione della
conversione iniziale. Giacché noi viviamo nel tempo, ad ogni istante lasciamo dietro a noi qualcosa
e ci protendiamo verso qualcosa che ci sta davanti, come ci dice l’Apostolo. Vediamo il presente,
cerchiamo di viverlo pienamente e in questo modo tendiamo alle cose future: nel presente
prepariamo il futuro. Quando parliamo della conversione, riconosciamo la possibilità di volgerci da
noi stessi a Dio, riconosciamo la chiamata che Dio ci fa, ci riconosciamo responsabili.
“Responsabilità” significa che mai l’uomo singolo debba considerarsi solo in sé; egli è sempre in
relazione, giacché risponde a una domanda che gli è stata posta. Chi deve rispondere, ha ricevuto
una domanda. Risposta e domanda, domanda e risposta formano una relazione, un rapporto.

L’uomo è sempre in relazione, da cui nessuno è escluso, c’è sempre una domanda e una risposta.
Chi si sente a volte solo, chi non ha nessuno attorno a sé, se tende l’orecchio sentirà anche lui una
domanda: c’è tanto da fare, anche lui deve rispondere, essere responsabile. L’uomo è responsabile
di se stesso e degli altri, ma “…come potreste essere responsabili per gli altri, se non lo siete in
primo luogo per voi stessi?” ci chiede Ildegarda. In che cosa consiste, come si articola la nostra
responsabilità, la nostra risposta, che giorno per giorno, momento per momento, noi viviamo? La
nostra responsabilità è in relazione con la domanda che ci viene fatta, richiede una risposta che
potrebbe aver forme diverse, a seconda del modo in cui è stata posta la domanda: un atto, un gesto,
una parola, un silenzio, la reazione non è mai meccanica, una reazione dev’essere sempre adeguata
alla domanda, chiara, semplice, tranquilla, nel miglior senso della parola, umana – e fatta con
discrezione. Il tono della domanda non è quello a cui sempre deve accordarsi il tono della risposta.
Dobbiamo saperci accordare, essere discreti, cioè discernere, come dobbiamo e come possiamo
rispondere. Rispondere in modo chiaro, cercando di riflettere, di non lasciarsi prendere dai
sentimenti, con rispetto e riguardo per l’altro, anche con energia, se necessario.

Tutto questo, se fatto al momento giusto e con il tono giusto, non è altro che amore. Abbiamo
spesso un’idea falsa dell’amore – l’amore è anche un sentimento. A volte il sentimento “sentito”

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manca, ma può essere e dev’essere sempre un dono, una forza che si comunica. Il nostro essere
creature, abbiamo già detto, ci rimanda a un Creatore. Può darsi che questa realtà prima, la realtà
del Creatore non sia chiara: voglio dire, il rapporto creatura-Creatore, il nostro rapporto con Dio. Ci
ripensiamo, ci ritorniamo spesso e ci sembra che Dio ci sfugga. Ildegarda ci esorta a continuare la
ricerca, che è di primaria importanza, non è semplicemente un compito aggiunto agli altri, bensì la
nostra attività fondamentale. La Regola di Benedetto raccomanda al novizio per essere ammesso
alla professione che l’impegnerà tutta la vita di cercare veramente Dio – e bisogna vedere se lo
cerca veramente. Ildegarda estende questo principio ad ogni uomo.

Ognuno di noi deve essere uno che cerca veramente Dio, perché San Benedetto non fa altro che
estendere alla sua comunità la Regola del Vangelo. La ricerca è spesso faticosa e spesso, diremmo,
“senza successo”. Alle domande che la vita quasi incessantemente pone, non si sa dare una risposta
e può succedere che alla fine ci sembri più facile, o meno deludente, andare avanti “così, come
viene” e allora smettiamo di cercare. Non è il caso di farlo; si deve continuare a cercare, senza
stancarsi mai. L’uomo, dice Ildegarda, ha in se stesso la lotta tra la confessione del riconoscimento
di Dio e la sua negazione, ma affermarlo richiede decisione e fermezza. Affermare “Io credo in
Dio” non è un semplice “dire di sì”, come negare non è un semplice dire di no. È un dire di sì o di
no ad una realtà. La lotta decisiva tra l’affermazione e la negazione di Dio, l’uomo la deve risolvere
in se stesso. In che modo? Di fatto, c’è chi lo riconosce e chi si rifiuta di farlo. La domanda che
viene posta in questa lotta è la seguente: C’è, o non c’è Dio? Ad essa va la risposta dello Spirito
Santo nell’uomo: Dio c’è, egli ti ha creato e ti ha pure redento.

Fintanto questa domanda viene ripetuta dall’uomo la forza di Dio non lo abbandonerà. Questa
domanda e la sua risposta sono strettamente unite e seguono nella conversione, ma dove la domanda
non c’è, non ci può essere la risposta dello Spirito Santo. Questa intima lotta dell’uomo la presenta
a Dio il coro angelico delle virtù. Così parla a Ildegarda la voce dall’alto. “Virtù” significa “forza” e
il coro angelico delle virtù è il coro delle forze angeliche che assiste l’uomo nella lotta, che cerca
Dio. Anche nella sua ricerca di Dio, l’uomo non è lasciato a se stesso; egli non n’è conscio, ma lo
assiste lo Spirito di Dio e ne testimoniano le virtù angeliche. Anche con gli angeli l’uomo ha
qualcosa in comune: Dio ha unito l’uomo e l’angelo in una razionalità. Proprio degli angeli è il
servire e lodare Dio, servizio e lode; proprio dell’uomo è servire e lodare Dio anche con le opere. Il
“conversus”, colui che si è convertito, l’uomo che ha compiuto in sé la trasformazione radicale, il
cambiamento definitivo di rotta, si fissa di continuo in Dio, anche se non ci pensa espressamente.
Con la conversione, egli si è “rivoltato”, ha preso una determinata direzione, nella quale vuole
proseguire. Conversione è una mutazione, una trasformazione, e finché viviamo, possiamo sempre
convertirci, cambiare in meglio.

Con la conversione l’uomo si rivolge a Dio, si affida a lui, confida in lui, crede. Ildegarda parla
della fede come di una scienza, che conduce direttamente alla fine, la paragona alla luce, di cui è la
chiarezza, essa è pure come un occhio che ci permette di vedere la realtà, è di un fulgore che
abbaglia, mentre la fede è pure ombra, segno di una realtà che rimane invisibile e che ci trascende.
La fede, nella definizione che Ildegarda ce ne dà è piuttosto una descrizione di quello che significa
per lei credere. Con la sua scienza, che è il suo occhio interiore, l’uomo giunge ad avere la certezza
di ciò che all’occhio esteriore è ancora nascosto e vi cede pienamente. Sentire così significa aver
fede, cioè, non solo esserne convinti ed affermare l’esistenza di Dio, ma rapportarci con tutto il
nostro essere con lui. Aver fede vuol dire cercare di realizzare l’armonia in noi e attorno a noi,
dirigerci verso l’armonia che è Dio, nell’amore, attraverso l’amore, di cui Cristo fu l’esempio ed è il
mediatore. La fede aiuta a raggiungere e a conservare l’armonia in sé e con quanto ci circonda. Ci
ricorda quello che siamo e come siamo nel mondo. Ildegarda la paragona ad uno specchio, col
riferimento all’asserzione di San Paolo, “Ora vediamo come attraverso uno specchio, in enigma…”
( 1Cor 13,12). Con l’occhio della fede si scopre che ogni creatura tende al suo Creatore, in un

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movimento che non ha mai termine, come mai lo ha l’atto di fede. Dio infatti non può mai essere
compreso dall’uomo. Il movimento in avanti nella fede procede senza fine.

L’armonia originaria, l’ordine del cosmo e dell’uomo, la reciproca dipendenza che risponde
all’onnisciente sapienza di Dio sono stati turbati, anzi distrutti dalla volontà di indipendenza
dell’uomo, lo sappiamo dal racconto biblico di Adamo, allo scopo di diventare “come Dio”, di
stabilire un proprio ordine. La creatività dell’uomo è sempre una creatività limitata e deve adeguarsi
all’ordine stabilito da Dio, che è l’unico Creatore. Ogni vera scoperta umana ci rivela regole e realtà
già esistenti, che possono essere usate con rispetto e nel rispetto del creato e dell’uomo. Questo ci
dice Ildegarda, parlando del lamento degli elementi al quale più volte si è accennato. Leggiamo
nella Bibbia che in principio la terra era una massa informe e vuota, le tenebre ricoprivano l’abisso
e sulle acque aleggiava lo Spirito di Dio, il compagno sempre presente, l’aiuto silenzioso, il grande
collaboratore. Dice Ildegarda di lui: “Nel grande cosmo e nel piccolo cosmo, che siamo noi,
ciascuno di noi, lo Spirito Santo è l’azione di Dio in noi, irrora e vivifica, accende e infiamma, dà
vita e forza, è consolatore e consolazione, è il dono”. Ildegarda l’invoca in un suo canto: “Lo
Spirito Santo è fuoco operante, è vita che dà vita, mettendo in movimento ogni cosa, è la radice di
ogni creatura, la sorgente della vita, lava ogni cosa della sua immondezza, terge ciò che è colpa,
unge le ferite, suscita e risuscita la vita, Spirito Santo, vita fulgente, degno di lode”.

Consideriamo l’uomo e la sua storia, che incomincia con una frattura e per questo abbiamo tanto
bisogno dello Spirito di Dio. Siamo sempre un po’ feriti e infranti. L’ordine stabilito da Dio viene
infranto da due parti: per primo dall’angelo che si ribella a Dio e trae dietro dei suoi compagni e poi
dall’uomo, che l’angelo seduce e con inganno porta a contravvenire il comando di Dio. Le creature
fornite di ragione, l’angelo e l’uomo, le sole ad avere la libertà, l’hanno usato male. Ci sono rivoltati
contro di Dio, hanno voluto essere in altro modo. Hanno creato quello che non c’era ed essi provano
immediatamente le conseguenze. Nel cosmo, che significa ordine, armonia, bellezza, s’instaura il
contrario. Ordine, pace, concordia, intesa, comprensione diventano fragili, non hanno lunga durata,
perché l’intelligenza dell’uomo non sempre conosce il bene e la sua volontà non sempre si dirige ad
esso, anche se l’ha conosciuto. Intelligenza e volontà sono e rimangono le doti proprie che
distinguono l’uomo da tutti gli altri esseri, ma sono deboli.

La storia dell’uomo è così la storia dei suoi errori, delle sue cadute, ma non solo: è pure la storia del
suo sempre nuovo incominciare, del suo procedere, i suoi sforzi per progredire. Per Ildegarda, la
storia non è solo la somma delle vicende umane, ma è sempre la storia dell’uomo con Dio,
comunque essa si svolga, è sempre una storia di salvezza, è la storia della salvezza. L’uomo singolo
ha la sua storia particolare, spesso ignorata dagli altri, o mal conosciuta, o non conoscibile. La storia
della sua vita è in rapporto con Dio. Così la storia delle generazioni degli uomini, dell’umanità, è
pure la storia con Dio, e, comunque ci possa apparire, è sempre una storia della salvezza, perché
Dio ci muove verso la salvezza e vuole la salvezza per i suoi figli. Per Ildegarda, la storia umana,
con l’Incarnazione, è già compiuta, la salvezza è già possibile, c’è, perché Cristo è la salvezza. Noi
ci muoviamo in una storia che, comunque si svolga tra gli uomini, è sempre una storia di salvezza.
Finisce sempre bene, non forse, come giudichiamo noi, ma finisce in Dio. La salvezza, essere con
Dio sempre, in una pace che è la pienezza dell’essere e dell’amore, comunicazione senza ombre. La
storia della salvezza finisce con la riconquista dell’armonia, o meglio, rincomincia con la
riconquista dell’armonia per non più finire.

Negli ultimi capitoli del libro Scivias, Ildegarda canta l’armonia finale: è una sinfonia, un accordo
potente di diversi suoni, di canti, dolci, soavi, le lodi di quelli che dimorano ora nelle gioie del cielo,
mentre in vita perseverarono coraggiosamente nella via della verità. Insieme risuonano canti di
compunzione di quelli che, illusi dall’antico serpente, abbandonarono la retta via, ma con l’aiuto di
Dio, vi ritornarono con la penitenza, pur essi levano le loro voci in armonia. “Come da un cuore

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solo e da un’anima sola, sgorga la sinfonia, si ode in sinfonia il suono dell’infocato ardore di
verginale purezza di Maria, espresso in parole della verga in fiore, il suono della sublime
grandezza delle lampade accese fiammanti (dei cori angelici) nella città di Dio e il suono profetico
di un profondo misterioso linguaggio (i profeti), il suono di parole mirabili che ancor sempre
procede e si diffonde (gli apostoli) e il suono del sangue versato delle vittime per la fede (i martiri)
e il suono del mistero del servizio sacerdotale (i confessori) e il suono dei cori verginali, fiorenti in
celeste vigore, perché al supremo Creatore esulta la creatura fedele con voce di giubilo e di letizia
in rinnovato debito di gratitudine”.

Un simile canto forse si può già incominciare quaggiù, per poter continuarlo poi in eterno. Quando
si fa una continua ricerca di armonia, c’è l’armonia, almeno se lo si fa con intelligenza, con criterio,
con discrezione, per parlare come Ildegarda! Non è una sovrastruttura, riconoscere l’importanza
degli altri e di ciascuno, è una realtà, se lo riconoscessimo sempre. La distruzione delle due Torri
del WTC a New York è una cosa terribile, ma la distruzione di un uomo è sempre una cosa terribile
e gli uomini vengono distrutti con molta facilità e continuamente; è una cosa tremenda che noi la
accettiamo, perché ci siamo abituati! Accettiamo questa violenza. Ma se non c’è un vero rispetto
vicendevole e la riconoscenza del nostro compito umano, non possiamo essere umani per gli altri.
La nostra ignoranza è forse grande, anche se non colpevole. Ma solo chi riconosce la propria
responsabilità e si rapporta con essa può essere anche veramente responsabili per gli altri.

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RITI PENITENZIALI CON SPECIALE RIFERIMENTO
AGLI USI MONASTICI – I

03 DICEMBRE 2001 Mons. ENRICO MAZZA

Perché io possa parlare della penitenza negli usi monastici debbo iniziare con una sorta di
introduzione che spieghi qualcosa in generale, per poter arrivare a gradi a qualcosa di più
interessante. Qualche anno fa , abbiamo invitato a venire qui a Milano per fare una conferenza sugli
aspetti del sacramento della penitenza in epoca moderna e contemporanea a piacere suo, per dire
quello che voleva, il professor J. Delumeau, del Collège de France, perché a noi interessava questa
persona di grande cultura dell’epoca moderna e contemporanea. Ci ha fatto una lezione splendida,
che è stata pubblicata negli Annali delle scienze religiose, che è la rivista del Dipartimento di
scienze religiose dell’Università Cattolica. Egli parte dell’ambito francese, dove il sacramento della
penitenza è da sempre definito “Sacramento del perdono”, ma anche noi nella catechesi lo
chiamiamo il sacramento del perdono – è sbagliato, ma nella catechesi viene bene: “Gesù ti ha
perdonato!”

C’è anche uno splendido volume che è uscito già da qualche anno in Francia e la traduzione italiana
la sto corrigendo adesso, sarà consegnata alla casa editrice Cittadella di Assisi nella prima
quindicina di dicembre, ci vorranno cinque mesi e poi uscirà. Ci sono delle splendide cose sul
perdono. Dico che è sbagliato dire “sacramento di perdono”, però il termine “perdono” coglie bene
un bisogno umano e i sacramenti s’inseriscono sempre in una situazione umana. Quindi, anche se
non è costitutivo, l’espressione “sacramento di perdono” dice qualcosa. Delumeau, partendo dal
discorso del perdono, ha concluso la conferenza in questo modo: “Il sacramento della penitenza
oggi è in crisi, crisi fortissima, e non c’è elemento che lascia pensare che la crisi cessi”. Quando si
esaminano i dati, si vede che non c’è nessun elemento che lascia prevedere una remissione della
tendenza.

Il professor Lanzetti, dell’Università Cattolica di Milano, ha fatto una bella indagine, pubblicata da
Mondadori, sulla situazione religiosa degli italiani, nell’occasione del Convegno di Palermo,
organizzato dalla CEI, prima di lanciare il progetto culturale ormai sei anni fa. Anche questa
conferenza è stata stampata sugli Annali di scienze religiose. Tramite questi dati e dei calcoli
complicati, ha potuto fare una previsione, che per i prossimi vent’anni non si prevede nessun
cambiamento di questa tendenza. C’è quindi una crisi forte che non si prevede cambi per adesso. Il
professor Delumeau diceva: “Ma questo è il sacramento di perdono! Non bisogna fare in modo che
la crisi del sacramento della penitenza, che è una crisi interna alla logica della liturgia della
penitenza, esca da questo ambito e diventi una crisi dell’oggetto di questo sacramento, cioè, del
perdono”. Perché se c’è bisogno di una cosa al mondo oggi, è quello del perdono. Il perdono a tutti i
livelli: al livello di politica, a livello di sindacato, nel mondo di lavoro, il mondo della produzione e
dell’industria. La famiglia! Quanto bisogno di perdono c’è in ogni casa! In tutte le case: tra marito e
moglie, tra genitori e figli. Provate a guardare quanto c’è da rimproverarsi. Questo significa che non
c’è perdono. Tutti vivono nel rimproverare qualcosa a qualcuno. Perché in famiglia tutti hanno da
dire: “Ma perché tu…?” “Tu, però avresti dovuto…” “Ma perché non l’hai fatto…?” “Ma io mi
aspettavo…” Genitori nei confronti dei figli, figli nei confronti dei genitori; e qual è la risposta?
“Ma cosa pretendi?” Quindi, è escluso a priori. E guardate che un discorso, che vada avanti e che
sciolga un nodo, non c’è. Perché immediatamente si comincia a misurare quanta ragione ho io e
quanto torto hai tu. Quanti centimetri di ragione io, quanti centimetri di torto tu. Non quanti

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centimetri di torto ho io e quanti di ragione tu. Questo crea delle situazioni di stallo, per cui ci si
vuol bene perché ci si vuol bene, ma i problemi si accumulano e a un certo punto sono un peso
insopportabile; l’unica cosa è andarsene. Questo si vede sistematicamente.

Due esempi di fatti accaduti in Francia: sia la stampa, sia la televisione, tutti e due hanno
rappresentato un modo di annunciare il problema. Il primo: un libanese cristiano in una trasmissione
televisiva nel settembre 1989 non nascose davanti a milioni di telespettatori di avere torturato e
massacrato diverse centinaia di musulmani, perché i suoi due figli, anch’essi, erano stati torturati ed
uccisi da dei musulmani. L’altro esempio, il contrario: un giovanotto, nella periferia di Parigi, aveva
ucciso una ragazzina, che si rifiutava di sposarlo. Nel momento del processo a Créteil, un quartiere
periferico di Parigi, i genitori della ragazzina uccisa, d’accordo con gli altri loro figli, avevano
dichiarato davanti al tribunale e alla corte, agghiacciati, di volere adottare come figlio l’assassino
della loro figlia. Il colpevole è stato naturalmente condannato, ma ora è uscito di prigione. E grazie
all’aiuto morale di questa famiglia adottiva, ha ripreso una vita normale! Domanda: chi di noi si
sentirebbe di adottare l’assassino della propria figlia? Non è una cosa da poco. C’è una cosa che
richiama: la Chiesa ha dato questa ricchezza all’occidente. Va in crisi il sacramento e la
confessione? Che non vada in crisi il perdono! Perché ne abbiamo tutti bisogno.

Cito adesso dagli Apoftegmi dei Padri del deserto, a cura di Luciana Mortari, una bennota studiosa
del monachesimo, che appartiene al monastero di Monteveglio, Bologna, fondato da don Giuseppe
Dossetti, edizioni Città Nuova, Roma, 1971, 1999¹, p. 86, n° 19: “Dei fratelli fecero visita al Padre
Antonio e gli dissero: «Dicci una parola, come potremmo salvarci?» - qui, siamo alla base di tutto,
all’essenza – L’anziano risponde: «Avete ascoltato la Scrittura? È quello che occorre per voi». Ed
essi: «Anche da te, Padre, vogliamo sentire qualcosa». L’anziano dice: «Dice il Vangelo, se uno ti
percuote sulla guancia destra, porgigli anche l’altro (Mt 5,39)». Gli dicono: «Ma di far questo, non
siamo capaci». Dice l’anziano: «Se non sapete porgere anche l’altra, almeno tenete ferma la
prima». Gli dicono: «Neppure di questo siamo capaci» - che è vero, non siamo capaci –E
l’anziano: «Se neppure di ciò siete capaci, almeno non contraccambiate ciò che avete ricevuto».
Dicono: «Neppure questo sappiamo fare». Allora l’anziano dice al suo discepolo: «Prepara loro
un brodino, sono deboli» - e a loro: «Se questo non potete, quello non volete, che posso fare per
voi? C’è bisogno di preghiera» (Apoftegma 81b).

Ora, se siamo in questa situazione, in cui nella vita non sappiamo fare le cose, la risposta è: “C’è
bisogno di preghiera”. Allora, che cosa fanno queste persone? Vanno in monastero, dove non è che
ci sia un brodino perché sono deboli, ma qui viene detta un’altra cosa: “Se non sapete fare delle
cose, cominciate a pregare per saperle fare”. Questo è il meccanismo del monachesimo. Per
cambiare vita, bisogna cominciare con la preghiera e poi - e questo è curioso - il monachesimo
comincia sempre, per cambiare, dalla dieta alimentare. Questo è strano! Sono andato un po’ di
tempo fa dall’oculista. Nella sala d’aspetto c’erano molte riviste femminili e tutte parlavano di
dieta. Ma, leggendo tra le righe, queste cose, c’è una costante: “Tu devi cambiare!” Come si fa a
cambiare? “Comincia a cambiare l’alimentazione”. Questa è un’esperienza nostra, per essere belle,
per sentirsi bene, c’è anche lo stare bene nella propria pelle, al proprio agio e c’è qualcosa in più: il
riuscire ad avere i rapporti costruttivi con gli altri. Gira e rigira, tutte queste cose sono legate e
vanno a finire sempre lì: cambia dieta! Se adesso stiamo parlando di dieta, non è strano, perché fa
parte della cultura di oggi.

C’è nella penitenza orientale un penitenziale, edito nel 1600 da Jean Morin, è attribuito a Giovanni
Diacono, oppure a Giovanni Digiunatore, patriarca di Costantinopoli. Tuttavia, si tratta
probabilmente di un intreccio di nomi, Il testo è stato studiato accuratamente dal p. Miguel Arans
del Pontificio Istituto Orientale a Roma, che adesso sta dirigendo una tesi di dottorato su questo
penitenziale di un giovane prete di Padova e speriamo che dia buoni frutti. In questo penitenziale ci

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dice come deve fare i monaco quando vengono a lui delle persone che gli chiedono un consiglio per
cambiare vita e il perdono dei peccati. Vanno, cominciano a pregare – quindi, anzitutto c’è bisogno
di preghiera. Poi, il penitente comincia a manifestare i suoi peccati al monaco, che non è sacerdote –
è una concezione della penitenza molto diversa della nostra. Nel 1500 il cardinale Pole aveva come
direttore spirituale la marchesa Colonna, una direttrice spirituale. Noi, invece, ci restringiamo
sempre al sacerdote e questo fa parte della nostra perdita di orizzonti. Le lettere tra il cardinale Pole
e la marchesa Colonna, che provengono dagli archivi del Santo Uffizio di Roma, sono state
pubblicate qualche anno fa.

Ad ogni peccato il confessore dice: “Che Dio ti perdoni!” Il confessore non perdona mai il
peccatore; noi in occidente, sì, ma solo nel secondo millennio. Nel primo millennio non si era mai
verificato che uno perdonasse i peccati di un altro, nel senso preciso del termine: “Ego te absolvo”
– io ti assolvo. Il perdono dei peccati lo dà Dio e lo si prega che egli voglia perdonare.
Ricominciano a pregare. Alla fine il confessore raccomanda il penitente a Dio, con delle preghiere
molto belle. Finito questo, cominciano a parlare di dieta alimentare. Ma come! Perché parliamo di
dieta? Noi abbiamo il concetto della conversione del cuore biblico, molto bello, profondo,
significativo, ma quando diciamo: “Come facciamo a convertirci? Come si fa a cambiare vita?” I
monaci orientali dicevano: “Facciamo l’elenco di che cosa si mangia e cambiamo dieta”. E hanno
due schemi di dieta: sembra di leggere le riviste femminili di adesso! La dieta A e la dieta B. Per
questa dieta, naturalmente, il dialogo si svolge così: “Ti può andar bene questo?” Perché non si può
imporre ad uno di mangiare una cosa o un’altra, il mangiare deve aver sempre qualcosa di possibile
e gradevole, non è possibile fare altrimenti. Però la dieta vuol dire cambiare sistema alimentare.
Guardate che se si cambia il sistema alimentare, cominciano a cambiare tanti comportamenti nella
nostra vita. Comincia a cambiare anche la lucidità mentale con la quale affrontiamo certe cose o
certe altre, prima di tutte, la preghiera! La lucidità mentale della preghiera è diversa a seconda del
digiuno o del mangiare, del mangiare a quest’ora piuttosto che a quell’altra, del mangiare questa
cosa o del mangiare quell’altra.

Questi monaci avevano una competenza del legame tra comportamento e dieta. Per noi, sono cose
sofisticate; noi per fare questo abbiamo bisogno di andare dal primario del riparto di dietologia,
perché altrimenti non siamo capaci di vederlo e io sono convinto che la cosa funziona. Il professor
Della Quercia dell’Accademia di Brera mi ha dato una fotocopia che gli ha dato un suo dietologo
con tutto il regime alimentare per una settimana, io la tengo preziosamente sulla scrivania e mi
guardo bene dal metterla in pratica, però, la tengo lì da qualche anno e dico: “Prima o poi, prima o
poi…” Non è solo una dieta per quanto riguarda le bevande alcoliche, questo è uno degli aspetti.
Anche presso i monaci non c’è una preclusione sulle bevande alcoliche. C’è invece un discorso
sull’impianto generale della dieta. Pagine e pagine della patrologia greca, cioè la collezione di testi
dei padri della Chiesa, con caratteri da dizionario, alti, sono proprio sulla dieta: bisogno parlare di
dieta, perché la nostra vita è fatta anche di quella! Anche perché fare il digiuno e poi essere
arrabbiati e nevrastenici, perché non si ha mangiato, non è possibile!

Questi monaci chiedono la conversione, partendo dal cambiare il sistema alimentare. Voi non avete
mai trovato un confessore in occidente che vi faccia questi discorsi. Eppure il discorso della
conversione concretamente consiste in questo. Noi vediamo un altro esempio di una conversione.
Quando si leggono i padri del deserto, noi troviamo una parola, che è sempre complicata da tradurre
e ogni traduttore la traduce un modo diverso, perché non si sa quale pesce pigliare: metanìa. “Il
monaco fece tante metanìe…” “…e facevano le metanìe…” “…e andò a chiudersi nella sua cella e
fece una metanìa…” Tutti dicono: “Che cosa è la metanìa?” Deriva da greco ed è un’evoluzione
del termine “metànoia”, che vuol dire “conversione”. Quindi, quanto di più spirituale ci sia: la
conversione del cuore. Non potete per la conversione del cuore fare altro che atti spirituali, perché
come fate altrimenti? La spiritualità della conversione che tutti noi conosciamo dal tema biblico,

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cambiare il cuore, la vita, convertirsi, nel monachesimo viene gestita in un modo differente. Che
cosa è la metanìa? È una genuflessione, alcuni traducono “inchino”, altri traducono
“genuflessione”, altri, “conversione”.

C’è un episodio interessante, che io vi leggo, per far vedere come sia necessaria la ricerca
interdisciplinare. Ho scelto questo esempio, che riguarda la vita liturgica e spirituale nel monastero
di Santo Stefano in Gerusalemme alla fine del VI secolo: “Abbà Daniele di Sceti - un luogo nel
deserto egiziano - si genufletteva, o si prostrava, e poi si rialzava per tutta la notte”. Anche nella
Vita di Melania troviamo lo stesso costume, sia come comportamento ascetico, sia come preghiera
molto intensa, per cacciare le tentazioni del demonio. Il caso più interessante, tuttavia, è quello di
Giovanni Mosco, anche per la vicinanza geografica e temporale con il caso del monastero di Santo
Stefano. Giovanni Mosco nasce ad Isauria prima del 550 e muore a Roma forse nel 634, monaco del
monastero di San Teodosio, presso Gerusalemme, e poi di quello di Fara in Giudea tra il 568 e il
578. Egli ha scritto un’opera famoso, intitolato Prato spirituale. Pensate che nella Riforma del
sacramento della penitenza di Paolo VI viene citato proprio quest’opera. Domanda: Chi ha mai
studiato la Riforma liturgica di Paolo VI sulla penitenza, leggendosi la citazione di Giovanni
Mosco? E allora perché Paolo VI l’ha fatta, se noi non la leggiamo?

Nel Prato spirituale viene descritto il tipo di vita nel monastero di San Teodosio che gli fu narrato
da Cristoforo, monaco di questo monastero e romano di nascita. Questi, di giorno, s’impegnava a
fondo nell’osservanza della regola di preghiera – il tema della preghiera, come abbiamo detto prima
– e di notte, si recava in una grotta, dov’erano sepolti San Teodosio e altri santi. Giunto nella grotta,
egli faceva cento metanìe a Dio, ad ogni gradino; c’erano diciotto gradini. In tutto, quindi, ogni
notte, egli faceva milleottocento metanìe sui gradini. Uno dice: “Come vita, scelgo di fare tutta la
regola di preghiera e di notte, di andare nella grotta e fare milleottocento genuflessioni, tutte le
notti”. E qualcuno dice: “Ma perché vuol fare milleottocento genuflessioni? Stia a letto!” Risposta:
“Come si chiama una genuflessione? Si chiama «metanìa», che vuol dire «conversione»; io faccio
milleottocento gesti di conversione tutta la notte”. “Allora io ci vengo a farlo anch’io. Perché fare
milleottocento gesti di conversione tutta la notte è un’altra questione: ti cambia la vita!”

Ma siamo sicuri che “metanìa” vuol dire proprio “genuflessione”? Ecco che cosa è successo: il
monastero fu costruito dall’Imperatrice Eudossia e dal vescovo Giovenale in onore del santo, le
reliquie erano state trovate nel 415 sul luogo che si ritenne fosse quello della lapidazione di Santo
Stefano. Effettivamente è un luogo che conserva delle tombe dell’epoca del primo tempio, dal VIII
al VII Secolo a.C. Gli scavi e le ricerche degli studiosi del dipartimento di geologia e di quello di
antropologia della Notre Dame University, negli Stati Uniti, hanno messo in evidenza che è un
luogo cimiteriale e quindi è chiaro che lì non è strano che ci abbiano sepolto Santo Stefano. Ma
vediamo i dati. Negli scavi della rovina del monastero è emerso che c’è un luogo di sepoltura dove
sono state trovate quindicimila ossa e frammenti ossei, che rappresentano il resto dei corpi di
almeno centootto adulti e cinquantatré bambini. Ci sono anche ventitré reperti di ossa non umane,
prevalentemente di cammelli e di roditori. Dai frammenti di oggetti ritrovati, come lampade a olio,
piccole croci di metallo, un coltello, tessere, vasi spezzati e frammenti di vetro, si ricava che le ossa
sono del periodo bizantino, in ogni caso tra il tardo periodo romano e il primo periodo islamico.

Le ossa appartengono soprattutto a individui di sesso maschile, il ché è coerente con le fonti
letterarie, che attestano che Santo Stefano fu un monastero maschile. L’esame delle ossa umane
rivela che questi individui godevano di buona salute e che avevano avuto un nutrimento ricco e
abbondante, interessante dal punto di vista della dieta alimentare. Far penitenza non vuol dire
mangiare delle strampalate cose, pur che facciano male, vanno bene! No, hanno avuto un
nutrimento ricco e abbondante, questi monaci di professione, che vuol dire che facevano penitenza.
In genere, non ci sono segni di particolari patologie e la loro durata media di vita era di

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cinquant’anni. Nella maggior parte degli individui ci sono segni di artrosi che riguardano muscoli e
legamenti, punti di attacco dei tendini, assieme a una scarsa flessibilità delle ginocchia. L’analisi
dimostra che ciò era dovuto a una protratta attività di flessione delle ginocchia durante la giornata.
Qui vi volevo! Ecco da dove sappiamo che erano genuflessioni che avevano fatto venire l’artrosi
delle ginocchia! Non basta più una disciplina per leggere i Padri della Chiesa, bisogna studiare
anche l’anatomopatologia archeologica, per la quale, tra l’altro, è stato aperto un Master a Londra,
qualche anno fa.

Una delle possibili cause di gonoartrosi riguarda l’attività agricola, che effettivamente richiede un
continuo piegamento delle ginocchia, tuttavia questa causa può essere scartata, perché gli studi
condotti su altre popolazioni mostrano che in questi casi sono coinvolte anche altre patologie, che
riguardano le parti superiori del corpo, le ossa della schiena, delle braccia e delle mani, cosa che è
assente nel nostro caso. Le fonti letterarie raccontano dell’attività della preghiera di questi monaci.
Effettivamente nella liturgia ci sono tre tipi di ufficiatura che richiedono la genuflessione, tralasciate
le occasioni minori: primo, l’Ufficio della gonyklesia, cioè, della genuflessione, celebrato nella
chiesa dell’oriente nel giorno di Pentecoste; le liturgie penitenziali e determinati momenti della
recitazione dei salmi. Nessuno di questi usi da solo può lasciare tracce sugli scheletri dei monaci,
perché sono troppo occasionali.

Tuttavia, bisogna ricordare che accanto a questi usi liturgici ci sono gli usi opzionali e gli usi
penitenziali, che comprendono anche punizioni per le infrazioni della regola. Se esaminiamo gli usi
penitenziali del monastero costantinopolitano di Studion, influenzato fortemente dagli usi monastici
e liturgici palestinesi, vediamo che le metanìe possono anche essere fatte dalle cinquanta alle
centocinquanta volte al giorno per un periodo di un mese o di una quaresima. Tutto questo
combinato assieme ci fa capire che il termine metanìa designa la genuflessione e non gli inchini o le
prostrazioni, dato che questi, per quanto ripetuti, non coinvolgono l’articolazione del ginocchio al
punto da produrre dei segni così precisi delle patologie in questione.

Successivamente, posto questo, dobbiamo riconoscere che la descrizione di Giovanni Mosco si


attaglia bene alle metanìe e meno bene alle prostrazioni, dato che è effettivamente difficile
prostrarsi su di una scala che porta a una grotta e prostrarsi lungo disteso per terra ad ogni gradino.
Da ultimo, bisogna pensare all’importanza di queste testimonianze per capire la spiritualità della
vita quotidiana del monastero. Forse non erano così importanti i contenuti teologici dei testi
dell’ufficiatura, ma certamente erano importanti le genuflessioni, al punto da essere chiamate
metanìe, un termine che significa conversione (da metànoia). La conversione è lo scopo stesso della
vita monastica e, per sineddoche, questo termine è andato a designare il gesto della genuflessione.
Ciò significa l’importanza di questo gesto che abbiamo potuto decodificare con l’uso di metodi di
indagine che debbono cominciare nel nostro orizzonte.

Qual è la conclusione che si trae da tutto questo? Molto semplice, se lo scopo del monaco è la
penitenza, la conversione, e tutta l’organizzazione della vita del monastero tende lì, che cosa
dobbiamo dire di questa curiosa terminologia? Conversione indica la genuflessione, metanìa, gesti
del corpo. Le penitenze sono anche corporali. Tutto quello che avviene nella vita del monaco,
avviene anche nel corpo. Questa è la cosa più moderna che si possa immaginare, perché noi oggi
parliamo dell’importanza del corpo per ogni cosa, non esistono delle cose sulle nuvole, il corpo
deve essere coinvolto. Guai a quella liturgia che non coinvolge il corpo! Quali erano i gesti che
coinvolgevano il corpo nella liturgia dei monaci? Gli inchini, profondi, o non profondi; le
prostrazioni, mettersi bocconi per terra, lungo disteso; le genuflessioni – il termine conversione è
andato a designare la genuflessione. Questi monaci durante la giornata facevano centinaia di
genuflessioni a Dio, al punto di aver l’artrosi al ginocchio. Se noi non avessimo fatto questi scavi

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con queste diagnosi così precise, avremmo avuto ancora qualche dubbio sul termine “metanìa”. Il
monaco vive di penitenza. In pratica, queste penitenze bisogna vederle.

Però, mi fermerei per fare una riflessione di tipo generale, cioè: al giorno d’oggi voi non trovate più
neanche un monastero che dica che lo scopo della vita monastica è la penitenza. Tutti pensano al
carisma del santo Fondatore! È sempre Dio lo scopo della vita, con buona pace del padre Fondatore.
Ma questo lo sanno tutti! Ma metterlo in pratica è un’altra questione. Facciamoci portare un brodino
dall’assistente di Sant’Antonio, perché metterlo in pratica è un’altra questione! Siamo deboli! Il
modo per andare verso Dio è la preghiera e la conversione del cuore, questo lo sappiamo dal
Vangelo. Come si fa? Si comincia cambiando dieta, per fare questo, devi organizzare la vita in
modo separato, con le altre persone che vogliono fare la stessa cosa, altrimenti non puoi farlo e
subordinando tutta la tua attività, compreso il lavoro, a questo tipo di scelta fondamentale; cosa che
non puoi fare se sei dipendente nel lavoro. Il padrone ti dice di andare a zappare la terra e tu gli dici:
“Zappare? Ma non vede che sto facendo una metanìa?” Allora bisogna ritagliarsi degli spazi fisici
in un terreno dove andare a vivere in gruppo con le persone che fanno la stessa scelta. Per fare
questo ci si mette assieme e si fa un progetto comune, ci si dà una Regola. La Regola è per arrivare
ad avere preghiera e conversione, ma se la conversione deve riguardare anche il corpo, quali gesti
corporei incarnano la conversione? Delle grandi genuflessioni! Oltre alla preghiera e alla dieta, ci
vuole la genuflessione, che accompagna la preghiera. Non si deve inventare niente: è proibito nella
logica della vita monastica. Si va dal padre anziano e si dice: “Tu che queste cose le hai già fatte
nella tua vita e sai che funzionano, dimmi che cosa debbo fare e dimmi le cose che funzionano”,
cioè si parte dall’esperienza. La vita monastica ha sempre bisogno, per questo motivo, della sua
origine: ha bisogno di una guida spirituale. Ma non una guida spirituale che ti dice pensieri belli e ti
fa sognare in modo romantico – nessuno dei padri del deserto ha fatto pensieri romantici, non ce n’è
uno! Bisogna aspettare i nostri santi ottocenteschi per avere questa fuga nel Romanticismo, oppure
per avere visioni strane.

Ma questa gente era di una concretezza incredibile: digiuni, preghiera, penitenze, al punto che noi,
quando leggiamo queste opere, diciamo: “Secondo me, sono matti!” E non abbiamo altra possibilità
che dirlo. Però, qualcosa di curioso c’è: se centinaia e centinaia di persone abbandonavano i
villaggi, i paesi, le città, per andare nel deserto a fare – che cosa? Questo. Che spiegazione c’è?
Nessuna. Gli studiosi del monachesimo oggi sono tutti fermi lì a dire: “Ma, che spiegazione diamo a
questo grande movimento di massa, di gente che fugge dalla vita sociale per andare a fare queste
cose nel deserto? Perché?” Noi rispondiamo che non lo sappiamo. Possiamo ammettere anche
un’illusione: si sono sbagliati tutti, finché volete. Ma non hanno mai fatto marcia indietro.
Possibile? Che non si fosse accorto qualcuno, che dicesse: “Abbiamo sbagliato – tutti a casa!” Mai
successo. È successo nel Medioevo, è successo con la riforma protestante, perché a quell’epoca il
monachesimo non era più quello delle origini e quindi, non essendo quello delle origini, a un certo
punto è lecito dire: “Signori, ci siamo sbagliati tutti! Chiudiamo e andiamo a casa” – e l’hanno fatto.
Ma non nel monachesimo delle origini. Nel monachesimo delle origini c’era quel radicalismo di
penitenze. Uno dice: ”Scusi, quante genuflessioni ha fatto?” “Centocinquanta”. “Milleottocento”.
“Ma perché, non si può farne una?” “Certo, che se ne può fare una, ma io ne faccio milleottocento”.
Non c’è una spiegazione razionale, c’è una spiegazione di esperienza. E l’esperienza monastica è
questa.

È sorprendente questa scelta dei monaci di coinvolgere il corpo nella conversione e, se voi volete
coinvolgere il corpo nella conversione, le cose da fare non sono trecentomila; si riduce tutto a quei
pochi gesti: genuflessioni, invocazioni, preghiere – non avete molte cose – e soprattutto, cambiare
dieta. Il monachesimo cristiano, quindi, che cristianesimo propone? Propone un modo di essere
cristiani, per chi deve cambiare vita e diventare cristiano davvero. La prima cosa che propone il
monachesimo è di coinvolgere il corpo. Da qui, provengono tutte le conseguenze sulle scelte

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penitenziali monastiche. Per noi occidentali, essere religiosi è piuttosto una questione di testa, non è
una questione di gesti corporei e quindi non ci si riesce a immaginare una cosa diversa.

Il passaggio alla devotio moderna era compiuto per il fatto che la regola monastica era diventata un
fatto esteriorista; e non si tratta di questa roba qui antica. Ma una volta diventato esteriorismo, ecco
che nasce il bisogno di interiorità e la prima cosa da fare è di eliminare tutti i gesti. Capite allora il
movimento dei gesuiti, perché il confessore di Sant’Ignazio di Loyola era proprio uno dei maggiori
esponenti della spiritualità della devotio moderna e quindi eliminava tutta la gestualità. E la prima
cosa da fare era di attivare la fantasia per fare la meditazione. Da qui, la stranezza dei monasteri
benedettini di oggi, che hanno la meditazione gesuitica e il ritmo di vita del monachesimo
benedettino. Sono due spiritualità che vengono in conflitto. Il che non vuol dire che non ci debba
essere interiorità, ma l’interiorità attraverso la fantasia da usare nel mondo dei gesuiti parte dal fatto
di aver escluso il corpo e i gesti corporei. Ma anche presso i benedettini si sente ogni tanto in coro:
”Perché dobbiamo fare tutti questi inchini e queste cose che sono gesti esteriori?” Non esistono
gesti esteriori – ogni gesto è sempre un gesto, di te!

Se il monachesimo ricupera questa dimensione arcaica, darà una testimonianza di un cristianesimo


più profondo al mondo esterno e quindi restituirà al cristianesimo di tutti noi un componente che
abbiamo perduto – questo è importante! Da sempre la questione aperta: il monachesimo cristiano
nasce dal monachesimo indiano, o è autonomo? Questa è la famosa questione che di solito non si
riesce mai a risolvere. Perché se uno dice che il monachesimo cristiano nasce in Egitto, allora non è
chiaro che nasca dal monachesimo indiano. Però, se invece nasce in Siria, allora potrebbe nascere
dal monachesimo indiano… Non possiamo saperlo. Resta il fatto che è un’esperienza comune che
senza il corpo, cambiamenti di vita non si fanno, quindi, bisogna coinvolgere il corpo - e
coinvolgilo tanto! E nella preghiera fare esprimere il corpo, invece noi siamo abituati a stare lì come
se fossimo tutti ingessati. Vedete che gli ebrei e i musulmani hanno una gestualità più specificata,
che ha il suo significato profondo. Forse proprio il fatto religioso monastico ci aiuterà a recuperare i
gesti del corpo.

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RITI PENITENZIALI CON SPECIALE RIFERIMENTO
AGLI USI MONASTICI – 2

10 DICEMBRE 2001 Mons. ENRICO MAZZA

Vediamo alcuni tratti del monachesimo orientale, che è fatto di penitenze: quelle più significative si
trovano ne La Storia Lausiaca di Palladio, nell’edizione curata dal compianto Bartelink con la
traduzione di Marino Barchiesi e l’introduzione della compianta Christine Mohrmann, la grande
studiosa dei Padri della Chiesa, dell’Università di Utrecht, Olanda, che andò in pensione quando io
ero ancora studente – è passato un po’ di tempo! Fu la prima occasione che si fece entrare in
clausura una donna nell’Abbazia di Sant’Anselmo, sull’Avventino, a Roma: entrò la Mohrmann per
ricevere il volume delle miscellanea di studi composto in suo onore e consegnatole ufficialmente
nell’Aula Magna del Pontificio Ateneo di Sant’Anselmo.

Abbiamo qui dei casi interessanti. La vita di questi monaci consisteva in una serie di osservanze,
per esempio: “C’era in Egitto un monte, Ferme, vicino al grande deserto di Scete. Su questo monte
abitano circa cinquecento uomini che si dedicavano all’ascesi. Fra di loro un certo Paolo, che
tenne questo modo di vita: non diede mano ad alcun lavoro o attività e non accettò nulla da
nessuno al di fuori del cibo che mangiava. La sua occupazione e la sua ascesi consistevano nel
pregare ininterrottamente” - La sua ascesi era l’allenarsi ad abbandonare completamente le cose di
questo mondo per poter morire convinto che quello che sarà di là è veramente la realtà delle cose.
Noi, però, quando ci alleniamo a questo, finiamo per fare le cose in modo meccanico, come il
pugile che si allena davanti al sacco, compie un meccanismo di movimenti che vanno avanti e lui
stesso sembra una macchina. Se fai una serie di cose in un modo meccanico, tu non ti accorgi
neanche di ciò che fai. Anche il monaco fa così nei suoi esercizi di allenamento. E così che
Sant’Ignazio di Loyola inventò gli Esercizi Spirituali, in parallelo agli esercizi fisici che si fanno in
palestra. Sono degli allenamenti, non sono la vita! Si fanno gli esercizi per vivere bene dopo. La
partita viene dopo l’allenamento – è la partita che bisogna vincere, non l’allenamento. Soltanto che
quando uno si immedesima tanto nell’allenamento, ecco che la psicologia dell’allenamento lo porta
a rendere l’allenamento fine a se stesso. Allora il monaco Paolo pregava “a macchinetta”,
ininterrottamente, perché l’allenamento ha questa psicologia e nessuno si salva.

“…Recitava trecento preghiere stabilite (formule, diremmo noi) raccoglieva altrettante pietruzze,
che teneva in seno, gettando fuori una per ogni preghiera che recitava, fino ad arrivare a trecento.
Incontratosi con il santo Macario, che era soprannominato il Cittadino, disse: «Padre Macario,
sono angustiato!» L’altro lo costrinse a spiegare la ragione ed egli disse: «In un villaggio abita
una vergine che da trent’anni pratica l’ascesi, di lei mi hanno raccontato che non tocca mai cibo al
infuori del sabato e la domenica…”– non è una novità, perché c’erano i terapeuti, descritti da
Filone Alessandrino nella Vita contemplativa, che mangiavano solo il sabato e la domenica, i giorni
della Messa, poi facevano una settimana senza mangiare. Quando c’è digiuno non si fa la Messa. La
Chiesa alessandrina tutt’oggi fa la Messa soltanto la domenica e, in alcune tradizioni monastiche,
anche il sabato, per questo principio. Anche sabato è un giorno importante, perché questi asceti
vengono dal giudaismo - “…ma lascia trascorrere le settimane in tutta l’ampiezza del tempo
mangiando ogni cinque giorni, e così riesce a recitare settecento preghiere! Io, apprendendo
questo, ho disperato di me stesso, perché non sono stato capace di superare le trecento». Il santo
Macario gli rispose: «Io dopo settant’anni di vita recito ogni giorno cento preghiere…” -
nell’Olimpiade della preghiera Macario arrivò l’ultimo, perché ne faceva soltanto cento – “…cento

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preghiere stabilite, compio il lavoro necessario procurando il nutrimento e soddisfo l’obbligo di
concedere colloqui ai confratelli e la mia ragione non mi condanna, come se avessi mancato di
diligenza. Se tu, pur recitando trecento, ti senti condannato dalla tua coscienza, è chiaro che non
preghi con cuore puro!» - Guardate che tipo di invenzione fa Macario: alla preghiera valutata in
base alla quantità, oppone invece il cuore puro, che non si preoccupa della quantità.

Se tu, pure recitando trecento preghiere, ti senti condannato dalla tua coscienza, è chiaro che tu non
preghi con cuore puro, o che sei in grado di pregare ancora di più e non lo fai – e ti concedo di fare
il discorso della quantità. Però se tu ti preoccupi che quella là fa settecento e tu solo trecento, vuol
dire che tu potresti arrivarci e non lo fai, oppure, se non è per questo, è perché tu non hai il cuore
puro. Come si fa a ragionare in questo modo? Il ragionamento è semplice: dimenticare Dio, ecco
perché si può dire che non hai il cuore puro. Uno valuta la preghiera in se stessa e non per l’aspetto
relazionale, rapporto con Dio. La preghiera è una relazione. Uno dice: “Io telefono alla moglie dieci
volte al giorno quando sono al lavoro” e la moglie commenta: “Come mi stanchi!” Spesso si dice:
“Ah, quella persona prega tanto! Come si stancherà Dio ad ascoltarla!” Perché noi valutiamo
sempre la preghiera in base al quanto è stato fatto.

Vedete, è un errore che hanno commesso quelli dell’abbazia dell’ordine di Cluny, quando Roberto
di Molesmes si è inventato di fondare un nuovo monastero a Cîteaux, dando origine alla regola
cisterciense e cambiando radicalmente la quantità della preghiera, per cui la preghiera settimanale
dei cisterciensi, tolta la Messa, era minore della preghiera giornaliera a Cluny. Che cosa dicevano
quelli di Cluny e il Nunzio Apostolico? Che Roberto di Molesmes si era comportato con la sua
solita superficialità e che in fondo era gente che non aveva voglia di pregare. Perché noi la
preghiera la giudichiamo non in base alla qualità, ma in base alla quantità.

