Antonio Dal Covolo, La Confessione Oggi
Antonio Dal Covolo, La Confessione Oggi
LA CONFESSIONE
OGGI
confessori e penitenti
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nensis», voi. II, coli. 1870-99, Milano, Ferraris, 1890-92. Il
santo tratta dapprima della preparazione del Confessore: pre-
parazione anzitutto intellettuale (non si dimentichi che l'autore
s'indirizzava ad un clero immerso in una profonda ignoranza);
preparazione spirituale (perché, se il sacramento agisce « ex opere
operato », però il suo effetto sarà tanto più abbondante quanto
maggiore sarà il fervore di chi lo amministra e di chi lo riceve).
Dà particolari suggerimenti sul portamento esterno sullo spirito
d'umiltà del confessore (che deve ritenere i penitenti migliori di sé).
Passa quindi ad esporre gli uffici del confessore. Li riduce a due:
quello di giudice e quello di medico. Come giudice deve investi-
gare se il penitente ha le disposizioni richieste, deve conoscere
la causa, proferire la sentenza, imporre la penitenza. Si nota
una certa severità con coloro che non si son debitamente pre-
parati: con parole caritative — consiglia il santo — si ammoni-
scano di andar prima a prepararsi e poi ritornino. Ricorda che
non si possono assolvere coloro che non hanno vera risoluzione
di lasciare i peccati mortali, o di restituire il debito, o di lasciare
le occasioni libere di peccato. Ed a chi, altre volte ammonito,
non ha mantenuto quanto promesso, conviene differire l'assolu-
zione. Riguardo agli occasionari mostra pure una certa severità. Se
è il caso di chi si trova in un'occasione continuamente presente
(« in esse ») (per esempio di chi tiene in casa la concubina) costui
non si deve assolvere se prima non l'ha attualmente dimessa.
Per l'occasione non continuamente presente (« non in esse ») basta
la promessa del penitente di evitarla; ma se, nonostante altre
volte l'abbia promesso, non s'è emendato, si differisca l'assolu-
zione. Altrettanto si deve fare se il penitente che si trova in
un'occasione « necessaria » non dà prova di qualche emendazione.
Se i rimedi suggeriti per render l'occasione da prossima, remota,
non si sono dimostrati efficaci, bisognerebbe imporre di lasciare
l'occasione purché (dice s. Carlo) l'Arcivescovo — al quale si
dovrebbe in tali casi difficili ricorrere (senza rivelare la per-
sona) — non giudichi diversamente. La regola quindi non è asso-
luta e si possono dare eccezioni, anche secondo s. Carlo. Al
momento opportuno si dirà come questi suggerimenti possano
oggi esser giudicati.
S. Carlo raccomanda poi ai confessori di seguire una uniforme
norma d'azione quando è questione di concedere o meno l'asso-
luzione.
Tutto questo riguarda il confessore come giudice. Conside-
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randolo inoltre come medico, il santo indicava i rimedi salutari
(fra i quali la penitenza) da dare al penitente ed i consigli per
indirizzare le anime anche verso la perfezione positiva: il che
significa che, per s. Carlo, il confessore dev'esser anche diret-
tore spirituale. Pertanto raccomandava ai penitenti di scegliersi
un confessore ordinario e di non lasciarlo senza un grave motivo.
Ai direttori spirituali in particolare raccomanda di suggerire alle
anime aspiranti alla perfezione d'accostarsi frequentemente alla
Confessione ed alla Comunione e di indicare loro qualche libro
spirituale adatto.
Si può senz'altro affermare che le norme di s. Carlo ai con-
fessori costituiscono un corpo di dottrina organico, anche se non
completo in tutti i particolari (perché non si trovano trattate
questioni importanti, come quella sull'opportunità o meno d'am-
monire i penitenti quando sono in buona fede). Comunque l'auto-
rità di queste Instructiones è indiscussa, come l'influsso che
avranno negli autori posteriori. Naturalmente questo giudizio
positivo riguarda non tanto le singole norme quanto il loro com-
plesso. Difatti non si deve dimenticare il contesto storico in cui
furono dettate. È da aggiungere che la dottrina di 5. Carlo fu,
in seguito, da taluni svisata ed invocata a sostegno del gian-
senismo pratico e del rigorismo. In realtà egli seppe indicare
la" prudente condotta che evita da una parte i pericoli del lassi-
smo, dall'altra gli eccessi del giansenismo. In Italia particolar-
mente s. Leonardo da Porto Maurizio (1676-1751) e s. Alfonso
apprezzarono ed usarono le Avvertenze di s. Carlo. S. Leonardo
le cita nel suo Discorso morale e mistico da farsi dopo la mis-
sione, Roma, 1737. S. Alfonso vi attribuiva grande autorità e più
volte le cita nella Theologia Moralis e nella Pratica del Confes-
sore (per esempio, trattando degli occasionari, dei recidivi, della
penitenza sacramentale, della Confessione generale, quando con-
siglia di non mutar facilmente confessore). Si può affermare che
in molti punti della Pastorale della Confessione s. Carlo ha
prevenuto s. Alfonso (cfr. G. Sofia, La dottrina di s. Carlo sui
doveri del Confessore, Milano, Ed. « La Scuola Cattolica », 1938).
Le Avvertenze di s. Carlo esercitarono un grande influsso su
moralisti e confessori anche nel periodo precedente s. Alfonso,
periodo segnato da animate controversie. Richiamo i fatti prin-
cipali. Il 2 Marzo 1679 si aveva la condanna da parte di Inno-
cenzo XI delle 65 proposizioni lassiste. I teologi rigidi vi vede-
vano una conferma delle loro posizioni. Accusavano i lassisti
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d'esser una delle cause della corruzione dei costumi nel po-
polo cristiano. La pastorale dei rigoristi si esplicava in modo
particolare nell'amministrazione del sacramento della Penitenza.
Disprezzavano l'attrizione, esigendo la contrizione. Non pochi con-
fessori davano l'assoluzione al penitente solo dopo ch'egli aveva
compiuto la penitenza e dato tali prove d'essersi emendato da
non far più temere ricadute nel peccato. E cosi differivano
sempre, o quasi sempre, l'assoluzione. Imponevano per peni-
tenza l'astensione dalla Comunione. Alle Avvertenze ai Confessori
di s. Carlo aggiungevano glosse e commenti interpretandole in
senso diverso da quello inteso dall'autore. Però, tutto considerato
la condanna delle 65 proposizioni lassiste contribuì, in genere, ad
accrescere l'autorità delle regole di s. Carlo ed indusse la maggior
parte dei confessori a stimarle ed applicarle. E quindi — ret-
tamente interpretate — ebbero la funzione non solo di frenare
la rilassatezza dei costumi ed i gravi disordini provocati dal
lassismo, ma anche di moderare gli eccessi del rigorismo. Perciò
furono accolte con favore dai teologi e soprattutto dai pastori e
confessori. Molto stimate erano dai vescovi di Francia. Nel 1676,
sotto il pontificato di Innocenzo XI, venivano stampate a Roma
con l'approvazione del Maestro del S. Palazzo e divennero obbli-
gatorie per i confessori di Roma e suo distretto. Sotto il ponti-
ficato d'Innocenzo XII, il card. Carpegna, suo Vicario, pubblicava,
per ordine del Papa, due edizioni delle Regole di s. Carlo, per
uso dei confessori di Roma e suo distretto. La seconda edizione
è del 1700. Nel 1702 usciva la terza edizione. Oltre che a Milano
ed a Roma, furono in uso anche in altre parti d'Italia. Il car-
dinal Orsini, arcivescovo di Benevento, ad esempio, le rendeva
obbligatorie pel clero della sua diocesi. Oltre che in Francia, nelle
Fiandre, nel Belgio, anche in Olanda era generalmente sentito
il bisogno d'applicare queste regole, non solo per eliminare il
lassismo e frenare le esagerazioni dei rigoristi, ma anche perché
gli acattolici migliorassero l'opinione che avevano nei riguardi della
Chiesa cattolica: insomma, affinché il sacramento della Penitenza
non fosse più infruttuoso pei cattolici ed oggetto di disprezzo
presso i cristiani separati (cfr. P. Savio, Le Avvertenze ai con-
fessori di s. Carlo, « La Scuola Cattolica », Luglio-Agosto 1960,
pp. 261-285).
Proseguendo nella rassegna degli autori che trattarono della
Pastorale della Confessione ricordo il gesuita P. Paolo Segneri
(1624-1694). Nel 1669 pubblicava a Bologna II penitente istruito.
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Tre anni dopo lo faceva seguire da II confessor istruito (Brescia,
1672). L'opera ebbe molte edizioni e traduzioni. S'accorda colle
direttive che, nel secolo seguente, darà s. Alfonso e merita
pertanto simili lodi, approvazioni, e richiede anche i debiti aggior-
namenti e qualche riserva. Alcuni anni dopo, Pier Francesco Gior-
danini (1657-1720), prete della Missione, pubblicava, in 4 volumi,
la sua Istruzione per i novelli confessori che ebbe molte edizioni.
Ricordo quella di Venezia (Remondini, 1757) e quella di Roma
(Società della Minerva, 1841). Il Giordanini godette grande auto-
rità nel secolo XVIII. Da Benedetto XIV fu detto « auctor satis
peritus in administratione sacramenti Poenitentiae apprime ver-
satus » {Syn. Dioeces., 1. II, e. 2); da s. Alfonso è più volte lodato
e citato nella Pratica del confessore.
In Germania il P. Giovanni Reuter S.I. (1680-1762) pubbli-
cava a Colonia, nel 1750, il Neo-confessarius practice instructus
(forse apparso ad usum privatum nel 1749). Tratta del compor-
tamento del confessore nei rapporti coi penitenti in genere; dei
peccati e difetti più frequenti; dei penitenti considerati secondo
le differenti età, il sesso, gli stati e condizioni. Il libro ebbe un
grande successo come testimoniano le numerose edizioni fatte,
vivente l'Autore e dopo la sua morte. Fu ritoccato ed aggior-
nato secondo le necessità dei tempi dai PP. Mùllendorf, Lehmkuhl,
Umberg il quale curò l'edizione (Friburgo Br., Herder, 1919) in
conformità al CJC. Il Neo-confessarius del Reuter ebbe grande
influsso nella pratica pastorale penitenziale della Germania e dei
paesi del Nord. Circa la stessa epoca usciva in Italia la Pratica
del Confessore di s. Alfonso. « Le due opere hanno lo stesso spi-
rito e danno spesso delle direttive del tutto simili. Allorché in
Francia il ministero penitenziale s'impregnava di rigorismo," sulle
sponde del Reno come a Roma si manteneva umano e paterno,
nella linea che aveva da principio presa dopo il Concilio di Tren-
to » (R. Brouillard, DThCath., 2573-74).
S. Alfonso (1696-1787) pubblicava nel 1755 (secondo Brouil-
lard, l.c, nel 1748) la Pratica del confessore. La traduzione la-
tina è del 1757 (secondo Brouillard, del 1760). Nello stesso tempo
scrisse pure la Istruzione e pratica per un confessore che è un
riassunto in 3 volumi della Theologia moralis (alla quale l'autore
rimanda quasi ad ogni pagina). Abbiamo un'edizione napoletana
del 1757. Fu poi tradotta in latino col titolo Homo apostolicus
ed edita a Venezia dal Remondini nel 1759. Ma in specie alla
Pratica del confessore s. Alfonso annetteva evidentemente molta
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importanza. Volle fosse aggiunta — prima nell'originale stesura
italiana e poi nella versione latina — a tutte le edizioni della
Theologia moralis dal 1755 in poi. Difatti l'operetta richiama
ai sacerdoti che già hanno studiato la teologia morale, non solo
i principi di questa scienza (ordinandoli all'azione pastorale del
confessore) ma anche i principi d'ascetica e mistica perché il
confessore si preoccupi non solo di dare un'assoluzione ma anche
di « consolare, iUuminare ed elevare mediante l'uso dei mezzi di
santificazione che, secondo le disposizioni naturali ed i doni
che Iddio largisce ad ognuno, devon trasformare l'uomo vecchio
in immagine vivente di Cristo » (G. Pistoni, Pref. all'ediz. 1948,
Modena). Nel Congresso teresiano di Madrid tenuto nei giorni
1-4 maggio 1923, fu appprovata unanimemente la seguente dichia-
razione: « Nessun confessore né direttore deve ignorare il trat-
tato Praxis confessarti di sant'Alfonso Maria de' Liguori, dov'è
compendiata tutta la dottrina mistica ed ascetica di s. Teresa di
Gesù, di s. Francesco di Sales e del medesimo s. Alfonso » (R.
Bayon, Como escribió Alfonso de Logorio, Madrid, 1940, El Per-
petuo Socorro, pp. 344-345).
Una edizione critica della Pratica è uscita nel 1948, dalla Tipo-
grafia Pont, ed Arciv. di Modena, a cura del Can. G. Pistoni.
Per valutare tutta l'importanza ed il merito di s. Alfonso,
nel campo della teologia morale e pastorale, bisognerebbe rico-
struire la difficile situazione storica nella quale egli venne a tro-
varsi. Da una parte c'erano tendenze al quietismo. Questa dot-
trina, sviluppata specialmente dallo spagnolo Molinos (1640-1696)
si era diffusa — per mezzo di gruppi e chiesuole — in vari
centri d'Italia. Sotto l'illusione' di un perfetto abbandono ed
inabissamento in Dio, si riduceva, in fondo, ad un naturalismo
pratico perché era bandito ogni sforzo d'ascesi cristiana. L'apppli-
cazione di siffatte teorie poteva avere le più funeste conseguenze
e portare alla rilassatezza dei costumi morali; e tali conseguenze
non tardarono a manifestarsi. Dall'altra parte c'era il rigori-
smo che gettava le anime nella sfiducia, rendeva molti confes-
sori difficili nel dare l'assoluzione, provocava una rarefazione
nell'uso dell'Eucaristia, misconosceva la finalità medicinale e sal-
vatrice della Comunione, il suo carattere di dono misericordioso
(anziché di premio per le nostre opere buone). Bisognava trovare
l'aurea via della prudenza cristiana. Ed in questo equilibrio si
dimostrò la saggezza di s. Alfonso.
Si può dire che tutti gli autori che in seguito scrissero sul mi-
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nistero pastorale del confessore si sono ispirati alla Pratica di
s. Alfonso (facendo i debiti adattamenti, ampliamenti, revisioni
ed anche qualche riserva). .
Pili vicino al nostro secolo, il germanico P. Giuseppe Schnei-
der S.I. (1824-1884) pubblicava nel 1862 a Colonia il Manuale
sacerdotum che ebbe molte edizioni. La sedicesima è del 1905, a
cura del P. A. Lelimkuhl S.I.
In Italia il sacerdote Giuseppe Frassinetti (1804-1868), verso
la fine della sua vita scrisse il Manuale pratico del parroco no-
vello, molto prezioso perché frutto d'una trentennale esperienza
di parroco. Trattando della Confessione si sofferma a conside-
rare la prudente condotta del confessore con alcune categorie di
penitenti (uomini, donne, fanciulli, persone pie, anime che hanno
da Dio grazie straordinarie). Di quest'opera furono fatte molte
edizioni. La undecima, del 1928 (Soc. s. Paolo) è conformata al
CJC a cura del P. F. Cappello S.J. e porta un'appendice del
prof. G. Stocchiero. Il Frassinetti scrisse pure — appositamente
pei confessori, specialmente novelli — il Compendio della Teo-
logia Morale di s. Alfonso che non è solo un compendio ma porta
l'aggiunta di molte « Note » e di alcune « Dissertazioni » — ri-
guardanti la pratica e le questioni del giorno — che hanno lo
scopo di render l'opera maggiormente utile, in particolare ai con-
fessori novelli. Ad esempio mostra come si possono abbreviare
certe Confessioni troppo lunghe e prolisse (che a quel tempo si
facevano), suggerisce il modo come comportarsi (senza inutili in-
dagini) in materia « contra sextum », le industrie per facilitare la
Confessione di coloro che non hanno formazione ed istruzione e
dei fanciulli (che costituiscono la massima parte dei penitenti).
Un'opera quindi (egli scriveva) che « riguarda specialmente la pra-
tica, che importa molto più della teorica » (Prefazione). Il libro
usci a Genova nel 1865-66. La quarta ristampa era stata quasi
completamente preparata dall'autore stesso prima della sua morte.
L'undicesima edizione apparve nel 1944 (Torino, S.E.I.) a cura
del P. F. Cappello S.I. e di D. A. Gennaro S.D.B., con adatta-
mento al CJC.
È stato scritto che se s. Alfonso aveva abbattuto il subdolo
giansenismo, questo mostro, benché atterrato, non era del tutto
spento; chi gli ha dato il colpo di grazia è stato principalmente
il santo e dotto parroco genovese. Ma con lui vanno ricordati altri
insigni sacerdoti che schiantarono il giansenismo. A Genova il
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Gianelli (1789-1846), il Cattaneo (per quasi 18 anni rettore del
seminario arcivescovile), lo Sturla (1805-1865); in Francia il Gous*
set (1792-1866); in Piemonte il Diesbach (1732-1798), il Lanteil
(1759-1830), il Guala (1775-1848), il Cafasso (1811-1860), il
Bertagna (1828-1905). Certamente il Frassinetti lo sentiamo molto
vicino ai nostri tempi e molto sensibile alle esigenze psicologiche
dell'uomo d'oggi: egli mostra d'aver compreso che coi penitenti
non si possono più usare certi sistemi che potevano esser efficaci
quando i fedeli avevano più fede, umiltà e pazienza l.
Sempre nella seconda metà del secolo scorso Emilio Berardi
(1831-1916) pubblicò, nel 1879, a Faenza, la sua Praxis confes-
sariorum, divisa in due parti: nella prima tratta della scienza,
nella seconda della bontà del confessore.
Agli inizi del nostro secolo un autore germanico molto equili-
brato, G. Adloff, ha scritto una pregevole opera: Beichtvater uni
Seelenfuhrer, Strasbourg, 1910 (trad. it. Il Confessore Direttore,
Torino, L.I.C.E. 1930). Sull'esempio della Pratica del Confessore
di s. Alfonso ha cercato di mostrare l'intima connessione fra
l'ufficio di confessore e quello di direttore spirituale. Sulla dire-
zione spirituale ci sono molte opere le quali, però, fanno più o
meno astrazione dalla Confessione. A loro volta, quelle che trat-
tano della condotta del confessore con le differenti categorie di
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A titolo d'esemplificazione riporto (perché si confrontino e si rilevi
la differenza) due passi, uno di s. Alfonso e l'altro del Frassinetti, che ri-
guardano il modo di trattare con gli scrupolosi. S. Alfonso (Pratica, n. 83):
Con « coloro che fanno scrupolo circa le confessioni passate... sia forte il
confessore in farsi ubbidire, e se il penitente non ubbidisce, lo sgridi, gli
tolga la comunione e lo mortifichi quanto può. Gli scrupolosi debbono
trattarsi con dolcezza, ma quando mancano nell'ubbidienza debbon trattarsi
con gran rigore, poiché se perdono quest'ancora dell'ubbidienza, essi son
perduti, perché o diventano pazzi o si danno ad una vita rilasciata ». Il
Frassinetti (Compendio, 1944, I, Dissertaz. II): Il confessore «e avverta a
non mostrarsi irritato con loro, neanche qualora si mostrino disubbidienti...
Egli deve esigere ubbidienza ai suoi ordini, ubbidienza cieca, pronta e
costante. Tuttavia bisogna pur riconoscere che la forza degli scrupoli è ter-
ribile, e che alle volte, anche volendo, non possono, moralmente parlando,
ubbidire; hanno momenti nei quali il giudizio stesso della ragione è così
perturbato da non lasciarli padroni di sé; ed allora è chiaro che se non
ubbidiscono non sono perciò in colpa. Che se il Confessore credesse cosa
opportuna alcuna volta sgridarli... per... ottenere che facciano uno sforzo
maggiore per vincere i loro vani timori, dovrà attendere a non usare
maniere troppo aspre e risentite; e... dovrà sempre conchiudere... con parole
caritatevoli e dolci che ispirano confidenza; altrimenti non farà che accre-
scere afflizioni agli afflitti senza alcun loro vantaggio».
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penitenti si attengono soprattutto all'applicazione dei principi
morali (sul lecito e l'illecito, sul modo di convertire i peccatori)
ma poco considerano la direzione spirituale propriamente detta
ossia l'arte di condurre i penitenti dal bene al meglio cioè verso
le vette della perfezione, mentre, invece, ogni buon confessore,
pio e dotto, è quasi spontaneamente anche direttore spirituale
(come ho cercato di dimostrare nella terza parte del libro).
L'Adloff tratta della direzione in generale e della direzione di
alcune anime in particolare (peccatori, tiepidi, anime pie, scru-
polosi, religiosi e religiose).
Su casi particolarmente delicati che possono capitare al con-
fessore chiamato al letto d'un moribondo (concubinario, eretico,
demente, sordomuto, sconosciuto che ha perduto i sensi, ed altri)
scrisse il Sac. Antonio Rossiello, Una parola ai Confessori, 2* ed.
1938, Napoli.
Di Mons. G. M. Camele è l'operetta: G. M. C, Trattatela per
Confessori, 3a ed. Torino, L.I.C.E. 1932, nella quale passa in ras-
segna varie categorie di penitenti (timidi e reticenti, scrupolosi,
indisposti, recidivi) dando consigli molto saggi e molto pratici.
Il redentorista F. Ter Haar trattò De occasionariis et recidivis,
secondo la dottrina di S. Alfonso e d'altri stimati autori, Torino,
Marietti, 1927. Dello stesso autore bisogna apprezzare due volumi
di Casus conscientiae sulle precipue occasioni di peccato oggi esi-
stenti, 2 a ed. Torino, Marietti, 1939.
Del domenicano P. B. H. Merkelbach sono da segnalare le
Quaestiones de variis Poenitentium categoriis, Liège, 1933. Lo
stesso autore tratta di altre categorie di penitenti in: Quaestiones
de variis peccatis, Liège, 1935.
Benemerita la pubblicazione di Mons. A. Grazioli, La pratica
dei Confessori nello spirito del Cafasso, 2* ed. Colle don Bosco.
L.D.C. 1944.
L.-J. Lebret e Th. Suavet, con la collaborazione di molti amici
sono riusciti a riunire nel libro: Rajeunir Vexamen de conscience
(trad. it.: Ringiovanire l'esame di coscienza, Roma, Studium,
1954) un gran numero di esami di coscienza distinti secondo la
vita personale, familiare, professionale, sociale e religiosa dei pe-
nitenti; ed anche secondo la vita dei popoli. Sono partiti dal prin-
cipio t:he l'esame di coscienza viene proposto con tanta maggiore
efficacia ed utilità quanto pili si scende alle categorie specializzate.
Si tratta però di schemi che hanno bisogno di essere elaborati.
Manca poi una premessa sulla Confessione, il confessore ed il pe-
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nitente in generale. Ciò si trova invece nel manuale di A. Chanson,
Pour mieux con]esser, Arras, 1952 (trad. it.: Per meglio confes-
sare, Ed. Paoline, 1956) il quale pure considera molte categorie
di penitenti (soffermandosi — sia detto fra parentesi — molto
ed anche troppo, su certi particolari della vita intima degli sposi
nell'uso del matrimonio, particolari che praticamente non si trat-
tano in Confessione).
Molto importanti per i confessori i commenti delle Norme
(riservate) date dal S. Officio, il 16.V.1943, De agendi ratione
confessariorum circa VI Decalogi praeceptum. Ricordo quello del
Pistoni, 4a ediz. Padova, Gregoriana, 1959 e quello del Luzi, La
condotta dei Confessori riguardo al 6° comandamento. Torino,
L.I.C.E. 2a ed. 1953.
Non continuo la rassegna bibliografica degli autori odierni
che hanno trattato di qualche singola categoria di penitenti. Sono
cosi numerosi — specialmente quelli che hanno scritto sulla Con-
fessione dei fanciulli e dei giovani — da scoraggiare, chi tentasse
di elencarli. Qualcuno (non molti) è stato da me citato nel corso
della trattazione. Ricordo qui solo un autore: Kl. Tillmann, Die
Fùhrung zu Busse, Beichte und Christlichem Leben, Echter - Ver-
lag. Wiirzburg, 1961 (trad. it.: Catechesi della Confessione, Bre-
scia, La Scuola, 1963), perché rileva (con altri autori moderni) i di-
fetti della vecchia catechesi di preparazione dei fanciulli alla prima
Confessione (qualche volta, a quanto pare, esagerando e gene-
ralizzando, forse facendosi eco delle critiche protestanti).
Ho voluto citare, nel testo, anche alcuni autori d'un passato
molto lontano, purtroppo da noi dimenticati od ignorati, men-
tre sono tutt'altro che superati, almeno circa molti problemi. Ma,
anche sulla loro bibliografia, sia ben chiaro, ho inteso fornire
in questa Prefazione solo qualche traccia orientativa.
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Con]., p. 28). « Su questo punto »: ma — oltre il VI — ci sono
tante spinose questioni sulle quali il confessore novello — dopo
aver studiato — avrebbe bisogno d'un qualche orientamento pra-
tico, frutto dell'esperienza. Orientamento che spesso non sa a
chi chiedere.
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INTRODUZIONE
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giudizio globale più equilibrato. E cosi gli autori moderni trat-
tano con insistenza e preferenza della formazione del carattere e
della personalità. Ma la perfezione, per sé, consiste negli atti. Anche
se ci sono qualità buone, il merito sta nell'esercitarle liberamente. È
vero che la ripetizione degli atti buoni produce l'abitudine, cioè
la facilità. Ma, per sé, ciò che in pratica più preme in ordine alla
perfezione sono gli atti (siano essi compiuti con facilità naturale
o no). Quando poi si tratta di atti contrari alla norma della mo-
ralità, è ovvio come sia pericoloso il cercare una certa giustifi-
cazione nella disposizione fondamentale ed abituale buona e ritar-
darne pertanto l'accusa in Confessione.
3. Altra causa del regresso della Confessione individuale: si
sollevano dubbi sul carattere peccaminoso di certe azioni, e sulla
gravità di certi disordini. Per logica conseguenza s'insinua il dub-
bio che non sia strettamente necessario accusarsene in Confessio-
ne: il peccato non mortale può esser rimesso con altri mezzi, spe-
cialmente con l'Eucaristia. Sappiamo bene come non è questa una
ragione valida per trascurare il Sacramento: qualunque sia il grado
di colpa soggettiva, chi accusa il suo peccato e chiede l'assoluzione
riceve sempre un accrescimento di grazia.
A proposito di certe leggi ecclesiastiche (Messa festiva, di-
giuno, astinenza...) si parla di una certa elasticità che sarebbe
stata introdotta, cosicché il peccato di chi le trasgredisce diven-
terebbe meno percepibile (cfr. Orientamenti per un rinnova-
mento della pratica penitenziale, Torino, L.D.C., 1974, p. 16). Se
il peccato risulta meno percepibile, si sentirà meno il bisogno di
ricorfere alla Confessione perché sia cancellato.
4. In questi ultimi anni si è sottolineato il ruolo della coscienza
personale come norma immediata dell'azione morale. Principio
pacificamente da tutti ammesso. Ma è evidente che a sentirlo pro-
clamare con insistenza, taluni possono esser indotti a rasserenare
la propria coscienza cercando qualche ragione giustificante la tra-
sgressione di certe leggi (anziché ricorrere alla Confessione, più
facile e più sicuro rimedio contro ogni rimorso ed ogni eventuale
colpa: « mi accuso di tale azione secondo la responsabilità che Dio
vede... »). È da dire che anzitutto si supporrebbe una introspezione
seria, calma, spassionata. Inoltre, in molte materie e in molti
casi, non sarà, comunque, facile giungere ad un giudizio deciso
della coscienza, neppur da parte di chi conosce bene la legge mo-
rale e sa esaminare accuratamente la propria condotta. Trascurare
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la Confessione significherebbe non approfittare di un dono offerto
da Dio per la sicurezza e la pace dello spirito.
5. È stato osservato come il cristiano moderno non percepisce
più se stesso come un individuo isolato: si sente coinvolto in un
intreccio di relazioni. Perciò il male morale è sentito fortemente
nella sua dimensione orizzontale. E ciò è giusto e porta dei van-
taggi. Ma c'è anche un pericolo ed un inconveniente: che la rela-
zione verticale rischi di passare in secondo ordine. Un'azione che
non reca danno a nessuno —'- si dirà — perché è peccato? E se
viene percepita meno l'offesa fatta a Dio, si sentirà meno il biso-
gno della Confessione. Ma questo dipende da mancanza di fede:
un orizzontalismo che dimenticasse Dio porterebbe ad annullare
la coscienza cristiana — cioè quella vera — del peccato.
6. Quanto al ruolo della Chiesa e del ministro del sacra-
mento nella conversione del penitente, sembra a taluni che pri-
ma del Vaticano II si fosse sottolineata in maniera forse troppo
esclusiva la dimensione ministeriale e si fosse ridotta la Chiesa
alla sua gerarchia ed al suo potere. Ora si preferisce affermare
che tutta la Chiesa — pastori e fedeli — è il sacramento visibile
della salvezza e si mette in risalto il sacerdozio comune (la dia-
conia) di tutti i fedeli. Le. conseguenze di questa prospettiva pos-
sono esser però ambivalenti nella pratica, ed apportare tanto
bene come male. Occorre un'equilibrata interpretazione. Altri-
menti la funzione del ministro potrebbe esser meno apprezzata e
valutata. L'attuale indagine teologica cerca di definire la natura
ed il ruolo della presenza attiva della comunità nel momento in
cui il peccatore contrito riceve la grazia sacramentale nella Con-
fessione. Sembra che qualche teologo non sia contrario ad am-
mettere che come noi ci perdoniamo vicendevolmente i nostri
debiti, così Dio perdona i nostri peccati. Si verrebbe così a met-
ter in dubbio la specificità del sacramento della Penitenza, non-
ché la differenza essenziale tra sacerdozio dei fedeli e sacerdozio
ministeriale (cfr. Orientamenti..., pp. 16-17; 21-23; 71-73).
7. Da parte di moralisti non cristiani ed anche cristiani e
cattolici si è maggiormente rilevata — più o meno equilibrata-
mente — la causalità che nell'azione morale esercita l'inconscio,
l'influsso della società e dell'ambiente, dell'elemento fisico e di
tutti quei fattori che gli autori classici chiamavano « impedimenti
dell'atto umano ». Procedendo su questa strada si arriva ad una
diagnosi più sfumata del male e della sua gravità; fino, forse, a
21
chiedersi: quando agiamo davvero « con piena avvertenza e deli-
berato consenso »? (cfr. Orientamenti..., p. 18). E cosi si sentirà
meno vivo il bisogno di confessare frequentemente il peccato le
cui categorie « grave » e « veniale » diventano in concreto diffi-
cilmente definibili. Si sarà tentati di chiedersi se le colpe gravi
siano tanto frequenti, o, addirittura se esistano, se siano pos-
sibili.
I moralisti scolastici s'ingegnarono a distinguere con esattezza
le diverse specie e categorie di peccato. Questo sforzo di cataloga-
zione aveva i suoi vantaggi: serviva ad affinare la coscienza, a far
sentire la serietà del peccato, a stimolare il progresso morale. Ci po-
teva essere il pericolo di perder di vista l'aspetto soggettivo del pec-
cato, il « cuore cattivo » dal quale provengono, come dice Gesù,
tutti i peccati (Me. 7, 14-23). D'altra parte, se oggi si tende a supe-
rare la considerazione degli atti isolati per ravvivare piuttosto la co-
scienza di essere peccatori, si rischia di non impegnarsi con se-
rietà nello sforzo di conversione: ci si riconoscerà peccatori sem-
plicemente in modo globale senza chiedersi né come né quando
(cfr. Orientamenti..., p. 29). Ci si accontenterà di accusarsi in
modo generico: « per celebrare degnamente ,i santi misteri rico-
nosciamo i nostri peccati... Confesso... che ho molto peccato in
pensieri parole opere ed'omissioni... Signore, pietà... ». La Con-
fessione individuale può venir cosi trascurata.
8. Si obbietta che l'uomo moderno prova ripugnanza a rac-
contare le sue miserie ad un suo simile. Preferisce regolare diret-
tamente i suoi rapporti con Dio. Si potrebbe con altrettanta ra-
gione psicologica ed antropologica rispondere che la colpa com-
porta il bisogno di parlare (in chi riconosce pentito la sua colpa):
parlare anche ad un altro uomo. Tanto più che il peccato ferisce
anche gli altri, minaccia la comunione ecclesiale voluta da Dio.
Perciò chi è veramente pentito sarà spinto irresistibilmente anche
a parlare per sentire dalla bocca d'un fratello la parola del per-
dono, della riabilitazione e della riconciliazione. Si può dire che
« l'ordinamento divino della riconciliazione secondo la struttura
dell'alleanza s'incontra con questo "desiderio della natura" »
{Orientamenti..., p. 53). Comunque ogni eventuale sentimento di
ribellione verrebbe superato se la fede fosse viva.
9. In questi ultimi tempi si è ricordato che la riconciliazione,
la conversione, la purificazione — almeno quando si tratta di colpe
non mortali — può ottenersi per altre vie oltre che mediante
22
la Confessione sacramentale. « L'insistenza esagerata e quasi esclu-
siva sulla Confessione — è stato detto — aveva messo in om-
bra valori preziosi che è arrivato il tempo di rivalutare » (Orien-
tamenti..., p. 56): elemosina, digiuno, preghiera, rito penitenziale
all'inizio della Messa, visita e cura dei malati, dei carcerati... Non
c'è dubbio: queste opere dimostrano la vera conversione e varreb-
bero più di una pratica sacramentale priva di ogni volontà di
riformare la vita. D'altra parte non possono sostituire il sacra-
mento che produce (in chi ha un minimo di disposizione suffi-
ciente) la grazia « ex opere operato ». Chi la pensa diversamente
sarà portato naturalmente a trascurare la Confessione.
10. La Confessione è ovviamente poco frequentata da chi ha
meno vivo il senso della colpa. Ma c'è anche qualche maestro
di morale che sconsiglia la Confessione frequente per timore che
il senso della colpa diventi eccessivo. Evidentemente si può dare
qualche caso nel quale una singolare frequenza alla Confessione
sia determinata da un senso ossessivo del peccato. Ma, entro i
limiti della normalità, una serena frequenza al sacramento è un
mezzo pedagogico e psicologico efficacissimo. Non solo per puri-
ficarsi dai peccati reali, ma anche per ritrovare la pace e l'equi-
librio. Lo stesso Freud scrisse che la Confessione penitenziale
cattolica è la più grande nemica della nevrosi. Del resto, si può
chiedersi se oggi convenga, in linea di massima, siffatta precau-
zione (di non inoculare un esagerato senso di colpa) quando le
cronache quotidiane testimoniano che la coscienza del peccato
e della responsabilità personale è di fatto carente in modo spa-
ventoso.
23
Parte prima
EFFICACIA DEL SACRAMENTO
COOPERAZIONE DEL PENITENTE E DEL CONFESSORE
1. Il nuovo rito. Significati teologici e suggerimenti
pastorali-ascetici
27
che sia sufficiente e che strettamente ed automaticamente ci meriti
il perdono di tutti i nostri peccati, questo è troppo; tanto più che
qualcuno può aver gravi debiti direttamente verso Dio e non
debiti gravi da condonare al prossimo. Il fatto, poi, che dove ci
sono alcuni riuniti in preghiera in nome di Cristo, Egli è presente
in mezzo a loro, non ci autorizza a concludere che ogni preghiera
in comune ci merita in modo diretto il perdono dei peccati, ma
bensì ci può ottenere la grazia per giungere alla conversione piena
(cfr. Orientamenti per un rinnovamento della pratica penitenziale,
Rifless. dottr. e past. a cura della Comm. Dottrin. della Conf.
Episc. e della Comm. Past. Lit. del Belgio, LDC, 1974, pp. 71-73).
Comunque, quand'anche con un atto di carità verso il pros-
simo — espresso nel perdono — o di carità verso Dio — im-
plicito ed operante nell'orazione — fosse ridata la grazia a chi era
in stato di peccato, resterebbe (per volontà di Dio e non della
Chiesa) il dovere di confessare distintamente i peccati, se possi-
bile. Ma, siccome si tace da taluni su questo dovere, perciò si
spiega come presso i fedeli può diminuire la stima verso la Con-
fessione privata individuale e certi possono concludere che non è
necessaria.
Il nuovo « Ordo Paenitentiae » del 2.XII.1973 (E. Vat. 1974;
AAS, 66, 1974, 172-173) ha cercato di venir incontro alle istanze
dei teologi. Anche nel rito per i singoli penitenti è proposta — allo
scopo d'una miglior preparazione penitenziale — una, sia pur
breve, lettura della S. Scrittura (da farsi prima o durante la cele-
brazione del sacramento). Per le celebrazioni comunitarie, poi,
1'« Ordo » offre molteplici riferimenti biblici. Di significati teo-
logici sono pregne le formule sacramentali. E si nota l'intento
che il sacramento si celebri in un'atmosfera di serenità e porti alla
gioia della riconciliazione o d'una intensificata amicizia con Dio \
1. Anzitutto nell'« Ordo » c'è una raccomandazione sul modo
come il confessore accoglierà il penitente: « con carità fraterna, e,
se vede opportuno, lo saluterà con parole di particolare cortesia »
1
Nell'Istruz. Euch. Myst. {AAS, 59, 1967, 561) si consiglia ai fedeli
di confessarsi non durante la celebrazione della Messa: cosi potranno rice-
vere il sacramento con più tranquillità ed utilità e non esser impediti dalla
partecipazione attiva alla Messa. Ottimo consiglio. Il quale però suppone
ci siano sacerdoti disponibili per le Confessioni anche extra la celebrazione
della Messa (specie il sabato e la vigilia delle feste, nelle ore pomeridiane
e serali).
28
(n. 16). Questa accoglienza difatti ha una efficacia psicologica
forse determinante ai fini d'una aperta, serena, risanatrice Con-
fessione.
Il penitente inizia la sua confessione facendo il segno di croce.
Il confessore recita una formula colla quale invoca sul penitente
la luce dello Spirito Santo.
Poi P« Ordo » accenna alla possibile lettura (od alla recita
a memoria) di qualche Parola di Dio per motivare ed aiutare gli
atti del penitente.
Se non lo conosce, il confessore può chiedergli da quanto tem-
po non si confessa e quali peccati gli sembra di ricordare. Cosi
inizia il colloquio ed invita il penitente all'accusa: sarà pronto ad
"' offrirgli la sua mano per aiutarlo, secondo le circostanze e la con-
venienza, evitando sia il disinteressamento, sia le indiscrezioni.
2. Dopo l'accusa e l'accettazione della soddisfazione proposta
dal confessore, è utile che il penitente reciti una qualche formula
per rinnovare il dolore dei peccati, il proposito di evitarli, e per
implorare il perdono di Dio (Ordo Paenit., n. 19). Cosi si di-
sporrà meglio a ricevere l'assoluzione e parteciperà più attivamente
alla celebrazione del sacramento 2 . Per sé non è necessario che pen-
, timento e proposito siano espressi esteriormente. Se sono stati
:; concepiti interiormente, sono impliciti, nell'atteggiamento di chi
% domanda con retta intenzione ed umiltà l'assoluzione dei peccati
%, che accusa. Si faceva la questione: quanto tempo possa passare
• senza che sia necessario rinnovare dolore e proposito. È da rispon-
dere che basta siano virtualmente perseveranti ed operanti, cioè
influiscano nella vita del penitente. E si dovrebbe presumere che
egli si sia preparato alla Confessione. Però di fatto, specie i fan-
ciulli, spesso non si preparano. E può anche darsi il caso d'un
V penitente che non era ben disposto prima della Confessione ma
vien condotto ed arriva a disporsi debitamente nel corso della
Confessione, prima dell'assoluzione. Comunque, la psicologia inse-
" gna che non è lo stesso l'atto di dolore recitato (forse distratta-
'T mente e freddamente) prima dell'accusa e quello che scaturisce da
•,: un cuore (umiliato ma fiducioso) dopo le toccanti parole d'un con-
i fessore vibrante d'amore. In questo momento solenne ed intimo
2
Pertanto la recita dell'atto di dolore « non deve mai sovrapporsi alle
formule della preghiera sacerdotale » (Dirett. Ut. Post, [ital.], 1967,
pp. 66-67).
29
I
s'incrociano il gemito della creatura e la parola consolante e tra-
sformante del perdono divino.
Una qualche parola d'esortazione è desiderabile che il confes-
sore la rivolga a tutti, prima di dare l'assoluzione (Ordo Paenit.,
n. 18).
Ed è buona consuetudine che inviti il penitente ad abbracciare
nel suo atto di dolore anche i peccati che non ricorda e quelli
della vita passata.
3. Il nuovo « Ordo Paenitentiae », n. 19, ripropone poi un
gesto che per molti era caduto in disuso: il sacerdote stende le
mani (od almeno quella destra) sul capo del penitente mentre pro-
nuncia la formula sacramentale, per poi tracciare il segno di croce
mentre dice le parole dell'assoluzione. Questa imposizione delle
mani esprime l'atteggiamento paterno di Dio che accoglie il fi-
gliuol prodigo; significa la grazia dello Spirito Santo che vien in-
fusa per ricostruire (od accrescere) la vita battesimale; indica la
riconciliazione (o l'intensificata unione) del peccatore con la
Chiesa.
4. Le parole essenziali dell'assoluzione non sono state mutate:
« Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre e del Figlio
e dello Spirito Santo ». Il penitente risponde: « Amen ». Nuova
la formula nella quale sono inserite: « Dio, Padre di misericordia,
che ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del
suo Figlio, e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei pec-
cati, ti conceda, mediante il ministero della Chiesa, il perdono
e la pace »: la grazia di questo sacramento è riportata alla morte
e redenzione di Cristo; la conversione e santificazione nostra è
attribuita allo Spirito Santo; si rileva che il ministero di questo
sacramento si opera nella Chiesa e per la Chiesa; si dà al penitente
il lieto annuncio che il frutto del sacramento dev'esser la pace.
« Cosi il sacramento si illumina della vita stessa della Trinità
santissima, intesa sia come punto di partenza — il Padre che per
primo ci ha amati, Cristo che per noi ha dato se stesso, lo Spi-
rito Santo su di noi effuso in abbondanza — sia come punto di
arrivo: il Padre che accoglie il figlio pentito nel suo ritorno a Lui,
Cristo che si pone sulle spalle la pecora smarrita per riportarla al-
l'ovile, lo Spirito Santo che santifica di nuovo U suo tempio, o
rende in esso più viva e intensa la propria dimora » (Lettera a
firma del Card. Villot, fatta pervenire da Paolo VI alla XXVI Sett.
Lit. Naz., OR, 27.VIII.1975, p. 1).
30
« Mediante il ministero della Chiesa » si opera la riconcilia-
zione con Dio. Ed anche la riconciliazione con la Chiesa: « la Con-
fessione è stata istituita propriamente — dice s. Bonaventura —
perché l'uomo si riconcili con la Chiesa e cosi rende visibile la
sua riconciliazione con Dio » (Pentì, e Unz. degli Inf., C.E.I.
12.VII.1974, n. 66).
La Penitenza — come conversione autentica — è, quindi, in
definitiva, un'azione soprannaturale di Dio che ci dona la sua
grazia e per primo ci vien incontro perché ci lasciamo riconciliare
con Lui. Il che non deve significare pel penitente l'esclusione di
quel ripiegamento introspettivo che può esser necessario per cono-
scere le colpe, pentirsi, proporre, e cosi disporsi a ricevere la gra-
zia. La quale domanda all'uomo la collaborazione, come in tutto il
lavoro di santificazione. Ma è essenzialmente diversa la prassi
penitenziale sacramentale da quella in uso presso i Protestanti
che non riconoscono il valore dell'« opus operatum » ma solo
quello degli atti soggettivi.
5. L'« Ordo Paenit. », n. 21, avverte che « quando la neces-
sità pastorale lo suggerisce, il sacerdote può omettere od abbre-
viare alcune parti del rito, ma non sacrificare l'integrità per quanto
riguarda la confessione dei peccati, l'accettazione della soddisfa-
zione, l'invito alla contrizione (n. 44), la formula dell'assoluzione
e quella del congedo ». Se però fosse imminente il pericolo di
morte basta che il sacerdote pronunci le parole essenziali della for-
mula assolutoria: « Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ».
6. Riguardo al luogo della celebrazione del sacramento, è
detto semplicemente che « si amministra in luogo e sede stabiliti
dal diritto » (n. 12). Né diversa disposizione e concessione è da
vedersi là dove (n. 55) si parla di penitenti che, dopo esame di
coscienza e preparazione fatti in comune, « s'appressano ai sacer-
doti che si trovano nei luoghi convenienti (in locis aptis) » per
fare la confessione privata. Paolo VI — facendo, in occasione del-
l'udienza generale del 3 Aprile 1974 (OR, 4.IV.74, p. 1), alcuni
rilievi sul nuovo ordinamento liturgico della Penitenza — lamen-
tava « certe notizie inesatte che sono state divulgate » (e, per-
tanto, da « precisare e rettificare ») « come quella dell'abolizione
dei confessionali: il confessionale — dichiarava — in quanto dia-
framma protettivo fra il ministro e il penitente, per garantire l'as-
soluto riserbo della conversazione loro imposta e loro riservata,
31
è chiaro, deve rimanere ». E ricordava l'esempio del lazzarista
Guillaume Pouget che a Parigi — rue de Sèvres, 85 — riceveva
molte persone d'ogni genere, anche rinomate ed altolocate. I col-
loqui spesso terminavano colla confessione sacramentale. Perché
tanta fiducia e confidenza in quest'uomo? Oltre alle doti di con-
sigliere e confessore, egli aveva anche il difetto fisico d'esser cieco
(cfr. J. Guitton, Portrait de M. Pouget, Gallimard, 1941; Dia-
lo gues avec M. Pouget, Grasset, 1954). E nella lettera alla XXVI
Settimana Lit. Naz. (firmata dal Card. Villot) Paolo VI ripeteva
che il confessionale « deve rimanere », « anche se il nuovo rito
ne prevede un'eventuale ristrutturazione, approvata dalla legit.
tima Autorità », perché « mantiene tutta la sua importante fun-
zione » (OR, 26.VIH.1975, p. 1).
Dunque nessun cambiamento, rispetto alle norme ed alia pras-
si in uso, finora è autorizzato. Anche se è pacificamente augu-
rabile che si costruiscano confessionali sempre più razionali, acco-
glienti, comodi, che permettano un colloquio segreto e, nel tempo
stesso, meno difficile e meno disagevole3.
7. Dopo il dono della grazia, una brevissima preghiera di rin-
graziamento: « Lodiamo il Signore perché è buono ». « Eterna è
la sua misericordia ». Ed infine il saluto di pace ed il congedo: « Il
Signore ha perdonato i tuoi peccati. Va' in pace ». Ma nella edi-
zione in lingua italiana dell'* Ordo Paenitentiae », a cura della
C.E.I., si legge che in luogo del ringraziamento e del con-
gedo il confessore può ancora recitare la preghiera: « La Pas-
sione di Gesù Cristo nostro Signore, l'intercessione della Beata
Vergine Maria e di tutti i santi, il bene che farai e il male che
dovrai sopportare ti giovino per il perdono dei peccati, l'aumento
della grazia e il premio della vita eterna. Va' in pace ». Una pre-
ghiera che meriterebbe un meditato commento. Ricorda al peni-
tente che egli ha associato quest'atto penitenziale e sacramentale
al mistero pasquale. Oltre ad ottenere un interessato colpo di spu-
3
In una recente Nota della C.E.I. si ripete che il confessionale di tipo
tradizionale dev'essere conservato. Si dà peraltro mandato alle Commissioni
regionali o interregionali per la Liturgia e l'Arte sacra di studiare e pre-
sentare alle Conferenze Episcopali regionali i progetti d'un opportuno adat-
tamento. L'approvazione spetterà ai singoli Ordinari (cfr. Notiziario della
C.E.I., 30.IV.75, p. 72). Quanto all'abito liturgico per la celebrazione del
sacramento, l'Assemblea dei Vescovi italiani ha disposto che nella celebra-
zione comunitaria si usi alba e stola, nella celebrazione individuale in luogo
sacro, alba e stola, oppure talare e stola (ivi).
32
gna sui suoi peccati, il cristiano è invitato a riferire consapevol-
mente questa grazia (questa « seconda tavola di salvezza » dicono
i Padri, questo « battesimo laborioso », dice il Tridentino, sess.
XIV, 2) alle sofferenze del Signore: tutta la vita di chi ha rice-
vuto questo sacramento può acquistare un valore espiatorio e san-
tificante. Partecipazione al mistero del Cristo sofferente, parteci-
pazione alla gloria del Cristo Risorto.
Ma, per quanto queste preghiere siano ricche di significati
dogmatici ed ascetici, e siano, per sé, efficaci, lo saranno tanto
più se il ministro del sacramento è animato da una profonda pietà
personale che si comunichi al penitente. È questa che assicura
alle paròle — alla stessa formula essenziale — un tono iricon-
fondibile, una forza trasformante (che rientra nell'« opus operan-
tis »). Tutta la liturgia può restar fredda e non toccare i cuori
se il celebrante s'accontenta di pronunciare meccanicamente o
frettolosamente — e non in spirito di preghiera — le formule del
rito.
33
serva il suo valore, a meno che, per qualche norma, non sia stata
dichiarata l'abrogazione od una deroga. C'è chi auspica che il
rinnovamento del CJC segni, fra l'altro, l'abrogazione del pre-
cetto di confessare i peccati gravi prima della Comunione (come
pure, per chi è incorso in una scomunica, tolga il divieto d'esser
assolto dal peccato prima che dalla pena, ed abolisca la legge eccle-
siastica che obbliga i cattolici a celebrare, extra certi casi straordi-
nari, il matrimonio davanti al ministro autorizzato, pena l'inva-
lidità, e. 1098). Alcuni autori (cfr. Z. Alszeghy, Problemi della
celebrazione penitenziale comunitaria, « Gregorianum », 48, 1967,
583; J. Galot, Euc. e Penit., « La Civ. Cattolica », 19.1.1974, 127)
fanno notare che quando si tratta dell'obbligo di confessarsi pri-
ma di comunicarsi bisognerebbe anzitutto precisare a quali pec-
cati ci si riferisce. È stata avanzata la distinzione fra peccati
« mortali » e peccati « gravi ». Perciò, secondo la specie teologica,
il peccato si distinguerebbe in veniale, grave, mortale. Ed il pec-
cato « mortale » che il Concilio di Trento prescrisse di confessare
prima di ricevere l'Eucaristia, andrebbe inteso secondo una « no-
zione più consistente » che farebbe « meglio comprendere la fon-
datezza della regola seguita dalla Chiesa »: designerebbe « un atto
per il quale l'uomo orienta tutta la sua esistenza nel senso con-
trario all'amore di Dio, o per lo meno in modo inconciliabile con
questo amore » (Galot, a.c. 127). Che dire?
Anzitutto siamo d'accordo che il peccato — perché ci sia
l'obbligo di confessarlo — dev'essere non solo « oggettivamente
grave secondo le abituali categorie morali », ma anche soggettiva-
mente gravej compiuto con piena (anche se non somma) avver-
tenza e deliberazione. Inoltre, chi ha una volontà abitualmente
orientata al bene e cerca d'amare Dio (nonostante i suoi difetti) e
procura di coltivare l'unione con Lui, questi ha l'opzione di fondo
buona. E non è praticamente e psicologicamente verosimile che di
punto in bianco si determini a commettere un peccato obbiettiva-
mente e soggettivamente mortale. Il quale è sempre preceduto da
uno stato di tiepidezza (che è una pacifica consuetudine a com-
mettere il peccato veniale). Però — se è giusto dare importanza
primaria e somma all'opzione di fondo — i singoli atti disordinati
non vanno trascurati, perché — anche se non sono gravi né per
la materia né per la deliberazione — un po' alla volta possono in-
crinare la buona volontà e la scelta di fondo, produrre un certo
indurimento e cosi disporre al peccato mortale. Non dimentichia-
34
mo la nostra condizione e la psicologia della natura umana. Siamo
in uno stato di debolezza morale, cosicché si può cadere nel pec-
cato grave volontariamente (dopo un processo di tiepidezza pre-
paratoria e di colpe più o meno leggere) senza perdere la fede e
la speranza (se non si pecca direttamente contro queste virtù) e
quindi senza rompere ogni collegamento con Dio. Si capisce dun-
que che si dia peccato mortale che rompe l'amicizia con Dio ma
non ogni legame col soprannaturale. Non si capisce come possa
darsi un peccato compiuto con una certa pienezza di deliberazione,
in materia grave, il quale non distrugga né ogni fondamento so-
prannaturale né l'amicizia con Dio. Perché ogni peccato grave è
un'offesa grave di Dio. Ed è tale ogni atto contrario alla Sua
volontà in materia grave, anche se non c'è l'intenzione d'offender
Dio, cioè di disprezzare il Suo amore. Diceva Pio XII ai quare-
simalisti di Roma nel 1944: « Anche in ciò che spetta ai coman-
damenti di Dio si è creduto di aver trovato un ripiego. Nella ma-
teria morale, si è detto, vi è inimicizia con Dio, perdita della
vita soprannaturale, grave colpa in senso proprio, solamente quan-
do l'atto, di cui si deve rispondere, è stato posto non solo con la
chiara consapevolezza che è contro il comandamento di Dio, ma
anche con la espressa intenzione di offendere con esso il Signore,
di rompere l'unione con Lui, di disdire a Lui l'amore. Se questa
intenzione è mancata, se cioè l'uomo da parte sua non ha voluto
troncare l'amicizia con Dio, l'atto singolo — si afferma — non
può nuocergli » (Discorsi e Radiomessaggi, Edit. Vaticana, V,
p. 189). È non solo un'ipotesi di alcuni moralisti, ma una scusa
addotta da certi penitenti i quali si accusano di qualche disordine
(per esempio, di pratiche anticoncezionali) e nel tempo stesso si
difendono asserendo che non intendono offender Dio e non pos-
sono fare altrimenti. Si potrà ammettere un'attenuante nella colpe-
volezza ed, in particolari circostanze, anche una sostanziale buona
fede o mancanza di deliberazione piena. Ma, per sé, si può dare
il peccato mortale anche senza l'esplicita intenzione d'offender
Dio quando, in materia grave, ci si mette consapevolmente in
contrasto colla Sua volontà. Diceva Pio XII che chi ha messo fuori
e sostiene la suddetta teoria la rinnegherebbe se si volesse tirarne
tutte le conseguenze. Praticamente contro il sesto comandamento
non si darebbero mai peccati mortali perché non c'è nessuno che
manchi in questa materia con l'intenzione d'offender Dio: si man-
ca non perché Dio vuole l'onestà ma nonostante Dio voglia l'onestà.
Facciamo il caso d'un uomo che tradisce la moglie con l'adulterio
35
(supponiamo non abituale). Forse dopo ogni atto impuro sente
rimorso. Peccati dunque di debolezza, non di malizia. Ma non è
escluso che il peccato di debolezza sia mortale: « nulli dubium esse
debet quin peccata ex infirmitate perpetrata quandoque sint
mortalia » (S. Tommaso, De malo, q. 3, art. 11; art. 15). La con-
cupiscenza per sé non toglie la deliberazione piena (anche se non
è somma perché la passione è una attenuante).
Inoltre, come osservava lo stesso Pio XII, in molti casi si
commettono azioni gravemente illecite con la sola intenzione di
farne dei mezzi per liberarsi da una situazione difficile, cioè per
un fine, per sé, onesto. Si pensi a tante ragazze-madri che ricor-
rono all'aborto non perché vogliono del male alla creatura od al
Creatore, ma solo per non perder la buona fama o non aver il
peso della figliolanza. Quali colpe occorrono per affermare il
peccato grave ed il dovere di confessarsi prima della Comu-
nione, secondo la mente della Chiesa? In fondo si rischia di ca-
dere nella dottrina protestante: nessun peccato sarebbe ostacolo
alla salvezza purché resti un legame con Dio, cioè la fede e la
fiducia.
Non si vede pertanto ragione per abbandonare la tradiziona-
le dottrina sulla duplice specie teologica del peccato obbiettiva-
mente considerato: peccato veniale e peccato mortale (o grave).
2. Anche l'Eucaristia può ridonare « ex opere operato » lo
stato di grazia: precisamente a chi in stato di peccato la riceve
avendo non solo l'attrizione ma anche la buona fede. Battesimo
e Penitenza però sono sacramenti istituiti colla finalità specifica
di rimettere i peccati: perciò li rimettono sempre purché ci sia
l'attrizione (dolore imperfetto). L'Euraristia per sé e primaria-
mente non è stata istituita per rimettere i peccati ma per la refe-
zione dell'anima. Suppone quindi lo stato di grazia, o almeno,
che il soggetto creda di essere in grazia. La stessa Unzione degli
Infermi (primariamente almeno) è stata istituita non per rimet-
tere i peccati ma per il sollievo spirituale dell'ammalato: confe-
risce lo stato di grazia a chi ha l'attrizione ed insieme la buona
fede. Fermo il dovere (per legge divina) di non ricevere l'Eu-
caristia con la coscienza del peccato grave nell'anima, si disputa
se l'obbligo di riacquistare lo stato di grazia prima della Comu-
nione, implichi per legge divina anche la Confessione dei pec-
cati gravi certi. Per l'Unzione degli Infermi, per sé, strettamente
non consta nessun obbligo di premetter la Confessione dei pec-
cati gravi (la quale pur resta un dovere a parte e — per chi
36
I
può usarlo — è il mezzo più facile e sicuro di riconciliazione).
Per l'Eucaristia la maggioranza dei teologi ammette che il dovere
della Confessione prima della Comunione venga solo da una legge
ecclesiastica. Oggi però c'è una tendenza a considerare l'Eucaristia
come sacramento della riconciliazione e quindi del perdono. Se è
così — qualcuno potrebbe logicamente pensare — è resa inutile la
Confessione, almeno per chi ha occasione di partecipare alla Mensa,
e si può accettare la dottrina protestante che nega la necessità della
Confessione sacramentale. Ma non bisogna confondere (come oggi
taluni fanno) l'Eucaristia come Sacrificio e l'Eucaristia come Sacra-
mento: « L'Eucaristia — leggo — rimette i peccati non solo leg-
geri ma gravi in forza del suo carattere di sacrificio di riconciliazio-
ni? ne » (AA.W., La penitenza..., o.c, p. 44). Con ciò si intende affer-
-f> mare che l'Eucaristia — anche oltre il caso di chi la riceva attrito
. v\ ed in buona fede — perdona il peccato mortale senza che il
/ peccatore ricorra al sacramento della Penitenza? Ma questa teo-
ria — è detto nel documento Past. dell'Episc. Ital. sulla Peni-
tenza, del 12.VII.74 — « non è conciliabile con l'insegnamento
|' della Chiesa »... « L'affermazione del Concilio di Trento che
| l'Eucaristia rimette i peccati gravi (« peccata etiam ingentia ») va
/ vista nella luce di tutto il documento conciliare. Essa significa
\ che il sacrificio della Messa, da cui proviene alla Chiesa ogni
l grazia, ottiene al peccatore il dono della conversione senza cui
^ il perdono non è possibile; al tempo stesso corrobora il penitente
f già riconciliato con Dio nella lotta contro le tentazioni, susci-
I tando in lui il fervore della carità »; ... e così l'Eucaristia « è
I efficacissimo "antidoto che ci libera dalle nostre colpe quotidiane
| e ci preserva dai peccati mortali" (Istruz. Eucharisticum Myste-
I rìum) ». Ma « ciò non significa affatto che quelli che hanno
f commesso un peccato veramente mortale, possano accostarsi alla
| Comunione eucaristica, senza essersi prima riconciliati con Dio
; nella Chiesa: la necessità di confessare i peccati mortali infatti
ì deriva non solo dal precetto della Chiesa, ma dalla volontà stessa
di Cristo » (n. 58) \ Ma, anche ammesso che l'Eucaristia ridoni la
4
L'Istruz. Eucb. Myst. del 25.V.67 (AAS, 59, 1967, 561) richiama il
e. 856 del CJC secondo il quale non è lecito, neppur a chi è conscio d'aver
la contrizione, cioè il dolore perfetto, dei suoi peccati (gravi), accedere alla
Comunione senza la Confessione, a meno che « urgeat necessitas ac copia
confessarii illi desit ». Allora potrà comunicarsi premettendo l'atto di
contrizione.
37
grazia santificante a chi l'aveva perduta, è indubbio che il sacra-
mento della Penitenza conferisce una grazia sua propria, speci-
fica: ridona (od accresce) la grazia santificante e conferisce la
grazia « sacramentale »: un titolo a tutti gli aiuti che corrispon-
dono al fine proprio del sacramento: « in sacramentali... gratia,
et est gratia gratum faciens, et effectus specialis, qttem habet virtu-
te sacramenti. Et in quantum gratum faciens una est, sed ratione
effectuum distinguuntur: et quia sacramentum signat gratiam, ut in
tali effectu: ideo signa, et sacramenta sunt diversa » S. Bonav.,
In L. IV Seni., d. VII, a. 2, q. 2, Lugduni MDCLVIII, p. 85).
Nel caso della confessione, il fine e gli effetti, i frutti specifici
di questo sacramento non si riducono solo alla momentanea distru-
zione del peccato: s'aggiunge l'assicurazione di grazie attuali per
resistere contro gli assalti futuri delle tentazioni, una sensibilità
più delicata di fronte al male ed al pericolo, una sempre maggiore
purificazione ...: « recta sui ipsius cognitio augetur — si legge
nella « Mystici Corporis » di Pio XII — Christiana crescit humi-
litas, morum eradicatur pravitas, spirituali neglegentiae torpo-
rique obsistitur, conscientia purificatur, roboratur voluntas, salu-
taris animorum moderano procuratur atque ipsius sacramenti vi
augetur gratia » (AAS, 35, 1943, 235). « Ciascun sacramento —
si legge nel Docum. Past. della C.E.I. del 12.VII.1974 — ha
una sua grazia particolare. La grazia sacramentale della Peni-
tenza ci assimila a Cristo redentore, che lotta contro il peccato
e lo vince, e ci comunica lo spirito di penitenza, non solo per
i nostri peccati, ma anche per quelli dei nostri fratelli » (n. 74).
Perciò quand'anche il penitente non portasse alla Confessione
peccati veniali nuovi per ottenere il condono, la frequenza del
sacramento avrebbe ancora la sua piena giustificazione.
38
I
f gismo che si sono intrufolati nelle confessioni individuali »
| (ibid., p. 117).
( Non entro a parlare sulle cause e sulla responsabilità di coloro
5
I vescovi tedeschi, ad esempio, hanno deciso che pel territorio della
Repubblica Federale Tedesca il caso di bisogno, per ora, non si verifica (OR,
19.XI.72, p. 2). Ed in una recente Nota della Presidenza della C.E.I. si di-
40
dolore, oltre al proposito di non più peccare e di adempiere gli
obblighi che si impongono, anche il proposito di confessare, a
suo tempo, specificamente i peccati gravi. E questo proposito
(n. VII) è richiesto « alla validità »: nel senso, s'intende, che
costituisce un obbligo per sé grave. Perciò il penitente che,
consapevole di questa necessità, avesse volontà contraria, non
sarebbe affatto disposto a ricever la grazia sacramentale. Neces-
sità grave, fondata sulla natura stessa del sacramento. Non cosi
assoluta come quella dell'acqua nel Battesimo e del pane e vino
nell'Eucaristia poiché si può avere valida assoluzione anche con
una accusa solo generica se c'è causa scusante.
2. Non si può sperare alcuna ricostruzione se i confessori,
per primi, non sono istruiti e convinti, preparati e disponibili.
Solo allora essi potranno — col consiglio e con la predicazione
— influire efficacemente sugli altri. La Confessione specifica è
richiesta da ragioni teologiche stringenti (se la Confessione è es-
senzialmente un giudizio, esige che il giudice conosca la causa).
Ma ci sono anche motivi pastorali offerti dal buon senso e dal-
l'esperienza. Ed anche per ottenere che i fedeli ritornino ad acco-
starsi con frequenza alla Confessione l'opera persuasiva del con-
fessore (e del predicatore) dovranno, pare, far leva su due argo-
menti fondamentali. Il primo, di ordine teologico: la Confes-
sione conferisce la grazia « sacramentale », una grazia sua propria
che non può esser supplita da alcun altro sacramento; l'altro,
pastorale: il confessore, oltre che giudice, è maestro, padre, fra-
tello, amico, medico; è direttore spirituale, si diceva una volta
(oggi — in ossequio alla psicologia e per fobia d'ogni paterna-
lismo ed autoritarismo — si preferisce parlare di « consigliere »).
Lo so, c'è chi, caldeggiando la prassi della Confessione generica,
propone — al posto di una Confessione che sia ogni volta pri-
vata — un colloquio fra penitente e sacerdote da farsi in un
momento di calma, quando si offrirà l'occasione. Ma, siamo con-
creti, quando si offrirà quest'occasione? Quando si verificherà
41
il momento buono nel quale il penitente trovi il tempo e trovi
disponibile un sacerdote adatto per lui?
Non c'è dubbio, lo si è sempre detto ed il Vaticano II non
ha fatto che riaffermarlo (LG, 11): tutto il Corpo Mistico ne
risente quando il singolo pone un atto, sia peccaminoso sia vir-
tuoso, perché c'è una comunione di vita fra tutti i membri. La
Penitenza però primariamente ha per fine la liberazione del pec-
catore, il suo bene individuale ed indirettamente il bene comune-
Tutti i sacramenti, del resto, « sono ordinati alla santificazione
degli uomini, alla edificazione del Corpo di Cristo e a render il
culto a Dio » (SC, 59). Può anche dirsi che la Confessione è
« il simbolo della riconciliazione del peccatore con la comuni-
' tà », ma anzitutto è la sua riconciliazione realissima e pienissima
con Dio. Pertanto il riflesso sociale della pratica sacramentaria
penitenziale non significa affatto (come alcuni pretenderebbero)
l'esigenza d'una celebrazione pubblica.
3. A parte l'assoluzione comunitaria di peccati anche gravi
dopo una confessione solo generica (assoluzione ammessa solo in
casi di necessità) si possono dare altre forme di celebrazione
comunitaria della penitenza. Il nuovo Ordo Paenit. (n. 37) rac-
comanda anzitutto d'attendere che nell'opinione dei fedeli que-
ste celebrazioni non si confondano colla celebrazione del sacra-
mento della Penitenza.
