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Quaderni dell’Istituto di Scienze del Linguaggio • 11

UNIVERSITÀ IULM
Libera Università di Lingue e Comunicazione
Quaderni di Scienze del Linguaggio

1. D. Antelmi, G. Garzone, F. Santulli, Lingua d’oggi. Varietà e tenden-


ze.
2. D. Antelmi, Fisiologia e patologia dell’apprendimento linguistico.
3. F. Santulli, L’interferenza. Lezioni.
4. M. Cislaghi, A. Filippin, G. Rocca, F. Santulli, A. Zagatti, O Padre
nostro che ne’ cieli stai, a cura di M. Negri.
5. F. Santulli (a cura di), La linguistica tra naturalismo e storicismo.
Antologia di testi.
6. G. Rocca, Lezioni di glottologia. Temi ed esercizi.
7. G. Garzone, F. Santulli, La voce e la macchina. Fonetica, glottodi-
dattica, multimedialità (con CD-rom).
8. M. Negri, L’enigma della cifra.
9. S. Vassere, Legislazioni linguistiche contemporanee.
10. L. Airaghi, Le astuzie di Eva. Cenni di crittografia e crittoanalisi.
11. G. M. Facchetti, Antropologia della scrittura.
12. G. Rocca, Itinerari etnico-linguistici in Sabina.
13. M. Negri, EPI OINOPA PONTON. A Itaca nell’età degli eroi (con un
contributo di Ida Ruffoni su “Le navi di Omero”).
14. D. Antelmi, G. Rocca, Materiali ed analisi di testi.
15. C. Sessa, Itinerari di cultura alimentaria arbëreshe.
16. G. Rocca, Itinerari etnico-linguistici tra Marche e Abruzzo.
17. S. Vassere, Legislazioni linguistiche contemporanee. 2004.
18. P. Biavaschi, G.M. Facchetti, G. Rocca, Miscellanea italica.
19. M. Negri, Storia di Parole. Con un contributo di Clelia Sessa su “Il
nome della pizza”.
20. M. Treu, Cosmopolitico. Il teatro greco sulla scena italiana contem-
poranea.
21. G. Sarullo, Esercizi di Fonologia dell’inglese.
22. M.Giovini, Un conflictus terenziano del X secolo: il Delusor. Pre-
fazione di Ferruccio Bertini
23. E. Notti, Lo spazio circolare nelle culture dell’Indeuropa.
Presentazione

Questo libro ha, senza dubbio, un titolo “pesante”. Con


Antropologia della scrittura Giorgio Raimondo Cardona inaugura-
va, più di venticinque anni fa, l’interesse della linguistica italiana
per il versante grafico del codice comunicativo fondamentale.
L’averlo ripreso è, in limine, anche un doveroso omaggio.
Come le lingue, così le scritture obbediscono a leggi generalis-
sime – ed è questa circostanza che potrebbe autorizzarne appunto
una trattazione “antropologica” Ma, a differenza delle lingue, le
scritture comportano anche problemi di ardua specificità, che coin-
volgono competenze di norma eccedenti quelle del linguista (pur
non potendo d’altro canto prescinderne). Ed è questa doppia com-
petenza a selezionare i pochi – almeno in Italia – studiosi capaci di
affrontare il tema generale attraverso la necessaria conoscenza di
(almeno) alcuni dei suoi aspetti particolari.
Facchetti ha competenze di alta specializzazione nelle scritture
egee (mi sento di testimoniarlo di persona) e (per autorevoli e una-
nimi consensi) nell’etrusco. E’ fra i pochi che partecipano da prota-
gonisti alle ricerche sul rongo-rongo. Su altre scritture (come quel-
la di Harappa e il maya) si muove con sicurezza. Di molte altre
(come il geroglifico egiziano) ha buona competenza.
Quando ho individuato nella storia della scrittura l’ambito su cui
fondare la mia ultima attività didattica, non ho avuto dubbi nel rico-
noscere in Giulio Facchetti il collega che avrebbe potuto condivi-
dere con me la fatica gratificante di condurre i nostri studenti attra-
verso tempi e per luoghi remoti, sulle tracce della sua invenzione.
Anche per questo fine Facchetti ha scritto questo libro che, ripren-
dendo il titolo del lavoro aurorale di Cardona, lo condivide anche
con il mio – ma mi sento di dire “il nostro” – insegnamento.

Mario Negri
Milano, Marzo 2007
GIULIO M. FACCHETTI

ANTROPOLOGIA DELLA
SCRITTURA
Con un’appendice sulla questione
del rongorongo dell’Isola di Pasqua

Milano 2007
© 2002 Arcipelago edizioni
Via Carlo D’Adda, 21
20143 Milano
[email protected]

Prima edizione: ottobre 2002


Seconda edizione: settembre 2007

ISBN 88-7695-238-1

Tutti i diritti riservati

Ristampe:
7 6 5 4 3 2 1 0
2012 2011 2010 2009 2008 2007

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata,


compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
Les hommes qui ont inventé et
perfectionné l’écriture ont été de
grands linguistes et ce sont eux
qui ont créé la linguistique.
ANTOINE MEILLET
INDICE

AVVERTENZA TERMINOLOGICA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11
PRESENTAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13

CAPITOLO 1
Tipi di scrittura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15

CAPITOLO 2
Origine e diffusione della scrittura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37

CAPITOLO 3
Scrittura ideografica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93

CAPITOLO 4
Scrittura fonetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127

CAPITOLO 5
Scrittura come tradizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 145

CAPITOLO 6
Da leggere e da capire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 161

Lista delle abbreviazioni bibliografiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 185

APPENDICE
Kohau rongorongo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 187
AVVERTENZA TERMINOLOGICA

Per evitare equivoci ho ritenuto utile premettere al lavoro


una breve nota con la precisazione del senso con cui certi ter-
mini tecnici sono stati da me uniformemente impiegati.

determinativo: grafema usato per agevolare la definizione


del significato di una determinata sequenza scritta (di solito di
una parola); in origine il determinativo fu introdotto per eli-
minare possibili letture ambigue, ossia come ausilio semanti-
co scritto in caso di omofoni od omografi; i determinativi non
sono letti.

grafema: unità minima del sistema di scrittura (cioè ogni sin-


golo segno autonomo).

grafo: ogni realizzazione concreta del grafema-modello


astratto.

ideogramma: sinonimo (da me poco impiegato) di logo-


gramma (v. Pope 1978, p. 275; Cardona 1986, p. 274). Il ter-
mine è comunque ambiguo perché alcuni lo intendono come
sinonimo di pittogramma (cfr. Pope 1978, p. 275). Altri distin-
guono invece l’ideogramma, come grafema evocante il signi-
ficato di un segno linguistico, dal logogramma, come grafema
evocante il significante di un segno linguistico (Roccati, in
Negri 2000b, p. 62); riguardo a questa distinzione definitoria,
in effetti concernente l’impiego dell’ideogramma-logogram-
ma, io ho adottato, rispettivamente, “logogramma” (o “ideo-
12 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

gramma”) tout court e “logogramma (o ideogramma) usato


come fonogramma”.

logogramma: grafema indicante un’intera parola (per es., nel


nostro sistema: $, +, 3). In questo libro il termine in questio-
ne è impiegato come sinonimo preferenziale di ideogramma
(per usi differenti v. alla voce “ideogramma”). Le abbrevia-
zioni sono fonogrammi impiegati come logogrammi.

fonogramma: grafema indicante una sequenza fonica della


lingua. Talvolta per indicare un suono minimo della lingua è
necessario impiegare più di un grafema assieme (si parla allo-
ra di “digrafi” o “trigrafi”).

pittogramma: componente di una pittografia. Molti usano il


termine “pittogramma” per indicare i logogrammi che ripro-
ducono graficamente, in modo riconoscibile, la forma del
referente della parola significata o la forma di un oggetto che
richiama detto referente; in questo libro ho qualificato casi
simili come “logogrammi iconici”.

pittografia: esperienza prescritturale consistente in una com-


posizione di pittogrammi, la quale fissa il contenuto di un
messaggio senza riferirsi a una precisa forma linguistica, a un
enunciato parlato.
PRESENTAZIONE

Il presente testo fornisce alcune informazioni generali sui


principali sistemi di scrittura impiegati nel corso dei secoli, e
ancor oggi, dalle più diverse civiltà, illustrati e ordinati secon-
do le varie tipologie (fonetiche, ideografiche) alla base del
funzionamento di ciascuno di essi.
Si intende così fornire un ampio quadro di riferimento sto-
rico e culturale specialmente a chi, per la prima volta, si avvi-
cina alla conoscenza di forme di scrittura diverse da quella
alfabetica.
L’individuazione di notevoli analogie tra meccanismi e
procedimenti di trascrizione molto lontani e indipendenti e lo
studio di alcuni aspetti peculiari dei fenomeni di creazione e
di adattamento rivelano, anche nella diffusione della tecnica
scrittoria, risposte simili ad esigenze analoghe.
Gli sviluppi diacronici, pur fortemente ostacolati da un tra-
dizionalismo ortografico in genere assai radicato, hanno
manifestato, e manifestano, tendenze dirette alla ricerca di
una trascrizione della lingua parlata più semplice, precisa e
meno ambigua possibile, obiettivo raggiunto con la scrittura
alfabetica che, non a caso, oggi è la più diffusa, avendo spes-
so soppiantato sistemi scrittòri anche molto antichi e gloriosi.
D’altro lato il conservatorismo ortografico, che è, di per sé
e in misura maggiore o minore, un carattere congenito e ten-
denzialmente ineliminabile di qualsiasi forma scritta di una
lingua, non ha mancato e non manca di incidere profonda-
mente su lingue scritte alfabetiche di grande tradizione e
14 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

importanza (per esempio l’inglese e il francese), determinan-


do uno scollamento molto vistoso rispetto alla lingua parlata,
il cui incessante e forte mutamento (mor)fonologico, non rie-
sce a essere adeguatamente registrato dall’uso scritto comune
e ufficiale.
In linea di principio la scrittura si può considerare come un
codice secondario, avente cioè per contenuto l’espressione di
un altro codice (il modello risulta più chiaramente e imme-
diatamente applicabile a quelle che definiremo come “scrittu-
re fonetiche”):

SCRITTO <uovo> : [«wø…vo]


(espressione) (contenuto)

PARLATO [«wø…vo] : “uovo”


(espressione) (contenuto)

La scrittura, dunque, si può concepire come l’espressione


(più o meno approssimativa) di pronunce che sono a loro
volta espressione di un altro contenuto (il significato del
segno linguistico).
Inoltre, rispetto alla lingua parlata, la lingua scritta può
essere intesa in due accezioni diverse.
In un primo senso per “lingua scritta” si intende “lingua
letteraria”, come insieme di forme e costruzioni tipiche del
linguaggio scritto e impegnato e in opposizione alla lingua
familiare e popolare.
Nella seconda accezione con “lingua scritta” si indica sem-
plicemente la trascrizione della “lingua fonica” o “parlata”, in
quanto codice secondario, come si è appena specificato).
La presente trattazione affronterà il tema della diffusione
della scrittura presso le diverse civiltà, nonché varie questio-
ni connesse all’uso della lingua scritta intesa nella seconda
accezione testé precisata.
CAPITOLO 1
TIPI DI SCRITTURA

L’invenzione della scrittura, oltre ad apportare enormi van-


taggi socio-economici e culturali, servì a fissare per la prima
volta quello che fino ad allora era stato il flusso inarrestabile
del parlato, in precedenza consegnabile solo alla memoria e
mai percepibile nella sua interezza.
Il testo scritto, per sua stessa natura, si consegna alla vista,
e perciò alla riflessione e all’analisi, costituendo il presuppo-
sto indispensabile (necessario, anche se non sufficiente) per la
nascita di un’attività di riflessione critica, filologica, gram-
maticale (non a caso la parola grammatica è prestito dal greco
grammatikÈ técnh “arte dei grámmata”, cioè delle lettere del-
l’alfabeto).
In definitiva l’invenzione della scrittura è stata una condi-
zione indispensabile per la nascita della stessa scienza lingui-
stica.
«I linguisti, che per un verso dipendono quasi esclusiva-
mente dalla scrittura per le loro concezioni della lingua, non
amano nello stesso tempo riconoscere alla scrittura il ruolo
che effettivamente le spetta nella costruzione evolutiva della
lingua; ben difficilmente si troverà un’affermazione in tal
senso nei classici del pensiero linguistico; fa eccezione un’o-
pera per molti versi precorritrice come la Teoria del linguag-
gio di Karl Bühler: “Chissà se una scienza linguistica di tutto
rispetto avrebbe mai potuto crescere e svilupparsi senza l’a-
nalisi preliminare già effettuata nella riproduzione e codifica-
16 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

zione visive delle forme fonico-linguistiche mediante la scrit-


tura?”».1
In linea di principio per noi occidentali, ormai abituati da
secoli a usare una scrittura alfabetica, è difficile pensare che
esistano sistemi o strategie di scrittura molto dissimili dalla
nostra.
Un bell’esempio è fornito dalla figura di Diego De Landa,
terzo vescovo dello Yucatán.
Molti sapranno che egli contribuì notevolmente alla distru-
zione dell’antico e ingente patrimonio culturale dei Maya, tra
l’altro ordinando, nel 1561, un grande auto da fé a Mani, in
cui fu bruciata un’enorme quantità di manoscritti maya,
essendo allora riconosciuta dai religiosi spagnoli l’“ovvia”
natura demoniaca di quei glifi e di quelle incomprensibili illu-
strazioni.
Vari codici maya sopravvissuti alla massiccia opera di
distruzione dei conquistadores, andarono in seguito perduti
per incuria o disinteresse (l’attenzione per le antichità maya si
riaccese solo alla metà del XIX secolo); oggi ce ne restano
solo quattro: il Dresdense, il Tro-Cortesiano, il Peresiano e il
Grolier, tutti di contenuto calendariale e rituale.
La conoscenza della scrittura maya andò ugualmente
dispersa con la cristianizzazione e solo di recente se ne è potu-
to recuperare e ricostruire il corretto funzionamento, ma su
questo punto ritorneremo in seguito.
In questa sede ci interessa sottolineare che, pochi anni
dopo il citato auto da fé, il vescovo De Landa, cercando di
riparare in qualche misura alla devastazione culturale dei
Maya, prese a raccogliere notizie di prima mano e di grande
interesse sulla storia e sulla civiltà di quel popolo, che sistemò
nella sua Historia (o Relación) de las cosas de Yucatán.
In questo testo De Landa dà notizia del calendario maya,
riportando la pronuncia dei nomi dei mesi e dei giorni e i glifi

1 Cardona 1986, p. 23.


1. TIPI DI SCRITTURA 17

corrispondenti; inoltre egli trascrive una sorta di “alfabeto”


Maya, composto da ventisette segni.

“ALFABETO” MAYA DEL VESCOVO DE LANDA

In realtà la scrittura maya, come vedremo meglio in segui-


to, non è affatto di tipo alfabetico, essendo molto più com-
plessa e composta da centinaia di segni diversi.
Non è però difficile immaginare come si giunse alla com-
pilazione dell’“alfabeto” Maya: il vescovo De Landa deve
aver chiesto ai suoi informatori indigeni di trascrivere in
caratteri maya l’alfabeto spagnolo.
I più recenti studi sulla scrittura maya hanno del resto con-
fermato la sostanziale validità delle trascrizioni fornite a De
Landa nel XVI secolo: ad esempio il glifo scelto come corri-
spondente della <a> spagnola è il logogramma per “tartaruga”
(maya ac); la <b> (in spagnolo pronunciata [be]) si è resa con
il segno di “strada”, “viaggio” (maya be); la <c> (in spagno-
lo pronunciata [θe]) si è resa con il segno del mese maya Zec,
ecc.
Il vescovo De Landa non si è posto dunque il problema di
descrivere appropriatamente un sistema di scrittura molto
diverso dal suo (cioè un sistema non alfabetico); semplice-
mente egli ha cercato di far calzare alla scrittura maya il per
18 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

lei strettissimo modello alfabetico.


Un occidentale moderno di media cultura raramente cono-
sce qualche dettaglio del funzionamento di scritture non alfa-
betiche, ammesso che possieda almeno vaghe notizie dell’esi-
stenza di simili forme di scrittura (o, meglio, del loro diverso
funzionamento e non soltanto della loro esistenza).
Una volta acquisito, l’alfabeto sembra la tecnica più sem-
plice e naturale per fissare per iscritto i suoni linguistici. La
scomposizione delle parole pronunciate in suoni fondamenta-
li della lingua parlata è un procedimento analogo a quello,
introdotto nella scienza linguistica, dell’analisi-segmentazio-
ne del significante in fonemi, unità foniche minime di “secon-
da articolazione”.
Veramente la corrispondenza tra grafemi (= lettere) e fone-
mi non è precisa in nessuna delle scritture alfabetiche stori-
che, neanche in quelle in cui la discrepanza tra grafia e suono
è minima, come in italiano.
Anche in italiano, infatti, una stessa grafia può essere
impiegata per trascrivere suoni diversi, per es. la <s> per /s/ e
/z/, nei casi di <sale> (con /s/) e <visione> (con /z/), non senza
creare alcune ambiguità, come nel caso di <fuso> (sost., con
/s/) e <fuso> (part. pass., con /z/) oppure di <chiese> (verbo,
con /s/) e <chiese> (sost., con /z/).2
Altri esempi significativi ed evidenti di incoerenze nella
trascrizione dell’italiano sono: <e> per /e/ oppure /ε/
(<pesca> con /e/ ~ <pesca> con /ε/); <o> per /o/ oppure /ø/
(<botte> con /o/ ~ <botte> con /ø/); si noti inoltre la grafia
<gli> per /Ò/ in <ragliare>, per /Òi/ in <fogli> e per /gli/ in
<geroglifico>.
Per ora non accenniamo neanche a lingue, come il france-
se e l’inglese, che, pur adottando una scrittura alfabetica,
mostrano un vistoso “scollamento” tra scritto e parlato, le cui
ragioni storiche e socio-culturali approfondiremo più avanti.
Qui basti dare per acclarato che nelle scritture alfabetiche
storiche il rapporto tra lettere e suoni non è mai perfettamen-
1. TIPI DI SCRITTURA 19

te biunivoco, nonostante questa strategia scrittoria si possa


ritenere in assoluto la più precisa forma storica di notazione
della lingua parlata per mezzo di segni grafici.
L’Alfabeto Fonetico Internazionale, anche chiamato alfa-
beto IPA (International Phonetic Association) o API
(Association Phonétique Internationale) dal nome dell’ente
che l’ha promosso, è lo strumento elaborato dai linguisti per
ovviare alle incongruenze delle grafie tradizionali e operare
con un sistema di trascrizione riproducente scientificamente
la realtà fonica, con una corrispondenza biunivoca tra suoni
rappresentati e segni grafici corrispondenti. In fondo, però,
non si è trattato che di sgrossare e raffinare a fini scientifici
uno strumento già esistente.
Tutti sanno che in Europa (e in America, del resto) il siste-
ma di scrittura di gran lunga prevalente è l’alfabeto latino,
adattato con diacritici e segni speciali alle esigenze delle
diverse lingue.
Ragioni di prestigio storico e culturale hanno favorito la
preservazione nella sua terra d’origine dell’alfabeto greco, da
cui, peraltro, quello latino discende, per il tramite dell’etru-
sco.
Ai confini del nostro continente si estendono vaste regioni
(Russia, Nord-Africa) in cui sono impiegate scritture, geneti-
camente connesse o meno tra di loro e/o con gli alfabeti lati-
no e greco, che, per quanto diverse dalla nostra per forma dei
segni e per tipi di suoni trascritti, sono pur sempre di natura
alfabetica (arabo, cirillico, armeno, ecc.).

2 Queste ultime ambiguità investono, per la precisione, la resa per


iscritto del toscano o italiano standard, visto che nel Settentrione, per
esempio, la sibilante (fricativa alveolare) intervocalica è sempre realizza-
ta come sonora, rendendo perciò, di fatto, omofoni, parole come fuso o
chiese nei due sensi citati.
20 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

ALFABETO ARMENO

Spostandoci ancora un po’, incontriamo due tradizioni


scrittorie, quella indiana (devanagarica) e quella etiopica
(amarica), che pur essendo basate su sillabari, sono comunque
anch’esse pressoché completamente fonetiche e, del resto, in
entrambi i casi ci si serve di un sillabario “improprio”, in
quanto i segni sono costituiti essenzialmente da un elemento
“fisso”, che in sostanza rappresenta la consonante, con legge-
re apposite modificazioni per indicare le diverse vocali asso-
ciate: perciò le differenze strutturali con le scritture alfabeti-
che (per esempio con quelle semitiche, che non notano le
vocali, e specialmente con l’ebraica che può notarle con punti
diacritici) non sono molto grandi.
1. TIPI DI SCRITTURA 21

La vicenda dei geroglifici egiziani, così come quella della


scrittura maya, offre invece un esempio molto chiaro di come
anche per persone colte, abituate da generazioni all’utilizzo
dell’alfabeto, il funzionamento di una scrittura radicalmente
diversa, cosiddetta “ideografica” (le cui esatte regole sono
ormai sbiadite o perse), risulti assai difficilmente afferrabile o
intuibile.
Oggi, osservando questi modelli a posteriori (cioè dopo la
loro decifrazione), siamo in grado di comprenderne abbastan-
za facilmente i meccanismi generali e di scoprire sorprenden-
ti analogie tra tecniche scrittorie tipologicamente affini, per
quanto geneticamente indipendenti (per esempio tra geroglifi-
ci egiziani, scrittura cuneiforme e scrittura maya), tuttavia,
come per l’uovo di Colombo, molte cose ci sembrano facili
solo dopo che qualcuno ci ha mostrato come farle.
Ancora in età classica alcuni scrittori greci e romani, come
Lucano,3 Apuleio, Plutarco,4 Clemente Alessandrino,5
Plotino,6 riservarono nelle loro opere cenni più o meno ampi
ai geroglifici, come a segni o simboli esoterici, rappresentan-
ti dunque non suoni, ma parole o concetti.
Tutti costoro in verità parlavano di geroglifici senza aver-
ne una precisa cognizione (per lo meno del meccanismo del
loro funzionamento): la scrittura egiziana, come vedremo, è
davvero ricca di ideogrammi, ma la stragrande maggioranza
dei testi è costituita da una trascrizione fonetica, per cui a ogni
segno scritto corrisponde uno o più suoni della lingua.
Eppure in età classica esistevano ancora persone abbastan-
za competenti in materia, come, ad esempio,
quell’Ermapione, di cui Ammiano Marcellino7 (morto verso il

3 Farsaglia, 3, 220.
4 Metamorfosi, 11, 22.
5 De Iside et Osiride, 10.
6 Enneadi, 5, 8, 6.
7 Le storie, 17, 4, 18-23.
22 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

400 d.C.) riporta un’interessante traduzione del testo di uno


degli obelischi egiziani trasportati a Roma.
Sappiamo, d’altro canto, che la più tarda iscrizione gero-
glifica nota è datata 394 d.C., ma è altresì certo che a quell’e-
poca, e già da tempo, la conoscenza di quell’antica scrittura
era ormai diventata patrimonio di una cerchia ristrettissima di
persone.
L’unico trattato completo sui geroglifici tramandato dal-
l’antichità sono gli ‘Ieroglujikà di Orapollo, filosofo ed eru-
dito egiziano vissuto sotto Zenone (474-491 d.C.) e direttore
di una delle ultime scuole pagane d’Egitto (a Menuothis), che
fu poi distrutta durante una delle frequenti lotte tra pagani e
cristiani.
Lo stesso Orapollo, a quanto si tramanda, venne infine
convinto, con le buone o con le cattive, a convertirsi al cri-
stianesimo.
Gli ‘Ieroglujikà sono comunque basati su un sostanziale
fraintendimento della reale natura della scrittura geroglifica
egiziana, perché in quell’epoca ormai più nessun Egiziano,
nemmeno i cólti partecipanti al circolo pagano di Orapollo,
aveva idea del reale funzionamento (ideografico-fonetico) dei
geroglifici, associando così, anche sulla base delle afferma-
zioni di Plotino ecc. sopra ricordate, a ogni segno considerato
una spiegazione simbolica e filosofica del tutto inventata e
arbitraria.
Nonostante le sue spiegazioni inverosimili, però, Orapollo
attinse certamente a fonti attendibili, nella misura in cui
(come oggi sappiamo) la maggior parte dei simboli da lui
descritti trova una reale corrispondenza nell’antica scrittura
geroglifica.
Per esempio gli Egiziani impiegavano il segno „, raffi-
gurante un’oca (eg. s(A)t), per trascrivere anche la parola per
“figlio” che in quella lingua era pressappoco omofona (sA).
Orapollo, dal canto suo, giustamente asseriva che gli anti-
chi Egiziani, volendo scrivere “figlio” raffiguravano un’oca
1. TIPI DI SCRITTURA 23

(1, 53), ma, ignorando del tutto il principio soggiacente del-


l’omofonia, aggiungeva, a mo’ di spiegazione: «quest’anima-
le è infatti quello che più ama i figli; se per caso corre il
rischio di essere catturato insieme ai piccoli, il padre e la
madre si offrono spontaneamente ai cacciatori in modo che la
prole possa salvarsi. Per questo motivo gli Egiziani l’hanno
ritenuto un animale degno di venerazione».8
Simili elucubrazioni e fraintendimenti, fondati sulla manca-
ta conoscenza dell’impiego fonetico e non ideografico (ossia
logografico) della più gran parte dei segni dei testi, accompa-
gnano l’illustrazione orapolliana del significato di tutti i gero-
glifici esaminati nel suo saggio, anche di quelli (e sono parec-
chi) effettivamente esistenti nella scrittura egiziana.
Dunque Orapollo, colto e alfabetizzato (e certamente cono-
scitore della lingua copta,9 l’egiziano popolare e tardo, anco-
ra parlato a quei tempi e diretto discendente dalla lingua dei
geroglifici), non fu neppure più in grado di intuire e ricostrui-
re i principi fonetici e ideografici (allora ormai perduti) che
regolavano la scrittura dei suoi antenati.
La fatica di una simile ricostruzione fu durata, come è
noto, molti secoli dopo, all’inizio del XIX secolo, e lontano
dall’Egitto, da un giovane studioso francese di nome Jean-
François Champollion.
La stessa errata communis opinio formatasi ai tempi di
Orapollo, per cui nella scrittura geroglifica egiziana, come
suggerisce il suo carattere fortemente iconico, ogni segno
dovesse corrispondere a una parola o a un concetto (con la
conseguente ricerca di strampalate metafore per motivare
associazioni di oggetti raffigurati e di contenuti, che risulta-
vano a prima vista incomprensibili per chi ignorava le regole
di impiego fonetico dei segni), si trasmise nei secoli successi-

8 Traduzione di M.A. Rigoni ed E. Zanco.


9 All’inizio del trattato orapolliano sui geroglifici è specificato che
esso fu originariamente composto «in lingua egiziana» e tradotto «in greco
da Filippo».
24 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

vi ed è ancor oggi abbastanza diffusa anche tra persone di cul-


tura, ma poco o per niente informate sull’argomento, le quali,
probabilmente, facendo scorrere lo sguardo su un’iscrizione
geroglifica vista in qualche museo o su un obelisco, sono por-
tati a credere che segni come æ, ¿ o j, peraltro molto fre-
quenti, siano proprio associati al significato di “lepre”, “sca-
rabeo” e “civetta” (magari impiegati metaforicamente), e non
immaginano neppure che in realtà si tratta di fonogrammi,
rispettivamente, per wn, xpr, e m.
Lo stesso testo di Orapollo rappresentò, poi, la conferma
più “autorevole” dell’idea che i geroglifici egiziani fossero
una forma di comunicazione direttamente filosofica o teolo-
gica mediante simboli e non mediante lingua, vale a dire, in
sostanza, di natura esclusivamente logografica, la cui inter-
pretazione era svincolata da qualsiasi lingua soggiacente.
Si ebbero così, nel XVIII secolo, le stravaganti interpreta-
zioni filosofico-simboliche del dotto gesuita Athanasius
Kircher, che si riteneva il decifratore dei geroglifici,10 avendo
pubblicato molto sull’argomento, anche per sollecitazione
papale, e ottenendo all’epoca un certo riscontro, almeno negli
ambienti romani, dove diventò la massima autorità in que-
stioni di egittologia.
Per esempio egli traduceva la semplice e ricorrente formu-
la:

Dd mdw in Wsir
«parole dette (o da dire) da parte di Osiride»

con: «la vita delle cose dopo la vittoria sul tifone, l’umidità
della natura, grazie alla vigilanza di Anubis»: secondo lui,

10 Sulla figura di Kircher, v., per esempio, Eco 1993, p. 168 ss.
1. TIPI DI SCRITTURA 25

“ovviamente”, la linea ondulata F (segno per n) simboleg-


giava “l’umidità della natura” e l’occhio y (segno per ir) la
“vigilanza di Anubis”.
Ma anche nel “secolo dei lumi”, quando le idee di Kircher
erano ormai sorpassate, non si giunse mai a superare il pre-
concetto dei geroglifici come scrittura “simbolica”, ossia
completamente logografica.
L’abate Barthélemy, che nel 1754 aveva decifrato la scrit-
tura (alfabetica di tipo semitico) palmirena, aveva appena
intuito che i cartigli potessero contenere nomi di re o di dèi e
anche il valente studioso Georg Zoëga, verso la fine del seco-
lo, aveva pensato ai cartigli come a formule religiose o a nomi
di re.
Ma proprio per l’estrema difficoltà, per un cólto alfabetiz-
zato, di concepire ex novo i meccanismi di una scrittura “ideo-
grafica”, si riuscì a muovere i primi passi verso il superamen-
to dell’erronea communis opinio sui geroglifici egiziani (con-
cezione puramente simbolica e logografica dei segni) solo
quando ci si potè positivamente e proficuamente avvalere
della comparazione con un tipo di scrittura tipologicamente
affine: il cinese.
In questo caso si trattava di una scrittura ancora in uso,
anche se, a dire il vero, allora non molto ben conosciuta in
Occidente, neanche a livello accademico.
Nel 1811 Sylvestre de Sacy, maestro di Champollion,
rimase particolarmente impressionato nel leggere la descri-
zione fornita da un altro suo allievo (Abel-Rémusat) del meto-
do fânqié, con cui i lessicografi cinesi esprimono il preciso
valore fonetico di caratteri insoliti o rari o di certe parole stra-

11 Per esempio il fânqié per un carattere ignoto che dev’essere pronun-

ciato [to˜] è “tô hïng qié”; per riprodurre la pronuncia della parola mon-
gola khan “imperatore” il fânqié è “kó hàn qié”. In effetti qié significa “spez-
zare” e, come si nota, si spezza e si ricompone la pronuncia di due carat-
teri noti (per esempio t- e - ïng, nel primo caso), per ottenere quella di un
carattere ignoto o di una parola straniera.
26 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

niere.11
La famosa stele di Rosetta, documento triscritto (geroglifi-
co, demotico e greco) era stata rinvenuta il 2 agosto 1799, ma
solo a distanza di anni (nel 1811), e appunto sulla base del
confronto col cinese, Sacy potè scrivere: «conosciamo l’espe-
rienza cinese di questa difficoltà (cioè di scrivere i nomi stra-
nieri) e sappiamo che essi sono talvolta obbligati a impiegare
un segno speciale per indicare che i caratteri utilizzati nell’e-
sprimere un nome proprio sono ridotti a semplice valore
(fonetico). Suppongo che nel testo geroglifico di Rosetta la
linea che circonda una serie di geroglifici sia impiegata per la
stessa funzione».
Tra l’altro, a rigor di termini, l’idea che i cartigli signifi-
cassero fonetismo (rispetto al ”normale” impiego puramente
ideografico dei segni) è sbagliata, dato che essi invero indica-
no la regalità del nome inscrittovi; tuttavia la strada per una
lettura fonetica dei geroglifici egiziani era stata definitiva-
mente aperta.
Dopo qualche tempo Thomas Young potè pubblicare le sue
proposte di lettura, parzialmente corrette, dei nomi di
Tolomeo e di Berenice, ma la sua lettura fonetica del gerogli-
fico, in sintonia con l’opinione ortodossa (e sbagliata) ancora
imperante, non poteva muoversi oltre i cartigli.
Champollion stesso era ancora molto legato alle vecchie
concezioni “logografiche” e “simboliche”, al punto che, com-
mentando le prime letture fonetiche di Young del nome di
Tolomeo, si mostrava dell’idea che il leone accovacciato (Û:
Young l’aveva letto ole, oggi lo traslitteriamo rw e sappiamo
che fu impiegato in età tolemaica per trascrivere la /l/ dei
nomi stranieri), troneggiante in mezzo al cartiglio non poteva
significar altro che la parola “guerra”, la quale si dice in greco
p(t)ólemos, parola alla base del nome del re (Ptolemaios).
Nel 1813, poi, Champollion aveva correttamente intuito la
lettura f per il segno della vipera cornuta ª, studiandone
intelligentemente la distribuzione nel testo di Rosetta, eruen-
1. TIPI DI SCRITTURA 27

done perfino il valore di pronome suffisso e ponendolo in rap-


porto, attraverso la sua evoluzione ieratica e demotica, con la
lettera f, la f dell’alfabeto copto.
Ma il pregiudizio del valore puramente “simbolico” dei
geroglifici pesava ancora a tal punto che Champollion ritornò
rapidamente sui sui passi.
Champollion, ancora nella sua famosa Lettre à M. Dacier,
relative à l’alphabet des hiéroglyphes phonetique (letta
all’Académie des Inscriptions, di cui Dacier era segretario, il
27 settembre 1822 e considerata la comunicazione ufficiale
dell’inizio della decifrazione dei geroglifici) conteneva l’i-
dentificazione di una classe di “geroglifici fonetici” impiega-
ta per la trascrizione dei nomi di faraoni della dinastia lagide
o di imperatori romani o di loro titoli (come autokrátor). In
più egli eveva potuto certamente identificare l’impiego fone-
tico di segni per scrivere nomi di faraoni dell’antico Egitto,
precedenti all’epoca greco-romana, come (Ramesse) e
(Tutmosi).
In ogni caso è sicuro che, al momento di licenziare questa
prima comunicazione Champollion non sospettava ancora che
il suo “alfabeto” potesse in realtà essere applicato al di fuori
della sfera dei nomi propri e delle parole straniere, anzi, nella
Lettre (p. 41) è chiaramente specificato che l’argomento della
trattazione sono i “geroglifici fonetici”, ben distinti dai “gero-
glifici puri” (cioè quelli al di fuori dei cartigli), considerati,
per il loro impiego “puramente ideografico” come un sogget-
to di studio separato, per il momento accantonato e destinato
a futuri approfondimenti.
La vera “chiave” della scrittura geroglifica fu comunque
riportata alla luce l’anno dopo, nel 1823, con la pubblicazio-
ne del Précis du système hiéroglyphique: l’uso fonetico dei
geroglifici (anche di quelli “puri”) non era secondario ma cen-
trale e di fatto costituiva l’“anima” dell’intero sistema di scrit-
tura (Précis, p. 3); l’“alfabeto” individuato da Champollion
era utilizzato non soltanto nei cartigli reali d’epoca greco-
28 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

romana e faraonica, ma anche nelle iscrizioni comuni di tutti


i tempi, allo scopo di riprodurre per iscritto i suoni della lin-
gua egiziana parlata.
L’utilità del confronto col sistema di scrittura cinese è
esplicitamente sottolineata da Champollion nel Précis, dove
(p. 304) definisce il già citato Abel-Rémusat «colto e brillan-
te accademico» e «il primo a estrarre il cinese dall’oscurità, si
potrebbe dire mistica, in cui lo avevano avvolto i suoi prede-
cessori», insistendo soprattutto sull’identificazione di
Rémusat di una classe di caratteri cinesi fonetici, chiamati
xëngshãng “raffiguranti il suono”.
L’ampio excursus sui geroglifici egiziani, così come il rife-
rimento all’alfabeto maya di Diego De Landa, illustra quale
genere di difficoltà abbia incontrato e incontri chi è stato edu-
cato all’uso abituale della sola scrittura alfabetica (o comun-
que fonetica) nel concepire l’esistenza di sistemi di scrittura
radicalmente diversi dal proprio, il che spiega, per esempio, le
enormi difficoltà nello scoprire la “chiave” per l’interpreta-
zione dei geroglifici egiziani, perfino dopo la scoperta della
stele di Rosetta (1799: la Lettre à M. Dacier è del 1822!) e
l’intuizione di quale potesse essere la lingua soggiacente (l’e-
giziano, di cui restava il copto come varietà diacronica più
recente).
La lontananza nel tempo e nello spazio (è il caso del cine-
se) di simili sistemi di scrittura li aveva resi pressoché total-
mente ignoti anche ai più colti degli studiosi europei dell’e-
poca di Champollion.
In verità gli elementi costitutivi delle scritture cosiddette
“ideografiche” (come il geroglifico, il cuneiforme accadico,
la scrittura maya e il cinese) presentano delle affinità sorpren-
denti (specialmente e proprio al livello della tipologia tripar-
tita dei segni: logogrammi, fonogrammi e determinativi), che
sono senza dubbio servite a riesumare il funzionamento di
scritture cadute da secoli nell’oblìo.
1. TIPI DI SCRITTURA 29

Tali sorprendenti affinità si spiegano con ragioni “congeni-


te” che saranno meglio approfondite nel prossimo capitolo,
relativo all’origine delle scritture.
Quantunque si siano proposte classificazioni più comples-
se e articolate delle tipologie scrittorie usate nel corso della
storia della società umana, è possibile ridurle tutte in due
gruppi fondamentali:
1. Scritture ideografiche
2. Scritture fonetiche.
Nel primo gruppo si classificano sistemi scrittòri come il
geroglifico egiziano, la scrittura cuneiforme sumerica e acca-
dica, la scrittura maya e quella cinese; esso è connotato dal-
l’impiego essenziale e strutturale di segni noti come “logo-
grammi” (termine introdotto da Leonard Bloomfield) o “ideo-
grammi” (da qui, per estensione, il nome del gruppo tipologi-
co), ossia di segni che rappresentano non suoni, ma intere
parole.
Con “presenza essenziale e strutturale di ideogrammi” si
intende dire che questi segni sono (o erano) normalmente
impiegati nella redazione di un testo qualsiasi della lingua
codificata dalla scrittura di appartenenza, e quindi non soltan-
to in certi contesti particolari, come quelli di contenuto conta-
bile, amministrativo, matematico, astronomico ecc., in cui
l’uso di logogrammi è frequente anche nelle scritture foneti-
che.
Va ugualmente chiarito che le scritture ideografiche si ser-
vono massicciamente ma non esclusivamente di segni ideo-
grafici / logografici: infatti non esiste una scrittura storica
composta solo da “segni-cosa” (o “segni-parola”, cioè i logo-
grammi).12

12 Una simile scrittura, se esistesse, dovrebbe poter prescindere dalla

lingua trascritta: è pressappoco il concetto, peraltro mai ben formalizzato,


che si aveva del funzionamento dei geroglifici egiziani precedentemente
alla loro decifrazione (cfr. gli scritti di Kircher).
30 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

L’uso esclusivo di logogrammi è semmai riscontrabile


nelle fasi primordiali della creazione autonoma di scritture
ideografiche (come la protocuneiforme sumerica); in tali casi
tuttavia si tratta ancora di un sistema scrittorio in formazione,
largamente limitato nelle possibilità d’impiego e non assolu-
tamente adatto a una trascrizione sufficientemente precisa e
inequivoca di qualunque enunciato. In questo senso noi inclu-
diamo tali fasi primordiali nel concetto di “protoscrittura”.
Ogni scrittura ideografica oltre agli ideogrammi compren-
de almeno altre due classi di segni: i fonogrammi (“segni
fonetici”), impiegati per la trascrizione di elementi grammati-
cali o come complementi fonetici, cioè richiami mnemonici
per la pronuncia di ideogrammi, e i determinativi, segni con
valore esclusivamente visivo (e non da leggere), principal-
mente usati per precisare il significato di una data sequenza
ossia, in generale, per distinguere (tramite l’indicazione della
classe semantica di appartenenza) una parola scritta per mezzo
di fonogrammi dai suoi possibili omofoni od omografi.
Scenderemo in maggiori dettagli nel capitolo apposita-
mente dedicato alle scritture ideografiche.
Il secondo grande insieme di strategie scrittorie è costitui-
to dalle “scritture fonetiche” ed è distinto, fondamentalmente,
nei due sottogruppi delle scritture sillabiche e delle scritture
alfabetiche.
La caratteristica di questi sistemi di scrittura è quella di tra-
scrivere, più o meno compiutamente, i suoni della lingua par-
lata, con una corrispondenza almeno approssimativa tra ele-
menti minimi fonici distintivi (fonemi) e grafemi (anche
digrafi, trigrafi ecc.).
In questo caso, con speciale riferimento alle scritture alfa-
betiche, è possibile applicare con grande aderenza la defini-
zione di scrittura come codice secondario, cui abbiamo accen-
nato all’inizio del presente lavoro.
ANTROPOLOGIA DELLA SCRITTURA 31

L’impiego più o meno ampio di logogrammi13 è proprio


anche delle scritture fonetiche (per esempio ci si serve di
segni come: $, 4, §, %, +, ©, £, >), ma, a differenza che nei
sistemi ideografici, tale impiego non è essenziale e struttura-
le, ossia non è proprio e necessario per l’uso “normale” e
“comune”, in qualsiasi contesto, ma è anzi spesso iperusato e
specialisticamente impiegato in contesti particolari (ad esem-
pio testi o documenti contabili, matematici ecc.).
Possiamo citare l’esempio concreto dell’antica scrittura
sillabica cretese “lineare A”, ove si riscontra molto chiara-
mente un uso larghissimo di logogrammi nei testi ammini-
strativi, pressoché del tutto assenti in altri tipi di documenti,
come nelle (relativamente lunghe) formule di dedica laiche o
religiose.
Alcuni studiosi includono nella classificazione dei tipi di
scrittura le “pittografie“ (o cosiddette “scritture pittografi-
che”), distinguendo tra scritture che codificano una lingua
(come le scritture ideografiche e quelle fonetiche appena illu-
strate) e «scritture che codificano direttamente il pensiero»,14
cioè, appunto, le pittografie.
In realtà in termini propriamente linguistici è senza dubbio
opportuno definire “scritture” soltanto quei sistemi che sono
subordinati a una lingua, che contengono cioè segni ricondu-
cibili alla fonetica della lingua codificata (caratteristica pro-
pria, come visto, anche dei sistemi “ideografici”).15
Per le pittografie è più utile parlare di “fase prescritturale”
(distinta, come meglio vedremo tra poco, da quella “proto-

13 Nella nostra scrittura alfabetica sembra perfino potersi ravvisare la


presenza di complementi fonetici (ad es., molto chiaramente, in inglese
1st per first e 2nd per second, eventualmente con nd e st in apice, come l’i-
taliano 1° o 1^ per “primo” o “prima”) e qualcosa di simile ai determina-
tivi, come le lettere maiuscole per i nomi propri o il segno † preposto al
nome di un autore defunto.
14 Cardona 1986, p. 34.
15 Cfr. Aspesi, in Negri 2000b, pp. 20 e 24.
32 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

scritturale”, per esempio delle prime tavolette sumeriche e


forse anche dei “documenti” di Vinca e, per certi aspetti, dei
quipus peruviani), ove la rappresentazione grafica non ha
assolutamente una corrispondenza biunivoca con precise
sequenze di suoni, parole o frasi, ma funge da semplice sup-
porto mnemonico, non privo peraltro di simboli convenziona-
li e aniconici e spesso non esente da un elevato tasso di ambi-
guità anche per i diretti fruitori.
Con il termine “pittogrammi” si designano dunque disegni
complessi che fissano il contenuto del messaggio senza rife-
rirsi alla sua forma linguistica, a un enunciato parlato.
Risalendo il vortice dei millenni fino all’origine delle pit-
tografie e seguendo il ragionamento di Leroi-Gourhan, si
potrebbe essere portati a interpretare la scoperta delle incisio-
ni regolarmente spaziate del paleolitico superiore (20.000
anni fa) come «la prova dell’esperienza di un grafismo sim-
bolico non figurativo. In relazione alle scene figurative dei
tracciati aurignaciani esse non sarebbero lette come una storia
raccontata da un quadro, ma come tracciati convenzionali,
astratti e utilizzati probabilmente come supporto mnemotec-
nico di un contesto orale irrimediabilmente perduto; questo
modo sintetico di notazione aveva la funzione di trasmettere
una concettualizzazione: ogni marca avrebbe un valore in
base alla sua nozione nell’insieme delle marche, come nelle
grotte di Lascaux dove si possono notare rapporti topografici
costanti tra le figure degli animali rappresentati».16
In ogni modo, se definissimo “sistemi di scrittura” le pitto-
grafie, sarebbe difficile non estendere la stessa impegnativa
qualifica, per esempio, anche ai tabelloni illustrati dei vecchi
cantastorie; una pittografia, infatti, si poteva solo commenta-
re o “parafrasare”, non leggere.

