punto org
Collana diretta da Luigi Maria Sicca
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Brewis (University of Leicester) Olivier Butzbach (King’s College London, SUN) Antonio
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of Genetics and Biophysics Adriano Buzzati-Traverso, CNR) Giuseppe Recinto (Università
degli Studi di Napoli Federico II) Enzo Rullani (Venice International University) Alison
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Turaccio (Conservatorio di Musica di Salerno G. Martucci) Paolo Valerio (Università degli
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Gabriella Cundari
IL MONDO:
UNA BELLA PRIGIONE?
riflessioni geografiche
Editoriale Scientifica
Napoli
Tutti i diritti sono riservati
© 2018 Editoriale Scientifica s.r.l.
Via San Biagio dei Librai, 39
80138 Napoli
www.editorialescientifica.com
[email protected] ISBN 978-88-9391-454-3
A Valerio e Leonardo
Indice
9 1. Come il geografo studia il territorio
9 1.1. Premessa
9 1.2. L’Uomo e la Terra
15 1.3. A proposito di distanze: il vicino e il lontano nel
tempo e nello spazio. Matteo Ripa e le incisioni sul
paesaggio cinese
19 2. Un sistema complesso di relazioni
19 2.1. Popolamento, emigrazione, immigrazione
29 2.2. Il popolamento antico della Campania, emblema
delle mescolanze di popoli
33 3. Le lingue
33 3.1. La lingua tra umanizzazione e potere.
39 3.2. Il napoletano: un dialetto-lingua più antico dell’i-
taliano, insegna dell’accoglienza
47 4. Le religioni
47 4.1. Uno strumento di divisione
54 4.2. La relegazione storica: la Shoah alla Giudecca e i
campi profughi in Campania
56 4.3. La relegazione attuale: gli immigrati del Vasto e di
Ischitella parlano la lingua dei “fratelli”?
61 5. La più antica attività umana
61 5.1. L’agricoltore/cacciatore/pescatore ha l’albero ge-
nealogico più lungo
72 5.2. Le filiere campane innovative. Il “Monaco”, Auricchio
e Vannulo: dall’allevamento all’industria casearia
8 indice
81 6. L’industria
81 6.1. La geniale combinazione tra abilità manuale e ta-
lento cerebrale
95 6.2. I “sognatori”: due sovrani
97 6.3. Il “sognatore”: un industriale coraggioso
101 7. Il sistema terziario
101 7.1. Una categorizzazione complicata.
107 7.2. La prima metropolitana: napoletana e centenaria
109 7.3. Un artigiano-industriale: Kiton, ovvero l’abito che
fa il monaco
110 7.4. Dalla Certosa di San Giacomo ad un profumo…
leggendario
113 8. Innovazione, finanza e turismo, motori della crescita
113 8.1. La funzione trainante dell’innovazione
116 8.2. Il comparto del credito e della finanza
119 8.3. Il comparto del tempo libero, degli affari, della co-
noscenza del mondo
123 8.4. L’Archivio Storico del Banco di Napoli
124 8.5. Il turismo nella Napoli del Grand Tour
129 9. Conclusione
129 9.1. Dai luoghi geografici alla geografia dei “non luoghi”
135 Bibliografia
151 Hanno scritto nella Collana punto org
1. Come un geografo studia il territorio
1.1. Premessa
Il libro, come annuncia il suo titolo, si interroga sul mondo dal
punto di vista geografico; indaga sui suoi limiti (una prigione?) e sul
suo destino. Agli albori del XVII secolo già se lo chiedeva, con identica
espressione, Amleto, principe di Danimarca, protagonista di un’im-
mortale opera schakespeariana (Amleto, atto II, scena II, vv. 255-257).
Il sovrano rifletteva sullo spazio finito e sui confini (potrei viver confi-
nato in un guscio di noce, e tuttavia ritenermi signore d’uno spazio sconfina-
to) ma, soprattutto, sulle enormi potenzialità offerte agli abitanti della
bella prigione: Sappiamo ciò che siamo – dice Amleto – ma non sappiamo
né cosa saremo domani, né cosa saremo in grado di fare domani.
Ecco: per saper cosa si potrà fare domani, è necessario sapere
bene cosa succede oggi. Il XXI secolo porta innovazioni veloci e
continue, che possiamo valutare appieno solo alla luce di quello
che è già accaduto per indirizzare il futuro. Perché, se da un lato
la “prigione” si fa sempre più piccola, dall’altro ai suoi abitanti
si offrono molte più possibilità di evadere dals “guscio di noce”,
purché usino lo studio, le scoperte, la tecnologia e le innovazioni
per orientarsi al meglio nel mondo.
1.2. L’uomo e la terra
È sufficiente dire che la geografia umana studia l’uomo sulla Terra?
si chiedeva Paul Claval (Claval, 1964). Esiste una geografia “non”
10 Gabriella Cundari
umana? mi chiedo io. Sono passati ormai i tempi primordiali del-
la nostra disciplina legata allo studio dei fenomeni fisici e quelli,
più recenti, della geografia intesa come mera rappresentazione
grafico-descrittiva dei tratti terrestri (Ratzel, 1882 e 1891); oggi
dobbiamo partire da un assunto forse ovvio per alcuni, ma spes-
so sottovalutato: senza l’uomo, la Terra non avrebbe interpreti;
senza la Terra, l’Uomo non avrebbe un ruolo; i geografi (soprat-
tutto francesi) su questo tema, hanno scritto importanti volumi
(Febvre, 1922; Brunhes, 1925; Demangeon, 1942; Le Lannou, 1948;
Dardel, 1952). Ne consegue che, in un assetto multidisciplinare,
la geografia è parte integrante delle scienze socio-economiche e
che l’ambiente geografico è la sintesi di aspetti multiformi: infatti
ormai correttamente si parla di ambiente geografico antropizza-
to, dove è l’uomo, con le sue molteplici caratteristiche, capacità,
cultura, esigenze economiche e credenze religiose a modellare
paesaggi a misura delle proprie necessità (Coppola, 1986a, pp.
3-17). In un senso più propriamente sociologico, l’appartenen-
za ad una comunità si individua attraverso caratteristiche capaci
di creare un’identità degli appartenenti, come la storia comune,
gli ideali condivisi, le tradizioni e/o costumi; spesso è la lingua
l’elemento più fortemente identificativo degli aderenti ad una
collettività. La parola “comunità” appare, quindi, legata alle as-
sociazioni con affinità ideologiche e può essere vista come un’e-
stensione della famiglia. Una dimensione di vita comunitaria
implica tipicamente la condivisione di un sistema di significati,
come norme di comportamento, valori, religione, storia comune,
produzione di artefatti. Per alcuni esiste, invece, una comunità
più ampia: la comunità umana, sostanzialmente coincidente con
l’umanità, perché tutti gli umani hanno dei valori ed obiettivi
condivisi (o almeno dei diritti comuni).
Un approccio più psicologico tende ad osservare le differenze
tra i rapporti tra l’uomo, la comunità di appartenenza e la so-
cietà: l’individuo gode di una rete di protezione (la collettività)
che gli consente di evitare traumi sociali, ma limita anche un suo
1. come un geografo studia il territorio 11
pieno sviluppo (Mayer, Paesler, Ruppert e Schaffer, 1993). Nel
rapporto con la società, il “singolo” è infatti più esposto al mon-
do, ma allo stesso tempo è più libero di sviluppare le sue poten-
zialità, che oggi si esplicano in modi molto differenti dal passato
e l’esempio più attuale sono le comunità virtuali di internet.
Dibattere sul ruolo dell’approccio tradizionale e di quello quan-
titativo in geografia, rompere il fragile apparato epistemologico di
tante voci ufficiali novecentesche, è stata l’operazione compiuta in
primis da Yves Lacoste, che ha cancellato molte false certezze, come
quella del ruolo svolto dalla disciplina “cerniera tra le scienze del-
la terra e quelli sociali, grazie alla sua funzione di sintesi” (Lacoste,
1991). A lungo la geografia è stata invisa a masse di studenti, cui
perveniva solo la parte descrittiva, noiosa e apparentemente inutile
della materia scolastica, invece invece necessaria per comprendere
i “perché geografici” e utile a creare opportune basi di conoscenza;
al contrario, gli uomini di potere da tempo si sono appropriati della
geografia più signifcativa, strategica per l’interpretazione e la gestio-
ne del territorio e ne hanno fatto lo strumento della propria forza in
tutte le sue forme: militari, politiche, economiche, spesso utilizzan-
dola anche per conquistare e opprimere i più deboli (Raffestin, 1981).
Le osservazioni di Lacoste, per il quale la geografia umana è
una disciplina multiforme e ambiziosa, vennero riprese in un docu-
mento internazionale sull’educazione geografica, la International
Charter on Geographical Education (IGU, 1992), che definì la ge-
ografia “lo strumento per affrontare i cambiamenti e le sfide pla-
netarie”. Per raggiungere questo obiettivo educativo generale, il
documento sviluppò un curricolo innervato sul paradigma siste-
mico, capace di portare alla comprensione dei principali ambiti
complessi – naturali e antropici – della Terra. La società contem-
poranea, libera e globale, offre all’individuo crescenti opportunità
che vengono di volta in volta accettate o non, creando uno scena-
rio variabile, imprevedibile e privo di punti di riferimento. Nel cli-
ma di incertezza, chi cerca rapporti sociali più continui e al tempo
stesso disinteressati si rifugia nel mondo del volontariato e degli
12 Gabriella Cundari
enti non-profit o in movimenti politici, soprattutto di nuova gene-
razione. Dall’intersezione interpretativa e non soltanto descritti-
va fra scienze umane e scienze naturali, infatti, scaturisce la vera
educazione geografica, che stabilisce un forte contatto con la realtà
della vita contemporanea, mostrando relazioni e interdipendenze
tra fatti naturali e attività umane (Buttimer, 1974).
Il moderno concetto di geografia include l’impatto che l’uomo
ha sul sistema ambientale in cui insiste; si tratta dunque di una
geografia dal DNA antropizzato i cui insegnamenti sono media-
tori di educazione all’ambiente e, nel contempo, consentono di
prendere decisioni corrette sull’uso degli spazi da parte delle col-
lettività umane (Cerreti e Tamberini, 1997). Per estrema sintesi,
occorre che l’analisi geografica si compia in cinque funzioni:
1. ricostruttiva, che parte dalla storia dei luoghi, perché da essa di-
pendono, a caduta, molti effetti che determinano la situazione
del momento in cui si compie il percorso di analisi;
2. descrittivo-analitica, indispensabile per effettuare il confronto
delle diverse componenti di ciascun ambito geografico;
3. esplicativa, per una valutazione da un punto di vista geografico
delle condizioni dei singoli luoghi oggetto di studio;
4. interpretativa, perché la multiforme combinazione di influenze
storiche, paesaggistiche, economiche, sociali fa di ciascun ambito
un’espressione originale e complessa;
5. normativa, per sancire quale comportamento sia più idoneo per
amministrare un gruppo sociale e/o economico (Dematteis, 1985;
Lanza e Dematteis, 1987; Greiner, Dematteis e Lanza, 2012).
L’idea convenzionale e antica secondo la quale la geografia
descrive, la storia narra, la fisica spiega, e il diritto norma è supe-
rata e scorretta, per una serie di motivi:
1. il compito di ciascuna di queste discipline non può e non deve
essere univoco e ciascuna di esse deve integrarsi con le altre;
2. l’interpretazione non è mai oggettiva, quindi occorre sottoporla a
confronti e verifiche;
3. la norma deve essere validata attraverso decisioni multilaterali.
1. come un geografo studia il territorio 13
Per quanto riguarda in particolare le scienze geografiche,
dunque, le decisioni in merito al destino dei singoli ambiti di stu-
dio devono nascere dall’esame critico ed epistemologico dell’am-
biente geografico, l’unico da cui può discendere una spiegazione
non di taglio deterministico, ma logicamente costruita a seconda
dei luoghi analizzati (Celant e Vallega, 1984).
È perciò utile ribadire che tale spiegazione (formulata attra-
verso le cinque funzioni sopra considerate) procederà per tappe
concatenate. Le prime tre funzioni: ricostruzione, analisi e spie-
gazione costituiscono il punto di partenza e saranno sottoposte
ad un’attenta interpretazione. Sarà l’interpretazione corretta a
consentire a sua volta la formulazione di concrete norme econo-
mico-sociali Solo le norme validamente individuate garantiran-
no la sostenibilità dei singoli ambiti geografici, capaci di cambia-
re e di innovarsi nel tempo, pur mantenendo intatta la propria
specificità.
Ma le norme, a loro volta, dovranno essere sottoposte a pro-
gressive verifiche, a scale differenti: una declinazione scientifica,
infatti, non può dirsi soddisfacente se non tiene conto del com-
portamento delle sue componenti nel tempo e nello spazio, di-
stinguendo debitamente tra:
1. le scale locali, fatte di comunità che percepiscono un ambito
come identitario delle proprie esigenze (Copeta, 1986);
2. le diversità ambientali e culturali, che possono innestare conflitti
(Coppola b, 1986);
3. i livelli decisionali e di potere (Dematteis, 1985), che si estendono
a scale sempre più ampie, incidendo sulle scelte politico-econo-
miche degli ambiti sottostanti;
4. le decisioni e gli eventi planetari (ad esempio i grandi cambia-
menti climatici in atto, ma non solo) che possono cambiare il de-
stino di ciascun territorio (Gambi, 1973; Vallega, 1989).
Da sempre il mondo è stato attraversato da trasformazioni,
ma esse fino agli ultimi due secoli si affermavano in tempi lunghi,
rendendo meno traumatico il cambiamento. Questa finta stabili-
14 Gabriella Cundari
tà è stata sovvertita dalla II guerra mondiale in poi, con intervalli
sempre più veloci, con modi e forme forti, insidiose, precipitose,
burrascose. Forse oggi il tema del cambiamento è l’aspetto più
interessante e difficile da definire, soprattutto nel campo della
“distanza”, che sarà l’oggetto di molte riflessioni di questo libro.
Una distanza non più euclidea, una distanza percepita in modo
variabile, una distanza difficile da rappresentare nello strumento
più antico della nostra disciplina, le carte geografiche, perché il
mondo non può essere percepito appieno da un sistema di recet-
tori bidimensionali e/o matematico-statistici.
Il compito del geografo? Non di descrivere le “cose eterne”
come si legge nel Piccolo Principe, ma tenere presente la saggia
massima attribuita ad Eraclito e sintetizzata nel πάντα ῥεῖ: nes-
sun uomo entra mai nello stesso fiume, perché il fiume non è mai lo
stesso ed egli non è lo stesso uomo; ovvero: negli stessi fiumi entriamo
e non entriamo, siamo e non siamo (Tonelli, 2016).
Alfio Sironi (2014), viaggiatore con lo spirito di geografo, in
un’intervista a Monica Di Maio ha dichiarato: Oggi credo che il
compito della geografia sia quello di evidenziare i guasti del modello
socioeconomico presente, guasti che si vedono meglio con uno sguar-
do ampio sul mondo… La geografia, insieme alle altre grandi disci-
pline umanistiche, può ridare la possibilità di guardare il mondo al di
fuori della prospettiva totalizzante del mercato. Come qualcuno disse
alla House of Commons di Londra nel 1879, lo studio della geografia
porta invariabilmente alla rivoluzione. Rivoluzione come attitudine
al cambiamento, come una costruzione evolutiva che non vedrà
(mai?) fine e che richiede un apprendimento continuo. La no-
stra disciplina ha acquistato con fatica la propria consapevolez-
za epistemologica che non solo, come si è a lungo creduto, deve
scontare l’ambigua dicotomia natura/cultura, ma deve farsi cari-
co in modo esplicito di un’ontologia peculiare perché l’agire ter-
ritoriale di ogni essere umano sulla terra è stimolato da bisogni,
orientato dalla tecnica, ispirato da sentimenti, nutrito da visioni,
regolato da istituzioni (Turco, 2010, p. 271 sgg.).
1. come un geografo studia il territorio 15
Chiudo con una notazione: siamo spesso affascinati dalla ca-
tegoria del “lontano” nel tempo e nello spazio e siamo indotti
a pensare che conoscere e studiare regioni differenti sia l’unico
modo per capire il mondo nella sua pienezza. Nulla di male, na-
turalmente: il viaggio è il viatico del geografo quanto dell’esplo-
ratore, e la storia del mondo offre molti spunti comparativi. Ma
è altrettanto necessario studiare il “vicino”, cosa che spesso tra-
scuriamo o addirittura ignoriamo. Per questo motivo, in ciascun
capitolo di questo saggio la prima parte sarà dedicata all’esame
delle singole problematiche a livello generale, e la seconda a casi
di studio “della” e “nella” nostra regione. Perché ciascuno di noi
conosca il contributo (storico, socio-economico, culturale) che il
Mezzogiorno d’Italia, e in particolare la Campania, hanno offerto
a tutti.
1.3. A proposito di distanze: il vicino e il lontano nel tempo e
nello spazio. Matteo Ripa e le incisioni sul paesaggio cinese
Non tutti sanno che il quartiere Sanità fu la sede del primo
insediamento all’estero di una comunità cinese e che in prossi-
mità dell’ospedale Elena d’Aosta c’è la chiesa dei cinesi dedicata
alla Sacra Famiglia, con la tomba del sacerdote don Matteo Ripa
(Eboli, 29 marzo 1682 - Napoli, 29 marzo 1746) missionario ita-
liano, grazie al quale si instaurarono i primi solidi rapporti tra il
Regno di Napoli e l’Impero cinese. Il giovane Matteo, dopo aver
trascorso l’infanzia ad Eboli, fu indirizzato per “dovere di fami-
glia” all’avvocatura, anche se possedeva un’innata propensione
per l’arte. Ma non terminò i suoi studi legali, perché fu attratto
dall’attività missionaria ed entrò nella Congregazione dei pre-
ti secolari missionari. In quegli anni era in atto una questione
diplomatica con la Cina dove agivano alcuni missionari gesuiti,
e Papa Clemente XI aveva deciso di inviare in Cina una delega-
zione. Matteo ebbe l’incarico compito di consegnare la berretta
16 Gabriella Cundari
cardinalizia al capo della delegazione già insediatosi in Cina e,
dopo enormi ostacoli e difficoltà, riuscì nel 1710 a raggiungere il
neo cardinale appena in tempo, prima che morisse.
Chiamato poi alla Corte dell’Imperatore Kangxi (della Di-
nastia Qing, di origini mancesi), Ripa vi rimase per circa tredici
anni, dal febbraio 1711 al novembre 1723, lavorando in qualità
di pittore ed incisore su rame al servizio dell’Imperatore stesso
(Fatica, 2001). Presso il palazzo estivo di Jehol in Manciuria, il sa-
cerdote-artista incise anche 36 vedute della villa su lastre di rame
per stampare copie che l’imperatore intendeva donare ai suoi fa-
miliari e dignitari. Quando tornò in Europa, Ripa portò con sé
copie delle vedute della villa di Jehol, che furono molto apprez-
zate in Inghilterra da architetti in cerca di soluzioni innovative
da sperimentare nella progettazione di ville e giardini: pertanto
la conformazione di molti giardini inglesi è stata influenzata dal-
le incisioni del nostro missionario. Dopo aver tentato di aprire in
Cina una scuola a Pechino per l’educazione di giovani cinesi, cui
affidare il compito di diffondere il Cristianesimo tra i loro conna-
zionali, nel 1723 Matteo decise di ritornare in Italia per realizzare
il Collegio dei Cinesi di Napoli, conducendo con sé quattro gio-
vani cinesi, i cui nomi erano Giovanni Guo (ca. 1700-1763), Gio-
vanni Yin (ca. 1704-1735), Philipo Huang (ca. 1711-1776), e Lucio
Wu (ca. 1712-1763), insieme a un loro connazionale più adulto
che era maestro di lingua e scrittura mandarina (Fatica, 2006). Fu
questo il primo nucleo del Collegio dei Cinesi che fu riconosciuto
da papa Clemente XII, il 7 aprile 1732.
Al Collegio fu associato un convitto per l’educazione di giova-
ni napoletani, ove tra gli altri nel XVIII secolo soggiornò Sant’Al-
fonso Maria de’ Liguori. Il Collegio dei Cinesi si proponeva la
formazione religiosa e l’ordinazione sacerdotale di giovani cinesi
convertiti, destinati a propagare il cattolicesimo nel loro paese.
Tra gli scopi del Collegio era prevista in origine anche la forma-
zione di interpreti, esperti nelle lingue dell’India e della Cina, al
servizio della Compagnia di Ostenda, costituita nei Paesi Bassi
1. come un geografo studia il territorio 17
con il favore dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo, per stabilire
rapporti commerciali tra i paesi dell’Estremo Oriente e l’Impero
asburgico, nel cui ambito rientrava il Regno di Napoli. Dopo l’U-
nità d’Italia, il Collegio dei Cinesi fu trasformato in Real Collegio
Asiatico e, con la riforma ministeriale di Francesco De Sanctis, in
Istituto Orientale, in cui fu soppressa la sezione missionaria ed
equiparato alle altre Università statali. Matteo Ripa si era spento
il 29 marzo del 1746, giorno del suo 64º anno.
L’Orientale è di fatto la più antica Scuola di sinologia e orien-
talistica del continente europeo e nel 1973 fu il primo ateneo
italiano a strutturarsi interamente su base dipartimentale, as-
sumendo le caratteristiche di un ateneo plurifacoltà; nel 2002
ha acquisito l’odierna denominazione che lo configura come il
principale ateneo statale italiano specializzato nello studio e nel-
la ricerca delle realtà linguistico-culturali dell’Europa, dell’Asia,
dell’Africa e delle Americhe.
2. Un sistema complesso di relazioni
2.1. Popolamento. Emigrazione, immigrazione
Alan Turing, matematico, in suo saggio, affermò: Lo sposta-
mento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un
momento dato, potrebbe costituire la differenza tra due avvenimenti
molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di
una valanga, o la sua salvezza (Turing, 1950, pp. 433-434). Da quan-
do ciò avvenne, sino all’effetto farfalla del meteorologo Edward
Lorenz, passarono più di venti anni. In una sua conferenza del
1971, Lorenz, che aveva studiato a fondo Turing, si chiede: Può, il
batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare, anni dopo, un tornado
in Texas? Da questa domanda scaturirono una serie di studi e di
modelli matematici utilizzati per l’elaborazione della teoria del
caos, applicata in moltissime discipline, dalla matematica alla fi-
sica, dall’ingegneria alla robotica, dalla medicina alla geografia,
che se ne serve per spiegare alcuni aspetti della dinamica del po-
polamento e dei cambiamenti climatici e/o demografici, in ambi-
ti molto distanti nello spazio e nel tempo (Lorenz, 1969 e 1971;
Manzi, 2002).
Le soluzioni cui era giunto il Lorenz, infatti, trasportate nel
campo della demografia, servirono per teorizzare modelli di cre-
scita della popolazione umana che tenevano conto anche di fat-
tori esterni, sia incrementativi che limitanti.
Sicuramente l’accrescimento della popolazione terrestre è av-
venuto in tempi lunghi e con un andamento discontinuo; l’uomo
ha più volte rischiato l’estinzione, soprattutto nella fase primor-
20 Gabriella Cundari
diale dell’Homo Sapiens. Superate le prime crisi, su cui poco si
sa e molto si ipotizza, la popolazione mondiale cominciò a cre-
scere; si calcola che nelle terre dell’Impero Romano, tra il 300 e
il 400 a.C., vivessero in media 75 milioni di persone, che furono
per oltre il 39% decimate dalla cosiddetta Peste di Giustiniano.
La crescita riprese successivamente sino alla peste nera de XIV
secolo, causa di un forte decremento nella popolazione, cui se-
guì una nuova ripresa. Epidemie, guerre, terremoti, disastri am-
bientali hanno sempre alterato la crescita demografica. Occorre
inoltre considerare che la popolazione mondiale non è mai stata
stanziale: lo spostamento di masse ingenti di uomini durante
il periodo della colonizzazione delle Americhe, ad esempio, ha
colmato vuoti insediativi nei continenti scoperti e ridotto noci-
ve pressioni demografiche nei luoghi di partenza. A questi spo-
stamenti si deve inoltre la diffusione di specie alimentari nuove
(mais, pomodoro, patata e di vegetali come il cotone) che hanno
svolto un ruolo importante nella crescita della popolazione del
vecchio continente e nel miglioramento delle condizioni di vita
(Migliorini, 1971; George, 1977); sicuramente, infine, hanno avu-
to influenze positive le scoperte mediche, che hanno il tasso di
mortalità e innalzato quello di natalità.
Carl Haub (2002, pp. 3-5), in uno studio promosso dall’orga-
nizzazione non-profit Population Reference Bureau, calcolò che tut-
ti gli esseri vissuti sulla Terra sino al momento del suo studio si
aggiravano sui 107 miliardi di persone; ma si tratta di un calcolo
empirico, una stima ricavata dagli ipotetici tassi di natalità im-
mediatamente prima e subito dopo eventi occorsi in particolari
tappe della storia umana.
Nel mondo oggi vivono più di 7 miliardi e mezzo di indivi-
dui, che l’ONU prevede divengano 8,6 miliardi nel 2030. Seb-
bene dal XIV secolo la crescita sia stata relativamente continua,
la distribuzione della popolazione è altamente irregolare, con
trend differenti da area ad area della Terra. L’Asia ospita oltre il
60% della popolazione mondiale, con 3,8 miliardi di persone. La
2. un sistema complesso di relazioni 21
Repubblica Popolare Cinese e l’India da sole ne contano rispet-
tivamente il 20% e il 17%. Segue l’Africa con 840 milioni (12%
del totale), mentre l’Europa (710 milioni, 11%) e il Nord America
(514 milioni, 8%) sono dietro. Chiudono Sud America (371 milio-
ni, 7%) e Oceania (21 milioni, circa il 2%). La popolazione delle
zone polari è pressoché irrilevante.
Il tasso di crescita della popolazione terrestre sta regolarmen-
te diminuendo, sebbene rimanga elevato soprattutto nel Medio
Oriente e nell’Africa subsahariana (Fazio A., 2012) In alcuni pa-
esi, specialmente nell’Europa Centrale e nell’Europa dell’Est, si
assiste ad un decremento della popolazione dovuto principal-
mente alla diminuzione del tasso di fertilità. Nell’Africa meri-
dionale, invece, il calo della popolazione è causato soprattutto
dall’alto numero di persone decedute a causa dell’AIDS. Entro i
prossimi dieci anni anche il Giappone e alcuni paesi Occidentali
dovranno fare i conti con un decremento della popolazione.
Quando la crescita demografica supera la capacità di sosten-
tamento di una determinata area geografica si parla di sovrappo-
polazione, dannosa sia per motivi economici, sia per la crescita
del degrado ambientale (Harvey, 2015). Ma anche il decremento
non è privo di conseguenze preoccupanti: l’aumento della popo-
lazione anziana e la riduzione del ricambio generazionale, infatti,
creano uno squilibrio nel rapporto tra generazioni a svantaggio
della popolazione potenzialmente più attiva e produttiva; que-
sto rende preoccupanti le conclusioni di recenti studi promossi
dall’ONU, che attestano come la crescita demografica stia rapi-
damente declinando con un ipotetico picco negativo di 9 miliardi
di abitanti nel 2050 (UNRIC, 2018). Anche in Italia è in atto forte
invecchiamento della popolazione ha registrato nell’ultimo bien-
nio un calo ulteriore del 2% (Capacci e Rinesi, 2014).
Come abbiamo già detto, le nazioni più popolate sono la Cina
(1,4 miliardi di abitanti) e l’India (1,3 miliardi), seguite da lon-
tano da Stati Uniti (325 milioni) e Indonesia (255 milioni). Il di-
scorso cambia quando consideriamo la densità abitativa, che è il
22 Gabriella Cundari
rapporto tra abitanti e superficie in kmq: primo Stato è Singapore
(7.301abitanti/kmq), il secondo Hong Kong (6.396 abitanti/kmq);
seguono a grande distanza Bahrein (1.646 abitanti/kmq) e Ban-
gladesh (1.034 abitanti/km) (Sartori e Mazzoleni, 2003).
Il quadro distributivo poco ci dice se non lo combiniamo con
l’analisi della variabile “capitale umano”, vale a dire l’insieme di
capacità, conoscenze e abilità sia professionali che relazionali di
ciascun individuo, il quale elabora in modo personale e diver-
samente efficace quello che ha appreso durante la formazione
scolastico/universitaria e quello che ha esperimentato sul luo-
go di lavoro (Becker, 2008). Questo capitale, quando è positivo,
viene riversato nelle imprese, accrescendone la produttività e
la redditività. Al contrario, un capitale umano di basso livello
diventa fattore di sottosviluppo: in realtà si verifica un circolo
vizioso di negatività, perché la scarsa qualità di capitale umano
non consente una crescita socio-economica valida e la mancanza
di crescita impedisce l’evoluzione positiva del contesto umano
(Bataillon, 1980). Cominciamo l’esame della situazione mondiale
del fenomeno partendo dai casi-limite: dei 757 milioni di analfa-
beti, il 75% vive in Asia (soprattutto sud-occidentale) e in Africa
(soprattutto subsahariana); la quota di analfabetismo è princi-
palmente giovanile (115 milioni, di cui un milione di bambini
siriani) e femminile (477 milioni). I giovani tra i 20 e i 24 che non
lavorano, non studiano e che, in generale, non seguono nessun
corso di formazione sono i cosiddetti NEET: not [engaged] in edu-
cation, employment or training, e rappresentano il 17% circa per
cento della popolazione mondiale (La Rocca, 2017).
A livello di Unione Europea, in Italia oltre due milioni di ra-
gazzi (cioè il 24,1%) tra i 15 e i 29 anni non studiano e non lavo-
rano (Rapporto Istat 2017 sui livelli di istruzione) e il contributo
del Mezzogiorno a questa negatività è da sempre decisivo (Cop-
pola a, II, 1977). Questa quota di neet è la più alta tra i 28 Paesi
dell’Unione Europea ed è decisamente superiore non solo alla
media UE (13,4%) ma anche a quella dei più grandi paesi euro-
2. un sistema complesso di relazioni 23
pei: anzi, rispetto a questi ultimi, il differenziale è aumentato.
Islanda, Olanda e Germania sono invece i paesi con il più basso
tasso di neet. La disparità tra occupazione maschile e femminile
in questi paesi è quasi nulla e in alcuni casi (Germania) si assiste
anche ad un’inversione di tendenza: sono le donne a lavorare
più degli uomini. Secondo le statistiche OCSE, infine, i paesi che
spendono di più per l’istruzione sono Costa Rica, Regno Uni-
to e Columbia, mentre l’Italia si posiziona al quartultimo posto
(Cocco, 2001; Cornali, 2009). Costa Rica è anche il paese che più
di tutti investe nell’istruzione pubblica, seguita da Norvegia e
Danimarca. Il paese che investe maggiormente nelle università
private è invece la Corea, seguita da Giappone e Stati Uniti.
Infine, affrontiamo l’aspetto da un punto di vista socioecono-
mico e ambientale. Come detto precedentemente, la popolazione
mondiale non è mai stata stanziale. Emigrazione ed immigrazio-
ne, termini che indicano gli spostamenti di popolazione, sono la
chiave di volta di un problema complesso: ci si sposta dalla terra
di appartenenza per motivi economici, religiosi, bellici, sociali,
ambientali, spesso intrecciati tra loro, in modo definitivo, dura-
turo o temporaneo; si immigra in luoghi dove si cercano acco-
glienza e nuove soluzioni sociali ed economiche.
Il sociologo antropologo Abdelmalek Sayad sin dalla fine de-
gli anni ‘90 (2002) si interrogò sul problema nella sua totalità,
ponendo la sua attenzione sulle condizioni di partenza, sui per-
corsi di vita, sulle responsabilità e sulle scelte delle regioni d’ar-
rivo. Sayad definì il fenomeno doppia assenza: da un lato, quella
che gli attuali migranti lasciano nel luogo di partenza; dall’altro
quella dell’esclusione che spesso, troppo spesso, si verifica nei
loro confronti anche nel paese in cui si trovano a vivere. Il pen-
siero di Sayad restituisce la realtà del migrare come esperienza
di un’esistenza fuori-luogo, in cui il soggetto, già sofferente per
le condizioni che lo hanno costretto a espatriare, vive una vera
e propria caduta sociale: ricominciare da zero per conquistare
con grandi difficoltà (a volte insormontabili) un suo spazio so-
24 Gabriella Cundari
ciale all’interno della società di arrivo (Mezzadra, 2006). Oggi
nella nostra nazione il problema degli immigrati è all’ordine del
giorno, prima di tutto perché l’Italia, per la sua posizione pro-
iettata nel cuore del Mediterraneo e per il suo notevole nume-
ro di porti, è geograficamente predisposta all’accoglimento dei
flussi provenienti dal continente africano: flussi non preordinati,
che nascono (spontaneamente? è da vedersi), su barconi e mezzi
di fortuna pagati a caro prezzo dalle famiglie del migrante ai
trafficanti, mercenari di uomini indubbiamente in contatto con
la malavita italiana. Questi immigrati, il più delle volte sfuggi-
ti a situazioni incresciose economico-bellico-sociali, vorrebbero
raggiungere i Paesi più ricchi dell’Europa, ma poi, finiscono per
rimanere apolidi, bloccati dalla nostra cattiva gestione dei flussi
migratori e dalla mancanza di accordi precisi tra i Paesi dell’U-
nione Europea (un’Unione dove le frontiere non sono mai state
abbattute): senza documenti e senza soldi, entrano in contatto
con la malavita locale, che li utilizza in parte per attività illegali
e in parte per il bracciantato, per di più lucrando con un’offerta
onerosa di protezione criminale e di alloggio collettivo e misero,
che assorbe quasi tutti i loro miserrimi guadagni.