Si può infatti limitarsi ad atti penitenziali fatti in comune:
esame di coscienza, implorazione della misericordia di Dìo, atti
di fiducia, di dolore e di proposito. Atti ai quali non s'accom-
pagna la celebrazione del sacramento. Costituiscono quindi solo
un sacramentale. Assomigliano ai riti penitenziali dei Protestanti.
Possono esser spiritualmente utili. Anzi, utilissimi, dice il nuovo
Ordo Paenit. (n. 37), quando non fosse possibile avere un sacer-
dote disponibile per le Confessioni: in questo caso la celebra-
zione penitenziale aiuterebbe i fedeli a fare l'atto di contrizione
perfetta (motivato dall'amore di Dio); e cosi (avendo l'implicito
desiderio e proposito di confessarsi in seguito) possono ricevere
già la grazia di Dio. Queste celebrazioni possono esser organiz-
zate e guidate da un diacono, da un catechista ed anche da un qual-
siasi fedele che sia preparato. Qualora però fossero intese espli-
citamente e dichiaratamente come preparazione d'un gruppo di
fedeli alla celebrazione eucaristica (allo scopo che più numerosa
sia la partecipazione alla Mensa da parte dei fedeli che non hanno
42
strettamente bisogno della Confessione) potrebbero esser occa-
sione di qualche disagio spirituale. Taluni, forse, non si senti-
ranno tranquilli nel ricevere la Comunione senza la Confessione:
e pertanto — sia che si confessino sia che non si comunichino —
avrebbero l'impressione d'esser notati.
Altro modo. Gli atti in comune sono solo un quadro in cui
s'inserisce la celebrazione privata del sacramento. Servono come
preparazione, come ringraziamento e conclusione. Si congiunge
« il duplice pregio dell'atto comunitario e dell'atto personale —
notava Paolo VI (OR, 4.IV.1974, p. 1). È la forma migliore
per il nostro Popolo, quando è possibile; ma suppone di solito
la presenza simultanea di parecchi ministri del sacramento; e
ciò non è sempre facile ». Queste iniziative possono esser utili.
Utili specialmente per speciali categorie di penitenti, come i fanciul-
li, i catecumeni (Ordo Paenit., n. 37). Utili in particolari circo-
stanze, come durante un Ritiro spirituale od una Missione. Utili
anche per coloro che non si accostassero di fatto alla Confessio-
ne. Utili « purché pensate ed attuate con competenza e discre-
zione » (Dirett. hit. Past. per l'uso del « Rituale dei Sacramenti
e dei Sacramentali », a cura della Comm. Episc. Ital. per la
Lit., 1967, p. 67). Ci sono difficoltà pratiche. Dovrebbe esser
presente qualcuno che possa e sappia con intelligenza e pru-
denza assistere guidare istruire aiutare il gruppo secondo i suoi
particolari bisogni di condizione, di stato, di età. Bisogna usar
gli accorgimenti perché tutti siano lasciati pienamente liberi di
confessarsi o no. E dichiararlo espressamente. Occorre si dia
libertà di scegliere il confessore. Libertà che verrà spesso a
mancare perché è da aspettarsi che non ci sarà molta facoltà di
scelta fra i confessori disponibili. Sappiamo per esperienza che
l'adolescente (ed anche il ragazzo) mal sopporta d'esser condotto
a confessarsi. Prova un senso di ribellione. Rivendica la sua
autonomia. Ci andrà,, ma quando vorrà. E da chi vorrà. Senza
controlli. Sarà forse attratto sentimentalmente da quella parti-
colare chiesa, da quel confessionale, da quella cella, da quel pa-
dre. Don Bosco era decisamente contrario alle Confessioni in
comune ed alla Comunione generale dei fanciulli e degli adole-
scenti. C'è anche un qualche pericolo che qualcuno tema, per
un complesso di circostanze, che i superiori lo giudichino meno
favorevolmente se s'accorgono che non si confessa o non si co-
munica. Il nuovo Ordo Paenit. propone alcune preghiere, canti e
qualche traccia e schema (o meglio qualche elemento indicativo)
43
per l'esame di coscienza secondo i diversi tempi liturgici ed alcu-
ne categorie di penitenti (fanciulli, giovani, malati). Nei formu-
lari più specifici e distinti che si prepareranno per questi esami
di coscienza in comune, si domanda intelligenza e discrezione.
Va evitato ogni eccesso, sia d'astrattismo vago, sia di minuziosi-
tà e di terrorismo.
Concludendo, queste celebrazioni comunitarie della peniten-
za (salva sempre la Confessione privata specifica) possono esser
un richiamo ad un maggior fervore, a suscitare la preghiera ed a
ravvivare cosi un atto religioso sacramentale perché non tenda a
diventare per taluni una pratica piuttosto meccanica ad effetto
magico. D'altro canto, sono possibili anche gli inconvenienti con-
trari. Queste celebrazioni potrebbero esser per qualcuno un'occa-
sione all'indolenza: il penitente omette lo sforzo personale, si
lascia trascinare dall'assemblea, diventa più passivo che attivo.
È il pericolo generale per chi partecipa solo alle preghiere litur-
giche comunitarie. In molte parrocchie si è introdotta la prassi
della Confessione mensile: Confessione individuale con prepara-
zione comunitaria. In tal modo s'intende eliminare l'uso di con-
fessarsi (spesso per sola devozione) durante la celebrazione della
Messa. Pare che i risultati di questa iniziativa siano buoni, che
l'invito sia accolto da molti. Per i sacerdoti è un po' alleggerito
il lavoro nei giorni festivi. Però, in pratica, se ci sono penitenti
che chiedono di confessarsi durante la Messa festiva, non si può
rifiutarsi, pena il rimandare la loro riconciliazione a chissà quando.
Ed i confessori devono esser disponibili anche per coloro che
vogliono confessarsi ancora più frequentemente ed anche se non
hanno materia necessaria.
Infine si potrebbe pensare ad una celebrazione comunitaria
unita all'assoluzione sacramentale, dopo accusa solo generica, nel
caso in cui la Confessione non fosse necessaria. L'ho sentita pro-
porre da una commissione che aveva studiato il problema in un
convegno diocesano del clero. Si constata — dicevano quei par-
roci — come non pochi fanciulli potrebbero accostarsi più fre-
quentemente alla Comunione. Non lo fanno perché desiderano
premettere la Confessione, ma non si ha il tempo di confessarli.
In realtà portano solo peccati veniali. Non si potrebbe, nella
catechesi che si tiene a loro, la sera del sabato, riservare l'ultima
parte alla preparazione penitenziale dopo la quale il sacerdote
darebbe l'assoluzione? Dal punto di vista dogmatico non esiste-
rebbero ostacoli certi (dato che l'accusa solo generica è probabil-
44
mente lecita anche nella Confessione privata) quando fosse ben
noto ai penitenti che l'assoluzione è per chi ha solo peccati
veniali. E dal punto di vista pastorale psicologico pratico asce-
tico? C'è da restar perplessi. E suppongo che anche coloro che
propongono questa prassi saran ben d'accordo nel raccoman-
dare che ogni tanto il fanciullo faccia anche la sua Confessione
privata. Poiché nulla come la parola del sacerdote rivolta al
singolo ha la potenza di eccitare le disposizioni d'un vero dolore
e d'un fermo proposito. È la parola aderente, incisiva, adatta a
lui, tutta e solo per lui. C'è una atmosfera d'intimità e di segreto
che avvolge il sacramento e gli conferisce (finora almeno, fintan-
toché i pregiudizi non avranno corrotto la serenità spontanea degli
spiriti) una potenza ineguagliabile. Cosa avremmo ottenuto se
molti ragazzi perdessero la stima e l'affetto per questo sacramen-
to? Senza dire che potrebbe anche verificarsi il pericolo di un
qualche conflitto spirituale per chi non si sentisse tranquillo
senza la Confessione privata. Tanto pili che il ragazzo non è
ancora in grado di distinguere sempre e chiaramente quando la
colpa è grave e quando è solo leggera. Talora forse penserà:
« se non vado alla Comunione dopo questa assoluzione (che non mi
pare di aver capito bene cosa valga e quando valga) gli altri
(specialmente i miei compagni) diranno che ho peccati grossi;
cosi pure se vedono che mi confesso ». E se, per non dar nel-
l'occhio andrà alla Comunione, lo farà senza aver la coscienza
serena e sicura.
Comunque è pacifico che non sarebbe lecito adottare tale
prassi di assoluzione in massa senza il permesso della superiore
autorità ecclesiastica. E se la Chiesa non lo permette e non lo
favorisce è perché ha esperienza e fiducia nell'importanza e nei
vantaggi della Confessione individuale e della direzione spirituale
dei fanciulli stessi. « Vorrei passare la vita confessando i fan-
ciulli » diceva mons. E. Montalbetti che dei fanciulli e dei gio-
vani conosceva la psicologia. « Ogni incontro in confessionale
con un fanciullo può esser decisivo per quella giovane vita, può
determinare una grande vocazione, forse di un santo » (Sal-
viamo il fanciullo, «L'Assistente Ecclesiastico», XI, 1941, n. 6,
231). Nel confessionale^ si opera un effetto soprannaturale al
quale concorrono il penitente, la grazia, il confessore. Si svolge
un colloquio che è un'occasione preziosa per la liberazione, la
rinascita spirituale, o, in ogni caso, per una presa di quota. « Uno
scalpiccio di piedi, dietro di me, mi ricorda che i bambini stanno
45
aspettando. Ancora un momento, per rinnovare il proposito di
non prendere alla leggera le loro piccole mancanze. Qui, dietro
di me, vi sono quaranta santi in potenza. Sarà la grazia di Dio
che farà tutto, ma la mia mano dovrà tenere il cesello ed io
potrò dare una forma oppure rovinare tutto. Il cuore d'un sacer-
dote non potrà mai parlare al cuore d'un fanciullo con tanta elo-
quenza, ed esser udito da lui cosi bene come ora. Dieci parole
dette qui valgono più di mille dette in classe e più di mille
dette dal pulpito » (Leo Trese, Vaso di argilla, Brescia, Morcel-
liana, 1962, pp. 105-106).
46
per le confessioni che un sacerdote riceve dal suo vescovo. Altrove
(come in Italia) si è andato sempre più diffondendo l'uso di con-
cedere che le facoltà (di confessare, celebrare, predicare) rice-
vute da un sacerdote per la propria diocesi possano esser eserci-
tate in tutta la sua regione ecclesiastica6. E nulla vieta che detta
facoltà venga eventualmente estesa su scala interregionale, pre-
vio necessario accordo tra le conferenze interessate. Anzi, men-
tre è in corso l'aggiornamento del CJC, si fa voti che la giuri-
sdizione per le confessioni sia data ai sacerdoti con ancor minori
restrizioni, adottando un sistema semplicissimo, come questo:
se un vescovo concede ad un sacerdote la facoltà di confessare,
questa venga estesa — per disposizione del diritto stesso — a
tutta la Chiesa; se il vescovo la sospendesse, sarebbe sospesa
per tutta la Chiesa.
2. Pel momento, oltre alla giurisdizione annessa all'ufficio (di
vescovo, parroco, canonico penitenziere) detta « ordinaria », c'è
quella « delegata ». Delegata dal superiore competente ad una
determinata persona; delegata con certi limiti (quanto al tempo,
al territorio, ai penitenti stessi talora); può esser concessa « ad
beneplacitum », cioè senza bisogno che venga rinnovata (a meno
che il superiore non la revochi). C'è pure una giurisdizione « de-
legata dal diritto » stesso (diritto che può essere o comune —
cioè vigente per tutta la Chiesa — o provinciale o diocesano).
La facoltà — che ogni sacerdote ha — di assolvere (anche dai
casi « riservati ») chiunque si trovi in pericolo di morte è ap-
punto una facoltà « delegata a iure » (CJC, e. 882). La facoltà
di confessare in tutta la « regione » ecclesiastica nella quale un
sacerdote ha il domicilio o quasi-domicilio, è una facoltà « de-
legata dal* diritto » provinciale 7 . La facoltà data, in molte dio-
cesi, a chi è parroco, di concedere per alcuni giorni la giurisdi-
zione, per le confessioni, ai sacerdoti che si recano per un qual-
che soggiorno nella sua parrocchia, viene dal .diritto « diocesano ».
Cosi nella diocesi di Roma ogni sacerdote — pel solo fatto che
ha l'Ordine — ha la facoltà di assolvere i « sacerdoti » (non i
6
In una recente Nota della Presidenza della C.E.I. si legge: « Dati i con-
tatti e gli scambi sempre più frequenti fra diocesi e diocesi, l'Assemblea
dei Vescovi ha deciso che, in conformità con quanto già avviene in varie
regioni, la facoltà di ascoltare le confessioni data dall'Ordinario s'intenda
estesa ipso facto su scala regionale » (Notiziario della CJE.I., 30.IV.75, p. 71).
7
O nazionale, cioè stabilita dall'Assemblea dei vescovi d'una nazione.
47
« chierici » od i « religiosi » non sacerdoti) {Syn. Rom., I, 1960,
e. 67). Recentemente, poi, è stata concessa una speciale e nuova
facoltà ai sacerdoti di passaggio per Roma. Per tre mesi, se sono
muniti di regolare lettera discessoriale del rispettivo Ordinario,
hanno la facoltà di confessare negli stessi termini di quella loro
concessa nella diocesi di provenienza. La hanno per Roma e
per tutto il territorio diocesano. Sono eccettuate le Basiliche pa-
triarcali 8. (Non è esclusa, invece, in seguito ad un più recente
decreto della S.C. dei Religiosi, la facoltà di assolvere le « reli-
giose », anche d'un'intera comunità). Occorre però che i sacerdoti
secolari si procurino la vidimazione del « celebret » presso il Vi-
cariato, non oltre il mese di permanenza in Roma (« Rivista Dio-
cesana », 1969, n. 1-2, &7-88). Ed evidentemente si suppone che
il sacerdote non abbia avuto un divieto personale di abitare o
confessare a Roma. Per chi, dopo il divieto, vi permanesse « con
dolo » più di otto giorni, gli sarebbe proibito anche il celebrare
la Messa perché incorrerebbe « ipso facto » nella sospensione « a
divinis » dalla quale a Roma (chi vi continuasse la permanenza)
potrebbe esser assolto solo dal Cardinal Vicario (fuori di Roma
da ogni confessore) {Syn. Rom., I, 1960, e. 51, S 4 ) 9 .
Più ampie facoltà vengono concesse in speciali occasioni, come
durante l'Anno Santo 1975: il Cardinal Vicario concesse a tutti
i sacerdoti che facevano parte di qualche pellegrinaggio o vi
fossero associati nelle celebrazioni comunitarie, la facoltà di ascol-
tare le confessioni in tutta la diocesi di Roma (nei limiti della
facoltà che i sacerdoti avevano in atto nella loro diocesi). Pote-
vano ascoltare le Confessioni anche nelle quattro Basiliche Pa-
triarcali ed assolvere anche dai peccati e dalle censure riservate
all'Ordinario (eccettuate le censure « ab homine »), dispensare
dai voti privati, anche riservati alla S. Sede, commutandoli con
moderazione e prudenza in altre opere buone. Le sopraddette
facoltà erano concesse anche ai sacerdoti che visitassero priva-
tamente Roma, qualora fossero invitati ad ascoltare le Confes-
sioni (« Rivista Diocesana » di Roma, 1974, n. 9-10, p. 1039).
8
In queste possono confessare solo i penitenzieri designati. Però gli
altri sacerdoti (di passaggio o no) muniti di facoltà, possono confessare
nella sagrestia della basilica validamente e (se vien dato loro il permes-
so richiesto) lecitamente.
9
Ali'infuori di questo caso, nella diocesi di Roma non ci sono altre
riserve, né quanto ai peccati né quanto alle censure.
48
Per la Confessione delle religiose e novizie, il CJC, e. 876,
richiedeva speciale giurisdizione o designazione, salve le nume-
rose facoltà di delega « a iure » concesse dal CJC stesso (ad esem-
pio, se una religiosa chiedeva di confessarsi, occasionalmente,
presso un sacerdote approvato, in luogo debito): perciò un con-
fessore non designato dall'Ordinario non avrebbe potuto, su
richiesta della Superiora d'un convento, ascoltare le Confessioni
di tutte le suore della comunità. Ora, in seguito ad un de-
creto della S. Congreg. per i Religiosi deh"8.XII.1970, « tutte
le religiose e novizie, affinché abbiano a godere in tale materia
della dovuta libertà, possono confessarsi validamente e lecita-
mente presso qualsiasi sacerdote approvato nel territorio per
l'ascolto delle Confessioni ».
3. La giurisdizione resta limitata dai « casi riservati ». Se-
condo il nuovo rito la formula d'assoluzione non contiene riferi-
menti ad eventuali pene e non è da mutarsi nel caso che sia
necessario assolvere anche da qualche censura (basta che il con-
fessore ne abbia l'intenzione); una formula particolare è stabi-
lita solo pel caso che avesse da assolvere qualcuno da una cen-
sura « extra sacramentum » (cfr. Nuovo Ordo Poeti., App. I).
Un peccato può esser riservato o « ratione peccati » o « ra-
tione censurae ». Praticamente quando si trattasse di qualche
caso che, in una diocesi, è riservato « ratione peccati », ci sa-
rebbe sempre il grave incomodo, pel penitente, nel rimanere pri-
vo, per qualche tempo, dell'assoluzione (e. 900, 2°): quindi anche
il confessore che non ha, per sé, facoltà su un caso riservato
presentatogli, può assolvere subito, in base al diritto stesso, il
penitente disposto, dopo avergli rivolta una grave ammonizione
e imposta una conveniente penitenza; e la causa è cosi chiusa,
non c'è da ricorrere al Superiore. Secondo il CJC (e. 894) un
solo peccato (falsa e qualificata calunnia, con denuncia giuridica,
d'un sacerdote innocente) è riservato per tutta la Chiesa « ratione
peccati »; ma a tale peccato è annessa anche una pena {e. 2363).
È detto (e. 893; 897) che i Vescovi, per il territorio della
loro diocesi, hanno facoltà di riservare a sé qualche caso grave 10.
La questione è più complessa quando si tratta di peccati ri-
10
In una recente Nota della Presidenza della C.E.I. si legge che « la
revisione dei casi riservati è affidata alle Conferenze regionali allo scopo
di avere nella stessa zona pastorale un orientamento comune » {Notiziario
della C.E.I. 30.IV.1975, p. 71).
49
servati « ratione censurae », cioè di peccati dai quali non si può
esser assolti se non si è prima assolti dalla censura (supposto,
naturalmente, che sia stata effettivamente contratta dal singolo).
E le censure che impediscono la previa assoluzione dal peccato
sono la scomunica (quella, ad esempio, che colpisce l'aborto ed
è riservata all'Ordinario) e l'interdetto personale. Non quindi
la sospensione « a divinis »: chi ne fosse colpito potrebbe quindi
senz'altro esser assolto dai suoi peccati se avesse il pentimento
ed il proposito d'adempiere i suoi doveri gravi (fra i quali però
ci può esser quello di sistemare le sue faccende col Superiore nel
foro esterno, prima di ricevere o consacrare l'Eucaristia).
4. Come si comporterà il confessore qualora gli capiti un
caso riservato « ratione censurae » dalla quale egli non abbia la
facoltà d'assolvere?
In pericolo di morte la Chiesa concede le più ampie facoltà
a qualunque sacerdote e la massima libertà al penitente di chie-
dere qualunque confessore (e. 882), con l'obbligo del « ricorso »,
in caso di ristabilimento, salo per le censure riservate « specialis-
simo modo » alla Sede Apostolica oppure « ab homine » (e. 2252).
Extra pericolo di morte: anche allora il confessore può assol-
vere praticamente sempre chi abbia dolore e proposito necessari,
perché esiste per ogni penitente quell'« urgenza » di ricever l'as-
soluzione di cui parla II e. 2254; ed il confessore può, eventual-
mente, col suo suggerimento, far sentire tale urgenza. Resta però
l'obbligo.di ricorrere entro il mese al Superiore, a meno che ciò
non sia possibile, a norma dello stesso e. 2254, § 3. Per ovvie
ragioni ricorre quasi sempre il confessore (osservando il sigillo)
ed ài penitente chiederà che ritorni « ad recipienda mandata »
(purché gli sia possibile). Perché non ci sia l'obbligo del ricorso
occorrerebbe che non potesse farlo senza grave incomodo né il
penitente né il confessore; e quando si trattasse del caso di cui
il e. 2367, dovrebbe esserci « fisica » impossibilità sia per il
penitente sia per il confessore.
Perciò il confessore deve sapere a chi deve ricorrere ed in
qual modo. Lo insegnano tutti i manuali di T. Morale (che però
devono esser aggiornati secondo le più recenti disposizioni eccle-
siastiche). Esempio: un peccato d'aborto. Anzitutto è da consi-
derare se, nel caso in questione, si verificano tutte le condi-
zioni necessarie per contrarre effettivamente la scomunica riser-
vata all'Ordinario: la cognizione, da parte della persona peni-
tente, che a questo delitto è annèssa una qualche pena spirituale;
50
che il peccato sia stato grave (internamente ed esternamente);,
che non ci sia stato solo il tentativo, ma sia seguito l'effetto; per
un cooperatore — quale può esser un'ostetrica — la sua azione
dev'esser principale o necessaria. Supposto dunque che la cen-
sura sia stata contratta dal penitente, il confessore può assol-
verlo —- se pentito — ma (se non ha ricevuto la facoltà per le
censure riservate all'Ordinario) dovrà ricorrere (al Vescovo od al
Vicario Generale) dopo aver informato il penitente che deve ri-
tornare per ricevere eventuali istruzioni e penitenza (pur potendo
star sicuro sulla validità dell'assoluzione ricevuta). Dunque, in
caso « urgente », il e. 2254 permette di assolvere da tutte le
censure incorse « ipso facto » (« latae sententiae »). Pel ricorso
successivo, se hanno facoltà il Vescovo ed il Vicario Generale
si può rivolgersi a loro. Altrimenti, alla S. Penitenzieria, Palazzo
della Cancelleria, P. della Cancelleria, 1, 00168 Roma.
C'è però un'eccezione stabilita da un decreto della S. Peni-
tenzieria del 18.IV.1936 {AAS, 28, 1936, 242-243) a cui seguì
la dichiarazione del 4.V.1937 (AAS, 29, 1937, 283). Riguarda
l'assoluzione dalla scomunica — che il Codice classificava fra
quelle « simpliciter s. Sedi » riservate (e. 2388) — nella quale
sia incorso un « sacerdote » contraendo senza dispensa un matri-
monio (anche solo civile). La Chiesa continua ad esser severa
per scongiurare l'eventualità del caso doloroso. Se il sacerdote
penitente domandasse l'assoluzione dichiarando che gli è impos-
sibile non convivere sotto lo stesso tetto con la donna colla quale
s'è legato, ma promette d'osservare la castità, non può esser
assolto, deve ricorrere all'Autorità competente: la S. Penitenzie-
ria, P. della Cancelleria, 1. Non è competente il Vescovo. L'as-
soluzione si può dare solo in pericolo di morte (allora ogni
penitente può esser assolto validamente e lecitamente da qualsiasi
sacerdote, CJC, e. 882).
Il caso in questione era più pratico quando la Chiesa osser-
vava la rigida regola di non concedere al sacerdote la dispensa
dal celibato. Ma può capitare anche ora.
Col Motu proprio « Pastorale munus » del 30.XI.1963 (AAS,
56, 1964, 5-12) nuove facoltà sono state concesse da Paolo VI
ai vescovi. Anche quelli non residenziali possono assolvere in
foro interno da tutte le censure, eccetto quelle « ab nomine »,
quelle « specialissime » riservate (cfr. e. 2320; 2343; 2367; 2369)
— fra le quali c'è, ad esempio, la scomunica contro i ladri che
51
profanano l'Eucaristia, quella contro « il confessore » che violasse
direttamente e consapevolmente il sigillo sacramentale —; sono
purè eccettuate dalle facoltà dei Vescovi la scomunica che colpi-
sce VescQvo consacrante^ e Vescovo consacrato privi della regolare
nomina o conferma dà parte del R. Pontefice (censura stabilita
da Pio XII nel 1951), la scomunica annessa alla viola2Ìone del
« segreto pontificio » (se è ancora una scomunica riservata) e
quella che è inflitta al « sacerdote » ed alla donna che, senza
dispensa, abbian contratto matrimonio anche solo civile — e. 2388
— ed attualmente intendono continuare a convivere. Per la donna,
però, che ha presunto contrarre matrimonio col sacerdote, ogni
confessore può indurre il « caso urgente », con l'obbligo del ri-
corso, non al Vescovo, ma alla S. Penitenzieria. Pertanto questa
censura (dopo le disposizioni seguite al CJC) è da ritenersi « spe-
cialissime » riservata alla S. Sede. (Perciò, a norma del CJC,
e. 2252, nel caso che il pericolo di morte venisse superato, reste-
rebbe l'obbligo del ricorso per chi fosse stato assolto).
Da tutte le altre censure i Vescovi, anche non residenziali,
possono assolvere personalmente ed « in foro interno ». I Ve-
scovi residenziali lo possono anche « in foro externo » e pos-
sono altresì delegare la loro facoltà di assolvere dalle censure a
sacerdoti distinti per scienza e prudenza: facoltà da usarsi « in
actu Confessionis ».
5. Mentre è allo studio un aggiornamento- del diritto cano-
nico, son note le critiche mosse da giuristi alle vigenti disposi-
zioni del CJC in materia di pene ecclesiastiche e di Sacramenti.
Si dice, ad esempio, aberrante che nel sacramento della Peni-
tenza si possa ricostituire la pace e l'amicizia dell'anima con Dio
e non ancora (almeno perfettamente) con la Chiesa, se il confes-
sore non ha tutte le facoltà per un'assoluzione piena e definitiva.
Ma questa difficoltà c'è solo per le pene dalle quali un dato
confessore non abbia facoltà, al momento, d'assolvere il peni-
tente che può esser pentito e, con un atto di dolore perfetto,
riconciliarsi con Dio. Praticamente quasi sempre il sacerdote ha
la facoltà di indurre il caso urgente (e. 2254) e di concedere
subito l'assoluzione. Resta l'obbligo del ricorso, se possibile: ri-
corso voluto dalla Chiesa contro il pericolo di troppo facili asso-
luzioni, senza serio impegno, debita penitenza, uso dei mezzi
necessari per non ricadere. Ma, quando si segue la procedura sta-
bilita, si è già in regola (e perciò in pace) con la Chiesa, come con
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una madre che ha già perdonato ma non può non volere il bene
delle anime e la loro sincera e profonda conversione. Difatti non
obbliga al ricorso quando sia impossibile (e. 2254, § 3) e tanto
meno in pericolo di morte (fatta eccezione dei casi più gravi,
nell'eventualità d'un ristabilimento, a norma del e. 2252). Del
resto, se si volesse insister troppo su una certa frattura fra pace
con Dio e pace con la Chiesa nel sacramento della Penitenza,
tale questione dovrebbe esser sollevata anche circa l'obbligo pel
penitente di confessare i suoi peccati gravi. Se egli fa un atto
di dolore per amore di Dio si mette in pace con Lui, eppure gli
resta anche il dovere di confessare (se possibile) i peccati a chi
ha il potere di sciogliere o di non sciogliere, cioè alla Chiesa.
È vero che quest'obbligo di confessare i peccati è di diritto divino,
mentre quanto alle pene la norma giuridica viene dalla Chiesa.
Però resta possibile — senza intrinseca contraddizione — che
si possa esser riconciliati intimamente con Dio ed avere ancora
qualche pendenza con la Chiesa. Pendenza voluta, in definitiva,
da Dio stesso perché la Chiesa intende e cerca di procurare la
salvezza ed il bene delle anime interpretando (per quanto possi-
bile) i desideri di Dio. Il bene stesso della comunità, indipenden-
temente dal diritto ecclesiastico, può esigere che un'anima, pur
riconciliata nel sacramento della Penitenza, compia inoltre qual-
che atto esterno, dia — prima d'accostarsi pubblicamente all'Eu-
caristia — una dimostrazione della sua .vera conversione, elimi-
nando qualche occasione di scandalo, riparando il cattivo esem-
pio eventualmente dato.
C'è chi propone (in un riformato diritto penale ecclesiastico)
la separazione del foro esterno da quello interno. La scomunica
non dovrebbe mai impedire, a chi l'ha contratta, di ricever (se
disposto) il sacramento della Penitenza e l'Unzione degli Infer-
mi. Resterebbe proibito di ricever l'Eucaristia finché la pena non
sia stata tolta (nel foro esterno). È prevedibile che ci saranno,
in pratica, difficoltà nel ricorrere al superiore competente per l'as-
soluzione in foro esterno; nonché il disagio di non poter, prima,
ricever la Comunione o celebrare. (Secondo il CJC, e. 2254, una
volta ricevuta l'assoluzione « in caso urgente », il penitente può
subito comunicarsi, a meno che non debba prima riparare uno
scandalo).
6. Certamente la Chiesa è sempre madre. Guarda al bene
delle anime. Perciò ha espressamente aggiunto la clausola: se un
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confessore assolvesse un penitente da un caso riservato senz'aver
la facoltà e senz'usare la debita procedura perché ignora che è
riservato, l'assoluzione sarebbe valida (e. 2247, S 3) anche se
avesse per oggetto solo questo caso riservato. Ed anche cono-
sciuto lo sbaglio, a nient'altro sarebbero tenuti confessore e peni-
tente. Si fa eccezione (per ovvie ragioni) per i casi più gravi (cen-
sure « specialissime » riservate o « ab nomine »); ma anche in tal
caso praticamente (se c'è la buona £eàe del penitente) non è
invalida Passoluzione perché generalmente s'accusano anche altri
peccati: circa questi l'assoluzione resta direttamente valida; e
quindi diventa indirettamente valida anche per i riservati (simil-
mente all'assoluzione d'un peccato grave che il penitente di-
menticasse).
54
stica. Taluni sostengono che basta dare ai fedeli ed ai penitenti
alcuni principi generali e suscitare nelle loro anime le buone
disposizioni di fondo. Le conclusioni sulle azioni concrete (da
porsi o da evitarsi) le tirerà ognuno applicando i principi secondo
la sua situazione e la sua coscienza, guidato dal naturale senso
morale. Senonché il penitente — anche quando non gli è man-
cata una. certa apprensione dei principi morali generalissimi ed
una certa consapevolezza della situazione propria — spesso è
incerto sull'opzione da fare, perché non si sente in grado di appli-
care debitamente i principi e dedurre una sicura conclusione; inol-
tre non sempre conosce tutte le leggi morali, naturali e positive
(per le quali non basta il possesso dei principi generali); infine,
anche se è capace di dare un giudizio su un caso obbiettivo altrui
— simile al proprio — stenta a pronunciarsi in causa propria e
desidera chieder consiglio (come i medici quando son malati). In-
somma il confessore potrà sempre esser chiamato ad illuminare
od a confermare od a correggere una coscienza. E non potrà li-
mitarsi a suggerire i principi, ad esortare a far tutto nella carità
ed in buona fede rettificando l'intenzione. La carità anima ed
eleva tutte le altre virtù ma non le supplisce quando si possono
esercitare consapevolmente; e non si può rifugiarsi nella buona
fede quando si dubita circa una specifica scelta e ci sono i mezzi
per istruirsi.
Il documento pastorale della C.E.I. del 12.VII.74 racco-
manda « lo studio attento della dottrina morale e spirituale della
Chiesa », « una adeguata attenzione ai risultati delle scienze antro-
pologiche moderne e del contesto culturale odierno ». Suggerisce
alle Chiese particolari ed ai presbiteri diocesani « di promuovere
frequenti incontri sacerdotali non solo per l'aggiornamento litur-
gico-pastorale, ma anche per una permanente formazione all'eser-
cizio di un cosi grande ministero» (n. 116).
2. Prudenza. È necessaria al confessore in particolare nei giu-
dizi e consigli sulle scelte concrete che suggerirà — con la debita
discrezione — ai singoli penitenti nelle loro particolarissime
situazioni. Prudenza occorre altresì nell'indicare i rimedi più ido-
nei per guarire le anime e premunirle, per l'avvenire, contro la
forza del male (Cat. Rom., p. 244). Prudenza anche nel com-
portamento personale che il confessore dovrà tenere coi diversi
penitenti.
Un confessore potrebbe esser dotto, pio, zelante, ma esser
mancante nella prudenza. Perché, se i principi astratti sono chiari,
55
non altrettanto facile è pronunciare un giudizio sui casi concreti.
Bisogna saper applicare i principi cercando di aver presenti tutte
le circostanze, ma tenendo pure conto che certi dati particolari
(che sarebbe utile conoscere) spesso sfuggono. Il compito del con-
fessore consigliere non consiste solo nel fornire, per tutti i casi
simili, delle ricette già bell'e preparate: appunto perché sono
casi solo simili. Ci può esser * qualche circostanza che incide e
fa cambiare la situazione.
La prudenza è una virtù in parte innata; si acquista inoltre
con l'esperienza secondo il proverbio: « fabricando fit faber ».
Bisognerebbe che il confessore arrivasse ad una tale pratica del
suo ministero da afferrare certe delicate situazioni del penitente
da una sola parola. A proposito, in particolare, delle interrogazioni
sui peccati impuri, il Giordanini scriveva: « Se un confessore una,
o due volte avrà studiato seriamente in buoni autori ciò che è
necessario per dichiarare la specie di queste oscenità, e voglia
seguire le buone dottrine, troverà, che avrà da far pochissime
parole, potrà far dire al penitente quanto bisogna, e l'esperienza,
che ha tra le mani, e il suo buon zelo e prudenza gli suggeriranno
ogni giorno, se vi rifletterà seriamente, nuovi modi più cauti,
e più onesti per farlo » {Istruzione per i novelli confessori, I,
Roma, 1841, p. 115).
Nel comportamento personale del confessore coi singoli peni-
tenti, prudenza ed esperienza suggeriranno ciò che i sacerdoti
giovani in genere non pensano (forse per zelo): che le confes-
sioni per solito conviene che siano brevi perché valgono di più
poche parole ben ponderate ed adatte, che non tante esortazioni,
prediche prolisse e generiche. Specie se ci sono altre persone
che attendono. Il che è ben diverso da quella insofferenza che
certuni dimostrano quando non lasciano neppure parlare i peni-
tenti. Si narra che s. Francesco di Sales era un confessore tanto
ricercato per questo solo che lasciava parlare (non era solo que-
sta la sua virtù, ma ciò fa capire che molti confessori non lascia-
vano parlare). Brevità, s'intende, in via ordinaria: il sacerdote
impiegherà tutto il tempo necessario e metterà tutto il suo impe-
gno apostolico per disporre chi disposto non era.
3. Le capacità d'intelligenza e la virtù della prudenza non
bastano. Se il confessore è anche padre, amico e medico gli si
richiedono altresì certe doti e virtù che piuttosto nel cuore hanno
la loro sede. Un complesso di piccole e grandi virtù. « Vitae inte-
gritas... pietas... » {Cat. Rom., p. 244): che suppone sforzo con-
56
tinuo di personale perfezionamento, d'autocontrollo, d'apertura.
E zelo, certamente. Ma non solo attività, prontezza ed assiduità
alle fatiche di questo ministero che potrebbe anche esser eserci-
tato con una certa freddezza, per motivi, piuttosto umani, senza
l'umiltà, lo spirito di servizio, il calore della carità che caratte-
rizzano i santi confessori.
Il confessore sa di esser al servizio di tutti, senza distinzioni e
preferenze. Sa che « gli sono affidati in modo speciale i poveri
ed i più deboli » (PO, 6) sull'esempio di Cristo.
Preparerà per tutti un'accoglienza festosa. Chi dona letizia
comunica l'amore, illumina lo spirito ottenebrato del peccatore,
gli infonde fiducia. I penitenti avranno, fin dalle prime battute,
la sensazione che s'incontrano con uno che porta la gioia d'un
lieto annuncio anche se ha una veste nera ed una stola violacea.
Una gioia che egli dà gratuitamente: basta solo che gliela doman-
dino. Con il suo volto ed il suo comportamento dice quanto si
legge nel « Journal d'un Cure de campagne » di Bernanos: « Non
è colpa mia se porto un vestito da beccamorto. Dopo tutto il
Papa si veste di bianco ed i cardinali di rosso. Avrei il diritto di
passeggiare vestito come la Regina di Saba, perché porto la
gioia. Ve la donerei per niente se me la domandaste. La Chiesa
dispone della gioia, di tutta la parte di gioia riservata a questo
triste mondo » (Gallimard, 1961, p. 1046).
« Pietas » (Cat Rom., p. 244): bontà, amore verso il pecca-
tore penitente. Ma l'amore suppone la compassione e la compren-
sione. Compassione, cioè sensibilità spirituale, delicatezza, finez-
za: facoltà preziosa, frutto e premio della bontà. Certo senza
compassione non c'è comprensione (« durch mitleid wissend »).
E senza comprensione non c'è il vero amore, verso tutte, indi-
stintamente, le anime. Ma comprendere è più difficile che ama-
re: non basta l'intelligenza, occorre intuizione ed attenzione amo-
rosa agli stati ed ai bisogni spirituali delle anime. Capacità que-
sta che è propria di tutti coloro che hanno affinato il loro spi-
rito soffrendo ed amando. È quindi la dote che, praticamente,
i penitenti maggiormente ricercano nel confessore: solo se si
sentiranno compresi, si apriranno ed accoglieranno volentieri am-
monizioni e consigli.
Comprendere significa anzitutto riconoscere in ognuno valori
e possibilità (forse nascoste, forse solo potenziali e seminali). Ed
il penitente (per quanto peccatore) quando apre il suo cuore e
confida le sue debolezze, ha bisogno — oltre al dono della gra-
57
V
zia invisibile —• della nostra stima. Non dobbiamo mostrare per
lui solo compassione e tolleranza. E la nostra parola di stima non
dev'esser solo un complimento d'obbligo (simile alla bugia pie-
tosa detta all'ammalato pel quale non c'è più speranza): forse,
nel regno dello spirito, il peccatore, che abbiamo dinanzi, è più
ricco di quanto noi crediamo. E vale per ognuno quanto Gesù
disse ai superbi che si proclamavano giusti: « Amen dico vobis,
quia publicani, et meretrices praecedent vos in regnum Dei »
(Mt. 21, 31).
Una parola di stima il penitente non la dimentica. Sarà forse
l'ancora di salvezza in qualche momento di depressione e di di-
sperazione. Stima sincera: è con l'umile coscienza d'esser anche
egli un uomo peccatore (ma beneficato da una grazia di predi-
lezione) che il sacerdote accoglie altri peccatori per aiutarli a
ritrovare la fiducia. Sembra composta per lui — quand'entra
nel confessionale — la preghiera che si trova ne « I grandi cimi-
teri sotto la luna » di Bernanos: « O Dio! siccome io non so
amare secondo la vostra grazia, non toglietemi l'umile compas-
sione, il pane grossolano della compassione che noi possiamo spez-
zare insieme, peccatori, seduti nel ciclo della strada, in silenzio,
a testa bassa, alla maniera dei vecchi poveri » (Les Grands Cimi-
tières sous la lune, Gallimard, 1971, p. 526).
Perciò quando rivolge ammonizioni ed esortazioni, il confes-
sore non lo farà in tono autoritario. Ed userà il plurale: quel
« noi » indica che anche lui ne ha bisogno, che non intende costi-
tuire un'eccezione, o, quasi, mettersi al posto di Dio (cfr. K. Till-
mann, La catechesi della Confessione, Brescia, 1963, p. 300).
« Coraggio, amico — diceva lo Chevrier ai penitenti che accu-
savano gravi ed umilianti peccati — siamo tutti fragili, tutti pos-
siamo cadere ». Il che non significa scusare il peccato. Bisogna
(senza sgarberie) far capire chiaramente quel che è lecito e quel
che non è lecito. Con chiunque. Non si strumentalizzi la Confes-
sione per motivi inferiori.
Aver comprensione significa, pel Confessore, saper adattarsi al-
la psicologia ed ai bisogni spirituali delle diverse categorie di pe-
nitenti e dei singoli penitenti. Adattamento non facile. Domanda
molta pazienza. Fanciulli impreparati, leggeri, distratti, gente roz-
za od indifferente, spiriti pieni di sé, antipatici; e poi fedeli fede-
lissimi, ma noiosi e petulanti, ed i vecchi duri d'orecchio e quelli
duri di comprendonio... Con costoro saranno messe alla prova
le capacità del confessore di sopportare e d'amare (facili colle
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persone simpatiche). D'altra parte, se possiede qualche conoscen-
za dell'umana psicologia, egli saprà (senza esser insensibile) non
turbarsi e non dare eccessiva importanza a certe espressioni di
persone portate — per natura — ad esagerare ed a drammatizzare.
Saprà quanto variabile sian l'umore e quanto forti le impressioni
della fantasia, specialmente neil!anima femminile.
E poiché la pazienza non è di tutti, si spiega come molti sa-
cerdoti rifuggano dal ministero delle Confessioni, passata la no-
vità ed il fervore delle primizie apostoliche. Preferiscono get-
tarsi nell'attività esteriore. Ma cosi possono rendersi insensibili
ai problemi della vita interiore delle anime, fino a sorridere su
certe loro aspirazioni od inquietudini. Penseranno che non vai
la pena di perder tempo con spiriti complessi, meticolosi o sug-
gestionabili, a discutere su questioni senza importanza ed uti-
lità. E cercheranno di liberarsene.
Ogni penitente ha il suo temperamento naturale (unico, ori-
ginalissimo). Ogni cristiano ha anche (come è stato scritto) un
suo temperamento soprannaturale individualissimo ed irripeti-
bile. Lo sforzo di adattamento alla psicologia del singolo non
cesserà mai nel confessore, per quanto fine sia la sua sensibilità e
ricca la sua esperienza. Quante volte dovrà umilmente riconoscere
di non aver capito un'anima. E conserverà sempre un certo qual
timore nel guidare gli altri nelle vie dello spirito perché sa bene
che ognuno è anzitutto guidato da Dio: si tratta d'interpretare
il Suo pensiero ed i Suoi disegni. Ma l'azione, i movimenti, gli
effetti della grazia non sempre si percepiscono immediatamente
e chiaramente. Il confessore sentirà anzitutto il bisogno-d'esser,
lui stesso, guidato da Dio. Non può imporre a tutti gli stessi
schemi, programmi, mezzi di perfezione. Neppur quelli che egli
ha personalmente sperimentato validi. Modo di pregare, di medi-
tare, d'esaminare la coscienza, libri spirituali da leggere, durata
della preghiera...: sono tutti mezzi relativi, necessari od utili,
ma non per tutti in egual modo e nella medesima misura. Le
stesse esortazioni al dolore ed al proposito d'una vita migliore
varieranno nella forma, lunghezza, espressioni ed accenti, secondo
la capacità ed il bisogno del penitente.
Quando in un confessore c'è pietà e carità verso i penitenti,
ci sarà anche l'autentico zelo che lo animerà a mostrarsi anzi-
tutto facilmente disponibile all'esercizio d'un cosi santo ministero
(Doc. C.E.I. 12.VII.74, n. 101). Ad esempio, cercherà di non
far aspettare (o di faraspettare il meno possibile) i penitenti,
59
specialmente gli uomini che praticano poco la religione. Con co-
storo che di volta in volta, almeno a Pasqua, s'accostano ai sacra-
menti, il Frassinetti suggeriva, fra le altre avvertenze, quella
— la prima — di non farli aspettare quando si presentano e di
mostrarsi sempre pronti ad ogni loro richiesta, anche se l'ora
è incomoda e inopportuna. Se ci sono poi uomini e donne da
confessare, conviene sentire prima-gli uomini perché questi, ge-
neralmente, hanno occupazioni più importanti ed hanno meno
pazienza. La seconda avvertenza che il Frassinetti dava per la
confessione degli uomini è d'accoglierli non solo in modo cortese
ma « allegro e festivo ». Dar loro l'impressione che al confessore
riesce graditissimo l'ascoltarli. Anche se sono d'infima condi-
zione, usare il miglior garbo e mostrare l'affetto che si avrebbe
per il più caro amico (cfr. Manuale prat. del parroco nov.,.p. 352).
« Strumento e segno della misericordiosa paternità di Dio e
della comprensione materna della Chiesa » (Doc. C.E.I. n. 101):
il confessore consapevole di questo suo altissimo ministero sente
il bisogno urgente di disporvisi con la preghiera (remota ed imme-
diata): perché sa di compiere un servizio: cerca incessantemente
d'essere un docile strumento di Dio per aiutare le anime a sco-
prire e metter in pratica quelle che sono veramente le sue ispira-
zioni. Ma conosce tutti i propri limiti, tutta la propria fragilità,
tutti i pericoli inerenti anche a questo ministero. Perciò prima di
entrare in confessionale raccoglie il suo spirito, rettifica la sua in-
tenzione innalzando lo sguardo in alto chiedendo l'aiuto di Dio e
rinnovando la consacrazione della sua castità a Maria, Vergine pu-
rissima.
6. Maestro e psicologo
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ne di moralità: quello oggettivo e quello soggettivo. Secondo
l'ordine obbiettivo l'atto umano è considerato alla luce della
legge obbiettiva della moralità (legge divina od umana); secondo
questa norma l'atto è giudicato nei suoi elementi che sono l'og-
getto, il fine, le circostanze. L'oggetto è la finalità intrinseca
dell'azione; il fine del soggetto operante può coincidere con
questo effetto immediato dell'azione, oppure esser diverso (c'è
chi uccide per uccidere e c'è chi uccide una persona per liberare
dal pericolo un'altra: priva, ad esempio, della vita il bimbo
non ancor dato alla luce, per sollevare la madre togliendola dallo
stato di gravidanza).
Sul piano, invece, soggettivo l'atto umano è visto in rela-
zione alla norma soggettiva della moralità, che è la coscienza.
Si considera inoltre quale sia il merito o l'imputabilità d'un'azione
compiuta.
I. Ordine obbiettivo
1. Fonti della moralità: l'oggetto, il fine, le circostanze. L'og-
getto: ciò a cui l'azione tende per sé e primariamente. Esempio:
l'oggetto (od effetto immediato o finalità intrinseca) dell'aborto
terapeutico è l'espulsione del bimbo immaturo dalla madre, e
quindi la sua uccisione. Il fine del medico operante può esser
non la uccisione del bimbo ma la salute della madre. Ma questo
effetto è mediato perché ogni azione non ha che un solo effetto
morale immediato da cui è specificata. Per giudicare quale sia
l'oggetto morale di un'azione — e quindi la sua moralità buona
o cattiva — l'azione va considerata secondo tutte le sue circo-
stanze: il ferimento d'un uomo può esser — secondo le circo-
stanze — effetto indiretto d'una legittima difesa oppure il fine
immediato e l'effetto diretto di una violenza ed aggressione
ingiusta.
Le circostanze in senso stretto sono qualità accidentali che
modificano in più od in meno la moralità, buona o cattiva, d'una
azione senza mutarla sostanzialmente (un furto — in materia gra-
ve — può esser più o meno grave). L'oggetto dà all'azione la sua
moralità essenziale: difatti se l'oggetto è cattivo l'azione non di-
venta buona pel fatto che fine e circostanze accidentali sono buo-
ni. A meno che non si tratti di circostanze che mutano la mora-
lità dell'oggetto stesso (ma allora non sono propriamente circo-
stanze, cioè qualità puramente accidentali). Il lavoro proibito in
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giorno festivo cessa di essere un'azione illecita quando si verifica
lo stato di necessità. Ma ci sono azioni che non possono subire
una mutazione sostanziale di moralità per quanto possano cam-
biare le circostanze: sono le azioni cosiddette « intrinsecamente
cattive », ad esempio gli atti impuri contro natura (masturba-
zione, omosessualità, pratiche anticoncezionali). E siccome anche
il fine soggettivo è una circostanza, perciò un'azione intrinseca-
mente cattiva non diventa lecita pel fatto che è posta come mezzo
per un fine onesto.
La legge naturale (cioè incarnata nella natura umana di cui
esprime le esigenze) è immutabile come la natura stessa ". A
meno che non si tratti di atti che pel cambiamento di circostanze,
subiscono una mutazione sostanziale della loro moralità, cosic-
ché una legge naturale viene a cessare. Una legittima difesa che
indirettamente causa un omicidio non è un'azione proibita dalla
legge naturale (appunto perché non è un'uccisione diretta ma la
conseguenza d'una permessa difesa). Uccidere invece direttamen-
te è proibito dalla legge naturale (senza un permesso di Dio).
11
« Objectum a quo actus accipit essentialem et primariam moralitatem
est illud circa quod versatur actus moralis et primo et per se attingitur
ab ipso actu... Si objectum est intrinsece et natura sua conforme rectae
rationi, ut est amor Dei, erit immutabiliter bonus. Si objectum sit indecens
et inconveniens naturae rationali, ex eo consurget malitia essentialis actus »
(S. Alf., Tb. Mor., 1. V, art. IV, nn. 36-37). «A torto, quindi, molti oggi
pretendono che, per servire di regola alle azioni particolari, non si possa
trovare né nella natura umana né nella legge rivelata, altra norma assoluta
ed immutabile, se non quella che è espressa per mezzo della legge naturale
della carità e del rispetto della dignità umana. A prova di questa asserzione
essi sostengono che nelle cosiddette norme della legge naturale o nei pre-
cetti della Sacra Scrittura, non si deve vedere altro che determinate espres-
sioni d'una forma di cultura particolare in un certo momento della storia.
Ma, in realtà, la Rivelazione divina e, nel suo proprio ordine, la sapienza
filosofica, mettendo in rilievo esigenze autentiche dell'umanità, per ciò stesso
manifestano necessariamente l'esistenza di leggi immutabili, inscritte negli
elementi costitutivi della natura umana e che si manifestano identiche
in tutti gli esseri dotati di ragione » (Dich. « Pers. Hum. », n. 4). Esiste
dunque una legge conoscibile della stessa ragione riflettente sul fine e sulle
esigenze della natura umana. E ciò che è una esigenza della natura umana
è immutabile come la natura stessa. Perciò nella legge naturale non è
ammessa epikeia propriamente detta, cioè qualche caso nel quale si possa
presumere che il legislatore non intenda obbligare. S. Alfonso affermava
si che può darsi epikeia anche per la legge naturale (Th. Mor,, t. I, 1. I,
tr. II, n. 201) ma aggiungeva: «ubi actio possit ex circumstantiis a malitia
denudari». Egli si riferiva dunque, per esempio, al caso in cui sarebbe da
62
Fine e circostanze non giustificano l'uccisione diretta. L'aborto
diretto terapeutico non diventa lecito pel fatto che si intende e
si proclama di voler solo assicurare la salute della madre amma-
lata e di operare a malapena. Ma se si espelle il bimbo mettendolo
in condizione di non poter vivere non si può non intendere anzi-
tutto la sua uccisione. Chi affermasse che il fine onesto rende
lecita l'azione che ha una finalità intrinseca disonesta si pronun-
cerebbe sulla moralità oggettiva dell'azione e formulerebbe cosi
un principio che, per esser logici, dovrebbe valere per tutti i
casi simili. Se si fa invece il caso di uno che erroneamente crede
lecito per un fine buono compiere una data azione cattiva, allora
ci si porta sul piano soggettivo della coscienza (come vedremo):
ma questo giudizio della coscienza vale solo per il singolo che
sia in buona fede.
Ed il male non cessa d'esser male pel fatto che il soggetto
intende e pensa, con un'azione illecita intrinsecamente cattiva,
d'evitare un male maggiore (come potrebbe essere il raffredda-
mento dell'amore coniugale od il pericolo d'adulterio da parte
di uno dei coniugi qualora essi osservassero la consigliata asti-
nenza invece d'usare del matrimonio onanisticamente). La mora-
lità obbiettiva resta invariabile sia nei principi sia nelle conclu-
sioni della legge morale naturale. E nessuno può trovarsi, obbiet-
tivamente, nella necessità di fare il male. Solo l'ignoranza del
singolo può indurre una coscienza erronea e far credere lecito o
doveroso ciò che non è. Ma allora dal piano oggettivo ci si porta
a quello soggettivo u .
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2. Il fine onesto non giustifica un'azione disonesta: per la
salute della madre non si può sacrificare la vita del bimbo inno-
cente mediante l'aborto. Se invece un'azione avesse un duplice
effetto (uno buono ed uno cattivo) sarebbe lecita se si verifi-
cano queste condizioni: che l'effetto immediato, ossia l'oggetto
dell'azione (a cui essa tende per sua intrinseca finalità) sia buono
od indifferente; che l'effetto cattivo sia mediato (il che è impli-
citamente dimostrato se è dimostrata la prima condizione per-
ché un'azione non può avere due fini morali intrinseci ed essen-
ziali, uno buono ed un altro cattivo); che l'intenzione del soggetto
operante sia diretta al fine buono e quello cattivo sia solo per-
messo; che, naturalmente, si cerchi se ci sono altri mezzi per rag-
giungere l'effetto buono e si prendano tutte le precauzioni per
allontanare, se possibile, l'effetto cattivo; nel caso che una via
migliore non si trovi, l'effetto buono dovrà controbilanciare, in
un giusto apprezzamento, quello cattivo: ci dev'essere (come si
suol dire) una causa proporzionatamente grave. Noi dobbiamo
infatti preoccuparci anche degli effetti indiretti delle nostre azio-
ni (purché però siano umanamente prevedibili, e quindi non trop-
po remoti e non puramente accidentali e casuali). Perciò se
l'aborto diretto è sempre illecito (anche se « terapeutico » od « eu-
genetico » — e non « criminale ») non è illecito quello indiretto
quando si tratta di salvare la madre: sarà perciò lecita l'opera-
zione di isterectomia — estirpazione dell'utero canceroso — an-
che se ha per conseguenza la morte del bimbo « quando il caso
sia operativamente curabile e non si possa attendere per il ri-
schio che il tumore divenga inoperabile; in questi casi è permesso
pure l'uso del radium sempre che non si possa attendere che il
feto diventi vitale e che si abbiano elementi per sperare di rag-
giungere la guarigione della malata... Nella pan-isterectomia alla
Wertheim... l'allacciatura delle arterie che precede l'estirpazione
dell'utero provoca la morte del feto... Ma anche in questo caso
l'aborto sarà indiretto » (F. Clauser, L'aborto terapeutico sotto il
deposita sunt reddenda: « sed potest in aliquo casu con tingere quod sit
damnosum et per consequens irrationabile, si deposita reddantur, puta si
aliquis petat ad impugnandam patriam ». Ma in tal caso è lo stesso oggetto
morale dell'atto che cambia « per mutationem materiae »: si deve restituire
ad ognuno il suo, ma non quando lo chiede irragionevolmente. Perché l'azio-
ne diventi da illecita lecita bisogna dunque, come si esprime s. Alfonso,
che l'azione « possa esser spogliata della sua malizia per l'intervento di par-
ticolari circostanze» (Th. Mor., t. I, 1. I, tr. II, n. 201).
64
punto di vista giuridico medico e morale, « Minerva ginecolo-
gica », 3, 1951, 22-23). Difatti fra le condizioni del principio del
duplice effetto non c'è l'esigenza che sempre l'effetto cattivo si
produca, quanto al tempo, dopo quello buono: si considera l'ef-
ficienza intrinseca dell'azione e si richiede quindi che l'effetto
buono sia immediato e venga prima quanto alla causalità (non
strettamente quanto al tempo).
3. Il principio del duplice effetto ci porta e ci aiuta a risol-
vere i casi difficili di cooperazione al male. La partecipazione
ad un'azione cattiva può esser immediata oppure mediata: è media-
ta quando non si partecipa direttamente all'azione stessa ma si dà,
a chi la pone, la materia di cui egli si serve per far il male, cioè
abusa. Ci sono azioni illecite che ammettono lecita, in certi casi,
una cooperazione anche immediata, perché non sono azioni intrin-
secamente cattive e quindi le circostanze possono render lecita la
cooperazione immediata. Si pensi a chi è costretto a partecipare
ad un furto sotto minaccia di morte. Il derubato non può ragio-
nevolmente pretendere che uno sacrifichi od esponga al peri-
colo la sua vita per difendere un bene materiale altrui: la par-
tecipazione immediata al furto è, dunque, in tal caso, giustificata
dal diritto ad un bene d'ordine superiore. Ma ci sono azioni
illecite nelle quali non c'è causa che giustifichi una partecipazione
immediata. È il caso delle azioni « intrinsecamente cattive » (come
sono le pratiche anticoncezionali). Per giustificare una parteci-
pazione — solo mediata s'intende — a tali azioni si esigono,
press'a poco, le stesse condizioni richieste dal principio del duplice
effetto anche se è un caso diverso (non sempre dagli autori chia-
ramente distinto) da quello di chi pone una causa dalla quale —
per l'intervento di circostanze « naturali » — segue anche un
effetto cattivo. Ma chi non partecipa all'intenzione cattiva altrui
e coopera mediatamente all'atto illecito, dà solo la materia di cui
abusa chi vuole e pone l'azione: questi ne è la causa principale.
Non è lecito cooperare neppure mediatamente, se non c'è causa
scusante. Ma, appunto perché la responsabilità dell'intenzione e
dell'azione diretta spetta a chi la pone immediatamente, perciò
(dicono gli autori) per giustificare la cooperazione mediata occor-
re una causa uguale o meno grave di quella necessaria per chi
pone liberamente un'azione che ha un duplice effetto per l'in-
tervento accidentale di cause non libere, perché questi — a
differenza del cooperatore mediato — può dirsi, in certo qual
modo, causa principale anche dell'effetto cattivo (Vermeersch,
65
Th. Mor., I, 1947, n. 122). Qualche esemplificazione. Una sposa
potrà rendere il debito coniugale (in modo da parte sua regolare,
s'intende, non già con l'uso di preservativi) anche se prevede
che il marito farà in modo di evitare le conseguenze interrompendo
l'atto. Appunto perché l'irregolarità e l'abuso sono praticati solo dal
marito direttamente e non mediante strumenti. Basta che, mossa
dalla carità, gli faccia capire benevolmente che preferirebbe seguire
la natura. Ripeterà questo suo desiderio quando le sembrerà oppor-
tuno, cioè quando prevede che la parola buona sarà fruttuosa: altri-
menti è più prudente che si astenga. Nel caso che rifiutasse il debito
o si mostrasse restia — e cosi il marito si raffreddasse e si disgu-
stasse — potrebbero nascere mali e pericoli maggiori. (In tal caso
vale il principio che conviene evitare il male maggiore, ma vale per-
ché la moglie non pone nessun atto intrinsecamente cattivo). E non
deve ritenersi colpevole se — dopo fatto quanto carità e prudenza
le suggeriranno — sentisse un sollievo nel non aver una prossima
gravidanza (tanto più se è ragionevole una certa limitazione della
prole): basta che internamente non approvi l'abuso e, da parte
sua, sia disposta ad evitarlo ad ogni costo. Sia invece generosa
nell'accettare la figliolanza, se viene. Qualcuna si lamenta col
marito rendendogli la vita pesante o addirittura impossibile; cosi
facendo potrebbe indirettamente indurlo all'onanismo se invece
di portargli con una vita nuova, la gioia, gli porta l'infelicità.
Sia generosa comprendendo che se per lei l'astinenza non è diffi-
cile, lo è per l'uomo.
Partecipazione ad un atto illecito è quella di un giudice che
pronuncia sentenza di divorzio cooperando agli effetti dannosi
d'una legge ingiusta. Però tale sentenza, ha, di per sé, come
oggetto immediato e diretto solo la cessazione degli effetti civili
del matrimonio (che resta valido come prima, secondo la legge
morale naturale). Su questo indissolubile vincolo il giudice non si
pronuncia. Anzi, il magistrato che non approva questa legge
permissiva ed ha coerenza di fede, delicatezza di coscienza, saprà
dire espressamente a chi chiede il divorzio che la sentenza civile
riguarda solo gli effetti civili, non il vincolo indotto dal diritto
e dalla legge morale naturale per chi ha già contratto un matri-
monio valido. Si cercherà d'evitare cosf lo scandalo che un giu-
dice potrebbe provocare negli altri con un comportamento (sia
pur richiesto dal suo ufficio) contrastante con la sua fede ed i
suoi principi morali. In modo particolare in una nazione ove
il divorzio è introdotto per la prima volta (come in Italia, bene-
66
fidata da una delle peggiori tra le leggi divorziste esistenti).
Ma, se un giudice per non cooperare alla prassi divorzista, do-
vesse dimettersi dal suo ufficio ne avreboe un gravissimo danno
per la propria professione e danno recherebbe anche alla co-
munità che resterebbe priva d'un giudice onesto. Perciò egli
può restare al suo posto: si verificano le condizioni per giustifi-
care la sua cooperazione ad un danno morale, sia pur anche so-
ciale. Del resto, la stessa legge italiana sul divorzio stabilisce che
i coniugi devono comparire davanti al presidente del tribunale
personalmente (salvo gravi e comprovati motivi). Ed il presi-
dente deve sentire i coniugi prima separatamente e poi congiun-
tamente tentando di conciliarli (art. 4). Più difficilmente potrà
giustificarsi un avvocato che patrocina una causa per ottenere
il divorzio perché egli è libero di assumere o rifiutare queste
cause. Chi poi dà il suo voto favorevole al divorzio (nel Par-
lamento o nel Referendum) questi pone un'azione che ha un
oggetto immediato intrinsecamente cattivo: l'approvazione della
legge stessa. Né può esser giustificata la cooperazione del co-
niuge che sottoscrive — anche se lo fa a malapena ed è incol-
pevole nella sua vita matrimoniale — la domanda di divorzio
voluto dall'altra parte in seguito al proprio colpevole compor-
tamento.
Come si vede, nei casi di cooperazione (mediante un atto che
non ha una finalità intrinseca cattiva ma indifferente) bisogna
considerare la maggior o minor prossimità di tale cooperazione
all'azione illecita; la causa giustificante poi dev'essere prudente-
mente considerata e ponderata mettendo sui piatti della bilancia
il danno che uno avrebbe se negasse la sua cooperaxione ed il
male (più o meno grave, più o meno probabile, più o meno certo,
privato o ristretto o pubblico) che consegue a tale cooperazione.
Ci sono mali e scandali (specialmente pubblici) ai quali molti
sono soliti cooperare scusandosi con troppa facilità, anzi con in-
differenza. Si pensi al fenomeno dilagante della pornografia a
cui tanti concorrono per scopo commerciale. D'accordo, un film
osceno, se fa del male lo fa, in definitiva, perché i singoli vo-
gliono andar a vederlo; potrebbero non andarci. E se le sale
cinematografiche fossero semivuote si cambierebbe forse regi-
stro. Gli spettatori si assumono tutta la responsabilità degli ef-
fetti nocivi che subiranno personalmente, nonché della coopera-
zione alla produzione di films scandalosi. Però chi li produce e
li allestisce offre la materia incendiaria e favorisce lo scandalo
67
pubblico. E se approva, raccomanda, fa pubblicità propagandisti-
ca di questi spettacoli la sua mala cooperazione è anche inten-
zionale. La gravità di questa cooperazione è diversa da quella
di un operaio che (senza far propaganda di erronee ideologie e
procurando che non sorga scandalo) prende la tessera d'un par-
tito che ha un programma antireligioso, e lo fa solo perché altri-
menti resterebbe senza il pane per la famiglia. Ci si chiede invece
se siano scusabili quegli edicolanti che mettono in mostra pub-
blicazioni pornografiche. È vero che son gli autori e gli editori che
cooperano al male con azioni in sé, immediatamente, cattive; i
rivenditori cooperano mediatamente. Ma se devono (in base ai
contratti esistenti in materia) detenere e vendere simili periodici,
possono non raccomandarli. E chi non vuol raccomandarli, evita
anzitutto di esporli in visione. Questo comportamento può cer-
tamente costituire una rinuncia a qualche guadagno maggiore. Ma
è questa costosa (e non troppo) coerenza che si domanderebbe.
Specialmente da chi vuol esser cristiano militante per una causa
ed un ideale.
68
creto effettivamente grave o leggero. Questo giudizio è, anzi,
spesso impossibile allo stesso penitente. Però il confessore userà
coi penitenti un diverso trattamento pastorale a seconda che
danno segni d'aver gravemente e consapevolmente, o meno, disob-
bedito alla voce della coscienza.
3. Qualora il confessore s'accorga che il penitente non ha
appreso il peccato secondo la sua obbiettiva malizia, dovrà cor-
reggere la coscienza erronea? Bisogna distinguere. Se constata (o
dubita) che il penitente creda peccato (o peccato grave) ciò che
non è tale, il confessore deve illuminarlo. Con chi, in buona
fede, non ritenga grave ciò che è grave (o creda che non ci sia
per lui un obbligo che obbiettivamente c'è) bisogna prudente-
mente esaminare se l'ammonizione secondo verità è da prevedersi
fruttuosa o no. Se si prevede infruttuosa sarà da omettersi (al
fine di impedire la colpa soggettiva): « ratio est — scrive s. Al-
fonso — quia magis cavendum est a periculo peccati formalis
quam materialis; quia Deus tantum formale punit, siquidem hoc
solummodo in sui offensam habet » (Praxis Confess., Venetiis,
1834, p. 84). È il caso d'una restituzione che, per sé, sarebbe
doverosa. Altro esempio: il confessore, nella sua veste, al medico
che manifestasse in confessione di consigliare o praticare l'opera-
zione illecita d'aborto dirà chiaro che non è lecito. Coi fedeli
— specialmente se è già stato dato il consiglio ed il giudizio
da parte del medico — bisogna agire con quella prudenza che co-
nosciamo necessaria: si danno casi eccezionali in cui/conviene
lasciare una persona in buona fede, anche perché il confessore
non saprà con precisione che genere di operazione sia e non con-
viene indagar molto (ci sono casi nei quali l'aborto provocato
dall'intervento è solo indiretto).
Può esser però che il bene stesso del penitente od il pericolo
d'un male comune postulino o consiglino l'ammonizione. Ad
esempio, un ragazzo che per ignoranza compisse atti impuri
sarebbe da ammonirsi perché non contragga il vizio, anche se si
prevede che forse non si correggerà subito. Quasi tutti iniziano
la pratica della masturbazione per caso o per l'esempio dei com-
pagni, senza però chiara coscienza che è un male. Poi contraggono
l'abitudine e molti sono infelici perché non riescono a vincersi e
confessano che non vi sarebbero caduti se avessero saputo che
era peccato.
Qualora il penitente stesso dubitasse se abbia avuto la consa-
pevolezza necessaria alla colpa grave, si giudicherà in base alla
69
presunzione: a seconda che si tratta di coscienza delicata o larga.
L'ideale è formare coscienze delicate. Sempre giuste però. Il con-
fessore, quindi, di massima, illumina il penitente secondo la verità.
E quando si presenta prudente non turbare la buona fede sostan-
ziale, anche allora non può positivamente dichiarargli lecito ciò
che lecito non è. Altrimenti si pronuncerebbe sull'ordine obiet-
tivo della moralità, erroneamente.