Quando si è fatta la riforma liturgica del Vaticano II, io ricordo tanti vescovi che facevano
candidamente questa osservazione: “Ma perché bisogna riformare la liturgia? Ah, già! Perché si
stancano di pregare tanto! Questi vescovi della Germania, che a furia di stare con i protestanti, sono
diventati mezzi protestanti anche loro, che non hanno voglia di stare in chiesa e pregare – ecco
perché vogliono una riforma liturgica!” Spero che i vescovi che dicevano così siano campati a
sufficienza per vedere che la Messa da venti minuti è diventata tre quarti d’ora in tutte le parrocchie,
il che vuol dire che non era quello il senso della riforma liturgica. Quando il cardinale Montini era
arcivescovo di Milano aveva fatto una norma appena prima del Concilio, per cui la Messa
domenicale – senza omelia - non doveva superare venticinque minuti ed era Montini, uno dei grandi
leader della riforma liturgica del Vaticano II. Ai giorni d’oggi, se c’è fame di qualcosa, è fame di
preghiera e in chiesa la domenica meno di tre quarti d’ora non ci si sta, a voler fare in fretta! Cosa
avrebbe detto Macario a questi vescovi? La stessa cosa che ha risposto al monaco Paolo: “Tu non
hai un cuore puro!”

Cosa vuol dire, aver un cuore puro? Valutare la preghiera per l’aspetto della relazione con Dio e
non per la quantità di cose dette. Questo è l’impianto del discorso. Se la preghiera è concepita come
ascesi, come allenamento, è detta a macchinetta, perché l’allenamento ha questa funzione, di creare
dei riflessi condizionati e quindi di togliere il bisogno di entrare con la mente a guidare ogni atto,
ma che tutto avvenga in automatico e quindi, “meglio”. Questo è il concetto di virtù che trovate in
San Tommaso d’Aquino.

Un altro esempio dalla Storia Lausiaca, la vergine che peccò e si pentì: “Una vergine asceta,
vivendo con altre due, si era applicata all’ascesi per nove o dieci anni, venne sedotta da un tale,
che faceva il cantore, cadde nel peccato e avendo concepito, partorì. Ma quando arrivò al culmine
dell’odio per colui che l’aveva sedotta, sentì la compunzione dell’anima nel profondo e si spinse
innanzi così nel pentimento d’avvolgersi senz’esitazione nell’astinenza e da consumarsi nel

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digiuno. E nelle sue preghiere supplicava Dio con queste parole: «Tu, Dio grande, tu che porti il
peso dei mali di ogni creatura, e non vuoi la morte o la perdizione di coloro che sbagliano, se tu
consenti che mi salvi, mostrami in questo le tue meraviglie e raccogli il frutto della mia colpa che
ho generato, affinché io non abbia a servirmi di una corda o a lanciarmi verso la morte» – pensieri
di suicidio e invocazioni perché Dio prenda con sé il bambino – In questa forma pregava e fu
ascoltata, la creatura nata da lei morì non molto tempo dopo. La carità al prossimo – l’amore verso
il figlio - è inferiore ai doveri monastici – curioso! Da quel giorno non si incontrò più con colui che
l’aveva sedotta e dandosi totalmente al più rigoroso digiuno, prestò i suoi servigi alle donne malate
e paralizzate per trent’anni. La sua insistenza aveva commosso Dio al punto che fu fatta questa
rivelazione ad uno dei santi presbiteri: «Quella tale mi è riuscita più gradita nel pentimento che
nella verginità!» Scrivo queste cose perché non abbiano a provare disprezzo verso coloro che si
pentono sinceramente”. È un racconto edificante, fatto con molto scarsa virtù, proprio perché
emette tale disprezzo della vita umana e questo certamente non è cristianesimo.

C’è un altro esempio che ci interessa: nel momento in cui nella Chiesa non ci sono più le
persecuzioni, per un motivo molto semplice - gli imperatori stessi sono diventati cristiani, o quasi, o
comunque la Chiesa era diventata così numerosa e potente, perché non è certo un atto politico o di
buon senso mettersi a fare delle persecuzioni, quello che è il desiderio cristiano di martirio è senza
dubbio frustrato, proprio per mancanza di persecuzioni! E il problema è questo: l’imitazione di
Cristo si presenta al suo massimo livello nell’imitazione della sua morte? Perché se imiti un martire
e ben che vada, ti capita di morire martire, non è che tu possa pensare a qualcosa d’altro. Il mio
ruolo è di imitare un martire – ma non c’è più nessuno che mi martirizza, nessuno mi vuole
uccidere, come faccio a fare il martire? Ecco allora, in questa logica, nasce il monachesimo come
martirio, perché se non c’è più il martirio da persecuzione, io debba fare nella mia vita cose che mi
diano dolore come se fossi un martire. Vado a scegliere allora le cose che mi danno più dolore: non
mangiare, oppure se qualcuno che ha bisogno bussa insistentemente alla porta della mia cella e
siccome uscirei volentieri, se non altro, per fare quattro chiacchiere e cosi lo si aiuterebbe anche –
no! Sto dentro, non lo vado ad aiutare anche se piange e poi, d’improvviso, la rivelazione: era il
demonio che mi tentava di violare la regola! Tanti esempi di queste Vite dei monaci fanno vedere
che l’importante è la cosa in sé, il digiuno in sé, non per stare in rapporto con Dio; la mortificazione
in sé, non per stare in rapporto con Dio. In uno dei testi della Vite dei monaci copti in Egitto, c’è
questa descrizione di un monaco che racconta tutte le sue penitenze: digiunava continuamente,
faceva tante genuflessioni tutti i giorni, ad ogni salmo, ad ogni versetto, una genuflessione. Un
monaco viveva con tante catene di ferro addosso e faceva le genuflessioni, finché poteva. Un altro,
più in là, ma ancora in vista, faceva altrettanto e quando morì, il primo mandò a prendere le catene
dell’altro e si mise addosso anche quelle, in modo di fare questa genuflessione portando tutte le
catene. Alla fine, dopo aver elencato tutte le penitenze, tutte le più strane, le più folli, ad esempio, il
non lavarsi mai per decenni, al punto che, ne La Storia Lausiaca si racconta che con tutte queste
infezioni che uno si era prese, a furia di non lavarsi, andavano in cancrena alcuni arti e una volta per
strada il monaco ne perse uno. Alla fine conclude il monaco: “E non mi venite a dire che tutte
queste sofferenze sono inferiori alle sofferenze di un martire!” Qui ti volevo! Dimenticando che il
martire è un testimone – non è uno che soffre tanto. Se Gesù fosse morto in un’anestesia generale,
supponete, sarebbe stato meno martire? O se i vari santi uccisi nel martirio fossero stati tutti
addormentati in modo da morire nel sonno, riempiti di morfina, non sarebbero stati meno martiri? Il
martirio non è il dolore, è la testimonianza verso due poli: uno in alto, verticale, verso Dio, e uno in
basso, orizzontale, testimonianza della propria fede in Dio, del livello di credere in lui ai fratelli,
vicini e lontani, dell’imitazione di Cristo. Allora se tutte queste pratiche sono fine a se stesse, questa
donna, presa dal pentimento, arriva a dire: “Toglimi la creatura, perché mi è di ostacolo
nell’ascesi”, queste penitenze feroci che uno fa, tutte queste cose sono catalogate fine a se stesse.

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Se prendiamo il vocabolo del primo esempio quando Macario risponde a Paolo, diremmo: "Non hai
il cuore puro”, perché la preghiera la valuti per quanto fai e non per il rapporto con Dio, e queste
mortificazioni le valuti non come martirio, testimonianza a Dio della fede e al prossimo
dell’imitazione di Cristo, ma le valuti per se stesse, per quanto male ti fanno. Allora, se tu lo valuti
così, il martirio non è più “martirio”, ma è dolore e basta. Per trasformare il dolore in martirio,
bisogna che ci sia la testimonianza a Dio e al prossimo: allora è un martirio. Noi, invece, su queste
cose andiamo tranquilli - dove “tranquilli” vuol dire che non c’interessa niente questo aspetto
teologico della questione.

Ad esempio, uno che difende, supponiamo, i diritti della Chiesa a possedere gli edifici di culto, e
per questo viene ucciso dal potere civile che dice: “Io confisco tutto!” “No, io mi oppongo!”
“Benissimo, ti condanno a morte, perché ti opponi alla legge!” San Luigi IX aveva confiscato i beni
della Chiesa, perché erano troppi ai suoi tempi e l’Arcivescovo di Rheims l’aveva minacciato con la
scomunica e lui aveva detto: “Il re sono io, ci provi!” E l’Arcivescovo non l’ha scomunicato. Allora
uno che muore martire, supponiamo, per la difesa dei diritti della Chiesa, lo facciamo santo. Non è
vero, non è testimone di Dio, è testimone degli interessi della Chiesa e non è neanche detto che
questi interessi siano legittimi, possono anche essere illegittimi gli interessi della Chiesa. Una volta
accadde che un architetto, urbanista, doveva diventare diacono permanente e fece il piano
regolatore per la Regione in una certa Provincia e mise ad area verde i terreni parrocchiali di una
certa parrocchia. Male gliene incolse, perché i parroci della zona in una riunione dissero: “Questo
danneggia la Chiesa! Andiamo dal vescovo, chiedendo di sospendere l’ordinazione diaconale di
questo architetto, perché non vuole riconoscere area fabbricabile i terreni della Chiesa – li ha messi
ad area verde!” Il vescovo ha chiamato questo architetto e gli ha chiesto: “Ma, com’è questa storia?
C’è stata una riunione dei parroci…” Risposta: “La volontà di coloro che hanno donato con
testamento questi terreni alla Chiesa è che vadano per il bene di tutti, per il bene dei cittadini, per il
bene della popolazione dei cristiani, non per fare una speculazione edilizia sulle aree fabbricabili. E
quindi io, per rispettare la volontà dei testatori, li ho messo ad area verde, in modo che sia un bene
fruibile da tutti e faccia anche bene alla salute dei cittadini che vanno in Chiesa, perché tutti quanti
questi terreni sono attorno alla Chiesa, invece il parroco vuole fare dei bei casermoni”. Il vescovo
diede ragione all’architetto – privatamente. Non diede mai torto ai parroci; però l’ordinazione
diaconale non venne sospesa, venne solo rimandata. Per non scontentare i parroci, rimandare
un’ordinazione diaconale! Ma dato che aveva ragione l’architetto, non gli poteva negare
l’ordinazione. In ogni caso, il bene spirituale, l’ordinazione, venne veicolato ad una posizione di
cultura sociale e politica, legata alla pubblica edilizia e ai piani regolatori, non agli interessi del
regno di Dio ma a quelli della parrocchia, non come ente della Chiesa, che annuncia il regno di Dio,
ma come ente economico.

Su queste cose facciamo sempre confusione e allora uno dice: “…è uno che ha difeso i diritti della
Chiesa, è morto: è martire?” “No, è morto ingiustamente per dei giusti diritti, ma il martirio c’è
quando c’è la testimonianza a Dio e ai fratelli. In questo caso, nel monachesimo, i darsi delle
torture, le catene, le genuflessioni, il fare digiuni tremendi, stare vestito con il mantello di pelli di
capra, che è l’abito del monaco, tutto il giorno su una pietra rovente in mezzo al deserto sotto il
sole, e nudo tutta la notte nel freddo tremendo, questi atti non hanno nessun senso: nessuno ti vede
neanche. Escogitare delle trovate di questo genere, come fai? Soltanto la ricerca furiosa del dolore e
della sofferenza spiega come si possa escogitare delle penitenze così sofisticate, senza
testimonianza a Dio né al prossimo. Il concetto di penitenza in questi casi non è il concetto cristiano
di penitenza: questo è il dolore autoinflitto. Ecco allora che l’analisi fatta recentemente del caso di
religiose medievali che vivevano di digiuni, vennero definite dalla medicina di oggi, le sante
anoressiche – ammalate, quindi, non penitenti, perché la penitenza è seguire Gesù nel cammino del
Calvario, ma è chiaro che bisogna essere abbastanza intelligenti da capire che seguire Gesù nel
cammino del Calvario non è un fatto materiale, ma un fatto morale e interiore. Allora, al discorso:

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“Non sono queste penitenze paragonabili alle sofferenze che i martiri dovettero subire?” – la
risposta è: “No, non sono paragonabili, perché i martiri testimoniarono; le penitenze monastiche,
fine a se stesse, non sono testimonianze a nessuno, anche se alla base c’è l’idea felice
dell’allenamento, l’ascesi, gli esercizi per abituarsi ad abbandonare questa terra e vivere di Dio.
Questo è il nucleo genuino del monachesimo. Se guardiamo il panorama del monachesimo di tutte
le epoche, eccetto la nostra, noi vediamo che la ricerca della penitenza e la sofferenza è una
costante, che finisce con episodi classici, come si legge nella vita di Mons. Comboni, fondatore
delle Missioni comboniane. Quando era ammalato e l’infermiera andava a fargli le punture lui
diceva: “Per favore, mi faccia male!” Ci lascia un po’ perplessi, ma faceva parte dell’ideologia delle
sofferenze, che arriva poi a dire, nella famosa pastorale degli ammalati: “Beata Lei che soffre!
Partecipa alle sofferenze di Cristo!” Non è vero, non partecipa per niente alle sue!” Nel momento in
cui diventassimo martiri, cioè, testimoni del cammino di Cristo, allora la sua sofferenza entrerebbe
nella testimonianza. Ma dev’essere la testimonianza il valore, la locomotiva che tira, non le
sofferenze in quanto tali, che di per sé sono neutre. La sofferenza di per sé non è né buona né
cattiva, è un fatto biologico, che fa parte necessariamente della vita dell’umanità. E allora per i
discorsi che si fanno: “Lei ha questa sofferenza, l’offra al Signore!” - nasce l’idea del cristiano, che
vive in odio alla vita, in odio all’umanità, non riconosce i doni della creazione e non sa rendere
grazie a Dio per la bontà delle cose che lo circondano. Tutta l’eucarestia, la Messa, è fatta di
“rendiamo grazie al Signore nostro Dio”, e si incomincia con il racconto della Creazione, perché
tutte le cose che Dio ha creato sono buone e non c’è nulla da rifiutare di ciò che si prende con
azione di grazie: è santificato dalla parola e dalla preghiera (1Tm 4,4-5).

Il monaco non fa neanche l’eucarestia, il monaco in Egitto ha questi problemi gravi dei vescovi che
lo accusano di rifiutare la celebrazione eucaristica e risponde: “Ma noi abbiamo lo Spirito Santo,
possiamo fare a meno”. E allora che arriva la mediazione, arrivano i diaconi che la domenica
partono dalla chiesa del paese e vanno a portare l’eucarestia ai monaci, i quali non vanno a Messa.
E quando i diaconi non possono per qualche motivo, i monaci hanno subito la risposta pronta: “Ma
a noi l’eucarestia non è mancata, perché è venuto un angelo dal cielo a portarcela, quindi diaconi o
non diaconi, c’è sempre un angelo dal cielo che ce la può portare – sottolineando la posizione di
superiorità dei monaci, perché i diaconi ordinati erano visti come angeli sulla terra.

I monaci avevano creato questa grande tradizione splendida, avevano però degli equivoci di fondo.
Non avevano capito che l’imitazione di Cristo non è prendere i chiodi e forarsi le mani,
inchiodandosi fisicamente, perché quei monaci, come penitenza, facevano proprio quello. Tutto
quello che addolorava, lo facevano. Oggi queste cose accadono ancora in Palestina e nelle Isole
Filippine; al Venerdì Santo c’è sempre qualcuno che si fa inchiodare sulla croce. I giornali riportano
sempre questi dati impressionanti. E perché lo fanno? Perché si confonde l’imitazione di Cristo con
il dolore fisico - e il dolore fisico non c’entra. L’imitazione di Cristo c’è nella gioia e nel dolore: di
gioia ce n’è nella vita, di dolore ce n’è qualcuno, nell’uno e nell’altro caso, quello che conta è che
nella gioia e nel dolore ci sia l’imitazione di Cristo, nella situazione in cui si è. Questa penitenza,
quindi, è qualcosa che è essenzialmente materiale, anche se voi vedete che ci sono dei grandi
maestri spirituali che poi dicono: “No, non è quello, non hai il cuore puro!” All’interno del
monachesimo c’erano i correttivi, solo che quello che ha fatto scuola non erano i correttivi, ma la
massa delle penitenze che venivano fatte.

La cosa è ancora più seria se noi pensiamo che c’era anche il problema del peccato. In Egitto,
davanti alla chiesa costruita nel basso Egitto, per i monaci di Scete c’erano gli strumenti di tortura
lungo il Nilo, perché i monaci venivano puniti fisicamente, venivano appesi a queste croci di
Sant’Andrea e frustati per le cose cattive che avevano fatto. I monaci spesso erano delle persone un
po’ sbandate, che non sapevano che pesci pigliare nella vita e finivano per andare in questi gruppi di
individui strani, che erano i monaci d’Egitto. Al punto che alcuni di questi monaci non erano

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nemmeno battezzati. Non conoscevano il Vangelo. Ecco allora che facevano dei programmi di
alfabetizzazione cristiana, in modo da insegnare un po’ di Vangelo a queste persone. Ecco che per
l’Epifania in questa chiesa si facevano dei battesimi dei monaci che non erano ancora cristiani e che
quindi erano vissuti a lungo in preparazione e tante volte non venivano accettati. C’erano anche
delle situazioni limite: un monaco che rubava, un monaco che uccideva…In fondo le città
monastiche dell’Egitto erano lo specchio delle città non monastiche dell’Egitto, dove c’erano dei
buoni, santi, cattivi, delinquenti, vestiti da monaci o vestiti da laici, era la stessa cosa. Poi, tutti si
convertirono, chi più, chi meno, verso la fine della vita. E chi non si convertì diventò un esempio di
ciò che può capitare se non ti converti.

C’era la remissione dei peccati per questi monaci? No, nessuno si era mai sognato che ci fosse un
rito di penitenza, della remissione delle colpe. Nella Chiesa orientale queste cose nascono tardi.
Ecco allora che uno va dal suo padre spirituale e dice che ha tanta angustia per i suoi peccati e il
padre gli dice: “Fa’ tanta penitenza!” e così fa l’altro. E questo, fino al punto che accade il seguente
episodio, molto curioso. Nel V secolo, si racconta di Abba Shenute, nelle Vite dei monaci copti, che
viveva in una caverna dentro la roccia alta e larga quanta la sua statura e la porta apriva al di sopra
di lui come una finestra. Il padre spirituale di Abba Shenute andava da lui ogni settimana e lo
benediceva al sabato e alla domenica e gli portava una piccola giara d’acqua e un po’ di pane per il
bisogno della settimana. Queste sono espiazioni dei peccati.

In questa situazione ci dobbiamo chiedere: “Ma per la remissione dei peccati come facevano?
Facevano le penitenze e questo vi fa capire come fosse importante per la salvezza fare più penitenze
che si poteva, perché era l’unico modo per imitare Cristo nella via del Calvario, dato che i tuoi
peccati potevano essere espiati solo imitando Cristo. La penitenza viene concepito come “il modo
per salvarsi”. C’era però l’esigenza che ci sia la remissione dei peccati e l’esigenza di imitare
situazioni in cui c’è già la remissione dei peccati, ad esempio a Roma nel V secolo abbiamo il rito
della remissione dei peccati. Qui in Egitto succedette questo fatto: “Dopo che il mio padre
spirituale mi chiamò e mi disse tutte queste cose, costruimmo la chiesa secondo il piano che ci
aveva insegnato, quando ci fummo moltiplicati e divenuti numerosi, il mio padre spirituale mi
disse: «Ecco, si avvicina il giorno del nostro beato fratello Abba Fib, mandiamo a chiamare tutti i
fratelli che sono sulla montagna e facciamo con loro un’agape con gioia e letizia, perché di lui il
Signore disse a me: ‘Io mostrerò la mia gloria nel suo giorno ogni anno e nel mio nome avrà gloria
su tutta la terra’»”.

Che cosa era successo? Nel Libro dei santi nella liturgia alessandrina si narra la vicenda di questo
Abba Fib, il quale, nel giorno della sua morte, essendo stato un grande monaco e quindi un martire,
ha meritato ad immagine di Cristo la remissione dei peccati di tutta l’umanità per chi in quel giorno
andasse nella sua chiesa, dove c’è la sua tomba, e s’inginocchiasse e pregasse. Capite che cosa
hanno fatto questi monaci? Si sono inventati la remissione dei peccati una volta all’anno, come nel
giudaismo con il Kippur. E il giorno in cui si celebra la festa di Abba Fib è dieci giorni prima del
Kippur giudaico. Ma, notate, è una rivelazione di Gesù che dice: “Come io ho portato la salvezza al
mondo, così tu, Abba Fib, grande padre spirituale di tutti questi monaci, porterai la salvezza al
mondo. Come? Chi verrà ad inginocchiarsi nella chiesa nel giorno dell’anniversario della tua morte,
avrà la remissione dei peccati. Nel monachesimo si capiva che non ne potevano più dell’essere
angustiati con quella storia della remissione dei peccati affidata soltanto alle penitenze. Ci voleva
qualcosa di più maneggevole delle penitenze, più agibile. Ecco allora il racconto che è molto bello:
”Io feci quello che aveva detto il mio padre spirituale e andai a chiamare per tutta la montagna a
tutti i fratelli di riunirsi nel giorno santo che il Signore che aveva dedicato al nostro fratello, Abba
Fib. Dopo che fummo riuniti insieme, il 24 di Paope, il mese copto, passammo tutta la notte sul 25
in gioia e allegrezza, facendo molte sinaxeis (= liturgie) e salmodie, rallegrandoci nel nostro
spirito. Come venne l’alba, morì un piccolo fratello di nome Zaccaria, costui era un giovane gentile

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con tutti e il mio padre spirituale l’amava moltissimo per tutti gli atti buoni che faceva. Lo
portammo nella chiesa e i fratelli rimasero a vegliarlo, finché lo seppellissero, infatti era l’ora
sesta. Dopo che lo ebbero preparato per la sepoltura, cominciammo a pregare tutti insieme e il mio
padre ci fece stare distesi a lungo bocconi. Poi il mio padre spirituale si alzò e stette in piedi e disse
ai fratelli: «In verità a tutti quelli che si sono prostrati in questo luogo – era la chiesa di Abba Fib –
Dio ha rimesso i loro peccati, come il giorno in cui sono nati». Alcuni fratelli dubitarono, altri
invece credettero. Allora sobbalzò il piccolo Zaccaria che era morto e si sedette e i vestiti caddero
da lui ed egli si alzò e camminò qua e là. Finalmente gridò: «Uno è Dio, il Cristo Gesù nostro
Signore». Si meravigliarono tutti quelli che stavano lì ed egli disse: «Credetemi, o popolo che ama
Dio, che a chiunque si trovi qui oggi Dio ha rimesso i peccati, come nel giorno in cui nacque. E a
quello che s’inginocchierà in questo luogo saranno rimessi i suoi peccati nel nome del nostro
fratello Abba Fib. Questo è un grande mistero, miei padri e fratelli che amate Dio». Dopo che ebbe
detto questo, giacque e le vesti lo riavvolsero di nuovo. La gente che l’aveva visto si meravigliò e i
loro cuori si rinsaldarono e riconobbero che il loro pentimento provenne da Dio e che egli diede il
dono di rimettere i peccati al nostro fratello Abba Fib – il Vangelo dice, a Gesù – a gloria della
Santa Trinità…”

Nasce così nella liturgia alessandrina un giorno per la remissione dei peccati per i meriti di Abba
Fib, con il rito dell’inginocchiarsi. Senza l’assoluzione, senza sacerdote – basta andare e
inginocchiarsi sulla tomba di Abba Fib. Vedete, è curiosissimo questo fatto, perché noi abbiamo la
testimonianza che la liturgia della penitenza in oriente nasce in ambito monastico. Sono i monaci
che, ossessionati dal peccato, a furia di penitenze non riescono a risolvere il problema – e più fai
penitenze, più resti nell’incertezza, non ne sai niente – si arriva a questo punto ad avere un giorno
che è entrato nell’anno liturgico alessandrino, il giorno della remissione dei peccati, per i meriti di
Abba Fib. Nessuno lo fa più oggi, però nel lezionario si continua a leggere questo episodio, come
anche nella Vita dei monaci copti.

Noi abbiamo il desiderio dell’uomo di affrancarsi dal peccato, come imitazione di Cristo;
abbandonare il mondo è l’unico modo sicuro di affrancarsi dal peccato – mi faccio monaco, il
peccato è lì uguale, che mi aspetta dietro la porta, non cambia niente. Non si può cambiare
situazione, sperando di cambiare se stesso – sei tu che cambi e dall’interno cambi anche le
situazioni. E il risultato di questa faccenda, qual è? Che questi monaci si ammazzano di penitenze,
però nessuno muore di penitenze, perché tutti tengono a dirti: “Guarda che ho vissuto ottant’anni,
cent’anni e le penitenze mi hanno fatto bene!” Sant’Antonio ha superato i cento e l’autore della Vita
di Antonio mette in evidenza nell’ultimo capitolo che aveva ancora tutti i denti ancora sani, un po’
consumati certo, ma sani – quindi, digiunare fa bene. Cosi hanno parato il colpo dell’eventuale
accusa di essere nemici del corpo e della vita. Sicuramente, però, facevano di tutto per soffrire. Ma
il problema non era risolto. Ecco allora l’idea – il pentimento e il perdono viene da Dio, che appare
ad Abba Fib, dicendogli: “Con la tua morte io creerò una grande occasione nel mondo, la
remissione dei peccati, per chi verrà ad inginocchiarsi nella tua chiesa”.

Vedete che anche qui il discorso di ricupero non è che un sacerdote ti faccia una preghiera e ti
assolve, è il rapporto diretto con Dio. Il monachesimo aveva creato una tecnica di allenamento
all’uscita dal mondo, per uscire dal peccato, come nel martirio. Non ha funzionato. Il rapporto
diretto con Dio è l’elemento che ti deve garantire che Dio si occupa di te, che tu non sei
condannato, che Dio si prende cura di te, se tu fai una certa cosa, che dimostra che tu l’hai ascoltato:
andartene ad inginocchiare nella chiesa dove c’è la tomba di Abba Fib. Questa Chiesa alessandrina
ha prestato molto della sua liturgia alla Chiesa romana. Noi poniamo tutta la logica del sacramento
della penitenza nella frase: “Io ti assolvo”. È tutta la questione il farsi assolvere. Questi monaci non
hanno mai saputo che esisteva il concetto dell’assoluzione. Andavano ad inginocchiarsi nella chiesa
di Abba Fib. Erano meno cristiani di noi? Cristianissimi! Ma la loro è una Chiesa diversa da quella

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romana? Identica, è una Chiesa sorella della Chiesa di Roma, al punto che il Papa di Roma si
chiama papa, perché hanno importato a Roma il titolo dal patriarca, dal papa di Alessandria. Vuol
dire “il padre dei vescovi”.

Se noi consideriamo questa logica delle Chiese sorelle vediamo quindi che il problema è
apertissimo e nessuno può tirarsi fuori dicendo di averlo risolto: “Noi abbiamo il sacramento
dell’assoluzione!” Tante Chiese sorelle non ce l’hanno e non l’hanno risolto come noi che ce
l’abbiamo. Per di più, questi monaci non sapevano che c’era un sacramento dell’assoluzione,;
cercavano di fare l’imitazione di Cristo sbagliando strada, rendendo materiale l’imitazione di Cristo
e non vorrete dirmi che tutte queste penitenze valgano un martirio – no, non l’equivalgono, perché
non è la ferocia della sofferenza, ma il testimoniare quello che costituisce il martirio. Ebbene anche
la Chiesa di Roma per millecinquant’anni circa non conosceva la frase: “Io ti assolvo”. Facevano
penitenza, non alla maniera materiale di quei monaci, ma in un modo più ponderato, tuttavia la
scelta era la penitenza.

Conclusione: oggi, proporre la penitenza è una stranezza, eppure tutto il monachesimo ha dietro le
spalle una storia milletrecentenaria di penitenze. Se andate in certi monasteri maschili oggi vedete
che nella cella confortevolmente arredata ci sono tutte le comodità di questa terra: fornellino per
cucinarsi qualcosa, televisore, il video registratore, lo stereo, Internet, il computer, tutto a spese del
monastero…Proporre la penitenza, che cosa vuol dire? La risposta è: “Ma io devo fare il mio
lavoro”. Certo, devi lavorare, però, la penitenza in quel caso come si configura? È difficile fare
proposte di penitenza oggi, ma l’evangelizzazione monastica dovrebb’essere questa: una vita di
radicale imitazione di Cristo, a costo di fare penitenza. Là dove non ci riesce di imitare Cristo, si fa
penitenza per imitarlo meglio, sapendo che il monachesimo è esso stesso sacramento della
penitenza e questo lo dimostreremo la prossima volta. Quindi, non c’è bisogno della liturgia della
penitenza, perché il monaco è una liturgia penitenziale vivente, dato che fa penitenze. Non usavano
il sacramento della penitenza i monaci – perché? Sei già tu monaco. Noi, invece, abbiamo fatto di
ogni erba un fascio e quindi abbiamo perso questa specificità curiosa del monachesimo di essere
capace di vivere e di parlare di penitenza, dove oggi l’ideale è lo stare bene. È giusto stare bene,
però, per stare bene si richiede a volte un po’ di allenamento a qualcosa, una conversione del cuore,
delle penitenze, le milleottocento genuflessioni a notte che dicevamo lunedì scorso.

In risposta a una domanda sul precetto “Offri al Signore i tuoi dolori…”


Partecipazione alla croce di Cristo è partecipazione alle sofferenze come testimonianza dei martiri,
perché Gesù non è venuto per morire. Lui ha sperato fino in fondo che Israele credesse al suo
messaggio e si convertisse ed è il suo disagio fortissimo nell’orto degli ulivi quando suda sangue,
perché capisce che la cosa non andrà così e che c’è un destino tragico davanti. Ma Gesù è venuto
per la reale conversione d’Israele, non è venuto per dire: “Io faccio finta, dico che vorrei che vi
convertiste, invece, voglio che voi diciate di no e poi alla fine mi prendete, mi uccidete e io sarò
tanto contento, perché il Padre ha voluto che io venissi qui per soffrire e morire”. Quando mai? Mai
il Padre ha voluto questo. A proposito, la professione di fede apostolica ad Antiochia, alla fine del
IV secolo, dice in un testo bellissimo: “Lo hai mandato nel seno di una vergine e lo hai inviato nel
mondo, hai permesso che morisse…”cioè la volontà di Dio è precisa sulla venuta di Cristo e diventa
permesso che morisse, perché la morte di Cristo è un peccato degli uomini e Dio non può volere un
peccato. La morte non è lo scopo per cui Cristo è venuto. Una volta che era arrivato a quel punto, si
è reso conto che da lì non c’era via d’uscita. Non “Nonostante la mia morte porto la salvezza, ma
proprio a causa della mia morte porto la salvezza” - perché? La sua causa per cui era venuto non
solo non patisce scacco dalla sua morte, ma trionfa proprio con la sua morte, perché la sua morte
viene assunta come martirio. Non sono gli altri che gli tolgono la vita, ma è lui che pone la sua vita
per la salvezza del mondo. Riprende in mano il suo destino; era il suo destino che il sinedrio lo
condannasse a morte, ma a quel punto lui ribalta la situazione e va avanti in quella strada con la

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testimonianza. È Luca che ha questa precisa concezione della morte di Cristo in croce come morte
del martire. L’imitazione di Cristo è quella: intanto, moriremo tutti, bisogna vedere se la nostra
morte sarà una testimonianza, cioè un “martirio” o sarà “la fine di un ciclo biologico” oppure “una
disperazione”. La nostra morte ha un valore, come tutti gli altri atti della nostra vita, in cui si soffre
e non si soffre, si gioisce e si soffre. Per il valore della gioia e della sofferenza, bisogna vedere se ci
riesce a trasformare gioia e sofferenza in testimonianza. Se uno riesce a dare testimonianza solo
nella sua sofferenza, il Signore lo guiderà nella strada della sofferenza, perché il Signore è fatto
così, e se uno riesce a testimoniare solo nella gioia, il Signore lo guiderà nella strada della gioia,
perché il Signore è fatto così. E non si può dire che una sia la via di Cristo e l’altra, no. Ci sono
delle persone che nel momento della morte hanno una gioia infinita e si vede guardando loro in
faccia. Che cosa vedono non lo so, però certamente quella non è una morte sofferta – è veramente la
nascita in una nuova vita – anche se questo tipo di parto è un po’ più doloroso dell’altro. Però, è
sempre un ricupero.

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RITI PENITENZIALI CON SPECIALE RIFERIMENTO
AGLI USI MONASTICI – 3

17 DICEMBRE 2001 Mons. ENRICO MAZZA

Giacché tutti si muovono, avendo già delle idee sull’argomento, allora bisogna fare tabula rasa
prima. Per noi, il sacramento della penitenza consiste nell’assoluzione. Tutto il problema è: mi
hanno assolto, o non mi hanno assolto? È una questione molto seria, perché impostare così il
problema, alla base delle nostre conoscenze, significa non poter più capire i dati antichi. Nel 1993 è
uscito un bellissimo libro intitolato Il sacramento del perdono, fatto in collaborazione con vari
autori. Due di loro sono quelli che hanno messo insieme il materiale, hanno scelto i collaboratori,
Paul Leclercq, un belga che è stato sedici anni Preside dell’Institut Liturgique de Parigi e Louis-
Marie Chauvet, che è stato il teologo dello stesso istituto. Dal ’93 fino adesso nessuno si era
occupato di quest’opera, ma mi è sembrato che forse la situazione attuale fosse più adatta e l’ho
fatto tradurre; sarà pubblicata dall’editrice Cittadella di Assisi e uscirà verso giugno del 2002.

In quest’opera molto saggia, molto seria, anche grandi autori, come Chauvet, ad esempio, oscillano
sempre sul problema dell’assoluzione. Cioè, l’assoluzione è la questione fondamentale. Un grande
teologo, Sesboué, alla redazione dell’opera, ha messo addirittura una nota, dicendo che su queste
basi l’analisi storica è insufficiente. E poi si indicano tre opere sulle quali rivedere le basi
dell’analisi storica. Questo, per fare vedere che anche presso grandi autori il problema di che cosa
sia il sacramento della penitenza è veramente incredibile – non si sa che pesci pigliare. Ecco allora
che noi siamo bloccati sul questo concetto: il sacramento della penitenza è l’assoluzione – e se
nessuno ti assolve? è un problema; se qualcuno ti assolve, è fatto! La prima cosa da vedere è che il
sacramento della penitenza ha due livelli: il sacramento della riammissione alla Chiesa e il
sacramento terapeutico della coscienza. Quest’ultimo è di origine monastica, l’altro di origine
episcopale. Il sacramento, inteso nel senso ampio, come si direbbe, la liturgia della penitenza, è una
liturgia terapeutica e una liturgia di riammissione alla Chiesa.

Noi – e questo è un difetto grave della teologia – li abbiamo fusi insieme questi due aspetti e come
se fosse un pendolo, passiamo dall’uno all’altro tranquillamente, pensando che sia la stessa cosa,
anzi dicendo che l’ordinazione sacerdotale che ci vuole per il primo, quello ecclesiastico,
episcopale, per riammettere alla Chiesa, è un titolo sufficiente per sviluppare anche la seconda
parte, quella terapeutica, per fare il padre spirituale. Invece uno può essere ordinato sacerdote e non
avere alcuna attitudine o competenza ad essere padre spirituale. Infatti, tutti quelli che cercano un
padre spirituale vanno a cercare il carisma di quella persona, non basta loro sapere che sia ordinato
sacerdote. Sennò, basterebbe dare un colpo di telefono al coadiutore della parrocchia più vicina e
subito tutto è fatto, ecco il padre spirituale.

Una volta nella mia diocesi, morì il padre spirituale che tutti i sacerdoti avevano avuto come padre
spirituale per tutta la vita. Partecipai alla riunione del Consiglio presbiterale - problema: come
facciamo, che non c’è più il padre spirituale? Non erano tutti preti? Se si cerca l’ordinazione, lì ce
n’era in abbondanza e voi preti, che avete tanta difficoltà nel cercare il vostro padre spirituale per
voi, nella vostra parrocchia poi, imponete voi stessi a tutti i vostri parrocchiali, che non hanno
nessuna possibilità di scelta e negate loro anche l’esistenza del problema. Se si vogliono confessare,
debbono venire da voi e non vi sembra neanche legittimo se dicono: “Ma io dal mio parroco non ci
vado”. E tu, parroco, perché non ti confessi dal tuo coadiutore? “Eh, no, io sono il parroco!” E
allora perché debbono venire i tuoi parrocchiani da te? Si cerca il carisma confessione-terapeutico

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presso l’ordinazione sacerdotale nella confessione di riammissione alla Chiesa. Sono due problemi
diversi con due logiche diverse e bisognerebbe arrivare anche a doppia ritualità completamente
diversa, pur sapendo che le cose sono mescolate da sempre.

Il comportamento attuale dei teologi che si occupano di questo argomento è di questo tipo:
prendono il Concilio di Trento, un Concilio che ha avuto una grande importanza, e trovano un
canone, un articolo, una frase corta, che dice: “I fedeli sono obbligati a confessare tutti i peccati
mortali, che, dopo attento esame di coscienza sono alla loro mente, per diritto divino, come è
sempre stato ad uso nella Chiesa”. Dicono poi, gli storici ci hanno fatto vedere che non è sempre
stato uso nella Chiesa. Si dice poi che il Concilio di Trento si sia mosso sulle conoscenze storiche
dell’epoca, ma che non abbia voluto fare un’opera da storico, ma semplicemente ripetuto quello che
si credeva allora. Quindi, il Concilio di Trento va tenuto presente quando si pronuncia sugli articoli
di fede e non quando si pronuncia sulle questioni storiche, perché i concili non sono fatti per
decidere come sia andata la storia. La teologia in questo caso è a rimorchio della storia. Gli storici
hanno elaborato l’altra questione: ci sono due tipi di sacramento della penitenza, quello terapeutico
e quello di riammissione alla Chiesa.

Un esempio per dire quanto siano inferme tutte due queste possibilità ai nostri giorni: sono malate e
le malattie talvolta conducono alla morte. È malata la questione del padre spirituale come guida
spirituale delle coscienze – trovare un padre spirituale non è facile. Quando poi l’avete trovato, si
dice: “Se trovo uno migliore, cambio”. Vuole dire che ci sono dei problemi. I problemi da dove
vengono? Anche dalla scarsa cultura della paternità spirituale, che viene presa come un’attività
parallela del sacramento della penitenza e non come un’attività autonoma di condurre uno sulle
strade del regno dei cieli. Questo aspetto terapeutico è il problema di chi oggi cerca qualcuno che lo
guidi verso Dio e che lo guidi con l’esempio e con la parola, non solo dicendogli cose scontate in
confessione: le esortazioni in confessione, la maggior parte delle volte, sono scontate. Poi il
penitente che è bravo ed è guidato dallo Spirito di Dio le mette a frutto e riesce a trovarci quello che
lo Spirito di Dio ci ha messo. È veramente un problema.

E la confessione come riammissione alla Chiesa? È inferma anche quella: come volete fare la
riammissione alla Chiesa, se nessuno ti ha buttato fuori? L’assoluzione è il momento in cui tu vieni
ufficialmente riammesso alla Chiesa, al banchetto celeste, rappresentato dall’Eucaristia. Perché?
Chi mi aveva buttato fuori? Nessuno, anzi, guai a pensarlo! E allora, che riammissione è, se non c’è
stata l’espulsione? Questo è il punto. Nella Chiesa antica, il punto base è sempre quello
dell’espulsione, che si chiama la scomunica. Oggi non esiste più, è una pena ecclesiastica. Però, il p.
Karl Rahner, un grande teologo, aveva avuto una buona intuizione, dicendo che l’espulsione c’è
ancora oggi, solo che è affidata alla coscienza del singolo, il quale, nel momento del peccato si
autoscomunica, si dà un’autoscomunica liturgica e si proibisce da solo di andare all’eucaristia. Ha
ragione Rahner: sopravvive l’antica scomunica a questo livello, ma con un difetto fondamentale. Se
c’è l’autoscomunica, dovrebbe esserci anche l’autoriconciliazione e la cosa non si può evitare. Fatto
questo, che non è più il vescovo che ti scomunica, ma sei tu che ti scomunichi, dovresti essere tu
che ti riammetti.

C’è una frase oggi che circola: “Troppe comunioni” - il che non è vero, si dovrebbe dire forse
“Troppo poche confessioni”, ma è tutto da discutere. Tuttavia non si può dire: “Troppe comunioni”.
Perché chi è ammesso alla cena del Signore deve fare la comunione come norma. Noi invece
abbiamo l’uso di fare l’esame di coscienza e vedere se possiamo farla. Quindi, la decisione se
possiamo farla la prendiamo noi, non la prende il vescovo. Se la decisione la prendiamo noi, vuol
dire che anche al di fuori del caso di “Mi sono autoscomunicato e adesso mi autoriammetto”, c’è
sempre una decisione presa da me di accedere all’eucaristia. Non di andare a Messa o non andarci,
ma se sono a Messa, di fare o non fare la comunione. La decisione dovrebb’essere se vado o non

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vado a Messa, non se faccio o no la comunione. Perché è evidente che se c’è la cena, non puoi non
farla. Sarebbe come uno dicesse: “Vado a Messa e quando ci sono le letture, mi metto i tappi di cera
nelle orecchie e così non le ascolto”. E tu dici: “Beh! Cosa sei andato a fare allora? Sta a casa! È
più semplice”. Così andare in chiesa e poi dire: “Non faccio la comunione” è una cosa
assolutamente insensata, perché sarebbe come dire: “Vado in chiesa, ma non partecipo alla
preghiera eucaristica” - invece, se sei lì, segui quella preghiera con il tuo cuore.

Il fatto stesso, quindi, che sia facoltativo fare la comunione e non obbligatorio vuol dire che il
principio di chi decide sono io. È molto di più della questione “Se c’è l’autoscomunica, ci sarà
anche l’autoriammissione”, perché in ogni caso la comunione eucaristica, decido io se la faccio: non
c’è più il vescovo che mi dice di farla o no. E nei monasteri era l’abate che decideva chi potesse
fare la comunione e nessun monaco nel Medioevo poteva fare la comunione senza la decisione
dell’abate. È sempre eteronormata, diretta da fuori, la questione.

Anche la confessione per essere riammesso alla Chiesa è malata: anzi sono molto perplesso a dire
che è malata, per me, è già morta, questa antica confessione di riammissione alla Chiesa. Quella che
c’è oggi, invece, è la confessione di progresso spirituale, che non è né l’una né l’altra. Questa nasce
in ambiente devozionale, con la devotio moderna, come reazione all’esteriorismo dei monaci e dei
monasteri. Siamo nel XV secolo; per un sacramento che ci fa stare male solo a pensare che muoia,
essere nato in un secolo così tardi non è una gran patente di nobiltà. Noi abbiamo allora almeno tre
tipi di sacramento descritti adesso. Quando nascono? La faccenda dell’espulsione e riammissione
alla Chiesa nasce con San Paolo, nella 1 Lettera ai Corinzi, dove c’è l’espulsione di quell’individuo
che aveva sposato la moglie di suo padre, in modo non rituale, ma reale, di fatto. Dopo di che Paolo
stabilisce che ci sarà anche la riammissione, se e come. Questo principio ecclesiastico
dell’espulsione ha un fondamento addirittura nella prassi dell’Apostolo Paolo ed è documentato nel
Nuovo Testamento. Eppure abbiamo detto che questo regime è morto. Nel senso che nessuno più
decide l’espulsione di nessuno, anzi quando ci sono dei sinodi dei vescovi, ci sono le proposizioni,
le conclusioni dei sinodi non vengono pubblicate, vengono date al Papa, il quale le fa rielaborare da
una commissione di fiducia, non dal sinodo dei vescovi, e la commissione di fiducia gli dà i
risultati.

Una volta su un sinodo dei vescovi, il Papa lesse le conclusioni della commissione di fiducia, e
lesse le conclusioni del sinodo e a tavola con i membri della direzione del sinodo disse: “Per me
sono migliori le proposte del sinodo di quelle della commissione di fiducia”. E qui i problemi sono
seri. In un altro sinodo ancora le proposte del Papa scritte dalla commissione di fiducia si arriva a
parlare dei divorziati risposati, dicendo che non possono essere assolti e quindi salvo un caso
particolare non possono fare la comunione eucaristica. Però guai a dire che sono espulsi dalla
Chiesa con la scomunica – no, assolutamente! Anzi – si dice - Dio li ama, li segue, dà loro tanta
grazia, devono partecipare a tutta la vita della Chiesa, andare alla Messa tutte le volte, ascoltare la
parola di Dio, fare la preghiera dei fedeli ed educare cristianamente i figli! Cadiamo in queste
ingenuità: di fare un inno ai divorziati che non possono fare la comunione eucaristica, ma che in
compenso sono amati da Dio in un modo unico al mondo, che neanche gli altri possono dire di
essere amati così tanto. Perché? Perché nella cultura cristiana di oggi non si vuole mai dire
“espulsione”. È una parola che non accettiamo. Se dobbiamo dire un “Tu, no”, dev’essere
confezionato in un involucro regalo talmente pieno di lustrini e di belle parole da dare consolazione
a chi deve ricevere un pacco dono con il contenuto “Tu, no, non fai la comunione e non ricevi
l’assoluzione”. Bisognerebbe riscoprire il criterio dell’espulsione dalla comunità. Non è un criterio
che si basa sul fatto che i vescovi sono buoni o cattivi, espellono o non espellono, fa parte della
prassi della Chiesa apostolica, raccomandata da Paolo. Quelli di Corinto gli scrivono: “Che cosa
dobbiamo fare in questo caso?” Risposta: “Fate così…” Non che abbia risposto: “Guardate, se

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volete…” ma “Fate così…” Noi il criterio della scomunica non l’accettiamo: ecco perché dico che è
morta e sepolta la questione.

C’è un motivo perché è morta e sepolta? Certo! Con le persecuzioni, già dalla metà del II secolo in
poi, succede che molti cristiani hanno pensato bene di sacrificare agli idoli, anche perché non
sembrava una cosa così tragica: si poteva anche comperare gli attestati! Se fossero arrivate in casa
le guardie, sarebbe bastato far vedere l’attestato! Ma su questo punto la comunità cristiana si
spaccò, nel senso che quelli che dicevano di no vennero uccisi e gli altri andarono a comperare gli
attestati. Nasce allora il problema: quelli che si sono fatti l’attestato, non ci vengano più nella nostra
comunità. Un disastro! Bisognava far vedere che uno era veramente pentito di aver scarificato agli
idoli o anche di aver solo comperato l’attestato!

Qui c’è stato un travaglio enorme nella vita della Chiesa. E per evitare decisioni equivoche, si sono
tenuti dei concili che hanno stabilito che si faccia grosso modo lo stesso dappertutto. Ecco allora
che l’espulsione e la riammissione vengono regolate da leggi: è un fatto legale. Questo aspetto
legale, nato dai concili, ha continuato ad esistere. Per cui è entrato l’aspetto giuridico
dell’appartenenza alla comunità cristiana attraverso la questione dell’espulsione o riammissione.
Una donna, presa dall’ira, aveva frustato la sua serva, che ne era morta – che fare? I concili, che
partono con le eresie, si scontrano con casi di questo genere. Era normale in una certa epoca che il
padrone frustasse gli schiavi. I principi nati per il sacramento per la riammissione in caso di eresie e
sacrificio agli idoli vengono lentamente estesi ad altre cose: sacrificare agli idoli è apostasia e nella
Bibbia sono tre le cose ugualmente gravi: apostasia, adulterio conclamato, omicidio. Se fai una
norma per l’apostasia, in cinque minuti quella norma vale anche per l’adulterio conclamato e per
l’omicidio.

L’apostasia ha vari gradi: in Spagna, ci sono dei concili che stabiliscono che uno non può essere
contemporaneamente vescovo e aruspice, cioè sacerdote pagano. Però poteva essere nell’area del
sacerdozio pagano a condizione che non avesse fatto sacrifici o che non avesse pagato i sacrifici.
Così si entra in una casistica infinita. I concili sono andati avanti fino al V secolo, stabilendo norme
di questo genere. L’antico principio dell’espulsione, per far ritornare in sé alcune persone che non
vivevano bene il loro battesimo, diventa un fatto giuridico. Lo stesso Agostino, in un a lettera scritta
a Paolino da Nola dice che tutti i suoi problemi, difficoltà e angosce sono nel dover mettersi a fare il
giudice della vita dei cristiani, perché in questo modo diventa un atteggiamento giudiziario. Tutto
finisce nel secolo V. Dal III secolo al V secolo abbiamo due secoli d’impianto giuridico. Noi
riconosciamo il valore del discorso di Paolo, ma facciamo più fatica con il discorso giuridico. Dopo,
al posto di questo discorso giuridico, nasce il discorso liturgico, che è il peggiore di tutti, perché
voleva dire qui il formalismo liturgico. Basta dire alcune preghiere e tutto è fatto. E la tua vita?
Ecco il punto!

Lasciamo un momento l’occidente. In oriente non è mai uscita una legge sugli eretici anche se fu
ammesso il principio che anche l’omicidio e l’adulterio conclamato dovevano essere sanzionati.
Però tutto questo non è mai diventato giuridico: questa è la differenza. In occidente i concili hanno
fatto norme giuridiche. In oriente hanno fatto norme che dessero l’idea della cosa, ma non di
applicazione giuridica. Allora è successo che in oriente prevalesse la misericordia, ma non essendo
diventata giuridica la penitenza, non è mai diventata obbligatoria. La differenza è questa. Da noi
nell’occidente nel 1215 ci fu un concilio, il Lateranense IV, che stabilì che ogni fedele di entrambi
sessi sia tenuto a confessarsi una volta all’anno dal suo parroco – non vale se vai da un altro. Oggi
si dice che vale lo stesso, allora non valeva. Si racconta di un sinodo in Ungheria che stabilì di dare
una bastonata ad uno che andasse da un altro, di cacciarlo fuori della chiesa e dargli una bastonata.
Quindi, la questione tra l’oriente e l’occidente è posta ben diversamente.

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Notate che siamo nel primo millennio e le due chiese sono ancora unite ed è possibile avere due
prassi penitenziali diversissime, una giuridica e l’altra no. Non essendo giuridica non è neanche
obbligatoria. E se non è obbligatoria? Ai fedeli non piace tanto andare a raccontare le proprie cose a
un altro, ai vescovi non piace tanto mettersi lì ad ascoltare uno che racconta le sue cose: se non
piace agli uni e non piace agli altri, la cosa sparisce dalla circolazione. Il caso significativo appare
sotto Nectario, il vescovo predecessore immediato di san Giovanni Crisostomo, nella seconda metà
del IV secolo. A Costantinopoli c’era il presbitero Epimatanoias, il presbitero della penitenza, lo
chiameremmo il penitenziere vescovile. Questo penitenziere era incaricato di ricevere gli eretici che
si convertirono. Però anche tanta gente non eretica, ma desiderosa di conversione, andava da lui,
perché voleva fare qualcosa per diventare migliore nella vita. Si andava da lui, si raccontava le
proprie cose e lui pregava su di loro. Era ufficialmente penitenziere per gli eretici, ma ci andavano
molti altri a confessarsi.