16 Dubois 1983, p. 256.


1. TIPI DI SCRITTURA 33

Tipologia e cronologia dei petroglifi camuni (da AA.VV., I Camuni. Alle


radici della civiltà europea, Jaca Book, Milano 1982).
34 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Incisione pittografica rupestre della grotta di Pasiega, in Spagna. Ecco


l’interpretazione di Hans Jensen: «In alto, a sinistra, sembra sia rappre-
sentato il vuoto della caverna; più a destra le impronte dei piedi significa-
no senza dubbio l’idea di camminare verso la grotta e il segno incom-
prensibile sull’estremità destra può significare tanto un divieto quanto un
invito a entrare nella caverna». (Da Doblhofer).

Petizione di sette tribù indiane dell’America settentrionale al Congresso


U.S.A. per il diritto di pesca in alcuni laghi. (Da Doblhofer).
1. TIPI DI SCRITTURA 35

Pittogrammi tratti da una “cronaca” dakota del XIX secolo.


(Da Doblhofer).
CAPITOLO 2
ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA

Nel capitolo precedente abbiamo analizzato esempi, tra i


più famosi, di come sia difficile, per chi appartiene a culture
che dispongono e hanno pratica di un sistema alfabetico (o
almeno fonetico), concepire l’esistenza passata o presente di
diversi e più complessi meccanismi di trascrizione della lin-
gua.
In breve si potrebbe dire che per civiltà dotate di una scrit-
tura fonetica è arduo concepire le regole basilari e la stessa
esistenza dell’“altro gruppo” di tecniche scrittorie: le scrittu-
re ideografiche.
Ora cercheremo, con un percorso inverso, di chiarire come
da sistemi primitivi si siano sviluppati tipi di scrittura com-
plessi e articolati (cioè le scritture ideografiche) e come da
essi si sia giunti alle scritture fonetiche e, specificamente, alla
semplicità e all’adeguatezza dell’alfabeto.
Si è visto come le pittografie siano da reputare una fase
prescritturale, nella misura in cui la notazione (pitto)grafica
“codifica direttamente il pensiero”, restando così positiva-
mente svincolata da qualsiasi lingua soggiacente.
«La scrittura, concepita come sistema permanente di fissa-
re il linguaggio articolato e il pensiero umano – di per sé fug-
gevole – costituisce indubbiamente una delle più possenti
attrezzature intellettuali di cui l’uomo dispone».1
Circa la sua origine e la sua diffusione il biologo e antro-

1 Ifrah 1983, p. 168.


38 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

pologo Jared Diamond ha il merito di aver recentemente


messo a fuoco e ben enucleato alcuni concetti fondamentali
che hanno influito e influiscono direttamente sulla storia della
cultura umana.
«La conoscenza è potere. La scrittura è una fonte di potere
nelle società moderne, perché rende possibile trasmettere
conoscenza meglio, più rapidamente e più lontano».2
Informazioni tecniche, scientifiche e militari possono esse-
re facilmente trasmesse e/o conservate grazie a un sistema di
scrittura efficiente; la stessa amministrazione centralizzata di
più ampi territori via via conquistati o annessi ne è grande-
mente agevolata.
«Certo tutte queste informazioni erano trasmesse con altri
mezzi nelle società illetterate, ma la scrittura rendeva il mes-
saggio più facile da passare, più dettagliato e più convincen-
te».3
«È vero che alcuni popoli, come gli inca, riuscirono
comunque a governare degli imperi senza la scrittura, ed è
anche vero che non sempre gli alfabetizzati sconfiggono gli
analfabeti, come impararono a loro spese i romani con gli
unni. Ma l’espansione europea in America, Australia e Siberia
rappresenta comunque l’esito più comune in queste vicen-
de».4
«Perché, allora, solo pochi popoli arrivarono a questa pre-
ziosa invenzione? E perché nessuno di questi era un gruppo di
cacciatori-raccoglitori? Perché alcune società insulari com-
plesse come Creta la possedevano e altre analoghe come
Tonga no? Quante volte è stata inventata in maniera indipen-
dente, in quali circostanze e per quali scopi? Perché in alcuni
posti ciò è successo prima che altrove?».5

2 Diamond 1998, p. 166.


3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 Ibidem s.
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 39

È utile preliminarmente che teniamo ben distinti i temi del-


l’origine e della diffusione della scrittura.
Trattando dell’origine, l’attenzione dovrà accentrarsi fon-
damentalmente sui pochi o pochissimi casi in cui c’è la cer-
tezza o l’alta probabilità di un’invenzione indipendente e
autonoma della scrittura.
La diffusione d’altro canto presenta, come ha ben eviden-
ziato Diamond, due diverse modalità: quella dell’adattamento
o copia del modello e quella della diffusione o copia dell’idea
di base.
«Inventare un sistema di scrittura dal nulla deve essere
stato incomparabilmente più difficile che prenderne in presti-
to uno dai vicini e adattarlo alle proprie esigenze. I primi scri-
bi dovettero pensare a cose che oggi noi diamo per scontate:
per esempio escogitare un modo per suddividere il flusso
della lingua in unità di base, fossero queste parole, sillabe o
fonemi; individuare una forma “standard” per queste unità
che non tenesse conto delle normali variazioni di volume,
altezza, velocità, enfasi e idiosincrasie individuali di pronun-
cia; capire come rappresentare queste unità come un insieme
di simboli. I pionieri della scrittura riuscirono a farcela anche
senza avere a disposizione esempi della “cosa” che stavano
costruendo. Poiché questo è un compito difficile, non ci stu-
pisce il fatto che l’invenzione autonoma della scrittura sia
stata un evento assai raro nella storia dell’umanità. Solo due
sono i popoli che ci riuscirono senza ombra di dubbio: i sume-
ri prima del 3000 a.C. e gli indiani del Mesoamerica prima del
600 a.C.; a questi si possono aggiungere gli egizi attorno al
3000 a.C. e con molta probabilità i cinesi prima del 1300 a.C.
Tutti gli altri sistemi di scrittura comparsi nel mondo sono
stati quasi certamente copiati, modellati o perlomeno ispirati
da quelli di altri popoli».6

6 Diamond 1998, p. 169.


40 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

L’invenzione autonoma della scrittura, oltre a essere un


evento molto raro, richiede la presenza di determinati prere-
quisiti, cioè di «alcune caratteristiche specifiche dei singoli
popoli, che determinano l’utilità o meno della scrittura per
quella società e la possibilità della società medesima di man-
tenere un gruppo di scribi. Molte altre popolazioni – come in
India, a Creta e in Etiopia – giunsero ad avere i requisiti
necessari, ma dopo i sumeri; con l’invenzione della scrittura
da parte di questi ultimi, l’idea si diffuse rapidamente, preve-
nendo così i tentativi indipendenti di altre società che magari,
nei secoli successivi, ci sarebbero comunque arrivate».7
«Tutte le invenzioni indipendenti o quasi (in Mesopotamia,
Messico, Cina ed Egitto) e le loro modifiche successive (a
Creta, in Iran, nella valle dell’Indo e così via) implicano l’e-
sistenza di popoli socialmente stratificati dotati di istituzioni
di governo complesse e centralizzate (…) Le prime forme di
scrittura erano funzionali ai bisogni di queste società, come ad
esempio la contabilità e la propaganda, gli utenti erano scribi
a tempo pieno, mantenuti grazie alle eccedenze alimentari
prodotte dalla forza-lavoro agricola. Nessun gruppo di cac-
ciatori-raccoglitori inventò o importò la scrittura, perché in
quelle società mancavano i presupposti istituzionali e i sur-
plus alimentari necessari per mantenere la casta improduttiva
degli scribi. Quindi l’agricoltura e la successiva, millenaria
evoluzione dei gruppi umani che la praticavano furono essen-
ziali per la nascita della scrittura, così come per quella delle
malattie infettive. La scrittura sorse in modo indipendente
solo nella Mezzaluna Fertile, in Messico e (con buone proba-
bilità) in Cina, cioè proprio nelle aree dove l’agricoltura si
sviluppò per prima, nei rispettivi emisferi. Dopo l’iniziale
invenzione, per mezzo dei commerci, delle conquiste e della
religione si diffuse in altre società dotate di analoghe struttu-
re economiche e politiche. L’agricoltura però fu una condi-

7 Diamond 1998, p. 172.


2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 41

zione necessaria ma non sufficiente per l’arrivo della scrittu-


ra. Come ho detto all’inizio del capitolo, in alcune società
agricole complesse essa giunse solo in tempi moderni. Tra
questi casi problematici per noi moderni, abituati a considera-
re la scrittura un ingrediente indispensabile, ci fu l’impero
inca, che nel 1520 era uno dei più grandi stati del mondo; altri
esempi sono dati dal proto-impero marittimo delle isole
Tonga, dallo stato delle Hawaii in formazione sul finire del
XVIII secolo, da tutti gli stati e staterelli dell’Africa subequa-
toriale e occidentale, prima dell’arrivo dell’Islam, e della
civiltà del Mississippi in Nordamerica. Tutte queste società
avevano i prerequisiti necessari, ma non giunsero mai ad
avere la scrittura. Perché? Dobbiamo ricordare qui che la
grande maggioranza dei popoli dotati di scrittura non se la
inventò da sé, ma la acquisì (o fu ispirata a reinventarla) dai
popoli confinanti. Nell’elenco visto poco sopra ci sono tutte
società che arrivarono all’agricoltura molto più tardi dei
sumeri, del messicani o dei cinesi (con la possibile eccezione
degli inca: c’è ancora incertezza sulle date relative in Messico
e sulle Ande). Con più tempo a disposizione, magari sarebbe-
ro riuscite ad arrivare alla scrittura pure loro; e se fossero state
più vicine ai centri di invenzione, avrebbero potuto copiarla
come fecero gli indiani della valle dell’Indo, i maya ed altri.
Il fattore isolamento è evidente nei casi di Tonga e delle
Hawaii, separate da almeno 6000 chilometri di oceano dalla
più vicina civiltà dotata di scrittura. In altre circostanze, la
semplice distanza in linea d’aria non dà l’idea precisa delle
difficoltà di comunicazione. Le Ande, i regni dell’Africa occi-
dentale e la foce del Mississippi distano non più di 2000 chi-
lometri da tre centri di scrittura situati rispettivamente in
Messico, Nordafrica e Messico ancora; è una distanza molto
più breve di quella che separa le coste orientali del
Mediterraneo e dell’Irlanda, dall’Etiopia o dal Sudest asiati-
co, tutti luoghi dove l’alfabeto arrivò entro duemila anni dalla
sua invenzione. Ma gli uomini sono frenati da barriere
42 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

ambientali che la “linea d’aria” non prende in considerazione.


Tra il Nordafrica e gli stati dell’Africa occidentale c’era il
Sahara; i deserti della parte settentrionale del Messico separa-
vano il Mississippi dallo Yucatàn; e le comunicazioni tra que-
st’ultimo e le Ande richiedevano o un viaggio in mare o il pas-
saggio attraverso un istmo stretto, boscoso e mai urbanizzato.
Ecco perché queste tre società si trovarono effettivamente iso-
late da altre in possesso delle scrittura. Con ciò non voglio
dire che l’isolamento fosse totale: le specie agricole della
Mezzaluna Fertile, alla fine, riuscirono a passare il Sahara e
l’Africa occidentale fu più tardi sottoposta all’influenza della
cultura islamica, e dell’alfabeto arabo; il mais si diffuse dal
Messico alle Ande e, con maggiore lentezza, al Mississippi.
Ma come abbiamo visto (…) le barriere dovute agli assi con-
tinentali e quelle di tipo ambientale ritardarono comunque la
diffusione degli animali e delle piante domestiche. La storia
della scrittura illustra assai bene come, in maniera simile, la
geografia e l’ecologia influenzarono anche il cammino delle
invenzioni».8
Riflettendo sul tipo di esigenze concrete che determinaro-
no la creazione delle forme di scrittura, non è difficile capire
perché le scritture primordiali appartengono tutte al gruppo
delle scritture ideografiche.
Ciò risulta particolarmente perspicuo nel caso della scrit-
tura sumerica, perché le più antiche tavolette (di Uruk IV),
datate al 3200-3100 a.C. sono registrazioni contabili di con-
segne o assegnazioni di bestiame, generi alimentari, tessuti
ecc.

8 Diamond 1998, p. 184-186.


2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 43

TAVOLETTE ARCAICHE DI URUK

Questo tipo di testi, in scrittura detta protocuneiforme,


riflettono le primarie esigenze (contabili) di supporto mne-
monico di queste primitive annotazioni e implicano, oltre allo
sviluppo di un sistema numerico scritto (ricordiamo che le
cifre stesse sono logogrammi; nel caso dei Sumeri fu elabora-
to un sistema di tipo addizionale a base sessagesimale), anche
l’impiego massiccio (nelle prime fasi esclusivo) di logogram-
mi, per indicare il tipo di merci o di beni di cui venivano regi-
strate le quantità ricevute, consegnate o spettanti.

SISTEMA DELLE CIFRE PROTOCUNEIFORMI

Si è già peraltro sottolineato come questo tipo di testi con-


tabili, per la loro stessa natura, siano in realtà connotati da
un’elevata ricorrenza di logogrammi anche nelle scritture
fonetiche; prescindendo dal caso della nostra stessa scrittura
(cfr. %, 4, $, ecc.), ho già ricordato come la lineare A di Creta
44 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

offra un eccellente esempio di iato ben rilevabile tra i testi


amministrativi (soprattutto le tavolette d’archivio), ripieni di
logogrammi, sigle e legature, e quelli non-amministrativi.
Le più antiche tabelle contabili protocuneiformi sumeriche
testimoniano, perciò, un tipo di notazione ancora limitata e
imperfetta, essendo esclusivamente composta da logogrammi
(cifre e altri segni), ma comunque già ben adatta a soddisfare
le esigenze concrete per cui fu creata.
Questo sistema di notazione non si può far rientrare com-
piutamente nella definizione di “scrittura” che abbiamo soste-
nuto nel capitolo precedente in quanto manca qualsiasi rap-
porto diretto con la fonetica della lingua codificata; tuttavia
esso non può proprio essere classificato come un tipo di pit-
tografia, perché qui c’è in effetti una corrispondenza biunivo-
ca tra segno-espressione e parola-contenuto.
Avendo definito “fase prescritturale” le esperienze pitto-
grafiche per il loro alto tasso di ambiguità, risulterà più cor-
retto etichettare questo genere di notazione sumerica arcaica
come “fase protoscritturale”.
Lo stesso concetto di “protoscrittura”, o scrittura in for-
mazione, potrebbe essere utilmente esteso e applicato alle
esperienze precorritrici delle prime tabelle contabili, vale a
dire al sistema di registrazione e memorizzazione delle bullae
contabili e dei calculi (o dei gettoni o tokens) in esse conte-
nuti, impiegato da Sumeri e Protoelamiti almeno dal 3500
a.C. 9
È lecito dunque definire anche un tipo di (proto)scrittura
non grafica, serventesi di oggetti tridimensionali, come nel
caso delle bullae sumeriche (in cui era comunque essenziale

9 In questa sede non è il caso di entrare nei particolari del complesso


e interessante sviluppo del supporto mnemonico dalle bullae alle tabelle
contabili; si rimanda per maggiori dettagli a Ifrah 1983, pp. 173-182. Per
i rapporti tra il protocuneiforme sumerico e il protoelamitico, di poco
posteriore (e ancora indecifrato), si veda ugualmente Ifrah 1983, pp. 169
s. e 207-223, nonché Biga, in Negri 2000b, p. 42 s.
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 45

l’elemento “grafico” dell’impressione dei sigilli dei soggetti


implicati nel negozio di cui la bulla dava conto).

TAVOLETTE PROTOELAMITICHE
46 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

TAVOLETTA PROTOELAMITICA

Sul concetto di “scrittura per oggetti” si è ben espresso


Cardona 1986 (p. 39-43), cui si rinvia per maggiori dettagli.
In questa sede, sulla base di quanto si è già detto sopra
sulla differenza tra scrittura e pittografia, interessa comunque
precisare che la definizione di “(proto)scrittura per oggetti”
andrebbe correttamente limitata a quei casi in cui il supporto
mnemotecnico conserva e trasmette informazione in modo
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 47

sufficientemente aniconico (anche se questo non è un indizio


dirimente) e, soprattutto, sufficientemente preciso (cioè non
ambiguo), dovendosi altrimenti riferire piuttosto a “pittogra-
fie per oggetti”.
Menzionerei come esempio tipico di “pittografia per
oggetti” il famoso messaggio (consistente di «un uccello, un
topo, una rana e cinque frecce») inviato dagli Sciti a Dario e
riferito da Erodoto (4, 131 ss.),10 mentre possiamo a buon
diritto considerare “scrittura per oggetti” le bullae sumeriche
o i quipus degli Inca, il cui impero, estesissimo e civilizzato,
era sprovvisto, come è noto, di una vera e propria scrittura
grafica.

TESORIERE INCA CON QUIPU

10 Cardona 1986 (p. 39 s.) fornisce anche traduzione e commento


della variante del racconto riferita da Ferecide e conservata da Clemente
di Alessandria.
48 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

«Per brevità, col termine quipu ci si riferisce in generale ad


un qualsiasi sistema di cordicelle annodate, come se ne cono-
scono in varie tradizioni. Propriamente però si dovrebbe riser-
vare il termine di quipu allo strumento mnemotecnico costi-
tuito da una serie di cordicelle annodate e riunite in un certo
ordine, usato dagli Inka e dai loro soggetti fino alla conquista
spagnola e ancora dopo, stando a certe testimonianze. Gli usi
del quipu erano diversi: innanzitutto per la contabilità, tanto
che gli storici spagnoli della Conquista traducono la parola
appunto con “cuenta” o “manera de cuenta”, e dunque stati-
stiche, censimenti, contabilità dei prodotti, calendario. Tutte
le fonti che ne parlano riconoscono il valore di “scrittura” del
quipu; così Lope de Atienza, nel 1570 (“… i loro libri conta-
bili, che sono certe cordicelle sottili di canapa che chiamano
q.; per mezzo dei nodi che vi fanno si capivano e si capisco-
no ancora oggi, come facciamo noi con le scritture”) o, due
secoli più tardi, Peter Veigl nel 1768 (“in Perù chiamano q.
certi nodi fatti su strisce o cordoncini, che servono loro in
luogo di libri o scritture”); depositario dell’uso del quipu era
il quipucamayoc, “contador” come traduce Waman Puma nel
1614. Il quipu era basato sul sistema decimale: un nodo sem-
plice, doppio o triplo valeva rispettivamente le unità, le deci-
ne, le centinaia; ogni cordicella era attaccata a una corda prin-
cipale, dalla parte del nodo corrispondente alla cifra più alta;
il colore della cordicella era anch’esso pertinente; per esem-
pio per indicare a che materiale si riferiva il conteggio (la cor-
dicella gialla rappresentava il mais ecc.). Sistemi analoghi
vengono ricordati come la più antica forma di scrittura nella
tradizione cinese, e sono comunque rimasti in uso fino ai
tempi recenti tra i Lisu e gli Hani dello Yunnan, e i Gaoshan
di Taiwan, per esempio come contratto per sancire la vendita
e il prezzo di un terreno».11

11 Cardona 1986, p. 36 s.
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 49

L’assolutamente limitata capacità espressiva di simili


forme di notazione non grafica (bullae e quipu) riflette diret-
tamente il suo carattere protoscritturale e il tipo di esigenze
immediate e concrete cui sopperiva; tali imperfezioni e limi-
tazioni erano del resto proprie anche delle prime tabelle con-
tabili sumeriche, dato che la protoscrittura grafica dei Sumeri,
come si è già rimarcato, costituisce un sistema adeguato pres-
soché esclusivamente alla trascrizione di testi di natura conta-
bile e amministrativa.
Il passaggio dalla fase protoscritturale alla scrittura vera e
propria si ha «allorché si applica per la prima volta l’idea
rivoluzionaria di impiegare il segno raffigurante schematica-
mente un determinato oggetto per rappresentare il suono della
parola sumerica riferita a tale oggetto, estendendo l’utilizzo di
questo segno anche agli omonimi sumerici di tale parola. Così
il segno grafico che registra una “freccia” viene ad essere
impiegato per il significato di “vita”, perché in sumerico i ter-
mini per “freccia” e “vita” si pronunciano entrambi ti».12
La grande scoperta dell’impiego fonetico dei logogrammi
dev’essersi sviluppata primariamente dall’esigenza di regi-
strare i nomi propri e poi anche per cercare di annotare ele-
menti grammaticali (pre- o pos-posizioni, affissi ecc.) così da
render più perspicuo il messaggio trascritto.
Falkenstein, per esempio, nel suo lavoro sui testi arcaici di
Uruk ha messo in evidenza una sequenza di tre segni,
É.EN.TI, che ricorda un nome di persona ricorrente in testi
posteriori «come un nome sumerico, en.líl.ti “(possa il dio)
Enlil (donare) la vita”. Dal momento che nei testi arcaici l’or-
dine di successione dei segni non segue obbligatoriamente la
sequenza parlata e dal momento che il segno É, successiva-
mente, sarà intercambiabile con il segno LÍL, egli lesse
en.líl.ti».13

12 Aspesi, in Negri 2000b, p. 24.


13 Biga, in Negri 2000b, p. 35.
50 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Oltre al caso di TI “freccia” impiegato per scrivere il suo


omofono molto simile TI(L) “vivere”, altri esempi sumerici di
segni per una parola usati anche per rappresentare l’omofono
sono: l’ideogramma del “(recipiente con) latte” (sum. GA)
per il prefisso verbale ga-; il segno GI “canna” usato in una
forma leggermente modificata per scrivere il verbo GE4
“ritornare”; il segno raffigurante il battente di una porta e già
impiegato per GÁL “aprire” usato per scrivere anche la forma
verbale GÁL “essere presente”, foneticamente molto vicina; il
segno RA “rompere” per il suffisso del complemento oggetto
indiretto (dativo) -ra; il segno E “canale” per la sillaba [e]; il
segno A “acqua” per il suffisso del genitivo e del locativo -
a; il segno KA “bocca” per il suffisso del doppio genitivo -ka;
il segno AN “cielo” per l’infisso verbale -an-.14
«Questo principio consentì anche l’utilizzo dei segni
cuneiformi con valore puramente fonetico nella scrittura di
lingue completamente diverse dal sumerico, in primo luogo di
quelle semitiche attestate nel Vicino Oriente antico già nel III
millennio a.C.».15
A questo punto è però opportuno precisare che i segni della
scrittura sumerica arcaica (cosiddetta “protocuneiforme”)
sono comunemente chiamati “pittogrammi” perché molte
volte si tratta di veri e propri disegni, ancorché molto sempli-
ficati, riproducenti le forme degli esseri e degli oggetti ai
quali si riferiscono (per esempio una testa di bue, di asino o di
maiale; una freccia; un pesce; un uccello; una montagna; la
sagoma di un sacco, ecc).
C’è da aggiungere, tuttavia, che nella maggior parte dei
casi l’oggetto raffigurato diventa irriconoscibile, «la parte è
presa per il tutto e l’effetto per la causa, con una specie di sti-
lizzazione condensata»;16 per esempio il concetto di “donna”
è rappresentato dal triangolo pubico e quello di “fecondare”

14 Biga, in Negri 2000b, p. 40 s.; Lancellotti 1962, p. 12 s.


15 Biga, in Negri 2000b, p. 40.
16 Ifrah 1983, p. 183.
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 51

dal disegno del pene, quello di “dio” da una stella, quello di


“pecora” da un cerchio tagliato dalla croce (quest’ultimo
esempio mostra come la correlazione tra concetto e segno
semplificato sia, in parecchi casi, per noi incomprensibile).
In ogni evenienza nel presente studio si è evitato accurata-
mente di applicare il termine “pittogramma” ai segni sumeri-
ci arcaici, al fine di non ingenerare confusione rispetto a
quanto si è sopra sostenuto circa la questione della fase pre-
scritturale delle pittografie; unica parziale eccezione sarà
l’uso dell’espressione “composizioni pittografiche” (sumeri-
che, cinesi, rongorongo).
L’iconismo che sta alla base della scrittura sumerica arcai-
ca andò comunque del tutto perso con la trasformazione radi-
cale che investì tutti i caratteri in epoca presargonica (2700-
2600 a.C.).
Tale trasformazione, che determinò il passaggio dalll’ico-
nica scrittura protocuneiforme alla vera e propria (e aniconi-
ca) scrittura cuneiforme, fu determinato da esigenze di sem-
plificazione del tracciato e da una concreta sostituzione del-
l’attrezzo impiegato per scrivere sull’argilla.

EVOLUZIONE DEL SEGNO “DIO/CIELO”


52 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

«Invece di usare una punta per tracciare linee più o meno


complicate di un certo segno pittografico, si preferì ormai
l’impiego di un gambo di canna (o di un’asticciola d’osso o di
avorio). Questa linea fu impressa sull’argilla fresca, per rea-
lizzare con un solo movimento e senza sbavature un segmen-
to di retta che implicava ovviamente minor tempo che un trac-
ciato eseguito con una punta. È chiaro che il nuovo stilo
generò una forma affatto diversa di caratteri, dai tratti più
accentuati e caratterizzati da un aspetto angoloso: i segni
cuneiformi (dal latino cuneus “angolo”)».17
Abbastanza ben sviluppata, già nella scrittura cuneiforme
sumerica, è la terza categoria di segni (accanto ai logogrammi
e ai fonogrammi) tipica delle scritture ideografiche: i deter-
minativi, cioè quegli originari logogrammi che hanno assunto
la funzione ulteriore di indicare la categoria di appartenenza
di certi altri logogrammi o (gruppi di) fonogrammi cui veni-
vano preposti (essendo forse anche letti dai Sumeri, per lo
meno in età più risalente), per sciogliere eventuali ambiguità
e facilitare la comprensione e la lettura; per esempio i nomi di
divinità erano preceduti dal segno per “dio” (DINGIR); i
nomi di mese dal segno ITU “mese”; i nomi di corsi d’acqua
da ÍD “fiume”; i nomi di Stati da KUR “regione”; i nomi di
piante da Ú “pianta”, “erba”; i nomi di oggetti lignei da GIŠ
“legno”; i nomi di oggetti di canna da GI “canna”; ecc.
Tutti i determinativi sumerici precedevano le parole (scrit-
te logograficamente o fonograficamente) cui si riferivano,
tranne quattro: KI “terra”, “paese” (dopo nomi di città o di
regioni); QU “uccello” (dopo nomi di volatili); QA “pesce”
(dopo nomi di pesci); SAR “legume” (dopo nomi di piante
alimentari).
L’insieme dei determinativi sumerici passò pressoché inte-
gralmente (persino con l’eccezione dei determinativi pospo-
sti) nel sistema di scrittura accadico.

17 Ifrah 1983, p. 191 s.


2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 53

Uno stesso segno della scrittura cuneiforme poteva peral-


tro essere polifunzionale (fungere cioè, a seconda dei conte-
sti, da logogramma, da fonogramma o da determinativo) e/o
polifonico (poteva cioè essere letto in diversi modi); un esem-
pio chiaro è il l’antico segno della stella che valeva come
logogramma per “dio” (DINGIR), per “cielo” (AN) e per il
nome del dio del cielo An; fungeva da fonogramma col valo-
re di an ed era impiegato come determinativo preposto ai
nomi divini (per esempio DINGIREn-líl).
I fonogrammi, già nella scrittura sumerica, non erano
impiegati solo per scrivere intere parole o elementi gramma-
ticali, ma anche come “complementi fonetici”, come ausilii,
cioè, per facilitare la lettura di logogrammi, specialmente di
quelli polivalenti o polifunzionali di cui s’è detto.
Proprio il segno della stella cui s’è dianzi accennato pote-
va essere seguito dal segno dell’acqua impiegato fonetica-
mente per esprimere la posposizione locativa -a; in tal caso
restava però una duplice possibilità di lettura: dingira “presso
il dio” o ana “in cielo”, risolvibile, la maggior parte delle
volte facilmente, in base al contesto; tuttavia lo scriba poteva
anche scegliere di aiutare il lettore aggiungendo al logogram-
ma, invece della semplice -a, i sillabogrammi -ra o -na, che
avrebbero inequivocabilmente disambiguato la lettura, rispet-
tivamente come dingira o ana.
In tale esempio gli elementi subgrafematici18 -r- e -n-
(ovvero, in concreto, l’uso dei sillabogrammi -ra e -na) fun-
gono da complementi fonetici.
Una caratteristica della scrittura sumerica arcaica, che
offre un interessante parallelismo con un’analoga pratica della
scrittura cinese, è quella delle combinazioni o composizioni
di segni (logogrammi) evocatrici di nuove idee; per esempio
il simbolo della testa umana, o meglio della bocca (KA), asso-

18 Con “grafema” intendo sempre l’unità minima del sistema di scrit-


tura (cioè ogni singolo segno autonomo) e con “grafo” ogni realizzazione
concreta del grafema-modello astratto.
54 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

ciato con quello della ciotola del cibo (NINDA), formò il


segno per “mangiare” (KÚ); una simile associazione di
“bocca” (KA) con il simbolo dell’acqua (A) indicò il “bere”
(NAG); un’associazione del segno per “donna” (SAL) con
quello per “montagna” / “paese straniero” (KUR) formò il
segno per “schiava” (GÉME).
Presso i Sumeri, comunque, la tendenza al fonetismo rima-
se nel complesso abbastanza limitata, permanendo nella loro
scrittura un impiego molto diffuso di segni logografici.
Quando poi gli Accadi adottarono la scrittura cuneiforme
sumerica svilupparono maggiormente questa tendenza al
fonetismo, soprattutto per ragioni connesse alla stessa lingua
accadica che doveva ora essere codificata per iscritto.

ESEMPIO DI CUNEIFORME ACCADICO

L’accadico (appartenente al gruppo semitico) era infatti


una lingua di tipo flessivo che differiva grandemente, dal
punto di vista tipologico, rispetto al sumerico, il quale pre-
sentava caratteri marcatamente agglutinanti, nonché alcuni
aspetti che lo avvicinano alle lingue di tipo isolante, come
quelle del gruppo sino-tibetano.
Si noti bene che le affinità del sumerico appena rimarcate
sono di natura tipologica, perché sul piano genealogico non si
è potuto finora certamente connetterlo con nessuna delle
famiglie linguistiche note.
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 55

La scrittura cuneiforme ebbe grande fortuna per molti


secoli (anzi addirittura per tre millenni) e conobbe una vastis-
sima diffusione, venendo impiegata per la trascrizione di lin-
gue molto diverse tra di loro: per esempio, oltre ai due rami
dell’accadico (cioè l’assiro e il babilonese), l’ittito, il neo-ela-
mitico, l’urrico.
Nel cuneiforme, in ogni modo, la percentuale relativa di
fonogrammi (cioè di sillabogrammi) e di logogrammi variò
sensibilmente a seconda della lingua trascritta e sia sul piano
sincronico che su quello diacronico; inoltre, in tutte le epoche,
il cuneiforme fu impiegato divesamente, sotto questo punto di
vista, a seconda del tipo di testo.
Un altro carattere della lingua sumerica era quello di esse-
re formata in maggior parte da parole monosillabiche (questa
particolarità è propria anche del cinese più antico; in più sem-
bra che, come in cinese, anche in sumerico la tonalità fosse
pertinente), il che ha favorito la conservazione nell’uso scrit-
torio di un’ampia percentuale relativa di logogrammi; peral-
tro le parole polisillabiche, sono generalmente scritte tramite
fonogrammi.
Questo carattere fortemente monosillabico del sumero
determinò anche, al momento della scoperta e della propaga-
zione del fonetismo, la formazione di un sistema di fono-
grammi sillabici, cioè di sillabogrammi, proprio perché l’im-
piego fonetico dei segni derivava il più delle volte dall’anali-
si di un rapporto tra segno-logogramma e parola monosillabi-
ca, cui si faceva necessariamente corrispondere una correla-
zione tra segno (ora anche fonogramma) e sillaba come unità
minima di analisi-articolazione della lingua.
La scrittura accadica, come esempio di adattamento di un
sistema già vigente (e non di una invenzione ex novo con
“semplice” copia dell’idea), ebbe modo di accrescere e svi-
luppare un vasto repertorio di sillabogrammi di tipo V, VC,
CV, CVC (con casi molto rari di fonogrammi bisillabici come
bala, amat, nanna ecc.), più adatto alla trascrizione del suo
56 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

lessico, in grande maggioranza composto da termini polisilla-


bici, senza peraltro eliminare completamente i logogrammi.
Questo genere di “reazione” nel processo di adattamento
del sistema di scrittura ideografica sumerica alla lingua acca-
dica ci permette di sottolineare che (qui come negli altri casi
verificabili) l’elaborazione ex novo di un sistema di scrittura
da parte di inventori (o copiatori dell’idea), il sistema grafe-
matico tende ad aderire al sistema fonematico del codice lin-
gua soggiacente (senza, peraltro, che sia mai stata raggiunta,
in nessuna scrittura storica, nemmeno alfabetica, una corri-
spondenza del tutto precisa tra ordine grafematico e ordine
fonematico).
Oltre alle ragioni derivanti dal processo di adattamento
all’accadico di una scrittura creata e “cresciuta” (con l’acqui-
sizione del fonetismo) attorno a una lingua tipologicamente
assai diversa (con un lessico in larga parte monosillabico),
esistono altri motivi per cui si è giunti più volte nella storia
della scrittura all’elaborazione di un sistema di fonogrammi
di tipo sillabico (sillabogrammi), come “supporto” (e nel-
l’àmbito) di una scrittura ideografica o come repertorio grafe-
matico tout court di una scrittura fonetica.
Il fenomeno è verificabile in più casi di creazione ex novo
(indipendente o per copia dell’idea), come nelle scritture
mesoamericane (specificamente nel caso del meglio attestato
e conosciuto sistema maya), nelle scritture geroglifica e linea-
re di Creta e nella scrittura cherokee (si esclude dagli esempi
la scrittura cinese perché anche il cinese antico, come il sume-
rico, disponeva di un lessico largamente monosillabico, il che
rappresenta la ragione essenziale della corrispondenza tra
segno e sillaba propria di quella scrittura; si esclude alttresì il
sillabario giapponese, sorto da un processo di adattamento del
modello cinese, in stretta analogia con il passaggio tra scrittu-
ra sumerica e accadica).
Gli “altri motivi” per la spontanea creazione di un reperto-
rio di fonogrammi di tipo sillabico stanno nella natura stessa
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 57

della “sillaba”, minima combinazione di fonemi funzionante


come unità pronunciabile, la cui nozione, se pur difficile da
formalizzare scientificamente, «appare anche “intuitivamen-
te” importante, sicché anche il parlante poco consapevole di
teorie linguistiche è indotto istintivamente a segmentare gli
enunciati secondo schemi sillabici».19
Una vocale da sola, come si sa, può costituire una sillaba,
mentre una consonante “da sola” non è una realtà pronuncia-
bile, nel senso che essa si può articolare solo con una vocale
d’appoggio (sia pure solo il suono “indistinto” [.]); questo
carattere “astratto” della consonante ci rende consapevoli
delle difficoltà che devono essere state superate per raggiun-
gere, una volta acquisito il fonetismo, l’analisi delle conso-
nanti come elementi autonomi.
Su questa analisi è strettamente radicata l’invenzione di
quello strumento così importante (con cui si raggiunge l’api-
ce della funzionalità e della semplicità della scrittura) che è
l’alfabeto.
Tale tipo di analisi fu realizzato per la prima volta in uno
dei sistemi di scrittura più antichi del mondo: il geroglifico
egiziano.
Dato che la scrittura egiziana compare, a quanto sembra,
poco dopo quella sumerica (verso il 3000 a.C.) e sono prova-
ti, già per quelle epoche remote, contatti diretti tra le due
civiltà, non è escluso che l’invenzione dei geroglifici non sia
stata del tutto autonoma ma frutto di una copia d’idea.
Quest’ipotesi sarebbe anche corroborata dall’assenza, in
pratica, di materiale egiziano relativo a una fase prescrittura-
le connessa a esigenze puramente amministrative, come quel-
la sumerica;20 la scrittura egiziana risulta anzi, fin dalle sue
più risalenti attestazioni, già come un sistema abbastanza ben
sviluppato, già dotato, nonostante l’uso ancora primitivo e

19 Santulli, in Negri 1996, p. 51.


20 Cfr. Aspesi, in Negri 2000b, p. 21.
58 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

limitato, perfino di fonogrammi impiegati per scrivere nomi


propri di persona.
Del resto, pur postulando un’invenzione autonoma e più o
meno concomitante di geroglifici egiziani e scrittura sumeri-
ca, non si può fare a meno di rimarcare l’assenza di indizi
significativi di una fase protoscritturale, davvero molto “stra-
na” a dispetto del clima e dell’ambiente che, come si sa, è par-
ticolarmente favorevole per la conservazione di testimonian-
ze, anche di un passato lontanissimo.
D’altro canto in base alle forme dei segni si può sostenere
senza ombra di dubbio che il sistema scrittorio egiziano fu
creato ex novo (cioè senza attingere nemmeno minimamente
al possibile modello sumerico).
Come in genere avviene per i sistemi creati ex novo, il
repertorio grafematico (in questo caso di scrittura ideografica
si fa particolare riferimento al repertorio dei fonogrammi)
tende ad aderire abbastanza bene21 a quello fonematico della
lingua codificata; in geroglifico, ad esempio, sono distinti, a
livello di sistema di grafemi, i vari suoni “laringali” (A a h h),
mentre nella scrittura accadica essi non sono notati (la lingua
sumerica della scrittura-modello era priva di tali fonemi) e
sembrano essere confluiti, anche foneticamente per influsso
della grafia, nell’Alef, o ridotti a zero.22
La scrittura geroglifica egiziana è però connotata da
un’importante particolarità: il funzionamento del codice scrit-
to è imperniato sulla notazione del mero scheletro consonan-
tico delle parole; la notazione delle vocali (che, peraltro, in
origine erano solo a, i, u) fu infatti ritenuta un’esigenza super-

21 S’intende nella vera e propria fase scritturale, se c’è stata una fase

protoscritturale caratterizzata dall’uso esclusivo di logogrammi (e dal


conseguente uso limitato a testi contabili o simili della protoscrittura, non
ancora “matura” per una notazione adeguata di qualsiasi testo della lin-
gua).
22 Lancellotti 1962, p. 23; per una trattazione più aggiornata v.