L’Europa non è un paese ospitale e produce ben pochi model-
li di integrazione sociale, preoccupata com’è del problema solo
in termini di sicurezza. Così l’immigrazione resta un’incognita
aperta, con ripercussioni di becera politica elettorale, un rebus
costruito più che studiato dal punto di vista socioeconomico. Si
rinnova in questo modo l’attenzione sui confini, linee curve e im-
materiali disegnate a tavolino, per controllare il territorio di per-
tinenza di ciascuno stato: queste linee immateriali (talvolta an-
che con muri elettrificati) individuano i limiti non solo di ambiti
fisici, ma anche di acque marine (Talia, 2004). Da un lato i confini
sono la fonte primaria della coesione interna dei sistemi, cui per-
mettono la formazione di un centro e di una periferia, regolan-
do i flussi interni ed esterni di ciascuno di essi e definendone la
natura delle relazioni esterne e di quelle interne (Belli, 2015, p.
2. un sistema complesso di relazioni 25
192 sg.); dall’altro lato, però, in nome di scelte politiche ostative
nei confronti dell’immigrazione, possono trasformarsi in barrie-
re contro l’ingresso di flussi di svantaggiati e/o perseguitati, in
nome del diritto di possedere uno spazio e di difenderlo anche
con la forza. Per chi vorrebbe accoglienza, invece, il confine non è
quello dello stato che non vuole accettarli, ma una forma di nega-
zione del “diritto degli ultimi”, effettuato attraverso l’emissione
(per tempi lunghissimi e al di là di ogni ragione) di un documen-
to di cittadinanza per extracomunitari.
Un confine invisibile, ma assolutamente percepito da chi ne
subisce le conseguenze, perché, così come previsto dalla legge,
il non rispetto del diritto comporta una sanzione, ergo l’utilizzo
della forza. Questo anche in Italia, nonostante che di emigrazio-
ne gli Italiani abbiano avuto esperienza diretta, oltre che in secoli
lontani, anche quando il flusso migratorio dal Mezzogiorno alla
fine dell’Ottocento e soprattutto agli inizi del Novecento portò
fuori dalle regioni native in più tappe circa 5 milioni e 300 mila
persone con un ritmo crescente dal primo all’ultimo anno (Co-
lucci e Gallo, 2015).
In una prima fase, circa la metà degli emigranti si diresse ver-
so i paesi europei, soprattutto Francia e Germania. I rimanenti,
invece, presero destinazioni extraeuropee, massime Argentina e
Brasile e in minor misura negli Stati Uniti; due su tre degli mi-
granti provenienti dall’Italia settentrionale preferirono mete eu-
ropee (soprattutto la Francia, che richiedeva mano d’opera per
la costruzione di opere pubbliche). Gli emigrati provenienti dal
meridione si diressero nelle Americhe. Questa fase fu priva di
regole e di restrizioni e molti vennero truffati con biglietti di pi-
roscafi che non sarebbero mai partiti. Dal 1900 al 1914 si aprì la
seconda fase determinata dalla crisi del lavoro agricolo e dalla
mancanza di un lavoro sostitutivo a quello contadino: coinvolse
600.000 emigrati all’anno con un picco nel 1913. Fu un’emigra-
zione prevalentemente extraeuropea, maschile e meridionale al
70%, cui si aggiunsero interi nuclei familiari diretti in Svizzera.
26 Gabriella Cundari
La situazione precipitò negli anni immediatamente successivi
alla seconda guerra mondiale, a causa delle distruzioni belliche
e della chiusura delle fabbriche. I danni di guerra assorbivano
ingenti risorse nella ricostruzione, che da sola non poteva risol-
vere la disoccupazione strutturale; l’elevata inflazione svalutò
la lira ben cinque volte; il crollo del regime nazifascista aveva
lasciato l’Italia in balia del vandalismo che la faceva da padro-
ne e l’ordine pubblico era fortemente compromesso. Per molti
italiani, si prospettava un’unica soluzione per combattere la mi-
seria: lasciare la propria patria in cerca di un lavoro e di migliori
condizioni di vita. Tra il 1946 e il 1947 partirono circa 84 mila ita-
liani, la maggior parte provenienti dal Veneto e dalle campagne
del sud e diretti verso Argentina, Canada e Australia. Dal 1946 al
1960 il saldo migratorio italiano raggiunse la quota di 2.361.529
emigrati totali, su una popolazione che nel 1946 ammontava a
45.540.000, nel 1951 era di 47.295.000 e nel 1961 aveva superò i 51
milioni di persone.
Espatri, rimpatri e saldo migratorio degli italiani verso l’estero
Anni Espatri Rimpatri Saldo migratorio
1946 110.286 4.558 – 105.728
1947 254.144 65.529 – 188.15
1948 308.515 119.261 – 189.254
1949 254.469 118.626 – 135.843
1950 200.306 72.304 – 128.272
1951 293.057 91.904 – 201.153
1952 277.535 96.900 – 180.635
1953 224.672 103.038 – 121.633
1954 250.925 107.200 – 143.725
1955 296.826 118.583 – 178.243
1956 344.802 155.293 – 189.509
1957 341.733 163.277 – 178.456
1958 255.459 139.038 – 116.421
1959 268.490 156.121 – 112.369
1960 383.908 192.235 – 191.673
(Istat, Rilevazione del movimento demografico della popolazione 2005)
2. un sistema complesso di relazioni 27
Nonostante la tragicità delle condizioni italiane, non fu il no-
stro paese il protagonista della quota più alta di emigrazione ri-
spetto al totale della popolazione dello stato: fu l’Irlanda, dove la
carestia e il malgoverno britannico furono le principali cause d’e-
spatrio. In ogni caso, il numero complessivo dei nostri migranti
risulta tanto elevato da superare ampiamente i flussi migratori
odierni provenienti dall’Africa e approdati in Italia, soprattutto
nei porti del Sud.
Il fenomeno migratorio, oltre a consentire un riequilibrio de-
mografico in patria, può avere ripercussioni positive anche per i
paesi di destinazione. Il processo di invecchiamento della popo-
lazione è un fenomeno demografico che sta interessando l’inte-
ra Europa, come conseguenza del generale miglioramento della
qualità della vita e del declino della natalità in vari paesi (Manzi,
1999). L’Italia rappresenta uno dei paesi più longevi al mondo e,
al contempo, uno dei più colpiti dal calo delle nascite, aggrava-
to dalla crescente precarietà occupazionale delle famiglie. I dati
ISTAT del 2015 stimano l’età media italiana in aumento, mentre
le nascite sono in progressiva diminuzione; di conseguenza, con
la diminuzione della popolazione attiva, emergono problemati-
che legate alla sostenibilità della spesa previdenziale.
Anche il miglioramento dei servizi sanitari e dello stile di
vita, combinati con l’innalzamento dell’età media, pongono pres-
santi problemi ai sistemi previdenziali dei paesi europei, perché
l’altra faccia della medaglia è la riduzione delle persone in età
lavorativa e quindi un minore gettito destinato alle pensioni. Un
incremento dell’immigrazione potrebbe costituire il fattore deci-
sivo per il riequilibrio della spesa pensionistica, dato che la gran
parte degli espatriati si trova in età lavorativa; gli effetti positivi
dell’immigrazione in Italia sono già tangibili: secondo Open@
migration (sito lanciato dalla Open Society di George Soros), nel
2009, grazie agli immigrati, 520.000 italiani hanno potuto riceve-
re la pensione. Tale numero è pervenuto a 600.000 unità nel 2013,
ed è destinato a crescere ancora nel corso degli anni, e potrebbe
28 Gabriella Cundari
essere compensato dall’aumento dei contributi previdenziali de-
gli stranieri (Livi Bracci, 2016).
Ma la fazione che si oppone all’accoglienza sostiene che essa
sia una delle cause dell’alto tasso di disoccupazione in Italia
e in Europa, poiché gli immigrati troverebbero più facilmente
lavoro a scapito della popolazione locale. Prima della crisi, il la-
voro degli immigrati poteva essere considerato complementare
a quello dei nativi e non sostitutivo, anche perché gli stranieri
occupavano per la maggior parte posti di lavoro dequalificati,
non coperti dall’offerta interna. Dal 2010-2011 si è registrato un
aumento dell’occupazione degli italiani anche nelle professioni
a bassa qualifica e questo viene interpretato come diminuzione
della complementarità tra forza lavoro italiana e quella stra-
niera; quindi sempre più italiani e stranieri si contenderebbe-
ro gli stessi posti di lavoro (De Santis e Strozza, 2017). Inoltre,
nella percezione comune, gli immigrati sono quelli provenienti
dall’Africa e dalla porzione sud occidentale del continente asia-
tico (coloured): nessuno considera come immigrati quelli che
arrivano da paesi europei non appartenenti all’UE o valuta con
la dovuta apprensione la crescente quota di cinesi, che aprono
attività commerciali nelle grandi città, spesso non rilasciano ri-
cevute fiscali e occupano interi quartieri, in connivenza con la
malavita locale. Il calo dell’occupazione italiana esige che ven-
ga accolta una quota di immigrati almeno compensativa del de-
cremento naturale delle nostra popolazione (Solari, 2016). Infi-
ne, il fenomeno dell’immigrazione nella discussione pubblica e
nella cronaca giornalistica risulta sovente accostato alla proble-
matica dell’aumento della delinquenza e della criminalità. Per
quanto riguarda l’Italia, tuttavia, ricerche econometriche hanno
dimostrato che non c’è alcun nesso fra immigrazione e crimi-
nalità: i due fenomeni sono entrambi attratti dalla ricchezza, e
quindi possono intensificarsi contemporaneamente nelle zone
ricche, senza però che l’una causi o favorisca l’altro (Amato e
Viganoni, 2005).
2. un sistema complesso di relazioni 29
Per tutti questi motivi, il clima di opposizione all’accoglienza
dei migranti è crescente e le votazioni alle recenti sfide elettorali
confermano che molti italiani sarebbero favorevoli al ripristino
delle frontiere. Ma non siamo i soli: l’opinione pubblica di molti
cittadini UE e non, debilitati dalla crisi economica e/o preoccu-
pati per i fenomeni terroristici, si esprime contro l’immigrazione
di massa, per il timore che si possano così aggravare problemi di
sicurezza e di coesione sociale. Le legislazioni dei Paesi UE pon-
gono l’autonomia economica dell’immigrato come una condizio-
ne necessaria per avere un permesso di soggiorno e poi la cittadi-
nanza; egli dovrebbe essere espulso. qualora non fosse in grado
di dimostrare di avere un lavoro regolare, oppure di presentare
un attestato certificato di qualcuno che possa dargli un sostenta-
mento economico, condizioni per ottenere un regolare permesso
di soggiorno. Ma una quota non precisabile di immigrati resta in
un limbo di semiclandestinità che è in netto contrasto con il det-
tato delle leggi. Soprattutto, il fenomeno non è governato: le leggi
attuali italiane andrebbero attuate in pieno, e non lo sono; l’UE è
rimasta un‘unione a metà: una finta unione politica molto più un
insieme di dettati economici e monetari. Come ha affermato re-
centemente Draghi, è una casa instabile, perché costruita a metà.
2.2. Il popolamento antico della Campania, emblema delle
mescolanze di popoli
Fu Polibio nel II secolo a.C., a descrivere la regione che già da
più di cinque secoli si era sviluppata intorno ai crateri del Roc-
camonfina, dei Campi Flegrei e del Vesuvio (Musy 2006); essa
comprendeva l’Ager Falernus (con le città di Cales e Teanum),
il litorale da Sinuessa a Cumae, la Dicearchia a Neapolis, la pia-
na di Nola e Nuceria, l’Ager Campanus (Beloch, 1890). Le coste
basse e sabbiose da Sinuessa fino ai Campi Flegrei costituivano
un facile approdo e non spaventavano i rudi colonizzatori arri-
30 Gabriella Cundari
vati da lontano; l’umida boscaglia retrostante, la silva Gallinaria
(detta così per la presenza delle gallinelle d’acqua) di Cicerone e
Giovenale, non era un inaccessibile ostacolo; i fiumi, dal Voltur-
no al Clanio, al Sele, al Sarno, avevano da sempre agevolato la
penetrazione interna; le dorsali appenniniche non sono mai ri-
sultate ostacoli insormontabili (Cerchiai I., 2010); il Vesuvio non
faceva paura, tutt’altro, e l’analisi scientifica della composizione
degli assetti prodotti dagli interventi sul territorio ha dimostrato
che i vulcani in tutte le epoche hanno attratto più che respingere
(D’Aponte, 2005, pp. 9-33). Dal sud erano arrivate (VIII secolo
a.C.) genti di origine greca (mercanti, contadini, allevatori, arti-
giani), che avevano creato colonie e fondato prima Parthenope e
poi Neapolis; l’insieme delle aree colonizzate dai greci costituiva
la Magna Grecia (Maiuri, 1981). Sempre dal mare erano arrivati
(VII-VI secolo a.C.) gli Egizi, che si erano stabiliti nell’area detta
ora “Corpo di Napoli” (Pugliese Carratelli, 1992). D’altra parte,
già da tremila anni a.C. le aree interne della regione erano state
occupate da piccoli nuclei di popolazioni di varia origine dette
“protostoriche”: Osci (Campani), Ausoni (Opici), Sidicini, Au-
runci, Tirreni, Sanniti: in genere poco evoluti, essi abitavano in
centri esigui (tra cui anche la Pompei preromana) e furono fusi
dagli Etruschi che ne assunsero la lingua, li organizzarono so-
cialmente e incrementarono le attività mercantili (Devoto, 1967).
Tutti questi popoli, che poi furono unificati dai Romani, fece-
ro della regione un’area strategica del Mediterraneo, appresero
arti e consuetudini dai nuovi arrivati, rendendo fiorenti vivaci e
attivi i suoi porti e le sue colonie. Le città della costa, soprattutto
Napoli, accogliendo tutti coloro che vi giungevano, di qualsiasi
etnia o nazionalità fossero, divennero un amalgama stratificato
di cultura, arte, costumi, leggi unico al mondo; una forma avan-
zata di integrazione sociale e plurietnica. Basti pensare che tra il
V e il IV secolo a.C. già era tanto forte il rapporto tra Napoli e il
suo retroterra, che venivano emesse dalla Zecca monete d’argen-
to coniate per conto di comunità indigene differenti, riportate in
2. un sistema complesso di relazioni 31
conio: Campani, Nolani, Hyrities, Fensemi, Allifae, Fisteli (Mele,
1991, pp. 240-251). E non importava se fossero re o militari, liberi,
liberti o schiavi: tutti diedero il proprio contributo e furono ben
accolti; tutti i riti, da quelli degli dei pagani della luce, a quelli
oscuri e misteriosi del regno delle tenebre; dai miti greci a quelli
dell’oltretomba egizia ed etrusca furono introitati e trasformati
in un patrimonio personalissimo, reso coerente da un’assimila-
zione originale e autentica di tutte le forme di saperi e di arte
(Lepore, 1989; Amato e Coppola, 2009).
Se è complesso tracciare linee direttrici del popolamento della
Campania pre-greca, pre-etrusca e pre-romana, è evidente la sua
forgiatura etnico-religiosa, così come ampia e articolata la cono-
scenza di tecniche agricole ed artigiane, di regole della marineria,
di utilizzo dei materiali più vari, di modi di produzione (Finley e
Lepore, 2000). Ciascuno di coloro che sono arrivati a Napoli e in
Campania, bene accolto, ha avuto la libertà di praticare il proprio
culto e di diffondere le proprie usanze, di fare interventi archi-
tettonici, di immettere i propri modi di dire e i propri termini in
quel prezioso contenitore che è la lingua napoletana.
3. Le lingue: umanizzazione e potere
3.1. Il linguaggio come strumento di potere
Era il 1718, quando Defoe creò il personaggio di Robinson
Crusoe, gli fece salvare un selvaggio e scrisse: Cominciai a parargli
dicendo che lo avrei chiamato Venerdì… poi gli insegnai a dire padrone
… ugualmente gli insegnai a dire sì o no… (Defoe, 2011, p. 249).
Gli studiosi di semiologia glottologia e scienza del linguaggio
(Feretti, 2010; Fabbri, 2003; Ruhlen, 2001; Klein, 2001) fanno risa-
lire le lingue umane alcuni al paleolitico superiore, circa 164.000
anni fa, altri a 200.000, altri ancora a 500.000. Senza soffermarci
sulle singole posizioni, è evidente che la struttura di una lingua,
ancorché primitiva, ha richiesto uno stadio di preparazione lungo
e complesso. Le lingue costituiscono il più antico mezzo di co-
municazione, individuano la funzione sociale dell’uomo e sono
una chiave di lettura indispensabile per l’inquadramento dei fatti
storico-geografici del mondo. La lingua, oltre a comunicare, è pi-
lastro fondamentale della cultura sia nella sua dimensione astrat-
ta che nella sua dimensione materiale; testimonia l’evoluzione di
un territorio, del suo passato, ma anche del suo presente e del
suo futuro; può diventare un grande strumento di potere (Orwell,
1950). Ma conta più il numero assoluto di persone di madrelin-
gua o quello di persone che parlano la stessa lingua? Contano le
differenze lessicali che una lingua assume da luogo a luogo?
Occorre una disamina attenta: le statistiche mondiali sulla dif-
fusione delle lingue spesso sono discordanti, perché la raccolta dei
34 Gabriella Cundari
dati è fatta secondo presupposti differenti. Ad esempio, i dati della
conferenza annuale Language World (Association for Language Le-
arning) individua 103 lingue principali parlate, classificate in base
alla distinzione di madrelingua nel mondo e pone al primo posto
la lingua cinese (parlata in Cina, Taiwan, Indonesia, Singapore, Ma-
lesia, Canada, Stati Uniti d’America) da oltre 840 milioni di perso-
ne e al secondo posto l’inglese (parlato negli Stati Uniti, Nigeria,
Regno Unito, Canada, Australia, Sudafrica, Nuova Zelanda, Kenya,
Irlanda, Gambia, Zimbawe, Trinidad e Tobago, Barbados, Singapo-
re, Namibia, Sri Lanka, Liberia, Bermuda, Papua Nuova Guinea,
Zambia, Giamaica, Malawi, Malta, Hong Kong, Cina e India) da 500
milioni di persone. Seguono lo spagnolo e l’Hindi-Urdu; il russo è
all’ottavo posto; il francese al nono e l’italiano al ventunesimo posto.
Le stime ONU, fatte in base alla diffusione, indipendentemente
dalla distinzione di madrelingua o non, ci dicono che sono tre le
lingue parlate in almeno uno dei territori dei cinque continenti:
l’inglese, il francese, il portoghese1 e che le prime due sono anche
lingue ufficiali rispettivamente in 53 e 30 paesi nonché lingue uf-
ficiali di lavoro presso la maggior parte delle Istituzioni Ufficiali
Internazionali; altri istituti di ricerca producono elenchi differenti
per numero e tipologia di classificazione. Il nodo della questione è
che la lingua, essendo un mezzo di comunicazione, assume il suo
ruolo prioritario quando si diffonde oltre i confini che delimitano
la madrepatria: conclusosi in modo non felice il tentativo ottocen-
tesco dell’esperanto, che non ha mai ricevuto attestati favorevoli
dai nuovi mercati internazionali “multiculturali e multilinguisti-
ci” (Piron C., 2005), oggi si è propensi all’uso di lingue ufficiali
come l’inglese o, ancora meglio, al multilinguismo in campo inter-
nazionale. Nel caso specifico dell’Unione Europea, il gran numero
1
Il portoghese, in realtà, si parla principalmente in Portogallo e in Brasile; ma in
Brasile vivono circa 210 milioni di persone, pari al 90% di quelle che parlano il porto-
ghese, mentre solo il 10% vive in Portogallo, cui va aggiunto il contributo minoritario
di Andorra, São Tomé, Principe, Mozambico, Timor, Macao, Andorra e Capo Verde.
3. le lingue: umanizzazione e potere 35
di lingue parlate va considerata una ricchezza, perché favorisce
l’apertura e la tolleranza; dunque, l’Europa può trasformare la sua
diversità linguistica in un vantaggio veramente competitivo, a pat-
to che si studino e si attuino interventi idonei al conseguimento di
questo fine. Oggi è evidente come nei mercati internazionali sia
necessario utilizzare una vasta serie di lingue, assieme alle compe-
tenze culturali che vengono di solito acquisite con le conoscenze
linguistiche; questo favorirebbe la mobilità della forza lavoro, at-
tualmente ancora molto bassa (poco più del 2%, dei cittadini in età
lavorativa vive e lavora in uno Stato membro diverso dal proprio):
l’ostacolo più frequentemente citato come causa di mancato spo-
stamento è proprio la difficoltà linguistica.
Ma è vero anche il ragionamento opposto: l’Europa deve pre-
sentarsi attraente dal punto di vista imprenditoriale nei confronti
dei lavoratori migranti altamente qualificati che porteranno con
sé le conoscenze linguistiche di cui abbiamo bisogno per com-
merciare con i mercati nei quali la crescita sarà ancora a due cifre
negli anni a venire (Portas, 2003, pp. 23-37).
Il multilinguismo è importante anche dal punto di vista dell’in-
tegrazione sociale, e anche questo è un problema a doppia faccia:
lo Stato ricevente acquisisce nuove informazioni da utilizzare in
forma proattiva; i migranti ne ricevono (ma non sempre) un salto
di qualità in termini di integrazione totale, di sicurezza, di offerte
di lavoro. Casi particolari, ancora frequenti, sono quelli del pidgin
(pìǧin, alterazione fonetica cinese del termine inglese business): un
mezzo di comunicazione semplificato tra due o più gruppi che
non parlano la medesima lingua (in situazioni come il commer-
cio), costituito da vocaboli generalmente derivati dalle lingue dei
vari gruppi. Il modo in cui i pidgin si sviluppano ci fa comprendere
le origini del linguaggio verbale umano: nei primi stadi del loro
sviluppo i pidgin erano un assemblaggio di nomi, verbi ed agget-
tivi, senza articoli e verbi ausiliari e con pochissime preposizioni e
congiunzioni. La grammatica consisteva (e consiste) in parole sen-
za ordine fisso e senza desinenze di declinazione. Se questi contat-
36 Gabriella Cundari
ti tra i gruppi si mantengono saldi per lunghi periodi di tempo, i
pidgin possono diventare pian piano sempre più complessi attra-
verso le generazioni. Se i bambini di una generazione adottano il
pidgin come lingua madre, questa diventa una lingua creola, che
si fissa e acquisisce una grammatica più complessa, con una fone-
tica fissa, una sintassi, una morfologia. La sintassi e la morfologia
di tali lingue presentano a volte delle innovazioni locali che non
derivano dalle lingue da cui sono nate.
Il multilinguismo è essenziale per l’integrazione e l’apertura
di un dialogo interculturale. A comprova di quanto detto sino-
ra, riportiamo un esempio emblematico: ad Anversa la UMAC
Middewest ha assunto, su 50 dipendenti, 21 migranti marocchi-
ni che agli inizi parlavano solo arabo e/o francese. Con l’aiuto di
un finanziamento del Fondo Sociale Europeo e di esperti esterni è
stata messa a punto una strategia per la comunicazione e l’appren-
dimento delle lingue. Gli obiettivi erano quelli di incrementare
l’efficienza, la qualità e la sicurezza, stimolare la motivazione e la
partecipazione personale dei lavoratori e migliorare l’ambiente di
lavoro per ridurre l’assenteismo. I corsi di lingua sono stati presen-
tati come moduli di breve durata e sono stati seguiti da discussioni
nell’ambito di gruppi di riflessione e da altre riunioni regolari cui
hanno partecipato sia i lavoratori migranti che i dipendenti nativi
del Belgio. Oggi essi sono perfettamente integrati e lo slogan “Più
lingue, più affari” si è rivelato veritiero (Linden, 2008).
Ma la lingua può essere, al contrario, anche strumento di divi-
sione e discriminazione delle popolazioni. Poter dire “non capisco
quello che dici” equivale a creare una barriera insormontabile tra
due individui, un confine senza dogana. I casi sono molteplici, mi li-
mito a fare l’esempio della ex Jugoslavia, dove la divisione tra serbi,
croati e bosniaci continua (dopo la guerra e la pulizia etnica) sotto
forma di differenze linguistiche, con l’esclusione pressoché definiti-
va della lingua serba, emblematizzata dall’articolo della Costituzio-
ne serba del 1990 che prescrive che il serbo sia scritto esclusivamen-
te con l’alfabeto cirillico, mentre la caratteristica più originale della
3. le lingue: umanizzazione e potere 37
lingua consisteva proprio nell’uso parallelo di due alfabeti: quello
cirillico e quello latino (Gallissot, Kilani e Rivera A, 2001).
Alla fine della nostra disamina, non possiamo non accennare
alla forma oggi più universale di linguaggio, quello di internet.
La lingua va considerata una specie in estinzione come un pan-
da da presidiare e salvaguardare, e internet impoverisce il lin-
guaggio? Oppure, come dice Stefano Bartezzaghi (2011), è una
forma di interazione che ci consente di scrivere quello che una
volta dicevamo a voce in modo enfatico e ricco di espressività?
In realtà siamo di fronte ad un nuovo tipo di varietà linguistica
utilizzata ed elaborata “da” e “per” gli utenti di internet: nata
per risparmiare e utilizzare al meglio i movimenti sulla tastiera
(tachigrafia, ottenuta attraverso specifici espedienti), ha reso ve-
loce, diretta e immediata la comunicazione, una comunicazione
che non è solo verbale, ma anche visiva e sonora.
Il linguaggio del web
Fake: Qualcosa di falso o contraffatto; modo di spacciare per vero un
documento, notizia o video falsi.
Grooming: Forma di adescamento di minori manipolati attraverso contatti e
messaggi on line per ottenerne la fiducia.
Identity Furto d’identità praticato grazie alle nuove tecnologie, con lo sco-
theft: po di utilizzarei dati o i beni della vittima del furto.
New Dette anche dipendenze da non sostanze, proprie di chi non può
Addiction: fare a meno di internet e dei social che usa in modo compulsivo.
Phishing: Tecnica fraudolenta di uso di tecniche (es. le e-mail), per carpire
dati personali ed estorcere danaro.
Phubbing: Fenomeno che si verifica quando, parlando con qualcuno, invece di
prestargli attenzione, si guarda il cellulare, si risponde ad una mail, ecc.
Postare: Azione che indica la pubblicazione di un testo o di un contenuto
multimediale su forum, social, blog, ecc.
Sexting: Pratica di trasmettere foto, testi o video a carattere sessuale tramite
chat o messaggi, spesso utilizzata da adolescenti.
Trollare: Comportamento offensivo attuato online che mira aprovocare,
prendere in giro o insultare.
Vamping: Pratica adottata da molti ragazzi, soprattutto adolescenti, di rimanere
svegli di notte anavigare su internet, in chat o a scambiarsi messaggi.
(da www.edizioni la meridiana.it, 2017, modificato)
38 Gabriella Cundari
Le abbreviazioni utilizzate da questi strumenti di comunica-
zione si evolvono e si modificano in continuazione e vengono
assorbite dai media. I giochi online forniscono un buon punto
d’osservazione, ma risulta difficile, se non impossibile, immagi-
nare di educare ed insegnare oggi con le stesse modalità usate
nel passato: un buon vocabolario tecnologico diventa un indi-
spensabile punto di partenza (Pistolesi E., 2004). Un esempio?
“2B||!2B” risulta incomprensibile ai più, ma è solo la trasposi-
zione booleana di to be or not to be, essere o non essere2. Il Web
da strumento informatico è diventato sempre più “ambiente di
vita quotidiana” un luogo virtuale in cui gli esseri umani creano
relazioni sociali e affettive ed esprimono la propria identità, il
proprio pensiero, le proprie emozioni, i propri disagi; ma speri-
mentano anche nuove forme di devianza, quali le netdipendenze
e il cyberbullismo. In ambito educativo e culturale producono
nuove tipologie dell’apprendimento e della trasmissione della
cultura. Le nuove forme di linguaggio del Web creano altresì
problematiche relazionali, psicologiche, etiche, giuridiche, edu-
cative e culturali, perché i giovani comunicano nella Rete comu-
nicano con modalità e contenuti spesso sconosciuti agli adulti.
Naturalmente, tutto sta all’uso che di questo mezzo di fa, perché
non si può sorvolare sul dilagare delle abbreviazioni, degli errori
ortografici e sintattici.
Come affermano gli Accademici della Crusca (Stefanelli e
Saura, 2012), il problema nasce quando le persone hanno scarsa
capacità di capire quale tipo di lingua sia adatta al contesto co-
municativo in cui si trovano: il classico esempio è l’abbreviazione
cmq, che nei 140 caratteri di Twitter o in un sms può anche andar
bene, certo sarebbe sconsigliato in una tesi. Molte delle parole
2
Dal nome del matematico inglese Bolle, che per primo applicò il calcolo
simbolico alla logica; i valori booleani, basati sulla contrapposizione vero/falso)
sono stati applicati all’informatica, sia a quella corrente, sia quella di alto livello
e alle tecnologie web.
3. le lingue: umanizzazione e potere 39
che fanno parte del linguaggio del Web, però, anche se miscono-
sciute ai più, probabilmente entreranno a far parte del linguag-
gio quotidiano nel giro di pochi anni, come è già successo nel
passato (ad esempio, il termine allunaggio creato dopo lo sbarco
sulla Luna nel 1959). Come mai accaduto prima, sembra che la
tecnologia stia influenzando in modo impressionante la nostra
cultura: una cosa che non accadeva dall’epoca dell’invenzione
della stampa (Lavenia, 2012).
3.2. Il napoletano: un dialetto-lingua più antico dell’italiano,
insegna dell’accoglienza
Come afferma Carlo Fedele, “Il dialetto è la lingua più diffusa
nel popolo e nel popolo si conserva pressoché inviolata l’eredità
linguistica precedente” (Fedele, 2018).
Derivazione delle parole napoletane più comuni inizianti per a
Lingua
Napoletano Italiano Straniero
di riferimento
spagnolo, catalano,
Abbàscio giù abajo, a baix, en bas
portoghese, francese
Abbuffà gonfiare-rsi g bofàr spagnolo
Accattà acquistare acheter, acatar francese, normanno
Ajére ieri ayer, hier spagnolo, francese
Allumà illuminare allumer francese
Ammolà arrotare amolar spagnolo
Ammuïna chiasso amohinar / amoïnar spagnolo, catalano
Appiccià accendere ad piceare latino
Appriésso dopo-seguente après francese
Arrassusia non sia mai! arah sit, abrasum sit arabo + latino
Auciello uccello avicellum latino
40 Gabriella Cundari
Il dialetto non è solo fonetica, morfologia e sintattica, perché
la vera eredità è il suo contenuto interiore in cui è possibile rico-
noscere aspetti del carattere e del temperamento dei nostri pro-
genitori.
Nel 2010 l’Unesco, paladina della diversità linguistica e
culturale, uscì la terza edizione) di Atlas of the World’s Lan-
guages in Danger, Atlante mondiale delle lingue in pericolo
(Mosley, 2010). In questo Atlante, che censisce tutte le lingue
in una scala di pericolo che va dal vulnerabile all’estinto, il
napoletano è definito vulnerabile, perché parlato da molti, ma
l’uso è limitato ad alcuni ambiti sociali, la casa e le interazioni con
la famiglia.
Il riconoscimento Unesco è ben altra cosa dall’affermazione
propagata che sia la “seconda lingua ufficiale dell’Italia”. Costi-
tuisce, però, un’implicita conferma che sia la più parlata in Italia
dopo l’italiano, grazie alla sua diffusione in tutto il Mezzogiorno
d’Italia, sebbene con alcune differenze lessicali e fonetiche (Alba-
no Leoni e Maturi, 2002). Implicitamente riconosce, altresì, che
sia lingua e non dialetto, conosciuta e parlata (emigranti a parte)
da una cifra che oscilla tra i 7,5 e i 10 milioni di persone.
