M arida Nicolaci
LA SALVEZZA
VIENE DAI GIUDEI
Introduzione agli Scritti giovannei
e alle Lettere Cattoliche
SAN PAOLO
© ED IZIONI SAN PAOLO s.r.L, 2014
Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
www.edizionisanpaolo.it
Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l.
Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
ISBN 978-88-215-9256-0
A i miei studenti del V anno istituzionale
della Facoltà teologica di Sicilia
«San Giovanni evangelista»
PREM ESSA
Gli scritti attribuiti a Giovanni, Pietro, Giacomo e Giuda
hanno origine, forma, contenuti, finalità e destinatari diversi.
Eppure sono stati accostati sin dalla fine del III secolo d.C.,
quando le tre Lettere giovannee e quelle attribuite agli aposto
li e ai familiari di Gesù di origine palestinese furono riunite
assumendo la forma stabile di una raccolta di Lettere dette
«Cattoliche». Il raggruppamento è riconoscibile con chiarezza
negli elenchi canonici e nei manoscritti del Nuovo Testamento
del IV e V secolo. Da dove derivò il riconoscimento di questa
«cattolicità» come elemento in grado di accomunare scritti co
sì diversi? La nozione di cattolicità emergente nel canone dal
legame riconosciuto tra questi scritti ha qualcosa da dire, dal
punto di vista storico e teologico, alle chiese cristiane del terzo
millennio in cerca della propria identità?
La qualifica di «Cattoliche» va intesa, anzitutto, nel senso
etimologico di «universale, generale». Agli antichi lettori cri
stiani il messaggio delle sette Lettere sembrava oltrepassare i
limiti di singole comunità geograficamente collocate. Tale mes
saggio, soprattutto, esprimeva in modo esplicito, strutturale e
costitutivo l’eredità giudaica e la prospettiva di fede dei testi
moni palestinesi di Gesù di Nazaret assunta come normativa
per le chiese accanto a quella di Paolo apostolo delle genti. La
raccolta delle Lettere Cattoliche, infatti, ha molto da dire ri
guardo alla «concezione o, se si vuole, costruzione delle origi
ni cristiane in rapporto con la quale la collezione si è formata
e che questa a sua volta ha certamente contribuito a far
recepire»;1 una costruzione delle origini cristiane, cioè, nelle
quali era irrinunciabile fissare per sempre il volto giudaico
dell’ekklèsia nei suoi tratti più caratteristici.
Il corpus giovanneo e le Lettere Cattoliche ci rappresentano,
dunque, il volto perennemente «giudaico» della professione di
fede neotestamentaria in Gesù di Nazaret, un volto indispen
sabile alla sua «universalità» proprio per la sua particolarità,
unicità, storicità; ci mostrano come il massimo dell’universali
tà - ben espresso nel linguaggio degli Scritti giovannei - dipen
da dal massimo della particolarità o, più concretamente, dalla
deflagrazione accaduta all’interno del giudaismo stesso in e a
causa di un’unica persona, il «giudeo» Gesù di Nazaret.
Dice tutto questo qualcosa anche del Dio di Israele rivelato
nelle Scritture ebraico-cristiane? Penso di sì: anche, e soprat
tutto, in ragione del fatto che il messaggio teologico ricono
sciuto e custodito in questo evento di deflagrazione interna al
giudaismo è inseparabile dalla sua forma storica, contingente,
e offre un’importante lezione anche sulle modalità corrette di
comprensione della storia e sulla necessità di non astrarre mai
la teologia e la dottrina dalla concretezza delle vicende storiche
occorse ai singoli e alle comunità.
Nella ricerca storica degli ultimi decenni sulle origini cristia
ne, la questione dell’identità giudaica di Gesù e dei suoi primi
seguaci, come quella del lungo processo che nell’arco di 150
anni finì per trasformare Yekklèsta in una realtà del tutto di
versa e, addirittura, antagonista a quella della synagoge, sono
tra le più spinose e cruciali. La ricerca su questo fronte ha
avuto molteplici implicazioni anche per lo studio critico del
Nuovo Testamento e ciò mi consente di giustificare ulterior
mente il senso della mia proposta. Scritti giovannei e Lettere1
1 E. N orelli, «Sulle origini della raccolta delle Lettere Cattoliche», in Rivista
Biblica 59(2011), 520.
Cattoliche rappresentano tradizioni giudeo-cristiane peculiari
del Nuovo Testamento, talvolta con forti legami tradizionali e
intertestuali interni, che alzano il velo sul delicatissimo proces
so di deflagrazione interno al giudaismo, simultaneamente sto
rico e teologico, da cui è dipesa e dipende l’identità cristiana.
Meritano per questo di essere abbracciati insieme come gli
scritti del Nuovo Testamento che meglio ci custodiscono i trat
ti giudaici caratteristici e irrinunciabili del volto del Cristo, del
vangelo e della chiesa.
Spazio maggiore è stato dedicato nel volume al corpus gio
vanneo e, in esso, all’esegesi e teologia del Quarto Vangelo,
data l’importanza cruciale di questo testo e dell’intero corpus
nella costruzione dell’identità e teologia cristiane e nella attua
le, rinnovata riflessione sui processi di tale costruzione colle
gabile, a mio avviso in modo rilevante, anche alla peculiare
memoria storica di Gesù di Nazaret nella tradizione e nei testi
giovannei (si pensi, per esempio, alla questione del presunto
antigiudaismo degli Scritti giovannei e delle sue conseguenze
nella genesi di un antisemitismo “cristiano”).
Diversamente che nel caso del corpus giovanneo, al termine
della seconda parte del volume manca un capitolo dedicato
alla teologia delle Lettere Cattoliche: come si avrà modo di
rilevare, più che di una teologia caratteristica e comune di que
ste Lettere, ricostruibile su basi storico-letterarie, si dovrebbe
parlare piuttosto dei tratti perennemente giudaici del volto
della chiesa che esse, in modo diverso l’una dall’altra, hanno
rappresentato e intenzionalmente trasmesso anzitutto come
testi singoli e, successivamente, in quanto collezione canonica.
L’elaborazione di una teologia comune e unitaria delle Lettere
Cattoliche non dipenderebbe più, a questo punto, tanto dalla
relazione storico-letteraria tra i testi stessi - solo in alcuni casi
chiaramente ricostruibile - quanto dalla storia dei loro effetti
e dalla loro ricezione ecclesiale come raccolta canonica. Esula,
quindi, dallo scopo di questo manuale. Dai tratti giudaici del
volto della chiesa e della fede delle origini, emergenti in modo
diverso dalle Lettere Cattoliche e dagli Scritti giovannei, cer
cherò di trarre alcuni spunti, spero stimolanti sul piano teolo
gico ed ermeneutico, nelle pagine conclusive del volume.
Un ringraziamento particolare vorrei rivolgere, infine, ai
colleghi dell’area biblica della Facoltà teologica di Sicilia, e
specialmente al prof. R. Pistone che ha voluto iniziare e porta
re avanti, attraverso seminari e convegni di studio specialisti
ci, una riflessione approfondita sul corpus delle Lettere Catto
liche quando ancora la discussione, in ambito europeo, era
solo agli inizi.2
2 Se non segnalato altrimenti, la traduzione dei testi biblici citati estesamente è mia.
I manoscritti di Qumran saranno citati secondo l’edizione di F.G. Martinez (a cura
di), Testi di Qumran, Paideia, Brescia 2003 con traduzione italiana dai testi originali e
note di Corrado Mattone. Nei riferimenti bibliografici delle note si troverà solo il
cognome dell’autore citato (con eventuale numero di pagina del testo); nel caso di più
testi del medesimo autore, anche il rimando al titolo del testo utilizzato. La citazione
integrale dei testi si troverà nella bibliografia raccolta al termine di ogni capitolo,
mentre quella dei testi già citati in un capitolo si ometterà nella bibliografia dei capi
toli successivi. Si troveranno citati per esteso nelle note, invece che nella bibliografia
dei capitoli, solo i testi non direttamente afferenti al campo d’indagine e richiamati
una sola volta.
PRIMA PARTE
IL CORPUS GIOVANNEO
IL «PEN TA TEU CO » GIOVANNEO
Attribuiti a un «Giovanni» il canone neotestamentario ci
consegna cinque scritti che, per la varietà dei rispettivi generi
letterari, costituiscono già essi stessi una sorta di «Nuovo Te
stamento» e una riscrittura dei «libri» di Israele: un Vangelo,
che rappresenta il racconto fondatore su Gesù Cristo Figlio di
Dio salvatore (Tórah); tre Lettere, che ne dispiegano il messag
gio e lo applicano con discernimento al contesto di vita delle
comunità credenti che su quello fondano la loro identità (Sa
pienza) ; il libro della Apocalisse, cioè dello «svelamento/rivela
zione», che come «parola profetica» tratteggia davanti agli
occhi delle chiese in ascolto il senso e l’esito complessivo della
storia umana dal punto di vista del piano salvifico di Dio com
piuto in Gesù Cristo (Profezia)}
In effetti, se c’è un corpus letterario nel Nuovo Testamento
che spicca per l’uso pregnante di uno specifico vocabolario, la
costanza di alcuni temi, la prossimità di background, di presup
posti teologici, di problematiche affrontate e, almeno per Van
gelo e Lettere, anche di stile, questo è proprio il corpus giovan
neo. L’origine comune dei testi che lo compongono, d’altronde,
sembra fosse un dato evidente per i copisti e i lettori della
chiesa antica che, sin dalle inscriptiones o subscriptiones con
cui ce li hanno consegnati nella tradizione manoscritta, hanno
mostrato di riconoscerla e hanno inteso significarla attribuen-
Cfr. Simoens, 6.
done la paternità letteraria a una personalità all’apparenza uni
ca di nome «Giovanni», poi soprannominato «il teologo»2 e
identificato come «apostolo» ed «evangelista».
Di questi scritti, però, l’unico che reca effettivamente il no
me di Giovanni come nomen auctoris è il libro dell’Apocalisse
(Ap 1,1.4.9; 22,8) che tanto ai lettori antichi quanto, soprattut
to, ai commentatori moderni, è apparso spesso il meno giovan
neo tra i cinque. Già Dionigi di Alessandria (III secolo d.C.),
il cui giudizio è riportato da Eusebio di Cesarea {Storia della
chiesa 7,25), sosteneva che l’Apocalisse fosse stata scritta cer
tamente da un Giovanni, un uomo santo e ispirato, ma che
questi non poteva essere identificato con lo stesso Giovanni
autore del Vangelo e della Prima lettera. Ugualmente, oggi,
sempre più studiosi sembrano ritenere insuperabili le differen
ze tra Vangelo/Lettere da una parte e Apocalisse dall’altra;
sempre più frequentemente, quando si parla del corpus giovan
neo, ci si riferisce ormai soltanto a Vangelo e Lettere. La rela
zione storica, letteraria e teologica tra gli scritti attribuiti a
«Giovanni», come l’identità del loro autore (o autori), resta
dunque argomento dibattuto e costituisce il nodo centrale del
la cosiddetta «questione giovannea». I diversi tentativi di solu
zione di quest’ultima dovrebbero chiarire come e perché i
cinque scritti attribuiti a Giovanni, pur diversi nel genere let
terario, nei contenuti, negli obiettivi specifici e nelle strategie
comunicative, manifestino tra loro somiglianze talmente forti,
una parentela così stretta da renderli un microcosmo autono
mo, ben identificabile (e tradizionalmente identificato) nel
Nuovo Testamento.
2 ORIGENE, Commento al Vangelo di Giovanni, frammenti, I su Gv 1,1.
Il «Pentateuco» giovanneo
1. Gli Scrìtti giovannei a confronto
La questione della forte continuità e, al contempo, della
discontinuità tra i cinque scritti che compongono il corpus gio
vanneo è stata affrontata in modo analitico a diversi livelli:
genere letterario, stile, lessico, temi e prospettive teologiche.
Somiglianze e differenze risultano evidenti soprattutto nel con
fronto tra Vangelo/Lettere e Apocalisse, non solo al livello
macroscopico del genere letterario ma anche a quello lessicale
e tematico. Non sono però meno sorprendenti quelle tra il
Vangelo e le Lettere. Sembra, anzi, che sia proprio il modo in
cui le stesse espressioni e gli stessi temi vengono declinati a
fare la differenza.3
Tuttavia, ferme restando la differenza di genere letterario
e le anomalie specifiche dell’Apocalisse sul piano grammati
cale e sintattico, mi sembra opportuno rilevare, anzitutto, che
lo stile di ciascuno dei cinque Scritti giovannei è prossimo e
familiare a quello degli altri del medesimo corpus più che a
quello di qualunque altro scritto neotestamentario. Tutti usa
no una koinè greca semplice dall’impronta marcatamente
semitica e con scarsa variazione di vocabolario. Anche sul
piano semantico e concettuale, le differenze non possono es
sere esagerate al punto da oscurare le più forti prossimità e
l’insistenza caratteristica su alcuni temi o direttrici teologiche
comuni a Vangelo e Lettere o a Vangelo e Apocalisse o, infine,
a tutti gli scritti. Il lessico e i temi della testimonianza, del
credere/fede, della vita, della vittoria; la cristologia della P a
rola e il cristocentrismo della rivelazione (Gv 1,1-18; lG v
1,1-4; Ap 1,1-3; 19,11-16); l’etica fondata sull’«amare» e sul
«mantenere/custodire la parola/i comandamenti» (Gv 8,51-
55; 14,15-24; 15,9-10.20; 17,6; lG v 2,3-5; 3,22-24; 5,3; Ap
1,3; 3,8-10; 12,17; 14,12; 22,7-9); l’ecclesiologia intesa e vis-
’ Cfr. H akola, 18-29.
suta come esperienza di comunione e di testimonianza tra
fratelli (Gv 15,27; 20,17; 21,23-24; lG v 2,9-11; 3,7-17; 4,20-
21; 5,16; 3Gv 3.5.10; Ap 1,9; 6,11; 12,10; 19,10; 22,9); il pro
tagonismo pervasivo attribuito allo Spirito in tutti gli scritti;
il debito evidente che tutti manifestano nei confronti dell’apo
calittica e la compresenza dialettica di diversi modelli di com
pimento escatologico (realizzato in Cristo, realizzantesi nei
credenti che già possiedono la «vita» mentre vivono l’«ultima
ora», destinato a manifestarsi pienamente in cielo e terra nuo
vi); la soteriologia fondata sulla venuta (nella carne) del Cri
sto-Logos e sul suo mistero pasquale (con evidenti allusioni
al mondo cultuale nella presentazione di Gesù come «agnel
lo» nel Vangelo e nell’Apocalisse e come «propiziazione» per
i peccati in lG v 2,2; 4,10; «manifestato» per «togliere il pec
cato» in Gv 1,29.31; lG v 3,5): sono, questi, altrettanti segni
della prossimità concettuale e coappartenenza originaria degli
Scritti giovannei.
Una visione del mondo che si esprime mediante un linguag
gio e uno schema di pensiero dualistico li governa, infine, in
teramente, con un contenuto e una finalità che sono certamen
te cristologici ma più profondamente teocentrici e, coerente
mente, soteriologici ed ecclesiologici: «c’è un solo Dio sovrano,
ma un duro conflitto tra tutto ciò che è di Dio e ciò che è op
posto a Dio. Gli esseri umani si schierano perciò in un campo
o nell’altro».4 In tutti gli scritti del corpus tale framework dua- '
listico è utilizzato, non a caso, in chiave polemica, sia che ber
saglio storico ne siano gruppi giudaici o l’imperialismo romano
(Vangelo e Apocalisse: Gv 8,44; Ap 2,9; 3,9) sia che bersaglio
metaforico ne sia, più strutturalmente, il mondo con le sue
dinamiche oppressive e idolatriche (Vangelo, Lettere, Apoca
lisse: Gv 1,10; 7,7; 8,23; 12,31; 15,18-19; 16,33; 18,36; lG v
2,15-17; 3,1.13; 5,4-5.19; 2Gv 7; Ap 11,15).
4 CULPEPPER, 23.
La connessione interna e originaria tra i cinque Scritti gio-
vannei appare ancora più forte, poi, se alla stretta parentela
contenutistica si aggiunge la coerenza sul piano formale ovve
ro la coscienza ecclesiale da cui originano e che li identifica sul
più ampio sfondo degli scritti del Nuovo Testamento. L’unità
originaria del corpus sembra stare proprio nel «noi» ecclesiale
che emerge risolutamente in Vangelo e Lettere (Gv 21,24; lG v
2,19; 3,14; 4,6; 5,19; 2Gv 2; 3Gv 8) e si esprime anche come
«noi» liturgico (Gv 1,14.16; Ap 1,5-6), un «noi» presupposto
dal dialogo «io-voi» del veggente dell’Apocalisse, «fratello e
compagno» dei suoi destinatari nella tribolazione fedelmente
sostenuta per il regno (Ap 1,9; 6,11; 12,10; 19,10; 22,9). Dalla
consapevolezza di questo «noi» ecclesiale, prima che dall’«io»
autoriale che presiede alla stesura dei singoli testi, gli Scritti
giovannei promanano come testimonianza originale, specifica
e unitaria del compimento delle attese e delle Scritture di Israe
le. Caratterizzati, tutti e ciascuno, da una consapevolezza spic
cata ed esplicita del gesto autoriale e del suo significato teolo
gico nell’economia della rivelazione biblica,5 essi si presentano
complessivamente come vera e propria «Scrittura del compi
mento messianico e del dono escatologico dello Spirito».6
La coappartenenza originaria di questi scritti rimane, dun
que, a mio avviso l’ipotesi che meglio spiega la familiarità che
in essi si respira.
5 Cfr. il modo in cui si insiste sul lessico della scrittura («scrivere», grdpho, «libro»,
btblion: Gv 19,19-22; 20,30-31; 21,24-25; lG v 1,4; Ap 1,10-11.19; 2,1.8.12.18; 3,1.7.14;
14,13; 19,9; 21,5) e le formule che chiudono il libro dell’Apocalisse dando ad esso
l’autorità dei libri sacri (Dt 4,2; 13,1 ; 29,19 e Ap 22,18-19; Dn 12,4 e Ap 22,6-10).
6 Così, riguardo al Quarto Vangelo, si esprime VlGNOLO, 131, nota 41. Si vedano
anche le osservazioni di HENGEL, 258 e 302 sul Vangelo e l’Apocalisse come «sacra
scrittura» nell’ambiente giovanneo. Qualche rilievo significativo, pur se limitato
all’Apocalisse, si trova anche in Pérez Màrquez, 358-371.
Data la somiglianza non solo nella fondamentale terminolo
gia teologica ma anche nella visione del mondo, non c’è da
meravigliarsi che nella chiesa antica tanto le Lettere (special-
mente 1 Giovanni) quanto l’Apocalisse siano state poste in
stretta relazione con il Quarto Vangelo e attribuite a un unico
autore, l’apostolo Giovanni. Sia i dati interni ai testi che le
stesse testimonianze patristiche, tuttavia, dimostrano la pro
blematicità di tale attribuzione.
2.1.1 dati intratestuali e la tradizione patristica
Come si è accennato, l’unico dei cinque scritti che porta il
nome «Giovanni» come nomen auctoris è l’Apocalisse e in nes
suno di essi, Apocalisse compresa, l’autore si fregia del titolo
di apostolo o si presenta come membro del gruppo dei Dodici.
A questo primo dato elementare se ne aggiungono altri.
- Il Vangelo ha una doppia conclusione (Gv 20,30-31 e 21,24-25)
e i suoi ultimi versi (21,24-25) spingono a ritenere che il «d i
scepolo che Gesù amava» (13,23-26; 19,25-27; 20,2-8; 21,7.21-
23), cui la testimonianza evangelica viene complessivamente
ricondotta, si distingua dall’«io» del redattore finale del testo
e dal «noi» ecclesiale che pone il proprio sigillo sulla testimo
nianza del discepolo amato.
- Nel racconto giovanneo si notano contemporaneamente una
forte unità stilistica e coerenza narrativa, riconducibili alla pre
tesa autoriale sottesa al testo (esso è attestazione scritta della
testimonianza oculare del discepolo amato), e tensioni lettera
rie difficili da spiegare (si veda l’apparente incoerenza narrati
va tra 14,31 e 15,1 e la riapertura, col c. 21, di ima narrazione
che sembrava conclusa). E inevitabile chiedersi, quindi, se il
Vangelo sia un testo composto da un’unica mano dal primo
all’ultimo capitolo (un «abito senza cuciture», cfr. Gv 19,23) o
il frutto di un processo redazionale complesso («un mantello
variopinto confezionato mettendo insieme vari pezzi di
tessuto»).7
- In 1 Giovanni si ode la voce di un singolo che parla con auto
revolezza e autorità a nome di un «noi» testimoniale (lG v 1,1-
4 e 2,1.7.8.12-14; 5,13) ma questi non è identificabile a partire
da un nome proprio né da titoli relazionali o funzionali. In 2 e
3 Giovanni l'«io» autoriale emerge con altrettanta forza ma,
stavolta, fregiato di un titolo di origine giudaica («il presbitero»
o «ranziano»: 2Gv 1; 3Gv 1) che esprime la sua identità rela
zionale nei confronti dei destinatari: egli è per loro e presso di
loro Tunico “anziano” riconosciuto, per dignità, autorevolezza
e probabilmente anche per età. Si tratta, nel giudizio di molti,
dello stesso autore di 1 Giovanni. Ma si identifica, questi, con
il discepolo amato? Si identifica con Y«io» redazionale finale
del Vangelo?
- Quando ci si sposta all'Apocalisse, lo scenario sembra mutare
sensibilmente, anche per il diverso genere letterario dei testi:
al linguaggio e alle argomentazioni, progressivamente più dot
trinali e dirette, di Vangelo e Lettere si sostituisce un linguaggio
visionario, criptico, saturo di allusioni e di simboli. L'autore del
testo si presenta, stavolta, in modo articolato ai suoi destinata-
ri anche nell'intento comprensibile di legittimare la «rivelazio
ne di Gesù Cristo» di cui si fa latore. Il suo nome proprio,
«Giovanni», compare a volte in apposizione al pronome di
prima persona singolare («Io, Giovanni»: Ap 1,9; 22,8), altre
accompagnato da diverse qualificazioni relazionali («servo» in
rapporto a Dio in 1,1; «fratello e compagno» in rapporto ai
destinatari in 1,9), altre ancora senza ulteriori specificazioni
(1,4). In rapporto alla «rivelazione» di cui si fa latore, il G io
vanni dell'Apocalisse è testimone, tramite la scrittura, di ciò
che «ha visto» (1,2.11.19-20) e «udito» (22,8) e che consegna,
in forma di lettera, ai suoi destinatari (1,4-3,22; 22,21). Mem
bro di una comunità di credenti che egli identifica come suoi
7 La prima similitudine è di D.F. Strauss che protestava contro la tendenza a scom
porre il Quarto Vangelo in più fonti già fortemente presente nell’esegesi del X IX se
colo. L’immagine antitetica del mantello variopinto è invece quella che emerge dall’ese
gesi giovannea del X X secolo (cfr. HENGEL, 21).
«fratelli» (1,9; 6,11; 12,10; 19,10), condivide con loro la consa
pevolezza di una identità profetica (22,9) e non si definisce mai
né presbitero né discepolo né apostolo. Sembra, anzi, guarda
re ai «dodici apostoli dell'Agnello» come a personaggi del pas
sato (21,14). Molto più chiaramente che nel caso di Vangelo e
Lettere, Fautore dell'Apocalisse «si presenta come un giudeo,
anzi un vero giudeo», in contrapposizione a coloro che si dico
no giudei senza esserlo (cfr. Ap 2,9; 3,9 ma anche Gv 8,39-47),
«entro un gruppo di giudei che credono in Gesù Cristo».8
- Le testimonianze patristiche, infine, mostrano la rapida diffu
sione degli Scritti giovannei già entro la prima metà del II
secolo e la loro attribuzione a un «Giovanni discepolo del
Signore». Ma l'identificazione di questo discepolo amato con
l'«apostolo» Giovanni membro del gruppo dei Dodici, che
Ireneo sembra suggerire (Contro le eresie 1,9,2; 2,22,5; 3,1,1;
3,3,4; 5,30,4), sintetizza tradizioni molto più complesse, come
quella di Papia di Gerapoli (Eusebio, Storia 3,39,3-7) o del
frammento muratoriano, che sembrano distinguere nettamen
te il «Giovanni discepolo del Signore», autore degli scritti,
dagli apostoli appartenenti al gruppo dei Dodici. Le testimo
nianze successive, fino anche al V secolo (si veda la Storia
cristiana di Filippo di Side o il Decreto gelasiano), mostrano
come nelle chiese si distinguesse tra un Giovanni «apostolo»
e un Giovanni «presbitero». Voce isolata ma significativa, Po-
licrate di Efeso, alla fine del II secolo, nella lettera a papa
Vittore (riportata da Eusebio, Storia 3,31,3 e 5,24,2-3) diceva
che Giovanni, il discepolo amato morto a Efeso, era stato sa
cerdote «avendo portato la lamina d'oro», «testimone» e «m a
estro». Se interpretata alla lettera, come il tenore del testo
spingerebbe a fare, l'affermazione implicherebbe che Giovan
ni appartentesse a una stirpe di sommi sacerdoti e avesse offi
ciato, anche occasionalmente, nel tempio.9
8 Così L upieri, lvil
9 Questa è la tesi sostenuta vigorosamente da Rigato, secondo la quale l’evidente
e pervasivo interesse dell’autore del Vangelo per il tempio e il culto potrebbe spiegar
si perfettamente alla luce dell’identità sacerdotale e della collocazione gerosolimitana
del discepolo amato. Se il discepolo amato fosse un personaggio vicino all’ambiente
sadduceo dei sommi sacerdoti, si spiegherebbe anche la sua padronanza della lingua
greca e di alcuni concetti chiave dell’ambiente ellenistico.
Dai dati interni ed esterni, dunque, si può rilevare quanto
segue:
- Un «io» autoriale emerge con forza in ciascuno dei cinque scrit
ti, senza nome proprio tranne che nell'Apocalisse. Se nel caso
del Vangelo l'anonimato potrebbe spiegarsi dal punto di vista
formale come caratteristica del genere, nel caso delle Lettere la
mancanza del nome proprio può spiegarsi solo col fatto che i
destinatari dei testi erano a conoscenza dell'identità del mitten
te. In ogni caso, è una peculiarità dei testi giovannei il fatto che
la loro stesura e la loro importanza siano messe in relazione
alla loro origine da una personalità individuale nota e di indi
scusso rilievo per i destinatari (sia esso il discepolo amato, il
presbitero o il profeta-veggente Giovanni).
- In tutti gli scritti, questo «io» autoriale appare sempre collega
to a un «noi» che è ecclesiale, fraterno, testimoniale, liturgico,
accomunato da un'esperienza di tradizione e di vita di fede del
tutto particolare. Tutti i cinque Scritti giovannei, in fondo, han
no in comune, pur nella differenza di genere, il fatto di essere
una «testimonianza» resa a Gesù Cristo, nella e per la vita dei
credenti. Sembra essere proprio una firma giovannea l'insisten
za sulla attendibilità della testimonianza che in essi viene resa
e che trova nella testimonianza di Gesù la sua scaturigine sto
rica e teologica e in quella dei rispettivi autori la mediazione
ecclesiale autentica.
- La presenza di questi elementi comuni non basta da sola, tut
tavia, a risolvere il problema della paternità degli Scritti gio
vannei nella direzione di un unico autore. Dirimere la questio
ne dell'unità letteraria del Quarto Vangelo, in senso favorevole
o contrario, potrebbe risultare decisivo per capire anche in
quale direzione cercare più fruttuosam ente la soluzione
dell'enigma giovanneo, se guardando nella direzione di un sin
golo, di una comunità o di entrambi.
- La tradizione patristica conferma che verso la fine del II seco
lo si conveniva sulla parentela strettissima tra Vangelo, Lettere
e Apocalisse e sull'identificazione del loro autore in Giovanni
l’anziano, «discepolo del Signore», suo testimone storico, esi
liato a Patmos, tornato a Efeso e vissuto fino al tempo di Tra-
«fratelli» (1,9; 6,11; 12,10; 19,10), condivide con loro la consa
pevolezza di una identità profetica (22,9) e non si definisce mai
né presbitero né discepolo né apostolo. Sembra, anzi, guarda
re ai «dodici apostoli dell’Agnello» come a personaggi del pas
sato (21,14). Molto più chiaramente che nel caso di Vangelo e
Lettere, Fautore dell’Apocalisse «si presenta come un giudeo,
anzi un vero giudeo», in contrapposizione a coloro che si dico
no giudei senza esserlo (cfr. Ap 2,9; 3,9 ma anche Gv 8,39-47),
«entro un gruppo di giudei che credono in Gesù Cristo».8
- Le testimonianze patristiche, infine, mostrano la rapida diffu
sione degli Scritti giovannei già entro la prima metà del II
secolo e la loro attribuzione a un «Giovanni discepolo del
Signore». Ma l’identificazione di questo discepolo amato con
l’«apostolo» Giovanni membro del gruppo dei Dodici, che
Ireneo sembra suggerire (<Contro le eresie 1,9,2; 2,22,5; 3,1,1;
3,3,4; 5,30,4), sintetizza tradizioni molto più complesse, come
quella di Papia di Gerapoli (Eusebio, Storia 3,39,3-7) o del
Frammento muratoriano, che sembrano distinguere nettamen
te il «Giovanni discepolo del Signore», autore degli scritti,
dagli apostoli appartenenti al gruppo dei Dodici. Le testimo
nianze successive, fino anche al V secolo (si veda la Storia
cristiana di Filippo di Side o il Decreto gelasiano), mostrano
come nelle chiese si distinguesse tra un Giovanni «apostolo»
e un Giovanni «presbitero». Voce isolata ma significativa, Po-
licrate di Efeso, alla fine del II secolo, nella lettera a papa
Vittore (riportata da Eusebio, Storia 3,31,3 e 5,24,2-3) diceva
che Giovanni, il discepolo amato morto a Efeso, era stato sa
cerdote «avendo portato la lamina d’oro», «testimone» e «m a
estro». Se interpretata alla lettera, come il tenore del testo
spingerebbe a fare, l’affermazione implicherebbe che Giovan
ni appartenesse a una stirpe di sommi sacerdoti e avesse offi
ciato, anche occasionalmente, nel tempio.9
8Così L upieri, lvil
9 Questa è la tesi sostenuta vigorosamente da Rigato, secondo la quale l’evidente
e pervasivo interesse dell’autore del Vangelo per il tempio e il culto potrebbe spiegar
si perfettamente alla luce dell’identità sacerdotale e della collocazione gerosolimitana
del discepolo amato. Se il discepolo amato fosse un personaggio vicino all’ambiente
sadduceo dei sommi sacerdoti, si spiegherebbe anche la sua padronanza della lingua
greca e di alcuni concetti chiave dell’ambiente ellenistico.
D ai dati interni ed esterni, dunque, si pu ò rilevare quanto
segue:
- Un «io» autoriale emerge con forza in ciascuno dei cinque scrit
ti, senza nome proprio tranne che nell'Apocalisse. Se nel caso
del Vangelo l'anonimato potrebbe spiegarsi dal punto di vista
formale come caratteristica del genere, nel caso delle Lettere la
mancanza del nome proprio può spiegarsi solo col fatto che i
destinatari dei testi erano a conoscenza dell'identità del mitten
te. In ogni caso, è una peculiarità dei testi giovannei il fatto che
la loro stesura e la loro importanza siano messe in relazione
alla loro origine da una personalità individuale nota e di indi
scusso rilievo per i destinatari (sia esso il discepolo amato, il
presbitero o il profeta-veggente Giovanni).
- In tutti gli scritti, questo «io» autoriale appare sempre collega
to a un «noi» che è ecclesiale, fraterno, testimoniale, liturgico,
accomunato da un'esperienza di tradizione e di vita di fede del
tutto particolare. Tutti i cinque Scritti giovannei, in fondo, han
no in comune, pur nella differenza di genere, il fatto di essere
una «testimonianza» resa a Gesù Cristo, nella e per la vita dei
credenti. Sembra essere proprio una firma giovannea l'insisten
za sulla attendibilità della testimonianza che in essi viene resa
e che trova nella testimonianza di Gesù la sua scaturigine sto
rica e teologica e in quella dei rispettivi autori la mediazione
ecclesiale autentica.
- La presenza di questi elementi comuni non basta da sola, tut
tavia, a risolvere il problema della paternità degli Scritti gio
vannei nella direzione di un unico autore. Dirimere la questio
ne dell'unità letteraria del Quarto Vangelo, in senso favorevole
o contrario, potrebbe risultare decisivo per capire anche in
quale direzione cercare più fruttuosam ente la soluzione
dell'enigma giovanneo, se guardando nella direzione di un sin
golo, di una comunità o di entrambi.
- La tradizione patristica conferma che verso la fine del II seco
lo si conveniva sulla parentela strettissima tra Vangelo, Lettere
e Apocalisse e sull'identificazione del loro autore in Giovanni
l'anziano, «discepolo del Signore», suo testimone storico, esi
liato a Patmos, tornato a Efeso e vissuto fino al tempo di Tra
iano; campione dell’autentica tradizione apostolica ma non
identificato unanimemente, sin dall’inizio, con l’apostolo figlio
di Zebedeo.10
2.2. L’elaborazione critica dei dati nella storia della ricerca
Con il sorgere della critica neotestamentaria moderna esplo
se, nel X IX secolo, la «questione giovannea». Soprattutto fino
alla prima metà del secolo scorso, ci si concentrava sull’identi-
ficazione del «Giovanni» di cui i cinque scritti del corpus por
tano il nome. Oggi invece la complessità letteraria e teologica
del corpus e il suo evidente sfondo e orientamento ecclesiolo
gico spingono lo sguardo del lettore oltre l’enigmatica perso
nalità individuale del «discepolo del Signore» Giovanni.
2.2.1. Da «Giovanni» alle chiese «giovannee»
Se la ricerca sull’autore non sembra essere approdata a ri
sultati definitivi o a un consenso ampiamente condiviso, è con
vinzione della stragrande maggioranza degli studiosi - ben
fondata sui dati interni ai testi - che dietro la letteratura gio
vannea ci sia un ambiente di fede con una collocazione spazio
temporale riconoscibile, dei problemi specifici da affrontare
(interni ed esterni, dottrinali e pratici, con importanti risvolti
sociali) che affiorano palesemente nei testi, un proprio retro
terra storico, culturale, religioso, linguistico e concettuale, una
propria memoria Jesu e una peculiare elaborazione teologica
delle tradizioni proprie e altrui. Le stesse testimonianze del II
secolo evocano dietro gli Scritti giovannei una comunità (cfr.
10 Tale identificazione sembra essere stata fatta per la prima volta in Egitto non
prima della metà del secolo circa (cfr. BAUCKHAM, 68-69).
Frammento muratorianó). Si è parlato, dunque, di «cerchia
giovannea» in prospettiva storico-religiosa e, dal punto di vista
sociologico e dottrinale, di «scuola» e di «comunità» giovannea
o di «giovannismo». Senza temere anacronismi e includendo
l’Apocalisse tra le testimonianze scritte caratterizzanti e carat
teristiche dell’ambiente giovanneo, penso si possa parlare le
gittimamente di «chiese giovannee».11 Al corpus giovanneo,
infatti, corrisponde non una setta, una scuola filosofìco-religio-
sa, un processo di iniziazione discepolare o una ecclesiola in
ecclesia, ma una complessa esperienza di «chiesa» (cfr. 3Gv
6.9.10; Ap 1,4.11.20; 22,16 e passim nel settenario delle lettere
in Ap 2-3) vissuta da uomini e donne che condivisero la pro
fessione di fede in G esù di Nazaret secondo una peculiare
tradizione di «testimonianza» a suo riguardo, esprimendo nel
la liturgia la propria fede e la propria visione della storia e del
suo compimento escatologico, costituendo una rete di comu
nità domestiche in comunicazione tra loro la cui evoluzione
storica fu segnata tanto da coesione e resistenza quanto da
dinamiche di conflitto e lacerazione ad intra e ad extra.
2.2.2. Punti di convergenza
Si può precisare meglio il consenso raggiunto attualmente
dagli studiosi in merito all’origine della tradizione e della let
teratura giovannea? A partire dall’elaborazione critica dei da
ti interni ai testi, anche quando sono assunti e interpretati a
partire dal presupposto di una non coappartenenza originaria
di Vangelo/Lettere ed Apocalisse, mi sembra di poter indivi
duare un consenso crescente sui seguenti punti:
a) Origine e retroterra giudaico della tradizione giovannea. La
puntualità dei riferimenti evangelici a luoghi, costumi e tradi-
PENNA, 207-223.
zioni liturgiche giudaici della Palestina prima del 70; il ricorso
costante alle Scritture e la conoscenza implicita delle tradizio
ni interpretative e teologiche della letteratura giudaica perite
stamentaria; il conflitto identitario intra-giudaico che traspare
dal Vangelo (Gv 8,21-59) e dall’Apocalisse (Ap 2,9; 3,9); lo
sfondo profetico-apocalittico della teologia, delle categorie e
dell’interpretazione della storia salvifica in Vangelo, Lettere e
Apocalisse: tutto questo spinge a ritenere come indiscutibile
l’origine giudaica, palestinese (e probabilmente gerosolimitana)
della tradizione giovannea e la permanenza in essa, anche nelle
diverse fasi del suo sviluppo, di un punto di vista tipicamente
giudaico sulla rivelazione salvifica e sul suo compimento cri
stologico. E in rapporto al giudaismo che la testimonianza gio
vannea «si definisce essenzialmente».12 La missione ai pagani,
del resto, non sembra messa esplicitamente a tema negli Scrit
ti giovannei, anche se, in più modi, essi attestano l’apertura
prospettica ai non giudei (Gv 4,1-42; 12,20-36) e il significato
universale della persona di Gesù, «salvatore del mondo» (Gv
4,42; lG v 4,14; Ap 7,10) e mediatore radicale e ultimo della
sovranità regale di Dio creatore e salvatore (Gv 1,3.10; Ap 1,17;
2,8; 11,15; 22,13). L’affermazione convinta del suo ruolo uni
versale da parte dei credenti “giovannei” non ha come sua
condizione il superamento dell’appartenenza giudaica ma la
pretesa estrema e radicale sulla stessa (Gv 4,9.22; 18,35; 19,16-
22; Ap 2,9; 3,9). L’universalismo giovanneo, in altri termini,
non prescinde dall’identità giudaica di Gesù e dei credenti in
lui, sempre e comunque rivendicata. Il ruolo salvifico di Gesù
Cristo nei confronti del «m ondo» o, per dirla nei termini di
Apocalisse, di ogni «tribù, lingua, popolo e nazione», resta
proclamato proprio a partire da un punto di vista giudaico.
Gli Scritti giovannei, dunque, si possono considerare l’atte
stazione letteraria di una delle tradizioni teologiche e cristolo
12 Ivi, 209-210.
giche più giudaiche del Nuovo Testamento (forse, anche, la più
giudaica). La polemica apparentemente anti-giudaica che in
essi emerge si comprende bene sullo sfondo delle polemiche
identitarie interne al giudaismo del I secolo. Non è la prova di
una rinuncia all’identità giudaica, ma la conseguenza di una
rivendicazione radicale della stessa; attestazione drammatica
di una disputa intra-familiare «nella quale i partecipanti sono
uno di fronte all’altro nella stanza di una casa che tutti hanno
condiviso e tutti chiamano casa propria».13 Anche nelle Lette
re il punto di vista rappresentato dall’autore resta un punto di
vista tipicamente giudaico e apocalittico e il fatto che, nell’ar
gomentazione che esse portano avanti, non compaia più alcun
riferimento esplicito e polemico a «i Giudei»,14 potrebbe im
plicare non un radicale mutamento di contesto (da giudaico a
pagano) ma una situazione di discorso omogenea perché an
cora del tutto intra-giudaica.15
b) La letteratura giovannea e il suo contesto ellenistico. La
padronanza della lingua e la sensibilità greca manifeste nel
Quarto Vangelo; i suoi molteplici riferimenti al mondo greco
(Gv 7,35; 12,20); la presenza di persone con nomi greco-roma
ni nelle comunità giovannee (Gaio, Demetrio e Diotrefe in
3 Giovanni; Antipa in Ap 2,13); la polemica anti-imperiale nel
Vangelo e nell’Apocalisse; le prove neotestamentarie e patristi
che a favore della presenza di un retroterra giudaico nelle chie
se efesine e, in particolare, della presenza di discepoli del Bat-
13Ashton, Understanding, 116.
14 Da ora in poi, si useranno le virgolette e la maiuscola solo quando con Fagget
tivo sostantivato plurale «i Giudei» ci si riferirà a protagonisti diretti o indiretti del
Quarto Vangelo, identificabili narrativamente come un gruppo distinto da e in rela
zione ad altri protagonisti giudaici del racconto.
15 II modo tipicamente giudaico con cui 3Gv 7 si riferisce al Kyrios con l’espres
sione «per (amore de) il Nom e» (corrispondente all’ebraico Hassem, sostituto del
tetragramma sacro) e ai «pagani» come ethnikoi (Mt 3,47; 6,7; 18,17) depone a favo
re di tale interpretazione.
rista, figura determinante nel racconto giovanneo (At 18,24-26;
19,1-7); la collocazione asiatica del veggente di Patmos e delle
chiese dell’Apocalisse; la tradizione patristica riguardo alla re
sidenza efesina del discepolo del Signore, depongono a favore
dell’origine e destinazione efesina della letteratura giovannea
nello stadio finale della sua formazione. Il radicamento asiatico
delle comunità giovannee spiega bene, del resto, la coloritura
(giudaico-)ellenistica degli Scritti giovannei e la polemica anti-
imperiale che traspare da Vangelo e Apocalisse.
c) Datazione degli Scritti giovannei. La polemica anti-impe-
riale, latente nel Vangelo e più esplicita, benché criptica,
nell’Apocalisse e, in particolare, la resistenza contro la forma
di idolatria rappresentata dal culto dell’imperatore particolar
mente alimentato nella città di Efeso con la creazione del tem
pio provinciale in onore dei Flavi al tempo di Domiziano; la
profondità e complessa articolazione della cristologia degli
Scritti giovannei; altri dati deducibili dai singoli scritti, coeren
ti per altro con la datazione tradizionale dei medesimi al tempo
di Domiziano (cfr. Ireneo, Contro le eresie 5,30,3; Eusebio,
Storia 3,18,3), fanno propendere per una datazione dei testi
giovannei - almeno della loro redazione finale - verso l’ultimo
decennio del I secolo, inizi del II, prima delle Lettere di Igna
zio di Antiochia (c. 90-110 d.C.).
2.2.3. La redazione del Quarto Vangelo
e l’insieme del corpus: principali ipotesi di soluzione
Nella storia della ricerca fino ad oggi si possano individuare,
esemplificando al massimo, tre tipologie principali di soluzio
ne rispetto alla questione dell’unità letteraria del Quarto Van
gelo:
a) Teoria delle fonti e/o delle edizioni multiple. Sottoposto al
vaglio dell’analisi letteraria, il Quarto Vangelo rivela, secondo
gran parte degli studiosi, «un’impuntura, parte della quale al
quanto malfatta»16 e deve essere considerato come un testo
composito. Per alcuni avrebbe incorporato fonti precedenti
(per esempio una «fonte dei segni»: Gv 2,11; 4,54; 20,30-31);
per altri sarebbe il frutto di molteplici edizioni, determinate da
aggiunte di materiale prima omesso o del tutto nuovo, operate
dallo stesso evangelista e, poi, dal redattore finale.17In entram
bi i casi, si dovrebbe ipotizzare un processo tradizionale e re
dazionale molto articolato che, almeno in parte, potrebbe an
dare di pari passo con la storia della comunità giovannea e ri
fletterla in trasparenza. Ad oggi, un certo numero di studiosi
si limita ad affermarne ima redazione in due tappe principali,
la seconda rappresentata certamente dall’aggiunta del c. 21.
Tra la prima e la seconda edizione del testo potrebbe essersi
determinata la crisi intra-ecclesiale nell’ambiente giovanneo e,
dunque, si potrebbe porre la stesura delle Lettere: la redazione
Anale del Vangelo seguirebbe la stesura delle Lettere e sarebbe
prova di un punto di arrivo, del compimento anzi, dell’itine
rario, storico-teologico della riflessione credente dell’ambiente
giovanneo. L’Apocalisse rimane comunque ai margini della
valutazione complessiva.
16Ashton, Comprendere, 40.
17 Classica in questa linea la tesi di Brown (77-101) sulla storia della formazione
del Quarto Vangelo, sintetizzata ultimamente in tre stadi. Tra i contributi più recenti,
si deve menzionare il commento in tre volumi di von W AHLDE al Vangelo e alle Let
tere che sostiene resistenza di tre edizioni del testo fatte da tre autori diversi, tutte
entro la seconda metà del primo secolo (Pultima verso gli anni 90-95). La seconda e
la terza edizione del Vangelo, come le Lettere, rifletterebbero tre correlative «crisi»
della comunità giovannea: la crisi con la sinagoga e l’espulsione da essa a causa della
cristologia (la seconda edizione); la crisi teologica interna alla comunità che si divide
sull’interpretazione delle proprie tradizioni (le Lettere); la necessità della comunità di
confrontare se stessa e le proprie tradizioni con altri settori del primo cristianesimo e
con le loro tradizioni, specialmente la tradizione petrina (la terza edizione dopo la
morte del discepolo amato).
b) L'unità letteraria del Vangelo, l’unicità del discepolo ama
to-testimone e la genesi del corpus. Secondo una minoranza di
studiosi, il metodo dell’analisi letteraria, applicato al Quarto
Vangelo, non farebbe che confermarne la profonda unità, dal
primo all’ultimo capitolo. La coerenza narrativa e teologica del
testo la rilancerebbe ulteriormente.18 Le apparenti aporie po
trebbero intendersi semplicemente come segno, sul piano let
terario, del rispetto del narratore per la tradizione ricevuta e,
sul piano teoretico, del suo pensiero dialettico. Per tali studio
si la questione da porsi, eventualmente, è se il discepolo amato
sia o meno da identificarsi con l’apostolo Giovanni di Zebedeo
piuttosto che con Giovanni il Presbitero, se sia o meno da
considerarsi autore materiale del testo e, dunque, da identifi
carsi con l’evangelista o, piuttosto, se non lo si debba distin
guere da quest’ultimo che potrebbe invece essere identificato,
eventualmente, con il presbitero autore delle Lettere. Qualcu
no, più raramente, azzarda l’ipotesi di un legame stretto tra i
cinque testi giovannei anche dal punto di vista della paternità
letteraria.19 In ogni caso, chi opta per questa soluzione, pur
ammettendo in linea di principio l’esistenza di una comunità
giovannea, è meno coinvolto dai tentativi di ricostruzione del
la sua storia e, più o meno esplicitamente, li considera poco
utili, per la loro problematicità e alto grado di incertezza, all’er
meneutica dei testi stessi. Il riferimento all’autorità testimonia
le del discepolo amato basta a spiegare l’origine della tradizio
ne, della comunità e della letteratura giovannee.
c) L’ipotesi della «rilettura». A partire dagli anni ’90 del se
colo scorso, quasi via media, capace di rendere conto simulta
neamente dell’unità stilistica e teologica del Quarto Vangelo
18 Sull’aporia letteraria più difficile, quella posta da Gv 14,31, cfr. GlURlSATO, 424.
439-442.477-490.
19 RIGATO, per esempio, pensa a Giovanni il presbitero come all’unico autore di
tutti e cinque gli Scritti giovannei.
come delle sue apparenti aporie, ha preso piede un’altra ipo
tesi interpretativa del processo redazionale del Quarto Vange
lo, quella basata sul rapporto tra memoria e rilettura che con
sentirebbe di spiegare la genesi della letteratura giovannea a
partire da un processo di «rilettura» delle tradizioni operata
nell’ambiente ecclesiale giovanneo. Facendo tesoro di più di
un secolo di analisi letteraria e di metodo diacronico, i soste
nitori della teoria della relecture hanno provato a ripensarne
gli esiti attraverso categorie e strumenti concettuali propri del
la critica letteraria, della retorica, della teoria della letteratura
e della narratologia contemporanee, così da poter rendere con
to simultaneamente della profonda unità di stile e di pensiero
teologico emergenti da Vangelo e Lettere e delle non meno
problematiche differenze nel lessico e nella prospettiva teolo
gica (nel rapporto tra Vangelo e Lettere) o aporie (nel Vangelo,
in particolare, quella rappresentata dai discorsi di addio che
continuano dopo l’apparente conclusione di 14,31 e quella
rappresentata dal c. 21 che prolunga i racconti pasquali nono
stante l’apparente conclusione di 20,30-31).
Ciò che consentirebbe di superare il conflitto tra i metodi
sarebbe il ricorso al concetto della ipertestualità (ogni relazio
ne che unisce un testo secondario, o ipertesto, a un testo pre
cedente, o ipotesto, che esso intende recepire e rielaborare) e
del paratesto (insieme di enunciati o sequenze che presentano,
inquadrano, interrompono o sigillano un testo previo, condi
zionandone la lettura e articolando su di esso un gesto di rilet
tura). Inteso come frutto di un processo di rilettura, un testo
che ha raggiunto plausibilmente la sua forma finale al termine
di una complessa storia redazionale può essere perfettamente
valorizzato, con tutte le sue aporie, come testo coerente, pie
namente funzionante al livello strutturale e carico di intenzio
nalità comunicativa: ciò che sul piano diacronico è secondario
(un testo successivo a un altro) non lo è però sul piano narra
tivo ed ermeneutico esprimendo, in rapporto a ciò che lo pre
cede, non correzione o presa di distanza, ma ricezione, appro
fondimento, esplicitazione, nuova accentuazione tematica e
reinterpretazione; tutti gesti, questi, che significano e produ
cono nel testo una unità concettuale sostanziale anche se dina
mica e articolata. Il c. 21 del Quarto Vangelo, per esempio,
sarebbe il segno più evidente della rilettura in chiave ecclesio
logica delle tradizioni giovannee con un probabile recupero
anche di quelle sinottiche.20 Se il prologo traghetta il lettore nel
mondo del racconto, l’epilogo trasferisce questo racconto (e il
lettore ideale da esso plasmato) nella vita della chiesa.21
La coerenza narrativa e teologica del Vangelo, come la sua
strettissima parentela con le Lettere, si dovrebbe, dunque, non
all’unità del suo autore ma all’unità dell’ambiente ecclesiale da
cui esso promana. Osservare il processo di rilettura e di conti
nua reinterpretazione delle tradizioni e della memoria, ci por
rebbe proprio davanti all’atto della riflessione teologica vissu
to in seno alla comunità giovannea, frutto e segno di una vo
lontà di sempre maggiore comprensione.
3. Conclusione
In quale direzione cercare, dunque, la soluzione della que
stione giovannea? Nessun argomento, come si è visto, è incon
trovertibile. Se il Quarto Vangelo fosse l’unico testimone della
tradizione giovannea si potrebbe restare nel dubbio che la com
plessità e tensione della riflessione teologica che esso manifesta,
talvolta anche con salti e fratture narrative nel testo, potrebbe
e dovrebbe comunque spiegarsi con la struttura polare del pen
siero di un medesimo autore: come meravigliarsi della costan
te tensione dialettica di un racconto il cui autore pone in eser-
20 Cfr. per questo MARCHESELLI, 84-201.
21 Zumstein, «L e prologue», 235.
go l’ossimoro più radicale possibile, quello del «divenire carne»
del «Logos-Dio» (1,14)? D tenace tentativo di «conciliare l’in-
conciliabile» lo porta inevitabilmente a «tensioni interne irre
solubili», ma le si potrebbe giustificare a partire dalla sua qua
lità di «eminente teologo»: «l’autore non è il più delle volte il
proprio redattore?».22
Pur restando affascinante, se si guarda al Quarto Vangelo e
alla sua imponente coerenza narrativa e teologica, l’ipotesi
dell’unità di autore non sembra però la più sostenibile, né per
spiegare l’origine del Vangelo né, a maggior ragione, quella di
tutti gli Scritti giovannei. Lo è ampiamente, invece, quella che
- implicando plausibilmente un processo di rilettura all’opera
nello stesso testo evangelico - li riconduce a un medesimo am
biente ecclesiale, spingendosi eventualmente fino all’identifi
cazione del discepolo amato o, altrimenti, del redattore del
Vangelo, con il presbitero autore delle Lettere, restando la fi
gura storica (e non solo simbolica) del discepolo amato quella
dell’autore ideale del Vangelo, autorità testimoniale e teologica
permanente delle chiese giovannee. Del resto, «non c’è conflit
to tra l’idea di un singolo genio creativo e la convinzione che
la teologia del Vangelo, così come egli la imposta, sia l’espres
sione più schietta della comunità giovannea, sviluppata in ri
sposta alle sue situazioni interne ed esterne, alle sue esperienze,
ai suoi valori e alle sue convinzioni. Un genio individuale emer
ge sempre da una cultura e società particolare ed esprime con
vinzioni e atteggiamenti condivisi, per la maggior parte, con
quella società».23
Una domanda, piuttosto, merita di essere posta quando si
affronta e si tenta di risolvere la questione giovannea alla luce
della storia delle chiese giovannee. Tutte le ricostruzioni che la
vedono progredire di crisi in crisi, da conflitti esterni (con il
22 H engel, 217 e nota 40; 12; 233.
23 Ashton, Understanding, 112, nota 25 in dialogo con D.E. Aune.
mondo dei giudei non credenti in Gesù come Messia) a con
flitti interni (con giudei credenti che, tuttavia, non condivide
rebbero la cristologia rappresentata negli Scritti giovannei),
sembrano dipendere dall’assunto di base che i motivi di con
flitto, con la Sinagoga prima e tra gli stessi credenti dopo, sa
rebbero stati di tipo dottrinale-cristologico: la cosiddetta cri
stologia alta, con la quale si affermava la divinità di Gesù Cri
sto (Gv 1,1-18; 8,58; 20,28), avrebbe fatto esplodere il
conflitto con il mondo giudaico e, all’interno della comunità
in una prima fase di crisi interna, il conflitto con i giudei cre
denti in Gesù che non erano convinti di doversi spingere così
oltre nella comprensione del suo ruolo e identità messianici; in
una seconda fase, poi, la cristologia alta rappresentata dall’au
tore del Vangelo avrebbe spinto alcuni dei suoi sostenitori ver
so un’interpretazione quasi docetista e pre-gnosticizzante del
la figura di Gesù, del quale essi avrebbero sottolineato la di
mensione dell’esaltazione, della gloria e dell’innalzamento fino
al punto da cancellarne l’umanità e considerarne soteriologi-
camente insignificante la morte. Le Lettere e la redazione fina
le del Vangelo, dunque, risponderebbero a questa seconda
crisi interna.24
Nella cosiddetta cristologia alta giovannea, tuttavia, non c’è
nulla che non fosse elaborabile ed enunciabile da un giudeo
osservante a partire dal suo retroterra teologico: ciò che di
tale cristologia doveva far problema non era l’identificazione
del Messia con la Parola, la Sapienza, il Figlio dell’uomo o con
il Figlio di Dio, bensì l’attribuzione di questi titoli all’uomo
Gesù di Nazaret morto sulla croce. A fare problema non era
la divinità del Logos, ma la confessione di fede nel Logos in
carnato e crocifisso.25 Il presupposto sottostante alle ricostru-
24 Per le diverse ipotesi di ricostruzione della storia (dottrinale) della comunità
giovannea, cfr. Futilissimo excursus di Moloney in Brown, 84-93. Per le implicazio
ni di tale ricostruzione nell'interpretazione del Quarto Vangelo, cfr. NlCOLACI, 40-55.
25 Cfr. Boyarin, 261.281.
zioni della storia delle chiese giovannee e, conseguentemente,
all’ermeneutica dei loro scritti dovrebbe dunque essere rifor
mulato. Ritengo che il conflitto dottrinale fosse determinato,
anzitutto, da motivazioni di tipo soteriologico e dalle conse
guenze pratiche e istituzionali dell’attribuzione dell’identità
messianica al crocifisso Gesù di Nazaret.26 Non una «cristolo
gia alta» al livello speculativo, ma la fede nella messianicità
dell’uomo crocifisso (Gv 18,33-38; 19,14-15.19-22; Ap 1,5;
17,14; 19,16), pubblicamente professata (Gv 9,22; 12,42; 16,2)
e liturgicamente celebrata, poteva costituire, oltre che una be
stemmia teologica (cfr. Gal 3,13), anche una minaccia per la
coesione e sussistenza dell’éthnos giudaico: o in quanto impli
cante una presa di distanza radicale dalle istanze messianico-
nazionaliste che portarono in Palestina alle due guerre giudai
che contro Roma (66-70 d.C. e 132-135 d. C., cfr. Giustino,
Apologia 1,31,6; Eusebio, Storia della chiesa 4,8,4); o, per altri
versi, in quanto determinante una dura contestazione di even
tuali strategie di adattamento sociale impiegate dalle comunità
giudaiche situate nelle città dell’Asia Minore (cfr. Ap 2,9; 3,9
ma anche Gv 19,12-15). Antitetica a qualunque ideologia im
periale, la confessione della regalità/messianicità del Crocifisso
avrebbe comunque esposto i credenti a un conflitto socio-re
ligioso difficilmente evitabile (cfr. Gv 15,26-16,4a; 18,33-38;
Ap 1,2.9; 6,9; 12,17; 19,10; 20,4).
L’insistenza sul campo semantico della testimonianza, che
è il marchio più caratteristico della letteratura giovannea, as
solve per questo tanto nel Vangelo che nell’Apocalisse un ruo
lo duplice: il messaggio giovanneo è rivelazione-attestazione-
profezia della vera sovranità salvifica di Dio nel suo Cristo e
martirio-resistenza nella stessa fino alla morte; manifestazione
di una regalità contro-culturale, perché opposta a qualunque
ideologia, religiosa o politica. Dal punto di vista giudaico che
26 Cfr. P esce,180.
guida la proclamazione giovannea e che ben si esprime in Gv
20,30-31, non la cristologia alta ma la cristologia capace di
salvezza era l’obiettivo della persuasione di fede del lettore.
Nella storia della comunità giovannea, in fondo, la questione
in gioco era «come la salvezza potesse essere raggiunta».27 Oc
correrà, allora, ripensare la polemica intra- ed extra-ecclesiale
nell’ambiente giovanneo su un asse anzitutto di tipo soterio-
logico e solo in relazione a questo da un punto di vista
dottrinale.
Bibliografìa
ASHTON J., Comprendere il Quarto Vangelo, Libreria Editrice Vati
cana, Città del Vaticano 2000 (nuova edizione inglese ampliata e
rivista: Understanding thè Fourth Gospel. New Edition, Oxford
University Press, New York 2007).
BAUCKHAM R ., The Testimony o f thè Beloved Disciple. Narrative,
History, and Theology in thè Gospel o f John, Baker Academic,
Grand Rapids (MI) 2007.
B o y a ein D., «The Gospel of thè Memra: Jewish Binitarianism and
thè Prologue to John», in Harvard Theological Review 94(2001),
243-284.
B row n R.E., Introduzione al Vangelo di Giovanni, Queriniana, Bre
scia 2007.
CULLMANN O., Introduzione al Nuovo Testamento, D Mulino, Bologna
1992.
CULPEPPER R.A., «An Introduction to thè Johannine Writings», in
B. L ind a rs - R.B. E dw ards - J.M . C o u rt (edd.), Johannine Lite-
rature, Sheffield Academic Press, Sheffield 2000,9-27.
FABRIS R , «Il giovannismo», in R. Penna (ed.), Le origini del cristia
nesimo, Carocci, Roma 2004, 157-177.
F rey J., «Erwàgungen zum Verhàltnis der Johannesapokalypse zu
den ubrigen Schriften des Corpus Johanneum», in M. Hengel, Die
Johanneische Frage. Fin Lòsungsversuch mit einem Beitrag von Jòrg
Frey, Mohr Siebeck, Tùbingen 1993, 326-429.
G hiberti G. e coll., Opera giovannea, Elle Di Ci, Leumann 2003.
GlURlSATO G., «The Farewell Discourse (John 13-17): Text, Context
and Intertext», in L.D. CHRUPCALA (ed.), Rediscoveringjohn. Es-
says on thè Fourth Gospel in Honour o/Frédéric Manns, Edizioni
Terra Santa, Milano 2013,423-530.
I l AKOLA R., «The Reception and Development of thè Johannine Tra-
dition in 1,2 and 3 John», in T. Rasinus (ed.), The Legacy of]ohn.
Second-century Reception ofthe Fourth Gospel, Brill, Leiden 2010,
17-45.
U ENGEL M., La questione giovannea, Paideia, Brescia 1998.
H ill Ch. E., The ]ohannine Corpus in thè Early Church, Oxford
University Press, New York 2006.
UJPIERI E. (a cura di), UApocalisse di Giovanni, Fondazione Loren
zo Valla, Mondadori, Milano 1999.
M archeselli M., Avete qualcosa da mangiare? Un pasto, il Risorto e
la comunità, Dehoniane, Bologna 2006.
N icolaci M., Egli diceva loro il Padre. I discorsi con i giudei a Geru
salemme in Giovanni 5-12, Città Nuova, Roma 2007.
PENNA R., Le prime comunità cristiane, Carocci, Roma 2011.
PESCE M., Da Gesù al cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2011.
PÉREZ M à RQUEZ R.A., LAntico Testamento nell’Apocalisse. Storia
della ricerca, bilancio e prospettive, Cittadella, Assisi 2010.
RIGATO M.L., Giovanni. L’enigma il Presbitero il culto il Tempio la
cristologia, Dehoniane, Bologna 2007.
S KGALLA G., «Un epilogo necessario», in Teologia 31(2006), 514-533.
SlMOENS Y., Le tre Lettere di Giovanni. Credere per amare. Una tra
duzione e un’interpretazione, Dehoniane, Bologna 2012.
T unI J.-O. - A leg re X ., Scrittigiovannei e lettere cattoliche, Paideia,
Brescia 1997.
VlGNOLO R., «Il Quarto Vangelo in due parole. In margine ai ma-
carismi giovannei (Gv 13,17; 20,29)», in A. Passoni Dell'Acqua
(ed.), « Il vostro frutto rim anga» (Gv 16,16). M iscellanea per il
LXX compleanno di Giuseppe Ghiberti, Dehoniane, Bologna 2005,
119-132.
W a h l d e U.C. von, The G ospel and thè Letters of]oh n , voli. 1-3,
Eerdmans, Grand Rapids (MI) 2010.
ZUMSTEIN J., «Intratextualité et intertextualité dans la littérature
johannique», in C. C livaz - C. C o m b e t -G a l la n d - J.-D. M a cc h i
- C. N ih a n (edd.), Écritures et Réécritures. La reprise interprétati-
ve des traditions fondatrices par la littérature biblique et extra-bi-
blique, Peeters, Leuven - Paris - Walpole 2012,331-344.
VANGELO SECO N DO GIOVANNI
1. Questioni storico-letterarie
Il Quarto Vangelo è da tanti punti di vista il vangelo dei
paradossi, il «vangelo indomabile» o dissidente;1 anche la sto
ria della sua trasmissione e ricezione lo conferma. E cronolo
gicamente l’ultimo dei quattro Vangeli canonici ma è suo il
manoscritto più antico del Nuovo Testamento attualmente co
nosciuto (T>52) e si possiedono più copie papiracee di Giovan
ni che di qualunque altro testo del Nuovo Testamento, quat
tordici delle quali databili a prima del 300.2 È diventato nei
secoli il testo forse più importante per lo sviluppo della teolo
gia cristiana, ma i suoi primi commentatori furono, intorno
alla metà del II secolo, gli gnostici valentiniani. E quello in
base al quale, come già accade nel Diatessaron di Taziano (po
co dopo il 170 d.C.), si è immaginata nella tradizione cristiana
la durata del ministero di Gesù scandito da più di una pasqua
e da più visite a Gerusalemme in occasioni di altre feste, ma è
anche quello che nell’esegesi storico-critica è stato maggior
mente penalizzato per la ricostruzione storica del profilo e
della vita del Gesù terreno, giudicati incompatibili con i tratti
1È il titolo dell’opera di KYSAR.
1 La 28a edizione critica del Nuovo Testamento di Nestle-Aland, del 2012, elenca
trenta testimoni papiracei di parti del testo giovanneo rispetto ai ventidue elencati
nella precedente edizione del 1993. Di questi, quattordici sono datati al III secolo, tre
entro il 200 ($p52, *p66 e sp90).
che essi assumono nel racconto giovanneo per il loro spessore
troppo “teologico”. E quello il cui cardine ermeneutico sta nel
riconoscimento della radicale umanità del Logos Dio, ma è
anche quello che per qualcuno farebbe risaltare più chiaramen
te la «maestosa atemporalità del divino»345 o farebbe di Gesù
«palesemente e dichiaratamente un extra-umano».4 E il Van
gelo che più di tutti lascia trasparire l’identità giudaica di G e
sù e dei credenti in lui, ma è quello in rapporto al quale si fa
più fatica a difendersi dall’accusa di un anti-giudaismo inscrit
to nel DNA stesso del cristianesimo.5
Per coglierne il fascino e carattere indipendente occorre
partire, anzitutto, dal confronto con i Vangeli sinottici.
1.1. Giovanni e i sinottici
Se ciascuno dei Vangeli canonici rappresenta la declinazione
diversa e peculiare (secondo Matteo, Marco, Luca, Giovanni)
di un unico modello comune {vangelo), nel caso del Quarto
Vangelo la declinazione del modello comune è talmente origi
nale e si distacca così fortemente da quella degli altri tre - det
ti, appunto, «sinottici» - da far dubitare che lo si debba con
siderare un «vangelo» alla stregua di quelli e non, piuttosto, un
insieme di meditazioni cristologiche che del genere «vangelo»
assumono solo strumentalmente ed esternamente la forma. Per
chi conosce i racconti sinottici, infatti, entrare nel Quarto Van
gelo significa entrare quasi in un altro universo: si pensi all’ini
zio col prologo poetico (1,1-18), alla presentazione maestosa
della figura di Giovanni il battezzatore primo testimone di G e
sù (1,6-8.15; 1,19-34), al racconto così diverso degli inizi del
3 Così Brown, Introduzione, 131.
4 K ysar, 21.
5 Si vedano MARCHESELLI, «Antigiudaismo», e GARRIBBA - G uida.
discepolato gesuano (1,35-51) e al primo vertice narrativo rag
giunto a Cana con «il principio dei segni» e la «manifestazione
della gloria» di Gesù (2,1-12); oppure, per altri aspetti, all’enor
me spazio occupato da dialoghi e discorsi rispetto ai pochi
fatti raccontati, alcuni dal tono rivelatorio e pedagogico (3,1-
21; 4,1-26), altri serrati, nervosi, violenti (8,21-59; 10,22-39).
Se si fa eccezione per alcuni episodi o detti in comune e per
alcune tappe fondamentali della storia di Gesù (per esempio,
l'inizio in relazione al battezzatore Giovanni e la fine negli
eventi pasquali), le differenze tra il racconto giovanneo e quel
lo sinottico sono macroscopiche a diversi livelli:
- nella parabola spazio temporale: non un solo anno di ministero
pubblico culminante nella pasqua di morte e risurrezione a
Gerusalemme, ma almeno due anni in cui, durante le princi
pali feste giudaiche, la predicazione e Fattività pubblica di
Gesù si concentrano e sviluppano soprattutto a Gerusalemme;
- nel materiale utilizzato: nessun esorcismo e solo sette miracoli
o «segni»; non controversie in materia di purità, digiuno ecc.
ma solo due dispute generate da segni operati in giorno di sa
bato; non brevi detti gesuani ma ampi e strutturati discorsi
teologici funzionali alla relazione tra i protagonisti del raccon
to in cui spiccano, in modo particolare, i detti «io sono» con
cui Gesù attesta la propria missione dal Padre, la propria fun
zione e la propria identità relazionale;6
- nel lessico: mancano termini relativi all'annunzio come kèryssd
e kerygma, euangélion ed euangeltzd o alla conversione come
metanoia e metanoéd\ si preferisce, invece, un lessico simboli
camente più aperto ed evocativo, suscettibile di doppi sensi,
spesso in costruzioni linguistiche oppositive e dualistiche: vita
morte; luce-tenebra; giorno-notte; verità-menzogna; alto-basso;
Dio-mondo; si costruiscono, con questo, campi semantici po
derosi e strutturanti per il messaggio del testo, come quello
6 Si vedano BROW N, Giovanni, 1482-1489 e, per approfondimento, i testi di
WILLIAMS.
della rivelazione, quello processuale, quello della missione,
dell’identità, dell’agire, delle relazioni.
Ancor più che il diverso materiale di costruzione o il modo
diverso di utilizzare lo stesso materiale, ciò che fa risaltare lim
pidamente la differenza tra Giovanni e i sinottici è proprio il
modo di raccontare la storia di Gesù (la story), il modo in cui
(il «come») viene annunziato il messaggio evangelico (il «co
sa»), cioè la costruzione del racconto.7 Se «la storia raccontata
costituisce il film degli avvenimenti così come il narratore ha
deciso di comunicarlo al lettore (o, eventualmente, così come
se l’è rappresentato egli stesso)»,8 in Giovanni è proprio la
struttura del film a cambiare!
I protagonisti. In Giovanni, come nei sinottici, ci si trova
davanti a personaggi individuali e collettivi, ad (ambigui) an
tagonisti e (ambigui) aiutanti.9 Ciò che ci interessa, al momen
to, è sottolineare come spariscano dalla scena giovannea alcu
ni protagonisti tipici della scena sinottica, come «gli scribi», i
«dottori della Legge» e i «sadducei», e ne compaiano in primo
piano altri come boi ioudaioi («i Giudei»), personaggio collet
tivo apparentemente generico ma difficilissimo da classificare,
7 Nel linguaggio della narratologia, la storia raccontata (la story, la fabula) non è la
storia accaduta, l’insieme dei «fatti» così come sono successi e si potrebbero crona
chisticamente elencare (la history), ma là loro ricostruzione narrativa in un determi
nato ordine logico e cronologico. Tale ricostruzione, poi, può essere realizzata in
modi diversi, a seconda della costruzione del racconto (l’intreccio) operata da un
concreto narratore: la costruzione del racconto, dunque, «è la forma conferita al rac
conto dal narratore, il che implica da parte sua la scelta di una struttura, uno stile, una
disposizione» (Marguerat- B ourquin, 27).
8 Ivi.
9 Se fino a un decennio fa si tendeva a leggere nel Vangelo una rigida contrappo
sizione tra un «fronte della fede» e un «fronte della incredulità», ciascuno dei quali
rappresentato in modo cristallino e antitetico dall’uno o dall’altro personaggio, è me
rito della ricerca più recente l’aver mostrato quanto tale contrapposizione sia un frain
tendimento del testo e come, al contrario, i personaggi giovannei siano estremamente
plastici e complessi o, spesso, anche ambigui: cfr. HYLEN.
il cui ruolo è decisivo nella trama del Vangelo. In primo piano
appaiono anche singoli personaggi di cui non si fa menzione
alcuna nei sinottici (la donna di Samaria, Nicodemo, Natanaele,
il cieco nato, il discepolo amato) e in alam i casi la loro storia
personale attraversa in parte o in foto, come uno sfondo pron
to a diventare figura, lo sviluppo del racconto stesso intreccian
dosi intimamente con la storia di Gesù.10 Personaggi che nei
sinottici hanno un ruolo importante, come i Dodici, in G io
vanni compaiono come attori del racconto solo una volta (cfr.
6,67-71), mentre singoli discepoli come Andrea, Filippo, Tom
maso, che nei sinottici vengono solo elencati o quasi, emergo
no, sullo sfondo del più ampio gruppo di «discepoli», come
interlocutori particolarmente significativi di Gesù.
Le grandi scene. Se il racconto sinottico procede fino al cul
mine pasquale tramite il collegamento di numerosi episodi e/o
detti letterariamente autonomi rappresentativi dell’attività di
Gesù, l’intreccio stretto tra gesti e parole, che già caratterizza
la tradizione sinottica, in Giovanni si traduce nella creazione
di poche e grandi scene drammatiche, con una propria unità
di tempo, spazio e azione, che possono occupare anche diver
si capitoli e concorrere a formare ampie e ben individuate se
zioni del testo (la sezione della prima pasqua a Gerusalemme
in 2,13-3,21; la sequenza galilaica in 6,1-7,1; la sezione della
lesta delle Tende nei cc. 7-8 o quella della cena nei cc. 13-17).
Quando, poi, si notano dei passaggi improvvisi da una cornice
spazio-temporale all’altra o da un’azione all’altra (cfr. passaggio
dal c. 5 al c. 6 o da 7,45-52 a 8,12-59), è come se sul palcosce
nico teatrale del testo si assistesse a un cambio di scena deter
minato dall’esaurirsi - talvolta solo temporaneo o parziale - di
Cfr. Giovanni il battezzatore in 1,6-8.15.19-35; 3,23-36; 5,33-36; 10,40-42; Na-
ianaele in 1,43-51 e 21,1-14; Nicodemo in 3,1-21; 7,45-52; 19,38-42; Tommaso in
11,14-16; 14,1-7; 20,24-29; il discepolo amato nei cc. 13-21.
un’azione complessa e delle interazioni tra i protagonisti ad
essa connesse, in una sequenza narrativa ben orchestrata che
non mancherà di rilevarne puntualmente, progredendo, le con
seguenze (cfr. la ripresa dell’azione del c. 5 in 7,14-24 oppure,
come esempio di ripresa a grande.distanza, il rapporto tra 1,19-
35 e 10,40-42). Il quarto evangelista, nel dare forma alle scene
e alla loro sequenza, si mostra davvero un «drammaturgo di
eccezione».11
Le tecniche narrative. Due sono i modi principali con cui il
narratore riesce a imprimere al suo racconto una forte coeren
za narrativa e che contraddistinguono il suo Vangelo rispetto
a quelli sinottici.
Il primo modo è quello dei continui richiami intratestuali ai
fatti raccontati prima o dopo nel testo, cioè le analessi e proles
si interne al racconto, che non servono tanto a colmare even
tuali lacune nella conoscenza del lettore (come sarebbe se i
fatti richiamati non fossero o non dovessero essere raccontati
altrove nel testo) quanto a richiamargli continuamente la se
quenza degli eventi raccontati mostrandone l’intima connes
sione da un capo all’altro del Vangelo. Tali richiami intratestua
li agli eventi accaduti o futuri nell’asse del racconto possono
essere fatti dal narratore, che mediante quelli guida la com
prensione del lettore, o dai protagonisti stessi del racconto che
in tal modo appaiono al lettore personaggi consapevoli, al pa
ri di lui, dello svolgimento della storia raccontata. Così, solo
per fare qualche esempio, Gesù può citare se stesso dicendo ai
«discepoli» quanto ha già detto a «i Giudei» molto tempo pri
ma nel racconto (cfr. 13,33 —» 7,33-36 e 8,21-22) o ribadendo
loro, in una tappa successiva del suo discorso, quanto prima
ha sottolineato per meglio esplicitarne le implicazioni (cfr.
15,20 - » 13,16); così possono fare alcuni personaggi del rac-
conto che, richiamando le azioni o le parole di altri protagoni
sti, manifestano il loro bisogno di capire quanto accade e di
collocarsi con un proprio giudizio in rapporto a quello (3,25-26
oppure 10,40-42 in rapporto a 1,19-35; 7,25 in rapporto a 5,18
e 7,1; 10,19-20 oppure 11,37 in rapporto a 9,1-41; 11,7-8 in
rapporto a 10,22-39); così, ugualmente, può fare il narratore
per mostrare la corrispondenza tra la parola di Gesù e gli even
ti (18,9 in rapporto a 17,12 o 18,31-32 in rapporto a 12,32-33)
o per fare emergere progressivamente nel lettore la consape
volezza del legame tra gli avvenimenti raccontati e i loro pro
tagonisti (cfr. 7,50 e 19,39 in rapporto a 3,1-21; 21,20 in rap
porto a 13,23 o, come prolessi, 11,2 in rapporto a 12,1-3; 12,32-
33 in rapporto a 18,31-32 e 19,16-17).
Il secondo modo è quello delle cosiddette parentesi giovan-
nee o, come altri amano definirle, le footnotes con cui il narra
tore glossa continuamente il proprio racconto, chiarendone
l’orizzonte ampio (2,11; 11,51-52), orientandone la compren
sione (cfr. 2,17.22; 7,39; 12,16), esplicitandone un senso altri
menti oscuro (2,21; 6,71; 8,27; 12,33), mostrando la comples
sità dei rapporti tra i personaggi nel tempo stesso in cui si
svolge il racconto (2,9; 2,24-25; 6,6; 6,14-15; 7,35-36 / / 8,22;
10,6; 11,13; 13,28-29), pronunciando a volte un grave giudizio
su di loro (12,6.43), ironizzando tragicamente (12,9-11) o pre
cisando e correggendo quanto prima affermato (4,1-2 rispetto
a 3,22). Alcune di queste parentesi possono coincidere anche
con analessi o prolessi del narratore (4,46.54 in rapporto a 2,1-
11; 18,14 in rapporto a 11,49-50 o 7,30 e 8,20 in rapporto a
12,23.27-28a; 13,1; 17,1) ma, mentre le analessi o le prolessi
possono apparire anche in bocca ai personaggi del racconto,
le footnotes sono le tracce di cui l’evangelista dissemina il testo
per formarsi il suo lettore ideale, cioè per guidare personalmen
te il lettore alla corretta interpretazione degli avvenimenti de
scritti, così come lui li ha compresi e intende comunicarglieli,
mostrandosi come voce fuori campo continuamente intrusiva!
Attraverso queste tecniche, in Giovanni, diversamente che
nei sinottici e nonostante la articolazione apparentemente di
sordinata di alcune sezioni (per esempio, il c. 7), la memoria
degli eventi si fissa nella mente del lettore che non perde mai
il filo del “film”. Basta ch’egli lo “riveda” due o tre volte per
poterlo raccontare ad altri senza dimenticarne alcuna concate
nazione maggiore. L’effetto così raggiunto dal quarto evange
lista potrebbe essere dovuto anche alla mnemotecnica neces
saria a ima cultura principalmente orale, com’era quella dell’au
tore e dei lettori del Vangelo, e soggiacente alla sua arte
retorica: la memoria del narratore, rappresentativa della me
moria dei discepoli (2,17.22; 12,16; 14,26; 15,20; 16,4) e strut
turata sulla capacità di visualizzare al dettaglio personaggi,
luoghi e forme di interazione, si imprime con tale efficacia
nella memoria del suo lettore che questi potrebbe riprodurne
esattamente il racconto perpetuando in sé e per altri il suo
«teatro della memoria».12
Nel costruire il suo racconto in modo così diverso, il quarto
evangelista conobbe e usò i Vangeli sinottici? Se ne dissociò
consapevolmente e, magari, polemicamente (cfr. Gv 3,24 vs Me
1,14 / / Mt 4,12 e Le 3,19-20)? Li conobbe ma non li usò come
proprie fonti, potendo egli disporre di una tradizione persona
le autonoma la cui diversità si evince dall’impianto stesso del
suo racconto? Oppure non li conosceva affatto? Sulla risposta
a queste domande non sembra essersi raggiunto un consenso
unanime. Se l’insieme dei dati farebbe propendere, senza esi
tazione, per l’indipendenza di Giovanni, alcune informazioni
condivise (cfr. Gv 4,44 e Me 6,4 / / Mt 13,57 e Le 4,24) e sor
prendenti coincidenze lessicali (cfr. pani per «duecento dena
ri»: Gv 6,7 / / Me 6,37; «unguento profumato di nardo genui-
12 È la suggestione di T hatcher riguardo al significato della memoria nel Quarto
Vangelo.
no»: Gv 12,3 / / Me 14,3; «trecento denari»: Gv 12,4 / / Me
14,5) sollevano legittimi dubbi. C ’è chi ha sostenuto la dipen
denza diretta da Marco; chi la dipendenza dai tutti e tre i si
nottici; chi la conoscenza delle tradizioni sinottiche, piuttosto
che dei testi scritti, e contemporaneamente la fondamentale
autonomia del quarto evangelista. Allo stato attuale della ricer
ca sembra prevalere, perché più convincente sulla base del
confronto analitico tra i testi, la tesi di chi sostiene la fonda-
mentale indipendenza letteraria di Giovanni dai sinottici senza
però escludere un’«influenza incrociata» tra le diverse tradi
zioni proto-cristiane su Gesù nell’arco di tempo che condusse
alla redazione finale del Quarto Vangelo.13
D ’altra parte, il lettore che si accostasse per la prima volta
ttl Quarto Vangelo incontrerebbe alcune difficoltà se non co
noscesse già i sinottici o le tradizioni narrative confluite in essi.
Presupposta, infine, è la conoscenza di dati che l’evangelista
non fornisce (per esempio, in 21,2 il lettore viene informato
ilella presenza di «quelli di Zebedeo», cioè dei fratelli Giacomo
e Giovanni, personaggi di primo piano secondo i sinottici mai
nominati prima nel Quarto Vangelo).
Probabilmente, dunque, la tradizione sinottica costituiva
parte del «patrimonio culturale comune» del quarto evangeli
sta e dei suoi lettori14 ed è plausibile che il dialogo con precise
tradizioni sinottiche (in parte, forse, anche scritte) fosse obiet
tivo intenzionale del redattore finale del Quarto Vangelo (cfr.
Gv 21,11 vs Le 5,6).
n Brown, Introduzione, 109-120.
MS egalla, Il Quarto Vangelo, 73.
1.2. La differenza giovannea e la pretesa autoriale sottesa
al Quarto Vangelo
La differenza nel materiale utilizzato implica anche un cam
biamento nella focalizzazione contenutistica del testo giovan
neo. Il tema centrale del Quarto Vangelo non è più l’annuncio
del regno di Dio, la remissione dei peccati in vista dell’immi
nente avvento del regno e del giudizio, l’evangelizzazione dei
poveri e degli emarginati di ogni tipo, ma la questione dram
matica della missione, del riconoscimento e/o del rifiuto di
Gesù come inviato, Parola escatologica di Dio al suo popolo
(e, in esso, al «m ondo»), rivelazione personale dell’identità
stessa del Dio di Israele e del suo modo di comunicarsi e do
narsi agli uomini manifestando nel Figlio inviato la propria
regalità salvifica. I detti «io sono», così caratteristici del lin
guaggio di Gesù in Giovanni, riflettono lo stesso spostamento
d ’accento che porta alla «penetrante monomania del Gesù
giovanneo».15 Da dove, dunque, ima differenza così profonda
che gli antichi lettori del testo giovanneo provarono a spiegare
cronologicamente e teologicamente parlando di Giovanni come
dell’«ultimo» a scrivere, dopo i sinottici, e del suo come di un
«vangelo spirituale (pneumatikón)» che avrebbe inteso dare
nuova prospettiva ai racconti degli altri dedicati alle dimensio
ni «corporee» (tà sòmatikà) del suo ministero (Clemente di
Alessandria, Ipotiposi, citato da Eusebio, Storia della chiesa
6,14,7)?
I moderni, che si interrogano sempre sulle radici storico
letterarie delle differenze “spirituali”, cercano di spiegare la
novità guardando alla storia complessa delle comunità giovan-
nee in conflitto progressivo, soprattutto dopo la catastrofe del
70, con il proprio ambiente giudaico d ’origine e, poi, in situa
zione di scisma intra-ecclesiale. Alla luce di questa storia si
15 H engel , 182.
spiegherebbero l’intento del quarto evangelista (condurre i
lettori alla retta fede cristologica e farli permanere saldamen
te in essa), la sua prospettiva specifica sul ministero di Gesù
- concentrato, non a caso, su Gerusalemme, sul tempio, sulle
feste e sui simboli più importanti del giudaismo del I secolo
-, la diversità delle sue tradizioni e la forma drammatica e
conflittuale del racconto evangelico che le assume e le trasfor
ma conferendo al linguaggio, ai modi e alle strategie del Gesù
giovanneo uno spessore cristologico e teologico così diretto e
trasparente da renderli difficilmente componibili con quelli
del Gesù sinottico.
C ’è una parte importante di verità in questa spiegazione
storico-letteraria della differenza giovannea, come si è visto
affrontando la questione dell’origine dell’intero corpus, ma è
solo una parte che non si può far diventare la totalità. Dal testo
stesso del Vangelo, del resto, la storia della comunità giovannea
non può che essere inferita a rischio di non poca arbitrarietà
e, spesso, a detrimento della valorizzazione piena e attenta del
la storia raccontata nel Vangelo, i cui protagonisti principali
non sono i credenti giovannei alle prese con i loro oppositori
teologici, ma Gesù e i suoi contemporanei.16Il narratore stesso,
che presenta il suo racconto anzitutto come un «libro dei se
gni» compiuti da Gesù «davanti agli occhi dei suoi discepoli»
(20,30; cfr. Dt 6,22), avanza da parte sua una pretesa autoriale
che merita di essere presa in considerazione quando si cerca
un’adeguata comprensione della differenza giovannea e che
consiste nella riconduzione ultima delle cose raccontate alla
testimonianza oculare di un protagonista degli eventi stessi
(21,24). Una simile pretesa non ha pari nei sinottici e si può
ritenere sensatamente che la differenza nella pretesa autoriale
costituisca la differenza per eccellenza, quella che spiega tutte
le altre differenze giovannee. Sia che si intenda il discepolo
“ N icolaci, 26-66. Cfr. anche Ku n k .
amato come autore ideale del Vangelo e garante della testimo
nianza in esso contenuta, sia che lo si intenda come l’autore
reale del testo in una sua prima edizione, sia che lo si intenda
come autore reale e ideale dell’intero Vangelo, è anzitutto da
lui e dalla sua personale storia discepolare che dipende la di
versità della storia giovannea di Gesù.17
È su questa base che si giustifica l’appello insistente alla
fede, obiettivo del Vangelo: la narrazione di segni accuratamen
te selezionati e presentati così da generare e radicare la fede
nei lettori, dipende dalla testimonianza di un discepolo storico
da essa e in essa personalmente impegnato. È su questa base,
anche, che si spiega la risolutezza con cui il narratore del Quar
to Vangelo si fa guida del lettore nell’arco del racconto mo
strandosi quanto mai sicuro e affidabile nell’interpretazione
delle parole e delle intenzioni di Gesù, nella comprensione
degli eventi accaduti e delle loro logiche più profonde, nell’of-
frire a chi lo ascolta un racconto che è una continua proclama
zione della fede che intende suscitare e che, per la sua stessa
struttura, esprime non solo la sua esperienza singolare e per
sonale ma anche l’esperienza di una comunità celebrante. La
testimonianza, infatti, impegna la vita.
Non è un caso che il Quarto Vangelo si apra e si chiuda
evocando la vita liturgica della comunità che celebra il Verbo
divenuto carne (Prologo in 1,1-18) e ne attesta la perenne pre
senza in mezzo ai suoi nel segno del pane preso e donato (Epi
logo al c. 21): lo sfondo ecclesiale e liturgico dà alla narrazio
ne drammatica del Quarto Vangelo una forma anche rituale
che è quella che dice ciò di cui è questione, la vera posta in
gioco del racconto, che è storica, teologica ed ecclesiologica.
Si deve al discepolo amato, alla sua particolarissima storia di-
17È la tesi, diffusamente argomentata, di B auckham, 12-31, che parla del Quarto
Vangelo come di «qualcosa di completamente diverso» e giustifica tale diversità a
partire dalla identità del suo autore.
scepolare e alla storia dei giudei credenti in Gesù che l’hanno
convissuta e condivisa, di aver saputo riconoscere e proclama
re con tanta limpidezza ciò che è in gioco nella vicenda di
Gesù di Nazaret: ne va di Dio che si è donato al mondo, della
Gloria del suo essere e, dunque, del suo modo di rivelarsi al
mondo (1,1-18; 3,16-21.31-36; 4,42; 12,44-50; 17,20-23); ne
va del concreto e particolare uomo storico Gesù di Nazaret e
del suo destino di passione, sofferenza e morte, valutato, con
estremo realismo, anche in rapporto alle inevitabili e ambigue
implicazioni sociali e politiche della sua pretesa identitaria e
del suo ministero (,14-15; 7,2-10; 11,47-53; 12,42-43; 18,19-21;
19,12); ne va degli uomini e della loro storia, individuale e
comunitaria.18
Alcune delle strategie retoriche dell’evangelista ripetutamen
te sottolineate dagli esegeti, come l’ironia e il fraintendimento
che i personaggi del racconto esprimono nei loro dialoghi o il
narratore nei suoi commenti,19 si spiegano bene in questa luce:
sostenere l’enigmatico e provocatorio linguaggio di Gesù sen
za sfuggirlo, esporsi alle sue pretese senza credere di poterle
risolvere frettolosamente o ridurre con sarcasmo (2,20; 4,12;
8,57), stare nel suo linguaggio così da poterlo comprendere
fino in fondo (8,31-32.43), è dal punto di vista del narratore
assolutamente vitale per i destinatari del suo messaggio, siano
essi gli interlocutori storici di Gesù come il narratore li disegna
sulla scena (3,10; 8,21-30; 16,29-32), siano essi i contemporanei
dell’evangelista e i futuri, potenziali, uditori del suo messaggio.
L’ironia del narratore, a volte tragica, si comprende bene su
questo sfondo: non significa il disprezzo per interlocutori strut
turalmente incapaci di comprendere il linguaggio di Gesù, ma
la sofferenza drammatica che il rifiuto di lui comporta per co
loro che vi sono coinvolti (5,31-35.43; 15,18-16,4a). Dalla chiu-
“ Cfr. Reinhaktz, 32-53.
19BROWN, Introduzione, 302-305.
sura e dall’apertura alla pretesa di Gesù dipende la storia dei
singoli e delle comunità.
E a partire dalla peculiare esperienza storica e di fede del
discepolo amato e dei (suoi) «fratelli» nella fede (20,17; 21,23)
che si spiega, dunque, il racconto in «noi» che sigilla la prete
sa autoriale del Quarto Vangelo;20 un racconto in «noi» che
esprime un’identità e un’assunzione di responsabilità coraggio
sa e decisa quanto quella espressa dalla narrazione in «io» che,
secondo Giovanni, Gesù fa del Dio, delle Scritture, dei simbo
li e delle speranze di Israele, e del tutto proporzionale ad essa!
Nell’intrigo giovanneo ne va di «noi»: non solo il narratore
ma anche il lector è attirato in fabula perché ne va del suo de
stino, appeso alla professione di fede in Gesù Figlio dell’uomo
(9,35-38). È in lui, infatti, che il discepolo amato ha riconosciu
to la figura individuale e, al contempo, comunitaria cui il regno
viene consegnato (cfr. Dn 7,13-14.27).
1.3. «Non multa sed multum»; il racconto giovanneo tra storia
e teologia
Il Quarto Vangelo, dunque, risulta essere un dramma tridi
mensionale che ha la verticalità del rapporto Dio-mondo,
l’estensione della vita e della pasqua di Gesù di Nazaret e la
profondità di campo della storia, tutta “giudaica”, della comu
nità messianica.
Come coniugare questo con la natura e la finalità del gene
re «vangelo» che, in quanto biografia kerigmatica, ha anche
una pretesa referenziale? Si può parlare di storicità anche quan
do si ha a che fare con la particolare fenomenologia di un
vangelo che riesce a saturare di significati simbolici una storia
i] 20 Sull’importanza del sigillo comunitario posto alla testimonianza del discepolo
(amato in 21,24-25, si veda C ulpepper, «John 21: 24-25», 362-364.
raccontata con estremo realismo? La questione del rapporto
tra storia e teologia, evento e significato, fatto e senso, nella
costruzione giovannea della storia di Gesù è una delle più dif
ficili da affrontare. L’essenza del genere «vangelo» consiste,
infatti, nell’affermazione dell’identità tra il Gesù terreno e il
Signore risorto pur nel riconoscimento della differenza e di
scontinuità tra prima e dopo la pasqua, e ciò rende già per sé
arduo il compito degli storici alla ricerca dei tratti della perso
na e del ministero di Gesù di Nazaret. Nel caso del Quarto
Vangelo, però, la difficoltà del loro compito è elevata al qua
drato. La dialettica tra continuità e discontinuità, infatti, non
è solo intratestuale, consapevolmente attiva nella narrazione
cristologica dell’evangelista, ma è anche intertestuale nella mi
sura in cui continuità e, soprattutto, discontinuità appaiono
anche tra la narrazione giovannea e le narrazioni sinottiche su
Gesù. Se in Giovanni lo spostamento del focus contenutistico
è dal vangelo del regno (tema centrale della predicazione del
Gesù sinottico) al dramma della rivelazione e del riconosci
mento di Gesù in quanto Messia e, dunque, le tradizioni nar
rative e discorsive su Gesù sono rielaborate teologicamente e
cristologicamente in modo più esplicito e profondo che nei
sinottici, come può il suo racconto essere utilizzato nella rico
struzione storica? Misurare e valutare l’intenzione referenziale
del quarto evangelista avendo come metro di paragone i sinot
tici è un’impresa quasi impossibile; quando si tratta di disegna
re i tratti dell’uomo Gesù Yaut... aut sembra inevitabile.
Così, benché tutti siano disposti a riconoscere il valore sto
rico di parecchie indicazioni presenti nel Quarto Vangelo al
livello geografico, cronologico, delle tradizioni giudaiche e per
sino, in alcuni casi, delle tradizioni narrative su Gesù,21 quando
21 Solo per fare un esempio, nel caso di uno dei pochi racconti comuni alla tradi
zione sinottica e a quella giovannea, quello della guarigione del «figlio» (Gv) / «servo»
(Mt/Lc) di un funzionario regio di Cafarnao (Gv 4,46-54 / / Mt 8,5-13 e Le 7,1-10), la
tradizione giovannea, che parla non di un centurione pagano ma di un funzionario di
si tratta di pronunciarsi sulla sua costruzione del racconto, ar
restarsi è quasi un obbligo: Giovanni «il teologo» può difficil
mente essere utilizzato come fonte nella ricerca del Gesù sto
rico e la «tirannia del Gesù sinottico» sembra difficile da su
perare.22 Il G esù degli storici sem bra costretto a restare
insuperabilmente «de-giovannizzato» e il Gesù giovanneo «de-
storicizzato», a non poco detrimento della stessa ricerca stori
ca che, più che mai concorde oggi nell’affermare il carattere
profondamente giudaico dell’insegnamento e delle pratiche di
vita di Gesù, potrebbe guadagnare molto dall’assunzione del
punto di vista giudaico del quarto evangelista, almeno in ter
mini euristici.23
Lo stesso narratore, tuttavia, fornisce due criteri che posso
no fare da guida alla lettura anche sotto questo aspetto. Tanto
al livello formale quanto al livello contenutistico, infatti, egli
mostra una chiara consapevolezza del senso e delle modalità
del proprio racconto: da un lato, perché teorizza esplicitamen
te, attraverso la categoria della memoria, il rapporto tra passa
to e presente soggiacente ad esso (2,22; 12,16); dall’altro perché
ne dichiara esplicitamente contenuto e scopo (20,30-31).
1.3.1. La memoria come chiave di accesso alla costruzione
del racconto giovanneo
Al livello formale, l’onnisciente e intrusivo narratore del
Quarto Vangelo si mostra consapevole del carattere oscuro o
enigmatico di gesti e parole di Gesù prima della pasqua e non
Erode Antipa (un basilikós) e, dunque, possibilmente di un giudeo, sembra più antica
e storicamente attendibile della stessa fonte (Q) da cui sembra attinto il racconto si
nottico.
22 B rown, Giovanni, LIV. Della «tirannia del Gesù sinottico» che «dovrebbe esse
re gettata nel cestino dei postbultmaniani» parla enfaticamente J.P. Meier, Un ebreo
marginale. Ripensare il Gesù storico, voi. 1, Queriniana, Brescia 32006,52.
23 Cfr. Anderson - J ust - T hatcher (edd.), voi. 1,75-132.
perde occasione per sottolineare l’ignoranza dei suoi contem
poranei: non solo gli outsiders o antagonisti, i personaggi non
Intimi a Gesù (3,10; 8,27.43; 10,6), ma anche i suoi discepoli,
nessuno escluso, nonostante la conoscenza che possono vanta
re risultano spiazzati dal maestro (4,27.31-33; 6,68-71; 11,12-
1ì; 13,6-7.27-29; 16,29-32) e devono ammettere ad alta voce
tli non capire: «Che significa ciò che ci dice...?» (16,17-18). E
proprio in riferimento alla loro difficoltà di comprensione che
li narratore arriva a teorizzare la differenza tra due tempi nella
relazione discepoli-Gesù esplicitandola in due scene partico
larmente importanti del ministero pubblico. All’inizio, ricor
dando la parola di Gesù sulla distruzione e ricostruzione del
tempio (2,19-21); alla fine, in occasione dell’ultima venuta a
( lerusalemme per la terza pasqua (12,12-19): «Queste cose non
le capirono i suoi discepoli al principio (tò proton), ma quando
Gesù fu glorificato si ricordarono che queste cose erano scrit
te su di lui e queste gli avevano fatto» (12,16). In entrambi i
casi il narratore si esprime come voce fuori campo che, a po
steriori, guarda agli eventi passati per spiegarne il senso con
una comprensione che allora, nel momento in cui essi si erano
«volti, non era stata possibile. Egli distingue, perciò, un «pri
ma» e un «dopo che Gesù fu risuscitato» o «glorificato»: il
«prima» è il tempo passato degli eventi - gesti o parole - vis
suti da Gesù e dai suoi discepoli con lui fino alla pasqua; il
«dopo» è il tempo successivo agli eventi di passione, morte e
risurrezione complessivamente intesi. Se al «prima» corrispon
de il fraintendimento (2,20) e la non comprensione (12,16), al
«dopo» corrisponde la comprensione del senso delle parole
pronunciate nel passato («egli diceva», cioè «intendeva dire»)
e delle «cose fatte a» Gesù. In entrambi i casi, la comprensio
ne di eventi e parole non è espressa attraverso il verbo che
esprime conoscenza (gignóskd) ma attraverso il verbo «ricor
dare» (mimnéskò) e in entrambi i casi il processo della memo
ria, entro il quale si realizza la comprensione piena degli even-
li, include in qualche modo il confronto con la Scrittura che
risulta essere la grammatica necessaria per articolare la com
prensione stessa.24
La categoria della memoria, esplicitamente collegata nei di
scorsi della cena al protagonismo attivo dello Spirito (14,26),
viene dunque offerta come chiave di accesso alla costruzione
del racconto giovanneo. La memoria non crea o inventa paro
le e gesti del passato ma esprime un ritorno su di essi per atte
stare una differenza fondamentale tra due tempi: quello del
rapporto tra i discepoli e Gesù prima della pasqua e quello del
rapporto dei discepoli con Gesù dopo la pasqua; al primo cor
risponde ima dimensione di sospensione o non comprensione
di quello che, pure, è stato udito ed è accaduto sotto gli occhi;
al secondo, invece, corrisponde un processo di recupero del
passato pieno di comprensione e di senso e intriso di rimandi
alla Scrittura. Nella costruzione giovannea del racconto, resta
così salvaguardato tanto il passato di Gesù, con tutta la poli
valenza e l’enigmaticità dei suoi gesti e parole, quanto la pie
nezza di senso scaturita dagli eventi pasquali che, senza violare
la storia con i suoi tempi, ne fa però emergere in filigrana lo
spessore e la portata.
1.3.2. La Gestalt giovannea della vita di Gesù:
non molte cose, ma in profondità
Nett’Institutio Oratoria, scritta più o meno nello stesso pe
riodo in cui il Quarto Vangelo raggiunse la sua forma finale (c.
90-96 d.C.), Quintiliano sosteneva che il perfetto oratore do
vesse formare la mente e modellare lo stile selezionando sa
pientemente le proprie fonti, ovvero leggendo molto, più che
di molti (multa magis quam multorum lectione: 10,1,59). Il cri-
24 Marcheselli, «Davanti alle Scritture».
torio stabilito dal maestro dei retori sarebbe poi diventato una
massima valida a diversi livelli: l’importante non è la quantità
delle informazioni o delle nozioni apprese ma la loro qualità e
profondità (non m ulta sed m ultum ).
Il narratore del Quarto Vangelo, per certi versi, sembra gui
dato da un criterio analogo. Nel consegnare al lettore il proprio
hiblion (20,30-31) egli lo esplicita in questi termini: il suo lavo
ro di scrittura ha una pretesa referenziale riguardo all’agire
passato di Gesù con i suoi discepoli ma non ha di mira l’esau-
stività quantitativa; esso offre una selezione efficace di alcuni
«segni», tra i «molti altri», fatti sotto gli occhi dei discepoli e
giudicati capaci di generare e alimentare continuamente la fe
de dei destinatari. Del principio di selezione che guida revan
gelista due aspetti si possono qui sottolineare:
a) il linguaggio dei «segni» riflette il punto di vista e il retroterra
giudaico dell'evangelista che doveva essere condiviso dai desti
natari. Esso, infatti, richiama anzitutto la storia fondativa di
Israele, cioè la storia della liberazione esodica sotto la guida di
Mosè accreditato da Dio mediante i segni compiuti agli occhi
del popolo (Dt 6,22, ma anche Es 4,1-9; 7,3; 11,9-10). Al con
tempo, però, richiama l'attesa messianica ed escatologica varia
mente condivisa da diversi gruppi giudaici nel I secolo. Il com
parire di «profeti di segni» nell'arco del I secolo ne è una prova.
La selezione del narratore riguarda alcuni «fatti» riconosciuti e
presentati narrativamente come «segni», capaci di evocare al
lettore l'intervento liberatore del Dio dell'alleanza; fatti, cioè,
saturi di valenza simbolica, di potere evocativo, di significato.
Il «segno» esprime appunto la natura di un accadimento che,
agli occhi di chi lo riconosce tale e come tale lo trasmette, si
colloca tra fatto e significato, la storia e la sua interpretazione
teologica;
b) la duplice finalità («perché crediate... e credendo abbiate vita»)
esprime la convinzione di fede del narratore che, mediante il
testo, si comunica perché anche altri, i lettori, possano parteci
parne per avere la vita. Ordinato a nutrire e plasmare la fede
cristologica nella sua compiutezza, il libro dei «segni» non è
certo una descrizione neutra di «fatti bruti», ma una proclama
zione di fede relativa al significato della persona e della vita di
Gesù di Nazaret, un significato che è evidentemente contesta
to, che è oggetto di disputa. Anche per questo, tuttavia, il rac
conto giovanneo ha a pieno titolo un valore “storico”, non in
un impossibile senso cronachistico, ma «nel senso in cui la sto
ria ha a che fare non solo con ciò che accadde ma anche col più
profondo significato di ciò che accadde».25
Della storia e del suo significato chi scrive si assume in pri
ma persona la responsabilità, identificando la scrittura evange
lica come scrittura di «colui che testimonia» (19,35; 21,24).26
Non meno di quella della memoria, anche la categoria di testi
monianza presuppone intrinsecamente due livelli di attuazione,
una doppia dimensione: quella storica, fisica e quella metafo
rica, confessionale. Da un lato la testimonianza è tale, e lo è
attualmente (cfr. il perfetto e il presente di martyréd in 19,35 e
21,24), perché è propria di chi ha visto e vissuto la storia di
Gesù (il testimone oculare e discepolo amato); dall’altro, è ta
le perché è visione in profondità, visione illuminata, della per
sona e della storia di Gesù. Nelle diverse occorrenze evangeli
che del verbo «testimoniare», non di rado unito ai verbi di
visione (1,32.34; 3,11; 3,32; 19,35), è evidente che è soprattut
to questa seconda dimensione a caratterizzare l’atto del testi
moniare, anche nel caso del discepolo amato. L’insistenza sul
la testimonianza oculare non può essere presa semplicistica-
25 B r o w n , Giovanni, LIV.
26 II Quarto Vangelo spicca, rispetto ai sinottici, per lo spazio e il valore ermeneu
tico del lessico testimoniale: il verbo martyréd, che nei sinottici compare solo due
volte (Mt 23,31; Le 4,22), in Giovanni compare 33 volte; il sostantivo martyria, che
nei sinottici compare quattro volte (tre in Marco e una in Luca), in Giovanni compa
re quattordici volte. Per l’elaborazione del dato, cfr. VlGNOLO, «La dottrina»; LINCOLN,
«The Beloved Disciple».
mente solo al primo livello o dimensione, perché il lessico
della testimonianza appartiene alla più ampia metafora giuri-
dico-processuale che pervade l’intero Vangelo e che vede nel
la missione e nella storia di Gesù la testimonianza-processo tra
Dio e mondo.
