Qualestoria. Rivista Di Storia Contempor PDF
Qualestoria. Rivista Di Storia Contempor PDF
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QUALESTORIA
Rivista di storia contemporanea
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Anno XLI, N.ro 2, Dicembre 2013
Realizzato con il contributo della
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QUALESTORIA – BOLLETTINO DELL’ISTITUTO REGIONALE PER LA STORIA DEL MOVIMENTO DI LI-
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Periodico semestrale
N.S. anno XLI, n. 2, dicembre 2013
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Sommario
Contents
Studi e ricerche
Studies and researches
Raoul Pupo Una storia sbagliata? Uno sguardo al breve secolo dei rapporti
italo-jugoslavi - A wrong history? A look at the short century of
Yugoslav-Italian relations 9
Diego D’Amelio Il dibattito pubblico sul trattato di Osimo fra ragion di Stato
e protesta locale - The public debate about the Osimo Treaty
between raison d’etat and local protest 83
Documenti e problemi
Documents and problems
Roberto Spazzali «C’è l’attesa di cose impossibili». Una lettera di Lino Sartori
a Luigi Einaudi sull’ipotesi d’istituzione della Zona franca per
la città di Trieste (1954) - «Impossible things are awaited». A
letter by Lino Sartori to Luigi Einaudi about the hypothesis to
institute the Free Zone for the city of Trieste (1954) 131
Introduzione
di Raoul Pupo
Sono passati quasi quarant’anni dalla firma degli accordi di Osimo. Quattro de-
cenni sono un tempo sufficiente affinché un trattato internazionale divenga oggetto
di studio, purché si diano alcune condizioni, prima fra tutte la disponibilità delle
fonti. Al riguardo, è noto che la situazione italiana non è delle migliori, nel senso
che il nucleo documentario principale, quello relativo all’attività diplomatica italia-
na conservato presso l’archivio del ministero degli Esteri, per gli anni Settanta non
è ancora disponibile. Certo, altri fondi consentono di colmare in parte la lacuna, a
cominciare dalle carte Moro consultabili presso l’Archivio centrale dello Stato e da
quelle Andreotti, conservate presso l’Istituto Sturzo, ma in ogni caso l’assenza della
documentazione primaria si sarebbe rivelata esiziale per la ricerca, in particolare
per quanto riguarda la parte decisiva del negoziato, se gli studiosi non avessero
potuto contare sui materiali raccolti dal consigliere di legazione Ottone Mattei, che
affiancò il direttore generale del ministero dell’Industria, Eugenio Carbone, nella
trattative svoltesi presso il castello di Strmol. Parallelamente, in anni recenti si sono
resi disponibili anche i fondi conservati presso gli archivi di Belgrado (Carte Tito,
fondi della Lega dei comunisti e del ministero degli Esteri della Repubblica fede-
rativa di Jugoslavia), nonché la documentazione raccolta dal negoziatore jugoslavo
Boris Šnuderl. Se a ciò si aggiungono le notizie ricavabili dalle testimonianze e
ricordi di altri diplomatici ed uomini politici del tempo in qualche modo coinvolti
nella gestione della vicenda, ecco che si dà la possibilità di puntare ad una ricostru-
zione critica dell’atto che pose formalmente fine al lungo contenzioso confinario tra
Italia e Jugoslavia.
In tale direzione si sta muovendo un progetto scientifico internazionale, promos-
so dai colleghi Massimo Bucarelli e Luciano Monzali, dedicato ad un’analisi com-
plessiva del processo di riavvicinamento e di riconciliazione tra Italia e Jugoslavia
culminato negli Accordi di Osimo. La ricerca non si limita ad esaminare il processo
negoziale, ma guarda anche all’indietro e di lato. All’indietro, collocando la trattati-
va finale nel complesso dei rapporti italo-jugoslavi dopo il 1954; di lato, verificando
le reazioni agli accordi da parte delle due superpotenze e di alcuni altri Stati europei
particolarmente interessati alla vicenda, nonché gli orientamenti maturati in merito
nelle due repubbliche jugoslave più attente ai rapporti con l’Italia, vale a dire Slo-
venia e Croazia. Infine, un segmento specifico della ricerca è dedicato alle reazioni
al trattato espresse dalle forze politiche e dall’opinione pubblica italiane, a livello
sia nazionale che locale.
Gli esiti di tale lavoro confluiranno in un volume in lingua inglese, a cura di
Massimo Bucarelli, Luciano Monzali, Raoul Pupo e Luca Riccardi. Nel frattempo,
si è pensato di offrire agli studiosi ed ai lettori italiani un’anticipazione di alcuni
primi risultati della ricerca, approfittando della disponibilità offerta dalla rivista
«Qualestoria». Questo fascicolo monografico comprende quindi una serie di contri-
buti che si articolano attorno ai due poli principali della ricerca: le trattative diplo-
6 Raoul Pupo
matiche e le reazioni politiche. Si inizia dunque, nella sezione Studi e ricerche, con
una panoramica di lungo periodo, affidata a Raoul Pupo, sulle tormentate relazioni
intrattenute dallo Stato italiano e da quello jugoslavo nel secolo scorso. Seguono
poi due saggi dedicati specificatamente alle trattative che condussero agli accordi,
opera rispettivamente di Massimo Bucarelli e Saša Mišić. Si cambia poi versante
tematico, con il contributo di Fabio Capano dedicato alle reazioni al trattato da parte
dell’associazionismo adriatico, cui segue quello di Diego D’Amelio sul dibattito
pubblico da esso indotto. Assonante al tema, in quanto relativa alla situazione a
Trieste dopo il 1954, è pure una lettera di Lino Sartori del 1954 destinata a Luigi
Einaudi sull’ipotesi d’istituzione della Zona franca per la città di Trieste presentata
nella sezione Documenti e problemi a cura di Roberto Spazzali.
Naturalmente, rispetto al volume finale previsto dal progetto, quella qui presen-
tata è, per ovvi motivi di spazio e disponibilità dei contributi, soltanto una selezione
assai parziale. Sul versante diplomatico, mancano le reazioni agli accordi registrate
nelle principali capitali, anche se qualche indicazione è presente nei saggi qui pub-
blicati, mentre sul piano delle reazioni politiche sarà interessante leggere le pagine
che Patrick Karlsen dedicherà al PCI e a Vittorio Vidali. Manca pure, e purtroppo
mancherà anche nel volume, un’analisi di quello che per gli studiosi è certamente il
soggetto politico più interessante del dopo Osimo a Trieste: quella Lista per Trieste
che, pur essendo fortemente radicata nella tradizione politica locale, costituì per
alcuni versi un’anticipazione di altre forme di aggregazione alternativa ai partiti
tradizionali che in Italia avrebbero conosciuto ampia fortuna, dal leghismo al grilli-
smo. Speriamo che ciò costituisca lo stimolo per un avvio delle ricerche.
Nel loro insieme, i diversi articoli offrono molti spunti di riflessione, cui si può
qui fare solo rapido cenno. La stipula degli accordi di Osimo è stata frequentemen-
te considerata come una delle espressioni più evidenti della cosiddetta «piccola
Ostpolitik» italiana, promossa soprattutto da Aldo Moro. È un giudizio che va ac-
colto con una certa cautela, perché certamente il riavvicinamento italo-jugoslavo
si inseriva bene nella strategia morotea volta a superare le rigidità della divisione
dell’Europa in due blocchi, ma altrettanto sicuramente – a differenza della Ostpoli-
tik tedesca – non si poneva fuori asse rispetto alle indicazioni della potenza egemo-
ne dello schieramento occidentale, gli Stati Uniti. Anzi, il governo di Washington
condivideva in pieno le preoccupazioni di quello di Roma per il dopo Tito e non
poteva che vedere con favore l’impegno italiano a consolidare quello Stato jugosla-
vo la cui autonomia da Mosca costituiva un elemento fondamentale degli equilibri
strategici in Europa. E difatti, in un primo momento la stipula dell’accordo fra Italia
e Jugoslavia fu accolta con una certa stizza al Cremlino, anche se poi i commenti
ufficiali suonarono positivi.
Un altro aspetto sul quale varrà la pena di discutere è costituito dal metodo ne-
goziale grazie al quale si pervenne all’accordo, vale a dire il «canale speciale» co-
stituito dai due plenipotenziari Carbone e Šnuderl, che si attivò nell’estate del 1974,
dopo che i tentativi condotti attraverso i normali canali diplomatici non avevano
condotto ad alcun risultato. Le competenze dei due negoziatori e i loro rapporti
con i rispettivi apparati diplomatici costituiranno certamente materia di approfondi-
Introduzione 7
menti, ma già la scelta dei due negoziatori, rispettivamente il direttore generale del
ministero dell’Industria italiano ed il presidente del Comitato federale per i rapporti
economici jugoslavo, indicavano la volontà dei due governi di privilegiare i temi
della collaborazione economica rispetto a quelli del tracciato del confine.
Sempre sul piano metodologico, un ulteriore tema spesso evocato è quello
dell’assoluta riservatezza della trattativa finale. Al riguardo, per orientare la discus-
sione in senso positivo è opportuno avanzare alcuni distinguo. Come sa bene chiun-
que si occupi di storia delle relazioni internazionali, le indiscrezioni costituiscono
uno dei classici strumenti cui ricorre chi non si ritiene soddisfatto dell’andamento di
una trattativa, ma non vuole assumersi la responsabilità del suo fallimento. Ciò era
già accaduto molte volte nel corso dei negoziati italo-jugoslavi che si succedettero
nel dopoguerra sulla questione confinaria ed è alquanto ovvio che le due parti, nel
momento in cui compivano il massimo sforzo per giungere ad un accordo che en-
trambe desideravano, cercassero di garantirsi il più possibile da eventuali sorprese,
ben sapendo fra l’altro che non mancavano – perlomeno all’interno della società ci-
vile, delle forze politiche e forse della stessa diplomazia italiane – quanti avrebbero
visto con favore l’ennesimo scacco negoziale. Diverso è il discorso per quanto ri-
guarda la consultazione riservata dei vertici delle istituzioni locali, che poi i disposti
del trattato avrebbero dovuto gestire. L’impressione – tutta da approfondire – è che
la dirigenza politica della Repubblica di Slovenia sia stata posta nelle condizioni
di seguire meglio, se di non di orientare, i passaggi conclusivi del negoziato, più di
quanto non poté la dirigenza triestina e quella della regione Friuli Venezia Giulia.
Quanto ai contenuti degli accordi, è abbastanza evidente che la svolta nel lunghis-
simo negoziato si ebbe nel momento in cui il governo italiano abbandonò la linea
fino a quel momento prevalente all’interno della Farnesina ed incarnata dall’am-
basciatore Milesi Ferretti, che prevedeva richieste di compensazione territoriale –
anche se minime e simboliche – in zona B, per adottare invece quella preconizzata
da altri esponenti della carriera diplomatica, come l’ambasciatore Ducci, secondo
il quale invece le compensazioni alla rinuncia italiana alla zona B sarebbero dovute
essere di natura economica, tali da consentire il rilancio dell’area di frontiera ed in
particolare di Trieste. Questa fu la linea poi seguita da Carbone, anche se il pac-
chetto messo a punto si sarebbe rivelato in parte inattuabile e, sul piano politico,
addirittura controproducente. Da parte jugoslava invece, a facilitare l’accordo fu la
disponibilità a lasciar cadere uno dei temi sui quali la diplomazia di Belgrado si era
maggiormente impegnata nelle precedenti tornate negoziali, vale a dire la richiesta
di estendere a tutta la regione Friuli Venezia Giulia le forme di tutela già previste
dai precedenti accordi per i cittadini di lingua slovena residenti nelle province di
Trieste e Gorizia.
Passando alle reazioni agli accordi, è noto che esse in Italia furono assai mode-
ste. In parlamento il Movimento sociale votò doverosamente contro, ma non tentò
alcuna forma di mobilitazione. Del resto, l’Italia stava vivendo i suoi anni di piom-
bo e tutte le forze politiche, da destra a sinistra passando per il centro, dovevano
fronteggiare emergenze che si chiamavano strategia della tensione e terrorismo, per
non parlar della crisi economica. Agli occhi degli italiani, il confine orientale era
8 Raoul Pupo
assai lontano ed anche quelli che sapevano, più o meno, dove si trovasse Trieste,
certo ignoravano, o avevano dimenticato, che cosa fosse la zona B. Diversa era na-
turalmente la situazione a Trieste e qui si sente davvero la necessità di un impegno
analitico che esplori – con il necessario distacco critico e la serenità di sguardo che
ci si può attendere dalle nuove generazioni di storici – l’intreccio fra le motivazioni
tradizionali dell’opposizione al riavvicinamento fra Italia e Jugoslavia e le nuove
forme di protesta legate all’evoluzione della società, della coscienza civile e del
sistema politico, quali l’ecologismo e l’antipolitica.
Per tutta queste ragioni quindi, il fascicolo monografico di «Qualestoria» dedica-
to agli Accordi di Osimo si propone, per un verso quale primo bilancio di un largo
impegno di studi e per l’altro quale sollecitazione di una nuova stagione di ricerche.
«Qualestoria» n. 2 - dicembre 2013
Studi e ricerche
Studies and researches
Una storia sbagliata? Uno sguardo al breve secolo dei rapporti italo-jugoslavi
di Raoul Pupo
The present essay focuses on the long-term complicated events which characterized the Yu-
goslav-Italian relations, paying special attention to the Eastern borders. Starting point of this
process was the difficult signing of the Treaty of Rapallo, followed by the many contradictions
and uncertainties of Mussolini’s policy towards the neighbour state, which was characterized
by the unappeased Italian territorial ambitions in the Balkans and culminated in the Italian oc-
cupation of Yugoslavia during World War II. The aftermath of the war was marked on the other
hand by the political protagonism of Communist Yugoslavia, which could take part both in the
peace talks and in the definition of the new borders from a position of strength. The Treaty of
Peace signed in Paris sanctioned the loss of quite all the Julian March territory, while leaving
at the same time the whole issue unregulated by creating the Free Territory of Trieste (FTT),
which was to remain a dead letter. The Memorandum of Understanding signed in London led
to the division of the FTT between the two neighbour states. The new international position of
Tito together with the new Yugoslav-Italian relations, the Italian internal political affairs and
the new world order led to a progressive détente and to the final signing of the Treaty of Osimo,
which marked the end of a long period characterized by difficulties and tragic clashes.
In una delle prime sintesi dedicate alla politica estera italiana nel secondo dopoguerra,
Sergio Romano scriveva, a proposito dei rapporti italo-jugoslavi: «L’Italia sembrava con-
dannata dalla storia a sbagliare continuamente i tempi della sua politica jugoslava»1. È un
giudizio che si può discutere, ma che contiene certo molti elementi interessanti per compren-
dere le tendenze di lungo periodo delle relazioni fra Roma e Belgrado in quel secolo breve,
del quale la Jugoslavia costituì una delle creazioni più effimere e più tragiche.
Nata nel 1918, nel momento dell’apparente trionfo degli Stati per la nazione in Europa,
la Jugoslavia non resse all’esplodere delle loro rivalità e finì per scomparire dopo poco più
di vent’anni, nel 1941, aggredita dai suoi vicini e lacerata dalle divisioni interne fra etnie che
1
S. Romano. Guida alla politica estera italiana. Dal crollo del fascismo al crollo del comunismo, Rizzoli, Milano 1993, p.
168.
10 Raoul Pupo
non erano riuscite a costruire fra loro un equilibrio stabile. Dal vortice della Seconda guerra
mondiale la Jugoslavia risorse, collocandosi questa volta all’interno di un altro dei grandi
processi storici novecenteschi, quello delle rivoluzioni bolsceviche. Potè così dar vita ad uno
Stato apparentemente più solido e ritagliarsi anche una funzione autonoma e significativa
in un mondo diviso in blocchi contrapposti. Crisi del comunismo ed esaurirsi della guerra
fredda finirono però per dissolvere agli inizi degli anni Novanta del secolo passato i leganti
che tenevano assieme le molte eterogeneità del paese, che non superò la crisi economica che
da tempo la attanagliava e si sfaldò nuovamente in un bagno di sangue.
L’Italia, costituitasi come Stato unitario mezzo secolo prima e dotata di risorse econo-
miche certamente superiori, nonostante le sue molte fragilità resse meglio il terribile No-
vecento e riuscì a sopravvivere anche ai propri malsani sogni di grandezza culminati nella
guerra fascista. Tentò più volte, e con ogni mezzo fino agli anni Quaranta, di liberarsi del suo
scomodo vicino balcanico, ma quando finalmente si rassegnò a fare di necessità virtù, ed a
partire dagli anni Sessanta si decise addirittura ad investire sulla stabilità della Jugoslavia,
quest’ultima cominciò ben presto ad avvitarsi in una crisi senza uscita, fino a precipitare
in un abisso che lasciò l’Italia completamente spiazzata, costringendola a faticose rimonte
nei confronti degli Stati successori, ben consapevoli dello scarso entusiasmo mostrato dal
governo di Roma nei confronti dell’indipendenza slovena e croata.
Ma andiamo con ordine. Alla fine del 1918 una delle più robuste spinte alla creazione del
Regno SHS venne dal desiderio dei gruppi dirigenti nazionali sloveni e croati di bloccare
l’esecuzione della clausole confinarie del Patto di Londra, che assegnava all’Italia la Venezia
Giulia e la Dalmazia, entrambe abitate anche da popolazioni slovene e croate e da loro con-
siderate parte integrante dei rispettivi «territori etnici»2. Visto da parte dell’Italia, ciò voleva
dire che il nuovo Stato balcanico nasceva con un’impronta anti-italiana: non solo infatti il
governo di Belgrado contestava quelli che il governo di Roma considerava diritti acquisiti,
ma sbarrava anche la strada verso quell’egemonia adriatica cui l’Italia da tempo aspirava.
Si trattava decisamente di una sgradita sopresa per i circoli liberali e nazionalisti italia-
ni, che avevano contato sulla dissoluzione dell’Austria-Ungheria non soltanto per liberare
le «terre irredente», ma anche per rimuovere ogni ostacolo alla penetrazione economica e
politica dell’Italia nell’Europa centrale3. La loro prima reazione fu pertanto quella di negare
la realtà: fino al dicembre del 1920 il governo italiano rifiutò di riconoscere il Regno SHS
e si ingegnò in vario modo a minarne la compattezza, appoggiando clandestinamente i mo-
vimenti separatisti croati, macedoni, montenegrini e albanesi. Alle annessioni già previste
dal Patto di Londra, il governo di Orlando e Sonnino cercò inoltre di aggiungere quella di
2
I. Lederer, La Jugoslavia dalla Conferenza della pace al Trattato di Rapallo, Il Saggiatore, Milano 1966, pp. 50 ss.; D.
Šepić, Italija, saveznici j jugoslavensko pitanje 1914-1918, Školska knijga, Zagabria 1970; M. Bucarelli, Mussolini e la
Jugoslavia (1922-1939), Graphis, Bari 2006, p. 8.
3
M. G. Melchionni, La vittoria mutilata. Problemi ed incertezze della politica estera italiana sul finire della grande guerra
(ottobre 1918-gennaio 1919), Edizioni di storia e letteratura, Roma 1981; F. Caccamo, L’Italia e la «Nuova Europa», Luni,
Milano-Trento 2000; per alcune teorrizzazioni dell’imperialismo italiano vedi: M. Alberti, Adriatico e Mediterraneo, Società
editoriale italiana, Milano 1915; A. Tamaro, Italiani e slavi nell’Adriatico, Athenaeum, Roma 1915; Id., L’Adriatico - Golfo
d’Italia. L’italianità di Trieste, Fratelli Treves, Milano 1915; R. Timeus (Fauro), Scritti politici,(1911-1915), Tip. Lloyd Tri-
estino, Trieste 1929; Id., Trieste, Trieste 1966 .
Una storia sbagliata? Uno sguardo al breve secolo dei rapporti italo-jugoslavi 11
4
I. Lederer, La Jugoslavia, cit., pp. 101-102; 172, passim.
5
M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale 1866-2006, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 103-107.
6
Sulla conferenza della pace, oltre ai testi già cit. alla nota 3, vedi R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, vol. I.,
L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 155-257; H. J. Burgwyn, The Legend of the
Mutilated Victory: Italy, the Great War, and the Paris Peace Conference, 1915-1919, Greenwood press, Westport 1993; L.
Monzali, Italiani di Dalmazia (1914-1924), Le Lettere, Firenze 2007, pp. 89-115; Id., Il sogno dell’egemonia. L’Italia, la
questione jugoslava e l’Europa centrale, Le Lettere, Firenze 2010.
7
P. Alatri, Nitti, D’Annunzio e la questione adriatica, Feltrinelli, Milano 1959; M. A. Ledeen, D’Annunzio a Fiume, Laterza,
Roma-Bari 1975.
12 Raoul Pupo
Benito Mussolini, che era un politico assai più pragmatico del Poeta: egli non esitò quindi a
dare il via libera a Giolitti sul Trattato di Rapallo, ottenendone in cambio quella legittimazio-
ne politica cui il movimento dei fasci di combattimento aveva fino ad allora invano aspirato
e che si sarebbe concretata pochi mesi dopo, nell’inserimento dei candidati fascisti nelle
liste del blocco nazionale in occasione delle elezioni politiche. Anche successivamente alla
presa del potere, Mussolini continuò a muoversi su di un doppio binario. Nella propaganda,
non rinunciò mai ai toni fortemente antislavi, che si accompagnarono concretamente ad una
dura politica di «bonifica etnica», diretta all’assimilazione forzata dei gruppi minoritari. Sul
piano diplomatico invece, proseguì ancora per alcuni anni la politica di buon vicinato con la
Jugoslavia impostata da Sforza e fu lui, nel 1924, a dare il via libera ad un patto di amicizia
e collaborazione fra i due paesi dal carattere fortemente anti-revisionista8.
Non si trattava però di una scelta definitiva e per vent’anni la politica estera italiana con-
tinuò ad oscillare fra due linee: una che puntava alla dissoluzione della Jugoslavia ed alla
creazione di uno Stato croato, indipendente ma satellite dell’Italia, ed un’altra che riteneva
preferibile un accordo con la dirigenza serba come elemento stabilizzatore dell’area balcani-
ca, in funzione di contenimento antitedesco9. Non v’è dubbio però, che dietro simili oscilla-
zioni il peso di quell’antislavismo che costituiva uno degli elementi fondanti dell’ideologia
fascista creò un terreno assolutamente sfavorevole alla costruzione di un’intesa duratura; e
ciò tanto più, dal momento che tale atteggiamento si inseriva, potenziandolo, nel solco di
continuità dell’antagonismo nazionale fra italiani e slavi del sud, che le due parti continua-
rono ad alimentare con campagne giornalistiche ed atti di prevaricazione nei confronti delle
rispettive minoranze10.
In ogni caso, l’Italia, che pur ambiva ad essere riconosciuta come grande potenza, mo-
strò di non essere in grado di svolgere adeguatamente un simile ruolo. Infatti, non riuscì né
a sottomettere gli Stati – come la Jugoslavia – che occupavano il suo spazio strategico, né
ad inserirli in un progetto comune, sorretto dalla capacità della potenza guida di tener conto
degli interessi degli Stati minori e di compiere anche parziali rinunce per consolidare la pro-
pria egemonia. A determinare tale difficoltà, oltre al peso di un’ideologia ipernazionalista,
non fu estranea la debolezza del sistema produttivo e finanziario italiano, le cui capacità
di penetrazione nei mercati danubiano-balcanici dipendevano eccessivamente dal controllo
politico diretto che il governo sarebbe stato capace di imporre sul territorio11.
L’idillio diplomatico sbocciato fra Italia e Jugoslavia nel 1920 non durò ad ogni modo a
lungo. La crisi esplose nel 1927, quando l’Italia decise di non rinnovare gli accordi del 1924,
e ad innescarla non fu la questione alto-adriatica, bensì quella albanese. Uno dei corollari del
Patto di Roma del 1924 consisteva nella rinuncia italiana a perseguire una politica egemo-
nica in Albania. Tale disponibilità venne interpretata dal governo di Belgrado come un via
libera all’aumento della propria influenza. Il Regno SHS sostenne pertanto nel 1924 la presa
8
M. Bucarelli, Mussolini e la Jugoslavia, cit., pp. 5-34.
9
Ivi, passim; per un diverso approccio, che sottolinea invece la continuità aggressiva dell’Italia, vedi E. Collotti, N. Labanca,
T. Sala, Fascismo e politica di potenza: politica estera 1922-1939, La Nuova Italia, Firenze 2000.
10
D. I. Rusinow, L’Italia e l’eredità austriaca, La Musa Talia, Venezia 2010, pp. 228-247.
11
T. Sala, Tra Marte e Mercurio. Gli interessi danubiano-balcanici dell’Italia, ora in Id., Il fascismo italiano e gli Slavi del
sud, Irsml FVG, Trieste 2008, pp. 333-374.
Una storia sbagliata? Uno sguardo al breve secolo dei rapporti italo-jugoslavi 13
del potere di Ahmed Zogolli, il quale però subito dopo si rivolse all’Italia per liberarsi dalla
tutela jugoslava. In effetti, all’esclusiva sull’Albania – che deteneva le chiavi dell’Adriatico
– Mussolini non aveva alcuna intenzione di rinunciare, con o senza il consenso jugoslavo.
Pertanto l’Italia stipulò con il nuovo governo di Tirana una serie di accordi sempre più im-
pegnativi, come il Patto di Tirana del 1926, perfezionato nel 1928 con una convenzione mili-
tare in funzione anti-jugoslava12. Belgrado reagì al tentativo di accerchiamento accostandosi
decisamente alla Francia e questa volta fu l’Italia a sentirsi accerchiata. La spirale continuò,
con il governo di Roma impegnato a tessere una serie di accordi bilaterali con tutti gli Stati
danubiano-balcanici ad eccezione della Cecoslovacchia, al fine di avvolgere lo Stato SHS in
una rete ostile e contemporaneamente contenere l’infuenza francese.
A far le spese della rinnovata ostilità fra i due paesi furono soprattutto le rispettive mi-
noranze, ma con qualche differenza. In Dalmazia erano rimaste soltanto alcune migliaia di
italiani da maltrattare, in parte protetti dalle clausole del Trattato di Rapallo che avevano
consentito ai dalmati di lingua italiana di optare per la cittadinanza del Regno d’Italia senza
dover per questo abbandonare il territorio: gli jugoslavi quindi, oltre e ancor più che con le
persone, se la presero con i leoni di pietra che decoravano le mura delle città un tempo ve-
neziane13. Nella Venezia Giulia invece viveva circa mezzo milione di sloveni e croati, cui il
governo fascista decise di dare un ulteriore giro di vite. Alla persecuzione del ceto politico
e degli intellettuali ed alla distruzione del tessuto economico e culturale delle minoranze, si
aggiunse l’impegno a renderle invisibili, attraverso il divieto dell’uso pubblico della lingua
e l’italianizzazione di nomi e toponimi14. I tentativi di ribellione di conseguenza promossi da
alcuni gruppi di giovani furono repressi con grande durezza15.
La contrapposizione italo-jugoslava divenne dunque totale e giocata con tutti i mezzi. Ad
esempio, il governo italiano rinnovò l’appoggio ai gruppi separatisti macedoni, kosovari e
croati; in particolare, sostenne il movimento ustascia che nel 1932 si sentì così forte da ten-
tare un’insurrezione nella Lika, peraltro fallimentare16. Da parte sua, il governo di Belgrado
12
P. Pastorelli, Italia e Albania 1924-1927. Origini diplomatiche del Trattato di Tirana del 22 novembre 1927, Firenze 1967;
E. Collotti, Fascismo e politica di potenza, cit., pp. 56-58; L. Monzali, Il sogno dell’egemonia, cit., pp. 41-43.
13
Ivi, p. 48.
14
L. Cermelj, Sloveni e Croati in Italia tra le due guerre, Editoriale stampa triestina, Trieste 1974; E. Apih, Italia, fascismo e
antifascismo nella Venezia Giulia. 1918-1943, Laterza, Bari 1966; M. Kacin, J. Pirjevec, Storia degli sloveni in Italia. 1866-
1998, Marsilio, Venezia 1998.
15
Oltre alle opere già cit. alla nota precedente, vedi M. Puppini, M. Verginella, A. Verrocchio, Dal processo Zaniboni al
processo Tomažič, Udine, Gaspari, 2003, e S. Dini, Il tribunale speciale per la difesa dello stato e l’irredentismo jugoslavo,
in «Qualestoria», 2004, n. 1, pp. 65-80
16
Sul sostegno italiano all’indipendentismo croato e in particolare al movimento ustaša, si veda T. Sala, Le basi italiane del
separatismo croato (1929-1941), in L’imperialismo italiano e la Jugoslavia, a c. di M. Pacetti, Argalia, Urbino 1981, pp.
283-350; J. J. Sadkovich, Opportunismo esitante: la decisione italiana di appoggiare il separatismo croato, in «Storia con-
temporanea», 1985, n. 3, pp. 406-426; P. Iuso, Il fascismo e gli ustascia. Storia del separatismo croato in Italia, Gangemi,
Roma 1998; Id., Una politica destabilizzante e una progettualità assente: il fascismo, la Jugoslavia e gli Ustaša (1925-1940),
in L’Italia fascista quale potenza occupante: lo scacchiere balcanico, a c. di B. Mantelli, «Qualestoria», 2002, n. 1, pp. 85-
102; E. Gobetti, Dittatore per caso. Un piccolo duce protetto dall’Italia fascista, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2001;
Id., Da Marsiglia a Zagabria. Ante Pavelic e il movimento ustaša in Italia, in L’Italia fascista quale potenza occupante, a
c. di B. Mantelli, cit., pp. 103-115; M. Ferrara, Fascismo e separatismo croato, in «Nuova storia contemporanea», 2002, n.
1, pp. 45-67.
14 Raoul Pupo
appoggiò apertamente il movimento dei fuoriusciti sloveni e croati dalla Venezia Giulia e
diede una mano al gruppo irredentista e terrorista TIGR17.
Dopo quasi un decennio di ostilità, che in qualche caso fece temere anche il precipitare di
uno scontro armato, il pendolo oscillò nuovamente nella direzione opposta. L’impulso venne
questa volta impresso dalla preoccupazione, comune ai due governi, per il nuovo dinamismo
mostrato dalla politica estera tedesca dopo l’avvento al potere di Hitler. Già nel 1934 Musso-
lini, desideroso di riavvicinarsi alla Francia anche per ottenere il via libera all’impresa etio-
pica, era pronto a riprendere il dialogo con la Jugoslavia. Gli ustascia tentarono di sabotarlo
con l’attentato che nell’ottobre di quell’anno a Marsiglia costò la vita al re Alessandro ed al
ministro degli Esteri francese Barthou, ma riuscirono solamente a rallentarlo.
Il disgelo vero e proprio arrivò così solo tre anni dopo, all’interno però di un quadro di
riferimento ormai diverso. Rimasta internazionalmente isolata dopo la conquista del suo im-
pero africano, l’Italia fascista si avvicinò rapidamente alla Germania nazista, fino a dar vita
nel 1936 all’Asse Roma-Berlino. Ciò comportò un generale riorientamento della politica
estera italiana, che concentrò sempre più la sua attenzione sull’espansione nel Mediterraneo
ed in Medio Oriente, e sostituì le precedenti velleità egemoniche verso l’area danubiano-bal-
canica con il progetto di un condominio italo-tedesco nella regione. In questa prospettiva, i
responsabili della politica estera fascista pensarono – o meglio, sognarono – di accompagna-
re, e riequilibrare, l’Asse Roma-Berlino con un «Asse orizzontale» Roma-Belgrado, possi-
bilmente allargato anche all’Ungheria, Polonia e Romania, non tanto ormai in funzione di
contenimento anti-tedesco, quanto, più modestamente, per cercare in qualche modo di tene-
re sotto controllo l’innarrestabile spinta germanica, evitando che i singoli paesi ne venissero
singolarmente travolti uno dopo l’altro18. L’operazione fu facilitata dal fatto che il premier
jugoslavo dell’epoca, Stojadinović, simpatizzava apertamente per il fascismo. Inoltre, di
fronte al radicale revisionismo tedesco al governo jugoslavo tornava assai utile una garanzia
supplementare, oltre a quella già assicurata dalla Piccola intesa e dalla protezione francese.
Infine, sottrarre al separatismo croato l’appoggio italiano poteva favorire Stojadinović nei
suoi tentativi di accordo con il partito contadino croato.
Con gli accordi del 25 marzo 1937 pertanto, i due contraenti si impegnavano a non pre-
stare più aiuto ai movimenti irredentisti e separatisti presenti nei due paesi19. L’Italia rinun-
ciava nuovamente ad una politica anti-jugoslava in Albania e prometteva anche di attenuare
la pressione contro le minoranze slovena e croata della Venezia Giulia. Grazie anche a nuove
intese economiche, la Jugoslavia sembrava dunque avviata a divenire un punto di appoggio,
sul piano ideologico e di potenza, per la politica balcanica del fascismo: invece, ancora una
volta l’intesa ebbe breve durata.
I clamorosi eventi del 1938, con l’Anschluss e il Patto di Monaco, mostrarono quan-
to fosse velleitario il disegno italiano di tenere a bada l’espansionismo tedesco. Alla fine
dell’anno la Germania si proponeva ormai come potenza egemone dell’intera area danubia-
17
M. K. Wohinz, Il primo antifascismo armato. Il movimento nazional-rivoluzionario degli sloveni e croati in Italia, in «Sto-
ria contemporanea in Friuli», 1988, n. 19, pp. 35-66; A. Kalc, L’emigrazione slovena e croata dalla Venezia Giulia fra le due
guerre e il suo ruolo politico, in «Annales», 1996, n. 8.
18
M. Bucarelli, Mussolini e la Jugoslavia, cit., pp. 367-368, 389.
19
D. Rusinow, L’Italia e l’eredità austriaca, cit., pp. 281-285.
Una storia sbagliata? Uno sguardo al breve secolo dei rapporti italo-jugoslavi 15
no-balcanica, l’influenza francese sulla regione era crollata e si erano dissolti anche i sogni
fascisti di un duopolio italo-tedesco nell’Europa centrale. Tutto quello che l’Italia riuscì ad
ottenere dal suo ormai debordante alleato, fu una dichiarazione di disinteresse del governo
tedesco per la questione croata, considerata di competenza dell’Italia20.
Dal punto di vista jugoslavo quindi, il rapporto privilegiato con l’Italia non serviva più
a nulla e ciò mise in crisi la politica di Stojadinović, che si era pure rivelato incapace di
risolvere il problema croato. La sua sostituzione con Cvetković nel febbraio 1939 segnò un
nuovo corso per la politica estera jugoslava, che preferì rivolgersi direttamente alla Germa-
nia ed alla Gran Bretagna per veder garantita la propria integrità. Contemporaneamente, gli
accordi stipulati nell’agosto fra il premier ed il leader del partito contadino croato, Maček,
riuscirono finalmente a stabilizzare la situazione interna del paese.
L’Italia reagì malissimo allo scacco. Nell’aprile del 1939 decise di annettere l’Albania
senza consultare gli jugoslavi, mentre le autorità fasciste ripresero a complottare con gli
ustascia, nella vana speranza che una rivolta da essi suscitata in Croazia potesse offrire l’oc-
casione per un intervento militare italiano, con la conseguente dissoluzione del Regno jugo-
slavo21. Nel contempo, i servizi segreti jugoslavi, cui poi si aggiunsero anche quelli britan-
nici, ricominciarono a sostenere i gruppi irredentisti sloveni e croati nella Venezia Giulia22.
L’approssimarsi e poi lo scoppio del conflitto europeo resero ancora più sincopato e
confuso l’alternarsi dei due orientamenti presenti all’interno della politica estera italiana in
merito ai rapporti con la Jugoslavia. Subito dopo l’entrata in guerra, nell’estate del 1940,
Mussolini preparò l’invasione della Jugoslavia, che sarebbe dovuta scattare in settembre23.
Il piano fu però stoppato dalla Germania, che preferiva tener fuori dalle operazioni belliche i
Balcani, sui quali esercitava già un sufficiente controllo economico e politico. L’Italia allora
cambiò un’altra volta politica: impantanato a partire dall’autunno in una campagna di Grecia
militarmente irrisolvibile, il governo di Roma cercò nuovamente un accordo privilegiato
con quello di Belgrado, offrendo anche uno scambio di popolazioni fra sloveni e croati della
Venezia Giulia e albanesi del Kossovo24. Ma ormai, dopo le ripetute sconfitte in Grecia, in
Africa e nel Mediterraneo, l’Italia in termini di potenza non contava più nulla. Pertanto il
governo di Belgrado, guidato dal principe reggente Paolo, cercò per quanto possibile di
mantenersi neutrale, ma quando la pressione tedesca si fece troppo forte, preferì allearsi
direttamente con Berlino senza passare per Roma25.
L’adesione jugoslava al Patto Tripartito suscitò però una sollevazione delle forze armate
jugoslave, sobillate dalla Gran Bretagna, e il principe Paolo dovette abbandonare il potere.
La reazione tedesca al voltafaccia jugoslavo fu quella prevedibile: i tedeschi attaccarono
senza preavviso il 6 aprile, trascinando con sé l’Italia, che finalmente si trovava a combattere
20
M. Toscano, Le origini diplomatiche del patto d’Acciaio, Sansoni, Firenze 1956, pp. 169-171.
21
G. Ciano, Diario 1936-1943, Rizzoli, Milano 1990, pp 262, 269, 274; A. Breccia, Jugoslavia 1939-1941. Diplomazia della
neutralità, Giuffrè, Milano 1978, pp. 64-77; P. Juso, Il fascismo e gli ustascia, pp. 125 e ss.
22
A. Kalc, L’emigrazione slovena e croata, cit.; T. Ferenc, Akcije organizacije TIGR c Austriji in Halliji spomladi 1940,
Borec, Lubiana 1977.
23
T. Zurlo, «Emergenza E». Studi e predisposizioni militari alla frontiera giulia nel periodo luglio-ottobre 1940, in «Memorie
storiche militari», 1979, pp. 369-426.
24
A. Breccia, Jugoslavia 1939-1941, cit., pp. 443-449.
25
Ivi, pp. 465-570.
16 Raoul Pupo
la guerra contro gli jugoslavi a lungo invocata dalla propaganda fascista, ma al rimorchio
della Germania26.
Comunque, sembrava la fine della Jugoslavia, sconfitta e sbranata dai suoi aggressori, e
il trionfo dell’Italia, che annetteva oltre alla Dalmazia – da tempo agognata – anche la Slo-
venia meridionale, come cuscinetto nei confronti della Grande Germania e il Montenegro,
a completamento del dominio costiero adriatico. Inoltre, la nuova compagine indipendente
croata pareva proprio quello Stato satellite che la diplomazia italiana aveva preconizzato:
alla sua guida infatti venne insediato Ante Pavelić, il leader degli ustascia per anni ospitato
ed addestrato in Italia.
Con le annessioni e le occupazioni in Jugoslavia, cui si aggiungevano quelle in Grecia, la
politica fascista passava dunque nell’Europa orientale dalla fase nazionalista a quella com-
piutamente imperiale. Si trattava però di una dimensione di potenza che l’Italia non era in
grado di reggere. L’annessione italiana della Dalmazia non poteva certo ben disporre né la
popolazione né il governo ultranazionalista croato27. A sua volta la Germania, pur ostentan-
do ufficiale disinteresse per un’area considerata quale riserva italiana, partì immediatamente
alla conquista economica del nuovo Stato croato e vi riuscì in breve tempo. La Croazia di
Pavelić quindi non fu per nulla lo Stato fantoccio dell’Italia immaginato da Mussolini e finì
per spostarsi sempre più nell’orbita tedesca.
Sul campo, andò anche peggio. In tutti i territori occupati le truppe italiane furono coin-
volte in una guerra civile, innescata ovviamente dall’invasione, nella quale finirono mol-
to spesso per ritrovarsi a combattere contro i partigiani comunisti assieme non solo alle
formazioni ustascia croate, formalmente alleate dell’Italia, ma anche alle milizie cetniche
serbe. Queste ultime peraltro, che degli ustascia erano nemiche giurate, facevano capo al
gen. Mihailović, ministro della Guerra del governo jugoslavo in esilio a Londra, ma ciò
nonostante erano armate proprio dagli italiani, che sul campo si ritrovarono di fatto alleati
dei loro nemici28.
Oltre che una gran confusione politica il conflitto in Jugoslavia generò anche livelli ele-
vatissimi di violenza e nel tentativo di contenere il movimento di liberazione guidato da Tito
i soldati italiani commisero gravi crimini di guerra. Particolarmente vasto risultò il fenome-
no delle deportazioni di civili dalle aree ad altà densità partigiana e la mortalità per fame
e stenti nei campi di concentramento fu assai elevata29. Gli orrori della guerra partigiana e
della controguerriglia approfondirono ovviamente i contrasti già esistenti fra italiani e slavi,
26
S. Bianchini, F. Privitera, 6 Aprile 1941. L’attacco italiano alla Jugoslavia, Marzorati, Milano 1993; J. H. Burgwyn, L’
impero sull’Adriatico. Mussolini e la conquista della Jugoslavia 1941-1943, LEG, Gorizia 2006, pp. 52-56.
27
R. Pupo, Slovenia e Dalmazia fra Italia e Terzo Reich, in L’Italia fascista quale potenza occupante, a c. di B. Mantelli, cit.,
pp. 129-141; Id., Le annessioni italiane in Slovenia e Dalmazia 1941-1943. Questioni interpretative e problemi di ricerca, in
«Italia contemporanea», 2006, n. 243, pp. 181-211; J. H. Burgwyn, L’ impero sull’Adriatico, cit., pp. 56-76.
28
T. Sala, Il fascismo italiano e gli Slavi del sud, cit; J. H. Burgwyn, L’ impero sull’Adriatico, cit., pp. 124 e ss.; E. Gobetti,
L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia, 1941-1943, Carocci, Roma 2007; Id., Alleati del nemico. L’occupazione
italiana in Jugoslavia (1941-1943), Laterza, Roma-Bari 2013; L’occupazione italiana della Jugoslavia (1941-1943), a c. di
F. Caccamo, L. Monzali, Le Lettere, Firenze 2008 .
29
A. Kersevan, Un campo di concentramento fascista. Gonars, 1942-1943, Kappavu,Udine 2003; S. Capogreco, I campi del
Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943) Einaudi, Torino 2004; La deportazione dei civili sloveni e croati
nei campi di concentramento italiani 1942-1943. I campi del confine orientale, a c. di B. M. Gombac, D. Mattiussi, Centro
isontino di ricerca e documentazione storica e sociale L. Gasparini, Gorizia 2004;
Una storia sbagliata? Uno sguardo al breve secolo dei rapporti italo-jugoslavi 17
soprattutto dopo che il movimento partigiano sloveno e quello croato si estesero anche alla
Venezia Giulia ed al Friuli orientale.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 l’Italia passò dallo status di potenza imperiale a
quello di mero oggetto della politica internazionale. Invano quindi cercò di influire sulla sor-
te delle aree di confine. Non ci riuscì la diplomazia tradizionale, che ottenne solo un blando
interesse da parte di inglesi ed americani, e non ce la fece nemmeno la diplomazia parallela
della Resistenza. Per la verità, il massimo organo politico del movimento di liberazione
italiano, il Comitato di liberazione nazionale per l’alta Italia, riuscì ad impostare nel corso
del 1944 un negoziato con gli jugoslavi, ma solo fino a quando il movimento guidato da
Tito rimase in attesa del riconoscimento anglo-americano del suo ruolo di principale forza
politica in Jugoslavia30. Quando tale riconoscimento arrivò, nella tarda estate del 1944, svanì
qualsiasi interesse dei nuovi leader jugoslavi a trattare con gli italiani.
Invece, la leadership comunista jugoslava cominciò ad elaborare un grande disegno di
politica estera, con un duplice obiettivo: rovesciare verso l’esterno le spinte nazionaliste dei
principali gruppi etnici che si stavano affrontando nella guerra civile, e creare uno scenario
regionale che evitasse il pericolo che la Jugoslavia si trovasse nel dopoguerra di nuovo
accerchiata da potenze ostili. Due furono anche gli strumenti approntati alla bisogna. Uno
molto tradizionale, vale a dire le rivendicazioni territoriali nei confronti di tutti gli Stati
confinanti: verso l’Italia le richieste erano sostanzialmente quelle del 1919. Ed uno invece
molto meno ortodosso, e cioè l’egemonia sui partiti comunisti dei paesi vicini. I piani di
guerra dell’Unione Sovietica, infatti, prevedevano lo scioglimento del Komintern per rassi-
curare gli alleati occidentali sulle buone intenzioni del movimento comunista, ed è in questo
spazio che Tito ebbe l’astuzia di inserirsi per promuovere, dal Danubio all’Egeo e passando
per l’Adriatico, un polo regionale di partiti comunisti coordinato dal «fratello maggiore»
jugoslavo31.
In particolare, la micro-rete clandestina del Partito comunista d’Italia dipendeva quasi
totalmente dal sostegno degli jugoslavi, che immaginavano di poter orientare a proprio pia-
cimento i compagni italiani, spingendoli a trasformare la guerra di liberazione in rivoluzione
e ad accettare come fraterno aiuto l’occupazione jugoslava del nord-est del paese32. Accadde
invece che le disposizioni impartite da Stalin a Togliatti agli inizi del 1944 fossero diverse:
in Italia il PCI non doveva battersi per la conquista del potere, ma per sostituire il fascismo
con una democrazia liberale, nella quale i comunisti avrebbero avuto un ruolo di primo pia-
no, assieme però agli altri partiti del Comitato di liberazione nazionale. Per la base e molti
dirigenti del partito la strategia jugoslava era tuttavia molto più affascinante di quella deli-
neata da Togliatti e quest’ultimo dovette faticare non poco per imporre la propria linea. Ci
30
G. Fogar, Trieste in guerra. Società e resistenza, Irsml FVG, Trieste 1999, pp. 129-130; R. Pupo, Trieste ’45, Laterza,
Roma-Bari 2010, pp. 53-58.
31
Vedi I. Banac, With Stalin against Tito. Cominformist Splits in Yugoslav Communism, Cornell University Press, New York
1988; G. Swain, Tito and the Twilight of the Comintern, in International Communism and the Communist International, a c.
di T. Rees, A. Thorpe, Manchester University Press, Manchester 1999; Id., Tito: a Biography, I. B.Tauris & Co. Ltd., London
2010.
32
P. Karlsen, Frontiera rossa. Il PCI, il confine orientale e il contesto internazionale 1941-1955, LEG, Gorizia 2010, pp.
39-62.
18 Raoul Pupo
riuscì, perché così voleva Stalin, ma quel che invece non potè fare fu di opporsi alla richiesta
jugoslava di occupare la Venezia Giulia, come premessa alla sua annessione33.
Alla fine della guerra quindi la Jugoslavia si trovava in una posizione di forza. Paese
vincitore dopo essere stato aggredito dall’Italia, poteva ragionevolmente reclamare com-
pensi. Una parte consistente delle forze politiche italiane – i comunisti – era quantomeno
neutralizzata, al di là delle acrobazie dialettiche di Togliatti. Inoltre l’armata jugoslava, gra-
zie ad un’avventurosa offensiva finale, era riuscita ad occupare tutti i territori rivendicati
alla frontiera con l’Italia34. Unico neo, e non da poco, gli anglo-americani avevano deciso di
non poter fare a meno di Trieste come base di rifornimento per l’occupazione dell’Austria.
Fatto ancor più grave, avevano interpetato la corsa jugoslava verso l’Isonzo come un ballon
d’essai sovietico, volto a testare la determinazione con cui gli Alleati avrebbero difeso i
loro interessi strategici sul limite fra le aree di occupazione in Europa. Ne seguì una breve
scaramuccia diplomatica – da alcuni ritenuta la prima crisi del dopoguerra europeo – nel
corso della quale il governo jugoslavo potè contare su di un sostegno sovietico assai più
tiepido del previsto: i venti di guerra fredda non spiravano ancora sull’Europa e per Stalin
l’alto Adriatico non valeva certo una frattura con gli anglo-americani, quando ben altre poste
erano in gioco35. Di conseguenza, gli jugoslavi si dovettero ritirare da Trieste, Gorizia e Pola,
ove venne instaurata un’amministrazione militare anglo-americana.
Ciò che la Jugoslavia non era riuscita ad ottenere direttamente sul campo, poteva però
guadagnare alla conferenza della pace. Il governo di Roma si illuse inizialmente che, grazie
alla Resistenza ed ai combattimenti sostenuti dal Corpo italiano di liberazione a fianco degli
Alleati, il popolo italiano si fosse guadagnato il «biglietto di ritorno» rispetto alle colpe del
fascismo36. Invece non era così e l’Italia si trovò a pagare per intero il prezzo dell’alleanza
con la Germania nazista. Così com’era accaduto nel 1919, anche nel 1946 all’interno del
negoziato sui confini le valutazioni di ordine etnico ebbero un valore secondario e quasi
esclusivamente propagandistico: ciò che veramente contava erano i rapporti di forza e gli
equilibri fra le grandi potenze. Per comprendere come si fossero invertiti i ruoli fra Italia e
Jugoslavia rispetto al 1919, basti osservare che nel 1946 le discussioni ebbero per oggetto i
margini occidentali e non più quelli orientali della regione, la Dalmazia non entrò nemmeno
nel negoziato e la contesa ebbe quale perno e simbolo non più Fiume, ma Trieste.
Alla frontiera orientale l’Italia perse quindi quasi tutti i territori che aveva ottenuto dopo
la Prima guerra mondiale: sotto la sovranità di Roma rimase infatti solo la parte meridionale
della provincia di Gorizia, con la città capoluogo. La Jugoslavia vide accolta la maggioranza
delle sue richieste, con un’eccezione assai significativa. Americani ed inglesi erano sempre
più convinti della valenza strategica del porto di Trieste al punto che, un paio di anni dopo,
avrebbero considerato la città giuliana uno dei «baluardi dell’Occidente» lungo la cortina di
33
Ivi, pp. 62-71.
34
G. Cox, La corsa per Trieste, Leg, Gorizia 1985; S. Petelin, La liberazione del litorale sloveno, Pretoki, Gorizia 1999; R.
Pupo, Trieste ‘45, cit., pp. 136-171.
35
G. Valdevit, La questione di Trieste 1941-1954. Politica internazionale e contesto locale, Franco Angeli, Milano 1986, pp.
89-109; M. Cattaruzza, 1945. Alle origini delle questione di Trieste, in «Ventesimo secolo», 2005, n. 7, pp. 97-111; R. Pupo,
Trieste ’45, cit., pp. 172-186.
36
S. Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace del 1947, Il Mulino, Bologna 2007.
Una storia sbagliata? Uno sguardo al breve secolo dei rapporti italo-jugoslavi 19
ferro37. Trieste quindi non doveva assolutamente cadere in mano jugoslava, cioè sovietica,
ed era meglio che non fosse neanche restituita all’Italia, troppo debole ed isolata per difen-
derla. La soluzione sulla quale venne costruito il compromesso con l’Unione Sovietica, fu
perciò quella di dar vita ad uno Stato cuscinetto, il Territorio libero di Trieste, comprendente
la città ed una stretta striscia costiera nell’Istria occidentale.
Per opposti motivi, né il governo di Roma né quello di Belgrado si dissero entusiasti
delle decisioni di Parigi, ma non poterono fare a meno di accettarle. A rompere lo schema
ci provarono i comunisti italiani, che dal punto di vista politico erano rimasti spiazzati dal
pieno appoggio offerto dall’URSS alla Jugoslavia. Dopo un incontro a sorpresa fra Togliatti
e Tito nel novembre del 1946 cercarono quindi di promuovere un accordo diretto fra Italia e
Jugoslavia, presentando come propria una delle varianti tattiche della linea negoziale jugo-
slava: Trieste sarebbe andata all’Italia e Gorizia alla Jugoslavia38. Il tentativo di Togliatti di
riguadagnare spazio politico di fronte all’opinione pubblica nazionale italiana si risolse però
in un boomerang. La diplomazia italiana rifiutò uno scambio che dava alla Jugoslavia una
città (Gorizia) che il trattato di pace aveva assegnato all’Italia, in cambio di una città (Trie-
ste) che il medesimo trattato non aveva concesso alla Jugoslavia e che quindi il governo di
Roma sperava di recuperare in altro modo. Inoltre, l’accordo Togliatti-Tito non prevedeva la
contiguità territoriale fra Trieste e il resto del territorio italiano. Di conseguenza, l’iniziativa
venne bollata come «infame baratto» e Togliatti venne accusato di aver tradito gli interessi
nazionali italiani. Era un’accusa che il PCI si portò addosso sino alla fine della sua storia
e che negli anni Novanta del XX secolo, al sorgere della cosiddetta «seconda repubblica»,
avrebbe spinto gli eredi del partito comunista a farsi promotori di un riscoperta in chiave
nazionale della storia del confine orientale italiano39.
Fallita ogni ipotesi di negoziato bilaterale, non restava dunque che costituire il TLT. Inve-
ce, nell’anno intercorso fra le decisioni di Parigi e l’entrata in vigore del trattato di pace (15
settembre 1947), inglesi e americani cambiarono idea. O meglio, si accorsero che lo stru-
mento tattico (il TLT) scelto per conseguire l’obiettivo strategico (e cioè il mantenimento del
controllo alleato su Trieste) era troppo rischioso. C’era infatti il pericolo che dopo il ritiro
delle truppe alleate le organizzazioni comuniste locali, aiutate dagli jugoslavi, potessero
prendere il potere. Pertanto, il governo di Londra e quello di Washington decisero di bloc-
care la nomina del governatore del TLT, in modo da mantenere per un tempo indefinito lo
status quo40. Di conseguenza, la zona A del Territorio libero, comprendente Trieste, continuò
ad essere amministrata da un Governo militare alleato (AMG) e la zona B, comprendente i
comuni di Capodistria, Isola, Pirano, Buie, Umago e Cittanova, rimase sotto amministrazio-
ne militare jugoslava (VUJA).
Seguì una lunga fase di stallo, mentre quella che veniva ormai chiamata la «questione di
Trieste» costituì uno dei principali centri di ri-aggregazione del sentimento nazionale italia-
37
G. Valdevit, La questione di Trieste, cit., pp. 189-190.
38
L. J. Gibijanskji, Mosca, il Pci e la questione di Trieste, in Dagli archivi di Mosca. L’Urss, il Cominform e il Pci (1943-
1951), a c. di F. Gori, S. Pons, Carocci, Roma 1998; P. Karlsen, Frontiera rossa, cit., pp. 151-159.
39
L. Mattina, Democrazia e nazione. Dibattito a Trieste tra Luciano Violante e Gianfranco Fini, EUT, Trieste 1998.
40
G. Valdevit, La questione di Trieste, cit., pp. 186-191.
20 Raoul Pupo
no dopo il disastro dell’8 settembre 194341. A mutare con imprevista rapidità fu il contesto
internazionale. Tra la fine del 1947 e gli inizi del 1948 era ormai esplosa la Guerra fredda
e ciò inzialmente favorì l’Italia. All’interno della nuova contrapposizione bipolare il ruolo
strategico della penisola italiana era evidentemente notevole e ciò spinse americani ed ingle-
si a svolgere una politica positiva nei confronti del governo italiano, retto da un leader filo-
occidentale come Alcide De Gasperi, per evitare che cadesse in mano comunista. Vennero
varati diversi provvedimenti di sostegno all’Italia ed ai partiti anticomunisti e i due governi
alleati decisero anche di sostenere le rivendicazioni di quello di Roma su Trieste. E così, il
20 marzo 1948, nell’imminenza delle prime elezioni politiche italiane, i governi di Parigi,
Londra e Washington emanarono una Dichiarazione tripartita nella quale riconoscevano il
buon diritto dell’Italia e recuperare l’intero Territorio libero42. Si trattava di una mossa priva
di effetti pratici, perché una revisione del trattato di pace richiedeva l’assenso sovietico, ma
il suo valore elettorale era considerevole e così pure quello diplomatico. L’Italia non era
più internazionalmente isolata, nel negoziato sulla sorte del TLT avrebbe ottenuto l’appog-
gio alleato e Trieste si trovava ormai fuori pericolo, presidiata com’era dalle truppe anglo-
americane ed amministrata da un governo militare che cercava in ogni modo di favorire gli
italiani.
L’entusiasmo italiano fu peraltro di breve durata. Con grande sorpresa degli osservatori
internazionali, nell’estate del 1948 esplose la crisi fra la Jugoslavia e l’Unione Sovietica.
In prima battuta l’espulsione della Jugoslavia dal Cominform sembrava preludere ad un
indebolimento della posizione jugoslava, mentre invece costituì la premessa per il suo rialli-
neamento internazionale. Ad essere indebolito infatti fu il controllo sovietico su tutta l’area
balcanica e dalla nuova, vantaggiosa, contingenza, americani ed inglesi pensarono ben pre-
sto di trarre profitto. La parola d’ordine quindi, a Washington come a Londra, divenne «te-
nere a galla Tito»43: in tal modo, la minaccia costituita dall’Armata rossa si sarebbe spostata
molto più ad est, a tutto vantaggio della difesa della Pianura padana e delle coste dell’Egeo.
In cambio del sostegno occidentale il governo di Belgrado avrebbe inoltre cessato di appog-
giare la guerriglia comunista in Grecia, stabilizzando i Balcani meridionali. Ma per tenere a
galla Tito, era anche necessario «salvargli la faccia» sulla questione di Trieste. Di ciò inglesi
ed americani si convinsero abbastanza presto, tanto che nell’estate del 1949 all’interno del
Dipartimento di stato si ragionava nei seguenti termini: «non si potrebbe prendere neppure
in esame la restituzione della zona anglo-americana all’Italia senza l’accordo jugoslavo an-
che se i sovietici fossero d’accordo»44. Era il completo rovesciamento della Dichiarazione
tripartita, anche se questa non venne mai formalmente ritirata.
Trieste quindi da «baluardo dell’Occidente» si era in un breve volger di tempo trasforma-
ta in un «masso erratico», depositato dal ritirarsi della guerra fredda dalle sponde dell’Alto
41
M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., pp. 325-326.