4. Sul piano soggettivo può presentarsi pure il problema della
imputabilità di un atto per sé disordinato. Ci sono impedimenti al
libero arbitrio. Dopo il peccato originale la vita morale è, di per
se stessa, difficile. Non per questo si è scusati dallo sforzo di
osservare la legge. Però, di fatto, avvertenza e deliberazione hanno
gradi diversi, lì peccato grave richiede una certa pienezza di cogni-
zione e di consenso. Potrebbe darsi che la forza della passione osta-
coli la libertà, oscurando quel giudizio ultimo che precede l'op-
zione; conseguentemente anche il pieno consenso verrebbe a man-
care. Potrebbe darsi perciò che non manchi la chiara cognizione
teoretica della legge, ma che non altrettanto chiaro sia il giudizio
pratico (se questo non fosse impedito, anche il consenso, di chi
si determina all'atto, sarebbe pieno). In un documento sui pro-
blemi dell'etica sessuale in data 2-II-74, i Vescovi Lombardo-
Veneti, accennando, fra l'altro, al fenomeno della masturbazione
negli adolescenti, dopo aver affermato che secondo « l'insegna-
mento certo della Chiesa... sul piano oggettivo è un disordine
morale grave », aggiungono che « sul piano soggettivo, soprattut-
to nell'età adolescente, pur senza escludere a priori la possibilità
di una completa responsabilità — non si deve sottovalutare, allo
scopo di un retto giudizio morale, l'incidenza dei condizionamenti
psicologici e sociali che possono compromettere un'avvertenza
piena ed un consenso deliberato. Tuttavia il giusto riconoscimento
delle cause che diminuiscono la responsabilità soggettiva, non de-
ve mai velare agli occhi dell'adolescente il fermo valore della
norma etica; e tanto meno deve attenuare nell'educatore l'impe-
gno di incoraggiarlo con infaticabile fiducia verso un progressivo
dominio di sé, prospettandogli la speranza di conquistare la vera
libertà, di aprirsi con matura sollecitudine agli altri, di crescere
in una fede personale, e anche di accogliere Videale della, verginità,
se Dio volesse chiamarlo per tale via a uno specifico servizio nella
Chiesa » (nn. 18-20).
E quando al confessore capitasse qualche caso nel quale è
dubbia la piena deliberazione di atti obiettivamente gravi (per
70
esempio, di masturbazione) il confessore sarà cauto e non preci-
pitoso nel proferire giudizi sulla colpevolezza soggettiva d'un
penitente. Il dubbio può venire magari dal fatto che si tratta
di un soggetto nevropatico il quale durante il giorno combatte
contro le tentazioni, prega, ma alla sera, a letto, non riesce a
prendere sonno, è tormentato da fantasmi e stimolazioni sessuali,
finché non placa questa tensione procurandosi la piena soddisfa-
zione. In simili casi il confessore non dirà al penitente che questi
atti non gli sono imputati. Tale dichiarazione può essere teme-
raria e causa di temerarietà: c'è pericolo che il penitente insensi-
bilmente opponga minore resistenza alle tentazioni e suggestioni,
e sia meno cauto nell'evitare le occasioni esterne. D'altra parte, il
confessore neppure affermerà positivamente che si tratta di colpe
gravi: ciò potrebbe provocare uno scoraggiamento. Egli seguirà
prudentemente una certa qual via di mezzo. Senz'altro sarà pie-
no di benevalenza e di misericordia con questi recidivi che lungo
il giorno cercano di evitare le occasioni pericolose {è questo, in-
sieme alla preghiera, sostanzialmente il segno tranquillizzante) u .
Non farà difficoltà a dare l'assoluzione. Li esorterà alla Comu-
nione frequente, anche quotidiana. La Confessione previa e fre-
quente è, in genere, tutt'altro che dannosa e credo vani i timori
espressi da B. Haring in Adolescenza e Penitenza, Torino, L.D.C^/
1969, 142. La Confessione può e dev'essere sempre consigliata:
è un'infusione di grazia sacramentale ed un ottimo rimedio psi-
cologico (i casi psichiatrici non costituiscono la normalità ma una
eccezione).
71
buona fede a causa di particolari circostanze delle propria vita co-
niugale). Né si deve partire dalla presunzione che legge e coscienza
siano in opposizione (e questa impressione può aversi se si pre-
senta la legge come qualcosa d'impersonale che s'impone dall'ester-
no e va contro i cosiddetti « diritti » della coscienza). Il dissidio
fra legge e coscienza ci può essere, ma, come scriveva E. Hamel,
dev'esser considerato come qualcosa d'eccezionale, di provvisorio
e, per quanto possibile, da superarsi {Conferentiae episcopales et
encyclica «Hurnanae vitae », «Periodica», 58, 1969, 347). Al-
trettanto si dica di alcuni documenti degli episcopati stessi a pro-
posito di qualche caso-limite di estrema gravità, nei quali qual-
cuno può ritener lecito il ricorso all'aborto (presso G. Caprile,
Non uccidere, il Magistero della Chiesa sull'aborto, Roma, « La
Civiltà Cattolica », 1973). Se invece queste dichiarazioni intendes-
sero ammettere « eccezioni » vere e proprie sul piano obbiettivo
per le « difficoltà sempre mutevoli dei casi particolari », se si
spingessero davvero ad ammettere che la stessa legge morale natu-
rale è meno rigida di quanto può apparire dall'insegnamento del
Magistero supremo della Chiesa, se fossero da intendersi cosi
siffatte dichiarazioni, allora bisognerebbe semplicemente conclu-
dere che l'insegnamento dei Vescovi è tutt'altro che infallibile
quando non concorda in pieno con quello di Pietro.
2. Ed anche per la prassi del confessore la chiara distinzione
tra ordine soggettivo della moralità ed ordine oggettivo ha conse-
guenze importantissime. Se si dovesse ammettere il principio che
le norme della morale sono in concreto flessibili secondo le esi-
genze della persona considerata nella sua situazione, il confessore,
di fronte a chi, ad esempio, ricorre alle pratiche anticoncezionali,
dovrebbe (per esser logico ed onesto) in qualche caso (e forse non
raramente) dare la sicurezza ed affermare chiaramente ad un deter-
minato penitente che, nella sua situazione, ciò è lecito (e perciò
non deve farsene scrupolo, né confessarsi, né astenersi dalla Co-
munione). Se invece (a parte il giudizio morale sulla moralità
oggettiva) il confessore considera solo la questione della coscienza,
può giudicare in qualche caso, prudente tacere, cioè non turbare
la buona fede. Ma comportandosi in tal modo egli non approva
positivamente: appunto perché si conserva solo sul piano sogget-
tivo della coscienza.
IV. La Confessione non è solo una continua ed ottima occa-
sione per richiamare ai penitenti la legge morale e per formare
coscienze giuste, fornite d'un equilibrato senso del bene e del
12
male. E neppur solo per muoverle alla riforma della vita mediante
il dolore e Ù proposito. La Confessione offre anche — e bisogna
dire anzitutto, se la fede è il fondamento — l'occasione per solle-
vare le anime alla contemplazione delle principali e più vitali
verità che esse già credono. Perché queste verità — anche se
noi le « crediamo » — non le « pensiamo » : perciò non diventan
norma del nostro operare, cioè « vita ». È questo non pensarci
che ci fa operare come se non le credessimo M. Abilità carisma-
tica di certi confessori: con poche parole sanno aprire orizzonti
di fede e di speranza. La Confessione può diventare scuola con-
densata di vita spirituale.
14
Già Aristotele osservava che ógni peccatore è in certo qual modo un
ignorante. Il Lessius sviluppando lo stesso concetto, metteva alla radice dei
disordini morali la mancanza di considerazione: « Bona énim spiritualia nisi
attente, et crebro cogitentur, non cognoscitur eorum dignitas, et pulchritudo;
quod autem non cognoscitur, non aestimatur, quod non aestimatur, non
amatur, non quaeritur, facile negligitur et contemnitur. Pari modo peccato-
rum malignitas, et damna immensa, nisi attenta consideratione, non cogno-
scuntur; quo fit ut etiam non horreantur, nec vitentur, ut par est. Et sane, si
quis diligenter advertat animum, deprehendet omnes fere lapsus, et peccata
hominum ex defectu considerationis provenire; ut merito dixerit Aristoteles:
otnnetn peccantem esse quodammodo ignorantem. Nam omnes, vel fere
omnes ideo peccant, quod malitiam peccati, et poenam ipsi debitam, vel non
considerent, vel non satis considerent... Hinc Scriptura vocat peccatores
stultos, fatuos, insensatos, insipientes: non tamen hinc inferas orane peccatum
esse ex ignorantia; hoc enim postulat ut noscatur esse peccatum » (L. Les-
sius, De iustitia et jure..., I, 2, 29, Venetiis, 1734, p. 10).
73
coscienza il peccatore la richiama alla mente, la riconosce, la vede
nella sua realtà, forse più brutta (s'egli è di coscienza larga)
forse meno brutta (se è di coscienza piuttosto delicata) di quanto
gli è apparsa nel momento del peccato. Ora può con animo più
sereno e pacato valutare ciò che ha fatto e — per quanto possibile
— la maggior o minor malizia con cui l'ha fatto.
Essenzialmente la Confessione è un giudizio. Però un giudizio
specialissimo che si differenzia sostanzialmente da quello profe-
rito nei processi umani. Un giudizio che ha per scopo la libera-
zione e non la condanna del colpevole. Un giudizio che si compie
davanti a Dio di cui il confessore è ministro. Perciò da accu-
satore funge lo stesso reo il quale nei processi umani, invece,
è sempre in stato di difesa ed ha sempre il diritto di negare il
suo delitto.
2. Il confessore — dopo aver accolto con benevolenza il
penitente — se non lo conosce gli può chiedere (anche per dar
l'avvio ad un cordiale colloquio) da quanto tempo non s'è con-
fessato. La Confessione è essenzialmente un giudizio, ma il con-
fessore (colle sue industrie) farà in modo che ne abbia meno
che è possibile l'aspetto: cosicché il penitente senta spontanea-
mente il bisogno di riconoscersi — con un atto liberissimo —
peccatore e d'aprire la sua coscienza al confessore il quale, oltre
che giudice, è padre, fratello, amico, medico delle anime. Questo
giudizio si svolge in una sfera sovrumana. La fiducia in Dio sarà
il motivo dominante da richiamare a chi ha poca speranza nelle
sue forze ed a chi è troppo attaccato alle cose terrene ed a
se stesso.
Ci sono penitenti i quali si lamentano di confessori che fanno
troppe domande. D'altra parte ci sono penitenti i quali vorrebbero
che il giudice non si limitasse ad ascoltare, ma uscisse dal suo
mutismo: desidererebbero esser maggiormente aiutati nel loro
esame di coscienza, per riconoscere meglio le proprie mancanze,
ed anzitutto le radici di certi peccati ed i mezzi per vincerli:
penitenti che, in una parola, vorrebbero sapere se han fatto o no
quant'era necessario per conoscersi, correggersi, riformarsi e pro-
gredire. Pertanto il sacerdote — anche in questo —> userà discre-
zione e tatto, evitando ogni eccesso. Ed in genere, quando il
confessore sarà richiesto di guidare il penitente nel suo esame di
coscienza, non occorreranno molte domande per conoscere a suf-
ficienza lo stato d'un'anima (purché però il confessore sia pre-
parato a questo compito). Anzitutto può avanzare la discreta
domanda: « Cosa le sembra di ricordare? ». Non sarebbe consi-
74
gliabile che si assumesse sempre l'iniziativa d'una interrogazione
generale sui distinti probabili peccati del penitente. Potrebbe
indurre l'abitudine di trascurare la personale preparazione, l'esa-
me di coscienza e gli atti di dolore e proponimento.
3. L'accusa specifica dei peccati è una legge non solo eccle-
siastica ma divina. Emana dalla natura stessa del sacramento che
è un giudizio: il giudice deve conoscere lo stato del reo: non solo
che è reo ma perché è reo. S'aggiunge l'esplicito precetto positivo
di Cristo: « saran rimessi i peccati a chi li rimetterete: e saran
ritenuti a chi li riterrete » (Gv. 20, 23). Il potere comunicato agli
Apostoli non può esser convenientemente esercitato se essi non
conoscono i peccati; e non li possono conoscere se non vengono
loro manifestati nella Confessione. Legge divina, positiva però.
Perciò non obbliga con grave incomodo. Su essa prevale il diritto
naturale. Per esempio, quando il penitente temesse che il suo
complice sia facilmente individuato dal confessore (e cosi perda
presso di lui la sua buona fama) può (pel momento e finché si
trova nella medesima difficoltà) ometter/la confessione specifica
del peccato in questione includendolo iti un'espressione generica.
D'altra parte, siccome si può obbiettare che il complice, peccan-
do, ha perduto questo diritto alla buona fama, perciò il penitente
avrà anche la facoltà di accusare specificamente tale peccato, so-
prattutto se ciò si presenta conveniente per avere (da parte del
confessore-direttore che lo conosce) un saggio consiglio sul modo
di comportarsi.
Tuttavia l'accusa specifica dei peccati non è l'elemento prin-
cipale della Confessione. Non bisogna quindi darvi un'importanza
eccessiva. Se ci fosse il senso vivo del peccato dovrebbe esser
molto facile il ricordarlo (anche se poi — dicevo — l'esplicita
riflessione darà una conoscenza più obbiettiva del peccato e
della colpa reale). E subito si avrebbe, sotto il tocco della grazia,
il dolóre d'averlo commesso. Ma, specialmente oggi, in molti è il
senso del male che manca. Perciò l'esame di coscienza diventa
più laborioso perché non è solo un richiamo dei fatti, ma una
valutazione che si cerca di fare, in un momento di silenzio inte-
riore, di atti compiuti forse con coscienza dubbia: coscienza che
pertanto va anzitutto corretta sinceramente.
4. Spetta, per sé, al penitente esaminarsi in tanto in quanto è
necessario per conoscere i suoi peccati ed accusarli. Il confessore
può sentire il bisogno d'orientare chi non sa con chiarezza ciò
che deve accusare o non sa come esporre la sua accusa. Tenga
15
presente che, se interviene, è per supplire ciò che il penitente
dovrebbe confessare secondo le sue possibilità. Lasci quindi che
faccia la sua esposizione secondo l'ordine ed il modo con cui
s'è preparato. Non lo interrompa con domande che potrebbero
disturbare la sua memoria, impedire che si confessi con quella
integrità che desiderava e riteneva conveniente. Le eventuali in-
terrogazioni — che farà dopo l'accusa spontanea — saranno pro-
porzionate alla capacità non del confessore ma del penitente.
L'arte più difficile del confessore sta proprio in questo adatta-
mento alle condizioni ed ai bisogni dei singoli. Interrogazioni
delicate, prudenti, discrete: non bisogna importunare eccessiva-
mente il penitente. Anche quando si presenti opportuno fare
qualche domanda sui doveri di stato, non conviene entrare trop-
po nei particolari. Difatti non si è ragguagliati e non è il caso
di far indagini non strettamente necessarie (le quali spesso non
fornirebbero in definitiva una sicura e giusta idea) sulla vita
privata, sulla condizione del penitente, ad esempio sulle sue di-
sponibilità economiche in ordine alla beneficenza consigliabile.
Per non esser indiscreti, occorre tatto e sensibilità. Ci son peni-
tenti che si lamentano per le domande che vengon loro rivolte.
Domande che possono inutilmente turbare certe coscienze deli-
cate oppure infastidire certi spiriti suscettibili. Perciò il confes-
sore risvegli soprattutto le buone disposizioni di fondo. Ci sono
raccomandazioni che non si sbaglia mai a ripetere amabilmente:
sul buon esempio (che è.un'implicita professione di fede ed eser-
cizio della fortezza cristiana contro l'errore ed il vizio), sulla pratica
sacramentaria più frequente possibile... Il timore stesso (almeno
io penso) che il penitente —- d'altronde ben disposto — s'indi-
sponga in seguito ad una domanda che gli sembrasse sconveniente
o superflua, può esser causa giustificante perché non si insista
ulteriormente sul numero e la specie dei peccati già in sostanza
accusati. Anche nella direzione spirituale d'anime che aspirano
alla perfezione cristiana, conviene evitare quell'empirismo che si
restringe a particolari minuziosi consigli i quali, alle volte, non
sono utili perché non adatti al temperamento del soggetto. Questi
deve soprattutto trovare nel confessore una spinta ad agire poi
da solo, a far le proprie scelte e prender le proprie decisioni
con pronta docilità agli impulsi della grazia ed alla voce della
coscienza.
E bisogna star attenti che — ai fini d'ottenere l'integrità della
Confessione — non si corra il rischio di far apprendere al peni-
tente l'esistenza di peccati che ignorava e che è meglio continui
76
ad ignorare. Piuttosto che incorrere in questo pericolo e danno
è meglio sacrificare l'integrità della confessione. S'aggiunga che
con certi uomini o giovani — poco riflessivi e poco assidui alla
pratica sacramentaria — bisogna accontentarsi d'un'accusa som-
maria: i loro cervelli non arrivano a percepire certe finezze e
distinzioni. Chi studia solo nei libri, conoscerà certi generali
e dettagliati esami di coscienza, preparati pel confessore. Ma la
pratica pastorale vuole un adattamento continuo degli schemi
astratti ed ideali: il confessore deve saper toccar il tasto che più
conviene alla situazione del singolo penitente. E dovrà anche far
in modo che il proprio linguaggio sia comprensibile: saprà perciò
anche conformarsi al modo di esprimersi dei penitenti, secondo
le consuetudini del luogo. Ad esempio, il termine « carità », per
moltissimi non ha certo quell'immenso significato, quel profondo
contenuto, quella soprannaturale finalità che il teologo intende,
ma vien ristretto ad indicare l'elemosina .fatta ai poveri.
5. È un fatto che circa il dovere dell'esame di coscienza e
della specifica accusa si nota talora una mentalità ed una prassi
poco equilibrate. L'esame di coscienza è un mezzo perché non
venga meno la doverosa accusa. Quindi la sua necessità ed utilità
è relativa al fine. Il dovere poi di accusare distintamente i pec-
cati secondo la specie ed il numero è una legge precipiente, posi-
tiva, la quale pertanto (anche se divina) non obbliga con grave
incomodo. Non c'è obbligo stretto di confessare i peccati dubbi
(i quali, se eventualmente fossero reali, possono essere distrutti
con l'atto di contrizione o rimessi — a chi è attrito ed in buona
fede — dal sacramento dell'Eucaristia). L'accusa distinta dei pec-
cati, in definitiva, è richiesta perché il confessore conosca lo stato
del penitente: in certe matematiche indicazioni si può tacere dello
stato abituale dell'anima. Perciò l'esatto numero dei peccati sarà
sufficientemente, anzi meglio, supplito dall'indicazione della con-
suetudine (dei peccati commessi in media ogni mese, ogni setti-
mana) (cfr. Vermeersch, Th. Mor., I, Romae, 1947, n. 419). L'esa-
me di coscienza, in particolare, dovrebbe esser relativo allo stato
di coscienza del singolo (che può esser più o meno gravato di pec-
cati), all'intelligenza, alle forze fisiche (che possono sconsigliare
uno sforzo di memoria o far temere turbe psichiche non salutari),
alla mentalità stessa del penitente (alcuni sentono ripugnanze
invincibili nel richiamare alla mente e nel manifestare dettaglia-
tamente le loro azioni); relativo alle disposizioni abituali di co-
scienza (la quale può essere lassa oppure timorata e delicata o
77
addirittura scrupolosa). Ad uno scrupoloso il confessore potrà
ridurre esame ed accusa (se creano turbamento inutile o dannoso)
o addirittura dichiarerà che è dispensato da ogni esame e dal
dovere d'una specifica accusa (di peccati non pienamente certi e
gravi). Del resto, tutti coloro che fanno ogni giorno un po' di
esame di coscienza possono ritenersi sempre preparati alla Con-
fessione. Comunque, per nessuno ed in nessun caso, si esige un
impegno, una ricerca, una diligenza straordinaria nell'esame di
coscienza: basta quella che si usa nelle solite ordinarie faccende,
non si richiede quella riservata alle operazioni ardue, delicate,
pericolose. La Confessione è una pratica religiosa alla quale Gesù
intende sia applicata la Sua parola consolante: « il mio giogo è
soave, il mio peso leggero» (Mt. 11, 30). Il confessarsi (anche
per chi non lo faceva da anni) è una cosa facilissima con l'aiuto
d'un confessore esperto. Certi ammalati, per paura di non saper
esaminarsi e di non accusarsi bene, rimandano e rimandano la
Confessione. È un errore ed un pericolo: corrono il rischio di non
confessarsi mai. Pertanto se, da una parte, non si può approvare
il. sistema di confessarsi senza premettere alcuna riflessione e pre-
parazione (specie da parte di chi non lo faceva da tanto tempo),
d'altro canto non bisogna pretender troppo. Certi studenti di teo-
logia ricevevano, pel passato, un'istruzione che rendeva forse
troppo complessi gli uffici del confessore ed i doveri del peni-
tente. Cosicché pensavano, ad esempio, di dover indagare ed arri-
vare al giudizio se un peccato accusato fosse stato grave o no.
Ma altro è la materia del peccato ed altro la colpa soggettiva.
Certo il confessore deve conoscere la gravità dei principali peccati
« ex parte materiae ». Chi' disprezzasse come inutile questa cono-
scenza disprezzerebbe tutta la teologia morale che la insegna.
Circa la colpa soggettiva, invece, si potrà fare un giudizio di pre-
sunzione sulla gravità o meno degli atti accusati da un penitente.
Ma in tanti altri casi ciò resta molto incerto; e non è necessario,
per assolvere, che il confessore superi questa incertezza: assolve
dal peccato come lo vede e lo giudica Dio. Per reazione ad una
Morale che' esponeva quasi unicamente la materia oggettiva di
possibili peccati, con abbondante casistica, è avvenuto che taluni
giovani confessori, dopo qualche esperienza, hanno buttato al-
l'aria tutti i manuali e tutte le norme e si sono affidati al proprio
buon senso (che speriamo buono). L'odierna invocazione — da
parte anche di certi sacerdoti — della Confessione generica, può
esser anche una reazione, per eccesso opposto, ad una specie
78
\
di giansenismo che s'era infiltrato nella pratica di questo sacra-
mento, f.
In conclusione, tenendo presente che il giogo del Signore è
soave e che l'atto principale del penitente è il dolore (con l'impli-
cito proposito), conviene che quando il penitente dimostra retti-
tudine, sincerità e pentimento, il confessore sia discreto ed eviti
investigazioni che possono indisporre. E s'accontenti, in genere,
di quanto il penitente, in buona fede, ha creduto di dover speci-
ficare. Se presterà il suo aiuto, indirizzando, ad esempio, l'esame
su qualche altro punto, lo faccia in modo che il penitente sia
lieto e riconoscente d'aver ricevuto questo orientamento.
6. Il confessore sarà prudente anche nei suoi consigli circa
l'eventuale accusa di peccati già confessati. Capita talora qual-
che penitente che propone di fare una specie di confessione « ge-
nerale » (di tutta la vita passata b di parecchi anni). Gli autori
di morale e di ascetica distinguono tre casi possibili. Primo,
quando fosse necessaria la ripetizione di confessioni già fatte per-
ché il penitente è certo dell'invalidità delle confessioni fatte:
egli sa che, a partire da un dato momento, si è sempre (dico
« sempre ») confessato insinceramente e sacrilegamente. Direi che
oggi il caso è meno pratico e meno frequente che pel passato,
sia perché c'è più libertà nell'uso dei sacramenti (anche negli
ambienti « religiosi ») sia perché c'è più possibilità di sposta-
mento (per le suore stesse) per trovare un confessore al quale
il penitente è sconosciuto.
C'è poi il caso in cui la confessione generale (di peccati già
confessati) pare consigliabile perché spiritualmente utile al peni-
tente, anche se non strettamente obbligatoria: ad esempio, per
uno di coscienza piuttosto lassa e di vita piuttosto tiepida, il
quale abbia dubbi fondati sulla validità delle confessioni prece-
denti; oppure per chi si trova ad una svolta della sua vita in cui
ha bisogno d'una presa di quota: l'umile richiamo del suo passato
sotto la guida del confessore, potrebbe infondergli sentimenti di
sincera umiltà e scuotere l'abituale apatia.
Infine c'è il caso in cui si teme che la ripetizione di colpe
già accusate sia dannosa e pericolosa: quando un'anima è per
indole scrupolosa od è mossa a ripensare alle confessioni già fatte
da un'ansia non salutare, oppure quando il rivangare certi fatti
della vita passata risveglierebbe la passione e farebbe risorgere
le tentazioni.
Il confessore sia prudente. Può domandare amabilmente al
penitente (che propone di fare una confessione generale) per
79
/
quale ragione desidera farla. Se la confessione generale vien fatta
ma è motivata da devozione e non da necessità, avversa subito
il penitente che non è affatto tenuto ad accusare tutto quanto
è già stato accusato. Tenga pure presente che spesso (in chi, ad
un dato momento, sente l'incubo di non aver accusalo qualche
peccato commesso, pur essendosi confessato serenamente innu-
merevoli altre volte) c'è, dopo parecchi anni, il ricordo vivo del
male fatto, mentre è venuta meno la memoria distinta e certa
d'averlo accusato. Pertanto, se il penitente è ansioso, il confes-
sore lo può tranquillizzare. C'è il pericolo che se si prendono in
considerazione simili timori, il ricordo d'un peccato richiami
quello di altri, con la stessa ansietà, e non la si finisca più.
Perciò, tutto considerato, è da ritenere che, in linea di massi-
ma, sia più vantaggioso il consiglio di non rivangare la vita
passata e di non richiamare alla memoria in particolare e distin-
tamente i peccati commessi; neppur allo scopo di rinnovare e rav-
vivare il dolore. I maestri di vita spirituale suggeriscono piuttosto
di ripensarvi solo in generale « facendone come un fascio affinché
non ci tornino ad inquietare » (A. Rodriguez, Esercizio di per-
fez. e virtù crisi., IV, Torino, 1926, p. 137). Tanto più che i
penitenti i quali tendono a ripensare ai peccati già accusati perché
insoddisfatti delle confessioni fatte, non sono, in genere, quelli
che hanno debole senso del peccato, ma piuttosto quelli inclini
all'incubo della colpa (forse unito ad una concezione legalistica
della Confessione).
7. Il confessore preparato ha davanti agli occhi il panorama
della vita morale — virtù e ideali, ombre e scogli —. Avrà anche
nella memoria qualche breve interrogatorio, adatto alle varie cate-
gorie di penitenti. Interrogatorio di cui si servirà con misurate
parole. Una domanda ben centrata (è stato scritto) provoca tal-
volta tutta una nuova impostazione di spiritualità; particolar-
mente in certi uomini che raramente si confessano.
Capita, alle volte, qualche penitente agitato perché gli vien
meno la memoria, o non sa come deve accusarsi; perciò ha
bisogno o chiede d'esser aiutato ed interrogato. Qualche altro, ap-
pare impreparato per abituale negligenza e leggerezza: non con-
viene, neppur questo, rimandarlo a far l'esame di coscienza. Qual-
cuno, forse, da solo non d riuscirebbe, ed è meglio sia aiutato
dal confessore; qualche altro potrebbe offendersi, indisporsi (in-
vece che disporsi meglio), potrebbe non ritornar più. Già il Se-
gneri ammoniva i confessori: « il più intollerabile errore, che
mai potreste commettere in questo punto, sarebbe quando senza
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cagion molto urgente mandaste indietro qualcuni sotto colore, che
dovendo» replicare le confessioni di molti anni/riavessero a ciò
bisogno di molto esame ». E aggiungeva che anche con costoro
« non riesce troppo penoso ad un Confessore, ò patiente, ò pra-
tico, esaminarli »: cosa che forse essi non saprebbero fare esa-
minandosi « da sé medesimi un mese intero ». L'esperienza poi
insegna che, se vengono rimandati « rare volte ritornano » (Il
Confessore istruito, Venezia-Bassano, 1672, p. 27). Lo stesso
consiglio veniva riferito e dato più tardi da s. Alfonso (Prat.
del Conf., n. 20). In altri tempi i confessori potevan esser più
severi con chi, non mancando di fede e di pratica religiosa, fosse
andato a confessarsi con imperdonabile leggerezza 15. Lo stesso
Catechismo Romano consigliava qualche misura pedagogica da
usarsi con quelli che non avessero saputo come dichiarare i pec-
cati commessi, né come si comincia in questa pratica (sia perché
si confessavano raramente sia perché nessuna cura e riflessione
usavano nella ricerca delle colpe). Consigliava, se fossero stati
del tutto impreparati, di « rimandarli con parole cortesissime e di
esortarli a pensare un po' ai propri peccati e poi ritornare » {De
Poenit. Sacram., n. 60). Però aggiungeva: « in quo tamen magna
cautio adhibenda est ». Ed il Catechismo Romano è il Catechismo
del Concilio Tridentino ai Parroci stampato a Roma per volontà
di s. Pio V, nell'ottobre del 1566. Ora, nella Pastorale, bisogna
distinguere ciò che è accidentale (e può cambiare secondo i luo-
ghi ed i tempi) e ciò che è essenziale (come il dolore ed il propo-
sito, da parte del penitente, di lasciare il peccato) e su questo
non possono ammetttersi variazioni.
S. Alfonso fa anche il caso d'un penitente che « ignori i
quattro misteri principali: che Dio esiste, che è rimuneratore
del bene e del male, i misteri della SS. Trinità e dell'Incarna-
zione e morte di Gesù Cristo ». E riportava l'avvertimento di
s. Leonardo da Porto Maurizio (che si trova nel suo Discursu
mystico et morali, n. 26): non conviene rimandare questi igno-
ranti ad istruirsi, ma insegnar loro brevemente il minimo neces-
15
S. Carlo nelle sue « Avvertenze » ai confessori esortava che quelli che
si fossero portati alla Confessione passando da qualche occupazione tem-
porale senza qualche raccoglimento nell'orazione, senza cognizione dei pec-
cati commessi — in una parola, senza alcuna preparazione — costoro doves-
sero esser ammoniti dal confessore « con parole caritative secondo la capa-
cità di ciascuno » che andassero « prima a prepararsi convenientemente » e
poi tornassero (« Avvertenze », Ada Eccl. Mediol., II, col. 1876).
81
/
sario, con la raccomandazione d'istruirsi meglio: « Bonurri non est
consilium — scriveva s. Leonardo — dimittere simileé ignaros
ut ab aliis haec doceantur; quia nullus alius sperabitur fructus
nisi ut sic ignari remaneant: ideoque expediens est breviter eos
docere praedicta mysteria principalia, efficiendo paritei ut secum
efforment actus fidei, spei, charitatis et contritionisL. » (Prat.
del Conf., n. 22). Quando un fanciullo (od una persona non
istruita) risponde affermativamente al confessore che esplicita-
mente propone a credere i misteri della fede, per esempio in
pericolo di morte, ciò basta strettamente, per il momento, in
ordine all'assoluzione.
Speriamo che oggi questo sia un caso piuttosto ipotetico o
molto raro nei nostri paesi, dato il grado più elevato di cultura.
Però in molti c'è cultura profana ma non più esatta e profonda
istruzione religiosa che pel passato. Ed oggi può capitare il peni-
tente che, per falsi pregiudizi, pur non ignorando i misteri, li
riduce al mito e quindi li ritiene non più seriamente credibili.
Ci potrebbe esser in qualcuno un vago senso religioso ed anche
una pratica religiosa ma senza la vera fede. Non illudiamoci che
tutti coloro che vengono in Chiesa credano pienamente i misteri
principali della fede cristiana come li crede e li insegna la Chiesa
Cattolica. Il confessore interverrà, all'occasione, farà riflettere
che la fede autentica dev'esser adesione anche ai misteri; che
essa però è ragionevole in forza dei motivi di credibilità che sono
certi. Con questi penitenti che hanno una mentalità erronea il
compito del confessore è certo più difficile che con coloro che
avevano una semplice e volgare ignoranza della dottrina cristiana.
82
\
cristiane\— come l'umiltà, l'obbedienza doverosa (secondo la con-
dizione del singolo), la pazienza, la mitezza, la fortezza, la tem-
peranza, la povertà, la compassione, il compatimento —; non
figurano i doveri particolari relativi allo stato e professione
d'una persona; non è prospettato, oltre allo stretto necessario
all'onestà, quell'ideale di perfezione al quale il cristiano tende
per esser santo come è santo Dio. A queste critiche si potrebbe
rispondere che tutto sta nell'interpretazione e nelle applicazioni
che si vuol fare dei 10 comandamenti. Possono esser visti non
solo in chiave negativa (quasi una patologia della vita morale)
ma anche in chiave positiva (come un invito alla virtù). Biso-
gna però presentarli nei loro giusti rapporti e nella loro gerar-
chia: dal primo comandamento scaturiscono tutti gli altri. E
l'amore di Dio è almeno implicito nei primi comandamenti.
Non voler nulla al posto di Dio significa non amar nulla contro
di Lui, nulla più di Lui, nulla come Lui. Ogni preghiera può
esser un atto d'amore (nel « Padre nostro » le prime tre invo-
cazioni sono tre atti di carità teologale). E cosi dall'amore di Dio
si può esser mossi all'osservanza di tutti i comandamenti. E chi
ama veramente Dio si chiederà sempre quale sia la Sua volontà.
L'esame di coscienza serve a formare coscienze rette ed equilibrate
che hanno, ad esempio, il senso delle proprie responsabilità
professionali. C'è chi si accusa di non aver ascoltata la Messa
festiva (forse perché impedito da causa giustificante) e non ha
rimorso, in qualità d'impiegato, di perder tempo, d'esser tra-
scurato e disordinato abitualmente nel lavoro con danno dei
clienti. Ci sono giovani che non si rimproverano d'aver fatto
matrimonio sbagliato contro la volontà dei genitori, magari fug-
gendo da casa. E chi ama Dio sarà portato anche ad amare
il prossimo e non solo a dare a ciascuno il suo diritto.
83
con verità religiose delle menti impreparate che non sanno com-
prenderle, assimilarle e viverle. E se anche insegneremo ai fan-
ciulli tutta la sostanza della religione e li condurremo alla pratica
sacramentaria, tutto ciò, col passare degli anni, non reggerà con
sicurezza, stabilità, perseveranza, se non è stato un insegnamento
progressivo, un momento della formazione totale della persona:
è una religione che verrà abbandonata perché non era entrata
e sentita come elemento indispensabile della vita. Un'efficace ca-
techesi all'uomo — secondo le diverse età della sua vita — deve
(oggi specialmente) muovere dai problemi umani che lo interes-
sano. Non può partire da verità astratte della vita e restare in
questa sfera, anche se sono verità da conoscere e credere neces-
sariamente. Bisogna trovare il collegamento fra verità religiose
e gli interessi e le esperienze della vita e svelare allo spirito
umano il senso religioso delle realtà terrestri e dei problemi esi-
stenziali: è verso di questi che la sete di conoscenza del fanciullo,
del giovane, dell'uomo s'orienta istintivamente.
Inoltre, a dar fermezza alla fede del singolo, bisogna aggiun-
gere all'educazione individuale (opportunamente e tempestiva-
mente dosata) l'influsso e la vita della comunità credente. Ogni
fedele — e specialmente i più lontani ed i meno assidui alla
pratica religiosa — hanno bisogno di trovare nella parrocchia
una comunità che tutt'intera testimonia la fede e la vive in un'at-
mosfera di gioia e d'amore. Il sacerdote deve avere quest'obbiet-
tivo: formare questo popolo di Dio e non credere di essere lui
solo che — più o meno burocraticamente, per quanto indefes-
samente — espleta il suo ministero, evangelizza, amministra i sa-
cramenti. Se tutto si riducesse a questo lavoro del prete, qual-
cuno potrebbe anche pensare che egli lo fa perché deve; o,
comunque, il singolo non sarebbe trascinato dalla fede comuni-
cabile ed irradiante d'una comunità che sente il bisogno di Cristo,
d'appartenere alla Sua Chiesa, d'identificarsi con essa. Questa
motivazione è ben superiore a quella di chi viene si in Chiesa ma
per non aver il rimorso d'aver mancato ad una legge. E natural-
mente nella parrocchia ognuno dovrebbe trovare il gruppo che
corrisponde alla sua età: ecco, specialmente l'Azione Cattolica.
Bisogna che il confessore inviti discretamente a scoprire, in
ogni caso concreto, la specifica radice dell'incredulità. E nel caso
che il penitente accusi dubbi di fede, sappia distinguere chiara-
mente difficoltà (dottrinale o psicologica), tentazione di dubitare,
dubbio vero e proprio. Una difficoltà che il soggetto non riesce,
84
al momento, a risolvere e superare gli può dar l'impressione che
la fede sta crollando; non eliminata, può esser occasione e diven-
tar tentazione di dubitare. Bisogna cercare la risposta esauriente
con lo studio e l'informazione attinta da un libro o dalla spie-
gazione offerta da una persona dotta. Spesso però (in coloro che
lamentano dubbi) la causa del turbamento non è una difficoltà
determinata ma solo un vago timore che l'oggetto della fede
non sia vero perché non si vede: timore dipendente dall'istin-
tiva esitazione ad ammettere ciò che non si percepisce coi sensi.
Ma è un timore vago ed irragionevole che chi riflette disprez-
zerà. In ogni caso la tentazione di dubitare non implica, per sé,
nessuna imputabilità. Talora i cosiddetti « dubbi di fede » si ridu-
cono alla paura d'aver perduto la fede (perché non si vede la
risposta a qualche speciosa obbiezione oppure si vorrebbe speri-
mentare l'invisibile), una paura dipendente da semplice stanchez-
za psichica e da impressionabilità: un fenomeno che appartiene
al campo dell'affettività e non della razionalità e della volonta-
rietà. Altrettanto si dica di certi stati psicologici che qualche
penitente accusa come « disperazione » e che non sono vera perdita
della speranza teologale ma solo una depressione psichica (indipen-
dente dalla volontà): depressione fra le cui manifestazioni c'è
appunto la impressione di insicurezza in materia di fede o di
scoraggiamento sul piano dell'azione. In simili casi solo il con-
fessore che abbia dottrina, intuito ed esperienza può mostrare
al penitente tutta la comprensione e compassione di cui ha bi-
sogno. Doti che purtroppo si trovano in pochi. Il consigliere
spirituale sia però ben persuaso che non bastano scienza e psi-
cologia per dare alle anime la tranquilla stabilità della fede e
10 slancio della speranza. È indispensabile il soccorso della grazia.
11 miglior consiglio che, dopo tutto, il confessore può dare è
di chiedere la luce a Dio e di ricevere i sacramenti. Anzi, questo
è il consiglio che prima di tutto può dare, anche a chi non vor-
rebbe riceverli pensando di non avere la fede e la speranza per-
ché non le « sente ». Assicuri coloro che cercano la fede od
hanno paura di averla perduta, che possono ritenersi credenti.
E quando i turbamenti sono originati più che altro da stanchezza
nervosa, suggerisca di distrarre la mente e riposarla: lo sforzo
intellettuale fatto per eliminare direttamente la causa del turba-
mento e per uscire dalle tenebre potrebbe accrescere sempre
più l'oscurità. Meglio è procurare uno stato di suprema indif-
ferenza e d'incrollabile fiducia nella grazia.
85
La fede e la speranza cristiana dovrebbero essere, normal-
mente, le forze spirituali che permettono di risolvere i problemi
(non facili) della vita (anche naturale). Quando manca la vita
interiore spunta inevitabile la tentazione di ricorrere a surrogati
che danno solo l'impressione momentanea di euforia ma debi-
litano, distruggono e annientano. Il ricorso alla droga (tanto più
grave in quanto si verifica specialmente nei giovani) rappresenta
una resa a discrezione, una sconfitta di fronte alla vita. Biso-
gnerebbe saper cogliere e presentare ai giovani le efficaci motiva-
zioni della fede e della speranza non solo illuminando le menti,
ma toccando anche i cuori. Se si suscita in loro il sano orgoglio
e la fiducia nelle forze dello spirito, può esser che si determinino
a tentare uno sforzo. Una qualche vittoria raggiunta può dar la
soddisfazione ed infonder la speranza di superarsi. Con la buona
volontà, con la guida amorosa e saggia d'un consigliere, chi stava
per perdersi può salvarsi.
86
fessore, non sta male. Tanto più che i penitenti riconoscono
sinceramente la loro incoerenza. Il confessore può chiedere se
« con malizia », se « spesso ». A chi risponde che alle volte
non si può farne a meno, mostrerà di non prender la cosa alla
leggera e di non ammettere simili giustificazioni. D'accordo, an-
che quando l'espressione significa obbiettivamente una grave in-
giuria a Dio, bisognerebbe tener conto della intenzione e della
volontarietà di chi la proferisce: in un momento d'ira la piena
deliberazione può mancare; a chi ha già contratto l'abitudine
può sfuggire inavvertitamente qualche bestemmia anche dopo
fatto il proposito di non più pronunciarne. Però bisogna insi-
stere perché sempre se ne pentano e perché si sforzino di vin-
cere l'abitudine: pensino, se non altro, allo scandalo che danno;
specialmente ai piccoli cosi facili ad imitare i grandi (nel male più
che nel bene).
III. Nelle accuse di penitenti sono all'ordine del giorno certe
mancanze di carità verso il prossimo: risentimenti, rancori, rottura
dei rapporti, rifiuto dei segni comuni di carità, invettive, ingiu-
rie, offese, invidia. Non è facile invece incontrare coscienze sen-
sibili a certe mancanze che comunemente si dicono « impru-
denze » ma sono anche contrarie alla carità. C'è chi mette in
pericolo la vita propria o di altri esercitando sports pericolosi
(ad esempio con una scalata rischiosissima). Il discorso sugli sports
pericolosi sarebbe lungo. C'è chi guida l'auto in stato di ebrietà,
oppure ha l'abituale ambizione di tenere, sul confronto degli altri,
una media di corsa più alta, di effettuare sorpassi spericolati; c'è
chi non osserva la segnaletica, chi viaggia di notte sull'autostrada
a velocità sostenutissima sentendo che la testa si piega sul volante
per il sonno. Si noti che comportamenti del genere si hanno
talora anche in persone profondamente religiose: comportamenti
che non saranno imputabili perché certuni hanno una certa in-
genuità naturale, un certo semplicismo che sa di leggerezza unito
a retta intenzione generale e buona fede. Ciò non toglie che sa-
rebbe da ricordare anche a costoro l'ammonimento di massima,
non per insinuare scrupoli, non per indurre una condotta ecces-
sivamente timorosa e perplessa, ma una condotta ragionevolmente
prudente.
Né capita di frequente chi, con coscienza delicata, s'accusa
d'aver omesso ciò che poteva fare facilmente per aiutare il pros-
simo bisognoso. Lo spirito comunitario è oggi proclamato ma
(anche dai migliori) spesso solo a parole o per le proprie personali
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rivendicazioni (senza riguardo al bene comune o al danno pub-
blico). Si danno penitenti che si accusano di odio. Penso che il
caso di vero odio grave non sia frequente (in coloro che vengono
a confessarsi) e che taluni non lo sappiano distinguere bene dalla
fortissima avversione naturale e dalla detestazione dei difetti (o
della malizia) d'una persona (da distinguersi dalla deliberata male-
volenza verso la persona stessa). In certe maledizioni lanciate al-
l'indirizzo di qualcuno manca la seria intenzione o la piena
deliberazione. Tant'è vero che interrogati se soccorrerebbero quel-
la persona (che dicono di odiare) qualora si trovasse nel bisogno,
rispondono subito di si. Il confessore esorterà a deporre i senti-
menti di malevolenza, ad evitare sgarberie e vendette. Sia cauto
nel dichiarare ed imporre l'obbligo di dimostrare i segni comuni
di carità: qualcuno, avendo ricevuto un torto, crede, in sostan-
ziale buona fede, di non esservi più tenuto prima che il colpevole
abbia fatto la debita riparazione (escluso, s'intende che ci sia odio
interno, ed escluso che gli altri giudichino tale comportamento
come espressione di grave odio).
E quando si tratta di soccorrere il prossimo bisognoso, me-
glio parlarne (ad esempio negli esami di coscienza comunitari)
in termini di carità e di consiglio che in termini di giustizia (e
di diritto corrispettivo) per non dare occasione a fraintendi-
menti, arbitrarie interpretazioni, applicazioni facili (come se fos-
sero giustificate dalla destinazione universale dei beni economici):
ecco il frequente ricorso alla compensazione occulta, ecco le
asportazioni abusive, l'occupazione di locali altrui fatta con la
forza.
IV. Sulla pratica della religione i penitenti si interrogano, ma
spesso con una mentalità piuttosto legalista. Guardano più alla
lettera che allo spirito. Tutta la loro preoccupazione nella Con-
fessione pare sia quella di esaminarsi se hanno posto od omesso
l'atto esteriore materiale. Alcuni s'accusano anche quando erano
pienamente scusati: non già che costoro sian tutti degli ignoranti
e da rimproverarsi come tali in materia di religione e di morale;
dobbiamo comprenderli, ben sapendo che spesso ci si confessa
più che altro per un motivo psicologico affettivo: sentirsi più
tranquilli, esser tranquillizzati. Motivo non disgiunto da quello
dell'umiltà e della dipendenza. Il confessore nel suo comporta-
mento e nelle sue esortazioni — in questa materia della pratica
religiosa — dev'esser positivo e consapevole della realtà. Da un
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lato — come scriveva il card. Suenens in una sua Lettera Pa-
storale (OR, 20.VIII.1975, p. 2) — statistiche recenti, registrano
una sensibile diminuzione dell'assistenza dei fedeli alla Messa
domenicale (e ciò è un segno negativo della vitalità religiosa,
anche se l'osservanza di questo precetto non è l'unico criterio per
giudicare il senso religioso d'una comunità). D'altra parte è lecito
anche pensare che oggi, per certe categorie di persone ci possono
esser delle scusanti se non osservano regolarmente il precetto
domenicale. A parte il fatto che molti hanno ben poca istru-
zione religiosa e formazione spirituale: ciò permette di presumere
una qualche attuale buona fede (senza escludere però una qualche
colpa in causa). La vita moderna poi impone ad innumerevoli
persone un lavoro assorbente anche e proprio nei giorni festivi
(si pensi a tutti coloro che, a càusa del turismo, sono costretti a
lavorare proprio soprattutto la Domenica). E non sarebbe pru-
dente il confessore che, senza conoscere esattamente la situazione
o senza speranza di frutto, turbasse con severe dichiarazioni chi
non manca di fede e d'una certa buòna volontà. Conviene bensì
la generale esortazione agli atti di religione, alla frequenza ai
sacramenti. Tanto più quando si tratta di chi tralascia ogni pratica
religiosa per la sola ragione di allontanarsi da casa, d'andare
all'estero a lavorare, magari per metà anno. Se si omette una
volta, due, tre, la Confessione, la Messa, la preghiera quotidiana,
diventa sempre più difficile il decidersi a riprenderne l'abitu-
dine. Lo sperimentiamo tutti: quando si comincia a non esser
regolari, c'è il pericolo delle procrastinazioni all'infinito. Perciò
l'importanza — anche nella pratica religiosa — di formarsi delle
abitudini e di esser fedeli. Pel fatto che la pratica religiosa è
diventata un'abitudine non significa che vi manchi lo spirito
e la volontà. Quella che non vale è l'abitudine meccanica che
non costa sacrificio e sforzo e produce atti senz'anima e senza
vita. Ma i tempi nostri non son troppo favorevoli alle sante
abitudini del culto religioso. Si dice, ad esempio, che oggi — di-
versamente dal passato — c'è minor sensibilità per gli oggetti
sacri (come le corone del Rosario) e per le immagini sacre. Si
interpreta ciò come un segno dei tempi. Come dire un segno
di religione più autentica? C'è da restar quantomeno perplessi.
Le immagini sacre nelle case e per le strade sono sostituite da
altre tutt'altro che edificanti. L'immagine sacra, magari col lu-
mino davanti sempre accesso, era un richiamo alla fede, alla
trascendenza, alla bontà. Un'esteriorità? Non solo. Era un segno
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che diventava una preghiera continua da parte di chi l'aveva
voluta, di chi la voleva, la venerava, la guardava. Un'eredità
che si tramandava con la fede e come la fede. Ma l'odierna seco-
larizzazione da una parte — nell'intento d'eliminare tutto ciò che
sa di superstizione — crea un'atmosfera ambientale che può
spegnere negli animi il senso del sacro: conseguenza fatale se
si demolisce senza sostituirvi qualcosa di migliore. D'altra parte
le troppe preoccupazioni pel benessere terreno fan dimenticare
Vunum necessarium. Risultato: non c'è più né tempo né amore
per la pratica religiosa. Qualcuno risponde che si può esser
religiosi e praticanti anche se non si va ogni Domenica e proprio
la Domenica ad ascoltare la Messa. Ma è da replicare semplice-
mente che di fatto molti non ci vanno quasi mai e c'è molto
da dubitare sulla loro abitudine agli atti di culto religioso ed alla
preghiera privata. Alcuni — anche ammesso che la Domenica
siano impegnati nel lavoro — stanno mesi e mesi senza parteci-
pare alla Messa. Cosa che potrebbero fare in qualche giorno non
festivo. Certi emigranti che vivono all'estero, per lavoro, la
maggior parte dell'anno, riprendono la pratica religiosa solo nei
mesi che passano in parrocchia. Non si può ammettere che la vita
religiosa d'un cristiano, che vuol esser tale, sia cosi trascurata;
specie se si omette anche ogni preghiera privata. Bisognerebbe
indurli a sentire il bisogno dell'incontro amoroso col Cristo per
ricordare e rivivere l'evento decisivo della nostra vita spirituale:
la Pasqua del Signore, la vittoria sulla morte e sul peccato, la
risurrezione alla vita soprannaturale. Ma per sentire questo invito
occorrerebbe avere e risvegliare la fede. Ed allora ci si sentirebbe
mossi ad andare alla Messa non per evitare il peccato d'omissione,
non per sgravarsi da un peso e liberarsi da un obbligo, ma per unirsi
a Dio. Altrimenti la pratica del culto diventa l'esecuzione d'una
legge morta che si sarà tentati di ritenere imposta arbitrariamente
da una autorità ecclesiastica. Mentre la Chiesa non fa che render
concreto l'invito del Signore: « Tutte le volte che mangerete que-
sto pane e berrete questo calice, voi ricorderete l'annuncio della
morte del Signore, fino a che Egli venga» (1 Cor. 11, 26). E
specialmente coloro i quali per notevole tempo o con molta
frequenza prevedono di aver impegni che rendono difficile la
partecipazione alla Messa, farebbero bene a chiedere consiglio o
la « dispensa ». Lo so come oggi da parte di giuristi si fa voti
che in materia di leggi ecclesiastiche positive che hanno per scopo
la santificazione personale, non si parli più di « dispense » nel
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futuro CJC. È meglio (si dice) che ognuno, formata la propria
coscienza, giudichi liberamente e responsabilmente se ha una giusta
causa per omettere un atto: colle « dispense » si cadrebbe nel
legalismo. Ma la « dispensa » — per esser esatti — è un favore
concesso oltre i casi nei quali si è strettamene « scusati »; ed
insieme rende più certi e sicuri anche coloro che già sarebbero
scusati; da parte del fedele è una dimostrazione di dipendenza
dalla Chiesa e da Dio; un esercizio di umiltà; un riconoscimento
della bontà di Dio che sa attenuare la rigidità delle sue leggi
per le anime di buona volontà. Nella concessione materna della
Chiesa si può e si deve vedere un permesso ed un dono di Dio
stesso il quale vuole che il suo giogo sia soave. Comunque, qualun-
que possano essere le innovazioni strettamente giuridiche del
Codice, un fedele potrà sempre utilmente chiedere almeno il
consiglio.
Non sbaglia il confessore che — anche per facilitare
la confidente accusa ed iniziare il cordiale colloquio che il peni-
tente spesso non sa come introdurre — chiede (a chi non conosce)
se è solito recitare qualche orazione. È un tastar il polso della
vita spirituale. Ed è una domanda che i penitenti si lasciano
fare molto volentieri (diversamente da qualche altra). Però l'in-
terrogazione sulla preghiera mattutina e vespertina non do-
vrebbe rinforzare l'errata mentalità — legalista anche questa —
che si possa e si debba pregare (fuori di Chiesa) solo all'inizio ed
al termine del giorno. Quante ore passate nella solitudine e nel
silenzio del viaggio quotidiano o di un lavoro manuale meccanico:
lunghi interminabili tratti di tempo in cui il lavoratore potrebbe,
con qualche semplicissimo atto, rinnovare il senso della presenza
di Dio e della dipendenza da Lui. Farebbe, di tutto il lavoro, una
preghiera. E supplirebbe sovrabbondantemente a quelle formule
d'orazione che talora dice di non riuscir a recitare nella fretta
della levata o nella stanchezza di fine giornata. Anche al lavo-
ratore è offerto il modo di santificarsi pregando: un modo, una
spiritualità propri e adatti alla sua professione. Evidentemente
per trasformare il lavoro in preghiera bisogna non aver il cuore
travolto dalla dissipazione; e l'abitudine d'elevarsi col pensiero
frequente a Dio s'acquista gradatamente. Ma sarebbe già molto
infondere l'idea che ciò è possibile e non tanto difficile.
D'altra parte l'avversione al minimismo giuridico non deve
spingere nessuno, e tanto meno il confessore, ad affermare ob-
blighi che in realtà non esistono. Siccome oggi l'omilia ha assunto
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un più stretto legame col sacrificio (tanto che si chiama « liturgia
della parola ») qualcuno ha pensato che (diversamente dal pas-
sato) non osservi più la sostanza del precetto chi ascolta la Messa
solo dall'Offerta alla fine. Ma ciò non può esser strettamente
affermato. Altra è la questione del dovere di istruirsi per cono-
scere e coltivare la fede. Questo dovere c'è senza dubbio, obbiet-
tivamente. Siccome però l'attuale omilia non pare sufficiente per
nutrire e salvaguardare la fede e siccome sono cadute, di fatto,
altre forme di evangelizzazione del passato (catechesi domenicale,
quaresimali, tridui, ottavari, mese mariano...) bisognerà che si
organizzino altre forme e si cerchino altre occasioni per l'istru-
zione religiosa. Ad esempio rendendo obbligatoria pei fidanzati |
la partecipazione ad un corso di preparazione al matrimonio. Cosi ]
i Vescovi delle Marche hanno stabilito normativamente che i fidan- j
zati debbano presentarsi al parroco, per un incontro di conoscenza |
e di orientamento, almeno tre mesi prima della celebrazione del '
matrimonio; e nell'arco dei tre mesi si terranno almeno tre
incontri, eventualmente col sussidio di persone esperte (« Awe- ]
nire », ed. emiliana, 31.X.1975). A proposito del precetto fe-
stivo, c'è persino chi ha espresso l'opinione che per partecipare •]
veramente alla celebrazione della Messa bisogna anche ricevere \
la Comunione: quasi che la Messa senza la Comunione non '
valga nulla. Ma non bisogna confondere precetto e consiglio (oggi '
c'è questa tendenza). Il bene resta bene (e meritorio) anche se "
non è il massimo bene. E la Chiesa è madre: quando raccomanda, \
non sempre comanda. Spetta, del resto, a Lei interpretare il di-
ritto divino, la natura e la finalità del Sacrificio e del Sacramento
e giudicare quindi se la partecipazione alla Messa esiga, non
solo per la perfezione ma per sua essenziale natura, necessità,
validità, anche la partecipazione dei non celebranti alla Mensa.
Cosa che la Chiesa non ha mai affermato. Anzi, ha implicitamente
asserito il contrario quando con recenti concessioni ha precisato in
quali casi nello stesso giorno si può ripetere la Comunione (cfr.
Istruì, della S.C. per la Discipl. dei Sacram., 26.1.1973, AAS, 65,
1973, 264-271).
V. La prudenza. Nella catechesi e negli esami di coscienza che
si propongono ai penitenti bisognerebbe soffermarsi maggiormente
ad educare e sensibilizzare le coscienze ai postulati di questa virtù
che è importantissima. Comunemente s'intende significare con
questo vocabolo quelle cautele, quell'assennatezza, ponderazione,
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previdenza, da usarsi nella vita terrena per evitare errori, non dan-
neggiare e non metter in pericolo la vita propria od altrui. Ma la
prudenza regola tutte le altre virtù (anche le teologali nel loro uma-
no concreto esercizio) e quindi dirige tutta la nostra vita considera-
ta dinamicamente. Tutta la morale si risolve in un giudizio della
prudenza, giudizio che quando è esercitato dal soggetto circa le pro-
prie azioni diventa giudizio della « coscienza ». E la coscienza
può esser certa e nel tempo stesso erronea: si può, ad esempio, per
ignoranza invincibile ritenere lecito ciò che obbiettivamente non lo
è. Ma allora ci portiamo sul piano soggettivo. Quando invece si
tratta dell'esercizio della prudenza — del giudizio ch'essa sug-
gerisce circa l'agire umano — siamo sul piano oggettivo della
moralità. E non si può appellarsi a questa virtù per ammettere
che tutte le leggi morali sono flessibili secondo le esigenze esisten-
ziali e secondo le condizioni situazionali della persona. Né s. Tom-
maso né s. Alfonso ammettono questa tesi. S. Tommaso (I-II,
q. 94, a. 4-5) parla della possibile ignoranza di qualche legge na-
turale (s'intende, d'una conclusione dedotta dai primi principi mo-
rali); parla d'una mutazione di circostanze che possono render
irragionevole l'osservanza d'una legge naturale: e porta l'esem-
pio di chi può (anzi deve) non restituire un'arma avuta in depo-
sito se sa che il proprietario ne abuserà funestamente. Ma, come
si vede, si tratta di circostanze che mutano la materia della legge
e rendono lecito una omissione od un atto che non è intrinseca-
mente cattivo. Lo stesso esempio riporta s. Alfonso quando affer-
ma (T. Mor., 1. I, tr. II, e. IV, n. 165) che « epikeia non solum
locum habet in legibus humanis, sed etiam in naturalibus », ma
aggiunge (ciò che alcuni facili commentatori volentieri tralasciano):
« ubi actio possit ex circumstantiis a malitia denudari ». Ma que-
sto non potrà mai avvenire quando si tratta di una legge che proi-
bisce atti contro natura (come la masturbazione, le pratiche anti-
concettive, l'omosessualità). Se nel caso concreto la responsabilità
viene — più o meno — a mancare sarà per mancanza della libertà
richiesta o per ignoranza invincibile. Non è la legge che subisce
flessione. In conclusione, le norme morali vanno praticate con rea-
lismo secondo le circostanze e secondo l'impulso della grazia.
Ma la questione è se — prescindendo dalla questione soggettiva
della buona fede — le circostanze possano render obbiettivamente
lecita un'azione intrinsecamente cattiva. Se la rendessero lecita, si
potrebbe (e si dovrebbe) non solo rispettare la buona fede d'un
individuo ma dichiarargli che nel suo caso la legge subisce un'epi-
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keia, cioè fa eccezione, date le particolari circostanze. E lo stesso
si dovrebbe dire per tutti coloro che si trovano in un caso simile:
appunto perché è un giudizio della prudenza che riguarda il piano
obbiettivo della moralità.
Alcuni oggetti particolari circa i quali va esercitata la pru-
denza. Saper riflettere prima d'agire frenando la precipitazione.
Possedere lucidità di giudizio per dominare i ciechi impulsi. Aver
coscienza dei propri limiti, dei pericoli (interni ed esterni); e quin-
di mostrar apertura ai consigli degli altri, umiltà e docilità (nes-
suno è bastante a se stesso). Ma possedere anche la prontezza ad
afferrar le situazioni impreviste e a risolverle: la decisione è l'atto
specifico e precipuo della prudenza; esclude tutti gli stati d'irra-
gionevole irrisolutezza, d'inadempienza, d'incostanza. S. Tomma-
so (II-II, 47, 9) osserva che, se può esser prudente l'indugiare
nella considerazione del da farsi, poi prudenza vuole che l'azione
premeditata sia rapida, come già notava Aristotele nell'Etica nico-
machea, VI, 9: « oportet operari quidem velociter consiliata, con-
siliari autem tarde ». E non si può, nelle decisioni, eliminare ogni,
anche mìnima, incertezza, ed escludere, con piena certezza, asso-
lutamente ogni possibilità di rischio: perché nelle situazioni con-
crete contingenti può esserci sempre qualche elemento che sfugge
anche allo spirito più vigile ed attento: « quia vero materia pru-
dentiae sunt singularia contingentia, circa quae sunt operationes
humanae, non potest certitudo prudentiae tanta esse, quod omnino
sollicitudo tollatur » (II-II, 47, 9). Resta sempre qualcosa da la-
sciar alla Provvidenza di Dio. Con fiducia assoluta, conservando la
pace intima. Devono tenerlo presente le anime inclini al perfe-
zionismo ed alla perplessità, specialmente quando sanno di tro-
varsi in uno stato di debolezza fisica e psichica.
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poco sensibili. Raramente si esaminano, a quanto pare, sui doveri
del proprio stato, della professione: ad esempio su retribuzioni
eccessive (per visite, cure, assistenza, prestazioni) retribuzioni forse
richieste a chi ha poca disponibilità. Persone pur religiose e pra-
ticanti non fan caso ai postulati dell'equità (virtù che sta in mezzo
fra la giustizia e la carità). Ad esempio c'è chi (non avendo figli)
fa donazioni, in vita, ad uno solo dei nipoti e poi lascia a lui la
eredità intera (ignorando qualche altro pur degno) solo per motivi
di preferenza, di simpatia, o per conservar unita la sostanza: si
possono cosi suscitare interminabili strascichi di odiosità fra pa-
renti. Poco ci si esamina sulla giustizia distributiva (quanti favo-
ritismi di persone meno degne a preferenza di altre veramente me-
ritevoli!), sulla giustizia legale o sociale. Quando si tratta di
imposte, tasse, multe, lo Stato ha i mezzi per riscuotere di forza
i contributi. Ma quando si ruba di nascosto allo Stato non è in
questione solo la giustizia legale o sociale (la quale chiede al sin-
golo un positivo ragionevole concorso al bene comune) ma anche
la giustizia commutativa. Però, quando si tratta di furti fatti a
danno dello Stato, il confessore tenga presente che per arrivare alla
materia grave occorre una somma più forte di quella richiesta nei
furti fatti a persone (fisiche o morali) del tutto estranee al ladro:
fra lo Stato ed i suoi membri non c'è netta alterità. Ed anche la
restituzione urge meno e si può fare beneficando poveri od opere
pie. Comunque anche se il cittadino può ritenere di esser in credito
collo Stato (al quale pensa di aver pagato, ad esempio, sovrabbon-
dante contributo di tasse) non si può dare positivo permesso al
singolo di farsi giustizia da sé mediante occulte asportazioni. C'è
il rischio che l'interessato stesso sia punito dalla legge penale o che
sia accusato e colpito qualche altro che è innocente. La stessa carità
verso sé stessi suggerisce di adire (extra i casi eccezionali) le vie
legali, regolarmente.
Si direbbe che molti continuino a fare lo stesso esame di co-
scienza che facevano da bambini quando il raggio della loro vita
d'azione era molto ristretto; e si direbbe che credano di mostrare
il loro cristianesimo solo in quella mezz'ora che passano in Chiesa
ogni domenica, mentre si è cristiani e ci si dimostra tali special-
mente fuori di Chiesa. Perciò qualcuno si domanda se non si
debba rendere il sacramento della Penitenza più educativo, sol-
levando, per siffatti penitenti, anche delle inquietudini. Però
bisognerebbe che queste inquietudini fossero veramente giuste e
salutari. In materia, per esempio, di giustizia sociale e di bene-
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ficenza, il confessore prudente ed intelligente sa che per poter
affermare precisi doveri o condanne o approvazioni, gli sfuggono
molte circostanze concrete circa lo stato ed il comportamento
-del penitente (tanto più se non ne è il consigliere abituale); e sa
quanto siano complessi i problemi ed i fatti della vita sociale di
oggi. Ad una parola indiscreta del confessore qualcuno potrebbe
stizzirsi e indisporsi; qualche altro, di coscienza delicata o scrupo-
losa, inutilmente turbarsi. Anche negli esami di coscienza comu-
nitari, come già dissi, se si insiste troppo sul diritto e sul dovere
dei miglioramenti sociali, sulla destinazione universale dei beni, c'è
pericolo che qualcuno pensi gli sia lecito operare di propria inizia-
tiva non so quali rivendicazioni (occulte o violente) senza riguardo
ai turbamenti provocati nell'ordine pubblico.
A. Il confessore anzitutto possegga chiari / principi indiscussi.
Poi, da uomo pratico e positivo, sappia, per esperienza, quali sono
in una determinata materia le situazioni normali, ma, col suo intui-
to, cerchi inoltre di rendersi conto della concreta e reale condi-
zione dei singoli penitenti. Per esempio, fra commercianti, mer-
canti, sensali si usa un linguaggio che può sembrare una frode ma
reciprocamente è capito e reciprocamente non è creduto. Altro è il
caso se avessero a trattare con galantuomini che non sono del me-
stiere o con un ignorante od un ragazzo ed avessero a vendere della
merce che ha dei difetti (forse non palesi a prima vista) o com-
prassero da gente semplice ed inesperta, a vile prezzo, oggetti pre-
ziosi od opere d'arte. E per ogni caso che gli si presenta, nel quale
è compromessa la giustizia, il confessore dovrà fare una duplice
considerazione: una sullo stato (o l'atto) d'ingiustizia che crea uno
squilibrio; l'altra sul dovere o meno della restituzione (o della ri-
parazione) per riportare l'equilibrio.
1. Le radici della restituzione sono il furto, il possesso (anche
se incolpevole) della roba d'altri, il danno ingiustamente causato,
la cooperazione ingiusta (sia al furto, sia al danno).
2. Il dovere della restituzione deve constare con certezza. Il
confessore sappia distinguere — in linea, anzitutto, di principio —
ciò che è certo e ciò che è probabile; ciò che è probabile e ciò
che è pura ipotesi. Oggi alcuni autori tendono a ridurre la giu-
stizia alla carità; altri, invece, vedono doveri di giustizia là dove
comunemente si afferma solo la carità; altri ancora sosterrebbero
obblighi di restituzione non solo dove c'è violazione della giu-
stizia commutativa e legale, contrariamente al principio tradi-
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zionale: « restitutio est actus iustitiae commutativae » (S. Th.
I M I , q. 62, a. 1).
