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WENIN-Salmi Difficili

Il documento discute le difficoltà che un lettore odierno può incontrare nella lettura dei Salmi. Esplora come alcuni Salmi presentino un mondo diviso tra buoni e cattivi e come i Salmi imprecatori possano risultare problematici. L'autore sostiene che spiegare i Salmi solo dal punto di vista storico non è sufficiente e che è importante considerare anche gli aspetti antropologici e teologici.

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WENIN-Salmi Difficili

Il documento discute le difficoltà che un lettore odierno può incontrare nella lettura dei Salmi. Esplora come alcuni Salmi presentino un mondo diviso tra buoni e cattivi e come i Salmi imprecatori possano risultare problematici. L'autore sostiene che spiegare i Salmi solo dal punto di vista storico non è sufficiente e che è importante considerare anche gli aspetti antropologici e teologici.

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Salmi «difficili»

André WÉNIN
(Université Catholique Louvain)

Introduzione1
Per i lettori della Bibbia, i salmi possono essere difficili su diversi piani e per vari motivi. Per gli
specialisti, le difficoltà saranno di tipo filologico, legate a un lessico particolare con parole rare o dal
senso incerto o ancora a una sintassi poetica non sempre chiara ; saranno anche di tipo culturale nel
trattare immagini o metafore di difficile interpretazione, nello spiegare allusioni storiche troppo
elusive, o ancora di tipo storico-critico quando si tratta di precisare l’origine e la possibile storia dei
salmi individuali o di ricostruire la storia della composizione progressiva del libro. Per i lettori
comuni, le difficoltà sono del tutto diverse– ed è di queste difficoltà che vorrei parlare stamattina.
Dipendono da vari fattori: il credente non avrà i medesimi problemi del non credente; la persona che
legge spesso la Bibbia non proverà le stesse riluttanze di quella che la legge ogni tanto o la scopre per
caso. Ovviamente, la distanza culturale e storica costituisce la fonte di parecchie difficoltà che
riguardano lo stile, le immagini, i riferimenti intra-biblici, le rappresentazioni di Dio, ecc. ma alcune
sono legate al contenuto stesso del testo, al tipo di preghiera che vi si esprime.
In un contesto in cui le religioni sono sospette di favorire un certo tipo di violenza nutrita
d’intolleranza e di fanatismo, i salmi imprecatori presentano delle difficoltà specifiche: il tono aggressivo
legato alla sete di vendetta che sottende la preghiera è già problematico di per sé, ma l’immagine di Dio
che il salmista dimostra di avere risulta addirittura inaccettabile e scioccante, in particolare per i cristiani
che vorrebbero pregare con questi testi. Quanto ai non credenti, saranno tentati di prendere appoggio
sugli stessi testi per accusare la Bibbia di favorire l’intolleranza e, almeno potenzialmente, la violenza.
Questa causa intestata ai testi biblici risulta però sbagliata. Anche se viene considerato sacro, un testo
non è mai di per sé fonte di una cosa qualsiasi. È la sua lettura, la sua interpretazione che può generare
particolari giudizi, azioni, o atteggiamenti. Ed è di nostra responsabilità di esegeti proporre modi di
leggere che consentano ai testi biblici di diffondere la loro luce e di onorare il programma assegnato loro
da tanti passaggi, come ad es. Deut. 30, cioè essere latori di benedizione e di vita.
A questo riguardo, una tentazione percettibile nel mondo degli esegeti e dei pastori consiste nel
ricorrere a considerazioni storiche, pensando così dare una chiave sufficiente per spiegare i salmi di
difficile lettura. In questa prospettiva, si insiste sulla grande differenza tra il nostro mondo e quello
dell’Israele antico, della sua cultura, della sua religiosità, dei suoi modi di vedere e interpretare la
realtà, di esprimerla, ecc., una differenza che rende difficile avvicinarsi oggi ai salmi in generale e in
particolare ad alcuni di essi. La cosa è talmente ovvia che nessuno la può ignorare. Richiede
dell’esegeta che aiuti i lettori attuali a superare gli a priori e le resistenze (personali e comunitarie) che
erigono una barriera di fronte al testo, e che li faccia entrare nel “mondo” e nelle rappresentazioni dei
salmisti con commenti accurati e adeguati. Ma non penso che questo sforzo, per quanto necessario e
utile, sia sufficiente per aiutare il lettore ad appropriarsi dei salmi. Spiegare i testi solo in funzione del
contesto storico-culturale dell’antico Israele fa correre il rischio di confinarli in un passato remoto
ormai privo di significato per oggi, e quindi di condannarli a essere meri testimoni sprovvisti di risorse
per pensare il mondo, l’esistenza umana e la fede. Non sarebbe forse tradire la pretesa della parola
biblica ad essere una parola di vita, tradire anche la fede delle comunità che hanno portato questa
parola fino a oggi come una parola che fa vivere?
                                                       
1Questa relazione sintetizza e, nella prima parte, sviluppa le idee e analisi proposte in A. WÉNIN, Sami censurati. Quando la
preghiera assume toni violenti (Studi biblici 83), Bologna, EDB, 2017. Destinato a una comunicazione orale, questo testo ne
addotta lo stile.
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Ora, se infatti il mondo degli autori dei salmi è radicalmente differente dal nostro, non è così
certo che l’essere umano sia del tutto cambiato e che i rapporti dei credenti con Dio siano radicalmente
modificati, anche se il linguaggio per parlarne è molto differente. Ed è una virtù della Bibbia di
rimandare i lettori a una realtà essenziale, spirituale ed etica, ampiamente condivisa dagli esseri umani.
A quel livello, i salmi possono fungere da specchio dell’umanità spesso sofferente, alla ricerca di un
Dio che la invita a entrare in un’alleanza di vita; come un crogiuolo dove coltivare un’intelligenza
profonda della verità degli esseri umani davanti al Dio vivo e dove, per riprendere l’immagine del Sal
1, scoprire il cammino da percorrere per chi desidera sviluppare pienamente e armoniosamente la
propria esistenza. Per entrare in quest’aspetto del libro, un approccio maggiormente letterario e attento
alle dinamiche antropologiche e teologiche sarà probabilmente più adeguato di un lavoro
esclusivamente storico.

1. Un libro difficile per un lettore odierno

Dal titolo dato al mio contributo, sembrerebbe che solo alcuni salmi siano difficili. È ovvio che
alcuni sembrano più facili, cioè più comprensibili o più direttamente atti a sostenere la meditazione
(come il Sal 1) o la preghiera (come i Sal 23, “Yhwh è il mio pastore…”; 51, “Pietà di me, Dio, nel
tuo amore…”; o ancora l’alleluia al dio creatore del Sal 148). Ma in un certo senso, non sono solo
alcuni singoli salmi ad essere difficili. L’insieme del libro e l’immagine del “mondo” da esso riflesso
presentano una vera difficoltà.