42
D. de Castro, La questione di Trieste, L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, LINT, Trieste 1981, vol. I,
pp. 721-755; G. Valdevit, La questione di Trieste, cit., pp. 191-197.
43
G. Valdevit, La questione di Trieste, cit., pp. 206-224; B. Heuser, Western «Containment» Policies in the Cold War. The
Yugoslav Case 1948-1953, Routledge, Londra e New York 1989; L. M. Lees, Keeping Tito Afloat. The United States, Yugo-
slavia, and the Cold War, Pennsylvania State University Press, University Park 1997.
44
Acheson all’ambasciata americana di Londra, 29 giugno 1949, in FRUS; 1949, III, pp. 509-511.
Una storia sbagliata? Uno sguardo al breve secolo dei rapporti italo-jugoslavi 21
Adriatico45. Ciò non toglie che, sul campo, le precezioni fossero molto diverse: fin dall’esta-
te del 1945 e poi avanti per un decennio le popolazioni dell’area di frontiera vissero in
un clima di contrapposizione totale fra due mondi, quello occidentale e quello comunista,
divisi da una linea di confine sempre più impermeabile. In entrambe le zone, il sommarsi
di antagonismi nazionali ed ideologici generò un clima esplosivo, punteggiato da episodi
di violenza46. Per le diplomazie, la prospettiva era diversa: quello fra Italia e Jugoslavia era
stato derubricato a contenzioso bilaterale fra un paese membro dell’Alleanza atlantica ed un
altro che inglesi ed americani averbbero desiderato quanto prima integrare nel sistema di-
fensivo dell’Occidente: pertanto, il governo di Washington e quello di Londra cominciarono
a premere su Roma e Belgrado affinché si accordassero amichevolmente sulla spartizione
del Territorio libero.
Non era cosa facile. Gli italiani ovviamente partivano dalla Dichiarazione tripartita, pun-
tando a scambiare le cittadine costiere della zona B a popolamento quasi esclusivamente ita-
liano con l’entroterra del Territorio, prevalentemente sloveno e croato. Gli jugoslavi invece
desideravano far pesare la loro condizione di beati possidentes della zona B, mentre l’Italia
non aveva voce in capitolo nella zona A. Per di più, il trattato di pace aveva soddisfatto
quasi integralmente le rivendicazioni croate, ma non quelle slovene: e gli sloveni, oltre a
dover ancora metabolizzare la rinuncia a Trieste, da loro tradizionalmente considerata «il
polmone della Slovenia», avevano bisogno di uno sbocco al mare per la loro repubblica. Lo
desideravano all’interno del golfo stesso di Trieste, in modo da poter costruire accanto alla
città italiana una Nova Trst jugoslava, prospettiva che faceva rizzare i capelli in testa agli
italiani di Trieste.
Dietro le difficoltà diplomatiche stava però anche il peso degli antichi antagonismi nazio-
nali e dei drammi che avevano diviso popoli e classi dirigenti, impregnando di sé le rispet-
tive culture politiche. Gli jugoslavi sentivano ancora bruciare il ricordo delle persecuzioni
fasciste fra le due guerre mondiali e degli orrori dell’occupazione italiana dopo il 1941. Gli
italiani erano rimasti traumatizzati dalle violenze di massa scatenatesi a loro danno nei due
periodi in cui la Venezia Giulia era stata governata dalle autorità comuniste jugoslave, vale a
dire dopo l’8 settembre 1943 nell’Istria interna e dopo il 1° maggio 1945 soprattutto a Trieste
e Gorizia. In entrambi i casi gli occupanti, che consideravano il territorio come già annesso
alla Jugoslavia, avevano immediatamente avviato la liquidazione dei «nemici del popolo»,
così com’erano abituati a fare nel corso della guerra di liberazione/guerra civile/guerra ri-
voluzionaria jugoslava. Dentro una categoria così elastica, nella Venezia Giulia erano finiti
fascisti, membri dell’apparato repressivo, uomini delle istituzioni, ma anche gli esponenti
più in vista delle comunità italiane dell’Istria, agrari e industriali, dirigenti di associazioni
patriottiche ed anche antifascisti e combattenti contro i tedeschi, che però non accettavano
la guida dei comandi partigiani jugoslavi e si opponevano all’annessione alla Jugoslavia.
Nell’autunno del 1943 le vittime erano state alcune centinaia, nel 1945 alcune migliaia. Gli
45
G. Valdevit, La questione di Trieste, cit., pp. 224-237; Id., Trieste 1953-1954. L’ultima crisi, MGS Press, Trieste 1994, p. 9.
46
B. Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Mursia, Milano 1973.; D. de Castro, La questione di
Trieste, cit., vol. II, pp. 163-189.
22 Raoul Pupo
italiani chiamarono «foibe» tali stragi, perché parte dei corpi delle vittime venne gettata
nelle voragini del Carso e tale memoria averebbe pesato a lungo sui rapporti di confine47.
Al ricordo di quanto accaduto solo pochi anni prima si sommava l’esperienza di un fe-
nomeno ancora in corso, che gli italiani chiamarono «esodo» istriano48. Il trattato di pace
prevedeva una clausola di salvaguardia delle minoranze, in forza della quale i cittadini di
madrelingua italiana residenti nei territori passati sotto la sovranità jugoslava potevano op-
tare per la cittadinanza italiana e trasferirsi in Italia. Di tale clausola si servì la stragrande
maggioranza della componente italiana per fuggire appena possibile dalla Jugoslavia, dove
gli italiani si sentivano nazionalmente perseguitati, economicamente vessati, oppressi dal
punto di vista politico e religioso e sottoposti ad un processo di distruzione identitaria. Ini-
zialmente il governo italiano provò a frenare l’esodo, perché si rendeva conto che la par-
tenza degli italiani avrebbe indebolito qualsiasi eventuale rivendicazione sui territori ceduti.
Poi però, visto che il flusso era inarrestabile, cercò di organizzare l’accoglienza in Italia.
Parallelamente, le autorità italiane tentarono con ogni mezzo di evitare l’esodo degli italiani
che vivevano nella zona B del TLT, dove l’amministrazione jugoslava aveva solo caratte-
re provvisorio. In effetti, sostenuti materialmente in maniera clandestina e confortati nella
speranza che tutto il Territorio libero sarebbe tornato all’Italia, alcune decine di migliaia di
italiani rimasero sulla loro terra fino alla metà degli anni Cinquanta.
Gli storici hanno a lungo dibattutto se l’esodo si possa considerare un fenomeno di espul-
sione di massa su base nazionale. Studi recenti condotti in prospettiva comparata fra i diversi
spostamenti forzati di popolazione in ambito europeo hanno consentito di mettere meglio
a fuoco la questione, chiarendo meglio la distinzione tra deportazioni, espulsioni ed esodi.
Con questo ultimo termine quindi oggi si intendono:
quei casi in cui un gruppo di abitanti fu indotto a fuoriuscire dai confini politici del territorio
in cui viveva a causa di pressioni esercitate dal governo che lo controllava, sia in termini
di violenza diretta sia in termini di privazione di diritti, soprattutto in corrispondenza di
un radicale mutamento politico che investiva le relazioni tra stati (conflitti bellici, crolli e
costruzioni di stati). In tali circostanze la migrazione forzata non era il chiaro obiettivo ini-
ziale del governo in questione, né tantomeno quest’ultimo la organizzò; il risultato finale fu
comunque l’emigrazione quasi totale del gruppo. Questi casi vanno senza dubbio compresi
nel novero delle migrazioni forzate, anche se furono gli unici in cui la scelta di migrare fatta
dai singoli o dalle singole famiglie ma estesasi fino ad acquisire una dimensione di massa,
ebbe un ruolo attivo nello spostamento49.
47
Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, a c. di G. Valdevit, Marsilio, Venezia 1997; G. Rumici, Infoibati. I
nomi, i luoghi, i testimoni, i documenti, Mursia, Milano 2002; R. Pupo, R. Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, Milano 2003;
E. Apih, Le foibe giuliane, LEG, Gorizia 2010; R. Pupo, Trieste ’45, cit., pp. 228-257.
48
R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano 2005; per una prospettiva comparata
vedi Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo, a c. di M. Cattaruzza, M. Dogo, R. Pupo, ESI, Na-
poli 2000; Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, a c. di G. Crainz, R. Pupo, S. Salvatici,
Donzelli, Roma 2008; A. Ferrara, N. Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953, Il
Mulino, Bologna 2012.
49
A. Ferrara, Nicola Pianciola, L’età delle migrazioni forzate, cit., p. 18.
Una storia sbagliata? Uno sguardo al breve secolo dei rapporti italo-jugoslavi 23
Gravati dalla pesantezza dei vissuti collettivi antagonisti e molto distanti nei loro obiet-
tivi, italiani e jugoslavi sino all’inizio degli anni Cinquanta non riuscirono a raggiungere
alcun accordo, nonostante le pressioni alleate50. La situazione si sbloccò solo nel 1953 a
seguito dell’indebolimento della posizione italiana. Alcide De Gasperi, che non aveva mai
voluto prendere in considerazione la spartizione del TLT lungo la linea di demarcazione
fra zona A e zona B, uscì sconfitto dalle elezioni politiche del giugno di quell’anno e venne
sostituito da Giuseppe Pella, posto a capo di un governo di basso profilo sostenuto anche dai
partiti di estrema destra. La Jugoslavia ne approfittò per alzare il tiro delle sue rivendicazio-
ni, al fine di posizionarsi meglio nella prospettiva del negoziato finale. Pella reagì in modo
clamoroso, facendo eseguire dimostrazioni militari ed accarezzando anche l’idea di un colpo
di mano su Trieste51. Dietro tale cortina fumogena stava però la disponibilità del nuovo go-
verno italiano a chiudere rapidamente la partita, rinunciando a qualsiasi rivendicazione sulle
cittadine della zona B.
Verso tale direzione si mossero anche i governi di Londra e Washington, che decisero
di avventurarsi in una mediazione forzata, certi che italiani e jugoslavi l’avrebbero accolta,
anche se con qualche protesta di facciata. Così, l’8 ottobre del 1953 i due governi alleati
comunicarono ufficialmente la loro intenzione di sciogliere il Governo militare alleato che
aveva sede a Trieste e di consegnare all’Italia l’amministrazione della zona A del TLT. Con-
tro le loro previsioni però, Tito si mise di traverso e minacciò un intervento militare a Trieste.
Sulla scelta jugoslava di assumere una linea dura pesarono almeno due fattori. Il primo,
la difficoltà di far accettare all’opinione pubblica un’imposizione esterna certamente poco
gradita in un paese che aveva fatto della propria fiera autonomia rispetto alla grandi potenze
uno degli elementi costitutivi della sua identità politica. Il secondo, non meno importante,
il desiderio di spendere il capitale negoziale accumulato con l’occupazione della zona B in
modo da ottenere altri vantaggi di natura politica ed economica52.
Ne seguirono altri mesi di stallo diplomatico, mentre la situazione dell’ordine pubblico
a Trieste degenerava, con morti e feriti per le strade53. La situazione venne sbloccata agli
inizi del 1954 dalla decisione alleata di cambiare metodo, passando da una proposta esterna
di mediazione, che era stata percepita come favorevole all’Italia, al coinvolgimento della
Jugoslavia come protagonista della decisione finale sulla sorte del TLT, lasciando al governo
italiano solo la possibilità di accettare o meno l’accordo già chiuso fra i rappresentanti di
Washington, Londra e Belgrado.
Il compromesso raggiunto fra inglesi, americani e jugoslavi alla fine di maggio del 1954
prevedeva dunque la spartizione del TLT fra Italia e Jugoslavia lungo il confine di zona, con
alcune rettifiche a favore della Jugoslavia. Formalmente però, si sarebbe trattato solo di un
50
D. de Castro, La questione di Trieste, cit. pp. 107-131, 267-485; M. de Leonardis, La «diplomazia atlantica» e la soluzione
del problema di Trieste (1952-1954), ESI, Napoli 1992, pp. 34-280.
51
D. de Castro, La questione di Trieste, cit. pp. 527-541; M. de Leonardis, La «diplomazia atlantica», cit., pp. 281-306; P.
E. Taviani, I giorni di Trieste. Diario 1953-1954, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 45-52; G. Meyr, L’opzione militare: le Forze
Armate italiane nella crisi dell’estate-autunno 1953, in Dalla cortina di ferro al confine ponte: a cinquant’anni dal Memo-
randum di Londra, l’allargamento della Nato e dell’Unione Europea, a c. di G. Meyr, R. Pupo, Edizioni Comune di Trieste,
Trieste 2008, pp. 38-43.
52
G. Valdevit, La questione di Trieste, cit., pp. 257-269; Id., Trieste 1953-1954, cit., pp. 21-27.
53
D. De Castro, La questione di Trieste, cit. pp. 651-708; Giampaolo Valdevit, Trieste 1953-1954, cit., pp. 36-39.
24 Raoul Pupo
54
G. Valdevit, La questione di Trieste, cit., pp. 269-273; Id., Trieste 1953-1954, cit., pp. 41-67; R. Pupo, Fra Italia e Jugo-
slavia. Saggi sulla questione di Trieste (1945-1954), Del Bianco, Udine 1989, pp. 91-150; M. De Leonardis, La «diplomazia
atlantica», cit., pp. 393-493,
55
E. di Nolfo, La «politica di potenza» e le formule della politica di potenza. Il caso italiano 1952-1956, in L’Italia e la po-
litica di potenza in Europa, a c. di E. di Nolfo, R. H. Rainero, B. Vigezzi, Marzorati, Milano 1992, vol. III, p. 713.
56
R. Pupo, Il lungo esodo, cit., pp. 149-186; Id., Eksodus iz cone B Svobodnega trzaskega ozemlja (1945-1958), in «Prispevki
za novejšo zgodovino», 2013. pp. 173-185.
Una storia sbagliata? Uno sguardo al breve secolo dei rapporti italo-jugoslavi 25
italiano sostenne sempre di non voler rinunciare ai «legittimi interessi» nazionali, perché sia
a Roma che a Belgrado si sapeva benissimo che il nuovo assetto del confine era definitivo.
L’ambiguità però era proprio il fondamento su cui si basava l’accordo, che aveva come scopo
quello di far uscire il problema dei confini dalla visibilità delle rispettive opinioni pubbliche
ed in particolare di quella italiana: una volta decantati i risentimenti, formalizzare lo status quo
sarebbe stato certo più facile.
Così in effetti accadde, nell’arco circa di un ventennio, durante il quale la reciproca perce-
zione del governo di Belgrado e di quello di Roma si modificò sensibilmente. Nel corso degli
anni Sessanta la Jugoslavia divenne per l’Italia non più il nemico per antonomasia, ma il car-
dine della stabilità balcanica ed un essenziale cuscinetto strategico a protezione della frontiera
orientale. Ben lo si vide nell’estate del 1968 quando, di fronte all’invasione sovietica della Ce-
coslovacchia, il governo italiano si affrettò a comunicare a quello jugoslavo che quest’ultimo
avrebbe potuto tranquillamente spostare verso il proprio confine orientale le truppe di stanza
lungo l’Isonzo, perché nulla aveva da temere da parte dell’Italia57.
Nel senso del superamento dei precedenti antagonismi andavano pure alcuni segnali pro-
venienti dall’area di frontiera, a conferma dell’intreccio fra dimensione locale e dimensione
statuale che ha segnato sul lungo periodo i rapporti fra Italia e Jugoslavia. Negli anni Venti e
Trenta il «fascismo di confine» nato a Trieste e radicalmente antislavo, aveva influito in misura
significativa sull’elaborazione della politica estera del regime, accentuandone l’intolleranza
verso le minoranze slovena e croata in Italia e i toni aggressivi nei confronti del Regno jugo-
slavo. Viceversa, nel corso degli anni Sessanta il «cattolicesimo di frontiera», elaborato in quel
che rimaneva della Venezia Giulia, ebbe fra i suoi cardini l’integrazione della componente slo-
vena nella classe dirigente locale e la collaborazione transfrontaliera con la Jugoslavia58. Tale
divenne la politica delle maggioranze di centro-sinistra nella amministrazioni locali triestine e
goriziane e nella medesima direzione si volse esplicitamente la «piccola politica estera» della
regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, a guida democristiana, che si studiò di moltiplicare le
occasioni di collaborazione, oltre che con la Carinzia, con la Slovenia e la Croazia: alla barriera
che divideva due mondi e due storie contrapposte si sostituì così nel volgere del decennio un
«confine ponte» decisamente poroso, che facilitò un vero e proprio boom dei traffici di fron-
tiera su scala locale59.
57
G. W. Maccotta, Osimo visto da Belgrado, in «Rivista di studi politici internazionali», n. 1, 1993, pp. 55-67; S. Mišić,
Jugoslovensko-italijanski odnosi i čehoslovenska kriza 1968. godine, in 1968 – Četrdeset godina posle, a cura di «Institut za
Noviju Istoriju Srbije», Institut za Noviju Istoriju Srbije, Belgrado 2008, pp. 293 ss.
58
Cattolici a Trieste, nell’impero austro-ungarico; nell’Italia monarchica e fascista; sotto i nazisti; nel secondo dopoguerra
e nell’Italia democratica, LINT, Trieste 2003, in partic. l’Introduzione; R. Pupo, Il «partito italiano»: la Dc di Trieste, in
Dopoguerra di confine, a c. di T. Catalan et al., Irsml FVG, Dipartimento di scienze storiche e geografiche Università di
Trieste, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Trieste, 2007, pp. 45-50.
59
Sulla politica del centro-sinistra a Trieste vedi C. Belci, La Dc per Trieste: 1957-1962, Del Bianco, Udine 1963; Id., Trieste.
Memorie di trent’anni (1945-1975), Morcelliana, Brescia 1989; G. Botteri, Trieste, città italiana al servizio dell’Europa e
della pace, Tipografia moderna, Trieste 1967; Id. et al., Trieste e la sua storia, Dedolibri, Trieste 1986. Sul «confine ponte»
vedi E. Vrsaj, La cooperazione economica Italia-Jugoslavia, Mladika, Trieste 1970; Id., La cooperazione economica Alpe-
Adria. Italia - Friuli-Venezia Giulia, Jugoslavia - Slovenia, Austria - Carinzia, Mladika, Trieste 1975; L. Poropat, Alpe Adria
e iniziativa centro-europea, ESI, Napoli 1993; M. Zago, Il confine-ponte: la strategia, in Dalla cortina di ferro al confine
ponte, a c. di G. Meyr, R. Pupo, cit., pp. 78-88; F. Richetti, Il confine-ponte: l’esperienza di Trieste, ivi, pp. 78-94; M.
Antonsich, Il Nordest tra Mitteleuropa e Balcani: il caso del Friuli-Venezia Giulia, in A. Colombo, A. Ferrari, R. Radaelli,
A. Vitale, F. Zannoni, Geopolitica della crisi. Balcani, Caucaso e Asia Centrale nel Nuovo Scenario Internazionale, ISPI,
Milano 2002, pp. 141-249.
26 Raoul Pupo
Notevole sviluppo ebbe pure l’interscambio economico a livello generale, tanto da fare
dell’Italia il primo paese importatore e il secondo fra gli esportatori della Jugoslavia60. La
stessa Jugoslavia inoltre si era guadagnata un ruolo internazionale di tutto rispetto, come uno
dei leader del movimento dei paesi non-allineati. D’altra parte, davanti agli occhi dei dirigenti
jugoslavi non stava più l’Italia economicamente arrancante ed affamata di terre altrui che ave-
vano conosciuto nei decenni precedenti, ma un paese che aveva vissuto il boom economico, in-
vidiato ma non minaccioso, proprio perché il suo profilo internazionale – al di là dell’attivismo
in vario modo mostrato da alcuni esponenti della sinistra democristiana come Gronchi, Fanfani
e Mattei – era comunque privo delle antiche dimensioni di potenza. Per di più, a guidare l’Italia
vi era una coalizione di centro-sinistra, nella quale il partito socialista e quello socialdemocra-
tico premevano per un miglioramento dei rapporti bilaterali che passasse anche attraverso la
definzione delle pendenze di confine. Infine, anche il nuovo leader democristiano, Aldo Moro,
sembrava voler impostare una politica estera che superasse i rigidi schemi del bipolarismo in
Europa e guardava con interesse alla prospettiva di una definitiva pacificazione adriatica61.
Esistevano dunque le condizioni per un reciproco, sostanzioso interesse, e ciò costituì la
base per il forte riavvicinamento avviatosi alla fine degli anni Sessanta, anche alla luce dei
timori suscitati dall’applicazione della «dottrina Breznev» e delle comuni preoccupazioni per
il «dopo Tito». Ciò indusse i due governi a riprendere il filo della trattativa sulle frontiere62.
Il negoziato però si svolse assai a rilento. Moro era certamente convinto che la situazione
oramai creatasi sul terreno e consolidata dal memorandum non poteva venir in alcun modo
modificata e che quindi quella dell’accordo globale era una via obbligata. Tuttavia, il metodo
da lui seguito vuoi in politica interna che in politica estera, escludeva le mosse rapide, privile-
giando la lenta maturazione del consenso sui punti di maggior difficoltà, in modo da ottenere
l’approvazione alle scelte più ardue anche da parte delle componenti meno convinte della ne-
cessità di un’intesa. In effetti, in Italia queste ultime non mancavano. Contro la trasformazione
in confine di Stato della linea di demarcazione fra zona A e zona B si battevano ovviamente le
associazioni dei profughi giuliani e dalmati, che riuscirono a far sentire in maniera efficace la
loro voce in occasione della prevista – e poi rinviata – visita di Tito in Italia nel dicembre del
1970. Perplessità venivano anche dalla DC di Trieste, dove le stesse componenti favorevoli
alla collaborazione con la Jugoslavia paventavano un tracollo elettorale nel caso di un accordo
sui confini. E dubbi sussistevano anche ai vertici della Democrazia cristiana nazionale, dove
un leader del calibro di Fanfani, pur non mettendo in discussione la politica di buon vicinato
con la Jugoslavia, non condivideva l’urgenza di riconoscerne la sovranità sulla zona B.
Invece, conciliare l’obiettivo strategico del consolidamento dello Stato jugoslavo con la
preoccupazione tattica relativa ai costi politici di un accordo sui confini, si rivelò per l’Italia
60
M. Capriati, Gli scambi commerciali tra Italia e Jugoslavia dal dopoguerra al 1991, in F. Botta, I. Garzia, Europa adri-
atica. Storia, relazioni, economia, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 156-181; R. Milano, L’ENI e la Jugoslavia (1961-1971), in
Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i Balcani, a c. di I. Garzia, L. Monzali, M. Bucarelli, Besa - Salento Books, Nardò 2011,
pp. 311-341.
61
M. Bucarelli, Aldo Moro e l’Italia nella «Westpolitik» jugoslava degli anni Sessanta, in Aldo Moro, l’Italia repubblicana e
i Balcani, a c. di I. Garzia, L. Monzali, M. Bucarelli, cit., pp. 115-160.
62
Per una ricostruzione puntuale del negoziato, oltre agli altri contributi pubblicati in questo volume, vedi M. Bucarelli, La
«questione jugoslava» nella politica estera dell’Italia repubblicana, 1945-1999, Aracne, Roma 2008; Luciano Monzali,
«I nostri vicini devono essere nostri amici». Aldo Moro, l’Ostpolitik italiana e gli accordi di Osimo, in Aldo Moro, l’Italia
repubblicana e i Balcani, a c. di I. Garzia, L. Monzali, M. Bucarelli, cit., pp. 89-114.
Una storia sbagliata? Uno sguardo al breve secolo dei rapporti italo-jugoslavi 27
sempre più difficile. Il governo di Belgrado, pressato dalle tensioni fra le etnie che componeva-
no il mosaico jugoslavo e che nella primavera del 1971 sembrarono sul punto di detonare, sen-
tiva l’impellenza di tranquilizzare l’opinione pubblica slovena e croata attraverso la sanzione
della definitività del confine; pertanto, dubitando dell’effettivo interesse del governo italiano a
concludere la trattativa in tempi brevi, cercò di stimolarlo in vari modi, anche piuttosto bruschi.
Ne seguirono alcuni momenti tempestosi, come la crisi della primavera del 1974, quando,
dopo quasi vent’anni, si rividero i carri armati sferragliare per le vie di Capodistria. Ma un
reale peggioramento dei rapporti bilaterali era proprio quanto i due paesi non desideravano,
e nemmeno potevano permettersi: il negoziato quindi si sbloccò, per concludersi alfine con il
trattato firmato ad Osimo il 15 novembre 197563.
Modificando parzialmente la sua originaria linea negoziale ed accettando in questo l’im-
postazione jugoslava, in cambio del proprio assenso ad ufficializzare l’annessione della zona
B alla Jugoslavia l’Italia rinunciava a chiedere compensazioni simboliche di natura territo-
riale nella zona medesima. Il governo di Roma otteneva invece almeno due compensazioni
sostanziali. La prima, la rinuncia jugoslava all’estensione oltre i limiti territoriali già previsti
dal Memorandum delle norme di tutela della minoranza slovena in Italia. Ciò significava che
nessun riconoscimento veniva accordato alla componente di lingua slovena vivente nelle valli
del Cividalese (dagli sloveni chiamate «Slavia veneta», annesse all’Italia già nel 1866), in pro-
vincia di Udine, prospettiva giudicata intollerabile dalla DC friulana. Il secondo, un pacchetto
economico comprendente lo studio di fattibilità di un canale navigabile Sava-Isonzo e la costi-
tuzione di una zona industriale transfrontaliera nei pressi di Trieste, finalizzata a consentire il
rilancio economico del capoluogo giuliano, da tempo languente.
Entrambe le compensazioni peraltro risultavano poco spendibili sul piano politico. Agli
ambienti nazionali italiani sembrava del tutto ovvio che i montanari delle valli del Natisone
e del Torre parlanti uno strano dialetto non potessero venir equiparati agli sloveni di Trieste
e Gorizia. Insistere da parte italiana sul risultato ottenuto sarebbe stato quindi poco efficace,
mentre avrebbe inasprito i rapporti con la minoranza slovena. Quanto al pacchetto economico,
all’ipotesi del faraonico canale non credette giustamente nessuno, mentre la zona industriale
a cavallo del confine, si rivelò un vero boomerang. Le sue dimensioni e la sua collocazione
sull’altipiano carsico, zona naturalisticamente protetta alle spalle della città, consentirono un
inedito coaugulo fra gli oppositori alla parte politica del trattato, gli ecologisti preoccupati dal
prevedibile impatto ambientale dei nuovi insediamenti e quanti – trasversalmente alle diverse
appartenenze politiche – temevano gli sconvolgimenti che un’afflusso di manodopera preva-
lentemente slava avrebbe comportato per gli assetti nazionali e sociali di Trieste. Del resto,
non era la prima volta che una parte consistente della classe dirigente e della pubblica opinione
italiane della città mostravano di preferire i rischi della decadenza economica a quelli connessi
ad uno sviluppo che, considerata la dimensione plurietnica del territorio, avrebbe messo pro-
babilmente in discussione i tradizionali equilibri nazionali. Così era già accaduto in occasione
dell’ultima ondata di modernizzazione asburgica, alla vigilia della Grande guerra, e di fronte
alle incognite dell’industrializzazione prevista dal Trattato di Osimo anche la sovranità italiana
63
Per il testo del trattato vedi Gli accordi di Osimo. Lineamenti introduttivi e testi annotati, a c. di M. Udina, LINT, Trieste
1979.
28 Raoul Pupo
su Trieste non sembrava a molti una garanzia sufficiente64. La zona quindi alla fin fine non si
fece, anche perché gli eventuali vantaggi connessi al suo regime fiscale di privilegio vennero
rapidamente svuotati dai successivi accordi fra la Jugoslavia e la Comunità europea. Invece, il
moto di protesta condensatosi contro il previsto insediamento industriale ebbe un successo tale
da mettere in crisi l’intero sistema dei partiti a Trieste, assumendo per qualche tempo la guida
politica della città65.
Ad ogni modo, il Trattato di Osimo del 10 novembre 1975 chiuse anche formalmente la
lunga controversia di confine fra Italia e Jugoslavia e venne salutato con favore a livello inter-
nazionale, perché si presentava come applicazione concreta degli accordi di Helsinki, firmati
solo pochi mesi prima.
Nel frattempo però, molte cose erano cambiate da quando i due paesi avevano avviato il loro
cammino di avvicinamento. La Jugoslavia stava per avvitarsi in una crisi economica senza via
d’uscita, mentre sempre più gravi si rivelavano le tensioni fra i diversi gruppi nazionali. D’altra
parte, in Italia l’euforia del boom era stata sostituita dalle incertezze della stagflazione, e il
sistema politico democratico si trovava sotto l’attacco combinato della strategia della tensione
e del terrorismo di sinistra. L’entrata in vigore del trattato di Osimo consentì in ogni caso un
ulteriore sviluppo dei rapporti bilaterali, che divennero un modello per le relazioni tra paesi
appartenenti a diversi sistemi economici e politici; tuttavia, il nuovo irrigidimento bipolare
della fine degli anni Settanta circoscrisse la portata di un’intesa che, nelle speranze di Aldo
Moro, avrebbe dovuto contribuire potentemente a fare dell’Italia un ponte fra l’Occidente,
gli Stati neutrali e non allineati e gli stessi aderenti al blocco sovietico66. Nemmeno tutte le
aspettative di un salto di qualità nella collaborazione economica trovarono rispondenza e,
soprattutto, contrariamente alle speranze di entrambe le parti, la prima fase d’incondizionata
e forte amicizia fra i due paesi non offrì un contributo sostanziale alla stabilizzazione della
Jugoslavia. Gli anni Ottanta del Novecento avrebbero visto il progressivo aggravarsi della
crisi jugoslava, mentre il sistema politico italiano, che pur era sopravvissuto agli «anni di
piombo», si stava impaludando senza possibilità di ricambio. Di lì a poco, l’inopinata fine
della Guerra fredda avrebbe demolito d’un colpo le basi su cui si reggevano gli equilibri
politici nei due paesi. L’Italia, paralizzata dalla crisi di «tangentopoli» e dalla conseguente
transizione fra prima e seconda repubblica, avrebbe assistito, incerta sulla strada da prendere
e sostanzialmente impotente, alla dissoluzione di quello che si era trasformato da nemico
storico in uno dei suoi maggiori investimenti politici del ventennio precedente, la Repubblica
federativa di Jugoslavia67.
64
Sul rapporto centro-periferia e le insicurezze degli italiani di Trieste vedi G. Valdevit, Trieste. Una periferia insicura, Bruno
Mondadori, Milano 2004.
65
Per una prima sintesi di storia politica del periodo vedi R. Spazzali, Trieste di fine secolo 1955-2004, Italo Svevo, Trieste
2006.
66
L. Monzali, «I nostri vicini devono essere nostri amici», cit, p. 106.
67
Il confine riscoperto Beni degli esuli, minoranze e cooperazione economica nei rapporti dell’Italia con Slovenia e Croazia,
a c. di T. Favaretto, E. Greco, Franco Angeli, Milano 1997; A. Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al
1992, Laterza, Roma-Bari 1998; A. Biasutti, Friuli Venezia Giulia dieci anni dopo. Diario di un democristiano, La nuova
base, Udine 2000; G. De Michelis, Così cercammo di imoedire la guerra, in «Limes», 1994, n.1, pp. 229-236; M. Bucarelli,
L’Italia e le crisi jugoslave di fine secolo, in F. Botta, I. Garzia, Europa adriatica, cit., pp. 73-116; Id., La Slovenia nella
politica italiana di fine Novecento, in Italia e Slovenia fra passato e futuro, a c. di M. Bucarelli, L. Monzali, Studium, Roma
2009, pp. 103-149; G. Meyr, L’Italia e la dissoluzione della Jugoslavia, in Dalla cortina di ferro al confine ponte, a c. di G.
Meyr, R. Pupo, cit., pp. 102-107.
«Qualestoria» n. 2 - dicembre 2013
di Massimo Bucarelli
Abstract – Italian foreign policy and the settlement of the Trieste question: the Osimo
Agreements of 1975
After World War II, political and diplomatic relations between Italy and Yugoslavia were
characterized by misunderstandings, polemics and hostility, due mainly (though not exclu-
sively) to the Trieste question, which was a long standing territorial dispute that divided the
two Adriatic countries for decades. The article, which is based mainly on primary sources
(such as Tito’s Archive in Belgrade and Aldo Moro’s Archive in Rome) as well as on relevant
literature, argues that Italian-Yugoslav rapprochement, which led to the settlement of the
Trieste question in 1975, became possible only due to the crucial domestic changes, which
occurred in Italian politics during the Sixties. As the article also argues, it was Aldo Moro,
a Christian-Democrat leader, several times Prime Minister and Foreign Affairs Minister be-
tween 1963 and 1976, who played the crucial role in getting Italy and Yugoslavia closer. Ac-
cording to Moro, it was necessary to present the agreement with Yugoslavia not as an Italian
renounce to zone B, because it was not possible to relinquish something that had not belonged
to the country since the end of the War and the Peace Treaty, but to present it as a final acqui-
sition of benefits both territorial (zone A with Trieste which the Peace Treaty of 1947 had left
outside of the national borders) as well as political and economic, through revival of friend-
ship between Italy and Yugoslavia.
1
Sulla questione di Trieste e il problema del confine orientale alla fine della seconda guerra mondiale, esiste ormai un’ampia
bibliografia; tra i tanti lavori, si ricordano: J.-B. Duroselle, Le conflit de Trieste 1943-1954, Editions de l’Institut de Sociolo-
gie de l’Université Libre de Bruxelles, Bruxelles 1966, pp. 155 ss.; B. Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e
ideologica, Mursia, Milano 1973, pp. 233 ss.; D. de Castro, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana
dal 1943 al 1954, LINT, Trieste 1981, vol. I, pp. 210 ss. e pp. 321 ss.; A. G. De Robertis, Le grandi potenze e il confine giu-
liano 1941-1947, Laterza, Bari 1983, pp. 217 ss. e pp. 281 ss.; R. G. Rabel, Between East and West. Trieste, the United States
and the Cold War, 1941-1954, , Duke University Press, Durham e Londra 1988, pp. 52 ss.; R. Pupo, Fra Italia e Jugoslavia.
Saggi sulla questione di Trieste (1945-1954), Del Bianco, Udine 1989, pp. 25 ss.; B. Dimitrijević, D. Bogetić, Tršćanska
kriza 1945-1954. Vojno-politički aspekti, Institut za Savremenu Istoriju, Belgrado 2009, pp. 11 ss. Sulle implicazioni e le
ricadute a livello nazionale e locale della questione di Trieste: N. Troha, Chi avrà Trieste? Sloveni e italiani fra due Stati,
Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste 2009; A. Millo, La dif-
ficile intesa: Roma e Trieste nella questione giuliana 1945-1954, Edizioni Italo Svevo, Trieste 2011.
2
C. Sforza, Cinque anni a Palazzo Chigi. La politica estera italiana dal 1947 al 1951, Atlante, Roma 1952, pp. 327 ss.; R.
Gaja, L’Italia nel mondo bipolare. Per una storia della politica estera italiana (1943-1991), Il Mulino, Bologna 1995, pp.
81-82; J.-B. Duroselle, Le conflit, cit., pp. 258 ss.; D. de Castro, La questione di Trieste, cit., pp. 673 ss.; P. Pastorelli, La
politica estera italiana del dopoguerra, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 111-113; R. G. Rabel, Between East and West, cit., pp.
102 ss.; B. Heuser, Western «Containment» Policies in the Cold War. The Yugoslav Case 1948-1953, Routledge, Londra e
New York 1989, pp. 7 ss.; R. Pupo, Fra Italia e Jugoslavia, cit., pp. 45 ss.; L. M. Lees, Keeping Tito Afloat. The United States,
Yugoslavia, and the Cold War, Pennsylvania State University Press, University Park 1997, p. 9.
3
M. Djilas, Se la memoria non m’inganna, … Ricordi di un uomo scomodo 1943-1962, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 169
ss. e pp. 191 ss.; C. G. Stefan, The Emergence of the Soviet-Yugoslav Break: a Personal View from the Belgrade Embassy,
in «Diplomatic History», 1982, n. 6, pp. 400 ss.; Jugoslovenski-sovjetski sukob 1948. Godine. Zbornik radova sa Naučnog
Skupa, a c. di Institut za Savremenu Istoriju, Belgrado 1999, passim; R. E. Kulaa, Origins of the Tito-Stalin Split within the
Wider Set of Yugoslav-Soviet Relations (1941-1948), in The Balkans in the Cold War, a c. di V. G. Pavlović, Belgrado, Insti-
tute for Balkans Studies of the Serbian Academy of Sciences and Arts, Belgrado 2011, pp. 91 ss.; J. Pirjevec, Tito in tovariši,
Cankarjeva založba, Lubiana 2011, pp. 223 ss.
La politica estera italiana e la soluzione della questione di Trieste: gli accordi di Osimo del 1975 31
importanza agli occhi degli americani: la rottura con Mosca non solo aveva un grande
significato ideologico e propagandistico, in virtù del colpo inferto all’egemonia sovietica
sui paesi comunisti dell’Europa danubiano-balcanica, ma rappresentava anche un note-
vole vantaggio strategico, perché allentava la pressione sovietica sui confini meridionali
dell’Alleanza atlantica e faceva della Jugoslavia una sorta di Stato «cuscinetto» tra le rami-
ficazioni adriatiche e balcaniche dei due blocchi4. Il riallineamento della politica jugoslava
non poteva rimanere senza conseguenze nell’evoluzione della questione di Trieste: consi-
derata l’importanza di Belgrado nelle strategie politiche e militari di Washington e Londra
e vista la perdurante impossibilità di dar vita al TLT a causa delle incolmabili differenze
italo-jugoslave, gli anglo-americani decisero di favorire una soluzione di compromesso
sancita dal Memorandum di Londra del 5 ottobre 1954, con il quale l’Italia sostituiva le
autorità britanniche e statunitensi nell’amministrazione della zona A del TLT, mentre nella
zona B l’amministrazione jugoslava da militare diventava civile5. Si delineava, dunque, la
spartizione di fatto del TLT, consona del resto ai desideri degli anglo-americani, che in-
tendevano liberarsi dalla responsabilità di amministrare la zona A ed eliminare, allo stesso
tempo, un contenzioso considerato nocivo per il campo occidentale, con una soluzione
capace di tenere insieme gli interessi dell’alleato italiano e dell’amico jugoslavo6.
Tuttavia, né l’avvicinamento jugoslavo all’Occidente, né la sistemazione data al pro-
blema di Trieste nel 1954 contribuirono a migliorare sensibilmente i rapporti politici tra
Roma e Belgrado. Tutt’altro. La rottura jugoslava con l’Unione Sovietica sembrò acuire
le incomprensioni tra i due paesi adriatici, perché l’opposizione antijugoslava condotta dal
Partito comunista italiano, in applicazione delle direttive decise a Mosca dai leader sovieti-
ci, si andò ad aggiungere a quella della maggioranza di governo centrista (caratterizzata dal
ruolo predominante dalla Democrazia cristiana, con la partecipazione di socialdemocrati-
ci, repubblicani e liberali), rendendo l’antijugoslavismo patrimonio comune dei maggiori
partiti dell’arco costituzionale7. Né si avvertirono concreti segnali di disgelo dopo la firma
del Memorandum di Londra. A Belgrado e a Roma si maturarono opinioni diametralmente
opposte sul significato e la portata dell’intesa appena raggiunta. Per gli uomini di governo
italiani, si trattava di una soluzione provvisoria, che non prevedeva alcuna cessione defini-
4
E. Ortona, Anni d’ America, vol. II, La diplomazia: 1953-1961, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 31 ss.; M. De Leonardis, La
«diplomazia atlantica» e la soluzione del problema di Trieste (1952-1954), Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1992, pp.
134 ss.; B. Heuser, Western «Containment» Policies, cit., pp. 26 ss., e pp. 104 ss.; L. M. Lees, Keeping Tito Afloat, cit., pp.
49-51, e pp. 84-86; D. Bogetić, Jugoslavija i Zapad 1952-1955. Jugoslovensko približavanije NATO-U, Belgrado 2000; I.
Laković, Zapadna vojna pomoč Jugoslaviji \1951-1958, Istorijski institut Crne Gore, Podgorica 2006, pp. 31 ss.
5
Il testo del Memorandum di Londra è in M. Udina, Gli accordi di Osimo. Lineamenti introduttivi e testi annotati, LINT,
Trieste 1979, pp. 132 ss. Sui negoziati che portarono all’accordo del 1954: E. Ortona, Anni d’ America, cit., pp. 88 ss.; J.-B.
Duroselle, Le conflit, cit., pp. 406 ss.; B. Novak, Trieste 1941-1954, cit., pp. 363 ss.; D. de Castro, La questione di Trieste, cit.,
vol. II, pp. 797 ss.; M. de Leonardis, La «diplomazia atlantica», cit., pp. 393 ss.; R. Pupo, Fra Italia e Jugoslavia, cit., pp. 151
ss.; P. Pastorelli, Origine e significato del Memorandum di Londra, in «Clio», 1995, n. 4, pp. 607-609; R. G. Rabel, Between
East and West, cit., pp. 131 ss.; B. Dimitrijević, D. Bogetić, Tršćanska kriza 1945-1954, cit., pp. 143 ss.
6
P. Pastorelli, Origine e significato, cit., p. 609.
7
Anton Vratuša al Comitato Centrale del PCJ, Roma, 9 luglio 1948, Rapporto s. n.; Il ministro jugoslavo a Roma, Mladen
Iveković a Tito e a Kardelj, Roma, 25 marzo 1949, Rapporto «Segretissimo» n. 28/49, in AJ, CK SKJ, KMOV (48/1 – 57
– 131), b. 2, ff. 72 e 85; Appunto sul colloquio tra il ministro jugoslavo a Roma, Mladen Iveković e il ministro degli Affari
Esteri italiano, Carlo Sforza, 22 aprile 1950, in AJ, APR, KMJ (I – 3 – d), b. 23, f. 70. Anche. M. Zuccari, Il dito sulla piaga.
Togliatti e il PCI nella rottura tra Tito e Stalin 1944-1957, Mursia, Milano 2008, pp. 169 ss.; P. Karlsen, Frontiera rossa. Il
PCI, il confine orientale e il contesto internazionale 1941-1955, LEG, Gorizia 2010, pp. 198 ss.
32 Massimo Bucarelli
tiva di sovranità e che lasciava sussistere intatta la teorica aspirazione di un futuro ritorno
all’Italia di tutto il territorio destinato al TLT e non soltanto di Trieste e della zona A8. Al
contrario, per Belgrado l’accordo del 1954 rappresentava la chiusura di fatto della vertenza
territoriale. Per Tito e la dirigenza jugoslava, il sacrificio di Trieste, nonostante implicasse
la rinuncia alle rivendicazioni territoriali avanzate con tanta insistenza e forza alla fine della
Seconda guerra mondiale9, si rendeva necessario per stabilizzare il confine occidentale e
rafforzare la sicurezza nazionale. Pur essendo convinto che Trieste appartenesse allo spazio
etnico ed economico sloveno, il leader jugoslavo riteneva ormai impossibile arrivare alla
città giuliana, perché l’Italia poteva contare sull’alleanza delle potenze occidentali e perché
la Jugoslavia aveva bisogno del sostegno anglo-americano per contenere la minaccia e le
pressioni del blocco orientale. Anticipando di molti anni le stesse conclusioni cui sarebbero
giunti Aldo Moro e alcuni diplomatici italiani a lui vicini, Tito non riteneva ipotizzabile
ottenere Trieste con il consenso, né tanto meno con la forza, perché «nessuno al mon-
do» avrebbe dato il proprio «appoggio morale» a un’operazione simile10. Era bene, quindi,
chiudere la vertenza, eliminare ogni focolaio di tensione sul fronte occidentale, rafforzare
il possesso di fatto di Capodistria e rivolgere le proprie attenzioni verso il blocco orientale;
passi ritenuti necessari per completare l’edificazione della via jugoslava al socialismo e
rendere più salda la presa del regime all’interno del paese.
Nel ragionamento di Tito era presente ovviamente anche un altro lato della meda-
glia: se la Jugoslavia doveva prendere atto dell’impossibilità di andare oltre il controllo
della zona B, allo stesso modo per gli italiani non sarebbe mai stato possibile sperare di
avere qualcosa in più della zona A. Per Belgrado, esisteva un rapporto di reciprocità tra
le rinunce jugoslave e quelle italiane: al sacrificio di Trieste da parte di Belgrado dove-
va corrispondere quello italiano di Capodistria e ogni eventuale modifica della linea di
demarcazione doveva essere effettuata sulla base di un’equa compensazione territoria-
le11. La reciprocità dei sacrifici territoriali e la compensazione territoriale, però, erano
principi che la politica e la diplomazia italiane di quell’epoca non erano ancora pronte
ad accogliere. Nel corso dei contatti diplomatici di quegli anni, le proposte di accordo
italiane non contemplarono la spartizione del TLT lungo la linea di demarcazione, ma
l’annessione dell’intero territorio in cambio di numerose e vantaggiose concessioni a
8
Brevi note sullo «Status» di Trieste (Zona A) e della Zona B, appunto «riservatissimo» di Manlio Castronuovo, Roma 11
gennaio 1964, allegato a Castronuovo a Giovanni Fornari, l. personale, Roma, 11 gennaio 1964, in ACS, AAM, b. 77, f.
215, s.f. 1.
9
Nota del Ministero degli Affari Esteri all’Ambasciata dell’Unione Sovietica, Belgrado, 4 settembre 1945; Nota del Governo
della Federazione Democratica di Jugoslavia al Governo dell’Unione Sovietica, Belgrado, 5 settembre 1945; Memorandum
della Federazione Democratica di Jugoslavia sulla questione della Marca Giuliana e degli altri territori jugoslavi in Italia,
6-7 settembre 1945; Ljuba Leontić a Edvard Kardelj, Londra, 9 luglio e 15 agosto 1945, l. «Segretissimo»; Kardelj a Tito,
Londra, 22 settembre 1945, Rapporto, in AJ, APR, KMJ (I – 3 – d), b. 20., ff. 23, 24 e 27.
10
Appunto sul colloquio tra il Presidente della Repubblica, Josip Broz Tito, e una delegazione di rappresentanti degli Sloveni
della Zona A del TLT, alla presenza del vicepresidente del Consiglio Esecutivo federale, Edvard Kardelj, Belgrado, 8 no-
vembre 1953, in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144. Anche: D. Bogetić, Jugoslavija i Zapad, cit., pp. 124 ss.; N. Troha, Yugoslav
Proposal for the Solutions of the Trieste Question Following the Cominform Resolution, in Yugoslavia in the Cold War, a c.
di J. Fischer, A. Gabrić, L. Gibianskii, E. S. Klein, R. W. Preussen, Lubiana 2004, pp. 161 ss.
11
Appunto sul colloquio tra il Presidente della Repubblica, Josip Broz Tito, e una delegazione di rappresentanti degli Sloveni
della Zona A del TLT,, cit., in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144.
La politica estera italiana e la soluzione della questione di Trieste: gli accordi di Osimo del 1975 33
Naturalmente, l’intesa del 1954, con la sua interpretazione volutamente ambigua, con-
tribuì a far calare d’intensità la disputa italo-jugoslava14. Dietro il simulacro della provvi-
sorietà della sistemazione confinaria, si avviò un parziale processo di normalizzazione in
alcuni settori dei rapporti bilaterali, con una serie di successivi accordi quali l’accordo di
Udine del 1955, che regolava il traffico di persone e merci fra la regione triestina e le zone
limitrofe, l’accordo sulla pesca in Adriatico del 1958 e numerosi protocolli di cooperazione
nel campo culturale e scientifico15. Tali intese, nonostante le non infrequenti polemiche,
rappresentarono il preludio dell’intenso sviluppo dei rapporti economici e culturali tra i
due Stati verificatosi negli anni Sessanta. Con la progressiva internazionalizzazione dei
processi economici, la separazione tra le due coste adriatiche risultò sempre più artificiale
e non del tutto corrispondente agli interessi di entrambi i paesi. Furono proprio i reciproci
legami economici, così forti in regioni come quelle adriatiche, così vicine e complementari,
ad aprire per primi un varco nella cortina di ferro italo-jugoslava. Il rilancio delle relazioni
commerciali era, poi, la diretta conseguenza dell’impostazione data dai governi italiani
dell’epoca ai rapporti con Belgrado e basata sulla completa separazione delle questione
economiche da quelle politiche; un’impostazione fortemente voluta da alcuni ambienti
economici e industriali, interessati a trarre vantaggio dalla prossimità delle due coste adria-
tiche; e condivisa anche dai responsabili politici jugoslavi, che non volevano concedere
alcun vantaggio negoziale ai dirigenti italiani, nel timore che da parte del governo di Roma
12
Tarchiani a Sforza, Washington, 10 aprile 1950; Martino a Sforza, Bled, 5 luglio 1950, in DDI, s. XI, vo. IV, dd. 111 e 309;
Appunto sul colloquio tra l’ambasciatore Marko Ristić, e l’ambasciatore italiano, Antonio Meli Lupo di Soragna, Belgrado,
17 agosto 1951, in AJ, APR, KMJ (I – 3 – d), b. 23, f. 76; C. Sforza, Cinque anni a Palazzo Chigi, cit., pp. 383-384; J.-B.
Duroselle, Le conflit, cit., pp. 325 ss.
13
Brevi note sullo «Status» di Trieste (Zona A) e della Zona B, appunto «riservatissimo», cit., in ACS, AAM, b. 77, f. 215,
s.f. 1.
14
Appunto sui negoziati con gli italiani, «segreto n. 1646», a cura della Direzione Economica della Segreteria di Stato
per gli Affari Esteri, Belgrado, 19 settembre 1955; Appunto sul colloquio tra il sottosegretario di Stato, Anton Vratuša, e
l’ambasciatore italiano a Belgrado, Gastone Guidotti, Belgrado, 2 luglio 1957; in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 245.
15
Sui negoziati che portarono alla conclusione dei vari accordi italo-jugoslavi della seconda metà degli anni Cinquanta, si
veda l’abbondante documentazione in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 245.
34 Massimo Bucarelli
16
Nota informativa sull’Italia, cit., in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144; Considerazioni generali sui problemi italo-jugoslavi,
appunto a cura dell’Ufficio del Consigliere Diplomatico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, s. d. (ma 1960), in
ACS, PCM – UCD, b. 27.
17
Appunto per S. E. il Ministro (Antonio Segni), a firma di Giovanni Fornari (Direzione Generale Affari Politici del MAE,
Ufficio II), Roma 28 luglio 1961, in ACS, PCM – UCD, b. 27.
18
La documentazione relativa all’organizzazione e allo svolgimento delle visite di Stato che ebbero luogo tra la fine degli
anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta si trova in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144. Inoltre: Riassunti dei colloqui tra il
ministro degli Affari Esteri italiano, Antonio Segni, e il segretario di Stato per Affari Esteri jugoslavo, Koča Popović, Roma,
2 e 3 dicembre 1960, in ACS, PCM – UCD, b. 27. Si veda: M. Bucarelli, Aldo Moro e l’Italia nella «Westpolitik» jugoslava
degli anni Sessanta, in Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i Balcani, a c. di I. Garzia, L. Monzali, M. Bucarelli, Besa - Salento
Books, Nardò 2011, pp. 123-126.
19
Berio a Saragat, Belgrado, 31 marzo 1964, t.sso n. 1102, in ACS, AAM, b. 77, f. 215, s.f. 1.
20
Appunto sulla politica jugoslava, Roma, 3 gennaio 1964, «Visto da Tito», in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 144. Anche: Ducci a
Saragat, Belgrado 16 giugno e 25 luglio 1964, t.sso n. 2128, in ACS, AAM, b. 77 f. 215, s.f. 1, e t.sso n. 2638, ivi, b. 66, f. 2.
Sull’esperienza e l’azione dei governi di centro-sinistra, soprattutto dal punto di vista della politica internazionale, si veda: F.
Imperato, Aldo Moro e la pace nella sicurezza. La politica estera del centro-sinistra 1963-1968, Bari 2011, passim; L. Tosi,
Per una nuova comunità internazionale. La diplomazia multilaterale di Aldo Moro, L. Riccardi, Appunti sull’Ostpolitik di
Moro (1963-1975), G. Vacca, Aldo Moro e la politica estera italiana. Continuità e discontinuità nell’azione internazionale
dell’Italia fra prima e seconda Repubblica, E. Colombo, Aldo Moro e la politica estera italiana. Una testimonianza, in Aldo
Moro, l’Italia repubblicana e i Balcani, a c. di I. Garzia, L. Monzali, M. Bucarelli, cit., pp. 15 ss. Anche i più recenti: Aldo
Moro, l’Italia repubblicana e i popoli del mediterraneo, a c. di I. Garzia, L. Monzali, F. Imperato, Besa - Salento Books,
Nardò 2013; A. Alfonsi, Aldo Moro nella dimensione internazionale. Dalla memoria alla storia, Franco Angeli, Milano 2013.
La politica estera italiana e la soluzione della questione di Trieste: gli accordi di Osimo del 1975 35
21
R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare, cit., p. 170; G. W. Maccotta, Osimo visto da Belgrado, in «Rivista di Studi Politici
Internazionali», 1993, n. 1, pp. 56-57.
22
Sulle posizioni del PSI e del PSDI in merito al problema dei rapporti italo-jugoslavi negli anni del centro-sinistra, mi
permetto di rinviare a M. Bucarelli, Aldo Moro e l’Italia nella «Westpolitik» jugoslava degli anni Sessanta, in Aldo Moro,
l’Italia repubblicana e i Balcani, a c. di I. Garzia, L. Monzali, M. Bucarelli, cit., pp. 126 ss.
23
R. Ducci, I Capintesta, Rusconi, Milano 1982, p. 37. Anche: F. Imperato, Aldo Moro e la pace nella sicurezza, cit., pp.
VIII-IX, e pp. 13-16; L. Tosi, Per una nuova comunità internazionale, cit., pp. 15 ss.
36 Massimo Bucarelli
territoriali con i propri vicini e avviando con essi una stretta collaborazione politica, primo
passo per il superamento degli steccati ideologici e politici che dividevano l’Europa24.
Nel porre come obiettivo finale della politica adriatica del centro-sinistra la pacifi-
cazione tra i due popoli e la fattiva cooperazione tra i due governi, Moro faceva sue ri-
flessioni e suggerimenti di alcuni diplomatici italiani, le cui considerazioni e valutazioni
giunsero al politico democristiano tramite il consigliere diplomatico presso la presiden-
za del Consiglio dei ministri, Gianfranco Pompei. Di fronte agli inviti provenienti da
Belgrado, affinché il nuovo governo di centro-sinistra si facesse carico della chiusura
definitiva delle controversie italo-jugoslave in nome di una amicizia sempre più forte
e sincera25, la diplomazia italiana venne sollecitata a formulare pareri e proposte per la
soluzione delle questioni confinarie e degli altri problemi che ancora dividevano Roma e
Belgrado. La risposta dei diplomatici italiani, interessati a diversi livelli e a vario titolo
alle vicende adriatiche, fu quasi unanime: la posizione jugoslava, per cui la sistemazione
data al problema di Trieste con il Memorandum di Londra del 1954 doveva ormai consi-
derarsi definitiva, era sostanzialmente corretta; non era «lecito», infatti, rimettere tutto in
discussione o procrastinare la presa d’atto formale della spartizione del TLT, appoggian-
dosi ad un fatto di natura giuridica e formalistica, come la mancata nascita del Territorio
libero e l’assenza di ogni riferimento a cessioni di sovranità da parte italiana nell’intesa
del 1954; non si poteva, in buona sostanza, tentare di «vendere una seconda volta quello
che già era stato venduto»; inoltre, in assenza del consenso jugoslavo, non era neanche
lontanamente ipotizzabile il tentativo di modificare l’assetto stabilito nel 1954 con la
forza, ché nessun individuo con una «coscienza democratica» avrebbe mai potuto soste-
nere un’ipotesi del genere. Bisognava accettare, quindi, che anche quella parte dell’Istria
occidentale, compresa nella zona B del TLT, andasse ad aggiungersi alla lista dei territori
persi a causa della guerra e della sconfitta subita. Bisognava, inoltre, avere la capacità di
sottoporre la politica jugoslava condotta fino ad allora dai governi italiani a una profon-
da revisione, per capire, finalmente, che gli interessi nazionali potevano essere difesi e
salvaguardati anche in altro modo: non con l’espansione territoriale, ma con quella dei
commerci, della presenza economica, dell’influenza culturale; non alimentando il senso
di precarietà degli assetti territoriali, ma proiettando stabilità e assicurando la pace; non
rimanendo antagonisti di un paese, che aveva rinunciato ad essere una «potenza avven-
turosa», ma collaborando con un paese che faceva «molta e fortunata politica, in ogni
continente e in ogni scacchiere». Le indicazioni provenienti dalla diplomazia italiana
suggerivano di intavolare le trattative per la chiusura di ogni controversia con i vicini
jugoslavi e di individuare una «soluzione globale», che non solo tenesse conto degli
aspetti territoriali e confinari, ma che prevedesse anche misure in grado di garantire con-
24
R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare, cit., pp. 181-182 e pp. 216-217; A. Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali dal
1943 al 1992, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 190; L. Monzali, La questione jugoslava nella politica estera italiana dalla prima
guerra mondiale ai trattati di Osimo (1914-1975) in Europa adriatica. Storia, relazioni, economia, a c. di F. Botta, I. Garzia,
Laterza, Roma-Bari 2004,, pp. 53-55.
25
Ducci a Saragat, Belgrado, 25 luglio 1964 e 23 novembre 1964, t.sso n. 2638, e t. in arrivo n. 33707/749 «segreto.
Precedenza assoluta. Visto dal Presidente del Consiglio»; Ducci a Moro, Belgrado, 3 novembre 1965, t.sso n. 5759, in ACS,
AAM, bb. 77 e 78.