3. Ed anche quando, stando ai principi, il dovere della resti-
tuzione in un determinato caso constasse con certezza, bisogna
attendere se non ci sia attualmente una causa scusante; o se non
sia prudente non turbare la buona fede (qualora si preveda che
l'ammonizione sarebbe infruttuosa). Oltre a possedere la scienza,
bisogna fare attenzione alle circostanze ed aver sensibilità allo
stato d'animo del penitente.
Ma, soprattutto, ripeto, ai penitenti non si dichiarino doveri di
restituzione se l'obbligo è solo probabile. Ad esempio, quando è
probabile che la dovuta restituzione sia stata fatta ma c'è pure
il dubbio che non sia stata fatta, molti autori, interpretando la
mente del divino legislatore, pensano che non ci sia obbligo di
dare ciò che forse è già stato dato. Altri interpretano in modo di-
verso — rigoristico — legge e mente del legislatore, e rispondono
che ad un obbligo certo non si soddisfa con una prestazione dub-
bia. Altri pensano che non la stretta giustizia ma l'equità sugge-
risca una parziale prestazione, specie se il creditore non è ricco.
Comunque, data la diversità delle soluzioni, strettamente non si
potrebbe imporre nulla. Se c'è bisogno, occorre dire una parola
chiarissima perché potrebbe esser pericoloso che uno creda d'aver
un obbligo che forse non adempirà. Cosi, perché ci sia obbligo
di riparare un danno causato ad altri, bisogna consti con certezza
che l'azione fu efficacemente e coscientemente ingiusta: violazione
d'un diritto stretto, non solo mancanza di carità; azione che sia vera
causa del danno (e non sola occasione, come può avvenire me-
diante il cattivo esempio); ingiustizia compiuta con vera colpa
« teologica » della coscienza che si mette di fronte alla legge di
Dio, non solo con quella negligenza « giuridica » che lo Stato ri-
chiede per punire od obbligare alla riparazione dei danni. E il caso
d'un danno prodotto ad una persona investita da una macchina
per cause (supponiamo) non imputabili: la persona investita non
ha colpa, ma neppure il guidatore ha avuto coscienza alcuna di ciò
che avrebbe potuto fare per evitare l'investimento. Se l'autorità
civile impone un obbligo anche nel caso di negligenza indeliberata,
le sue disposizioni sono giustificate in vista dell'ordine pubblico; e
bisogna obbedire. Ma quando si tratta di rapporti privati, nei
quali non intervenga l'autorità civile, per affermare il dovere della
riparazione bisogna si verifichino tutte le condizioni richieste dalla
legge morale naturale. Ad esempio, chi avesse avuto relazioni ille-
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gittime con una donna sposata dalla quale è poi nato un figlio,
dovrebbe attribuirsene la paternità (con tutte le conseguenze in
ordine al mantenimento della prole adulterina) se fosse certo che
quella donna non ha avuto alcun rapporto né col marito né
con altri.
4. Casi complessi (per la cui soluzione concreta non basta co-
noscere la teoria) sono quelli di cooperazione ad una azione in-
giusta (per esempio ad un furto); specie circa il dovere o meno
della restituzione o della riparazione « in solido ». Chi coopera
a « tutto » il danno (anche se secondariamente) per sé sarebbe
obbligato a riparare « tutto » il danno se gli altri non facessero
la loro parte. Ma perché un cooperatore secondario sia responsa-
bile di tutto il danno bisogna che ci sia stata mutua intesa e la
azione del cooperatore secondario sia stata necessaria per otte-
nere lo scopo. Ciò dev'essere indubbio perché si possa parlare di
obbligo a riparare tutto il danno. E bisogna consti che gli altri
non hanno restituito né restituiranno: ma, fino a prova con-
traria, si può presumere che facciano il loro dovere. Questo in
linea teorica. In pratica, riguardo a coloro i quali cooperano ad un
furto (o danno) si può ritenere che o non sanno con precisione
quanto son obbligati a restituire, o non si persuaderebbero di do-
ver restituire o riparare anche per quanto han rubato (o perpe-
trato) gli altri cooperatori, o si trovano nell'impossibilità di farlo
(impossibilità che è in genere da supporre per un cooperatore se-
condario, se venisse e quando venisse a confessarsi). Perciò il
confessore potrà presumere il consenso del creditore stesso ad
un trattamento di clemenza. Altrimenti, ad esiger tutto, si rischia
di non ottener nulla e di turbar inutilmente una certa buona fede.
E cosi anche con chi, per sé, sarebbe obbligato a riparare « in
solidum » si potrà spesso accontentarsi che restituisca « prò rata
tantum »; o si potrà affidare al penitente stesso di determinare
secondo la sua coscienza il « quantum » da restituire. Perciò il
confessore, prima di ammonire il cooperatore ingiusto sul suo do-
vere di restituire, anche dopo essersi accertato che questo dovere
obbiettivamente esiste, sarà prudente se tasta il terreno, contro il
pericolo che il penitente s'allontani senza un qualche proposito
concreto ed efficace.
5. Altra questione nella quale i principi astratti non sono suf-
ficienti è quella riguardante la materia grave del furto. Gli autori
discutono sul criterio stesso da seguire come misura. La difficoltà
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cresce quando si scende al caso concreto, anche se bisogna ammet-
tere la distinzione fra una materia che è sempre (« assolutamen-
te ») grave ed una materia che è grave « relativamente » alla con-
dizione della persona derubata. Ma bisognerebbe tener conto anche
della condizione e del bisogno di chi ruba. Ed anche delle circo-
stanze di tempo e di luogo: il valore del denaro è minore nelle
grandi città che nei piccoli sperduti paesi di campagna o montagna
ove ci sia ancora gente piuttosto povera. Perciò, com'è possibile,
nel caso singolo, lo stabilire qual è, nel furto, il confine fra ve-
nialità e gravità? Pericolosissimo sarebbe il definirlo; e qualora
un penitente lo chiedesse sarà meglio non rispondere con una
determinazione precisa. A parte sempre i casi circa i quali è evi-
dente la soluzione ed il giudizio da dare. Ed è inutile dire che
se non si può pronunciare una definizione sulla gravità o meno,
c'è sempre da rivolgere quella esortazione vivissima che non
può esser che utile 16.
B. Quando dai principi morali e dalle norme pastorali pas-
siamo alla realtà, troviamo che i penitenti, in materia di giustizia,
impegnano i confessori meno che in qualche altra virtù morale.
Ciò dipenderà certo anche da scarsa sensibilità e poca delicatezza
di coscienza, ma bisogna altresì ricordare che i doveri « positivi »
di giustizia non sono nei casi concreti sempre ben definibili e
certi. Inoltre — siamo realisti — chi si è appropriato indebita-
mente della roba d'altri, se viene a confessarsi e quando si trova
in questa condizione di penitente, in genere è ridotto ormai
16
«...Haec materia non potest mathematica determinali, sed moraliter,
non secus ac pretia mercium quae admittunt latitudinem. Et sane ridiculum
foret asserere eum qui furatur viginti quinque asses peccare mortaliter, et
illum qui furatur viginti quattuor peccare venialiter. Neque mirum videri
debet si difficile sit praecise discernere inter furtum mortale et veniale.
Quamvis enim... statuantur regulae quibus mortalia a venialibus generice
loquendo distinguantur, si tamen quaestio sit de particularibus casibus, id,
inquit s. Augustinus lib. 1, De Civit., cap. ultimo, non solum in hac materia,
sed in pluribus aliis "difficillimum est invenire, periculosissimum definire:
ego certe usque ad hoc tempus, cum inde satagerem, ad eorum indaginem
pervenire non potui; et fortassis propterea latent, ne studium proficiendi
ad omnia peccata cavenda pigrescat". Non ergo praesumant animarum
directores ad singulos et individuales casus certo resolvere: Hoc est mortale,
hoc est veniale, nisi id aperte constet; sed plerumque expedit cum s. Au-
gustino suam ignorantiam fateri. Et dum ea de re a poenitentibus interrogan-
tur prudenter responsionem absolutam declinent, illisque omnium peccatorum
etiam venialium horrorem incutiant » (F.C.R. Billuart, Stimma s. Thomae,
IV, Diss. XI, a. 3, Parisiis, 1900, p. 276).
99
nell'impossibilità di restituire (almeno tutto il rubato): se sen-
tisse dal confessore l'immediata dichiarazione che bisogna resti-
tuire, se vuole l'assoluzione, potrebbe indisporsi perché la
scossa è brusca ed, al momento, probabilmente può riuscire
irragionevole e controproducente.
1. Il confessore esamini e giudichi anzitutto se obbiettiva-
mente ci sia o no — nel caso in questione — il dovere di una
qualche restituzione o riparazione. Caso non raro: un giovane
(o qualche suo parente) chiede consiglio perché la donna colla
quale il ragazzo ha avuto rapporti pretende un compenso. Se non
ci fosse stata la conseguenza della prole, il dovere di una ripa-
razione ci sarebbe solo se la ragazza fosse stata violentata ed inol-
tre — a causa di questo fatto — si sia trovata nell'impossibilità
di sposarsi. Ma non si può consigliare che riparino con traendo il
matrimonio se non si prevede che sarà felice. Quale garanzia
può dare senza la debita preparazione e maturazione, tale ma-
trimonio, specie se di giovanissimi? E qualora la ragazza e la sua
famiglia minacciassero di denunciare il seduttore, questa non
sarebbe una ragione per celebrare il matrimonio; anzi sarebbe una
ragione per non consigliarlo: se ci fosse vero amore, mutuo, ra-
gionato, libero, sereno — come è necessario al consenso — non
ci sarebbe bisogno di ricorrere alle minacce che vogliono forzare
una decisione. Quanto all'eventuale prole, se la ragazza fosse stata
violentata dal giovane, questi — in linea di principio — dovrebbe
assumersi tutte le spese pel mantenimento della prole. Se ci fu
connivenza, sono tenuti entrambi. Fortunatamente casi del genere
non sono portati con frequenza al confessore. Dico fortunatamente
perché è tutt'altro che semplice, alle volte, il risolverli con sicu-
rezza li per li. Bisognerebbe esaminar bene tutte le circostanze pri-
ma di dichiarar obblighi precisi o di indicare il modo più oppor-
tuno per adempierli: in caso d'incertezza il confesssore si prenderà
il tempo per consultare qualche persona esperta o manderà da
questa il penitente. Tenga presente che ci sono donne furbe che
sanno far cadere nella rete un ragazzo e colle loro arti fan si che
egli creda d'esser stato seduttore, mentre è caduto nel laccio che
gli è stato teso. GDmmesso il peccato, possono accusare stato di
gravidanza. Ma alle volte fingono e spaventano (per spillar soldi);
alle volte hanno avuto relazioni con altri uomini. Dicono che met-
teranno tutta la faccenda in silenzio purché abbiano, secondo il
loro diritto, un equo compenso. Ma se uno fa loro una elargi-
zione (sia pur solo per farle tacere) anche questa può esser presa
100
come una confessione ed un'autoaccusa di chi si assume l'even-
tuale paternità. Un precedente che gli può impedire, per lungo
tempo, di liberarsi da una donna (cfr. A. Vermeersch, Th. Mor.,
II, 1945, n. 591).
2. Anche quando ci fosse il dovere obbiettivo di una resti-
tuzione ci può essere una causa scusante. Oltre che per assoluta
impossibilità fisica, l'obbligo di restituire (o di riparare il mal
fatto) cessa o vien sospeso se importa la perdita d'un bene più
alto (in confronto all'oggetto della restituzione) od il pericolo
d'un male maggiore. Pertanto è giustificata la dilazione della resti-
tuzione finché uno non potesse farla senza rivelarsi come ladro:
è in giuoco la sua buona fama.
Chi poi è convinto del dovere di restituire ed ha attualmente
tale proposito, può esser assolto subito anche se pel passato non
lo avesse mantenuto.
3. Ma — anche quando ci fosse il dovere obbiettivo e la possi-
bilità di restituire — il confessore tenga pure presenti le norme
circa l'ammonizione. Prima di farla, cerchi d'esplorare le dispo-
sizioni del soggetto. Se prevede che probabilmente l'ammonizione
non sarebbe fruttuosa e pare che il penitente sia in sostanziale
buona fede e non creda (per un motivo o l'altro, ad esempio se ha
rubato allo Stato) di dover restituire, è meglio (pel momento al-
meno) non turbare questa buona fede: soprattutto bisogna evi-
tare che la mancanza materiale si trasformi in colpa soggettiva.
Particolare riguardo occorre coi malati in pericolo di morte nel
parlare di obblighi di restituzione.
4. D'altra parte si danno casi nei quali si stenta ad ammettere
buona fede e scuse. Ci sono coloro che potendo fare subito la resti-
tuzione la rimandano a tempo indeterminato. Ci sono quelli — e
son tanti — che hanno avuto un, prestito da un amico (magari
con l'abbuono degli interessi) e potrebbero, ad un dato momento,
restituire, sia pur a rate, ma procrastinano (forse aspettando la
florida condizione per poter restituire tutto in una volta) ma cosi
non restituiscono nulla, mentre fan spese e compere non neces-
sarie. Certuni restituiscono solo una prima rata e si dispensano
dalle altre, pur non trovandosi in maggiori difficoltà. Simili omis-
sioni saranno dovute a negligenza, pigrizia, indolenza e non pro-
prio al proposito di non restituire. In tali casi l'esame di co-
scienza dovrebbe sensibilizzare e scuotere il penitente. Però si
101
tenga presente il monito di s. Alfonso: « sono da evitare piut-
tosto i peccati formali che i materiali ».
5. Il confessore aiuta e consiglia il penitente sul modo mi-
gliore di fare la restituzione. Farebbe, per sé, un'opera di carità
se si prestasse a trasmettere al proprietario la roba che il debitore
trova difficile consegnare personalmente e con sicurezza. Però la
carità dev'esser guidata dalla prudenza: potrebbe esserci pericolo
per la fama del confessore stesso; bisognerà (anche se ha avuto
l'incarico e quindi non vien meno al sigillo sacramentale) far in
modo che il reo resti sconosciuto. Quando si tratta di furti fatti
allo Stato, a grandi ditte, società, istituti d'assicurazione, si può
soddisfare alla restituzione facendo elargizione ai poveri, ad isti-
tuti di beneficenza, opere pie, perché altrimenti il denaro si per-
derebbe nel labirinto della contabilità burocratica e difficilmente
arriverebbe a destinazione. Se il possessore di mala fede (quale è
un ladro) ignora chi sia il proprietario della cosa o non può far-
gliela avere oggi e prevede che non potrà fargliela avere neppure
in un domani, per particolari circostanze, allora comunissimamente
i moralisti ritengono che deve darla ai poveri (anche se non pochi
trovano difficile il dimostrare con un chiaro argomento stringente
che quest'obbligo viene dal diritto naturale).
A coloro che non possono restituire tutto, il confessore dica
che diano quello che possono e cosi avranno modo di farlo a rate.
Se dichiarasse che bisogna dar subito tutto, quando ciò fosse dif-
ficile, anche se non impossibile, il penitente potrebbe abbattersi.
Il confessore alle volte avrà l'accortezza d'intuire, che bisogna ac-
contentarsi d'una transazione e d'interpretare in tal senso la mente
del creditore. Ad esempio quando si tratta di dipendenti che ru-
bano ai loro padroni. Se la somma è modesta (pur raggiungendo
forse il limite della materia grave) si potrà ammettere che resti-
tuiscano usando maggior diligenza e laboriosità nel loro servizio,
con qualche prestazione non strettamente dovuta. Se la somma
fosse grossa (magari rubata un po' alla volta) si presumerà che
i padroni siano piuttosto remissivi se il dipendente sarà fedele
ed onesto per l'avvenire e che si accontentino d'una restituzione
ridotta, fatta quando e come sarà possibile. Se il confessore di-
chiarasse il dovere della restituzione integrale, il penitente proba-
bilmente non restituirebbe nulla. Se si trattasse di qualche caso
discutibile sotto il profilo della giustizia, o perché il salario è in-
sufficiente o perché i padroni esigono troppo (ed il dipendente non
può in alcun modo ottenere di più né trovare altro posto di la-
102
voro) allora si potrà esaminare se convenga non proibire positi-
vamente una qualche occulta compensazione per un discreto con-
guaglio. Ma se si considera la sempre maggiore preoccupazione
dello Stato di soccorrere chi per impossibilità di lavorare si trova
nell'indigenza, se si considera l'intervento dei sindacati che sor-
vegliano e regolano i contratti di lavoro, è da ritenere che si pre-
senterà sempre meno facile il caso di chi abbia il diritto di appro-
fittarsi della roba d'altri per vero bisogno o perché costretto ad
accettare un ingiusto contratto di lavoro che non gli procura un
sufficiente guadagno. Resta fermo il principio che nell'estrema
necessità ognuno ha diritto a quanto gli è necessario per vivere.
Questo è un diritto naturale. Ma bisogna tener conto, quanto al
modo di usarlo, delle circostanze (fra le quali c'è anche la legge
civile) le quali suggeriscono il mezzo meno dannoso alla comu-
nità, all'ordine pubblico ed al soggetto stesso che si trova nella
necessità. Comunque, extra i casi eccezionali, non si può am-
metter l'occulta compensazione come prassi abituale: sono siste-
mi pericolosi a quelli stessi che li applicano.
6. L'obbligo della restituzione è relativo all'entità della materia
rubata o del danno causato. Quindi, per sé, obbligo — leggero —
c'è anche se non è grave l'entità della somma da restituire. Dico'
« per sé » perché è anche da vedere se nel caso concreto questo
dovere non sia cessato. Ad esempio quando si tratta di roba or-
dinaria da mangiare che un domestico consuma (o dà alla propria
famiglia che ha bisogno), oppure di prodotti del suolo, in poca
quantità, asportati dal fondo d'altri, è da supporre che il pro-
prietario, se non è indigente, voglia condonare esercitando la ca-
rità. Nei furti di non grande entità fatti allo Stato si potrà con-
siderare se virtualmente il debitore non soddisfi alla restituzione
col pagamento delle tasse. Bisogna pure chiedersi, in qualche furto
da poco, se l'incomodo costituito dalla restituzione, non sia spro-
porzionato, si da scusare. Tutto questo sia detto ed inteso con
grande discrezione, senza dimenticare la delicatezza di coscienza, la
abituale correttezza e sincerità d'agire, i limiti dell'altrui condono
presunto. E resti fermo che bisogna educare alla giustizia. Special-
mente i ragazzi. Alla loro età provano fortissime capricciose attrat-
tive per qualche oggetto che non hanno: una penna fiammante,
un quaderno dall'attraente copertina colorata, francobolli nuovi
o antichi... Chi non ha i mezzi di procurarseli può esser tentato di
arrangiarsi. E ci può essere anche chi ruba non perché abbia biso-
103
gno o particolare desiderio d'un determinato oggetto, ma pel gu-
sto e la bravata della rapina e dell'avventura, o per non apparire
meno spregiudicato dei compagni (si pensi all'episodio del furto
delle pere commesso da Agostino all'età di sedici anni e raccontato
nelle Confessioni, 1. II, e. IV-IX). Anche nei collegi, nei semi-
nari minori, sono frequenti i furterelli. Qualche superiore forse
credeva che ciò sia impossibile in ragazzi che ogni giorno pregano,
forse si comunicano, e frequentemente si confessano. Dava una
certa libertà e mostrava fiducia. Un giorno deve aprire gli occhi:
nel botteghino ove gli alunni acquistano, senza troppo rigidi
controlli, roba di cancelleria, risultano degli ammanchi. Che fare?
Proporre qualche esame di coscienza, parlare in qualche istruzione
del rispetto per la roba d'altri e della giustizia (e non solo dello
spirito comunitario) non sarà inopportuno. Dopo di che proba-
bilmente qualcuno andrà a confessarsi: « ho preso la stilografica
ad un compagno ». Il confessore non minimizzi il fatto. Faccia sen-
tire al colpevole il bisogno di restituire l'oggetto, in un modo o
nell'altro (senza manifestarsi), appena è possibile: con esortazione
paterna, non con una imposizione nuda e brusca che può com-
promettere le disposizioni del penitente all'assoluzione. Ma for-
mare coscienze rette e delicate in fatto di giustizia è necessario.
Tanto più se sono giovani abitualmente praticanti o che si pre-
parano al sacerdozio, alla vita religiosa. Altrimenti, quale mera-
viglia se c'è tanta delinquenza minorile, quando nei migliori am-
bienti d'educazione non c'è il senso della giustizia? Oggi abbiamo
gli scassinatori ed i rapinatori di 15-16 anni, perfettamente adde-
strati ed organizzati. Chi li ha istruiti? E chi ha mancato di edu-
carli a non mettersi sul sentiero della malavita? Bisognerebbe esser
forti, anzi severissimi nel formare i piccoli al culto di certe virtù
come l'onestà, la sincerità, la giustizia. Senza queste, quale cri-
stiano può crescere e quale sacerdote? Perciò un genitore od un
superiore manderà il ragazzo a restituire anche cento lire al ven-
ditore che avesse sbagliato il conto: è pedagogico. E quando qual-
cuno rubasse un oggetto, non si faccia tante distinzioni (se la
cosa ha maggiore o minore valuta, se il compagno derubato è ricco
o povero). Certamente è più grave rubare (sia pur poco) ad un
povero che ad un ricco, rubare ad un estraneo che in famiglia. Ma
coi ragazzi, se si sottovalutano certe loro mancanze, c'è pericolo
che fraintendano: che con larga interpretazione concludano che, in-
somma, si può chiuder un occhio, che rubare ad un ricco non è
peccato. Questa idea, in un domani, insensibilmente potrà gene-
104
I
rarne un'altra: che per far fronte ad un bisogno economico, o per
migliorare la propria condizione sociale, sia permesso promuo-
vere rivendicazioni che importano danni e privati e comuni: si
penserà che le disuguaglianze sociali (non dipendenti dalle colpe
dei meno abbienti) sono un'ingiustizia che il singolo ha il diritto
di eliminare; anche facendosi la giustizia che crede e come crede
da sé, anche colla violenza, anche se ne segue un disordine sociale
e pubblico. Certamente, per una convivenza pacifica ed una vita
sempre migliore bisognerebbe che al bene comune (oggetto della
« giustizia sociale ») attendessero e coloro che sono in condizione
privilegiata ed i meno fortunati. Entrambi hanno doveri e diritti.
7. Certi manuali tradizionali di teologia morale, quando trat-
r tano dell'elemosina sembra non considerino altro che quella ma-
% teriale che procura vitto e vestito ai poveri. Su questa fanno una
| abbondante casistica. Quando poi trattano della carità verso chi è
I nella necessità spirituale pare contemplino solo il caso d'un pec-
$ catore da convertire o di un'anima da salvare dal pericolo e dal-
I l'occasione di peccato. Cosicché, ad esempio, l'assistere e con-
| fortare una persona oppressa e depressa sarebbe una carità di
ordine temporale, ma non materiale, né spirituale in senso stretto
e classico. Però non la si può ignorare quando si parla d'elemo-
sina. Già s. Tommaso (II-ÌI, q. 32, a. 2) parla di sette opere
della misericordia: temporale, però non solo corporale, ma anche
spirituale (come può esser l'insegnamento della verità, il consiglio
j buono, la consolazione data a chi è nella tristezza).
' 8. Anche quando si ricorderà il dovere di riparare danni fatti
al prossimo, non si dimentichi lo scandalo dato spargendo errori
od offrendo occasioni alle disordinate passioni ed al malcostume.
Oggi l'argomento è urgente. Un'esigenza di riparazione può esserci
non solo in virtù della carità, ma della stessa giustizia per chi s'era
impegnato anche « ex officio » a comunicare l'autentica dottrina
insegnata dalla Chiesa ed a dare il buon esempio. Si pensi ai « non
pochi membri della comunità ecclesiale » i quali in Italia hanno
recentemente dato tutt'altro che « la doverosa solidarietà » alla
« tesi giusta e buona dell'indissolubilità del matrimonio » (Paolo
VI, 15.V.74, OR, 16.V.74, p. 1). Supponiamo pure «che essi
abbiano agito senza rendersi pienamente conto delle gravi inci-
denze del loro comportamento ». Ma « affinché tale comporta-
mento non si converta in loro perpetuo rimorso », dovranno farsi
« effettivamente... promotori della veri concezione della fami-
105
glia» (Paolo VI, 15.V.74, OR, 16.V.74, p. 1). È necessario che
essi (specie se sacerdoti e religiosi) vogliano — come hanno di-
chiarato i Vescovi Lombardi in un comunicato emesso il 14.V.74 —
« riesaminare in proposito la loro coscienza con profonda since-
rità » {OR, 17.V.74, p. 2). E Paolo VI, in occasione della conce-
lebrazione coi vescovi italiani, a conclusione della loro Assemblea
generale l'8 giugno 1974, accennava al risultato del Referendum
dicendo che non intendeva farne argomento di ormai superate po-
lemiche, ma rivolgeva « piuttosto un paterno appello agli Eccle-
siastici e Religiosi, agli Uomini di cultura e di azione, e a tanti
carissimi Fedeli e Laici di educazione cattolica, i quali non hanno
tenuto conto, in tale occasione, della fedeltà dovuta ad un espli-
cito comandamento evangelico, ad un chiaro principio di diritto
naturale, ad un rispettoso richiamo di disciplina e comunione eccle-
siale, tanto saggiamente enunciato da codesta Conferenza Episco-
pale e da noi stessi convalidato: li esorteremo tutti — diceva —
a dare testimonianza del loro dichiarato amore alla Chiesa e del
loro ritorno alla piena comunione ecclesiale, impegnandosi con
tutti i fratelli nella fede al vero servizio dell'uomo e delle sue isti-
tuzioni, affinché queste siano internamente sempre più animate da
autentico spirito cristiano » (OR, 9.VI.74, pp. 1-2). Dunque co-
loro che non son stati solidali in un tema d'ordine civile e reli-
gioso come questo, son venuti meno alla fedeltà ed hanno creduto
affermare propri particolari carismi venendo meno cosi alla « piena
comunione ecclesiale »: « non potest... intra unitatem ecclesiasti-
cam esse qui ab oboedientia recedit illius qui sedet in Cathedra
Pétri » (S. Bonaventura, Quaest. disp. de perf. evang., q. 4, a. 3,
14, Opera omnia, Quaracchi, V, p. 191). Costoro devono sentire
il bisogno di ritornare alla perfetta concordia coi loro fratelli di
fede ed anche di riparare in qualche modo l'azione funesta che
hanno esercitato sugli altri. Almeno se vogliono esser coerenti alla
loro fede professata. Serve nulla l'appellarsi, per proprio sostegno,
all'opinione ed al comportamento di altri, anche se numerosi,
anche se altamente qualificati', nella Chiesa, per dottrina ed uffi-
cio. Anche il loro resta sempre un cattivo esempio. E quindi da
ripararsi.
VII. La fortezza. Se la prudenza « regola » tutte le virtù del
cristiano, la fortezza le « anima ». Si dimostra e si esplica nella
testimonianza della fede vissuta. La coerente condotta della vita
è una virtuale testimonianza della fede. In qualche caso però
106
l'onore di Dio ed il bene del prossimo possono domandare al cri-
stiano un'esplicita coraggiosa professione della fede (CJC, 1325).
Ma tendere all'ideale cristiano è ardua impresa; domanda spesso
l'eroismo. Anche il credente può esser ghermito dalla paura. Perciò
è necessaria la virtù « infusa » della fortezza che ci aiuta a vincere
la naturale paura. Non è però una virtù indipendente, non guida
se stessa: ha bisogno di esser illuminata. Porta ad affrontare le
situazioni disposte da Dio ed a prender le decisioni volute da Lui.
Con speranza, sicurezza, fiducia. Fiducia anche in sé stessi, ma
subordinatamente e in second'ordine rispetto alla fiducia in Dio:
«per fiduciam, quae nunc ponitur fortitudinis'pars, homo habet
spem in seipso, tamen sub Deo » (S. Th., II-II, 128, 1, ad 2). E,
per esser autentica, è integrata dalla pazienza e dalla perseveranza.
V i l i . La temperanza regola le soddisfazioni della gola e della
sensualità.
1. I disordini della gola non superano, per sé, sul piano morale,
la venialità. Ma se vi si aggiunge l'uso di bevande alcooliche, stu-
pefacenti, droghe (uso oggi diffuso fra i giovani) allora sono da
rilevare gli effetti dannosi (e per il soggetto e per le conseguenze
ereditarie) di questi abusi. Ai quali pare che solitamente si dia
troppo poca importanza nella predicazione e nella confessione.
2. Essenzialmente diverso è l'abuso in materia di sessualità:
non si tratta solo di eccesso nell'uso di ciò che, di per sé, è ordi-
nato al bene dell'individuo, ma d'una inversione dell'ordine sta-
bilito dal Creatore. L'atto impuro è un atto sessuale privato
della sua naturale finalità: è quindi sostanzialmente viziato. D'al-
tra parte l'istinto sessuale suol esser molto forte e l'uomo fre-
quentemente cede alla passione. Pertanto certi confessori credono
di dover puntare subito su questa materia con tante interroga-
zioni rivolte ai penitenti. Il S. Officio nelle « Norme » (riservate)
del 16.V.1943 (De agendi ratione confess. circa VI...) ha dichia-
rato che male si comporterebbe quel confessore che desse l'im-
pressione d'esser « fere unice de his peccatis sollicitus » (n. II).
Difatti le mancanze contro la castità non sono, di massima, le pili
gravi perché la naturale concupiscenza « antecedente », pur accre-
scendo la volontarietà, diminuisce la libertà dell'atto offuscando il
giudizio della ragione. Se il confessore si mostra quasi solo preoc-
cupato del sesto comandamento c'è pericolo che i penitenti non
s'interroghino debitamente e non sentano adeguata responsabilità
per tante altre mancanze gravi che, specialmente oggi, si commet-
107
tono: ad esempio, contro la fede (quanti difendono e diffondono
Terrore contro la dottrina insegnata dalla Chiesa, ad esempio circa
il divorzio, l'aborto), contro la religione e la morale (quanti coi
mezzi di comunicazione -— nelle sale cinematografiche, con gli
scritti, con qualche radiotrasmissione — cooperano a metterla in
cattiva luce ed a schernirla), contro la giustizia: « la corruzione am-
ministrativa, la speculazione edilizia, l'abuso di potere, il com-
mercio pornografico e altre forme di oppressione dell'uomo na-
scondono subdolamente, sotto l'involucro di strutture sociali, gra-
vissime responsabilità di persone e di gruppi » (Doc. Past. C.E.I.
12.VII.74, n. 46).
Perciò è meglio conservare la castità come ultima materia di
una eventuale interrogazione. Ciò non significa che le mancanze
contro questa virtù abbiano a venir minimizzate. Tutt'altro. Sono
quelle che maggiormente degradano l'uomo (l'ubbriaco diventa un
pagliaccio, il sensuale sfrenato s'inginocchia ai piedi della più
lurida prostituta). Sono i peccati più pericolosi anche perché ten-
dono a ripetersi e moltiplicarsi. E cosi accecano la mente, indu-
riscono il cuore. Julien Green, in data 15 aprile 1950, scriveva
nel suo « Journal »: « Conversazione con un giovane religioso
circa il peccato della carne. Io gli dicevo che è il solo peccato grave
che non sia seguito immediatamente da rimorsi, e che — a mio
avviso — la sola prova che è un peccato grave, ed anche molto
grave, è che finisce per indurire il cuore. Nessuno è più feroce-
mente attaccato alla sua propria volontà dell'uomo dedito al pia-
cere. Sul giovane il peccato non ha in apparenza alcuna presa, per-
ché niente sembra aver presa' sulla gioventù. In apparenza il frutto
resta meravigliosamente intatto. La putrefazione, l'indurimento
non compaiono che alla lunga, ma compaiono sempre... » (Jour-
nal, 1946-50, Paris, Plon, 1951, p. 360). E chi contrae un vizio
sarà tentato di ricorrere ad ogni mezzo pur di soddisfarlo (quanti
ladri occulti che passano per persone oneste). Sono i frutti di un
certo insegnamento impartito oggi da psicologi e medici secondo
i quali il « sentimento di colpa » in materia sessuale dovrebb'esser
eliminato e guarito come qualsiasi altra malattia. Diceva Pio XII
ai partecipanti al Congresso di Psicoterapia e Psicologia clinica
il 15.IV.53: « ...// sentimento della colpa, la coscienza cioè di
aver violato una legge superiore di cui tuttavia si riconosceva
l'obbligo... può tramutarsi in sofferenza e anche in turbamento
psichico ». Però « la psicoterapia tocca qui un fenomeno che non
è di sua esclusiva competenza, poiché è altresì, se non in primo
108
luogo, di carattere religioso. Nessuno può contestare che può es-
serci, e non raramente, un sentimento di colpa irragionevole, per-
sino morboso. Ma si può avere egualmente coscienza d'una colpa
reale che non è stata cancellata. Né la psicologia né l'etica pos-
seggono un criterio infallibile per casi di tale specie, perché il pro-
cesso della coscienza che genera la colpevolezza ha una struttura
troppo personale e troppo sottile. Ma in ogni caso è certo che nessu-
na cura puramente psicologica guarirà la colpevolezza reale... La
psicoterapia s'ingannerebbe e ingannerebbe gli altri se, per cancella-
re il sentimento di colpa, pretendesse che la colpa stessa non esi-
stesse più... Ancor meno la psicoterapia può dare all'ammalato il
consiglio di commettere tranquillamente un peccato materiale, per-
ché egli lo commetterà senza colpa soggettiva; questo consiglio sa-
rebbe erroneo anche se una simile azione dovesse sembrare necessa-
ria per la distensione psichica dell'ammalato e, perciò per la finalità
della cura. Non è lecito mai consigliare una azione cosciente che
sarebbe una deformazione e non un'immagine della perfezione di-
vina » (Pio XII, Discorsi ai medici, Roma, 1959, pp. 239-241). Ma
i penitenti che non son giunti alla perdita del senso morale, quan-
do è passata la passione sentono il disgusto di sé stessi e forse la
vergogna d'aprirsi e di manifestare queste loro debolezze ad un
uomo. Da una inchiesta condotta, anni addietro, in Francia, fra
ragazze studenti, è risultato che i peccati più difficili a confes-
sarsi sono quelli contro la purezza, specialmente quando vi si ri-
cade indefinitamente: perché allora — è stato detto — « si
ha l'impressione di mancare di volontà. Per confessarli bisogna
fare un atto d'umiltà molto più grande che per mancanze passeg-
gere » (P. Blanchard, Réactions contemporaines devant la Con-
fession, « Lumière et vie », X, 1955, 317).
Perciò il confessore, dopo aver invitato il penitente a dire
i peccati che ricorda, lo aiuterà se lo vede in difficoltà.
3. Il S. .Officio raccomandava di non far interrogazioni « su
peccati di cui non c'è alcun positivo e solido sospetto » che il peni-
tente si sia reso colpevole (Norme, n. 1). Però questo sospetto può
venire sia da qualche cenno od indizio diretto fornito dal peni-,
tente, sia dalla sua generale situazione spirituale (come nel caso
che avesse numerose altre mancanze gravi). Allora il confessore
è mosso dalla carità (anche se non tenuto) a rivolgere qualche do-
manda per poter poi dare l'eventuale consiglio opportuno. Tutto
sta che l'interrogazione sia fatta in modo discreto e delicato. Per
esempio, ad un ragazzo: « nulla contro la modestia, la purezza? »;
109
ad un coniugato: « nulla contro la santità del matrimonio e la
legge di Dio per impedire la figliolanza? ».
4. Perciò il S. Officio raccomandava che il confessore, qua-
lora interroghi su questa materia (di sua iniziativa o dietro richie-
sta del penitente), « cautissime semper procedat » (Norme, n. 1).
E nel dubbio che una domanda sia troppa, conviene mancare piut-
tosto per difetto che per eccesso. In particolare coi fanciulli.
« Somma discrezione e cautela — raccomandava il Frassinetti —
per evitare il pericolo d'insegnare » loro « ciò che probabilmente
non sanno ancora. Né tema il confessore di mancare per questo
all'integrità; poiché il fanciullo non è obbligato a confessarsi in
miglior modo di quel che sa, né il confessore lo deve o lo può
istruire in questa materia; ... la confessione sarà ben fatta ancor-
ché non esprima bene la specie dei suoj peccati » (Manuale del
parr. nov., pp. 377-378).
Con nessun genere di penitenti il confessore indaghi su cir-
costanze che non mutano la specie morale del peccato. C'è una sola
specie (nell'ambito della castità) di peccati consumati in modo
naturale: rapporto normale fra uomo e donna extra matrimonio.
Ulteriori specie morali possono esser indotte da circostanze par-
ticolari ma per violazione d'altra virtù (della giustizia nell'adul-
terio; della religione nel sacrilegio; della « pietas » nell'incesto).
Specificamente contrari alla castità ci sono alcuni disordini contro
natura, quali gli atti solitari, quelli compiuti con persona dello
stesso sesso, l'onanismo (coniugale od extraconiugale). Gli atti per
sé indifferenti (toccamenti, ad esempio), se sono posti senza in-
tenzione sensuale e per una causa onesta, sono leciti; posti senza
ragione giustificante sono più o meno pericolosi relativamente al
soggetto e sono detti atti « impudici »; diventano « impuri » se
la soddisfazione sessuale è intesa.
Quanto alle anomalie, queste possono esser quantitative o qua-
litative a seconda che riguardano o l'intensità dell'istinto o l'og-
getto dell'istinto. L'ipostenia (carenza dello stimolo sessuale) crea
un problema in ordine al matrimonio (occorre la cura ed il con-
siglio d'un medico prudente); l'iperestesia (anormale sovreccita-
zione) fa sorgere difficoltà in ordine alla scelta del sacerdozio ed
all'impegno del celibato (il consigliere spirituale dovrà studiare
accuratamente il caso per formulare un ponderato giudizio). Circa
le anormalità qualitative il confessore deve saper distinguere, ad
esempio, l'omosessualità come vera e propria anomalia da una de-
viazione solo parziale o temporanea dell'istinto. La prima importa
110
nel soggetto una spontanea ed abituale inclinazione verso persone
del proprio sesso, cosicché è questo l'oggetto completo ed esclu-
sivo dell'istinto sessuale. A questa inclinazione s'accompagna la
avversione al sesso diverso. È ovvio che non si potrebbe giudicare
se si verifica la vera anomalia in una persona la quale vivesse in
un ambiente dove non vede mai persone dell'altro sesso. C'è in-
fatti una omosessualità che è una tendenza transitoria o non esclu-
siva, e può dipendere da varie cause, come le condizioni am-
bientali (quale la vita collegiale), una mancanza d'evoluzione e di
maturità sessuale, o qualche abitudine contratta.
Anzitutto non si può ammettere che Pomossessualità (sia essa
esclusiva o parziale, permanente o transitoria) sia una forma na-
turale della sessualità, avente uguali diritti dell'eterosessualità. Se
si tenesse questa teoria, allora chi avesse questa tendenza potrebbe
concludere che è inutile cercar di superarla e di guarirla. E chi si
sentisse incapace di condurre una vita solitaria potrebbe rite-
nere giustificato il vivere in comunione di vita e d'amore, analoga
al matrimonio, con una persona del suo sesso (cfr. S. C. per la
dott. della fede, Dichiar. Persona Humana, 29.XII.1975, n. 8,
OR, 16.1.1976, p. 1). E non è neppur sostenibile l'opinione se-
condo la quale — pur trattandosi d'una prassi che è un disordine
sul piano normativo teorico generale — poi, sul piano della vita
concreta, in forza della prudenza, lo stesso piano oggettivo dei
valori ammetterebbe una flessione delle norme derivate, meno
generali. Una norma morale che proibisce un'azione intrinseca-
mente cattiva (che resta cioè sempre cattiva, per quanto mutino
le circostanze) — qual è l'omosessualità — non può ammettere,
obbiettivamente, eccezioni. In chi la trasgredisce potrà, in qualche
caso, mancare la piena responsabilità per mancanza di delibera-
zione o per ignoranza invincibile. Ma allora siamo sul piano sog-
gettivo. Obbiettivamente, « gli atti di omosessualità sono intrin-
secamente disordinati e... in nessun caso possono ricevere una
qualche approvazione » (Dich. Pers. Hum., n. 8). Questa approva-
zione potrebbe e dovrebbe (per esser logici) venir data se, e nei
casi in cui, la norma morale subisse^ sul piano obbiettivo dei
valori, una flessione. Del resto, chi può con certezza giudicare che
quest'anomalia sia, nel caso concreto, talmente connessa con un
istinto innato ed una costituzione patologica da essere assoluta-
mente incurabile? In nessun caso (ripeto) si può ammettere, sotto
questo pretesto, che venga liberamente assecondata. Sta il fatto
che molti riescono a dominare — colla forza della volontà e l'aiuto
111
della grazia — la loro tendenza, occupandosi intensamente in un
campo di lavoro prudentemente scelto, nel quale trovino il meno
possibile occasioni di tentazione e di turbamento. Nell'azione
pastorale si tratterà con questi omosessuali con comprensione
perché non tutti coloro che soffrono di questa anomalia ne sono
responsabili. Si sosterranno nella speranza di superare le loro
difficoltà personali ed il loro disadattamento sociale. La loro
colpevolezza sarà giudicata con prudenza (Dich. Pers. Hum., n. 8).
Col passare degli anni — in seguito ad un tenace lavoro di con-
trollo e di autoeducazione — alle volte si verifica una parziale
normalizzazione, per cui l'istinto si corregge e si raddrizza orien-
tandosi anche verso il sesso diverso.
A parte gli stimoli sessuali che hanno un oggetto morale spe-
cificamente diverso, bisogna notare che anche quelli che si riferi-
scono fondamentalmente a persone d'altro sesso possono essere
infinitamente vari (c'è chi è eccitato solo guardando o toccando
qualche determinato oggetto dell'abbigliamento femminile). Ma
non è necessario che ciò sia specificato in Confessione.
5. Il S. Officio raccomandava al confessore (il quale vedesse
conveniente fare qualche interrogazione) di cominciare « dalle
questioni più generali » (Norme, n. I) (« qualche mancanza con-
tro la modestia, la purezza? »). Poi, se il penitente risponde affer-
mativamente, si procederà passando dai peccati meno gravi ai
più gravi: « pensieri? »; « volontari? ». Solo in caso di risposta
affermativa si chiederà al penitente se abbia anche « fatto » qual-
che atto non puro; e (nel dubbio) se furono atti completi. Non si
faccia inchieste sull'oggetto particolare dei pensieri e dei desideri.
Piuttosto si raccomandi di evitare le cause e le occasioni (sguardi,
letture, films, compagnie, discorsi ascoltati e fatti...). Si eviti
certe domande in forma disgiuntiva (« da solo o con donne? »)
se possono suscitare pericolosa curiosità in chi forse non conosce
ancora l'esistenza di certi peccati. Quando i ragazzi si accusano
di atti impuri (« cose sozze », « porcherie », dicono) commessi fra
di loro, si supponga che si tratta di mutua procurata polluzione.
Non si faccia alcuna indagine sul « modo ». Si raccomandi di fug-
gire le cattive compagnie, e, magari, si avanzi una domanda per
vedere se c'è nell'ambiente qualche occulto corruttore. Se il peni-
tente fosse vittima di qualche lupo che fa strage tra gli innocenti
d'una comunità, il confessore che abbia le mani legate dal sigillo,
dovrebbe suggerire al ragazzo, prepararlo e prudentemente gui-
112
darlo a denunciare il fatto a chi può intervenire per evitare
un danno comune.
Quando i penitenti non sposati accusano peccati di fornica-
zione con persone d'altro sesso, non si indaghi se furono com-
messi secondo natura od in modo onanistico. (Per la donna potreb-
be darsi il peccato di tentato o procurato aborto. Ma, in genere,
se colpevoli, si accusano spontaneamente). Il colpevole dovrebbe
invece dichiarare se è sposato e se ha peccato con persona spo-
sata (perché in caso affermativo ci sarebbe la specie dell'adulterio).
E chi commette « azioni » impure è da supporre che abbia
pure brutti « pensieri » volontari, in altre occasioni, anche se
non se ne confessa (con certi penitenti è inutile fare minute
indagini). Invece, chi non si determina a compiere atti esterni
(pur avendone forte sollecitazione e facile occasione) non è da pre-
sumere che manchi gravemente con pensieri.
Discrezione anche nel pretendere la dichiarazione del numero
dei peccati. Evidentemente è più facile ricordarlo riguardo ai pec-
cati esterni consumati che riguardo a quelli interni; più facile se
la Confessione precedente fu fatta poco tempo prima.
6. Particolarmente scabroso e tormentoso è il caso, cosi fre-
quente, di coniugati che ricorrono all'una od all'altra pratica anti-
concezionale per non aver figli.
Si deve interrogare su questo punto?
Conviene stare alle direttive date dalla Chiesa. Il confessore
non deve né disinteressarsi affatto del problema né applicare
un rigorismo inutile o dannoso. Pertanto non interroghi quando
su questo abuso « nulla cadit in poenitentem positiva atque firma
suspicio » ,(S. Off., De agendi ratione..., n. I). Interroghi « pru-
denter et discrete» quando « fundata adsit suspicio» (ibid.).
Il sospetto positivo e fondato può venire sia da qualche cenno
che il penitente abbia fatto direttamente al problema dei figli;
oppure dal complesso della sua vita spirituale (se ha avuto una
condotta mondana e non dà segno d'essersi sufficientemente inter-
rogato sulle sue colpe gravi...). Ma chi, pur confessandosi solo
una volta all'anno, mostra d'accusarsi con cura dopo un serio
esame di coscienza, questi non offre sospetti obbiettivi. È ben vero
che si dà talora il caso di chi è esente da colpe gravi nelle altre
materie e manca solo in questa. Ma il confessore, ad un dato mo-
mento, quando si è conformato alla direttiva generale, potrà
ricorrere alla presunzione ed affidare il penitente alle mani ed alla
misericordia di Dio, o gli raccomanderà di abbracciare tutte le
113
sue colpe, anche quelle eventualmente non ricordate e non ac-
cusate, e di chieder perdono secondo che Dio vede. Il confessore
potrà presumere che il penitente sia sinceramente disposto spe-
cialmente quando gli abbia domandato se non gli pare di ricordar
altro ed il penitente abbia risposto negativamente con tono di
umiltà e di convinzione.
Nel caso che convenga fare una interrogazione, il confessore
la formulerà « prudenter et discrete»: chiederà al penitente se
sente forse qualche rimorso per non aver sempre agito secondo
la santità del matrimonio e la legge di Dio per aver impedito
con malizia la conseguenza dei figli. Domanda discreta, ma chiara.
Se risponde affermativamente non si facciano indagini — in base
alla direttiva generale del S. Officio, De agendi rat., n. I — sul
« modo » (per interruzione dell'atto od uso di strumenti o di
pillole); né (praticamente) si chieda sul numero o frequenza (si
presume che l'abuso sia abituale: quando succede solo qualche
volta i penitenti stessi lo dichiarano).
Chi riconosce d'esser ricorso a questo abuso, dev'esser am-
monito ed invitato a fare un proposito contrario? O si può pre-
sumere una buona fede che sconsigli l'ammonizione?
Anzitutto è da osservare che il solo fatto che un penitente
si confessa di praticare l'onanismo non è sempre segno certo
che egli sia gravemente colpevole. Certe spose si accusano anche
se in ciò non hanno responsabilità. Interrogate se l'abuso dipende
anche da loro o solo dal marito, qualcuna sincèramente riconosce
che entrambi sono d'accordo nella maliziosa prassi; qualche altra
afferma che il disordine dipende solo dal marito che interrompe
l'atto: bisogna allora dire la parola opportuna che serva a retti-
ficare eventualmente la coscienza della donna: essa dovrà far
noto al marito che sarebbe più contenta se agisse regolarmente;
e, quando le sembrerà opportuno ed il momento propizio, dirà la
parola buona cercando di convertirlo (ma — si noti bene — con
prudenza perché non nasca discordia). Se si sarà comportata così,
bisogna assicurarla che, se il marito domanda il debito, essa può
soddisfarlo e corrispondere senza scrupoli e perplessità per evitar il
pericolo che egli si raffreddi, si disgusti, si allontani (il che sarebbe
un male ancor maggiore dell'onanismo). Potrebbe però aver una
responsabilità la moglie stessa quando, non volendo i figli, preten-
desse dal marito una totale astinenza (per lui troppo difficile) sa-
pendo che egli — per non contrariarla — userà irregolarmente
del matrimonio. Allora virtualmente egli sarebbe indotto all'abuso
114
della moglie anche se essa direttamente non intende usare del
matrimonio con malizia ma senz'altro evitare i rapporti sessuali.
A parte il caso della cooperazione solo materiale ed incol-
pevole da parte della moglie, si può presumere nei coniugi onanisti
una buona fede che sconsigli l'ammonizione? In questa materia
l'assoluta buona fede — come ignoranza piena d'ogni malizia —
oggi non si può supporre. Ed anche se in qualche caso ci fosse,
bisogna attendere al pericolo d'un danno comune (quale si avrebbe
se qualcuno frequentasse i sacramenti e parlasse, il che è facile,
con altri, di questo abuso come se non entrasse fra i disordini
da accusare in Confessione, come se il confessore glielo avesse
permesso).
Ma se di massima non si presume l'assoluta buona fede, di
fatto ci può esser una certa quale sostanziale buona fede in
qualche caso nel quale speciali circostanze straordinarie rendano
difficilissima l'osservanza della legge di Dio. Si pensi al caso —
specie se si tratta di giovani sposi — in cui il medico avesse
dichiarato sul serio che ci sarà per la donna pericolo di morte nel-
l'eventualità di una nuova gravidanza; oppure a qualche situa-
zione di tale indigenza che il guadagno familiare basta si e no
a vivere, cioè a mantenere k famiglia coi figli già procreati... In
tali casi il confessore si asterrà dal turbare la buona fede. Ma ri-
spettare la buona fede non significa affermare positivamente che
questo modo d'agire è lecito, tanto più che questi coniugi rico-
noscono essi stessi che è un comportamento « che non andrebbe
bene », ma pensano e sperano che Dio non li condanni (almeno
gravemente) perché Egli vede la difficoltà e la disposizione a
non rifiutare altri figli appena le condizioni economiche miglio-
reranno. Il confessore esorterà il penitente a pregare per aver la
forza di fare più che possibile la volontà di Dio e lo assolverà.
Bisognerebbe pure che il penitente tenesse il caso riservato e
non ne parlasse con altri i quali crederebbero facilmente che
egli abbia avuto il permesso positivo dal confessore per la pra-
tica onanistica.
Ma chi dev'essere, ed è, ammonito, questi deve fare il propo-
sito di cambiar condotta se vuol esser logico e coerente nella sua
Confessione sacramentale. Ed è nell'ottenere il proposito che si
trova più resistenza (anche in coloro che son persuasi di non agire
come si dovrebbe). Se il penitente restasse irriducibile per prin-
cipio, non sarebbe disposto all'assoluzione ,(però il « proposito »
non esige — come taluni pensano — una vera « promessa » con
115
una quasi certezza di non ricadere più). Ed anche — anzi
particolarmente — in questa materia il miglior confessore non
è quello che seccamente nega l'assoluzione a chi non fa su-
bito H proposito, ma il confessore che fa di tutto per susci-
tare, nel penitente onanista, almeno una qualche disposizione
positiva che sia sufficiente per poterlo assolvere sotto condi-
zione (specialmente se è uno di coloro che si accostano mol-
to raramente ai sacramenti). Il confessore può, quando ra-
gionevoli motivi consigliano di limitare la prole, cautamente
suggerire di ricorrere alla continenza periodica, riservando l'uso
del matrimonio ai giorni che per la donna sono sterili. Que-
sti sono individuati secondo i vari metodi. Non spetta al con-
fessore entrare nei particolari della questione fisiologica; con-
sigli ai penitenti di rivolgersi ad un medico che sia perito
ed abbia principi religiosi e morali. La pratica della continenza
periodica non nuoce all'amore ma lo alimenta.
Recentemente è stato divulgato l'uso del cosiddetto « am-
plexus reservatus » (unione fisica prolungata, mediante l'atto pro-
priamente sessuale con l'intento e lo sforzo di non giungere, pri-
ma della disunione, alla piena soddisfazione). Cosi non si.otterreb-
be la procreazione, bensf gli altri fini del matrimonio; e sarebbe;tin.
rimedio contro la tentazione dell'onanismo. Evidentemente non
si può dirlo incondizionatamente lecito: in pratica ci può esse-
re il pericolo d'una soddisfazione piena separata e priva della
sua naturale imaìita (S. Off. 30.VI.1952, AAS, 44, 1952, 546).
Occorre perciò una causa proporzionata (pericolo di morte per
la moglie in caso di una nuova gravidanza, impossibilità di
mantenere altri figli...): stante tale causa, se, dopo l'interruzio-
ne dell'atto dovesse succedere raramente una polluzione sepa-
rata si può — applicando il principio del duplice effetto —
considerarla un effetto accidentale, indiretto, non imputabile (se
non è inteso).
L'osservanza della legge di Dio nel matrimonio domanda l'abi-
tudine all'autocontrollo ed alla castità che purtroppo una gran
parte di giovani non possiede quando arriva al matrimonio. Se,
oltre la passione dei sensi, avessero per la moglie un profondo
affetto spirituale, troverebbero la forza di sopportare temporanei
periodi di astinenza. E quando questa si fa difficile — eppure
talora è necessaria o consigliabile — dovrebbero risvegliare la
loro fede: coli'aiuto della grazia di Dio si possono risolvere pro-
blemi che sul piano naturale sembrano insolubili.
116
Ma non si può approvare quanto qualcuno oggi si permette di
suggerire: se un coniuge giudica che per lui il ricorso alla contrac-
cezione sia il minor male (senza pertanto giustificarsi) gli si può
consigliare d'accostarsi abitualmente ed incessantemente alla men-
sa eucaristica anche senza essersi prima riconciliato mediante la
Confessione (basta una periodica frequenza a questo sacramento).
A chi ha fatto la sua scelta di fondo per Cristo — si pensa —
la Comunione darà la forza — ma gradatamente — di osservare
la legge di Dio. Senonché, a parte l'obbiettiva malizia della
prassi anticoncezionale (a cui nessuno può esser necessitato per-
ché Dio dà a tutte le anime di buona volontà la grazia di evi-
tarla), è inoltre da temere che un suggerimento simile servirà
al penitente, anziché a correggere questo disordine, piuttosto
a formarsi la coscienza che non è peccato. Quando gli si dicesse:
« anche se Lei ricorre a questa pratica, può andare alla Comunione
senza bisogno di confessarsi ogni volta », certamente egli inter-
preterà (o sarà insensibilmente portato ad interpretare) questa
concessione come un'implicita positiva dichiarazione della per-
missività (in certi casi) della contraccezione. È ben diverso U
contegno che deve osservare il confessore nei casi in cui è prudente
rispettare la buona fede: allora egli non dichiara al penitente che
si tratta d'un abuso che non è necessario accusare in Confessione
prima della Comunione. E la Confessione (oltre alla grazia sa-
cramentale che conferisce) ha un'efficacia psicologica e pedagogica
insostituibile.
7. Non minore prudenza — aggiunge il S. Officio (De rattorie
agendi..., n. II) — occorre al confessore nei suoi consigli ed
istruzioni in materia del sesto comandamento. I suggerimenti
siano opportuni ed adatti ai bisogni dei singoli.
Ad esempio, ai ragazzi — evitate le troppe interrogazioni —•
si rivolgerà piuttosto qualche viva esortazione: si metterà il dito
sul rimorso che è frutto cattivo del peccato, sulla gioia che è il
frutto buono della presenza di Dio nella nostra anima; si indi-
cheranno i mezzi necessari per conservarsi puri. Non molte do-
mande ai ragazzi: però un minimo d'informazione sullo stato del
penitente è necessario se si vuol dargli un efficace aiuto spiri-
tuale: altra è la condizione di chi solo ogni tanto commette il
peccato impuro ed altra quella del vizioso (ci sono giovani che
hanno contratta l'abitudine quotidiana). E — ferma la direttiva di
non entrare in particolari inutili, di non sollevare questioni im-
117
pertinenti, di non avanzare domande pericolose — non si può
ignorare che molti ragazzi ed adolescenti non hanno idee chiare su
ciò che è lecito e su ciò che è illecito in questo materia, sul com-
portamento da tenere (per esempio coi compagni pericolosi); qual-
cuno ha coscienza di quello che è male ma non ha il senso dell'esem-
pio buono da dare; c'è chi ritiene peccato o peccato grave ciò che
non lo è (azioni compiute nel sonno o nel dormiveglia, sogni in se-
guito a pensieri avuti lungo il giorno; non sanno con chiarezza che
nello stato di dormiveglia non c'è l'avvertenza necessaria alla colpa
grave, che se i pensieri impuri volontari avuti nello stato di veglia
sono imputabili, non lo sono i sogni conseguenti). Certo, nella cate-
chesi e negli esercizi spirituali ci sarebbe più tempo per illuminare
le coscienze (sempre entro i limiti prudenziali imposti dall'inse-
gnamento « pubblico »), però anche al confessore può presentarsi
l'opportunità di dare un'istruzione, discreta e breve, ma più effi-
cace perché riservata e adatta al bisogno del singolo.
Con chi è tribolato dalle tentazioni eppur fugge le occasioni,
occorre una decisa parola rassicurante ed incoraggiante: sono
prove che Dio manda anche ai grandi santi. Chi ha la volontà
abitualmente contraria al peccato — la retta opzione fondamen-
tale — specialmente se si ricorda di Dio nella tempesta, deve
ritenersi immune da colpa, anche se ha l'impressione di aver
avuto qualche compiacenza (capita facilmente alle anime delicate
di temere che alle suggestioni dei sensi s'accompagni qualche
consenso e desiderio). Queste tentazioni sono un mezzo tormen-
toso ma efficace di santificazione.
Molta misericordia e carità anche con coloro che cadono e
ricadono, ma umilmente riconoscono il loro peccato, son pentiti
e propongono la conversione. Ci posson esser molte attenuanti.
Chi, all'infuori di Dio, può scandagliare gli abissi delle coscienze?
Chi può conoscere a fondo il carattere d'una persona, la parte
che ha l'ereditarietà morale e fisica, l'educazione ricevuta, l'in-
flusso delle letture e delle amicizie e di altri fattori e circo-
stanze che possono incidere sulla mente, sulla volontà, sull'ener-
gia d'una persona? A proposito, ad esempio, della masturbazione
« la psicologia odierna fornisce parecchi indizf validi ed utili per
formulare un giudizio più equo sulla responsabilità morale e per
orientare convenientemente l'azione pastorale. Essa può aiutare
a comprendere come l'immaturità dell'adolescenza, che talvolta si
protrae oltre questa età, oppure la deficienza d'equilibrio psicolo-
gico, o l'abitudine contratta, possono influire sul modo d'agire
118
dell'uomo diminuendo la deliberazione degli atti e facendo si
che soggettivamente non si contragga sempre la colpa grave. Però
non si deve sempre presumere l'assenza della responsabilità gra-
ve » (Dich. Pers. Hum., n. 9). E tanto meno si potrà lasciar
intendere agli adolescenti che la masturbazione non è un disor-
dine preoccupante da prender in seria considerazione, ma un
normale fenomeno dell'evoluzione sessuale. E non si può ammet-
tere — opinione anche questa, oggi, difesa — che la colpa grave
si ha solo quando il soggetto si chiude nella sua soddisfazione
(ossia nella « ipsazione ») senza orientare la passione verso la
comunione amorosa con una persona d'altro sesso (Dich. Pers.
Hum., n. 9).
Il confessore parlerà quindi con gravità a coloro che con leg-
gerezza accusassero i loro indubbi peccati in questa materia, o
cercano di difenderli (ad esempio, i rapporti prematrimoniali).
La situazione più penosa pel confessore si ha quando i penitenti
(ragazze praticanti, ad esempio) rivelano tali colpe ed aggiun-
gono di non vedervi nulla di male. Si tenterà (senza umiliarli) di
toccare il loro cuore e di far capire che la Confessione non vale
nulla se manca la convinzione, il pentimento ed il proposito.
Ma oggi, per convertire certuni (che si dicono religiosi) pare
non basti toccare il loro cuore: ci sarebbe da cambiare in loro
tutta una mentalità. Corruzione di costumi ce ne fu, e tanta, in
tutti i tempi (i confronti del presente col passato non sono facili
perché bisognerebbe precisare i luoghi, i tempi più o meno re-
moti). Il fatto oggi preoccupante è che se alcuni educatori, peda-
gogisti e moralisti hanno contribuito ad illuminare i valori d'en-
trambi i sessi per un sano umanesimo, « altri invece hanno pro-
posto opinioni e modi di comportamento che sono in contrasto
con le vere esigenze morali dell'essere umano giungendo al punto
di aprire la via alle licenze dell'edonismo » (Dich. Pers. Hum.,
n. 1). Di qui un disorientamento ed una confusione degli spiriti,
anche fra i cristiani: principi morali, finora indiscussi, sono
stati fortemente messi in discussione e molti trovano sempre
crescenti difficoltà nel prender coscienza della sana dottrina mo-
rale e « finiscono col domandarsi quel che devono ancora rite-
nere per vero » (Pers. Hum., n. 1). Quali frutti si può attendersi
da questa perdita dei principi morali? S'incontrano giovani d'ambo
i sessi i quali hanno talmente assimilato la concezione del libero
uso della sessualità da esser incapaci di sentire la bellezza e la
nobiltà della purezza prematrimoniale e della fedeltà coniugale.
119
Tutte le norme restrittive sono viste come il residuo d'una morale
anacronistica perché avrebbero avuto origine da un certo tipo di
cultura e sarebbero ora superate (o messe in dubbio)'in seguito
ad una nuova situazione culturale (cfr. Dich. « Pers. Hum. »,
n. 5). Ma, siamo chiari, questo è lo spirito del « mondo » a cui
né la Chiesa né i confessori possono conformarsi. Gesù l'ha detto.
Ed i penitenti che per principio sono irriducibili nel voler seguire
la via larga non hanno diritto a ricever i sacramenti: se li chie-
dono è una incoerenza, una contraddizione, un assurdo. Non si
tratta solo di cadute per debolezza. Perciò la situazione di questi
penitenti è tanto più grave. Non si nega che un complesso di
fattori interni e di circostanze esterne (non ultima l'amoralismo
dell'ambiente) possano talvolta diminuire la responsabilità nel
singolo soggetto (cfr. Episc. Lomb.-Ven., Docum. sui principi mo-
rali..., 2.II.74, nn. 19, 25). Spetta al confessore istruire e trattare
ognuno con gravità e fermezza, comprensione e misericordia —
secondo i casi.
Il lavoro per disporre e persuadere certi penitenti non si
presenterà facile nel breve corso della Confessione. Si potrebbe
illuminarli ed aiutarli anche suggerendo qualche libro. Ma non è
facile impresa l'indicazione del libro che sia del tutto buono ed
adatto al singolo. Bisognerebbe averlo letto attentamente e non
fidarsi con troppa fiducia del giudizio altrui (e tanto meno delle
recensioni). Specialmente oggi.
17
Anche in materia di indulgenze la Chiesa ha recentemente riaffermato
— contro ogni mercantilismo — il primato della carità. Nella Costituzione
« Indulgentiarum doctrina » del 1.1.1967 ha (contro qualche tendenza di
120
stesso che uno chiede di confessarsi fa presumere che sia mosso
da un sentimento di fede, d'umiltà, di pentimento; pentimento che,
a sua volta, si presume autentico. Quest'autenticità sarà confer-
mata da una accusa che appaia seria e sincera.
All'atto pratico occorrerà equilibrio: non pretender troppo,
non accontentarsi di troppo poco.
1. Come maestro, il confessore, prima della sentenza, quando
è conveniente, istruisce ed ammonisce il penitente. Come giudice,
constata se è disposto, ma, come medico, cerca di disporlo. Quando
è già sufficientemente disposto potrebbe assolverlo senz'altro.
Ma è bene che rivolga a tutti qualche parola d'esortazione. Anche
a coloro che sono ottimamente disposti. L'aspettano, la desi-
derano. Desolante commento di qualcuna (ed anche di qualcuno)
che torna dalla confessione: « Non m'ha detto nemmeno una
parola. Nessuna soddisfazione. Non mi pare neppure d'essermi
confessata ». Sono confessori diventati ormai vecchi e mestieranti?
Ma taluni son giovani. Eppure han fretta di sbrigarsi dei peni-
tenti. È venuto già meno il fervore delle primizie? Si considera
questo ministero come un perditempo e come ormai superato?
A nessuno conviene fare lunghe prediche, ma piuttosto servirsi
di formule brevi, toccanti, incisive. È l'arte e l'abilità carisma-
tica di certi confessori, pii, dotti, sperimentati: saper racchiudere
in poche parole un concetto profondo, teologico, una massima
penetrante, una direttiva adatta al singolo, accendere entusiasmi di
vita spirituale. (I giovani confessori fervorosi tendono a far lun-
ghi discorsi, tante e tante esortazioni e raccomandazioni, non
sempre afferrate e poi non ricordate dal penitente, specialmente
se è un ragazzo).
Il confessore psicologo cerca di dire quello che gli sembra
corrispondente ai bisogni ed alla formazione del singolo peni-
tente. Però non sbaglia mai quando — pio e sensibile — comunica
quello che egli stesso vive, quando sa trovare quella parola di
Dio che a lui ha fatto impressione e s'è dimostrata, sperimental-
121
mente, efficace. Le parole che vengono dalla convinzione, dal-
l'esperienza, dal cuore — e non son dette solo colle labbra e
solo perché si deve — incidono, anche senza bisogno di tante in-
dagini psicologiche e tentativi.
2. Ci può esser qualche anima che ha bisogno di particolare
cura. S. Alfonso consiglia il confessore d'impegnarsi ad aiutare e
disporre all'assoluzione quanto può il penitente che ha davanti
ed ha trovato non debitamente disposto: non si prenda pena che
altri aspettino o se ne vadano. Attenda solo a chi gli sta davanti.
« Ancorché vi fosse concorso di penitenti — scrive s. Alfonso —
non si dia fretta più del dovere, si che per isbrigarne molti si
abbia a mancare nell'integrità della confessione o nel disporre
a dovere il penitente oppure nel dargli i dovuti avvertimenti »
(Prat. del Confess., Append. I, 1, n. VII). È quanto raccoman-
dava già il Segneri: « Dovrebbe il Confessore havere un cuor
simile alle arene del Mare, come lo bramò Salomone, che per
qualunque inondazione di flutti... non si commuovono. Che im-
porta che i Penitenti, ch'aspettano sieno molti? Meglio è risa-
narne pochi, che medicarne assai, e non guarirne niuno » (Il Con-
fessore istruito, Venezia-Bassano, 1672, p. 28). Un consiglio assai
benefico dal punto di vista soprannaturale ed anche naturale.