a. Un mondo spezzato in due…


I primi salmi introducono i lettori in un mondo in cui due categorie di esseri umani si oppongono.
Da un lato, c’è colui che medita la Legge giorno e notte e vi trova il proprio piacere, e dall’altro quelli
che la evitano come la peste: i malvagi, peccatori e schernitori. I primi godranno il successo e la
felicità, poiché Yhwh custodisce i loro passi; i secondi errano, falliranno e saranno condannati. Gli uni
sono come l’albero verde e fertile solidamente piantato e con radici che affondano nell’ acqua; gli altri
non hanno consistenza, come la pula che non pesa nulla e non produce frutti. Questo è il quadro di
apertura dipinto dal Salmo 1. Dal canto suo, il Sal 2 propone una variazione sulla stessa opposizione:
da un lato, il re messia consacrato da Yhwh che assicura a questo suo figlio un potere vittorioso; dall’
altro, la folla dei ribelli, popoli, nazioni, re e grandi che credono di poter sfuggire alla sovranità
dell’eletto di Dio. Qui, Yhwh si sbilancia chiaramente: è dalla parte del suo re e si beffa dei vani sforzi
dei suoi avversari. Il Sal 3 fornisce subito un esempio di questa posizione assunta da Dio: mette sulle
labbra di Davide fuggendo Assalonne una preghiera in cui, circondato da molti avversari che lo
aggrediscono, il re minacciato esprime la sua incrollabile fiducia in un dio che è il suo scudo e il suo
sostegno e che priva i suoi nemici della loro capacità di nuocere rompendo loro i denti.
Nel libro dei salmi, queste due categorie di personaggi s’incontrano quasi dappertutto. I
«malvagi» (‫רשׁע‬, 89x) sono spesse volte chiamati i «nemici» (‫אויב‬, 73x) del salmista o d’Israele per lo
più, a volte anche di Yhwh. Sono detti «avversari» (‫צר‬, 26x), «coloro che odiano» (‫ שׂנא‬ptc, 24x),
«fautori d’ingiustizia» (‫פעלי און‬, 16x) o «malfattori» (‫ רעע‬ptc, 9x), «aggressori» (‫ קום‬ptc, 8x),
«persecutori» (‫ רדף ;צרר‬ptc, 6x); con essi si schierano a volte dei «vicini » (‫שׁכן‬, 6x). Fra di loro, si
trova l’«uomo di violenza» (‫אישׁ חמס‬, 4x) e l’«assassino» (‫אישׁ דמים‬, 5x), ragione per la quale sono
paragonati frequentemente alle belve, leoni, cani o tori (22,13-14.17.21-22). Anche qualificati come
«peccatori» (‫חטא‬, 6x), queste persone si singolarizzano dall’orgoglio e dall’arroganza ( ‫גאה‬, ‫זד‬, ‫)גבה‬.
Non ricorrono solo alla violenza fisica (‫חמס‬, ‫לחץ‬, ‫ )עשׁק‬ma anche alle beffe e al disprezzo (‫לעג‬, ‫בוז‬,
‫ ;)קֶ לֶס‬corrompono la giustizia con false testimonianze, menzogne e tradimenti (‫מרמה‬, ‫שׁקר‬, ‫כזב‬, ‫)בגד‬, e
in questo senso, sono serpenti e vipere (58,5 ; 140,4). In realtà, sono degli stolti (‫נבל‬, ‫כסיל‬, ‫)בער‬
sull’orlo della rovina (1,6 et 2,12); nel frattempo, fanno del male e della disgrazia altrui il loro pane
  3

quotidiano (‫רעה‬, ‫)עולה‬: si radunano numerosi, pianificano brutte cose, tendono trappole, circondano le
loro prede per attentare alla loro vita, spesso senza motivo (10,8-10). Se usano frecce, lancia, rete,
trappola, la loro arma per eccellenza è la lingua, quella spada affilata (57,5). Il loro obiettivo?
Seminare la morte, come suggerisce l’espressione «cercare la vita» (‫ בקשׁ נפשׁ‬usata 7 volte : 35,4 ;
38,13 ; 40,15 ; 54,5 ; 63,10 ; 70,3 ; 86,14). Come tali sono nemici di Yhwh, il dio della vita di cui
negano l’esistenza (10,4; 14,1 // 53,2: ‫ )אין אלהים‬o di cui, in ogni caso, non hanno timore (36,2; 55,20).
Nella linea del Sal 2 che situa l’opposizione al livello geopolitico, questi nemici diventano nazioni con
i loro governanti, prìncipi ed eserciti che attaccano Israele e il suo re, difesi da Yhwh (47,3-4). La loro
identità è ben nota: Egitto e Faraone (135,8-9), Filistei, Ammoniti e Moabiti, Amaleciti (60,10 //
108,10; 83,8) e ovviamente Babilonia (137).
La vittima privilegiata di questi numerosi «nemici» che popolano i salmi è il salmista stesso, sia
individuale (“io”) che collettivo (“noi”, “il tuo popolo”). Di solito, il salmista si associa implicitamente
al gruppo dei “giusti” (‫צדיק‬, 45x) degli uomini «retti» (‫ישׁר‬, 20x, 9x con ‫)לב‬, «fedeli» (‫חסיד‬, 23x),
«perfetti» ( ‫תמם‬, 16x), «innocenti» (‫)נקי‬, fa parte del gruppo dei «timorati di Dio» (‫ירא‬, 28x) o di
quelli che lo «cercano» (‫בקשׁ‬, 11x). In questo modo, senza descrivere sé stesso, in primo luogo egli si
considera non in relazione ai suoi avversari, ma in termini di scelte positive nei confronti di Dio e
della sua legge, della giustizia e della rettitudine. In quel che dice di sé stesso, invece, il salmista si
presenta spesso come vittima del malvagio o della sventura: appartiene agli «umiliati» ( ‫עני‬, 39x, di
cui 15x “io” o “noi”), ai «poveri» (‫אביון‬, 22x, di cui 4 “io”) e agli «oppressi» (‫)דך‬, «deboli» (‫ )דל‬e
«sfortunati» (‫)חלכה‬, tra cui si trovano anche orfani, vedove e stranieri. Nell’ angoscia che sperimenta
in questo modo e a cui sono associate immagini di fragilità come l’agnello (44,12) o l’uccello (11,1;
124,7), Yhwh appare come il suo unico aiuto, l’unico in grado di rimuovere o addirittura di eliminare
la minaccia e la morte. A livello collettivo e nazionale, lo stesso vale per il re, per Israele, il «popolo»
di Dio, o almeno per la parte fedele di esso che vive nel timore del suo Signore (20). Nella guerra che
li oppone alle nazioni, è quest’ ultimo che dà la vittoria al re (18,33-43; 21,9-13).
Questo quadro generale, stilizzato a causa di inevitabili generalizzazioni, presenta l’immagine di
un mondo tagliato in due, quasi manicheo. Questa visione è caricaturale e semplicistica, ed è quindi
poco credibile per l’uomo moderno consapevole della complessità degli esseri umani e delle situazioni
che deve affrontare, in cui nulla è meramente nero o bianco. Certo, queste prime osservazioni
chiedono di essere sfumate, ma temo che le due riflessioni che sto per aggiungere non cambino niente
alla reazione del lettore di oggi.