Sia Sozomeno che Socrate nelle loro Storie della Chiesa raccontano il seguente episodio. Una volta
ci andò da lui una signora per confessarsi. Gli raccontò anche ad un certo punto di aver avuto una
relazione colpevole con un diacono. Immediatamente fu ripescato il diacono e sospeso dalle sue
funzioni diaconali. Ci fu grande scandalo a Costantinopoli. Per cui la Chiesa di Costantinopoli
tremò dalle fondamenta sia nei confronti dei cristiani, sia in quelli dei giudei, molto numerosi, sia
nei confronti dei pagani. Un presbitero di Alessandria d’Egitto, che si chiamava Eudaimon, andò da
Nectario con una soluzione perché queste cose non capitassero più: abolire il presbitero della
penitenza. E così fu. A Costantinopoli c’era uno solo incaricato, nelle altre città non c’era nessuno.
Dopo Nectario è venuto Giovanni Crisostomo, il teologo dell’eucarestia e della penitenza. Egli
elenca sedici uffici del sacerdote, le sedici cose più importanti che fa il sacerdote come ministero
sacerdotale: tra queste la confessione non c’è e da allora non ci fu mai più. Questo è curioso. Siamo
ancora nel primo millennio con le chiese unite. In occidente era una prassi giuridica. Nella stessa
epoca Agostino dice di sentirsi a disagio dovendo fare il giudice. Però, questa è la confessione-
riammissione fondata su Paolo.

Nasce in oriente un altro elemento, la confessione terapeutica. gestita dai monaci, che non sono
sacerdoti. Fanno una vita di penitenze e di stenti per camminare verso il regno di Dio. Quando uno,
grande peccatore o piccolo, vuole cambiare vita, va dal monaco, se lo va a cercare anche in mezzo
al deserto e quando è là, chiede al monaco di guidarlo verso Dio. C’è un penitenziale molto bello di
Giovanni il Digiunatore, che forse non esisteva. Dice che quando tu, monaco, vedi da lontano – si
riecheggia la parabola del figlio prodigo - un uomo che si avvicina e tu capisci che si avvicina al tuo
monastero, alla tua cella, per chiedere perdono a Dio dei suoi peccati, quando lo vedi arrivare e lui
ti chiede di pregare Dio, perché egli voglia perdonarlo, tu buttati in ginocchio davanti al penitente,
abbracciagli le ginocchia e piangi dal dolore di non essere degno di vedere tanta grazia di Dio - la
conversione di un peccatore!

Il monaco è al servizio del peccatore in nome di Dio. E il peccatore si mette a vivere con i monaci
per un po’ di tempo. Ma poiché le penitenze sono dure, il monaco farà metà della penitenza data al
penitente. Dieci salmi? Cinque faccio io, cinque fai tu. Per la tua conversione ci vogliono venti
salmi, venti genuflessioni? Metà faccio io, metà fai tu. Se volete, sempre un principio sciocco, ma
se noi facessimo fare così anche ai preti in Duomo, la confessione sarebbe tutta un’altra storia. La
confessione non è un impiegato che ti mette un timbro chiamato assoluzione sulla tua pagellina, è
uno che soffre con te per il tuo cammino e lo vive con te e ti dice, “Tu per crescere davanti a Dio -
te lo dico io, che lo so di persona, perché l’ho fatto - tu hai bisogno di digiunare una settimana e io
digiunerò con te”. È tutta un’altra cosa! Non esiste un ministero che sia burocratico. Questi monaci
cominciano a fare quest’attività, al punto che i sacerdoti in città o nei paesi non celebrano mai il
sacramento della penitenza. La questione tornerà agli inizi del secondo millennio, quando si dirà:
“Ma, veramente i vescovi potrebbero fare qualcosa anche loro, non solo i monaci, che non sono

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sacerdoti”. E le due chiese a questo punto sono ancora insieme e la tradizione loro vale lo stesso
della nostra.

Si dice che l’11 settembre abbia cambiato il mondo, ma non solo l’11 settembre; anche, direi, il 28
ottobre. È stata emanata una dichiarazione da parte della Santa Sede che ai caldei, fedeli uniti a
Roma, in caso che non abbiano la liturgia della loro chiesa caldea, si permette di partecipare alla
liturgia della chiesa siroriente, che non è unita a Roma e che resta non unita a Roma. Però le due
chiese coinvolte si sono spiegate sulla questione cristologica. Non è la stessa cosa. Nelle Chiesa
siroriente le preghiere eucaristiche in uso sono tre, una attribuita agli Apostoli Addai e Mari, una a
Nestorio e una a Teodoro di Mopsuestia. La prima, usata per la maggior parte dell’anno liturgico,
comincia con la Domenica delle Palme a va fino alla fine dell’anno liturgico e non ha le parole della
consacrazione. Non è poco! Dire: “Voi cattolici potete andare a messa da loro e va benissimo” e tu
dici. “Ma scusate, non hanno le parole della consacrazione, com’è?” La soluzione trovata è questa:
che la loro tradizione è autentica e quindi non va giudicata.

C’è di più. Si potrebbe dire: “Ma noi cattolici non abbiamo forse un concilio di Firenze, un concilio
di unione tra cattolici e orientali, che stabilisce certi criteri irrinunciabili da imporre agli orientali?”
“Sì, ce l’abbiamo”. È un concilio ecumenico, che dice che le parole della consacrazione sono:
“Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue” e che queste parole sono costitutive. Il documento
della Sede Apostolica che cosa dice? Cita il concilio di Firenze e le sue decisioni. Tuttavia, la
tradizione siroriente è una tradizione indiscutibile, perché è una tradizione autentica, anche se la
loro Chiesa è separata da Roma, la loro rimane una tradizione autentica. Quindi, i cattolici in caso
di necessità possono andare a Messa da loro, anche se non ci sono le parole della consacrazione.

Vuol dire che noi abbiamo la tradizione romana e i concili e loro hanno una tradizione di chiesa
separata da Roma, ma la loro tradizione è buona come la nostra. E se viene ad urtarsi contro un
concilio ecumenico, dice la Sede romana, prevale la loro tradizione. È cambiato il mondo nella
valutazione del rapporto magistero-tradizione. Dicono che questo ragionamento vale solo per questo
caso, ma se vale per un caso, vale anche per un altro caso identico a quello. Se la malattia è la
stessa, si tenta la stessa cura. Questo principio si può applicare anche al sacramento della penitenza
- è buona la nostra tradizione, è buona la loro. La loro tradizione è che l’aspetto ecclesiastico
s‘interrompe nel V secolo, devia sull'aspetto monastico, la confessione terapeutica fatta non da
sacerdoti, ma da persone che sono guide spirituali, che pregano su di te, dicendoti il cammino da
fare e che Dio ti perdoni, con le parole: “Il Signore che ha perdonato alle lacrime di Pietro e che ha
perdonato all’adultera ti perdoni e ti dia la grazia della vita eterna”. “Noi abbiamo «Io ti assolvo»”.
Non è vero, solo dal II millennio l’abbiamo: nel I millennio, neanche una volta da noi. Si dice
sempre: “Che il Signore ti perdoni, lui che ha detto: «Non voglio la morte del peccatore, ma che si
converta e viva» e lui che ha detto: «Se il tuo cuore ti condanna, Dio è più buono del tuo cuore», lui
ti perdoni i tuoi peccati” perché c’è il principio che solo Dio può perdonare i peccati.

Il sacramento della penitenza ha avuto tante realizzazioni, quante sono state le attività di pastorale
per il peccato. I monasteri nati per trovare la santità ad ogni costo sono il luogo di formazione di
concezioni sul sacramento della penitenza per espungere il peccato dalla vita dei membri del
monastero. Il monastero è un crogiolo d’idee per fare levitare nuove maniere di fare la liturgia della
penitenza. I monasteri inventano l’ufficiatura con i temi penitenziali a Vespro e a Compieta e tutte
le volte che alla fine dell’ufficiatura si chiede perdono dei peccati, sono tutte invenzioni di stampa
monastica, per tenere vivo il discorso “Guardate che di peccare siamo capaci tutti e tanto più siamo
impegnati nella via del Signore, tanto più è facile peccare”.

Perciò quando si dice: “Io ventiquattro ore su ventiquattro cerco il Signore” a un certo punto questo
pensiero diventa un nostro pensiero. E la persona di Dio diventa un nostro modo di pensare. E

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quando parliamo con Dio, mettiamo in bocca a lui le nostre risposte e alla fine sembra che Dio ci
dica quello che volevamo sentirci dire. Ecco perché è terribilmente facile peccare laddove c’è un
eccesso di conversazione interiore con Dio. Dio parla con il vangelo. Sant’Antonio chiedeva il
vangelo e lui non sapeva leggere, ma il vangelo lo sapeva a memoria, anche i salmi. Il Signore non
parla mai con le tue parole, ma parla sempre con parole del vangelo. Se uno non sa a memoria il
vangelo, quando sta davanti al tabernacolo a pregare per sentire le risposte di Gesù, Gesù gli
risponderà quello che lui vuole sentirsi dire, perché non è Gesù che parla – Gesù ha già parlato con
il vangelo, quello che può dirti è di applicare le parole del vangelo a te, ma se tu il vangelo non ce
l’hai in mano, che cosa fai? Lo sai a memoria? Magari!

Quindi questa grande varietà di tipi del sacramento della penitenza a un certo punto produce tanti
vicoli ciechi, tutte queste forme storiche finiscono con un muro, ci si sbatte contro e tutto finisce lì.
In qualche area monastica viene sempre fuori un’idea nuova per ripartire con nuove forme del
sacramento della penitenza. Un grande vescovo, Cesario d'Arles, venuto da un monastero, si inventa
una pastorale della Chiesa per i peccatori della sua epoca, basata su una curiosa intuizione. La
penitenza canonica giuridica era ormai legata al formalismo liturgico e a lui non stava bene, perché
si rendeva conto che la gente non si convertiva. Intanto chiedeva ad uno che gli scriveva:
“Intraprendi tu la penitenza finché sei in tempo e hai le forze per farle. E se tu me dici: «Ma, tanto,
quando sarò vecchio faranno su di me la preghiera…» - non fidarti, perché se non hai fatto
penitenza, come fai a fidarti della preghiera del vescovo su di te? Tu mi dirai: «Ma, santo Vescovo,
come posso essere sicuro?» Non puoi essere sicuro, per questo ti dico di fare penitenza finché hai le
forze!”

Proviamo a dire: la preghiera in questione potrebbe chiamarsi l’assoluzione, se tu non hai fatto le
opere della vita nella penitenza, ti basterà l’assoluzione? O non è forse un sopravalutare il
sacramento, pensare che esso possa sopravvivere con una parte sola, l’assoluzione, senza le altre
parti, una delle quali è la soddisfazione, che noi abbiamo liquidato con tre Ave Maria. Non è
possibile. Vent’anni di digiuno nella chiesa antica in confronto con le nostre tre Ave Maria! “Ho
ucciso venti persone” – Tre Ave Maria. “Ho ucciso cinquecento persone” - Tre Ave Maria. “Ho
rubato la marmellata” – Tre Ave Maria: prezzo unico. Questo è ridicolo e quando un sacramento
diventa ridicolo, non si può sperare che sopravviva. Ecco allora i monasteri, dove si pensa qualche
cosa d’altro per far nascere in noi la conversione verso Dio. Le opere penitenziali sono la grande
carta che si gioca nella storia della Chiesa a proposito di questo sacramento. La Riforma di Paolo VI
è la cosa più bella di tutta la riforma liturgica del Concilio. Non è stata applicata, perché è troppo
difficile – ti chiede la conversione. Dappertutto nella storia della Chiesa ci sono create nuove piste
di conversione, espulsione-riammissione, la pista terapeutica, la pista monastica, la pista “fai-da-te”
con Cesario d’Arles e con Nectario, in occidente e in oriente - press’a poco due secoli dopo in
occidente, ma la pista “fai-da-te” c’è anche lì. Ogni epoca deve trovare la sua pista. Questa nostra
epoca ha trovato il rituale di Paolo VI, che è meraviglioso. Non viene applicata, perché la nostra
cultura è diversa, quindi noi diciamo: “Ho rubato la marmellata” – “Tre Ave Maria, ego te absolvo”
– ecco il nostro rito della penitenza. Con questa concezione, il rituale della penitenza di Paolo VI,
fondato sul vangelo, non ha niente a che spartire – ecco che non è capito da nessuno e non viene
applicato.

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ASCESI E GIOIA IN ANTONIO IL GRANDE

21 GENNAIO 2002 P. GIUSEPPE PICASSO, osb

L’argomento di questa sera, che riguarda il tema della gioia della vita nell’esperienza di
Sant’Antonio, ci porta alle origini della vita ascetica. Non è certo Antonio il primo asceta, il primo
che si era ritirato a vita ascetica: si conosce almeno per qualche testimonianza, un eremita di nome
Paolo, San Paolo, eremita, che avrebbe preceduto l’esperienza di Antonio, ma di questo Paolo, il
primo eremita, non abbiamo molte notizie, anche se ancora oggi in Germania c’è una congregazione
di eremiti che si richiama a Paolo, primo eremita. In ogni caso, non è difficile dire che Antonio non
è certamente il primo eremita, però è il primo del quale si conosce la vita. Abbiamo una Vita, un
testo agiografico. Per cui proprio questo fortunato testo agiografico ne ha favorito la conoscenza in
oriente e in occidente. Conosciamo il suo insegnamento, le caratteristiche della sua ascesi: fu
veramente padre di altri asceti, per cui non è fuori luogo celebrarlo come il “grande”, il patriarca del
monachesimo in generale. Ripeto, con questa precisazione: per quanto ci sia consentito dalle
testimonianze.

Prima di affrontare il tema che ci interessa (perché tutto quello che riguarda Antonio ci interessa, in
quanto la tradizione monastica si è rifatta spesso al suo esempio, al suo insegnamento eremitico, ma
anche la tradizione cenobitica), vedremo che ci sono degli aspetti di grande attualità nell’esperienza
di Antonio, proprio nel tema che studieremo questa sera. Poi, c’è un’altra tradizione che riguarda
questo santo, quella del protettore del bestiame, per cui è detto anche “del porcello”: questa è una
tradizione molto più recente, anche se risale a mille anni fa, quando un gruppo di penitenti si
radunarono sotto il suo nome e fondarono un istituto degli antoniti, o degli antoniani, di
Sant’Antonio, una congregazione di orientamento caritativo, ospedaliero, che assisteva i poveri.
Siamo nel secolo XI, quindi, non erano in molti: offrivano da mangiare ai poveri, avevano delle
stalle per poter tenere le bestie da macello, necessarie per fornire il cibo da dare ai poveri. Avevano
dei maiali, erano protetti da questo santo – ecco come è nata la tradizione di Sant’Antonio,
protettore del bestiame, per cui anche oggi, il 17 gennaio, particolarmente nei paesi della Brianza, si
accendono i falò per benedire le stalle e fare un po’ di festa attorno a questo folclore. Non c’è niente
di male, è il volto del santo popolare, ripreso nel secolo XI e che oggi divulga di più la sua
immagine, ma è un altro aspetto di Sant’Antonio che studieremo stasera, il Sant’Antonio secondo la
Vita scritta da Sant’Atanasio.

Nato nel 250 d.C. circa, nel Medio Egitto, in una famiglia cristiana, è ancora giovane quando
rimane orfano. Un giorno, ascoltando la Messa, sente quelle parole dette al giovane ricco: “Vai,
vendi quello che hai, dallo ai poveri…”(Mc 10,21). Sembrano parole rivolte a lui personalmente ed
egli comincia a metterle in pratica. Ha una sorella, perciò non può vendere tutto: lascia qualcosa per
la sorella e si ritira in un luogo vicino al suo villaggio per condurre una vita eremitica, tutta dedita al
lavoro, alla preghiera e alla lettura della sacre scritture, in solitudine quasi completa. Con il passare
degli anni, aveva circa trentacinque anni, quando sente che quella vita non gli soddisfa ancora,
perché è troppo vicina alla città dove abitano gli altri e compie un altro passo. Va nel deserto per
vivere una vita veramente solitaria, sennonché anche in questo deserto viene presto scoperto da
altri, che lo scelgono come maestro ed egli ha un momento di perplessità se deve o no vivere con gli
altri. Forse sarebbe meglio tornare in città, dove i martiri stanno rendendo testimonianza alla fede,
per non essere di meno? Perciò ritorna in città, ma non viene preso e condannato come cristiano e

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può tornare alla sua solitudine eremitica, ma con tanti discepoli. Allora si decide sul passo di
inoltrarsi ancora di più nel deserto per vivere veramente da solo.

La sua scelta dell’ascesi all’inizio lo lascia ancora vicino alla città, in un secondo tempo lo spinge
un po’ più lontano e finalmente lo porta su una montagna, dove egli può realizzare la sua vocazione
eremitica, ascetica. La Vita vi dice che egli abitò “in una tomba” – sarebbe non come l’intendiamo
noi, ma una cappella dove, com’era di consuetudine in tutte le chiese dell’epoca, c’era sepolto
qualcuno. Ma non era del tutto solo, perché ormai era molto vecchio ed era assisto da due discepoli
che praticano gli esercizi spirituali di cui parla spesso la Vita, ma non sappiamo di preciso in che
cosa possano essere stati, questi esercizi di preghiera, di penitenze. E là s’incontra con degli altri
eremiti che abitano nei paraggi, ha con loro rapporti fraterni, riceve segni di approvazione da parte
della Chiesa di allora e da parte degli imperatori cristiani – pare che gli si indirizzino anche delle
lettere di approvazione, che egli non vuole leggere, perché non vuole avere nessun rapporto con
coloro che detengono il potere. Tuttavia le legge, perché in fondo coloro che gli scrivono sono
fratelli nella fede, eppure non se ne inorgoglisce. I due discepoli rimangono con lui fino alla sua
morte nel 356 all’età di circa centocinque anni.

Anche di lui, come di Paolo, si potrebbe dire che non ne abbiamo grandi testimonianze storiche.
Abbiamo la Vita, scritta da Sant’Atanasio, il grande vescovo di Alessandria, in parte coetaneo del
nostro Antonio, perché è nato nel 295 ed è morto nel 373. Si sente dire a volte che sia stato Atanasio
che ha inventato il personaggio Sant’Antonio, perché vediamo nella Vita delle caratteristiche che
stavano più a cuore ad Atanasio che non ad Antonio, per esempio la predicazione contro gli ariani,
il mettere in guardia gli eremiti contro gli ariani. Non pare che gli ariani siano andati proprio nel
deserto a diffondere le loro teorie tra gli eremiti, ma ne parla, per bocca di Antonio, Atanasio, il
grande campione della fede nicena, esiliato ben cinque volte dalla sua città episcopale per la sua
fedeltà al concilio di Nicea, che nel 325 aveva stabilito la natura divina di Cristo.

Ci sono però anche degli altri riferimenti storici a quest’asceta Antonio, una posterità immediata
che si riferisce a lui, perciò si può dire che la Vita di Antonio, scritta da Atanasio, è un testo
sostanzialmente storico, anche se gli interessi dell’autore l’hanno indotto a sottolineare nella
predicazione e nelle convinzioni di Antonio il sostegno della fede contro l’arianesimo. Di per sé non
ci sarebbe nulla di strano se un uomo di Dio come Antonio difendesse la fede nicena, se nonché
proprio Antonio non aveva studiato, non era un uomo colto. Conosceva la Parola di Dio, ma non
aveva fatto altri studi. Entrare nei dibattiti cristologici sulla natura divina di Cristo, sulle due nature
in una persona, se le volontà sono due o una, è difficile anche per i teologi di oggi. Sull’inserimento
di Antonio in questa lotta può darsi che abbia calcato un po’ la mano Atanasio, ma sostanzialmente
il suo racconto è fedele. I luoghi corrispondono e poi Atanasio non è l’unico che parla di lui, ci sono
altre testimonianze, anche se sono inferiori in importanza in confronto della Vita di Antonio. Per
cui, ritenendolo un testo di valore storico, sia pure agiografico, sia che voglia presentarci non tanto
dei dati e dei fatti, ma il profilo del santo, allora in questa luce dobbiamo accettarlo come
espressione di un quadro storico. Ciò che mette in bocca ad Antonio nei suoi conflitti con il
demonio così frequenti, ciò che egli dice ai discepoli non sarà stato detto forse letteralmente con
quelle parole, ma nella sostanza è veritiero. C’è una certa logica che risalta, perché ha messo per
iscritto quello che i discepoli di Antonio gli avevano raccontato. Questi eremiti si erano stabiliti per
lo più in luoghi dove potevano essere visitati dalla gente dei paesi e villaggi vicini, ricevevano
qualche cosa per vivere, davano qualche piccolo oggetto come segno di riconoscimento e di ricordo.
C’era un certo rapporto di amicizia, per cui si poteva anche venire a sapere qualcosa di loro anche
se non si andava direttamente nella solitudine.

La vita di Antonio prima di esaminarla dal nostro punto di vista è caratterizzata nel deserto dal
combattimento con i demoni, che gli appaiono nelle forme più varie, lo minacciano, gli fanno paura,

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però non riescono a vincerlo: essi vorrebbero dissuaderlo, farlo tornare in città e assumono delle
forme diverse, a volte orribili, a volte allettanti. Ma Antonio ha un segreto di fronte a questi assalti,
quello di nominare la croce di Cristo. Quando egli invoca la croce di Gesù, questi esseri spariscono.
Per trovare qualcosa di simile nella vita di un santo, possiamo pensare ad una figura vicina a noi che
ha subito assalti di questo tipo: Padre Pio, nella cui vita succedevano assalti dai demoni che lo
lasciavano affranto e spossato. Ci sono anche degli episodi che trattano la sua predicazione, contro
gli ariani, ecc., i suoi discorsi e le sue raccomandazioni e una specie di profilo alla fine, dove si
riassume la fisionomia del questo uomo e la conclusione, che parla della morte di Antonio nello
stile dei grandi maestri del pensiero greco come Socrate.

Perché ricercare questa gioia – se c’è – nell’esperienza eremitica? Prima di tutto perché l’esperienza
eremitica è difatti un’esperienza austera, è un rifiuto di ogni accomodamento e condiscendenza.
Ora, c’è spazio per una gioia, se pur dello spirito, all’interno di questi atleti che hanno scelto il
combattimento, viso a viso con il principio del male, il demonio? Non c’è un capitolo specifico
sulla gioia che ha accompagnato Sant’Antonio, però ci sono molti riferimenti, di cui forse Atanasio
non si accorgeva mentre scriveva, ma in molte occasioni la vita di Antonio sottolinea questo
aspetto. La serenità, la tranquillità, il gaudio dello Spirito, la pace regnano attorno a lui, li trasmette
a coloro che vengono da lui, sono caratteristiche della sua vita. Infatti già prima della scelta
eremitica, quando era ancora molto giovane e viveva con i suoi genitori, aveva un comportamento
così nobile ed edificante che non rattristava nessuno, non gareggiava con i suoi compagni, o
gareggiava soltanto per non sembrare inferiori ad essi nel bene. Ma anche gli altri avevano gioia di
lui. Già da giovane è motivo di gioia per i suoi familiari e i suoi compagni. Si comincia ad
intravedere una persona che diffonde la gioia attorno a sé, anche prima della sua conversione.

Naturalmente, il diavolo fu subito invidioso di questo giovane che riusciva a diffondere la gioia
attorno a lui, non lo sopportò e cominciò ad agire contro di lui in modo di dissuaderlo dal suo buon
proposito. Poi Antonio lasciò la città e stava per un po’ di tempo in solitudine nei pressi della città e
“…il Signore diede grazia alle sua parole”, dice l’agiografo. Stava vicino alla città e i cittadini
cristiani venivano a trovarlo “…è così egli consolò molte persone tristi e riconciliò altre che erano
in lite, dicendo a tutti che non dovevano anteporre all’amore per Cristo nulla di quanto si trovava
nel mondo”. “Nulla anteporre a Cristo” è un tema che conosciamo, lo troviamo nella Regola di San
Benedetto. Interessa qui che già nella prima predicazione da giovane eremita egli consola persone
tristi e riconcilia persone in lite e spesso gli asceti, anche gli stiliti, esercitavano questo stesso
carisma e così non poteva essere che motivo di consolazione per coloro che erano tristi.

Quando poi s’inoltra nel deserto, più s’inoltra, più il combattimento con il demonio diventa più
difficile, perché l’avversario del bene fa di tutto per allontanarlo. C’è un passo di Atanasio, in cui
dice: “Che cosa i demoni temono di più negli asceti? Temono i digiuni, le veglie, la preghiera, la
mitezza – l’asceta è un uomo mite – la mansuetudine, la semplicità, la mancanza di finzione, di
desideri di denaro, di potere, l’umiltà dei sentimenti, l’amore per i poveri, le opere di misericordia,
la mancanza dell’ira, ma soprattutto la venerazione per Cristo”. Ed è per questo che quando la
lotta, la tentazione, i disturbi da parte del demonio si fanno più frequenti ed insidiosi, Antonio
invoca il nome di Gesù e la croce, che è segno della salvezza, e i demoni spariscono e si danno per
vinti.

Ma, grazie a Dio, non ci sono solo apparizioni diaboliche e l’eremita è anche confortato da visioni,
da contemplazioni di santi, di misteri della vita del Signore, che sono oggetto della sua preghiera.
C’è però un problema che si pone, quello di distinguere, perché è vero che le visioni diaboliche
sono terrificanti, ma qualche volta si presentano in vesti di persone religiose, devote. Come, allora,
distinguere il santo vero da quello finto? Il criterio per distinguere le visioni buone da quelle cattive
è annunciato in questi termini: “Con loro - i santi - c’è il Signore che è la nostra gioia”. Se la

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visione reca gioia, vuol dire che è una visione che viene da Dio. Sono i santi. Se invece la visione
turba, impressiona, distrae, alletta verso il male, evidentemente, qualunque sia la forma che essa
assume, la visione non viene da Dio. Quindi, anche se a volte gli uomini buoni temono la visione
del soprannaturale, perché si tratta di qualcosa che non è ordinario nella vita di una persona: “Non
temere”. Ecco il senso della gioia che accompagna il santo che viene per consolare. Le visioni dei
santi non causano turbamento, le visioni dei demoni causano turbamento. Le visioni dei santi
causano gioia, lo dice espressamente, ma quelli del nemico causano tristezza.

Tuttavia, concludendo questa fase dei rapporti dell’eremita con il nemico, l’agiografo sottolinea che
è la gioia dell’anima quella che dissolve i giochi dell’avversario. “Come fumo essi fuggono, quando
l’anima dell’asceta si apre alla gioia che viene dal Signore. Se appaiono i santi, danno
soddisfazione alla tua domanda e trasformano il tuo iniziale timore di trovarti davanti ad un essere
superiore in gioia. Se invece si tratta di una potenza diabolica, subito s’indebolirà, vedendo un
animo sicuro e vigoroso. La domanda: «Chi sei tu? Da dove vieni?» è infatti segno di un animo non
turbato”. Nella Vita di Antonio sono frequenti i riferimenti biblici, le citazioni bibliche: direi che
l’unica cultura che appare da questi testi è quella biblica.

Antonio insegna quando lascia la montagna e si porta nella zona, che è a metà strada tra la città e
l’assoluta solitudine. Lì, incontra gli eremiti e svolge il suo insegnamento. Mentre Antonio
esponeva queste cose, i criteri per distinguere una visione buona da una cattiva sopraindicati: “tutti
godevano”. La predicazione di quest’austero eremita provoca gioia. E in tutti cresceva il desiderio
della virtù spirituale, in altri l’animo abbattuto veniva consolato, in altri veniva frenata la superbia.
Gli uditori non sono tutti santi, rappresentano diverse situazioni della vita spirituale. Alcuni hanno
l’animo abbattuto, altri sono tentati di essere piuttosto superbi, ognuno riceve un conforto, ma tutti
ricevono gioia. Tutti godevano dell’insegnamento di Antonio.

C’è una tristezza soltanto che ricorre nella Vita di questo santo: quando non riesce a testimoniare
come vorrebbe la propria fede. O perché chi l’ascolta ha il cuore duro e non si lascia convincere, o
per altre ragioni contingenti, allora il testo dice non che egli era triste, ma “quasi triste”. Perché se
altri opponevano ostacoli alla sua predicazione, evidentemente non era colpa sua, però lo angustiava
un po’, ma come il Signore dice nel vangelo: “La vostra tristezza si cambierà in gioia e nessuno ve
la potrà togliere” (Gv 16,20). E questo rimane il fondamento della gioia di Antonio.

Antonio ora vive sulla montagna con i due discepoli che l’assistono, però ogni tanto si reca in
quell’altro deserto più vicino alla città e al fiume dove ci sono altri eremiti ed egli, nonostante il suo
amore per la solitudine, quando gli altri lo pregano, discende e viene da loro per visitarli,
intrattenendosi con loro. Espone la propria esperienza, risponde alle loro domande e svolge un vero
magistero. Se vogliamo dividere la sua vita in tre parti, dopo la prima parte, l’ascesi e la lotta con il
demonio, c’è questa parte, l’insegnamento di Antonio, i buoni esempi e l’incoraggiamento degli
altri che ci aiutano a capire la visione conclusiva. Questo contatto era necessario anche per il
rifornimento delle riserve di acqua che mancava nel deserto. Quando Antonio giungeva al luogo
degli eremiti tutti guardavano a lui come ad un padre.

Non è che egli si imponga, c’è sempre presente la cultura dell’antico monachesimo, in cui ciò che
conta è il modello. Una volta un eremita si recò da un grande padre del deserto ed espose la sua
situazione: cercava un regolamento per quella parte della vita vissuta in comune con gli altri
eremiti. L’eremita incaricato di stendere il regolamento chiede quindi a quell’anziano come deve
fare. L’anziano risponde: “Non metterti a scrivere regolamenti: sii per loro un modello!” La vita
eremitica si trasmetteva all’inizio non tanto con un regolamento, ma prima di tutto con l’esempio.
Antonio si presentava a loro per intrattenersi e lo guardavano come un maestro, il padre, il modello
a cui guardare e lo salutavano con grande gioia. Ed egli, come se avesse apportato un viatico adatto

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al servizio di Dio, li nutriva con discorsi spirituali e li mise a parte del guadagno che trovava nella
vita solitaria. Fra i monti e nel deserto, cresce l’allegria, cresce la letizia.

Un giorno vede in visione un uomo condotto verso il cielo, un eremita che viveva lontano e che era
morto – è qualcosa che succede spesso nella letteratura monastica. Anche San Benedetto ha una
visione di questo tipo: vede l’anima della sorella Santa Scolastica portata in cielo, non è presente
personalmente alla morte della sorella. Così anche Antonio. Gli angeli e gli spiriti gli vanno
incontro a quest’anima con grande gioia. Antonio viene a sapere che è l’anima di un monaco che
sulle montagne della Nitria aveva condotta una vita ascetica e ora era stato chiamato al premio e
accolto con grande gioia in Paradiso.

Ecco un profilo riassuntivo della figura di Antonio come viene presentato da Atanasio: “Si
distingueva dagli altri, non perché fosse più alto o più robusto, ma faceva questo effetto per la sua
serietà dei costumi, la fermezza e la purezza del suo animo. Essendo la sua anima quieta – quieta,
per chi ha la pazienza a leggere queste traversie, queste lotte, che non lo lasciavano in pace né
giorno né notte, non è certamente una quiete gratuita - anche il suo aspetto restava senza
turbamenti, di modo che la gioia e la letizia dell’anima apparivano sul suo volto. Abitualmente era
di volto ilare – come dice Gregorio di San Benedetto – e i movimenti del corpo lasciava capire la
stabilità del l’animo. «Un cuore lieto rende ilare il volto, ma, quando il cuore è triste, lo spirito è
depresso» (Pr 15,13) Così Samuele riconobbe Davide, infatti aveva «begli occhi ed era gentile
d’aspetto» (1Sam 16,12) così si poteva riconoscere anche Antonio. Come avrebbe potuto turbarsi,
se il suo animo era sempre quieto e sereno, o quando avrebbe potuto essere triste, se la sua mente
era sempre gioiosa?…Non aveva maniere rozze, quest’uomo, che fino alla vecchiaia viveva sul
monte, ma era piacevole, era arguto e la sua parola era condita di sale divino, non invidiava
nessuno, ma aveva gioia per tutti coloro che andavano da lui”. Non dice: “Offriva la pace,
l’amicizia con Dio”, dice: “Dava gioia” e ripete: “…ed essi ritornavano - alle loro occupazioni -
con gioia”. Anche i giudici si rivolgono a lui ed egli dà loro consigli e perfino i giudici si rallegrano
di ricevere le sue lettere.

C’è il problema degli ariani, a cui accennavo prima. Chi aderisce all’eresia diventa triste e anche
Antonio rischiava di diventarlo a un certo punto. Ebbe una visione dei “calci dei muli”. In una
chiesa ben ordinata egli vede entrare queste bestie che cominciano a dare calci a destra e a sinistra e
turbano tutti: nessuno può pregare più in quello scenario. La chiesa viene sconvolta. “Questo mi ha
un po’ rattristato”, dice Antonio, “perché è l’effetto che l’eresia produce nella Chiesa: lo
sconvolgimento dei calci dei muli”. Ma dice: “Non siate tristi. Il Signore è adirato da quello che sta
avvenendo per causa degli ariani, ma presto la Chiesa riacquisterà la sua bellezza e ritornerà
ordinata e il momento dell’arianesimo sarà superato”.

Gode infine della sua vita ascetica. Quando Antonio si limitava e pregare e a coltivare gli esercizi
spirituali stando sul monte, ne godeva. Sul monte, da solo godeva della sua vita ascetica e nel
momento del distacco, dice ai due discepoli che gli stavano vicino: “«Ho quasi centocinque anni»
e, come se si avviasse da una città straniera verso la propria, parlava loro, pieno di gioia e di
certezza e raccomandava loro di non cedere alle fatiche e di non scoraggiarsi negli esercizi
spirituali, ma di vivere come se dovessero morire ogni giorno e di emulare i santi”. Anche negli
ultimi contatti con i due fratelli, egli parlava a loro pieno di gioia, anche se avviava alla fine. “E
quando ebbe dette queste parole, essi lo baciarono ed egli sollevò i piedi e guardando come amici
coloro che erano venuti da lui, diventò gioioso per la loro presenza. Aveva un aspetto felice e così
egli mancò e si congiunse ai suoi padri”. Ecco la morte gioiosa di Antonio.

Tutto questo è stato ereditato dalla tradizione monastica, soprattutto perché si coglie la gioia là
dov’è il massimo impegno ascetico e anche nella sofferenza, se lo volete. In tutta la tradizione si

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può cogliere un eco di questa impostazione. Vediamo brevemente la Regola di San Benedetto:
“L’abate deve godere di vedere l’aumento del gregge”(2,32); “I monaci nell’esercizio dell’umiltà,
devono affrontare anche cose contrarie alla natura, eppure vanno avanti, pieni di gioia” (7,39).
Ma dove la gioia trova la sua espressione in conformità alla tradizione ascetica è nel capitolo 49
sulla Quaresima. “Il monaco deve sottrarre al suo corpo un po’ di cibo, un po’ di sonno…” - e lo
offra a Dio - “…e aspetti con gioia” - già nella Quaresima – “la Pasqua con gaudio spirituale”
(v.7) La vita monastica dovrebb’essere un po’ tutta una Quaresima, “…ma almeno durante questi
santi giorni dobbiamo impegnarci di più. (v.2) E qui l’ascesi benedettina diventa un po’ più austera,
parla del sottrarre qualche cosa, ecc. Eppure proprio in questo capitolo parla anche del gaudio
spirituale, del gaudio dello Spirito Santo.

È una costante che rimane nella tradizione del monachesimo. Ci sono anche delle forme di vita
monastica che sono nuove, originali, per esempio, le Fraternità di Gerusalemme, monaci che fanno
parte di un ordine costituito, ma vogliono vivere, laici e laiche, lo spirito monastico. E mi ha
colpito, leggendo la loro regola di vita, questo brano: “La vita fraterna che fa della comunità
riunita nel suo nome un segno vivo della presenza del Signore diventa a sua volta sorgente e
irradiamento di gioia. Ecco quanto è buono e soave, che i fratelli vivano insieme (Sal 132).
L’amore dilata, la fiducia reciproca rasserena, la vita comune rallegra. Dio e gli uomini aspettano
da noi questo irradiamento della presenza trinitaria, come sta scritto: «Rallegratevi nel Signore
sempre, ve lo ripeto ancora, rallegratevi – la vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il
Signore è vicino, non angustiatevi per nulla» (Fil 4,4). Vivendo nell’amore provoca in ciascuno
dei tuoi fratelli e in te lo sbocciare della gioia. Diventa con loro la virtù dell’irradiamento della
gioia comunitaria il segno della presenza di Dio, che vuole rinnovarti con il suo amore e danzare
per te, con grida di gioia, come in un giorno di festa. Niente è più triste della discordia, del
sospetto, delle mormorazioni, delle gelosie - sono questi mali, questa gramigna, che può nascere
anche all’interno della comunità monastica - Invece, il perdono, l’aiuto reciproco, la compassione,
l’umiltà sono fonti di gioia. Per vivere nella gioia, viviamo dunque nell’unità, raggiungendo la
pienezza della gioia attraverso l’armonia dei nostri sentimenti. Chiediamo ogni giorno per ogni
membro della nostra comunità la grazia della gioia. Chiedete e riceverete e la vostra gioia sarà
piena”(Gv 16,24). Quindi, vivendo oggi, siamo chiamati a ripresentare l’ideale di Antonio, che
diffondeva gioia pur nella solitudine del suo eremo nelle montagne del Medio Egitto. Mi pare,
dunque, sia importante questa riflessione sulla vita di Antonio, perché egli rappresenta un capo
saldo, che noi ritroviamo come un elemento molto importante della testimonianza monastica. Anche
i nostri fratelli e le nostre sorelle nel mondo di oggi, questa testimonianza di gioia l’aspettano.

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MELANIA L’ANZIANA E MELANIA LA GIOVANE

28 GENNAIO 2002 Dott.ssa MARIELLA CARPINELLO

Melania l’Anziana e Melania la Giovane sono sante monache, vissute al passaggio dall’era antica a
quella dell’Alto Medioevo, figure rilevantissime, sia come monache, sia come figure storiche. Si
tratta infatti di due donne che appartengono fortemente alla realtà storica del loro tempo, sia per la
qualità simbolica dei loro percorsi, sia soprattutto perché i loro contemporanei s’interessano
frequentemente ed appassionatamente di loro. Nel paesaggio del monachesimo femminile primitivo,
queste due donne spiccano non soltanto per le loro gesta, ma perché sono molto documentate nelle
loro azioni e nella loro spiritualità ed intendimenti. Diversi scrittori coevi scrivono di questi
personaggi di primissimo ordine. Esistono anche altre figure di altrettanta importanza a loro
contemporanee, alcune di loro però sono più vicine alla leggenda agiografica, mentre le due
Melania ci restituiscono un’immagine nitida e chiara della loro vita reale. Tra le due personalmente
ho un debole per Melania l’Anziana, detta anche Antonia Melania, ma in realtà si tratta di un
personaggio unico diviso in due figure, oppure di due figure che hanno il senso e il sapore di un
unico personaggio. Le loro vite sembrano formare un’unica vita, che anziché svolgersi nei tempi
normali di un’esistenza, si protraggono più a lungo. Si tratta infatti di nonna e nipote. Melania
l’Anziana è la nonna paterna di Melania la Giovane.

Melania l’Anziana è definita da coloro che l’hanno conosciuta come “una donna di Dio”. È la
definizione più alta, più precisa, più lusinghiera che si possa dare a qualcuno che milita nell’ambito
del monachesimo antico: uomo o donna di Dio. Forse vale ancora di più di “santo”. Santo è
qualcuno che attira il riconoscimento della sua santità, ma uomo o donna di Dio è colui, colei, che
appartiene completamente a Dio, al di là di qualsiasi riconoscimento del mondo, di qualsiasi livello
istituzionale.

Tra i grandi autori che si sono occupati di lei c’è Palladio, un autore spirituale di primissimo ordine,
una figura simpatica, perché, nella sua Storia Lausiaca, ci restituisce un quadro vasto e immediato,
scritto e documentato, della realtà monastica orientale. Anche lui ha un debole per Melania
l’Anziana, la cita più volte nella Storia Lausiaca. Girolamo scrive di lei, prima con entusiasmo, poi
più tardi furibondo, e ne scrive anche Paolino da Nola, meno famoso dei due precedenti; egli e la
moglie Terasia formano una delle coppie abbastanza frequenti nell’ambito monastico latino e
orientale di questi anni, che hanno scelto di vivere in castità il rapporto di unione sponsale sul piano
spirituale. La conosce anche Agostino ed altri autori ancora scrivono di lei. Sono tuttavia i primi tre
autori nominati che ci danno un’immagine molto vivida di Melania. Benché gli autori siano diversi
l’uno dall’altro, danno un’immagine complessiva molto coerente.

Palladio scrive di lei: “Fu spagnola d’origine e dunque romana, figlia di Marcellino, il console,
sposò un uomo che ricopriva alta carica, ma di lui non ho preciso ricordo. Divenuta vedova a
ventidue anni, fu ritenuta degna dell’amore divino e senza dire nulla a nessuno, ciò era vietato ai
tempi di Valente, che allora reggeva l’Impero, fece in modo che fosse nominato un tutore per suo
figlio e presi tutte le suppellettili e gettatele su una nave, navigò alla volta ad Alessandria in
compagnia di servitori e ancelle. Vendette tutti i suoi beni e li convertì in monete d’oro, quindi si
addentrò nei monti della Nitria per incontrare i padri del deserto. Si trattenne tra loro per sei mesi,
aggirandosi per il deserto e visitando tutti i santi”.

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Per quanto sia sintetica, ci raggiunge subito la bellezza di questa immagine del percorso di Melania
l’Anziana. Si era sposata a quindici anni, figlia, altri dicono nipote, del console Marcellino, sposa
un uomo forse più potente, della famiglia Valeria, un uomo che muore prematuramente e le
muoiono due figli quasi contemporaneamente con il marito. Le rimane soltanto l’ultimo figlio,
Valerio Publicola. L’estrema rapidità della sua decisone di votarsi a Dio, di non crogiolarsi nel suo
dolore per queste morti, sembra averle dato una dinamica straordinaria, ma comprensibile nel suo
momento storico. La seconda metà del IV secolo c’è un periodo in cui il monachesimo si sta
rapidamente diffondendo in oriente e in occidente, sta quasi esplodendo come fenomeno attraverso
le regioni in tutto l’Impero. Contemporaneamente a questo fenomeno, che segue immediatamente
l’Editto di Costantino a favore della libertà religiosa, abbiamo anche la minaccia dei barbari e il
crollo dell’Impero romano, che si sta già disgregando da tempo. Come data emblematica possiamo
adottare la presa di Roma da Alarico IV nel 410, un evento traumatico per tutta la romanità, anche
per i cristiani. Ma già le coscienze presagiscono l’imminenza di questo trauma. All’interno di
questo quadro storico è ben comprensibile il salto epocale, geografico di lasciarsi dietro le spalle
non soltanto i lutti, ma un mondo che sta per finire.

Non è la stessa scelta di questa donna, ma è la rapidità che sorprende, anche dal profilo psicologico.
Trovo che una delle più grandi fatiche che l’uomo, anche quello più spirituale, deve affrontare è
quello di sciogliersi dai legami del passato, invece Melania sembra essere una grande maestra in
questo senso, nel suo impatto con la realtà che viene come un richiamo da un mondo
qualitativamente diverso, da un'altra dimensione, la dimensione del deserto e dei padri. Nel deserto,
incontra vari padri, ma risulta particolarmente significativo l’incontro con l’eremita Pambo, che, da
quando si era fatto monaco, era famoso per aver mangiato solo pane guadagnato lavorando con le
proprie mani: era un contemplativo, ma dava importanza particolare al lavoro manuale.

Palladio ci descrive con le parole di Melania l’incontro della gran signora proveniente dal centro del
mondo di allora, che si presenta all’eremita: “Nei primi tempi venuta da Roma ad Alessandria,
sentii celebrare la virtù di quest’uomo. Fu il beato Isidoro a parlarmene e a farmi da guida nel
deserto fino a lui. Gli portai una scatola d’argento, che conteneva argento dal peso di trecento
libbre, invitandolo ad essere partecipe delle mie ricchezze – viene con un gesto magnanimo da gran
signora – egli stava seduto intrecciando ramoscelli e mi benedisse: «Dio ti ricompensi!»
Rivolgendosi al suo amministratore, gli disse: «Prendi l’argento e amministralo a favore di tutti i
confratelli della Libia e delle isole, giacché quegli eremiti sono più poveri». L’avvertì di non dare
nulla agli eremiti dell’Egitto, giacché quel paese era più ricco. Io aspettavo di essere onorata o
addirittura esaltata da lui per il mio dono e perché non udivo nulla da parte sua, mi decisi a dirgli:
«O Signore, perché tu sappia la quantità, sono trecento libbre» e lui, senza neppure sollevare il
capo, rispose: «Colui al quale li hai portati, o figlia, non ha bisogno della bilancia. Chi pesa le
montagne conosce a maggior ragione la quantità dell’argento. Se tu lo donassi a me, faresti bene a
parlarne, ma se lo doni a Dio, che non ha disprezzato neanche due oboli, taci!» Così si comportò
questo Signore, quando andai su quel monte. Poco tempo dopo, quell’uomo di Dio morì, senza
febbre o malattia, all’età di settant’anni, mentre cuciva la sua sporta. L’ago era arrivato al
compimento dell’ultimo punto, quando mi mandò a chiamare e mentre stava per mancare, mi disse:
«Ricevi questa sporta dalle mie mani, perché tu possa ricordarti di me, non ho altro di lasciarti in
eredità»”. Melania prepara il corpo di questo padre per la sepoltura, lo seppellisce, quindi lascia il
deserto e per tutta la vita tiene con sé la sporta.

Questo racconto non ha soltanto una sua bellezza interessante, dell’eremita lavoratore e della
patrizia che va a trovarlo, dell’eremita che quasi non poteva morire prima di aver finito la sporta da
lasciare in eredità a lei. Il rito del seppellimento richiama altri seppellimenti nell’ambito della storia
di altri eremiti. Tra le figure femminili, ed è il motivo perché io personalmente ho un debole per lei,
Melania non è soltanto una che è riuscita a penetrare nell’ambiente dei padri del deserto, ma ad

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entrare tra di loro al punto di diventare quasi una di loro nella dinamica delle relazioni tipiche di
questo ambiente. Paola, amica di Girolamo, un’altra pellegrina nel deserto ed Egeria, la pellegrina
per eccellenza, frequentavano questi padri, ma tra le donne che venivano da un altro mondo,
dall’urbanità e dall’aristocrazia occidentale, credo che Melania sia quella che riusciva meglio ad
entrare nelle coordinate umane e spirituali del deserto dei primi secoli, adeguandosi al mondo
nuovo. Questo è un attributo perfettamente coerente con la sua agilità caratteriale e la sua
immediatezza di decisione, dimostrata nel lasciare Roma e il suo figlio piccolo, dandolo ad un
tutore.

Melania ha un altro incontro, con Macario – nel deserto sono vissuti diversi padri dal nome di
Macario – un eremita protagonista di un racconto non citato da Palladio, ma che si trova negli
Apophtegmi. Un giorno riceve la visita di un’iena, che gli porta un cucciolo cieco, che l’eremita
guarisce e il giorno seguente la iena in gratitudine gli porta in regalo una pelle di pecora, con la
quale il padre si fa un tappeto. Questo è uno dei più significativi racconti che appartengono al filone
della spiritualità dei padri del deserto in un rapporto di particolare vicinanza con il mondo animale,
con la motivazione ben precisa di un ritorno alle origini: il padre del deserto ha un rapporto speciale
con la natura perché ha la capacità di tornare indietro nel tempo prima del peccato di Adamo e di
conseguenza può trattare con serpenti, scorpioni, iene sul piano di parità. Si potrebbe chiamare una
qualità francescana, se non fosse che fu Francesco ad ereditare questo talento dai padri del deserto,
vissuti molti secoli prima di lui. E questo tappeto Macario ha regalato a Melania, oggetto di
tenerezza da parte di questi padri, che le fanno regali piccoli ma significativi.

C’è anche una donna tra questi padri, Alessandra, uno dei primi ritratti religiosi femminili, ritiratasi
a vivere in un sepolcro, perché, come spiega a coloro che vanno a visitarla, un giovane si era
sconvolto la mente per causa sua e lei non voleva che altri lo facessero. Melania, che non ha ancora
raggiunto lo stesso grado di consapevolezza e forza nella stabilità, le chiede come fa a resistere
senza mai vedere nessuno, dovendo combattere contro il tedio della solitudine. Alessandra risponde,
dicendo che vive in preghiera, aspettando il giorno della sua morte. Nella Storia Lausiaca Palladio
fa spesso ritorno a Melania per parlarne, come figura esemplare.

Dopo il soggiorno nel deserto, questa donna avventurosa, depurata dalle cattive abitudini contratte
nel mondo, viene coinvolta in dibattiti tra vari padri su questioni dottrinali. Quando alcuni vengono
esiliati accusati di eresia, Melania non li abbandona, ma li segue, aiutandoli con il suo denaro e,
travestita da servo, li soccorre di notte, portando loro le cose che servono. A un certo punto viene
arrestata e pronuncia un’autodifesa di fronte al console: “Io sono figlia di uno e moglie di un altro,
ma sono serva di Cristo, perciò non disprezzare la meschinità della mia apparenza, perché se
voglio ho il potere di innalzarmi e in questo non hai modo di confondermi né di prendere alcuna
cosa che mi appartenga. Affinché tu per ignoranza non ti avventuri in qualche azione illegale, io ti
ho fatto questa dichiarazione, perché contro gli insensati bisogna usare l’orgoglio, come si avventa
uno sparviero”. Melania riesce a salvarsi dall’arresto e inizia per lei una nuova fase spirituale più
matura: fonda un monastero a Gerusalemme, un monastero doppio.