La politica estera italiana e la soluzione della questione di Trieste: gli accordi di Osimo del 1975 37
26
Tra i diplomatici che in vari modi si espressero a favore della chiusura della questione confinaria con la presa d’atto della
spartizione del TLT di fatto stabilita con il Memorandum d’intesa del 1954, ricordiamo: l’ambasciatore a Belgrado in quegli
anni, Roberto Ducci, e il suo predecessore, Alberto Berio; l’ambasciatore Riccardo Giustiniani, incaricato nella primavera
del 1964 di condurre negoziati segreti per la sistemazione del confine settentrionale; il capo della delegazione italiana nel
Comitato misto italo-jugoslavo previsto dallo Statuto speciale sulle minoranze contenuto nell’intesa del 1954, Manlio Cas-
tronuovo, e lo stesso consigliere diplomatico di Moro, Pompei. Si veda la seguente documentazione: Castronuovo a Pompei,
appunto del 30 gennaio 1964, in ACS, AAM, b. 77, f. 215, s.f. 1; Berio a Saragat, Belgrado, 31 marzo 1964, cit.; Giustiniani
a Pompei, l. p. con allegata copia di un appunto di Giustiniani per Gaja, Roma, 27 novembre 1964, ivi; Questione jugoslava,
appunto su una riunione tenutasi il 20 gennaio 1965 alla Farnesina sotto la presidenza del segretario generale agli Affari
Esteri, Attilio Cattani, con la partecipazione dell’ambasciatore Ducci e di altri funzionari che si occupavano dei problemi
relativi ai rapporti italo-jugoslavi, ivi, b. 66, f. 3; Pompei a Moro, l. p., Roma 31 dicembre 1967, ivi, b. 85, f. 248; Ducci a
Fanfani, Belgrado 3 ottobre 1967, Rapporto «segreto», in Roberto Ducci, a cura del Ministero degli Affari Esteri, Servizio
storico e documentazione, Roma, 1989, pp. 103-110.
27
R. Ducci, I Capintesta, cit., pp. 27-29; M. Bucarelli, La «questione jugoslava» nella politica estera dell’Italia repub-
blicana (1945-1991), Aracne, Roma 2008, pp. 45-61; L. Monzali, «I nostri vicini devono essere nostri amici». Aldo Moro,
l’Ostpolitik italiana e gli accordi di Osimo, in Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i Balcani, a c. di I. Garzia, L. Monzali, M.
Bucarelli, cit., pp. 89 ss.
28
Appunto di Pompei sul colloquio tra Moro e l’ambasciatore jugoslavo, Ivo Vejvoda, Roma 22 settembre 1965, in ACS,
AAM, b. 77, f. 215, s.f. 2. Anche R. Ducci, I Capintesta, cit., pp. 28-29; F. Imperato, Aldo Moro e la pace nella sicurezza,
cit., p. 103.
29
M. Bucarelli, La «questione jugoslava», cit., pp. 48-49.
38 Massimo Bucarelli
L’impostazione data dal presidente del Consiglio alle relazioni con la Jugoslavia (che
rimarrà sostanzialmente inalterata fino agli accordi di Osimo del 1975) venne portata a cono-
scenza della dirigenza jugoslava dall’ambasciatore Ducci, nei primi mesi del 1965, nel corso
dei preparativi della visita di Moro a Belgrado. Secondo il leader DC – a quanto riferiva il
diplomatico italiano – la sistemazione delle questioni territoriali poteva avvenire solo «nel
quadro della risoluzione di un pacchetto di questioni ancora pendenti» (rinnovo dell’accor-
do sulla pesca, accordi culturali, economici, finanziari, commerciali, ecc.): solo in questo
modo, l’opinione pubblica italiana avrebbe «ingoiato la pillola amara» della spartizione del
TLT e della definitiva perdita della zona B30. Il percorso proposto dal governo italiano, che
prevedeva il miglioramento del clima politico come condizione preliminare per stemperare
le tensioni derivanti dalle questioni territoriali, venne sostanzialmente accettato da Belgrado.
Da tale decisione prese le mosse una lunga e tortuosa marcia di avvicinamento, le cui prime
e più importanti tappe furono il viaggio di Moro in Jugoslavia, nel novembre del 1965, e
quello del capo del governo federale jugoslavo, Mika Spiljak, nel gennaio del 1968. Nel corso
delle due visite, in linea con l’impostazione voluta dal leader DC, non vennero affrontati i
problemi confinari, ma solo quei temi utili al consolidamento della cooperazione in campo
economico e culturale e al rafforzamento della collaborazione nelle principali questioni di
politica internazionale (Vietnam, Medio oriente, rapporti Est-Ovest, disarmo), per suggellare
la «comunanza di interessi e di propositi» esistente tra i due paesi in numerosi settori d’inter-
vento politico ed economico31.
Indubbiamente, l’esperienza di governo del centro-sinistra diede un forte impulso al riav-
vicinamento con la Jugoslavia, grazie alla presenza all’interno dell’esecutivo di interlocutori
maggiormente pronti a discutere costruttivamente con le autorità di Belgrado e più disponibili
ad avviare un dialogo per una più ampia collaborazione politica. Tuttavia, il miglioramento
delle relazioni bilaterali, pur costituendo sicuramente un fatto di grande importanza, rappre-
sentava ancora un risultato parziale e incompleto. Senza la chiusura della questione di Trieste
e degli altri contenziosi lasciati in eredità dal conflitto, non sarebbe stato possibile trasformare
la coesistenza tra i due paesi in una vera e propria distensione, capace di superare il lungo
dopoguerra adriatico e rimuovere l’ultimo impedimento alla pacificazione italo-jugoslava.
30
Appunto sul colloquio tra il sostituto del segretario di Stato agli Affari Esteri, Marko Nikezić, e l’ambasciatore italiano,
Roberto Ducci, Belgrado, 16 febbraio 1965; Appunto sul colloquio tra l’assistente del Segretario di Stato agli Affari Esteri,
Dušan Kvader, e l’ambasciatore italiano, Roberto Ducci, Belgrado, 15 marzo 1965, «Visto da Tito», AJ, APR, KPR (I-5-B),
b. 246.
31
Sulle visite di Moro e Spiljak, si vedano: Visita in Jugoslavia 8-12 novembre 1965, Verbali degli incontri dell’8 e 9 novem-
bre 1965, in ACS, AAM, b. 77, f. 215, s. f. 3; Appunto sul colloquio tra il presidente Tito e il presidente del Consiglio dei
ministri italiano, Aldo Moro, Belgrado, 9 novembre 1965, in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 145, f. 44/31; Resoconto sommario
delle conversazioni italo-jugoslave (8-9 gennaio 1968), «Visto dall’On. Ministro», in ACS, AAM, b. 66, f. 6. Inoltre: F. Im-
perato, Aldo Moro e la pace nella sicurezza, cit., pp. 104-105, e pp. 205-208.
La politica estera italiana e la soluzione della questione di Trieste: gli accordi di Osimo del 1975 39
metà degli anni Sessanta32. È noto, infatti, che la «primavera di Praga» del 1968 e la con-
seguente enunciazione della «dottrina Brežnev» misero in allarme il governo di Belgrado,
alle prese con il riemergere dei problemi nazionali interni e preoccupato per un’eventuale
applicazione di tale dottrina al caso jugoslavo33. La violenta soluzione della crisi cecoslo-
vacca imposta dall’Unione Sovietica e l’affermazione da parte del segretario generale del
PCUS della necessità di assoggettare gli interessi di ogni singolo Stato socialista a quelli
del movimento comunista internazionale destarono preoccupazione anche tra i responsabili
politici italiani, interessati a preservare e consolidare il ruolo della Federazione jugoslava
come necessario baluardo territoriale e politico tra l’Italia e i paesi del Patto di Varsavia. Fu
per questo che il 2 settembre del 1968 Giuseppe Medici, ministro degli Esteri del governo
monocolore DC guidato da Giovanni Leone, comunicò al governo di Belgrado che l’Italia
non avrebbe tentato di trarre alcun vantaggio da eventuali spostamenti verso i confini orien-
tali delle truppe jugoslave di stanza lungo la frontiera con l’Italia34. Di fronte all’instabilità
della vicina Federazione jugoslava, erano del tutto evidenti le preoccupazioni italiane di
vedere le truppe del Patto di Varsavia entrare in territorio jugoslavo in applicazione della
«dottrina Brežnev» e di ritrovarsi a confinare direttamente con il blocco sovietico, ripor-
tando la cortina di ferro a ridosso di Gorizia e Trieste. Il pieno sostegno italiano venne sot-
tolineato dalle visite in Jugoslavia, nel maggio e nell’ottobre del 1969, di Nenni, nominato
ministro degli Esteri per alcuni mesi, tra il dicembre del ’68 e l’agosto del ’69, nel primo
governo Rumor, e di Giuseppe Saragat, eletto presidente dalla Repubblica nel 1964, primo
capo di Stato italiano a recarsi a Belgrado. In tali occasioni, i politici italiani si dissero en-
trambi convinti della necessità di aiutare la Jugoslavia socialista e non allineata a rimanere
integra e indipendente, perché la vera frontiera orientale italiana era quella della Jugoslavia
con le vicine democrazie popolari e non quella che correva lungo l’Isonzo35.
L’atmosfera cambiò a tal punto che Roma e Belgrado tornarono a parlare concretamente
anche della questione di Trieste e del confine settentrionale, in seguito alla decisione del
32
M. Bucarelli, La «questione jugoslava», cit., pp. 35-39.
33
V. Mićunović, Moskovske Godine 1969/1971, Jugoslovenska Revija, Belgrado 1984, pp. 17 ss.; Z. Vuković, Od defor-
macija SDB do Maspoka i liberalizma. Moji stenografski zapisi 1966-1972, Narodne Knjige, Belgrado 1989, pp. 11 ss. e pp.
236 ss.; M. Vrhunec, Šest godina s Titom (1967-1973), Globus, Zagabria 2001, pp. 57 ss. e pp. 251 ss. J. Pirjevec, Tito, cit.,
pp. 527 ss. Anche: Leonhart a Rogers, Belgrado, 13 marzo 1970, in FRUS, 1969-1976, vol. XXIX, Eastern Europe; Eastern
Mediterranean, 1969-1972, d. 218.
34
Prica a Tepavac, t. n. 578 (copia) «Visto dal presidente Tito», Roma, 2 settembre 1968, in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 247.
Notizie della garanzia italiana alla Jugoslavia anche in: Rapporti e contenzioso italo-jugoslavi, appunto contenuto in Docu-
mentazione per la visita di Stato in Jugoslavia del presidente della Repubblica, Saragat, 2-6 ottobre 1969, «Riservato» a
cura della Segreteria Generale del Ministero degli Affari Esteri, in ACS, AAM, b. 127, f. 5; Appendice al Memorandum sul
colloquio tra Nixon e Saragat, Roma, 28 febbraio 1969, allegato a Walters a Kissinger, Parigi, 6 marzo 1969, in NARA,
Nixon Papers, NSC, CO, Europe, b. 732. Anche: G. W. Maccotta, La Iugoslavia di ieri e di oggi, in «Rivista di Studi Politici
Internazionali», 1988, n. 2, pp. 231-232; Id., In ricordo di Giuseppe Medici e Giovanni Fornari, in «Affari Esteri», 2001,
n. 159, p. 185;. Inoltre. S. Mišić, Jugoslovensko-italijanski odnosi i čehoslovenska kriza 1968. godine, in 1968 – Četrdeset
godina posle, a cura di «Institut za Noviju Istoriju Srbije», Belgrado, Institut za Noviju Istoriju Srbije, 2008, pp.293 ss.
35
Sulla visita di Nenni in Jugoslavia nel 1969 si veda la documentazione in: AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 145, f. 44/43. Inoltre;
P. Nenni, I conti con la storia. Diari 1967-1971, SugarCo, Milano 1983, pp. 331-334. Anche il diario del capo di gabinetto di
Tito e consigliere per le questioni economiche: M. Vrhunec, Šest godina s Titom (1967-1973), cit., pp. 62 ss. Sulla visita di
Saragat in Jugoslavia: Nota stenografica del colloquio tra le delegazioni di Stato della Repubblica Socialista Federativa di
Jugolavia e della Repubblica italiana, presso la sede della Segreteria di Stato per gli Affari Esteri, Belgrado, 3 ottobre 1969,
in AJ, APR, KPR (I-3-A), b. 145, f. 44/46. Anche la documentazione preparatoria in ACS, AAM, b. 127, f. 5.
40 Massimo Bucarelli
governo Leone-Medici di avviare nuovi negoziati bilaterali nell’ottobre del 196836. L’inca-
rico di condurre delle «conversazioni esplorative segrete» venne affidato all’ambasciatore
italiano Gian Luigi Milesi Ferretti, vicedirettore degli Affari Politici della Farnesina, e a
quello jugoslavo Zvonko Perišić37; la scelta venne determinata dal ruolo particolare rico-
perto dai due diplomatici, essendo entrambi a capo delle rispettive delegazioni in seno
alla Commissione mista italo-jugoslava per l’applicazione delle Statuto delle minoranze
(previsto dal Memorandum d’intesa del 1954); si ritenne, quindi, che, all’interno di tale or-
ganismo bilaterale, il rappresentante italiano e il suo omologo jugoslavo avrebbero potuto
svolgere sondaggi e presentare proposte senza destare particolari clamori. Ribaltando in
parte l’impostazione dei precedenti governi italiani, l’esecutivo guidato da Leone accettò la
connessione tra la delimitazione della frontiera, l’eliminazione delle sacche e la spartizione
definitiva del mancato Territorio libero di Trieste, chiedendo però che da parte jugoslava si
accogliesse la richiesta italiana di inserire il problema territoriale in un più ampio negoziato
politico ed economico; richiesta avanzata nella speranza di ottenere benefici e vantaggi in
cambio di un accordo che una parte dell’opinione pubblica nazionale avrebbe inevitabil-
mente percepito come una rinuncia38. La proposta italiana, articolata in 18 punti (relativi
a tutte le questioni pendenti: incippamento definitivo della frontiera settentrionale; restitu-
zione delle sacche; trasformazione in confine di Stato della linea di demarcazione del 1954;
accordo sulla questione dei beni italiani della zona B; cooperazione economica), venne
accolta positivamente dal governo jugoslavo, divenendo la base e il punto di partenza delle
trattative che avrebbero dovuto portare alla conclusione di un accordo definitivo tra i due
paesi39; negoziati lunghi e difficili, che, per forza di cose, il breve governo Leone-Medici,
seguito dall’altrettanto breve esecutivo Rumor-Nenni, non riuscirono a portare a termine40.
Fu, quindi, solo nella seconda metà del 1969, dopo l’arrivo di Moro alla Farnesina
(all’interno dei successivi governi Rumor e Colombo), che le conversazioni esplorative
segrete entrarono nel vivo. Il politico pugliese accettò di proseguire il negoziato territoriale
con la Jugoslavia, sempre più convinto che la sistemazione territoriale stabilita dal Memo-
randum di Londra fosse ormai «non modificabile con la forza» e «non modificabile con il
consenso»41. Per Moro, la situazione fissata dal Memorandum di Londra andava rispettata
senza apportare cambiamenti e le «sfere territoriali» risultanti da esso (che configuravano
la spartizione di fatto del TLT) erano «fuori questione» e «fuori discussione». Il passaggio
mancante per la stabilizzazione della frontiera comune era la modifica dello status giuridico
dell’assetto definito dall’accordo del 1954 e la trasformazione della linea di demarcazione
36
Appunto sul colloquio tra Pavičević e Trabalza, «Strettamente segreto - Visto da Tito», Belgrado, 17 settembre 1968, Ap-
punto sul colloquio tra Nikezić e Medici, New York 10 ottobre 1968, in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 247.
37
Appunto sul colloquio tra Nikezić e Trabalza, «Strettamente segreto – Visto da Tito», Belgrado, 29 ottobre 1968, ivi.
38
Tentativi di soluzione dei problemi pendenti con la Jugoslavia, appunto «segretissimo», cit., in Carte Ottone Mattei; Ap-
punto sul colloquio tra Pavičević e Trabalza, «Strettamente segreto - Visto da Tito», Belgrado, 9 e 21 ottobre 1968, in AJ,
APR, KPR (I-5-B), b. 247.
39
Appunto «segretissimo» per Moro del direttore generale degli Affari Politici, Roberto Ducci, cit., in Carte Ottone Mattei;
Quadro sinottico delle soluzioni previste per il contenzioso italo-jugoslavo, senza data (ma 1974-1975), ivi.
40
Nenni, nei pochi mesi di permanenza alla Farnesina, fu informato dei passi compiuti da Medici, assicurando la sua più
completa approvazione all’iniziativa: Appunto sul colloquio tra Perišić e Brigante Colonna, «Strettamente segreto - Visto da
Tito», Belgrado, 31 dicembre 1968, in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 247.
41
A. Moro, Discorsi parlamentari, cit., vol. II, p. 1547; G. W. Maccotta, Osimo visto da Belgrado, cit., p. 65.
La politica estera italiana e la soluzione della questione di Trieste: gli accordi di Osimo del 1975 41
tra l’amministrazione italiana della zona A e quella jugoslava della zona B in confine di
Stato. Naturalmente, Moro si rendeva conto che una soluzione rapida e improvvisa della
questione di Trieste attraverso il riconoscimento della spartizione di fatto del TLT avrebbe
suscitato numerose reazioni contrarie, sia a livello locale (anche all’interno della stessa
DC triestina), che a livello nazionale, negli ambienti dell’estrema destra, da cui sarebbero
potute venire accuse, contestazioni e violenze, proprio mentre la vita politica italiana at-
traversava una fase piuttosto delicata e turbolenta. Pertanto, continuava a essere convinto
della necessità di giungere con gradualità a una soluzione globale, capace di risolvere il
problema territoriale e allo stesso tempo di arrecare sicuri vantaggi politici ed economici,
attraverso il rilancio dell’amicizia italo-jugoslava42.
Come era prevedibile, i colloqui si rivelarono piuttosto complessi e difficili, per l’im-
possibilità di superare in breve tempo incomprensioni e diffidenze causate da decenni di
contrasti e ostilità. Le conversazioni segrete proseguirono tra fasi alterne per quasi due
anni, fino all’autunno del 1970, quando – in data 21 novembre – i due incaricati conclu-
sero i loro lavori con una relazione, che faceva stato dei pochi punti d’intesa e dei molti
di divergenza tra le posizioni italiane e jugoslave. Il punto di maggior contrasto era rap-
presentato dalla pretesa italiana di legare il riconoscimento della sovranità jugoslava sulla
zona B a un corrispettivo politico e territoriale, che non fosse soltanto la restituzione delle
sacche create dalle truppe jugoslave nel 1947; per Belgrado, invece, esisteva un rapporto
di reciprocità tra il riconoscimento italiano per la zona B e quello jugoslavo per la zona A,
perché la non concessione del primo implicava la non concessione del secondo, rimettendo
in discussione l’appartenenza di Trieste all’Italia: in buona sostanza, se per Roma la linea di
demarcazione non era definitiva, allora nulla poteva essere considerato definitivo, neanche
l’italianità di Trieste. I rappresentanti jugoslavi fecero chiaramente intendere che la siste-
mazione giuridica dell’ex TLT non era un tema di esclusivo interesse jugoslavo, ma anche
italiano, perché un’ipotetica riesumazione di quanto previsto dal Trattato di pace avrebbe
comportato la rimessa in discussione dello status di entrambe le zone: per Belgrado il rico-
noscimento della sovranità jugoslava sulla zona B era ormai un semplice atto dichiarativo
del suo diritto e non costitutivo di esso, e non poteva essere portato a giustificazione o preso
a pretesto per la richiesta di eventuali contropartite43.
Le difficoltà e le complicazioni furono la conseguenza non solo della notevole distanza
tra la posizione italiana e quella jugoslava, ma di una non piena sintonia tra i diplomatici
italiani coinvolti nelle trattative. Secondo il direttore degli Affari Politici, Roberto Ducci
(già ambasciatore a Belgrado dal 1964 al 1967), bisognava accettare realisticamente la
situazione delineatasi dopo l’intesa del 1954 e formalizzare le frontiere di fatto ormai esi-
stenti, compresa la linea di demarcazione tra le zone A e B. Al contrario, Milesi Ferretti
(anche con il sostegno e il consenso del segretario generale degli Esteri, Roberto Gaja) rite-
42
Resoconto sommario dell’incontro fra Moro e l’ambasciatore jugoslavo, Prica, Roma, 12 dicembre 1970, in ACS, AAM,
b. 131, f. 61; Moro a Trabalza, Roma, 15 dicembre 1970, tel. n. 279, in Carte Ottone Mattei; Resoconto dell’incontro di Moro
con Tepavac, cit., in ACS, AAM, b. 147, f. 14.
43
Trabalza a Gaja, Belgrado 8 dicembre 1970, nota di servizio «segretissimo - precedenza assoluta», in ACS, AAM, b. 131,
f. 61; Tentativi di soluzione dei problemi pendenti con la Jugoslavia, appunto «segretissimo», cit.; Appunto “segretissimo”
per Moro del direttore generale degli Affari Politici, Roberto Ducci, cit., in Carte Ottone Mattei. Gli appunti e i resoconti di
Perišić si trovano in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 247.
42 Massimo Bucarelli
neva che il riconoscimento della sovranità jugoslava sulla zona B dovesse avere un «prez-
zo», individuato non solo nella restituzione delle sacche, ma soprattutto nell’ampliamento
verso sud della zona A e nello spostamento del confine marittimo del Golfo di Trieste, in
modo da attribuire alla città giuliana i due terzi del Golfo stesso44. Una diversità di vedute
e di impostazioni negoziali che non poté non influire sull’andamento delle trattative, con-
tribuendo a rendere ancora più difficile il raggiungimento dell’obiettivo finale, l’accordo
globale e definitivo tra Roma e Belgrado.
La conclusione – in verità non molto incoraggiante e positiva – delle conversazioni
esplorative fu seguita da una nuova crisi nelle relazioni italo-jugoslave, accompagnata da
polemiche politiche e propagandistiche. Tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre del
1970, infatti, le difficoltà negoziali furono acuite dalle resistenze degli esponenti politici
triestini e dalle forti critiche avanzate in Parlamento dai leader dell’estrema destra nei con-
fronti dell’operato del governo; critiche e resistenze dovute non solo all’annuncio della
visita in Italia di Tito (programmata per il 10 dicembre in restituzione della visita di Stato
effettuata da Saragat l’anno precedente)45, ma anche alla pubblicazione sulla stampa di al-
cune notizie relative ai contatti in corso tra i due governi (la cui segretezza, evidentemente,
iniziava a venir meno)46. Il 28 novembre, era apparso sul quotidiano di Roma, «Il Tempo»,
un articolo intitolato L’Italia rinuncerebbe alla Zona B di Trieste, nel quale, riportando
notizie definite «inquietanti» provenienti da ambienti diplomatici «ben informati», si an-
nunciava la possibile conclusione di un accordo per la cessione della zona B alla Jugoslavia
nel corso dell’imminente visita di Tito47. L’articolo provocò proteste e polemiche, culmi-
nate in una serie di interrogazioni parlamentari presentate da alcuni deputati e senatori del
MSI e della DC, con cui si chiedeva conto al governo delle «notizie circolanti in ambienti
diplomatici» e delle «voci apparse sulla stampa» su questioni inerenti la sovranità italiana
sulla zona B del mancato Territorio libero di Trieste48. In risposta alle interrogazioni, Moro
ribadì che durante la visita compiuta recentemente da lui e dal presidente Saragat in Ju-
goslavia non erano state affrontate le questioni territoriali ancora irrisolte e che lo stesso
sarebbe accaduto in occasione del viaggio di Tito in Italia; il responsabile della Farnesina,
poi, assicurò che l’esecutivo non avrebbe preso in considerazione «alcuna rinuncia ai legit-
timi interessi nazionali»49. Come è noto, quest’ultima frase suscitò un netto irrigidimento
da parte jugoslava, dando luogo a reazioni alquanto vivaci soprattutto in Slovenia e in
Croazia. Secondo quanto affermato dal ministro degli Esteri jugoslavo, Mirko Tepavac,
durante un colloquio con l’ambasciatore italiano, Folco Trabalza, le dichiarazioni di Moro
44
Appunto dattiloscritto, senza data (ma anni Novanta) in Carte Ottone Mattei. Anche: G. W. Maccotta, Osimo visto da
Belgrado, cit., pp. 57-58.
45
Appunto sul colloquio tra Vratuša e Trabalza, Belgrado, 11 agosto 1970, in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 247.
46
Rinvio della visita del Presidente Tito, appunto e documentazione allegata, in Carte Ottone Mattei. Anche: P. Nenni, I conti
con la storia, cit., pp. 541-543; G. Cavera, Gli accordi di Osimo e la crisi politica italiana, cit., pp. 24 ss.
47
L’Italia rinuncerebbe alla «zona B» di Trieste, in «Il Tempo», 28 ottobre 1970.
48
Rinvio della visita del Presidente Tito, cit., in Carte Ottone Mattei. Per le polemiche contro il governo da parte degli ambi-
enti di estrema destra, si vedano: La visita di Tito offende gli italiani; Vibrante adunata dei giuliano-dalmati contro la politica
rinunciataria del governo; L’Italia non dimentica la «zona B» di Trieste, in «Il Secolo», 2, 8 e 9 dicembre 1970. Anche: G.
Cavera, Gli accordi di Osimo e la crisi politica italiana, cit., pp. 24 ss.
49
La risposta di Moro è in: Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, V Legislatura, Risposte scritte a interrogazioni, vol.
V, seduta del 5 dicembre 1970, p. 2443.
La politica estera italiana e la soluzione della questione di Trieste: gli accordi di Osimo del 1975 43
furono considerate «lesive» degli interessi jugoslavi, perché erano state date in risposta a
un’interrogazione di «carattere specificamente irredentistico», dai cui contenuti e toni il go-
verno italiano aveva dimostrato di non voler prendere le distanze; motivo per cui, secondo
il governo di Belgrado, non esistevano più le condizioni «accettabili» per la venuta di Tito
in Italia50.
In realtà, dietro l’episodio della mancata visita del leader jugoslavo in Italia, si celava il
fallito tentativo da parte del regime di Belgrado di operare una forzatura nei contatti segreti
in corso. Nei colloqui preparatori del viaggio del presidente Tito, di fronte alla richiesta ju-
goslava di inserire le questioni confinarie tra gli argomenti di conversazione, sia Moro, che
Ducci avevano chiarito che l’ufficializzazione delle conversazioni esplorative non sarebbe
stata opportuna: le probabili reazioni della stampa e degli ambienti parlamentari induce-
vano i dirigenti italiani a mantenere un atteggiamento quanto mai prudente, nell’interesse
del successo dell’incontro; pertanto, sarebbe stato più opportuno continuare a mantenere
il massimo riserbo sulle conversazioni confidenziali già avviate e inserire nell’agenda del
viaggio presidenziale i problemi di politica internazionale che interessavano i due paesi51.
Nonostante l’impressione, da parte italiana, che i dirigenti jugoslavi avessero sostanzial-
mente recepito il punto di vista di Roma, nel novembre del 1970, nell’imminenza della
visita, i collaboratori di Tito tornarono a chiedere con insistenza l’inserimento del problema
territoriale nei temi di discussione. Il motivo per cui Belgrado sembrava voler tornare sui
propri passi era identico a quello addotto da Roma: le esigenze di politica interna. In un
doppio colloquio tra Ducci e Antun Vratuša, segretario aggiunto agli Esteri, svoltosi a Mi-
lano tra il pomeriggio del 30 novembre e la mattina del 1° dicembre alla presenza dell’am-
basciatore jugoslavo, Srdja Prica, i rappresentanti di Belgrado dissero di comprendere
perfettamente le numerose difficoltà interne del governo italiano (impegnato contempora-
neamente anche nella trattazione della questione altoatesina, «altro argomento del tutto im-
popolare»); tuttavia, non potevano non far presente che anche il governo jugoslavo doveva
fare i conti con la propria opinione pubblica, soprattutto di parte slovena e croata: a Lubiana
e a Zagabria, infatti, mal si comprendevano le esitazioni italiane e si iniziava a sospettare
che Roma avesse intenzione soltanto di «tirare il can per l’aia», senza voler effettivamente
concludere. Di fronte alle perduranti contestazioni bulgare per la questione macedone e
alle mai sopite pressioni albanesi per il problema del Kosovo, il regime di Belgrado, sotto
pressione anche per il riemergere di contrasti nazionali interni, voleva che almeno il con-
fine adriatico venisse formalmente riconosciuto, anche perché era stata proprio l’Italia a
dichiarare spontaneamente nel settembre del ’68 di essere interessata alla sopravvivenza,
all’integrità e alla prosperità della Federazione jugoslava. Per questo, pur essendo disposti
ad aspettare il momento più propizio per la soluzione definitiva della questione territoriale,
i rappresentanti di Belgrado avevano bisogno di «una qualche forma di assicurazione»,
con cui da parte italiana si ribadisse la non archiviazione del problema, accompagnata da
50
Trabalza a Moro, Belgrado, 8 dicembre 1970, tel. n. 1097, «Segretissimo - urgentissimo precedenza assoluta», in ACS,
AAM, b. 131, f. 61.
51
Appunto segreto sulle conversazioni tra Ducci e Pešić, sottosegretario agli Esteri jugoslavo, 10 settembre 1970 (sul quale
Moro annotò: «Sono d’accordo»); Moro a Saragat e Colombo, New York, 23 ottobre 1970, tel. n. 771 «Segreto», in Carte
Ottone Mattei.
44 Massimo Bucarelli
«qualche prova concreta di buona volontà». A tal fine, Vratuša e Prica illustrarono al diret-
tore degli Affari Politici due proposte: la prima prevedeva un impegno – che avrebbe potuto
essere preso dai due ministri degli Esteri durante la visita di Tito, attraverso uno scambio di
note verbali o promemoria – per la prosecuzione delle conversazioni segrete finalizzate alla
chiusura dei problemi confinari, premessa necessaria per qualsiasi soluzione globale delle
questioni bilaterali; invece la seconda concerneva l’eventuale decisione dei due governi
di studiare e predisporre, entro il 1971, una serie di misure atte a migliorare il benessere
delle popolazioni di frontiera. Al termine del duplice colloquio, Vratuša accennò anche
alla possibilità di concludere un trattato di amicizia e collaborazione, all’interno del quale
il governo italiano avrebbe potuto riconoscere «con adeguate formulazioni» lo status quo
territoriale esistente, senza giungere immediatamente alla stipulazione e alla registrazione
di uno strumento formale52.
Le stesse argomentazioni e le stesse proposte furono al centro di altri colloqui tra i rap-
presentanti jugoslavi e l’ambasciatore Trabalza, svoltisi all’inizio di dicembre53. La risposta
del governo di Roma, però, continuò ad essere sostanzialmente negativa, non andando
incontro alla principale richiesta jugoslava, vale a dire la rapida formalizzazione delle con-
versazioni confidenziali tra i due paesi in corso ormai da quasi due anni: da parte italiana,
infatti, si diede la piena disponibilità a continuare i contatti esplorativi tra gli esperti (che
eventualmente avrebbero potuto essere affiancati anche dagli ambasciatori a Roma e a
Belgrado) e a prendere in considerazione lo studio di quei provvedimenti applicabili anche
prima dell’accordo finale, ma solo dopo la conclusione del viaggio del presidente Tito.
Durante la visita presidenziale, invece, la disponibilità italiana non sarebbe andata oltre
«l’ascoltare con doverosa cortesia» il punto di vista jugoslavo in merito alle varie questioni
pendenti54.
Fu, quindi, l’indisponibilità italiana a provocare l’irrigidimento dei dirigenti jugoslavi,
che approfittarono della risposta data da Moro in Parlamento per tirarsi fuori dalla situazio-
ne d’impaccio in cui si erano messi: bisognosi di un successo internazionale in una questio-
ne particolarmente sentita dalle popolazioni slovene e croate (quelle stesse popolazioni che
sembravano voler mettere in discussione l’assetto interno del regime jugoslavo, chiedendo
maggiore autonomia e l’attuazione di riforme liberali e democratiche), i rappresentanti di
Belgrado avevano tentato di forzare i tempi e i modi del negoziato con Roma, subordinan-
do la visita di Tito a condizioni che non erano state menzionate nel momento in cui l’invito
stesso era stato accettato. Probabilmente, il rinvio della visita sembrò al governo di Bel-
grado la migliore via d’uscita non tanto per sottrarsi a un insuccesso diplomatico, quanto
per evitare ulteriori complicazioni interne, riaffermando la ferma difesa degli interessi di
sloveni e croati, sentitisi minacciati dalle affermazioni di Moro.
52
Appunto «segretissimo» per Moro del direttore generale degli Affari Politici, Roberto Ducci, cit., in Carte Ottone Mattei.
Anche: S. Mišić, Poseta Josip Broz Tita Italij 1971. Godine, in Tito – viđenja i tumačenja. Zbornik radova, Belgrado, Institut
za Noviju Istoriju Srbije e Arhiv Jugoslavije, 2011, pp. 508-512.
53
Trabalza a Moro, Belgrado, 4 dicembre 1970, tel. n. 1076 «Segretissimo», in Carte Ottone Mattei; Trabalza a Gaja, Bel-
grado 8 dicembre 1970, cit., in ACS, AAM, b. 131, f. 61.
54
Moro a Trabalza, Roma, 5 dicembre 1970, tel. n. 265 «Segretissimo», in Carte Ottone Mattei; Moro a Trabalza, Roma, 8
dicembre 1970, nota di servizio «Segretissimo – urgentissimo» in ACS, AAM, b. 131, f. 61.
La politica estera italiana e la soluzione della questione di Trieste: gli accordi di Osimo del 1975 45
55
Sugli sviluppi della crisi: Trabalza a Moro, Belgrado, 8 dicembre 1970, tel. n. 1097, cit.; Messaggio di Moro a Tepavac,
Roma, 9 dicembre 1970 in ACS, AAM, b. 131, f. 61; Trabalza a Moro, Belgrado, 9 dicembre 1970, tel. n. 1107, «Segretis-
simo»; Tepavac a Moro, Belgrado, 12 dicembre 1970, Lettera personale, in Carte Ottone Mattei.
56
Resoconto sommario dell’incontro fra Moro e l’ambasciatore jugoslavo, Prica, cit., in ACS, AAM, b. 131, fasc. 61; Prica
aTepavac, lettera «Visto da Tito», Roma, 9 dicembre 1970, in AJ, APR, KPR (I-2-48), b. 90.
57
Si veda la documentazione per la preparazione delle dichiarazioni in: Rinvio della visita del Presidente Tito, cit., in Carte
Ottone Mattei. Anche: Appunto sul colloquio tra Tepavac e Trabalza, «Segreto – Visto da Tito», Belgrado 24 e 30 dicembre
1970, in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 247; Appunto sul colloquio tra Tepavac e Trabalza, «Segreto – Visto da Tito», Belgrado 8
gennaio 1971, ivi b. 248. Inoltre: S. Mišić, Poseta Josip Broz, cit. pp. 515 ss.
46 Massimo Bucarelli
58
Resoconto dell’incontro di Moro con Tepavac, «Segreto», Venezia, 9 febbraio 1971, in ACS, AAM, b. 147, f. 14; Appunto
sul colloquio tra Tepavac e Moro, «Strettamente segreto», Venezia 9 febbraio 1971, in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 248. Il testo
del comunicato ufficiale diramato alla fine dell’incontro è in: Rinvio della visita del Presidente Tito, cit., in Carte Ottone
Mattei.
59
Sulla visita di Tito in Italia del 25 e 26 marzo 1971, si veda la documentazione in: ACS, AAM, b. 133, f. 74. Anche: Anche:
P. Nenni, I conti con la storia, cit., p. 578; G. Cavera, Gli accordi di Osimo e la crisi politica italiana, cit., pp. 29 ss.
60
Trabalza a Moro, Belgrado, 23 febbraio 1971, tel. n. 220 «Segretissimo»; Gaja a Trabalza, Roma, 10 marzo 1971, nota di
servizio «Segretissimo»; Moro a Trabalza, Roma, 10 marzo 1971, in Carte Ottone Mattei.
61
Appunto sul colloquio tra Vratuša e Tito, «Strettamente segreto», Belgrado 12 marzo 1971; Appunto sul colloquio tra
Mandić e Brigante Colonna, «Visto da Tito», Belgrado 11 marzo 1971, in AJ, APR, KPR (I-2-48), b. 90; Trabalza a Moro,
Belgrado, 12 marzo 1971, tel. n. 290 «Segretissimo», in Carte Ottone Mattei.
62
Appunto sul colloquio tra Tito e Saragat, Roma 25 e 26 marzo 1971, in AJ, APR, KPR (I-2-48), b. 90.
La politica estera italiana e la soluzione della questione di Trieste: gli accordi di Osimo del 1975 47
Il viaggio di Tito fu senza dubbio un fatto estremamente positivo, soprattutto alla luce di
quanto era accaduto in dicembre. Tuttavia, l’impressione derivante dalla rinnovata amicizia
italo-jugoslava era quella di due realtà politiche deboli e instabili, che avevano bisogno di
reciproche concessioni per poter sopravvivere. Attraversati entrambi da profonde divisioni
interne e turbati da gravi crisi politiche (di tipo etnico e nazionale in Jugoslavia, di carattere
economico e sociale in Italia), i due paesi sembravano quasi volersi puntellare a vicenda o
addirittura, in alcuni casi, rafforzarsi a spese dell’altro. Tito e i suoi collaboratori preme-
vano per la rapida chiusura della questione territoriale, attraverso la spartizione del TLT,
nella speranza di riconquistare il consenso sloveno e croato, sempre più incerto e oscillante.
Moro, insieme a quanti ne condividevano il disegno politico di apertura nei confronti dei
comunisti italiani, vedeva nella stretta collaborazione con la Jugoslavia, paese socialista,
ma non allineato, un possibile terreno d’intesa per la creazione di un rapporto stabile e
duraturo tra la DC e il PCI, unica via d’uscita per superare la fase di estrema instabilità po-
litica e di forte contrapposizione sociale vissuta dal paese in quegli anni; esaurita l’azione
del centro-sinistra organico, basato sulla collaborazione tra democristiani e socialisti, per
Moro era necessario allargare l’area di governo, cooptando progressivamente i comunisti
italiani e dando vita alla stagione della «non sfiducia» e della «solidarietà nazionale»; in
quest’ottica, la collaborazione con Belgrado avrebbe potuto rappresentare uno dei banchi
di prova (certamente non l’unico) per verificare la tenuta di una possibile intesa tra i due
maggiori partiti italiani; un obiettivo, però, assai difficile da raggiungere per la presenza di
un’estrema destra molto sensibile e attenta ai temi di Trieste e del confine orientale, e per le
forti resistenze politiche locali, anche all’interno della stessa DC triestina; da qui, l’esigen-
za – esattamente opposta a quella del regime di Belgrado – di andare avanti gradualmente
e senza clamori, nella speranza di trovare una soluzione globale, in grado di convincere
l’opinione pubblica dell’importanza dell’amicizia e della collaborazione tra i due popoli
anche a costo di qualche sacrificio63.
Nonostante le positive premesse poste a Venezia e confermate a Roma, nel corso della
visita di Tito, i lavori del «gruppo a quattro» voluto da Moro e Tepavac si trascinarono per
molti mesi, senza riuscire a trovare un’intesa né per i pacchetti di rapida attuazione, né per
la soluzione globale delle controversia italo-jugoslava.
Le riunioni del «gruppo a quattro», inframmezzate da incontri preparatori tra Milesi
Ferretti e Perišić, ebbero luogo tra il marzo del 1971 e il gennaio 1973, in un periodo
di estrema instabilità governativa in Italia, sottolineata dalla formazione di tre esecutivi
nell’arco di 18 mesi e dallo svolgimento nel maggio del 1972 di elezioni politiche antici-
pate, e di gravi tensioni nazionali in Jugoslavia, culminate con l’epurazione di numerosi
dirigenti comunisti, croati, sloveni e serbi, perché incapaci di attuare le riforme senza im-
63
R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare, cit., pp. 211 ss.; L. Monzali, La questione jugoslava, cit., pp. 54-55; G. Cavera, Gli
accordi di Osimo e la crisi politica italiana, cit., pp. 29 ss.
48 Massimo Bucarelli
pedire il riemergere delle rivalità etniche. Dopo un inizio positivo, durante il quale furono
concordati due «pacchetti» di misure riguardanti il settore di Gorizia, le conversazioni non
portarono ad alcun risultato concreto, perché il governo jugoslavo non diede la propria
approvazione alle poche misure di immediata attuazione predisposte dagli esperti. Al di là
delle dichiarazioni di principio sulla necessità di dialogare e collaborare per la soluzione
delle questioni pendenti, i punti di contrasto erano rimasti sostanzialmente immutati: da
parte jugoslava, si insisteva affinché la nuova intesa avesse decorrenza dalla data di entrata
in vigore del Trattato di pace del 1947, per ottenere l’implicito riconoscimento della legitti-
mità dell’annessione de facto della zona B ed eliminare, così, ogni pretesa italiana ad avere
eventuali contropartite sulla base di un «titolo residuale negoziale»; la soluzione proposta
da Belgrado non solo avrebbe escluso la zona B dal negoziato, ma avrebbe influito sulla
liquidazione di eventuali indennizzi per i beni perduti dagli italiani, che sarebbero stati
valutati al valore del 10 giugno 1940. Da parte italiana, invece, in particolare da parte di
Milesi Ferretti, si premeva per far decorrere le intese dalla data di entrata in vigore del fu-
turo trattato; in questo modo, gli indennizzi si sarebbero rivalutati e soprattutto si sarebbero
poste le basi per poter esigere un «prezzo» per la zona B, in termini politici, economici e,
secondo Milesi Ferretti, anche territoriali. Il contrasto tra le posizioni italiane e quelle jugo-
slave venne ulteriormente aggravato anche dal problema delle minoranze slovene al di fuo-
ri del TLT; la questione, sollevata a più riprese dagli jugoslavi, che chiedevano strumenti
di tutela e protezione per quelle popolazioni, incontrò la decisa opposizione dei negoziatori
italiani, contrari a concedere a Lubiana la possibilità di allargare la propria influenza presso
le comunità slovene di Gorizia, di Udine e delle Valli del Natisone. L’ultimo serio punto di
divergenza era costituito dalla delimitazione delle acque territoriali del Golfo Trieste, che –
come sappiamo – Milesi Ferretti intendeva attribuire per due terzi alla città giuliana. Vista
la non disponibilità di entrambe le parti a fare passi indietro, soprattutto sul primo punto, si
giunse inevitabilmente al muro contro muro e all’interruzione degli incontri64.
L’iniziativa venne ripresa dal secondo governo Andreotti, con il ritorno di Giuseppe
Medici alla Farnesina. Nell’incontro del 19 e 20 marzo 1973 a Dubrovnik, Medici e il
nuovo ministro degli Esteri jugoslavo, Miloš Minić, concordarono di rilanciare il dialogo
bilaterale, dando vita ad un vero e proprio negoziato, «segreto e possibilmente rapido»,
sulla base di un’apposita «piattaforma negoziale», che confermava in gran parte i 18 punti
della proposta italiana del 196865. Consapevoli delle difficoltà negoziali, ma determinati a
chiudere il lungo contenzioso territoriale, i due ministri degli Esteri, durante un colloquio
riservato tenutosi a margine degli incontri ufficiali, stabilirono che, in caso di ennesima
64
Relazione sui tre incontri, tenutisi a Belgrado il 5 e il 6 giugno 1971, tra Prica e Maccotta alla presenza di Perišić e Milesi
Ferretti, «Strettamente segreto», Belgrado 6 giugno 1971; Appunto su alcune questioni relative ai rapporti italo-jugoslavi,
«Strettamente segreto – Visto da Tito», Belgrado, 8 settembre 1971, in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 248; Tentativi di soluzione
dei problemi pendenti con la Jugoslavia, cit., in Carte Ottone Mattei; Quadro sinottico delle tappe più significative nelle
trattative italo-jugoslave, cit., ivi; Volpe a Kissinger, Roma, 22 marzo 1973, tel. n. 2256 «Confidential», in NARA, Nixon
Papers, NSC, CO, Europe - Italy, Box. 696.
65
Promemoria sui colloqui tra Minić e Medici del 19 e 20 marzo 1973, «Visto da Tito», Dubrovnik 20 marzo 1973, in AJ,
APR, KPR (I-5-B), b. 248; Tentativi di soluzione dei problemi pendenti con la Jugoslavia, cit., in Carte Ottone Mattei;
Quadro sinottico delle tappe più significative nelle trattative italo-jugoslave, cit., ivi; Volpe a Kissinger, Roma, 22 marzo
1973, cit., in NARA, Nixon Papers, NSC, CO, Europe - Italy, Box. 696. Anche: G. W. Maccotta, Osimo visto da Belgrado,
cit., p. 58; V. Škorjanec, Osimska pogajanja, Koper, Založba Annales, 2007, pp. 49-50.
La politica estera italiana e la soluzione della questione di Trieste: gli accordi di Osimo del 1975 49
rottura della trattativa, si sarebbe attivato un «canale segreto», rappresentato da due tecnici:
il direttore generale del ministero dell’Industria, Eugenio Carbone, e il presidente del Co-
mitato federale per i rapporti economici, lo sloveno Boris Šnuderl66.
L’incarico di condurre le trattative a livello ufficiale venne affidato ancora una volta a
Milesi Ferretti e Perišić, elevati al ruolo di plenipotenziari e non più semplici esperti impe-
gnati in conversazioni esplorative. Il negoziato, iniziato nell’aprile del 1973 e avallato – dal
luglio 1973 – anche dal successivo governo Rumor-Moro, ben presto si arrestò. Fin dai
primi contatti fu subito chiaro che la divergenza tra la posizione italiana e quella jugoslava
continuava ad essere netta. Da parte italiana venne presentato un «pacchetto globale» per
la soluzione di tutti i punti controversi, con l’indicazione che esso non costituiva il punto
di partenza, ma il limite massimo delle concessioni italiane. Il testo prevedeva la restitu-
zione pressoché integrale, ad eccezione di alcune lievi modifiche, delle sacche di territorio
occupate abusivamente dagli jugoslavi nel 1947, con l’aggiunta di una correzione a favo-
re dell’Italia della linea prevista dal Trattato di pace lungo le rive dell’Isonzo nei pressi
del Monte Sabotino, per favorire la creazione di un bacino idrico; l’ufficializzazione della
spartizione del TLT, con la richiesta di poter usufruire di un’area di 10 km2, in corrispon-
denza della Val Rosandra e del Vallone dell’Ospo, per consentire l’allargamento della zona
industriale di Trieste e per il reperimento delle risorse idriche; la ripartizione delle acque
territoriali del Golfo di Trieste, attribuendo in esclusiva a ciascuna delle parti una fascia
di tre miglia lungo le rispettive coste e istituendo una sorta di condominio italo-jugoslavo
per il restante tratto di mare; la nomina di delegazioni ad hoc per la conclusione, nel più
breve tempo possibile, di un accordo relativo ai beni italiani in zona B, con cui si sarebbe
dovuto assicurare «la libera e permanente disponibilità di un congruo ed equo indenniz-
zo», per quei beni la cui titolarità sarebbe stata persa o era già stata persa dai proprietari;
l’affitto di una striscia territoriale della zona B, da destinare all’allargamento dell’area in-
dustriale triestina e, infine, un accordo per la cooperazione interportuale67. Nel successivo
incontro del maggio 1973, gli jugoslavi risposero con un controprogetto, che non solo non
teneva conto del documento italiano, ma rappresentava anche un sensibile passo indietro
rispetto ai negoziati precedenti: nel documento jugoslavo venivano eliminati, sia sul piano
territoriale che su quello marittimo, alcuni vantaggi per Gorizia e Trieste che, seppur mi-
nimi, avrebbero potuto giustificare la conclusione di un accordo comportante la definitiva
rinuncia italiana alla zona B; inoltre, da parte di Belgrado si pretendeva l’istituzione di
una Commissione mista incaricata di occuparsi del problema delle minoranze; in questo
modo, si sarebbe introdotto un droit de regard, in assoluto contrasto con quanto stabilito dai
ministri Medici e Minić nell’incontro di Dubrovnik, nel corso del quale avevano concor-
dato sull’opportunità di limitarsi a fare «dichiarazioni solenni» sull’argomento, lasciando
a ciascun governo il compito di legiferare e agire unilateralmente sul piano interno. Alla
controproposta di Belgrado seguì una reazione assolutamente negativa da parte italiana;
nell’ultimo incontro del dicembre 1973, Milesi Ferretti sottolineò il carattere radicalmente
66
Tentativi di soluzione dei problemi pendenti con la Jugoslavia, cit., in Carte Ottone Mattei. Anche: V. Škorjanec, Osimska,
cit., pp. 50 ss.
67
Relazione di Perišić a Minić sui colloqui con Milesi Ferretti, «Visto da Tito», Belgrado 16 aprile 1973, in AJ, APR, KPR
(I-5-B), b. 248.Tentativi di soluzione dei problemi pendenti con la Jugoslavia, cit., in Carte Ottone Mattei.
50 Massimo Bucarelli
diverso dei due testi: quello italiano era stato concepito come punto d’arrivo, allo scopo
di evitare lunghe ed estenuanti trattative caratterizzate da «graduali cedimenti reciproci»;
quello jugoslavo, invece, era chiaramente una piattaforma iniziale, per cui, se ad essa fosse
stata contrapposta una analoga base di partenza italiana, sarebbero stati necessari anni di
negoziato per addivenire a un accordo68. Nonostante l’ambasciatore italiano ribadisse la as-
soluta «buona volontà» del governo di Roma di raggiungere un’equa soluzione (iniziativa a
cui fece seguito qualche giorno dopo, il 9 gennaio del 1974, un’uguale assicurazione forni-
ta al nuovo ambasciatore jugoslavo a Roma, Pavičević, da Moro, tornato alla Farnesina nel
quarto governo Rumor)69, era chiaro che le trattative avevano raggiunto una nuova battuta
d’arresto, rendendo sempre più evidente l’enorme difficoltà di concludere un negoziato,
che in sei anni – dal 1968 al 1974 – non aveva fatto un solo concreto passo in avanti nella
soluzione del lungo contenzioso italo-jugoslavo70.
L’ennesimo insuccesso negoziale diede vita, nella primavera del ’74, a nuove polemi-
che alimentate dalla decisione delle autorità jugoslave di forzare lo stallo raggiunto dalle
trattative apponendo la scritta «Repubblica federativa socialista di Jugoslavia – Repubblica
socialista federativa di Slovenia – Confine di Stato», nei punti di transito tra la zona A e la
zona B. Il negoziato andava avanti ormai da parecchi anni e in Jugoslavia era sempre più
diffusa la sensazione che da parte italiana si perseguisse un fine esclusivamente dilatorio,
in attesa di un momento favorevole, quale l’indebolimento interno del regime di Belgrado
o un fatto internazionale, come l’invasione della Cecoslovacchia, per riprendere l’intera
zona B. Da qui la decisione del governo di Belgrado di sbloccare la situazione con un fatto
compiuto, per spingere l’ONU e le potenze firmatarie del Memorandum d’intesa a chiedere
ai governi italiano e jugoslavo di chiudere la vertenza «con senso realistico»; il che, per
Belgrado, significava sulla base dello status quo in atto dal 1954, tanto più che erano in
corso i lavori della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, tra i cui principi
ispiratori figurava anche il rispetto dell’integrità territoriale degli Stati e dell’inviolabilità
delle loro frontiere71.
Il governo italiano rispose al fatto compiuto attuato da Belgrado con una nota del mini-
stero degli Esteri, redatta in termini piuttosto severi, in cui, oltre a protestare per l’arbitra-
rio cambio di status della linea di demarcazione, si aggiungeva – erroneamente – che tale
linea divideva un territorio sotto sovranità italiana, anziché zone sotto amministrazione
civile provvisoria. Nonostante il tentativo italiano di alleggerire in extremis il contenuto
della nota sostituendola con una protesta verbale di portata più blanda, l’effetto presso gli
ambienti di governo jugoslavi fu deleterio: il gesto venne interpretato come la conferma
dei sospetti che si avevano nei confronti delle reali intenzioni italiane e rappresentava un
68
Tentativi di soluzione dei problemi pendenti con la Jugoslavia, cit., in Carte Ottone Mattei; Volpe a Kissinger, Roma, 10
maggio 1973, tel. n. 3703 «Confidential», in NARA, Nixon Papers, NSC, CO, Europe - Italy, b. 696.
69
Appunto sul colloquio tra Pavičević e Moro, «Strettamente segreto – Visto da Tito», Roma 9 gennaio 1974, in AJ, APR,
KPR (I-5-B), b. 248.
70
Tentativi di soluzione dei problemi pendenti con la Jugoslavia, cit., in Carte Ottone Mattei; Quadro sinottico delle tappe più
significative nelle trattative italo-jugoslave, cit., ivi. Anche: V. Škorjanec, Jugoslovansko-Italijanska pogajanja o dokončnosti
meje, in Tokovi Historije, 2007, nn. 1-2, pp. 233 ss.
71
Carbone a Moro, Roma, 15 dicembre 1974, relazione «Segretissimo», in Carte Ottone Mattei. Anche: G. W. Maccotta,
Osimo visto da Belgrado, cit., p. 61.
La politica estera italiana e la soluzione della questione di Trieste: gli accordi di Osimo del 1975 51
vero e proprio passo indietro rispetto alle assicurazioni date sulla non modificabilità della
situazione di fatto esistente nell’ex TLT. Le relazioni bilaterali subirono, inevitabilmente,
un brusco peggioramento, sottolineato soprattutto in Jugoslavia da dichiarazioni polemiche
e interventi pubblici (come quello di Tito del 15 aprile a Sarajevo contro le rivendicazioni
italiane e in difesa della sovranità jugoslava sulla zona B)72, che, a un certo punto, parvero
assumere i toni e i contenuti di una vera e propria campagna anti-italiana, culminata con il
concentramento di truppe jugoslave alla frontiera con l’Italia73.
Per poter superare la situazione piuttosto critica venutasi a determinare nei rapporti
italo-jugoslavi e riannodare il filo della trattativa, fu necessario che si attivasse il canale
informale previsto a Dubrovnik da Medici e Minić, proprio come «linea di sblocco e di si-
curezza» in caso di fallimento dei negoziati ufficiali. Le trattative segrete ebbero inizio nel
luglio del 1974 in una località del tutto isolata nei pressi dell’aeroporto di Lubiana. Šnuderl
e Carbone, esperti di questioni economiche, furono assistiti da diplomatici di carriera: il
primo, da due ex membri dell’ambasciata jugoslava a Roma, il ministro Ratko Močivnik
e il consigliere d’ambasciata Veselin Popovac; il secondo, dal consigliere di legazione Ot-
tone Mattei, di origine fiumana, esperto di questioni adriatiche e balcaniche e conoscitore
del serbo-croato74. Fu subito chiaro che la distanza iniziale tra le posizioni italiane e quelle
jugoslave non era certo diminuita: Carbone era stato autorizzato a trattare sulla base di
quanto era stato stabilito negli incontri di Venezia del 1971 e di Dubrovnik del 1973 (resti-
tuzione delle sacche e richiesta di concessioni politico-economiche in cambio della zona
B); Šnuderl, invece, avrebbe dovuto procedere tenendo conto della situazione confinaria
esistente e avendo in mente le dichiarazioni di Tito relative alla non negoziabilità della
sovranità jugoslava sulla zona B, ma soprattutto si sarebbe dovuto rifiutare di tornare ai 18
punti e alla piattaforma di Dubrovnik, come chiesto dall’Italia75. Nonostante le premesse
non fossero incoraggianti – come, del resto, non lo erano state in tutti i precedenti tentati-
vi – i negoziati si conclusero il 21 novembre del 1974, con il raggiungimento di un’intesa
complessiva su tutti i punti oggetto del contenzioso e con la stesura di una bozza di trattato
e di accordo economico76. La chiusura della vertenza fu possibile perché il governo italia-
no non avanzò più richieste di tipo territoriale nella zona B (anche se minime e simboli-
che), limitandosi a insistere per contropartite di ordine economico e commerciale; dopo i
72
V. Škorjanec, Jugoslovansko-Italijanska pogajanja, cit., pp. 236-237.
73
Appunto dattiloscritto, cit., in Carte Ottone Mattei. Anche: G. W. Maccotta, Osimo visto da Belgrado, cit., pp. 59-62. Nella
primavera del 1974, si svolsero anche delle manovre navali della NATO nell’Adriatico; si trattava di operazioni, che pur
non avendo alcun collegamento con la crisi in corso tra Roma e Belgrado, essendo state decise e programmate da tempo,
non poterono non contribuire ad alimentare il clima di tensione tra Roma e Belgrado; su questo: Kissinger a Volpe e Toon,
Washington, 25 aprile 1974, tel. n. 086711 «Secret», in NARA, Nixon Papers, NSC, CO, Europe - Italy, Box. 696; E. Ortona,
Anni d’ America, vol. III, La cooperazione: 1967-1975, Il Mulino, Bologna 1989, p. 494.
74
Promemoria sui negoziati in corso per la soluzione delle questioni pendenti tra Jugoslavia e Italia, «Visto da Tito», Bel-
grado 17 ottobre 1974, in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 248.; Appunto dattiloscritto, cit., in Carte Ottone Mattei. Anche: G. W.
Maccotta, Osimo visto da Belgrado, cit., pp. 63-64; V. Škorjanec, Osimska, cit., pp. 83 ss., che, ad oggi, è la ricostruzione più
analitica e puntuale dell’ultima fase delle trattative.
75
Promemoria sui negoziati in corso, cit., in AJ, APR, KPR (I-5-B), b. 248; Tentativi di soluzione dei problemi pendenti con
la Jugoslavia, cit., in Carte Ottone Mattei;. Quadro sinottico delle soluzioni previste per il contenzioso italo-jugoslavo, cit.,
ivi.
76
Relazione sui negoziati con l’Italia per i confini e altre questioni, «Visto da Tito», Belgrado 25 novembre 1974, allegata a
Minić a Tito, lettera «Strettamente segreto – Segreto di Stato – Visto da Tito», Belgrado 3 dicembre 1974, in AJ, APR, KPR
(I-5-B), b. 248; Carbone a Moro, Roma, 15 dicembre 1974, cit., in Carte Ottone Mattei.