Dolgopolsky 1999, p. 35 s.
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 59

flua e ridondante,23 in quanto la loro distribuzione era reputa-


ta abbastanza facilmente integrabile sulla base del tipo di
logogramma impiegato, del contesto di ricorrenza e di altri
espedienti grafici come i determinativi.
Tale peculiarità deriva da una caratteristica della lingua
egiziana in cui, a differenza di molte altre lingue del mondo,
i morfemi lessicali e grammaticali non si combinano succes-
sivamente, ma “innestandosi” gli uni negli altri; la “radice”,
solitamente triconsonantica, costituisce il morfema lessicale,
mentre uno schema vocalico discontinuo, intercalato tra le
consonanti della radice costituisce il morfema grammaticale
(derivazionale o flessionale).
Una morfologia simile è propria anche delle lingue semiti-
che (come l’accadico, l’arabo o l’ebraico), che sono d’altron-
de geneticamente connesse con la lingua dei geroglifici egi-
ziani, facendo tutte parte del grande gruppo “camito-semiti-
co” (o “afro-asiatico”, secondo il nome proposto da Joseph
Greenberg): per esempio in arabo nella radice k-t-b “scrive-
re”, “scrittura” si possono intercalare gli schemi vocalici: -i-
â- “nome di oggetto al singolare”; -ú-u- “nome di oggetto al
plurale”; -â-i- “nome d’agente”; -á-a-a “III persona singolare
maschile del perfettivo”, ottenendo le diverse parole: kitâb
“libro”; kútub “libri”; kâtib “scrittore”; kátaba “lui scrisse”.
Ciò nondimeno, come s’é visto, l’accadico, pur essendo
una lingua semitica, nell’ambito della sua trascrizione ideo-
grafica sviluppò un sillabario complesso e non giunse mai a
un’analisi grafematica imperniata sullo scheletro consonanti-
co (la “radice”) delle parole; ciò avvenne per l’ovvia ragione
che gli Accadi e i loro successori operarono un adattamento di
un sistema scrittorio preesistente, al cui modello si attennero,
ampliando e cercando di perfezionare il repertorio dei sillabo-
grammi per migliorare l’adeguatezza del sistema alla trascri-

23Si prescinde, per semplicità, dalla questione delle matres lectionis


o complementi vocalici, per cui cfr. Roccati, in Negri 2000b, p. 66 s.
60 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

zione della loro lingua.


Una creazione ex novo come per i geroglifici egiziani com-
portò invece una riflessione impostata interamente sulla lin-
gua da codificare (non sulla lingua e su un sistema scrittorio
preesistente e sulle diverse possibilità di meglio combinarli,
come per l’accadico), la cui peculiare struttura morfologica
favorì e determinò il “riconoscimento”, difficile e non affatto
intuitivo, dei suoni consonantici come entità autonome.
Tale riconoscimento, ossia la formazione di una notazione
di tipo consonantico, portò, nel tempo, alla costituzione di una
serie di 24 segni con valore fonetico monoconsonantico
(accanto a molti altri fonogrammi biconsonantici o triconso-
nantici), largamente impiegati anche come complementi fone-
tici (per facilitare la lettura di logogrammi o di fonogrammi
plurilitteri) o per la notazione di elementi grammaticali e
costituenti, di fatto, un vero e proprio alfabeto (consonantico).
Per ragioni connesse alla sacralità e al grandissimo presti-
gio della tradizione geroglifica (motivi in larga parte simili a
quelli per cui oggi i Cinesi non abbandonano la scrittura ideo-
grafica per l’alfabeto pinyin) gli antichi Egiziani non rinun-
ciarono al complesso sistema (comportante l’uso di circa 700
segni) dei geroglifici, che non venne mai ridotto al solo alfa-
beto di 24 segni, che pure era ormai “scoperto”, e avrebbe
potuto trascrivere efficientemente qualunque parola egiziana
con lo stesso principio delle scritture semitiche del II millen-
nio a.C.
A causa di questa mancata “semplificazione”, oggi non si
può dire che gli Egiziani furono gli inventori dell’alfabeto,
eppure ad essi va riconosciuto il merito essenziale di avere per
primi individuato le consonanti come entità autonome, e tale
difficile riconoscimento operato in Egitto fu, con la massima
verosimiglianza alla base della creazione del primo sistema
scrittorio fonetico di tipo alfabetico.
In effetti l’alfabeto consonantico fenicio e i suoi antece-
denti si sono tutti sviluppati in un’area ampiamente influen-
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 61

zata culturalmente (e in certi periodi anche politicamente)


dalla potente e millenaria civiltà egiziana.
Tra queste scritture precorritrici (la cui precisa collocazio-
ne cronologica è spesso dibattuta), pur ancora sostanzialmen-
te indecifrate, ce ne sono alcune (come la protocacanea e la
protosinaitica, la cui diffusione è datata a partire dalla prima
metà del II millennio a.C.) che, per il numero di segni impie-
gati, molto probabilmente devono già reputarsi sistemi alfa-
betici consonantici, ma che per il loro iconismo richiamano il
geroglifico egiziano; questo è ancora più evidente nel caso
della scrittura cosiddetta “pseudogeroglifica“ (proprio per la
forma egittizzante dei segni) usata nella città fenicia di Biblo,
a quanto pare tra la fine del III e l’inizio del II millennio a.C.

ISCRIZIONI PROTOSINAITICHE
62 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

CONFRONTO FORMALE TRA SEGNI PROTOSINAITICI ED EGIZIANI

Questa scrittura pseudogeroglifica, a tutt’oggi indecifrata,


«con molte probabilità costituisce un “anello” nella trafila»
dalla serie dei segni monoconsonantici egiziani «agli “alfabe-
ti consonantici”»24 semitici.

24 Brugnatelli, in Negri 2000b, p. 116.


2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 63

Dobbiamo accennare anche all’importante alfabeto ugari-


tico (XIV-XIII secolo a.C), che, nel tipo di evoluzione per
“copia (parziale) dell’idea” dalla serie monoconsonantica dei
geroglifici egiziani (e, in generale, dal cruciale riconoscimen-
to della consonante come elemento autonomo), si spiega
come la «continuazione di un antico alfabeto lineare (a noi
non pervenuto) modificato per adattarlo alla scrittura
cuneiforme».25

TESTO IN SCRITTURA PSEUDOGEROGLIFICA DI BIBLO

25 Brugnatelli, in Negri 2000b, p. 118.


64 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

In questo alfabeto semitico, già esistente nel XIV secolo


a.C. (poiché servì da modello per la scrittura ugaritica), va
riconosciuta una fase più antica, non (ancora) direttamente
attestata dell’alfabeto fenicio: ciò è provato da una tavoletta
scoperta a Ugarit nel 1949, con i segni dell’alfabeto locale
scritti secondo l’ordine alfabetico fenicio, che è poi riflesso
nel nostro moderno abc (un documento analogo con trascri-
zione in accadico è stato rinvenuto nel 1955).

TAVOLETTA CONTENENTE L’ALFABETO DI UGARIT

La differenza tra alfabeto ugaritico e alfabeto fenicio (e


suoi immediati antecedenti) è pressoché esclusivamente di
natura formale: i segni fenici hanno uno stile lineare (ad esem-
pio: ) b g d h), mentre quelli di Ugarit hanno
uno stile cuneiforme (ad esempio:     ).
In verità, però, l’alfabeto di Ugarit presentava, dalla sua
origine, una particolarità: pur essendo un alfabeto fondamen-
talmente consonantico, esso, tuttavia, notava la consonante
’alef (il “colpo di glottide”), e solo quella, con una vera e pro-
pra serie di tre sillabogrammi (del tipo ’V), diversi a seconda
della vocale che seguiva:  (a)  (e)  (u).
Questo fenomeno riflette, da un lato, il tradizionale e (già
allora) antichissimo carattere sillabico dei fonogrammi delle
scritture cuneiformi derivate da quella sumerica e allo stesso
tempo richiama, dall’altro lato, l’impiego delle matres lectio-
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 65

nis, cioè di segni degli alfabeti consonantici semitici usati per


la trascrizione (anche se sporadica e limitata) di valori vocali-
ci.26

CONFRONTO TRA LE SCRITTURE ACCADICA, UGARITICA E FENICIA

26 Cfr., per esempio, Brugnatelli, in Negri 2000b, p. 113 s.


66 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Inoltre anche le rassomiglianze formali (non sempre certe)


riscontrate tra segni dell’alfabeto ugaritico e alcuni caratteri
dell’alfabeto fenicio con lo stesso valore fonetico nonché con
alcuni sillabogrammi accadici sembrano confermare che al
momento della creazione della serie alfabetica ugaritica si
tenne conto sia dei segni del modello fenicio sia di quelli della
vecchia scrittura cuneiforme.
Ricordiamo, en passant, che l’introduzione della regolare
notazione delle vocali (che portò dunque a vero compimento
l’“invenzione” dell’alfabeto moderno) va attribuita a quei
Greci che per primi adattarono l’alfabeto fenicio alla trascri-
zione della loro lingua non semitica, impiegando con un
nuovo valore alcuni segni per consonanti semitiche non esi-
stenti in greco, come, ad esempio: greco arc. A per [a] (da
fenicio ) per [÷]) oppure greco arc. O per [o] (da fenicio (
per [¿]).
Abbiamo avuto modo di considerare a fondo come il punto
di partenza della creazione della scrittura sumerica fu sostan-
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 67

zialmente la necessità di rispondere adeguatamente a un’esi-


genza contabile, nella misura in cui la memoria non riusciva
più a sopperire alle necessità negoziali e amministrative, ren-
dendosi così indispensabile un supporto mnemotecnico sem-
pre più preciso e affidabile.
Uno sviluppo analogo, in risposta a un’impellente esigen-
za contabile, non si riscontra in Egitto; tuttavia qui i docu-
menti più antichi pongono in netto rilievo una seconda note-
volissima funzione assolta dalla scrittura fin dai primordi:
quella propagandistica.
Tra i documenti protodinastici spiccano infatti, per interes-
se e rilevanza storica, la paletta e la mazza di re Narmer (per
lo più identificato con Menes, il primo re della prima dinastia
dell’Alto e del Basso Egitto unificato, e collocato approssi-
mativamente attorno al 3000 a.C.).
La paletta o tavolozza di Narmer è davvero un reperto
eccezionale, dato che sembra testimoniare chiaramente la
celebrazione dell’avvenuta unificazione dei due paesi (ossia
della conquista del Nord a opera del Sud) sotto lo stesso re
Narmer.
Per la precisione si tratta di una tavola di scisto alta circa
64 centimetri; le sue dimensioni, il peso e la decorazione
inducono a credere che essa avesse la funzione di una paletta
cerimoniale piuttosto che un supporto per la preparazione di
cosmetici, come comunemente si ritiene.
Essa fu rinvenuta nella stagione di scavi 1897-1898 dal-
l’archeologo inglese James Edward Quibell a Hierakonpolis,
capitale predinastica dell’Egitto meridionale, in un deposito,
assieme ad altri oggetti, come i frammenti della mazza di
Narmer e di quella del re “Scorpione”, uno dei predecessori
dello stesso Narmer.
68 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Dal punto di vista della scrittura, i geroglifici sono limitati


al nome del re (Narmr) e ai nomi (o titoli) dei suoi collabora-
tori e dei principi sconfitti: questo scarso materiale indica
comunque senza dubbio che il cruciale principio del foneti-
smo (per la trascrizione dei nomi propri di persona) era un
fatto ormai ben acquisito in Egitto già nel 3000 a.C.
Per il resto la paletta riporta una decorazione definibile, a
tutti gli effetti, come una pittografia.
Sul rovescio si vede Narmer, il cui nome è scritto median-
te i geroglifici del pesce gatto nar e del punteruolo mr, in
piedi, con la corona bianca del Sud (¨) e vestito con una tuni-
ca e un gonnellino alla cui cintura è appesa una coda di toro;
il re è raffigurato nell’atto di spaccare, con una mazza pirifor-
me impugnata con la destra, la testa di un principe nemico
inginocchiato, il cui nome (WaS) è scritto foneticamente tra-
mite il geroglifico dell’arpione (wa) e della vasca (S). Il re è
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 69

seguito dal portasandali, designato verosimilmente con il tito-


lo di “servo (Hm: p) del re27”, e sotto i suoi piedi giacciono i
corpi nudi di due nemici, apparentemente importanti perché
designati ciascuno da un carattere geroglifico.28

MAZZA DEL RE SCORPIONE

27 Se il fiore a sette petali fu (come sembra, dato che precede anche il


nome del re Scorpione) un antico geroglifico (poi dimenticato) indicante
la regalità. In questo caso l’ordine dei due geroglifici relativi al portasan-
dali sarebbe invertito per ragioni di rispetto, come si usò fare normalmen-
te nella scrittura egiziana dei secoli successivi, in rapporto a nomi divini o
reali (c.d. “metatesi onorifica”).
28 Si tratta del segno geroglifico del muro (forse già da leggere inb)
e del segno Æ (sA), i quali, secondo alcuni interpreti, indicano toponimi.
Per tutta la descrizione della paletta e della mazza di Narmer, cfr. Grimal
1988, p. 45 ss.
70 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Una vera e propria pittografia carica di simbolismo sovra-


sta la figura del principe sconfitto ed è stata parafrasata da
Alan Gardiner con queste parole: “Il dio-falco Horus porta (al
re) prigionieri della terra del papiro (cioè di &A-mHw,29 il
Delta)”.
Questo tipo di pittografie simboliche sarebbe piaciuto a
Kircher, ma in verità, come visto, esse non possono conside-
rarsi una vera e propria forma di scrittura, non essendoci una
precisa corrispondenza almeno tra segno grafico e parola e,
dunque, potendosi “parafrasare” (piuttosto che “leggere”) in
molti e svariati modi.
Il diritto della tavolozza, sotto il nome del re (ossia il suo
“nome di Horus” Narmer nel serekh e attorniato da due teste
di Hathor) scritto esattamente come nel rovescio, è diviso in
tre settori.
Nella fascia superiore il sovrano, questa volta con la coro-
na rossa del Nord (ä) e con il suo nome riscritto davanti,
avanza fieramente, sempre seguito dal portasandali e prece-
duto dalle insegne delle province vittoriose e da un personag-
gio in cui si è voluta vedere una prefigurazione del vizir.30
Dinanzi al corteo reale, dominati dal simbolo di Horus trion-
fatore che si reca in pellegrinaggio per nave alla città santa di
Buto,31 sono allineati su due file dieci corpi di nemici uccisi,
con le teste mozzate poste tra le gambe.

29 In caratteri geroglifici 3 … o anche semplicemente …, segno


che rappresenta un ciuffo di papiri, precisamente come uno degli elemen-
ti della pittografia.
30 Davanti alla testa del personaggio in questione è inciso un gruppo

di due geroglifici monoconsonantici (t e °) che si dovrebbero traslitte-


rare come Tt. Tale parola presenta una certa affinità con il nome del vizir
in antico egiziano (traslitterato TAty), che tuttavia più tardi avrà un’orto-
grafia diversa (Ã °).
31 Su questo punto seguiamo Grimal 1988, p. 48; sono state tuttavia

proposte altre interpretazioni.


2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 71

SVILUPPO DELLA MAZZA DI NARMER

Nella fascia centrale c’è un motivo costituito da due ani-


mali fantastici, leonini, i cui colli allungati all’inverosimile e
intrecciati formano un cerchio che in questa, come in altre
palette pre- e protodinastiche, è di solito interpretato come lo
scodellino per il belletto. I musi dei due animali favolosi si
fronteggiano e sono trattenuti con funi da due figure umane
laterali. Alcuni commentatori hanno pensato di poter indivi-
duare in questa decorazione una raffigurazione metaforica
dello scontro tra Nord e Sud.
La fascia inferiore del diritto della tavolozza di Narmer
rappresenta per simboli e ancora una volta il suo trionfo: un
toro (cioè il sovrano stesso) smantella a cornate la cinta mura-
ria di una città, calpestando nel contempo un nemico vinto.
La decorazione della mazza di Narmer, ugualmente rive-
lante connotati pittografici molto marcati, conferma questa
vittoria; vi si vede il sovrano, protetto da un baldacchino ceri-
moniale e accompagnato dagli stessi due dignitari della palet-
ta, che riceve, sotto la protezione degli stessi emblemi e con
l’ossequio di alcuni personaggi, il bottino delle sue conquiste,
rappresentato da 120.000 prigionieri, 400.000 tori e 1.422.000
capre.
72 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Siamo perciò sicuri che il sistema geroglifico di trascrizio-


ne numerica (di tipo addizionale e a base decimale) era già
perfettamente elaborato.

Il genere di enumerazione o inventario della mazza di


Narmer potrebbe in effetti costituire la “punta dell’iceberg” di
un’antichissima documentazione contabile egiziana, analoga
a quella protocuneiforme, ma andata per qualche ragione per-
duta.
L’esigenza di propaganda è comunque l’innegabile e
importante filo conduttore direttamente testimoniato dalle più
antiche iscrizioni geroglifiche conosciute.
Jared Diamond ha giustamente posto nella massima evi-
denza il fatto che la famiglia di scritture mesoamericane, cui
appartengono quella olmeca, quella zapoteca e quella maya,
rappresenta l’unico caso, oltre all’esempio sumerico, per cui
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 73

si può reputare certa un’invenzione del tutto autonoma e indi-


pendente: ciò si ricava non tanto dallo studio di materiale risa-
lente all’età delle origini del codice scrittorio mesoamericano,
che è in verità scarso o inesistente, quanto piuttosto dalla sem-
plice constatazione di come e di quanto a lungo il continente
americano sia rimasto culturalmente isolato dal resto del
mondo.
Tale premessa riveste del massimo interesse l’analisi del
funzionamento della scrittura maya (che è la più attestata e la
più studiata dell’area), la quale si rivela effettivamente come
un sistema di logogrammi, fonogrammi (sillabogrammi) e
determinativi strutturalmente del tutto analoga alle altre gran-
di scritture ideografiche primordiali: la sumerica, la geroglifi-
ca egiziana e la cinese.
Tutto ciò mostra come siano di fatto riscontrabili e defini-
bili principi o linee di sviluppo “universali” nel processo di
creazione autonoma di una scrittura, derivanti da soluzioni
analoghe per esigenze simili e da analoghi processi di analisi
della lingua da codificare. Ad esempio la necessità di trascri-
vere nomi propri è certamente stata dovunque uno dei primi e
fondamentali impulsi verso la scoperta del fonetismo (inteso
come uso fonetico dei segni grafici).

VARI MODI DI SCRIVERE LA PAROLA BALAM “GIAGUARO” USATI IN MAYA: COL SEM-
PLICE LOGOGRAMMA, CON COMPLEMENTI FONETICI O CON SOLI FONOGRAMMI
74 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Come per i geroglifici egiziani anche nel caso delle scrit-


ture mesoamericane le più antiche attestazioni (di tipo epigra-
fico monumentale) rimaste rispondono all’esigenza di propa-
ganda del ceto religioso e politico dominante.
La questione dell’interpretazione della scrittura maya, con
maggiori dettagli sul funzionamento della stessa, sarà affron-
tata nel capitolo successivo.
Una trattazione, sia pur sommaria, del tema dell’origine
della scrittura non può prescindere da qualche riferimento alla
scrittura ideografica cinese.
Oggi si ritiene che le più antiche testimonianze della scrit-
tura cinese siano costituite dalle iscrizioni (per lo più di carat-
tere oracolare) incise su gusci di tartarughe e su ossa di bue o
di altri animali (Jia Gu Wen “iscrizioni su gusci e ossa”) e
risalenti fino al XIV secolo a.C.

OSSO ORACOLARE CINESE DEL 1200-1180 A.C.


2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 75

Tracce di una più antica fase protoscritturale sono forse


riconoscibili nei segni incisi su frammenti di terracotta e attri-
buibili alla civiltà di Losham (2800-2300 a.C.); nel 1992 nella
provincia dello Shandong, nella Cina orientale, è stato rinve-
nuto uno di questi frammenti di terracotta (datato al 2300 a.C.
circa) recante, a quanto pare, una sequenza di ben undici
caratteri.32
Essendo successiva alla scrittura sumerica, anche la crea-
zione della scrittura cinese, così come quella dei geroglifici
egiziani, può essere sórta da un procedimento di copia dell’i-
dea (c’è addirittura chi ritiene attraverso la scrittura della valle
dell’Indo); comunque anche per il cinese, come per i gerogli-
fici, risulta ovvio che non ci fu l’adattamento di un modello,
ma piuttosto una (ri)creazione ex novo.
La struttura tipologica dell’antica lingua cinese (classifica-
ta come lingua “isolante” [dunque pressoché priva di flessio-
ne e con un rigido ordine dei costituenti], con un vocabolario
in origine prevalentemente monosillabico33 e con pertinenza
dei toni) ha grandemente influito sul tipo di scrittura (anch’es-
sa ideografica, come tutte le primordiali), determinando,
almeno in origine, una schiacciante preminenza di logogram-
mi rispetto ai fonogrammi, che pure esistettero fin da tempi
molto antichi (il parallelismo con lo sviluppo della scrittura
sumerica è, a questo riguardo, molto pertinente).
Inoltre anche i segni della scrittura cinese, a onta delle loro
varie classificazioni antiche e moderne fondate su un’analisi
interna del sistema, si possono benissimo far rientrare nella
tripartizione logogrammi / fonogrammi / determinativi, che
connota tutte le scritture ideografiche. Una precisa esposizio-
ne di questa classificazione basata su un’analisi esterna (deri-
vante dalla comparazione e dall’indagine tipologica di tutti i

32 Le notizie relative a queste recenti e interessanti scoperte sono trat-


te da Huaqing 1998, p. VII s.
33 Oggi comunque la maggioranza delle parole è polisillabica; v., per

es., Störig 1988, p. 284.


76 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

sistemi di scrittura ideografici del mondo) sarà fornita nel


prossimo capitolo.
Passando dal tema, sufficientemente trattato, dell’origine a
quello della diffusione della scrittura, si osserva che essa «è
avvenuta con due modalità diverse, che trovano paralleli in
molti altri casi della storia della tecnologia e delle idee: se
qualcuno inventa un oggetto che funziona, come posso
costruire per mio uso e consumo qualcosa di analogo, sapen-
do che anche altri sono già riusciti nell’impresa? In molti
modi, due dei quali sono agli estremi: o copio pari pari il pro-
getto, modificandolo di poco, oppure mi servo solo dell’idea
di base e reinvento per conto mio tutte le specifiche, stimola-
to dal fatto che comunque è dimostrato che si può arrivare a
una soluzione, e finendo magari con un prodotto che non
somiglia a quello del primo inventore. Per fare un esempio
recente in proposito, ancora non sappiamo se la costruzione
della bomba atomica da parte dei sovietici avvenne per copia
del progetto o per diffusione dell’idea. Fu forse merito del-
l’arrivo in Russia dei documenti del progetto Manhattan,
rubati da qualche spia? O magari Stalin, alla notizia della
bomba di Hiroshima, si convinse che la cosa era fattibile e
spinse i suoi scienziati a lavorarci sopra, con il risultato che
questi arrivarono per conto loro a un prototipo di atomica
senza l’aiuto diretto dei precedenti studi americani? (…) Oggi
i linguisti usano il metodo della copia del modello per inven-
tare sistemi di registrazione di lingue non scritte. In gran parte
si basano su alfabeti già esistenti, e in alcuni casi sui sillaba-
ri. (…) In alcuni casi conosciamo addirittura il nome e il
cognome del responsabile della copiatura nel passato.
L’alfabeto cirillico che oggi si usa in Russia deriva da un adat-
tamento di alcune lettere greche ed ebraiche fatto nel IX seco-
lo da san Cirillo, un missionario greco in terre slave. I primi
testi scritti in una lingua germanica sono composti nell’alfa-
beto gotico, creato dal vescovo Ulfila nel IV secolo; come il
cirillico anche il gotico è un miscuglio di segni presi da varie
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 77

fonti: una ventina di lettere greche, cinque latine e due model-


late sulle rune o inventate dallo stesso Ulfila. In molti casi non
conosciamo i nomi degli inventori di un alfabeto, ma siamo in
grado di confrontare la forma delle lettere e di capire quale
altro sistema sia stato preso come modello. Per questo moti-
vo, siamo sicuri che la lineare B micenea è un adattamento
(…) della lineare A cretese. L’adattamento di un alfabeto esi-
stente è un fatto accaduto centinaia di volte, e sempre si sono
presentati parecchi problemi, perché non esistono due lingue
che abbiano esattamente lo stesso insieme di suoni. Alcune
lettere del modello possono venire semplicemente scartate,
perché corrispondono a fonemi inesistenti nella lingua d’arri-
vo. (…) Anche l’alfabeto latino è il risultato di un lungo pro-
cesso di copie e prestiti. Sembra che l’idea originaria di un
insieme di lettere sia nata solo una volta nella storia dell’u-
manità: tra i parlanti le lingue semitiche ancora diffuse negli
attuali Libano, Siria e Israele, nel II millennio a.C. Le centi-
naia di alfabeti esistenti ed esistiti sono tutti figli di quel lon-
tano capostipite, da cui sono generati quasi sempre per copia,
e in pochi casi (come per le lettere ogham in Irlanda) grazie
alla diffusione dell’idea di base».34

ALFABETO OGHAM (VERTICALE)

34 Diamond 1998, pp. 172 e 174-175.


78 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

ALFABETO OGHAM (ORIZZONTALE)

Jared Diamon presenta inoltre un caso esemplare e note-


volissimo di copia dell’idea di base: la creazione del sillaba-
rio cherokee ad opera dell’indiano analfabeta Sequoyah
(1765-1843).
«Un caso lampante di diffusione di un’idea è all’origine
del sillabario usato dai cherokee per scrivere la loro lingua,
ideato attorno al 1820 in Arkansas da un indiano di nome
Sequoyah. Egli si accorse che i bianchi facevano segni sulla
carta, e che ciò li aiutava a registrare e ricordare lunghi discor-
si. I dettagli di questo processo erano per lui misteriosi, per-
ché come quasi tutti i cherokee prima del 1820 era analfabeta
e non conosceva l’inglese. Sequoyah era un fabbro, e stimo-
lato dalla cosa iniziò con l’inventare un sistema per tenere il
conto di quanto gli dovevano i suoi clienti. Ogni debitore era
rappresentato con un disegno, attorno al quale linee e cerchi
di varie misure indicavano la cifra dovuta. Attorno al 1810 si
mise a escogitare un sistema per scrivere la lingua cherokee.
Iniziò con un sistema di pittogrammi, ma abbandonò l’idea
perché troppo complicata. Si mise allora a inventare segni che
corrispondessero alle singole parole, ma smise quando si
accorse che le centinaia e centinaia di segni non bastavano
mai.
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 79

LOGOGRAMMI IDEATI DA SEQUOYAH

Alla fine, Sequoyah si rese conto che tutte le parole erano


costituite da un piccolo numero di suoni che si ripetevano
uguali in molte occasioni, cioè da quelle che noi chiamerem-
mo sillabe. Iniziò a lavorare su 200 segni sillabici, che ridus-
se gradualmente fino a 85; si trattava quasi sempre di combi-
nazioni di una consonante e di una vocale. Per trovare le
forme adatte ai suoi segni, si mise a copiare le lettere che
aveva visto in un sillabario inglese prestatogli da un maestro
di scuola. Una ventina degli 85 segni fu copiata di sana pian-
ta, anche se con un valore completamente diverso (visto che
Sequoyah non sapeva leggere l’alfabeto latino). Ad esempio,
i segni D, R, b, h rappresentano in cherokee le sillabe a, e, si,
ni, mentre il numero 4 fu usato per il suono se. Molti segni
sono evidenti modificazioni delle lettere latine, come quelli
per le sillabe yu, sa e na (…); altri ancora furono creazioni
sue, come ho, li e nu.
Il sillabario di Sequoyah gode di grande considerazione
presso i linguisti, perché è molto semplice, logico e adatto a
rappresentare i suoni della sua lingua. Nel giro di pochi anni
i cherokee raggiunsero un tasso di alfabetizzazione quasi del
100 per cento, si comprarono un torchio da stampa, fusero in
piombo i segni di Sequoyah e si misero a stampare libri e
giornali. Questo è uno dei casi meglio documentati in cui un
sistema di scrittura nacque a partire da una semplice idea.
Sequoyah vide la carta, vide che si poteva scrivere, che si
potevano usare vari segni, e qualche esempio di questi segni.
Essendo analfabeta, non potè acquisire informazioni detta-
gliate, o anche solo princìpi generali, dagli scritti che giunse-
ro in suo possesso. Circondato da segni di cui non capiva il
significato, si mise a inventare per
conto suo un sistema per scrivere,
certo non sapendo che i cretesi ave-
vano usato un sillabario come il
suo 3500 anni prima. La storia del-
l’alfabeto cherokee serve ad illu-
strare come molti sistemi di scrittu-
ra siano nati nell’antichità attraver-
so la diffusione delle idee. In Corea
si usa l’alfabeto han’gul, inventato
dal re Sejong nel 1446; è chiara-
mente ispirato ai caratteri cinesi
nella forma, e agli alfabeti dei
mongoli o dei buddisti tibetani
nella sostanza (…). Sejong però
ideò la forma dei singoli caratteri e
molte altre caratteristiche peculiari
di questo alfabeto, tra cui l’idea di
raggruppare le lettere di una sillaba
all’interno dello stesso blocco gra-
fico, l’uso di segni dalla forma
simile per rappresentare suoni cor-
relati, e le particolari forme delle
consonanti che mostrano addirittu-
ra la posizione delle labbra o della
lingua che si assume pronuncian-
dole. L’alfabeto ogham che si dif-
fuse in Irlanda e in altre aree celti-
che nel IV secolo si ispirò ovvia-
mente, nell’idea di fondo, agli alfa-
SILLABARIO CHEROKEE
beti diffusi nell’Europa continenta-
le, ma sviluppò segni del tutto originali sembra basati su un
linguaggio gestuale che impiegava le cinque dita dealla mano.
Possiamo essere certi che lo han’gul e l’ogham nacquero per
diffusione d’idee e non in seguito a un’invenzione indipen-
dente e autonoma, perché sappiamo che le società in cui
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 81

apparvero avevano stretti contatti con popoli in cui la scrittu-


ra era già presente, e perché abbiamo identificato i sistemi che
fornirono a grandi linee i loro modelli. Con la stessa certezza
possiamo affermare che le scritture dei sumeri e dei popoli del
Messico sono invece il frutto di due invenzioni indipendenti,
perché al tempo della loro comparsa non esisteva nulla nei
rispettivi emisferi che avrebbe potuto fornire l’ispirazione
necessaria. Ancora aperti, invece, sono i casi dell’Isola di
Pasqua, dell’Egitto e della Cina».35
Sulla questione spinosa e affascinante della scrittura
dell’Isola di Pasqua avremo modo di ritornare più avanti.

SILLABARIO COREANO

Per la precisione si possono quindi distinguere tre modalità


di diffusione per copia dell’idea di base (e non per semplice
adattamento di un sistema di scrittura preesistente):
1. Copia dell’idea di scrittura in senso lato (probabile caso
delle scritture della Valle dell’Indo e della Cina).
2. Copia dell’idea di scrittura fonetica, ovvero dell’idea di
“fonogramma” (caso delle scritture coreana e minoica).
3. Copia dell’idea di scrittura (fonetica) alfabetica (caso
degli alfabeti ogamico e armeno).
A chiusura di questo capitolo non è fuori luogo ricordare i
cosiddetti segni Vinca, dal nome della cultura36 diffusa nei

35 Diamond 1998, pp. 177-179.


36 Il sito archeologico di Vinca (a sud-est di Belgrado), fu scavato nei
primi trent’anni del Novecento.
82 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

SILLABARIO COREANO

LA FORMA DEI SEGNI COREANI RIPRODUCE LA POSIZIONE DEGLI ORGANI FONATO-


RI DURANTE L’ARTICOLAZIONE DEI SUONI
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 83

Balcani centrali (oltre che nel territorio della ex Iugoslavia,


anche in Grecia, Bulgaria, Ungheria orientale, Moldova e
Ucraina meridionale) e databile al 5300-4300 a.C.; «numero-
si oggetti, ritrovati negli scavi e forse di uso cultuale, riporta-
no segni grafici che possono essere elementi di una scrittura.
Sono stati riconosciuti 210 segni di cui 30 sono segni fonda-
mentali; gli altri sono varianti e combinazioni».37

SIMBOLI VINCA DEL PERIODO PIÙ ANTICO (VI-V MILLENNIO A.C.)

I segni ricorrono solitamente come isolati e le sequenze di


più segni sono rarissime; non ci sono in realtà elementi con-
creti per sospettare che si tratti già di una fase protoscrittura-
le: si è piuttosto in presenza di un sistema prescritturale per
certi aspetti analogo al sistema di “marchi di proprietà” noto
in altre culture.38
Anche in questa zona dell’Europa, come in Mesopotamia,
ci furono dunque gli elementi precursori (e i prerequisiti) per
giungere alla scoperta della scrittura, quantunque, a quanto
sembra, in questo caso l’obiettivo non fu poi centrato.

37 Biga, in Negri 2000b, p. 31 s.


38 Cardona 1986, pp. 35-37.
84 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 85
86 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA
87

ALBERO GENEALOGICO DEGLI ALFABETI FINO AL ROMANO CAPITALE (DA DOBLHOFER)


88
Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

EVOLUZIONE DELLE PRINCIPALI SCRITTURE MESOAMERICANE (DA CARDONA)


2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 89

«Distinta» sumerica scoperta a Uruk; epoca detta di Djemdet nasr (2850


circa a.C.). Tavoletta pubblicata da A. Falkenstein sotto il n. 637.

Tavoletta proveniente da Shuruppak (Fara), datata al 2650 circa a.C. (Cfr.


R. Jestin, Tablettes sumériennes de Shuruppak, Parigi 1937. Riquadro
XXI, tab. 50 F).
90 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Tavoletta sumerica datata al 2000 circa a.C. e recante un conto di bestia-


me di piccola taglia trascritto in carattere cuneiforme. Traduzione di
Dominique Charpin. Tavoletta pubblicata da H. De Genouillac, Tablettes
de Drehem, Parigi 1911. (Cfr. riq. V, tab. 4691 F.)