Nel monastero maschile c’è un suo amico fraterno, Rufino di Aquileia, amico e compagno di studi
di Girolamo in gioventù, collaboratore e interlocutore nel suo lavoro esegetico e traduttore, ma ad
un certo punto le discordie li dividono. Melania incontra poi Evagrio Pontico, il teologo del deserto,
giovane ed acuto, un monaco studioso che saprà raccogliere e sistemare il patrimonio ascetico,
dandogli una forma in cui tramandarlo attraverso i secoli. Ancora oggi per conoscere bene i
capisaldi di questo pensiero ascetico, leggiamo Evagrio Pontico. Amico anche dei grandi del suo
tempo, come Giovanni Crisostomo e Gregorio di Nazianzo, incappa in un problema antico, si
innamora di una donna sposata, che lo ricambia: è dibattuto nel problema di dover abbandonare la
vita monastica per questo donna o meno e viene incarcerato dal marito della donna. Riesce a fuggire

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e si ripara a Gerusalemme da Melania. Melania gli dice: “La lunghezza della tua malattia non mi
piace, figlio: dimmi ciò che giace nel tuo pensiero, perché questa tua malattia non è estranea a
Dio”. Vediamo in lei l’erede di una capacità di discernimento, di acutezza psicologica e di capacità
taumaturgica che probabilmente le deriva dai padri del deserto che aveva frequentata a lungo.
Queste qualità sono proprio quelle del monaco. Ecco che Evagrio si confida con lei e in questo
modo Melania spiega che la malattia viene da Dio e che in certi casi è qualcosa che non viene dal
corpo, ma che ha un legame spirituale e così va curata. Confortato da questo colloquio, Evagrio
trova la forza di lasciare la donna e torna al deserto di Nitria con il sostegno della preghiera di
Melania.

Girolamo scrive di lei prima in termini entusiasti; nella Lettera 39 dell’anno 385, dove, in seguito
non casuale di una fila di esempi tratti dalla Scrittura in cui si celebrano le eroine bibliche, presenta
Melania nello stesso modo in cui ce ne ricorda Palladio, ma con più vivacità: “La santa Melania,
vero orgoglio tra i cristiani del nostro tempo - conceda il Signore a me e a te una sorte eguale alla
sua nel giorno del giudizio - quando il corpo del suo marito era ancora caldo e non ancora sepolto,
perse nello stesso tempo due figli. Sto per dire una cosa incredibile, ma Cristo n’è testimone non
falso. Chi non avrebbe pensato che lei allora, come una pazza con i capelli scarmigliati, se li fosse
strappata e se fosse lacerata e si battesse il petto? Non colò una lacrima, ella rimase impassibile
prostrata ai piedi di Cristo, quasi abbracciasse lui stesso e disse sorridendo: «Ti servirò più
speditamente, Signore, perché mi hai liberata di un tale fardello». Ma perché non fosse poi vinta in
seguito al contrario, con quale animo si sia staccata da essi lo dimostra con l’unico figlio rimasto:
avendogli dato tutto quello che aveva, all’inizio dell’inverno si mise in nave alla volta di
Gerusalemme”.

Girolamo era un letterato astuto e quindi capace di cogliere il senso del paradossale, ama l’eccesso
ed è anche un grosso polemista che si serve di Melania per scandalizzare i pagani, che, rispetto ai
cristiani, sono più attaccati agli affetti familiari per la sacra considerazione dei vincoli di sangue,
quindi egli porta la rottura tra Melania e la tradizione pagana e aristocratica latina su questo fronte.
Lasciare la famiglia e vivere per Dio e addirittura ringraziare Dio di averla liberata da un fardello!
Tuttavia, penso che questo sia piuttosto un pensiero di Girolamo e non di Melania. Pesa alquanto la
mano di Girolamo in questo brano, ma in complesso l’immagine corrisponde a quella di Palladio.

Nella Lettera 127, Girolamo fa l’elogio funebre di un’altra grandissima donna religiosa, Marcella,
l’amica di Girolamo, ha già litigato con Rufino, amico e collaboratore di Melania, detesta ormai
anche Melania e quindi non la nomina nemmeno, però le riconosce sotto falso nome il merito di
essere stata una grande iniziatrice e la chiama Sofronia. Dice che Marcella ha iniziato la vita
monastica a Roma e Sofronia l’ha imitata. Scrive anche di lei nella famosissima Lettera 45 ad
Azella, eremita metropolitana, che si lamenta che deve abbandonare Roma dopo la morte di papa
Damaso per le calunnie di cui è stata fatta oggetto. Egli si meraviglia che in una città come Roma le
uniche donne che siano fatte oggetto di chiacchiere maliziose sono donne come Melania e Paola,
che hanno elevato in alto con devozione la croce del Signore. Invece le donne che vivono in
maniera frivola e stupida non diventano mai oggetto di cattive chiacchiere da parte di nessuno. In
seguito, Melania cadrà in disgrazia presso Girolamo, come abbiamo già visto prima. Girolamo dirà
che la radice del suo nome in greco mela significa “nero” e indica la qualità pessima della sua
anima.

Tuttavia, al di là delle polemiche abbastanza basse in cui si cade su questioni di carattere dottrinale
ed eresie, il monastero di Melania in Gerusalemme è un centro importantissimo di studi, perché
Rufino vi lavora indefessamente per decenni e fa di esso la sede dei suoi studi e in questo modo
richiama anche a studiosi di tutto il mondo cristiano. Rufino è il traduttore di Basilio e di Gregorio
Nazianzo, i cui scritti hanno una forte caratterizzazione monastica e una serie di altre opere, tra le

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quali il Manuale di Sesto, un pitagorico pagano con qualche tentazione cristiana, che godrà di
grande considerazione tra i monaci, di un’opera di Eusebio, la Storia Ecclesiastica e la Storia dei
monaci d’Egitto, nella quale si trovano notizie sulle comunità dei terapeuti, giudei che conducono
una vita grosso modo monastica e nelle loro regole ed osservanze presentano un’importante
anticipazione del tipo di vita monastica successiva insieme ad altre notizie importanti per gli studi
monastici. Rufino, e di conseguenza Melania, è in relazione con la produzione letteraria dei monaci
orientali di questo momento storico.

Un altro autore, Paolino da Nola, quindici anni dopo Girolamo, scrive di Melania ad un altro
personaggio importante del tempo, Suplicio Severo, autore di una Vita di Martino di Tours. Ne
intesse le lodi, ripetendo la storia di come lei lascia la famiglia e Roma, con l’intento di stabilire un
parallelo tra il percorso di Melania l’Anziana e quello di Martino. nell’occasione del ritorno di
Melania l’Anziana a Roma dopo ventisette anni vissuti nell’oriente. Nel frattempo il figlio, che
aveva pochi anni quando lo lasciò, è diventato uomo e ha una figlia adolescente, Melania la
Giovane. Bellissima è la descrizione di Paolino del ritorno dell’anziana signora, monaca da molti
anni, che, depurata da tutta la mentalità tipica della sua città natale ed impregnata di spiritualità
orientale, arriva, sbarcando a Napoli con dei monaci e delle monache e poi cavalcando su un
“ronzino sciancato”, peggio di un somaro, si presenta in abito monastico dimesso.

Paolino scrive: “Noi abbiamo visto la gloria del Signore in questo viaggio della Madre e dei suoi
figli. Essi camminavano insieme ma la loro tenuta era ben diversa. Cavalcando un ronzino
sciancato, più dimesso di un asino, era seguita da tutta la pompa secolare della quale possano
essere circondati dei senatori provvisti di beni e di ricchezze, vetture ben attrezzate, cavalli bardati
con lusso, carrozze dorate, carrette in quantità, che gremivano la via Appia e la rendevano
splendente, ma tutta quella sfolgorante vanità non brillava quanto la grazia dell’umiltà cristiana.
Quei ricchi ammiravano la santa povertà come noi ridevamo di essi”. C’è un contrasto netto che si
risolve immediatamente in favore di Melania. Di nuovo c’è una scena di sapore quasi evangelico
descritta da Paolino con i nobili in abiti di lana pregiata intessuta d’oro e lamine preziose, che
avrebbero messo quei vestiti sotto i piedi di Melania, pensando che sarebbero stati purificati dalle
sozzure delle ricchezze se soltanto avessero meritato di toccare i suoi abiti e le sue scarpe. Questa
donna anziana è così carica di sapienza che anche il suo aspetto fisico parla della sua vita spirituale.
E i nobili l’inseguono, come nei vangeli la gente ambiva di toccare l’abito di Cristo. Questi nobili
vanno in cerca di un frammento di verità, di sapienza, di saggezza, consapevoli che appartengono
ad un mondo ormai vecchio e decaduto.

Tra coloro che accolgono l’anziana signora c’è anche la giovane Melania, ancora una ragazzina che
darà continuità all’opera della nonna. Quando viene unita in matrimonio ad un cugino, Valerio
Piniano, Melania la Giovane ha soltanto quattordici anni e lo sposo diciassette. Sembra che questa
fanciulla abbia già sentito l’attrazione della vita religiosa e chiede al marito di poter vivere con lui
in castità. Questo matrimonio è stato voluto dal padre, Valerio Publicola, ma non da lei.
Immaginiamo questo figlio Valerio “abbandonato” in fasce dalla madre, che si fa monaca. Ora, egli
si ritrova con la figlia unica, erede di una fortuna sterminata, composta non soltanto delle ricchezze
possedute dalla famiglia Valeria a Roma, ma anche di quelle possedute in molte regioni
dell’Impero, e questa unica erede desidera farsi monaca - sembra una sorte di incubo che si ripete
per questo uomo di antica tempra, che non ha mai saputo fare a meno della sua toga senatoriale,
nonostante che sua madre gli abbia detto di gettarla tra le ortiche e di vestirsi di un saio.

La giovane Melania è altrettanto decisa come la nonna nella sua scelta religiosa, ma deve dibattersi
assai più nelle questioni di ordine patrimoniale. È una figura di monaca forse più completa della
nonna, perché compie un itinerario personale e religioso più variegato e più facilmente definibile,
ma sembra che su di lei debba ricadere tutto il peso di un patrimonio che è rimasto ancora in

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qualche modo ad ostacolare le sue scelte. Melania concede al marito tutto il suo patrimonio ma
insiste sul loro vivere in castità. Il marito le propone il dovere verso la casata di aver dei figli, prima
di fare la scelta definitiva della vita di castità. Esiste tra di loro un’unione spirituale casta e felice.
Hanno due figli, che muoiono, uno ancora in fasce, l’altro poco più grande. Prostrato da questo
lutto, con la moglie che ha avuto parti difficili, Piniano promette di vivere in castità. Si ritirano
sull’Appia, dove possiedono una villa e inaugurano un primo tentativo di vita monastica ed ascetica,
insieme alla madre di lei, Albina, e con degli amici, sacerdoti, monaci dall’oriente, prodigandosi in
opere di assistenza ai poveri, infermi, carcerati e pellegrini.

Dovranno difendersi dal fratello del marito, che aspira ad impadronirsi del loro patrimonio e ci
riusciranno, grazie ad un incontro tra Melania e l’Imperatrice Serena, sorella dell’Imperatore
Onorio, che dispone che la vendita dei loro beni venga affidata ai governatori delle varie province
dell’Impero, che ne risponderanno personalmente, agevolando così il progetto di Melania di
vendere tutto il suo patrimonio per destinarlo in opere di bene e in fondazioni di monasteri. Dopo
questo primo periodo e la liberazione da questo mondo di tradizioni secolari, di affetti, di denaro e
case che formava il suo patrimonio, Melania parte con il marito e la madre e approda dopo un
viaggio lungo nella Nord Africa di Agostino. Agostino li fa accogliere da un suo amico a Tagaste e
qui Melania fonda il suo primo monastero. Accoglie vergini, predica a loro specialmente sul valore
della castità e alterna la sua vita con momenti di dura contemplazione. Si fa costruire una cassa da
morto, in cui non può nemmeno girarsi e lì si stende per fare la sua contemplazione. Comincia a
scrivere, a ricopiare libri: sa il greco e il latino e nel mondo dei monaci dell’occidente i suoi scritti
sono segnalati ancora dopo alcuni secoli.

Una buona madre spirituale e una buona lavoratrice, entra tuttavia in conflitto con la chiesa di
Agostino, che vorrebbe ordinare sacerdote il suo marito Piniano, il quale non vuole essere
sacerdote, ma monaco. Lascia anche la chiesa di Tagaste per trasferirsi a Gerusalemme. Con ciò che
è rimasto del patrimonio si ritira in un ospizio per i pellegrini poveri nella città santa. Abita qui
miseramente, ammalandosi in condizioni di indigenza. Venduti altri suoi possedimenti, riesce a
realizzare un grande sogno, partendo con il marito per un pellegrinaggio in Egitto, dove a sua volta,
come aveva già fatto la sua nonna, incontra i padri del deserto. Essi la conoscono già di fama, come
nipote di Melania l’Anziana e perché l’apprezzano per la sua mentalità virile, ovvero celeste: salda,
forte, positiva d’animo.

Ritornata dall’Egitto a Gerusalemme, inizia un perioda di ritiro eremitico e vive da reclusa in una
cella. Questa stessa prassi diventerà di moda successivamente nel Medioevo. Si abbandona a tal
punto nella sua ascesi spirituale e fisica che la sua persona viene indicata come una delle più
trascurate a un livello inimmaginabile. La vergine che si occupa di lei, portandole il cibo, dice in
testimonianza che quando ogni tanto ci andava per ripulire la cella, scuoteva la stuoia dove Melania
dormiva e ne uscivano dei vermi enormi. Quest’immagine anche ripugnante è perfettamente nella
tradizione di questi primi secoli del monachesimo nel deserto, ai tempi di Antonio, per esempio, e
Melania l’Anziana lasciò scritto di non essersi lavata, se non le mani, da quando era entrata in
religione. Con la rinuncia ai bagni, che poi sarà una questione dibattuta ed interpretata in vari modo
nella storia monastica, forse si intendeva dimostrare un’opposizione netta all’antica abitudine dei
bagni frequentissimi, come parte di una civiltà di cure eccessive del corpo, dalla quale i monaci
volevano prendere la loro distanza.

Melania la Giovane esce poi da questa reclusione e si dedica alla fondazione di due monasteri
nuovi. Uno è il monastero fondato dopo la morte della madre Albina e il lutto macerante che
seguiva, un monastero femminile che rimane nella memoria particolarmente del monachesimo
benedettino come un modello, perché assume connotate di una comunità esemplare ed è anche ben
documentato dal biografo di Melania la Giovane. L’altro monastero viene fondato successivamente

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ad un altro lutto, ancor più sentito da Melania, quello per la morte di Piniano. Melania si macera
durante un periodo di durissima penitenza e solitudine dopo la morte di colui che è stato per lei un
compagno ideale della sua singolarissima avventura e una testimonianza di come sia possibile di
aprire tra i due sessi un dialogo nuovo sulla vita monastica a partire dalla scelta di una vita di
castità. Melania fonda un monastero in memoria di Piniano, un monastero maschile, quindi, fondato
da una donna. I monaci devono tenere viva una perenne lode a Dio e il monastero viene costruito
su un luogo dove Cristo si intrattenne con i suoi discepoli sui temi della fine del mondo e salì al
cielo.

Dà una forte indicazione di come anche in ambito monastico sia importante tenere aperto un
dialogo tra uomini e donne. Tuttavia, la fondazione che passerà alla storia sarà quella femminile,
anche perché Melania si dimostra essere una grande maestra spirituale e istituisce una liturgia
romana nell’ambito della città cosmopolita, Gerusalemme, che avrà grande importanza nella storia
della liturgia. La sua concezione del monastero è molto seria, rigorosa, in linea con quello che la
cultura monastica ha elaborata nell’oriente fino a questi giorni. Nella prima metà del V secolo,
Melania concepisce questo monastero sotto la forma di clausura più stretta, ben sigillata, e provvede
che ci sia la cisterna per l’acqua, che ci siano delle reliquie e che sia garantita un’autonomia per
quanto riguarda le prime necessità materiali all’interno di questo monastero, in modo che le
monache non siano costrette ad uscire continuamente, proponendo come valori particolarmente
femminili la castità e la clausura assoluta. Rispetto al monachesimo maschile, quello femminile
denota una tendenza molto precisa in questa direzione. Direi che Melania, nell’antichità, fosse stata
uno degli esempi più lampanti di questa volontà, che poi si riconnette direttamente alla spiritualità
del deserto, nel senso della lontananza dal mondo, che necessariamente il monaco e la monaca
devono salvaguardare.

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CESARIA LA GIOVANE : RADEGONDA

18 FEBBRAIO 2002 Dott.ssa MARIELLA CARPINELLO

Due altre importanti figure femminili hanno dato lustro e rilievo alla storia del monachesimo nei
primi secoli, come le due figure di cui abbiamo parlato la volta scorsa, si tratta di donne che le
testimonianze storiche e contemporanee ci restituiscono con gran precisione e chiarezza: Cesaria, la
Giovane, dalla quale non si può separare la figura di Cesaria l’Anziana, la sua zia, e la regina
Radegonda, moglie di re Clotario, re merovingio, re dei franchi, prima regina e poi monaca. Non è
questo l’unico motivo d’interesse che ci porta a parlare di lei, questo strano abbinamento di ruoli,
regina e monaca, perché, come vedremo, si tratta di una personalità fuori del comune e di
straordinaria bellezza dal punto di vista spirituale e anche da quello umano. Sono due figure ben
documentate non soltanto perché grandi autori si sono occupati di loro, ma anche perché esse stesse
hanno scritto. Sappiamo quanto sono rare le testimonianze scritte da donne della loro epoca: siamo
già nell’Alto Medioevo e in quest’ambito spirituale che riguarda Cesaria e Radegonda incontriamo
un folto gruppo di donne che scrivono attorno a loro. C’è anche una stretta linea di continuità che
unisce questi due personaggi.

Cesaria la Giovane è legata ad una vicenda straordinaria, alla redazione della prima regola
monastica scritta appositamente per le donne. Ci rendiamo conto di quanto sia rilevante il peso di
questo dato storico, tenendo conto di quanto siano importanti le regole monastiche non soltanto dal
punto di vista della spiritualità e della storia monastica, ma anche dal punto di vista della storia
civile, culturale e sociale. Il testo di una regola monastica non è importante soltanto perché è
destinato a reggere una o più comunità monastiche e quindi ad esercitare una forte influenza in
ambito monastico, ma perché, specialmente in questi primi secoli, è forte nei monaci e nelle
monache la consapevolezza che la Regola è un testo ispirato da Dio e quindi una specie
d’emanazione, per quanto indiretta, della sacra Scrittura, la viva Parola di Dio. E questo fin dai
primi tempi, quando la prima regola monastica, scritta da Pacomio, viene descritta nella celebre
introduzione da Girolamo come un testo inspirato direttamente a Pacomio dagli angeli, “…gli
angeli gli avevano dato la scienza della mistica”, dice.

La Regola non ha soltanto un complesso normativo ma ha un contenuto anche molto alto, dato da
Dio, e questa coscienza accompagna non soltanto le carte di fondazione degli ordini monastici ma
anche delle congregazioni di vita religiosa in senso lato. Bisogna tener conto di quanto sia
importante la formulazione di una regola, che lascia un segno forte nella storia e la regola sotto la
quale milita sia Cesaria la Giovane sia anche al suo tempo Cesaria l’Anziana è un tale testo, che ha
segnato un forte passaggio di svolta. Esiste anche una forte influenza che il testo di una regola
esercita sull’ambiente sociale e a volte anche a distanza dei secoli aiuta il lavoro dello storico e di
noi oggi che interroghiamo il testo per ricostruire un ambiente più vasto. Per esempio, Francesca
Romana scrive la sua Regola per le Oblate di Tor de’ Specchi nella Roma del Quattrocento, dove in
città si vive in un forte decadimento e il testo di Francesca assume il significato di una reazione
spirituale sana e di critica sociale costruttiva in questo momento particolare della storia.

Siamo nella prima metà del VI secolo, negli stessi anni in cui viene scritta la Regola di San
Benedetto, esistono già almeno due generazioni di regole monastiche, e fino a quella data le donne
hanno sempre militato sotto regole scritte per gli uomini. Questo fatto ha una gran rilevanza per i
nostri occhi, perché uno degli elementi di maggior interesse e attrazione che possiamo provare

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verso il monachesimo primitivo oggi è il suo modo di collocare con la sua semplicità, linearità e
naturalezza l’uomo e la donna sullo stesso piano come ricercatori di Dio. Quindi è chiaro che sia
stata riconosciuta a loro una parità di dignità umana e spirituale, ma anche la stessa capacità.
Tuttavia, attraverso i secoli, le norme osservate nei monasteri maschili e in quelli femminili
andavano spontaneamente modificandosi al livello pratico, ma non per motivo di discriminazione
sul piano spirituale. Cesario, vescovo d’Arles, fratello di Cesaria l’Anziana, per primo si sente di
dover tutelare e definire meglio la comunità femminile di cui è fondatore e l’osservanza a sostegno
del prestigio e del ruolo che le donne hanno sul piano spirituale della loro militanza monastica.

Cesario era in gioventù un monaco di forte vocazione: a vent’anni entra a Lérins, gran centro
ascetico, uno dei primi monasteri nell’occidente e segue un corso d’apprendimento e formazione
che fa di lui un gran monaco contemplativo e questo tratto contemplativo gli rimarrà sempre
fortissimo anche quando si occuperà di cose molto attinenti alle questioni pratiche. Attorno ai
trent’anni diventa vescovo d’Arles, centro importante della Gallia Meridionale e qui intraprende
una serie d’iniziative per radicare la morale cristiana nei costumi della società ancora esposta ad
invasioni barbariche e conseguenti disordini sociali. La sua vocazione di contemplativo ed asceta
che aveva coltivata a Lérins sopravvive in lui con vigore e questa parte di se stesso che non può più
vivere nella segretezza del chiostro egli affida alla sorella: il rapporto tra fratello e sorella è
particolarmente vitale dal punto di vista dello sviluppo nell’attività in ambito monastico.

La fondazione del monastero di Ste. Jeanne d’Arles, un monastero femminile, risale agli anni 508-
512 circa; negli stessi anni San Benedetto probabilmente avrà fondato i suoi primi monasteri attorno
a Subiaco, ma non era ancora arrivato a Montecassino. Il gran vescovo della Gallia pensava di
promuovere le sorti del monachesimo femminile, che gli sta al cuore, tramite la sorella. La sorella si
forma in una scuola ascetica eccellente, il monastero femminile di Marsiglia, fondato un secolo
prima da Giovanni Cassiano, e poi diventa abbadessa di un piccolo gruppo, che cresce e diventa una
grande comunità monastica. Questo monastero diffonde la sua cultura in tutta la Gallia. Per fondare
questo monastero Cesario aveva devoluto una parte dei beni ecclesiastici della sua chiesa per
costituire il complesso degli edifici e per dotare di redditi il cenobio. Ora la sua preoccupazione era
duplice; la protezione del patrimonio e il regolamento della vita del monastero. Scrive la Regola per
le vergini e anche cerca di definire bene la questione della sua sopravvivenza dal punto di vista
economico, in modo che fosse garantito un buon tenore spirituale su un saldo fondamento
patrimoniale. Tutto questo rivela la saggezza e l’affetto del vescovo per questa comunità.

Scrive una lettera al papa Ormisda per chiedergli il riconoscimento dell’indipendenza di questa
comunità. Siamo nei primi anni del VI secolo, un’epoca ancora di estrema oscurità non solo per le
donne ma per tutta la popolazione, e questo vescovo straordinariamente illuminato si pone il
problema di rendere indipendenti ed autonome le vergini della sua chiesa, affinché la Regola delle
vergini non possa essere modificata da nessuno che intervenga dall’esterno. Il papa gli risponde,
accogliendo le proposte di Cesario e approvando la Regola delle vergini, con la sola
raccomandazione che il vescovo del luogo avrà il diritto e il dovere di visitare la comunità come
conviene. Ratifica anche la vendita dei beni ecclesiastici per dotare la fondazione, ma proibisce
ulteriori devoluzioni di questo tipo. Questa è la prima volta che un papa intervenga per difendere
una comunità monastica femminile.

La prima Regola scritta per le monache è anche la prima che parla esplicitamente della clausura,
assoluta e definitiva. Scrive il vescovo che conviene ad una donna che vuole rinunciare al mondo ed
entrare nel sant’ovile di non uscire più dal monastero fino alla morte, neppure per andare alla
basilica, alla quale si accede per la porta del loro monastero. Si afferma così la tendenza delle donne
a vivere in modo più appartato rispetto agli uomini. La regola sottolinea allora la specifica intima
esigenza spirituale l’essenza del monachesimo: la fuga del mondo e la separazione dalla società dei

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secolari e dalla loro mentalità. L’essenza e la bellezza del monachesimo sta proprio in
quest’aspirazione al deserto, nel mantenere il fervore della solitudine e vivere solo per Dio.

Cesario decreta anche che questa Regola non possa essere modificata neanche dall’interno della
comunità monastica, nell’avvenire quando né lui né la sua sorella Cesaria, la prima abbadessa, vi
saranno più. Questo particolare significa una previdenza di un fenomeno che sarà tipico del
Medioevo, di abbadesse che vengono collocate in monastero, motivate da interessi mondani e che
portano alla rovina le comunità. Il senso della dignità di queste vergini, come concepito da Cesario,
è notevole. Egli proibisce loro di svolgere attività che non siano confacenti alla loro funzione di
persone votate alla lode di Dio. Specifica a più riprese che le sue monache devono vivere per lodare
Dio e pregare per le sorti del mondo. E a questo scopo devono rivolgere tutta la loro vita a Dio. A
ragione di questo hanno il diritto da parte della Chiesa a un sostegno materiale, esattamente come i
buoni operai hanno il diritto di uno stipendio. È un concetto rivoluzionario per quest’epoca. Non
devono preparare pasti per parenti dell’abbadessa, né per signore secolari in visita né per
ecclesiastici e neppure per il vescovo. Possiamo fare un confronto con l’ospitalità benedettina, più
larga e disponibile, ed ispirata dal concetto di accogliere Cristo in ogni ospite. Ma per il monastero
femminile di Arles c’è la preoccupazione che le monache, perché donne, siano tentate di
intraprendere le occupazioni tipiche delle donne che vivono nel mondo. Cesario proibisce loro
anche il lavoro di tintura, di lavare biancheria e di allevare bambini per esterni.

Cesaria la Giovane si presenta come la vera interprete della Regola di Cesario, con il senso
altissimo della propria dignità e del proprio compito religioso, e nella sua funzione rivela non
soltanto una gran preparazione ma anche una cultura estremamente raffinata per i suoi tempi e una
gran fierezza della propria posizione all’interno del monastero di Arles e la posizione che il
monastero andava assumendo in tutta la Gallia. Quando muore Cesaria la Giovane, lo zio Cesario
raccoglie una serie di testimonianze per fare una sua biografia e lei stessa nota di suo pugno delle
riflessioni. Scrive inoltre un’ordinanza, uno dei primi documenti vergati da mano di abbadessa in
occidente per vietare che nella basilica dove vengono sepolte le sue monache possano essere
tumulate anche le salme di secolari o di altre persone estranee alla comunità monastica. Tutto ciò
che appartiene alla comunità femminile deve serbare il prestigio e la dignità che le conviene, anche
il terreno destinato alla sepoltura. Un terzo documento che scrive è una lettera alla regina
Radegonda, la regina dei franchi, già monaca, che aveva deciso di scegliere la Regola di Cesario per
il proprio monastero di Santa Croce, fondato da lei a Poitiers.

Radegonda è uno dei grandi personaggi della Francia, di tutta la storia francese. È una figura di
singolare complessità, nella quale è leggibile un’avventura umana molto vicina anche alla
sensibilità delle donne del mondo, una donna di gran forte spiritualità che assume una posizione
esemplare di guida del suo popolo. Deve affrontare un itinerario biografico molto difficile: mentre è
ancora bambina, suo padre viene ucciso dal fratello, zio di Radegonda, il quale usurpa il trono. La
sua terra, la Turingia, che corrisponde all’odierna Germania settentrionale, viene invasa dai franchi
nel corso di una campagna militare straordinariamente sanguinosa. Radegonda, che ha solo undici
anni, viene presa prigioniera come parte del bottino del re insieme a un fratello, deportata in terra
franca, assegnata al re Clotario. Questa “infanzia difficile” viene interpretata dai suoi biografi come
una sorta di esodo di tipo biblico che la porta verso la piena consapevolezza. Le viene impartita
un’educazione letteraria accuratissima, perciò, già fervente cattolica, Radegonda può avvincinarsi ai
grandi autori del cristianesimo, come Basilio, Gregorio di Nissa, Atanasio, Girolamo, Ambrogio,
Agostino, Ilario di Poitiers. Quando lei ha venti anni, il re, un uomo rozzo e rude, la vuole sposare,
avendo avuto già quattro mogli, una concubina e nove figli. Contro voglia, è costretta a sposarlo. Il
più famoso biografo di Radegonda, il poeta Venanzio Fortunato, è molto attento nel descrivere
come Radegonda, di notte, fugge dal talamo per rifugiarsi in un locale freddo per macerarsi,
aspettando l’alba, e di giorno si dà in opere a favore dei poveri e dei malati. Al re dispiace la

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disattenzione di Radegonda nei suoi confronti e la grande attenzione che lei dà ad altri, ma nello
stesso tempo l’ammira. Questo è chiaramente leggibile nel ritratto che ne fa Venanzio Fortunato. Il
re potrebbe anche accettare questa attività caritatevole di Radegonda verso i poveri, se i cortigiani
non affermassero che la sua moglie è più monaca che regina. Il re cerca di addolcirla con dei regali,
che Radegonda vende per dare i soldi ricavati ai poveri.

A un certo punto il re fa uccidere il fratello di Radegonda, da lei molto amato. Questo fatto le
comporta un secondo esodo: Radegonda vuole buttarsi tutta in una vita religiosa e si rivolge al
vescovo Medardo, imponendosi perché egli la consacri diaconessa. Regala tutti suoi ori,
suppellettili, vestiti di regina ai poveri e passa una prima stagione della vita religiosa dedicandosi
alla cura degli infermi. Lei personalmente lava e cura le piaghe dei poveri e nella biografia di
Venanzio si sottolinea molto il fatto che Radegonda ha abbracciato le competenze di Marta.
Solitamente, le maggiori figure del mondo monastico femminile sono assimilate a Maria, come più
dedita alle cose spirituali. Fin da bambina, dice Venanzio, lei aveva la tendenza di raccogliere
bambini poveri e farli sedere a tavola, dopo averli lavati, e di servirli lei stessa; da adulta lei
continua questa attività caritatevole e fonda una casa di rifugio per i poveri senzatetto.

“Oltre al pasto quotidiano, preparava il mercoledì e il sabato un bagno e lei stessa, cinta di un
panno, lavava la testa ai poveri, puliva qualsiasi cosa vi era: croste, scabbie, tigna, non
infastidendosi delle piaghe, piene di pus. Nel frattempo estraeva anche i vermi, puliva la putredine
dalla pelle e lei stessa pettinava ad una ad una le teste che aveva lavato. Inoltre leniva le ulcere
delle cicatrici che la pelle staccata aveva messo allo scoperto, che le unghie avevano irritato,
calmava le infezioni della malattia con olio sparsovi sopra, secondo quanto dice il Vangelo. Lavava
con il sapone dalla testa ai piedi le membra delle donne che venivano immerse in una tinozza.
Subito dopo, se, mentre uscivano, vedeva che portavano indumenti invecchiati, portava via quelli
usati e ne ridava dei nuovi e faceva venire a pranzo ben acconciate coloro che prima erano
cenciose”. Così scrive Venanzio. C’è anche un episodio in cui lei abbraccia un lebbroso, che in
qualche modo anticipa quello più famoso di San Francesco. Ad un certo punto una sua domestica le
rivolge questa domanda: “Dopo che tu hai fatto questo, Padrona santissima, chi bacerà te, che baci
i lebbrosi?” E lei risponde: “Veramente se tu non mi bacerai, non mi importerà niente”. In
quest’epoca dei miracoli, anche Radegonda taumaturga, come San Martino, compie nella Gallia gli
stessi miracoli che Martino ha compiuto qualche tempo prima di lei nella grande opera
dell‘evangelizzazione della Gallia.

L’importanza che Radegonda ha per la cultura monastica non è soltanto questa sua attività rivolta
all’ambiente sociale. Continua a mantenere buoni rapporti con la famiglia regnante, con il re, suo
marito, che a più riprese cerca di farla ritornare senza riuscirvi, e con i figli di lui, che dotano di
grandi benefici il suo monastero di Poitiers e ottengono per lei una preziosa reliquia, un frammento
della santa Croce. Per questo, il suo monastero si chiamerà “della Santa Croce”, ma nel frattempo
sorge una serie di contrasti con il vescovo Meroveo che, vedendo crescere l’importanza di questo
centro spirituale, teme forse che il fenomeno possa sfuggire dal suo controllo e quindi egli inizia
una serie di attività apertamente ostili. Per questo motivo Radegonda decide di adottare d’ora in poi
la Regola di Cesario d’Arles, perché essa protegge l’autonomia delle comunità femminili
dall’autorità vescovile. Questo non perché lei voglia collocarsi fuori di una vera sottomissione alla
Chiesa, ma semplicemente per salvaguardare l’indipendenza del proprio cenobio.

Abbiamo allora uno scambio epistolare con Cesaria la Giovane, che denota la singolare avventura
umana delle due donne che sperimentano in questa nuova stagione del monachesimo, una Regola di
stretta clausura per le monache, e una condizione d’indipendenza normativa dai vescovi. Nel caso di
Radegonda si aggiunge la circostanza felice dell’arrivo di Venanzio Fortunato, un poeta celebre
nato nell’attuale Veneto, recatosi sul sepolcro di Martino di Tours e attratto dalla fama di

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Radegonda. Egli non partirà più dal cenobio di Poitiers: diventerà sacerdote e dopo la morte di
Radegonda, vescovo. Egli scrive una serie di opere di cui Radegonda è sicuramente la fonte
ispiratrice, e che sono tuttora importanti nella letteratura monastica del periodo.

Tuttavia la clausura del monastero di Radegonda non è così austera come quella di Cesaria:
Venanzio descrive una comunità abbastanza aperta alle visite dei laici, almeno per coloro che
vengono per parlare con Radegonda. Ma si tratta di eventi importanti della storia del monachesimo
femminile in Gallia, proprio dal punto di vista dell’autonomia spirituale, che non a caso produce
frutti di figure femminili che ancora oggi la storia rileva con molta nettezza. Ci resta di Radegonda
una lettera con la quale difende con forza e in un tono molto persuasivo l’autonomia del suo
monastero. Questa lettera è stata considerata quasi un testamento spirituale, anche se non c’è un
vero motivo per pensarlo; è una lettera indirizzata al vescovo della sua diocesi, in cui lei ribadisce
l’importanza del cenobio femminile e le sue funzioni come di un corpo scelto di donne votate alla
lode di Dio e all’opera del soccorso dei poveri, una realtà prioritaria nella Chiesa e come tale va
protetta.

Abbiamo visto quindi in queste figure donne di estrema rilevanza che molto possono insegnare alle
comunità ed alle altre realtà monastiche successive. La Regola di Cesario ha avuto una grande
diffusione, specialmente nella valle del Rodano. Basti pensare che quando nel Medioevo la Regola
di Benedetto si era ormai affermata in maniera più che uniforme in tutto l’Occidente e nascevano le
prime comunità certosine, sembra che la prima comunità certosina femminile si fosse riconnessa a
diversi secoli di distanza con la tradizione legata alla Regola monastica che seguivano Cesaria e
Radegonda. Questo per indicare la continuità storica e l’influenza che la loro esperienza ha avuto in
un contesto religioso e monastico che aveva adottato quasi esclusivamente la Regola benedettina,
ma ha saputo salvaguardare anche questo tesoro di esperienza.

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CONVERSIONE , LIBERTÀ E GIOIA
NELLA REGOLA DI SAN BENEDETTO

25 FEBBRAIO 2002 M.M. GELTRUDE ARIOLI, OSB ap

La centralità del tema della conversione nella RB si afferra facilmente se si tiene presente che il
postulante è definito con questa espressione “noviter veniens quis ad conversationem” (RB 58,1),
ossia, “colui che viene per la prima volta alla vita monastica”. Il vocabolo “conversatio” cioè
definisce la vita monastica stessa. Fin dal Prologo questa vocazione è presentata come conversione,
in senso precisamente etimologico, come ritorno a Dio: “Ascolta, figlio, gli insegnamenti del
maestro e apri l’orecchio del tuo cuore, accogli di buon grado le esortazioni di un padre che ti ama
e mettile efficacemente in pratica, perché, attraverso la fatica dell’obbedienza, tu possa far ritorno
a colui del quale ti eri allontanato per la pigrizia della disobbedienza” (RB Prol. 1-2). Parlare di
“ritorno a Dio” è introdurre il linguaggio biblico della conversione ricorrente nei profeti: “io sarò il
loro Dio, se ritorneranno a me con tutto il cuore” (Ger 24,7), “Fammi ritornare e io ritornerò,
perché tu sei il Signore mio Dio” (Ger 31,9). Questo tema si ritrova anche nei Vangeli: basti
ricordare la parabola del figlio prodigo in Luca 15.

La conversione, frutto di ascolto e di obbedienza, di apertura alla parola di Dio, schiude orizzonti
costruttivi e sereni al discepolo che cerca Dio, indicandogli la via da seguire. Il “ritorno” è ascesi
liberante: dai vizi, dai peccati, dall’attaccamento alla propria volontà e al proprio giudizio. La
definizione della radice del peccato come “inoboedientiae desidia” (= abbandono istintivo
all’inerzia e al capriccio) (RB Prol. 2) fa capire subito che il cammino della conversione parte da un
lucido recupero di autocoscienza, di vigilanza, di libertà interiore fondata sulla verità essenziale
della persona nella sua condizione creaturale. Il cap. 3 della Genesi presenta il peccato come
affermazione di assoluta autonomia da Dio, rottura del legame di affidamento filiale, pretesa di
collocare il criterio delle scelte morali nella propria soggettività, anziché nell’ordine ontologico dei
valori. La conversione non può compiersi se non come itinerario di obbedienza e di umiltà in
atteggiamento di ascolto filiale e di recupero di una coscienza risanata.

La scala ideale dell’umiltà, via di ritorno a Dio, inizia infatti con un primo gradino che è liberazione
dall’esteriorità, dalla dispersione e dall’oblio di sé nelle cose e recupero della propria autocoscienza,
riconsegna dell’interiorità allo sguardo di Dio:
“Il primo gradino dell’umiltà consiste nell’avere costantemente presente il timore di Dio, nel non
dimenticarlo in alcun modo e nel ricordarsi in ogni momento di tutti i precetti divini, meditando
sempre nel proprio animo sulla geenna, che brucia per i loro peccati quelli che disprezzano Dio, e
sulla vita eterna, preparata invece per coloro che lo temono. E tenendosi sempre lontano da ogni
peccato e vizio, quelli cioè dei pensieri, delle parole, delle mani e dei piedi e della propria volontà,
nonché dai desideri della carne, l’uomo abbia per certo che dal cielo Dio lo osserva in
continuazione, ogni istante, e che non vi è luogo in cui lo sguardo divino non veda le sue azioni, le
quali vengono incessantemente riferite dagli angeli…Ci viene chiesto di rinunciare alla nostra
volontà, poiché la Scrittura dice: «Non seguire i tuoi desideri» (Sir 18,30). E anche nella
preghiera domandiamo a Dio di fare in noi la sua volontà”. (RB 7,10-13; 19-20)1
Vivere restituendo se stessi allo sguardo paterno di Dio significa incardinare stabilmente
l’autonomia della persona al suo reale fondamento: è processo che richiede un’incessante
1
S. BENEDETTO, Regola, (a cura di G. PICASSO), San Paolo, 1996.

1
conversione dell’intelligenza, della volontà, del desiderio, ponendo Dio al centro in un cammino
continuo di affrancamento dall’asservimento all’io.
“Si sale il secondo gradino dell’umiltà quando, non amando più la propria volontà, non ci si
compiace neppure di soddisfare i propri desideri, ma si mettono in pratica quelle parole del
Signore che dicono: «Non sono venuto per fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha
mandato» (Gv 6,38). Sta scritto anche: «La volontà propria subisce il castigo, la costrizione
procura il premio» (Atti del martirio delle sante Agape, Chionia e Irene: Act. SS. Apr. I, 249). Il
terzo gradino dell’umiltà si sale quando ci si sottomette in totale obbedienza al superiore per
amore di Dio, imitando il Signore di cui l’Apostolo dice: «Si fece obbediente sino alla morte» (Fil
2,8). (RB 7, 31-34)2
L’itinerario della conversione conduce alla libertà vera, che non è astratta apertura a tutte le
possibilità, ma capacità di autodeterminarsi aderendo intimamente a Cristo, identificando la propria
vita con la sua obbedienza redentrice e il suo filiale abbandono alla volontà del Padre.
L’obbedienza, secondo San Benedetto, ha radice in una scelta d’amore “…è propria di coloro che
nulla ritengono di avere di più caro di Cristo” (RB 5,1), nasce non dalla costrizione di una regola e
di una legge, ma da uno slancio interiore di desiderio di eternità e si compie nella libertà e nella
gioia.
“Coloro nei quali urge il desiderio di avanzare verso la vita eterna non esitano ad intraprendere la
via stretta di cui parla il Signore quando dice: «Stretta è la via che conduce alla vita» (Mt 7,14) e
rinunciando a vivere a loro arbitrio o seguendo i loro desideri e piaceri, preferiscono compiere il
loro cammino guidati dal giudizio e dal comando di un altro, e dimorare in un cenobio con un
abate che sia loro maestro. Uomini simili, non c’è dubbio, si conformano alla parola del Signore,
che dice: «Non sono venuto per fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato» (Gv
6,38). Ma questa obbedienza sarà gradita a Dio e cara agli uomini se ciò che si ordina verrà
eseguito senza esitazione, senza incertezze o indolenza, senza mormorazioni o proteste, poiché
l’obbedienza prestata ai superiori è prestata a Dio stesso, il quale ha detto: «Chi ascolta voi,
ascolta me» (Lc 10,16). Occorre dunque che i discepoli obbediscono di buon animo, perché «Dio
ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7)”. (RB 5,10-16)3

San Benedetto non propone uno spogliamento di sé che porti all’apatia (ideale di certi filoni delle
spiritualità orientale: si pensi a Giovanni Climaco) né una forma di obbedienza che sia sistematica
distruzione della personalità del discepolo come suggerisce l’Autore della Regula Magistri: “…in
loro i desideri propri non vengono realizzati affatto, non fanno quello che vogliono, ma portando il
giogo dell’altrui giudizio, vengono cacciati indietro da dove vorrebbero andare per i loro piaceri e
dal maestro è loro negato quel che avrebbero voglia di fare o compiere. La loro volontà è
sottoposta ogni giorno in monastero ad amarezze per la causa di Dio, ed essi affrontano
pazientemente, come in un martirio, tutto ciò che viene loro ingiunto per provarli, pronti senza
dubbio a dire in monastero col profeta del Signore: «Per te siamo quotidianamente messi a morte,
siamo considerati come pecore da macello» (Sal. 43,23)” ( RM 7, 57-60).4
Analogamente si esprime Cassiano: il maestro dei novizi “…deve insegnare al discepolo in primo
luogo a vincere la propria volontà, esercitandolo di frequente e diligentemente, avendo cura di
comandargli sistematicamente e a bella posta quelle cose che capisce ripugnanti all’animo del suo
novizio”.5
Si vede qui l’originalità di San Benedetto rispetto ai maestri cui si ispira: l’aspetto faticoso
dell’obbedienza è riconosciuto: “oboedientiae labor” (Prol.2); ma solo in circostanze eccezionali
diventa martirio di contraddizione, come nel quarto gradino dell’umiltà, in situazioni di prova che
potrebbero verificarsi, ma che non costituiscono affatto una abituale prassi pedagogica. Mai la

2
Ibid.
3
ibid.
4
Regula Magistri, a cura di M. BOZZI, ed. Paideia, 1995, p. 67.
5
G. CASSIANO, Istituzioni, a cura di D.P.M. ERNETTI, Vol. I, ed. Praglia, 1956, p. 67.

2
rinuncia è presentata come valore di per sé, ma sempre come mezzo per raggiungere “l’amore
perfetto che scaccia il timore” (RB 7,67). Anzi anche proprio in mezzo al guado della sofferenza la
pazienza e la speranza fanno pregustare la gioia: i monaci provati dalla croce dell’incomprensione
“certi della speranza della ricompensa divina, proseguono dicendo con gioia: «In tutte queste cose
noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati» (Rom 8,37)”. (RB 7,39) La gioia è
frutto della totale generosità nel seguire Cristo. Su questo punto sembra concorde Cassiano che
dice: “Se ci pare amara la soave leggerezza del giogo del Signore è segno che noi vi mescoliamo
l’amarezza dei nostri tradimenti. Se l’amabile levità del peso impostoci da Dio ci diventa pesante, è
segno che noi, con la nostra presunzione orgogliosa, disprezziamo il soccorso di Colui che ci aiuta
a portarlo”.6

Eppure cogliamo tonalità diverse tra Cassiano e Benedetto nel modo di rivolgersi al postulante sul
tema della rinuncia. Severo Cassiano, paterno e pieno di incoraggiante benevolenza Benedetto.
Confrontiamone le espressioni: “Rinunciare al secolo altro non è se non indizio di croce e
mortificazione. Perciò sappi che tu oggi sei morto a questo mondo, ai suoi atti e desideri, e,
secondo l’Apostolo, tu sei crocifisso a questo mondo e il mondo a te (Gal 6,4). Considera adunque
le condizioni della croce, nel mistero e nella luce della quale tu dovrai vivere per l’avvenire. Poiché
non sei tu che vivi, ma vive in te Colui che è stato crocifisso per te (2,20). Dunque, dobbiamo vivere
secondo l’abito e somiglianza di Colui che per noi fu inchiodato nel patibolo. Dobbiamo cioè, come
dice David (Sal 118,129) crocifiggere col timore di Dio le nostre volontà e desideri, i quali siano
non più servi della nostra concupiscenza, ma tenuti avvinti dalla sua mortificazione. Solo in tal
modo adempiremo il precetto del Signore che dice: «Chi non prende la sua croce e mi segue, non
è degno di me» (Mt 10,36).
La nostra croce è il timore di Dio. E come uno quando è crocifisso non può muovere liberamente e
come crede le proprie membra, così pure anche noi non dobbiamo dirigere la volontà e desideri
nostri a ciò che ci sembra dolce e dilettevole al presente, ma usarli secondo la legge di Dio…
Sta attento a non riprenderti cosa alcuna di ciò che, rinunziandovi, abbandonasti. Neppure devi
cercare di rivestirti di quella veste della quale fosti spogliato; contro il comando del Signore,
abbandoneresti il campo del lavoro evangelico (24,18). E neanche ti devi inviluppare in basse e
terrene concupiscenze ed affanni di questo mondo, né, contro il precetto di Cristo, riprenderti ciò
che abbandonasti, discendendo in tal modo dalla sommità della perfezione. Non ti ricordare dei
genitori e degli antichi affetti per non esser richiamato alle sollecitudini e preoccupazioni di questo
mondo, poiché in tal modo, secondo la sentenza del Salvatore, ponendo la mano all’aratro e
guardando indietro, non sarai degno del regno dei cieli (Lc 9,62)…
Poiché tu sei venuto a servire il Signore, secondo la sentenza della sacra Scrittura, stattene nel
timore di Dio (Sir 2,1) e prepara la tua anima non già al riposo e alla quiete e alle gioie, ma alle
tentazioni ed ai travagli. Noi dobbiamo entrare nel regno dei cieli attraverso molte tribolazioni (At
14,21). Infatti piccola e stretta è la via che conduce alla vita e pochi sono coloro che la imboccano.
Considerati quindi come uno scelto tra i pochi, e così non ti abbandonerai dietro l’esempio e il
torpore della moltitudine; ma vivi come i pochi per ritrovarti con i pochi nel regno di Dio. Poiché
molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti e «Piccolo è il gregge cui il Padre si compiacque di dare
l’eredità» (Lc 12,32). E pertanto ricordati che non è piccolo peccato l’aver professato la
perfezione, e poi seguire cose imperfette”.7

Ascoltiamo ora l’esortazione di San Benedetto: “È necessario quindi istituire una scuola del
servizio del Signore e nella sua istituzione speriamo di non stabilire nulla di troppo austero o
gravoso. Ma se per un principio di equità, per correggersi dai difetti e conservare la carità sarà
introdotto qualcosa di un po’ più rigoroso, non lasciarti prendere subito dal timore e non

6
G. CASSIANO, Conferenze spirituali, a cura di O. LARI, Vol. III, ed. Paoline, 1965, p. 299.
7
G. CASSIANO, Istituzioni, op.cit., IV, 34.35.36.38, pp.89-93.

3
allontanarti dalla via della salvezza, via che all’inizio non può che essere stretta (Mt 7,14). Se
procederai invece nella vita monastica e nella fede, il tuo cuore si dilaterà e si correrà sulla via dei
comandamenti di Dio con inesprimibile dolcezza d’amore (Sal 118,32)”. (RB Prol. 45-49)

La promessa che San Benedetto fa al postulante è la crescita dell’amore che dilata il cuore e rende
più leggero il giogo: promessa di libertà e di gioia che addolcisce il rigore delle esigenze radicali
dell’ascesi, non limitate alle rinunce materiali, collocata, al contrario, nelle intime profondità della
persona. L’ottavo gradino dell’umiltà è raggiunto quando il monaco “non fa nulla che non sia
approvato dalla Regola comune o dagli esempi dei superiori” (RB 7,55). Non si tratta di negazione
della personalità. Ma piuttosto di un superamento di quella ricerca di singolarità che nasce dalla
philautia, per usare l’espressione di Massimo il Confessore, dall’idolatria di sé e dalla smania di
emergere che finisce per spezzare il vincolo della paternità di Dio e della comunione con i fratelli.
Che San Benedetto non intende annientare la personalità, ma solo l’individualismo si evince da tutte
le pagine della Regola: dalla sua preoccupazione che l’obbedienza sia vissuta non solo dai fratelli,
ma anzitutto dall’abate, il primo a obbedire “alla guida del vangelo seguendo le orme di Cristo”
(Prol. 21), tenuto a consultare anche i più giovani, prima di assumere decisioni importanti (RB 3,3),
impegnato a distribuire i beni con attenzione specifica ai bisogni e alle situazioni di ciascuno (RB
34,1), sollecito nel provvedere alle necessità dei malati (RB 36,6), misericordioso come Cristo buon
pastore verso i fratelli scomunicati (RB 27,8). La severità nei confronti della passione di singolarità
è semplicemente condizione per l’emergere dell’uomo nuovo. Il processo di conversione è descritto
nel cap. 7, nella scala dell’umiltà: inizia dal timore di Dio, si eleva al livello dell’obbedienza
salvifica di Cristo abbracciata dal monaco che si assoggetta alle tradizioni, è docile verso l’abate,
mite nel comportamento fino ad esprimere anche negli atteggiamenti del corpo e nei comportamenti
esterni l’umile mansuetudine e ha come vertice la pienezza della libertà interiore e della gioia pura
nell’esperienza dello spirito.