52 Massimo Bucarelli
fallimenti delle precedenti esperienze negoziali, condotte per la maggior parte da Milesi
Ferretti, all’interno della Farnesina prevalse la linea di Ducci, favorevole alla formalizza-
zione sic et simpliciter della spartizione del mai nato TLT, nella convinzione che il rilancio
dell’amicizia italo-jugoslava potesse portare vantaggi politici ed economici maggiori. La
«proposta globale» di accordo messa a punto da Šnuderl e Carbone prevedeva: la restitu-
zione all’Italia delle sacche occupate abusivamente dalla truppe jugoslave o, in alternativa,
lo scambio di aree equivalenti; la spartizione del Territorio libero di Trieste lungo la linea
di demarcazione fissata dal Memorandum d’intesa del 1954, che in questo modo diventava
confine di Stato, con l’impegno da parte jugoslava a mettere a disposizione dell’industria
triestina le risorse idriche della Val Rosandra e del Vallone dell’Ospo, insieme a un’area
di 14 km2 da adibire a zona franca per l’espansione industriale di Trieste; la ripartizione
delle acque territoriali del Golfo di Trieste nel rispetto delle norme della Convenzione
di Ginevra, attribuendo all’Italia una fascia di acque profonde per il libero transito delle
superpetroliere; la decadenza del Memorandum del 1954 e dei suoi allegati, mantenendo,
nella sola provincia di Trieste e nella zona B, un livello di tutela dei rispettivi gruppi etnici
analogo a quello previsto dello Statuto speciale per le minoranze; l’indennizzo forfetario
e considerato equo dalle due parti per tutti i beni confiscati dal 1945 fino alla data in cui
sarebbe terminata la possibilità per i pertinenti della zona B di optare per l’Italia; il man-
tenimento nella disponibilità dei legittimi proprietari di un certo numero di proprietà, che
sarebbe stato fissato con «benevolenza»; la conclusione di un accordo per la cooperazione
economica in numerosi settori d’intervento (materie prime, risorse idriche ed energetiche,
attività cantieristiche, collaborazione agricola, turistica e interportuale)77.
Era la realizzazione di una zona industriale franca, situata sul Carso a nord-est di Trie-
ste, tra Basovizza, Opicina e Sesana, ed estesa per lo più in territorio jugoslavo, ma sotto-
posta al regime delle merci dei punti franchi di Trieste, la reale contropartita individuata da
Carbone per la popolazione italiana locale, che – a suo dire – avrebbe potuto trarre un gran-
de vantaggio da una simile opportunità. In una lunga relazione a Moro del dicembre 1974,
a commento dell’intesa raggiunta, il direttore generale del ministero dell’Industria faceva
presente che, per apprezzare adeguatamente il valore della soluzione proposta, occorreva
tener presente che il principale obiettivo da raggiungere era assicurare l’avvenire econo-
mico di Trieste. Per Carbone, al di là delle questioni territoriali, era la vita del territorio
triestino che bisognava salvaguardare: «Trieste ha un significato economico, oggi ancor più
di ieri, – spiegava il funzionario italiano – solo se può costituire la base del traffico e della
trasformazione primaria delle merci destinate all’Europa centrale e dell’Est e, meglio anco-
ra, se anche punto di partenza per l’Oriente»78. Per costituire un centro «socio-economico»
di vasta portata – asseriva Carbone – non poteva bastare il semplice allargamento della
«ristretta attività locale»; pertanto, non poteva essere sufficiente la disponibilità di territori
molto ristretti come la Val Rosandra e la Valle d’Ospo, cui si era fatto riferimento nelle
prime fasi dei negoziati. Dopo un più attento esame, attraverso sopralluoghi e prospezioni
77
Carbone a Moro, Roma, 15 dicembre 1974, cit., ivi; Quadro sinottico delle soluzioni previste per il contenzioso italo-
jugoslavo, cit., ivi.
78
Carbone a Moro, Roma, 15 dicembre 1974, cit., ivi.
La politica estera italiana e la soluzione della questione di Trieste: gli accordi di Osimo del 1975 53
aeree, le due zone a sud di Trieste erano state considerate da entrambe le parti del tutto ina-
datte all’insediamento di una vasta area industriale. Nelle considerazioni del direttore ge-
nerale del ministero dell’Industria, la creazione di un grande distretto produttivo era di fon-
damentale importanza per convogliare le principali attività industriali delle zone più ricche
della Jugoslavia (situate soprattutto in Slovenia) verso il porto Trieste ed eliminare così, sul
nascere, la potenziale concorrenza di Capodistria e Fiume (possibile capolinea dell’idro-
via che avrebbe dovuto collegare l’Adriatico al Danubio e al Mar Nero). La rinascita di
Trieste, come terminale commerciale di un ampio bacino industriale, avrebbe permesso di
rilanciare le attività portuali e di intercettare la ripresa dei traffici mediterranei con l’Africa
e l’Oriente, seguita alla riapertura del Canale di Suez. Insomma – secondo Carbone – per
far ripartire l’economia triestina, bisognava portare a ridosso di Trieste le industrie italiane
e jugoslave, unico modo per obbligare gli jugoslavi e quanti commerciavano attraverso la
Jugoslavia con l’Europa danubiana e balcanica, a fare base esclusivamente nell’area della
città giuliana, per il traffico terrestre, marittimo e idroviario79.
Dopo una serie di aggiustamenti al testo proposto da Šnuderl e Carbone (per i quali,
comunque, furono necessari molti altri mesi), il negoziato giunse definitivamente a con-
clusione portando, pur tra numerose difficoltà, alla stesura definitiva degli accordi firmati
a Osimo, il 10 novembre 1975, da Minić e da Rumor, ministro degli Esteri del quarto
governo Moro. Con essi, quindi, si dava soluzione a tre questioni chiave: la sistemazione
della frontiera italo-jugoslava, il miglioramento dei rapporti bilaterali e il trattamento delle
rispettive minoranze nazionali dell’ex TLT. Roma e Belgrado riconoscevano de iure l’as-
setto territoriale del 1954, rendendo definitivo il confine tra le zone A e B. I rappresentanti
dei due paesi dichiaravano di voler migliorare i rapporti di vicinato con un «salto di qua-
lità nella collaborazione economica e culturale», decidendo una zona franca che avrebbe
potuto favorire un eventuale inserimento della Jugoslavia nel Mercato comune europeo e
dell’Italia nello spazio economico dell’Europa balcanica e orientale. I due governi, infine,
si impegnavano a mantenere il livello di protezione delle rispettive minoranze nazionali
nelle ex zone A e B previsto dalle norme dello Statuto speciale allegato al Memorandum
di Londra, il cui contenuto complessivo, in virtù del nuovo accordo, era destinato a deca-
dere80.
Il 1° ottobre del 1975, Moro, nel presentare gli accordi in Parlamento, sottolineò le
ragioni che avevano spinto i dirigenti italiani a cercare la nuova intesa con Belgrado fin
dalla seconda metà degli anni Sessanta. Dopo aver precisato che la decisione era stata
presa «guardando insieme agli interessi nazionali ed alle esigenze della vita internaziona-
le», il leader democristiano ribadì uno per uno i motivi dell’accordo: il carattere definiti-
vo e immodificabile dell’assetto territoriale stabilito nel ’54; le contropartite di carattere
economico-sociale, soprattutto a vantaggio delle popolazioni delle zone di confine, ma
anche, in qualche misura, di natura territoriale, con l’evacuazione delle sacche occupate
dalle truppe jugoslave da quasi trent’anni; la definitiva attribuzione all’Italia di Trieste e
della zona A, senza che future evoluzioni della politica internazionale potessero rimetterne
79
Ibidem.
80
Il testo degli accordi è in: M. Udina, Gli accordi di Osimo, cit., pp. 83 ss.
54 Massimo Bucarelli
81
L’intervento di Moro è in: Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, VI Legislatura, Discussioni, vol. 401, seduta pomeridi-
ana del 1° ottobre 1975, pp. 23609 ss.
82
G. W. Maccotta, Osimo visto da Belgrado, cit., p. 66; R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare, cit., pp. 217-218; C. Belci,
Trieste. Memoria di trent’anni (1945-1975), Morcelliana, Brescia 1990, pp. 161 ss.
«Qualestoria» n. 2 - dicembre 2013
di Saša Mišić
The relations between Yugoslavia and Italy after the World War II passed through numerous
phases and changes. The Treaty of peace of Paris (1947) and the Memorandum of understan-
ding of London (1954) did not solve all issues between the two states. On the contrary, they
left open a set of problems which waited to be solved in the coming period. The present essay
describes the different phases of relations between Yugoslavia and Italy which led to the Treaty
of Osimo in 1974, from yugoslavian point of view.
Le relazioni tra Jugoslavia e Italia dopo la Seconda guerra mondiale hanno attraversato
numerosi cambiamenti e fasi. Il dopoguerra fu contraddistinto da crisi e disaccordi incen-
trati sulla questione del confine e sulla soluzione da dare ai problemi relativi al destino del
territorio della Venezia Giulia e del suo capoluogo Trieste. La questione di Trieste si era
aperta al termine del conflitto, quando le truppe jugoslave entrarono in città il 1° maggio
1945. Una soluzione temporanea fu decisa dall’intervento delle grandi potenze; con gli
accordi siglati a Belgrado e Duino rispettivamente il 9 e 20 giugno di quello stesso anno, fu
creata la cosiddetta linea Morgan che divise la Venezia Giulia in due zone di occupazione:
la zona A con Trieste, che fu posta sotto controllo degli alleati angloamericani, e la zona B,
assegnata al controllo jugoslavo.
Il Trattato di pace sottoscritto a Parigi nel 1947 risolse solo parzialmente la questione
del confine tra Jugoslavia e Italia, lasciando allo stesso tempo non regolati vari punti delica-
ti lungo l’intera linea che correva dalla triplice frontiera jugoslava-italiana-austriaca a nord,
al mare Adriatico a sud. Il trattato, ad ogni modo, era riuscito a definire almeno provvisoria-
mente il destino del capoluogo e del suo hinterland con la decisione di creare il Territorio
libero di Trieste (da qui in poi TLT), che fu posto sotto l’amministrazione delle Nazioni
unite. L’incapacità di costituire un TLT e le tensioni permanenti attorno al confine furono
all’origine di varie crisi; la più seria di queste occorse nell’ottobre 1953, quando i due Stati
furono sul punto di scatenare un conflitto armato. La crisi fu risolta dopo i negoziati segreti
che condussero al Memorandum d’intesa di Londra (da qui in avanti MOU, Memorandum
of Understanding, N.d.T.) nell’ottobre 1954, in base al quale la zona A veniva inclusa nel-
lo Stato italiano, mentre la zona B rimaneva sotto l’amministrazione jugoslava. Poiché il
56 Saša Mišić
MOU aveva un carattere temporaneo e rappresentava solo una soluzione provvisoria, tali
aree entrarono a far parte della composizione dei due Stati de facto ma non de iure1.
Il Trattato di pace e il MOU non sciolsero tutte le controversie tra i due Stati. Al con-
trario, rimasero aperte tutta una serie di questioni da risolvere in un periodo successivo. La
maggior parte di queste concernevano le aree incorporate dalla Jugoslavia dopo il secondo
conflitto mondiale o la zona di confine tra i due Stati. Tali problemi si dividevano in due
gruppi nel primo dei quali erano comprese le questioni scaturite dagli obblighi negoziali:
la definizione conclusiva e la demarcazione del confine; il problema dei gruppi etnici sussi-
stente su entrambi i versanti del confine e non ancora regolamentato dallo status giuridico
di minoranze nazionali; la restituzione dei tesori storico-culturali e artistici; alcune questio-
ni irrisolte relative agli optanti. Del secondo gruppo facevano parte le questioni che esu-
lavano dagli obblighi negoziali: quelle finanziarie e attinenti la proprietà relativa all’area
incorporata e precedente zona B; la conclusione delle convenzioni di assistenza consolare
e legale; la conclusione di una convenzione culturale e molte altre ancora2.
La questione del confine era la più controversa all’interno delle relazioni bilaterali. La
linea di confine che si estendeva dalla triplice frontiera di Italia, Jugoslavia e Austria al
Golfo di Trieste (per una lunghezza complessiva di circa 216 km), per il suo carattere legale
e per la diversità degli strumenti giuridici internazionali su cui si basava era divisa in diver-
si settori: il settore nord, dalla triplice frontiera di Austria, Italia e Jugoslavia alla triplice
frontiera di Jugoslavia, Italia e il precedente TLT; la parte del confine compresa tra la pre-
cedente zona A e la Jugoslavia; il confine tra le precedenti zone A e B e il confine in acque
territoriali e nel Golfo di Trieste. Su questi settori persistevano molti punti controversi che
erano rimasti senza demarcazione: il Colovrat, il Sabotino, il Collio e Gorizia. D’altra par-
te, se il confine tra le precedenti zone A e B era regolato dal MOU, la demarcazione tra le
acque territoriali e il Golfo di Trieste non era regolata da nessun tipo di trattato3.
Per la parte jugoslava, il confine stabilito dal Trattato di pace e dal MOU era da con-
siderarsi definitivo, tanto che essa tentò di trattare l’intero problema della demarcazione
a partire da nord, dal punto della triplice frontiera, fino a sud, al mare Adriatico, secondo
un’unica modalità. Gli italiani dal canto loro guardavano alla questione del confine da una
prospettiva diversa. Come gli jugoslavi, volevano anch’essi «chiudere» tale problema il
più presto possibile, ma limitatamente a quanto riguardava la linea di confine definita dal
1
La letteratura sugli eventi del confine jugoslavo-italiano nel periodo compreso tra il 1945 e il 1954 è alquanto ricca. In
questa sede si citeranno solo i lavori più importanti: La crisi di Trieste. Maggio-giugno 1945. Una revisione storiografica, a c.
di Giampaolo Valdevit, Irsml FVG, Trieste 1995; D. de Castro, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italia-
na dal 1943 al 1954, LINT, Trieste 1981; R. Pupo, Fra Italia e Iugoslavia: saggi sulla questione di Trieste (1945-1954), Del
Bianco Editore, Udine 1989; G. Valdevit, La questione di Trieste 1941-1954: politica internazionale e contesto locale, F. An-
geli, Milano 1986; G. Valdevit, Il dilemma Trieste. guerra e dopoguerra in uno scenario europeo, Libreria Editrice Goriziana,
Gorizia 1999; B. Novak, Trieste 1941-1954, The Ethnic, Political and Ideological Struggle, University of Chicago Press,
Chicago 1970; J. B. Duroselle, Le conflit de Trieste 1943-1954, Editions de l’Institut de Sociologie de l’Université Libre
de Bruxelles, Bruxelles 1966; N. Troha, Komu Trst. Slovenci in Italijani med dvema državama, Modrijan, Ljubljana, 1999;
J. Pirjevec, »Trst je naš!«: boj Slovencev za morje (1848-1954), Nova revija, Ljubljana 2008; B. Dimitrijević, D. Bogetić,
Tršćanska kriza 1945-1954. Vojnopolitički aspekt, Institut za noviju istoriju Srbije, Belgrade 2009; M. Milkić, Tršćanska
kriza u vojno-političkim odnosima Jugoslavije sa velikim silama 1943-1947, Institut za noviju istoriju Srbije, Belgrade 2012.
2
Arhiv Jugoslavije, Fond 837, Kancelarija predsednika Republike, (d’ora in avanti АЈ, KPR), I-3-а/44-15, Prijem ambasa-
dora Alberta Beria, 5. mart 1960.
3
АЈ, КPR, I-3-a/44-46, Materijal za razgovore prilikom posete predsednika republike Italije Đuzepe Saragata SFRJ Jugo-
slaviji oktobra 1969.
La Jugoslavia e il Trattato di Osimo 57
Trattato di Pace, tanto più perché erano convinti che la Jugoslavia, nonostante le decisioni
prese durante la Conferenza di pace di Parigi, stesse «occupando» violentemente parti di
territorio italiano – le cosiddette «sacche» – che includevano un totale di oltre 360 ettari4.
Il modo in cui gli italiani consideravano la linea che divideva le precedenti zone A e B
era significativamente diverso. Non costituendo per loro un vero confine di Stato ma solo
una linea di demarcazione, essi insistevano sulla sua natura provvisoria. Per l’Italia, queste
erano conseguentemente due questioni separate, senza alcun tipo di collegamento legale5.
L’approccio diverso tenuto nei confronti della questione del confine di Stato e dello
status della precedente zona B venne allo scoperto durante gli infruttuosi negoziati del
1964. Dopo molti tentativi fatti nella seconda parte degli anni Cinquanta, tra i quali il più
importante fu quello del 1959, Jugoslavia e Italia alla fine del 1963 si erano decisi ad affi-
dare il compito della definizione del confine di Stato a due ambasciatori plenipotenziari. Le
discussioni ebbero inizio nel marzo 1964 a Roma e vennero portate avanti dagli ambascia-
tori Riccardo Giustiniani e France Kos6. Dopo molti mesi di colloqui, quando sembrava che
il compromesso e la soluzione fossero a portata di mano, gli italiani annunciarono di aver
affrontato i negoziati intendendo come linea di confine solo quella che era stata definita
dal Trattato di pace e nel Golfo di Trieste, ma non il confine tra le precedenti zone A e B
del TLT, che per loro rimaneva «provvisorio». Ciò avrebbe garantito all’Italia la sovranità
sull’intero territorio del precedente TLT, ma a causa di questo atteggiamento i negoziati
fallirono.
Oltre a quella del confine, un’altra importante questione che caratterizzò le relazioni
bilaterali e che doveva essere ancora risolta era quella della regolazione dello status delle
minoranze nazionali. Tale questione era legata in particolare al gruppo etnico sloveno che
viveva in Italia. La specificità di tale minoranza stava nel fatto che i suoi appartenenti, di-
stribuiti sul territorio di tre province italiane (Trieste, Gorizia e Udine), vedevano regolato
in modo diverso il proprio status in base al territorio nel quale vivevano. Se gli sloveni di
Trieste godevano del maggior numero di diritti, essendo tutelati dallo Statuto speciale del
1954, e coloro che risiedevano nel territorio di Gorizia usufruivano di alcuni diritti regolati
dalla legislazione italiana, gli appartenenti alla minoranza della provincia di Udine si tro-
vavano nella posizione peggiore, poiché lo Stato italiano non riconosceva loro lo status di
minoranza nazionale7.
Il momento cruciale per la soluzione delle «questioni aperte» – è questo il modo in cui
tutte le questioni irrisolte relative al confine venivano spesso definite – giunse nel 1968. La
crisi cecoslovacca, causata dall’intervento militare sovietico contro quel paese – avvenuta
in agosto –, influenzò fortemente lo sviluppo delle relazioni politiche tra Jugoslavia e Ita-
lia. Il disaccordo della Jugoslavia con la politica dell’URSS e la condanna dell’intervento
4
C’erano 362 ettari sotto occupazione jugoslava, mentre l’Italia ne possedeva 32.
5
Diplomatski arhiv Ministarstva inostranih poslova Srbije, Politička arhiva (da qui in poi AMIP, PA) Italija, year 1955, box
27, folder 2, No. 47978, Zabeleška –italijansko tumačenje provizornosti MOS, 15. jun 1955.
6
AMIP, PA, Italija, 1964, b. 78, No. 416310, Izveštaj Druge uprave Državnog sekretarijata za inostrane poslove od 15. aprila
1964.
7
Di più su questo in N. Troha, Položaj slovenske narodne skupnosti v Italiji in italijanske v Sloveniji med letoma 1954 in
1990, in Na oni strani meje. Slovenska manjšina v Italiji in njen pravni položaj: zgodovinski in pravni pregled 1866-2004, a
c. di G. Bajc, Knjižnica Annales Majora, Koper 2004, pp. 141-166.
58 Saša Mišić
militare rimossero i dubbi nutriti in merito all’indipendenza della sua politica, e fecero
cambiare all’Italia il contegno guardingo e sospettoso che fino ad allora aveva mantenuto
nei confronti di Belgrado. Inoltre, l’Italia iniziò a guardare alle relazioni con la Jugoslavia
dall’ottica della propria sicurezza nazionale, così che in numerosi apparizioni pubbliche e
segrete dei suoi funzionari di Stato essa iniziò a sostenere Belgrado8.
Il miglioramento delle relazioni avvenuto nel 1968 consentì di arrivare alla soluzione
di tutte le questioni che fino ad allora erano rimaste insolute. Dopo la crisi cecoslovacca,
l’Italia favorì l’avvio della loro soluzione, inclusa quella più delicata che fino ad allora non
aveva costituito l’argomento principale della discussione: la regolazione definitiva e «le-
galmente riconosciuta» del confine tracciato dal MOU, cioè la trasformazione della linea
di demarcazione in linea di confine. Per sciogliere tutte le «questioni aperte», l’iniziativa
fu presa dal ministro degli Affari Esteri italiano Giuseppe Medici nell’ottobre 1968, con
un documento che elencava in 18 punti tutti i problemi che dovevano essere risolti. La
Jugoslavia accettò la proposta e il compito di portare avanti la discussione confidenziale
«esplorativa» fu affidato a due diplomatici, Zvonko Perišić e Gian Luigi Milesi Ferretti9.
Dall’autunno 1968 la soluzione delle «questioni aperte», nonostante si trattasse di un
problema effettivo, non giocò un ruolo significativo nelle relazioni politiche tra i due Stati,
e nel dibattito pubblico non era quasi per nulla presente. I colloqui confidenziali venivano
condotti da Milesi Ferretti e Perišić parallelamente al palese tentativo dei due Stati di ap-
profondire e ampliare la cooperazione reciproca in diversi campi delle relazioni bilaterali.
Ad ogni modo, nel 1970 le «questioni aperte» iniziarono ad acquisire sempre più impor-
tanza, innanzitutto a causa del deterioramento della situazione politica interna di entrambi
i paesi. Il clima politico in Italia era caratterizzato da frequenti crisi di governo, dall’in-
stabilità sociale ed economica e dalla forte esercitata dalla destra, che individuava nella
questione di Trieste e delle relazioni con il vicino Est temi su cui insistere. Anche per la
Jugoslavia d’altra parte questo era un periodo di difficoltà interne, di nazionalismi nascenti
e di tentativi delle diverse repubbliche di rendersi il più indipendenti possibile nel condurre
ciascuna la propria politica estera: una pulsione quest’ultima che sarebbe divenuta sempre
più presente ed evidente durante gli anni Settanta.
La necessità di giungere a un appianamento delle «questioni aperte» fu esplicitata pro-
prio alla fine del 1970, durante la visita programmata del presidente jugoslavo Josip Broz
Tito in Italia. A seguito della pressione slovena sugli alti vertici dello Stato, la Jugoslavia
tentò di risolvere in questa occasione alcuni dei punti dibattuti10. L’Italia, d’altro canto, per
rispetto dei circoli della destra e irredentisti che si opponevano a tale intenzione, pretende-
va una visita di protocollo. Il disaccordo in merito al carattere che questa avrebbe dovuto
assumere fece sì che le relazioni bilaterali entrassero in seria crisi e provocò il rinvio della
visita stessa. Solo dopo molti sforzi da parte di entrambe le parti tale crisi venne superata e
8
Maggiori dettagli sulle relazioni jugoslavo-italiane al tempo della crisi cecoslovacca in: S. Mišić, Jugoslovensko-italijanski
odnosi u čehoslovačka kriza 1968. godine, in 1968 Četrdeset godina posle, a c. di R. Radić, Institut za noviju istoriju Srbije,
Belgrade, 2008, pp. 293-312.
9
S. Mišić, Jugoslovensko-italijanski odnosi i čehoslovačka kriza, cit., pp. 305-306; V. Škorjanec, Osimska pogajanja,
Založba Annales, Kopar 2007, pp. 42-43.
10
АЈ, KPR, II–2/485, Prijem delegacije SR Slovenije, 4. oktobar 1970.
La Jugoslavia e il Trattato di Osimo 59
Tito venne in Italia nel marzo 197111. Da allora, la soluzione delle «questioni aperte» iniziò
a occupare sempre più spazio nelle relazioni politiche tra i due Stati, e la Jugoslavia provò
con crescente determinazione a rimuovere dall’agenda la questione irrisolta del confine in-
terstatuale, presentandola come un «anacronismo» e una fonte costante di incomprensione
e crisi all’interno delle relazioni bilaterali, a beneficio degli irredentisti italiani, dei fascisti
e di quanti si opponevano alle relazioni di buon vicinato.
Una speranza che le «questioni aperte» potessero essere infine risolte fu offerta dall’in-
contro tra il capo della diplomazia italiana Giuseppe Medici e il segretario federale degli
Affari Esteri jugoslavo Miloš Minić, avvenuto a Dubrovnik nel marzo del 1973. L’impor-
tanza dell’incontro consistette nell’apertura di due canali per la negoziazione. Perišić e
Milesi Ferretti avrebbero dovuto continuare i negoziati ufficiali segreti sulla base della piat-
taforma che venne allora formulata di comune intesa, col compito di concludere il processo
di negoziazione quanto prima e di preparare una bozza di accordo generale. Allo stesso
tempo, i ministri concordarono di aprire un altro canale negoziale sulla questione del confi-
ne interstatuale. A tal fine indicarono due inviati segreti, incaricati di prevenire il fallimento
dei negoziati in caso fossero emerse difficoltà nei colloqui tra Perišić e Milesi Ferretti e
di continuare a negoziare fino al raggiungimento della soluzione finale. Il ruolo di inviato
segreto venne affidato rispettivamente a Eugenio Carbone, direttore generale del ministero
italiano dell’Industria e a Boris Šnuderl, membro del Consiglio esecutivo federale (da qui
in poi CEF) del governo jugoslavo12. Ad ogni modo, dopo diversi mesi di negoziati, Perišić
e Milesi Ferretti non riuscirono a raggiungere un accordo, mentre il canale parallelo non
era stato attivato13.
Poiché dai negoziati tra Perišić e Milesi Ferretti portati avanti dopo l’incontro di Du-
brovnik apparve evidente che la parte italiana interpretava la disponibilità jugoslava come
frutto dell’interesse esclusivo a risolvere solo le «questioni aperte», Belgrado decise di
non sollecitare più la loro continuazione. Del resto, uno dei compiti prioritari era quello
di spingere gli italiani a spiegare quale fosse la loro attitudine nei confronti del futuro dei
negoziati. Se avessero dichiarato di non esservi più interessati, i vertici dello Stato jugo-
slavo avrebbero assunto un atteggiamento tale da evitare di divenire essi stessi la causa del
deterioramento delle relazioni bilaterali complessive, sottolineando contemporaneamente
che in tal caso non avrebbero tollerato nessun atto tale da mettere in dubbio la sovranità
11
M. Bucarelli, La «questione jugoslava» nella politica estera dell’Italia repubblicana (1945-1999), Aracne, Roma 2008,
pp. 53-61; V. Škorjanec, Osimska pogajanja, cit., pp. 44-45; S. Mišić, Poseta Josipa Broza Tita Italiji 1971. godine, in Tito-
viđenja i tumačenja, a c. Di O. Manojlović Pintar, Institut za noviju istoriju Srbije, Belgrade 2011, pp. 505-520.
12
V. Škorjanec, Jugoslovensko-italijanski odnosi v luči dubrovniškega srečanja zunanjih ministrov 1973, «Zgodivinski
časopis», 3-4, 2001, No. 55, pp. 479- 487; M. Bucarelli, La «questione jugoslava», cit., pp. 63-64; L. Monzali, «I nostri vicini
devono essere nostri amici». Aldo Moro, L’Ostpolitik italiana e gli accordi di Osimo, in Aldo Moro L’Italia Repubblicana e
i Balcani, a c. di I. Garzia, L. Monzali, M. Bucarelli, Besa Editrice, Nardò 2011, p. 102.
13
V. Škorjanec, Neuspeh jugoslovansko-italijanskih diplomatskih pogajanj v letu 1973, «Zgodovinski časopis», 1-2, 2003,
No. 57, pp. 147-162; M. Bucarelli, La «questione jugoslava», cit., pp. 64-66.
60 Saša Mišić
jugoslava, la sua integrità territoriale, la sicurezza sul confine, i diritti e la protezione delle
minoranze, ovvero tutte quelle iniziative che avrebbero potuto essere interpretate come
tentativi italiani di interferire negli affari interni della Jugoslavia14.
Dopo mesi di attesa, nel novembre 1973 i vertici dello Stato jugoslavo presero nono-
stante tutto la decisione di contravvenire alla tattica del silenzio e dell’attesa, e di mettere
in modo più deciso l’Italia di fronte alla questione della definizione di un confine di Stato.
Il segretariato degli Affari Esteri aveva infatti dichiarato che il governo italiano – dal mese
di luglio presieduto dal democristiano Mariano Rumor, con il suo collega di partito Aldo
Moro a capo della diplomazia – non era pronto a osservare la data di scadenza stabilita a
Dubrovnik per la soluzione della questione, e che ormai appariva chiaro che Roma conti-
nuava con la vecchia tattica del temporeggiamento. A tale scopo, gli Jugoslavi provarono a
iniziare la discussione sulle «questioni aperte» in diverse occasioni, in particolare durante
la visita compiuta in dicembre da Milesi Ferretti a Belgrado. Allo stesso tempo, minac-
ciarono di rendere pubblica l’esistenza dei negoziati segreti che fino ad allora erano stati
portati avanti15. Un elemento di pressione ulteriore sul governo italiano, affinché si pronun-
ciasse finalmente sulla piattaforma di Dubrovnik, giunse dall’invito che sollecitava l’amba-
sciatore jugoslavo a Roma Miša Pavićević a recarsi a Belgrado per riferire sulla situazione.
Tutto ciò produsse dei risultati, visto che il ministro Moro, il 9 gennaio 1974 dopo
più di cinque mesi di temporeggiamento, ricevette infine Pavićević16. Tale incontro non
risollevò il morale degli Jugoslavi, nonostante i tentativi di Moro di rassicurare il proprio
interlocutore sul fatto che l’Italia si assumeva gli obblighi già presi dal precedente governo
in relazione alle «questioni aperte» e che le politiche di amicizia e cooperazione del suo
paese nei confronti della Jugoslavia non sarebbero cambiate. Solo due giorni dopo l’incon-
tro tra Moro e Pavićević, il gabinetto del segretario federale degli Affari Esteri convocò
un incontro partecipato – oltre che da Minić – dai suoi vice Jakša Petrić, Zvonko Perišić,
dall’ambasciatore Pavićević e dai vertici degli uffici degli Affari Esteri di Croazia e Slo-
venia17. All’ordine del giorno dell’incontro c’erano le azioni future da intraprendere nei
confronti dell’Italia per risolvere le «questioni aperte» nel quadro delle relazioni politiche
complessive con lo Stato vicino.
L’impressione generale dei presenti all’incontro fu che al fondo del comportamento del
governo italiano c’erano delle tattiche e delle intenzioni celate. Jakša Petrić iscrisse l’atteg-
giamento italiano all’interno del quadro più ampio di piani adottati dagli Stati Uniti e dalla
NATO nei confronti della Jugoslavia. Petrić considerava il comportamento di Moro non un
semplice riflesso di motivazioni personali del ministro, ma il risultato di alcune politiche
14
V. Škorjanec, Osimski pogajalski proces, I Del: Uvodna sinteza pogajanja; II. Del: Diplomatska pogajanja 1973-1974,
Viri, številka 23, Archive Society of Slovenia, Archive of the Republic of Slovenia, Ljubljana 2006 (da qui in poi: Viri 23), p.
151; V. Škorjanec, »Neuspeh jugoslovansko-italijanskih diplomatskih pogajanj v letu 1973«, p. 155.
15
Che questa non fosse una minaccia infondata lo testimonia il discorso del presidente dell’assemblea della Repubblica
slovena Sergej Krajger tenutasi il 23 dicembre 1973 a Lipica, discorso che fu pubblicato integralmente il giorno seguente
dal «Delo» e in cui l’importante leader sloveno annunciava che l’opinione pubblica sarebbe stata informata delle «questioni
aperte» legate al confine dall’assemblea e dal consiglio esecutivo a «tempo debito». AMIP, PA, 1973, b. 48, f. 6, No. 456137,
Telegram zamenika saveznog sekretara upućen ambasadi u Rimu 27. decembra 1973.
16
AJ, KPR, I-5-b/44-17, Zabeleška o razgovoru ambasadora SFRJ u Rimu M. Pavićevića sa ministrom inostranih poslova
Italije Aldom Morom 9. januara 1974
17
Per le note stenografiche del gabinetto si veda in: Viri 23, pp. 185-206.
La Jugoslavia e il Trattato di Osimo 61
18
Quando fece cenno agli irredentisti, Minić non si riferiva ai circoli «filofascisti» della scena politica italiana, come il Mo-
vimento sociale italiano – Destra nazionale, poiché intendeva invece che tali atteggiamenti erano condivisi anche da altre
«forze molto preoccupanti» operanti in Italia. In un passaggio del dibattito sottolineò come l’irredentismo fosse «alla base
dell’intero atteggiamento italiano». Ivi, p. 195.
19
Viri 23, pp. 206-214.
62 Saša Mišić
20
Ivi, 213.
21
L’Archivio centrale dello Stato, Roma (da qui in poi: ACS), Carte Moro, b. 162, fascicolo 7, 3 febbraio 1974. Segretissimo,
Appunto per l’onorevole Ministro.
22
AMIP, PA, Italija, 1974, b. 59, f. 10, No. 462400, Note i drugi materijali SSIP-a povodom italijanskih pretenzija na jugo-
slovensku teritoriju.
23
Ibid; AMIP, PA, Italija, 1974, b. 58, f. 1, No. 48277, Telegram ambasade iz Rima upućen Beogradu 23. februara 1974.
La Jugoslavia e il Trattato di Osimo 63
24
AMIP, PA, Italija, 1974, b. 58, f. 1, No. 48276, Telegram ambasade iz Rima upućen Beogradu 23. februara 1974. È interes-
sante come tra i documenti contenuti nelle carte di Aldo Moro ci sia una nota sulla discussione di Ducci con l’ambasciatore
Pavićević del 22 febbraio. Non vi si fa menzione della nota verbale del giorno prima, ma solo della protesta verbale. Vi si
dice che Ducci richiese una risposta rapida all’ambasciatore sui motivi che avevano indotto la Jugoslavia a piantare i cartelli
metallici al confine e sottolineava che si riservava la possibilità di fargli avere la protesta in forma scritta. ACS, Carte Moro,
b. 162, f. 7, Appunto, Roma 22 Febbraio 1974.
25
AMIP, PA, 1974, b. 58, f. 1, No. 49762, Telegram iz Beograda upućen ambasadi u Rimu 28. februara 1974 (lo stesso docu-
mento è anche pubblicato in: Viri 23, p. 216).
26
AMIP, PA, Italija, 1974, b. 58, f. 1, No. 410915, Telegram ambasade iz Rima upućen Beogradu 11. marta 1974.
27
AJ, KPR, I-5-b/44-17, Zabeleška o razgovoru zamenika saveznog sekretara J. Petića sa italijanskim ambasadorom G. V.
Makotom 15. marta 1974.
28
Dopo l’incontro dei ministri degli Affari Esteri a Helsinki nel luglio 1973, la Conferenza continuò a lavorare senza sosta a
Ginevra nel periodo da settembre 1973 a luglio 1975. From Helsinki to Viena: Basic Documents of the Helsinki Process, a c.
di A. Bloed, Martinus Nijhoff Publishers, Amsterdam 1990, p. 5.
29
Per il testo della nota di veda: AMIP, PA, 1974, No. 412267; ACS, Carte Moro, b. 162, f. 7.
64 Saša Mišić
temporale tra questo atto e le «ben note speculazioni occidentali connesse alla RSFJ» fu
particolarmente sottolineata30. Allo stesso tempo, vennero evidenziate ragioni di politica
interna italiana, come il profondo «subbuglio nella struttura di potere italiana», le crisi
nelle relazioni all’interno della coalizione di centro sinistra al potere, il conflitto tra le forze
democratiche e le frange dell’estrema destra e numerosi altri problemi. Si parlò pure di
una possibile interferenza dell’Unione Sovietica dovuta al fatto che l’inizio della crisi era
coincisa con la visita a Roma del ministro degli Affari Esteri dell’URSS Andrei Gromyko;
in quell'occasione, il diplomatico sovietico, secondo quanto si dice, aveva affermato che
Mosca riteneva accettabili alcune lievi modifiche al confine in Europa a patto che la sovra-
nità venisse rispettata31.
Di primo acchito, la Farnesina tentò di interpretare le ragioni che avevano spinto gli
Jugoslavi a erigere i discussi cartelli di confine. Da un lato, quell’atto sembrò essere il
frutto dei tentativi di Belgrado di forzare la controparte italiana a concludere quanto prima
un accordo sulle «questioni aperte». Un altro motivo poteva essere che, secondo l’opinione
italiana, il CSCE presieduto dalla Jugoslavia si era avvicinato molto alle posizioni sovieti-
che. A ciò dovevano essere aggiunti numerosi problemi interni assieme all’instabilità delle
relazioni sussistenti tra Jugoslavia e URSS32.
Alla sessione del CEF tenutasi il 20 marzo 1974, la parte jugoslava prese delle decisioni
che avrebbero preparato il terreno alle politiche che sarebbero state assunte nei confronti
dell’Italia nel periodo successivo33. L’azione fu pianificata al fine di articolarsi in varie dire-
zioni. La Jugoslavia intendeva internazionalizzare la questione del confine di Stato affinché
il segretariato federale degli Affari Esteri istruisse la delegazione jugoslava al CSCE in
modo da informare la Conferenza sulle «pretese italiane che sono un colpo per gli obiettivi
che questa Conferenza si prefigge» e un tentativo di «revisione» della situazione creatasi
30
AJ, KPR, I-5-b/44-17, Podsetnik o nekim najbitnijim pitanjima vezanim za najnoviji razvoj odnosa sa Italijom, 13. mart
1974. Gli Jugoslavi erano particolarmente turbati dalla posizione degli Stati Uniti e dagli «ambienti reazionari» in Occidente,
le cui politiche nei confronti di Belgrado erano giudicate mostrare un’«aperta insoddisfazione». Tale impressione si fondava
sulle reazioni negative generate dal movimento dei paesi non allineati, in particolare dopo la IV conferenza che si tenne in Al-
geria nel 1973, e dal supporto che la Jugoslavia assicurò agli Arabi nella guerra contro Israele nell’ottobre dello stesso anno.
Il nuovo atteggiamento assunto dagli Stati Uniti si esplicitò nel rifiuto da parte del loro segretario di Stato Henry Kissinger di
incontrare Minić durante la seduta dell’Assemblea generale delle Nazioni unite del 1973 a New York, nella netta contrarietà
ch’egli espresse nei confronti dei paesi non allineati, così come nella richiesta che avanzò durante il suo appello alle nazioni
della NATO di ridurre il livello delle relazioni con la Jugoslavia. La campagna antijugoslava fu dominata dalla tesi che gli
approcci di Belgrado nei confronti dell’URSS non erano da sottovalutare, come anche le «speculazioni» sulla salute di Tito
e il piano «Polarka» di cui ampiamente scrisse la stampa occidentale (AMIP, PA, 1974, b. 58, f. 9, No. 417 529, »Elaborate
Obnavljanje pretenzija Italije na bivšu Zomu “B” i program naših daljih akcija«). Il testo rivisto di tale elaborato venne sotto-
posto a Josip Broz il 30 aprile, con il titolo di »Obnavljanje teritorijalnih pretenzija Italije prema Jugosalviji i program naših
daljih akcija«, AJ, KPR, I-5-b/44-17.
31
AJ, KPR, I-5-b/44-17, Podsetnik o nekim najbitnijim pitanjima vezanim za najnoviji razvoj odnosa sa Italijom, 13. mart
1974. Secondo tale analisi, l’URSS e gli altri paesi socialisti continuarono a provare ad attrarre la Jugoslavia entro il loro
campo promuovendo una cooperazione bilaterale inclusiva. Per quel che riguardava il punto di vista sovietico sulle relazioni
politiche estere della Jugoslavia, in particolare con i paesi non allineati, questo era che esse erano molto più «elastiche» ma
motivate dalla comprensione che ciò offriva loro concessioni sul piano della politica internazionale e derivava dalla convin-
zione che i non allineati fossero la «riserva strategica» dei paesi socialisti. L’attitudine degli altri paesi socialisti nei confronti
della disputa aperta con l’Italia era interpretata allo stesso modo, ed era valutata come trattenuta e riservata. L’appoggio
costante dell’URSS alla Bulgaria nel contenzioso con la Macedonia non era trascurato. AMIP, PA, 1974, b. 58, f. 9, No. 417
529, Elaborate »Obnavljanje pretenzija Italije na bivšu Zomu “B” i program naših daljih akcija«.
32
ACS, Carte Moro, b. 162, f. 7, 3 Febbraio 1974, segretissimo, Appunto per l’onorevole Ministro.
33
AMIP, PA, 1974, b. 58, f. 4, No. 414 643, Dopis Saveznog izvršnog veća upućen SSIP-u 29. marta 1974.
La Jugoslavia e il Trattato di Osimo 65
all’indomani della Seconda guerra mondiale. Ancora, tutti i rappresentanti diplomatici del-
la Jugoslavia in giro per il mondo furono istruiti perché si impegnassero a spiegare l’«es-
senza di tali atti ostili» da parte del governo italiano. Ciò riguardava in modo particolare
quelli presenti negli USA, in URSS, in Gran Bretagna e in Francia. Il segretario delle Na-
zioni unite Kurt Waldheim avrebbe dovuto altresì essere informato di tutto34. L’intenzione
di aggiornare le grandi potenze e le Nazioni unite non era finalizzata a individuare un arbi-
tro o a cercare sostegno, ma a presentare il punto di vista jugoslavo in merito alla disputa
con l’Italia e a dimostrare «fermezza e risolutezza» nella difesa dell’integrità territoriale35.
Sul piano interno, questa stessa decisione del CEF diede istruzione anche alle orga-
nizzazioni socio-politiche affinché intraprendessero «attività appropriate» per informare
l’opinione pubblica di tutto, il più chiaramente possibile. I primi risultati del CEF, vale a
dire la «sensibilizzazione» dell’opinione pubblica, non si fecero attendere e furono ben
visibili se solo dopo un paio di giorni manifestazioni «spontanee» e proteste pubbliche
contro il governo italiano iniziarono a sorgere nel paese. Inoltre, cominciarono a tenersi
incontri regolari al fine di «denunciare» con il massimo del fervore le aspirazioni italiane.
Già dal 22 di marzo, tutto iniziò ad assumere i contorni di una campagna ben condotta e
orchestrata. Quotidianamente, radio e tv davano per prime le notizie sull’Italia, riccamente
illustrate con foto delle manifestazioni di protesta dominate da slogan a supporto dei vertici
dello Stato.
Per quanto riguardava l’Italia, la direzione politica del paese decise di assumere un
atteggiamento tale da reagire il più energicamente possibile e «portare la questione allo
scoperto»36. Puntando a utilizzare la «goffaggine» degli Italiani, Belgrado concentrò la pro-
pria azione contro il governo, lasciando così «intatto» lo spazio di azione per tutte le forze
politiche che fossero state a favore di buone relazioni di vicinato con la Jugoslavia37. In
questo senso, gli Jugoslavi usarono le stesse tattiche utilizzate già in situazioni precedenti,
quando le relazioni interstatuali erano deteriorate. Se da un lato attaccavano ferocemente il
governo di Roma, gli Jugoslavi provavano contemporaneamente a raggiungere attraverso
contatti personali, senza considerare se fossero parte del governo o dell’opposizione, co-
loro con cui avevano fino ad allora sviluppato rapporti di scambio con l’intenzione di in-
formarli direttamente dell’ultima disputa e di chiarire le proprie posizioni. In questo modo
puntavano a causare una «diversificazione» all’interno del governo italiano e a minarne
così la posizione. Tutto ciò fu compiuto con l’intento di forzare l’Italia a risolvere le «que-
stioni aperte».
La Jugoslavia non si limitò a informare solo l’opinione pubblica interna ed estera e i
diplomatici della nuova questione aperta: già il 23 marzo provò un atto di forza sul confine
con l’Italia. Più precisamente, mosse le proprie truppe verso il confine/linea di demarcazio-
ne – cinque battaglioni di fanteria – mentre svariati carri armati apparvero nelle strade di
34
Ibid; AMIP, PA, Italija, b. 58, f. 1, No. 412478, telegram SSIP-a upućen ambasadama SFRJ Moskva, Vašington, London,
Pariz, misija SFRJ pri UN Njujork, 22. mart 1974.
35
Ibid.
36
AMIP, PA, Italija, 1974, b. 58, f. 1, No. 412441, Dopis Prve uprave SSIP-a upućen ambasadi u Rimu 21. marta 1974.
37
Ibid.
66 Saša Mišić
Capodistria38. La notizia venne pubblicata anche sulla stampa italiana39, mentre l’opera di
fortificazione del confine e le manovre militari nelle campagne iniziarono immediatamen-
te. La fiera reazione dell’opinione pubblica jugoslava e le ampie dimensioni che assunse
la campagna stupirono anche gli italiani, perché soprattutto le proteste nelle fabbriche e
le manifestazioni nelle piazze e nelle strade erano molto più frequenti in zone distanti dai
confini con l’Italia come la Serbia e la Macedonia40. Per l’ambasciatore italiano Maccotta,
l’intera campagna anti-italiana, per i suoi metodi e forme, rassomigliava a quella organiz-
zata in Italia durante il fascismo41.
Quando le relazioni politiche bilaterali già deteriorate si trasformarono in una crisi mol-
to seria, la controparte italiana analizzò ancora una volta i possibili motivi che avevano
spinto la Jugoslavia a reagire così violentemente. Nella relazione indirizzata alla Farnesina
alla fine di marzo, Maccotta annotò nuovamente una serie di ragioni di natura politica inter-
na ed estera. Le ragioni interne riguardavano la complessa situazione del paese, dovuta alle
relazioni critiche tra le repubbliche e la federazione, come al ruolo sempre più importante
che le repubbliche giocavano nell’elaborazione della politica estera, circostanza eviden-
te nel fatto che queste ultime dovevano essere informate di ogni decisione del segretario
federale degli Affari Esteri. Di conseguenza, secondo l’opinione di Maccotta, all’interno
delle istituzioni federali non c’era stata un’adeguata reazione alla decisione presa dai leader
sloveni di piantare i cartelli di confine contestati, nonostante la reazione negativa dell’Ita-
lia. Le ragioni di politica estera erano altrettanto influenti. La nota italiana «cadde» in un
periodo di particolare sensibilità da parte della Jugoslavia, che si sentiva emarginata e iso-
lata. In relazione all’Occidente, era convinta che ci fosse una sempre maggiore mancanza
di interesse nei confronti della situazione nel paese. Allo stesso tempo, gli jugoslavi crede-
vano che l’Occidente fosse in attesa di una fase post-titoista, soprattutto per le speculazioni
che circolavano sulla salute di Tito42. Questo era – secondo l’opinione di Maccotta – il
contesto in cui Belgrado si era trovata a dover considerare l’azione italiana legata alla nota
che definiva la precedente zona B come territorio italiano. Di conseguenza, dopo numerose
speculazioni, Belgrado affermò che tale atto rappresentava in realtà il primo che l’Occi-
dente aveva diretto contro lo Stato jugoslavo; gli jugoslavi perciò reagirono fieramente,
38
The National Archives London, Foreign and Commonwealth Office (d’ora in avanti TNA, FCO), 28/2637, from R.T. Jen-
kins to Green 27 March 1974.
39
La notizia fu dapprima pubblicata sul «Piccolo» il 24 marzo, per essere poi rilanciata il giorno seguente dal «Corriere della
Sera» in un testo a firma del giornalista Enzo Passanisi Perché i carri armati jugoslavi a Capodistria (v. G. Cavera, Gli accor-
di di Osimo e la crisi politica italiana degli anni Settanta, in «Nuova Storia Contemporanea», 2006, n. 3, p. 34). A seguito di
questi testi, le autorità jugoslave vietarono la distribuzione dei numeri in questione del «Piccolo» e del «Corriere della Sera».
AMIP, PA, Italija, 1974, b. 55, f. 1, No. 413431; Ibid, No. 413508.
40
AMIP, PA, Italija, b. 58, f. 2, No. 413799, telegram ambasade iz Rima upućen Beogradu 23. marta 1974.
41
W. G.Maccotta, Osimo visto da Belgrado, in «Rivista di studi politici internazionali», 60, 1993, n.1, p. 61.
42
Il segretario federale per l’Informazione Dragoljub Budimovski riferì a Maccotta che la nota italiana dell’11 marzo era
il «coronamento» di una campagna creata nella Repubblica federale tedesca arrivata in Italia attraverso l’Austria e che era
connessa alle pressioni sovietiche in relazione alla salute di Tito (ACS, Carte Moro, b. 163, f. 2, telegramma in arrivo, segreto,
da Maccotta a Italdip, 26 marzo 1974.). In un primo momento presso il ministero degli Affari Esteri italiano circolò una teoria
secondo la quale, sul sottofondo delle lagnanze sulla nota, c’era il fatto che Tito era gravemente ammalato, cosa che motivò
gli Jugoslavi a spostare le truppe al confine e a iniziare una serie di veementi proteste in tutto il paese. Ad ogni modo, l’appari-
zione pubblica di Tito durante la visita del presidente egiziano Sadat, occasione in cui egli apparve come un uomo abbronzato
e in salute, fugò ogni diceria. TNA, FCO, 28/2637, tratto da A. J. Hunter (Belgrade) to A. F. Green (London), 29 marzo 1974.
La Jugoslavia e il Trattato di Osimo 67
43
ACS, Carte Мoro, b. 163, f. 2, telegramma in arrivo, segreto, da Maccotta a Italdip. 20 Marzo 1974.
44
AMIP, PA, 1974, b. 58, f. 6, No. 415494, Cirkularni telegram SSIP-a upućen svim Diplomatsko-konzularnim
predstavništvima Jugoslavije, 2. aprila 1974.
45
Tali misure costituivano parte integrante dell’elaborato già citato »Obnavljanje teritorijalnih pretenzija Italije prema Jugo-
salviji i program naših daljih akcija«, AJ, KPR, I-5-b/44-17.
46
Ibid.
68 Saša Mišić
47
Ibid.
48
Nonostante nella dichiarazione citata si affermasse che l’attività del CSCE dovesse dipendere dallo sviluppo futuro della
situazione e dal comportamento che l’Italia avrebbe assunto e che la Jugoslavia avrebbe «tenuto aperto tale canale», il capo
della diplomazia Minić parlò di questo documento al gabinetto del segretariato federale degli Affari Esteri dicendo che la
Jugoslavia si sarebbe servita del CSCE. AMIP, PA, Italy, 1974, b. 66, f. 2, No. 420221, Sommario e conclusioni dell’incontro
del Gabinetto del Segretariato Federale degli Affari Esteri tenutosi il 26 aprile 1974.
49
AMIP, PA, 1974, b. 58, f. 9, No. 417529, »Obnavljanje teritorijalnih pretenzija Italije prema Jugosalviji i program naših
daljih akcija«.
50
AMIP, PA, Italija, 1974, b. 59, f. 3,No. 421845, Telegram ambasade iz Rima upućen Beogradu 7. maja 1974.
La Jugoslavia e il Trattato di Osimo 69
irrealizzabile la pretesa jugoslava di ottenere dal governo di Roma il ritiro ufficiale della
nota dell’11 marzo – su cui la Jugoslavia andò avanti a insistere durante la crisi – poiché
un atto simile avrebbe danneggiato il prestigio dell’Italia come Stato. In alternativa, pro-
pose la ripresa dei negoziati come unico modo per risolvere tutte le «questioni aperte» tra
i due paesi, in particolar modo il problema della precedente zona B, poiché per l’Italia era
impossibile riconoscere unilateralmente la demarcazione di una linea come un confine di
Stato. La Jugoslavia non guardò con favore all’iniziativa italiana di condurre negoziati
bilaterali su scala internazionale, poiché tale iniziativa contraddiceva l’atteggiamento pub-
blicamente assunto dalla Jugoslavia secondo il quale la questione del confine non esisteva
più, in quanto era stata già risolta, e che nessun colloquio doveva considerarsi necessario
sulla precedente zona B. E mentre le relazioni ufficiali dei due paesi entrarono nuovamente
in un periodo caratterizzato da tensioni, nella più profonda confidenzialità, al di fuori delle
logiche diplomatiche e degli sguardi pubblici, c’era una gran vivacità finalizzata all’attiva-
zione del canale di negoziazione segreto stabilito nel marzo del 1973 a Dubrovnik, e di cui
Boris Šnuderl e Eugenio Carbone erano gli attori principali.
I contatti ripresero nella seconda metà di maggio quando Carbone visitò Šnuderl nella
sua casa di Pirano51. Secondo le sue parole, egli si presentò all’incontro forte della consa-
pevolezza e approvazione dei dirigenti democristiani Rumor, Moro, Giulio Andreotti e del
presidente della Repubblica Giovanni Leone, e con l’«offerta» a continuare il «lavoro»
iniziato un anno prima. L’idea di attivare il canale segreto ebbe il supporto dei vertici dello
Stato jugoslavo capeggiati da Josip Broz, che era concorde con l’opinione espressa dal
segretario federale Minić di proseguire in quella direzione e «vedere» che tipo di soluzione
potesse essere trovata. La decisione ufficiale di dare «semaforo verde» ai due nuovi ne-
goziatori segreti per l’inizio delle trattative arrivò il 18 giugno, all’incontro del presidente
della Jugoslavia a Karađorđevo52.
Durante il mese di giugno del 1974 le relazioni jugoslavo-italiane iniziarono così a
svilupparsi lungo due binari. Mentre quelle ufficiali registrarono il proseguimento della di-
scussione che Moro stava tentando di risolvere attraverso l’ambasciatore Maccotta, Carbo-
ne mediò aprendo il canale segreto di negoziati, al fine di risolvere finalmente le «questioni
aperte». Le ragioni che motivarono gli italiani a iniziare tale politica duplice erano scono-
sciute all’amministrazione jugoslava. Il ministro Minić, che all’incontro con la presidenza
cui si è già fatto cenno aggiornò i presenti sulla condizione in cui versavano le relazioni
jugoslavo-italiane, disse che la politica a «due volti» non era un frutto del caso ma che era
«calcolata» e rifletteva la divisione sussistente in seno allo Stato italiano: da un lato, in
esso c’era il gruppo dirigente dei democristiani che sollecitavano Carbone a negoziare con
51
Viri 23, p. 236; V. Škorjanec, Osimska pogajanja, cit., p. 68.
52
AJ, 803, b. 16, Stenografske beleške sa III sednice Predsedništva SFRJ održane 18. juna 1974. godine u Karađorđevu; Viri
23, pp. 228-230; V. Škorjanec, Osimska pogajanja, cit., p. 83.
70 Saša Mišić
53
AJ, 803, b. 16, Stenografske beleške sa III sednice Predsedništva SFRJ održane 18. juna 1974. godine u Karađorđevu; Viri
23, p. 229.
54
Ibid; Viri 23, p. 230.
55
Viri 23, p. 245; V. Škorjanec, Osimska pogajanja, cit., pp. 72 -73.
La Jugoslavia e il Trattato di Osimo 71
Gli italiani avevano una visione completamente differente. Sin dall’inizio volevano
escludere completamente la questione della minoranza dall’accordo generale56. La loro po-
sizione era che tale problema si sarebbe dovuto regolare dopo aver abolito il MOU, quando
la questione della minoranza si sarebbe risolta «solo sulla base di dichiarazioni interne ai
due governi»57. L’esperienza provata proprio con la minoranza tedesca nel Sud Tirolo giocò
un ruolo cruciale in tal senso, tanto da spingere il governo di Roma a non voler ripetere un
accordo simile a quello firmato da Karl Gruber e Alcide De Gasperi nel 1946. Sin dal primo
incontro tra Carbone e Šnudrel del luglio 1974, il negoziatore italiano riteneva quella della
minoranza una questione di natura politica, tale da non poter essere trattata in un accordo
in cui si doveva trattare principalmente del confine58. Il massimo che la parte italiana era
disposta a concedere all’inizio dei negoziati di Strmol era che a essa si facesse solo cenno
nel preambolo dell’accordo, mentre i dettagli della soluzione della questione della mino-
ranza sarebbero stati chiariti in dichiarazioni unilaterali che i governi avrebbero rilasciato
di fronte ai rispettivi parlamenti. Dopo estenuanti trattative, la controparte italiana nella
fase conclusiva dei negoziati di Strmol convenne comunque che il futuro trattato avrebbe
dovuto contenere un articolo concernente le minoranze. In accordo con i suggerimenti
jugoslavi, esso consisteva di due paragrafi. Il primo definiva la situazione della minoranza
all’interno del territorio in cui, dal 1954, era ancora in essere lo Statuto speciale che preve-
deva che Jugoslavia e Italia «applicassero» tutte le misure indicate durante la sua stesura, e
che garantissero al contempo il livello di sicurezza previsto da tale atto internazionale. La
seconda parte era ancora più importante. Essa affermava che i due paesi avrebbero «portato
avanti indipendentemente politiche di massima tutela» per le minoranze, ispirandosi alle
indicazioni internazionali fatte proprie dallo Statuto dell’ONU. Si previde anche che i due
governi rilasciassero delle dichiarazioni ufficiali di fronte ai rispettivi parlamenti, in cui
avrebbero definito più specificatamente le proprie politiche nei confronti delle minoranze59.
Il significato di tale presa di posizione e di tali dichiarazioni stava nel fatto che esse avreb-
bero interessato le minoranze che vivevano al di fuori dell’area in cui lo Statuto speciale
era operativo, principalmente gli sloveni che vivevano nelle province di Gorizia e di Udine.