Sarà vantaggioso al penitente e favorirà pel confessore uno stato
di calma spirituale, impedirà l'agitazione e la tensione che nasce
dal conflitto: dalla preoccupazione di attendere con cura al sin-
golo penitente ed insieme dal dispiacere di far aspettare gli altri
che fanno la coda per confessarsi. In tali casi però bisogna
limitarsi al necessario e non dilungarsi in una direzione spirituale
che si può rimandare ad altro tempo quando non ci siano peni-
tenti che attendono.
3. Si dice che minore è la facilità di disporre coloro che
hanno forte attacco ai peccati contro il quinto, o il sesto od il
settimo comandamento: c'è chi nutre qualche radicato rancore od
odio verso il prossimo, chi sembra accecato dalla passione sen-
suale verso una persona (cosicché, avendola tutto il giorno vicina,
gli è difficilissimo non ricadere nel peccato); c'è chi sente grande
ripugnanza a restituire la roba d'altri. (Circa il sesto creano
difficoltà specialmente gli occasionati ed i recidivi). Perciò con
queste tre sorte di penitenti il confessore dovrà usare maggior
carità ed esporre e proporre in modo più vivo i motivi di conver-
sione. E specialmente a questi raccomanderà come medicina la
frequenza ai sacramenti.
122
4. Non si dimentichi che, se talora il penitente può mancare
di sincero dolore e di buona volontà, in qualche caso ha bisogno
che gli siano rettificate dal confessore (che è maestro) le idee
sull'essenza del pentimento e del proposito, pena il pericolo di
depressioni e scoraggiamenti.
Col dolore « perfetto » (o contrizione) il penitente detesta
il suo peccato in quanto è offesa di Dio oppure in quanto è la
causa della passione e morte di Gesù. Con questo atto chi era
in stato di peccato si mette immediatamente in stato di grazia.
E se ama Dio, ha pure virtualmente (anche se non cosciente-
mente) il proposito di confessare i suoi peccati secondo la volontà
di Dio. Tale efficacia rivivificante e risuscitante non è messa in
dubbio pel fatto che il peccatore è mosso all'atto di carità
dalla paura di morire e di non salvarsi: basta che emetta effetti-
vamente l'atto di dolore il quale abbia come motivo immediato
l'amore di Dio.
Raccomandazione da rivolgere abitualmente ai fedeli, nelle pre-
diche e nelle confessioni: che rinnovino spesso, specie subito dopo
ogni colpa grave, e la sera prima di addormentarsi, l'atto di carità
teologale.
Unito al sacramento, anche il dolore « imperfetto » (od attri-
zione) basta a giustificare il peccatore. Il suo motivo è meno per-
fetto, dell'amor di Dio ma dev'esser anch'esso soprannaturale
(la bruttura del peccato come « aversio a Deo » — un voltar le
spalle a Dio —, il timore della Sua giustizia, delle pene anche
temporali, ma in quanto hanno per causa Dio, non solo in quanto
conseguenza naturale d'una vita dissipata...). Ed anche il dolore
imperfetto deve implicare la volontà di lasciare il peccato decisa-
mente, incondizionatamente, a qualunque costo, e senza eccezione
per nessun peccato grave. In questo senso il dolore — dicono i
moralisti — deve sempre esser « sommo », se si vuol che sia vero
ed efficace; sempre, anche quando si ottiene la grazia, nel sacra-
mento, in virtù dell'assoluzione. « Sommo »: in tal senso, non nel
senso che debba esser il più perfetto, né nel senso che debba
avere il massimo grado possibile d'intensità.
Nel dolore concepito per un motivo soprannaturale ed uni-
versale (il timore, ad esempio, di perder col peccato grave la
felicità eterna) è implicito evidentemente il proposito di non
commetter più nessun peccato mortale. E se c'è l'esplicito propo-
sito — che abbia un motivo soprannaturale — di non più com-
mettere peccati, allora c'è pure il dolore dei peccati commessi;
123
ma è certo meglio formulare, oltre all'atto di dolore, anche un
espresso serio proposito.
5. Proposito fermo, efficace, universale, esteso (virtualmente
almeno) a tutti i peccati gravi. Proposito d'una vita migliore
ed anche di riparare il male fatto quando è possibile e doveroso
(la fiducia illimitata nella Misericordia di Dio infinitamente Prov-
vido, s'accompagna alla pronta volontà di cooperare colla grazia).
Proposito quindi di fuggire le occasioni — quando, considerate le
circostanze, la prudenza lo suggerisce — o, se non è possibile fug-
girle, proposito di ricorrere ai mezzi per rendersi più forti della
tentazione; proposito di procurare la riconciliazione col prossimo
(se, tutto considerato, la carità lo consiglia) come raccomanda
Gesù (Mt. 5, 23-24); proposito di riparare, eventualmente lo
scandalo, o con l'esempio d'una vita rinnovata od, in qualche
caso, con un atto esplicito; proposito di riparare anche il danno
materiale fatto al prossimo, quando è possibile e quando, secondo
i principi della giustizia, lo si è prodotto con un'azione veramente
ingiusta, con causalità diretta ed efficace, con la deliberazione
che implica una vera colpa « teologica » (e non solo « giuridica »),
e via dicendo. Ad esempio, chi convive con un'altra persona senza
valido matrimonio dovrà fare — secondo le circostanze — uno dei
seguenti propositi: o sanare la situazione e regolarizzare la rela-
zione contraendo il matrimonio (ma talora è impossibile; in qual-
che caso, se possibile, domanderebbe grande coraggio) o decidere
una rottura e separazione (per eliminare occasione e scandalo) o
— se continua la convivenza — proporre la castità, ed altresì
procurare in qualche modo che sia tolto lo scandalo cogliendo
l'occasione per far nota ad altri la difficoltà d'una divisione — ci
possono esser figli da educare — ma anche la volontà di vivere
come fratello e sorella. Risoluzioni difficili, impossibili? Possono
apparir tali, come, del resto, tutta la vita cristiana. Ma ciò che
è impossibile colle sole forze umane, non è impossibile colla grazia.
E se le difficoltà attuali, in certi casi, son tali che sembra giusti-
fichino una certa qual buona fede, sono difficoltà nelle quali uno
per sua volontà s'è posto.
6. Proposito fermo ed efficace. Vale a dire seria volontà
attuale. Non significa propriamente e direttamente sicurezza nei
riguardi del futuro, sicurezza che un'azione non sarà mai più
posta. Riguarda l'affetto della volontà, non un evento. E riguarda
il presente affetto della volontà; non si esclude che la buona
124
volontà possa mutare: pel fatto che poi manca non è, per sé, segno
che prima mancasse. Ed il proponimento sincero può coesistere
col dubbio, anzi — per sé — colla previsione di una qualche
ricaduta nel peccato (in certi casi, stante l'abitudine contratta dal
peccatore, occorrerebbe dell'eroismo od un miracolo della grazia
perché non ricadesse mai più): ma se ricadrà, lo farà non per la
presente volontà — che è di non ricadere — ma per una diversa
volontà. Ma qualche speranza di osservare il proposito, però, ci
dev'essere: speranza fondata non sulle forze umane (con queste
sole la ricaduta sarebbe certa) ma sulla grazia di Dio, dalla quale
sempre si può aspettare la vittoria. Se non ci fosse proprio nessuna
speranza, si avrebbe la disperazione, incompatibile colla disposizio-
ne richiesta al penitente.
7. Il dolore dei peccati è quindi un sentimento molto deli-
cato, quando è sano ed autentico. Dovrebbe scaturire naturalmente
in chi ha la vera fede e sa di esser peccatore. Ma se si volesse
far l'analisi di quest'atto psicologico, vi troveremmo una ricchezza
ed un complesso di note, di qualità, di sentimenti, fusi con
giusto dosaggio ed equilibrata proporzione. Non c'è dubbio, il pen-
timento implica anzitutto un senso di sofferenza per il male com-
messo; ma il rimorso ed il senso della colpa non restano soltanto
un fatto psicologico spontaneo o determinato da qualche ragione
umana. Nella Penitenza — che purifica e riconcilia — il motivo
del dolore è anche soprannaturale: il più perfetto è il dispiacere
d'aver offeso Dio; meno perfetto il timore di perdere la salvezza
ed i beni soprannaturali. Questo dolore non è disgiunto dalla fi-
ducia nella Miserciordia. Ma contiene anche un certo timore, al-
trimenti potrebbe diventare presunzione. Senza la fiducia sarebbe
inutile, sterile e, se intenso, porterebbe alla disperazione perché la
colpa apparirebbe imperdonabile, il male irreparabile. Ma per
chi crede davvero in Dio ed ha una lucida percezione della realtà,
ciò non si verifica mai. La sua tristezza di esser un peccatore
e di non esser un santo è serena e fidente. Mai sconsolata.
8. Per la pratica pastorale non è inutile ricordare come il
pentimento è essenzialmente un atto della volontà. E voler avere
il dolore, si può sempre. Istantaneamente. Perciò se ad un peni-
tente sembrasse di non averlo, mentre desidererebbe provarlo, è
già segno che lo ha: confonde il dolore voluto con il dolore
sentito (il quale non è necessario). Se non avesse il dolore
125
non sarebbe spiacente di non averlo 18. Il serio proposito di non
commettere più il male è pure, in pratica, un criterio favorevole per
supporre che esista anche il dolore del male commesso.
9. Ma c'è qualche penitente il quale riconosce che tutto quanto
il confessore gli ha suggerito è giusto, tuttavia dichiara di non
sentirsi di « promettere ». È persuaso di dover cambiar condotta.
E non vorrebbe più peccare. Ma è avvilito perché tante altre
volte l'ha promesso e poi è tornato daccapo. Perciò non osa più
prometterlo sapendo d'esser tanto debole. Bisogna istruirlo che
non gli è propriamente chiesto di « far promesse » come se avesse
in mano, in base all'esperienza, le prove che è in grado di man-
tenere la parola data, come se avesse la previsione e la morale
certezza di non cadere più. « Proposito » non significa strettamen-
te « promessa » a Dio, o voto (il quale, per esser prudente, vuole
che il soggetto, in seguito ad un debito esperimento, abbia una cer-
ta sicurezza di poterlo adempiere). Per sé dunque, ci può esser il
fermo proposito di non più peccare ed insieme qualche timore
di cadere ancora. Ma una speranza, ripeto, questa si ci dev'essere,
speranza fondata sulla fede: « tutto posso in Colui che potenzia le
mie forze » (Fil. 4, 13). A chi gli domandava un miracolo Cristo
soleva chiedere un esplicito atto di fede (perché questa non era
sempre implicita nella domanda di chi a Lui si rivolgeva per otte-
nere un beneficio terreno). All'adultera non chiese un'espressa
promessa di non più peccare. Disse che non voleva condannarla
(alla pena della lapidazione). Ma, se perdonava il peccato, non
poteva non riprovarlo. Perciò aggiunse: « va', e d'ora innanzi
non peccar più» (Gv. 8, 11); in queste parole si può leggere,
oltre alla raccomandazione, anche una qualche fiducia nella
buona volontà di quella donna aiutata dalla grazia del Maestro
misericordioso (Lagrange, Jean, p. 231). Quel che si richiede ad
18
« Confessarius... si videtur ei (poenitentem) non habere sufficientem
contritionem, cohortetur eum ad maiorem concipiendam illis consideratio-
nibus... quae sunt privatio gratiae, mors animae, amissio felicitatis aeternae,
recessus a patrocinio divino, et accessus ad subiectionem diaboli. Deinde
inducat illum ad Dei amorem propter quem dolorem et detestationem de
peccatis praeteritis, propositum firmum cavendi sibi in futurum concipere
debet. Quod si adhuc bis omnibus ad dolorem non sufficienter eum moveri
consideret, interroget, an doleat, quod non doleat tantum, quantum deberet,
et an vellet huiusmodi dolorem sufficientem concipere. Quod si annuat,
satis erit... » (Navarrus, Encbiridion sive manuale confess. et poenit., cap. X,
n. 4, Venetiis, 1597, p. 49).
126
ogni penitente è di decidersi e di proporre risolutamente di non
offender più Dio; e — per esser positivi — di ricorrere ai mezzi
necessari (naturali e soprannaturali): non mettersi nell'occasione
prossima di peccato, attingere la forza alla preghiera ed ai sa-
cramenti. Bisogna persuadere il rtcidivo che se è tornato ancora/
a peccare non è perché sia debole (tutti lo siamo) ma perchéj
non ha usato i mezzi lasciatici da Gesù Cristo per fortificarci.)
Se vuol avere la vita, bisogna che il peccatore ritorni alla fonte
della vita. Naturalmente, quando si tratta di anime che per
tanti anni sono state abitualmente lontane dai sacramenti, occor-
rerà con senso psicologico proporre e chiedere quella pratica sa-
cramentale che, pel momento, si prevede di poter ottenere. Un
programma d'assidua frequenza, da osservare di punto in bianco,
spaventerebbe. Si agirà con tatto. Si far£ capire che le confes-
sioni in seguito saranno più brevi e più facili. Si proporrà un
arrivederci dopo un certo numero di giorni, o per la prossima
festività ricorrente. Così il confessore colle sue industrie cercherà
che il penitente, quasi senza avvedersene, contragga, un po' alla
volta, l'abitudine di confessarsi frequentemente. Ma per ottenere
questo bisognerebbe che il medesimo confessore guidasse il peni-
tente in periodici incontri.
10. Giova insistere sull'intuizione e sull'abilità del confes-
sore psicologo il quale saprà percepire e richiamare al singolo
penitente i motivi di pentimento più adatti per toccarlo, com-
muoverlo, smuoverlo quando stenta a decidersi per la conver-
sione. Alle volte il processo di trasformazione è graduale. Dap-
prima hanno efficacia motivi meno perfetti d'attrizione, sopran-
naturali, ma interessati: il penitente è insensibile al fatto che
Gesù è morto per lui, ma sente una naturale insoddisfazione
intima, l'umiliazione per la propria debolezza e bassezza indegna,
ha il timore d'una morte sulla quale pende la minaccia dei ca-
stighi eterni... Per indurre i ragazzi e gli adolescenti a vincere
l'abitudine impura è spesso efficace motivo farli riflettere sulla
necessità di liberarsi dal rimorso stesso: rimorso che, in genere,
tutti sentono, ma che si cercherà di mostrare, da un punto di
vista soprannaturale, come un sintomo dell'assenza — dall'anima
— dell'Amico Divino. Agli adolescenti più avanti negli anni,
fidanzati o quasi, sarà efficace, pure, far sentire la bellezza e
l'esigenza di portare un corpo puro a quella che sarà la compa-
gna della vita. Ma perché il motivo diventi soprannaturale, bi-
127
sogna non limitarsi a questo vantaggio solo terreno ma vederlo
soprattutto nella luce della volontà di Dio: fin dalla eternità
Egli ha amorosamente stabilito quella che sarà la compagna del-
l'uomo per una vita felice; colla Sua Provvidenza condurrà en-
trambi a realizzare quest'unione. E per prepararsi e corrispondere
al disegno di Dio entrambi devono conservarsi puri.
11. Sarebbe sbagliato e segno d'una mentalità piuttosto gian-
senistica il ritenere che l'atto d'amore e di dolore perfetto sia
tanto difficile e riservato ad anime elette e perfette. Difficile è
rompere qualche legame (che costituisce un'occasione prossima di
peccato), rinunziare a qualcosa in cui una persona s'è invischiata.
Ma la grazia ed il motivo dell'amore di Dio aiuteranno anche in
questo l'anima che abbia sincera e buona volontà. Esperienza in-
segna che, in genere, anche gli uomini materiali e grossolani si
commuovono di più pensando a Dio offeso od a Cristo soffe-
rente e morto per noi che non all'Inferno ed alle pene del pec-
cato. Talvolta però, per scuotere certi spiriti freddi ed induriti
dalla lunga abitudine di peccato, si sente il bisogno di richiamare
pure il motivo dei « novissimi »: la morte ci può visitare repen-
tinamente quando meno ce l'aspettiamo: cosa avverrebbe, allora,
se non fossimo preparati ma in stato di peccato grave, cioè di
rottura con Dio? Comunque, il confessore, oltre a richiamare al
penitente che ne ha bisogno, questi motivi, può sempre proporre
anche quelli più perfetti nella speranza che siano efficaci. Il timore
è una scossa necessaria quando l'amore non basta. E perché il
penitente si dolga per amore di Dio, bisogna ricordargli quanto
Egli ci ha amati per primo: « Sic... Deus diiexit mundum ut
Filium suum unigenitum daret » (Gv. 3, 16); quanto Gesù ci ha
amati: « diiexit me et tradidit semetipsum prò me » (Gal. 2, 20).
Il confessore invita il penitente alla contemplazione della croce
con una triplice finalità: far sentire l'orrore per il peccato che è
stato la causa della morte di Gesù; far comprendere quanto è mi-
sericordioso Dio: a chi, pentito, crede in Lui, Cristo ripete: « oggi
sarai con me nel paradiso » (Le. 23, 43); e — terza finalità —
indurre l'anima penitente a vivere il mistero della croce: al mar-
tirio d'una vita continuamente animata dal senso del dovere e
della conformità al divino volere. Il confessore presenterà conti-
nuamente ai penitenti l'immagine del Cristo morente: siamo noi
— dirà — che l'abbiamo crocifisso per una passione disordinata,
per la soddisfazione d'un istante. Ogni nostra ricaduta nel pec-
128
cato è un'ingratitudine ch'egli ha prevista e della quale ha par-
ticolarmente sofferto. Bisogna che il singolo senta la responsa-
bilità del suo peccato e non la riversi sulla famiglia, la scuola, la
società. È la contemplazione della Croce che gli farà sentire tutto
il suo impegno ascetico di riparazione. Ma — è stato osservato —
se ieri si insisteva prevalentemente sulla Croce, oggi si parla solo
di Risurrezione, spezzando cosi l'unità del Mistero Pasquale. Il
confessore è consapevole d'esser ministro d'un Dio che muore e
risorge per noi. Ma è anche consapevole che la stessa conversione
dell'uomo che si pente dei suoi peccati resta, per noi, un mistero.
L'iniziativa viene da Dio (il quale non solo aspetta ma cerca il
peccatore); però Egli attende la libera risposta dell'uomo. E que-
sta risposta è, essa stessa, un dono di Dio, pur restando libera.
Perciò complesso e misterioso è il fatto d'una conversione. E tale
deve restare. Non resterebbe un mistero se volessimo troppo ac-
centuare uno dei due fattori (grazia divina - libertà umana) rispetto
all'altro. Il confessore sa che, per sciogliere il velo del mistero,
dovrebbe avere l'esperienza diretta dello Spirito di Dio. Perciò,
in definitiva, non gli resta che contemplare con ammirazione,
stupore, umiltà e gratitudine, ed insieme con un senso di tremore,
le meraviglie della grazia e le tremende possibilità ed incertezze
della libertà umana.
19
Se si esigesse di più, nota s. Alfonso, « vix ullus posset absolvi, dum
quaecumque signa paenitentium non praestant nisi probabilitatem disposi- -
tionis» (Th. Mor., 1. VI, tr. IV, e. I, dub. II, n. 461). Questa dottrina
129
confessore zelante procurerà di eliminarlo con una esortazione al
pentimento ed al proposito. Però, per sé, da parte sua può pre-
sumere la positiva disposizione del soggetto (è la bontà che si
presume — qualora ci fosse qualche dubbio — non la malizia).
Qui dunque si tratta della condotta del confessore, delle dispo-
sizioni del penitente come son viste dal ministro, della assoluzione
da darsi o no; non dell'effettivo stato spirituale del penitente (che,
per sé, potrebbe anche non corrispondere al giudizio del confes-
sore, il quale agisce umanamente: non scruta i cuori come Dio).
Ma in ordine all'assoluzione, egli potrà trovarsi di fronte a tre
categorie di penitenti: quelli che gli appaiono certamente dispo-
sti 30 ; quelli che secondo il suo giudizio umano considera cer-
tamente non disposti; e quelli di cui gli pare ci sia da dubitare.
I primi hanno diritto, per giustizia, ad esser assolti subito. Se
hanno da riparare eventuali danni colpevolmente prodotti, o da
rimuovere qualche scandalo, basta, per sé, che abbiano il pro-
posito di farlo 21 . Oggi, indizio di buona disposizione per certi
uomini è già il fatto stesso che vengono a confessarsi — almeno
se lo fanno spontaneamente; specie in certe zone scristianizzate, in
paesi dove dominano movimenti antireligiosi. Indizi favorevoli
sono il sacrificio fatto per venire a confessarsi, per attendere il
proprio turno, l'atteggiamento di umiltà, di serietà, di fiducia
in Dio.
Nel nostro tempo, grazie al maggior senso di libertà ed anche
di coerenza nella pratica religiosa, vogliamo credere un'ipotesi
il caso del peccatore che è attaccato al suo peccato anche nel mo-
mento in cui s'umilia a confessarlo nel sacramento, pur sapendo
che è gravemente contrario alla volontà di Dio. A parte questo
caso, può verificarsi piuttosto quello di chi pare classificabile fra
i dubbiamente disposti: da un lato non presenta un irriducibile
s'appoggia su un passo del Corpus juris canonici: « Judicium Dei ventati quae
non fallit neque fallitur, semper innititur; judicium autem Ecclesiae non-
nunquam opinionem sequitur quam et fallere saepe contingit et falli, propter
quod contingit interdum ut qui legatus est apud Deum, apud Ecclesiam sit
solutus » (L. V. Decretai., tit. XXXIX De sententia excommunicationis, e. 28,
A nobis).
30
« Certamente disposti »: nel senso inteso — per la pratica — dal
Catechismo Romano, sopra ricordato.
21
Si veda, nella parte riguardante le categorie dei penitenti, la questione
degli « occasionati »: se per chi è in occasione prossima, continua e libera
basti il proposito d'abbandonarla — perché possa esser assolto — o si
richieda il previo distacco.
130
rifiuto di lasciare il peccato grave o di adempiere qualche obbligo
grave, dall'altro dà segni negativi che pare compromettano anche
la solida probabilità della buona disposizione richiesta. Faccio
l'esempio di chi ricade sempre negli stessi peccati senza dimostrar
d'opporre resistenza alle tentazioni (se ne parlerà a proposito dei
«recidivi»); di chi si confessa con una certa leggerezza e fred-
dezza, senz'umiltà e senza propositi rassicuranti; di chi viene ai
sacramenti più che altro (come risulta dal suo stesso colloquio col
confessore) per far piacere alla moglie od alla madre e difatti nella
confessione pare gli faccia difetto quella spontanea compunzione
e quella personale convinzione che si desidererebbero... In questi
casi l'assoluzione sarebbe da differire. Ma se c'è qualche ragione
può esser consigliabile il darla subito (sotto condizione): in caso
di pericolo di morte, d'infamia; se il penitente dovesse stare poi
a lungo senza la grazia sacramentale; se ricorre il precetto annuale
della Confessione e Comunione; se si tratta di persone che forse
non hanno il pieno uso della ragione (ragazzi forse non ancora ca-
paci della colpa grave cosicché si dubita se certe mancanze dipen-
dano da malizia consapevole o da immaturità psichica); deficienti
che si accusano ogni tanto di peccati gravi; fidanzati che si con-
fessano prima del matrimonio... In linea di massima, oggi con-
viene adoperarsi per disporre chi risulta dubbiamente disposto.
C'è da temere che chi fosse invitato a ritirarsi per prepararsi me-
glio, non ritorni più. Ed il miglior confessore non è quello che
sa negare o differire l'assoluzione ma quello che aiuta il peni-
tente a poter ricever l'assoluzione. Altro caso imbarazzante: quello
d'un penitente che s'è posto in qualche situazione moralmente
irregolare, dalla quale non vede più come poter uscire, pur rico-
noscendosi peccatore. Si pensi a chi, sposato, s'è separato dal co-
niuge, ha intrapreso un'altra relazione, ha avuto dei figli, forse
ha ottenuto il divorzio. Rompere questa seconda relazione può
presentarsi praticamente impossibile, essendoci di mezzo i figli.
Qualche volta la gente ignora (solo il sacerdote lo sa) che si tratta
d'una relazione che non è un vero matrimonio. I principi morali
sono chiari. Per l'assoluzione, in casi del genere, il penitente che
continuerà a convivere con l'altra parte dovrebbe aver il propo-
sito di osservare la castità. Per la Comunione bisogna inoltre
attender all'eventuale scandalo. A tale riguardo meno pericolo
ci sarebbe se non fosse nota pubblicamente l'irregolarità dei due
che convivono senz'esser sposati, o se la Comunione fosse fatta
solo privatamente. Qualche facile moralista ha recentemente scrit-
131
to al proposito che « si potrà sempre sostenerli con una parola
buona e — se gradita — con una autentica direzione spirituale ».
E questo senz'altro. Ma, è stato aggiunto, « oggi ci si chiede se
debbano sempre essere esclusi dai sacramenti » costoro che in
realtà vivono in concubinato. A qualcuno sembra che « il pro-
blema dovrà esser studiato attentamente dalla chiesa locale nei
suoi molteplici aspetti. Potrà esser utile concedere subito a per-
sone responsabili il diritto di esperimentare un nuovo trattamento
pastorale... Il problema — è stato scritto — è aperto. Ci vuole
solo la volontà di risolverlo sul piano teorico da parte degli stu-
diosi e sul piano pratico-sperimentale da parte dei pastori. In
questa fase di esperimentazione è accettabile anche un pluralismo
di opinioni ». S'intende proporre cosi un trattamento più « uma-
no » coi divorziati, non negando loro i sacramenti della Confes-
sione e della Comunione: non ci sono — si pensa — difficoltà
« in foro interno », ma solo quella di evitare lo scandalo dei
fedeli, ma si potrà evitarlo, si dice, se « i sacramenti saranno dati
in una comunità che ha discusso il problema, o altrove, dove la
coppia non figura irregolare ». Ed a conferma di questa tesi, qual-
cuno crede di poter affermare che « tale prassi all'estero è oggi
anche "approvata" almeno dal tacito consenso dei vescovi ». Ora,
in queste considerazioni ci sono molteplici confusioni. Chi di-
vorzia viola una legge morale non solo ecclesiastica ma divina e
naturale (perciò non si può ammettere « epikeia » ) a . Chi divorzia
si* pone dunque fuori della Chiesa: non può pretendere le grazie
che sono concesse attraverso i sacramenti nella Chiesa. Situazioni
a
Non si può propriamente ammettere, interpretando la mente del legi-
slatore, che la legge naturale cessi in qualche caso particolare (cessazione
della legge che i moralisti chiamavano epikeia). Difatti la legge naturale espri-
me le esigenze della natura umana stessa, stabilisce un ordine indispensa-
bile anche nei casi particolari e proibisce ciò che è intrinsecamente illecito
(cfr. Suarez, De legibus, 1. 2, e. 16, n. 2 e 10; Vermeersch, I, 1947, n. 190).
Solo una certa qual specie di epikeia si può affermare, cioè quando la
legge naturale non è enunciata adeguatamente. Per esempio, è da render a
ciascuno il suo, purché (si sottintende) lo chieda ragionevolmente. Non è
lecito uccidere un innocente, salvo (si sottintende) il supremo dominio di
Dio (cfr. Aertnys-Damen, Ih. Mor., I, 1944, n. 135). Non altre eccezioni
ammetteva s. Alfonso (come appare da tutta la sua dottrina) quando affer-
mava la possibilità dell'epikeia anche nella legge naturale (Th. Mor., t. I,
1. I, te. 2, n. 201). Altrettanto si dica di s. Tommaso (I-II, q. 94, a. 4 e 5;
nella q. 100, a. 8, dimostra che i precetti del decalage» « sunt omnino
indispensabilia »).
132
tragiche, d'accordo, che possono, ad un dato momento, far sen-
tire ad un'anima il bisogno dei sacramenti e tutta la sofferenza di
esserne priva. Ma, se, essendoci dei figli da educare, è impossibile
venire ad una separazione, e se, convivendo, ritengono che la
castità è impossibile ed in buona fede sperano che la Provvidenza
comprenda la situazione e non pretenda l'impossibile? Se questa
buona fede è ipotizzabile, allora possiamo pensare che la Prov-
videnza preparerà un'altra via alle anime di buona volontà. Non
si dice che ci sono anche dei protestanti (non si sa quanti) i
quali, in buona fede, senza i sacramenti hanno una fervente vita
interiore ed un'intima unione di amicizia con Dio? Del resto, non
si dimentichi che certuni domandano si i sacramenti, ma sono
essi stessi convinti di non poterli ricevere perché sarebbe una in-
coerenza; e ci sono anche motivi umani (sia pur rispettabili ed
onesti, come l'esempio da dare ai figli) che li muovono a tentar
d'ottenere ciò che si meraviglierebbero, essi stessi, intimamente,
se fosse loro concesso. La sperimentazione delle Chiese locali non
potrà cambiare la legge morale naturale. Nessun Vescovo può né
espressamente né tacitamente approvare un confessore che assolva
e permetta di accedere alla Comunione coloro che hanno divor-
ziato, a meno che non abbiano il fermo proposito di vivere come
fratello e sorella e non ci sia lo scandalo della comunità. Da taluni
oggi si adduce la ragione del minor male: vale nella situazione di
certi divorziati, dicono. Perciò, anche se non propongono di vi-
vere castamente potrebbero esser assolti ed ammessi ai sacramenti
quando « si amano generosamente, sono impegnati seriamente nel-
l'educazione dei figli, pregano quotidianamente, soffrono per la
lontananza dai sacraménti ». Ora, bisogna distinguere: ci po-
tranno esser ragioni (specialmente l'educazione dei figli) che giu-
stificano la convivenza, ma non l'unione sessuale: questa è con-
cubinato e non si giustifica con la teoria del minor male: il
male resta sempre male. Perciò il proposito di vivere castamente
occorre in base alla dottrina sempre tenuta dalla Chiesa: è im-
plicita nella semplice definizione che il Tridentino e il Catechi-
smo Romano danno del dolore, primo requisito chiesto al peni-
tente: « animi dolor, ac detestatio de peccato commisso, cum pro-
posito non peccandi de cetero » (Cat. Rom., p. 227). Perché si
abbia, vero dolore e vera penitenza bisogna, dice poi il Catechi-
smo Romano, che il penitente si dolga di tutti i peccati, li con-
fessi e pensi alla conversione. « Primum... necesse est peccata
omnia, quae admisimus, odisse et dolere (il che in un divorziato
133
che ama la sua compagna può esserci e può non esserci); ne si
quaedam tantum doleamus, ficta et simulata, neque salutaris Poe-
nitentia a nobis suscipiatur... Alterum est, ut ipsa Contritio con-
fitendi et satisfaciencfi voluntatem coniunctam habeat... Tertium
est, ut poenitens vitae emendandae certam et stabilem cogitatio-
nem suscipiat » (pp. 231-232) (ed è questo che sarà difficile nei
divorziati: il proposito di non continuare a vivere come marito
e moglie in una unione anche sessuale la quale solo per gli
sposati è legittima).
134
sito serio di non più commetterlo. Bisognerebbe però precisar
meglio cosa s'intende affermando che il penitente, quando riceve
questo sacramento inizia una progressiva conversione e trasforma-
zione che lo porterà fino alla riconciliazione con Dio. Dobbiamo
tener per certo che in chi ha il dolore, il sacramento opera imme-
diatamente questa riconciliazione. Il Tridentino chiama bensì la
Penitenza « laboriosus quidam baptismus » (come era stato detto
dai Padri) (D.S. 1672) ma nel senso che questo sacramento richiede
nel peccatore lo sforzo del pentimento e del proposito (il che
non sarebbe richiesto in chi ricevesse il battesimo, raggiunto l'uso
di ragione, senz'aver peccati personali). E lo stesso Tridentino
aggiunge che non solo la contrizione (motivata dall'amore di Dio)
ma anche l'attrizione (purché il motivo di questo pentimento
— anche se inferiore alla carità — sia, almeno implicitamente,
riferito a Dio e contenga il proposito di lasciare il peccato a qua-
lunque costo), anche quest'attrizione basta ad ottenere l'effetto del
sacramento (D.S. 1677). E dichiara esplicitamente che questo
effetto « è la riconciliazione con Dio » (D.S. 1674). Riconcilia-
zione che si opera certamente anche se tale grazia non è perce-
pita e sentita. « Ordinariamente — è detto — avviene che le
anime pie le quali ricevono con devozione questo sacramento,
hanno ogni tanto un senso di pace e di serenità della coscienza
con grande consolazione spirituale» (D.S. 1674). Il confessore
deve assicurare quindi il penitente che, quando il dolore sopran-
naturale (anche se non « perfetto ») non gli manca, può fer-
mamente credere — grazie al sacramento — nel perdono imme-
diato e gioire subito della ritrovata amicizia con Dio. Tutto il
Vangelo attesta che la riconciliazione del peccatore con Dio av-
viene istantaneamente, appena l'anima riconosce umilmente la sua
colpa ed implora, pentita ma fidente, la salvezza. Il buon ladrone
al compagno: « Nemmeno tu temi Dio... riceviamo quel che è
dovuto alle nostre azioni... E diceva a Gesù: Signore, ricordati di
me, giunto che sarai nel tuo regno. E Gesù gli disse: In verità
ti dico: oggi sarai con me nel paradiso » (Le. 23, 40-43).
Ricuperato lo stato di grazia, non sempre il penitente ottiene
anche un'immediata conversione e riforma effettiva. Consigliato
ed aiutato, all'occasione, dal confessore, avrà forse tutto un la-
voro interiore da compiere per metter in pratica i propositi, to-
glier gli ostacoli. Ed oltre alla conversione « morale » c'è quella
« ascetica », dal bene al meglio. In questo senso si può dire che
« il perdono divino causa una trasformazione progressiva del pe-
135
nitente ». Però non bisogna confonder il perdono di Dio, che
opera l'immediata riconciliazione del peccatore, con il lavoro di
riforma che, praticamente, può conoscer ritardi, progressi e re-
gressi. Né bisogna confonder l'ufficio di consigliere a cui il con-
fessore può esser chiamato (per aiutare il penitente a perseve-
rare nella grazia ricevuta, a realizzare quanto ha proposto) con
quello di ministro del sacramento.
La dottrina cattolica — formulata dal Tridentino — sull'effi-
cacia del sacramento nell'anima del penitente attrito contrasta
con la concezione luterana. Secondo la quale il peccato cessa d'es-
ser imputato quando l'uomo ha e sente ferma fiducia in Cristo
redentore, e crede nel proprio stato di grazia, quale effetto della
sola fede. Ma a questa certezza non si perviene se non attraverso
grandi prove, sofferenze, fors'anche per la strada della dispe-
razione. Una disperazione che salva se porta alla fiducia. L'attri-
zione, invece, è — secondo il riformatore — un sentimento infe-
riore che rende l'uomo ipocrita ed ancor più peccatore (D.S.
1677). I nostri peccati sono rimessi solo in virtù del sangue di
Cristo. E perciò Lutero ritiene che da parte nostra abbia valore
— in ordine alla salvezza — solo la fiducia nel Redentore.
Per quanto riguarda la pratica religiosa dei cattolici, se è giu-
sto denunciare un uso del sacramento che si riducesse ad una
specie di magia o sapesse di superstizioso, non bisogna però esa-
gerare. Né quando si critica il passato, né quando si propongono
riforme per l'avvenire. C'è anche il pericolo di far credere che il
sacramento della Penitenza supponga nell'anima una cosi forte
volontà di conversione, purificazione e santificazione da esser
riservato a poche anime elette. Ma ci sono anche i deboli che
ricadono nel peccato (e per insufficiente decisione di volontà e
per la forte concupiscenza e per l'abitudine contratta) ma non
mancan di fede, vorrebbero risorgere ed han bisogno della Con-
fessione e della Comunione per eliminare, un po' alla volta,
le loro ricadute nel peccato. Cristo — possiamo credere — vuole
che la grazia del sacramento giunga anche a costoro, se sono sin-
ceramente pentiti.
E non si dimentichi che la Confessione — se in certi casi
domanda, per esser una cosa seria, la sincera e, si direbbe, eroica
rinuncia ad un passato — però è un dono di Dio, prima e più
che un atto di volontà ed un sacrificio dell'uomo. Dono della
grazia, dono della liberazione, dono d'una vita nuova. Bisogna
infonder nei penitenti questa fede. Senza di essa il peccatore
136
che sente tutta la propria fragilità e l'invincibile concupiscenza
— ed è coerente — non potrà né capire, né accettare, né desi-
derare questo sacramento.
137
ed al numero dei peccati accusati, nonché alla condizione del pe-
nitente. Si può sempre assegnare un'opera già comandata da
un'altra legge (come la partecipazione alla Messa festiva, la Co-
munione pasquale). In questo modo e con altre industrie non
è difficile imporre una penitenza per sé grave la quale sarà com-
piuta dal penitente senza tanta fatica. Ad esempio si può asse-
gnare la Comunione (con l'aggiunta di qualche preghiera): Comu-
nione che molti hanno già intenzione di ricevere dopo la Con-
fessione. Ottima soddisfazione da suggerire è qualche opera in-
dulgenziata: ad esempio l'acquisto del Giubileo, quando ricorre:
è una penitenza grave e tale resta anche per chi è venuto a con-
fessarsi proprio in vista del Giubileo. Quando, in altri casi, non
consta della possibilità e intenzione del penitente, gli si chiederà,
per delicatezza, se può e si sente di fare l'opera prescritta dal-
l'indulgenza plenaria. (Chi è impedito da malattia o da altra grave
causa può acquistare il Giubileo senza far visita alla chiesa, offren-
do le proprie sofferenze ed unendosi agli altri con la preghiera).
Ma le indulgenze, oggi, da qualche cattolico che vuol evitare una
materia di dissenso coi Protestanti, son considerate con poca
simpatia; oppure si va dicendo che la concezione cattolica tradi-
zionale dell'indulgenza è superata. Ma sostanzialmente non c'è
stato cambiamento da parte del Magistero: la Chiesa raccomanda
ancora di non trascurare questa pratica santa, basata su sicuri
fondamenti teologici; tuttavia, è vero, ha affermato il primato
della carità e dell'unione a Cristo (per esempio abolendo, nell'in-
dulgenza parziale, la misura in giorni o anni e prendendo invece
come misura la pietà, la devozione, il fervore personale del fe-
dele); con la stessa finalità la Chiesa ha stabilito che l'indulgenza
plenaria non si possa acquistare più d'una volta al giorno ed ha
sottolineato la necessità del distacco da ogni affetto disordinato.
Ma, ripeto, la Chiesa raccomanda che non si trascuri la pratica
delle indulgenze. In quella parziale, per intervento della Chiesa,
vien raddoppiata quella remissione della pena che il soggetto
ottiene nella misura del suo fervore.
Di questo dono della Chiesa si può approfittare, quindi, nella
prassi delle penitenze per i peccati. »
Sarà edificante quel confessore il quale, intuendo che il peni-
tente difficilmente compirebbe una grave soddisfazione, lo av-
verte che si assumerà — in sua vece e in suo favore — l'aggiunta
di qualche altra opera penitenziale. Comunque, può sempre chie-
dere al penitente se un'opera gli è troppo difficile, o dare una
138
certa opzione aggiungendo che ha facoltà di compiere l'opera
quando vorrà e quando potrà farlo agevolmente. Se poi il peni-
tente fosse incapace di fare alcuna penitenza positiva, non sarebbe
necessario imporla, neppur colla clausola di farla quando potrà.
È il caso di certi ammalati gravi: si potrà suggerir loro un'invo-
cazione, dar a baciare il crocifisso, invitarli a sopportare con fede
i dolori come una penitenza per aver il pieno condono delle man-
canze ed acquistare incommensurabili meriti per l'altra vita.
2. La penitenza, come si disse, dovrebb'esser anche medicinale
(oltre che penale). Medicinale significa non solo proporzionata
alla gravità dei peccati, ma corrispondente alle specifiche condizio-
ni ed infermità spirituali del soggetto. Perciò la prassi di dare a
tutti come penitenza la recita di qualche preghiera, non sarebbe
l'ideale. Ma anche nel correggere quest'abitudine bisogna andar
cauti. Alle volte qualche penitenza — che non è ardua ed,.insie-
me, corrisponde alle colpe commesse — si offre a portata di ma-
no: a chi s'accusa d'aver mancato alla carità verso qualcuno si
può suggerire di dire una preghiera proprio per quella persona.
Qualche giovane riflessivo e generoso propone lui stesso al con-
fessore che, come penitenza per peccati d'impurità, gli sia impo-
sta l'astinenza da qualche soddisfazione, non proibita, della gola
(stare un giorno senza fumare). Se lo chiede il penitente non v'è
difficoltà. Ma se lo propone il confessore c'è qualche pericolo:
che il penitente, al momento, abbia timidità nel rifiutarsi o pensi
di mantenere il proposito ma, poi, per una causa o l'altra, non lo
adempia. Per evitare queste complicazioni, il confessore per lo
meno dovrebbe chiedere al soggetto se gli pare d'esser libera-
mente e sinceramente disposto a fare una penitenza simile. Co-
munque, per una ragione o l'altra, praticamente e normalmente ci
si riduce ad imporre come penitenza la recita di alcune preghiere
o la Comunione. I penitenti desiderano una penitenza che sian
sicuri di compiere e di compier presto; non amano certo con-
trarre obblighi a lunga scadenza; tanto meno se non avessero,
per oggetto, prestazioni ben definite o dipendessero da qualche
circostanza aleatoria (« fare un atto di carità verso una persona
quando si presenterà l'occasione »: ma cosa? e quando?). Il Ca-
fasso voleva e cercava che le penitenze fossero brevi, ben deter-
minate, pratiche, esterne. In definitiva, le preghiere restano sem-
pre un'ottima penitenza (anche se sembran poco medicinali). Sa-
rebbe certamente sbagliato dar l'impressione che la preghiera sia
139
!
?
anzitutto una penitenza o sia la sola penitenza possibile. Ma £on
è il caso d'aver scrupoli e rimorsi nell'assegnarla come penitenza.
Basta pensare quale valore ha quest'atto se vi si mette il cuore.
È ciò che meglio corrisponde — come gesto libero e gratuito —
al perdono gratuito di Dio. Certamente le penitenze che, secoli
addietro, venivano imposte ai convertiti erano più gravi di quelle
oggi in uso. Con ciò si metteva più in rilievo l'offesa fatta a Dio
e l'esigenza della riparazione. La mitezza delle penitenze odierne
mette invece in evidenza la misericordia ed il perdono di Dio per
suscitare sentimenti di gioiosa riconoscenza nel peccatore. Sa-
rebbe segno d'una mentalità farisaica la pretesa di ricomporre
l'equilibrio fra i nostri debiti e la giustizia di Dio « ad aequa-
litatem » (come nella giustizia commutativa). La penitenza re-
sterà sempre e soltanto un umile gesto che testimonia la nostra
buona volontà rinascente (cfr. « La Vie Sp. », 1968, XII, 484): è
la misericordia di Dio, sono i meriti di Gesù Cristo che ci sal-
vano. Una vita di macerazioni non sarebbe che un granello di
sabbia gettato su un foglio sterminato di debiti. Ed « il perdono
non è un'"oncia" di grazia ma il dono stesso dello Spirito, il quale
non conosce la misura e di cui abbiamo bisogno in maniera
smisurata » {Orient. per un rinnov. della prat. perni., o.c , p. 35).
142
\
144
Tre disposizioni severissime.
1. La Chiesa priva il confessore della giurisdizione ad assol-
vere il complice in peccato turpe (CJC, e. 884) perché non suc-
ceda che un sacerdote si permetta di peccare con una persona
assicurandola che poi la potrà assolvere. Però quando si parla di
« complicità » s'intende un peccato grave contro il sesto coman-
damento, grave anche se non completo e consumato, grave nel-
l'una e nell'altra parte, grave esternamente ed internamente.
Solo in pericolo di morte la Chiesa (che è madre preoccu-
pata soprattutto della salvezza delle anime) concede al sacerdote
la facoltà d'assolvere validamente la persona complice; ed a
questa è sempre lecito, in tale frangente, chieder di confessarsi
presso il suo complice (e. 884).
2. Altra disposizione. È stabilita la pena della scomunica
riservata in modo specialissimo alla S. Sede contro il confessore
che assolva o finga d'assolvere il complice in peccato turpe
(e. 2367): pena che il sacerdote incorre anche se il penitente
confessandosi tacesse tale peccato perché persuaso dal confessore
che non è peccato. Ma perché si incorra in questa sanzione occorre
che il peccato contro il sesto comandamento sia grave (anche
se non completo e consumato) nell'una e nell'altra parte.
3. Terza legge severissima. Perché il Sacramento della puri-
ficazione e della riconciliazione non diventi occasione a commet-
tere delle colpe (particolarmente in materia d'impurità) la Chiesa
ordina che il confessore il quale (approfittando del ministero della
Penitenza) si rendesse reo di « sollecitare » (cioè d'indurre od
invitare) un penitente a cose turpi, dev'esser denunciato entro
un mese al Vescovo (od al suo vicario generale) oppure alla
S. Congregazione per la Dottrina della Fede (CJC, e. 904); ed
un confessore che dal penitente « sollecitato » vien a conoscere
tale abuso, deve imporgli la denuncia da farsi entro il mese
(e. 2368, § 2) — sempre supposto che l'obbligo di tale denun-
cia sia, in base al e. 904, certo. Difatti, affinché si verifichi il
caso contemplato dalla legge e colpito dalle sue sanzioni, biso-
gna che consti con certezza la prava intenzione libidinosa del
confessore. Non basta una imprudenza per quanto grande 23 .
23
E la « sollicitatio » colpita da questa legge ecclesiastica deve proce-
dere dal sacerdote « come confessore »: cioè, come precisa la Costituzione
Sacramentum Poenitentiae di Benedetto XIV (1.VI.1741), citata dal CJC,
145
Quindi, prima d'imporre una denuncia, bisogna esaminare accu-
ratamente le circostanze del caso per rendersi conto che si veri-
ficano tutte le condizioni. Nella incertezza — sul dovere o meno
d'una denuncia o sul modo di procedere nel farla — il peni-
tente farà bene a consigliarsi in Confessione con un sacerdote
stimatissimo, osservando con tutti gli altri il segreto perché non
nasca scandalo o non si procuri uri grave danno ad un confes-
sore che forse ha agito più per imprudenza ed ingenuità che per
malizia. Qualora non urga l'obbligo giuridico della denuncia, ma
appaia comunque opportuno, per una esigenza morale naturale,
un intervento (per evitare il pericolo d'altri scandali) si cercherà
la via migliore per far pervenire al confessore colpevole un pri-
vato e fraterno avvertimento, una « discreta ammonizione »
(PO, 8). Magari si potesse con questo aiuto tempestivo impe-
dire ulteriori imprudenze del genere e cosi evitare il naufragio
morale con tutte le conseguenze e l'obbligo della denuncia impo-
sta dal diritto.
La Chiesa, se tutela la dignità del sacramento della Pe-
nitenza contro i possibili abusi per colpa dei confessori, nel
tempo stesso però difende il confessore contro le false accuse.
Gravissime sanzioni spirituali sono stabilite contro chi falsamente
denuncia, con procedimento giuridico, un sacerdote d'aver abu-
sato del suo ufficio di confessore per fini impuri (cfr. CJC,
e. 894; e. 2363). Sanzioni dalle quali non si può assolvere il col-
pevole senza prima esigere la ritrattazione della falsa accusa, con
uno scritto firmato od una dichiarazione di fronte a due testi-
moni (a meno che ciò non sia impossibile perché la morte è immi-
nente). Inoltre — come è stabilito nella Lettera Apostolica « In-
tegrae servandae », data « Motu Proprio » di Paolo VI, del
7.XII.1965 (AAS, 57.1965, 952-955) — il confessore, anche se
reo, ha sempre, d'ora innanzi, « la facoltà di difendersi o di sce-
gliersi un difensore tra quelli che sono autorizzati dalla Congre-
gazione » (n. 8) per la Dottrina della Fede (prima che si pro-
ceda contro di lui).
146
Parte seconda
CATEGORIE DI PENITENTI
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A. Secondo l'età ed il sesso
1. Fanciulli
149
anima. Quanti non ci sono tra noi nei quali il primo bagliore
dalla vocazione alla vita sacerdotale ha fatto la sua prima appa-
rizione nell'anima il giorno della prima comunione? » (La vie
intérieure, Bruxelles, 1918, pp. 245-246). E non si creda che per
poter esser santi si debba diventare più maturi d'età. « Si può
esser santi a dieci anni. Le grandi idee d'unione a Dio, di rinun-
cia, di spirito di sacrificio sono accessibili a queste anime ancora
pure, delle quali lo Spirito Santo ha fatto il suo santuario. Una
delle grandi opere realizzate dal Papa Pio X, di santa memoria, è
d'aver aperto le anime dei fanciulli alla recezione della Santa
Eucaristia, prima che fossero alterate per il peccato mortale »
(D. Mercier, La vie int., p. 245). I fanciulli poi offrono terreno
propizio alla nostra pastorale della Confessione perché, anche se
sono facili alle mancanze quando non hanno ancora piena cono-
scenza e coscienza della legge morale, poi, appena ne sono avver-
titi, sono sensibilissimi al rimorso. Quindi, anche se hanno pec-
cato, facilmente si dispongono all'assoluzione. « Assai più facil-
mente che i cuori degli adulti » — scriveva il Frassinetti — per-
ché « sono ancora semplici né tiranneggiati da vecchie passioni »
(Manuale pratico del parroco novello, Alba, 1928, p. 367). Lo
stesso Frassinetti riportava una lettera scrittagli dal moralista
P. A. Ballerini S.I., che, fra l'altro, diceva al proposito: « Credo
difficile trovare un fanciullo che non senta subito rimorso, e
grave, del male fatto: ...essendo annessa all'idea di confessarsi
quella di dovere e voler essere buono, niente pare più facile che
l'avere i fanciulli disposti a ricevere la grazia del Sacramento »
(ivi). Ed aggiungeva il Frassinetti: « che se poi con facilità rica-
dano, non è a credere che fossero male disposti quando furono
assolti; ma invece è da giudicare che sieno caduti per mutazione
di volontà, in essi assaissimo volubile ed incostante. Ed è per
questo motivo che ritornando a confessarsi, con molta facilità si
devono nuovamente assolvere, perché assai agevolmente si farà
loro concepire nuovo dolore dei peccati, il quale basti per loro
giustificazione; il che s'intende quando non siano in occasioni
libere di peccati che non vogliono abbandonare » (Manuale del par-
roco nov., pp. 367-368).
I fanciulli, poi, spesso han particolare bisogno di trovare nel
confessore appoggio, comprensione, bontà. « Fanno ben presto
esperienza sofferta della vita... È desiderio di avere e delusione
per ciò che non si può realizzare. Alcuni fanciulli portano nel loro
corpo i segni di mali incurabili » (Il Catechismo dei fanc. « Io
150
sono con voi», Ed. C.E.I., 1974, p. 107). Anch'essi possono
attraversare periodi di profonda indicibile malinconia. Cosi scri-
veva Papini della sua fanciullezza: « ... Io non sono stato bam-
bino ... Fin da quel tempo, tagliato fuori dall'affetto e dalla
gioia, mi rintanavo, mi distendevo in me stesso nella fantisti-
cheria bramosa, nella solitaria ruminazione del mondo rifatto at-
traverso l'io. Non piacevo agli altri e l'odio mi rinchiuse nella
solitudine. La solitudine mi fece più triste e spiacente... e mi
stringe il cuore ripensando a tutti quei giorni smorti, a quegli
anni infiniti; a quella vita rinchiusa, a quella mestizia senza
motivi; a quella nostalgia incancellabile di altri cieli e d'altri ca-
merati » (Un uomo finito, Firenze, 1939, pp. 10-12). Quali le cau-
se di questa tristezza dei fanciulli? Sono svariatissime. Vanno
dalla costituzione fisica a qualche fatto e vicenda particolare
che può aver provocato una specie di trauma: la paura per una
rapina a cui han assistito (o di cui han sentito parlare), lo spet-
tro degli esami sopravvalutati da qualche educatore, eccessiva
severità, minacce, busse... Ci son genitori che non hanno la
minima nozione d'igiene, di psicologia e di pedagogia (obbligano,
ad esempio,"il fanciullo a mangiare mentr'egli non ne ha mai voglia,
senza fare in modo di ridonargli l'appetito). Certi disturbi fisico-
psichici non curati da ragazzi possono esplodere in forma acuta
nella giovinezza. Con facili accorgimenti si sarebbe potuto evi-
tarli; quando si cercherà il rimedio, forse sarà troppo tardi. Il
sacerdote dovrà essere un amico nel quale il ragazzo possa riporre
i la sua fiducia e confidarsi in tutto. Il cuore e la simpatia d'un
fanciullo (specialmente se è ancora bambino) si conquista, più
che cori le parole, con l'atteggiamento, l'accoglienza, l'affetto:
può bastare uno sguardo, un sorriso; egli non dimenticherà
facilmente i primi incontri col confessore. Il quale però ha un
; compito delicatissimo: il suo intento non sarà d'affezionare a sé
il giovane, ma, sia pur servendosi di motivi umani, d'orientarlo
verso Dio, verso Cristo, supremo Maestro ed amico.
Il fanciullo ha oggi bisogno urgente del confessore perché è
al centro di una universale fermentazione e cospirazione lussu-
riosa che lo scandalizza. Infanzia: età della vita, della rinascita
soprannaturale, del candore, della speranza. Questa vita sta in
molti per morire soffocata dall'impudicizia. Impudicizia che, come
sempre, porta al mutismo ed alla disperazione. « L'impurità dei
fanciulli, soprattutto..., fa dire Bernanos al "Curato di campa-
gna" nel suo "Diario". Io la conosco... Io ho conosciuto anche
151
troppo presto la tristezza, per non sentirmi in rivolta contro
la scemenza e l'ingiustizia di tutti nei riguardi di quella dei pic-
coli, cosf misteriosa. L'esperienza, ahimè, ci dimostra che ci
sono delle disperazioni infantili. Ed il demonio dell'angoscia è
essenzialmente, io credo, un demonio impuro » (Journal d'un cure
de campagne, 1961, ed. Gallimard, pp. 1106-1107).
E non si venga a dire che la Confessione e la direzione spi-
rituale (pratiche private) possono essere sostituite da una forma-
zione religiosa, morale, ascetica fatta « in gruppo ». È un'illu-
sione. Ad esempio, da un comunicato emesso a chiusura dei
lavori del Consiglio permanente dell'Episcopato francese nel di-
cembre del 1974, risulta che la Chiesa francese è molto preoccu-
pata per il progressivo allontanamento dei fanciulli dall'insegna-
mento religioso. Fra le cause s'individua l'azione deleteria di cer-
ta stampa che presenta ai ragazzi stessi un'immagine falsa della
Chiesa e mina la loro fede (OR, 18.XII.74, p. 3).
2. Bisogna preparare con cura ed intelligenza pastorale la
Prima Confessione dei fanciulli. Si eviterà quell'atmosfera lu-
gubre che alle volte avvolgeva le Confessioni precedenti la Prima
Comunione alla quale sembrava riservata la nota della festosità.
Eppure anche la Prima Confessione è il primo incontro con Cristo,
tanto più lieto ed entusiasmante in quanto il suo perdono costi-
tuisce per l'anima la vera condizione ed il motivo supremo del
gaudio pasquale. Forse è il passaggio dalla morte alla vita anche
per il ragazzo (almeno psicologicamente, qualunque sia la vera
gravità dei peccati che accusa). Può esser utilissimo inserire la
Confessione dei fanciulli in una celebrazione penitenziale, con
una preparazione e (possibilmente) una conclusione comunitaria.
Ma se si organizza questa celebrazione « tutto deve essere pre-
parato con cura, perché i fanciulli la sentano propria e possano
parteciparvi con gioioso impegno, senza ansietà e indebiti timori »
(Doc. past., C.E.I., 12.VII.74, n. 102). E specialmente bisogna
dare a loro piena libertà: tutti sanno per esperienza come —
anche e specialmente a quell'età — ognuno è attratto a confes-
sarsi con facilità e confidenza da un determinato sacerdote men-
tre può provare un'invincibile ripugnanza ad aprirsi con qualche
altro. Lo si tenga presente anche quando, in seguito, si avesse
a fissare un orario per la Confessione dei fanciulli. Da una
parte bisogna abituarli a confessarsi con una certa regolarità, dal-
l'altra bisogna evitare ogni imposizione, sia quanto al latto della
152
Confessione, sia quanto alla persona del confessore. Anche il
fanciullo deve confessarsi se vuole, quando vuole, da chi vuole.
E deve sapere che è nello spirito della Chiesa lasciare la massi-
ma libertà, specialmente nella scelta del confessore. L'ideale sa-
rebbe di fargli sentire il bisogno interiore di confessarsi senza
che fosse necessario parlargli di obbligo. Perciò queste celebra-
zioni comunitarie della penitenza — come con qualunque categoria
o gruppo di penitenti — riusciranno bene se ci saranno molti
confessori a disposizione. Allora in poco tempo si potrà assol-
vere un folto gruppo. E si darà a tutti la libertà di scelta.
3. Sono note le riflessioni e le raccomandazioni di pedago-
gisti e di moralisti moderni i quali mettono in guardia gli edu-
catori sul danno che ci sarebbe nel parlare troppo presto ai
fanciulli di peccato « grave ». In chi (dicono) ancora non riesce
a distinguer bene il peccato mortale dal veniale, può nascere
l'ossessiva apprensione di veder in ogni mancanza il peccato
grave; e questi sensi di colpa, molto facili nell'infanzia e nella
fanciullezza — è stato scritto — « possono servire a spronare
l'individuo a far meglio, ma molto più spesso provocano scorag-
giamento e insicurezza, o portano per reazione alla indifferenza
morale » (M. T. Bellenzier). C'è da dubitare sull'obbiettività di
tanta apprensione. Certamente son da rimproverarsi quegli edu-
catori che per ottenere che il piccolo non commetta qualche
mancanza, per sé non grave, gli fan credere che è peccato grave,
sgridandolo con severità e minacce di condanna eterna (come
non si può approvare quel parroco il quale, per ottenere il silen-
zio dai ragazzi durante la Messa, li rimprovera affermando che,
se parlan fra loro, non soddisfano al precetto). Qualora il con-
fessore si trovasse a correggere le idee del fanciullo in seguito ad
errato insegnamento dei genitori lo farà con delicatezza (non
dirà che essi hanno sbagliato ma che egli deve aver capito male).
La catechesi, dunque, abbia sempre il marchio dell'obiettività e
dell'equilibrio. Però i temperamenti inclini allo scrupolo, alla
fobia, ed all'incubo della colpa sono eccezioni. E per costoro anche
il parlare solo di peccato « sic et simpliciter » (senza alcuna allu-
sione alla gravità o meno) non ovvierebbe al pericolo di paure
irrazionali (dato che per lo scrupoloso non esiste che una specie
di peccati: quello mortale). Per evitare questa possibilità si potrà
dire al fanciullo che fra le azioni non buone ce ne sono che
dispiacciono di più ed altre di meno al Signore. Talvolta si riscon-
153
tra piuttosto se c'è qualche erroneo giudizio sul peccato e c'è
mancanza di coscienza giusta perché non hanno ricevuto idee
chiare, non perché manchi la capacità di distinguere peccato grave
e peccato leggero (difatti alle volte sono già adolescenti). Ma
è evidente come la norma che si legge nei manuali dei mora-
listi: « il confessore può presumere che il penitente abbia ap-
preso il peccato secondo la sua obiettiva malizia se non c'è ra-
gione contraria », questa norma non potrebbe dare la presun-
zione che, nel caso concreto, la colpa è grave se il soggetto non
ha ancora raggiunto l'uso della ragione e non ha chiara nozio-
ne di peccato grave. Psicologi e moralisti odierni, dal canto loro,
quando denunciano il pericolo che il senso del peccato degeneri
in senso patologico della colpa, dovrebbero anche pensare che
a forza di insister sulla libertà religiosa, sul rispetto della buona
fede e della coscienza, sulla incapacità del fanciullo a vincere i
suoi difetti ed a mantenere i propositi, ad individuare chiara-
mente il valore dell'intenzione nel determinare la responsabilità
d'un atto, a forza di tutte queste precauzioni si può omettere
d'illuminare fin dalla fanciullezza e dalla adolescenza i giovani
sulle verità di fede e sulla moralità obiettiva delle azioni. Men-
tre hanno bisogno d'istruzione e di buoni esempi (non sarà alla
scuola di religione che conserveranno il senso del peccato se, per
caso, sanno che il loro insegnante ha i suoi illeciti rapporti amo-
rosi). Il senso normale del peccato esiste naturalmente. È perce-
pito chiaramente (anche se confusamente). Però va coltivato sa-
pientemente, delicatamente, attentamente. Altrimenti potrebbe
venir soffocato dalla marea del vizio e dei cattivi esempi. Edu-
catori ed educatrici dichiarano che negli adolescenti è oggi man-
cante in modo pauroso. (Le cronache quotidiane hanno registrato
il caso di fanciulli fra gli 8 ed i 13 anni che, armati di rivoltella,
hanno compiuto rapine in negozi ed hanno sparato e ferito i
proprietari).
4. La Chiesa ha dato delle disposizioni pastorali sull'uso del
sacramento della Confessione che non suppongono strettamente
la soluzione di tante questioni biologiche e psicologiche riguar-
danti la prima età. La prassi della Chiesa si dimostra comunque
(a chi riflette serenamente) ragionevole. Il CJC dà semplicemen-
te questa direttiva: chi ha raggiunto l'età della discrezione si
confessi almeno una volta all'anno (e. 906). Questo canone però
va commentato. E, perché sia inteso rettamente, va collegato
154
storicamente con altre disposizioni e consigli che manifestano la
« mens Ecclesiae ». Nel decreto Quarti singulari, emanato dalla
S.C. de Sacram. l'8.VIII.1910 (AAS, 2, 1910, 582 ss.) sotto il
pontificato di s. Pio X, è stabilita questa norma, al n. 1: « Aetas
discretionis tum ad confessionem tum ad sanctam communionem
ea est, in qua puer incipit ratiocinari, hoc est circa septimum
annum, sive supra sive etiam infra. Ex hoc tempore incipit obli-
gatio satisfaciendi utrique praecepto confessionis et communio-
nis » (D.S., 3530). L'età, dunque, della discrezione: s'intendeva
quella in cui i fanciulli, come aveva precisato già s. Tommaso,
« jam incipiunt aliqualem usum rationis habere, ut possint devo-
tionem habere huius sacramenti ». Allora « potest eis hoc sa-
cramentum conferri » (S. Th. III. 80, 9, ad 3). Non è dunque
necessario che sappian ragionare perfettamente e pienamente. La
Chiesa quando poneva questa norma non lo richiedeva. Mentre
invece lo richiedevano alcuni autori del passato e lo richiedono
anche autori moderni (forse considerando il problema sotto un
altro punto di vista). In conformità a questa direttiva fu fissata
la norma del CJC: « omnis utriusque sexus fidelis, postquam
ad annos discretionis, idest ad usum rationis pervenerit, tenetur
omnia peccata sua saltem semel in anno fideliter confiteri »
(e. 906). Ma perché ci sia vero obbligo occorre — secondo i
principi morali sulla necessità della Confessione — che ci sia:
l'uso della ragione; il settennio; peccati gravi e certi. (Ciò è
evidentemente sottinteso quando, ad esempio, il I Sinodo Ro-
mano, 1960, e. 447 afferma il dovere della Confessione per i
fanciulli che hanno l'uso di ragione « quamvis nondum ad sacram
Synaxim admissis »). Certo anche quando non c'è stretto precetto,
ci può esser il consiglio.
5. In questi ultimi tempi in alcuni luoghi si era introdotta
una innovazione circa l'ordine della Prima Comunione e della
Prima Confessione. Contrariamente al decreto « Quam singu-
lari » (8.VIII.1910) si era creduto opportuno procrastinare (per
un tempo più o meno lungo) la Confessione, dopo la Comunione.
Il Direttorio Catechistico Generale edito dalla «S.C. prò Cle-
ricis », approvato da Paolo VI, pubblicato l'I 1 aprile 1971 (Ed.
Vaticana, 1971), mostrava d'essersi anche reso conto dei motivi
addotti; ma aggiungeva che « l'accesso al sacramento della peni-
tenza fin dagli inizi dell'età della discrezione non porta danni per
sé, all'animo dei fanciulli, purché segua quella delicata e pru-
dente preparazione catechistica che si richiede » (Addendum, n. 4,
155
p. 115). È questa considerazione psicologica che interessa per-
ché, per la parte disciplinare, la Chiesa ultimamente (24.V.1973)
ha disposto che tutti ed in ogni luogo cessino ogni esperimento
nuovo e tornino alla pratica tradizionale secondo il decreto
« Quam singulari »: la prima Confessione dei fanciulli non si
rimandi a dopo la loro prima Comunione (AAS, 65, 1973, 410).
E la disposizione della Chiesa è ragionevole: il fanciullo che è
in grado di capire cosa riceve nella Comunione e di distinguere
il pane eucaristico da quello naturale, perché non saprà distin-
guere anche il bene dal male? Qualunque sia il grado della
colpa, il confessarla, il pentirsene, il ricever la grazia di Dio ed
il consiglio prudente del confessore, non può esser che un bene.
L'esperienza l'attesta. Quali sono i risultati positivi riscontrati
dalla ritardata Confessione? \ La possibilità che in qualche caso
si esageri il senso del peccato fino alla nevrosi, non giustifica che
si rinunci ad una prassi che è, in genere, benefica. Del resto,
gli scrupoli possono venire a qualunque età, persino ai conver-
titi, che non possono certo addebitarli alla Confessione fatta
troppo presto. Di fatto, anche nei migliori sono un'eccezione.