3. le lingue: umanizzazione e potere 41
Derivazione delle parole napoletane più comuni inizianti per b e c
Lingua
Napoletano Italiano Straniero
di riferimento
Bardascia omosessuale bardag arabo
Bazzariota mercante bazaar arabo
Bsciù gioiello bijooux francese
Bissinisse affare business inglese
Blè blu bleu francese
Buccolo ricciolo, boccolo boucle francese
Buàtta barattolo boîte francese
Buttéglia bottiglia bouteille francese
Caccavella pentola caccabellum tardo latino
Caiola (cajola) gabbia cavea, cage latino, francese
Càntero/cantaro vaso da notte kηαταροσ, greco antico
kantharos
Canzo opportunità chance francese
Capa ‘e zì Viciénzo nullatenente caput sine censu latino
Cerasa ciliegia cerasum, cerise latino, francese
Commò cassettone commode francese
Crianza educazione creencia, spagnolo, porto-
criança, créance ghese, francese
Crisommola albicocca χρυσοῦν, greco
μῆλον, chrysoun
Cuccà coricarsi coucher francese
Cucchiàra cucchiaio cuchara/ spagnolo/
cochlearia latino
Cu mmico, cuttico con me, con te commigo, contigo spagnolo
Il degrado linguistico in cui versa attualmente (verificabile
facilmente negli osceni magnetini con scritte in napoletano ven-
duti sulle bancarelle abusive ai turisti “mordi e fuggi” che oggi
circolano per Napoli e la Campania) è dovuto principalmente
alla mancanza di un’organica grammatica, di un suo inserimen-
to nell’insegnamento scolastico, alla pronuncia mistificata e alle
42 Gabriella Cundari
contaminazioni di uno sciatto slang diffuso soprattutto tra i gio-
vani. Una prova? Provate a chiedere la differenza “tra” – e il ruo-
lo “di” – apostrofo e aferesi nella nostra lingua-dialettol!
Derivazione delle parole napoletane più comuni inizianti per l, m, n
Lingua
Napoletano Italiano Straniero
di riferimento
Lazzaro cencioso lazar spagnolo
Loffa peto, aria loft tedesco
Mesale tovaglia da tavola μεσαλιον, mesa, greco ant., spa-
mensa gnolo, latino
Faragliune scoglio, faraglione farallòn farelhão spagnolo.
portoghese
Micciariello fiammifero mechero spagnolo
Morra gioco di carte, morra spagnolo
mucchio antico
Muorzo morso almuerzo spagnolo
Muccaturo fazzoletto mocador/mouchoir spagnolo
Mustacce baffi moustache francese
Nenna, ninno bambina, bambino niña, niño spagnolo
‘Nciarmà escogitare encharmer francese
Nippolo capezzolo, pallina nipple Inglese, ameri-
lanosa cano
Ma il napoletano ha due pregi fondamentali: iI primo la
grande produzione artistica (letteraria, musicale, pittorica che
ha espresso in ogni epoca; il secondo, la proprietà unica di aver
acquisito termini ed espressioni da tutti i popoli che hanno rag-
giunto la Campania e il Mezzogiorno per stanziarvici (dai Latini,
agli Osci, dagli Etruschi ai Greci); per commerciare (Bizantini,
Arabi, Egiziani, Portoghesi, Ebrei, Saraceni, Catalani, Turchi);
per dominare (Svevi e Normanni, Angiò e Aragonesi, Spagnoli
e Austriaci). Non vanno poi dimenticate tutte le forme artistiche
di cui Napoli è stato faro ed ispiratrice, prova ne sia il fatto che
tanti gli uomini famosi non campani vi soggiornano e vi hanno
soggiornato per studiare e/o lavorare.
3. le lingue: umanizzazione e potere 43
Derivazione delle parole napoletane più comuni inizianti per p, r
Lingua
Napoletano Italiano Straniero
di riferimento
Pàccaro schiaffo πᾶς, pac, tutto, e greco antico
χείρ, cheir, mano
Palià battere, colpire apalejà spagnolo
Palomma colomba o farfalla paloma spagnolo
Papéle papéle lentamente παπος greco antico
Papiéllo documento papel, papier spagnolo, fran-
cese
Pastenaca carota pastinaca latino
Pate padre pater latino
Peliénto sciatto peliento spagnolo
Penza piega cucita pinse francese
Pesòne affitto, pigione Pesionem, pension latino tardo,
francese
Petàccia straccio da cucina Pittacium, pedazo latino, spagnola
Pressa fretta pressare latino
Puteca bottega, negozio apotheca, latino, greco,
ἀποθήκη/boutique francese
Petrusino prezzemolo petroselinon greco antico
Ràggia rabbia rage francese
Rammàggio danno dommage francese
Riggiòla mattonella rajola catalano
A mo’ di esempio, citiamo Boccaccio, Petrarca, Leonardo da
Besozzo, Guillén Sagrera, Giuliano da Maiano, Francesco Lau-
rana, Antonello da Messina, Michelangelo Merisi da Caravag-
gio. Domenico Fontana, Wolfgang Goethe, Wolfgang Amadeus
Mozart, Anton Sminck van Pitloo, Percy Bysshe Shelley, Alexan-
dre Dumas padre e figlio, Giacomo Leopardi, Giosuè Carducci,
Gabriele D’Annunzio, Andy Warhol, ma l’elenco potrebbe conti-
nuare a lungo a testimonianza di un continuo flusso e scambio
culturale che ha arricchito il nostro paese da un lato e gli artisti
44 Gabriella Cundari
dall’altro. Nonostante ciò, il napoletano, che tanto ha incuriosito,
divertito, stimolato gli uomini di cultura che ne venivano a con-
tatto, non è stato valorizzato e ha risentito del suo mancato inse-
gnamento, cui solo ora si tenta di riparare (De Blasi e Montuori,
2017, prefazione).
Le prime derivazioni del napoletano sono quelle greche e poi
latine, con qualche infiltrazione osca e risalgono al I secolo d.C.:
si tratta di semplici iscrizioni.
Derivazione delle parole napoletane più comuni inizianti per s-z
Lingua
Napoletano Italiano Straniero
di riferimento
Sanfasòn informe sans façon francese
Sarvietta tovagliolo serviette, servilleta francese, spagnolo
Sbarià vaneggiare desvariar spagnolo
Sciuscià lustrascarpe shoe-shine inglese
Sechenenza cosa di basso valore second hand inglese
Semmàna settimana semana, semaine spagnolo, francese
Sguarrà divaricare, desgarrar spagnolo
Sparatrappo cerotto sparadrapo, espara- spagnolo-catalano,
drap francese
Sparagno risparmio einsparung, épargne germanico, francese
Taccarià colpire a parole takka germanico
Tamarro zotico al-tamar (vende datteri) arabo
Tavúto bara ataúd / taüt / توُباَتspagnolo, catalano,
(tābūt) arabo
Tècchete prendi, eccoti te eccu(m) latino
Tené avere tenere latino
Tirabbusciò cavatappi tire-bouchon francese
Trincà brindare, ubriacarsi trinquer / trinkan francese, tedesco
Vrenzola brandello, spiraglio brandum latino
Zéngaro zingaro θίγγανοι, athínganoi greco medievale
Zimmaro caprone ξηιμμἁροσ, chimmàros greco
3. le lingue: umanizzazione e potere 45
Come tutte le lingue, il napoletano è sempre stato in evoluzio-
ne e, a causa del frequente cambio di dominatori e dei numerosi
contatti con diverse genti, ha assorbito via via lemmi nuovi: spa-
gnoli, toschi, francesi, austriaci, fino alle contaminazioni ameri-
cane dell’ultima guerra mondiale (Sornicola, 1983). Insomma, la
lingua napoletana è un coloratissimo mosaico di suoni e parole,
a volte davvero particolari, perché il napoletano ha costruito la
propria identità linguistica grazie all’incontro con moltissime al-
tre culture, seguendo un processo intenso di arricchimento (De
Blasi e Sornicola, 2002). Un caso particolare è quello del termine
quequero che indica una persona ridicola, bizzarra. Il termine
vine da quacchero, cioè appartenente alla setta fondata nel 1653
dall’inglese Gorge Fox, che tuonava To quack, cioè Tremate [alla
voce del Signore] e che, agli inizi del ‘700, ebbe un breve e limitato
insediamento napoletano. I quaccheri vestivano e si comporta-
vano in modo così particolare da essere additati e sbeffeggiati.
In definitiva, i rapporti che il popolo partenopeo ha avuto con
gli stranieri dal greci, ai bizantini; poi dai romani ai normanni,
dagli Svevi ai Longobardi, dagli Arabi ai Turchi, dagli austriaci
ai Francesi e, su tutti, gli Spagnoli, si sono trasformati in parole,
rese musica cadenza fonetica. E qui è utile ricordare un aned-
doto: alla corte dello Zar Nicola il napoletano era la lingua ”di-
plomatica”, come il francese. In napoletano discorrevano lo zar
di Russia e Ferdinando di Borbone, legati da uno stretto legame
parentale-politico. Questo fattore importante e imponente ha in-
dotto anche degli studiosi Francesi a inserire il napoletano tra
le lingue oggetto di studio in alcune strutture educative priva-
te. Come afferma Jan Noel Schifano “Aujourd’hui on ne peut pas
imaginer faire revivre cette ville sans sa propre langue, l’une des plus
vivantes d’Europe” (oggi non si può immaginare di far rivivere
questa città senza la sua lingua, una delle più vive d’Europa)
(Schifano 2007, p. 3). La lingua napoletana è un coloratissimo
mosaico di suoni e parole, a volte davvero particolari, derivate
da moltissime altre lingue (Radtke 2014, p. 121 ss.). Dal francese
46 Gabriella Cundari
fino all’arabo, il napoletano ha costruito la propria identità lin-
guistica grazie all’incontro con moltissime altre culture: è questo
anche il caso dell’inglese che è arrivato, in differenti fasi stori-
che, ad arricchire moltissimi termini del dialetto napoletano. Un
esempio particolarissimo è quello della versione di “Tammurria-
ta nera” della Nuova Compagnia di Canto popolare, che in una
delle strofe recita E levate ‘a pistuldà uè, e levate ‘a pistuldà, e pisti
pakin mama e levate ‘a pistuldà3. Sembra un farfugliare senza senso,
ma in realtà deriva da una canzone che cantavano le truppe ame-
ricane, “Pistol Packin’ Mama” di Al Dexter: Lay that pistol down,
babe, Lay that pistol down! Pistol packin’ mama, Lay that pistol down.
L’interesse risvegliato da questo antico – e nuovo insieme – cam-
po di studi ha fatto sì che la Facoltà di Sociologia dell’Università
Federico II istituisse un corso di sociolinguistica, con particolare
riferimento al quadro linguistico e dialettale della Campania; nel
2017 due professori dell’Università Federico II, Nicola De Blasi
(Linguistica italiana) e Franceso Montuori (Storia della lingua
italiana) hanno inaugurato un semiario di trenta lezioni gratuite
di dialettologia, primo passo per la compilazione di un Diziona-
rio Etimologico Storico del Napoletano.
3
Il testo è di E.A. Mario.
4. Le religioni
4.1. Uno strumento di divisione
Cominciamo da una definizione marxiana generalmente co-
nosciuta in forma ridotta: La miseria religiosa è insieme l’espressione
della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il
sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore,
così come è lo spirito di una condizione senza anima. Essa è l’oppio
del popolo (Marx 1884, introduzione). Quest’oppio ha un potere
soporifero sull’uomo? Lenisce le differenze? Non genera forse
nel popolo oppresso sentimenti di ansia e paura ancora più forti?
Non fa parte, come diceva Engels, di quel meccanismo utilizza-
to da una minoranza sciente di governare gli oppressi? (Gianni,
2010; Heidegger, 2000).
Da che esiste, l’essere umano è mosso da un sentimento del
“sacro” che deriva dalle sue paure nei confronti dell’ignoto,
dell’imprevisto, del terribile, insomma di tutti gli eventi che non
è in grado di controllare: gli dei di volta in volta succedutisi, era-
no/sono adorati e supplicati proprio per allontanare i pericoli. In
questo senso, la religione è molto ben interpretata dal termine
greco θρησκεία (thrēskeia), collegato a θρησκός (thrēskos; “pio”,
“timoroso di Dio”).
Più problematico è riferirsi al termine latino religio, da cui
deriva il nostro “religione”: le ipotesi sono tante, ma la più atten-
dibile mi sembra quella del giurista romano Masurio Sabino, che
affermò: religiosum est, quod propter sanctitatem aliquam remotum
ac sepositum a nobis est, implicitamente scegliendo per la parola
48 Gabriella Cundari
religio la derivazione da relegere, osservare, stare attenti, da cui
deriva che l’homo religiosus è l’opposto di homo negligens (Van
Der Leeuw, 1975, p. 34 ss). Sacro, dunque, inteso come senti-
mento primordiale, che appartiene all’essenza stessa dell’uomo,
il quale si difende dal pericolo attraverso riti e forme liturgiche
svariate (Otto, 1926, cap. 4). Come si diffonde il sentimento reli-
gioso? Quali sono le sue variabili? L’essenza del sentimento religioso
sfugge a qualsiasi ragionamento, a qualsiasi colpa o delitto, a qualsiasi
ateismo. C’è in esso qualcosa d’inafferrabile, e sarà eternamente inaffer-
rabile; c’è in esso qualcosa su cui gli atei sorvoleranno sempre, parlando
eternamente di un’altra cosa scriveva Fëdor Dostoevskij nel 1869
(Dostoevskij, 1941, p. 152 sg).
Le religioni nel mondo
[Aderenti alle principali religioni per numero assoluto e %]
Cristiani 2.135.783,000 33.0
Musulmani 1.313.984.000 20,0
Hindu 870.047.000 13,5
Folk religiosi cinesi 404.922.000 6,3
Buddisti 378. 809.000 5,9
Etno-religioni 256.341.000 4,0
Neo-religioni 108.809.000 1,7
Sikh 25.374.000 0,4
Ebrei 15.046.000 0,2
Non religiosi 768.598.000 11,9
Atei 151.548.000 2,3
Popolazione totale 6.453.628.000 100
(World Christian Database, 2005, modificata)
Ma se è difficile cogliere la profonda essenza della religiosità,
è apparentemente più facile studiare la distribuzione delle reli-
gioni nel mondo, anche se la valutazione (le “maggiori” religioni
o le “principali”?) può essere fatta con una pluralità di metodi;
in molti casi, le affermazioni sull’importanza relativa di una re-
4. le religioni 49
ligione riflettono un particolare punto di vista (molti aderenti
a ciascuna fede tendono a considerarla più influente o diffusa
di quanto non sia in realtà). Rispetto alla percezione della loro
importanza, sia teologica che numerica, le antiche classificazioni
fatte nel mondo occidentale, prevalentemente cristiano, ricono-
scevano ai primi posti Cristianesimo ed Ebraismo, riunendo sot-
to la voce “paganesimo” tutte le altre. Nel XIX secolo furono ag-
giunte l’Islam, l’Induismo e il Buddhismo e in tempi più recenti
sono state riconosciute altre 8 religioni, per cui la lista completa,
in ordine alfabetico, risulta ora: Buddhismo, Cristianesimo, Con-
fucianesimo, Ebraismo, Giainismo, Induismo, Islam, Sikhismo,
Shintoismo, Taoismo, Zoroastrismo. Ma il numero di aderenti ad
ogni religione è calcolato ancora con una combinazione altamen-
te imprecisa di censimenti (degli stati a struttura organica) e son-
daggi (per i paesi in cui non esiste una classificazione religiosa in
censimenti ufficiali); i risultati, quindi, possono variare molto in
base al modo in cui sono state poste le domande del sondaggio e
alla scelta del campione; le religioni informali e non organizzate
sono le più difficili da analizzare; la filosofia di fondo non è in
tutti i casi un fattore determinante per le pratiche locali. Vari mo-
vimenti eterodossi sono inclusi come parte delle grandi categorie
filosofiche (p. es. i “Testimoni di Geova” sono computati sotto la
voce “Cristianesimo”), anche se tali sottogruppi spesso si con-
siderano l’un l’altro come eretici, mettendo in discussione l’ap-
partenenza dell’uno o dell’altro alla grande tradizione filosofica
(come si verifica per cattolici e protestanti, nonché altre divisio-
ni). La rivista Christian Science Monitor esamina solo le religioni
organizzate e nel 1998 indicò come prime dieci religioni orga-
nizzate al mondo, in ordine discendente: Cristianesimo, Islam,
Induismo, Buddhismo, Sikhismo, Ebraismo, Brahamanesimo,
Confucianesimo, Giainismo, Shintoismo (“The Christian Scien-
ce Monitorm, 1998). Nel 2005 la medesima rivista ha pubblicato
un’aggiornata edizione della classifica, comprendente anche un
censimento numerico.
50 Gabriella Cundari
Dunque, nel 2005 il cristianesimo era al primo posto; dati più
recenti (Documentazione.info, 2017) confermano il primato, ma
denunciano una flessione. Riusciranno a breve periodo a man-
tenere la prima posizione, o verranno superati dai Musulmani?
Quale scenario si prefigura in un futuro ormai prossimo? Un isti-
tuto di ricerca americano (Pew Research Center, 2012) segnala
che i seguaci di Allah sono il gruppo con il tasso di crescita molto
accelerato rispetto agli altri e anche le previsioni al 2025 del Wor-
ld Christian Database lo confermano.
Le religioni nel mondo (previsioni 2025)
[Aderenti alle principali religioni per numero assoluto e %]
Musulmani 2.640.665.000 33,7%
Cristiani 1.825.283.000 23,3%
Hindu 1.065.868.000 13,6%
Folk religiosi cinesi 457.048.000 5,8%
Buddisti 431.956.000 5,5%
Etno-religioni 270.210.000 3,5%
Neo-religioni 122.188.000 1,6%
Sikh 31.985.000 0,4%
Ebrei 21.895.000 0,3%
Non religiosi 806.884.000 10,3%
Atei 151.548.000 1,9%
Popolazione totale 7.851.455.000 100
(World Christian Database 2018, modificato)
Quello che oggi risulta di importanza fondamentale è il ruolo
della religione nei conflitti mondiali. In un articolo recente Scott
Afram e Yeremy Ginges (Atram e Ginges, 2012) sostengono che
la religione aumenta la fiducia intragruppo e che la devozione a
un “Dio”, combinata ad una causa collettiva, opera come impe-
rativo morale e può ispirare azioni non razionali. In situazioni
di conflitto, insomma, le preferenze sociopolitiche possono di-
4. le religioni 51
ventare valori sacri, che si pongono come base di vere e proprie
guerre insanabili, sfidando negoziazioni di tipo commerciale e
provocando fratture profonde. Sacralizzati fino a diventare una
religione, questi valori sono avversati dai “culturalisti”, per i
quali la religione è un sottoprodotto di moduli mentali nati per
altre ragioni e selezionati per differenze cognitive. Secondo le
analisi culturaliste, i rituali sarebbero solo sottoprodotti di gesti
ripetitivi necessari a cementare la vita sociale; non a caso le cre-
denze religiose si sono diffuse con il passaggio dal nomadismo a
forme di aggregazione sedentarie, che hanno permesso velociz-
zato il trasferimento delle informazioni tra i gruppi umani. Man
mano che tali gruppi si sono ampliati, accogliendo individui di
famiglie non omogenee per origine, la religione, con il suo cor-
teo di divinità che sorvegliano e puniscono, avrebbe assolto il
ruolo di collante morale. Questa ipotesi, secondo Aram e Gin-
ges, è confermata dall’analisi dell’evoluzione che dalla comparsa
dell’uomo, attraverso le trasformazioni antropologiche, è perve-
nuta alle società multiculturali odierne. Ma le religioni vengono
minacciate con forza crescente da fondamentalismi che hanno
come scopo il ritorno alle origini e il rafforzamento dei legami
interni al gruppo si appartenenza, a scapito di quelli intergrup-
pi: ad esempio, il conflitto israelo-palestinese, dando alla terra
un valore sacro, rende di fatto non negoziabile l’unico elemento
concreto che potrebbe invece portare a una soluzione pacifica.
Non esistendo un vero legame tra credenze religiose, valori sacri
e guerra, nel corso di conflitti tra gruppi, i protagonisti possono
trasformare interessi materiali in valori sacri, concettualmente
impermeabili alla sfida della ragione: si riducono così le possibi-
lità di dissociazione da parte di singoli individui e, nello stesso
tempo, si cattura l’attenzione di nuovi adepti, con una forma di
contagio morale (Johnson, Zurlo e Crossing 2018, p. 85 ss.). In-
somma, come riflette Enzo Pace, le religioni sono ormai indica-
tive dello stato di salute di una società più che del suo stato di
salvezza, che rimane assegnato alla Divinità intesa come arbitro
52 Gabriella Cundari
superiore ed estremo (Pace, 2016, pp. 21-27). Infine, le religioni
sembrano sempre più copiarsi l’una con l’altra nell’individuare
i bisogni emergenti degli uomini nelle diverse epoche: appaio-
no così “famiglie allargate” che offrono in modo differenziato
gli stessi beni simbolici, suggerendo modelli di appropriazione
e di vita differenti. Pertanto la mescolanza di diverse etnie e le
integrazioni ottenute in tempi allungati attraverso le migrazioni
hanno diversificato enormemente la mappa delle fedi religiose
in tutto il mondo e anche i paesaggi degli immensi continenti
come delle molte, piccole o grandi, nazioni. Anche in Europa e
in Italia, sia pure con qualche ritardo, la carta delle religioni è in
profondo mutamento: a gruppi storici si sono aggiunti musul-
mani di origine turca e maghrebina, slavi di religione prevalente-
mente ortodossa, asiatici di fede buddista (Cerreti e Fuco, 2007).
Sul tronco del vecchio continente si sono innestati nuovi ceppi
cultural-religiosi, che individuano nuove categorie interpretati-
ve, cominciando a sostituire alla radicata pulsione ideologica di
pulizia etnica e all’idea che il nemico da colpire sia solo (o princi-
palmente) l’Islam, un processo di interazione ottenuto attraverso
la reciproca conoscenza delle diverse forme in cui si esprime la
modernità (Pace, 2018; Dematteis, 1995). Ma il cammino è ancora
lungo e arduo.
È stato spesso detto che la modernità porta con sé un para-
dosso: da un lato è in atto un abbandono della religione da parte
di una cospicua fetta di persone, dall’altro si è rafforzata l’affer-
mazione delle differenti fedi come valore identitario e costrutto
politico. Quale contesto può raccontare e spiegare questi feno-
meni se non il paese dai mille campanili? E quale disciplina se
non la geografia? Se lo chiede Giuseppe Carta (2011, pp. 1-13).
La religione da un punto di vista geografico viene studiata
in funzione del consolidamento dei processi di globalizzazione,
dell’intensificarsi dei flussi migratori e, soprattutto, dell’esplo-
sione dei fondamentalismi e delle conseguenti trasformazioni
sociali.
4. le religioni 53
I geografi, dopo un primo momento di studi e analisi inseri-
te nel solco della geografia culturale e della geopolitica, hanno
sviluppato un campo autonomo della geografia delle religioni,
ricco di riflessioni epistemologiche e portatore di prospettive cri-
tiche capaci di rinnovare i fondamenti cognitivi della geografia
umana stessa per cogliere le relazioni mutuali tra religioni e spa-
zialità e per considerare la religione come sistema di relazioni
tra territorio, paesaggi, culture e pratiche sociali (Minca, 2005;
Galliano, 2002 e 2003; Andreotti, 2003). In un primo momento
la ricerca geografica aveva come oggetto di studio l’influenza
dell’ambiente naturale su quello religioso e della teologia con
i suoi simboli sull’ambiente naturale in cui si sviluppava. Poi i
geografi cominciarono a riflettere sull’influenza della religione
sulle strutture economiche e sociali analizzando la distribuzione
delle comunità dei fedeli e costruendo modelli spaziali di dif-
fusione dei gruppi religiosi riferiti ai diversi paesaggi antropici,
di cui venivano censiti gli aspetti visibili, con particolare atten-
zione verso i luoghi di preghiera e di pellegrinaggio. Solo dagli
anni ’60 si passò all’analisi delle relazioni dialettiche tra ambiente
e religione (Kong, 1990): superando una concezione della geo-
grafia circoscritta alla rappresentazione spaziale e cartografica
di categorie mutuate da altre discipline, diversi geografi hanno
sottolineato la necessità di una stretta cooperazione tra geografia
e studi religiosi, in modo che né il geografo ignori metodi e risul-
tati delle ricerche compiute dai filosofi, teologi, sociologi e storici
delle religioni, né questi sottovalutino la dimensione geografica
del fenomeno religioso e gli esiti delle ricerche empiriche sul ter-
ritorio (Carta, 2011, p. 6). Oggi la ricerca geografica prende in
esame le relazioni di potere e i rapporti delle comunità religiose
con la società in cui si muovono, ma non solo, perché si abbina
allo studio dei luoghi di pellegrinaggio, del turismo religioso e
dell’utilizzo profano dei luoghi sacri (Salvatori, 2017). Anche il
concetto di paesaggio religioso ha assunto una rilevanza critica,
perché gli aspetti visivi vengono intrecciati con i fattori politi-
54 Gabriella Cundari
co-economici di localizzazione (Agnew, 2010). E non può manca-
re l’analisi degli edifici religiosi e dei luoghi di preghiera, viste le
lotte dei movimenti religiosi per l’affermazione del proprio spa-
zio di rappresentazione come “diritto alla città”, in luoghi fisici
che da essi vengono modificati profondamente, mentre lo spazio
urbano assume sempre più l’aspetto di città diffusa (Baker, 2005,
pp. 101-123). L’evoluzione dello studio geografico delle religioni
si sofferma su problematiche nate da una grande complessità di
elementi (toponomastica, distribuzione, rapporti con preesisten-
te, combinazioni multiple di tradizioni, usi e costumi differenti,
frammentazione sociale), che accomuna la geografia della reli-
gione alle altre scienze sociali, ma con contributi importanti e
originali (Casanova, 2001; Carta, 2010).
4.2. Relegazione religiosa in Campania: la Shoah alla Giudec-
ca e i campi profughi
Napoli è una città che con gli Ebrei ha imparato a convivere
da secoli. A ricordarlo non solo il nome di una via dedicata nel
capoluogo alla vecchia Giudecca (dal latino judaica) e, più in ge-
nerale, l’antica toponomastica dei Decumani, ma l’intera storia
di una città e del territorio regionale, da sempre porta d’ingresso
occidentale per i popoli del Mediterraneo. Quando nel 1555 papa
Paolo IV creò il ghetto di Roma destinandolo al forzato trasferi-
mento degli Ebrei (Cum nimis absurdum, poiché è oltremodo as-
surdo, recitava la bolla papale), gli Ebrei lasciarono Napoli. Ma
nel tessuto urbano si rinvengono strade e toponimi che rimanda-
no all’epoca della presenza ebraica in città e diversi sono i luoghi
adibiti a Giudecca nei secoli, rintracciabili con l’aiuto delle carte
topografiche e di antichi documenti. Tuttavia di quale sia sta-
ta la prima Giudecca a Napoli non vi è certezza: molti studiosi
l’hanno identificata nella zona di San Marcellino e Monterone,
ma gli Ebrei potevano anche risiedere altrove mentre documen-
4. le religioni 55
ti dell’epoca parlano di una sinagoga in loco (Caporali, 2014).
Facciamo un salto in avanti di quasi tre secoli: poco alla volta,
alcuni ebrei erano ritornati a Napoli (dove avevano impegni di
lavoro) e nel 1838 Napoli, secondo il censimento fascista di De-
morazza, ne contava 83 (e nel 1838, secondo il censimento fa-
scista di Demorazza, ne contava 835). La città conobbe la prima
retata nell’ottobre due settimane prima della retata antisemita
di Roma, segnando famiglie che si ritenevano al sicuro e invece
erano bollati dalle norme razziali. Dopo la retata, vennero cari-
cati come bestiame su carri dal nome siglato e trasportati da una
città all’altra fino alla deportazione finale: increduli all’inizio,
arrivavano (quando arrivavano) nei campi già provati e senza
speranze. Molti degli ebrei sterminati erano cresciuti in quartieri
popolari come Forcella, ma tanti vivevano in Cilento, in Irpinia,
in piccoli centri e con l’arrivo della guerra aveva subito anche la
reclusione forzata nei campi di concentramento per civili: Solo-
fra, per chi era o aveva sposato antifascisti; Campagna, destinata
esclusivamente agli ebrei; Monteforte Irpino, per chi gli ebrei li
difendeva e si opponeva al fascismo; infine Ariano Irpino, il più
somigliante ai lager tedeschi, con dieci baracche-dormitorio cir-
condate dal filo spinato, che ospitava, però, non campani, ma
persone provenienti dall’Est.
Le baracche furono bruciate dai tedeschi in ritirata dopo l’8
settembre, per cui ne restano poche tracce. Nessuno per anni ne
ha parlato, troppo grande l’imbarazzo e la vergogna dell’Olo-
causto, tanto che quella memoria manca ancora oggi, a 70 anni
di distanza (Pirozzi, 2007, 2008 e 2010).
Anche Bagnoli (zona termale degli antichi Romani, anello di
congiunzione tra Posillipo e Puteoli, ritratta dai più grandi pit-
tori della Scuola di Posillipo), diventata sede dalla produzione
di acciaio nei primi anni del ‘900 grazie all’attuazione della Leg-
ge speciale per Napoli (1904), cominciò la sua forte decadenza
negli Anni ’30, quando vi fu creata una struttura del Ministero
della Guerra italiano che nel 1942 fu concessa a un’organizza-
56 Gabriella Cundari
zione giovanile fascista e, più tardi, ai tedeschi per una scuola
sottufficiali, fino al 1943; poi nel 1944 divenne un orfanatrofio, il
Collegio Costanzo Ciano Al termine della seconda guerra mon-
diale, Bagnoli ospitò un campo profughi gestito dalla Organiz-
zazione Internazionale per i Rifugiati: ospitava tra le 8.000 e le
10.000 persone principalmente provenienti dall’Est Europa. Per
le condizioni di abbandono in cui versava vi si diffusero malattie,
morte e fu teatro di una terribili atrocità, come la famosa Ope-
razione Keelhaul. Questa operazione costituì l’ultimo rimpatrio
forzato da Bagnoli e da altri campi profughi di circa un migliaio
di sfollati, classificati correttamente o per errore come cittadini
ebrei ex-sovietici. Il destino finale di molti di loro fu l’esecuzione
o la detenzione nei Gulag sovietici.
4.3. La relegazione attuale: gli immigrati del Vasto e di Ischi-
tella parlano la lingua dei “fratelli”?
La Vicarìa, antico nome tribunalizio, più conosciuta come “il
Vasto”, è un quartiere di Napoli situato a ridosso del centro
antico. Fa parte della quarta municipalità insieme con San Lo-
renzo, Zona Industriale e Poggioreale. Intorno al 1850 era sta-
to ipotizzato per la città un grande intervento urbanistico, ma il
progetto prese corpo solo alla fine della grave epidemia di colera
che colpì Napoli nel 1885. Il sindaco di allora, Nicola Amore, ri-
teneva che la diffusione del colera fosse stata causata dalle gravi
condizioni di degrado in cui versavano alcune zone urbane, mas-
sime le più antiche e sotto la sua spinta innovatrice fu approva-
ta la Legge per il risanamento della città di Napoli. L’attuazione
della legge favorì la nascita dei quartieri orientali popolari: tra
questi, il rione Vasto (dal latino vastus, vuoto, ad indicare l’assen-
za di strutture – soprattuto abitative – precedenti all’intervento),
alle spalle della Stazione Centrale, non lontano dalla zona dove è
sorto, in tempi molto più recenti, il Centro Direzionale.
4. le religioni 57
Nell’esaminare il quartiere e le sue funzioni, il primo proble-
ma che si pone è: le aree intorno alle stazioni ferroviarie delle
città sono da considerarsi centro o periferia urbana? Il dibattito
è aperto e sicuramente va approfondito, perché nel caso di Na-
poli, la banlieue, cioè la periferia, è “dentro” la città. Gli urbanisti
parlano di un’anticittà che cresce e si sviluppa insieme alla città,
un’anticittà con due connotati antitetici, la frustrazione e l’omo-
logazione: da un lato il sentirsi “diversi” degli emigrati (per reli-
gione, nascita, reddito, e rifiuto da parte degli altri locali), dall’al-
tro l’aspirazione a diventare “come” gli altri, ad appartenere ad
un unico insieme (Boeri 2011). Nell’area del Vasto sono presenti
13 dei 23 CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) per i migran-
ti napoletani, per un totale di 8800 individui pari al 60% degli
immigrati napoletani. Il Vasto è, a tutti gli effetti, un quartiere in
guerra con due eserciti contrapposti: i cittadini nati a Napoli e
i residenti ufficiali (all’ultimo censimento 15.464), rappresentati
dal comitato civico Orgoglio Vasto, fiancheggiati anche da alcuni
degli immigrati regolari da una parte, l’esercito dei migranti, che
vive alle spalle della stazione Centrale, dall’altra. Questo esercito
è composto dai regolari accolti a Napoli, ma soprattutto dagli ir-
regolari: un numero imprecisato e imprecisabile di sudafricani e
non solo, vera causa dei disordini e del degrado, tutti impegnati
in attività illegali. Il quartiere è una polveriera, con continue risse,
sparatorie senza nome e apparentemente senza perché, fenome-
ni di criminalità diffusa, racket, odio razziale. I tafferugli, infatti,
non coinvolgono solo i due schieramenti, ma spesso anche gli
immigrati tra loro: c’è da chiedersi, allora, se non sia il razzismo
la causa delle divisioni, ma il degrado dell’area e la camorra che
gestisce lo spaccio (la cui entrata in funzione la sera è annunciata
dallo scoppio di fuochi artificiali). Comune e Prefettura sono i
grandi assenti, gli interventi dei nuclei della polizia da soli non
bastano; la chiesa agisce in modo disordinato e confuso: accoglie
gli immigrati “buoni” e vorrebbe lottare contro quelli “cattivi”;
il parroco don Balzano ha avuto un incontro con il Ministro de-
58 Gabriella Cundari
gli Interni in visita al Vasto e ha ribadito che la protesta non ha
motivazioni razziste, ma tende a portare ordine in un quartiere
dilaniato; però nulla fa (o può fare?) contro la camorra e i suoi
capi. Dal canto suo, la Lega parla del Vasto come di un corridoio
naturale (dunque ineliminabile?) per i traffici illegali.