Copia di una iscrizione divinatoria raffi-


gurata sulla parte ventrale di un guscio di
tartaruga scoperto a Xiao dun e datato
all’epoca Yin (XIV-XI secolo a.C.) (Rif.
Yi 2908). Traduzione e interpretazione di
L. Vandermeerch. Copia da D. Diringer,
riq. 6-4.
2. ORIGINE E DIFFUSIONE DELLA SCRITTURA 91

Queste cifre enumerano le diverse parti del guscio di tarturaga, senza dub-
bio per contrassegnare l’ordine nel quale le incrinature dovevano essere
esaminate; il carattere di scrittura che figura alla casella n. 9 interpreta la
screpolatura corrispondente come di buon augurio.
CAPITOLO 3
SCRITTURA IDEOGRAFICA

Nel secondo capitolo si è fornita una definizione di scrittu-


ra ideografica come “scrittura connotata dall’impiego essen-
ziale e strutturale di logogrammi (= ideogrammi)”, ossia di
segni che, in linea di principio, rappresentano non suoni, ma
intere parole.
Dunque, come si è visto, il gruppo delle scritture ideogra-
fiche si oppone a quello delle scritture fonetiche per il fatto
che nel primo i logogrammi sono (o erano) normalmente e
necessariamente impiegati nella redazione di un testo qualsia-
si della lingua codificata dalla scrittura di appartenenza.
Un altro elemento su cui vale la pena di insistere è che le
tutte scritture qui definite come “ideografiche”, pur servendo-
si ordinariamente di segni ideografici (ossia logografici),
appunto, sono parimenti fornite di un repertorio di segni fone-
tici o fonogrammi: dunque il fonetismo è ben presente in que-
sto tipo di scritture e la loro etichetta (“ideografiche”) non
intende assolutamente significare la presenza esclusiva di
ideogrammi.
L’etichetta da me adottata è dunque volutamente ellittica,
per ragioni di maggiore semplicità: in questo senso l’espres-
sione “scrittura ideografica” da me usata andrebbe, a rigore,
sciolta come “scrittura ideografica (ossia logografica) mista”.
Oltre ai logogrammi e ai fonogrammi, si riscontra nelle
scritture ideografiche la tendenza a sviluppare una terza cate-
goria di impiego dei segni: quella dei determinativi.
94 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

La caratteristica essenziale dei determinativi, di cui abbia-


mo già discusso nel precedente capitolo a proposito della
creazione della scrittura cuneiforme sumerica, è quella di fun-
zionare come ausilio grafico per il superamento di possibili
ambiguità; dunque i determinativi hanno un valore esclusiva-
mente visivo e non vanno letti.1
Nel geroglifico egiziano, che, ricordiamo, nota in generale
solo l’ossatura consonantica delle parole, l’uso del determina-
tivo ebbe un grande rilievo, soprattutto per la distinzione dei
vari omografi; comunque anche in quella scrittura la scoperta
del determinativo fu un’acquisizione graduale e il suo impie-
go era ancora abbastanza limitato nell’Antico Regno, per
divenire regolare solo dal Medio Regno.
Per esempio il famoso segno della vita ˆ (la cosiddetta
“croce ansata”) era in origine un logogramma raffigurante una
cinghia (verosimilmente una cinghia di sandalo) che era desi-
gnata con una parola la cui radice triconsonantica anx era
omofona di quella per “vivere”, “vita”; così, da tempi molto
antichi, sulla base del principio dell’omofonia,2 questo segno
fu impiegato per le varie occorrenze di “vivere” e “vita”
(ovviamente con diverse vocalizzazioni, dipendenti anche
dalla flessione, che non si possono più ricostruire con certez-
za), e con una tale frequenza che, quando si svilupparono i
determinativi, l’impiego del segno ˆ per “vivere” o “vita” era
ormai considerato normale e non necessitante di alcun deter-
minativo.3
Tuttavia l’impiego fonetico del segno ˆ fu esteso anche
alla trascrizione di molte altre parole, che presentavano ugual-

1 Elli 1997, p. 34.


2 Si ricordi l’identico trattamento riservato al segno della freccia
sumerico, dato che in tale lingua “freccia” e “vita” si pronunciavano più o
meno allo stesso modo.
3 Lo stesso avvenne per altri segni che, sulla base dell’omofonia,
furono impiegati per designare parole di uso molto comune, come y (iri)
“fare” e F (nfr) “bello”, “perfetto”.
3. SCRITTURA IDEOGRAFICA 95

mente uno scheletro triconsonantico omofono (cioè anx); ecco


che, in questi casi, l’uso del derminativo riusciva necessario
per la corretta comprensione (il significato dei determinativi
che seguono, per l’iconismo proprio dei geroglifici, risulta
autoevidente, con l’eccezione di E, determinativo del rame
e del metallo in genere, e di u, determinativo della pietra):4
ˆE “specchio”
ˆG “inondazione”
ˆŠ “orecchio”
ˆ# “giuramento”
ˆ1 “stella”
ˆ1 “prigioniero (di guerra)”
ˆä “(tipo di) pianta”
ˆm “battente (di porta)”
ˆu “alabastro”
In geroglifico egiziano il determinativo seguiva i segni cui
si riferiva, mentre nella scrittura cuneiforme, di solito, li pre-
cedeva; la ratio che sta alla base dell’espediente scrittorio è
comunque la stessa.
La scrittura maya, sviluppatasi, come visto, in modo del
tutto autonomo e indipendente, presenta, esattamente come le
altre grandi scritture ideografiche (ossia la scrittura geroglifi-
ca egiziana, quella cuneiforme sumerica e accadica e quella
cinese, su cui ci diffonderemo meglio tra poco), dei segni
classificabili nelle tre categorie dei logogrammi, dei fono-
grammi e dei determinativi,5 ciò che indica come le scritture
ideografiche inventate ex novo (in modo del tutto autonomo o
meno) abbiano seguito linee evolutive valide universalmente.
Perciò, a partire da una fase protoscritturale puramente
logografica (e grandemente limitativa), l’uso assiduo dello

4 Gli esempi sono tratti da Elli 1997, p. 35.


5 Schele-Friedel 2000, p. 47 s. (i logogrammi sono ivi chiamati
“logografi” e i determinativi “complementi determinativi semantici”).
96 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

strumento (proto)scrittorio da parte di una classe di scribi spe-


cializzati ha avuto come esito “normale” la scoperta del fone-
tismo (su base omofonica o acrofonica), e dunque dei fono-
grammi, indipendentemente dalle caratteristiche tipologiche
della lingua codificata per iscritto.
Inoltre l’impiego sempre più diffuso e raffinato di un siste-
ma scrittorio ormai misto (logografico-fonetico) e complesso
(con segni polifunzionali e fonogrammi polifonici)6 favorì in
ogni sistema l’adozione di certi segni disambiguanti per
distinguere le parole omofone (o per lo meno omografe) o i
diversi valori di un segno polifunzionale.
Nelle scritture ideografiche, poi, i fonogrammi possono
essere impiegati sia per trascrivere un’intera parola o nome
proprio (accompagnati o meno da determinativo), sia come
“complermenti fonetici”.
Ai complementi fonetici si è già fatto cenno, parlando del-
l’esigenza di disambiguare un segno polivalente come quello
della stella in cuneiforme sumerico (che poteva stare per AN
“cielo” o per DINGIR “dio”); in geroglifico egiziano l’uso dei
complementi fonetici è larghissimo: essi funzionavano come
veri e propri indicatori di pronuncia, utile ausilio mnemonico
per la lettura di fonogrammi complessi o di segni polifonici.
Per esempio il segno del punteruolo, o cesello, a, già
incontrato nel nome dell’antichissimo re Narmer, aveva in
realtà due possibili valori: mr e Ab; per indicare la seconda let-

6 La polifunzionalità (ossia la possibilità, per uno stesso segno, di


fungere, a seconda del contesto, da logogramma, da fonogramma o da
determinativo) e la polifonia (ossia la possibilità che certi fonogrammi
abbiano, a seconda delle occorrenze, più di un valore fonetico) sono feno-
meni ricorrenti, con maggiore o minore ampiezza, in tutte le scritture ideo-
grafiche. Oltre al cuneiforme e al geroglifico egiziano, in cui polifonia e
polifunzionalità son ben note e riscontrabili, anche la scrittura maya offre
al riguardo esempi notevoli: i fonogrammi (sillabogrammi) ba e u, se
iscritti nel cartiglio-determinativo per “giorno”, erano letti, rispettivamen-
te, Imix e Muluc, nomi appunto di due particolari giorni del calendario
maya.
3. SCRITTURA IDEOGRAFICA 97

tura (Ab) gli scribi egiziani erano soliti aggiungere il fono-


gramma uniconsonantico ¾ (b) in funzione di complemento
fonetico, così che a¾ va traslitterato Ab e non Abb, che gli
Egizi avrebbero scritto a¾¾.7
La scrittura maya fornisce esempi molto semplici e lineari
di uso di complementi fonetici: ad esempio la parola balam
(“giaguaro”) poteva essere scritta in modo del tutto logografi-
co (con il solo glifo della testa di giaguaro) o con soli fono-
grammi (i tre sillabogrammi ba-la-m(a)), oppure con il glifo
della testa di giaguaro accompagnato, per ragioni mnemoni-
che, da sillabogrammi (ba, m(a) o entrambi) in funzione di
complementi fonetici (simili varianti di scrittura di una stessa
parola sono ben testimoniate sia nel geroglifico egiziano che
nella scrittura cuneiforme sumerica e accadica).
Ugualmente la parola pacal “scudo”, che era anche il nome
proprio (Pacal) di un importante sovrano di Palenque, si trova
scritta col solo logogramma, coi soli fonogrammi, oppure col
logogramma accompagnato da complementi fonetici.

7 Elli 1997, p. 32 s.
98 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

La scrittura ideografica maya, la meglio conosciuta delle


scritture mesoamericane, possiede un repertorio grafematico
di tipo sillabico.
Le ragioni per cui si è giunti più volte nella storia della
scrittura alla spontanea elaborazione di un sistema di fono-
grammi di tipo sillabico (sillabogrammi), come “supporto” (e
nell’àmbito) di una scrittura ideografica o come repertorio
grafematico tout court di una scrittura fonetica (cfr. scrittura
cuneiforme sumerica e accadica, scritture lineari di Creta,
scrittura cherokee, ecc.), si trovano in parte nella struttura
della lingua codificata, ma, soprattutto nella natura stessa
della “sillaba”, quale minima combinazione di suoni funzio-
nante come unità pronunciabile: l’unità minima “intuitiva”
dell’enunciato.
Il tema è però già stato affrontato a sufficienza nel capito-
lo precedente.
A differenza del sillabario accadico, i cui segni trascrivono
sillabe di tipo V, VC, CV, CVC, il sillabario maya nota sol-
tanto sillabe aperte (cioè di tipo V e CV); in casi del genere si
pone il problema della modalità di trascrizione delle sillabe
chiuse (del tipo VC o CVC o anche più complesso).
Esistono veramente tre tipi di soluzione:
1. La trascrizione incompleta, omissiva cioè delle conso-
nanti-coda (che chiudono la sillaba) o di parte di gruppi con-
sonantici (in casi come CCV o CCCV, ecc.);
2. L’uso di vocali quiescenti;
3. L’uso di appositi segni consonantici.
Queste strategie possono essere anche usate in combina-
zione tra di loro.
Il primo espediente può servire a trascrivere una lingua in
modo efficace solo se le sue parole sono composte in gran-
dissima prevalenza o in modo esclusivo da sillabe aperte (di
tipo V o CV); la lingua giapponese presenta queste caratteri-
stiche e il suo sillabario a sillabe aperte (salvo un segno appo-
sito per la n: m o m) la trascrive adeguatamente (prescindiamo
3. SCRITTURA IDEOGRAFICA 99

per il momento dal carattere ideografico, secondo la nostra


definizione, e non esclusivamente fonetico della scrittura
giapponese); lo stesso doveva accadere per la lingua minoica
su cui fu modellata la lineare A di Creta (che è pure un silla-
bario a sillabe aperte), i cui documenti dimostrano senza dub-
bio l’adeguatezza della scrittura per una notazione non ambi-
gua della lingua codificata. In questi casi non c’è ambiguità
rilevante, proprio perché le caratteristiche fonotattiche della
lingua (cioè le strutture sillabiche canoniche) rendono scarsa
o nulla la necessità di omissione.
La lineare B è l’adattamento del sillabario minoico (cioè
della lineare A) alla trascrizione del greco miceneo; dato che
quest’ultima lingua, a differenza del minoico, era molto ricca
di sillabe chiuse e complesse, la regola prevalente dell’omis-
sione (ereditata dai Minoici) rende la lineare B uno strumen-
to assai poco pratico ed estremamente ambiguo (infatti tale
scrittura risulta documentata solo come mezzo riservato a
scopi archivistici e contabili): per esempio il semplice gruppo
bisillabico hs (pa-te) si sarebbe potuto leggere come patér
“padre”, pántes “tutti”, phate “dite”, e in altri modi ancora, a
seconda del contesto; in lineare B era tuttavia anche impiega-
to il sistema della vocale quiescente nel caso di certi gruppi
consonantici, come l> po-ro- per pro-.
Quanto alla seconda strategia (vocale quiescente), ci si
offre proprio l’esempio dell’antico maya, che in generale era
una lingua ricca di sillabe aperte e perciò in grado di ottenere
una trascrizione adeguata dal repertorio sillabico della sua
scrittura (senza contare che i Maya si avvalevano di una scrit-
tura ideografica e non fonetica come i Micenei). Comunque,
come si può osservare dagli esempi prodotti di balam “gia-
guaro” e pacal “scudo”, le consonanti finali venivano effetti-
vamente notate col sistema della vocale quiescente, cioè con
i sillabogrammi -ma e -la, la cui vocale, in quel caso, non
veniva pronunciata. Un sistema del tutto simile di vocali quie-
scenti fu adottato dal sillabario cipriota classico, un tipo di
100 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

scrittura discendente dai sistemi lineari minoico e miceneo e


notante il dialetto greco di Cipro; l’accorgimento delle vocali
quiescenti (la vocale quiescente era la -e: così si scriveva -ne
per -n; -se per -s, ecc.) e un raffinamento delle regole orto-
grafiche (ma senza bisogno di aumentare il repertorio grafe-
matico) resero il sillabario cipriota classico di gran lunga più
adatto a trascrivere un dialetto greco di quanto non fosse stata
la vecchia lineare B, ancora cristallizzata sul modello minoi-
co.
La terza strategia, ossia l’uso di consonanti apposite,
accanto a sillabogrammi, è abbastanza eccezionale (si è visto
l’esempio della n giapponese) e talora, come nel caso della
scrittura iberica, denuncia contaminazione con sistemi alfabe-
tici.
Le nozioni relative al funzionamento della scrittura maya,
che, come abbiamo ripetutamente sottolineato, hanno un’im-
portanza cruciale per la storia della scrittura, sono un’acquisi-
zione relativamente recente e, se di una gran parte dei segni si
è potuto stabilire funzione e valore, per molti altri il processo
di decifrazione si può dire oggi ancora in corso e occupante
gli sforzi degli studiosi impegnati nella difficile materia.
La “palma” (per così dire) della decifrazione della scrittu-
ra maya, o meglio della (ri)scoperta del suo corretto funzio-
namento (dato che, come visto, la decifrazione puntuale di
ciascun segno deriva piuttosto da un processo di studio com-
binatorio lento e graduale) va senza dubbio assegnata a Yuri
Knorozov, un epigrafista russo, che, a partire dal 1952,8 sulla
base di un’esperienza fondata sullo studio tipologico e com-
parato delle altre grandi scritture ideografiche, cominciò a
divulgare gli importanti risultati delle sue ricerche, anche in
Occidente.

8Nello stesso anno Michael Ventris rendeva pubblica la sua decifra-


zione della lineare B.
3. SCRITTURAIDEOGRAFICA 101

Tuttavia il brillante lavoro di Knorozov rimase – difficile


da credere ma vero – marginalizzato e schiacciato dal discre-
dito circa fino alla metà degli anni Settanta.9
Il caso della decifrazione del maya è esemplare di come
una communis opinio errata ma dominante possa ostacolare e
ritardare gravemente l’opera di decifrazione di antiche scrit-
ture dimenticate (si confrontino le vicende di Champollion e
dei geroglifici egiziani sopra esaminate).
La vicenda di Knorozov rivela però aspetti ancora peggio-
ri di comportamento antiscientifico, perché il principale osta-
colo per una corretta valutazione dei risultati dello studioso
russo furono la sferzante ostilità e il peso schiacchiante del-
l’autorità del maggior mayista del XX secolo, il famoso
archeologo inglese Eric Thompson.10
Questo, come vedremo, non è tuttavia l’unico esempio in
cui un insigne archeologo, divenuto, per i grandi meriti accu-
mulati nel corso di una brillante carriera, la massima autorità
(o una delle massime autorità) in un determinato campo di
studi, ha ostacolato con la sua autorevole (ma in realtà del
tutto soggettiva e di fatto incompetente) opinione l’opera di
decifrazione di una scrittura dimenticata.
Questo tipo di atteggiamenti mi ha sempre richiamato in
mente il grande concetto contenuto in quelle famose parole
dell’Apologia di Socrate: «δι τÎ τ¬ν τXχνην καλäς
¦ξεργVζεσθαι ªκαστος ²ξ\ου κα τ˜λλα τ µXγιστα
σοϕfτατος εÉναι κα αÛτäν αàτη º πληµµXλεια ¦κε\νην
τ¬ν σοϕ\αν •ποκρbπτειν».11

9 Schele-Freidel 2000, p. 44 s.
10 È giusto peraltro ricordare che in quegli anni gli odiosi effetti della
“guerra fredda” si riflettevano, talora, anche a livello scientifico e acca-
demico: «la burocrazia russa ammantò la sua scoperta di tutta la retorica
politica dell’epoca» (Schele-Freidel 2000, p. 44).
11 «Dacché ciascuno, per lo adoperare bene la sua arte, si credeva

sapientissimo anche nelle altre maggiori cose; e questa stoltizia oscurava


quella sapienza» (traduzione di Francesco Acri).
102 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

SILLABARIO MAYA
3. SCRITTURA IDEOGRAFICA 103

Alberto Guaraldo, nella sua Introduzione alla traduzione


italiana del più famoso e importante libro di Thompson, scri-
ve: «La chiave della scrittura maya era stata scoperta già negli
anni ’50 da un giovane epigrafista sovietico, Yuri Knorozov,
che si era fatto le ossa sui testi egizi e che eseguiva analisi
posizionali con il calcolatore, partendo dall’ipotesi che il
sistema maya fosse logografico misto – come erano giunte ad
essere le scritture egizia, sumera, ittita e cinese –, e che quin-
di combinasse ideogrammi, simboli fonetici e radicali, dispo-
nendo di un sillabario abbastanza completo. Non soltanto i
principî, ma anche risultati avanzati e convincenti del lavoro
di Knorozov erano stati ripetutamente divulgati in Occidente
fra il 1952 e il 1967. A differenza di Coe, della
Proskouriakoff, di Soustelle e di altri studiosi, Thompson con-
tinuò pervicacemente a negare la validità delle scoperte e dei
dati ottenuti dalla scuola sovietica, perseverando anche quan-
do ormai molti specialisti occidentali incominciavano ad
applicare con successo i metodi di Knorozov, che dovevano
portare a una crescita esponenziale della lettura dei testi
maya. La sfiducia di fondo, di radice umanistica e idealistica,
sul fatto che le tecniche informatiche potessero davvero age-
volare in modi e tempi straordinari la comprensione dei pro-
dotti di una civiltà tanto complessa, e forse ancor più i pre-
giudizi ideologici e politici, dovettero contribuire in buona
misura a spingere il più celebre mayista dei suoi tempi ad una
lunga battaglia perdente con uno sconosciuto studioso di lin-
gue morte, che dei Maya si occupava poco. Battaglia che
Thompson e i suoi seguaci, per di più, condussero in forma
poco onorevole, ricorrendo allo scherno e a manifestazioni di
disprezzo e violando così le tradizioni di tono e di stile del
dibattito scientifico. Il paragrafo sui geroglifici nel capitolo
IV del libro che abbiamo in mano attesta ancora, anche in
un’edizione aggiornata, l’arretratezza delle posizioni di
Thompson su questo punto, così come, purtroppo, la disin-
voltura con cui il grande studioso si impegnava a mettere in
104 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

ridicolo gli scienziati sovietici da cui dissentiva, senza peral-


tro citarne il nome né gli scritti».12
Vorrei richiamare l’attenzione sull’importanza e l’esem-
plarità dei tratti essenziali del ragionamento di Knorozov:
1. Il sistema dei glifi maya si presentava oggettivamente
(per la lunghezza dei testi, la varietà delle iscrizioni e dei sup-
porti epigrafici, ecc.) come una vera e propria forma di scrit-
tura (e non come una protoscrittura o scrittura in formazione,
come, per esempio, il sistema azteco, né, tanto meno, come un
sistema pittografico), adatta alla trascrizione di qualunque
enunciato.
2. Tutti i dati storici, antropologici e culturali indicavano
senza equivoci che la lingua soggiacente (cioè la lingua par-
lata dai popoli che si servirono di quella scrittura) doveva
essere una varietà antica delle lingue o dialetti maya ancora
oggi parlate da milioni di persone.13
3. Il numero dei glifi, alla cui classificazione e cataloga-
zione Thompson fornì contributi notevolissimi, escludeva
assolutamente un tipo di scrittura fonetica (alfabetica o silla-
bica) e implicava, conseguentemente, una scrittura ideografi-
ca.
4. Tutte le scritture ideografiche (come la cuneiforme, la
geroglifica egiziana, la geroglifica ittita, la cinese) sono in
realtà composte, oltre che da logogrammi, anche da fono-
grammi.
La comparazione, la classificazione tipologica delle espe-
rienze scrittorie di altri popoli, la conoscenza dei meccanismi
di creazione e sviluppo della scrittura, nonché i processi di
funzionamento delle scritture ideografiche erano tutti dati
mancanti all’archeologo Thompson, che continuò così ostina-

Guaraldo, in Thompson 1994, XII s.


12

Tra l’altro, gli inizi dello studio comparato delle lingue maya e del
13

loro raggruppamento in un’unica famiglia risalivano addirittura al 1884,


all’opera dello studioso tedesco Otto Stoll.
3. SCRITTURA IDEOGRAFICA 105

tamente a negare per anni, anche di fronte all’evidenza di


risultati inconfutabili, la possibilità che la scrittura maya pos-
sedesse segni fonetici.
Volgiamoci ora all’antica e prestigiosa scrittura ideografi-
ca cinese dei cui segni sono state proposte molte e varie clas-
sificazioni; per esempio Tang Lan, nel suo libro Teoria della
scrittura cinese (1949), li distingue in tre categorie: “pitto-
grammi” (xiängxëngzì; derivanti, tramite un processo di sem-
plificazione grafica comportante la perdita del carattere iconi-
co, da un disegno pressappoco realistico di un oggetto mate-
riale), “ideogrammi” (biâoyìzì; derivanti da un’immagine che
rappresenta simbolicamente un’idea) e “fonogrammi” o
“ideo-fonogrammi” o “pitto-fonogrammi” (xëngshãngzì;
comprendenti di solito due parti, di cui una allude al concet-
to, l’altra indica la pronuncia).
In questa sede non interessa approfondire quanto la termi-
nologia e le defininizioni impiegate da Tang Lan14 siano effi-
caci e quanto siano compatibili con le nostre nozioni di “ideo-
gramma”, “fonogramma” e “pittogramma”; si deve invece
rimarcare che questa, così come le altre correnti classificazio-
ni dei caratteri cinesi, oltre a essere pressoché esclusivamente
basate su un’analisi interna alla stessa scrittura, tendono a
porre in primo piano i meri connotati morfologici dei segni,
ad operare, cioè un’analisi dei tipi di grafemi considerando
soltanto il livello dell’espressione (il tracciato grafico) e non
anche quello del contenuto (la lettura o la funzione del grafe-
ma).

14 Che ho tratto da Huaqing 1996, p. 9 s.


106 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Con ciò non si vuol assolutamente dire che classificazioni


come quelle di Tang Lan siano sbagliate o inadatte allo scopo
per cui sono state elaborate.
Tuttavia, nella prospettiva più ampia di una comparazione
con tutti gli altri sistemi ideografici del mondo, a noi, piutto-
sto che approfondire la conoscenza di simili classificazioni
“interne” (compresa l’identificazione di “radicali” o “chiavi”
[bõshñu], peraltro molto utili per ordinare i segni e le parole
nei dizionari), interessa verificare, anche in cinese, l’esisten-
za delle classi di segni tipiche di tutte le altre scritture ideo-
grafiche create ex novo (cioè non frutto di semplice copia o
adattamento di un modello preesistente): i logogrammi, i
fonogrammi e i determinativi.
Dei primordi della scrittura cinese si già trattato nel capi-
tolo precedente: pur sospettandosi la possibilità di una copia
d’idea (alcuni ipotizzano dalla scrittura della Valle dell’Indo,
a sua volta molto verosimilmente frutto di copia d’idea da
quella sumerica), non pare esserci dubbio, dalla forma dei
segni più antichi, che si tratti in ogni caso di una (ri)creazio-
ne ex novo.

Ciò premesso, è possibile affermare che quanto atteso si


verifica: anche nella scrittura cinese è infatti possibile indivi-
duare chiaramente logogrammi, ideogrammi e determinativi,
senza che le corrispondenze tra grafemi e tali categorie risul-
tino necessariamente biunivoche, dato che pure in questo caso
l’ormai ben noto fenomeno della polifunzionalità dei segni
risulta ben attestato.
3. SCRITTURA IDEOGRAFICA 107

Ogni carattere cinese corrisponde foneticamente a una sola


sillaba (si è calcolato, – tenendo conto dei toni che, ricordia-
mo, hanno valore distintivo – che l’inventario delle sillabe
cinesi possibili assomma a 1338).
Poiché in origine e nelle fasi più antiche della storia della
scrittura il vocabolario della lingua cinese era prevalentemen-
te monosillabico, la corrispondenza tra segno-logogramma e
parola monosillabica fu un risultato del tutto ovvio e naturale.
Sulla presenza di logogrammi in cinese non mi pare dun-
que si debbano spendere molte parole in più, anche perché,
come visto, in passato in Occidente si credeva erroneamente
che la scrittura cinese fosse composta soltanto da logogrammi
e, in generale, questa idea rimane abbastanza diffusa anche
oggi.
Quanto ai fonogrammi, al di là della questione delle cosid-
dette “parole funzionali” o “ausiliarie” (che funzionano e ven-
gono avvertite sempre di più come veri e propri affissi), come
men o de, usate rispettivamente per marcare il plurale e il
rapporto genetivale (ad esempio: wñ “io”; wñmen ”noi”; wñ
de “il mio”; wñmen de “il nostro”), e prescindendo dagli
espedienti usati per scrivere parole di origine straniera di cui
sopra si è dato qualche saggio, in realtà l’impiego fonetico di
segni nella scrittura cinese risulta lampante nel caso dei cosid-
detti segni composti; i “(pitto-/ ideo-)fonogrammi” (xëng-
shãngzì) di Tang Lan.
Oltre ai segni semplici (i “pittogrammi”, o xiängxëngzì, di
Tang Lan), derivanti da una semplificazione dei più antichi
logogrammi iconici (il cui disegno, cioè, richiamava in origi-
ne direttamente la forma del referente o di oggetti concreti
legati ad esso, come i segni per mõ “occhio”, mån “porta”, rì
“sole”, shán “montagna”, xiäng “elefante”, wàng “re”, wö
“ballo”, ecc.), esistono segni complessi o composti, risultanti
dalla combinazione di più elementi, ossia di più segni sempli-
ci (di solito due).
108 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Questi caratteri composti combinano più elementi nello


spazio (idealmente quadrato) di un solo segno, il quale con-
serva comunque inalterata la caratteristica della pronuncia
monosillabica, propria di ogni segno, semplice o composto,
della scrittura cinese.
A dire il vero i caratteri composti cinesi si distinguono in
due grandi categorie, a seconda che siano una vera e propria
composizione pittografica (gli “ideogrammi”, o biâoyìzì, di
Tang Lan) oppure una composizione con un carattere usato
foneticamente (i “[pitto-/ ideo-]fonogrammi”, o xëng-
shãngzì, di Tang Lan).
La prima categoria consiste praticamente in una composi-
zione di logogrammi, già ben nota fin dalle fasi primitive
della scrittura sumerica, in cui, per esempio, il simbolo della
testa umana, o meglio della bocca (KA), associato con quello
della ciotola del cibo (NINDA), formò il segno per “mangia-
re” (KÚ); il segno della “donna” (SAL) associato con quello
di “montagna” / “paese straniero” (KUR) formò il segno per
“schiava” (GÉME), ecc.; per il cinese valgano le citazioni dei
caratteri per bî “vetro” (giada + pelle); chån “polvere” (pic-
colo + terriccio); shuáng “brina” (pioggia + albero + occhio);
shán “cancellare (uno scritto)” (volume + coltello); xìng
“cognome” (donna + nascere), ecc. Si tratta quindi pur sem-
pre di logogrammi, quantunque di logogrammi composti.

I segni composti della seconda categoria comprendono


3. SCRITTURA IDEOGRAFICA 109

invece una parte logografica, che funge pressoché sempre da


determinativo, e una parte fonetica, ossia un vero e proprio
fonogramma: ecco dunque che anche nella scrittura cinese,
nonostante le peculiarità tipologiche della lingua soggiacente
(si è inoltre sempre sorvolato, per semplicità e per l’interesse
marginale ai fini del nostro discorso, sul complesso problema
della molteplicità dei dialetti cinesi e del loro rapporto con il
sistema di scrittura), si trovano sviluppate le classi di segni
caratteristiche di tutte le scritture ideografiche: i logogrammi,
i fonogrammi e i determinativi, anche se fonogrammi e deter-
minativi risultano come “cristallizzati” (ma tuttavia sempre
ben riconoscibili e definibili) in segni composti.
Alcuni esempi: il segno per “mamma”, letto má , composto
da nû “donna”, fungente da determinativo, e da mâ “cavallo”,
fungente da fonogramma (vista la somiglianza, salvo i toni,
delle parole cinesi per “mamma” e per “cavallo”); il segno
men, usato per il plurale dei pronomi e dei sostantivi riferiti
a persone, composto da rån “persona”, fungente da determi-
nativo, e da mån “porta”, fungente da fonogramma; il segno
per që “cavalcare”, composto da mâ “cavallo”, fungente da
determinativo (o da logogramma), e dal fonogramma (o com-
plemento fonetico) që; il segno per äi “aimè!”, composto da
kñu “bocca”, fungente da determinativo, e da äi “artemisia”,
fungente da fonogramma; il carattere mõ “legno”, “albero”
110 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

fungente da “radicale”, cioè da determinativo, per tutti i nomi


di pianta, ecc.
Nel processo di individuazione di fonogrammi e determina-
tivi non si confondano le parole polisillabiche (oggi costituenti
la maggioranza del lessico cinese), che sono in verità scritte con
più caratteri distinti e che risultano in effetti analizzabili pres-
soché tutte come parole composte (formate secondo il rigido
schema sintattico determinante-determinato).
Chiudiamo questo capitolo sulle scritture ideografiche
rivolgendo un rapido sguardo a due di esse, la cuneiforme
3. SCRITTURA IDEOGRAFICA 111

accadica e la giapponese, che risultano entrambe da un adat-


tamento a lingue con lessico prevalentemente polisillabico
(l’accadico e il giapponese) di scritture ideografiche create
per lingue dal lessico prevalentemente monosillabico (il
sumerico e il cinese).
Senza addentrarci in particolari e delineando i caratteri es-
senziali, si riscontrano dei parallelismi nel processo di adatta-
mento della scrittura sumerica alla lingua accadica e della scrit-
tura cinese alla lingua giapponese davvero impressionanti.
Il fenomeno si spiega per l’eccezionale analogia dei dati
contestuali di partenza (ai suddescritti parallelismi linguistici si
aggiunge, in entrambi i casi, la trasmissione dello strumento
scrittorio da parte di una civiltà prestigiosa e più sviluppata),
che ha condotto a soluzioni molto simili, per non dire identiche,
sia pure su coordinate spazio-temporali assai diverse.
Anzitutto in entrambi i casi il contatto e l’interazione con
lingua e scrittura di una civiltà più avanzata provocò un note-
volissimo flusso di prestiti lessicali (ovviamente in direzione
dell’accadico15 e del giapponese16), con uno straordinario
arricchimento del vocabolario e delle capacità espressive
delle lingue beneficiarie del prestito stesso; in giapponese
queste parole nuove furono chiamate kango (“parola cinese”)
e, per la loro nobile origine e per la loro brevità, incontrarono
il favore del pubblico (si può anzi dire che la corrente di pre-
stiti è tuttora vitale).
Sia in accadico17 che in giapponese, per i connotati lingui-
stici che li distinguono in parallelo dal sumerico e dal cinese,
si verifica una forte tendenza allo sviluppo di un ampio siste-
ma di fonogrammi, che nei testi diventano in genere prepon-
deranti rispetto ai logogrammi, i quali ultimi, tuttavia, non
scompaiono del tutto.
In entrambe le forme di scrittura adattate si rileva un uso

15 Lancellotti 1962, p. 4 s.
16 Scalise-Mizuguchi 1995, p. 12 s.
17 Lancellotti 1962, p. 13.
112 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

larghissimo dei complementi fonetici.


In giapponese i kanji (“carattere cinese”), ossia gli ideo-
grammi (o logogrammi), teoricamente utilizzabili sono deci-
ne di migliaia, anche se quelli effettivamente impiegati dalle
persone cólte sono ridotti a circa 3000 (l’uso comune di gior-
nali e riviste è tuttavia limitato a 1000 o poco più); oltre alle
semplificazioni grafiche (per cui oggi molti ideogrammi giap-
ponesi sono diversi dai loro corrispondenti cinesi), successivi
provvedimenti governativi, del 1946, del 1981 e del 1992,
hanno limitato sempre di più il numero dei kanji da usare abi-
tualmente nei documenti ufficiali e da insegnare nelle scuole
elementari e medie.
Inoltre in giapponese questa tendenza al superamento del-
l’uso dei logogrammi si manifesta anche nel tipo di scrittura
interlineare nota come furigana (“carattere di accompagna-
mento”) e consistente nel riportare, accanto ai logogrammi, la
loro trascrizione in fonogrammi (kana ); i furigana sono
impiegati non di rado nei giornali e nei libri di grande diffu-
sione, destinati a una massa di lettori di medio o basso livello
culturale.
Un’altra interessante caratteristica comune alle scritture
accadica e giapponese è lo sviluppo di una “doppia lettura”
dei logogrammi, una derivante dalla pronuncia nella lingua
originaria (sumerica o cinese), l’altra derivante dalla pronun-
cia nella lingua di adattamento.
In accadico, per esempio, il logogramma sumerico BAD
“aprire” era letto (e impiegato foneticamente come) bad,
secondo la sua pronuncia originaria, oppure pit, secondo la
sua pronuncia in lingua accadica (petûm “aprire”).18
In giapponese un kanji ha di regola almeno due pronunce:
una è derivata da quella cinese (e detta on “suono”), l’altra è

18 La doppia lettura si riflette qui nell’impiego del carattere come


fonogramma. La questione della polifonia dei segni accadici presenta
ancora maggiori complessità, su cui abbiamo sorvolato poiché esulano dal
nostro parallelismo; cfr. comunque Lancellotti 1962, p. 14.
3. SCRITTURA IDEOGRAFICA 113

quella prettamente giapponese (detta kun “lettura”, “insegna-


mento”); alcuni caratteri hanno più di una pronuncia on o più
di una pronuncia kun. In genere la pronuncia on viene usata
quando il carattere è unito a un altro per formare una parola
composta, ad esempio kòkî “aeroporto” si scrive con due
logogrammi letti secondo la pronuncia on: kò “cielo” e kî
“porto”, cioè “porto del cielo”; la pronuncia kun viene inve-
ce usata quando i logogrammi non sono in composizione con
altri: lo stesso segno per “cielo” si dirà allora sora e quello
per “porto” minato.19
Per quanto concerne i fonogrammi, infine, sia in accadico
che in giapponese si è sviluppato un sistema di sillabogrammi
(“sillabario”), complesso (cioè comprendente anche segni
notanti sillabe chiuse) nel caso dell’accadico, e semplice (con
segni notanti solo sillabe aperte, con l’eccezione di un carat-
tere speciale per n) nel caso del giapponese, differenze queste
dovute, però, esclusivamente alle peculiarità fonotattiche
delle due lingue.
In giapponese i sillabogrammi sono chiamati kana (“carat-
teri a prestito”); in realtà esistono due sillabari (distinti solo
per le forme dei caratteri): quello hiragana (“kana ordina-
rio”), di stile corsivo e di uso abituale, e quello katakana
(“kana frammentario”), di tracciato più rigido e geometrico
(come dice il nome, i segni derivano da una semplificazione
di quelli ordinari), impiegato di solito nei testi scientifici, per
la trascrizione di termini onomatopeici e di parole straniere o
di origine straniera (escluse quelle cinesi; per es. h/9_D
mayonãzu “maionese”; !]_C garãji “garage”; J10 piano
“pianoforte”; ]:_b repîto “rapporto”, dall’ingl. report; !-
d garasu “vetro”, dall’ingl. glass; ecc.) o semplicemente per
ragioni stilistiche.20

19 Scalise-Mizuguchi 1995, p. 14.


20 Scalise-Mizuguchi 1995, p. 8 s.
114 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

SILLABARIO GIAPPONESE

La semplificazione dei katakana rispetto agli hiragana


talora è piuttosto ovvia (3 per 3, u; 4 per 4, e; 7 per 7, ni;
w per w, ki; ecc.), talora, e si tratta della maggior parte dei
casi, meno o per niente (1 per 1, a; h per h, ma; j per j,
mi; \ per \, ro; n per n, wo; ecc.)
Il rapporto tra katakana e hiragana richiama alla mente
l’evoluzione grafica intervenuta nel passaggio dalle scritture
lineari cretesi al sillabario cipriota classico (i cui segni sono
certamente più geometrici e meno “corsivi”).
In base a un attento esame della lineare B (che presenta un
tratto più arcaizzante della A, pur essendo cronologicamente
successiva) è possibile individuare un gruppo di caratteri che
risultano ovvi antecedenti di sillabogrammi ciprioti: da (cipr.
ta); ti; to; pa; po; ro (cipr. lo; d’altro canto cipr. ro sembra il
risultato di una piccola variante di >); na; sa; se; in una secon-
3. SCRITTURA IDEOGRAFICA 115

da serie di segni, invece, i più marcati tratti evolutivi e di sem-


plificazione rendono meno evidenti le connessioni tra i segni,
che paiono comunque ugualmente sicure: a; i; ra (cipr. la); we
(cipr. ve); per altri segni ancora la connessione è a mala pena
intuibile: e; u; ke; si; in alcuni casi sembra che il cipriota
riproduca solo parti stilizzate del segno lineare (ka; de [cipr.
te]), mentre in altri sembra che vi sia stato un capovolgimen-
to o una rotazione (pu; re; ru [cipr. lu]; ku; jo21).

SILLABARIO LINEARE B

21 In altra sede ho presentato argomenti per tornare a considerare il


segno *301 della lineare A come il corrispondente dello jo (]) della linea-
re B; il segno B presenta, al solito, una grafia arcaizzante e conservativa
rispetto a quello A che risulta come rotato di 90°; un’ulteriore rotazione di
90 gradi spiegherebbe la forma del segno cipriota per jo.
116 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

SILLABARIO CIPRIOTA CLASSICO

Altre corrispondenze tra sillabario cretese e cipriota classi-


co, poi, sono ancora più incerte perché in ogni caso implica-
no un’evoluzione radicale della morfologia del sillabogram-
ma e in realtà sono ipotizzabili solo in conseguenza della certa
connessione genetica tra i due sistemi di scrittura (o; wa; wo;
ma; mi).
Nella maggior parte dei sillabogrammi finora non citati,
infine, una correlazione morfologica non è più nemmeno
remotamente ravvisabile.
Un caso a parte è rappresentato dai segni ciprioti per tu e
su: dal punto di vista grafico, essi non rivelano alcuna somi-
glianza con il tu e il su delle scritture cretesi, mentre, in verità,
potrebbero risalire entrambi,22 per sdoppiamento, al segno
cretese per du (per il confronto è utile considerare la sua
forma sia in lineare A che in B).