L’insistenza sul significato profondo degli eventi, che è ciò
su cui il testimone si compromette e si impegna, non potrebbe,
però, implicare la rinuncia al significante ovvero la pretesa re
ferenziale di chi crede e invita alla fede. Senza ciò cui viene
riconosciuta la dignità di segno, non potrebbe darsi nemmeno
un significato: «gli avvenimenti hanno bisogno di essere reali
per essere significativi; non sono simboli, ma sono realtà la cui
importanza tuttavia supera il momento in cui esse si sono ve
rificate e si estende a tutta l’intera storia della salvezza».27 An
che in rapporto all’obiettivo che si prefigge (condividere la
fede messianica vivificante) l’operazione testimoniale compiu
ta dal narratore si regge tenendo insieme storia e teologia, fat
to e significato, ciò che fu significativo e ciò che da e in esso fu
compreso in quanto significato; solo mantenendosi nel tra,
nell’interfaccia significativo degli eventi, essa raggiunge il suo
obiettivo; solo consentendo al lettore di contattare il passato
significativo, potrà fungere da strumento efficace di mediazio
ne tra colui che fu «visto» e chi in lui è chiamato a credere
(20,29).
Alla luce di quanto detto, la differenza giovannea non do
vrebbe più risultare un ostacolo in linea di principio. Non
avrebbe senso esprimerla come la differenza che si manifesta
tra chi consegna al lettore le tradizioni su Gesù (i sinottici) e
chi consegna al lettore la loro interpretazione (Giovanni). An
che i sinottici sono interpreti e anche il loro racconto esprime
una opzione di fede che si vuole plasmare e consolidare nel
lettore (Le 1,1-4). La fede biblica, infatti, è sempre un giudizio
sulla storia e, con la scelta del genere «vangelo», si esprime in
un racconto che pronuncia un giudizio interpretativo sulla sto
ria. Lo è più che mai il racconto di colui che, nelle vicende
storiche di Gesù, ha riconosciuto il processo in atto tra Dio e
il mondo. La differenza, piuttosto, consiste nella diversa ango
latura da cui la storia è raccontata e nel punto di vista che
guida la costruzione del racconto come selezione di segni ca
paci di suscitare la fede vivificante. Quello che fa la differenza
è che, in Giovanni, il giudizio sulla storia è dato da un punto
di vista ancora squisitamente giudaico catalizzato da tempi,
luoghi, protagonisti e questioni cruciali per l’identità e le spe
ranze giudaiche nel primo secolo d.C. Il suo punto di vista fa
la differenza dando alla storia di Gesù la forma complessiva di
un’estesa disputa, in cui, sullo sfondo della domanda giudaica
sull’intervento liberatore di Dio alla fine dei tempi e sulla figu
ra mediante la quale si sarebbe realizzato, la questione è deci
dere chi Gesù sia e se il suo agire e il suo dire siano legittimi.
I fatti sembrano fuori discussione al livello descrittivo e, dato
il diverso punto di vista giovanneo, non sorprende che quelli
messi a fuoco siano in buona parte diversi, materialmente e
formalmente, da quelli sinottici. Ciò che, invece, è oggetto di
polemica e necessita testimonianza è la loro interpretazione.
Non multa sed multum, dunque. Ciò vale per il lessico, scar
so in varietà ma saturo di significati; vale per il materiale di
costruzione accuratamente selezionato e per il modo di com
porlo (non molti episodi ma solo alcuni «segni», poche e ampie
scene dense di provocazione strettamente correlate l’una all’al
tra così da formare il quadro narrativo che veicola compiuta-
mente il giudizio del quarto evangelista sulla storia di Gesù);
vale, infine, per la reductio ad unum dell’oggetto della narra
zione giovannea, la rivelazione e il riconoscimento di Gesù da
parte dei suoi contemporanei e le conseguenze storiche di esso.
Non oggetti - seppure dottrinali - ma persone; non contenuti
ma modalità e processi di relazione, eventi significativi per la
loro forza estetica (10,32) e le loro implicazioni relazionali (cc.
5, 9, 11), ricondotti ultimamente al processo in atto tra Dio e
mondo esploso visibilmente nella vicenda di Gesù di Nazaret.
Un tale racconto viene consegnato, dunque, senza esitazio
ne come racconto di un testimone, anzi come testimonianza in
atto, e della soggettività dello sguardo del testimone porta tut
ti i segni: la pregnanza e profondità del suo «vedere», ancora
una volta, non potrebbe andare a scapito dell’implicazione re
ferenziale del racconto ma solo fare ad essa da legittimo fon
damento. E questa a dare alla storia giudaica di Gesù la sua
sobria e imposta trasparenza, talvolta elettrizzante (8,21-59;
10,22-39). Lo sguardo del testimone, assolutamente soggettivo,
non fa che rendere trasparente la trama degli eventi imponen
do ad essi la forma che dal suo punto di vista ha, della storia,
la capacità di durata, di senso: poco spazio per ciò che non è
essenziale; valore estremo, saturo, palpitante, a ciò che è rico
nosciuto significante in vista dei destinatari e dell’obiettivo da
raggiungere e, cioè, concretamente, quelli che per il narratore
sono i «segni» del Cristo, i segni della compiuta relazione esca
tologica tra il Dio di Israele e il suo popolo.28 Da questo punto
di vista, Giovanni rappresenta al meglio la natura propria del
genere «vangelo» che è quella di essere «il resoconto narrativo
deH’incontro di Dio con l’umanità attraverso la vita, morte e
risurrezione di Gesù di Nazaret»29 e, dunque, una storia «pro
fondamente semiotizzata»,30 la cui trasparenza si realizza al
meglio grazie al linguaggio simbolico dell’evangelista.
La strutturante tensione tra storia e teologia non potrebbe
essere più chiara anche dal punto di vista dell’analisi narrativa.
In Giovanni, infatti, la ricchezza dei dettagli informativi offer-
La «trasparenza» del fattuale nel Quarto Vangelo è oggetto della riflessione di
NoACK. Tale trasparenza altro non è che la forma specificamente giovannea di con
firomene tra la storia e la sua comprensione {Ivi, 94).
T hompson, 238.
10S egalla, Il Quarto Vangelo, 10.19-22.
ti riguardo ai pochi eventi selezionati accorcia per il lettore la
distanza tra la story e la history, aumentando l’«effetto di reale»
del racconto; ugualmente, la modalità di narrazione che egli
sceglie, dando ai discorsi e dialoghi tra i protagonisti il primo
piano nell’azione, è quella dello showing, più che del telling,
che aumenta anch’essa l’illusione di realtà. E, tuttavia, non si
dà in Giovanni ciò che più dovrebbe caratterizzare la storia
mimetica che intende farsi credere oggettiva e reale, ovvero la
scarsa o discreta presenza del narratore. Questi, al contrario,
è massimamente intrusivo e si fa presente in prima persona ad
apertura (1,14.16) e chiusura del testo (21,24-25), dichiarando
il proprio punto di vista assolutamente soggettivo, testimonia
le, sulla storia raccontata (19,35).31 La narrazione giovannea
realizza l’unione degli opposti anche dal punto di vista narra-
tologico: l’effetto di realtà garantito dalla mimesis drammatica
e la presenza imponente del soggetto che la racconta, che do
vrebbe invece essere caratteristica della diegesis. Ciò perché il
racconto di Giovanni non intende dare un’«illusione di realtà»,
ma testimoniare la realtà; non è, come la fotografia di un og
getto statico del passato, «l’immagine viva di una cosa morta»,32
ma la proclamazione di colui che è la Vita (1,4-5; 11,25; 14,6)
fatta, «ricordando», dopo la sua glorificazione.
31 Nota opportunamente CuLPEPPER: «per Giovanni la storia non consiste nella
cronaca di dati storici ma nella comprensione degli eventi che ne hanno mostrato il
vero significato così come il discepolo amato è arrivato a comprenderlo. Nel convali
dare il significato del soggettivo, il Vangelo di Giovanni è molto in anticipo rispetto
al suo tempo» («John 21: 24-25», 364).
32 P. B ertetti, «O pzione antireferenziale, descrizione, effetto di reale, nella
semiologia di Roland Barthes. “Sourtout il faut tuer le referent!”», in A. PONZIO -
P. CALEFATO - S. PETRILLI, Con Roland Barthes alle sorgenti del senso, Meltemi,
Roma 2006, 161.
1.4.11 Quarto Vangelo come «metafora viva»:
trama e struttura letteraria del testo
Visibile nella carne, la Parola con cui Dio si rivela, che è Dio
e che è Luce e Vita per gli uomini (1,1-5), pulsa dunque nelle
parole del «discorso» giovanneo, cioè nella sua costruzione
della storia di Gesù, rendendola per intero come una «meta
fora viva» in cui la «continua torsione del senso letterale delle
parole»33 esprime la trasparenza e tridimensionalità dei fatti del
tutto umani della sua vita riconosciuti dall’evangelista come
manifestazione piena del darsi di Dio al mondo. Tale ricom
prensione della storia si manifesta tanto nella trama quanto
nella struttura del testo: la prima, che si presenta come una
trama di rivelazione costruita sul tema del riconoscimento di
Gesù come inviato e sull’azione conflittuale a prezzo della qua
le la rivelazione si realizzerà e il riconoscimento sarà raggiunto;
la seconda, che si sviluppa corrispondentemente attraverso
singole scene di riconoscimento compiuto o mancato.
1.4.1. La trama giovannea tra azione e rivelazione
Il primo indizio chiaro da cui partire per comprendere la
trama giovannea è offerto dal modo in cui il racconto evangeli
co si apre e si chiude, cioè dal prologo (1,1-18) e dall’epilogo (c.
21) che, ciascuno a suo modo, rimandano il lettore oltre il rac
conto e oltre la storia: a monte, perché il prologo pone l’antefat
to della storia oltre la temporalità, in Dio stesso principio asso
luto; a valle, perché l’epilogo addita al lettore il futuro atteso
della venuta del Signore Risorto che sta oltre il racconto e, ad
dirittura, oltre il tempo della storia discepolare cui l’epilogo,
simbolicamente e proletticamente, accenna (21,22-23). Il rac-
” P. RICOEUR, La metafora viva, Jaca Book, Milano 32001,302.
conto, dunque, è awolto e sostenuto dal rimando a ciò o, meglio,
a Colui che lo precede e lo supera perché posto prima e oltre la
temporalità dell’esistenza e della storia umana segnata radical
mente dal limite del nascere e del morire. Dai testi di apertura
e chiusura del racconto il lettore apprende che l’identità del suo
protagonista travalica essenzialmente le misure del tempo e lo
domina, essendo egli la Parola che precede l’esistente, rivelazio
ne personale dell’invisibile Dio (1,17-18), e Signore vivente
(21,7.14 ma, anche, 20,28) seguito e atteso oltre la morte. Ap
prende che ciò di cui si sta parlando, la posta in gioco del rac
conto, ha a che fare con ciò che supera i limiti della storia umana
e tocca, invece, Dio e la sua Vita stessa offerta al mondo. Stando
al prologo e all’epilogo, la trama di rivelazione del racconto gio
vanneo ha a che fare anzitutto con la domanda teologica su chi
Dio sia e su come egli si riveli e si renda conoscibile al mondo
così da salvarlo (3,17); dunque, con la domanda su Gesù Cristo.
Il secondo indizio va tratto, invece, dal modo in cui, attra
verso il racconto, il narratore conduce il lettore alla personale
scoperta e costatazione di quanto gli è stato annunciato nel
prologo. Dalla presentazione di Gesù come rivelatore (prologo)
al riconoscimento compiuto di lui come Signore e, dunque, al
compimento riuscito della rivelazione (epilogo) si giunge, in
fatti, attraverso la storia concreta di un uomo, «Gesù, figlio di
Giuseppe, da Nazaret» (1,45), raccontata attraverso la sequen
za temporale e causale di singoli eventi selezionati, correlati tra
loro e abitati tutti dalla questione della sua identità e del rico
noscimento della stessa. In questa storia, che articola tempo
ralmente la rivelazione dell’identità divina e la domanda teo
logica, la domanda su Gesù è collocata su uno sfondo ancora
più ampio che è quello della domanda giudaica sul Messia che
anima i protagonisti del racconto. Già dalla prima scena, in cui
Giovanni rende a Gesù la sua prima testimonianza (1,19-28),
l’evangelista mostra chiaramente che il problema che animerà
il racconto è un problema di conoscenza (1,26.31) e di identi
tà squisitamente giudaico: sono, infatti, «i Giudei» a mandare
dal battezzatore Giovanni «sacerdoti e leviti», gli esperti in
rituali di purificazione, per domandargli «tu chi sei?» e accer
tarsi se egli sia o meno il Cristo (1,19-20); è in termini giudaici
che l’identità di Gesù comincia ad essere dichiarata nelle scene
iniziali del suo ministero (1,29.34.36.41.45.49.51). Anche nei
racconti pasquali, dove forse meno ce lo si aspetterebbe, «i
Giudei» restano sullo sfondo nella scena dell’incontro tra i
discepoli e il Signore risorto (20,18; cfr. 20,26): essi non sono
il passato, ma il presente dei discepoli; minaccioso, forse, ma
non meno implicato nell’incontro con Gesù. La domanda iden
titaria («Tu chi sei?»), d ’altronde, non è solo la domanda con
cui il racconto si apre, ma è anche l’inesausta domanda che i
discepoli continuano a nutrire nei riguardi del Risorto in 21,12
pur sapendo ormai per sempre la risposta. A questa non si
arriverà che attraverso il conflitto violento che porterà Gesù
alla morte e intreccerà azione e rivelazione o, meglio, darà alla
rivelazione la forma delle azioni di Gesù nel contesto di una
fitta rete di relazioni all’interno di una storia intra-giudaica.
In questa trama di rivelazione, la complicazione che deter
mina la trama d’azione e spinge avanti il racconto, si raggiunge
propriamente nel c. 5 per l’apparente violazione del riposo
provocata da Gesù con la guarigione del paralitico in giorno
eli sabato e, soprattutto, per la sua pretesa di porre il proprio
operare di «figlio» sul piano stesso di quello di Dio, «suo pa
dre» (5,16-18). Nella narrazione è a questo punto che la trama
di rivelazione (chi è chi) e la trama di azione (il conflitto che
attraversa il racconto e attende un rovesciamento) si intreccia
no definitivamente. La domanda sull’identità (chi è chi?) aleg
gia continuamente: detta la logica dei discorsi dei protagonisti
in relazione (5,12.15; 6,41-42; 7,25-27.40-43; 8,31-59; 9,8-9.17-
21.24-25.28.36; 10,19-21; 11,25-27; 12,34), governa le loro
azioni e reazioni (5,18; 6,14-15; 7,2-10.30-32.44; 8,59; 9,22-
23.34; 10,31.39), esplode in bocca a «i Giudei» in 8,25 e 10,24
e spiega infine le molteplici ricorrenze dei detti «io sono», tan
to in forma assoluta che con un predicato (6,20.35.41.48.51;
8,12.18.24.28.58; 9,5.9; 10,7.9.11.14.36; 11,25). Nei cc. 5-12 il
cammino che conduce alla scoperta e al riconoscimento delle
identità in relazione, trasformato in azione conflittuale dal rap
porto tra Gesù e «i Giudei», porta dunque dal tentativo di
uccidere Gesù da parte de «i Giudei» (5,16-18; 7,1.19-20.25;
8,37.40.59; 10,31; 11,8) alla decisione collegiale di ucciderlo da
parte di sommi sacerdoti e farisei (11,53; 11,57). La complica
zione giunge, così, al suo punto massimo.
Il resto del racconto evangelico, dedicato agli eventi culmi
nanti della passione, morte e risurrezione (cc. 13-20), costitui
rà l’azione trasformatrice che porterà la rivelazione al suo cul
mine e renderà possibile la risposta alle molteplici domande
identitarie - chi sia Dio, chi sia il suo Cristo, chi sia Gesù e chi
siano gli altri uomini in rapporto a lui - che attraversano e
determinano storicamente la vita di Gesù di Nazaret.
Configurata come «biografia in forma drammatica»,34 in
treccio tra trama di azione e trama di rivelazione, la storia di
Gesù secondo Giovanni assume, così, la sua forma peculiare
proprio come «storia dei rapporti con i Giudei».35 Una storia
di relazione - tragicamente mancata, in parte, ma non per que
sto meno desiderata - che, resa oggetto diretto del racconto
evangelico, è riconosciuta e presentata come spazio privilegia
to di rivelazione e di salvezza.
1.4.2. La struttura letteraria
Profondamente coerente con l’intrigo che lo governa, il rac
conto giovanneo si sviluppa, tra prologo (1,1-18) ed epilogo
54 Culpepper, The Gospel, 86.
35 Ashton, Comprendere, 139.
(c. 21), in due parti principali: la prima dedicata al racconto del
ministero pubblico, esteso cronologicamente sino ad abbrac
ciare tre pasque (1,19-12,50); la seconda dedicata agli eventi di
passione, morte e risurrezione (13,1-20,31), con un accento
narrativo evidente sul giorno stesso della morte di Gesù il ve
nerdì 14 di Nisan vigilia di un sabato di pasqua (13,1-19,42).
P ro lo g o p o e tic o (1 ,1 -1 8 )
1,19-2,11: Prologo narrativo (2,1-11 pericope ponte)
2.1- 4,54: Da Cana a Cana, Vinizio della manifestazione di Gesù
e i suoi segni
5 .1 - 12,50: ha relazione tra Gesù e « i Giudei»: rivelazione in
azione e in conflitto
1) 5,1-47 guarigione di un paralitico alla piscina di Betzatà
in giorno di sabato e controversia con «i Giudei»
2) 6,1-7,1 in prossimità della pasqua, in Galilea, il segno dei
pani e le sue conseguenze
3) 7,2-8,59 in occasione della festa delle Capanne, esplodo
no la domanda messianica su Gesù e il conflitto con «i
Giudei»
4) 9,1-10,21 tra le Capanne e la Dedicazione, guarigione del
cieco nato in giorno di sabato e parabola sulla porta e il
pastore
5) 10,22-39: in occasione della festa della Dedicazione, nuo
va esplosione della domanda messianica e del conflitto
con «i Giudei»
6) 10,40-11,54 tra la Dedicazione e la terza pasqua, la risur
rezione di Lazzaro e la decisione di fare morire Gesù
7) 11,55-12,50 le ultime azioni del ministero pubblico e i
suoi esiti alle soglie della pasqua di morte e risurrezione
13.1- 17,26: la comunità discepolare è consacrata come dimora
di Dio sul fondamento della azione-rivelazione pasquale di Gesù
18.1- 19,42: la passione e la morte di Gesù
20.1- 31: racconti pasquali a Gerusalemme
E p ilo g o (c . 2 1 )
Anche se distinte l’una dall’altra in forza del passaggio dal
contesto pubblico dell’attività e delle parole di Gesù (fino a
12,50) a quello privato della cena e del dialogo con i discepoli
(13,1-17,26), le due parti maggiori della storia giovannea di
Gesù sono strettamente congiunte tra loro e imbricate l’una
nell’altra. Se nella prima parte del racconto sono messi a fuoco
«i segni», gestuali e verbali, che sollevano la domanda sull’iden
tità di Gesù e le molteplici relazioni che essi esprimono e con
corrono a determinare, nella seconda parte lo spazio è lasciato
interamente all’evento che da quell’insieme di segni e di rela
zioni è scaturito. Pur non essendo un segno nel senso più fre
quente che il termine assume nei cc. 1-12, l’insieme degli even
ti di passione, morte e risurrezione, che l’evangelista connota
come «partenza», «elevazione», «glorificazione», costituisce la
risposta più radicale di Gesù e, in lui, di Dio alla domanda
ripetuta di un «segno» e all’ambigua relazione con i segni che
attraversa i cc. 1-12 (2,18; 2,23-3,2; 6,14-15; 6,30; 11,37.47-48;
12,17-18). I segni del ministero pubblico, infatti, pur essendo
«tali e tanti», non determinano il riconoscimento di Gesù o, in
ogni caso, non provocano una compromissione pubblica a suo
favore da parte di coloro, tra i «capi», che pure hanno creduto
in lui (12,37-43). Passione, morte e risurrezione, dunque, co
stituiscono l’evento in cui massimamente s’irradia la «gloria»,
cioè si afferma e si svela l’identità di Gesù anticipata parzial
mente nei segni del ministero pubblico. Se quelli lo avvicinano
progressivamente all’«ora» estrema della rivelazione, è solo nel
contesto dell’ultima pasqua, quella di morte e risurrezione, che
Gesù proclama arrivata l’«ora» attesa (12,23.27-28a; 13,31;
17,1). Un medesimo e coerente cammino di rivelazione impe
gna dunque Gesù e chiama a rispondere alla domanda sulla
sua identità da un capo all’altro del racconto: nella sua prima
parte esso si esprime nei segni della gloria e nel conflitto che la
rivelazione di Dio provoca diventando azione; nella sua secon
da parte esso elegge la passione e morte, la partenza da questo
mondo, come spazio pieno della gloria, azione trasformatrice
per eccellenza, apparente negazione dei segni ma, al contempo,
loro piena conferma e svelamento del loro significato ultimo.36
Con connessioni interne costanti, da un capo all’altro del
racconto, la storia uscita dalla penna dell’evangelista, vista con
i suoi occhi, appare come fosse veramente, benché passata, un
dramma ancora in atto di compiersi, vivo, in cui ogni frammen
to prende luce dalla totalità e in cui il tutto, ogni volta, è pre
sente e manifesto nel frammento e si sporge da esso traboccan
do. I singoli episodi, infatti, nella loro sequenza cronologica e
nelle relazioni causali che li legano l’uno all’altro, richiaman
doli l’uno nell’altro in quanto insieme di «segni», hanno in sé
la Gestalt, la forma e struttura, dell’intero discorso evangelico,
del significato riconosciuto nei fatti e negli esiti della vita di
Gesù, Parola diventata carne: l’atto, cioè, del rivelarsi ultimo
(escatologico) e salvifico di Dio nell’esistenza relazionale del
Figlio, nel suo culmine pasquale e nelle relazioni generate a
causa sua e attorno a lui (13,34-35; 19,25-27). Il significato
della storia giovannea di Gesù, infatti, è essenzialmente rela
zionale e processuale: se la rivelazione, nella Scrittura, ha come
suo oggetto la relazione di Dio con l’umanità (l’alleanza) che,
attraverso la storia particolare e rappresentativa di un popolo,
si realizza processualmente, sottoposta essa stessa continua-
mente a processo,37 ugualmente e in modo culminante la rive
lazione di Dio nella persona del Figlio è processuale e conflit
tuale, sottoposta essa stessa a processo e vittoriosa in esso
(16,33). La storia giovannea di Gesù, nella sua trama e nella
sua struttura, si presenta dunque come una metafora viva che,
raccontando un «passato» intriso di memoria scritturistica e
trasparente della vittoria pasquale, dischiude in realtà il futuro
e la Vita, un altro mondo possibile, invitando continuamente
16L incoln, The Gospely3-14.
17 Simoens, Selon ]ean 2 , 20-21.
il lettore a entrare dentro il racconto o, meglio, a lasciarsi pla
smare da esso e a tradurlo in azione partecipando personal
mente al dramma del riconoscimento di Gesù e del compimen
to della nuova alleanza.
2. Esegesi di Gv 1,1-18: da dove è necessario iniziare
il discorso
Il primo segno della differenza giovannea è posto all’inizio
del Vangelo. Essa, infatti, si esprime anzitutto nella scelta del
«principio» del racconto che, spostato dalla creazione e dalla
storia, è posto in Dio, dichiarato appartenente non al mondo
ma a Dio stesso. Diversamente da quanto accade nei tre Vange
li sinottici, a Giovanni non basta un inizio che apra la sequenza
temporale degli eventi narrati. Gli è necessario il «principio»
teologico che ponga la possibilità stessa del racconto che si apre.
Per cominciare il Vangelo, secondo Giovanni, è necessario par
tire da oltre il racconto ricamato «nel tessuto del mondo e della
storia»: non da meno che da Dio e dal suo essere in sé Parola
(Lògos) e, cioè, relazione viva all’altro ben «al di là del versetto».38
2.1. Genere letterario, background e funzione
Nonostante la congiunzione «e» con cui si apre il v. 19 («e
questa è la testimonianza di Giovanni...») e la forte continuità
tematica determinata dal protagonismo di Giovanni nel prolo
go e nei versi che seguono, la differenza tra i primi diciotto
versi del Vangelo e il racconto che inizia al v. 19 è chiara al li
vello formale. Questi possiedono, infatti, un andamento poe
38 E. LÉVINAS, Laldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, Guida, Napoli
1986, 61.
tico e celebrativo ed esprimono, in prima persona plurale, la
confessione di fede di una comunità (w. 13.14.16). Ad essi, col
v. 19, subentra la narrazione in prosa in terza persona: solenne
anch’essa, grave per la testimonianza giuridica di cui reca l’at
to, non ha più però la forma di un poema in strofe come i
versi precedenti. Con il v. 19, dal prologo poetico che comincia
dal «principio» metatemporale, assoluto, si passa al racconto
vero e proprio, con un corrispondente prologo narrativo che
troverà il culmine in un altro «principio», storico questa volta,
che è quello dei segni compiuto in Cana di Galilea (Gv 2,11).
Giovanni apre, dunque, il suo racconto con «una storia della
salvezza in forma di inno».39
Dal punto di vista storico-letterario, l’origine del prologo
poetico può essere spiegata senza difficoltà pensando che
l’evangelista abbia assunto e trasformato un inno cristologico
precedente in uso nel suo ambiente ecclesiale (Fil 2,6-11; Col
1,15-20; lTm 3,16 e la conferma indiretta di Plinio il giovane,
Epistole 10,96; Eusebio, Storia della chiesa 5,28,5). Il retroterra
dell’inno si può individuare nella teologia biblica della Parola
di Dio riconosciuta come realtà dinamica attiva nella creazione
e nella storia (Sai 33,6; Sap 9,1-2; 18,15), con tratti a volte
quasi personali (Is 55,10-11); nei poemi che hanno per sogget
to e tema la Sapienza personificata (Pr 8; Sir 24; Sap 7-9; Bar
3,9—4,4); nelle interpretazioni giudaiche di Gen 1,1-5 attestate
letterariamente nei targum e imperniate sulla figura e sul ruo
lo della divina memra’ (Parola).40
Riconoscere l’origine letteraria del prologo in un inno della
chiesa giovannea non basta, però, a chiarire la questione della
relazione tra il prologo e il Vangelo: tra essi, infatti, vi sono
39J. JEREMIAS, Il messaggio centrale del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1982,
77-78.
40B o y a r in , 243-284.
elementi di continuità ma anche di discontinuità.41 II prologo,
dunque, per quanto ricco di forti nessi lessicali e tematici col
Vangelo, non ne costituisce un riassunto narrativo né una sin
tesi teologica. La sua funzione può essere meglio compresa
facendo ricorso alle categorie della letteratura antica e della
critica letteraria moderna. Le prime permettono di riconosce
re nel prologo una forma particolare di «prediscorso», quale
potrebbe essere il «prologo drammatico», destinato a illustra
re agli ascoltatori il tema fondamentale del dramma mettendo
loro « l’inizio nelle mani» e permettendogli di seguirne il filo
(cfr. Aristotele, Retorica 3,14,12-19).42 Dal punto di vista della
critica letteraria moderna lo si può considerare come «parate
sto», una sequenza che, pur non costituendo il primo episodio
narrativo, apre l’intero Vangelo ponendosi in «un rapporto di
metariflessività con l’insieme dell’opera che introduce».43 Il
prologo, dunque, non riassume l’intrigo del racconto ma dice
come occorre leggerlo, stimolando il lettore, richiamandogli il
ricco retroterra delle Scritture condiviso (intertestualità) coin
volgendolo nella celebrazione in «noi» della storia del Logos
divenuto carne (interazione), mettendogli in mano la chiave
ermeneutica corretta e introducendo gli elementi costitutivi del
racconto (protagonisti principali, posta in gioco, temi e intrigo)
perché, progredendo nella lettura del racconto, il lettore possa
comprenderlo a un livello sempre più profondo (intratestua-
lità).44 Esso inquadra dunque la storia di Gesù di Nazaret al
41 Al livello del lessico e dei temi nel prologo appaiono vocaboli che non si ritro
veranno più nel Vangelo: «grazia», «pieno/pienezza», «illuminare», «porre la tenda»,
«rivelare/raccontare»; non vi si troveranno più esplicitamente nemmeno le idee del
divenire carne del Logos o della sua mediazione creatrice; nel prologo, d’altra parte,
al livello linguistico sembra regnare il silenzio sugli eventi pasquali, non si parla né di
«croce» né, secondo il linguaggio giovanneo, di «elevazione/innalzamento» o, tanto
meno, di risurrezione e ascensione.
42 ZUMSTEIN, 227.
43 Ivi.
44 Ivi, 229-232.
solo livello in cui può veramente essere raccontata e compresa,
quello di Dio stesso e del rapporto tra Creatore e creatura, Dio
e mondo. La scelta dell’inizio, in Giovanni, è per questo radi
cale e metanarrativa: l’evento celebrato in poesia sta al raccon
to che lo descriverà in prosa come la forma al contenuto, il
segreto strutturale di ciò che accade al suo realizzarsi fenome
nico, la «Gloria» divina al suo «manifestarsi» (1,14; 2,11).
2,2. Struttura
Le proposte avanzate riguardo all’articolazione interna del
prologo giovanneo sono tante e diverse. I modelli si possono
ricondurre fondamentalmente a tre:
- basandosi su criteri di tipo tematico, alcuni dividono il prologo
in strofe che descrivono progressivamente le tappe fondamen
tali dell’essere e dell’agire rivelativo del Logos: in sé; in rappor
to al cosmo e agli uomini nella creazione e in rapporto alla
storia;
- basandosi su criteri di tipo letterario, come corrispondenze
lessicali e inclusioni interne al testo (per esempio tra w. 1-2 e
v. 18), alcuni riconoscono nel prologo una struttura concentri
ca, altri una struttura a spirale o a onde parallele, frequente
mente usata anche nel resto del Vangelo;
- una strutturazione su base metrico-ritmica, conforme alla strut
tura del canto corale nella lirica greca, è proposta invece da una
minoranza di studiosi.
Nessuno dei criteri individuati mi sembra da solo risolutivo.
Il problema maggiore è posto, a mio avviso, dalla «bipolarità
semantica»45 in cui si muove volontariamente l’evangelista e
che costituisce la caratteristica peculiare del movimento del
prologo. Si tratta, cioè, del fatto che a un’attenta analisi è dif
ficile stabilire di cosa stiano parlando le singole unità del pro
logo e decidere dove finiscono i versi che parlano dell’essere e
agire del Logos prima dell’incarnazione (al v. 4? Al v. 10? Al v.
13?) e dove cominciano quelli che parlano dell’essere e agire
del Logos incarnato (al v. 14? Al v. 11? Al v. 9? Al v. 5?). «Tut
to il brano, a incominciare dal v. 4, è a un tempo un’esposizio
ne dei rapporti tra il Logos e il mondo e un racconto del mi
nistero storico di Gesù il quale, di conseguenza, non è che il
riflesso di tali rapporti».46
La duplice inserzione del riferimento alla testimonianza di
Giovanni dopo il v. 5 e dopo il v. 14 svela l’intenzione dell’evan
gelista, perché implica un riferimento obbligato all’uomo cui
Giovanni ha reso testimonianza anche quando egli non ha an
cora finito di parlare del rapporto Creatore-creatura a livello
cosmico (v. 10: «era nel mondo...»), e un riferimento all’esisten
za sovratemporale del Logos anche quando il testimone G io
vanni parla di Gesù (v. 15: « ... perché prima di me era»). Ciò
che è dicibile, in termini simbolici e apocalittici, a proposito del
rapporto drammatico tra Dio-Logos e mondo, si deve dire pun
tualmente e concretamente, in termini storico-narrativi, anche
a proposito di Gesù e della sua esistenza nel mondo. Il mythos
simbolico giudaico della relazione Dio-mondo, mediata dalla
Sapienza, in Gesù è diventato storia della relazione e, viceversa,
la storia di Gesù tra i «suoi» nel «mondo» è né più né meno che
la storia stessa di Dio e del suo Logos in relazione al mondo.
Sulla base di alcuni indizi letterari evidenti nel testo e valo
rizzando gli incisi sulla testimonianza di Giovanni, mi sembra,
quindi, si possano individuare cinque movimenti che scandi
scono lo sviluppo del prologo.
Il primo abbraccia i w. 1-5. Dal v. 1 al v. 5, infatti, le affer
mazioni sono tutte relative al Logos e collegate tra loro attra
46 Ivi, 353.
verso le parole-gancio (così il v. 1: Lògos, Theós; i w. 3-5: gtgno-
mai, zoe, phòs, skotid) o attraverso l’uso dei pronomi (così nel
collegamento tra i w. 1-2 e 2-3 dove il dimostrativo houtos e il
pronome di terza persona autós sono riferiti al Logos).
Il v. 6, con l’uso del verbo egéneto (cfr. v. 3), determina il
passaggio a un nuovo inizio nel tempo, un evento storico pun
tuale qual è la missione di Giovanni, tradizionalmente collega
ta con la missione di Gesù (cfr. Me 1,1-8). Non si trova alcuna
congiunzione (kat) tra il v. 5 e il v. 6 e i w. 1-5 condividono un
ritmo poetico che i w. 6-8 interrompono, anticipando nel pro
logo lo stile solenne che caratterizzerà la narrazione in prosa
del Vangelo. Si introduce anche un lessico nuovo, quello della
testimonianza {martyréó/martyria) che caratterizza in modo
pervasivo i w. 6-8.
Il terzo movimento è formato dai w. 9-14, collegati ai versi
precedenti, e in particolare al v. 8, attraverso la parola «luce»
(phòs). Con il v. 9 si riprende il ritmo poetico del prologo che
dura fino al v. 14 incluso. Ritorna insistentemente la congiun
zione kat che scandisce le affermazioni sul venire progressivo
del Logos nel mondo, come luce che illumina, fino al modo
dell’incarnazione. Il campo semantico della visione («luce» e
«illuminare» al v. 9; «contemplare» al v. 14) crea un’inclusione
Ira il v. 9 e il v. 14 dando ai vv. 9-14 unità e compiutezza.
Il quarto movimento è formato dai w. 15-17, collegati tra
loro dalla triplice ripetizione della congiunzione dichiarativa-
causale boti alla fine del v. 15 e all’inizio dei w. 16 e 17. Il ri
apparire del nome di Giovanni e del lessico della testimonian
za dimostra una ripresa intenzionale dei w. 6-8. Un ulteriore
elemento di ripresa tra i vv. 6-8 e i w. 15-17 si può riscontrare
nel ricomparire dell’aggettivo «tutti» (pàntes) nel v. 7 e nel v.
16 dove accompagna il pronome personale «noi». Se nel v. 7 il
riferimento alla missione del Battista è prolettico, orientato al
futuro della fede nell’Incarnato, e la sua è una testimonianza
che attende ancora il suo frutto o la sua efficacia verso «tutti»,
nel v. 16 se ne proclama il compimento efficace, perché il sog
getto che parla in prima persona plurale può dire, confonden
do la propria voce con quella di Giovanni, «noi tutti ricevem
m o...».
Il quinto e ultimo movimento del prologo è costituito dal v.
18 che, a differenza dei w. 16-17, non essendo introdotto da
alcuna congiunzione, non è letterariamente collegabile al v. 15
e, in genere, alla testimonianza riconducibile a Giovanni nei
w. 15-17. Al contrario, esso riprende i temi e il lessico del
primo movimento, con l’arricchimento dato dal terzo: ho Theós
dei vv. 1-2 adesso è «il Padre» (cfr. già v. 14); il Logos-77?em
dei w. 1-2 adesso è « l’unigenito Dio» (cfr. già v. 14); il verbo
«essere» all’imperfetto dei w. 1-2 («era»), ora è il verbo «esse
re» al participio presente («colui che è»); l’orientamento del
Logos «volto a Dio» nei w. 1-2, adesso è l’essere permanente
del Figlio «in seno al Padre»: il Verbo del principio adesso è il
Verbo incarnato, l’uomo Gesù, Figlio in seno al Padre.
Questi cinque movimenti, letterariamente distinguibili tra
loro, sono strettamente connessi e si richiamano a vicenda co
sì da determinare un’inclusione maggiore tra i vv. 1-5 e il v. 18
e una più interna tra i w. 6-8 e i w. 15-17. Al centro tra le due
restano i versi 9-14. Racchiusi tra i due incisi sul testimone
Giovanni, essi racchiudono a loro volta al loro interno tutta la
storia della rivelazione come relazione perenne tra Dio e mon
do mediante il Logos che si fa storia umana fino al modo cul
minante dell’incarnazione, realizzazione compiuta della Nuova
Alleanza. Il fatto che i w. 9-14, che abbracciano e sintetizzano
il mistero e la storia della rivelazione, siano racchiusi a loro
volta, quasi come in uno scrigno, dalla testimonianza di G io
vanni, dice che il passaggio dall’antica alla nuova alleanza, sin
tesi e compimento della rivelazione, è preparato, garantito e
autenticato nella sua legittimità storico-salvifica e, infine, pe
rennemente attestato dalla testimonianza profetico-giuridica
di Giovanni e dei credenti in Gesù. Esso è pienamente fonda
to nella Scrittura e nella storia. Il rapporto tra la testimonianza
di Giovanni e quella dei credenti in Gesù (w. 6-8 e w. 15-17)
è, dunque, compreso come lo spazio-tempo aU’intemo del qua
le si è aperta e percorsa compiutamente - e si può perciò per
correre sempre nuovamente - la via della rivelazione, ovvero
la relazione tra il Logos e il mondo (w. 9-14). Il fatto, infine,
che il passaggio dall’antica alla nuova alleanza (w. 6-17) sia
incluso e celebrato tra le due unità che si occupano del miste
ro di Dio in sé e in rapporto alle creature e agli uomini tutti,
dice che questo passaggio ha anche in sé la forza della univer
salità, dell’unicità e della definitività della rivelazione del Padre
nel Figlio, l’unica che ha il carattere della «verità» e della «gra
zia» vivificanti di Dio stesso; un’universalità resa possibile solo
dalla storia più particolare, quella del popolo di Dio (w. 6-17)
e, in essa, dalla storia dell’uomo Gesù e dei credenti in lui. Il
doppio riferimento al testimone Giovanni serve da perno al
movimento, rendendo possibile l’atto di rilettura che il prolo
go fa del Vangelo come continua compenetrazione tra eternità
t tempo, azione cosmica e azione storica del Logos, tra Dio e
mondo, dando così inizio e marchio strutturale al Vangelo se
condo Giovanni.
2.Ì. Traduzione e commento
'In principio era il Logos
e il Logos era verso (prós) Dio
e Dio era il Logos.
'Questi era in principio verso (prós) Dio.47
47 Nel resto del Vangelo la preposizione direzionale prós viene usata quasi sempre
in dipendenza dai verba dicendi, dai verbi di movimento ed esprime conseguentemen
te relazionalità (7,33; 13,1.3; 17,11.13; 14,6; 20,17). Data anche la corrispondenza
tematica e teologica tra i w. 1-2 e il v. 18, che determina la maggiore inclusione del
prologo, ritengo che le possa essere riconosciuta una sfumatura semantica che dice
movimento, il costante orientamento del Logos a Dio.
3Tutto per mezzo di lui venne all'esistenza (egéneto)
e senza di lui non venne all'esistenza neppure una cosa.
4In ciò che esiste {ho gégonen) egli era vita48
e la vita era la luce degli uomini.
5E la luce nella tenebra splende
e la tenebra non l'ha sopraffatta (katélaben).
6Ci fu (egéneto) un uomo, mandato da Dio, che aveva nome
Giovanni.
7Questi venne (elthen) in testimonianza, per testimoniare
della luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
8Non era (en) lui la luce, ma per testimoniare della luce.
9La luce quella vera, che illumina ogni uomo, veniva nel mondo.49
48 Nel passaggio dal v. 3 al v. 4 non è chiaro a cosa debba essere collegata la propo
sizione relativa «ciò che esiste» (ho gégonen), se a ciò che precede (il v. 3) o a ciò che
segue (il v. 4). Nel primo caso, la proposizione relativa sarebbe effettivamente pleona
stica («... e senza di lui non venne all’esistenza neppure una cosa di ciò che esiste»)'e
farebbe da zavorra nel v. 3 che ha la forma snella di un distico, impreziosito anche dal
parallelismo antitetico che determina un chiasmo perfetto (a «tutto» / b «per mezzo di
lui venne all’esistenza»; b 1«senza di lui venne all’esistenza» / a1 «neppure una cosa»).
Il collegamento con il v. 3 interromperebbe, inoltre, il ritmo ascensionale dei versi
creato mediante la ripetizione, all’inizio della frase successiva, del termine che conclu
de la frase precedente (cfr. v. 1). Questo collegamento, d’altra parte, renderebbe molto
semplice la comprensione del v. 4 che inizierebbe con il riferimento al Logos mediante
il pronome di terza persona («in lui era vita...») e rifletterebbe la cristologia giovannea
che lega strettamente la vita alla persona di Gesù (3,26; 11,23; 14,6; cfr. anche lG v 1,1;
3,11). Nel secondo caso, il senso del v. 3 risalterebbe in tutta la sua nitidezza, ma di
venterebbe problematica la comprensione del v. 4: come intendere la frase «ciò che
esiste in lui era vita»? A cosa legare «in lui»? A «ciò che esiste» («ciò che esiste in lui,
era vita») o a «era vita» («ciò che esiste, era vita in lui»)? Di quale vita si tratterebbe?
Sembra siano state proprio le difficoltà teologiche connesse all’interpretazione di tale
collegamento a determinare un mutamento nella lettura patristica e il collegamento di
«ciò che esiste» con il v. 3. La traduzione che propongo risolve i problemi interpreta
tivi posti dal collegamento col v. 4 intendendo «ciò che esiste» come un casus pendens
cui va riferito il successivo pronome di terza persona «in esso» e considerando sottin
teso il soggetto della frase che sarebbe sempre il Logos del v. 3: « ciò che esiste, in esso
[il Logos] era vita». Nel prologo, un altro esempio di questa costruzione si ha anche
nel v. 12 («quantilo accolsero, diede a loro...»).
49 II v. 9 presenta una costruzione poco lineare: «era la luce quella vera che illu
mina ogni uomo veniente nel mondo». A cosa bisogna collegare il participio «venien
te» (erchómenon)? Alla «luce», a «ogni uomo» o all’imperfetto «era»? A ogni opzio
ne corrisponde una diversa traduzione: «(il Logos) era la luce, quella vera, che illu-
10Era nel mondo,
e il mondo per mezzo di lui venne all'esistenza (egéneto),
eppure il mondo non lo riconobbe.
l‘Venne nella sua proprietà (eis tà idia),
eppure i suoi non gli diedero accoglienza (parélabon).
12Quanti, però, raccolsero (élabon)
a quelli diede potere di diventare figli di Dio,
quelli che credono nel suo nome,
,3i quali non dal sangue, né da volontà di carne,
né da volontà di uomo
ma da Dio sono stati generati!
14Sì, il Logos divenne (egéneto) carne e pose la sua tenda tra noi
e noi contemplammo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.
15Giovanni testimonia di lui e ha proclamato dicendo:
«Questi era colui di cui avevo detto:
colui che viene (erchómenos) dopo di me
mi è passato (gégonen) davanti
perché era (én) prima di me».
16Ché dalla pienezza di lui noi tutti abbiamo ricevuto grazia
su iariti) grazia,50
mina ogni uomo venendo nel m ondo»; «(il Logos) era la luce, quella vera, che
illumina ogni uomo che viene al mondo»; «la luce quella vera, che illumina ogni uomo,
stava venendo nel mondo». Le prime due opzioni presuppongono che il soggetto
vero della frase, cioè «il Logos», debba essere assunto dai w. 1-5 e sia rimasto sottin
teso. Non spiegano, però, perché Fevangelista avrebbe lasciato sottinteso un soggetto
ormai grammaticalmente lontano. La terza opzione, che ho scelto, non richiede un
soggetto esterno alla frase del v. 9 e interpreta come perifrastica la relazione tra l’im
perfetto «era» e il participio «veniente», benché a distanza tra loro. Sia dal punto di
vista sintattico (10,40; 18,18.25) che dal punto di vista del contenuto cristologico la
costruzione è coerente con il linguaggio giovanneo (1,15.27.29.30; 6,14; 11,27; 12,13;
ICìv 4,2; 2Gv 7).
,0 La traduzione della preposizione ariti che ho proposto, dandole un senso cumu
lativo e di sovrabbondanza («grazia su grazia»), non è l’unica possibile. A nti, infatti,
potrebbe indicare contrasto e sostituzione («grazia al posto di grazia»); corrisponden
za o equivalenza («grazia per grazia»); successione («grazia dopo grazia»). Le argomen
tazioni grammaticali, da sole, non sono sufficienti. Il contesto dei w. 14.15-17, che
solo può orientare adeguatamente l’interpretazione del v. 16, non favorisce a mio av
viso un significato sostitutivo della preposizione anti\ attribuirle un valore cumulativo,
d’altra parte, non esclude anche una dimensione di traboccante compimento.
17perché la Legge per mezzo di Mosè fu donata (edóthé),
la grazia e la verità per mezzo di Gesù Cristo vennero
all’esistenza (egéneto).51
18Dio nessuno l’ha visto mai.
L’unigenito Dio, che è in seno (eis tòn kólpon) al Padre,
egli ha rivelato (exègesato).
w. 1-5. Il primo movimento del prologo è formato da tre
unità distinguibili sintatticamente e tematicamente, indipenden
ti tra loro e caratterizzate ciascuna al suo interno dalla coordi
nazione tramite la congiunzione kav. i w. 1-2 riguardano l’esse
re sovratemporale del Logos indipendentemente dalla creazio
ne; il v. 3 ne afferma il ruolo strumentale, ma imprescindibile,
nell’atto creatore; i w. 4-5 spiegano cosa il Logos rappresenta
per ogni creatura e, specificamente, per le creature umane.
w. 1-2, Nelle tre proposizioni del v. 1 si possono riconosce
re tre enunciati. Il primo (v. la) punta lo sguardo sull’essere
51 II doppio genitivo che specifica l’aggettivo «pieno» nel v. 14 («pieno di grazia e
di verità») dovrebbe essere inteso, secondo alcuni studiosi, come un’endiadi, espres
sione di un concetto mediante la congiunzione di due parole («pieno della grazia
della verità»). Il sostantivo principale sarebbe «verità» che nel lessico teologico gio
vanneo indicherebbe la piena autorivelazione di cui Dio avrebbe fatto dono («grazia»)
agli uomini nella persona del Figlio. Ugualmente, anche nel v. 17 il doppio nominati
vo «la grazia e la verità» dovrebbe essere inteso come endiadi e ciò spiegherebbe l’uso
del verbo al singolare {egéneto). La «verità» ne sarebbe il soggetto logico anche se non
il soggetto grammaticale. La verità di Dio in Cristo, rivelazione piena e compiuta,
starebbe così in parallelo alla legge, dono di rivelazione ancora imperfetto. L’interpre
tazione del binomio come endiadi, per molti versi plausibile, non spiega però fino in
fondo un dato lessicale: il termine chdris non appartiene al linguaggio giovanneo,
mentre gli appartiene il lessico del dono e, in particolare, il termine ddreà che ha per
contenuto proprio la rivelazione di Dio in Cristo (4,10). Se, potendo attingere al suo
tesoro linguistico specifico, l’autore del prologo preferisce ricorrere a un sostantivo
che gli è estraneo (chdris), ciò si spiega meglio se si guarda ai testi che fanno ad esso
da sfondo: in questo caso, senza dubbio, la rivelazione sinaitica del Nome col quale
Dio si presenta a Mosè come «Signore misericordioso e pietoso, lento all’ira e pieno
di grazia e di fedeltà» (Es 34,6). Di tale Nome divino, l’espressione giovannea del v. 14
« è una possibile esatta traduzione» (WENGST, 67), anche se non è la traduzione offer
ta dai Settanta. Tradurla come un’endiadi in cui l’accento cade tutto sul contenuto del
dono (la «verità»), piuttosto che sull’identità del Donatore misericordioso e fedele,
non farebbe risuonare con la stessa intensità la rivelazione personale del Nome.
«in principio» e, precisamente, sull’essere in principio del L o
gos, la sua sovra-esistenza. Il secondo (v. lb ) guarda al suo
essere in relazione a Dio. Il terzo (v. le) dichiara la sua identi
tà. Nel primo enunciato, il verbo «essere» è usato nel senso di
«esistere, esserci»; nel secondo è usato nel senso di «essere in
relazione»; nel terzo è usato come copula in una proposizione
in cui il Logos è il soggetto e Theós, sostantivo senza articolo
messo in posizione enfatica all’inizio della frase, il predicato.
In un movimento progressivo, tendente al climax rappresenta
to dal terzo enunciato, si afferma la sovra-esistenza della Paro
la, la sua relazione a e distinzione da Dio, la sua identità con
Dio. Il Logos e Dio, pur essendo distinti come due in relazio
ne, sono dichiarati entrambi, insieme, Theós, due nel medesi
mo. Il pensiero dell’evangelista procede così, per evoluzioni
progressive, in un volo circolare e a spirale che gli ha meritato
il titolo di «Teologo» e il simbolo dell’aquila: «volando come
un’aquila, con la parola Giovanni raggiunge gli astri» (Sedulio,
Carmen paschale 1,358; V secolo).
La ricchezza delle allusioni ai testi e alle tradizioni bibliche
che fanno da sfondo e da trama ai primi enunciati del prologo
permette di dare ad essi spessore: si tratta anzitutto tradizioni
relative alla creazione, che insistono sul ruolo che in essa assu
me il parlare/la Parola di Dio o la Sapienza di Dio, presenti sia
nel Pentateuco che nella riflessione dei libri sapienziali e dei
salmi (Gen 1,1-3; Sai 33,6; Pr 8,22-31; Sap 9,1-2.9; Sir 1,4;
24,3.9); si tratta poi, in secondo luogo, delle tradizioni relative
all’azione della Parola di Dio nella rivelazione, sia nel Penta
teuco (Dt 8,8) che nei libri profetici (Is 40,1-8; 55,10-11), nei
salmi (Sai 103,20; 107,20; 147,4.18-19; 148,8) e nei libri sapien
ziali (Sap 16,12.26 e 18,15).
In rapporto ai testi sopra evocati, l’«in principio» di Gv 1,1
rimanda certamente alla prima parola della Scrittura, il If resitien
archìi di Gen 1,1 e, dunque, all’unico principio raccontabile:
quello, cioè, della creazione in cui il parlare di Dio dà avvio
allo scorrere del tempo, del tutto essenziale ad ogni racconto.
Proprio nel modo in cui l’evangelista richiama l’inizio delle
Scritture, però, risulta evidente il suo salto teologico e “narra
tivo” : il principio non è un «principio di» qualcosa o di un
fare (il principio della creazione) ma principio in senso asso
luto. Più Origine che inizio. La prima affermazione del Quar
to Vangelo ci pone, dunque, davanti all’essere come sorgen
te. In questo «principio», che è la fonte stessa della vita, c’è
già da sempre («era») la Parola e, dunque, il dono di sé; que
sta origine/principio, anzi, è dono di sé, Parola e comunione:
Lògos, infatti, deriva etimologicamente da légo che significa
raccogliere, connettere, legare insieme. La presenza della Sa
pienza alle origini del mondo con/vicino a Dio (Pr 8,30-31; Sir
1,4; 24,9) non è detta più in relazione al mondo e ai suoi inizi,
ma in relazione a Dio nella sua intimità, sorgente perenne di
vita in se stesso (Sai 36,10), sopravanzo, gratuità, novità. Ri
volta verso Dio come una persona a un’altra, la Parola non
solo è il primo pronunciarsi di Dio, ma è essa stessa Dio. Qua
lunque influenza concettuale,52 per quanto significativa, non
potrebbe bastare a spiegare l’affermazione sull’originarietà
della Parola come essere personale, Dio verso Dio, poi iden
tificata con l’Unigenito Dio (v. 18): essa si deve alla consape
volezza raggiunta in merito al rapporto tra l’uomo Gesù «fi
52 Un'influenza indiretta si può attribuire agli sviluppi della teologia giudaico-elle-
nistica del Logos ben rappresentata in Filone alessandrino che si riferisce al «Logos
divino» come a una figura mediatrice tra il Dio creatore e le realtà sensibili create (La
fuga e il ritrovamento 101). Del Logos, Filone può dire che «non è ingenerato come
ho Theós né generato come voi, ma intermedio tra gli estremi, comunicando con l'uno
e con l’altro» (L'erede delle cose divine 205-206); arriva a chiamarlo anche «primoge
nito» di Dio (ho prdtógonos autou theìos lògos: I sogni 1,215), «secondo Dio» (Doman
de e risposte sulla Genesi 2,62), «immagine» di Dio (La confusione delle lingue 97;
146-147). Per Filone, però, il Logos può essere chiamato Theós, senza articolo, solo
per «abuso linguistico» (I sogni 1,230) e non ha una dimensione personale. È certa
mente «strumento» (órganon) del progetto creatore di Dio (La migrazione di Abramo
6) e «ministro dei doni» per mezzo del quale Dio ha fatto il «mondo» (Lim mutabilità
di Dio 57), ma non diventa «carne». L’evoluzione intra-giudaica dell’idea di Logos, da
sola, non basta, a mio avviso, a spiegare l’inizio del Vangelo giovanneo.
glio» e la Parola escatologica di Dio; tra la persona di Gesù e
il «Figlio dell’uomo» il cui nome è pronunciato da Dio prima
della creazione (1 Enoc 4 8,3).
Nel v. 2, che ha una funzione conclusiva e riassuntiva, i ter
mini chiave del primo verso («in principio», «era», «verso
Dio») sono richiamati così da ribadire solennemente la radica
le dignità del Logos e, al contempo, l’impossibilità di dire l’es
sere e Dio, «in principio», prescindendo da lui. Il v. 2, che
senza dire nulla di nuovo prolunga ancora lo spazio di rifles
sione consacrato all’essere di Dio indipendentemente dalla
creazione, serve anche a sigillare la distinzione e la distanza tra
Creatore e creatura. Il Logos appartiene interamente a Dio,
non al mondo.
v. 3. Stabilita la differenza, il v. 3 riprende il movimento
ascensionale dell’inno e afferma che non solo il Logos appar
tiene a Dio, ma ha come suo peculiare possesso la creazione.
Il chiasmo stringente e perfetto del v. 3 esprime nitidamente
questa radicale appartenenza del mondo al Logos: nella Paro
la tutto sussiste; tutto ha genesi, inizio di esistenza e sussisten
za «per mezzo di lui» e neppure una cosa «senza di lui» (cfr.
anche lCor 8,6; Col 1,16; Eb 1,2). Se, da un lato, con questa
affermazione continua la celebrazione della dignità sovratem
porale del Logos e, al contempo, appare la dignità di ciò che
esiste per la sua originaria e strutturale appartenenza alla Pa
rola-Dio, imprinting di tutta la creazione, dall’altro, l’afferma
zione implica che da tale appartenenza dipende la sussistenza
stessa della creazione.
vv. 4-5. Il tema della «vita» appare perciò immediatamente
nei w. 4-5, che lasciano intravedere già il conflitto sperimen
tato da Gesù (3,19-21; 12,35-36). Simultaneamente e per la
prima volta appare il linguaggio dualistico nella contrapposi
zione luce-tenebra. Essa dipende primariamente dal testo di
Gen 1,3-5 che l’evangelista continua a rileggere cristologica-
mente, ma si inscrive anche nella più ampia struttura sapien
ziale e apocalittica che governa la riflessione giovannea e la sua
narrazione simbolica del ministero di Gesù, «giorno» lumino
so dell’operare salvifico di Dio prima che sopraggiunga la «not
te» (8,12; 9,4-5.39-41; 11,9-10; 12,35-36.46-50). La sapienza di
Dio, infatti, è vita e luce degli uomini: seguirne le tracce e re
stare nella sua ricerca è garanzia di vita; separarsene e rifiutar
la, invece, è certezza di morte (Pr 1,20-33; 6,23; Bar 3,9-14;
3,38-4,2; Sap 6,12-20; 7,10.22-30).
Nel creato, ai suoi diversi livelli, la Parola è dunque vita e
fonte di vita; tutto il creato partecipa della vita della Parola.
Per il genere umano, però, questa vita non può darsi che in
quanto «luce» e, cioè, fonte di conoscenza e spazio adeguato
di relazione. Nella rilettura giovannea, la «luce» non è la prima
creatura con cui Dio decide il creato, ma è la Parola stessa
partecipata come vita dal genere umano. Ugualmente, la «te
nebra» non è l’oscurità del caos informe da cui, mediante il
parlare divino, emerge il creato. La «tenebra», in effetti, al v. 5
è descritta come soggetto attivo di conflitto/rifiuto! Mediante
la contrapposizione simbolica luce-tenebra e l’assunzione del
lo schema dualistico profetico-apocalittico che esso presuppo
ne, l’evangelista dichiara che il rapporto con la Parola è per gli
uomini questione di vita o di morte. E impensabile, per loro,
una vita che non sia anche, nella Parola, relazione personale
con Dio, apertura esistenziale a lui che costituisce possibilità
di vedere durante la notte, di discernere e giudicare quando
ancora la vita umana è segnata da ima dimensione di «tenebra»
che pone ostacolo alla «luce». Come sempre nella Scrittura,
anche qui si fa riferimento a una dimensione di «tenebra» cui
non si dà spiegazione (da dove il male?). La prospettiva non è,
dunque, archeologica ma teleologica. Non si vuole spiegare da
dove venga la tenebra, ma dire che in relazione al genere uma
no la «Vita» si esprime necessariamente come Luce in conflit
to con Tenebra e che questa tenebra il genere umano può su
perarla partecipando della Luce della Parola-Dio mediante la
quale tutto comincia ad esistere e che «nella tenebra splende»
senza essere vinta. L’allusione è già chiaramente cristologica: il
cuore degli uomini e la loro esistenza nel mondo saranno il
teatro o il campo della lotta storica fatta dalla Parola per affer
marsi come Vita per il genere umano.
w. 6-8. Restando fedele in modo del tutto originale inci
pit tradizionale dell’annuncio evangelico (Me 1,2.4; At 1,20-21;
10,37-43; 13,23-25; 19,4), l’evangelista inserisce nel prologo
stesso il riferimento alla missione del precursore che assume
ora un ruolo strutturale perché introduce letterariamente e
circoscrive storicamente e teologicamente il discorso sul veni
re storico/rivelarsi della Parola-Luce nel mondo. Del precur
sore è indicata la comparsa nel tempo (esistenza storica e mis
sione), l’origine della missione in Dio, il nome, il fine della sua
missione (testimonianza e fede), la sua identità per contrasto
con quella del Logos, identificato come «luce». In questi tre
versi sono, quindi, concentrati per la prima volta i tre verbi più
importanti del prologo che avranno una pregnanza teologica
e cristologica decisiva anche nel resto del Vangelo: gtgnomai
(esistenza che ha inizio nel tempo), érchomai (il venire in rap
porto a una missione), eìnai (l’essere che dice l’identità profon
da di un soggetto).53
In quanto dnthròpos che «comincia a esistere nel tempo»
(cfr. v. 3), Giovanni è già legato essenzialmente alla Parola-
Luce (cfr. v. 4b). A questo legame creaturale originario, si ag
giunge quello determinato dal suo essere «mandato da Dio»,
li verbo apostéllò («inviare», «mandare») appartiene anch’esso
al vocabolario teologico caratteristico del Quarto Vangelo e
viene usato per qualificare quasi tutti i personaggi maggiori delIl
Il verbo «essere», nel resto del prologo, ha come soggetto sempre e soltanto il
I ,ogos-Vita e ne dice resistenza sovratemporale. L’unica volta che viene usato per un
ultro soggetto, qui per Giovanni, è preceduto dalla negazione. Questo aspetto negati
vo dell’identità e funzione di Giovanni è essenziale e speculare a quello positivo: cfr.
U .9-21; 3,25-30; 10,41-42.
racconto. La caratterizzazione del personaggio Giovanni come
primo inviato, dunque, è particolarmente intensa. Egli, a dif
ferenza di quanto accade ai discepoli di Gesù, è mandato di
rettamente da Dio Padre e sta in un rapporto diretto di obbe
dienza con Lui (1,33); la sua missione, quindi, ha una profon
dità teocentrica ineguagliata che la rende in qualche modo
parallela a quella di Gesù, le corrisponde nel tempo storica
mente ed è ordinata ad essa, ricevendone, anche, una coloritu
ra cristologica specifica (3,28). Come Gesù, anche Giovanni
viene ed è mandato per «rendere testimonianza alla verità»
(5,33 / / 18,37); come la Parola-luce che «splende nella tene
bra», così anche Giovanni «arde e splende» (5,35 in relazione
a Sir 48,1; Sai 132,17),34 pur non essendo lui la Luce stessa e
non godendo di luce propria. C ’è un che di struggente in tutto
ciò: inviato direttamente da Dio, Giovanni non è l’inviato per
eccellenza perché «Colui che Dio ha inviato» è per definizione
un altro, quello in funzione del quale Giovanni è stato manda
to. Nel suo essere «mandato da Dio» c’è dunque implicita non
solo una dimensione di profonda dignità, ma anche una dimen
sione di eteroreferenzialità ed espropriazione. Giovanni non è
«la Parola» ma solo la «voce di chi grida nel deserto» davanti
a colui che viene (1,23), divenendo in qualche modo il model
lo di ogni «apostolo-testimone» e anticipando la funzione del
suo «doppio testimoniale», cioè il discepolo amato.
L’insistenza sul lessico testimoniale nei w. 7-8 non è casuale:
la testimonianza, infatti, si lega strettamente alla rivelazione e,
dunque, alla missione nel Quarto Vangelo. Tutti coloro che
sono mandati, in Giovanni, hanno un ruolo nel processo della
rivelazione divina e, dunque, una funzione testimoniale. Il pre
cursore Giovanni, dunque, spicca non in qualità di battezza-54
54 Nel simbolo del lychnos si potrebbe cogliere anche un’allusione alle luci del
candelabro a sette braccia sempre ardente davanti all’arca della testimonianza nella
Tenda del convegno secondo Es 25,31-37; 27,20; Lv 24,2.
ture - anche se tale attività viene ampiamente richiamata in
1,19-34; 3,23; 4,1; 10,40 - ma in qualità di testimone persona
le del Cristo (1,32.34; 3,26; 5,33), addirittura di «amico dello
Sposo» (3,29-30). Nel mondo e nella storia, deponendo «so
lennemente e ufficialmente come di fronte a un tribunale»,55
egli rende al Figlio la testimonianza che il Padre stesso gli ren
de attraverso le Scritture e le opere (cfr. 5,31-32.37; 8,18). Con
una suggestiva immagine, R. Vignolo sintetizza tale ruolo: «ri
spetto a Gesù, Giovanni Battista avanza come una sorta di suo
adombramento anticipato, una sua stupenda controfigura
concava»,56 anticipando e incarnando in sé stesso, per primo,
['«accoglienza» resa dai credenti alla Parola-Luce veniente nel
inondo. Al «credere» di tutti, infatti, è interamente finalizzata
la testimonianza di Giovanni.
w. 9-14. Agganciati ai versi precedenti tramite la ripresa del
sostantivo «luce» e del verbo «venire» (v. 9), i w. 9-14 costitui
scono il movimento centrale del prologo che ha per tema la
venuta del Logos nel mondo. Tra il v. 9 e il v. 10 kósmos, infat
ti, è la parola-gancio, mentre la ripetizione del verbo érchomai
(«venire») collega tra loro il v. 9 (venuta nel mondo) e il v. 11
(venuta nella sua proprietà). Anche il v. 9 e il v. 14 sono in
parallelo tra loro: il Logos viene nel mondo come Luce (12,46),
ma soltanto «nella carne» la verità del suo «venire nel mondo»
giunge alla sua piena visibilità (lG v 4,2; 2Gv 7) e «carne» si
gnifica la possibilità di soffrire e di morire. Tra l’annunzio del
la Luce veniente (v. 9) e la proclamazione della Luce venuta (v.
14) è racchiusa ima rilettura, a posteriori, della relazione dram
matica tra la Parola-Luce e gli uomini. Tra gli uomini, la Paro
la incontra rifiuto (w. 10-11) e accoglienza (w. 12-13). Se i w.
10 e 11 sono accomunati dal parallelismo antitetico («Era nel
mondo, il mondo per mezzo di lui divenne» / / «nella sua prò-
” VlGNOLO, «La dottrina», 173-174.
56 Ivi, 183 (mio il corsivo).
prietà venne»; «eppure il mondo non lo riconobbe» / / «eppu
re i suoi non lo accolsero»), il v. 11 e i w. 12-13 sono collegati
invece dalla ripetizione del verbo lambàno («prendere», «rice
vere») e del suo composto paralam bànó («ricevere presso»,
«accogliere») che determina un netto contrasto tra la reazione
di chi, pur appartenendo a titolo del tutto particolare al Logos,
non l’ha accolto e la reazione di coloro che, invece, «lo hanno
accolto» per la loro fede ricevendone in dono una condizione
di esistenza e di appartenenza a Dio del tutto nuova. Il kat
epesegetico che introduce il v. 14 («sì», «cioè») collega stretta-
mente la proclamazione del divenire carne del Logos all’acco
glienza di fede: sono i credenti, gli stessi che parlano in «noi»
nel v. 14, i soli a poter proclamare la venuta del Logos-Luce
nel mondo come «carne».
Nel loro insieme, dunque, i w. 9-14 formano un chiasmo:
a) v. 9: il Logos-Luce è descritto come veniente, annunciato nel
suo ingresso
b) w . 10-11: esso è incompreso e rifiutato dalle sue creature e
dalla sua stessa eredità
b 1) w. 12-13: trova accoglienza nei credenti e dà loro di diventare
«figli di Dio»
a1) v. 14: la venuta della Luce è il divenire carne del Logos, rico
nosciuto e contemplato nella persona dell’Unigenito
w. 9-11. Dato il suo significato strutturale per l’esistenza del
creato (v. 3) e per la vita degli uomini (v. 4), l’intima apparte
nenza delle creature al Logos avrebbe dovuto trovare, senza
possibili opposizioni, la sua manifestazione piena, universal
mente visibile, nelle relazioni storiche del Logos con il mondo
fino al culmine del suo divenire carne. Invece, nella storia essa
trova la smentita (w. 10c-ll). La verità della relazione creatu-
rale e storico-salvifica del mondo al Logos non ha trovato at
tuazione esistenziale universalmente visibile nemmeno nel suo
attuarsi puntuale e concreto alla venuta del Logos nella carne.
L’incontro tra la Luce e il mondo sembra essere stato mancato
quanto alla capacità del mondo di fare spazio alla verità. I w.
10-11, come i w. 1-5, vanno letti anch’essi sullo sfondo della
tradizione sapienziale dell’Antico Testamento e dei suoi svilup
pi nell’apocalittica giudaica: la Parola-Sapienza di Dio, che
esercita il suo dominio sul cosmo e sui popoli (Sir 24,3-6) rice
ve in eredità particolare Giacobbe-Israele (cfr. Sir 24,7-8.10-12
come rielaborazione in chiave sapienziale della teologia dell’al
leanza espressa in Es 19,5; Dt 32,7-11). Secondo 1 Enoc42,1-2,
però, la Sapienza abbandona la terra e non trovando posto tra
i figli degli uomini pone la sua sede nel cielo, tra gli angeli. Il
suo posto sulla terra viene riempito allora dall’ingiustizia. Lo
scenario rappresentato da Giovanni non è meno drammatico:
il mondo non «conosce»; l’eredità della Sapienza non le fa
spazio. «I suoi», differenziati dal kósmos quanto al grado di
relazione personale con il Logos, ma apparentati al mondo
quanto alla reazione negativa con cui rispondono al suo venire,
rappresentano la chiusura del mondo a Dio o, in termini gio-
vannei, l’odio del mondo. L’allusione al conflitto cristologico
sembra quanto mai chiara (Gv 3,19-20; 16,3): in esso, infatti,
viene alla luce ed esplode tutto ciò che di «mondano», cioè di
chiuso e opposto a Dio, in lotta con Lui perché governato da
un altro «principe» e chiuso alla Sua signoria (12,31; 14,30), si
annida e si insinua nelle stesse fibre della relazione di alleanza
con Dio. Nel concreto della storia salvifica, questi versi illu
strano quanto detto simbolicamente nel v. 5 a: la luce splende,
sì, ma nelle tenebre.
vv. 12-13. Secondo Giovanni, però, il Logos di Dio non
abbandona la terra all’ingiustizia: al contrario, la raggiunge e
l’assume fino a divenire carne. E non da tutti l’incontro con lui
è stato mancato: ci sono coloro che, sì, hanno riconosciuto e
«contemplato» la Gloria del Logos-Luce nella carne, anche se
nel contesto e a prezzo del conflitto mortale cui l’Incarnato si
è esposto. A conferma di quanto detto nel v. 5b, al crescendo
negativo dei w. 10-11 segue, dunque, il crescendo positivo
inversamente proporzionale dei w. 12-13. La chiave di volta
sta nel passaggio dal rifiuto all’accoglienza ed è proprio l’atto
del «ricevere» (lambàno) che mette in campo, definendolo, un
nuovo soggetto di relazione con la Parola-Luce: non più la
tenebra (che «non ha sopraffatto», kata-lambàno), non più «il
kósm os» (che «non conobbe»), non più gli tdioi (che «non
diedero accoglienza», para-lambàno), ma tutti coloro che, pur
essendo «nel mondo» (17,6.11.14.16), si differenziano dalla
tenebra, dal kósmos e dagli tdioi per avere «ricevuto» la Paro
la, atto che determina per loro una nuova appartenenza al Lo
gos divenuto carne (13,1; 17,6.10).
Questo atto, per Giovanni, coincide con il «credere nel no
me di lui». Il sintagma «credere nel nome di» è solo giovanneo
nel Nuovo Testamento (2,23; 3,18; lG v 5,13): significa crede
re nella persona di Gesù in quanto Figlio rivelatore del Padre,
realizzatore della sua volontà salvifica, testimone dell’essere e
del dono di Dio al mondo; significa accogliere la sua parola e
testimonianza resa al Padre (Gv 17,6-8).57 Per i soggetti di cui
si parla nei w. 12-13, la relazione di appartenenza alla Parola
e, mediante essa, a Dio non è più secondo creazione soltanto
o secondo l’elezione di Israele, ma secondo il «credere/riceve
re». Tale atto, costitutivamente dinamico, fa da autentico spar
tiacque in seno al «m ondo» e in seno al popolo dell’alleanza
(cfr. già Is 65,13-66,5). La novità della appartenenza dei ere-
57 Nel sintagma si potrebbe riconoscere anche un’allusione al battesimo (cfr. anche
lG v 3,1-2.9; 4,7; 5,1; G c 1,18; lPt 1,3.23; 2,1). Il verbo «credere» compare anche in
altre costruzioni nel linguaggio giovanneo: «credere in» (pisteùd eis + accusativo) si
gnifica la fede in qualcuno in senso dinamico e relazionale, «impegno attivo per una
persona e in modo particolare per Gesù. Ciò significa molto più che la fiducia in Gesù;
è un’accettazione di Gesù e di ciò che lui proclama di essere e una dedizione della
propria vita a lui» (BROWN, Giovanni, 1455). «Credere a» (pisteùd + dativo) implica,
invece, credere a qualcuno o in/a qualcosa nel senso di accettare un messaggio come
attendibile, senza che sia altrettanto evidente l’impegno per la persona (Gv 5,46-47).
denti a Dio viene illustrata con il linguaggio di creazione: essi
cominciano a esistere come «figli di D io» (tékna, non hyiós
usato solo per Gesù), generati da Dio e non secondo dimen
sioni di esistenza o logiche di potere caduche come il «sangue»
e la «carne» (3,3-8). G v 1,13 usa per la precisione il plurale
«sangui» che nell’Antico Testamento è usato per indicare lo
spargimento di sangue (l’omicidio), le mestruazioni della don
na o «i sangui» del parto da cui la puerpera deve purificarsi al
tempo stabilito (demè thohóràh: il sangue della purificazione,
cfr. Lv 12,1-8, in modo particolare v. 4). E in quest’ultimo
senso che lo usa probabilmente l’evangelista, indicando in mo
do del tutto plastico e fisico la differenza tra la generazione
fisica e la generazione spirituale delle creature umane.
v. 14. Il verso, che porta al culmine il crescendo positivo dei
vv. 12-13, afferma che l’incontro, per coloro che hanno credu
to, si è compiuto nella carne mortale dell’uomo-Figlio, piena
mente accolto e riconosciuto, «contemplato», nella sua dignità
o «G loria», come pieno della pienezza di Dio, il «pieno di
grazia e verità», presenza personale del Dio dell’alleanza, dal
Volto invisibile ma dal Nome rivelato (cfr. Es 33,18-34,28). Se
k figura biblico-teologica usata dall’evangelista per parlare del
Logos nella sua sovraesistenza era quella della Parola-Sapienza,
per parlare del Logos venuto nella carne l’evangelista rimanda
ora più direttamente alla teologia dell’alleanza e della rivela
zione sinaitica. Nel racconto esodico, infatti, la rivelazione del
Nome del Signore («pieno di grazia e verità») avviene in rispo
sta a (e nel contesto del) tradimento del popolo appena eleva
to alla relazione di alleanza (Es 32): la rivelazione dell’essere di
Dio e del suo agire salvifico fedele in favore del popolo scelto,
la rivelazione della Gloria e del Nome, è sin da allora connessa
alla necessità del perdono nel contesto del tradimento. Ugual
mente, nel contesto del prologo giovanneo, la rivelazione del
Logos divenuto carne si ha nel Nome di Colui che è stato «non
conosciuto» dal mondo, non «accolto» dai suoi, ma mediante
la fede proclamato dai credenti come Figlio unico «pieno di
grazia e verità», colui nel quale è visibile la Gloria che Mosè
chiedeva di vedere.
Nel lessico e nell’immagine dell’«attendarsi» divino in mez
zo al suo popolo l’evangelista individua il luogo di convergen
za tra la teologia della alleanza e le sue riletture sapienziali per
esprimere nel modo migliore la prossimità relazionale tra il Dio
Logos e il mondo. Della Gloria di Dio nel contesto esodico si
proclamava, infatti, la presenza nella «tenda del convegno» (Es
40,33b-38; 2Sam 7,6); di un rinnovato venire del Signore per
attendarsi in Sion parlavano i profeti in prospettiva escatolo
gica (Gl 4,17.21; Zc 2,14). Di attendamento si parlava anche
per dire la particolare presenza e sovranità della Sapienza in
Israele (Sir 24,8). Per Giovanni, ora, la «tenda» è la «carne»
umana del Logos, partecipe della «nostra» umana condizione.
«Pose la sua tenda tra noi», infatti, è parallelo a «divenne (co
minciò ad esistere come) carne» e significa anzitutto l’assun
zione che il Logos fa del corpo creaturale, esposto alla soffe
renza e alla morte, condiviso con noi e reso vero e vivo «san
tuario» divino (Gv 2,20-21), tenda della nuova alleanza.58 In
questa carne i credenti hanno potuto contemplare la Gloria: è
la Gloria che Mosè aveva chiesto di vedere, ma qui si precisa
come «Gloria» relazionale, condivisa da due, «Gloria come di
Unigenito dal Padre». Anche nel resto del Vangelo, ogni volta
che Gesù farà riferimento al proprio onore, dignità, «gloria»
lo farà in termini relazionali, guardando al Padre da cui tale
gloriagli viene (5,41-44; 7,16-18; 8,49-55; 17,5.22.24).
w. 15-17. La prima proclamazione in «noi» del prologo (v.
14), col suo impegnativo contenuto cristologico, è immedia
tamente supportata e sigillata dal secondo riferimento alla
58 II verbo skenód, in realtà, è raro nell’Antico Testamento greco: cfr. Gen 13,12;
Gdc 5,17 e 8,11. Nel Nuovo Testamento compare solo qui e in Ap 7,15; 12,12; 13,6;
21,3.
testimonianza di Giovanni: il v. 15 la riporta in forma di cita
zione diretta, anticipando all’interno del prologo quanto si
leggerà, a racconto iniziato, in 1,30. È dell’uomo-Figlio, e non
più soltanto del Logos-Luce, che Giovanni «testimonia» ora;
è con l’uomo-Figlio che il Logos-Luce è identificato («questi
era colui che io dissi...»). I w. 16-17, a loro volta, si collegano
strettamente alla terza affermazione di Giovanni (v. 15e) me
diante la congiunzione hóti cui occorre riconoscere valore
causale, più che dichiarativo. La testimonianza-proclamazione
di Giovanni diventa, in tal modo, la testimonianza-proclama
zione della comunità dei credenti, gli stessi che parlano in
prima persona al v. 14 e che ritornano a parlare in prima per
sona al v. 16.
La prima differenza da notare, rispetto al primo inciso su
Giovanni, consiste nell’uso, nel v. 15ab, dei verbi al presente
(«testimonia», martyrei) e al perfetto («ha proclamato/grida
ta», kékragen): entrambe le forme verbali dicono che la testi
monianza di Giovanni non solo si è compiuta nel passato, ma
incora risuona nel presente come in atto di compiersi. È un
«grido» profetico che ancora mantiene la sua validità ed effi
cacia (1,23). Utilizzato insieme al verbo martyréó, il verbo kràzo
ha il sapore dell’annuncio kerigmatico solenne e definitivo:
colui che è il Logos divenuto carne è anche il «veniente» atte
so all’incontro di Israele con Dio (Sai 118,26; Ab 2,3; Mt 3,11
// Me 1,7-8 e Le 3,16; Mt 11,3 / / Le 7,19-20; Mt 21,9 / / Me
11,9 e Le 19,38; Gv 6,14; 11,27; 12,13; At 19,4). Pur seguendo
cronologicamente Giovanni nella missione {«viene dopo»), lo
precede in dignità sul piano della funzione storico-salvifica
(«mi è divenuto avanti») perché lo precede sul piano stesso
dell’essere {«era prima di me»). Di nuovo, come nei w. 6-8, i
Ire verbi «divenire», «venire», «essere» si concentrano quando
tìi parla del testimone Giovanni, deputato prima di chiunque
nitro a proclamare l’identità di Gesù. Riferito alla sua procla
mazione, soprattutto nel v. 15 che è preceduto e seguito da due
versi che esprimono la confessione di fede della comunità (w.
14 e 16-17), l’uso del verbo martyréd rappresenta una sorta di
«torsione specificamente forense» dei verbi tipici dell’annuncio
kerigmatico assenti in Giovanni (keryssd, euangelizo) e della
confessione cristologica (espressa anche nel Quarto Vangelo
dal verbo homologéd: cfr. 1,19-20; 9,22; 12,42): «in quanto azio
ne parallela alla confessione cristologica e ad ulteriori atti so
lenni di proclamazione {gtiàate/kràzd, annunziare/augèllo
anangélld apangéllò, patiate/laléd), l’attestazione prende chia
re connotazioni kerigmatiche di energica carica affettiva e
comunicativa».59
vv. 16-17. Questi versi, nei quali il «noi» del v. 14 riprende
la parola fondendo la propria voce con quella del testimone
Giovanni, esprimono esattamente tale carica affettiva e comu
nicativa implicata nell’attestazione di fede. Per il «noi tutti» del
v. 16 la testimonianza di Giovanni è già stata efficace ed essi
parlano qui anche a nome di tutti i potenziali credenti, di «ogni
uomo» che ancora deve essere raggiunto dalla testimonianza
di Giovanni e, in essa, dalla pienezza del Logos divenuto carne.
La precedenza sul piano dell’essere quanto della funzione
storico-salvifica attribuita al Logos divenuto carne trova ulte
riore conferma e fondamento nella proclamazione del «noi»
nel v. 16: «ricevendo» il Logos divenuto carne (cfr. v. 12), in
fatti, essi hanno «ricevuto grazia su grazia» dalla pienezza del
suo essere filiale, presenza corporale, escatologica e personale
della Parola-Dio. Il messaggio cristologico contenuto nel v. 14
si condensa qui non più dal punto di vista dell’identità del
Cristo (la sua «gloria»), ma dal punto di vista di ciò che egli
rappresenta per i credenti. In modo più esplicito che nel v. 14,
nella testimonianza di Giovanni divenuta quella del «noi» cre
dente affiora, dunque, la teologia giovannea dell’alleanza: nel
v. 16 tramite l’accostamento frontale di «grazia» a «grazia»; nel
59 VlGNOLO, «La dottrina», 174.
v. 17 tramite un denso parallelismo tra «Legge» e «grazia e
verità», tra mediazione di Mosè e mediazione di Gesù, tra «è
stata donata» ed «è accaduta».
Benché l’evangelista non usi mai la parola «alleanza», la teo
logia dell’alleanza sinaitica resta potentemente sullo sfondo e
nei w. 16-17 egli ne offre la propria rilettura. Come intenderla?
In termini di sostituzione dell’alleanza sinaitica con l’alleanza
cristologica? In termini di prefigurazione della grazia (la Legge
e l’economia mosaica) e di compimento reale della grazia
(l’economia cristologica)? In termini di contrapposizione e su
peramento tra ciò che è qualitativamente inferiore nell’econo
mia della rivelazione (la Legge di Mosè) e ciò che le è superio
re, cioè la rivelazione cristologica (la «verità» di cui in Gesù è
fatta «grazia»)? Oppure, ancora, in termini di semplice, piena,
corrispondenza tra due «grazie» che stanno una di fronte all’al
tra, l’una al pari dell’altra? L’ipotesi di una «sostituzione» o di
un «superamento», che considererebbe chiuso il conto con
l’alleanza mosaica, non mi sembra coerente con l’insieme del
Vangelo: il tema della rivendicazione dell’identità giudaica da
parte dei credenti in Gesù brucia ancora ardente nel racconto
giovanneo del Nazareno che invade di sé gli spazi (Gerusalem
me e il tempio), i tempi (sabato, pasqua, Capanne, Dedicazio
ne) e i simboli (il pane del deserto; l’acqua viva e la luce della
7'òrah Sapienza; la vite scelta che è Israele) più sacri dell’iden
tità giudaica. Nemmeno la contrapposizione qualitativa tra la
Legge e la rivelazione cristologica sembra adeguata: con un
passivo teologico si dice, infatti, che la Legge «è stata donata»
e, dunque, è una realtà teologica eminentemente positiva stan
do al lessico giovanneo del «dono». La Legge mosaica, d’altra
parte, è piena secondo Giovanni di valore profetico e conte
nuto cristologico (cfr. 1,45; 5,45-47; 7,19.23; 10,34-35).
Penso sia più coerente con l’andamento letterario e teologico
del prologo e con la teologia giovannea intendere tanto il rap
porto tra «grazia» e «grazia» (v. 16) quanto il parallelismo del
v. 17 alla luce del passaggio dal dono della Legge alla «carne»
del Donatore stesso di cui «Gesù Cristo» porta, nella sua esisten
za storica filiale, attingibile sensorialmente ed esperienzialmente,
il Nome e la pienezza. Nella storia e nel volto di lui, nella pie
nezza del suo amore e della sua fedeltà ai «suoi», diventa realtà
umana la pienezza dell’amore e della fedeltà di Dio a Israele e
al mondo. In modo quasi intollerabile per la «carne», la «G lo
ria» del «pieno di grazia e di verità» fa irruzione nel mondo nel
segno e nella forma dell’identità filiale e fedele di Gesù. Tra il
dono di Dio - mediato da Mosè e significato dalla Legge quale
strumento della relazione di alleanza offerto da Colui che è pie
no di grazia e fedeltà - e il «divenire carne», realtà esistenziale
umana piena e totale del Donatore, si può riconoscere una cor
rispondenza. Non paritetica, però, ma sconfinata, traboccante,
perché fondata sull’abbattimento della distanza relazionale tra
Creatore e creatura, sull’assunzione radicale della fragilità uma
na e sulla grazia del perdono proprio della nuova alleanza esca
tologica, capace di contenere nel suo crogiuolo il fallimento ri
spetto alla grazia donata e tradita (cfr. Ger 31,31-34). La Gloria
di Dio nel Figlio, infatti, si manifesta ed è vista, secondo Gio
vanni, nella croce dell’Innalzato: il passaggio dall’antico al nuo
vo nell’unica relazione di alleanza avviene per mezzo della cro
ce di Gesù, luogo della glorificazione congiunta di Dio e del
Figlio dell’uomo, del Padre e del Figlio, spazio dell’irrompere
della grazia e fedeltà di Dio. La pienezza donata, dunque, non
accade fuori o «oltre» la relazione di alleanza Yhwh-Israele: la
testimonianza di Giovanni, nel prologo, ne racchiude la celebra
zione e la stringe al suo interno, quasi stringendo l’intera rela
zione Dio-mondo nel seno della relazione Logos-Israele e, con
cretamente, nella storia e nella persona stessa del singolo uomo
Gesù Cristo. E nel roveto ardente di questa relazione che la
pienezza «accaduta», di portata universale e definitiva, è stata
«contemplata» come Gloria: gloria di Dio stesso, Unigenito in
relazione al Padre, partecipata a tutti quelli che credono.
v. 18. Con un’ultima affermazione solenne, l’evangelista
chiude la celebrazione poetica del Logos rivelatore, divenuto
«carne» nella persona di Gesù, per aprire il racconto della
storia nella quale e mediante la quale la rivelazione si è com
piuta e il riconoscimento del rivelatore è avvenuto. Il v. 18 ri
prende tanto ivv. 1-5, consacrati all’essere di Dio in sé e al suo
rapporto col mondo, quanto i w. 6-17 dedicati alla venuta
salvifica del Logos nel mondo: ciò che di Dio Salvatore, del
Dio unico di Israele, si può conoscere e dire con verità, passa
esclusivamente per la persona del monogenes. Il verso contiene,
perciò, due proposizioni principali: a) Dio nessuno l’ha visto
inai; b) l’ha «condotto fuori», «spiegato», «raccontato», sol
tanto l’Unigenito.
L’affermazione dell’assoluta invisibilità di Dio è un topos
classico dell’Antico Testamento: nessuno può vedere Dio e re
stare vivo, anche se resta aperta la dialettica tra la relazione di
Comunione cui Dio invita il suo partner umano e l’impossibi
lità per l’uomo di reggere l’impatto con la divinità (Es 19,21;
33,20.23; contro Gen 32,31; Es 24,9; 33,11; Nm 14,14; D t5,4;
34,10; Gdc 6,22). Nella tradizione interpretativa giudaica, in
epoca neotestamentaria, si insisteva però su alcune eccezioni
alla regola, rappresentate appunto da Mosè sul Sinai o dai veg
genti apocalittici nei loro viaggi celesti. Giovanni, in polemica
torse con queste tendenze, insiste sul fatto che Dio non l’ha
visto davvero nessuno per come Egli è in se stesso, nel suo
mistero. Il «vedere», qui, implica una conoscenza intima e pro
fonda dell’essere di Dio in sé (Gv 3,13; 5,37; 6,46) e nel con
testo ampio della tradizione giovannea, il «vedere Dio così
come Egli è» appartiene soltanto alla pienezza àe\Yéschaton
( IGv 3,2). Questa, però, è solo la prima parte dell’affermazio
ne culminante del v. 18 e non avrebbe alcun senso se finalizza
ta a se stessa. Essa costituisce solo la premessa negativa per
l’affermazione cui tende, in fondo, l’intero prologo e da cui
dipende l’inizio del racconto evangelico: di Dio soltanto uno è
autorizzato a parlare in pienezza e questi è l’Unigenito, Dio egli
stesso. Se Sir 43 ,31 , al termine della sua celebrazione delle
opere di Dio nella creazione (42 ,15— 43,33 ), si chiedeva: «Chi
lo ha visto {tts heóraken autóri) per poterlo descrivere {kaì
ekdiègesetai)? Chi può lodarlo per come egli è (kathos estin)?»,
al termine della sua «lode», nel v. 18, l’autore del prologo sem
bra rispondere alla domanda e alla dottrina biblica sull’invisi-
bilità e grandezza di Dio che essa presuppone: «Dio nessuno
lo ha visto mai» (Theòn oudeis heóraken popote). L’Unigenito
D io... Egli ha rivelato» (exègesato). Solo Dio può rivelare Dio,
solo Dio può mostrare se stesso «così come è» veramente
(,kathos estin, cfr. lG v 3,2). Il Dio di Israele lo ha fatto, mo
strando al mondo, dispiegando in esso nella persona storica
dell’uomo Gesù, il suo essere relazionale oltre e dentro il tem
po: Parola verso Dio, Figlio in seno al Padre (Gv 14,6-11). La
persona e l’agire dell’Unigenito, Dio egli stesso, riconosciuto
nella persona unica e singolare dell’uomo Gesù, costituiscono
la manifestazione puntuale e definitiva nella storia umana
dell’essere di Dio per la salvezza del mondo.
Si pone, a questo punto, un ultimo problema esegetico: co
me intendere il participio presente che definisce l’Unigenito
come «colui che è {ho on) in seno al Padre»? Fa riferimento
all’esistenza sovratemporale del Logos-Figlio, per indicarne la
natura divina condivisa col Padre e la sua immanenza in Lui
(v. 1)? Fa riferimento al Figlio asceso al Padre dopo la morte
e risurrezione (20,17)? Oppure fa riferimento al continuo es
sere orientato di Gesù al Padre durante la sua vita storica,
orientamento che è già proprio del Logos e costituisce il fon
damento stesso del suo ruolo di rivelatore? In quest’ultima
ipotesi, il presente del verbo «essere» dovrebbe essere inter
pretato alla luce di testi come 6,46; 7,29 che insistono sulla
costante unità e intimità tra Dio e Gesù. Il senso della frase
sarebbe che Gesù, nell’intera sua vita, è rimasto sempre aperto
come Figlio al Padre in una relazione di amore e di obbedien-
za incessante. Il «seno» (kólpos), immagine di intimità e vici
nanza cercata o stabilmente raggiunta, procurata o percepita,
sarebbe stato scelto per dire plasticamente tale relazione nel
modo più incisivo: essere «nel seno di» significa, infatti, vivere
in comunione (Le 16,22).
In Giovanni questa immagine di comunione ritorna due
volte: qui e in 13,23. In 13,23 dice una prossimità anzitutto
corporea, fisica, determinata dalla posizione del discepolo ama
to vicino a Gesù nella cena, ma in entrambi i casi indica una
condizione di profonda intimità e condivisione. Il rapporto tra
i due testi è troppo forte per essere ignorato: se Gesù è il rive
latore di Dio e il testimone del Padre, il discepolo amato è il
testimone per eccellenza di Gesù a partire dal momento dram
matico del tradimento di Giuda. Egli incarna, dunque, la con
tinuità tra l’intimità del Figlio col Padre e l’intimità dei disce
poli col Figlio e, nel Figlio, col Padre, il loro essere stati intro
dotti nell’intimità della relazione divina. Non si può, quindi,
ridurre la portata dell’affermazione del v. 18 alla sola esistenza
Storica del Figlio anche se, senza alcun dubbio, il riferimento
ad essa è compreso ed è basilare. La relazione filiale a Dio
come proprio Padre, che ha contrassegnato ogni istante della
vita storica dell’uomo Gesù, non è altro che il mostrarsi stori
co della relazione del Logos a Dio, del Figlio al Padre. In G e
sù, essa è stata spalancata, aperta al mondo ed è diventata l’ere
dità accessibile a tutti i credenti, abilitati alla sua stessa esisten
za filiale (cfr. w. 12-13).
Il v. 18 costituisce, quindi, un versetto ponte tra l’inno e la
narrazione: il Vangelo illustrerà, raccontando, l’atto di «esege
si» o rivelazione che il prologo enuncia celebrando. Il respon
sabile di tale narrazione, non a caso, sarà riconosciuto nel di
scepolo amato partecipe dell’intimità del Figlio («nel seno di
Gesù»: 13,23.25; 21,20) come il Figlio lo è dell’intimità del
Padre. Il dono con cui il Figlio ha aperto le profondità di Dio
vivendo il suo rapporto col Padre dentro la nostra storia, nella
nostra carne e in mezzo a noi, è il suo atto di esegesi e costitui
sce la nostra visione di Dio, l’unica possibile all’uomo; la pie
nezza di Lui da cui noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia.
Cosa sia l’essere, il vivere e amarsi del Figlio e del Padre e la
loro comunione nelle fibre della carne umana e fino alla pasqua
dell’uomo Gesù, questo sarà l’oggetto del racconto giovanneo
e la rivelazione salvifica secondo Giovanni.
3. Esegesi di Gv 9: dottrina ed esperienza davanti al rivelarsi
del Figlio dell’uomo
Il racconto della guarigione del cieco nato manifesta più di
ogni altro la «consumata arte» narrativa del quarto evangeli
sta.60 Con la sua forza estetica e la drammaticità del suo svilup
po esso traduce plasticamente il tema centrale del Vangelo:
quello dell’identità di Gesù «luce del mondo» la cui azione
illuminante non solo salva ma anche provoca divisione, opera
il discernimento e significa il giudizio (1,4-5.9; 3,19-21; 8,12;
10,21; 12,35-36.46). E come una rappresentazione in miniatu
ra {mise en ahimè) della storia giovannea di Gesù: il gesto pro
digioso (trama di azione) solleva la questione dell’identità del
guaritore (trama di rivelazione) e questa, a sua volta, determi
na conflitto e divisione; come nel resto del Vangelo, e più che
in occasione dei «segni» precedenti, in questo racconto di mi
racolo e di incipiente sequela l’azione fondamentale è verbale
più che gestuale ma il suo protagonista principale non è tanto
Gesù, che compare solo all’inizio e alla fine, quanto il cieco
divenuto vedente. Egli, in altri termini, funge da figura specu
lare a quella di Gesù: prende il suo posto davanti al tribunale
inquisitorio di farisei e «Giudei»; lotta per affermare la propria
identità davanti al dubbio e alla divisione di quanti lo conosco
60 Brown, Giovanni, 492.
no, procurandosi contestazione e abbandono; è testimone e
prova vivente dell’identità di Gesù rivelatore e giudice escato
logico. Dopo Giovanni Battista, a nessun altro personaggio
singolo viene dedicato tanto spazio narrativo autonomo in as
senza di Gesù. A nessun altro personaggio all’infuori di Gesù,
infine, il quarto evangelista mette in bocca l’espressione iden
titaria più asciutta, e al contempo più potente e teologicamen
te evocativa, ego eimi («Sono io»: 9,9). Nel racconto del c. 9
forma e tema del Quarto Vangelo sono del tutto coincidenti:
la storia del cieco diventato vedente è trasparente della traspa
renza teologica, antropologica e ecclesiologica della storia di
Gesù «luce del mondo».
3.1. Contesto e genere letterario
Il capitolo costituisce solo la prima parte di una scena nar
rativa più ampia che, come altre (per esempio, c. 5), intreccia
un racconto di miracolo (9,1-38), un dialogo (9,39-41) e un
discorso di Gesù (10,1-18) seguiti da una conclusione che al
lude nuovamente al miracolo riconoscendo in esso un segno
rivelatore dell’azione del Servo di Yhwh (10,19-21; cfr. Is 42,6-
7). Scena centrale tra le sette che compongono i cc. 5-12, la
narrazione di Gv 9,1-10,21 si colloca tra la sezione della festa
delle tende (cc. 7-8) e quella della festa della Dedicazione
(10,22-39) e ha come sua cornice festiva il giorno di sabato
(9,14).61
Dal punto di vista letterario, quindi, la storia del cieco nato
è in rapporto molto stretto anzitutto con il discorso sulla por
61 Per gli autori che ritengono che 9,1-10,21 appartenga alla sezione della festa
delle Tende (cc. 7-8), il sabato di cui si parla in 9,14 coinciderebbe anche con «Fulti -
rno giorno, quello solenne, della festa» (7,37): la guarigione del cieco sarebbe la ma
nifestazione culminante della presenza salvifica di Dio in mezzo al suo popolo duran
te la festa.
ta e sul pastore che si sviluppa nel c. 10. Il cieco guarito scom
pare, ma non si segnalano cambiamenti di tempo o luogo:
Gesù continua a parlare con «alcuni tra i farisei che stavano
con lui» da 9,41 a 10,18. Nella sua persona e nella sua storia
drammatica il cieco non soltanto costituisce una figura cristo
logica, ma anche una figura ecclesiologica: rappresenta il servo
Israele prima cieco e poi illuminato dall’azione del Servo di
Yhwh (Is 42,16.18-19; 43,8-13; 49,6-11; 50,10) e, dunque, tut
te e singole le pecore del gregge di Israele, maltrattato dai suoi
pastori ma radunato escatologicamente da Gesù Re e Pastore
davidico (Is 53,6; Ez 34; 37,15-28). Simboli e temi legano il
racconto della guarigione del cieco nato anche alla sezione del
la festa delle Capanne che lo precede: l’invio del cieco alla
piscina di Siloe nella cui acqua, lavatosi, acquista la vista (Gv
9,7) rimanda alla processione che si faceva a Siloe per attinge
re l’acqua da versare all’altare, nel Santo, ciascuno dei sette
giorni della festa; il simbolismo della luce rimanda anch’esso
alle quattro mfndròt giganti poste nel cortile delle donne che
di notte illuminavano Gerusalemme (mSukkot 5,1-4). Acqua
zampillante da Sion e luce senza più notte erano i simboli del
trionfo regale di Yhwh in Sion, al cospetto delle nazioni, nel
contesto di Sukkot già secondo Zc 14,6-9.16.18.19 (cfr. Gv
7,37-39; 8,12) e al tempo di Gesù, le cerimonie della festa con
nesse a questi simboli avevano acquisito ormai un carattere
escatologico e messianico marcato.
La storia del cieco raccontata su questo sfondo costituisce
un segno quanto mai evidente dell’identità messianica di Gesù
come «inviato» che, nel contesto, è oggetto continuo di dispu
ta (7,12.25-27.31.40-43; 8,25; 10,19-21; 10,24.36) ma si può
riconoscere dai segni e nelle opere. Nella sua stessa persona, il
cieco nato attesta l’opera di Dio in atto di realizzarsi grazie alla
presenza e all’azione di Gesù e, dunque, prova la differenza tra
luce e tenebra e il discernimento tra chi è cieco e chi vede. Egli
è, dunque, giudizio in se stesso. Un giudizio vissuto a prezzo
della propria vita: proclamarsi secondo la sua identità significa
inevitabilmente, per l’ex cieco, parlare a favore dell’identità di
Gesù ed esporsi così al rischio del rigetto da parte dei suoi
pastori (9,24-34) e dell’abbandono da parte dei suoi stessi ge
nitori (w. 18-22). A differenza di questi, il cieco illuminato non
teme ma rischia, così come Gesù stesso, nei cc. 5-12, rischia
continuamente la vita persistendo nell’affermazione della pro
pria identità. Opera di nuova creazione in se stesso (9,3), egli
dimostra la verità delle parole di Gesù: «Le opere, che il Padre
mi ha dato da portare a compimento, quelle stesse opere che
io faccio testimoniano di me che il Padre mi ha m andato»
(5,36). Letta sullo sfondo dei cc. 5-12 e, in particolare, dei cc.
7-10 la storia del cieco nato costituisce un luogo di rivelazione
cruciale del dramma cristologico nelle sue diverse dimensioni:
antropologica, ecclesiologica e soteriologica.
Nella sequenza narrativa del Quarto Vangelo, quello del c.
9 è il terzo racconto di guarigione dopo quelli del figlio del
funzionario regio a Cafarnao (4,46-54) e del paralitico alla pi
scina di Betzatà (5,1-18). Con quest’ultimo, il racconto della
guarigione del cieco nato ha molte cose in comune: avviene in
giorno di sabato (5,9 / 9,14) e assume conseguentemente i to
ni di una controversia giuridica in materia di halakah giudaica
(violazione del sabato); lo spazio maggiore è riservato ai dialo
ghi più che al miracolo in se stesso e ciò conferisce un caratte
re maggiormente drammatico alla narrazione; la guarigione, in
entrambi i casi, è motivo di conflitto tra Gesù e coloro che
appaiono deputati alla custodia del sabato («i Giudei» in 5,9-18,
«i farisei» e «i Giudei» in 9,13-34); il guarito si trova personal
mente coinvolto nel conflitto. Tra il paralitico di Betzatà e il
cieco nato, però, c’è una profonda differenza. L’atteggiamento
del primo sembra piuttosto passivo e deresponsabilizzato, non
determina un rapporto personale con Gesù; l’atteggiamento
dell’altro è attivo e progressivamente più deciso, capace del
rischio e del conflitto, e conduce a un’esperienza intima e com
piuta di Gesù riconosciuto nella fede come il Figlio dell’uomo.
La storia del cieco nato, dunque, non è solo un racconto di
miracolo, né solo una controversia ma anche una storia inci
piente di discepolato e sequela.02
Il genere del racconto giovanneo è dunque misto: la cornice
festiva del sabato fa del racconto di guarigione una controver
sia sulla Legge con importanti risvolti cristologici; lo spazio
dato al protagonismo del cieco guarito, nel contesto della con
troversia sull’identità di Gesù e sulla confessione messianica
(Gv 9,22), rende la storia del miracolo una storia di sequela
con evidenti risvolti ecclesiologici e, dato il simbolismo dell’ac
qua e della luce, una probabile allusione battesimale.
3.2. Struttura
Lo sviluppo del racconto si può leggere in sette tappe co
struite in forma concentrica:
A) 9,1-7 - Incontro e guarigione del cieco nato nel contesto di un
dialogo di Gesù con i discepoli.
B) 9,8-12 - Questioni paradossali sulla sua identità e prima
testimonianza del guarito.
C) 9,13-17 - 1 farisei e il cieco guarito: primo interrogatorio
e sua seconda testimonianza.
D) 9,18-23 - Interrogatorio dei genitori del cieco da par
te de «i Giudei»: rifiuto di testimoniare.
C1) 9,24-34 - «I Giudei» e il cieco guarito: secondo interro
gatorio e sua terza testimonianza.62
62 La formula «e (Gesù) passando vide» (kat paràgdn eiden), che apre il racconto
(9,1), potrebbe confermarlo. Nei Vangeli sinottici, infatti, essa compare identica all’ini
zio di racconti di «vocazione»: in Me 1,16 apre il racconto della chiamata di Simone
e Andrea; in Me 2,14 / / Mt 9,9 apre quello della chiamata di Levi/Matteo. In Mt 9,27
e 20,30, inoltre, si parla del «passare» di Gesù ad apertura dei due racconti paralleli
di guarigione dalla cecità e, in Mt 20,34, il recupero della vista è preludio alla sequela.