Di recente è stata sequestrata in una retata la cosiddetta
“droga dei poveri”: un farmaco, il Rivotril, contro l’epilessia
che, associato all’alcool, produrrebbe gli stessi effetti dell’eroina.
L’operazione è stata condotta dagli agenti del commissariato Vi-
caria-Mercato della Polizia di Stato tra via Firenze e via Milano,
al Vasto, nel dedalo di vicoli a ridosso di piazza Garibaldi e della
Stazione Centrale di Napoli. Contestualmente, i poliziotti hanno
arrestato un 21enne originario del Gambia, da tempo ricercato
per spaccio di sostanze stupefacenti. In questo mix esplosivo,
lontano dal mare che – parafrasando Anna Maria Ortese – non
bagna tutta Napoli, si scontrano in effetti un’umanità che ha dato
i natali a personaggi famosi (Vincenzo De Crescenzo, Eduardo
De Crescenzo, Lina Sastri, Peppino Gagliardi Gegé Di Giacomo)
e un’umanità di persone – bianche o nere, non importa – che con-
dividono pacificamente una quotidianità tranquilla, ma che ven-
gono nell’immaginario comune confusi con la quota (di entità
molto più consistente) di delinquenti assoldati dalla nostra peg-
giore associazione criminale, che ci affligge sin dal XVI secolo.
Altri migranti, altra storia: ci trasferiamo in una frazione di
Castelvolturno, Ischitella (piccola Ischia per la presenza degli
stabilimenti balneari). Cosa hanno in comune tutti gli immigrati?
Imparano presto la nostra lingua, le nostre abitudini; si chiama-
no tra loro con un ambiguo fratello e comunicano la loro voglia
di amicizia e di pace con questo termine con cui si rivolgono an-
che ai “bianchi” per chiedere qualcosa, ma le donne le chiamano
mama.
Non ci sono differenze? Certo che ci sono: una parte cerca
l’integrazione e si presta ai lavori più umili il più delle volte non
dichiarati dai fruitori bianchi; una parte (minoritaria, ma molto
4. le religioni 59
più evidente nell’immaginario comune) cerca scorciatoie e soldi
facili. In questo caso, cosa c’è di meglio di un’affiliazione con la
camorra? E alla camorra conviene aver qualcuno disposto a tutto
e facile da tenere sotto controllo; in più, se viene arrestato, cosa
può dire? E, poi, la sostituzione di uno che va in carcere o muore
è immediata: se sgarra, lo si elimina, se muore, lo si sostituisce.
Dei morti, senza nome e senza dimora, nessuno sa nulla e nes-
suno chiede.
A Castelvolturno, cinque esponenti del clan dei Casalesi con a
capo Giuseppe Setola, il 18 settembre 2008 commisero una strage
che colpì molto l’opinione pubblica italiana e non solo, “la strage
di San Gennaro”. La strage serviva ai camorristi per affermare il
loro, controllo del territorio e dare una lezione e un avvertimen-
to ai molti immigrati: 130 colpi di pistole e kalashnikov contro
alcuni di essi, la maggior parte con permesso di soggiorno per
motivi umanitari. Sei i morti, ma uno, nonostante la mitragliata
alle gambe, si salvò fingendosi morto e poi collaborò all’identi-
ficazione degli autori della strage (cinque appartenenti al clan,
Giuseppe Setola, Davide Granato, Alessandro Cirillo e Giovanni
Letizia, Antonio Alluce) condannati per strage con l’aggravante
dell’odio razziale. Poi scomparve con la protezione dei carabi-
nieri. I migranti di Ischitella misero in atto una violenta quanto
inutile protesta per l’uccisione dei propri connazionali e le con-
dizioni di degrado in cui vivevano. A dieci anni di distanza, a
luglio Abdullahy Ndoye, senegalese ventiduenne, arrivato con
un barcone dalla Libia, ha aiutato i bagnini del Lido Airone a
salvare tre sconosciuti italiani che, nonostante il mare agitato, si
erano buttati in acqua ed erano in pericolo. Ma, quando ai bagni-
ni hanno chiesto di Abdullay, la risposta è stata evasiva: ”Non
lo conosciamo, non lavora con noi”. Meglio non saper nulla e
non immischiarsi… D’altra parte, così non può essere identifica-
to come “senza permesso”, ma si può espellere: in questo caso
(il più frequente), o viene sostituito da un altro “fratello” senza
identità; oppure, ritornerà sotto mentite spoglie.
5. La più antica attività umana
5.1. L’agricoltore/cacciatore/pescatore ha l’albero genealogico
più lungo
Il filosofo-sociologo Ralph W. Emerson nel 1870 affermò: Il
primo uomo fu un agricoltore e ogni nobiltà storica riposa sull’agri-
coltura. Per comprendere appieno questo assunto, dobbiamo ri-
tornare indietro di circa quattrocentocinquanta milioni di anni.
I primi organismi viventi furono erbe immerse nell’acqua del
globo terrestre, che gradualmente svilupparono strutture simili
a radici, per ancorarsi alla superficie esterna, condotti per il tra-
sporto dell’acqua e della linfa e organi adibiti alla riproduzione:
erano le felci, quelle che poi hanno formato i grandi giacimenti di
carbone fossile (Lenton et al., 2012, pp. 86-89). Le specie vegetali,
da quel momento, si moltiplicarono e si evolsero, diventando il
cibo delle neo arrivate specie animali (Darwin, 1964, p. 84); l’ho-
mo sapiens è l’ultimo anello della catena degli esseri viventi e
comparve “solo” 300.000 anni fa circa. In un primo, lungo, pe-
riodo la vita di questi uomini fu cavernicola: dediti alla caccia,
si nutrivano delle loro prede (Fortey, 1999, p. 135). Tra 30.000 e
20.000 anni fa1 una parte di questi esseri umani (dai 2 ai 5 milio-
ni), partendo da Africa, Europa e Asia, attraversò lo Stretto di Be-
ring e raggiunse l’America settentrionale1. Da qui, per successive
migrazioni, arrivò alla punta del Sudamerica e da questo perio-
1
Le date sono naturalmente indicative e ricavate dagli studi scientifici sulle
tracce lasciate dalle glaciazioni che a periodi alterni interessarono la Terra.
62 Gabriella Cundari
do, ovunque si trovassero, gli uomini cominciarono ad abbinare
al cibo procurato dalla caccia nuovi alimenti, ricavati dalla pesca
e dalle prime forme di coltivazione delle piante: graminacee e
leguminose selvatiche (Von Humboldt, 2008, p. 75 sgg.).
Di esse impararono a raccogliere e conservare i semi e suc-
cessivamente a proteggerle da danni animali, a irrigarle e conci-
marle. Sappiamo che millenni prima della venuta di Cristo nella
“mezzaluna fertile” mediterranea (Libano, Siria, Turchia, Iraq e
Iran) si coltivava l’orzo, il grano, le lenticchie, i piselli e altri le-
gumi conservati, poi, in vasi di terracotta all’uopo fabbricati (Ri-
chard e Fortey 1999, p. 135; Accordi, Lupia Palmieri e Parotto,
1993, pp. 33-37).
L’area coltivata si allargò e si diversificò: ai cereali e alle le-
guminose si aggiunsero fave, datteri, ceci, melograni e le prime
specie arboree, la vite e l’olivo. A poco a poco il consumo di pro-
teine animali diminuì a favore di quelle vegetali: oggi il 70% cir-
ca delle proteine consumate viene dal mondo vegetale (di cui
il 18% dalle leguminose e il rimanente dai cereali). Lo sviluppo
delle pratiche agricole fu analogo nel Vecchio come nel Nuovo
Continente, seppure leggermente ritardato nelle Americhe, dove
le specie vegetali furono peraltro diverse (ad esempio, fagioli,
granturco, pomodoro, lupini, arachidi, cotone, cacao); l’Australia
fece a lungo parte a sé e bisognò aspettare il 1492 per ottenere
un graduale mescolamento diffuso delle specie agricole e delle
pratiche per coltivarle (Saltini, 1984).
Questo lungo processo spiega come i paesaggi agrari, frutto
di fenomeni legati a dinamiche sociali ed economiche maturate
attraverso tecniche e mutazioni culturali lente, siano statima ca-
paci di incidere sulla valorizzazione effettiva, in un certo senso
definitiva, del territorio (Iarrera e Pilotti, 2010, pp. 214 sgg.).
Per comprendere appieno il problema dell’agricoltura nel suo
articolato complesso, lo analizzeremo da più punti di vista, co-
minciando da quello offerto dall’habitat naturale con le sue com-
ponenti morfologiche e climatiche. Ci rifaremo, semplificandola
5. la più antica attività umana 63
e interpretandola, alla classificazione del Köppen, che da sem-
pre è appresa, amata/odiata dagli studenti di geografia generale
(Köppen, 1933).
Sul globo terrestre si possono individuare sette grandi aree:
regioni equatoriali; della savana; desertiche calde; monsoniche;
mediterranee; temperate; polari (Strahler, 1993). La regione
equatoriale è al suo interno diversificata, perché comprende la
vasta area delle più grandi foreste esistenti, quelle pluviali, or-
mai oggetto di un dissennato diboscamento per scopi speculativi
(Congo, Amazzonia) nonché le distese a pascolo e le piantagioni
(cacao, caffè ecc). Essa è bordata a nord e a sud dalle regioni della
savana, che costituiscono più del 10% della terraferma; le carat-
teristiche principali sono la vegetazione prevalentemente erbosa
con alberi distanziati e la piovosità decrescente procedendo ri-
spettivamente nei due emisferi a nord e a sud dell’equatore.
Nelle zone più umide si coltivano cereali e altre piante in gra-
do di sopportare periodi di siccità, come miglio, sorgo, orzo e
frumento, ma anche arachidi, cotone, riso e canna da zucchero
(Iarrera e Pilotti, 2010). Altrove prevale l’allevamento (bovini pe-
core, capre e asini). La savana preannuncia le due fasce a latitu-
dine superiore: considerate genericamente desertiche, esse pre-
sentano notevoli diversità tra costa e interno, steppa e boscaglia,
praterie e aree boschivo-montane xerofili. Il deserto più grande,
il Sahara, ha una superficie di 9.000.000 di Kmq (tutta l’Europa è
circa 10.000.000 di Kmq) e, nonostante le ricchezze del sottosuo-
lo (petrolio, gas naturale ferro, rame, fosfati, la cui estrazione è
affidata a compagnie speculative non africane), ha ancora una
diffusa economia agricolo-pastorale di sussistenza. Questa con-
dizione accomuna un po‘ tutti i deserti, al cui interno sono pre-
senti piccole oasi irrigue là dove affiora quell’acqua che a grande
profondità è abbondante dappertutto (Caldeira e Wickett 2003,
p. 365 sgg.).
Clima subequatoriale è quello delle regioni monsoniche del
subcontinente indiano, del sudest asiatico, della Cina meridio-
64 Gabriella Cundari
nale, ma anche di piccoli tratti dell‘Africa centro-occidentale e
dell‘America centro-meridionale. In queste aree ad alta densità
demografica e bassissimo tenore di vita, le temperature elevate
si combinano con un forte vento: secco, quando spira dalle terre
verso il mare e umido, quando spira dal mare alle terre; il risul-
tato è l’alternanza di una stagione secca ed una molto piovosa. Il
monsone di mare e la presenza di grosse arterie fluviali sono gli
artefici della rigogliosa vegetazione, su terreni idonei ad acco-
gliere le colture da piantagione (riso, té, caucciù).
Procedendo verso nord e verso sud, al di là dei tropici, entria-
mo nel contesto delle regioni a clima temperato, che costituisco-
no le maggiori zone agricole del mondo. Il primo clima è quello
dei paesi del bacino mediterraneo, la più fragile delle strutture
agrarie temperate.
Le regioni affacciate su questo mare intercontinentale dal bas-
so interscambio con le acque delle grandi distese oceaniche, pur
nella loro diversità, sono sempre state caratterizzate da coltiva-
zioni con molti caratteri comuni. Il clima, con un lungo periodo
estivo caldo e assenza di piogge, ha da un lato favorito la pro-
duzione di ortofrutta nelle aree esterne e di cereali nelle zone
interne, generando abitudini alimentari affini lungo tutte le terre
del grande bacino; dall’altro ha reso necessari analoghi sistemi
di difesa e contenimento delle pratiche agricole (orti-giardino
recintati con muretti a secco e siepi spinose, pozzi e piccole ci-
sterne, attrezzi agricoli idonei a coltivazioni effettuate in spazi
ridotti e spesso con forti pendenze e dislivelli). Ne è conseguita
una produzione idonea più a piccoli mercati locali che a grandi
aree commerciali e pertanto destinata a soccombere in un clima
di competizione spinta. La crisi in cui versa questa agricoltura
viene compensata dalla sovrapproduzione dei paesi del nord
continentale. Tutto ciò accresce gli squilibri negli scambi com-
merciali, provoca l’abbandono delle aree più arretrate e l’ecces-
siva intensificazione di quelle controllate da capitali esterni; le
remunerazioni insufficienti; il lavoro nero; le migrazioni; il ca-
5. la più antica attività umana 65
poralato e il bracciantato, su cui ritorneremo più avanti (Babel,
1976). L’agricoltura mediterranea: ha via via perso il suo ruolo
multifunzionale, producendo un evidente degrado ambientale,
l’erosione del suolo eccessivamente consumato e dissestato dal
punto di vista idrogeologico, con le conseguenti perdite di bio-
diversità, desertificazione, inquinamento e uso dissipativo delle
risorse (Giannola, 1989 e 2015). Dal canto loro, i cambiamenti cli-
matici in atto aggravano la situazione, che rimane positiva solo
in alcune aree di grande eccellenza: in Italia, le regioni Campa-
nia, Puglia e Sicilia (Giacomini e Mancini, 2005, pp. 157-158).
Passiamo alle condizioni delle regioni temperate a clima ocea-
nico (versante atlantico dell’Europa, coste del Pacifico americano,
cinese e giapponese, Cile meridionale e Nuova Zelanda), dove le
temperature relativamente miti e l’umidità persistente genera-
no le foreste di conifere e latifoglie e nelle zone argillo-sabbiose
più ventose, la brughiera. Nelle vaste aree interne pianeggianti
americane ed euroasiatiche (includenti anche la nostra Pianura
Padana a sud e la parte meridionale della Penisola Scandinava a
nord), le coltivazioni agricole prevalenti sono i cereali (primi in
assoluto) fondamentali per l’alimentazione animale e per la con-
seguente produzione di carne bovina e suina, di pollame, uova e
latte (Bertoni, 2016).
I cereali della zona temperata danno luogo ad un’intensa
esportazione marittima (Saltini, 1982; Baumannm e Moser, 1998):
è soprattutto il continente americano (con i suoi svariati milioni
di ettari coltivati a mais, e gli altrettanti coltivati a grano, orzo e
altri cereali minori, e l’importante produzione di riso), a determi-
nare un movimento mercantile e introiti pari al prodotto interno
lordo di intere nazioni.
Ai cereali si aggiunge la produzione delle oleaginose (soia, ara-
chidi, lino, cotone), che hanno occupato il posto delle praterie norda-
mericane, regno – un tempo – dei bisonti (Sotte e Guihéneuf, 2002).
La soia costituisce la merce statunitense più venduta all’estero,
tanto da avere un ruolo fondamentale nella guerra recentissima
66 Gabriella Cundari
che Stati Uniti e Cina si combattono a suon di dazi: secondo il
Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA), nel 2017
la Cina ha acquistato soia per circa 12,3 miliardi di dollari, ma
ora minaccia di far pagare agli agricoltori statunitensi per l’anno
in corso una tariffa doganale maggiorata del 25% per i semi di
soia esportati in territorio cinese, come rappresaglia contro i dazi
che il Presidente Trump vuole mettere sulle merci provenienti
dall’Estremo Oriente. Quest’eventualità preoccupa gli agricoltori
nordamericani, che stanno pensando di ridurre la produzione
del legume per evitare di andare incontro a grosse perdite.
Alla produzione cerealicola statunitense fanno seguito quelle
delle sterminate steppe russe e delle estese pampas argentine,
mentre le regioni temperate cinesi del Pacifico (Cina, le due Co-
ree, Taiwan) vedono prevalere il riso e le più esigue aree tempe-
rate giapponesi abbinano al riso (che non ha una resa elevata)
frumento, segale e patate.
Chiudiamo questa prima analisi con le regioni estreme, più
prossime ai poli, che costituiscono la poco produttiva fascia della
taiga, foresta boreale e tundra con forme di agricoltura rarefatta
interessanti piccole aree fertili e vicine alle coste, che si associano
a forme di pastorizia nomade e affiancano le arcaiche attività di
caccia e pesca.
Ma oggi, rispetto alla distribuzione delle colture per fascia
climatica, è di gran lunga più importante l’analisi combinata dei
fattori di produzione: terra, capitale e lavoro. Questi tre elemen-
ti tengono banco da sempre, ma con modalità differenti, dando
vita a modelli e strutture di organizzazione economica del terri-
torio in continua evoluzione.
La terra, ad esempio, è passata dalle forme di proprietà comu-
ne degli abitanti dei villaggi primitivi (che ancora persiste in al-
cuni ambienti africani, polinesiani e in alcune plaghe dell’India,
dell’Asia centro-orientale e dell’America Latina) ai regimi di pro-
prietà fondiaria più disparati: privata; pubblica statale; pubblica
collettiva; pubblica cooperativistica.
5. la più antica attività umana 67
Le caratteristiche, antiche, distinzioni dei fondi per ordinamen-
to e struttura, si basavano invece su grandi categorie di contratti:
1. l’enfiteusi: secondo le regole dei contratti dell’antica Roma il pro-
prietario concedeva perpetuamente o per un lungo periodo un
terreno all’enfiteuta che pagava un canone e doveva migliorarne
con il suo lavoro le condizioni, potendo riscattarlo dopo 20 anni;
2. il latifondo, tipica e feudale gestione delle grandi proprietà ad
agricoltura estensiva (specie cerealicola), a bassa produttività: tra
il latifondista e il lavoratore della terra si inseriva la figura de-
terminante e potente di un amministratore. Il latifondo persiste
in America Latina, in Africa, nel Vicino Oriente, mentre è quasi
(Barbera e Marino, 2014), scomparso nel nostro Mezzogiorno,
esso implica lo sfruttamento massimo del lavoratore;
3. gli open field (campi aperti non recintati) hanno consentito la rota-
zione delle colture, ma hanno reso più difficile la ricomposizione
fondiaria (Von Thünen, 1910). In Inghilterra la loro fine è stata de-
terminata dalle enclosures, recinzioni che nel XVII secolo limitaro-
no gli spazi per adattare lo sfruttamento agricolo alle esigenze di
nuove tecniche seminative, all’abolizione dei diritti delle comunità
e alle richieste del mercato, contribuendo all’esodo di una forte
quota di popolazione rurale verso le città; dall’Inghiltera le enclo-
sures si diffusero ben presto in tutta l’Europa centrale;
4. il bocage, campo chiuso, tipico di alcune regioni dell’Europa
atlantica e del bacino mediterraneo, con proprietà piccole e re-
cintate (cfr. le caratteristiche dei già elencati orti-giardino), si
caratterizza per scarso uso di concimi, produzione a carattere
familiare, poche e tortuose strade di accesso delimitate da albe-
ri e impossibilità di introdurre forme di agricoltura moderna e
meccanizzata (Gallina, 2015, pp. 127-145).
Alla fine del XVIII secolo la “terra” era già diventata una vera
o e propria azienda, con tipologie di gestione profondamente di-
versificatesi nel sorso degli ultimi cento anni. Esse risultano:
1. diretta: forma elementare di conduzione svolta dal proprietario
ed eventualmente dalla famiglia su una superficie non eccessiva-
mente estesa;
68 Gabriella Cundari
2. a mezzadria: il proprietario affida ad un colono la coltivazione,
dividendo con lui spese e guadagni; questa forma oltre che in
America Latina e in Africa si ritrova in alcune regioni mediterra-
nee ed era fino agli anni ’60 praticata anche in Italia, dove oggi è
considerata illegale (Formica, 1996);
3. in affitto: proprietario affida la terra ad un affittuario ricevendone
un canone. Questa conduzione si sviluppa con forme molto diver-
se, che vanno dagli affitti tipici dei paesi sottosviluppati, dove la
distanza sociale tra affittante e affittuario è minima, sino a quelle dei
paesi evoluti (Giappone, Australia, Stati Uniti, Europa centro-occi-
dentale) dove l’affittante è un imprenditore capitalista che investe in
più imprese, con larghi margini di guadagno (Bevilacqua, 1989);
4. a conduzione capitalistica: il proprietario diventa un imprenditore
che fa ricorso a salariati fissi e a braccianti periodici, investendo i
propri capitali non solo nella terra, ma anche in meccanizzazione
e in tutto ciò che può migliorare le prestazioni e la sostenibilità
dell’azienda e, quindi, anche in capitale umano (v. capitolo II);
5. land grabbing (accaparramento di terre): forma molto recente di
conduzione da parte di paesi (ad es. Arabia Saudita e Giappone)
economicamente ricchi, ma carenti di spazi coltivabili oppure
economicamente ricchi ma con un incremento della domanda
interna superiore alla produzione (Cina, Corea). Essi acquistano,
a prezzi irrisori, terreni da altri paesi a crescita demografica e
redditi bassi, grazie a contratti governativi che eliminano qualsi-
asi rapporto con eventuali residenti locali, che vengono trasferiti;
le terre vengono destinate a colture che poi garantiranno cibo per
le popolazioni del governo acquirente, senza alcuna garanzia in
termini di qualità del terreno, inquinamento, tutela della risorsa.
Fenomeni del genere si sono verificati anche da noi in Sardegna,
dove nel 2012 il colosso cinese dell’energia solare Winsun Group
ha avviato la costruzione di 64 ettari di serre fotovoltaiche (Ener-
VitaBio Santa Rerparata), in deroga alla normativa che preve-
de per questo tipo di contratto la prevalenza della produzione
agricola su quella energetica. La società, però, è in forte perdita;
la Guardia di Finanza ha avviato severi controlli con ipotesi di
evasione fiscale, truffa e lottizzazione abusiva, conquistandosi
ampio spazio sui quotidiani locali, come l’Unione Sarda.
5. la più antica attività umana 69
E siamo giunti al fattore lavoro. In agricoltura esso varia in
funzione dei condizionamenti imposti dalla natura e della capa-
cità di risolverli attraverso lo sviluppo del lavoro manuale o di
quello innovativo a carattere tecnologico-scientifico e dà luogo a
due forme:
1. il labour saving, cioè il risparmio di manodopera ottenuto attra-
verso la trasformazione controllata delle condizioni naturali (ser-
re, bonifiche, macchinari);
2. il land saving, che si basa sul risparmio di terra, sullo sviluppo
della chimica (fertilizzanti e fitofarmaci), prevedendo studi della
genetica (individuazione di specie ibride) per ottenere incremen-
ti produttivi globali.
Ma, soprattutto, il fattore lavoro comporta il grande proble-
ma del bracciantato e del caporalato, con implicazioni anche nel
campo dell’immigrazione. Un tempo […] nella terra del braccian-
tato gli uomini erano sempre assenti. Partivano prima dell’alba e tor-
navano a notte fonda; facevano lavori massacranti per paghe da fame.
Le donne, invece, erano sempre lì, presenti, a tenere in piedi la casa,
crescere i figli, buttarsi nel pantano delle risaie, spigolare nei campi,
raccogliere i resti della trebbiatura e persino l’erba nei fossi (Rumiz,
2011, p. 27). Oggi il bracciante, lavoratore della terra che non
deve utilizzare specifiche conoscenza tecniche, perché si limita
alla raccolta dei prodotti di massa, alla pulizia dei terreni, all’uti-
lizzo di strumenti manuali, è ingaggiato da un ”caporale” come
avventizio e impiegato in lavori stagionali. Esso viene retribuito
pochissimo (a giornata o a settimana, con un elevato numero di
ore lavorative pro die, circa 2-3 euro ad ora/lavoro) che eludono
le leggi specifiche regolanti questa forma di rapporto di lavoro:
così vuole il caporale e chi lo ha destinato a svolgere il suo ruolo,
perché o accetti le condizioni che ti propongo o resti a casa. E allora,
una enorme massa (apparentemente inesistente) di lavoratori, il
più delle volte emigrati in attesa di un permesso di soggiorno,
raggiunge i campi con scalcagnati mezzi di fortuna, al costo di
70 Gabriella Cundari
una somma detratta dal loro compenso. Qualche volta i brac-
cianti ci muoiono, uccisi dal caldo e dalla fatica: come Abdullah,
sudanese, ma anche come Paola Clemente di San Giorgio Ioni-
co, entrambi morti durante la raccolta di pomodori e uva nelle
campagne pugliesi: come loro, ultimi anelli di una filiera che al
vertice ha imprese nazionali e anche multinazionali, tanti altri
potrebbero essere morti, senza che se ne sappia nulla (Krasna,
2013), Altra nota dolente del lavoro di raccolta è rappresentata
dalle aste con le quali viene deciso il prezzo di prodotti. Ne è
un esempio eloquente quello che accade per i pomodori italiani
(ANICAV, 2018): ogni anno, su una superficie di circa 70.000 etta-
ri (le aree di produzione e le relative filiere sono due: Parma-Pia-
cenza-Ferrara e Foggia-Caserta-Potenza), si producono 5.000.000
di tonnellate di pomodori, ed ogni anno, il prezzo del prodotto si
fa inspiegabilmente più basso: la ragione? La cosiddetta doppia
asta. Gli industriali della filiera, infatti, in primavera, prima che
cominci la maturazione del prodotto, fanno un’offerta pubblica
on line per la propria potenziale commessa, che costituisce una
prima selezione; dopo venti giorni parte una nuova asta che dura
solo due ore e viene vinta da chi offre il prezzo più ribassato
rispetto alla prima asta: in realtà, con sporco bluff, vince chi non
dovrebbe, perché la legge vieta di vendere ad un prezzo al di sot-
to del costo di produzione. Ma la legge viene elusa grazie alle fal-
se dichiarazioni degli imprenditori e la differenza tra costo reale
e costo attribuito viene compensata attraverso l’abbassamento
della retribuzione dei braccianti, della qualità del prodotto e tal-
volta anche eludendo le regole della sicurezza alimentare, intesa
come controllo igienico-sanitario degli alimenti.
Negli ultimi anni la produzione agricola è cresciuta con un in-
cremento che nelle zone più evolute è stato nettamente superiore
alla crescita della popolazione. Tutto è cominciato con la Green
Revolution rockefelliana, alla fine della seconda guerra mondiale,
ed è continuata con la Gene devolution, recentissima, che, grazie
alle biotecnologie, sta creando nuovi organismi viventi (piante
5. la più antica attività umana 71
transgeniche) e nuovi ibridi (Daclon, 2000). La biotecnologia la-
vora all’aumento della produttività, della resistenza agli agenti
patogeni, del contenuto proteico dei prodotti della terra, combi-
nato con la riduzione del ciclo produttivo, del minore consumo di
suoli, della lotta al riscaldamento globale. Una forma di agricol-
tura sostenibile è quella integrata, che prevede l’uso di pratiche
agricolo volte a ridurre l’impatto sull’ambiente e sulla salute dei
consumatori. Essa è stata oggetto di una serie di indagini, studi e
proposte a livello anche di Comunità Economica Europea, che ha
emanato un Regolamento sui regimi di qualità e molti documenti
che costituiscono il “Pacchetto qualità dell’Agricoltura integrata”.
L’agricoltura della Comunità Europea presenta ancora molti
ritardi ed omissioni e il lavoro da fare è lungo e delicato, soprat-
tutto nel campo dei servizi ambientali, della lotta ai cambiamen-
ti climatici, della tutela del suolo e delle risorse naturali, della
valorizzazione del territorio, della biodiversità e del paesaggio.
In definitiva, non si può prescindere dalla dicotomia dell’agricol-
tura, che ha al suo interno aspetti negativi e positivi. Da un lato
l’innovazione in agricoltura, massime la sua “industrializzazio-
ne”, ha avuto molti effetti deleteri: la desertificacazione, l’effetto
serra, l’eccessivo consumo di acqua, la deforestazione, l’insicu-
rezza sulle qualità alimentare e così via. Ma non si possono nega-
re gli aspetti positivi delle nuove aziende che con la loro continua
evoluzione, mirando al benessere e alla multifunzionalità (esple-
tata mediante nuovi servizi, come agriturismo, fattoria didatti-
ca, fattoria sociale, ecc.) hanno consentito di eliminare in buona
parte del globo, lo spettro della fame intervenendo anche sulla
produttività della terra e sulle forme di lavoro ad essa legate.
Ad influenzare direttamente il mercato sarà poi il consumatore
finale, scegliendo un prodotto anziché un altro in nome non solo
del prezzo, ma anche della sua qualità e in nome della sicurezza
finale (Scaramellini, 2017). Purché si tenga informato e che sia
consapevole delle sue scelte, perché, come sempre, le scelte sono
un fatto di cultura.
72 Gabriella Cundari
5.2. Le filiere campane innovative. Il “Monaco”, Auricchio e
Vannulo: dall’allevamento all’industria casearia
In Campania la filiera del latte è da sempre sinonimo di qua-
lità e questo è un intreccio di tre esperienze diverse per tempi,
per vicende e soprattutto luoghi geografici, che ha in comune
l’origine campana e l’acume imprenditoriale dei suoi ideatori. La
prima esperienza nasce ad Agerola, intorno al 1850, la seconda
a San Giuseppe Vesuviano nel 1877, la terza nel 1908 a Capac-
cio, non lontano dai templi di Paestum. Sono tutte caratterizzate
dalla profonda evoluzione innovativa di ciascuna produzione,
al fine di valorizzarne e migliorarne le condizioni di partenza.
In comune hanno anche l’utilizzo di prodotti rigorosamente fre-
schi: latte crudo proveniente da allevamenti controllati, caglio
preparato ad hoc, cura dell’igiene, produzione limitata. Molto
diversi sono invece gli ambiti geografici: la penisola Sorrentina,
il grande feudo cinquecentesco di Ottaviano alle pendici del Ve-
suvio poi sostituito dal fertile tratto di pianura padana intorno a
Cremona; la piana di Paestum.
Cominciamo da Agerola e dalla Penisola Sorrentina: quando
i Picentini, sconfitti dai Romani, furono esiliati nel 264 a.C. sui
monti di questa piccola penisola di origine dolomitico-calcarea
dove vi vissero pascolando le capre, che davano ottimo latte, da
cui il nome dei Monti Lattari. In epoca storica molto più recente
furono introdotti i bovini di razza podolica, robusti e resistenti,
che poi nel tempo furono incrociati con altre razze fino ad origi-
nare la razza “agerolese”, risalente ai primi del Novecento (Aiel-
lo, 2007). L’innovazione si verificò quando, a causa dell’esplo-
sione demografica di Napoli e della conseguente riduzione di
terreno agricolo intorno alla città antica, avvenne il primo grande
esodo di contadini napoletani; molti di essi si spostarono proprio
nelle aree a pascolo catena montuosa sorrentina e, in condizioni
agricolo-climatiche molto differenti da quelle dei luoghi di par-
tenza, si diedero all’allevamento bovino; gente semplice e pove-
5. la più antica attività umana 73
ra, si copriva come poteva con tessuti di origine vegetale come
la juta e portava a Napoli i propri prodotti caseari per vederli
su un mercato più ampio e redditizio di quelli piccoli, locali. Fu
probabilmente così che nacque il nome di “provolone del Mona-
co”, perché i contadini intabarrati in juta scura e grezza venivano
scambiati per monaci. Le vacche agerolesi, purtroppo oggi ridot-
te di numero, hanno sempre pascolato liberamente nutrendosi
delle erbe aromatiche che crescono abbondanti sui Lattari nelle
aree non aggredite da speculazioni edilizie. Il loro latte, sapido
e profumato, leggero e consistente al tempo stesso, è particolar-
mente pregiato e la produzione di nicchia del Provolone del Mo-
naco, regolata da un rigido disciplinare, ha ricevuto il riconosci-
mento D.O.P per la sua zona di produzione limitata ai comuni di
Agerola e Gragnano (Regione Campania, 2102). Caratteristiche
dei provoloni del Monaco sono la forma affusolata e leggermen-
te allungata; l’utilizzo esclusivo di pasta filata (una pasta ottenu-
ta attraverso un complesso processo di lavorazione del latte); la
crosta giallognola e sottile; la lunga stagionatura (circa 6 mesi);
un contenuto in grasso non inferiore al 40%; una quantità di latte
di Agerola non inferiore al 20%. Questi provoloni fanno parte
dei cosiddetti caciocavalli, nome antico dei formaggi che durante
la stagionatura erano legati a coppia e appesi a cavallo di una
trave in luoghi asciutti e riparati, ma ben areati (Tallone, 2016).