22 Va detto che il segno tu del cipriota assomiglia anche al logogram-


ma minoico e miceneo del vino, che però non funge mai da fonogramma,
se non in un solo caso isolato in lineare A.
3. SCRITTURA IDEOGRAFICA 117

ESEMPIO DI TRADUZIONE DI UN TESTO MAYA (DA SCHELE-FREIDEL)


118 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

LA SCRITTURA SILLABICA GIAPPONESE KATAKANA E LA SUA EVOLUZIONE DALLA


SCRITTURA CINESE COMUNE
3. SCRITTURA IDEOGRAFICA 119

Il trattato che il grande capo di Khatti, Khattusili, il forte, il figlio di


Mursili, il grande capo di Khatti, il figlio del figlio di Suppiluliuma, il
grande capo di Khatti, il forte, ha fatto su una tavoletta d’argento per
User-Maat-Ra Setep-en-Ra [Ramesse II], il grande governante del-
l’Egitto, il forte, il figlio di Men-Maat-Ra [Seti I], il grande governante
dell’Egitto, il forte, il figlio del figlio di Men-pekhty-Ra [Ramesse I], il
grande governante dell’Egitto, il forte: il buon trattato di pace e di fra-
tellanza, che dà pace per l’eternità. (da ELLI)
120 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura
3. SCRITTURA IDEOGRAFICA 121

ISCRIZIONE NEOELAMITICA CUENIFORME SUL MONUMENTO DI DARIO A BEHISTUN


CON PARAFRASI E TRADUZIONE (DA DOBLHOFER)
122 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

ESEMPIO DI TRASLITTERAZIONE E TRADUZIONE DI UNA TAVOLETTA NEOASSIRA


(DA FALES)
3. SCRITTURA IDEOGRAFICA 123

(DA HUAQING)
124 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

(DA HUAQING)
3. SCRITTURA IDEOGRAFICA 125

(DA HUAQING)
126 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

(DA HUAQING)
CAPITOLO 4
SCRITTURA FONETICA

Con “scrittura fonetica” designiamo quei sistemi in cui la


trascrizione dell’enunciato avviene pressoché esclusivamente
tramite fonogrammi e i logogrammi (cifre numeriche e altri
segni particolari) hanno un impiego marginale e comunque
limitato, di regola, a contesti particolari.
Se chiedessimo, per esempio, a un Italiano, a un Tedesco o
a un Francese, quali si vogliano, di spiegarci qual è il sistema
di scrittura adottato per trascrivere la loro lingua, possiamo
star certi che essi ci enumereranno e illustreranno in primo
luogo le lettere dell’alfabeto (e poi, magari, qualche dettaglio
sulla punteggiatura), senza sentire alcun bisogno di ricom-
prendere nel sistema le cifre numeriche né tanto meno altri
segni come %, §: in verità nelle scritture fonetiche i logo-
grammi, pur impiegati, sono chiaramente “avvertiti” come
segni non inclusi dal vero e proprio sistema di notazione della
lingua, ma piuttosto come dei simboli ausiliari o come qual-
cosa di simile a un’abbreviazione (<4> per <quattro>; <%>
per <per cento>).
Risulta così evidente la differenza con le scritture ideogra-
fiche, in cui segni logografici sono invece parte essenziale e
integrante del sistema di notazione della lingua.
Le scritture fonetiche per la loro maggiore praticità, rispet-
to a quelle ideografiche, sono ormai, a livello mondiale, le più
largamente diffuse.
128 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Nel gruppo delle scritture fonetiche si distinguono i due


sottogruppi fondamentali delle scritture alfabetiche e di quel-
le sillabiche.
All’interno del sottogruppo delle scritture alfabetiche si
distinguono, poi, le scritture alfabetiche in senso stretto
(notanti ordinariamente anche le vocali) e le scritture alfabe-
tiche consonantiche (che trascrivono ordinariamente, e con
minime ed eventuali eccezioni, solo l’ossatura consonantica
delle parole), dirette discendenti, queste ultime, dei più anti-
chi alfabeti semitici.
Sul tema spinoso dell’origine dell’alfabeto e della sua
diretta connessione con il riconoscimento delle consonanti
come entità autonome ci siamo già ampiamente dilungati;
ricordiamo soltanto che i Greci, nell’adottare l’antichissimo
alfabeto consonantico fenicio e nell’adattarlo alla fonologia
della loro lingua, introdussero un sistema di notazione regola-
re dei suoni vocalici, creando così, di fatto, il primo alfabeto
“completo” (o, come si è sopra definito, “scrittura alfabetica
in senso stretto”) della storia.
Con la scoperta dell’alfabeto si è raggiunto l’apice della
praticità e della precisione nella trascrizione della lingua par-
lata, poiché in effetti le lettere tendono a ricalcare direttamen-
te e a riflettere, sia pure in modo imperfetto e non senza qual-
che incoerenza, l’analisi dei suoni che costuiscono i mattoni
primi dell’enunciato: i fonemi.
Non a caso la trascrizione scientifica elaborata dai lingui-
sti, l’Alfabeto Fonetico Internazionale, si fonda, appunto,
(anche per la forma dei caratteri) sul sistema di notazione
alfabetica.
Tutti gli alfabeti del mondo, consonantici o meno, deriva-
no, per copia del modello o per copia dell’idea, da quello feni-
cio (e dalla sua integrazione greca, per gli alfabeti “in senso
stretto”).
Molti sapranno che i nomi delle lettere greche sono in
realtà la trascrizione dei nomi fenici dell’oggetto raffigurato
4. SCRITTURA FONETICA 129

dalla lettera stessa. Infatti i Fenici, primi inventori dell’alfa-


beto (da cui discende anche il nostro), applicarono semplice-
mente il principio acrofonico: attribuirono, cioè, al segno il
valore fonetico della consonante iniziale del nome dell’ogget-
to rappresentato.
Ecco alcuni esempi dell’antica scrittura fenicia: ) (ante-
nato della nostra A) trascriveva il suono consonantico ’ (colpo
di glottide), dato che raffigurava schematicamente una testa di
bue (fenicio ’aleph); b (antenato della nostra B) si leggeva b
e raffigurava una casa (fenicio beth) ; g (antenato delle nostre
C e G) si leggeva g e raffigurava la gobba di un cammello
(fenicio gimel); d (antenato della nostra D) si leggeva d e
raffigurava una porta (fenicio daleth); ecc.
L’eccezionale funzionalità e superiorità pratica della scrit-
tura alfabetica risulta ovvia dal confronto con le scritture
ideografiche ancor oggi in uso (come il cinese o il giappone-
se, indipendentemente dalla maggiore o minore frequenza
relativa di fonogrammi rispetto ai logogrammi) e dalle diffi-
coltà di apprendimento che esse presentano, specialmente se
si considerano i sistemi di trascrizione alfabetica (diversi dalla
trascrizione scientifica dell’Alfabeto Fonetico Internazionale,
come il pinyin per il cinese o i sistemi rîmaji per il giappo-
nese).
Il secondo sottogruppo delle scritture fonetiche, quello
delle scritture sillabiche, è il risultato dell’estensione massima
del principio del fonetismo (la cui scoperta è, si potrebbe dire,
“inevitabile” in un protosistema ideografico ben avviato),
prima della (o a prescindere dalla) scoperta delle consonanti
come entità fonetiche autonome.
Come si è infatti ripetutamente rimarcato, la minima seg-
mentazione “naturale” dell’enunciato in elementi fonici coin-
cide con la sillabazione, ossia la segmentazione in sillabe,
quali minime combinazioni di suoni funzionanti come unità
pronunciabili.
130 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Si è visto che per tali ragioni si è giunti più volte nella sto-
ria della scrittura alla spontanea elaborazione di un sistema di
fonogrammi di tipo sillabico (sillabogrammi), come “suppor-
to” (e nell’àmbito) di una scrittura ideografica oppure come
repertorio grafematico tout court di una scrittura fonetica.
Ciò fornisce un’ottima spiegazione per l’eccezionale crea-
zione ex novo, ma per copia d’idea, della scrittura sillabica
cherokee nella prima metà del XIX secolo d.C. o delle scrit-
ture sillabiche cretesi nella prima metà del II millennio a.C.
In entrambi i casi si tratta di scritture (fonetiche) sillabiche,
dotate di un sillabario semplice, con segni cioè trascriventi
sillabe aperte di tipo V o CV (e al limite CCV).
Sembra utile precisare opportunamente e dettagliatamente
cosa s’intende in questi esempi con “copia d’idea”.
Applicato al caso dei Minoici, questo modello implica che
essi elaborarono il sillabario cosiddetto “geroglifico”, da cui
poi si ricavò quello lineare (A),23 “copiando” dal “Vicino
Oriente cuneiforme” o dall’Egitto non solo l’idea della scrit-
tura in senso lato, il che avrebbe, in linea di massima, impor-
tato la ricreazione di una scrittura con la solita “trafila” (pro-
toscrittura esclusivamente logografica, (ri)scoperta del princi-
pio fonetico, espansione dell’uso dei fonogrammi), ma anche
e soprattutto l’idea della scrittura fonetica, o meglio l’idea del
fonogramma.

SEGNI GEROGLIFICI DELL’ALTARE DI MALLIA

23 La lineare A deriva da uno sviluppo del sistema geroglifico, anche


se cause e modalità non sono ancora state stabilite con sufficiente preci-
sione. Sembra certo che il “geroglifico”, la scrittura cretese di cui posse-
diamo le testimonianze più antiche, sia stata creata come scrittura per i
sigilli, mentre la lineare A come scrittura propriamente contabile.
4. SCRITTURA FONETICA 131

Per la precisione, quindi, i Minoici dovrebbero aver impor-


tato non soltanto un’idea generica di notazione scritta della
lingua, ma proprio il concetto (altrove già ben sviluppato) che
era possibile segmentare le parole in “mattoni” fonetici da
associare a segni grafici; la scelta delle segmentazione in sil-
labe, oltre alla questione della maggior “naturalezza” nonché
dell’eventuale e probabile adeguatezza alle caratteristiche
delle parole minoiche, risultava anche dal chiaro modello
delle scritture cuneiformi.

ESEMPI DI SVILUPPO DEI SEGNI CRETESI


132 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Questo concetto potè essere esteso in modo esclusivo dato


che ci si trovava a creare una nuova scrittura: i logogrammi,
che negli altri sistemi, come il cuneiforme o il geroglifico egi-
ziano, sembravano svolgere una funzione utile ed essenziale
e, soprattutto, erano profondamente radicati, avendo alle spal-
le una tradizione ortografica plurisecolare, dovettero risultare,
agli occhi dei creatori della scrittura minoica (ammesso che
dei logogrammi cuneiformi o egiziani essi abbiano avuto
effettiva cognizione), una complicazione del tutto superflua.24
E’ altamente probabile che anche Sequoyah, dopo i primi
tentativi di elaborare un sistema di pittografie o di logogram-
mi (normale reazione di chi sta “copiando” l’idea generica
dello scrivere) abbia appreso (piuttosto che intuito autonoma-
mente) il concetto di scrittura fonetica, sulla cui base seppe
brillantemente elaborare il sillabario cherokee.25
Sulle differenze tra sillabari semplici e complessi e sui pro-
blemi sorgenti dalla necessità di trascrivere sillabe chiuse o
complesse con sillabari semplici si è già sufficientemente trat-
tato nell’ampio excursus riservato alla scrittura maya.
A differenza della scrittura cherokee, in cui i segni furono
inventati casualmente ispirandosi all’alfabeto latino, per il sil-
labario maya così come per quello minoico è dimostrato che i

24 Dal numero dei segni, dalla loro frequenza relativa e dalla lun-

ghezza delle parole è assolutamente verosimile che anche il geroglifico


cretese fosse un sistema fonetico sillabico. Molti segni del sistema “gero-
glifico” di Creta possiedono effettivamente un corrispondente formale
nelle scritture lineari, ma molti altri (forse la maggioranza) no, perciò
bisogna ammettere che le informazioni attendibili sulle caratteristiche del
sistema “geroglifico” restano comunque assai limitate.
25 Il racconto di Jared Diamond relativo a Sequoyah, sopra riportato,

informa che il geniale Cherokee creò le forme dei segni per il suo sistema
sillabico prendendo spunto dalle lettere di un libro scritto in inglese «pre-
statogli da un maestro di scuola» (Diamond 1998, p. 177), il che dimostra
che Sequoyah, almeno nelle fasi più avanzate dei suoi tentativi, ebbe
modo di frequentare in modo non sporadico degli occidentali acculturati.
4. SCRITTURA FONETICA 133

sillabogrammi (che conservano ancora un certo grado di ico-


nismo) furono creati in base al principio acrofonico, analoga-
mente all’alfabeto fenicio.
Caratteri lineari cretesi come C ni (raffigurazione stilizza-
ta di una pianta di fico) e # bu (raffigurazione stilizzata di una
specie di cetra), trovano nelle parole minoiche nikule- “fico”

LOGOGRAMMI DELLA LINEARE B

e burta- “cetra” la spiegazione della loro acrofonia.26

Qualcuno, ben informato sulle scritture lineari di Creta,


potrebbe chiedermi perché, visto l’innegabile e vasto impiego
di logogrammi nei testi minoici e micenei, io non abbia esita-
to a classificare i sillabari (egeo)cretesi tra le scritture foneti-
che, piuttosto che tra quelle ideografiche.
Attenendoci alla lineare A, che trascrive la lingua minoica,
attorno alla quale fu costruito il sillabario stesso, si nota, evi-
dentissima, la differenza tra testi amministrativi (per lo più
tavolette d’archivio registranti beni dati, ricevuti o spettanti),

26 Altri esempi in Negri 2000a, p. 78 ss.


134 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

ripieni di logogrammi, di numerali, oltre che di legature e di


abbreviazioni, e testi non-amministrativi (incisi o dipinti sui
più svariati supporti), in cui tali elementi logografici non
compaiono se non in casi rarissimi e ben spiegabili con un’e-
lementare analisi dei dati contestuali.

TAVOLETTA IN SCRITTURA LINEARE A

Dunque si tratta di un complesso sistema di logogrammi


(nonché di sigle e legature) elaborato esclusivamente ai fini di
una più chiara, rapida ed economica notazione archivistica.
Vergando le loro (piccole) tavolette d’argilla, i Minoici
avranno trovato molto più conveniente scrivere “vino”, “olio”
e “olive” con tre appositi ideogrammi, piuttosto che con tre
gruppi di sillaborammi corrispondenti alle parole minoiche di
quei generi alimentari.
4. SCRITTURA FONETICA 135

Per quanto concerne invece la lineare B, che è in sostanza


il sillabario minoico adattato all’esigenza di trascrivere la lin-
gua greca micenea, essa si presenta sempre e soltanto come
scrittura dei testi contabili e amministrativi.
Nonostante la scrittura lineare B sia più recente della A e
possieda un numero complessivo di attestazioni largamente
superiore, si può affermare che documenti micenei di natura
non-amministrativa praticamente non esistono.

TAVOLETTA IN LINEARE B DA CNOSSO CON REGISTRAZIONE DI RUOTE DA CARRO (IL


TESTO SI TRADUCE: “RUOTE DI SALICE CERCHIATE: 3 PAIA (E) [1] SPAIATA”)

La spiegazione sta nel fatto che il sistema della lineare B è


il risultato di un adattamento imperfetto; in effetti la lineare A
era costituita da un sillabario semplice notante solo sillabe
aperte, creata “attorno” alla lingua minoica, le cui strutture
sillabiche canoniche preferenziali dovevano essere, come per
esempio quelle del giapponese, adatte ad essere notate senza
soverchie ambiguità tramite un simile strumento scrittorio.
Al contrario il greco miceneo era una lingua molto ricca di
sillabe chiuse e complesse, inadatta ad essere trascritta con un
simile repertorio grafematico, specialmente, come sottolineato
nel capitolo precedente, con una regola ortografica prevalente
(ereditata con ogni probabilità dai Minoici) fondata sull’omis-
sione di consonanti o semivocali “coda” di sillaba chiusa.
Tutto ciò rendeva la lineare B uno strumento assai poco
pratico ed estremamente ambiguo, assolutamente non adatto
alla trascrizione di testi letterari, religiosi, storici, ecc., ma tut-
tavia sufficiente per annotazioni di tipo contabile e archivisti-
136 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

co, specialmente se ben contestualizzate (dai dati di contorno:


la teca di tavolette relativa al determinato argomento, ecc.) e
ampiamente accompagnate da logogrammi esplicativi (alle
volte si tratta di veri e propri disegni dettagliati dell’oggetto
descritto).27

IMPORTANTE TAVOLETTA IN LINEARE B DI CNOSSO CON ASSEGNAZIONI DI OLIO A


VARIE DIVINITÀ (TRA CUI ZEUS DICTEO E DEDALO)

27 Un documento-chiave della decifrazione della lineare B è la cosid-

detta “tavoletta dei tripodi”, proveniente dall’archivio miceneo di Pilo e


contenente brevi frasi descrittive accompagnate da logogrammi (veri e
propri disegni) di vasi; dette frasi, se lette con i valori di Ventris e tradot-
te come greco miceneo, forniscono descrizioni del tutto aderenti ai logo-
grammi: è come se si trattasse di una bilingue. Michael Ventris aveva pre-
sentato i risultati della sua decifrazione prima del ritrovamento della tavo-
letta in esame.
4. SCRITTURA FONETICA 137

I Micenei, dunque, si contentarono di un impiego della


scrittura che potesse sopperire alle necessità di accurata regi-
strazione indispensabili per un’amministrazione palaziale
complessa e centralizzata, perciò ritennero di non doversi
sforzare per apportare grosse modifiche né al repertorio gra-
fematico né alle regole ortografiche del sillabario minoico.
Così, mentre la lineare A fu una scrittura che si potè ampia-
mente diffondere anche per usi privati, la lineare B restò inve-
ce la scrittura propria ed esclusiva dell’amministrazione pala-
ziale.
Questo discorso non toglie nulla al grande merito della
decifrazione della lineare B, compiuta dall’architetto inglese
Michael Ventris nel 1952, e all’importanza storica e linguisti-
ca a dir poco rivoluzionaria dell’aver reso leggibili simili
documenti diretti della civiltà micenea, scritti in un greco del
XIV-XIII secolo a.C.: la lingua di Achille e di Agamennone.

LA FAMOSA TAVOLETTA MICENEA DETTA “DEI TRIPODI” (PY TA 641), DOCUMEN-


TO-CHIAVE NELLA DECIFRAZIONE DELLA LINEARE B

A tale riguardo si può aggiungere che il lavoro del Ventris


costituisce un vero modello esemplare per la storia delle deci-
frazioni delle scritture scomparse, perché egli si trovò di fatto
a dover operare su basi puramente combinatorie, senza bilin-
gui e perfino senza chiara consapevolezza, se non nelle ulti-
me fasi del lavoro, di quale fosse la lingua soggiacente.
Il grande archeologo Arthur Evans, lo scopritore del palaz-
zo di Cnosso e delle antiche e dimenticate scritture cretesi (la
classificazione in “geroglifico”, “lineare A” e “lineare B”
risale a lui), rimase senza dubbio fino alla morte (nel 1941, a
novant’anni) l’autorità indiscussa nel campo degli studi
minoici e micenei.
138 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Il peso rallentante che la sua autorevolezza esercitò sul


processo di decifrazione della lineare B (sulla quale si era sco-
perta, fin dall’inizio del XX secolo, una quantità di materiale
davvero imponente) fu certamente notevole e ricorda, in qual-
che misura, l’atteggiamento di Thompson nei confronti degli
studi sulla scrittura maya.
Di sicuro Evans, sulla base della sua interpretazione dei
dati archeologici, contribuì a far nascere e fomentò esagerata-
mente la communis opinio (in seguito rivelatasi gravemente
errata) che la lingua della lineare B non poteva assolutamen-
te celare una lingua greca.
«L’influenza di Evans e dei suoi seguaci è stata immensa.
Soltanto pochissimi archeologi hanno osato mettere in dubbio
la dottrina ortodossa, e il più coraggioso, il defunto prof. A. J.
B. Wace, dovette pagar care le sue vedute eretiche; gli fu
infatti impedito per un considerevole periodo di partecipare
alle campagne di scavo in Grecia. La voce dei dissenzienti
rimaneva inascoltata, e soltanto di recente si era cominciata
ad ammettere un’influenza della Grecia peninsulare sulla
Creta del tardo Minoico. La prova data da Ventris che i signo-
ri di Cnosso parlavano greco ha avuto l’effetto di un fulmine
a ciel sereno per quasi tutti coloro che si erano occupati della
questione».28
Ma l’aspetto scientificamente più dannoso del comporta-
mento di Evans circa le tavolette di Cnosso, fu l’enorme ritar-
do con cui l’abbondante materiale venne pubblicato e messo
a disposizione di tutti gli studiosi: «sebbene Evans pubblicas-
se ogni tanto una piccola scelta delle tavolette, soltanto undi-
ci anni dopo la sua morte (avvenuta nel 1941), a più di cin-
quant’anni dalla prima scoperta, queste furono completamen-
te rese pubbliche, e anche allora, in un’edizione che era ben
lontana dal soddisfare le richieste degli studiosi».29

28 Chadwick 1977, p. 36 s.
29 Palmer 1969, p. 22.
4. SCRITTURA FONETICA 139

REGISTRAZIONE, DAL PALAZZO MICENEO DI PILO, CONTENENTE DISPOSIZIONI


RELATIVE ALLA SORVEGLIANZA MILITARE DELLE COSTE

John Chadwick, che collaborò con Ventris nelle fasi finali


della decifrazione della lineare B, ha scritto: «esiste tra gli
archeologi la tacita legge che soltanto lo scopritore di un
oggetto ha diritto alla sua prima pubblicazione; giusto in
apparenza, questo principio diviene assurdo quando l’autore
degli scavi si rifiuta di delegare ad altri la pubblicazione, e la
rinvia ingiustificatamente egli stesso. Casi simili sono rari,
ma qualcuno di tanto in tanto se ne verifica ancora, malgrado
lo spirito di maggiore collaborazione internazionale che oggi
fortunatamente prevale tra gli archeologi»,30 e ha aggiunto, mi
pare con un eccesso di indulgenza: «il ritardo della pubblica-

30 Chadwick 1977, p. 27 s.
140 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

zione fu certo increscioso, ma alla luce delle nostre cono-


scenze attuali bisogna ammettere che se anche tutto il mate-
riale fosse stato reso disponibile agli studiosi immediatamen-
te, le possibilità di decifrazione sarebbero rimaste minime.
Tuttavia qualche progresso sarebbe stato sicuramente fatto, e
molto dell’inutile lavoro di congettura degli anni successivi
evitato».31
Nessun argomento potrà comunque, su questo punto, scol-
lare dalla figura di Evans la non bella impressione che egli
abbia voluto tenere solo per sé e i suoi il grosso di quelle
numerose e importanti tavolette, con l’idea (poi rivelatasi
vana) che alla fine sarebbe riuscito egli stesso nell’impresa
della loro decifrazione.
Quasi a metà tra le scritture (fonetiche) alfabetiche e silla-
biche si possono classificare tradizioni scrittorie come quella
devanagarica e quella amarica (che nel secondo capitolo
abbiamo già incidentalmente designato col nome di “sillabari
impropri”), il cui repertorio grafematico è concretamente
costituito da un gruppo di segni appositi e invarianti per le
consonanti e un gruppo di segni appositi e invarianti per le
vocali, i quali, combinati tra di loro (segno consonantico +
segno vocalico), formano il sillabogramma compiuto.

SEGNI CONSONANTICI DEVANAGARICI

31 Chadwick 1977, p. 27.


4. SCRITTURA FONETICA 141

SEGNI VOCALICI DEVANAGARICI

LA SERIE P- DEI SILLABOGRAMMI DEVANAGARICI

Sia la scrittura devanagarica sia quella amarica (etiopica)


presentano la caratteristica di avere un segno vocalico zero
per la /a/, vale a dire che entrambi i sistemi impiegano la serie
di segni consonantici senza alcuna aggiunta per notare la serie
di sillabogrammi con vocalismo -a.
In entrambi i casi, inoltre, dalle suesposte “combinazioni”
si ottiene il risultato di dover operare con un sillabario sem-
plice (con sole sillabe aperte).
La scrittura devanagarica, che serve anche alla trascrizione
del sanscrito, possiede un complicato sistema di legature per
la trascrizione dei nessi consonantici.
Questo peculiare tipo di sillabari è sorto dall’acquisizione
e dall’adattamento di una scrittura alfabetica consonantica,
per la quale si è studiato un sistema di notazione delle vocali
diverso da quello elaborato dai Greci (che, come è noto, reim-
piegarono segni consonantici, per loro inutili, per la trascri-
zione delle vocali, comunque concepite come entità [e lettere]
autonome).
Il metodo di notazione vocalica con punti diacritici appli-
cato alla scrittura ebraica sviluppa un sistema presentante in
nuce le stesse caratteristiche di questi sillabari “impropri”.
142 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

CONFRONTO DEL SILLABARIO AMARICO CON L’ALFABETO SABEO


4. SCRITTURA FONETICA 143

SISTEMI CHE SEGUONO L’ORDINE ALFABETICO SEMITICO MERIDIONALE


CAPITOLO 5
SCRITTURA COME TRADIZIONE

Una delle caratteristiche essenziali della lingua scritta,


rispetto a quella parlata, consiste nella sua stabilità: tale aspet-
to tuttavia collide apertamente con la forza incessante del
mutamento linguistico, che investe tutte le lingue vive.
Il punto di massima frizione tra codice parlato e codice
scritto (con speciale riferimento alle scritture fonetiche) è pro-
dotto dal mutamento (mor)fonologico, in quanto esso investe
direttamente il significante-espressione (che è, come visto
all’inizio, contenuto del segno del codice scritto), piuttosto
che dal mutamento semantico, che investe invece il piano del
significato-contenuto del segno della lingua parlata.
Molte lingue, che hanno sopportato forti e radicali muta-
menti fonetici, rivelano in modo lampante uno scollamento
tra la grande evoluzione dell’espressione del codice parlato e
la relativa lentezza dell’adeguamento dell’espressione del
codice scritto, che tende a restare ancorata alla tradizione
scrittoria ortografica, specialmente se prestigiosa e profonda-
mente radicata.
L’italiano (toscano) è, tra le lingue discendenti dal latino,
quella che ha meno subito gli effetti del mutamento fonetico:
perciò una parola come <caldo> riproduce, si può dire, esat-
tamente (salvo gli effetti del mutamento morfologico) il lati-
no (tardo) <caldus> (lat. class. <calidus>).
Il francese <chaud> è attualmente pronunciato [ßo], eppu-
re, come si nota, la sua grafia, pur registrando uno stadio già
abbastanza distante da lat. <caldus>, si è grandemente allon-
146 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

tanata, in rapporto alla pronuncia moderna, dall’originale ten-


denziale (anche se non mai perfetta) aderenza tra ordine gra-
fematico e ordine fonematico, che costituisce, come si è detto,
una delle principali ragioni (se non la principale) per cui la
scrittura alfabetica rappresenta l’apice della precisione, della
funzionalità e dell’economicità, rispetto a tutti gli altri sistemi
scrittori.
Questa importante “aderenza“ tendenziale fu in verità
rispettata quando, nel Medioevo, si cominciò a scrivere anche
in francese (e non più solo in latino), cioè, per l’esattezza, si
procedette all’adattamento dell’alfabeto latino alla fonologia
del francese dell’epoca, per assicurarne la trascrivibilità.
Per semplificare, possiamo dire che a quell’epoca l’esito
francese di lat. cal(i)dus era pronunciato all’incirca [ßa"d];
così per la trascrizione del suono ["] ci si servì del grafema
<u>, letto in latino [u] o [w], che sembravano abbastanza
simili a ["], mentre per notare un altro suono inesistente in
latino, cioè [ß], si ricorse al digrafo <ch>.32 Le corrisponden-
ze <u> : ["] e <ch> : [ß] vennero introdotte a livello di siste-
ma, e non certo solo per <chaud>, così che nella trascrizione
del francese di quell’epoca l’“aderenza” tendenziale tra grafe-
mi (o gruppi di grafemi) e fonemi restava piuttosto salda.

Il suono [ß] non esisteva in latino, perciò, dovendosi trovare un


32

espediente per la sua trascrizione nelle molte lingue europee (neolatine o


germaniche) che adottarono l’alfabeto latino e in cui detto suono funzio-
nava come fonema, si ricorse a digrafi o trigrafi (fr. <ch>; ingl. <sh>; it.
<sc(i)>; ted. <sch>). L’etrusco, possedendo anch’esso detto fonema e
dovendo adottare l’alfabeto greco, la cui lingua ne era invece priva, si
trovò in una situazione del tutto analoga, da cui uscì adottando un appo-
sito grafema; per un altro suono inesistente in greco (molto probabilmen-
te [j] piuttosto che [f], ma di solito traslitterato con f) gli Etruschi inve-
ce impiegarono inizialmente un digrafo (la cui traslitterazione è vh o hv)
e, successivamente, crearono un nuovo apposito segno a forma di 8 (nor-
malmente traslitterato con f).
5. SCRITTURA COME TRADIZIONE 147

Successivi mutamenti fonologici determinarono il passag-


gio da [ßa"d] all’attuale [ßo], ma la grafia tradizionale
<chaud> resistette e tale sopravvivenza determinò una certa
rottura dell’aderenza tra grafemi e fonemi: <d> oggi non cor-
risponde più sempre a /d/, come nel francese medievale, ma,
in dati contesti, anche a ^; <au> ora non sta più per [a"], ma
corrisponde sempre ad /o/, per cui, tra l’altro, esisteva già la
notazione <o>, ecc.
Altre parole francesi come <est> [´], <pont> [pø~],
<enfant> [í~«fí~], ecc., si presterebbero a un’analisi del tutto
simile.
Pertanto il consolidamento di un’ortografia tradizionale
(per motivi storici, culturali, ecc.) nella notazione di una lin-
gua comporta una forza di resistenza della forma scritta talo-
ra insuperabile, che resta cristallizzata ad onta dell’inarresta-
bile mutamento fonetico; quando quest’ultimo, poi, incide
profondamente i connotati della lingua trascritta, l’aderenza
tendenziale grafemi-fonemi ne esce del tutto sconvolta.
Se si considera a fondo la situazione del francese si capi-
sce però che in questo caso la forza della tradizione scrittoria
più che spezzare e scompaginare del tutto l’aderenza tenden-
ziale tra grafemi (o gruppi di grafemi) e fonemi, ha piuttosto
determinato l’introduzione di nuovi elementi di complessità
nel sistema delle corrispondenze.
Però, una volta ben compresi e definiti questi elementi di
complicazione (<d> sta per /d/ tranne che in posizione finale
di parola dove sta per ^, <au> sta per /o/ e così via), ci si
accorge che non sono poi moltissimi e, soprattutto, che essi
operano, con poche o nessuna eccezione, a livello di sistema,
per la pronuncia di tutte le parole.
Dunque in francese l’adeguato apprendimento di tutte que-
ste peculiari corrispondenze ortografiche elimina, in pratica,
ogni difficoltà nell’operazione di lettura (ad alta voce) di un
messaggio scritto, ossia nella sua (prima) decodifica da parte
del ricevente; il rispetto delle grafie tradizionali importa inve-
148 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

ce un maggior sforzo mnemonico nella corretta trascrizione di


un enunciato qualsiasi, ossia nella sua codifica per iscritto da
parte dell’emittente.
Ben più grave e diverso (perché agisce su entrambi i livel-
li, di lettura dello scritto e di trascrizione del parlato) è il feno-
meno di scollamento tra codice scritto e codice parlato avve-
nuto in inglese.
Pure in questo caso la grafia, riportante in genere la pro-
nuncia medievale, è rimasta come fossilizzata dalla forza
della tradizione letteraria, ma la storia peculiare dell’inglese
postmedievale è segnata da un ben più complesso e radicale
mutamento fonetico,33 senza contare l’arricchimento e lo
sconvolgimento costante e progressivo del lessico tramite
stratificazioni di prestiti di diversa origine.
Si è giunti così a una situazione per cui la corretta pronun-
cia di molte parole va appresa caso per caso, senza che dalla
forma scritta si possa ricavare, per il tramite di regole com-
plesse ma precise (come in francese), la pronuncia esatta.
Si ha dunque <tear> leggibile come [tˆ\] (“lacrima”) o
[t´\] (“strappo”); <sew> da leggere [s¨w] (nonostante few
[fju…], new [nju…], ecc.), ma attenzione a leggere <sewer-rat>
come [sju\-ræt] “ratto di fogna” e non [s¨w\-ræt] (che
sarebbe un inesistente “topo-da-cucitrice”); <ch> corrispon-
dente a [tß], [k] o [ß], rispettivamente in <choose>, <tootha-
che> e <machine>; ecc.
Si può affermare pertanto che in inglese è avvenuta una
rottura profonda del processo di aderenza tendenziale tra gra-
femi e fonemi e che moltissime parole scritte funzionano
ormai come entità in cui si è quasi del tutto disarticolato il
legame tra grafemi (o al più gruppi di grafemi), espressione
del codice scrittura, e fonemi, contenuto dello stesso codice.

33 «Dall’epoca dell’inglese di Chaucer (inizio del Quattrocento) a


quella moderna, probabilmente tutti gli elementi che costituiscono il siste-
ma fonologico dell’inglese si sono modificati» (Lehmann 1998, p. 222).
5. SCRITTURA COME TRADIZIONE 149

La più grave conseguenza di tutto ciò è, come tutti posso-


no verificare, la perdita delle caratteristiche di semplicità e di
esattezza che connotano la trascrizione alfabetica.
Pertanto in inglese, per la forza della tradizione ortografi-
ca, si è tenuti a rispettare una notazione in cui le eccezioni
sono ormai la regola e, squarciatasi la rete di corrispondenze
tra lettera (o gruppo di lettere) e suono, le parole scritte devo-
no ormai essere apprese quasi come se fossero dei logogram-
mi.
Processi di “reazione” alle incoerenze dell’ortografia tradi-
zionale inglese sono registrabili su diversi livelli.
Una reazione, per così dire, inconsapevole è osservabile
nel processo di analisi spontanea dei suoni dell’enunciato (al
fine della trascrizione) operata da persone poco alfabetizzate,
nel senso che esse conoscono bene le (poche) lettere dell’al-
fabeto, ma conoscono poco o male le differenti e incoerenti
grafie delle (moltissime) parole.
Oltre ad errori derivanti da un apprendimento scorretto di
grafie tradizionali, si nota in questi casi una tendenza sponta-
nea, anche se ovviamente asistematica e incostante, a riallac-
ciare collegamenti diretti tra lettera e suono.
Soltanto per dare un’idea, traggo un esempio semplice
(realistico, anche se artificiale) da Witness for the Prosecution
di Agatha Christie; si tratta appunto di una lettera scritta da un
semianalfabeta (si notino le grafie scorrette, tutte tendenzial-
mente riproducenti la pronuncia effettiva: wot, acks, showd,
ull, cawst, ecc.):
150 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Dear mister, – Youre the lawyer chap wot acks fort the young
feller. If you want that painted foreign hussy showd up for wot
she is an her pack of lies you come to 16 Shaw’s Rents Stepney
to-night. It ull cawst you 2 hundred quid. Arsk for Missis
Mogson.34

L’errore ortografico è perciò, nella maggior parte dei casi,


la manifestazione di una tendenza a riprodurre la pronuncia
effettiva (individuale) della parola; del resto non sono infre-
quenti fenomeni simmetrici, in cui l’ortografia (più o meno
incoerente) importa pronunce difformi dallo standard, come
nel caso di <efficiente> o <sufficiente> letti con -[tßie]- inve-
ce che con -[tße]-.
Una reazione consapevole alle norme dell’ortografia tradi-
zionale inglese è invece ravvisabile in quel modo di scrivere
“trasandato” oggi tanto in voga tra le più giovani generazioni
di anglofoni (soprattutto negli Stati Uniti).
In questo caso si tratta di soggetti bene alfabetizzati e ade-
guatamente istruiti; infatti il carattere sociale del fenomeno e
delle sue cause (senso di appartenenza al gruppo generazio-
nale, ecc.) interessa la nostra trattazione proprio perché esso
investe fatti di scrittura piuttosto che (o, comunque, oltre a)
fatti di lingua (espressioni gergali, ecc.).
Al fine di illustrare il fenomeno riesce molto utile presen-
tare direttamente una scelta di materiale (messaggi ad amici
coetanei) edito su internet da un’adolescente americana qual-
siasi.
Omettiamo, d’altra parte, per il carattere puramente esem-
plificativo del documento, un commento puntuale ai tanti
argomenti che richiamerebbero il nostro interesse (come l’uso

34 Riporto in nota la traduzione sociolinguisticamente “adattata” di H.

Brinis e L. Lax: «Caro signore, Lei e lavocato che rapresenta cuel povero
ragazo. Se vuole che cuela putana straniera viene scoperta per cuela che e,
lei e le buggie che raconta, la spetta al 16 di Shaw’s Rents Stepney cuesta
sera. Ci costera 2 cento sterline e deve ciedere dela signiora Mogson».
5. SCRITTURA COME TRADIZIONE 151

molto frequente e quasi ordinario di logogrammi [aritmo-


grammi], come 8, 2, 4, in funzione di fonogramma, il che ci
riporta con la mente alle prime fasi della scoperta del foneti-
smo, ecc.).

jessica: hey ive known u 4 5 yrs now, i dunno wut id do


without u! ur my bestest friend in da wrld! ill nevr 4 get u
(how cud i??) specially ur obssetion (u noe wut that 1 is)
thanx 4 always bein there wen i fall, laughing at all my jokes
(even the stupid 1’s) settin me str8, n alwayz havin a shoulder
4 me 2 cry on! i dunno wut id do without u! i kno i sound
REALLY corny so imma shut up35 .....143*mwa*477*lylas*

Vane A: Hey mi pobresita chikitika! dont ever wry botu me n


jessica...i think we can stay out of truble until u come to mexi-
co to bail us out of jail....well....maybe...i dont really think so.
n e ways, ur my best friend n over the past 2 years we’ve
grown really close! i luv u alot n i dunno wut i wud do without
u! n i really mean that! without u i wudnt have n e 1 to bail
me out of jail! lol...j/k, no really, thanx 4 alwayz bein there 4
me! i lylas! well...nuthing much 2 b sed that hasnt been sed
already. ill NEVER 4get u..thnx so much 4 all the gud tyms!
mwa*143*477*lylas!

Vane E: hey i kno u live REALLY far now...but ur still my best


friend! i luv u a lot!! dont 4get to k.i.t!! mwa*
Tabz: omg36 i cant begin to sey how much i miss u!! hope ur

35 Forniamo, a titolo d’esempio, una trascrizione ortograficamente

“normalizzata” del primo messaggio: «Jessica: Hey, I’ve known you


for five years now, I don’t know what I’d do without you! You’re my
“bestest” friend in the world! I’ll never forget you (how could I??),
specially your obsession (you know what that one is). Thanks for
always being there when I fall, laughing at all my jokes (even the stu-
pid ones), setting me straight and always having a shoulder for me to
cry on! I don’t know what I’d do without you! I know I sound REALLY
corny, so I’m to shut up».
152 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

having fun at d.c....i luv u so0o0o much! dont EVER 4get bout
me!! thanx 4 alwayz bein there!! bf4l!! lylas!!* 143* 477*
123*mwa*

Val: 8 or 9 yrs1 wow!! thats a long tym to kno sum1!! i kno


we’re not really that close n e more but at 1 tym we wur!! we
lived with eachother! ever sience kinder ive thought of u as a
sis....i kno in middle we’ve drifted but the 6 yrs we wur the
best of friends will alst 4ever! if u even need ne ting just cal-
lme! luv ya!

kenny: wut is there to sey?? we havent known eachother 4 that


long but uve been a really gud friend! we used to b tighter but
u kno u can still come to me with n e of ur problems, n i kno i
cud always count on u ....if u ever need ne thing just call, gud
luk with evry thing !! 143*

Fenomeni di complicazione dei rapporti correlativi tra gra-


femi e suoni sono riscontrabili del resto in pressoché tutte le
scritture fonetiche (e alfabetiche in particolare); tuttavia il
livello di “scollamento” è piuttosto assimilabile a quello del
francese (anche se magari meno marcato) e non alla vera e
propria frattura riscontrabile in inglese.
Per esempio, in neogreco <αυ> sta per [af]; <ει>, <οι>,
<η> per [i]; <μπ> per [b]; <ντ> per [d], ecc.
D’altronde anche l’italiano presenta incoerenze spiegabili
esclusivamente sulla base della tradizione ortografica (es.
<cuoco> : lat. <cocus>; <liquore> : lat. <liquor>; <scuola> :
lat. <schola>; <proficuo> : lat. <proficuus>; <ho> : lat.
<habeo>, ecc.), senza contare casi come <gli> per [Òi] in
<fogli> e per [gli] in <geroglifico>, ma comunque, anche in
complesso, niente di neanche lontanamente paragonabile al
caso dell’inglese.