Nei mesi di ottobre e novembre del 1974, questioni delicate legate al confine vennero
risolte a Strmol. La bozza del trattato suggeriva di tracciare il confine del settore setten-
trionale in modo tale da preservare all’interno del contesto della Jugoslavia la maggio-
ranza delle «sacche di popolazione» collocate in una posizione controversa. Il punto più
complesso cui si dovette metter mano fu quello del crinale del Colovrat a causa della sua
importanza strategica. Dopo lunghi negoziati, durante i quali i vertici militari di entrambi
i paesi vennero consultati, la soluzione raggiunta prevedeva che la linea di demarcazione
corresse lungo il crinale in modo tale che i due Stati avessero assicurata la propria presen-
56
Ibid; V. Škorjanec, Osimski pogajalski proces. III del: Od strmola do Osima 1974-1975, Archive society of Slovenia, Lju-
bljana 2007, Viri, številka 24 (da ora in poi: Viri 24), p. 69.
57
Ibid.
58
Viri 24, p. 32; V. Škorjanec, Osimska pogajanja, cit., p. 92.
59
AJ, KPR, I-5-b/44-17, Izveštaj o toku pregovora sa Italijom o graničnim i drugim pitanjima koji je SSIP uputio predsednku
Titu 25. novembra 1974.
72 Saša Mišić
za in quel punto60. Venne trovata una soluzione anche per la demarcazione all’interno del
Golfo di Trieste. Nonostante si fosse definito il confine sulla base della proposta jugoslava
del 1973, gli italiani riuscirono a ottenere un recupero «minimo» all’uscita del golfo. Ciò
avrebbe consentito, infatti, alle grandi navi di muovervisi indisturbate. I negoziati decisero
inoltre che le navi da guerra italiane potessero transitare all’interno dell’isola di Palagruža
in convogli della flotta NATO61.
È così che alla fine di novembre, sei mesi dopo il primo incontro, Carbone e Šnuderl
conclusero i negoziati a Strmol. La formulazione degli accordi sulle «questioni aperte» e
su certe questioni di cooperazione economica, come sulla zona franca industriale, vennero
armonizzate e concluse. Secondo la procedura precedentemente convenuta, i negoziatori
dovevano siglarle e sottoporle ai ministri degli Affari Esteri per le loro firme. Ad ogni
modo la firma era condizionata dall’approvazione preventiva da parte dei leader politici di
entrambi i paesi.
Per la parte italiana l’approvazione non fu un percorso semplice, a causa dell’instabilità
della situazione politica ed economica cui l’intero paese era costretto durante il 1974. Fre-
quenti litigi in seno alla coalizione al potere di centrosinistra misero varie volte in pericolo
l’esistenza del governo di Mariano Rumor, tanto che il 3 ottobre esso dovette dimettersi.
Il clima politico era oltretutto avvelenato dalle azioni violente dell’estrema destra, dagli
attentati, sequestri e omicidi e pervaso da numerosi scandali e cospirazioni tra cui la più
grossa era quella collegata all’arresto del ex capo dell’intelligence, sospettato di essere
stato coinvolto nella pianificazione di un colpo di Stato nel 1970. La situazione politica
instabile era accompagnata da importanti difficoltà economiche, approfonditesi con la crisi
del petrolio che colpì pesantemente l’Italia, grande importatrice di tale fonte di energia62.
Anche la Jugoslavia doveva fronteggiare problemi interni, oltre a quelli che doveva affron-
tare in ambito internazionale, a causa dell’apertura di un dissidio in merito alla questione
della minoranza63 con l’Austria .
Dopo il dicembre 1974, quando i vertici dello Stato jugoslavo si espressero favorle-
volmente sui negoziati che si erano tenuti a Strmol, una valutazione positiva da Roma era
attesa con grande impazienza, ma le settimane passavano e non c’era reazione alcuna. Nel
frattempo la Jugoslavia tentò di tenere congelate il più possibile le relazioni politiche con il
paese vicino, in modo da evitare qualsiasi tipo di manifestazione pubblica di buon vicinato,
poiché queste avrebbero potuto far intuire che le relazioni tra i due Stati erano in realtà
tornate alla normalità. Diversamente dalla Jugoslavia, sembrava che l’Italia volesse invece
60
Ibid. Considerando il fatto che secondo le disposizioni del Trattato di pace l’Italia non poteva costruire le proprie fortifica-
zioni militari a meno di 20 km dal confine, la posizione strategica della Jugoslavia era salvaguardata.
61
V. Škorjanec, Osimska pogajanja, cit., p. 108.
62
L’Italia venne particolarmente colpita dalla crisi petrolifera, se si considera che l’80% dell’energia del paese derivava
dall’importazione di tale risorsa. TNA, FCO, 33/2721, Italy: annual rewiev for 1974.
63
Nell’ottobre del 1974 le relazioni della Jugoslavia con l’Austria si deteriorarono seriamente: la questione delle minoranze
slovena e croata era la causa di tale deterioramento. La Jugoslavia aprì la questione della minoranza poiché l’Austria non ave-
va accettato i regolamenti derivanti dal Trattato di Stato austriaco del 1955 che garantiva i diritti delle minoranze alla popo-
lazione slovena e croata. Belgrado di conseguenza passò una nota all’Austria per esercitare una pressione politica sul paese.
La Jugoslavia e il Trattato di Osimo 73
dimostrare attraverso dimostrazioni pubbliche quanto le relazioni tra i due paesi avessero
ripreso a procedere nella giusta direzione64.
Infine, il 30 gennaio 1975 la parte italiana richiese attraverso Maccotta un nuovo incon-
tro Šnuderl-Carbone, con la precisazione che, rispetto a quanto concordato a Strmol, si era-
no rese necessarie alcune lievi modifiche apparentemente di natura procedurale, ma di cui
non si evidenziava con chiarezza a cosa facessero riferimento65. In attesa del programmato
incontro, la controparte jugoslava tentava di scoprire le reali intenzioni italiane che erano
alla base della convocazione di un nuovo incontro. Poiché trascorsero alcune settimane
senza ricevere risposte, non vi era certezza se ciò dipendesse davvero da insignificanti cam-
biamenti di alcune parti del trattato o se non si trattasse invece di un atteggiamento dell’Ita-
lia profondamente cambiato nei confronti della soluzione della questione; in altre parole, il
timore era che l’Italia avesse rinunciato a risolverla aderendo così a una strategia più ampia
tracciata da Stati Uniti e NATO nei confronti dello Stato jugoslavo. La possibilità di trovare
risposte a Roma era molto limitata. Il regime di stretta confidenzialità dei negoziati, il limi-
tato numero di coloro i quali erano coinvolti nell’affare e che erano disponibili a parlarne
furono ostacoli insormontabili per gli jugoslavi. Di conseguenza, tutto si limitò a delle
supposizioni sui motivi possibili. Tali supposizioni svanirono quando un nuovo incontro
tra negoziatori ebbe luogo il 12 marzo 1975 a Dubrovnik, più di tre mesi dopo il primo,
tenuto a Strmol. I presagi della parte jugoslava che gli italiani avessero in mente molto più
di una semplice riscrittura formale dell’accordo si rivelarono esatti già durante il primo
approccio tra i negoziatori. Precisamente, Carbone presentò tutta una serie di osservazioni
che i vertici dello Stato italiano avevano avanzato rispetto alla bozza del trattato di Strmol.
Oltre ad alcune minime correzioni del testo, che non cambiavano nella sostanza ciò che era
stato concordato, gli italiani chiedevano altre modifiche importanti. L’accordo sul confine
di terraferma e di mare non venne messo in discussione, ma si chiese di modificare l’ac-
cordo sulle minoranze, sulle merci e sulla cittadinanza. I negoziatori italiani giustificarono
tali richieste alla luce di critiche pesanti che avevano ricevuto dai vertici politici, perché si
erano dimostrati troppo permissivi durante i negoziati, soprattutto sull’articolo concernente
le minoranze66. Ciò fu particolarmente evidenziato durante l’incontro con Moro, che verso
la fine del 1974 aveva assunto il ruolo di primo ministro, con Rumor, che era diventato nuo-
vo ministro degli Affari Esteri, e con i rappresentati dei partiti che sostenevano il governo
durante la sessione parlamentare tenutasi in febbraio. All’incontro, a seguito dell’insistenza
del primo ministro, venne avanzata la richiesta di escludere dall’articolo sulle minoranze il
64
Un chiaro esempio in tal senso fu il tentativo da parte italiana di ottenere, in occasione del quinquennio della pubblicazi-
one del giornale «Ital-jug», dichiarazioni ufficiali di alcuni leader jugoslavi e italiani sulle relazioni bilaterali. Il segretariato
federale degli Affari Esteri valutò ciò come una ben nota tattica di Roma che, attraverso «alcune azioni manifeste intraprese
davanti all’opinione pubblica delle due nazioni e mondiale voleva dare l’illusione di un successo della cooperazione, mentre
allo stesso tempo procrastinava la soluzione delle questioni fondamentali tra i due paesi, la cui attuazione era di competenza
del governo». АMIP, PA, 1975, b. 53, f. 9, No. 41483, Zabeleška Prve uprave SSIP od 20. januara 1975.
65
АЈ, KPR, I-5-б/44-18, Italija, Zabeleška iz razgovora podpredsednika Saveznog izvršnog veća i saveznog sekretara za
inostrane poslove M. Minića sa italijanskim ambasadorom G.W. Maccotta, na traženje ambasadora 30. januara 1975. AMIP,
PA 1975, b. 53, f. 11, No. 44716, Telegram SSIP-a upućen Rimu 31. januara 1975; Viri 24, pp. 91-93.
66
Viri 24, p. 103; V. Škorjanec, Osimska pogajanja, cit., p. 124.
74 Saša Mišić
67
AJ, KPR, I-5-b/44-18, Informacija o rezultatima razgovora sa italijanskom delegacijom o novim itali-janskim predlozima
(u Dubrovniku od 11-16. III 1975).
68
Viri 24, pp. 108-109; V. Škorjanec, Osimska pogajanja, cit., p. 132.
69
Ibid.
70
Quando nell’autunno dello stesso anno si sviluppò un aspro dibattito sulla firma del trattato jugoslavo-italiano, alcuni mem-
bri della formazione neofascista Movimento sociale italiano – Destra nazionale enfatizzarono che l’accordo sul confine era
già stato raggiunto dopo l’incontro tra Tito e Berlinguer e la discussione di marzo (si veda a questo riguardo M. Cattaruzza,
L’Italia e il confine orientale 1866-2006, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 341-342). Ad ogni modo dall’analisi delle minute
dell’incontro tra Tito e Berlinguer si può concludere che la questione del confine non fu il fulcro principale della discussione.
Sui colloqui tra Tito e Berlinguer si veda: AJ, KPR, I-3-a, Poseta generalnog sekretara KPI Enrika Berlinguera, 29. mart 1975.
La Jugoslavia e il Trattato di Osimo 75
71
AMIP, PA, 1975, b. 54, f. 2, No. 422154, Zabeleška u vezi sa situacijom po pitanju zasedanja Mešovitog jugoslovensko-
italijanskog odbora za manjine od 7. maja 1975.
72
La Jugoslavia presentò la sollecitazione attraverso il consigliere dell’ambasciatore a Roma Vitomir Dobrila poichè rap-
presentanti locali delle autorità civili e militari presero parte alla celebrazione del «giorno del rifugiato» che si era tenuto in
febbraio a Trieste. AMIP, PA, 1975, b. 52, No. 419 135, telegram ambasade u Rimu upućen Beogradu 16. aprila 1975.
73
Ibid.
74
Viri 24, p. 116. V. Škorjanec, Osimska pogajanja, cit., p. 139.
75
AJ, KPR, I-5-b/44-18, Izveštaj o završnim razgovorima sa Italijanima u Strunjanu od 21. maja do 8. juna 1975. Viri 24, pp.
137-138. Per maggiori dettagli sui negoziati a Strugnano si veda: V. Škorjanec, Osimska pogajanja, cit., pp.144-155.
76 Saša Mišić
Roberto Gaja76. Questi, inoltre, suggerì l’ipotesi di mosse ulteriori che avrebbero fatto se-
guito alla conclusione dei negoziati tra Šnudrel e Carbone. Il governo italiano pianificò di
informare il parlamento della determinazione a concludere tutte le questioni controverse
aperte con la Jugoslavia attraverso dei negoziati, subito dopo le elezioni regionali e locali
previste per il 15 giugno. Tali negoziati sarebbero però stati di carattere formale77. Nego-
ziati ufficiali erano necessari per gli italiani per ragioni interne, visto che il governo fino
ad allora aveva negato che fossero state portate avanti delle trattative. Per la Jugoslavia,
negoziati formali avrebbero rappresentato solo una «facciata» per firmare ciò che era già
stato deciso78.
Questa comunicazione ufficiale tra i due ministri incoraggiò sicuramente gli jugoslavi
più scettici, già demoralizzati dalle continue richieste di nuove concessioni da parte italia-
na, a pensare che la fine dei negoziati era davvero vicina. È per questo che a Belgrado si
decise che come «gesto politico e di buona volontà il governo jugoslavo, nell’interesse di
una cooperazione amichevole futura tra i due paesi» acconsentiva alla correzione territoria-
le sul Sabotino79. Infine, l’8 giugno Šnudrel e Carbone siglarono i testi del trattato segnando
così la fine del lungo processo di negoziazione.
L’accordo appena siglato dovette fronteggiare il primo banco di prova a metà giugno.
L’incertezza fu nuovamente causata dall’instabile situazione politica italiana. Precisamen-
te, il 15 giugno si svolsero nel paese le già citate elezioni. Queste evidenziarono una cresci-
ta dei partiti di sinistra e un calo dei democristiani. Con il 33,4% dei voti il Partito comuni-
sta italiano sfiorò, con meno del 2% di differenza, il risultato dei democristiani che vinsero
con il 35,3%. In più, gli altri partiti di sinistra aumentarono i propri consensi, così che in
totale essi ottennero il 46,8% dei voti80. I deludenti risultati elettorali crearono confusione
tra le file dei democristiani e misero a repentaglio la sopravvivenza del governo di Aldo
Moro formatosi sei mesi prima. La prima misura che essi presero fu quella di rimuovere il
segretario del partito Fanfani, identificato come il responsabile per molti dei fallimenti del
partito dalla sconfitta subita al referendum sul divorzio nel maggio 1974, ai pessimi risultati
alle elezioni del 15 giugno 197581.
Essendo alle porte la seduta del CSCE, che sarebbe iniziata il 30 luglio, i nervi degli
jugoslavi erano a fior di pelle perché, nonostante la sottoscrizione, non c’era alcun segnale
dell’intenzione di firmare il trattato, così come invece era stato prospettato dallo scenario
concordato a Strugnano. La sospensione della concretizzazione di tale prospettiva condi-
visa era il tema principale della discussione interna alla presidenza jugoslava, tenutasi a
Brioni l’11 luglio82. I vertici dello Stato presenti decisero di preannunciare agli italiani che
76
AMIP, PA, 1975, b. 55, f. 2, No. 425904,Telegram ambasade iz Rima upućen Miniću-lično 24. maja 1975; Viri 24, p.129;
V. Škorjanec, Osimska pogajanja, cit., p.150.
77
Ibid.
78
AMIP, PA, 1975, b. 55, f. 2, No. 424173, Telegram iz Beograda upućen Rimu 19. maja 1975.
79
In questo modo l’Italia ebbe la cima del Sabotino e 32 ettari di terra. AJ, KPR, I-5-b, Izveštaj o završenim razgovorima sa
Italijanima u Strunjanu od 21. maja do 8. juna 1975.; Viri 24, p. 138.
80
G. Galli, I partiti politici italiani (1943-2004), BUR, Milano 2006, pp. 168-169; P. Ginsborg, A history of Contemporary
Italy. Society and Politics 1943-1988, Palgrave Macmillan, New York 2003, pp. 372-373.
81
Amintore Fanfani fu sostituito alla guida del partito da Benigno Zaccagnini.
82
AJ, 803, f. 28, Stenografske beleške sa XXXVI sednice Predsedništva SFRJ održane 11. jula 1975 (una parte delle note
stenografiche riferite all’Italia sono state pubblicate anche in Viri 24, pp. 140-142).
La Jugoslavia e il Trattato di Osimo 77
al CSCE la Jugoslavia avrebbe fatto una «dichiarazione interpretativa del carattere del con-
fine in Europa avendo in mente il confine jugoslavo-italiano» se, finanche all’inizio della
seduta, il trattato non fosse ancora stato ufficialmente firmato83. Solo dopo l’«appello» di
Rumor, che raccomandava di non fare tutto ciò e le rassicurazioni che l’accordo sarebbe
stato firmato immediatamente dopo la fine della conferenza, la Jugoslavia rinunciò alla
«dichiarazione interpretativa»84.
La concretizzazione dello scenario concordato durante la seconda metà di luglio iniziò
effettivamente dopo la fine della conferenza di Helsinki. In accordo con il previsto calen-
dario delle iniziative, la delegazione italiana capeggiata da Carbone arrivò a Belgrado il 6
agosto, nello stesso giorno in cui lui e Šnudrel siglarono il trattato. Nonostante la procedura
completa si fosse compiuta di fronte ai fotografi, c’era l’accordo che tutto rimanesse sotto
una stretta riservatezza e fosse trattato come un segreto di Stato85. In agosto si svolsero i
preparativi per l’annuncio del raggiunto accordo con l’Italia. Essi consistevano nell’ela-
borazione dettagliata di tutti i passaggi da rispettare per informare del suo contenuto le
diverse strutture politiche della Jugoslavia. La sequenza temporale prevedeva di informare,
prima di tutti gli altri, gli «attivi dei quadri» delle Repubbliche di Slovenia e Croazia, come
anche i dirigenti principali delle municipalità delle repubbliche confinanti con l’Italia, cir-
ca dieci giorni prima dell’annuncio del trattato presso l’assemblea della RSFJ. Dopo di
loro, vennero le altre repubbliche e province, e un paio di giorni prima della presentazione
all’assemblea dovettero essere informati gli altri «attivi» operanti presso le municipalità
sugli altri confini. Il piano prevedeva che gli ambasciatori di USA, URSS e Gran Breta-
gna venissero avvisati dell’accordo raggiunto immediatamente prima del discorso di Minić
all’assemblea. Infine, alcune ore prima del discorso, si sarebbe svolto un breve incontro per
informare la stampa interna e la televisione86.
Nelle settimane successive, entrambi gli Stati coordinarono e pianificarono la conclu-
sione del processo negoziale nei minimi particolari. I vertici dello Stato jugoslavo, alla
seduta della presidenza dell’RSFJ del 15 settembre presero la decisione di iniziare la rea-
lizzazione del piano, informando gli «attivisti politici» delle repubbliche e delle provincie
dell’accordo raggiunto con l’Italia, così come era stato programmato tra la fine di agosto e
l’inizio di settembre. A tal fine, il 20 settembre venne diramato un promemoria che era sta-
to in precedenza concordato con Slovenia e Croazia87, e che conteneva nel dettaglio tutti i
passaggi che sarebbero dovuti essere rispettati per giungere a una conoscenza approfondita
del contenuto degli accordi siglati con l’Italia88. Due giorni dopo la sessione della presiden-
za, il vicesegretario del segretariato federale degli Affari Esteri Lazar Mojsov informò gli
ambasciatori di USA, URSS, Gran Bretagna e Francia dell’accordo raggiunto89. Le reazioni
83
АMIP, PA 1975, b. 55, f. 2, No. 434585, Telegram SSIP-a upućen Rimu 15. jula 1975. 1975; Viri 24, p. 146.
84
АMIP, PA, 1975, b. 52, No. 435863, Telegram iz Rima upućen Beogradu 24. jula 1975; Viri 24, p. 149.
85
AJ, KPR, I-5-b/44-18, Zabeleška o parafiranju ugovornih instrumenata između SFR Jugosalvije i Republike Italije, koje je
obavljeno u Saveznom sekretarijatu za inostrane poslove u Beogradu, dana 6. avgusta 1975 godine; Viri 24, str. 158-159; V.
Škorjanec, Osimska pogajanja, str. 165-168.
86
Viri 24, p. 160-161; V. Škorjanec, Osimska pogajanja, cit., pp. 170-171.
87
AJ, 803, f. 29, Stenografske beleške sa XXXVIII. sednice Predsedništva SFRJ održane 25. septembra 1975. u Beogradu.
88
Il testo del promemoria è pubblicato in Viri 24, pp. 172-175.
89
AJ, KPR, I-5-b/44-18, Italija, Informacija o reagovanjima nekih ambasadora na rezultate razgovora sa predstavnicima
italijanske vlade u vezi sa rešavanjem kompleksa međusobnih odnosa.
78 Saša Mišić
degli ambasciatori dei paesi occidentali furono molto positive, mentre gli unici toni parzial-
mente dissonanti giunsero da parte dell’ambasciatore sovietico Stjepakov. Anch’egli salutò
l’accordo definendolo a parole come un «gran successo», aggiungendo altresì che era un
«sostegno» per lo Stato jugoslavo90.
Infine, il raggiungimento dell’accordo venne pubblicizzato il 1° ottobre quando i mini-
stri degli Affari Esteri di entrambi i paesi si presentarono di fronte ai rispettivi parlamenti
e annunciarono i principali articoli che vi erano contenuti. La presentazione simultanea di
Rumor e Minić era il risultato di discussioni molto dettagliate e di un’armonizzazione tra i
due ministri degli Affari Esteri, in cui molta cura fu prestata a esaminare ogni particolare,
a partire dalla tempistica con cui si sarebbero tenuti i discorsi, nonché ai temi che entrambi
avrebbero toccato di fronte ai parlamentari91.
La notizia dell’accordo raggiunto tra Italia e Jugoslavia causò reazioni opposte a livello
internazionale. Come si è già detto, dieci giorni prima di annunciarlo pubblicamente, la Ju-
goslavia aveva informato ufficialmente gli ambasciatori degli Stati citati della sua esisten-
za. La parte italiana non lo fece che un paio d’ore prima che Rumor e Moro presentassero
l’accordo al parlamento. La reazione ufficiale degli USA arrivò già il 2 ottobre, quando il
rappresentante del dipartimento di Stato Robert L. Funseth disse in conferenza stampa che
l’accordo «riflette un approccio da statisti» dei vertici di Italia e Jugoslavia, e che esso era
importante non solo per la regolazione delle relazioni tra i due paesi vicini, ma anche per la
«stabilità e la sicurezza di questa parte d’Europa»92. La reazione degli alti funzionari nella
maggior parte dei casi si sovrapponeva a quanto riportava la stampa statunitense.
Reazioni simili giunsero da altri paesi dell’Europa occidentale. Il ministro francese degli
Affari Esteri Jean Sauvagnargues si congratulò con entrambe le parti per l’accordo raggiun-
to93, mentre soddisfazione venne espressa anche dagli alti funzionari di Bonn e Londra. La
stampa di questi paesi, allo stesso modo, pubblicò numerosi articoli positivi, sottolineando
che si era estinto «l’ultimo nucleo problematico di questa parte di mondo», che l’accordo
era stato raggiunto nello spirito della Conferenza che si era conclusa positivamente a Hel-
sinki, e che esso era portatore di un’importanza più ampia per quel che concerneva il tema
della pace in Europa. Toni dissonanti si facevano sentire sui giornali con un orientamento
di destra, come il francese «Aurore». A Belgrado si sottolineò come il giornale del Partito
comunista francese «L’Humanite» avesse dedicato uno spazio limitatissimo all’accordo se
paragonato a quello riservato dall’altra stampa francese94.
La situazione nei paesi dell’Europa dell’Est era completamente differente. Nonostante
la prima reazione dell’ambasciatore a Belgrado Stjepakov fosse stata positiva, i vertici
dell’Unione Sovietica non dissero nulla. Nella prima settimana di ottobre passarono solo
90
Ibid.
91
Ciò è sostanziato dal fatto che la presentazione di Minić era stata inizialmente programmata per le ore della mattinata, men-
tre Rumor avrebbo dovuto parlare nel pomeriggio. Dopo una richiesta urgente da parte degli Italiani fu deciso che i ministri
parlassero nello stesso momento. AMIP, PA 1975, b. 55, f. 4, No. 446712, Telegram ambasade iz Rima upućen Beogradu 1.
oktobra 1975.
92
AMIP, PA, 1975, b. 55, f. 6, No. 448154, informacija br. 1: Prva reagovanja u svetu na dogovor SFR Jugoslavije i Italije o
sporazumnom rešavanju graničnih i drugih pitanja,7. oktobra 1975.
93
Ibid.
94
Ibid.
La Jugoslavia e il Trattato di Osimo 79
due notizie sull’accordo sull’agenzia statale TASS. Il silenzio da parte di Mosca doveva
preoccupare la diplomazia jugoslava, che ne discusse al gabinetto del Settore per l’Europa
e Nord America del segretariato federale degli Affari Esteri tenutosi il 6 ottobre, e decise
di informarne l’opinione pubblica95. Le ragioni di tale preoccupazione erano originate dal
fatto che le relazioni politiche con i sovietici stavano a quel tempo attraversando un periodo
di crisi. Accanto ad altre ragioni, quella più concreta era legata alla questione dell’azione
antijugoslava dei gruppi del Cominform che gli Jugoslavi consideravano godere dell’ap-
poggio di Mosca96.
Ulteriore preoccupazione era motivata da alcune dichiarazioni di alti funzionari sovie-
tici a Belgrado sul trattato jugoslavo-italiano. Così, il ministro italiano per il Commercio
Estero Ciriaco De Mita riportò all’ambasciatore Pavićević la dichiarazione del primo mini-
stro sovietico Alexei Kosygin, che aveva incontrato a Mosca all’inizio di ottobre. Kosygin
chiese a uno scioccato De Mita: «È vero che darete Trieste alla Jugoslavia?»97. Gli italiani
valutarono negativamente l’atteggiamento sovietico, anche se lo ritennero comprensibile
visto che la logica sottesa era: «Meno problemi ha la Jugoslavia, meno essa è favorevole
all’URSS»98. La stessa situazione si aveva con altri paesi socialisti. Mentre gli alti funzio-
nari non parlavano, i media riportavano solo parziali informazioni sull’accordo sottoscritto,
così che in Bulgaria la notizia passò solo attraverso Radio Sofia, mentre in Cecoslovacchia
non circolarono notizie di alcun genere sul trattato. Una situazione parzialmente migliore si
ebbe in Polonia, nella Germania democratica e in Ungheria. Solo la stampa rumena lo pub-
blicizzò ampiamente99. Reazioni positive dall’Est iniziarono a giungere solo dalla metà di
novembre quando il trattato fu siglato ufficialmente. Il presidente del presidium del Soviet
supremo dell’Unione Sovietica, Nikolai Podgorny, il 18 novembre, il primo giorno della
visita del presidente italiano Leone in URSS, durante una bicchierata tenuta in onore del
presidente italiano, dimostrò per primo un’attitudine positiva nei confronti del trattato100,
la stessa che, a seguire, avrebbe dimostrato il ministro degli Affari Esteri Gromyko nella
lettera indirizzata il 24 novembre a Minić, in cui esprimeva anche la sua soddisfazione per
la firma del trattato101.
95
AMIP, PA, 1975, b. 63, f. 8, No. 448226, Rezime i zaključci sa sastanka Kolegijuma za Evropu i Severnu Ameriku
održanog 6. oktobra 1975.
96
L’azione del «nemico interno», con un accento particolare sull’attività dei gruppi del Cominform, era stata discussa alla
XIV seduta della presidenza del Comitato centrale della Lega dei comunisti jugoslavi, tenutasi il 15 ottobre a Karađorđevo.
AJ, KPR, II-3-a- 1/285
97
AMIP, PA, 1975, b. 55, f. 7, No. 451682, Telegram ambasade iz Rima upućen Beogradu 31. oktobra 1975.
98
AMIP, PA, 1975. b. 55, f. 9, No. 455625, Dopis ambasade iz Rima upućen Beogradu 20. novembra 1975.
99
AMIP, PA, 1975, b. 55, f. 6, No. 448167, Inostrana štampa o jugoslovensko-italijanskom dogovoru, 8. 10. 1975; Ibid, No.
448154, Informacija br. 1, Prva reagovanja u svetu na dogovor SFR Jugoslavije i Italije o sporazumnom rešenju graničnih i
drugih pitanja, 7. oktobar 1975.
100
Podgorny disse che il trattato jugoslavo-italiano era un «contributo significativo» per la realizzazione concreta dei principi
decisi al CSCE a Helsinki. Vedi «L`Unità», 19 novembre 1975. Si veda anche AJ, 803, f. 31, Stenografske beleške sa XXX-
XIV. sednice Predsedništva SFRJ održane 5. decembra 1975. godine u Beogradu; AMIP, PA, b. 55, f. 9, No. 456766, telegram
ambasade iz Moskve upućen SSIP-u 25. novembra 1975.
101
AMIP, PA, b. 55, f. 9, No. 456318, Dopis Druge uprave SSIP-a upućen ambasadi u Moskvi 21. 11. 1975. Il silenzio di
più di un mese da parte dell’Unione Sovietica venne commentato da Belgrado come espressione di sfiducia della dirigenza
dell’URSS nei confronti della politica tenuta dagli Jugoslavi. AJ, 803, f. 31, Stenografske beleške sa XXXXIV sednice
Predsedništva SFRJ održane 5. decembra 1975. godine u Beogradu.
80 Saša Mišić
Nonostante il suo carattere bilaterale, il trattato raggiunto assunse anche una dimensione più
ampia poiché aboliva il Memorandum per la cooperazione. Contemporaneamente, la questione
della nomina di un governatore per il Territorio libero di Trieste doveva essere rimossa dall’agen-
da dell’ONU. Così Kurt Waldheim venne informato a riguardo. Egli salutò con favore l’accordo
tra i due Stati, mentre reazioni positive giunsero anche dagli ambienti diplomatici delle Nazioni
unite102.
Quando sembrava che il trattato avesse raggiunto un ampio sostegno pubblico in entrambi
i paesi e che fosse stato approvato sul più ampio piano internazionale, un’altra sorpresa giunse
dall’Italia sotto forma di altre richieste di modifica del trattato siglato e di alcune concessioni
ancora da fare. Avvisaglie di tali sviluppi potevano già essere intuite durante il dibattito al Senato
italiano. Alcuni senatori, come i democristiani Amintore Fanfani e Giuseppe Pella, e il liberale
Manlio Brosio avanzarono richieste di modifica di alcune disposizioni del trattato che lo avrebbe-
ro reso più accettabile per l’Italia. Tale iniziativa provocò l’intervento di Carbone. Nell’incontro
con Šnuderl avvenuto il 19 ottobre a Belgrado, egli presentò tutte le riserve che i proponenti di
tale iniziativa avevano avanzato e chiese alla parte jugoslava di «venire incontro» ad alcune del-
le richieste poste in essere, aggiungendo che una conclusione positiva «sarebbe stata di estrema
importanza per la creazione di una situazione più favorevole per la ratifica del trattato da parte del
Parlamento italiano»103. Le richieste italiane, completamente inaspettate da parte jugoslava, venne-
ro fatte proprie da uno sloveno. Costui era deputato del Partito comunista italiano nel Parlamento
italiano, Albin Škerk. Il 22 ottobre indirizzò una lettera al ministro Rumor in cui si diceva interes-
sato al destino di una strada delle propria circoscrizione, nel comune di Duino-Aurisina, che era
stata tagliata dal confine di Stato ostacolando non poco la vita della popolazione locale; così egli
richiedeva che, per ragioni pratiche, la parte del territorio jugoslavo attraverso cui la strada passa-
va fosse riunito all’Italia104. Nonostante la proposta di Škerk per la correzione del confine venisse
rigettata come «non opportuna», la parte jugoslava si dimostrò nonostante tutto ben disposta ad
accettare alcune richieste del governo italiano che non inficiassero le soluzioni del confine. A tal
fine Minić avvertì Šnuderl di portare avanti le consultazioni con i vertici sloveni105. Il risultato fu
ad ogni modo che non ce ne sarebbe stato bisogno, visto che la parte italiana stessa rinunciò a gran
parte delle richieste avanzate.
L’incontro successivo delle due delegazioni si tenne a Belgrado il 30 ottobre. L’occasione ven-
ne fornita dalla dichiarazione italiana che la commissione CEE aveva accettato il protocollo sulla
zona franca industriale. In quel frangente la parte italiana sottopose la proposta di scambiare alcu-
ne lettere confidenziali in cui si modificavano alcune misure dell’accordo raggiunto. La Jugoslavia
accettò le lettere, e in quel modo venne incontro almeno a una delle richieste avanzate il 19 ottobre
da Carbone106.
102
AMIP, PA, 1975, b. 55, f. 6, No. 448154, Informacija br. 1, Prva reagovanja u svetu na dogovor SFR Jugoslavije i Italije o
sporazumnom rešenju graničnih i drugih pitanja, 7. oktobar 1975.
103
La lista conteneva nove richieste. Gli italiani, tra le altre cose, chiesero l’espansione della zona franca industriale, la
correzione della linea del confine in alcuni punti, la conservazione di alcuni accordi di scambio tra confini minori e alcune
concessioni economiche. Viri, pp. 198-199; V. Škorjanec, Osimska pogajanja, cit., pp. 187-188.
104
AMIP, PA, Italija, 1975, b. 56, f. 19, No. 450384, Telegram iz Rima upućen Beogradu 24. oktobra 1975.
105
V. Škorjanec, Osimska pogajanja, cit., p. 191.
106
AJ, KPR, I-5-b/44-18, Italija, Zabeleška o razgovoru jugoslovenske i italijanske delegacije od 30. oktobra 1975.
La Jugoslavia e il Trattato di Osimo 81
Accettato il Protocollo sulla zona franca industriale da parte della commissione CEE, armoniz-
zati alcuni punti del trattato durante l’incontro tenutosi il 30 ottobre, tutti gli ostacoli per la firma
conclusiva al trattato erano stati finalmente rimossi. La firma avvenne il 10 novembre al castello
Leopardi Dittaiuti nei pressi della piccola cittadina sul mare di Osimo, a 15 km da Ancona. La
scelta di tale luogo fu italiana. Secondo la spiegazione del nuovo segretario generale della Farne-
sina Plaia, l’intenzione dell’Italia era quella di firmare il trattato in una località della costa adriatica
per sottolineare simbolicamente l’importanza dell’accordo raggiunto da parte dei due vicini affac-
ciati sull’Adriatico107. I vertici dello Stato jugoslavo pensarono che siglare l’accordo con l’Italia a
Osimo fosse un evento di importanza internazionale e un contributo per rafforzare e consolidare
la posizione jugoslava in politica estera, in particolare in relazione ad alcuni Stati vicini con i quali
Belgrado aveva ancora molte questioni in sospeso108. Ciò valeva innanzitutto per l’Austria e la
Bulgaria, che iniziarono a profondere sforzi maggiori per migliorare le relazioni con la Jugosla-
via. Entrambi gli Stati citati, che fino ad allora erano stati in cattive relazioni con la Jugoslavia,
richiesero prima e dopo la firma del Trattato di Osimo contatti con Belgrado. I bulgari lo fecero
attraverso il proprio ministro degli Affari Esteri Petar Mladenov, in visita ufficiale in Jugoslavia
dall’11 al 13 novembre. In quell’occasione portò una bozza di dichiarazione sullo sviluppo delle
relazioni tra il popolo della Repubblica di Bulgaria e la RSFJ, in cui si proponeva la soluzione della
maggior parte delle questioni aperte nelle relazioni interstatuali. Il giudizio degli alti funzionari
jugoslavi era che uno dei motivi per tale accettazione era da ritrovare nella «eco positiva» che il
Trattato di Osimo aveva lasciato dietro di sé109. La stessa cosa accadde con l’Austria. Il cancelliere
della repubblica Bruno Kreyski richiese un incontro urgente con i leader degli Stati jugoslavi, poi-
ché – secondo le parole di Minić – egli era «completamente sotto pressione» a causa dell’accordo
jugoslavo con l’Italia e «pienamente desideroso di recarsi in Jugoslavia»110. Kreyski arrivò in gran
segreto in Jugoslavia, e al castello di Strmol parlò con Kardelj il 28 e il 29 dicembre, giorno in cui
incontrò anche Josip Broz111.
La firma del Trattato di Osimo nel novembre 1975 chiuse finalmente le «questioni aperte» che
per tre decenni avevano rappresentato un fardello per la piena realizzazione delle relazioni tra Ju-
goslavia e Italia. Una nuova fase nello sviluppo di una complessiva cooperazione bilaterale poteva
iniziare, senza l’ipoteca di questioni irrisolte legate al confine interstatuale. La sua piena realizza-
zione, ad ogni modo, si compì lungo un periodo di un anno e mezzo, ovvero quello trascorso tra
la firma del trattato e la sua ratifica da parte dei parlamenti di entrambi gli Jugoslavia e Italia. Essi,
infine, nel marzo 1977 ratificarono il trattato che entrò in vigore il 3 aprile 1977112.
Traduzione di Francesca Scarpato
107
AMIP, PA, Italija, 1975, b. 55, f. 7, No. 451784, Telegram ambasade iz Rima upućen Beogradu 1. novembra 1975.
108
Su ciò la miglior testimonianza è quella della seduta della presidenza della Jugoslavia tenutasi il 12 novembre a Belgrado.
In quell’occasione, Josip Broz affermò che il trattato aveva un’importanza internazionale fondamentale. Minić aggiunse che
questo era un «grande evento che presentava la Jugoslavia agli occhi del mondo come un attore fondamentale per la stabilità
e il mantenimento della pace». Il membro della presidenza Lazar Koliševski aggiunse brevemente che il Trattato di Osimo
rappresentava «il momento più luminoso dopo Helsinki». AJ, 803, f. 30, državna tajna, Stenografske beleške sa XXXXII
sednice Predsedništva SFRJ održane 12. novembra 1975. godine u Beogradu.
109
Ibid.
110
Ibid.
111
AJ, KPR, I-3-a/6-29, Prijem austijskog saveznog kancelara Bruna Krajskog.
112
M. Udina, Gli accordi di Osimo. Lineamenti introduttivi e testi annotati, LINT, Trieste 1979, p. 207. Per maggiori dettagli
sul periodo compreso tra la firma del trattato e la sua ratifica si veda V. Škorjanec, Osimska pogajanja, p. 207-241.
«Qualestoria» n. 2 - dicembre 2013
Il dibattito pubblico sul trattato di Osimo fra ragion di Stato e protesta locale
di Diego D’Amelio
Abstract – The public debate about the Osimo Treaty between raison d’etat and local
protest
The essay retraces the public debate about the 1975 Osimo Treaty. The pact settled the dispute
with Yugoslavia over the Italian eastern boundary. It was portrayed by the Italian center-left
government as a great diplomatic achievement and as the final act of the Italian-Yugoslavian
appeasement (reconciliation) negotiations through a successful management of Aldo Moro’s «Os-
tpolitik», fostered by the Democrazia cristiana (DC) party. The treaty provoked however not only
harsh tensions within broad sectors of Trieste’s citizenry but also disunity within the local DC
party itself. The study examines the stances taken in the Italian parliamentary sessions and in the
national press. Furthermore, it focuses on the Trieste’s political debate. Referring to this latter set-
ting, the local community witnessed the emergence of a varied and widespread opposition against
certain political, national, economic and environmental provisions of the treaty. The re-emergence
of unrelieved political quarrels and myths – including both municipal and national issues – testi-
fied the inability of the DC party in convincing a large part of the local public opinion to accept the
guidelines for normalization of the city within the wider national strategy of normalization in the
Adriatic area. Thus, the Osimo Treaty marked the end of the predominance of the DC in the local
political scenery: the party was quickly supplanted by the Lista per Trieste movement.
Key words: Osimo Treaty, Lista per Trieste, Democrazia Cristiana, Local protest
Parole chiave: Trattato di Osimo, Lista per Trieste, Democrazia Cristiana, protesta locale
Normalizzazione adriatica?
«Pace nella sicurezza» e «confine ponte»: furono queste le evocative formule utilizzate
dalla Democrazia cristiana negli anni Sessanta e Settanta, per indicare le mete della disten-
sione in atto fra Italia e Jugoslavia1. Tanto al centro quanto in periferia, nella cornice della
1
Roma-Belgrado. Gli anni della guerra fredda, a c. di M. Galeazzi, Longo, Ravenna 1995; B. Bagnato, Prove di Ostpolitik.
Politica ed economia nella strategia italiana verso l’Unione Sovietica 1958-1963, Olschki, Firenze 2003; L. Monzali, La
questione jugoslava nella politica estera italiana dalla prima guerra mondiale ai trattati di Osimo (1914-1975), in Europa
adriatica. Storia, relazioni, economia, a c. di F. Botta, I. Garzia, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 15-72; La questione adri-
atica e l’allargamento dell’Unione europea, a c. di F. Botta, I. Garzia, P. Guaragnella, Angeli, Milano 2007; M. Bucarelli,
La «questione jugoslava» nella politica estera dell’Italia repubblicana (1945-1999), Aracne, Roma 2008; Dalla cortina di
ferro al confine ponte, a c. di G. Meyr, R. Pupo, Comune di Trieste, Trieste 2008; Italia e Slovenia fra passato, presente e
futuro, a c. di M. Bucarelli, L. Monzali, Studium, Roma 2009; La politica estera italiana negli anni della grande distensione
(1968-1975), a c. di P. G. Celozzi Baldelli, Aracne, Roma 2009; F. Imperato, Aldo Moro e la pace nella sicurezza. La politica
estera del centro-sinistra (1963-68), Progedit, Bari 2011; Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i Balcani, a c. di I. Garzia, L.
Monzali, M. Bucarelli, Besa, Nardò 2011. Per un inquadramento, v. P. Pastorelli, La politica estera italiana del dopoguerra,
Il Mulino, Bologna 1987; A. Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al 1992, Laterza, Roma-Bari 1988; Tra
guerra fredda e distensione, a c. di A. Giovagnoli, S. Pons, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003; Nazione, interdipendenza,
integrazione. Le relazioni internazionali dell’Italia (1917-1989), a c. di F. Romero, A. Varsori, Carocci, Roma 2005.
84 Diego D’Amelio
2
La storiografia ha utilizzato questa formula per sintetizzare il dialogo fra Italia e paesi socialisti negli anni Sessanta e Set-
tanta. L’impostazione del centro-sinistra fu certo meno ambiziosa di quella tedesca, ma capace ad ogni modo di accordare
l’atlantismo tradizionale con una più autonoma ricerca di strade verso la conciliazione internazionale, attraverso un approccio
multipolare ed europeista che puntava a consolidare le forme di collaborazione tra blocchi e ridurre i divari economici nel
continente.
3
Sulle tensioni diplomatiche precedenti, v. A.G. De Robertis, Le grandi potenze e il confine giuliano 1941-1947, Fratelli
Laterza, Bari 1983; R. G. Rabel, Between East and West. Trieste, the United States and the Cold War (1941-1954), Duke
University Press, Durham-London 1988; R. Pupo, Fra Italia e Jugoslavia. Saggi sulla questione di Trieste (1945-1954), Del
Bianco, Udine 1989; L. Unger, K. Segulja, The Trieste Negotiations, The Johns Hopkins Foreign Institute, Washington 1990;
M. de Leonardis, La «diplomazia atlantica» e la soluzione del problema di Trieste (1952-1954), ESI, Napoli 1992.
4
The Helsinki Process: a Historical Reappraisal, a c. di C. Meneguzzi Rostagni, Cedam, Padova 2005.
5
Per un inquadramento, v. G. Valdevit, La questione di Trieste 1941-1954. Politica internazionale e contesto locale, Angeli,
Milano 1987; A. Ara, C. Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Einaudi, Torino 1987; E. Apih, Trieste, Laterza, Roma-Bari
1988; R. Pupo, Guerra e dopoguerra al confine orientale d’Italia (1938-1956), Del Bianco, Udine 1999; Storia d’Italia. Le
Regioni dall’Unità a oggi. Friuli Venezia Giulia, a c. di R. Finzi, C. Magris, G. Miccoli, Einaudi, Torino 2002; G. Valdevit,
Trieste. Storia di una periferia insicura, Mondadori, Milano 2004; M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale 1866-2006,
Il Mulino, Bologna 2007.
6
Le linee politiche della DC triestina sono state sintetizzate dagli stessi protagonisti: v. C. Belci, La DC per Trieste: 1957-
1962, Del Bianco, Udine 1963; G. Botteri, Trieste, città italiana al servizio dell’Europa e della pace, Tipografia moderna,
Trieste 1967; Id. et al., Trieste e la sua storia, Dedolibri, Trieste 1986; C. Belci, Trieste. Memorie di trent’anni (1945-1975),
Morcelliana, Brescia 1989.
7
Archivio Coloni, b. 8, f. Dc 1976, Rassegna della stampa jugoslava. I giornali di Belgrado e Lubiana erano da tempo favor-
evoli alla chiusura della vertenza e abbastanza fiduciosi rispetto alle intenzioni italiane.
8
Archivio Moro (ACS), s. 1, ss. 21, b. 33, f. 728, Dichiarazione su Osimo per la tv jugoslava (24 febbraio 1977). V. inoltre
G. W. Maccotta, Osimo visto da Belgrado, in «Rivista di studi politici internazionali», n. 1, 1993, pp. 55-67; E. Greco, Italy,
the Yugoslav Crisis and the Osimo Agreements, in «The International Spectator», n. 1, 1994, pp. 13-31; V. Picariello, Politica
estera e opinione pubblica. Il trattato di Osimo, rel. A. Canavero, Università di Milano, aa. 1995-1996; G. Cavera, Gli ac-
cordi di Osimo e la crisi politica italiana degli anni Settanta, in «Nuova storia contemporanea», n. 3, 2006, pp. 15-44.
Il dibattito pubblico sul trattato di Osimo fra ragion di Stato e protesta locale 85
La firma del trattato di Osimo passò quasi inosservata per la grande maggioranza
dell’opinione pubblica italiana, ma ebbe notevoli conseguenze a Trieste. Ne risultò incri-
nata la fragile base di consenso della DC, principale artefice del progetto di «normalizza-
zione» della regione9. Nel dopoguerra, lo scudo crociato si era posto alla testa della «difesa
dell’italianità» della Venezia Giulia e aveva poggiato le sue fondamenta in prevalenza sulle
istanze nazionali e sull’integrazione degli istriani residenti nel capoluogo10: ne ricavò in tal
modo il primato sulla scena politica giuliana, pur in presenza di un radicamento sensibil-
mente inferiore a quello delle aree «bianche» del paese. La difficoltà a invertire il costante
declino economico della città e le successive aperture del centro-sinistra alla minoran-
za slovena avevano però provocato da un lato una nuova virulenza di fervore antislavo,
dall’altro il montare di un lamento collettivo da parte di una periferia che si sentiva declas-
sata e tenuta in scarsa considerazione dai partiti di governo.
La tentata normalizzazione si dimostrò incapace di modificare il tessuto sociale giuliano
e, con esso, gli umori di una parte dell’opinione pubblica, delusa e ancorata alla richiesta
di interventi eccezionali e al municipalismo, quando non a forme di chiusura nazionalista.
In questo scenario, gli accordi di Osimo sembrarono a molti triestini il definitivo tradi-
mento della missione che, ai loro occhi, Stato e forze politiche avrebbero dovuto assumere
nelle aree di frontiera: un ulteriore pagamento richiesto a una città che domandava invece
compensazioni dopo le ferite della guerra. L’abdicazione all’ormai impossibile ritorno in
zona B, la conduzione segreta delle trattative e l’inserimento di contropartite economiche
velleitarie si attirarono l’avversione di un fronte dalle motivazioni variegate: la valenza po-
litica dell’accordo fu criticata dalla destra e da ampi settori del mondo istriano, ma furono
la natura dei risarcimenti economici e il mancato coinvolgimento dei giuliani ad aggregare
un’ampia e inedita opposizione, composta da segmenti di protesta localistica, categorie
economiche, residui indipendentisti, movimenti ambientalisti e radicali. All’interno della
stessa Democrazia cristiana e del mondo cattolico prese forma un duro confronto tra la
maggioranza e cospicue componenti contrarie all’accordo.
La classe dirigente di governo sottovalutò l’insoddisfazione accumulatasi a torto o a
ragione in città e il mai attenuato risentimento degli esuli11. La stessa DC giuliana avrebbe
in seguito ammesso l’errore di aver legato in modo inscindibile parte politica e parte econo-
9
R. Pupo, Il «partito italiano»: la DC di Trieste, in Dopoguerra di confine, a c. di T. Catalan et al., Irsml FVG, Dipartimento
di Scienze Geografiche e Storiche Università di Trieste, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Trieste 2007, pp. 45-50;
D. D’Amelio, Il cambio della guardia. Correnti, generazioni e potere nella Democrazia cristiana di Trieste, in «Quaderni
del centro studi economico politici Ezio Vanoni», n. 3-4, 2009. Per un inquadramento, v. F. Malgeri, Storia della Democrazia
cristiana, Cinque Lune, Roma 1988; A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Laterza,
Roma-Bari 1996.
10
J. B. Duroselle, Le conflit de Trieste (1943-1954), Institut de Sociologie de l’Université Libre de Bruxelles, Bruxelles
1966; B. Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Mursia, Milano 1973; D. de Castro, La questione
di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, LINT, Trieste, 1981; Uzc. Ufficio per le zone di confine,
a c. di R. Pupo, «Qualestoria», a. XXXVIII, n. 2, 2010; A. Millo, La difficile intesa. Roma e Trieste nella questione giuliana
1945-1954, Italo Svevo, Trieste 2011.
11
C. Colummi et al., Storia di un esodo, Irsml FVG, Trieste 1980; Esodi: trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento
europeo, a c. di M. Cattaruzza, M. Dogo, R. Pupo, ESI, Napoli 2000; P. Ballinger, History in Exile. Memory and Identity at
the Borders of the Balkans, Princeton University Press, Princeton 2003; G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie
divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005; R. Pupo, Il lungo esodo, Rizzoli, Milano 2005; Naufraghi della pace. Il 1945, i
profughi e le memorie divise d’Europa, a c. di G. Crainz, R. Pupo, S. Salvatici, Donzelli, Roma 2008; A. Ferrara, N. Pianciola,
L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa (1853-1953), Il Mulino, Bologna 2012.
86 Diego D’Amelio
mica del trattato12. Il centro-sinistra si trovò così gravemente esposto davanti al riemergere
dell’antico mito municipale e della tematica della città tradita nei suoi valori nazionali13:
il ritorno di precedenti e mai sopite tradizioni politiche fu in grado di abbattere nel giro di
pochi anni la centralità costruita dallo scudo crociato dal dopoguerra in poi. Trieste fu per
certi versi antesignana di processi serpeggianti nel paese alla fine degli anni Settanta: la più
generale perdita di consenso cui stavano andando incontro i partiti tradizionali e l’emergere
di tendenze localistiche, anticentraliste e populiste, polemiche verso una «partitocrazia»
che appariva in effetti sempre più sganciata dal suo elettorato.
Lo Stato riuscì insomma nell’operazione di maggior portata – la chiusura della questio-
ne adriatica attraverso l’incontro con la Westpolitik jugoslava14 – ma non centrò la norma-
lizzazione della periferia insicura. La pacificazione della frontiera non era ulteriormente
rinviabile e Roma imboccò questa strada anche a costo di provocare il risentimento dei set-
tori più sensibili alla questione. Il governo scelse tuttavia di smentire per diversi anni, con
imbarazzi crescenti, l’esistenza di trattative intese a consolidare lo status quo della frontiera
e finì per non condividere nemmeno la definizione dei provvedimenti economici connessi
al trattato, percepiti dal territorio interessato come una sgradita imposizione dall’alto.
Ciò premesso, il focus di questo articolo non è rivolto né alla preparazione diplomatica
né alle ricadute concrete degli accordi15, bensì ai contenuti del dibattito pubblico svoltosi
intorno a essi, alle reazioni della comunità giuliana e alle conseguenze che ne derivarono
sul piano politico. Come vedremo, le ragioni della stipula vennero sostenute con sostanzia-
le unanimità di giudizio storico dalla grande maggioranza delle forze parlamentari e delle
testate giornalistiche italiane, in una fase politica che vedeva l’opinione pubblica non più
mobilitata (e mobilitabile) sul nodo nazionale16. La medesima consonanza non fu certo
riscontrabile a Trieste, dove gli accordi produssero un vero e proprio terremoto politico.
Un «imbarazzato silenzio»: alla fine del settembre 1975, «Il Piccolo» di Trieste descris-
se così l’atteggiamento del governo davanti alle prime rivelazioni della stampa sull’esisten-
za di accordi segreti per la sistemazione della frontiera orientale17. Il quotidiano dava ormai
per sicura la cessione della zona B alla Jugoslavia e sottolineava l’anomalia di incontri
12
Archivio Coloni, b. 10, f. Democrazia cristiana 1979, Discorso al comitato provinciale.
13
Archivio Coloni, b. 8, f. Dc 1976, Rassegna stampa.
14
Contemporary Yugoslavia. Twenty Years of Socialist Experiment, a c. di W. S. Vucinich, University of California Press,
Berkeley 1969; M. Bucarelli, Aldo Moro e l’Italia nella Westpolitik jugoslava degli anni Sessanta, in Aldo Moro, l’Italia
repubblicana e i Balcani, cit., pp. 115-160.
15
M. Udina, Gli accordi italo-jugoslavi di Osimo del 10 novembre 1975, in «Rivista di diritto internazionale», n. 60, 1977,
pp. 405-441; G. Conetti, La cooperazione economica italo-jugoslava secondo gli accordi di Osimo, in «Rivista di diritto
internazionale», n. 60, 1977, pp. 442-466.
16
G. Baget Bozzo, G. Tassani, Aldo Moro. Il politico nella crisi 1962-1973, Sansoni, Firenze 1983; G. Tamburrano, Storia
e cronaca del centro-sinistra, Feltrinelli, Milano 1993; P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, UTET, Torino 1995, pp.
1-160; N. Tranfaglia, La modernità squilibrata. Dalla crisi del centrismo al compromesso storico, in Storia dell’Italia repub-
blicana. La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, vol. 2, Einaudi, Torino 1995; G. Crainz, Il paese mancato. Dal
miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma 2003.
17
Imbarazzato silenzio, in «Il Piccolo», 24 settembre 1975.
Il dibattito pubblico sul trattato di Osimo fra ragion di Stato e protesta locale 87
avvenuti nel più assoluto riserbo e condotti non attraverso il canale diplomatico, ma col
coinvolgimento del ministero dell’Industria. Il governo rimandò i chiarimenti al 1° ottobre,
in occasione di un dibattito parlamentare chiesto in modo irrituale per ottenere l’investitura
per l’imminente firma del trattato. Un’ampia maggioranza politica era d’altronde favore-
vole all’iniziativa, ritenuta l’ultimo passo nella costruzione dell’amicizia fra i due paesi18.
Voci sulle trattative si erano già diffuse in precedenza19. A febbraio, i parlamentari
democristiani (e istriani) Paolo Barbi e Giacomo Bologna avevano interrogato in merito
l’esecutivo, chiedendo di ribadire l’interpretazione della provvisorietà del Memorandum
di Londra, implicante la persistenza della sovranità italiana sulla zona B20. Il governo non
ammise né smentì i negoziati, ma ricordò che dopo il 1954 gli Alleati non avrebbero dato
appoggio a rivendicazioni «su territori posti sotto amministrazione o sovranità dell’altro
paese»21. Bologna e alcuni deputati missini avevano presentato interpellanze simili anche
in occasione della progettata visita di Tito in Italia nel 1970: l’allora ministro degli Esteri
Moro aveva escluso che il colloquio avrebbe toccato il nodo del confine, assicurando che
«alcuna rinuncia […] ai legittimi interessi nazionali verrà presa in considerazione» 22. Era
una risposta vaga – criticata da PCI, PSI, PSDI e PRI23 – che non specificava se gli inte-
ressi nazionali fossero ancora di natura territoriale o di altro genere: erano rimasti così
insoddisfatti tanto gli interroganti, quanto il governo jugoslavo, per il quale l’ambiguità di
Roma poteva essere interpretata come una malcelata volontà di riproporre l’idea del ritorno
italiano in zona B24.
Il dibattito parlamentare dell’ottobre 1975 sgomberò il campo da ogni dubbio. Il primo
ministro Rumor parlò «di intese […] atte a garantire la definitiva chiusura del contenzioso
territoriale e giuridico»25. Si trattava di una scelta «amara, consapevoli come siamo non
solo delle ragioni emotive, ma del sentimento profondo e della passione civile e patriottica
[…] che le vicende del nostro confine orientale evocano». Nel ricordare la necessità di
chiudere l’eredità della guerra fascista, Rumor invitò al realismo e additò la «pace adriati-
ca» come risposta democratica alla necessità di instaurare un clima collaborazione con la
18
Tutti i partiti di governo d’accordo per cedere la zona B, in «Il Piccolo», 1 ottobre 1975.
19
Archivio Coloni, b. 6, f. Reazioni su Ferri e su Moro 1971, Rassegna stampa. Nel settembre 1971, ad esempio, le dichi-
arazioni del segretario del PSDI Ferri sulla chiusura del contenzioso sulla frontiera suscitarono le reazioni indignate de «Il
Piccolo», delle associazioni dei profughi e delle correnti di minoranza della DC di estrazione fanfaniana e dorotea.
20
M. Udina, Gli accordi di Osimo, LINT, Trieste 1979; L. Sardos Albertini, Gli accordi di Osimo nella realtà e nel diritto,
Lega Nazionale, Trieste 1976. L’Italia diede al Memorandum di Londra un’interpretazione di provvisorietà, rafforzata dalla
mai avvenuta ratifica da parte del parlamento. Questa lettura era stata in verità esclusa fin dal principio dagli alleati: per tutti
gli anni Sessanta, il governo e la diplomazia non avrebbero tuttavia accantonato del tutto la tesi del diritto italiano sulla zona
B del mai nato Territorio libero di Trieste. Tale impostazione era sposata dagli oppositori politici di Osimo, ma era minori-
taria fra gli esperti di diritto internazionale: l’interpretazione prevalente sosteneva che l’Italia avesse perso la sovranità sul
Territorio libero all’entrata in vigore del Trattato di pace del 1947, ritenendo che il TLT fosse diventato res nullius, vista la
mancata costituzione dello Stato libero.
21
Atti parlamentari, Camera dei deputati, VI legislatura, seduta del 18 febbraio 1974, p. 2782.
22
Atti parlamentari, Senato della Repubblica, V Legislatura, Risposte scritte a interrogazioni, vol. 5, seduta del 5 dicembre
1970, p. 2443.