La produzione di latte nell’area agerolese-sorrentina è stimata in
100 mila q.li all’anno, in gran parte destinata alla produzione del
Provolone del Monaco DOP (oltre 50.000), del fiordilatte (30.000)
e il restante degli altri latticini locali. I pregi del Provolone del
Monaco sono l’elevata qualità della materia prima, la sua autoc-
tonicità, il microclima in cui pascolano i bovini, nasce il latte e si
effettua la stagionatura del prodotto caseario, il suo inarrivabile
gusto (molto imitato, ma invano), dovuto all’aroma delle erbe
che provoca sensazioni inarrivabili.
E passiamo agli Auricchio, che ormai da due generazioni vi-
vono nel Cremonese, ma nascono campani: lo attesta già il nome,
74 Gabriella Cundari
derivato probabilmente un Auricus, soldato di origine germani-
ca, venuto in Campania nel medioevo: oggi in Italia gli Auricchio
sono circa 600 e per l’80% vivono in Campania. Siamo alla fine
dell’Ottocento in provincia di Napoli, a San Giuseppe Vesuvia-
no, un’area fertile alle pendici del Vesuvio, che aveva fatto parte
dell’enorme tenuta feudale di Ottaviano: Gennaro Auricchio, da
ambulante e venditore di taralli, diventò gestore di una microa-
zienda di prodotti caseari. La sua produzione, ritenuta eccellen-
te, aveva un segreto: un caglio ottenuto con una combinazione
misteriosa, che dava al provolone una pastosità e un retrogusto
particolare. Il prodotto era un provolone, un formaggio a pasta
filata derivato dall’essiccazione della provola fresca; quest’ulti-
ma era ottenuta attraverso un tradizionale processo di filatura
del latte crudo vaccino, di cui si verificava il perfetto punto di
filatura attraverso la provatura e solo allora, fermata la lavora-
zione, si procedeva ad esporre il prodotto per 10-12 minuti al
fumo ottenuto con la combustione della paglia (Mannucci, 2012).
Ritorniamo a don Gennaro Auricchio, che diede al provolone il
suo cognome, tanto che ancora oggi Auricchio è sinonimo di for-
maggio: egli fondò già negli anni tra Ottocento e Novecento una
società per proteggere il suo caseificio e ben presto, pensando
ai compaesani trasferitisi in America, cominciò ad inviare negli
States un po’ della sua produzione. Il successo fu enorme, le ri-
chieste pure. Ma in Campania la produzione del latte non era
sufficiente, e Don Gennaro si ricordò che, durante una guerra
di Indipendenza, era stato al nord e aveva visto grandi stalle e
grandi prati. Così, mandò il figlio Antonio in Lombardia. E lui,
dopo avere esplorato Lodi e dintorni, scelse Pieve di San Giaco-
mo a Cremona, dove c’era il ‘latte più buono’ e in grande quanti-
tà. Gennaro aveva i mandarini in giardino e cominciò a chiamare
così anche i provoloni da 20 chili che sembrano fatti a spicchi,
per i segni delle corde cui sono stati appesi. Poi c’erano i “sala-
mi”, provoloni a cilindro, che hanno la forma degli insaccati di
maiale. La tradizione partenopea, così, fu salva. Oggi presidente
5. la più antica attività umana 75
della Gennaro Auricchio Spa è un altro Antonio, pronipote del
primo, che dichiara con orgoglio: Nel nostro stabilimento principale
lavoriamo 400 litri al giorno; in tutto il gruppo (uno stabilimento
è ancora a San Giuseppe Vesuviano), si lavorano circa 900.000
litri annui, di cui 400.000 di latte di bovino agerolese, 400.00 di
latte di bovini di altra razza e 100.000 di latte di pecora. L’azien-
da, che era stata divisa con un gruppo di cugini, dopo una crisi
risalente al 1992, è ritornata tutta nelle mani degli eredi diretti,
che hanno acquistato le quote dei parenti (Mussolino D. 2009).
Nello stabilimento principale lavorano 99 persone, di cui 80 sono
casari specializzati; viene adoperato solo latte italiano crudo e la
lavorazione è solo manuale.
Ogni anno, un provolone gigante di 5 quintali (che solo gli
Auricchio sanno fare), viene presentato al Cibus di Parma (Me-
letti, 2016), altri simili, ma meno giganteschi, sono presentati a
fiere internazionali in America, in Australia, Canada, Brasile,
Spagna). Merito del caglio segreto? Ma no, ormai non è più segreto.
Il vero segreto del provolone Auricchio è nella mentalità, nel costume
antico, adattato ai tempi ma serenamente difeso … e che nessuno potrà
penetrare mai dice il Presidente Antonio Auricchio.
Nota a margine: quando a Napoli una persona si vanta di
un’importanza che in effetti non ha si diceva e talvolta ancora
si dice: Ma chi te cride d’essere ‘on Gennaro chillo d’’o pruvolone??!;
oppure: Ma che t’attigge ‘a ffà, chi si, Auricchio d’’o pruvulone?
Siamo giunti all’ultima filiera, la più recente e sorprenden-
te, ma nella premessa ritorniamo al passato. Nel 1786 Goethe,
recandosi nella pianura di Paestum, riferisce: La mattina ci met-
temmo in cammino assai per tempo e percorso una strada orribile arri-
vammo in vicinanza di due monti dalle belle forme, dopo aver traversato
alcuni ruscelli e corsi d’acqua, dove vedemmo le bufale dall’aspetto d’ip-
popotami e dagli occhi sanguigni e selvaggi. La regione si faceva sempre
più piana e brulla: solo poche casupole qua e là denotavano una grama
agricoltura (Goethe, 1991, p. 230). Presso Capaccio (etimologica-
mente caput aquis, riferito al Sele che vi scorre pigro e ampio) e a
76 Gabriella Cundari
due passi da Paestum, c’è la contrada Vannulo, che per la vulgata
popolare significa vale nulla (con riferimento al valore agricolo),
un tempo acquitrinosa e malarica. Già intorno al Cinquecento
aveva accolto le bufale, animali antichi (risalgono al 5.000 a.C.)
pesanti e resistenti, capaci di sopportare condizioni ambienta-
li disagiate. Qui nel 1908 il capostipite della famiglia Palmieri,
Antonio, acquistò una tenuta di scarso valore agronomico, che
gestì in modo tradizionale, così come poi fece suo figlio. Bisognò
arrivare al 1996 per cambiare completamente passo: ci pensò il
nipote che porta lo stesso nome del nonno, a creare un’azienda
biologica, completamente rinnovata nei modi e nelle forme im-
prenditoriali. Antonio, detto il “Bill Gates della mozzarella” oggi
è l’imprenditore più imitato della Campania, ha ricevuto ricono-
scimenti internazionali, è intervistato da tutti, persino dal Finan-
cial Times che nel 2005 lo ha definito a legendary farm, persino dal
Washington Post, che gli ha dedicato nel 2017 un’intera pagina
(Faenza, 2013). Ma gli abitanti della Contrada e i suoi amici, ne-
gli anni ’90, gli davano del pazzo: In questa zona non riuscirai a
fare nulla gli dicevano Gli allevamenti non portano nessun profitto
asserivano. Palmieri rispondeva, invece, che si può fare qualsiasi
cosa … ma per realizzarla serve grande lavoro, passione e umil-
tà, e tanta tenacia e tanta pazienza, aspettando che ti venga l’idea
nuova, ma quella giusta. Antonio considera le bufale il suo capi-
tale, dunque le tratta con rispetto: le fa dormire su materassini,
le tiene pulite e libere dalle mosche, grazie a trappole biologiche
cattura mosche che vengono dal Giappone; la stalla è completa-
mente automatizzata: un getto d’acqua la pulisce di frequente e
un sistema di canali permette di riutilizzare lo sterco come con-
cime per crescere l’erba che diventerà il cibo delle bestie. Rivisita
il concetto di tenuta agricola: nei duecento ettari della sua ci sono
prati all’inglese, roseti e bordure di lavanda (Molle, 2015). Utiliz-
za il fienile e le varie pertinenze della casa per la yogurteria e il
caseificio con il punto vendita. Studia gli atteggiamenti dei suoi
animali e scopre che mamma bufala (per la verità trecento bufale
5. la più antica attività umana 77
indiane) è più serena se ascolta musica classica, se è rinfrescata
con spatole massaggiatrici (bracci meccanici metallici fabbricati
in Svezia, che accarezzano e mungono), se è libera di farsi mun-
gere quando ne sente il bisogno (tutti, agli inizi, consideravano
questa un’idea folle, perché le bufale non sarebbero mai andate
da sole alla mungitura; invece le bufale, come qualsiasi animale
addestrato da un buon istruttore, hanno presto imparato i giusti
comportamenti).
Nel 2012 la Tenuta Vannulo ha ottenuto un Oscar Green nella
categoria “In filiera” (D’Amore, 2018). Antonio Palmieri è dav-
vero un uomo speciale: sostiene con forza le sue idee, non si spa-
venta all’idea dei cambiamenti, è aperto all’innovazione e a nuo-
vi interessi, ma anche capace di approfondire ogni studio prima
di procedere a nuove iniziative; insomma combina una mente
futuristica con un cuore ricco di valori e antiche tradizioni. In
questo modo ha saputo trasformare in punti di forza dalla sua
azienda non solo le innovazioni, ma anche alcune caratteristiche
che generalmente sono considerate handicap in moderni pro-
cessi industriale. Per esempio, la produzione è limitata, per una
scelta aziendale è rigorosa: Siamo un piccolo caseificio, produciamo
15 quintali di latte al giorno – afferma Palmieri – a noi non interessano
i grandi numeri, puntiamo al piacere della qualità (Bernabò, 2016).
Palmieri ha solo dimostrato che Adam Smith, aveva ragione: la
mano invisibile del mercato che spinge verso l’efficienza funzio-
na, ma nel Cilento, come altrove, ha bisogno di essere aiutata da
molto cervello.
Punti di forza dell’azienda Vannulo:
1. Vannulo è un brand unico, senza possibili imitazioni e la traspa-
renza è il marchio di fabbrica ideologico dell’impresa, la filoso-
fia di tutte le attività che vi si svolgono.
2. Il sistema produttivo si basa sulle regole dell’agricoltura biolo-
gica, nel rispetto dell’ambiente, degli animali e delle esigenze
dell’uomo.
78 Gabriella Cundari
3. L’azienda ha un solo punto vendita, a Capaccio. La strategia
vincente è quella della mozzarella a chilometro zero: l’intera la
filiera, dal foraggio al latte nasce in loco, non si acquista niente
dagli altri. Ciò consente di garantire la grande qualità del pro-
dotto finale e di realizzare delle economie di scala, ma anche (e
soprattutto) di controllare l’intera filiera qualitativa.
4. Ciascun manufatto nasce da una rivisitazione degli strumenti e
delle cose dell’antico mondo contadino. Così le fuscelle di giun-
co usate una volta per le ricotte ispirano cestini contenitori da
scrivania, tutti intrecciati a mano; il cestino delle uova diventa
una borsa da portare a tracolla e la vecchia bisaccia di un tempo
assume linee contemporanee e alla moda.
5. I visitatori dell’azienda possono seguire tutte le fasi della produ-
zione, visionare l’allevamento, ammirare le bufale, la realizza-
zione della mozzarella, in pratica tutta la filiera.
6. Alla quantità Palmieri ha sempre preferito la qualità. Chi vuo-
le la mozzarella Vannulo deve prenotarla e ritirarla in azienda.
Non si fanno spedizioni. ogni giorno il caseificio produce tre,
quattrocento Kg. di mozzarella e basta. È stato rifiutato l’invio al
Vaticano e all’Enoteca Pinchiorri di Firenze. Chi vuole la mozza-
rella, la deve prendere al caseificio.
7. Lo sviluppo armonico e prosperità, la lungimiranza e la continua
ricerca produce grandi prodotti ma anche benessere e risorse per
investire sul futuro: nascono così la yogurteria, i gelati e i budini
tutti da latte di bufala, il caffè macchiato con la panna di bufala;
cioccolatini al latte di bufala, una serie di articoli di pelletteria,
rigorosamente artigianali, fatti con il pellame delle bufale.
8. All’interno della tenuta è presente anche un museo, nel quale
sono esposti alcuni oggetti antichi impiegati per le lavorazioni
in Azienda, come ad esempio un vecchio motorino utilizzato
per la raccolta del latte fino agli anni ’70.
9. Sperimentare le novità è la strategia vincente del gruppo fami-
liare. Palmieri, che viaggia molto, si documenta e si confronta,
gestisce l’azienda con i tre figli laureati: Teresa, ingegnere, Ni-
cola, agronomo, Annalisa, economista., ognuno con il suo ruolo
aziendale ben definito, che nasce da lontano, perché sono stati
coinvolti nei problemi della tenuta sin da piccoli (May, 1958).
5. la più antica attività umana 79
10. I 200 ettari aziendali hanno il maggior numero di visitatori. È il
caseificio più famoso in Italia, migliaia di turisti ogni mese arri-
vano da ogni angolo d’Europa. L’accompagnatrice parla quattro
lingue, i tedeschi sono i clienti più esigenti.
11. Una dipendente in sala macchine controlla la produttività di
ogni bufala. Gli animali effettuano tre mungiture al giorno e
sono l’attrazione per decine di bambini. Ogni bufala è munita di
un microchip. Il latte viene subito scartato se compare un’ano-
malia sui monitor, mentre la bufala viene accompagnata in in-
fermeria per i controlli. La qualità del prodotto parte dalle stalle.
La pulizia dei luoghi viene apprezzata dai visitatori.
12. Ogni bufala ha un suo codice che il sistema riconosce, sia per
il corretto posizionamento della mungitrice ma anche per il
controllo della produzione. In questo modo aumenta anche la
quantità e la qualità; in effetti chi meglio dell’animale sa quando
è arrivato il momento della mungitura? Veramente si dimostra
come la tecnologia anche la più sofisticata se ben usata è al ser-
vizio dell’uomo e non il contrario come spesso accade.
13. È in progetto un’area molto più “green”, dove bufale e visitatori
potranno godere di grandi spazi verdi in una tenuta ancora più
estesa e diversificata.
14. Palmieri non pensa e non sogna l’export, non ha velleità di espan-
sione produrre di più non ha alcun senso, noi reinvestiamo gli utili, mi-
glioriamo la qualità del prodotto, proponiamo nuove idee ai nostri clienti.
La mozzarella non ha conosciuto gli effetti nefasti della crisi ma
nel settore dell’oro bianco molti imprenditori sono sommersi di
debiti: “Per molti di noi, purtroppo, la ricchezza e l’apparenza
sono il punto di arrivo. Ma a cosa serve comprare una grande
auto e non avere i soldi per la benzina?”.
Da ultimo ricordiamo i finanziamenti che l’impresa Vannulo
ha accordato per il restauro della sala Napoli del Museo di Pae-
stum e per il nuovo plesso scolastico “Vannulo”.
6. L’industria
6.1. La geniale combinazione tra abilità manuale e talento ce-
rebrale
Uomo e industria costituiscono un binomio indissolubile,
come conferma il termine manufatto che nel Dizionario Lingui-
stico Treccani viene così definito: dal latino manu factus, letteral-
mente opera della mano dell’uomo, indica in realtà oggetti e prodotti
lavorati sia a mano, che con l’impiego di macchine e ottenuti mediante
la trasformazione di materie prime. In questa definizione c’è tutta la
storia del genere umano, dalla scoperta del fuoco all’elettronica,
all’informatica, alla robotica, con, implicitamente, tutti i cambia-
menti che si sono succeduti dalla comparsa dell’uomo ad oggi e
che rappresentano le tappe evolutive dell’organizzazione territo-
riale ed economica degli spazi terrestri.
Il manufatto, insomma, è il tratto di unione tra un prodot-
to artigianale (opera unica di un artigiano, di costo elevato), e il
prodotto industriale (copia multipla di un prototipo artigiano e
dal costo più accessibile), entrambi destinati alla commercializ-
zazione: singola, per la prima categoria; sempre più estesa, gra-
zie alla crescente riproduzione, per la seconda (Clark, 1957). Con
l’ingrandirsi e il moltiplicarsi di popolazione, città e commercio,
le attività artigianali aumentarono e si diversificarono, con pro-
ficui scambi di tecniche lavorative e una maggiore circolazione
delle materie prime; per un lungo periodo iniziale, però. i centri
di produzione di manufatti si svilupparono in prossimità delle
fonti di materia prima (due esempi per tutti: gli antichi manu-
82 Gabriella Cundari
fatti di terracotta nati nelle aree argilloso-arenarie; i settecente-
schi centri produttivi sorti intorno alle miniere di carbone prima
dell’invenzione dei mezzi a vapore). La linea del cambiamento
della manifattura da artigianale ad imprenditoriale fu la rivo-
luzione industriale, magistralmente studiata, esposta in forma
completa e diffusa da un grande economista inglese, Arnold
Toynbee (1884). Il termine rivoluzione, contrariamente a quanto
si crede, non indica solo un processo rapido e violento teso a sov-
vertire un ordine precostituito (in genere sociopolitico, ma anche
economico); più frequentemente individua il completamento di
un ciclo cui se ne innesta uno nuovo, che utilizza il precedente
come tappa indispensabile per proseguire il percorso iniziato ap-
portando innovazione.
Così è accaduto con la rivoluzione industriale, i cui prodromi
risalgono alla fine del ‘600: esemplare è il caso di Johnn Lombe,
tessitore inglese, che fu inviato dal fratellastro in Italia per stu-
diare alcune macchine manuali con cui si filava l’organzino, pri-
mo ordito della seta. Secondo la leggenda, Lombe lavorò presso
una filanda del Nord Italia; nottetempo copiò a lume di candela
disegni e progetti dei macchinari; ritornò in Inghilterra; costruì
un nuovo mulino e nel 1716 ottenne un brevetto per tre tipi di
spolette, una per avvolgere, un’altra per girare e la terza per tor-
cere; più fili di seta grezza. Dalla seconda metà del ‘700, dunque,
il processo di industrializzazione con le invenzioni della mac-
china a vapore e della spoletta volante delle macchine tessili (fi-
glia delle spolette “italiane”), si diffuse e si radicò, raggiungendo
l’acme nella seconda metà del secolo successivo (con la scoperta
dell’elettricità, del petrolio e dei prodotti chimici); la fase più re-
cente è quella dell’elettronica, delle telecomunicazioni dell’infor-
matica e della robotica, ma siamo consapevoli che questi nuovi
campi non hanno ancora esplicato tutta le loro potenzialità inno-
vative (Allen, 2011).
L’attività manifatturiera, fattore alla base di tutti i sistemi pro-
duttivi, non si manifesta in forma isolata, ma attraverso una serie
6. l’industria 83
di relazioni funzionali che nel tempo si sono infittite fino a costi-
tuire una rete complessa di spazi discontinui e non omogenei,
in cui la localizzazione è l’elemento fondante e privilegiato. Le
imprese segnano il destino del territorio in cui operano e la loro
influenza si diffonde a macchia d’olio in ambiti via via più vasti,
che arrivano sino alle aree di destinazione dei prodotti. Ma non
sempre si tratta solo di un’influenza positiva: infatti possono ri-
sentirne imprese già esistenti in territori prossimi con analoghe
produzioni, ma minori capacità competitive che, per ridurre i
danni economici, finiscono con l’essere giocoforza inglobate nel-
le prossime e più grandi (Guillén, 2003, pp. 151 sgg.).
Il problema è scegliere oculatamente come e dove localizzare
le proprie attività produttive sul territorio e la prima soluzione
scientificamente rigorosa fu di Alfred Weber (1922), che elaborò
(in collaborazione con il matematico Georg Pick) un modello in
base al principio che la localizzazione deve minimizzare i costi
del trasporto in uno spazio considerato isotropico (vale a dire
uguale per qualsiasi direzione scelta), mentre materie prime e
mercato sono i due fattori dati ed acquisiti.
Il costo del trasporto è sostanzialmente una funzione linea-
re rispetto alla distanza da coprire; i produttori operano in un
regime di concorrenza perfetta; ciascuno di essi conosce bene
l’ambiente in cui lavora; la riduzione o l’aumento di produzio-
ne non genera né diminuzione, né incremento della domanda:
il modello si adatta quindi a qualsiasi tipo di sistema economico
ed è finalizzato esclusivamente a massimizzare i profitti al minor
costo possibile. Le forze che agiscono sono tre: il minimo costo
di trasposto; la manodopera che dovrà operare nelle imprese;
l’influenza della forza di agglomerazione. Successivamente al
modello weberiano vennero aggiunte alcune variabili, come co-
sto del lavoro, fonti di energia, vicinanza di altre imprese, ecc.
(Conti, 1996, p. 26). Inoltre il fenomeno, invero complesso, si è
progressivamente disancorato dalle caratteristiche del territorio
per seguire gli interessi delle imprese che hanno come obiettivo
84 Gabriella Cundari
primario quello di potenziare le vendite non solo per il semplice
incremento del fatturato, ma per effettuare economie di scala1 e
affrontare la concorrenza su nuove basi produttive.
La teoria di Weber ha aperto la strada agli studi sulla localiz-
zazione industriale, che, partendo dagli assunti weberiani, han-
no considerato la localizzazione di volta in volta assumendo un
punto di partenza differente).
Si possono così distinguere:
1. industrie orientate verso le materie prime (prevale la prossimità ai
giacimenti minerari, o verso i luoghi di arrivo delle importazioni);
2. industrie orientate verso le fonti di energia (prevale la prossimità
delle fonti energetiche);
3. industrie orientate verso il mercato dei prodotti (prevale la pros-
simità ai grandi mercati di import/export);
4. industrie orientate verso il mercato del lavoro (prevale la prossi-
mità alle città, che possono fornire manodopera abbondante e/o
qualificata (Lloyd e Dicken, 1992).
In realtà, come lo stesso Weber ha dimostrato, le fabbriche
storicamente hanno teso a:
1. collocarsi presso le fonti di materie prime in funzione del loro
peso e della perdita dello stesso con il passaggio a prodotto finito
(perché la perdita di peso faceva diminuire il costo dei trasporti);
2. spostarsi verso il mercato se anche il prodotto finito è pesante (e
il mercato è in grado di assorbire il prodotto nella sua globalità);
3. orientarsi verso il mercato del lavoro in misura crescente, in fun-
zione della quantità di manodopera necessaria alla produzione (in
questo senso le periferie delle grandi città sono le più attrattive);
4. collocarsi, secondo la tendenza più recente, in funzione delle
economie di scala, cioè della relazione tra aumento quantitativo
di produzione e diminuzione del costo medio di unità del pro-
dotto (Camagni, 2011).
1
L’economia di scala indica la diminuzione dei costi medi di produzione in
relazione alla crescita della dimensione degli impianti.
6. l’industria 85
Le economie di scala possono creare un vero e proprio ribal-
tamento, perché, per una grande fabbrica, trasporti di quantità
crescenti creano più risparmio di una somma di costi unitari più
bassi, e la valutazione si orienta in questo caso su unità operati-
ve più grandi (Bianchi G. e Magnani I., 1993). L’organizzazione
dello spazio industriale dipende dunque da un insieme di condi-
zioni relativamente complesse: dal punto di vista globale, le in-
dustrie manifatturiere tendono a concentrarsi dove c’è possibilità
di approvvigionarsi di più materie prime a minor costo oppure,
a seconda dei casi, a scegliere in funzione dell’abbondanza di for-
za lavoro, se l’impresa è ad alta intensità di manodopera oppure
della reperibilità di competenze su innovazione e macchinari,
per le imprese ad alta intensità di capitale.
Infine va ricordato che quanto più sarà lungo e comples-
so il processo di trasformazione, tanto più aumenterà il valore
aggiunto del prezzo del bene finale. Ne scaturiscono tre tipolo-
gie di rapporti tecnico-funzionali (Bencardino e Prezioso, 2016,
capp. 1, 2 e 7):
1. verticali (processi produttivi legati in successione all’interno di
una stessa impresa o tra diverse di esse);
2. laterali (produzione parziale destinata all’assemblaggio con altre
componenti prodotte da diverse imprese);
3. di servizio (quando le unità produttive utilizzano un processo o
un servizio comune fornito in una determinata area).
Il processo produttivo può essere descritto nei termini di una
vera e propria catena del valori, la quale produrrà un vantaggio
competitivo per tutte le imprese che ne fanno parte. Dal punto
storico-distributivo, la formazione dei primi addensamenti in-
dustriali attirò notevoli flussi migratori e intensificò le relazio-
ni sia all’interno che all’esterno delle imprese. All’interno delle
singole unità produttive, il volume degli affari crebbe grazie alla
standardizzazione del prodotto e alla sua diffusione di massa;
questo comportò la crescita degli impianti e l’occupazione mas-
86 Gabriella Cundari
siccia di mano d’opera non qualificata cui erano affidati compiti
indispensabili ma ripetitivi e facilmente apprendibili (Browning
e Singelmann, pp. 481-509). Come conseguenza esterna, ci fu una
crescita delle relazioni funzionali tra le varie imprese operanti
nel medesimo ambito socio-culturale.
Per ottenere vantaggi in termini di costo e di economie ester-
ne, si lavorava a:
1. creare un’efficiente divisione del lavoro tra le attività produttive;
2. formare un unico sistema infrastrutturale e servizi interdipen-
denti;
3. intensificare un fitto interscambio di personale e informazioni;
4. stimolare la domanda dei beni prodotti.
Ma concentrazione e agglomerazione non possono crescere
all’infinito: superata la capacità di equilibrio tra i fattori di pro-
duzione, le imprese si frammentano, si smembrano in unità di
dimensioni più piccole e/o in sistemi industriali periferici., cer-
cano localizzazioni alternative, si indirizzano in aree di nuova
industrializzazione o verso prodotti analoghi, ma che consenta-
no una ripresa della crescita (fenomeno frequente nelle imprese
alimentari). Il punto di rottura è costituito dalla soglia in cui si
sviluppano diseconomie di scala, con effetti di deglomerazione e
deconcentrazione (Turco, 2010).
Altre considerazioni d’insieme sull’organizzazione degli
spazi industriali scaturiscono dai modelli che li hanno ispirati,
nelle fasi più recenti. Fino al secolo scorso le imprese tendeva-
no ad agglomerarsi intorno ai grandi centri, secondo il modello
fordista-taylorista: l’apporto di Henry Ford fu quello di organiz-
zare nella fabbrica la catena di montaggio (assembly-line), che
favoriva l’incremento della produttività; Frederick Taylor, dal
canto suo. lavorò alla forza-lavoro con un approccio scientifico.
Complessivamente si puntava all’aumento dimensionale degli
impianti, all’integrazione verticale del ciclo produttivo e alla
standardizzazione dei beni, in modo da combinare il vantaggio
6. l’industria 87
delle economie di scala con la possibilità di una produzione di-
versificata e abbondante.
Verso la metà del secolo scorso la rigidità del modello eviden-
ziò le prime crepe, mettendo in atto una crisi che produsse vere e
forti diseconomie di scala. Il mondo dell’industria era cambiato
grazie alla facilitazione crescente degli scambi di informazioni
e allo sviluppo delle nuove tecnologie che avevano sganciato la
produttività dall’innovazione e dall’automazione del processo
produttivo. Inoltre il problema di concentrazione o deconcen-
trazione industriale perdeva forza e andava espandendosi l’area
dei paesi di recente industrializzazione. Questi paesi, indicati
con la sigla NIC (sigla equivalente a Newly Industrializing Coun-
tries), erano presenti in tutti i continenti e, pur senza eguagliare
il peso delle industrie nei paesi sviluppati, grazie alla grande di-
sponibilità di spazi da destinare alle fabbriche e all’abbondanza
di manodopera non qualificata, erano orientati principalmente
all’esportazione del prodotto. Questo mix di condizioni favore-
voli produsse un orientamento all’economia di mercato, favorì il
commercio internazionale e fece affluire capitali da tutti i paesi
verso le aree NIC, in virtù dei vantaggi offerti dagli investimenti.
E veniamo alla conseguente distribuzione delle imprese in-
dustriali: dall’Ottocento in poi il processo di industrializzazione
si diffuse in tutto mondo, ma con tappe diversificate. In Europa
dall’Inghilterra si propagò prima di tutto in Belgio e più lenta-
mente in Francia, in Germania e nell’area mediterranea. La len-
tezza del fenomeno fu un indubbio vantaggio per gli Inglesi, la
cui nazione nella prima metà dell’Ottocento costituiva ancora la
massima potenza navale, tecnologica e commerciale, vera fucina
del mondo. Nella seconda metà del secolo XIX il processo indu-
striale si diversificò: cominciò la Francia, grazie anche a produ-
zioni dall’alto valore aggiunto (moda, articoli di lusso), e la di-
versificazione si stava rapidamente affermando quando, dal 1870
in poi, si sviluppò un fenomeno chiamato “seconda rivoluzione
industriale”, che fece mutare i settori trainanti del sistema: dal
88 Gabriella Cundari
carbone e ferro all’acciaio, dal tessile alla chimica, dalla meccani-
ca all’elettricità e poi all’elettronica e alla robotica. Le innovazioni
scientifiche e l’elevata crescita degli investimenti necessari per
produrre, misero in stretta relazione le industrie (ormai rivolte
ad impianti di dimensioni crescenti) con l’apparato finanziario
e bancario; inoltre si intensificarono i processi di concentrazione
e ristrutturazione delle imprese (Catin, 1991, pp. 565-598). Fu al-
lora che il trend dell’industria inglese rallentò a causa dei nuovi
arrivati: a partire dal XX secolo Stati Uniti e orientali e Germania,
che sfruttarono appieno le potenzialità fatte di risorse minerarie,
crescita demografica e urbanistica, riserve d’acqua, nascenti linee
ferroviarie e – soprattutto – forte impulso alla scolarizzazione
fino ai più alti livelli.
Negli altri stati europei si verificarono sporadici prodromi
di sviluppo industriale, ma in ambiti limitati; anche in Russia la
crescita dell’industria fu irregolarmente distribuita nell’immen-
so territorio e legata soprattutto alla presenza delle grandi città
come Mosca, San Pietroburgo, città del Baltico.
Dal canto loro, i paesi dell’America Latina parteciparono al
mercato mondiale come fornitori di materie prime, prodotti mi-
nerari o agricoli che consentirono lauti guadagni ai proprietari
di imprese coloniali, soffocando i germi di qualsiasi tipo di indu-
strializzazione locale.
Quanto al continente asiatico, in Giappone dal 1870 iniziò un
processo di crescita che comprese anche lo sviluppo di industrie,
prima di tutto quelle tessili (cotone e seta), i cui opifici si stabili-
vano nelle aree rurali, per il minor costo del terreno.
Anche in Cina si verificò, seppure più lentamente, un pro-
gressivo passaggio dall’agricoltura alle attività produttive: il pri-
mo settore interessato fu quello navale, per la presenza di porti
già frequentati da cospicui gruppi di viaggiatori internazionali.
Sorsero così i primi arsenali sul mare e piccole unità tessili nelle
aree agricole; ma la forma monopolistica della nuove imprese e
lo scarsa presenza delle ferrovie e altri mezzi di locomozione ri-
6. l’industria 89
tardava lo sviluppo, ad eccezione di alcune aree come Shenzhen,
a nord di Hong Kong, che beneficiava della prossimità del mare
e della presenza di vie d’acqua interne. Restò indietro anche lo
sviluppo del subcontinente indiano, legato a stretto filo agli in-
glesi di cui rappresentava la fonte inesauribile di approvvigio-
namento colonialistico. Nel complesso, perciò nella prima metà
del XX secolo il processo di industrializzazione risultava ancora
puntiforme: toccava solo una parte del territorio europeo e una
minima porzione delle altre terre del globo, ma era già ricono-
sciuto dagli studiosi il suo valore di volano dello sviluppo e della
ricchezza, anche sociale e culturale, degli Stati (Gowdy e Fun,
1988 pp. 185-202).