B1) 9,35-38 - Nuovo incontro con Gesù e confessione di fede
del cieco.
A 1) 9,39-41 - Dialogo di Gesù con i farisei che stavano con lui.
La prima e la settima unità si corrispondono per la forma
dialogica, per i protagonisti in dialogo (Gesù e le persone che
sono con lui: «i suoi discepoli» nel v. 2, «alcuni dei farisei che
stavano con lui» nel v. 40), per il tema discusso (rapporto tra
cecità e peccato: w. 2 / / 40-41; soggetti e natura del «peccato»:
w. 2-3 / / 41; scopo della missione di Gesù e suoi effetti: w. 3-5
//3 9 ), per il rapporto tra il segno (la restituzione della vista al
cieco nato) e il significato (la possibilità di conoscere, discer
nere e giudicare secondo la verità del Cristo).
Nella seconda e sesta unità il cieco ha ormai acquistato la
vista e si trova a parlare di Gesù all’inizio, a parlare con lui
alla fine. All’inizio non sa dove sia (v. 12), alla fine è trovato da
lui (v. 35); all’inizio parla di lui come dell’«uomo chiamato
G esù» (v. 11), alla fine fa un atto di fede in lui come Figlio
dell’uomo (v. 38). In entrambe le unità si affronta in modo
speculare la questione dell’identità: il cieco guarito deve difen
derla in rapporto a quelli che prima lo conoscevano come cie
co e mendico e ora devono riconoscerlo come uomo trasfor
mato e vedente; Gesù la rivela pienamente a colui che ha com
battuto e testimoniato a suo favore prima ancora di riconoscerlo
nella sua vera identità. Tra la seconda e la sesta unità viene
raccontato il lungo cammino verso il pieno riconoscimento
della fede.
La terza e la quinta parte costituiscono il primo e l’ultimo
interrogatorio del cieco guarito: da parte dei farisei prima, de
«i Giudei» per la seconda volta (v. 24). I segni della progres
sione narrativa sono chiari: si va da un dubbio dei farisei su
Gesù all’inizio (v. 16) a una raggiunta certezza negativa de «i
Giudei» alla fine (v. 24), una certezza che non ammette ulte
riore conoscenza né progresso di alcun tipo. Il maestro è unico
(Mosè) e non v’è spazio alcuno per l’insegnamento di un cieco
(v. 34) ! Per il cieco guarito, d ’altra parte, si va da un primo
incipiente, ma deciso, «è un profeta» (v. 17) a una vera e pro
pria elaborazione teologica (w. 30-33) che finisce per allineare
sempre di più il cieco e Gesù. Per il cieco, anzi, Gesù è neces
sariamente da Dio e si potrebbe volere essere suoi discepoli.
Lui stesso viene insultato come «discepolo di quello là» (v. 28).
Si passa, dunque, da una minore a una maggiore comprensio
ne e compromissione del cieco nei riguardi di Gesù e da un
ragionevole dubbio a una chiusura totale da parte dei suoi
interlocutori. Mentre all’inizio l’uno e gli altri sembrano in
posizione equidistante rispetto a Gesù, alla fine i farisei/«i Giu
dei» sono definitivamente separati tanto da Gesù quanto dal
cieco da lui guarito, arroccati piuttosto sulle proprie certezze
mosaiche, mentre Gesù e il cieco sono irresistibilmente appros
simati l’uno all’altro. La cacciata violenta del cieco (v. 34) è la
situazione che prelude al suo incontro col Figlio dell’uomo.
Al centro restano «i G iudei», che nei cc. 3-12 hanno un
protagonismo maggiore di quello dei farisei, e i genitori del
cieco che erano comparsi solo in 9,2-3 nel dialogo tra Gesù e
i discepoli. Tanto «i Giudei» quanto i genitori sono segno e
simbolo dell’identità del cieco nato e anche garanzia di essa: «i
G iudei» dal punto di vista religioso, i genitori dal punto di
vista antropologico ed esistenziale. Eppure, entrambi i perso
naggi risultano nell’interrogatorio allineati tra loro e accomu
nati da una presa di distanza nei confronti del cieco guarito
che resta isolato con la sua (nuova) identità paradossale: «Egli
parlerà di se stesso» (v. 21). Il cieco è interamente abbandona
to a se stesso e all’evidenza della sua nuova condizione della
quale è solo a rispondere.
Vangelo secondo Giovanni
3.3. Traduzione e commento
lE passando vide un uomo cieco dalla nascita 2e i suoi discepoli lo
interrogarono dicendo: «Rabbi, chi ha peccato perché nascesse
cieco, lui o i suoi genitori?». 3Gesù rispose: «N é lui ha peccato né
i suoi genitori, ma perché fossero manifestate in lui le opere di
Dio. 4Noi dobbiamo realizzare le opere di Colui che mi ha man
dato fino a che è giorno: viene notte, quando nessuno può opera
re. 5Mentre sono nel mondo, luce io sono del mondo!». 6Dette
queste cose, sputò a terra; dallo sputo impastò del fango e spalmò
il fango sui suoi occhi 7e gli disse: «Vai a lavarti nella piscina di
Siloe» (che significa inviato). Ci andò, si lavò e venne che ci vede
va.
8I vicini, allora, e quelli che prima lo vedevano che stava a mendi
care dicevano: «Questi non è quello che sta seduto a mendicare?».
9Altri dicevano: «E lui». Altri dicevano: «N o, ma gli somiglia».
Egli diceva: «Sono io!». 10Allora gli dicevano: «Come ti sono stati
aperti gli occhi?». nEgli rispose: «L’uomo chiamato Gesù ha im
pastato del fango, me ne ha spalmato gli occhi e mi ha detto: “Vai
a Siloe e lavati”. Allora, dopo esserci andato ed essermi lavato ho
acquistato la vista». 12E gli dissero: «Lui dov’è?». Disse: «Non lo
so».
13Lo condussero, lui che prima era cieco, dai farisei. 14Era però
sabato il giorno nel quale Gesù aveva fatto il fango e gli aveva
aperto gli occhi. 15Lo interrogavano dunque di nuovo anche i fa
risei su come avesse acquistato la vista. Egli disse loro: «M i ha
posto del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». 16Alcuni dei
farisei allora dicevano: «Q uest’uomo non viene da Dio, perché
non osserva il sabato». Altri però dicevano: «Come può un uomo
peccatore fare simili segni?». E c’era divisione tra loro. 17Di nuovo,
allora, dissero al cieco: «Tu che cosa dici di costui, dato che ti ha
aperto gli occhi?». Quello disse: «E un profeta».
18I Giudei, allora, non vollero credere di lui che fosse cieco e aves
se acquistato la vista fino a che non chiamarono i genitori di quel
lo che aveva acquistato la vista. 19E li interrogarono dicendo:
«Questi è il figlio vostro, che voi dite esser nato cieco? Come fa,
adesso, a vederci?». 20I suoi genitori, allora, risposero e dissero:
«Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco. 21Come
ora ci veda, però, non lo sappiamo; o chi gli abbia aperto gli occhi,
noi non lo sappiamo! Interrogate lui! Ha l’età. Egli parlerà di se
stesso». 22I suoi genitori dissero così perché temevano i Giudei: i
Giudei, infatti, si erano già accordati sul fatto che se qualcuno lo
avesse proclamato Cristo fosse escluso dalla sinagoga. 23Per questo
i suoi genitori dissero: «H a l’età, interrogate lui».
24Allora chiamarono per la seconda volta l’uomo che era cieco e
gli dissero: «D à gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un
peccatore». 25Quegli allora rispose: «Se sia un peccatore non lo so.
Una cosa so: pur essendo cieco, adesso ci vedo!». 26Gli dissero:
«M a cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». 27Rispose loro:
«G ià ve l’ho detto e non avete ascoltato! Cosa volete udire dacca
po? Forse anche voi volete diventare suoi discepoli?». 28E lo riem
pirono di improperi e dissero: «Tu sei discepolo di quello là! Noi
siamo discepoli di Mosè. 29Noi sappiamo che a Mosè ha parlato
Dio; questo, invece, non sappiamo di dove sia!». 30L’uomo rispo
se: «Qui, appunto, sta il prodigio: che voi non sapete di dove sia
eppure mi ha aperto gli occhi! 31Sappiamo che Dio non ascolta i
peccatori, ma se uno teme Dio e fa la sua volontà, questi lo ascol
ta. 32Da che mondo è mondo non si è mai sentito dire che uno
abbia aperto gli occhi di un cieco nato. 33Se questi non fosse da
Dio, non avrebbe potuto fare nulla!». 34Gli risposero: «Nato tutto
intero nei peccati, tu pretendi di insegnare a noi?». E lo buttarono
fuori.
35Gesù udì che lo avevano buttato fuori e trovatolo disse: «Tu
credi nel Figlio dell’uom o?». 36Egli rispose e disse: «M a chi è,
Signore, perché io creda in lui?». 37Gesù gli disse: «Tu lo vedi ed
è proprio colui che sta parlando con te». 38Quello disse allora:
«Credo, Signore!». E gli si prostrò.
39E Gesù disse: «Io sono venuto in questo mondo per un giudizio,
perché coloro che non vedono vedano e coloro che vedono diven
tino ciechi».40Alcuni dei farisei che stavano con lui sentirono ciò
e gli dissero: «Forse siamo ciechi anche noi?». 41Gesù disse loro:
«Se foste ciechi, non avreste peccato; ora, però, voi dite: “Ci ve
diamo” . Il vostro peccato resta».
vv. 1-7. Dopo il versetto introduttivo (v. 1), un dialogo tra
Gesù e i suoi discepoli fa da cornice interpretativa al miracolo
che Gesù sta per compiere (w. 2-5) e che viene descritto so
briamente subito dopo (vv. 6-7). Il verso introduttivo è una
formula di transizione piuttosto vaga, che non determina un
legame cronologico tra l’episodio del cieco e la sezione della
festa delle Tende precedente. Però li congiunge intenzional
mente sul piano simbolico: il dono prodigioso della vista al
cieco nato ha sul suo sfondo la festa nel contesto della quale
Gesù si è proclamato «luce del mondo» (8,12). E lui a «vedere»
chi non è in grado di farlo («Vide un uomo cieco dalla nascita»)
e a prendersene cura di propria iniziativa. Prima che dalla vi
sione scaturisca un’azione, la domanda dei discepoli (v. 2) tra
sforma sin dall’inizio la storia del cieco in materia di giudizio
religioso: la sua condizione, infatti, viene messa in diretta rela
zione con un eventuale peccato perché il rabbi Gesù esprima
su di essa un giudizio («Chi ha peccato... perché nascesse cie
co?»). La domanda si comprende tenendo conto del presup
posto per il quale la malattia fisica potrebbe essere la conse
guenza di un peccato e, dunque, dimostrazione della giusta
retribuzione per le colpe commesse. La cecità, in particolare,
potrebbe essere messa in relazione all’idolatria (Sai 115,5;
135,16; Is 44,9.18-19; Sap 17), peccato punibile di padre in
figlio (Es 20,4-5; Dt 5,8-9). Dai discepoli, dunque, Gesù viene
ritenuto in grado di stabilire se la sofferenza del cieco dalla
nascita sia o meno colpevole. Nella sua notte, però, Gesù vede
non il peccato (hamartia) suo o dei genitori, ma l’occasione per
il «manifestarsi» (phaneród) delle «opere di D io» (v. 3). La
prospettiva non è archeologica ma escatologica: nega presunte
cause al passato (né lui né i suoi genitori hanno peccato) e af
ferma una finalità rivelativa e salvifica al futuro. In gioco non
è il rapporto tra colpa e sofferenza, ma tra la sofferenza dell’uo
mo e l’azione liberante di Dio che si rivela «in lui». L’apertura
degli occhi dei ciechi, infatti, ne è il segno escatologico (Is
29,18; 35,5; Mt 11,2-5 / / Le 7,18-23) e passa per l’azione del
Servo di Yhwh (Is 42,7).
Nei w. 4-5 il coinvolgimento personale di Gesù e di quelli
che gli sono legati come discepoli {«noi dobbiamo realizzare
le opere...») è, per ciò stesso, immediato: nel tempo storico
circoscritto e limitato della propria presenza nel mondo, che
coincide simbolicamente con un «giorno» di luce di dodici ore
(Gv 11,9-10; 12,35-36), Gesù realizza concretamente la propria
missione e vive il suo essere «luce del mondo». Il collegamen
to tra il tempo e le «opere» di Dio viene anzitutto dal raccon
to genesiaco (Gen l,l-2 ,4 a ), ma l’evangelista lo assume in
prospettiva escatologica sfruttando anche la contrapposizione
simbolica tra luce e tenebra del linguaggio apocalittico (Gv
I, 4-5): l’opera creatrice del Padre si attua compiutamente
nell’azione storica e risanante del Figlio (5,17) e al «giorno»
della sua presenza illuminante, attiva e feconda si contrappone
la «notte», allusione al tempo della fine del suo ministero
(13,30) in cui cessa la sua possibilità di agire. Il coinvolgimen
to implicito dei discepoli, che riappaiono nei primi versi del c.
9 dopo essere scomparsi dalla fine del c. 6, permette però di
estendere il tempo della presenza feconda di Gesù anche oltre
il ministero pre-pasquale, annunciando un altro tempo nel qua
le essi, credendo, potranno fare in qualità di suoi testimoni
opere degne della grandezza di Dio (14,12).
Nei w. 6-7 il miracolo di guarigione viene descritto breve
mente. Si sottolinea la fisicità del contatto tra Gesù e il cieco
(«Spalmò il fango sui suoi occhi») e la materialità dei gesti te
rapeutici (sputare a terra e fare fango dallo sputo). Lo «spal
mare» è collegato alla guarigione degli occhi anche in Tb 6,9;
I I , 7-8.11-13 e l’uso della saliva nei gesti di guarigione viene
ricordato anche in Me 7,33 (per un sordomuto) e 8,23 (per il
cieco di Betsaida).63 Peculiare al racconto giovanneo, però, è
63 Anche nella letteratura greco-romana del I e II secolo d.C. ci sono attestazioni
la connessione tra questi gesti e l’invito a lavarsi in acqua che
richiama la guarigione di Naaman il Siro compiuta dal profeta
Eliseo (2Re 5,10-13). Il gesto del fare fango con la propria sa
liva e l’invio del cieco alla piscina di Siloe nella parte sud-est
di Gerusalemme - sulla cui etimologia l’evangelista gioca in
tenzionalmente esplicitando il significato della radice conso
nantica del nome letta con una diversa vocalizzazione (slh,
«inviare») - richiamano simultaneamente la plasmazione di
Adamo (cfr. Gen 2,4b-7) e il significato dell’acqua nei momen
ti cruciali dell’azione salvifica di Dio (Es 14 per il Mare dei
giunchi; Gs 3-4 per il Giordano): nell’acqua dell’«Inviato» il
cieco acquista la vista. Eseguito puntualmente l’invito di Gesù,
il cieco dalla nascita diventa effettivamente «vedente», con una
nuova identità da difendere.
vv. 8-12. Come accade solitamente nei racconti di miracolo,
viene registrata anzitutto la reazione dei testimoni o dei benefi
ciari dell’evento. In questo caso, significativamente, la reazione
al miracolo non si manifesta con una esclamazione di stupore o
di lode, ma attraverso la messa in discussione dell’identità: nei
w. 8-9 c’è un conflitto di opinioni in merito all’identità dell’ex
cieco; nei vv. 10-11 lo si interroga sulle modalità della sua gua
rigione; nel v. 12 si passa alla domanda sul guaritore. Lo “sci
sma” tra i personaggi all’interno del racconto giovanneo (alcuni
«dicevano... altri dicevano») è un elemento formale che carat
terizza soprattutto i cc. 7-12 (7,12-13.30-31.40-43; 9,16; 10,19-
21; 11,35-37; 12,28b-29). L’interpretazione e il giudizio però
implicano da parte di ciascuno una personale assunzione di re
sponsabilità. Nel caso del cieco guarito, alla domanda che atten
de risposta positiva «questi non è quello che ...» (v. 8), alcuni
rispondono affermativamente, altri negativamente, altri ancora
dell’uso della saliva in pratiche terapeutiche miracolose. Tacito, per esempio, tra Ì
prodigi attribuiti all’imperatore Vespasiano ricorda la guarigione di un cieco median
te lo sputo (Storie 4,81).
con un paradossale escamotage: non lo è, «ma gli somiglia». Il
soggetto in questione, però, al conflitto delle interpretazioni ri
sponde con la propria dichiarazione di identità: «Sono io» (v.
9). La struttura predicativa della proposizione è importante per
capirne la funzione e il significato allusivo nell’economia del
racconto: a chi si chiede se «questo» vedente (predicato) possa
e debba essere identificato con il cieco seduto a mendicare che
si conosceva prima (soggetto), il guarito risponde «(quello) sono
io»! L’«io sono», in questo caso, è una formula di riconoscimen
to in cui l’io è il predicato di qualcuno o qualcosa di cui si sta
parlando (18,5.6.8). Nel Deuteroisaia e in altri testi post-esilici
(Dt 32,39; Is 41,4; 43,10.25; 46,4; 48,12; 51,12; 52,6), la formu
la è usata come auto-proclamazione divina: nel contesto della
polemica anti-idolatrica, Yhwh - Colui che pronuncia e fa udi
re il suo Io - afferma di essere lui (predicato) colui di cui si di
scute (soggetto), cioè il vero Dio, quello che, a differenza degli
altri pretesi «dèi», veramente merita il titolo di «Dio».
Su questo sfondo va compreso l’uso della formula in bocca
a Gesù in Gv 5-12 proprio in risposta al conflitto delle inter
pretazioni che la sua parola e la sua azione suscitano (8,24.58),
e sul medesimo sfondo, si intuisce il potere evocativo della
formula messa in bocca al cieco guarito, egli stesso testimone
nel suo corpo della presenza e dell’azione liberante di Yhwh
nella persona del suo «Inviato». Come nel caso di Gesù, anche
nel caso del cieco nato guarito la formula «sono io» è la pro
clamazione decisa della propria identità in risposta al conflitto
delle interpretazioni. Inizia a profilarsi per lui una situazione
paradossale che si configurerà progressivamente come un’osti
nata lotta dei suoi interlocutori contro l’evidenza. Nei w. 10-
11, ammessa e non concessa la sua identificazione con colui
che prima era cieco, l’uomo viene interrogato sul «come» del
la sua nuova condizione che viene implicitamente ricondotta
a un intervento prodigioso (cfr. il passivo teologico «sono sta
ti aperti»). L’avverbio compare sei volte nel capitolo (w. 10.15.
16.19.21.26), sempre in bocca ai personaggi che si confrontano
con il miracolo, e dimostra la loro difficoltà a confrontarsi con
la novità: o perché la si rifiuta o perché non si ha il coraggio di
prendere posizione rispetto ad essa. Alla domanda sul «come»
il cieco guarito risponde raccontando dal suo punto di vista il
prodigio e chiamando in causa «l’uomo chiamato Gesù». L’in
sistenza sul termine ànthròpos è particolarmente marcata nel
racconto in cui ricorre otto volte, quattro delle quali per rife
rirsi a Gesù (w. 11.16.24) che, alla fine, chiederà al guarito di
credere in lui come Figlio dell’uomo (v. 35): la dimensione
antropocentrica della cristologia giovannea spicca in questo
racconto che più di tutti lascia spazio alla sfida dell’identità,
alla dignità e al protagonismo umano di chi viene a contatto
con il Figlio dell’uomo e crede in lui.
Nel descrivere il miracolo, il cieco guarito non fa menzione
dello sputo ma solo del fango spalmato sugli occhi; segnala,
invece, la puntuale corrispondenza tra l’esecuzione dell’impe
rativo di Gesù e l’acquisizione della vista (v. 11). L’attenzione
degli interlocutori si sposta, dunque, sull’«uomo chiamato G e
sù». Come nel racconto della guarigione del paralitico (5,12-
13), anche in questo emerge il tema dell’elusività di Gesù: «Lui
dove è?» (v. 12; cfr. 7,11; 11,56-57). Soprattutto nell’arco dei
cc. 5-12 egli viene cercato sempre, dovunque, ma è solo lui che
si fa trovare quando l’ora è giunta. La questione del suo «dove»
è la questione stessa della sua identità e missione (cfr. 7,27-
30.34-36; 8,14.19.21-22) e avvolge l’intero Vangelo (cfr. 1,38-
39; 20,2.13-16). L’umile confessione - un’evidenza, in real
tà - del cieco divenuto vedente («Non lo so», ouk oida) lo
sintonizza già sulla verità di Gesù, sulla sua libertà e sul suo
mistero, diversamente da quanto accade per tutti coloro che,
nel seguito del racconto, pretenderanno più volte di «sapere»
(w. 24.29) dimostrando di essere ciechi pur vedendo (v. 41).
Colui che afferma di non sapere «dove» Gesù sia, alla fine del
racconto sarà trovato da lui (v. 35).
vv. 13-17. Se nei w. 8-12 il miracolo ha come paradossale
conseguenza la messa in discussione dell’identità del cieco e
nel v. 12 la questione dell’identità di Gesù comincia appena a
profilarsi, qui, invece, la questione dell’identità di Gesù guari
tore diventa esplicitamene il tema del racconto e il motivo del
conflitto, intrecciandosi definitivamente con quella dell’iden
tità del cieco guarito. Il destino dei due, da questo momento,
non sarà più separabile. A partire dal v. 14, che contestualizza
in giorno di sabato il gesto di guarigione compiuto da Gesù, il
racconto di miracolo si trasforma in una controversia giuridica:
«fare fango», infatti, è un lavoro costruttivo che imita la crea
zione, ripete ciò che Dio ha fatto creando Adamo, e determina
dunque una violazione del riposo sabatico (mShabbat 7,2). Il
caso viene, dunque, portato dai farisei che appaiono nel v. 13
deputati ad affrontarlo e a giudicarlo dal punto di vista della
Tóràh. La sequenza interrogazione (v. 15), conflitto tra opinio
ni diverse (v. 16) e domanda su Gesù (v. 17) ripete quella dei
w. 10-12 ma con un’inversione: lo “scisma” tra gli interrogan
ti non precede ma segue l’interrogazione. Per la seconda volta
{pàlin, «di nuovo») il guarito viene interrogato sul «come» del
prodigio e si trova a raccontare il miracolo. Stavolta l’accento
è posto non sulla corrispondenza tra parola di Gesù e azione
del cieco, ma tra l’azione di Gesù («Mi ha posto fango sugli
occhi») e quella del cieco («Mi sono lavato»). La visione («ve
do») ne è il risultato.
Il gruppo dei farisei si divide tra quelli che insistono sulla
difformità tra il comportamento di Gesù e la legge sul sabato
al fine di negarne l’origine da Dio («Quest’uomo non viene da
Dio perché non osserva il sabato») e quelli che insistono sulla
novità inaudita del prodigio per difenderla («Come può un
uomo peccatore fare simili segni?»). Dal punto di vista dei
primi, che ricorda quello de «i Giudei» in 5,16.18, è dirimente
il riferimento alla Legge e all’osservanza del sabato; dal punto
di vista degli altri, che ricorda quello del fariseo Nicodemo
(3,2), il sigillo identitario dei «segni» chiede un salto ermeneu
tico: può mai essere hamartolós, disobbediente alla Legge (9,2),
chi può dare la vista a un cieco nato? La domanda diventa
teologica (come Dio agisce continuamente in quanto creatore
e giudice in giorno di sabato?), soteriologica (come l’Israelita
deve osservare veramente il riposo di Dio e collaborare con lui
al compimento escatologico della creazione?) e cristologica
(Gesù è un falso profeta che, compiendo gesti che rasentano
la magia, può istigare il popolo alla disobbedienza e all’idola
tria, o con la sua azione sta proprio indicando che è giunto il
compimento escatologico della creazione?). Al cieco guarito
viene quindi chiesto di esprimersi lui stesso sul suo guaritore,
di testimoniare in quello che è diventato un processo aperto a
carico di Gesù per la violazione del sabato. L’uso del sintagma
«dire {légo) riguardo a qualcuno (peri + genitivo)», frequente
in Giovanni con i suoi equivalenti «parlare» (laléó) e «testimo
niare» (martyréd) riguardo a qualcuno, sottolinea la dinamica
processuale assunta dalla questione cristologica (1,22; 5,31-
32.36-39; 7,13; 12,41; 18,33-34). La risposta del guarito è po
sitiva e decisa: «E un profeta». Dopo l’appellativo rabbi (v. 2),
questo è il primo dei titoli di Gesù che appaiono nel capitolo
ed è implicitamente contrapposto all’accusa che vedrebbe in
lui un «peccatore». In Giovanni è un titolo rilevante (1,21.25),
che inquadra Gesù nell’attesa del profeta come Mosè (Dt 18,9-
22) carica anche di implicazioni escatologiche (IMac 14,41).
Positivamente è attribuito a Gesù dall’evangelista (Gv 4,44) o
anche da altri personaggi del racconto (4,19; 6,14; 7,40); i fa
risei come gruppo, invece, tendono a negarglielo (7,52).
vv. 18-23. La presa di posizione nei confronti di Gesù, in ogni
modo, precipita il cieco guarito in una situazione ancora più
paradossale quando ai farisei subentrano «i Giudei». Se non
fosse per l’insistenza con cui l’evangelista introduce, semplice-
mente attraverso il nome, una distinzione, il lettore sarebbe
indotto a identificare farisei e «i Giudei» (9,27; 10,19-21). Per
il ruolo inquisitorio che esercitano e la posizione che assumono
nei confronti di Gesù i due gruppi, nella scena, finiscono co
munque per sovrapporsi. Non potendo accettare il giudizio
positivo e di apertura del cieco guarito nei confronti di Gesù (è
un profeta), allora essi preferiscono negare l’evidenza riguardo
al guarito stesso. Non potendo sfuggire alle implicazioni del
miracolo, che potrebbe far pensare a Gesù come al Servo di
Yhwh (10,19-21) e alla sua azione come prova dell’irrompere
dell’agire escatologico di Dio, devono negare il miracolo stesso
e, dunque, l’identità e la storia del cieco guarito. L’intento ne
gatorio viene definito dall’evangelista come un rifiuto di crede
re («non vollero credere di lui che fosse cieco e avesse acquista
to la vista», v. 18) che ripropone il loro atteggiamento nei con
fronti di G esù stesso (5,38.44; 8,45-46; 10,25-26). La loro
resistenza, espressione di difesa davanti alla novità, cerca quin
di il sostegno nella figura dei «genitori» del cieco, garanti
dell’identità del guarito dal punto di vista sociale e istituziona
le. Se «i Giudei» tendono a negare il passato (il cieco, forse, non
era nemmeno tale), i genitori confermano l’identità dell’uomo
quanto al passato (è figlio nostro ed è nato cieco) ma non si
compromettono in alcun modo rispetto al presente e alla sua
novità. La duplice ripetizione del «non sappiamo» (v. 21) non
è in questo caso un’ammissione sincera di ignoranza come in
9,12, ma una presa di distanza dalla novità del figlio («Come
ora ci veda») e una mancata assunzione di responsabilità davan
ti a chi ha agito così da guarirlo {«Chi gli abbia aperto gli oc
chi»). Essi dicono sì all’identità dell’uomo in rapporto alla sua
nascita, no al rapporto tra l’identità di Gesù e la nuova condi
zione di vita del figlio abbandonato a se stesso («Ha l’età...»).
Del rapporto tra identità e novità, passato e presente, la respon
sabilità pesa tutta sul figlio che, come accade a Gesù nel Van
gelo, è annunciato «parlare di se stesso» (5,30-31; 8,13.18).
Nei w. 22-23, un commento del narratore inquadra e deco
difica le parole dei genitori del cieco guarito ripetute al v. 21 e
al v. 23 in forma chiastica («Interrogate lui! Ha l’età... H a l’età,
interrogate lui»): il rifiuto di parlare in suo sostegno viene dalla
paura e questa, a sua volta, dal rapporto con «i Giudei» e dalle
implicazioni socio-religiose connesse all’interpretazione messia
nica del «segno» e alla conseguente proclamazione di Gesù
come Messia. Della «paura dei Giudei» il Vangelo parla altre
volte (7,13; 19,38; 20,19) alludendo alla minaccia che alcuni
giudei costituiscono per altri giudei in un contesto giudaico
omogeneo interessato e attraversato dalla proclamazione mes
sianica di quanti credono in Gesù. Il timore de «i Giudei», in
fatti, si giustifica per una decisione collegiale (v. 22: «Si erano
già accordati») di sanzionare con l’esclusione dalla comunità
(12,42; 16,2) chiunque dichiari pubblicamente di riconoscere
in Gesù di Nazaret il Messia. Non si tratta di una decisione
formale e ufficiale presa da un qualche tribunale religioso, ma
di un accordo interno a un gruppo che vede alleati «farisei» e
«Giudei» quasi fino all’identificazione (9,22 // 12,42). L’obiet
tivo è rendere religiosamente e istituzionalmente insostenibile
per un giudeo l’attribuzione pubblica dell’identità messianica
a Gesù. Tale accordo sembra richiamato dal narratore al lettore
come qualcosa che questi ben conosce, che appartiene alla sua
esperienza presente nel periodo post-pasqualè, ma che affonda
le radici in un passato che lo precede collocandosi nel contesto
del ministero pre-pasquale di Gesù: «si erano già accordati...».
Data l’apparente genericità del riferimento a «i Giudei» e la
difficoltà di capire cosa potesse significare concretamente e co
me potesse attuarsi una «de-sinagoghizzazione» nell’arco del I
secolo d.C. (prima e dopo il 70), è impossibile definire meglio
i contorni dell’accordo. Certamente, l’intenzione dell’evangeli
sta è, da un lato, quella di gettare un ponte tra il presente del
lettore e il passato di Gesù e dei suoi discepoli storici; dall’altro,
quella di far percepire al lettore tutto il carico di violenza con
nesso alla questione messianica al tempo di Gesù e, al contem
po, l’intensità del conflitto religioso e istituzionale determinato,
soprattutto in ambiente gerosolimitano, dall’attribuzione alla
sua persona del titolo di Messia (12,9-11.42-43). Le figure che
restano in primo piano nell’unità centrale del racconto non so
no, dunque, scelte a caso: «i Giudei», che si impongono come
garanti dell’identità religiosa del guarito, e i genitori che ne
garantiscono l’identità al livello socio-antropologico, lasciano
già intravedere, con il loro protagonismo negativo, il conflitto
istituzionale, tanto al livello familiare quanto al livello religioso,
che vedrà coinvolti i discepoli di Gesù.
w. 24-34. Viene qui rappresentato il secondo e ultimo inter
rogatorio del cieco guarito, molto più sostenuto e serrato del
primo. La drammaticità del racconto e l’ironia brillante del suo
personaggio principale, il cieco, raggiungono il loro vertice.
L’unità è costruita in forma concentrica e scandita dall’alter
nanza dialogica tra «i Giudei» e il cieco guarito.
Dal v. 24 (a) al v. 34 (a1) si passa da una seconda convoca
zione del cieco («Chiamarono per la seconda volta l’uomo che
era cieco») alla sua definitiva espulsione («Lo buttarono fuo
ri»); dall’invito a lui rivolto perché si dissoci da colui che l’ha
guarito e riconosca che è un «peccatore», all’accusa violenta
precipitata su di lui («Tu sei nato tutto intero nei peccati»);
dalla presunzione di sapienza de «i Giudei» («Noi sappiamo»)
al loro rifiuto radicale della sapienza del guarito («Tu pretendi
di insegnare a noi?»). Il cieco guarito viene posto davanti a
un’alternativa: o accusare Gesù come peccatore «dando gloria
a Dio» (cfr. 16,2), rinnegando la propria esperienza e assumen
do in foto la dottrina della Legge così come la concepiscono «i
G iudei» o, al contrario, rifiutare il loro giudizio, forte della
propria esperienza, esponendosi al rischio di pagare di perso
na e di vedere ritorta su di sé l’accusa di peccato scagliata se
condo la più statica interpretazione della dottrina della retri
buzione (nato cieco, cioè «nato tutto nei peccati»: v. 34).
La prima (b v. 25) e l’ultima (b1w. 30-33) risposta del cieco
illustrano la sua scelta per Gesù e contro l’alternativa imposta
da «i Giudei». Per tre volte il guarito insiste, infatti, sul dato
della guarigione che è la sua verità e la sua certa e unica sapien
za (v. 25: «Una cosa so: pur essendo cieco, adesso ci vedo»; v.
30: «M i ha aperto gli occhi»; v. 32: mai si è udito che «uno
abbia aperto gli occhi di un cieco nato»). Davanti alla sua espe
rienza, nessuna sapienza o dottrina ideologicamente e astrat
tamente difesa può resistere.
«I G iudei» possono pure ostinarsi in una interrogazione
fatta senza alcuna volontà di ascolto (c v. 26) e nel rifiuto vio
lento e oltraggioso di un «sapere» che può infrangere la grani-
ticità delle loro certezze mosaiche (c1 v. 28-29): l’ironia del
cieco guarito, che risalta massimamente nella sua domanda
posta al centro del dialogo (v. 27), esprime una libertà e ima
sapienza che non teme né la smentita né l’ira degli interlocu
tori. Questi si avvitano sempre di più nella loro chiusura ideo
logica e nella loro «cecità»; quello, forte e sicuro della propria
esperienza, si slancia con sempre maggiore forza e ad occhi
aperti verso la conoscenza che da essa promana. Il contra
sto tra il sapere dell’uno e degli altri, tra l’io/tu del cieco e il
noi/voi de «i Giudei» richiama le dinamiche della contrapposi
zione verbale tra Gesù e «i Giudei» nei cc. 5-12 (5,16-47; 6,41-
58; 8,21-59; 10,22-39). Le identità prendono rilievo in modo
sempre più marcato e antitetico: da un lato quella de «i Giudei»,
discepoli di Mosè esperti nel giudicare secondo la Legge pec
cato e peccatori; dall’altro, quella del cieco ora vedente, accu
sato ironicamente di essere discepolo di Gesù (v. 28), che di
venta realmente maestro dei suoi interlocutori. Il modo di rap
portarsi a Gesù dei soggetti contrapposti fa la differenza.
«I Giudei» si scontrano con un’evidenza enigmatica: ritorna
ossessiva e inutile la domanda sul «come» (v. 26) che mostra la
lotta in atto contro un’evidenza che non si vuole accogliere
nelle sue implicazioni e che, quindi, lascia senza risposta chi la
rifiuta. Essi, infatti, «sanno» che a Mosè ha parlato Dio e, dun
que, hanno nella Legge la garanzia del retto giudizio; essi «san
no» che se uno la trasgredisce deve essere giudicato «peccato
re». Oltre questo sapere, però, non possono permettersi di
andare (v. 34) e disconoscono chi in giorno di sabato apre gli
occhi di un cieco nato: non sanno «di dove sia», cioè gli nega
no qualunque tipo di riconoscimento e di relazione con loro
(cfr. Le 13,25-27.28; 20,7). Usando il sintagma «sapere di dove
sia», hevangelista gioca ironicamente su due livelli di senso:
nell’intenzione de «i Giudei», dire di «non sapere di dove G e
sù sia» significa dissociarsi da lui e negargli ogni origine da Dio;
nella ripresa ironica del cieco, e dal punto di vista del narrato
re che si esprime per sua bocca, la dichiarazione di ignoranza
riguardo all’origine di Gesù, connessa al prodigio che egli ha
operato, è un’implicita ammissione della sua missione dal cie
lo in qualità di Messia nascosto che deve essere rivelato nel
tempo ultimo (Gv 1,31.33). «Il Cristo», infatti, «quando viene
nessuno sa di dove sia» (7,27). Di conseguenza, il cieco può
dire: «Qui, appunto, sta il prodigio: che voi non sapete di do
ve sia eppure mi ha aperto gli occhi» (v. 30)! A chi rifiuta di
aprirsi resta non solo la negazione della realtà (il cieco guarito
viene buttato fuori), ma anche lo smacco della risposta man
cata e della non comprensione dell’agire mirabile di Dio (5,20).
Il cieco, invece, si rafforza nella conoscenza di sé crescendo,
contemporaneamente, nella comprensione del suo guaritore,
preparandosi progressivamente a incontrare Gesù a occhi aper
ti. Appare quindi, con somma ironia, “maestro” esperto dei
principi teologici condivisi dai suoi interlocutori e riscontrabi
li anche nella condotta e nell’insegnamento di Gesù: Dio esau
disce solo chi lo teme e fa la sua volontà (4,34; 5,30; 6,38-40;
7,17; 11,41-42) e, dunque, il giudizio non può che essere a
favore di Gesù. Egli è un inviato fedele a colui che l’invia, al
trim enti non avrebbe «p o tu to fare n ulla» (5,19.30-31;
7,17.18.28; 8,13-14.18.28.42.54; 10,18; 12,49).
«Buttando fuori» il cieco guarito, alla fine dell’interrogato
rio, «i Giudei» mostrano di respingere gli stessi criteri basilari
della retta relazione con Dio che dovrebbero avere appreso
dalla Legge e che credono di difendere. Perdono, con lui, l’oc
casione dell’incontro con l’inaudito presente in Gesù (v. 32).
L’interrogatorio non ha un «luogo» se non quello relazionale:
il narratore non dice dove si trovino i protagonisti e dove si
svolga il loro ultimo incontro. L’accento viene posto tutto sul
la loro relazione e sulla relazione con Dio, attraverso la perso
na di Gesù, che nella loro relazione è implicata: per gli uni è
mancata, per l’altro è spalancata.
vv. 35-38. Perso l’appoggio familiare come quello religioso,
il cieco resta consegnato a se stesso. E in questa condizione
relazionale spoglia ma completamente aperta che Gesù lo «tro
va» e gli si fa finalmente «vedere». La costruzione della scena
culminante dell’incontro con Gesù è limpida: dopo una breve
introduzione, che insiste sulla condizione del guarito ormai
tagliato fuori dalla relazione con «i Giudei» (v. 35a), un breve
dialogo con duplice scambio di battute tra Gesù e il cieco por
ta alla piena rivelazione dell’uno e alla pienezza dell’incontro
di fede per l’altro (vv. 35b-38a); il gesto della prostrazione tra
duce corporalmente l’atto di fede e sigilla l’incontro (v. 38b).
Il dialogo è costruito in forma chiastica:
a) Tu credi nel Figlio del- b) Ma chi è, Signore, perché io
l’uomo? creda in lui?
b1) Tu lo vedi ed è proprio co- a1) Credo. Signore.
lui che sta parlando con te
Alla domanda di fede (a) corrisponde l’atto di fede (a1),
alla domanda d’identificazione necessaria alla fede (b) corri
sponde la risposta (b1): il credere è reso possibile dal vedere
(6,40; 12,44-46); il Figlio dell’uomo, come del resto il Dio che
si rivela storicamente presente e attivo nella persona del suo
Cristo (4,26), è identificabile in «colui che sta parlando» (cfr.
Is 52,6).
L’originalità e la bellezza di questo dialogo spiccano per più
motivi. La richiesta di una professione di fede nel Figlio
dell’uomo è un caso unico nel Nuovo Testamento e ha buone
probabilità, proprio per la sua discontinuità con le formule di
fede protocristiane, di risalire al Gesù storico.64 Se ci sono po
chi testi, soprattutto nei Vangeli e in Atti, in cui nel dialogo
diretto chi parla interroga il proprio interlocutore sulla sua
fede (Mt 9,28; Gv 11,26; 14,10; At 26,27), questo è, comunque,
l’unico caso in cui il locutore è Gesù e la fede di cui egli do
manda ha un termine personale.
Dal punto di vista della relazione tra i protagonisti, la do
manda ha una sobrietà e immediatezza proporzionale alla pro
fondità del cammino di conoscenza e di comprensione percor
so dal cieco guarito. Alla limpidezza maturata del suo sguardo,
Gesù si offre personalmente e frontalmente nella sua coscien
za identitaria di Figlio dell’uomo come non fa con nessun altro.
11 cieco guarito sa, probabilmente, a cosa corrisponde la figura
del Figlio dell’uomo come strumento dell’azione giudicante e
salvifica di Dio negli ultimi tempi, ma non sa con «chi» iden
tificarlo per poter trasformare l’attesa in una consegna di fede
immediata e diretta. Gesù, che lo ha reso vedente, gli si offre
alla vista proprio come il Figlio dell’uomo atteso: la figura re
gale del giudice escatologico (Dn 7; 1 Enoc 48,2-5; 62-63) si
identifica con l’uomo che gli ha donato la vista, che gli è di
fronte e parla con lui. Diversamente da quanto accade nelle
altre occorrenze giovannee, il titolo di Figlio dell’uomo è usa
to qui in senso assoluto: nessun verbo ne esplicita l’agire, la
funzione o il destino. Per Evangelista, dunque, si tratta di una
formula cristologica onnicomprensiva, che tiene insieme tanto
la dimensione umana di Gesù quanto la sua dimensione celeste
e trascendente, tanto la sua solidarietà con il popolo quanto il
64 Cfr. Reynolds. Non si parla di un atto di fede nel Figlio dell’uomo nemmeno
nella letteratura biblica o giudaica peritestamentaria.
suo ruolo giudicante. Donatosi immediatamente con la fede a
colui che gli ha donato la vista, interna ed esterna, il cieco di
venuto vedente si prostra davanti al Figlio deH’uomo (cfr. 1
Enoc 48,5). Né in Giovanni né nei sinottici esiste narrazione di
un incontro con Gesù di Nazaret paragonabile all’intensità e
pienezza di questo in cui la figura umana del Gesù pre-pasqua-
le è riconosciuta, per fede, in tutta la sua trasparenza e trascen
denza e in cui, alla fede di un uomo, Gesù si consegna nell’in-
tegralità del proprio mistero custodito nella cifra del Figlio
dell’uomo.
vv. 39-41. Il significato della storia del cieco divenuto veden
te viene esplicitato in un detto che esprime il senso e lo scopo
della missione di Gesù («sono venuto per»: v. 39) e in un bre
ve dialogo con i «farisei che stavano con lui» (vv. 40-41) che
riprende il dialogo con i discepoli all’inizio del capitolo (vv.
2-5). La storia del cieco dimostra il fine salvifico della missione
di Gesù: operare un «giudizio» (krima), cioè discernere luce
da tenebra, vera da falsa sapienza, e provocare una scelta (3,17-
21). Come nel caso profeta Isaia, la missione di Gesù implica
anche l’accecamento degli occhi che non vedono credendo di
vedere (Is 6,9-10; Gv 12,39-41); solo denunciando e persino
sfidando l’ingiusta pretesa di chi crede di vedere, provocando
ne l’accecamento, può aprirsi lo spazio per l’azione del Servo
destinato ad aprire gli occhi dei ciechi. I farisei, che reagiscono
alla parola di Gesù, sono probabilmente vicini a Gesù non
solo al livello spaziale. Il sintagma che esprime tale vicinanza
(«quelli che erano con lui») indica un rapporto di familiarità
determinato da una missione che si svolge insieme (Gen 24,54;
Me 2,25 / / Le 6,3 e Mt 12,3), dall’appartenenza a uno stesso
gruppo (Ger 41,3; Dn 10,7; Mt 27,54; Me 1,36) o dall’appar
tenenza di alcuni ad altri (Ap 17,14). In Gv 3,26 viene usata
per indicare il rapporto tra Gesù e Giovanni; in 11,31 quello
tra Maria di Betania e «i Giudei» venuti per consolarla della
morte del fratello. È possibile, dunque, che si tratti di poten
ziali discepoli di Gesù provenienti dall’ambiente dei farisei.
Anzitutto per loro, il caso del cieco è la parabola in azione che
la similitudine del pastore e del gregge illustrerà col linguaggio
metaforico (10,1: 18). Nella misura in cui riconosceranno la
propria cecità, essi potranno, come il cieco, allinearsi a Gesù;
finché pretenderanno di vedere, saranno loro a portare la re
sponsabilità di una cecità non guaribile, come quella manife
stata, col suo carico di violenza, dagli interlocutori del cieco.
Tanto l’estrinseca e astratta precomprensione dei discepoli
(9,2) quanto il giudizio erroneo de «i Giudei» (9,34) sono ri
baltati.
Dal cieco divenuto vedente la Luce venuta nel mondo può
essere accolta senza alcuno ostacolo od opacità; il dono della
vista fatto a lui, per converso, significa il «giudizio» sul mondo
e costituisce un appello ad andare continuamente verso la luce
e a credere nella luce per diventare figli della luce (12,35-36).4
4. Esegesi di Gv 20,1-18: Maria di Magdala
e rincontro con il Signore risorto
4.1. Contesto
Gli ultimi due capitoli del Quarto Vangelo sono dedicati ai
racconti pasquali e, anche se il c. 21 può essere stato aggiunto
dopo, nella loro forma finale i cc. 20-21 presentano una strut
tura narrativa e teologica coerente. Nell’insieme, essi attestano
il compimento della promessa fatta da Gesù ai discepoli prima
della passione: «Non vi lascerò orfani, vengo a voi; ancora un
poco e il mondo non mi vedrà più, voi invece mi vedrete perché
io vivo e voi vivrete» (14,18-19; cfr. 20,19.26; 21,13); «D i nuo
vo vi vedrò e il vostro cuore gioirà e la vostra gioia nessuno
potrà togliervela» (16,22; cfr. 20,20). Come nel resto del Van
gelo, anche nei suoi capitoli finali l’intrigo verte sulla rivelazio-
ne e sul riconoscimento di Gesù ma mette a fuoco, contempo
raneamente, le dinamiche dell’incontro con lui come Signore
risorto che caratterizzeranno la vita della comunità dei creden
ti dopo la pasqua e nell’attesa del suo ultimo venire (21,22-23).
All’inizio (20,2-10) e alla fine (21,20-24), a mo’ di inclusione,
il racconto insiste sulle figure di Simon Pietro e del discepolo
amato, poste in stretta relazione sin dal primo apparire del
discepolo amato (13,23-25). Mentre in 20,6 Pietro «segue» il
discepolo amato, in 21,20 è il discepolo amato a seguire Pietro,
ma nelle loro figure e nell’epilogo della loro storia discepolare
sono rappresentate come significative per tutti i credenti le
diverse tradizioni dell’esperienza di Gesù fatta dai suoi disce
poli storici e circolanti nelle prime comunità. Restando fedele
alla propria, veicolata dal discepolo amato, il quarto evangeli
sta conferma a modo suo le tradizioni che riconoscono a Pietro
un primato anche nell’esperienza pasquale: «Veramente il Si
gnore è risorto ed è apparso a Simone» (Le 24,34; cfr. lC or
15,5). In Gv 20-21, del resto, confluiscono le principali tradi
zioni pasquali del cristianesimo primitivo: scoperta della tom
ba vuota (21,1-2.3-10; cfr. Me 16,1-8 e paralleli); apparizione
di Gesù alle donne (Gv 20,11-18; cfr. Mt 28,9-10) e ai disce
poli (cfr. lC or 15,5-7), sia a Gerusalemme (Gv 20,19-29; cfr.
Le 24,33-49) che in Galilea (Gv 21,1-23; cfr. Mt 28,16-20).
La prima parte del c. 20, di cui ora ci occupiamo, ne comu
nica il significato raccontando l’incontro col Risorto da parte
di Maria di Magdala, che chiude la sequenza delle figure fem
minili della fede in Giovanni, aperta dalla «madre di G esù»
(2,1), e ne rappresenta bene il consueto alto profilo. Essa con
giunge tre storie diverse: la scoperta della tomba vuota fatta
dalle donne, che in Giovanni si riducono alla sola Maddalena
(Gv 20,1-2; cfr. Me 16,1-8 e paralleli); la costatazione del fatto
da parte di altri discepoli maschi (Gv 20,3-10; cfr. Le 24,10-
!2.24); l’incontro della Maddalena con il Risorto (Gv 20,11-18;
cfr. Me 16,9-11). La figura e l’azione di quest’ultima danno
unità e prospettiva specifica al racconto che le intreccia. Pur
non restando sempre in primo piano nella scena (w. 3-10), la
sua azione mette in moto e chiude il racconto. La sua presenza
costituisce anche un elemento di forte continuità tra il raccon
to della passione e i racconti pasquali. Essa, infatti, compare
per la prima volta «presso la croce di Gesù» in 19,25, in quar
ta e ultima posizione rispetto alla «madre di Gesù» nominata
per prima. Mentre Marco (15,40.47; 16,1) e Matteo (27,55.61;
28,1) riservano alla Maddalena il primo posto nell’elenco del
le donne presenti alla crocifissione, alla sepoltura e al sepolcro
il primo giorno dopo il sabato (cfr. Le 24,10), Giovanni la
elenca per ultima nel contesto della passione ma per fame una
figura-gancio (insieme al discepolo amato, presente con lei
presso la croce) e lasciare a lei sola, tra le donne, la scena e il
protagonismo al sepolcro il giorno dopo il sabato. La sua per
sonale esperienza del Risorto, cioè, è sufficientemente intensa
e paradigmatica da sigillare le storie di discepolato femminile
prima della pasqua e inaugurare al femminile il discepolato
post-pasquale.
I racconti delle apparizioni del Risorto che seguono, infatti,
hanno non pochi elementi in comune con quello dell’apparizio
ne alla Maddalena pur essendo diversa la loro cornice spaziale
e temporale. Risuscitato dai morti, Gesù viene descritto «stare»
lì dove si trovano i suoi (Gv 20,14.19.26; 21,4) ma non è rico
nosciuto (20,14; 21,4) prima di avere dato loro i segni della sua
identità (20,20.25.27; 21,7). Una medesima struttura di rivela
zione e di riconoscimento accomuna, dunque, i diversi raccon
ti ed esprime la complessità della relazione tra esperienza pre
pasquale e post-pasquale di Gesù. L’incontro di Gesù con Maria
di Magdala, testimone allo stesso modo del Crocifisso e del Ri
sorto, porta in sé gli elementi strutturali di questa complessità
ed è consegnato al lettore, primo tra tutti, come chiave di acces
so a quelli seguenti e, al contempo, come paradigma per la sua
propria esperienza di fede e di conoscenza del Signore risorto.
4.2. Struttura
Se analizzato dal punto di vista dei personaggi e delle storie
che intreccia, il racconto possiede una struttura a sandwich: i
w. 1-2 e 11-18 descrivono la scoperta della tomba vuota da
parte della Maddalena e la sua visione del Signore Risorto,
facendo da cornice ai w. 3-10, centrali, in cui il fatto del sepol
cro vuoto è costatato da Simon Pietro e dal discepolo amato.
Dal punto di vista dell’intrigo, invece, l’articolazione delle sto
rie è più complessa e si può leggere unitariamente secondo lo
schema quinario dell’analisi narrativa:
situazione iniziale (v. la): Maria va al sepolcro alla ricerca di
Gesù morto;
doppia complicazione (w. lb-13), al livello fattuale e al livel
lo della conoscenza, drammatizzata in una sequenza narrativa
con struttura concentrica:
a) Maria trova la pietra rimossa dal sepolcro e corre da Pie
tro e dal discepolo amato dichiarando che il Signore è
stato tolto e non si sa dove sia stato posto (w. lb-2);
b) i due discepoli costatano il fatto e il discepolo amato lo
interpreta «credendo» (w. 3-10);
a1) Maria resta al sepolcro a piangere perché il Signore è
stato tolto e lei non sa dove sia stato posto (w. 11-13);
azione trasformatrice (w. 14-16): Gesù è presente e si fa ri
conoscere da Maria;
soluzione (v. 17): Maria ha ritrovato il contatto con il corpo
di Gesù ma questi la invita a non trattenerlo (livello fattuale) e
le rivela il suo «dove» (livello della conoscenza) inviandola a
comunicare anche agli altri la sua ascensione al Padre;
situazione finale (v. 18): Maria va dai discepoli per annun
ziare Gesù risorto.
126
4.3. Traduzione e commento
*11 primo giorno della settimana, Maria Maddalena venne al se
polcro di buon mattino, che c'era ancora tenebra,
e vide la pietra tolta dal sepolcro. 2Andò, dunque, correndo da
Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e
disse loro: «Hanno tolto il Signore dal sepolcro e non sappiamo
dove l’hanno p o sto !» .3Allora Pietro e l’altro discepolo uscirono
e si avviarono verso il sepolcro. 4I due correvano insieme, ma l’al
tro discepolo corse più veloce di Pietro e arrivò per primo al se
polcro 5e, chinatosi a guardare, vide i teli funerari deposti ma non
entrò. 6Arrivò, quindi, anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò
nel sepolcro e osservò i teli deposti 7e il sudario, che era sulla sua
testa, non deposto con i teli ma avvolto in un posto a parte. 8Solo
allora entrò anche l’altro discepolo che era arrivato per primo al
sepolcro, e vide e credette, infatti, non avevano ancora capito la
Scrittura secondo la quale egli doveva risorgere dai morti. 10I di
scepoli, quindi, se ne tornarono di nuovo sui loro passi. nMaria,
invece, era rimasta al sepolcro, fuori, a piangere. Mentre piangeva
si chinò a guardare nel sepolcro 12e scorse due angeli in bianche
vesti, seduti uno dal lato della testa e l’altro dal lato dei piedi del
luogo dove stava deposto il corpo di Gesù. 13Quelli le dissero:
«Donna, perché piangi?». Ella disse loro: «Hanno tolto il mio
Signore e non so dove l’hanno posto».
14Dette queste cose, si voltò indietro e scorse Gesù che stava in
piedi ma non sapeva che era Gesù. 15Gesù le disse: «Donna, perché
piangi? Chi cerchi?». Lei, allora, pensando che fosse il giardiniere,
gli disse: «Signore, se l’hai tolto tu, dimmi dove l’hai posto e io lo
andrò a prendere». 16Gesù le disse: «M aria!». Lei, voltatasi, gli
disse in ebraico: «Rabbouni (cioè maestro)»!
17Le disse Gesù: «N on continuare a tenermi, non sono ancora
salito al Padre! Va’, invece, dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al
Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”».
18Maria Maddalena andò dunque ad annunciare ai discepoli «ho
visto il Signore» e queste cose che le aveva detto.
v. la. L’introduzione del racconto fornisce le indicazioni es
senziali riguardo a spazio, tempo e protagonisti. Il soggetto
dell’azione è «Maria Maddalena», cioè proveniente dalla città
di Magdala a nord-ovest del lago di Tiberiade e a sud rispetto
a Cafarnao. Mentre secondo i sinottici la Maddalena va al se
polcro in compagnia di altre donne, Giovanni la presenta come
unica protagonista della scoperta della tomba vuota e del primo
incontro con il Signore risorto. Prima della scena della croci-
fissione (19,25) la sua figura non appare mai e, anche in quel
contesto, l’evangelista non offre informazioni specifiche riguar
do alla sua relazione con Gesù. Evidentemente presuppone
che i suoi lettori conoscano dalla tradizione la sua storia disce-
polare. Secondo i sinottici si tratta di una delle donne che ave
vano seguito e servito Gesù già in Galilea (Me 15,40-41 e pa
ralleli); secondo Luca, inoltre, era stata liberata da Gesù da una
condizione di profonda sofferenza (Le 8,2). L’apocrifo Vange
lo di Pietro la chiama esplicitamente «discepola del Signore»
(12,50) e la tradizione cristiano-gnostica le attribuisce un ruo
lo di primo piano tra i discepoli.65
Anche senza conferirle questo titolo, il racconto giovanneo
lascia intravedere l’intimità e l’intensità del suo rapporto con
Gesù. Dell’intenzione che la spinge al sepolcro non si dice
nulla: non si tratta né di andare a concludere i riti di sepoltura
(Me 16,1; Le 23,56-24,1) né di andare a «guardare la sepoltu
ra» (Mt 28,1). Il racconto della deposizione, anzi, fa capire che
i riti di sepoltura sono stati completati il giorno di parasceve
(Gv 19,39-40). Maria, dunque, va verso il sepolcro senza ap
parente scopo se non quello di esprimere il lutto, continuando
65 H Vangelo di Filippo la definisce «la compagna» del Signore (59,10) o «del Figlio»
(63,33) e dice che il Signore Tarnava più di tutti i discepoli e spesso la baciava sulla
bocca {Ivi), indicando con questo linguaggio la dignità di Maria come figura del per
fetto gnostico e simbolo della Sofia unita al Salvatore. Nella letteratura cristiano-
gnostica, le è attribuito un intero testo, il Vangelo di Maria (su cui cfr. A. Puig i Tàrrech,
I vangeli apocrifi, voi. II/l San Paolo, Cinisello Balsamo 2012,253-279).
a mantenere con il gesto della visita alla tomba un qualche
contatto o continuità con la storia del maestro che sembra es
sersi conclusa tragicamente (11,31). L’indicazione cronologica
è duplice. Si tratta, come nei sinottici (Mt 28,1; Me 16,2; Le
24,1), del primo giorno della settimana. Alla lettera, del «gior
no uno dei sabati», espressione che richiama il primo giorno
della settimana della creazione (Gen 1,5). Se si considera il
computo dell’ultima settimana di Gesù iniziato in Gv 12,1 («sei
giorni prima della pasqua»), questo giorno «uno» coincide in
Giovanni con l’ottavo, il primo dopo il settimo (lo sabbàt pa
squale): come ottavo esce dal computo concluso dei sette, dice
la pienezza e inaugura la novità (cfr. anche «dopo otto giorni»
in 20,26). Anche il dettaglio relativo all’ora di questo giorno,
«di buon mattino, che ancora era tenebra», richiama l’alter
nanza notte giorno del racconto delle origini e, simultaneamen
te, la sua rilettura in 1,4-5: quanto sarà sperimentato in questo
giorno dai discepoli ha a che fare con l’inizio della creazione,
anzi con la nuova creazione in cui la Vita del Logos-Luce vin
ce la tenebra del mondo. La sottolineatura «che c’era ancora
tenebra», oltre a riprendere un dato tradizionale relativo alla
visita delle donne al sepolcro (Mt 28,1: al chiarore del primo
giorno; Me 16,2: al mattino presto; Le 24,1: all’alba profonda),
fa ancora percepire la tensione e il conflitto che fa da sfondo
alla vittoria del Risorto.
vv. lb-13 (la complicazione). Il fatto che sconvolge Maria è
la visione del sepolcro senza la pietra posta a sigillarlo. Davan
ti alla «pietra tolta», senza avvicinarsi per vedere all’interno,
essa deduce che altri «hanno tolto» il corpo stesso del Signore.
Mentre i sinottici usano un verbo specifico, apokylid (rotolare),
Giovanni usa il verbo atro che ha un significato molto più am
pio (prendere, togliere, portare via, sollevare, eliminare) e gli
è molto caro. Nel racconto della risurrezione di Lazzaro era
già stato usato per indicare il movimento di rimozione della
pietra del sepolcro fatto su ordine di Gesù (Gv 11,39.41) e
anche altrove viene usato per indicare il sollevamento di pietre
piccole (8,59). Assume un significato negativo proprio in rap
porto a Gesù quando esprime l’intenzione de «i G iudei» di
eliminarlo facendolo condannare a morte (19,15; cfr. 10,18) e
quando scandisce le operazioni di rimozione dei cadaveri dal
le croci (19,31.38). «Togliere», però, è anche ciò che Gesù fa
in rapporto al peccato (1,29); è il gesto di liberazione del tem
pio da ogni profanazione ordinato da Gesù (2,16); è il gesto
del paralitico di sollevare il proprio lettuccio, segno del recu
pero totale della mobilità (5,8-12). La pietra tolta, dunque,
potrebbe significare estrema perdita (persino il cadavere di
Gesù è stato sottratto al saluto e al pianto dei suoi cari) o estre
ma liberazione (il Signore è libero dalla morte). L’interpreta
zione del segno del sepolcro aperto data dalla Maddalena a
Pietro e al discepolo amato va nella prima direzione. Il para
dosso della sua deduzione è ben espresso linguisticamente dal
rapporto tra il «togliere» e «il Signore»: Maria considera Gesù
morto come oggetto passivo della manipolazione altrui; al con
tempo, però, il narratore suggerisce al lettore che il Signore
non può essere oggetto passivo dei gesti di morte altrui. La sua
vita non può essere «tolta»: è donata per essere ripresa (10,18).
Sul piano dell’azione, comunque, il problema che la M ad
dalena pone implicitamente ai due discepoli è quello del recu
pero del cadavere di Gesù (v. 15): il «non sapere dove» sia
stato deposto è una mancanza di conoscenza da colmare al
fine di recuperare il contatto fisico col corpo. La dichiarazione
di ignoranza coinvolge un soggetto plurale («non sappiamo»)-.
Maria parla forse a nome delle donne, sue compagne di pelle
grinaggio secondo la tradizione sinottica? Forse, piuttosto, si
associa enfaticamente ed emotivamente i suoi interlocutori,
Pietro e il discepolo amato, nell’angoscia della scoperta. Nella
sua dichiarazione di ignoranza, il lettore vede riapparire il tema
giovanneo dell’elusività di Gesù, sempre (ri)cercato, che con
trassegna dal suo inizio anche la storia discepolare (1,38).
La reazione dei due discepoli - l’uno scomparso dalla scena
dopo il rinnegamento di Gesù fatto prigioniero (18,15-18.25-
27), l’altro presente insieme alla Maddalena presso la croce
(19,25-27) - ripete il gesto iniziale della donna: «venire al se
polcro». Se la donna aveva corso per riferire della tomba aper
ta, i due «corrono» per costatare il fatto. Su questo punto la
tradizione giovannea è vicinissima a quella lucana: «Pietro, al
zatosi, corse al sepolcro e chinatosi a guardare vide solo i teli.
E se ne tornò sui suoi passi pieno di stupore per l’accaduto»
(Le 24,12; cfr. 24,24). La differenza principale tra le due con
siste nel fatto che nel Quarto Vangelo il soggetto coinvolto non
è solo Pietro ma anche il discepolo amato e che è anzitutto di
lui che Gv 20,5 dice quello che Le 24,12 dice di Pietro, per poi
farli tornare insieme sui loro passi (Gv 20,10). In Luca, inoltre,
la visita di Pietro al sepolcro segue l’annunzio pasquale delle
donne e il suo stupore anticipa già la gioia dell’incontro con il
Risorto (Le 24,41), mentre in Giovanni le parole di Maria non
hanno alcuna intonazione pasquale.
Se si ritiene che «l’altro discepolo» che introduce Pietro nel
cortile del sommo sacerdote in G v 18,15-16 sia il discepolo
amato, come penso probabile, il riapparire di Pietro dietro a
lui, rimasto vicino al Signore fino alla fine, suggerisce che anche
la storia discepolare di Simone di Giovanni, soprannominato
la Roccia («Cefa» o Pietro: 1,40-42), è destinata a uno sbocco
positivo nonostante il fallimento nella sequela pre-pasquale
preannunciato da Gesù stesso (13,6-10.36-38). Per il momen
to Pietro «segue» l’amato e «i due insieme» corrono al sepol
cro. L’espressione, che ricalca il linguaggio biblico (senèhem
yahdàw, cfr. Gen 22,6.8), dice la strettissima relazione tra i due
e, al contempo, garantisce la validità della loro testimonianza
al maschile.66 Al discepolo amato il narratore lascia il primato
«D ue o tre testimoni» sono necessari per una deposizione valida (Dt 17,6; 19,15;
Gv 8,17; 2Cor 13,1; lTm 5,19; Eb 10,28).
temporale nella corsa e nel costatare la situazione del sepolcro
dall’esterno (w. 4-5: «arrivò per prim o... non entrò»; v. 8:
«era arrivato per primo al sepolcro»). A Pietro, invece, riserva
il primo posto nell’osservare il dettaglio della situazione all’in
terno (v. 6: «ed entrò nel sepolcro») e della precisa disposizio
ne dei teli funerari ormai svuotati del cadavere (w. 6-7), per
poi associare alla sua anche la visione del discepolo amato (v.
8: «Solo allora entrò... e vide»).
Cosa vedono i due testimoni? Traduzione e interpretazione
dei w. 5-7 sono, da questo punto di vista, una crux interpre
tum .61 I panni mortuari (tà othónia) sono visibili, già a chi
china il capo per guardare dall’esterno attraverso l’apertura
bassa della tomba scavata nella roccia, come deposti o «gia
centi», cioè distesi sul banco di pietra della deposizione del
cadavere (v. 12); il sudario (soudàrion) posto sul capo, invece,
avvolto a parte. Il primo sostantivo è usato nel Nuovo Testa
mento solo in Le 24,12 e in G v 19,40 e 20,5-7 per indicare
l’insieme dei teli funerari con i quali il corpo di G esù era
stato legato e avvolto per la sepoltura dopo la deposizione
dalla croce. Il secondo - termine di origine latina (sudarium)
sotteso anche all’aramaico sudara ’ che indica un velo di ampie
dimensioni che può fungere anche da mantello (cfr. targum
Rut 3,15) - è usato solo due volte in Luca-Atti per indicare
un fazzoletto e in G v 11,44 per indicare il pezzo di tessuto
che copre il volto di Lazzaro morto (per qualcuno, a mo’ di
mentoniera). In quest’ultimo senso è da intendere anche in
20,7. In 20,5-7 i teli sono visti poggiati e piatti, come svuota
ti del loro contenuto, sulla pietra dove era stato deposto il
cadavere; il sudario, invece, si trova avvolto a parte rispetto
agli altri panni. L’insistenza accurata sui dettagli esprime l’in
tenzione del narratore di comunicare quanto inconsueta e
inspiegabile dovesse essere apparsa ai discepoli la visione dei67
67Cfr. GmBERn.
teli, anche se al lettore non è facile ricostruirne con certezza
la disposizione fisica.
Dalla posizione e conformazione dei teli, quanto meno, ai
discepoli doveva apparire chiaro che il cadavere di Gesù non
era stato trafugato come temeva Maria. Il dettaglio, infatti,
spiega il credere del discepolo amato al v. 8: «E vide e credet
te». Coerentemente con la strategia e teologia giovannea che
connette l’atto di fede all’esperienza concreta del Cristo e, in
specie, alla «visione» di lui e dei suoi segni (2,23; 6,40; 19,35),
anche nel caso del discepolo amato vedere e credere sono mes
si in parallelo come causa l’uno dell’altro. Diversamente che
nel caso di Tommaso (20,25.27.29), però, il credere del disce
polo amato non è determinato dalla visione del corpo del Cri
sto risorto ma dall’anomala assenza del suo cadavere dal sepol
cro. Bende e sudario privi del corpo fungono per lui da segni
che stimolano una «consapevole fiducia» in Gesù correlata
all’esperienza della sua presenza amante prima della morte e
in fluida continuità con quella.68 Al v. 9 il commento del nar
ratore esplicita il carattere ancora incipiente e intuitivo della
fede del discepolo amato per affermare, allo stesso tempo, l’as
soluta novità dell’esperienza pasquale. Il discepolo amato, in
fatti, vede degli indizi che gli fanno presentire un accadimento
di vita che stimola fiducia anche se tale accadimento «non» ha
«ancora» una configurazione esperienziale e parola adeguata
a esprimerlo: «non avevano ancora capito la Scrittura». La ri
surrezione di Gesù è indeducibile a tavolino; non è affermabi
le come atto scribale d’esegesi della Scrittura. Non è una ne
cessità razionale, ma la rivelazione del disegno salvifico in essa
inscritto e compiuto nel modo e nel tempo prestabilito. Prima
di sperimentarla pienamente come evento, la lettura delle Scrit
ture non basta a comprenderla. Una volta sperimentata, però,
ne costituirà la chiave stessa (lC or 15,4; Gv 2,22; At 2,22-36;
68 G hiberti, 127.
4,2)! Dal punto di vista narrativo, conseguentemente, il crede
re del discepolo amato non ha alcuna conseguenza nella storia:
i due discepoli se ne tornano indietro e la loro visione del se
polcro non risolve il dramma della Maddalena (Gv 20,10). Un
input, però, è lanciato al lettore riguardo al modo in cui può e
deve disporsi a interagire con la testimonianza del narratore
sui «segni» di Gesù per vivere, a sua volta, la relazione fluida
e piena con lui dopo la Pasqua.69
La telecamera, a questo punto, ritorna sulla Maddalena, che
il lettore comprende essere ritornata con i due discepoli al
sepolcro (w. 11-13). Come prima «stava» insieme alle altre
donne e al discepolo amato presso la croce di Gesù (19,25)
così ora «sta» davanti al sepolcro. La sua permanenza tenace
nel luogo della morte e della sepoltura ricorda anche lo «stare»
del testimone Giovanni dal quale prende avvio la storia disce-
polare (1,35): lo «stare» della Maddalena, dunque, definisce
un arco tra inizio e fine del discepolato storico di Gesù e, al
contempo, inaugura l’inizio della testimonianza pasquale del
Risorto. Prima dell’incontro con il Risorto, però, la sua presen
za è caratterizzata da un lutto senza consolazione: il verbo
«piangere», che ricorre tre volte al participio presente, all’im
perfetto e all’indicativo presente, è l’azione che maggiormente
identifica la Maddalena (w. 11.13); evoca il pianto di Maria di
Betania e de «i Giudei» per la morte di Lazzaro (11,31.33) ma
anche il pianto dei discepoli annunciato da Gesù (16,20). Col
suo pianto la Maddalena esprime tutto il peso dell’assenza del
Signore e della separazione determinata dalla sua morte che,
solo dopo, sarà riconosciuta come preludio di una vita ulterio
re, sovrabbondante, non «toglibile» (16,22). Il suo piangere,
tuttavia, si accompagna al medesimo gesto compiuto dal disce
polo amato: chinarsi per guardare dentro (v. 5). Il racconto
giovanneo richiama, a questo punto, la tradizione sulla visione65
65 Cfr. Wengst, 729.
angelica avuta dalle donne (Mt 28,2-7; Me 16,5-7; Le 24,4-7.23)
ma attribuisce ad essa tutt’altra funzione. Dalla bocca degli
angeli in bianche vesti, infatti, non viene alcun annuncio pa
squale. Il dialogo con loro serve perché la Maddalena espliciti
nuovamente, stavolta in prima persona singolare, il profondo
smarrimento per la perdita del «suo Signore» che ella cerca
cadavere («Donna, perché piangi?»). Con la loro presenza,
d’altronde, essi esprimono già l’irruzione della vita divina nel
luogo della morte. La loro posizione fisica, che evoca quella
dei cherubini l’uno di fronte all’altro ai lati del propiziatorio
dell’arca dell’alleanza (Es 25,17-22; 37,6-9; Nm 7,89; IRe 8,6-
7), richiama al lettore la verità sul «corpo» di Gesù, «santuario»
della presenza di Dio, e il segno promesso del suo innalzamen
to (Gv 2,18-22). La parola degli angeli, però, non determina
alcun cambiamento della situazione.
vv. 14-16. L’azione trasformatrice è riservata al Signore stes
so. I versi sono aperti e chiusi dalla doppia occorrenza del
verbo «volgersi». All’inizio Maria volge il suo sguardo all’in-
dietro, cioè fuori dal sepolcro dove esso era fissato nel desi
derio del corpo-cadavere, e vede G esù presente pur senza
riconoscerlo (v. 14); alla fine, lo volge nuovamente a Gesù in
risposta al suo richiamo personale ormai riconosciuto e ine
quivocabile (v. 16). Il riconoscimento, infatti, avviene attraver
so il dialogo con lui in un duplice scambio di battute. Nel
primo (v. 15) Gesù ripete la domanda degli angeli, ma la am
plifica interrogando la donna anche sul temine personale del
la ricerca che il suo pianto esprime («Chi cerchi?»). Mentre
nei sinottici il tema della ricerca del Crocifisso da parte delle
donne appare in bocca agli angeli ed esprime il pieno ricono
scimento dell’intenzionalità di queste (Mt 28,5; Me 16,6; Le
24,5), in Giovanni esso compare in bocca a Gesù e nella forma
di una domanda che richiama quella con cui egli aveva espli
citato e accolto l’intenzione di sequela dei primi discepoli (Gv
1,38: « Che cosa cercate?»).
Il contesto scenico, quello del giardino in cui il sepolcro si
trova (19,41), permette l’equivoco della Maddalena che scam
bia Gesù per il giardiniere e chiede a lui conto del suo stesso
corpo («Se lo hai tolto tu ...»)! L’ironia nascosta nel frainten
dimento è coerente sul piano letterario con il racconto di rico
noscimento (cfr. Le 24,18: «Tu solo sei forestiero così da non
sapere...?»), ma si colora anche dell’allusione al Cantico che
paragona l’amata a un giardino (Ct 4,12-5,1; 6,1-2) e la ritrae
alla ricerca dell’amato (3,1-4; 5,6-8), per due volte invitata a
voltarsi (7,1). A differenza della ricerca che si svolge nel giar
dino dell’arresto, alla quale Gesù risponde dicendo la propria
identità («Sono io») e consegnandosi liberamente in vista del
la morte (Gv 18,1-11), alla ricerca della discepola nel giardino
della sepoltura Gesù risponde chiamandola per nome («M a
ria!»), dicendo cioè la sua identità così come egli la conosce
(10,3-5.14-16.27). La risposta di riconoscimento della discepo
la non si fa attendere ed è ben espressa dall’appellativo aramai-
co con cui si rivolge con intimità a Gesù (rabbouni: v. 16) .70 II
suo incontro con il Risorto, fatto di reciproco riconoscimento,
richiama l’incontro di Gesù con Natanaele, ultimo dei primi
cinque discepoli (1,47-49). La risurrezione, dunque, non è an
nunciata formalmente («È risorto»: Mt 28,6; Me 16,6; Le 24,6)
ma esperita come inveramento pieno, oltre la morte, della re
70 L’unica altra occorrenza di rabbouni nel Nuovo Testamento è Me 10,51. Il tito
lo di rabbi («mio grande») poteva essere rivolto, al tempo di Gesù, a diversi personag
gi degni di onore o stima rispetto ai quali colui che parla si trova in una posizione
subordinata e si rivolge con deferenza. Dopo il 70 d.C., l’espressione divenne termine
tecnico per definire i maestri farisei costituiti del popolo. Dunque, l’equivalenza che
Giovanni stabilisce esplicitamente tra rabbi e didàskalos è un anacronismo anche se
«la traduzione è in qualche modo in continuità con la realtà storica gesuana, sia perché
Gesù era realmente maestro, sia perché rabbia non come titolo, bensì come semplice
appellativo onorifico, era certamente usato anche nei riguardi dei maestri. E tuttavia
rabbi avrebbe potuto essere tradotto in modo appropriato anche con kyrios e così
difatti è avvenuto» soprattutto negli strati più recenti della tradizione evangelica (M.
Pesce, «Discepolato gesuano e discepolato rabbinico. Problemi e prospettive della
comparazione», in Aufstieg und Niedergang der romischen Welt II, 25/1 [1982], 375).
Giovanni, tra i Vangeli, è quello che ama e usa di più l'appellativo rabbi per Gesù.
lazione personale e della conoscenza reciproca storicamente
vissuta col Maestro.
v. 17. Soluzione: la parola che Gesù rivolge a Maria dopo
essersi fatto riconoscere presuppone un gesto che il testo non
descrive («Non continuare a tenerm i...»: v. 17a) e risponde
alla mancata conoscenza del «dove» di Gesù («Salgo al Padre
m io...»: v. 17b) che determinava l’angoscia della donna. Il ge
sto presupposto, che implica la soluzione del problema della
scomparsa del corpo di Gesù dal punto di vista della trama di
azione, è il contatto fisico di Maria con il corpo del Maestro
(Mt 28,9; Ct 3,4). Benché sperimentato come segno della veri
tà della risurrezione, questo contatto non può essere prolun
gato ulteriormente. La glorificazione-innalzamento di Gesù,
cioè il suo «passaggio» pasquale dal mondo al Padre (Gv 13,1)
come vittoria piena sulla morte, sul mondo e sul suo «principe»
(12,31-33; 16,33), comprende necessariamente la fine delle
modalità storiche del suo incontro e contatto con «i suoi». Non
è attraverso distinte e interminabili apparizioni che egli sarà
presente e riconoscibile come vivente, bensì nel potere -
espresso col dono dello Spirito (7,39; 16,7; 20,21-23) - di as
sociarli pienamente a sé e al proprio rapporto col Padre in una
relazione di reciproca immanenza consentita dall’amore per lui
e per i fratelli e dalla custodia fattiva della sua parola (6,56-57;
13,34-35; 14,15-26; 15,9-17).
La metafora spaziale del «salire al» Padre è coerente tanto
con la cristologia del Figlio dell’uomo celeste, rivelatore e giu
dice, inviato e disceso dal cielo (3,13; 6,62; cfr. anche Tb 12,20)
quanto con il linguaggio dualistico che esprime l’alterità di Dio
anche attraverso il simbolismo spaziale (alto-basso, terra-cielo).
Impiegata qui, essa ha delle conseguenze anche per la com
prensione del fine e significato ultimo della relazione discepo-
lare stabilita storicamente con Gesù: originata da e nel rappor
to con Dio Padre (Gv 6,45) essa termina essenzialmente in Lui.
La relazione col Padre, la destinazione a Lui, è il «dove» di
Gesù Figlio (14,10-11; 16,28) e nel suo movimento compiuto,
incessante e perfetto, verso il Padre (1,18) sarà anche il «dove»
dei discepoli (12,26; 14,3-4; 17,24), diventati a loro volta figli
di Dio, partecipi come singoli e come popolo della nuova alle
anza compiuta nel Cristo davidico (2Sam 7,14; Sai 89,27; Os
2,25; Ger 31,33; Gv 1,12-13; lG v 3,1-2; Ap 21,7). Nella solu
zione, dunque, il corpo di Gesù è recuperato e il suo «dove»
è svelato perché né è manifestato il significato relazionale ai
discepoli-fratelli e al Padre. Nella «ascensione» al Padre, che
definisce metaforicamente la sua nuova condizione di esisten
za in quanto innalzato-glorificato, non è rivelato solo il compi
mento del destino di Gesù ma anche la vocazione ultima dei
credenti in lui, ormai definiti «fratelli». Ancora una volta, non
è l’uso formale della categoria di «risurrezione» che caratteriz
za il racconto pasquale di Giovanni, bensì quella relazionale
del movimento definitivo verso il Padre in atto di compiersi e
di essere partecipato ai discepoli anzitutto mediante la parola
che lo annuncia. Il nuovo rapporto della Maddalena con il
corpo- del «suo Signore» risorto starà tutto dentro questa pa
rola («Non continuare a tenermi.. .Va’, invece, e di’»): la paro
la della glorificazione, infatti, dovrà dirla Maria e risuonerà
come parola-azione del Risorto proprio nella bocca della di
scepola. Il «non continuare a tenermi» non è la fine di una
storia relazionale, ma la condizione perché essa, inverata e rin
novata nella sua struttura, sia feconda e si traduca in missione
di annuncio.
v. 18. Con il suo «andare annunciante», speculare e inverso
al primo (w. 1-2), si ha la situazione finale del racconto (cfr.
Mt 28,8-10; Le 24,9). L’uso per esteso del nome «Maria M ad
dalena», fatto nella pericope solo al v. 1, rappresenta con la sua
solennità un’altra forma di inclusione. Il contenuto dell’annun
cio della donna è espresso con una costruzione sintattica sin
golare: la prima affermazione («Ho visto il Signore») è in forma
diretta ed è l’unica nei Vangeli in cui l’annuncio pasquale del
le donne viene riportato come citazione; la seconda afferma
zione, in realtà, non ha contenuto esplicito ma rimanda il let
tore alle parole sull’ascensione affidate da Gesù alla Maddale
na e da lei fedelmente riportate. La formula con cui Maria
esprime la sua esperienza del Risorto richiama la visione della
pietra tolta all’inizio del racconto (v. 1) e ne illustra il vero si
gnificato: non il trafugamento del corpo-cadavere ma la liber
tà del Signore risorto personalmente visto e riconosciuto da
Maria. Essa dice anche che la promessa di Gesù si è compiuta
(16,16-19.22) ed è in se stessa una testimonianza (1,34; 19,35)
che anticipa quella degli altri discepoli a Tommaso (20,25).
Soprattutto, essa riecheggia definitivamente fuori dal racconto,
alla cui trama non contribuisce più in alcun modo, come la
testimonianza ecclesiale che farà da base alla fede di tutti i
credenti nelle generazioni a seguire (20,20.29). Sotto la sovra
nità del Signore risorto, visto e testimoniato da Maria, si farà
strada una fraternità in cui a determinare la dignità di ciascuno
non saranno il genere sessuale o il ruolo ecclesiale, ma la rela
zione d’amore fedele e di testimonianza rappresentata nei suoi
poli maschile e femminile da Pietro, dal discepolo amato e
dalla Maddalena.5
5. Linee teologiche
Rimandando il lettore agli studi utili all’approfondimento
organico della teologia giovannea, vorrei tracciarne i lineamen
ti principali partendo da una considerazione ermeneutica. La
sfida maggiore per l’interprete del «Vangelo spirituale» è riu
scire a tenere sempre orientato il timone dell’indagine teologi
ca verso ciò che è primario rispetto a ciò che è secondo, ciò
che è originario rispetto a ciò che da esso scaturisce, ciò che
contiene e implica rispetto a ciò che è contenuto e implicato.
Condizione perché questo accada è non perdere mai di vista il
concreto e costante radicamento storico ed esperienziale delle
affermazioni teologiche eccezionalmente dense del racconto
giovanneo.
La narrazione teologica di Giovanni, infatti, è «una testimo
nianza resa all’esperienza»:71 Gesù per primo «testimonia ciò
che ha visto e udito» (3,31-32) e ugualmente fanno i protago
nisti del suo racconto (1,34; 4,28-29.41-42; 12,17), il discepolo
amato (19,35) e i testimoni del Risorto (20,18.25). Consideran
do, dunque, l’importanza strutturale che la nozione di «testi
monianza» assume nel Quarto Vangelo si può dire che l’espe
rienza pasquale della salvezza in Gesù come compimento esca
tologico della relazione di D io col m ondo {soteriologia),
indissociabile dal riconoscimento credente della sua signoria e
messianicità (20,28.30-31), è primaria rispetto alla complessa
elaborazione cristologica del racconto evangelico (cristologia).
Anche la ricca ed esplicita pneumatologia giovannea ne dipen
de e ne è una elaborazione riflessa. L’esperienza storica di G e
sù di Nazaret, che determina una riconfigurazione radicale del
messianismo giudaico, porta a sua volta con sé un sostanziale
ribaltamento delle attese tradizionali relative ai modi e tempi
dell’agire di Dio per il giudizio e la salvezza (escatologia) e
un’innovazione ancor più radicale del linguaggio adeguato per
parlare di Dio stesso {teologia). La cristologia e la pneumato
logia, in questo senso, saranno seconde rispetto alla soteriolo
gia ma primarie rispetto all’escatologia, alla teologia e anche
all’ecclesiologia giovannee. Analogamente, la cristologia e l’ec
clesiologia su quella fondata risulteranno primarie rispetto al
le implicazioni sacramentali del linguaggio che le esprime nel
racconto giovanneo. Il vertice teologico da cui esso parte (1,1-
2) non sarebbe potuto emergere in figura che alla fine di tutta
la storia e grazie al suo completamento (20,28; 21,7): non è il
frutto di un’elaborazione concettuale fatta a tavolino, l’esito
71Motyer, 198-199.
spontaneo di una storia delle idee giunta a piena maturazione,
ma primariamente l’audace espressione verbale di ima cono
scenza relazionale consentita dalla fede e maturata dall’espe
rienza di Gesù letta a partire dalla Scrittura.
5.1. La soteriologia
L’affermazione da cui si snoda la riflessione giovannea è che
la storia della relazione del Dio unico con le creature - trat
teggiata nelle sue dinamiche più profonde nella Scrittura - in
Gesù è giunta efficacemente al suo compimento escatologico
per la salvezza piena o la «vita» del mondo. Egli, che rimane
celato dietro l’ignaro sposo di Cana, è il donatore del «vino
migliore conservato» fino all’ultimo per la festa nuziale (2,10).
Da questo punto di vista, il lessico giovanneo della testimo
nianza si può considerare equivalente a quello kerigmatico dei
sinottici e dà ragione della scelta letteraria del genere «vange
lo»: il racconto della vita di Gesù è l’attestazione o annuncio
gioioso (3,29; 15,11; 16,20.22; 20,20) della definitiva e com
piuta presenza messianica e salvifica di Dio in mezzo al suo
popolo e al mondo (Gv 1,14; 20,28 e Mt 1,23; 28,20). «Cre
dere in lui» - atto su cui il prologo (Gv 1,1-18) e il primo
epilogo (20,30-31) del Vangelo insistono come punto di par
tenza (1,13) e finalità (1,6-8; 20,31) della testimonianza - con
sente di «ricevere» in pienezza la «grazia» della compiuta re
lazione di alleanza e, dunque, di partecipare della Vita stessa
che Dio è per il mondo nella persona del Figlio unigenito,
l’uomo Gesù, Logos divenuto carne «pieno di grazia e di ve
rità». La testimonianza giovannea, dunque, prende avvio
dall’esperienza credente della partecipazione alla «pienezza»
di Cristo (1,16), riconosciuto, nell’individualità della sua per
sona e nella modalità della sua manifestazione storica, come la
presenza salvifica di Dio al mondo. Egli è «l’agnello di Dio che
toglie il peccato del m ondo» (1,29) e la cui «morte-per» fa
sgorgare perdono (19,33-37) e vita (10,10-11.15) costruendo i
discepoli in santuario del Dio santo e fedele (17,17-19) e apren
do il tempo del raduno escatologico di tutti i «figli di Dio di
spersi», dentro e oltre i limiti delVéthnos giudaico (11,51-52).
La salvezza donata in lui ha due dimensioni, entrambe dia
lettiche. Dal punto di vista “spaziale” della sua estensione, es
sa presuppone e valorizza la distinzione tra Israele e le nazioni,
tra giudei e non giudei (siano essi samaritani, greci o romani),
ma anche la oltrepassa introducendone un’altra non lineare ma
trasversale e verticale, di natura non più etnico-religiosa ma
personale e teologale, quella che passa per l’accoglienza di fe
de o il rifiuto verso il Logos divenuto carne. La dialettica tra
universalità e particolarità della salvezza che, pur venendo dai
giudei (4,22), riguarda non solo «i Giudei» (5,34) ma «il mon
do» tutto (3,16-17; 4,42; 6,51; 12,47), si trasforma nella dialet
tica tra la destinazione universale della rivelazione salvifica in
Gesù e la particolarità, individualità anzi, della risposta perso
nale di chi le si apre credendo, ponendosi responsabilmente di
fronte al Cristo e impegnandosi a «rimanere» fino in fondo
nella sua parola (8,31-32; 15,4-10). L’attrazione al Cristo e la
fede in lui (6,44.65) si verificano ormai al livello individuale e
non nazionale. Il personalismo giovanneo diventa così uno dei
segni più marcati del suo universalismo soteriologico.
Dal punto di vista “temporale” della sua qualità ed efficacia,
poi, la salvezza presuppone la distinzione giudaica tra una vita
terrena, caduca, «in questo mondo» e una vita eterna nel mon
do a venire che si può «avere», «vedere/gustare» o nella quale
si può «entrare» così come nel regno (Mt 19,16-17; Gv 3,3.5.15-
16.36; 8,51-52), ma la supera insistendo su un’altra differenza,
anch’essa di tipo trasversale e verticale, quella tra la vita propria
delle creature (la psyche) e la vita stessa di Dio (zoe). Se la pri
ma è segnata dal limite della «carne» mortale e non può essere
sottratta indefinitamente all’esperienza della morte fisica, l’al
tra è per sua natura indefettibile e trascendente, per definizio
ne non passibile di morte e antitetica ad essa, ma può essere
partecipata dalla «carne» stessa (17,2); passa, anzi, attraverso
la «p a ro la» (8,51-52) e la «carn e» del Figlio dell’Uomo
(6,51.53-56), Re-Pastore che dona volontariamente la sua
psyche nella morte perché il suo gregge abbia vita sovrabbon
dante (10,10.15.17-18.28; 12,24-25; 15,13). La salvezza, che è
partecipazione alla vita stessa di Dio e «conoscenza» intima di
Lui così come il Figlio inviato lo rivela al mondo (17,2), ha
dunque una dimensione simultaneamente storica e metastori
ca: può cambiare la storia concreta degli uomini strappandoli
ai dinamismi mortali del peccato (8,24) e persino temporanea
mente - come nel segno di Lazzaro - dalla morte fisica, evi
tandone il fallimento esistenziale o la «perdizione» (3,16; 6,39;
10,28; 12,25; 17,12; 18,9), ma la sua efficacia travalica i limiti
temporali della storia individuale o nazionale per esprimere,
piuttosto, l’«ora» delTauto-rivelarsi e donarsi pieno di Dio al
mondo.
La salvezza in Gesù Cristo non è il futuro di un regno atte
so e ancora da venire (o da raggiungere), ma il presente acca
duto (1,17) di una relazione nutriente e vivificante, quella tra
il Padre e il Figlio comunicata agli uomini (6,57), che «trasfe
risce» totalmente chi crede «dalla morte alla vita» (5,24-25),
assicurandogli la vita nonostante la morte fisica (11,25; 12,25).
Per i credenti, dunque, la salvezza si configura proprio come
una nuova creazione o rigenerazione in «figli di Dio» (1,12-13;
3,3-8). Ma anche per «il mondo» che rifiuta, che è connotato
come tale per l’«odio» con cui risponde alla testimonianza lu
minosa di Gesù (3,19-20; 7,7; 15,18-19.23-25) e il cui potere
tenebroso, nell’ermeneutica narrativa del Quarto Vangelo, è
incarnato tragicamente dall’opposizione religiosa e istituziona
le incontrata da Gesù in seno al suo stesso popolo (1,10-11), il
conflitto drammatico - che ha il suo epilogo nella morte di
croce del Messia - significa non l’irreversibilità di ima condan
na e la conclusione fallimentare della storia di salvezza ma l’ir
rompere apocalittico dell’essere e agire salvifico di Dio già
annunciato nelle Scritture profetiche. In Giovanni, a differen
za dei sinottici, mancano gli esorcismi che attestano la battaglia
di Dio e del suo Messia per l’affermazione del regno e la libe
razione degli eletti: la stessa vita di Gesù «luce del mondo», in
tutta la sua estensione e drammaticità, e la sua morte sulla
croce sono viste come l’esorcismo infallibile e universale sul
cosmo nell’«ora» dell’intervento finale di Dio per il giudizio e
la salvezza (12,31-32). La manifestazione o rivelazione che G e
sù ha fatto di sé in relazione al Padre e, dunque, la comunica
zione ai credenti della sua vita di relazione col Padre, attestata
definitivamente nel Vangelo dei segni messianici, resta ancora
e sempre la salvezza o vita offerta a chiunque crede.
5.2. La cristologia
La trama cristologica è individuata nitidamente, nella ma
crostruttura del Vangelo, dalle due proclamazioni fatte dal
narratore all’inizio e alla fine del racconto. La prima parte
dall’essere stesso di Dio per riconoscere in Gesù Cristo il Logos
divenuto carne, l’Unigenito del Padre interamente partecipe
della sua esistenza sovratemporale (1,1-2.14.18); la seconda, al
contrario, parte dall’uomo Gesù di Nazaret, crocifisso e risor
to, per riconoscere in lui il Messia atteso di Israele (il Cristo) e
il Figlio di Dio (20,30-31). La prima, dunque, è fatta da una
prospettiva teocentrica e presuppone una domanda squisita
mente teologica: chi è il Dio creatore e redentore che si rivela
al mondo? La seconda, invece, è fatta da una prospettiva sto
rico-salvifica convergente nella domanda cristologica e soterio-
logica: chi è il Cristo di Dio, il Re Messia che libererà Israele e
farà trionfare la sovranità divina davanti a tutte le nazioni? La
prima afferma l’umanità del Logos; la seconda, evidentemente
correlata alla confessione di fede di Tommaso («Mio Signore
e mio D io!»: 20,28), afferma la messianicità e divinità di Gesù.
Il prologo va da Dio all’uomo, dal Logos alla carne mortale,
suggerendo come l’esperienza di Gesù di Nazaret renda neces
saria una proclamazione teologica nuova e audace. Il primo
epilogo va da Gesù al Cristo Figlio di Dio, suggerendo così la
necessità di un radicale ripensamento delle idee giudaiche sul
Messia a partire dall’incontro col Messia che Gesù è.
Posta al crocevia tra le due domande principali, chi sia Dio
che si rivela e chi sia il Messia per mezzo del quale egli agisce
nell’ora culminante della storia salvifica, la cristologia giovan
nea si sviluppa in forma narrativa attraverso il dramma della
rivelazione e del riconoscimento dell’identità dell’uomo Gesù,
giudeo, figlio di Giuseppe da Nazaret, maestro galileo attivo a
Gerusalemme, operatore di segni e latore di una parola mai
udita prima dalla bocca di un uomo (7,46). Le informazioni
che i suoi interlocutori possono vantare riguardo alla sua ori
gine familiare (1,45; 6,41-42) e provenienza dalla Galilea (1,45-
46; 7,27.52) o, viceversa, alla sua mancata formazione scribale
(7,15), sono altrettanti tratti della sua specifica fisionomia uma
na. L’umanità di Gesù, in effetti, è molto sottolineata, anche
linguisticamente, dall’evangelista che a più riprese insiste sul
suo essere ànthròpos per esprimere positivamente la sua fami
liare prossimità agli altri (4,29; 5,7; 7,46.51; 8,40; 9,11; 11,47.50;
18,14.29) o per rimarcare, polemicamente, come essa costitui
sca una pietra di inciampo per i suoi interlocutori se correlata
alla sua pretesa identitaria, interpretata come blasfema e arro
gante (3,27; 5,12; 9,16.24; 10,33; 18,17).
Per Giovanni l’umanità di Gesù è punto di intersezione e
matrice esperienziale di entrambe le prospettive di approccio
alla sua identità: tanto quella che guarda a lui partendo dalla
teologia biblica della rivelazione e, dunque, dalla Legge, dalla
Parola e dalla Sapienza, quanto quella che lo guarda a partire
dalle categorie multiformi dell’attesa escatologica e messianica
di Israele (il Cristo Re, il Servo di Yhwh, il germoglio di Davi
de, il profeta come Mosè, il Figlio dell’uomo). Essa è l’impre
scindibile punto di partenza di ogni riflessione cristologica al
punto da apparire, nel suo Vangelo, come un vero e proprio
tema, che è al contempo teologico (Dio si rivela divenendo
uomo mortale) e cristologico (il Messia re liberatore e il Figlio
dell’uomo giudice apocalittico è l’uomo consegnato dai giudei
ai romani e crocifisso).72 L’ultima occorrenza evangelica della
parola ànthropos nella proclamazione solenne di Pilato in 19,5
(«Ecco l’uom o!»), prossim a a quella che lo dichiara «re»
(19,14), costituisce, in questa luce, un culmine paradossale del
la cristologia giovannea: Gesù, visto come uomo sofferente e
schernito, è il re eletto di Israele (cfr. il ricorrere dell’espressio
ne «ecco l’uomo» in lSam 9,17 in relazione a Saul) e il Ger
moglio abilitato alla ricostruzione del tempio del Signore (cfr.
il ricorrere dell’espressione «ecco un uomo che si chiama Ger
moglio» in Zc 6,12). Per quanto debitrice anzitutto dell’elabo
razione apocalittica più tardiva (1 Enoc), la stessa cristologia
giovannea del Figlio dell’Uomo, giudice riservato da Dio per
la rivelazione escatologica (Gv 5,27-29), è piena di legami con
la cristologia della Parola divenuta sàrx o, se si vuole, ànthropos
e, dunque, col significato letterale dell’espressione «figlio d’uo
m o» come indice dell’appartenenza di qualcuno alla stirpe
umana. Proprio nel suo essere visibile, raggiungibile, condizio
nato e condizionante, passibile di sofferenza e di rigetto come
ànthropos, il Figlio dell’uomo - che è anche messia, profeta e
servo - può esercitare il giudizio, ricevere il regno e rivelare la
Gloria (9,35-41).
72 «Giovanni è il solo scrittore apostolico a fare della parola ànthropos, uomo, un
tema teologico» (L a POTTERIE DE, 90). Ci troviamo qui di fronte a «un nuovo modo
di esprimere l’incarnazione (Gv 1,14)... Quest’uomo concreto, Gesù, è colui nel qua
le il Figlio di Dio si è reso visibile... Il significato dell’espressione ecco l'uomo, allora,
è proprio che quest’uomo Gesù, presentato ai giudei come un condannato umiliato e
sofferente, irradia malgrado tutto potenza e maestà regali» (Ivi, 91).
È dalla sua identità umana, detta e agita, che l’evangelista
vede emergere entrambe le dimensioni della sua persona, quel
la teologica e quella cristologico-soteriologica, che intreccia tra
loro in modo che l’una illumini l’altra. La prima emerge soprat
tutto quando, per spiegare se stesso e il proprio agire, Gesù
usa ed elabora in senso teologico un linguaggio del tutto an
tropomorfico, quello della relazione tra un padre e il figlio,
facendo appello al suo essere «(il) Figlio» in senso assoluto e
all’essere «Padre» di Dio in senso specifico e personale (5,17.
19-20) e richiamando continuamente, col medesimo linguaggio,
la struttura della relazione con Dio tipica dei veri profeti, in
tutto conformi alla Parola che portano e incapaci di fare nulla
«da se stessi», indipendentemente o, peggio, difformemente
dalla volontà di Colui che li invia (Nm 16,28; Gv 5,19.30;
7,17.28; 8,28.42; 14,10). La seconda emerge quando Gesù par
la e agisce in modo da provocare e attirare su di sé le attese
escatologiche del suo popolo, pronunciando parole (i discorsi
sul Pastore e sul gregge nel c. 10) e compiendo gesti che sup
pongono una forte coscienza e pretesa messianica (2,13-22;
12,12-19) e operando miracoli che richiamano nell’immagina
rio e nella memoria storica del suo popolo l’azione di Mosè,
dei profeti, del Servo di Yhwh (il segno dei pani; la guarigione
del cieco nato) e, in ultima analisi, l’agire salvifico ed escatolo
gico di Dio (la risurrezione di Lazzaro). Ogni volta che i suoi
gesti attirano su di lui l’attesa messianica dei suoi contempora
nei, però, l’evangelista ritrae Gesù in atto di sottrarsi o scher
mirsi, senza rigettare interamente l’identificazione messianica
ma riconducendola sistematicamente al proprio rapporto di
unità, fedeltà e obbedienza al «Padre» e, dunque, a una com
prensione nuova tanto dell’essere e dell’agire di Dio, che in lui
è presente e si rivela per salvare come Padre, quanto dell’esse
re e dell’agire del Messia atteso la cui missione, a differenza dei
suoi interlocutori, egli non intende in termini nazionalistici e
bellicosi.
I detti «io sono», che funzionano alternativamente da for
mula di auto-identificazione in cui «io» è soggetto («io sono»
+ predicato) o da formula di riconoscimento in cui «io» è pre
dicato («[quello] sono io»), letti su questo sfondo, appaiono
l’espressione migliore, oltre che distintiva, della complessa cri
stologia giovannea. Da un lato, essi esprimono la funzione che
Gesù assolve per gli uomini in rapporto ai loro bisogni e alle
loro attese (il pane, la via, la verità, la vita, la luce, la porta, il
pastore, la risurrezione, la vera vite) e dicono, anche attraverso
il linguaggio simbolico, il suo ruolo salvifico. Dall’altro, quan
do appaiono in forma assoluta senza alcuna determinazione
nel contesto, essi esprimono l’essere dell’uomo Gesù nel suo
duplice rapporto al Padre Dio e agli uomini. Egli, proprio co
me uomo, è al contempo la presenza personale del Dio di Israe
le salvatore in mezzo al suo popolo (cfr. la rivelazione del N o
me divino in Es 3,14 e la sua ripresa nel Deuteroisaia) e la fi
gura di mediazione che i suoi contemporanei attendono per
l’ora escatologica, attribuendo ad essa tratti diversi ciascuno
secondo la propria tradizione interpretativa. La verità del suo
essere e della sua funzione, indissolubilmente connessa alla
verità di Dio, al suo essere e agire, potrà apparire pienamente,
però, soltanto nel momento culminante dell’«ora», quello
dell’innalzamento sulla croce o piena manifestazione della Glo
ria, cioè dell’identità personale di Gesù e, in lui, di Dio stesso
(8,28).
Giovanni, dunque, considera legittima e fondata l’identifi
cazione di Gesù con il Messia di Israele, ma ritiene che questa
identificazione richieda «un processo di elaborazione e di mo
difica a causa di ciò che Gesù è stato ed è»,73 presenza unica e
irripetibile di Dio in mezzo al suo popolo. La struttura emi
nentemente relazionale del ritratto giovanneo di Gesù, inviato
perfettamente fedele a Colui che lo manda e al compito che
deve assolvere, determina, quindi, una continua torsione teo
logica, antropologica ed ecclesiologica della sua cristologia e la
sottrae a ogni autoreferenzialità e impiego strumentale in ter
mini ideologici e di potere. Il linguaggio patro-centrico del
Gesù giovanneo, antropologicamente e religiosamente radica
to, fa sì che chiunque possa riconoscere la sua identità e il suo
insegnamento se ben disposto a «fare la volontà di Dio» (7,17).
Proprio nei frammenti della sua storia di uomo (il dramma
cristologico) sono riconoscibili i segni della gloria di Dio (il
dramma teologico o la storia del Padre);74 nella limitatezza del
la sua vita soggetta al disonore, al rifiuto e alla morte, è conte
nuto il sempre «più grande» di Dio (1,50; 4,12; 5,20; 8,53;
10,29; 14,12.28), pienamente rivelato e donato agli uomini e,
simultaneamente, la storia di sequela e di «glorificazione» di
Dio che si apre per ogni discepolo fedele (9,3; 15,8; 21,18-19).
5.3. La pneumatologia
Lo Spirito è il protagonista della comprensione autentica e
profonda della «verità» di Gesù - cioè della sua rivelazione,
della sua identità e della sua missione (16,11) -, testimonianza
intima ed esperienziale della sua salvezza tra i credenti e con
tinuatore, in loro, della sua opera nel mondo. Insieme a Luca,
Giovanni è, tra i quattro, l ’evangelista che più chiaramente
elabora una dottrina dello Spirito in rapporto a Dio, a Gesù e
alla comunità dei credenti. Come in Luca, anche in Giovanni
la presenza e l’azione dello Spirito sono indispensabili perché
i discepoli assolvano al loro ruolo di testimoni del Cristo dopo
la pasqua (15,26-27; At 1,8). In Giovanni, però, lo Spirito vie
ne caratterizzato, sia nei titoli che nella funzione, in modo teo
logicamente peculiare e di matrice fortemente giudaica. E
74 Cfr. Stibbe.
«m andato» insieme dal Padre e dal Figlio come dono della
loro intima unità e prende, presso i discepoli, il posto di Gesù
ormai assente.75 Non è definito solo come «Spirito Santo» (Gv
14,26; 20,22), secondo l’uso antico- e neotestamentario più
tradizionale, ma anche come «lo Spirito di verità» (14,17;
15,26; 16,13)76 e «il Paraclito» (14,16; 15,26), cioè colui che è
«chiamato-presso» per difendere un imputato nel contesto di
un processo o per sostenere e consolare.