23
L. Bianchi, Polemica fra i partiti e prossimo dibattito alla Camera, in «Corriere della sera», 11 dicembre 1970.
24
M. Montefoschi, Tito ha deciso di non venire a Roma, in «Il Messaggero», 10 dicembre 1970. V. inoltre C. Belci, Trieste.
Memorie di trent’anni, cit., pp. 195-196. Nel 1971, in una seduta della commissione Esteri della Camera, Moro parlò ancora
di «leale rispetto dei trattati e degli accordi in vigore, ivi compreso, ovviamente il Memorandum d’intesa di Londra, e della
sfera territoriale da essi risultante».
25
Atti parlamentari, Camera dei deputati, VI legislatura, seduta del 1 ottobre 1975, pp. 23599-23609.
88 Diego D’Amelio
Jugoslavia. Osimo avrebbe inoltre restituito certezza giuridica allo status di Trieste, il che
costituiva per il governo un effettivo vantaggio territoriale ottenuto26.
Il ministro degli Esteri Moro collegò il trattato alla conferenza di Helsinki: esso avrebbe
garantito l’assetto del confine, il miglioramento delle relazioni bilaterali, la tutela delle
minoranze e il rafforzamento del vicino balcanico. Tutto questo significava per Moro non
essere esposti, bensì protetti alla frontiera orientale, in una situazione divenuta «non modi-
ficabile con la forza» né «con il consenso». Pur nel pieno rispetto per l’amarezza dei pro-
fughi, ricordò il valore delle contropartite economiche e aggiunse: «Tocca dire al paese che
non si deve restar fermi nel proprio dolore e che, definite in questo modo le conseguenze
della seconda guerra mondiale, ci è indicata […] la strada dell’intensificazione di feconde
relazioni tra i popoli, della costruzione della pace a livello mondiale, della realizzazione di
unità soprannazionali»27.
La Democrazia cristiana fece aprire la discussione al triestino Corrado Belci, che so-
stenne la necessità di chiudere il contenzioso e invitò ad abbandonare le speculazioni po-
litiche sulla sofferenza degli esuli, auspicando «una intesa nuova e globale», basata sulla
cooperazione economica, sugli scambi culturali e sulla tutela delle minoranze. Con un otti-
mismo eccessivo rispetto ai risultati che sarebbero stati effettivamente raccolti, il deputato
affermò che Osimo avrebbe dato nuova funzione a Trieste in Europa, grazie agli accordi
sulla delimitazione del golfo, sui regimi delle acque, su una comune politica energetica
e sull’ipotesi di costruzione di un’idrovia collegata al Mar Nero. Favorevole fu infine il
giudizio sulla Zona franca industriale a cavallo del confine, definita «la più persuasiva ga-
ranzia di integrazione e di interdipendenza dell’area economica alle spalle del confine»28.
Belci sposò la posizione ufficiale del partito, in stridente divergenza con Bologna, l’al-
tro parlamentare democristiano eletto a Trieste. Sebbene entrambi istriani, i due rappresen-
tavano le contrastanti visioni esistenti in merito all’interno della DC giuliana. I rapporti fra
le opposte tendenze erano difficili ormai da alcuni anni e, come vedremo meglio, Osimo
ne avrebbe sancito la rottura definitiva. Belci era esponente di punta del gruppo dirigente
moroteo, alla guida della segreteria provinciale dalla fine degli anni Cinquanta. Bologna
era invece fanfaniano ed era schierato all’opposizione non solo su influsso degli schemi
correntizi nazionali, ma anche per la sua stretta connessione con l’associazionismo degli
esuli. Si ricordi in proposito che, pur protagonista del dialogo con l’Est europeo, proprio
Amintore Fanfani si era irrigidito sulle relazioni con la Jugoslavia, anteponendo la risolu-
zione dei problemi confinari al dialogo sulle questioni internazionali e allo sviluppo della
cooperazione economica29.
Bologna annunciò il suo voto contrario e sostenne la tesi della mai tramontata e «teori-
ca» sovranità italiana sulla zona B, contestando la necessità dell’intesa30. Criticò la segre-
tezza delle trattative e la doppiezza del governo nel rispondere alle sue interrogazioni. Per il
parlamentare, Osimo non avrebbe aiutato il consolidamento del regime di Tito e tantomeno
26
Ibidem.
27
Atti parlamentari, Camera dei deputati, VI legislatura, seduta del 1 ottobre 1975, pp. 23609-23611.
28
Atti parlamentari, Camera dei deputati, VI legislatura, seduta del 2 ottobre 1975, pp. 23731-23736.
29
M. Bucarelli, Aldo Moro e l’Italia nella Westpolitik jugoslava, cit., p. 143.
30
Atti parlamentari, Camera dei deputati, VI legislatura, seduta del 1 ottobre 1975, pp. 23679-23682.
Il dibattito pubblico sul trattato di Osimo fra ragion di Stato e protesta locale 89
31
Atti parlamentari, Camera dei deputati, VI legislatura, seduta del 2 ottobre 1975, pp. 23823-23824; ivi, pp. 23770-23771;
ivi, pp. 23758-23764.
32
Ivi, p. 23724-23731; Atti parlamentari, Camera dei deputati, VI legislatura, seduta del 3 ottobre 1975, pp. 23833-23835.
33
Facinorosi violano il Quirinale al termine di un comizio missino, in «Il Piccolo», 2 ottobre 1975.
34
Atti Parlamentari, pp. 23682-23694.
35
Zona B: scontato «sì» del Senato. Fanfani critico prende le distanze e Le motivazioni del voto a favore. Gli interventi di
Pella e di Brosio, in «Il Piccolo, 10 ottobre 1975.
36
I disertori della zona B, in «Il Giornale», 5 ottobre 1975.
37
La Zona B al Senato in un’aula semideserta, in «Il Piccolo, 9 ottobre 1975. Al momento del voto, la Camera e il Senato
registrarono rispettivamente 230 assenti su 630 e 96 su 322. Alla Camera la DC ebbe ad esempio 116 defezioni su 265 parla-
mentari: l’unico partito a registrare una partecipazione quasi totale fu il Pci, con 146 deputati su 165.
90 Diego D’Amelio
Sembra assurdo doverlo ricordare ancora, dopo trent’anni. Ma checché ne dicano gli agio-
grafi della Resistenza, la guerra l’abbiamo persa, e c’è un conto da pagare. Che l’Italia
lo saldi a spese dei suoi figli migliori – istriani e dalmati – è un ghigno del destino. […]
Nulla fu fatto per i loro esuli – che nulla chiesero – non solo da una classe politica ver-
gognosamente sorda al loro dramma umano, ma neppure da una pubblica opinione che
alla coscienza della solidarietà nazionale si risveglia solo per la squadra di calcio. […] Al
dolore di questa povera gente non possiamo portare lenimento. Anzi, dobbiamo chiederle
un estremo sacrificio […]. Il trattato che sta per essere discusso e approvato dal parlamento
non è giusto, ma è necessario. Tale lo rende la ragion di Stato, che purtroppo non tiene
conto di quella degli uomini41.
«L’Unità» insistette sulla necessità di chiudere con l’eredità del fascismo42, attribuendo
inoltre al trattato un non secondario valore rispetto alla definizione del ruolo internazionale
dell’Italia: «È stabilizzante e può risultare al tempo stesso propulsivo, che quella frontiera
interessi anche l’Alleanza atlantica, se in ciò Osimo esprime un’attitudine dell’Italia a svol-
gere dall’interno dell’alleanza, essendone membro, in piena compatibilità, una autonoma
iniziativa per la coesistenza»43.
Gli organi di informazione furono convergenti anche sull’importanza dell’accordo ri-
spetto al consolidamento dello Stato jugoslavo. «La Stampa» e «Il Corriere della sera»
criticarono chi voleva aspettare il dopo Tito nella speranza di «prendere parte […] alla
divisione della torta»44 e sottolinearono «l’importanza che riveste per noi l’indipendenza e
la stabilità della Jugoslavia» e quindi la necessità di legarla all’Europa45.
38
G. Sardocchia, Perché si è atteso tanto a decidere la sorte della zona B, in «Il Corriere della sera», 25 settembre 1975.
39
Id., Prossima la firma del protocollo sul passaggio della zona B alla Jugoslavia, in «Il Corriere della sera», 24 settembre
1975.
40
A. Rizzo, Moro illustra l’accordo per Trieste e la zona B, in «La Stampa», 2 ottobre 1975.
41
I. Montanelli, Siamo tutti istriani, in «Il Giornale», 30 settembre 1975.
42
Il Pci favorevole all’accordo italo-jugoslavo per i confini, in «L’Unità», 3 ottobre 1975.
43
F. Calamandrei, Il trattato di Osimo, in «L’Unità», 25 febbraio 1977.
44
A. Rizzo, Realismo, in «La Stampa», 2 ottobre 1975.
45
D. Frescobaldi, Intesa firmata per la zona B, in «Il Corriere della sera», 11 novembre 1975.
Il dibattito pubblico sul trattato di Osimo fra ragion di Stato e protesta locale 91
Sul versante opposto si collocò soltanto «Il Secolo d’Italia», che stigmatizzò il «vile»
cedimento rispetto ai diritti dell’Italia e dei profughi, alle cui associazioni avrebbe dato am-
pio risalto per tutta la durata del dibattito46. Il giornale denunciò anche il collegamento fra
la distensione italo-jugoslava e il dialogo instaurato fra DC e PCI: «La ragione di Stato che
poi è il primo concreto pesantissimo prezzo pagato dagli italiani al compromesso storico,
ha indotto Moro e la Dc a consegnare a Berlinguer il regalo che aveva promesso a Tito»47.
Il disegno sotteso al coronamento della pacificazione bilaterale precedeva tuttavia di alcuni
anni la strategia dell’attenzione ed è pertanto da escludere che Osimo servisse a compiacere
il PCI48: la distensione italo-jugoslava rese ad ogni modo migliore il clima di quel confron-
to, in una cornice segnata dai progressi della Ostpolitik e dall’evoluzione del PCI rispetto
alla propria collocazione internazionale. L’importanza del trattato venne sottolineata dallo
stesso Berlinguer, per cui aveva «grande significato nazionale che la definitiva regolamen-
tazione delle relazioni con la Jugoslavia [fosse] sostenuta e approvata da uno schieramento
che ha riunito tutte le forze democratiche e antifasciste»49.
Fin dal primo istante, «Il Piccolo» si fece megafono dell’inquietudine provocata in ampi
settori dell’opinione pubblica triestina dall’annuncio degli accordi in dirittura d’arrivo. Per
oltre due anni il quotidiano vi avrebbe conferito ampissimo risalto, schierandosi con nettez-
za contro Osimo. Il direttore Chino Alessi difese in punta di penna la sovranità italiana sulla
zona B, raccogliendo il testimone del padre, a sua volta alla guida della testata nel lungo
dopoguerra e alfiere della difesa dell’italianità di Trieste50: al contrario del genitore, Chino
si trovava però all’opposizione delle scelte di Roma. Egli parlò di «rinuncia che umilia»,
decisa da una classe dirigente «imbelle e incapace», che aveva compiuto scelte avversate
dai cittadini: «Siamo arrivati ad uno dei vertici allucinanti di questa escalation dell’auto-
lesionismo più stolto, quando abbiamo dovuto sentirci spiegare che rinunciando ai diritti
sulla zona B acquisteremo quasi certamente quelli definitivi su Trieste»51.
«Il Piccolo» divenne una tribuna di ruggente critica contro il ceto politico e i partiti di
governo, che «si giocano dissennatamente i favori e le simpatie degli italiani»:
Decenni di scandali, di frodi di ogni tipo avrebbero dovuto abituarci ad attendere il peggio;
nessuno poteva però immaginare che ci saremmo trovati ancora una volta di fronte al ri-
46
Elogio (slavo) della viltà, in «Il Secolo d’Italia», 28 settembre 1975; L’onore d’Italia, in «Il Secolo d’Italia», 1 ottobre
1975; Alto tradimento con applauso comunista, in «Il Secolo d’Italia», 2 ottobre 1975; Alle spalle degli italiani, in «Il Secolo
d’Italia», 2 ottobre 1975.
47
Zona B: la Caporetto del compromesso storico, in «Il Secolo d’Italia», 5 ottobre 1975; Il compromesso passa per Belgrado,
in «Il Secolo d’Italia», 27 settembre 1975.
48
L’idea della stretta connessione fra Osimo e avvicinamento al PCI è sostenuta ad esempio in G. Cavera, Gli accordi di
Osimo e la crisi politica italiana, cit.
49
230 assenti al voto, in «Il Piccolo», 4 ottobre 1975.
50
D. D’Amelio, Castelli di carta, in Uzc. Ufficio per le zone di confine, cit., pp. 65-78; C. Alessi, Rino Alessi, Edizioni Studio
Tesi, Pordenone 1993.
51
Una rinuncia che umilia, in «Il Piccolo», 26 settembre 1975.
92 Diego D’Amelio
dicolo del solito segretissimo di Stato che sfugge alla Farnesina. [...] A ciò fa poi riscontro
l’incredibile imbonimento dell’opinione pubblica da parte di tutte le trombe di regime
protese in trionfanti squilli per spiegare agli italiani ignari la bontà dell’affare concluso.
[…] Quante speranze sono state fraudolentemente alimentate in passato52.
Alessi non risparmiò neppure la parte economica del trattato, che il governo riteneva
invece in grado di ammorbidire gli umori locali:
Oggi […] abbiamo anche il topolino, che la montagna ha partorito, di quella che viene
chiamata contropartita [...]. Ma dubitiamo fortemente che [i triestini] si possano intenerire
di fronte alla promessa di una un po’ fantascientifica zona a cavallo della frontiera. [...] A
trent’anni dalla fine della guerra non si è saputo o non si è potuto mitigare nemmeno di un
poco la durezza del Diktat che scese allora sull’Italia e su queste terre e popolazioni che
pagarono per tutti53.
A trent’anni dalla fine della guerra, l’armamentario polemico di parte dei detrattori di
Osimo sorvolava però ancora sulla guerra fascista e continuava a chiamare Diktat il trat-
tato di pace del 10 febbraio 1947. La rubrica delle lettere al giornale si trasformò in una
sorta di Speaker’s corner, in cui furono ospitate le numerosissime prese di posizione di
politici, associazioni, operatori economici, studiosi e semplici cittadini. La predominanza
degli sfavorevoli era schiacciante, ma furono d’altronde soprattutto i contrari a mobilitarsi
con grande trasporto emotivo, dividendosi tuttavia sulle ragioni della propria opposizione:
nazionali(ste), economiche, antipartitocratiche, indipendentiste e ambientali54.
Le polemiche principali si rivolsero contro la Democrazia cristiana: il partito era ritenu-
to primo responsabile di Osimo e, un mese dopo la firma, una sua sezione sarebbe stata per-
fino attaccata col lancio di due bottiglie incendiarie55. Il gruppo dirigente moroteo alla testa
della DC triestina si era prodotto nel non agevole tentativo di proporre una nuova idea di
patriottismo democratico, che rompesse l’annosa continuità delle tensioni nazionali56: per
stessa ammissione dello scudo crociato, esse erano però ancora diffuse nell’opinione pub-
blica57, coinvolgevano parte dei democristiani della prima ora e in qualche modo venivano
alimentate dallo stesso vescovo Santin, già protagonista nel dopoguerra della battaglia per
la difesa nazionale italiana, non di rado accusato di faziosità dal clero di lingua slovena e
più volte critico, duramente e platealmente, verso le scelte dalla nuova maggioranza de-
mocristiana58. La distensione nei rapporti fra italiani e sloveni, parallela alla costruzione
52
Un inganno di vent’anni, in «Il Piccolo», 29 settembre 1975.
53
Promesse, parole, fantasie, in «Il Piccolo», 2 ottobre 1975.
54
Archivio Coloni, b. 8, f. Dc 1976, Rassegna stampa. Si schierarono con varie sfumature contro Osimo le associazioni degli
esuli e quelle combattentistiche, la Lega nazionale, l’Unione monarchica italiana, la CISNAl, la UIL, la Federazione medie
e piccole industrie, i Commercianti per la Zona franca integrale, il Rotary e il Lions club, il WWF e Italia nostra, il Partito
radicale. Inviarono lettere di dissenso anche diversi esponenti della DC.
55
Grave attentato a Trieste contro la Dc, in «Il Popolo», 6 dicembre 1975.
56
P. Purini, Trieste 1954-1963. Dal Governo militare alleato alla Regione Friuli-Venezia Giulia, Circolo Šček, Trieste 1995;
M. Kacin-Wohinz, J. Pirjevec, Storia degli sloveni in Italia (1866-1998), Marsilio, Venezia 1998; C. Gatterer, In lotta contro
Roma. Cittadini, minoranze e autonomie in Italia, Praxis 3, Bolzano 1999; S. Volk, Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e raf-
forzamento dell’italianità sul confine orientale, Kappa Vu, Udine 2004.
57
Archivio DC, Segreteria politica, b. 135, f. 4, Rapporto sul problema nazionale al confine orientale.
58
A. Dessardo, «Vita Nuova» 1945-1965. Trieste nelle pagine del settimanale diocesano, Irsml FVG, Trieste 2010.
Il dibattito pubblico sul trattato di Osimo fra ragion di Stato e protesta locale 93
del «confine ponte»59, aveva costituito uno dei cavalli di battaglia della politica di centro-
sinistra e si era tradotta, alla metà degli anni Sessanta, nel prudente ampliamento della sua
tutela scolastica e culturale60 e in accordi politici negli enti locali fra la DC ed esponenti
sloveni liberali e socialisti.
L’ingresso in giunta comunale di un assessore socialista appartenente alla comunità
slovena – a suo tempo sostenitore dell’annessione di Trieste alla Jugoslavia – aveva tutta-
via prodotto una netta e pubblica rottura fra la Curia e la segreteria della DC, cui si erano
aggiunti le critiche del mondo istriano e i distinguo di alcuni esponenti del partito61. In città
si era scatenata una tempesta politica, che aveva chiamato lo scudo crociato a difendere le
proprie scelte davanti a una campagna che raccolse oltre quarantamila firme di protesta. A
questa crisi ne sarebbe seguita un’altra l’anno successivo, innescata dalla ristrutturazione e
dal ridimensionamento del comparto navalmeccanico giuliano, con il verificarsi di violente
manifestazioni contro i partiti di governo, accusati di non sapersi opporre al declassamento
economico cittadino. Tali strappi non avrebbero ad ogni modo inciso sulla tenuta elettorale
della Dc, convincendo probabilmente la maggioranza democristiana di essere sul punto di
vincere la sfida contro le componenti nazionaliste e municipaliste della società locale.
Non era così. L’attuazione della Regione a statuto speciale Friuli Venezia Giulia, forte-
mente voluta dalla DC triestina, aveva posto a disposizione della classe politica uno stru-
mento d’intervento efficiente e finanziariamente ben dotato, capace di supportare in sede
locale la politica di apertura verso la Jugoslavia e il tentativo di forzare i pesanti vincoli
che il quadro internazionale del dopoguerra aveva imposto alle possibilità di sviluppo del
capoluogo giuliano62. Ma per quanto la Regione si adoperasse per avviare una sua piccola
politica estera sul versante della cooperazione transfrontaliera63, il problema della perdita
di funzione di Trieste travalicava le sue possibilità d’intervento. Anche la sensibile crescita
dei traffici di confine non fu sufficiente a far uscire la città dalla stagnazione, aggravata
dai ritardi nella realizzazione delle infrastrutture indispensabili per supportare una seppur
ridotta dimensione emporiale. Per quanto generosa, la mano pubblica non era inoltre in
grado di sostituire la capacità propulsiva di un’imprenditoria locale ormai esausta, in un
sistema economico locale dipendente dalle partecipazioni statali.
59
Archivio Coloni, b. 7, f. Politica, rapporti Italia-Jugoslavia, minoranza 1973, Appunto su «negoziato»; Archivio Coloni, b.
7, f. Politica 1974. In occasione delle elezioni regionali del 1973, Andreotti ottenne dai vertici morotei del Friuli Venezia Giu-
lia parere favorevole alla stipula degli accordi. Nell’estate del 1974 la segreteria della DC di Trieste produsse una proposta di
intesa, in sintonia con i successivi contenuti del trattato.
60
Archivio DC, Segreteria politica, b. 134, f. 3 e b. 137, f. 6, Belci a Moro; Archivio Coloni, b. 7, f. Politica, rapporti Italia-
Jugoslavia, minoranza 1974, Tutela globale. V. inoltre Archivio Coloni, b. 6, f. Viaggio Jugoslavia 1972, Memorandum al
presidente del consiglio Colombo. Pur davanti a diversi progressi in materia, un gruppo di esponenti dell’élite slovena di
Trieste protestò con il governo per l’assenza di adeguate tutele per la minoranza, chiedendo provvedimenti non distanti da
quelli vigenti in Alto Adige.
61
L. Pelaschiar, Il «caso Hreščak», in A. Bartolomasi et al., Cattolici a Trieste, LINT, Trieste 2003, pp. 176-179; G. Botteri,
Lineamenti per una politica di ispirazione cattolica a Trieste, ivi, pp. 168-176. Contro l’ingresso di Hreščak furono raccolte
oltre quarantamila firme; si dimisero inoltre due assessori comunali della Dc. Il vescovo chiese le dimissioni della segreteria
morotea attraverso la stampa diocesana.
62
M. Degrassi, L’ultima delle regioni a statuto speciale, in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi, cit., pp. 759-804.
63
Archivio Coloni, b. 4, f. Democrazia cristiana 1971, Incontro fra Dc e Alleanza del popolo lavoratore della Slovenia (19
luglio 1971) e Visita a Fiume di una delegazione triestina (21-22 luglio 1971); Archivio Coloni, b. 10, f. Alpe Adria 1979. V.
inoltre Un confine aperto, in «Il Popolo del Friuli Venezia Giulia», 4 dicembre 1969; Una «regione-ponte» per costruire la
pace, in «Il Popolo del Friuli Venezia Giulia», inserto speciale «Dc Regione», 2 maggio 1972.
94 Diego D’Amelio
In assenza di una nuova ondata di sviluppo, che modificasse in misura sostanziale gli
equilibri in favore delle componenti più moderne della società triestina, il consenso di cui
la DC si avvaleva continuò a poggiare in maniera consistente proprio su quelle motivazioni
di ordine nazionale che la dirigenza morotea pareva intenzionata a superare e su quell’anti-
comunismo – a Trieste corroborato dalle tristi esperienze subite da molti elettori e militanti
democristiani per mano del regime jugoslavo – che alla fine degli anni Sessanta, per opera
in larga misura di Aldo Moro, sembrava destinato anch’esso a un profondo ripensamento.
I rischi politici della normalizzazione adriatica erano peraltro ben presenti ai morotei
triestini, che in più occasioni chiesero a Roma di ritardare la definizione della frontiera64.
Osimo rappresentò dunque l’apice del processo di scollamento avviatosi da più di un de-
cennio fra la dirigenza democristiana e la sua base elettorale, ma forti tensioni percorsero
in generale tutto il centro-sinistra. Il consiglio regionale votò una mozione di supporto
all’azione del governo: vi si oppose il gruppo missino – che richiese la zona franca integra-
le per Trieste – e si astenne il democristiano Mario Del Conte, fanfaniano ed ex presidente
della locale sezione dell’ANVGD65. La DC ebbe alcune defezioni anche in consiglio pro-
vinciale, con le dimissioni di un assessore e le dichiarazioni contrarie di due consiglieri,
che però si allinearono alla disciplina di partito66. L’assemblea del consiglio comunale –
assediata da una manifestazione che unì nazionalisti e indipendentisti – evidenziò infine
incrinature di rilievo sia fra i democristiani che fra i socialisti67. La mozione favorevole
al trattato passò senza problemi, auspicando la «migliore attuazione dei vari punti […] di
carattere economico»68. I liberali appoggiarono l’accordo politico, ma chiesero al governo
di firmare solo dopo aver consultato sulle altre questioni le rappresentanze politiche, eco-
nomiche e sindacali triestine69. Nella DC si verificarono i distinguo di quattro consiglieri:
due si astennero e due seguirono alla fine la linea ufficiale70. La direzione democristiana
condannò pubblicamente i dissenzienti, ma non vennero chieste le dimissioni di nessun
consigliere71: la segreteria non ignorava la portata del dissenso nella base e probabilmente
non volle esasperare ulteriormente il clima. Una presa di posizione molto rumorosa fu quel-
64
Archivio DC, Segreteria politica, b. 202, f. 3, Coloni a Forlani (1971). V. inoltre Forlani: rispetto reciproco nei rapporti
con Belgrado, «Il Piccolo», 30 aprile 1972. Il segretario della DC ribadì a Trieste l’ancoraggio al Memoradum del 1954. V.
inoltre C. Belci, Trieste. Memorie di trent’anni, cit., pp. 161-172. In più occasioni Belci chiese altro tempo agli esponenti del
governo che lo sondavano sull’opportunità di stipulare accordi definitivi, anche in previsione della visita di Tito in Italia. Pur
ammettendo che la scelta finale spettava a Roma, il parlamentare disse di prevedere reazioni molto forti a Trieste e fra gli
istriani, anche perché il governo aveva sempre parlato di provvisorietà.
65
Sì della Regione all’accordo sulla zona B, in «Il Piccolo», 8 ottobre 1975. La richiesta missina di zona franca anticipò in
qualche modo la rivendicazione avanzata in seguito dalla Lista per Trieste. Sulle posizioni dell’ANVGD, v. La resa in zona
B: peggio del diktat, in «Difesa Adriatica», 9 ottobre 1975; L’Italia ha ceduto la zona B?, in «Difesa Adriatica», settembre
1975. Per un quadro completo, v. il saggio di F. Capano in questo stesso numero.
66
Verbale della seduta del consiglio provinciale, 9 ottobre 1975.
67
Lacerazioni nella maggioranza sulla zona B, in «Il Piccolo», 29 settembre 1975; Si difende la cessione della Zona B nel
municipio presidiato dai carabinieri, in «Il Piccolo», 9 ottobre 1975.
68
Verbale della seduta del consiglio comunale, 8-9 ottobre 1975.
69
Ibidem.
70
Ibidem. Così si espresse Ponis, istriano della Zona B: «Io che con la gente dell’Istria ho condiviso un duro calvario non
posso per motivi di coscienza […] dare il mio assenso, perché la mia città, ove sono nato e ho i miei morti, vada ad una po-
tenza straniera. […] Acconsentendo con il mio voto di stroncare l’anelito di giustizia anche di uno solo dei miei conterranei,
tradirei quei principi che mi hanno relegato per due anni nei campi di concentramento nazisti, né sarei degno di invocare la
libertà dei popoli che ancora soffrono a causa delle dittatura».
71
Riunione della direzione provinciale della Dc, in «Il Piccolo», 11 ottobre 1975.
Il dibattito pubblico sul trattato di Osimo fra ragion di Stato e protesta locale 95
la del vicesindaco Gianni Giuricin, socialista ed esule istriano: questi si disse convinto della
necessità della distensione con la Jugoslavia, ma si astenne in segno di solidarietà con i pro-
fughi. Si dimise subito dopo dalla giunta per poi abbandonare il PSI a fine anno, assieme ad
altri cinque membri del direttivo72. Il PRI fu l’unico partito a convocare un’assemblea degli
iscritti prima del dibattito in municipio: la maggioranza si espresse contro le scelte della
segreteria nazionale (condivise da quella provinciale), che commissariò immediatamente la
federazione. L’assessore repubblicano Gargano decise di non votare la mozione pro Osimo
e lasciò anch’egli giunta e partito73.
Le conseguenze più significative si ebbero nello scudo crociato, dove la minoranza
fanfaniana e neocentrista aveva guadagnato posizioni di rilievo, che si sarebbero rafforzate
negli anni a venire, pur restando il partito costantemente sotto il controllo dei morotei e del-
le correnti di sinistra fino alla metà degli anni Ottanta. Nel periodo compreso tra la firma e
la ratifica, l’opposizione interna continuò a criticare tanto l’impostazione politica di Osimo
quanto le contropartite economiche: i nodi vennero al pettine in occasione delle elezioni del
giugno 1976. La segreteria concentrò il proprio sforzo propagandistico sull’uscente Belci,
ma questi riuscì eletto soltanto dietro Tombesi, volto nuovo che aveva raccolto il testimo-
ne (e il pacchetto di preferenze) di Bologna, non ricandidato dopo quattro legislature74.
Tombesi puntò la sua campagna sulla contrarietà al trattato e sulla necessità di interrom-
pere ogni forma di avvicinamento fra DC e PCI75, in una costante polemica a distanza con
Belci: la segreteria provinciale finì per caldeggiare l’intervento sanzionatorio degli organi
nazionali contro un candidato che metteva apertamente in discussione la linea ufficiale
del partito76. Nonostante queste gravi spaccature, le consultazioni non segnarono alcun
arretramento dello scudo crociato: ciò avvenne vuoi per la copertura offerta dalla destra
democristiana alle posizioni contrarie a Osimo, vuoi per l’assenza di formazioni espres-
samente alternative, dato che il movimento di protesta era ai suoi primi passi al momento
del voto. L’opposizione nazionalista agli accordi ebbe inoltre scarso peso, se si considera il
contestuale calo del Movimento sociale e la mancanza di un travaso a destra dell’elettorato.
Fibrillazioni si verificarono non solo nella DC, ma in tutto il mondo cattolico. Già nel
1973, il vescovo Santin aveva scritto una dura lettera ad Andreotti, definendo la temuta
cessione della zona B come «patente di servilismo […], iniqua e contraria al diritto e alla
volontà della popolazione»77. Il periodico diocesano – probabilmente attraverso la penna
del presule – fece sentire la sua voce, stigmatizzando la trattativa e ricordando il dramma
dei profughi e il fatto che la decisione fosse assunta col favore dei comunisti da una classe
72
G. Giuricin, Trieste, luci ed ombre, Edizioni Gruppo lista civica, Trieste 1987, p. 40. V. inoltre Replica del gruppo Giuricin
all’ufficio stampa del Psi, in «Il Piccolo», 4 dicembre 1975.
73
Dimissioni al vertice al Pri. Giunto da Roma il commissario, in «Il Piccolo», 9 ottobre 1975.
74
Congedo ed invito dell’on. Bologna ai suoi elettori, in «Il Piccolo», 30 maggio 1976.
75
Incontro con gli elettori dell’ing. Giorgio Tombesi, in «Il Piccolo», 13 giugno 1976.
76
I dc anti-Osimo denunciati ai probiviri, in «Il Piccolo», 3 ottobre 1976.
77
Fondo Andreotti, busta 338/B, Zona B. «La Iugoslavia deve restituire ciò che non è suo e che tiene solo in virtù di un
atto di violenza […]. Questa è una decisione inconcepibile ai danni dell’Italia, ai danni dei più colpiti, che pagarono già
duramente e da soli per una guerra, che non hanno voluto. Eccellenza, […] non passi alla storia come colui, che cedette la
terra d’Italia a forestieri nemici della civiltà cristiana». Dello stesso tenore un telegramma del vescovo a Moro a pochi giorni
all’ufficializzazione della trattativa: v. Sul destino della Zona B riacceso il confronto politico, in «Il Piccolo», 25 settembre
1975.
96 Diego D’Amelio
politica retta da consorterie e sorda al volere degli elettori: l’intera gestione del problema
non aveva avuto niente di democratico78. Non a caso ci fu chi ipotizzò che le dimissioni del
vescovo per raggiunti limiti d’età, accettate dalla Santa Sede proprio nell’anno di Osimo,
rappresentassero una forma di facilitazione del Vaticano rispetto all’intesa italo-jugosla-
va79. All’interno della Curia convivevano tuttavia sensibilità diverse e non mancò chi, pur
originario della zona B, sostenne l’opportunità dell’intesa80.
78
Crisi e vergogna, in «Vita Nuova», 4 ottobre 1975.
79
C. Belci, Trieste. Memorie di trent’anni, cit., pp. 187-188. L’idea di una agevolazione da parte del Vaticano – che smentì
ufficialmente – venne sostenuta anche dalla destra.
80
R. Tomizza, Osimo tra distrazione e paura, in «Vita Nuova», 7 gennaio 1977.
81
Zona franca integrale: presentata la proposta di legge in Cassazione, in «Il Piccolo», 15 aprile 1976. Il Comitato lamen-
tava che la programmazione nazionale avesse dimenticato Trieste e che la città avesse subito «mezzo secolo di umiliazioni»
dalla «partitocrazia clientelare» italiana e dalle sue inefficienti «iniziative occasionali e burocratiche».
82
Archivio Tombesi, b. Gt35, f. Zona franca - Porto Ts, Opuscolo del Comitato della zona franca integrale.
83
Trieste per volontà dei suoi cittadini può ritornare a essere un grande porto, in «Il Piccolo», 15 ottobre 1976; La vostra
firma per salvare Trieste, in «Il Piccolo», 1 marzo 1976. V. inoltre Le motivazioni della Dc contro la Zona franca integrale, in
«Il Piccolo», 3 novembre 1976. La DC riteneva al contrario che fosse l’industria il volano dello sviluppo e che la zona franca
integrale fosse una proposta demagogica perché «in netto contrasto con le direttive emanate dalla Comunità economica
europea», perché l’intera provincia sarebbe stata posta fuori dalla frontiera doganale italiana e perché le imprese triestine
avrebbero dovuto pagare i diritti doganali per collocare i propri prodotti in Italia, perdendo così in competitività.
Il dibattito pubblico sul trattato di Osimo fra ragion di Stato e protesta locale 97
era stato agitato non solo da alcune categorie economiche (piccola impresa, commercio e
artigianato), ma anche da settori della DC, oltre che da PCI, PSI e indipendentisti84.
A marzo venne fondato il Comitato promotore per la zona franca integrale – meglio
noto come Comitato dei dieci – intenzionato a raccogliere firme per una proposta di legge
di iniziativa popolare che fu immediatamente sostenuta da «Il Piccolo». L’appoggio del
quotidiano fu fondamentale85:
C’è la realtà di una popolazione cosciente e civilmente preparata che ogni giorno si espri-
me con maturità sul proprio destino. C’è infine questo traguardo della zona franca integra-
le per il quale continueremo a batterci anche come primo argomento di coesione morale
e materiale. [...] Perché se anche la Camera dei Deputati ha detto sì a Osimo, il popolo ha
detto no. La spaccatura che si è prodotta fra noi e loro non era voluta dalle genti di queste
terre: vent’anni di ingiustizie e di delusioni sofferte ne sono la prova86.
Il brano sintetizza con efficacia lo spirito della protesta, in cui l’antinomia fra «noi» e
«loro» raccontava la difficoltà dei rapporti fra centro e periferia, facendo intravedere i primi
segni di quella che oggi qualcuno definirebbe «antipolitica». Il Comitato incassò le critiche di
partiti e sindacati, non ignari della minaccia costituita da un movimento che usciva dal solco
della rappresentanza tradizionale e si rivolgeva in modo diretto all’opinione pubblica. Ben
65.000 firme furono raccolte entro il novembre 1976, anche grazie all’appoggio di radicali e
indipendentisti: un elettore triestino su quattro appoggiava i contenuti della protesta, proba-
bilmente più per contrarietà a Osimo che per una convinta adesione al progetto di zona franca
integrale.
Il Comitato evidenziò in più occasioni il mancato vantaggio per le imprese italiane a in-
vestire nella ZFIC, a causa della maggiore concorrenzialità delle società con sede legale in
Jugoslavia, che avrebbero usufruito di manodopera a basso costo e di un diritto del lavoro più
conveniente in materia di trattamenti salariali e regole sindacali: fino a quel momento nessuna
azienda italiana aveva richiesto di insediarsi nella zona, contro l’interesse dimostrato invece
da numerose imprese jugoslave. Ciò avrebbe favorito l’afflusso di operai jugoslavi, pena-
lizzato la manodopera locale e snaturato gli equilibri nazionali del territorio con un nuovo
insediamento di cospicue dimensioni. Non venivano trascurati infine i rischi d’inquinamento
dell’aria e delle falde acquifere, a causa dell’esposizione alla bora e della porosità del terreno
carsico87.
A breve distanza dal disastro di Seveso, anche la commissione ecologica della facoltà di
Scienze evidenziò i pericoli ambientali, il problema dello smaltimento dei rifiuti e gli alti
costi d’impianto per la natura difficile del terreno dell’altipiano, parte del quale era stato ri-
conosciuto riserva naturale nel 1971 proprio su iniziativa di Belci. Analoghe preoccupazioni
84
S. Balestra, La questione della Zona franca nel dibattito politico a Trieste fra il 1954 e il 1958, in «Quaderni del Centro
studi economico-politici Ezio Vanoni», n. 1-2, 2001. V. inoltre l’intervento in Senato del comunista Vidali nel 1962, in Perché
Trieste ha bisogno della Zona franca integrale, in «Il Piccolo», 13 ottobre 1976.
85
M. Cecovini, Trieste ribelle, SugarCo Edizioni, Milano 1985, p. 19. «Si può ben dire che senza "Il Piccolo", non vi sarebbe
stata una Lista per Trieste».
86
Un no per la storia, in «Il Piccolo», 18 dicembre 1976.
87
D. Rossi, La zona franca industriale sul Carso, in «Il Piccolo», 24 novembre 1976.
98 Diego D’Amelio
vennero sollevate da realtà come il WWF e Italia nostra, nonché da quasi duecento professori
dell’Università di Trieste88. Si trattava di timori condivisi da ampia parte della popolazione,
come si evince dalle molte lettere giunte sull’argomento alla redazione de «Il Piccolo»89.
Sul versante economico, l’Associazione degli industriali di Trieste criticò il governo
per aver tenuto a lungo nascosto il testo del trattato, ricordando l’«amarezza» per la ces-
sione della zona B e il fatto che la ZFIC avesse «suscitato più apprensioni che speranze»90.
Gli imprenditori non si espressero oltre sul significato politico degli accordi e si dissero
disposti a collaborare senza pregiudizi ai lavori preparatori per la creazione della zona in-
dustriale. Esponenti di primo piano della categoria ebbero comunque modo di far presenti
i propri timori: la possibilità che la ZFIC andasse a vantaggio dei soli interessi jugoslavi,
l’afflusso eccessivo di manodopera straniera, la latitanza delle imprese italiane, la carenza
di investimenti statali per le infrastrutture di collegamento necessarie e l’assenza di una
chiara regolamentazione per la nuova area. La mancanza di una cornice giuridica venne
sottolineata dagli imprenditori e dagli ordini professionali durante tutto il percorso di ra-
tifica: non c’era chiarezza sui rapporti con la CEE, sulle competenze giurisdizionali dei
due paesi contraenti, sulla tipologia delle imprese ammesse, sui trattamenti salariali, sulla
salvaguardia dei lavoratori italiani, sulla creazione di abitazioni per i nuovi assunti, sulla
protezione dell’ambiente e sulla regolamentazione doganale, valutaria e fiscale91. Tutto ciò
era stato rimandato ai decreti delegati e non pareva rassicurante un’imbarazzata dichiara-
zione della CEE, di poco successiva alla firma di Osimo: «Nessuna politica di interventi
attivi per nessuna zona franca. È già un fatto eccezionale che essa sia stata approvata dalla
Cee quale contributo comunitario allo Stato italiano»92. Simili perplessità non trovarono
però sponda nella Confindustria, allora guidata da Gianni Agnelli, che sostenne i vantaggi
di contropartite economiche capaci a suo avviso di stimolare ulteriormente «una frontiera
aperta e osmotica» e di restituire «a Trieste la sua funzione di piattaforma di mediazione e
di scambio e di polo di aggregazione industriale»93.
Al polifonico coro di opposizione si aggiunse il Partito radicale. Benché sostenitore
della parte politica del trattato, esso si schierò contro la ratifica in quanto contrario agli
accordi economici nel merito e nel metodo. Radicali e liberali chiesero ad esempio senza
esito di sospendere la discussione nella commissione Esteri per ascoltare esperti e categorie
economiche triestine in merito alla delicata localizzazione della ZFIC94. Secondo i radicali,
la zona industriale sarebbe stata una «catastrofe ecologica», non avrebbe attirato impre-
se italiane e avrebbe disgregato il tessuto sociale della minoranza slovena che viveva sul
Carso. La trattativa era stata gestita da «incapaci», senza alcuna conoscenza del territorio,
88
Osimo: 181 professori dell’Università contro la zona industriale sul Carso, in «Il Piccolo», 5 dicembre 1976.
89
V. ad esempio Il «polmone verde», in «Il Piccolo», 13 novembre 1975.
90
Si delinea sul terreno e negli impegni la Zona franca a cavallo del confine e L’avvio della consultazione in un incontro in
Regione, in «Notiziario industriale», 15 dicembre 1975.
91
Interrogativi ancora senza risposta e Zona franca industriale e commerciale: quali sono le reali prospettive per Trieste?,
in «Notiziario industriale», 6 dicembre 1976.
92
Neanche da Ortoli chiarimenti sulla Zfic, in «Il Piccolo», 23 novembre 1975. La Comunità europea tendeva a non condi-
videre la natura bilaterale dell’accordo economico.
93
Nel responsabile intervento di Agnelli precisi indirizzi per uscire dalla crisi, in «Notiziario industriale», 8 aprile 1976.
94
Osimo: il Pli contrario alle industrie sul Carso, in «Il Piccolo», 5 novembre 1976; Il rinvio di Osimo obiettivo dei radicali,
in «Il Piccolo», 11 novembre 1976.
Il dibattito pubblico sul trattato di Osimo fra ragion di Stato e protesta locale 99
senza sopralluoghi e senza consultazioni con gli enti locali. La DC triestina fu attaccata per
aver accettato gli accordi a scatola chiusa, preoccupata solo del dato politico, dopo aver
approfittato per vent’anni dei profughi con la tesi della provvisorietà dello status quo95.
Non senza qualche strumentalizzazione, Pannella utilizzò la questione all’interno della sua
battaglia antipartitocratica96: lamentò che le commissioni parlamentari avessero dato parere
positivo nel giro di poche ore e additò Osimo come nuova prova del «patto di potere» stret-
to fra DC e PCI a livello nazionale e locale97, scagliandosi contro l’informazione fornita
dalla «stampa di regime» sulla natura di contropartite imposte dall’alto alla città e gradite
solo ai potentati economici98.
Anche la minoranza slovena prese posizione contro la creazione della nuova area in-
dustriale, sebbene la lista democratica Slovenska skupnost (Unione slovena) considerasse
comunque Osimo con grande favore, come strumento fondamentale per sgombrare il cam-
po dalle residue speculazioni dei circoli irredentistici e nazionalisti italiani, incoraggiare
la collaborazione fra i due gruppi nazionali e restituire funzione europea alla città, grazie
alle potenzialità di cooperazione transfrontaliera e alle misure economiche collegate al
trattato99. L’ubicazione della ZFIC suscitava tuttavia timore a causa degli espropri di ter-
ritorio carsico a insediamento sloveno che ne sarebbero derivati, con il rischio potenziale
di un’alterazione dei caratteri etnici e ambientali dell’altipiano, il cui prezzo sarebbe stato
pagato dalla minoranza100. Secondo le forze politiche slovene, un simile sacrificio avrebbe
richiesto equi indennizzi e dimostrato inequivocabilmente l’attaccamento della minoranza
al destino della comunità giuliana: ciò avrebbe rappresentato allora ulteriore ragione per
accelerare il varo della prevista – e da troppo tempo attesa – legge di tutela globale, che agli
occhi della minoranza si sarebbe dovuta estendere all’intera popolazione slovena del Friuli
Venezia Giulia e non soltanto all’ex TLT, come prevedevano invece le garanzie minime
contenute nel trattato e le stesse intenzioni del governo e della Dc101.
L’incisività della protesta indusse la stampa nazionale a giudicare con maggiore cautela
la parte economica del trattato, accolta invece inizialmente in modo molto favorevole102.
Tale rimodulazione avvenne anche in considerazione di un movimento di protesta che ap-
pariva sempre più come portatore di interessi eterogenei: la polemica sulle contropartite di-
mostrava infatti che la contrarietà era dovuta solo in parte a tendenze nazionalistiche – pur
presenti in discreta quantità – sostanziandosi per lo più delle incerte prospettive di scelte
95
G. Ercolessi, L’imbroglio. Il trattato di Osimo con la Jugoslavia ha un risvolto criminoso: il protocollo economico, foto-
copia in mio possesso.
96
Nostra intervista con il leader radicale, Marco Pannella, in «Il Piccolo», 11 novembre 1976.
97
No ad una richiesta di Pannella per la pubblicizzazione del dibattito, in «Il Piccolo», 16 novembre 1976; Osimo: i radicali
chiedono di sospendere il dibattito, in «Il Piccolo», 19 novembre 1976.
98
Dossier a sorpresa, in «Il Piccolo», 14 febbraio 1977.
99
Discussione sullo stato dei rapporti tra l’Italia e la Jugoslavia, Regione FVG, Atti consiliari, seduta del 7 ottobre 1975, pp.
6395-6443; Verbale della seduta del consiglio comunale, 8-9 ottobre 1975; Verbale della seduta del consiglio comunale, 19
novembre 1976.
100
Anche motivi di sconcerto nei commenti degli sloveni, in «Il Piccolo», 4 ottobre 1975; Archivio Coloni, b. 16, f. Osimo-
Zfic 1981.
101
Archivio Coloni, b. 7, f. Politica, rapporti Italia-Jugoslavia, minoranza 1973, Appunto su «negoziato».
102
P. Radius, Zona franca: un’occasione per Trieste, in «Il Giornale», 4 ottobre 1975; La Camera favorevole a definire il
trattato con la Jugoslavia, in «L’Unità», 4 ottobre 1975; D. Frescobaldi, Intesa firmata per la zona B, in «Il Corriere della
sera», 11 novembre 1975.
100 Diego D’Amelio
economiche assunte senza alcun confronto con la periferia103. In quella fase non era peraltro
ancora noto che il progetto della ZFIC era stato stravolto rispetto alla prima proposta della
diplomazia italiana, la quale aveva chiesto che l’area non sorgesse sull’altipiano carsico
e che fosse costituita interamente in territorio sloveno, senza collegamenti infrastrutturali
con la Jugoslavia104.
«Il Corriere della Sera» mise in rilievo gli aspetti più discussi e invitò i partiti a tendere
l’orecchio invece di stigmatizzare a priori gli oppositori:
La chiusura verso la protesta era però evidente sia nella DC sia nel PCI, che la giudi-
carono in modo troppo semplificato e autoreferenziale. Secondo lo scudo crociato, la zona
franca integrale era «una tesi assurda, antistorica, che va contro tutte le leggi economiche
[…], ma serve egualmente per coagulare tutte le motivazioni inespresse, anche quelle in
buona fede»106. Ciò portava la DC a sostenere schematicamente che il trattato era «stato
l’ultima occasione a cui si è aggrappata una certa borghesia triestina, nazionalista e isola-
zionista, per tentare di ricacciare le forze autenticamente democratiche e popolari»107.
Posizioni non dissimili espresse «L’Unità». Pur prendendo atto della necessità di studia-
re meglio localizzazione e impatto ecologico della ZFIC108, il quotidiano del PCI riteneva
che il provvedimento fosse l’unica opportunità per far uscire Trieste dall’isolamento e dalla
concezione «parassitaria» della zona franca integrale, favorendo nel contempo la coopera-
zione con un paese socialista non allineato e aprendo così una finestra della CEE sui paesi
del Comecon109. Le opposizioni erano liquidate come «spinte irrazionali del nazionalismo
conservatore e fascistizzante e di un certo indipendentismo isolazionista e anti-italiano: il
tutto condito dal prezzemolo radicale di Pannella»110. Tralasciando il sostegno che il comu-
nismo giuliano aveva dato ben oltre il 1954 a ipotesi indipendentiste prima e zonafranchiste
poi, il quotidiano attaccava le forze chiuse «nelle pieghe del loro municipalismo anacro-
103
G. da Rold, Un triestino su quattro ha sottoscritto il dissenso al trattato italo-jugoslavo, in «Il Corriere della sera», 22
novembre 1976.
104
R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare. Per una storia della politica estera italiana (1943-1991), Il Mulino, Bologna 1995,
pp. 217-218.
105
A. Todisco, Non facciamo del Carso un altro porto Marghera, in «Il Corriere della sera», 6 dicembre 1976.
106
Osimo: lo contrasta una ibrida coalizione, in «Il Popolo», 11 dicembre 1975.
107
Ibidem. V. inoltre Archivio Coloni, b. 12, f. Democrazia cristiana 1980. La DC avrebbe successivamente definito la LPT
come liberal-nazionale, massonica e «radical-qualunquista».
108
Per un dibattito sugli Accordi di Osimo, in «L’Unità», 2 gennaio 1977; La scelta del Carso per la zona industriale, in
«L’Unità», 12 gennaio 1977.
109
U. Cardia, Passo avanti della cooperazione europea, in «L’Unità», 10 dicembre 1976.
110
M. Passi, Un ruolo attivo per Trieste, in «L’Unità», 19 novembre 1976.
Il dibattito pubblico sul trattato di Osimo fra ragion di Stato e protesta locale 101
La protesta dei triestini occorre precisarlo, non sarà una rivolta di nazionalisti e di fascisti:
trent’anni non sono passati invano, molte esasperate passioni del dopoguerra si sono spen-
te. [...] Le firme dei nostalgici s’alternano a quelle di scrittori d’avanguardia, le resistenze
nazionalistiche si confondono con la demagogia dei pannelliani, le inquietudini degli eco-
logi si mischiano con i calcoli degli economisti113.
Soltanto «Il Secolo d’Italia» perseverò nel mettere in discussione la base politica dell’in-
tesa, ritenendo che il paese – e tanto più Trieste – non dovesse pagare altri prezzi per la
guerra persa. Le posizioni nazionaliste e revansciste apparivano comunque isolate nell’opi-
nione pubblica: le argomentazioni della destra vennero utilizzate infatti pressoché esclusi-
vamente dal MSI, dall’ANVGD (presieduta da un democristiano ma con forti correnti di
destra) e, a livello locale, dalla Lega nazionale e dall’Unione degli istriani. L’ANVGD in
particolare criticò la genericità degli accordi su nodi quali cittadinanza, trattamento della
minoranza italiana e indennizzi ai profughi114, lamentando che il dibattito si fosse ormai
spostato solo sugli aspetti economici, per ignorare del tutto la perdita di una parte di terri-
torio italiano115.
Queste vibranti e multiformi reazioni non impedirono che il percorso verso la ratifica
procedesse senza grossi intoppi e senza novità rispetto all’anno precedente. Anche il di-
battito negli enti locali si svolse come prevedibile: un’ampia maggioranza – con un voto
sulla mozione presentata congiuntamente da DC e PCI – escluse ogni ipotesi di revisione,
rigettando la proposta di zona franca integrale e indicando nella ZFIC un’opportunità di
sviluppo da perfezionare116. Le principali forze politiche erano intenzionate ad approvare
l’accordo e a compiere eventuali modifiche al momento della fase attuativa117: buona parte
delle realizzazioni era infatti affidata a regolamenti ancora tutti da scrivere.
Il 17 dicembre 1976 la Camera approvò il disegno di legge per la ratifica del trattato di
Osimo, con circa cento assenti tra le file della DC, dopo un dibattito che si era svolto su
111
F. Calamandrei, Il trattato di Osimo, in «L’Unità», 25 febbraio 1977.
112
Trieste provincia franca, in «Il Giornale», 17 dicembre 1976.
113
C. Casalegno, Trieste bel suol d’amore, in «La Stampa», 24 novembre 1976.
114
Non si ratifichi l’accordo, in «Difesa Adriatica», 14 febbraio 1976; La zona B regalata alla Jugoslavia, in «Difesa Adri-
atica», 2 marzo 1976; Il Parlamento di fronte alla verifica, in «Difesa Adriatica», 5 aprile 1976.
115
Cresce l’opposizione alla ratifica e La forza della verità, in «Difesa Adriatica», 17 novembre 1976.
116
Verbale della seduta del consiglio comunale, 19 novembre 1976; Fino all’alba al Comune per un voto ormai scontato, in
«Il Piccolo», 21 novembre 1976.
117
Osimo: la relazione del ministro degli Esteri al disegno di legge di ratifica degli accordi, in «Il Piccolo», 23 ottobre 1976;
Osimo: rapporto in commissione, in «Il Piccolo», 10 novembre 1976; Osimo: la relazione del ministro degli Esteri al disegno
di legge di ratifica degli accordi, in «Il Piccolo», 23 ottobre 1976.
102 Diego D’Amelio
molte giornate – in momenti non occupati da altri punti all’ordine del giorno – ed era stato
intralciato solo dall’ostruzionismo del MSI118. Con esso si opposero il Partito radicale e
una trentina di franchi tiratori. In quell’occasione, il neoeletto Tombesi espresse «il ram-
marico che, nonostante l’opposizione di Trieste espressa in maniera civile e democratica,
sia prevalso l’orientamento del governo e delle segreterie di partito»119. Il deputato aveva
già annunciato il suo voto contrario in una riunione dei gruppi parlamentari della DC,
quando aveva chiesto allo scudo crociato di dimostrare di «essere partito degli elettori» –
in polemica rispetto al ruolo di indirizzo nei confronti della propria base elettorale svolto
dalla guida morotea del partito – e di rispettare i «sentimenti nazionali» di Trieste, dando
credito ad una protesta locale dilagante. Osimo rappresentava per Tombesi una rinuncia
ingiustificata – un cedimento unilaterale avvenuto in smentita alle precedenti rassicurazio-
ni del governo – e non comportava vantaggi territoriali ed economici per il paese e per la
comunità locale: ciononostante propose una serie di provvedimenti che giudicava necessari
per garantire futuro alla pur discussa ZFIC, di cui domandò non la cancellazione ma la
rilocalizzazione120.
Prima della ratifica nella sua aula di competenza, il presidente del Senato Fanfani aveva
ricevuto Fonda Savio, Giuricin e Gruber Benco per la consegna delle 65.000 firme: il presi-
dente della Camera Ingrao aveva invece declinato la richiesta del Comitato dei dieci121. De-
legazioni triestine furono inoltre sentite dalla commissione Esteri del Senato, dove Gruber
Benco espose le motivazioni dei firmatari122. Ciò non mutò l’esito previsto e il 24 febbraio
1977 anche il Senato ratificò il trattato, col voto favorevole di DC (eccetto Barbi), PSI, PCI,
PSDI E PRI. Le medesime forze approvarono un ordine del giorno che chiedeva al governo
di esaminare le modalità di impianto della ZFIC, «in rapporto alle conseguenze ecologiche,
ai problemi economici, sociali e di tutela del lavoro italiano»123.
Nelle sue dichiarazioni, Pannella si dimostrò comunque un buon veggente, dal momen-
to che la ZFIC sarebbe per sempre rimasta tracciata solo sulla carta124: «Apparentemente
stasera stravincete. In realtà la lotta democratica dei triestini e la nostra di radicali hanno
fatto divenire la vostra bandiera sul Carso poco meno che uno straccio. Vi diciamo [...] che
la zona franca industriale sul Carso molto probabilmente non la farete, non ve la faremo
fare»125.
118
Un ritaglio di tempo per Osimo alla Camera, in «Il Piccolo», 11 dicembre 1976.
119
Tombesi (Dc): i motivi di un no, in «Il Piccolo», 9 dicembre 1976; Alla Camera 178 assenti per il sì al trattato, in «Il Pic-
colo», 18 dicembre 1976.
120
Interventi contrari all’accordo di Osimo, in «Il Piccolo», 13 agosto 1976; Tombesi: troppi dubbi, in «Il Piccolo», 14
novembre 1976.
121
Alla Camera le firme per la Z.F. integrale, in «Il Piccolo», 30 novembre 1976; Ricevuti da Fanfani i delegati dei 65 mila,
in «Il Piccolo», 14 gennaio 1977.
122
A Palazzo Madama su Osimo il primo proficuo confronto, in «Il Piccolo», 3 febbraio 1977.
123
Un pacchetto di promesse per smorzare la protesta, in «Il Piccolo», 25 febbraio 1977.
124
Archivio Coloni, b. 8, f. Osimo-Zfic 1977, Riunione della commissione mista per configurare la Zfic; Archivio Coloni, b.
16, f. Osimo-Zfic 1981. I lavori del comitato interministeriale e delle varie commissioni per l’applicazione di Osimo si ar-
restarono dopo poco tempo o proseguirono in modo lento e inconcludente.
125
Un pacchetto di promesse per smorzare la protesta, in «Il Piccolo», 25 febbraio 1977.
Il dibattito pubblico sul trattato di Osimo fra ragion di Stato e protesta locale 103
I consensi raccolti attorno all’opposizione a Osimo non si dispersero in seguito alla ra-
tifica del trattato. La fine del 1976 registrò infatti un partecipato dibattito attorno alla crea-
zione di una lista civica che costituisse lo sbocco del Comitato dei dieci: la Lista per Trieste
sarebbe nata circa un anno dopo126. La LPT trovò il suo portavoce in Cecovini, avvocato
liberale ed elemento di primo piano della massoneria italiana, che non aveva partecipato
all’esperienza del Comitato: «È necessario che alle prossime elezioni amministrative, in
contrapposizione alle solite e screditate liste che saranno presentate dai partiti, i triestini si
presentino con una lista propria, la “lista civica per la difesa di Trieste”»127.
Il movimento germogliò dall’incontro tra forze laiche, liberali e socialiste in primis,
ma seppe recuperare consenso a destra e in settori cattolici: vi aderì anche il democristia-
no Bologna, uscito nel frattempo dallo scudo crociato. La LPT si sarebbe gradualmente
trasformata in qualcosa di diverso da quanto probabilmente immaginato dal Comitato dei
dieci, i cui esponenti socialisti sarebbero stati nel tempo emarginati davanti al prevalere
dell’anima liberale, più conservatrice. La composizione politica eterogenea dei promoto-
ri – testimoniata dal fatto che si poteva essere iscritti contemporaneamente al cosiddetto
Melone e ad un altro partito – avrebbe creato non pochi problemi alla LPT al momento
della sua istituzionalizzazione, complicando la già precaria governabilità degli enti locali
retti dalla Lista con giunte di minoranza128. In quella prima fase le diverse tendenze ave-
vano saputo tuttavia compattarsi su un programma di pochi punti, capace di pescare con-
senso trasversale in città: «La lista deve prescindere da colorazioni politiche individuali,
in un momento d’emergenza quegli ideali devono essere accantonati […]. L’autonomia
legislativa provinciale in seno alla Regione e la zona franca integrale» furono le misure
indicate per dare a Trieste potestà legislativa e utilizzo diretto del proprio bilancio129. A
126
M. Cecovini, Discorso di un triestino agli italiani e altri scritti politici, LINT, Trieste 1979; Id., Dare e avere per Trieste,
Del Bianco, Udine 1991; Id., Trieste ribelle. La Lista del Melone. Un insegnamento da meditare, SugarCo, Milano 1995. G.