Oggi l’analisi del comparto industriale e della sua distribuzio-
ne viene fatta sulla base di una triplice ripartizione: tradizionali
e/o a bassa tecnologia, maturi e ad alta tecnologia. I primi sono
quelli più antiquati e comprendono:
1. gli opifici ad alto impiego di manodopera, con utilizzo di tecno-
logie poco avanzate e produzione di beni di basso valore com-
merciale (comparti: tessile – abbigliamento – calzaturiero; metal-
lurgico; arredamento; lavorazione del legno);
2. le produzioni inquinanti e pericolose;
3. le industrie di base (siderurgiche, suddivise a loro volta in produt-
trici di ghisa e petrolchimica (benzine, concimi, materie plastiche).
Queste attività, per la loro bassa redditività, anche quando
nate in paesi sviluppati, tendono a trasferirsi a quelli più arre-
trati che garantiscono ampia disponibilità di forza lavoro a basso
prezzo, esenzioni fiscali, assenza di diritti sindacali, facile acces-
so a materie prime, possibilità di realizzare joint-venture con im-
prese locali, scarsi controlli (Dini, 1995).
La seconda classe comprende i settori industriali maturi:
1. industria chimica, con una gamma di prodotti molto ampia che va
dalle vernici ai saponi e detersivi, ai farmaci, ai cosmetici, agli esplo-
sivi e utilizza tecnologie avanzate e manodopera specializzata;
90 Gabriella Cundari
2. industria alimentare, in forte evoluzione, grazie alla produzione
di congelati, surgelati e cibi pronti, diffusa soprattutto nell’emi-
sfero settentrionale;
3. industria automobilistica, che ha la sua maggiore forza nell’inno-
vazione tecnologia e nella ricerca di nuovi modelli e i suoi prin-
cipali centri di produzione in Europa, Cina, Giappone, Corea del
Sud, India e Stati Uniti. Va detto, però, dal prodotto finito (auto
e moto) vanno distinte le sue componenti: motore, parti mecca-
niche e carrozzeria, che possono provenire da fabbriche anche
distanti l’una dall’altra;
4. cantieristica navale, nelle mani per oltre i 2/3 di Giappone e Co-
rea del Sud.
Alla terza classe afferiscono i settori ad alta tecnologia, domi-
nanti dalle grandi potenze mondiali:
1. aerospaziale che ha il suo principale centro di produzione negli
USA; l’Italia risulta sesta nel mondo e terza in Europa;
2. informatica, che comprende le aziende che fabbricano calcolatori
e quelle, molto varie, che producono software e apparecchiature
che gestiscono informazioni. Questo settore vede la primazia di
USA, Cina, Giappone e Corea, mentre l’Europa ha una buona po-
sizione nella produzione di cellulari (telefonini e smartphone);
3. elettronica e telecomunicazioni, riassunte sotto la denominazio-
ne di Information and Communication Technology (ICT), che
producono circuiti elettronici per: conduzione e conversione
di elettricità, per il controllo di macchine industriali e robot, di
treni e veicoli stradali, per azionare motori a velocità variabile,
per strumenti di alta chirurgia e medicina. I principali centri pro-
duttori sono in Giappone, USA, Sud Corea, Taiwan; in Europa
industrie elettroniche sono ubicate in Russia, Germania, Francia,
Italia, Svizzera (Magone 2015; Ritti 1961).
Se, come abbiamo già notato, in una prima fase la delocalizza-
zione ha riguardato la produzione di merci a bassa tecnologia e
scarso valore aggiunto (scarpe, abiti, giocattoli), negli ultimi anni
si è estesa anche alle attività a tecnologia avanzata (elettronica
6. l’industria 91
e informatica). Alcuni paesi, come Taiwan e Singapore, dispon-
gono ormai delle attrezzature industriali più avanzate. Inoltre,
di recente, il fenomeno ha interessato non solo i grandi gruppi
multinazionali, ma anche molte piccole e medie aziende. Altro
processo cui abbiamo fatto riferimento a proposito dell’industria
automobilistica è la produzione internazionale integrata, con-
sistente nel realizzare un prodotto con parti fabbricate in paesi
diversi e poi assemblate, cioè montate, in un unico stabilimento,
generalmente posizionato in prossimità dei grandi centri urbani
(Barbarito, 2000)2.
Allo stato attuale, uno sguardo al mappamondo ci presenta
situazioni molto diversificate, ma anche condizioni di grande
fluidità. A livello quantitativo e distributivo, le regioni con la
maggiore concentrazione di industrie sono e quella nordorien-
tale degli USA, che condivide il vertice della classifica con il
Giappone; seguono la costa orientale della Cina e l’Europa cen-
tro-occidentale, poi Taiwan, Corea del Sud, Singapore (Viganoni,
2008); chiudono la classifica le grandi aree urbane dell’India, e
l’Indocina (Leroy, 1976).
In Africa lo sviluppo industriale è limitato alla zona del
Transvaal in Sudafrica e del Cairo in Egitto; in America Latina,
infine, vanni ricordati il triangolo industriale del Sud del Bra-
sile, le aree urbane di Città del Messico, Montevideo, Buenos
Aires, le regioni della costa sudorientale dell’Australia, che han-
no impiegato due secoli di storia per passare da colonia pena-
le a economia avanzata a prova di crisi globale (Bairoch, 1967).
Come dimostrano le principali tendenze degli ultimi decenni,
l’asse geopolitico globale si è progressivamente spostato da
Ovest verso Est e più lentamente dal planisfero settentrionale a
quello meridionale.
2
Fanno capo ai paesi di più recente industrializzazione i fenomeni di ester-
nalizzazione (o outsourcing), cui ricorrono altre imprese del mondo per lo svolgi-
mento di alcune fasi del loro processo produttivo.
92 Gabriella Cundari
E l’Italia? Un discorso complesso, con luci e ombre (Bianco,
2003). L’Italia resta al settimo posto nella classifica dei paesi più
industrializzati del mondo, in Europa è seconda dietro alla Ger-
mania (la top ten completa: Cina, Usa, Giappone, Germania, Co-
rea del Sud, India, Italia, Francia, Gran Bretagna e Messico). Il
rapporto Scenari Industriali 2017 di Confindustria conferma che
l’industria italiana, dovendo rispondere a un mercato interno in
contrazione, ha imboccato la strada dell’internazionalizzazione:
dal 2010 ad oggi l’export è aumentato del 3,2% medio annuo,
un ritmo appena inferiore a quello tedesco (cresciuto del 3,3%).
Nonostante la sua modesta estensione territoriale, la ristrettezza
delle sue risorse minerarie, il ritardo relativo del processo rispet-
to ad altri paesi, l’ingloriosa fine del boom economico degli anni
’50 e ’60 (determinato in buona parte dal milione e mezzo di dol-
lari arrivati dal Piano Marshall per la ricostruzione postbellica),
l’industria italiana produce circa 1/3 del PIL, con addetti pari a
1/3 del totale nazionale.
Ma non è tutto roseo: la produzione italiana è caratterizzata
prevalentemente da aziende medio-piccole a conduzione fami-
liare, evidenzia carenza di industrie di medie dimensioni, men-
tre non mancano i grandi gruppi della meccanica (auto, moto,
macchine utensili, elettrodomestici); della difesa (elicotteri, si-
stemi di difesa, armi leggere, blindati); della chimica (petrolio,
gomma-, farmaceutica); dell’elettronica; della moda edel lusso;
del tessile e della lavorazione del cuoio e del pellame in genere;
del legno e del mobile; delle costruzioni navali, metallurgiche e
agroalimentari (Beltrametti, Guarnacci, Intini e La Forgia, 2017)3.
Altra caratteristica italiana è il ruolo dello Stato, che ancora detie-
ne società partecipate attraverso i Ministeri dell’Economia e delle
Finanze, della Difesa, dello Sviluppo economico, delle Politiche
L’Italia pur non occupando i primi posti per quantità, spesso opera con
3
successo sui mercati esteri, a fronte di un rallentamento della domanda interna,
dovuta alla diminuzione dei consumi, a causa della recessione economica.
6. l’industria 93
agricole, dei Beni culturali. Da sempre, inoltre ha un peso rile-
vante l’industria delle costruzioni e delle lavorazioni collegate
(industria estrattiva, cementiera, impiantistica, ecc.). Infine ope-
rano in Italia numerose multinazionali estere del settore chimico.
Tradizionalmente avvantaggiate dalla posizione geografica,
dalle vie d’acqua e dalle comunicazioni sono le regioni settentrio-
nali, che costruiscono il nucleo portante delle attività produttive
italiane, mentre nel sud hanno sede molte industrie agroalimenta-
ri. Ma il nostro sistema industriale ha ormai seri e agguerriti con-
correnti nelle economie emergenti nel mondo asiatico, soprattutto
a causa del più basso costo della manodopera. Solo poche eccel-
lenze in campi di alta specializzazione dove occorrono un capita-
le umano qualificato e cospicui investimenti in ricerca e sviluppo
ancora mantengono il passo, nonostante i molti fattori negativi,
come l’alto livello di tassazione, il frazionamento delle attività pro-
duttive e la dimensione estremamente ridotta di molti opifici, il
nostro pesante sistema burocratico, l’accentuata specializzazione
nei settori tradizionali e le famiglie e/o coalizioni organizzate in
gruppi piramidali (Cercola, 1984). Inoltre la nostra struttura indu-
striale risente dei colpi inferti dal clima di incertezza politico e dal
ruolo non sempre positivo svolto in difesa delle nostre produzioni
a livello UE. Da più parti si sostiene che l’Italia dovrebbe svilup-
pare maggiormente i settori hi-tech, che creano maggiore valore
aggiunto, ma questo richiederebbe investimenti molto più cospi-
cui nella preparazione di un forte capitale umano, l’unico in grado
di incidere poi positivamente sullo sviluppo dell’innovazione; ma
questo sviluppo richiede capitali e un capitale umano che spesso
emigra in mancanza di occupazione nazionale, tanto da richiama-
re i giovani emigrati in centri di ricerca all’estero.
Il problema più preoccupante, allo stato attuale, è l’acquisto
dei grandi marchi italiani da parte di imprese internazionali.
Sono marchi della moda e del lusso (da Bulgari a Ferretti, da Guc-
ci a Pomellato, da Ferré a Krizia e l’elenco è ancora lungo; ultima
vendita, quella del marchio Versace), dell’alimentare (da Motta
94 Gabriella Cundari
a Parmalat), del grande commercio (La Rinascente), dell’hi-tech
(Pirelli, ora Bekaert), dei marchi della meccanica (FIAT) e della
trasformazione dell’acciaio (ILVA). In molti casi, dopo aver ac-
quistato il marchio, l’industria multinazionale sposta il massimo
della produzione in sedi estere, soprattutto dell’Est Europa, ri-
ducendo al minimo la lavorazione in Italia o chiudendo del tutto
gli stabilimenti; nel migliore dei casi, le riduzioni vengono nego-
ziate e calmierate attraverso pensionamenti anticipati e lunghe
ed estenuanti trattative. I numeri sono impressionanti: si parla
di oltre 800 aziende che la proprietà italiana negli ultimi dieci
anni ha ceduto perché non in grado di uscire dal pericoloso mix
di sussidi, mala politica, indebitamenti, mancanza di adeguate
infrastrutture. Così, nel processo imperante di globalizzazione,
l’Italia contribuisce con le proprie conoscenze tecniche, ma gli
stranieri assicurano guadagni e distribuzione, in un accordo che
è tutto in perdita per la nostra forza lavoro.
Molto spesso, tra l’altro, i nostri migliori operai e tecnici sono
inviati per un periodo più o meno lungo nei paesi del NIC per
addestrare operai locali, preparando il trasferimento dell’azien-
da e indirettamente aiutando a creare un vuoto che rende la
situazione dell’industria in Italia molto più precaria di quanto
appare dai dati ufficiali, dove i marchi “gioiello” vengono an-
cora considerati nazionali in virtù della presenza delle sedi di
rappresentanza (Enrietti e Patrucco, 2013).
Infine una notazione generale: in tutto il modo, ove più ove
meno, non è tutto oro quello che luccica e molte pecche sono nel-
la fabbricazione e nella qualità dei prodotti: molto spesso viene
evidenziato come l’impegno sul fronte ambientale in termini di
trasparenza e di impiego di fonti rinnovabili non sia direttamen-
te proporzionale al ruolo del brand nella classifica mondiale.
La corsa all’iperproduzione ha preso un percorso insostenibi-
le, che pregiudica troppo spesso la qualità in nome del profitto:
occorre allora rassegnarsi “a vivere meglio”, rinunciando a ciò
che a lungo abbiamo considerato indispensabile.
6. l’industria 95
6.2. I “sognatori”: due sovrani
Il sito reale di San Leucio (frazione del comune di Caserta),
insieme alla Reggia riconosciuto come Patrimonio dell’Umani-
tà. La sua storia ha inizio il 28 agosto del 1750, quando Carlo
di Borbone (il re di Napoli e di Sicilia che già nel 1734 aveva
promosso la Real Fabbrica di Porcellane di Capodimonte) acqui-
stò il territorio pianeggiante ai piedi dei Monti Tifatini, dove si
trovavano un piccolo villaggio, una grande spianata brulla e un
massiccio edificio detto Palazzo del Belvedere o Palagio Impe-
riale, con annesso un casino da caccia. Era l’ambito ideale per la
realizzazione di un progetto che da tempo il sovrano accarezza-
va: la “riorganizzazione militare ed amministrativa del regno”
e, insieme. una reggia che competesse per splendore con quella
di Versailles, insomma una nuova capitale, lontana dal mare e
perciò più difendibile. La realizzazione del progetto fu affidata
ad un architetto napoletano, di origine olandese, Luigi Vanvitel-
li. Dopo poco meno di tre anni e mezzo, il 20 gennaio del 1752,
veniva posata la prima pietra dell’opera alla presenza del re e
sua moglie Amalia di Sassonia, del ministro Tanucci, il Nunzio
Apostolico e numerosi dignitari. La costruzione della Reggia
e del suo intorno richiese molti interventi innovativi e difficili,
come il trasporto della limonite calabrese, marmi e materiale di
provenienza varia per i quali furono utilizzate le Regie Ferrovie
dell’epoca; ma l’opera più imponente e significativa fu la realiz-
zazione dell’Acquedotto Carolino. Il maestoso impianto dei Pon-
ti della Valle a tre livelli (per anni il più importante ponte d’Eu-
ropa) fu creato per trasportare le acque delle sorgenti del Monte
Taburno fino alla piana e alla costruenda Reggia (nonché al sito
di Carditello) e trasformò la piana arida in una zona ricca di vita
e di vegetazione. Ma nel bel mezzo dei lavori, nel 1759, Carlo
lasciò Napoli per trasferirsi a Madrid come sovrano di Spagna.
Subentrato al padre ancora bambino, ma “governato” da Tanuc-
ci, Ferdinando IV detto re Nasone, ma anche Re Sognatore, amò
96 Gabriella Cundari
la reggia di Caserta. L’amò anche la moglie Maria Carolina che
volle un giardino suo, il massonico giardino inglese, e vi fece
impiantare alle spalle un vero e proprio bosco di more bianche
e gelsi, grazie al quale si diffuse l’allevamento dei bachi da seta.
Nel 1879 re Ferdinando IV, su consiglio dei suoi ministri Tanucci
e Caracciolo, fondò a Caserta una colonia modello, che traeva
la propria sussistenza economica da una seteria e una fabbrica
di tessuti (frutto dell’allevamento dei bachi da seta). con un co-
dice scritto su suggerimento anche della moglie, con chiari toni
illuministico-massonici e costituì, per molti versi, il primo esem-
pio di un complesso “socialista” ante litteram. Diede alla colonia
un’urbanistica originale, fece trasferire a San Leucio maestranze
francesi, esperte nella lavorazione delle sete e dei lampassi (tanti
discendenti con cognomi francesi abitano ancora a Caserta), die-
de vita a una forte immigrazione di manodopera dalla Sicilia e
dal Piemonte (Bagnato, 1998).
La colonia fu battezzata dal re col proprio nome, Ferdinando-
poli, nome che nessuno usò mai, preferendo San Leucio, il santo
patrono dal nome greco (λευκιοσ, leukios, bianco, puro, lumi-
noso). Ferdinando con il proprio nome sanciva la sua volontà di
essere il buon padre della comunità e, mentre in Francia ribolliva
la rivoluzione, a San Leucio si propugnavano tre principi: edu-
cazione, buona fede, merito. Era vietato il lusso, tutti dovevano
essere uguali, la scuola era obbligatoria come la vaccinazione
contro il vaiolo (da lui temutissimo, visto che aveva colpito la
regina madre, Maria Amalia). I giovani potevano sposarsi an-
che contro il volere dei genitori, lo Stato (cioè il Re) provvedeva
a tutto quello che poteva servire (Battaglini, 1980). Con la crisi
della monarchia borbonica l’impianto protoindustriale decadde
progressivamente, fino a quando nel 1862 i Savoia ne decreta-
rono la chiusura (per ripensarci dopo quattro anni, affidandola
a privati). Quando le fabbriche chiusero, gli operai, discendenti
delle maestranze antiche, tennero nelle loro abitazioni i telai e
si dedicarono alla preparazione dei corredi nuziali. Ogni telaio
6. l’industria 97
manuale di un tempo realizzava in un giorno solo da 1 a 3 cm
di tessuto di broccato preziosissimo! e la seteria leuciana, pur
conservando la sua altissima qualità, vista la grande concorren-
za delle più conosciute tessiture d’oltralpe, per lungo tempo è
stata venduta in tutto il mondo sotto la falsa etichetta di “lam-
passi francesi”. Un Alois, discendente di antichi tessitori francesi
trapiantati a Caserta, raccontò di aver trovato alla Casa Bianca
poltrone ricoperte con le sete della sua fabbrica in san Leucio
che l’interprete dichiarava di provenienza francese (Galdi, 1970).
L’eredità della Colonia ferdinandea è sopravvissuta per decen-
ni, grazie all’impegno di aziende seriche casertane, oggi deloca-
lizzate in altre aree produttive della città, dove si lavora la seta
per piccoli oggetti, come cuscini, centri, tende, sempre di ottima
qualità e si produce anche su importanti commesse estere. A San
Leucio, all’interno della fabbrica originaria del re Ferdinando,
cioè il Palazzo del Belvedere, ha oggi sede il “Museo della seta”
che conserva alcuni macchinari originali, ancora funzionanti,
per la lavorazione della seta che mostrano tutte le fasi della pro-
duzione con gli antichi telai restaurati ed azionati da una ruota
idraulica posta nei sotterranei del palazzo.
6.3. I “sognatori”: un industriale coraggioso
Quando, negli anni Cinquanta, gli stabilimenti Olivetti di
Ivrea avevano raggiunto uin successo enorme, tanto da raffor-
zare i loro investimenti all’estero (soprattutto in Sud America)
e dover pensare a siti produttivi anche fuori dalla sede origina-
ria, Adriano Olivetti, spinto anche dalla politica di sgravi fiscali
con cui il governo tentava di favorire una nuova fase di indu-
strializzazione dopo l’annientamento delle industrie meridionali
seguito all’Unità d’Italia, immaginò di costruire a Pozzuoli un
suo stabilimento. Adriano, dopo la laurea in ingegneria chimica,
era stato inviato a studiare negli Stati Uniti e poi aveva lavorato
98 Gabriella Cundari
come operaio nell’azienda del padre, la prima fabbrica italiana
di macchine per scrivere. A 31 anni era diventato direttore della
Società e aveva lanciato sul mercato la prima macchina da scri-
vere portatile. Erano anni difficili, in cui si consolidava l’ascesa
del fascismo cui si oppose con forza, militando in forma attiva:
dichiarato sovversivo si era allontanato dall’Italia, e aveva ripre-
so le redini dell’azienda solo dopo la caduta del fascismo. Alle
sue capacità manageriali Adriano univa un’appassionata ricerca
di come armonizzare lo sviluppo industriale con i principi dei
diritti umani e la democrazia partecipativa. Pertanto al centro
della sua attenzione non c’era la fabbrica in sé, ma l’uomo con
le sue aspettative e i suoi problemi anche esterni alla fabbrica.
Questo concetto rivoluzionario allora, e per molti aspetti ancora
oggi, fu alla base della realizzazione dello stabilimento puteo-
lano, ideato nel 1951. Si cominciò con una fabbrica di macchine
calcolatrici che offriva posti di lavoro con salari sopra le medie e
assistenza alle famiglie degli operai la cui produttività in questo
stabilimento superò quella dei colleghi nella fabbrica di Ivrea.
Nel 1955 fu inaugurata la costruzione dell’intero complesso sotto
la direzione di Luigi Cosenza. Lo stabilimento, vera e propria
“fabbrica mediterranea,” affacciato sul golfo, situato lungo la via
Domiziana a 15 chilometri da Napoli, copriva una superficie to-
tale di 30.000 metri quadrati con all’interno molti spazi verdi e
al momento della sua apertura accoglieva 1.300 unità lavorative,
tra impiegati e operai, ma era stato pensato in modo che potes-
se accogliere incrementi progressivi. Olivetti credeva nella forza
rigeneratrice della natura e sognava che un operaio, costretto al
proprio ripetitivo lavoro “gettando un’occhiata al golfo flegreo,
poteva rinfrancarsi e lavorare meglio” (Gallino, 2014).
Nello stabilimento, una volta ampliato, si produceva (come
nella fabbrica Olivetti torinese di Agliè) la più famosa macchia
da scrivere dell’epoca, la Lettera 22, ideata da Marcello Nizzoli
e realizzata da Giuseppe Beccio. Elegante, sottile, estremamente
funzionale, ricevette premi in Italia (Compasso d’Oro) che all’e-
6. l’industria 99
stero (Illinois Institut Technology) ed è ora esposta nella colle-
zione permanente di design al Museum of Art di New York. In
parallelo, Luigi Cosenza progettò anche il quartiere residenziale
operaio, perché nella concezione di Adriano: i luoghi del lavoro
devono integrarsi, per qualità e per vicinanza territoriale, con i
luoghi dell’abitare (Ferrarotti, 2013).
L’iniziativa fu commissionata dalla Olivetti, mentre l’esecu-
zione avvenne in gestione diretta da parte dell’INA-Casa, se-
condo una prassi già utilizzata a Ivrea nella realizzazione del
quartiere di case per dipendenti di Canton Vesco. Il quartiere
fu ampliato con un terzo lotto di 24 alloggi nel 1963. Adriano
Olivetti credeva possibile la creazione di un equilibrio tra soli-
darietà sociale e profitto e che l’organizzazione del lavoro com-
prendeva un’idea di felicità collettiva che generava efficienza e
nel 1955, lo dichiarò pubblicamente ai suoi operai (Olivetti, 2012
e 2015). Gli operai vivevano in condizioni migliori rispetto alle
altre grandi fabbriche italiane: ricevevano salari più alti, vi erano
asili e abitazioni vicino alla fabbrica che rispettavano la bellez-
za dell’ambiente, i dipendenti godevano di convenzioni. Anche
all’interno della fabbrica l’ambiente era diverso: durante le pause
i dipendenti potevano servirsi delle biblioteche, ascoltare concer-
ti, seguire dibattiti, e non c’era una divisione netta tra ingegneri e
operai, in modo che conoscenze e competenze fossero alla porta-
ta di tutti. L’azienda accoglieva anche artisti, scrittori, disegnatori
e poeti, poiché l’imprenditore Adriano Olivetti riteneva che la
fabbrica non avesse bisogno solo di tecnici ma anche di persone
in grado di arricchire il lavoro con creatività e sensibilità.
In occasione della ricerca di nuovi fondi di prestito presso
delle banche svizzere per rilanciare l’Azienda, il 27 febbraio 1960
Adriano Olivetti prese il treno Milano-Losanna. Colto da una
improvvisa emorragia cerebrale sul treno, morì in pochissimo
tempo, lasciando un vuoto enorme.
7. Il sistema terziario
7.1. Una categorizzazione complicata
Un passo nella storia del secolo scorso: tra il 1930 e il 1935 due
autori tedeschi, Walter Christaller e Arthur Lösch studiarono il
problema delle forniture dei beni e servizi: il primo lo applicò alla
rete urbana della Germania meridionale; il secondo, analizzando
criticamente il lavoro di Lösch, vi apportò numerose modifiche.
Christaller aveva scelto per il suo modello un’area omogenea per
configurazione, distribuzione della popolazione e struttura: ne
ricavò un complessa figura poligonale, in cui le attività terzia-
rie si distribuiscono in 7 esagoni ciascuno dei quali costituito da
sei unità territoriali (Christaller, 1933). Lösch trovava il modello
compromesso da una serie di fattori che ne potevano alterare le
dimensoni e orientare i fenomeni in altro modo (Lösch, 1954).
Ma il successo dei due autori e delle loro opere sono stati molto
difformi per ragioni politiche: il primo, che aderì alle teorie na-
ziste, ebbe fama e ricchezza; il secondo, ostile ad Hitler, ma che
aveva voluto rimanere in patria, visse in povertà, producendo
numerosi saggi scientifici che non ebbero grande circolazione
perché ostacolati dal regime. Solo nel 1940 gli fu offerto di essere
a capo di un gruppo di ricerca geografico-economico; ma rifiutò
per coerenza politica e morì di stenti pochi giorni dopo la resa
della Germania nazista agli Alleati.
Il comparto terziario da loro studiato comprendeva tutte le
attività non connesse direttamente al settore primario (agricol-
tura, pesca, foreste, estrazioni minerarie) e a quello secondario
102 Gabriella Cundari
(imprese manifatturiere e delle costruzioni). In realtà già dagli
anni ’30 il terziario costituiva un ibrido assai variegato e oggi
la situazione è ancora più complessa e il comparto in continua
espansione (Fisher, 1935; Clark, 1940; Camagni, 2010). La tradi-
zionale classificazione nei settori primario, secondario e terzia-
rio, proposta fin dai primi anni Quaranta dal Clark (cfr. cap. 6)
– oltre che sommaria – si dimostra del tutto insoddisfacente e
non in grado di cogliere l’estrema complessità e variegatura delle
funzioni esercitate dal comparto dei servizi. Più che da un insie-
me di attività omogenee, il terziario sembra ospitare tutte quelle
attività che non concorrono alla produzione fisica di un bene, e
quindi che non possono considerarsi né agricoltura né industria.
Tradizionalmente i settori di attività – primario, secondario e
terziario – vengono raffigurati con un triangolo con la base ampia
assegnata all’agricoltura e il vertice al terziario; ma questa rappre-
sentazione non risulta più valida per diversi ordini di motivi:
1. la crescente importanza dei servizi nei processi di sviluppo eco-
nomico, a fronte di una riduzione progressiva del ruolo dell’agri-
coltura e delle industrie;
2. la forte elasticità dei servizi rispetto al reddito (Di Meo, 1967),
che fa sì che la domanda finale di essi (a prezzi costanti) cresca
proporzionalmente più del reddito;
3. l’avvento della società postindustriale, che ha fatto innalzare
la domanda di beni immateriali e servizi superiori in funzione
dell’aumento di tempo libero creato dalla nuova organizzazione
del lavoro (Touraine, 1969; Bell, 1974);
4. la globalizzazione del sistema produttivo, che ha fatto aumenta-
re nei paesi e nelle regioni a più alto reddito pro capite il ruolo
dei servizi (Gershunny e Miles, 1983);
5. l’aumento cospicuo dell’occupazione (job) nel terziario (Filip-
pucci, 2007).
Sempre più, inoltre, una parte significativa di terziario si svi-
luppa in funzione delle strutture produttive industriali (Blackaby
1978). È il caso in cui quote via via più consistenti di manodopera
7. il sistema terziario 103
(con profili professionali sempre più qualificati) vengono impie-
gati, da parte di imprese industriali (talvolta anche agricole), in
aree esterne all’impresa per la lavorazione, la trasformazione di
parti che concorrono alla produzione del manufati destinati alla
vendita. Il terziario interno, quindi, all’azienda industriale com-
porta il non agevole problema dell’internalizzazione o dell’ester-
nalizzazione di alcune attività, con ampi risvolti di natura terri-
toriale in quanto vengono chiamate in causa questioni relative al
decentramento (produttivo e non), agli aspetti della multilocaliz-
zazione, e via dicendo (Gowdy e Funk, 1988, pp. 185-202).
Le attività tradizionali del terziario sono il commercio al det-
taglio, la ristorazione, e soprattutto i trasporti, che consentono
la circolazione di persone e merci attraverso i luoghi di tutto
il mondo. Grazie alle innovazioni tecnologiche e scientifiche, i
mezzi di trasporto sono divenuti sempre più evoluti, efficienti
e avanzati e hanno contribuito in modo determinatamente allo
sviluppo della società moderna. Il loro utilizzo si distingue in:
1. marittimo, il più utilizzato per le merci: oggi l’80% delle merci
prodotte nel mondo (33% ca. petrolio e derivati, il 28% ca. princi-
pali materie prime (minerali di ferro, carbone, grano, alluminio,
fosfati) 39% ca. prodotti, come manufatti e beni alimentari. Inol-
tre del trasporto marittimo fanno uso anche i crocieristi su enor-
mi transatlantici, nonché passeggeri di imbarcazioni più piccole,
che collegano porti vicini tra loro, che hanno dato un forte im-
pulso al settore terziario;
2. fluviale, che avviene cioè su vie navigabili interne, come fiumi e
canali (idrovie) è molto vantaggioso per lo spostamento di merci
non deteriorabili, che non richiedono di essere trasportate velo-
cemente, come legname e materiali da costruzione;
3. ferroviario, molto utilizzato nelle distanze medio-brevi da perso-
ne che ogni giorno, per esempio, si spostano per andare al lavo-
ro in una città diversa dalla propria. Da questo tipo di utenza è
considerato più veloce, più sicuro, più economico e meno inqui-
nante rispetto l’auto. La rete ferroviaria mondiale è lunga circa
1 150 000 kilometri. Gli Stati Uniti hanno la rete ferroviaria più
104 Gabriella Cundari
lunga del mondo, che misura oltre 250 000 kilometri, dei quali
l’80% è dedicato al trasporto di merci. Per il turismo, il treno è
molto utilizzato in Europa, perché la rete ferroviaria è capillare e
copre tutte le destinazioni. negli stati uniti e nei paesi di grandi
dimensioni, per il trasporto nazionale si preferisce l’aereo, in pro-
porzione più economico e più efficiente nelle lunghe distanze;
4. aereo, il più utilizzato a livello internazionale per il trasporto
delle persone:i dati più recenti ci dicono che oltre 3 miliardi di
persone hanno viaggiato in aereo: un miliardo dalle compagnie
aeree dell’Asia e del Pacifico seguite a ruota dalle compagnie
nord americane; seguono, con maggior distacco, l’Europa, il
Medio Oriente; ultimo è il continente africano. Gli aeroporti più
trafficati sono Atlanta (USA), Pechino, Londra-Heathrow.
Ma con peso ognora crescente nel terziario sono oggi compre-
se le attività tipiche del mondo postindustriale, dalle tecnologie
dedicate alla consulenza direzionale e finanziaria, fino ai “nuovi”
lavori immateriali, ma ripetitivi e di bassa qualità come quello dei
call center. Per questo motivo alcuni studiosi (Browning e Dingle-
mann, 1978) riclassificano le attività economiche in sei settori, di cui
quattro sono assegnati al nuovo settore terziario che comprende:
1. i servizi distributivi (trasporto, comunicazioni, commercio);
2. i servizi alle imprese (superiori: credito, finanza, assicurazione,
getione immobiliare, servizi legali; inferiori: pulizie, sicurezza
mense);
3. servizi alla collettività (pubblica istruzione, sanità, istruzione,
trasporti e turismo, ambiente);
4. servizi alla persona (ristorazione, alberghi, riparazioni lavande-
rie, servizi per la ricreazione, per la bellezza, per il turismo, per
lo sport).
Più seguita è la classificazione del settore terziario tra servizi
alla vendita (market services) e quelli non destinabili alla ven-
dita (non market services) Ai primi afferiscono il commercio, i
pubblici esercizi, i trasporti, le comunicazioni, il credito, le as-
sicurazioni, i servizi immobiliari, la ricerca, la sanità privata e i
7. il sistema terziario 105
servizi alle persone singole e/o comunità; alla seconda l’istruzio-
ne e la sanità pubbliche, la giustizia, la difesa. I servizi a natura
pubblica non hanno un corrispettivo quantificabile per gli utenti,
se non nel rientro sotto la voce imposte indirette; quelli a natura
privata, passano per il mercato con prezzi singolarmente quan-
tificati (Lanciotti, 1971). Manca ancora all’appello il settore non
profit, che potrebbe rientrare in entrambe le categorie, perché
comprende le attività sociali non destinate alla vendita, quelle
di ricerca e formazione, nonché alcune attività ludico-sociali (te-
atro non profit, asili nido non profit, cooperative sociali ecc.) che
possono produrre beni messi in vendita, sebbene a prezzi conte-
nuti. Quanto detto sin qui conferma le difficoltà che si incontra-
no nell’analisi comparativa di un settore che accoglie comparti
ognora più diversificati e presenta produttività differenziate da
ambito ad ambito, nonché qualità ed efficienza enormemente
eterogenee (Martinelli e Gadrey 2000, pp. 287 sgg.). Pertanto è
più opportuno procedere secondo una duplice classificazione,
distinguendo i paesi della Terra a seconda della loro tipologia
di sviluppo e della classe di prodotto terziario di volta in volta
esaminato ((Bernardi e Gamberoni, 2007).