“Il dodicesimo gradino dell’umiltà si sale quando il monaco non solo custodisce l’umiltà nel suo
cuore, ma la manifesta a chi lo osserva anche con il suo atteggiamento esteriore: durante l’ufficio
liturgico, in oratorio, in monastero, nell’orto, per via, nei campi e in ogni luogo, seduto, in piedi o
in cammino, tenga sempre il capo chino e lo sguardo rivolto a terra e consapevole del suo essere
peccatore si senta come chi sta per comparire davanti al terribile giudizio di Dio, ripetendo
continuamente in cuor suo le parole che il pubblicano del vangelo pronunciò con gli occhi fissi a
terra: «Signore, non sono degno io peccatore di alzare lo sguardo al cielo» (Lc 18,13) e assieme
al profeta: «Mi sono abbassato e umiliato fino all’estremo» (Sal 37,7).
Dopo aver salito tutti questi gradini dell’umiltà, il monaco giungerà a quell’amore di Dio che è
perfetto e che scaccia il timore. Grazie a questo amore, tutto ciò che prima osservava per paura,
ora comincerà a compierlo senza alcuna fatica, quasi naturalmente, come per abitudine, non più
per timore della geena, ma per amore di Cristo, per abitudine stessa al bene e per il gusto delle
virtù. Tutto questo il Signore si degnerà di mostrare, attraverso lo Spirito Santo, nel suo operaio
ormai purificato da vizi e peccati”. (RB 7,62-70)

Ecco la descrizione dello stato di pace gioiosa, di armonia interiore, di godimento di Dio che veniva
preannunciato nel prologo al postulante perché non si scoraggiasse della severità degli inizi. Anche
Amma Sincletica così descrive il frutto gioioso dell’ascesi: “Grandi sforzi e penose lotte attendono
coloro che si convertono, ma, dopo, una gioia inesprimibile. Chi vuole accendere un fuoco, lì per lì
è disturbato dal fumo che lo fa lacrimare. Ma alla fine ottiene ciò che desiderava. Ora è scritto: «Il
nostro Dio è un fuoco che consuma». Perciò dobbiamo accendere in noi il fuoco divino tra gli
sforzi e le lacrime”.8

8
AMMA SINCLETICA, Apoftegmi in Spiritualità orientale, Bellefontaine – 1, p.299.

4
Il discorso di San Benedetto sulla conversione è quanto mai concreto: la trasformazione interiore si
compie nelle opere, anzi le buone opere sono i veri strumenti della conversione e l’ascesi fisica è
segno e mezzo di quella spirituale. Il cap. 4 della Regola elenca settantatré “strumenti delle buone
opere”, sentenze scritturali che significativamente partono dal comandamento dell’amore di Dio e
del prossimo e si ricapitolano, come in una inclusione, nel precetto: “Mai disperare della
misericordia di Dio”, passando attraverso sentenze che spaziano dal rispetto della vita e della
persona alle opere di misericordia, dalla fedeltà alla verità e alle esigenze della giustizia, alla
vigilanza nel timore di Dio, dalla purezza del cuore e dei pensieri, all’amore per il silenzio, la
preghiera, l’umiltà, la castità, la carità e la pace in tutte le situazioni concrete della vita. Base,
cardine e culmine di tutto il cammino ascetico è l’amore: motivazione e sostegno di ogni rinuncia,
volta unicamente appunto a raggiungere la pienezza della carità. “Sottoporre a disciplina il proprio
corpo, non cercare i piaceri, amare il digiuno” sono strumenti preceduti da “Rinnegare sé a se
stesso per seguire Cristo” e seguiti da “Non anteporre nulla all’amore di Cristo” (RB 4,10-13;21).
La conversione, con gli aspetti di rinuncia che comporta, nasce dall’attrazione a Cristo e dal suo
primato nella nostra vita.

È particolarmente degna di attenzione l’espressione “Rinnegare sé a se stesso per seguire Cristo”.


San Benedetto qui cita Mt 16,24, ma aggiunge all’espressione evangelica “Abnegare semetipsum”
il pronome “sibi”. Sembra un fatto irrilevante e invece apre un orizzonte di contemplazione sulla
specifica prospettiva di San Benedetto circa il tema della conversione. Ci soffermiamo su questo
proprio per individuare una chiave di lettura che vale per tutto il discorso dell’ascesi. “Rinnegare sé
a se stesso” significa che l’ascesi non è semplicemente rifiutare il male per fare il bene –
presupposto necessario, ma non sufficiente – non è emanciparsi dalle esigenze del corpo – sarebbe
una posizione neoplatonica o stoica – è invece prendere le distanze dal proprio io, anche in ciò che
ha di buono, anche nelle dimensioni più alte della persona “per seguire Cristo” che, come dice San
Paolo nella Lettera ai Filippesi: “pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la
sua uguaglianza con Dio, ma annientò se stesso” (Fil 2,6-7). Cristo rinnega sé a se stesso facendosi
simile all’uomo in forma di servo, prende le distanze dalla sua divinità per avvicinarsi a noi. Questo
“sibi” che San Benedetto integra nella citazione evangelica ci fa capire che prendere le distanze
dalla nostra singolarità, combattere lo spirito di autoaffermazione e di egocentrismo, espropriarci di
noi stessi è diventare come Cristo di fronte al Padre, come Cristo di fronte a noi, suoi fratelli.
L’abnegazione, la rinuncia richiesta della “conversatio morum” è allontanarsi da sé per aderire a
Cristo, ma anche per farci, come lui, vicini ai fratelli, capaci di morire a sé per la vita dell’altro. Gli
Apoftegmi dei Padri abbondano di espressioni che esprimono il primato dell’amore, la tenerezza e la
compassione come frutto dell’austerità:

“Alcuni anziani vennero a trovare abba Poemen e a dirgli: « Se vediamo dei fratelli che si
assopiscono durante l’assemblea, vuoi che li riprendiamo perché restino svegli?» Disse loro: «In
quanto a me, quando vedo un fratello che si assopisce, metto la sua testa sulle mie ginocchia e lo
lascio riposare».9

Il senso dell’ascesi è la trasformazione in Cristo e il primato della carità, la comunione con


l’obbedienza di Cristo che libera e salva. Se pensiamo al modo in cui l’uomo contemporaneo si
allontana da sé, comprendiamo come sia attuale il valore dell’”abnegare semetipsum sibi” nella
RB. Oggi spesso si consuma la perdita di sé, della propria autocoscienza nella dispersione, nella
frammentazione della persona nelle cose materiali, nel piacere dell’attimo, nell’alienazione della
droga, nell’autodistruzione, frutto della ribellione individualistica, non solo alle leggi umane, ma
persino all’ordine intrinseco alla natura. In nome della libertà e della soggettività si distruggono
proprio le radici della libertà e l’essenza della soggettività. La via tracciata da San Benedetto porta
invece alla reintegrazione della persona in Cristo. Cristo prende le distanze dal nostro io per
9
Apoftegmi, POEMEN, 92 (PG 65,344).

5
avvicinarci a lui e, in lui, a tutti i fratelli. Egli si fa simile a noi perché si ricostruisca in noi
l’immagine e la somiglianza con Dio perduta con il peccato. Essere a immagine e somiglianza di
Dio è il valore più alto della persona.

“Sappi come il tuo Creatore ti ha onorato al di sopra di ogni creatura. Non il cielo è una immagine
de Dio, né la luna, né il sole, né la bellezza degli astri, né alcunché di ciò che si può vedere nel
creato. Tu solo sei stato fatto immagine della Realtà che supera ogni intelligenza, somiglianza della
bellezza incorruttibile, impronta della vera divinità, ricettacolo della beatitudine, sigillo della vera
luce. Quando tu ti volgi verso di lui, tu divieni ciò che è egli stesso…Non c’è niente di così grande
tra gli esseri che possa essere paragonato alla tua grandezza. Dio può misurare tutto il cielo col
suo palmo. La terra e il mare son chiusi nel palmo della sua mano. E tuttavia, lui che è così grande
e contiene tutto il creato nel palmo della sua mano, tu sei capace di contenerlo, egli dimora in te e
non trova angusto muoversi entro il tuo essere, lui che ha detto: «Abiterò e camminerò in mezzo a
loro» (2Cor 6,16)”.10

“Il fatto di essere creato a immagine di Dio significa che all’uomo, fin dal momento della sua
creazione, è stato impresso un carattere regale (…). La divinità è sapienza e logos (ragione,
significatività): tu vedi anche in te stesso l’intelligenza e il pensiero, immagini dell’intelligenza e
del pensiero primi (…). Dio è amore e fonte di amore: il divino Creatore ha messo anche questo
tratto sul nostro volto”.11

“L’uomo è libero fin dal principio. Dio infatti è libertà e a immagine di Dio è stato fatto l’uomo”.12

Il peccato ha infranto l’armonia del disegno divino: “L’uomo ha voluto impadronirsi delle cose di
Dio senza Dio, prima di Dio e non secondo Dio”.13 Di qui l’offuscarsi dell’immagine e della
somiglianza di Dio, di qui la cacciata dal Paradiso che è comunque gesto di misericordia. “Ecco
perché Dio lo scacciò dal paradiso e lo trasportò lontano dall’albero della vita: non che, per
gelosia, gli rifiutasse codesto albero della vita, come alcuni hanno l’audacia di sostenere, ma egli
ha agito per compassione, affinché l’uomo non restasse trasgressore per sempre, affinché il
peccato di cui si trovava gravato non fosse immortale, affinché il male non divenisse senza fine e
quindi senza rimedio. Dio lo fermò quindi nella sua trasgressione interponendo la morte(…),
assegnandogli un termine per la dissoluzione della carne che sarebbe avvenuta sotto terra, affinché
l’uomo, «morendo al peccato» (Rm 6,2) cominciasse un giorno a vivere per Dio”.14

La grazia del battesimo fa rivivere in noi l’immagine di Dio, ma, come spiega Diadoco di Fotica,
ritrovare la sua somiglianza è riservato a coloro che hanno vincolato a Dio la propria libertà:

“Col battesimo di rigenerazione, la grazia ci conferisce due beni, dei quali l’uno è infinitamente
superiore all’altro. Essa ci dona immediatamente il primo; perché nella stessa acqua ci rinnova e
fa splendere l’immagine di Dio. In quanto all’altro, essa per produrlo attende la nostra
collaborazione: questo è la somiglianza. Quando lo spirito ha cominciato a gustare, con una
profonda sensazione, la bontà dello Spirito Santo, allora dobbiamo sapere che la grazia comincia a
dipingere, sopra l’immagine, la somiglianza. Come i pittori in un primo momento tracciano lo
schizzo del ritratto con un solo colore, e facendo fiorire a poco a poco un colore sull’altro
conservano anche fino ai capelli l’aspetto del modello, così la grazia di Dio, nel battesimo,
comincia col rifare l’immagine quale essa era allorquando l’uomo venne all’esistenza. Poi, quando

10
GREGORIO NISSENO, Omelie sul Cantico dei Cantici, 2 (PG 44, 765)
11
GREGORIO NISSENO, Della creazione dell’uomo (PG 44, 136-137).
12
IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, IV, 37, 4 (SCh 100 bis, p.932).
13
MASSIMO IL CONFESSORE, Ambigua (PG 91, 1156)
14
IRENEO DI LIONE, op. cit., III, 23, 6 (SCh 211, pp. 460-462).

6
la grazia ci vede aspirare con tutta la nostra volontà alla bellezza della somiglianza, e starcene
nudi e quieti nel suo studio di artista, allora, facendo fiorire virtù sopra virtù, ed elevando la
bellezza dell’anima di splendore in splendore, le procura l’impronta della somiglianza. La
sensazione spirituale ci rivela che ci si va formando alla somiglianza. Ma la perfezione di questa la
conosceremo solamente per illuminazione (...). Infatti l’umore spirituale nessuno può raggiungerlo
se non è illuminato con tutta certezza dallo Spirito Santo(...). E soltanto l’illuminazione dell’amore,
sopravvenendo, rivela che l’immagine ha raggiunto pienamente la bellezza della somiglianza…”15

Abbiamo citato testi dei padri orientali in cui la conversione e l’ascesi sono presentate come
percorso che porta alla divinizzazione, al ritorno al paradiso. Anche se la RB – che non è un trattato
di teologia, ma una norma di vita – non sembra esprimere palesemente questa dottrina, tuttavia la
presuppone e la lascia trasparire. Discendere per salire la scala dell’umiltà è conformarsi
all’annientamento di Cristo per essere con lui e in lui innalzati alla dignità filiale e godere la gioia di
quella libertà che è descritta nel passo già citato al termine del cap. 7 o a conclusione del Prologo, in
cui si parla della dolcezza dell’amore che dilata il cuore e trasforma la fatica del cammino in una
corsa16. “Vedere nel suo regno colui che ci ha chiamati” sarà la beatitudine eterna di chi si è
lasciato trasfigurare di giorno in giorno da quello che San Benedetto chiama “deificum lumen”, luce
taborica che divinizza (RB Prol.9), espressione che dimostra l’influsso sulla RB della spiritualità
orientale, nota a San Benedetto specialmente attraverso Basilio e Cassiano.

La conversione che configura al Cristo crocifisso e risorto è recupero battesimale dell’innocenza


originaria, anzi i padri sottolineano come via di purificazione la compunzione del cuore e il dono
delle lacrime. Dice Giovanni Climaco: “Dopo il battesimo, la fonte delle lacrime - è audace dirlo -
vale più dello stesso lavacro che ci purifica solo dalle colpe precedenti, mentre la compunzione ci
lava da quelle commesse dopo” e questa compunzione non è triste, è “beata tristezza letificante” e
riveste l’anima della veste nuziale.17 Anche se la RB si colloca in questa prospettiva e al cap. 4, 57
si raccomanda: “ogni giorno nella preghiera confessare a Dio con lacrime e gemiti le colpe
passate”; nel XII gradino dell’umiltà si descrive il monaco umile nell’atteggiamento del
pubblicano, ovunque col capo chino, consapevole di essere peccatore davanti a Dio; nel cap. 20,3
quando San Benedetto parla della preghiera dice che dobbiamo sapere che saremo esauditi
pregando non con troppe parole, ma “in purezza di cuore e lacrime di compunzione”; lo stesso dice
nel cap. 52,4, raccomandando che la preghiera personale sia a voce sommessa con lacrime e
intensità del cuore e il tempo quaresimale della penitenza sarà contrassegnato dall’orazione con
lacrime di compunzione (RB 49,4). Anche nel II libro dei Dialoghi San Benedetto è spesso
presentato da Gregorio Magno intento a una preghiera intensa accompagnata dalle lacrime.

Le lacrime di compunzione non sono per nulla segno di tristezza o di oppressione, ma piuttosto
espressione di emozione incontenibile. Anche Cassiano dice: “C’è un pianto che sgorga quando il
ricordo dei peccati commessi punge come una spina il nostro cuore…
C’è un altro pianto che nasce dalla compunzione del beni eterni e dal desiderio della gloria celeste.
Questo secondo pianto dà lacrime ancor più copiose, che nascono dalla gioia traboccante e dalla
immensità della contentezza di un’anima la quale ha sete di Dio come di una fonte viva.
Spesso il frutto della compunzione salutare si manifesta con una gioia indicibile e con alacrità di
spirito, tantoché la gioia diventa insopportabile per la sua immensità e trabocca in grida che fanno
penetrare un po’ di quell’ebbrezza gioiosa anche nella cella del monaco vicino. Altre volte invece

15
DIADOCO DI FOTICA, Cento capitoli gnostici, 89 (SCh 5 bis, p.149).
16
G. FATTORINI, L’immagine biblica della corsa nella RB, in Benedictina 28, 1981, p.458.

17
G. CLIMACO, La scala del paradiso, VII,63, Città nuova, 1986, p.140.

7
l’anima va a nascondersi negli abissi del silenzio. Lo stupore della illuminazione improvvisa la fa
ammutolire; lo spirito, come folgorato, trattiene tutti i sentimenti nelle sue profondità, o è come se
li avesse perduti, ed effonde i suoi desideri al Signore con gemiti inenarrabili”.18

Del resto nella RB “la gioia è l’atmosfera in cui si esprime la libertà spirituale del Vangelo.
L’amore fiducioso raggiunge il possesso di Dio che è la gioia dei santi, né l’inevitabile impatto con
il timore di Dio impedisce l’unione gioiosa con lui”.19

Come nel II libro dei Dialoghi vediamo Benedetto che consola il fratello triste perché aveva perduto
il falcetto, restituendoglielo con le parole: “Lavora e non essere triste”20 , così nella Regola
raccomanda al cellerario di “non contristare i fratelli”, di provvedere ad ogni necessità, perché
“nessuno si turbi o si rattristi nella casa di Dio” (RB 31,6.19). E nella distribuzione dei beni vanno
evitate le ingiustizie “così tutti i membri saranno in pace” (RB 34,5).

Vertici di questi accenni alla gioia sono due passi già ricordati, Prol, 49 e cap. 7,67-70, oltre alla
menzione del “gaudio spirituale nell’attesa della Pasqua” su cui ci fermeremo in seguito (RB 49,
6-8). La gioia dilatante del percepirsi perdonati e amati con fedele gratuità del Signore non è solo un
atteggiamento spirituale della preghiera nella RB, ma della vita tutta, come abbiamo già accennato a
proposito del dodicesimo gradino dell’umiltà: “durante l’ufficio liturgico, nell’oratorio, in
monastero, nell’orto, per via, nei campi e in ogni luogo” il monaco si tiene in serena umiltà alla
presenza di Dio (RB 7,63).

Questa gioia filiale è frutto dell’azione liberante e purificatrice della spirito che guida e modera
l’ascesi imponendo limiti di discrezione e di saggezza. Se la libertà per San Benedetto è frutto di
obbedienza, è evidente che il primato nella RB non è dato alla legge, ma all’amore e alla docilità
allo Spirito Santo. San Benedetto non parla molto della libertà21, ma la “schola dominici serviti” è
scuola di libertà tanto che nell’ultimo capitolo San Benedetto dice: “…in questa Regola non è
prescritto tutto ciò che è giusto osservare”. La Regola apre un cammino verso orizzonti più alti,
rende liberi di raggiungere vette più elevate di santità; è cioè uno strumento e come tale va seguita
con un criterio che ne individui le intenzionalità e le realizzi.

In un interessante studio Micaela Pfeifer22 osserva che bisogna avere speciale attenzione alle insidie
che possono ostacolare la conquista della libertà attraverso la rinuncia. Un’insidia psicologica è il
rigorismo volontaristico venato di pessimismo e di autosvalutazione che allontana dalla discrezione
equilibrata e serena dell’ascesi benedettina. Un ostacolo di ordine sociologico può venire dal crearsi
di strutture istituzionali soffocanti che deresponsabilizzano le persone e le rendono infantili,
immature, piene di pretese verso l’autorità. Un terzo rischio nasce da errate concezioni teologiche:
l’irrigidimento della tradizione e dell’ideologia che ipostatizzano il vivere monastico in un contesto
astorico e irreale.

Tutto ciò è autentico tradimento dello spirito di San Benedetto, che vede ogni rinuncia come
condizione per aprire il cuore a Dio e sostenere il desiderio di cercarlo sempre. Se egli è così
esigente circa la povertà (RB 33) è per rendere libero lo spirito dalla schiavitù delle cose, come la
sua severità circa il silenzio (RB 6 e 42) mira a tutelare la relazionalità del singolo con Dio e con gli
altri e la condanna decisa della mormorazione (RB 34,6-7) è denuncia di ogni invidia e gelosia,
18
G. CASSIANO, Conferenze Spirituali, versione, introduzione e note a cura di O. LARI , ed. Paoline, 1965, pp. 401,
399-400.
19
C. RIGGI, La compuntio lacrimarum nell’ascesi benedettina in Benedictina – 28, 1981, pp. 683-684.
20
GREGORIO MAGNO, Dialoghi II, a cura di A. STENDARDI, Città nuova, 1995, p.67.
21
E. BIANCHI, Liberté, loi et Ésprit dans la vie monastique, in Collectanea cistercensia – 50, 1988, p.210.
22
M. PFEIFER, La rinuncia conduce davvero alla libertà? Riflessioni sistematiche sull’ascesi nella RB in Inter fratres
- 51, 2001, pp.13-37.

8
sintomi di infantilismo e di schiavitù degli istinti. Nella concezione della disciplina e degli orari non
impone quella molteplicità soffocante di riti che troviamo nella RM, ma solo quell’ordine essenziale
che garantisce la pace, condizione della vera libertà. Una limpida prova di come la RB sia in
funzione della libertà è l’impostazione del rapporto tra obbedienza e autorità. L’abate è
continuamente richiamato ad agire in modo retto e non arbitrario (RB 2 e 63), la sua autorità è
condivisa col cellerario (RB 31), con il priore (RB 64) e i decani (RB 21). Il monaco “che non
possiede più neppure il proprio corpo e la propria volontà” (RB 33,4) è però tenuto a dialogare con
l’abate nel caso che riceva un’obbedienza impossibile (RB 68) e comunque ogni decisione esige
una consultazione comunitaria (RB 3).

Il criterio di San Benedetto è evidentemente quello di stabilire un regime di ascesi liberante che
sostenga e stimoli lo slancio del singolo e della comunità in quell’impegno di conversione che
abbraccia tutti i momenti della vita monastica e crea un’atmosfera di serena gioia. Negli incontri
successivi prenderemo in considerazione le singole pratiche penitenziali.

9
DIGIUNO , PENITENZA, “DONO DI DIO” NELLA RB

04 MARZO 2002 M.M. GELTRUDE ARIOLI, OSB ap

“«Ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo e chi in un altro» (1Cor 7,7) e perciò
abbiamo qualche scrupolo a stabilire la quantità del vitto altrui. Tuttavia, tenendo presente la
necessità dei più deboli…” (RB 40, 1-2). L’inizio del cap. “Sulla misura della bevanda” è
veramente emblematico. Delinea due dimensioni che caratterizzano il discorso di San Benedetto
sull’ascesi, la sua origine dallo Spirito e dai suoi doni e quindi una concezione per nulla
volontaristica della penitenza e una struttura marcatamente segnata dal personalismo, che colloca
l’iniziativa ascetica nell’intima adesione del singolo all’azione della grazia e non in una disciplina
regolare uniforme.

San Benedetto nella Regola parla, più che del digiuno, della misura del cibo (cap. 39) della misura
della bevanda (cap.40) e dell’orario dei pasti (cap. 41). Il concetto di “mensura”, il verbo
“sufficere” (= bastare), usati frequentemente, sviluppa in modo persuasivo la dimensione
sopraccennata di discrezione, di equilibrio nel coniugare le esigenze della sobrietà e quelle
dell’attenzione alle necessità di salute dei singoli. Leggendo questi capitoli possiamo entrare con
facilità nell’intenzionalità di Benedetto: “ Riteniamo che ad ogni mensa per il pasto quotidiano –
sia a sesta sia a nona – siano sufficienti due pietanze cotte, per tener conto delle diverse condizioni
di salute, così che chi non potesse cibarsi dell’una possa nutrirsi dell’altra. Due pietanze cotte,
dunque, siano sufficienti per tutti i confratelli e qualora vi fosse la possibilità di avere frutta o
verdura fresca, se ne aggiunge pure una terza. Di pane basterà una libbra abbondante al giorno,
sia che si faccia un pasto solo o che vi sia pranzo e cena. Se vi è anche la cena, il cellerario ne
metta da parte un terzo di libbra per il pasto serale. Nel caso in cui il lavoro sia stato più faticoso,
l’abate, se lo ritiene utile, avrà la facoltà di aggiungere qualcosa in più, purché si eviti qualsiasi
eccesso di cibo e si badi che mai il monaco faccia indigestione, poiché nulla è tanto sconveniente
per ogni cristiano quanto l’intemperanza nel cibo, come dice Nostro Signore: «State ben attenti
che i vostri cuori non si appesantiscano per l’ingordigia» (Lc 21,34). Ai fanciulli più piccoli non si
dia la stessa razione di cibo degli adulti, ma una minore, osservando in tutto la sobrietà. Ma tutti si
astengano assolutamente dal mangiare carne di quadrupedi, ad eccezione dei malati molto
debilitati”. (Cap. 39: La quantità del cibo)

“…siano sufficienti due pietanze cotte, per tener conto delle diverse condizioni di salute, così che
chi non potesse cibarsi dell’una possa nutrirsi dell’altra”: nella RB coloro che determinano il ritmo
del cammino comunitario non sono gli eroi che umiliano ed emarginano i più deboli. Si nota una
ben diversa concezione nella RM, che al cap. 53 concernante l’osservanza quaresimale dice: “…gli
astinenti siedano alle tavole con gli altri fratelli, perché gli ingordi arrossiscano di non saper, con
una comune natura, frenare alle pari di loro i desideri della gola e di non essere capaci di meritare
con gli astinenti la divina grazia nello scegliere il bene…”
“…quei fratelli che intendono mangiare carne siedano alle loro tavole gli uni accanto agli altri…i
mangiatori abbiano a riconoscere quanta distanza ci sia, reciprocamente, tra coloro che sono
schiavi dei propri desideri e coloro che comandano al ventre”. (RM 53,9-10; 32-33)

Nella RM si punta sulla competizione, sullo sforzo volontaristico, sull’emergere dei virtuosi e sulla
vergogna dei deboli. Nella RB invece il livello dell’ascesi deve essere comunitario e la disciplina
comune deve tener conto realisticamente della situazione della maggioranza. Il prevalere
dell’attenzione alla koinonia piuttosto che all’eccezionale generosità dell’ascesi porta a stabilire un

1
livello che basti “sufficiat” a garantire l’equilibrio dei singoli e della vita comune…anzi ad aver
cura di aggiungere alla razione qualcosa, specialmente quando il lavoro è faticoso. Il limite
quantitativo minimo è chiaramente indicato (una libbra di pane al giorno, il cui valore
corrispondente oggi è oscillante tra i 350 e i 500 grammi); il limite quantitativo massimo è invece
espresso nella raccomandazione di evitare l’ingordigia. Le indicazioni sono date con elasticità,
articolate secondo le età e le condizioni di salute; sono diverse le disposizioni per i fanciulli; il
divieto dell’uso della carne vale solo per i sani e non per gli ammalati.

Del medesimo tenore è il cap. seguente: “«Ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo,
chi in un altro» (1Cor 7,7) e perciò abbiamo qualche scrupolo a stabilire la quantità del cibo
altrui. Tuttavia, tenendo presente le necessità dei più deboli, riteniamo che a ciascuno sia
sufficiente un’emina di vino al giorno. Ma coloro ai quali Dio dona la capacità di astenersene,
sappiano che riceveranno una ricompensa particolare. Se le esigenze locali, il lavoro o il caldo
dell’estate ne richiedessero una quantità maggiore, sia in potere del superiore concederla,
badando sempre di evitare a tutti la nausea o l’ubriachezza. È vero che si legge che «…il vino non
è affatto per i monaci» (Vite dei Padri, V,4,31), ma poiché oggi essi non sanno più convincersene,
possiamo almeno concordare sulla necessità di non berne sino alla nausea, ma di farne un uso
moderato, giacché «il vino fa traviare anche i saggi» (Sir 19,2). Dove le condizioni locali non
consentano di averne neppure nella quantità prescritta, ma molto meno o addirittura niente, i
fratelli di quel luogo benedicano Dio e non mormorino. Questo soprattutto raccomandiamo: di
astenersi dal mormorare”.

Il rispetto per i più deboli, l’attenzione a non umiliare né emarginare alcuno non impedisce di
incoraggiare chi è più generoso, “quelli cui Dio dona la capacità di astenersi (dal vino), sappiano
che riceveranno una ricompensa particolare”: è sottolineato ancora che non esiste un’ascesi
autentica che nasce solo dallo sforzo volontaristico dell’uomo. Ogni espressione di rinuncia e di
privazione volontaria deve aver carattere responsabile, come adesione a uno speciale appello di Dio
che ne dona la grazia. Solo così, come esigenza di creare in sé uno spazio libero per Dio, in umile
obbedienza allo Spirito, hanno senso digiuno e mortificazione. È inevitabile invece, quando l’asse
portante è un’iniziativa puramente umana, che l’autocompiacenza, la durezza di giudizio verso chi è
più debole avvelenano l’opera buona. Anzi il ripiegamento su di sé, l’autocontrollo delle fasi dei
propri digiuni, le tabelle di marcia delle penitenze pianificate possono assumere aspetti anomali,
isolando i gesti stessi delle penitenze dal loro significato e assolutizzarli come avessero un valore
autonomo.

Come nel capitolo sulla misura del cibo, anche qui l’abate è invitato a diportarsi con discrezione
tenendo presente un livello quantitativo conveniente, ma anche serbando speciale attenzione a
situazioni di stanchezza e di malessere per l’arsura estiva, che consigliano una maggiore larghezza,
rispettando sempre però quello stile di sobrietà e di moderazione che deve caratterizzare la vita del
monaco. Il rimpianto di San Benedetto per un regime di vita più forte e generoso, che trapela anche
da altri punti della Regola (per esempio al cap. 18,25: “i nostri santi padri compivano con fervore
in un sol giorno - la recita dei centocinquanta salmi - quanto noi, nella nostra tiepidezza, ci
auguriamo soltanto di poter compiere in una intera settimana”) dice ancora una volta la sua
attitudine a coniugare l’ideale con la realtà, ad assumere le situazioni umane con realismo e
coraggio senza mai perder di vista possibili mete di più alte conquiste spirituali, che peraltro non
nascono da sogni ed esaltazioni personali, ma da concrete indicazioni dello Spirito recepite nella
semplice ferialità del vivere.

È interessantissima l’osservazione finale del capitolo: l’invito ad adattarsi alle condizioni locali e a
rinunciare con semplicità all’uso del vino senza recriminare. Una personalità matura si riconosce
anche dalla serenità con cui sa assumere la realtà e le situazioni del quotidiano: è atteggiamento

2
proprio di un’umanità equilibrata e soprattutto di un cristiano, consapevole che il piano di
santificazione, che lo Spirito concepisce per ciascuno, si rivela nella semplice ferialità e non in
comunicazioni straordinarie. La semplicità nel sapersi adattare senza proteste è frutto di fede solida
e di provata pazienza: atteggiamenti generatori di gioia. L’ammonimento ad evitare in ogni modo la
mormorazione dà un tocco finale che conferma il primato, nella RB, di valori come la pace, la
serenità e l’amore rispetto ai quali penitenza e digiuno sono semplici strumenti.

Il cap. sull’orario dei pasti riprende questo tema della discrezione dell’abate che deve tener presente
il peso del lavoro, l’affaticamento dovuto al calore estivo e non creare nei monaci situazioni di
insopportabile sofferenza, inducendoli alla mormorazione. Leggendo il testo ci rendiamo conto di
come il cristocentrismo di San Benedetto sia la prospettiva che caratterizza anche gli aspetti pratici
della vita: “Dalla santa Pasqua fino a Pentecoste, i fratelli pranzino all’ora sesta e alla sera
cenino. Da Pentecoste per tutta l’estate, se i monaci non sono impegnati in lavori agricoli e la
calura estiva non è troppo molesta, al mercoledì e al venerdì digiunino fino all’ora nona. Negli
altri giorni pranzino all’ora sesta. Il pranzo a sesta potrà essere mantenuto anche quando i monaci
devono attendere ai lavori dei campi o il caldo dell’estate è eccessivo; spetterà all’abate deciderlo.
Egli regolerà e disporrà ogni cosa in modo che le anime si salvino e i fratelli compiano ciò che
devono fare senza motivi per lamentarsi. Dalle idi di settembre all’inizio della Quaresima il pranzo
sia sempre a nona. In Quaresima e fino a Pasqua si prenda il pasto al Vespro. L’ufficio vespertino
sia però celebrato in modo che per mangiare non vi sia bisogno della lampada, ma sia tutto finito
quando ancora vi è luce del giorno. Anche in ogni altra stagione l’ora di cena o del pasto sia
fissata in modo da fare tutto con la luce del giorno”. (RB 41: In quali ore bisogna prendere i pasti)

Il punto di riferimento fondamentale del capitolo è la centralità del mistero liturgico celebrato, in
base al quale si organizza tutta la vita comunitaria. Dall’inizio del capitolo è posto in primo piano il
mistero della santa Pasqua e l’orario dei pasti è regolato in modo diverso nel tempo pasquale e nella
Quaresima. È interessante esaminare il capitolo a livello linguistico: ricorrono più volte i verbi
“reficere”, “cœnare”, “prandere” e una sola volta “jeiunare”: San Benedetto parla più di
dilazione della refezione e di sobrietà nel cibo che di digiuno assoluto.

È peraltro vero quanto afferma l’autorevole commentatore della RB Adalberto de Vogüé che oggi
non si segue più questa disciplina di ritardare l’orario dei pasti e meno ancora di prendere un solo
pasto al giorno. Egli richiama l’attenzione sulla sentenza di San Benedetto contenuta nel cap. 4
“Amare il digiuno” (v.13) e rileva l’oblio nella nostra cultura attuale dei grandi benefici spirituali
del digiuno: il dominio delle passioni, il sostegno alla pratica dell’umiltà e di uno stile di vita
angelico, l’acquisizione di un vero distacco dalle cose materiali. Egli che vive personalmente la
fedeltà a questa pratica penitenziale e ne constata i frutti, ritiene ingiustificate le obiezioni di oggi:
salute più cagionevole, minore resistenza nervosa e psichica dei soggetti, peso del lavoro. Ma assai
acuta è l’osservazione che esprime come frutto della propria esperienza: la pratica rigorosa del
digiuno è più facile per chi vive in solitudine e può liberare, per un’ascesi più impegnata, le energie
che la vita comunitaria assorbe: puntualità agli orari, dovere di conformarsi all’ambiente, ai vari
caratteri, attenzione alle esigenze della comunicazione…Tuttavia, a giudizio del de Vogüé, queste
difficoltà della vita comune non giustificano affatto l’abbandono della disciplina del digiuno
indicata nella RB.1

Senza dubbio va respinta la tendenza oggi imperante al rifiuto di ogni forma di ascesi. È però
limpidamente chiara la prospettiva equilibrata e positiva che si coglie nella RB per cui il digiuno è
visto come un valore relativo e strumentale. La preoccupazione del nostro legislatore monastico è
evidentemente volta a tutelare la salute, l’equilibrio psichico e la gioia del singolo e a garantire la
serenità della comunità non dando motivi fondati di scontento e stabilendo un regime personalizzato
1
A. DE VOGÛÉ, Amare il digiuno, in La Comunità. Ordinamento e spiritualità, Preglia, 1991, pp. 346-358.

3
sia pure su una base di fraternità condivisa. L’ora dei pasti e la pratica ascetica di ritardarla è
radicata sulla coincidenza - caratteristica del monastero – tra liturgia e vita: l’esistenza del monaco,
anche negli aspetti materiali e pratici non è altro che celebrazione del mistero di Cristo.

Ciò spiega il fatto che nel tempo pasquale si eviti l’ascesi del digiuno: “Possono forse gli amici
dello sposo digiunare mentre lo sposo è con loro? Durante il tempo in cui hanno lo sposo con sé
non possono digiunare. Ma verranno giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora, in quei giorni
digiuneranno” (Mc 2,9). Il tempo pasquale è visto come figura della beatitudine eterna, mentre il
tempo quaresimale è segno della fatica e della lotta di questa nostra vita terrena. Dice Agostino:
“La storia del nostro destino ha due fasi: una che trascorre ora in mezzo alle tentazioni e
tribolazioni di questa vita, l’altra che sarà nella sicurezza e nella gioia eterna. Per questo motivo è
stata istituita per noi anche la celebrazione dei due tempi, cioè quello prima di Pasqua e quello
dopo Pasqua.
Il tempo che precede la Pasqua raffigura la tribolazione nella quale ci troviamo; invece quello che
segue la Pasqua rappresenta la beatitudine che godremo. Ciò che celebriamo prima di Pasqua, è
anche quello che operiamo.
Ciò che celebriamo dopo Pasqua, indica quello che ancora non possediamo. Per questo
trascorriamo il primo tempo in digiuni e preghiere. L’altro invece, dopo la fine dei digiuni, lo
celebriamo nella lode. Ecco perché cantiamo: «alleluia».” (Dal Commento sul salmo 148)2

L’ascesi del digiuno è allora segnata dalla tensione escatologica: è creare in sé un vuoto per
accogliere il Signore risorto e glorioso, rendersi liberi dai condizionamenti terreni per educarsi a
vivere sotto la guida dello Spirito del Risorto. “Imponendosi la disciplina del digiuno il credente
impegna il proprio corpo in un processo di fatto mortificante, ma pasquale. Il corpo è ad un tempo
oggetto e strumento di una purificazione che suppone un avvenire, quello della risurrezione…Il
digiuno contribuisce per sé ad attualizzare il processo di divinizzazione avviato e reso possibile
dall’incarnazione del Figlio di Dio e dalla Pasqua”3.

Questa dimensione teologica del digiuno poggia su un aspetto etico di metanoia: creare una distanza
tra il soggetto e il cibo che garantisce all’uomo la libertà spirituale rispetto al creato materiale, che
egli è chiamato a dominare, anziché lasciarsene dominare. Così l’orientamento dei desideri umani,
attraverso l’autolimitazione imposta, ritrova la direzione autentica secondo l’intenzionalità del
Creatore.

La lettera e lo spirito della Regola dicono che secondo San Benedetto, l’ascesi ha il suo significato e
il suo valore oltre se stessa: non solo è finalizzata a Cristo, ma dall’amore di lui nasce e si inserisce
nella struttura concreta della singola persona. Oggi questo insegnamento per molte ragioni ha una
speciale attualità. Infatti, reagendo giustamente a una cultura del passato che poneva il dovere fine a
se stesso come ideale di vita e che identificava la virtù con la sofferenza, con la rinuncia
incondizionata alle proprie inclinazioni anche buone, con la tendenza a soffocare i talenti
reprimendo l’io, siamo caduti nell’eccesso opposto: a considerare l’individualismo egocentrico
come espressione di libertà e di realizzazione, pretendere di eliminare dalla vita l’aspetto di
inevitabile fatica, di sforzo, di abnegazione. I rapporti in famiglia, l’educazione dei figli, gli
orientamenti della scuola, della cultura e del costume di oggi falsificano la lettura della realtà
nell’illusione di facilitare la vita, conformandola alle pretese di ogni individuo. I risultati sono
evidenti: immaturità e fragilità dei soggetti, che, lungi dall’affrontare responsabilmente le
situazioni, gli avvenimenti e le relazioni umane, pretenderebbero che tutto si adattasse al proprio
desiderio, spesso labile e contraddittorio, con la conseguente precarietà e volubilità nelle scelte
professionali e infedeltà nei rapporti familiari e amicali e persino nei percorsi della vita consacrata.
2
AGOSTINO DI IPPPONA, Commento ai salmi, Vol.4, Città nuova, 1977, p.865.
3
R. MARLÉ, Parler de la vie eternelle in Études 362, 1985, pp. 254-255.

4
Occorre riprendere con sano realismo l’abitudine di leggere la realtà della vita per quello che è, con
le sue alternanze di luci e di ombre, consapevoli che qualunque conquista esige una rinuncia,
qualunque crescita nella vita richiede un certo morire, ogni realizzazione si costruisce con la fatica
personale liberamente assunta, senza mai cadere nel dolorismo masochistico o negli atteggiamenti
vittimistici o pseudoeroici che sono forme di orgoglio. Anche sul piano puramente umano
l’educazione di sé e degli altri ha bisogno di liberarsi da ogni tendenza all’autoreferenzialità. Sul
piano cristiano la visione antropologica della rivelazione biblica conduce a non demonizzare ma
neppure a idolatrare la corporeità, a ricercare invece l’armoniosa sintesi tra corpo, anima e spirito,
ammirando la bellezza del disegno originario del Creatore, ma riconoscendo le disarmonie
conseguite al peccato e l’esigenza di uno speciale dono di grazia per ritrovare l’equilibrio e
l’unificazione della persona attorno al suo vero centro, Cristo. La dimensione pasquale,
escatologica, che Benedetto evidenzia, dà all’ascesi questa apertura positiva di luminosa speranza e
di sicura solidità, mentre l’attenzione anche alla debolezza e ai limiti della persona umana vista
nella sua concretezza e non in un quadro ideale astratto suggerisce molto non solo a chi vive
nell’ambito monastico, ma anche alla cultura laica del nostro tempo.

È molto significativo che alle disposizioni sul regime del nutrimento San Benedetto dedichi solo tre
capitoli della Regola, mentre ben otto costituiscono il cosiddetto codice penitenziale (capp. 23-30).
Ci è comunicato in modo chiaro un criterio: l’ascesi fisica è un segno e uno strumento della
conversione e non avrebbe valore se non si integrasse in un impegno di metanoia, di reale
cambiamento di mentalità e di comportamento. Sarebbe impossibile comprendere questi capitoli se
non li leggessimo alla luce della disciplina penitenziale della Chiesa dei primi secoli. C’è
un’evidente analogia tra l’iter percorso dal reo di colpa grave, scomunicato dal vescovo e invitato
ad un cammino penitenziale fino alla pubblica riammissione alla vita sacramentale nella comunità
ecclesiale e, nella RB, la temporanea sospensione dalla vita comune comminata dall’abate al
fratello colpevole a scopo di favorire l’emendazione dalla colpa fino al conferimento del perdono
che riammette il monaco ai ritmi normali della famiglia monastica. Confrontando il codice
penitenziale della RB con quello della RM si resta colpiti da due fondamentali differenze: la
sobrietà della RB rispetto alla prolissità estrema dei riti descritti nella RM e la speciale evidenza che
nella RB assume l’intento terapeutico, la guarigione spirituale del fratello. I termini usati: l’abate
come saggio medico (RB 27,2; 28,2), il fratello malato (RB 28,5) manifestano questa
preoccupazione, che domina, letteralmente, il cap. 27:

“L’abate si prenda cura con ogni sollecitudine dei fratelli che hanno mancato, perché «non sono i
sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» (Mt 9,12). Usi quindi ogni rimedio, come fa un
medico esperto: mandi dei senpectas, cioè monaci anziani e avveduti, che, quasi di nascosto,
consolino il fratello vacillante e lo inducano a espiare la sua colpa e lo «confortino perché non
soccomba sotto un dolore troppo forte» (2Cor 2,7), ma, come dice ancora l’Apostolo, «prevalga
nei suoi riguardi la carità» (2Cor 2,8) e tutti preghino per lui. L’abate deve porre infatti ogni sua
attenzione e prodigarsi con ogni accortezza e cura per non perdere nessuna delle pecore
affidategli. Si ricordi di aver assunto la cura di anime inferme, non un potere dispotico su quelle
sane e tema la minaccia del profeta, per mezzo della quale Dio dice: «Prendevate ciò che vedevate
grasso e respingevate quello che era debole» (Ez 34,3-4). Imiti il tenero esempio del buon Pastore,
che, lasciate le novantanove pecore sui monti, andò alla ricerca di quell’una che si era smarrita ed
ebbe tanta compassione della sua debolezza da degnarsi di porsela sulle sue sacre spalle e di
riportarla così all’ovile (cfr. Lc 15,4-5)”. (RB 27: Come l’abate debba essere sollecito verso gli
scomunicati)

San Benedetto prevede che le colpe più lievi comportino un’esclusione dalla mensa comune (egli,
quasi sempre, evita il termine “scomunica”): il colpevole mangerà da solo più tardi degli altri

5
fratelli e anche se partecipa alla liturgia non potrà intonare antifone, salmi o recitare lezioni (cap.
24). Il colpevole di mancanze più gravi sia escluso sia dalla mensa che dall’oratorio e dalla
compagnia dei fratelli; non sarà benedetto né lui né il cibo che prenderà da solo (cap. 25). Per San
Benedetto le colpe gravi sono soprattutto l’orgoglio, la mormorazione, la disobbedienza all’abate o
alla Regola, il rifiuto della correzione.

Certo la prassi penitenziale della scomunica nella Chiesa si applicava per peccati più gravi, come il
sacrilegio, l’omicidio, l’adulterio o l’apostasia, ma nel contesto monastico, che dovrebbe essere un
ambito abituale di conversione, le colpe enunciate da San Benedetto sono gravissime, perché
distruggono l’osservanza della vita monastica. Nei capp. 43-46 San Benedetto offre un codice per la
riparazione delle colpe: ritardi alla mensa o all’opus Dei, errori commessi nell’oratorio o mancanze
di altro genere.

È un valore così grande la vita comune che un ritardo, una negligenza agli atti del vivere fraterno,
divengono un’offesa e una colpa. Se analizziamo linguisticamente questi capitoli, notiamo il
ricorrere continuo della parola “omnes” in vari contesti: preme a San Benedetto che tutti i fratelli
agiscano all’unisono. È interessante il cap. 44 sulla riparazione delle colpe: “Chi per gravi
mancanze è stato escluso dall’oratorio e dalla mensa, al termine della celebrazione dell’ufficio
divino si prostri davanti alla porta dell’oratorio e resti così senza dir nulla, limitandosi a tenere il
capo a terra, steso ai piedi di tutti coloro che escono dall’edificio e rimanga così fino a quando
l’abate riterrà sufficiente la sua riparazione. Quando, chiamato dall’abate, si presenterà, si getti
prima ai suoi piedi e poi a quelli di tutti i confratelli, affinché preghino per lui e allora, se l’abate
lo comanderà, sia riammesso in coro o al posto che l’abate deciderà, senza però pretendere di
recitare salmi o fare letture o altro, a meno che l’abate glielo ordini espressamente. A ciascuna
ora, al termine dell’ufficio divino si prostri a terra nel posto in cui si trova e continui a fare
penitenza, fino a quando l’abate gli ordinerà di nuovo di terminarla. Coloro invece che per colpe
più lievi sono stati esclusi soltanto dalla mensa, facciano penitenza in oratorio fin quando lo
ordinerà loro l’abate e la compiano fino a quando questi dia loro la benedizione e dica: «Basta!».”

È eloquente il gesto silenzioso della prostrazione. Se confrontiamo la sobrietà di questo capitolo


della RB con la complessità di riti, discorsi, cerimonie della RM (capp. 13 e 14), confermiamo
pienamente l’impressione di moderazione, di semplicità essenziale della RB, che mette al centro la
figura del monaco colpevole impegnando l’abate ad ottenere la sua piena guarigione spirituale.
Senz’altro notiamo analogie tra questo modo di procedere per gradi nel riaccogliere il fratello
punito e la prassi ecclesiale che prevedeva un itinerario di penitenza per la riammissione graduale
alla celebrazione eucaristica. Circa il rapporto tra disciplina della pubblica penitenza nella Chiesa e
consuetudini penitenziali della vita monastica, nei primi secoli il rigorismo imperante nella Chiesa
portava a ritenere non reiterabile il perdono (si pensi alle tesi del Pastore di Erma). Invece nella vita
monastica, caratterizzata da un quadro di pratiche penitenziali stemperate nella quotidianità e per
colpe oggettivamente meno gravi e più frequenti, si genera una prassi diversa che prevede una
penitenza e quindi una riconciliazione per ogni colpa. Questo uso a lungo andare rifluì sulla
disciplina ecclesiastica, specialmente nei paesi di recente conversione al cristianesimo, dove i
monasteri divenivano punti di riferimento per la vita spirituale dei fedeli 4. Per comprendere questa
problematica è utile analizzare il cap. 46 della RB:
“Se durante qualche lavoro, in cucina, in dispensa, nel servizio a mensa, al forno, nell’orto o
mentre è impegnato in altre attività o in qualunque altro posto, qualcuno commette una mancanza
o danneggia o perde qualcosa o si rende comunque colpevole e non si presenta subito davanti
l’abate e alla comunità per fare spontaneamente riparazione e confessare la propria colpa, ma la
sua mancanza si viene a sapere da un altro, sia sottoposto a un castigo più severo. Ma se la causa
della mancanza riguarda il segreto della coscienza, la manifesti solo all’abate o ai padri spirituali,
4
A. SANTANTONI, La confessione dei pensieri e delle colpe segrete nella RB in Benedictina (28), 1981, p.679.

6
a chi cioè sappia curare le proprie e altrui ferite senza svelarle e farle conoscere a tutti”. (RB 46:
Coloro che commettono mancanze in qualcosa)

In questo capitolo è evidente la netta distinzione tra colpe esterne che richiedono una riparazione
pubblica e mancanze commesse nel segreto della coscienza, che saranno confessate solo all’abate o
ai seniori spirituali; essi rispetteranno rigorosamente il segreto. Si questo apertura umile e segreta
del cuore si parla anche nel cap. 4, versetto 50: “Spezzare subito in Cristo i cattivi pensieri che
sorgono nel cuore e manifestarli al padre spirituale” e nel quinto gradino dell’umiltà: “Il quinto
gradino dell’umiltà sta nel non celare, ma nel manifestare al proprio abate, attraverso un’umile
confessione, ogni cattivo pensiero che sorge nell’animo e ogni colpa segretamente commessa, come
ci esorta a fare la Scrittura quando dice: «Manifesta al Signore la tua via, confida in lui» (Sal
36,5) e «Confessatevi al Signore, perché egli è buono, perché eterna è la sua misericordia» (Sal
105,1). E il profeta aggiunge: «Ti ho manifestato il mio peccato, non ho tenuto nascosto il mio
errore. Ho detto: confesserò al Signore le mie colpe e tu hai rimesso la malizia del mio peccato».