Comunque non dipendono dal Sacramento. Possono dipendere
da una meno saggia preparazione e catechesi fatta ai piccoli; pos-
sono dipendere dal modo come il confessore li accoglie e ammi-
1
Ma siccome in alcuni luoghi, nonostante la dichiarazione della Chiesa
del 73, si è continuato ad ammettere i fanciulli alla Comunione senza la
previa ammissione alla Confessione, la S.C. per i Sacramenti ed il Culto
Divino e la S.C. per il Clero, in data 20.V.77 (OR, 28.V.77, p. 1) hanno
ribadito le norme della Chiesa mediante la risposta ufficiale ad un quesito
sull'argomento. Ed in un chiarimento aggiunto si giustifica questa prassi
specialmente con tre ragioni: 1) « qualunque sia il contesto sociale e cul-
turale » nel quale il ragazzo è cresciuto, se è « capace di ricevere con pro-
porzionata consapevolezza l'Eucaristia è altresì in grado di avere la coscienza
del peccato e di chiederne perdono a Dio in confessione »; 2) l'esame di
coscienza sul quale s. Paolo (1 Cor. 11, 28) ammonisce chi si accosta alla
Mensa, è al fanciullo « molto più facile e rassicurante » se compiuto non da
solo ma con il sacerdote confessore. « Molti sono infatti i fanciulli che si
sentono turbati e angosciati per piccole cose, mentre potrebbero ignorare o
sottovalutare cose più importanti »; 3) qualunque siano i peccati che i fan-
ciulli accuseranno nella Prima Confessione, « questa personale e viva con-
vinzione della piti profonda purificazione possibile per ricevere degna-
mente l'Eucaristia, che si inizia appunto alla prima Comunione, se pruden-
temente e adeguatamente realizzata, accompagnerà certamente i fanciulli
nel corso della loro vita e li porterà a stimare maggiormente e a frequen-
tare più e meglio il Sacramento della Riconciliazione » (Confessione e
Prima Comunione dei fanciulli, OR, 28.V.1977, p. 1).
156
nistra loro il sacramento. Forse taluni creano nell'animo dei fan-
ciulli qualche stato complesso e rendono difficile la Confessione
perché partono dal falso presupposto: che il fanciullo debba
confessarsi come l'adulto, mentre invece ha da comportarsi se-
condo la sua mentalità e la sua psicologia (J. Galot, Bucar, e
Penti., «La Civiltà Cattolica», 1.1.74, 134-135). Se poi qual-
cuno avesse la predisposizione psichica ad un eccessivo senso
e timore del peccato, è il confessore che deve capirlo e quindi
usare uno speciale trattamento, in modo che la Confessione sia
una liberazione e non diventi una fonte di angosce e di osses-
sioni. Ma quando sia serenamente ricevuto, questo sacramento
purificherà o comunque premunirà il ragazzo in un momento nel
quale sta per fare le prime opzioni, forse decisive per la sua
vita (cfr. G. Hansemann, Pedagogia della Confessione nella cate-
chesi, Padova, Gregoriana, 1968, p. 86). Tutti riconoscono che
oggi i fanciulli son precoci, tutti sanno quanti pericoli li minac-
ciano. Si vuol attender che siano già trascinati nel vortice prima
d'esser soprannaturalmente premuniti mediante i sacramenti del-
l'iniziazione cristiana? Per la Cresima, nel diritto comune della
Chiesa (CJC, e. 788) è stabilito che non venga amministrata pri-
ma dei sette anni circa, se non c'è pericolo di morte o qualche
ragione particolare, giusta e grave, a giudizio del Vescovo. Per
l'Italia la C.E.I. ha recentemente disposto che si rimandi ai dieci
dodici anni (fra la fine della scuola elementare e l'inizio della
scuola media). Ma « ad experimentum ». Il che significa che non
si ha affatto la certezza che tale prassi sia la migliore, neppure
per la Cresima. La Confessione, in particolare, abbia o no il
fanciullo peccati gravi, sia già o non ancora capace di commetterli,
gli servirà sempre come medicina almeno preventiva, perché non
arrivi mai alla grave malizia pienamente deliberata. Sarebbe sba-
gliato il fargli credere che non si può comunicarsi se non ci si
è confessati anche quando non ci sono peccati gravi (Direct.
Catech. Gen., addendum, n. 3). Però una volta che il ragazzo
è stato ammesso alla Confessione, questa dovrà esser periodica
e frequente se si vuole che influisca efficacemente sulla sua vita.
Anche qualora non servisse altro che a conservare la sua sensi-
bilità morale, bisogna ammettere che sarebbe già molto, se si
pensa all'odierna insensibilità morale. Ed i sacerdoti devono pre-
starsi. Anche i fanciulli hanno diritto di confessare i loro peccati,
di ricever il sacramento e non solo una benedizione. « Con-
suetudo non admittendi ad confessionem pueros, aut numquam
157
eos absolvendi, cum ad usum rationis pervenerint, est omnino
improbanda » (Quam singulari, n. VII, AAS, 2, 1910, p. 583).
Nel Direct. Catech. Gener. (11.IV.71) si legge: «A stento (vix)
si provvede (consuli potest) al diritto che i fanciulli battezzati
hanno di confessare i propri peccati, se quando comincia l'età
della discrezione non vengono preparati e soavemente condotti
(adducuntur) al sacramento della penitenza » (Add. n. 5). La que-
stione se coll'« età della discrezione » si dia la capacità di com-
metter peccato non solo leggero ma anche grave, può restar aperta.
Secondo la Chiesa a sette anni si presume ci sia o cominci 1'« uso
della ragione », almeno tale da distinguere il bene dal male e
quindi da render possibile una qualche colpa. E ci sono illustri
psicologi che ritengono pienamente giusta questa norma tradi-
zionalmente tenuta dalla Chiesa, in linea di massima. Si danno,
del resto, dei segni per riconoscere se un fanciullo di fatto abbia
o no raggiunto l'età della discrezione. Si osserverà, se, nelle sue
scelte, mostra di non esser condizionato solo da motivi este-
riori ed ambientali — come la paura del rimprovero, del ca-
stigo — ma di saper guidarsi da un giudizio personale circa le
proprie azioni: un giudizio che gli fa percepire — indipendente-
mente dalle ragioni e dai risultati puramente umani — la voce
della coscienza che si rivela col senso di gioia, di pace, di sod-
disfazione, oppure di rimorso e di tristezza profonda. Questa
personalizzazione ed interiorizzazione dell'agire è evidentemente
progressiva. Ed è relativa. Quindi solo approssimativamente si
può determinare in quale età il ragazzo può commetter peccati,
in quale età può commetter anche il peccato grave. Pertanto il
confessore gli può parlare del bene da fare, del male da evitare,
senza usare il termine « peccato mortale ». E certamente nella
prassi della Confessione conviene insistere di più sulla necessità
di evitare il peccato, ogni peccato, che sulla necessità di evitare
quello grave (come se solo questo fosse da evitare).
6. Nella lettera inviata (tramite il Card. Villot) alla XXVI
Settimana Liturgica Nazionale, Paolo VI poneva « un accento par-
ticolare sulla Confessione dei fanciulli, e specialmente nella pri-
ma Confessione, che — diceva — deve sempre precedere la
prima Comunione, anche se da essa opportunamente distanzia-
ta » (OR, 27.VIII.1975, p. 1). Per un complesso di ragioni è
desiderabile che la prima celebrazione della Confessione preceda
d'un po' di tempo la festa della prima Comunione. E sarà utile,
158
dopo la conveniente istruzione, far precedere la celebrazione sa-
cramentale della Penitenza da qualche celebrazione comunitaria
non sacramentale. Cosi il ragazzo imparerà a pentirsi prima di
imparar a confessarsi. La prima Confessione assuma anch'essa
— dicevamo — il carattere d'una festa (a cui dovrebbero colla-
borare famiglia e parrocchia). Festa che lasci nel cuore del fan-
ciullo un'impressione di pace e di gioia: impressione che con-
serverà per tutta la vita (cfr. G. Frumento, Iniziazione dei fan-
ciulli alla Penitenza, Torino, L.D.C., 1973, pp. 59-64).
7. Qualora circa la prima Comunione di qualche fanciullo
venisse il dubbio se sia più opportuno ammetterlo alla Comu-
nione od aspettare ancora un po' di tempo, si terranno presenti
due principi (applicandoli e contemperandoli prudentemente se-
condo i casi). Primo: «l'Eucaristia è "culmine" della vita cri-
stiana; esige una maturazione spirituale, che la famiglia insieme
con la parrocchia è chiamata a considerare. Cosi l'ammissione alla
iMessa di prima Comunione è legata non solo all'età o alla classe
ma, soprattutto, alla maturità di fede dei fanciulli e del loro
ambiente di vita ». Secondo principio: « d'altra parte l'Eucaristia
è "fonte" della vita, per i fanciulli come per gli adulti. Gesù
chiede di andare a lui con grande confidenza. Egli è "viatico"
per il nostro cammino » (Il Catech. dei fanc. « Io sono con voi »,
Ed. C.E.I., 1974, p. 108).
8. Importantissima la prima catechesi ai fanciulli sulla Con-
fessione. Importantissima l'iniziazione all'esame di coscienza. Pos-
son esser decisive e determinare tutta la loro vita spirituale, per
sempre, nella sua essenziale fisionomia e nelle sue motivazioni.
Un'istruzione quindi senza fretta e che non si riduca agli ultimi
giorni che precedono immediatamente l'amministrazione dei sacra-
menti: le idee dovrebbero depositarsi e bisognerebbe assicurarsi
che la dottrina è penetrata nelle anime, è stata compresa, ha
portato frutto. Quindi sarebbe augurabile che la preparazione
fosse, se non individuale, quanto più possibile specializzata e adat-
tata alle capacità ed ai bisogni spirituali d'un piccolo gruppo.
Bisognerebbe infatti poter controllare ed assicurarsi che tutti
hanno compreso, almeno « grosso modo », il significato del mistero
e della presenza eucaristica.
Qualunque sia lo schema che si intende scegliere per sugge-
rire al fanciullo il modo di interrogarsi sulla sua condotta, biso-
gnerà non ridursi a qualche applicazione (magari stiracchiata) dei
dieci comandamenti in chiave puramente negativa (sulle disub-
159
bidienze, le bugie, i furterelli, le baruffe fra compagni, la prepo-
tenza, la superbia, l'ira, l'egoismo, i brutti discorsi...) con l'ag-
giunta di un paio di doveri religiosi positivi (dir le orazioni quo-
tidiane ed ascoltar la Me* sa festiva). Il fanciullo ha bisogno di
sapere che c'è un Amico venuto sulla terra e nel suo cuore per
vivere con lui, per insegnargli a fare la volontà di Dio e dargli
la forza d'esser buono e santo. Un Amico che ha tutte le doti
d'un amico umano e, per di più, è Dio: è fedelissimo e non ci
abbandonerà mai; e può tutto perché è Dio. Il ragazzo deve
sentire vicino quest'Amico e con Lui vivere tutti i giorni della
settimana (non solo la Domenica), tutti i momenti della sua
giornata, in tutti i luoghi: casa, chiesa, scuola, campo da giuoco.
Questo Amico ci ammaestra e ci corregge. Ci manda anche i
dolori, ma sempre pel nostro bene e perché diventiamo più buoni.
Ci suggerisce di fare la volontà di Dio, specialmente nell'adem-
pimento dei doveri di stato che per il ragazzo saranno (dopo la
preghiera e la santificazione del giorno del Signore) lo studio e
l'impegno scolastico. Far la volontà di Dio non per condannarsi
ad esser meno lieti di chi fa invece la propria volontà, ma per
esser felici. Questo Amico divino si è sacrificato per noi e ci ha
cosi insegnato che la vita non è solo piacere ma anche sacrificio.
Per noi ha istituito i sacramenti. La Confessione è un mezzo per
stringere sempre più intimamente l'amicizia con Lui (o per resti-
tuircela, qualora l'avessimo infelicemente perduta). Nel confessore
bisogna vedere il rappresentante di Gesù e perciò venerarlo ed
amarlo perché per mezzo del sacerdote Egli ci comunica le Sue gra-
zie, cioè viene nel nostro cuore. Dunque la catechesi dovrà pun-
tare anzitutto sull'amicizia di Gesù e sull'amore di Dio che
non verrà mai meno e sarà sempre con noi se noi gli saremo obbe-
dienti. Chi lo ama non fa ciò che Egli non vuole, ma cerca sem-
pre di conoscere e fare ciò che a Lui piace. Insomma, si cercherà
che il fanciullo comprenda come il rapporto con Dio non si riduce
ai pochi istanti delle preghiere quotidiane (pur necessarie) ma a
tutta la giornata, perché se si fa la volontà di Dio si vive sem-
pre con Lui, specialmente se si procura qualche volta di rivolger
a Lui il pensiero, nel modo più semplice ed immediato, come
anche al fanciullo è possibile. Dovrebbe abituarsi a collegare la
preghiera con gli avvenimenti (anche piccoli) della sua vita quo-
tidiana perché pure in questi veda la presenza e domandi l'aiuto
di Dio. Cercheremo di fargli capire che anche per lui la vita
è lotta spirituale segnata da un alternarsi di speranze e di delu-
160
sioni, di gioie e di lacrime. Vivere significa, fin dalla prima età,
lavorare, studiare, godere, soffrire. Perciò, proprio per vivere,
deve sentire il bisogno di Dio, della Confessione, di Gesù Euca-
ristia, della Madonna, dell'Angelo Custode.
Una fede in .Dio presentata cosi dovrebbe metter radici sta-
bili nei cuori giovanili e non aver la stessa sorte di certe nozioni
scolastiche che non hanno relazione alcuna colla vita e svani-
scono col passar degli anni.
Poi l'amore verso il prossimo. Una fede pratica, una reli-
gione aperta, una pietà soprannaturale ed insieme umana. Amore
che si manifesta nelle opere (la simpatia non conta nulla). Amore
che non si riduca solo alla sua parte negativa: evitare le discor-
die, i litigi, le rappresaglie, la sopraffazione, la violenza. Bisogna
render il fanciullo sensibile alla sofferenza di tanti altri che sono
malati o poveri o senza lavoro. Non deve vivere — immemore
degli altri — in una felicità ed agiatezza naturale nella quale
forse è nato e si è trovato. Perché, anche questa, fino a quando
durerà? Tutto è precario ed ognuno dovrebbe, fin da piccolo,
non farsi illusioni. Solo se si abituerà a non pensare solo a se
stesso e a non godere solo del suo benessere, si può attender
da lui la carità effettiva. Le occasioni si presenteranno continua-
mente. Ma la generosità di chi dona non è sempre istintiva. Fare
un piacere, dare un aiuto, mostrare il sorriso benevolo a tutti.
Salutare anche chi non ci ha fatto del bene. Si nota spesso nel
fanciullo una parzialità nel trattare sia coi suoi compagni sia coi
suoi educatori, anche sacerdoti (qualcuno dei quali non ha altro
difetto se non quello d'esser meno espansivo o di non pos-
sedere il dono dello « charme »). In particolare durante il
giuoco sarà messa alla prova la generosa benevolenza del ragazzo
verso tutti i compagni indistintamente, la cortesia, lo spirito di
distacco dal proprio io, di rinuncia a vantaggio degli altri, la capa-
cità di soffrire per render contento qualcuno, la sensibilità e la
compassione per i dolori e le privazioni altrui... Alle volte invece
esplodono anche nei piccoli degli istinti selvaggi e belluini che li
portano ad azzuffarsi ciecamente ed a picchiarsi fino al sangue:
161
tra lor parole grandi più di loro.
A sé videro nuovi occhi, cipigli
non più veduti, e l'uno e l'altro, esangue,
ne' tenui diti si trovò gli artigli,
e in cuore un'acre bramosia di sangue,
e lo videro fuori, essi, i fratelli,
l'uno dell'altro per il volto, il sangue! »
(G. Pascoli, Primi poemetti, Mondadori, 1952, p. 85).
Se il ragazzo stenta a vedere nel prossimo il Signore ed a
sentire questo motivo soprannaturale, cercheremo di fargli capire
« il valore della rinuncia per stare meglio con gli altri; per fare
"comunione" con gli altri. Se vivono nel loro ambiente queste
esperienze, i fanciulli maturano il senso dell'amicizia, della gene-
rosità e della fiducia; imparano ad ascoltare gli altri e a dialo-
gare, a dire "grazie" e ad offrire doni » {Cai. dei fatte. « Io sono
%òn voi », p. 108).
La preghiera. Al mattino ed alla sera. E sta bene. Ma — dicevo
— dobbiamo anche infondere negli animi, cominciando dai fan-
ciulli, l'idea che se si fa tutto secondo la volontà di Dio e si
vive per Lui e con Lui, ogni atto diventa preghiera. Il che non
significa che si possano eliminare i tempi consacrati all'esplicito
contatto con Dio. Ma bisogna che il ragazzo si abitui a non
concepire la preghiera e la religione come un'attività spirituale
che sia del tutto distinta dalla vita, o addirittura serva solo a
frenarla ed a sacrificarla, quasi contro natura, unicamente allo sco-
po di far meritare all'anima, attraverso la rinuncia, il Paradiso ed
evitare l'Inferno. Bisogna coltivare l'entusiasmante persuasione
che l'unione con Dio è ciò, che, solo, può dare senso e pienezza
alla vita. Bisognerebbe condurre il fanciullo a concepire la pre-
ghiera come un colloquio personale e spontaneo: si parla all'Amico
delle proprie cose, di ciò che ci sta a cuore, di ciò che Lo interessa
di noi, si chiede ciò che ci interessa. Ciò non significa che preghiere
come il Pater, l'Ave, vengano scartate. Ma bisogna spiegarne il
significato ai ragazzi affinché sentano quelle parole come qualcosa
che parte dal loro interno, come un'espressione della loro anima
bisognosa d'elevarsi. Altrimenti la recita di quelle formule sarà
un peso dal quale non vedono l'ora di liberarsi.
Parte negativa: il peccato. Sia presentato come ciò che disgu-
sta e rattrista Gesù; ci fa perdere l'intimità con lui; può condurci
162
alla rottura ed alla perdita della Sua amicizia. Si eviterà così il
pericolo d'una concezione legalistica la quale potrebbe far sorgere
nell'animo impressionabile di certi fanciulli l'idea d'aver « fatto
peccato » anche quando hanno agito male in buona fede o sopra
pensiero, od hanno avuto nella parte sessuale un fenomeno naturale
(magari notturno) od un'impressione della fantasia che non è stato
possibile evitare o frenare. Il fanciullo buono — data la sua
immaturità — tende a confondere mancanza volontaria e disav-
ventura, colpa e disgrazia, senso e consenso. Va istruito perché
abbia la lucida coscienza che è male fare ciò che il Signore non
vuole, ma il peccato sta nel farlo quando si sa quello che si fa e
si sa che il Signore non lo vuole. Perciò gli si deve discretamente
suggerire di pentirsi e di accusarsi di quelle azioni che avrebbe
dovuto e potuto non fare o di quelle che avrebbe dovuto e potuto
fare mentre, invece, non ha seguito il suggerimento della co-
scienza che è la voce di Dio. Bisogna insegnargli prima a pentirsi
e poi ad accusarsi; condurlo a chieder perdono a Dio quanto
prima dopo le mancanze commesse con certa malizia, e non solo
aspettar la Confessione. Aspettar questa è sintomo di spirito lega-
listico. Occorre quindi che il bambino prenda l'abitudine di fare
un — sia pur breve e sempre sereno — esame quotidiano di
coscienza, seguito da un atto di dolore e d'amore di Dio e da un
buon proposito. Ma bisogna fargli ben capire che non è la recita
d'una formula che costituisce il pentimento, la riparazione, la peni-
tenza e la conversione: la quale si deve dimostrare colle opere,
adempiendo con sacrificio un dovere, con qualche atto di genero-
sità, col perdono... Bisogna insistentemente richiamargli questa
idea: Dio perdonerà a noi se noi perdoneremo ai nostri fratelli
e non ci vendicheremo umiliandoli e colpendoli (cfr. Io sono con
voi, p. 138).
Si insegnerà poi chiaramente al fanciullo che, quando ha il
dolore e la volontà di accusarsi sinceramente, non deve turbarsi se
dimentica qualche peccato; e che i peccati leggeri non è necessario
confessarli tutti. Stiamo attenti a non presentargli la Confessione
come una pratica in sé difficile (non lo è mai e per nessuno)
e tanto meno come un atto che richiede conoscenze, riflessioni,
lavoro interiore superiori all'età ed alla maturità del penitente.
Non meraviglia che nel fanciullo (il quale non ha ancora interio-
rizzata la sua pratica religiosa) ci sia la tendenza a dare più
importanza all'accusa che al pentimento ed al proposito. Potrà
anche darsi che, più di puntare energicamente e costantemente sul
163
difetto o sui difetti reali predominanti, qualcuno applichi atten-
zione e preoccupazione a preparare un'abbondante lista di pec-
cati, con più o meno obbiettività e criterio; allo scopo forse, chi
lo sa?, di far presso il confessore la bella figura d'essersi esaminato
con cura o, persino, d'aver qualcosa di nuovo da raccontargli.
D'altra parte è bene preavvisare e preparare i penitenti, fin da
piccoli, a non aver nessuna vergogna di confessare quelle colpe
delle quali sentono più rimorso (perché il confessore non si mera-
viglia di nulla e tiene tutto in assoluto segreto).
Mentre si invita il fanciullo a riflettere sui suoi peccati bisogna
ravvivare in lui la fede che Dio abita nel suo cuore e che tutta
la sua vita dev'essere un'amicizia con Lui. Accennando, ad esem-
pio, alle mancanze contro la purezza o la modestia, gli si ricor-
derà che il nostro corpo è qualcosa di santo perché dimora di
Dio, e quindi bisogna rispettarlo servendosene secondo la sua
volontà. Con tutta semplicità lo si abituerà cosi a metter in pra-
tica il principio: l'imitazione del Cristo storico (cioè la vita
morale) non è fine a se stessa ma una condizione per godere la
vita del Cristo mistico nelle nostre anime. S. Tommaso scrive
che alla Nuova Legge evangelica spetta (pertinet) principalmente
(principaliter) « gratia Spiritus Sancti interius data » (I-II, 106,
2). Gesù è nato a Betlemme e nei nostri cuori. Solo se noi non lo
vogliamo Egli se ne va mestamente. E chi prenderà il Suo posto?
Purtroppo oggi chi cerca di suscitare nei fanciulli il santo timore
di Dio e d'ogni azione che lo disgusta, si trova in un momento
particolarmente delicato. Da una parte bisogna evitare ogni esa-
gerazione e materializzazione che ad animi piuttosto sensibili po-
trebbero nuocere; dall'altra parte non dimentichiamo che c'è, in
genere, imo scadimento del « senso del peccato »; e di questa
mancanza risentono anche i ragazzi. Con tanti timori di insegnare
una moralità solo negativa e di creare un senso eccessivo del pec-
cato, si corre il rischio — ripeto — che non abbian più paura
di far peccati.
9. Nell'atto della Confessione il sacerdote avrà accorgimenti
ed attenzioni corrispondenti alla psicologia del penitente. Special-
mente al fanciullo — a causa della sua timidità — bisogna non
dar l'impressione che egli ci è di peso e che si vuol liberarsene
il più presto possibile. Qualche confessore, ad ogni peccato che
il ragazzo accusa ribatte seccamente « e poi? », « hai altro? »,
quasi per dirgli che è ora di finirla con siffatta tiritera.
164
Solo dopo l'accusa si deve fare le debite osservazioni ed ammo-
nizioni, come suggerisce, del resto, per ogni penitente il Rituale
Romano: « Demum, audita confessione, perpendens peccatorum,
quae ille admisit, magnitudinem, ac multitudinem, prò eorum gra-
vitate, ac poenitentis conditione, opportunas correptiones ac mo-
nitiones, prout opus esse viderit, paterna cantate adhibebit » (De
Sacrarti. Poen., n. 18). Il Frassinetti dava al confessore come una
delle più importanti avvertenze « quella di non sgridare mai il
fanciullo o rimproverarlo aspramente nel momento che si con-
fessa. Ad una severa parola, il fanciullo subito tace; se ha altri
peccati da accusare non li accusa più; a qualunque interrogazione
risponde un no... Gli si deve parlare sempre con buona grazia,
ancorché accusi peccati molto gravi; anzi in questo caso è neces-
sario incoraggiarlo assai, e promettergli anche espressamente di
non sgridarlo » (Manuale del parroco novello, p. 377). Se il con-
fessore sarà abitualmente aspro, i fanciulli lo abbandoneranno
oppure — per non incorrere nei suoi duri rimproveri — taceranno
su ciò che sentirebbero il bisogno di manifestargli. (Ho anche ap-
preso che qualche confessore, quando un ragazzo s'accusa di
peccati impuri, non si accontenta di sgridarlo, ma lo schiaffeggia).
Infine il confessore avrà molta fiducia nelle parole che, dopo
l'accusa, cercando d'interpretare il cuore di Dio, rivolgerà al peni-
tente, specialmente al fanciullo: il suo spirito non è ancora oscu-
rato dai pregiudizi, il suo cuore non è ancora indurito dalle pas-
sioni e dai vizi. Certo l'efficacia dell'esortazione dipende dalla sua
aderenza ai bisogni del singolo, suppone una giusta considerazione
del caso concreto. Solo nella confessione auricolare questo si
rende possibile. Una predica, un esame di coscienza fatto in co-
mune, un sermone — per quanto toccante ed esauriente — rivolto
ad un gruppo di persone, difficilmente avranno la forza della pa-
rola detta dal sacerdote nella Confessione privata. Il quale, per-
tanto, non si limiterà a fare al fanciullo qualche raccomandazione
generalissima: « esser sempre più buono, voler più bene al Signo-
re... ». Il fanciullo ha anche bisogno, per la sua età, di concre-
tizzare le disposizioni di fondo e di concepire, come frutto della
Confessione, qualche proposito determinato. Saper suggerirlo op-
portunamente ed efficacemente quanto all'oggetto e quanto al
modo e quanto alle motivazioni: motivazioni adatte ai particolari
doveri del fanciullo; motivazioni che non siano soltanto naturali
(« esser bravo in scuola per esser premiato agli esami ») ma neppur
troppo vaghe o astratte o lontane (« per andar in Cielo »). Que-
165
stabilità è un'arte pedagogica che non tutti possiedono. Domanda
un complesso di doti pastorali, oltre che interiorità ed intuito. Ma
non si sbaglierà certo nel raccomandare al ragazzo obbedienza ai ge-
nitori ed ai maestri e la buona volontà nell'attendere alle lezioni ed
allo studio. Non si sbaglierà nell'insister molto e sempre (anche se
non hanno accusato colpe in complicità) sul problema delle buone
e cattive amicizie. L'esperienza insegna che un amico buono può
esser la salvezza, uno cattivo la rovina, per sempre.
Però — specialmente ai piccoli — di propositi non bisogna
suggerirne molti né moltiplicare le raccomandazioni. Neppur se-
guirebbero i nostri lunghi discorsi; e non ricorderebbero poi nulla
di determinato. Difatti si nota come il fanciullo si distrae facil-
mente, anche quando gli si parla con gravità di cose importanti.
Bisogna che il confessore riesca a fissare l'attenzione del piccolo
e ad impressionarla — sanamente — con discorsi brevi, anzi bre-
vissimi, ma incisivi e toccanti. E piuttosto che fargli discorsi, pre-
diche e ragionamenti, conviene, allo scopo, usare la forma del dia-
logo: « dunque, quale ti sembra il proposito più importante che
ora devi fare? ».
Se sarà interrogato su qualche questione, il confessore sia chia-
ro, deciso, pratico. Si adatti alla mente ed alla comprensione del
ragazzo. Si assicuri che è rimasto soddisfatto ed ha capito. Sia
sempre breve.
2. Adolescenti e giovani
166
imparare, per esser guidato; qualcuno al di sotto di me, per aiutare
e ammaestrare » (Firenze, 1935, p. 76).
1. Cosa porta l'adolescente alla ricerca, in particolare, d'un
confessore e d'un consigliere? Un senso d'insicurezza spirituale,
uno stato di malessere, diranno gli psicologi. Un senso di rimorso
per certe azioni commesse, un bisogno di luce e di verità, una
aspirazione alla felicità, dicono i moralisti. In realtà è la stessa
cosa. L'adolescenza è l'età « in cui si profilano le prime e ancora
acerbe manifestazioni della personalità, e incominciano a definirsi
orientamenti e scelte di vita ». In questo periodo « è di massima
importanza che l'adolescente sperimenti, nel sacramento della
Penitenza, l'incontro con la bontà del Padre e il sostegno della
persona e della grazia di Cristo. Efficacissimo in questa età è il
richiamo a una forma di serena introspezione, che pur mettendo
a nudo manchevolezze e colpe, non provochi scoraggiamenti o
depressioni, ma ravvivi piuttosto la fiducia in Colui, che dalla
debolezza stessa sa trarre la spinta per un rinnovato impegno di
ripresa. Ed è d'ordinario proprio la Confessione frequente, che
aiuta l'adolescente « a scoprire e a seguire la sua vocazione »
(C.E.I., Penit e Unz. d. Inf., 12.VII.74, n. 103). Ed il confes-
sore, da parte sua, dovrebbe venirgli incontro per aiutarlo a pas-
sare dal dubbio alla certezza, dall'instabilità alla fortezza, dal tur-
bamento alla pace interiore: « presbyteri... peculiari etiam dili-
gentia prosequentur iuniores » (PO, 6).
2. Dopo un'età nella quale il ragazzo era portato a tutto ogget-
tivizzare, viene un momento in cui egli si ripiega per entrare in
se stesso. È la fase della soggettivizzazione, della personalizzazione,
dell'interiorizzazione, dell'anticonformismo (cfr. Coudreau, L'en-
fant et le problème de la fot, Paris, 1961). Dio che prima era
immaginato piuttosto antropomorficamente come il Padre buono
od il Signore irato, diventa un interrogativo sul quale la ragion
critica comincia a discutere, come disorientata e spaventata, sve-
gliandosi da un sonno felice. E tutta la vita dell'adolescente —
che era una realtà goduta spensieratamente — diventa un pro-
blema. Il problema dell'amore. Il problema del dolore e della
felicità. Il problema della giustizia nel mondo. Il problema della
ricchezza e della povertà. Il problema della libertà e dell'obbedien-
za ad un'autorità. Il problema della mitezza cristiana e della
violenza intesa a rivendicare qualche preteso diritto. Il problema
della scelta dello stato, cioè della vocazione. Ed anche quello della
scelta della professione.
167
Tipiche manifestazioni di questo periodo dell'età evolutiva:
insofferenza, stravaganza, contestazione, variabilità d'umore, slanci
estasiami, abbandoni e depressioni accascianti. Guaì se il con-
fessore si mostra come spaventato o si pone, per principio, sulla
difensiva od assume atteggiamenti di stroncatura pesante ed umi-
liante come chi non sente un problema e non partecipa alla sof-
ferenza del suo interlocutore. Ma questo pericolo c'è da parte
di chi non ha mai provato, o non ricorda più, questi stati
d'animo. À lui possono sembrare inspiegabili o trascurabili. Ma
non lo sono pel giovane. Egli cerca, nella sua sofferenza, qualche
presenza umana. Ha bisogno di cordialità intelligente perché ha
bisogno di luce, di coraggio; ed anche di forza psichica (non
lo si dimentichi). Il confessore che ha soffertole sofferto molto,
saprà comprendere, aiutare, soccorrere chi soffre (cfr. I. Lefort,
Adolescente, domani uomo, Torino, Gribaudi, 1970).
3. Tenga presente che i giovani, specialmente gli studenti
sono sensibilissimi alla prima impressione. Se vengono dal sacer-
dote per un consiglio — « extra » od « intra » Confessione —
bisogna che restino soddisfatti. Qualora un impegno urgente im-
pedisse al confessore di ascoltarli, egli fisserà un appuntamento
per un colloquio. E se si accorge che un giovane ha vero bisogno
di conferire con lui veda se può rimandare qualche altro lavoro
programmato: passato il momento buono chissà se il giovane
troverà il tempo e la volontà per decidersi a ritornare. E quando
lo si ascolta non bisogna mostrar segni di fretta o di aver altre
preoccupazioni importanti che assorbono la mente. Egli deve
sentire che il consigliere è con lui e tutto per lui, disponibilis-
simo finché sarà necessario. E quando racconterà le sue vicende
(più o meno ordinatamente) bisogna mostrare la massima atten-
zione ed interesse, senza interromperlo, senza fare osservazioni
critiche, senza sorridere come su cose di poca importanza.
In tutto però discrezione. C'è anche l'eccesso dei colloqui in-
terminabili, magari notturni. Ciò non è necessario, né vantag-
gioso, né opportuno. Scrive Claire Arbelet: « Non bisogna in-
sistere. Non ripetersi. Non annoiare. È necessario riuscire a farci
sopportare. Il modo giusto esiste: guardare con simpatia il gio-
vane che si è rivolto alla nostra vecchia saggezza: lo sguardo di
simpatia è la cosa più necessaria; la sola, forse, che resterà.
Quindi parlare, esprimere la propria idea, una volta sola. Poi,
tacere » {Quando si fa sera, Torino, Boria, 1969, p. 80). Più
che le molte parole, avrà efficacia la sicurezza equilibrata dei
168
nostri consigli; e, soprattutto, un raggio ineffabile della bontà di
Dio 2 .
4. Oggi i ragazzi discutono su problemi che si direbbero
superiori alla loro età, presentano spirito di contestazione, dubbi
o addirittura scetticismo in materia di fede 8 , anticlericalismo
(anche se in grado e forma diversa dal passato), irreligiosità,
spregiudicate concezioni in materia morale, oltre alle mancanze
di fragilità contro il sesto comandamento: qualcuno (e qualcuna),
ad esempio, vorrà sostenere, come principio, che non c'è nulla
di male se due che si vogliono molto bene si comportano come
marito e moglie, quando hanno intenzione di sposarsi ed il ma-
trimonio non è un sogno lontano. E c'è chi pretenderebbe con-
ciliare con queste idee la pratica religiosa e la frequenza ai
sacramenti. Sono i casi più difficili pel confessore il quale
dovrà, senza spegnere il lucignolo fumigante, trovar la via per
riformare la mentalità dell'adolescente. Dovrà riparare ad una
educazione sbagliata o supplire la mancata educazione. Ci sono
mamme (vedove e non vedove) che, per ragioni di lavoro,
passano quasi tutta la giornata fuori casa: si disinteressano dei
figli o li affidano ad altre mani. Se riusciranno male, si scuse-
ranno dicendo che i ragazzi oggi son vittime della società, dell'am-
biente, della miseria. In parte è vero. Ma non si dovrebbe dimen-
ticare che la società è costituita dai padri, dalle madri, dagli
insegnanti, da ognuno di noi. Ed ognuno dovrebbe chiedersi
se ha fatto quanto poteva per preservare i giovani dal cattivo
influsso di compagni, di maestri infidi, di gruppi, movimenti, par-
titi sovversivi.
5. Particolare interessamento e carità avrà il confessore quando
s'incontra in giovani che sono infelici perché la loro famiglia
* « Id, quod saepe numerò est maxime necessarium, iam non est ver-
borum abundantia, sed potius sermo cum vita magis evangelica consentiens.
Ita profecto est; mundus indiget testimonii sanctorum... Animos attendamus
ad eas quaestiones, quae ipsa vita hominum, potissimum vero iuvenum,
proferuntur... Indulgenter toleremus interpellationes, quae pacem nostrani
et quietem obturbant. Patienter feramus illorum haesitationes, quae ad
lucem iter veluti pedibus praetentant. Fraterne ambulare sciamus cum iis
omnibus, qui, eo lumine carentes, quo ipsi fruimur, nihilominus contendunt,
ut per dubii caliginem repetant domum paternam». (Paulus VI, Adhort.
Ap. Quinque iam anni, 8JQI.1970, AAS, 63, 1971, 104).
3
Non è difficile sollevare difficoltà contro la fede; ma non tutti sono
preparati a vederne e comprenderne la soluzione.
169
è in dissesto ed in dissoluzione. Questi figli stanno volentieri
lontani da casa. Talvolta fuggono per non tornare. Provano av-
versione verso i genitori. Ed anche quando sono fra i compagni,
si senton menomati, invidiano la loro fortuna, la gioia d'un
focolare domestico. Il loro cuore è stretto da malinconia ed
amarezza.
È molto difficile trattare con questi giovani. Sulle prime
sono chiusi e forse rispondono sbrigativamente. Stentan a svelare
tutto il loro singolarissimo e complesso mondo interiore. Potran
farlo gradatamente. Ma bisogna che il confessore sappia con-
quistarsi la loro fiducia mostrando che li stima. Poi potrà susci-
tare qualche speranza. Il ragazzo troverà nel sacerdote la com-
prensione ed il calore d'un affetto che gli mancava. Forse troverà
la sua salvezza.
6. Il recupero poi dei minorenni rinchiusi nei centri di rie-
ducazione è difficile perché non sono solo afflitti per la vita
che conducono ma anche in stato di ribellione contro l'am-
biente. Si sente il bisogno che questi istituti siano sempre meglio
organizzati per procurare il reinserimento nella società dei ragazzi
reclusi. I quali dovrebbero esser veramente rieducati e non solo
controllati perché non disturbino, non aver solo un trattamento
di massa che li umilia e li irrita. Occorrerebbe un personale scelto
e preparato e non quello proveniente dai penitenziari e dalle car-
ceri per adulti. Il risanamento dei riformatori (come anche delle
prigioni) renderà meno difficile la conversione morale dei singoli
e faciliterà il compito del sacerdote assistente e del confessore.
7. La psicologia della giovane ha caratteri propri che la
distinguono da quella del giovane. Il confessore deve tenerlo
presente per poter dare con lucidità e decisione i suoi consigli.
Dev'esser preparato a trovare nelle ragazze particolare instabilità e
bruschi cambiamenti d'umore — dipendenti dalle condizioni di
salute, dalle « epoche » cicliche, dallo sviluppo naturale stesso
del sistema nervoso strutturalmente fragile. Perciò la giovane ha
bisogno d'appoggio, d'una parola sicura. E non dev'esser il con-
fessore che, per debolezza e condiscendenza, si lascia guidare ed in-
fluenzare dalle sue penitenti. Discrezione e garbatezza, ma anche
una certa fermezza. Bisogna abituarle a sapersi condurre con la
ragione e la volontà e a non dar importanza a quei disturbi
fisico-psichici che sono passeggeri. Non si ricorra però ai rim-
proveri che umiliano, ma alle persuasioni.
170
E nelTeducare i penitenti alla pietà il confessore- saprà che
il cuore d'un giovane non è quello d'una giovane. L'amicizia col
Cristo, la devozione alla Madonna si devono presentare e suggerire
a tutti. Ma nella donna — per il suo temperamento più sensibile,
delicato, gentile — certe devozioni sono apprezzate in modo del
tutto particolare e coltivate con maggior intensità. E ciò dev'esser
favorito (purché non si cada nella morbosità, nel naturalismo,
nella superstizione) perché il sentimento è una grande forza. Sa-
rebbe sbagliato voler imporre o consigliare ad una donna una
forma di religione, fondata sul ragionamento e le persuasioni,
che è piuttosto propria dell'uomo. Perciò nelle sue esortazioni il
confessore che conosce la psicologia, saprà quali sono le corde del
cuore che può toccare colla sicurezza di ottenere un effetto
positivo.
8. La Confessione e la direzione spirituale sono un bisogno
che l'adolescente ed il giovane « sinceri » sentono spontaneamente.
Purché non abbiano ancora subito l'influsso d'una mentalità oggi
diffusa. Il documento pastorale della C.E.I. (12.VII.74), dopo
aver affermato l'importanza e l'efficacia della Confessione per gli
« adolescenti », tratta poi in particolare dei « giovani » comin-
ciando con un « rilievo di situazione »: il quale « ha mostrato una
crisi della Confessione assai diffusa e preoccupante tra i giovani,
anche tra quelli che rimangono vicini alla vita e ai problemi della
Chiesa, e aderiscono ai suoi movimenti e alle sue associazioni.
Si rende perciò necessaria un'attenta pastorale giovanile, che ri-
desti nei giovani il senso cristiano del peccato e la gioiosa cer-
tezza del perdono di Dio » in. 104).
IL Nella « pastorale giovanile della penitenza » « dovrà essere
affermato il primato. di Dio e del rapporto personale con lui »
(C.E.I., o.c.y n. 105). Il primo e fondamentale problema che
s'agita nell'animo umano è quello della fede. Una regolata fre-
quenza al sacramento della Penitenza sarebbe un « aiuto impareg-
giabile di grazia per la formazione della coscienza, per il supera-
mento delle tentazioni e per la crescita della vita spirituale »
(ibid. n. 105).
1. Il problema della fede. Da una parte — come osserva il
Vaticano II — il giovane d'oggi trova nel popolo di Dio una fede
cristiana che, purificata in virtù d'una più acuta riflessione cri-
tica, da certi atteggiamenti piuttosto magici e da certe supersti-
zioni (ancora peraltro circolanti) permette e favorisce una ade-
171
sione di giorno in giorno sempre più personale e più attiva. E
di fatto non pochi giungono ad un più vivo senso di Dio.
D'altra parte l'adolescente vede un numero, maggiore che pel
passato, di persone che si staccano dalla religione; sente procla-
mare da filosofi, scienziati e letterati questo abbandono come
un'esigenza della scienza e dell'umanesimo. Di qui un turba-
mento ed un disorientamento nell'animo dei giovani (GS, 7).
Hanno bisogno di qualcuno nel quale trovare un punto d'appog-
gio, principi e orientamenti sicuri. Quest'appoggio non lo trovano
negli amici, non lo trovano nella scuola, spesso non lo trovano
nella famiglia. Hanno la sconcertante impressione che gli adulti
stessi brancolano nel buio: in una confusione d'idee, nel dubbio
sistematico sulle verità religiose e morali. Sentono quindi il bi-
sogno di passare, nella loro fede, da un livello di abitudini e
di passività ad un livello di personali persuasioni, mediante un
lavoro di reinvenzione, di controllo, di discussione.
Il consigliere spirituale, che vuol illuminare ed aiutare l'ado-
lescente, terrà conto del suo stato d'animo e si adatterà alla sua
psicologia individuale.
a) Molti oggi — pur non dicendosi antireligiosi od incre-
duli — si mostran piuttosto indifferenti ed apatici in materia
specificamente religiosa. Pel passato era più netta la distinzione:
da una parte i giovani che avversavano la religione come nemica
della libertà e della vita; dall'altra i giovani che aderivano in
pieno alla fede, oppure, sentendo vivamente i problemi teologici,
li discutevano e passavano magari attraverso crisi e dubbi. Oggi
molti non mostrano d'interessarsi pei dogmi che il cristiano deve
credere, giudicano ed interpretano con molta disinvoltura e flessi-
bilità le leggi morali, muovono critiche (ed in pratica disobbe-
discono) alla gerarchia ecclesiastica. Tuttavia sono pronti a pre-
starsi per le opere di bene. Il problema ecumenico, ad esempio,
da non pochi è visto non come ricerca dell'unità — di fede,
sacramenti, governo — in un'unica Chiesa, ma come collabora-
zione delle diverse Chiese per portare e realizzare nel mondo il
messaggio sociale del Cristianesimo. In costoro bisognerebbe su-
scitare interesse anche per una fede veramente personale ed in-
teriore.
b) In altri c'è un processo di maturazione della fede, sereno,
normale corrispondente all'età. Allora pel confessore il compito
è facilitato: egli può — con soddisfacente risultato — assistere,
sostenere il giovane, chiarirgli qualche punto oscuro, fornirgli in-
172
dicazioni, suggerirgli qualche lettura e tutti i mezzi utili alla cultura
ed al progresso spirituali.
e) In alcuni, invece, scoppia una vera crisi tormentosa. Un
conflitto: da una parte sono affezionati alla fede dell'infanzia,
dall'altra temono che ci siano obbiezioni insuperabili contro la
fede. Bisognerebbe scoprire la causa — vera o principale —
di questa crisi: causa che può esser di ordine intellettuale (dif-
ficoltà di conformarsi alle espressioni di fede adulta e pacifica
degli anziani) oppure d'ordine morale (come più spesso, anche
se in modo subconscio). Comunque, il confessore deve sapere
che il giovane (per la sua immaturità ed impressionabilità) è
incline ad agitarsi per qualche oscurità della fede. Qualcuno è
turbato senza tregua come da un'idea fissa che solo il sonno
interrompe. Vorrebbe vedere la soluzione di certi misteri della
fede: com'è possibile che l'Infinito sia presente e rinchiuso in
un piccolo disco di pane? Come può esistere una Provvidenza
quando tanti strazi, guerre, torture, s'abbattono su degli in-
nocenti? Perché la preghiera (contrariamente, sembrerebbe, a
quanto il Figlio di Dio ha promesso) >non sempre ottiene la
grazia ai buoni che la chiedono? Un confessore sarà tentato di
stizzirsi a sentir che qualcuno ripropone sempre le stesse que-
stioni; e forse risponderà sbrigativamente: « o si crede o non
si crede; se si avesse l'evidenza la fede sarebbe senza merito;
e questa fede non si acquista ragionando ma umiliando la propria
mente e pregando ». Il giovane invece vede i problemi della fede
secondo un'altra prospettiva: non secondo il merito della fiducia
nella Parola rivelatrice, ma secondo l'esigenza d'una dimostra-
zione razionale, cioè con mentalità scientifica, come in altri
campi del suo studio. Ed in certo senso ha ragione perché non
può credere chi non possiede una prova razionale sicura dei mo-
tivi di credibilità. Ma siccome il giovane non ha studiato ancora
una solida, larga inconfutabile dimostrazione, dei « praeambula
fidei » perciò non se la sente di ricorrere alla fede per spiegare,
ad esempio, il dolore; ma parte dal dolore (che non capisce e
vorrebbe capire) per metter in discussione la fede. In realtà
(senza saperlo) yivoca la fede perché è alla ricerca dell'unica spie-
gazione del dolore.
Il confessore non giudichi Ì giovani secondo il proprio metro;
non pretenda una formazione intellettuale che non possono avere;
e tanto meno prenda in derisione, con termini pungenti, i loro
stati psicologici. Lasci invece parlare chi desidera aprirsi se vuol
173
rendersi conto delle sue difficoltà e dare il consiglio opportuno
e specifico. Le chiarificazioni in materia di fede devono corri-
spondere alle esigenze del singolo giovane. Perciò il sacerdote deve
essere preparato a rispondere a qualunque obbiezione ragionevole,
a saper, con tutti, portare il discorso fino in fondo per una
soluzione diretta delle difficoltà. Nulla renderebbe tanto anti-
patico il confessore e la sua direzione spirituale quanto un'esor-
tazione untuosa che vale per tutti. Il giovane ha bisogno di sen-
tirsi compreso. Aspetta una parola di luce che sia proprio e solo
per lui. Ed alla fine e soprattutto, una parola di conforto: « ti
sembra che Dio non esista, che sia tanto lontano; sappi che
mai ti e stato cosi vicino come ora: se ne senti il bisogno Lo hai
già trovato. Nel mondo dello spirito il criterio della certezza non
è la sensibilità ma la ragione e la fede » (difatti oltre al giovane
che domanda una dimostrazione, c'è il giovane che vorrebbe
« sentire » Dio; ma l'Infinito non è, almeno ordinariamente, og-
getto della sensibilità e neppure d'una diretta esperienza spi-
rituale).
Insomma, quando un giovane vuole discutere su qualche pro-
blema della fede non va trattato come un imberbe saccente,
vanerello o ribelle. In genere, quando tratta col confessore lo
fa con serietà: è segno che realmente vuol - che la sua fede
diventi un fatto personale, una realtà vissuta. Ed in genere
— nelle nostre regioni — l'adolescente educato nella religione
cristiana, quando sente il bisogno d'una riflessione razionale per
convincersi dei motivi di credibilità, ha già fatto una personale
« esperienza » della fede. Bisogna persuaderlo che il metterla
seriamente in dubbio, anche se vede qualche difficoltà, sarebbe
irrazionale finché i motivi di credibilità non gli risultino con
certezza privi di solidità; irrazionale il sospendere l'assenso a
causa di qualche speciosa obbiezione che lo impressiona. Del
resto, se volesse esaminare tutte le prove da sé, non ne avrebbe
né il tempo né la voglia. Il confessore ricordi a chi dice e
pensa di dubitare in materia di fede che bisogna nettamente
distinguere difficoltà intellettuale (prodotta da una obbiezione
di cui non si vede al momento la soluzione) e dubbio di fede
vero e proprio. Ed anche distinguere (cosa facile in teoria, ma
non altrettanto in pratica) la tentazione di dubitare dal dubbio.
Le obbiezioni contro la fede quando non siano risolte, possono
dar l'impressione (od insinuare la tentazione) di dubitare. Ma altro
è dubbio, altro difficoltà, altro tentazione di dubitare.
174
d) Purtroppo c'è anche la categoria di coloro che veramente
dubitano e che non vogliono neppure uscire dal dubbio. Come
mai? Perché ciò è più comodo e non crea nessun vincolo per la
libertà? Sarebbe, questo, un motivo inferiore dettato dall'egoi-
smo. O perché hanno sentito filosofi e scienziati metter tutto in
discussione (anche le leggi fisiche) ed affermare che non c'è
nulla di assoluto e di certo? Allora il disorientamento sarebbe
d'ordine intellettuale: si supporrebbe in partenza che nessun
ragionamento abbia titoli ed argomenti per imporsi come valido
e per generare la certezza. Bisogna far capire che questo atteg-
giamento è contrario alla natura ed alla ragione dell'uomo la
quale è fatta per la luce, la verità, la certezza.
2. Fermo il primato di Dio e del nostro rapporto personale
con Lui, « la pastorale giovanile della penitenza dovrà sapiente-
mente porre in risalto quei valori ai quali le nuove generazioni
sono particolarmente sensibili: l'aspetto ecclesiale e comunitario,
l'autenticità e la concretezza, l'apertura ai problemi della giu-
stizia e della solidarietà » (C.E.I., Doc. Post., 12.VII.74, n. 105).
a) In fatto di sensibilità a questi problemi e valori si po-
trebbero distinguere due categorie di giovani. Ci sono coloro
che, nati in famiglie ricche, preferiscono godere del loro benes-
sere piuttosto che proporsi un'inquietante problematica sociale.
Contenti del loro stato, vogliono essere conservatori indisturbati.
Altri (e non solo fra i poveri) riflettendo sulla realtà (ricchezze
eccessive da una parte, indigenza e miseria dall'altra) desiderano
un mondo migliore, lo creano colla fantasia, domandano che le
riforme vengano attuate. Nasce in loro uno spirito di reazione, di
protesta, di contestazione. E per loro natura i giovani puntano
al massimo dei programmi, vorrebbero vedere realizzazioni imme-
diate. Non sanno moderarsi (come quando un affetto — più o
meno altruistico — li travolge). Sono estremisti, in tutto. (Se
noQ fossero cosi, non avremmo nessuno che sceglie la via del
sacerdozio o dello stato religioso). Perciò vanno compresi, stimati,
anche se dolcemente-frenati nei loro slanci. Altrimenti possono
passare anche alla violenza. Comunque, suppongo che le loro
aspirazioni siano generose. Non parlo di coloro che, ancora ado-
lescenti, praticano, organizzati, la rapina. Si giustificano appel-
landosi a qualche ideologia. Si potrà, forse, ammettere in certuni,
sulle p'rime, una reazione contro tante ingiustizie. Ma, di fatto,
fanno della rapina un mezzo per non lavorare e per soddisfare i
propri vizi. Questa è delinquenza minorile nella quale influisce,
175
oltre alla volontà del soggetto, un complesso di fattori: indole,
educazione, ereditarietà. Sono casi difficili che impegnano piut-
tosto gli assistenti dei riformatori. Per questi ragazzi ci sarebbe
bisogno d'una rieducazione integrale, delicata e specialissima; la
quale suppone adeguati mezzi ed ambienti, preparazione accurata
e specifica nelle persone addette.
Parlo ora dell'adolescente serio e riflessivo che, mosso da un
ideale, s'interessa del problema sociale. Non ha la maturità di
capire che la storia procede senza sbalzi violenti (solo Gesù
— il più grande rivoluzionario di tutti i tempi — ha potuto
segnare una svolta nella storia, ma era Dio). L'adolescente, se
è religioso, forse si turba quando legge che Marx ha prevenuto
la Chiesa ed ha promosso, nel campo specificamente sociale, ciò
che (per altra via e finalità) avrebbero dovuto fare i cristiani:
un uomo — e non in nome della carità cristiana — ha schiuso
le porte d'un avvenire di maggior giustizia ai poveri ed agli affa-
ticati. Mentre la Chiesa (che avrebbe dovuto realizzare il mes-
saggio sociale cristiano) ha piuttosto difeso la proprietà privata
e cosi si è schierata dalla parte dei capitalisti e non dalla parte
degli operai e dei servi. In questi ultimi tempi ha cambiato
rotta prendendo posizioni favorevoli ai poveri ed ai lavoratori.
Ma è arrivata in ritardo. È quanto sente dire l'adolescente. Ed
egli s'impressiona quando gli par di constatare che anche negli
uomini di Chiesa spesso si annunciano le beatitudini evangeliche
ma non si praticano; si esorta, si auspica, si sollecita, ma poi
— ogni volta, o quasi — gli uomini di religione non ritrovano
nelle opere quella presenza, quell'ispirazione e quei propositi
che predicano. È tentato di chiedersi se l'attuazione del mes-
saggio evangelico non vada, a mano a mano, smorzandosi, esau-
rendosi, e quindi se lo stesso messaggio sia credibile o meno.
b) Il sacerdote dev'esser preparato e pronto a dir la parola
illuminante (che suppone però una profonda conoscenza delle
questioni nelle loro radici ed in tutti i loro aspetti):
1) anzitutto — quando si discute su quanto la Chiesa ha
fatto, fa e farà per una maggiore giustizia sociale nel mondo —
bisogna fissare e tener ben fermo il principio: la missione spe-
cifica di Cristo e della sua Chiesa « non è d'ordine politico, eco-
nomico o sociale » ma « religioso » (GS, 42): portare la salvezza
e la vita soprannaturale alle anime. Perciò, ad esempio, la Chiesa
primitiva non parti col programma d'abolire la schiavitù. Il suo
annuncio era un invito alla conversione predicata sulla linea
176
dei principi: l'amore di Dio e del prossimo. L'abolizione della
schiavitù sarà la conseguenza della nuova spiritualità cristiana.
Nel Medioevo (e nei secoli seguenti) permasero stridenti disu-
guaglianze di carattere economico. La Chiesa non pensò che bi-
sognasse prima risolvere efficacemente il problema sociale se si
voleva che le anime accogliessero il Vangelo. Le situazioni d'in-
giusta indigenza — negli individui e nei popoli — andranno sem-
pre più eliminandosi. Ma non è questo l'obbiettivo diretto della
missione della Chiesa: ne sarà uno dei frutti. Del resto, Cristo
ha preannunciato che lo sviluppo dello stesso Regno di Dio —
nella sua essenzialità e nelle sue benefiche conseguenze sociali —
sarà progressivo e sarà simile al seme che lentamente diventa
pianta. Ma se si sposta sul piano puramente terreno il fine mis-
sionario della Chiesa è logico che i giovani siano presi dai dubbi
di fede quando affrontano i problemi sociali. Almeno nei paesi
cristianizzati — pensano — la Chiesa avrebbe dovuto realizzare
di più nel campo sociale: non solo compiere, qua e là, opere di
carità, ma indurre una più generale trasformazione del mondo
secondo giustizia. Se non ci è riuscita, concludono, si può chie-
dersi se sia davvero una società divina e non solo umana.
2) Sicuramente, se la vita spirituale dei credenti fosse fio-
rente, ne scaturirebbero anche « impegno, luce, forze » per lo
stesso benessere terreno dell'umanità (GS, 42). E se gli uomini di
Chiesa non hanno sempre lavorato con zelo per il fine sopranna-
turale, è comprensibile che anche i benefici temporali della loro
missione non siano stati quali potevano essere nei desideri della
Provvidenza e dell'umanità. C'è un elemento umano della Chiesa
con tutti i suoi limiti e volontarie manchevolezze.
3) Comunque, nessuno può negare che gli uomini di Chiesa
abbiano lavorato direttamente nel campo della carità, della cul-
tura, della civiltà, fondando istituti con un primato da tutti indi-
scutibilmente riconosciuto. Il giovane s'impressiona di fronte alle
incoerenze d'alcuni uomini di Chiesa, perché non è ancora in
grado di giungere ad una globale e serena visione che gli per-
metterebbe di registrare anche gli eroismi. Certo se gli uomini
corrispondessero più generosamente alla grazia, il disegno di Dio
s'attuerebbe più celermente. Eppure, nonostante le debolezze e
gli errori dei suoi figli, la Chiesa è sempre in crescita e diventa
sempre più pura, più bella, più giovane. Ma l'adolescente non
riesce a formarsi da solo, con sicurezza, questi giudizi.
4) Si accusa la Chiesa di non aver affermato più decisamente
177
e tempestivamente certi diritti della classe povera, ma di aver
piuttosto difeso la proprietà dei ricchi. Ora, anzitutto si dovrebbe
riconoscere che documenti quali la « Rerum Novarum » non na-
scono dalla sera alla mattina. E quanto la Chiesa insegna e fa
non si trova solo nelle Encicliche e nelle opere promosse dalla
gerarchia. Ci sono altri scritti ed altre opere di cristiani che
appartengono alla Chiesa, lavorano nella Chiesa e rappresentano
la Chiesa. (Ad esempio, l'opera La questione operaia ed il cri-
stianesimo del Ketteler usci nel 1864, quattro anni prima de
Il Capitale di Marx). La Chiesa ha difeso la proprietà privata,
è vero. Ma l'ha fatto anzitutto perché è un diritto (salva la desti-
nazione universale dei beni), diritto da rispettarsi sotto pena di
aprir le porte al disordine sociale, alla violenza, alla delinquenza; e
la Chiesa ha sostenuto la proprietà privata nell'intento che venga
sempre più estesa anche a coloro che possono giungervi solo
per mezzo del proprio lavoro, cioè agli operai. Lo scopo a cui
tende nel suo lavoro l'operaio — si legge nella Rerum Novarum
(n. 4) — è di possedere qualche cosa « come sua e propria ».
Se poi, dopo aver provveduto alle necessità della vita, riesce
colle sue economie a far dei risparmi ed investe il denaro in
un terreno (come ha diritto), questo non è altra cosa che il
salario « il quale ha assunto altra forma ». Questa libertà, questo
diritto, questa speranza di migliorare la propria condizione sarebbe
resa impossibile in un regime statale collettivista (quando parla
dei « socialisti » — Intr. n. 3 — l'Enciclica si riferisce a quelli
estremisti che pretendono doversi abolire la proprietà privata dei
beni e fare di tutti i patrimoni particolari un patrimonio comune
da amministrarsi per mano dello Stato).
Quanto poi a suggerire allo State quale può essere il suo
intervento nel limitare il diritto dei singoli secondo il principio
della' destinazione universale dei beni, è ovvio che la Chiesa
ha dovuto pronunciarsi con somma discrezione, sia per non esor-
bitare dal suo compito sia per non favorire azioni di forza con-
trarie all'ordine pubblico ed ai diritti naturali del singolo. Il
progresso della civiltà e della giustizia sociale è graduale (nei
disegni stessi di Dio) e non era compito della Chiesa proporre diret-
tamente formule e programmi determinati. Il giovane sente dire
dai critici della Chiesa che Leone XIII nella « Rerum Novarum »
sarebbe stato alquanto miope affermando con intransigenza il
diritto di proprietà privata come diritto naturale inviolabile, quasi
ignorasse la distinzione fra beni produttivi e beni di consumo.
178
Evidentemente (si dice) egli alludeva ad una società agricola
e non si prospettava i problemi dell'incipiente società indu-
striale nella quale beni ingenti si sarebbero accumulati nelle
mani d'una classe dirigente preoccupata d'accrescere il capitale
anziché di migliorare le condizioni dei poveri operai. Pertanto
la Chiesa praticamente avrebbe sostenuto coloro che sfruttavano
i lavoratori. Ma anche questo non è esatto. La « Rerum Novarum »
parlava di « operai » i quali « sive in agris artem atque manum,
sive in officinis exerceant » (n. 18); trattava di « salari », di
« scioperi », di « associazioni operaie ». Quindi non solo di rurali.
E richiamava — com'è suo specifico compito — i principi morali
interessanti la vita sociale. Da una parte, il Pontefice affermava
energicamente, contro il collettivismo, il diritto di proprietà pri-
vata. Il quale non può essere ristretto ai beni di consumo ed
esser negato in linea assoluta per i beni di produzione. D'altra
parte e nel tempo stesso però l'Enciclica rivolgeva un invito ai
privati ed allo Stato perché facessero tutto il possibile per mi-
gliorare le condizioni degli operai (n. 18). Cosa si pretende di
più dalla Chiesa? Che in modo definitorio dichiarasse che l'unica
soluzione del problema sociale e l'unico rimedio contro le eccessive
disuguaglianze era la generale socializzazione dei mezzi di produ-
zione, sui quali soltanto allo Stato spetterebbe il dominio? E
si pretende forse (anche da parte di certi cattolici) che la Chiesa
affermasse — prima d'ogni altro, in modo assoluto e profetico
— che bisogna e conviene indurre la partecipazione di tutti gli
operai agli utili dell'impresa? Ma questioni come questa — a
parte i principi del diritto naturale — in concreto vanno risolte
secondo modi e gradi che dipendono dalle varie situazioni e
circostanze (come osserva la Mater et Magistra, n. 78). E la Chiesa
— in quanto Collegio Apostolico docente — non ha il compito
specifico di fare le indagini sociologiche sulle condizioni eco-
nomiche della società, secondo i luoghi ed i tempi. Se, alle volte
— nell'esposizione dei principi dottrinali — vi fa qualche rife-
rimento è perché il discorso non rimanga astratto e privo di ade-
renza ed efficacia pratica. Perciò — a proposito, ad esempio
della partecipazione degli operai agli utili dell'azienda — la
Chiesa, al massimo, potrà suggerire (come si leggeva già nella
Quadragesimo Anno, n. 30; 34) che si veda (secondo le possi-
bilità, s'intende) di temperare il contratto di salario con quello di
società di modo che gli operai siano cointeressati o nella pro-
prietà o nella cura (« curatio ») dell'impresa e diventino partecipi
179
in qualche misura dei guadagni realizzati. La Ma ter et Magistra
di Giovanni XXIII (15.V.1961) richiamava quanto affermato nella
« Quadragesimo Anno » (promulgata trent'anni prima) esortando
che dove le imprese realizzano ingenti sviluppi produttivi me-
diante l'autofinanziamento, sia riconosciuto ai lavoratori qualche
titolo di credito nei confronti delle imprese in cui operano, spe-
cialmente quando venga loro corrisposta una retribuzione non
superiore al minimo salario (n. 81); ricordava (n. 82) il prin-
cipio esposto nella stessa Quadragesimo Anno: « è del tutto
falso ascrivere od al solo capitale od al solo lavoro ciò che si
ottiene con l'opera unita dell'uno e dell'altro» (AAS, 23, 1931,
195); auspicava altresì che i lavoratori, nei modi più convenienti,
possano giungere a partecipare alla proprietà delle imprese stesse,
in modo che oggi — come e più che ai tempi della Quadrage-
simo Anno — i capitali guadagnati non si accumulino se non
con equa proporzione presso coloro che dispongono di mezzi eco-
nomici, e si distribuiscano con sufficiente larghezza presso i
prestatori d'opera (cfr. AAS, l.c, p. 198). Tuttavia l'enciclica
Mater et Magistra aggiunge che questo adeguamento fra la
rimunerazione del lavoro ed il reddito va attuato in armonia alle
esigenze del bene comune, sia della propria comunità politica
sia dell'intera famiglia umana. Bisognerebbe, ad esempio, sul
piano nazionale, dare occupazione al maggior numero possibile di
lavoratori, evitare che si costituiscano categorie privilegiate, anche
fra i lavoratori, eliminare o contenere entro certi limiti gli squi-
libri esistenti fra i settori dell'agricoltura e dell'industria (nn.
84-85).
Circa la nazionalizzazione di certi mezzi di produzione la Re-
rum Novarum fissava anzitutto il principio che individuo e fami-
glia non devono esser assorbiti dallo Stato, che bisogna lasciare
« facoltà d'agire con libertà, quanta se ne può, cioè salvo il bene
comune e gli altrui diritti ». Ma se non c'è altra via per riparare,
od impedire, un danno arrecato, o sovrastante, alla società, od
a qualche sua parte, allora « l'intervento dello Stato è necessario »
(n. 19). Un principio generalissimo, ma che conteneva virtual-
mente quanto la Quadragesimo Anno dichiarerà: « si può so-
stenere a ragione che certi generi di beni siano riservati allo Stato
quando portano con sé tale potere economico che non si può
lasciare in mano di privati senza pericolo pel bene comune » (n.
46). La Mater et Magistra richiama e riafferma lo stesso principio
considerando la tendenza dell'epoca moderna d'estendere sempre
180
più la proprietà dello Stato e degli enti pubblici. Lo può esigere
il bene comune, però secondo il principio di sussidiarietà: « al-
lora solo è lecito allo Stato ed agli enti pubblici ampliare i con-
fini del proprio dominio, quando lo esige evidente e vera necessità
del bene comune; e deve esser escluso il pericolo che le proprietà
dei privati siano oltremodo ridotte o — il che sarebbe ancor
peggio — siano completamente eliminate » (n. 124).
5) Nessuno può negare che la Chiesa abbia sempre pre-
dicato carità e giustizia ed anche realizzato, qua e là, innumeri
opere di misericordia e di civiltà. Quel che le si rimprovera è che
la sua dottrina sia rimasta sulla carta e non abbia portato —
nel corso di tanti secoli — un più sensibile cambiamento d'in-
giuste strutture sociali. Si può rispondere che se la Chiesa avesse
fatto di più, la si sarebbe accusata d'aver abusato del suo mi-
nistero occupandosi anche d'economia e di politica: il liberalismo
contestava ogni attività della Chiesa che non fosse strettamente
religiosa.
6) C'è un'altra accusa (che non lascia insensibili gli.'animi,
specialmente giovanili) mossa alla Chiesa: di esser ricca (oltre
ad aver difeso le classi privilegiate)4. E come può esser credibile
(si conclude) questa società che ha accumulato e continua ad
accumulare ricchezze, mentre dovrebbe avere una missione spi-
rituale? A questo rimprovero bisogna rispondere decisamente che
se la Chiesa ha amministrato (e continuerà ad amministrare)
molti beni economici di sua proprietà, ciò non è contràrio alla
povertà evangelica. Perché anche per le opere d'ordine spirituale e
soprannaturale sono utili e necessari i mezzi materiali 5 . Quel che
importa è il modo come si usano, la finalità, lo spirito'con cui
ci si serve di quanto è terreno. Certo la Chiesa è composta da
uomini che non sono senza difetti. Anche nei componenti la
gerarchia cattolica può esser mancato (in grado vario, a seconda
dei luoghi e dei tempi) quello spirito di distacco e di povertà
4
Si noti la confusione che questi critici fanno fra i beni economici della
S. Sede con quelli di tutte le comunità, enti, famiglie, istituti religiosi ed
ecclesiastici: questi hanno una proprietà indipendente dei loro beni
(anche se ovviamente la suprema autorità ecclesiastica esercita un certo con-
trollo perché sia assicurato l'ordinato funzionamento ed il fine sociale e spi-
rituale al quale le varie opere rette da ecclesiastici e religiosi sono destinate).