b. Due riflessioni complementari…


Da un lato, questa immagine di un mondo tagliato in due è legata al fatto che i salmisti non
intendono offrire una descrizione “oggettiva” del mondo. Infatti, l’orante – soprattutto il supplicante –
è per così dire immerso nella realtà dura e conflittuale che evoca nella sua preghiera. Parla perché si
considera giusto e fedele nonostante possibili colpe, perché si sente dalla parte di un Dio nel quale
ripone la sua fiducia e la sua speranza. Ecco perché osa rivolgersi a lui spontaneamente sulla base
della sua fede nutrita dall’esperienza del suo popolo, Israele (cfr. 135-136) e della profonda
convinzione che Yhwh è il creatore del mondo e il padrone della storia. La sua è quindi una
prospettiva particolare sul mondo, che considera in genere dal punto di vista della lotta tra malvagi e
giusti: è il punto di vista di quelle persone che, schiacciate dal male, implorano l’intervento di Dio o
che, salvate da Lui, gioiscono del suo intervento e esprimono con gioia la loro gratitudine. In alcuni
salmi, è anche il punto di vista del saggio, che si tiene a distanza di questa lotta e invita chi vi è
immerso a perseverare nella fiducia (Sal 1; 37 o 112).
D’altra parte, il “mondo” del salmista non è completamente in bianco e nero. Infatti, il salmista è
un credente consapevole delle sue colpe che sa riconoscere che il male non è solo una minaccia
proveniente da fuori, dai “nemici”. La minaccia viene anche dall’interno, e il male talvolta
  4

s’impossessa del giusto, come testimoniano i salmi nei quali evoca il suo peccato passato (32,2-5) o si
riconosce peccatore, infedele al dio giusto in cui crede e che quindi lo punisce come merita (38,2-11;
39,11-14; 51). Questo vale anche per Israele, che sa riconoscere nella sua storia una ricorrente
infedeltà. Tra l’altro, è proprio lì che ha sperimentato la misericordia del suo dio (78; 85,2-8; 130) e la
sua chiamata alla conversione (95,7b-11). Questi passaggi mostrano che il salmista è talvolta
consapevole di non essere estraneo alla sventura che lo colpisce. Simmetricamente, è possibile che i
nemici – per lo meno quelli, collettivi, di Israele – rinuncino al loro atteggiamento ribelle e cessino di
opporsi a Dio: oltre agli appelli alla conversione (2,10-11; 148,11-14), il salmista afferma
ripetutamente che potranno un giorno riconoscere la sovranità di Yhwh (67; 68,30-35; 98). Da qui
l’invito rivolto a Israele perché parli del suo dio alle nazioni e le inviti a lodarlo (96,2-3.7-13; 117).
Per i malvagi, nemici personali del salmista, però, la conversione non sembra proprio essere possibile;
è invece il loro indurimento che viene regolarmente denunciato.

c. Quale rilevanza antropologica e teologica?


Per quanto il “mondo” del salterio possa sembrare estraneo alla nostra realtà, non è detto che non
abbia una rilevanza antropologica et teologica anche per i lettori odierni. Certo, il nostro mondo, l’ho
detto, è infinitamente complesso e si può dubitare che la visione un po’ caricaturale del salterio sia
davvero utile per riflettere sulla nostra realtà e per trovarci un posto adeguato in quanto essere umano
e credente. È in questo senso, mi sembra, che il Salterio è soprattutto difficile da leggere e soprattutto
da pregare: ¿invitando il lettore ad appropriarsi le parole del salmista, non lo incoraggia forse a
coltivare la consapevolezza magari illusoria di essere dalla parte giusta – ovviamente con i suoi difetti
e le sue mancanze, ma comunque dalla parte giusta – e a pensare, quindi, che Dio è per forza con lui?
Quando il salmista insiste sulla sua impotenza di fronte al male impostogli e sulla sua convinzione che
solo Dio può vincerlo, non porta forse il lettore a rassegnarsi a un male impossibile da combattere?
Non lo spinge forse ad accontentarsi di pregare, nella speranza che la vita alla fine prevalga comunque
com’è il caso nel libro dei Salmi che, anticipando l’Apocalisse, finisce con la vittoria di Dio, il
giudizio dei ribelli e il loro annientamento, così che ogni supplica scompare per lasciar spazio alla lode
pura (149-150)?
Tutto quanto è possibile, infatti. Tuttavia, una caricatura è spesso utile per chiarire le cose
facendo emergere i tratti salienti di una realtà di per sé difficile da inquadrare e spesso distorta dalle
apparenze ingannevoli. In questo, i salmi hanno “la forza profetica di una parola che sta
interpretando la nostra storia”, secondo la bella formula di P. Bovati2. Poiché se il nostro mondo è
complesso come doveva esserlo pure - mutatis mutandis - il mondo dell’Israele biblico, non si può
negare che sia costantemente pervertito da un male pervasivo e da una violenza spesso disumana.
Forse è anche peggiore in un’epoca come la nostra, che denuncia volentieri ogni forma di violenza,
ma che sa essere cieca sulla violenza che impone a coloro che emargina e indebolisce, quando non li
elimina semplicemente. A questo proposito, testi come i salmi hanno il merito di esporre
l’implacabile realtà del male senza mezzi termini, denunciando certi meccanismi subdoli che il male
utilizza per seminare sventura e morte, a volte a insaputa di chi lo commette. La grave minaccia che
il salmista vede incombere su di lui lo rende lucido per così dire per individuare comportamenti o
discorsi in apparenza giusti e innocenti, ma che producono disumanizzazione e distruzione. È anche
in grado di far sentire quanto sia urgente tentare di fermare il male, prima di tutto essendo attenti a
non esserne complici, magari per cecità o pigrizia, e opponendosi attivamente, sostenuti della Legge
di Yhwh “meditata giorno e notte” (Sal 1), a ciò che fa nascere il male, lo rafforza e lo rende
micidiale. Quanto alla solidarietà spesso espressa dal salmista nei confronti dei poveri, degli

                                                       
2 P. BOVATI, «Affrontando il nemico : violenza, giustizia e preghiera nei salmi», in M.I. ANGELINI, R. VIGNOLO (eds), Un

libro nelle viscere. I salmi, via della vita, Milano, Vita e pensiero, 2011, 217-234 (p. 232).
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umiliati, degli abbandonati, essa può spingere il lettore a essere attento alle persone che soffrono e
persino sono drammaticamente minati, non solo dalla durezza dell’esistenza, ma anche e soprattutto
da atteggiamenti umani la cui malvagità non è sempre consapevole o deliberata, ma ha tuttavia
effetti profondamente distruttivi. Presi come testimonianze di persone schiacciate dal male e
dall’ingiustizia, i salmi di supplica possono risvegliare, attraverso il loro linguaggio eccessivo, la
coscienza di coloro che tendono, per qualsiasi ragione, a minimizzare o a dimenticare la violenza del
mondo.
Partendo da questi elementi di riflessione antropologica ed etica, è possibile proporre anche delle
considerazioni teologiche possono essere proposte. Le esperienze del dio salvatore evocate dai canti di
ringraziamento e la potenza del creatore proclamata nei salmi di lode testimoniano la fede dei credenti
nella potenza di Dio che non potranno essere definitivamente sconfitte dalle forze di morte. Allo stesso
modo, le dichiarazioni fiduciose dei salmisti testimoniano un dio che si rende vicino a coloro che lo
temono, preoccupandosi della loro vita. Ma l’esperienza di Dio a cui i salmi fanno eco non è
unilaterale: le grida disperate lanciate verso Dio, i rimproveri rivoltigli quando sembra lontano, le
lamentele davanti al suo silenzio, riflettono un’altra faccia della realtà vissuta dai credenti. Infatti, la
ragione può dire loro che Dio non può rimanere indifferente di fronte al male e a chi lo promuove, che
è per forza preoccupato quando la sua opera e le sue creature sono minacciate dal male; la fede può
dire loro che Dio impedisce che la menzogna trionfi sulla verità e che la morte prevalga sulla vita;
resta il fatto che il più delle volte le grida degli oppressi s’imbattono contro un muro di silenzio, e che
l’assenza di Dio sembra renderlo “complice di un potere distruttivo che fomenta crimini in spregio alla
legge”, come dice il Sal 94,20. Eppure, non sono forse i malvagi arroganti e gli stolti che proclamano
che non c'è Dio (10,4; 14,1)? Questo non nasconde nulla dell’interrogativo profondo che l’esperienza
del male provoca, soprattutto la sventura innocente, sul dio benevolo, giusto e potente proclamato
dalla fede.
Detto questo, parte della difficoltà per il cristiano che desidera pregare con i salmi può venire da
un corollario di quanto ho appena detto. Oltre a essere formulati in un linguaggio a volte esoterico, i
salmi sono legati a una visione del mondo che non è spontaneamente condivisa dalla maggior parte dei
credenti di oggi. Pregando i salmi, quindi, essi si riconoscono solo di tanto in tanto nella situazione
vissuta o evocata dal salmista, e questo costituisce un problema in un mondo in cui
l’individualizzazione impone la propria legge. Ora, anche se formulati in prima persona, i salmi
rimangono la preghiera di un popolo. Come tali, ci invitano a fare della preghiera, anche personale, un
atto che si inserisce in una dinamica ecclesiale. In questa dinamica, si impara e si pratica la solidarietà
tra tutti nella sofferenza e nella rivolta causate dal male, nel desiderio di vita e di libertà che le dà
forza, come pure nella gioia e nella speranza alimentate dalla fiducia in Dio.