Cominciamo dai paesi sviluppati, dove il terziario è il settore
più dinamico. In essi le attività commerciali sono molto intense
e occupano una quota elevata di popolazione attiva (>10%). Nei
paesi sviluppati ad economia liberale prevale la grande distri-
buzione sul piccolo commercio; i servizi per la persona e il tem-
po libero sono diffusi in aziende medio-piccole; i servizi per la
collettività, invece, si distribuiscono in funzione della maggiore
o minore presenza di popolazione, e la loro ampiezza e il loro
costo dipendono dalle scelte dei singoli governi; i servizi alle
imprese rappresentano la punta più avanzata e il cambiamento
telematico in atto fa prevedere una intensa crescita localizzativa
e organizzativa; infine il settore delle informazioni ha acquistato
un valore strategico (Rostow, 1964; Ciciotti 1987, pp. 346-376).
Nei paesi ad economia pianificata le imprese private cominciano
106 Gabriella Cundari
a prendere il posto di molte aziende di Stato. I servizi sociali,
invece, sono al centro del dibattito politico, anche se negli ultimi
tempi si è avuta una riduzione della semigratuità, che ora viene
concessa solo alle classi debolissime (Pasinetti, 1986, pp. 2-29).
Diversa è la situazione dei paesi sottosviluppati, dove le forti
differenze di classe la fanno da protagonista: il locale commercio
al dettaglio è ipertrofico, frammentato e povero; nelle grandi cit-
tà, invece, è nelle mani di imponenti imprese multinazionali che
vendono prodotti di esportazione destinati esclusivamente alla
esigua minoranza agiata. Il settore terziario, che denuncia nelle
aree sottosviluppate il minor numero di addetti rispetto agli altri
due settori; il più delle volte accoglie attivi espulsi dal settore
agricolo e/o industriale, a bassissimo livello culturale, che si de-
dicano al piccolo commercio, poco proficuo (Fellini, 2017).
Quanto detto sinora vale soprattutto per le attività di tipo tra-
dizionale, oggetto di evoluzione, come abbiamo visto, molto len-
ta. Per altre attività invece, legate ai nuovi scenari della scienza
e della cultura, è stato individuato da molti autori un settore ad
hoc, il quaternario, concentrato in poche grandi metropoli.
Le aziende del terziario avanzato hanno fatto delle aree in cui
si sviluppano i veri centri decisionali del mondo, attirando la ma-
nodopera più qualificata e interagendo con i comparti industriali
che si attrezzano per introdurre continui flussi di innovazione
(Bryniolfsson e McAfee, 2015; Magone e Mazali, 2016; Grecchi,
2018). Sono nate così le tecnopoli, che accolgono imprese alta-
mente tecnologiche, grazie al supporto dell’attività di ricerca
scientifica nel lavoro dell’industria e del terziario avanzato. Le
principali tecnopoli del mondo sono:
1. la Silicon Valley, negli USA, nota per l’elettronica, l’informatica,
la robotica, le costruzioni aerospaziali e le biotecnologie;
2. il comparto hi-tech nell’Ontario canadese;
3. i centri universitari e parauniversitari di Tokio e Tsukuba;
4. “la cittadella degli scienziati” ad Akademgorodok, in Russia, ol-
tre al grande plesso terziario di Mosca;
7. il sistema terziario 107
5. il parco scientifico di Cambridge, nel Regno Unito;
6. la “Città della scienza” di Parigi-Sud;
7. il comparto hi-tech della Ruhr in Gemania;
8. il centro del robotico dell’elettronica e delle telecomunicazioni di
Torino e lvrea e quello Milanese, dove si opera anche nel campo
delle biotecnologie e della chimica;
9. i centri di terziario superiore di Hong Kong e Shanghan, oltre a
Pechino, in Cina.
Calcolare il peso notevole del settore terziario nella sua com-
pletezza è difficile, data l’ampiezza e la diversificazione delle im-
prese, nonché la presenza di attività che vanno bel al di là del
loro costo di produzione, dato il loro valore innovativo, capace
di rivoluzionare le produzioni di tutti i settori di attività (Bacon
ed Eltis, 1976; Blackaby, 1978; Carli, 1977). Per questo motivo,
nel prossimo capitolo approfondiremo l’analisi sui due comparti
più trainanti del terziario, capaci di fare la differenza tra mondo
dominante e mondo sottomesso.
7.2. La prima metropolitana: napoletana e centenaria
Tutti parlano della metropolitana napoletana (linea 1) come la
più bella del mondo, ma pochi sanno che la prima linea metro-
politana fu costruita propria a Napoli oltre un secolo fa (Cascet-
ta, 2000). Ma procediamo con ordine: Lamont Young (architetto
e urbanista, padre scozzese e madre indiana, vissuto a Napoli,
dove ha lasciato tracce architettoniche importanti e immaginifi-
che), fu anche un profondo conoscitore delle rocce tufacee, che
utilizzava per le sue costruzioni. Nel 1874 presentò al Comune di
Napoli un progetto per la “Metropolitana Sebezia” (cioè occulta)
che prevedeva tre linee ferroviarie, in parte scoperte e in parte in
tunnel, dotate di ascensori per il collegamento con la zona col-
linare. Le stazioni erano: Bagnoli, Fuorigrotta, Mergellina, San
Pasquale, San Ferdinando, Posta, Museo, San Gennaro, Cristalli-
108 Gabriella Cundari
ni, Reclusorio e Ferrovie dello Stato, per la prima linea; Bagnoli,
Polsillipo, Palazzo Donn’Anna, Torretta, Vittoria, Sanferdinan-
dodo, Marina e Ferrovie dello Stato, per la seconda; Vomero, An-
tignano. Arenella, Due Porte, e Capodimonte per la terza linea.
La maggior parte della rete ferroviaria era prevista come “sot-
terranea” con gallerie di facile costruzione, perché eseguite nel
tufo, materiale che la sua semidurezza e leggerezza ne facilitava
lo scavo e la lavorazione (Assante, De Luca e Muto, 2006).
Il progetto fu rifiutato perché giudicato non conforme, ma la
giustificazione nascondeva unaa realtà era diversa: già nel 1883
era nata a Roma la “Società per le Ferrovie Napoletane” costi-
tuita da imprenditori belgi, con sede in Bruxelles, per attuare la
costruzione di una ferrovia che da Napoli arrivasse a Torregave-
ta passando per i comuni di Pozzuoli e di Cuma, in pratica un
collegamento rapido con tutto il litorale flegreo, che nel secolo
seguente si trasformò in un passante della metropolitana. La pri-
ma tratta nacqe il 1° luglio 1889: Montesanto - La Pietra (frazione
attigua a Bagnoli), ma già l’anno dopo arrivò a Pozzuoli e poi a
Cuma. Il progettista dell’opera fu l’ing. Giulio Cesare Melisur-
go. Dal suo primo apparire, la ferrovia Cumana, si segnalò come
mezzo di comunicazione e trasporto utilissimo per la cittadinan-
za ed il turismo balneare. Infatti fu una felice intuizione la messa
in vendita di un biglietto che oltre ad usufruire del viaggio di
andata e ritorno, dava anche la possibilità di accedere ad uno
dei tanti lidi balneari presenti sulla linea; in seguito si aggiunse
un pacchetto “tutto compreso” che permetteva di accedere non
solo ai lidi balneari presenti lungo la linea, ma anche ad escursio-
ni ai numerosi siti archeologici che costellano il litorale Flegreo
che sono serviti dalla linea ferroviaria: il Tempio di Serapide e
l’anfiteatro Flavio a Pozzuoli, gli scavi di Cuma, Baia, Bacoli, il
lago d’Averno, Centocamerelle, il Tempio di Venere, il castello
di Baia col sacello degli Augustali, la Piscina Mirabile e così via.
Il pacchetto comprendeva anche il pranzo ed altri conforts. Nel
1925 fu inaugurato il primo treno della Metropolitana italiana
7. il sistema terziario 109
FS, un’automotrice elettrificata E-20, compì il viaggio inaugurale
dalla stazione di Napoli Centro (l’odierna Napoli Piazza Gari-
baldi) a Pozzuoli, effettuando fermate nelle centralissime stazio-
ni cittadine di Piazza Cavour e Montesanto, e puntando verso
i quartieri occidentali attraverso le stazioni di Piazza Amedeo,
Chiaia, poi integrata nella linea 2 dell’attuale metropolitana. Nel
frattempo erano nate le funicolari sempre con gallerie scavate nel
tufo: la prima ad essere costruita fu quella di Chiaia, inizialmente
a vapore e poi dal Novecento elettrificata: mezzo di chilometro
di lunghezza con una pendenza massima del 29,18% (Bevere,
Chiaro e Cozzolino, 1998). Inaugurata il 15 ottobre 1889 ad opera
della Banca Tiberina, proprietaria di molto suolo edificabile nella
zona del Vomero, fu nel febbraio 1973 ceduta dalle ferrovie del
Vomero, sino ad allora gestori dell’impianto, all’ATAN, insieme
alla funicolare di Montesanto. Sui due laterali della funicolare
un ignoto architetto o ingegnere amante del latino e pensoso sul
valore del tempo e dell’eternità ha fatto scrivere: “Nemmeno il
tempo sussiste come entità: sono le cose stesse che creano il sen-
so di ciò che è scorso negli anni, di ciò che dura nel presente, di
ciò che poi seguirà” e “Nessuno può avvertire il tempo di per
sé, avulso dal moto e dalla placida quiete delle cose”. Da più di
centoventi anni, la scritta resiste e aspira all’eternità.
7.3. Un artigiano-industriale: Kiton, ovvero l’abito che fa il
monaco
Chitone (χιτών, chitōn) nell’antica Grecia era una veste di pro-
venienza orientale, leggera ed elegante, una tunica in lana o lino
fermata da due fibbie sulle spalle e un cordone in vita che la strin-
geva formando morbide pieghe: insomma l’essenza dell’elegan-
za, della semplicità, della distinzione. Nel 1968 ad Arzano due
giovani esperti nel campo della sartoria maschile, fondano Kiton,
dove producono – con una lavorazione rigorosamente artigiana
110 Gabriella Cundari
– pantaloni, abiti da uomo, cravatte, scegliendo le stoffe più pre-
giate e combinando modelli, colori, e tessuti a misura di cliente,
ma sempre di impostazione classica e di un’eleganza misurata.
Trentacinque anni più tardi, la crescita dell’azienda risultava tale
da far aprire uno showroom del valore di 40 milioni di dollari
a New York: nel 2013 fu acquistato il Palazzo Ferré a Milano e
poi un altro a Londra; successivamente sono stati aperti in fran-
chising dieci negozi in Giappone, in Russia, in Messico, in Siria,
in Azerbaigian e ad Israele. Al padre, alla guida dell’azienda è
subentrata la figlia Maria Giovanna che è a capo di una grande
squadra che produce ora anche una linea di abiti da donna; ma
la filosofia è rimasta quella di sempre: gli abiti sono sempre fatti
a mano secondo le regole delle prime produzioni, anche se si è
affinata la scelta dei tessuti e ampliati gli abbinamenti e i modelli.
La “Compagnia Kiton” produce solo (sic!) 18.000 abiti ogni anno,
che normalmente hanno un costo variabile dai 5000 ai 15000
dollari, ed ognuno è realizzato da almeno 45 sarti. Il più celebre
modello di Kiton è senz’altro il K-50, che richiede circa 50 ore di
produzione ed il cui costo supera i 50 000 dollari. Chi lavora in
Kiton segue sempre la filosofia dei due fondatori: cambiare nel
solco di una tradizione che si evolve, cambiare aumentando la
qualità e la “unicità” del prodotto. Ne sono un esempio le giacche
in vicunã; le sneaker completamente prodotte amano. Chi pensa
che il tessile sia un settore maturo, non ha idea di quello che può
succedere quando artigiani entusiasti vengono stimolati da uffici
creativi altrettanto entusiasti e da manager o altre figure azienda-
li che comprendono e rispettano il lavoro manuale e l’esperienza
tramandata di generazione in generazione (Capua, 2011).
7.4. Dalla Certosa di San Giacomo ad un profumo… leggendario
Nel 1380 il padre priore della Certosa di San Giacomo, colto
alla sprovvista dalla notizia della venuta a Capri della sovrana
7. il sistema terziario 111
Giovanna d’Angiò, fece allestire il percorso che avrebbe dovuto
fare la Regina per arrivare alla Certosa con mazzi delle 80 specie
di fiori più belli dell’isola; ma, a causa dl mare mosso, la regi-
na ritardò e poi annullò il viaggio. I fiori rimasero per tre giorni
nella stessa acqua ed al momento di buttarli il priore si accorse
che l’acqua aveva acquistato una fragranza per lui misteriosa,
cosicché si rivolse al religioso erudito in alchimia che individuò
la provenienza di quel profumo nel Garofilium silvestre caprese.
Quell’acqua fu il primo profumo di Capri. Nel 1948 il priore del-
la Certosa, ritrovate le vecchie formule dei profumi, su licenza
del Papa, le svelò ad un chimico piemontese che rivisitò alcu-
ne formule certosine, creò il più piccolo laboratorio del mondo,
allestito all’interno della Certosa, e lo chiamò “Carthusia”, cioè
Certosa. Tra il 1952 e il 1953, quando già incominciava lo svilup-
po turistico, il laboratorio, con le sue vecchie ampollee e le sue
alchimie, si ingrandì trasformandosi in una sorta di piccolo sta-
bilimento artigiano-industriale ubicato sul corso Matteotti, che
conduce al Parco Augusto.
Carthusia ha messo a frutto le sue centenarie conoscenze per
sviluppare una cultura del profumo unica al mondo. Nel corso
degli anni ha raffinato la sua educazione dell’olfatto, ha perfezio-
nato e strutturato sempre di più la comprensione delle essenze
per offrire, a chi sceglie i suoi profumi, le emozioni più intense
e più pure che i sensi possano cogliere. E oggi come allora, tutte
le fasi della produzione vengono eseguite a mano per garantire
la rigorosa osservanza dei metodi naturali e la preziosa cura del
fare artigianale. Nel 2000 Silvio Ruocco, gioielliere caprese, ha
rilevato l’azienda perché – ha dichiarato – era un pezzo della storia
di Capri che andava salvaguardato dalla scomparsa. Tutto quello che
gira intorno a questa deliziosa “fabbrica di odori unici” ha un
legame invisibile, ma indissolubile con Capri: dal logo, una don-
na-sirena tra i fiori creata da Mario Laboccetta nel 1948, alle boc-
cette delle essenze, all’atmosfera del laboratorio, per finire con
le 10 fragranze (sulle 15 totali del catalogo) ereditate dai Padri
112 Gabriella Cundari
Certosini e attualizzate in modo che non si perdesse il legame
con i profumi della combinazione terra-mare dell’isola. Perché,
come afferma Silvio Ruocco, chi acquista Carthusia acquista la
memoria dell’isola in boccetta. Il più venduto? L’unsex “Coral-
lium”. Silvio Ruocco è coadiuvato dalla figlia Virginia, laurea-
ta in lingue orientali. Tra le innovazioni proposte e lanciate dai
Ruocco, c’è la linea casa, i cui prodotti sono diventati il cadeau
per antonomasia delle cene capresi. Carthusia ha aperto dal 2010
ad oggi 10 negozi nell’area turistica campana (Costiera, centro
storico ed aeroporto) che, oltre ad essere fonte di guadagno sono
soprattutto veicoli enormi di pubblicità del prodotto. Il mercato,
così si è orientato verso la Gran Bretagna e la Germania in primis
e poi Giappone e Stati Uniti, con la particolarità tutta caprese,
però, di non cedere il franchising a nessuno e di mantenere la
gestione diretta. Per essere sicuri di conservare gli standard qua-
litativi della tradizione locale (Conter, 2015).
8. Innovazione, finanza e turismo,
motori della crescita
8.1. La funzione trainante dell’innovazione
Dall’inizio degli anni Novanta, il settore terziario ha registra-
to un forte aumento di efficienza dovuto alla microelettronica.
L’eccezionale diffusione del personal computer e soprattutto
delle comunicazioni in rete (Internet e Intranet) hanno impres-
so uno sviluppo senza precedenti alla produttività e alla riorga-
nizzazione del settore di appartenenza. A livello mondiale molti
comparti tradizionali, come il commercio, il turismo o il credito
hanno subito trasformazioni epocali: tutto cominciò nella prima
metà del secolo scorso, quando, durante il nazismo, i tedeschi
utilizzarono Enigma, una macchina capace di cifrare i messaggi;
grazie allo spionaggio e al lavoro di esperti, i primi a decifrare i
messaggi di Enigma furono tre matematici polacchi e se ne av-
vantaggiarono, oltre alla Polonia anche la Francia e l’Inghilterra
durante al seconda guerra mondiale.
Iniziò così il processo di deindustrializzazione (cui abbiamo
fatto cenno nei capitoli precedenti), che induce lo spostamento
dell’attività industriale dai settori tradizionali manifatturiero e pe-
sante al terziario, vuoi per la crisi produttiva e occupazionale dei
due comparti produttivi, vuoi perché vengono individuate possi-
bilità di riduzione di costi in aree differenti da quella di origine,
vuoi infine per rendere più economico l’import-export. Quote cre-
scenti di popolazione spostano la propria attività verso il terzia-
rio e i servizi di nuova generazione; rimangono pertanto solo le
114 Gabriella Cundari
imprese dell’industria pesante e di quella manifatturiera capaci di
trasformarsi grazie ad investimenti alternativi e l’introduzione di
nuove tecnologie rimangono produttive (Cairncross, 1982). Il cam-
biamento più evidente è stato quello introdotto da Internet: nato
negli anni ’60, è una struttura portante di linee dedicate (attive 24
ore su 24) ad alta velocità, aperta non solo alle istituzioni accade-
miche o alle aziende, ma ad utenti di diffusione globale, tanto da
risultare il mezzo di maggiore diffusione nella storia delle comu-
nicazioni di massa. Il vantaggio maggiore della rete è quello di un
software non coperto da alcuna forma di copygriht (le aziende, per
assicurarsi la propria sicurezza e/o garantire la riservatezza, utiliz-
zano il sistema Intranet, non accessibile da internet). Il successo
di Internet, probabilmente, porterà come evoluzione a Internet II,
già utilizzato, per la maggiore velocità, da alcune università ame-
ricane. Internet, oggi, è sinonimo di globalizzazione. Avere un sito
internet significa possedere una vetrina sul mondo (Siegel, 2011).
La diffusione del software ha inciso profondamente sulla cir-
colazione delle informazioni, ma non solo: le telecomunicazioni
hanno ricevuto un impulso esponenziale; le imprese terziarie
hanno registrato prestazioni eccellenti sul piano degli utili e del-
la borsa; si è accentuata la spinta alla competizione; si sono aperti
e si diffusi mercati globali dei servizi; si sono espansi con una
velocità senza precedenti i settori della progettazione, della co-
struzione e delle applicazioni dei circuiti miniaturizzati; si sono
moltiplicate le reti con un forte incremento dei servizi a lunga
distanza, in cui la connessione tra fasi diverse di lavorazione e
persino i contatti tra produttore e consumatore sono diventati
brevissimi step. L’evoluzione del settore è stata studiata con pas-
sione e approfondimenti in progress da Manuel Castells, socio-
logo e comunicatore spagnolo naturalizzato statunitense, il cui
lungo percorso di studi e insegnamento si è svolto tra Europa e
Stati Uniti (Castells, 2002, 2006, 2008, 2009, 2012, 2014).
Già dagli anni ’60 i negoziati internazionali sulla liberalizza-
zione dei servizi (GATT e WTO), inizialmente limitati alle tele-
8. turismo e finanza, motori della crescita 115
comunicazioni, si sono rapidamente estesi a tutti i comparti del
terziario. Nelle aree economicamente integrate come l’Europa, la
liberalizzazione in atto ha modificato l’assetto di mercati di alcuni
comparti come l’elettricità, il gas, le comunicazioni, la telefonia, il
credito, le assicurazioni, con effetti spesso rilevanti su prezzi ed
efficienza. Incidono infine sul terziario i processi di privatizza-
zione, che impongono a loro volta maggiore efficienza. Le priva-
tizzazioni nel mondo interessano più di cento paesi in tutti i con-
tinenti. I comparti delle telecomunicazioni, del credito, del gas,
dell’elettricità, ma anche dei trasporti aerei o locali, storicamente
in mano al settore pubblico, sono stati investiti da un’ondata di
vendite e da una crescente concorrenza sul mercato dei prodotti
e dei capitali. Dal punto di vista dello sviluppo, è avvincente il
percorso compiuto dall’uomo nel campo delle innovazioni socia-
li: una popolazione (quella corrispondente in misura prevalente
ai paesi più sviluppati) mediamente più vecchia e più ricca, con
orari e periodi di lavoro più brevi e maggior tempo libero, ma-
nifesta una domanda crescente per i servizi come il turismo o la
sanità. Grazie a queste pressioni il terziario ha dunque assunto
sempre più una funzione di infrastruttura dell’economia globale.
Per questo motivo la domanda e i prezzi sono molto sostenuti,
con conseguenze ovviamente benefiche sui paesi e sulle imprese
più forti e specializzati proprio nel terziario (Cottarelli, 2108).
A fianco di questi fattori di pressione, è da segnalare da ulti-
mo lo sviluppo di attività non profit, come area intermedia tra
stato e mercato. Queste attività, che rappresentano una quota
piccola ma crescente dell’occupazione, fanno da sempre parte
del settore dei servizi sociali, della tutela del patrimonio artisti-
co e ambientale, della sanità e della ricerca e del turismo (Mau-
ri, 1910). La loro caratteristica è quella di convogliare numero-
se energie di tipo etico e imprenditoriale presenti nelle società
moderne, generando aumenti di efficienza e contribuendo alla
crescita, al benessere e alla disinflazione, perché una forte specia-
lizzazione terziaria può anche diventare il motore della crescita.
116 Gabriella Cundari
Per conseguire questi risultati, tuttavia, si sono dovute rispettare
alcune condizioni di fondo, perché non si tratta più di disegnare
una politica dei servizi analoga alle politiche settoriali o indu-
striali del passato, ma piuttosto di attuare una politica economica
generale che tenga conto delle caratteristiche dello sviluppo del
terziario nella competizione globale, dove due comparti vanno
esaminati con grande attenzione: le banche e il turismo, perché
costituiscono il termometro dell’economia terziaria e ne possono
decidere il destino.
8.2. Il comparto del credito e della finanza
Il sistema bancario è l’organo di trasmissione della politica
monetaria dello Stato che, facendo da intermediario finanziario,
consente la circolazione di danaro (anche sotto forma di assegni
e bonifici) e il trasferimento di fondi e della moneta. La princi-
pale entrata delle banche sono i guadagni sui servizi offerti: atti-
vi, quando sono ricavati da prestiti effettuati; passivi quando si
tratta di depositi della propria clientela. Le funzioni di deposito
e prestito sono antichissimi: in Mesopotamia la funzione “banca-
ria” era svolta dai sacerdoti, così come nella Grecia antica, dove
i sacerdoti lavoravano seduti dietro ad un banco detto trapezita;
nel medioevo i Templari, grazie alla diffusione delle loro sedi in
Europa, svolsero un’intensa attività finanziaria; nel Rinascimen-
to i banchieri più famosi furono i francesi della regione tessile
delle Fiandre, seguiti a ruota dai Fiorentini, che si ingrandiro-
no enormemente creando sedi in tutta Europa All’inizio del XV
secolo Firenze aveva un’ottantina di banche che facevano pre-
stiti a Re, Imperatori e Papi, con un reddito superiore a quello
dell’Inghilterra. Un ruolo importante ebbero anche gli orafi, che
custodivano oro e preziosi di clienti cui rilasciavano le “note di
banco”, circolanti come garanzia: poiché la differenza tra l’oro
depositato e quello che veniva restituito era sempre di valore po-
8. turismo e finanza, motori della crescita 117
sitivo, gli orafi si trasformarono in banchieri, che impiegavano il
saldo positivo investendolo in attività economiche redditizie. La
prima banca in senso moderno (capace di gestire il debito pub-
blico) nacque nel 1406 a Genova (Colajanni, 1995).
La banca intesa nel senso di intermediario finanziario esercita
essenzialmente due funzioni:
1. di deposito: consiste dunque nella possibilità resa dalla banca ai
singoli clienti privati di depositare i propri risparmi per motivi
di praticità e con il vantaggio di un interesse da corrispondere a
questi sotto forma di tasso di interesse passivo;
2. di credito: questa consiste nella tradizionale attività di erogazio-
ne dei prestiti (es. mutui) ad un tasso di interesse attivo, attra-
verso la quale avviene l’allocazione del risparmio dei depositanti
verso quei soggetti richiedenti (privati o aziende) ritenuti merite-
voli ovvero con opportune coperture finanziarie.
Ma le banche moderne offrono una grande gamma di servi-
zi accessori, come la gestione diretta degli investimenti (gestioni
patrimoniali), il cambio di valute straniere, il credito all’esporta-
zione, l’emissione di titoli di credito (assegni, carte di pagamen-
to), la custodia di valori in cassette di sicurezza, il supporto per
operazioni come la compravendita di titoli di stato, obbligazioni,
azioni, fondi comuni di investimento ecc.; inoltre, può svolgere
attività di intermediazione di contratti assicurativi e di Servizi di
Consulenza Finanziaria e di investimento. In condizioni econo-
miche normali, l’afflusso di denaro verso una banca per i nuovi
depositi supera il deflusso di denaro per i prelievi. La banca non
deve pertanto mantenere i capitali ricevuti in attesa che il deposi-
tante li ritiri, ma può conservarne solo una parte, definita riserva,
per far fronte alle esigenze dei flussi di cassa. Accantonata una
quota dei depositi a formare la riserva (il cui ammontare dipende
in Italia dalle scelte della banca oltre che da norme di legge), la
parte restante dei depositi viene investita in attività redditizie.
Il ricorso al credito ovvero al debito è una pratica molto diffusa
118 Gabriella Cundari
dai privati nell’economia moderna per sostenere i propri inve-
stimenti alla ricerca costante di innovazione e quindi la propria
espansione e/o la propria sopravvivenza nel mondo concorren-
ziale del libero mercato: si suole dire infatti che l’economia mo-
derna è fondata sul debito (Messori e Mattesini, 2004).
La funzione delle banche è dunque anche una funzione so-
ciale, al pari di una qualsiasi impresa pubblica e/o privata, in
quanto esse sono promotrici di investimenti e quindi di nuova
ricchezza, oltre alla garanzia sui depositi, alla loro praticità, ai
pur minimi interessi offerti sui depositi dei creditori/clienti come
stimolo al deposito stesso e la non trascurabile possibilità offer-
ta sotto forma di transazioni telematiche con moneta elettronica.
La Banca centrale di ciascuno stato regolamenta l’attività ban-
caria, la supervisione finanziaria delle banche private e del loro
operato, l’emissione della moneta, dunque ovvero la politica
monetaria dello stato. La diffusione di Internet e delle carte di
pagamento ha favorito la creazione di banche che offrono servizi
on-line, così come di istituti di credito senza filiali la cui operati-
vità avviene solo sul web (home banking). I clienti di tali società
ricevono l’estratto conto via e-mail oppure lo consultano nel sito
istituzionale della banca, ricevono accrediti ed effettuano paga-
menti mediante bonifico bancario via Internet, possono disporre
di carte di pagamento con le quali prelevare dalle postazioni au-
tomatiche o dalle filiali o da altre banche. La funzione monetaria
dei debiti bancari è di primaria importanza nella promozione di
accordi di sistema bancario, e determina la necessità di controlli
pubblici sull’attività bancaria.
Oggi nel mondo esistono una settantina di banche che si clas-
sificano ai primi posti per capitalizzazione di mercato: 13 di que-
ste banche sono americane, 12 cinesi, 5 britanniche, 5 canadesi, 4
australiane, 4 giapponesi, 3 francesi, 3 del Singapore, 2 brasilia-
ne, 2 di Hong Kong, 2 indiane, 2 indonesiane, 2 italiane, 2 spa-
gnole, 2 svizzere, 1 belga, 1 danese, 1 tedesca, 1 olandese, 1 del
Qatar, 1 russa e 1 della Svezia. La banca più grande al mondo per
8. turismo e finanza, motori della crescita 119
capitalizzazione di mercato nel 2018 risulta essere la JP Morgan
Chase con una capitalizzazione di mercato pari a 391 miliardi
di USD. Al secondo posto, quest’anno troviamo la Industrial &
Commercial Bank of China (ICBC) che guadagna un posto rispetto
allo scorso anno nella classifica delle banche nel mondo. La sua
capitalizzazione di mercato rispetto al 2017 è aumentata di 115
miliardi di USD. Il terzo posto è occupato da Bank of America;
segue la Wells Fargo e quinta è la China Construction Bank, Le
due banche italiane più grandi nel mondo sono Intesa San Paolo
(35° posto) e Unicredit si trova (52° posto).
8.3. Il comparto del tempo libero, degli affari, della conoscenza
del mondo
Se gli istituti di credito sono classificati in base alla capitaliz-
zazione di mercato e le loro sedi principali sono l’insegna più
eloquente dei paesi più industrializzati e potenti, il turismo costi-
tuisce un forte appeal per i paesi in ritardo, purché non in guerra.
Infatti, l’economia turistica è determinante nella formazione del
reddito di molti Paesi (Grecia, Tunisia, Maldive, ecc.); rappresen-
ta una voce attiva per numerosi paesi sviluppati (come la Fran-
cia, l’Italia, La Spagna ecc.), mentre è una fonte di uscita di red-
diti per alcuni dei Paesi sviluppati, come la Germania (Innocenti
2007; Gangiale 2018). Il turismo costituisce il settore economico
che riguarda i viaggi, il soggiorno e le attività di tempo libero di
chi si trova in luoghi diversi dalla propria residenza abituale. Fa
parte delle attività terziarie dell’economia, ma coinvolge e mette
in moto numerosi processi dell’industria primaria e secondaria.
Ramificazioni dell’industria turistica sono l’industria alberghie-
ra (con gli ultimi arrivati B&B) e della ristorazione, dei trasporti
nonché le agenzie di viaggi, a loro volta estremamente variegate.
La crescita è enorme: se nel 1950 vi erano 25 milioni di turisti in-
ternazionali, nel 2015 ve ne sono stati poco più di un miliardo e
120 Gabriella Cundari
nel 2030 si prevede che saranno 1,8 miliardi. Il numero dei turisti
interni è stimato oltre i 5 milioni (Jelardi, 2012).
Nel 1993 la Commissione Statistica dell’Onu, in base alle ca-
ratteristiche mondiali del settore, ha distinto le seguenti categorie:
1. turismo domestico, riguardante i residenti di una nazione che
visitano località nello stesso paese;
2. turismo in entrata, riguardante i non residenti di una nazione
che vi entrano per visitarla;
3. turismo in uscita, riguardante i residenti di una nazione che ne
varcano i confini per visitare altri paesi
Queste categorie possono a loro volta combinarsi tra loro,
mentre all’interno dell’ampia categoria dei turisti si distinguono:
a) nel luogo visitato:
1. i visitatori che viaggiano in una nazione diversa da quella
in cui abitualmente risiedono per un periodo non superiore
ai dodici mesi, per motivi diversi dall’esercizio di un’attività
remunerata;
2. i visitatori giornalieri, che non trascorrono la notte nel luogo
visitato;
3. i visitatori che trascorrono almeno una notte
b) in base alle motivazioni si distinguono.
1. le vacanze estive;
2. le vacanze invernali;
3. i soggiorni di piacere e i viaggi d’affari e /o di studio
Lo straordinario sviluppo tecnologico degli ultimi decenni
ha investito tra gli altri anche il settore dei trasporti e, di conse-
guenza, gli orizzonti del turismo si sono notevolmente amplia-
ti. Gli aerei, che rappresentano oggi il mezzo più usato per gli
spostamenti di media e lunga distanza, sono sempre più capien-
ti e veloci, i tempi di viaggio sempre più brevi e relativamente
economici: al giorno d’oggi un aereo con 400 passeggeri a bor-
do può volare senza scalo da Londra a Johannesburg in undici
ore, o da Londra a Bangkok in quattordici. Molti sono i paesi
8. turismo e finanza, motori della crescita 121
hanno fondato organizzazioni nazionali del turismo gestite di-
rettamente dai governi locali. In Italia l’ente deputato è l’ENIT,
Ente nazionale italiano per il turismo. Lo sviluppo del turismo
su scala internazionale comporta spesso problemi legati all’im-
patto sociale e ambientale. L’accettazione senza condizioni dei
benefici economici apportati dal turismo, tipica soprattutto degli
anni Settanta, si è mutata più recentemente in un approccio più
equilibrato, che tiene conto della necessità di conservare le risor-
se naturali e artistiche locali, le fonti stesse del turismo: in questo
senso si parla spesso di ecoturismo, di turismo verde, o di turismo
responsabile. L’interdipendenza tra turismo, cultura e ambiente,
divenuta di primaria importanza nella formulazione delle poli-
tiche turistiche, si riflette nel recentissimo sviluppo di un nuovo
tipo di turismo, l’agriturismo, che prevede soggiorni in aziende
agricole (poste soprattutto in regioni di elevato interesse artisti-
co) e la facoltà di prendere parte alle attività delle aziende stesse).