Giuricin, Meloni, melonismo, melonaggine, La cinigia, Trieste 1982; Id., Origini della Lista per Trieste. Storia documentata,
Italo Svevo, Trieste 2006. La pubblicistica dei protagonisti non è stata ancora oggetto di interesse della storiografia, attraverso
studi dedicati alla Lista per Trieste e, più in generale, alle diverse declinazioni che la tradizione autonomista giuliana assunse
dal dopoguerra in avanti.
127
M. Cecovini, I triestini e il Comune, in «Il Piccolo», 15 gennaio 1977.
128
P. Segatti, La complessa stabilità di Trieste, in «Il Mulino», n. 371, 1997, pp. 483-492. La gestione della LPT corrispose
a un più marcato isolamento politico di Trieste e alla stasi degli enti locali, guidati da giunte di minoranza la cui costante
crisi sfociò prima nel commissariamento e poi in accordi politici con la DC. La Lista si connotò per la mancanza di una linea
unitaria e diversi personalismi: il movimento elesse ad esempio una deputata e un parlamentare europeo, inseriti una nelle
liste socialiste e l’altro in quelle liberali. Differente si dimostrò perfino l’atteggiamento sulla Zona franca integrale (bocciata
comunque dalla commissione Finanze) e sulla realizzazione della ZFIC, con una parte della LPT contraria in ogni caso e
un’altra disponibile alla ricollocazione. Divergenze si sarebbero registrate infine sui rapporti col mondo sloveno. Il Melone
avrebbe pagato queste frizioni con l’uscita di Gruber Benco, Giuricin e Bologna: pur avendo mantenuto un legame col PSI
di Craxi, il movimento si sarebbe spostato gradualmente a destra, alleandosi col MSI negli anni Novanta e fornendo uomini
e base organizzativa alla nascente Forza Italia.
129
M. Cecovini, I triestini e il Comune, in «Il Piccolo», 15 gennaio 1977. La LPT rivendicava la difesa del «fragile equilibrio
economico, etnico e ambientale» di Trieste e il peso delle 65.000 firme nel bloccare la realizzazione della ZFIC. La richiesta
di maggiore autonomia per la città – «capoluogo fittizio di Regione» – non aveva addentellati con tendenze indipendentiste,
ma teorizzava la necessità di province autonome con un coordinamento regionale, sul modello del Trentino Alto Adige.
104 Diego D’Amelio
130
Ibidem.
131
Archivio Coloni, b. 8, f. Democrazia cristiana 1977, Moro a Coloni.
132
A. Todisco, A Trieste c’è un candidato in più: la delusione, in «Il Corriere della sera», 20 giugno 1978.
133
S. Viola, La sorpresa verrà da Trieste, in «La Repubblica», 17 giugno 1978. V. inoltre S. Doglio, L’accordo di Osimo di-
vide Trieste, in «La Stampa», 20 giugno 1978: «Trieste è fra le grandi città del Nord che ha detto sì all’abolizione del finanzia-
mento statale ai partiti; e il solo voto del referendum suona ulteriore allarme oggi per chi teme un successo della lista civica».
134
M. Passi, Dietro la campagna moderata a Trieste, in «L’Unità», 18 giugno 1978.
135
S. Viola, La sorpresa verrà da Trieste, in «La Repubblica», 17 giugno 1978.
136
S. Viola, Un altro voto di protesta, in «La Repubblica», 27 giugno 1978.
Il dibattito pubblico sul trattato di Osimo fra ragion di Stato e protesta locale 105
che provinciali del centro-sinistra si fecero così più insistenti nel chiedere la verifica
di fattibilità degli accordi economici, sfumando gli iniziali entusiasmi. Non bastò: le
elezioni amministrative del giugno 1978 segnarono infatti la vittoria del Melone, che
raccolse alla sua prima apparizione il 27,5% dei voti e 18 seggi in Comune, ottenendo
la nomina a sindaco di Cecovini, posto a capo di una giunta monocolore di minoranza.
Il radicamento dello scudo crociato a Trieste si era dimostrato meno saldo che altrove,
accompagnato dalla consistenza del PCI, dalla robusta presenza del MSI e dall’influenza
di varie tendenze indipendentiste137. Fino a quel momento, pur in assenza di subculture
politiche tradizionali, i partiti di massa erano comunque riusciti a integrare le ragioni
principali della rappresentanza dell’elettorato locale, ovvero la difesa nazionale e la ri-
vendicazione di provvedimenti considerati risarcitori dalla periferia. Tanto la DC quanto
il PCI si erano però dovuti misurare con la pervicacia di un sentimento municipalista
ereditato dalla stagione liberal-nazionale di età asburgica e rafforzatosi per varie ragio-
ni nel secondo dopoguerra: dalla sospensione della sovranità alla successiva sfiducia
nei confronti della burocrazia italiana, dalla nostalgia per l’emporio austriaco alla crisi
dell’economia locale, dai ritardi nell’attuazione dei provvedimenti governativi a quelli
nella concessione di autonomia amministrativa. La DC finì così per pagare duramente
il prezzo di Osimo: il crollo dell’immagine di partito nazionale corrispose al solo per-
manere dell’immagine di partito centralista, piegatosi ai disegni di Roma senza fare gli
interessi della città decaduta138. Il retaggio del municipalismo e del liberalismo di matrice
nazionale – rimasti sotto traccia dopo i sussulti di metà anni Sessanta – trovarono in tal
modo il terreno per integrarsi fra loro in maniera aggiornata, in un clima che vide sovrap-
porsi il tema della periferia bistrattata, la richiesta di autonomia, la reazione degli esuli
istriani, la più generale sfiducia verso il sistema politico e la freddezza di un elettorato
tendenzialmente conservatore verso le prove tecniche di dialogo fra DC e PCI. La crisi di
Osimo segnò così la nascita di un nuovo soggetto politico avverso ai partiti tradizionali
e rappresentò in qualche modo la rivincita delle tradizioni laiche ostili al centro-sinistra
e al cattolicesimo politico: gli equilibri politici del capoluogo ne risultarono stravolti.
Le elezioni amministrative segnarono la sconfitta dei partiti cosiddetti «osimanti»:
sommando i voti della Lista, del Movimento sociale e dei radicali, i suffragi a vario ti-
tolo in dissenso con il trattato furono circa il 40 per cento. La DC aveva superato senza
danni le consultazioni del 1976, ma la comparsa nel frattempo di un polo attrattore della
protesta modificò completamente la situazione e fece sì che il partito perdesse la gui-
da del Comune dopo un trentennio. Alle consultazioni politiche anticipate del 1979, lo
scudo crociato avrebbe eletto come unico parlamentare (invece dei due consueti) il solo
Tombesi, strenuo oppositore del ceto dirigente moroteo ormai in declino. La DC avrebbe
137
I. Diamanti, A. Parisi, Elezioni a Trieste. Identità territoriale e comportamento di voto, Il Mulino, Bologna 1991.
L’indipendentismo si era alimentato di tradizioni molto eterogenee fra loro: dai nostalgici dei fasti asburgici ai sostenitori
degli interessi della piccola impresa, dai dipendenti del Governo militare alleato agli sloveni anticomunisti, dal comunismo
filojugoslavo a quello di credo cominformista.
138
Archivio Coloni, b. 12, f. Democrazia cristiana 1980, Mozione 1 del XXXII congresso provinciale. Fu lo stesso gruppo
dirigente democristiano a fare autocritica, parlando di «gravissima crisi», di rischio di «emarginazione politica» ed estinzione
per il cattolicesimo democratico politico, di un partito divenuto «sistema di potere chiuso, impermeabile rispetto alla società»
e caratterizzato peraltro da «passate ambiguità» sulla risoluzione del contenzioso italo-jugoslavo.
106 Diego D’Amelio
perso il 13 percento rispetto al dato del 1976: fu la spia di un tracollo elettorale che non
si sarebbe arrestato in breve tempo139.
La Lista sottrasse voti a tutti gli schieramenti in campo – dall’estrema destra al PCI,
senza tuttavia suscitare mai simpatie nel mondo sloveno – e sarebbe rimasta per un de-
cennio la prima forza cittadina col favore di circa un terzo dell’elettorato. L’opposizione
trasversale coagulata attorno al Comitato dei dieci prima e al Melone poi ebbe effetti-
vamente la forza di bloccare la realizzazione della ZFIC, sgradita al nuovo consiglio
comunale, che minacciò di proporre un referendum cittadino sulla zona industriale140. Gli
accordi sarebbero comunque stati depotenziati anche dai troppi rallentamenti dell’ini-
ziativa italiana, dalla sempre più manifesta crisi politica ed economica della Jugoslavia
– incapace di impegnarsi nella costruzione delle infrastrutture previste – e dall’accordo
economico stipulato fra Belgrado e la Cee, che svuotò di fatto le motivazioni su cui era
basata la ZFIC141.
Mancano ancora analisi dedicate ad approfondire l’identità politica, le strategie e le
motivazioni del notevole successo della LPT. Si tratta di un oggetto di studio particolar-
mente interessante, all’interno del quale bisogna distinguere il piano della protesta – con
le sue motivazioni ampie e variegate – da quello della sua successiva gestione politica.
Dopo la prima fase, animata da forti istanze democratiche partecipative e incarnata dal
Comitato dei dieci, l’ascesa della Lista per Trieste corrispose infatti all’affermazione di
un gruppo dirigente conservatore – il cui disegno e le cui reti di relazione sono in buona
misura da esplorare – che divenne espressione di quella parte cospicua della società giu-
liana che aveva costituito l’avversario principale della linea del centro-sinistra.
Si può per ora affermare che in un breve torno di tempo vennero alla luce le ten-
denze messe in risalto da Claudio Magris circa un anno prima della nascita della Lista:
è alle sue parola che affido la conclusione di questo saggio142. Magris condivideva la
chiusura del contenzioso con la Jugoslavia, ma riteneva nel contempo che Roma avesse
sbagliato due volte: da una parte, sulla scelta di legare la sistemazione della frontiera
alla realizzazione della ZFIC; dall’altra per la scarsa attenzione dimostrata rispetto alla
protesta di Trieste. Pur nell’ineluttabilità e nell’opportunità di quella scelta, il parlamento
aveva ratificato Osimo «con burocratica svogliatezza anziché con la dolorosa coscienza
di chiudere un tragico capitolo di sofferenze e di superare il dramma di una sconfitta e
dell’esodo di migliaia di profughi istriani». Tutto ciò aveva incrementato la preoccupa-
zione «esclusiva e assillante» della città per il suo destino e aggravato il «livore» e il
«risentimento non risolto». Il movimento per la zona franca integrale dimostrava per lo
scrittore «un’insicurezza latente, uno stato d’animo tipicamente triestino, oscuramente
139
La DC ottenne il 26% dei voti alle comunali del 1978 e il 23,7% alle politiche del 1979. Le comunali del 1982 avrebbero
visto il partito finire addirittura al 19,3%, mentre le politiche del 1983 sarebbero rimaste allineate al 23,7% precedente.
140
Archivio Coloni, b. 10, f. Politica locale e f. Osimo 1979, Mozione del consiglio comunale contro la realizzazione della
Zfic sul Carso.
141
Archivio Coloni, b. 9, f. Osimo-Zfic 1978, Zona franca prevista dagli accordi di Osimo e accordo Cee-Jugoslavia. La
ZFIC continuò a essere difesa della DC, che accettò tuttavia l’impossibilità pratica di una collocazione sul Carso. L’insistenza
sulla ZFIC avvenne nonostante la consapevolezza – tenuta sempre riservata – che gli accordi diretti fra CEE e Jugoslavia ne
avessero notevolmente depotenziato convenienza e significato.
142
C. Magris, I malumori di Trieste dopo i patti di Osimo, in «Il Corriere della sera», 8 aprile 1977.
Il dibattito pubblico sul trattato di Osimo fra ragion di Stato e protesta locale 107
insidiato dal timore di essere il figlio trascurato della famiglia e quindi bramoso di ri-
cevere un attestato speciale di figlio prediletto». Lo Stato e la politica erano chiamati a
confrontarsi con questa realtà, a condurre Trieste fuori dal suo passato e a garantirle un
futuro civile grazie alla creazione di un legame di solidarietà fra le genti di confine. Tale
prospettiva non era assicurata per Magris da un municipalismo «coltivato dal fantasma
di ieri ma amministrato dal potere di oggi». Mi sembra difficile trovare espressioni più
efficaci per descrivere le ragioni di fondo di quanto poi accaduto, a smentire le speranze
dell’autore: colpisce soprattutto che, a trentacinque anni di distanza, queste parole con-
tinuino a raccontare il dialogo sempre difficile fra Roma e Trieste – a causa di una certa
miopia del centro ma anche delle notevoli carenze della classe dirigente locale – nonché
le motivazioni del recente riemergere di nuove rivendicazioni di stampo municipalista,
quando non indipendentista, ancora una volta in una fase di crisi dell’economia e della
rappresentanza politica.
IN LIBRERIA
Nel luglio del 1914, i funerali dell’erede al trono degli Asburgo, Francesco Ferdinando, e della sua sfortu-
nata consorte transitano per le strade di una Trieste ammutolita e listata a lutto, prossima a rinnovare all’in-
finito il proprio dolore. Nel cuore dell’estate scoppiava infatti la Prima guerra mondiale, ovvero la Grande
guerra, dopo la quale nulla sarebbe più stato come prima. Trieste è allora quanto mai città d’Europa: come a
Parigi, Berlino, Vienna, Londra, Budapest, Praga la guerra vi farà la sua comparsa con le sue code di fanfare
e sfilate, canti e infiorate e il centro del Litorale è attraversato dalle stesse ansie e speranze di altre metropoli
europee. Al centro dell’opera, che nasce alla vigilia del Centenario dello scoppio della Grande guerra, c
è il tentativo di capire quanto questo evento abbia sconvolto il tessuto cittadino, come Trieste e più sullo
sfondo il Litorale abbiano vissuto l’evento in quel 1914, quali siano stati i provvedimenti e le iniziative che
ne caratterizzarono la vita nei difficili mesi di un anno da subito segnato da avvenimenti per diverse ragioni
memorabili. Pur non rinunciando al rigore scientifico, il volume intende rivolgersi a un ampio pubblico,
ricostruendo il clima della città e del suo territorio in quel primo anno di guerra e prendendo le mosse dai
mesi che precedettero i colpi di rivoltella di Sarajevo per cogliervi i segni della tragedia imminente. Il libro
è stato realizzato basandosi su fonti giornalistiche («Il Piccolo», «Il Lavoratore», «L’Indipendente»), fonti
letterarie e memorialistiche, ma anche fonti d’archivio che rendono, con il loro assemblaggio, la lettura
gradevole e avvincente. Particolarmente ricco l’apparato iconografico che comprende fotografie, cartoline e
oggettistica d’epoca, cartine e tabelle, provenienti da musei, archivi e collezioni pubblici e privati.
«Qualestoria» n. 2 - dicembre 2013
di Fabio Capano
After 1954, Trieste’s de facto return to Italy coincided with the definitive partition of the Adriatic
border. As a consequence, recurrent political tensions that marked the years between the London
Memorandum and the Osimo Treaties were generally neglected and understudied. This article
represents a first attempt to fill this gap in historical studies and prove that, until 1975, the issue
of the ex-zone B remained a «Cold War hotbed» for the Italian government. In exploring the
«complex relation» between Rome and Trieste through the lenses of the associative response to
the Adriatic detente, this article tells a story of misunderstandings, conflicts, and antagonisms.
It investigates the role played by local as well as national patriotic and émigrés associations
in upholding the «italianità» of the ex-zone B and ultimately suggests that the neo-irredentist
network, while opposing the new logic of international politics, restlessly advocated the defense
of the «legitimate» interests of the nation.
Nell’ottobre del 1954, dopo aver firmato il Memorandum d’intesa, il governo italiano
perseguì una nuova politica estera che, fortemente ancorata agli ideali atlantici ed europei-
sti, fece della nuova alleanza con il vicino jugoslavo uno dei suoi principali cardini1. Con
la firma dell’accordo londinese, la questione della ex-zona B del Territorio libero di Trieste
(TLT) fu relegata ai margini della politica internazionale2. Nonostante le dichiarazioni uffi-
ciali, il ritorno di Trieste sancì infatti la definitiva partizione del confine adriatico3. Di con-
seguenza, le ricorrenti tensioni diplomatiche che caratterizzarono i rapporti italo-jugoslavi
tra il 1954 ed il trattato di Osimo ma soprattutto le percezioni del mondo politico verso la
«questione istriana» ed il loro impatto sulla comunità adriatica furono spesso minimizzate
negli studi storiografici4.
1
F. Romero, La scelta atlantica e americana, in Nazione, interdipendenza e integrazione: le relazioni internazionali dell’Italia
(1917-1989), vol. I, a c. di F. Romero, A. Varsori, Carocci, Roma 2005, 166. Un riferimento essenziale sulla politica estera
italiana è il testo di L. V. Ferraris, Manuale della politica estera italiana: 1947-1993, Laterza, Bari- Roma 1996.
2
Si vedano i testi di A. Varsori, La Politica Estera Italiana agli Inizi degli anni Cinquanta, in Dalla cortina di ferro al confine
ponte: a cinquant’anni dal memorandum di Londra, l’allargamento della NATO e dell’Unione Europea, a c. di G. Meyr, R.
Pupo, Comune di Trieste, Trieste 2008; F. Botta, I. Garzia, Europa adriatica. Storia,relazioni, economia, Laterza, Bari-Roma
2004.
3
Per la storia di Trieste e del confine orientale si vedano i lavori di E. Apih, Trieste, Laterza, Bari-Roma 1988; M. Cattaruzza,
L’Italia e il confine orientale,1866-2006, Il Mulino, Bologna 2007.
4
Giovanni Cavera, nel suo saggio Gli Accordi di Osimo e la crisi politica italiana degli anni settanta, presentato al convegno
organizzato in occasione del trentesimo anniversario della firma del Trattato di Osimo (2005), sottolineò la scarsa attenzione
prestata alla questione istriana da parte degli storici dei partiti e dei movimenti politici. Massimo Bucarelli in La «Questione
Jugoslava» nella politica estera dell’Italia repubblicana, Aracne, Roma 2008, ha fornito un primo essenziale contributo per
la ricostruzione del processo diplomatico che portò alla definizione del confine orientale.
110 Fabio Capano
Questo saggio rappresenta un primo tentativo di colmare questa lacuna ed, attraverso
l’esame delle fonti archivistiche inerenti le personalità politiche, governative e soprattutto
il neo-irredentismo5, intende analizzare la risposta dell’associazionismo adriatico al pro-
cesso politico che portò ai trattati di Osimo e fu finalizzato nel contesto internazionale di
détente. L’accento sul legame tra il quadro politico internazionale, il tessuto associativo ed
Osimo assume particolare importanza in una città come Trieste la quale6, dopo aver spe-
rimentato per prima le problematiche della Guerra fredda7, divenne oggetto della politica
di distensione nei rapporti tra i vicini adriatici, un fenomeno che anticipò largamente la
détente di Nixon and Kissinger8.
A tal fine, questo articolo esamina quattro associazioni rappresentative del mondo de-
gli esuli e dell’universo nazionalista del dopoguerra che generalmente identificarono nelle
forze politiche di centro-destra ma soprattutto nella Democrazia cristiana piuttosto che
nel Movimento sociale, i loro principali referenti politici9. Innanzitutto la Lega nazionale
(LN), un sodalizio patriottico che, fondato nel 1891 a Trieste, promosse instancabilmente il
sentimento locale di italianità ed invocò l’unione della città alla madrepatria10. Anche dopo
il 1954, forte del supporto dei suoi 45.000 membri e delle autorità sia locali che nazionali,
la Lega nazionale continuò ad invocare la difesa della lingua e cultura italiana nella ex-
zona B come preambolo ad una futura quanto improbabile revisione del trattato di pace11.
In secondo luogo l’Unione degli istriani (UI) la quale, nata dopo il 1954 da dissidenti del
Comitato di liberazione nazionale dell’Istria12, sostenne irreprensibilmente l’italianità della
regione istriana e condannò i termini del trattato di pace e del Memorandum13. In terzo
luogo, l’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), creata nel 1947
per assistere le comunità istriane e dalmate nell’esodo dalle terre cedute con il trattato di
pace. Quest’associazione divenne la principale referente degli esuli istriani e dalmati e
diede incessantemente visibilità alla questione istriana attraverso le pagine del suo giornale
«Difesa Adriatica». Con l’avvicendamento della presidenza Mandel nel 1957, l’associazio-
ne gradualmente conformò la propria strategia verso la disputa confinaria agli imperativi
5
Vedi R. Spazzali, Secondo irredentismo: tra patriottismo democratico e rivendicazione integrale dell’italianità sulla Vene-
zia Giulia, Università di Trieste, Trieste 2011.
6
Vedi G. Valdevit, Trieste. Storia di una periferia insicura, Mondadori, Milano 2004.
7
La questione di Trieste é stata ampiamente studiata e i lavori di Diego de Castro e Giampaolo Valdevit forniscono un
riferimento essenziale. Ad esempio D. de Castro, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943
al 1954, LINT, Trieste 1981. Si veda anche G. Valdevit, Il dilemma Trieste. Guerra e dopoguerra in uno scenario europeo,
Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 1999.
8
Vedi H. Kissinger, Diplomacy, Simon & Schuster, New York 1994.
9
Per una storia della destra a Trieste si veda P. Comelli, A. Vezzà, Trieste a destra. Viaggio nelle idee diventate azione lontano
da Roma, Il Murice, Trieste 2013.
10
Per una storia della Lega Nazionale si veda R. Spazzali, Contributi di ricerca per una storia della Lega Nazionale 1946:
la ricostituzione, Edizioni Trieste Press, Trieste 1987. Un altro lavoro interessante è quello di P. Sardos Albertini, Lega
Nazionale storia di un sodalizio che attraversa tre secoli, Lega Nazionale, Trieste 2011. Il lavoro più recente e completo è
D. Redivo, Le trincee della nazione: cultura e politica della Lega Nazionale (1891-2004), Edizioni degli ignoranti saggi,
Trieste 2005.
11
Archivio Ufficio Zone di Confine (UZC), Sezione V, B. 9, Vol. II, faldone Lega Nazionale Trieste, Contributi 1963-1984.
12
Per un’analisi dettagliata dell’Unione degli istriani si vedano i volumi di R. Baroni, Gli istriani in difesa dell’Istria italiana:
dal Memorandum d’intesa al Trattato di Osimo, Unione degli istriani, Trieste 2004.
13
Archivio Centrale dello Stato (ACS), MI, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Cat. G, Associazioni, 1944-1986, B. 363,
faldone Unione Istriani.
L’Associazionismo Adriatico: una risposta ad Osimo 111
della politica del centro-sinistra14. Infine, l’Associazione nazionale Italia irredenta (ANII),
un gruppo ultranazionalista che sorse proprio in contrapposizione all’ANVGD guidata da
Paolo Barbi e Lino Drabeni, accusata di perseguire una strategia troppo moderata e filo-
governativa verso le vicende del confine. Questo gruppo, erede dell’Associazione in pro
dell’Italia irredenta, fu creato il 3 novembre del 1963 da veterani ed irredentisti di Costi-
tuente adriatica e si fuse poi nel 1964 con il Centro studi adriatici15.
Mentre le prime due associazioni divennero rispettivamente le voci del patriottismo
locale e degli esuli, ANVGD e Italia irredenta operarono a livello nazionale nel promuove-
re la causa irredentista e gli interessi giuliano-dalmati. Durante gli anni Sessanta, la Lega
nazionale giocò un ruolo centrale nel difendere l’italianità di Trieste e riaffermare una con-
tinuità morale e territoriale tra la città e la ex-zona B. Come emergerà nelle prossime pagine
e soprattutto dopo la metà degli anni Sessanta, il ruolo dell’associazione divenne sempre
più marginale e l’Unione degli istriani assunse un ruolo da protagonista nel contrastare
ogni rinuncia alla ex-zona B, un atto che minava direttamente la sua raison d’être. Anni
di tensione alimentati da contrastanti orientamenti politici minarono infatti la forza e la
credibilità delle associazioni neo-irredentiste che, agli occhi dell’opinione pubblica, furono
ulteriormente discreditate dalla connivenza tra apparati dello Stato, membri delle associa-
zioni e l’estremismo politico di destra16. Nell’esplorare la «difficile intesa»17 tra Roma e
Trieste attraverso la risposta dell’associazionismo adriatico alla politica governativa verso
la sovranità formale sulla ex-zona B, questo saggio narra una storia di incomprensioni,
contrasti ed antagonismi che fu segnata dal rifiuto di conformarsi alla nuova logica della
politica internazionale, resistette al graduale consolidarsi dell’amicizia adriatica tra Italia
e Jugoslavia ed invocò la difesa dell’interesse nazionale. Se confrontata con la questione
di Trieste, l’impatto della disputa istriana a livello politico, sociale ed economico potrebbe
apparire irrilevante; al contrario, questo saggio suggerisce che la questione istriana rimase
un problema rilevante per i governi che si succedettero dal 1954 e produsse frizioni che
ostacolarono il processo di normalizzazione diplomatica tra Italia e Jugoslavia.
Dopo gli accordi di Londra il governo italiano, sensibile alle critiche che lo tacciavano
di indifferenza verso Trieste, riaffermò l’indiscutibile sovranità italiana su Trieste ed il suo
territorio18. Come riportato dalla stampa jugoslava, le autorità italiane tracciarono una netta
distinzione tra i confini nazionali, quelli del TLT ed i confini del territorio jugoslavo19. Tale
distinzione non poté che provocare l’ostilità di Belgrado che fu ulteriormente esasperata
14
US, fondo Luigi Papo, b. 36, Fasc. ANII Polemiche con CLN, Appunto a Mandel, 10 agosto 1962.
15
Archivio Ugo Spirito (US), fondo Luigi Papo, b. 37, Fasc. Costituente Adriatica Inviti e Adesioni, Corrispondenza, 1963.
16
Ad esempio, nel 1956 il CLN istriano preparò un memorandum in cui criticò l’Unione degli istriani e la ANVGD per la
loro natura fascista ed i danni che personalità quali Coceani, Sauro o Mandel arrecavano alla reputazione degli esuli, spesso
considerati inguaribili nazionalisti. Nel 1957, Carlo Schiffrer, nel suo articolo La politica delle bandiere portò brillantemente
all’attenzione generale tale problematica. Archivio Unione degli istriani (UI), 1954-1967,b. 5, faldone III/2, Memorandum
C.L.N., 28 novembre 1956.
17
In La difficile intesa. Roma e Trieste nella questione giuliana 1945-1954, Edizioni Italo Svevo, Trieste 2011, Anna Millo ha
esaminato la complessa relazione tra Trieste e le autorità politiche centrali che dovettero fronteggiare la questione triestina.
Questo saggio prosegue la ricostruzione storica della vicenda confinaria nei rapporti tra Trieste e Roma dopo il 1954.
18
UZC, Sezione II, Trieste, B. 31, faldone Territorio Libero di Trieste Bilinguismo, Ministro Grazia e Giustizia alla Presiden-
za del Consiglio dei Ministri (PCM), 29 settembre, 1956 e Fornitura Carta d’Identità, Commissariato Generale del Governo
Territorio di Trieste (CGGTT) al PCM,12 ottobre 1956.
19
UZC, Sezione II, Trieste, B. 3, Vol. II, Stampa Jugoslava- Confine Jugoslavo su Carte Geografiche, 4 gennaio,1956.
112 Fabio Capano
dalla politica della Santa Sede, rimarcante il carattere indivisibile ed unitario della diocesi
triestina la cui giurisdizione estendeva alla ex-zona B20. Ansioso di minimizzare le continue
critiche per l’incapacità di fronteggiare adeguatamente la crisi dell’economia locale triesti-
na21, il governo centrale finanziò costantemente quelle associazioni le cui attività promisero
di rafforzare l’immagine dello Stato centrale lungo il confine adriatico. L’entità dei contri-
buti governativi, le spese per la propaganda d’italianità ed in generale le politiche verso la
questione istriana sono ricostruibili attraverso l’esame della documentazione dell’Ufficio
per le zone di confine (UZC), rinominato nel 1954 Ufficio regioni22. Da un primo esame
delle fonti, emerge chiaramente che le associazioni locali con fini artistici23, culturali24, eco-
nomici o sociali beneficiarono delle sovvenzioni governative nel promuovere l’italianità
del confine. La loro entità dipese da considerazioni di opportunismo politico, ad esempio
la prossimità delle elezioni locali oppure nazionali, così come la natura dell’associazione.
Durante gli anni Cinquanta, il governo centrale supportò infatti associazioni educative,
combattentistiche e culturali di sentimenti nazionali liberali25. Di rilievo è il fatto che il
flusso di denaro che raggiunse Trieste rese possibile la sopravvivenza di movimenti neo-
irredentisti di orientamenti più o meno moderati che si opposero al Memorandum d’intesa
ed al processo di riconciliazione con il vicino jugoslavo. Le autorità jugoslave continuaro-
no infatti a percepire le associazioni degli esuli come espressioni di un nefasto irredentismo
che mirava a rimuovere da Trieste la minoranza slovena, metaforicamente descritta come
un «trnj v peti» (una spina nel tallone)26.
Come accennato sopra, la détente adriatica non fu un processo lineare e la definizione
del confine orientale fu disseminata di ostacoli e tensioni. Nel 1955, a pochi mesi dal Me-
morandum di Londra, esponenti dell’amministrazione Eisenhower intuirono che le pressio-
ni economiche giocavano un ruolo fondamentale nel convincere Tito ad accettare gli accor-
di. Appena le necessità economiche e militari fossero diventate meno pressanti, le relazioni
italo-jugoslave sarebbero potute nuovamente degenerare27. Lo stato giuridico-territoriale
della ex-zona B rimase infatti fonte di tensione tra Roma e Belgrado e la suo eco risuonò
dentro e fuori Trieste. Ad esempio, nel 1956 la questione del servizio militare obbligatorio
20
UZC, Sezione II, Trieste, B. 44, faldone Estensione della legislazione jugoslava alla ex zona B ed al distretto di Capodistria,
Ministero Affari Esteri (MAE) al PCM: Giurisdizione Religiosa in Zona B, 2 novembre 1954.
21
Bartoli, in un intervento al circolo giuliano dalmata a Milano sottolineò che i problemi economici di Trieste dopo il 1954
rimasero irrisolti e la città appariva come una testa decapitata del suo corpo. Nonostante questo i triestini venivano visti come
«persone che si lamentavano senza neppur sapere cosa volessero». ACS, MI, Gabinetto, fasc. correnti, 1957-1960, B.269,
Fasc. 15726/1 Trieste, 6 marzo, 1957.
22
Dopo il Memorandum, l’UZC e le èlite locali si trovarono in disaccordo sulla politica da intraprendere per Trieste. Mentre
l’UZC ambiva a nominare a capo dell’amministrazione locale una figura leale a Roma, le élite locali preferivano una person-
alità autonoma, di orientamenti meno conservatori e capace di opporre l’indipendentismo locale. Archivio Istituto regionale
per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia (IRSML FVG), fondo Venezia Giulia, B. 31, Nota Riser-
vata 2361, Appunto di Carlo Schiffrer circa l’UZC ed il Consigliere di Stato Innocenti,1954.
23
UZC, Sezione V, B. 24, Vol. II, faldone Trieste Circolo della Cultura e delle Arti, Contributi 1949-1984.
24
UZC, Sezione V, B. 26, Vol. I, faldone Società Nazionale Dante Alighieri, Contributi 1946-1984.
25
Il caso del Centro studi politici economici e sociali (CSPES) di Trieste rivela la logica che guidò le decisioni circa i finan-
ziamenti governativi. UZC, Sezione V, B. 24, Vol. I, faldone Trieste, Corrispondenza CSPES 1958-1967.
26
UZC, Sezione IV, B. 23, faldone Passaggio di Poteri nel Territorio di Trieste, Palamara al PCM, Informazione Riservata,
25 ottobre 1955.
27
Foreign Relations of the United States 1955-1957 (FRUS), Volume XXVI, Central and Southeastern Europe, Documento
240, 4 aprile 1955.
L’Associazionismo Adriatico: una risposta ad Osimo 113
28
UI, 1954-1967, b. 5, faldone IV/7, Pro Memoria sul Problema della Sovranità.
29
UZC, Sezione IV, b. 83, faldone Servizio Militare, Lettera di Bartoli al Presidente della Repubblica, 16 agosto 1957.
30
UI, 1954-1967, faldone IV/6, Riservata MAE all’Unione Istriani, 4 ottobre 1956.
31
Archivio Storico Luigi Sturzo (ASL), fondo Democrazia Cristiana, Segreteria Politica, Fanfani, Uffici Centrali-Corrispon-
denza, sc.76, s. fasc. 7, Bologna a Fanfani, 6 marzo 1956.
32
UZC, Sezione IV, b. 83, faldone Servizio Militare, CGGTT al PCM, Opinione Triestina sul Memorandum, 25 settembre
1956.
33
AST, fondo Bartoli, b. 52, Bartoli a Fanfani, 4 giugno 1956.
34
Vedi D. D’Amelio, Ritratto di un’elite dirigente: i democristiani di Trieste 1949-1966. Tesi di Dottorato (Trieste 2010).
35
ASL, fondo Democrazia Cristiana, Segreteria Politica, Moro, Corrispondenza con il Organizzazioni Varie, Sc.156, Fasc.34,
Rapporto Segreto circa Situazione Amministrativa, 29 gennaio 1960.
36
Belci, in una nota personale a Moro e di fronte alle garanzie costituzionali di cui già godeva la minoranza slovena, scorag-
giò concessioni in materia di bilinguismo, una misura che si sarebbe scontrata con la tradizione italiana di Trieste ed avrebbe
beneficiato il movimento neo-fascista. ASL, fondo Democrazia Cristiana, Segreteria Politica, Moro, Corrispondenza con gli
Organi Periferici, sc.137, sottofasc. 2, Belci a Moro, 9 gennaio 1961.
37
La nomina di Muratti a capo dell’associazione e di un crescente numero di personalità con orientamenti centristi all’interno
del comitato direttivo segnò un graduale cambiamento verso posizioni più moderate; la base del movimento rimase co-
munque di orientamenti nazionali liberali e conservatori. UZC, Sezione II, Trieste, b. 68, faldone Nomina del Direttivo,
CGGTT al PCM, Lega Nazionale,13 aprile 1961.
38
Archivio Lega Nazionale (LN), Segreteria Politica, faldone 1961/III, Muratti a Santin, 19 giugno 1961.
39
LN, Segreteria Politica, faldone 1961/1, Bilinguismo.
40
Archivio Storico MAE, Telegramma 1451, Belgrado a Roma, 10 febbraio 1961.
114 Fabio Capano
comunicò all’Unione degli istriani che le misure legislative per il bilinguismo non sareb-
bero state approvate41.
La disputa sul bilinguismo fu seguita dall’attentato dinamitardo alla sede del giorna-
le sloveno ed anticipò di poche settimane le celebrazioni per il centesimo anniversario
dell’unificazione nazionale, quest’ultimo accompagnato da manifestazioni anti-slave42. Le
élite nazionali vennero criticate per la loro connivenza con quelle espressioni di neo-fasci-
smo che si erano rese protagoniste delle eclatanti proteste43. Nel frattempo, la decisione del
governo di processare Silvano Drago, l’editore di «Difesa Adriatica» che aveva etichettato
Tito come «infoibatore», fu aspramente criticata dalle associazioni neo-irredentiste che la
interpretarono come un palliativo alle critiche dell’opinione pubblica e del governo jugo-
slavo44.
A partire dal 1963 la nuova politica del centro sinistra45, percepita come il preambolo
ideale per porre la parola fine alla questione istriana cosi come la creazione della regione
autonoma Friuli Venezia Giulia46, irrigidì ulteriormente i rapporti tra le associazioni neo-
irredentiste e le autorità centrali47. Durante l’incontro con l’ambasciatore Vejdova, Fanfa-
ni capì chiaramente le ambizioni jugoslave nel «trasformare la linea di demarcazione nel
confine di Stato tra la zona A e la zona B»48. Tale prospettiva suscitò viva preoccupazione
in figure come Moro il quale, temendo una «emorragia di voti verso la destra» tra gli elet-
tori di sentimenti fortemente patriottici ed anti-comunisti, richiese al ministro degli Interni
Taviani di garantire il tradizionale finanziamento alla principale associazione patriottica,
Alleanza tricolore italiana49.
Temendo un governo di centro-sinistra e l’effetto deleterio della regione autonoma
sull’italianità del confine, l’ANII lanciò un appello per la creazione di un unico fronte
nazionale comprensivo di tutte le associazioni combattentistiche e patriottiche da opporre
a qualsiasi rinuncia della sovranità italiana sulla ex-zona B50. Questa proposta incontrò il
consenso della maggioranza delle associazioni, vogliose di coordinare le loro azioni e so-
lidali verso la causa irredentista51. Nonostante l’impegno profuso per consolidare l’azione
neo-irredentista, l’associazione non risparmiò critiche ad organizzazioni quali la ANVGD,
accusata di sabotare le azioni della rete irredentista al fine di conformare le proprie politi-
che alle direttive del governo centrale52.
41
UI, 1954-1967, b. 1, faldone 1/1, Verbale, 18 febbraio 1961.
42
MAE, Telegramma 10756, Trieste a Roma, 28 marzo 1961.
43
Archivio Storico Fondazione Gramsci (AFG), fondo Apc, RP, MF0479, p.3047, Traduzione Il Delo, 2 aprile 1961.
44
US, fondo Luigi Papo, b. 11, Fasc. Gianni Bartoli, Papo a Bartoli, 31 maggio 1961.
45
Vedi L.Monzali, I nostri vicini devono essere i nostri amici. Aldo Moro, l’Ostpolitik Italiana e gli Accordi di Osimo, in Aldo
Moro, l’Italia Repubblicana, e i Balcani, a c. di I. Garzia, Salento Books, Lecce 2011.
46
Archivio Storico Camera dei Deputati (AC), fondo Covelli, Discorsi e Scritti, b. 2, fasc.117, 1963.
47
UI, 1954-1967, b. 5, faldone III/7, Unione Istriani a Botteri, 7 ottobre 1963.
48
ACS, PCM, Ufficio Consigliere Diplomatico, b. 27, fasc. E47, Conversazione con Ambasciatore Vejvoda in occasione del
viaggio di Fanfani in Jugoslavia, 31 gennaio 1963.
49
ASL, fondo Democrazia Cristiana, Segreteria Politica, Moro, Corrispondenza con Organizzazioni Varie, sc.156, fasc.34,
Lettera del Presidente Bastico al vice-segretario Salizzoni, 28 febbraio 1963.
50
US, fondo Luigi Papo, b. 33, fasc. Associazioni Combattentistiche, Presidente Italia Irredenta all’Associazione ex-Com-
battenti, 19 marzo 1964.
51
US, fondo Luigi Papo, b. 33, fasc. Associazioni Combattentistiche, d’Arma, e Patriottiche, Corrispondenza, 1964.
52
US, fondo Luigi Papo, b. 34, fasc. ANVGD, Papo a ANVGD, 13 maggio 1964.
L’Associazionismo Adriatico: una risposta ad Osimo 115
53
LN, Segreteria Riservata, faldone 1964/II, Muratti a Editore di Epoca, 8 settembre 1964.
54
ACS, MI, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Cat. G, Associazioni, 1944-1986, B.363, faldone Unione Istriani, Mazza
a PCM, 8 ottobre 1964.
55
US, fondo Luigi Papo, Fasc. 68,36, I Raduno Nazionale degli Istriani, 1964.
56
ACS, PCM, Ufficio Consigliere Diplomatico, B. 58, Unione Istriani, ottobre 1964.
57
ACS, MI, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Cat.G, Associazioni, 1944-1986, b. 363, faldone Unione Istriani, Ambas-
ciata Italiana a Belgrado a PCM, 28 novembre, 1964.
58
UZC, Sezione II, Trieste, b. 70, faldone Comitato Nazionale di Liberazione Istria, CGGTT a PCM, C.L.N. Istria, 22 marzo
1960.
59
ACS, MI, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Cat. G, Associazioni, 1944-1986, b. 363, faldone Unione Istriani, Mazza
al PCM, 13 ottobre, 1964.
60
M. Bucarelli, Aldo Moro e l’Italia nella Westpolitik Jugoslava degli Anni Sessanta, in Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i
Balcani, a c. di I. Garzia, L. Monzali, M. Bucarelli, Salento Books, Nardò 2011, p. 140.
61
Fondazione Nenni (FN), Carte Nenni, b. 60, Sez. C 1961-1969, Ducci a Saragat, 1 dicembre 1964.
62
LN, faldone 1965/II, Segreteria Riservata, Lega al Ministro Affari Esteri, 16 gennaio 1965.
63
MAE, Telegramma 4092, vol. 42, Roma a Belgrado, 6 marzo 1965.
64
Settantatre persone vennero processate di cui 42 assolte. ACS, MI, Gabinetto, fasc. correnti, 1964-1966, b. 79, fasc.
12010/85, Attività dei Partiti, Telegramma di Mazza al PCM, 31 luglio 1965.
65
Intervista con Giorgio Tombesi, settembre 2012.
66
MAE, Telegramma 22114, vol. 43, Belgrado a Roma, 2 agosto 1965.
116 Fabio Capano
dall’Unione degli istriani, collezionò 42.000 firme contro la nomina di Hreščak.67 Tale nu-
mero non raggiunse le aspettative dell’associazione; nonostante questo e considerando che
il governo, nell’ambire ad isolare il partito comunista finì per rompere l’unità del fronte
italiano, il presidente Muratti scrisse al segretario locale della DC: «noi della L.N. non ab-
biamo vinto, ma Voi avete veramente perduto»68. La diatriba tra il sindaco Franzil, membro
dell’associazione, e la Lega nazionale mise inoltre in luce la problematica sottesa alla na-
tura apolitica del sodalizio69. La conseguenza più significativa della vicenda fu comunque
l’insanabile rottura tra la Lega nazionale e la DC che rifletté la crescente distanza tra la
politica del centro-sinistra e ampi strati del suo elettorato locale70. Come accennato sopra,
dopo la metà degli anni Sessanta il ruolo del sodalizio patriottico nella questione istriana
andò scemando per la rottura con le élite democristiane e la continua riduzione dei contri-
buti governativi. Dopo la diatriba legata alla nomina di Hreščak, l’associazione si dissociò
nettamente da qualsiasi cooperazione con movimenti nazionalisti od estremisti; nonostante
questo, fuori da Trieste continuò ad essere generalmente percepita come un espressione
dell’estremismo di destra71.
Il movimento neo-irredentista fu ulteriormente indebolito dalle sue divisioni interne.
Ad esempio, mentre la ANVGD interpretò la visita di Moro come un’opportunità per mi-
gliorare le relazioni diplomatiche tra i vicini adriatici e proteggere i diritti della minoranza
italiana72, l’Unione degli istriani manifestò invece la sua contrarietà e propose a Moro di
richiedere uno scambio di territori su base etnica il cui risultato avrebbe portato Merano
all’Austria, l’Istria all’Italia, la Carinzia alla Jugoslavia e la creazione di città indipendenti
quali Zara e Fiume73. Questa irrealistica proposta rimase completamente inascoltata. Moro
auspicava infatti un’accelerazione nei negoziati diplomatici che risolvesse definitivamente
la disputa confinaria. Fanfani, agendo come ministro degli Esteri, suggerì invece a Moro
di intraprendere un percorso graduale di normalizzazione politica ed entrambi i leader de-
mocristiani si trovarono d’accordo sull’escludere il problema territoriale dai successivi col-
loqui con Kardelj74. Tale decisione dimostrò che il governo centrale era consapevole della
diffusa ostilità popolare al rinunciare alla sovranità formale sulla regione istriana. Al fine di
indebolire le resistenze locali ed evitare la crescita di sentimenti neo-fascisti tra gli esuli, le
autorità centrali continuarono a finanziare la rivista «Trieste»75, il CLN istriano (dal 1967
Associazione delle comunità istriane) ed il suo giornale «La Voce Giuliana»76. Allo stesso
67
LN, faldone 1965/II, Carteggio Nobile, Corrispondenza tra Piero Almerigogna, Fameia Capodistriana ed il Consiglio
Direttivo della Lega Nazionale, estate 1965.
68
LN, faldone 1965/II, Carteggio Nobile, Muratti a Botteri, 10 dicembre 1965.
69
LN, faldone 1965/I, Giunta Verbali Presidenza 1965, Verbale 16, 27 luglio 1965.
70
ACS, MI, Gabinetto, fasc, Corrrenti, b.102, fasc.12010/85, Trieste e Provincia Attività dei Partiti, Botteri a Taviani, 14
aprile, 1967.
71
US, fondo Luigi Papo, B. 9, fasc.70, Nota riservata di Bremini a Papo, 5 novembre 1965.
72
ACS, Carte Moro, Presidenza del Consiglio dei Ministri 1963-1968, b. 78, fasc. Visita in Jugoslavia 8-12 Nov. 1965, Tele-
grammi, sottofasc. 5, ANVGD, 28 ottobre 1965.
73
ACS, Carte Moro, Presidenza del Consiglio dei Ministri 1963-1968, B. 78, fasc. Visita in Jugoslavia 8-12 nov. 1965, Tele-
grammi, sottofasc. 5, Unione Istriani a Moro, 3 novembre 1965.
74
ACS, PCM, Ufficio Consigliere Diplomatico, B. 66, sottofasc. 4, Corrispondenza Moro-Fanfani, giugno 1966.
75
UZC, Sezione VI, b. 6, faldone Spese per Zone di Confine, 1966-1967.
76
UZC, Sezione V, b. 9, vol. I, faldone Comitato di Liberazione Istria, Corrispondenza e contributi 1965-1966.
L’Associazionismo Adriatico: una risposta ad Osimo 117
77
ACS, PCM, Ufficio Consigliere Diplomatico, b. 49, Associazione Venezia Giulia e Dalmazia, Fanfani a Barbi, 13 ottobre
1966.
78
ACS, PCM, Ufficio Consigliere Diplomatico, b. 49, Associazione Nazioanle Italia Irredenta 1967, Corrispondenza ANII-
Moro, 7-29 dicembre1967.
79
ACS, PCM, Ufficio Consigliere Diplomatico, b. 66, sottofasc. 5, Appunto a Pompei, 8 marzo 1967.
80
ACS, PCM, Ufficio Consigliere Diplomatico, b. 66, sottofasc. 5, Ducci al Direttore degli Affari Economici, 3 ottobre 1967.
81
ACS, PCM, Ufficio Consigliere Diplomatico, b. 66, sottofasc. 5, Fanfani a Moro, 31 ottobre 1967.
82
US, fondo Luigi Papo, B. 3, fasc.17, Relazione Riservata sugli Esuli Giuliano-Dalmati, 1967.
83
ACS, Carte Moro, PCM, Ufficio Consigliere Diplomatico, b. 49, Pompei al Ministro Affari Esteri, 20 aprile 1968.
84
M. Bucarelli, L. Monzali, Italia e Slovenia fra passato, presente e futuro, Edizioni Stadium, Roma 2009, p. 108.
85
Archivio Storico del Senato (ASR), Sezione IV, Diari Fanfani, 13 settembre 1968.
86
ACS, Carte Moro, Ministero Affari Esteri 1973-1974, b. 163, Jugoslavia Questione Territoriale, Telegramma 7694, 30
aprile 1968.
87
ACS, Carte Moro, Ministero Affari Esteri 1969-1972, Questioni Nazionali e Internazionali, b. 148, fasc.12 Telegrammi in
arrivo, riservatissimi, segreti e segretissimi, Segretissimo 42076, 10 ottobre 1969.
118 Fabio Capano
88
Archivio Diocesi di Trieste (DT), fondo Coloni, b. 4, faldone 1970.
89
ACS, MI, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Cat. G, Associazioni 1944-1986, b. 291, Associazione Fronte Nazionale,
Rapporto dal Prefetto di Roma, 13 marzo 1969.
90
US, fondo Luigi Papo, b. 3, fasc. 19, Wondrich al Centro Difesa Adriatica, 14 maggio 1969.
91
US, fondo Luigi Papo, b. 2, fasc. 8, Telegramma dal segretario nazionale Borghese, 19 settembre 1969.
92
UI, 1967-1987, b. 20, faldone 5/49, Schedario Irredentismo, 1970-1973.
93
UI, 1967-1987, b. 17, faldone 5/1/3, Il Problema della zona B, 27 marzo 1970.
94
UZC, Sezione V, b. 18, faldone ANVGD, Contributi 1970-1975.
95
LN, faldone 1971/III, Verbali Consiglio Direttivo Centrale 1968-1971, Ottobre 1970.
96
ACS, MI, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Cat. G, Associazioni 1944-1986, b. 338, faldone Lega Nazionale, Lettera
al MI Gui, 11 aprile 1975.
97
LN, faldone 1970/1, Segreteria Luglio-Dicembre 1970, Comunicato stampa Federazione Nazionale Arditi e Combattenti,
10 novembre 1970.
L’Associazionismo Adriatico: una risposta ad Osimo 119
«Il Tempo» annunciò che la diplomazia italiana stava definendo la cessione ufficiale della
ex-zona B, l’Unione degli Istriani rispose mobilitando le proprie rappresentanze sia sul ter-
ritorio nazionale che all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, in Australia ed in Argentina98.
Inviò inoltre un telegramma a Moro in cui chiedeva una chiara risposta da parte della Far-
nesina ed un plebiscito per la ex-zona B99. Anche Italia irredenta, opponendosi alla visita
di Tito, pianificò la preparazione di 50-60.000 volantini con la frase di Bartoli «offesa ai
morti, oltraggio ai vivi», cosi come la distribuzione di cartoline e francobolli che riportava-
no immagini raffiguranti il passato italiano della regione istriana. Consapevole dell’ostra-
cismo da parte dell’opinione pubblica e della statura internazionale di Tito, l’associazione
decise di protestare in modo moderato al fine di non compromettere il risicato consenso
popolare di cui ancora godeva. Di conseguenza, optò per inviare una serie di telegrammi
e lettere dal tono sobrio a personalità politiche e media nazionali. Nella sua campagna,
l’associazione beneficiò del supporto di figure come monsignor Santin, il quale suggerì
di dare a Tito un «benvenuto glaciale»100. Inoltre, l’associazionismo adriatico poté con-
tare sull’apporto tradizionale dato dal «Piccolo» di Trieste alla causa degli esuli101. Come
confermato dall’incontro tra Sardos Albertini e il segretario nazionale della DC Forlani,
avvenuto tre giorni prima la visita di Tito, l’azione del movimento neo-irredentista attirò
l’attenzione delle élite e dell’opinione pubblica nazionale. Forlani stesso si impegnò a in-
tervenire presso il ministero degli Affari Esteri perché diramasse un comunicato ufficiale
circa la posizione del governo italiano sulla ex-zona B102.
Nonostante l’entusiasmo scaturito dalla cancellazione della visita di Tito, Albertini capì
che il successo della mobilitazione neo-irredentista non significava la rinuncia jugoslava
alla dichiarata sovranità sulla ex-zona B. Secondo il leader degli esuli istriani, il suo destino
dipendeva infatti dall’abilità delle associazioni neo-irredentiste nel monitorare i negoziati
diplomatici ed osteggiare qualsiasi compromesso sul confine orientale. L’ala morotea della
DC espresse la propria solidarietà a Moro e criticò le fazioni locali e nazionali che si dimo-
strarono incapaci di capire i benefici politici provenienti dalla visita di Tito103. Al contrario,
i membri della corrente fanfaniana del partito guardarono alle proteste come il prodotto di
otto lunghi anni di politiche fallimentari che, troppo favorevoli al regime titoista, avevano
finito per rafforzare i partiti di estrazione slava e socialista104.
Il 14 dicembre, una settimana dopo gli episodi di violenza neo-fascista che anticiparono
la cancellazione del viaggio di Tito105, Trieste rispose con una manifestazione di massa che
superò di gran lunga quella contro lo statista jugoslavo e fu anche elogiata dall’opinione
98
LN, faldone 1970/1, Segreteria Luglio-Dicembre 1970, Appello agli Amici dell’Istria Italiana, 28 novembre, 1970.
99
ACS, Carte Moro, Ministero Affari Esteri 1969-1972, Questioni Nazionali e Internazionali, b. 149, fasc. Telegrammi in
Arrivo, Telegramma 50628, 29 novembre 1970.
100
US, fondo Luigi Papo, b. 3, fasc. 20, Pro-Memoria riservato per la visita di Tito, 9 ottobre 1970.
101
ACS, MI, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Cat. G, Associazioni, 1944-1986, b. 363, faldone Unione Istriani, La
Nostra Comune Azione ha Salvato la Zona B, dicembre 1970- gennaio 1971.
102
UI, 1967-1987, B. 17, faldone 5/1/8, Un primo importante successo, 7 dicembre 1970.
103
ACS, Carte Moro, Atti Personali 1964-1977, b. 177, fasc.32, Belci a Moro, 10 dicembre 1970.
104
ASL, fondo Democrazia Cristiana, Segreteria Politica Forlani, Corrispondenza con gli Organi Periferici, sc.198, fasc.1,
Bartoli a Tombesi,11 dicembre 1970.
105
ACS, MI, Gabinetto, fasc, corrrenti, b. 102, fasc.12010/85, Trieste e Provincia Attività dei Partiti, Telegramma al Gabi-
netto, 8 dicembre 1970.
120 Fabio Capano
106
ACS, MI, Gabinetto, fasc, corrrenti, 1971-1975, b. 455, fasc.15250/3, Radio Capodistria, Rubrica le Località Vicine,19
dicembre 1970.
107
UI, fondo C.N.C. B. 3, faldone C/3, Albertini ai rappresentanti nazionali, 11 gennaio 1971.
108
Su questo argomento si veda R. Pupo, R. Spazzali, Foibe, Mondadori, Milano 2003. Il recente lavoro di Joze Pirjevec,
Foibe. Una storia d’Italia, Einaudi, Torino 2009 rappresenta invece un esempio dell’uso pubblico/politico della storia che
rivela la problematicità di una proiezione etno-storiografica sulla vicenda delle foibe.
109
Archivio di Stato Trieste (AST), fondo Bartoli, b. 69, fasc. 152, Bartoli al Ministro della Giustizia, 16 gennaio 1971.
110
ACS, Carte Moro, Ministero Affari Esteri 1969-1972, Questioni Nazionali e Internazionali, b. 147, Resoconto segreto
Italia-Jugoslavia, 9 febbraio 1971.
111
ASL, fondo Democrazia Cristiana, Segreteria Politica Forlani, Corrispondenza con Organizzazioni Varie, sc. 218, fasc.16,
DC Trieste a Forlani, 18 marzo 1971.
112
P. Berti, Rapporti Esemplari, in «Il Piccolo», 26 marzo 1971.
113
ACS, MI, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Cat. G, Associazioni 1944-1986, b. 300, faldone Centro Nazionale di
Coordinamento per la Difesa della Zona B, Appunto del Prefetto di Trieste, 29 maggio 1971.
114
ACS, MI, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Cat. G, Associazioni, 1944-1986, b. 363, faldone Unione Istriani, Ap-
punto dal Prefetto di Roma, 31 ottobre 1971.
115
LN, faldone 1970/I, Segreteria 1971, Unione Istriani, 11 settembre 1971.
116
P. Venanzi, Lettera Aperta all’On. Mauro Ferri, in «Tribuna Monarchica», 15 ottobre 1971.
L’Associazionismo Adriatico: una risposta ad Osimo 121
117
AST, fondo Coceani, Serie 1, Documenti Personali, Risposta alla mozione del Ministro della Pubblica Educazione, 11
ottobre 1971.
118
UI, 1967-1987, b. 23, faldone 6/21, fasc. 5/21, Albertini a Nixon, 29 ottobre 1971.
119
US, fondo Luigi Papo, b. 5, fasc, 50, Lettere a Nixon.
120
US, fondo Luigi Papo, b. 1, fasc.4, Lettera a Papo, 31 dicembre 1971.
121
ACS, MI, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Cat. G, Associazioni, 1944-1986, b. 363, faldone Unione Istriani, Ap-
punto Riservato dal CGFVG al PCM, 20 febbraio 1972.
122
LN, faldone 1972/1, Segreteria Generale, C.N.C. a La Stampa, 7 aprile 1972.
122 Fabio Capano
a supporto della Ostpolitik di Brandt, le ansie degli esuli riesplosero123. Moro, temendo il
responso delle urne a Trieste e la crescente opposizione locale al centro-sinistra, si affrettò
ad inviare una lettera a Bartoli in cui smentì personalmente la notizia124. Bartoli espresse
il suo apprezzamento per l’impegno di Moro nel difendere i diritti degli esuli durante il
suo servizio come ministro degli Affari Esteri e si mostrò fiducioso nell’operato del leader
democristiano125. Le smentite di Moro non posero fine alla disputa, che fu ulteriormente
infiammata dalle dichiarazioni del vice-presidente sloveno il quale dichiarò la natura defi-
nitiva del confine stabilito nel 1954. Davanti a tale dichiarazioni, il CNC chiese ad Andre-
otti, al tempo primo ministro, di rilasciare una nota ufficiale circa il carattere provvisorio
della linea di demarcazione126. Le garanzie del governo italiano placarono le proteste degli
esuli la cui campagna in favore della ex-zona B risentì del disinteresse dell’opinione pub-
blica nazionale, del clima di violenza politica e soprattutto della frammentazione interna
all’associazionismo adriatico127. In tale senso, la divergenza tra le irreconciliabili posizioni
della ANVGD e l’Ente giuliani nel mondo fu acuita dall’atteggiamento verso la politica
di distensione che finì per isolare il movimento neo-irredentista nella sua «crociata» per l’
italianità del confine128.