Entrambi i titoli, in Giovanni, si spiegano a partire dalla
metafora processuale che caratterizza la sua presentazione del
ministero di Gesù e del destino dei suoi stessi discepoli: lo
Spirito è inviato, dopo la partenza di Gesù, per continuare
presso, con e in loro (14,17) la sua medesima testimonianza nel
«mondo» nella duplice funzione di difensore di Gesù e di pro
tettore, consolatore, dei discepoli. Come Gesù, anche lo Spi
rito «discende dal cielo» (1,32), appartiene cioè interamente
alla realtà di Dio opposta alla realtà del mondo signoreggiato
da un «principe» che è menzognero e padre della menzogna
(8,44). Sarà contro l’azione di questo «principe», in ultima ana
lisi, che i discepoli insieme allo Spirito continueranno la testi
monianza di Gesù alla verità (16,11; 18,37) vivendo, come
nuove creature generate «da acqua e da Spirito», l’esperienza
del regno di Dio (3,3-8) e mostrandone la profonda alterità
rispetto alle logiche di potere violento del «mondo». Non a
caso in Giovanni - come del resto anche nella tradizione sinot
75 In 14,15-17 è il Padre che lo «dona» ai discepoli ma su richiesta del Figlio; in
14,26 è il Padre che lo manda ma «nel nome» di Gesù; in 15,26 è Gesù che lo «man
da» ma «da presso il Padre» come Spirito che sgorga dal Padre e quando lo Spirito,
soggetto personale d’azione, «viene» per «condurre nella via» della verità intera di
Gesù e «parlare» e «annunciare», non prenderà e annuncerà altro che ciò che è co
mune al Padre e al Figlio (16,12-15).
76 Questa espressione nel linguaggio dualistico di scritti come i Testamenti dei
Dodici Patriarchi (Testamento di Giuda 20,1-5) o la Regola della Comunità di Qumran
(3,13-4,26) designa lo spirito buono - opposto allo spirito di menzogna, tenebra e
malvagità - che ispira e guida i giusti nella loro lotta contro l’empietà.
tica - l’annuncio del dono dello Spirito è messo in relazione
all’annuncio delle persecuzioni che i discepoli incontreranno
nel compimento della loro missione (15,26-27; Mt 10,19-20;
Me 13,11; Le 21,15).
Come la cristologia, anche la dottrina giovannea dello Spi
rito promana da e esprime l’esperienza di salvezza e di vita in
Gesù e, più precisamente, la consapevolezza del compimento
pasquale della nuova alleanza. In Giovanni, infatti, il dono del
lo Spirito non è un evento narrativamente e teologicamente
distinto dalla pasqua - come in Luca - ma è il sigillo della
pasqua stessa (Gv 20,21-23) e ne esprime la portata salvifica
per gli uomini: il Risorto può ora metterli a parte della sua
stessa vita facendo dei discepoli nuove creature e «inspirando»
in loro, come Dio nell’atto di plasmare Adamo (Gen 2,7; Sap
15,11) e come Elia nell’atto di resuscitare il figlio della vedova
di Sarepta (IRe 17,21), lo Spirito vivificante atteso per il tempo
della risurrezione o restaurazione dei morti di Israele (Ez 37,9)
e, più ampiamente, come segno del compimento dell’alleanza
e della purificazione di Israele dall’idolatria e dal peccato. Per
dono dei peccati e dono della vita nuova appaiono così colle
gati, nella narrazione giovannea, da potersi dire che il dono
pasquale dello Spirito Santo da parte del Risorto compie la
promessa del «battesimo» di purificazione «in Spirito Santo»
annunciato dal battezzatore Giovanni (Gv 1,33) proprio in
quanto nuova creazione.77 Di questo battesimo, che esprime il
giudizio di Dio come salvezza e nuova creazione, tutti i creden
ti parteciperanno poi anche sacramentalmente rinascendo «da
acqua e da Spirito». Come il Padre e il Figlio (5,21), anche lo
Spirito ha potere di «vivificare» (6,63) e per questo esprime la
natura stessa di Dio (4,24) contrapposta alla condizione fragi
le e caduca della «carne».
77 Sul rapporto tra l’acqua purificante e il dono divino dello «spirito di verità»
nella nuova creazione, cfr. lQ S a Regola della comunità 3,6-8; 4,18-25.
Donato dal Risorto dopo la passione (ma cfr. già 19,34),
esso è anche simultaneamente il «giudizio» di salvezza del
Creatore sulle creature ed è donato proprio perché i testimoni
di Gesù possano portare nel mondo la testimonianza divina
del perdono (20,23): non un perdono che ignora il peccato del
mondo (16,8-11), ma il perdono che lo denuncia e lo porta via
(1,29). Giustamente, Giovanni può affermare con decisione
che prima della «glorificazione» di Gesù «non c’era lo Spirito»
(7,39): c’era, continuo e pieno, su lui in quanto Figlio (1,32-33;
3,34) ma non ancora riversato sul mondo come purificazione
dal peccato prima della sua passione. Per questo, anche, «gio
va» che Gesù «vada», cioè si separi fisicamente per sempre dai
discepoli con la sua morte-per (16,7; indirettamente anche
11,50), perché lo Spirito del perdono «venga», testimonianza
fedele, intima e continua della verità-fedeltà di Dio e della sua
nuova creazione a dispetto e al cospetto del peccato del mon
do. Continuando l’azione di «insegnamento» del Gesù terreno,
lo Spirito, infatti, ne continua anche la glorificazione (14,26;
16,12-15) rendendo presenti, efficaci e sempre più intellegibi
li ai discepoli, passo a passo con la loro storia nel mondo, le
parole del Figlio che sono «Spirito e Vita» (6,63). Come, cre
dendo, si «riceve» il Logos divenuto carne e, in lui, la pienezza
della relazione con Dio, così, nell’incontro con il Risorto, i
discepoli «ricevono» il dono rinnovante dello Spirito simulta
neamente alla missione per testimoniare al mondo la Parola
divenuta carne.
5.4. Lescatologia
All’esperienza pasquale della salvezza e al dono dello Spiri
to va certamente ricondotta anche l’escatologia giovannea che,
com’è noto, affianca tenacemente l’una all’altra due concezio
ni solo in apparenza alternative: quella che guarda a un «ultimo
giorno» o a un’«ora» come a un momento futuro, ancora da
venire, che segnerà il compiersi del progetto salvifico di Dio,
creatore e giudice, sul mondo; quella che sembra anticipare o
radicare questo tempo ultimo già all’interno del tempo presen
te della storia nel suo sviluppo lineare. La prima concezione è
riflessa in testi dove si parla di un’ora attesa, di un «vivere»
riservato al futuro, di un nuovo «venire» di Gesù dopo la Pa
squa e della promessa della risurrezione dei morti (4,21; 5,28-
29; 6,39.40.44.54; 11,24; 12,48; 14,2-3; 21,22-23); la seconda
si ritrova in testi come quelli che mettono in relazione al cre
dere, nel presente storico dei singoli, il possesso della «vita
(eterna)» (3,15-16.36; 5,24; 6,40.47.54; 20,31). Ci sono poi i
testi che le affiancano candidamente nella medesima afferma
zione (4,23; 5,25; 6,40.54; 11,24-25), confermando «la propen
sione giovannea per l’unione dei contrari».78
Come spiegare e interpretare il dato giovanneo? In realtà,
la combinazione delle due prospettive non è un inedito del
tutto giovanneo: la comunità di Qumran, che associava l’azio
ne dello «spirito di verità» al tempo ultimo della salvezza, rite
neva anche di anticiparlo nella liturgia vissuta in comunione
con gli angeli, nello studio amoroso della Tóràh, compresa in
tutti i suoi segreti e osservata fedelmente, e nella vita fraterna
condotta in spirito di umiltà e benignità dai membri della co
munità in attesa del(i) Messia di Israele (lQ S a Regola della
comunità 2,3-22; 1QM Regola della guerra 10,10-11). Diversa-
mente da altri (gli empi non appartenenti alla comunità), i
membri della comunità adunata «negli ultimi giorni» di una
generazione empia si ritenevano messi a parte tra i «figli del
mondo» «secondo la misericordia di Dio, secondo la sua bon
tà e la sua gloria meravigliosa» per essere «annoverati con lui
nella [assemblea degli] angeli come una congregazione santa
in una posizione di vita eterna e nella parte con i suoi angeli»
78 B r o w n , Introduzione, 256-257.
(4Q181 Le dieci generazioni 1,3-4). Su questo sfondo linguisti
co e teologico, a partire dalle proprie tradizioni gesuane e dal
confronto con altre tradizioni neotestamentarie che insistevano
alternativamente - ma non esclusivamente - sull’uno o l’altro
aspetto del compimento (Le 17,20-21.22-37; lTs 4,13-5,10 e
2Ts 2; lC or 10,11; 15,12-58), Giovanni può avere maturato,
senza contraddizione, la propria concezione.
La si può comprendere e interpretare, poi, alla luce della
cristologia, della soteriologia e della pneumatologia giovannee.
La riflessione prolungata sul significato e sull’avvento dell’«ora»
di Gesù - intesa già nei segni che ne anticipano la Gloria (la
risurrezione di Lazzaro) come evento di rivelazione e di com
pimento escatologico dell’agire creatore e redentore di Dio -
segna il passaggio definitivo da una concezione quantitativa o
cosmologica del tempo a una qualitativa, del tutto condiziona
ta dall’esperienza cristologica. Se di dottrina delle «cose ulti
me» bisogna parlare in Giovanni, se ne può parlare solo in
termini di escatologia personale cristocentrica: risurrezione
(escatologia futura) e vita (escatologia presente) coincidono
con la persona di Gesù di Nazaret (11,25-26). «Cristo è l’even
to escatologico che libera dalla morte e dalle tenebre»79 e segna
«il cambio degli eoni».80 La vita eterna è la relazione intima (il
«conoscere») col Padre e col Figlio (17,2) e, ove si tratta di
questa relazione, le «delimitazioni temporali» vengono messe
«totalmente da parte».81 Come il «non poter trovare» Gesù è,
per chi lo cerca ambiguamente, minaccia del proprio fallimen
to escatologico (7,34-36; 8,21), così il «trovarsi» reciproco di
Gesù e di quanti vanno a lui (1,41.45; 5,14; 6,25; 9,35; 11,17)
è già esperienza della presenza vivificante e salvifica di Dio
nella e oltre la storia, pegno di un sicuro «essere con» Gesù là
79 G nilka, 284.
80 B rown, Introduzione, 262.
81 G nilka, 287.
«dove egli è» (6,62; 12,26; 13,36; 14,3; 17,24).82 Di questo «do
ve», già i discepoli conoscono la «via» (14,3) per percorrere la
quale hanno la guida dello Spirito (16,13), partecipando già ai
doni tipici dell’era escatologica come la gioia e la pace (14,27;
15,11; 16,20-24.33; 20,19.21.26).
Certamente in Giovanni (come e più che in Luca-Atti) si
può, dunque, parlare di un tempo dello Spirito che segue al
tempo della vita storica di Gesù di Nazaret (7,39) e prepara,
anticipandolo, quello del suo venire finale. I discorsi di addio
annunciano esattamente questo tempo come il tempo di vita e
di testimonianza dei credenti destinato a coinvolgere e inclu
dere il «m ondo» (17,21.23). In questo senso, è vero anche per
Giovanni che «la salvezza richiede tempo, non solo perché
essa si realizza nella storia, ma anche perché vi sono fasi diver
se nella sua realizzazione».83 Questo tempo, però, non si pone
rispetto agli altri due in termini di mera sequenza: il presente
del «dimorare» e del «manifestarsi» del Padre e del Figlio in
chi custodisce la parola e ama G esù (14,21-24) «recupera
nell’adesso anche passato e futuro»;84 ne partecipa e li manife
sta. L’«ultimo giorno», per Giovanni, non è qualitativamente
diverso dal «giorno» di Gesù già visto con giubilo da Abramo
(8,56): manifesto nella sua più vera luce nel giorno ottavo, fuo
ri la misura dei «sette giorni» della prima creazione, il giorno
di G esù non è più qualcosa da attendere. L’esperienza
dell’«ora» a venire è già l’«adesso» per i credenti (4,23; 5,25;
11,22; 12,31; 21,10).
82 Sottolinea correttamente Brown, Introduzione, 264, nota 57: «l'escatologia gio
vannea non è soltanto il prodotto di una sofisticata riflessione teologica quanto prin
cipalmente l’articolazione della spiritualità comunitaria».
83G n i l k a , 281.
84 Ivi, 287.
Vangelo secondo Giovanni
5.5. La teologia
In coerenza con la cristologia, anche la teologia giovannea
è eminentemente relazionale e dipende essenzialmente dalla
persona e dall’atto rivelatore di Gesù, Logos divenuto carne
(1,18). Egli, infatti, rende visibile al mondo il «D io» che «nes
suno ha mai visto» (1,18; 3,31-32; 5,37; 6,46; 14,7-9; 20,28)
rivelandolo come «Padre» nel parlare di sé come «Figlio». Tut
ti i termini che esprimono la teologia giovannea, sin dal Prolo
go, dicono tutti un dinamismo relazionale: il Logos (termine
che esprime già in se stesso legame, connessione, vincolo) è
volto verso Dio così come l’Unigenito sta in seno al Padre;
l’orientamento costante di Gesù al Padre, origine del suo «ve
nire» e meta del suo «andare» (5,43; 7,28-29.33; 8,14.42; 13,3;
16,28), e ia sua dipendenza da lui (4,34; 5,17.19.30; 6,38; 7,16-
18; 8,26.28.55; 9,32; 10,17-18; 14,31; 16,32) traspaiono da ogni
sua parola e azione nell’arco del Vangelo; lo Spirito stesso è
inviato «da presso» il Padre e costituisce il sigillo identitario e
relazionale del Figlio (1,32-34) rispetto al Padre e rispetto ai
discepoli; il Padre stesso, infine, è definito dall’atto dell’amare,
dell’inviare e del donare che lo lega al Figlio e al mondo
(3,16.35; 5,20.22; 6,32; 13,3; 16,27; 17,23).
Nel modo peculiare di Gesù di riferirsi al Dio unico di Israe
le chiamandolo suo proprio «Padre» l’evangelista non trova
solo la chiave di volta per la sua cristologia (Gesù è «il Figlio»,
Parola eterna del Padre inviata al mondo) ma anche, conse
guentemente, il cuore della rivelazione su Dio: colui che nella
proclamazione quotidiana dello s'm a‘ «i Giudei» chiamano «il
nostro Dio» (Dt 6,4; Gv 8,54) può essere conosciuto nella sua
verità solo come Padre, origine, significato e meta della mis
sione di Gesù. Conoscendo e vedendo Gesù, lo si conosce e lo
si vede (12,44-45; 14,7; 16,3); ascoltando e custodendo la pa
rola di Gesù, si ascolta e custodisce quella del Padre (7,16;
8,26.28.38.40; 12,47-50; 14,24; 17,6-8.14); disonorando e
odiando Gesù, si disonora e odia anche il Padre (5,23; 15,23-
24). L’identità del Dio uno non potrebbe essere compresa che
a partire dalla unità d ’essere e d ’agire tra il Padre e il Figlio,
ben espressa dalla relazione di immanenza reciproca (8,16.29;
10,30.34-38; 14,10-11; 17,11.21-23).
Per la sua paternità, signoria e assoluta trascendenza, Dio il
Padre è «più grande» di Gesù (10,29; 14,28), ma il Figlio ne è
l’inviato plenipotenziario, lo rappresenta pienamente e perfet
tamente nel mondo, ne cerca e ne rivela la gloria (7,18; 8,49-
50.54), lo manifesta e lo glorifica nelle parole e nelle opere
(12,28; 13,31; 17,4.6), vive di lui e unito a lui (6,57), gli è fede
le nell’amore con l’adempimento della sua volontà e missione
fino alla morte (14,30-31). È il Padre, in fondo, il contenuto
ultimo, tragicamente non compreso, della predicazione di Gesù
secondo Giovanni (8,27). Gesù chiama a sé e parla di se stesso
ma solo perché riconoscerlo come il Figlio inviato è l’unica via
per scoprire l’identità e il volto del Padre. Il compimento pa
squale della sua missione e della relazione di alleanza si avrà,
infatti, quando, risuscitato dai morti, Gesù potrà parlare di Dio
e Padre suo come «D io vostro e Padre vostro» (20,17). Da
questo punto di vista, il Quarto Vangelo si può definire teo
centrico o, meglio, patrocentrico e la profondità del suo teo
centrismo è direttamente proporzionale al rigore giudaico del
suo monoteismo, inteso come adorazione e riconoscimento
dell’unico Signore non solo nella proclamazione ortodossa del
lo ìema‘ ma nell’interezza di un’esistenza attraversata non dal
la ricerca idolatrica della gloria e delle sicurezze umane (5,41-
44; 8,50.54; 12,43), con esiti di bestemmia pratica (19,15!), ma
dallo «zelo divorante» per la Gloria dell’unico Dio (2,17), espe
rienza di relazione in cui si incontrano e si fondono, dramma
ticamente, l’amore «geloso» del Dio di Israele (Zc 1,14-17;
8,1-2) e quello del giusto fedele (Sai 69,10 in Gv 2,17).
Le conseguenze dell’elaborazione teologica del linguaggio
rivelativo di Gesù si vedono nel modo in cui l’evangelista par-
la di lui non solo come Figlio, come accade anche in altre tra
dizioni neotestamentarie (Me 1,11 e paralleli; Rm 1,3-4.9;
8,3.32; Gal 4,4; Eb 1,2), ma come monogenes, l’unico hyiós,
tale sul piano dell’essere (Gv 1,1-2.14.18; 3,16-18) e non del
divenire come nel caso dei tékna Theou (1,12-13).85Al termine
del Vangelo, nella professione di fede di Tommaso, le implica
zioni teologiche di tale cristologia appaiono nell’attribuzione
a Gesù dei titoli di Kyrios e Theós fatta da Tommaso (20,28):
il Dio dell’alleanza {«m io Signore e mio Dio») è messianica
mente ed escatologicamente presente al mondo nella persona
di Gesù crocifisso e risorto. Nell’arco del Vangelo è la procla
mazione dell’«io sono» in forma assoluta quella che lascia tra
sparire più chiaramente la dimensione teofanica della presenza
umana di Gesù e, viceversa, il carattere storico e concreto del
la presenza salvifica di Dio, l’«Io sono» perennemente rivolto
al suo popolo e unito al suo destino. Ma è forse il lessico della
«gloria» e del «glorificare», profondamente biblico e caratte
risticamente giovanneo, quello che con più efficacia comunica
l’intuizione teologica di Giovanni: nell’interezza della sua esi
stenza umana e filiale, piena di dignità (1,14; 2,11) ma votata
alla ricerca dell’onore del Padre anche a costo del disonore e
del rigetto (5,43; 8,49; 12,46), Gesù Figlio rivela nel modo più
alto la «Gloria» di Dio, cioè - secondo il significato etimologi
co del kabòd ebraico: l’essere pesante, rilevante di qualcosa o
qualcuno - l’identità e l’essere di Dio, «la qualità di Dio in
quanto Dio»,86la sua realtà così come si manifesta nel suo im
patto col mondo quando egli si rivela per liberare e salvare (Es
14,4.17.18; 16,7; 24,16-17; 33,18-23; Lv 10,3; Is 6,1-3; 40,5;
60,2; Ez 1,28; 38,23).
851 titoli «Figlio» e «Figlio di Dio» in Giovanni, anche se strettamente correlati,
non sono immediatamente sovrapponibili e la loro differenza si spiega in ragione
dell’elaborazione teologica giovannea del titolo messianico, già anticotestamentario,
di «figlio di Dio» (1,48).
86 S mith, 149.
Chi e come il Dio unico sia si manifesta essenzialmente nel
la relazione tra l’uomo Gesù e Dio il Padre e nel modo in cui
questa si realizza storicamente nel mondo come evento di re
ciproca glorificazione (7,39; 8,54; 11,4; 12,23.28; 13,31-32;
15,8; 17,1.4-5), massimamente e paradossalmente nella morte
di Gesù in cui la gloria del Dio di Israele e del Figlio dell’uomo,
Servo di Yhwh (12,37-43), si rivela come «la gloria di amare».87
Significativamente, in Giovanni, la morte-per di Gesù, prima
che come evento di espiazione e redenzione (prospettiva sote-
riologica), è vista come evento culminante di glorificazione del
Padre e del Figlio, condizione per la consegna e l’effusione
dello Spirito (7,39; 19,30) e, dunque, rivelazione piena e per
fetta dell’essere divino: è in essa che potrà essere «conosciuto»
l’«io sono» di Gesù in totale unione col Padre (8,28). Essa è
importante come evento di salvezza solo e proprio perché ri
vela la relazione vitale - vittoriosa sul mondo, sul suo principe
e sulla morte - tra l’uomo Gesù e il Padre Dio e, in Gesù, tra
il Padre e gli uomini (3,14-17; 10,17-18). Rivelando Dio come
relazione d ’amore sovratemporale, eterna, tra il Padre e il Fi
glio, essa salva comunicando agli uomini, nella fragilità della
loro condizione mortale, la partecipazione alla vita stessa del
Figlio col Padre (6,57). La relazione in Dio, presente «in prin
cipio» e vissuta nel tempo dal Logos divenuto carne, è per
Giovanni la rivelazione che trasforma l’Antico nel Nuòvo rea
lizzando e comunicando la salvezza.
5.6. Lecclesiologia
La relazione d’amore tra il Padre e il Figlio, riconosciuta
come rivelazione e dono salvifico della loro Gloria e Unità
(17,20-23), costituisce il fondamento stesso e lo spazio vitale
87 Simoens, La gioire d’aimer.
della chiesa o, nei termini del Vangelo, della relazione d’amore
reciproco consegnata come unico imperativo etico (13,34;
15,12.17), possibilità d’esistenza aperta in Gesù (15,4-5) e sfida
identitaria ai suoi discepoli (13,35; 15,14), «lasciati» (14,18;
16,28; 17,11) e «inviati» nel mondo (17,18; 20,21-23) dopo la
sua pasqua come testimoni della sua rivelazione e della vita
dischiusa dalla fede (14,1.19-20; 15,27).
In rapporto a Gesù, il lessico che più insistentemente espri
me l’identità dei credenti, dal primo all’ultimo capitolo del
Vangelo, è certamente quello della relazione maestro-discepo
lo. A differenza di quello della relazione padrone-servo (13,13-
14.16; 15,15.20), questo non viene annullato dalla condizione
di intimità e confidenza totale cui i discepoli sono elevati in
qualità di amici destinatari della rivelazione del Figlio (11,11;
15,13-15): permane anzi come condizione relazionale privile
giata per l’esperienza più profonda del suo amore, paradigma-
ticamente rappresentata dal «discepolo che Gesù amava».
L’insistenza sul lessico discepolare permette di focalizzare l’im
portanza e l’unicità dei singoli all’interno della comunità cre
dente e del loro rapporto personale e frontale con «il Signore
e M aestro» (13,13-14); nel contempo, evidenzia il carattere
paritario od orizzontale del loro rapporto fraterno (20,17;
21,23) che nemmeno la diversità di funzioni o ruoli cancella
(21,15-23) vedendoli comunque impegnati, tutti e ciascuno, in
un medesimo cammino di sequela. Le metafore che ne espri
mono l’unità e la vocazione comunitaria, riprendendo quelle
che nella Scrittura definivano Israele nella sua relazione d’al
leanza con il Signore, sono quella nuziale (3,28-30), quella del
gregge (10,1-18.25-30; 21,15-17) e della vite (15,1-8) e tutte
hanno sempre un preciso fondamento cristologico: Gesù è lo
sposo, è porta e pastore del gregge, è la vite di cui vivono i
tralci. Non viene esplicitata l’immagine del tempio-santuario,
ma chiamati a «rimanere» in Gesù, custodendone con la fede
e con la vita la parola di rivelazione e il comandamento
dell’amore, i discepoli possono diventare essi stessi «dimora»
del Padre e del Figlio, partecipando in Gesù del suo essere
santuario vivente della presenza di Dio nel mondo (2,21; 6,56;
14,20.23; 15,4-7.9-10).
La loro esistenza, infatti, non è destinata ad altro che a con
tinuare e a perpetuare nel mondo la sua missione testimoniale
e rivelatrice: come in Gesù, anche nella fecondità della loro
esistenza discepolare il Padre sarà glorificato (15,8) e col Padre
anche il Figlio (17,10); come Gesù, anche essi sperimenteran
no odio e persecuzione da parte del mondo (15,18-16,4a),
sostenuti dal Paraclito nella loro testimonianza. La loro unità
d’amore, partecipazione dell’unità del Padre e del Figlio, sarà
segno al mondo perché anch’esso possa credere e conoscere
l’amore (17,21.23). Questa unità «costituisce l’essenza della
chiesa... è la chiesa»,88 ed è tanto paradossale quanto tipica
mente giovanneo il fatto che essa sia invocata e prospettata da
Gesù proprio nel contesto della peggiore lacerazione costitui
ta dall’abbandono e dal tradimento di Giuda (13,10-11.21-30):
tale unità, fondata su e radicata nell’unità del Padre e del Fi
glio, non teme la fragilità e la possibilità del fallimento umano
ma è il dono chiesto efficacemente dal Figlio vincitore del mon
do nell’ora della sua glorificazione (16,33). Con la preghiera
consacratoria del Figlio, la comunità dei credenti è costituita e
presentata al Padre come il nuovo tempio risollevato da Gesù
nella sua ora.
Bibliografia
A n d e r s o n P.N. - J u s t F. - T h a t c h e r T. (edd.), John, Jesus, and
History, voi. 1: C riticai A ppraìsals o f C riticai Views, Society
of Biblical Literature, Atlanta (GA) 2007; voi. 2: Aspects ofHisto-
88 Smith, 175.
ricity in thè Fourth Gospel, Society of Biblical Literature, Atlanta
(GA) 2009.
B row n R.E., Giovanni, Cittadella, Assisi 1979.
CULPEPPER R.A., The Gospel and thè Letters ofjohn, Abingdon Press,
Nashville (TN) 1998
----, «John 21: 24-25: The Johannine Sphragis», in P.N. A n d e r so n ,
T. T a th c h er , F. J u st (edd.), John, Jesus and History 2, 349-364.
D odd C.H., L'interpretazione del quarto vangelo, Paideia, Brescia
1974.
G arribba D. - G uida A .L ., Giovanni e il giudaismo. Ricerca recente
e questioni aperte, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2010.
G h iber ti G ., «Tomba vuota e panni sepolcrali», in I d ., «Dalle cose
che patì» (Eh 5,8): evangelizzare con la sindone, Effatà Editrice,
Torino 2004,117-132.
G n il k a J., Teologia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 2004.
GRASSO S., Il Vangelo di Giovanni. Commento esegetico e teologico,
Città Nuova, Roma 2008.
H y l e n S., «Three Ambiguities: Historical Context, Implied Reader
and thè Nature of Faith», in C. W. SKINNER (ed.), Characters and
Characterization in thè Gospel ofjohn, T & T Clark, London 2013,
94-110.
KYSAR R., Giovanni, il vangelo indomabile, Claudiana, Torino 2000
(ed. ingl. John, thè Maverick Gospel, John Knox Press, Louisville
[KY] 1993).
K l in k ni E.W., «The Overrealized Expulsion in thè Gospel ofjohn»,
in P.N. A n d er so n - T. T a th c h er - F. J u st (edd.), John, Jesus and
History 2,175-184.
L a P o t t e r ie DE I., La passione di Gesù secondo il vangelo di Giovan
ni, Paoline, Cinisello Balsamo 1988.
LÉON-DUFOUR X., Lettura delTEvangelo secondo Giovanni, San Pao
lo, Cinisello Balsamo 2007.
LINCOLN A.T., «The Beloved Disciple as Eyewitness and thè Fourth
Gospel as Witness», in Journalfor thè Study o f thè New Testament
85(2002), 3-26.
* — , The Gospel according to Saint John, Hendrickson Publishers,
London 2005.
M ARCHESELLI M., «Antigiudaismo nel Quarto Vangelo? Presentazio
ne e bilancio degli orientamenti recenti nella ricerca esegetica»,
in Rivista Biblica 57(2009), 399-478.
----, « “Davanti alle Scritture” di Israele: processo esegetico ed erme
neutica credente nel gruppo giovanneo», in Ricerche Storico Bibli
che 22(2010), 175-195.
M a rgu erat D. - B o u r q u in Y , Per leggere i racconti biblici, Boria,
Roma 22012.
M o t y e r S., «Narrative Theology in John 1-5», in J. LlERMAN (ed.),
Challenging Perspectives on thè Gospel o fjoh n , Mohr Siebeck,
Tubingen 2006,194-209.
N o ACK T., Das Gesicht des Unsichtbaren. Zur Transparenz des Fakti-
schen im Johannesevangelium, Grin, Ziirich 2002.
PESCE M., «Il Vangelo di Giovanni e le fasi giudaiche del giovannismo.
Alcuni aspetti», in G. FlLORAMO- C. GlANOTTO (edd.), Verus Isra
el. Nuove prospettive sul giudeocristianesimo. A tti del Colloquio di
Torino (4-5 Novembre 1999), Paideia, Brescia 2001,47-67.
R ein h a r tz A., Befriending thè Beloved Disciple: A Jetvish Reading o f
thè Gospel ofjohn, Continuum, New York 2001.
R e y n o l d s B.E., «The Johannine Son of Man and thè Historical Jesus:
Shall Ever thè Twain Meet? John 9.35 as a Test Case», in Journal
for thè Study ofthe Historical Jesus 9(2011), 230-242.
S e g a l l a G., Il Quarto Vangelo come storia, Dehoniane, Bologna 2012.
SCHNACKEMBURG R., Il vangelo di Giovanni, 4 voli., Paideia, Brescia
1973-1987.
SlMOENS Y, La gioire d’aimer. Structures stylistiques et interprétatives
dans le Discours de la Cène (Jn 13-17), Pontificio Istituto Biblico,
Roma 1981.
----, Selon Jean 2. Une interprétation, Institut d’Etudes Théologiques,
Bruxelles 1997 (trad. it., Secondo Giovanni. Una traduzione e una
interpretazione, Dehoniane, Bologna 2000).
SM ITH D.M., La teologia del Vangelo di Giovanni, Paideia, Brescia
1998.
S t ib b e M., «Telling thè Father’s Story: The Gospel o fjoh n as Nar
rative Theology», in J. L ierm an (ed.), Challenging Perspectives on
thè Gospel ofjohn, 170-192.
T h a t c h er T , «John’s Memory Theatre: a Study of Composition in
Performance», in A. L e D onne - T. T hatcher (edd.), The Fourth
Gospel in thè First-Century Media Culture, T & T Clark, London
2011,73-91.
THOMPSON M.M., The God o f thè Gospel ofjohn, Eerdmans, Grand
Rapids (MI) 2001.
VlGNOLO R., Personaggi del Quarto Vangelo. Figure della fede in San
Giovanni, Glossa, Milano 20032.
----, Il Libro del Testimone. Cornice letteraria e poetica testimoniale
del Quarto Vangelo. Spunti biblici per una teologia della Sacra Scrit
tura, dissertazione non pubblicata, Pontificia Commissione Bilica
1999.
----, «Il libro giovanneo e lo Spirito di verità. Poetica testimoniale e
scrittura pneumatica del IV Vangelo», in Ricerche Storico Bibliche
1-2(2000), 251-267.
----, «L a dottrina della testimonianza in Giovanni», in G. ANGELINI
- S. UBBIALI (edd.), La testimonianza cristiana e testimonianza di
Gesù alla verità, Glossa, Milano 2009, 171-204.
W en g st K., Il Vangelo di Giovanni, Queriniana, Brescia 2005.
WILLIAMS C.H., I am He. The Interpretation o f ‘A ni H u* in Jewish
and Early Christian Literature, Mohr Siebeck, Tiibingen 2000.
----, <<T am” or “I am H e” ? Self-Declaratory Pronouncements in thè
Fourth Gospel and Rabbinic Tradition», in R.T. F ortna - T.
THATCHER (edd.), Jesus in Johannine Tradition, Westminster John
Knox, Louisville (KY) 2001,343-352.
ZuMSTEIN J., «Le prologue, seuil du quatrième évangile», in Recher-
ches de Science religieuse 83(1995), 217-239.
----, LÉvangile selon saint Jean (13-21), Labor et Fides, Genève 2007.
LETTERE D I GIOVANNI
1. Questioni storico-letterarie
Se si fa eccezione per un papiro del III secolo ($P9), che ri
porta lG v 4,11-12.14-17, non ci sono testimoni manoscritti
delle Lettere di Giovanni cronologicamente precedenti ai gran
di onciali del IV e V secolo (Sinaitico, Alessandrino, Vaticano,
Codice di Efrem riscritto da cui manca però la Seconda lette
ra). Come si è avuto modo di costatare nell’introduzione gene
rale al corpus giovanneo, tuttavia, la conoscenza dei tre scritti
è attestata con certezza sin dalla metà del II secolo e, nonostan
te qualche dubbio riguardo all’accoglienza della Seconda e
della Terza tra gli scritti ispirati (Eusebio, Storia della chiesa
3,25,3), le tre Lettere insieme dovettero essere viste come una
testimonianza preziosa dell’insegnamento e dell’autorità del
discepolo del Signore. Fino a Origene la qualifica di «Cattoli
ca» sembra essere stata riservata fondamentalmente solo alla
Prima delle tre, ma già per Eusebio anche la Seconda e la Ter
za, benché non universalmente riconosciute, si potevano con
siderare appartenenti al gruppo tradizionalmente riconosciuto
delle «sette Cattoliche» scritte da discepoli o familiari di Gesù
{Storia della chiesa 2,23,25).
Trasmessi e recepiti tutte come lettere, i tre brevi Scritti giovannei
manifestano caratteristiche formali diverse. Per struttura, formu
lario e brevità, la Seconda e la Terza appartengono chiaramente
al genere epistolare:1
- nel prescritto (2Gv 1-3; 3 Gv 1-2) indicano un mittente («il Pre
sbitero»: 2Gv 1; 3Gv 1) e un destinatario (2Gv 1: «la signora
eletta e i suoi figli»;12 3Gv 1: «il carissimo Gaio»);
- all'augurio iniziale (2Gv 3; 3Gv 2) segue una manifestazione di
gioia che funge anche da ringraziamento e implicita lode a Dio
(2Gv 4; 3Gv 3-4) e apre il corpo della Lettera, preparando il
terreno per l'accoglienza del messaggio epistolare;
- nel corpo della Lettera (2Gv 5-11; 3Gv 5-12) un rapido svolgi
mento riguarda l'oggetto del messaggio (richieste e moniti) e
ciò che lo motiva;
- un saluto finale, con annesso rimando all'atteso incontro faccia
a faccia tra mittente e destinatari, chiude la missiva (2Gv 12-13;
3Gv 13-15).
La Prima lettera, al contrario, sembrerebbe mancare delle
caratteristiche letterarie proprie del genere: non vi si trovano
indirizzo iniziale e saluto finale, non si esplicitano né mittente
né destinatari, non ci sono concreti riferimenti spazio-tempo
rali. E ssa potrebbe somigliare piuttosto per contenuto a
un'omelia e per forma a un trattato. Sarà necessario, per que
sto, analizzarne successivamente con più cura la struttura. D'al
1 Se la Prima ha 2137 parole, la Seconda ne ha 245 e la Terza 219, costituendo lo
scritto più breve del Nuovo Testamento. Sono più lunghe anche la Lettera a Filemone,
la più breve del corpus paolino (335 parole) e la più breve delle Lettere Cattoliche non
giovannee, la Lettera di Giuda (452 parole).
2 Concordo con coloro che ritengono che non si tratti di un nome proprio femmi
nile (Eletta) ma della personificazione femminile e materna di una specifica comunità
locale, probabilmente una chiesa domestica appellata con un titolo di grande dignità
e stima: i destinatari sono riconosciuti membri di elezione e parte della fam ilia Dei.
Cfr. lPt 5,13: «vi saluta la (chiesa) coeletta che si trova in Babilonia».
tra parte, l’insistenza consapevole sull’atto dello scrivere, l’ap
pello diretto e ripetuto ai destinatari, l’accenno a una crisi
comunitaria interna a loro nota (lG v 2,19.26), il motivo inizia
le della «gioia» (1,4) - consueto nei proemi epistolari e presen
te anche in 2 e 3 Giovanni benché caricato nelle tre Lettere di
un significato teologico specifico - , sono tutti elementi che
concorrono a definire il testo come un atto di comunicazione
epistolare diretto da un personaggio autorevole a un uditorio
specifico. Per l’autorevolézza manifestata dal suo autore nell’af-
frontare con discernimento temi critici per l’esistenza del suo
gruppo e di quello dei destinatari, 1 Giovanni potrebbe essere
paragonata eventualmente alla Lettera halakica sulle opere del
la Legge (4QMMT) ritrovata tra i manoscritti qumranici e in
dirizzata da un «noi» a un «voi» in relazione polemica a un
terzo gruppo.3Il confronto con altre Lettere neotestamentarie,
come quella di Giacomo - che manca anch’essa del poscritto
- o come la Lettera agli Ebrei - che ha i saluti finali ma inizia
anch’essa con un prologo solenne senza prescritto - permette
comunque di considerarla un esempio originale di lettera neo
testamentaria.
In tutte e tre le Lettere giovannee, comunque, si respira
ampiamente il clima familiare del Quarto Vangelo: se nella
Prima si ritrova la stessa «monotonia di linguaggio scolastico»,
3 Si veda il richiamo insistente a una consapevolezza condivisa tra autore e desti
natario («Voi sapete che...»: 4Q M M Ttesto B, 46.68.80; testo C 7; cfr. l G v 2,20-21;
3,5.15), alla separazione del «noi» scrivente da quanti non ne condividono l’interpre
tazione della Legge («[e voi sapete che] noi ci siamo separati dalla maggioranza del
pofpolo e da ogni loro impurità] e dal mescolarci su queste questioni, e dalTunirci a
loro su queste cose. E voi sa[pete che non] si trova nelle nostre opere inganno o tra
dimento o malvagità»: testo C 7-9) o al rapporto individuato tra «gioia» escatologica
e comunicazione autore-lettore alla fine del testo: «Anche noi ti abbiamo scritto alcu
ne opere della Tòràh che pensiamo buone per te e per il tuo popolo, poiché vediamo
in te intelligenza e conoscenza della Tòràh. Medita tutte queste cose e cerca da lui che
confermi il tuo consiglio e tolga da te la macchinazione malvagia e il consiglio di Belial,
di modo che tu possa rallegrarti alla fine del tempo scoprendo che alcune delle nostre
parole sono veritiere» (testo C 26-30). Per il rapporto tra «intelligenza e conoscenza
della Tòràh» e distanza dall’idolatria, si veda lG v 5,20-21.
ieratico e meticoloso, del Vangelo,4 anche nella Seconda e nel
la Terza l’utilizzo degli schemi regolari della comunicazione
epistolare non impedisce la saturazione semantica del linguag
gio tipica dell’ambiente giovanneo (cfr. il ricorrere martellante
della parola «verità» per quattro volte nel prescritto in 2Gv 1-3
o nel prescritto e nella lode iniziale in 3Gv 1-4). Quale che sia
la cronologia redazionale di Vangelo e Lettere e la relazione
letteraria e teologica tra i due generi di testo, difficile da defi
nire con certezza, l’impiego dello strumento epistolare porta i
segni caratteristici del complesso e originale sviluppo storico
teologico dell’ambiente ecclesiale giovanneo.
1.2. La crisi intra-ecclesiale e gli interlocutori polemici
delle Lettere
L’elemento che maggiormente accomuna le tre Lettere sul
piano fenomenologico è il fatto che ciascuna attesta l’insorge
re di una situazione conflittuale all’interno dello stesso ambien
te giovanneo. Vi appare frequentemente, infatti, l’ombra di
interlocutori polemici, cui l’autore si riferisce in modo più o
meno diretto ed esplicito:
- in lG v 2,18-27 si parla di quanti hanno abbandonato la comu
nione fraterna («sono usciti da n o i...») non condividendo più
. la stessa professione di fede cristologica e non vivendo più con
cretamente in conformità ad essa. L’autore li definisce al con
tempo «anticristi», cioè figure genericamente anti-messianiche,5
4 Hengel, 103.
5 II termine «anticristo» è di conio giovanneo e non è attestato prima nella lettera
tura giudaica o giudaico-cristiana. Nel linguaggio giovanneo esso designa, in prospet
tiva cristologica, l’avversario di Dio atteso nell’ora ultima e culminante della rivelazio
ne divina secondo la tradizione apocalittica (Me 13,14; 2Ts 2; Ap 13). L’apparizione
di «maestri d’errore» era attesa in connessione ad essa: nella Prima e Seconda lettera
di Giovanni i seduttori escatologici sono tali proprio come «anticristi» (cfr. Hengel,
e specificamente negatori della messianicità di Gesù. A loro
attribuisce un'azione di insegnamento ingannevole con la qua
le, al presente, essi insidiano i suoi destinatari (2,26: «Questo
vi ho scritto riguardo a quelli che cercano di ingannarvi»);
- in lG v 4,1-6 richiama la situazione di rottura guardandola dal
la prospettiva giudaico-apocalittica del discernimento tra gli
spiriti, lo spirito della verità e lo spirito dell'inganno. Di coloro
che sono mossi da quest'ultimo, parla come di «falsi profeti
usciti nel mondo» (v. 1), in tutto appartenenti al «mondo» in
teso come ciò che si oppone a Dio e alla sua azione rivelatrice
e salvifica. Li dichiara riconoscibili dal fatto che negano la mes
sianicità di Gesù, uomo storico e mortale («Gesù Cristo venu
to nella carne»: v. 2). Dello spirito che li muove parla come
dello spirito «dell'anticristo» già presente nel mondo (v. 3). La
contrapposizione tra questi e i suoi destinatari è ancora più
marcata: quelli «sono dal mondo», i suoi destinatari «sono da
Dio»;
- altrove, soprattutto nella prima sezione del corpo di 1 Giovan
ni, le tesi degli interlocutori polemici sono velatamente indica
te quando, parlando in prima persona plurale («Se diciamo...»)
o in terza singolare («Colui che dice...»), l'autore stigmatizza
come false delle affermazioni verbali: o perché smentite dalla
condotta (1,6; 2,4.9) o perché giudicate erronee e ingannevoli
(1,8.10). Si tratta, in questi casi, di affermazioni che lasciano
trasparire un'antropologia e un'etica alquanto arroganti: si cam
mina nella tenebra pur pretendendo di vivere in comunione
con Dio (1,6), non si osserva il comandamento dell'amore e si
odia il fratello (2,4.9-11), si crede di non avere peccato né bi
sogno del sangue purificatore di Gesù (1,8.10) ma, in pratica,
si commette il peccato fondamentale che è quello di Caino
(3,7-18) presumendo un'unzione che, invece di unire a Gesù
Cristo, al Padre e ai fratelli, separa;
142-143). Il passaggio dal singolare (la figura astratta dell’anticristo) al plurale (le sue
incarnazioni concrete) dice quanto Fautore consideri la crisi attraversata dalla comu
nità come la prova dell’avvento dell’ora culminante della storia del mondo e della
battaglia escatologica conclusiva.
- in 2Gv 7-11, di nuovo, si trova un riferimento a «molti ingan
natori» che «sono usciti nel mondo» (cfr. lG v 4,1) identificati
dal rifiuto di confessare Gesù come Messia nel suo venire pro
fondamente umano e storico («G esù Cristo che viene nella
carne»).6 Di chiunque condivida tale rifiuto Fautore parla come
de «Fingannatore e Fanticristo» mettendo drasticamente in
guardia i suoi destinatari da qualunque forma di «comunione»
spirituale con lui (saluto di pace e accoglienza nella casa della
comunità). Più chiaramente che nella Prima lettera, in cui si
rimandano i destinatari alF«insegnare» sicuro del «crism a»
dello Spirito (lG v 2,27), Fautore parla qui della «dottrina» o
insegnamento «del Cristo» nel senso soggettivo e oggettivo: che
ha, cioè, il Gesù terreno come origine e perpetuo fondamento
(Gv 7,16-17; 8,31; 18,19) e nella proclamazione della sua vera
identità di Messia e Figlio di Dio il contenuto salvifico. L’atteg
giamento di chi «rimane» in essa è contrapposto a quello di chi
Fabbandona «procedendo oltre {ho proàgòn)». Al rimanere
nell’insegnamento cristico è connesso il possesso di Dio, cioè
la comunione «col Padre e col Figlio» (lG v 2,23); all’abban
dono di esso sono connessi invece il non possedere Dio e «ope
re malvagie». L’autore raccomanda ai destinatari di guardarsi
bene da chi nega la messianicità di Gesù per non perdere il
frutto escatologico del suo riuscito lavoro missionario (2Gv 8;
cfr. Gv4,36);
- in 3Gv 9-10 i motivi e i protagonisti del conflitto sono più
circostanziati: un personaggio di nome Diotrefe, membro de
«la chiesa», è in conflitto aperto con il Presbitero e ne rifiuta
l’autorità («non ci accoglie»). Questi lo definisce polemicamen
6 Se in lG v 4,2 si trova il participio perfetto elélythóta («venuto»), in 2Gv 7 si
trova il participio presente erchómenon («veniente»): se il primo fa riferimento alla
venuta storica dell’Incarnato e ai suoi effetti duraturi, il secondo si può intendere o
nel senso di un futuro escatologico (alla parusia verrà nella carne, così com’è venuto
nella carne storicamente) o nel senso di un presente atemporale, strutturale («il Ve
niente» è un titolo messianico e Gesù è rivelazione del vero messianismo che ha come
sigillo la carne, cioè la concretezza storica e umana dell’avvento di Dio nel mondo)
con implicazioni anche sacramentali (il venire liturgico ed eucaristico del Cristo). Il
secondo significato mi sembra più congruo con la teologia delle Lettere e del Quarto
Vangelo.
te come uno che «ama essere il primo». La sua mania di pro
tagonismo si traduce concretamente in uno straparlare maligno
contro il Presbitero e, «non contento di questo», anche nel
«non accogliere i fratelli» e nelTimpedire ad altri di farlo fino
a «buttarli fuori dalla chiesa». Si tratta, evidentemente, di un
personaggio che esercita un certo potere nella comunità locale
cui fa riferimento l’autore e lo fa, anche in modo violento, in
aperto contrasto con quello del Presbitero e dei missionari iti
neranti legati a lui. Il Presbitero, tuttavia, parla come chi crede
di poter ancora fare valere la propria autorità spirituale davan
ti a lui e/o alla chiesa cui egli appartiene («Se verrò, ricorderò
le sue opere...»).
Se il rilievo dei dati non è difficile, molto più incerte sono le
interpretazioni. È possibile comprenderli dentro un quadro
unitario? Le divisioni che emergono nella Prima e nella Secon
da lettera, espressamente legate alla confessione di fede mes
sianica, hanno un rapporto diretto con il conflitto personale in
atto tra il Presbitero e Diotrefe che sembra riguardare più con
cretamente la comunione fraterna e l’accoglienza di missionari
itineranti? È possibile definire Yidentikit dottrinale e pratico
degli interlocutori polemici delle Lettere e la natura del conflit
to insorto nell’ambiente giovanneo? Che tipo di rete ecclesiale
esso presuppone e con quale autorità e struttura organizzativa?
Le proposte di soluzione variano da autore ad autore anche in
considerazione della storia della comunità e degli Scritti gio-
vannei che ciascuno ipotizza. Un consenso complessivo mi
sembra si possa registrare quanto ai grandi ambiti della contro
versia in atto nell’ambiente giovanneo: lo scisma intra-ecclesia-
le riguarda sostanziahnente la professione di fede, con ricadute
etiche consistenti, e in relazione a quella l’esercizio e il ricono
scimento àtYYautorità nella chiesa. Pur avendo condiviso per
un certo periodo di tempo l’annuncio di fede e l’appartenenza
al «noi» ecclesiale che l’«io» di chi scrive rappresenta, gli inter
locutori polemici di 1 e 2 Giovanni se ne sarebbero separati (da
cui l’uso nel linguaggio esegetico di definirli separatisti o seces
sionisti) e la cartina al tornasole della loro dottrina ingannevo
le sarebbe un comportamento arrogante e anti-fraterno, attri
buibile anche al personaggio contestato di 3 Giovanni.
Il consenso è più frammentato quando si tratta di specifica
re meglio temi e contorni della dottrina attribuita agli avversa
ri. Leggendo i dati giovannei anche alla luce delle informazioni
sulle incipienti controversie cristologiche ricavabili dalle testi
monianze patristiche, soprattutto da Ignazio di Antiochia e
Ireneo, una maggioranza di studiosi ha ritenuto e ritiene che
l’oggetto fondamentale della disputa sia Vortodossia cristologica
e che lo scisma intra-ecclesiale nell’ambiente giovanneo fosse
dovuto a una sorta di progressismo teologico (2Gv 9).7 Secon
do alcuni, i separatisti avrebbero interpretato l’alta cristologia
giovannea in direzione gnosticheggiante (avrebbero esaltato la
divinità del Cristo a scapito della sua «carne» o realtà umana e
mortale sostenendo che il Cristo spirituale e impassibile, unito
a Gesù al momento del battesimo, l’avrebbe lasciato prima del
la passione e non avrebbe sofferto) o docetica (avrebbero ne
gato la realtà dell’incarnazione e della morte del Messia Figlio
di Dio); secondo altri, l’avrebbero pressoché negata in direzio
ne giudaizzante (avrebbero messo in dubbio la divinità di G e
sù). Alcuni studiosi ritengono che il fronte degli avversari non
fosse unico ma comprendesse frange diverse e magari opposte,
come quelle sopra rappresentate. Una minoranza ritiene, inve
ce, che l’oggetto primario della controversia non fosse la cristo
logia ma l’etica (gli avversari sarebbero entusiasti libertini o
antinomisti) o l’antropologia (gli avversari avrebbero una visio
ne dell’uomo positiva che non lasciava spazio all’esigenza di un
mediatore della rivelazione; si sentono già «unti» e non avreb
bero avuto bisogno dell’«Unto»).8 Gli studi più recenti sono
7 H engel, 154-171; Brown, Le lettere di Giovanni, 83-177.
8 Questa, per esempio, è la tesi sostenuta vigorosamente da Beutler, 23-25. Ma
giustamente accomunati dall’esigenza di evitare il ricorso a ter
mini con i quali sono state classificate dottrine sviluppatesi
compiutamente dopo e poi giudicate eterodosse (gnosticismo,
docetismo ecc.), considerandolo anacronistico e rischioso per
l’interpretazione della polemica giovannea.
Personalmente ritengo più feconde due piste di ricerca.
La prima è tracciata da quanti riconoscono non nella con
futazione di tesi cristologiche (peraltro mai definite in modo
chiaro e sistematico) ma nell’annuncio giovanneo della «vita»
la spina dorsale della teologia delle Lettere9 e, dunque, nella
soteriologia (con i suoi risvolti antropologici ed etici), il pro
blema controverso. Lo si vede dalla costanza e coerenza con
cui il criterio ultimo di discernimento e di giudizio per l’auto
re resta la qualità vivificante delle relazioni fraterne (cfr. lG v
2,9-11; 3,10-11.14-16; 4,7-8.11-12.16.19-20; 2G v5; 3Gv6.11).
La seconda è tracciata da quanti ritengono che il problema
affrontato dall’autore della Prima (e della Seconda) lettera non
sia la difesa di una cristologia “ortodossa” contro una cristo
logia “eretica” ma la difesa della confessione messianica tout
court.101 maestri d’errore, in effetti, sono definiti «anticristi»,
«ingannatori» e «falsi profeti» non in quanto sostenitori di una
specifica eresia cristologica che si possa con certezza ricostrui
re dai testi, ma proprio in quanto negatori della messianicità
di Gesù e, più precisamente, dell’identità filiale e messianica
dell’uomo Gesù crocifisso (cfr. il riferimento all’«acqua» e al
«sangue» in lG v 5,5-6). Tanto nella Prima che nella Seconda
lettera chi scrive non contesta una confessione di fede messia-
anche VON W AHLDE, The Gospely3,2-5 ritiene che, ricevuto in dono lo Spirito nella
sua pienezza escatologica, secondo la promessa di Gesù stesso, i secessionisti credes
sero di poter fare a meno di Gesù come Cristo e Figlio unico di Dio. Anche loro si
ritenevano unti e figli senza bisogno della sua mediazione e non attribuivano alla sua
morte alcun significato soteriologico.
9L ieu, 26-31.37-47.
10G r i f f i t h , 149-191.
nica (una cristologia) diversa dalla propria, ma il rifiuto stesso
di riconoscere l’identità di Messia Figlio di Dio a Gesù in quan
to uomo mortale e, di conseguenza, un valore alla sua morte
come espiazione per il peccato (2,2; 4,10). Dalla confessione o
meno della specifica messianicità di Gesù, infatti, sarebbe di
pesa anche una certa visione di Dio e della redenzione (4,9-
10.14). «Credere nel nome del Figlio di Dio» (5,13), ovvero
professare l’identità messianica di Gesù, così come nella com
prensione giovannea era stata risignificata e compresa in ter
mini teologici, era il passo decisivo e rivoluzionario.11 Dalla
confessione o meno della messianicità di Gesù dipendevano
l’esperienza e la concezione della redenzione (soteriologia) co
me esperienza di comunione vitale con Dio e con i fratelli inau
gurata e resa possibile dal sangue di Gesù (1,7) e dal dono
dello Spirito (pneumatologia) e, correlativamente, la conoscen
za vivificante del «vero Dio» (teologia) capace di trasformare
l’esistenza (antropologia ed etica). D alla proclam azione
dell’identità messianica di Gesù dipendeva la rivelazione del
volto di Dio come rivelazione storica, concreta, sociale e veri
ficabile nella trasformazione del tessuto relazionale tra gli uo
mini.
D a questo punto di vista, mi sembra si possa dire che il
conflitto riconoscibile nelle prime due Lettere faccia da sfondo
a quello personale insorto tra il Presbitero e Diotrefe. Il tipo
di relazione geografica e spirituale tra la chiesa destinataria di
2 Giovanni («la signora eletta»), quella da cui scrive il Presbi
tero (2Gv 13), quella di cui il Presbitero parla in 3Gv 9 e quel
le cui appartengono Gaio, Demetrio e Diotrefe, è storicamen
te molto difficile da ricostruire nei dettagli. Se si ipotizzasse
che «la chiesa» cui il Presbitero si riferisce in 3Gv 9a, accen
nando a una lettera inviatale, fosse la stessa destinataria di
11 Benché non semplice sinonimo di Messia, il titolo di «Figlio di D io» è nella
cristologia di 1 Giovanni intercambiabile con quello e va inteso messianicamente.
2 Giovanni e che la 2 Giovanni fosse la lettera in questione, si
potrebbe anche pensare che Diotrefe ne fosse un membro in
fluente e che il suo comportamento fosse una reazione aspra,
segno di incomprensione se non espressamente di contrappo
sizione, all’invito alquanto netto del Presbitero in 2Gv 9-11.
Questi si sarebbe affidato, allora, a Gaio, destinatario di 3 Gio
vanni, come personaggio di altrettanto rilievo di un’altra chie
sa domestica della stessa città capace però, a differenza di Dio
trefe, di comprenderne l’invito, di riconoscerne l’irrinunciabi-
le autorità testimoniale e di rappresentarla comunitariamente
con scelte concrete opposte a quelle di Diotrefe. Unico, co
munque, si conferma il criterio di discernimento usato dal Pre
sbitero: la disponibilità all’accoglienza fraterna che solo il con
diviso cammino «nella verità» e cioè nella rivelazione eristica
- significato anche dal riconoscimento della sua autorità nega
ta invece da Diotrefe - avrebbe consentito.
Mi sembra possibile, infine, che il Sitz im Leben comune
delle tre Lettere sia una situazione di discorso ancora fonda
mentalmente intra-giudaica e che gli atteggiamenti stigmatiz
zati da chi scrive, sia quelli dottrinali sia quelli pratici, vadano
compresi sullo sfondo di un contesto religioso in cui confessa
re pubblicamente (homologeìn) Gesù come il Messia venuto
come uomo mortale (Gv 9,22; 12,42; lG v 2,23; 4,2-3.15; 2Gv
7) poteva avere rilevanti implicazioni al livello culturale, reli
gioso e sociale anche nei delicati equilibri di vita delle comu
nità giudaiche fianco a fianco con il mondo gentile. Le tre
Lettere di Giovanni, non meno che il Vangelo e l’Apocalisse,
restano testimonianza di una tappa cruciale nella genesi e tra
sformazione dell’identità cristiana: quella in cui appartenenza
piena al giudaismo, apertura all’integrazione escatologica dei
non giudei e progressiva, indispensabile, erezione di confini
rispetto a quanti in un modo o nell’altro pensassero di poter
aggirare o abbandonare la professione di fede messianica cu
stodita nella tradizione giovannea con una specifica e correla
ta soteriologia, configuravano il profilo specifico delle chiese
giovannee in Asia Minore davanti a giudei, a pagani e ad altri
ambienti protocristiani.
1.3. Scopo e strategia retorica delle Lettere
Avendo destinatari e finalità diverse, soprattutto le prime
due rispetto alla terza, le tre Lettere non condividono la me
desima strategia. Tuttavia, come si vedrà, alcuni tratti sono
comuni e rivelano la sensibilità e la prospettiva specifica del
loro autore.
In 1 Giovanni, mancante di prescritto e di saluti finali, i
destinatari non sono identificati esplicitamente, ma sono di
certo membri della cerchia ecclesiale giovannea che si ricono
scono nell’annuncio e nell’insegnamento di chi scrive. Dal testo
non si può dedurre altro che la possibilità che alcuni di loro
siano più agiati di altri (lG v 3,17) e, soprattutto, che tutti ab
biano fatto un’esperienza traumatica di scissione al loro inter
no (2,18-19). L’obiettivo dell’autore è dunque duplice: radica
re i suoi destinatari nella verità dell’annuncio ricevuto sin «da
principio» (2,7.24; 3,11) e sostenerli nella comprensione cor
retta dell’esperienza di divisione vissuta. Al duplice obiettivo
corrisponde una duplice strategia: ribadire con convinzione la
novità della rivelazione cristologica, i cui effetti salvifici i cre
denti sperimentano concretamente nella loro vita, consolidan
done le certezze («Noi sappiamo che...»: 3,2.14; 5,15.18-20;
«Voi sapete»: 2,20-21; 3,5.15), alimentandone la fiducia, radi
cando in loro il senso della comune appartenenza ed eredità,12
offrendo loro la giusta cornice per interpretare l’esperienza
12 Cfr. Pappellativo «figlioletti/fanciullini», tekm a/paidta, tipico ed esclusivo del
Quarto Vangelo e di 1 Giovanni, che evoca, attraverso la metafora familiare, il forte
e formativo legame maestro-discepolo: Gv 13,33; 21,3; lG v 2,1.12.14.18.28; 3,7.18;
4,4; 3,21.
dello scisma e i criteri per discernere lo spirito di verità da
quello d ’inganno non solo all’esterno ma soprattutto all’inter
no della comunità che si ritiene fedele (2,26); segnare i confini,
differenziandosi e differenziando i destinatari da coloro che
hanno abbandonato la comunione fraterna, distinguendo il
«noi» dal «m ondo» (4,4-6) e invitando i credenti a vigilare
costantemente sulle «riprove nella vita» della loro reale fedeltà
a quanto ricevuto.13
La cornice complessiva, che permette interpretazione e di-
scernimento e che si esprime nel ricorso al linguaggio dualisti
co, è quella apocalittica della rivelazione di Dio nell’«ultima
ora» del mondo (2,18): in quest’ora, l’opposizione frontale tra
Dio e mondo, figli di Dio e figli del diavolo, spirito di verità e
spirito d’inganno, Cristo e anticristo, verità e menzogna, viene
allo scoperto in tutta la sua profondità implicando combatti
mento e vigilanza (5,21). L’annuncio cristologico e soteriologi-
co originario e la permanenza in esso, consentita dal crisma
dello Spirito (2,20.24.27), decidono l’appartenenza e determi
nano la differenza: tanto il processo di identificazione dei cre
denti (il «noi» inclusivo del «voi») quanto l’autorità di colui
che a loro si rivolge ne sono misurati. La strategia impiegata
dall’autore, di conseguenza, non prevede il ricorso ad argo
menti o categorie estrinseche: la Scrittura non viene mai citata
formalmente pur costituendo il retroterra fondamentale per la
lettura teologica dell’esperienza dei credenti; l’autorità di chi
scrive non viene rivendicata mediante titoli gerarchici funzio
nali o d’onore ma solo per la sua identità e azione testimoniale.
Destinataria di 2 Giovanni sembra essere una chiesa dome
stica riconosciuta nella sua dignità di chiesa «sorella» (13). Lo
scopo primario del testo è evitare che predicatori itineranti
portatori di un «insegnamento» diverso da quello «del Cristo»,
accolti incautamente dalla comunità, possano insidiarne la ret-
” L ieu, 70-73.
ta fede e seminare in essa atteggiamenti e convinzioni in nulla
conformi alla professione di fede e al comandamento dell’amo
re. L’autore, stavolta, sembra meno preoccupato di consolida
re nell’annuncio originario e nei suoi risvolti pratici i suoi de
stinatari (5-6) che di dare indicazioni concrete per evitare che
la predicazione antimessianica attecchisca e comprometta la
piena riuscita della missione da lui condivisa con i suoi desti
natari (7-11). Il vincolo di comunione che lo lega a loro sembra
più pacifico che nel caso della Prima lettera e il tenore del testo
più sereno. Significativamente, la metafora familiare utilizzata
per esprimere il vincolo non è più quella asimmetrica del rap
porto padre-figli, ma quella paritaria del rapporto tra chiese
sorelle ciascuna con i suoi «figli» o componenti (4.13). Il titolo
d’onore col quale si presenta (l’Anziano) non sembra legato a
esigenze polemiche o apologetiche: speculare a quello attribu
ito alla chiesa destinataria («Signora»), esprime e presuppone
il reciproco riconoscimento di identità in una storia condivisa.
Di conseguenza, l’autore insiste sulla relazione d’amore che lo
lega stabilmente, nella «verità che rimane» (allusione tanto al
la rivelazione cristologica quanto alla sua permanente efficacia
garantita dallo Spirito), alla comunità eletta e ai suoi figli fede
li. Su questo sfondo sicuro, si limita a porgere un invito (5) e
a mettere in guardia (8.10-11).
In 3 Giovanni, invece, i toni diventano nuovamente critici
e a tratti nervosi. Il destinatario Gaio, chiamato «carissimo» e
considerato implicitamente «figlio» dal Presbitero (3-4), si tro
va - o, in ogni caso, è posto dalla stessa Lettera - al centro
dello scontro personale in atto tra la figura del Presbitero - la
cui autorità non sembra in discussione tra «i fratelli» (3.5),
nella propria comunità (6) o nella chiesa cui egli può ancora
permettersi di scrivere autorevolmente (9-10) - e un leader
pretenzioso della chiesa a cui ha scritto (Diotrefe). Più che di
«chiarire concrete situazioni di politica ecclesiastica» (come
portare avanti G aio quale legittimo leader e delegittimare
Diotrefe),14 l’obiettivo primario del Presbitero è quello di so
stenere il suo destinatario nelle scelte già fatte nei confronti dei
missionari itineranti (tra cui, forse, lo stesso Demetrio proba
bile latore della Lettera: 5-8.11-12). La strategia, dunque, è
duplice anche qui: in positivo, egli difende l’importanza e la
dignità della missione itinerante (7) e la bontà dell’atteggia
mento di ospitalità che Gaio ha già manifestato ed è invitato a
portare avanti fino in fondo come gesto di vera «cooperazione
alla verità» (8); in negativo, denuncia l’arroganza e la malvagi
tà di parole e opere che rivelano la non esperienza di Dio (1 lb)
e che hanno come conseguenza la lacerazione violenta e arbi
traria del tessuto ecclesiale (9-10). Di nuovo, l’autore sente il
bisogno di fare appello alla propria autorità, ma si tratta sem
pre di un’autorità testimoniale (12), fondata sulla verità e or
dinata alla verità (1.3-4.12) che altro non è che la verità
dell’amore (si veda in 3.6 il parallelo tra «testimoniare della tua
verità» e «testimoniare della tua carità»). Anche nei confronti
di Diotrefe è evidente che il Presbitero non può né intende
fare appello ad argomenti di tipo istituzionale-giuridico: se la
sua autorità è contestata, sarà solo la prova delle opere malva
gie a testimoniare a suo favore e contro Diotrefe al cospetto
della comunità (10).
Almeno due tratti comuni mi sembra si possano individua
re nella strategia impiegata da chi scrive nelle tre Lettere. An
zitutto, egli fonda la propria autorità su una identità testimo
niale e nella testimonianza alla verità (cioè alla rivelazione
cristologica e all’esperienza di salvezza e di comunione con Dio
che essa implica) egli riconosce già coinvolti i suoi destinatari,
L’argomento d’autorità funziona solo perché intrinseco all’espe
rienza propria e dei suoi destinatari: «L’autorità si trova all’in
terno della vita e dell’esperienza della comunità credente; pro
seguire nel cammino è un compito comune e l’esame della
14 Così KOgler, 684.
loro attuale vita cristiana viene eseguito dall’interno e non
dall’esterno».15 Il legame permanente e fedele con il principio
o con la parola originaria dell’insegnamento del Cristo garan
tisce l’autorità di chi scrive «indipendentemente da ogni isti
tuzione ecclesiastico-gerarchica»,16potendosi tuttavia tradurre
anche in misure disciplinari concrete indicate a comunità do
mestiche diverse dalla propria.
Infine, più che quello di lottare per l’interpretazione orto
dossa del traditum in materia cristologica, l’obiettivo sostan
ziale di chi scrive sembra quello di custodire integra la fede
vivificante e vitale dei destinatari. A questo scopo, sullo sfondo
di una visione apocalittica della storia che i suoi destinatari
evidentemente condividevano e dovevano essere in grado di
comprendere, egli sceglie di fare ricorso massiccio al linguaggio
dualistico che si ritrova in tutte e tre le Lettere e particolarmen
te nella Prima che utilizza lo stesso «arsenale polemico» dispie
gato nel Quarto Vangelo nella contrapposizione tra Gesù e «i
Giudei».17 Ciò risponde a una precisa esigenza: non quella di
separare in modo definitivo, in termini tendenzialmente setta
ri, i giusti dagli empi ma quella di disegnare i confini identita-
ri necessari anche per l’esistenza credente, per aiutare i creden
ti a discernere e a custodire la novità di vita ricevuta in dono
mediante la fede contenendo l’insicurezza prodotta in loro
dall’esperienza dello scisma interno. Le contrapposizioni dra
stiche servono proprio a tracciare un confine necessario per la
vita in un momento storico in cui lo spartiacque religioso, teo
logico ed esistenziale determinato dalla professione di fede
cristologica non doveva essere ancora così chiaro, né sul piano
teologico né sul piano esistenziale e pratico. Tutt’altro che es
sere una deroga al comandamento dell’amore, esse servono a
15 L ieu, 43.
16H engel, 93.
17 Brown, Le lettere, 146.
custodirne gelosamente con la confessione di fede il solo fon
damento sicuro ed efficace, quello costituito dalla rivelazione
salvifica dell’essere e del dono di Dio in Gesù Cristo.
1.4. Struttura letteraria della Prima lettera di Giovanni
Data l’uniformità dello stile e dei contenuti dello scritto, la
fluidità dei passaggi da un argomento all’altro mediante versi
di transizione, l’uso di parole e temi-gancio tra una sezione e
l’altra, tra gli esegeti non c’è accordo riguardo alla sua struttu
razione.18 Indicazioni significative possono essere offerte dalle
formule metadiscorsive («scriviamo»/«vi scrivo»/«vi ho scrit
to»: lG v 1,4; 2,7.8.12.14.21.26; 5,13; «questo è il messaggio
che»: 1,5; 3,11) e dai ripetuti appelli ai destinatari («carissimi»:
2,7; 3,2; 4,1.7.11; «figlioletti»: 2,1.12.14.18.28; 3,7.18; 4,4; 5,21)
che attraversano la Lettera e ne scandiscono alcuni passaggi
salienti. Anche alla luce della predilezione che l’autore mostra
per scansioni ternarie,19 la proposta di suddivisione della Let
tera che meglio mi sembra corrispondere al suo sviluppo argo
mentativo coerente ma flessibile è quella che l’articola in tre
parti tra un prologo e un epilogo. La stessa scansione in tre
tappe varia da un commentatore a un altro, soprattutto in ra
gione della diversa collocazione della prima pericope sull’«an-
ticristo» (2,18-27/28) e della conseguente delimitazione della
sezione centrale della Lettera che molti fanno iniziare dopo
2,27. Data anche la corrispondenza lessicale e tematica tra le
due pericopi che mettono a fuoco l’avvento dell’«anticristo»
(2,18-27 / 4,1-6) e lo sfondo polemico della Lettera che rende
strategicamente cruciale per l’efficacia del suo messaggio la
18Si può consultare la storia della ricerca in GlURlSATO, 21-259.
19Cfr. il triplice «se diciamo che» in 1,6-10; il triplice «vi scrivo» e «vi ho scritto»
indirizzato a tre categorie in 2,12-14; le tre attitudini stigmatizzate in 2,16; i tre testi
moni in 5,6-8.
definizione dei criteri per il discernimento degli spiriti, mi sem
bra più coerente con gli indizi letterari e tematici offerti dal
testo la suddivisione seguente:20
Prologo 1,1-4: l’annuncio della Vita manifestata nella storia
Corpo della Lettera 1,5-5,12: la manifestazione storica del Cristo
e le sue implicazioni
I) 1,5-2,17: la verità di Dio-Luce e dell’uomo salvato in G e
sù Cristo
II) 2,18-4,6: lo spirito della verità e lo spirito della menzogna:
criteri di discernimento
III) 4,7-5,12: la verità di Dio-Amore rivelata in Gesù Cristo e
custodita nella fede
Epilogo 5,13-21: chi crede nel nome del Figlio di Dio ha la Vita
eterna
Questa tripartizione del corpo della Lettera, tra prologo ed
epilogo, ha il vantaggio di valorizzare il tema della «seduzione»
e l’opposizione tra Dio e il maligno, menzogna e verità, vera e
falsa relazione con Dio, fede e idolatria, che emerge dietro l’in
sistente appello a guardarsi dai «falsi profeti» e dagli «anticristi»
e si traduce, infine, nel monito conclusivo dell’intera Lettera:
«Figlioletti, guardatevi dagli idoli» (5,21). La sfida del discerni
mento non è di poco conto perché, secondo l’autore, dalla co
noscenza del «vero Dio» dipende la morte o la vita degli uomini.
2. Esegesi di lG v 3,7-18: l’amore fraterno
come criterio ultimo di discernimento
La sezione centrale della Lettera, secondo la struttura sopra
indicata, è catalizzata dalla questione degli «anticristi» e «falsi
20 E r a q u esta an ch e la p r o p o sta fatta d a ll’e seg e ta an g lican o B .E WESTCOTT nel
1892 (cfr. GlUWSATO, 196).
profeti», quelli che «negano»/«non confessano» Gesù quale
Messia e Figlio di Dio nell’interezza della sua storia di uomo.
Il rinnegamento cristologico, però, non è che il segno della
presenza e dell’azione d’inganno (lG v 2,26; 4,6) dello spirito
di menzogna avverso a Dio, alla rivelazione della sua identità
di Padre e alla sua azione salvifica. Nella nostra pericope, la
cartina al tornasole della stessa azione d ’inganno è riconosciu
ta nel mancato amore fraterno.
2.1. Delimitazione e contesto
Usualmente, i maggiori commentari non leggono come pe
ricope i w. 7-18 del c. 3, preferendo collegare i w. 7-10 a ciò
che precede (2,28-3,10 o 3,4-10) e, talvolta, i w. 11-18 ai w.
19-24 o il v. 18 ai w. 19-22. Le ragioni addotte a sostegno di
tali collegamenti sono tante.21 La separazione tra 3,7-10 e 11-18
permetterebbe, inoltre, di riconoscere in 3,11 un punto di svol
ta tematico nella Lettera: dall’annuncio di Dio come Luce, che
governerebbe la prima parte del corpo della Lettera (1,5-3,10),
si passerebbe all’annuncio dell’amore reciproco, fondato sulla
rivelazione di Dio come amore, che dominerebbe la seconda
(3,11-5,12).22
Ci sono, però, ragioni a favore di una diversa delimitazione
del testo: 3,10 è un vèrso di transizione che riconosce nell’amo
re fraterno la vera giustizia e crea un nesso significativo tra
3,7-10 e 11-18; 3,11-18 ha una relativa autonomia rispetto a
3,19-24 che continua il discorso fatto nei versi precedenti spo
stando l’attenzione dal tema dell’opposizione tra figli di Dio e
figli del diavolo a quello del rapporto che il permanere nella
verità stabilisce tra i credenti e Dio stesso (fiducia, sicurezza,
21 Cfr. Brown, Le lettere, 574-578.
22 Ivi, 191-196.
esaudimento, inabitazione divina); i w. 19-24, inoltre, mostra
no al loro interno un’inclusione letteraria e tematica nel ricor
rere dell’espressione «e da questo riconosceremo ch e...»
(v. 19) ed «e da questo riconosciamo che» (v. 24). Il tema di
questi versi è ulteriore rispetto a quello dei w. 7-18: non si
tratta di distinguere e contrapporre opere e soggetti, ma di
mostrare ai credenti il motivo, il segno chiaro e il frutto della
fiducia che essi possono avere in Dio quando, come argomen
tato in 7-18, amano nella verità. Non a caso nei w. 19-24, a
differenza di quanto accade nei w. 7-18, prevale come sogget
to la prima persona plurale («noi») invece che la terza singola
re («colui che», «chiunque»). Non pochi indizi letterari e te
matici, inoltre, spingono a considerare come unità i w. 7-18:
- il ricorrere del vocativo «figlioletti», usato all’inizio per intro
durre (come in 2,1.18.28) e alla fine per concludere (come in
5,21), determina un’inclusione tra il primo e l’ultimo verso.23
La ripetuta apostrofe dà una marcata impronta sapienziale alla
pericope: preoccupazione del maestro-padre è formare i suoi
discepoli-figli al discernimento in un contesto ritenuto perico
loso per la loro vita;
- al vocativo segue, in entrambi i casi, un’ammonizione rivolta ai
destinatari: una negazione («che nessuno» / «che non») è se
guita da un imperativo o congiuntivo («che nessuno vi inganni»
/ «che non amiamo a parole...»). La pericope si presenta per
intero come una messa in guardia;
- messa in guardia da che/chi? Il campo semantico che la apre e
la chiude è quello dell’inganno (piando: v.7) contrapposto alla
verità (aletheia: v. 18), una verità che è sfera di esistenza e di
23 La lezione del vocativo in 3,7 è incerta: i codici Alessandrino e di Efrem hanno
paidta mentre i codici Sinaitico e Vaticano (e il testo bizantino), hanno teknta come in
3,18. Nella 28a edizione del Nesde-Aland la lezione considerata originaria per 3,7 è
paidta >mentre nell’edizione precedente era teknta. L’autore di 1 Giovanni usa alter
nare i due vocativi (cfr. 2,12.14.18.28) che sono comunque interscambiabili nel lin
guaggio giovanneo.
manifestazioni, i credenti condividono già una nuova realtà di
vita, sono già «figli di Dio». Devono, però, «rimanere» in que
sta condizione, in un processo di purificazione e di assimilazio
ne continua al Cristo, anche al cospetto di un «m ondo» che
non li riconosce. Se «rimangono» in Cristo, puro e giusto, come
lui non possono peccare.
C) 3,7-18: ritorna ai w. 7-8 sia la contrapposizione tra «chi
fa la giustizia» e «chi fa il peccato» sia il verbo «fu manife
stato» {eph anero thè), sempre riferito alla manifestazione
storica di Gesù. Di nuovo, però, con Pimperativo iniziale
(«Nessuno vi inganni») si richiama il tema della prima peri-
cope della sezione e si insiste sull’esigenza di distinguere con
nettezza i figli di Dio, i veri credenti, dagli artefici di ingan
no, i figli del diavolo, e sui criteri per farlo. La manifestazio
ne storica di Gesù e la sua vita giusta e amante, priva di
peccato, costituisce il punto di riferimento e offre il criterio
ultimo di discernimento della giustizia: Pamore fraterno. La
contrapposizione tra inganno e verità prepara la quarta uni
tà della sezione.
B 1) 3,19-24: come in 2,28-3,6 riappare il tema della parrésia o
fiducia-sicurezza che i veri credenti, coloro che vivono nella
giustizia dell’amore, hanno davanti a Dio sperimentando già nel
presente «lo status escatologico della libertà dal peccato» (cfr.
2,28).25 In effetti, l’essere dalla «verità» (parola e tema-gancio
con la pericope precedente) è garantito loro dall’amarsi reci
proco, comandamento unico custodito e praticato come tradu
zione concreta della fede nel Figlio di Dio (3,23). Custodendo
la fede amante, i credenti «rimangono» nella loro condizione
filiale (2,28; 3,6) e godono in pienezza dello Spirito di Dio.
A 1) 4,1-6: coerentemente con lo sviluppo argomentativo della se
zione, la messa in guardia dall’azione d’inganno antimessianico è
qui riproposta dal punto di vista del discernimento degli spiriti e
attraverso una contrapposizione tra lo Spirito di Dio e quello
dell’anticristo (4,2-3). Si esplicita, così, il senso del rimando all’«un-
zione veritiera» di Dio fatto in 2,20.27. Rassicurati, alla luce di
quanto detto, sul loro «essere da Dio» (4,4), i credenti sono così
incoraggiati a portare avanti la loro lotta vittoriosa nel mondo.
In questa articolazione della parte centrale della Lettera il
ruolo della nostra pericope risulta ben definito. Davanti al do
no della Vita che la venuta del Figlio «nella carne» realizza e
promette (2,22-25), chi nega l’identità messianica di Gesù e il
significato redentivo della sua morte manca il rapporto tra Pa
dre e Figlio e, dunque, la vita. Questi «anticristi» e «inganna
tori» sono coloro il cui ritratto viene esposto, sulla base di una
visione apocalittica della storia e del suo compimento escato
logico, in 2,18-27(A) e 4,1-6 (A1). Nelle unità parallele 2,28-3,6
(B) e 3,19-24 (B1) l’attenzione si concentra invece sul ritratto
teologico ed esistenziale dei veri credenti: i «figli di D io» si
riconoscono come coloro che credono nel nome del Figlio di
Dio Gesù Cristo e mettono in lui la loro speranza (2,28; 3,2-3
/ / 3,19.21.23), che si amano reciprocamente, facendo ciò che
a Dio è gradito (2,29 / / 3,23-24), che rimangono in Dio e in
cui Dio rimane (2,28 e 3,6 / / 3,24). Al centro dell’argomenta
zione, in 3,7-18 (C), gli ingannatori e i credenti, «i figli di Dio»
e «i figli del diavolo» vengono messi l’uno di fronte all’altro e
misurati sul terreno dell’esistenza. Il criterio ultimo del discer
nimento è il test della condotta pratica o dell’etica. Il riferimen
to alla manifestazione storica di Cristo (w. 8b; 16b) e al suo
significato teologico, soteriologico ed esistenziale ha valore
performativo e resta primario per la definizione dei criteri di
discernimento e per la fiducia escatologica dei credenti.
2.2. Struttura e modello argomentativo
Tra un appello/monito introduttivo (v. 7a) e un appello/moni-
to conclusivo (v. 18), la pericope si sviluppa in due parti. La
prima (w. 7b-10) contrappone chi è giusto e fa la giustizia a
chi fa il peccato e non la giustizia; chi è da Dio a chi è dal dia
volo. La seconda (w. 11-17) approfondisce la contrapposizio
ne in relazione alle «opere» ma, riprendendo l’equiparazione
tra il «non fare giustizia» e il «non amare il proprio fratello»
del v. lOb, la sviluppa come contrasto tra l’amare che produce
vita e l’odiare che produce morte, tra l’«annuncio» originario
dell’amore, rivelato in pienezza dal dono di sé di Gesù, e il
peccato originario dell’odio fraterno incarnato da Caino. In
entrambe le parti della pericope il riferimento cristologico (w.
8b.l6) è l’elemento determinante e innovatore dell’argomen
tazione che, sul piano formale, riflette uno stereotipo diffuso
nella polemica apocalittica intra-giudaica e uno schema inter
pretativo dualistico della storia giunta al suo momento crucia
le (opposizione tra due principi contrastanti, Dio e il diavolo;
riconduzione ad essi, come alla loro sorgente ultima, di azioni
antitetiche, come fare la giustizia / fare il peccato, e dei sogget
ti che le pongono la cui origine e appartenenza viene svelata
proprio dalle opere).26 Nell’impiego che l’autore di 1 Giovan
ni ne fa, l’agire e l’essere di Gesù Cristo Figlio di Dio è diven
tato ormai discriminante per la comprensione di ciò che signi
fica «essere da Dio» o essere «figli di Dio».27 Dalla proclama
zione di G esù come M essia lo stesso schema apocalittico
condiviso con diversi ambienti e filoni del giudaismo del I se
colo viene dunque profondamente trasformato dall’interno e
usato in direzione opposta a quella seguita in altri contesti ar
gomentativi: non per alimentare il conflitto e l’odio ma per
fare dell’amore, misurato con la rivelazione cristologica, il cri
terio ultimo del discernimento.
26 Cfr. VON W AHLDE, « “ Y o u are”»; The Gospel, voi. 3,110.117.
27VON WAHLDE, The Gospel, voi. 3, 110, nota 7.
2 J . Traduzione e commento
Tiglioletti, che nessuno vi inganni!
Chi fa la giustizia è giusto così come egli è giusto. 8Chi fa il pec
cato è dal diavolo perché sin dal principio il diavolo pecca.
Per questo si è manifestato il Figlio di Dio: per dissolvere le ope
re del diavolo.
9Chiunque è stato generato da Dio non fa peccato, perché un seme
di lui in quegli rimane e non può peccare, perché da Dio è stato
generato.
10Da questo appaiono manifesti i figli di Dio e i figli del diavolo:
chiunque non fa la giustizia non è da Dio, e non (lo è) chi non ama
il proprio fratello.
“Perché questo è l’annuncio che avete udito sin dal principio: che
ci amiamo reciprocamente.
12Non così come (fece) Caino: era dal maligno e ammazzò suo
fratello! E perché lo ammazzò? Perché le sue opere erano malva
gie; quelle di suo fratello, invece, giuste.
13E non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia.
14Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amia
mo i fratelli. Chi non ama, riamane nella morte. 15Chiunque odia
il suo fratello è omicida e sapete che nessun omicida ha la vita
eterna che rimane in lui.
16In questo abbiamo riconosciuto l’amore: nel fatto che egli ha
dato la sua vita per noi; e anche noi dobbiamo dare la vita per i
fratelli. 17Se uno, poi, possedesse i mezzi per vivere in questo mon
do, vedesse che il proprio fratello ha bisogno e gli chiudesse le sue
viscere, come potrebbe mai l’amore di Dio rimanere in lui?
18Figlioletti, non amiamo a parole né con la lingua, ma in opere e
verità!»
v. 7a. Il monito introduttivo della pericope, che richiama
quello conclusivo del v. 18, mostra la serietà della preoccupa
zione di chi parla: i «figlioletti», i credenti, possono ancora
essere sviati nella loro fede. Hanno ancora bisogno che le tesi
che hanno lacerato il tessuto comunitario vengano smaschera
te come false e menzognere in tutte le loro dimensioni. L’uso
del verbo piando («sedurre, sviare, ingannare, raggirare») ha
un significato inequivocabile. Nella tradizione biblica la radice
identifica, infatti, l’azione degli empi stolti (Pr 1,10; 12,26; 2Tm
3,11), dei falsi profeti (Dt 13,6; Ez 14,9.11; Mt 24,11.24; Gv
7,12.47; Ap 2,20; 19,20), dei falsi pretendenti messianici (Mt
24,4-5.24; 27,63-64; Me 13,5-6; Le 21,8), del diavolo stesso
seduttore per eccellenza (Ap 12,9; 20,3.8.10) e dell’«iniquo»
avversario escatologico di Dio (2Ts 2,3-12). Implica l’idolatria
(Dt 4,19; 11,28; 30,17; Sap 12,24; Ap 13,14) e nelle tre Lettere
identifica indirettamente o direttamente l’azione degli interlo
cutori polemici dell’autore (lG v 1,8; 2,26; 4,6; 2Gv 7). Nel
discorso escatologico matteano, in particolare, l’azione d ’in
ganno dei falsi profeti è connessa tanto al dilagare dell’«Ìniqui-
tà» (anomia) - intesa come l’azione ribelle satanica, antidivina
e menzognera, che domina nel tempo della fine e che gli iniqui
incarnano (lQ S a Regola della comunità 3,18-21; 4,17-20; Salmi
di Salomone 17,11-32; Oracoli sibillini 2,252-262) - quanto al
raffreddarsi dell’amore e all’odio nei confronti dei credenti
fino all’omicidio (Mt 24,4-5.9-12). Iniquità, odio e mancanza
di amore costituiscono la cornice dentro la quale l’azione dei
seduttori viene interpretata anche in lG v 3,4.10.15, quale se
gno dell’«ultima ora» (2,18). Il confronto con 2,26 («Vi ho
scritto queste cose riguardo a coloro che vi ingannano») dimo
stra che qui abbiamo a che fare con uno degli scopi primari
della Lettera: mettere in guardia i destinatari dalla negazione
ribelle dell’opera della salvezza compiuta da Dio nell’unico
vero Messia, l’uomo Gesù Figlio di Dio. Chi cede alla seduzio
ne, invalida per sé l’opera del Figlio di Dio (cfr. anche lG v
1,8-10; 5,9-12).
w. 7b-10. Un’antitesi fondamentale avvolge in inclusione
questi versi: quella tra «chi fa la giustizia» (v. 7) e «chiunque
non fa la giustizia» (v. 10). Chi fa la giustizia è qualificato come
«giusto» (v. 7) e riconosciuto come «figlio di Dio» (v. 10). Chi
non la fa è identificato anche come «chi fa il peccato» (v. 8) e
«chi non ama il proprio fratello» (v. 10); gli viene negata l’ori
gine da Dio («non è da Dio»: v. 10) e attribuita un’origine e
appartenenza diabolica («è dal diavolo»: v. 8; «figli del diavo
lo»: v. 10). Il problema di questi versi è dunque quello di chia
rire una volta per tutte chi può essere riconosciuto «figlio di
Dio». L’argomentazione ha una struttura concentrica: a) una
prima antitesi (v. 7b-8a) definisce la tesi dell’autore quanto al
rapporto tra l’agire e l’essere di ciascuno («chi fa... è...»); b)
la tesi viene giustificata guardando al significato e allo scopo
della «manifestazione» del Figlio di Dio nella sua pars de
struens: «dissolvere le opere del diavolo» (v. 8b); c) viene con
seguentemente affermata l’assoluta inconciliabilità tra l’origine
da Dio e l’azione di peccato; b1) l’effetto positivo o pars co-
struens della manifestazione del Figlio è che la differenza tra i
«figli di D io» e i «figli del diavolo» diventa «manifesta» (v.
IOa); a1) riprendendo al negativo il linguaggio della prima an
titesi («chi non fa... non è ...») l’autore riafferma la sua tesi
esplicitandola ulteriormente: è impensabile parlare di giustizia
laddove essa non si esprima nell’amore fraterno (v. lObc).
vv. 7b-8a. Un parallelismo antitetico traccia una separazione
netta tra chi fa la giustizia e chi fa il peccato. Le proposizioni
antitetiche, però, non sono perfettamente simmetriche: mentre
in 7b di chi fa la giustizia si afferma una qualità («è giusto»)
che lo assimila a Dio e al suo Cristo, che della giustizia è mo
dello e fonte («così come egli è giusto»; cfr. anche 1,9; 2,1.29),
in 8a di colui che fa il peccato non si afferma una qualità (pec
catore o ingiusto) ma una relazione d’origine e appartenenza
(«è dal diavolo»). Chi compie il peccato traduce nel proprio
agire l’azione continua del diavolo di cui è proprio il «peccare
sin dal principio». Va sottolineato il presente del verbo
hamartànò («pecca»): il peccato diabolico non è un evento del
passato, ma una struttura permanente di cui l’uomo fa tragica
esperienza nella sua esistenza storica e che il linguaggio mito
logico permette di svelare, come si deduce dal riferimento al
peccato d ’origine (Gen 3,1-4,16) contenuto nell’espressione
ap’arches («sin dal principio»). In linea con l’interpretazione
sapienziale e apocalittica del testo genesiaco (Sap 2,23-24), Gv
8,44 - nel contesto della dura controversia tra Gesù e «i G iu
dei» (8,21-59) in cui appare lo stesso schema argomentativo
della nostra pericope - individua nell’omicidio il peccato ori
ginario del diàbolos e nel «cercare di uccidere» Gesù la con
cretizzazione storica della sua brama di morte tradotta da co
loro che con le loro azioni dimostrano di essere figli suoi piut
tosto che di Abramo o di Dio (8,37.40-42). Qui l’autore di 1
Giovanni non identifica altrettanto chiaramente il peccato ori
ginario con l’omicidio ma il contesto complessivo della Lette
ra (lG v 1,5-6; 2,9.11) e, soprattutto, la seconda parte della
pericope (3,11-17) dimostrano che egli si muove nello stesso
orizzonte: è il comportamento fratricida che svela l’essere dal
maligno e lo concretizza con opere maligne; chi odia il fratello
cammina nella tenebra, lontano dalla Luce che Dio è. La sua
fonte d’ispirazione è il diavolo. Al contrario, la fonte che ispi
ra e muove alla giustizia chi la opera è il Cristo, rivelazione e
attuazione della giustizia del Dio sovrano in mezzo al suo po
polo (cfr. Salmi di Salomone 17,32). L’antitesi tra chi fa la giu
stizia e chi commette il peccato, dunque, ne cela un’altra: quel
la tra il Cristo di Dio e il diàbolos delle origini (Gv 12,31;
16,33).
v. 8b. Si parla della lotta escatologica e vittoriosa del Cristo
Figlio contro l’avversario di Dio. L’antitesi precedente, infatti,
è posta in stretto collegamento con un’affermazione relativa
allo scopo della «manifestazione» storica del Figlio di Dio ve
nuto proprio «per questo», cioè «per dissolvere le opere del
diavolo». Il sintagma «le opere del diavolo» non compare al
trove nella Scrittura ma corrisponde a quello giudaico delle
«opere di Beliar» che traducono tutti gli atteggiamenti e le
azioni contrarie alla Legge del Signore {Testamento di Levi
19,1). Se in lG v 3,5 l’autore aveva già affermato che il Figlio
di Dio si era manifestato «per togliere i peccati», cioè elimina
re le conseguenze concrete dell’agire diabolico in mezzo agli
uomini, adesso afferma che egli si è manifestato per svelare le
dinamiche strutturali del suo operare tra gli uomini, per pri
varlo di consistenza ed efficacia, dissolvendone l’apparenza di
bene e l’esito di morte. La possibilità stessa di discernere e
formulare un giudizio come quello espresso in 3,7b-8a appare
una novità determinata dal dono di conoscenza e di vita acqui
stato agli uomini dalla venuta del Figlio di Dio (5,20) che, ri
velando l’essere e l’agire di Dio quale amore precedente e ri
sanante (4,7-16), toglie ogni fondamento e forza di seduzione
alla menzogna diabolica foriera di odio e ingiustizia.
v. 9. Su questo sfondo vanno comprese anche le affermazio
ni del verso sull’«impeccabilità» dei figli di Dio. Il verso ha una
struttura concentrica:
a) chiunque è stato generato da Dio
b) peccato non fa
c) perché un seme di lui in quegli rimane
bl) e non può peccare
a1) perché da Dio è stato generato.
L’affermazione capitale del testo è posta al centro («un seme
di lui in quegli rimane») ma è strettamente collegata a quella
sulla generazione da Dio ripetuta alle estremità (a e a1)- G io
cando sullo stesso campo semantico (generazione/seme), l’au
tore esprime il carattere definitivo dell’azione escatologica di
Dio che fa dei credenti nuove creature rendendoli suoi figli
(3,1-2), partecipi cioè, mediante la fede attiva nel Figlio, del
suo essere e della sua vita (4,17). Il sintagma «un seme di lui»
{spèrma autoù), con riferimento a Dio, non ha paralleli nel
Nuovo Testamento. Si è voluto vedere in questo spèrma il Cri
sto stesso, la Parola di Dio o lo Spirito di cui si dice implicita
mente che «rimane» nei veri credenti (2,27; 3,24). Attraverso
questa espressione, forte anche per il suo antropomorfismo,
sembra che l’autore voglia indicare anzitutto la profondità e
definitività dell’appartenenza dei credenti a Dio in quanto «ge
nerati» da Lui: il «suo seme» è da intendersi come la forza
generatrice della nuova creazione che assimila dinamicamente
e progressivamente a Dio e al suo Figlio chi crede.
Dalla coscienza della definitività dell’azione di Dio per chi
crede scaturisce anche l’affermazione della «impeccabilità» di
chi da Dio è stato generato: questi non solo non pecca (b), ma
proprio non può (b1). L’interpretazione di questa affermazione
è sempre stata una crux per i lettori di 1 Giovanni. Come va
intesa tale impeccabilità? Una prima difficoltà è posta dalle
affermazioni di tenore apparentemente contrario sparse nella
Lettera. Non solo l’autore giudica ingannevole e menzognera
la convinzione di chi dice di non avere alcun peccato (1,8-10),
ma ritiene che i credenti, pur essendo purificati dai loro pec
cati nel sangue di Cristo (1,7; 2,12; 4,10) e pur potendo non
peccare (2,la: «Vi scrivo perché non pecchiate...»), possano
anche peccare (2,lb: « ... ma se qualcuno dovesse peccare, ab
biamo presso il Padre come paraclito Gesù Cristo giusto»; cfr.
5,16a). In 3,4-6 - contestualmente prossimo e strutturalmente
parallelo a 3,8-9 - egli afferma d’altronde, in termini perento
ri, che «chi rimane», nel Figlio «non pecca», perché peccare
significa non avere fatto esperienza di lui. Lo stesso concetto
è ribadito in 5,16-18: chi è stato generato da Dio «non pecca»
perché è in grado di «custodire se stesso» ed è sottratto alla
presa del maligno. Come mettere insieme questi due gruppi di
affermazioni?
Una seconda difficoltà è data dal fatto che in nessun punto
della Lettera l’autore specifica cosa intenda concretamente per
«peccato/peccare». Se in 3,4 l’identificazione del «peccato»
con r«iniquità» è illuminante perché fa pensare che egli si ri
ferisca all’azione dell’avversario escatologico di Dio e, dunque,
al peccare/peccato come all’agire con cui l’uomo partecipa a e
si lascia coinvolgere nella ribellione del maligno contro la vo
lontà salvifica di Dio che è il cuore della Legge,28 in 5,16-18
l’autore introduce una distinzione tra i peccati: ogni forma di
«ingiustizia» è un peccato ma tra i peccati/ingiustizie c’è un
«peccato che conduce alla morte» e che, proprio perché ha
come esito la morte, viene additato minacciosamente ai cre
denti come non richiedente intercessione alcuna. Se si consi
dera che per l’autore di 1 Giovanni la «morte» consiste essen
zialmente nella negazione del Figlio in cui la Vita è ed è dona
ta (5,11-12) e nella negazione dell’amore che garantisce il
passaggio dalla morte alla vita (3,14), è sensato ritenere che il
«peccato» che ha come destino la morte sia la negazione del
Cristo, del significato rivelatorio ed escatologico della sua «ve
nuta nella carne» e, di conseguenza, la mancanza dell’amore
fraterno svelato e posto, grazie alla sua morte in espiazione
universale dei peccati (2,2; 4,10.14), quale precetto unico di
tutta la Legge (3,11).
La domanda, dunque, diventa: in che senso e rispetto a qua
le peccato è affermata l’impeccabilità di chi è generato da Dio?
Un indizio importante è fornito anzitutto dall’uso del verbo
«rimanere» al centro del v. 9: nella Lettera, infatti, l’immanen
za reciproca di Dio e dei credenti realizza l’intimità e definiti
vità della relazione con Dio propria della nuova alleanza, al
compiersi escatologico della quale era connesso nella tradizio
ne profetica e nell’attesa apocalittica il perdono del peccato e
la perfetta giustizia del popolo di Dio radicalmente rinnovato
nell’intimo (Ger 31,31-34; ma anche Is 1,26-27; 54,13-14;
61,3.11; 62,1-2; Ez 36,25-27; Dn 9,24; Zc 8,8; Mal 3,20; 1 Enoc
1,1.8; Testamento di Levi 18,8-9.11-13). L’autore ha, dunque,
28Cfr. Manns.
in mente l’impeccabilità connessa alla nuova alleanza e al suo
continuo compiersi quale evento escatologico di vita eterna.29
Il «non peccare», infatti, è proprio solo di chi «rimane nel Fi
glio» (3,6) ed è direttamente proporzionale all’essere perenne-
mente generati da Dio: come il «rimanere» non è mai un atto
compiuto una volta per tutte che si possa dire al passato ma
può essere detto solo al presente, così anche la generazione da
Dio viene detta al perfetto che indica un atto compiuto nel
passato ma con conseguenze permanenti (ho gegennèménos...
gegénnetai). L’impeccabilità, dunque, identifica l’essere dei cre
denti nel presente del loro vivere in quanto generati da Dio.
Anche alla luce di 5,16-18, si può quindi ritenere che l’impec
cabilità di chi è generato da Dio affermata in 3,9 sia da inten
dere come quella sanatio in radice che distingue la vita dei cre
denti purificati per sempre da ogni desiderio di morte e da ogni
attitudine che lo concretizzi. La loro impeccabilità è la stabile
permanenza nell’amore fraterno come immancabile dimensio
ne sociale della confessione di fede nel Cristo venuto nella car
ne, unico «precetto» che riassume la Legge di Dio (3,23).
v. 10. L’autore, coerentemente, esplicita ciò che nel v. 9 era
solo implicito: la differenza tra i «figli di Dio e i figli del diavo
lo» appare «manifesta» dalla pratica dell’amore fraterno, car
tina al tornasole di ogni azione di giustizia. Il verso è parallelo
al v. 8b.30 La «manifestazione» del Figlio permette l’identifica
zione dei figli a partire dall’agire secondo l’amore: le opere
diaboliche sono dissolte nel senso che quanti le compiono («i
figli del diavolo») sono smascherati come tali e non possono
essere confusi con «i figli di Dio», né il loro agire con un agire
secondo giustizia. Se l’autore sente la necessità di fare questo
29 G iurisato, 455: «l’impeccabilità è la conseguenza escatologica del dono della
filiazione divina».
30 Ricorrono: l’aggettivo phanerós al verbo phaneróó, il vocabolario della filiazione
(«Figlio, di Dio» nel v. 8, «figli di Dio» nel v. 10), il genitivo «del diavolo» («le opere
del diavolo» nel v. 8; «i figli del diavolo» nel v. 10).
percorso, evidentemente la questione della giustizia non dove
va essere materia pacifica tra i suoi destinatari, né sul piano
antropologico né su quello soteriologico: in chi e come si sa
rebbe manifestata la giustizia salvifica e fedele di Dio che, se
condo la promessa profetica, sarebbe stata riversata sugli uo
mini nell’ora della redenzione e della nuova alleanza? L’annun
cio e la diatriba all’insegna dei quali si apre il corpo della
Lettera (1,5-7; 2,9-11) evidenziano già la crucialità della do
manda: i destinatari dello scritto dovevano esser confrontati
con la posizione di chi pretendeva di potere «odiare il fratello»
e al contempo «essere nella luce», in «comunione» con Dio.
Proprio di chi confessa la fede in Gesù Cristo venuto nella
carne, al contrario, è ritenere che non si possa vantare amore
di Dio senza l’amore per il fratello (4,20-21), che la giustizia
coincida con l’amore fraterno e non possa per nessuna ragione
derogare ad esso.
w. 11-17. Il v. 10 costituisce un ponte con la seconda parte
della pericope dominata dal lessico dell’amore (agapàó: w.
11.14; agape: w. 16.17) correlato a quello della vita (eterna 7Òe:
w. 14.15; personale psyche: v. 16; materiale btos: v. 17), in an
titesi all’odio (w. 13.15) cui si correlano violenza omicida («am
mazzare, scannare»: v. 12; «omicida»: v. 15) e morte (v. 14). Se
nei w. 7-10 il «fare la giustizia» era il segno identitario incon
fondibile dei «figli di Dio», ora la relazione con il «fratello»,
termine che ricorre sette volte in questi versi (w. 12.13.14.15.
16.17), diventa il criterio in base al quale distinguere le «opere
giuste» (dtkaia), che riflettono l’essere e l’agire di Dio e del suo
Cristo (dtkaios), da quelle «malvagie» (porterà) che riflettono
l’agire del maligno (ponèrós: 5,18-19). Il v. 11, strettamente
collegato al v. 10 attraverso la congiunzione causale («perché»),
introduce la seconda parte della riflessione con l’annuncio
dell’amore reciproco cristologicamente fondato. L’esempio di
Caino viene addotto subito dopo (v. 12) come modello antite
tico a quello cristologico. Nei successivi w. 13-17 il contrasto
tra l’azione di Gesù, fondamento dell’annuncio dell’amore, e
quella di Caino, che si ripete continuamente in chi odia, viene
applicato concretamente all’esperienza di vita dei credenti e
l’alternanza continua tra odio e amore definisce il contrasto tra
«il mondo» e la comunità di «fratelli», tra chi è omicida e chi
dona la vita.
v. 11. Il verso si aggancia al v. 10 non solo attraverso la con
giunzione causale ma soprattutto attraverso la ripetizione del
verbo «amare»: l’affermazione del v. 10 viene adesso argomen
tata a partire dal fatto che l’amore reciproco è proprio l’annun
cio «che avete udito sin dal principio». L’espressione è simile
a quella con cui si apre il corpo della Lettera (1,5), ma mentre
quella ha per oggetto l’«essere» di Dio («Dio è luce e in lui non
c’è tenebra alcuna») ed è una rivelazione teologica, questa ha
per oggetto le relazioni tra gli uomini («che ci amiamo recipro
camente») ed è una rivelazione antropologica, che indica il
destino possibile degli uomini in relazione tra loro senza restri
zione di sorta.51 È molto significativo il fatto che, diversamen
te da quanto accade nel Quarto Vangelo e nelle Lettere ovun
que si parli dell’amore reciproco (Gv 13,34; 15,12.17; lG v
3,23; 4,7.11; 2G v5), qui esso sia presentato non come un «co-
mandamento» {entoli) ma come un «annuncio» {angelici), cioè
come la novità del kerigma!