Il rispetto per le persone anche in questo caso caratterizza la RB; un confronto con la RM ce lo
conferma: “Quando dunque si presenta in cuore a qualche fratello un cattivo pensiero ed egli si
sente in balia dei suoi flutti, lo confessi immediatamente ai suoi prepositi, ed essi, fatta subito una
preghiera, riferiscano la cosa all’abate. Gli stessi prepositi poi devono sempre interrogare
spontaneamente su questo punto quelli che sono loro affidati, nel timore che intervenga per alcuni
una certa semplicità o in ogni caso la stessa vergogna del male e il fratello abbia pudore di
confessare cose gravi e turpe. Quando invece siano stati oggetto da parte del superiore di una sua
iniziativa spontanea, con fiducia e senza vergogna gli manifesteranno i loro pensieri peccaminosi.
Alla loro volta i medesimi prepositi, se sentono essi pure in loro questa tentazione, riferiscono di sé
all’abate. E il superiore stesso, quando avverte in sé questa tentazione, chieda nell’oratorio a tutta
quanta la comunità di pregare per lui.
Quando dunque i prepositi riferiranno all’abate di un fratello a questo riguardo, subito egli
convochi tutta la comunità. E l’abate dirà a tutti:«Venite, fratelli, in nome della reciproca carità,
portiamoci soccorso a vicenda presso il Signore, conforme a ciò che dice l’apostolo: ‘Fratelli,
anche se qualcuno è sorpreso in qualche misfatto, voi che siete degli spirituali, correggete costui
con spirito di dolcezza…’ (Gal 6,1) Preghiamo dunque d’un cuore solo per questo nostro fratello il
Signore, affinché a lui piaccia che, grazie al segno della sua croce e al comando della sua divina
autorità, possa egli bloccare gli assalti del demonio».
Dopo che tutti abbiano pregato molto a lungo per lui, l’abate si alzi con tutti, faccia la conclusione
e uscendo, subito ognuno riprenda il lavoro cui attendeva. L’abate trattenga presso di sé da solo
quel fratello che è tormentato dal male dei cattivi pensieri, tiri fuori dei libri e conformemente ai
bisogni della sua piaga, si legga il medicamento divino appropriato. Inoltre per tutti i giorni in cui
lo stesso fratello, interrogato dall’abate, abbia a rispondere che non è passato, nei momenti in cui
si fa una lettura, sia d’estate sia d’inverno, si leggano alla decade alla quale egli appartiene, passi
di libri che si riferiscano alle necessità dei suoi pensieri. Ad esempio se lo tentano di fornicazione,
si leggano ai fratelli, da diversi libri, pagine in cui Dio mostra di amare la castità…
L’indomani mattina dunque l’abate chieda di nuovo a quel discepolo se il pensiero nemico è
cessato o no. Se risponderà che non è cessato, si osservi da tutti un digiuno assoluto. Se interrogato
di nuovo il giorno seguente, risponderà ancora che non è passato, sarà soppresso il vino al pasto,
in tutte le tavole…Se il terzo giorno, interrogato nuovamente, risponderà che non è passato, sia
soppresso alle mense anche l’olio insieme al vino, affinché grazie al sacrificio collettivo e al
patimento dell’astinenza, nessuno perisca”. (RM 15,12-21; 25-32; 38-40; 44-45)

Risulta quasi grottesco questo modo di procedere: dover fare quasi una doppia confessione, ai
prepositi, che riferiscono poi all’abate, subire ripetuti interrogatori - che certamente contribuiranno
a creare ansia e a drammatizzare la situazione - assurdo poi il coinvolgimento della decade per le

7
letture e di tutta la comunità nel digiuno. Tutto ciò mentre pesa sulla vita comunitaria non tutela il
segreto della coscienza del fratello tentato. Nulla di ciò nella RB: segretezza e semplicità, umile
apertura e saggio discernimento paterno hanno di mira la guarigione spirituale del fratello debole.
Qui si delinea un tipo di prassi penitenziale che, attuata dapprima all’interno dei monasteri offrirà
poi un modello alla disciplina del sacramento della penitenza come confessione segreta. Non entra
nel nostro tema esaminarne gli sviluppi. Importa invece, per l’esame del nostro argomento, rilevare
anche nel codice penitenziale della RB l’emergere del “dono di Dio” nella fatica della conversione.
Dono dato all’abate: discernimento, consiglio, paternità, carità e fermezza – dono al monaco
penitente: umiltà e pazienza, fiducia nella grazia e desiderio di conversione, stima della comunione
fraterna.

Lo sguardo di San Benedetto è sempre volto a coniugare le più alte espressioni dell’azione dello
Spirito Santo con la concretezza della persona nella sua singolarità e nel suo manifestarsi nella vita
quotidiana. Questo ha molto da insegnare a noi tutti anche oggi.

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L’OSSERVANZA DELLA QUARESIMA
NEL GAUDIO DELLO SPIRITO SANTO

11 MARZO 2002 M.M. GELTRUDE ARIOLI, OSB ap

“La vita del monaco dovrebbe essere in ogni tempo una continua osservanza della quaresima;
tuttavia, poiché è di pochi questa virtù, raccomandiamo che durante i giorni quaresimali si
mantenga una condotta di vita assolutamente integra, e tutti in quei santi giorni sappiano liberarsi
delle mancanze degli altri tempi. Ciò verrà degnamente compiuto se ci purificheremo da ogni
difetto, dedicandosi alla preghiera con lacrime, alla lettura, alla compunzione del cuore e
all’astinenza. In quei giorni dunque aggiungiamo qualcosa al consueto impegno del nostro
servizio, come particolari preghiere e astinenze da cibi e bevande, così che ciascuno di propria
iniziativa offra a Dio «nella gioia dello Spirito Santo» qualcosa di più di quanto gli è imposto: vale
a dire privi il suo corpo di un po’ di cibo, di bevande, di sonno, di loquacità, di discorsi scurrili e
attenda la santa Pasqua nella gioia del desiderio spirituale (cfr. 1Ts 1,6). Ciascuno, tuttavia,
sottoponga al suo abate ciò che intende offrire e lo compia con la sua preghiera e approvazione,
poiché ciò che si compie senza il consenso del padre spirituale verrà imputato non a merito, ma a
presunzione e vanagloria. Tutto questo, dunque, sia fatto con il consenso dell’abate”. (RB 49:
L’osservanza della quaresima)

Questo capitolo è emblematico per comprendere lo spirito di San Benedetto circa l’ascesi. La
quaresima infatti è presentata come il paradigma della vita monastica ed è molto significativo che
mai come in questo capitolo si parli della gioia. L’invito alla generosità nel sacrificio è espresso con
una citazione di Paolo (1Ts 1,6) “cum gaudio Sancti Spiritus” e la motivazione di ogni rinuncia è
un’attesa – piena di gioia spirituale – della santa Pasqua: “cum spiritualis desiderii gaudio sanctum
Pascha expectet”. Il tema che domina il capitolo non è dunque l’asprezza della rinuncia, il peso
della penitenza, ma lo slancio gioioso e spontaneo del desiderio di partecipare alla luminosa gloria
del Cristo risorto. Il grande protagonista del capitolo è lo Spirito Santo, menzionato esplicitamente
come sorgente di gioia e di generosità, come fonte del desiderio ardente che anima l’attesa della
Pasqua.

È infatti frutto dello Spirito la gioia che scaturisce dallo slancio generoso del dono di sé. L’uomo,
chiamato alla beatitudine, è attirato dal desiderio del bene e quando si volge a Dio, Bene assoluto,
dominato dalla carità, vive la gioia spirituale più alta e pregusta nella speranza l’eterna pienezza
della felicità. Seguire docilmente questa attrattiva dello Spirito è accogliere il dono della sapienza,
che fa gustare la bontà, la verità, la bellezza di Dio. Ma questo non si realizza senza lotta e
l’ostacolo più insidioso viene all’uomo da quella passione di cui oggi ben poco si parla: l’accidia, il
disgusto del bene, la demotivazione dell’agire, il tedio di ogni valore positivo, che l’immerge nel
non senso e nella nausea della vita. Poco si parla dell'accidia, che purtroppo segna invece
profondamente la situazione psicologica e morale di molti uomini del nostro tempo. Si preferisce
parlare di depressione o di angoscia, fermandosi ad una fenomenologia psicofisica che sembra non
cogliere i nessi profondi tra piano psichico, piano etico e piano spirituale. Acuta e poliedrica nella
sua unità di sguardo sulla persona è invece l’analisi degli antichi padri del monachesimo. Leggiamo
nel Praktikós di Evagrio:

“Il demonio dell’accidia, denominato anche «demonio del mezzogiorno» è il più gravoso di tutti i
demoni: esso s’incolla al monaco verso l’ora quarta e ne assedia l’anima fino all’ora ottava.
1
Dapprima quel demonio gli fa apparire il sole estremamente lento, se non addirittura immobile: gli
sembra che il giorno abbia a durare fino a cinquanta ore! In più esso lo induce a volgere
continuamente gli occhi verso le sue piccole finestre, lo persuade a uscire fuori dalla sua cella, a
scrutare attentamente verso il sole per vedere quanto dista dall’ora nona, ma anche a guardare
tutt’attorno per osservare se qualcuno dei fratelli si faccia vivo. E in più quel demonio gli ispira
dell’odio per quella sua dimora e per quella stessa sua vita e per il lavoro delle sue mani: (gli fa
pensare) che ormai la carità tra i fratelli è venuta meno e che non c’è più nessuno che possa dargli
conforto. Se poi, per di più, è avvenuto che qualcuno in quei giorni abbia contristato quel povero
monaco, anche questo contribuisce a far sì che il demonio lo spinga ad accrescere la sua
avversione. È allora che esso lo induce al desiderio di altri luoghi, nei quali sia possibile trovare
facilmente quanto occorre al suo bisogno e così esercitare un lavoro più sopportabile e più
profittevole; esso gli insinua ancora come non sia possibile che in quel luogo egli trovi il modo di
piacere al Signore: dovunque, insiste a dire, la Divinità può essere adorata. A tutto questo egli
aggiunge pure il ricordo dei suoi familiari e della sua vita passata; gli lascia intravedere una lunga
durata della sua vita, ponendogli davanti agli occhi gli aggravi dell’ascesi. E così, come si usa
dire, quel demonio mette in moto ogni espediente allo scopo di indurre il monaco ad abbandonare
la cella e a lasciare il suo campo di lotta. A un tale demonio non si accompagna subito nessun altro
demonio. Conclusa la lotta, uno stato di grande tranquillità e di gioia indicibile invade l’anima del
monaco”. (12. Il vizio dell’accidia)1

È facile riconoscere in questa pagina il compenetrarsi di situazioni di disagio fisico e psichico che
hanno radice in un atteggiamento di tiepidezza e di disgusto del bene. Proprio questa situazione di
patologia spirituale è radicalmente superata dal fervore nel seguire i moti dello Spirito che San
Benedetto descrive nel suo discorso sulla quaresima. È esattamente questa iniziativa dello Spirito
Santo che spiega le novità semantiche di questo capitolo della RB: l’uso dei termini “voluntas
propria” e “desiderium” in senso positivo, anziché come tendenze peccaminose che esigano una
conversione. Qui, per la prima volta nella RB la “voluntas propria” e il “desiderium” sono
sorgente di bene, in quanto sono ispirati dallo Spirito Santo. Nel cap. 4, 59-60 San Benedetto
raccomanda: “Non assecondare i desideri della carne; odiare la volontà propria”. E ancora, nel
cap. 7, 12-13 dice: “…tenendosi sempre lontano da ogni peccato e vizio, cioè quelli dei pensieri,
delle parole, delle mani, dei piedi e della propria volontà, nonché dei desideri della carne, l’uomo
abbia per certo che Dio dal cielo lo osserva in continuazione…” E sempre nel cap 7, 19.21.31 “ci
viene chiesto di rinunciare alla nostra volontà, perché la Scrittura dice: «Non seguire i tuoi
desideri» (Sir, 18,30). E anche nella preghiera domandiamo a Dio di fare in noi la sua volontà…Si
sale il secondo gradino dell’umiltà quando, non amando più la propria volontà, non ci si compiace
neppure di soddisfare i propri desideri…”

Anche nel Prologo (v.3) l’atteggiamento di chi inizia la conversione monastica è espresso con le
parole “rinunciando alla propria volontà”. Altri passi potremmo citare, ma bastano questi esempi
per far capire che esattamente nella volontà propria, ancora inficiata dall’egoismo e dai desideri
della carne, sta l’ostacolo più grave alla libertà vera e alla docilità allo Spirito Santo. La citazione
del Siracide (Sir 18,30) riportata da San Benedetto “Pàrtiti dalla tua volontà” o “Non seguire i tuoi
desideri” è in perfetta consonanza con il tema paolino dei frutti della carne e dei frutti dello Spirito
espresso nella Lettera ai Galati, che, benché non citata esplicitamente, soggiace al discorso della
RB.

È solo l’iniziativa dello Spirito che può convertire la volontà e il desiderio del male al bene, dalla
terra al cielo. Nel cap. 4, 46 San Benedetto esprime il precetto: “Rivolgere alla vita eterna ogni
desiderio dello Spirito”. Così pure nel discorso sulla quaresima il desiderio è buono perché ispirato
dallo Spirito e la “volontà propria” è buona perché non solo non si oppone alla volontà di Dio e alla
1
EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, a cura di L. DATTRINO, Città nuova, 1992, pp. 69-70.

2
Regola, ma oltrepassa il livello dell’osservanza per esprimere una più grande generosità e
soprattutto, guidata dallo Spirito del Cristo risorto, è purificata da ogni egoismo ed orgoglio,
animata, com’è dallo spirito di obbedienza e di docilità soprannaturale. Da questa volontà
santificata dallo Spirito procedono come frutti le opere buone menzionate da San Benedetto: amore
per la parola ascoltata nella lectio, preghiera intensa, compunzione del cuore, restrizioni alimentari,
veglie, silenzio più rigoroso, rinuncia allo svago.

“La conversione del volere e del desiderio che Benedetto descrive qui fa pensare alla fine del suo
Prologo, dove, allontanandosi dal Maestro, apre al nuovo venuto la prospettiva di un progresso
nella fede e nella vita monastica che farà superare le angustie dell’inizio e gli permetterà di correre
sulla via dei comandamenti di Dio con cuore dilatato (RB Prol.49 – Sal 118, 32) . L’ineffabile
dolcezza dell’amore, di cui parla, assomiglia alla “gioia dello Spirito Santo”, o “gaudio del
desiderio spirituale” che compare qui. Su questo punto come sugli altri, la quaresima riassume e
rappresenta tutta la vita del monaco (RB 49,1)”.2

Il fatto che la quaresima sia il paradigma della vita monastica sottolinea ancora di più l’equazione,
già accennata, tra liturgia e vita. Se la liturgia è prima di tutto “un evento escatologico,
l’attualizzazione sacramentale del mistero pasquale, l’opera di Cristo e della Chiesa, mediante la
quale si compiono la nostra redenzione e l’edificazione della Chiesa” 3 si comprende questa
profonda unità tra liturgia e vita monastica. La sottolineatura che San Benedetto fa dell’impegno
quaresimale come recupero dell’integrità e purezza non realizzate negli altri tempi dell’anno a causa
della negligenza e della superficialità è eco delle esortazioni di San Leone Magno, papa, nei suoi
sermoni quaresimali (Serm. 39, 40 e 44); San Benedetto li ha certamente presenti: 4 la stessa forma
parenetica del cap. 49 è frutto di questo influsso. San Leone esortava i cristiani a riparare le
negligenze dell’anno con la preghiera, il digiuno e l’elemosina. San Benedetto, che non può
insistere sull’elemosina, almeno come impegno personale del monaco, enumera tuttavia in dettaglio
diverse opere di conversione che impegnano non solo sul piano della mortificazione fisica, ma
anche dell’ascesi interiore. È del resto un costante insegnamento dei padri il collegamento tra
preghiera, digiuno ed elemosina. Così afferma San Pietro Crisologo:

“Tre sono le cose, tre, o fratelli, per cui sta salda la fede, perdura la devozione, resta la virtù: la
preghiera, il digiuno, la misericordia. Ciò per cui la preghiera bussa, lo ottiene il digiuno, lo riceve
la misericordia…Il digiuno è l’anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno. Nessuno
le divida, perché non riescono a stare separate…Perciò chi prega, digiuni. Chi digiuni abbia
misericordia. Chi nel domandare desidera di essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge domanda.
Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio non chiuda il suo a chi lo supplica…Chi digiuna
comprenda bene cosa significhi per gli altri non aver da mangiare. Ascolti chi ha fame, se vuole
che Dio gradisca il suo digiuno. Abbia compassione, chi spera
compassione”.5

San Benedetto concorda con questa impostazione che privilegia la carità come valore ultimo. Egli
dapprima parla al plurale: “ci purificheremo”, “dedicandoci”, “aggiungiamo”, poi passa a
sottolineare la dimensione personale dell’impegno: “ciascuno di propria iniziativa offra”, “privi il
suo corpo…”, “attenda”, “ciascuno sottoponga…”. Così anche nel Prologo, in cui si inizia con un
“Ascolta figlio…” e poi si passa, al versetto 5, al “noi”: è una riprova del carattere profondamente
2
A. DE VOGÜÉ, La conversion du désire dans le chapitre sur la Carême in Collectanea cisterciensia 1994, 2 (56), p.
138.
3
B.M. GUEVIN, La Carême: modèle de la vie morale du moine bénédictine in Collectanea cisterciensia 1993 , 3(55),
p.287.
4
A. DE VOGÜÉ, La Règle de Saint Benoît, SCh 186, 1971, Tomo VI, p.1222.
5
S. PIETRO CRISOLOGO, Discorso 43 da L’Ora dell’Ascolto, Lezionario monastico dell’Ufficio delle Letture, Vol.I,
p. 718.

3
personalistico del cenobitismo benedettino. Le opere quaresimali consigliate non sono gesti
penitenziali eccezionali o eroici: sono semplicemente i mezzi della “conversatio” monastica,
intensificati in questo tempo che è il paradigma dell’esistenza terrena, come il tempo pasquale lo è
della vita beata.

Non dimentichiamoci che nei primi secoli della Chiesa la quaresima era il tempo della pubblica
penitenza per i cristiani caduti in gravi colpe e il tempo della preparazione dei catecumeni al
battesimo. Le opere di conversione enumerate in questo capitolo hanno riscontro senz’altro sia con
la penitenza degli scomunicati sia con l’itinerario di iniziazione cristiana. Benedetto consiglia la
preghiera con lacrime e la compunzione del cuore. Già abbiamo considerato il senso positivo e
sereno di questa intensità di incontro con Dio che genera incontenibile emozione, nella
consapevolezza del proprio peccato e del perdono di Dio. Altri passi della Regola ne parlano:
cap. 4,57: “Ogni giorno nella preghiera confessare a Dio con lacrime e gemiti le colpe passate”;
cap. 20,3: “…non saremo esauditi per le nostre tante parole, ma per la purezza del cuore e le
lacrime di compunzione”;
cap.52,4-5: “Se qualcuno volesse raccogliersi in preghiera da solo…si metta a pregare non ad alta
voce, ma con lacrime e sincerità d’animo”;
cap. 7,64: “…consapevole del suo essere peccatore si sente come chi sta per comparire davanti al
giudizio di Dio”, come il pubblicano del Vangelo.

Speciale impegno si deve poi dare alla lectio divina non solo dedicandovi più tempo, ma ricevendo
all’inizio della quaresima un libro della biblioteca da leggere sistematicamente da cima a fondo in
un’atmosfera di silenzio rigoroso e di raccoglimento da parte di tutti, con la garanzia persino di una
speciale sorveglianza dei seniori:
“Nei giorni di quaresima leggano dalla mattina fino all’ora terza compresa, poi lavorino sino alla
fine dell’ora decima. In questi giorni ognuno riceva un libro dalla biblioteca e lo legga tutto di
seguito e per intero. Questi libri dovranno essere distribuiti all’inizio della quaresima. Uno o due
anziani soprattutto vengano incaricati di girare per il monastero nelle ore riservate alla lettura, per
vedere se c’è qualche confratello indolente, che invece di leggere se ne sta in ozio o in chiacchiere
e che oltre a rendersi inutile a se stesso distrae anche gli altri. Se si trovasse - ma che non sia mai –
un simile fratello, lo si rimproveri fino a due volte, e se non si corregge, lo si sottoponga alle
punizioni previste dalla Regola, in modo che anche gli altri ne abbiano timore.” (RB 48, 14-20)

L’applicazione più intensa alla lectio divina esprime la convinzione che la conversione è risposta
all’iniziativa divina e obbedienza alla sua parola. Le rinunce e le restrizioni alimentari sono indicate
come gesti liberi di amore e di generosità che vanno oltre l’osservanza abituale e si collocano in un
programma collettivo di ascesi quaresimale conformemente a ciò che prevedeva anche la RM al
cap.53. Ma ulteriori scelte di rinunce volontarie sono possibili e non solo nel campo delle
mortificazioni fisiche: astinenze, digiuni e veglie. Nella rinuncia a parlare e a svagarsi sono
implicati anche i sentimenti e la volontà. Sia detto incidentalmente: al cap.6 Benedetto proibiva
severamente parole inutili o eccitanti al riso, qui raccomanda di imporsi una limitazione: si
conferma in ciò la sua consapevolezza realistica che la quaresima è come un periodico tornare alle
sorgenti della nostra conversione, sapendo che sempre manchiamo e abbiamo di che correggerci.
Nella nostra vita monastica esiste un “initium” (Prol.48) e un “processus” fino ad arrivare alla
“carità perfetta” (cap. 7,67). La partecipazione alla passione di Cristo ci purifica. Cristo soffre per
purificare noi, noi per ricevere la grazia di purificazione che egli ci ha meritato.6

Come sempre, confrontando la RB con la RM, notiamo la speciale attenzione di San Benedetto alla
soggettività personale piuttosto che la sottolineatura dello spirito di emulazione nei rapporti
reciproci rimarcata invece dal Maestro:
6
B.M. GUEVIN, art.cit., p.306.

4
“…nel giorno stesso che dà inizio alla quarantena, quando fanno la comunione al termine del
primo digiuno, prima che si comunichino, sia dato dall’abate nell’oratorio un permesso così
concepito. L’abate dica a tutti: «Fratelli, se qualcuno vuol lavorare spiritualmente a vantaggio
della propria anima e fare astinenza da qualcosa, gli concediamo ai fini di questa buona opera
libertà di volere. Chi invece non vuole, accetterà ciò che è stabilito dalla regola in questo capitolo
e si accontenterà al regime quaresimale». Allora quanti tra i fratelli vorranno fare qualche speciale
astinenza, qui nell’oratorio stesso, vadano a umiliarsi alle ginocchia dell’abate ringraziandolo per
aver loro concesso di fare una buona azione di propria scelta. E dopo questa attestazione di umiltà,
ciascuno manifesti subito e di sua bocca all’abate, ciò da cui vuol astenersi.
Abbiamo detto che gli astinenti risultino tali pubblicamente nell’oratorio, perché quando a tavola
rinunciano a quel tale alimento, per privare il corpo di cibo in quaresima, non si lascino poi
persuadere da fratelli tiepidi e golosi – dato che nessuno si rassegna a vedere un altro migliore di
sé – a prenderne lo stesso abusivamente e a mangiarne con loro. Questi tali abbiano dunque
l’oratorio a testimone che sono stati eletti fra tutti davanti a Dio e qualificati da allora come
astinenti”. (RM 53, 11-18)

Diversamente dal Maestro, San Benedetto lascia intravedere un dialogo personale e segreto con
l’abate (come nel caso della confessione dei pensieri) che, secondo lo spirito della Regola, valorizza
la dignità della persona, mentre collega tra loro i grandi valori del silenzio, dell’umiltà,
dell’obbedienza, pilastri di tutta la sua concezione della vita monastica. Infatti questo sottoporre al
padre spirituale in un dialogo personale e riservato i propri desideri di ascesi libera dalla
presunzione e dalla vanagloria, dal rischio della “volontà propria” intesa come arbitrio e capriccio.

La nota che domina è il concretarsi dell’ascolto interiore dello Spirito nell’obbedienza filiale
all’abate come espressione di libertà da sé e di gioia profonda. Anche nel cap.5 obbedienza e gioia
sono collegate: ciò che muove all’obbedienza è un affetto a Cristo pieno di gioioso slancio “non
aver nulla più caro di Cristo” (v.2), un “forte desiderio di avanzare verso la vita eterna” (v.10). E
l’obbedienza va compiuta “di buon animo” perché “Dio ama chi dona con gioia” (v.16). Proprio
questo distacco da sé dilata gli spazi del cuore per la libertà e per la gioia e il tempo della
quaresima, attraverso l’attesa della Pasqua, amplia la portata del desiderio e la capacità del cuore di
amare, di soffrire, di godere già nella speranza “di vedere Dio che ci ha chiamati” (Prol.21).
“Desiderare la vita eterna con tutta la capacità di desiderio spirituale” (RB 4,46) è la dimensione
fondamentale della vita del monaco che si intensifica nella quaresima. È vita tutta tesa verso
l’eterno, espressione di fede nella fecondità del mistero della Croce, consapevolezza che questo
tempo è attesa e preparazione della vita vera. Secondo San Benedetto la gioia della Pasqua è tanto
intensa da effondersi anche sul periodo quaresimale e diventare l’anima dell’ascesi. Per il Maestro
la gioia è riservata solo alla Pasqua, mentre la quaresima è tempo di penitenza e di afflizione.
“ È giusto in verità che col Cristo a Pasqua si rallegrino della risurrezione del Signore coloro che
hanno crocifisso con lui il proprio corpo mediante l’astinenza in quaresima, conforme a ciò che
dice la Scrittura della tristezza: «Chi semina nelle lacrime, miete nel gaudio» (Sal, 125,5) e «Fatti
soffrire nel poco, si troveranno bene nel molto» (Sap 3,5). La quaresima infatti è figura di questo
breve tempo presente. La Pasqua invece indica per i buoni l’eterna letizia della vita futura, in
quanto ciò di cui si astiene per quaranta giorni, è lecito poi mangiarlo per tutto l’anno. Così pure,
se uno nella presente vita di questo mondo ha sottratto qualcosa ai suoi appetiti e alla carne, è
lecito alla sua anima nell’altro impinguarsi abbondantemente delle ben più preziose delizie divine
in eterno. Perché ha voluto in questo tempo breve rattristarsi per il Signore, meriterà pure di
rallegrarsi con lui in quello futuro”. (RM 53, 19-25)

Invece nel cap.49 della RB il gaudio di cui già si parlava alla fine del Prologo (“l’ineffabile
dolcezza dell’amore” e “il condividere la gloria di Cristo”), nel cap.5 (la gioia dell’obbedienza) e

5
alla fine del Cap. 7 (il gusto delle virtù e la gioia dell’amore perfetto) trova le sue espressioni più
luminose:
“…si attenda Pasqua con la grazia del desiderio spirituale. Quest’ultima fa pensare a un altro
valore cristiano evocato dall’Apostolo: «la gioia della speranza» (Rm 12,12). Infatti, non c’è nulla
di più beato quaggiù quanto sperare, ossia aspettare, la promessa di Dio nella certezza che dona la
fede.
Di questo desiderio spirituale che colma di gioia, Benedetto ha già parlato negli ultimi strumenti
delle buone opere (4,46). Là, si trattava del suo oggetto ultimo, la vita eterna. Ora, si tratta della
risurrezione pasquale, annuncio e inizio della beata eternità. Lo Spirito, dal quale emana quel
desiderio, ha come primi frutti l’amore e la gioia (Gal 5,17-22).
Gioia dello Spirito Santo, gioia del desiderio spirituale: comunque la si chiama, la gioia penetra,
per Benedetto, nel seno stesso della quaresima. Rassomiglia al «l’ineffabile dolcezza d’amore» che
prometteva al postulante alla fine del Prologo (Prol. 49). In tutt’e due casi, la gioia spirituale fa
irruzione in un tempo consacrato allo sforzo penoso. Per il Maestro, la quaresima era l’immagine
della vita terrena: l’una e l’altra conducevano alla beatitudine, quella del tempo pasquale e quella
dell’eternità, ma per se stesse non erano che pazienza e austerità. Benedetto, pur conservando loro
questo carattere faticoso, le illumina con la gioia che procura amore”.7

7
A. DE VOGÜÉ, Ciò che dice San Benedetto, Benedictina, 1992, p. 185.

6
LA DIMENSIONE PASQUALE DELL’ASCESI
IN MECTILDE DE BAR – 1

18 MARZO 2002 Sr. MARIA CARLA VALLI, OSB ap

I due incontri dedicati a Catherine Mectilde de Bar, questa sera e la prossima volta, si potrebbero
facilmente riunire in unità, perché di per sé – e annuncio subito la tesi – la dimensione pasquale
dell’ascesi che Mectilde ha vissuto e ha proposto a vivere a chi si mette alla sua scuola si può
assumere in una formula, che prego di accogliere nella sua valenza spirituale. Altrimenti essa
diventa qualcosa di repellente, almeno per qualcuno. Infatti la tesi è la seguente: la dimensione
pasquale dell’ascesi è propriamente l’orizzonte e il fondamento della rinuncia.
Trattare del tema della “rinuncia” effettivamente significa entrare in un ambito che non soltanto
ripudia alla società di oggi, ma che suscita sempre delle reazioni, nell’uomo in quanto tale. Ma la
rinuncia di cui si fa paladina M. Mectilde è una rinuncia che è fondata nell’azione dello Spirito
nell’uomo, e quindi di per sé è l’altra faccia dell’amore oblativo: l’amore come “dono disinteressato
di se stessi e servizio puro dell’altro. Esso richiede di aprire il proprio centro personale, un
trascendere se stessi, un uscire da se stessi; in ciò consiste la rinuncia a se stessi. Essa è talmente
unita ad ogni autentico amore che si potrebbe parlare di un unico atteggiamento, abbracciante in
intima unità i due elementi, e che può essere definito: amore-rinuncia”1 .Ma là dove è in questione
“il fondo personale umano” è questione di “partecipazione della luminosa «virtù» dell’assoluto”,
cioè di Dio autocomunicatosi in Cristo2 . L’amore oblativo insomma è l’amore che l’uomo riceve
dentro di sé e solo per questo può diffondere attorno a sé. Come si viva, come accada nell’uomo
quest’unione, di luce dall’alto e di amore che trascende sé, è l’argomento di cui dobbiamo trattare in
questi due incontri.

Amore-rinuncia: su di essa sentiremo M. Mectilde farci da maestra nelle istruzioni che ha lasciato
alle sue “figlie”. Ma questo manifesto teorico si può vedere anche esperienzialmente vissuto nella
storia di lei. Ho scelto allora due percorsi, uno più storico e l’altro più teorico. L’obiettivo generale
è quello di tentare un saggio di indagine nell’itinerario di M. Mectilde – uno tra i saggi possibili3 -
per cogliere sulla base dei dati biografici la maniera in cui ella stessa per prima ha scoperto la
valenza positiva della rinuncia; e non solo la valenza positiva, ma anche la valenza beatificante: la
rinuncia diventa ciò che dà forma alla sua personalità umana e spirituale e porta la sua stessa
personalità alla maturazione, ai livelli massimi, tant’è vero che nell’Istituto, nei nostri monasteri,
oggi c’è la consapevolezza che la maturità umana e spirituale della Fondatrice potrebbe essere
presentata come modello di santità per tutti.

Il titolo delle due conferenze potrebbe allora essere utilmente riformulato come:

1
Cf la voce Rinuncia in V. TRUHLAR, Lessico di spiritualità, Brescia, Queriniana, 1973, 535.
2
Cf la voce Virtù in V. TRUHLAR, Lessico di spiritualità, 715
3
Penso in particolare – quale momento da indagare per il nostro argomento - all’esperienza del ritiro crocifiggente del
1661-62, durante i quali scrisse le pagine che ora si ritrovano negli attuali capitoli I –II e XI-XII del Vero Spirito: cf J.
LETELLIER, Pour un approfondiment du traité du «Véritable Esprit» in Recherchen von Ort/ Recherches sur place.
Begegnungen mit Mechtilde de Bar und ihrer Zeit/ Rencontres avec Mectilde de Bar et son époque, pro-manuscripto del
monastero di Köln 1999, 1-57 (la numerazione ricomincia per ogni contributo). L'A. valorizza decenni di studi inediti di
M. Véronique Andral.

1
«L’amore-rinuncia nell’itinerario spirituale di Catherine Mectilde de Bar».
Vedremo dapprima: I. L’amore-rinuncia nell’ideale delle Annunciate e di Catherine de Bar/sr st.
Jean l’Evangeliste; quindi, II. La purezza d’intenzione nella pedagogia dell’amore-rinuncia di
Catherine de Bar/ Mectilde del Santissimo Sacramento. Nel prossimo incontro, sempre
nell’orizzonte della pedagogia della Madre quale fondatrice e maestra originale di vita cristiana, III.
La cura delle “disposizioni” Vedremo di che cosa si tratta.

I. L’amore-rinuncia nell’ideale delle Annunciate e di Catherine de Bar/sr st. Jean l’Evangeliste


Con una formula riassuntiva ed un po’ ad effetto, si potrebbe dire: Catherine alla sequela del
Signore nella vita religiosa – Catherine è il nome di battesimo di colei che diventata benedettina
prenderà il nome di M. Mectilde – passa da una vita che si raccoglie attorno a dieci “piaceri” a una
vita che si raccoglie attorno a un unico “piacere” e questo “piacere” è fondato su una grande
speranza: la possibilità di colmare, realizzare la propria identità personale, l’identità di creazione e
redenzione di ogni uomo/ donna salvato/a in Cristo Gesù.
Quali sono questi dieci “piaceri”? Sono i dieci “piaceri” che rientravano nell’ideale del primo
istituto religioso in cui ella entrava a diciassette anni.
Qual è il “piacere” che deve diventare assoluto, l’unico? Vivere nell’alleanza con Dio.
Come? Riscoprendo l’immagine divina in sé.

Ma procediamo con ordine.


Storia della fondazione delle Annunciate. Cenni - Catherine era nata nel 1614 alla fine dell’anno, il
31 dicembre, e nel novembre del 1631 entra nel monastero delle cosiddette “Annunciate” di
Bruyères. Chi sono le Annunciate? All’inizio del secolo precedente - precisamente nel 1502 sono
promulgate dal Papa le prime regole di questa fondazione religiosa – Giovanna di Valois, figlia del
re di Francia che avrebbe dovuto diventare regina di Francia, ma venne invece ripudiata dal re suo
marito, aveva dato vita a quest’ordine, d’ispirazione francescana. La vicenda è interessante da
ricostruire.
Seconda figlia di Luigi XI, a motivo della sua fragilità fisica e della mancanza di bellezza, era stata
subito allontanata dalla corte fin dall’infanzia ed era vissuta presso una famiglia nobile senza figli
nel castello di Linières, a 10 leghe da Bourges. A dodici anni, però, per motivi politici era andata
sposa a Luigi d’Orléans; per ventidue anni resterà moglie di questo duca, che aveva grandi mire
politiche. Gli eventi giocheranno a suo favore e questo duca, marito di Giovanna, riuscirà a
diventare re, con nome di Luigi XII. Era successo infatti che alla morte del padre di Giovanna, ci
fosse un periodo di interregno nell’attesa che giungesse alla maggior età il fratello di lei, Carlo VIII;
ma prima di giungervi, Carlo morì e quindi, per diritto di successione , il trono passò al marito di
Giovanna.
Costui aveva già tentato di arrivare al regno ordendo una congiura – fallita - contro la reggente,
Anna di Beaujeu, sorella maggiore di Giovanna e per questo era stato incarcerato, ma poi graziato
per intervento della moglie. Il matrimonio era stato un matrimonio pressoché fittizio, egli si recava
dalla sposa solo quando era obbligato dal re, ma l’intervento pietoso e disinteressato di Giovanna
era servito a riconquistargli la libertà. Questo fatto aveva procurato un riavvicinamento di Luigi alla
moglie, ma quando finalmente, per la morte del fratello di Giovanna, il regno passa a Luigi
d’Orléans e questi può essere incoronato a Reims con tutta la solennità dovuta al re di Francia, ecco
che esclude dalla cerimonia la consorte; già nel dicembre 1498 viene pronunciata la dichiarazione di
nullità del matrimonio, da lui voluta, e pochi giorni dopo la sentenza le manda delle lettere patenti
con cui le assegna in usufrutto il ducato di Berry, con capitale la città di Bourges. Ecco allora che
Giovanna di Valois, dopo ventidue anni di matrimonio e tutto quello che aveva fatto per il marito,
si ritrova a quarant’anni esiliata: certo, conosceva quei luoghi fin dalla sua infanzia, farà l’ingresso
solenne nella capitale nel marzo 1499 e impiegherà gli ultimi sei anni della sua vita – era nata il 23
aprile 1464, muore il 4 febbraio 1505 – ad assicurare il benessere del ducato.

2
Alle varie opere che realizza a favore dei cittadini, prodigandosi per i poveri e i malati, aggiunge
anche la fondazione di un monastero a Bourges4 organizzato secondo le sue proprie intuizioni di
vita religiosa; monastero dedicato al mistero dell’Annunciazione, e che darà il nome con cui furono
comunemente indicati tutti i monasteri che prenderanno vita da questo primo monastero e
osserveranno la Regola che fu scritta per esso: “monasteri delle Annunciate”5.

Se quello appena richiamato è il racconto esterno della vicenda di Giovanna di Valois, è pur vero
però che la stessa sua vicenda biografica si può leggere anche ad un altro livello: in tal caso la
fondazione del monastero di Bourges appare come il compimento di una vocazione autentica,
rimasta a lungo necessariamente “nascosta”: di essa Giovanna raccontava.
Diceva infatti che fin da ragazza aveva avuto dalla Madonna l’ispirazione e la certezza che, prima
di morire, avrebbe fondato un ordine tutto a lei dedicato. Questo progetto vocazionale - che non si
era potuto realizzare a motivo del suo destino, in cui si intrecciavano le sorti politiche del regno di
Francia con le ambizioni del marito assegnatole - sembra realizzarsi proprio alla fine della sua vita,
quando coadiuvata da un Minore osservante, il p. Gilbert Nicolas (1461/2 – 1532), ottiene di potere
dare vita a quest’ordine, che lei certamente avrebbe finanziato e per il quale voleva costruire il
monastero. A p. Nicolas ella fece scrivere la Regola, secondo l’intuizione che però lei aveva
maturato.
Nel 1502 si inizia la costruzione del monastero, nel 1504 lei stessa professa in questo monastero e le
Cronache narrano che da quel giorno manterrà l’abito d’Annunciata sotto l’abito del suo rango.
Morirà però subito l’anno seguente e le sorti della sua fondazione saranno curate da quel padre
minore francescano che va detto, a buon diritto, Padre Confondatore delle Annunciate. Il Papa
Leone X gli riconoscerà nel 1517 (anno di approvazione della terza – definitiva - Regola
dell’ordine da lui scritta) il nome di Gabriele dell’Ave Maria o più brevemente, Gabriele-Maria,
che egli stesso si era scelto per devozione alla Vergine; e con questo nome fu universalmente
chiamato da quel momento e risulta nella storia della spiritualità6.

Ora, Catherine de Bar incrocerà l’ideale di quest’ordine religioso in un monastero di Annunciate


appena fondato: Catherine infatti si fa religiosa nel novembre 1631 entrando nel monastero di
Bruyères, eretto nello stesso anno 16317.
E’ sufficientemente definito quell’ordine dalle due caratteristiche che solitamente si segnalano:
l’ispirazione francescana e la tonalità mariana?

L’orizzonte della tesi che esporrò - La lettura della Regola definitiva (1517), oggi facilmente
possibile grazie ad una sua pubblicazione recente8 – vedremo poi qualcosa sulle vicende che
riguardano la legislazione fondazionale di quest’ordine – fa ribadire, certo, l’intonazione mariana
ma più precisamente l’intonazione evangelico-mariana: la figura di Maria che è messa al centro è
quella dei vangeli e ai vangeli si chiede espressamente e continuamente di rifarsi, certo con
un’esegesi che non è la nostra, ma che obiettivamente dice un grande amore per la Parola di Dio. E
questa lettura della parola di Dio è inquadrata in una struttura logica e teologica, un elenco di dieci
virtù. Ne riparleremo.

4
Cf Giovanna di Valois ( o di Francia), santa in Dizionario Istituti Perfezione [=DIP] vol. 4, Roma, Ed. Paoline, 1977,
coll. 1193-1195. L’A. è P. PEANO.
5
Cf CH. - P. SAGOT DE VAUROUX, L’ Ordre de l’Annonciade. Ses origines- Son esprit- Son opportunité
providentielle, «La France Franciscaine» 12 (1929), 489-510. A questa fonte attingeremo molti dei dati che riporteremo.
6
Cf P. PEANO, Gabriele-Maria, beato in DIP, vol. 4 Roma, Ed. Paoline, 1977, coll. 1007-1009, qui col. 1008. Su di
lui: J.-F. BONNEFOY, Le B. Gabriel-Maria, OFM , «Revue Ascétique et Mystique» t. 17, 1936, 252-274; Dictionnaire
de Spiritualité 6 (1971) coll. 17-25
7
Cf P. PEANO, Annunziate, di Giovanna di Valois in DIP, vol. 1, Roma, Ed. Paoline, 1974, coll.658-662, qui col. 661.
8
Cf «Instrumenta Franciscana» n° XXVI, Instituut voor Franciscaanse Geschiedenis, 1997.

3
Qui io mi permetto di offrire un’ipotesi di scavo interpretativo, che tiene presente i contenuti
evangelici della Regola, ma anche il fatto di questa “costruzione” sistematica che dice chiara
nell’estensore – il p. Gabriele-Maria – una precisa idea su chi è la donna consacrata; nello stesso
tempo, mi riferirò anche ad altri testi importantissimi nella vita delle Annunciate, precisamente una
Messa propria che mette a tema il loro carisma, scritta dal P. Confondatore, e delle tracce di
sermoni sulla Regola , tenuti anch’essi dal P. Confondatore.
Ultimamente la mia ipotesi affermerà che - se si guardano un po’ più da vicino i documenti che
codificano l’ispirazione ideale di quest’ordine in cui Catherine inizialmente professa, e in cui vive
la sua prima esperienza religiosa - troviamo una complessità di motivi spirituali aperta a possibili
riletture; lì troviamo un’incipiente ricchezza spirituale che poi in maniera autonoma, con il segno
della genialità carismatica, Catherine nella propria maturità spirituale - divenuta fondatrice di un
monastero benedettino riformato - rielaborerà e consegnerà a perenne ricchezza della Chiesa.
Vediamo da vicino.

I “dieci piaceri” - Le Annunciate avevano un abito religioso composto da una tunica grigia
all’inizio, poi nera, con uno scapolare rosso, un mantello bianco e un cordone con dieci nodi. I dieci
nodi rappresentano i “dieci piaceri”, attorno a cui si doveva riassumere la preoccupazione ascetica e
l’impegno di un’Annunciata. Perché dieci “piaceri”? Perché il p. Gilbert Nicolas, aveva organizzato
la Regola di questo ordine attorno ad un elenco di dieci virtù della Madonna, le quali egli aveva
enucleate usando un termine latino che compare in quel versetto della Lettera ai Romani, all’inizio
del capitolo 12, laddove si parla del progetto di conversione virtuosa di ogni cristiano. Paolo dice
che bisogna offrire i nostri corpi al Signore e bisogna trasformare la nostra mente per discernere la
volontà di Dio e compiere tutto ciò che è buono, a lui gradito e perfetto. “Tutto ciò che è buono” :
ciò che è virtuoso; “ciò che è gradito” a Dio, ciò che è compreso nella sua volontà: così noi
leggiamo nella attuale versione italiana della CEI di Rm 12, 1-2. Ma la Volgata usava l’espressione:
“…Deo placentem” e poi “voluntas bona et beneplacens” (= Obsecro itaque vos, fratres, per
misericordiam Dei, ut exibeatis corpora vestra hostiam viventem, sanctam, Deo placentem,
rationabile obsequim vestrum. Et nolite conformari huic saeculo, sed reformamini in novitate
sensus vestri, ut probetis quae sit voluntas Dei bona et beneplacens et perfecta) Queste espressioni,
che vogliono dire ciò che è gradito a Dio, sono sottese al francese “le plaisir”, almeno nel contesto
del linguaggio religioso di quest’ordine, per cui i “dieci piaceri” della Madonna di fatto sono le
dieci virtù attorno a cui, secondo il confondatore delle Annunciate, si può schizzare la figura
credente della Vergine Maria.

Il P. Nicolas - che era dotto, professore rinomato ed ebbe una parte importante nella storia dei
Minori osservanti della Francia ( storia che è legata strettamente all’impegno di costui) -
logicamente, predicò anche alle Annunciate per aiutarle a vivere la Regola che proponeva loro.
Predicò certamente con ampiezza su queste dieci virtù o “piaceri” della Madonna, anche se a noi è
giunto solo il testo riassunto dei discorsi ascetici9 che teneva loro perché si infervorassero e
mettessero in pratica le dieci virtù attraverso cui ogni religiosa Annunciata avrebbe potuto
riprodurre in se stessa la fisionomia virtuosa della Vergine Maria.
Catherine de Bar, entrando nel monastero delle Annunciate di Bruyères - in cui s’incontra con una
comunità di nuova fondazione, fervente, impregnata dello spirito dell’Istituto – Catherine de Bar ,
che in quest’epoca si chiamava Sr. Jean l’Evangeliste, fu subito messa a contatto non solo con la
Regola ma anche con questa formazione ascetica che, cento anni prima, era stata impartita dal padre
fondatore e che era messa per iscritto e conservata come patrimonio per tutto l’Istituto.

Un problema possibile e attestato dalla biografia di Catherine de Bar. - Possiamo immaginare


Catherine impegnata, con tutto lo slancio dei suoi diciassette, diciotto, vent’anni, a ricopiare
9
Cf Sermons du Bienheureux Gabriel-Maria: I- Sermon des dix Marie; II-Sermon des dix plaisirs héroiques: testi
pubblicati da J.-F. BONNEFOY, Le B. Gabriel-Maria, OFM , «Revue Ascétique et Mystique» t. 17, 1936, 275-290.

4
quest’ideale mariano che le è presentato secondo lo schema delle dieci virtù, e possiamo supporre
che usasse tutte le sue risorse di natura e di grazia per incrementare ed intensificare gli atti di virtù.
Ma bastano gli atti di virtù ad edificare la personalità cristiana? Occorre intendersi.
La vita cristiana di per sé è più complessa: è sì, certamente, una vita fatta di atti di virtù, ma gli atti
di virtù di per sé non costruiscono ancora la persona virtuosa. Gli atti di virtù devono unificarsi
perché la persona virtuosa è qualcosa di più dell’insieme degli atti di virtù da lei compiuti. La
tradizione lo afferma con chiarezza e allora come ancor oggi si ripeteva quell’assioma che a volte
ricordiamo: non bastano di per sé le azioni materialmente buone, queste azioni devono essere
corroborate dalla retta intenzione. Si legge ne L’imitazione di Cristo, libro I, cap. XV: “ A nulla
giova un’azione esterna compiuta senza amore; invece qualunque cosa per quanto piccola e
disprezzata essa sia, se fatta con amore, diventa tutta piena di frutti.In verità Iddio non tiene conto
dell’azione umana in sé e per sé ma dei moventi di ciascuno.Opera grandemente colui che ha
grande amore; opera grandemente colui che agisce con rettitudine….Accade spesso che ci sembri
amore ciò che è piuttosto attaccamento carnale…Chi ha un amore vero e perfetto non cerca se
stesso in alcuna sua azione, ma desidera solamente che in ogni cosa si realizzi la gloria di Dio”.

Questo principio de L’imitazione di Cristo è sintomo, a modo suo, dell’importanza della


problematica attuale circa l’esame della consistenza interiore della personalità. Proprio in virtù
della sua consistenza interiore, infatti, l’uomo porta al massimo grado l’espressione delle sue
potenzialità umane, che ultimamente non sono solo umane perché ogni uomo, secondo il dettato
della fede, è creato ad immagine e somiglianza di Dio. Ne segue che il discorso della virtù è ben
impostato quando non soltanto chiede di porre atti buoni, ma atti - direbbe il linguaggio antico -
obiettivamente buoni e guidati da un’intenzione buona; ovvero atti - diciamolo con il linguaggio
psicologico di oggi - corroborati da una motivazione consistente: essa fa sì che la persona possa
esprimere tutte le sue potenzialità, possa impiegare il suo livello affettivo, intellettuale, spirituale in
una serie di atti che manifestano come tutto il suo impegno e tutte le sue opere si raccolgono attorno
a dei valori etici, a dei valori spirituali, che le permettono di fiorire e di porsi come operatrice di
un’umanità autentica in mezzo agli altri.

Era esplicitamente offerta a Catherine/sr St. Jean, giovane entusiasta della fede e della virtù, delle
dieci virtù della Madonna, una traccia per unificare il suo impegno ascetico in un’unica direzione e
una direzione che attingesse il fondamento della vita nel Signore?
L’itinerario spirituale di Catherine ci dice che ella stessa ne sentiva l’esigenza, a motivo degli “alti e
bassi” che sperimenta all’inizio della sua vita religiosa: sappiamo che un cappuccino le insegna i
“suoi” mezzi infallibili : non avere in vista altro che Dio, con una grande purezza di intenzione
(dovremo ritornare su questa indicazione!); compiere bene i propri doveri e tendere sempre al più
perfetto10.

La soluzione al problema formativo di fatto vigente nell’Ordine - Osiamo ipotizzare che fossero i
misteri evangelici della vita del Signore e della sua Madre – sia in quanto oggetto di devozione sia
in quanto oggetto della celebrazione liturgica – a costituire la linea di unificazione oggettiva della
spiritualità proposta nei monasteri dell’Ordine. Infatti, contro una semplificazione secondo la quale
l’ordine delle Annunciate è l’ordine delle dieci virtù e i dieci piaceri della Madonna, lo studio delle
fonti ci permette di dire che in esso si aveva in somma stima la devozione ai misteri della vita del
Signore - a tutti i misteri i quali danno materia ai misteri della vita di Maria -, e questi stessi misteri
della vita del Signore diventavano motivo per sostenere e per alimentare la vita religiosa delle
Annunciate.
Se Giovanna di Valois amava a tal punto il mistero dell’Annunciazione da farlo rappresentare
ovunque sui muri del suo appartamento, è pur vero che istituisce due “quaresime”, una “destinata

Cf VÉRONIQUE ANDRAL, Catherine de Bar M. Mectilde du Saint-Sacrement 1614-1698. Itinéraire spirituel,


10

Rouen, Monastère des Bénédictines, 1992 (2 éd. revue et amplifiée), 13. 14.