5
E se la Chiesa ,deve aiutare le opere apostoliche di tutto il mondo
cattolico, non dovrebbe recare né meraviglia né scandalo se i mezzi materiali
di cui dispone la S. Sede fossero notevoli relativamente alla superficie
territoriale del simbolico Stato della Città del Vaticano.
181
che dovrebbero distinguere i veri cristiani, ed anzitutto quelli
che hanno abbracciato una vita di perfezione. Specialmente pel
passato ci fu troppa differenza economica fra una classe e l'altra
della società: a questa situazione si sono conformati nella loro
vita — non sempre evangelica — anche molti uomini che nella
gerarchia ecclesiastica avevano posti di responsabilità. E questi
non si possono lodare.
7) Resta il fatto mortificante — si obbietta — che un non
cristiano, Carlo Marx, ha prevenuto i cristiani facendo una dia-
gnosi sociale per certi lati tuttora valida. Ebbene, possiamo rispon-
dere semplicemente che qualsiasi uomo (anche non credente)
può esser — nei disegni della Provvidenza •— occasione solle-
citante la Chiesa ed i Cristiani a riformare i costumi morali, a
migliorare le condizioni di vita. È stato scritto che come l'Assiria
fu la « verga » con cui Dio cercava di convertire il popolo
d'Israele che Lo abbandonava, cosi il comunismo ha una fun-
zione punitiva nel mondo moderno. È il concime della nostra
civiltà, il fertilizzante — magari maleodorante — alle narici
degli uomini dabbene; la scopa in mano dei sovietici ai quali
Dio permette di spazzar via le imperfezioni del pensiero orientale;
la spada punitrice della civiltà occidentale che ha troppo dimen-
ticato la funzione dello spirito nella cultura umana (Fulton J.
Sheen, La crisi del mondo e la Chiesa, 1956, pp. 6-7; 22).
Questi ed altri spunti potranno esser sviluppati e servire
per qualche risposta che illumini sui problemi sociali le menti
immature dei giovani.
3. Il problema del rapporto fra autorità e libertà. Sorge
prestissimo ed acutissimo nei giovani d'oggi — anche nei migliori.
Precoci, più impazienti che pel passato, sono coscienti d'avere
anch'essi un ruolo importante nella società: « non semel impa-
tientes, immo angore rebelles fiunt, et conscii de proprio mo-
mento in vita sociali, citius in eadem partes habere cupiunt »
(GS, 7). Bisogna far sì che siano evitate certe contestazioni e
contrasti violenti, anzitutto nei rapporti coi genitori. Le « fughe »,
ad esempio, sono segno d'un problema non risolto. La colpa
della mancata soluzione può trovarsi tanto nell'una come nell'altra
parte.
a) Prima condizione ed accorgimento per ottenere che i gio-
vani seguano il prudente consiglio dei più anziani: bisogna saperli
prendere, iniziare il dialogo dimostrando loro fiducia. Non trat-
182
tarli come ragazzini. Il confessore, abbia questa^ sensibilità. Ed
ai genitori, all'occasione, raccomanderà che procurino anzitutto
d'ottenere il bene senza bisogno di ricorrere all'esercizio dell'auto-
rità. L'ideale: comandare meno che è possibile. Agli adolescenti
è anche opportuno spiegare le ragionevoli motivazioni d'un con-
siglio. Non sono più bambini. Vogliono esser persuasi, sentirsi
valutati ed amati da parte degli educatori. Allora potrà stabilirsi
un clima di collaborazione per una educazione che non si riduca alla
disciplina della caserma. Però se un giovane, nonostante tutte le
cure intelligenti ed amorose dei genitori, si comporta indegna-
mente ed irresponsabilmente, non si dovrà escludere ogni ricorso
ai mezzi piuttosto energici. Infine, in certi casi nei quali ogni
metodo e tentativo si è dimostrato inefficace, l'esperienza inse-
gna che bisogna ricorrere anche ad un consulto e ad una cura
medica.
b) Al giovane bisognerebbe far capire che quanto gli chiedono
i suoi consiglieri, mossi da ragionevoli motivazioni, sarà il meglio
per lui. Perciò quando si sentirà sollecitato da qualche impulso,
o ragione — personale o di terze persone, amici, ad esempio —
a dissentire ed agire contro il suggerimento dei genitori, dovrebbe
avere la decisa abituale autocoscienza che, nel dubbio, normal-
mente non sbaglia nel fidarsi di chi è retto, spassionato, ha più
esperienza di lui, lo ama ed ha la missione di aiutarlo e guidarlo.
Dico: normalmente, perché non è escluso che, in qualche caso,
un consiglio pressante dei genitori — per esempio sulla scelta
dello stato, della professione —• appaia, per ben fondate ragioni,
contrario alla volontà di Dio. Allora il giovane potrà consultarsi
col suo esperto confessore e direttore spirituale che gli sugge-
rirà come comportarsi prudentemente e quale decisione prendere
responsabilmente, con sicurezza e tranquillità di spirito.
4. Il problema della purezza.
a) È purtroppo attuale quanto scriveva il Mercier parecchi
decenni fa: «Due vizi ignobili decimano la nostra gioventù
con maggior ferocia d'una guerra mondiale, Palcoolismo e la
prostituzione » {La vie intérieure, p. 249). Per i giovani delle
nostre città e delle nostre scuole — è stato scritto — « l'aprirsi
del periodo della pubertà non corrisponde — come poteva essere
nell'età del risorgimento o del romanticismo — a uno spalan-
carsi di nuovi orizzonti, di nuovi ideali, di possibili nuove felicità.
Il giovane, molte volte, prima ancora che al problema della
183
"cotta", si trova di fronte a quello del meretricio. Ne sente
parlare, lo conosce, talvolta lo esperimenta, prima ancora di ca-
pirlo, prima ancora di avere la possibilità di comprendere quanto
sia turpe e triste l'esperienza amorosa senza l'amore » (AA.W.,
Responsabilità della cattedra, Roma, 1944, p. 84).
In questi ultimi anni s'è aggiunto e diffuso l'uso della droga.
Da inchieste abbiamo dati allarmanti. A Roma, ad esempio, non
c'è, praticamente, scuola nella quale la droga non sia entrata o
non sia in grado di entrare. Risposte date da cinquemila alunni
fra i 16 e i 18 anni, ci fanno sapere che una percentuale fra
il 30 ed il 35 per cento degli studenti ha provato, almeno una
volta, la droga. A Milano la droga è venduta nelle vicinanze, di
quasi tutte le scuole e stazioni ferroviarie dei piccoli centri. Al
Centro antidroga dello stesso capoluogo lombardo, l'età media
degli assistiti è intorno ai 18-20 anni. Ma spesso i genitori vi
conducono ragazzi di 13-14 anni che presentano sintomi gravi
d'intossicazione. Diagnosi delle cause e valutazioni delle respon-
sabilità non sono facili, nei singoli casi. La pubertà esplode im-
provvisamente e trova molti ragazzi spiritualmente e moralmente
impreparati (oltre che, per natura, strutturalmente fragili). S'ag-
giunge un ambiente familiare e sociale che fornisce continui in-
centivi alla passione sessuale. I giovani pertanto meritano anche
comprensione.
b) Bisogna affrontare il problema con intelligenza, amore e
fede. Ho sentito dire che un educatore — il quale conosceva
bene l'animo degli adolescenti e le vie di Dio — non temeva
affermare: « datemi un giovane puro e ve ne farò un santo ».
Ed un autore di Teologia Pastorale scriveva: « Ogni età ha i...
suoi particolari peccati, onde si riferisce un detto di s. Filippo
Neri, che, tolta da' giovani la lascivia, da' vecchi l'avarizia, tutti
si salvano» (Giordanini, Istruz. per i novelli conjess., I, 1841,
p. 85). Indubbiamente chi possiede una delle virtù cardinali (auten-
tica s'intende, anche se non in grado straordinario) possiede
virtualmente tutte le altre virtù morali cardinali (in grado più o
meno elevato). Chi ha dunque la castità — e la possiede come
un valore amato, acquisito, conquistato e difeso — questi sarà
anche laborioso: nei doveri del suo stato non conoscerà ozio e
dissipazione. Sarà generoso: coltiverà l'amicizia e l'amore verso
gli altri, specialmente verso i più deboli ed i più poveri. Irradierà
la sua fede e la sua virtù con più efficacia di tante prediche.
Non si dovrà imporgli altro che il dovere dell'esempio: alTocca-
184
sione saprà — spontaneamente — impegnarsi anche nel dialogo,
professare la sua fede e cosi comunicarla agli altri. Per la sua
purezza — praticata intelligentemente e serenamente con un con-
tegno rettilineo ma disinvolto — godrà un prestigio ed eser-
citerà un'influenza fortissima e profonda, anche se non appari-
scente e forse non avvertita.
e) Ma la purezza esige un'aspra lotta continua e tante rinunce.
Il problema si risolverà nell'uso dei mezzi che siano pedagogica-
mente, psicologicamente, naturalmente e soprannaturalmente ef-
ficaci per conservarla (o riconquistarla).
1) Anzitutto nessuno s'impegnerà con decisione e sacrificio
in questa battaglia se non ha un ideale che lo affascina. L'entu-
siasmo, a sua volta, dev'esser fondato su solide persuasioni.
Invece, nelle menti giovanili spessissimo non ci sono che idee
torbide e confuse sull'alta finalità dell'istinto sessuale. C'è una
frattura tra valore religioso e valori umani della sessualità e del-
l'amore: effetto deleterio della secolarizzazione. Perciò si passa
con leggerezza da una amicizia all'altra come per gioco, solo per
godere passeggere soddisfazioni. Al confessore — in quanto tale —
è proibito (S. Off., De agende ratione confess. circa VI, n. II,
16.V.1943) di dare ai giovani una specifica istruzione sessuale.
Ma, all'occasione, se necessario, potrà (pare) indicare con deli-
catezza ed elevatezza d'espressioni, i fini provvidenziali che Dio
ha avuto dando all'uomo l'inclinazione verso la donna. Non si
presenterà quindi la purezza come una legge che viene solo dal-
l'esterno — per autorità della Chiesa — ma come una necessità
della natura per la sua felice realizzazione. I giovani si ribellano
ad ogni imposizione che abbia la sua giustificazione solo nell'au-
torità da cui procede. Talora sentiamo che si pongono e ci
pongono la domanda: perché Dio ci ha dato la libertà e nel tempo
stesso la vincola con una legge morale? Possono vedere, in
questo, una contraddizione appunto perché considerano la legge
morale come una negazione della libertà. Bisogna far loro capire
che questa legge non viene solo dall'esterno: è un'esigenza della
natura razionale. Se vogliamo raggiungere il nostro fine dobbiamo
seguirla. Il bimbo può credere che i genitori sacrifichino il suo
bisogno di moto quando gli proibiscono di correre all'impazzata,
in luoghi pericolosi, colla sua bicicletta. Solo quando sarà ca-
duto e dolorante, forse capirà. Ma l'adolescente non è un bimbo.
Può e deve comprendere che la legge morale è dentro di noi:
è la nostra stessa natura considerata secondo le sue più profonde
185
aspirazioni e secondo tutte le sue relazioni. Il giovane pretende
difendere la sua libertà da imposizioni — dogmi, leggi morali,
strutture —: in realtà, proprio oggi, ognuno rischia di perdere
la sua autentica libertà e di subire le pressioni esteriori — spe-
cialmente degli strumenti di comunicazione sociale — anziché
seguire gli impulsi interiori alla verità ed al bene 6 .
2) Infondere convinzioni esatte; suscitare la passione per un
ideale. E perché i buoni propositi si traducano nei fatti, il gio-
vane ha bisogno d'esser sollecitato — dolcemente ma insisten-
temente — a formarsi un carattere, ad irrobustire la propria
volontà. E la volontà si fortifica con l'allenamento. Le grandi
energiche decisioni, gli atti eroici suppongono l'abitudine ai pic-
coli sforzi ed alle rinunce d'ogni giorno: vincere l'indolenza e la
pigrizia, evitare ogni eccesso nell'accontentamento del corpo, dei
capricci e delle vanità.
E cosi la castità del giovane, se da una parte può dirsi garan-
zia d'ogni altra virtù, dall'altra dev'esser vista e presentata sempre
come la risultante d'un complesso di sforzi generosi e costanti
compiuti in tutti i campi della vita morale, ascetica, religiosa.
Si comprende allora e si deve ammettere che chi la possiede è
sulla via della santità.
3) Ma le sole forze umane, per quanto buona sia la volontà,
non sono sufficienti alla formazione di questa virtù. La natura
umana è debole. Il confessore quindi incessantemente infonderà
e ravviverà nei giovani penitenti l'idea che è necessaria la grazia:
bisogna possedere un ideale vivo, un carattere forte e l'anima
unita a Dio per resistere alle passioni se si scatenano veementi
ed improvvise (cfr. S.C. per la Dottrina della Fede, Dich. Pers.
Humana, 29.XII.75, n. 12). Strumentalizzeremo cosi la religione
come un mezzo per risolvere il problema della prudenza? Ma, è
un fatto, i giovani stessi quando hanno capito le alte finalità del
sesso e sentono il bisogno di conservarsi puri, sono istintivamente
indotti — senza far esplicita questione sulla gerarchia dei fini —
ad un consapevole e non solo abitudinario esercizio della preghiera
e della pratica sacramentaria. Vita eucaristica. Devozione alla Ma-
donna che — Madre purissima, Vergine delle vergini — è sem-
6
Per l'influsso continuo della TV, del cinema, d'un determinato gior-
nale quotidiano, si può modificare la mentalità dell'ascoltatore e del let-
tore. E questo avviene gradatamente, senza ch'egli se n'accorga.
186
pre stata invocata in particolare da chi desidera la grazia della
castità. Devozione all'Angelo Custode (oggi trascurata, mentre
tutta la Scrittura e la Tradizione la raccomandano). Frequenza alla
Confessione. Una direzione spirituale, sia pur breve ma perio-
dica e costante: l'incontro stesso, una sola parola con un sem-
plice « arrivederci » serve come una carica per conservare la buona
volontà, esser pronti nel resistere alle tentazioni e, nel caso di
cadute, non scoraggiarsi e non arrendersi mai. Ricorrendo a questi
mezzi i giovani migliori mettono cosi in pratica questo principio:
senza il sentimento religioso e la pratica religiosa non si risolve
positivamente ed abitualmente il problema morale. Qualche mam-
ma chiede: «quali argomenti devo portare al mio figliolo per-
ché sia forte nei pericoli e nelle tentazioni? Gli dico che se comin-
cia a cedere alla passione dei sensi può, un po' alla volta, diven-
tare un vizioso, ed allora risentirne nella salute, contrarre qualche
malattia, ed inoltre rovinare qualche compagna irrimediabilmen-
te... ». Tutto bene. Ma sono motivi in pratica inefficaci. Se non
c'è una fede sentita e vissuta, il giovane, quando esplode la sen-
sualità, non avrà freni che lo arrestino: sarà travolto dall'im-
moralità, sedotto dai cattivi esempi dei compagni. Vizio, malavita,
teppismo possono essere le estreme conseguenze.
4) L'impurità volgare — farà capire il confessore all'adolescen-
te — è sempre una forma di egoismo. Egoismo che molti adole-
scenti vorrebbero coprire, ad esempio cercando di scusare come
una necessità fisiologica la pratica della masturbazione. D'altra
parte se ne confessano. Dunque hanno coscienza che è qualcosa
che sconviene, che non si dovrebbe fare. Forse senza colpa hanno
contratto l'abitudine e, non riuscendo a vincersi, cercano una giu-
stificazione. Per vincersi sarà ottima medicina l'aprirsi, l'interes-
sarsi ed il prestarsi per gli altri con generosità e dedizione; parte-
cipare ai dolori altrui recando qualche servizio, aiuto, conforto;
non approfittare di chi è più debole per dominarlo, ma rispettarlo,
aiutarlo, proteggerlo. Anche l'affetto per una compagna — ap-
punto perché non è solo la ricerca d'una soddisfazione egoistica —
può esser, per un giovane, un mezzo per superare le tentazioni im-
pure o risollevarsi dal fango. Però quest'affetto — anche se non
privo di simpatia sensibile — deve conservarsi sempre in una sfera
di spiritualità: perciò domanda forza di volontà, autocontrollo.
d) Anche in materia di sessualità l'indole della giovane è di-
versa da quella del giovane. Nell'uomo l'istinto sessuale si ma-
nifesta, in genere, fortemente, sia pur con diversità di tempo e di
187
grado. Tuttavia egli può ben distinguere, nella sua vita, la sim-
patia e l'affetto elevato (anche se non immune da sensibilità)
dalla passione puramente sessuale verso altre persone alle quali
nessun affetto spirituale lo muove e lo lega. In genere la donna
è molto meno incline dell'uomo ai rapporti sessuali. In lei pre-
domina il cuore. Però ognuna ha il suo temperamento. Alcune, al
pensiero dei rapporti sessuali, provano un senso di disagio (prima
del matrimonio e nel matrimonio stesso) che può arrivare fino
all'avversione ed al ribrezzo: si senton chiamate al matrimonio
e lo desiderano, però lo vedono solo sul piano dell'affetto spiri-
tuale ed ai fini della maternità. Queste dovranno esser illumi-
nate (o richiamate a riflettere) sul fine stabilito dal Creatore: sul
merito, anche soprannaturale, che avranno nel compiere tutto ciò
che rientra nella volontà di Dio. L'ideale d'una vita più spiri-
tuale sarà astrattamente più alto ma in concreto non conforme
all'ordine provvidenziale per coloro che abbracciano lo stato ma-
trimoniale. E la santità che Dio vuole da ognuno consiste nel
compiere i doveri del proprio stato.
Qualche ragazza, invece, che ha sortito una sessualità prepo-
tente e precoce dovrà esser aiutata a frenarla, a cercare e coltivare
un affetto più serio, spirituale e profondo.
Il confessore adatterà i consigli alle penitenti a seconda delle
loro particolari inclinazioni prevalenti. Se la fisiologia e la psico-
logia del ragazzo è diversa da quella della ragazza, anche per
questa esistono pericoli, crisi, disordini. Saranno d'altro genere,
ma non sono meno gravi pel fatto che riguardano meno aperta-
mente e meno direttamente la parte fisica. Anzi. Se la giovane
ha, in genere, una natura meno sensuale del giovane, è più facile
a lasciarsi travolgere dal sentimento. Per il giovane un amore è
uno degli elementi della sua vita; per la giovane spesso diventa
l'ideale che s'impadronisce interamente della sua anima, in ordine
al quale organizza tutta la sua vita. La ragazza prova poi l'innato
e vivo bisogno d'esser ricercata, assistita, vezzeggiata, amata. Per-
ciò può asser tentata ed indotta ad usare ogni mezzo per attirare
a sé altre persone, specialmente giovani, senza rendersi conto de-
gli effetti e delle conseguenze di questi suoi atteggiamenti Ci tiene
ad esser preferita. Dal confessore stesso. E facilmente fa capire
ad altri questa sua compiacenza. Siccome oltre lo spirito ci sono
anche i sensi, se un confessore ingenuo perdesse il pieno auto-
controllo, potrebbero nascere pericoli e guai anche per lui. Per-
ciò anche la giovane è impegnata in una lotta per la purezza. Ha
188
da tener a freno la sua vanità: il desiderio di piacere è naturale
e non è un male, ma non deve portare agli eccessi. Bisogna mo-
derare certe libertà, negli atteggiamenti, nei gesti, nell'abbiglia-
mento, nelle parole. Una ragazza composta ma disinvolta, franca,
padrona di sé contro tutte le insidie e le turpitudini (che non
ignora) saprà reagire senza paura colla sua parola, ed anche col
solo sguardo e contegno, ad ogni insinuazione o provocante allu-
sione che possa venire da un compagno o da una compagna. Per
l'attuale precocità degli adolescenti, nei rapporti fra i due sessi,
c'è maggior libertà e minor timidità che pel passato. Il fenomeno,
se fosse contenuto entro i limiti e nell'ordine della disinvoltura,
della franchezza, della semplicità, non sarebbe da considerarsi
negativo. Ma i pericoli sono ovvi quando manca la formazione spi-
rituale che assicura a questi rapporti un'atmosfera d'elevatezza,
di rispetto, di gentilezza, di riserbo.
5. La scelta dello stato.
I giovani riflessivi e religiosi — tanto maschi che femmine —
quando sentono il bisogno d'un consiglio in materia, spesso non
ricorrono né ai genitori, né a parenti, conoscenti, amici (per quan-
to prudenti): l'unica persona alla quale s'aprono con confidenza
e fiducia è il confessore.
a) Bisogna presentare chiaramente ai giovani i due stati — ma-
trimonio e verginità (o celibato) — come due vocazioni e due
carismi che testimoniano, in diversità di espressioni, l'unico amore
per Cristo: due vocazioni le quali, entrambe, offrono i mezzi per
la santificazione personale e concorrono all'edificazione della Chie-
sa. Ma non si può tacere la superiorità della verginità o celibato,
abbracciati « per amore del Regno dei Cieli » (Mt. 19, 12): « si
quis dixerit statum coniugalem antepònendum esse statui virgi-
nitatis vel caelibatus, et non esse melius ac beatius manere in
virginitate aut caelibatu, quam iungi matrimonio: an. s. » (C.
Trid., Sess. XXIV, De matrim. e. 10, D.S. 1810). Oggi però que-
sta superiorità è quanto mai messa in discussione sul piano ideo-
logico ed è messa in pericolo sul piano pratico. Per difenderla in
teoria e coi fatti coerentemente, occorre un amore ardente e gioioso
pel Cristo ed il desiderio d'una intima unione con Lui.
b) Ferma la superiorità in sé — astrattamente ed idealmen-
te — dello stato di verginità sullo stato matrimoniale resta da
considerare il problema in relazione al singolo soggetto. La scelta
in sé più perfetta non è sempre la migliore in concreto II con-
189
fessore, invitato a dare un consiglio, prima di proferire una ri-
sposta sicura si prenderà il tempo necessario per esaminare tutte
le circostanze e per attendere se mai venga alla luce qualche fatto
ed elemento che potrebbe esser determinante. D'altra parte, sa-
rebbe il più grave degli sbagli il tenere un'anima continuamente
sospesa, rimandando all'infinito una decisione. Non prenderla tem-
pestivamente può significare il rimanere per sempre, nel mondo,
come una persona spostata. Per solito la chiamata avviene fra
i sedici ed i vent'anni.
e) Il consigliere spirituale aiuta il giovane o la giovane a sco-
prire la volontà di Dio nella scelta dello stato. Bisognerà atten-
dere a tutte le circostanze — attitudini fisiche, morali, spirituali,
inclinazione, impedimenti — per riconoscere se un determinato
genere di vita è adatto ad un soggetto e se ci sono garanzie di
sicurezza e di perseveranza. In questo esame sui segni di voca-
zione c'è ima collaborazione fra la persona interessata ed il suo
direttore spirituale. Collaborazione fondata soprattutto sulla pre-
ghiera. In una Nota sulla perfezione del clero secolare del
13.VII.1952, Pio XII suggeriva che ad un giovane o ad una giovane
bisogna dire press'a poco cosi: « Nella preghiera, nella medita-
zione, nel consiglio, e, in base ai tuoi talenti naturali e alle tue
serie intenzioni, chiediamo al Signore la luce necessaria per ve-
dere se tu devi raggiungere la perfezione stando nella vita ordi-
naria di un padre o madre di famiglia oppure entrando in un
Istituto Secolare, in un Ordine religioso o in una Congregazione.
Se devi farti sacerdote in un seminario diocesano o in un Isti-
tuto religioso ».
La decisione ultima, liberissima e personalissima spetterà e
sarà lasciata sempre al soggetto. Anche quand'egli volesse affidare
la scelta al suo consigliere (« faccio quanto decide Lei che mi
conosce »), il consigliere propriamente potrà assicurarlo soltanto
che una data decisione è — tutto considerato — prudente e gli
sembra esser secondo la volontà di Dio, cioè la migliore. Se il
consigliere imponesse questa scelta o la facesse al posto dell'in-
teressato, gli inconvenienti che in seguito possono sorgere sono
ovvi: di fronte a difficoltà (immancabili in ogni stato ma supe-
rabili colla fiducia e la grazia di Dio) nascerebbe forse l'idea con-
troproducente ed opprimente d'aver fatto una scelta non libera,
ma imposta (cfr. J. De Guibert, Th. Spirti., Romae, 1939, n. 192).
d) La grande maggioranza dei giovani e delle giovani è chia-
mata al matrimonio, e, di fatto, lo segue senza incertezze e senza
190
far questioni sulla scelta. La via migliore e più sicura, in ordine
alla perfezione resta sempre lo stato religioso con la pratica dei
consigli evangelici. Perciò se un'anima ha questa vocazione, biso-
gna favorirla: provarla e assodarla prudentemente, ma, quando
ci siano le debite garanzie, si deve sostenerla ed incoraggiarla e
non lasciarsi condurre da preconcetti erronei o da motivi umani.
Un parroco può esser tentato di trattenere una giovane che svolge
un'attività benefica in parrocchia e di proporle una consacrazione
a Dio mediante i voti privati, restando e lavorando dov'è: biso-
gna fiorire dove si è stati piantati, si sente dire come argomento.
Ma è una responsabilità ostacolare una vocazione ad una vita che
offre maggiori titoli di stabilità e di perfezione. Quindi il*clero
non può pensare soltanto alle vocazioni sacerdotali diocesane, di-
menticando tutto il resto, ostacolando per principio ogni vocazione
religiosa o missionaria. Ed i religiosi, da parte loro, non possono
cercare e favorire solo le vocazioni al proprio istituto o congrega-
zione. E l'Azione Cattolica non può eludere il problema delle
vocazioni — ecclesiastiche o religiose — se non vuole essa stessa
scomparire. Qualche anno fa il cardinale Pellegrino in una Let-
tera ai religiosi ed alle religiose della sua diocesi di Torino, dopo
aver constatato che il numero delle vocazioni alla vita religiosa
va decrescendo in maniera impressionante con grave danno della
diocesi e delle sue istituzioni, lamentava il « mancato apprezza-
mento, da parte di un certo numero di sacerdoti e di laici impe-
gnati, della vocazione e dello stato religioso ». Pur ammettendo
che ciò forse dipenda da una carente testimonianza che alcuni reli-
giosi e religiose danno colla loro vita, ciò non giustifica — aggiun-
geva — « il disprezzo, talora dichiarato e ostentato, verso la vita
religiosa, la mancanza di rispetto per coloro che la praticano, il
disinteresse, o, peggio, l'avversione dimostrata talvolta di fronte
ai segni della vocazione religiosa » (M. Pellegrino, I religiosi e
le religiose nella pastorale diocesana, 20.VIII.1971, Torino, L.D.C.,
n. 6, p. 10).
e) La libera scelta della verginità e del celibato virtuoso da
parte di chi resta nel mondo, importa molte difficoltà ed è
quindi la più rara. Oggi però l'appartenenza ad un Istituto seco-
lare offre maggiori aiuti spirituali e tempera la solitudine spiri-
tuale di chi non abbraccia la vita religiosa dove troverebbe una
nuova famiglia. Quindi se un giovane od una giovane vogliono
vivere in uno stato di perfezione abbracciando Ì consigli evange-
lici mediante i voti privati, e nel tempo stesso si sentono chia-
191
mati a continuare la propria vita, attività, professione nella so-
cietà, allora si può indicare loro questa via. Qualcuna, ad esem-
pio, non può lasciar la famiglia, abbandonar sola la mamma,
oppure teme per la sua salute nel sottomettersi ad una regola di
vita comune. L'adesione ad un Istituto secolare domanda l'impe-
gno a seguire una certa regola e programma di vita, dà aiuti e
stimoli alla perfezione anche senza la vita in comune: un'anima
non è abbandonata a se stessa ed alla sola guida d'un direttore
spirituale (più o meno prudente). Trattandosi poi di associa-
zioni clandestine, non ci sarebbero praticamente difficoltà per chi,
ad un dato momento, non si sentisse di continuare.
f ) Non si può ignorare il caso di chi aveva sognato il matri-
monio ma, per qualche ragione, non può realizzare il suo sogno,
né, d'altra parte, sente la vocazione ad uno stato più perfetto.
È una prova spirituale: il direttore spirituale aiuterà l'anima a su-
perarla felicemente, anzi santamente. C'è un pericolo: certe don-
ne disincantate — scriveva Jean Guitton — provano talora « un
sentimento di disinganno per la vita, di risentimento contro l'auto-
re della vita. Provano una specie di rabbia che rende tristi i loro
tratti... È necessario che la giovane si prepari una vita bella, qua-
lunque sia l'ipotesi... La vocazione fondamentale della donna è
una vocazione spirituale, una vocazione ai misteri... »: la missione
« di portare e di suscitare la vita, non dimenticando che la vita
dell'anima sola è più di quella dell'anima incorporata. La voca-
zione alla vita, nella nostra civiltà, ha mille volti. La maternità
e il matrimonio costituiscono uno di questi aspetti; il più natu-
rale. Ve ne sono altri. La donna non deve convincersi che ha bi-
sogno di un uomo per realizzare la sua missione totale » (J. Guit-
ton, La fanciulla di domani, OR, 18.XII.1975). In pratica il con-
siglio da dare a queste donne che non si sono sposate né fatte
suore, è che si occupino molto, anzitutto in famiglia e poi nell'apo-
stolato: non si dissipino né si perdano — come spesso — in preoc-
cupazioni inutili, né cadano nello stato di permanente depres-
sione per un complesso d'inferiorità. Bisogna confortarle e far
loro capire che sono tutt'altro che delle fallite: possono svolgere
un'attività preziosissima, fonte di grandissimi meriti, anche se lo
stato nel quale si trovano è una necessità e non è stato l'oggetto
d'una libera scelta.
g) Particolari problemi, condizioni ed impegni esistono per quei
giovani che sono chiamati al sacerdozio cattolico, specie nella
Chiesa Latina. Problemi che saranno considerati a parte nella trat-
192
tazione sulle varie categorie di penitenti. Osservo solo come, a
proposito del problema sul numero dei chiamati al sacerdozio, la
risposta non è tanto semplice se si vuol considerare la questione
radicalmente. Il confessore lo deve sapere. Si suol affermare che
la quasi totalità dei giovani — ed anche delle ragazze — è chia-
mata al matrimonio. Ammettiamo che di fatto sia cosi, almeno
per quanto riguarda la vocazione « prossima ». Ma si può ag-
giungere che se i coniugi sanno santificare il loro matrimonio,
se le famiglie sono sane e — per quanto possibile — numerosi
i figli, allora più liberamente e facilmente si svilupperebbe quel
seme di vocazione (al sacerdozio od alla vita religiosa) che remo-
tamente è nell'animo di non pochi fanciulli e fanciulle. Ma, per
questo, bisogna che il matrimonio sia santificato, che nella famiglia
si tenga in grande stima questa vocazione superiore. Per rispon-
dere, quindi, alla questione se essa sia o no frequente, bisogna
distinguere fra disposizione remota e chiamata prossima.
6. Anche la scelta della professione è di capitale importanza.
Dal punto di vista non solo umano, ma anche soprannaturale. Va
fatta con criterio, rettitudine, sagge motivazioni. È facile che il
giovane immaturo, impressionabile, suggestionabile, si lasci con-
durre da miraggi puramente naturalistici, egoistici, capricciosi, di
immediato interesse. In seguito dovrà forse pentirsi d'una scelta
fatta con leggerezza senza il consiglio di persone prudenti. Altre
volte è vittima dell'influsso della famiglia, mossa da ragioni grette
o dal tradizionalismo che ostacolano le giuste esigenze e la libertà
dei figliuoli: « questa famiglia ha sempre tenuto la farmacia: la
tua strada è studiar farmaceutica ». Il direttore spirituale saprà
capire ed aiutare chi, per la sua età, può sentirsi solo e senza il
coraggio d'una decisione personale responsabile. Procurerà di co-
noscere quelli che sono i problemi che interessano i giovani e
quelli che sono propri invece delle giovani. Avrà la sensibilità per
adattarsi alle loro esigenze, diciamo pure, professionali, che sono
diverse in chi è chiamato ad una vita intellettuale ed in chi è in-
vece avviato ad un lavoro piuttosto manuale o ad un'attività pra-
tica: diversi saranno quindi i suggerimenti, le esortazioni, tutto
il modo di trattare da parte del direttore spirituale.
7. Per terminare, osservo come risulta dall'esperienza e da
inchieste fatte che i giovani — se hanno estremo bisogno d'un
appoggio, d'una guida, d'una direttiva sicura — desiderano però
che l'ultima parola e decisione venga da loro. A parte le disposi-
193
zioni necessarie a ricevere il sacramento della Penitenza, in ma-
teria di consigli che chiedono desiderano esser informati, illumi-
nati, rassicurati ma, poi, esser lasciati liberi e fare le loro scelte
responsabilmente. Non sopportano di sentirsi sotto tutela. Voglio-
no esser amati, ma rispettati. Aiutati, senza perder la propria
autonomia. Guidati, senza esser condizionati. Sentono vivo il de-
siderio, il bisogno, il piacere di consultarsi con qualcuno, il quale
però non faccia pesare la sua autorità; non li costringa, non li
opprima ma li aiuti ad affermarsi. La domanda del consiglio e
la discussione su certi problemi verranno da sé, quand'è il mo-
mento. Particolarmente su quello della scelta dello stato. Ma se il
confessore, di sua iniziativa, lo proponesse esplicitamente ed in-
sistentemente sollecitando la soluzione, potrebbe farlo fuor di
tempo od anzi tempo, e quindi non fruttuosamente. Bisogna indi-
rettamente condurre il giovane a sentirne il bisogno personale
spontaneo. Ed indirizzare, ma senza forzare (cfr. G. Barra, In-
chiesta sulla confessione, Torino, Boria, 1963, pp. 53-55).
194
La donna, per il suo temperamento, è portata ad ingran-
dire i fatti ed a drammatizzare. Talvolta fino alle lagrime. Lagrime
talora di dispiacere e di avvilimento; lacrime, qualche volta, di rab-
bia. Il confessore lo terrà presente quando raccontano le mancanze
altrui ed i torti ricevuti. Bisognerebbe, per giudicare con esatta
obbiettività, sentir anche l'altra campana. Il confessore intelli-
gente, specie se non è la prima volta che ascolta la confessione
d'una penitente, si renderà conto della situazione reale. Qualcuna
racconta piuttosto i peccati degli altri che i propri. Qualche altra,
dopo l'accusa d'ogni mancanza, fa anche la parte di direttore
spirituale perché aggiunge l'ammonizione debita. Ma accanto a
penitenti piuttosto ciarliere e superficiali, ci sono donne colpite
da dolori tremendi, le quali portan la loro croce con virilità e co-
raggio intrepido. Nella Confessione cercano e trovano il conforto
e l'energia per proseguire il loro cammino eroicamente. Il con-
fessore resta allora edificato. Vorrebbe esser un santo per tro-
vare e dir loro quelle parole che vengono dal cuore di Cristo.
X'uomo^ anche perché non possiede l'arte d'esporre con garbo
e finezza i fatti dello spirito, può sentir ripugnanza a raccontare
ad un altro uomo i suoi nascosti pensieri e le sue azioni personali:
per lui è un'umiliazione. Spesso vi si aggiunge il rispetto umano.
Per tutte queste ragioni d'ordine psicologico, l'accusa dell'uomo
penitente sarà più imperfetta e sommaria di quella della donna.
Alle volte è grossolana (cfr. A. Chanson, Per meglio confessare,
1956, p. 217). Ci adatteremo. Il Signore — che rappresentiamo —
domanda a ciascun penitente di comportarsi secondo le proprie
possibilità che dipendono dalla natura del singolo. Pretender trop-
po, interrogare ulteriormente il penitente per sapere ciò ch'egli
non ritiene necessario dire, potrebbe indisporlo. A meno che non
si presenti chiaramente la necessità di dargli un determinato avviso
per evitare un male all'individuo od alla comunità (ad esempio
per togliere uno scandolo prima di ricevere pubblicamente l'Euca-
ristia). A parte un caso del genere, quel che importa è che la Con-
fessione sia fatta in buona fede, induca sinceri propositi di vita
nuova e riporti allo spirito del penitente la pace e la gioia. Il
confessore — se avrà la sensibilità d'intuire gli ostacoli (interni
ed esterni) che gli uomini devono spesso superare per fare la loro
confessione — andrà loro incontro ricevendoli e trattandoli con
molta cordialità, anche se danno l'impressione d'esser freddi e di
non cercare parole gentili ed affettuose: ne sentono invece il
bisogno, ma non lo esprimono e non sanno corrispondere (diver-
195
samente dalle donne). E con essi non c'è quel pericolo di eccedere
nel calore affettuoso che ci può esser trattando con le donne.
2. Particolare pazienza, bontà, rispetto occorrerà coi vecchi,
sia uomini che donne. Mentre spesso son trattati peggio del gio-
vani; e qualche volta vengono umiliati pei difetti caratteristici
della loro età.
Ridotti allo stato d'inattività possono esser inclini a rivan-
gare il passato. Naturalmente ora giudicano certe azioni con co-
scienza e sensibilità diversa da quando le hanno compiute. Pos-
sono quindi sentir il bisogno di far confessioni generali. Ma, se
non c'è evidente necessità od utilità, sarà bene che il confessore
li rassicuri assumendosi tutta la responsabilità e suggerendo loro
piuttosto un atto generale di dolore e la fiducia nella miseri-
cordia di Dio. Abbia pazienza però, anche se sentirà che ripe-
tono sempre gli stessi peccati, anche se si accusano di mancanze
nelle quali non hanno colpa (e sanno di non averla): le confes-
sano per una ragione affettiva, per esser più tranquilli o tranquil-
lizzati. Pazienza dovrà avere il confessore quando gli racconte-
ranno d'esser abbandonati, trattati male dai figli, dai parenti,
dalle persone dirigenti od inservienti nell'istituto o nell'ospedale
dove vivono. Ci può esser del vero in quanto asseriscono, ma
spesso esagerano. Bisogna aver comprensione: dipende dalle loro
condizioni fisiche. Non li rimprovereremo. Hanno bisogno d'una
parola di conforto e d'incoraggiamento affinché accettino con fede
la loro condizione e non diano troppa importanza alle mancanze
di riguardo, di cui si sentono oggetto, ed alle contrarietà della
vita: l'essenziale è esser in pace con Dio (cfr. G. B. Guzzetti,
TV. di T. Dogm., I I I / 2 , Torino, 1965, pp. 154-155).
3. Circa i doveri morali e la necessità di riformare la vita,
l'uomo sente il bisogno d'esser « persuaso » fermamente: sarà
smosso ed indotto alla conversione dalle considerazioni razionali
(purché adattate alla sua capacità). La donna, invece, general-
mente è già abbastanza convinta — dal momento che viene a
confessarsi — che certe azioni non si dovrebbero fare. Più che
ricorrere alle ragioni, bisognerà quindi far leva sul sentimento.
Grande influenza può avere il confessore col prestigio stesso della
sua personalità: con la sua santità e con una sana suggestione può
ottenere irresistibilmente da una donna la conversione completa.
E se si accorge ch'essa manca di generosità e di fedeltà a propositi
e promesse, potrà usare, qualche volta, la maniera un po' forte.
196
Con l'uomo, abituato a comandare, conviene esser più cauti: il
confessore gli ricorderà che non si può servire a due padroni; che, •
una volta conosciuta la volontà di Dio, bisogna esser coerenti,
che vai poco la pratica religiosa se non è accompagnata dalla vita
cristiana. Ammonizione rispettosa, calma, grave: allora l'uomo ne
comprenderà l'importanza e potrà sentirsi scosso.
4. Si dice che gli uomini, a differenza delle donne, non ama-
no star a lungo nel confessionale e che hanno stima del confessore
che regola rapidamente e risolutamente gli affari della loro anima
(cfr. Chanson, o.c, p. 217). Penso invece che l'uomo, se parla
meno della donna, non ha meno piacere (oltre che bisogno) di
sentire una parola buona da parte del confessore. Discorsi troppo '
lunghi no, con nessuna categoria di penitenti. L'uomo vorrebbe
quella parola che fa proprio per lui, non solo quella generica; e
non quella che va bene per la donna. D'una esortazione, però, han
bisogno non solo gli uomini, ma anche le donne. Queste saran
più facili a far propositi; ma il difficile è mantenerli. Le donne
si presentan al confessore in atteggiamento più devoto, contrito,
e talvolta piagnucoloso. Ma non è da credere che l'uomo, pel solo
fatto che sembra accusarsi con più freddezza, sia intimamente me-
no disposto della donna. Può esser agitatissimo, preoccupatissimo,
ansioso, addolorato e pentito; ma, per indole, ha una specie di
rispetto umano che lo trattiene dal manifestare ciò che prova. Tiene
dentro, come se avesse paura d'apparire un debole.
Il confessore, dolcemente e gradatamente, cercherà d'educare
i suoi penitenti, moderando la naturale tendenza del loro tempera-
mento: abituerà le donne a non esser eccessivamente verbose e gli
uomini a fare della confessione un colloquio, per quanto breve,
che offra pure la possibilità d'una minima direzione spirituale.
In genere e tutto sommato, gli uomini avrebbero più necessità
d'assistenza e d'aiuto: per un complesso di cause sono più dis-
sipati e travolti dalla vita materiale con tutti i suoi pericoli è
tentazioni; sono gravati da uffici impegnativi (professionali, oltre
che familiari); spesso hanno funzioni direttive di responsabilità;
più difficilmente sentono il bisogno e si decidono a varcare la
soglia del tempio per riconciliarsi con Dio, mentre, specialmente
quando si fa sera, dovrebbero farlo spesso, per esser sempre pronti
a ricevere la visita di Dio, della quale non conosciamo il giorno e
l'ora. Se si riuscisse a curare la formazione spirituale degli uomini
197
si procurerebbe indirettamente, e forse in maniera decisiva, il
bene delle famiglie e della comunità.
Perciò un parroco, quando — nella ricorrenza di qualche so-
lennità o durante qualche missione — dispone, ordina, organizza
le confessioni periodiche in massa, si preoccuperà soprattutto degli
uomini; darà ad essi la maggiore opportunità e comodità di con-
fessarsi, mettendo a loro disposizione, se è possibile, più d'un
confessore, preavvisando tempestivamente: i penitenti conoscano
chi sono i confessori disponibili e l'ora in cui saranno pronti all'ap-
puntamento. Bisogna sian evitate agli uomini quelle lunghe attese
che non favoriscono certo una soddisfacente Confessione. Se si
prevede un grande afflusso di penitenti si distribuirà il lavoro in
più giorni.
5. La Confessione dovrebbe essere un mezzo non solo per
cancellare i peccati, ma anche per progredire nel cammino della
perfezione. Quali risultati si ottengono di fatto? Prescindo dal
caso di coloro che, rinunciando al matrimonio, ma rimanendo
laici e vivendo nel mondo, hanno voluto e saputo fare della loro
vita una missione di bene e d'apostolato: questi trovano il tempo
ed il modo per coltivare con cura la vita interiore. Mi riferisco
in particolare alle persone sposate o, comunque, gravate da pen-
sieri, occupazioni e responsabilità familiari e professionali. Fra le
spose, specialmente se mamme, è meno difficile trovare anime
che vivano in intima abituale unione con Dio ed usino i mezzi
normalmente richiesti alla perfezione, quali la meditazione e la
direzione spirituale. Abituate al sacrificio ed al dono di sé, più
delicate ed elevate degli uomini, nei loro affetti, le mamme hanno
una finezza d'animo che le dispone alla vita spirituale, al senso
ed al gusto del soprannaturale. Lo stato di vedovanza, poi, offre
spesso — a quelle che sono bene animate e guidate — ancor mag-
giori occasioni per progredire nella via della perfezione e dedicarsi
ad opere di beneficenza e d'apostolato.
Fra gli uomini è, di fatto, più difficile trovare chi — oltre
a partecipare alla Messa, ad accostarsi alla mensa eucaristica —
coltivi la vita interiore con la preghiera personale, la lettura spi-
rituale, la meditazione, la direzione spirituale. Non bisogna ces-
sare tuttavia, nonostante i pochi risultati, dal tentativo di avviare
anche gli uomini all'intimità divina. Se saranno maggiormente
assistiti le eccezioni potranno moltiplicarsi.
198
B. Secondo lo « stato spirituale »
e le « condizioni psico-fisiche »
1. Timidi e reticenti
199
nio. Occorrerà l'intuito del confessore per giudicare se, in con-
creto, ci sia o no una certa buona fede. E ci vorrà prudenza per
decidere se, nel caso di buona fede, sia meglio non turbarla oppure
convenga istruire ed ammonire delicatamente ma chiaramente. E
quest'ammonizione può esser ardua impresa, talora snervante,
specie quando per mancanza d'umiltà il penitente non si lascia in-
durre alla persuasione, al dolore, al proposito. Il Catechismo Ro-
mano indicava il primo ostacolo ad una buona Confessione nella
superbia che difende o minimizza certi disordini morali: « In pri-
mis... reprimenda est quorundam superbia, qui scelera sua excusa-
tione aliqua vel defendere, vel minora facere nituntur » (p. 246).
3. L'esperienza insegna che i peccati che i penitenti trovano
più difficile dire al confessore (anche quando sono convinti di
doverlo fare) sono anzitutto quelli contro il sesto comandamento.
Pur non essendo queste le colpe possibili più gravi, tuttavia,
l'uomo, ripensando a mente fredda alle sue cadute nell'impurità,
ne prova vergogna perché sente d'essersi come degradato, ab-
brutito, contaminato.
A questi peccati sono connessi quelli contro il quinto coman-
damento, commessi dalla donna per sopprimere la conseguenza
di relazioni disoneste, ed evitare la maternità.
Poi ci sono le mancanze contro il settimo. Crediamo pure
che sono molto frequenti. In tutti i luoghi, anche i più santi.
Ma c'è in ognuno un forte amor proprio che rende difficile il
riconoscere e manifestare le mancanze (gravi o leggere che siano)
in questa materia. È umiliante l'impressione d'esser qualificato per
« ladro ». E veramente, a sentir certuni, sono solo questi i « di-
sonesti » (come se non ci fossero tante altre « disonestà »).
4. Quanto alle persone, il rossore di confessare i propri pec-
cati colpisce, secondo s. Alfonso, specialmente tre generi di pe-
nitenti: le persone rozze, le donne, i fanciulli ed i ragazzi. Nel
ragazzo, ad esempio, può avvenire che, al momento della Con-
fessione, la vergogna diventi un'emozione così alterata, da inibir-
gli quasi di parlare e di manifestarsi qual è. E questo per un
complesso di circostanze: il temperamento emotivo e timido, la
persona intimidatrice del confessore, la particolare situazione
scabrosa, e, particolarmente, le conseguenze che sono forse previ-
ste o temute da una confessione sincera (si pensi ad un semina-
rista che si trovi nella necessità d'aprire al direttore spirituale
tutto il suo intimo e tempestoso stato d'animo, anche in ordine
200
alla vocazione). Non si deve poi ignorare che da piccoli si è natu-
ralmente inclinati — per mancanza d'esperienza — a stimare tutti
gli altri (siano simpatici od antipatici): il ragazzo può quindi cre-
dere d'esser il solo ad avere siffatte e cosi forti tentazioni ed
a commettere certi brutti peccati. Pertanto si spiega la tendenza
del fanciullo a chiudersi in se stesso. Ma se, in confessione, non
manifesta subito le prime cadute, si troverà, ad un certo punto,
nella necessità di ritornare sul passato per metter a posto lo
stato della sua coscienza rivelando quanto in precedenti Confes-
sioni è stato taciuto e non doveva esser taciuto. Il che richie-
derà ancora maggior sforzo, tanto più penoso quanto più si
rimanda.
5. I classici autori di morale e di pastorale aggiungono alla
vergogna altri motivi che possono indurre il penitente a tacere i
suoi peccati: il timore d'esser sgridato dal confessore aspro; di
esser udito da altri penitenti che s'accalcano presso il confessio-
nale; che sia percepito quanto dice il confessore il quale parla
troppo forte (e forse non se n'accorge perché sordastro, ma do-
vrebbe esser avvisato); il timore che il confessore non dia l'asso-
luzione, non permetta la Comunione oppure la celebrazione del
matrimonio; paura che egli imponga l'obbligo di lasciare un'occa-
sione, di fare una restituzione; timore (sia pur irragionevole) che
il confessore violi in qualche modo il sigillo, o si serva della scien-
za avuta dalla Confessione per qualche decisione gravosa o svan-
taggiosa al penitente. C'è, infine, una mancanza d'apertura e di
confidenza che viene dalla troppa familiarità che intercorre fra
confessore e penitente (cfr. G. M. C, Tratt. per Confessori, pp. 37-
38). Il confessore avrà l'avvertenza di eliminare le cause di ra-
gionevoli timori.
II. C'è un duplice modo d'incoraggiare i penitenti all'accusa
sincera: indiretto e diretto. La pastorale (si ricordi sempre) è una
arte: al confessore occorre intuizione, sensibilità e tatto per usare
i mezzi più efficaci, dosati in giusta misura, per disporre il sin-
golo penitente in difficoltà.
Incoraggiamenti indiretti: benignità dei modi; pazienza inal-
terabile; aria abitualmente serena del volto; tono normalmente
mite della voce. Questo linguaggio eloquentissimo ed efficacissimo
dev'esser usato generalmente e prudentemente con tutti i peni-
tenti perché tutti possono averne bisogno. Con tutti, ma special-
201
mente con coloro che si avverte esser imbarazzati, confusi, pau-
rosi, preoccupati della propria accusa.
Altro mezzo indiretto per impedire ogni reticenza: il confes-
sore eviterà qualsiasi monopolio sulle anime. Mostrerà gradimento
«— anzi esorterà — che il penitente abituale si confessi ogni tanto
da qualche altro sacerdote (a meno che non si tratti di anime
scrupolose). E cosi terrà lontano il pericolo che il penitente provi
vergogna e manchi di coraggio per confessare un eventuale pec-
cato grave al sacerdote che gli dimostra grande stima. Qò vale
per penitenti che vivono in una comunità oppure, anche, nel
mondo.
Altro accorgimento: ci sono notizie circa la sua vita che il
penitente può con pieno diritto, e forse desidera, tener riservate.
Il confessore intelligente e delicato avrà l'avvertenza di non mo-
strar di conoscere il penitente, specie chi s'accosta alla grata del
confessionale, ma anche chi si fa vedere dopo tanto tempo (forse
pensando e sperando che il confessore non lo ricordi più). E, se
non c'è necessità, è meglio non chieda particolari circa il suo
ambiente, professione, stato, patria, parrocchia, famiglia, condi-
zione, confessore abituale... Ad un penitente abituale, quando
sospetti che vada talvolta da altri confessori, non gli domandi nep-
pure da quanto tempo non si è confessato (Frassinetti, Manuale
del parroco, p. 359).
Incoraggia indirettamente il penitente il confessore che ha la
pazienza di lasciarlo parlare. Se mostra che gli è un peso e non
vede l'ora di levarselo dai piedi, lo mette in uno stato d'imbarazzo
e lo paralizza. Se c'era già nel penitente una difficoltà psicologica
a manifestare certe miserie, se c'era una certa perplessità sul modo
di rivelarle, sui particolari da specificare, sulle parole da usare, che
sarà se vede che ogni sua parola indispone ed impazientisce il
confessore? Si sentirà come bloccato.
Gli incoraggiamenti diretti vanno rivolti a chi dà segni positivi
d'averne bisogno. Sono quindi relativi. Fatti indebitamente, avreb-
bero l'aria d'un sospetto e potrebbero offendere. Se ce n'è quin-
di bisogno, si dirà al penitente che non abbia nessun timore; che
il confessore non si meraviglia di nulla perché ha visto cadere an-
che i cedri del Libano; che non c'è miseria a cui la natura umana
non sia incline ed esposta; che la sincerità e l'umiltà d'accusare
le proprie mancanze è già un segno positivo ed un merito per otte-
nere il perdono da Dio; che, aprendosi, l'anima si sentirà sol-
levata e liberata...
202
Mentre il penitente si accusa, il confessore non mostri il mi-
nimo segno di meraviglia, di turbamento, di nausea (per quanto
di ributtante o di strano ci sia nella esposizione) ma con la sere-
nità del volto ed il tono della voce incoraggi e faciliti ogni con-
fidenza più intima che può esser terribilmente difficile. Consta
che taluni ad una parola d'ammonizione (anche se garbata), fatta
durante l'accusa, non hanno più avuto la forza di rivelare altri
peccati più gravi. In genere, secondo una naturale tendenza psi-
cologica, il penitente comincia dai peccati meno gravi e riserva
i più gravi per la fine. Però, se non trova confidenza nel confes-
sore, non si sa se avrà il coraggio di arrivare sino in fondo. Il
confessore quindi si riserverà di fare le ammonizioni prima del-
l'assoluzione. Durante l'accusa è solo per facilitare l'esposizione,
lodare la sincerità, assicurare d'aver capito bene, che può inter-
porre qualche parola. E soltanto qualche parola quando vede che
il penitente ha preparato la sua accusa: altrimenti questi po-
trebbe perder il filo, dimenticar qualcosa e poi restar meno sod-
disfatto della confessione fatta.
III. Riguardo ad eventuali interventi per supplire all'accusa
(o per aiutare il penitente che desidera esser interrogato) il con-
fessore tenga presente il principio: necessario in concreto è che
il penitente non ometta di specificare ciò che sa di dover spe-
cificare, quando lo può: cioè quando non ci sia un incomodo
estrinseco alla Confessione (ed estrinseco al disagio interiore che
essa naturalmente può importare) o quando non ci sia qualche altra
causa (ad esempio il pericolo di scandalo) che scusa dall'integrità
effettiva e, talora, suggerisce al confessore che è meglio acconten-
tarsi di ricevere un'accusa piuttosto generica. Perciò l'aiuto del con-
fessore che s'accorge di aver a trattare con penitenti timorosi mira
ad ottenere che non tacciano sui loro peccati gravi, volontaria-
mente e maliziosamente.
1. Ad esempio, circa le Confessioni passate, non bisogna su-
scitare angustie irragionevoli perché Confessioni mal fatte sono
soltanto quelle nelle quali si tace peccati gravi con piena avver-
tenza. Si sappia che ci sono penitenti i quali — anche se non han-
no una vita interiore fervente — sono sempre preoccupatissimi
circa il modo di confessarsi e sempre ansiosi sulla sufficienza e
bontà delle Confessioni passate. Bisogna assolutamente distoglierli
dal ripensarci e dal confessare alcunché delle colpe commesse pri-
ma dell'ultima Confessione che han fatta. Se, invece, il confes-
203
sore avesse fondato motivo per sospettare sulla sincerità di con-
fessioni precedenti e ci fosse stata realmente qualche grave reti-
cenza del penitente pel passato, basterà che il sacerdote gli offra
dolcemente l'aiuto della sua mano pietosa: il penitente — spe-
cialmente se ammalato od in pericolo di morte — he approfit-
terà, felice di liberarsi dal peso che l'opprimeva.
2. Per le eventuali interrogazioni, c'è questa regola pastorale:
« predicando si mostri di supporre l'uditorio migliore di quello
che è; confessando, di supporre il penitente peggiore del vero-
simile ». Massima da applicarsi, come ogni altra, con discrezione.
Bisogna unirla all'altra, importante: nelle interrogazioni si pro-
ceda con gradualità: dai peccati più leggeri ai più gravi e, quanto
al numero, dal minore al maggiore. L'uomo, pel suo innato amor
proprio, è riluttante ad esporre di colpo tutto il suo stato e rive-
lare tutte le sue colpe. Ma se vede che il confessore, senza nes-
suna meraviglia lo conduce gradatamente, con avvertenza e deli-
catezza psicologica, allora con minore o nessuna difficoltà passerà
a rivelare anche le miserie più nascoste ed umilianti. Ad esempio,
circa il tempo dal quale non si son confessati, tralasciando il pre-
cetto pasquale, taluni cominciano col dire che « è un pezzo » (per-
ché hanno avuto tanti pensieri, occupazioni e preoccupazioni).
Poi, talvolta, risulta che per una decina di anni hanno trascurato
ogni pratica religiosa, messa festiva, Confessione e Comunione
pasquale.
3. Particolare delicatezza occorre con fanciulli e ragazzi quando
stentano a manifestare i peccati contrari al sesto comandamento.
Questa difficoltà psicologica può dipendere anche dal naturale
pudore istintivo che li trattiene dal parlare di certi argomenti,
dalla perplessità sui termini da usare, sul modo d'esprimersi circa
il lato più personale e nascosto del proprio essere, circa ciò che
— lo sentono — sta avvenendo e cambiando nella loro vita. Il
confessore, da una parte, deve facilitare la manifestazione di quan-
to è strettamente necessario accusare. D'altra parte, cercherà di
non urtare la buona riservatezza dell'animo. Anche il ragazzo ha
la sua personalità che noi dobbiamo rispettare trattandolo con un
certo riserbo. Guardiamoci dal tempestarlo con domande e scan-
dagli fino ad annoiarlo ed umiliarlo, spogliandolo, quasi, spiri-
tualmente, per ridurlo in nostra balia. Alle volte il ragazzo stesso
desidera che il discorso sui suoi stati d'animo sia avviato dal con-
fessore, preferisce che gli sia rivolta qualche domanda sui pec-
204
cati {perché è imbarazzato, non sa come introdursi, quali parole
usare). Ma al confessore spetta intuire se c'è o no bisogno di
entrare in una materia, di fare o no una determinata domanda.
E, se interroga, occorre sempre la discrezione: non bisogna insi-
stere oltremodo con le indagini, non bisogna dilungarsi con una se-
quela di domande: insomma, non soffermarsi in questa delicata
materia della castità più del necessario. È da rispettare nei ra-
gazzi il naturale pudore. E non si deve indurli a pensare che i
peccati contro la purezza siano l'unica materia importante da ac-
cusare e che la questione sessuale sia il centro di interesse di
tutta la vita morale e spirituale.
IV. Per concludere, sia ben chiaro che facilitare l'accusa non
significa sottovalutare la bruttezza del peccato, minimizzare la
malizia delle colpe, oppure indurre la persuasione che il peccare
è una fatale condizione dell'umana esistenza a cui bisogna ras-
segnarsi con indifferenza, apatia, inerzia. C'è anche questo peri-
colo. Perciò nelle ammonizioni e nelle esortazioni — prima del-
l'assoluzione, non durante l'accusa — il confessore userà parole
la cui gravità corrisponda alla gravità della colpa. Il peccato può
e deve esser vinto; ma, per esser vinto, dev'esser combattuto
con tutte le forze.
205
Greg. Papa, Hom. 23 in Evangelia). Il fenomeno si spiega sia
perché la causa delle oscurità ed incertezze non era effettiva-
mente d'ordine intellettuale, ma piuttosto morale, sia perché
la grazia del sacramento illumina anche la mente. Perciò confes-
sori dotati di speciale carisma, come il Curato d'Ars, l'abate
Huvelin, a certuni che andavano da loro per discutere sulla fede
indicavano subito, decisamente, il confessionale.
2. « Gran peccatori »: anime che erano incatenate in abitu-
dini gravemente disordinate e, ad un dato momento, si pentono
e propongono di mutar vita. Si pensi al legame che teneva pri-
gioniero Agostino anche dopo la conversione intellettuale e prima
della sua piena conversione morale.
« In via di conversione »: perché, spesso, non sarà una con-
fessione che assicurerà immediatamente la. piena e stabile conver-
sione che escluda ogni ricaduta nel peccato. Talvolta resta pure
qualche dubbio sulla serietà dei propositi del penitente, sulla sin-
cerità delle sue professate intenzioni. Sia che questa incertezza
dipenda dalla libera volontà del soggetto, sia da cause — ad esem-
pio il temperamento psichico — che possono sfuggire alla vo-
lontà. Si pensi all'ambiente carcerario, al mondo della prosti-
tuzione. Ma si può avere almeno la speranza d'una perseverante
conversione se questi detenuti o queste prostitute vengono a
confessarsi spontaneamente e non per evidenti motivi umani.
3. Non ripeto quanto dissi sull'aiuto che il confessore può
dare al peccatore per suscitare sincero pentimento e fermo pro-
posito. Ricordo piuttosto, con PAdloff (Il Confessore Direttore,
pp. 89-90) come il confessore dev'esser preparato e consapevole di
due particolari pericoli che possono minacciare anche questo ge-
nere di penitenti quando hanno preso la decisione e sono sulla
via della conversione: il pericolo dello scoraggiamento e quello
(che potrà sembrar strano) degli scrupoli. Sono gli ultimi dispe-
rati tentativi del demonio per trattenere un'anima che sta per
sfuggirgli di mano.
Lo scoraggiamento può ghermire il convertito quando — no-
nostante Confessione, Comunione, propositi, preghiera — gli capita
di ricadere negli antichi peccati. È facile passare alla conclusio-
ne: tutto è inutile, non servono né i mezzi naturali, né i so-
prannaturali. Ed allora s'insinuerà la tentazione: tanto vale non
tentar più e ritornare alla vita d'un tempo. Il confessore non
solo aiuterà il penitente a non cedere a questa terribile tenta-
206
zionip ma farà bene a prevenirlo sulle tentazioni, forse più forti
di pfrima, che si faranno sentire anche dopo la riconciliazione.
Prevenire discretamente, s'intende; qualcuno non pensi (anche
questo è possibile, specialmente oggi) che è fatale peccare. Il
Confessore ricorderà a chi pecca per debolezza che a fondamento
d'ogni sicura conversione sta l'umiltà: la convinzione che solo la
grazia di Dio può dare la forza di risorgere e di non ricadere.
E questa grazia sarà concessa a chi è assiduo alla preghiera, per-
severa nella fiducia e nello sforzo. Chi corrisponde con genero-
sità avrà, in merito, grazie sempre più abbondanti. Fino alla
vittoria completa.
Gli scrupoli. Può arrivare ad un dato momento anche questa
prova. È una tentazione diabolica, come tutto ciò che turba,
senza utilità. Ma si spiega anche psicologicamente. L'anima che
prima era fredda, insensibile e, alle volte, aveva quasi perduto
il senso del peccato, ora ha acquistato, illuminata dalla grazia,
una viva conoscenza delle sue colpe, una conoscenza sperimen-
tale della propria malizia. Può sorgere lo scrupolo di non aver
ben riconosciuto e confessati certi particolari delle sue colpe. Il
confessore distoglierà il penitente dal ripensare alla vita che fu.
Se qualche altro atto penitenziale è voluto da Dio, Egli lo farà
sentire, passata rinquietudine, in un momento di pace. Una volta
fatta una sincera Confessione, il penitente deve pensare che la
pace è un suo diritto: è il Signore che la vuole. Talvolta biso-
gna abbandonarsi ad occhi chiusi nella misericordia di Dio. Ha
detto un poeta italiano: « La coscienza della propria miseria sen-
za la conoscenza di Dio è la disperazione ».
3. Occasionari
207
concessioni, debolezze e compromessi7. Caso tipico frequentis-
simo: quello della segretaria d'azienda o d'ufficio. Qualcun^ era
sempre stata irreprensibile nel contegno e nell'abbigliamento. Ma
ad un dato momento, in seguito al quotidiano contatto ed alla
collaborazione della ragazza con un capo-ufficio od un collega, fa-
cilissimamente sorge, nei due, una simpatia fisico-psichica (con
tutte le varianti che dipendono dai temperamenti diversi e dal-
la natura dell'uomo e della donna). E quando cominciano a per-
mettersi intimità, libertà, manifestazioni esterne d'affetto, è dif-
ficile che si fermino. La sensibilità s'ingigantisce e porta alla
sensualità, con tutte le conseguenze. Si può arrivare al punto che
la segretaria, se è dipendente sul piano del lavoro, diventa una
dominatrice sul piano sentimentale. Anche se la seduzione è par-
tita dall'uomo. Al legame passionale, spesso s'aggiunge il cal-
colo d'un avanzamento o d'un vantaggio economico. Si tratta
di « esperienze », come si suol dire oggi. Ma chi se le permette
non pensa alle conseguenze. Spesso una giovane, dopo qualche
tempo, viene abbandonata. Resterà sola. Alle volte, talmente di-
sillusa e sfiduciata da non trovar più né l'occasione né la vo-
glia di sposarsi. E chi l'ha sfruttata — per soddisfare egoistica-
mente la propria passione — se n'infischia d'averla rovinata e
resa infelice per sempre.
Ci sono occasioni che non si possono fuggire, ma ce ne
sono di evitabili senza difficoltà. È una questione di prudenza.
È idea diffusa che la forza morale non si dimostra fuggendo i
pericoli morali, ma rendendosi superiori (senza dire che, per
taluni, rendersi superiori significa giustificare il male stesso).
Psicologia ed esperienza insegnano che spessissimo chi credeva
di poter vincere l'occasione, si lascia vincere dall'occasione. Spe-
cialmente quand'essa esercita una forte suggestione sulla concu-
piscenza. Gli antichi maestri di vita spirituale raccomandavano
— quando l'occasione non sia « necessaria », ma « libera » —
non solo di fuggirla, ma di fuggirla subito perché chi non la
7
« È certo che se gli uomini attendessero a fuggire le occasioni, si
eviterebbe la maggior parte de' peccati. Il demonio senza l'occasione poco
guadagna, ma quando l'uomo volontariamente si mette nell'occasione pros-
sima, per lo più e quasi sempre il nemico vince. L'occasione, specialmente
in materia di piaceri sensuali, è come una rete che tira al peccato ed
insieme accieca la mente, sf che l'uomo fa il male senza quasi vedere quel
che fa » (S. Alf., Prat. del Conf., n. 59).
208
fugge subito, non la fuggirà più. Prime cadute: primi anelli d'una
catena.
Nella guida degli occasionari ci sono due eccessi opposti da
evitare. Il primo è la negligenza, la rilassatezza, la leggerezza,
la fretta del confessore che si accontenta di distribuire assoluzio-
ni senza sollevare e presentare nella sua giusta gravità, al peni-
tente, il problema dell'occasione (da fuggire o da superare coi
dovuti mezzi). L'altro eccesso è quello dei confessori che af-
fermano il principio morale sul dovere di evitare o vincere l'oc-
casione ma non offrono con comprensione e pazienza utili sug-
gerimenti. Difettano di zelo, difettano di prudenza la quale vuole
la considerazione di tutte le circostanze. Se manca questa virtù
e ci si accontenta di dichiarare una nuda e rigida norma, c'è an-
che il pericolo di esigere troppo, col rischio di gettare qualche
penitente in uno stato di scoraggiamento e di quasi disperazione.
Il compito del confessore con certi occasionari, oltre che dif-
ficile, può diventare penoso anche perché spesso sono penitenti
di passaggio. Vengono in una data chiesa proprio perché non vi
sono conosciuti: non andrebbero da un confessore che li conosce.