2. I salmi imprecatori

“Nel tuo amore [Yhwh], stermina i miei nemici


E distruggi quelli che opprimono la mia vita,
perché sono tuo servo” (Sal 143,12)

Se il libro dei salmi resiste alla comprensione del lettore moderno, tra l’altro per la visione del
mondo che offre, alcuni versi e persino interi salmi sollevano delle difficoltà quasi insormontabili.
Sono i passaggi in cui il salmista chiede a Dio di vendicarlo dei suoi nemici annientandoli con una
violenza proporzionata a quella che essi stessi dimostrano. I motivi di questa difficoltà sono vari, ma
mi sembra si possano ridurre a due essenziali. Il primo motivo viene dal mondo attuale in cui il
rispetto assoluto per ogni essere umano e la sua vita viene proclamato, almeno a parole, e che, per
questo rifiuta tutte le forme di violenza, anche nel linguaggio. Inoltre, oggi, la società si è dotata di
leggi, come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, e di varie istituzioni in grado di far
  6

rispettare queste leggi o di giudicare gli abusi di ogni tipo – tranne quelli prodotti dal sistema
economico e finanziario mondiale, che non ha nessun rispetto per gli esseri umani e genera tanta
violenza (questo non è il minimo dei paradossi del mondo in cui viviamo). Il linguaggio eccessivo del
salmista che esige la morte dei suoi avversari risulta quindi scandaloso in quanto non rispetta il
“politically correct”. Questa difficoltà è raddoppiata per i cristiani – e questo è il secondo motivo:
questi testi sono incompatibili con il messaggio evangelico espresso, ad esempio, nel discorso della
montagna in Mt 5: “Vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia
destra, porgigli anche l’altra...” (vv. 38-42); “amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi
perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli” (vv. 43-48), un padre misericordioso.
Questi passi dei salmi possono quindi scioccare e persino scandalizzare i credenti. È in questo spirito
che sono stati oggetto di censura ispirata al marcionismo nella Chiesa romana dopo il Vaticano II.
Ma piuttosto che rimanere a un discorso generico, soffermiamoci adesso su alcuni di questi passi,
prima di proporre alcune chiavi che, spero, consentiranno di percepirne la rilevanza e l’interesse e
– perché no? – di proporli a quanti desiderano pregare con la preghiera d’Israele.

a. « Non distruggere ». Il salmo 58


1. Al maestro del coro, ’al-tašḥēt, di Davide. Miktām.

2. È vero, potenti/dèi, che le vostre sentenze sono giustizia?


È con rettitudine che giudicate gli esseri umani?
3. No, nel cuore, commettete crimini,
sulla terra, pesate la violenza delle vostre mani.
4. Si sono sviati, i malvagi, fin dall’utero,
hanno errato fin dal ventre, i mentitori.
5. Il loro veleno è come un veleno di serpente;
come una vipera sorda che si tura l’orecchio,
6. che non ascolta la voce degli incantatori,
dell’incantatore di incantesimi, abile.

7. Dio! Spezza i loro denti nella loro bocca;


le zanne di questi leoni, rompile, YHWH.
8. Scorrano come le acque che se ne vanno!
[Dio] aggiusti le sue frecce, essi sono come falciati!
9. (Siano) come bava di lumaca che si scioglie e se ne va,
come il feto abortito, non vedano il sole!
10. Prima che le vostre marmitte sentano [la fiammata] di spine,
così vivo come la collera, egli li brucerà.
11. Il giusto gioisce perché vede la vendetta;
i suoi passi, li lava nel sangue del malvagio.
12. E gli umani diranno: «Sì, c’è un frutto per il giusto;
sì, vi sono dèi che giudicano sulla terra».
 