Questo viene fatto risalire «sin dal principio» (ap’arches) co
sì come «sin dal principio» veniva fatto risalire nel v. 8 il pecca-31*
31 Ritengo che l’amore reciproco declinato in prima persona plurale riguardi la
comunità dei credenti in senso inclusivo, non esclusivo: chiunque entra nel raggio
dell’annuncio cristologico dell’amore diventa per ciò stesso oggetto e soggetto
dell’amare reciproco. La prima persona plurale dice semplicemente la concretezza
dell'amore: non si tratta di amare tutti in astratto, ma di amare concretamente l’altro
con cui si è in relazione. Se, poi, in 2Gv 10-11 il Presbitero intima alla chiesa di non
dare segni di comunione a chi viene sconfessando il Cristo, ciò è perché il rinnega
mento del Cristo significa per lui intrinsecamente anche la negazione dell’amore e
della vita nel loro irrinunciabile fondamento teologico. Lo sbarramento rispetto alla
comunione d’amore è posto, per concreti motivi kerigmatici e pastorali, solo davanti
a chi questo amore rinnega.
re del diàbolos. L’espressione non viene usata nello stesso senso:
nel v. 11 ha un significato storico-ecclesiale, è un rimando alla
rivelazione dell’amore contenuta nella parola e nell’intera car
riera umana di Gesù (3,16; 4,7-16), attestata dai suoi testimoni
(1,1), che costituisce il primo annuncio giovanneo (2,7.24); nel
v. 8 ha un significato archetipico, è un rimando al mito genesia-
co e alle costanti dell’agire diabolico. La diversità di utilizzo non
elimina però il parallelismo intenzionale tra le due occorrenze:
l’annuncio dell’amore, inteso come «manifestazione» cristolo
gica della possibilità d ’essere e del destino degli uomini dal
punto di vista divino, ha una profondità e radicalità pari a quel
la di «colui che è sin dal principio» (2,13-14), della Parola del
la Vita che era presso il Padre ed è stata rivelata a noi (1,1-4).
Non è meno strutturale del peccare diabolico e tocca, come
quello, le fondamenta dell’esistenza umana. Lo precede, anzi,
e ne è l’unico antidoto (3,8) per ciò che esso rivela su Dio («Dio
è amore»: 4,8.16), per la sua puntualità e sperimentabilità sto
rica (3,16; 4,9-10.19) e per ciò che significa sul piano escatolo
gico (3,14; 4,16b: «Chi rimane nell’amore, in Dio rimane e Dio
in lui»). La notizia dell’amore fraterno, possibilità d ’essere e
d ’agire dischiusa in Cristo (cfr. Gv 13-21), traduce nelle sue
implicazioni antropologiche, soteriologiche ed escatologiche, la
rivelazione di Dio come Luce fatta da Gesù (cfr. Gv 1-12).
v. 12. L’implicita contrapposizione tra l’annuncio dell’amo
re e il peccare diabolico emerge più chiaramente qui, dove il
messaggio dell’amore reciproco viene contrapposto a quello
di segno opposto proveniente dal fratricidio di Caino, prima
e paradigmatica traduzione genesiaca del «peccare» del dia
volo nell’ambito delle relazioni umane. «L ’argomentazione
dei w. 8 e 10 ha come prospettiva il v. 12: Caino fornisce la
dimostrazione concreta di che cosa significa la figliolanza dal
diavolo».32 Ritorna, di conseguenza, il modello argomentati-52
52 K lauck, 238.
vo dei w. 7-10 e la storia biblica viene riletta nella prospet
tiva dualistica tipica della letteratura apocalittica. Il gesto
fratricida di Caino viene addotto come la concretizzazione
particolare ed estrema delle «opere malvagie» di chi « è dal
malvagio» (cfr. Testamento di Beniamino 7; Antichità giudai
che 1,52-54). Abele, vittima del gesto, non viene chiamato col
suo nome proprio né la qualificazione delle sue opere come
«giuste» ha altra motivazione che la strategia retorica della
contrapposizione. Egli funziona solo come archetipo delle
vittime dell’aggressività cieca, nefasta, di chi, partecipe
dell’operare malvagio del diavolo (lG v 3,8), rifiuta la luce
che rivela la qualità delle sue opere (Gv 3,19-21; 7,7), odia i
fratelli e li condanna a morte, giusti e inermi (Sap 2,10-24;
Mt 23,35; Eb 11,4). Significativamente, il gesto omicida di
Caino viene definito in modo crudo con un verbo utilizzato
nei Settanta soprattutto per indicare l’immolazione degli ani
mali per i sacrifici (sphàzd, «scannare, immolare») che nel
Nuovo Testamento è usato solo qui e in Apocalisse per indi
care l’immolazione dell’Agnello (Ap 5,6.9.12; 13,8), la morte
reciproca che gli uomini si danno privi di pace (6,4), quella
di una delle teste della bestia (13,3) e la morte innocente dei
martiri (6,9; 18,24): il suo «timbro cultuale»33 potrebbe già
contenere un rimando all’immolazione di Gesù e all’uccisio
ne dei suoi discepoli fatta, nella convinzione di rendere cul
to a Dio, da chi «non ha conosciuto» né G esù né il Padre
(Gv 16,2)!
v. 13. L’odio del «m ondo» (G v7,7; 15,18-16,4), correlato
alla non accoglienza e alla non comprensione della Parola del
la rivelazione (Gv 17,14; lG v 3,1), non può dunque stupire i
«fratelli» che devono, per parte loro, rafforzarsi nella «cono
scenza» dell’annuncio su cui è fondata la loro identità e porsi
non nel solco di Caino ma in quello di Cristo. Parlando
” Beutler, 91.
dell’odio del «m ondo» (che nel Quarto Vangelo è incarnato
soprattutto dall’ostilità mortale subita da Gesù e dai suoi di
scepoli in contesto giudaico) l’autore allude, probabilmente,
alla concretizzazione che esso trova nell’odio del fratello con
testato agli interlocutori polemici della Lettera e dal quale egli
sente ancora il bisogno di mettere in guardia i suoi destinatari
(2,9-11; 4,20). Se si potesse specificarne meglio sul piano sto
rico la modalità di attuazione, si sarebbe anche risolta la que
stione dell’identità di tali interlocutori e dello scisma interno
alla comunità giovannea, ma anche in assenza di dati ulteriori
mi sembra corretto non intendere la crudezza del linguaggio
dell’autore in senso solo simbolico come mera strategia retori
ca. L’insistenza sul sapere proprio dei credenti costituisce, co
munque, il polo positivo della sua argomentazione che è anche
il più rilevante.
vv. 14-15. Tra un «noi sappiamo» (v. 14) e un «voi sapete»
(v. 15) viene affermata, come frutto consapevole dell’esperien
za ecclesiale, la correlazione insuperabile tra l’amore del fratel
lo e la vita e, viceversa, tra l’odio del fratello e la morte. Il
passaggio dalla sfera della morte a quella della vita, che Gv 5,24
fa dipendere dall’ascolto della parola di Gesù e dalla fede in
Colui che è fonte della sua missione, qui è un’esperienza già in
atto («siamo passati», metabebekamen, perfetto) comprovata
dal frutto che produce: l’amare i fratelli («amiamo», agapómen,
al presente), azione continua di una relazione che rende visi
bile l’invisibile Dio così come il Cristo l’ha rivelato e traduce,
perciò, perfettamente la fede in lui (3,23; 4,7-16). Amore, in
fatti, è «il nome per la fede che quotidianamente e costante-
mente si concreta nella condotta di vita».34
vv. 16-17. Un «abbiamo riconosciuto» (v. 16) svela, e al con
tempo proclama, il fondamento cristologico dell’esperienza
ecclesiale, lo stesso per il quale l’«amore» non solo è riprova
* Klauck, 241.
della Vita che «rimane» stabilmente in chi vive in modo posi
tivo la fraternità e lo distingue da chi la vive come luogo insu
perabile di violenza e di morte, ma è anche il «dovere» dei
fratelli, tanto nella sua forma più radicale e totalizzante («dare
l’anima/vita per»; Gv 10,11.15.17-18; 15,12-13; 1G v 4,11),
quanto nella concretizzazione più elementare e quotidiana del
la compassione attiva richiesta a chi ha le ricchezze materiali e
gli strumenti di sussistenza di cui l’altro è privo (non «chiude
re le proprie viscere» al fratello nel bisogno: Dt 15,7-11; Gc
2,15-16 ma anche, in negativo, lG v 2,16). Come l’odio del
fratello viene addirittura identificato con l’attitudine omicida
(3,15; cfr. Mt 5,21-22 ma anche Testamento di Gad 4,6), così
l’omissione consapevole della cura per il fratello viene consi
derata inconciliabile con l’esperienza della vera Vita: «l’amore
di Dio», in senso sia soggettivo (lG v 3,1; 4,9-11.16) che ogget
tivo (4,20-21), non «rimane in» e non vivifica stabilmente chi
si sottrae alla relazione col fratello. Ogni omissione nell’azione
dell’amore è equiparabile a un’interruzione di vita ed è impe
dimento alla permanenza dell’amore di Dio nel cuore dei cre
denti (cfr. G c 4,17).
v. 18. Con un’esortazione che richiama il monito iniziale,
l’autore chiude l’argomentazione indicando, mediante due cop
pie di sostantivi in parallelismo antitetico, ambito e modalità
autentici dell’azione continua dell’amore. In entrambe le cop
pie, il secondo sostantivo («lingua»; «verità») va inteso proba
bilmente come la fonte da cui promana il primo e che in esso
si esprime (la lingua si esprime «con parole»; la verità si espri
me «con opere»). Una parola espressa dalla lingua, ma inope
rante e inefficace, è contrapposta a un’opera che esprime la
verità, da intendersi non nel senso soggettivo della sincerità di
chi ama ma nel senso forte che ha negli Scritti giovannei come
termine che indica la verità-fedeltà divina e, dunque, la rivela
zione cristologica (cfr. «le opere della sua verità» per le quali
Dio viene benedetto in 1QM Regola della guerra 13,2; lQ S a
Regola della comunità 1,19; 11Q17 Canti dell’olocausto del sa
bato 5,5; lQ H a Inni 9,30). Al negativo, dunque, l’autore chie
de che l’amore non sia il vanto ingannevole di chi lo proclama
a parole mentendo e non «facendo la verità» (cfr. la diatriba
iniziale che contestava la discrepanza tra un dire e un vivere in
lG v 1,6.8.10; 2,4), ma l’opera giusta (3,12) di chi ne svela con
cretamente la verità, mostrando così al contempo la novità
della rivelazione cristologica - amore di Dio svelato e operato
nella carne dell’uomo - e la propria origine da e appartenenza
a Dio (cfr. subito dopo 3,19).
3. Linee teologiche
Come scritti che hanno un’origine in parte polemica e una
finalità pastorale, le tre Lettere di Giovanni, soprattutto la Se
conda e la Terza, non sviluppano una riflessione sistematica. Si
presentano però tutte, ciascuna secondo la sua forma e il suo
scopo specifico, come un’elaborazione mirata di alcune delle
implicazioni teologiche, soteriologiche ed ecclesiali della tradi
zione kerigmatica che si esprime anche nel Quarto Vangelo. Un
lessico costante permette di riconoscere le linee che le accomu
nano al Vangelo e, contemporaneamente, le accentuazioni ad
esse proprie. L’insistenza martellante sul lessico della verità e
della testimonianza - sorprendente, data la loro brevità, soprat
tutto in 2 e 3 Giovanni - mostra il primato del tema della rive
lazione di Dio in Cristo riconoscibile mediante la fede (cristo
logia e teologia), attuata come amore fraterno ed esperienza di
vita nel tessuto concreto dell’esistenza umana (ecclesiologia) e
mantenuta viva nella sua integrità, fino alla sua pienezza, grazie
al crisma dello Spirito (escatologia e pneumatologia).
Se la formulazione della pubblica professione di fede in G e
sù come Cristo Figlio di Dio (lG v 2,23; 4,2.3.15; 2Gv 7) si
distingue per la sua profondità teologica (Gesù, il Figlio, è «co
lui che è sin da principio»: lG v 2,13-14; è, col Padre, «il vero
Dio e vita eterna»: lG v 5,21; è «il Figlio del Padre»: 2Gv 3) e,
nello stesso tempo, per l’accento posto sull’umanità mortale del
Messia Figlio, l’accentuazione tematica delle Lettere è di tipo
teologico e soteriologico. La professione di fede in Gesù, infat
ti, è necessaria proprio per «avere il Padre» (lG v 2,23; 2Gv 9)
e «avere la vita» (lG v 5,11-12), cioè per la conoscenza del «ve
ro Dio» il cui volto di luce (1,5), di giustizia fedele (1,9; 2,29)
e di amore riconciliante sarebbe inconoscibile o irriconoscibile
senza il Figlio (4,7-16). In radicale contrasto con l’atteggiamen
to idolatrico (5,21) e la negazione cristologica di quanti sono
mossi dallo «spirito dell’inganno» e camminano nella tenebra,
falsificando addirittura con la loro dottrina e la loro vita la te
stimonianza stessa di Dio (1,10; 5,9-10), l’annuncio giovanneo
è frutto di un «ascolto», iniziato con la predicazione di Gesù e
perpetuato fedelmente nella traditio testimoniale giovannea
(1,1.3.5; 2,7.24; 3,11; 4,5-6; 2Gv 6), che attua, in una condotta
fraterna che lo riflette perfettamente, le richieste dello ì ema‘ (Dt
6,4-5) quanto al riconoscimento dell’unico Dio e all’amore per
lui. Credere e amare, non a caso, sono le dimensioni inscindi
bili dell’unico comandamento che riassume nelle Lettere gio-
vannee le esigenze della Legge (lG v 3,23).35
La comunità dei credenti viene così disegnata come «comu
nità kerigmatica», più che «carismatica»,36 e l’autorità testimo
35 Cfr., per la «tradizione dei comandamenti» nelle tre Lettere, VON W a h l d e , The
Gospely voi. 3,386-401 che ritiene che il comandamento relativo alla fede e all’amore
corrisponda al «doppio scrutinio», relativo alla fede (comprensione della Legge) o agli
«spiriti» che guidano i membri della comunità (cfr., in analogia, lG v 4,1) e alla con
dotta (l’osservanza della Legge), cui venivano sottoposti i membri della comunità di
Qumran prima all’ingresso e poi annualmente (cfr. lQ Sa Regola della comunità 3,20-24;
6,13-23). Tale interesse per la fede e la prassi era comune nel determinare l’apparte
nenza ai gruppi giudaici nel I secolo. In 1 Giovanni queste due dimensioni fondamen
tali dell’appartenenza si esprimono nelle due affermazioni capitali della Lettera: Dio
è luce (1,5); Dio è amore (4,8) e, dunque, nei due comandamenti fondamentali: cre-
dere/camminare nella verità e amarsi/amare il fratello.
36L ieu, 47.
niale cui fa appello chi le si rivolge è intrinseca e conforme
alla natura stessa della comunità dei credenti in «comunione»
tra lóro e con il Padre e il Figlio. Contro quanti pretendevano
di poter mantenere una comunione con Dio prescindendo
dall’attuazione di una relazione fraterna conforme all’essere
di Dio rivelato in Cristo, l’autore delle Lettere ribadisce con
assoluta costanza l’impossibilità di partecipare della Vita per
chi «non ama» sperimentando concretamente nella relazione
con il fratello la possibilità e la fecondità dell’amore. La fede
e l’amore assumono per questo una visibilità ecclesiale e co-
munionale. La comunione dei credenti col Padre e col Figlio,
nel segno della perfetta riconciliazione (l’«espiazione» dei pec
cati: 1,7.9; 2,2; 4,9-10.14) e del dono dell’identità filiale (3,1-3),
si concretizza proprio nel segno della fraternità e dell’amicizia
determinate dalla rivelazione cristologica (2Gv 13; 3Gv 15).
Nemmeno l’autorità che appartiene al Presbitero garante del
la tradizione è rivendicata e si esprime secondo altri parametri:
non si può mantenere al contempo la comunione riconcilian
te col Padre e il Figlio e la comunione con chi, negando il
Cristo, nega con le opere la riconciliazione e la vita (2Gv 11;
3Gv 9-10).
La rivelazione teologica e cristologica, l’esperienza della sal
vezza comunitaria e l’attuazione fedele e piena del comanda
mento divino sono, infine, posti in una cornice escatologica e
apocalittica ancora più accentuata che nel Quarto Vangelo:
l’«ora» che i credenti vivono - e che l’avvento dei seduttori e
degli anticristi svela - è quella dell’unzione dello Spirito par
tecipato intimamente ai credenti come segno del compimento
della nuova alleanza (Ger 31,29-34; Ez 11,18-21; 36,27-28;
37,26-28). In Cristo, realizzatore della nuova alleanza col dono
di sé e dello Spirito, i credenti sono partecipi delle promesse
di quella e invitati a «rimanere» in essa con la fede e con la
vita: avendo l’insegnamento interiore dello Spirito non hanno
bisogno di maestri (lG v 2,26-27; 3,24) e conoscono Dio inti-
mamente avendone interiorizzato, con l’amore, la Tómh. Pu
rificati da ogni peccato (1,7.9; 2,1-2.12; 3,5; 4,10) essi possono
restare e vivere nel suo amore con un cuore nuovo e unificato
(Ez 11,19; G er 32,39) diventandone dimora come singoli e
come comunità, sperimentando anche tra loro la relazione più
intima e vicina possibile.
Bibliografia
B e u t l e r J., Le Lettere di Giovanni. Introduzione, versione e commen
to, Dehoniane, Bologna 2009.
B row n R.E., Le lettere di Giovanni, Cittadella, Assisi 1986.
BULTMANN R., Le lettere di Giovanni, Paideia, Brescia 1977.
FABRIS R., Lettere di Giovanni. Commento esegetico e spirituale, Cit
tà Nuova, Roma 2007.
F o ssa ti M., Lettere di Giovanni. Lettera di Giuda. Introduzione, tra
duzione e commento, San Paolo, Cinisello Balsamo 2012.
G iu risa to G., Struttura e teologia della prima lettera di Giovanni:
analisi letteraria e retorica, contenuto teologico, Pontificio Istituto
Biblico, Roma 1998.
G R IFFITH T., Keep Yourselves from Idols: A New Look at 1 John,
Sheffield Academic Press, Sheffield 2002.
KLAUCK H.-J., Lettere di Giovanni, Paideia, Brescia 2013.
K U G L E R J ., « L a Prim a lettera di G iovan ni», in M. E B N E R -
S. ScH N EID ER (edd.), Introduzione al Nuovo Testamento, Queri -
niana, Brescia 2012, 661-676.
LlEU J., La teologia delle Lettere di Giovanni, Paideia, Brescia 1993.
MANNS E , «Le Péché, c’est Bélial: ljn 3,4 à la lumière du Judàfsme»,
in Revue des Sciences Religieuses 62(1988), 1-9.
M ORGEN M ., Les épitres de Jean, Cerf, Paris 2005.
PAINTER J., 1,2 and 3 John, Liturgical Press, Collegeville (MN) 2008.
SlMOENS Y., Le tre Lettere di Giovanni. Credere per amare. Una tra
duzione e un'interpretazione, Dehoniane, Bologna 2012.
S m ith D.M., Le lettere di Giovanni, Claudiana, Torino 2009.
W AHLDE U.C. v o n , « “ Y o u are of your father thè Devii” in its Context:
Stereotyped Apocalyptic Polemic in John 8,38-47», in R. B i e r i n -
GER - D. P o l l e f e y t (edd.), Antijudaism in thè Fourth Gospel, Van
Gorcum, Assen 2001,418-444.
APO CALISSE
1. Questioni storico-letterarie
Fatta eccezione per parti frammentarie del testo conservate
in alcuni papiri tra il II e il VII secolo d.C.1e per i codici Ales
sandrino, Sinaitico e di Efrem riscritto (il codice Vaticano è
mutilo a partire da Eb 9,14), il testo dell’Apocalisse è conser
vato in un numero di manoscritti minore rispetto a quello de
gli altri testi del Nuovo Testamento e datati per la maggior
parte tra il IX e l’X I secolo d.C. Questa situazione testuale
potrebbe rispecchiare i dubbi sull’accettazione del testo che
cominciarono a serpeggiare tra i Padri orientali del III-IV se
colo (cfr. Eusebio, Storia della chiesa 3,25,2,4 e 7,25 ove discu
te l’opinione di Dionigi di Alessandria) per l’uso che dell’Apo
calisse avevano fatto i montanisti, sfruttando nell’elaborazione
delle loro profezie, condannate poi come eretiche, l’interpre
tazione letterale del numero simbolico dei «mille anni» (chtlia
étè, da cui «chiliasmo» o millenarismo) di Ap 20,2-7, condivi
sa peraltro da scrittori autorevoli del II secolo come Papia,
Ireneo, Giustino e Tertulliano.12 Come si era detto complessi
1 Sette i papiri frammentari conservati: g>98del II secolo (1,13-20); Sjy17III secolo
(9,10-11,3; 11,5-16,15; 16,17-17,2); g>18(1,4-7) e gV15del III/TV secolo (pochi versi
dai cc. 2, 3 ,5 , 6, 8-10, 11-12,13-15); del IV secolo (5,5-8; 6,5-8); gi85 del IV/V
secolo (9,19-10,1.5-9); g>43 del VI/VII secolo (2,12-13; 15,8-16,2).
2 M. Simonetti, Lettera e/o allegoria, Institutum Patristicum «Augustinianum»,
Roma 1985,289-306.
vamente per tutto il corpus giovanneo, però, tra i padri d’Orien-
te e d ’Occidente del II secolo anche l’Apocalisse di Giovanni
era ampiamente diffusa e citata come testo autorevole attribu
ito allo stesso Giovanni autore di Vangelo e Lettere. Intorno
alla metà del III secolo il testo non solo era considerato con
riguardo, ma era anche stato diviso in capitoli che potevano
essere commentati uno per uno (cfr. Eusebio, Storia della chie
sa 1,25).3 Se le controversie teologiche determinarono nei pri
mi secoli un’incertezza sul suo statuto canonico, anche dopo,
per la suggestione delle immagini, la ricchezza e la potenza dei
simboli, la pretesa universalistica e ricapitolatrice delle sue vi
sioni e, a tratti, la virulenza dei suoi codici linguistici, l’Apoca
lisse è rimasta fonte di grande ispirazione teologica, liturgica e
artistica e, al contempo, causa di aspre polemiche intra-eccle-
siali e di interpretazioni settarie del tutto fuorviami fino in
epoca moderna e contemporanea.
1.1. G li scritti «apocalittici» e l’Apocalisse di Giovanni
Apokàlypsis o «rivelazione» (da apo-kalyptò, togliere ciò che
copre) è il termine con cui il Giovanni autore dell’«Apocalisse»
intitola il suo scritto (Ap 1,1) dando una definizione della pro
pria opera mai azzardata da altri prima di lui. Considerando,
però, le affinità letterarie tra il testo giovanneo, alcuni blocchi
letterari dell’Antico Testamento (Ez 40-48; Gioie; Zc 4,1-6,8;
9-14; Is 24-27; 34-35; Dn 7-12) e diversi scritti peritestamen
tari giudaici e cristiani,4 in epoca moderna si è cominciato a5
5 H ill , 154-155.
4 Cfr. il Primo libro di Enoc con una storia redazionale complessa tra V e prima
metà del I secolo a.C ; VAssunzione o Testamento di Mosè nel I secolo d .C ; XApoca
lisse di Mosè intorno al I secolo d.C.; 4 Esdra e 2 Baruc scritti verso la fine del I seco
lo d.C. come l’Apocalisse di Giovanni; XApocalisse di Abramoytra il 70 e il 100 d.C.,
e le apocalissi cristiane (cfr. il Pastore di Erma, VApocalisse di Pietro, XAscensione di
Isaia e XApocalisse di Elia).
parlare di «apocalissi» come genere letterario, per definire le
opere accomunate da caratteristiche formali e letterarie simili
a quelle del testo giovanneo, e di «apocalittica» per indicare
l’atmosfera o tradizione teologico-interpretativa che si riflette in
tali scritti e anche in altri che non appartengono formalmente
al medesimo genere letterario (cfr. il Libro dei giubilei-, i Testa
menti dei dodici patriarchi-, il Rotolo della guerra). Punto di
confluenza delle tradizioni profetiche e sapienziali dell’Antico
Testamento, la tradizione apocalittica coniugava l’attesa del
compimento delle promesse dell’alleanza e della fine del tem
po presente (escatologia) a una visione del mondo e della con
dizione umana fondamentalmente negativa perché segnata dal
peccato in modo irrimediabile. Le origini del male non si con
sideravano intramondane né si riteneva che il male potesse
essere identificato con la sola trasgressione umana. Attraverso
il linguaggio mitologico, le radici del male, della sofferenza e
della morte venivano ricondotte a un dramma ultraterreno, a
una trasgressione angelica i cui effetti contaminanti si sarebbe
ro riversati su tutta l’umanità (Sap 2,23-24) e dai quali gli uo
mini non avrebbero mai potuto liberarsi con le proprie forze.
Nei testi che riflettono tale tradizione, a un rivelatore o media
tore della rivelazione è affidato il compito di svelare in cosa
consista la salvezza divina per gli uomini che attendono la li
berazione (per esempio: giudizio e distruzione degli empi;
sconfitta definitiva degli angeli ribelli; riscatto e ricompensa
eterna dei giusti), come essa si realizzerà (da cui l’uso abbon
dante del simbolismo numerico-cronologico, cosmico e antro
pologico per esprimere secondo le categorie spazio-temporali
ciò che le oltrepassa) e, eventualmente, grazie a chi (per esem
pio il «Figlio dell’uomo» in Dn 7 e in 1 Enoc 45-57, definito
anche come «Messia» in 1 Enoc 48,10).
Paradossalmente, quanto a forma, contenuti e messaggio
teologico, l’Apocalisse giovannea è quella che più si distanzia
dalle opere appartenenti alla letteratura di rivelazione che da
essa ha preso nome. Occorre, dunque, cercare di identificare
alcune caratteristiche comuni del genere per vedere come l’au
tore dell’Apocalisse se ne sia servito trasformandolo.
1.1.1. L’«apocalisse» come genere letterario
Essendo i testi apocalittici molto diversi tra loro quanto al
contesto storico della loro produzione e ai filoni teologici nei
quali innestano la visione del mondo apocalittica combinando
tra loro diverse idee e materiali di costruzione, tra gli studiosi
non c’è accordo nel definire in dettaglio cosa sia un’«apocalis-
se». Una definizione sufficientemente adeguata a esprimere le
caratteristiche formali e contestuali del genere e funzionale
anche alla comprensione dell’apocalisse giovannea mi sembra
quella proposta da J. Ashton:
un’apocalisse è una narrazione composta in circostanze di agita
zione politica, religiosa o sociale, nel corso della quale un essere
angelico rivela i misteri celesti, altrimenti nascosti, a un veggente
umano: o, indirettamente, interpretando un sogno o una visione
o, direttamente, nel qual caso il veggente può credere di essere
stato trasportato in cielo per ricevere una rivelazione speciale.5
Parecchi elementi utili alla comprensione del testo giovan
neo si possono desumere da tale definizione tanto per ciò che
attiene al concetto di rivelazione e alle modalità della sua rap
presentazione letteraria, quanto per ciò che attiene al contesto
vitale (Sitz im Leben) da cui gli scritti di rivelazione promana
no e al quale intendono reagire.
a) II concetto di rivelazione. Implica che ci siano delle realtà
nascoste note a Dio solo (il «mistero»: Ap 10,7, ma anche Me
4,11; Rm 16,25-27; lC o r 2,1.7; E f 1,7-10; 3,1-13; 6,19; Col
1,24-29), che finalmente, in un dato momento della storia, ven
gono svelate. Il concetto dello svelamento di ciò che è nascosto
è l’essenza dell’apocalittico. L’esistenza di un segreto che deve
essere svelato implica, inoltre, la distinzione tra due età: quella
del nascondimento e quella della rivelazione. Chi scrive un
testo apocalittico vive già nel tempo della rivelazione (che con
sidera spesso anche come il tempo ultimo prima della «fine»)
ma con una finzione letteraria fa risalire il suo scritto a un
tempo precedente a quello storico in cui scrive e che è il vero
sfondo delle sue visioni (Dn 8,17.26; 12,4). Facendo ricorso
anche alla pseudepigrafia, con la quale attribuisce la rivelazio
ne a un personaggio autorevole e riconosciuto del passato
(Enoc, Mosè, Abramo ecc.), dal tempo ideale dell’autore fitti-
zio l’autore reale può additare il tempo reale vissuto dai suoi
destinatari: «Enoc, uomo giusto, i cui occhi erano stati aperti
dal Signore e vedeva una visione santa nei cieli, parlò e disse:
“ (Questo è) quel che gli angeli mi hanno mostrato; io ascoltai
tutto da essi e tutto io conobbi, io che vedo non per questa
generazione, ma per quella che verrà, (per le generazioni) lon
tane”» (1 Enoc 1,2). In questo l’apocalisse giovannea diverge
nettamente da altre apocalissi giudaiche, perché il suo autore
non ha bisogno né di ricorrere alla pseudepigrafia né di distin
guere il tempo reale della stesura del suo scritto dal tempo
ideale della rivelazione e della fine. Li vede ormai del tutto
coincidenti: la rivelazione non va sigillata per un tempo suc
cessivo, ma deve rimanere aperta per la lettura nel presente che
è già il tempo accelerato della fine (Ap 22,10).
b) Le modalità rappresentative. La rivelazione ha sempre Dio
per soggetto ultimo, ma viene comunicata a un destinatario
umano tramite sogni o visioni per decodificare le quali una
figura celeste può fungere anche da interprete (Dn 8,17; 10,10;
12,5-13). L’Apocalisse di Giovanni, almeno a un livello forma
le superficiale, non si distacca dalle altre sotto questo riguardo:
Dio ne è la fonte ultima, anche se Cristo ne è il mediatore, ed
essa viene «significata» al destinatario umano (il «servo G io
vanni») con audizioni e visioni tramite il «suo angelo» (Ap
1.1- 2). Vi si trova il racconto della visione del trono divino
mediante una «ascensione» al cielo (4,1; cfr. 1 Enoc 14,8-25) e
talvolta vi appare, indispensabile, l’intervento di un essere ce
leste che sostiene il veggente nella sua esperienza visionaria (cfr.
«uno dei vegliardi» in Ap 7,13-14; un «angelo» in 17,1; 21,9;
22,8-9).
c) Il Sitz im Leben. La rivelazione si pronuncia sulla fine del
tempo presente; il concetto di «fine» implica una crisi dell’as
setto storico-politico del mondo. La «fine», nel linguaggio bi
blico, è collegata infatti all’esperienza del giudizio: il mondo
nelle sue strutture è esperito come una realtà minacciosa e
antidivina, segnata dall’idolatria e dalla sofferenza inflitta ai
giusti. Questa struttura storica dell’esistenza umana in un
«mondo di iniquità» (1 Enoc 48,7) sta sotto il giudizio e, dun
que, ha un’interpretazione possibile, profetica, che chi guarda
ad essa dal punto di vista divino o trascendente può comuni
care. Il mondo presente è arrivato al suo termine e il mondo
nuovo sta per rivelarsi. Gli eletti, nel tempo di tribolazione che
prepara la catastrofe del mondo, soffrono, ma saranno ricom
pensati nel giudizio finale quando anche gli empi avranno la
loro ricompensa. Il tempo della fine, che è il tempo del giudi
zio, è quindi il tempo della battaglia e della fedeltà mediante
le quali si prepara il grande ribaltamento dell’ordine idolatrico
e l’instaurazione del regno di Dio (Dn 7,21-22.25-27; 11,32-35;
12.1- 4; Ap 1,9; 6,9-11; 12,17; 13,10; 19,20).
Apocalisse e tempo di crisi sono dunque strettamente col
legati e la letteratura apocalittica è al contempo letteratura di
crisi e letteratura critica: sorge da un contesto sociale, cultura
le, politico o religioso ritenuto per diverse ragioni iniquo e
minaccioso e provoca a sua volta la crisi, proponendo su di
esso uno sguardo e un’interpretazione radicalmente alternativi
a quelli dei gruppi dominanti. Il libro di Daniele e l’Apocalis
se di Giovanni, per esempio, condividono l’opposizione radi
cale all’idolatria così com’è incarnata dal mondo pagano e
dalle strutture di potere o regni mondani che si pretendono
assoluti o divini: il dominio seleucide di Antioco IV per D a
niele, l’impero romano per Apocalisse (Dn 7,8; Ap 13,3-8),
rappresentati in entrambi i casi sotto la cifra simbolica di Ba
bilonia. Potenti, re e dominatori diventano «specchio e trasfi
gurazione simbolica di gruppi dominanti che hanno assunto
posizioni di rilievo nel macro-contesto sociale e culturale» de
gli scritti.6 L’obiettivo di questi ultimi, dunque, è affermare e
salvaguardare l’identità del gruppo da cui originano e a cui
sono destinati, garantendone i confini rispetto alle insidiose
pressioni culturali, sociali e religiose provenienti dall’ambiente.
In ragione del proprio contesto vitale, gli scritti apocalittici non
annunciano, dunque, imminenti catastrofi naturali o storiche
ma sono un invito alla resistenza culturale e un messaggio di
sostegno e conforto; nel linguaggio dell’Apocalisse giovannea,
un invito alla hypomone, «perseveranza», capacità di restare
fedeli sotto il peso della tribolazione (1,9; 2,2-3.19; 3,10; 13,10;
14,12).
1.1.2. Uso e trasformazione del modello letterario
nell’Apocalisse di Giovanni
Tanto sul piano formale quanto sul piano contenutistico,
Giovanni si serve in modo del tutto originale della tradizione
letteraria apocalittica che lo precede e che mostra di conosce
re, sia quella biblica che quella peritestamentaria.7 Sul piano
6 È quanto afferma A rcasi, Visioni, 133 a proposito di 1 Enoc 37-71 ma un simile
procedimento di trasfigurazione simbolica si può riconoscere anche in altri testi “ apo
calittici”, da Daniele all’Apocalisse giovannea.
7 Cfr. la citazione implicita di 1 Enoc 100,3 («U cavallo procederà fino al suo petto
formale, egli intreccia nella sua Apocalisse tre caratteristiche
letterarie: la consegna come una lettera circolare alle sette chie
se dell’Asia, nel cui numero è indicata la totalità della chiesa in
una «varietà di contesti rappresentativa» (1,4-6.11; 2,1-3,22;
22,21);8 la considera un libro profetico (1,3; 22,7.10.18.19) e
introduce anche il messaggio del Kisorto alle chiese con la for
mula oracolare classica («Così dice i l ...»: 2,1.8.12.18; 3,1.7.14);
ne riceve il contenuto rivelativo nel «giorno del Signore» (1,10)
e lo condivide con i suoi destinatari proprio in un contesto li
turgico (1,3) e come azione liturgica? Sul piano contenutistico,
poi, la rivelazione di Giovanni è essenzialmente cristologica e
non ha altro oggetto che la realizzazione del progetto di Dio
nella morte e risurrezione del suo Cristo. Essa è, infatti, «apo
calisse di Gesù Cristo» (1,1): ha Cristo come vero mediatore
da parte di Dio («rivelazione che Dio diede a lui»)-, ha Cristo
come soggetto, perché è lui che si presenta a Giovanni, «simi
le a Figlio di uomo», nella visione inaugurale che apre il mes
saggio alle sette chiese ordinandogli di scrivere e rivolgendosi
a ciascuna di esse per suo tramite (1,9-20) ed è lui, in qualità
di «agnello ritto come immolato», l’unico in grado di scioglie
re i sigilli che rendono illeggibile il libro in cui sta scritto il
piano divino (c. 5); ha Cristo, infine, come suo contenuto per
ché, dall’inizio alla fine, parla della salvezza, dell’irruzione del
regno di Dio e dell’avvento del mondo nuovo realizzati in lui.
Il cosa e il come della rivelazione, dunque, per Giovanni di
Patmos dipendono essenzialmente dall’identità (il chi) di colui
che ne è al contempo soggetto, mediatore e contenuto: Gesù
Cristo, il «simile a Figlio d’uomo» rivestito di dignità sacerdo-
nel sangue dei peccatori») in Ap 14,20 («Il sangue fino alle briglie dei cavalli»). Per
significativi paralleli tra l’Apocalisse giovannea e 1 Enoc, cfr. P. Sacchi (ed.), Apocrifi
dell Antico Testamento, voi. l/II, UTET, Torino 22006, 425-427. La forma originale
dei messaggi alle chiese potrebbe essere stata ispirata proprio alla tradizione enochica
(cfr. Trip Jd i, Apocalisse, 109-110).
8 Bauckham, La teologia, 30.
9 Cfr. Manunza.
tale e regale, vittorioso nell’interezza della sua esperienza di
morte e risurrezione. E l’evento pasquale, infatti, che compie
ed esprime là salvezza realizzando la fine del vecchio mondo e
l’avvento del mondo nuovo «al cuore stesso dell’antico»10
(l,17c-19a). Il veggente e i destinatari del suo messaggio, dei
quali egli si considera compagno «nella tribolazione, nel regno
e nella perseveranza in G esù» (1,9), sono quindi «testimoni»
profetici della «testimonianza di Gesù» (nel senso soggettivo
e oggettivo). In questa, essenzialmente, consiste tutta la «rive
lazione» ispirata del profeta Giovanni (19,10).
Il carattere cristologico della rivelazione e il suo radicamen
to nella vicenda storica di Gesù e dei suoi testimoni spiegano
come mai, pur condividendo molti dei codici simbolici delle
altre apocalissi giudaiche e pur annunciando cieli e terra nuo
vi simultanei alla sparizione delle forme antiche del mondo
(20,11; 21,1), l’Apocalisse giovannea non indulga a speculazio
ni di nessun genere di tipo protologico (origine del male e
dramma interno al mondo angelico) e possa, invece, delineare
ima narrazione del compimento del piano salvifico di Dio: non
un futuro a venire per generazioni lontane, ma il dispiegarsi
certo e imminente della vittoria, già avvenuta nel passato e in
continuo atto di compiersi nel tempo di vita degli uomini, di
Colui che, nel suo Cristo, si è rivelato Signore del tempo e
della storia («l’Essente, l’Era e il Veniente»: 1,4.8). Proprio il
lessico della «vittoria», che appartiene alla complessa metafora
bellica mediante la quale, lungo tutto il testo dell’Apocalisse,
si descrive il carattere dinamico e processuale dell’instaurazio
ne del regno (5,5; 6,2; 11,7; 12,11; 13,7; 15,2; 17,14), esprime
la simultaneità tra scomparsa del vecchio e avvento del nuovo:
«il tempo propizio (kairós)», infatti, «è prossimo iengys)», ri
pete il testo all’inizio e alla fine (1,3; 22,10) facendo eco all’an
nuncio inaugurale della predicazione gesuana (Me 1,14-15 e
10 CUVILLIER, 399.
paralleli), e la partecipazione piena ai beni della salvezza è as
sicurata a «colui che vince» (presente) come Cristo ha vinto e
continuerà a vincere (si vedano 3,21 e le altre «promesse al
vincitore» in 2,7.11.17.26; 3,5.12; 21,7).
Come le altre apocalissi, dunque, l’Apocalisse giovannea non
è una descrizione minacciosa della fine catastrofica del cosmo,
ma un libro di ammonizione e di consolazione. Diversamente
dalle altre, essa non annuncia un compimento a venire ma af
ferma che la salvezza futura è già avvenuta, che Colui che ver
rà è già venuto, che l’«ultimo» è anche il «primo» e che proprio
con questi tutti devono e dovranno misurarsi (1,7-8). Come
negli Atti degli apostoli, anche nell’Apocalisse giovannea i te
stimoni del Risorto si confrontano con il mondo giudaico e con
quello pagano, nel contesto dell’impero romano, sempre a
prezzo di una battaglia che li impegna nella totalità della vita,
anche fino alla persecuzione e alla morte; in entrambi, la storia
umana, dall’annuncio del vangelo in poi, è letta come un nuo
vo esodo che ha come meta ultima la liberazione/salvezza
dell’umanità e l’instaurazione definitiva del regno di Dio in
Cristo in una creazione rinnovata. In entrambi, dunque, la sto
ria umana è letta profeticamente come storia di salvezza, ma
ciò attraverso l’impiego di due generi letterari opposti: l’auto
re degli Atti si fa erede della storiografia biblica (dei «profeti
anteriori») per garantire una continuità storica al vangelo di
Gesù nello spazio e nel tempo; l’autore dell’Apocalisse si fa
erede della tradizione profetico-apocalittica giudaica (dei «pro
feti posteriori» e dei sapienti) per dimostrare come la testimo
nianza gesuana tocchi al cuore, nel suo senso più profondo,
strutturale («fin dalla creazione del mondo»: 13,8; 17,8), la
creazione, la storia e l’esistenza umana. Posta stabilmente al
suo centro, grazie all’esistenza della comunità credente, la te
stimonianza dell’Agnello immolato ne garantisce con certezza
assoluta l’esisto salvifico.
I. 2. L’Apocalisse di Giovanni nel contesto di vita delle chiese
dell’Asia minore n elI secolo d.C.
Il testo ci fornisce alcuni dati indiretti tanto riguardo alla
situazione interna delle comunità cui il testo è indirizzato quan
to riguardo alle relazioni con l’ambiente sociale e religioso del
le città della provincia romana dell’Asia minore in cui esse
erano collocate.
La testimonianza cristologica di Giovanni e dei suoi «fratel
li i profeti» doveva avere un chiaro impatto pubblico e sociale
per le sue implicazioni contro-culturali. Lo si deduce dalle con
seguenze cui sembrano essere esposti i membri delle chiese
giovannee (6,9; 20,4). Di uno di loro - l’Antipa di Pergamo
definito paradigmaticamente dal Risorto «il mio testimone fe
dele» (2,13) con uno dei titoli con cui Gesù stesso è designato
(1,5; 3,14) - è attestato l’omicidio; ad altri è annunciata la pri
gionia (2,10). La possibilità di dover morire per restare fedeli
alla testimonianza di Gesù sta sempre sullo sfondo (2,10; 6,11;
I I , 7; 12,11; 13,15; 16,6; 17,6; 18,24; 19,2). I dati interni ed
esterni al testo spingono a pensare alle ritorsioni dei governa
tori locali cui i credenti potevano andare incontro nella misura
in cui si fossero trovati a rifiutare più o meno direttamente il
sistema sociale e il culto imperiale su cui si reggevano il con
trollo e la pax romana nelle città dell’Asia (13,12-17).
L’impero romano con le sue liturgie non era però l’unico
fronte col quale le chiese dell’Apocalisse dovevano misurarsi:
il giudizio profetico dell’autore, infatti, cade anche su giudei
di Smirne e Filadelfia la cui autentica identità giudaica viene
contestata proprio per la loro collusione col sistema di vita
promosso dall’impero (2,9 e 3,9). Nelle città della provincia
romana d’Asia, infatti, i giudei godevano spesso di uno statuto
privilegiato al livello economico, giuridico e religioso e tende
vano a integrarsi nel loro contesto sociale. La diffusione della
fede cristiana tra i membri delle comunità giudaiche dell’Asia
non poteva essere indolore, dunque, nella misura in cui i cre
denti in Gesù, non volendo distinguersi dai giudei, pretende
vano il loro stesso statuto nella società pur opponendosi vigo
rosamente a certi costumi sociali.11 La lotta delle chiese consi
steva, quindi, anche nella rivendicazione dell’autentica
identità giudaica in uno spazio sociale, caratterizzato dalla de
licata coabitazione e interazione tra giudei e pagani, giudicato
inospitale e iniquo come la Gerusalemme in cui era stato cro
cifisso il Signore, la violenta Sodoma o l’Egitto, terra d’esilio e
di schiavitù (11,8).
Rispetto a tale contesto, l’autore non manca allora di stig
matizzare anche ad intra il tentativo delle comunità di integrar
si socialmente appiattendosi sulle strutture e sul sistema di
vita dell’impero, anche a rischio di perdere la propria identità
e di venire meno al compito della testimonianza cristologica
(3,1-2.15-19). Talvolta, amore e fedeltà delle chiese, pur se in
progresso, convivono con quella che l’autore giudica scarsa
lucidità e mancanza di discernimento (2,14-15.20). Nel caso di
alcune chiese, la sua contestazione si fa feroce a causa di posi
zioni dottrinali e pratiche che l’autore giudica pericolosissime:
si denunciano «sedicenti apostoli» smascherati nella loro falsi
tà (2,2); si parla delle «opere dei Nicolaiti» meritevoli del più
assoluto rigetto (2,6); di alcuni che professano la dottrina
dell’indovino Balaam (2,14-15; Nm 22-25; 31,16; 2Pt 2,15; Gd
11) o di una «sedicente profetessa» (Ap 2,20-24), rappresen
tata simbolicamente dalla figura della fenicia Gezabele nemica
giurata dei profeti (IRe 16,31-33; 18,4.13.19; 19,1-2). L’elemen
to che accomuna tali figure dal punto di vista di Giovanni
sembra essere un insegnamento dal quale i membri delle co
munità si sentivano autorizzati a forme di adattamento e com
promissione con i sistemi e i rituali religiosi del loro contesto
sociale (Ap 2,14.20: «prostituirsi e mangiare idolotiti»), in for-
P rigent, 58 (con relativa bibliografia).
za di una conoscenza religiosa superiore che li rendeva liberi e
che, con sarcasmo, l’autore dice avere come oggetto le «pro
fondità di Satana» (2,24). Si trattava, dunque, di forme di in
segnamento e di condotta nelle quali il veggente riconosceva i
segni di un adulterio pratico, il tradimento della fedeltà eccle
siale all’unico Signore.12
L’Apocalisse, dunque, lascia intravedere conflitti spinosi
derivanti «dall’incontro/scontro tra giudaismo e grecità» vis
suto dal punto di vista specifico di comunità di credenti in
Gesù, per la maggioranza di origine giudaica ma aperte anche
all’inserimento di non ebrei. Familiari con le forme e i rischi
della prima profezia cristiana ma tutt’altro che sganciate
dall’ambiente del giudaismo della diaspora al quale si sentono
legate a doppio filo, esse rivendicano il «marchio della vera
giudaicità», dovendo fare i conti al proprio interno con gruppi
«che sembrano virare verso posizioni di matrice paolina», giu
dicate pericolose soprattutto per la perdita d’identità e di con
fine che esse potevano implicare per chi ne era sedotto.13 La
questione della liceità o meno dell’alimentarsi delle carni dei
sacrifici idolatrici, che si poneva al livello cultuale (lC or 8),
doveva essere solo la punta dell’iceberg costituito dalle molte
plici e intricate sfide poste dall’esigenza di discernimento e di
resistenza culturale davanti alle diverse forme di attuazione di
un potere assolutizzato e idolatrico, come quello di Roma, nel
quale il profeta Giovanni riconosceva i segni della presenza e
12 «Nelle chiese d ’Asia il problema nasceva dal fatto che l’esercizio dei mestieri e
del commercio era accompagnato da riti religiosi, e in particolare da sacrifici alle di
vinità patronali, così che la partecipazione alle gilde diveniva problematica per un
cristiano: se restava nella corporazione era coinvolto nei banchetti con carni sacrifica
li e comportamenti licenziosi; se invece ne usciva, si escludeva dalle normali vie del
commercio». Considerare religiosamente neutra la partecipazione a questi rituali,
«permetteva di restare nel giro degli affari, di trarne profitti e, così, di guadagnarsi di
che vivere agiatamente... L’opzione di Giovanni di Patmos equivaleva invece a un
suicidio sociale ed economico» (BlGUZZl, 100).
13Arcari, Visioni, 275.277.
dell’azione antidivina del «serpente antico» o «diavolo» e «sa
tana» (Ap 12,9).
1.3. Il simbolismo dell’Apocalisse
Rispetto ad altre forme di rivelazione, come potrebbero es
sere lunghe conversazioni tra il veggente e un rivelatore celeste
o narrazioni diverse e isolate tra loro con le quali sono annun
ciati simbolicamente i processi storici e i loro esiti escatologici,
tra le altre apocalissi giudaiche l’Apocalisse giovannea spicca
formalmente anche per lo spazio predominante lasciato a vi
sioni, strettamente collegate l’una all’altra, in cui le immagini
e i simboli si ripetono con costanza lungo il libro e mediante
le quali l’autore «crea un universo simbolico unico», continua
tivo, sovrabbondante e congruente «in cui i lettori possono
immergersi pienamente tanto da esserne influenzati e da mo
dificare il loro modo di percepire il mondo». Ricco anch’esso
di valenza contro-culturale - si pensi al modo in cui la dea
Roma è rappresentata come «madre delle prostitute e degli
abomini della terra» (17,5) nei cc. 17-18 - tale simbolismo,
attinto a piene mani dalle esperienze antropologiche fonda-
mentali, dalla densa rielaborazione di esse fatta nelle Scritture
e dai miti amati o temuti dai contemporanei (cfr. il mito dell’in
vasione da Oriente o quello del «Nerone redivivo» che traspa
iono da Ap 16,12-14 e 17,8), crea una «riserva di significato»
inesauribile, attingibile dal lettore con gradualità e sempre
maggiore profondità.14
Del ricco simbolismo dell’Apocalisse si possono richiamare
qui alcune cifre particolarmente pervasive e dominanti.
14 Bauckham, La teologia, 23.32-33. È giustamente famosa, a riguardo, Posserva-
zione fatta da Girolamo a proposito dell'Apocalisse nella lettera a Paolino di Nola
(394 d.C.): «Custodisce tanti misteri quante sono le sue parole (tot habet sacramenta
quot verba)».
Il simbolismo cosmico permette di distinguere anzitutto tra
il «cielo», spazio della trascendenza divina e luogo del suo
«trono», e la «terra», teatro della storia umana. Come elemen
to della creazione, insieme alla terra e al mare, anche il cielo,
però, può rappresentare lo spazio cosmico vitale in cui l’essere
umano è collocato. Il simbolismo cosmico tocca quindi il let
tore perché anima e risignifica dinamicamente - talvolta in
modo brusco, sorprendente e terrificante - il suo ambiente
vitale esterno, quello sul quale poggia, nel quale respira e dal
quale dipende la sua sussistenza fisica. Gli sconvolgimenti co
smici o le trasformazioni violente cui, nelle visioni, il cosmo
viene sottoposto nei suoi macro e micro elementi (il cielo con
i suoi astri; la terra con la sua vegetazione, i suoi rilievi e i suoi
abitanti; le acque dolci e salate con la loro fauna; gli elementi
meteorologici) sono, quindi, simboli che, comunicando una
radicale destabilizzazione fisica, devono impressionarlo inte
riormente e svelargli la dimensione invisibile degli eventi visi
bili della storia, permettendogli così di giudicarla oltre le ap
parenze.
Il simbolismo antropologico., invece, tocca il lettore dall’in
terno quanto alla sua identità relazionale - di genere (uomo e
donna), di età (grandi e piccoli), di ruolo e dignità sociale (ric
chi e poveri, signori e schiavi, commercianti e acquirenti, sog
getti che stanno in piedi diritti e altri che si prostrano o rice
vono prostrazione ecc.) - e alla qualità della sua esistenza (il
simbolismo delle vesti, per esempio, esprime la qualità e la
vita della persona). Lo rappresenta, soprattutto, nei legami che
costruiscono intimamente la sua identità e la sua esistenza sto
rica (quello genitoriale e filiale, fraterno e sponsale), nei luoghi
che la esprimono (casa, città, piazza) e nei gesti o eventi che
concretizzano la sua identità (il banchetto e la cena intima; le
nozze; il parto) o rischiano di distruggerla (la prostituzione per
chi è legato da un vincolo di fedeltà; la guerra per chi vive si
curo nel suo assetto sociale).
Il ricorrente simbolismo numerico, forse il più travisato nel
la storia dell’interpretazione del testo, è quello che più decisa
mente rivela la valenza qualitativa, e non quantitativa o reali
stica, delle visioni simboliche dell’Apocalisse imprimendo al
loro scorrere e al loro articolarsi interno una «form a» che ne
permette la comprensione autentica, tanto nei particolari quan
to nella totalità. Come vedremo a breve, infatti, il simbolismo
numerico è quello su cui si regge fondamentalmente la strut
tura stessa dell’Apocalisse. Alcuni numeri, in particolare, sono
cifre ricorrenti: sette indica totalità, pienezza, perfezione; tre e
mezzo, la metà di sette, esprime un tempo breve, calcolato e
limitato; lo stesso valore ha l’equivalente misura dei tre anni e
mezzo (corrispondente a 42 mesi o 1260 giorni o un tempo,
due tempi e la metà di un tempo: Dn 7,25; Ap 11,2-3; 12,14;
13,5); dieci dice falsa perfezione o tempo limitato anche se
lungo; mille è un moltiplicatore e, quando è usato come cifra
cronologica, esprime la misura qualitativa di un tempo che
vede affermarsi la presenza e la forza attiva di Dio e del suo
Cristo nella storia umana indipendentemente dalla sua durata
quantitativa. Nell’Apocalisse giovannea, come nel resto della
letteratura apocalittica, il simbolismo numerico sfruttato come
cifra cronologica è particolarmente importante perché signifi
ca che il tempo è misurato da Dio e sta sotto il suo controllo
che stabilisce un termine all’umana sofferenza in un mondo
iniquo. La sua calcolabilità, però, non è quantitativo-reale, cioè
non può esprimersi nelle misure umane, con calcoli reali, ma
solo in termini simbolici, in cifre di perfezione o pienezza come
in cifre di incompiutezza e di parzialità, in cifre di successo
(dodici con i suoi multipli, simbolo del popolo di Dio) o di
fallimento (sei che ne è la metà). Di queste misure il lettore
sapiente può appropriarsi e servirsi per comprendere e per
vivere anche nel proprio presente storico.
Il simbolismo teriomorfo: i testi apocalittici spiccano spesso
per il ricco bestiario, realistico o immaginifico, con cui alludo
no metaforicamente a singole figure o potenze dominanti nel
passato o presente storico dei lettori, al popolo stesso di Israe
le o a personaggi significativi del suo futuro di redenzione,
oppure ancora a eventi che sconvolgono e devastano resisten
za umana. In Dn 7, per esempio, il succedersi di quattro bestie
(un leone con ali di aquila; un orso; un leopardo con ali di
uccello; un’altra bestia con dieci corna) rimanda al succedersi
del dominio dei babilonesi, dei medi, dei persiani e dei succes
sori di Alessandro e un singolo corno dell’ultima bestia, spun
tato tra le altre dieci, allude a un singolo dominatore, il seleu-
cide Antioco IV. Anche l’Apocalisse giovannea sfrutta a vari
livelli questo codice simbolico e menziona diciassette animali
diversi. Cristo viene presentato al contempo come «leone di
Giuda» e come «agnello immolato» (Ap 5,5-6) e la triade an
tidivina costituita dal «d rago» e dalle «due bestie» nei cc.
12-13 rappresenta rispettivamente il satana, l’impero romano
e i sacerdoti locali del culto imperiale nelle città dell’Asia.
Le visioni dell’Apocalisse sono, dunque, architetture simbo
liche in movimento continuo, spesso ottenute mediante la so
vrapposizione di vari simboli che possono essere decodificati
come elementi di una frase simbolica continuata, collegati tra
loro in modo che si possa passare dall’uno all’altro senza solu
zione di continuità (cfr. gli abiti del «simile a Figlio d’uomo»
nella visione inaugurale), o formare una struttura discontinua
nella quale devono essere decifrati uno alla volta perché, col
legandone poi i significati, il lettore possa ricavare il senso com
plessivo della figura che essi concorrono a formare e applicar
lo al suo presente. I simboli, nel loro intrecciarsi, intendono
rappresentare, infatti, non singoli e precisi eventi storicamente
irripetibili ma una struttura e una forma della storia, vista dal
punto di vista di Dio, che potrà tradursi di volta in volta in
diversi eventi concreti e che in quelli potrà essere riconosciuta
dal lettore esperto, formato alla scuola del veggente. Tale strut
tura o forma serve per capire: significa la rivelazione e deter-
mina la comprensione. Dalla sua corretta decodificazione di
pende, in ultima analisi, la comprensione dell’intero messaggio
del testo.
1.4. La struttura letteraria dell’Apocalisse
come diacronia di una sincronia
Strettamente collegata all’interpretazione del suo mondo
simbolico è l’interpretazione della struttura del testo, una del
le questioni più stimolanti nel dibattito esegetico sull’Apoca
lisse: comprendere la struttura del testo significa, infatti, riu
scire a vedere «quanto vide» il profeta Giovanni (1,2)!
1.4.1.1 dati
Caratteristiche letterarie diverse e specifiche permettono di
distinguere senza difficoltà un prologo che definisce il titolo e
la funzione del libro (1,1-3), l’apertura epistolare che introduce
i destinatari della lettera circolare al racconto dell’esperienza di
rivelazione avuta da Giovanni (1,4-8), il racconto della visione
inaugurale del Risorto (1,9-20) con la sezione dei messaggi alle
sette chiese che da essa dipende direttamente (2,1-3,22) e l’epi
logo del testo (22,6-21). Su queste pericopi o sezioni non ci
sono dibattiti di rilievo, se non forse nel caso del prologo che
alcuni vorrebbero esteso fino al v. 8 leggendo in esso un dialogo
liturgico iniziale (1,1-8) speculare a quello finale (22,6-21). Mol
teplici difficoltà sorgono, invece, quando si entra nel cuore del
testo e, cioè, nella sequenza delle visioni vere e proprie che si
estende da 4,1 a 22,5. La principale consiste nel fatto che tale
sequenza narrativa, che procede a ritmo serrato in modo appa
rentemente lineare, si compone poi di immagini e simboli che
si ripetono ciclicamente con gli stessi temi e lo stesso messaggio.
In effetti, attraverso la reiterazione di sezioni imperniate sul
simbolismo numerico (settenario e ternario), le visioni che di
pendono da quella centrale dei cc. 4-5 e prendono avvio al c.
6 quando l’Agnello comincia a sciogliere i sigilli del libro, sono
concatenate tra loro in una sequenza lineare e progressiva me
diante la quale gli eventi che si succedono sembrano descrive
re una storia che ha un suo sviluppo drammatico e trova il suo
culmine propriamente escatologico nella discesa della Gerusa
lemme celeste (21,1-22,5). A partire dal c. 6, infatti, settenari
e trittici si incastrano l’uno nell’altro: l’ultimo elemento di cia
scuna serie è privo di consistenza autonoma e riceve il suo
contenuto dalla nuova serie che si apre. Così, l’ultimo sigillo
della sezione dei sette sigilli (6,1-8,1) dischiude la sezione dei
sette angeli con le sette trombe (8,2-11,19), le ultime tre delle
quali coincidenti con tre «guai»; il terzo di essi, coincidente
con la settima tromba, non ha consistenza altra che una nuova
serie ternaria, quella dei tre segni, l’ultimo dei quali consiste in
un nuovo settenario, quello dei sette angeli con sette coppe
(12,1-16,21). Subito dopo, l’angelo interprete che invita il veg
gente a contemplare prima la Babilonia prostituta e il suo giu
dizio (17,1) e poi la Gerusalemme celeste (21,9) è, a sua volta,
uno degli angeli protagonisti dell’ultimo settenario, a dimostra
zione della coerenza con cui il veggente tiene sempre legate
l’una all’altra le sue visioni anche quando non ricorre più a
serie numeriche. Il fatto che il testo proceda intrecciando tra
loro sequenze numeriche che tendono sempre più rapidamen
te a un termine, prova, dunque, che non ci si trova davanti
alla mera ripetizione del medesimo: nei cc. 15-16, in partico
lare, si dice espressamente che i sette flagelli che stanno per
essere descritti sono «gli ultimi» (15,1) e, al realizzarsi del set
timo, una voce potente dice: «E accaduto!» (16,17).
Non meno evidente, d’altra parte, è il fatto che le serie nu
meriche siano incastrate l’una nell’altra, quasi in un gioco di
scatole cinesi, come se sin dall’inizio l’ultima fosse contenuta
già nella prima. La somiglianza strutturale tra alcune visioni
(cfr. la visione dei redenti nel c. 7 e in 14,1-5) o sequenze (cfr.
i cicli di flagelli in 8,6-9,21 e 15,5-16,21), poi, spinge a chie
dersi se - attraverso immagini diverse poi riprese, arricchite e
approfondite - non venga comunicata al lettore sempre la me
desima realtà, con un procedimento a spirale che già gli antichi
commentatori avevano definito della «ricapitolazione» (ciò che
prima è stato annunciato viene poi ripreso e approfondito).
Spesso, l’uso stesso dei tempi verbali indica che ciò che è an
cora da venire si considera, in realtà, come già passato (15,1: i
flagelli non sono ancora stati realizzati ma si dice che con essi
«si è compiuta» l’ira di Dio). Il carattere simbolico di molte
cifre offerte a misura qualitativa del tempo15 impedisce, poi, di
inquadrare le diverse visioni entro un computo perfettamente
lineare, quasi ricavandone un calendario escatologico. Tali ci
fre, piuttosto, ripetendosi avanti e indietro nel procedere del
racconto, conferiscono un carattere strutturale alle visioni che
lo compongono. Il lettore, dunque, è chiamato a recepirle non
come spettatore passivo davanti al film degli eventi che acca
dranno ma come chi deve appropriarsi del loro significato con
estrema vigilanza e sapienza facendosi protagonista insieme
all’Agnello, re e giudice vittorioso, del combattimento in atto
per il regno che esse significano e applicandone il messaggio
alla propria situazione storica concreta.
1.4.2. L’interpretazione
Nella distinzione tra «le cose che hai visto, quelle che sono
e quelle che devono accadere dopo queste» (1,19), è presente
15 Si vedano i «tre anni e mezzo» del ministero profetico dei due testimoni nel
c. 11; i tempi del peregrinare della donna nel deserto al riparo dal serpente in 12,14;
i «mille anni» del c. 20.
in nuce la scansione tra le due parti principali dell’Apocalisse,
la prima dedicata alla visione inaugurale del Risorto («le cose
che hai visto»: 1,9-20) e ai messaggi alle chiese in considerazio
ne della loro condizione attuale («le cose che sono»: 2,1—3,22);
la seconda dedicata alle visioni propriamente apocalittiche,
quelle cioè che rivelano i dinamismi e l’esito salvifico della
storia dal punto di vista di Dio e dell’Agnello («le cose che
devono accadere dopo queste»: 4,1-22,5).
Dal punto di vista di chi guarda dal cielo, le visioni che si
susseguono non sono altro che «la rappresentazione simbolica»
della vittoria pasquale di Cristo sulla morte e sulle potenze e
del suo esito escatologico: è questo «ciò che deve accadere in
breve» secondo la rivelazione del disegno divino (cfr. Dn 2,28-
29 e Ap 1,1; 4,1; 22,6).16Da questo punto di vista metastorico,
le visioni della sezione non dicono altro che la sincronia del
combattimento già accaduto e vinto dall’Agnello una volta per
tutte. Nulla di nuovo deve accadere dopo che già non sia ac
caduto. Per questo, dunque, simboli, immagini e temi si ripe
tono e si approfondiscono.
Dal punto di vista storico dei credenti, che vivono ciascuno
il proprio chrónos esistenziale, l’avvenimento cristologico ha
però inevitabilmente uno svolgimento sperimentabile nel tem
po: è il passato annunciato (Xevangelo per tutte le nazioni: 14,6)
che imprime un dinamismo nuovo al presente e l’orienta deci
samente al futuro. Alle visioni dei cc. 6-22, allora, tocca espri
mere la diacronia della sincronia teologica e cristologica, con
tutto il peso di sfida, sofferenza, rischio, sconfitta a volte (13,7),
che il dispiegarsi storico del conflitto cristologico per il regno
porta con sé. A partire, dunque, dalla visione del trono celeste
e dell’Agnello vittorioso, il racconto delle visioni dell’Apoca
lisse si muove continuamente su due livelli: quello della storia
materiale con i suoi protagonisti umani, che si svolge in un
chrónos di durata indefinibile e che viene evocata mediante un
linguaggio simbolico plastico che, pur alludendo a situazioni
ed eventi vissuti dalle chiese della provincia romana dell’Asia
alla fine del I secolo d.C., non perde mai la sua riserva di signi
ficato e in cui ogni lettore può riconoscere le costanti della
propria esperienza mondana (livello storico)', quello della storia
teologica - i cui protagonisti sono Dio, Cristo e gli eserciti,
angelici e umani, schierati dalla loro parte contrapposti al dra
go, alle sue bestie e ai suoi eserciti antagonisti dell’opera divina
- che nell’arco dello sviluppo dell’Apocalisse è raccontato at
traverso il procedimento della ricapitolazione (livello metasto
rico).
Nell’intrecciarsi dei due livelli, dunque, progresso lineare e
movimento a spirale si congiungono in un’architettura narra
tiva «straordinariamente meticolosa», con una «complessa re
te di rimandi letterari, paralleli e contrasti che danno forma al
significato sia delle parti sia dell’insieme»,17 e che procede fa
cendo leva sul ritmo simbolico settenario e ternario.
La struttura del testo può essere quindi descritta come
segue:
Prologo (1,1-3)
Prima parte (1,4-3,22): il presente delle chiese al cospetto del
Risorto
1,4-8: il saluto del profeta Giovanni alle chiese
1,9-20: visione inaugurale del Risorto nel «giorno dominico»
2,1-3,22: settenario dei messaggi alle chiese
Seconda parte (4,1-22,5): la sovranità vittoriosa di Dio e del
l’Agnello si dispiega nella storia
Prima sezione introduttiva (cc. 4-5): visione in cielo del trono
regale di Dio, del libro sigillato con sette sigilli e dell’Agnel
lo. Da essa dipendono, singolarmente e come totalità, le
sezioni successive (cfr. l’apparire in 4,5 di una formula che
fa riferimento alla teofania sinaitica in Es 19,16 e ricorre poi
in Ap 8,5; 11,19; 16,18-21 ogni volta accresciuta)
Seconda sezione (cc. 6,1-8,5): 1’Agnello scioglie i sette sigilli.
Prima del settimo sigillo, una visione intermedia sull’immen
sità e universalità della salvezza (c. 7) sospende la sequenza
dei giudizi
Terza sezione (cc. 8,1-11,19): sette angeli hanno sette trombe
che scandiscono i flagelli contro l’idolatria tradizionale. Pri
ma della settima tromba, di nuovo una pausa con visioni
intermedie (10,1-11,13) che intreccia l’azione del giudizio
divino a quella umana del ministero profetico
Quarta sezione (12,1-16,21): un trittico di segni (la donna, il
drago con le sue due bestie, i sette angeli con le sette coppe
con sette flagelli contro l’idolatria della bestia). Prima che il
terzo segno si dispieghi (15,5-16,21), il veggente attira il let
tore sulla visione di quanti vincono la bestia, la sua immagi
ne e il suo marchio (15,2-4).
Quinta sezione (17,1-22,5): due ostensioni parallele e antiteti
che, quella di Babilonia prostituta, di cui il veggente con
templa il crollo e il giudizio (cc. 17-18) e quella della Geru
salemme sposa, di cui il veggente contempla l’architettura
splendente (21,9-22,5). Aperte allo stesso modo (17,1-3 / /
21,9-10) esse abbracciano, al loro interno, un’importante
sezione di transizione, nella quale dalla celebrazione del giu
dizio di Babilonia si passa alla celebrazione delle nozze
dell’Agnello con la Gerusalemme nuova attraverso la vitto
ria di Cristo Agnello e il giudizio finale (19,1-21,8). Il pa
rallelismo tra i versi che sigillano il giudizio di Babilonia e
la proclamazione delle nozze dell’Agnello (19,9-10) e quelli
che seguono all’ostensione della Gerusalemme celeste (22,6-
9) mostra lo stretto legame tra la sorte della prostituta e
l’avvento della sposa: si tratta delle due dimensioni specu
lari, positiva e negativa, dell’unico disegno divino rivelato a
Giovanni («ciò che deve accadere in breve»).
Epilogo: 22,6-21
Pur non essendo formalmente racconto e non procedendo
in maniera meramente lineare, l’Apocalisse è in questo senso
pienamente “storia”: non «progresso né ritorno, ma trasforma
zione del medesimo: diacronia di una sincronia».18 Se si rap
presentasse graficamente, la struttura dell’Apocalisse sopra
descritta apparirebbe, soprattutto nella sezione delle visioni
vere e proprie (4,1-22,5), come un’architettura che si avvolge
su se stessa in un movimento a spirale. Tra un prologo (1,1-3)
e un epilogo (22,6-21) che mettono in scena il Rivelatore, il suo
angelo, il veggente, il libro e i suoi destinatari, la considerazio
ne del vissuto attuale delle chiese, interpretato attraverso la
parola del Risorto risuonante come profezia in una lettera cir
colare (1,4-3,22), fa da sfondo permanente e indispensabile
alle visioni simboliche mediante le quali viene comunicata ai
lettori la «rivelazione di Gesù Cristo» (4,1-22,5). Il contenuto
dei sette messaggi alle chiese, infatti, non è che l’applicazione
prolettica del significato delle visioni simboliche che seguiran
no al vissuto storico delle comunità che, ascoltata la parola
viva del Risorto, potranno riconoscere forme e contenuti della
loro partecipazione attiva al disegno divino che le visioni rive
leranno.
La manifestazione di questo disegno ha nella visione del
trono, del libro sigillato e dell’Agnello che solo può aprirlo (cc.
4-5) il punto di partenza, il centro interpretativo permanente
e il punto di arrivo. E la sovranità vittoriosa, al contempo sto
rica e metastorica, di Colui che siede sul trono e dell’Agnello,
proclamata prima nella liturgia celeste (cc. 4-5) e dispiegata
poi progressivamente nella storia in un movimento a spirale
(cc. 6-16), che si manifesterà nella sua realizzazione piena
all’apparire della Gerusalemme sposa, i cui membri, resi
18 Secondo la nozione di “storia” che traspare dalle pagine di Beauchamp, cfr. il
saggio introduttivo di A. BERTULETTI, «Un modello di teologia biblica», in P. BEAU
CHAMP, Lutto e l’altro Testamento 2. Compiere le Scritture, Glossa, Milano 2001, XV.
dall’Agnello «regno e sacerdoti» per il Dio e Padre suo (1,5-6;
5,9-10), possono esercitare per l’eternità la loro dignità sacer
dotale e regale (22,3-5). Dai cc. 4-5, dunque, in un movimen
to a spirale, si dipartono e si dispiegano progressivamente le
serie settenarie e ternarie, fino a che il loro vero contenuto ed
esito ultimo appare pienamente nel crollo di Babilonia e nella
discesa della Gerusalemme sposa (17,1-22,5), meta escatolo
gica di ogni generazione credente già realizzata dal punto di
vista celeste e alla quale tendere storicamente nella sequela del
Cristo e nel combattimento al suo fianco.
2. Esegesi di Ap 1,4-8: il saluto del profeta Giovanni
alle chiese
2.1. Contesto e struttura
Il carattere autonomo del testo è definito dalla formula in
troduttiva del v. 4a, tipica dei prescritti epistolari, che separa
questi versi dai tre che lo precedono, considerabili come il
prologo vero e proprio dell’Apocalisse. E determinato anche
dal ricorrere del Nome divino, in inclusione, ad apertura (v.
4b) e chiusura (v. 8) del testo. Col v. 9, d ’altra parte, inizia una
nuova tappa della testimonianza del veggente: il racconto del
la visione inaugurale che lo muove a scrivere la rivelazione in
forma di lettera circolare alle sette chiese dell’Asia (cfr. 1,11.19).
I w. 4-8 hanno però legami molto stretti sia con quello che
precede che con quello che segue. Insieme ai w. 1-3 contribui
scono a definire la natura peculiare dell’Apocalisse come rive
lazione profetica scritta trasmessa alle chiese in forma di lette
ra circolare. Come il v. 3, inoltre, anche i w. 4-8 richiamano il
contesto liturgico e il protagonismo del lettore e dell’assemblea
in ascolto che esso presuppone: i w. 5b-6 per la solenne dos
sologia sigillata da un amen responsoriale; i w. 7 e 8 per la
forma oracolare che li caratterizza e che rimanda all’esercizio
della prima profezia cristiana nel contesto dell’assemblea litur
gica (cfr. At 13,1-3; lCor 12-14). Con i w. 9-20, d’altra parte,
i w. 4-8 costituiscono l’apertura formale della lettera circolare
del veggente-profeta Giovanni che conterrà altre dossologie
(Ap 4,9; 5,13-14; 7,12), oracoli (14,13; 16,15; 19,9; 21,5-8;
22,12-15.18-20), e autoproclamazioni divine (21,6) come quel
li dei w. 4-8. Dopo il prologo, dunque, questi versi hanno un
ruolo di transizione: comunicano la «grazia» e la «pace», qua
li beni dell’alleanza compiuta e vissuta, e invitano sin dall’inizio
chi ascolta a compromettersi nella relazione con Dio e con
Cristo che in questi versi già si delinea nei suoi termini essen
ziali.
Dal punto di vista formale, il testo si compone di quattro
piccole unità le cui caratteristiche letterarie meritano di essere
analizzate più da vicino.
I w. 4-5a hanno la struttura tipica di un prescritto epistola
re neotestamentario: il mittente (Giovanni) si rivolge ai desti
natari (le sette chiese che si trovano nell’Asia) e augura loro
«grazia e pace» (cfr. Rm 1,7; lCor 1,3; E f 1,2; lP t 1,2; 2Pt 1,2)
che hanno in Dio la vera sorgente («da parte di», normalmen
te apó + genitivo). Diversamente da quanto fanno spesso gli
altri autori nei prescritti epistolari, il mittente non sente qui
l’esigenza di qualificare teologicamente se stesso o i suoi de
stinatari: lo farà in seguito, al momento di raccontare la visio
ne del Risorto dal quale riceverà il mandato di scrivere (v. 9).
Ad apertura della lettera, invece, la sua attenzione si concentra
tutta sulla fonte divina di grazia e pace che, diversamente da
quanto accade negli altri prescritti neotestamentari che fanno
riferimento a Dio Padre e a Gesù Cristo, è richiamata in ter
mini triadici con espressioni teologicamente ricchissime e, in
buona parte, senza paralleli nel Nuovo Testamento («Colui
che è, che era e che viene»; «i sette sp iriti...»; «G esù C ri
sto...»).
Come frequentemente accade nell’epistolario neotestamen
tario (2Cor 1,2-4; Gal 1,5; E f 1,3-14; lP t 1,3-12), al prescritto
segue un rendimento di grazie o una lode a Dio che qui si
esprime in forma di dossologia (w. 5b-6). Chi scrive passa dal
la seconda persona plurale del v. 4 («grazia a voi.. .») alla prima
persona plurale (« a am a... ha svincolato n oi... nostri ... ha
fatto di noi»), unendosi nella dossologia ai suoi destinatari e
percependosi, insieme a loro, oggetto dell’azione passata e pre
sente del Cristo. Proprio il breve riferimento narrativo all’agi-
re storico-salvifico di Cristo costituisce una peculiarità conte
nutistica unica di questa dossologia.
Con il v. 7 si passa invece a un’affermazione solenne in terza
persona, prima riferita a Cristo, soggetto sottinteso di un «ve
nire» imminente, poi riferita a quanti vedranno il suo «venire».
L’affermazione, introdotta dall’interiezione «ecco» (idou) che
determina una discontinuità rispetto a quanto precede e cor
risponde all’ebraico hinnèh posto tante volte ad apertura di
oracoli profetici nell’Antico Testamento (Is 3,1; 7,14; 66,15;
Ger 16,9; Zc 14,1), è in realtà una citazione conflata di Dn 7,13
relativa al Figlio d’uomo e di Zc 12,10-12 che parla del rigetto
del popolo nei confronti dell’intervento di Dio tramite il suo
inviato. Il verso, dunque, è un oracolo che fonde insieme, rileg
gendoli in prospettiva cristologica ed escatologica, due testi
anticotestamentari. Il «sì, amen» che segue, alla fine del v. 7,
funge da conferma solenne della verità dell’oracolo profetico-
apocalittico.
Nel v. 8 si ritorna alla prima persona singolare, ma stavolta
il soggetto locutore è Dio stesso che pronuncia il suo Nome in
prima persona. Ci si trova, così, davanti a un secondo oracolo
profetico, riconoscibile formalmente dalla presenza della for
mula «dice il Signore Dio» (légei Kyrios ho Theós), corrispon
dente all’ebraico ne’um-’àdónày o ’àmar-Yhwh («oracolo del
Signore/dice il Signore»: Am 3,13; G l 2,12; Is 43,10.12; Ger
2,19; Ez 43,19), non presente altrove in tutto il Nuovo Testa
mento. Questo secondo oracolo profetico amplifica e sigilla il
precedente, come accade altre volte nel libro (Ap 19,9; 21,5-8).
Il modo in cui queste unità sono intrecciate costituisce la
ricchezza letteraria e teologica peculiare di questi versi di aper
tura. Se, però, le caratteristiche letterarie che le identificano e
distinguono Luna dall’altra sono evidenti, il senso della loro
combinazione nella struttura unitaria del testo può essere com
preso in modi diversi. Due sono le vie percorribili:
- leggere la pericope, proprio a partire dalle discontinuità lette
rarie che vi si manifestano, come un testo scritto in vista del
dialogo liturgico tra il lettore del testo - che presterebbe la sua
voce all’autore Giovanni - e Passemblea dei destinatari radu
nata per il culto nel giorno del Signore. Il lettore proclamereb
be il saluto epistolare (w. 4-5a), Passemblea risponderebbe con
la dossologia (w. 5b-6), il lettore riprenderebbe la parola pro
nunciando un oracolo (v. 7ab), Passemblea risponderebbe con
l’assenso «sì, amen» (v. 7c) e il lettore chiuderebbe con l’auto-
proclamazione divina posta a sigillo del dialogo (v. 8);19
- considerare la pericope come il saluto epistolare d ’apertura
dell’Apocalisse, reso originale proprio dal modo in cui le diver
se forme letterarie che la compongono, e che si ritroveranno
altrove nel testo (dossologie e oracoli), vi sono rappresentate e
composte ad arte con una specifica intentio teologica e retorica
che è quella di coinvolgere fin dall’inizio il lettore nell’esperien
za visionaria e profetica di chi scrive così da renderlo protago
nista attivo nel dispiegarsi storico della rivelazione cristologica
della presenza sovrana e salvifica di Dio nel mondo; in modo
che possa «venire egli stesso a Colui che viene»20 (cfr. 22,12.
17.20). La traduzione liturgica del testo non sarebbe da esclu
dere, in questo caso, e potrebbe essere un’adeguata attuazione
della sua intenzione comunicativa, ma non spiegherebbe gene
19 L’ipotesi è condivisa da diversi autori, ma è stata particolarmente approfondita
ed elaborata tra i primi da Vanni (cfr. UApocalisse, 101-113).
20 Prigent, 499.
ticamente l’architettura formale di questi versi che si dovrebbe,
piuttosto, al fatto che l’autore ha voluto concentrarvi in modo
programmatico e rappresentativo la pluralità delle forme lette
rarie presenti nel libro.21
Scegliere l’una o l’altra via di interpretazione ha delle con
seguenze rilevanti. Una, in particolare, mi sembra da sottolinea
re: se si sceglie la via del dialogo liturgico, le parti del testo
devono essere attribuite rigorosamente all’uno o l’altro attore
dell’azione liturgica. Così, la dossologia può essere attribuita
soltanto all’assemblea e non, per esempio, all’autore che si sen
tirebbe coinvolto in essa insieme ai suoi destinatari e non meno
di loro; analogamente, il «sì, amen» che chiude il v. 7 dovrebbe
essere attribuito necessariamente all’assemblea e non potrebbe
essere attribuito né alla voce profetica che pronuncia l’oracolo
né a Colui che proclama il suo Nome nel v. 8. Ci sono, però,
altre possibilità di interpretazione. La dossologia, che segue al
prescritto come in altre Lettere neotestamentarie, potrebbe
esprimere, in un rendimento di grazie corale, la percezione che
la comunità, rappresentata da chi scrive, ha dei beni della sal
vezza. Ancora: la solenne autoproclamazione divina del v. 8,
che sigilla l’oracolo del v. 7, potrebbe avere nel «sì, amen» che
lo precede la sua non meno solenne introduzione. Dio stesso
confermerebbe la verità, l’autenticità e il sicuro compimento
dell’oracolo con il suo indefettibile «sì, è vero». Qualcosa di
simile accade in 14,13 quando lo Spirito conferma col suo «sì»
la voce celeste o in 22,20 quando Gesù stesso conferma col suo
«sì» la prossimità della sua venuta.
Proprio considerando che, eccezion fatta per il prescritto,
le altre forme letterarie congiunte in questi versi ricorrono al
trove nel libro in composizioni che non si possono spiegare
egualmente come dialoghi liturgici, ritengo la seconda via di
21 Aune, voi. 1,23-59.
comprensione del testo meno limitante, più aperta. Una cosa,
infatti, è riconoscere il Sitz im Leben inconfondibilmente cul
tuale di molte delle forme letterarie presenti nell’Apocalisse e
ritenere che «chi ha scritto aveva la speranza, o la certezza, che
tutto il libro sarebbe stato oggetto di una lettura cultuale»,22
altra è ritenere che egli avesse inteso comporre un testo litur
gico in cui le diverse parti fossero rigidamente assegnate, a
seconda del ruolo, ai diversi membri dell’assemblea in vista
della proclamazione liturgica. Aprendo, dunque, la sua lettera
circolare alle chiese (w. 4-5 a) Giovanni eleva al Cristo reden
tore la dossologia comunitaria (w. 5b-6) e ne annuncia la ve
nuta certa e imminente agli occhi di tutte le nazioni (v. 7ab).
La voce e l’autorità stessa del «Signore D io» confermano la
verità dell'oracolo profetico nel suo spessore cristologico e teo
logico (w. 7c-8).
2.2. Traduzione e commento
4Giovanni alle sette chiese che sono nelTAsia. Grazia a voi e pace
da Colui che è, che era e che viene e dai sette spiriti, che stanno
davanti al suo trono 5e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il pri
mogenito dei morti e il principe dei re della terra.
A colui che ci ama e ci ha svincolato23 dai nostri peccati con il suo
sangue 6e ha fatto di noi un regno, sacerdoti al Dio e Padre suo, a
lui la gloria e il potere nei secoli dei secoli.24 Amen!
22 Prigent, 86.
23 II codice Porfiriano, molti minuscoli e la Vulgata leggono lousanti («che ci ha
lavato») invece che lysanti («che ci ha svincolato») seguito da apó piuttosto che da ek.
La lettura con il verbo lyd è meglio attestata Op18, Sinaitico, Alessandrino, codice di
Efrem riscritto) e si comprende bene sullo sfondo dell'uso dei Settanta (cfr. Is 40,2:
«Il suo peccato è stato dissolto, perdonato [lélytai]»). La variante potrebbe avere
un'origine battesimale (cfr. anche Gv 13,10).
24 «Dei secoli» è incerto. È molto più attestato (Sinaitico, codice di Efrem riscritto,
tradizione bizantina, versioni latine e siriaca), ma manca in $p18, Alessandrino, Porfi
riano e in alcuni minuscoli. Potrebbe essere un'estensione liturgica della formula dos-
7a«Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà e coloro che lo
hanno trafitto e si batteranno [il petto] a causa sua tutte le tribù
della terra».
c«Sì, amen!
8Io sono l’Alfa e l’Omega - dice il Signore Dio - Colui che è, che
era e che viene, il Pantocratore».
vv. 4-5a. Costruito formalmente come tanti altri prescritti
neotestamentari, il saluto che apre la lettera alle sette chiese
dell’Asia (elencate nominalmente in 1,11) si distingue nella
formulazione, sia per la struttura triadica che caratterizza il
riferimento a Dio sorgente ultima di ogni benedizione («grazia
e pace»), sia per le scorrettezze grammaticali cui l’autore ricor
re per esprimere e far risaltare la trascendenza divina. La prima
posizione, che nei prescritti neotestamentari viene riservata
generalmente a Dio Padre, qui viene riservata a «Colui che è,
che era e che viene» (alla lettera: «l’Essente, l’Era e il Venien
te»), declinato in greco al nominativo - benché retto da una
preposizione iapó) che dovrebbe essere costruita col genitivo
- quasi a esprimere l’indeclinabilità del Nome divino. L’espres
sione giovannea è, infatti, una riformulazione senza preceden
ti del Nome rivelato a Mosè (Es 3,14) che, se nella formulazio
ne del testo masoretico insiste sulla libertà dell’essere e dell’es-
serci di Dio che si promette al popolo che sta per liberare come
il suo stabile, affidabile, ma mai addomesticabile futuro (’ehyeh
’àser ’ehyeh, alla lettera: «sarò chi/ciò che sarò»), nella tradu
zione greca dei Settanta insiste piuttosto sulla permanenza di
vina nell’essere (ego eimiho on, «io sono l’essente/colui che è»).
Recependo dalla tradizione biblica, anche alla luce della
successiva riflessione giudaico-ellenistica e, soprattutto, alla
luce della rivelazione cristologica, le diverse potenzialità di sen
so presenti nella rivelazione del Nome, Giovanni interpreta
sologica. Questa, però, ricorre per intero altre 11 volte nell’Apocalisse: la occorrenza
per 12 volte potrebbe essere voluta.
l’«essere» e l’«esserci» divino coniugando per due volte il ver
bo «essere» - non solo in forma di participio sostantivato come
nella Settanta («Colui che è»), ma anche legando l’articolo de
terminativo all’imperfetto del verbo, oltre ogni sostenibilità
grammaticale («l’Era») - e una volta il participio presente del
verbo «venire» che dà il giusto spazio, in prospettiva cristolo
gica, alla dimensione di futuro già presente nella proclamazio
ne del Nome.25 Dio, sorgente di ogni benedizione e fedele alla
sua alleanza, è il presente, il passato e il futuro dei credenti. La
riformulazione giovannea del Nome ricorre così tripartita altre
due volte: in 1,8, a inclusione, e in 4,8 quando i quattro esseri
viventi attorno al trono acclamano per tre volte la santità divi
na (il trisaghiorr, cfr. Is 6,3). Laddove, invece, il Nome divino
viene richiamato con una formulazione bipartita («Colui che
è e che era»: Ap 11,17; 16,5), ci si trova ormai in contesti in cui
le visioni del veggente anticipano la fine, quando il giudizio è
ormai definitivo e il «venire» divino nel suo regno non è più il
futuro atteso ma il compimento realizzato.
In seconda posizione compare il riferimento allo Spirito.
L’espressione «i sette spiriti, che stanno davanti al suo trono»
ritorna in forma simile in 4,5 («i sette spiriti di Dio») dove
decodifica il significato delle «sette lampade ardenti di fronte
al trono». Il simbolo delle sette fiaccole ardenti, che rappre
sentano lo sguardo penetrante di Dio attivo nel mondo (gli
«occhi») è di matrice biblica (Zc 4,2.10) ma l’uso di «spiriti»
al plurale è anche di sapore fortemente giudaico, perché riman
da alle speculazioni apocalittiche sugli spiriti/angeli della cor
te celeste o sugli spiriti/angeli decaduti. L’uso del plurale pneu-
mata per indicare gli angeli si trova anche in Eb 1,7.14 e non
25 II parallelo più forte di questa riformulazione giovannea si trova nel targum
Pseudo Jonathan a Dt 32,39: «Quando la memra’ del Signore sarà rivelata per riscat
tare il suo popolo, egli dirà a tutte le nazioni: “Ecco adesso che io sono colui che è e
colui che era e io sono colui che sarà e non c’è altro Dio alTinfuori di me”». Forse
tanto Giovanni che il targum dipendono da una tradizione liturgica comune.
è dunque estraneo al Nuovo Testamento, ma in questo caso il
sintagma sembra piuttosto esprimere totalità, pienezza, e met
te sin dall’inizio in stretta relazione le «sette chiese» al settu-
plice Spirito che, quale «spirito di profezia» (Ap 19,10; 22,6),
parlerà personalmente a ciascuna di loro e a tutte, sia nei sin
goli messaggi che nella totalità del testo. Sarebbe difficile spie
gare, del resto, come gli angeli possano essere sorgente di gra
zia e di pace e come possano occupare la posizione intermedia
tra Dio e Gesù Cristo. Si può, eventualmente, pensare che con
l’espressione Giovanni intenda sottolineare un aspetto dell’es
sere e della presenza dello Spirito, la sua «natura angelica».26
In 3,1 e 5,6 è poi evidente che il settuplice Spirito appartiene
proprio a Cristo stesso: i sette spiriti sono possesso del Risorto
e sono, anzi, gli occhi di Cristo Agnello. Lo Spirito, nella sua
pienezza, è messo dunque in relazione alla trascendenza e re
galità divina (il trono), alle chiese nella loro totalità e concre
tezza storica e al Cristo.
Il riferimento a questi è l’ultimo, in terza posizione, perché
sarà il punto di aggancio della dossologia interamente cristo
logica! Tre sono i titoli attribuiti a Gesù Cristo, che esprimono
ciascuno uno degli aspetti caratteristici della cristologia dell’au
tore: «il testimone fedele» (Gesù come testimone), «il primo
genito dei morti» (Gesù crocifisso e risorto), «il principe dei
re della terra» (Gesù come «re dei re e signore dei signori»:
17,14; 19,16). Il primo accosta due campi semantici e, dunque,
due temi teologici strettamente apparentati nell’Apocalisse e,
più in generale, nel corpus giovanneo: quello della testimonian
za e quello della verità/fedeltà di Cristo, rivelazione personale
dell’essere e della fedeltà del Dio dell’alleanza. Lo sfondo lin-
guistico-concettuale del campo semantico della fede/fedeltà
nell’Apocalisse, infatti, è lo stesso di quello sotteso al campo
semantico della verità nel Quarto Vangelo: la nozione di
26 L upieri, 110 parla di una «pneumatologia angelica o angelomorfica».
’emetl’émunàh dell’Antico Testamento e, dunque, la radice ’mn
che indica stabilità, fondatezza, solidità, affidabilità.
Se nel Quarto Vangelo e nelle Lettere la pervasività del ter
mine «verità» e del lessico apparentato («vero», «veritiero») fa
cadere l’accento soprattutto sulla valenza contenutistico-cono-
scitiva della rivelazione (per quanto inseparabile dalla dimen
sione personale e relazionale della testimonianza del rivelatore,
Gesù, fedele al Padre e agli uomini), nell’Apocalisse prevale
invece il lessico della fede/fedeltà e, dunque, la dimensione
dell’affidabilità e stabilità del testimone e della testimonianza.
Le parole della rivelazione cristologica, infatti, non sono solo
«veritiere» (alethinoi: 19,9) ma anche degne di fede (pistor:
21,5; 22,6) e Gesù non è solo testimone «veritiero» (3,7) ma
anche affidabile e fedele fino alla morte (ptstos: 2,13; 3,14;
19,11). Egli, anzi, si chiama «l’Amen» (3,14; cfr. Is 65,16)! Col
secondo titolo, le implicazioni della fedeltà/affidabilità del Cri
sto appaiono proprio nel rapporto con la morte, sperimentata
e vinta (Ap 1,18; 2,8), che lo rende primo tra i «fratelli» che
vincono la morte seguendo il Cristo fedele e condividendone
la regalità da risorti (cfr. Antipa in 2,13, ma anche 12,10-11;
20,4-6) e, per ciò stesso, superiore (àrchon, «principe», termine
che non ricorre altrove nel testo) ai «re (basileis) della terra»
che ne sono gli antagonisti simbolici governati dalla «grande
prostituta» (17,2.18; 18,3.9; 19,19; ma anche Sai 2,2) prima di
convergere anch’essi finalmente verso la Gerusalemme sposa
(Ap 21,24).
Il senso degli ultimi due titoli si può capire bene alla luce di
Sai 89,28.38 che appartiene ai salmi regali-messianici, che chiu
de il libro centrale del Salterio e che Giovanni sembra ripren
dere: «Egli mi invocherà: “Tu sei mio Padre, mio Dio e roccia
della mia salvezza” . E io lo costituirò primogenito (Settanta:
prdtótokon), altissimo per i re della terra... Una volta per tutte
ho giurato sulla mia santità, certo non mentirò a Davide: la sua
discendenza rimarrà in eterno e il suo trono davanti a me come
il sole; come la luna, stabilita in eterno, quale testimone fedele
(Settanta: ho màrtys pistós) nel cielo». Nella ripresa giovannea,
la qualità di «testimone fedele» nel cielo passa dalla luna, segno
cosmico della stabilità della alleanza, al Cristo stesso, attore-
protagonista di questa alleanza; questi, che è radice stessa pri
ma che stirpe di Davide (Ap 5,5; 22,16), è posto come «primo
genito» a partire dalla morte! La metafora della primogenitura,
riferita nella Scrittura a Israele (Es 4,22-23; Ger 31,9) e poi, in
specie, a Davide e alla sua discendenza secondo il protocollo
dell’adozione regale (2Sam 7), viene applicata a Cristo in rap
porto alla risurrezione dei morti di cui egli è primizia (Col 1,18
e At 26,23; Rm 1,4). Dunque, la sua sovranità sui potenti del
mondo e sulla storia viene affermata in termini di ulteriorità
rispetto a ciò che mette fine alla storia: la morte. Ciò risulta
ancora più significativo se si tiene conto del contesto ampio del
Sai 89 che termina con una lamentazione e una supplica mos
sa a Dio a partire dal suo apparente tradimento dell’alleanza
con Davide e dalla costatazione dell’ineluttabilità della morte
per ogni essere vivente (cfr. w. 39-52). Non diversamente da
quanto accade nel Quarto Vangelo (Gv 18,33-38), il tema del
la regalità di Gesù, che comincia così ad affacciarsi, ha a che
fare fin da principio con il suo scontro con la morte e con il
suo essere testimone fedele/affidabile di Dio nell’interezza del
la sua esperienza pasquale: egli è re a partire dal suo attraver
samento della morte (Ap 1,17) che rende a lui subordinati,
secondo il disegno di Dio sul suo Messia, tutti i re antagonisti
e la «bestia» con la quale portano avanti la loro battaglia anti
messianica.
w. 5b-6. Il nome di Gesù non è esplicitato nella dossologia
ma che questa sia rivolta a lui si deduce limpidamente dalle
azioni attribuite al soggetto che ne è destinatario e che descri
vono la sua opera redentrice: (alla lettera) «all’amante noi...
all’avente svincolato noi dai nostri peccati col suo sangue...
all’avente fatto noi regno...». La formula dossologica, costruì-
ta con il dativo di possesso («a colui che...») come in 5,13;
7,10.12 invece che in seconda persona (4,11; 5,9-10.12), è qui
molto sobria: compaiono solo i due sostantivi «gloria» e «p o
tere». Essi, però, esprimono il riconoscimento pieno, manife
stato in contesto corale e liturgico, della dignità di Gesù nelle
due dimensioni fondamentali: quella che gli viene dalla condi
visione piena della maestà divina (espressa dalla «gloria») e
quella che gli viene dall’esercizio della sovranità divina nella
concretezza storica dell’azione redentrice (espressa dal «pote
re»). La fonte probabile di questa e della altre dossologie
dell’Apocalisse è il ringraziamento di Davide in lC r 29,11-12:
«Tua, Signore, è la grandezza, la potenza, la gloria, lo splendo
re e la maestà, perché tutto nei cieli e sulla terra è tuo. Signore,
tuo è il regno e l’essere sovrano a capo di tutto. Da te proven
gono la ricchezza e la gloria; tu domini tutto; nella tua mano
c’è forza e potenza, dalla tua mano ogni grandezza e potere».27
Tanto il concetto di «gloria» quanto quello di «potere» e di
possesso sono collegati, come si vede, a quello della sovranità
che Dio esercita sul mondo. Declinata in chiave cristologica,
però, la sovranità di Dio in Cristo si manifesta nell’azione re
dentrice con la quale egli «ha fatto di noi un regno». La costi
tuzione del regno è in fondo il motivo principale della dosso
logia che viene elevata all’inizio dell’Apocalisse e proprio per
questo essa viene rivolta qui personalmente al Cristo. Il lin
guaggio utilizzato per descrivere la sua opera di salvezza fa
risuonare temi giovannei:
a) il verbo «amare» (agapàò), coniugato al participio presen
te per dire l’attualità del rapporto tra Cristo e il «n oi» dei
credenti, richiama l’amore di Gesù per i «suoi» (Gv 13,1.34;
15,9.12; lG v 4,19; ma cfr. anche Rm 8,35-39; G al 2,20; E f
27 Nei Settanta, nel v. 12, si nota un ampliamento rispetto al testo masoretico che
insiste ulteriormente sulla signoria divina usando per Dio il titolo di Pantocratore che
si ritroverà in Ap 1,8: «Tu su tutto eserciti il principato (sy pàntdn àrcbeis), Signore,
principe di ogni principato {ho àrchdn pàsès arches)..., Pantocratore (pantokràtdr)».
5,2.25) ed è interessante il fatto che in Apocalisse il verbo e il
sostantivo siano usati sostanzialmente in chiave ecclesiologica
per dire il rapporto tra il Risorto e là/le comunità simboleggia
te da Gerusalemme «accampamento dei santi», «città amata»,
luogo dello scontro finale tra il Cristo e i suoi avversari (Ap
2,4.19; 3,9; 20,9);
b) il verbo «sciogliere» (lyd), qui usato per indicare la libe
razione dai peccati come fossero vincoli che tengono incatena
ti, ricompare altre cinque volte nell’Apocalisse ma sempre in
senso fisico (sciogliere qualcosa o qualcuno da ciò che lo tiene
legato) e mai in relazione a «peccato» (hamartia). L’immagine
dello «scioglimento» dei peccati ha uno sfondo biblico e signi
fica il perdono (cfr. G b 42,9; Sir 28,2; Is 40,2; Mt 16,19; 18,18)
ma non ritorna altrove nella letteratura giovannea. Il collega
mento diretto col «sangue» di Cristo (alla lettera: «nel suo san
gue»), prezzo per l’acquisto dei riscattati (Ap 5,9), segno
dell’amore incarnato di Dio (12,11; 19,13) e strumento della
loro purificazione (7,14), dimostra però che Giovanni la assu
me trasformandola in immagine di redenzione esodica a sfon
do cultuale, essendo il sangue di Cristo sangue dell’Agnello
immolato (cfr. anche Gv 19,14.36; lG v 1,7-9; 2,2.12; 5,6.8). È
introdotto così il tema esodico-pasquale e, connessa ad esso,
comincia a emergere anche la dimensione bellica o conflittua
le implicita nel concetto di «regno» già nell’epopea esodica:
come la regalità divina non viene proclamata mai in Esodo
prima dell’esperienza della liberazione pasquale, culmine di un
braccio di ferro tra il faraone d’Egitto e di Dio di Israele (Es
4,22-23; 15,18), così la costituzione del «regno» non può esse
re proclamata indipendentemente dall’azione di contrasto e di
riscatto che ha avuto come prezzo la morte del Cristo-Agnello
(il sangue versato);
c) il v. 6, che contiene un’allusione evidente a Es 19,5-6,
esplicita ciò che nel v. 5 era implicito: aspetto positivo dell’ope
ra della liberazione dai peccati è la dignità nuova dei redenti,
«fatti» realmente ciò che erano stati chiamati ad «essere» nella
relazione di alleanza, «regno e sacerdoti».281 riscattati dal pec
cato (dimensione negativa e di contrasto dell’azione redentrice)
sono stati costituiti spazio e ambito in cui Dio esercita manife
stamente la sua regalità (dimensione positiva dell’azione reden
trice). Si può notare un’antitesi intenzionale tra il titolo di ba-
sileìs (Ap l,5a), usato al plurale nell’Apocalisse sempre per
riferirsi ai «re della terra» antagonisti del Messia e rigorosa
mente mai attribuito ai redenti, e il sostantivo basileta (1,6) che
invece esprime pienamente la loro nuova dignità di «popolo
acquistato» nel sangue dell’Agnello (5,9). Però, in quanto «re
gno» di Dio sulla terra, essi sperimentano pienamente e vivono
attivamente in sé la sua potestas regia (5,10; 20,4.6; 22,5). Lo
fanno, infatti, in qualità di «sacerdoti», titolo che ritorna non
a caso altre due volte in 5,10 e 20,6 in rapporto al tema del
regno e sempre per descrivere lo status dei redenti. Il loro at
tuale essere «regno» e testimonianza, anche fino al martirio,
dell’unica vera regalità degna di questo nome si manifesta nel
«servizio» (il titolo doùloi, «servi», ricorre in 1,1; 2,20; 6,11;
7,3; 10,7; 11,18; 19,2.5; 22,3.6) col quale offrono al «D io e
Padre» di Gesù il culto che gli spetta (cfr. anche 20,6: «Saran
no sacerdoti di Dio e di Cristo», cioè sacerdoti del culto che si
offre in Cristo al Padre). Sin dalla sua prima dossologia, dun
que, l’Apocalisse mette a tema la relazione tra la cristologia, la
soteriologia e l’ecclesiologia. Effetto dell’azione redentrice del
Cristo-Agnello è che gli uomini diventino regno (dimensione
discendente) esercitando come servi di Dio il loro sacerdozio
(dimensione ascendente). Il «regnare» attivo, che è anche la
loro vocazione ultima (20,6; 22,3-5), è già stato realizzato in
loro e per loro dal Cristo nel passato e servendo fedelmente,
28 La relazione tra i due privilegi identitari, nella dossologia, riflette una tradizione
testuale diversa da quella del testo masoretico («regno di sacerdoti») e dei Settanta
(«sacerdozio regale») e attestata, invece, da Simmaco, Teodozione e dal targum («re
gno, [e] sacerdoti»).
come «sacerdoti», il Dio e Padre di Gesù essi ne diverranno
sempre più attori protagonisti, sperimentando e testimoniando
nella loro vita la «dissoluzione» dei peccati e delle ingiustizie
(18,4-5) che traducono un pensiero idolatrico colpevolmente
ignaro della sovranità di Dio sulla storia e sulla vita degli uo
mini.
v. 7ab. Dopo l’amen corale che sigilla la dossologia col rico
noscimento pieno e grato della verità cristologica e soteriolo-
gica in essa proclamata, il primo dei numerosi pronunciamen
ti profetici dell’Apocalisse afferma che lo stesso Cristo, sogget
to delle azioni passate e presenti celebrate nella dossologia, è
anche l’atteso di cui parlare al futuro («Ecco, viene... ogni
occhio lo vedrà... si batteranno il petto...»). In quanto «trafit
to» è chiaramente identificato con il Crocifisso; nella qualità
di colui che «viene con le nubi» è identificato con il Figlio
dell’uomo danielico. L’identificazione tra il Figlio dell’uomo
nascosto e venturo dell’apocalittica e l’uomo Gesù crocifisso,
il «venuto nella carne», è tipicamente giovannea. L’autore, per
esprimerla teologicamente, fonde tra loro il testo di Dn 7,13
(«Ecco, viene con le nubi») e quello di Zc 12,10.12.14 ripreso
liberamente («E guarderanno a me, colui che hanno trafitto, e
si lamenteranno su di lui come col lamento per un figlio uni
co ... e si lamenterà il paese tribù per tribù... tutte le tribù rima
ste»), letti e probabilmente tradotti da un testo ebraico simile
a quello sottostante alla traduzione greca di Teodozione.