L’articolo che apparve sul «Corriere della Sera» a firma di Dino Frascobaldi, fautore del
«sacrificio della zona B» al fine di consolidare la cooperazione italo-jugoslava129, rivelò il
consenso che tale punto di vista trovava ormai presso la maggioranza dell’opinione pub-
blica nazionale. Il CNC inviò una lettera al giornale torinese «La Stampa» in cui espresse
l’indignazione degli esuli e la fallacia degli argomenti avanzati da Frescobaldi. Nel cri-
ticare l’operato del governo nazionale, la ANVGD ed il suo presidente Bartoli diedero
ulteriore risalto agli argomenti del CNC ed attaccarono il presidente jugoslavo per la natura
irredentista del suo discorso tenuto in Montenegro. Non solo tale discorso contrastò con il
tono sobrio e moderato usato dalle associazioni degli esuli ma stonò, se paragonato al trat-
tamento privilegiato che lo Stato italiano riservava alla minoranza slovena130. Il comporta-
mento accomodante delle élite italiane, percepito come un elemento di debolezza, divenne
oggetto di aspre critiche soprattutto tra i movimenti nazionalisti. Nella loro corrispondenza
con l’Unione degli istriani, tali gruppi evidenziarono la forza del sentimento nazionale tra
i pochi italiani ancora residenti nella ex-zona B cosi come l’opposizione a Tito che veniva
manifestata in scritte quali «Siamo triestini non slavi» sui muri di Buie. Nonostante queste
manifestazioni di sentimenti irredentisti fossero sporadiche e poco significative dei senti-
menti della maggioranza della comunità italiana di confine, le autorità jugoslave ne misero
in risalto il contenuto aggressivo e revanscista131.
123
Accordo Italo Jugoslavo su Trieste, in «Combat», 21 aprile 1972.
124
AST, fondo Bartoli, b. 98, Corrispondenza, Moro a Bartoli, 28 aprile 1972.
125
ACS, Carte Moro, Atti Personali 1964-1977, b. 177, fasc.21, Telegrammi di Bartoli, 29 giugno 1972.
126
UI, Varie, faldone Corrispondenza con Personalità del Governo 1961-1973, Albertini a Andreotti, 7 giugno 1972.
127
ACS, MI, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Cat. G, Associazioni 1944-1986, b. 53-54, Incidenti Manifestazioni
Politiche, 1971-1974.
128
AST, fondo Bartoli, b. 64, Zona B, Lettera di Migliorini, 20 luglio 1972.
129
Dino Frescobaldi, Italia e Jugoslavia: un’Amicizia da Rafforzare, in «Il Corriere della Sera», 1° dicembre 1972.
130
US, fondo Luigi Papo, b. 37, fasc. Istria Zona B, Bartoli risponde a Tito, 30 dicembre 1972.
131
UI, fondo C.N.C., b. 8, faldone G/2, Varie 1972-1973.
L’Associazionismo Adriatico: una risposta ad Osimo 123
Nel 1973, la credibilità politica degli esuli, spesso percepiti come inguaribili nostalgici
ed accusati di non comprendere le conseguenze del ventennio fascista, venne ulteriormente
compromessa dalla diatriba legata a quello che l’esponente missino Renzo De Vidovich
definì, in termini alquanto discutibili, come «colpo di mano fanfaniano» all’interno della
ANVGD132. Contrariamente a quanto suggerito da De Vidovich ed alle accuse di violare la
natura apolitica dell’associazione, la rielezione di Paolo Barbi mirò piuttosto a ricompat-
tarne le fazioni moderate ed intransigenti. Ad ulteriore conferma della problematicità delle
tesi missine, va ricordato che i contributi governativi all’associazione vennero ulteriormen-
te ridotti, segno dell’incertezza verso una leadership associativa che solo apparentemente
prometteva di conformarsi alle visioni del centro-sinistra in politica estera e minimizzare
possibili focolai di resistenza alla dètente adriatica.
Voci di dissenso all’interno del mondo istriano continuarono ad opporre ogni compro-
messo sulla ex-zona B e trovarono conforto nella corrispondenza tra Andreotti e personalità
come Giorgio Cobolli, eroe di guerra vicino all’area più conservatrice della DC133. L’Unio-
ne degli istriani si rivolse inoltre a figure e partiti di orientamento liberale e repubblicano.
Il segretario del partito repubblicano La Malfa rassicurò Sardos Albertini circa le garan-
zie ricevute personalmente da Medici sulla fermezza del governo italiano nel riaffermare
l’indisputabile sovranità italiana sulla ex-zona B134 e l’impegno italiano nel proteggere la
cittadinanza dei suoi residenti, cosi come le proprietà lasciate durante l’esodo135.
Nel marzo del 1973, a seguito dell’incontro di Dubrovnik tra Medici e Minić, i timori
degli esuli crebbero esponenzialmente. Il presidente della Lega nazionale comunicò ad Al-
bertini che il risultato dei negoziati sarebbe stato annunciato ufficialmente dopo le elezioni
nazionali136. Davanti a tale prospettiva, l’Unione degli istriani chiese al primo ministro
Mariano Rumor di nominare alla guida della Farnesina una personalità che diversamente
da Moro o Medici non fosse compromessa da impegni presi verso il vicino adriatico137.
L’associazione richiese anche al vescovo Santin sia di intervenire presso Rumor e Fanfani
al fine di difendere l’italianità della regione istriana138, che di promuoverne la causa attra-
verso le pagine della rivista cattolica «Vita Nuova»139. Nell’estate stessa la caduta del go-
verno Andreotti, spesso percepito come un instancabile sostenitore degli interessi nazionali
al confine orientale140, minò ulteriormente le speranze degli esuli141. Come sottolineato da
Giorgio Tombesi, personalità come Andreotti godevano della stima dell’associazionismo
adriatico; nonostante questo, Tombesi ha ricordato come Andreotti stesso, nel discutere il
problema del confine, ripetesse «voi vi siete dimenticati che noi eravamo i perdenti, Tito
132
LN, Faldone 1973/I, Segreteria 1973, Colpo di Mano Fanfaniano nell’ANVGD di Trieste per rompere l’unità degli esuli:
replica dell’On. De Vidovich al Vice Presidente Drago.
133
UI, Miscellaneo, faldone Corrispondenza con Personalità del Governo 1973-1976, Andreotti a Cobolli, 17 gennaio 1973.
134
UI, fondo C.N.C. , b. 3, faldone C/3, Medici a La Malfa, 21 gennaio 1973.
135
UI, Miscellaneo, Rapporti con i Partiti Politici, fasc. 2/6, La Malfa a Sardos Albertini, 7 febbraio 1973.
136
LN, faldone 1973/I, Segreteria 1973, Muratti a Albertini, 15 maggio 1973.
137
UI, Miscellaneo, faldone Corrispondenza con Personalità del Governo 1973-1976, Sardos Albertini a Rumor, 3 luglio
1973.
138
Vedi E. Malnati, Antonio Santin: un Vescovo tra Profezia e Tradizione 1938-1975, Mgs Press, Trieste 2003.
139
UI, 1967-1987, b. 23, faldone 6/6/1, fasc, 5/6, Riservata Albertini a Santin, 3 luglio 1973.
140
LN, faldone 1973/I, Segreteria 1973, Unione Istriani, 5 luglio 1973.
141
UI, Miscellaneo, faldone Corrispondenza con Personalità del Governo 1973-1976, Unione Istriani, 9 luglio 1973.
124 Fabio Capano
142
ntervista a Tombesi, marzo 2012.
143
ACS, MI, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Cat. G, Associazioni, 1944-1986, b. 363, faldone Unione Istriani, Lettera
da Sardos Albertini a CGFVG e PCM, 2 agosto 1973.
144
UI, fondo C.N.C. , b. 5, faldone D/20/4, C.N.C.al Direttore del Globo, 5 settembre 1973.
145
UI, fondo C.N.C., b. 5, faldone D/20/5, Benedetti ad Albertini, 3 ottobre 1973.
146
DT, fondo Coloni, b. 7, faldone Politica 1974, Appunto per un piano globale.
147
ACS, Carte Moro, Ministero Affari Esteri 1973-1974, b. 162, Jugoslavia Questione Territoriale, Macotta a Moro, 14
settembre 1973.
L’Associazionismo Adriatico: una risposta ad Osimo 125
irredentista, e promise di rimuovere una disputa territoriale che nel tempo era divenuta sia
un ponte che un muro tra i vicini adriatici. Quando nel gennaio del 1974 il governo jugo-
slavo installò a circa trenta metri dalla linea di demarcazione cartelli con la scritta «S.F.R
Jugoslavija – S.R. Slovenija», Belgrado segnalò la propria volontà di chiudere la questione
istriana in un contesto favorevole come quello di Helsinki148. Il CNC rispose inviando note
di protesta a personalità politiche quali Rumor, Moro e Fanfani, cosi come alle delega-
zioni nazionali presenti alla CSCE149. Come da copione e nei mesi di febbraio e marzo, il
governo nazionale inviò proteste scritte a Belgrado ribadendo che la sovranità jugoslava
non si era mai estesa alla ex-zona B. Questa presa di posizione, condannata dalle autorità
di Belgrado come fascista ed irredentista, venne respinta sulla base della definitiva natura
degli accordi londinesi e portò il governo di Tito a dichiarare che «se lo stato territoriale
della zona B fosse oggetto di contesa, lo stesso sarebbe valso per Trieste»150. Alla luce delle
successive dichiarazioni di Moro nel dibattito su Osimo, la fermezza jugoslava divenne un
valido pretesto per giustificare le scelte del governo italiano. Il fatto poi che la disputa con-
finaria avesse attratto l’attenzione internazionale151, trovato spazio all’interno della stampa
americana152 e fosse seguita con attenzione dagli stessi servizi di intelligence statunitense,
rivela la delicatezza del problema. Come sottolineato in un rapporto segreto dell’agenzia
americana, il problema della zona B poteva «rimanere un focolaio di tensioni ed asti», e
«Tito non sembrava disposto a scendere a compromessi perché spaventato dalla possibilità
di rafforzare le pretese irredentiste degli altri vicini jugoslavi»153. Nonostante necessitino di
uno studio più approfondito, tali preoccupazioni sembrano avallare le ipotesi circa le signi-
ficative pressioni americane che il governo italiano subì per chiudere la questione istriana.
Nel seguire gli eventi, il CNC dipinse le manifestazioni jugoslave a Capodistria come
vivide espressioni delle ambizioni annessioniste di Belgrado. Anche la ANVGD condan-
nò le proteste popolari slovene come una chiara manifestazione delle «disdicevoli» mire
jugoslave su Trieste154. Benché la maggioranza dell’opinione pubblica nazionale criticasse
l’effetto negativo che le reazioni jugoslave e le dimostrazioni militari slovene potevano
avere sui rapporti bilaterali, giornali come il «Corriere della Sera» preferirono evidenziare
come la reazione jugoslava fosse la conseguenza delle minacce sovietiche all’integrità ter-
ritoriale della Federazione ed auspicarono il riconoscimento definitivo dello status quo da
parte italiana155.
Nel suo discorso a Sarajevo, Tito reiterò le accuse di imperialismo contro il gover-
no italiano e agli alleati atlantici156. Queste accuse infiammarono ulteriormente l’opinione
148
ACS, Carte Moro, Ministero Affari Esteri 1973-1974, b. 162, Jugoslavia Questione Territoriale, Rapporto segreto a Moro,
3 febbraio 1974.
149
UI, fondo C.N.C. , b. 7, Faldone F/3/1, C.N.C. a Fanfani, 25 gennaio 1974.
150
ACS, Carte Moro, Ministero Affari Esteri 1973-1974, b. 162, Jugoslavia Questione Territoriale, Appunto da Belgrado, 30
marzo1974.
151
ACS, Carte Moro, Ministero Affari Esteri 1973-1974, b. 163, Jugoslavia Questione Territoriale, Telegrammi segreti in
arrivo, marzo-aprile 1974.
152
M. Wrowne, Yugoslavs and Italians Rekindle Trieste Dispute, in «The New York Times», 27 marzo 1974.
153
NARA, CREST, Central Intelligence Bulletin, Yugoslavia-Italy, 22 marzo 1974.
154
UI, fondo C.N.C., b. 7, faldone F/3/1, ANVGD, Sdegno e Perplessitá degli Esuli Adriatici, 16 aprile 1974.
155
American Foreign Broadcast Information Service (FBIS), 28 marzo 1974.
3
ACS, Carte Moro, Ministero Affari Esteri 1973-1974, b. 162, Jugoslavia Questione Territoriale, Discorso di Tito a Sarajevo,
15 aprile 1974.
126 Fabio Capano
pubblica jugoslava che vide nelle pretese territoriali italiane l’evidente manifestazione di
un fascismo mai sopito157. Allo stesso tempo le élite italiane, mentre riaffermarono i diritti
territoriali sulla ex-zona B158, riconobbero l’integrità territoriale del vicino jugoslavo159.
L’enfasi posta sulla validità del Memorandum accrebbe le aspettative dell’associazionismo
adriatico, vittima dell’ennesima diatriba interna tra la Lega nazionale e la ANVGD, accu-
sata di sostenere le politiche romane a scapito degli interessi istriani160. La questione dei
cartelli rinforzò inoltre un senso di scoramento e delusione che negli anni era gradualmente
cresciuto tra esuli ed ex-combattenti. In una lettera all’Unione degli istriani, un ex-ufficiale
dell’esercito italiano espresse tali sentimenti sottolineando che trent’anni di rinunce e di
benevolenza verso Tito avevano provocato la morte del patriottismo nazionale. Mentre
l’opinione pubblica seguiva da vicino i problemi del Vietnam, del Cile, della Grecia o della
Spagna, sulla regione istriana era calato l’oblio. Nonostante questa lettera fosse intrisa di
propaganda neo-fascista ed auspicasse il rovesciamento violento della Repubblica, l’ac-
cento sulla contemporanea crescita dell’indifferenza verso la ex-zona B ed il rafforzamento
dell’esperimento politico del centro-sinistra conteneva elementi di veridicità161. L’uso della
violenza politica come antidoto alla rinuncia definitiva della ex-zona B rimase comunque
una voce isolata ed irrilevante all’interno dell’associazionismo adriatico che, nonostante
il cambio generazionale e la scomparsa graduale dei suoi membri più anziani, continuò
a difendere l’interesse nazionale al confine orientale162. Nell’opporsi agli argomenti del
presidente jugoslavo, le associazioni neo-irredentiste evidenziarono le contraddizioni con
i termini stabiliti dal Trattato di pace e dal Memorandum di Londra. Mentre concordavano
sulla necessità di un continuo miglioramento nelle relazioni bilaterali, auspicavano la fer-
ma difesa dei diritti territoriali sulla ex-zona B. L’estate vide effettivamente un graduale
placarsi delle tensioni diplomatiche che fu però accompagnato da continui progressi nei
negoziati segreti sulla ex-zona B.
Verso la fine dell’anno il direttore generale degli Affari Politici Roberto Ducci ricevette
un interessante telegramma dall’ambasciatore a Belgrado Maccotta. Maccotta opinò che
l’opinione pubblica nazionale fosse ormai pronta per chiudere definitivamente la vertenza
confinaria e giudicò le preoccupazioni jugoslave per le dichiarazioni di Fanfani completa-
mente infondate. In particolare, confermò lo stato avanzato dei negoziati e la loro natura
confidenziale, nota solo a lui ed altri tre membri degli Affari Esteri jugoslavi163. Tale tele-
gramma confermò ulteriormente la centralità che la segretezza dei negoziati ricopriva nel
portare a compimento i trattati di Osimo.
Il fatto che l’opinione pubblica, anche a livello locale, fosse ormai pronta ad accettare la
rinuncia fu evidenziato in un appunto di Sergio Coloni. Nel 1975, l’esponente democristia-
157
ACS, Carte Moro, Ministero Affari Esteri 1973-1974, b. 163, Jugoslavia Questione Territoriale, Telegramma 20262, 24
aprile 1974.
158
P. E. Taviani, Politica a memoria d’uomo, Il Mulino, Bologna 2002, p. 367.
159
UI, Miscellaneo, faldone Corrispondenza con Personalità del Governo 1961-1973, Andreotti a Cobolli, aprile 1974.
160
LN, faldone1974, Segreteria 1974, Unione Istriani, Italia Centro Meridionale, 16 luglio 1974.
161
UI, fondo C.N.C. , b. 7, faldone F/3/1, Lettera all’Unione Istriani, 23 aprile 1974.
162
US, fondo Luigi Papo, b. 5, fasc. 47, Ritagli stampa sul Trattato di Osimo, 25 novembre 1974.
163
ACS, Carte Moro, Ministero Affari Esteri 1973-1974, b. 162, Jugoslavia Questione Territoriale, Appunti segreti da Mac-
cotta a Ducci, 16 e 31 ottobre 1974.
L’Associazionismo Adriatico: una risposta ad Osimo 127
164
DT, fondo Coloni, b. 7, faldone Politica 1975, Appunti Coloni.
165
AFG, fondo Apc, RP, MF0204, p.324, Vidali a Berlinguer, 18 febbraio 1975.
166
ACS, MI, Schedario Fascicoli Classificati, Partiti-Movimenti Politici 1971-1975, faldone 3, fasc. 160.P.187, PCI Trieste,
Rapporto della Prefettura triestina, 7 marzo, 1975.
167
R. Baroni, Gli istriani in difesa dell’Istria italiana, cit., p. 667.
168
Ivi, pp., 670-675.
169
UI, 1967-1987, b. 21, faldone 5/55, Movimento Giovanile dell’Unione Istriani, 25 settembre 1975.
170
Per uno studio dei termini di Osimo si veda M. Udina, Gli accordi di Osimo: lineamenti introduttivi e testi annotati, LINT,
Trieste 1979.
171
Per uno studio circa la reazione dell’opinione pubblica nazionale si veda V. Picariello, Politica estera e opinione pubblica.
Il Trattato di Osimo, Master tesi, Università di Milano,1996.
172
L’Italia ha ceduto la zona B, in «Difesa Adriatica», 1975.
173
A. Ara, C. Magris, Trieste. Un’identitá di frontiera, Einaudi, Torino 2007, pp. 181-186.
128 Fabio Capano
terno del consiglio comunale triestino si divise e gli irreconciliabili punti di vista verso
Osimo aprirono la strada al successo della Lista per Trieste174.
Il ministro degli Esteri Rumor presentò l’accordo come un’opportunità che garantiva a
Trieste il ruolo tradizionale di punto di incontro tra culture e popolazioni diverse. Rumor
dichiarò che con il trattato non solo si rimuoveva ogni attrito residuale con il vicino jugo-
slavo, ma soprattutto si confermava il ritorno definitivo di Trieste e si ottenevano aggiu-
stamenti vantaggiosi alla linea di confine, come ad esempio la restituzione della cima del
Monte Sabotino175. Davanti a tali dichiarazioni, diversi gruppi di esuli inviarono lettere a
Moro, primo ministro del governo, in cui espressero la delusione e l’astio verso una classe
politica che per anni aveva mentito ed infine abbandonato la difesa di quelli che venivano
percepiti come i confini naturali della nazione. Nell’offendere la memoria dei martiri della
redenzione, il governo nazionale aveva di fatto trasformato l’immagine della madrepatria
in una matrigna crudele e si era aggiudicato per il tempo a venire il disprezzo della comu-
nità istriana e dei morti di Redipuglia176.
Queste parole, indicatrici dei sentimenti e dell’antagonismo che pervadevano la comu-
nità degli esuli, contrastavano con il pragmatismo del governo circa i benefici della zona
franca industriale, un miglior uso delle risorse adriatiche ed una crescente mobilità di per-
sone e beni attraverso il confine. Durante il dibattito per la ratifica di Osimo che ebbe luogo
in un parlamento semi-vuoto, Moro iniziò il suo intervento dichiarando che l’amministra-
zione jugoslava nella zona B «non era alterabile né con la forza, né con il consenso»177. Di
conseguenza, l’accordo andava inteso come uno strumento che, seppur doloroso ed ovvia-
mente osteggiato dalla comunità giuliana, sotterrava le tensioni sopravvissute al secondo
conflitto mondiale e rafforzava la pace internazionale.
I partiti di opposizione attaccarono il governo per la segretezza che accompagnava le
trattative, la mancanza di benefici economici sostanziali ed il suo contributo al rafforza-
mento del comunismo internazionale178. Questi argomenti, carichi di una certa retorica
nazionalista, sottolinearono alcune delle principali problematiche di Osimo ed alimenta-
rono la campagna pubblica contro gli «osimanti»179. Il rappresentante triestino della DC
Giacomo Bologna nel suo intervento alla Camera rifiutò l’idea di Osimo come inevitabile,
necessario ed utile; piuttosto pose l’accento sul clima di cooperazione e pace che, promosso
dal Memorandum di Londra, aveva trasformato la frontiera orientale nel confine più aperto
d’Europa180. In tale prospettiva, Osimo veniva dipinto come un accordo inutile scaturito
dalle pressioni del vicino jugoslavo il cui atteggiamento ostile contraddiceva piuttosto che
simboleggiare lo spirito di Helsinki. Nel 1977 e dopo la ratifica parlamentare, il CNC, sulla
base della sua dubbiosa costituzionalità e di violazioni alla legge internazionale, invocò
174
Si vedano M. Cecovini, Trieste ribelle. La lista del Melone. Un insegnamento da meditare, Sugarco, Milano 1985; G.
Giuricin, Origini della Lista per Trieste. Storia documentata, Edizioni Italo Svevo, Trieste 2006.
175
FBIS, 4 ottobre 1975.
176
UI, Varie, faldone Corrispondenza con Personalità del Governo 1973-1976, Presidente di un’associazione istriana a Moro,
10 ottobre1975.
177
Aldo Moro, Senato della Repubblica, VII Legislatura, 23 febbraio, 1977.
178
Vedi C. Montani, Il Trattato di Osimo (10 novembre 1975), Risma, Firenze 1991.
179
Né Disperati, né Velleitari, una Linea per l’Irredentismo, in «Difesa Adriatica», 1975.
180
G. Bologna, A salvare la patria c’ero anch’io. Forse, Ediz. Italo Svevo, Trieste 2001, p. 115.
L’Associazionismo Adriatico: una risposta ad Osimo 129
l’intervento del presidente della Repubblica Leone181. Nonostante ciò, il trattato fu firmato
e presentato come un esempio vincente per il consolidamento dell’amicizia adriatica182. Si-
milmente l’opinione pubblica jugoslava celebrò Osimo come il prodotto di lunghi negoziati
che, riflettendo lo spirito di Helsinki, avevano stabilito un ponte tra popoli nell’Adriatico183.
In conclusione, questo saggio ha inteso sottolineare come il Trattato di Osimo abbia rap-
presentato l’atto di condanna finale delle ambizioni neo-irredentiste dell’associazionismo
adriatico. Dopo il 1954, l’idea di imporre una frontiera che formalizzasse la separazione de
facto del confine orientale non fu osteggiata sulla base di meri diritti territoriali, ma piutto-
sto messa in relazione ad una continuità morale, culturale ed economica che fece di Trieste
e dell’Istria un’unica entità all’interno di una «imagined community». Agli occhi degli esuli
e dopo anni di promesse ed illusioni, le élite centrali avevano venduto i sogni di Nazario
Sauro in cambio di un pugno di sabbia. Nel consentire ad imporre un confine artificiale su
una minuscola area che per secoli aveva rappresentato uno spazio aperto lungo l’Adriatico,
il governo aveva quindi mutilato i confini naturali della nazione. Invece, per la stragrande
maggioranza della comunità nazionale, Osimo significava l’atto finale nella partizione di
un confine che si trovava a dover fronteggiare la minaccia comunista, era stato già perdu-
to e sgombrava il terreno dai fantasmi nazionalisti del passato184. Le ragioni sentimentali
dell’associazionismo adriatico, scontrandosi con la logica politica delle élite democristiane
e gli imperativi della politica internazionale, si sgretolarono repentinamente. Sul lungo ter-
mine, comunque, Osimo si trasformò in un’inaspettata opportunità per rimuovere il patriot-
tismo giuliano dalla demonizzazione nazionalista del passato e, nel solco della tradizione
storica della città, offrì a Trieste un’occasione unica per forgiare un nuovo spirito europeo
e guarire le ferite che il trattato lasciò tra la sua popolazione e lo Stato italiano185.
181
Si veda Centro Nazionale di Coordinamento per la Salvezza di Trieste nell’interesse della pace, Il Trattato di Osimo,
Centro Culturale G.. R. Carli, Trieste 1976.
182
FBIS, 25 febbraio 1977.
183
FBIS, 3 aprile 1977.
184
Si veda C. Belci, Trieste memorie di trent’anni (1945-1975), Morcelliana, Brescia 1989.
185
Un’idea espressa dal vice-presidente della Lega nazionale Guido Nobile nel riflettere sul significato di Osimo ed eviden-
ziata in D. Redivo, Le trincee della nazione, cit.,pp. 159-162.
«Qualestoria» n. 2 - dicembre 2013
Documenti e problemi
Documents and problems
«C’è l’attesa di cose impossibili». Una lettera di Lino Sartori a Luigi Einaudi
sull’ipotesi d’istituzione della Zona franca per la città di Trieste (1954)
«Impossible things are awaited». A letter by Lino Sartori to Luigi Einaudi about the
hypothesis to institute the Free Zone for the city of Trieste (1954)
di Roberto Spazzali
Il documento qui proposto è la bozza di una lettera scritta, presumibilmente nei primi
mesi del 1954, da Lino Sartori, allora direttore delle Finanze e dell’Economia della zona
britannico-statunitense del Territorio libero di Trieste, al presidente della Repubblica Luigi
Einaudi. Esso è conservato nell’archivio dell’Istituto regionale per la storia del movimento
di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, assieme ad altri documenti riguardanti questioni
economiche e mercantili degli anni del Governo militare alleato, ed è stato messo in luce
nel corso di un riordino di quei fondi archivistici1. L’oggetto della comunicazione verte sui
benefici che l’economia triestina godrebbe dall’istituzione di una zona franca a vantaggio
dell’attività produttiva e commerciale al momento del passaggio della cosiddetta zona A
del Territorio libero di Trieste alla sovranità italiana: una sorta di area extra moenia rispetto
alle norme tributarie italiane, in cui il gettito fiscale cittadino sarebbe rimasto nella totale
disponibilità dell’amministrazione locale.
La questione era stata dibattuta e discussa negli ambienti economici triestini e alcuni
circoli l’avevano caldeggiata e sostenuta, soprattutto all’indomani della dichiarazione bi-
partita dell’8 ottobre 1953, quando Gran Bretagna e Stati Uniti avevano data per prossima
la cessione della zona di loro competenza all’amministrazione italiana. Era vista, soprat-
tutto come un «paracadute» economico per agevolare il rientro di Trieste all’interno del
sistema economico italiano, dopo anni di provvisorietà e soprattutto di notevoli finanzia-
menti elargiti con grande generosità dal governo italiano per sostenere non solo l’italianità
politica e culturale ma quella economica della città. Come osserva Stefano Balestra in un
1
AIRSML FVG, fondo Novecento Venezia Giulia, Documenti nuovi, b. 1, f. 55. Lettere e relazione redatte dal Direttore delle
finanze e dell’economia del Governo Militare alleato, dottor Lino Sartori. Comprende: a. corrispondenza con G. Guglia,
della Confederazione generale dell’Industria Italiana, Roma, datt., fotocopie, cc. 4. b. Articoli e interventi di Lino Sartori
su questioni economiche triestine, potenzialità del porto e traffici; relazione su Prospettive in merito alla istituzione di una
zona franca di Trieste, datt., cc. 39. c. Conferenza stampa del dott. Lino Sartori sul bilancio per il secondo semestre della
Zona anglo-americana del TLT (5 agosto 1953), datt., cc. 23. d. Lettera a Luigi Einaudi, 15 febbraio 1954, datt., cc. 6; lettera
al Capo del Dipartimento dei lavori e servizi pubblici, 21 giugno 1954, datt., cc. 1; lettera a Mario Martinelli, ministro per
il Commercio estero, bozza, datt., s.d., cc. 11. Corrispondenza degli uffici del Governo Militare Alleato, in lingua inglese e
traduzione, datt., cc. 12.
132 Roberto Spazzali
suo saggio proprio sulla questione della zona franca, quale oggetto di discussione politica
negli anni immediatamente successivi al ritorno dell’Italia, la situazione internazionale gra-
vante su Trieste aveva bloccato lo sviluppo e tenuto lontana l’effettiva ripresa economica
del secondo dopoguerra, proprio per la condizione «artificiale» del capoluogo giuliano e
per il mutato quadro di riferimento dell’hinterland mercantile, rimasto al di là della «cortina
di ferro» oppure già attratto dalle tariffe agevolate dei porti tedeschi2. Infatti, nel 1953 il
porto di Trieste era entrato in crisi per l’assenza di infrastrutture ferroviarie e stradali adat-
te, per il declino dell’economia di transito e del settore dell’intermediazione mercantile,
per la caduta di interesse commerciale verso i semilavorati e le rinfuse, orientato ora sulle
materie prime grezze trattate in grande quantità che necessitavano di spazi ben più ampi
di quelli disponibili. A completare il quadro, le grandi compagnie di navigazione, legate
però alla Finmare, avevano ridimensionato gli scali a Trieste per effetto di un decreto legge
che aveva ridotto numero e periodicità delle linee marittime. L’armamento navale era stato
dirottato a Genova, che era riuscita ad intercettare importanti flussi di traffico anche in
Germania ed Austria, mentre la concorrenza degli altri porti italiani, di quelli tedeschi e di
Fiume risultava già insostenibile. La flessione aveva investito pure la cantieristica navale e
l’indotto produttivo e industriale, con sensibili ripercussioni nell’occupazione. Se nel 1951
oltre 91.000 triestini avevano un lavoro stabile (di cui 25.000 nel settore del pubblico im-
piego), pochi anni più tardi la disoccupazione riguardava il 14% della forza-lavoro, contro
la media nazionale italiana del 10%, anche se l’indice di ricchezza pro capite manteneva la
città tra quelle con il migliore tenore di vita3.
Quindi la proposta di istituire una zona franca, all’atto del passaggio dal Governo mili-
tare alleato all’amministrazione italiana, poteva rappresentare una soluzione praticabile e
di consenso, per rilanciare il porto e attrarre così nuovi traffici in una condizione di regime
speciale daziario e doganale. Allora si vedeva ancora nel traffico portuale il futuro della
città, e nella zona franca la principale prerogativa storica della settecentesca città franca
(1766) e poi del porto franco (abolito nel 1891), trasformato quindi in due punti franchi
confermati nel 1922 e 1924, ma sospesi il 6 ottobre 1940, pochi mesi dopo l’ingresso in
guerra4. Il tema delle agevolazioni daziarie si presentava ciclicamente a Trieste, sempre
in coincidenza con fasi congiunturali sfavorevoli e spesso sostenuto dagli ambienti della
piccola impresa e del commercio che si sentivano meno tutelati dei grandi comparti e in-
difesi davanti alla concorrenza, per cui la ricerca delle franchigie era una forma di prote-
zionismo del mercato interno, con qualche alettante prospettiva per le esportazioni. Anche
dopo la Prima guerra mondiale diverse personalità politiche triestine si erano spese per la
realizzazione di una Zona franca, sul modello di qu ella attuata a Zara (r.d.l. n. 295, del 13
marzo 1921) ma il contesto era molto diverso, con una città italiana isolata dal territorio
metropolitano ed enclave sulla costa del Regno di Jugoslavia. Il tema del porto franco, o
meglio di un porto internazionale per Trieste, era stato sostenuto da Gabriele Foschiatti nel
luglio 1943 in un manifesto politico-economico del Partito d’azione, ripreso nei successivi
2
S. Balestra, La questione della Zona franca nel dibattito politico a Trieste fra il 1954 e il 1958, «Quaderni del Centro studi
economico-politici “Ezio Vanoni”», 1-2, (Trieste) gennaio-giugno 2001, p. 8.
3
Ivi, pp. 9-10, 12, 14-15.
4
Ivi, pp. 9, 16-17.
«C’è l’attesa di cose impossibili» 133
programmi del Comitato di liberazione nazionale della Venezia Giulia, e appoggiato con
favore da Ferruccio Parri, leader azionista e presidente del Consiglio dei ministri nell’im-
mediato dopoguerra5. Mentre le posizioni di Foschiatti andavano nella direzione di una
collocazione di Trieste in un’Italia democratica e in un’Europa federale, le richieste ora
avanzate dagli ambienti economici giuliani si limitavano a contrastare tanto la concorrenza
della zona franca parziale istituita nel 1948 per la provincia di Gorizia e del minor costo del
lavoro domestico, assai praticato in Friuli, quanto la concorrenza italiana che poteva con-
tare su una produzione maggiore e una migliore rete distributiva della merce. Erano limiti
allora insuperabili anche per una città che aveva goduto di notevoli e generosi finanziamen-
ti dal governo italiano, ben al di là delle quote stabilite dal piano ERP, provocando un certo
rilassamento programmatico nella classe dirigente a fronte di un sovradimensionamento
strutturale che non aveva portato sviluppo economico. A Trieste i benefici erano superiori
ai costi regolarmente saldati dal governo italiano, con scarsa liquidità e poca propensione
all’investimento privato, mentre voci di sicuro credito rimanevano quella delle forniture
al Governo militare alleato e quella degli appalti per i lavori pubblici, almeno fin quando
l’amministrazione anglo-americana sarebbe rimasta. Ecco perché si vedeva nel ripristino
dei punti franchi, se non nella realizzazione della Zona franca, l’ultima possibilità di com-
promesso, caduta l’ipotesi del Territorio libero, tra la sovranità politica italiana su Trieste e
la tutela della sua autonomia economica, tanto da prospettare nel 1955, secondo uno studio
di Manlio Resta, direttore dell’Istituto di economia dell’Università di Trieste, un riequi-
librio delle perdite nel settore mercantile con l’attivazione di industrie nei punti franchi6.
Per tutti questi motivi la questione della zona franca interessava e preoccupava al tem-
po stesso il governo italiano, proprio nel corso dell’ultima crisi internazionale su Trie-
ste. Il compito di spiegare al governo italiano come stavano le cose era spettato a Lino
Sartori, nominato nell’autunno 1952 alla direzione della sezione Finanze e dell’economia
della zona britannico-statunitense del Territorio libero di Trieste, per effetto dell’Accordo
di Londra del 9 maggio 1952 che mutava sostanzialmente il profilo dell’amministrazione
sulla cosiddetta zona A. A quasi cinque anni dall’entrata in vigore del Trattato di pace (15
settembre 1947), non era stato reso esecutivo l’allegato VI, riguardante la sovranità del
Territorio libero di Trieste con la nomina del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite
di un governatore e l’elezione dell’assemblea legislativa, e la nomina degli organi gover-
nativi e giudiziari. Preso atto che il quadro internazionale era profondamente mutato con
l’espulsione della Jugoslavia di Tito dal Cominform (28 giugno 1948), mentre le due zone,
sotto le rispettive amministrazioni britannico-statunitense e jugoslava, stavano assumendo
connotazioni politiche profondamente diverse, giunse dalla Gran Bretagna la disponibilità
5
Il problema nazionale della Venezia Giulia. Orientamenti repubblicani del Partito d’azione (Gabriele Foschiatti), in G.
Paladin, La lotta clandestina di Trieste nelle drammatiche vicende del CLN della Venezia Giulia, Del Bianco Editore, Udine
2004, pp. 121-124; S. Balestra, La questione della Zona franca, cit., p. 17.
6
Ivi, p. 15.
134 Roberto Spazzali
7
D. de Castro, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, vol. II, LINT, Trieste 1981,
pp. 234-235; R. Spazzali, La struttura del Governo militare alleato a Trieste dal 1945 al 1954, in Trieste anni cinquanta. La
città reale. Economia, società e vita quotidiana a Trieste, 1945-1954, Edizioni Comune di Trieste, Trieste 2004, pp. 170-177.
8
Ivi, p. 686.
9
A. Millo, La difficile intesa. Roma e Trieste nella questione giuliana 1945-1954, Edizioni Italo Svevo, Trieste 2011, p. 119.
Per comprendere il ruolo e i compiti dell’Ufficio zone di confine rimando al numero monografico di «Qualestoria,» curato da
R. Pupo, UZC. Ufficio per le zone di confine, a. XXXVIII, 2, dicembre 2010.
«C’è l’attesa di cose impossibili» 135
di essere esaminata nella sua versatile attività nel campo dell’economia e della italiana10?
Nato nel 1903 a Casotto, frazione di Pedemonte, in Valdastico, (fino al 1918 Contea del
Tirolo poi provincia di Trento e dal 1929 sotto Vicenza), e di formazione cattolica, dopo
gli studi all’Istituto universitario superiore «Cesare Alfieri» di Firenze, è vicedirettore del
settimanale «Vita trentina» (1926), di schietto orientamento antifascista, quindi viene as-
sunto alla filiale veneziana del Banco di Napoli per diventare vicedirettore e poi direttore
generale del Banco San Marco, istituto bancario fondato nel 1895 dal Comitato diocesano
dell’Opera dei congressi. Ufficiale di fanteria durante la guerra, opera nella Resistenza
veneta e nel 1945 Lino Sartori entra nella segreteria particolare del presidente del Consi-
glio dei ministri Alcide De Gasperi; quattro anni più tardi viene nominato ai vertici della
Compagnia finanziaria di partecipazioni (1949), una holding company che ha il compito di
acquisire e risanare le aziende dissestate, secondo le linee di pianificazione economica pro-
poste da Pasquale Saraceno ed Ezio Vanoni, e sostenute dalla corrente dossettiana nel corso
del III congresso nazionale della Democrazia cristiana (giugno 1949). Lino Sartori salva
dal fallimento la Banca popolare di Roma (1945), un istituto a base cooperativa finito nelle
mani della speculazione privata e poi dei gruppi assicurativi della Tirrena assicurazioni
ed Istituto nazionale delle assicurazioni; raddrizza le sorti dei quotidiani «Il Sole» (1865),
diretto da Mario Bersellini, e «Il Globo» (1945), diretto da Luigi Barzini jr., consegnandoli
poi nelle mani della Confindustria. Successivamente entra nei comitati esecutivi dell’INA
e dell’Assitalia fino alla nomina di direttore delle Finanze e dell’economia a Trieste. In tale
veste partecipa alle sedute dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica,
con sede a Parigi e diretta da Robert Marjolin già collaboratore di Jean Monet, costituita
nel 1948 con il compito di controllare la distribuzione degli aiuti del piano Marshall, di cui
il Territorio libero di Trieste era uno dei sedici Stati fondatori. Durante il periodo triestino
Lino Sartori avrà occasione di studiare due particolari realtà: la Repubblica cinese di Tai-
wan che in pochi anni si era imposta come una realtà emergente nel Sud-est asiatico, anche
grazie all’aiuto statunitense, e i rapporti tra il Portogallo e la sua colonia in Angola, dal
1951 trasformata in provincia d’oltremare. Un’attenzione non casuale, legata alla possibili-
tà di applicare pure a Trieste tanto il modello di un territorio cinese dedicato prevalente ad
un’economia aggressiva in forza di particolari agevolazioni daziarie, quanto di una colonia
africana che assumeva precisi caratteri di autonomia amministrativa. Non a caso, tra gli
esempi più ricorrenti di zona franca «aperta» per il capoluogo giuliano, c’erano quelli vi-
genti a Singapore, Tangeri, Hong Kong e Taiwan. Le preoccupazioni per il declino econo-
mico della città, in assenza di provvedimenti significativi, saranno raccolti nelle interviste
pubblicate da Lino Sartori in Trieste ‘54: prospettive e progetti economici, un fascicolo
di chiara intonazione governativa che però non taceva delle opinioni più ricorrenti e delle
10
M. Cumo, Lino Sartori la vita e l’opera a Trieste, Firenze e Bolzano, in «Scienza e Tecnica», a. LXIX, 426, Roma 2006,
pp. 11-14. Di Lino Sartori si ricordano le seguenti pubblicazioni: Una presenza per lo sviluppo 1919-1989, Istituto veneto per
il lavoro, Venezia 1989; Il degrado dell’ambiente naturale come distorsione etica nello sviluppo economico e nel progresso
tecnologico, «Studi sociali», Ufficio centrale assistenti ACLI, 12, 1988.
136 Roberto Spazzali
aspettative riposte anche nella zona franca, come avrà modo di rilevare il quotidiano indi-
pendentista giuliano «Il Corriere di Trieste»11.
Conclusa l’esperienza triestina, Lino Sartori torna alla gestione delle imprese partecipate
italiane, occupandosi di telecomunicazioni e telefonia per conto della STET e delle società
TELVE, TIMO, SET, assume la presidenza del Centro studi e laboratori telecomunicazioni
(CSELT) del gruppo STET e la presidenza della SEAT che cura la stampa e diffusione degli
elenchi telefonici. Negli anni del primo sviluppo elettronico è vicepresidente della Galileo
Ferraris e componente del consiglio della Federazione delle associazioni scientifiche tec-
niche di Milano (FAST), facendosi promotore dell’applicazione della telematica all’assi-
stenza sanitaria, e collabora con il Comitato nazionale per l’energia nucleare. Sempre nel
campo sanitario, nel 1969 dà vita con Susanna Agnelli all’Associazione italiana per la lotta
alla leucemia. A Venezia, infine, promuoverà la fondazione Cini, ottenendo l’isola di San
Giorgio dal Demanio militare.
11
L. Sartori, Trieste ‘54: prospettive e progetti economici, Astra, Trieste 1954; Trieste ’54, in «Il Corriere di Trieste» (Trieste),
28 ottobre 1954.
12
Salvatore Scoca (1894-1962), irpino, politico democratico cristiano e componente del Consiglio nazionale del suo partito,
era stato sottosegretario di Stato al ministero del Tesoro nel terzo governo Bonomi e alle Finanze nel secondo governo De
Gasperi, infine ministro senza portafoglio nel governo Pella; partecipa ai lavori dell’Assemblea costituente, eletto alla Cam-
era dei deputati nelle prime tre legislature, da cui si dimette nel 1958 per assumere l’incarico di avvocato generale dello Stato.
Inoltre, aveva presieduto la commissione speciale per la legge sulla Cassa del mezzogiorno.
13
Per il quadro economico triestino rimando a G. Mellinato, P. A. Toninelli, La città reale: l’evoluzione del quadro eco-
nomico, in Trieste anni cinquanta, cit., pp.11-17.
«C’è l’attesa di cose impossibili» 137
15 febbraio 1954
Signor Presidente
Voglia permettermi di dirLe la mia gratitudine per l’attenzione che ha voluto dare ai
memorandum, ch’io preparai per il Ministro Scoca che, dopo la dichiarazione anglo-ame-
ricana dell’8 ottobre, fu incaricato dal Governo di studiare la trasformazione dell’ammini-
strazione triestina e che me li richiese. Li preparai con una ampiezza e ciò non soltanto per
il desiderio di dargli un quadro possibilmente completo della situazione locale, ma anche
per rimediare alle insufficienti e alle inesatte cognizioni di molti uffici ministeriali. È questa
una verità molto spiacevole, ma che ogni giorno si rende visibile e dalla quale derivano
conseguenze piccole e grandi, ma sempre sfavorevoli, così sul campo amministrativo come
in quello politico.
Per quanto riguarda le entrate e spese pubbliche del Territorio triestino, non è facile
darne un quadro compiuto, per lo meno ciò non è facile. Infatti elementi importanti, sia per
l’entrata e per la spesa, escono, per così dire, dalle mie possibilità di controllo.
Per esempio, le spese per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati vengono fatte dal
Ministero degli Interni direttamente e col tramite dell’Opera Nazionale Giuliani e Dalmati;
ad altre spese, di carattere essenzialmente politico, provvede la Presidenza del Consiglio
(Ufficio Zone di Confine); il contributo dello Stato per la gestione delle linee di navigazio-
ne del Lloyd Triestino viene corrisposto dal Tesoro, col tramite della Finmare.
Ho cercato di fare del mio meglio e mi prendo la libertà di inviarLe gli elementi che ho
raccolto.
14
D. De Castro, La questione di Trieste, cit., vol. II, p. 864. Una traccia evidente dei suggerimenti di Lino Sartori è rinvenibile
in un intervento di Luigi Einaudi, in data 11 giugno 1954. Il testo è pubblicato in Il problema della franchigia doganale di
Trieste e territorio dal 1919 al 1956. Relazione del consigliere Bino Bardi presentata nella riunione del Consiglio comunale
di Trieste il 2 ottobre 1956 ad illustrazione della mozione sulla Zona franca presentata il 27 settembre. Confutazione delle
obiezioni. Mozione 4 ottobre 1956, "Quaderni Giuliani", Trieste 1957, pp. 21-22.
15
V. Lisiani, Good-bye Trieste, Mursia, Milano 1964, pp. 288-289, 298.
«C’è l’attesa di cose impossibili» 139
Mi permetto anche di far notare che la prassi amministrativa è qui difforme dal sistema
nazionale e che molti procedimenti sono davvero singolari. Tutto, qui, fa capo al bilancio
del Governo, che provvede non soltanto alle spese di competenza statale, ma anche, diret-
tamente od indirettamente, al fabbisogno di tutti gli Enti locali e pubblici in genere, i quali
usano passare i loro conti al Governo che, finora, li ha sempre saldati. Si è formata così
negli Amministratori degli Enti Locali ed Autonomi l’abitudine ad una politica di spesa
molto facile, da loro giustificata con l’interesse nazionale che verrebbe difeso, soddisfa-
cendo qualunque richiesta, ed evitando così il malcontento e quindi l’ostilità all’Italia. Mi
permetto di dire che questa politica, secondo me, è sbagliata (oltre che indecorosa) ed in
effetti assolutamente contrari all’interesse nazionale.
Per ciò che riguarda gli accordi internazionali per la soluzione del problema di triestino,
voglia consentirmi, Signor Presidente, di osservare che anche l’esperienza locale conferma
pienamente la persuasione che sia di gran lunga preferibile far concessioni ampie per atto
di propria volontà, piuttosto che accettare per trattato limitazioni della sovranità italiana.
La Jugoslavia, avendo cognizione di questa convenienza italiana e del suo interesse
nettamente contrario, tende ad imporre nettamente le limitazioni alla sovranità italiana per
assicurarsi un’ingerenza tanto più vantaggiosa per sé quanto più dannosa per l’Italia. È da
considerare, però, l’efficacia che in un difficile gioco più diplomatico potrebbero avere
concessioni di questo genere e l’eventuale opportunità o necessità di valersene come mezzo
per negoziare e conseguire vantaggi o limitare rinunce.
A questo proposito sarebbe forse utile, per determinare favorevoli orientamenti dell’opi-
nione pubblica locale e, possibilmente, anche in quella internazionale, aver pronti e a render
noti quei provvedimenti che l’Italia potrebbe attuare allorché le sarà restituita la sovranità
sul territorio triestino. La opportunità, anzi la necessità di avere chiare le idee in proposito
è ovvia, tuttavia mi permetto di dire che l’apparenza non è confortante: negli ambienti
locali c’è l’attesa di cose impossibili, mentre in numerosi uffici ministeriali c’è parecchia
confusione e di incertezza.
A proposito della Zona franca, mi permetto di fare le seguenti osservazioni.
a. La Zona franca è invocata dagli ambienti commerciali; non c’è unità di vedute
sull’estensione territoriale – che per alcuni dovrebbe esser limitata alla città, per altri
dovrebbe comprendere tutto il territorio triestino che sarà restituito all’Italia – ma
tutto l’ambiente commerciale è concorde nella richiesta.
L’ambiente industriale, invece, è recisamente contrario, ritenendo che la protezione
doganale giovi all’industria molto più della Zona franca. Il contrasto è obiettivo è
deriva dalla opposizione di interessi. La posizione degli industriali si spiega col fatto
che la produzione triestina viene venduta sul mercato nazionale.
Gli organi locali di coordinamento economico, ed in particolare la Camera di Com-
mercio tentando di armonizzare i punti di vista, propongono dei provvedimenti com-
plessi, mediante i quali si vorrebbe dare a ciascuno la possibilità di valersi, con
costante libertà di scelta, dei benefici della protezione doganale oppure di quelli della
Zona franca. Secondo me, invece di una somma di benefici, si avrebbe una somma di
inconvenienti.
b. Nel valutare l’idea della Zona franca occorre tener presente la situazione della pro-
vincia di Gorizia, dove sono in atto franchigie doganali per contingenti, e ciò in forza
140 Roberto Spazzali
degli articoli 11 e seg. della legge 1 dicembre 1948 n.1438. I circoli economici e
politici goriziani lamentano l’insufficienza dei benefici e reclamano nuovi provvedi-
menti.
Non c’è alcun dubbio che, se la Zona franca fosse concessa a Trieste, Gorizia vor-
rebbe esservi inserita e sarebbe difficile resistere alla richiesta, dato che la situazione
economica di quella provincia è certamente peggiore di quella triestina.
Non ho elementi per giudicare quali possano essere gli effetti delle ripercussioni
della Zona franca così estesa ma ritengo che sia molto difficile poter accedere a
quest’idea; tra l’altro, vi sono gravi difficoltà tecniche, quali l’ampiezza della linea
di vigilanza che dovrebbe essere stabilita tra la Zona franca e il territorio doganale.
c. La concessione della Zona franca troverebbe vigorose opposizioni dell’industria na-
zionale. Infatti, o le industrie triestine vengono poste allo stato di industrie estere e le
loro importazioni nel territorio nazionale considerate come importazioni dall’estero
(nel qual caso, come già detto, la franchigia doganale non sarebbe gradita ai trie-
stini), oppure alle industrie triestine viene consentito di introdurre nel territorio na-
zionale i loro prodotti in esenzione dai diritti di confine (analogamente in quanto
fu stabilito con il Regio decreto legge del 13 marzo 1921 n. 295) e le industrie del
territorio nazionale solleverebbero energiche proteste.
La convinzione non è soltanto teorica, ma il frutto dell’esperienza già conseguita:
piccolissimi benefici già goduti dalle industrie triestine (per esempio, l’acquisto di-
retto all’estero e dei grassi per la fabbricazione del sapone), hanno suscitato le rea-
zioni delle industrie nazionali concorrenti e dello stesso Ministero dell’Industria. E
se la condizione delle industrie triestine risultasse di largo favore rispetto può quelle
nazionali, è prevedibile l’ampio afflusso di nuovi stabilimenti nel territorio triestino,
come aggravate conseguenze.
d. Dal punto di vista del contrabbando, nelle ipotesi che sull’attuale linea di demarca-
zione fra il territorio nazionale e quello triestino fosse istituita la frontiera doganale,
le conseguenze sarebbero importanti.
Il territorio triestino offrirebbe occasioni merceologiche di contrabbando più larghe di
qualsiasi altro territorio estero. Il gioco combinato dei dazi, delle imposte di fabbricazione,
delle norme protettive e valutarie dei singoli Stati, riduce a poche le merci adatte al contrab-
bando; il territorio triestino – franco per le importazioni da ogni paese – potrebbe, invece,
offrirle tutte.
Per via di terra la vigilanza potrebbe esser facile ed efficiente, perché la linea di demar-
cazione breve; molto più difficile, pesante ed oneroso risulterebbe, però il controllo per
impedire il contrabbando di amare, specialmente lungo il litorale friulano e veneto.
Se poi, come ho accennato, la Zona franca dovesse comprendere la provincia di Gorizia,
gli inconvenienti sarebbero moltiplicati.
L’ipotesi di un sistema fiscale ridotto alle sole imposte dirette sui redditi e sui patrimoni
e commisurate secondo i criteri vigenti in Italia, presenta conseguenze molto gravi. Ciò
risulta evidente dall’analisi della situazione tributaria attuale.
Limitando l’indagine alle finanze del Governo ed a quelle del Comune di Trieste, si
hanno, per grandi cifre, i seguenti dati:
«C’è l’attesa di cose impossibili» 141
così suddivise:
a. Imposte di fabbricazione: 10 miliardi
b. Dazi: 5 miliardi
c. Imposte di consumo: 6 miliardi
d. Tasse di bollo ed altre imposte sugli affari: 2,5 miliardi
e. Servizi: 1 miliardo
f. Varie: 0,5 miliardo
g. Monopoli: 4 miliardi
h. Imposte dirette: 3 miliardi
2. Entrate annuali del comune di Trieste: totale 2,9 miliardi
così suddivise:
a. Imposta di famiglia: 300 milioni
b. Imposta industria, commerci, profess.: 200 milioni
c. Imposta sui consumi: 1.900 milioni
d. Compartecipazione all’imposta sugli spettacoli: 300 milioni
e. Altre: 200 milioni
Limitando i tributi alle imposte dirette sul reddito e sul patrimonio si avrebbe una situa-
zione del tutto nuova e diversa, con ripercussione sui bilanci dello Stato e degli enti locali,
nell’economia locale ed anche con probabili reazioni sul territorio nazionale.
Lo Stato perderebbe gran parte delle entrate, anche ammettendo la possibilità di un
incremento del gettito delle imposte dirette. E tanto nel caso dell’annessione pura e sem-
plice, come in quello dell’istituzione, sotto la piena sovranità italiana, di un ordinamento
particolare ( per esempio quello di regione a statuto speciale), la perdita non sarebbe com-
pensata dalla riduzione delle spese dipendenti dalla presenza del Governo militare alleato:
il bilancio dello Stato, in definitiva, dovrebbe sopportare un onere molto più grande di
quello attuale.
Gli enti locali, e in primo luogo il Comune di Trieste, avrebbero bisogno di maggiori
contribuzioni ad integrazione dei loro bilanci anche sotto questo aspetto il bilancio dello
Stato sarebbe aggravato da maggiori spese.
Le situazione dell’economia locale sarebbe notevolmente modificata. L’industria avreb-
be una riduzione sui costi, ma la detta riduzione, in linea generale ( per esempio delle
costruzioni navali, la lavorazione della juta, ecc.) non sarebbe sufficiente per affrontare la
concorrenza internazionale, mentre potrebbe creare sperequazioni nel mercato nazionale,
nel caso della produzione triestina vi fosse liberamente ammessa.
Il costo della vita dovrebbe segnare sensibili riduzioni e ciò potrebbe suscitare l’incre-
mento, per l’immigrazione, della popolazione, con probabile inasprimento del problema
dell’occupazione.
Dal punto di vista della psicologia triestina questi benefici sarebbero accolti come ne-
cessari e dovuti, ma lo sarebbero considerati compensativi per la rinuncia ad altre provvi-
denze statali. È, infatti, costante e generale la simultanea richiesta di alleggerimenti fiscali
142 Roberto Spazzali
e di più larghi interventi governativi, del credito ( che qui si vorrebbe accollare allo Stato),
dei sussidi alle industrie, dei lavori pubblici, dell’assistenza sociale, del pagamento dei
saldi passivi degli enti locali e delle aziende pubbliche,ecc.
Il mio desiderio di rispondere in modo compiuto e preciso alle Sue richieste, Signor
Presidente, è così grande da lasciarmi il timore di non essere riuscito.
La prego di considerare con benevolenza il mio tentativo, che ho dovuto svolgere con
scarsi mezzi e senza la meditazione che sarebbe necessaria, ma che il pressante lavoro
quotidiano non mi lascia.
Vogliate permettermi, Signor Presidente, di esprimerLe i miei sentimenti di ossequio e
di devozione profonda. La prego anche di consentirmi di dirLe la mia riconoscenza profon-
da per l’onore ambito di esser messo a discutere davanti alla Sua Persona.
GLI AUTORI DI QUESTO NUMERO
Massimo Bucarelli, ricercatore e docente universitario in Storia delle Relazioni Inter-
nazionali presso il Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo, dell’Università del
Salento, è autore di vari saggi e lavori monografici dedicati alle relazioni italo-jugoslave
nel Novecento tra i quali: Mussolini e la Jugoslavia (1922-1939) (Bari 2006), La questione
jugoslava nella politica estera dell’Italia repubblicana (1945-1999) (Roma 2008) e con I.
Garzia e L. Monzali, di Aldo Moro, l’Italia repubblicana e i Balcani (Nardò 2011).
Diego D’Amelio è nato ad Anzio (Roma) nel 1980. Si è laureato in Storia contempo-
ranea all’Università di Trieste e ha conseguito il dottorato presso la Scuola dottorale in
scienze umanistiche dello stesso ateneo. È stato borsista presso la Scuola superiore di studi
storici della Repubblica di San Marino. È attualmente borsista post-doc presso l’Istituto
storico-germanico di Trento (Fondazione Bruno Kessler). Direttore responsabile della ri-
vista «Qualestoria» e fa parte del consiglio direttivo e del comitato scientifico dell’Irsml
FVG. Collabora con la cattedra di Storia contemporanea del Dipartimento di scienze politi-
che e sociali dell’università di Trento. Si interessa di storia dei partiti e delle organizzazioni
politiche, storia delle aree di frontiera, storia del confine orientale. Ha pubblicato tra l’altro
Progettare il futuro. Le Acli di Trieste e dell’Istria 1945-1966 (Trieste 2008).
Saša Mišić è nato a Jagodina (Serbia) nel 1972. Si è laureato nel Dipartimento di Storia
della Facoltà di Filosofia a Belgrado nel 1999, ottenendo il Master nella stessa Facoltà
nel 2005. Ha conseguito quindi il Dottorato di ricerca nella Facoltà di Scienze politiche
dell’Università di Belgrado con una tesi sul tema «Le relazioni politiche tra Italia e Jugo-
slavia nel periodo 1968-1975». Insieme a numerosi saggi ha pubblicato il volume Albani-
ja: prijatelj i neprijatelj. Jugoslovenska politika prema Albaniji u periodu od 1924-1927
godine. Albania: friend and foe. Yugoslav policy towards Albania in the period 1924-1927
(Belgrade 2009). I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla politica estera jugoslava e
in particolare sulle relazioni economica con Albania e Italia nel 20° secolo.