Non ho il tempo di giustificare le opzioni che ho dovuto fare per tradurre passi delicati, a volte al
limite del comprensibile (v. 10), né di evidenziare la struttura accurata di questo salmo – segno
probabile che non è un grido infuriato scritto da un uomo indignato, ma una composizione letteraria, e
quindi da prendere sul serio.
Isolata, la prima parte di questo salmo (vv. 2-6) non è una preghiera. Inizia con un vigoroso
attacco ai potenti che sono incaricati della giustizia (vv. 2-3) e prosegue con una descrizione disillusa
della loro incorreggibile propensione al male (vv. 4-6). In questo modo, l’orante ritrae la situazione
che provoca la sua rabbia. Comincia interrogando le affermazioni di quei potenti a cui è stato affidato
un potere giudiziario simile a quello di Dio: secondo loro stessi, le sentenze che pronunciano
sarebbero giuste, i loro giudizi conformi alla legge. “Ma è davvero (‫ )האמנם‬così?”, interroga. Poi, con
accenti profetici simili a quelli di Isaia (5,20,23-24; 54,4-5) e di Michea (3,1-3), denuncia ciò che si
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nasconde nella loro pretesa: apparentemente giuste, le loro sentenze sono in realtà ingiustizie
premeditate; sembrano rispettare la legge, ma sono atti di violenza (v. 3). Questi giudici possiedono il
potere divino di giudicare, ma lo esercitano in opposizione a ciò che il dio giusto vuole e fa, ma
nascondendosi dietro le apparenze (una realtà che, ovviamente, oggi non è più rilevante in nessuna
parte del mondo!). In queste condizioni, le vittime di ingiustizie non hanno più nessuno a chi
rivolgersi per far valere il loro diritto e dimostrare la propria innocenza. La violenza che li schiaccia
proviene dallo stesso luogo nel quale andrebbe combattuta ed eliminata la violenza. Questo «crie
vengeance au ciel», come si dice in francese, grida vendetta davanti a Dio. Per agire come fanno questi
giudici, bisogna non aver mai avuto il senso di ciò che è buono e giusto, e in questo caso, come
potrebbero cambiare, tanto più che si proteggono con menzogne? Questo è il sentimento profondo del
salmista nei confronti di coloro che, ai suoi occhi, sono sia malvagi (‫ )רשׁעים‬che bugiardi (‫)דברי כזב‬.
Perciò, che sia vittima o semplice testimone, la situazione lo disgusta, come si vede dal tono indignato
delle sue parole, la cui violenza riflette solo la violenza da lui denunciata. Li chiama serpenti, vipere –
e Genesi 3 racconta che un serpente uccide, facendo finta di esser ingenuo, e che, sotto le sembianze di
un amico benevolo, in realtà distilla un veleno letale. Inoltre, la loro malvagità è proprio incurabile,
poiché si rifiutano ostinatamente di ascoltare la voce di chi potrebbe distoglierli dal loro modo di
essere. Quindi, cos’altro si può desiderare se non che siano definitivamente resi inoffensivi?
A questo punto, si potrebbe immaginare, per esempio, che questo violento sfogo d’indignazione
prosegua con un invito rivolto ad altre vittime di questi giudici perché uniscano le loro forze in una
cospirazione destinata a combatterli. No! il Salmista sembra rifiutarsi di prendere un’iniziativa
personale e persino di chiedere a Dio di armare il suo braccio o di sostenere una sua azione
vendicativa. Perché è proprio a Dio, Yhwh, che ora si rivolge (v. 7) per chiedere un suo intervento.
Con una nuova immagine tratta dal bestiario – un modo per suggerire che i malvagi non sono davvero
degli umani –, chiede a Dio di trattarli con una violenza simile alla loro: “Dio! Spezza i loro denti
nella loro bocca; le zanne di questi leoni, rompile, YHWH” (v. 7). L’immagine è potente. È infatti
mediante le sentenze che escono dalle loro bocche che i giudici commettono la violenza che schiaccia
gli innocenti. Rompere i loro denti significa privarli del loro potere di nuocere proprio laddove viene
esercitato. Inoltre, senza le zanne con cui distillano veleno, questi serpenti, violenti quanto i leoni,
diventeranno grosse lumache che sembrano dissolversi sbavando; e poiché la loro malizia è congenita,
quando non potranno più attuarla, torneranno al nulla da cui non sarebbero mai dovuti uscire, allo
stato di “feti abortiti che non vedono mai la luce” (vv. 8-9). Da queste parole aspre, emergono sia
l’odio che l’iniquità di questi potenti suscita – espressione paradossale di un grande desiderio di
giustizia –, che l’urgenza di porre fine a una situazione intollerabile, un’urgenza che tuttavia aspetterà
finché Dio non deciderà di intervenire.
Il v. 11 che inizia la conclusione è forse il più difficile da ascoltare: godere della vendetta, lavarsi
i piedi nel sangue del malvagio... Per cercare di capire di cosa si tratta, bisogna prima leggere il v. 12:
“Gli umani potranno dire: «Sì, c’è un frutto per il giusto; sì, vi sono dèi che giudicano sulla terra»”. In
questa frase, ci sono parecchi rimandi ai primi due versetti: “sulla terra” i giudici “commettono
l’ingiustizia” “giudicando” gli umani a tal punto che il diritto del giusto è negato violentemente.
Adesso, quando il “giudizio” di Yhwh avrà soppresso queste pratiche, il giusto raccoglierà finalmente
il frutto della sua giustizia. Lo scopo del grido del salmista non è, quindi, l’eliminazione del malvagio:
questa è solo un primo passo, indispensabile secondo lui, destinato a ristabilire la giustizia come Dio
stesso vuole. Come sappiamo, in ebraico, il ‫ נקם‬è un concetto che il termine “vendetta”, “vengeance”
(fr. o ingl.) rende solo imperfettamente. La «vendetta» di cui si tratta qui si attua in un quadro forense
in cui la giustizia viene ristabilita mediante un giudizio – quello di Dio. Ora il giudizio consiste a fare
la verità, togliendo di mezzo le apparenze che danno ragione ai malvagi, poi a rendere la giustizia
castigando i colpevoli (significato che assume allora la parola ‫)רשׁע‬, sicché l’innocenza delle vittime
viene riconosciuta (‫)צדיק‬. Si può quindi capire la loro gioia quando, contro ogni speranza, giustizia
  8

viene resa loro (v. 11). Resta il fatto che non è questa la finalità del ‫ נקם‬che mira a ripristinare l’ordine
perturbato dall’ingiustizia per rendere di nuovo possibile la vita sociale minacciata da essa.3
In questo contesto si può capire il significato dell’immagine dei piedi lavati nel sangue dei
colpevoli. Lo scorrere del loro sangue è il segno che la condanna è stata eseguita, il segno quindi della
colpevolezza dei malvagi e segno, forse soprattutto, dell’innocenza delle loro vittime: salvate da
questo giudizio, esse sono “lavate” dalle colpe ingiustamente imputate loro. È ciò che suggerisce la
metafora finale: i passi – diremmo la condotta – dei giusti, quei passi che erano stati dichiarati
colpevoli dai giudici iniqui, sono ormai «lavati» dal sangue che, scorrendo, ha mostrato chiaramente
chi sono i veri colpevoli.
Un’ultima riflessione. Nel titolo del salmo, un’indicazione rimanda forse alla melodia che si
dovrebbe usare per eseguirlo, ‫אַל־תַּ ְשׁחֵ ת‬. L’espressione usata due altre volte quando Mosè o Davide
parlano rispettivamente a Dio e a Abishai (Dt 9,26 e 1 S 26,9), ha un significato chiaro: “non
distruggere”. Non potrebbe forse trattarsi di un invito a colui che prega quel salmo di lasciare il
monopolio del castigo violento a Dio, il giusto giudice, o addirittura un invito rivolto a Dio perché non
distrugga i malvagi quando interverrà per impedirli di nuocere agli altri? Infatti, lo scopo non è tanto la
distruzione dei violenti quanto la liberazione di quelli che sono oppressi da essi. Come dice il Sal
94,16-17, in un contesto simile: “Chi si alzerà a mia difesa con coloro che fanno il male, chi starà al
mio fianco con i fautori d’iniquità? Se Yhwh non fosse un soccorso per me, tra breve la mia vita
abiterebbe nel regno del silenzio”.

b. Il salmo di Giuda - Sal 109


La tradizione ha talvolta chiamato il Sal 109 “salmo di Giuda” a causa della citazione del v. 8b “il
suo posto l’occupi un altro” nel racconto della sostituzione di Giuda in At 1,20. Come il Sal 58 (e 83),
ha subito la censura ecclesiastica per via di una lunga sezione, v. 6-19, occupata da imprecazioni e da
accuse pesanti. Qui, però, la difficoltà dipende da una scelta che il lettore deve fare. Leggiamo questa
parte “violenta”:
 

6 Assegna contro di lui un malvagio,


un accusatore si tenga alla sua destra:
7 quando sarà giudicato, uscirà colpevole,
e la sua preghiera diventerà un peccato.
8 I suoi giorni siano accorciati,
la sua carica, la prenda un altro;
9 i suoi figli diventino orfani,
e la sua moglie, vedova;
10 e i suoi figli erranti erreranno e supplicheranno,
mendicheranno lontano dalla loro (casa in) rovina.
11 Un creditore prenda tutti i loro beni,
degli stranieri saccheggino (il frutto della) sua fatica.
12 Non vi sia nessuno per mostrare amore,
nessuno abbia pietà dei suoi orfani.
13 Il suo avvenire sia sradicato,
nella generazione che viene il loro nome sia cancellato.
14 Ci si ricordi della colpa dei suoi padri davanti a YHWH
il peccato di sua madre non sia cancellato:
15 restino davanti a YHWH per sempre,
ed egli sradichi dalla terra il loro ricordo.