Su scala globale, si stima che il turismo rappresenti oggi il
10% del prodotto interno lordo, con occupazione dell’11 % della
forza lavoro e il 7% delle esportazioni mondiali (Gangiale 2018).
Il turismo, dunque, è un’importante fonte di entrate e porta
denaro anche alle casse dello stato attraverso la tassazione dei
servizi correlati ad esso correlati (per esempio le tasse aeropor-
tuali), oltre che indirettamente attraverso gli incassi dei fornitori
di servizi. Recentemente, molte organizzazioni non governative
hanno iniziato a occuparsi di turismo come mezzo per favori-
re lo sviluppo di nazioni povere; in genere, il turismo in questo
contesto viene configurato come turismo responsabile (ovvero
vincolato a requisiti di rispetto per l’ambiente e le culture locali).
In Italia secondo i dati Mibact (2017) il turismo incide sul PIL
nazionale del 6,8% e l’occupazione è crescita del 20%.
Ma il turismo non manca di aspetti negativi, che vanno dal
l’aumento dei prezzi a quello del traffico, dell’inquinamento,
dell’affollamento, dell’edificazione abusiva a scopo turistico, che
fanno da più parti sperare in un aumento – per ora limitato – di
122 Gabriella Cundari
turismo sostenibile, piu colto e più rispettoso dei luoghi. Da più
parti si afferma l’esigenza di un marchio di qualità per campeggi,
villaggi turistici e alberghi che si distinguono per la loro sensibi-
lità ambientale (Cassola 2007).
Finora abbiamo trattato molti aspetti del settore terziario/
quaternario; chiudiamo la disamina con il comparto del credito
che coinvolge molti attori: in primis le banche, poi i loro mediato-
ri finanziari. Le banche centrali tendono a localizzarsi nei centri
decisionali, mentre le filiali (o le affiliate) si dispongono là dove
possono assicurare un adeguato appoggio alle economie locali.
Il legame tra banche, territorio e sviluppo, rappresenta la specifi-
cità più qualificante dell’attività bancaria ed è espresso dalla di-
stanza che separa gli operatori (clienti) dalla banca: oggi questa
distanza può essere ridotta grazie a metodi operativi come pho-
nebanking e internet banking (Alessandrini, 1996, pp. 567-600).
C’è poi una distanza funzionale, che riguarda le strategie
dei singoli centri bancari: esse con il consolidamento bancario,
rischiano di amplarsi e richiedono una valutazione attenta e con-
tinua, per il rischio di operare scelte che poi si ritorcono sull’effi-
cienza stessa del comparto; questa valutazione può e deve essere
differente da area ad aerea, da struttura a struttura e da paese
a paese e le strutture dovrebbero risolvere e non aumentare gli
squilibri regionali: quindi mentre i problemi di governance e di
comunicazione tra la banca e affiliate sono minori nelle aree dove
capitale umano e sociale sono sviluppati, nelle aree in ritardo
cresce il rischio di una periferizzazione subalterna dei servizi e
delle funzioni più qualificate (Gershuny e Miles, 1983, pp. 711-
722). Dunque, a parità di condizioni, la vicinanza funzionale
delle banche a un’area geografica migliora la loro performance
in quell’area e questo è migliore quanto più si tratti di aree non
sviluppate (Giannola 2002). Dall’altro lato, va ricordato che le
aree a minore sviluppo sono anche quelle dove il credito cresce
meno rapidamente a fronte duìi una minore efficienza del siste-
ma bancario, che per cautelarsi eroga prestiti a tassi più elevati e
8. turismo e finanza, motori della crescita 123
richiedo, per operare, maggiori garanzie.
La nostra disamina, ancorché incompleta, nei capitoli dedicati
al terziario ha tratteggiato il quadro composito e irregolare di un
settore in grande e continua evoluzione, che tende alla crescente
integrazione nelle catene globali del valore, agendo sui nodi fon-
damentali: capitale umano, turismo e cultura, innovazione e co-
noscenza, produttività, dimensione aziendale e interconnessione
con i due altri settori di attività.
8.4. L’Archivio Storico del Banco di Napoli
Al numero civico 214 di via Tribunali c’è il bellissimo palazzo
Ricca (De Rose A., 2001), con ampio portale in piperno il cui stem-
ma alla sommità riporta le armi del Sacro Monte di Pietà, fonda-
to nel 1539. Nel cortile si trovano resti delle antiche mura greche,
un frammento dell’antico pavimento tardo romano, e una piccola
cappella seicentesca, con opere d’arte importantissime, mentre al
di sotto del palazzo, durante i lavori di consolidamento degli anni
’70 è stata rinvenuta un’importante area archeologica e ritrovati
nel cortile. Di proprietà dello squattrinato barone Gaspare Ricca, il
16 marzo del 1616 fu acquistato dal Monte e Banco dei Poveri; ad
esso fu congiunto molto più tardi, nel 1787, il palazzo confinante
comprato dagli eredi di don Pietro Cuomo (Aa.Vv., 1972).
Nell’edificio, a seguito del decreto di Ferdinando I di Borbo-
ne, che il 29 novembre 1819, istituì l’Archivio generale degli an-
tichi banchi pubblici napoletani, confluirono le scritture di otto
banchi della Pietà (1539-1808), dei Poveri (1563-1808), dell’An-
nunziata (1587-1702), del Popolo (1589-1808), dello Spirito Santo
(1590-1808), di Sant’Eligio (1592-1808), di San Giacomo e Vittoria
(1597-1809) (con la sua più diretta filiazione del Banco delle Due
Sicilie) e infine del Salvatore (1640-1808).
L’edificio dispone, su quattro piani, di circa 330 stanze. Oggi
è la sede della Fondazione Banco di Napoli, che ospita l’Archi-
124 Gabriella Cundari
vio Storico del Banco di Napoli, il “Cartastorie”, una biblioteca,
un’emeroteca specializzata sui temi dell’economia e della ban-
ca, una mostra permanente di pergamene, cartamonete e docu-
menti storici del Banco di Napoli. Palazzo Ricca costituisce un
patrimonio culturale unico e irripetibile, che ha ricevuto nume-
rosi premi internazionali e nazionali, ospita circa venti studen-
ti al giorno che consultano e studiano documenti introvabili:
circa ottanta chilometri di scaffalature contengono diciassette
milioni di nomi, centinaia di migliaia di pagamenti e dettagliate
causali che ricostruiscono un affresco vivo di Napoli e di tutto
il Mezzogiorno, dal 1573 sino ai giorni nostri. Un tesoro di me-
morie lungo 450 anni che è dotato anche di mezzi multimediali
per restituire alla città e al mondo intero le voci, le narrazioni
e le vicende immortalate sulle innumerevoli pagine dei tomi
custoditi. Ma la gran parte dei cittadini partenopei e campani
lo ignora.
8.5. Il turismo nella Napoli del Grand Tour
Nel XVII secolo i giovani della ricca borghesia europea arric-
chivano la loro preparazione culturale attraverso la pratica del
Grand Tour (ovvero l’uso del mondo): dopo aver visitato le regio-
ni dell’Europa continentale, si spingevano in Spagna e Italia alla
scoperta – soprattutto – del pittoresco “pianeta sud”. Al tempo
non esistevano strutture ricettive come ora, ma solo semplici lo-
cande, l’acqua corrente era spesso un miraggio, si viaggiava a
cavallo e talvolta si era vittima dei briganti.
Eppure tanti furono i personaggi – illustri e non – che visita-
rono la nostra regione: di qualcuno Stendhal, Goethe, Mozart; di
altri è più difficile ritrovare le tracce (De Seta, 1982, pp. 127-263).
A mo’ di esempio ne citerò qualcuno tra i più significativi.
Soufflot, architetto del Pantheon parigino, fu colpito dalle le
viti campane (della qualità Asprinio, tradizionalmente maritata
8. turismo e finanza, motori della crescita 125
al pioppo, in festoni tesi tra una pianta e l’altra. I festoni, in cui
i tralci sono sistemati a a rezza ‘e ppecore (come le reti di pecora,
che venivano messe per bloccare la strada alle greggi) possono
raggiungere gli otto/dieci metri di altezza. Queste viti erano state
descritte da Plinio nel I secolo d.C.: “nell’agro campano le viti si
maritano al pioppo; avvinghiate alle piante coniugi e salendo su di esse
di ramo in ramo […] ne raggiungono la sommità ad un’altezza tale,
che il contratto di chi viene ingaggiato per la vendemmia prevede (in
caso di caduta mortale) il risarcimento delle spese per il funerale e la
sepoltura”. Anche W. Goethe ne parlò nel famosissimo “Viaggio
in Italia”, che precorse le guide turistiche: “Finalmente raggiun-
gemmo la pianura di Capua. Nel pomeriggio ci si aprì innanzi una bella
campagna tutta in piano […] I pioppi sono piantati in fila nei campi, e
sui rami bene sviluppati si arrampicano le viti. Le viti sono d’un vigore
e d’un’altezza straordinaria, i pampini ondeggiano come una rete fra
pioppo e pioppo”.
Paul De Musset, fratello del più famoso Alfred e finissimo
disegnatore, nel periodo del Grand Tour soggiornò a Napoli
per un periodo e così descrisse i Napoletani: “Il Napoletano è, di
mattina, appassionato e attivo come un demone, indolente il resto del
giorno; intrepido quando muta il proprio carattere, giocatore con le car-
te, innamorato alla follia, ma facilmente consolabile nella disgrazia e
nell’abbandono”.
Tutti i viaggiatori del Grand Tour fecero tappa al San Carlo,
nato 141 anni prima della Scala di Milano e 51 prima della Fenice
di Venezia: i giudizi furono entusiastici. Decantato da Jean-Jac-
ques Rousseau e venerato da Stendhal, definito splendido da Du-
mas e colpo d’occhio magnifico da Casanova, il Real Teatro di San
Carlo di Napoli è il più antico teatro d’Europa ancora in attività.
L’imponente stemma dei Borbone fu issato sul palcoscenico il 4
novembre 1737, giorno dell’onomastico di re Carlo: tre gigli d’ar-
gento su campo azzurro e 21 simboli araldici dei nobili Casati di
Napoli: l’eredità dei Borbone di Napoli fu destinata a perenne
memoria in quella sala, in quel teatro dedicato al re e al santo
126 Gabriella Cundari
di cui portava il nome, che andava a sostituire l’antico Teatro di
San Bartolomeo, vecchio e decadente. Carlo di Borbone volle
rendere Napoli la prima capitale d’Europa, sottraendo per essa
il ruolo per cui rivaleggiavano Parigi e Londra. E il suo teatro ne
era l’emblema: azzurro, del colore della dinastia borbonica, rosso
dorato solo il palco reale. Nel 1810 Gioacchino Murat ne cambiò
la facciata, da allora in stile neoclassico, aperta verso la città e
verso la borghesia. Distrutto dall‘incendio del 1816, Ferdinan-
do I di Borbone, risalito sul trono, ne ordinò immediatamente
la ricostruzione. La tela di 500 mq che oggi si può ammirare sul
soffitto è opera di Antonio, Giovanni e Giuseppe Cammarano e
raffigura Apollo che presenta a Minerva i più grandi poeti del
mondo, mentre la sala interna fu ampliata per ospitare 2.500 po-
sti a sedere.
E, quando Stendhal arrivò a Napoli nel 1817, così si espresse:
“Non c’è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro,
ma ne dia la più pallida idea. Questa sala, ricostruita in trecento giorni,
è un colpo di Stato. Essa garantisce al re, meglio della legge più perfetta,
il favore popolare. Chi volesse farsi lapidare, non avrebbe che da trovar-
vi un difetto. Appena parlate di Ferdinando, vi dicono: ‘Ha ricostruito
il San Carlo!’”. Con l’avvento dei Savoia al trono d’Italia, i tessuti
blu del teatro furono sostituiti dal colore rosso, la tinta della Casa
piemontese, e lo stemma dei Borbone fu letteralmente nascosto
da quello Sabaudo. Solo nel 1980 lo stemma dei Borbone venne
riabilitato e tornò a imporre la sua presenza, indelebile ricordo
di quando i sovrani di mezza Europa rendevano omaggio alla
capitale del Sud. Ma non tornò l’azzurro dell’antico teatro (De
Seta, Mancini e Isotta, 1997)
Fu nel periodo del Grand Tour che si diffusero le guache: i
guazzi, cioè gli acquerelli eseguiti con pennellate rapide e decise
per l’essiccamento veloce del colore su tavolette, tela inamidata o
pezzi di carta per ricordare e mostrare ad amici e parenti. Tra la
fine del 1814 e l’inizio del 1815, Anton Sminck Pitlo (che a Napoli
aggiunse una seconda “o” al cognome probabilmente per sottoli-
8. turismo e finanza, motori della crescita 127
neare l’origine straniera) arrivò nella capitale del Regno a seguito
del conte Gregorio Vladimiro Orloff, diplomatico russo e inten-
ditore d’arte, nella speranza di ottenere la cattedra di paesaggio
presso la Real Accademia di Napoli. Stabilì il suo studio al Vicolo
del Vasto numero 15 e iniziò la sua attività, dedicandosi per oltre
un decennio al paesaggio dal vero. Nel 1822, anno dell’eruzione
del Vesuvio, da lui immortalato in una celebre opera, divenne
professore onorario, ottenendo due anni dopo da Ferdinando I la
carica ufficiale. Egli fu il fondatore della Scuola di Posillipo, chia-
mata così perché vi viveva la maggior parte degli artisti che si
specializzarono nelle rappresentazioni di vedute e scene di vita
napoletane. A Napoli, città che amava più di ogni altra, Pitloo
sperimentò la tecnica della pittura en plein air (all’aria aperta),
dipingendo in splendidi oli ricchi di luce ed effetti cromatici i
paesaggi più classici della città partenopea.
9. Conclusione
9.1. Dai luoghi geografici alla geografia dei “non luoghi”
Dove sta andando il mondo? Siamo in una fase di crescita
o di decrescita? Stiamo distruggendo il nostro pianeta? Cosa ci
aspetta nel futuro ? Il desiderio di conoscere che cosa ci riserverà
il futuro è uno dei più antichi e radicati nell’animo umano e le
risposte a queste domande, la discussione, le ipotesi e le risposte
sono tante e contraddittorie. Nel lontano 1980, l’ecologo, biologo
per formazione, Paul Ehrlich, della Stanford University, in Cali-
fornia, autore con la moglie di un famoso best seller sui problemi
demografici del mondo (Ehrlich, 1968) e l’economista e demogra-
fo Julian Simon (Simon, 1981), entrambi nati nel 1932, scommi-
sero sul futuro dell’intera umanità: il primo propendeva per una
tesi catastrofistica; il secondo per una tesi positivo-evoluzionista,
detta anche “espansionista”: Ehrlich prevedeva l’esaurimento
delle riserve minerarie e alimentari, basandosi sul fatto che le
risorse del pianeta andavano divise tra una popolazione in conti-
nua crescita annua e che non ci fosse possibilità di mantenere un
equilibrio forze opposte per entità; Simon riteneva che l’aumento
della popolazione potesse rappresentare un vantaggio, a patto
di mantenere l’ambiente pulito e la popolazione sana, grazie alle
doti di creatività degli uomini e alla loro capacità di individuare
nuove risorse e di innovare l’utilizzo del mondo. Insomma, Ehr-
lich prefigurava l’avvento di carestie e morte, mentre Simon un
progresso a crescita illimitata.
130 Gabriella Cundari
Alle tesi di Simon, Ehrlich obiettò che la diminuzione delle ri-
sorse (es. quelle minerarie) era sotto gli occhi di tutti, con la con-
seguenza che le merci sarebbero diventate più care e allora Simon
offrì a Ehrlich di scommettere sul prezzo di 5 metalli a sua scelta
su una distanza di 10 anni per un totale di 1000 dollari. Tenendo
conto dell’Inflazione, se il prezzo fosse aumentato, Simon avrebbe
pagato la differenza a Ehrlich; se invece fosse diminuito, sareb-
be stato Ehrlich a pagare la differenza a Simon. Ehrlich, insieme
con due suoi colleghi, scelse cinque metalli: rame, cromo, nichel,
stagno e tungsteno e accettò la scommessa, sembra con un certo
entusiasmo dicendo: Io e i miei colleghi John P. Holdren, John Harte
accettiamo tutti insieme l’offerta stupefacente di Simon prima che altra
gente avida si aggreghi. Evidentemente Ehrlich pensava di vince-
re facilmente ma, come succede spesso nelle scommesse, i prezzi
andarono in una direzione completamente diversa da quella che
lui si aspettava: a dieci anni di distanza, Ehrlich si ritrovò a dover
pagare (e pagò regolarmente) più di cinquecento dollari. Questa
scommessa ebbe una grande risonanza e migliaia di commenti,
ma non risolse la questione in sé, perché è impossibile compa-
rare un fatto limitato come l’imprevedibilità del mercato con la
grande questione del destino dell’umanità, anche se oggi, tac-
ciandoci di essere una società scientifica e razionale, ci nutriamo
troppo di osservazioni empiriche espresse in diagrammi tabelle
e grafici. In fondo i calcoli di Ehrlich erano esatti, se si pensa che
la popolazione mondiale è aumenta tata vertiginosamente e non
sono mancate carestie, siccità, politiche agricole sbagliate e guerre
che hanno devastato soprattutto il Terzo Mondo. Dalla parte delle
considerazioni di Simon, vanno però altri fattori, come la diminu-
zione della mortalità infantile, l’aumento delle aspettative di vita,
l’utilizzo di nuove risorse, insomma un mondo non inteso come
ecosistema chiuso, ma come mercato flessibile. Ehrilch e Simon
non si sono mai incontrati e comunicarono solo attraverso le loro
opere e qualche lettera; Ehlrich, il pessimista, ha insegnato per ol-
tre quarant’anni ed è tuttora vivente; Simon, l’ottimista, ha sofferto
9. conclusione 131
a lungo di depressione ed è morto per un attacco cardiaco. Stra-
nezza della vita reale!
Più recentemente, il politico Italico Santoro (Santoro, 2016) ha
affrontato in un saggio la complessità delle condizioni polico-e-
conomico-sociali del mondo attuale al di là delle formule tese a
rendere la spiegazione semplice a tutti i costi. Con una visione
attenta e obiettiva ha individuato 5 dati di fatto negativi:
a) rottura degli equilibri politici e inizio di una lunga fase di passaggio;
b) competitività dei maggiori protagonisti dello scacchiere interna-
zionale;
c) l’esistenza di una enorme quota di società medio-bassa di “nuovi
perdenti” dell’era della globalizzazione;
d) il confronto incerto e agguerrito tra i propugnatori dei principi
democratici e i fautori di un nuovo autoritarismo;
e) le crisi: monetaria, istituzionale, di welfare, di strategie innovati-
ve in un mondo che sta passando dalla globalizzazione alla com-
petizione tra Stati.
Santoro porta gli esempi delle condizioni cinesi (capitalismo
senza democrazia), della Russia (che si dibatte tra controllo degli
apparati esercitato da Putin e i legami con la Chiesa ortodossa);
delle carenze della politica statunitense; del sud del mondo (un
eterno cantiere che va dall’India all’Africa sub-sahariana all’A-
merica latina); della polveriera islamica e del terrorismo; delle
tensioni Cina-Corea; della questione dei confini e delle migrazio-
ni di massa; dell’instabilità finanziaria dei mercati.
Sono temi in parte toccati anche in un altro lavoro a più mani (Bo-
eri, Faini, Ichino, Pisauro e Scarpa, 2015) dove, partendo dal declino
economico in atto in molti paesi (e soprattutto in Italia), si sostiene
che non può essere la crescita zero la soluzione e neppure l’origine
del problema, quanto piuttosto le scelte sbagliate che impongono di
invertire la rotta innescando un processo di energia positiva.
Le ipotesi sul nostro futuro sono tante talvolta avveniristi-
che, talvolta bizzarre, come quella del fisico giapponese Micho
Kaku (Kaku, 2018) che ritiene il nostro pianeta insicuro e messo
132 Gabriella Cundari
in pericolo da asteroidi vaganti, cambiamenti climatici, sovrap-
popolazione e catastrofi che potrebbero costringere l’umanità, in
un futuro non troppo lontano, ad una migrazione extraterrestre.
Come? Attraverso l’utilizzo della robotica, delle biotecnologie,
della nanotecnologia potremmo costruire razzi, utilizzare i bu-
chi neri, creare automi auto replicanti e intelligenti, usare i buchi
neri come scorciatoie ed esplorare universi paralleli oltre i confi-
ni dello spazio e del tempo. Che dire? Da quando l’uomo ha co-
minciato a popolare la Terra ha sempre teso a modificare la realtà
in cui si trovava per renderla più conforme alle sue esigenze. Il
miglioramento delle condizioni tecnologiche, l’avanzamento tec-
nologico e scientifico teoricamente potrebbero rendere il mondo
migliore nel rispetto di tutti gli esseri viventi e della natura.
Le cose, però, potrebbero prendere anche una piega diversa:
il fisico teorico Stephen Hawking (2014), dibattendo su The Indi-
pendent, con altri scienziati, ha affermato che l’impatto sull’intel-
ligenza artificiale (AI) può essere controllato sul breve periodo,
ma non sul lungo e che se l’AI raggiungesse un giorno la capa-
cità di ri-progettare se stessa a un ritmo crescente, producendo
un’inarrestabile “esplosione di intelligenza” potrebbe portare
rapidamente all’estinzione della razza umana (ST, Singolarità
Tecnologica). Il futuro è avviato su una china pericolosa e, sebbe-
ne Luciano Floridi, professore di Filosofia ed Etica dell’informa-
zione all’Università Oxford abbia dichiarato: “Sarà impossibile
realizzare un’automobile senza conducente in grado di prende-
re decisioni etiche”, Google e General Motors stanno lavorando
allo sviluppo di auto senza conducente (Schwab, 2016). Non c’è
dubbio, quindi, che gli studi e le ricerche sull’Intelligenza Arti-
ficiale, se finalizzati agli unici paradigmi di guadagno commer-
ciale, potere militare e speculazione tecnologica, rappresentino
oggi una delle maggiori minacce esistenziali. Sarebbe una giusta
punizione per esseri umani che operano scelte finalizzate soprat-
tutto all’abbattimento di costi per la generazione presente, senza
alcuna consapevolezza che il futuro è “dentro” ognuno di noi.
9. conclusione 133
Come già Seneca affermava, licet insanire, ma con moderazione
(semel in anno).
Stephen Hawking, il grande cosmologo e fisico teorico dece-
duto nel marzo di quest’anno, si chiede: Come si spiega la mancan-
za di visitatori extraterrestri? È possibile che là, tra le stelle, vi sia una
specie progredita che sa che esistiamo, ma ci lascia cuocere nel nostro
brodo primitivo. Però è difficile che abbia tanti riguardi verso una forma
di vita inferiore: forse che noi ci preoccupiamo di quanti insetti o lom-
brichi schiacciamo sotto i piedi? Una spiegazione più plausibile è che
vi siano scarsissime probabilità che la vita si sviluppi su altri pianeti o
che, sviluppatasi, diventi intelligente. Il libro di Hawking (2006) si
intitola “L’universo in un guscio di noce”. Proprio quel guscio di
noce da cui sono partite le mie riflessioni geografiche.
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10. R. Diana, Disappartenenza dell’Io (con prefazione di L.M. Sicca), 2014.
i
Con scritti di Per Olof Berg e Kristian Kreiner, Robert W. Witkin, Barbara
Czarniawska e Carl Rhodes, Ken Starkey e Sue Tempest, John Hendry, Karin Knorr Ce-
tina.
ii
Con scritti di Luigi Maria Sicca, Umberto di Porzio, Rosario Diana, Agosti-
no Di Scipio, Mariella De Simone, Bernardo Maria Sannino, Chiara Mallozzi, Lorenzo
Pone, Giancarlo Turaccio.
iii
Con scritti di Luigi Maria Sicca, Francesco Izzo, Maura Striano, Giulia
Dell’Aquila, Felice Casucci, Francesco Perillo, Rosario Diana, Paola Giampaolo, Davide
Bizjak, Gilberto-Antonio Marselli, Franco Vitelli, Maria Rosaria Napolitano.
152 Hanno scritto nella Collana punto org
11. Aa.Vv.iv, Sergio Piro. Maestri e allievi, 2014.
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primo anno del GSA - Accademia Italiana di Economia Aziendale, 2014.
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viltà (con prefazione di F.P. Casavola e postfazione di A. Giannola),
2015.
15. F. Piro, Manuale di educazione al pensiero critico. Comprendere e argo-
mentare (con prefazione di T. De Mauro), 2015.
16. F. D’Errico, Fuor di metafora. Sette osservazioni sull’improvvisazione
(con prefazione di P. de Vita e postfazione di M. Maldonato), 2015.
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ganizzazioni di lavoro e di pensiero (con prefazione di G. Manfredi),
2015.
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l’organizzazione dei luoghi di detenzione. Persone transgender e gender
non conforming tra diritti e identità (con prefazione di L.M. Sicca e
postfazione di A. Hochdorn), 2016.
iv
Con scritti di Giuseppe Cantillo, Tullio De Mauro, Aldo Masullo, Mariapaola
Fimiani, Teresa Capacchione, Antonio Mancini, Roberto Beneduce, Enrico De Notaris,
Fulvio Marone, Dario Stefano Dell’aquila, Luigi Maria Sicca, Francesco Piro.
v
Con scritti di Pier Luigi Celli, Eugenio Mazzarella, Enzo Rullani, Luigi Maria
Sicca, Francesco Varanini.
vi
Con scritti di Stefano Baia Curioni, Paola Dubini e Ludovica Leone, Sara Bo-
nini Baraldi e Luca Zan, Monica Calcagno e Luigi M. Sicca, Donata Collodi, Francesco
Crisci e Andrea Moretti, Roberto Ferrari e Alessandro Hinna, Francesco Giaccari, Fran-
cesca Imperiale e Valentina Terlizzi, Daniele Goldoni, Pamela Palmi.
vii
Con scritti di Anna Lisa Amodeo, Christian Ballarin, Davide Bizjak, Ilaria
Boncori e Paolo Fazzari, Rossella Bonito Oliva, Simone Cangelosi, Marco De Giorgi,
Guglielmo Faldetta, Vittoria Fiorelli, Stefano Maltese, Porpora Marcasciano, Piergiorgio
Masi, Antonia Monopoli e Chiara Repetto, Andrea Morniroli, Edoardo Mollona, Cristia-
no Scandurra, Luca Solari, Maria Spanò, Maria Gigliola Toniollo.
viii
Con scritti di: Luigi Maria Sicca, Paolo Valerio, Carmen Bertolazzi,
Alexander Hochdorn, Porpora Marcasciano, Luca Chianura, Damiana Massara, Daniela
A. Nadalin, Adriana Godano, Elia De Caro, Tito Flagella, Anna Lorenzetti, Giuseppe
Ferraro, Caterina Peroni, Vittoria Colonna, Vicente de Paula Faleiros.
Hanno scritto nella Collana punto org 153
20. M.R. Napolitano e V. Marino (a cura di)ix, Cultural Heritage e Made In
Italy. Casi ed Esperienze di Marketing Internazionale (con prefazione di
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28. A. Papa, “… Una cappella cavata dentro il monte…”. Storia minima del
complesso monastico di S. Lucia al Monte (con prefazione di L. D’Ales-
sandro), 2017.
ix
Con scritti di Loretta Battaglia, Giuseppe Bertoli, Roberta Biandolino, Michelle
Bonera, Enrico Bonetti, Mauro Cavallone, Elena Cedrola, Marta Cerquetti, Maria Chiar-
vesio, Anna Codini, Emanuela Conti, Eleonora Di Maria, Barbara Francioni, Antonella
Garofano, Francesco Izzo, Giulia Lanzilli, Gaetano Macario, Giulio Maggiore, Francesca
Magno, Vittoria Marino, Barbara Masiello, Michela Matarazzo, Alberto Mattiacci, Mar-
ta Maria Montella, Fabio Musso, Maria Rosaria Napolitano, Alessandro Pagano, Tonino
Pencarelli, Giovanna Pegan, Michele Quintano, Riccardo Resciniti, Marcello Risitano,
Angelo Riviezzo, Savino Santovito, Elisabetta Savelli, Michele Simoni, Annarita Sorren-
tino, Raffaella Tabacco, Donata Vianelli.
x
Con scritti di Roberto Rosato, Nicoletta Mincato, Carlo Nicoletti, Paolo De
Paolis, Alessandro Salibra Bove.
xi
Con scritti di Alison J. Taylor-Lamb, Jamie Raines, Thomas Currid and Carl
Chandra, Martin Harrison and Peter Martin, Rainer Shulze, Fleur Jeans and Teresa
Eade, Tuesday Wats, Amy Anderson, Sco Lawley.
154 Hanno scritto nella Collana punto org
29. R. Diana, L.M. Sicca e G. Turaccioxii, Risonanze. Organizzazione, mu-
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R. Grisley), 2017.
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troduzione di F. Izzo; prefazione di A. Moretti e postfazione di J.
Metelmann), 2017.
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Sicca; prefazione di E. Borgonovi e postfazione di C. Mochi Sismon-
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39. G. Viglia e A.C. Invernizzi, Il ruolo dell’hubris nella gestione imprendi-
toriale (con prefazione di C. Mauri), 2018.
xii
Con scritti di Davide Bizjak, Dario Casillo, Rosario Diana, Umberto Di Por-
zio, Agostino Di Scipio, Chiara Mallozzi, Mario Nicodemi, Lorenzo Pone, Rosalba Quin-
dici, Sonia Ritondale, Tommaso Rossi, Bernardo Maria Sannino, Luigi Maria Sicca,
Cristian Sommaiuolo, Giancarlo Turaccio, Paolo Valerio.
xiii
Con scritti di Mario Bertoncini, Davide Bizjak, Gianmario Borio, Pietro Ca-
vallotti, Andrew Culver, Francesco D’Errico, Charles de Mestral, Michelangelo Lupone,
Chiara Mallozzi, Alessandro Mastropietro, Mario Nicodemi, Luigino Pizzaleo, Lorenzo
Pone, Ingrid Pustijanac, John Rea, Bernardo Maria Sannino, Luigi Maria Sicca, Daniela
Tortora.
Hanno scritto nella Collana punto org 155
40. T. Russo Spena e C. Mele, Practising innovation: a socio-material view
(with a preface by J. Spohrer), 2018.
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42. K.E. Russo, The Evaluation of Risk in Institutional and Newspaper Di-
scourse: The Case of Climate Change and Migration (with a preface by
G. Bettini), 2018.
43. R. Pera, When consumers get creative. Cocreation in the individual and
collective realm (with a preface by D. Dalli), 2018.
44. F. Piro, L.M. Sicca, P. Maturi, M. Squillante e M. Strianoxiv (a cura
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45. R. Quaglia, Bravi ma basta! Su certe premesse, promesse e catastrofi
culturali (con introduzione di L.M. Sicca; prefazione di J. Mills e
postfazione, F. Barca), 2018.
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te (I edizione italiana a cura di L.M. Sicca, F. Piro e I. Boncori), 2018.
47. F. Longobardi, Le affinità del lessico, 2018.
48. G. Calogero, L’abbiccì della democrazia. E altri scritti (a cura di F. Piro
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49. V. Fiorelli (a cura di)xv, Margini e confini. Attraversamenti di metodi
e linguaggi tra comunicazione, didattica e possibilità della ricerca (con
prefazione di L. d’Alessandro), 2018.
xiv
Con scritti di Maura Striano, Rosaria Capobianco e Maria Rita Petitti, Fran-
cesco Piro, Roberta Gimigliano, Monica Mollo, Gerarda Fattoruso, Maria Incoronata
Fredella, Maria Grazia Olivieri, Massimo Squillante e Antonia Travaglione, Pietro Ma-
turi, Fabio Maria Risolo, Luca Marano, Luigi Maria Sicca, Giuseppe Recinto, Mario
Nicodemi, Chiara Mallozzi e Luigi Marolda, Luigi Proserpio, Davide Bizjak, Paolo Ca-
nonico, Stefano Consiglio, Ernesto De Nito e Teresa Anna Rita Gentile, Natascia Villani.
xv
Con scritti di Giuliano Amato, Gianluca Bocchi, Massimo Abdallah Cozzoli-
no, Diego Davide, Lucia Donsì, Amedeo Feniello, Vittoria Fiorelli, Luigi Manconi, Ro-
berta Morosini, Gianmarco Pisa, Ciro Pizzo, Leopoldo Repola, Stefano Rodotà, Francesco
Varanini.
Finito di stampare nel mese di ottobre 2018
dalla Grafica Elettronica, Napoli