5
ad onorare le grandezze di Maria, dalla Natività del Signore e si compie nella festa della sua
Presentazione al tempio; l’altra in onore del Signore che si manifesta ai Gentili: comincia con
l’Epifania e si prolunga fino alla sua uscita dal deserto [delle tentazioni]. «Queste due quarantene
si raggiungono e sovrappongono proprio a ragione per non separare la devozione della madre di
Dio da quella del Figlio né di Gesù Cristo da Maria, nei misteri che sono loro comuni»” 11 . Il
carisma delle Annunciate esalta obiettivamente le virtù della Madonna, ma le virtù della Madonna
in quanto la Madonna diventa l’esempio del cristiano come tale, che vive in sé i misteri della vita di
Cristo perché in essa si specchia e la tiene sempre di fronte a sé.
Se si leggono le Cronache degli inizi della storia delle Annunciate, che poi diventano le Cronache e
delle esperienze spirituali di Giovanna di Valois e poi del p. Gilbert Nicolas, troviamo un’insistenza
sui misteri di Cristo e, con essi, sui misteri della vita di Maria. “Ogni giorno il beato [Gabriele-
Maria] meditava tutti i misteri. … Contempla la vita della Santissima Vergine dalla sua
Immacolata Concezione fino all’Annunciazione, poi la vita di nostro Signore fino alla Passione
inclusa.
In altro momento, egli seguirà nostro Signore dalla Risurrezione all’Ascensione, salendo con lui al
Cielo e tornerà dalla Santissima Vergine che aveva lasciato all’ora dell’Annunciazione per
accompagnarla fino alla sua gloriosa Assunzione…poi intrattenendosi familiarmente con lei le
chiedeva tutto ciò che è necessario per vivere nell’amore del Figlio suo e di lei e per raggiungere la
gloria eterna… Per ogni mistero meditava, lodava, ringraziava, domandava la grazia propria di
quel mistero, per conformarsi e partecipare ai meriti di Gesù e Maria in quel mistero”. Si tratta
evidentemente di tratti propri della personalità spirituale del Confondatore, ma che dicono un clima,
un’insistenza, un orientamento di valore.
Giovanna di Valois poi diceva che dalla Vergine Maria, oltre ad aver ricevuto l’illuminazione circa
la Regola , aveva ricevuto da lei:
“1° - la devozione alla parola di Dio : «Maria ascoltava tutte queste cose…» i frutti di tale
devozione sono le dieci virtù e sopra ogni altra la carità;
2°- la devozione al Santissimo Sacramento: assiduità alla messa, onore, riverenza e tutti gli altri
atti di culto;
3°- la devozione alle Cinque Piaghe di nostro Signore che deve produrre l’amore e il desiderio di
soffrire … la Beata chiamava le sofferenze di Gesù e di Maria , il «torchio». Secondo lei ci sono
cinque piaghe di Gesù e cinque dolori di Maria. Dal torchio di Gesù cola abbondantemente il vino
rosso, il sangue del Redentore, dal secondo, il vino bianco e denso, le lacrime della Vergine.
…Aveva poi una singolare devozione per Maria che incontra Gesù caricato della croce. Per questo
aveva fatto comporre l’ufficio dello «Spasmo», approvato da Alessandro VI”.

La nostra tesi globale di lettura della spiritualità delle Annunciate - Come anche altre volte si
ripete, la spiritualità delle Annunciate è spiritualità mariana, che dà spazio e importanza al culto
eucaristico e alla passione del Signore perché i fondatori cercavano la comunione di vita con il
Signore Gesù e in lui e con lui la gloria di Dio. Lo scopo che la religiosa Annunciata mette avanti a
sé, secondo il Prologo della sua Regola, è quello di vivere in maniera tale da piacere al suo sposo
Gesù ad esempio della Vergine Maria e in tal modo vivere piacendo a Dio:
«Dal primo passo nella vita religiosa, il giorno della vestizione, alla postulante che si presenta alla
porta di clausura viene consegnata una immagine di Maria dicendole: “Ricevi Maria, Madre di
Gesù Cristo, perché ti conduca in tutte le tue vie” e dal momento in cui la postulante apre il libro
della regola, vi può leggere: “In primo luogo e prima di ogni altra cosa, abbiate continuamente
questa Santa Vergine davanti agli occhi, portando i vostri pensieri e i vostri sguardi su di lei, come
gli occhi dei Magi erano fissi alla stella. Che la Vergine sia il vostro modello e la vostra regola e
non abbiate altra preoccupazione al di fuori di quella di rendervi, per mezzo del suo invito,
perfettamente gradita al vostro Sposo [Gesù]”.
11
[NN.], La doctrine mariale de la Bienheureuse Jeanne de France et du Bienheureux Gabriel Maria comparée à la
doctrine des Maîtres du XVII siècle, «La France Franciscaine» 1929 (XII), 511-527. Da lì ricaviamo i testi che seguono.

6
Questi orientamenti pratici di Regola e di devozione, nel loro insieme, tracciano l’orizzonte della
proposta spirituale viva nelle loro Case e ci permettono di rintracciare quello che è stato il sostrato
vivente in cui Catherine ha realizzato la sua prima formazione religiosa, che le ha dato le basi per
proseguire poi la sua avventura spirituale.

I contenuti spirituali dei testi scritti dal P. Confondatore - Con questo orizzonte ampio sullo sfondo,
se ci avviciniamo ai testi liturgici che erano in auge in quei monasteri, questi diventano
particolarmente illuminanti per capire la futura M. Mectilde. Sono dei testi liturgici particolari, che
il p. Gabriele-Maria stesso aveva scritto.

Non stupisce un tale zelo se si è informati un poco della vicenda, a tratti romanzesca, nell’opera del
P. Confondatore a favore delle Annunciate. Egli deve scrivere la Regola tre volte: infatti, scritta una
prima volta, vivendo ancora Giovanna di Valois, la Regola viene mandata a Roma tramite un
emissario, il quale, ritornando da Roma senza approvazione, riesce a perderne il testo! Il p.
Gabriele-Maria non si scoraggia e la riscrive. In quell’epoca non era facile ottenere l’approvazione
di una Regola, che voleva dire fondare un nuovo ordine religioso, mentre c’era una disposizione del
Concilio Lateranense IV per cui era vietata la fondazione di nuovi ordini religiosi.
Questa Regola approvata da Alessandro VI nel 1502 e dal Re Luigi XII nel 1504 sarà di fatto la
prima regola. Ce ne sarà una seconda, del 1515 e quella definitiva del 1517. Varieranno non tanto i
contenuti ideali quanto la destinazione: all’inizio si pensava ad un Ordine misto, suore e frati; non
fu possibile; poi si pensava di unire le Annunciate alle Concezioniste di Spagna, ma queste
rifiutarono l’unione. Ecco allora la terza Regola. Abbiamo dunque una variegata attività del p.
Nicolas per scrivere e per ottenere l’approvazione della Regola; ma le capacità di quest’uomo erano
tali che poteva impegnarsi su molti fronti, per esempio, dedicandosi all’insegnamento nel suo
Ordine, i Minori osservanti, per più di vent’anni, e a risolvere – in virtù delle alte cariche rivestite
all’interno dell’Ordine le questioni di interesse comune 12. E la scrittura di testi liturgici per le
Annunciate.

( a) I formulari di messe - Questi testi liturgici – mi riferisco in particolare a testi di messe dedicate
alla Madonna, tra cui sono suoi (e propri dell’Ordine) cinque formulari su dieci ritenuti coerenti
con l’ideale delle Annunciate13 - ricevettero l’approvazione pontificia da Leone X con il breve Ea
quae del 29. 08.1517, anno anche dell’approvazione della Regola definitiva.

Il primo della serie è costruito apposta per evidenziare l’ideale delle dieci virtù: è la messa
cosiddetta “Delle dieci virtù e beneplaciti della Madonna”. Contrariamente ad una possibile nostra

12
La voce del Dictionnaire de Spiritualité, t. VI, nel paragrafo dedicato ai suoi “Écrits” distingue : 1° -“Defense de
l’Observance” (coll. 18-19) e 2°- “Écrits concernant l’Annonciade” (coll. 19-21) più altri Scritti concernenti
confraternite della BVM e Scritti diversi (cf coll. 21-22).
13
Il Breve si può leggere in «La France Franciscaine» t. X, 1927, 110-114: “ I. Missa de decem virtutibus et
beneplacitis Marie Virginis.
II. Sequuntur decem misse beate Marie Virginis iuxta deceni festa eiusdem.
Prima missa est de Conceptione, ut in Missali habetur.
Secunda est de Nativitate, ut in Missali habetur.
Tertia est de Presentatione, ut sequitur… (=propria)
Quarta missa de Desponsatione beate Marie. …(=propria)
Quinta missa de Annunciatione habetur etiam in Missa[li] loco suo
Sexta missa de Visitatione habetur etiam [in ]Missali loco suo
Septima etiam missa de Purificatione ….in Missali
Octava missa de Invenctione amantisssimi Filii sui in templo, ut sequitur (= propria)
Missa nona est del Martirio sive Spasmo aut doloribus seu compassisone … (= propria)
Decima missa est de Assumptione… in Missali”
N. B. La Messa “de decem virtutibus et beneplacitis Marie Virginis” era già stata approvata nel 1513: cf . «La France
Franciscaine» t. IX, 1926, 371-373.

7
attesa non troviamo in esso l’elenco delle virtù – l’elenco delle dieci virtù lo troviamo invece nella
Regola – un’insistenza sul “piacere a Dio”.
Quindi è lo stesso padre Confondatore che ci dà una figura sintetica della Madonna cui ricondurre il
precetto degli atti virtuosi delle dieci virtù. necessarie per delineare una certa figura di donna
cristiana, in particolare di una vergine consacrata. Questo formulario di messa che egli costruisce
sfrutta il dato biblico, in particolare neotestamentario - che si trova nelle Lettere di Paolo (Rm 8, 8;
12, 1. 2; 14, 18; 1Cor 7, 32; 2Cor 5, 9; Ef 5, 10; Fil 4, 18; Col 1, 10; 3, 20; 1Tess 2, 4.15; 4, 1) ma
non solo, anche per esempio nella Lettera agli Ebrei (11, 5. 6; 12, 28; 13, 16. 21) - del “piacere a
Dio”. Per esempio, nel versetto dell’Alleluia, il formulario recita: “Maria, Madre di Dio, sempre
Vergine, nella sua vita sempre piacque a Dio”. Poi, nell’Offertorio si canta: “Questa è la mia figlia
diletta, in cui molto mi sono compiaciuto – Ascoltatela!”. Come “Communio”, si indica un testo di
questo genere: “Erano perseveranti nell’orazione con Maria, Madre di Gesù e imparavano da lei
in che modo piacere al Signore Gesù”. Nell’orazione alla conclusione della messa, si pregava,
perché Dio potesse concedere a coloro che avevano partecipato all’Eucaristia, redenti dai meriti
della passione del Cristo, di imparare dalla Vergine Maria come piacere a Dio.

Maria, quindi, è colei che ha trovato ciò per cui si può piacere a Dio; e il suo impegno di piacere a
Dio è talmente riuscito che addirittura si attribuisce a lei qualcosa che il Vangelo attribuisce soltanto
al Signore: in Mt 3, 17 si trova che il Padre dice in riferimento al proprio Figlio Gesù nella teofania
del battesimo : ”Questo è il Figlio mio diletto, in cui mi sono compiaciuto” e in questa messa - che
le Annunciate cantavano come Messa propria dell’Ordine – troviamo che il Padre celeste dice anche
la Madonna la figlia in cui egli stesso si è compiaciuto. Un’applicazione esegetica ardita, spiegabile
all’interno dell’esegesi spirituale allora in uso. Ma è interessante il riflesso che poteva avere come
illuminazione teorica sul fondamento ultimo dell’impegno virtuoso delle Annunciate. Doveva
suggerire alle persone più spiritualmente attente di soffermarsi a riflettere sull’incrocio tra lo sforzo
credente di piacere a Dio e l’esito donato di questo piacere a Dio, che è quello di essere ritrovati – si
potrebbe dire - piacevoli a Dio, perché Dio stesso ci ha costituiti in grado di porre opere degne di
lui. P. Gabriele-Maria esprime bene , per mezzo del quadro complessivo delineato dai testi liturgici
che ha scritto, la formula dell’alleanza, quella formula che sta al centro di tutto il messaggio biblico,
di tutta la rivelazione cristiana ed in particolare di ogni esperienza di vita cristiana, di ogni vita
consacrata. Quando il cristiano si scopre entro l’alleanza scopre il fatto di appartenere al Signore e il
mistero d’amore mirabile di Dio stesso che, in certo modo, vuol essere posseduto dal cristiano, vuol
ritrovare nel cristiano l’unica cosa che sola gli manca: l’assenso alla sua proposta d’amore. Noi
apparteniamo al Signore, ma anche il Signore in tutta l’economia di salvezza ha dimostrato di
volere appartenere all’uomo al punto di svuotarsi per l’uomo e di porlo accanto a sé nel regno dei
cieli: e solo il compiersi di questo progetto, nel Cristo e nei credenti in lui, è la Sua gioia.
L’ideale della Annunciate di per sé quindi, forniva a Catherine/sr. St. Jean l’Evangéliste un
elemento per trovare ciò attorno a cui unificare in maniera dinamica tutta la sua risposta d’amore
alla vocazione divina, e quindi tutto il suo impegno ascetico, e fondarlo in maniera assoluta,
legandosi al cuore della rivelazione cristiana sulla vita e sull’uomo.
Non è inverosimile che Catherine, divenuta M. Mectilde, ripensando poi a tutto quello che aveva
creato in lei una tale lex orandi presso le Annunciate, si sia trovata indirizzata a cercare ciò che
poteva aprire e spalancare la pratica delle virtù al dono che viene dall’alto e che plasma tutta la
persona umana per fare, di un uomo o di una donna, un discepolo o una discepola del Signore
completamente agito dallo Spirito. Individuerà questo nodo di grazia e comandamento nel mistero
dell’annientamento del Figlio di Dio nell’Incarnazione e nell’Eucaristia, che chiama l’uomo ad
annientarsi in Lui, con Lui e per Lui.
Ma non c’è solo questo formulario particolare della Messa propria dell’Ordine da ricordare.

(b ) I Sermoni sulle dieci virtù - Dicevo che il padre Confondatore predicava sulle dieci virtù: nei
contenuti di questa predicazione troviamo qualcosa di estremamente interessante.

8
Quali sono queste virtù? L’ordine e la nomenclatura subisce qualche variazione nelle tre stesure
della Regola; di per sé l’elenco diventa poco significativo se non è corredato dai contenuti ad esso
legati. A riprova, nella letteratura critica sulle Annunciate c’è stata una discussione sulla legittimità
o meno delle scelta di queste dieci virtù piuttosto che di altre 14. Per completezza di documentazione
possiamo comunque elencarne la lista definitiva (1517): castità, prudenza, umiltà, fede, devozione o
orazione, obbedienza, povertà, pazienza, pietà o carità; dolore o compassione.
Io qui impernierò le mie riflessioni sulla prima di queste virtù all’interno dell’insieme logico e
teologico dell’elenco delle dieci virtù: ricordiamo che il P. Gabriel-Maria era un professore di
teologia scolastica.

La prima virtù che viene additata ed illustrata a queste religiose come loro Regola, secondo il
documento normativo del 1502, è la prudenza; nella seconda Regola, al primo posto verrà la
purezza, la prudenza è nominata al secondo; e nella terza Regola, la purezza sarà denominata
castità, mentre al secondo posto rimane la prudenza.
Il legame tra prudenza e purezza diventa estremamente significativo se l’elenco è concepito come la
successione articolata di un progetto pratico di vita cristiana e religiosa. Porre a discorso la virtù
della prudenza obbliga a porre il problema dell’agire morale e tutte le riflessioni imperniate su
questa virtù lo riprendono e lo approfondiscono; obbligano a porsi il problema di come gestire la
propria vita, di che cosa fare perché la propria vita riesca, delle scelte giuste, rette, felici che danno
compimento alla propria vita e alla propria vocazione. Il discorso della prudenza quindi, non in
quanto – secondo una volgarizzazione deviante - diventa discorso che trattiene dall’agire, ma in
quanto discorso sull’ agire bene e sul portare a compimento la vita, era uno dei nuclei attorno ai
quali la giovane Catherine doveva imperniare il suo sforzo di conformazione alla Vergine e a
Cristo: accompagnata da Maria come da una madre e maestra, ponendosi davanti agli occhi il
modello di Cristo nei suoi misteri, era invitata a fare della sua vita qualcosa che piacesse a Dio.

Circa lo spessore della prudenza ideale di un’Annunciata, troviamo due serie di indicazioni. Nel
sermone cosiddetto Delle dieci Marie - che è il sermone in cui il p. Gabriele-Maria aveva schizzato
come dieci profili della Madonna, legando a ciascuno una delle virtù “di Regola”- abbiamo
dapprima la descrizione dell’esercizio della prudenza di Maria al livello delle tre relazioni
fondamentali dell’esistenza: il padre quindi schizza un’immagine di Maria prudente rispetto a Dio,
rispetto a se stessa, rispetto agli altri; segue la descrizione – bipartita ( con riferimento al tempo di
desolazione , «l’inverno», e al tempo di consolazione, «l’estate») del suo essere prudente rispetto
anche alle situazioni esistenziali che deve attraversare chiunque segua il cammino di fede.
Complessivamente il discorso è quindi articolato in cinque punti, secondo uno schema – dichiarato
all’inizio - che il padre Nicolas ha previsto per ogni figura di Maria modello di virtù.
Si spiega che Maria è prudente rispetto a Dio nella misura in cui pensa bene di Dio e non si
permette di attribuire all’economia salvifica nulla di quanto non professi la santa Chiesa. Oppure la
prudenza rispetto a sé significa vigilare sull’uso della lingua e vigilare sull’uso del pensiero in
maniera di non dire mai nulla che possa ferire gli altri e non pensare mai qualcosa di male contro gli
altri. Così pure ci dev’essere esercizio di prudenza anche nel tempo della prosperità perché, anche
quando tutto nella vita va bene e quindi siamo in un momento di consolazione o di riuscita
spirituale, lì bisogna guardarsi dal fare il nido in casa altrui, di attribuire cioè a sé il successo e di
dimenticarsi che tutto questo invece è dono di Dio.

Sono insegnamenti pratici di vita cristiana senz’altro basilari, molto utili a costruire una salda vita
nel Signore. Il p. Nicolas però offriva anche una predicazione sulla virtù della prudenza mettendo a
fuoco l’esercizio eroico di questa virtù. La tradizione dell’Istituto tramanda infatti a fianco del
Discorso delle dieci Marie, un Discorso sui dieci piaceri eroici della Madonna. La giovane che lo
ascoltava scopriva altri aspetti possibili della prudenza, aspetti legati al suo esercizio nella
14
Cf CH. - P. SAGOT DE VAUROUX, L’ Ordre de l’Annonciade, 497.

9
complessità del vivere umano; più che mai questo panorama doveva riproporre a un’uditrice
profonda e riflessiva l’ interrogativo di fondo su come costruire la propria vita in una maniera che
raggiungesse lo scopo, affrontando e attraversando ogni imprevisto.
Anche questo discorso procede articolando ogni paragrafo in cinque punti.
“Prudenza che si interroga (interrogative)”. “Si tratta del fatto che lei [cioè la religiosa che segue
la Vergine Maria] s’interroga sul motivo iniziale di tutte le suo opere, pensieri e parole; su come il
nostro agire si svolge e sul suo fine, per non commettere alcuna cosa che non piaccia a Dio e fare
invece tutto ciò che è conosciuto essere a lui gradito”. L’agire è quindi sommamente prudenziale
soltanto se l’attività di discernimento prudenziale accompagna tutte le fasi del nostro agire buono e
per bene.
Allora si entra nella prudenza “che indica la via”: directrice. Ma non solo; questa prudenza deve
articolarsi con la lungimiranza, perché nella conoscenza della realtà non tutto ci è noto
immediatamente, ma si manifesta poco per volta. Occorre una prudenza che non mostra
l’inquietudine, dissimulative, capace cioè di sostenere la prova del tempo, e quindi che dia tempo al
tempo e che permetta alla verità di manifestarsi: a tal fine è importante non reagire con
immediatezza ma permettere alle situazioni di chiarirsi per poter capire noi l’intenzionalità altrui.
Vivrà in questo modo chi sarà anche convinto che il manifestarsi poco per volta attorno a noi e in
noi della verità è contrastato, perché nel processo umano si possono nascondere delle insidie: la
prudenza sarà esercitata occultative, in maniera da rispettare o da difendersi , secondo i casi, quel
livello nascosto nelle cose che può essere pericoloso per noi. Infine la prudenza dev’essere
esercitata suspensive, deve prendersi tempo per decidere, calcolare tutti i dati e tutte le circostanze
coinvolte in una situazione.

Sicuramente una riflessione, un’istruzione così dettagliata si prestava a fare scoprire alle monache i
vari livelli della complessa esistenza ed esperienza umana. Le affermazioni a volte sono penetranti:
per esempio, si tratta della virtù della purezza legandola alla complessità del desiderio. Si spiega
che essa diventa virtuosa in quanto è una purezza che mortifica desideri vani che allontanano da
Dio. E poi si aggiunge che chiede alla persona di porre il proprio affetto soltanto nei desideri
virtuosi: fa questo realmente la persona che nega ogni desiderio relativo a cose vane e transitorie e
in particolare nega qualsiasi desiderio di Dio che si riveli - a uno sguardo avvicinato e profondo -
non tanto desiderio di Dio ma piuttosto delle consolazioni di Dio. Purezza virtuosa è quella che si
rallegra del bene che Dio concede alla persona e alle altre persone con le quali vive la persona che
s’impegna sul cammino virtuoso. Insomma, la purezza deve cercare l’unione con Dio perché,
conclude il p. Gabriele- Maria, la purezza in realtà è Dio stesso, “ cui la nostra purezza è unita
come al suo calco in cui ha preso forma.L’immagine fatta con un calco non si può unire né
sovrapporre se non a quello in cui è stata ricavata. Così l’anima nostra che è fatta ad immagine di
Dio non può essere unita se non a ciò da cui ha preso la forma, che è la purezza perfetta attraverso
cui è unita a Dio”.

Da questa breve incursione nella predicazione tenuta agli inizi dell’ Ordine, mi sembra risulti
confermato quanto asserivo considerando la Messa espressiva dell’ideale della fondazione.
Complessivamente, certo, si delinea una successione ascendente di gradi attraverso cui si arriva alla
pratica eroica della virtù. Ogni disegno di scala ascendente può essere rischioso in quando
larvatamente prometeico. La finalità così alta, da un certo punto di vista, poteva anche indurre un
effetto disperante. Infatti, se la virtù fosse travisata come la richiesta di una serie di atti che
richiedono un impegno di penetrazione e di sforzo intellettivo non comune, perciò stesso diverrebbe
in ultima analisi scoraggiante. Ma il rischio era aggirato per il fatto di porre l’ideale non sulle
proprie forze ma sull’esempio e la comunione di vita con la BVM e il Figlio suo.
L’ideale delle Annunciate – dicevamo sopra - era sì un’ideale mariano, ma, ancor prima, e più
precisamente, un ideale radicalmente evangelico e non solo per la richiesta esplicita di guardare alle
indicazioni evangeliche, ma perché si dilata intrinsecamente e fa della Madonna l’esempio perfetto

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del discepolo del Signore per la comunione di vita con lui. Possiamo aggiungere la seguente
precisazione, che il guadagno proprio della riflessione sviluppata dal P. Confondatore
nell’insegnamento ascetico – in forma estremamente dettagliata – dei “piaceri eroici” di
un’Annunciata: l’ideale delle Annunciate è fondato esplicitamente sull’apertura della coscienza
umana al mistero di Dio. E quindi la forza del cammino ascetico può essere riposta nell’immagine
divina iscritta in sé, alla cui ricchezza la redenzione apre al peccatore salvato, che dopo il peccato
recupera la bellezza nel cammino di conversione per Cristo, con Cristo, in Cristo.

II. La purezza d’intenzione nella pedagogia dell’amore-rinuncia di Catherine de Bar/ Mectilde del
Santissimo Sacramento

Tutto questo predispone sr st. Jean l’Evangéliste a fare un salto di qualità. Esso sarà possibile per la
mediazione di tutti gli altri incontri di grazia che segneranno il suo cammino paradossale di esule
per tanti anni, quasi un ventennio (esce da Bruyères nel 1635, la fondazione del “suo” monastero
sarà del 1653: anche quando avrà un tetto e sembrerà aver raggiunto una sistemazione,
interiormente vive l’angoscia della domanda sulla volontà di Dio per lei: la “pausa” del poter vivere
la professione benedettina entro le sacre mura del suo monastero di Rambervillers fu breve [gennaio
1639 - settembre 1640], e dovette ricominciare la peregrinazione per cause di forza maggiore: la
guerra, i pericoli di ogni tipo, la fame).
Del salto di qualità noi raccogliamo i frutti nei testi che riguardano il suo magistero di fondatrice.
Ma quei frutti conservano un’impronta della formazione iniziale: avendo interiorizzato i “dieci
piaceri” secondo l’unica linea di forza dell’unico “piacere”, cioè avendo orientato tutto il desiderio
a Dio e al rimanere nella sua alleanza in maniera che egli possa compiacersi di lei, ecco che nei testi
di Catherine fondatrice si intravede – ci permettiamo di suggerirlo - una riaffermazione della
validità di
quella lezione esistenziale nei termini del richiamo reiterato alla purezza d’intenzione.
Quando nelle pagine programmatiche dell’Istituto delle Benedettine dell’Adorazione perpetua - mi
riferisco al capitolo di apertura de Il Vero Spirito – troviamo la seguente affermazione:
“L’ornamento principale di una benedettina dell’adorazione perpetua è la purezza d’intenzione”
(VS cap. 1, 7)15, non possiamo passare oltre in fretta: quest’affermazione racchiude in sé tutte le
ascendenze di quella prima formazione religiosa, sicuramente arricchita da altre influenze del
secondo lungo periodo della sua vita (e in primis dall’incontro con Bernières). Non possiamo
neppure tentare un’esplorazione diacronica su questo argomento. Enucleiamo sinteticamente quello
che ci sembra di poter dire sulla “purezza di intenzione” come doveva comprenderla M. Mectilde
fondatrice.

La purezza d’intenzione - che raccomanda ed esige da ciascuna delle “sue” monache - è l’intreccio
e il risultato della purezza a cui si era educata presso le Annunciate: una purezza che include la
castità verginale con la gestione adulta delle questioni relative degli affetti e dell’emotività, che si
qualifica come il mettere tutte le proprie risorse intellettuali, volitive, decisionali ed affettive nello
scegliere una vita che tendesse all’unione con Dio, ma accettando anche che - in prima battuta - la
purezza fosse di Dio e non dell’uomo. La purezza d’intenzione è ciò per cui la canalizzazione di
tutte le risorse personali nella direzione unica dell’alleanza, concentrare tutte le sue attese
nell’accoglienza del dono di Dio sapendo che Lui deve purificare il desiderio dell’uomo o, meglio,
che l’uomo non può incontrare Dio senza una conversione radicale del proprio desiderio. Se infatti
si leggono i testi della maturità di Catherine Mectilde - i testi che sono databili nel tempo in cui la
fondazione come realtà dall’identità carismatica è ormai maturata in lei (mi riferisco cioè a quel
momento della sua maturazione personale in cui ella è diventata capace di enucleare una maniera di
andare a Dio e di trasmetterne l’esperienza a chi, per seguire il Signore, si metterà alla sua scuola) -
troviamo come termine ricorrente il termine del “desiderio”. E il desiderio di Dio che bruciava
15
Traduzione italiana pro-manuscripto a cura del Monastero di Ronco Ghiffa (VB) 1983, p. 8.

11
dentro Mectilde de Bar negli anni della fondazione dell’Istituto è il desiderio di Dio quale forma
della “purezza” a cui si era entusiasmata negli anni vissuti con le Annunciate.

Due sono gli elementi che si possono proporre per suffragare la tesi.
Innanzitutto un’affermazione autobiografica e in secondo luogo il suo riproporre facilmente quel
tema nell’insegnamento spirituale: esso compare spesso quando porge istruzioni con finalità
pratica, sia mistagogiche che etiche. Passa dalle une alle altre senza soluzione di continuità perché
nella vita cristiana si entra nello spazio proprio di conformazione liturgica ed orante al mistero di
Cristo per uscirne fuori poi, in certo modo – o meglio: per restare in esso in altro ambito di relazioni
interpersonali - e rinnovare la vita quotidiana, com’è tipico della parenesi neotestamentaria. E
svolgendole, accenna a vertici della vita in Cristo che sono propri della vita mistica, nel senso di
vita credente che riconduce il suo orizzonte e attinge il suo fondamento al mistero liturgico-
sacramentale, là dove all'uomo è sicuramente donato lo Spirito Santo che lo abilita a vivere
l'esperienza spirituale, in quanto lo riconduce sempre a fare esperienza della vita di morte e
risurrezione di Cristo. Che una tale esperienza spirituale possa essere vissuta con la fenomenologia
della mistica (nel senso corrente del termine), segnata cioè da caratteri di ineffabilità e
straordinarietà (vd. sopra quello che M. Mectilde dice di sé) non varia il peso dell'esperienza dal
punto di vista di valore: è sempre l' esperienza di un uomo che ha cara la vita di morte e risurrezione
di Cristo, che è il dono del battesimo, nella fede e nello Spirito Santo.

Vediamo più da vicino:


(a) la purezza d’intenzione nelle parenesi generale circa la vita cristiana e monastica.
Parenesi è il genere proprio delle esortazioni tenute alla comunità, che ci sono state tramandate –
parenesi che parte e ritorna alla situazione contingente che palesemente la richiede – e passi
parenetici si trovano nelle lettere all’una o all’altra “figlia” spirituale. Mectilde, che nella Regola di
Benedetto aveva trovato la preoccupazione dell’emendazione dei vizi e dell’incremento della carità
(cf RB Prol 47), può utilmente collegarsi a quanto imparato nei primi anni della sua formazione
religiosa circa il concreto esplicitarsi della vita cristiana in pensieri, parole, opere. Non era forse
spiccatamente morale la preoccupazione con cui le Annunciate aderivano al Vangelo, per cui vi
rintracciavano innanzitutto la figura dell’agire cristiano? Un agire che fosse evangelico nel fare, nel
pensare, nel parlare. Di suo però Mectilde aggiungerà l’esplicitazione del fondamento kerigmatico:
siamo chiamati ad agire in tal modo perché siamo salvati in Cristo nella sua Pasqua e nella
ripresentazione sacramentale della chiesa.
Leggiamo qualche testo.
E’ imminente la Pasqua. Scrive all’amatissima Contessa di Châteauvieux: “Volete sapere se siete
risuscitata misticamente? Osservate se ne portate i segni e se la vostra anima è rivestita
dell’eredità dei beati, di cui l’umanità del nostro divino Signore è stata rivestita al momento della
risurrezione.
1. essa è stata resa impassibile perché «Gesù risuscitato dai morti non muore più» …Qualità che
voi dovete imitare spiritualmente con una forte risoluzione, presa con la sua grazia di non
morire più a causa del peccato …
2. Cristo ha ricevuto l’agilità grazie alla quale poteva portarsi in un istante da un luogo ad un
altro luogo lontano . E voi … obbedienza pronta …
3. Cristo ha ricevuto la sottigliezza, mediante la quale … è uscito dal sepolcro senza rimuovere la
pietra. E voi… attraverso le cose temporali [aspirate] costantemente a quelle eterne.
4. …è stato rivestito di luminosità e di splendore…voi dovete essere luminosa e risplendere
spiritualmente per la pura intenzione rivolta a Dio, che è l’occhio della vostra anima
…guardare a Dio unicamente in tutte le vostre azioni. Ed è anche la luce della fede viva e
dell’orazione…” 16
16
CATHERINE MECTILDE DE BAR, Une amitié spirituelle, Paris, Téqui, 1989 / Lettere di un'amicizia spirituale
(1651-1662). Madre Mectilde de Bar a Maria di Châteauvieux, Milano, Ancora, 1999, 286-287.

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Chi ha partecipato sul serio al mistero di morte e risurrezione del Signore, vive obbedienza pronta e
la capacità di tendere a Dio, di morire al peccato e si fa guidare dalla purezza d’intenzione.

Sta scrivendo alla stessa “figlia” e si lascia andare a dar voce a quello che "ha visto": "un'anima
rivestita di Gesù Cristo", in un'esperienza particolare di "luce", tant'è che la Contessa "mai e poi
mai" sarebbe in grado di capire la portata reale di quello di cui le viene data comunicazione; M.
Mectilde stessa "si perde nell'abisso" della comprensione esperienziale dell' "essere Gesù Cristo per
unione di grazia". Si riscuote dalla confidenza e riconduce il discorso al battesimo, che è a
fondamento della sua visione della vita cristiana, che obiettivamente introduce in questa realtà: dà la
grazia di Cristo, che è lo Spirito Santo, e fa nuovi in quanto apre alla vita di Cristo, che è vita di
morte e di risurrezione. Vi si sofferma allora con una “lezioncina” sulle quattro doti dei beati viste
sopra e circa la “chiarezza” ribadisce che si incarna nell’
“avere un'intenzione pura e retta verso Dio, ricordando le parole di nostro Signore: «Se il tuo
occhio è limpido, tutto il tuo corpo è nella luce» [Mt6, 22]. Un'anima nella chiarezza vive nella fede
viva che ci svela le verità divine”17.

Quando fonda la Casa di Rouen, nel 1677, nel secondo “capitolo” che tiene a quella comunità il 29
novembre, parla del “piacere a Dio” e della rettitudine d’intenzione, perché – spiega - se manca
questa, tutto crollerà. Rivolgendosi ad una giovane che voleva unirsi a loro , dice:
“Sorella, volete essere di Dio, volete piacergli (…) Purificate la vostra intenzione, non mirate che a
Dio nella vostra decisione di farvi religiosa, annientate ogni altro pensiero: Dio sia il vostro unico
motivo e la sua santa volontà che vi chiama l’unico vostro scopo. Nel Vangelo c’è una parola
terribile, dalla quale sono stata colpita quarant’anni fa [quindi nel 1637, quando entra dalle
Annunciate]: «Ogni pianta, dice Gesù Cristo, che non è stata piantata dal Padre mio, sarà
sradicata» [Mt 15, 13 Vulg.]. E’ spaventoso, e si deve intendere e spiegare in riferimento
all’intenzione pura, che un’anima deve avere, di piacere unicamente a Dio in tutte le sue azioni; e
tutte le azioni che non sono compiute in quest’ottica, per impulso dello Spirito Santo e per un
principio di grazia, non sono da lui ricevute. Sono opere morte [cf Ebr 9, 14], che ci saranno
strappate e che serviranno solo come motivo di condanna”18.

La purezza d’intenzione è da ricercare quando si tratta di individuare il bene ed usare delle capacità
di fare il bene che troviamo attorno a noi e dentro di noi.
La purezza di intenzione in M. Mectilde è – sembra di capire – l’intenzione retta e buona dell’atto
morale che si è esplicitata, fino a trovare la propria sorgente e ad incanalare le potenzialità della
libertà da cui procede, nella fede esplicita con cui si dona totalmente a Dio: è cioè l’intenzione retta
che procede non solo dal principio di creazione – per cui l’uomo è fatto ad immagine e somiglianza
di Dio – ma dal principio dell’alleanza nuova che costituisce consapevolmente l’uomo credente in
Dio per la redenzione di Cristo.
Per questo motivo ella richiamerà alla purezza di intenzione come criterio della donazione autentica
di sé a Dio, come ricerca assoluta di Lui della sua volontà. Per questo motivo la purezza di
intenzione entra anche nei discorsi della Madre sulla trasformazione mistica in cristo, ove “mistica”
va intesa nel senso di : in forza della conformazione al mistero di Cristo per la vita liturgico-
sacramentale e morale docile allo Spirito Santo.

I teologi anche del tempo di M. Mectilde avevano distinto una intenzione costitutiva dell’atto
morale da un’intenzione che invece accompagna soltanto l’atto morale, l’atto virtuoso (l’atto ex
17
Lettere di un'amicizia spirituale, 91-93, qui 93.
18
Il testo del “capitolo” tenuto dalla Madre, oggi segnato nell’archivio generale con il n. ° 3155, si può leggere in tr. it.
in GENOVEFA GUERVILLE, Catherine Mectilde de Bar. II. Uno stile di «lectio divina» nella tradizione monastica,
Roma, Città Nuova ,1989, 204 – 209, qui 204 e 205

13
intentione oppure cum intentione). Si possono compiere azioni buone ma che sono staccate da
un’intenzione buona. Si può dare un’elemosina a un povero - questa è di per sé un’azione buona -
ma soltanto perché si vuole che si allontani. In questo caso, l’atto buono non è legato ad
un’intenzione buona, e la persona vive un’azione buona che non costruisce la sua consistenza, la
sua struttura interiore, perché vive dentro di sé una lacerazione tra l’atto buono che fa e la
maledizione interiore con cui accompagna l’atto buono. L’atto buono diventa costitutivo della
persona buona quando l’intenzione entra a dare la forma dell’atto stesso e allora diventa buono
quell’atto perché è suffragato e sostenuto dal di dentro dall’intenzione. E’ dottrina tradizionale
infatti che l’atto buono è davvero buono solo quando è accompagnato da un’intenzione buona. Ma
l’intenzione è fragile e non ha peso determinante a livello morale in se stessa: a riprova, un atto
cattivo, pur se fosse accompagnato da un’intenzione buona - il che è possibile, perché l’umano è
fatto in maniera da poter esprimersi, mantenendo questa divaricazione tra l’atto e l’intenzione -, non
è per questo corretto e si trasforma in un atto buono; un atto cattivo, anche se è accompagnato da
un’intenzione buona, rimane cattivo, perché l’intenzione buona non è capace di cambiare l’atto.
L’atto buono invece è virtuoso solo se è intimamente sorretto dall’unità tra l’atto e l’intenzione,
perché è quest’unità che esprime autenticamente e costruisce la struttura umana spirituale di colui
che agisce.
M. Mectilde chiede che ogni “sua” monaca abbia purezza d’intenzione, che cioè non faccia mai
nulla di bene che non sia supportato dal di dentro da - potremmo dire - un’intenzionalità unificante.
M. Mectilde, insomma, ha la seguente certezza: se le monache non sono donne che sanno scegliere
il bene e che sanno fare sì che questo bene si radichi a tutti i livelli della loro personalità non
potranno essere neanche discepole del Signore, non potranno essere le grandi sante che magari
vorrebbero essere. Non è di per sé richiesto che l’atto sia rivolto direttamente o esplicitamente al
Signore: basta il riferimento implicito esistente nell’intenzione di compiere un’azione buona.
Sapendo e volendo un atto in quanto buono, in forma implicita lo si riferisce a Dio. Ma se questo
manca, ogni cammino di fede esplicita ed informata dalla carità è illusorio. La purezza d’intenzione
è quindi dispositiva perché ha tutte queste valenze. E diventa un elemento decisivo nel cammino di
conformazione al Cristo in forza della grazia eucaristica, suggerito dal carisma proprio della Madre.
Emerge qui la seconda valenza dispositiva della purezza d’intenzione:

(b) la purezza d’intenzione nella comunione eucaristica, sigla della vita di comunione con Gesù
Cristo Signore.
Il discorso è formulato con chiarezza in un testo così significativo nella coscienza carismatica della
prima generazione delle “figlie” di M. Mectilde, che è entrato a far parte de Il Vero Spirito. Io però
lo leggo nella stesura originaria (n° 530 dello schedario generale dei testi mectildiani), che è una
lettera alla contessa di Châteauvieux, entrata a far parte del cosiddetto Breviario, usando la
traduzione italiana edita dal monastero di Ghiffa19.
Questo testo parla della comunione. Ma – ripeto – più ampiamente esso vuole provare come l’ideale
della purezza d’intenzione si viva non soltanto al livello morale ma al livello spirituale e al
addirittura mistico, dove per “mistico” intendo l’apertura al mistero di Dio, cosicché Dio possa fare
dell’uomo quello che egli vuole, in una maniera che va al di là del modo ordinario in cui si vive
l’alleanza tra l’uomo e Dio. Non c’è soluzione di continuità tra il trattare della comunione
eucaristica e la vita cristiana, anche nel particolare frangente del discorso della Madre sulla purezza
di intenzione, perché la purezza d’intenzione - che deve guidare ogni discepolo del Signore e la
Benedettina del Santissimo Sacramento - è il volere il bene realizzandolo in comunione con il
Signore.

Il testo spiega come “dobbiamo fare la comunione”. La problematica è propria del tempo. Noi oggi
diciamo che “partecipiamo alla Messa”. Alla Messa facciamo la comunione, ma nel Seicento invece
una cosa era assistere alla Messa e un’altra cosa fare la comunione. Si andava ad assistere alla
19
Cf Lettere di un'amicizia spirituale, 188-193 (= “In quale spirito dobbiamo comunicarci”).

14
Messa e poi fuori della Messa si faceva la comunione. Allora è chiaro che in questo testo abbiamo
un paragrafo su come prepararsi alla comunione e un altro su come ringraziare dopo la comunione,
perché la comunione è concepita come un atto al di fuori della Messa. Ma al di là di queste
problematiche del Seicento, il testo è estremamente interessante, Lo spunto immediato dello scritto
della Madre, è la risposta delle questioni agitate della corrispondente, che è la “figlia” carissima per
antonomasia, la Contessa di Châteauvieux. Siamo evidentemente ad un momento di svolta
esistenziale per la Contessa:
“Figlia carissima, dovete dimenticare i vostri anni passati e ricordare i vostri giorni solo dal
momento in cui comincerete a servire Dio. Che tutto il resto sia annientato alla sua divina presenza
perché tutta la vostra condotta gli è contraria. …Da questo momento dovete iniziare una vita
nuova. …desidero che il nuovo anno che state per cominciare sia un anno di morte e di vita: di
morte nei sensi e nel vostro spirito; di vita nella grazia e in Gesù. Che non abbiate più vita in voi se
non per perderla e consumarla in Dio, portando in voi le parole dell’Apostolo: «Voi siete morti, e
la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio»[ Col 3, 3]”
Un anno nuovo vuol dire un anno in cui la vita è quella del Signore in te. Questa vita si realizza
entrando noi nel dinamismo pasquale. Tu ti realizzerai quando la vita che vivi sarà la tua vita
nascosta nella vita di Cristo e con il Cristo nascosto in Dio.

M. Mectilde nel suo Istituto abbandonerà l’abito multicolore delle Annunciate, nero rosso bianco:
nero segno della mortificazione, rosso segno del sangue con cui Cristo ci ha redenti e bianco segno
della vita nuova, perché partecipiamo alla vita di grazia; M. Mectilde trova che il sua carisma si
lega al carisma benedettino in cui l’abito nero vuol essere segno di morte, di quella morte però che è
unica e singolare – la morte di Cristo, che apre alla risurrezione. Questo si vede nell’esistenza di
coloro che si danno a Dio con totalità. “Avrete sempre davanti agli occhi i vostri interessi, i timori
umani, la soddisfazione dei vostri sensi e del vostro spirito? No! Io, insieme a Gesù Cristo,
condanno a morte tutto questo; dovete assolutamente cominciare una vita nuova …la vita pura e
santa di Gesù. I vostri anni devono essere un prolungamento degli anni di Gesù … come membro
del suo corpo, dovete essere annientata, crocifissa , morta e risuscitata con lui. Che tutte le vostre
operazioni siano dunque le operazioni di Gesù in voi, che le operiate con il suo spirito, con le sue
disposizioni e per le sue stesse intenzioni. Non bisogna vedere più nulla in voi al di fuori di Gesù: i
vostri pensieri siano pensieri di Gesù, le vostre parole, parole di Gesù, le vostre opere siano opere
di Gesù …”
Accade di riprometterselo ma di non farlo realmente.
“Ahimé! Spesso vi siete data a lui ma il vostro sacrificio e la vostra offerta non erano totali.
Eravate troppo occupata in voi stessa, nelle creature e nei vostri interessi. Non eravate libera per
poter offrire unicamente a Dio la vittima; la sacrificavate con una mano e la sottraevate con
l’altra. E mentre da un lato la condannavate, dall’altro le davate vita in un’infinità di maniere”.
Cartina di tornasole della autenticità dell’impegno è un certo modo del fare la comunione: “… le
vostre opere siano opere di Gesù e con Gesù entrate spiritualmente e con il desiderio nelle sue
sante disposizioni per agire come lui. Dovete comunicarvi nel suo spirito.
… Non dovete più comunicarvi per voi, né per questo né per quello, ma solo per Gesù Cristo.
Potete certamente pregare per i bisogni di tutti e anche per i vostri, ma…La vostra preparazione
consisterà nel non essere niente, nel non avere niente, nel non desiderare niente, nel non potere
niente, ma soltanto nel possedere una disposizione di totale abbandono di voi stessa, cedendo alla
potenza di Gesù nel Santissimo sacramento per essere rivestita delle sue misericordie e di lui, come
vuole lui, e non secondo i vostri lumi e secondo l’appetito dei vostri sensi. Cominciate ad entrare
nel distacco e nel vuoto di voi stessa”.

Vedremo nel prossimo incontro questo tema del distacco e del vuoto. Qui basti aver citato questo
passo da questa lettera per mostrare come l’intenzione che M. Mectilde chiede – essendo
un’intenzione di unione ma un’intenzione pura - dev’essere un’intenzione che sceglie non solo la

15
volontà di Dio, Signore trascendente sul mondo, ma il modo con cui Dio ha manifestato la sua
volontà, e cioè la redenzione di Cristo che associa tutti gli uomini alla sua morte e risurrezione.
Potremmo insomma immaginare che ci dica:
finora tu hai sbagliato nella tua maniera di prepararti alla comunione, e fare il ringraziamento della
comunione, perché eri troppo preoccupata di te stessa. Non eri sufficientemente libera per poter
offrire a Dio la vittima, cioè, te stessa come vittima. Tu sei una monaca, hai fatto della tua vita
un’offerta a Dio. Sei entrata in monastero mettendo al centro della tua esistenza Cristo, immolato
per la salvezza dell’uomo e hai voluto con la tua vita unirti alla vita di Cristo per essere offerta al
Padre come si è offerto Cristo. Quindi tu hai voluto essere vittima come lui è Vittima. Però, questo
tu lo fai autenticamente, non se lo fai una volta, ma se questa intenzione la rinnovi ogni volta che fai
qualcosa. Non basta rinnovarla ogni giorno e per esempio secondo l’uso corrente, rinnovare questa
retta intenzione come preparazione alla comunione eucaristica. Occorre che questa offerta di sé,
questo essere consegnati per essere simili a Cristo che si offre al Padre, questa purezza d’intenzione,
scavi in profondità dentro di te, per cui questa volontà non solo costituisca il livello del tuo agire
morale, ma inglobi in sé gli altri livelli che toccano la tua personalità. Non basta che raggiunga il
livello della volontà e della consapevolezza, per cui tu agisci con responsabilità morale, ma occorre
che questa tua volontà di dedizione tocchi il livello più profondo della tua libertà, laddove volontà ,
consapevolezza, desiderio, affetti, si uniscono e danno la motivazione ultima della tue scelte e del
tuo esistere.
La purezza d’intenzione chiede che la preparazione alla comunione, per es., sia vissuta fino al
livello di recuperare la libertà necessaria per offrirsi totalmente. Invece, ti offrivi a Dio con una
mano ma dall’altra parte ti sottraevi all’offerta.

Questi sono i meccanismi su cui la psicologia oggi si sofferma quando fa l’esame delle motivazioni
delle scelte delle persone, perché è noto che certi comportamenti e parole sono voluti, giustificati in
una certa direzione, però poi - dall’insieme dell’agire della persona - si vede che non sono
supportati da una motivazione sufficientemente consistente. Queste intuizioni antropologiche M.
Mectilde le aveva e le applicava nel suo insegnamento dottrinale. E allora capiamo bene come il suo
dire possa diventare un’istruzione adeguata contingente e particolare ma anche assumere la valenza
di un’istruzione sul come vivere: vivere non solo l’atto di fare la comunione, ma tutta la vita di
comunione con il Signore.
La purezza d’intenzione, che sta a cuore a M. Mectilde, è la purezza d’intenzione in quanto
motivazione costitutiva, che deve arrivare ad accogliere le motivazioni più profonde della vita. Se la
tua motivazione è quella di piacere a Dio piuttosto che a te stessa, la purezza di intenzione
consisterà nello staccarti da te volontariamente, in forza dalla grazia di Dio in Gesù Cristo, nella
comunione e dopo di essa. Bisogna mantenerla per tutta la vita.

Concludiamo.
Qual è il volto concreto della via di amore-rinuncia che M. Mectilde chiede di percorrere? E’ il
“piacere a Dio” che scava nel desiderio, perché deve ricuperare una purezza che arrivi fino a
liberare lo spazio laddove ogni persona umana porta in sé l’immagine e la somiglianza di Dio.
Quest’ideale di purezza è quindi un ideale di distacco da tutto ciò che può impedire il risplendere
dell’immagine inscritta in noi dal Signore nella creazione e nella redenzione. E’ un ideale che ci fa
beati perché fa di noi i poveri di spirito esaltati dal Vangelo, che vivono l’ideale dell’abbandono.
La lettera appena citata contiene tre definizioni dell’abbandono: il “cedersi alla potenza di Gesù
nel Santissimo Sacramento per essere rivestita delle sue misericordie e di lui”; il “rientrare in
Gesù tramite Gesù”20; l’ “essere guidati dallo Spirito di Gesù”21. Se il distacco termina nell’
“essere rivestiti di Cristo”, nell’ “essere guidati dallo Spirito” e nel “rientrare in Gesù tramite lui
stesso”, vuol dire che esso è la porta di ingresso che fa ritrovare l’immagine che portiamo nel nostro
20
Ib., 191.
21
Ib., 192.

16
essere più profondo. La rinuncia si svela veramente non più nulla di negativo o depauperante o
mortificante nel senso di deprimente, ma la rinuncia appare soltanto come la strada che permette di
compiere l’opera d’arte della nostra vita nel Signore, opera che è gestita da noi ma in sinergia con
Dio, o meglio, è gestita da Dio in sinergia con noi; la rinuncia a sé del credente è lo spazio
dell’incontro tra Dio Trinità e quella stessa persona, che Dio chiama alla fede e all’amore di Cristo,
nella ricerca paradossalmente reciproca – e senza confusione di ruoli - della nuova alleanza.

[Il testo della conferenza è stato rivisto e adattato per la stesura scritta dalla Relatrice]

17
LA DIMENSIONE PASQUALE DELL’ASCESI
IN MECTILDE DE BAR – 2

25 MARZO 2002 Sr. M. CARLA VALLI, OSB ap

Ripresa della lezione precedente.