16 Infatti, non si è ricordato di agire con amore,


ha perseguitato l’uomo umiliato,

                                                       
3Paragrafo inspirato alla p. 30, come anche il seguente. Su questa questione, cf., per esempio, E. ZENGER, Un Dio di
vendetta? Sorprendente attualità dei salmi “imprecatori”, Milano, Àncora, 2005, 127-128.
  9

e il misero e il cuore affranto, per metter(li) a morte.


17 Ha amato la maledizione ed essa è venuta a lui,
non provava piacere per la benedizione ed essa si è allontanata da lui.
18 Ha rivestito la maledizione come la sua tunica,
ed essa è entrata come acqua nel suo seno,
come olio nelle sue ossa.
19 Sia per lui come un abito che (lo) copre,
una cintura che sempre cingerà!

Il tono è duro, l’odio affiora dappertutto, e nelle maledizioni proferite (v. 6-15) e nelle accuse che
le giustificano (v. 16-19). Il problema è di sapere chi pronuncia questo discorso e chi viene preso di
mira. In assenza di menzione del cambiamento di locutore, si è soliti attribuire queste parole al
salmista che augura per il suo persecutore varie sciagure scatenate da un primo intervento di Dio.
Questi deve assegnare un malvagio per accusarlo (‫ )שׂטן‬cosicché sia condannato da un tribunale.
Questa condanna provocherà poi una catena di sfortune che colpirà non solo lui, ma l’intera sua
famiglia, fino alla damnatio memoriæ dei suoi antenati. L’ergastolo al quale sarà condannato
accorcerà la sua vita, sicché la sua vedova e i figli orfani saranno costretti a mendicare e a chiedere
pietà. Un creditore infatti avrà sequestrato loro la casa, i beni, il frutto del lavoro di una vita. Nessuno
accetterà di venire in aiuto a questi disgraziati, figli di un uomo che non ha mai agito con amore, e tutti
si affretteranno a cancellare la memoria di loro come anche quella delle generazioni precedenti. Dopo
questa litania di disgrazie, il salmista la giustifica specificando diverse accuse che si possono
riassumere nel v. 17a: “Ha amato la maledizione ed essa è venuta a lui”. Se tale lettura è corretta, ci
troviamo proprio davanti a un salmo imprecatorio in cui l’orante chiede che sia applicato a colui che lo
ha perseguitato per metterlo a morte senza pietà, non solo la lex talionis, ma molto di più, poiché è
tutta la sua famiglia – padri, figli e discendenti – che sarà colpita dalla maledizione. Il discorso
potrebbe essere letto come il segno dell’esasperazione di un uomo che, benevolo per tutti, è stato
vittima dell’odio di tutti:
 
2 una bocca di malvagio, una bocca d’inganno hanno aperto contro di me;
mi hanno parlato con una lingua di menzogna:
3 con parole di odio mi hanno circondato,
e mi hanno combattuto senza motivo.
4 per il prezzo della mia amicizia essi mi accusano;
mentre io sono preghiera.
5 Hanno reso contro me male per bene
e l’odio per la mia amicizia.

È proprio ciò che chiede in seguito: che la sfortuna che colpirà i suoi avversari sia il modo in cui
Yhwh lo libererà nel suo amore.

20 Tale (disgrazia) sia il salario dei miei accusatori da parte di YHWH


e di coloro che dicono del male contro la mia persona!
21 E tu, YHWH, mio Signore, agisci in mio favore a causa del tuo nome.
Poiché il tuo amore è bontà, liberami!

L’essenziale, come viene ancora sottolineato in seguito, è la richiesta di essere liberato


dall’umiliazione (v. 23), dall’obbrobrio e dall’ironia (v. 25), della maledizione (v. 28), in una parola,
dal male che si accanisce contro di lui per via della persecuzione immeritata di cui è vittima.
Fin qui la prima possibilità. C’è infatti un altro modo di capire il discorso particolarmente
aggressivo dei v. 6-19. Anche se pronunciate dal salmista, queste imprecazioni non sono sue, ma
quelle dei suoi perseguitori. Rivolgendosi a Yhwh, “il dio della sua lode” (v. 1), cita le parole dei suoi
avversari per attirare la sua attenzione sulla violenza che si scatena contro di lui. Infatti, questi
  10

persecutori hanno chiesto a Dio di avviare un processo (v. 6) che dà il via alla reazione a catena contro
l’orante descritta nei v. 7-15. A sostegno di questa lettura, c’è un argomento principale: l’inatteso
cambiamento di persona dei pronomi al v. 6. Nei v. 2-5, in prima persona, il salmista parla dei suoi
persecutori in terza persona plurale, uno schema che ritorna al v. 20. Tra i v. 6 e 19, invece, un
locutore non identificabile rivolge una richiesta a un “tu” che è probabilmente Dio, poi parla di un
singolo in terza persona singolare. Se è il salmista a vituperare contro i suoi avversari, non si capisce
perché parla di loro al singolare; se invece il salmista cita le loro parole contro di lui, il problema
scompare. Anzi, la transizione con ciò che precede e che segue è migliore: da una parte, le parole
citate dal salmista sono le parole a cui ha appena alluso, parole di odio e di menzogna che escono dalla
bocca dei suoi “accusatori” (v. 2-4): le ‫[ ִדּבְ ֵרי ִשׂנְ אָה‬parole di odio] corrispondono ai v. 6-15 dove sono
elencate le disgrazie, mentre il ‫[ לְ שׁוֹן שָׁ קֶ ר‬la lingua di menzogna] con il quale ‫[ יִ ְשׂ ְטנוּנִ י‬mi accusano]
anticipa le accuse dei v. 16-19. Dall’altra parte, al v. 20, l’orante prende di mira i suoi accusatori di cui
ha citato le parole, quelli “che dicono del male contro di lui”, per chiedere a Yhwh di infliggere loro la
disgrazia che gli augurano. Al v. 28, l’orante ribadirà che sono essi a maledirlo, al v. 29, che sono loro
i suoi accusatori. Un secondo argomento appoggia il primo, anche se non avrò il tempo di svilupparlo
qui: Nel seguito della preghiera (v. 22-31), l’esatta ripresa di termini chiave, notata da vari autori,
invita a leggere questi versetti come la reazione dell’orante al discorso pronunciato contro di lui:
protesta davanti a YHWH un’innocenza che i suoi accusatori implacabilmente gli negano per poterlo
condannare.
Un’obiezione viene spesso formulata da esegeti che pensano che questa lettura sia uno
strattagemma per evitare lo scandalo delle imprecazioni pronunciate dal salmista: manca un verbum
dicendi segnalando che il salmista sta per citare parole altrui, come “essi dicono” (per es. 71,11; 83,5;
94,7). Ma quest’assenza di segnale non è insolita nella poesia. Nel Sal 2,2-3, c’è un primo caso
lampante: “Perché i re della terra insorgono, e i prìncipi congiurano insieme contro YHWH e contro il
suo messia: «Spezziamo le loro catene e rigettiamo i loro ostacoli»?” Altri casi simili si osservano nel
Salterio (10,4; 22,8-9; 46,11; 59,8; 95,7-8; 132,13-14; 137,3). Inoltre, nelle suppliche del salterio, si
citano spesso discorsi dei malvagi come per mettere in scena la loro arroganza e la malvagità che
trasuda dalle loro parole (per es. Sal 3,3; 10,4-13; 12,5; 13,5; 14,1, ecc). Niente, dunque, impedisce
che nel Sal 109 si abbia a che fare con un discorso di questo tipo, anche se insolitamente sviluppato. In
questo caso, però, il salmo non è più un salmo imprecatorio, è la supplica appassionata di un innocente
falsamente accusato che chiede a Yhwh di agire in suo favore invece di ascoltare la richiesta di quelli
in cui vede dei persecutori:

26. Soccorrimi, YHWH, mio Dio!


salvami secondo il tuo amore,
27. sappiano che è la tua mano
che tu, YHWH, tu l’hai fatto [agito]!

c. “Beato chi sfracellerà i tuoi lattanti contro la pietra!” – Sal 137


Nella recente Traduction officielle liturgique della Bibbia (in francese, 2013), gli ultimi due
versetti del Sal 137 sono tra parentesi, come anche nel breviario. Ma cosa significa togliere una parte
di un salmo? Non significa forse creare un altro salmo? Il procedimento diventa quasi la regola nei
salmi responsori della liturgia, in cui si è soliti scegliere solo alcuni versetti… e quindi riscrivere un
salmo “politically correct”, cioè scegliere ciò che conviene che il salmo dica. Vediamo ad esempio ciò
che succede con il Sal 137.

1. Presso i fiumi di Babilonia,


là eravamo seduti e piangevamo, ricordandoci di Sion.
2. Ai salici dei dintorni abbiamo appeso le nostre lire,
3. Sì, là coloro che ci avevano deportati ci chiesero dei canti,
  11

e coloro che ci tormentano, della gioia: «Cantateci uno dei canti di Sion!».
4. Come canteremo un canto di YHWH su una terra straniera?
5. Se ti dimentico, Gerusalemme, la mia destra dimentichi!
6. La mia lingua si attacchi al mio palato se non mi ricordo di te,
se non faccio salire Gerusalemme al colmo della mia gioia.

Tutto inizia con una scena della vita degli ebrei deportati in Babilonia. Queste persone sono state
sradicate dal loro paese dopo esser stati testimoni delle peggiori atrocità che in genere l’assedio e la
presa di una città implicano di solito: la sete, la fame, l’angoscia, le violenze: saccheggi, stupri,
massacri spietati di vecchi e bambini, distruzioni, incendi; poi la spoliazione, la vergogna della
sconfitta e dell’esilio. Queste persone si sono radunate vicino a un canale di irrigazione. Cocente, il
ricordo di Sion, “il monte santo” dove sedeva il re Messia (cfr. Sal 2,6) li fa piangere. Hanno preso le
loro lire, ma le hanno appese ai rami dei salici: non hanno il cuore di cantare (v. 1-2). Arriva gente del
luogo. Per gli esiliati, sono “coloro che li hanno deportati”, “che li tormentano”. Vedendo le lire,
chiedono loro di cantare; più precisamente un “canto di Sion”. Nel contesto del libro dei salmi, la
richiesta risuona come una provocazione arrogante e ironica, che raddoppia la sofferenza degli ebrei. I
“cantici di Sion” infatti celebrano l’inviolabilità di Gerusalemme, la città dove «Dio abita e non può
vacillare» (46,6), una cittadella che Dio rende inespugnabile (48,3-6.9, cfr. 84,11-12; 122,3-9)? Per gli
esiliati, la richiesta dei Babilonesi è un sarcasmo insopportabile di fronte al quale non possono non
reagire.
Una prima reazione è un rifiuto gentile e dignitoso alla richiesta beffarda: «Come cantare un
canto di YHWH in terra d’esilio», in questo paese che non è quello che YHWH ha dato al suo popolo
(v. 4), anzi, che è lontano da Sion che Dio non ha protetto? La seconda reazione sembra rispondere a
un’obiezione: non voler intonare un canto di Sion non significa forse che i deportati vogliano
dimenticare quella città e superare la ferita subita? No, la loro insistenza lo dimostra: rimarranno fedeli
a Gerusalemme a ogni costo (v. 5-6). Le immagini sono chiare: incollata al palato, la lingua sarà
incapace di cantare; dimentica, la destra non potrà più suonare la lira. Nessuna gioia sarà possibile se
Gerusalemme non ritornerà a essere l’allegria di questa gente per cui, adesso, è fonte di dolore (cfr. v.
1-2). Questo finale lascia trapelare che, nonostante tutto, gli esiliati continuano a credere alle promesse
di cui parlano i cantici di Sion.
Prima constatazione, questo poema non è una preghiera. Il poeta non si rivolge a Dio, non chiede
nulla, non medita un tema teologico o sapienziale. Il carme è piuttosto una lamentazione sdolcinata,
piena di malinconia; una storiella che sbocca sulla nostalgia di una Gerusalemme ormai lontana e
perduta, magari con qualche speranza di ritornarvi un giorno. Diventa preghiera solo al v. 7, quando il
salmista interpella Dio: “Ricordati, YHWH, per i figli di Edom, del giorno di Gerusalemme, che
dicevano: «Demolitela, demolitela fino alle fondamenta!»”. Se i deportati non vogliono dimenticarsi
di Gerusalemme, quanto più YHWH deve ricordare «il giorno di Gerusalemme»! In quel giorno, gli
Edomiti, nemici di sempre, sfruttarono l’arrivo dei Babilonesi per accanirsi sulla città santa, fino a
distruggerla. Citando le loro parole, il salmista mette in evidenza il loro furore spietato per il quale
meritano di essere puniti. Ma lo scopo di tale punizione non è la vendetta, è il ripristino della giustizia,
unico modo di stabilire finalmente rapporti giusti fra nazioni un tempo nemiche.
Però, nel “giorno di Gerusalemme”, gli Edomiti erano epigoni. Il vero colpevole era Babilonia
contro la quale il salmista si scatena in un attacco violento:

8. Figlia di Babilonia, la devastata,


beato chi ti renderà tutto il male che ci hai fatto!
9. Beato chi afferrerà e sfracellerà
i tuoi lattanti contro la pietra!
  12