36 “Oh my God!”.
5. SCRITTURA COME TRADIZIONE 153

Oltre a grafemi diversi trascriventi lo stesso suono, come


<c> e <q> per [k], in italiano si trovano esempi di segni
polifonici, come <c> per [k] o [tß] e <g> per [g] o [dΩ], tutti
fenomeni egualmente spiegabili in quanto prodotti della con-
servazione di grafie tradizionali.
Per esempio in latino classico la corrispondenza tra <c> e
[k] era costante, in quanto <ca>, <ce>, <ci>, <co>, <cu>
erano lette rispettivamente [ka], [ke], [ki], [ko], [ku]. Ciò
premesso, abbiamo parole come lat. <capra> e <corpus> che
si sono trasmesse in italiano (<capra> e <corpo>) con una
grafia identica della sillaba iniziale e una pronuncia immuta-
ta dell’occlusiva velare sorda, mentre altre parole, come lat.
<recido> e <cena>, sono passate in italiano con grafia identi-
ca, ma con pronuncia diversa: lat. [re«ki…do…], [«ke…na] > it.
[re«tßi…do], [«tße…na].
Al di là della lunghezza vocalica, che in italiano, a diffe-
renza del latino, non è pertinente, risulta chiaro che a livello
linguistico, su un piano diacronico, è intervenuto un fenome-
no assimilatorio di palatalizzazione tra vocali palatali e occlu-
sive velari (già operante nel latino tardo), che ha determinato
il passaggio lat. [ke], [ki], [ge], [gi], > it. [tße], [tßi], [dΩe],
[dΩi].
A tale mutamento fonologico non è corrisposto, per l’in-
flusso conservativo dell’antica ortografia tradizionale, un ade-
guamento della grafia (con l’introduzione di apposite moda-
lità di notazione per i nuovi fonemi /tß/ e /dΩ/), producendosi
dunque la rottura della corrispondenza costante tra <c>, <g>
e [k], [g].
Inoltre, dacché in italiano <ce>, <ci>, <ge>, <gi> veniva-
no ormai letti rispettivamente [tße], [tßi], [dΩe], [dΩi], si
dovette escogitare un sistema per trascrivere i [ke], [ki], [ge],
[gi] italiani di origine secondaria: perciò si ricorse ai digrafi
<ch> e <gh>, come mostrano gli esempi di it. <chi>, <che>
(da lat. <quis>, <quae>).
Un simile fenomeno di palatalizzazione spiega l’anomalia
154 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

della serie sibilante dei sillabogrammi giapponesi, ossia, in


traslitterazione rîmaji Hepburn: sa , shi [ßi], su, se, so (hira-
gana a s d f g; katakana a s d f g); analoghe
considerazioni potrebbero estendersi alla serie dentale sorda:
ta , chi [tßi], tsu, te, to (hiragana z x c v b; kataka-
na z x c v b).
L’irregolarità della serie dei kana in h- (ha , hi, fu [ƒ}],
he, ho: hiragana y u i o p; katakana y u i o
p), poi, deriva dal fatto che attualmente in giapponese davan-
ti a /u/ (in questo contesto fonico ora realizzato come [}]),
[ƒ] (peraltro traslitterato come f) è l’allofono di /h/.
Le serie grafematiche per le occlusive bilabiali sonora e
sorda sono composte da sillabogrammi dakuon “impuri”
(hiragana ^ & * ( ); katakana ^ & * ( ); ba ,
bi, bu, be, bo) e handakuon “semipuri” (hiragana H J K
L :; katakana H J K L :; pa , pi, pu, pe, po), cioè
semplicemente ricavati dalla serie in h- con l’aggiunta di
appositi diacritici (i due trattini, o nigori “impurità”, e un cer-
chietto, o maru “cerchio”), il che suggerisce l’idea che in una
fase precedente tale serie in h- doveva in realtà notare le sil-
labe con fricativa bilabiale sorda [ƒ]; verificatosi poi uno svi-
luppo fonetico generalizzato [ƒ] > [h], l’originario [ƒ] fu pre-
servato solo davanti a /u/.
Un mutamento fonetico simile ha interessato anche l’etru-
sco, in cui la fricativa bilabiale sorda /ƒ/ (fungente da fonema
e notata con un’apposita lettera a forma di 8, che viene oggi
normalmente traslitterata con f) in epoca più recente, special-
mente in posizione iniziale di parola, si evolvette in /h/, come
mostra per esempio lo sviluppo fonetico del prenome femmi-
nile etr. Fasti > Hasti.
Gli esempi tratti dalle scritture alfabetiche con tradizione
letteraria ormai secolare insegnano che la forza della scrittura
come tradizione ostacola grandemente l’adeguamento tra gra-
fia e lingua in evoluzione, favorendo così il processo di scol-
lamento tra i due codici e l’introduzione di nuovi e sempre più
5. SCRITTURA COME TRADIZIONE 155

numerosi elementi di complicazione nella rete originaria


(“intessuta”, cioè, al momento dell’adozione di una determi-
nata scrittura fonetica e del suo adattamento a una data lingua)
delle corrispondenze tendenziali tra ordine grafematico e
ordine fonematico.
Sul versante delle scritture ideografiche, inoltre, la forza
della scrittura come tradizione rappresenta anche oggi un
ostacolo fondamentale verso il superamento di un sistema
scrittorio arcaico, poco funzionale (implicando l’apprendi-
mento e l’uso di centinaia o migliaia di segni diversi) e in
verità del tutto “fuori tempo” nell’era tecnologica in cui vivia-
mo.

«Nell’era della tecnica, le peculiarità della scrittura cinese


vanno sempre più rivelandosi come deficienze. Come scrive-
re a macchina, telegrafare, costruire e gestire un elaboratore
elettronico con una lingua che ha migliaia di caratteri?».37
Modifiche e semplificazioni (o complicazioni) del tratto
hanno accompato invero la storia, ininterrotta da ben più di
tremila anni, dei caratteri cinesi, dei quali sono stati elaborati
molti e ben distinti stili.

37 Störig 1988, p. 282.


156 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

ESEMPI DI SEMPLIFICAZIONE DEI CARATTERI CINESI

Nel 1956 il governo cinese, per favorire il processo di


“alfabetizzazione”, sancì un’importante riforma, eliminando
dall’uso 1027 caratteri “doppioni” e riducendo il numero di
tratti a ben 2235 caratteri; allo stesso tempo fu introdotto il
sistema ufficiale di trascrizione della pronuncia dei caratteri
stessi tramite l’alfabeto latino: il pinyin (letteralmente pênyên
significa “sillabare”, “fare lo spelling”), che poi non è altro
che l’adattamento ufficiale dei grafemi latini al sistema dei
fonemi cinesi.
Tuttavia il passaggio definitivo alla scrittura alfabetica è
bloccato da un tradizionalismo ancora saldamente ancorato a
ragioni storiche e culturali come il prestigio enorme del pluri-
millenario sistema ideografico o il timore che il gigantesco
patrimonio letterario del glorioso passato possa restare pre-
cluso alla maggioranza della popolazione e accessibile solo a
prezzo di lunghi studi specialistici.
A ciò si aggiungono ragioni di un’effettiva maggiore
“comodità” nella lettura di un testo in scrittura ideografica,
data la presenza di quegli importanti indicatori semantici che
sono i determinativi (in cinese i “radicali”), senza contare che
l’uso di segni diversi per la trascrizione dei molti casi di paro-
le cinesi omofone elimina, per iscritto, potenziali ambiguità
(da questo punto di vista, per esempio, anche in francese la
conservazione dell’ortografia tradizionale permette di distin-
guere, per iscritto, diversi omofoni).
In più si deve considerare il carattere “unificante“ della
5. SCRITTURA COME TRADIZIONE 157

scrittura cinese che riesce, in linea di massima, a fornire una


trascrizione univoca di quasi tutte le varietà dialettali, senza
che traspaiano le (anche forti) differenze fonetiche (ricordia-
mo che l’uso effettivo di fonogrammi è piuttosto limitato,
specificamente all’interno di segni composti). Una trascrizio-
ne alfabetica spezzerebbe irrimediabilmente questa “unità”.

EVOLUZIONE DELL’ANTICA SCRITTURA EGIZIANA

Il geroglifico egiziano attraversò fasi analoghe a quelle del


cinese: le semplificazioni che si elaborarono interessarono
infatti soltanto il tracciato dei singoli segni.
Conobbe così vasta applicazione la grafia corsiva e anico-
nica nota come ieratico e, più tardi, una grafia ancora più sem-
plificata, il demotico, entrambe in generale condizionate dal
carattere del testo e dal tipo di supporto, dacché il geroglifico
restava sempre e comunque la forma di scrittura monumenta-
le, considerata anche la sua non trascurabile valenza decorati-
158 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

va.
Anche se, come si è visto, il carattere peculiare della scrit-

I SEGNI MONOCONSONANTICI DEL GEROGLIFICO EGIZIANO

tura geroglifica portò gli Egiziani per primi alla “scoperta”


dell’alfabeto consonantico (i 24 segni monoconsonantici),
essi tuttavia non abolirono mai tutto l’apparato tradizionale di
fonogrammi plurilitteri, logogrammi e determinativi, compor-
tante l’uso di centinaia di segni.
Anche e soprattutto per ragioni storiche e politiche, nei

ALFABETO COPTO
5. SCRITTURA COME TRADIZIONE 159

primi secoli dell’Era Cristiana l’uso del geroglifico e delle sue


varianti aniconiche e corsive lentamente si spense e l’ultima
fase dell’antica lingua dei faraoni cominciò a essere trascritta
con un adattamento dell’alfabeto greco, la scrittura copta.
CAPITOLO 6
DA LEGGERE E DA CAPIRE

La lingua funziona come uno strumento per la formazione


e la trasmissione di messaggi; si distinguono perciò un’opera-
zione di codifica (ossia di assegnazione di un’espressione a un
contenuto) da parte dell’emittente e un’operazione di decodi-
fica (consistente nell’identificare o ricavare il contenuto dal-
l’espressione) da parte del ricevente. La decodifica consiste
perciò nell’interpretazione dei messaggi.
Dato che la scrittura, come si è visto all’inizio, è un codi-
ce secondario (che ha cioè come contenuto l’espressione di un
altro codice), l’interpretazione di un testo scritto importa una
duplice decodifica, in quanto l’interprete deve dapprima
conoscere e applicare le corrispondenze tra segni scritti e
“immagini acustiche” (I decodifica) e, successivamente,
conoscere e applicare le corrispondenze tra “immagini acusti-
che” e significato (II decodifica), indipendentemente dalla let-
tura ad alta voce.
L’operazione di duplice decodifica risulta evidente nel
caso si debba affrontare testi redatti in una scrittura e/o in una
lingua sconosciute.
Un Italiano che non conosce il tedesco, di fronte a un docu-
mento scritto in quella lingua, può in effetti “leggerne”, con
qualche imprecisione, il testo, nel senso che egli è in grado di
riconoscere le lettere dell’alfabeto latino che compongono le
parole (salve alcune imprecisioni derivanti dai diversi proces-
si di adattamento e dallo scollamento tra scritto e parlato, che
tuttavia in tedesco, come in italiano, non è molto avanzato).
162 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Però, dopo questa operazione di prima decodifica (più o


meno precisa, ma le cose non cambierebbero anche se il
nostro soggetto conoscesse tutte le regole ortografiche tede-
sche), il procedimento interpretativo rimane bloccato e imper-
fetto, perché l’interprete in questione ignora le regole della
seconda decodifica (ossia ignora la lingua tedesca), che gli
consentirebbero di allacciare il significante (immagine acusti-
ca), recuperato con la prima decodifica, al significato del
segno linguistico.
L’atto interpretativo di un testo scritto (ossia il recupero del
significato duplicemente codificato) è quindi possibile e non
presenta alcuna difficoltà quando l’interprete conosce sia il
codice scrittura (di associazione tra grafemi e immagini acu-
stiche) sia il codice lingua (di associazione tra immagini acu-
stiche e significati).
Esistono però i logogrammi, segni di scrittura che tenden-
zialmente evocano direttamente il significato; essi, come è
noto, rivestono una grande importanza nei sistemi delle scrit-
ture ideografiche; tuttavia, nell’atto materiale di (prima) deco-
difica di un intero testo, risulta inevitabile che anche ad essi
sia primariamente associata un’immagine acustica ben preci-
sa, che poi li identifica, come loro valore, nel sistema di scrit-
tura stesso
Questa “primaria identificazione” opera a livello di siste-
ma, come è dimostrato dalla frequente labilità del confine tra
logogramma e fonogramma (per es. nella scrittura cuneiforme
sumerica il logogramma A “acqua” impiegato foneticamente
per trascrivere il morfema -a del genitivo e, in generale, la sil-
laba a), cioè dal ben noto fenomeno qualificato come poli-
funzionalità, che è poi strettamente intrecciato alla scoperta
del fonetismo.
I fatti di polisemia (e di riflessa polifonia), come il segno
sumerico della stella per AN “cielo” o per DINGIR “dio”, non
intaccano il principio discusso, introducendo soltanto elemen-
6. DA LEGGERE E DA CAPIRE 163

ti di complicazione nel sistema, da risolvere in base al conte-


sto.
Sistemi scrittòri completi costituiti da soli segni logografi-
ci, si è visto, non esistono né possono mai essere esistiti, se si
prescinde da fasi protoscritturali ancora largamente imperfet-
te; come si è mostrato, d’altro canto, le pittografie sono, a
rigore, da classificare come esperienze prescritturali.
Nei testi neoassiri, per esempio, la ricorrente epressione a-
na LUGAL EN-ia “al re mio signore” si alterna spesso con a-
na LUGAL be-lí-ia, ciò che mostra come il logogramma EN
“signore” fosse in realtà letto e ben identificato con la parola
assira bel “signore” (come LUGAL del resto era letto e iden-
tificato con la parola šar “re”, così che l’intera espressione era
in effetti pronunciata ana šarri bãlêia); il ricorso all’ideo-
gramma presentava il vantaggio di una notazione più sempli-
ce (con meno segni), che tra l’altro non esplicitava i dettagli
flessionali (comunque facilmente integrabili in base al conte-
sto).
La traslitterazione dei logogrammi in lettere maiuscole e
secondo la loro originaria pronuncia sumerica (es.: LUGAL
ed EN) è fondata semplicemente sull’odierna convenzione
scientifica (come, per esempio, i logogrammi delle tavolette
minoiche e micenee sono traslitterati per comodità, ma in
modo del tutto convenzionale, con il nome latino dell’ogget-
to significato: VIN(um), OLE(um), FICI, EQU(us),
CUR(rus), ROTA, ecc.).
D’altronde anche la pratica delle scritture (fonetiche) alfa-
betiche moderne fornisce esempi di come, all’interno del
sistema, i logogrammi impiegati (anche se, come visto, del
tutto marginali rispetto al codice scrittura) tendano a essere
“identificati“ con la loro pronuncia prima ancora che “diretta-
mente con il significato”, scivolando verso la polifunziona-
lità, caratteristica essenziale delle scritture ideografiche: in
casi come str8 (per ingl. straight) e 2day (per ingl. today),
164 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

della scrittura “trasandata” dei giovani anglofoni, i logogram-


mi 8 e 2 sono a tutti gli effetti impiegati come fonogrammi.
Gli unici grafemi (originati da ex logogrammi) che davve-
ro si possono considerare veicolanti soltanto un’informazione
semantica (peralto solo parziale, nel senso di complementare
e ausiliaria), prescindendo dal piano del significante, sono i
determinativi, che, appunto, non sono neanche letti.
Se l’interpretazione di un testo scritto non pone problemi
al soggetto che conosca scrittura e lingua, quando queste
conoscenze vengono a mancare (e non sono più recuperabili
perché la scrittura è “dimenticata” e/o la lingua soggiacente
estinta o ignota) sorgono grosse difficoltà che si possono clas-
sificare su tre livelli principali:
1. Scrittura nota e lingua ignota.
2. Scrittura ignota e lingua nota.
3. Scrittura e lingua ignote.
Il primo ordine di difficoltà concerne il caso in cui la docu-
mentazione disponibile sia scritta in un codice conosciuto
(eventualmente in parte riadattato), ma la lingua soggiacente,
estinta, sia poco o per niente comprensibile. Dunque, in linea
di principio, e grossolanamente, si “legge”, ma non si capisce.
Gli esempi concreti di questo genere di documentazione
presentano tuttavia graduazioni di leggibilità e di comprensi-
bilità diverse e descrivibili solo caso per caso.
In generale la lingua estinta testimoniata solo da documen-
ti leggibili (sui quali cioè è operabile, con maggiore o minore
precisione, la “prima decodifica”) si deve considerare “igno-
ta” solo se risulta genealogicamente isolata, vale a dire che
non si può scientificamente dimostrare la sua includibilità in
nessuna della famiglie linguistiche note.
6. DA LEGGERE E DA CAPIRE 165

TAVOLA BRONZEA DI AGNONE (IN LINGUA OSCA)

Questo fattore ha un peso determinante su tutti i livelli


(fonologico, morfologico, lessicale) per la ricostruzione dei
connotati grammaticali della lingua estinta, che consentono la
“seconda decodifica”, ossia la vera e propria interpretazione
dei testi scritti rimasti.
Un esempio tipico è fornito dalle epigrafi in lingua osca e
umbra (estintesi in seguito alla conquista romana), ben leggi-
bili perché scritte in alfabeti derivati da quello greco tramite
l’etrusco, e la cui interpretabilità è agevolata in modo essen-
ziale dalla dimostrata indeuropeità di dette lingue, sulla base
dell’ingentissimo materiale scientifico ricavato e ricavabile
dalla comparazione, nell’ambito dell’importante, vasta e stu-
diata famiglia indeuropea.
166 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

CONFRONTO TRA ALFABETI ITALICI


6. DA LEGGERE E DA CAPIRE 167

ESEMPIO DI SCRITTURA HURRICA

Una situazione più complessa è invece quella del hurrico,


lingua in uso nel II millennio a.C. e propria del regno di
Mittani. L’unica lingua con cui si è dimostrata una sicura
parentela è l’urarteo del I millennio a.C. (anch’essa, peraltro,
lingua di attestazione limitata ed esclusivamente epigrafica),
con cui forma una famiglia linguistica a sé stante, quantunque
si sia tentato, senza riuscirci, di collegare il gruppo hurro-
urarteo con le lingue caucasiche. I testi hurrici sono leggibili
in quanto scritti col sillabario cuneiforme accadico, tuttavia
l’isolamento genealogico (l’urarteo, come visto, non può
essere di grande aiuto) rappresenta un grosso ostacolo per una
ricostruzione precisa delle complesse caratteristiche gramma-
ticali del hurrico. D’altro lato la presenza di bilingui, anche di
una certa importanza, e perfino di liste lessicali e vocabolari
plurilingui (trovati a Ugarit) rappresentano un aiuto molto
prezioso per la faticosa opera ermeneutica condotta dagli spe-
cialisti sui documenti hurrici.
168 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

LAMINA A DI PYRGI (IN LINGUA ETRUSCA)

Ancora peggiore è il caso della lingua etrusca, ben leggibi-


le in quanto trascritta con un alfabeto derivato da quello
greco, ma presentante tuttavia gravi problemi di interpreta-
zione, dal momento che tale lingua, estinta senza discendenti,
si rivela dal punto di vista genealogico completamente isola-
ta.
6. DA LEGGERE E DA CAPIRE 169

ISCRIZIONE SEPOLCRALE DI TUSCANIA

Mancando inoltre vocabolari come quelli hurrici e dato che


le bilingui conosciute sono brevissime (peraltro la lunga “tra-
duzione” fenicia delle lamine di Pyrgi non è letterale), l’er-
meneusi dei testi etruschi ha richiesto e richiede grandi sfor-
zi, fondati soprattutto su uno studio combinatorio interno
(anche sulla base del confronto con testi “paralleli”, ossia di
contenuto evidentemente affine, scritti in lingue note) dei
documenti disponibili.

ISCRIZIONE DI SAN GIULIANO (III SEC. A.C.)

Pur essendo l’etrusco una lingua “ignota”, nel senso di


estinta e genealogicamente isolata, non è però esatto dire che
di esso “si ignora tutto o quasi”, perché grazie al lungo e
paziente lavoro di molti studiosi si è riusciti ad accumulare un
patrimonio di conoscenze, circa la grammatica e il lessico,
davvero considerevoli.
170 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Un ultimo, interessante esempio di documenti leggibili, ma


poco o per niente comprensibili è rappresentato dalla scrittu-
ra minoica lineare A.

TAVOLETTE IN LINEARE A DA HAGIA TRIADA

Quando Ventris, nel 1952, decifrò la lineare B (che, come


rivela l’omografia pressoché completa dei sillabogrammi, non
era altro che il risultato dell’adattamento della lineare A alla
lingua greca micenea), si cominciò ad applicare il valore
fonetico dei segni B per leggere i segni A omomorfi.
Dalla metà degli anni Settanta, però, Louis Godart e Jean-
Pierre Olivier (che poi pubblicarono con gran merito il corpus
delle iscrizioni in lineare A) incominciarono a scagliarsi con-
tro questo sistema di attribuzione tout court del valore dei
segni B agli A corrispondenti.
6. DA LEGGERE E DA CAPIRE 171

TAVOLETTA IN LINEARE A DA HAGIA TRIADA RELATIVA A UNA REGISTRAZIONE DI


PERSONALE E RECANTE IN FONDO LA FORMULA MINOICA DEL TOTALE KU-RO

L’obiezione era in linea di principio fondata, dacché in


molti casi di adattamento di un sistema di scrittura preesisten-
te (copia del modello) a una nuova lingua (e non c’è dubbio
che la lineare A trascrive una lingua diversa dal greco, gene-
ralmente etichettata come “minoico”), vengono introdotte
modifiche anche nella lettura di segni omografi.
Tuttavia alcuni indizi, come la grande inadeguatezza del
sillabario B e delle sue regole alla notazione del miceneo,
rispetto invece alla dimostrata efficienza1 del sillabario A nel

1 L’adeguatezza del sillabario A per la notazione della lingua minoi-


ca, attorno alla quale fu del resto costruito, è provata dalla quantità e
varietà di documenti non-amministrativi in lineare A, in rapporto alla
documentazione B, molto più vasta, ma praticamente limitata alle tavolet-
te d’archivio.
172 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

notare il minoico, hanno sempre avvalorato l’idea che le


modifiche apportate dai Micenei al repertorio grafematico e
alle regole ortografiche ereditate dai Minoici non dovettero in
realtà essere tanto massiccie e radicali.
A partire dalla metà degli anni Novanta Mario Negri e
Carlo Consani hanno dedicato ripetuti interventi a un riesame
della “questione della leggibilità” posta da Godart e Olivier
rilevando come, a circa vent’anni dalla sua introduzione, gli
studi sul problema non abbiano apportato altro che continui
dati confermativi della fondatezza di una lettura dei sillabo-
grammi A sulla base dei B. Inoltre Negri e Consani hanno
contemporaneamente dimostrato la reale infondatezza dell’u-
nico effettivo argomento contrario (la prova del “ma sulla
cancellatura di qe”, su cui non è il caso di dilungarci in que-
sta sede) prodotto fin dall’inizio da Godart e Olivier.
La leggibilità della lineare A va dunque ormai considerata
come un dato di fatto fondato scientificamente; una traslitte-
razione pressoché completa di tutto il corpus dei testi (con
commento e note interpretative) è stata pubblicata dagli stes-
si Consani e Negri nel 1999.
Anche la lingua minoica, come l’etrusco, non rivela affi-
nità evidenti con altre lingue; nel caso del minoico, in parti-
colare, l’effettiva scarsità di materiale non-onomastico dispo-
nibile incide moltissimo sul problema della dimostrazione
scientifica di possibili parentele.
Tuttavia, come in etrusco, anche senza bilingui o glossari,
lo studio combinatorio dei testi consente di ricavare il signifi-
cato di alcune parole minoiche, come ku-ro “totale”; ki-ro
“ammanco”; a-ta-i-jo-wa-ja, teonimo; (j)a-sa-sa-ra-me, pro-
babile nome d’offerta sacra.
Il secondo caso in cui l’analisi di un testo scritto pone pro-
blemi interpretativi comporta la presenza di un codice scritto-
rio ignoto perché “dimenticato”, mentre si conosce come dato
certo o altissimamente probabile qual è la lingua soggiacente.
6. DA LEGGERE E DA CAPIRE 173

Veramente questa situazione non si verifica molto frequen-


temente, perché, in linea di massima, conoscendo il codice
lingua soggiacente, con un adeguato studio del materiale (spe-
cie se disponibile in quantità non irrisorie) è sempre possibile
giungere alla decifrazione.
Non a caso ho usato il termine “decifrazione”, cioè risco-
perta delle regole di funzionamento (valore dei grafemi,
norme ortografiche) di un sistema scrittorio dimenticato.
La situazione di “scrittura ignota e lingua nota” rappresen-
ta per la verità l’ultimo stadio (ovviamente dopo il supera-
mento di una precedente fase di “scrittura e lingua ignote”)
prima di qualunque decifrazione; così Champollion, superato
a fatica (come visto) l’errato dogma della pura logograficità
dei geroglifici egiziani, vide “esplodere” la decifrazione allor-
quando cominciò ad applicare la “chiave” del copto (che si
sapeva discendere direttamente dalla lingua degli antichi
Egiziani); ugualmente Ventris, superato l’errato dogma (origi-
nato da Evans) dell’“impossibile grecità” delle tavolette
micenee, si trovò di fronte a un’impressionante proliferazione
di conferme incrociate, quando cominciò ad applicare la
“chiave” della lingua greca.
Alle volte, però, la condizione di “scrittura ignota e lingua
nota” può rappresentare anche il punto di partenza, come nel
caso della scrittura maya (dato che la lingua maya non si è
affatto estinta): in tal caso la lentezza del processo di decifra-
zione (che, tra l’altro, a partire dall’impulso di Knorozov,
continua, segno per segno, ancor oggi) è dovuto alla com-
plessità del sistema, che comporta anche l’impiego di molte
varianti di uno stesso segno, nonché di elaborate composizio-
ni e legature.
In una situazione attuale di “scrittura ignota e lingua nota”
permane il sistema della scrittura rongorongo dell’Isola di
Pasqua, tuttora indecifrata.
Non pare esserci dubbio che la lingua trascritta sia quella
indigena, una varietà antica del rapanui (appartenente alla
174 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

famiglia linguistica polinesiana) ancora oggi parlato dai


discendenti degli abitanti originari.

ESEMPIO DI SCRITTURA RONGORONGO

Queste iscrizioni presentano molti aspetti enigmatici, a


partire dal supporto, costituito da tavolette di legno di piante,
a quanto pare mai cresciute sull’isola (è verosimile del resto
che tali tavolette possano essersi ricavate da relitti).

TAVOLETTA ISCRITTA DELL’ISOLA DI PASQUA

La scoperta dell’isola (la domenica di Pasqua del 1722), in


un punto così sperduto del Pacifico e i successivi rovinosi
“contatti”, come la deportazione in Perù (nel 1862) di circa
mille abitanti da parte dei mercanti di schiavi, ridussero la
popolazione indigena a sole 110 persone nel 1877; gran parte
delle tradizioni (ricordiamo anche l’altro grande “mistero”
6. DA LEGGERE E DA CAPIRE 175

delle famose statue monumentali) e delle usanze locali anda-


rono così perduti.
A partire dal 1868, però, il vescovo di Tahiti Tepano
Jaussen cominciò a interessarsi particolarmente alla questione
delle tavolette rongorongo superstiti e, avvalendosi anche del-
l’aiuto di un giovane isolano di nobile estrazione, di nome
Metoro, raccolse molte notizie su quella strana forma di scrit-
tura (tra cui la lettura fornita da Metoro per alcune tavolette);
non si è in grado tuttavia di precisare quanto ricordasse ormai
tale Metoro circa il sistema scrittorio pasquense e anzi oggi si
ritiene che la maggior parte delle sue “letture” siano errate o
inventate per compiacere il vescovo.
Il “canto di Metoro” e gli appunti manoscritti di Jaussen
finirono successivamente in un archivio di Roma, dove furo-
no riscoperti, nel 1954, dall’etnologo Thomas Barthel, poi
professore all’Università di Tubinga, il quale, avendo dedica-
to anni di studio alle scritture dell’Isola di Pasqua, giunse a
pubblicare nel 1957 un libro ancor oggi fondamentale per la
materia, intitolato Grundlagen zur Entzifferung der
Osterinselschrift, contenente una classificazione dei circa 600
segni (il suo sistema di numerazione è ancora in uso), un’edi-
zione di tutti i testi conosciuti (Corpus Inscriptionum
Paschalis Insulae), oltre a notizie storiche, commenti alle let-
ture di Metoro, tentativi di interpretazione.
Un’accurata edizione dei testi dell’isola di Pasqua è oggi
disponibile perfino su internet, nel sito www.rongorongo.org.
Una particolarità di questa scrittura è di essere bustrofedi-
ca e rovesciata, vale a dire che alla fine di ogni riga per con-
tinuare la lettura si deve capovolgere la tavoletta.
Nonostante i tentativi svolti finora (implicanti anche l’i-
dentificazione di alcuni segni verosimilmente usati come
fonogrammi, sulla base del principio dell’omofonia, come il
ricorrente segno del pesce, il cui nome polinesiano îka è
omofono della parola per “vittima”), non solo da Barthel, ma
anche da altri studiosi, tra cui il decifratore della scrittura
176 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

maya Yuri Knorozov, non si è ancora riusciti a ricostruire un


sistema interpretativo davvero convincente.
Quanto all’origine della scrittura dell’Isola di Pasqua, il
mito della sua introduzione da parte del re Hotu Matu’a,
venuto dal mare a colonizzare l’isola, sembra recente e priva
di fondamento (così, per esempio, Steven Fischer).

CONFRONTO TRA ANTICHI GLIFI INCISI SULLE ROCCE DELL’ISOLA DI PASQUA E


SEGNI RONGORONGO

In realtà, considerata anche, come ampiamente visto, l’as-


soluta eccezionalità dell’invenzione autonoma della scrittura,
è altamente verosimile che il rongorongo sia il risultato di una
“copia d’idea”, forse successiva al 1770, anno in cui al capo
6. DA LEGGERE E DA CAPIRE 177

dell’isola fu fatto “firmare” dagli Spagnoli il primo trattato di


annessione.
Le situazioni di interpretazione problematica implicate dai
moduli “scrittura ignota e lingua nota” oppure “scrittura e lin-
gua ignota”, che stiamo ora esaminando, non includono l’e-
ventualità di messaggi trascitti con codici volutamente “oscu-
rati”.
Mario Negri ha definito nettamente la distinzione delle
«competenze richieste a chi “decifra” testi in scritture
“dimenticate” rispetto a chi “decritta” testi in scritture “oscu-
rate”»,2 chiarendo opportunamente la fondamentale differen-
za tra ciò che intendiamo per “decifrazione” e per “decritta-
zione”.
Nel 1932 l’ungherese Guillaume de Hevesy richiamò l’at-
tenzione sull’apparente somiglianza riscontrabile tra vari
caratteri rongorongo e segni della scrittura della Valle
dell’Indo.
Le distanze geografica e cronologica (la scrittura protoin-
dica fiorì tra il 2200 e il 1700 a.C.), a dir poco abissali, indu-
cono comunque a ritenere queste rassomiglianze delle pure
coincidenze (tanto più che molti segni del confronto raffigu-
rano stilizzazioni di figure umane, armi o utensili, la cui simi-
litudine di tracciato può ben spiegarsi con il caso).
L’antichissima scrittura della Valle dell’Indo è comunque
ugualmente indecifrata e, nel suo caso, è sostanzialmente
ignota anche la lingua soggiacente.
In genere si ritiene che essa si sia sviluppata per copia d’i-
dea dalla scrittura sumerica (contatti tra le civiltà sumerica e
protoindiana sono archeologicamente accertati), e alcuni stu-
diosi ritengono che il sistema scrittorio della Valle dell’Indo
possa aver fornito lo “spunto” (sempre per copia d’idea) per
la creazione della scrittura cinese.

2 Negri 2000a, p. 19.


178 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

CONFRONTO TRA ALCUNI SEGNI PROTOINDICI E RONGORONGO


6. DA LEGGERE E DA CAPIRE 179

La scrittura protoindica possiede un repertorio di 419 segni


finora identificati (dei quali però solo 200 ricorrono più di
cinque volte, mentre più di 100 hanno un’unica attestazione);
le occorrenze totali sono 13376 per 2290 testi.3

SEGNI DELLA SCRITTURA DELLA VALLE DELL’INDO

3 Dati di Cardona 1986, p. 221.


180 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Sulla base di questi dati si può ipotizzare che si trattasse di


un sistema ideografico con fonogrammi sillabici (come quel-
lo sumerico).

ESEMPI DI SCRITTURA PROTOINDICA


Tenendo conto del contesto storico e culturale Asko
Parpola, professore di indologia all’Università di Helsinki, ha
provato a elaborare una decifrazione sul presupposto che la
lingua soggiacente sia una forma antica di dravidico (la parla-
ta delle popolazioni indiane preindeuropee).
Sulla base del principio dell’omofonia, per esempio,
Parpola crede che il segno del pesce (drav. min) possa signifi-
care “stella” (drav. ugualmente min).
Altri studiosi come Iravatham Mahadevam, pure propensi
a ritenere il dravidico la lingua soggiacente, fanno però giu-
stamente notare che i testi della Valle dell’Indo sono troppo
brevi per poter trarre una valutazione attendibile delle propo-
ste di Parpola.
6. DA LEGGERE E DA CAPIRE 181

Se in futuro potesse essere rinvenuta un’iscrizione bilingue


in protoindico e sumerico (e ciò non sembra impossibile, spe-
cie nelle aree archeologiche che testimoniano un diretto e
continuativo contatto tra le due culture), essa costituirebbe
certamente un documento fondamentale per gettar luce sul-
l’intera questione.

FACCIA A DEL DISCO DI FESTO

Un caso di “scrittura e lingua ignote” davvero eccezionale


è rappresentato dal disco di Festo (trovato nelle rovine dell’o-
monimo palazzo cretese, a quanto risulta in uno strato databi-
le tra il 1700 e il 1600 a.C.), documento unico, sia in quanto
solo esempio superstite del tipo di scrittura riportata, sia per la
182 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

particolare disposizione spiraliforme dei caratteri, sia per


l’impressione stessa dei segni avvenuta mediante l’impiego di
caratteri mobili, probabilmente d’oro (circa tremila anni
prima di Gutenberg!).

FACCIA B DEL DISCO DI FESTO

Il testo è in verità molto lungo, comprendendo ben 61


gruppi di segni (probabilmente parole) che si estendono sulle
due facce; i segni diversi che compongono tali parole (per un
totale di 242 caratteri) sono 45, il che induce a ritenere questa
scrittura di tipo sillabico.
Nonostante le gravi limitazioni, connesse soprattutto al
carattere assolutamente isolato del documento (una connes-
sione con le scritture sillabiche cretesi non è affatto riscontra-
6. DA LEGGERE E DA CAPIRE 183
184 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

bile sulla base della forma dei segni, né vi è ragione di esclu-


dere l’ipotesi che possa trattarsi di un oggetto d’importazio-
ne), si può ritenere che l’approccio ermeneutico più produtti-
vo consista preliminarmente in un’indagine combinatoria
attenta e approfondita della distribuzione delle parole e inol-
tre nel processo di ricerca di possibili elementi morfematici
individuabili, indipendentemente dai tentativi di lettura.4
.

4Un ottimo punto di partenza dovrebbe essere il lavoro pubblicato da


Piero Meriggi nel 1974 citato e commentato in Negri 2000a, pp. 63-65;
una trattazione complessiva del tema della decifrabilità del disco si trova
in Negri 2000a, pp. 47-65.
LISTA DELLE ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

Si segnalano per l’interesse i siti web di Omniglot (http://www.omni-


glot.com/index.htm) e dell’associazione Promotora Española de
Linguistica PROEL (http://www.proel.org/), specialmente la sezione
Alfabetos de ayer y de hoy. Da essi ho tratto molte delle immagini pubbli-
cate nel presente testo.

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APPENDICE
KOHAU RONGORONGO

1. La misteriosa scrittura rongorongo


Se l’interpretazione di un testo scritto non pone problemi
al soggetto che conosca scrittura e lingua, quando queste
conoscenze vengono a mancare1 (e non sono più recuperabili
perché la scrittura è “dimenticata” e/o la lingua soggiacente
estinta o ignota) sorgono grosse difficoltà che si possono clas-
sificare su tre livelli principali:
1. Scrittura nota e lingua ignota.
2. Scrittura ignota e lingua nota.
3. Scrittura e lingua ignote.
Il secondo caso in cui l’interpretazione di un testo scritto
pone problemi interpretativi comporta dunque la presenza di
un codice scrittorio ignoto perché “dimenticato”, mentre si
conosce come dato certo o altissimamente probabile qual è la
lingua soggiacente. In realtà questa situazione non si verifica
molto frequentemente e, comunque, non “dura” a lungo, per-
ché, in linea di massima, conoscendo il codice lingua soggia-
cente, con un adeguato studio del materiale (specie se dispo-
nibile in quantità non irrisorie) è sempre possibile giungere
alla decifrazione.

1 Cfr. supra, nel capitolo 6.


188 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

In una situazione attuale di “scrittura ignota e lingua nota”


permane il sistema della scrittura rongorongo dell’Isola di
Pasqua, tuttora indecifrata.