Stiamo parlando della dimensione pasquale dell’ascesi, con riferimento ai testi di M. Mectilde e in
particolare ai suoi testi in quanto ci tramandano la sua esperienza spirituale, che può diventare
formativa per qualsiasi cristiano relativamente a quegli elementi universali su cui getta luce dal
punto di vista vissuto.
In altri termini.
La santità cristiana ha una forma normativa: la pasqua di Cristo; deve cioè ricalcare in qualche
modo la morte e risurrezione di Cristo. Eppure la santità su questa terra si vive come un cammino
personale, libero e responsabile. Qui noi interroghiamo un testimone, Madre Catherine Mectilde de
Bar, per sapere che cosa significa declinare la realtà normativa della pasqua di Cristo nell’ esistenza
umana guardando ad una realizzazione particolarmente “riuscita”: la realizzazione di una figura
cristiana che ha fatto scuola per le monache, ma non solo per loro.
Si diceva, nell’incontro precedente, che perché nel cammino cristiano, in quanto intessuto di atti
moralmente buoni e informati dalla fede-carità, sia verificato il passaggio dall’intenzione dichiarata
di sequela evangelica al livello esplicito e cosciente di una motivazione evangelica consistente - che
permetta davvero il cammino cristiano -, M. Mectilde suggerisce di coltivare la purezza
d’intenzione, nel senso di una relazione con Dio che dia forma assolutamente buona e spirituale
all’agire (che ne faccia un agire a Dio gradito).
Ella insegna cioè sì ad impegnarsi in un cammino virtuoso, ma in un cammino virtuoso ove lo
sforzo si raccoglie in maniera unitaria attorno all’agire buono; e in cui non solo l’azione è
accompagnata da una “buona” intenzione, ma è guidata da un’intenzione che le dia forma
veramente cristiana, che scavi dentro l’essere dell’uomo a raggiungere tutti i livelli della sua libertà
– il livello psicologico, etico, spirituale - e configuri il tutto della libertà dell’uomo con una
motivazione consistente di fede ed amore che lo regga e lo sostenga in tutte le vicissitudini dell’
esistenza.
M. Mectilde insomma ci ha portato a riflettere sul dato necessario e coestensivo al cammino
cristiano: sull’ incontro e la sinergia tra lo sforzo dell’uomo e la grazia di Dio. M. Mectilde aveva
scoperto all’inizio della sua vita religiosa come la purezza d’intenzione sia il frutto del volere
piacere solo a Dio, che si risolve nello scoprirsi oggetto del piacere di Dio. Aveva scoperto che la
purezza d’intenzione poteva essere perseguita solo nella misura in cui riusciva a rimanere sotto lo
sguardo di Dio, in alleanza con lui e quindi nell’aprirsi e nel ricevere da lui la grazia, lo Spirito
Santo; questi diventa poi l’agente e la norma stessa della purificazione a cui sottoporre lo sforzo, l’
intenzione, la motivazione della vita. “purificazione”, “rinuncia”, “distacco”, “separazione” sono
nomenclatura affine di atteggiamenti dell’uomo che apre il proprio centro personale, vive il
trascendimento di sé, l’ uscire da sé, come atteggiamento profondamente e originariamente umano
perché porta alla luce quell’immagine di Dio secondo cui ogni persona umana è creata mentre gli fa
incarnare l’aspetto della morte di Cristo nella sua propria esperienza umana.

Emerge così preponderante, nel discorso del cammino cristiano, il tema della rinuncia (e simili)
sempre e solo come atteggiamento “spirituale”, cioè atteggiamento normato dal dono di Cristo nello
Spirito per cui noi, creati ad immagine e somiglianza di Dio, possiamo ricuperare la somiglianza
perduta con il peccato.

1
Le disposizioni del cristiano.
Questa sera vorrei riprendere questo discorso, ascoltando M. Mectilde in alcuni testi in cui si
sofferma su questa dinamica e, in particolare, ascoltandola là dove - per esplicitare che questa
rinuncia è una rinuncia “spirituale”: una mortificazione che dà la vita, in forza dell’apertura a Dio in
Cristo - M. Mectilde non spiega tutto il cammino cristiano, ma richiama un ingrediente necessario:
le disposizioni. Sono i testi in cui ella richiama l’attenzione su, e difende l’ importanza insostituibile
del, vivere perseguendo in sé, coltivando in sé, disposizioni che aprano a conoscere Cristo.
Le disposizioni sono il risultato dell’attività libera dell’uomo che si fa ricettivo di fronte a qualcosa
o a qualcuno. Noi qui facciamo il caso della disposizione virtuosa, quindi di una disposizione buona
– M. Mectilde chiede di assumere disposizioni interiori di un certo tipo perché chiede alla persona
di diventare ricettiva di fronte alla presenza di Dio che si autocomunica, e quindi di farsi ricettiva
alla grazia.

È di fede che spetta all’uomo il disporsi (cf Concilio di Trento, D 1529). E’ di fede che né
l’esperienza spirituale né il cammino spirituale hanno inizio nell’uomo - la crescita di questa
esperienza del cammino spirituale non avviene per lo sforzo dell’uomo: infatti sia l’inizio che la
crescita avvengono per dono, sono elargite dallo Spirito Santo che ci è dato in dono – E’ di fede
però che l’uomo deve disporsi perché questo inizio possa esserci e questa crescita possa darsi.
Questa è un’applicazione del principio cattolico della cooperazione dell’uomo alla grazia, per cui il
Signore ha redento tutto l’uomo e tutti gli uomini, ma non ci salverà senza di noi.
L’attività dell’uomo nel curare le disposizioni spirituali è un’attività della sua libertà con cui prende
una certa forma di fronte alla presenza attiva di Dio; è quindi un’attività di ricezione, che qui vuol
dire non tanto tendere la mano per prendere qualcosa che rimane esterno a se stesso, come se
dovesse aggiungere dal di fuori qualcosa all’essere dell’uomo, ma si tratta di prendere una forma
che edifica l’uomo per quello che l’uomo è, eliminando per ciò stesso tutto ciò che vi si oppone1.

Disposizioni e rinuncia.
Il discorso della disposizione obbliga così a riprendere da un altro punto di vista, approfondire e
completare, il discorso della rinuncia.
Essa, si diceva, non è la scelta del nulla, ma è la scelta di togliere il male e ciò che di per sé
potrebbe essere anche bene, astrattamente parlando, ma che impedisce nel concreto dell’esistenza
della persona di ricevere la forma che a lui spetta per realizzare il suo posto nel piano di Dio. La
rinuncia nel cammino spirituale è ciò che permette di portare alla luce ciò che Dio presente vuole
operare nell’uomo chiamandolo a collaborare con sé. Come dice il Vangelo, la rinuncia è dentro la
sequela. E la disposizione in quanto chiede di ricevere ciò che sbozza la forma autentica dell’io di
per sé è l’altro versante del movimento della rinuncia dentro la sequela. Infatti il tema della rinuncia
nei testi di M. Mectilde è spesso abbinato al discorso delle disposizioni.

Proprio per togliere qualsiasi equivoco sulla portata della rinuncia, cito uno stralcio di una lettera di
M. Mectilde in cui ella illustra bene come la decisione della mortificazione e della rinuncia è, sì,
una scelta di dare la morte a sé, ma è, contemporaneamente, la scelta di operare con un certo
orientamento:
“Coraggio! Non si tiri indietro da questo nulla ... E per vedere se lei vi si trova secondo lo Spirito
di Dio, guardi bene se lo Spirito di Dio la conduce alla morte in tutto, in virtù di una santa
indifferenza, un’indifferenza che rimane costante e attraverso la quale lo Spirito La rende
ugualmente a tutto. Spero che lei sarà fedele e arrivi addirittura a possedere questo nulla in tutto,
in modo che niente nella vita possa trarLa fuori dal nulla. Ma comprenda bene: io non intendo che
lei debba pensare sempre a questo nulla, senza mai avere – l’originale recita: “autre entretien”. E
la traduzione con equivalenza dinamica vuol dire - altro impegno, relazione umana, da intrattenere.
1
Cf la voce Disporsi per la grazia in V. TRUHLAR, Lessico di spiritualità, Brescia, Queriniana, 1973, 199-200; e la
voce Ascesi (I-III) di CH. A. BERNARD, in Nuovo Dizionario di Spiritualità, Roma, Ed. Paoline, 1979, 65-79 : 70-71.

2
Lo stesso nulla - precisa la Madre - non è legato a nulla. Dev’essere in lei piuttosto la semplice
prontezza per tutto ciò che Dio voglia compiere in lei, mentre lei è pronta a tutto senza scegliere e
senza cercare altro”2.

Questo passo mi sembra importante e chiaro per ribadire che la scelta della rinuncia, della
mortificazione e il distacco, è la scelta non di non far nulla e porsi in una situazione in cui non si
sceglie più nulla, ma è la posizione di chi, proprio perché sceglie il nulla, diventa particolarmente
attivo. E questo vale anche per la mistica in senso proprio, cioè per quell’esperienza di Dio oltre la
soglia, in cui si è passivi alla sua presenza: è pur sempre vero che anche nell’esperienza passiva di
Dio, l’animo dev’essere attivo per il fatto che comunque l’uomo dev’essere lì impegnato con la
propria libertà e responsabilità. Dove non ci fosse autocoscienza, quindi dove non ci fosse capacità
di mettersi di fronte a Dio che si rivela, non ci può essere l’incontro mistico.
La raccomandazione della rinuncia, quindi, imbocca di per se stessa la strada della ricerca in
positivo di ciò che occorra fare per accogliere Dio che si rivela per grazia e con la sua grazia.
La lettera citata di M. Mectilde dà già un’indicazione in questa direzione, là dove suggerisce di
scegliere l’indifferenza: un suggerimento che M. Mectilde ricavava dalla tradizione, particolarmente
da quella ignaziana, che era uno dei due filoni portanti di tutta l’ascesi del XVII secolo
(Sant’Ignazio da una parte e San Francesco di Sales dall’altra sono i due autori dell’ascetica nuova,
«moderna», di cui il XVII secolo di Francia è impregnato). Indifferenza: non scegliere se non quello
che capisco essere il beneplacito di Dio nella situazione in cui mi trovo3.
Altrove M. Mectilde aggiunge altre indicazioni positive ma che hanno il valore di “disposizioni”.

Disporsi al combattimento spirituale.


Disposizioni dunque sono tutto ciò che la grazia opera nell’anima in dialogo con la situazione della
persona. Per cui ultimamente la disposizione è un effetto della grazia 4, ma al modo di un invito a
rispondere con un atto di virtù. Dicevo prima che, perché ci sia una disposizione, occorre farsi
ricettivi a Dio che si rivela con la sua grazia: alla grazia di Dio bisogna lasciare il primato.
Dall’altra parte però la persona è posta in una situazione e la situazione diventa il luogo in cui la
persona esercita la sua responsabilità: leggendo sé in situazione davanti a Dio, la persona deve farsi
ricettiva alla grazia.
La disposizione è il risultato del voler farsi ricettivi alla grazia in una situazione, che non è mai
neutra rispetto alla grazia stessa. E poiché il disporsi deve diventare sul serio un disporsi alla grazia
e non deve essere confuso con il disporsi a qualcos’altro che la grazia non sia, il discorso sulle
disposizioni si lega al discorso del combattimento spirituale. Leggiamo a questo proposito una
conferenza della Madre:

“Vivere ed agire secondo i propri umori è essere stupidi e rendersi indegni del nome di cristiani”.
Il nome di “cristiano” per la Madre ha la pregnanza della qualità ontologica per cui il nostro essere è
liberamente determinato da Gesù Cristo che abita in noi. Gesù Cristo abita in noi per grazia, per
dono, a partire dal battesimo, però appunto perché il nome di cristiano manifesti la sua potenzialità
nella vita e si traduca in un’esperienza spirituale occorre la disposizione adeguata. Qui c’è il rischio
di sbagliare se non si affronta con consapevolezza la situazione determinata da quello che siamo, da
quello che c’è attorno a noi, con quella vigilanza che la tradizione tratta sotto il tema del
combattimento spirituale:
2
Lettera a M. Françoise de Paul del 30 ottobre 1669 (n° 1079): testo francese in CATHERINE DE BAR, Lettres
inédites, Rouen, Bénédictines du St Sacrement, 1976, 306-307. Tr. it. nostra.
3
“…non significa diventare apatici o insensibili alla voce delle creature, ma distaccarsi, liberarsi dalle creature che
potrebbero ostacolare la visone die beni supremi, per una sempre maggiore adesione a Dio: distaccati dalle creature
perché a Dio appassionatamente attaccati. Non quindi semplice attitudine negativa, ma attenzione amorosa e piena
disponibilità al cenno del Signore”: P. SCHIAVONE in IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, Roma, Ed.
Paoline, 1984, 59 nota 13.
4
Cf l’ “incipit” della lettera n° 218 che citeremo più avanti..

3
“ Agire per passione, è fare del nostro cuore la tana del demonio che giorno e notte si aggira
attorno a noi per sorprenderci [disarmati] [1Pt 5, 8]. Egli non dorme mai, è sempre sveglio. Non è
come noi che dormiamo in molti modi” - quindi non ci disponiamo alla grazia perché la grazia
possa dare la forma al nostro essere. “E poiché egli conosce le nostre disposizioni dal nostro agire,
gli è facile di impadronirsi dei nostri cuori. Trovandoci così affondate nei cattivi umori, diventiamo
il suo trastullo. Cosa orribile! E questo per difetto di mortificazione e di repressione delle reazioni
del nostro io [lett: spirito] e perché non facciamo spazio allo Spirito Santo.
Mi direte: “Oh!…non ho grazia[sufficiente] per mortificarmi. Non posso disfarmi di questa cattiva
abitudine”. E’ una bestemmia dire così: non ho grazia [sufficiente]. La grazia non ci manca mai,
ma noi ci sottraiamo alla grazia con le nostre infedeltà. […] vogliamo che Dio faccia miracoli per
renderci perfetti senza che ci costi nulla!. No, no, non lo farà sicuramente. Ci ha dato delle regole,
sta a noi seguirle senza pretendere di volare senza le ali. Dio vi vuole piccola e voi volete essere
grande; vi vuole impegnata nella lotta contro una passione, una abitudine [cattiva] e voi vorreste
essere liberata senza lavorare. Dio ha legato la sua grazia e il suo aiuto alla piccolezza, alla
mortificazione, voi non troverete [grazia] che in esse.
Coloro che stanno lottando abbiamo pazienza e si facciano coraggio, sarebbe troppo grande
sfortuna per loro di morire così.
Facciamo ricorso a questo scopo allo Spirito santo. E’ opera sua la santificazione delle anime.
Diamoci a lui e abbandoniamoci alla sua guida. Perché secondo voi discese sugli Apostoli come
vento impetuoso [cf At 2,2]? Per insegnarci che quando di impadronisce di un’anima, rovescia
tutto, distrugge tutto, non sopporta nulla della creatura [che non sia trasfigurato dalla grazia]”5.

Questo è ciò che vuol dire disporsi alla grazia: fare in modo che la nostra libertà si orienti verso Dio
respingendo ciò che va in direzione contraria, e quindi permetta a quella qualità cristiana che ci è
donata nel battesimo di manifestare le sue ricchezze; permettere a Cristo, che abita in noi nello
Spirito, possa imprimere in noi il suo volto.

D’altra parte è pur vero che non tutta la vita cristiana si può riassumere sotto la categoria del
combattimento spirituale, così come è descritto da quest’esortazione che adesso ho richiamato: c’è
anche la situazione di chi ha già preso posizione netta per il Signore . Anche in questa situazione si
resta dentro un cammino di conversione, ma esso è posto spiccatamente dentro l’orizzonte della
grazia, esso è già in atto ma non è concluso, e che non potrà mai essere concluso quaggiù, perché
tutta la vita dell’uomo sulla terra, fino all’ultimo suo respiro, sarà luogo della conversione. C’è
insomma una fase della vita umana in cui il combattimento spirituale è esplicito, come diceva il
testo sopra citato, perché si tratta di prendere posizione tra lo stare per Dio o lo stare e/o contro di
Lui, scegliendo noi stessi. Ma c’è anche un’altra fase di assimilazione decisa ai valori del Regno di
Dio, che non mette al riparo dal peccato - tutti siamo battezzati, e quindi tutti siamo rinati alla
grazia, eppure in questa situazione di grazia non tutti sempre rimaniamo, ci troviamo a dovere
attraversare situazioni in cui si deve passare dal peccato alla grazia - ma in cui la logica del
cammino è diversa6.
E’ obiettivo insomma il problema di come aiutare e indirizzare le disposizioni dell’uomo che
collabora con la grazia, ma resta in via.

Vicissitudini delle disposizioni nella conversione continua già decisa.

5
Testo segnato con il n° 414a nello schedario generale, CC 106 nel “dossier Bayeux 1986”; tr. it. nostra.
6
Cf negli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola lo iato tra la «prima» e la «seconda settimana» e la duplice serie di
“Regole per il discernimento degli spiriti”, in «prima settimana» o in «seconda settimana». Sulla rilevanza della
spiritualità degli Esercizi nel secolo XVII, cf LOUIS COGNET, L’ascèse en France du XVIe au XVIIe siècle, in AA.
VV., L’ascèse chrétienne et l’homme contemporain, Paris, Ed. du Cerf, 1951, 71-92: 75-76.

4
Le disposizioni non gratificanti.
Come colui che ha già preso posizione per Cristo deve reagire alla differenza delle disposizioni che
la sua libertà, aprendosi alla grazia, sperimenta in sé? Infatti è pur vero che le disposizioni, il frutto
di sinergia tra libertà dell’uomo e dono di Dio, anche nella fase della libertà che si converte, non
sono sempre disposizioni gratificanti. Sono sempre disposizioni positive, perché lo fanno
camminare - la grazia muove a conversione! - ma non sempre sono disposizioni gratificanti. La
Madre ha un testo in cui affronta questo discorso, partendo proprio dal fatto che le disposizioni
nell’uomo sono quanto mai mutevoli e cangianti.

La “disposizione” per definizione è un atteggiamento dell’uomo di fronte a Dio, che non dura. Nel
XVII secolo si aveva molto presente il fatto che l’uomo non può definire sé di fronte a Dio in una
maniera duratura. Per contrasto, quando si voleva parlare di una configurazione relativamente
stabile dell’uomo di fronte a Dio e al suo dono – per quanto ciò può essere possibile, considerato
che la vita dell’uomo è sempre in divenire - , vi ci si appellava con il termine “stato”7. Bérulle aveva
insegnato però a considerare la questione innanzitutto dal punto di vista della cristologia, e solo
conseguentemente dell’antropologia. E’ lo stato dell’incarnazione del Verbo il cuore della sua
contemplazione e riflessione teologica, che è uno stato segnato anche dalla condizione umana
assunta. Cristo anche nella gloria mantiene in sé le tracce di quello che ha vissuto sulla terra, il
Cristo glorioso è colui che è passato realmente su questa terra. L’esperienza cristiana in quanto
chiede l’imitazione di Cristo chiede di assumere il volontario e cangiante porsi dell’uomo davanti a
Dio - la disposizione – in modo tale da ritrovarsi attivo non più in un seguito di atti, ma di durata,
da intendersi come “vita che è anche un riposo”8. Ma questo ideale è raggiungibile non per la via
dell’intensificazione degli atti quanto per la via dell’ “introversione essenziale”, del far coincidere
l’attività delle sue potenze con il movimento di relazione a Dio inscritto nel più profondo di lui
stesso”9, del “ ‘deporre’ in Dio, per scelta, le anime nostre con il voto di servitù”10.
Condividendo questo orizzonte spirituale, M. Mectilde insegna allora a valorizzare le disposizioni
che via via si sperimentano, a scoprirne l’origine e il fine cui tutte muovono, a fare di esse ciò per
cui l’assenso all’unione con Dio – cui Dio ci invita nel Figlio- non solo è possibile, ma trasforma
l’anelito e lo sforzo di perfezione in divinizzazione. E chiede tutto questo, in particolare, quando
l’esperienza cristiana sembrerebbe troppo difficile o faticosa.
La Madre scrive11:

“ E’ una necessità che la grazia sia variabile nei suoi effetti nell’anima e che essa porti [con sé]
differenti disposizioni, ora di fervore, poi di languore, ora di amore, poi di disgusto, ora di luce, poi
di tenebre, ora di gioia, e poi di tristezza. In breve, nella vita c’è una varietà di stati , alcuni
passeggeri, altri che durano più a lungo”.
Le disposizioni di languore, di disgusto, di tenebre, di tristezza, certo, non sono disposizioni
gratificanti, ma possono risultare disposizioni “positive”, se siamo in quella fase di scelta di campo
per Cristo già netta e definitiva, in quanto ciascuna di esse diventa una provocazione ad un atto di
virtù, in particolare a quell’atto di virtù che è fondamento e sintesi di ogni altro:
“ E questo avviene attraverso una sapienza tutta divina, per dare motivo all’anima di esercitare
differenti atti di virtù, adattarsi al caldo, al freddo, al bene, al male, e ai buoni a cattivi trattamenti,
E’ impossibile per l’anima disappropriarsi di se stessa se non attraverso queste diverse disposizioni

7
Cf la definizione di “stato” nella voce corrispondente di F. JETTE nel Dictionnaire de Spiritualité, IV, col.1378: “Si
tratta di una disposizione dell’anima di una certa durata, che dà alla vita interiore un colore particolare, per tutto il
tempo in cui essa persiste” (tr. nostra).
8
Cf P. COCHOIS, Bérulle et l’ École française, Ed. du Seuil, 1963, 75.
9
Ibidem.
10
Cf F. G. PRECKLER, Bérulle aujourd'hui 1575 - 1975. Pour une spiritualité de l'humanité du Christ (= Le Point
Théologique 25), Paris, Beauchesne, 1987, 58.
11
Lettera a Madame de Châteauvieux n°218, dal titolo : “La grazia diversificata nei suoi effetti”. La leggiamo nel
Bréviaire Supplément, dattiloscritto

5
e come vede che non c’è nulla di stabile permanente in tutto quello che essa possiede, essa non vi
si attacchi e gridi per esperienza:
O mio Dio! Solo voi siete, unicamente voi siete il solo che non cambiate mai!”.

L’atto di virtù che per M. Mectilde diventa riassuntivo di qualsiasi altro atto di virtù è quello per cui
l’uomo riconosce che non ha in sé nessuna consistenza, che l’unico che sussiste è Dio. L’uomo
infatti non ha nessuna consistenza da sé e per sé ma da Dio riceve la sua sussistenza. Per la Madre
tutte le disposizioni sono comunque positive, perché obbligano a confessare la signoria di Dio sulla
propria vita. Quindi obbligano a non attaccarsi a nessuna di queste disposizioni: l’ autocoscienza, la
decisione, la forma che si è data a se stessi, non può reggere da sé di fronte a Dio, ma si reggerà
nella misura in cui l’uomo accetterà di rispondere a tutte queste disposizioni transeunti con una
confessione reiterata della signoria di Dio.
Va da sé che confessare la signoria di Dio significa sconfessare il proprio dominio, anche nel campo
della propria stessa autodeterminazione: confessare la signoria d Dio significa dire che lui è il
padrone, non lo siamo noi. Significa risolversi per un atteggiamento di 360° di spogliamento dai
propri diritti verso se stessi, per affidare a Dio la bussola della propria vita, il diritto della propria
vita. Questo significa anche, e su questo M. Mectilde insiste parecchie volte, che nel caso in cui le
disposizioni siano gratificanti esse obbligano a accogliere i doni che sono fatti come doni di Dio
che rimandano a Dio stesso e che vanno gustati non fermandosi al dono ma risalendo al donatore.

Disposizioni emblematiche del cammino cristiano.


Ci sono delle disposizioni virtuose che segnano i passi di un cammino cristiano che sia di rinuncia
dentro la sequela? In alcuni testi M. Mectilde tenta di dirne qualcosa, esemplificando sulle costanti
del cammino di rinuncia che dà pienezza. Sono delle disposizioni virtuose e quindi sono il frutto di
una reazione della libertà dell’uomo alla grazia di Dio, che lo raggiunge nella situazione che
cambia; disposizioni di sé che, se coltivate, aiutare l’uomo concreto ad attraversare le vicissitudini
che lo toccano senza mai perdere l’orientamento per cui cresce - o comunque si persegue - una
rinuncia che faccia spazio a quello che Dio vuole fare in noi, con la sua potenza e con la sua
signoria.
Compare allora un’immagine che le è cara, l’immagine spaziale della “separazione” e la
“separazione” nel senso di “allontanamento” che completa quella in lei fondamentale –spaziale e
dinamica per antonomasia – del “cammino”.

M. Mectilde ama paragonare la vita a un cammino, un cammino con una traiettoria, una meta; un
cammino in cui si deve voler entrare. Ci sono tante strade nell’ esistenza, la vita cristiana è la scelta
di una certa strada, che si avvia quando si fa un certo passo - il primo passo - per entrare in questo
cammino. Si sceglie il cammino della sequela, si sceglie quel cammino, non se ne seguono altri, e
quindi ci si distanzia da altri, ci si distacca da altri, ci si separa da altri. Il valore della rinuncia libera
e decisa, consapevole di una direzione e di un inizio, è allora intrinsecamente legata all’immagine
del cammino. Ella ne parla quando commenta i vangeli della sequela 12 o la sua propria storia di
vocazione13, ma singolarmente anche ad un mistero mariano: il mistero della Presentazione di Maria
al Tempio.

Le disposizioni per l’inizio e il sostegno del cammino cristiano.


(a) La devozione di M. Mectilde al mistero della Presentazione di Maria al Tempio.
12
Cf per es. la vocazione di Andrea e di Zaccheo è commentata nella conferenza per la vigilia di sant' Andrea del 1662,
n° 21, nel “dossier di Bayeux” segnata CC 192; la vocazione di Matteo nel capitolo del giorno di S. Matteo (n° 419, CC
154); “Ecce nos reliquimus omnia” (Mt 19, 27 Vulg.) nella conferenza nella vigilia di Tutti i Santi dell' Ordine, anno
1663 (n° 883, CC 185).
13
Cf V. ANDRAL, Catherine de Bar M. Mectilde du Saint-Sacrement 1614-1698. Itinéraire spirituel, Rouen,
Monastère des Bénédictines, 1992, 2 éd., 18-21.

6
Probabilmente nella sua esperienza concreta, unica e irrepetibile, M. Mectilde ha vissuto qualcosa
di particolare legato alla festa della Presentazione della Madonna.
La vita religiosa presso le Annunciate le aveva insegnato a valorizzare questo mistero. Tra le messe
proprie che il p. Gilbert Nicolas aveva scritto per le sue “figlie” c’era la messa propria di questa
festa. Nel racconto di questo episodio tratto dai vangeli apocrifi, c’è un preciso riferimento al fatto
che Maria entra nel Tempio quando ha tre anni. E questa sua tenerissima età viene menzionata nel
formulario14 di quella messa propria (oggi noi celebriamo ancora questa memoria liturgica ma senza
alcun riferimento cronachistico). Riferendosi a questo particolare anagrafico la Madre ricorda
l’episodio alle sue “figlie”15. Questa influenza formativa non spiega però tutto.
Ho rilevato due indici che inducono a pensare come la sottolineatura particolare di questo mistero
nella di lei devozione non possa attribuirsi a una scelta intellettuale. Cito una confessione di M.
Mectilde alla fine della sua vita: “La gioia non è un sentimento ordinario per me” - afferma –
Eppure, nonostante ciò , non ho potuto fare a meno di provarne una molto sensibile riguardo alla
Presentazione al tempio della santissima Madre di Dio …il più grande diletto che Dio ha provato
riguardo a questa creatura pura ed innocente è stato il ritrovarsi in lei. Vi si è visto come in uno
specchio e la gioia che ne ha tratto è stata così grande che egli la guarda ancor oggi con tanta
compiacenza come se non l’avesse mai vista …La gioia di Dio in questo incontro è stata la mia
gioia ”16. Vent’anni prima, nel 1677, quando si trovava a Rouen per fondare quella Casa, fece un
discorso in Capitolo per la fondazione, appunto, e in quell’occasione spiegò alle sorelle che avrebbe
fatto un atto particolare di dedicazione alla Madonna del nuovo monastero nella festa
dell’Immacolata Concezione, che sarebbe caduta lì a poco. E commenta, però, quasi parlando tra sé:
“Sono meravigliata che non me ne abbia data l’idea il giorno della sua Presentazione ”17. Queste
due confessioni autobiografiche ci aprono uno squarcio sul vissuto della madre, ci fanno capire che
in lei, al livello della conoscenza esperienziale ed insieme ineffabile di Dio, c’era qualcosa che era
legato a questo mistero della Presentazione.

(b) I testi di M. Mectilde su questa festa.


Questa festa liturgica celebra il momento in cui Maria lascia la casa per andare nel Tempio a servire
Dio. Maria sceglie la propria strada, che è quella dello stare nel Tempio, dove – spiega M. Mectilde
- , ciò che fa è “piacere a Dio”. Tutta la sua libertà, tutte le sue doti, sono impiegate per “piacere a
Dio”; e in vista di questo fine, fa una scelta di separazione. Per quale motivo? Maria, preservata dal
peccato in previsione dei meriti di Cristo, non compie certo questa scelta a motivo del desiderio di
distanziarsi dal peccato lui. Per di più, ha solo tre anni e - rimarca M. Mectilde - si distanzia da una
situazione che non è per nulla peccaminosa.
Ci sono dei testi della Madre in cui ella mette in guardia circa le situazioni relazionali interpersonali
come tali, che sono guardate un po’ con sospetto perché nelle relazioni interpersonali si possono
infiltrare interessi privati e motivazioni, ed azioni peccaminose 18. Ma la meditazione
sull’abbandono della famiglia da parte di Maria santissima, la obbliga ad asserire proprio il
contrario; la Madonna entrando nel Tempio, perché lascia dei santi genitori, Gioacchino e Anna,
che erano – dice - davvero santi.
14
Cf Oratio: Deus qui sanctam genitricem Dei Mariam templum Spiritus Sancti post triennium in templum Domini
presentari voluisti, praesta quesumus ut, qui eius Presentacionis festa reveremur, templum in quo habitare digneris
efficiamur: «La France Franciscaine» t. X, 1927, 110-114: 112.
15
Cf conf. del 20 novembre 1663: “…la santissima Vergine abbandona tutto per seguire il Signore che la conduce nel
tempio. Sì, essa vi è condotta dallo Spirito di Dio, in quanto quell’agire di Maria non è l’atto di un fanciullo di tre anni;
è infatti in questo giorno che essa fa voto di verginità”. Citeremo ampiamente questo testo più oltre.
16
Cf l’ “entretien” del 21 novembre 1696, n° 2120, parzialmente tradotto in CATHERINE MECTILDE DE BAR,
L'anno liturgico, Glossa, Milano 1997, 12- 13.
17
Cf il “capitolo” n.° 3155, che si può leggere in tr. it. in GENOVEFA GUERVILLE, Catherine Mectilde de Bar. II.
Uno stile di «lectio divina» nella tradizione monastica, Roma, Città Nuova ,1989, 204 – 209: 209
18
Cf per es. CATHERINE MECTILDE DE BAR, Lettere di un'amicizia spirituale (1651-1662). Madre Mectilde de
Bar a Maria di Châteauvieux, Milano, Ancora, 1999, 220-229 (= lett. n° 3089 a Mme de Châteauvieux, su “I cattivi
effetti che tutte le creature producono nell’anima”).

7
Questo mistero della Presentazione di Maria al Tempio dà allora motivo per una riflessione
approfondita sul movimento della libertà umana che accoglie il dono di Dio: movimento di
rinuncia, di separazione, di scelta per Dio e di un cammino deciso per lui, lasciando non solo il male
ma anche il bene, se nel concreto un certo bene non è visto come rispondente al cammino di sequela
confacente a ciascuno. Ma per vivere così occorre curare alcune disposizioni.

Due sono le conferenze datate tenute dalla Madre per questa festa che ci sono state trasmesse 19.
Sono testi del periodo fondazionale per antonomasia - gli anni 1662-166320 -; testi sintetici della
sua dottrina ma anche della sua esperienza. Da questo nesso tra dottrina ed esperienza viene fuori la
lezione che serve a tutti noi, monache e non. Si dovrebbero poi considerare: uno scritto (una
lettera?21) dal titolo: “Per la festa della Presentazione”, n° 1689, CC 188; un altro senza titolo – ma
che secondo il ms Cr A segue senza soluzione di continuità la conferenza del 1663 - , ora segnato
col n° 1885, CC 190; la “conferenza” [il titolo è così generico, manca qualsiasi altra specificazione]
n° 2467, CC 19122. Inoltre, alla conferenza del 1662, Cr A fa seguire una “Orazione alla santissima
Madre di Dio per il giorno della Presentazione”.
Propongo qui la conferenza tenuta alle monache la vigilia della festa, il 20 novembre 1663,
leggendone e commentandone alcuni stralci. Da essa ricaveremo l’elenco delle quattro disposizioni
di Maria che entra nel tempio, da valorizzare come le disposizioni del cristiano in quanto tale. Esse
infatti discendono da ciò che porta in sé il cristiano, Dio che lo inabita.

(c) Le quattro disposizioni di Maria che entra nel tempio


“Mie sorelle, voi siete già come la santissima Madre di Dio nella casa del Signore. Vi rimane
però di entrare nel tempio della vostra anima, che è stata consacrato alla santità di Dio nel
momento della sua creazione e dopo con il santo Battesimo. Tutti vi possono avere ingresso: è
questione di lasciare tutte le cose esterne ed entrare nella propria interiorità”. Qui abbiamo tutti
gli elementi sempre in gioco nella relazione tra la grazia divina e la libertà umana: il fondamento di
grazia, nel fatto che si è recettivi del dono ricevuto, dono di creazione e di consacrazione
battesimale; la normatività della rinuncia; il suo compiersi assolutamente libero in quanto la persona
pone la sua identità e responsabilità al livello ultimo della sua consistenza personale, là dove
incontra Dio in sé. Come guidare allora la propria vita e libertà perché nel “segreto” [cf Mt 6, 4. 6]
la persona incontri Dio e da lui riceva la piena realizzazione di sé? Curando alcune disposizioni:
“Entriamo, mie sorelle, ma tutto questo avvenga con le quattro disposizioni della Santa Vergine.
1. Con una profonda umiltà, con un grande rispetto per la Maestà di Dio, ma rispetto che inabissa
e annienta - la disposizione è libertà che si modifica, mettendosi di fronte a Dio -
2. Con un’adorazione perpetua per questa grandezza e santità infinita che risiede in noi.
3. Con un amore ardente e perfetto ma perseverante per la sua santa bontà.
4. Con una sottomissione intera a tutte le sue divine volontà”.

Il tutto si potrebbe sintetizzare nella richiesta di una sequela che faccia spazio alla signoria di Dio
tramite la rinuncia a sé. Per declinare senza illusioni una tale sequela nel tempo, il cammino va
voluto e deciso con una scelta di campo, che bisogna compiere e si data nell’esistenza personale:
bisogna porsi là, entrare là, dove il cammino prende avvio. Ma poi il cammino va sostenuto non con
una sola disposizione ma con un insieme di disposizioni per cogliere con senso della storicità il
dispensarsi della salvezza. Qui ne sono menzionate quattro, ciascuna - a modo proprio -
modulazione della relazione con Dio come realtà vivente, che si offre alla conoscenza
19
Cf conferenza della vigilia della Presentazione della santa Vergine al Tempio, 21, novembre 1663, n° 1050, CC 187
e conferenza per la Presentazione della santa Madre di Dio, 1662, n° 233, CC 189.
20
Siamo – si potrebbe dire - all’ indomani del ritiro spirituale della Madre capitale per l’enucleazione del carisma di
fondazione dell’Istituto, ritiro che durò dal 21 novembre 1661 al 2 febbraio 1662.
21
Il ms di Varsavia p. 339 ce la tramanda come «conferenza» e ne dà una stesura più lunga di quella conservataci dal
ms Br. 3 p. 93 (informazione gentilmente fornita da sr Blandine di Varsavia)
22
Sr Blandine fa però notare che il “fichier” dell’archivo di Rouen ne trasmette la data: 20 novembre 1694.

8
manifestandosi (Dio si comunica alla persona, perché l’umiltà è in corrispondenza con la maestà di
Dio, l’adorazione è la risposta alla grandezza e santità infinita di Dio riconosciute nel suo agire per
noi, l’amore è in corrispondenza al fatto di essere lui sommamente desiderabile). Anche la
sottomissione alle sua divine volontà diventa il dire di sì a questa presenza che ha fatto spazio nella
libertà e ha chiamato la libertà a rispondere.

Continua la Madre nel suo discorso: “Ma che cosa fa nel Tempio? Vi pratica in modo elevato e
perfetto tutte le virtù. Nel Tempio Maria è dolce, generosa, caritatevole, sempre occupata di
Dio…”. Da notare: non c’è appello volontaristico all’impegno ascetico, all’impegno virtuoso
dell’uomo, ma neanche c’è appello ascetico, nel senso corretto di invito alla risposta al dono di
Dio, che sia fatto riposare meccanicisticamente sulla convinzione – per altro utile e vera - che la
nostra risposta è retta dalla grazia di Dio. No, la Madre pone davanti alle “figlie” – quale meta – la
pratica delle virtù di Maria, ma spiega loro che, per arrivare a praticare le virtù, occorre praticare le
disposizioni. Anche quantitativamente nei testi di M. Mectilde ritorna massiccio il riferimento alle
disposizioni piuttosto che il riferimento alle virtù. Se entrambe sono accomunate dall’esercizio di
atti liberi, il privilegiare il discorso sulle disposizioni rispetto a quello sulle virtù obbliga a non
sopravvalutare la distinzione tra virtù morali acquisite e virtù soprannaturali infuse, a danno della
descrizione del corretto atteggiamento virtuoso: esso “ha una presenza unitariamente integrata di
virtualità umana e caritativa, di potenzialità biopsichica e soprannaturale, di iniziativa propria e
dello Spirito. La virtù soprannaturale esplicita la sua potenzialità come se questa sorgivamente
affiorasse dal profondo della virtualità umana virtuosa. La virtù infusa si evolve entro un processo
di crescita e di sviluppo, anche se questo suo crescere s’attui sempre ed esclusivamente come
ulteriore dono di Dio in Cristo. Il cristiano si limita a disporre il proprio animo ad accogliere il
progredire della virtù soprannaturale: unicamente può preparasi a ricevere fruttuosamente da Dio
l’aumento della virtualità della grazia”23. M. Mectilde esprime con radicalità tutto questo in quei
contesti in cui spiega come le virtù dell’uomo sono in realtà virtù di Cristo nell’uomo 24. Per questo
non costella i suoi discorsi di richiami alle virtù, ma propone una visione dell’uomo credente che
obbliga la persona che la ascolta a guardare a se stessa di fronte a Dio, per capire che cosa deve
correggere perché il frutto buono nasca dall’albero buono.

Riguardo alla quarta disposizione raccomandata, quella della “sottomissione a tutte le divine
volontà”, abbiamo che la Madre introduce una considerazione che spazza via la facile illusione –
già più sopra richiamata – dell’identificazione tra salvezza e benessere. Ci potrebbe essere
l’illusione che le disposizioni corrette di fronte al dono di Dio siano sempre disposizioni
gratificanti. Si potrebbe pretendere da Dio che, per essersi messi sulla sua strada, volendogli
affidare la propria vita, poiché si ha cura di disporre la propria libertà di fronte a lui nel modo
corretto, allora Dio debba assicurarci il benessere! La disposizione è sempre positiva in quanto fa
camminare nella fede e avanzare nella virtù, ma non è sempre gratificante. Il frutto della
sottomissione a Dio, non è automaticamente la pace: l’esperienza cristiana può riservare – pur
nell’adesione alla volontà di Dio - sofferenze, tenebra, angustie ecc. Perché questo non infirma –
per sé- il carattere cristiano dell’esperienza? Perché anche la Madonna ha vissuto tutto questo!
“Non crediate che essa sia stata esente da sofferenza e da pena; anzi, ne sopporta di molto rigore.
Non che essa abbia dato adito in sé a qualche ribellione contro la virtù come accade in noi, perché
non avendo avuto il peccato originale, tutto è stato regolato e sottomesso a Dio nella sua
interiorità. Però ha patito delle dolorose pene nei confronti del suo Figlio Gesù e delle grandi
angustie per il fatto che Dio le nascondeva i comportamenti che egli voleva tenere in tutta la sua
vita terrena. Non pensereste voi che se Dio le avesse rivelato che avrebbe partorito in una stalla,
lei non avrebbe provveduto in qualche modo se le fosse stato possibile, prima di partire da

23 23
T. GOFFI, Virtù morali, Dizionario teologico interdisciplinare, Torino, Marietti, 1977, vol. III, 548-563: 557.
24
Cf ad es. CATHERINE MECTILDE DE BAR, Lettere di un'amicizia spirituale, 134 (nella lett. n° 2054 [n. 22 ed. it.
del “Breviario”] di Mme de Châteauvieux, dal titolo: “La necessità che abbiamo di conoscere Gesù Cristo”: 130-139).

9
Betlemme, allo scopo di accogliere il Dio fatto bambino, con qualche accorgimento di decenza e di
comodità? Oh, senza dubbio!”.
La signoria di Dio sulla storia è segnata da una irriducibile trascendenza: pur dandosi un incontro
corretto tra la libertà umana e il dono di Dio, rimane una distanza tra i due interlocutori e questa
distanza è quello che fa soffrire l’uomo, anche nei casi in cui non vi entra la ribellione del peccato.
“Il santo Vangelo ce la fa vedere tutta afflitta e nell’angoscia nel momento in cui smarrisce il suo
caro Figlio nel tempio: ciò che caratterizza questo mistero le era stato nascosto. Dio la conduceva
per le vie di tenebre e di angustie, e alle quali si era sottomessa in modo perfetto. Questa è
l’ordinaria condotta che Dio riserva alle anime che lo seguono”.
Ecco però il paradosso proprio della beatitudine cristiana:
“Ma che cosa capita, che cosa dà a coloro che hanno abbandonato tutto e che lo hanno seguito
fedelmente? Oltre la beatitudine che loro riserva nel Cielo, dà il centuplo in questa vita. Che cos’è
il centuplo? E’, o mie sorelle, Gesù Cristo questo beato centuplo. Oh! Quale bontà: ah! Quanto è
poco conosciuto e quante cose varrebbe mai la pena di fare per possedere questo tesoro il quale è
di un prezzo infinito!”
Intuisce la Madre che nel suo uditorio c’è chi non condivide la sua affermazione , non nel senso
della fede professata – tutte sanno che è promessa evangelica il centuplo quaggiù e l’eternità [cf Mt
19, 29], ma nel senso del disincanto pratico: per molte “figlie” è difficile identificare questo
centuplo nel loro vissuto. Cerca di aiutarle, allora, ricordando loro un insegnamento che sa essere
stato impartito, propriamente una distinzione proposta dalla teologia scolastica.
“Voi mi domanderete se questo possesso è possesso di Gesù Cristo in se stesso oppure si tratta
della sua santa presenza? Per non provare quelle disposizioni di tenebre e di angustie
bisognerebbe possedere Gesù Cristo in se stesso”. Ma “il possesso di Gesù Cristo in se stesso” ,
cioè l’ entrare nella vita di Dio in quanto Dio, al di là di ciò che può essere la nostra conoscenza ed
esperienza umana, è riservato all’ al di là della barriera della morte, è per la gloria. “Però, questo
non vuole dire che non si possa conoscere Gesù Cristo in quanto presenza”. Conoscere la presenza
di Gesù Cristo è il dato d’esperienza che può andare assieme a quel vissuto non gratificante, che
passa attraverso le tenebre e l’angustia. Ultimamente ciò è giustificato perché è la presenza
dell’ineffabile che entra nelle categorie umane. L’esperienza dell’assenza è il segno della
trascendenza dell’incontro con Dio.
Ci sono dei motivi legati anche alle creature, alla persona che vive l’esperienza di sequela, motivi
che possono spiegare questa esperienza paradossale:
“… dipende in parte dalle disposizioni interne delle anime e dalle purezza del loro intimo, perché
là dove si trovano meno creature Dio è più presente e il grado di unione è secondo il grado di
separazione. Se la separazione è perfetta e totale, noi diciamo che l’unione è perfetta”.
Resta vero però che l’ultima parola là dove c’è la presenza di Gesù, è la beatitudine: “Quand’anche
questa separazione non ci meritasse che di godere della presenza di Gesù Cristo, non sarebbe forse
un bene così grande da obbligare ad abbandonare tutto?”

E qui il testo ci conserva una perla, da annettere ipoteticamente all’autobiografia di M. Mectilde:


“Per quanto mi riguarda, ve lo confesso, soffrirei volentieri il fuoco e le fiamme più ardenti e
crudeli”.
L’esperienza della Madre è quella delle angustie e delle tenebre, un’esperienza così terribile che il
fuoco e le fiamme sarebbero meglio. Ma ciò che conosce di Dio in Cristo in questa sua esperienza è
tale da giustificare e superare tutto. Per essa è emblematico è un testo, tratto da una lettera alla
Contessa di Châteauvieux, cui mi piace pensare come ad un canto, “Il canto del santo nome di
Gesù”(mi sembra che regga una trascrizione attenta al ritmo litanico in essa identificabile 25).

25
La litania – è stato detto - è l’ “unico genere letterario che conviene all’amore” (cf J. HARANG, La spiritualité
bérullienne, Chambray, CLD, 1983, 26).

10
La Madre sta cercando di rispondere alla lettera della corrispondente, ma lo scritto è continuamente
interrotto dallo sfogo lirico della sua anima verso Gesù, per cui continua a ripetere, scrivendo, il
nome di Gesù. Propriamente scrive: “Gesù Cristo”, non solo: “Gesù”. Dalla teologia biblica
sappiamo – l’uso paolino fa scuola - che pronunciare “Gesù Cristo” significa riferirsi all’uomo
Gesù, Figlio di Dio, in quanto con la sua umanità è il Signore. “Gesù” è semplicemente l’
appellativo inerente a quell’uomo assolutamente singolare che fu Gesù di Nazareth. Dire “Gesù
Cristo”, invece, alla maniera di Paolo, significa avere presente tutta la sua vicenda umana, ma
trasfigurata dalla Risurrezione, dallo spiegarsi in essa singolarmente della signoria di Dio per cui a
lui va riconosciuta la dignità di Cristo/Messia26.

“Oh! Com’è grande,


com’è santo,
com’è amabile e adorabile!

Il santo nome di Gesù è così dolce e soave


che ci si delizia a pronunciarlo.
O Gesù Cristo,
Gesù Cristo,
Gesù Cristo,
siate in noi e riempiteci totalmente di voi!

Gesù Cristo è
la vita della vostra vita,
lo spirito del vostro spirito e
l’anima della vostra anima.

Se Gesù Cristo non fosse in voi,


non sarete ciò che siete.

Adorate dunque Gesù Cristo come


vostra vita,
vostra anima e
vostro spirito,

cioè vedete più Gesù Cristo in voi


di quanto non vediate voi stessa.
Non dobbiamo più guardare nulla se non con gli occhi di Gesù,
non desiderare che attraverso i suoi desideri,
non amare niente che attraverso il suo amore.
Essere tutta rivestita di Gesù Cristo27,
come dice san Paolo, quell’innamorato degno di
Gesù Cristo”28.

Per concludere.
Non s’illude la Madre di poter colmare la distanza, rimanda all’ al di là il possesso di Gesù Cristo in
se stesso. Ma l’esperienza della presenza di Gesù – presenza trasformante dell’uomo che si può

26
Cf L. CERFAUX, Cristo nella teologia di S. Paolo, Roma, AVE, 1979 (tr. it), 423-426, il quale più precisamente
distingue la valenza delle due formule: “Gesù Cristo” e “ Cristo Gesù”. Nel primo caso – osserva - la considerazione
parte dall’uomo Gesù riconosciuto Cristo, nel secondo dal Cristo eterno che si è manifestato nel tempo.
27
Cfr. Rm 13, 14; Gal 3, 27.
28
Cf n°674 (cf LA n. 18, tr.ns.)

11
porre in Dio per Lui, con lui, in Lui – è tale che la vita è già trasfigurata. I testi di M. Mectilde
sono la testimonianza che fare un’esperienza di Cristo non significare fare esperienza quaggiù del
passare dalla Croce alla Risurrezione, ma convincersi che l’orizzonte della Croce e della
mortificazione va assunto e che in esso si conosce in un certo modo - ciascuno secondo la sua
situazione e le sue disposizioni - , un anticipo della Risurrezione. Questo è riaffermato da una parte
con l’insistenza circa il richiamo alle disposizioni, che vuole farci avvertiti sulla complessità di ciò
che gioca in noi di fronte a Dio, ma anche sulla possibilità che abbiamo di metterci di fronte a Dio e
realizzare questa sinergia tra noi e lui in cui la sua potenza in noi è salvezza. D’altra parte, i testi
consegnano a noi la testimonianza dell’esperienza che M. Mectilde ha fatto, e ci incoraggiano
quindi con la forza che viene dal poter incontrare un testimone: la dottrina dei suoi testi dipende
chiaramente dal suo itinerario di mistica dell’assenza, in cui è di casa la sofferenza e le disposizioni
sperimentate sono negative, ma esse conferiscono alla sua vita una pienezza che è giustificata solo
dal compiersi della promessa evangelica. In questo senso l’esperienza cristiana di M. Mectilde
conosce la gioia.

La gioia per M. Mectilde che cosa è? La gioia si trova nel gioire per quello che Dio fa.
“Dio mio, gioisco per la tua santità divina
e perché tutti i santi ne sono l’effetto.
….
Perché volere che Dio
si abbassi fino a soddisfare i vostri sensi?
Dovete imparare a trovare Dio in se stesso
e a porre la vostra compiacenza nella soddisfazione che egli ha
di abitare nella sua santità.
Quando nel vostro più profondo [interno] vi accorgete che
lì Dio è diventato inaccessibile,
dovete restare nascosta nel nulla e,
mentre sarete nascosta in tal modo,
la grandezza divina getterà il suo sguardo verso di voi.

Io provo
una profondissima e grandissima
gioia nell'anima
vedendo
che Dio può essere compreso soltanto da se stesso,
che dobbiamo perderci e inabissarci in lui,
e assolutamente non spulciare le sue qualità divine”29.

La mia gioia è che Dio sta agendo, agisce per mezzo di Gesù Cristo. Godo che Dio è Dio e che nella
sua santità opera nell’anima. Godo di lui perché c’è, perché è attivo e potente; godo – nota bene - di
sapere che lui è lui, perché c’è questa distanza tra me e lui ma che mi garantisce che lui, non una
chimera della mia immaginazione, si chini su di me.
La gioia è per chi gode non perché “ha Dio”, riducendo Dio alla sua misura umana, ma per chi sa
godere di ciò che Dio è, Dio in se stesso.
M. Mectilde invita a lasciar essere Dio quale Dio, disponendoci però davanti a lui come lui vuole, e
scommette su questo la riuscita e la pienezza della sua – e nostra - esperienza cristiana.

29
Cf n. 9

12

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