Fonte della disgrazia degli ebrei deportati, Babilonia merita un giusto castigo per i suoi crimini
odiosi, e beato chi ne sarà lo strumento. Secondo una suggestione di André Chouraqui, si potrebbe
tradurre: «Beato chi ti renderà il castigo con cui ci castigasti». La giustizia, infatti, viene ristabilita
solo quando ognuno sperimenta le giuste conseguenze delle sue azioni. Questo desiderio viene ripreso
al v. 8 in un modo infinitamente più concreto secondo una logica che non è impossibile spiegare. Qual
è la peggiore violenza dei Babilonesi? Occorre far quadrare i conti fin in fondo, perché sia fatta
giustizia (e non vendetta), con lo scopo di rendere nuovamente possibili normali relazioni fra popoli.
Ora, la maggiore barbarie – apparentemente corrente nel Medio Oriente antico (ma ormai è
completamente bandita dal nostro mondo civilizzato!) – è quella denunciata dal profeta Naum: «Essa
partì per l’esilio in cattività e i suoi lattanti furono sfracellati agl’incroci di tutte le strade…» (Na 3,10,
cf. Is 13,16; Os 14,1). Fare a pezzi bambini in luoghi pubblici, non è forse manifestare che si vuole
sradicare il vinto, privarlo per sempre di ogni futuro? Beato, dice il salmista, chi renderà così giustizia
a Babilonia, ripagandola per la sua barbarie!
Questa finale è proprio terribile. Occorre però non dimenticare che, nella finzione del salmo, sono
le parole di persone deportate, vinti impotenti di fronte ai vincitori, ma che rimangono legati alla città
che questi ultimi hanno martoriato, e a Yhwh che l’aveva scelta; gente che non dispera di tornare in
questa città e, intanto, può solo augurarsi che sia fatta giustizia. Così cesseranno per sempre la
prepotenza violenta dei Babilonesi e il terrore che impongono ad altre nazioni, condizione, questa, per
permettere ai popoli di poter vivere in pace insieme. Scrive Roberto Vignolo: «La violenza
vendicatrice certamente tocca qui un acme difficilmente superabile, coinvolgendo anche la parte non
colpevole di un popolo, la radice stessa del suo futuro» [i bambini] in una sorta di «genocidio in
voto».4 In voto, «in desiderio», soltanto. Infatti, nel salmo, sono solo parole e parole di gente priva di
ogni potere e quindi incapace di fare ciò che vorrebbe. Queste parole testimoniano piuttosto della
brutale impotenza alla quale la barbarie di un potente ha ridotto coloro che le pronuncia. Togliere
queste parole dal salmo significa ridurre questa gente al silenzio, impedirla di clamare il suo dolore, la
sua disperazione. Faccio la domanda: Si può cancellare l’eco della violenza disumana inflitta allora a
quegli esiliati, una violenza che viene inflitta oggi – e purtroppo sarà inflitta anche domani – a esseri
umani?

Riflessioni conclusive

Vorrei concludere questa seconda parte e la relazione stessa con poche riflessioni più globali che
riassumeranno anche considerazioni anteriori.
Una prima riflessione sembrerà ovvia: i salmi difficili vanno interpretati, come tutti i testi biblici.
Ora, interpretare suppone che si prendano in considerazione vari fattori, tra i quali il genere letterario
del testo da interpretare, la situazione percepibile in esso e il contesto generale dell’opera di cui fa
parte. Il genere letterario generico dei salmi sui quali ho centrato la mia relazione è la supplica.
Corrisponde alla situazione critica vissuta o testimoniata dall’orante confrontato all’eccesso del male,
nel contesto generale di un’opposizione drammatica tra bene e male che è quello del Salterio, dal Sal 1
al Sal 149. Il salmista, un servo di Dio – anche se peccatore – sceglie sempre la parte del bene, di cui
crede sia la volontà divina, ed è questa la ragione per la quale grida verso Dio quando vede che il
progetto di morte dei malvagi sta per vincere.
Questo consente una seconda riflessione. Queste preghiere sono animate dalla convinzione che la
violenza del male e dei malfattori non si scatena solo contro esseri umani, ma che colpiscono anche
Dio di cui minacciano il desiderio di vita e di benedizione. Il malvagio non è mai visto solo come

                                                       
4R. VIGNOLO, «Prefazione. La preghiera difficile», in E. ZENGER, Un Dio di vendetta? Sorprendente attualità dei salmi
“imprecatori”, Àncora, Milano, 2005, 5-16 (15).
  13

l’avversario del salmista, ma anche come il nemico di Yhwh. La preghiera poggia quindi sulla fede
dell’orante in un dio che odia la violenza e la morte per chiedere che queste non prevalgano e
distruggano la sua creazione. Perciò, il cuore di questi salmi è come riassunto adeguatamente nella
domanda del Padre nostro: “Liberaci dal male” perché si possa concretizzare il desiderio di giustizia e
di pace senza le quali la vita non può svilupparsi in pienezza e armonia. Questa convinzione è radicata
nell’esperienza della salvezza vissuta collettivamente dal popolo d’Israele e personalmente di Israeliti,
le cui parole sono riprese dai salmisti.
Queste preghiere assumono volentieri toni violenti o ingiusti che riflettono la violenza o
l’ingiustizia subita, o più esattamente traducono le emozioni e i sentimenti di coloro che se ne sentono
vittima. Risuonano quindi dei giudizi sferzanti, il desiderio di vendetta, addirittura l’odio. Ma le
maledizioni non sono rivolte direttamente agli avversari che si troverebbero aggrediti a parole, con il
rischio di avvelenare la situazione e di renderli più feroci. Sono rivolte a un dio di cui l’orante si fida e
in cui spera, tanto da poter esporre il suo cuore ferito senza paura di non essere capito, o di non essere
accolto. In questo senso, questi salmi scaturiscono al tempo stesso dal sentimento violento nutrito
dall’eccesso del male e dalla fede nel dio dell’alleanza. Da una parte, la fede non censura questa
violenza che trabocca; le presta parole per esprimersi. Dall’altra, la violenza interiore non spezza lo
slancio verso Dio; ne rafforza il vigore. Così, se il credente riconosce che Dio può accoglierlo con la
violenza che straripa in lui, la fede e la violenza possono esprimersi in parole che traducono
adeguatamente la verità complessa di questa persona, tanto credente quanto indignata, tanto violenta
quanto assetata di giustizia. Ora, la storia di Caino in Genesi 4 sottolinea negativamente quanto sia
importante per un essere umano trovare le parole per esprimere la violenza che cova dentro di lui: per
non riuscire a farlo, Caino non è in grado di dominare la belva accovacciata in lui e uccide suo fratello.
Un’ultima riflessione. Nei salmi imprecatori (e in altre suppliche), l’orante rinuncia a rispondere
alla violenza con la violenza. Lascia la vendetta a un dio giusto che saprà infliggere un giusto castigo
al malvagio. Ma questo pone un’altra domanda a proposito dell’immagine di Dio che emerge da tali
preghiere. Anche se uno sa che «vendicare» significa ristabilire la giustizia e che questo è destinato a
riaprire in seguito la porta a relazioni corrette fra le persone o i gruppi, non si può dimenticare che,
spesso, l’orante spera che Dio lo faccia in modo energico, violento, addirittura radicale. Ma che cosa
mette in ballo questa domanda? Dio stesso o l’immagine violenta che il salmista attribuisce a Dio nel
suo desiderio che gli venga resa giustizia? A questo proposito, Debora Tonelli scrive: “La violenza di
Dio è […] la violenza dell’uomo, che immagina quel Dio come risposta alla propria sofferenza, al
proprio desiderio di giustizia, ma anche di vendetta, alla speranza di salvezza, al senso di impotenza di
fronte al male subito. […] Accogliere la violenza divina non significa adorare un Dio violento, ma
accettare che l’uomo possa vivere con fede anche l’esperienza umanissima della violenza”5. 

André Wénin
Prof. emerito della Fac. di teologia
Istituto RSCS - UCLouvain
 

                                                       
5 D. TONELLI, Immagini di violenza divina nell’Antico Testamento, Bologna, EDB, 2014, p. 163.

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