L’associazione tra Dn 7,13 e Zc 12,10, in realtà, doveva es
sere tradizionale in alcuni ambienti protocristiani, come dimo
stra il fatto che essa si ritrova anche in bocca a Gesù, nel con
testo del discorso escatologico e in riferimento al ritorno fina
le del Figlio dell’uomo, secondo Mt 24,30 («Allora apparirà il
segno del Figlio dell’uomo nel cielo, e allora si batteranno [il
petto] tutte le tribù della terra e vedranno il Figlio dell’uomo
venire sulle nubi del cielo con potenza e molta gloria»). La
differenza più importante, però, consiste nel fatto che per G io
vanni l’elemento di connessione tra i due testi non sta nel rap
porto tra la venuta del Figlio dell’uomo e il battersi, in ricono
scimento del proprio errore, di tutte le tribù della terra al mo
mento del suo avvento glorioso, ma nell’identità tra il Figlio
dell’uomo venturo e «colui che è stato trafitto». L’affermazione
di Zc 12,10 riguardo al trafitto, non richiamata nel testo mat-
teano e non citata altrove nel Nuovo Testamento, è invece ci
tata espressamente e introdotta da una formula di compimen
to in Gv 19,37 dopo il racconto della trafittura del costato di
Gesù: «Queste cose avvennero perché si riempisse la Scrittu
ra... e di nuovo un’altra Scrittura dice: “Guarderanno a colui
che hanno trafitto”». Nella visione inaugurale seguente alla
nostra pericope (Ap 1,9-20) l’identificazione tra il Crocifisso
Risorto e il Figlio dell’uomo diventerà esplicita.
Un ultimo aspetto dell’utilizzazione del testo di Zaccaria può
essere sottolineato ed è il nesso implicito tra la signoria di G e
sù su tutti «i re della terra» (v. 5 a) e il riconoscimento dell’er
rore da parte di «tutte le tribù della terra» (v. 7), certamente
simultaneo alla costatazione del totale fallimento di Babilonia
che indurrà al lamento e al battersi il petto tutti «i re della
terra» che con essa hanno fornicato (18,9-10). Tutti sono già
stati e saranno definitivamente coinvolti nell’incontro col Figlio
dell’uomo crocifisso e questo incontro avrà un carattere emi
nentemente pubblico.
v. 7c. Con solennità, la verità di quanto detto viene procla
mata attraverso l’affermazione doppia «sì, amen», in greco e
in ebraico, che compare solo qui in tutto il Nuovo Testamento.
Tanto il sì che l'amen, infatti, ricompaiono altrove nell’Apoca
lisse ma mai insieme. Il sì viene sempre dal cielo, mai dagli
uomini (14,13: dallo Spirito; 16,7: dall’altare; 22,20: dal Cristo);
l'amen risuona nella liturgia celeste in 5,14; 7,12; 19,4 ma espri
me l’acclamazione e l’invocazione di tutta la chiesa ad apertu
ra e chiusura del libro (1,5; 22,20). Se in 1,6, dunque, amen è
il sigillo della dossologia (come più volte accade a conclusione
delle euloghie dell’Antico Testamento e delle tante dossologie
del Nuovo Testamento), in l,7c sigilla l’oracolo profetico con
cui le Scritture vengono rilette cristologicamente e apre l’auto-
proclamazione divina che ne garantisce il compimento.
v. 8. Per l’esplicito ricorso alla formula oracolare («dice il
Signore Dio»), per l’apparire della forma «io sono» (ego eimi)
e per la congiunzione di tre titoli che esprimono l’identità di
vina («l’Alfa e l’Omega», «Colui che è, che era e che viene»,
«il Pantocratore»), l’autoproclamazione divina che chiude
l’unità è la più solenne di tutta l’Apocalisse. Il ritornare del
nome di Dio apparso in 1,4, rafforzato dal merismo Alfa e
Omega - resa greca della formula ricapitolativa dell’alfabeto
ebraico da alef a tato e corrispondente, in parte, all’autopro-
clamazione anticotestamentaria «Io sono il primo e l’ultimo»
(Is 44,6; 48,12; Ap 1,17; 2,8; 21,6; 22,13) - e dal titolo di «Pan
tocratore» (alla lettera: «colui che tutto tiene nel suo potere»),
conferma la centralità del tema della assoluta signoria di Dio
sulla storia che appare sin dal saluto iniziale e che, stavolta, è
proclamata da Dio stesso! Soprattutto quest’ultimo titolo, che
unito a «il Signore Dio» ricorre 7 volte nell’Apocalisse (qui e
4,8; 11,17; 15,3; 16,7; 19,6; 21,22, ma cfr. anche 16,14; 19,15)
ed è l’equivalente dell’anticotestamentario Yhwh e/o ’Elóhè
fb à ’ót, manifesta la sensibilità teologica tipicamente giudaica
e teocentrica di Giovanni di Patmos. È, infatti, assente altrove
nel Nuovo Testamento (eccetto che in una citazione oracolare
conflata in 2Cor 6,18) ed esprime la sovranità di Dio su tutta
la creazione. E l’unico titolo divino mai usato nell’Apocalisse
per Gesù. A differenza di esso, gli altri titoli divini del v. 8, pur
essendo fondamentalmente teologici, tendono ad assumere una
netta risonanza cristologica: il «veniente» per eccellenza, infat
ti, è Cristo (Ap 22,7.12.17.20); lui è «il primo e l’ultimo e il
vivente» (1,17-18) e lui è l’Alfa e Omega (22,13). Il «venire»
regale di Colui che tutto tiene nelle sue mani riguarda così sia
Dio Padre che il Cristo. È un venire che si attende in una di-
mensione pubblica attesa per il futuro (1,7) ma che ha anche
una dimensione presente. I tempi di Dio non si possono cal
colare perché Egli è il Veniente (w. 4.8) e il suo Cristo «viene»
(non «verrà») ! Col suo stesso essere, Dio garantisce dunque
l’esito cristologico della storia e ciò che di esso si comincerà a
dire mediante le visioni e gli oracoli a partire da 1,9.
Nel rassicurare, dunque, le comunità destinatarie del suo
libro profetico, il veggente mette a tema la questione della re
galità divina come la questione centrale di tutta la sua teologia,
soteriologia, escatologia ed ecclesiologia. Il simbolismo regale
che attraversa l’Apocalisse si intreccerà, da questo momento
in poi, con una estesa metafora bellica: il «principe dei re del
la terra», colui che ci ama e ha fatto di noi un regno, lo stesso
che viene con le nubi, è stato un tempo «trafitto». La «terra»
non gli è stata favorevole. Ma è il primogenito dei morti e il
suo «venire», lui, Giovanni, l’ha già visto (1,9-20) e questa vi
sione vuole comunicare alle chiese. Il giudizio che, nel messag
gio settenario, il Signore pronuncerà su di esse anticiperà tera
peuticamente e in modo mirato le visioni del giudizio che ri
guarderanno «tutte le tribù della terra».
3. Esegesi di Ap 21,1-8: la città di Dio con gli uomini
3.1. Contesto e struttura
Ultima delle visioni introdotte da «e vidi», quella della G e
rusalemme nuova scendente dal cielo dà finalmente corpo
alle parole intese da Giovanni nell’inno alleluiatico che cele
brava al contempo il crollo di Babilonia e l’avvento delle noz
ze dell’Agnello con la sposa ormai «preparata» (19,1-8). Tra
la raffigurazione del giudizio (20,11-15) e la descrizione della
Gerusalemme sposa (21,9-22,5), 21,1-8 costituisce una peri-
cope ben delimitata all’interno della sezione culminante delle
visioni (17,1-22,5) che ha un ruolo di transizione e, proprio
per la sua collocazione, assolve una funzione strategica rap
presentando, dal punto di vista del giudizio che tutti attende,
un monito e una promessa: un monito e uno sprone alla con
versione per quanti potrebbero riconoscersi nelle otto tipolo
gie destinate allo stagno di fuoco e di zolfo (21,8); un annun
cio di speranza e un invito al combattimento e alla perseve
ranza per ogni «vincitore» assetato di vita e di giustizia.
Quello che in 20,11-15 viene descritto in termini di giudizio
e di chiusura dei conti con la morte e con gli inferi, in 21,1-8
viene quindi descritto in termini di salvezza piena e di trionfo
della vita prospettati al vincitore e come bene che chi non
resta fedele perderà.
Dal punto di vista formale, il testo procede da una duplice
visione (w. 1-2), all’audizione di «una voce grande dal trono»
che spiega il senso della visione e la promessa in essa nascosta
(w. 3-4), fino a un discorso attribuito in prima persona a «C o
lui che siede sul trono» (w. 5-8). Un crescendo, dunque, dalla
percezione visiva a quella uditiva che trova massima pienezza
nell’ascolto della parola stessa di Dio sovrano.
La ripetizione dell’aggettivo protos («di prima») e del verbo
apllthan («se ne sono andate») nel v. 1 e alla fine del v. 4 lega
strettamente la duplice visione all’audizione della voce dal tro
no determinando un’inclusione tematica tra i w. 1-4, che foca-
lizza l’attenzione sulla novità di vita e di relazione con Dio si
gnificata dal discendere della Gerusalemme dal cielo nello
scenario di una creazione anch’essa interamente rinnovata. Il
ritornello «non c’è/ci sarà più» (ouk éstin/éstai éti) conferma
il legame tra i primi quattro versi e insiste sull’eliminazione
definitiva del male che affligge l’esistenza umana.
I w. 5-8, dal canto loro, contengono sette detti attribuiti a
Colui che siede sul trono: «E disse: “Ecco, io faccio nuove... ”»;
«E dice: “Scrivi... ”»; «E mi disse: “Sono accadute”»; «Io sono
l’Alfa...»; «Io a chi a sete darò...»; «Colui che vince...»; «Per
i timorosi e gli incapaci di fedeltà...». Il campo semantico che
li avvolge è quello della verità/fedeltà: le parole di Dio sono
«affidabili (pistoi) e veritiere (alèthinoi)» (v. 5); le categorie,
escluse dai beni che le parole di Dio promettono, cominciano
dai timorosi e dagli «incapaci di fedeltà» (apistot) e si conclu
dono con «tutti i menzogneri» (pseudeìs). La novità di vita
promessa e significata nella visione della Gerusalemme celeste,
cioè, è accessibile solo grazie alla testimonianza fedele di Dio
in Cristo che fedelmente va custodita e vissuta senza vigliac
cheria e nella verità.
3.2. Traduzione e commento
*E vidi un cielo nuovo e una terra nuova. Il cielo di prima e la
terra di prima, infatti, se n'erano andati e il mare non c'era più. 2E
la città santa, Gerusalemme nuova, la vidi scendere dal cielo, da
Dio, preparata come una sposa adorna per il suo sposo.
3E udii una voce grande dal trono che diceva: «Ecco la dimora di
Dio con gli uomini! Ed egli dimorerà con loro ed essi saranno suoi
popoli ed egli stesso, il Dio con loro, sarà loro Dio 4e asciugherà
ogni lacrima dai loro occhi e la morte non ci sarà più e nemmeno
afflizione o grido di dolore o pena ci saranno più perché le cose
di prima se ne sono andate».
5E Colui che era seduto sul trono disse: «Ecco, faccio nuove tutte
le cose!»
E dice: «Scrivi, perché queste sono parole affidabili e veritiere».
6E mi disse: «Sono accadute!
Io sono l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine.
Io a chi ha sete darò della sorgente dell'acqua della vita gratuita
mente.
7Colui che vince erediterà queste cose e io gli sarò Dio ed egli mi
sarà figlio.
8Per i timorosi e gli incapaci di fedeltà, per gli abominevoli e as
sassini, per i fornicatori e gli stregoni, per gli idolatri e per tutti i
menzogneri, la loro parte invece [sia] nello stagno ardente di fuo
co e zolfo, cioè la seconda morte».
vv. 1-4. Come già evidenziato, la ripetizione dell’aggettivo
protos e del verbo apèlthan determinano un’inclusione temati
ca tra i primi quattro versi, al pari del ritornello ouk éstin/éstai
éti.
vv. 1-2. La doppia ripetizione di «e vidi», accompagnata
dalla duplice ripetizione dell’aggettivo «nuovo» per specifica
re sia lo spazio cosmico nella sua totalità come ambiente vitale
dell’esistenza umana (cielo/terra: Gen 1,1; 2,4-7) sia lo spazio
sociale della convivenza umana (la città), determina una pic
cola inclusione nei vv. 1-2 che prospettano agli occhi del letto
re la realtà futura definitiva che li attende e verso cui tutto il
percorso delle visioni è orientato sin da quando, già nel sette
nario delle lettere, il Risorto promette al vincitore di scrivere
su di lui «il nome» della città di Dio, la «Gerusalemme nuova»
e il suo «nome nuovo» (Ap 3,12).
Tanto l’immagine di un cosmo «nuovo» quanto la contrap
posizione tra ciò che è «prim a» e ciò che è «nuovo» dipende
strutturalmente da Isaia (Is 42,8-9; 43,18-19; 65,17; 66,22). I
cc. 40-66 di Isaia ruotano, infatti, attorno al tema del ricono
scimento della signoria di Yhwh che si afferma pienamente
quando egli salva il suo popolo dalla schiavitù di Babilonia,
della cui caduta si fa il lamento (Is 47,1-15), e lo libera da ogni
residuo di idolatria manifestando la sua gloria nella Gerusa
lemme con un «nome nuovo» (62,2) e nella creazione di cie
li e terra nuovi (65,17; 66,22). Analogamente, anche la sezio
ne conclusiva delle visioni dell’Apocalisse (Ap 17,1-22,5)
celebra l’affermazione della sovranità divina nel giudizio di
Babilonia, della cui caduta si fa il lamento, nella lotta vitto
riosa del Cristo Agnello e nell’apparizione conseguente di una
Gerusalemme nuova sullo sfondo di una nuova creazione. La
sovranità vittoriosa di Dio per mezzo dell’Agnello si manife
sta nello splendore di un cosmo in cui non v’è più spazio per
la tribolazione e il pianto perché «il cielo e la terra» di prima
«se ne sono andati» e «il mare», simbolo del caos primordia
le che attenta alla vita umana (Gen 1,2; G b 38,8-11; Sai 18,5-
6.16-18; Ct 8,7; Is 17,12-14), «non c’è più». Nessuna delle
forze annichilenti e mortifere presenti nel mondo di prima,
ormai giudicato, è più presente. Appare in tutta la sua bel
lezza, invece, la novità che tramite l’Agnello è stata già intro
dotta da Dio creatore nella storia e che i «vincitori» della
bestia già conoscono e celebrano con il cantico nuovo (Ap
2,17; 5,9; 14,3).
Sullo sfondo di un cosmo radicalmente rinnovato, Giovan
ni vede un nuovo scenario sociale simboleggiato dalla «città
santa». Con questa espressione tradizionale, che ritorna an
cora in 11,2 e 22,19, i testi post-esilici dell’Antico Testamen
to indicavano già Gerusalemme (Ne 11,1.18; IMac 2,7; 2Mac
1,12; 3,1; 9,14; 15,14; Is 48,2; Dn 9,24) evocando con vene
razione e amore il significato antropologico-religioso della
città quale simbolo della dimora di D io in mezzo al suo po
polo (Sap 9,8) e delle relazioni interpersonali misurate dall’al
leanza, piangendone le sofferenze e i castighi determinati dal
peccato (Tb 13,10), e annunciandone lo splendore futuro e il
destino di felicità (Is 52,1). Per Giovanni, Gerusalemme è
città santa e «am ata» in quanto «accam pam ento dei santi»
(Ap 20,9) e dimora del «santuario» divino (3,12; 11,1-2). Que
sta Gerusalemme santa e amata, però, non è più la Gerusa
lemme terrena, apostrofata tristemente «grande città» al pari
di Babilonia (16,19; 17,18; 18,10.16.18.19.21), ma quella che
«scende dal cielo», cioè «da Dio» (3,12; 21,10). Il sintagma
riflette anch’esso le tradizioni apocalittiche secondo le quali
i beni riservati per i redenti e nascosti da Dio «in cielo», come
la «manna» (2,17), nel giorno della redenzione si sarebbero
manifestati pienamente. La Gerusalemme attesa, città-santua
rio di perfetta purezza, donna sposa e madre di figli, oggetto
di desiderio, di visioni e meta escatologica29 era sintesi di que
ste realtà e come tale si rivela ora pienamente agli occhi del
veggente.
Termina in essa, e nella relazione d ’amore fedele tra i cre
denti e il Cristo-Agnello di cui essa è il risultato finale, « l’inte
ra vicenda della donna-città» che attraversa il libro.30La siner
gia e la sincronia diacronica tra l’azione regale e redentrice di
Dio tramite l’Agnello e l’azione testimoniale e di fedeltà por
tata avanti dai credenti fino alla fine non potrebbe essere
espressa meglio: la Gerusalemme nuova è opera tutta di Dio
ma lo è proprio in quanto «ekklésìa trasfigurata»,31 comunità
umana che si è preparata efficacemente, progressivamente,
nella storia, all’incontro pieno con il suo Dio «come una don
na-fidanzata» splendente nelle vesti e nei gioielli per il matri
monio col suo uomo (19,7-8; Ez 16,11-13), con un ornamento
che più nulla ha a che vedere con lo sfarzo ostentato della
Babilonia prostituta ebbra del sangue dei martiri (Ap 17,4;
18,7.9-19).
vv. 3-4. La percezione di «una voce grande dal trono» si
affianca alla percezione visiva e permette di capire il senso
della realtà vista, la promessa che la visione indica; in questi
versi, infatti, i verbi che descrivono il significato della visione
sono coniugati tutti al futuro («dimorerà... saranno... sarà...
asciugherà... non ci sarà più»). La provenienza della voce dal
«trono» rimanda alla visione da cui dipende l’intero svolgi
mento della rivelazione (cc. 4-5) e, dunque, alla sovranità di
vina manifestata in Cristo Agnello e celebrata coralmente nel
29 Cfr. Tb 13,9-18; Is 34; 60; 62; 66,10-14; Ez 40-48; Gal 4,26; Eb 12,22; i testi
dedicati alla Nuova Gerusalemme e al culto del tempio futuro tra i manoscritti del Mar
Morto (2Q24; 4Q554-555; 5Q15; 11Q18); Testamento di Dan 5,12-13; 2 Baruc 4,2-6.
30L u p i e r i , 326.
31TRIPALDI, Apocalisse, 220. L’autore rimanda giustamente anche a Giuseppe e
Asenet (14,14-15,10; 18,5-11; 19,8) ove la convertita Asenet, data in sposa al patriarca
Giuseppe, si adorna per le nozze e, resa simile alla città-tempio, di «grande e meravi
gliosa bellezza», diventa simbolo dell’ingresso dei pagani nel popolo eletto.
cielo. Se in 19,5 la voce dal trono invitava tutti alla lode di Dio,
ora essa proclama solennemente la verità contenuta nella vi
sione della Gerusalemme nuova e, con essa, il raggiungimen
to della meta ultima dell’azione redentrice di Dio creatore
additata, sin dall’Esodo, nel dimorare di Dio in mezzo al suo
popolo (Es 25,8-9; 29,45; 40,34-38; Lv 26,11-12; Ez 37,26-28;
Zc 2,14-15, nonché 2Cor 6,14-18). Dio, ora, non abita più in
un santuario circoscritto in mezzo alla città degli uomini,
foss’anche la «città santa» di un tempo; il loro stesso vivere
insieme, nella novità della Gerusalemme discesa dal cielo, è la
«tenda» santificata che egli si erige e, viceversa, Dio stesso è
per gli uomini dimora e santuario (Ap 7,15-17). Nella Geru
salemme nuova, infatti, il veggente non vedrà più nessun san
tuario perché Dio stesso e l’Agnello sono ormai il suo santua
rio (21,22)!
La Gerusalemme nuova, in fondo, non è altro che lo spazio
della reciprocità e dell’intimità di vita di Dio con gli uomini
che è la meta compiuta della relazione di alleanza. Usando il
verbo «attendarsi» {skènód), presente nel Nuovo Testamento
solo nel Quarto Vangelo e nell’Apocalisse, il v. 3 riprende dun
que in chiave esplicitamente ecclesiologica le tradizioni antico
testamentarie sulla tenda/dimora di Dio in Israele che il pro
logo del Quarto Vangelo aveva riletto anzitutto in chiave cri
stologica (Gv 1,14) e il formulario tipico dell’alleanza («Io
sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo»: Es 6,7; Lv 26,12;
Ger 31,33; Ez 36,28; 37,23.27; Os 2,25; Zc 8,8) risuona ormai
in chiave marcatamente universalistica. Il sostantivo che nella
traduzione dei Settanta viene usato normalmente per indicare
il popolo di Israele (laós) nella sua differenza rispetto alle na
zioni (éthnè) viene, infatti, declinato al plurale: «Essi saranno
suoi popoli». Condizione e modalità di questa appartenenza
sarà proprio il compiersi della inabitazione divina in mezzo agli
uomini e, dunque, della promessa deU’Emmanuele (Is 7,14):
proprio in quanto «Dio con loro», il Dio d’Israele sarà il «loro
Dio», il Dio di tutti gli uomini.32 La mediazione cristologica
della relazione di alleanza non è qui esplicitata, ma resta un
presupposto sottinteso imprescindibile (cfr. Ap 1,6; Ez 34,24).
Nel v. 4 viene dunque descritta, prima al positivo («e asciu
gherà. ..») e poi al negativo («non ci sarà p iù...»), la condizio
ne che attende l’umanità redenta. Rievocando e concatenando
tra loro due tra i testi più intensi e rappresentativi dell’escato
logia universalistica isaiana (Is 25,6-8 e 65,16-20; ma cfr. anche
35,8-10 e 66,10-14) Giovanni riassume il senso della presenza
dell’Emmanuele nel gesto della consolazione di tutte le lacrime
fatto da Dio in persona (cfr. già Ap 7,17). La presenza defini
tiva di Dio in mezzo agli uomini chiude i conti con la condi
zione subentrata alla trasgressione di Adamo (cfr. Gen 2,4b-
3,24), perché il vecchio mondo è finito. Confermando la visio
ne (v. 1) e sintetizzandone il senso, la voce dal trono lo
dichiara: «Le cose di prima se ne sono andate» (cfr. Is 65,19).
w. 5-8. La definitività della nuova condizione d ’esistenza
degli uomini con Dio è attestata in ultimo da «Colui che era
seduto sul trono» in persona. Si tratta dell’unico caso nell’Apo
calisse in cui, da quando la sua figura è introdotta in Ap 4,2,
una parola gli viene attribuita esplicitamente e direttamente.
La sua presenza sovrana si fa sentire direttamente al veggente,
dopo la visione del cielo e della terra nuovi, in una concatena-
32 II v. 3 presenta due varianti di rilievo anche per il senso del testo. La prima ri
guarda il plurale «popoli» (laot), attestato dal Sinaitico e dall’Alessandrino, rispetto al
singolare laós presente nel Porfiriano, nella maggior parte dei minuscoli e versioni,
compresa la Vulgata, e preferibile come lectio difficilior difforme dall’uso comune nei
Settanta. La seconda riguarda la parte finale del verso: «loro Dio» manca nel Sinaitico
e nella maggior parte dei minuscoli ma è attestato dall’Alessandrino, dalla Vulgata e
da pochi minuscoli. Il sintagma potrebbe essere stato aggiunto per creare un paralle
lismo con la prima parte del verso («essi saranno suoi popoli ed egli, il Dio con loro,
sarà loro Dio») o omesso perché ritenuto ridondante e non necessario («essi saranno
suoi popoli ed egli il Dio con loro sarà»). Nella costruzione teologica del verso, che si
regge tutta sul compimento della promessa dell’Emmanuele, a me sembra che il sin
tagma abbia un’importanza strutturale pur rendendo sovraccarica la sintassi della
frase e ritengo più plausibile l’omissione che l’aggiunta.
zione di sette parole che lo incalzano con urgenza all’atto di
scrittura («Scrivi...»: v. 5b). Il ritmo veloce dei detti (determi
nato dalla concisione delle singole proposizioni, dalla triplice
ripetizione del verbo «dire», dall’insistenza enfatica sull’«Io »
divino che riconduce prepotentemente a sé ogni cosa o, nel v.
8, dalla ripetizione serrata del k ai che congiunge e assimila in
un unico destino di morte otto tipologie di soggetti) esprime
l’accelerazione inarrestabile della storia ormai giunta al suo
compimento ultimo.
vv. 5-7. La prima parola divina (5a) spiega la causa di tale
accelerazione: l’azione rinnovatrice di Colui che siede sul tro
no, descritta al presente, che afferma il compimento della nuo
va alleanza (Ger 31,31.33) facendo risuonare in termini radi
cali e onnicomprensivi («Ecco, nuove tutte le cose») l’oracolo
che annunciava il nuovo esodo in Is 43,19 (testo masoretico:
«Ecco, faccio una cosa nuova»', Settanta: «Ecco faccio cose
nuove»). Al presente di Dio in azione corrisponde il gesto di
scrittura comandato per attestarlo (seconda parola): «Scrivi»
(5b). Si tratta dell’ultima delle dodici occorrenze dell’impera
tivo aoristo gràpson che nell’Apocalisse è usato sempre per
indicare il gesto autoriale ma è motivato alla radice solo qui
(«Scrivi, perché...»): le parole che dicono e spiegano la visio
ne e ricapitolano nel linguaggio della novità il messaggio
dell’intero libro sono affidabili e prive di menzogna, sicure nel
comunicare la realtà rivelata nella sua verità. Giovanni, dun
que, deve scrivere perché la novità di vita comunicata attra
verso la rivelazione resti legge dell’interpretazione, chiave di
lettura del tempo in cui gli uomini vivono e in cui Colui che
siede sul trono è presente e opera il giudizio e la salvezza. Le
parole della sua rivelazione, che vanno messe per iscritto, sono
perciò l’ultima profezia della Scrittura pronunciata perché la
comunità dei credenti, in ogni tempo e luogo, possa leggere,
comprendere con sapienza la voce dello Spirito e agire corri
spondentemente alla Parola «fedele e verace» di Dio che è il
Cristo stesso (19,11) in cui la novità di Dio è personalmente
presente, agita e ricapitolata.
La terza parola (6a) può, di conseguenza, affermare che le
parole della novità non sono un futuro ma un evento già acca
duto ed efficace nel presente: «sono accadute», hanno già co
minciato ad essere (16,17). La quarta parola (6b) spiega perché:
Colui che siede sul trono è inizio e fine della storia e del tempo
e lo è in Cristo (2,8; 3,14; 22,12-13); la storia umana è intera
mente abbracciata e contenuta da Dio creatore e redentore (Is
43,10-13; 44,6). La sua Parola fedele, dunque, che risuona com
piuta da oltre i limiti del tempo dicibile con l’alfabeto umano,
si rivolge agli uomini nel loro presente: «A chi ha sete... colui
che vince...». La quinta (6c) e la sesta (7) parola valgono, quin
di, da promessa e da stimolo e riguardano coloro che agiscono,
al presente, la loro relazione con Dio al modo del Cristo vin
citore; la settima (8) si presenta invece come un monito e ri
guarda tipologie astratte di soggetti, identificati da attitudini e
azioni viziose, dentro le quali i singoli potrebbero concreta
mente riconoscersi (Ap 9,20-21; 22,15). Mentre le prime richia
mano la promessa al vincitore con cui si concludevano i mes
saggi alle singole chiese («chi vince»: 2,7.11.17.26; 3,5.12.21;
«io darò»: 2,7.17.26.28; 3,21), la seconda richiama le minacce
fatte ai membri delle comunità dei quali i messaggi denuncia
vano il peccato e l’infedeltà. Poste l’una accanto all’altra, la
promessa della vita e la minaccia della morte, richiamano le
benedizioni e maledizioni che, nel formulario anticotestamen
tario dell’alleanza, sigillavano il patto tra i contraenti (Lv 26;
Dt 28) o le beatitudini e i guai che contrassegnavano la predi
cazione evangelica (Le 6,20-26; Mt 5,1-12; 23,13-33). Condi
zione di vita, però, non è più l’osservanza o meno della Legge
(,nómos) - termine che dalla letteratura giovannea scompare
definitivamente dopo Gv 19,7 - ma l’«avere sete» e il «vince
re»: un motivo sapienziale il primo, un motivo bellico il secon
do, ma entrambi caratteristici dell’apocalisse giovannea.
Il tema della sete e del dono dell’«acqua della vita» (cioè
un’acqua sorgiva attinta a una fonte perenne e, fuori di meta
fora, la vita stessa che Dio è) nel Nuovo Testamento è tipica
mente giovanneo (Gv 4,7-15; 7,37-39; 19,28; Ap 7,16-17; 22,1-
2.17). Esso riprende e fa risuonare insieme parecchi testi anti
cotestamentari: Dio e/o la sua parola e sapienza sono l’acqua
viva da fonte perenne che sola può saziare la sete vera dell’uo
mo (Sai 41,3; 62,2; Sir 24,21; 51,24; Is 55,1; Ger 2,13) e, nel
Quarto Vangelo, è da Cristo che essa può essere attinta come
«dono» (Gv 4,10). Sullo sfondo della occorrenza precedente
di Ap 7,16-17, che fondeva insieme la reminiscenza di Is 25,8
(sopra richiamato al v. 4) e di Is 49,9-10, si capisce che la pro
messa divina qui fatta a chi è assetato richiama anche il secon
do carme isaiano del Servo mediante il quale si compie l’azio
ne redentrice e di consolazione di Dio «pastore», cioè re, del
suo popolo. Come nel v. 4 il gesto del tergere ogni lacrima
sintetizzava l’atto della consolazione divina, così qui lo sinte
tizza il gesto del dissetare con l’acqua della vita.
Il simbolo dell’acqua vivificante, però, racchiude in sé il
richiamo anche ad altri testi della Scrittura: a monte, il raccon
to protologico di Gen 2,10-13 relativo all’acqua viva e vivifi
cante sgorgante in Eden all’inizio della creazione; a valle, le
profezie escatologiche di Zc 14,8 ed Ez 47 relative all’acqua
sgorgante nel tempo escatologico dalla Gerusalemme santa e
dal suo tempio (cfr. Ap 22,1-2). Non acquistabile, ma solo ri
cevibile in dono, l’acqua promessa all’assetato è Dio stesso e il
rapporto con sé che Egli dona a chiunque lo desideri vincendo
la battaglia della resistenza contro tutto ciò che non ha il sigil
lo del Cristo, del Padre e della loro sovranità. Del «vincitore»,
dunque, viene dichiarata una partecipazione così profonda e
piena alla vittoria del Cristo-Figlio e alla sua relazione con Dio
(«erediterà queste cose») che per esprimerla il veggente ricor
re nuovamente alla formula dell’alleanza ma nella sua declina
zione regale-messianica: «io gli sarò Dio ed egli mi sarà figlio»
(2Sam 7,14; lC r 17,13; Sai 2,7; 89,27). Si tratta dell’unico caso,
nella letteratura giovannea, in cui la condizione filiale dei cre
denti rigenerati da acqua e da Spirito non è espressa dal termi
ne téknon (alla lettera: il «partorito») ma dal termine hyiós
(«figlio»), altrimenti riservato esclusivamente a Gesù. La pro
messa al vincitore di sedere sul trono stesso di Cristo, che nel
l’ultimo dei messaggi alle chiese ricapitolava le precedenti (Ap
3,21), si esprime qui come riconoscimento pieno della sua iden
tità filiale e regale e, dunque, della sua conformazione piena al
Cristo.
v. 8. Si conclude il discorso divino: sono elencati i vizi che
escludono l’uomo dal rapporto filiale e costiforme sopra de
scritto. Direttamente o indirettamente, infatti, le attitudini o
azioni elencate sono antitetiche a quelle che caratterizzano il
Cristo e quanti gli sono fedeli. «Tim oroso» o vile è l’uomo
senza coraggio, che si esime dalla battaglia condotta da Cristo
e da quelli «con lui» eletti e fedeli (17,14; 19,14): non lottando,
egli non potrà mai essere vincitore (3,15-16). «Incapace di fe
deltà» è qualcuno che incarna una qualità antitetica a quella
da cui prendono nome il Cristo e, nell’Antico Testamento gre
co, Dio stesso «Signore fedele» (Dt 7,9; 32,4; Sai 144,13; Is
49,7) e i suoi servi (lSam 3,20; 2Sam 23,1; IM ac 2,52; Sir
44,20): questi, anche se avrà iniziato la battaglia, non sarà ca
pace di portarla a termine fino alla vittoria custodendo fino
alla morte, se necessario, le parole fedeli di Dio (Ap 2,10.13).
Gli «abominevoli» sono tutti coloro che si rendono detestabi
li al Dio fedele per avere condiviso gli «abomini» di Babilonia
prostituta «madre di tutti gli abomini della terra» (17,4-5). Per
loro non è possibile l’ingresso nella Gerusalemme nuova
(21,27). «Assassini, fornicatori, stregoni e idolatri» concretiz
zano con varie forme di violenza, manipolazione e mistificazio
ne, l’abominio che non può entrare nella città santa (9,21;
22,15). I «menzogneri tutti» (categoria che per alcuni abbrac
cia le altre sette) sono non quelli che dicono bugie ma gli pseu-
deis, quelli che si allineano pienamente al diavolo (Gv 8,44),
amano e praticano il falso (Ap 22,15) e sono avversari attivi
della verità e fedeltà di Cristo (2,2), antitetici ai redenti nella
cui bocca non si trova falsità (14,5).
Il linguaggio del testo è apocalittico e serve a stigmatizzare
ciò che non ha nulla a che vedere con Cristo, «fedele e veritie
ro», né col Padre suo. Alle chiese, in tal modo, viene indicato
ciò che bisogna rifuggire perché contraddice il nuovo e scom
parirà per sempre con il cielo e la terra di prima. A coloro che
in esso vivono e muoiono con le loro opere è riservata la «se
conda morte» di cui Giovanni aveva già parlato in 2,11; 20,6.14
e alla quale erano stati riservati il drago, le due bestie, la mor
te e l’ade. Unita all’immagine dello «stagno ardente di fuoco e
di zolfo» (cfr. anche 14,9-11 e 19,20 per la bestia, il falso pro
feta e gli adoratori della bestia), l’espressione richiama la «ge
enna del fuoco» (Mt 5,22; 18,8-9; Me 9,47-48) e significa la
perdizione eterna (Is 66,24): non la morte fisica ma quella «ul
tima, totale, escatologica»,33 quella che veramente bisogna te
mere. Di questa seconda morte il vincitore non potrà avere
alcuna paura (Ap 2,11).
4. Linee teologiche
Come il libro dei Vangeli che apre il canone neotestamen
tario, così anche il libro dell’Apocalisse che lo chiude ha al suo
centro la questione del regno di Dio e della regalità divina ri
velata in Gesù Cristo crocifisso e risorto. In questo senso, la
teologia dell’Apocalisse, pur nella sua complessa articolazione
ed espressione simbolica, si può considerare contenutisticamen
te compatta, coerente, metodica: in essa tutto ruota attorno
alla proclamazione e celebrazione della regalità divina rivelata
in Cristo, Agnello e Pastore, e vissuta in tutte le sue implica
zioni esistenziali, anche drammatiche, dai credenti, profeti e
testimoni, come singoli e come comunità. Del tutto specifica,
però, è l’origine e la forma cultuale delle «parole di profezia»
che veicolano tale teologia connotandola come espressione
identitaria di una comunità che consapevolizza la propria con
dizione liminale vivendo la liturgia come esperienza di soglia,
«limen tra terra e cielo, tra basso e alto»,34 confine tra due mon
di, quello vecchio segnato da un potere idolatrico e oppressivo,
al contempo antidivino e antiumano, e quello nuovo segnato
dalla sovranità liberante dell’unico vero Dio. Nelle sue princi
pali dimensioni teologica, cristologica ed ecclesiologica, il mes
saggio dell’Apocalisse traduce perciò l’esperienza comunitaria
del compimento escatologico in atto: la liturgia ne è luogo pri
vilegiato, che catalizza le forze di contrasto dei credenti man
tenendoli nel contatto costante con l’evento pasquale da cui
nascono e a cui tendono e che sono chiamati a vivere continua-
mente nella propria storia concreta operando in essa l’inversio
ne e la rivoluzione di valori da cui la loro identità è plasmata.
4.1. Il Dio vivente, fonte della rivelazione salvifica
Il Dio d ’Israele, indiscusso re e sovrano, «Pantocratore»,
Signore della storia, presente e attivo in essa, capace di soste
nerne lo svolgimento e l’esito salvifico dall’inizio alla fine, è il
centro della fede e della teologia del veggente di Patmos. La
guerra a tutto campo contro l’idolatria, nelle sue vecchie e
nuove forme, religiose e/o politiche, sociali ed economiche,
dimostra che l’Apocalisse ruota attorno alla questione di chi,
veramente, governa il mondo. Essa è il libro del primo coman-
5" A. D estro - M. Pesce, Antropologia delle origini cristiane, Laterza, Bari-Roma
"2008 , 28 .
damento: «Non avrai altro Dio fuori di me».35 Come nell’An
tico Testamento il libro di Isaia (Is 6; 52,13) o il libro di Eze
chiele (Ez 1), così nel Nuovo Testamento l’Apocalisse è il libro
governato dalla visione del trono divino, un libro teologico
prima che cristologico, perché è la regalità divina che il Cristo
svela e realizza. Dalla visione del trono, infatti, tutto dipende
e al dispiegamento universale della regalità divina tutto tende.
Anche nei termini dell’analisi strutturale, si potrebbe dire che
Dio, il Pantocratore, è il primo «destinatore» del regno, colui
che della creazione e della storia fa lo scenario della propria
sovranità e dei suoi attanti umani i protagonisti o gli antagoni
sti, gli oppositori o gli aiutanti del suo regno. Della battaglia
per il regno, compiuta dal Cristo, egli però è anche il primo
«destinatario»: è a lui, «Dio e Padre» di Gesù, che «noi» siamo
stati fatti regno e sacerdoti. Il Dio e Padre non solo agisce e
possiede il Regno, ma anche lo desidera, lo aspetta gelosamen
te negli e dagli uomini sollecitandone e attendendone la «con
versione» (Ap 9,20-21; 16,9-11).
La teologia dell’Apocalisse intreccia drammaticamente, per
questo, termini, simboli, immagini e visioni che dicono l’iden
tità divina con tinte apparentemente fosche, dure, giuridiche
e, al contempo, estremamente dolci: creatore dell’universo
(14,7), sovrano assoluto, giudice santo e verace, vivente oltre i
limiti del tempo degli uomini, vendicatore del sangue (6,9-11;
16,4-7), pronto a un braccio di ferro di inaudita violenza con
i suoi oppositori (16,9-11.17-21) e a dare sfogo alla propria «ira
ardente» così da far desiderare agli abitanti della terra di po
tersi nascondere e fuggire dal suo volto (6,15-17 con rimando
a Is 2,6-21), Dio è anche Padre in relazione di intimità profon
dissima con chi, conformato al Cristo vittima e vincitore, egli
riconosce come «suo figlio». Pronto ad abitare con gli uomini
e ad ospitarli in sé facendo loro egli stesso da santuario (Ap
21,22), «Colui che siede sul trono» è presentato alla fine come
il «D io con loro» che asciugherà le lacrime dai loro occhi e
donerà loro la sua stessa vita estinguendone per sempre la sete,
costituendo il loro sigillo identitario e illuminandoli con la lu
ce del suo volto (22,3-5). Il suo braccio di ferro con i violenti,
raccontato come in una storia a tappe attraverso visioni e sim
boli che riprendono l’epopea esodica e le sue traduzioni pro-
fetico-apocalittiche, non ha in realtà, nella prospettiva del veg
gente, altra concretizzazione storica puntuale che la passione
del Cavaliere con le vesti immerse nel sangue e quella dei suoi
testimoni fedeli che, nello stesso sangue, hanno lavato le loro
vesti (19,11-16 e 7,13-17). Il simbolismo regale e la metafora
bellica continuata che attraversano il libro ne esprimono dun
que la teologia legando nell’unica confessione dell’«am ore»
redentivo sperimentato dai credenti (1,5-6) il Dio e Padre di
Gesù Cristo, il Cristo Agnello e la sua «donna».
4.2. Il Cristo amante, sposo e redentore
Come celebrazione dell’amore di Gesù Cristo si presenta la
prima dossologia dell’Apocalisse (1,5-6) e come glorificazione
di Dio Pantocratore per le nozze dell’Agnello sale l’alleluia fi
nale del libro (19,6-8). Gesù Cristo Agnello, in relazione costan
te a Colui che siede sul trono e alla chiesa, è dunque il protago
nista principale della rivelazione giovannea, soggetto e oggetto
della stessa. Egli appartiene pienamente alla trascendenza divi
na: siede sul trono divino (3,21) e viene visto da Giovanni ritto
«in mezzo» al trono, ai quattro esseri viventi e ai ventiquattro
anziani (5,6), termine della loro adorazione (5,8-10.14) e in pie
no possesso del settuplice Spirito di Dio (5,6); condivide con
Colui che siede sul trono lo stesso nome divino («Io sono l’Al
fa e l’Omega, il primo e l’ultimo»: 1,8; 21,6; 22,13) e il titolo
regale («Re dei re e signore dei signori»: 17,14; 19,16).
In qualità di atteso, pronto a «venire» (1,7; 2,5.16; 3,11.20;
16,15; 22,7.12.17.20), Gesù è il Figlio d’uomo regale, con trat
ti anche sacerdotali (1,9-20), nel quale continuamente si fa
presente agli uomini, nella concretezza della storia come al suo
termine ultimo, «Colui che viene» per abitare in mezzo a loro
(1,4.8; 4,8). Quale re-Messia è, nella sua stessa persona, «il
Figlio di Dio» (2,18) e «la Parola di Dio» (19,13). È lui, dun
que, il pastore davidico mediante il quale il Dio di Israele attua
concretamente la sua regalità e, perciò, è presentato al contem
po come «leone di Giuda, radice di Davide», Agnello condot
tiero, vittorioso pur se immqlato, destinato a «pascere» le na
zioni e a condurre i redenti alla sorgente della vita (5,5; 7,17;
12,5; 19,15).'
Come cavaliere impegnato nella battaglia a prezzo del suo
sangue e come agnello immolato, Gesù testimone fedele ap
partiene anche pienamente alla sfera umana ed è l’unico capa
ce di «ricevere e sciogliere il libro» del disegno divino. Come
primogenito dei morti, egli è il principe dei re della terra; come
Figlio d’uomo che «era morto» ma ora «vive» per sempre, egli
ha potere sulla morte e sugli inferi. Dunque, è anche come
«uomo/sposo» dell’umanità, da lui acquistata col sangue, che
egli viene adorato, amato e celebrato dalla chiesa/sposa. Nella
sua persona e nell’esercizio delle sue funzioni, il Cristo si col
loca quindi su entrambe le sfere, divina e umana, e costituisce
la mediazione compiuta, l’unica abile e degna (5,2-5.9-10.12),
tra Dio e gli uomini.
4 3 . La chiesa testimoniale: sposa dell’Agnello
e tempio del Dio vivente
La chiesa, di conseguenza, appare sin dall’inizio nell’Apo
calisse come la comunità degli uomini totalmente coinvolti
nella e dall’azione regale del Cristo (1,5-6) che è azione tanto
di riscatto quanto di giudizio. La sua sovranità è percepita e
confessata dalla chiesa anzitutto in quanto sottoposta lei stes
sa a giudizio e purificazione (il settenario delle lettere nei cc.
2-3) e, grazie a ciò, abilitata a un protagonismo attivo nel
giudizio sulla storia e sugli uomini (cc. 6-16). Custodendo
fedelmente la parola del Cristo, vivendo la comunione con lui
attraverso una strenua resistenza contro ogni genere di com
promesso con un sistema socio-religioso idolatrico e violento,
essa diventa, quale Gerusalemme santa, sempre più conforme
al suo sposo e alla sua regalità, pronta anche negli abiti alla
celebrazione piena delle nozze (19,7-8.14; 21,2), specchio po
sitivo e luminoso della comunione di Dio con gli uomini, nel
la libertà e nella giustizia, figura antitetica della falsa «regina»,
la Babilonia prostituta e idolatra, macchiata di ogni contami
nazione, fondata su strutture opprimenti e sanguinarie. Il
simbolismo femminile, che ben si dispiega nel libro attraver
so la contrapposizione tra due donne e due città, mette in
campo due «immagini interscambiabili che rappresentano
l’idea della relazione come terreno decisivo dell’intervento di
Dio: il profeta apocalittico celebra appunto l’operato del
Kyrios che ha reso possibile una nuova vita di relazione con
Dio e con l’umanità».36 Condividendo la tribolazione e la per
severanza mediante le quali il regno di Dio e del suo Cristo si
realizza nel mondo (1,9; 11,15-18) i credenti, in qualità di
servi, adoratori, profeti e testimoni - alcuni anche fino al sa
crificio della propria vita - vivono «una comunione stretta col
Signore la cui testimonianza l’ha portato alla croce. Non si
tratta, propriamente parlando, di una teologia del martirio ma
di una partecipazione esistenziale al segno di giudizio e di
salvezza che la crocifissione costituisce».37 Così vivendo, essi
partecipano pienamente, nella concretezza del loro tempo
36D oglio , 24.
37 P rigent, 61.
storico, alla battaglia vittoriosa di Cristo e al giudizio di Dio
sul mondo.
Si spiega bene in questa luce una delle costanti più signifi
cative e originali della struttura dell’Apocalisse, cioè il motivo
del ritardo nel compimento del giudizio: il settimo elemento
delle serie settenarie e ternarie del giudizio, quello che d o
vrebbe portarne a pienezza e a termine l’esecuzione sembra,
infatti, non arrivare mai fino al c. 16. Prima del suo svolgersi,
anzi, si dà sistematicamente una «pausa» nel giudizio: prima
del settimo sigillo viene presentato il numero pieno dei riscat
tati di Israele e l’incalcolabile moltitudine di redenti da tutte
le nazioni (7,1-17); prima della settima tromba ampio spazio
viene riservato alla missione profetica di Giovanni e alla pro
fezia in atto dei due testimoni (10,1-11,13); prima del terzo
segno, coincidente con l’ultimo settenario, si vedono quanti
hanno «vinto» la bestia in atto di cantare il «canto di Mosè e
dell’Agnello» (15,2-4). In tutti questi casi, i protagonisti delle
scene ritardanti sono membri del popolo di Dio, uomini re
denti, e ciò fa dell’apparente «ritardo» del giudizio (6,10-11)
un segno strutturale dell’Apocalisse che mostra come la storia
del giudizio di Dio sul mondo sia connessa indissolubilmente
alla storia del popolo di Dio nel mondo e alla sua testimonian
za di fronte ad esso.38 Non casualmente il «grande segno»
della donna sovrana, avvolta nel sole e contemporaneamente
tormentata dalle doglie del parto messianico e perseguitata
dal drago (12,1-2.5-6.13-17), apre il trittico finale dei segni
manifestati dopo l’apertura del santuario celeste e l’appari
zione dell’arca stessa dell’alleanza (11,19). Esso significa che
al cuore della relazione di alleanza tra Dio e gli uomini, al
cuore della sua azione regale e giudiziale giunta al punto di
compiersi, sta il «soggetto adombrato» nelle pause: «il popo
lo di Dio nel suo conflitto con le forze che si oppongono a
Dio».39 Mano a mano che esso procede nella storia, resistendo
nella testimonianza fedele del Cristo in cui consiste ogni au
tentico «spirito di profezia» (19,10), abbraccia nel raggio del
la signoria divina l’umanità intera, la cui totalità è ben rappre
sentata dalla formula quadripartita, di matrice biblica («tribù,
lingua, popolo e nazione»: 5,9; 7,9; 10,11; 11,9; 13,7; 14,6;
17,15), che ricorre sette volte e sempre in modo diverso nel
libro e «designa tutte le nazioni del mondo che, a dispetto
della loro attuale alleanza con Babilonia e con la bestia, sono
oggetto della conquista dell’Agnello da condurre nel regno di
Dio».40
Il carattere imprescindibile della testimonianza sacerdota
le, profetica e regale dei credenti in Gesù, popolo dell’alle
anza esodica portata al suo compimento escatologico, giusti-
fica dunque la durezza del profeta Giovanni nello stigmatiz
zare i cedimenti e le ambiguità delle chiese e spiega bene la
forma drammatica dell’ecclesiologia dell’Apocalisse, perfet
tamente simmetrica alla forma drammatica della cristologia
del Quarto Vangelo.41 La battaglia vittoriosa di Cristo Agnel
lo per il regno, infatti, è il già compiuto da cui scaturisce
l’esperienza e la vita della chiesa, ma la stessa battaglia deve
ancora essere combattuta e condivisa, allo stesso modo ma in
tempi e luoghi sempre nuovi, da ogni generazione credente
affinché il mondo sia portato al pentimento e alla fede grazie
alla testimonianza dei seguaci dell’Agnello. Leggibile come
una Regola della guerra cristiana, che assume e reinterpreta
tradizioni specifiche sulla guerra santa, l’Apocalisse rappre
senta quindi una chiesa profondamente impegnata nella bat
taglia messianica ed escatologica per il regno che, pur essen
do di resistenza religiosa e culturale e non militare, richiede
” Ivi, 17.
40 Ivi, 34.
41 Sull'importanza della forma «drammatica» nellestetica e nella teologia dell'Apo
calisse, cfr. T oribio C uadrado, 133-196.
egualmente il dono di sé nella testimonianza fedele anche
fino al martirio.42
4.4. Lescatologia
Sul rapporto tra la vittoria di Cristo, già compiuta, e quella
dei credenti, non ancora ultimata, si regge perciò la complessa
escatologia dell’Apocalisse. In ciò che Dio ha compiuto in Cri
sto per la loro liberazione è contenuta, infatti, un’enorme sfida:
l’esito della storia umana, nelle diverse e imprevedibili tappe
del suo svolgersi temporale, non sarà automatico, sarà il frutto
di una battaglia in cui risulterà determinante la capacità dei
credenti-testimoni di conformarsi alla vittoria dell’Agnello e
alla promessa che essa custodisce. Quali che possano essere i
fatti concreti della storia, le guerre e i conflitti di potere che la
attraverseranno, la vittoria già accaduta dell’Agnello ne potrà
permettere la corretta diagnosi e garantirne l’esito salvifico.
Fino al c. 5, infatti, i livelli storico e metastorico che si in
trecciano nell’Apocalisse sembrano chiaramente distinti: gli
aoristi utilizzati («A Colui che... ha svincolato noi e ci ha fatti
regno...»: 1,6; «H o vinto e mi sono seduto col Padre mio sul
trono suo»: 3,21; «H a vinto il leone della tribù di Giuda»: 5,5;
«Sei stato immolato... hai riscattato... hai fatto regno»: 5,9-10)
42 B auckham, The climax, 210-237. La Regola della guerra (1QM) è uno dei testi
più caratteristici della biblioteca di Qumran e descrive la guerra finale, della durata
di quarantanni, tra i figli della luce e i figli delle tenebre, una guerra in cui le schiere
angeliche, guidate da Michele (per Ì figli della luce) o da Belial (per i figli delle tenebre),
combattono a fianco degli uomini e nella quale Dio annienterà definitivamente le
forze del male e le tenebre. L’Apocalisse di Giovanni, per certi versi, può essere acco
stata a questo testo nella misura in cui intende narrare simbolicamente la battaglia del
Cristo-Agnello e dei suoi seguaci nell’instaurazione del Regno. La caratteristica propria
dell’Apocalisse sembra essere non il suo rifiuto del militarismo apocalittico ma il suo
uso copioso del linguaggio militaristico in un senso non-militaristico. Nella distruzio
ne escatologica del male, non c’è spazio per una violenza armata reale, ma c’è ampio
spazio per l’immaginario della violenza armata (Ivi, 233).
fanno riferimento a ciò che Cristo ha già compiuto nel suo
sacrificio pasquale. A partire dal c. 6, invece, le visioni e audi
zioni di Giovanni propongono agli occhi e agli orecchi del
lettore una sequenza di azioni in cui la trascendenza sembra
intervenire nella storia umana, evocata solo attraverso comples
si quadri simbolici, e in cui ciò che è dell’Agnello e ciò che è
dei redenti nella concretezza del loro esistere spazio-tempora
le non è quasi più distinguibile. Il già compiuto una volta per
tutte si manifesta come forza motrice di ciò che «deve accade
re» e si traduce nello scioglimento dei sigilli del «libro» preso
dalla mano di Colui che siede sul trono e nel dispiegamento
pieno della storia degli uomini con Dio e dal punto di vista
divino. Da questo momento in poi, il già compiuto diventa
movimento in atto nel presente dei destinatari e futuro sempre
più prossimo quanto più la sua forza provocatrice di giudizio,
conversione, salvezza viene immessa nella storia. Si capisce, in
questo senso, l’incalzare degli aoristi per dire quanto è già com
piuto (6,17; 11,15; 12,7-9.10-12; 19,2.6-8.20-21; 20,4) o l’uso
del presente per indicare l’esercizio in atto della propria sovra
nità da parte del Cristo cavaliere vittorioso (19,11.15) o la lot
ta dei suoi testimoni (11,4-6.9-10). Le azioni belliche che ve
dono scontrarsi l’Agnello e i suoi contro i loro antagonisti
oppure le proclamazioni del regnare fatte a loro riguardo per
il passato o affermate a loro riguardo per il futuro sembrano
dire simbolicamente un combattimento per il regno che effet
tivamente c’è stato, è stato vinto e ancora lo sarà: non dal dra
go né dalle sue bestie ma da Dio, dall’Agnello e da coloro che
sono con lui, «Re dei re e Signore dèi signori» (17,14 e 19,16).
La comunione-comunicazione tra la trascendenza e la storia,
nella persona di Dio, dell’Agnello e dei suoi fedeli e, simulta
neamente, l’uso di un linguaggio simbolico conforme alla tra
dizione apocalittica per dire teologicamente la storia reale,
giustifica l’apparente confusione dei tempi. L’Agnello ha vinto
(cc. 4-5), ancora deve vincere con e attraverso i suoi in ogni
tempo e spazio della vita degli uomini (cc. 6-16) e certamente
vincerà (cc. 17-22). Per il resto, è solo questione di un «picco
lo tempo». Illuminante, in tal senso, è la risposta che in 6,9-11
viene data alla preghiera formulata dai martiri e ispirata alle
domande essenziali della teodicea nella Scrittura: «Fino a quan
do, o Padrone santo e verace, non giudicherai e vendicherai il
nostro sangue da coloro che abitano sulla terra?». Dopo il do
no di una veste bianca, simbolo della risurrezione già parteci
pata, a loro viene detto di «riposare ancora poco tempo» (cfr.
Is 54,7; Ap 20,3-4), fino a che sia completo il numero dei con
servi e fratelli che, come loro, saranno uccisi per la loro testi
monianza. C ’è, dunque, una misura di pienezza da raggiunge
re che determina il rapporto tra il già e non ancora così come
esso si manifesta nella trama dell’Apocalisse. Questa misura di
pienezza, che effettivamente manca, si esprime in un tempo
«piccolo», «rapido», «vicino» (1,3; 2,16; 3,11; 11,14; 22,7.10.
12.20), calcolabile qualitativamente e non quantitativamente.
Il simbolismo numerico, così abbondantemente utilizzato da
Giovanni di Patmos, dimostra che al cuore dell’escatologia
dell’Apocalisse sta non la quantità ma la qualità dei tempi.
A rigor di termini, non si potrebbe neanche dire che l’asse
del «già» compiuto sia statico mentre quello del «non ancora»
dinamico: senza la vittoria dell’Agnello, che è celebrata nella
sezione del trono da cui tutto dipende e che comanda tanto il
settenario delle lettere (le promesse al vincitore) quanto lo
svolgimento delle visioni fino al culmine della Gerusalemme
nuova (la promessa al vincitore in 21,7), non ci potrebbe es
sere lo scioglimento dei sigilli e non si potrebbe dare lo svol
gim ento d e ll’A p o calisse. N ella v ittoria già com piu ta
dell’Agnello il movimento quindi c’è, ma sta fuori dal libro!
Non a caso essa viene proclamata e celebrata, ma non viene
mai raccontata. Anche in 19,11-21 ne viene raccontato l’esito,
non la sua realizzazione sull’asse temporale che sta fuori dal
libro nella pasqua di Gesù Cristo. Al libro della «rivelazione»,
in fondo, non tocca altro che confessare, dispiegare, sviscera
re, dal punto di vista dello Spirito che parla alle chiese, sog
getti, modi, cause, occasioni ed esiti del combattimento per il
Regno che l’Agnello ha compiuto vittoriosamente, affinché la
sua battaglia vittoriosa sia partecipata e vissuta dalla comuni
tà: nella liturgia, che unisce cielo e terra e permette la com
prensione «in Spirito» della storia, e nella vita, che porta avan
ti la storia fuori dal libro.
Bibliografìa
A rcari L., «L’identità degli avversari del veggente di Patmos in Apo
calisse 2-3. Dinamiche e dialettiche in alcuni gruppi dell’Asia
Minore del I secolo d.C.», in M.B. DURANTE M a n g o n i - G. JOSSA
(edd.), Giudei e cristiani nel I secolo, Il Pozzo di Giacobbe, Tra
pani 2006, 163-198.
----, Visioni del figlio dell’uomo nel Libro delle Parabole e nell’Apo
calisse, Morcelliana, Brescia 2012.
----, «Una donna avvolta nel sole» (Apoc 12,1). Le raffigurazionifem
minili nell’Apocalisse di Giovanni alla luce della letteratura apoca
littica giudaica, Messaggero, Padova 2008.
A une D.E., Revelation, 3 voli., Word Books, Dallas (TX) 1997-1998.
BAUCKHAM R ., The climax ofProphecy. Studies on thè hook o f Reve
lation, T & T Clark, Edinburgh 1993.
----, La teologia dell’Apocalisse, Paideia, Brescia 1994.
B ig u z z i G ., Apocalisse. Nuova versione, introduzione e commento,
Paoline, Milano 2005.
C u v iL L IE R É., «U Apocalypse de Jean», in D. MARGUERAT (ed.), In-
troduction au Nouveau Testament, Labor et Fides, Genève 2000,
386-403.
D O G LIO C ., Apocalisse. Introduzione, traduzione e commento, San
Paolo, Cinisello Balsamo 2012.
LUPIERI E. (a cura di), LApocalisse di Giovanni, Mondadori, Milano
1999.
MANUNZA C , LApocalisse come ‘actio liturgica’ cristiana, G & B Press,
Roma 2012.
PRIGENT R, L'Apocalypse de Saint ]ean. Edition revue et augmentée,
Labor et Fides, Genève 2000.
SlM OENS Y ., Apocalisse di Giovanni Apocalisse di Gesù Cristo. Una
traduzione e un interpretazione, Dehoniane, Bologna 2010.
T o r ibio C u a d ra d o J.F ., Apocalipsis: Estética y teologia, Pontificio
Istituto Biblico, Roma 2007.
TRIPALDI D., Gesù di Nazareth nell’Apocalisse di Giovanni. Spirito,
profezia e memoria, Morcelliana, Brescia 2010.
----(a cura di), Apocalisse di Giovanni. Introduzione, traduzione e
commento, Carocci, Roma 2012.
VANNI U., L’Apocalisse. Ermeneutica, esegesi, teologia, Dehoniane,
Bologna 1988.
----, Apocalisse libro della rivelazione. Esegesi biblico teologica e im
plicazioni pastorali, Dehoniane, Bologna 2009.
LIN E E D I TEO LO G IA GIOVANNEA
Come si è avuto modo di costatare nell’introduzione gene
rale al corpus giovanneo e nell’analisi dei singoli libri che lo
compongono, la prossimità lessicale, tematica e teologica tra
questi scritti pesa nel complesso più delle singole differenze di
genere, di prospettiva o di contenuto quando si tratta di con
siderarne e comprenderne la specificità nel panorama neote
stamentario. Letti in relazione gli uni agli altri, i cinque Scritti
giovannei manifestano un universo simbolico e concettuale
specifico, correlato a un medesimo contesto vitale, che non
corrisponde con la stessa intensità ed evidenza a quello di nes
sun altro scritto del Nuovo Testamento anche se, nel caso
dell’Apocalisse, intercetta e tesaurizza tradizioni e temi che non
sono solo giovannei. Nelle pagine che seguono cercherò di il
lustrarne in modo più sistematico alcune direttrici principali
privilegiando gli aspetti che accomunano i testi.
1. La rivelazione cristologica al centro della storia salvifica
Reagendo a una lettura del Vangelo che ne sottolineava fino
all’eccesso il carattere cristocentrico, a tutto svantaggio di
un’adeguata valorizzazione dell’insistenza tipicamente giovan
nea su Dio «Padre», C.K. Barrett notava come Gesù Cristo,
nel Quarto Vangelo, dovesse essere riconosciuto come «cen
trale» ma non come «finale» e il cristocentrismo giovanneo
chiaramente teocentrico.1A conclusioni analoghe, rileggendo
il Quarto Vangelo dal punto di vista di un anticotestamentari-
sta, sarebbe arrivato anche K. Westermann considerando che
la storia di Gesù di Nazaret è solo «un compendio dell’opera
universale di Dio» ma, nel raccontarla, «la signoria di Dio sul
la storia è appena sfiorata»; solo leggendola sullo sfondo più
ampio dell’intera opera di Dio la si potrebbe comprendere
veramente nella sua «importanza e significato».12
D ’altra parte, «la teologia cristiana inizia con il fatto di G e
sù Cristo, «unico inizio possibile»3 e ciò è quanto mai vero per
l’insieme degli Scritti giovannei che considerano Gesù Cristo
rivelatore e rivelazione di Dio (Gv 1,18; lG v 4,7-16; Ap 1,1-2).
La rivelazione cristologica, definita caratteristicamente come
«testimonianza» (martyria), si può dunque, a buon diritto, con
siderare centrale in tutti gli Scritti giovannei proprio per le sue
implicazioni al contempo teologiche e antropologiche e per il
modo in cui l’intera rivelazione biblica, nel suo procedere
storico-salvifico, ne viene condizionata e interamente riconfi
gurata. D ’altra parte, se nel Quarto Vangelo il teocentrismo e
il carattere storico-salvifico della cristologia narrativa giovannea
possono essere riconosciuti in filigrana, nelle Lettere e nel
l’Apocalisse risultano imponenti e addirittura dominanti. La
tensione dialettica tra teocentrismo e cristocentrismo resta,
dunque, caratteristica comune a Vangelo, Lettere e Apocalisse
che ripensano tutta intera la storia della salvezza a partire dal
suo culmine e centro: la parola, la vita e la pasqua di Gesù di
Nazaret confessato come Cristo. In questo senso, dunque, si
1«Christocentric or Theocentric? Observations on thè Theological Method of thè
Fourth Gospel», in J. Coppens (ed.), La notion biblique de Dieu, Leuven University
Press, Leuven 1976, 364. Cfr. anche G. SEGALLA, «D io Padre di Gesù nel Quarto
Vangelo. Cristocentrismo verso il teocentrismo», in La scuola cattolica 117(1989), 196-
224. Il dibattito è continuato a lungo (cfr. M.M. T hompson, 6-13).
2 The Gospel of]ohn in thè Light o f thè Old Testamenti Hendrickson, Peabody
(MA) 1998,77.
3 Smith, 17.104.
può dire che «il giovannismo è caratterizzato da una forte con
centrazione cristologica che sta già all’origine del suo sviluppo
identitario»4 ma che si spiega proprio per la sua struttura inti
mamente teocentrica, tanto più profonda e pervasiva quanto
più l’identità e la funzione dell’uomo Gesù sono ricondotte
alla parola e azione di rivelazione del Dio di Israele e compre
se e rappresentate, in costante relazione ad essa, mediante la
rilettura cristologica delle Scritture e il ricorso alle più diverse
figure di mediazione del Dio unico che nella sua persona sono
riconosciute convergere (Parola, Sapienza, Figlio dell’uomo,
Profeta, Figlio di Dio, Messia-Re, Servo del Signore).
1.1. Gesù morto e risorto accadimento e centro delle Scritture
Il modo di rapportarsi alle Scritture di Israele, a partire dal
compimento messianico ed escatologico, è un elemento distin
tivo e caratterizzante dei testi giovannei: radicati nell’Antico
Testamento al punto da respirarlo e rievocarlo come loro os
satura concettuale fondamentale, essi ricorrono poche volte
alle citazioni esplicite. Se il Vangelo ne contiene almeno quin
dici (Gv 1,23; 2,17; 6,31.45; 8,17; 10,34; 12,13.14-15.38.39-41;
13,18; 15,25; 19,24.36.37), l’Apocalisse di Giovanni rappresen
ta una continua e sistematica intelaiatura di riferimenti scrittu-
ristici, una sorta di strutturale rilettura dell’Antico Testamento,
senza che mai vi appaia una citazione esplicita. Anche l’argo
mentazione delle Lettere, pur fondata su racconti e temi cru
ciali della relazione dell’uomo con Dio e con il fratello propri
dell’Antico Testamento, non fa leva su nessuna citazione espli
cita. Vangelo, Lettere e Apocalisse vivono della linfa delle Scrit
ture e nel loro mondo proiettano sistematicamente i lettori, pur
citandole espressamente poco o mai. Essi ne sono la duplica
4Penna, 211.
zione e «deuterosi» ultima e definitiva: ultima proprio perché
definitiva e definitiva proprio perché attestante l’accadimento
della Parola fuori dal Libro, la trasformazione della Parola in
«carne» e «corpo» personale e sociale, quello del Cristo e quel
lo dei credenti in lui, suoi «testimoni».
La proclamazione deH’imprevedibile compimento messia
nico delle Scritture e delle attese di Israele nella persona di
Gesù di Nazaret crocifisso e risorto, riconosciuto come «Colui
che viene» (Gv 6,14; 11,27; 12,13; lG v 5,6; Ap 1,7-8; 3,11;
22,7.12.20) ed «è venuto» «nella carne» (Gv 1,14; lG v 4,2;
2Gv 7), cioè come uomo passibile di sofferenza e morte (lG v
5,6; Ap 1,17-18) e proprio per questo sovrano vittorioso (Gv
12,32; 16,33; 18,36-37; Ap 3,21;5,5; 17,14; 19,11-16), attraver
sa e unifica tutti gli Scritti giovannei. Nella «carne», che è la
possibilità di patire e morire, la Parola si rivela e si invera come
Vita di Dio per il mondo. Il significato dell’incarnazione è
esplorato da una prospettiva post-pasquale e la cristologia è
intimamente orientata alla soteriologia.5 Passione, morte e ri
surrezione di Gesù costituiscono, dunque, il «cuore stesso del
giovannismo» nonché l’evento a partire del quale i cinque scrit
ti rileggono le Scritture.6 Pur se con lessico e argomentazione
a volte diversi, Vangelo, Lettere e Apocalisse condividono «una
stessa teologia che considera la croce come la grande trasfor
mazione della storia nell’eschaton».7 Benché la cristologia del
la Parola (Gesù è la Parola di Dio e il testimone fedele per
eccellenza) e la cristologia pasquale siano al centro della rive
lazione e spingano ad affermazioni teologiche inaudite, l ’atten
zione ultima verte sul piano di salvezza di Dio e sul ruolo che
5 M. H engel, «The Prologue of thè Gospel of John as thè Gateway to Christolo-
gical Truth», in R. B auckham - C. MOSSER (edd.), The Gospel ofjohn and Christian
Theology, Eerdmans, Grand Rapids (MI) 2008,291.
6 PRIGENT, 3 0 e n ota 134.
7 Ivi, 32: l’affermazione, nel suo testo, riguarda Vangelo e Apocalisse, ma mi sem
bra estensibile anche alla teologia delle Lettere.
alla comunità dei credenti, riscattati nel sangue dell’Agnello,
viene in esso conferito nell’«ora ultima» della storia (Gv 4,23;
5,25; lG v 2,18; Ap 14,6-7) al cospetto del mondo.
In tutti e ciascuno, dunque, la rilettura e riscrittura dell’An
tico Testamento viene fatta proprio a partire dal riconoscimen
to del passaggio della Parola alla Carne avvenuto, “fuori testo”,
nella persona di Gesù Cristo e nella sua pasqua. La cristologia
della Parola divenuta carne per la salvezza del mondo si rivela
determinante per l’ermeneutica giovannea delle Scritture di
Israele e per la loro riscrittura in chiave cristologica, escatolo
gica ed ecclesiale. Vangelo, Lettere e Apocalisse concretizzano
ciascuno a modo proprio tale riscrittura, ma un principio pre
domina in tutti: la parola di Gesù viene affiancata in autorità a
quella delle Scritture e, correlata all’intera sua vita, dà ad esse
il loro compimento e la loro referenza ultima, rendendole in
modo nuovo profetiche e attuali nella vita dei credenti (Gv
2,22). La cristologia del Logos, in questo senso, che sia propo
sta in termini protologici e teologici (Vangelo), storico-ministe
riali (Lettere) o escatologici (Apocalisse), è un aspetto del tutto
distintivo e unificante della letteratura giovannea dal quale di
pende il rapporto originale che essa intrattiene con le Scritture.
Nella consapevolezza teologica dell’ambiente giovanneo, Gesù
«parla le Parole di Dio» (Gv 3,34) al punto da esser considera
to coestensivo alla Parola stessa di Dio e, ancor più radicalmen
te, da dare ad essa un volto personale e umano unico e defini
tivo. Attraverso gli Scritti giovannei, «i credenti imparano a
guardare le Scritture non più come un libro fatto di norme e di
precetti, ma come voce del Dio fatto carne»; la parola di Zc
12,10, ripresa e riferita al Cristo crocifisso sia da Gv 19,37
(«guarderanno a colui che hanno trafitto») che da Ap 1,7, ap
pare «come l’espressione più alta della parola scritta non su un
libro, ma sulla carne dell’uomo che dona la sua vita per amore».8
* Pérez Màrquez, 455.
All’origine di questi scritti c’è la consapevolezza del gesto au-
toriale come ultimo atto di scrittura delle Scritture, quello che
le sigilla dissigillandole, aprendole definitivamente, ormai fuori
dal Libro, in Cristo crocifisso e Risorto e nella vita di sequela
dei suoi discepoli, nei tempi e spazi più diversi di una storia
costantemente governata dallo Spirito e dalla pienezza della
gioia messianica.
1.2. Gesù Figlio inviato e testimone fedele
Espressione precipua della convergenza in Cristo delle di
verse figure di mediazione del Dio unico mi sembra essere
l’identificazione di Gesù come Figlio inviato, testimone fedele
e rivelatore ed è su questa che mi vorrei ora soffermare.
Una delle differenze tra Vangelo/Lettere e Apocalisse con
siste, certamente, nel diverso uso che vi si fa dei verbi di invio
o missione (pémpo e apostéllò)'. se nel Quarto Vangelo e nelle
Lettere essi esprimono un aspetto fondamentale della cristolo
gia, per la quale Gesù è riconoscibile e riconosciuto anzitutto
come «Figlio» inviato dal Padre (Gv 3,17; 5,23-24.30.37; 6,38-
39.44; 7,16.28; 8,16.18.26.29; 9,4; 12,44-50; 20,21; lG v
4,9.10.14), nell’Apocalisse il lessico della missione non viene
mai usato per identificare Gesù in rapporto a Dio ma, even
tualmente, il suo «angelo» mediatore del suo «testimoniare»
riguardo alle chiese (1,1; 22,16). La differenza, d’altra parte, si
spiega senza troppe difficoltà: mentre suscitare e consolidare
la fede compiuta in Gesù come inviato e unico vero rivelatore
è scopo di Vangelo e Lettere (Gv 11,42; 17,8.21.23.25; 20,30-
31; lG v 5,9-13), per le chiese destinatarie dell’Apocalisse que
sta fede è presupposto indiscusso: l’obiettivo, piuttosto, è mo
strare l’attualità della testimonianza di Gesù rivelatore e la
fedeltà che essa richiede alle chiese nel loro presente storico.
Nell’individuare, tuttavia, in Gesù «trafitto» eppure vivente il
Figlio dell’uomo che viene (Ap 1,7), l’Apocalisse condivide le
tradizioni gesuane e cristologiche di Vangelo e Lettere che ri
conoscono in Gesù «il Veniente» atteso (Gv 1,9.15.27.30; 3,31;
4,25;6,14; 11,27; 12,13.15; 1G v 4,2;5,6; 2Gv 7)9 e le sviluppa,
da un lato, in termini eminentemente teologici - essendo «C o
lui che viene» Nome di Dio prima che del suo inviato (Ap
1,4.8; 4,8) -, dall’altro in termini pneumatologici (Ap 1,9-3,22;
cfr. già Gv 14,18), liturgici (Ap 3,20; cfr. già Gv 21,13) ed
escatologici (Ap 2,5.16.25; 3,3.11; 22,7.12.20; cfr. già Gv 14,3;
21,22-23), riconoscendo a Gesù risorto, in qualità di rivelatore
celeste che parla alle chiese con la voce dello Spirito, la stessa
funzione giudiziale e testimoniale che il Vangelo e, implicita
mente, le Lettere avevano riconosciuto al Gesù terreno.
Tale funzione testimoniale o di rivelazione, in tutti gli Scrit
ti giovannei, si spiega proprio in ragione del rapporto tra Gesù
e la Parola di Dio. In qualità di Figlio di Dio «unto» (Messia)
in pieno possesso dello Spirito di Dio (Is 11,1-5; Gv 1,32-34;
Ap 5,6), nonché in qualità di «profeta» come Mosè, rivelatore
escatologico della volontà di Dio (Gv 4,19.25-26; 6,14-15; Ap
1,9-20; 22,16), Gesù è il testimone per eccellenza della Parola
di Dio: «Colui che Dio ha mandato, parla le parole di D io»
(Gv 3,34). Riconoscibile, anzi, nella sua stessa persona come il
Logos Dio protagonista della creazione e della rivelazione pro
fetica fino al suo culmine escatologico (Gv 1,1-18; lG v 1,1-4;
Ap 19,13), Gesù costituisce la presenza testimoniale del Dio
vero e fedele nel mondo e nel presente delle chiese: storica
mente, come «colui che è venuto» e «viene nella carne», Agnel
lo immolato e cavaliere con le vesti immerse nel sangue; esca
tologicamente, come colui che sarà visibile a ogni occhio uma
no quale sovrano vincitore del mondo. L a Parola di Dio,
comunicata nella rivelazione profetica, nonché lo Spirito
dell’autentica profezia - sintetizza dunque l’Apocalisse - coin
9 T rip al d i , Gesù, 103-104.
cidono in ultima analisi con la «testimonianza di G esù» (Ap
1,2; 6,9; 12,17; 19,10), rivelazione ed espressione perfetta del
la Parola di Dio e delle sue esigenze (Gv 5,37-38; 12,44-50). Si
tratta della testimonianza che il Figlio ha reso del Padre agli
uomini e di quella che gli uomini rendono al Figlio, animati
dallo Spirito, custodendo e possedendo ormai in proprio la
testimonianza del Cristo (Ap 6,9) fino alla rinuncia della pro
pria vita (Gv 12,25; Ap 12,11).
L’identificazione totale del Gesù terreno, l’uomo «trafitto»,
con il Figlio dell’uomo apocalittico e con «il Veniente» atteso
per la fine dei giorni, saldando strettamente la teologia del
Nome divino rivelato a Mosè, la teologia della Parola di Dio
con le sue riletture sapienziali e il complesso panorama dell’at
tesa messianica, pone così Gesù, lo stesso uomo che è morto e
risuscitato dai morti, al livello di Dio. Nella sua persona,
nell’interezza della sua storia di uomo e nella potenza con cui
egli si fa presente e agisce nello Spirito nel presente storico
delle chiese, Gesù crocifisso e risorto emerge dunque, nella
letteratura giovannea, non più soltanto come figura di media
zione del Dio unico, per quanto alta e vicina a lui come pote
vano esserlo già nelle Scritture e negli sviluppi della letteratura
apocalittica la Parola e la Sapienza preesistente o lo stesso F i
glio dell’uomo, ma Dio stesso nell’atto del suo rivelarsi «in
carne» all’uomo di carne per portare a compimento la relazio
ne di alleanza. In maniera più esplicita ciò si costata nei testi
in cui Gesù viene proclamato espressamente Theós o nei qua
li appare ima sovrapposizione totale tra Gesù e Dio (Gv 1,1.18:
Lògos Theós, monogenes Theós; Gv 20,28: «Il mio Signore e il
mio Dio»; lG v 5,20: «Egli è il vero Dio e vita eterna»; Ap 1,8;
21,6; 22,13: «l’Alfa e l’Omega» detto di sé tanto dal «Signore
Dio» quanto da Gesù; Ap 17,14; 19,16: «Re dei re e Signore
dei signori»); in modo ancor più sorprendente, proprio per il
loro carattere indiretto e la potenza allusiva, ciò si evince dai
testi in cui il parlare di Gesù, radicalmente umano, fa risuona
re il parlare stesso del Dio che si rivela come storicamente
presente al suo popolo a un livello di prossimità incandescen
te (i detti «io sono» in Gv 4,26; 8,24.58; 18,5-6.8; Ap 1,17; 2,23;
22,13).
L’eccezionaiità della sintesi giovannea, infatti, emerge pro
prio nel modo in cui la professione di fede cristologica resta
perennemente congiunta con la professione di fede nel Dio
unico e l’umanità storica di Gesù di Nazaret in continua e
quanto mai eloquente, rivelatrice, tensione con l ’origine
«dall’alto» e l’identità filiale di colui che, a partire dalla risur
rezione, è riconosciuto appartenere, nel suo stesso «essere»,
alla sfera propria del Dio vivente. La sua intera vita umana è
riletta perciò, in trasparenza, come la vita del Figlio di Dio,
«più grande del padre Giacobbe» o del «padre Abramo» (Gv
4,12; 8,53) ma in costante rapporto col Padre «più grande» di
lui (Gv 14,28), «D io suo» e «Padre suo» come dei discepoli
(Gv 20,17; Ap 1,6; 3,2.5.12), dal quale, in tutto, egli dipende
nel parlare e nell’agire; dal cui Spirito egli è abitato in pienez
za (Gv 1,32-34; 3,34-35; 6,63; 7,37-39) e mosso dall’inizio alla
fine della sua storia di uomo (Gv 19,30; lG v 5,7-8); nel cui
Spirito egli «viene» ai suoi manifestandosi loro come Risorto
e rendendoli così partecipi, sin dal presente, della sua condi
zione pneumatica di vivente (Gv 7,39; 14,15-20.25-26; 15,26-
27; 16,12-15; 20,21-23; lG v 3,24; 4,13; Ap 1,10.17-18; 4,2;
17,3; 21,10 e, in generale, il protagonismo dello Spirito la cui
voce risuona nelle parole del veggente di Patmos). Nella lette
ratura giovannea, più evidentemente e massicciamente che
altrove nel Nuovo Testamento, la cristologia assume, dunque,
una «struttura triadica»10e ciò permette di riflettere sul carat
tere teocentrico del cristocentrismo giovanneo come cifra em
blematica della novità teologica contenuta nella rivelazione
cristologica.
10 M. KARRER, Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 2011, 356-358.
Linee di teologia giovannea
2. H Dio uno, fonte e termine dell’amore che vivifica
Partendo da e ritornando continuamente a Gesù di Nazaret,
venuto «con l’acqua e con il sangue» e riconosciuto come la
presenza messianica ed escatologica di Dio al mondo, gli Scrit
ti giovannei puntano diritto al cuore della rivelazione biblica,
dal suo «principio» assoluto al suo assoluto télos (Gv 1,1; Ap
21,6; 22,13), rileggendo in termini triadici la cristologia e, dun
que, in termini eminentemente relazionali il manifestarsi di Dio
al mondo e lo stesso «essere» di Dio: «nella cristologia la com
prensione del Gesù terreno, morto e risuscitato non rientra
come un dato di fatto concluso. Vi rientra, invece, come una
struttura di relazioni: relazioni con Dio e con lo Spirito e rela
zioni con gli uomini».11
Il contributo proprio della teologia giovannea nel panorama
neotestamentario fa leva sulla teologia biblica dell’alleanza e
della Parola, principale orizzonte ermeneutico della ricompren
sione della figura di Gesù e, dunque, dell’essere stesso di Dio.
Già nella Scrittura la Parola di Dio ha una sua autonomia,
quella dell’inviato investito dell’autorità stessa di colui che in
via (Is 35,10-11), ed è protagonista della storia della salvezza
(Ger 1,1.4.11). Come Parola inviata e comunicata dai profeti
è dono per gli uomini che ne sono destinatari: un dono che
esige ascolto e sapienza, che è premura divina, segno di amore,
di cura e di fedeltà all’alleanza (Ger 7,24-26; 25,3-4; 26,4-6;
29,17-19; Ne 9,29-31). Nel Quarto Vangelo, non meno che
nelle Lettere e nell’Apocalisse pur se in modo diverso, questa
stessa Parola è portata infallibilmente da Gesù che «osser-
va/custodisce» perfettamente la Parola del Padre (Gv 8,55) al
punto da poter chiamare la sua parola non sua ma del Padre
che l’ha inviato (Gv 3,34; 12,44-50; 14,24). Si dà così un paral
lelismo strettissimo: la Parola divina, che nell’Antico Testamen-
11 Ivi, 358.
to viene connessa in modo privilegiato alla missione profetica,
si manifesta in modo nuovo e assoluto in Gesù e richiede dun
que una ricomprensione della rivelazione stessa e del suo svol
gersi storico. Gesù, profeta escatologico (Gv 6,14; Dt 18,15-
22), si dimostra infatti tale nella parola e come persona. La sua
parola ha la forza del giudizio divino e della vita divina (Gv
5,10-30; 6,63.68); ha il potere della risurrezione stessa (5,24;
8,51).
Chi è dunque quest’uomo la cui parola è così totalmente
coestensiva alla Parola di Dio? E soprattutto, cosa o, meglio,
chi è veramente, profondamente, questa Parola totalmente co
estensiva a Dio che la dona come all’uomo che la porta? È a
questa domanda che rispondono gli Scritti giovannei, in fondo,
portando al culmine tanto la cristologia quanto la teologia neo
testamentaria: questa Parola è soggetto relazionale, Dio in re
lazione a Dio, «Figlio» in relazione al «Padre», partecipe, te
stimone e realizzatore della sovranità propria del Dio uno (Gv
1,1-2.14.8; 19,14.19-22; 2G v3; Ap 1,5-6; 2,18). Questa Parola,
con la sua identità relazionale, dice Dio come relazione origi
naria e amore sorgivo («fonte d ’acqua viva»: Ap 7,17; 21,6) o,
a partire dall’esperienza cristologica e dalla proclamazione del
Logos divenuto sarx, come Padre e Figlio in costante relazione
d’amore oltre e dentro la «carne» dell’uomo, partecipata all’uo
mo col dono dello Spirito vivificante, «acqua zampillante in
vita eterna» (Gv 4,14; 7,37-39).
Tutt’altro che negare l’unicità del Signore Dio, la testimo
nianza cristologica ne svela la struttura intimamente relaziona
le mostrandone e affermandone storicamente la «verità» in
azione attraverso il corpo dell’ànthrdpos Gesù, Figlio dell’uomo
e fratello degli uomini, protagonista messianico del compimen
to escatologico. La posta in gioco in questa rivelazione antro
pologica, dal basso, dell’essere e della signoria del Dio uno è
altissima: lo dimostra la forma polemica che la testimonianza
cristologica assume in tutti gli Scritti giovannei traducendosi
in una lotta senza quartiere contro l’idolatria in tutte le sue
forme (religiosa, economica e socio-politica). Se nel Quarto
Vangelo la proclamazione dell’unico Signore passa per la carne
dell’uomo Gesù, votato fino al dono della propria vita all’ono-
re-gloria del Padre e all’affermazione della sua signoria vivifi
cante liberata dalle sue contraffazioni diaboliche, ideologiche
e omicide (Gv 5,16-47; 8,21-59; 10,1-18.22-39), nelle Lettere
e nell’Apocalisse essa passa dalla testimonianza, dall’esperien
za e dal discernimento di una comunità profetica, sostenuta
dalla Parola della vita ascoltata e attuata nella pratica di un
amore fraterno fedele e nella resistenza, fino anche alla morte,
contro ogni sistema di relazioni che neghi e violenti l’uomo. In
tutti i casi, il Cristo crocifisso e risorto, «espiazione per i nostri
peccati» (lG v 1,7; 2,2; 4,10) o Agnello immolato e redentore
(Gv 1,29.36; 19,14-16.36; Ap l,5b; 5,6-14), è al contempo ri
velazione del volto amante dell’unico vero Dio, smascheramen
to delle seduzioni idolatriche e mortifere dei falsi profeti, «prin
cipio» della nuova creazione e segno permanente della nuova
alleanza realizzata. Questa, infatti, altro non è che l’avvenire
storico della relazione d’amore tra il Padre e il Figlio parteci
pata stabilmente e intimamente, mediante il dono dello Spirito,
ai credenti che perseverano nell’amore reciproco e nella resi
stenza alle seduzioni idolatriche fino al dono della propria vita.
Attestazione eloquente della rivelazione e proclamazione del
Dio uno appare in particolare, in tutti i testi giovannei, il ricor
so pervasivo al linguaggio nomistico («ascoltare/custodire la/e
parola/e o il/i comandamento/i»; «fare/cercare la volontà/ciò
che è gradito/l’onore/la gloria di Dio»), riferito in positivo tan
to a Gesù quanto ai credenti, che dimostra attuata e costante-
mente risuonante nel loro cuore l’intimazione esigente dello
sema‘ Yisrà’el del comandamento principale della Tóràh: «Il
Signore tuo Dio è l’unico Signore. Tu amerai il Signore tuo Dio
con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue
forze» (Dt 6,4-5); cioè, nell’interpretazione tardo-giudaica, fino
al dono della vita per prendere su di sé il «giogo del regno dei
cieli».12*Nella traduzione giovannea, però, lo sema‘ ha una con
cretizzazione inevitabilmente singolare: la fede nel Dio uno e
vero, nonché la proclamazione esistenziale della sua signoria,
è inscindibile dalla confessione di fede nel Cristo Figlio e dal
la custodia della parola/testimonianza divina che egli signifi
ca.15 L’amore di dedizione al Dio uno e l’osservanza dei suoi
comandamenti si concretizzano, ora, nell’amore per Gesù e
nell’osservanza del suo «com andam ento nuovo», quello
dell’amore reciproco/fraterno, perché è dalla sua esistenza do
nata che passa la rivelazione dell’invisibile Dio come relazione
Padre-Figlio riversata nei credenti-figli col dono dello Spirito
e, dunque, come «amore» che è «vita eterna» e denuncia co
stante di ogni sistema di relazioni che conduce alla morte. Al
dischiudersi dell’«arca dell’alleanza nel cielo» il veggente G io
vanni vede, ormai, la donna-madre in atto di partorire il Mes
sia Figlio e la sua discendenza in atto di combattere, vittorio
samente, la stessa battaglia messianica contro il mistificatore
delle origini.
La proclamazione del Dio uno in termini storici e relazio
nali costituisce, dunque, la struttura costante dell’annuncio e
della teologia giovannee: il Dio uno è Colui il cui «esserci»
sovrano e liberante si fa percepire e riconoscere nell’appello a
credere e nell’esperienza dell’amare che passa dalla relazione
con Gesù (Gv 8,31-36). La cristologia giovannea non è, da
questo punto di vista, che la cartina al tornasole della sua teo
logia: credere che l’uomo Gesù di Nazaret è il Cristo implica
una visione realmente nuova, specifica di Dio, tanto rispetto al
mondo giudaico quanto rispetto al mondo pagano. L’esperien
za del Cristo è, infatti, il luogo di rivelazione ultimo e pieno
12N icolaci, 304-306; 358-374.
n Nel Vangelo e nelle Lettere, non a caso, la «testimonianza» è anche quella che
il Padre Dio ha reso al Figlio (Gv 5,31-32.36-37; 8,18; lG v 5,9-10).
dell’essere del Dio vivo e vero (Padre, Figlio, Spirito) unico
Signore nella storia degli uomini.
3. La pienezza dello Spirito
Non sorprende, alla luce di quanto detto, lo spazio riserva
to negli Scritti giovannei alla presenza, al dono e all’azione
dello Spirito di Dio. Pur se in modo diverso, Vangelo, Lettere
e Apocalisse attestano un’esperienza ecclesiale dello Spirito
nella sua pienezza: nel Vangelo e nelle Lettere il senso di que
sta pienezza mi sembra veicolato dall’insistenza sul carattere
intimo e stabile della sua presenza attiva nei singoli e nella
comunità; nell’Apocalisse esso mi sembra veicolato dalla prima
espressione con cui lo Spirito viene indicato («I sette spiriti che
stanno davanti al suo trono»), dall’insistenza sul suo «dire»
alle chiese, sette volte ripetuta alla fine di ogni messaggio (Ap
2,7.11.17.29; 3,6.13.22), e dal protagonismo attivo che gli vie
ne attribuito nello svolgersi della rivelazione, tanto come spazio
e condizione essenziale dell’esperienza profetica («in Spirito»:
1,10; 4,2; 17,3; 21,10), quanto come «voce» che risuona a te
stimonianza dell’agire compiuto di Dio e del desiderio delle
chiese (14,13; 22,17). Frutto di questa pienezza consapevol
mente percepita, negli Scritti giovannei emerge la riflessione
sullo Spirito, prolungata anche se non sistematica, come intrin
secamente legata al compimento escatologico della nuova alle
anza e, conformemente alla caratterizzazione complessiva del
la tradizione giovannea, alla testimonianza cristologica e alla
sua struttura relazionale. In tutti e cinque gli scritti, infatti, lo
Spirito è visto in relazione simultanea a Dio (il Padre o «Colui
che siede sul trono»), a Gesù, alla comunità dei credenti e,
attraverso essa, al mondo; significativamente, però, il Quarto
Vangelo distingue accuratamente tra il tempo prepasquale, in
cui lo Spirito «non c’era ancora» (cioè non su altri che Gesù),
e il tempo qualitativamente nuovo inaugurato dalla glorifica
zione di Gesù cui il dono dello Spirito ai credenti è connesso
(Gv 7,39; 16,7). Il dono e l’esperienza dello Spirito sono dun
que il sigillo specifico della alleanza nuova realizzata con la
pasqua dell’Agnello. Su questo sfondo esperienziale ed eccle
siale comune, i singoli scritti parlano dello Spirito ciascuno con
accentuazioni diverse ma con una coerenza strutturale. Nel
Quarto Vangelo è notevole, soprattutto, l’accento posto sulla
relazione con Gesù e con il Padre e, successivamente, con i
discepoli. Disceso «dal cielo» su Gesù e dimorante permanen
temente su di lui, lo Spirito Santo di Dio ne prova l’identità
messianica e filiale e ne specifica la funzione purificatoria (Gv
1,32-34; 3,38); dice la trascendenza divina e la condizione au
tentica per adorare Dio come «Padre», secondo la «verità» del
Figlio, ben aldilà dei limiti cultuali stabiliti (4,23-24); è vivifi
catore come il Padre e il Figlio e la sua vita passa dalle parole
di Gesù (6,63). Promesso solennemente come sorgente viva
attingibile da Gesù e sgorgante nell’intimo dei credenti dopo
la pasqua (4,14; 7,37-39), lo Spirito li genera «dall’alto» come
figli di Dio attraverso una nuova creazione (1,12-13; 3,5-8).
A partire dai discorsi della cena, ordinati a preparare i di
scepoli alla separazione dal maestro e a spiegare la fecondità
della morte di quest’ultimo, è proprio sul rapporto tra lo Spi
rito e i discepoli che si sposta la focalizzazione giovannea
(14,16-17.26; 15,26-27; 16,7-11.13-15). Mandato e donato sta
bilmente da Gesù e dal Padre per la preghiera di Gesù, lo
«Spirito di verità» «viene» in qualità di testimone permanente
di Gesù stesso («la verità»: 14,6), suo rappresentante e succes
sore, operante con e per mezzo dei discepoli presso un mondo
che «non può riceverlo» direttamente ma che, indirettamente,
potrà farne esperienza tramite la testimonianza dei discepoli
che, al contrario, lo conoscono come dimorante con/presso/in
loro. «Altro Paraclito» dopo Gesù, avvocato e sostenitore dei
credenti nel processo che essi intenteranno al mondo nel mo-
mento stesso in cui lo subiranno portando avanti la testimo
nianza cristologica, egli continua a rendere presente il Padre
Dio, anche dopo la partenza di Gesù, perché i suoi discepoli
non restino «orfani». Lo Spirito Santo, infatti, è lo Spirito che
«esce dal Padre» e che il Padre manda nel nome di Gesù per
ché, «ricordando» ai discepoli tutto ciò che il maestro ha det
to loro, ne continui e attui l’insegnamento e la testimonianza
dentro la comunità accompagnando i credenti, tra memoria
del passato e annuncio del futuro, nella comprensione integra
le della verità di Gesù e lo glorifichi dimostrando, nella stessa
vita dei discepoli, la verità di Gesù al mondo. Donato nel gior
no stesso di pasqua (20,21-23), lo Spirito è insufflato nei disce
poli come nel gesto di una nuova creazione e ne permette la
missione al mondo, per la denuncia e per la riconciliazione.
Nelle Lettere, ancora più esplicitamente che nel Quarto
Vangelo dato anche il loro sfondo e obiettivo, la questione
dello Spirito è essenzialmente legata a quella dell’identità dei
credenti e, di conseguenza, al discernimento degli spiriti. Il
dono sperimentato, «saputo», dello Spirito di Dio è, infatti, ciò
che prova l’identità di chi osserva i comandamenti di Dio e
dimora in Dio, credendo e amando secondo la novità dell’al
leanza realizzata e pienamente interiorizzata (lG v 3,24; 4,13).
Lo Spirito, ormai, è P«unzione» messianica di Gesù (chrisma,
hapax neotestamentario di 1 Giovanni), proveniente «dal San
to» (Dio e/o Gesù: G v 6,69; Ap 3,7) e condivisa da tutti i
credenti rigenerati in figli di Dio (lG v 2,20.27). Essa li «am
maestra» stabilmente e affidabilmente come promesso da G e
sù (Gv 14,26) e li attrezza a discernere con sicurezza, in costan
te riferimento a Gesù Figlio di Dio, tra luce e tenebre, verità e
menzogna, vera e falsa profezia, origine da Dio e origine dal
diavolo. L’autore non parla di «Spirito di Cristo» come fanno
altri nel Nuovo Testamento (Rm 8,9; lP t 1,11) ma lo Spiri-
to/chrisma che identifica i credenti è proprio quello che «testi
monia» Gesù Cristo, contro la predicazione degli «anticristi»,
nell’interezza della sua storia di uomo e della sua opera di re
denzione dal battesimo alla morte (lG v 5,5-8). Il discernimen
to tra «gli spiriti» umani, infatti, si compie proprio in base alla
posizione che gli uomini assumono riguardo a Gesù. Lo «spi
rito di verità» si riconosce dalla confessione di fede in Gesù
quale Cristo e Figlio di Dio. Lo Spirito, dunque, in 1 Giovan
ni non è più lo «Spirito della verità» come nel Quarto Vangelo,
ma «la verità» stessa (5,6) nel senso che esso rappresenta la
novità della testimonianza cristologica resa strutturalmente in
tima ai credenti come singoli e come comunità.
L’autore dell’Apocalisse, in fondo, esprimendosi con il lin
guaggio proprio e rappresentando il punto di vista e l’esperien
za dei gruppi profetici proto-cristiani, non fa che ratificare e
portare alla sua esplicitazione più chiara la medesima connes
sione tra lo Spirito e Gesù che caratterizza Vangelo e Lettere
quando identifica «la testimonianza di Gesù» con «lo Spirito
di profezia», lo Spirito di Dio che ispira i profeti (Ap 19,10;
22,6). La verità che Gesù è (Quarto Vangelo) e che lo Spirito
che lo testimonia è a sua volta (1 Giovanni) adesso si chiama
«profezia»: la parola vera, affidabile e fedele di Dio sulla storia
testimoniata da Gesù e da tutti i «servi di Dio» che custodisco
no la sua testimonianza. Posseduto pienamente dal Cristo
Agnello, del quale costituisce lo sguardo divino penetrante e
onnisciente (i suoi «sette occhi» che sono anche le «fiaccole
ardenti» davanti al trono divino: Ap 4,5; 5,6; cfr. anche 1,14;
2,18) lo Spirito appartiene, infatti, alla sfera della trascendenza
divina (sta «davanti al trono» di «Colui che è, che era e che
viene») ma ne significa la presenza regale e la forza attiva nella
storia (i «sette spiriti» sono «mandati su tutta la terra»: Ap 5,6;
cfr. Zc 4,10; 14,9). La regalità di Dio sul mondo si gioca tutta
proprio sul rapporto tra storia e Spirito che nel Cristo Agnello
ha la sua figura testimoniale piena e il suo cardine storico e
metastorico (Ap 13,8; 17,8). Nella consapevolezza del veggen
te, dunque, la missione e funzione testimoniale dell’Agnello si
perpetua al presente, nelle chiese, grazie all’azione costante
dello Spirito profetico che ne rende attuale la parola e la voce.
La funzione memoriale, testimoniale e profetica attribuita allo
Spirito nel Quarto Vangelo, nell’Apocalisse è ormai in atto di
svolgersi: «lo Spirito finisce per rappresentare, nell’esperienza
di contatto con il divino, la chiave ermeneutica delle tradizioni
gesuane, e attiva e trasmette la memoria del Nazareno».14Par
lando incessantemente le sue parole alle chiese all’inizio del
libro, alla fine di esso lo Spirito è ormai diventato lo Spirito
della «sposa» dell’Agnello, voce e intimo testimone del desi
derio di lei che invita all’avvento simultaneo lo Sposo e ogni
assetato (Ap 22,17).
4. Aspetti dell’ecclesiologia giovannea
«Antipodo del m ondo»,15 lo Spirito di Gesù è testimone
della sua verità e della sua regalità divina sul mondo che ben
si esprime, al cospetto del mondo, nel suo «possedere la sposa»
(Gv 3,29). Alla pneumatologia, dunque, è strettamente con
nessa l’ecclesiologia giovannea che, infatti, è stata spesso defi
nita un’ecclesiologia più carismatica che istituzionale. In effet
ti, dal punto di vista della configurazione ecclesiale, le comuni
tà locali rappresentate dagli Scritti giovannei non presentano
un «quadro istituzionale “gerarchizzato”, quale troviamo nelle
tardive Lettere Pastorali».16Il c. 21 del Vangelo implica, certa
mente, il riconoscimento del ruolo e dell’autorità pastorale
attribuiti all’apostolo Pietro in altre tradizioni ecclesiali rap
presentate nel Nuovo Testamento (Mt 16,13-19; Le 24,34; ICor
1,12; 15,5; Gal 1,18; 2,6-10.11-14; lPt 5,1-4; 2Pt 1,12-18). In
14 T r ip a l d i , Gesù, 2 1 5 .
15G nilka, 214.
16Penna, 214.
riferimento alle dinamiche intra-ecclesiali, però, gli Scritti gio-
vannei non sembrano presupporre altra autorità che quella
testimoniale del discepolo amato, sulla quale si struttura la con
tinuità della tradizione sotto l’azione e la guida dello Spirito;
quella testimoniale e pastorale del «Presbitero», non rigidamen
te classificabile tuttavia sul piano ministeriale né automatica-
mente accettata nelle chiese che pure stavano sotto il suo raggio
di influenza (come emerge, del resto, da 3 Giovanni); quella
testimoniale e carismatica del profeta-veggente Giovanni, nean-
ch’essa indiscussa, come si evince dal conflitto intra-ecclesiale
tra gruppi profetici in posizione antitetica («nicolaiti», soste
nitori della «dottrina di Balaam», seguaci della «profetessa
Gezabele»).
Più che la contrapposizione tra carisma e istituzione, per la
comprensione dell’ecclesiologia giovannea mi pare più feconda
e coerente con il linguaggio dei testi, ancora una volta, l’assun
zione della categoria della testimonianza. Come si è avuto mo
do di dire in rapporto all’ecclesiologia delle Lettere, la comu
nità giovannea è kerigmatica più che carismatica, se tale qua
lifica si intende al modo giovanneo, cioè come testimoniale.
Ciò che vale per le Lettere, dunque, può essere esteso anche
agli altri Scritti e al volto di chiesa che ne emerge: la comunità
dei credenti, nella letteratura giovannea, è una comunità di
testimoni in atto di vivere, comprendere sempre più profon
damente e perpetuare storicamente la testimonianza cristolo
gica davanti e nel mondo per la salvezza del mondo sotto la
guida dello Spirito e di quanti, a diverso titolo, ne ascoltano e
ne trasmettono la parola cristiforme. L’ecclesiologia degli Scrit
ti giovannei, come molti hanno notato, è anch’essa cristocen
trica (le metafore del gregge, della vigna o del tempio). Su
questo sfondo comune mi sembra si possano mettere a fuoco
due aspetti, correlati e forse meno frequentati, dell’ecclesiolo
gia giovannea: da un lato, il rapporto tra un’antropologia cri
stiforme e l’ecclesiologia; dall’altro, la pervasività del linguaggio
e delle metafore familiari e sociali cui possono ricondursi l’in
sistenza sulla figura della «donna», sposa e madre, e del popo
lo-città.
Il primo aspetto mi sembra suggerito dall’insistenza, tipica
soprattutto del Quarto Vangelo e dell’Apocalisse, sulla figura
di Gesù come dnthrópos e (simile a) «figlio di dnthrópos» (Gv
4 ,2 9 ; 5 ,7 .1 2 .2 7 ; 8,40; 9 ,1 1 .1 6 .2 4 ; 10,33; 11,47.50; 19,5; Ap
1,7.13) o Messia in una carne mortale (Lettere). Questa insi
stenza, a mio avviso, ha un valore non solo cristologico ma
anche ecclesiologico, come si è visto lavorando più analitica-
mente sulla storia del cieco nato capace, dopo avere acquista
to la vista, di proclamare la sua identità al modo stesso di G e
sù («io sono»). L’identità umana e divina di G esù «Figlio
dell’uomo», figura di rivelatore regale e trascendente ma, al
contempo, di uomo tra gli altri esposto al disprezzo e al riget
to come può esserlo ogni uomo (Gv 8,48-59; 9,28.34.35-38;
19,5), diventa fondamento, struttura costitutiva e modello
dell’identità dei credenti ovvero dell’umanità additata a Nico-
demo come l’umanità capace del «regno di Dio», rigenerata
«dall’alto», «da acqua e da Spirito» (Gv 3,3-10), in una condi
zione e dignità / liliale che caratterizza singolarmente e comu
nitariamente i credenti in Gesù (Gv 1,12-13; lG v 3,1-2; Ap
21,7). La testimonianza dello Spirito di Gesù, in loro come già
in lui, è una testimonianza interiore che l’uomo-figho possiede
in se stesso (Gv 5,31-32; 6,44-45; 8,12-19).
La possibilità di pronunciare l’«io sono», dunque, non ap
partiene solo a Dio e a G esù (Quarto Vangelo passim ; Ap
1,8.17; 2,23; 21,6; 22,13.16) ma anche all’uomo redento che
costruisce e difende davanti al mondo la propria identità di-
scepolare. L’«io sono», a partire da Gesù, non è più soltanto
cifra teofanica o cristologica, ma antropologica ed ecclesiolo
gica, declinabile al singolare e al plurale («noi siamo»: lG v 2,5;
3,1-2.19; 4,6.17; 5,19-20). È cifra di un’identità regale e vitto
riosa: consapevole, agita storicamente nella fede, con fiducia e
perseveranza, con franchezza, in una relazione piena con Dio
e con gli uomini, cristiforme, rischiando la propria stessa vita
(Gv 19,5; Ap 2,10; 12,10-11). Non significa più soltanto «l’au
torità divina di Gesù e la sua unità col Padre»,17 ma anche il
radicamento dell’uomo redento nell’essere di Dio (il fonda
mento teologico della proclamazione antropologica) e la radi
cale e definitiva manifestazione umana dell’«esserci» divino e
della sua prossimità (la dimensione antropologica della procla
mazione teologica).