ESEMPIO DI SCRITTURA RONGORONGO

Non esistono motivi, in effetti, per dubitare che la lingua


trascritta sia quella indigena, una varietà antica del rapanui
(appartenente al ramo polinesiano della grande famiglia lin-
guistica austronesiana) ancora oggi parlato dai discendenti
degli abitanti originari.
Secondo le tradizioni locali le iscrizioni su tavolette o altri
oggetti (dette kohau motu mo rongorongo “le linee di scrittu-
ra da recitare” o semplicemente kohau rongorongo “le linee
della recitazione”) si distinguevano in vari tipi: kohau ta’u
“kohau degli anni”, ossia “annali”; kohau îka “kohau delle
vittime”, liste di persone cadute in guerre o battaglie; koahu
raga “kohau dei fuggitivi”, liste di persone espulse dalle loro
case; kohau hiri taku ki te atua, inni religiosi.
D’altronde, a prescindere dalla questione della decifrabi-
lità e della più o meno grande importanza del contenuto delle
epigrafi superstiti, la scrittura rongorongo rappresenta un
fenomeno culturale di straordinario interesse.
Il rongorongo è il primo e unico sistema scrittorio creato
autonomamente da una popolazione dell’Oceania e, per di
più, su un’isola che, a dispetto della sua grande lontananza da
ogni altro arcipelago abitato o massa continentrale, sviluppò
una cultura oggi conosciuta in tutto il mondo per la costruzio-
ne delle gigantesche statue moai.
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 189

2. L’ombelico del mondo


Il 5 aprile del 1722, domenica di Pasqua, tre navi olandesi
sotto il comando dell’ammiraglio Jacob Roggeveen avvistaro-
no un’isola fino ad allora non segnata sulle carte: un vasto trian-
golo di roccia vulcanica collocato nel Pacifico meridionale, a
più di 2000 miglia dai più vicini centri abitati (Tahiti e il Cile).
Il giorno successivo gli Olandesi notarono delle colonne di
fumo che si levavano da varie zone dell’isola, ma soltanto il 7
aprile, cessato il cattivo tempo, poterono avvicinarsi, sbarcare
ed entrare in contatto con la popolazione indigena.
Gli isolani, naturalmente, manifestarono grande stupore
alla vista dei nuovi venuti e delle loro navi, ma anche gli
Olandesi, dal canto loro, rimasero sbalorditi degli enormi e
monolitici moai (che ritennero costruiti con argilla); l’acco-
glienza dei nativi fu amichevole, con offerte di generi ali-
mentari, anche se non mancò l’occasione di una scaramuccia,
in cui una decina di indigeni caddero sotto i colpi di arma da
fuoco degli ospiti.
L’Isola di Pasqua fu forse avvistata già nel 1563 da Juan
Fernandez e, più probabilmente, nel 1687 da Edward Davis,
ma le loro indicazioni circa la collocazione sono vaghe e,
comunque, i primi Europei a sbarcare furono i marinai di
Roggeveen.
Il nome “Isola di Pasqua” fu dunque scelto da Roggeveen,
per commemorare il giorno della scoperta; il nome indigeno
attuale è però Rapa Nui e con tale espressione (anche scritta
rapanui) si designa la popolazione e la lingua locale.
Tuttavia neanche Rapa Nui (“grande Rapa”) è il nome ori-
ginario, dato che esso fu attribuito all’Isola di Pasqua, attorno
al 1860, da marinai tahitiani che la trovavano somigliante a
Rapa, un’isoletta della Polinesia francese oggi nota come
Rapa Iti (“piccola Rapa”).2

2 Su Rapa Iti e le sue notevoli rovine archeologiche si può leggere il


X capitolo del famoso libro Aku-Aku. Il segreto dell’Isola di Pasqua,
Firenze, Giunti Martello, 1976, di Thor Heyerdahl.
190 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

A quanto ci è dato di sapere il nome originario era “te Pito


o te Henua”, cioè “l’ombelico della Terra” o “il centro del
mondo”.
Secondo i dati archeologici l’isola di Pasqua fu scoperta e
colonizzata da popolazioni polinesiane attorno al 400 d.C.
Le leggende locali pongono a capo della prima spedizione
il re Hotu Matu’a, da cui assumeva di derivare l’antica fami-
glia reale (il clan dei principali discendenti di Hotu Matu’a si
chiamava Miro).
La lingua rapanui, d’altronde, è evidentemente imparenta-
ta con le lingue del ramo polinesiano della grande famiglia
austronesiana.
Il repertorio dei fonemi del rapanui, come quello di tutte le
lingue polinesiane, è assai ridotto; esso si compone in tutto di
cinque vocali: /a/, /e/, /i/, /o/, /u/ e di dieci consonanti: /p/, /t/,
/k/, /v/, /r/, /m/, /n/, /˜/ (scritto ng o g), /h/, /÷/ (il “colpo di
glottide”, scritto con l’apice ’ oppure omesso).
Il rapanui è la lingua austronesiana moderna che conserva i
tratti più vicini a quelli dell’antico proto-polinesiano orientale,
da cui derivano, tra gli altri, il marchesano, il hawaiano, il tahi-
tiano, il mangarevano, il paumotu, il maori, il rarotongano.
Un confronto lessicale esemplificativo con il hawaiano e il
maori (lingua dell’omonima popolazione indigena di
Aotearoa, ossia la Nuova Zelanda) può dare un’idea della
stretta parentela del rapanui3 (in ogni esempio la prima forma
è in rapanui, la seconda in hawaiano, la terza in maori): au /
a’u / au “io”; koe / ’oe / koe “tu”; tahi / kahi / tahi “uno”; rua
/ lua / rua “due”; toru / kolu / toru “tre”; manu / manu / manu
“uccello”; motu / moku / motu “isola”, “scoglio”; vai / wai /
wai “acqua”; ahi / ahi / ahi “fuoco”; ra’à / la / râ “sole”;

3 Si tenga presente che in hawaiano il numero delle consonanti, con


la scomparsa di /t/ e /˜/, si è ridotto addirittura a otto: /p/, /k/, /w/, /l/, /m/,
/n/, /h/, /÷/; rispetto al rapanui sono intervenuti i seguenti passaggi: /t/ >
/k/, /k/ > /÷/ (con eccezioni), /r/ > /l/, /˜/ > /n/; in hawaiano, inoltre, /w/ sta
per rapanui /v/.
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 191

maunga / mauna / maunga “montagna”; hetu’u / hoku / whetû


“stella”; tangata / kanaka / tangata “persona”; ariki / ali’i /
ariki “re”, “capo”; hare / hale / hare “casa”; ika / i’a / ika
“pesce”. La parola per “mare” in hawaiano e maori è moana,
termine che in rapanui mantiene il suo significato proprio e
originario (“blu”); in rapanui il mare è chiamato vai kava
“acqua salata”.
L’indiscutibile affinità linguistica, così come quella razzia-
le, confermata dalle analisi genetiche, sembra indurre perciò
a individuare nell’area polinesiana il luogo d’origine degli
antichi colonizzatori dell’Isola di Pasqua.
La posizione di totale isolamento produsse una società
complessa e oggi solo parzialmente conosciuta; tuttavia il
tratto a prima vista più impressionante (i giganteschi moai, e
gli ahu, le piattaforme di pietra), pur rappresentando per molti
aspetti un unicum, si inquadra in una tendenza generale delle
civiltà evolute della Polinesia verso l’architettura monumen-
tale (si considerino le tombe dei re tongani, gli edifici ceri-
moniali delle Marchesi, i templi delle Hawaii e delle Isole
della Società).4
Secondo alcuni la popolazione di Rapa Nui, al suo acme,
dovrebbe aver raggiunto e superato il limite di 10.000 abitan-
ti, dato demografico di gran lunga eccedente le capacità del-
l’ecosistema dell’isola, col risultato che le risorse diventarono
sempre più scarse e la foresta un tempo lussureggiante fu del
tutto obliterata per le necessità della coltivazione e per procu-
rarsi il legname necessario alle operazioni di spostamento e
innalzamento dei numerosi moai.
Il disastro ecologico esasperò al massimo la lotta per la
sopravvivenza e un rigoglioso e avanzato ordine sociale dege-
nerò (forse a partire dal XVI secolo) in una serie di sanguino-
se guerre intestine, con gravi episodi di violenza e perfino di

4 Cfr. J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, Torino, Einaudi, 1998,


p. 46.
192 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

cannibalismo. Sembra che la drammatica consapevolezza di


discendere anche da kai-tangata (“mangiatori di persone”)
fosse ben presente ai Pasquensi, perfino in tempi recenti.
Stando ai racconti tradizionali la popolazione era distinta,
oltre che in diversi clan, in due “razze” (hanau) diverse: la
“razza tarchiata” (hanau eepe) e la “razza snella” (hanau
momoko), anche note come “lunghi orecchi” o “corti orecchi”,
dato che «nei tempi antichi i lobi della appartenenti alla razza
tarchiata penzolavano fino alle loro spalle» («i te nohoga tûai
era-á he reperepe te epe roaroa o te hanau eepe ka topa-ró ki
te kapuhivi»). I moai sarebbero stati eretti dalla razza tarchiata,
visto che le enormi statue scolpite presentano la caratteristica di
avere i lobi degli orecchi perforati e allungati.
Peraltro, nel corso di queste battaglie, molti degli antichi
moai, simbolo del potere e del lustro dei vari clan, furono spez-
zati e abbattuti; diversi complessi statuari oggi ammirabili sul-
l’isola sono stati restaurati e ricollocati dagli archeologi.
L’età della decadenza di te Pito o te Henua era cominciata
ben prima dell’arrivo delle navi europee; tuttavia, a quanto
risulta, gli scontri tribali si protrassero anche nel XVIII secolo.
I primi Europei, del tutto ignari della crisi che aveva scon-
volto l’isola, rilevarono così uno stridente contrasto tra le con-
dizioni di estrema povertà e decadenza degli abitanti e l’im-
ponenza dei resti delle statue monumentali.
D’altro canto, il contatto con la “civiltà” occidentale pro-
dusse in definitiva effetti, se possibile, ancor più disastrosi
sulla società pasquense.
Dopo gli Olandesi, una spedizione guidata da Felipe
Gonzalez de Haedo prese possesso, nel 1770, dell’isola, in
nome del re di Spagna, ribattezzandola “isola di San Carlo”;
durante la cerimonia di “appropriazione” un documento uffi-
ciale fu redatto davanti ad alcuni notabili locali, cui fu perfi-
no richiesto un atto di “sottoscrizione”. Sarà necessario ritor-
nare su questo notevole episodio.
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 193

Il capitano James Cook si fermò brevemente sull’isola il


17 marzo 1774, durante il suo secondo viaggio nei Mari del
Sud. Dal suo giornale di bordo sappiamo che egli potè stima-
re a “sei o settecento anime” la popolazione complessiva, che
riconobbe subito come appartenente alla stessa razza poline-
siana dei nativi neozelandesi e degli altri popoli isolani del
Pacifico collegati da affinità di lingua e costumi.5 Cook
aggiunge annotazioni molto interessanti: «Della loro religio-
ne, del governo, ecc. non possiamo dire niente con certezza.
Le stupende statue erette in differenti punti lungo la costa non
sono certamente la rappresentazione di qualche divinità o luo-
ghi di adorazione, ma con la massima probabilità aree funera-
rie per certe tribù o famiglie. Io stesso vidi uno scheletro
umano giacente nella fondazione di una, appena coperto con
pietre».6
Nel 1786 J.F.G. de la Pérouse, a capo di una spedizione
francese, trascorse sull’isola undici ore, cercando di introdur-
re nuove piante e animali (maiali, capre e pecore) per aiutare
la popolazione; secondo la sua stima sull’isola vivevano allo-
ra circa 1200 persone. La Pérouse riferisce con quale impres-

5 «The Inhabitants of this isle from what we have been able to see of
them do not exceed six or seven hundred souls and a bove two thirds of
these are Men, they either have but a few Women among them or else
many were not suffer’d to make their appearance, the latter seems most
Probable. They are certainly of the same race of People as the New
Zealanders and the other islanders, the affinity of the Language, Colour
and some of their customs all tend to prove it, I think they bearing more
affinity to the Inhabitants of Amsterdam and New Zealand, than those of
the more northern isles which makes it probable that there lies a chain of
isles in about this Parallel or under, some of which have at different times
been seen».
6 « Of their Religion, Government &ca we can say nothing with cer-
tainty. The Stupendous stone statues errected in different places along the
Coast are certainly no representation of any Diety or places of worship;
but the most probable Burial Places for certain Tribes or Families. I saw
my self a human Skeleton lying in the foundation of one just covered with
Stones».
194 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

sionante attenzione e meticolosità alcuni nativi abbiano volu-


to ammirare e, anzi, ispezionare minuziosamente e ripetuta-
mente strumenti e attrezzi di bordo.
Nel secolo XIX i contatti con gli Occidentali strinsero
sempre più l’Isola di Pasqua in una morsa catastrofica. Essa,
ormai chiaramente segnata sulla carta geografica, divenne
scalo di baleniere, che si fermavano per cercare di rifornirsi di
cibo e acqua. Queste “fermate” causarono il diffondersi di
malattie veneree.
Nel 1808 i marinai della nave americana Nancy, dopo una
battaglia sanguinosa, riuscirono a catturare 12 uomini e 10
donne con l’intento di ridurli in schiavitù. A tre giorni di viag-
gio da Rapa Nui i prigionieri furono fatti uscire sul ponte; essi
si gettarono prontamente fuori bordo, allontanandosi a nuoto;
i tentativi di riacciuffarli risultarono vani, così la Nancy
abbandonò gli sventurati al loro destino.
Simili atti di crudeltà produssero l’effetto che i Pasquensi
cominciarono ad accogliere in modo ostile gli ormai molti
vascelli che arrivavano sull’isola; in risposta a ciò gli isolani
erano spesso colpiti da lontano con armi da fuoco, talvolta per
puro “divertimento”.
All’inizio degli anni ’60 del XIX secolo il Perù attraversò
un periodo di grande carenza di forza lavoro; così alcuni per-
sonaggi senza scrupoli cominciarono a rastrellare schiavi in
tutto il Pacifico: l’Isola di Pasqua, per la sua relativa vicinan-
za, divenne un obiettivo primario. Nel dicembre del 1862,
durante le festività natalizie, otto navi peruviane “invasero”
l’isola e catturarono circa 1000 abitanti inclusi lo sfortunato re
Maurata, suo figlio e l’intera classe sacerdotale indigena. I
prigionieri che arrivarono sul continente furono ridotti in
schiavitù in condizioni di grave sfruttamento, al punto che il
novanta per cento di essi (Maurata compreso) morì entro due
anni dalla cattura. Più tardi, in seguito alle vibrate proteste del
vescovo di Tahiti, il governo peruviano fu indotto a riportare
i pochi superstiti sull’isola, ma, durante il viaggio di ritorno,
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 195

a bordo scoppiò un’epidemia di vaiolo e soltanto 15 degli ex-


schiavi pasquensi riuscirono a sopravvivere; essi furono sbar-
cati ancora infetti, così che l’epidemia si propagò spazzando
via quasi completamente l’antica popolazione di Rapa Nui.
L’arrivo dei missionari francesi nel 1864 (Eugène Eyraud
fu il primo occidentale ad abitare stabilmente nell’isola) e la
rapida e completa conversione al cattolicesimo spensero ulte-
riormente la memoria delle antiche usanze.
Jean-Baptiste Onexime Dutrou-Bornier, il capitano della
nave che aveva trasportato i missionari, riuscì in seguito a
impadronirsi della maggior parte della terra dell’Isola di
Pasqua e vi impiantò un vasto allevamento di ovini; per poter
meglio sfruttare gli isolani riuscì, con minacce e violenze, a
cacciare i missionari cattolici. Avendo sposato Korato, un’in-
digena vedova di un capo locale, egli riuscì a farla proclama-
re regina dell’isola e ad instaurare, tramite lei, un regime
oppressivo. Doutrou-Bornier morì nell’agosto del 1876, forse
in modo accidentale, in seguito a una caduta da cavallo.
L’ufficiale della marina degli Stati Uniti William Thomson,
che sbarcò a Rapa Nui nel dicembre del 1886, afferma che la
caduta da cavallo di Dutrou-Bornier sarebbe stata provocata
dagli indigeni, stanchi del sistema di spionaggio e intrighi
introdotto da Korato, la quale ultima, con le due figlie,
sopravvisse in effetti solo pochi anni alla morte del marito
francese.7 Va detto però che nell’aprile del 1877, quando
Alphonse Pinart visitò l’isola, incontrando la regina Korato e
le due piccole figlie di Dutrou-Bornier, Caroline e Hariette,
egli poté registrare un attaccamento, almeno apparente, degli
isolani nei confronti del suo compatriota da poco scomparso.8

7 W.J. Thomson, Te Pito Te Henua, or Easter Island. Report of the


United States National Museum for the Year Ending June 30, 1889, in
“Annual Reports of the Smithsonian Institution for 1889”, Washington,
Smithsonian Institution, 1891, p. 473.
8 A. Pinart, Voyage a l’Île de Pâque, Le Tour du Monde, vol. 36,
1878, pp. 225-240.
196 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Nel 1868 gli abitanti dell’isola ammontavano a circa 900


unità; nel 1875, poi, circa 500 Pasquensi risultano essersi tra-
sferiti a Tahiti per lavorare sotto contratto nelle locali pianta-
gioni di canna da zucchero, così che nel 1877 erano rimasti a
Rapa Nui solo 111 nativi (aumentati a 155 all’epoca del viag-
gio di Thomson, nel 1886).
Nel 1888 l’isola fu poi annessa dal Cile al suo territorio
nazionale; da allora, pur attraverso altri soprusi e maltrattamen-
ti cessati solo nel 1965, la popolazione è cresciuta fino a oltre
2000 abitanti. Dal 1967, con l’apertura dell’aeroporto, i contat-
ti con il resto del mondo sono ormai normali e frequenti.
Questa rapida presentazione delle ultime (spiacevoli)
vicende storiche dell’isola (specialmente la tragica deporta-
zione del 1862) fa capire il motivo per cui la conoscenza del
funzionamento dell’antica scrittura indigena rongorongo sia
andata perduta assieme a molti altri tratti della cultura ance-
strale.

3. La “scoperta” della scrittura


La prima menzione nota della scrittura rongorongo si trova
in una lettera datata dicembre 1864 e consistente in una lunga
relazione sulle condizioni dell’isola, inviata dal missionario
Eugène Eyraud al vice-provinciale della Congregazione dei
Sacri Cuori di Gesù e Maria di Valparaiso (Cile).
La lettera fu pubblicata nel 1866 negli Annales de la
Propagation de la Foi e il brano che ci interessa si trova a
pagina 71 del volume 38 di detti Annales: «In tutte le capan-
ne si trovano delle tavolette di legno o dei bastoni ricoperti di
numerose specie di caratteri geroglifici: sono delle figure di
animali sconosciuti sull’isola, che gli indigeni tracciano per
mezzo di pietre taglienti. Ciascuna figura ha il suo nome, ma
la poca considerazione che hanno per queste tavolette mi
induce a pensare che questi caratteri, resti di una scrittura pri-
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 197

mitiva, sono ora per loro un’usanza che conservano senza cer-
carne il significato».9
Padre Eyraud morì di tubercolosi a Rapa Nui nel 1868, a
quanto pare senza aver più avuto occasione di parlare di ron-
gorongo, nemmeno con i suoi collaboratori alla missione.
Ma proprio nell’anno della morte di Eyraud gli isolani,
recentemente convertiti, avevano inviato a Tepano (già
Florentin Étienne) Jaussen, vescovo di Tahiti, un omaggio
consistente in un lungo intreccio di capelli umani avvolto
attorno a un vecchio pezzo di legno; esaminando il dono e
svolgendo la treccia il vescovo rimase sbalordito nello sco-
prire che il piccolo asse ligneo era interamente coperto di
geroglifici.
Il vescovo Jaussen scrisse immediatamente a padre
Hippolyte Roussel, residente sull’Isola di Pasqua, esortando-
lo a raccogliere tutte le tavolette che avesse rinvenuto e a cer-
care qualcuno tra i nativi che fosse ancora capace di leggerle.
Delle centinaia di tavolette e iscrizioni cui aveva alluso
Eyraud nella sua relazione di appena quattro anni prima, risul-
tavano esserne rimasti ormai solo pochissimi esemplari.
Secondo alcuni la più gran parte delle iscrizioni rongoron-
go fu bruciata su sollecitazione dei primi missionari che
(senza consultare i superiori) le avrebbero considerate un
relitto negativo del passato paganesimo;10 secondo altri un
gran numero di tavolette fu invece nascosto dagli isolani per
preservarle dalla distruzione. Oggi però nessuno può dire con
esattezza come andarono le cose; del resto delle due ipotesi

9 «Dans toutes les cases on trouve des tablettes de bois ou des bâtons
couverts de plusieurs espèces de caractères hiéroglyphiques: ce sont des
figures d’animaux inconnues dans l’île, que les indigènes tracent au
moyen de pierres tranchantes. Chaque figure a son nom; mais le peu de
cas qu’ils font de ces tablettes m’incline à penser que ces caractères,
restes d’une écriture primitive, sont pour eux maintenant un usage qu’ils
conservent sans en chercher le sens».
10 Così, esplicitamente, Thomson, Te Pito Te Henua, cit., p. 514.
198 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

una non esclude l’altra (infatti negli anni successivi a Jaussen


“saltarono fuori” diverse altre tavolette).
Inoltre non c’è motivo di non prestar fede alle parole di
Eyraud che parla espressamente della “poca considerazione”
riservata dai Pasquensi ai rongorongo: è infatti più che vero-
simile che in quell’epoca travagliata molti degli stessi nativi
non abbiano più prestato tanto riguardo a quegli oggetti aviti
ormai illeggibili, consumandoli negli usi più svariati (si ricor-
di per esempio l’impiego di una tavola come supporto per la
matassa di capelli inviata a Jaussen).
In seguito alle prime ricerche effettuate, Tepano Jaussen si
ritrovò in possesso di quattro tavolette, peraltro lunghe e otti-
mamente conservate: oltre alla B (anche nota come Aruku-
Kurenga, con 1135 segni), che trovò tra i capelli ricevuti in
omaggio, la A (anche nota come Tahua, con 1825 segni), la C
(anche nota come Mamari, con 1000 segni) e la E (anche nota
come Keiti, con 822 segni). Il numero di segni indicato è
comunque approssimativo. Tutte queste preziose iscrizioni,
tranne la E che andò poi distrutta, sono oggi conservate a
Roma, presso la Congregazione dei Sacri Cuori.
In tutto oggi possediamo 26 epigrafi, convenzionalmente
indicate con il nome con cui sono note tra gli specialisti oppu-
re, secondo l’uso introdotto da Barthel, con una lettera maiu-
scola dell’alfabeto dalla A alla Z. In aggiunta alle quattro di
Jaussen ce ne sono altre di lunghezza davvero considerevole,
come la I (o Santiago Staff: 2920 segni incisi sul bastone di
un capoclan), la H (o Great Santiago, con 1580 segni) e la P
(o Great Saint Petersburg, con 1163 segni), mentre altre anco-
ra recano solo scarse tracce di scrittura, come la J (o Reimiro
1, con 2 segni) e la W (o Honolulu 4, con 8 segni).
Un’accurata edizione dei testi dell’isola di Pasqua è dispo-
nibile su internet, in un sito davvero eccellente (www.rongo-
rongo.org) per cura e affidabilità scientifica.
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 199

FACCIA POSTERIORE DELLA TAVOLETTA G (SMALL SANTIAGO)

Jaussen fu altresì in grado di rintracciare tra i lavoratori


nelle piantagioni di Tahiti un certo Metoro Tauara, nativo del-
l’isola di Pasqua e sedicente istruito, in quanto di nobile estra-
zione, nella conoscenza della scrittura rongorongo. Il vesco-
vo, sottoposte le sue prime quattro tavolette a Metoro, comin-
ciò trascriverne piuttosto fedelmente la recitazione, oggi nota
come “canto di Metoro”.
Metoro pronunciava le sue letture seguendo le linee in
ordine bustrofedico, cioè cambiando verso alla fine di ogni
riga. Una particolarità del rongorongo è infatti quella di esse-
re una scrittura bustrofedica e rovesciata, vale a dire che alla
fine di ogni riga per continuare la lettura si dovrebbe capo-
volgere la tavoletta. Il fatto che Metoro non abbia capovolto
le tavolette indica, secondo Thomas Barthel, la sua abilità nel
riconoscere i segni anche capovolti.
Barthel, etnologo e poi professore all’Università di
Tubinga, riscoprì nel 1954 il “canto di Metoro” e gli appunti
manoscritti di Jaussen e giunse a pubblicare, nel 1958, un
libro ancor oggi fondamentale per la materia, intitolato
Grundlagen zur Entzifferung der Osterinselschrift
(Fondamenti per la decifrazione della scrittura dell’Isola di
200 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Pasqua), contenente una classificazione dei circa 600 segni (il


suo sistema di numerazione è ancora in uso), un’edizione di
tutti i testi conosciuti (Corpus Inscriptionum Paschalis
Insulae), oltre a notizie storiche, commenti alle letture di
Metoro, tentativi di interpretazione.
Barthel ebbe altri grossi meriti, come quello del riconosci-
mento dell’importante “calendario lunare” sulla tavoletta C
(Mamari), uno dei pochi punti fermi per ogni tentativo di
decifrazione, tuttavia egli commise l’errore di attribuire trop-
pa affidabilità alle letture di Metoro e su di esse imbastì una
serie di interprezioni infondate.
Già nel 1940 Alfred Métraux aveva brillantemente chiari-
to che Metoro non aveva in realtà letto, coerentemente e nella
loro interezza, i documenti sottopostigli, limitandosi a dare
brevi descrizioni di ciascun segno, come mostra per esempio
la “lettura” metoriana dei primi ventuno segni consecutivi
della riga undicesima del lato posteriore (Bv11) della tavolet-
ta B (Aruku-Kurenga), di cui si fornisce anche la traduzione,
tratta dallo stesso Métraux:11

1. Kua huki. 2. Ko te ariki. 3. Tere ki te vai. 4. E tangata moe ra ki te


huaga e. 5. Kua tuu ko te toga. 6. Ma te tapa mea kua haga. 7. Kua haati
ia te kava. 8. Ma te tapa mea kua haga. 9. Kua haati ia te kava. 10. E tan-
gata rua kua oho, kua hua. 11. Ma to ihe. 12. E i raa. 13. E i te haga (pro-
babilmente per huaga) era. 14. Ko te rei. 15. Kua oho ki te henua. 16. Kua
tupu ia mua i te aro. 17. E tangata oho era. 18. Ki to kava e. 19. Ka oho
te rei. 20. Tangata itiiti. 21. Ma to kava.

1. Egli è trafitto. 2. È il re. 3. Andò nell’acqua. 4. L’uomo sta dormen-


do contro il frutto che matura. 5. I pali sono sistemati. 6. La patata rossa
sta crescendo. 7. La pianta kava è spezzata. 8. La patata rossa sta crescen-
do. 9. La pianta kava è spezzata. 10. Due uomini andarono, sta fiorendo.
11. Come il pesce-ago. 12. E il sole. 13. Sta fiorendo. 14. È un pettorale
(rei-miro). 15. Egli torna alla terra. 16. Esso è cresciuto davanti a lui.

11 A. Métraux, Ethnology of Easter Island, in “Bernice P. Bishop

Museum Bullettin”, 160, 1940, p. 396 s.


APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 201

17. L’uomo partì. 18. Verso la tua pianta kava. 19. Qui viene il pettorale
(rei-miro). 20. Uomo molto piccolo. 21. Come la tua pianta kava.

PARTE INIZIALE DELLA RIGA BV11 DELLA TAVOLETTA ARUKU-KURENGA

Una nota di Jaussen citata da Barthel a p. 191 dei suoi


Grundlagen mostra d’altro canto che il vescovo stesso era
conscio di questa lettura “descrittiva” e “segno per segno”:
«con un dito sul segno, mi sforzavo di scrivere soltanto la
parola essenziale del suo canto» («un doigt sur le signe, je
tâchais de ne plus écrire de son chant que le mot essentiel»).
Acutamente e giustamente Métraux non mancò di fare
osservare che, anche se Metoro non era un vero conoscitore
del funzionamento del sistema di scrittura rongorongo, egli
tuttavia mostrava una certa pratica nel riconoscimento dei
segni e non solo di quelli dall’iconismo più marcato (cioè
facilmente individuabili dalla forma del disegno), ma anche di
quelli dal tratto più convenzionale: si confrontino per esempio
i segni 3 per vai “acqua” e 11 per ra’à “sole” della sequenza
appena esaminata della tavoletta Aruku-Kurenga.
Dunque, verosimilmente, Metoro aveva ricevuto qualche
infarinatura sul repertorio dei grafemi (cioè dei segni della
scrittura), senza però essere stato istruito sulle loro “funzioni”
nell’operazione di trascrizione di un enunciato, vale a dire sui
202 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

meccanismi della loro associazione nel sistema scrittorio ron-


gorongo.
Così se il rongorongo è, come mostra ogni indizio, un
sistema di scrittura di tipo ideografico,12 ci si dovrà attendere
di trovarvi fonogrammi (segni fonetici), logogrammi (segni-
parola) e determinativi (segni specificatori del significato),
con la possibilità di segni polifunzionali (usati per esempio
come fonogrammi o come logogrammi a seconda del conte-
sto) e segni polifonici (cioè con più di una lettura fonetica
possibile).
Metoro sapeva (in molti casi) riconoscere esattamente
l’oggetto raffigurato, ma non era più in grado di dedurne la
funzione nel preciso contesto, leggendo tutti i segni come se
fossero logogrammi (segni-parola).
Sarebbe come se qualcuno, edotto sul preciso valore iconi-
co dei segni geroglifici egiziani traducesse la sequenza

con: “il giunco fiorito, la quaglia, la pianta (e) il pane (sono


del) re; il gufo (è sulla) tana (della) vipera”.13
Ignaro delle diverse funzioni dei grafemi (fonogrammi,
logogrammi, determinativi) il nostro interprete non sarebbe
mai in grado di pervenire all’esatta traduzione: “il re è nella
sua casa” (la traslitterazione convenzionale in antico egiziano
è iw nsw m pr.f), tuttavia egli ci fornirebbe informazioni inte-
ressanti, per esempio, sul primo, il quarto e il penultimo
segno, precisandoci la natura, non sempre autoevidente, del-
l’oggetto raffigurato (rispettivamente un giunco, un pezzo di
pane e una casa).

12Secondo la definizione adottata supra, nel capitolo 3.


13L’unica differenza dal caso di Metoro sta nel fatto che egli pronun-
ciava le sue “interpretazioni” nella lingua che effettivamente soggiace alle
iscrizioni rongorongo.
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 203

Perciò le letture di Metoro, e soprattutto la lista di segni


con relativa interpretazione ricavata da Jaussen (pubblicata
anche su internet14 da Jacques B. M. Guy), sembrano poter
essere utilizzate, in molti casi e con le dovute cautele, per
identificare l’oggetto rappresentato dal segno o perfino il suo
significato.
Sul piano scientifico la lista di Jaussen potrà dunque vale-
re non tanto come punto di partenza per i tentativi di decifra-
zione, ma piuttosto come dato corroborante di interpretazioni
altrimenti eruite.
Una serie di prove concrete in tal senso si ricava dall’ana-
lisi del già citato “calendario lunare” della tavoletta Mamari
(righe Ca07-09).15 La grande maggioranza dei segni dell’im-
portante testo è del tutto compatibile con la lista di Jaussen e
ciò vale sia per grafemi usati logograficamente, come il segno
040 della “luna” (letto da Jaussen, p. 1, come marama
“luna”,16 anche se nel calendario esso è certamente impiegato
col valore di po “notte”), o come il segno 003 per la corda con
piume (maro: Jaussen, p. 7; segno invero assai meno iconico
di quello della luna) nella ventitreesima notte (Rongo), sia per
grafemi usati come fonogrammi, come il segno 600
dell’“uccello fregata” taha (Jaussen, p. 4) molto verosimil-
mente fungente da complemento fonetico per il nome della
ventiquattresima notte Ta(ne), oppure, alla fine del calendario,
il segno della tartaruga honu (Jaussen, p. 4, anch’esso non
molto ovvio), forse usato per scrivere il nome della notte
intercalare Hotu.

14 www.netaxs.com/~trance/jaus1.html
15 Già individuato da Barthel nei suoi Grundlagen (1958), è stato
recentemente riesaminato in J.B.M. Guy, On the lunar calendar of Tablet
Mamari, in “Journal de la Société des Océanistes”, 91 (2), 1990, in cui, tra
molte interessanti annotazioni, si sottolinea giustamente come questo
“calendario” sia uno dei nostri pochi punti fermi.
16 Marama è il nome normale della luna in maori, mentre in rapanui

si impiegava mahina per “luna” e marama per “mese”.


204 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Guy ha correttamente arguito che un segno ricorrente del


calendario lunare indica la “crescita” e la “calata” della luna:
si tratta del segno composto 008.078.711, in cui l’elemento
del “pesce appeso” (segno 711) è rivolto verso l’alto (con rife-
rimento alla fase crescente) nei brani che precedono la luna
piena, mentre è rivolto verso il basso (con riferimento alla
fase calante) nei brani che seguono.
Io aggiungo che, riguardo ai primi due elementi della com-
posizione (008.078), la lista di Jaussen indica 008 = ra’à
“sole” / ahi “fuoco” / hetu’u “stella”, “corpo celeste”17
(Jaussen, p. 2 s.) e 078 = higa “cadere” (Jaussen, p. 10). Si
tratterebbe perciò di una composizione pittografica (molto
comune anche in altre scritture ideografiche come la sumeri-
ca o la cinese)18 piuttosto semplice per indicare lo “sposta-
mento di un corpo celeste”.
Se il tracciato del segno 008 presenta invero una certa ras-
somiglianza con la figura del sole, l’associazione del segno
078 col significato di “cadere” è invece assolutamente con-
venzionale, il che avvalora fortemente, e una volta di più, l’i-
dea che Metoro potesse davvero avere avuto una seppur ele-
mentare istruzione riguardo al repertorio dei grafemi rongo-
rongo.19
Il segno 711 del “pesce appeso” (a testa in su o in giù)
potrebbe essere un semplice terzo elemento pittografico
(anche noi oggi impieghiamo in molte occasioni il segno di

7 Possibilità di letture plurime sono ben note anche in altri sistemi di


scrittura; per es. in geroglifico egiziano il logogramma del sole poteva leg-
gersi ra “sole” o hrw “giorno”, a seconda del contesto; in sumerico il logo-
gramma della stella poteva leggersi AN “cielo” o DINGIR “dio”, ecc.
18 Cfr. supra, nel capitolo 3.
19 I dati metoriani varranno, però, ripeto, soprattutto per cercare di

precisare e avvalorare ipotesi interpretative fondate anche su altri elemen-


ti, come nel nostro caso. D’altronde la lista di Jaussen contiene certamen-
te anche parecchie imprecisioni: per es. il segno 152 della “luna piena”
(mahina omotohi), non viene riconosciuto come tale (v. Jaussen, p. 6).
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 205

una freccia per indicare pittograficamente una direzione e un


verso) della composizione; eppure non è del tutto esclusa una
sua valenza fonetica, dato che il termine rapanui hiti, nome di
un particolare tipo di pesce, è omofono del verbo “riapparire”
(usato specificamente con la luna o le costellazioni!).
Se l’idea fosse fondata il segno composto 008.078.711
(almeno nel caso in cui il pesce è rivolto in alto) si articole-
rebbe in una parte logografica (008.078 “spostamento di
corpo celeste”) e in una parte fonetica (711 hiti), che precise-
rebbe la lettura dell’intero trigrafo.20
Tra i molti aspetti enigmatici della scrittura rongorongo si
è annoverato anche lo stesso supporto epigrafico, costituito da
tavolette od oggetti di legno, ricavati in alcuni casi da piante,
a quanto pare, mai cresciute sull’isola.
Oggi tuttavia si sa con certezza che un tempo gli alberi
coprivano abbondantemente il territorio dell’Isola di Pasqua;
d’altronde si può constatare al di là di ogni dubbio che alcuni
di tali supporti epigrafici lignei furono ricavati da relitti o da
oggetti ottenuti in seguito al contatto con gli occidentali.
Un esempio adeguato è fornito dalla tavoletta Tahua (o A),
lunga 909 millimetri e larga 115 e anche soprannominata “il
remo”, perché risulta essere stata intagliata da un remo di
Fraxinus excelsior, legno impiegato nelle navi europee e
americane nei secoli XVIII e XIX.
I punti veramente cruciali, e in buona parte ancora da sve-
lare, toccano la natura, l’origine e il funzionamento del siste-
ma scrittorio rongorongo.
Molte delle nostre domande avrebbero potuto trovare più
facilmente una risposta se le classi sociali superiori dell’isola
(nobili e sacerdoti), cui la conoscenza del rongorongo era
riservata,21 non fossero state letteramente spazzate via dal

20 Simili composizioni di logogrammi (o determinativi ) e fonogram-

mi sono assai frequenti nella scrittura cinese.


21 Thomson, Te Pito Te Henua, cit., p. 514.
206 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

contatto con gli le altre “civiltà” (specialmente dopo la razzia


peruviana del 1862).

4. La natura dei segni rongorongo


Dai documenti pervenutici si ricava la netta impressione
che il rongorongo sia un sistema di scrittura pienamente svi-
luppato, cioè un sistema di scrittura propriamente detto e non
una fase prescritturale di carattere pittografico.
Tale “impressione” si rinsalda in consapevolezza in base a
una serie di indizi importanti: il numero dei segni diversi
impiegati (così come classificati da Barthel) e un certo rico-
noscibile “metodo” nel sistema delle loro composizioni; la
presenza di righe ordinate con un ben preciso verso di lettura
(bustrofedico e rovesciato); testi di lunghezza davvero consi-
derevole (il Santiago Staff raggiunge quasi i 3000 segni);
inoltre è possibile individuare sequenze di segni, anche lun-
ghe, che si ripetono in documenti diversi.
Nell’estate del 1940, durante una visita scolastica al museo
di San Pietroburgo (allora Leningrado), Boris Kudrjavtsev,
Valerij Chernuskov e Oleg Klittin, tre giovani studenti, furo-
no molto colpiti dai documenti rongorongo ivi conservati.
Essi formarono allora un gruppo di interesse e, ottenute delle
fotografie di tavolette conservate altrove, riuscirono a identi-
ficare sequenze di segni piuttosto lunghe che si ripetevano
con poche varianti non solo sulla Great Saint Petersburg (P) e
sulla Small Saint Petersburg (Q), ma anche sulla Tahua (A), il
“remo”, e sulla Great Santiago (H).
La scoperta è oltremodo utile, non soltanto perché fornisce
argomenti per valutare la natura del sistema rongorongo, ma
anche perché permette di individuare in alcune apparenti
diversità delle semplici varianti grafiche non significative di
certi segni, specialmente in composizione.
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 207

CONFRONTI TRA SEZIONI SIMILI DELLE TAVOLETTE H, P, Q E A (DA GUY)

Inoltre, come si vedrà meglio tra poco, l’analisi dettagliata


di uno dei pochi brani combinatoriamente accessibili, cioè il
cosiddetto calendario lunare della tavoletta Mamari (C), con-
sente di individuare con la massima verosimiglianza l’impie-
go di logogrammi e fonogrammi, oltre che di “composizioni
pittografiche” tipologicamente simili a quelli presenti, per
esempio, nelle scritture sumerica e cinese.
Le tradizioni locali riferiscono che le iscrizioni rongoron-
go su tavolette o altri oggetti lignei comprendevano liste di
eventi (una sorta di annali) ed elenchi di nomi di guerrieri
uccisi o di persone esiliate dai vari clan, oltre che degli inni
religiosi.
208 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Tra gli oggetti recuperati da Thor Heyerdahl nel suo primo


viaggio sull’Isola di Pasqua è compresa una pietra con incise
in rilievo tre linee di scrittura di sei o sette segni ciascuna.22 Il
tracciato piuttosto incerto dei segni e l’ordine delle linee, che
non è “regolarmente” bustrofedico e rovesciato (se si esclude
un solo segno antropomorfo capovolto nella linea centrale)
induce fortemente a sospettare una falsificazione, ossia una
fabbricazione recente del reperto.
Thor Heyerdahl riuscì inoltre a farsi consegnare dal
pasquense Juan Haoa un quaderno scritto con segni rongo-
rongo talora “traslitterati”;23 un altro simile documento è il
manoscritto di Esteban Atan o “capitano del villaggio (village
skipper)”:24 Heyerdahl vide la data 1936 su una delle pagine;
Esteban Atan gli permise di fotografarlo, ma l’“originale” è
scomparso con Atan stesso.25
Ecco le precise parole di Heyerdahl: «Notai la data 1936
scritta su una delle pagine e chiesi al “capitano del villaggio”
dove avesse trovato quel bel libro. Rispose che suo padre
gliel’aveva dato un anno prima di morire. Suo padre non
sapeva scrivere i caratteri rongo-rongo né quelli moderni, ma
aveva detto al figlio che quel libro lo aveva scritto lui stesso.
Aveva copiato, con ogni cura, un libro più antico ridotto a
brandelli, e tale libro era opera del nonno. Il nonno del “capi-
tano del villaggio” era stato un uomo colto che sapeva canta-
re un testo rongo-rongo e intagliarlo su assi di legno. A quei
tempi vivevano ancora persone sull’isola che avevano impa-
rato a scrivere i caratteri moderni durante il periodo peruvia-
no di schiavitù; uno di essi aveva aiutato il vecchio a trascri-
vere il significato di quei vecchi segni sacri, che già comin-

Una sua fotografia è visibile in Heyerdahl, Aku-Aku, cit., nella


22

seconda pagina di tavole fuori testo, dopo p. 280.