Il Cristo in cui «rim anere» come tralci nella vite vera di
Israele (Gv 15,1-8) e nella cui «unzione» dimorare (lG v 2,26-
27), il simile a Figlio d’uomo che cammina in mezzo alle chie
se (Ap 1,12-13.20) è un uomo che ha e pretende di avere rico
nosciuta, al contempo, la dignità del Figlio inviato (Gv 5,16-18;
10,33). Se «è questo l’uomo che non si può accettare»,18 questo
è altresì proprio il Figlio di Dio creduto che parla «come mai
uomo ha parlato» (Gv 7,46), attorno al quale si costituisce la
comunità dei credenti, conformemente al quale e alla sequela
del quale cammina ogni singolo essere umano certo di poter
«andare/essere», nella morte e nella vita, «dove lui va/è» (Gv
12,26; 13,33-36; 14,3-6; 17,24; Ap 3,21; 11,8; 14,4; 19,14) e
«come lui è» (lG v 3,2; 4,17): con occhi aperti capaci di vede
re come vedono i redenti e i profeti; con orecchie capaci di
ascoltare ciò che lo Spirito dice alle chiese. Non è forse la fede
attiva e perseverante nell’umanità mortale e glorificata di Gesù
di Nazaret, riconosciuto come Messia e Figlio di Dio, lo spar
tiacque identitario drammatico tra «i Giudei» e «i discepoli»
(Quarto Vangelo), tra chi è figlio di Dio e chi è figlio del dia
volo (Lettere), tra i redenti «tra gli uomini», fedeli fino anche
alla morte nella resistenza anti-idolatrica, e chi abbandona la
sua fedeltà per compromettersi con la bestia e con il suo falso
17Prigent, 28.
18L éon-Dufour, 168.
profeta (Apocalisse)? Allo stesso modo, 1’ànthropos costiforme,
con qualità ormai angeliche e trascendenti, è la misura stessa
imétron) della città/popolo escatologico di Dio (Ap 21,17).19
Il secondo aspetto è collegato al primo: sulla dignità e iden
tità filiale del Cristo crocifisso e risorto si fonda, in tutti gli
Scritti giovannei, lo status dei credenti come «figli di Dio» ere
di, in qualità di vincitori, dei beni dell’alleanza messianica ed
escatologica (Ap 2,26-28; 21,7). Rigenerati dallo Spirito i cre
denti possono quindi chiamarsi «fratelli», in rapporto a Gesù
e tra loro, e le chiese a loro volta «sorelle» che condividono la
comune elezione (2Gv 13). Se in rapporto a Dio Padre, al Cri
sto maestro e ai tradenti della testimonianza cristologica, i cre
denti possono essere appellati «figli», la chiesa che ne rappre
senta la personificazione collettiva - sia essa declinata al singo
lare o al plurale - non è mai chiamata «figlia» ma è indicata
sempre attraverso la metafora femminile della donna, sposa e
madre, conformemente all’uso biblico relativo tanto al popolo
eletto (Os 1-3) quanto alla eletta città di Dio, Gerusalemme-
Sion, che finisce per rappresentarlo soprattutto a partire
dall’epoca post-esilica (Sai 87; Is 54; 60-62; 66; Zc 1,14 e 8,2).
La proclamazione della dignità filiale dei credenti, dunque,
implica anche il compimento delle promesse profetiche riguar
do alla «donna» Gerusalemme/Sion, sposa e madre, e alla sua
discendenza. Singolare, a questo riguardo, mi pare la metafora
del parto messianico trasversale esplicitamente al Quarto Van
gelo e all’Apocalisse ma sottesa, implicitamente, anche alle Let
tere. Tanto nel Quarto Vangelo che nell’Apocalisse, infatti, la
figura ecclesiologica dominante è quella della donna-madre
19 Condivido la spiegazione che Tripaldi (Apocalisse, 224-225) dà dell’espressione
«misura di un uomo, cioè di un angelo»: la misura è «la figura umana o angelica la cui
estensione copre l’altezza della cinta di difesa» della Gerusalemme escatologica. «La
città-sposa, che racchiude e riflette la Gloria di Dio, si mostra nella figura angelica e
perciò visibile dell’uomo divino Gesù, le cui dimensioni, centoquarantaquattro cubi
ti, coincidono con le migliaia del numero degli eletti, cioè con il numero in realtà in
calcolabile dell’Israele su cui la Gloria di YHWH riposa».
nelle doglie del parto (Gv 16,19-22; Ap 12): se nel Quarto Van
gelo la figura della donna-madre giunta alla tribolazione della
sua «ora» (Gv 16,21) è impersonata individualmente dalla «ma
dre di Gesù» che, allo scoccare deU’«ora» del Figlio (Gv 2,1-12;
19,25-27), giunge anche lei alla «sua ora» come madre di un
nuovo popolo, nell’Apocalisse la donna-madre è ormai la co
munità messianica, Gerusalemme sposa contrapposta alla Ba
bilonia prostituta. Entrambe sono «torm entate» (Ap 12,2;
18,7.10.15): l’una, però, per dare alla luce la vita della nuova
creazione, l’altra per la rovina subita al crollare del vecchio
mondo. La pasqua del Messia e la sua traduzione ecclesiale
nell’esperienza perseverante del nuovo esodo segnano, dunque,
l’inizio della Gerusalemme messianica ed escatologica il cui de
stino e la cui salvezza i credenti incarnano e raffigurano, indi
vidualmente e comunitariamente. Nel loro raduno messianico
che comprende anche i «figli di Dio dispersi» (Gv 10,16; 11,49-
52), nel loro vivere fraterno e nell’«amicizia» che li unisce al
Signore e tra loro in forza della pienezza della rivelazione (Gv
15,13-15; 3Gv 15), testimoniata inevitabilmente anche in forma
di battaglia col mondo, è dato agli uomini il «segno» del loro
«principio» e del loro «fine» cristologico: l’essere partecipi
dell’unità e della comunione del Dio uno (Gv 17; lG v 1,3.6-7;
Ap 21,1-8) e il poterla sperimentare come pienezza di «pace»
(Gv 14,27; 16,33; 20,19.21.26; 2Gv 3; 3Gv 15; Ap 1,4) e di in
timità, la stessa espressa dalle metafore familiari della paternità
divina, della maternità della chiesa e delle nozze dell’Agnello.
Come già la cristologia e la teologia della nuova alleanza,
così anche l’ecclesiologia giovannea è, in ultima analisi, evento
ed esperienza escatologica, dinamica e non statica, del «regno
di Dio»: in quanto credenti e amanti, i testimoni di Cristo sono
già passati «dalla morte alla vita», hanno già parte alla «prima
risurrezione» (Ap 20,4-6) e ne fanno esperienza nella loro vita
fraterna e nella liturgia che la esprime mantenendo la comuni
tà dei credenti docile all’insegnamento dello Spirito del Risorto.
SECO NDA PARTE
LE LETTERE CATTOLICHE
IL SETTENARIO
D E LL E LETTER E «C A TTO LICH E»
1. Le Lettere «Cattoliche» come corpus
La prima attestazione letteraria dell’uso dell’aggettivo «cat
toliche» per raggruppare sotto un’unica denominazione le tre
Lettere di Giovanni e le Lettere di Giacomo, Pietro e Giuda si
trova nella Storia della chiesa di Eusebio di Cesarea (intorno al
325 d.C.). Dopo avere raccontato il martirio di Giacomo fra
tello del Signore, egli dice infatti:
Queste sono le cose che riguardano Giacomo, del quale si dice che
sia la prima delle lettere denominate Cattoliche. Ma bisogna sapere
che essa è considerata spuria; perciò non molti degli antichi l’han
no menzionata, come neppure quella detta di Giuda che è anch’es-
sa una delle sette cosiddette Cattoliche. Nondimeno noi sappiamo
che anche queste, come le altre, sono state lette pubblicamente in
tantissime chiese (Storia della chiesa 2,23,24-25; cfr. anche il rife
rimento a «Giuda e le altre Lettere Cattoliche» in 6,14.1).
Eusebio sembra rifarsi a una denominazione («Cattoliche»)
che doveva essere comune al suo tempo e che, utilizzata ini
zialmente per 1 Giovanni (Origene, Commento al Vangelo di
Giovanni 1,23,136; 20,13,99) e per 1 Pietro (Origene, Com
mento al Vangelo di Giovanni 6,175), si era estesa verso la fine
del III secolo anche alle altre Lettere di Giovanni e di Pietro
(per l’attribuzione a un medesimo autore) e a quella di Già-
corno e di Giuda, accomunate sia dalla destinazione ampia che
dal legame di sangue tra i rispettivi autori «fratelli» del Signo
re. Tanto in Oriente che in Occidente, entro la fine del IV
secolo (eccezion fatta per la tradizione siriaca),1le Lettere di
Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda costituivano ormai un
corpus di Lettere ben definito e distinto nel canone neotesta
mentario. La loro stessa titolazione, caratterizzata dal nome
dell’autore (Lettera di) piuttosto che da quello dei destinatari
(Lettera a) come nel caso delle Lettere paoline, ne metteva in
luce la differenza.
Non tutte, in realtà, furono singolarmente accolte e ricono
sciute con la stessa rapidità e sicurezza, come si vede dalle te
stimonianze orientali e occidentali tra il II e il IV secolo. Già
il Frammento muratoriano nomina le Lettere di Giovanni e
quella di Giuda ma non fa alcun riferimento né a Giacomo né
alle due Lettere di Pietro. Tra i padri, il primo a citare esplici
tamente la Lettera di Giacomo è Origene in Oriente e Ilario in
Occidente. Sull’autenticità delle Lettere di Giacomo e Giuda,
di 2 e 3 Giovanni e di 2 Pietro sembra, anzi, circolassero non
pochi dubbi. Secondo Eusebio, in effetti, 1 Giovanni e 1 Pietro
erano riconosciute da tutti (homologoumena), mentre le altre
cinque erano «familiari ai più» ma «contestate (antilegómena)»
{Storia della chiesa 3,25,2-3; cfr. 3,3,1,4). Entro il IV secolo,
però, il corpus sembra essersi imposto cosicché, quando Giro
lamo usa l’espressione «le sette Lettere Cattoliche» {G li uomi
ni illustri 2; 4), essa doveva essere ormai tradizionale anche in
Occidente.
Se, dunque, tra la fine del I secolo e gli inizi del II, «lettere
apostoliche attribuite a Giovanni, Pietro, Giacomo e Giuda
sono conosciute e usate» e, tra queste, « lG v e lP t godono di
una ricezione più ampia di altre» e «sono designate come Let
tere Cattoliche», è solo «nella seconda metà del III secolo che
Cfr. NORELLI, 497-498.
la collezione delle sette Lettere non paoline si vede conferire
stabilità e ordine e la designazione di Cattoliche viene conferi
ta a tutto l’insieme per caratterizzarlo e affiancarlo agli altri
corpora che costituiscono il Nuovo Testamento e che, a
quest’epoca, sono già consolidati: i quattro Vangeli e le Lette
re di Paolo. Dove questa operazione possa aver avuto inizio, è
una questione che resta aperta».2
La cosa più interessante da notare, però, è il fatto che entro
il IV e V secolo, l’attribuzione al discepolo storico Giovanni
delle tre Lettere riconducibili al «Presbitero» determinò la
loro connessione con le lettere encicliche attribuite ad altre
figure rappresentative delle origini giudaiche e palestinesi del
la chiesa (Pietro e Giacomo e Giuda, fratelli del Signore) -
benché, certamente, 3 Giovanni, destinata a un singolo indi
viduo, non potesse considerarsi «cattolica» nel senso di 1
Giovanni o delle altre Lettere - e la loro separazione dagli
altri Scritti giovannei (Vangelo e Apocalisse);3 in secondo luo
go, che l’appartenenza a un unico, significativo, corpus lette
rario prevalse sui dubbi relativi all’autenticità apostolica di
alcune delle sette Lettere senza che questi interferissero, dun
que, col giudizio sulla loro canonicità.4
2. «Non con Paolo soltanto»
Quanta strada sia stata fatta negli ultimi quindici anni
nell’indagine sul significato peculiare del corpus delle Lettere
Cattoliche e sulla sua funzione nel canone neotestamentario lo
si può vedere se si confrontano il giudizio di Cullmann5 o quel
2 Ivi, 510.
3 Cfr. Painter, 249.
4 Si vedano le osservazioni di N orelli, 479-480.487. 495.
5 «Queste sette lettere hanno talmente pochi aspetti in comune che sono state ri
unite in un gruppo a parte per il solo fatto di non essere paoline» (Cullmann, 107).
lo di Gnilka6verso l’inizio e la fine della seconda metà del ’900
e quello di quanti, attualmente, pensano di poter ricostruire
una teologia unitaria delle Lettere Cattoliche.7 Come suggerisce
efficacemente il titolo del lavoro dedicato da D. Nienhuis alla
collezione delle sette Lettere Cattoliche, al suo significato
nell’insieme del canone neotestamentario e alla funzione svol
ta dalla Lettera di Giacomo nella sua formazione (Not by Paul
alone), gli studi attuali sul corpus sottolineano fondamental
mente un dato: nel processo di formazione del canone, la sele
zione e la sequenza originaria delle sette Lettere Cattoliche - in
un numero simbolo di completezza come quello rappresentato
dalle sette chiese destinatarie dell’epistolario paolino o
dell’Apocalisse giovannea - rifletteva un intento preciso, quel
lo di fissare e salvaguardare l’eredità irrinunciabile del giudai
smo e della componente giudaico-palestinese della chiesa nel
la traditio apostolica accanto all’eredità paolina delle chiese di
origine a maggioranza pagana e, eventualmente, a correttivo
canonico delle sue interpretazioni deviami o riduttive, perché
la testimonianza originaria all’evangelo potesse essere trasmes
sa davvero nella sua integralità, cioè in modo «cattolico».8Tan
to la testimonianza dei manoscritti più antichi quanto quella
delle liste canoniche del IV-VI secolo lo dimostra.
Nei manoscritti onciali del IV e V secolo (Vaticano, Alessan
drino, Sinaitico) la Lettera di Giacomo costituisce sempre la
prima delle sette e viene posta con queste dopo gli Atti degli
Apostoli a formare con essi un’altra collezione (Praxapóstolos,
Atti e Apostolo). Mentre nei codici Vaticano e Alessandrino
Atti e Cattoliche sono posti dopo il tetraevangelo e prima delle
Lettere paoline, nel codice Sinaitico seguono la collezione delle
6 «Quanto poi a pensiero e teologia le lettere [ecclesiali] vanno ciascuna per la
propria strada» (G nilka, 398).
7WALL, «Unifying Theology», ha provato a identificare il «principio estetico» che
governa la raccolta e i temi che la caratterizzerebbero.
8 N ienhuis, 12. Cfr. anche N ienhuis- Wall.
Lettere paoline ma sempre congiunti. Lo stretto legame tra At
ti e Cattoliche si manifesta anche negli elenchi canonici delle
chiese orientali del IV secolo. Cirillo di Gerusalemme (Cateche
si 4,36, metà IV secolo) nomina Giacomo dopo gli Atti degli
Apostoli e come prima delle «sette Lettere Cattoliche» seguita
da 1-2 Pietro, 1-3 Giovanni e Giuda; pone invece le Lettere di
Paolo dopo le Cattoliche come «suggello di tutto e ultima ope
ra dei discepoli». La stessa sequenza si ha nell’elenco del conci
lio di Laodicea (circa 363) e nella trentanovesima Lettera festate
di Atanasio di Alessandria (367).9
E in area occidentale che la posizione della Lettera di G ia
como e del corpus delle Cattoliche sembra cambiare: il concilio
plenario di Ippona (393) elenca le Lettere di Paolo dopo gli
Atti e ad esse fa seguire la Lettera agli Ebrei, 1-2 Pietro, 1-3
Giovanni, Giacomo e Giuda. Il Decreto gelasiano (fine V seco
lo circa), infine, nomina le Cattoliche alla fine di tutti gli scrit
ti del Nuovo Testamento dopo la stessa Apocalisse e mette
Giacomo in seconda posizione dopo 1-2 Pietro. In ambito oc
cidentale la preminenza è data, dunque, alle due Lettere
dell’apostolo Pietro, «principe degli apostoli» (Girolamo, Gli
uomini illustri l ) 101e l’intero gruppo delle Lettere Cattoliche è
staccato dagli Atti e posto in seconda posizione rispetto al cor
pus paolino. L’elenco dei libri canonici definito nel primo de
creto sulle sacre Scritture del concilio di Trento (1546) avrebbe
confermato quest’ultima sequenza ponendo le Lettere Catto
liche dopo la raccolta delle Lettere paoline e prima dell’Apo
calisse e dando in esse la preminenza alle due Lettere di Pietro
seguite dalle tre di Giovanni.11
L’ordine canonico delle chiese d’oriente, tuttavia, rifletteva
un’importante comprensione storico-teologica del corpus: la
91 testi si possono trovare in Enchiridion biblicum 10,13,15.
10 Forse anche per ragioni sticometriche, dato che insieme le due Lettere contano
nei manoscritti 403 stichi contro i 247 della Lettera di Giacomo.
111 testi si possono trovare in Enchiridion biblicum 17, 27,59.
collezione delle sette Cattoliche, in posizione simmetrica e spe
culare alla raccolta delle Lettere paoline, poteva vantare l’au
torità di alcune figure di spicco della chiesa madre di Gerusa
lemme, quelle che lo stesso Paolo riteneva venissero conside
rate «le colonne» (Gal 2,9): Giacomo, Cefa (Pietro) e Giovanni,
figure legate tanto al ministero storico di Gesù quanto alla
missione verso i circoncisi e, dunque, aU’irrinunciabile origine
e identità giudaica della chiesa e rappresentative della stessa.
La Lettera di Giuda, il cui autore sceglie oculatamente di qua
lificarsi come «fratello di Giacomo» piuttosto che come «fra
tello del Signore» (Gd 1), si inseriva naturalmente nello stesso
solco. L’ordine delle Lettere Cattoliche negli elenchi canonici
di area orientale rifletteva in ultima analisi l’ordine in cui que
ste tre figure sono nominate in Gal 2,9. In quanto legate all’au
torità di questi personaggi di spicco della chiesa palestinese,
protagonisti in vario modo del racconto degli Atti prima di o
contemporaneamente a Paolo, le Lettere Cattoliche si conten
devano con il corpus paolino la prossimità agli Atti degli Apo
stoli. Quale testimonianza della «fase giudaica» del cristiane
simo delle origini, potevano giustamente precedere il corpus
delle Lettere paoline così come nella costruzione narrativa de
gli Atti la missione degli apostoli Pietro e Giovanni aveva in
parte preceduto quella paolina (cc. 1-15) e quella di Giacomo
le si era affiancata (At 15,4-29; 21,17-25). La collocazione del
la Lettera di Giacomo ad apertura del corpus riceveva anzi un
preciso sfondo narrativo dall’importanza e dal ruolo della fi
gura di Giacomo nel contesto del rapporto cruciale tra Yeccle
sia ex circumcisione e l’ecclesia ex gentibus alle origini.
D ’altra parte, per le chiese occidentali sempre più distanti
dalla matrice giudaica delle origini, l’annuncio paolino della
salvezza ai pagani restava il centro prospettico da cui guardare
agli altri testimoni e garanti autorevoli della tradizione: anzi
tutto gli apostoli Pietro e Giovanni e poi i «fratelli» del Signo
re Giacomo e Giuda. Nessuna delle componenti costitutive
dell’identità cristiana veniva così abbandonata, né sul piano
della memoria storica né, soprattutto, sul piano della riflessio
ne teologica. La presenza delle Lettere Cattoliche a fianco di
quelle paoline stava appunto a indicare l’accordo apostolico
sulla regula fidei con una consonanza peculiare su alcune que
stioni fondamentali per la costruzione dell’identità cristiana
alle origini: tra queste, anzitutto, l’irrinunciabile legame tra
ortodossia e ortoprassi e la profonda, irrinunciabile continuità
tra la tradizione biblica e giudaica, la sua ermeneutica gesuana
ed evangelica e la fede cristologica.
Di tutte e sette le Lettere Cattoliche, dunque, Girolamo po
teva scrivere nella sua lettera a Paolino di Nola:
Gli apostoli Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda pubblicarono
sette Lettere tanto mistiche quanto succinte, al tempo stesso bre
vi e lunghe: brevi quanto alle parole, lunghe quanto ai contenuti
(breves in verbis, lòngas in sententiis).
Bibliografia
C hester A. - M artin R.P., ha teologia delle lettere di Giacomo,
Pietro e Giuda, Paideia, Brescia 1998.
NlEBUHR K.W. - W all R'W. (edd.), Catbolic Epistles andApo-
stolic Tradition, Baylor University Press, Waco (TX) 2009.
N ienhuis D.R., Not by Paul alone. The Formation ofCatholic
Epistle Collection and thè Christian Canon, Baylor Univer
sity Press, Waco (TX) 2007.
N ienhuis D.R. - W all R.W., Reading thè Epistles o f James,
Peter, John & Jude as Scripture: The Shaping and Shape o f a
Canonical Collection, Eerdmans, Grand Rapids (MI) 2013.
NORELLI E., «Sulle origini della raccolta delle Lettere Cattoli
che», in Rivista Biblica 59(2011), 453-521.
P ainter J., «The Johannine Epistles as Catholic Epistles», in
N iebuhur - W all , Catholic Epistles, 239-305.
ScHLOSSER J. (ed.), The Catholic Epistles and thè Tradition,
Leuven University Press, Leuven 2004.
W all R.W., «A Unifying Theology of thè Catholic Epistles.
Canonical Approach», in SCHLOSSER (ed.), The Catholic
Epistles, 43-71.
LETTERA DI GIACOM O
1. Questioni storico-letterarie
Il testo della Lettera di Giacomo si trova attestato in modo
frammentario in cinque papiri, tre dei quali databili entro il IV
secolo1e, integralmente, nei codici onciali maggiori (Vaticano,
Alessandrino, Sinaitico, Efrem riscritto). Apre nel canone neo
testamentario il corpus delle sette Lettere Cattoliche e ne costi
tuisce una sorta di grande portale.
Sin dalla prima epoca patristica la sua ricezione è stata con
troversa: le prime attestazioni certe del suo utilizzo, come si è
accennato, non risalgono a prima di Origene e la sua stessa
ammissione nell’elenco dei testi riconosciuti dalle chiese non
fu immune da dubbi riguardo alla sua reale paternità letteraria
(Eusebio, Storia 2,23,24; Girolamo, G li uomini illustri 2). Lu
tero la definì «una Lettera di paglia» (Prefazione al Nuovo Te
stamento, del 1522) perché priva di un contenuto cristologico
e kerigmatico pari a quello dei testi paolini e giovannei e, anzi,
in aperto contrasto con la dottrina di Paolo sulla giustificazio
ne per fede. La Lettera di Giacomo ha conosciuto una sorta di
riabilitazione storica, letteraria e teologica, si può dire, solo
1 gì20 (III secolo: 2,19-3,9); (P25 (III secolo: 1,10-12.15-18); <P54 (V/VI secolo: 2,16-
18.22-26; 3,2-4); $p74 (VII secolo, che contiene, anche se frammentario, tutto il Praxa-
póstolos da At 1,2 fino a G d 24 nell’ordine Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda; di
Giacomo sono conservati circa una settantina di versi che coprono, pur se in modo
lacunoso, Finterò testo della Lettera); <p100 (III/IV secolo: 3,13-4,4; 4,9-5,1).
nella seconda metà del ’900 quando, superati anche i «divieti»
imposti da M. Dibelius nel suo imponente commentario,2 se
ne sono esplorati in modo sempre più approfondito lo sfondo
storico e sociale, il genere letterario, l’antichità e la ricchezza
delle tradizioni, l’originalità della loro rilettura redazionale, la
struttura, lo scopo e la teologia.3 Lo studio della Lettera di
Giacomo costituisce ormai un capitolo fondamentale per la
comprensione delle origini cristiane e della loro matrice giu
daica.
1.1. Datazione e autore
Il mittente della Lettera si autodefinisce «Giacomo servo di
Dio e del Signore Gesù Cristo» (Gc 1,1). Tra i vari personaggi
con questo nome nel Nuovo Testamento4*l’unico che possa
essere ragionevolmente identificato come il Giacomo autore
reale o ideale della Lettera, anche per l’autorevolezza e autori
tà che questi mostra di avere e di esercitare presso i suoi desti
natari, è Giacomo «fratello del Signore» (Me 6,3 / / Mt 13,55;
Gal 1,19). Destinatario di una specifica «apparizione» del Si
gnore risorto (lCor 15,7), fu protagonista della vita della chie
sa gerosolimitana di prima generazione (At 12,7; 15,13; 21,18;
Gal 2,9.12). Particolarmente sensibile alle esigenze della giusti
zia (cfr. la cura per i poveri richiesta a Paolo secondo Gal 2,10)
2 D erBriefdes Jakobus, Vandenhoeck und Ruprecht, Gottingen 121984 (prima
edizione del 1921): nell’interpretazione dell’autore, non si poteva né doveva a) ipotiz
zare alcuna cornice storica concreta che facesse da sfondo complessivo ai temi e alla
forma della Lettera; b) individuare una specificità teologica, perché si trattava di un
concentrato eclettico di tradizioni parenetiche diffuse in ambito giudaico e greco; c)
cercare una struttura coerente perché le raccoglieva e collegava tra loro per associa
zioni di idee, attraverso parole-gancio, senza alcuna logica argomentativa organica.
3 Per la storia dell’interpretazione di Giacomo, cfr. A s sa è l - CuviLLlER, 107-143.
4 Giacomo di Zebedeo; Giacomo di Alfeo, membro del gruppo dei Dodici; G ia
como, padre (o fratello) dell’apostolo Giuda; Giacomo detto «il piccolo» in Me 13,40;
Giacomo «fratello di Gesù» insieme a Ioses, Simone e Giuda.
e, nel ritratto lucano di Atti, alle problematiche di integrazione
comunitaria tra la componente giudaico-farisea e quella etnica
delle chiese (At 15; 21,18-25), fu sommariamente giudicato dal
sinedrio come trasgressore della Legge e condannato a morte
per lapidazione insieme ad altri per volontà del sommo sacer
dote sadduceo Anano nel 62 d.C. (Giuseppe Flavio, Antichità
giudaiche 20,197-203). Sarebbe rimasto, altresì, figura di riferi
mento per la componente giudaica delle chiese ben oltre i li
miti geografici e cronologici della sua esistenza storica.
Se la situazione di dialogo epistolare tracciata nel prescritto
della Lettera si ritenesse reale e non fittizia, si potrebbero con
siderare risolte anche la questione della datazione e del luogo
di composizione: la Lettera sarebbe scritta da Giacomo fratel
lo del Signore a Gerusalemme entro il 62 d.C e potrebbe of
frire non poche informazioni anche sulla situazione del cristia
nesimo palestinese negli anni tra il 35 e il 62 d.C. Studiosi di
calibro sostengono fino ad oggi la validità di questa ipotesi.5
Contro di essa vengono fatti valere argomenti di indubbia con
sistenza: le esitazioni riguardo all’autenticità della Lettera già
manifestate in epoca patristica; l ’ottima qualità del greco
dell’autore che si avrebbe difficoltà ad attribuire a un familia
re di Gesù vissuto stabilmente in Palestina; la finezza stilistica
e retorica del testo che sembrerebbe doversi attribuire a uno
scrittore istruito, conoscitore di immagini e temi familiari alla
letteratura morale o filosofico-morale del mondo (giudaico-)
ellenistico. La Lettera, d’altra parte, manca dei segni caratteri
stici delle composizioni pseudepigrafiche come l’elaborazione
fittizia e amplificata dell’identità e autorità dell’autore, l’insi
stenza su un «deposito» della fede da custodire intatto da fal
sificazioni, una struttura istituzionale elaborata o, ancora, giu
5 Cfr., tra gli ultimi, McK night, 36-37 che, dopo avere soppesato tutti gli argo
menti, considera autentica la Lettera, inviata da Giacomo alle comunità messianiche
della diaspora negli anni 30.
stificazioni del ritardo della parusia che, al contrario, viene
annunciata sempre come «prossima» (Gc 5,8-9). Giacomo ma
nifesta piuttosto una forte sensibilità verso le esigenze della
giustizia tipiche della predicazione dei profeti; presenta una
cristologia al suo stato nucleare (Gesù è «Signore»), ha in men
te una chiesa con una struttura istituzionale appena accennata
(«maestri» e «presbiteri»: 3,1; 5,14) e una visione del compi
mento escatologico di sapore marcatamente apocalittico (4,13-
5,6). Dato il grado elevato di ellenizzazione della Palestina nel
I secolo d.C., forse non è necessario pensare a uno scrittore
formatosi fuori dai suoi confini per spiegarne il greco di buon
livello e l’abilità retorica.
Mi sembra convincente dunque, allo stato attuale della ri
cerca, la tesi di chi sostiene l’autenticità della Lettera e la sua
provenienza da un ambiente palestinese, specificamente gero
solimitano, prima della distruzione del tempio di Gerusalemme.
O, in ogni caso, una dipendenza fortissima della Lettera nella
sua forma redazionale finale, non posteriore all’80 d.C., dalle
tradizioni e dall’insegnamento di Giacomo fratello del Signore.
Chi ha dato ad essa la sua attuale veste letteraria potrebbe ave
re voluto custodire integra per le comunità giudeo-cristiane
legate alla chiesa madre di Gerusalemme la voce autorevole di
Giacomo: il suo messaggio teologico, ecclesiale ed etico nato
sullo sfondo del contesto sociale e religioso palestinese degli
anni 40-60 d.C. aveva una validità per le comunità cristiane che
superava quegli stessi confini cronologici e geografici.
1.2. Genere letterario e stile
Della forma epistolare Giacomo sembra conservare, appa
rentemente, solo il prescritto (1,1): non contiene né i saluti
finali, né ringraziamenti ai destinatari; non informazioni per
sonali, né interlocutori identificati nominalmente. La Lettera
sembra occuparsi, effettivamente, di alcune tipologie di situa
zioni, di ruoli e di obiettivi comunitari che potrebbero interes
sare qualunque comunità di fede. Il carattere epistolare del
testo si potrebbe considerare, quindi, artificiale, scelto per ri
calcare il modello paolino. Non si tratterebbe, in questo caso,
di una lettera indirizzata a destinatari concreti su questioni
concrete, ma di un testo più simile al genere del testamento,
dell’omelia o del discorso parenetico. A ragione, tuttavia, un
buon numero di studiosi le riconosce a pieno titolo il carattere
di «lettera»: il prescritto, infatti, è sufficiente a renderla for
malmente tale e, in ogni caso, anche i versi finali (5,12-20) ri
mandano alle convenzioni del genere epistolare (si vedano il
«sopra tutto» che porta a conclusione l’argomentazione in 5,12
o lo sguardo finale puntato alla pienezza di bene e integrità dei
destinatari nei versi .successivi).
Il primo verso («Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù
Cristo, alle dodici tribù che sono nella diaspora, salute») per
mette, quindi, di riconoscere nello scritto una lettera circolare
come quelle inviate da Gerusalemme ai giudei residenti nella
diaspora (come in Ger 29,4-23; 2Mac 1,1-9; 1,10-2,18; 2 Baruc
78,1-86,2) o come quella indirizzata dai «fratelli apostoli e an
ziani» della chiesa madre di Gerusalemme ai «fratelli prove
nienti dai gentili» e residenti fuori della Palestina in At 15,23-
29. Una «enciclica da Giacomo alla diaspora»,6 dunque, il cui
scopo è quello di sostenere i destinatari nella loro condizione
critica di «dispersione», di incoraggiarli alla perseveranza nel
le prove rafforzandone l’identità comunitaria e l’unità nella
fede e invitandoli a «ricondurre» alla stessa unità i fratelli che
se ne sono allontanati (Gc 5,19-20). La struttura della Lettera,
come si vedrà, serve esattamente allo scopo di «restaurare la
diaspora» e impiega la strategia adeguata per raggiungerlo.7
6B auckhamJam es, 11-28.
7 Cfr. CARGAL.
Dal punto di vista stilistico, infatti, il testo non solo è sostenu
to nei contenuti ma è anche esteticamente efficace e ricco nelle
immagini. Riflette una visione del mondo netta, esigente e pro
posta in modo convincente per l’immediatezza e la concretezza
delle argomentazioni anche laddove, al contrario, le pratiche di
vita attribuite ai destinatari e i valori che esse riflettono sembre
rebbero dire altro, condurre altrove, suggerire diversamente.
Attraverso appelli continui ai destinatari (sempre chiamati «fra
telli» e mai «figli»: 1,2.16.19; 2,1.5.14; 3,1.10.12; 4,11; 5,7.9.
10.12.19) o anche apostrofi dure (1,7; 2,19.20a; 3,14; 4,4.8.13;
5,1-6), imperativi ripetuti di carattere esortativo o anche moni
torio, paragoni suggestivi e argomentazioni puntuali e piene di
sapienza, chi scrive attira il lettore a una percezione integrale ed
estetica della realtà, non a caso sottolineata a più riprese dall’uso
dell’aggettivo kalós (bello/buono) o dell’avverbio corrisponden
te.8Il linguaggio e lo stile della Lettera trasmettono essi stessi una
visione «poietica» della fede e della vita credente, con un poten
te impatto estetico, un’efficacia visibile e, per converso, una poe
tica del credere creativa, originale, determinata dalla sensibilità
viva per la integrità del Dio uno che traspare, riconosciuta, nelle
fibre della Lettera e alla quale essa vuole ricondurre e conforma
re anche i destinatari pensati come l’Israele escatologicamente
radunato nella sua totalità (le «dodici tribù»).
1.3. Destinatari e scopo della Lettera
Dei destinatari, indicati e rappresentati teologicamente in
1,1 come «le dodici tribù che sono nella diaspora», senza altre
indicazioni geografiche, si può dedurre solo che si tratta di
giudei credenti in Gesù residenti plausibilmente in una o più
8 Si vedano in 2,7 il «bel Nome» invocato sui credenti, e in 2,8; 3,13; 4,17 il loro
agire e condursi in mitezza sovrana e in conformità integra alla Parola della Legge.
città delle regioni dell’impero romano di lingua greca fuori
dalla Palestina. Quale che sia la residenza dei destinatari della
lettera circolare, però, ciò che più conta è la loro situazione di
vita deducibile dalle argomentazioni dell’autore. Situare stori
camente la parenesi di Giacomo è indispensabile, infatti, per
comprenderne il messaggio e le sfide. Benché la destinazione
circolare della Lettera imponga di considerare i riferimenti al
le esperienze di vita dei destinatari come potenzialmente tipici,
di carattere generale e applicabili a diversi contesti, alcuni ele
menti emergenti dal testo sembrano evidenziare alcune condi
zioni di vita specifiche.
Le comunità cui Giacomo si indirizza sembrano caratteriz
zate anzitutto da una compagine sociale differenziata. Costitui
te da membri in prevalenza di livello sociale medio-basso, do
vevano essere quanto meno frequentate anche da personaggi di
livello sociale più elevato e, possibilmente, alcuni di questi ne
facevano parte (1,10; 2,1-5). Di contesti comunitari siffatti in
diaspora dà prova la Prima lettera ai Corinzi (lCor 1,26; 11,17-
22.33-34). Nel lanciare i suoi moniti e le sue invettive contro i
ricchi (Gc 5,1-6), l’autore traduce nel suo stile peculiare forme
letterarie e temi che gli derivano dalla tradizione profetica (cfr.
gli oracoli di giudizio in «guai» o quelli che contengono l’invito
a urlare e a fare lamento: Is 5,8-25; 10,l-4a; 13,6; 14,31;
23,1.6.14; 32,9-14; Ger 22,13-14; 49,3; Am 5,16-20; 6,1-7; Ab
2,5-20), dalle sue riproposizioni sapienziali (Sir 2,12-14; 41,8-9),
dai suoi sviluppi nell’apocalittica giudaica (cfr. le invettive con
tro i ricchi oppressori in 1 Enoc 94,6-8; 96,4-8; 97,7-98,3; 103,5-
6) e nella tradizione evangelica (cfr. Mt 11,20-24; 23,13-36; Le
6,20-26; 10,13-15; 11,42-52; 23,28), ma sarebbe difficile capire
come la scelta di questo tipo di linguaggio potrebbe non riflet
tere il Sitz im Leben dell’autore, dei suoi lettori o di entrambi.
Se nelle comunità destinatarie del suo messaggio «Ì ricchi» fos
sero tolleranti e generosi verso i fratelli, Giacomo non ricorre
rebbe allo stereotipo del ricco oppressore; se sapesse che i veri
ricchi delle sue comunità sono i commercianti, non li dipinge
rebbe come latifondisti. Se non sapesse che nelle comunità ci
sono persone che aspirano a una leadership basata su un uso
aspro e violento di parole e argomentazioni, non insisterebbe
tanto sulla necessità di tenere a freno la lingua e di mettere da
parte ogni forma di zelo amaro e violento (Gc 3,1-4,10).
I destinatari di Giacomo dovevano dunque in qualche modo
essere coinvolti in problematiche di relazioni sociali come quel
le vissute nelle antiche associazioni volontarie (collegia) cui i
romani equiparavano le stesse assemblee sinagogali giudaiche
della diaspora. I membri dei collegia, come quelli delle prime
comunità cristiane, si costituivano volontariamente, per la li
bera decisione di associarsi e non per nascita. Erano piccoli
gruppi che facilitavano i rapporti personali. Avevano pasti in
comune accompagnati da rituali e attività cultuali. Potevano
quindi incorrere nello stesso tipo di problemi. Il modo in cui
Giacomo istruisce i suoi destinatari, collegando tra loro que
stioni di leadership (3,1-2; 3,13-14), di differenze sociali inter
ne (1,9-11; 2,1-7; 2,15-16; 4,11-5,6), di tendenze clientelari
(2,2-4) e di tensioni reciproche (1,19-21; 4,11-12; 5,9) potreb
be richiamare l’esigenza di una regolazione delle polemiche
comunitarie che erano frequentemente fonte di preoccupazio
ne nel mondo antico.9 Il suo accento, comunque, resta forte
mente orientato allo scioglimento delle tensioni sociali tra clas
si ricche e classi deboli della società ed è comprensibile anche
alla luce delle differenziazioni sociali tra i giudei residenti in
diaspora che potevano essere ripartiti in tutti gli strati della
società ed esercitare i mestieri più diversi. Sulle fasce della
popolazione più segnate da difficoltà di ordine sociale ed eco
nomico potevano fare maggiormente presa anche argomenta
zioni e fermenti di natura violenta, talvolta giustificati anche
religiosamente (3,13-4,10).5
5 Cfr. Verseput.
Per tutte le componenti sociali in conflitto, l’appello unico
di Giacomo è a una reciprocità positiva che unifichi e renda
integri i credenti, come singoli e come comunità, e manifesti
in loro la potenza della Parola del regno di Dio, compiuta in
Gesù Cristo e in atto di compiersi nella loro esistenza al co
spetto del «mondo». Esso, dunque, tiene insieme la denuncia
profetica dell’ingiustizia e il rifiuto netto dell’odio e della vio
lenza, polarità paradossale e caratteristica dello stesso annuncio
del regno fatto da Gesù.
1.4. Struttura letteraria
Pur non concordando su metodi e risultati dell’analisi nel
dettaglio, gli studiosi sono oggi disposti a riconoscere nel di
scorso di Giacomo un’articolazione interna coerente e una
precisa strategia comunicativa. Lo studio delle relazioni forma
li e contenutistiche tra il primo capitolo della Lettera (1,2-27)
e quelli seguenti (2,1-5,6), come tra entrambe queste sezioni e
la parte finale (5,7-20), costituisce a mio parere la pista più
corretta. Un’osservazione attenta del testo mostra, infatti, che
nello sviluppo della sua argomentazione, a partire da 2,1, G ia
como comincia a trattare in modo più disteso e prolungato le
questioni che nel primo capitolo si è limitato ad accennare. Il
primo capitolo funge, dunque, da ouverture o, nei termini del
la retorica classica, da esordio: introduce i temi cruciali della
Lettera e, nel modo in cui li congiunge e li articola tra loro, ne
offre anche la chiave di lettura complessiva.10
I vv. 7-20 del c. 5, d ’altra parte, si distinguono sul piano
formale da ciò che precede (dall’invettiva contro i «ricchi» si
ritorna all’esortazione ai «fratelli») e riprendendo alcuni temi
chiave dell’esordio sviluppati nel corso della Lettera, ne por
10T aylor - G uthrie, 688-692; Bauckham, James, 69-73.
tano a termine il percorso insistendo appassionatamente sulla
relazione integra e unificante con Dio e con i fratelli, che l’in
tero discorso ha provato a tratteggiare e a stimolare. Questi
versi costituiscono dunque l’epilogo della Lettera simmetrico
e speculare al suo esordio (in termini retorici la peroratio).n
Dunque, subito dopo il prescritto (1,1), si possono indivi
duare tre parti distinte e ben articolate: l’introduzione o esor
dio (1,1-27), il corpo (2,1-5,6) e l’epilogo (5,7-20). Sulle scan
sioni interne del corpo della Lettera il dibattito degli studiosi
non sembra approdato a risultati condivisi. Un aspetto carat
teristico dell’argomentazione di Giacomo può, a mio avviso,
orientare. Si tratta del modo in cui essa sembra tenere in con
siderazione un variegato fronte d ’interlocutori, contrapposti
sul piano socio-economico non meno che su quello religioso,
alternando esortazioni, moniti e violente invettive. La contrap
posizione tra gruppi diversi sembra guidare la strategia argo
mentativa dell’autore che disegna un’«assemblea» di credenti
divisa tra «il fratello umile», di bassa condizione, e «il ricco»
(1,10) e capace, persino, di lotte intestine di estrema violenza
(4,1-3). L’esperienza di «prova» annunciata nei primi versi
dell’esordio tocca tutti, chi poggia sicuro sui propri traguardi
sociali ed economici e chi sente pesare l’ingiustizia dentro e
fuori l’ambito comunitario: per gli uni si tratta di resistere alle
logiche mondane della ricchezza e della discriminazione ovve
ro agli idoli e alle signorie del mondo, riconoscendo in atto il
giudizio escatologico di Dio; per gli altri si tratta di resistere
nei sentimenti, nelle parole e nelle opere alla violenza con cui
potrebbero volere ristabilito il proprio diritto e, ciò, nella stes
sa prospettiva escatologica e anti-idolatrica. Per gli uni e per
gli altri si tratta sempre di accogliere umilmente il dono della
Sapienza che «viene dall’alto» (1,16; 3,17) affidandosi al pote
re salvifico della «Parola impiantata» (1,21).1
11 Cfr. T aylor - G uthrie, 700-701; F abris, 13.
In tre sezioni formalmente e tematicamente coese (2,1-26;
3,1-4,10; 4,11-5,6), aperte ciascuna da un imperativo negativo
accompagnato dall’appellativo «fratelli (miei)» (2,1; 3,1; 4,11),
l’autore sottopone dunque a discernimento la vita concreta dei
destinatari vagliandone la conformità alla Parola della fede sul
metro delle relazioni fraterne. In particolare, sembrano specu
lari tra loro la pericope di apertura (2,1-11) e quella conclusiva
del corpo della Lettera (4,13-5,6), entrambe interessate a un
ambito specifico della vita dei credenti divenuto luogo di «pro
va» nella fede: quello dei rapporti sociali e comunitari tra ricchi
e poveri che appare dunque il tema «più immediato e pressan
te di tutti».12 Questo tema abbraccia gli altri, proiettando su di
essi una luce concreta e specifica. Centrale tra tutti, posto al
cuore stesso della Lettera (3,1-4,10), emerge invece quello del
la «sapienza dall’alto», necessaria per affrontare con discerni
mento ogni prova, per parlare e operare secondo giustizia e
vivere nell’amicizia con Dio.
Conducendo i suoi destinatari dall’esperienza della prova,
come luogo dell’azione escatologica di Dio di cui gioire (1,2-4),
all’attesa paziente e magnanima del compimento, vissuta nella
più integra fedeltà al dono misericordioso di Dio e alla propria
e altrui libertà (5,7-11), Giacomo si rivela per loro un vero
«maestro» (3,1). Con una parola riconosciuta autorevole dai
«fratelli», egli traduce per loro la cura del Signore, che «rim
provera, corregge, ammaestra e riconduce come un pastore il
suo gregge» (Sir 18,13). Attraverso il percorso argomentativo
della Lettera, fa per i suoi destinatari quello che, alla fine, chie
de loro di fare gli uni per gli altri: «ricondurre» il peccatore
coprendo così una «moltitudine di peccati» (Gc 5,19-20).13
12 H artin , Jam es and thè Q Sayings, 29. Cfr. anche T aylor - G uthrie, 692-
695.699-700.
” Cargal, 169-170.
2. Esegesi di Gc 2,1-11: pensare, giudicare
e agire secondo il vangelo del regno
2.1. Contesto e struttura
Dopo avere mostrato nell’esordio il variegato fronte su cui
si prova la verità e autenticità del rapporto con Dio nella fede
e nell’amore, Giacomo comincia a mettere a fuoco l’ambito sul
quale cadeva l’accento conclusivo del c. 1: la cura dei più de
boli (1,9-11.26-27). Sul piano formale, l’appellativo «fratelli
miei» (2,1) segna l’inizio di una nuova tappa nello sviluppo
della Lettera e, ripetuto anche in 2,14, permette di distinguere
nel c. 2 due ampie pericopi: la prima (w. 1-11) delimitata dal
ricorrere inclusivo del tema della «preferenza di persone» (il
sostantivo prosopolémpsia v. 1 e il verbo prosópolemptéó v. 9),
della ingiustizia che la Legge svela e condanna (w. 4.8-11) e
dal campo semantico della regalità che l’attraversa (kyrios: v.
1; basitela: v. 5; basilikós: v. 8); la seconda (w. 14-26) delimita
ta dall’inclusione sul binomio «fede/opere» (w. 14.26) che
anche la attraversa (w. 17.18.20.22.24) e ne individua il tema
centrale. Insieme le due pericopi affrontano, con finalità di
discernimento e di denuncia, un aspetto e un ambito caratte
ristici dell’esistenza credente: l’aspetto, già messo in rilievo
nell’esordio, è quello deU’irrinunciabile unità e integrità dell’at
to di fede capace della pienezza di giustizia e di salvezza verso
cui tende la Legge; l’ambito in cui tale unità deve manifestarsi
è quello delle relazioni fraterne e, in particolare, della cura dei
più deboli sullo sfondo di evidenti differenze di status sociale
ed economico all’interno della comunità. Al centro tra le due
parti, nei w. 12-13, si trova l’accento propositivo del testo che
insiste sulla misericordia (éleos) come criterio guida, ideale e
pratico, delle relazioni fraterne.
Come prima parte di un capitolo tematicamente ben coeso
e unificato dalla questione del modo concreto di vivere i rap
porti fraterni secondo giustizia, 2,1-11 ha un ruolo anzitutto di
denuncia. Non intende dire cosa bisogna fare, ma cosa non
bisogna fare (si veda l’imperativo negativo di apertura) e, per
ciò, ha una funzione anzitutto di discernimento dell’agire. De
ve smascherare un inganno o - nei termini della Legge - una
«trasgressione» (v. 4b e w. 9.11) e provocare il passaggio da un
modo «m ondano» di vedere persone e relazioni al modo di
vederle di Dio (1,27; 4,4). La struttura del testo corrisponde a
questa finalità. Come primo ambito di verifica della vita di
fede dei credenti, esso prende in esame l’esigenza assoluta
d’imparzialità e di giustizia nella vita di alleanza del popolo
eletto attestata coralmente dalla Legge (Lv 19,15; Dt 16,16-20),
dai Profeti (Is 3,8-9; 5,23; 10,1-3; 32,5-8; Ger 5,25-31; Mal 2,9)
e dagli Scritti (Gb 34,17-19; Sai 37; Pr 24,23-25; Sir 4,27). Nel
far risuonare l’attestazione corale delle Scritture e nel riformu
larne le esigenze, però, l’accento innovativo di Giacomo con
siste nel rapporto che egli individua tra il comandamento an
tico e il nuovo contesto di vita della comunità dipendente
dalla professione di fede cristologica richiamata ad apertura
del testo (Gc 2,1).
La novità determinata dalla fede in Cristo si riflette, quindi,
nella struttura stessa del testo che si può considerare tripartita
e concentrica: i versi iniziali (w. 1-4) e finali (w. 8-11) si corri
spondono per il modo in cui - attraverso un esempio i primi,
con un’argomentazione scribale gli ultimi - richiamano ai cre
denti l’orizzonte normativo della Legge offrendone quella che
Giacomo considera esserne l’ermeneutica autentica. I versi
centrali (vv. 5-7), invece, introdotti da un solenne invito
all’ascolto (v. 5a), richiamando la predicazione evangelica insi
stono sullo specifico cristologico e radicano la verità e l’esigen
za dell’imperativo della Legge di alleanza nell’orizzonte teolo
gico dell’annuncio evangelico del regno. In un contesto argo
mentativo, in cui è in gioco l’interpretazione stessa della fede
o dell’atto personale e comunitario del credere come spazio
vitale in cui Dio realizza, compie e attesta la giustizia dell’uomo
(l’«essere giustificato»), ha dunque un ruolo decisivo l’annun
cio evangelico della elezione divina dei poveri, dichiarato so
lennemente in 2,5, come parola della fede al cui vaglio viene
sottoposta la vita concreta dell’assemblea credente in atto di
sperimentare, al suo interno, le ferite che lacerano l’intera co
munità umana distruggendone l’unità. È alla luce di tale an
nuncio che Giacomo può poi definire «regale» la Legge ricon
dotta alla sua piena unità (v. 8) e risolvere in essa tutte le esi
genze più profonde connesse all’elezione e alla relazione di
alleanza tra Dio e Israele.
2.2. Traduzione e commento
fratelli miei, non mescolate con favoritismi personali la fede nel
nostro Signore della gloria Gesù Cristo. 2Se, infatti, in una vostra
assemblea entrasse un uomo con un anello d ’oro al dito e una
veste splendida ed entrasse anche un povero con una veste sporca
3e voi fissaste lo sguardo su quello vestito splendidamente e dice
ste: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero diceste: «Tu resta
in piedi lì» o «Siediti allo sgabello dei miei piedi»,14 4non stareste
forse facendo discriminazioni in voi stessi, divenuti giudici dai
ragionamenti perversi?
Ascoltate, fratelli miei diletti: Dio non ha forse scelto coloro che
sono poveri per il mondo costituendoli ricchi per fede ed eredi
del regno che ha promesso a coloro che lo amano? 6Voi, invece, il
povero lo avete oltraggiato! Non sono forse i ricchi quelli che
spadroneggiano su di voi e vi trascinano in prima persona nei14
14 La traduzione («Tu resta in piedi lì. ..») riflette la lezione del codice Alessandri
no, del codice T7 e della Vulgata (assunta da Nestle-Aland27) e non quella del codice
Vaticano (preferita da Nestle-Aland28) che si dovrebbe tradurre: «Tu stai in piedi o
siediti lì allo sgabello dei miei piedi». Le varianti, in realtà, sono almeno cinque e si
giustificano per la difficoltà di comprendere concretamente il linguaggio deittico del
testo: quella del codice Alessandrino mi sembra spieghi meglio la genesi delle altre.
tribunali? 7Non sono proprio loro che bestemmiano il nobile No
me invocato sopra di voi?
8Se realmente adempite la Legge regale, secondo la Scrittura (che
dice) amerai il prossimo tuo come te stesso, voi agite bene; 9ma se
fate favoritismi personali voi commettete peccato, venendo accu
sati dalla Legge come trasgressori. 10Chi, infatti, osserva l’intera
Legge ma manca anche riguardo a un solo (precetto) diventa col
pevole di tutto. “Perché Colui che ha detto: Non commettere adul
terio, ha detto anche: Non uccidere. Se tu, quindi, non commetti
adulterio, ma uccidi, sei diventato trasgressore della Legge.
w. 1-4. Dopo l’imperativo negativo del v. 1, che funge da
incipit tematico tanto della pericope quanto dell’intero c. 2, i
w. 2-4 formano un unico grande periodo ipotetico di cui i w.
2-3 costituiscono la complessa protasi, che adduce un esempio
possibile di prassi e di esperienza comunitaria, e il v. 4 l’apo-
dosi in forma di proposizione interrogativa retorica.
v. 1. Qui il primo problema da affrontare è la catena di ge
nitivi che specifica la fede: «la fede del Signore di noi Gesù
Cristo della gloria» (così alla lettera). Il costrutto risulta a pri
ma vista sovraccarico e difficile da interpretare: come intende
re il primo genitivo? In senso oggettivo (la fede nel Signore
G esù...) o soggettivo (la fede in Dio annunciata e testimoniata
dal Signore Gesù con l’insegnamento e con la vita)? Come
intendere, poi, l’ultimo genitivo («della gloria»)? Come geni
tivo di qualità che modifica soltanto il sostantivo kyrios («del
nostro Signore della Gloria»), applicando al Cristo risorto il
titolo anticotestamentario di Yhwh «Dio (ore) della Gloria»
(Sai 24,7-10; 30,3; At 7,2), o come genitivo che modifichereb
be l’intera espressione e andrebbe riferito direttamente a Gesù
Cristo, «nostro Signore glorificato»? In considerazione del
contesto argomentativo in cui materia di discussione è la fede
professata e vissuta dai destinatari e del fatto che «il Signore
nostro» è espressione ricorrente nelle formule di fede e nelle
dossologie cristiane (At 15,26; 20,21; Rm 1,4; 4,24; 5,1.11.21;
7,25; 8,39; Gal 6,14; E f 1,3; lP t 1,3; 2Pt 1,2.8.11.14.16; G d
17.21.25), mi pare più sensato attribuire un valore oggettivo al
primo genitivo. In relazione al secondo, mi sembra corretto far
risuonare tanto l’eco del titolo anticotestamentario di Yhwh
quanto la forza del suo trasferimento tipicamente cristiano
(lC or 2,8) alla persona di Gesù Cristo risorto, in una sorta di
esegesi cristologica del Sai 24.
Su questo sfondo, il modo in cui l’imperativo iniziale di Gc
2,1 è formulato alla lettera («Non abbiate la fede... in preferen
ze di persone») aiuta a capire come Giacomo intenda aiutare i
suoi destinatari nel cammino di discernimento e di conversione:
non si può mantenere la professione di fede nel Cristo crocifis
so e risorto insieme a un atteggiamento concreto di vita, come
la forma di discriminazione sociale che Giacomo stigmatizza in
seno all’assemblea cristiana, che smentisce il contenuto più pro
fondo della sua stessa fede. Il sintagma «avere in» (échò + en)
dice questa mescolanza inaccettabile: mantenere, possedere,
sostenere una cosa «dentro» un’altra che la contraddice. Il pa
radigma che da questo momento in poi si afferma esplicitamen
te nell’argomentazione della Lettera è quello dell 'aut... aut che
troverà la sua formulazione più perentoria in 4,4: «Chi vuole
essere amico del mondo si costituisce nemico di Dio»! Non si
può essere contemporaneamente «amici del mondo» e «amici
di Dio». Tale paradigma s’ispira al dualismo etico giudaico e
risuona chiaramente anche nella tradizione dei detti di Gesù
(Mt 6,24 / / Le 16,13). Sottesa ad esso è la limpida convinzione
che attraversa già l’esordio della Lettera e sostiene ogni sua
argomentazione: il rapporto con Dio, il suo «servizio», esige, in
obbedienza al comandamento centrale della Tóràh, una radica
le integrità e coerenza di vita. Amare Dio «con tutto il proprio
cuore, con tutta la propria anima e con tutte le proprie energie»
vieta qualunque doppiezza sia interiore che esteriore, tanto nel
giudizio che nella prassi credente (Gc 1,5-8.9-12.13.22-27).
La formulazione del v. 1 spinge, allora, a chiedersi cosa ci
sia di contraddittorio tra «la fede nel nostro Signore della glo
ria Gesù Cristo» e i «favoritismi personali». Lo si può già rav
visare se si considerano i registri valoriali implicati tanto dalla
fede quanto dalla preferenza di persone: si tratta della questio
ne dello status di qualcuno e dei valori di onore, gloria, nobil
tà, superiorità di uno rispetto a un altro in relazione a tale
status. La preferenza di persone, infatti, implica il riconosci
mento, l’affermazione e l’attribuzione a qualcuno di uno status
non riconosciuto a un altro. Ma anche la fede riconosce, affer
ma e attribuisce uno status di nobiltà, sovranità indicato nel
termine «gloria» e nel sintagma «Signore della gloria» che at
tribuisce a Gesù Cristo risorto, oggetto della fede professata,
la stessa dignità e sovranità di Dio. Dunque, per Giacomo non
si può professare lo status glorioso del Signore Gesù e, insieme,
attribuire status umano secondo parametri di preferenza socia
le per il ricco a danno del più povero come quelli che esempli
ficherà nei w. 2-4. Il motivo squisitamente teologico ed evan
gelico della contraddizione tra la professione di fede nel Signo
re glorioso e la discriminazione tra i credenti sarà esplicitato
nei w. 5-7. Per il momento, Giacomo lo lascia solo intravede
re nella contrapposizione tra la realtà della «gloria» sovrana di
Dio, connessa indissolubilmente nel v. 1 con la persona del
Signore Gesù Cristo, e la prassi discriminante dei cristiani che
nella loro assemblea innalzano gli uni e umiliano gli altri se
condo logiche che riflettono la scala di valori tipica di quel
«mondo» da cui, appena prima, Giacomo ha suggerito occor
ra «custodirsi immacolati» (1,27).
vv. 2-4. Dunque, con un periodo ipotetico della probabilità
egli adduce un esempio di vita comunitaria che traduce con
cretamente, in termini di parole e di gesti, la prassi sociale
contestata che gli serve per mettere i suoi destinatari davanti
al loro errore di prospettiva e di condotta. Se la protasi (eàn +
congiuntivi aoristi) indica qualcosa che può tranquillamente
accadere nella comunità radunata, l’apodosi non ha un presen
te o un futuro indicativo come ci si aspetterebbe, ma un indi
cativo aoristo con valore prolettico: il verbo al passato rappre
senta drammaticamente la conseguenza sicura del comporta
mento ipotizzato. Il pericolo che i credenti corrono, cioè, è per
Giacomo serio e del tutto realistico.
L’ipotetica scena di vita comunitaria viene raffigurata attra
verso due fasi parallele. Nel v. 2 «entrano» due personaggi che
vengono posti in parallelismo antitetico: uno è descritto come
un uomo socialmente rivestito di segni di onore, ricchezza e
dignità. Non si dice che sia un ricco, ma porta segni di agiatez
za e nobiltà. L’altro è descritto espressamente come un «pove
ro», cioè un uomo caduto in condizione di estrema povertà a
causa di circostanze sfortunate (debiti, condizione di stranie-
rità, malattia, morte di un coniuge che determina stato di ve
dovanza, morte dei genitori che determina stato di orfano ecc.)
e costretto a vivere ai margini della società invocando conti
nuamente l’aiuto degli altri; spoglio dei segni di dignità dell’al
tro, questi si caratterizza per l’indigenza, la sporcizia e una
complessiva situazione di indegnità e disonore sociale. Nel v.
3 i soggetti dell’azione sono i credenti («voi») che reagiscono
all’ingresso dei due personaggi. Nel caso del primo la reazione
comporta un «fissare lo sguardo» e un «dire» che manifestano
stima, accoglienza e onore; nel caso del secondo la reazione
comporta semplicemente un «dire» che manifesta alterigia e
disprezzo. La scena pone, però, alcuni problemi d ’interpreta
zione. Anzitutto, di che natura è l’assemblea ecclesiale descrit
ta come synagogeì Cultuale, didattica o giudiziaria? Secondo
la maggior parte degli studiosi si tratta di un’assemblea radu
nata per il culto o per l’ascolto e lo studio della Parola; altri,
però, preferiscono vedervi una comunità in atto di esercitare,
come nella sinagoga giudaica e come altrove in contesti cristia
ni (lCor 6,1-11), una funzione giudiziaria interna. Un contesto
espressamente giudiziario darebbe maggiore rilievo al divieto
di fare preferenze che già nella Tóràh è connesso primariamen
te con l’amministrazione della giustizia nei tribunali, ma il testo
non fornisce indizi netti che spingano in questa direzione in
terpretativa. Infine, i due uomini posti in parallelismo antiteti
co sono entrambi membri della comunità? Lo è uno dei due o
non lo è nessuno? Tanto la contrapposizione tra «il ricco» e il
fratello di «umile condizione» in 1,9-11, quanto il monito ai
commercianti in 4,13-17 e l’invettiva contro i ricchi in 5,1-6,
mostrano come non si possa escludere l’ipotesi che l’uomo di
status elevato, come il povero, siano entrambi membri effettivi
o potenziali della comunità.
Certezze assolute su entrambe le questioni non si possono
raggiungere. È certa, però, la struttura relazionale che si mani
festa in questa scena, quella tipica dei rapporti tra patrono e
cliente su cui l’intera società greco-romana contava per gestire
la stratificazione sociale in classi, da quelle più ricche a quelle
più povere. I patroni, membri dell’élite, potevano procurare ai
clienti benefici di varia natura (protezione fisica contro i nemi
ci, sostegno in un processo legale, cibo, denaro, cittadinanza,
lavoro ecc.) per il potere, l’influenza e la posizione di cui go
devano. In cambio di questi benefici, potevano aspettarsi di
ricevere dai clienti onore e vari tipi di servigi. I clienti, d’altra
parte, di status inferiore, in forza di questi benefici si legavano
ai patroni e restavano loro fedeli. Lo status elevato di questi
ultimi, in tal modo, veniva assicurato e rafforzato continuamen
te. Casi di patronato positivamente valutati se ne trovano anche
nel Nuovo Testamento (Le 7,4-5; At 10,2; 16,1-2.23; lC o r
1,14). Di per sé, dunque, questa struttura relazionale non era
impensabile in casa cristiana. Essa, però, si basava su una ge
rarchia sociale di status differenti ed era strutturalmente espo
sta alla pratica dei favoritismi personali, all’attribuzione ingiu
sta e parziale di onori e dignità (dal basso verso l’alto), ad ali
mentare l ’ingiustizia e la disparità a danno di quelli che
stavano alle estremità inferiori della scala sociale e, soprattutto,
a scombinare i rapporti orizzontali di solidarietà di un gruppo
affine introducendovi asimmetrie.
Con questo esempio ipotetico, Giacomo ci pone quindi da
vanti a una comunità giudaico-cristiana della diaspora, proba
bilmente urbana, che si trova ad accogliere visitatori apparte
nenti ai più diversi livelli della scala sociale. Se il «povero» e
l’uomo in ricche vesti fossero entrambi dei credenti, la discri
minazione sociale denunciata da Giacomo avverrebbe nei con
fronti degli stessi membri della comunità. Ma ciò che a Giaco
mo importa è mostrare che, in ogni caso, i credenti già tali (il
«voi» cui si rivolge) stanno replicando all’interno della comu
nità le disparità e i conflitti sociali che si sviluppano all’esterno
di essa nella società pagana, conformandosi alla mentalità do
minante nella cultura circostante.15 Lo dimostra la disparità del
gesto e della parola: l’uomo vestito lussuosamente è guardato
con ammirazione, è onorato e gli si riconosce una posizione di
sovranità («siediti comodamente»); il povero e lercio non è
nemmeno «guardato» ma gli viene ordinato di assumere in
assemblea una posizione di distanza o di umiliante subordina
zione drammaticamente espressa dall’invito a sedere allo «sga
bello dei piedi», immagine che in tutta la Scrittura, con la sola
eccezione di questo testo di Giacomo, è usata per indicare la
condizione di sottomissione che qualifica cose o persone in
relazione a Dio (lC r 28,2; Sai 99,5; 131,7; Is 66,1; Lam 2,1; Mt
5,35; At 7,49) e al «Davide» per mezzo del quale Egli esercita
la sua unica e assoluta sovranità (Sai 110,1; Le 20,43; At 2,35;
Eb 1,13; 10,13). Nella scena descritta da Giacomo, dunque,
l’uomo che entra pieno di segni di ricchezza e dignità è chia
ramente un potenziale patrono della comunità e questa, a sua
volta, lo guarda e gli parla mostrando un atteggiamento tipico
dei potenziali clienti (stima, onore, posto di privilegio ecc.).
L’uso del termine dialogism oi («ragionamenti») nell’apodosi
15Cfr. Wachob, 185.
del v. 4, riflette bene questa logica di relazione patrono-cliente
perché mostra come l’atteggiamento discriminatorio operante
nella comunità sia dovuto a un ragionamento costruito secon
do i parametri valutativi tipici della relazione patrono-cliente:
davanti all’uomo potente e rispettabile, la comunità si piega
dimostrando onore e stima; davanti al povero, essa si mostra
altezzosa e piena di disprezzo.
Nell’esempio, dunque, tutto tende all’interrogativa retorica
dell’apodosi (v. 4) che mette a nudo la perversione insita nell’at
teggiamento assembleare ipotizzato: i credenti non riflettono
l’integrità, la «semplicità» e «imparzialità» che caratterizza in
fallibilmente il Dio in cui credono (Dt 10,16-19; 2Cr 19,7; Sir
35,14-17; At 10,34; Rm 2,11; E f 6,9; Col 3,25; G c 1,5.17) e i
suoi criteri di «elezione» (ISam 16,7-10); anzi, cadono sotto le
accuse di doppiezza dei profeti che stigmatizzavano la scissio
ne tra il culto e la vita (Is 1,13-17.22-23; Ger 7,3-10; Am 2,6-8).
«Divisi in se stessi» - tanto nei loro pensieri quanto nelle rela
zioni umane che li incarnano - mostrano un’ambiguità, incom
patibile con la fede, che impedisce loro la piena accoglienza
del dono di Dio (Gc 1,6) e li assimila a giudici iniqui per i
criteri che li muovono nel profondo. Con il solo evangelista
Matteo, che predilige l’aggettivo «malvagio», Giacomo condi
vide l’espressione «ragionamenti malvagi» (cfr. Mt 15,19): pri
ma che essere eticamente inaccettabile, la prassi dei credenti
ipotizzata svela il pensiero perverso del cuore che ne costituisce
la radice (Sir 27,4-7; 37,16; Ger 11,19; Ez 38,10). L’ipotesi
ventilata permette così a Giacomo di arrivare al cuore della sua
argomentazione. Le parole che vengono rivolte nell’assemblea
all’uomo elegante e al povero rivelano un pensiero che non è
ancora realmente informato dalla parola della fede e che non
può che produrre una prassi ad essa contraria e conforme alle
logiche vigenti nel mondo.
w. 5-7. La cura con cui Giacomo descrive l’ipotetico caso e,
nell’apodosi, passa al vaglio il pensiero dei credenti, fa già ve
dere in filigrana che la posta in gioco nella questione della
preferenza di persone è il rapporto tra la cristologia e l’eccle
siologia, tra i criteri dell’«elezione» divina manifestati e realiz
zati compiutamente in Gesù Signore e l’etica comunitaria che
dovrebbe rifletterli, essendo la comunità figlia di tale elezione.
Si arriva così al cuore evangelico dell’argomentazione che espli
cita il rapporto tra la questione della preferenza di persone e
il contenuto della fede professata ed espressa ora, nel v. 5, at
traverso il recupero della categoria dell’elezione centrale nella
teologia biblica dell’alleanza. Prima di trarre le conseguenze
della sua argomentazione sul piano normativo Giacomo invita,
infatti, a comprenderla e a collocarla nel suo giusto orizzonte
che è quello teologico offerto dalla «fede» che egli condivide
con i destinatari.
I w. 5-7, posti al centro della pericope, appaiono non a caso
molto curati letterariamente. Un nuovo imperativo accompa
gnato dall’appellativo familiare «fratelli» caro a Giacomo (v.
5a) introduce una catena di domande retoriche negative (w.
5b e 6b-7) che mettono in contrasto l’azione di Dio e quella
dei «ricchi». A loro volta, queste domande retoriche custodi
scono al loro interno (v. 6a) l’unica proposizione affermativa
di questi versi che riguarda l’agire dei destinatari stessi della
Lettera. Dal punto di vista formale, l’imperativo aoristo «ascol
tate» costituisce un segnale letterario rilevante perché ricalca
una formula di invito all’attenzione, usata frequentemente
nell’Antico Testamento, che nel Nuovo Testamento ha un uso
particolare: nei Vangeli è messa solo in bocca a Gesù (Mt 13,18;
21,33; Me 7,14; Le 18,6) e negli Atti introduce discorsi solenni
che, direttamente o indirettamente, hanno per contenuto il
kerigma apostolico (At 2,22 in bocca a Pietro; 7,2 in bocca a
Stefano; 13,16 e 22,1 in bocca a Paolo; 15,13 in bocca a G ia
como nell’assemblea di Gerusalemme). Con questo imperativo
solenne, dunque, Giacomo implora i suoi destinatari perché si
facciano attenti a una parola che tocca evidentemente, a suo
avviso, un nucleo centrale ed essenziale del kerigma, cioè l’agi
re salvifico di Dio a favore dei «poveri».
Come nel v. 4, anche in questi versi centrali Giacomo defi
nisce delle azioni attraverso incalzanti domande retoriche. Le
azioni indicate, però, non sono più ipotetiche ma puntuali e
reali. Espressa con un aoristo, è posta in rilievo quella di Dio
che con la sua libera «elezione» ha definitivamente ribaltato le
sorti e invertito i criteri di giudizio mondani costituendo «ric
chi», nella prospettiva di fede, coloro che il mondo, secondo i
suoi criteri, giudica e mantiene «poveri» (v. 5b). Espressa con
tre verbi al presente, che dicono uno stato di cose ancora in
atto, c’è poi quella dei «ricchi» che sono tali sul piano socio-
economico e che umiliano tanto al livello sociale quanto al li
vello religioso gli stessi credenti cui Giacomo si rivolge (w.
6b-7). Tra queste due serie di domande retoriche, la costata
zione amara che denuncia l’azione dei credenti (v. 6a) si carat
terizza purtroppo, paradossalmente, per essere puntuale come
quella di Dio (l’aoristo «avete disonorato») ma conforme,
quanto a modello, a quella dei «ricchi». Comunque se ne voglia
immaginare la concretizzazione, egli attribuisce realmente ai
suoi destinatari un disprezzo per «il povero» che contraddice
violentemente il progetto attuato da Dio e li colloca quindi
drammaticamente fuori dall’orizzonte salvifico che tale proget
to disegna allineandoli, invece, all’infruttuoso e mortificante
sistema mondano dei «ricchi» da cui essi per primi ricevono,
per esperienza, enorme danno.
L’argomentazione di Giacomo, caustica ed efficace nella
certezza di fede e nel realismo che esprime, deve essere com
presa necessariamente a due livelli: quello storico-antropologico
dello sfondo sociale, culturale e religioso in cui si colloca la
vita dei suoi destinatari e quello teologico dell’agire di Dio in
terpretato nel filone della spiritualità dei «poveri di Yhwh»
che, non potendo contare su alcuna propria risorsa o capacità
di riuscita, dipendono interamente da Dio e diventano para-
digma di fede. Dal punto di vista storico una definizione pre
cisa delle circostanze di vita cui Giacomo fa riferimento sembra
quasi impossibile ma i credenti si trovano globalmente («voi»:
w. 6-7) a subire atti di prepotenza e di pressione («spadroneg
giano»), che si traducono anche in concreti procedimenti giu
diziari («trascinano nei tribunali»), da persone appartenenti
alle classi sociali più influenti sul piano economico («i ricchi»)
verso le quali, tuttavia, essi si comportano con adulazione come
sperando di ottenerne benefici. Non ci sono elementi per de
finire le cause di tali procedimenti: se di ordine principalmen
te religioso, come potrebbe far pensare il riferimento al «no
bile Nom e» che identifica i credenti - probabile allusione
battesimale (Mt 28,19; At 2,38; 8,16; 19,5; 22,16) - e che viene
rigettato con oltraggio (cfr. anche lP t 4,4.16), o sociale, eco
nomico e politico, come potrebbero far pensare tanto il riferi
mento ad azioni giudiziarie di ricchi proprietari terrieri finite
in condanna a danno degli indifesi secondo G c 5,4-6 quanto,
in prospettiva inversa, i riferimenti ai seri conflitti vissuti dagli
stessi credenti in G c 4,1-2. Forse entrambi i fattori si mescola
vano (At 16,19-24) e le prime comunità cristiane non erano
immuni da diverse forme di ostracismo sociale se non di vera
e propria persecuzione (lTs 2,14-16; Eb 10,32-35; lPt 4,12-16).
Non è facile neanche chiarire l'identikit culturale e religioso
di questi «ricchi» oppressori: il fatto che rinneghino offenden
dolo (blasphéméd) il «nobile Nome» che identifica i credenti
in Cristo impedisce di riconoscere in loro membri ricchi della
comunità. Potrebbero essere perciò tanto giudei della diaspo
ra quanto pagani. Sul piano teologico, la descrizione delle azio
ni antitetiche di Dio e dei «ricchi», dei quali purtroppo i cre
denti rischiano di essere nel contempo vittime ed emuli, va
letta invece sullo sfondo di un topos che attraversa tutta la
Scrittura e che era già apparso in G c 1,9-11. L’agire salvifico
di Dio nella storia si manifesta costantemente nel segno di una
paradossale inversione dei valori: a chi è imponente viene pre
ferito chi è fragile (lSam 16,7.12; 17,42), al primogenito il se
condo (Gen 25,23; 48,13-19), al grande il piccolo (Gdc 6,15;
lSam 16,11), a un folto numero un minimo resto (Dt 7,7; Gdc
7,1-8; 2Re 19,30-31; Is 10,22; 16,14; 37,32; Ger 50,20; Sof3,12-
13; Rm 11,5), al superbo l’umile (Sai 138,5; Sir 3,17-20). Il
lessico cui Giacomo ricorre ora per esprimere questa preferen
za è quello della «elezione» libera e sovrana di Dio, anch’esso
classico e costante nella Scrittura. Sullo sfondo biblico, però,
1’affermazione di Giacomo spicca in tutta la sua radicale novi
tà: nella Scrittura, infatti, ai «miti» è promessa l’«eredità» del
la terra (Sai 37,11 ma anche 4Q171 Pesher dei Salm i 2,9-10;
3,10-11 e 1QM Regola della guerra 11,8-9.13) e ai «poveri» il
Signore assegna in eredità un «trono di gloria» (lSam 2,8; cfr.
Sai 113,7-8), ma mai essi sono dichiarati oggetto diretto della
«scelta» divina.
Per quanto preparata nella Scrittura e nell’ardente attesa
escatologica dei «poveri di Yhwh», l’affermazione con cui Gia
como definisce «i poveri» costituiti «ricchi per fede» dalla scel
ta di Dio non ha veri paralleli e non sarebbe comprensibile
senza il riferimento allo specifico orizzonte di fede che Giacomo
condivide con i suoi destinatari e al quale ha fatto espresso ri
ferimento all’inizio del discorso (v. 1); senza, cioè, riconoscervi
un preciso riferimento all’annuncio del vangelo ai poveri fatto
da Gesù (Is 61,1; Mt 11,5 / / Le 7,22) che attribuiva loro il pos
sesso del «regno» (Mt 5,3 / / Le 6,20; Vangelo di Tommaso 54;
Lettera di Policarpo ai Filippesi2 ,3) e alla conferma pasquale che
l’aveva rivelato vero «Signore della Gloria» (ICor 2,8-9; 15,6-8)
manifestando come eletti in lui, l’«eletto» per antonomasia (Le
9,35; 23,35; lP t 2,4-8), i poveri e gli ultimi. La «scelta» para
dossale di Dio in Cristo non è più solo un motivo costante che
la Parola attesta ma l’instaurazione puntuale e definitiva, pur se
incoativa, nella storia della vita e della logica del regno parteci
pabile pienamente nella «fede» (ICor 1,26-31) per «coloro che
amano» Dio (Gc 1,12; Sir 2,7-17; Rm 8,28; ICor 2,9).
Rispetto all’azione compiuta da Dio, riconoscibile e attua-
lizzabile concretamente in una fede vissuta, i destinatari di
Giacomo si trovano dunque nella condizione critica di chi è
diviso tra due inclinazioni e due metri di giudizio: da un lato
essi, con il «nobile Nome» che li identifica, sono vittime come
il «giusto povero» dell’arroganza dei potenti; dall’altro, pro
prio per ingraziarsi gli stessi ricchi che li schiavizzano, si
espongono a riprodurre all’interno delle loro comunità le stes
se discriminazioni che li vedono umiliati nella loro dignità
sociale e religiosa. «Scambiano la loro Gloria» con gli idoli
«inutili» della società in cui si trovano (Ger 2,11) e, non sa
pendo contrapporsi limpidamente ai valori del mondo che non
hanno posto nel «regno che Dio ha promesso a coloro che lo
amano», rischiano di trovarsi estromessi contemporaneamen
te dal «regno» e dal «m ondo». Additando loro i criteri e le
modalità dell’agire di Dio nel suo Cristo e, in fondo, richia
mando loro l’ideale della giustizia atteso dalla e nella città del
gran Re Gerusalemme (Is 1,26; 61,1-3.10-11; At 2,44-45;
4,32.34-37; Rm 15,25-26; Gal 2,10) Giacomo intende dunque
sostenere i suoi destinatari nell’affrontare consapevolmente
questo decisivo ambito della «prova» vedendo la realtà e agen
do efficacemente in essa con lo sguardo della fede che, sola,
può assicurare loro ricchezza e regalità (Gc 1,12). A tutti i
membri della comunità, siano essi «fratelli umili» siano essi
«ricchi», G iacom o chiederà di assumere una conformità
all’agire divino che, inevitabilmente, li avvicinerà ai «poveri»
allontanandoli dal «m ondò» (1,9-11; 4,1-4.10), favorendo al
tresì tanto l’elevazione concreta ed economica dei fratelli po
veri (2,14-26) quanto l’abbassamento di spirito o l’umiltà
nell’amore dei fratelli ricchi. Una «economia dell’umiltà»16
sarà la prova dell’amore per Dio che identifica i credenti in
Cristo e gli eredi del suo regno.
16Cfr. K amell.
w. 8-11. Mostrato il fondamento teologico ed evangelico del
suo imperativo di partenza e denunciata la pericolosa incon
gruenza del comportamento dei suoi destinatari, l’autore può
tornare sulla questione dei favoritismi personali. Egli non ne
dichiara solo l’illegittimità, ma indica la direzione di un’auten
tica e originale interpretazione della giustizia richiesta ai cre
denti che ricorda da vicino le dichiarazioni programmatiche di
Gesù secondo Mt 5,17-20 ed esprime bene i due poli tra cui si
muove la riflessione di fede del giudeo-cristiano Giacomo: da
un lato la Legge, con la sua immensa esigenza di giustizia che
attende di impregnare e trasformare tutti gli ambiti della vita
umana; dall’altro il Vangelo del regno che di questa Legge rea
lizza, storicamente ed escatologicamente insieme, sia le esigen
ze che la promessa. In questi versi, dunque, l’argomentazione
di Giacomo si fa ancora più rigorosa.
Una prima coppia di proposizioni in parallelismo antitetico
(w. 8-9) e dalla forma di detti condizionali («se voi», seguito
dall’azione e dalla conseguenza), richiama l’esempio ipotetico
portato nei w. 2-4 e si caratterizza per l’uso dei verbi in secon
da persona plurale con cui Giacomo definisce le azioni dei suoi
destinatari. Contrapponendo una realizzazione pienamente
compiuta e unificante (teléo) della «Legge» (v. 8a) all’azione
discriminatoria e separatrice dei favoritismi personali (v. 9a),
egli formula il giudizio sulla loro condotta («agite bene» del v.
8c in contrasto a «commettete peccato» del v. 9b) in base alla
conformità o meno di questa alla Scrittura che, quanto a «Leg
ge», è integralmente rappresentata dal comandamento del
l’amore del prossimo (Lv 19,18). Questo, posto a conclusione
della prima grande parte di Lv 19 (vv. 1-18) in cui si trova
anche il divieto di fare preferenze di persone (Lv 19,15), sin
tetizza le prescrizioni morali del cosiddetto Codice di santità
(Lv 17-26), del Decalogo (cfr. Mt 19,19) e, con esso, di tutta
la Tóràh. Non è una legge nuova, ma con un indiscutibile ri
chiamo alla prospettiva del «regno promesso a coloro che ama
no Dio», Giacomo la riconosce come «legge regale»: in senso
proprio, perché vige all’interno del regno di Dio ovvero è la
legge del suo regno; in senso metaforico, perché è quella che
per eccellenza sintetizza e sigilla la volontà del Santo di Israele
e «libera» tutta la capacità sovrana di bene dei credenti eredi
del regno (Gc 1,25;2,12). Se i credenti adempiono realmente
la Legge conformandosi alla sintetica parola dell’amore del
prossimo, operano in pienezza la giustizia; ma se fanno prefe
renze di persone, non adeguandosi a uno degli aspetti in cui la
Legge vuole concretizzato il comandamento principe sulle re
lazioni umane (Lv 19,15), essi «commettono» peccato (verbo
ergàzomar. cfr. Sai 6,9; Mt 7,23; Gv 3,20; 6,28; Rm 2,9-13;
13,10; Gal 6,10), non «com piono» la giustizia di Dio (in Gc
1,20 si ha lo stesso verbo greco) e sono giudicati dalla stessa
Legge come persone che hanno deviato dal sentiero che essa
traccia.
Passando al v. 10 dalla seconda persona plurale alla terza
persona singolare e a una sentenza di tipo casistico, Giacomo
giustifica, in termini concettuali, il giudizio formulato in pre
cedenza facendo leva su un principio decisivo e caro al giudai
smo, cioè quello dell’unità e totalità della Legge (cfr. Gal 3,10;
5,3). Questo principio riconduce la vita a una profondissima
unità interiore che non dipende dalla puntualità dell’azione
richiesta in questo o quel singolo precetto, ma dalla coerenza
interna con cui i singoli comandamenti riflettono la volontà di
bene di Dio. Nella Legge non si può calcolare una differenza
tra precetti «minimi» e «grandi» (cfr. Mt 5,19) perché in cia
scuno è la medesima esigenza di giustizia che si manifesta. Nel
frammento del singolo precetto è tutta l’esigenza di giustizia
della Legge che chiede di affermarsi.
Il suo principio di unità, in ultima analisi, continua Giacomo
(v. Ila), non sta nella Legge ma, ancora più profondamente,
nell’identità unica di Colui che in essa ha parlato. L’unità e
indivisibilità della condotta giusta, e della Legge che l’esige,
sono poste, quindi, in relazione con l’intento comunicativo e
con la volontà santificante dell’unico Dio (Gc 1,18). Utilizzan
do, infine, un detto in forma condizionale come quelli dei w.
8-9 («se tu» seguito dall’azione e dalla conseguenza corrispon
dente), nel v. l l b Giacomo conclude la sua argomentazione
così come l’ha aperta, riportandola sul piano della formulazio
ne del giudizio: ciascuno, in base all’ermeneutica della Legge
proposta, può verificare la conformità o meno della propria
condotta a essa. Dal monito lanciato ai credenti contro la scis
sione interiore e la discriminazione comunitaria, Giacomo si è
spinto con la sua riflessione fino a raggiungere il fondamento
ultimo del suo imperativo di partenza, che non è né questo né
quel precetto della Legge, ma la volontà creatrice e redentrice
dell’unico Dio. Nel suo pensiero, svelato per intero, la sempli
cità della condotta dei credenti è comandata dalla semplicità e
unità di Dio che, con un medesimo atto di parola, guida la
loro condotta fino alla pienezza di giustizia che vige nel regno
per coloro che lo amano. Indirettamente, Giacomo risponde,
così, anche all’esigenza diffusa nel giudaismo del I secolo di
ricondurre a unità i molteplici precetti della Legge (Me 12,28-
31; Mt 22,34-40; Le 10,25-28; Rm 13,8-10; Gal 5,14; Testamen
to di Issacar5,2\ Testamento di Dan 5,3; Filone, Le leggi specia
li 2,63; Abramo 208), proponendo come via maestra la piena
assimilazione e interiorizzazione dell’esigenza di giustizia della
Legge, vissuta e interpretata da Gesù nella sua predicazione
del regno secondo il precetto «regale» dell’amore del prossimo,
come espressione sintetica della volontà unificante e salvifica
di D io per il suo popolo «a ll’alba della sua escatologica
sovranità».17 L’amore integro e totalizzante per Dio e la fede
nell’unico Signore Gesù Cristo non possono «compiersi» che
in un’unità interiore ed esteriore di vita, che rende «compiuti»
i credenti (Gc 1,4) nel giudizio e nell’azione, dando anche al
17Bauckham, James, 143.
loro agire un effetto di «bellezza» in cui si riflette la «gloria»
del loro Signore (2,1).
3. Linee teologiche
Dopo secoli d ’indagine storico-critica e fuori dal contesto
polemico da cui era maturato il duro giudizio di Lutero, che
riteneva la Lettera di Giacomo priva dei crismi dell’annuncio
apostolico, essa viene oggi considerata come uno degli scritti
neotestamentari più vicini alla predicazione di Gesù e, proprio
grazie alla sua matrice giudaica, più ricca di spunti ermeneuti
ci originali. «Servo di Dio e del Signore Gesù Cristo» (1,1),
dalla prima all’ultima riga del suo messaggio Giacomo sembra
sentire come suo proprio mandato quello di avvicinare quanto
più possibile i suoi destinatari - o ricondurli, se necessario - al
cuore della loro esistenza di credenti in «Gesù Cristo Signore
della Gloria» (2,1) richiamandoli alla verità che la qualifica,
mettendoli in guardia dall’inganno che la perverte e accompa
gnandoli in un esigente percorso di verifica in rapporto all’una
e all’altra cosa, come in un cammino di consapevolezza sempre
più profondo e consolidante. La Lettera si apre e si chiude,
infatti, con un imperativo che orienta i credenti alla giusta per
cezione delle cose: «Considerate pure motivo di autentica gio
ia, fratelli miei, quando v’imbattete nelle prove più svariate,
sapendo che la vostra prova della fede cui siete sottoposti pro
duce pazienza...» (1,2-3); «Fratelli miei, se qualcuno tra vói si
svia dalla verità e uno ve lo riconduce, costui sappia ch e...»
(5,19-20). La giusta percezione delle cose, infatti, precede la
parola e l’azione e queste la riflettono. Nella misura in cui chie
de un’assunzione di consapevolezza, la Lettera di Giacomo si
presenta quindi come latrice di un annuncio di spessore e con
tiene poche ma importanti affermazioni dalle quali si può at
tingere un 'esplicita teologia che riguarda l’essere e l’agire di Dio
(1,13.17-18.27; 2,5.11; 4,6.12; 5,11), ma anche la vocazione e
il compito dell’uomo nella logica del regno (1,20; 3,18; 5,19-
20). Il fine della Lettera di Giacomo, però, è quello di spinge
re i destinatari a realizzare concretamente la parola della fede.
Una teologia implicita, non meno rilevante, emerge, quindi,
dall’intera trama del testo: dagli imperativi, dai moniti, dalle
invettive che l’autore rivolge ai suoi destinatari e, ancor di più,
dal materiale di costruzione anticotestamentario e giudaico cui
egli fa ricorso per trasmettere il suo messaggio.
3.1. Il Dio uno e la sua Parola fedele
Direttamente proporzionale alla sua matrice giudaica e di
primaria importanza per la comprensione della sua teologia è,
anzitutto, il teocentrismo di Giacomo: l’antropologia, la sote
riologia, l’etica, la visione della storia e del mondo e la stessa
cristologia della Lettera sono tutte governate dalle affermazio
ni sul Dio uno e unico di Israele (2,19). E al suo essere e agire
salvifico che Giacomo fa riferimento per motivare i suoi appel
li, fondare la speranza o formulare il giudizio. Il Dio cui Gia
como serve, sul quale può riversarsi l’umana capacità di amare
(1,12; 2,5), è «Signore» e «Padre» (3,9; cfr. Sir 23,1.4) e lo è
anzitutto come Creatore («Padre delle luci»: Gc 1,17), colui a
immagine del quale gli uomini sono fatti (3,9). Teocentrismo e
universalità, propri delle tradizioni sapienziali e sacerdotali
anticotestamentarie, vanno dunque insieme anche in Giacomo
e aprono lo spazio per una comprensione dell’antropologia e
dell’etica dipendente, anzitutto, non dalla fede messianica ma
dal monoteismo giudaico, dalla proclamazione dello sema‘. La
comprensione e rappresentazione del Dio uno che Giacomo
offre - influenzata forse anche dal mondo sociale che fa da
sfondo alla Lettera - è in questo senso peculiare e costituisce
certamente una chiave di lettura centrale di tutto il suo mes
saggio. Non solo Dio è l’«unico» Signore, ma lo è nel modo
dell’assoluta «semplicità»/integrità di chi non conosce dop
piezza (1,5), cui è del tutto estranea la mutevolezza o l’alter
nanza degli astri (1,17) e che non è in alcun modo accessibile
al male né in sé né nel suo rapporto con gli uomini (1,13), ai
quali si manifesta come donatore senza ripensamenti piuttosto
che come aspro e interessato «patrono» (1,5 e 1,17-18).18
Perfettamente riflesse e comunicate nella sua sapienza (3,17;
cfr. Sap 7,21-30), l’integrità e la purezza del Dio uno si mani
festano nella storia, di fronte ai sistemi di potere del «mondo»,
non solo nel segno della liberalità, ma anche in quello del
discernimento e del giudizio anti-idolatrico. Quello, cioè, di
una parola profetica - mai addomesticabile in una «religiosità»
doppia e menzognera (Gc 1,26-27; 2,19; 3,14-16; 4,8) - che
oppone irrinunciabilmente «D io» e «mondo», «D io» e «dia
volo» (4,4.7). Per affermare la sovranità attiva e vigile di Dio
nella storia laddove il diritto degli ultimi è calpestato, Giaco
mo ricorre, quindi, abbondantemente alle tradizioni profeti
che e la sua proclamazione insistente del Dio uno giustifica
anche il ricorso al linguaggio dualistico che, in varie forme di
antitesi (dall’alto - da quaggiù; sapienza dall’alto - sapienza
terrestre/psichica/demoniaca; amicizia col mondo - amicizia
con Dio; verità - menzogna), attraversa tutta la Lettera con
implicazioni sul piano etico (perfezione/integrità contro dop
piezza d’animo/ipocrisia; pace contro instabilità e ribellione;
umiltà/mitezza contro vanto arrogante/ira) e psicologico (si
veda in 4,1 il riferimento ai piaceri che «lottano» nelle «mem
bra» dei singoli e della comunità).
Oltre che riguardare tutti gli uomini e, in modo particolare,
gli indifesi e gli oppressi (1,27), la paternità di Dio assume,
però, una sfumatura del tutto specifica quando è espressa come
un «dare alla luce» - dalle risonanze materne - «mediante una
Cfr. Batten.
Parola di verità» (1,18). Il Dio «padre degli orfani e protettore
delle vedove» (Sai 68,6), che nella Scrittura si manifesta come
giudice imparziale che vuole immuni da qualsiasi parzialità i
membri del suo popolo (Gc 2,1-11), manifesta storicamente il
suo essere e il suo agire proprio nella parola con cui dichiara e
realizza definitivamente l’«elezione» dei più fragili invece che
dei più forti (2,5), ribaltando così i parametri di giudizio del
«mondo». In linea anche con gli sviluppi teologici più recenti
degli scritti sapienziali (Sir 24; Sap 9), il teocentrismo di G ia
como si esprime quindi in una vera teologia della Parola, insie
me profetica e sapienziale, che presuppone però la novità
dell’annuncio evangelico e messianico del regno.19 La «Parola
di verità» nella quale Dio si manifesta fino in fondo come Pa
dre, per il «noi» dei credenti non è più soltanto quella creatri
ce e quella profetica, ma quella evangelica (Mt 5,3 / / Le
6,20.24; lCor 1,26-31). La paternità di Dio che loro sperimen
tano non è più soltanto quella che gli appartiene come Crea
tore, ma quella che esprime un suo preciso atto di «volontà» o
progetto realizzato mediante una nuova generazione. Essa ri
guarda allora in modo nuovo il «noi» dei credenti, destinati,
per immenso dono, a essere davanti a Dio e al mondo «primi
zia» di una nuova creazione e, dunque, preannuncio e insieme
manifestazione del mistero della vera regalità di Dio sul mondo.
«Giudice» unico e uno nel suo parlare (Gc 2,8-11; 4,12; 5,9),
Egli è colui che dà «compimento» all’umile perseveranza dei
credenti (4,6; 5,11) e si rivela, proprio in essa, «ricco di com
passione e di misericordia», artefice di un giudizio «regale» che
19 Giustamente K onradt, 630 sottolinea che la Lettera ha una «teologia centrata
sulla Parola». Non è la sapienza ma la Parola «la grandezza centrale» (631). In questo,
la linea di riflessione portata avanti da Giacomo non è lontana da quella seguita
nell’ambiente giovanneo. D ’altra parte, nel contesto della Lettera, la Parola/Logos di
cui parla Giacomo «non rimanda semplicemente... alla rappresentazione dell’espres
sione creatrice di Dio, così come è evocata nel libro della Genesi, ma, proprio come
il volto umano di Gesù, essa evoca essenzialmente il suo insegnamento sulla terra,
realmente creatore dell’uomo nuovo» (AssaéL- C uvillier, 91).
inverte le sorti del mondo, costituisce eredi del regno i «pove
ri» che lo amano (2,5) e suscita nelle creature la sua stessa ca
pacità di compassione, perdono e fedeltà (Sap 12,13-19; Mt
5,43-48).
3.2. Il nucleo primario della cristologia
e Vermeneutica della Legge
Senza la proclamazione escatologica delle beatitudini evan
geliche e indipendentemente dalla rivelazione della «gloria»
regale del Signore Gesù nella risurrezione (Gc 2,1), questa com
prensione certa e radicale dell’inversione delle sorti operata da
Dio (1,9-11.12; 2,5) e del «compimento» riservato alla passione
del «giusto» non sarebbe stata possibile. Dal trasferimento alla
persona di Gesù Cristo del titolo «Signore» (1,1; 2,1), che spet
ta a Dio (3,9), dipende il modo nuovo e sicuro con cui Giacomo
riannuncia la Parola della Legge, dei profeti e dei sapienti. Il
discernimento sapienziale e il giudizio profetico, che si espri
mono nel ribaltamento dei parametri di valutazione del mondo
e nello smascheramento dell’idolatria, hanno per lui necessaria
mente la forma dell’annuncio evangelico e della professione di
fede messianica. Ed è appunto caratteristica peculiare e ricca di
potenzialità ermeneutiche della teologia di Giacomo quella di
porsi tra la memoria e l’uso della tradizione delle parole di G e
sù e le prime ed essenziali formule di fede cristologiche («Gesù
è il Signore»). Muovendo, dunque, dalla professione di fede in
Gesù, «Cristo» e «Signore», non in direzione di uno sviluppo
cristologico, ma al recupero della sua predicazione etica ed esca
tologica e, dunque, a una rinnovata proclamazione evangelica
delle esigenze del regno in vista della «parusia del Signore»
(5,7-8), Giacomo rilancia su nuove basi la professione di fede
giudaica e la centralità della «Parola-Legge» che attende di es
sere «fatta», avvicinandosi moltissimo con la sua etica radicale
e unificante a quella di Gesù espressa da Matteo (Mt 5,17-20.21-
48; 7,1-5.7-11.12-27). L’annuncio dell’instaurazione messianica
ed escatologica del regno - conferma radicale dell’azione salvi
fica di Dio a cura e riscatto degli oppressi - lungi dallo scalfire
l’unicità di Dio e l’unità vincolante della sua Legge, le riafferma,
dando alla Legge la novità del suo integro realizzarsi umano in
Gesù, Signore della gloria: «nel periodo interinale che conduce
alla nuova età... si può esigere perfezione nell’osservanza della
Torà i cui comandamenti, riassunti nella tradizione giudaica,
sono specifici, concreti e comunitari e indicano inoltre la natu
ra dell’età messianica».20
Nel Nome di Gesù, velatamente richiamato (2,7; 5,14), G ia
como trova quindi lo spazio per tanti altri nomi e modelli di
integrità della Scrittura (Abramo, Raab, i profeti, Giobbe, Elia
e ogni «giusto»). Gesù, per l’autore, è il «Signore» più che un
modello; ma il semplice riconoscimento della sua signoria -
così radicale da rendere talvolta difficile al lettore capire se i
titoli «Signore» e «giudice» siano da riferirsi a Dio Padre piut
tosto che a Gesù (5,7.8.9.15) - pone, fino in fondo e consape
volmente, i credenti in tensione o in posizione escatologica e
in dialogo con tutti i giusti che li hanno preceduti. Non è loro
sottratto lo spazio della «prova» (1,2-4.12.13-15; 5,7-11) e
dell’«agire» secondo la Parola (1,22-25) che condividono con
costoro (2,14-26), ma è loro aperta l’esperienza viva del regno
in cui si proclama senza smentite il compimento delle promes
se di Dio (5,11.17-18). Tra la professione di fede messianica e
il recupero della predicazione evangelica si dà dunque la pos
sibilità anche per altre categorie che hanno una straordinaria
valenza teologica e una radicata tradizione biblica: la Parola,
divenuta «impiantata» (1,21); la Legge ricondotta alla sua uni
tà originaria nella volontà fedele del Santo che la pronuncia
(Lv 19) e ne chiede l’attuazione compiuta nella logica «regale»
20 Chester - Martin, 55.
e «liberante» dell’amore (Gc 1,25; 2,1.8-11.12-13; 4,1-2; 5,12);
la Sapienza, oggetto di preghiera (1,5-8), dono dall’alto per
resistere nella prova, capace di dare forma e bellezza alla vita
concreta (3,13-18). La cristologia non ha assorbito tutte le ca
tegorie e Giacomo le articola facendole interagire con larghez
za e libertà, garantendone l’unità nel tempo-spazio dell’incon
tro tra Dio e l’uomo che è l’evento della nuova alleanza. Eco
tersa e liberante delle Scritture di Israele, la Lettera di Giacomo
conferisce, in tal modo, spessore antropologico e profondità
teologica ai suoi imperativi così sobri di espliciti riferimenti
cristologici, ancorando e radicando solidamente il dono gratui
to della rigenerazione e della salvezza (1,18-21) nella «verità-
fedeltà» di Dio, Creatore e Padre (1,17-18), e nella verità
dell’uomo fatto a sua immagine (3,9) e chiamato, perciò, alla
sua stessa integrità e unità («perfezione»: Gc 1,4; Mt 5,48).
Alla luce di questo solido radicamento va compresa anche
l’apparente tensione tra Paolo e Giacomo in rapporto all’er
meneutica della Legge. Il «Vangelo» paolino della salvezza non
dà vita a una comunità di fede senza radici, al contrario le
dona a chi ne manca (Rm 11,16-18) nel mistero della sapienza
di Dio, che, «manifestato mediante le Scritture profetiche» (Gc
16,26 e 1,2) e testimoniato dalla Legge e dai Profeti (3,21), si
rivela pienamente in Cristo crocifisso e risorto «fine-compi
mento» di tutta la Legge (10,4). Né più né meno che dalla
linfa di queste stesse radici evangelicamente comprese, o
dall’ascolto obbediente dell’unica «Parola di verità» che ha
potere di salvare (1,21), Giacomo aspetta ogni possibile matu
razione della vita di fede dei credenti indirizzando il loro sguar
do verso il «fine-compimento» che l’unico Signore riserva a
coloro che lo amano (5,11 e 2,5). Letti insieme nel contesto
canonico e ciascuno nella globalità delle proprie posizioni, ir
riducibili a singoli testi o affermazioni,21 Paolo e Giacomo pos
21 L.-T. J o h n s o n , 63-64.
sono sempre stimolare una feconda ermeneutica «cattolica»
dello statuto esistenziale dei credenti in Cristo: l’affermazione
della «sola fede» - contrassegno equivocato della tradizione
paolina (Rm 3,21-28; 4,2-3; G al 2,16) - non può stare essa
stessa «da sola»;22 implica necessariamente l’appello a una vita
redenta, quella di cui Giacomo, non diversamente da Paolo del
resto (Rm 6; Gal 5,6), si occupa in modo mirato e illuminante,
trattando problemi diversi da prospettive differenti e additan
do ai suoi destinatari ambiti e aspetti concreti, potenzialmente
universali e permanentemente validi, di una vita di fede impre
gnata dal rapporto di amicizia con Dio e dal rifiuto delle logi
che mondane (Gc 2,23; 4,4).
3.3. Comunità, etica e discernimento evangelico
Il tempo-spazio nuovo, messianicamente fondato ed escato
logicamente contrassegnato, è, infine, quello della vita fraterna,
della costruzione della comunità. Poggiando, come su roccia
salda, su un’appartenenza riconosciuta (1,1.18; 2,1.5), Giacomo
si muove per costruire il cammino comunitario e per formula
re su di esso il limpido giudizio della fede. La sua Lettera ha
in questo senso un’originaria funzione «critica», impregnata
com’è dai temi e dalla prospettiva del «giudizio». Si potrebbe
definirla, anzi, la Lettera del discernimento ecclesiale, finaliz
zata a verificare il carattere autenticamente evangelico della
vita concreta dei credenti al duplice vaglio delle «prove» e
della parola della fede. Comprensibile sullo sfondo del mono
teismo e del conseguente dualismo profetico sopra richiamati,
nel discernimento operato da Giacomo vibra l’esigenza di
un’integrità limpida, che non lasci spazio ad alcuna «doppiez
za» o scissione nei singoli e dunque anche nelle comunità: nel
22 Wall, 48.
sentire, nel giudicare, nel parlare, nell’agire. U linguaggio della
«perfezione» - che sia predicato della Legge (1,25), dell’opera
della pazienza (1,3) o degli stessi credenti (1,4; 3,2) - indica
fondamentalmente questa piena integrità che è propria di Dio,
volto della sua santità (Mt 5,48). È alla sua integrità che i cre
denti sono chiamati a conformarsi nel sentire, nel parlare e
nell’agire. Posta davanti ai loro occhi come meta e, insieme,
come criterio di esistenza, tale integrità non significa altro che
la radicale adesione alle esigenze dell’amore unificante dell’uni
co Dio. Per il «Giacomo» della comunità-madre gerosolimita
na, essa deve tradursi, in particolare, nell’integrità delle rela
zioni paritarie tra «fratelli», presentate nel libro del Deutero
nomio come meta di una comunità che ha assim ilato in
profondità le esigenze dell’alleanza, vincendo nel proprio seno
ogni forma di violenza e di stratificazione in classi (Dt 10,12-22;
15,4-6.11; At 2,42-47; 4,32-37).