23 Heyerdahl, Aku-Aku, cit., pp. 351-355.
24 Heyerdahl, Aku-Aku, cit., pp. 282-286.
25 Heyerdahl, Aku-Aku, cit., p. 286, nt. 1.
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 209

ciavano a cadere in dimenticanza fra la gioventù dell’isola,


dopo che la maggior parte degli esperti di rongo-rongo erano
deceduti durante la schiavitù peruviana».26
Tali documenti sono stati pubblicati da Heyerdahl in sede
scientifica; Thomas Barthel nei suoi Grundlagen annette
importanza a questo materiale, evidenziando comunque che la
maggior parte del contenuto riproduce, con alcune varianti, le
trascrizioni eseguite dal vescovo Jaussen sulla base delle
famose letture di Metoro.

5. L’origine del sistema rongorongo


Il valore, inestimabile anche dal punto di vista antropolo-
gico, del rongorongo sta nel fatto che esso è l’unico sistema
di scrittura creato autonomamente in Polinesia e nell’intera
Oceania e, come se non bastasse, nel luogo abitato più isola-
to del mondo.
È dubbio se si tratti di un’invenzione del tutto autonoma
(questo fenomeno più unico che raro si è verificato pochissi-
me volte nel corso della storia umana; certamente soltanto
presso i Sumeri e le popolazioni precolombiane del
Centroamerica)27 o del risultato di una copia dell’idea di scrit-
tura28 in seguito ai primi contatti con gli Europei.
In ogni caso la scrittura rongorongo si presenta come il
prodotto di un’elaborazione ex novo di un repertorio grafema-
tico del tutto originale.
Quando non si tratta di una copia, ossia adattamento, di un
modello precedente (per esempio l’alfabeto latino è stato
adattato per trascrivere le lingue inglese e turca, originando

26 Heyerdahl, Aku-Aku, cit., p. 283; le pp. 284-285 sono interamente


occupate dalla riproduzione di «Due pagine tratte dal libro rongo-rongo
del “capitano”».
27 Diamond, Armi, acciaio e malattie, cit., p. 169.
28 Cfr. supra, capitolo 2.
210 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

così gli alfabeti inglese e turco), si verifica la creazione di


nuove scritture. Tale creazione ex novo può essere del tutto
autonoma (caso rarissimo, come visto), oppure “ispirata” da
una copia d’idea. Si possono presentare tre casi di copia d’i-
dea, a seconda che venga trasmessa la generica idea di scrit-
tura (ciò dovrebbe essersi verificato nella creazione della
scrittura cinese e forse anche di quella geroglifica egiziana),
l’idea del fonetismo (è il caso della creazione dei sillabari cre-
tese e cherokee) o l’idea del fonetismo alfabetico (così, ad es.,
per l’alfabeto ogham irlandese).29
Come detto, dunque, il rongorongo non può essere che una
creazione del tutto autonoma oppure una creazione ex novo
per copia dell’idea di scrittura; la seconda possibilità è, dal
punto di vista statistico, più verosimile, anche se, in entrambi
i casi, si tratta di un evento eccezionale, anzi unico, per l’in-
tera Oceania.
La tradizione orale riferisce che la scrittura rongorongo fu
portata sull’isola dai primi colonizzatori polinesiani guidati
dal re Hotu Matu’a, che, secondo la leggenda raccolta da
William Thomson nel 1886, avrebbe recato con sé 67 tavolet-
te iscritte. L’attendibilità di questi racconti è comunque molto
bassa, considerato che lo spopolamento “post-contatto” assot-
tigliò il numero dei nativi fino a 111 persone (nel 1877), il
che, assommato all’opera di cristianizzazione, determinò cer-
tamente uno iato enorme con la precedente e originaria cultu-
ra indigena, essendo fisicamente scomparsi i più competenti
depositari delle conoscenze ancestrali (tra cui quella del fun-
zionamento del codice scritto). Perciò oggi non si sa quanto di
questi miti rapanui sia antico e quanto sia stato elaborato suc-
cessivamente al contatto con gli occidentali; del resto, anche
se si dimostrasse l’antichità di tali racconti, la loro veridicità
(anche soltanto in nucleo) non sarebbe automaticamente
acquisita.

29 Per tutta la questione cfr. supra.


APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 211

Alcuni dei ricercatori seriamente impegnati nello studio


del rongorongo, tra cui Steven Roger Fisher, ritengono che gli
elementi di cui disponiamo inducano a credere che il fenome-
no sia stato introdotto in un’epoca piuttosto recente, in segui-
to al contatto con gli occidentali. Fisher pensa che la copia
dell’idea di scrittura da parte dei Rapanui si sia verificata nel
1770, anno in cui gli Spagnoli, guidati da Felipe Gonzalez de
Haedo, redassero un atto formale di annessione dell’isola
durante una cerimonia svoltasi di fronte ai maggiorenti loca-
li, alcuni dei quali furono invitati a “sottoscrivere” il docu-
mento.
Il documento recante la “firma” rapanui del 1770 si è for-
tunatamente conservato e i segni vergati dagli indigeni sono
stati pubblicati.30 Nell’insieme essi non sono affatto confron-
tabili con i segni della scrittura rongorongo e sembrano un
semplice tracciato pseudoepigrafico, risultato dell’emulazio-
ne dell’azione scrittoria degli Spagnoli. Questo documento
sembrerebbe perciò confermare che nel 1770 la scrittura ron-
gorongo non era ancora stata inventata.
È vero d’altra parte che il segno sovrastante tutti gli altri
assomiglia senza dubbi al segno rongorongo 200 (oppure al
300); tuttavia il valore probatorio di questa constatazione è
praticamente nullo, dato che 200 (come il 300) rappresenta
semplicemente la figura umana stante. Nel codice rongoron-
go tale segno potrà essere stato impiegato come logogramma
o determinativo per “uomo” o “re”, ma sul documento spa-
gnolo sembra anch’esso semplicemente interpretabile come
un disegno o pittogramma.

30 In D.F.A. de Aguera y Infazon, The Voyage of Captain Don Felipe

Gonzalez to Easter Island in 1770-1771, “Hakluyt Society Pubblications”,


Serie II, n. 13, trad. da B.G. Corney nella sezione Journal of the Principal
Occurrences During the Voyage (1770).
212 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

“SOTTOSCRIZIONI” INDIGENE SULL’ATTO DI ANNESSIONE SPAGNOLO

Non è mancato chi ha cercato di ravvisare nei segni della


“sottoscrizione” rapanui dell’atto spagnolo una specie di
forma corsiva del “normale” rongorongo.31 In linea di princi-
pio questo sarebbe possibile (si potrebbe addurre l’esempio
delle forme ieratica e demotica dei geroglifici egiziani oppu-
re dei vari stili dei caratteri cinesi), ma resta il fatto che di tale
presunto rongorongo corsivo non si avrebbe altro esempio
all’infuori di questo, il che rende quest’ipotesi un ad hoc
incredibile.
In più, sul piano strettamente paleografico, risulta mate-
rialmente impossibile (con l’esclusione, come si è visto, del
primo segno) individuare segni rongorongo (che pure sono

Sorvoliamo sul tentativo a dir poco assurdo di identificare i segni


31

della “sottoscrizione” con una sequenza tratta da una delle tavolette ron-
gorongo conservate a Honolulu: le corrispondenze grafiche sono spudora-
tamente fantasiose e l’unico segno veramente identificabile (cioè il primo,
con 200 o 300) non è nemmeno riconosciuto e anzi viene fatto corrispon-
dere a 051, la cui forma è completamente incompatibile!
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 213

centinaia) il cui tratto risulti anche lontanamente compatibile


con queste ipotetiche semplificazioni grafiche.
C’è infine un’argomento positivo contro l’idea del “rongo-
rongo corsivo”: il primo segno, simile al 200 (o al 300) della
scrittura pasquense, che, contrariamente agli altri segni e
inspiegabilmente, non sarebbe scritto in corsivo.
Perciò anch’io, come Fisher, sono più propenso a credere
che il rongorongo sia stato prodotto dal genio rapanui in
seguito a copia dell’idea generica di scrittura, dell’idea, cioè,
che era possibile fissare il flusso inarrestabile del parlato trac-
ciando simboli rappresentanti le varie parti dell’enunciato
stesso.
D’altro canto si deve ritenere accertato che sull’Isola di
Pasqua, fin da epoche molto antiche si usò tracciare disegni di
figure umane, uccelli, animali e altri oggetti per motivi orna-
mentali o sacrali; di ciò si ha testimonianza in vari petroglifi
sparsi sull’intera isola.
Il fatto che detti petroglifi, così come il segno antropomorfo
del trattato spagnolo, rivelino uno “stile” molto simile a quello
della scrittura rongorongo è assolutamente normale e funge da
prova rimarchevole dell’origine locale della scrittura.
C O N F R O N TO
TRA ANTICHI
GLIFI INCISI
SULLE ROCCE
DELL’ISOLA DI
PASQUA E
SEGNI RONGO-
RONGO
214 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Va ricordato a questo punto che nel 1932 l’ungherese


Guillaume de Hevesy richiamò l’attenzione sull’apparente
somiglianza riscontrabile tra vari caratteri rongorongo e segni
della scrittura della Valle dell’Indo.
Le distanze geografica e cronologica (la scrittura protoin-
dica fiorì tra il 2200 e il 1700 a.C.), a dir poco abissali, indu-
cono comunque a ritenere queste rassomiglianze delle pure
coincidenze (tanto più che la gran maggioranza dei segni del
confronto raffigurano stilizzazioni di figure umane, armi o
utensili, la cui similitudine di tracciato può ben spiegarsi con
il caso).
Al proposito il linguista Jacques Guy, uno dei più affidabi-
li studiosi di rongorongo, ha giustamente scritto: «I geroglifi-
ci dell’Isola di Pasqua hanno uno stile distinto, unico al
mondo (…) Non esiste un milione di modi differenti per dise-
gnare una “figurina di uomo stante”, un “pesce”, un “basto-
ne”, un “arco”, una “freccia”. Chiedete a un quattrenne di
disegnarvi un “uomo con un bastone” e confrontatelo con i
geroglifici dell’Isola di Pasqua. Potete star certi di trovare
poco altro con una tale somiglianza a quell’“uomo con un
bastone”. Ciò fa forse di quel bambino un erede degli antichi
abitanti dell’Isola di Pasqua?». Anche Fisher concorda aper-
tamente su questo punto.
In più, oltre a non esserci la minima traccia del presunto
“passaggio” spazio-temporale (ai limiti della fantascienza)
dall’India all’Isola di Pasqua, va detto chiaramente che la
soverchiante maggioranza dei segni rongorongo non trova un
corrispondente nel repertorio grafematico protoindico (com-
posto da più di 400 segni) e viceversa.
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 215

CONFRONTO TRA ALCUNI SEGNI PROTOINDICI E RONGORONGO

L’antichissima scrittura della Valle dell’Indo è comunque


ugualmente indecifrata e, nel suo caso, è sostanzialmente
ignota anche la lingua soggiacente (il linguista Asko Parpola
ha divisato di riconoscervi un’antica parlata dravidica; i suoi
studi, molto interessanti non hanno però potuto finora trovare
una conferma definitiva).
In genere si ritiene che la scrittura protoindica si sia svi-
luppata per copia d’idea dalla scrittura sumerica (contatti tra
le civiltà sumerica e protoindiana sono archeologicamente
accertati), e alcuni studiosi ritengono che il sistema scrittorio
della Valle dell’Indo possa aver fornito a sua volta lo “spun-
216 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

to” (sempre per copia d’idea) per la creazione della scrittura


cinese.
Il modello esplicativo presentato per l’origine della scrittu-
ra rongorongo implica che essa si sarebbe sviluppata, a parti-
re dal 1770, fiorendo per tre generazioni, fino alla catastrofe
dei primi anni Sessanta del XIX secolo.
Il periodo di tempo per l’invenzione e lo sviluppo di una
vera e propria forma di scrittura ex novo è compatibile con
questa ricostruzione, come dimostra l’importantissimo esem-
pio di Sequoyah, inventore del sillabario cherokee.32
Nonostante tutto, però, considerati l’oggettiva scarsità di
dati e gli altri noti tratti di “eccezionalità” tipici della cultura
pasquense (il totale isolamento, durato per secoli, deve avere
contribuito, inasprendo la competizione e creando sempre
nuove esigenze, a stimolare costantemente l’ingegno dei nati-
vi), non mi sento di escludere del tutto l’ipotesi di un’inven-
zione autonoma del rongorongo, che sarebbe stato in tale caso
creato in un’epoca precedente al contatto con gli Europei. Dal
punto di vista scientifico questa spiegazione è però dotata di
un minor grado di plausibilità, rispetto a quella della “copia
d’idea”. In questo caso si dovrebbe comunque escogitare una
spiegazione convincente per il carattere pseudoepigrafico
della “sottoscrizione” (con la massima verosimiglianza ese-
guita da membri acculturati dell’antica società rapanui) del
documento di Felipe Gonzalez.
Un universale tipologico, che si ricava dal confronto con
tutti gli altri sistemi di scrittura del mondo, insegna che tanto
una creazione del tutto autonoma quanto una creazione per
copia dell’idea generica di scrivere determinano una serie di
tappe (fase protoscritturale con impiego di soli logogrammi;
scoperta dei fonogrammi, specialmente nel tentativo di scri-
vere nomi propri di persona o di luogo; sviluppo di una scrit-

32 Diamond, Armi, acciaio e malattie, cit., p. 177.


APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 217

tura mista logografico-fonetica) che conducono alla forma-


zione di una scrittura ideografica.33
Pertanto, anche in base al numero dei segni costituenti il
repertorio grafematico (calcolando tutte le composizioni, essi
sono più di 600), ci si attende che il rongorongo sia una scrit-
tura di tipo ideografico, dotata delle caratteristiche effettiva-
mente riscontrabili in tutte le altre scritture ideografiche del
mondo.
Tali caratteristiche, anch’esse riscontrabili universalmente,
sono, in sostanza, la presenza di logogrammi, fonogrammi e
determinativi, oltre alla polifunzionalità (uno stesso segno
può essere impiegato con funzioni diverse, cioè, per es., come
logogramma o come fonogramma) e alla polifonia (lo stesso
segno può avere più di un valore fonetico).34

6. La questione della decifrabilità


È certo che il contatto con gli occidentali ha determinato la
fine del sistema scrittorio rongorongo e, come si è visto, è
probabile che tale contatto abbia anche determinato l’origine
di detto sistema.
Come è possibile recuperare le dimenticate regole di fun-
zionamento di un’antica forma di scrittura caduta in disuso?
Poiché, come si è spiegato, il rongorongo non è un adatta-
mento di un modello precedente (e dunque non è “imparenta-
to” con nessun altro sistema di scrittura) ci si può basare anzi-
tutto sugli universali tipologici sopra richiamati.
In casi come questi è inoltre molto importante disporre di
una quantità considerevole di materiale epigrafico per una

33 Dico semplicemente “scrittura ideografica” e non “ideografica

mista” perché scritture “ideografiche pure” (composte cioè da soli logo-


grammi) non esistono; v. supra, nel capitolo 3.
34 Per ogni particolare su questi concetti, v. supra, nel capitolo 3.
218 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

rigorosa indagine combinatoria e cercare di stabilire, se pos-


sibile, qual è la lingua soggiacente, cioè la lingua trascritta.
Quanto al corpus, le epigrafi rongorongo, talora assai lun-
ghe, forniscono in effetti una documentazione abbastanza
cospicua.
D’altro canto, non esistono motivi ragionevoli per dubita-
re che la lingua trascritta sia quella indigena, ossia una varietà
antica del rapanui (appartenente alla famiglia linguistica poli-
nesiana) ancora oggi parlato dai discendenti degli abitanti ori-
ginari.
In realtà, oltre al dato logico, ci sono prove esterne e inter-
ne che confermano questa asserzione.
Sul piano esterno abbiamo infatti le “letture” di Metoro
(1868) e di Ure Vaeiko (1886) che, indipendentemente dalla
loro scarsa o nulla affidabilità nei dettagli, indicano chiara-
mente come i nativi fossero ben consci che la lingua trascrit-
ta era il rapanui.
Una conferma interna, davvero decisiva, si trae, poi, dal
calendario lunare della tavoletta C (Mamari).
Alle righe Ca07-09 della tavoletta Mamari si legge una
sequenza che Barthel nei suoi Grundlagen (1958) riconobbe
come contenente un calendario lunare; l’osservazione è fon-
damentalmente basata sulla riconoscibilità della ripetizione
per trenta volte del segno 040, la cui forma somiglia a quella
di uno spicchio di luna crescente (le letture di Metoro e le liste
di Jaussen confermano questa identificazione). Nel 1991
Jacques Guy, con un articolo pubblicato sul “Journal de la
Société des Océanistes” e presentato in succinto su internet,35
ha solidamente confermato l’idea di Barthel, confrontando i
nomi delle notti dell’antico mese rapanui ricavabili dai dati
raccolti da Thomson, da Métraux e da Englert.
Varie volte il segno 040, che potremmo in questo contesto
traslitterare come po “notte”, è associato ad altri segni che

35 www.netaxs.com/~trance/mamari.html
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 219

sembrano funzionare proprio come complementi fonetici per


trascrivere (in tutto o in parte) il nome proprio di ciascun po.
Guy ha mostrato come tali complementi fonetici si possano
davvero decifrare in base alla lettura in rapanui, rivelando sor-
prendenti corrispondenze con i nomi trasmessici da Thomson
e gli altri. La presenza delle sequenze di sei e di cinque notti
anonime (kokore: dalla terza all’ottava e dalla sedicesima alla
ventesima del calendario della Mamari) ricalca esattamente
quella del calendario tramandato. Questi argomenti, con i
seguenti, sono una prova irrefutabile del fatto che la lingua
soggiacente è proprio l’antico rapanui.
Lo stesso segno 152 della luna piena (omotohi: quindicesi-
ma notte), reca inscritto il disegno del “cuoco sulla luna”
(ossia una figurina antropomorfa con tre pietre rappresentan-
ti l’umu, il forno interrato polinesiano), personaggio tipico
delle leggende della Polinesia.
Tra le identificazioni di Guy spicca l’impiego fonetico del
segno 600, raffigurante un uccello fregata (taha: così letto
anche nella lista di Jaussen, p. 4), qui usato, in base al princi-
pio acrofonico, per trascrivere la sillaba ta per Ta(ne), nome
della ventiquattresima notte; convincente è anche la lettura
hua per 740f, in cui si deve riconoscere un frutto o uno scro-
to, nelle lingue polinesiane ugualmente indicabili con la paro-
la hua, corrispondente al nome della decima notte della tradi-
zione.
Altri complementi grafici possono essere non fonetici ma
logografici, come per esempio logogrammi sono (per lo meno
qui) i segni 040 po “notte” e 152 (o)motohi “luna piena”.
Oltre alla, del resto ovvia, conferma del rapanui come lin-
gua soggiacente il calendario della tavoletta Mamari ci forni-
sce la dimostrazione diretta del carattere ideografico del ron-
gorongo, potendovi chiaramente identificare fonogrammi e
logogrammi, nonché composizioni pittografiche del tutto ana-
loghe a quelle delle scritture sumerica e cinese, come ho
mostrato analizzando il trigrafo 008.078.711, in cui Guy (che
220 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

lo include nella sua “sequenza B”) ha combinatoriamente (e


giustamente) individuato il segno per la “crescita” e la “cala-
ta” della luna (si ricordi che il “pesce appeso”, il segno 711
della sequenza B, è rivolto verso l’alto nei brani che precedo-
no la luna piena e verso il basso in quelli che la seguono).

ANALISI DELLA SEQUENZA DEL COSIDDETTO “CALENDARIO LUNARE” DELLA TAVO-


LETTA MAMARI (DA GUY)

Osservo che il segno 041, speculare di 040 (po “notte”),


potrebbe essere stato impiegato specificamente per mahina
“luna” (tale valore è compatibile con la sua attestazione nella
sequenza A di Guy).
Altri elementi sono più discutibili (come l’interpretazione
della sequenza C di Guy: 280-385y-385, che tra l’altro ricor-
re anche poco prima del calendario, in riga Ca05) e meritevo-
li di ulteriori approfondimenti; tuttavia non c’è dubbio che il
calendario della tavoletta Mamari rappresenta un punto fermo
importantissimo e cruciale per l’opera di decifrazione del ron-
gorongo.
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 221

Per chi ha qualche pratica delle tecniche di decifrazione di


scritture scomparse risulta chiaro a questo punto che, esatta-
mente come per la scrittura maya, anche per il rongorongo la
decifrazione non può consistere nella scoperta di una “chiave”
miracolistica che consenta di ricostruire “di colpo” il funzio-
namento dell’intero sistema; si tratta invece di recuperare
pazientemente, attraverso una serrata, difficile e lunga analisi
combinatoria, il valore (fonetico e/o logografico) di ciascun
segno, a partire da sostegni affidabili come quelli forniti dal
calendario della Mamari.
Gli esperti in questo campo dovranno essere dotati di com-
petenze di linguistica storica e comparativa delle lingue
austronesiane, e polinesiane in particolare, e della consapevo-
lezza degli universali tipologici deducibili dal confronto con
le altre scritture ideografiche conosciute.
Contrariamente allo scetticismo espresso dallo stesso Guy,
nel corso di questo lavoro si potranno utilizzare, sia pure con
le dovute cautele, le “letture” di Metoro e la lista di Jaussen,
come elementi complementari di “ispirazione” e di conferma
nell’individuazione dell’oggetto o del concetto rappresentato
dai diversi segni; particolarmente eclatante è la lettura higa
“cadere” per l’aniconico 078 (lista di Jaussen, p. 10), che si
attaglia benissimo all’interpretazione, deducibile combinato-
riamente, del già citato trigrafo 008.078.711.
Si è precisato come le “letture” di Metoro (e la lista di
Jaussen) siano utilizzabili come “elemento ausiliario” (con
tutti i limiti denunciati) per cercare di identificare segni ambi-
gui e comunque poco o per niente iconici (per esempio i glifi
per henua “terra” o per vai “acqua”, da verificare nei rispetti-
vi contesti).
Diversamente le “letture” del vecchio Ure Vaeiko (Daniel
Ure Va’e Iko), raccolte da Thomson quasi vent’anni più tardi
(nel 1886), non furono eseguite segno per segno: «risultava
evidente che egli non stava effettivamente leggendo i caratte-
ri. Si notava che lo spostamento della posizione non si accor-
222 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

dava con il numero di simboli sulle linee e in seguito, quando


fu sostituita la fotografia di un’altra tavoletta, la stessa storia
fu continuata, senza che lo scambio fosse scoperto. Il vecchio
fu piuttosto turbato dall’accusa di frode che gli fu mossa al
termine di una seduta prolungatasi per un’intera notte e dap-
prima continuò ad asserire che i caratteri si capivano nella
totalità, ma che egli non poteva spiegare il significato di gero-
glifici copiati indiscriminatamente da tavolette già osservate.
Egli spiegò molto dopo che il valore e il significato effettivi
dei simboli era stato dimenticato, ma che le tavolette si rico-
noscevano da caratteristiche inequivocabili e la loro interpre-
tazione era fuori questione; proprio come una persona potreb-
be riconoscere un libro in una lingua straniera ed essere per-
fettamente sicura del contenuto senza essere capace di legger-
lo effettivamente».36
Se a queste imbarazzanti contraddizioni si aggiunge che la
trascrizione pubblicata da Thomson delle “letture” di Ure
Vaeiko in lingua rapanui è tanto scorretta da essere quasi sem-
pre incomprensibile e che pure la pretesa “traduzione” in
inglese eseguita contestualmente da Alexander P. Salmon è
fantasiosa e inaffidabile,37 si può ben stimare il valore scienti-
fico di simili documenti.
L’unica “lettura” di Ure Vaeiko degna di una certa atten-
zione è la recitazione che dal suo incipit è nota come Atua-
Mata-Riri (“dio dagli occhi irati”). Essa fu associata da Ure
Vaeiko alla tavoletta R, che è altrimenti chiamata proprio

36 Thomson, Te Pito Te Henua, cit., p. 516.


37 Nel più volte citato e meritevolissimo sito internet www.rongoron-
go.org (precisamente in www.rongorongo.org/rosetta/eaha.html), riferen-
dosi a una delle “traduzioni” di Salmon, si nota che essa «possiede una
così esigua relazione con la recitazione di Ure Vaeiko, da risultare quasi
interamente pura fantasia, perfino tenendo conto delle incertezze introdot-
te dai molti errori tipografici»; cfr. anche le analoghe osservazioni prodot-
te nello stesso sito, agli indirizzi delle estensioni /rosetta/ate.html; /roset-
ta/kaihi.html; /rosetta/apai.html; /rosetta/ate.html.
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 223

Atua-Mata-Riri. Tale recitazione consiste in una serie di versi


ripetitivi in cui una divinità o un’entità si accoppia (ki ’ai ki
roto ki “… copulando con …”) con un’altra, producendo (ka
pû te “scaturisca il …”) piante, animali o altri fenomeni natu-
rali.
Steven Roger Fisher, che con Guy è tra i massimi esperti di
rongorongo, ha analizzato il Santiago Staff (cioè l’epigrafe I),
la più lunga epigrafe rongorongo rimasta e l’unica a recare
marche di divisione testuale (precisamente linee verticali),
traendone osservazioni combinatorie davvero rimarchevoli.
Egli ha per esempio verificato la presenza costante dopo la
“linea di separazione” (che è classificata come segno 999) di
un segno composto con .076, oppure la possibile struttura pre-
valentemente (ma non sempre) triadica del testo. Nel 1995
Fisher, con un articolo sul “Journal of the Polinesian Society”,
ha comunicato di ritenere individuabile nel Santiago Staff un
testo strutturato come la recitazione Atua-Mata-Riri, che
andrebbe considerata un canto cosmogonico o di procreazio-
ne. Specificamente .076 (già da Barthel identificato come il
segno per “fallo”, sulla base delle letture metoriane) trascri-
verebbe il sintagma ki ’ai ki roto ki “copulando con” o, per lo
meno, ’ai “copulare” (da integrare, come pure ka pû te “sca-
turisca il …”, per cui mancherebbe ogni riferimento nella tra-
scrizione rongorongo). Trascrizioni omissive ed ellittiche fino
a questo punto non possono certamente essere la regola per
una scrittura ideografica (pena un’elevato tasso di ambiguità);
tuttavia, per esempio, nella scrittura cuneiforme assira, quan-
do una parola era scritta logograficamente, si ometteva l’indi-
cazione fonetica di desinenze grammaticali, se erano ben
deducibili dal contesto; in geroglifico egiziano, poi, oltre a
varie scritture omissive (le vocali peraltro sono di regola non
notate), tuttavia ben integrabili dal lettore, erano in uso delle
vere e proprie “sigle” per abbreviare la trascrizione di fraset-
te ricorrenti, come per es. ˆf† per anx wDA snb “che viva, sia
prospero e sano”.
224 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Quantunque l’interessante idea di Fisher circa il Santiago


Staff sia stata ampiamente propagandata (anche in sedi scien-
tifiche) come la “decifrazione” o l’individuazione della “stele
di Rosetta” del rongorongo, le obiezioni mosse da Guy con-
tro detta ipotesi risultano invero fondate. Non c’è dubbio che
l’individuazione (operata da Fisher) di altri possibili “canti
cosmogonici” in tavolette diverse dal Santiago Staff, prive (!)
del “simbolo fallico” .076, sia un procedimento scientifica-
mente inaccettabile. Oltre a varie incoerenze, Guy rileva che
la pressoché certa genealogia identificata nel 1956 da Nikolai
Butinov e Yuri Knorozov (l’iniziatore della decifrazione della
scrittura maya) sulla tavoletta G (Small Santiago),38 applican-
do l’ipotesi Fisher, si trasformerebbe in qualcosa di insensato
(con entità che copulerebbero con la stessa persona per otte-
nere sé stesse).39 La genealogia della Small Santiago si può
anzi reputare a tutti gli effetti un altro importante sostegno per
proseguire l’analisi combinatoria dei testi rongorongo.
Tramite essa si può stabilire e verificare, con grande affidabi-
lità, l’impiego di .076 come suffisso o elemento formante
patronimici; di 200 come logogramma o determinativo per
“re”, “capo” (ariki) o semplicemente “uomo” (tangata); inol-
tre si ha testimoniato l’uso fonetico di vari segni singoli per la
trascrizione di antroponimi (seguendo l’ordine genealogico
dal “capostipite”: 222, 517a, 730, 280, 730, ecc.). Si potreb-
bero anche trarre deduzioni importanti sul funzionamento del
rongorongo, considerando a fondo la corrispondenza, impli-
catata da detta genealogia, tra la variante “raddoppiata” di 381
e 381-002 (che sarebbero due modi diversi di scrivere lo stes-
so antroponimo).
Quanto alla recitazione Atua-Mata-Riri di Ure Vaeiko,
lungi dal poter essere associata a qualsiasi testo rongorongo
(tanto meno alla tavoletta R), Guy ha recentemente enuclea-

38 www.rongorongo.org/rosetta/g.html
39 www.rongorongo.org/rosetta/i.html
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 225

to40 l’indimostrabilità e, per certi aspetti, l’assurdità dell’in-


terpretazione come “canto cosmogonico”. Egli ha proposto
un’originale rilettura, per cui Ure Vaeiko potrebbe aver ricor-
dato in questo caso una specie di filastrocca mnemotecnica,
spesso ascoltata quando, in gioventù, era stato al servizio del
re Ngaara (forse come cuoco). Tale “filastrocca” sarebbe ser-
vita a memorizzare alcune regole della scrittura rongorongo
(specificamente relative alla formazione di digrafi). L’idea
sembra sensata, anche alla luce della concreta individuabilità
di segni composti come il più volte citato 008.078.711 della
tavoletta Mamari, che presenta una composizione “pittografi-
ca” o “pittografico-fonetica” del tutto simile a quella dei segni
composti delle scritture ideografiche sumerica o cinese (che è
appunto richiamata da Guy). In questa prospettiva la recita-
zione Atua-Mata-Riri, sia pure con tutti i limiti con cui ci è
stata trasmessa, potrebbe rivelarsi preziosa nel processo di
decifrazione.

7. Il processo di decifrazione del rongorongo


Da quanto esposto risulta abbastanza chiaro che, radunati
tutti i frammenti di conoscenza che si sono potuti recuperare
(il “calendario lunare” della Mamari, la genealogia della
Small Santiago, il supporto complementare della lista di
Jaussen e delle letture metoriane, ecc.), considerato pure il
loro diverso grado di affidabilità, il processo di decifrazione
del rongorongo è in realtà già cominciato.
Si possiedono dunque dati sufficienti a dimostrare il carat-
tere di vera e propria scrittura ideografica del rongorongo e si
è già potuto fondatamente intraprendere il processo di riallac-

40 In “Bullettin du Cercle d’Études sur l’Île de Pâques et la Polinésie”,

28, aprile-maggio 1999; cfr. www.rongorongo.org/theories/spelling.html


41 Precisamente all’indirizzo www.rongorongo.org/concord/index.

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226 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

ciamento tra alcuni grafemi-espressione e i loro contenuti


(logografici e/o fonetici).
Consci di quello che ci si aspetta di (ri)trovare, sulla base
degli universali tipologici definibili per tutte le scritture ideo-
grafiche (uso commisto di logogrammi e fonogrammi, poli-
funzionalità e polifonia dei grafemi, ecc.), e disponendo di
abbondanti informazioni sulla lingua soggiacente (l’antico
rapanui), si tratta ora di applicare pazientemente e rigorosa-
mente le tecniche dell’analisi combinatoria per proporre o
confermare assegnazioni di valori ai diversi segni. Per questo
lavoro risulta sicuramente molto preziosa l’opera di ridefini-
zione della classificazione bartheliana dei segni attuata dal
C.E.I.P.P. (Cercle d’Études sur l’Île de Pâques et la Polinésie),
nonché la Rongorongo Concordance, disponibile nell’eccel-
lente e più volte citato sito The Rongorongo of Easter Island
(www.rongorongo.org).41
Si deve in sostanza prendere coscienza del fatto che la
scrittura rongorongo è destinata ad essere “svelata” attraverso
una decifrazione progressiva (che forse non sarà mai del tutto
completa), a piccoli passi e fondata su una fitta rete di tenta-
tivi e verifiche per ciascun segno o gruppo di segni, esatta-
mente come si è fatto e si sta facendo con la scrittura maya.
Il russo Sergei V. Rjabchikov ha prodotto molti studi sul
rongorongo, ampiamente pubblicati e divulgati anche su
internet. La sua intera opera risulta però completamente infi-
ciata dalla pretesa di essere riuscito a “decifrare” (ossia a
“leggere”) tutti quanti i segni del repertorio rongorongo “in
una sola volta”. Egli, ignorando l’insegnamento del suo con-
cittadino Yuri Knorozov, che ebbe il merito di avviare la deci-
frazione della scrittura maya (oltreché di scoprire la genealo-
gia della tavoletta rongorongo G), “salta” completamente l’a-
nalisi combinatoria preliminare dei testi per arrivare subito a
proporre “traslitterazioni” e “traduzioni” complete. Date le
premesse, Rjabchikov non ha motivo di lamentarsi per le cri-
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 227

tiche o il silenzio che rivolge verso i suoi studi chi si occupa


seriamente della questione del rongorongo.
Che Rjabchikov ignori l’importanza cruciale di una previa
indagine combinatoria nei tentativi di decifrazione di scrittu-
re scomparse è dimostrato anche da certi suoi altri interventi.
Egli crede di aver identificato come lingue affini al protosla-
vo (!) il minoico della lineare A, il protosinaitico, l’etrusco ed
altro (naturalmente non può mancare una sua lettura e inter-
pretazione del disco di Festo, sempre secondo la “Slavonic
key”). Su queste basi egli fornisce lettura e traduzione, per
esempio, della tavoletta minoica HT 87.42 A prescindere dalla
fantastica “chiave” del protoslavo, egli lavora su riproduzioni
dei testi vecchie e molto imprecise, mostrando peraltro di
ignorare completamente tutta la recente produzione scientifi-
ca in merito. La totale mancanza di consapevolezza dell’im-
portanza dell’analisi combinatoria si rivela, a livello di singo-
li segni, nella lettura dei sillabogrammi ma e ku, rispettiva-
mente come logogrammi per “testa di animale cornuto” e
“aquila”, e, a livello di gruppi di segni (o parole), nel manca-
to accostamento di HT 87 e HT 117, da cui si può dedurre
chiaramente che entrambi i testi recano brevi intestazioni e
semplici elenchi di nomi di persona.43

42 La sua assurda interpretazione di HT 87 si può trovare in

www.openweb.ru/rongo/disk.htm.
43 Cfr. C. Consani - M. Negri, Testi minoici trascritti, Roma, CNR,

1999, pp. 85 e 100 s.


228 Giulio M. Facchetti – Antropologia della scrittura

Riproduco infine, quasi nella sua interezza, il messaggio


inviatomi l’11 ottobre 2002 dal curatore del sito www.ron-
gorongo.org (la cui funzione essenziale nella diffusione dei
dati e nel progresso delle ricerche sulla scrittura rongorongo
si è già ripetutamente sottolineata), al quale, nelle more di
stampa del presente volume, ho spedito una copia dell’appen-
dice. Tale inserimento è giustificato non (solo) dalla mia
vanità per i lusinghieri apprezzamenti, ma in primo luogo
dalle notevoli controriflessioni in esso contenute, come per
esempio quella relativa al segno 002 quale possibile indice di
reduplicazione. Analoghi procedimenti, sia pure non per rad-
doppiare la radice ma per trascrivere il duale e il plurale, sono
ben noti anche nel geroglifico egiziano, in cui, per esempio,
nTrw “dei” era scritto (specie nelle fasi più antiche) con la tri-
plicazione del logogramma Ð nTr “dio”, cioè come ÐÐÐ, tra-
scrizione poi sostituita (e semplificata) tramite l’impiego del
segno di triplicazione o pluralità, cioè come Ъ.
I find your grasp of the rongorongo quite remarkable, all the
more so that the data are quite difficult to obtain, and you must
have spent much time researching for the appendix to your book.
The only source, Barthel’s “Grundlagen”, can only be found in
the libraries of a very few universities, and the C.E.I.P.P., who pro-
duced a very useful transliteration of the tablets, is an almost unk-
nown organisation. That is why, in February 1999, after extensive
Web searches, finding almost nothing but Rjabchikov on the
subject, I felt that something had to be done, and after a month
spent looking for a reliable and affordable Web host, I created
www.rongorongo.org.
Your interpretation of the group 008.078.771, page 204, is very
interesting. I never thought that the Jaussen lists were worth
anything more than a historical mention, and so I never paid close
attention to Metoro’s readings. But 078 = higa = “to fall”, that is
an interesting suggestion. As for 711, yes, “hiti” is the name of a
fish, but Englert also gives it as “Cuando los peces se llegan a las
piedras de la costa en busca de insectos entre la algas marinas, se
dice: “he-hiti te îka”, which rather fits the meaning “to
(re)appear” also applied to the moon, or to celestial objects. So
your interpretation is quite interesting.
APPENDICE – KOHAU RONGORONGO 229

But much more interesting is your remark, page 224: “conside-


rando a fondo la corrispondenza, implicata da detta genealogia,
tra la variante ‘raddoppiata’ di 381 e 381-002 (che sarebbero due
modi diversi di scrivere lo stesso antroponimo)”. Myself I have
often wondered “is 002 a sign of reduplication?” — just like in
Malay you write “orang2” for “orang-orang”. This is important,
because, if it is a reduplication sign indeed, this gives us the answer
to the order in which the individual elements of a sign were read.
We know that they were read from bottom to top. However, in the
case of anthropomorphic signs with four limbs showing, how were
these read? Left leg, right leg, left arm, right arm, or left leg, left
arm, right leg, right arm? If 002 is a reduplication sign, then the
order was almost certainly left leg, left arm, right leg, right arm. It
is also important because it would mean that this name, 381-002,
or the “reduplicated” 381, consists of reduplicated syllables, such
as “Teketeke”.
I greatly enjoyed how you illustrated Metoro’s readings through
Egyptian, page 202: “the flowering rush, the quail, the plant [and]
the bread [are] the king[‘s]; the owl [is on] the den [of] the viper”.
Wonderfully witty and perfectly to the point!
You have done an excellent job there. Quite impressive, too.
Finito di stampare
nel mese di Ottobre 2007
presso
Digital Print Service
Via Torricelli, 9
20090 Segrate - Milano

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