Non è un caso, dunque, che, pur ispirandosi di continuo
all’insegnamento dei sapienti e attingendone le forme, Giaco
mo non usi mai la metafora paterna per indicare il rapporto
vitale all’interno del quale trasmettere la «sapienza» e si attesti
sempre, invece, su una relazione simmetrica, di uguaglianza,
rivolgendosi ai destinatari come a «fratelli». L’appellativo ripe
tuto realizza già quello che comanda, determinando l’identità
fraterna dei membri delle comunità. Nei diversi ambiti della
vita essi devono tradurre tale identità senza ipocrisia: nel rap
porto con i potenti della società, in quello tra ricchi e poveri
all’interno della comunità, nell’uso della parola - ambito an
tropologico ed etico privilegiato da Giacomo perché partico
larmente atto a riflettere o a tradire la «Parola di verità» salvi
fica - nell’esercizio della leadership, nel sostegno di tutti i de
boli. Contro ogni atteggiamento superbo e altero che impedisce
questa apertura relazionale fraterna nella fedeltà all’alleanza e
alla Parola «impiantata», Giacomo si scaglia perciò a più ripre
se, richiamando il grido profetico contro l’ingiustizia e Top-
pressione che alberga in mezzo al popolo di Dio (Gc 2,4; 4,7-
10; 4,13-17; 5,1-6). La sua consapevolezza, tuttavia, va anche
oltre questo grido profetico. Pur assumendolo pienamente egli
sa, e invita i suoi «fratelli» a riconoscere, che dalla preghiera
efficace del «giusto» paziente dipende il «frutto della terra»
(5,16-18) e che la cura reciproca tra fratelli ha il potere di sal
vare e «coprire» il peccato cancellandone gli effetti e arginan
done il corso (5,19-20). La forza salvifica della Parola impian
tata si manifesta, infatti, proprio in questa forma integra e ri
sanante di relazione fraterna. Le «dodici tribù che sono nella
diaspora» possono vivere in questa luce, già nel presente,
l’esperienza della restaurazione escatologica resa possibile dal
Signore «ricco di compassione e misericordioso».
Volta a sostenere e a illuminare il cammino concreto delle
comunità alla luce del compimento messianico ed escatologico,
la teologia di Giacomo ruota, dunque, fortemente attorno a
temi di natura etica e di etica comunitaria. E, tuttavia, il suo
centro non sta nell’etica ma nella professione di fede monotei
stica e cristologica che governa tanto l’etica quanto l’ecclesio
logia, per altro poco sviluppata.23 Il riconoscimento dell’unico
Signore, così come si manifesta storicamente Padre dei poveri
in Gesù Cristo Signore della Gloria, governa tutta la sua argo
mentazione. Esso implica per i credenti - singoli e comunità
- un cammino di unificazione e integrazione sempre più pro
fondo e direttamente proporzionale alla loro capacità di collo
carsi nell’orizzonte del compimento escatologico dell’agire di
Dio. Su questo sentiero di «beatitudine» Giacomo li attrae
mediante la proclamazione di una Parola di verità - unica e
insieme dalle molteplici risonanze - verso la quale chinarsi con
amore e nel cui ascolto attivo perseverare tra le prove nella
certezza del «compimento del Signore».
2> Cfr. anche McK night, 39-46.
346
Bibliografìa
ASSAEL J. - CuviLLIER É., L’Épitre de Jacques, Labor et Fides, Genève
2013.
BATTEN A., «G od in thè Letter of James: Patron or Benefactor?», in
J.H . N e y r e y - E.C. S tew art (edd.), The Social World of thè New
Testament. Insights and Models, Hendrickson Publishers, Peabo-
dy (MA) 2008,49-102.
B a u ckh a m R., James, Routledge, London - New York 1999.
B o t t in i G.C., Giacomo e la sua lettera. Una introduzione, Franciscan
Printing Press, Jerusalem 2000.
CARGAL T.B., Restoring thè Diaspora. Discursive Structure and Purpo-
se in thè Epistle ofJames, Scholars Press, Atlanta (GA) 1993.
DlBELIUS M., DerBriefdes Jakobus, Vandenhoeck und Ruprecht,
Gòttingen 121984.
FABRIS R., Lettera di Giacomo. Introduzione, versione, commento,
Dehoniane, Bologna 2004.
K a m e l l M., «The economics of humility: thè rich and thè humble
in Jam es», in B.W. LONGENECKER - K.D. LlEBENGOOD (edd.),
Engaging economics: New Testament scenarios and early Christian
reception, Eerdmans, Grand Rapids (MI) 2009,157-175.
KLOPPENBORG J., «The Reception of thè Jesus Tradition in James»,
in J. SCHLOSSER (ed.), The Catholic Epistles and thè Tradition, Leu
ven University Press, Leuven 2004, 93-141.
KONRADT M., «La Lettera di Giacomo», in M. E b n e r - S. SCHREIBER
(edd.), Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia
2012,618-636.
FI artin P.J., James and thè Q Sayings of Jesus, JSO T Press, Sheffield
1991.
--- , James, Liturgical Press, Collegeville (MN) 2003.
JOHNSON L .- T , The Letter of James. A New Translation with Intro-
duction and Commentary, Doubleday, New York (NY) 1995.
M cK N IG H T S., The Letter of James, Eerdmans, Grand Rapids (MI)
2011 .
M a r c o n i G., La Lettera di Giacomo, Boria, Roma 1990.
Martin R.P., James, Word, Waco (TX) 1988.
MANFREDI S., «L a Lettera di Giacomo: Ispirazione anticotestamen
taria», in Ho Theologos 10(1992), 37-62.
Mussner E , La Lettera di Giacomo, Paideia, Brescia 1978.
NlCOLACI M ., Lettera di Giacomo. Introduzione, traduzione e com
mento, San Paolo, Cinisello Balsamo 2012.
PAINTER J., Just James. The Brother o f Jesus in History and Tradition,
University of South Caroline Press, Columbia (SC) 2004.
P ist o n e R., «Giobbe, profeta paziente e ilxéXog Kopiou: Gc 5,7-20
e il “Testamento di G iobbe”», in Rivista Biblica 59(2011), 5-28.
PUECH E., «L a lettre de Jacques et Qumràn», in Rivista biblica
59(2011), 29-55.
TAYLOR M.E. - G uthrie G.H ., «The Structure of James», in Catho-
licBiblical Quarterly 68(2006), 681-705.
VERSEPUT D.J., «Genre and Story: The Community Setting of thè
Epistle of James», in CatholicBiblical Quarterly 62(2000), 96-110.
Wachob W.H., The Voice o f Jesus in thè Social Rhetoric o f Jam es,
Cambridge University Press, Cambridge 2000.
PRIMA LETTERA D I PIETRO
1. Questioni storico-letterarie
La Prima lettera di Pietro, conservata parzialmente in quat
tro papiri1e integralmente nei principali codici onciali del IV-
V secolo (Vaticano, Alessandrino, Sinaitico), al contrario della
Lettera di Giacomo fu recepita senza esitazioni nella chiesa
antica come testo autenticamente petrino. Secondo Eusebio fu
riconosciuta e usata dagli anziani, come da Papia (Storia della
chiesa 3,39,17), quale testo indisputato (Storia della chiesa 3,3,1
e 4). Stranamente assente dal Canone muratoriano, potrebbe
essere stata utilizzata già da Clemente di Roma (cfr. 1 Clemen
te 1,1 e lPt 1,1-2; 30,2 e Pr 3,34 citato in Gc 4,6 II lP t 5,5;
49,5 e lP t 4,8 II G c 5,20) e sicuramente lo fu da Policarpo di
Smirne (Lettera aiFilippesi 1,3 e lP t 1,8; 2,1 e lP t 1,13.21; 8,1
e lP t 2,22.24). 2Pt 3,1 la presuppone ed è citata esplicitamen
te da Ireneo (Contro le eresie 4,9,2; 4,16,5; 5,7,2).
1.1. Datazione, destinatari e autore
La diffusione e considerazione di cui il testo godette sin
dagli inizi del II secolo costituisce un terminus ante quem per
la sua datazione: la Lettera deve essere stata composta entro
1?p72 (III/IV secolo: 1,1-5,14), (VII secolo: lacunosi i cc. 1,2 e 3), *PS' (IV se
colo: 2,20-3,1.4-12), gV25 (III/TV secolo: 1,23-2,5.7-12).
la fine del I secolo d.C. Più difficile, invece, è stabilire un
terminus post quem: se fosse realmente stata scritta dall’apo
stolo Pietro, col quale il mittente si identifica nel prescritto
(1,1), allora la sua redazione non potrebbe essere posteriore
alla data del suo martirio entro la metà del 60. Tuttavia, le
prove a favore del carattere pseudepigrafo del testo sono for
ti, anche se non certo con un «peso schiacciante» come giu
dicano alcuni studiosi:2
- nei saluti finali (5,13), il luogo d'origine della Lettera sembra
essere Roma, appellata simbolicamente col nome sferzante di
«Babilonia» nei testi giudaici o giudaico-cristiani solo dopo la
conquista di Gerusalemme e la distruzione del tempio nel 70
d.C. (Ap 14,8; 16,19; 17,5; 18,2.10.21; 2 Baruc 11,1-2; 67,7; 4
Esdra 3,1-2);
- le esortazioni rivolte ai «presbiteri», incaricati della cura «p a
storale» delle comunità e probabilmente retribuiti per il loro
servizio (lP t 5,2), e quelle ai «più giovani» cui viene chiesta
sottomissione (5,1-4), fanno pensare a strutture intra-ecclesiali
più prossime a quelle rappresentate nei testi dell'ultimo quarto
del I secolo (At 20,28; lTm 5,17-18; Tt 1,5-8);
- l'uso consapevole, elegante e colto della koinè, con oltre cin
quanta hapax neotestamentari, fino anche alla creazione di ter
mini composti non attestati precedentemente in greco,3 le cita
zioni dell'Antico Testamento tratte usualmente dai Settanta
nonché la maestria nell'interpretazione del testo biblico secon
do le regole del pesher tematico (lPt 1,10-12; 2,4-10),4 depon
gono a favore di uno scrittore giudeo-cristiano che «non igno
ra l'aram aico» ed è «profondam ente pervaso di tradizioni
palestinesi»,5 ma che conosce troppo bene il greco per essere
2 Cfr., per esempio, GlELEN, 643.
3 Cfr. aprosdpolemptóSy «con imparzialità», in 1,17; artigénnetos, «appena nato» in
2,2; allotriep/skopos, «uno che osserva/spia altri», in 4,15; sympresbyterosy«co-anzia
no », in 5,1; syneklektéy «co-eletta», in 5,13.
4 PUECH, «La P r e m iè r e » , 501-505.
5 Ivi, 524.
identificato col Pietro di Betsaida (cfr. At 4,13). Il riferimento
nei saluti finali a Sila/Silvano (lPt 5,12: «Vi ho scritto... attra
verso Silvano»), nel quale potrebbe essere riconosciuto il lato
re piuttosto che l’estensore del testo, non risolverebbe comun
que il problema anche se Silvano si considerasse il redattore
reale del messaggio petrino.
L’ago della bilancia, allo stato attuale della ricerca, mi sem
bra pendere quindi a favore di quanti ritengono che la Lettera
sia stata scritta da Roma tra il 70 d.C e i primi anni del 90 d.C.
(periodo nel quale, stando alla testimonianza di Plinio il gio
vane governatore romano nella Bitinia e nel Ponto tra il 111-
113, erano cominciate le defezioni dei cristiani dalla loro fede:
Lettere 10,96) e sia una testimonianza emblematica della capa
cità della chiesa di Roma di elaborare una sintesi profonda e
originale di tradizioni diverse e di esercitare e rappresentare,
nel segno di Pietro apostolo, la sua cura verso le altre chiese
appartenenti all’unica «fraternità che è nel mondo» (lPt 5,9).6
Con maggiore precisione, invece, possono essere identifi
cati geograficamente e sul piano socio-religioso i destinatari
del testo che, secondo il prescritto (1,1) sono «stranieri sog
giornanti {pareptdèmoi) nella diaspora del Ponto, della Gala-
zia, della Cappadocia, dell’Asia e della Bitinia». Si tratta di
regioni appartenenti alle province romane dell’area settentrio
nale dell’Asia minore, elencate in un ordine che va da nord-est
(Ponto) a sud-ovest (Galazia, Cappadocia e Asia) per ritorna
re a nord-ovest (Bitinia), plausibilmente secondo l’itinerario
che avrebbe fatto il latore della Lettera. Si tratta, altresì, di
zone in cui - eccezion fatta per la Galazia e l’Asia - il primo
annuncio evangelico non doveva essere stato portato da Pao
lo (At 16,7) ma da giudeo-ellenisti provenienti da Gerusalem
me (At 2,9).
6H orrell, 50-51.
La conoscenza e l’apprezzamento profondo delle Scritture,
dei privilegi e delle categorie teologiche tipiche del giudaismo
che la Lettera presuppone nei destinatari (lPt 1,10-12.15-16.19-
20; 2,3-10; 2,21-25; 3,5-6.10-12.18-22; 5,13), appellati «stranieri
e pellegrini» (2,11) residenti in «diaspora» (1,1) da un Pietro che
li saluta da una «co-eletta» comunità collocata anch’essa simbo
licamente in terra d’esilio (Babilonia, 5,13), spinge quindi a ri
tenere che i destinatari dovessero avere in parte un’origine giu
daica e che, benché forse convertiti in (buona?) parte dal paga
nesimo (1,14.18; 2,10.25; 3,6; 4,3-4), dovessero comunque
essere venuti a contatto con Pevangelo attraverso il giudaismo o
avere avuto una catechesi d’impronta fortemente giudaica7. Se,
poi, dietro il nome simbolico di Babilonia si riconosce la città di
Roma è ragionevole pensare che le chiese dell’Asia settentriona
le destinatarie della missiva condividessero con la chiesa di Ro
ma la stessa matrice giudaica e gerosolimitana (At 2,10). La fi
gura di Pietro, rappresentante anzitutto della predicazione e
tradizione gerosolimitana, poteva costituire un’autorità per en
trambe le aree credenti. Pietro, infatti, è descritto in modo sin
golare nella Lettera come «co-anziano», membro cioè di un
presbiterio giudeo-cristiano, «testimone (màrtys)» delle sofferen
ze di Cristo e «partecipe (koinonós)» della sua gloria di prossima
rivelazione (lPt 5,1): dunque, confessore integro del kerigma e
corresponsabile; con gli altri «anziani» del mandato pastorale di
Cristo «pastore capo (archipotmen)» (5,4; cfr. Gv 21,15-19).
D all’accento costante posto sulle sofferenze (pàscho,
pathemata) di Cristo (lPt 1,11; 2,21-23; 3,18; 4,1.13; 5,1) e dei
credenti (2,19-20; 3,14.17; 4,12-13.15.19; 5,910), si può anche
dedurre che i «cristiani», ormai riconoscibili con questo pre
7 Questa era anche la convinzione di Eusebio, che riteneva 1 Pietro indirizzata agli
ebrei della diaspora (Storia della chiesa 3,4,2), e di Girolamo (Gli uomini illustri 1)
secondo il quale «Simon Pietro... principe degli apostoli, dopo l’episcopato della
chiesa di Antiochia» aveva predicato «alla diaspora di quanti avevano creduto dalla
circoncisione, nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia e nella Bitinia».
ciso nome nel loro contesto sociale (4,16; At 11,26; 26,28), pur
appartenendo a nuclei domestici in cui i padroni o i mariti
potevano essere non credenti (lP t 2,18-3,2), avevano comin
ciato a dissociarsi dalle pratiche licenziose e idolatriche attri
buite ai pagani (4,3-4) e potevano essere malvisti (2,12; 3,16),
sperimentare varie forme di ostracismo sociale ed essere espo
sti ad azioni giudiziarie (3,13-17), forse anche per il rifiuto del
culto imperiale, «dimostrazione cultuale di lealtà» verso l’im
pero romano che per i cristiani restava una «soglia invalicabile»
(in 2,13.17 il «re» e i «governatori» locali sono «creature uma
ne»; il Kyrios è solo Dio con il suo Cristo).8
1.2. Genere letterario e scopo della Lettera
I versi iniziali e finali offrono l’indicazione più sicura per
definire il genere letterario di 1 Pietro: si tratta di una lettera
circolare «scritta con poche parole per esortare e attestare» che
la condizione dei «chiamati» (5,10) ed «eletti» da Dio in Cristo
(1,1), pur se in stato di sofferenza temporanea, «è la grazia
vera di Dio» in cui i destinatari possono e devono «stare» sal
di sentendosi al sicuro anche nella «prova» (5,12; cfr. 1,6; 4,12).
Il testo, dunque, è una vera e propria lettera con una duplice
finalità pastorale: sostenere i «cristiani» nella sofferenza che
stanno affrontando a causa della loro obbedienza credente e
della «coscienza che essi hanno di D io» (2,19); confermarli e
rassicurarli sul fatto che la loro condizione è una condizione
di «grazia» e di elezione (2,19; 5,12) che li prepara alla «rive
lazione» piena di Gesù Cristo (1,7.13; 4,13). Benché forestieri
e stranieri nel mondo come minoranza, «vicina e dissimile allo
stesso tempo dai giudei della diaspora»9 e in posizione sociale
8 G ielen, 647-648.
9 PUECH, «La Première», 497.
inferiore e disprezzata, essi possono considerare l’appartenen
za alla «fraternità» dei credenti come esperienza di una «casa
spirituale» (2,5; 4,17) e la «rigenerazione» battesimale vera
fonte di identità (2,2).
Per raggiungere questo scopo e comunicare ai destinatari il
suo messaggio cristologico di speranza e di conforto, l’autore
ricorre a tradizioni e, forse, anche a materiali letterariamente
autonomi e formalmente diversi tra loro: frammenti innici di
origine liturgica (1,18-21; 2,21-25) e battesimale (3,18-22) uni
ti, o talvolta inframmezzati ad arte, a brani di sapore omiletico
(si veda in 1,4 il passaggio dal «noi» liturgico-confessionale al
«voi» omiletico) e a schemi catechetici e parenetici.101La ric
chezza delle tradizioni e dei materiali utilizzati non rende però
necessarie ipotesi complicate sulla genesi letteraria del testo,
come quelle che vedrebbero in 1 Pietro originariamente
un’omelia (o, addirittura, un rituale) battesimale:11 l’unità stili
stica, la continuità tematica e la serrata coerenza argomentativa,
teologica e pastorale della Lettera depongono a favore della sua
unità letteraria e confermano la natura autenticamente episto
lare del testo individuabile già dalla sua struttura formale.
L’immagine dell’esistenza in diaspora, usata nella Scrittura
tanto per indicare la condizione originaria di Abramo e dei
padri quanto quella del popolo esiliato in Egitto o in Babilo
nia, apre (1,1-2), attraversa (1,17; 2,11) e chiude la Lettera
(5,9.13) e permette ai destinatari di dare un preciso senso so-
teriologico ed escatologico alla loro condizione critica nella
società: partecipi della sorte di Abramo, connessa originaria
mente alla sua chiamata, essi sono anche la «comunità escato-
10 Si veda l’invito in 2,1-2 a «deporre» la malvagità o in 2,11-12 ad «astenersi»
dalle passioni; 2,13-17; 2,18-3,7; 5,1-7: indicazioni relative alla vita in società, nel
nucleo domestico o nella comunità introdotte dall’invito a «sottomettersi a».
11 Si veda la discussione delle diverse ipotesi in CHESTER - MARTIN, 120-128 e, per
la ricchezza delle tradizioni liturgiche e catechetiche sottese alla lettera, Selwyn, 17-24;
364-466, e l’articolo di Vanhoye.
logica dell’esodo»12 chiamata a «cingersi i fianchi della mente»
per rispondere alla chiamata del Santo (1,13-16; 2,9-10). In
trecciando continuamente l’esortazione all’elaborazione rifles
sa dell’annuncio cristologico, l’autore dà quindi corpo al suo
messaggio di fondo: le prove che i credenti stanno affrontando,
impegnandosi a vivere con discernimento e responsabilità co
me creature nuove rigenerate dalla parola del Vangelo (1,3.23-
25; 2,2), non sono che una partecipazione alla passione di
Cristo, il giusto e l’eletto per antonomasia (2,4-6.21-24; 3,18),
gravida della speranza che viene dalla sua risurrezione (1,3.21;
3,21-22); al contempo, sopportate senza venire meno alla giu
stizia, esse non sono che l’anticipazione del giudizio purifi
catore di Dio iniziato proprio dal suo stesso tem pio/«casa»
(4,17-19).13
1.3. Struttura letteraria
Alla situazione dei destinatari, cui si rivolge mostrando so
lidarietà e cura (la stessa che egli assicura loro da parte di Dio:
5,7), l’autore risponde mettendo in atto una strategia comuni
cativa che è ben rispecchiata dalla struttura del testo. Elabora
zione del kerigma e parenesi costituiscono i pilastri su cui si
regge la sua architettura. Il corpo - tra il prescritto (1,1-2) se
guito dall’esordio (1,3-12) e i saluti finali (5,12-14) - si può
suddividere in tre parti distinguibili formalmente dal ripetersi
del medesimo appellativo, assente dal resto della Lettera, con
cui in 2,11 (« C arissim i, come forestieri e stranieri vi esorto...»)
e 4,12 (« C arissim i, non stranizzatevi per l’incendio divampato
tra voi...») vengono introdotti progressivamente nuovi svilup
pi argomentativi. Se la prima parte del corpo della Lettera
12G oppelt, 545-546.
13Cfr. D.E. J ohnson.
(1,13-2,10) si concentra sulla definizione teologica dello status
identitario dei credenti in Cristo, la seconda (2,11-4,11) indica
i criteri di fondo e le modalità con le quali essi sono chiamati
a tradurre la loro identità battesimale nel concreto di un’esi
stenza da vivere all’interno di una società «estranea», mentre
la terza (4,12-5,11) insiste maggiormente sul significato teolo
gico ed escatologico della sofferenza dei credenti e sul modo
corretto di affrontarla vivendo coerentemente la fede nell’espe
rienza della fraternità cristiana.
2. Linee teologiche
Caratteristica complessiva della costruzione teologica di
1 Pietro è il suo essere frutto di una consapevole elaborazio
ne del kerigma alla luce delle Scritture profetiche (1,10-12),
condotta nel solco delle tradizioni interpretative giudaiche14
e capace di tesaurizzare e sfruttare in modo creativo, in vi
sta dei destinatari e alla luce delle domande sollevate dalla
loro concreta condizione storica e sociale, diverse tradizioni
neotestamentarie: gesuane,1516paoline,lé giovannee17 nonché
espressioni e temi presenti specificamente nella Lettera di
14 Si vedano, per esempio, la rilettura cristologica ed ecclesiologica di tre testi
apparentati dal termine «pietra» in 2,4-10 e lQ a Regola della comunità 8,5-8; 4Q174
Florilegio 3,6-7 oppure il recupero in termini cristologici e battesimali delle tradizioni
bibliche e giudaiche sul diluvio e sul giudizio degli «spiriti in prigione», cioè gli ange
li ribelli, in 3,18-4,6 e 1 Enoc 6-36; 106,13-17. Cfr. P uech, «La Première», 505-523.
15 lPt 2,12 e Mt 5,16; 3,9 con Mt 5,44 / / Le 6,27-28; lPt ,14 e 4,13 con Mt 5,10-12
/ / Le 6,22-23.
16 Cfr. i contatti nel formulario tra lP t 1,3-12 e 2Cor 1,3-4; E f 1,3-14; lPt 1,14 e
Rm 12,2; il rapporto con la società in lPt 2,13-17; 3,9 e Rm 12,14.17-21; 13,1-7; lTs
5,15; l’espressione tipicamente paolina «in Cristo» presente in lPt ,16; 5,10.14; i co
dici domestici condivisi con Col 3,18-4,1 ed E f 5,21-6,9; l’esperienza dei carismi all’in
terno delle comunità in Rm 12,3-8; ICor 12-14 e lPt 4,7-11.
17 Cfr. l’immagine della rigenerazione in lP t 1,3.23 e Gv 3,3-8; la relazione tra il
gioire e il credere e amare pur senza avere visto in lPt 1,6-9 e Gv 16,20-22; 20,20.29;
quella di Pietro corresponsabile nel «pascere il gregge di Dio» in lPt 5,2 e Gv 21,15-19.
Giacomo.18A partire dallo studio pionieristico di Ora Delmer
Foster,19 l ’analisi delle relazioni tematiche e letterarie di
1 Pietro con gli altri scritti del Nuovo Testamento ha attra
versato l’esegesi del X X secolo ed è diventata un capitolo
classico delle introduzioni alla Lettera. Usando la felice
espressione di A. Vanhoye, si può ben dire che 1 Pietro «è al
crocevia delle teologie del Nuovo Testamento» e ancor più
specificamente, data la finalità pastorale dello scritto, «al cro
cevia della teologia pastorale del Nuovo Testamento».20
La costatazione delle molteplici relazioni che la Lettera in
trattiene con le altre tradizioni neotestamentarie non solo per
mette di riconoscere la sapienza teologica e pastorale sottesa
all’originale trama letteraria creata dall’autore di 1 Pietro ma
- qualunque sia la soluzione che si sceglie relativamente alla
paternità letteraria del testo - apre anche un vero squarcio sul
la capacità di un rappresentante della tradizione apostolica del
le origini (e/o della chiesa la cui voce questi fa udire) di appro
priarsi della ricchissima eredità dei giudei credenti in Cristo, di
approfondirne con grande capacità di penetrazione le implica
zioni e di applicarla in nuovi contesti di vita e con nuove fina
lità ben oltre i confini originari del giudaismo palestinese.
Su tre direttrici mi sembra si possa porre l’accento per esem
plificare l’originalità della sintesi “petrina”: quella cristologica;
quella ecclesiologica e quella etica.
a) La cristologia. Come negli Scritti giovannei e nell’Apoca
lisse in particolare (Gv 1,29.36; Ap 1,5), anche in 1 Pietro sin
dai primi versi lo sguardo dei lettori è indirizzato al Cristo in
rapporto alla sua azione redentrice. Con un semitismo, l’autore
dice infatti che essi sono «eletti... nell’aspersione del sangue di
18 lPt 1,1-2 e G c 1,1; lPt 1,3 e G c 1,16-18; lP t 1,6^9 //4,12-14 e Gc 1,2-4.12; cfr.
N icolaci, «Giacomo e Prima Petri».
19 The Literary Relations, 1913.
20 Vanhoye, 110.
Gesù Cristo» (lPt 1,2),21 del quale alla fine dell’esordio si richia
mano insieme le «sofferenze» e la «gloria» pasquali (1,11) e che
nel primo frammento cristologico innico di 1,18-21 è paragona
to a un «agnello senza macchia e difetto» (cfr. Gv 1,29; Eb
9,12.14), grazie al cui sangue prezioso i credenti sono stati «ri
scattati» dalla «condotta vana ereditata dai padri» (lPt 1,18-19).
Il suo «sangue», prezzo di redenzione, libera e consacra i cre
denti come popolo sacerdotale di Dio (Es 12,22-23; 24,8; 29,21;
Lv 8,30). Quale «pietra rigettata dai costruttori» (lPt 2,4.7; Sai
118,22; At 4,11), Cristo è il Servo giusto, senza peccato (Is
52,13-53,12), grazie alla cui sofferenza innocente, vissuta nella
piena fiducia in Dio giusto giudice e in favore dei peccatori, i
credenti sono radicalmente destituiti (apogenómenoi, bapax bi
blico) dai loro peccati (lP t 2,21-25) e messi in grado di «cam
minare sulle orme» di Gesù stesso vivendo «in lui» e come lui
la propria sofferenza innocente nella giustizia e per amore della
giustizia (2,20; 3,14; cfr. Mt 5,10). Il sangue di Cristo, dunque,
è il prezzo della loro liberazione: se, sul piano sociologico, essi
vivono l’esperienza della schiavitù rispetto a padroni non sempre
«miti» (lPt 2,18), sul piano teologico essi possono riconoscersi
riscattati ed eletti da Dio per mezzo del sangue di Cristo agnel
lo. La sua passione è condizione per il loro esodo escatologico.
La «cristologia della passione», che in 1 Pietro è presente con
un grado di concentrazione e in una «forma unica nel Nuovo
Testamento»,22 non esaurisce però la visione di Gesù: pur non
chiamandolo mai «Figlio (di Dio)» ma sempre, insistentemente,
«Cristo», per l’autore l’identità messianica di Gesù si collega
strettamente alla sua signoria (Gesù è Kyrios) che lo pone sul
piano stesso di Dio e la cui santità i credenti devono riconosce
re e venerare integralmente «nei loro cuori» anche se questo
costa loro la sofferenza (3,15). In prospettiva apocalittica ed
21 PuECH, «L a Première», 495-496.
22 G nilka , 399-400.
escatologica, l’autore guarda quindi a Gesù a tre livelli di esi
stenza: come Messia promesso e sofferente egli è «pre-conosciu-
to» da Dio «prima della fondazione del mondo» (1,20; cfr. anche
la «pre-conoscenza di Dio» in 1,2) ed è suo lo Spirito attivo nei
profeti per «pre-attestare» la sua passione e la sua gloria (in
1,10-12 si parla dello «Spirito di Cristo»); come uomo storico è
colui che «è stato manifestato alla fine dei tempi» proprio per i
credenti (1,20), che ha sofferto nel proprio corpo per i peccati
«una volta per tutte» (3,18; Eb 9,26-28) ed è «stato messo a
morte nella carne» (lP t 2,24; 3,18); come risorto, «vivificato
secondo lo spirito», egli però è Signore che, attraversati i cieli
da vero vincitore, sovrano su «angeli, autorità e potenze»
(3,19.22), condivide pienamente la «gloria» stessa di Dio, di cui
i credenti attendono la «rivelazione» piena «nel tempo ultimo»
(1,5.7.11.13.21; 4,11.13; 5,1). La sua vittoria è pegno sicuro di
quella loro e garanzia della «cura» del Dio e Padre (1,17), «crea
tore» (ktistès, hapax neotestamentario in 4,19) fedele (5,6-7).
b) Lecclesiologia. «In Cristo», eletto e giusto, i credenti han
no «grazia e pace» in abbondanza (1,2; 5,14) e, portando il
nome stesso di christianot, sono dichiarati a loro volta «eletti».
La teologia dell’alleanza, che il lessico dell’elezione sottende,
si esprime dunque attraverso l’attribuzione ai credenti del ti
tolo di «popolo di Dio» edificato, sulla pietra angolare che è
Cristo, in tempio escatologico (2,4-10). Rigenerati a una spe
ranza viva mediante la parola del vangelo in forza della risur
rezione di Gesù (1,3.23-25), sono il popolo di cui il Dio santo
ha preso possesso (Es 19,3-6; Lv 19,2; lP t 1,14-16; 2,9). Essi,
dunque, si distinguono da tutti gli altri uomini (2,8; 4,17) pro
prio per la loro risposta di fede e di obbedienza alla Parola
evangelica: sono «figli di obbedienza» che si sono lasciati alle
spalle l’«ignoranza di un tempo» (1,14) e che, radicati nell’ob
bedienza di Cristo (1,2), hanno purificato con « l’obbedienza
della verità» la loro esistenza (1,22). Il loro cammino nel mon
do, nella sequela di Cristo servo di Dio, è orientato non al
possesso di una terra ma a un'«eredità incorruttibile, immaco
lata e imperitura nei cieli» (1,4). Come tempio «spirituale» ed
escatologico, quindi, sono chiamati a tradurre in tutti gli am
biti della loro esistenza concreta la santità stessa di Dio che li
ha chiamati ed eletti in Cristo (1,15-16; 2,5.9; 3,5), «parteci
pando» alle sofferenze di lui come agnello senza macchia (4,13)
e vivendo nella sua stessa giustizia.
Se in rapporto a Dio i credenti sono creature, figli appena
generati, popolo santo, «servi» (2,16), casa regale e sacerdozio
santo per il culto spirituale, in rapporto al Cristo pietra ango
lare essi sono pietre vive edificate in tempio e gregge; in rap
porto allo Spirito Santo, poi, sono spazio di riposo come l’Un
to stesso di Dio (4,14; cfr. Is 11,2). Tra loro, sulla base dell’ap
partenenza a Cristo e della rigenerazione dal seme incorrutti
bile della Parola di Dio, essi condividono l’appartenenza a una
«fraternità» identificabile e distinguibile in mezzo al mondo
(lP t 2,17; 5,9), straniera in esso (cfr. già Fil 3,20) e accomuna
ta dall’esperienza delle stesse sofferenze e dalla medesima lot
ta contro ciò che nulla ha a che vedere con la santità di Dio
(lP t 1,17; 2,11; 4,1-6). Nella fedeltà dei cristiani all’unico Si
gnore e nella loro sofferenza per la giustizia sono in atto le
«doglie messianiche»:25 nel mondo è già in atto il giudizio esca
tologico e purificatore di Dio (1,17) che «non trascura la casa
di Dio, cioè il Tempio, ma inizia in essa».2324 Custoditi da Dio
«attraverso la fede» (1,5), risposta preziosa ed efficace alla sua
«grazia» salvifica (1,7.9.21; 5,9), ne sperimenteranno la cura
amorevole e fortificante (5,7.10).
c) luetica. Uno degli elementi più caratteristici della parene-
si petrina, senza paralleli nel Nuovo Testamento, è la traduzio
23 II periodo di sofferenza purificatrice che, nella prospettiva apocalittica, deve
precedere il compimento escatologico della storia salvifica.
24 G oppelt, 557.
ne etica dell’identità battesimale dei credenti attraverso la no
zione della «coscienza di Dio» (synetdisis Theoù: 2,19). Se, in
fatti, di «coscienza» come istanza di giudizio e di decisione si
parla anche in molti altri testi del Nuovo Testamento (At 23,1;
lC or 4,4; Rm 2,15; 13,5; 2Cor 4,2; 5,11; lTm 1,5.19) ed essa
viene considerata «buona/bella» (Eb 13,18; lTm 1,5.19) nella
misura in cui riflette o stimola una «condotta» conforme alla
Legge di Dio e con effetti benefici nelle relazioni con gli uomi
ni, per l’autore di 1 Pietro la misura della «buona coscienza»
(lP t 3,16.21) è il suo essere vincolata al Dio25 la cui giustizia e
il cui giudizio si sono manifestati nella passione del Servo del
quale i credenti sono chiamati a seguire le «orme» (2,21), resi
anch’essi «servi di Dio» liberi non per la malizia ma per la giu
stizia (2,13.24). Il battesimo, per loro, è proprio l’atto in cui
l’azione salvifica di Dio in Cristo si comunica al credente non
in forza di purificazioni rituali ma per l’«impegno (eperotéma,
hapax nel Nuovo Testamento con un solo corrispondente in Dn
4,14 nella traduzione di Teodozione)26 di una coscienza buona»
con cui questi si volge a Dio in forza della risurrezione di Gesù
Cristo (lPt 3,21); attraverso, cioè, l’impegno positivo o decisio
ne presa di una coscienza liberata dalla colpa e fondata sulla
speranza della vita incorruttibile che la pasqua significa.27 La
25 G oppelt, 552-553 traduce il genitivo syneidèsin Theoù come «il legame di co
scienza a Dio».
26 U sostantivo si trova, significativamente, anche nella lezione del codice Sinaitico
di Sir 36(33),3b che, invece di «e la Legge è per lui [l’uomo assennato] affidabile
come Yinterrogazione degli oracoli», ha: «e la Legge è per lui affidabile come l’assicu
razione (eperotéma) degli oracoli». Essendo, purtroppo, questo emistichio ricostrui
bile nel testo ebraico di Sir 33,3 solo per congettura (cfr. A. Minissale, La versione
greca del Siracide, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1995,79-80.82.89) non è possibi
le stabilire con certezza lo sfondo semitico del greco. Considerando, però, che il verso
appartiene alla sezione di Sir 32,14-33,6 dedicata al rapporto tra il giusto, la Sapienza,
la Legge e il timore di Dio, si può quanto meno rilevare come l’uso petrino del sostan
tivo in contesto battesimale riecheggi effettivamente la responsabilità verso la giustizia
chiesta al credente. Ciò conferma la connotazione particolarmente giudaica della vi
sione petrina del battesimo cristiano.
27 Cfr. P uech, «L a Première», 518-519.
risurrezione di Cristo, in ultima analisi, è il fondamento di
un’etica della responsabilità direttamente proporzionale alla
coscienza identitaria dei credenti: il suo criterio formale e per
manente è il traguardo escatologico segnato dal Cristo e annun
ciato dal vangelo perché tutti possano vivere spiritualmente
secondo Dio anche se condannati ingiustamente dagli uomini
(4,6); come esso debba tradursi concretamente nelle diverse
circostanze della vita e nelle diverse situazioni relazionali, que
sto dovrà essere scoperto di volta in volta dal credente che cam
mina sulle orme del giusto sofferente. Nelle relazioni sociali,
allora, la «bella condotta» sarà caratterizzata da «mitezza e ri
spetto» (3,16), dall’assenza di violenza, colpa, aggressione o
disordine perché tutti possano essere guadagnati senza parole
alla Parola (3,1); contemporaneamente, però, essa sarà una giu
stizia senza compromessi, cedimenti o conformismo rispetto ai
«propositi dei pagani» (4,3), per quanto ciò possa costare in
giusto patire. Il rapporto con la società basato sulla «coscienza
di Dio», per certi versi, è più critico di quello prospettato da
Paolo (cfr. Rm 13,1-7) anche se non è esplicitamente un rap
porto di resistenza frontale e radicale come quello sostenuto da
Giovanni di Patmos. I codici domestici petrini ne sono la tra
duzione letteraria più chiara (lP t 2,13-17; 2,18-3,7), segno di
un’«etica interinale che vive nel presente sperando nella giusti
zia divina dell’età a venire»28 senza, però, smettere di chiedere
a ciascuno di assumersene di volta in volta la responsabilità
personale. La condotta dei credenti, così, diventa «testimonian
za della nuova esistenza escatologica, perché non evita le con
dizioni di vita proprie della storia, ma vi si espone in maniera
oggettivamente adeguata».29
La formulazione della struttura teologica e antropologica
dell’etica in termini di libertà dei «servi di Dio» e di «coscien
28 Chester - Martin, 159.
29 G oppelt, Teologia, 555.
za di Dio», legata alla riscoperta delT«uomo nascosto del cuo
re» (3,4), cioè del sacrario intimo dell’esistenza umana quale
luogo dell’incontro autentico con il Dio che ha glorificato il
suo Cristo (1,21), appartiene implicitamente alla rivoluzione
religiosa operata da Gesù.30 Nella parenesi petrina, che guarda
alla comunità dei credenti come «casa di D io» in diaspora e,
perciò, a rischio di conflitto profondo con il mondo, la parola
del vangelo è «dono di un’identità personale» e determina una
«reinterpretazione della condizione dei destinatari» che, in
quanto «stranieri e pellegrini» nel mondo, «soffrono precisa-
mente per ciò che li caratterizza». La «strategia di non violen
za attiva» sarà il loro modo di manifestare la propria «dissi
denza»31 o la propria differenza, fondata non sulla consacra
zione di una qualunque morale filosofica o sociale, storicamente
determinata, ma sulla speranza viva della risurrezione di Cristo
e sul suo significato critico e profetico.
Nelle relazioni interne alla fraternità, i criteri corrisponden
ti al medesimo fondamento pasquale saranno quello di un amo
re fraterno reciproco strenuo e fedele (1,22; 4,8), fatto di umil
tà pari alla dedizione degli uni verso gli altri (5,1-5), e la dia
conia carismatica (4,7-11), capacità di «amministrare», come
si addice a economi della «casa di Dio», una «grazia di Dio
multiforme» tanto quanto le prove che i credenti devono af
frontare nel mondo (4,10 e 1,6).
Bibliografia
A c h t e m e ie r J.P ., La prima lettera di Pietro. Commento storico-esege
tico, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004.
30 Cfr. Me 7,1-23; Mt 6,1-18 e 23,1-12 (polemica contro una religiosità esteriore
priva di pienezza nel segreto in 6,8 / / 23,3; 6,1.2.5.16 / / 23,5; 6,5 / / 23,6; 6,2 / / 23,7).
Il «Padre», unico che deve vedere, è e guarda «nel segreto» (6,4.6.18 / / 23,9).
31 F. VOUGA, Il cristianesimo delle origini, Claudiana, Torino 2001,260-261.
BOSETTI E., Prima lettera di Pietro, Il Messaggero, Padova 22010.
O., The Literary Rélations of «The First Epistle of
D ELM ER F o s t e r
Peter» with Their Bearing on Date and Place of Authorship, New
Haven (CT) 1913.
DUBIS M ., Messianic Woes in First Peter. Suffering and Eschatology in
1 Peter 4:12-19, Lang, New York 2002.
G ie l e n M., «L a Prima lettera di Pietro», in M. E b n e r - S. SCHREIBER
(edd.), Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia
2012,637-650.
GOPPELT L., Teologia del Nuovo Testamento, voi. 2, Morcelliana, Bre
scia 1983.
H ORRELL D .G., «The Product of a Petrine Circle? A Reassessment
of thè Origin and Character of 1Peter», in Journalfor thè Study of
thè New Testament 86(2002), 29-60.
IOVINO R, «L a “speranza viva” nella Prima lettera di Pietro», in Ho
Theologos 23(2005), 459-470.
JOHNSON D.E., «Fire in G od ’s House: Imagery from Malachi 3 in
Peter’s Theology of Suffering (IPet 4:12-19)», in Journal ofEvan-
gelical Theological Society 29(1986), 285-294.
M i c h a e l s R.J., 1 Peter, Word Books, Waco (TX) 1988.
NlCOLACI M., «Giacomo e Prima Petrr. possibili rapporti letterari?»,
in D. CANDIDO - C. R a s p a (ed.), Quasi vitis (Sir 24,23). Miscellanea
in memoria di Antonino Minissale, Studio Teologico S. Paolo, Ca
tania 2012, 181-227.
PUECH É ., «L a Première Épìtre de Pierre et Qumràn: quelques ob-
servations sur le milieu judéo-chrétien de l’Épìtre», in Rivista Bi
blica 60(2012), 493-525.
SCHELKLE K.H., Le Lettere di Pietro e la Lettera di Giuda, Paideia,
Brescia 1981.
SELWYN R.G., The First Epistle ofSt. Peter, London 21955.
VANHOYE A., «1 Pierre au carrefour des théologies du Nouveau Te
stament», in ACFEB, Études sur la Première Lettre de Pierre, Cerf,
Paris 1980,97-128.
W e b b R.L. - B auman-Martin B J . (edd.), Reading First Peter with
new eyes: methodological reassessments of thè Letter of First Peter,
T & T Clark, London 2007.
LETTERA D I GIUDA
E SECO NDA LETTERA D I PIETRO
Entrambe conservate nel $P72 (III/IV secolo, che contiene
soltanto 1-2 Pietro e Giuda), nel $P74 (VII secolo, con soltanto
versi frammentari di 2 Pietro e Giuda) e nei codici onciali
Vaticano, Alessandrino, Sinaitico, Efrem riscritto, P, V 1, le due
Lettere vengono usualmente studiate insieme perché mostra
no una prossimità letteraria e tematica tale da indurre a ipo
tizzare un rapporto letterario diretto: la brevissima Lettera di
Giuda sembra quasi tutta contenuta nella Seconda lettera di
Pietro (in 2Pt 2,1-3,3) ed entrambe testimoniano una presa
di coscienza forte e decisa rispetto alla «fede» salvifica ricevu
ta e trasmessa («la nostra comune salvezza... la fede conse
gnata ai santi una volta per tutte»: G d 3; «la fede ricevuta in
sorte per la giustizia del nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo»:
2Pt 1,1) e alla necessità di difenderla, anche con tono forte
mente polemico, senza lasciarsi ingannare da quanti vorreb
bero coniugarla con atteggiamenti mentali e comportamenti
pratici che, nella comprensione dei due autori, costituiscono
un «rinnegamento» delT«unico padrone e Signore» Gesù Cri
sto (G d 4 e 2 P t2 ,l).
Uno specchietto può aiutare a visualizzare rapidamente i
paralleli tematici maggiori tra i due testi, nella loro rispettiva
sequenza:
1 G d 4-5.7-8 è attestata anche nel $ 7‘ (III/IV secolo).
Gd 2Pt Temi
1-2 1,1-3 prescritto (misericordia / grazia a voi e
pace... abbondino)
...
1,4-11 esordio
3 1,12-21 la «sollecitudine» di scrivere e lo scopo
della Lettera
4 2,1-3 presentazione polemica di «negatori»
della signoria di Gesù despótès
5 (1,12) necessità di «ricordare» ai destinatari ciò
che già è «saputo» da loro
5 il giudizio divino: esempio del popolo
uscito dall’Egitto
6 2,4 il giudizio divino: esempio degli angeli
decaduti
—
2,5 il giudizio divino: esempio di Noè e del
la generazione del diluvio
7 2,6 il giudizio divino: esempio di Sodoma e
Gomorra
... 2,7-8 il giudizio divino: esempio di Lot
8-10 2,10-11 applicazione alla blasfemia degli avver
sari che disprezzano gli angeli
10 2,12 stigmatizzazione degli avversari come
«animali irrazionali»
11 — l’esempio di Caino
11 2,15-16 l’esempio di Balaam
11 ... l’esempio di Core
12 2,13-14 applicazione all’arroganza degli avversari
12-13 2,17 metafore per dire l’errore degli avversari
14-15 — la profezia di Enoc riguardo al giudizio
divino
16 2,18-22 ritratto pratico degli avversari arroganti
17 3,1-2 memoria delle parole trasmesse (da apo
stoli e/o profeti)
18-19 3,3-4 annuncio di «schernitori» che appaiono
al momento escatologico
...
3,5-13 confutazione delle tesi degli schernitori
20-23 3,14-18a esortazioni finali ai destinatari («carissi
mi»)
24-25 3,18b dossologia conclusiva (teologica / cristo
logica)
Sono davvero pochi, come si può notare, i versi di Giuda
che non abbiano un corrispondente in 2 Pietro. Questa, d’altra
parte, contiene materiale assente in quella (cfr. l’esordio o la
confutazione finale delle tesi degli avversari) ed elabora in mo
do molto più articolato spunti presenti anche in quella (cfr. la
«sollecitudine» di scrivere che occupa un verso in G d 3 e un’in
tera pericope in 2Pt 1,12-21). Nonostante gli evidenti paralle
li, che nell’opinione della maggioranza degli studiosi si posso
no spiegare adeguatamente solo presupponendo una dipen
denza letteraria tra i due testi e, con molta più probabilità, di
2 Pietro da Giuda, la ricerca contemporanea tende quindi a
sottolineare le differenze e la specificità di ciascuna Lettera: le
prossimità letterarie e tematiche, infatti, non implicano neces
sariamente uno stesso sfondo storico-culturale né, tanto meno,
le stesse finalità e strategie.21
1. Questioni storico-letterarie
1.1. Pseudepigrafia e datazione delle due Lettere
Se la Lettera di G iuda viene menzionata già nel Canone
muratoriano come testo accettato nella chiesa cattolica, della
Seconda lettera di Pietro non si hanno citazioni esplicite prima
di Origene e sulla paternità petrina di quest’ultima circolavano
parecchi dubbi già nella chiesa antica (Eusebio, Storia della
chiesa 3,1,4; 25,3). Di Giuda, Girolamo affermava che, anche
se breve e caratterizzata dall’assunzione della testimonianza
dell’apocrifo libro di Enoc che avrebbe spinto la maggior par
te a respingerla, aveva «meritato autorità sia per l’antichità che
per l’uso e si considerava tra le Scritture sante» {G li uomini
illustri 4). Riguardo alle Lettere petrine, invece, notava corret
tamente che Pietro aveva scritto «due Lettere, dette Cattoliche,
la seconda delle quali i più negano che sia sua a causa della
dissonanza di stile con la prima» (G li uomini illustri 1). Nel
dibattito esegetico contemporaneo, le questioni relative all’ori
gine dei due scritti sono molto controverse se non per il fatto
che, soprattutto nel caso di 2 Pietro, l’ipotesi che si tratti di
scritti tardivi e pseudepigrafi trova il maggiore consenso.
Considerata la sobrietà dell’autoidentificazione dell’autore
nel prescritto («servo di Gesù Cristo, fratello di Giacomo»: G d
1), la sua profonda dipendenza dalle tradizioni giudaiche pe
ritestamentarie e la sua abilità nell’interpretare le Scritture se
condo le regole del pesher, il suo rifarsi alle Scritture in lingua
ebraica piuttosto che ai Settanta (cfr. Pr 25,14 in G d 12 o Is
57,20 in G d 13), come anche a 1 Enoc nella sua forma aramai-
ca (1 Enoc 1,9 in G d 14-15),3 nel caso della Lettera di Giuda
non mancano i sostenitori dell’attribuzione reale del testo al
«fratello di Giacomo» membro della famiglia di Gesù (Me 6,3
/ / Mt 13,55), benché la padronanza del greco che la Lettera
manifesta sollevi inevitabilmente, come nel caso di Giacomo e
1 Pietro, la domanda sul modo in cui un giudeo di Galilea di
origine rurale potesse acquisire tale competenza linguistica.4
Egli si distingue dagli «apostoli del Signore nostro Gesù Cri
sto», cui riconosce autorità profetica (Gd 17), ma si considera
egualmente responsabile e in obbligo, nei confronti dei suoi
3 Cfr. M a z ic h .
4 BAUCKHAM, } ude and thè Relatwes o f Jesus, 174-178. BROSEND, 183-186 ritiene
che il testo sia stato composto da Giuda fratello del Signore entro il 70 d.C per rispon
dere a una contestazione della propria autorità e difendere il proprio onore.
destinatari, quanto alla «fede trasmessa ai santi una volta per
tutte» (3). L’autore sembra derivare in qualche modo la sua
autorità da quella di Giacomo, di cui forse conosce la Lettera,
e il suo personale insegnamento presuppone comunque, ide
almente e/o realmente, una cristianità giudaica di area palesti
nese in cui i fratelli del Signore erano leader riconosciuti.
Nel caso di 2 Pietro, al contrario, gli studiosi sono pressoché
unanimi nel riconoscere nel testo i segni tipici della pseudepi-
grafia. Il richiamo solenne al nome semitico e al soprannome
greco del primo apostolo di Gesù («Simon Pietro, servo e apo
stolo di Gesù Cristo»: 2Pt 1,1), autorevole testimone della sua
gloria nella trasfigurazione (1,16-18); la familiarità con il lessi
co, con la cultura e con concezioni filosofiche ellenistiche (cfr.
in 1,3-11 l’insistenza sul lessico della virtù e della conoscenza
o sulla partecipazione alla «natura divina»; in 3,10 l’idea di una
conflagrazione degli elementi cosmici presente nella filosofia
stoica); la scelta di adottare il genere del discorso testamentario,
grazie al quale può essere assicurata continuità al messaggio di
«Pietro» dopo la morte ormai imminente (1,12-15); il modo
con cui, pur identificandosi con Simon Pietro, l’autore guarda
agli «apostoli» come autorità distinte e del passato (3,2); la sua
conoscenza di una collezione di Lettere paoline, messe al pari
delle «altre Scritture», e di interpretazioni delle stesse a suo
giudizio devianti (3,15-16); l’utilizzazione della Lettera di Giu
da: sono tutti argomenti che rendono inevitabile il giudizio sul
carattere tardivo e pseudepigrafo del testo. L’autore della Let
tera, dunque, è un giudeo-cristiano erudito della diaspora che
conosce gli scritti paolini, 1 Pietro e Giuda. Lo si può imma
ginare tanto in Asia minore quanto a Roma o, secondo alcuni,
ad Alessandria.5
Dai dati sopra richiamati, tuttavia, non si possono ricavare
elementi certi per la datazione di nessuna delle due Lettere. Se
5C o sì G r u n st à u d l .
la Lettera di Giuda può essere ragionevolmente collocata non
oltre l’80-90 d.C. (periodo in cui Giuda, tra i più giovani dei
fratelli di Gesù, poteva essere ancora vivo), per 2 Pietro (che
presuppone 1 Pietro, Giuda e una collezione di Lettere paoli-
ne) le proposte vanno dai primi decenni del II secolo alla se
conda metà, anche in ragione del giudizio che si dà del rappor
to letterario tra il testo e l’apocrifa Apocalisse di Pietro che,
presupponendo la rivolta di Bar Kochba (132-135 d.C.), può
essere datata intorno al 135 d.C. Per quanti ritengono che 2
Pietro sia presupposta àa\VApocalisse di Pietro, la datazione
non può essere ritardata oltre il 130 d.C.; per quanti ritengono
il contrario, ne si può ritardare la composizione fino alla secon
da metà del II secolo.6 Si tratta comunque dell’ultimo testo del
Nuovo Testamento: in uno scritto che si richiama saldamente
all’eredità delle Scritture profetiche e al loro carattere ispirato,
servendosi per questo anche delle loro riletture nella tradizio
ne giudaica (1,19-21; c. 2), Pietro e Paolo, l’uno custode della
retta interpretazione del messaggio dell’altro, appaiono l’auto
rità apostolica riconosciuta quando, passata la generazione
degli apostoli e dei testimoni oculari, era necessario custodire
integra la traditio fidei per nuove generazioni in tempi e spazi
mutati.
1.2. La polemica contro i «negatori»
e lo scopo delle due Lettere
L’elemento formale che maggiormente accomuna le due
Lettere è la polemica contro «uomini empi» (Gd 4.15; 2Pt
2,5-6; 3,7) accusati di «rinnegare» Gesù («L’unico padrone e
Signore nostro Gesù Cristo»: G d 4; «Il padrone che li ha ri
scattati»: 2Pt 2,1). Più che di una negazione diretta e formale
6 Q u esta , p er esem pio, è la tesi d i GRÙNSTÀUDL.
della messianicità e della signoria di G esù di Nazaret (come
quella di cui si discute in lG v 2,22-23) i personaggi presi di
mira nelle due Lettere sembrano accusati di comportamenti e
convinzioni che, nel giudizio dei due autori, implicano di fatto
la negazione dell’unico Signore e della sua salvezza (2Pt 2,1;
cfr. lC or 6,20). Con un hapax neotestamentario, in entrambi i
testi essi vengono definiti «schernitori», beffeggiatori, derisori
(em paìktai: G d 18; 2Pt 3,3): se in Giuda essi si fanno beffe
della realtà del giudizio divino, in 2 Pietro si fanno beffe della
manifestazione ultima di tale giudizio nella parusia gloriosa del
Signore Gesù e nella conflagrazione finale del vecchio mondo.
Si tratta in ogni caso di un rifiuto beffardo degli «elementi
apocalittici del messaggio cristiano»,7 tradotto in stili di vita
deprecabili e distruttivi, che in modo del tutto peculiare le due
Lettere mettono in relazione significativa con l’arroganza ma
nifestata in rapporto alle potenze angeliche (Gd 8-10 e 2Pt
2,10-11). Ogni altra precisazione del loro identikit resta specu
lativa e ipotetica, considerato anche che le accuse polemiche
lanciate contro gli avversari corrispondono a dei topoi o mo
delli stereotipi costruiti attraverso il recupero di esempi bibli
ci e delle loro riletture nella tradizione giudaica.
Su questo sfondo comune, però, la situazione lamentata dai
due autori sembra di natura diversa tanto riguardo al ruolo e
all 'identikit degli interlocutori polemici, quanto riguardo alla
loro condotta e ai loro proclami:
a) Giuda scrive costretto dalla «necessità» rappresentata dal
fatto che si sono «infiltrati» alcuni dall’esterno («Si sono intro
dotti di soppiatto, infatti, alcuni uomini... empi»: 4) inseren
dosi nella vita e nella condivisione dei pasti dei suoi destinata-
ri (12; cfr. Gal 1,6-9; 3,1-5; 5,1.7-8.12) e portando divisione. Si
tratta, probabilmente, di predicatori itineranti, «pastori di se
stessi», che sfruttano per vantaggio personale quanti danno
7 C hester - Martin, 95.
loro ospitalità (Gd 12-13.16).8 Essi, però, non vengono mai
identificati a partire da un ruolo stabile che potrebbero avere
esercitato nelle comunità. Né sembra che i destinatari di G iu
da siano stati già sedotti dalle loro mormorazioni e spinte sci
smatiche (Gd 16.19). 2 Pietro scrive, invece, per «ricordare»
in modo permanente la traditio profetica e apostolica (2Pt 3,2)
in modo da aiutare i lettori a fare la differenza tra veri e falsi
profeti, veri e falsi maestri, senza «dimenticare» la salvezza
ricevuta (1,9; 2,20-22). I suoi interlocutori polemici, infatti, non
sono empi genericamente intesi o «sognatori» (cfr. G d 8) che
«si sono introdotti» nelle comunità, ma «falsi maestri» che
«hanno introdotto fazioni rovinose» (2Pt 2,1): sono empi che
insegnano dottrine perniciose, accuratamente argomentate, che
possono realmente depistare i credenti, soprattutto i più fragi
li nella fede (2,2.14.18; 3,16).
b) In entrambe le Lettere la condotta stigmatizzata come
empia ha a che fare con un’«impudenza» o sfrontatezza arro
gante (G d 4; 2Pt 2,27.18). Nel caso di Giuda, l’immoralità
viene correlata alla «contaminazione della carne» (8), a bagor
di indegni nei banchetti della comunità (12), a mormorazioni
piene di insoddisfazione (16), a divisioni, comportamenti istin
tivi e mancanza di «Spirito» (19; cfr. G c 3,15). Nel caso di 2
Pietro i comportamenti dei falsi maestri sono stigmatizzati con
ferocia ancora maggiore: «Vanno dietro alla carne» pieni di
una bramosia di corruzione mondana (2,10.20; 3,3); si delizia
no di bagordi, sono ingannatori avidi, pieni di adulterio e inar
restabili nel peccato (2,13-14); a causa loro la «via della verità»
è bestemmiata (2,2) e la «via della giustizia» abbandonata
(2,21), perché i credenti da poco convertiti vengono riportati
alla loro condotta di un tempo (2,18). Soprattutto, il loro at
8 Cfr. la situazione descritta in Didachè 11-13 nell'intento di distinguere i veri dai
falsi profeti: «Non è profeta ognuno che parli nello spirito, ma se ha i modi del Signo
re; da questi modi sarà riconosciuto il falso profeta e il (vero) profeta» (11,8).
teggiamento ha un fondamento concettuale che in Giuda non
appare: essi promettono «libertà» (2,19; cfr. lP t 2,16; Gal
5,13), pur rivelandosi - agli occhi dell’autore - «schiavi» essi
stessi «della corruzione» (2Pt 2,19). La radice teoretica del
loro comportamento, dunque, è da un lato la negazione con
sapevole del giudizio finale di Dio nella parusia (3,3-5: non c’è
un mondo nuovo né ricompensa dei giusti né giudizio dei mal
vagi); dall’altro, la pretesa, tradotta in comportamenti concre
ti, di essere al di sopra del giudizio stesso.
In relazione ai rispettivi destinatari e alla situazione deter
minata dall’attività di queste figure «empie», dunque, Giuda
si propone di «esortare a combattere per la fede trasmessa ai
santi una volta per tutte» (3) e a «custodirsi» edificati su que
sta medesima fede santificante (20), sapendo discernere e
agire di conseguenza (21-22); 2 Pietro si propone, con
un’espressione concettuale molto più densa ed elaborata, di
« risvegliare mediante la memoria» i destinatari e il loro retto
pensare (1,12-13; 3,1-2). Lo scopo di Giuda, dunque, è l’esor
tazione e il discernimento per neutralizzare l’influenza di
esterni sopraggiunti; quello di Pietro è la sollecitazione e la
definizione del retto pensare perché i credenti siano sostenu
ti nel portare la loro vita di fede al suo pieno compimento
escatologico senza perderne la consapevolezza a causa di in
terpretazioni addomesticanti sorte all’interno stesso della co
munità. La puntualizzazione del contenuto escatologico della
fede e la confutazione di sue interpretazioni deviami, nel ca
so di 2 Pietro, è un obiettivo primario che manca, invece, in
Giuda.
1 .3 .1 destinatari
In nessuna delle due Lettere si trovano indizi utili all’identi
ficazione storica dei destinatari. Il prescritto di Giuda li quali
fica teologicamente come «i chiamati amati in Dio Padre e cu
stoditi per Gesù Cristo» (Gd 1); quello di 2 Pietro come «co
loro che hanno ricevuto in sorte la nostra medesima fede per la
giustizia del nostro Dio e salvatore Gesù Cristo» (2Pt 1,1).
Nel caso di Giuda, data l’importanza strutturale che le tra
dizioni bibliche e giudaiche, nonché 1 Enoc (unico testo scrit
turale citato formalmente da Giuda come profezia: G d 14-15),
hanno nell’argomentazione della Lettera, è necessario suppor
re un gruppo di destinatari familiare con i testi e le tradizioni
del giudaismo apocalittico. Si tratta, quindi, di comunità giu
deo-cristiane, già legate alla figura di Giacomo. Non ci sono
elementi per collocarle geograficamente (Antiochia di Siria?
Alessandria d ’Egitto? Asia minore? Grecia?).
Nel caso di 2 Pietro è certo, invece, che si tratta di comuni
tà che già conoscono 1 Pietro (cfr. 2Pt 3,1). Dunque, comuni
tà miste dell’Asia, forse particolarmente sensibili all’influenza
di un pensiero greco che non sapeva che farsene delle specu
lazioni sull’aldilà e per i quali alcuni elementi del messaggio
cristiano - come l’idea di un Messia che doveva ritornare in
gloria e di un cosmo che si sarebbe «dissolto» in un «giorno di
Dio/del Signore» (cfr. 3,10-13) per lasciare spazio a un mondo
nuovo - potevano risultare poco illuminati e suscettibili di in
terpretazioni culturalmente più plausibili.
1.4. Lettera di Giuda: genere letterario e struttura
Il prescritto che richiama la formula di saluto di lP t 1,1
(«grazia e pace abbondino» I l «misericordia e pace e carità
abbondino») e riflette lo stile delle lettere aramaiche (Dn 3,31
testo masoretico = Dn 4,1 Teodozione; 6,26) definisce formal
mente il testo come una lettera (cfr. anche G d 3), circolare per
la sua destinazione, conclusa da alcune esortazioni e da una
dossologia (cfr. Rm 16,25-27). La sua struttura argomentativa,
però, riflette l’andamento di un p esh er9 esempi tratti dalla
Scrittura e/o da altre tradizioni giudaiche vengono applicati in
modo sistematico al presente della comunità e, in specie, agli
avversari empi che vi si sono introdotti e la cui presenza dimo
stra come la comunità si trovi «nel tempo ultimo» (Gd 18; cfr.
lG v 2,18). Ciò vale per l’esempio del popolo tratto dall’Egitto
(Gd 5: cfr. Nm 14; lC or 10,10), quello degli angeli decaduti e
tenuti in serbo per il giorno del grande giudizio (Gd 6: cfr. Gen
6,1-4 e 1 Enoc 10-16) e quello di Sodoma e Gomorra (Gd 7:
cfr. Gen 19,1-28) il cui giudizio e la cui condizione vengono
poi paragonati a quelli degli avversari («Allo stesso modo anche
questi...»: Gd 8). Lo stesso metodo interpretativo si ripete poi
in 9-10; 11-13; 14-16; 17-19 dove esempi tratti dall’Antico Te
stamento (Caino, Balaam, Core), da 1 Enoc 1,9 (la profezia
sull’avvento del Signore per il giudizio sugli empi), da altre
tradizioni apocalittiche (la disputa tra l’arcangelo Michele e il
diavolo sul corpo di Mosè dipendente, probabilmente, da un
passo perduto dell’apocrifa Assunzione di M osè)10 e dalle pa
role «degli apostoli del Signore nostro Gesù Cristo» (Gd 17;
cfr. Me 13,6.22; At 20,29-30; lTm 4,1; 2Tm 3,1.6; 4,3) vengo
no applicati a «questi» personaggi stigmatizzati. A loro e alla
loro condotta esposta al giudizio, alla fine della Lettera, l’au
tore contrappone i suoi destinatari («Voi, invece, carissimi...»:
G d 17.20).
Lo schema della Lettera si può, dunque, presentare come
segue:
9 B a u c k h a m , Jttde and thè Relatives, 201-206.
10 Origene, Iprincipiò,2,1: «In Genesi, il serpente è descritto come chi ha sedotto
Èva e, in relazione a ciò, nelYAscensione di Mosè (un libro che l’apostolo Giuda men-
ziona nella sua Lettera) l’arcangelo Michele, disputando col diavolo sul corpo di Mo
sè, dice che il serpente, ispirato dal diavolo, fu la causa della trasgressione di Adamo
ed Èva».
Prescritto (1-2)
Occasione e scopo (3-4): messa in guardia dagli empi negatori espo
sti al giudizio che si possono riconoscere come tali proprio
dalle Scritture
Corpo della Lettera (5-23):
- tre esempi (Israele nel deserto, gli angeli ribelli, Sodoma e Go
morra, cfr. Sir 16,7-10) con la loro applicazione (5-8)
- un altro esempio (Michele e il diavolo) e un’applicazione (9-10)
- tre esempi (Caino, Balaam, Core) con la loro applicazione (11-13)
- la profezia di Enoc e la sua applicazione (14-16)
- l’appello ai destinatari sulla base della predicazione apostolica
(17-23)
Dossologia conclusiva (24-25)
1.5. Seconda lettera di Pietro: genere letterario e struttura
Proprio il confronto formale tra Giuda e 2 Pietro dimostra
quanto 2 Pietro abbia reinterpretato e adattato per i propri
scopi e secondo una sua peculiare strategia la Lettera di G iu
da: la formula di saluto iniziale (1,1-2) richiama quella di 1
Pietro e di Giuda e la dossologia conclusiva, cristologica come
quella di lP t 4,11, richiama quella (teologica) di G d 24-25,
ma del pesher tematico di Giuda in 2 Pietro rimangono solo
poche tracce in alcuni dei passi paralleli (cfr. 2Pt 2,12.17),
mentre la Lettera assume la forma del discorso testamentario
(1,12-15:3,1).
Dopo il prescritto (1,1-2), l’esordio si presenta come un’esor
tazione a progredire nella «fede» fino alla «carità» piena, cre
scendo in virtù apprezzabili anche a un uditorio greco e facen
do già l’esperienza trasfigurante, in una perfetta sinergia tra il
dono divino e l’attivo disporsi umano (cfr. il ripetersi del verbo
epichoregéd, «somministrare, fornire, provvedere», all’attivo
nel v. 5 e al passivo nel v. 11), dell’«ingresso nel regno eterno
del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo» (1,3-11).
Da 1,12 a 3,13 1’intentio polemica e apologetica della Let
tera, che emerge con forza in 2,1-3,7, si esprime in una stra
tegia originale. Pur adeguandosi al contesto culturale dei suoi
destinatari e assumendone talvolta il linguaggio, l’autore con
futa le loro tesi con argomenti basati sulla tradizione biblica e
apostolica: a) in 1,16-18 fa appello alla memoria apostolica di
Gesù e alla sua trasfigurazione come fondamento storico, e
non favolistico, della speranza della gloria del Signore e della
sua venuta in potenza come giudice e dominatore; b) in 1,19-
2,22 radica nelle Scritture profetiche e in esempi da esse trat
te la garanzia che Dio interviene per giudicare e riscattare; c)
in 3,1-13 risponde alla questione del ritardo nel giudizio, tipi
ca della teodicea già nella Scrittura (cfr. Sap 11,17-12,2.8-18),
richiamandosi nuovamente ai profeti e agli apostoli, dimo
strando la differenza tra l’esperienza umana e quella divina del
tempo (cfr. Sai 90,4) e assumendo come criterio interpretativo
ultimo la divina makrothymia («magnanimità»; cfr. G c 5,7-11).
L’attesa di cieli e terra nuovi viene, così, pienamente rilanciata
e i credenti esortati a viverla da protagonisti attivi, responsa
bili anche della «accelerazione» della «parusia del giorno di
D io» (2Pt 3,12).
La struttura della Lettera può essere così rappresentata:
Prescritto (1,1-2)
Esordio (1,3-11)
Corpo della Lettera (1,12-3,13):
- intenzione testamentaria della Lettera apostolica (1,12-15)
- l’esperienza della trasfigurazione del Signore, «parusia» po
tente del passato testimoniata dall’apostolo, è posta a fon
damento storico della «parusia» finale del Signore (1,16-18)
- la parola profetica delle Scritture ne è confermata (1,19-21)
e diventa criterio di discernimento profetico nel presente
(1,19-2,22), garantendo l’esito escatologico della storia (per
i falsi maestri, analoghi ai falsi profeti stigmatizzati dalle
Scritture, «il giudizio da lungo tempo non cessa di operare»
e «la distruzione non sonnecchia», cfr. 2,3)
- la parola dei profeti e degli apostoli viene ricordata a fonda
mento della speranza e della vita dei credenti (3,1-12)
Epilogo (col richiamo alle Lettere di Paolo al pari delle Scritture) e
dossologia finale (3,14-18)
2. Linee teologiche
Le due Lettere, in modo diverso, mettono a fuoco tem i
teologicamente cruciali, come la salvezza, il giudizio e l’attesa
escatologica dei credenti in Cristo. Più che individuare e de
nunciare «eresie», dimostrando un incipiente sclerotizzarsi
della tradizione viva del vangelo e della fede in un corpo di
dottrine teologiche e morali istituzionalmente definite e dife
se («protocattolicesimo»), esse evidenziano delle dinamiche
pericolose o viziose sperimentabili nella vita di fede alle qua
li contrapporre dinamiche virtuose o, si potrebbe dire, il me
todo proprio della fede apostolica. I diversi esempi tratti dal
le Scritture o dalla tradizione giudaica, scarsamente utilizza
bili per ricostruire l’identikit degli interlocutori polemici,
servono proprio a stabilire dei topoi, dei modelli (negativi o
positivi) da assumere per discernere la «via» da percorrere. Il
metodo, a sua volta, riflette una consapevolezza ben precisa
della fede in cui la sensibilità tipicamente giudaica verso la
«signoria» dell’«unico Dio» (Gd 25), manifestata, riconosciu
ta e sperimentata nel Cristo, diventa la direttrice attorno alla
quale ruotano i temi delle due Lettere e dalla quale, anche,
dipende la dura polemica contro traduzioni della fede/salvez-
za che rischiano di «dimenticarla» (2Pt 3,5) o «pervertirne»
la grazia (Gd 4).
2.1. La signoria di Dio e del suo Cristo
Il denominatore comune degli avversari stigmatizzati, come
si è visto, è il «rinnegamento» pratico della signoria di Gesù e,
in essa, della «signoria» stessa di Dio creatore, salvatore e giu
dice. La semantica dei due testi è costante e coerente in tal
senso.
Giuda è «schiavo» di Gesù Cristo (Gd 1) che quindi ne è
anche il «padrone» (4), colui che può disporre sovranamente
del suo servo;11 il Kyrios è il soggetto attivo della liberazione di
Israele come del giudizio su coloro che non sono rimasti nella
fede del popolo (5); Kyrios è Dio soggetto del «rimprovero»
rivolto al diabolos (9), Signore in quanto sovrano sui demoni;
è il Dio che viene, con le miriadi di angeli, per giudicare quan
ti pronunciano parole arroganti contro di lui (14; cfr. 1 Enoc
1,9); Kyrios è il «nostro Signore Gesù Cristo» sia in G d 17 che
in G d 21, colui mediante il quale si compie la dossologia teo
centrica che sigilla la Lettera (24-25).
Ugualmente, Simon Pietro è «schiavo» e apostolo di Gesù
Cristo (2Pt 1,1) che è detto «nostro Kyrios» in 1,2 e, addirittu
ra, «D io nostro e Salvatore» in 1,1; la conoscenza approfondi
ta dei credenti (epignósis, in 1,2 come in 1,8; 2,20; gnosis in
3,18), ha come termine proprio «il Kyrios nostro (e Salvatore)
Gesù Cristo»; il regno cui i credenti devono tendere è il regno
eterno «del Signore nostro e Salvatore Gesù Cristo» (1,11). La
sua signoria, dunque, è legata alla sovranità con cui esercita il
suo potere di salvatore e liberatore del suo popolo («Il padro
ne che li ha riscattati»: 2,1). Egli, poi, è non solo termine di
conoscenza ma anche sorgente e origine della medesima: è co
lui che può «mostrare» al suo apostolo che il giorno della sua
morte è vicino (1,14). Dunque, è un Signore presente che go
11 Eusebio, Storia della chiesa 1,7,14 dice che i fratelli del Signore si definivano, in
riferimento a Gesù, despósynoiy coloro che appartengono al despótès.
verna intimamente e storicamente la vita dei suoi; è colui la cui
«potente presenza» è stata sperimentata in tutta la sua sover
chiarne grandezza e gloria dai testimoni storici (Pietro e il «noi»
apostolico a nome del quale egli parla: 1,16-18). A lui come
Kyrios Salvatore risale il «santo precetto» trasmesso dagli apo
stoli (3,2). Kyrios, però, è anche il nome del Dio creatore e
salvatore delle Scritture (2,4.9); è Colui presso il cui tribunale
si può recare o meno un «giudizio» offensivo nei confronti di
qualcun altro (2,11 / / G d 9); è il Signore al di sopra delle mi
sure del tempo umano (Sai 90,4 in 2Pt 3,8), che è fedele e
immancabile nella realizzazione della sua promessa (3,9) e
nell’avvento del «suo» giorno (3,10 con chiara allusione cristo
logica). E Colui di cui si può conoscere e predicare la makro-
thymia come spazio desiderabile ed efficace di salvezza (3,15).
Anche in 2 Pietro, dunque, come in Giuda, la «signoria»
unica è quella condivisa da Dio e da Gesù Cristo in qualità di
Salvatore e Figlio amato (2 Pietro), soggetto di éleos (Gd 21)
come Dio lo è di makrothymia (2Pt 3,15).
2.2. ha negazione della «signoria» e le sue manifestazioni
In relazione al riconoscimento o, al contrario, alla negazione
della «signoria» di Dio e di Cristo possono acquistare spessore
aspetti, temi e dinamiche della vita di fede giudicate coerenti e
feconde o empie e temibili per i loro esiti escatologici. Emble
matica, in tal senso, è la contestazione fatta dell’arroganza degli
avversari nella relazione con gli angeli (Gd 8-10 e 2Pt 2,9-12),
evocati con i termini «signoria» (kyriótès) e «glorie» (dóxai),
entrambi simbolici della sfera della trascendenza divina. Per
alcuni studiosi tali versi sono particolarmente significativi per
comprendere la polemica teologica dei due autori. Si tratta,
infatti, degli unici due testi polemici del Nuovo Testamento
dove agli oppositori viene rivolto questo specifico capo d’accu
sa: «bestemmiare» le glorie e rinnegare la «signoria». Dal pun
to di vista storico-teologico, è plausibile che un simile atteggia
mento si possa fare risalire alla svalutazione paolina delle «au
torità e potenze» (lC or 2,8; 6,3; 15,24; Rm 8,38-39; Col 2,18),
influenzata ulteriormente - soprattutto in 2 Pietro - da uno
«scetticismo anti-mitologico». Giuda prima e, al suo seguito,
l’autore di 2 Pietro sembrano riconoscere in questa attitudine
una potenziale minaccia «rispetto ad alcune dimensioni crucia
li della fede, non ultima la posizione del Signore stesso».121
visionari pneumatici (Gd 8.19) e i falsi maestri (2Pt 2,1), forse,
reclamavano una diretta vicinanza a Dio senza alcuna riserva
escatologica, accompagnando anche le loro pretese con una
condotta etica libertina, egoista e opportunista. Dietro l’accusa
di bestemmia degli angeli potrebbero nascondersi «la negazio
ne di Gesù Cristo come giudice escatologico e quindi la nega
zione della sua prossima venuta».13 Nella prospettiva dei due
autori, dunque, la relazione con la «signoria» di Dio in Cristo
implica strutturalmente una corretta relazione al mondo celeste
delle «glorie»; viceversa, la confessione credente della «signo
ria» divina in Gesù Cristo implica l’accusa decisa di ogni atteg
giamento umano arrogante e superbo, incapace di riconoscere
e rispettare i limiti assegnati all’umanità e, al contempo, il po
tere di giudizio esercitato su di essa da Dio in Gesù Cristo.
Tanto in Giuda che in 2 Pietro il disprezzo della «signoria»
rappresentata dagli angeli mostra che, di fronte a ciò che so
verchia la loro esistenza fisica, gli oppositori sono in una con
dizione non solo di ignoranza ma anche di colpevole superbia.
In questo senso, prima che in senso morale o sessuale, essi
«contaminano la carne» (Gd 8) e si preparano ad essere «cor
rotti per la loro stessa corruzione» (2Pt 2,12): se la «carne»,
intesa nel senso semitico, designa la realtà creaturale e mortale
i2F rey, 315.
13 G ielen , «L a Seconda», 697.
di ogni essere umano, il viverla come «esseri irragionevoli (sen
za parola)» (Gd 10; 2Pt 2,12), limitati solo a ciò che fisicamen
te può diventare oggetto di conoscenza, rappresenta una cor
ruzione della stessa condizione mortale propria degli umani,
quella per la quale il riconoscimento del limite, che dovrebbe
caratterizzarne l’esistenza mortale e lasciarla costitutivamente
aperta al riconoscimento dell’alterità e, massimamente, dell’al-
terità sovrana del Signore-giudice unico, viene sostituito dall’as-
solutizzazione dello stesso. La «carne» non riconosce più i suoi
confini e, negando ciò che le è superiore, ne usurpa anche il
posto: accade, dunque, una contaminazione che fa sì che ciò
che è oggetto positivo della conoscenza dei sensi, diventi cau
sa di corruzione-distruzione degli stessi soggetti della cono
scenza. L’autore di 2 Pietro sembra avere inteso proprio in
questo senso il riferimento di Giuda all’episodio di Michele e
del diavolo, quando precisa che gli oppositori «non temono di
insultare le glorie laddove gli angeli, più grandi per forza e po
tenza, non portano contro di loro presso il Signore alcun giu
dizio offensivo» (2,10-11). Chi, per superiore dignità, potrebbe
permettersi ciò che ad esseri di carne non è consentito, proprio
per la cognizione profonda della maggiore e unica vera signo
ria, quella divina, rinuncia ad assolvere un ruolo giudicante
che, invece, gli esseri mortali si arrogano.
La dinamica opposta a quella sottesa al riconoscimento del
la «signoria» è, dunque, quella che valica il limite creaturale e
nega i confini. Questa dinamica è presente, più o meno espli
citamente, nei tre esempi richiamati in G d 5-8. Coloro che, per
la loro mancanza di fede, si separano con ribellione dal popo
lo liberato (Nm 13-14), valicano i confini loro assegnati in
qualità di potenziali eredi della terra (e non giudici della bon
tà della promessa divina) e periscono nel deserto, fuori dalla
terra promessa in eredità al popolo salvato.14Tradiscono i loro
14 Cfr. Nm 13,32: alcuni degli esploratori introducono nella comunità «una calun-
confini anche gli angeli che non hanno custodito il dominio
celeste loro assegnato {arche) e hanno provocato il peccato
sulla terra unendosi alle figlie degli uomini (cfr. Gen 6,1-5 alla
luce di 1 Enoc 6-11). In modo simile ad essi violano nuovamen
te i confini Sodoma, Gomorra e le altre città che sono «andate
dietro a una carne diversa» (Gen 19,4-25 e Libro dei giubilei
16,5), tentando di violentare gli esseri angelici e, così facendo,
violando i confini tra angeli e uomini.15 La stessa dinamica è
implicita nel peccato della bocca attribuito agli avversari in G d
16 («Sono mormoratori lamentosi che si muovono in base alle
loro bramosie mentre la loro bocca pronuncia enormità») e
stigmatizzato nel v. 11 col richiamo alla antilogia di Core (Nm
16) e nei w. 14-15 con la profezia di Enoc sull’avvento del
Signore giudice di tutte le opere e parole dure degli empi (1
Enoc 5,4). Dunque, la dinamica sottesa a tutti i modelli nega
tivi tratti dalla tradizione è una questione di «confini e di
contaminazione».16
Il lessico della purezza e dei suoi contrari, che attraversa le
due Lettere e che indica solo occasionalmente e non struttu
ralmente violazioni di natura sessuale, conferma il dato: il pun
to nodale della polemica sta nella violazione empia dei confini
che implica da un lato la corruzione e il fallimento della propria
dignità creaturale (la propria «carne»), dall’altro la negazione
radicale della «signoria» (ciò che è altro dalla propria carne
mortale) che ben si esprime nel vituperio arrogante delle «glo
rie» che appartengono alla sfera della trascendenza divina.
Nell’ampio contesto di 2 Pietro, in particolare, la sovranità di
Dio creatore e giudice è ciò su cui cade l’accento: è la sovrani-
nia della terra» (cfr. Nm 14,36-37); in 14,2 la comunità «mormora» (cfr. gli opposito
ri di Giuda accusati di essere «mormoratori» nel v. 16); in 14,9 Giosuè supplica la
comunità: «non diventate apostatai apò toù Kyriou». Apostasia dal Kyrìos e rifiuto
presuntuoso di ricevere la terra così come essa si presenta, disobbedendo alla volontà
divina, vanno di pari passo.
15 H armngton, 196-197.
16B rosend, 174.
tà di Colui che «con la Parola» ha dato forma alla creazione e
la sostiene in vita nella sua condizione presente (2Pt 3,5-7).
Coloro che negano il proprio limite creaturale, negando il po
tere di Dio creatore e giudice e la parusia ultima del Signore e
del suo giorno, sono paragonabili a maggior ragione e con sen
so nuovo rispetto a quello reperibile in Giuda ad «animali sen
za parola» destinati alla corruzione. Se tutto si mantiene grazie
alla Parola di Dio, coloro che vivono allo stato «fisico» natu
rale, che non godono del «riconoscimento» del Signore e Sal
vatore, non potranno che andare distrutti «come gli animali
che periscono» (Sai 49,13-21). Il giorno del Signore verrà per
loro «come un ladro».
Il nesso tra angelologia, cristologia e parusia dimostra che
nella signoria di Gesù Cristo sono comprese dimensioni visi
bili e invisibili della realtà. Un atteggiamento di timore e tre
more, in ultima analisi, è ciò che i nostri due autori chiedono
ai loro destinatari ricavandolo dalla Scrittura e dalle parole dei
profeti e degli apostoli: la polemica contro gli oppositori è
strumentale al raggiungimento di tale scopo. Ottenere tale at
teggiamento, al contempo fiducioso, pieno di misericordia e di
speranza come trepido e attivo, pieno di tensione prospettica,
di apertura esistenziale radicale al mistero della sovranità tra
scendente di Dio nel suo Cristo e alla «promessa» del suo gior
no (quella contenuta nella parusia del suo giorno), è il fine
ultimo della predicazione di profeti e apostoli accolta dai cre
denti al cospetto del mondo. È ciò cui l’intera Scrittura serve
«finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei
nostri cuori» (2Pt 1,19).
2.3. Il metodo della fede apostolica
Per inculcare tale atteggiamento e radicare le dinamiche
positive della fede, i due autori non fanno appello a nessuna
istanza estrinseca a quella originaria della fede stessa, che pas
sa all’inizio attraverso la «consegna» (G d 3; 2Pt 2,21) e poi
attraverso la «memoria» (Gd 5.17; 2Pt 1,12-15; 3,1-2) della
parola apostolica. Non si fa ricorso a nessuna funzione mini
steriale istituita e dirimente, se non all’autorità definita dalla
custodia dell’annuncio cristologico, chiave ermeneutica delle
Scritture rilette in contesti sempre nuovi. Tenere desta la me
moria dei credenti o, per dirla col «Simon Pietro» di 2Pt 1,1,
«svegliare/sollecitare mediante la memoria l’intelligenza schiet
ta» (2Pt 3,1; cfr. 1,13) è il compito «apostolico» per eccellenza
e il metodo per custodire perfettamente la fede e la salvezza
ricevute in dono. Concretamente esso si traduce in una memo
ria costante e viva, attualizzante, delle Scritture profetiche e,
per l’autore di 2 Pietro, anche nella memoria del passato di
Gesù: se 1 Pietro guarda al passato di Gesù come fondamento
identitario e morale dei credenti, 2 Pietro guarda piuttosto al
passato di Gesù come fondamento del loro futuro escatologi
co. In entrambi i casi, la memoria apostolica è tale proprio
perché veicola la volontà del Kyrios (cfr. il doppio genitivo in
2Pt 3,2 «ricordare... quello dei vostri apostoli comandamento
del Signore e Salvatore», che rilegge G d 17). Dalla Scrittura e
dalla memoria apostolica del Signore possono trarsi criteri cer
ti per il discernimento, il giudizio e l’esperienza integra della
fede tra ciò che è stato ricevuto in dono e ciò che ancora si
attende, tra vera e falsa profezia, veri e falsi maestri.
Bibliografia
BAUCKHAM R ., Jude and thè Relatives o f Jesus in thè Early Church,
T & T Clark, London - New York 1990.
BROSEND W.F. il, Jam es & Jude, Cambridge University Press, Cam
bridge 2004.
CALLAN T., «The Christology of thè Second Letter of Peter», in Bi
blica 82(2001), 253-263.
---- , «Use of thè Letter of Jude by thè Second Letter of Peter», in
Biblica 85(2004), 42-64.
D avtds P.H., The Letters o f 2 Peter and Jude, Eerdmans, Grand Rapids
(MI) 2006.
F r e y J ., «The Epistle of Jude between Judaism and Hellenism», in
K.-W. N iebu h r - R. W a l l (edd.), The Catholic Epistles andApo-
stolic Tradition, Baylor University Press, Waco (TX) 2009,309-429.
GlELEN M., «La Seconda lettera di Pietro», in M. E b n er - S. SCHREI-
BER (edd.), Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia
2012,651-660.
GlLMOUR M., The Significance ofP arallels between 2Peter and thè
other Early Christian Literature, Society of Biblical Literature, At
lanta (GA) 2002.
G ru n stà UDL W., Petrus Alexandrinus. Studien zum historischen und
theologischen Ort des Zweiten Petrusbriefes, Mohr Siebeck, Tii-
bingen 2013.
HARRINGTON D., Jude and 2PeteryLiturgical Press, Collegeville (MN)
2008.
K n o c h O., Le due lettere di Pietro e la Lettera di Giuda, Morcelliana,
Brescia 1996.
MARCONI G., Lettera di Giuda, Seconda lettera di Pietro. Introduzio
ne, versione, commento, Dehoniane, Bologna 2005.
MAZZEO M ., Lettere di Pietro. Lettera di Giuda. Nuova versione, in
troduzione e commento, Paoline, M ilano 2002.
MAZICH E v « “The Lord Will Come with His Holy Myriads” . An
Investigation of thè Linguistic Source of thè Citation of 1 Enoch
1,9 in Jude 14b-15», in Zeitschrift fiir die Neutestamentliche Wis-
senschaft 94(2003), 276-281.
N e y r ey J.H ., 2 Peter, Jude. A New Translation with Introduction and
Commentary, Yale University Press, London 2008.
ScHELKLE K.H., Le Lettere di Pietro e la Lettera di Giuda, Paideia,
Brescia 1981.
CO N CLU SIO N E
Accomunati sul piano storico-tradizionale dal fatto di pro
venire da figure di riferimento delle chiese di origine giudaica,
Scritti giovannei e Lettere Cattoliche spiccano nel panorama
neotestamentario come attestazione della ricca diversità della
testimonianza a Gesù, della memoria di lui e della compren
sione della sua persona e del suo significato storico-salvifico
nel “cristianesimo” delle origini. Se resistenza del corpus del
le Lettere Cattoliche chiede al lettore del Nuovo Testamento
che la sua elaborazione della fede cristologica e dell’identità
dei credenti non venga mediata «d a Paolo soltanto», quella
degli Scritti giovannei chiede che la sua memoria di Gesù e
del discepolato delle origini non venga mediata solo da Sinot
tici e Atti. Tanto il volto di G esù quanto quello dei primi
credenti in lui emergono in questi testi con tratti originali che
dipendono dalla tematizzazione dell’identità giudaica del pri
mo - rivendicata e agita in termini così inauditi da costare a
lui un conflitto mortale e da determinare una svolta teologica
e storico-religiosa senza paragoni nella storia del mediogiu
daismo - e dalla matrice giudaica dei secondi consapevolmen
te vissuta ed elaborata come marcatore identitario irrinuncia
bile e fecondo del popolo di Dio radunato escatologicamente.
In un contesto di crisi interna ed esterna - sia sul fronte del
giudaismo d’origine che su quello dell’ambiente pagano al cui
interno le comunità credenti si erano andate stabilendo -
l’identità ecclesiale si va così costruendo come identità aperta,
rilettura teologica e nella applicazione ecclesiologica della sto
ria (1 Giovanni; 1-2 Pietro) e della predicazione (Giacomo) di
G esù di Nazaret come delle categorie, delle figure e degli
schemi interpretativi biblico-giudaici della storia salvifica e del
suo compimento escatologico (tutte e sette le Cattoliche). I
legami intertestuali e tradizionali tra i testi, che in alcuni casi
si potrebbero dimostrare anche in termini di dipendenza let
teraria (si veda il rapporto tra 2 Pietro e Giuda, tra 2 e 1 Pietro
o, come ritengo, tra 1 Pietro e Giacomo), dimostrano come le
Lettere Cattoliche, comprese quelle giovannee, riflettano am
bienti ecclesiali accomunati storicamente dall’assunzione piena
della matrice giudaica dell'ekklèsia e dalla sua traduzione idea
le e culturale in spazi e tempi diversi da quelli d ’origine tra la
seconda metà del I secolo d. C. e i primi decenni del II secolo.
A conclusione di questo percorso penso che l’eredità peren
ne delle chiese che si riflettono in questi scritti, e che dovrebbe
riflettersi nel volto di quelle che da questi scritti dovrebbero
lasciarsi formare, si potrebbe riassumere in sette aspetti.
1) Per definire l’identità dei lettori reali e ideali, vengono
ripresi testi, temi, immagini, categorie e schemi teologici bibli
co-giudaici, anche se spesso rimodulati in linguaggio greco e
in contesti culturali diversificati e sempre più attivi nel proces
so di inculturazione ellenistica (cfr. 2 Pietro). Questi restano
l’asse fondamentale per la costruzione dell’identità dei «fratel
li» nella fede. Però, in nessun caso, l’assunzione e trasmissione
integra dell 'identità giudaica, nei due gruppi di scritti, implica
esplicitamente l’assunzione dei segni identificanti del popolo
giudaico in quanto «nazione» (éthnos) con un suo sistema di
tradizioni, osservanze e pratiche (di purità, circoncisione, os
servanza del sabato ecc.), che garantissero il confine etnico e,
dunque, la protezione dell’identità nell’ambiente circostante.
Scritti giovannei e Lettere Cattoliche, dunque, parlano di una
ekklèsta in cui - diversamente che in Paolo - non appare al
cuna polemica diretta con le osservanze giudaiche ma la cui
identità giudaica - reale e/o ideale - non sembra dipendere in
alcun modo dall’assunzione dei marcatori identitari esterni
dell'éthnos giudaico.
2) Ognuno di questi testi, a suo modo, mostra come l’iden
tità dei credenti si costruisca attraverso un processo di raccol
ta e rilettura costante delle tradizioni protocristiane, comprese
quelle sul Gesù terreno, che si vanno coagulando e diventano
stimolo per nuove sintesi, confronto dialettico, riflessione e
discernimento (si pensi al rapporto tra la tradizione giovannea
e quella sinottica; tra l’Apocalisse e altre tradizioni non giovan-
nee; tra Giacomo e la tradizione delle parole di Gesù; tra 1
Pietro e le diverse tradizioni neotestamentarie o tra 2 Pietro e
Giuda da un lato e gli scritti paolini dall’altro). In questo sen
so, le tradizioni e la letteratura del Nuovo Testamento più se
gnate dalla matrice giudaica delle origini si dimostrano «catto
liche» nella loro stessa struttura e consegnano la loro dialettica
quale regola della fede e forma processuale imprescindibile
della trasmissione viva e rielaborazione continua dell’identità
cristiana.
3) La coscienza del compimento cristologico delle Scritture
attraversa gli scritti e si traduce in un nuovo, sistematico, ac
cesso all’Antico Testamento alla luce di Cristo e nella compren
sione della sua storia e della storia dei credenti in lui alla luce
delle Scritture profetiche riconosciute sempre attuali nel loro
potenziale rivelativo e significato teologico, antropologico e
cristologico.
4) La consapevolezza della qualità escatologica del tempo
inaugurato dalla vita, morte e risurrezione di Cristo e dalla pro
fessione pubblica della fede in lui (testimoniata, oltre che con
la parola, in un «fare» di segno anti-idolatrico) non implica mai
lo spegnersi dell 'attesa di un compimento escatologico che ab
bracci ogni uomo e il cosmo stesso (la parousia del Signore: Gc
5,7-8; 2Pt 3,4.12; lG v 2,28). Essa resta sempre viva, dai testi
più antichi a quelli più recenti, ed espressa con linguaggio e
categorie apocalittiche, anche se non si traduce mai in una spe
culazione quantitativa sui «tem pi» del «giorno» del Signore.
5) Nella costruzione dell’identità dei credenti, l’etica - inte
sa come amore reciproco, solidarietà, cura dell’altro e capacità
di fedeltà estrema - occupa un posto importante. Essa costitui
sce una traduzione concreta, articolata, differenziata, respon
sabile e trasparente del fondamento cristologico della loro
esperienza salvifica e della loro speranza escatologica. Anche
quando implica, euristicamente, l’assunzione di codici cultu
rali che le sono estrinseci (per esempio, i «codici domestici» in
1 Pietro) non li consacra mai con l’evangelo, ma ne fa strumen
to perché siano concretamente «guadagnati» alla Parola quan
ti, solo mediante quei codici, potrebbero esserne raggiunti.
6) La configurazione ecclesiale che emerge dagli Scritti gio-
vannei e dalle Lettere Cattoliche è kerigmatico-testimoniale più
che istituzionale o soltanto carismatica. I ruoli ministeriali o
pastorali, anche quando presenti in forme ereditate dal giudai
smo (cfr. «presbitero/i» in 2-3 Giovanni, Giacomo, 1 Pietro),
sono secondari. Tutt’altro che irrigidire strutture ministeriali che
sarebbero il segno di un protocattolicesimo nei testi neotesta
mentari, anche le Lettere Cattoliche mostrano l’intima e irrinun
ciabile relazione tra autorità pastorale e tradizione apostolica:
una relazione non formale o stabilita una volta per tutte, ma
dinamica e strutturale, da agire e confermare in modo nuovo in
nuovi tempi e situazioni delle chiese. Anche nel testo più tardi
vo qual è 2 Pietro, il ricorso ai profeti e agli apostoli conferma
che la traditio è principio dinamico, non statico, della fede: dal
la Scrittura profetica e dalla predicazione originaria del Cristo
andranno attinti, ogni volta in modo nuovo, gli elementi di co
struzione dell’identità ecclesiale tra retta fede e retta vita.
7) Pur non individuandolo in osservanze rituali esterne, Scrit
ti giovannei e Lettere Cattoliche attestano l’esigenza di un pre
ciso confine identitario. O per motivi parenetico-apologetici
(1 Pietro) o per motivi polemici (1-3 Giovanni, Giacomo, Giu
da e 2 Pietro), nelle Lettere si manifesta la percezione condivi
sa della necessità di un confine che custodisca la differenza e
l’identità dei credenti in Cristo rispetto al «mondo», anche e
soprattutto quando il «mondo» manifesta la sua seduzione ido
latrica aU’interno, piuttosto che all’esterno, della comunità.
Proprio l’esperienza delle divisioni e lacerazioni intra-comuni-
tarie (1-3 Giovanni, Giacomo, Giuda e 2 Pietro) dimostra, sin
dalle origini, che il confine che identifica i credenti non può
essere individuato all’esterno dei singoli e della comunità, qua
si in un’opposizione settaria degli «eletti» rispetto al mondo,
ma passa all’interno nel «cuore» di chi crede (Gc 1,26; 3,14;
4,8; lP t 1,22; 3,4.15; lG v 3,19-21) e si rende visibile nella pra
tica dell’amore fraterno e reciproco tra i credenti (Gv 13,34-35;
Gc 5,7-20; lPt 1,22). Il ricorso polemico al linguaggio dualisti
co, negli Scritti giovannei e in alarne delle Cattoliche (Giacomo,
Giuda), esprime proprio questa esigenza. Se la polemica e l’in
vettiva costituiscono una modalità occasionale e non essenziale
della definizione dei confini, l’esigenza di tale definizione - che
si esprime, non casualmente, mediante codici di matrice giudai-
co-apocalittica - non dovrebbe mai essere persa di vista. La
custodia dinamica del fondamento identitario che fa esistere i
credenti, infatti, è custodia stessa della rivelazione e condizione
perché si mantenga storicamente, cioè in tempi e spazi diversi,
la differenza della fede che è anche, sostanzialmente, irriduci
bile differenza tra Dio e «mondo» e testimonianza di salvezza.
Il rimando costante e performativo alle Scritture e a ciò «che è
stato udito sin da principio», costatabile nella sua verità ed ef
ficacia salvifica dall’amore fraterno e da stili di vita conformi ai
«modi del Signore» che traducano concretamente la Parola al
cospetto del «mondo», rimarrà il metodo costante della fede
apostolica e il criterio della differenza perché in tempi e spazi
diversi, sempre, si possa conservare «la via diritta» della giusti
zia, della verità, dell’integrità (2Pt 2,15) e fare, così, l’esperien
za della salvezza «che viene dai Giudei».
IN D ICE
Premessa pag. 7
PRIMA PARTE
IL CORPUS GIOVANNEO
IL «PENTATEUCO» GIOVANNEO
1. Gli Scritti giovannei a confronto » 15
2. L’origine e il background della letteratura giovannea » 18
2.1 I dati intratestuali e la tradizione patristica » 18
2.2. Lelaborazione critica dei dati
nella storia della ricerca » 22
2.2.1. Da «Giovanni» alle chiese «giovannee» » 22
2.2.2. Punti di convergenza » 23
2.2.3. La redazione del Quarto Vangelo
e Tinsieme del corpus: principali ipotesi'
di soluzione » 26
3. Conclusione » 30
Bibliografia » 34
VANGELO SECO N D O GIOVANNI
1. Questioni storico-letterarie » 37
1.1. Giovanni e i sinottici » 38
1.2. La differenza giovannea e la pretesa autoriale
sottesa al Quarto Vangelo pag. 46
1.3. «Non multa sed multum»;
il racconto giovanneo tra storia e teologia » 50
1.3.1. La memoria come chiave di accesso
alla costruzione del racconto giovanneo » 52
1.3.2. La Gestalt giovannea della vita di Gesù:
non molte cose, ma in profondità » 54
1.4. Il Quarto Vangelo come «metafora viva»:
trama e struttura letteraria del testo » 61
1.4.1. La trama giovannea tra azione e rivelazione » 61
1.4.2. La struttura letteraria » 64
2. Esegesi di Gv 1,1-18: da dove è necessario .
iniziare il discorso » 68
2.1. Genere letterario, background e funzione » 68
2.2. Struttura » 71
2.3. Traduzione e commento » 75
3. Esegesi di Gv 9: dottrina ed esperienza
davanti al rivelarsi del Figlio dell’uomo » 98
3.1. Contesto e genere letterario » 99
3.2. Struttura » 102
3.3. Traduzione e commento » 105
4. Esegesi di Gv 20,1-18: Maria di Magdala
e rincontro con il Signore risorto » 122
4.1. Contesto » 122
4.2. Struttura » 125
4.3. Traduzione e commento » 126
5. Linee teologiche » 138
5.1. La soteriologia » 140
5.2. La cristologia » 143
5.3. La pneumatologia » 148
5.4. L'escatologia » 151
5.5. La teologia » 155
5.6. Lecclesiologia » 158
Bibliografia » 160
LETTERE DI GIOVANNI
1. Questioni storico-letterarie Pag. 164
1.1. Il genere epistolare e le Lettere di Giovanni » 165
1.2. La crisi intra-ecclesiale e gli interlocutori polemici
delle Lettere » 167
1.3. Scopo e strategia retorica delle Lettere » 175
1.4. Struttura letteraria della Prima lettera
di Giovanni » 180
2. Esegesi di lG v 3,7-18: l’amore fraterno
come criterio ultimo di discernimento » 181
2.1. Delimitazione e contesto » 182
2.2. Struttura e modello argomentativo » 187
2.3. Traduzione e commento » 189
3. Linee teologiche » 203
Bibliografia » 206
APOCALISSE
1. Questioni storico-letterarie » 208
1.1. G li scritti «apocalittici»
e lApocalisse di Giovanni » 209
1.1.1. U«apocalisse» come genere letterario » 211
1.1.2. Uso e trasformazione del modello letterario
nell’Apocalisse di Giovanni » 214
1.2. LApocalisse di Giovanni nel contesto di vita
delle chiese dellA sia minore n e lI secolo d.C. » 218
1.3. Il simbolismo dellApocalisse » 221
1.4. La struttura letteraria dellApocalisse
come diacronia di una sincronia » 225
1.4.1.1 dati » 225
1.4.2. L’interpretazione » 227
2. Esegesi di Ap 1,4-8: il saluto del profeta Giovanni
alle chiese » 232
2.1. Contesto e struttura » 232
2.2. Traduzione e commento » 237
396 La salvezza viene dai Giudei
3. Esegesi di Ap 21,1-8: la città di Dio con gli uomini Pag. 249
3.1. Contesto e struttura » 249
3.2. Traduzione e commento » 251
4. Linee teologiche » 261
4.1.11 Dio vivente, fonte della rivelazione salvifica » 262
4.2. Il Cristo amante, sposo e redentore » 264
4.3. La chiesa testimoniale: sposa dell'Agnello
e tempio del Dio vivente » 265
4.4. L'escatologia » 269
Bibliografia » 272
LIN E E DI TEO LO G IA GIOVANNEA
1. La rivelazione cristologica
al centro della storia salvifica » 274
1.1. Gesù morto e risorto accadimento
e centro delle Scritture » 276
1.2. Gesù Viglio inviato e testimone fedele » 279
2. Il Dio uno, fonte e termine dell’amore che vivifica » 283
3. La pienezza dello Spirito » 287
4. Aspetti dell’ecclesiologia giovannea » 291
SECONDA PARTE
LE LETTERE CATTOLICHE
IL SETTENARIO D E LLE LETTER E «CA TTO LICH E» •
1. Le Lettere «Cattoliche» come corpus » 299
2. «Non con Paolo soltanto» » 301
Bibliografia » 305
LETTERA DI GIACOM O
1. Questioni storico-letterarie pag. 307
1.1. Datazione e autore » 308
1.2. Genere letterario e stile » 310
1.3. Destinatari e scopo della Lettera » 312
1.4. Struttura letteraria » 315
2. Esegesi di Gc 2,1-11: pensare, giudicare
e agire secondo il vangelo del regno » 318
2.1. Contesto e struttura » 318
2.2. Traduzione e commento » 320
3. Linee teologiche » 336
3.1. Il Dio uno e la sua Parola fedele » 337
3.2. Il nucleo primario della cristologia
e rermeneutica della Legge » 340
3.3. Comunità, etica e discernimento evangelico » 343
Bibliografia » 346
PRIMA LETTERA DI PIETRO
1. Questioni storico-letterarie » 348
1.1. Datazione, destinatari e autore » 348
1.2. Genere letterario e scopo della Lettera » 352
1.3. Struttura letteraria » 354
2. Linee teologiche » 355
Bibliografia » 362
LETTERA DI GIUDA
E SECO NDA LETTERA DI PIETRO
1. Questioni storico-letterarie » 366
1.1. Pseudepigrafia e datazione delle due Lettere » 366
1.2. La polemica contro i «negatori»
e lo scopo delle due Lettere » 369
1 .3 .1 d e stin a ti
Pag. 372
1 4 Lettera di Giuda: genere letterario e struttura »
1.3. Seconda lettera didietro: 373
genere letterano e struttura
» 375
2. Linee teologiche
» 377
2.1 La signoria dt riho e del suo Cristo
» 378
2.2. La negazione della «signoria»
e le sue manifestazioni
» 379
2.3. Il metodo della fede apostolica
» 383
Bibliografia
» 384
Conclusione