Ed allora, a chi ascolta per la prima volta la loro confessione, non
sarà facile né afferrare tutte le circostanze del caso e l'esatta
obiettiva situazione spirituale del penitente; né vien data la pos-
sibilità di una direzione continuata. Per tutte queste ragioni si
capisce come il Segneri, dopo aver formulato tante regole pei
confessori circa questa importante e scabrosa materia, sentisse
il bisogno di rivolger loro, col cuore, questa parola di fede: « il
miglior partito, per quando voi vi troviate fra tali angustie, si
è alzar gli occhi al Signore, e dimandare umilmente quella Sa-
pienza... affinché voi non manchiate né per troppa austerità, né
per troppa amorevolezza » (Il Conf. istruito, 1672, p. 27).
I. Principi chiari, anzitutto. Quando non c'è seria probabi-
lità che il penitente, se resta nell'occasione o continua lo stesso
comportamento nei suoi riguardi, abbia ad evitare il peccato
grave, allora un qualche cambiamento sulla sua condotta s'im-
pone assolutamente. La previsione della caduta è fornita in base
a vari criteri: la frequenza delle cadute precedenti, l'indole del-
la persona, la normale inclinazione e fragilità della natura umana
stessa. Mettersi in certe occasioni significa contrarre « in cau-
sa » la responsabilità degli effetti prevedibili e previsti. Anzi, è
una questione morale ed un caso di coscienza anche l'entrare
209
in un cinema senza informarsi del contenuto dei film proiet-
tato: è un esporsi.— con probabilità « di fatto » — al pericolo;
una responsabilità <c in causa >•, anche se poi, in realtà, il peri-
colo non risultasse grave.
I casi più difficili sono quelli dell'occasione che il penitente
trova (o conserva), « presente » nella sua vita, in continutà od
abitualmente (una persona colla quale convive od a contatto della
quale lavora tutto il giorno). Difficili specialmente quando, per
evitare il pericolo, non ci fosse che una soluzione: dimettere una
persona o dimettersi; licenziarla o licenziarsi. Ma, spesso, uno è
ostacolato in questa decisione da motivi d'interesse o di gratitu-
dine, o dal rispetto umano e dalla timidità. Ma se da una parte
il compiere quest'atto costa tremendamente, dall'altra può essere
che s'imponga se si vuole che cessi lo stato di continuo peccato, e
sia tolto lo scandalo pubblico (come nel caso d'un notorio concu-
binato). I casi d'occasione « continua » sono pertanto i più delicati
e scabrosi e per i penitenti e per i confessori. Siamo positivi. Una
ragazza che ha contratto da tempo una relazione peccaminosa, in
occasione del suo ufficio d'impiegata, con una persona dalla quale
dipende o colla quale lavora, è difficilmente presumibile che trovi
la forza di rifiutarsi al suo complice, se continua a vivere in stretto
contatto con lui. A meno che non intervenga qualche fatto parti-
colare che cambia tutta la situazione e lo stato psicologico dei due
(o di quello dei due che ha un influsso determinante sull'altro) e
cosi toglie, praticamente, l'occasione.
Certo bisogna ammettere che se il lasciare l'occasione fosse,
nel caso concreto, impossibile o troppo difficile, Dio darà la grazia
d'evitare il peccato a chi fa tutto quanto sta in sé pur restando
nell'occasione. È il caso di due fidanzati prossimi al matrimonio,
di due che convivono ma senza regolare matrimonio (perché im-
possibile) ed ormai hanno figli da educare, è il caso di un operaio
che, se lasciasse il suo posto di lavoro, mancherebbe (al momento
almeno) del pane per sé o per la famiglia. E non si parla di coloro
che, se volessero fuggire certe occasioni, dovrebbero rinunciare
all'esercizio della loro professione (com'è il caso d'un medico).
Ma tutti costoro, per aver da Dio la grazia di superare le tenta-
zioni, devono usare i mezzi naturali e soprannaturali. Mezzi che
si riducono a tre gruppi. Primo, quelli che servono a smorzare
la suggestiva influenza dell'occasione. Ad esempio, quando si tratta
di pericoli in materia di castità bisognerebbe evitare tutti quegli atti
che sono fatalmente preparatori di più gravi mancanze: familiarità,
210
inutili e prolungati sguardi di compiacenza, toccamenti non neces-
sari (quello che per un medico nell'esercizio della professione può
esser necessario, non lo è per un altro), conversazioni intime e con-
fidenze. Mezzo sicuro sarebbe il non stare, senza necessità
(e soprattutto non appartarsi) « solus cum sola ». Chiudere gli
occhi dinanzi alle scene più scandalose d'un film (che uno per
necessità di cose si è trovato a vedere) non è scrupolo ma con-
tegno risolutamente conforme alla prudenza ed alla coerenza. In
simili circostanze è valido il consiglio di quei maestri di spirito i
quali ritengono che il confessore non deve accontentarsi di esor-
tazioni generiche e vaghe. Ci sono poi i mezzi che servono a dimi-
nuire la forza dell'interiore concupiscenza. Tutto un regime di vita
temperata, un lavoro assiduo ed assorbente (senza però giungere
allo stato di tensione dannosa). Don Bosco ai suoi giovani: « Non
vi raccomando cilici e discipline, ma lavoro, lavoro, lavoro ». Ci
sono infine i mezzi che potenziano le forze morali e le resistenze
naturali. Specialmente la preghiera e la frequenza ai sacramenti.
II. Non basta possedere i principi. Bisogna poi applicarli pru-
dentemente con intuito delle circostanze e dello stato psicologico
del penitente.
1. Il confessore individuerà anzitutto chiaramente l'occasione
dalla quale dipende il disordine morale del penitente: quelle con-
versazioni, quella casa, quell'amicizia, quel ritirarsi in luoghi soli-
tari, quell'ozio... E bisogna puntare con lucidità e senso pratico
sul comportamento concreto che s'impone urgentemente al pecca-
tore occasionano. Alle volte si sentono curiose osservazioni che
sono scuse per giustificare la mancanza di generosità, di coraggio,
di decisione. Il padrone che entra nella stanza da letto della came-
rièra e chiude a chiave la porta. Ma una donna contro un solo
uomo sa.come difendersi ed in genere ci riesce (se non è misera-
mente ignorante ed impreparata). Può gridare, reagire con tutte
le sue forze fisiche. Questa resistenza che non cede può importare
pericolo, in qualche caso, per la vita stessa. A questa resistenza
pericolosa, perseverante a qualunque costo fino all'estremo delle
forze, una non è obbligata se evita l'interno consenso. Ma sarebbe
eroismo. È frequentissimo il caso di ragazze che dalla campagna
o dalla montagna s'inurbano andando a servizio in qualche casa
ove trovano — nel padrone o nei suoi figli — chi approfitta della
loro ingenuità per rovinarle. Avrebbero ragione per licenziarsi su
due piedi. Però non sempre hanno la forza ed il coraggio d'af-
211
frontare i disagi conseguenti. Sono disorientate. Cercare un altro
servizio? Con quali garanzie? Tornare a casa? Hanno bisogno
d'una mano che le aiuti: se avessero una persona sicura, una
buona ed esperta signora del luogo alla quale confidarsi, potreb-
bero avere una via di uscita e di salvezza. Non dovrebbero mai
avventurarsi in una grande città senza la conoscenza e l'appoggio
d'una persona amica e fidata. Comunque, se pel momento riman-
gono nell'occasione, devono usare i mezzi — ma decisamente ed
efficacemente — per non cadere ancora: mostrarsi serie, severe,
minacciare di gridare, di parlare con la moglie di quel padrone...
Non basta che il confessore rivolga loro le solite raccomandazioni
generiche: « bisogna usare precauzioni, stare in guardia... ». Oc-
corre suggerire anche quei rimedi e mezzi pratici che appaiono im-
mediatamente necessari. Perché la confessione è una cosa seria.
Occorre volontà, non velleità. Ci sono sfruttatori assassini del-
l'innocenza verginale, talora però anche le ragazze sono responsa-
bili. Perché deboli nella virtù e perché più che alla virtù tendono ai
lauti e facili guadagni. Sognano macchina, pelliccia e via dicendo.
2. Il confessore ascolterà benevolmente chi si trova nell'occa-
sione prossima di peccato grave, mostrando comprensione per le
difficoltà del caso e per l'umana debolezza. Ma cercherà d'otte-
nere una decisione energica e precisa quando ne vede chiaramen-
te la necessità. Come procederà, per essere prudente ed insieme
raggiungere lo scopo? Anzitutto tasti il terreno, cerchi di sondare
fin dove arriva la disposizione generosa ed il proposito concreto
del penitente. C'è chi di punto in bianco non prenderebbe la deci-
sione di troncare il legame con l'occasione, anche se questa deci-
sione è obbiettivamente la sola ragionevole. Il confessore non lo
abbandonerà. Eviterà le imposizioni intempestive e drastiche. Lo
seguirà procurando di disporlo e persuaderlo. Cercherà di dargli
forza con l'arte della più sana e santa suggestione. Un'anima che
non avesse ancora questa forza (pur desiderando la sua salvezza)
e fosse messa bruscamente di fronte all'alternativa: « o lasciar
l'occasione o esser privata dell'assoluzione », potrebbe urtarsi
oppure dichiararsi non disposta a seguire quest'imposizione, op-
pure mostrarsi disposta ma solo a parole perché non ha il coraggio,
per timidità, di confessare che non è intimamente convinta o coe-
rentemente decisa. Il miglior confessore non è quello che sa solo
imporre gli obblighi ma quello che sa anche intuire come il
penitente reagirà ai suoi consigli ed ha la pazienza di compiere il
lavoro di persuasione per sgomberare certi spiriti da errori ed
212
illusioni (l'illusione di non bruciare accostandosi al fuoco): il
confessore che cerca e propone al penitente i motivi più efficaci
per sbloccare la situazione, i motivi dell'amore di Dio e, se neces-
sario, del timore di Dio.
3. Altro prudenziale accorgimento. Prima che il confessore
dichiari al penitente che è obbligato a lasciare un'occasione, consi-
deri se sia più difficile, nel caso concreto, ottenere che eviti il
peccato, pur rimanendo nell'occasione, oppure che allontani o
lasci l'occasione con un atto positivo che può importare tanta fede
e tanto coraggio. Se il penitente non l'ha e non adempisse tale
imposizione del confessore, c'è il rischio che manchi e nel non
lasciare l'occasione e poi nel cedere alla tentazione. Il Segneri,
dopo aver ricordato che « quasi tutti i Dottori si riportano alla
prudenza del Confessore, che attese bene le circostanze determini
il danno » che uno avrebbe lasciando l'occasione, aggiungeva che
« il precetto di fuggire l'occasione è stat'imposto dalla Legge
naturale per diminuire i peccati, non per accrescerli. Adunque
quando il togliere l'Occasione è più difficile in pratica, che non è
difficile posta l'Occasione, l'evitare effettivamente il peccato, non
vi può essere obbligatione di toglierla: altrimenti si accrescerebbe
il pericolo di raddoppiare la colpa per quei medesimi mezzi, che
sono prescritti dalla Legge a distruggerla » (i7 Conf. istruito,
p. 48).
È ovvio però che se il non romperla con un'occasione impli-
casse anche uno scandalo pubblico allora s'aggiunge un'altra legge
morale naturale che il confessore non può dimenticare.
4..Ma per assolvere subito il peccatore basta che trovi in lui
il proposito sincero, non solo quando l'occasione è « necessaria »
(e richiede la volontà di usare i mezzi immunizzanti) ma anche nel
caso d'occasione « libera » (che dev'esser abbandonata); non solo
nel caso d'occasione « non presente », ma anche in quello d'occa-
sione « presente ». Non è necessario che il penitente abbia dato
prova d'aver effettivamente lasciata l'occasione: se ha il proposito
sincero di fare tutto quanto sta in sé colla grazia di Dio, è degno
di ricevere subito la grazia sacramentale che sarà, per lui, una
forza a realizzare quanto ha proposto e quanto Dio domanda
da lui 8 .
8
Pili severo s. Carlo nelle sue « Avvertenze » ai confessori: se il pe-
nitente si trova in occasione continua che di per sé costituisce pericolò
prossimo ed è libera, «come tener la concubina o simile, non deve il
213
I I I . Però è evidente che questo proposito di lasciar l'occasione
è il più costoso ed impegnativo. E di fatto il confessore si prepari
a trovare, in genere, il penitente restio a questa decisione, anche
quando sarebbe la soluzione liberatrice. È restio per varie ragioni.
Talvolta, ad esempio, disapprova, detesta, da parte sua eviterebbe
certi atti sessuali, ma gli sembra impossibile soffocare l'affetto del
cuore; pensa, sulle prime, che un'amicizia possa continuare con-
servandosi sul piano spirituale-sensibile. Ma una moglie che cerca
e favorisce un'amicizia extraconiugale per riempire il vuoto che
prova per mancanza d'affetto verso il marito, dovrebbe prevedere
che, oltre al proprio cuore, darà ad un altro uomo — un momento
o l'altro ma con ogni probabilità — tutta se stessa, per un adul-
terio spirituale e materiale. Talvolta l'occasionario presume nelle
sue forze di resistere alla tentazione: pensa che colla buona volon-
tà ed i mezzi soprannaturali supererà il pericolo. Altre volte, per
debole spirito di fede, perché tiene molto al posto che occupa:
posto che, in qualche ambiente, purtroppo, è dato con preferenza
a qualcuna che, oltre ad un buon servizio, è disposta a prestare
qualcosa d'altro. Bisognerebbe indurre l'anima a riflettere che
la sua salvezza va sopra tutti i vantaggi terreni e ben merita
qualunque sacrificio: « Se... la tua mano o il tuo piede ti è occa-
sione di peccato, mozzalo...; è meglio per te entrar nella vita
monco o zoppo che esser gettato con due mani e due piedi nel
fuoco eterno » (Mt. 18, 8).
Poiché ha la viva coscienza del suo ufficio, il confessore, in
certi casi, si sente come dibattuto in un intimo conflitto: da una
parte non vuol dare l'impressione di minimizzare il dovere del
penitente di evitare il pericolo, dall'altra ha paura che il penitente
non si mostri disposto a seguire una direttiva decisa. Non intendo
riferirmi ai casi nei quali occorre solo un po' di volontà e di
confessore assolverlo se prima non lascia essa occasione » (Acta Eccl. Me-
diol., II, col. 1885). S. Leonardo da Porto Maurizio si conforma alla di-
rettiva di s. Carlo: « Certo è che in simili casi non si deve assolvete se
prima attualmente non si tronca l'occasione » (Discorso Mistico e Mt 'ale,
n. 23, 1739, p. 107). (Non si dimentichi le condizioni dei tempi: la fa-
cilità e l'abitudine di conciliare pratica religiosa e vita peccaminosa).
Anche s. Alfonso afferma la stessa regola « ordinariamente parlando »,
eccetti cioè casi speciali, per esempio quando il penitente dimostrasse stra-
ordinari segni di dolore (Prat. del Con]., nn. 61-62). Gli argomenti di
s. Alfonso però non sembrano convincenti: l'occasione, finché non è di-
messa, costituisce un pericolo, ma la grazia del sacramento può dare (come
si spera) la forza di mantenere il proposito.
214
coraggio per evitare (ad esempio con una scusa) un'occasione peri-
colosa, quale può essere una gita, una conversazione notturna, un
ballo che si sa per esperienza essere estremamente eccitante (per
l'una o l'altra parte)... Non si può, quando non ci siano speciali
difficoltà indipendenti dalla volontà, far discussioni: il penitente
sincero, pel fatto stesso che è venuto a confessarsi, deve avere
(almeno « hic et nunc ») il debito proposito risoluto. Ci sono,
dall'altra parte, situazioni nelle quali non si potrebbe consigliare
di lasciar l'occasione neppure all'anima più generosa: è il caso di
un medico che si è lasciato travolgere dalla tentazione nel norma-
le esercizio della sua professione, d'un sacerdote che per necessità
di ministero è messo a contatto con determinate persone. In queste
occasioni « necessarie » occorre che il penitente si disponga ad
usare energicamente i mezzi per non cadere. Ma fra questi due
tipici casi estremi (di occasione « libera » e di occasione « neces-
saria ») ce ne sono altri nei quali non si verifica lo stato di stretta
« necessità »; il lasciare l'occasione importerebbe però qualche
inconveniente e qualche danno (e non solo un rincrescimento sog-
gettivo e un dispiacere d'ordine affettivo). Come norma, quanto
maggiore è il pericolo effettivo di peccato e quanto più grave è
il peccato (in sé e nelle sue conseguenze, tenuto conto anche
dello scandalo che produce) tanto più grave ragione dev'esserci
perché si possa ritener l'occasione come « necessaria » e si possa
ritenersi scusati dal lasciarla. Nel dubbio se sia il caso d'indicare
al penitente la via più sicura o meno, il confessore potrà assolverlo
se gli pare che abbia il proposito serio d'usare i mezzi per vincere
la tentazione. Però, in seguito, l'esperienza può ammaestrare con-
fessore e penitente che praticamente questi mezzi non sono serviti
a render « remota » l'occasione « prossima ». Realtà purtroppo
frequente. Colpa certamente del penitente che non ha usato tutti
i mezzi che poteva per preservarsi dalle cadute. Sta il fatto che
le cadute si ripetono. Son questi i casi più spinosi pel confessore.
Strettamente egli può assolvere anche questi occasionari recidivi
purché (al presente almeno) propongano sinceramente d'usare con
più impegno i mezzi necessari. Non si può però negare che, specie
in tali casi, sarebbe quanto mai consigliabile fare un taglio netto
(con quell'amicizia, quell'ufficio, quella casa, quel gruppo, quel-
l'ambiente...). Costerebbe minor sofferenza e pena che il combat-
tere settimane, mesi, anni contro un'occasione continuamente vi-
cina, implacabilmente assediante (è un'illusione il pensare di riu-
scir a ridurre o limitare certe relazioni alla semplice affettività
215
spirituale). Ma occorrerebbe generosità e decisione. Ad esempio,
un religioso od una religiosa (anche se superiori d'una comunità)
possono chiedere un trasferimento adducendo un pretesto; un'im-
piegata — appena può trovare un altro ufficio che le dà i mezzi,
per vivere — lascerà quel posto di lavoro che è un'occasione abi-
tuale di peccato; chi in un reparto di fabbrica, ospedale, azienda,
vede che, rimanendo dov'è, non avrà la forza di rompere un
legame con una donna che ivi lavora (e non può sposare) veda
se può ottenere il proprio trasferimento in un altro reparto (tanto
più se è stato lui che l'ha sedotta e rovinata). Certo, ogni cambia-
mento pesa, ed è sempre, sulle prime almeno, un incomodo non
indifferente, importa qualche incognita, rischio, inconveniente
imprevisto. Ma sono rischi che assicurano la liberazione e la
salvezza.
4. Recidivi
216
S. Alfonso (Th. Mor., VI, n. 459; Pratica del Confessore, e. V,
n. 66) ed alcuni moralisti con lui, richiederebbero che i recidivi
— se vogliono esser assolti — diano qualche segno « straordina-
rio » di dolore. Perché, dicono, dev'esser eliso il sospetto che non
siano sufficientemente disposti. Sospetto causato dalle ricadute
stesse. È da rispondere che se al presente ci son segni di vero
dolore e di proponimento, il sospetto è già tolto; e pertanto non
si vede perché un tale penitente non possa esser assolto, anche
se non presenta segni straordinari di penitenza 9 . È per la debo-
lezza costituzionale della natura umana che possono verificarsi
questi due fatti: volontà, oggi, di non peccare, ed inadempienza,
domani, di questo proposito. Tanto più quando si tratta di consue-
tudini per concupiscenza (« antecedente » l'atto umano) la quale
diminuisce il libero arbitrio (come in certe miserie solitarie di
peccato impuro). Del resto, ci sono circostanze ed atti che pos-
sono far pensare all'esistenza di disposizioni penitenziali piuttosto
straordinarie. Il fatto stesso di andar a confessarsi in certe zone
scristianizzate; la vittoria sul rispetto umano (tanto forte in
certuni); il sacrificio del viaggio fatto per portarsi in chiesa, la
paziente attesa fra tanti penitenti, l'ascolto della predica (oltre
la Confessione)... La dilazione dell'assoluzione (che, in pratica,
agli occhi del penitente, significa negazione, per quanto vellutata)
oggi non è, in genere, fruttuosa. Poteva esserlo in epoche passate:
anime che avevano istruzione e fede ma poca coerenza, si sentiva-
no impressionate e salutarmente scosse, erano indotte a riflettere
ed a convertirsi sinceramente 10. Ai nostri giorni bisogna cercar di
disporre chi non lo è (o lo è dubbiamente) e poi, appena possibile,
9
« Poenitere est anteacta peccata deflere, et flenda non commit-
tere, scilicet simul dum flet vel actu, vel proposito. Ille enim est irrisor,
et non poenitens, qui simul dum poenitet, agit quod poenitet, vel pro-
ponit iterum se facturum quod gessit, vel etiam actualiter peccat eodem
vel alio genere peccati. Quod autem aliquis postea peccat vel actu, vel
proposito, non excludit quin prima poenitentia vera fuerit: numquam
enim veritas prioris actus excluditur per actum contrarium subsequentem;
sicut enim vere cucurrit qui postea sedet, ita vere poenituit qui postea
peccat » (S. Th. Ili, 84, X, ad IV).
10
Cosi s. Carlo nelle sue « Avvertenze » ai confessori poteva sugge-
rire che chi suol cadere in occasione prossima libera (non continua e non
presente) deve promettere di lasciarla (per esser assolto); ma « se avendo
promesso altre volte nondimeno non si sia emendato, (il confessore) dif-
ferisca l'assoluzione fin tanto che veda qualche emendazione » (Ada Eccl.
Mediol., II, e. 11, 1884).
217
assolverlo (almeno condizionatamente). Specie se si tratta di
gente che in fatto di religione mostra tanta ignoranza e grossola-
nità, viene a ricevere i sacramenti molto raramente. Negare o
differire l'assoluzione potrebbe causare un avvilimento con pro-
blematico risultato. Dobbiamo far capire che ricever l'assolu-
zione è un impegno alla coerenza, ma insieme (per quanto possi-
bile) far in modo che il penitente non si allontani del tutto dalla
pratica sacramentaria. Vorrei dire che questa norma di massima
si può estendere anche a certe anime di debole fede e scarsissima
pratica religiosa, le quali si trovano in qualche occasione libera,
propongono di lasciarla ma non mantengono: si spera che col-
l'aiuto della grazia rafforzino la loro volontà: « dicendum quod
maius remedium praebetur contra peccata vitanda ex gratia quam
ex assuetudine nostrorum operum » (S. Th. Suppl. 25, 1, ad IV).
Insomma, pare che oggi convenga che il confessore (nel dare
o no l'assoluzione) inclini piuttosto verso la misericordia che verso
il rigore della giustizia. Comunque, quando il ministro del sacra-
mento agisce con rettitudine d'intenzione, cercando il bene del
penitente, Dio interverrà a riparare qualche eventuale sbaglio,
qualunque possa essere, per eccesso sia in un senso sia in senso
opposto. Può darsi che — in due casi simili — dei due confessori,
uno si senta piuttosto ispirato a scuotere il penitente, l'altro a
mostrar compassione, a toccare e intenerire il cuore, a piegare la
volontà dolcemente colla bontà. Dio sa ricavare vantaggio per
un'anima sia dall'uno come dall'altro comportamento dei confes-
sori. Perciò può capitare ad un confessore di sentire un penitente
che si lamenta di non aver ricevuto l'assoluzione da un primo
confessore. In tal caso non è mai opportuno che il secondo
confessore — anche se giudica che il primo ha agito con troppa
rigidità od in un momento d'impulsività — ne critichi apertamente
l'operato. Dirà semplicemente che forse non ha capito bene la
situazione perché il penitente non s'è spiegato chiaramente (come
invece ha fatto in questa nuova Confessione). Però può anche darsi
che il penitente, impressionato dalla lezione ricevuta, sia ritornato
a confessarsi con ben diverse disposizioni, anche se a lui sembra
d'esser lo stesso (l'amor proprio impedisce di riconoscere che la
misura usata, umiliando l'anima, ha giovato). In tal caso non ci
sarebbe che da far capire che il primo confessore ha agito ragio-
nevolmente perché allora, forse, il penitente non aveva mostrato
un deciso proposito, quale ora.
218
3. Nella cura spirituale dei recidivi (che di solito sono anche
consuetudinari) il confessore procurerà d'ottenere un sincero pro-
posito (che provochi lo sforzo attuale d'una volontà coerente),
qualunque siano state le Confessioni ed il passato del penitente.
La guarigione — di fatto e di solito — non si ottiene istantanea-
mente. Però il confessore deve conservare la fiducia ed infonderla
nel penitente. E tenendo conto che si tratta, di solito, non solo di
recidivi, ma di consuetudinari — mossi dalla forza della concupi-
scenza antecedente e dell'abitudine contratta — proprio per questo
il confessore avrà speciale compassione, pazienza ed indulgenza.
Certamente per riuscire a ridurre progressivamente la frequenza
delle sue ricadute e giungere alla piena liberazione, il peccatore
recidivo avrebbe bisogno d'una direzione spirituale stabile e con-
tinuata. Invece spesso avviene ch'egli si confessa presso diversi
sacerdoti secondo il momento e l'occasione; e forse non trova
mai un confessore che s'informi del suo stato e pensi a dargli i
consigli necessari. Bisognerebbe quindi consigliarlo a ricorrere
possibilmente allo stesso confessore e quanto più frequentemente è
possibile. Ed al confessore bisognerebbe consigliare di non accon-
tentarsi d'assolvere ma di voler praticare anche un minimo di dire-
zione spirituale. Potrà quindi, appena sospetta che si tratti d'un
recidivo, fare qualche discreta domanda: scf simili mancanze son
compiute abitualmente, da tempo; quali raccomandazioni gli son
state fatte da altri; se, oltre alla passione interna, c'è qualche
occasione anche esterna... Osserva s. Alfonso (Pratica del con-
fessore, e. V, nn. 68-69) come più che non verso gli occasionari,
bisogna usare bontà ed indulgenza verso coloro che soccombono
per debolezza intrinseca, come accade nei peccati di collera, di
bestemmia, di pensieri impuri, di polluzioni solitarie... Perché
l'occasione esterna eccita dei pensieri assai più vivi e la presenza
dell'oggetto o della persona commuove più facilmente i sensi e
rende quindi più intenso l'amore al peccato di quanto non lo
faccia la cattiva abitudine. Inoltre, una volta presa — sia pur
colpevolmente — un'abitudine, esiste un'inclinazione, alla quale
bisognerebbe resistere, ma che non dipende attualmente dalla
volontà. Mentre dipende dalla volontà il togliere o non togliere
l'occasione libera. Perciò il penitente deve farsi forza per allon-
tanare l'occasione, se è libera, o per neutralizzarla e rendersi
invulnerabile se l'occasione è necessaria.
219
4. In conclusione, ai recidivi bisogna mostrare paternità e
dolcezza per preservarli dallo scoraggiamento ed insieme esortarli
a non desistere mai dallo sforzo di correggersi, ad avere il corag-
gio di fare sempre gli stessi propositi: questo è l'autentico spirito
evangelico. Fiduciosamente, ma umilmente, per non cedere alla
tentazione di scusarsi e di giustificarsi: su questa via si arrive-
rebbe a difendere il male, all'amoralismo. Ma carità e tenerezza
del confessore, queste dovranno crescere a mano a mano che il
penitente moltiplica i suoi peccati. Questi deve sentire che è
sempre invitato a ritornare alla casa del Padre e che la porta
è sempre aperta. Misericordia da usare e conciliare, da parte del
confessore, con una certa fortezza, quando occorre. Perché si
può dare anche il caso di chi s'accontenta d'accusare i peccati
ma non vuol proporre (per egoismo, indolenza, incoerenza) di
romperla con un'occasione libera e cosi non fa solo del male a se
stesso ma detiene qualche vittima in stato di peccato e di schiavitù.
Bontà, prudenza, fermezza. Saper conciliare queste virtù non è
facile per un Confessore. Suppone una luce ed una forza interiori
che vengono dalla grazia e dalla santità.
5. Abitudinari
1. Sono coloro che, in. seguito alle ripetute cadute nello stesso
peccato, ne contrassero forte inclinazione e per la prima volta se
ne confessano. Se si fossero confessati molte altre volte, allora
sarebbero anche « recidivi ». Per sé, quindi, il penitente potreb-
b'esser « abitudinario » senz'esser « recidivo ». Se si sta alle
leggi della natura e della psicologia umana, normalmente i vizi
non si perdono di punto in bianco. Ma non è escluso che la grazia
dia la forza al penitente generoso di fare una Confessione con
fervore straordinario e, poi, d'intraprendere una pratica assidua
di preghiera e di mortificazione, cosi da non ricadere più nel
peccato grave. Ed il « recidivo » è sempre un « abitudinario »?
Ordinariamente si. Però, ad esser esatti, l'abitudinario è colui che
suol commetter un determinato peccato non solo con una certa
ripetizione, ma con facilità e forte inclinazione. Per giudicare se,
nel caso concreto, un penitente abbia o no contratto una vera
abitudine, bisogna considerare tutte le circostanze: la frequenza
delle cadute, la materia; ad esempio, molto maggior frequenza si
richiede quando si tratta di bestemmie che quando di peccati
220
(esterni e consumati) contro il sesto comandamento: il ricadere
in questi più volte al mese per lungo tempo (un anno) si può
ritenere già un'abitudine. Bisogna considerare anche l'indole del
soggetto e la sua inclinazione ad un dato disordine morale: quanto
più forte è questa strutturale propensione, tanto più rapidamente
si contrae l'abitudine. L'inclinazione, a sua volta, s'accresce col
ripetersi degli atti. Specialmente di quelli esterni, i quali suppon-
gono una più deliberata, decisa, audace, sfrenata determinazione
da parte della volontà. Dapprima il peccatore deve quasi farsi
violenza quando trasgredisce la legge morale. Poi può subentrare
una certa indifferenza alla malizia di tali atti che diventano quasi
una seconda natura.
2. La consuetudine, per sé, non crea speciale difficoltà pel
confessore in ordine all'assoluzione. Anzi, siccome la debolezza
s'accresce per la consuetudine, è meno colpevole chi ricade in
forza d'una inclinazione (antecedente l'atto volontario) di chi ha
minor trasporto spontaneo e cerca le eccitazioni. La consuetudine,
per sé, non è peccato, ma un'inclinazione a peccare. Taluni si
credono pessimi perché hanno una fortissima concupiscenza. Non
è giusto il giudicarli tali, ma non si deve neppure scusarli: c'è
pericolo che pensino che la concupiscenza è invincibile. Il consue-
tudinario, pertanto, può esser assolto anche se non è preceduta
alcuna emendazione purché ne abbia la seria volontà col proposito
d'usare i mezzi naturali e soprannaturali necessari.
3. Difficile è bensì che il consuetudinario si corregga effet-
tivamente e prontamente. Tanto più difficile quanto più la consue-
tudine è radicata. Perciò sarebbe un problema per chi stesse per
assumere l'impegno della castità (con l'Ordine Sacro o la profes-
sione religiosa). È per questo che si richiede una prova sufficiente.
Senza la quale può esserci fondato dubbio che uno mantenga
quanto s'appresta a promettere: il voto di castità sarebbe teme-
rario. Ma il semplice penitente, in quanto tale, può esser, per sé,
sufficientemente disposto all'assoluzione anche se umanamente
è prevedibile che non si correggerà subito. Ottimo rimedio per
vincere le consuetudini impure (le più frequenti) è l'uso assiduo
dei sacramenti della Penitenza e dell'Eucaristia. I penitenti stessi
spesso riconoscono e dicono espressamente che se avessero la forza
d'esser fedeli alla Confessione ed alla Comunione sarebbero anche
in grado di vincere le tentazioni. Non è facile che in pratica, specie
oggi, usino altri mezzi: non pregano, non leggono libri spirituali,
non meditano, non recitano il Rosario (come si faceva un tempo).
221
Perciò non raramente l'uso dei sacramenti dovrebbe dirsi un
mezzo necessario (anche se non si può strettamente imporlo).
6. Carcerati
222
condo il capriccio personale, i rapporti sessuali extraconiugali
(solo parte dei detenuti sono ammogliati).
Il sacerdote deve conoscere la realtà della vita carceraria. Ma
non per questo deve perder l'entusiasmo della sua missione. Un
cappellano, un confessore che sia intelligente e santo potrebbe
ottenere anche conversioni quasi miracolose.
2. Ogni detenuto merita gran compassione. Come tutti coloro
che soffrono (anche se non sanno sfruttare la sofferenza per
redimersi ed elevarsi). Come le prostitute che si dicono infelici,
possono versar lagrime, senza però desistere dal loro degradante
mestiere. Avere compassione ma non esser neppure ingenui. È
gente che può continuare a perseguire anche in prigione quello che
ha fatto prima (se capita l'occasione rubano, hanno rapporti ses-
suali, altrimenti si soddisfano da soli). Pel fatto che hanno l'aspetto
dei falliti, dei finiti e dei pentiti non vuol dire che siano convertiti.
La bugia e la doppiezza è talora, nei delinquenti di professione,
una componente della loro struttura psicologica e della loro per-
sonalità. Alle volte, son finti e mendaci senza saper d'esserlo. È
questa una caratteristica dei tipi anormali (frequenti fra i crimi-
nali e le donne di malaffare). Ed è l'arma dei malviventi reclusi.
Forse l'unica. Forse, per cosi dire, con un certo fondamento giu-
ridico, dato che hanno sempre il diritto di negare il proprio reato
(eccetto che in Confessione).
3. Il confessore non ignori tutto questo. Possono non esser
pessimi, ma non è improbabile che si servano di tutto, anche della
pratica religiosa (più o meno in buona fede) per raggiungere
scopi materiali (aiuti, raccomandazioni presso giudici, guardiani,
direttore del carcere). Cosi una prostituta può venire anche alla
Comunione per far credere che s'è convertita e per trarre in
inganno qualcuno da cui spera avere dei vantaggi. Quindi, per
principio e per presunzione, non si può credere a tutto quanto
dicono. Ma neppur contraddirli senza carità disprezzandoli ed
umiliandoli. A proposito, in particolare, dei reati loro imputati, il
sacerdote che li avvicina noterà che ci son quelli che riconoscono
sinceramente d'aver mancato (pur con l'aggiunta delle attenuanti,
ad esempio per un momentaneo stato d'ebrietà). Altri negano
sempre (anche dopo la sentenza) d'esser colpevoli e sostengono l'er-
rore giudiziario. Può anche essere. E se, quanto al resto, sono
pentiti e dan segni di fede, si potranno assolvere: sotto condizio-
ne perché resta pure un indizio sfavorevole. È certo che, almeno
tempo addietro, qualcuno conciliava abbastanza pacificamente pra-
223
tica religiosa, bugie e furti. Oggi speriamo ci sia, in chi esterna-
mente non rifiuta gli atti di religione, una fede più autentica e
meno formalistica; e, d'altra parte, speriamo non ci sia chi si pro-
fessa irreligioso poco sinceramente, cioè più che altro per rispetti
e motivi umani. Potrebbe anche darsi (come dicevo) che qualcuno
non sia perfettamente normale: la bugia entrerebbe allora nel
suo temperamento e nel suo comportamento senza ch'egli abbia
coscienza della sua malizia morale, anzi, senza che abbia la coscien-
za di mentire. Certi tipi bisognerebbe avvicinarli spesso se si
volesse aver elementi per un giudizio fondato. E talora si stenta,
comunque, a formularlo perché sono abilissimi ed abilissime.
4. Per tali ragioni sarebbe meglio che facessero la loro Con-
fessione presso un sacerdote estraneo e non presso il cappellano
delle carceri; tanto più se sanno che questi fa parte del consiglio
di disciplina dell'istituto penitenziario: c'è pericolo e tentazione
che vengano da lui per ottenere qualche favore e raccomanda-
zione. E Chanson scrive che sarebbe bene si confessassero solo
dopo che l'istruzione giudiziaria è compiuta, altrimenti è quasi
impossibile che siano sinceri e pentiti (A. Chanson, Per meglio
confessare, 1956, p. 252). E sarebbe bene fossero avvisati che dal
confessore non avranno aiuti materiali ma solo il perdono dei
peccati: quindi è inutile vadano da lui per altre ragioni. E bene
anche ricordar loro che il confessore è obbligato al più rigoroso
segreto: non farà il minimo cenno di quanto ha sentito con nes-
suno, né con guardiani, né con avvocati, né coi giudici. Sappiano
pertanto che la Confessione — se vogliono che sia efficace — non
serve ad altro che all'anima; per il resto non porterà né alcun dan-
no, né alcun aiuto direttamente (A. Chanson, Le).
7. Prostitute
224
sintomo della degradazione morale del nostro tempo, proprio
mentre si sperava che la chiusura delle case di tolleranza avrebbe
contribuito ad un risanamento del costume (G. Garbèlli, La pro-
stituzione in Italia oggi, Ed. Paoline, 1973, p. 43).
2. Molte di queste donne, ad un certo momento della loro
esistenza, devon essere giudicate con infinita compassione. Il
più delle volte hanno-imboccata la via che le ha portate alla
rovina perché erano ignare, ingenue e si son lasciate ingannare o
suggestionare. Pensavano che tutto si limitasse ad alcune affetti-
vità e carezze (e per la donna questo può essere sufficiente per sod-
disfare in pieno la sua sensualità). Alcune sono state rovinate ed
hanno cominciato una vita viziosa quand'erano ancora ragazzine.
Per molte c'è stato il deleterio influsso della situazione familiare.
Molte rimasero prive dell'affetto dei genitori, sono orfane di
padre o di madre, o figlie di ragazze-madri: ecco allora le « fughe »
di giovanissime che s'infatuano di qualche ragazzo e lo sposano
in fretta. Dopo appena un anno di matrimonio avviene facilmente
la rottura. Subentra quindi uno stato di tensione. Ed allora cer-
cano una liberazione nell'incontro con altri uomini. Lo spirito
geme nella nostalgia d'un amore deluso. Per qualcuna di queste
relazioni susseguentisi ci può esser anche l'elemento affettivo.
Comunque, ormai hanno iniziato la discesa sulla china che porta
all'abisso: fatta un'esperienza, sono sollecitate a provarne altre,
forse per stordirsi, dimenticare, vincere l'infinita malinconia verso
la quale si sentono disperatamente franare.
Vittime, dunque, di squallide situazioni familiari, di delusioni
e di tradimenti. In Italia il 4 1 % sono «fuggitive»; di questo
4 1 % , l'82% lasciò la casa dai 12 ai 19 anni (quindi senza la
piena consapevolezza dei rischi, Garbèlli, o.c, p. 43). Per altre il
bisogno economico, è stato la causa per cui hanno ceduto. Altre
volte, ancora, è stata la promessa (non mantenuta) di matrimonio
il tranello che le ha fatte cadere. Talune hanno per ereditarietà
una natura caratteristicamente sensuale, tanto che si è parlato di
« prostitute nate ». Ciò non va generalizzato: se sono, più o meno,
anche fisicamente e psichicamente tarate, ciò può esser anche la
conseguenza della loro sregolata e tempestosa condotta di vita.
Consta che solo in via eccezionale sono state indotte a quel me-
stiere da una iperestesia sessuale. Esiste si qualche prostituta
costituzionale, ma la spiegazione lombrosiana è oggi sempre più
messa in dubbio. Ordinariamente non provano inclinazione alcuna
a compiere l'atto sessuale; ne sono anzi disgustate (Garbèlli, La
225
prostit. in Italia oggi, p. 34). È innegabile però (lo si vede nelle
carcerate) che la loro fame del sesso è diventata un tormento.
Sono sensibilissime ed avidissime di amicizie particolari (con mani-
festazioni esterne passionali). Il sesso è il loro chiodo fisso. Non
possono non parlarne. Vanno al cinema perché questa è la materia
del film. Non leggono che libri che trattano di questi argomenti
e cercano i più piccanti, pornografici e veristi sull'istinto (normale
od anormale) del sesso. Alcune confessano che impazzirebbero se
non potessero soddisfare la loro passione (secondo o contro na-
tura). Se in carcere vedono un uomo non son capaci di non guar-
darlo e di distogliere lo sguardo da lui.
D'altra parte, fanno pietà perché sono e si dicono infelici. I
medici che le avvicinano nei reparti clinici (dove sono curate
dalle malattie veneree) affermano che son poche quelle che non
conoscono la depressione e l'angoscia e che quelle poche risultano
psichicamente anormali (P. Babina, Corruzione della donna, re-
sponsabilità dell'uomo, Milano, I.P.L., 1942, p. 48).
3. Nei primi anni del loro smarrimento c'è qualche umana
speranza di salvarle. Se la loro vita di dissipazione si è ormai
protratta per lungo tempo, danno l'impressione d'esser struttural-
mente fissate in un'invincibile consuetudine. Ciò non toglie che
possano, ogni tanto, recarsi in chiesa, e persino accostarsi ai
Sacramenti. Ma il vizio resta: è diventato una seconda natura. La
loro pratica religiosa come va giudicata? È espressione d'una
mentalità legalista cosicché la considerano come un compenso per
regolare i conti con Dio? Oppure è segno d'una fede sincera ma
che non ha la forza d'esser coerente, d'una volontà e di un'umile
speranza di non rompere ogni legame con l'ai di là? Di fatto è una
religiosità superficiale che non porta una trasformazione della vita.
La conversione di queste donne (almeno finché hanno salute suf-
ficiente per godere la vita) è un problema difficile. Ci sarebbe
bisogno d'una radicale riforma perché, ordinariamente, tutta la
loro vita è disordinata. Fumatrici accanite, spesso dedite all'alcool,
non raramente alla droga, senza regola alcuna nei pasti e nel
riposo: la loro regola è l'istinto, il capriccio, il piacere (il che non
esclude gesti di bontà, di generosità, di compassione per gli altri).
Specialmente nelle drogate c'è un'ossessione del sesso.
È stato scritto che nelle carceri circa il 20% sono mercenarie
del sesso. Per queste recluse — se si sta a certe inchieste — si
dovrebbe esser pessimisti circa la speranza di redenzione. Non
sono in galera solo per aver commesso qualche grosso sbaglio o
226
qualche debito. Sono viziose che hanno perduto ogni ideale. Non
credono in una società che possa diventare migliore. Sono preoc-
cupate solo di sé stesse, di soddisfare le loro passioni: sesso, alcool,
fumo, droga. E, per farlo, sono pronte anche a rubare. È da
aspettarsi (come di fatto avviene) che, uscite dal carcere, ripren-
dano la vita di prima. Qualcuna va a convivere stabilmente con
uno sposato. Quelle che si sposano, facilmente e ben presto si
separano dal marito. Non si sa se la vita dissipata abbia portato
in esse qualche squilibrio psichico, o viceversa. Una cosa è certa:
alle loro parole non si può credere. Sapendo che non cambieranno
condotta, cercano ogni espediente per scusarsi. Vorrebbero farci
credere che han trovato il fango nel carcere (anche in qualche
persona religiosa che si è votata alla verginità) e che nel carcere
son diventate peggiori. Solo un miracolo della grazia potrebbe
operare la loro conversione. Tuttavia anche le peggiori meritano
gran compatimento perché noi non conosciamo le cause remote
che le hanno portate a tale insensibilità, amoralismo, fissazione
perversa. Basti pensare che la grande maggioranza delle donne
che vanno in prigione sono analfabete o semianalfabete. Qual-
cuna, quand'era ancora giovanissima ed ignorava il male, ha subito
violenza; qualcuna è stata vittima d'un padre alcoolizzàto e bestiale
dal quale non hanno saputo liberarsi, difendersi, fuggire, contro
il quale non hanno avuto il coraggio di sporger denuncia rivelando
l'incesto.
4. Alcuni caratteri tipici di queste donne:
a) incostanza, variabilità d'umore e di sentimenti (sintomo
dell'isterismo). In carcere con tutta facilità s'aggrediscono e si pic-
chiano; poco dopo fanno pace e si danno baci ed abbracci;
b) la finzione (conscia od inconscia) è comunissima (come
nell'isterico). Possono andare alla Comunione per far credere che
si son convertite se è loro interesse conquistarsi la stima d'un
sacerdote o di qualche altro;
e) hanno atteggiamenti contraddittori. Accettano in dono
la corona del Rosario e la tengono con sé, ma, in altra occasione
bestemmiano; baciano un'immagine sacra, una medaglia che si
regala loro e, più tardi, proferiscono un discorso sconcio. Sono
molto generose con l'individuo a cui si affezionano. Ma, all'occa-
sione buona, sono capaci, con tutta disinvoltura, di rapinarlo.
Molte hanno una naturale generosità nel dare, nel prestarsi e
prodigarsi che le rende simpatiche. Ma non si può fidarsi. Son
227
facili a mettere le mani sulla roba d'altri od a suggerire e favorire
qualche furto da parte dei loro amici. In genere la prostituzione
è in stretto legame e complicità colla malvivenza e la delinquenza;
d) raramente dotate d'un aspetto avvenente, talora ele-
ganti, ma spesso vestite in forma dimessa, modesta e senza trucchi
(sia per naturale trascuratezza, sia per l'intento di non esser no-
tate) sanno usare tutte le arti per far cadere sugli altri respon-
sabilità, sospetti, calunnie, difetti, sollevare supposizioni imma-
ginarie. Perciò mi chiedo quanto credito meriti qualche inchiesta
sulle voci di prostitute ex detenute;
e) non si ignori che sono particolarmente attratte verso
coloro che non hanno ancora perduto il candore della loro pu-
rezza e verginità: esca desideratissima che tentano con tutti i
mezzi di carpire, sia per confermarsi nella persuasione che la
castità è impossibile, sia per aver la soddisfazione di conquistare
e far cadere chi si credeva invulnerabile, sia perché si tratta di
uomini ancora illibati coi quali non corrono il rischio di con-
taminarsi.
5. Cristo incontrò anche le prostitute, parlò loro, perdonò loro
aggiungendo la raccomandazione di non più peccare. Compren-
sione, compassione, ma discrezione nelle Sue parole. Non sap-
piamo se tutte avranno corrisposto al Suo perdono ed al Suo
invito. La grazia di Dio può toccare ogni cuore, riportare la vita
e ricostruire l'unità sui frantumi d'un'anima spezzata e spenta.
Il sacerdote al quale sia offerta l'occasione di porgere una mano
ad una di queste sventurate nel tentativo di salvarla, agirà — come
il Maestro — con la semplicità e la dignità dei puri di cuore,
ma con la cautela di chi conosce il mondo. Con carità ma con
gli occhi aperti. Non dimenticherà che si tratta di gente strut-
turalmente falsa (in mala o buona fede). Non ignorerà che ci sono
quelle dalla doppia vita: le quali fanno le serie colle persone
serie e la notte si danno alla prostituzione (od albergano le
prostitute). Ma prendono l'atteggiamento delle offese e delle
calunniate se sono scoperte e qualificate per quel che sono. Si
presentan sempre come vittime: a sentirle, avrebbero sempre
ragione, il torto sarebbe sempre del marito il quale (dicono) non
le rispetta, le sospetta, le picchia. Perciò non meraviglia che,
con chi spera di convertirle, siano disposte a discutere per
ore, ripetendo, su per giù, sempre le stesse cose; ma, alla fine,
forse concluderanno mestamente che non si sentono d'impegnarsi,
228
di promettere, di proporre. Se sono coerenti, diranno che non
si sentono neppure d'accostarsi ai sacramenti della Confessione
e della Comunione.
Ma se qualcuna (che non è ancora prostituta cronica) desi-
derasse sinceramente di rialzarsi e si rivolgesse al sacerdote, egli
potrebbe darle grande aiuto. Purché però sappia usare discre-
zione, tatto, intelligenza. Sbaglierebbe se impostasse tutto il
problema sul piano della responsabilità morale e della colpa grave.
Se si tien conto di tutte le circostanze individuali, familiari,
ambientali, che hanno influito nella vita d'una prostituta, ogni
giudizio semplicistico apparirà carente d'obbiettività. Tanto più
se conduce alla condanna implacabile od all'ironia umiliante. Il
confessore terrà presente di trovarsi di fronte a persone profon-
damente frustrate, coi nervi a pezzi, incapaci di prender deci-
sioni ferme, prostrate dalla sfiducia, instabili per temperamento,
oltremodo impulsive, impressionabilissime. Per tutte queste ra-
gioni, la riabilitazione morale d'una donna perduta sarà pos-
sibile solo se essa avrà l'impressione di trovare chi le dimostra
anche — sull'esempio di Cristo — comprensione, fiducia e stima.
Evidentemente non basterà il generico invito a non voler più
peccare per ottenere lo scopo (noi non siamo, come Cristo, autori
della grazia che trasforma i cuori): bisogna indicare anche i
mezzi necessari. E qui ritorna il discorso che è stato fatto per gli
occasionari, i recidivi, gli abitudinari. Soprattutto bisognerebbe
ottenere che l'ambiente di vita e di lavoro di queste donne fosse
— in un'atmosfera di libertà e di serenità — favorevole alla loro
redenzione morale; ottenere, specialmente, che sostituiscano alle
loro pessime amicizie (quali sono le colleghe nel lurido mestiere)
altre di migliori, dalle quali, quasi insensibilmente si sentano
ricondotte, con delicatezza ed affetto, sulla via della risurrezione
e della salvezza.
8. Tiepidi
229
gli esercizi spirituali più meritori); e neppure la prima istintiva
ripugnanza — possibile anche nei santi — a compiere certe
azioni, ad intraprendere certe attività volute o desiderate da Dio.
Nemmeno possono dirsi in stato di tiepidezza coloro che com-
mettono qualche peccato veniale al quale fanno prontamente
seguire il pentimento ed il proposito. La vera tiepidezza si ha
quando un'anima — pur non giungendo al peccato grave, eccetto,
forse, qualche volta — commette con frequenza ed abitudine
peccati veniali senza più reagire col rimorso ed il dolore, ma
scusandoli: « Non è dunque il fatto del peccato veniale che è
il segno distintivo » della tiepidezza, « è la facilità a commetterlo,
l'abitudine presa e soprattutto l'attacco. La persona tiepida si lascia
andar senza lotta a questa sorta di mancanze... e finisce per vi-
vervi tranquillamente » (Pratique progressive de la confession
et de la direction, Paris, 1903, I, p. 112-113).
I. Questo discorso riguarda e deve interessare particolarmente
coloro che hanno abbracciato uno stato di perfezione (nel quale
godono di privilegiati aiuti spirituali) oppure, attratti dalla grazia,
erano già giunti ad un alto grado di fervore. Per queste anime lo
stato di tiepidezza denota una certa incorrispondenza alla grazia.
É pericoloso. Può far perder anche il sano ed equilibrato senso
del peccato. Ci sono anche coloro che dopo essersi convertiti da
una vita di peccato — si veda la categoria dei « gran peccatori
in via di conversione » — poi si fermano a vivacchiare nello
stato di tiepidezza. Però è meno difficile scuotere queste anime
che non quelle cadute dall'antico fervore nelle quali maggiore
è l'abuso delle grazie e più avanzato l'indurimento della coscienza
(cfr. Prat. progress, de la conf., I, p. 116).
Ci sono poi quei cristiani che vivono nel mondo e si conser-
vano fedeli alla legge morale naturale ed a quel minimo di pre-
ghiera e di pratica religiosa richiesto ad ogni cristiano ed imposto
dalla Chiesa. Per essi, praticamente, non facciamo la questione
della tiepidezza. In genere, coloro che (vivendo fra i pericoli e le
tentazioni del mondo) evitano, lottando, il peccato grave, non
si trovano propriamente in stato di tiepidezza. Avranno una vita
cristiana mediocre per mancanza d'istruzione e formazione spiri-
tuale, però animata da solida virtù (anche se per motivi naturali).
Virtù che qualche volta può raggiunger l'eroismo pel fatto stesso
che si conservano sostanzialmente onesti. Bisogna esortarli a
230
perseverare nella preghiera ed a frequentare, più che è loro pos-
sibile, i sacramenti.
Ci sono poi coloro (uomini in particolare) che sono piuttosto
alieni dalla pietà, quantunque qualche volta, almeno a Pasqua,
si accostino ai sacramenti. Hanno le loro cadute gravi, più o meno
frequenti. Bisogna incoraggiarli e stimolarli a sempre rinnovare
il proposito e la tensione all'onestà e ad usare i mezzi necessari.
Il Frassinetti raccomandava al Confessore di guardarsi « dal sug-
gerire a costoro regole di perfezione, le quali non sarebbero né
gustate né intese. Ordinariamente dovrà contentarsi d'instillare nei
loro cuori l'odio al peccato mortale, e inculcare l'adempimento
dei precetti mostrandosi intanto franco, disinvolto, indulgente e
benigno ». Altrimenti — diceva — c'è pericolo che lo tengano
in conto di uomo bigotto, come essi dicono, e rifuggano dal ri-
tornare (Man. Pan. nov., p. 353). Benignità si, ma, intendiamoci,
anche fermezza nei principi, per esempio, nel richiedere l'abban-
dono delle occasioni prossime di peccato. Del resto, un invito
discreto a vivere generosamente la vita cristiana (senza fissare ed
imporre rigide norme di vita e programmi) non farà male a nes-
suno; e la grazia può far sentire l'attrattiva ad un fervore e ad
una perfezione maggiore di vita. Allora sarà chiesta all'anima la
corrispondenza a questo impulso interiore e si avrà, forse, la con-
versione « ascetica ».
231
mancanze (anche se veniali) diminuisce il senso del peccato e la
delicatezza della coscienza. Però, ad intervalli, un rimorso si fa
sentire; ma vien soffocato. E cosi lo spirito si avvia verso uno
stato d'indurimento. È come una malattia che s'aggrava progres-
sivamente, invade, colpisce, devasta sempre più profondamente
e sempre più diffusamente l'organismo. Indebolimento generale:
porta aperta a tutti gli attacchi del male.
I I I . Rimedi. Siccome la tiepidezza propriamente detta si veri-
fica, in genere, in coloro che hanno già sentito una vocazione
alla perfezione, il primo rimedio è risuscitare in essi l'entusiasmo
per quell'ideale che un giorno li affascinò. Si richiamerà al loro
spirito l'amore che Dio ha per noi. Amore che si manifesta spe-
cialmente nel mistero della Croce e nel mistero dell'Eucaristia.
Quest'amore domanda il nostro amore. Se necessario, colle anime
meno sensibili ai motivi dell'amore, si ricorrerà pure ai motivi
di timore: il peccato veniale deliberato, specie se commesso abi-
tualmente e freddamente, è una preparazione alla colpa grave, con
tutte le sue conseguenze. Oltre a suscitare il generale desiderio
della virtù e della perfezione, sarà utile puntare, col dolore
ed il proposito, su qualche mancanza predominante. I propositi
generici e vaghi possono restar superficiali e sterili. Ed in par-
ticolare, bisognerà indurre i tiepidi a superare quell'indolenza
e ripugnanza che di solito provano per l'orazione della quale
hanno perduto il gusto; indurli a riprendere la pratica d'una
preghiera veramente personale. E della preghiera anche mentale,
perché quella orale comunitaria, alla quale partecipano, può fer-
marsi, per tali anime, all'esteriorità. Bisogna spingerle allo sforzo
di penetrazione e di ricerca, nella meditazione. Siano preparate ed
aiutate a superare gli ostacoli iniziali: dapprima proveranno ari-
dità, distrazioni, vuoto, solitudine. Non devono impressionarsi
e buttare subito le armi per questa mancanza di consolazione e
devozione sensibile. Più si prega e più si pregherebbe. Anche
questo problema si risolve in un atto di fiducia nell'aiuto imman-
cabile della grazia.
9. Scrupolosi
A. C'è qualcuno che chiama senz'altro scrupolosi tutti coloro
che hanno coscienza delicata. Ma la distinzione è (almeno teori-
camente) netta, anche se in concreto può facilmente darsi la in-
232
clinazione allo scrupolo in chi ha la coscienza delicata. Questi è
sensibile anche alle microscopiche mancanze. Lo scrupolo è una
malattia, un danno, un pericolo, un inciampo, una tentazione:
si vede il peccato anche dove non c'è; lo si vede grave anche
dove non può esser che lieve. Il soggetto opera una erronea
maggiorazione. Ed anche quando la materia è lieve, egli teme di
avere una interiore disposizione ed intenzione viziata da grave
malizia. Perciò per lo scrupoloso non esiste di fatto la distin-
zione fra peccato grave e peccato lieve: il peccato (commesso o
da commettersi) lo pensa sempre grave (se lo ritenesse veniale
non avrebbe l'angoscia della colpa).
B. I sintomi della coscienza scrupolosa non sono difficili
a riconoscersi. In ultima analisi le turbe si riducono ad un « sen-
timent d'incomplétude »: ad una eccessiva ansietà circa la suffi-
cienza delle azioni (di tutte o di alcune determinate, rientranti nei
doveri abituali oppure occasionali del soggetto). Ad esempio, nei
conti, registrazioni, misure di sicurezza, d'igiene, c'è l'incubo
del controllo, della precauzione, dell'esattezza ad oltranza. Nel
campo religioso la coscienza scrupolosa si manifesta frequente-
mente in una eccessiva meticolosità nell'accusa dei peccati e delle
loro circostanze e nella paura di non informare (o di non aver,
pel passato, informato) sufficientemente il confessore. Nonostante
questi dia la decisa assicurazione che l'accusa è sufficiente, il
penitente trova difficoltà ad acquistare l'intima sicurezza perché
manifesta e ripete sempre gli stessi timori e turbamenti.
Circa le azioni da cui deve astenersi lo scrupoloso ha l'irra-
gionevole timore di commettere peccato grave, se non esterna-
mente, almeno interiormente, per esempio con pensieri impuri.
Si noti che la stessa paura d'avere un pensiero cattivo può farlo
sorgere e violento, data l'impressionabilità del soggetto. È un
fenomeno psicologico: come la stessa fobia di turbarsi, nel caso
che abbia ad accadere un determinato fatto, produce (verificandosi
il fatto) il turbamento.
Alla coscienza scrupolosa s'accoppia facilmente la coscienza
perplessa. Si vede peccato sia nel porre un'azione, sia nel non
porla: non soddisfa una decisione né quella contraria. Ciò provoca
un esasperante esame ed una debilitante altalena. Anche quando
si è deciso per una parte, il soggetto si sente scontento e cambia
decisione ma è sempre insoddisfatto. Esaurite, in questo lavoro
interiore, tutte le sue energie psichiche, potrà trovarsi come bloc-
233
cato. Chi ha tale tendenza dovrebbe — per evitare questo stato
penosissimo — determinarsi subito per l'una o l'altra parte
(quando il dovere od il meglio non è evidente) e poi non ripensarci
più, affidando tutto alla misericordia di Dio. Se trova la forza di far
questo è già vittorioso e sicuro. Sicuro può e deve esserlo,
perché, in questi casi, rettificata Pintenzione non è possibile ci
sia colpa morale, quand'anche la decisione presa non fosse obbiet-
tivamente la migliore.
C. Cause della coscienza scrupolosa. Potrebbero essere, oltre
che naturali, anche preternaturali: Dio che direttamente prova
un'anima per purificarla nella via della santificazione. È un fatto
che queste « passive » purificazioni sono assai simili agli stati
psichici di nevrosi (depressioni, malinconia, tristezza, incubi, te-
nebre, apparente perdita della fede e della speranza, angoscia,
languore).
C'è poi il demonio che, col permesso di Dio, può causare
questi stati. Secondo s. Tommaso, però, il demonio non può
agire sull'intelletto dell'uomo né influire direttamente sulla sua
volontà, ma solo sulla fantasia e sulla sensibilità (anche se l'uomo
può aver l'impressione che lo stesso intelletto e la volontà siano
aggrediti) (I, q. 114, a. 1-3; I I I , q. 80, a. 1-4).
Ma è abbastanza raro il caso di scrupoli che abbiano una causa
solo preternaturale. E questi, di solito non duran per lungo tempo.
Molto più spesso le cause sono naturali: o fisiche come la stan-
chezza causata da eccessivo lavoro (le quali causano una debolezza,
od astenia psichica), o cause morali: errata educazione spirituale,
atmosfera opprimente prodotta da ambiente, compagnie, libri dan-
nosi (per taluni almeno). Di solito c'è una qualche predisposizione
psico-fisica che poi il tenore di vita attua determinando lo stato
di coscienza scrupolosa.
Si noti però come Dio può servirsi dei nostri malanni fisici
per purificarci (anche se non è Lui che causa direttamente —
come invece avviene nelle purificazioni « passive » — questi stati).
Il demonio stesso, col permesso di Dio, può approfittare dello
stato di debolezza fisica d'una persona che gli dà noia, per giuo-
care le sue carte: indurla allo scoraggiamento, disturbare le sue
azioni più sante, come la preghiera, la pratica dei S. Esercizi
Spirituali, la celebrazione della Messa o della Penitenza. Perciò
la classificazione delle cause dello scrupolo (soprannaturali - natu-
rali) è solo astratta e teorica: nella dinamica concreta posson es-
ser molto complessi i fattori determinanti questo fenomeno.
234
Lc*_ scrupolo nella grande maggioranza dei casi dipende da una
naturale debolezza psichica. Più precisamente è una manifestazione
"3elìa psicastenia. Malattia che ha molteplici espressioni: produce
manie e fobie ad oggetto determinato oppure agitazioni diffuse,
vaghe, indeterminate. Lo scrupoloso si distingue dall'isterico per-
ché in questo c'è la perdita inconsapevole di qualche fenomeno
del cosciente e del reale (perciò si spiegano le bugie incoscienti).
Nello psicastenico non c'è perdita di fenomeni, ma percezione
torbida di alcuni di essi. Poiché è indebolita la forza psichica del
soggetto, un fenomeno fa più impressione di quanto dovrebbe
fare, cosicché lo spirito non riesce più a percepire in tutta la loro
chiarezza obbiettiva altri fenomeni, che dovrebbero donare l'equi-
librio. Un sacerdote, ad esempio, che ha distribuito la Comu-
nione vede una macchia bianca sul pavimento. Potrebbe esser
una particola che mi è caduta, pensa. Se non fosse impressiona-
bile, a questo pensiero ( « è possibile ») farebbe seguire un altro:
non è un fatto così « probabile » da esser preso in considera-
zione. E rimarrebbe pienamente tranquillo. Lo scrupoloso, invece,
anche se non si lascia prendere dall'idea preoccupante e la supera,
tuttavia si turba. Per la debolezza psichica, non ha la forza d'attri-
buire a ciascuna idea il suo vero posto, peso, valore nella sintesi
interna: perciò il giudizio non sarà sicuro e tranquillo, deciso e
soddisfacente. Però lo psicastenico (percependo, sia pur imper-
fettamente, tutti i fenomeni e gli elementi per giudicare la sua
azione) ha coscienza di questa sua tendenza esagerata. Ma non
ha la forza di superarla. Perciò ne soffre. È una debolezza psichica
cosciente e che egli vorrebbe non ci fosse. Un sacerdote, ad !
esempio, sa che le parole della consacrazione sono state da lui pro-
nunciate, sa che è impossibile non avere l'intenzione richiesta, ma
— non avendo avuto l'attenzione desiderata e, soprattutto, la
calma — non riesce a vincere il turbamento irrazionale: tur-
bamento, perché il soggetto, forse, non lo giudicherà neppure vero
dubbio. Perciò si sforzerà di esaminare l'idea preoccupante e tor-
mentosa nell'intento di vedere una soluzione tranquillizzante e cosi
acquistare il senso di sicurezza. Ma quanto più ripensa, indaga,
analizza (in stato di tensione) tanto più si stanca e s'indebolisce.
E cosi tanto più l'idea torturante si fissa, l'incubo e l'oscurità
aumentano. Occorrerebbe tagliar corto subito, prender una posi-
i' zione o decisione e non pensarci più. Forse agli inizi sarebbe pos-
J sibile. Ma chi è inesperto può avviarsi verso uno stato terribile.
) Una parola di consiglio da parte di chi è edotto in materia, può
|: 235
liberare uno spirito dal labirinto nel quale rischia di diventare
prigioniero disperato. Perché, sentendosi, nonostante gli sforzi,
impotente ad uscire, si deprimerà, si accascerà. A causa di questa
cosciente incapacità di superarsi, si produrrà allora l'angoscia,
come stato vago e generale di sofferenza psichica. Qualcuno ha
l'impressione d'esser trasportato verso il basso da una corrente più
forte di lui e di non aver la forza di resistere e di risalire la riva.
Caratteristiche, dunque, della vita spirituale dello scrupoloso:
mancanza di serenità e di gioia, languore, depressione (più o meno
grave), angoscia (più o meno acuta), stati di perplessità. Anche
l'isterico soffre (ad esempio per — più o meno immaginarie —
persecuzioni) ma non soffre della sua malattia psichica perché
c'è la perdita di qualche fenomeno del reale, una perdita inconscia.
Lo psicastenico soffre per la tensione interna che lo strazia. Ma,
appunto perché cosciente, il suo disturbo è meno grave dell'iste-
rismo.
Lo scrupolo, fobia, idea fissa, che ha per oggetto la vita reli-
giosa o morale d'una persona, alle volte sembra paralizzare ogni
campo della sua condotta, alle volte restringersi ad una materia
particolare. Sotto il profilo morale si può dare anche il tipo scru-
poloso in una determinata materia e di coscienza lassa in altre
materie. La direzione spirituale di tali soggetti si fa più difficile.
236
peggio (la perfezione non è di questa terra). Per chi ha un sistema
nervoso piuttosto debole bastano certe difficoltà trovate nell'am-
biente, nella famiglia o nel lavoro, per addurre uno stato di
sofferenza. Bisogna quindi non drammatizzare, non eccedere nel-
l'impegno clinico che eccita l'intuito, muove alla scoperta della
malattia e forse la sopravvaluta. Ci sono personalità ricuperabili
perché sostanzialmente sane; ma bisogna star attenti che la cura
psichica, invece di esser tranquillizzante, non diventi trauma-
tizzante.
E. La guarigione. Bisogna che il confessore dia allo scupoloso
i consigli opportuni, usi i modi, gli suggerisca i mezzi affinché trovi
la forza — è questa che gli occorre — di seguire i consigli
ricevuti.
I. Generalmente queste turbe psichiche hanno come sotto-
fondo una debolezza fisica: quindi fra i mezzi di guarigione
bisogna porre anche una cura medica ricostituente, e, quanto
meno, un igienico tenore di vita. Razionale però. Un discreto
riposo: tale da permettere un ricupero di energie ed, insieme,
non rendere impossibile la ripresa normale dell'attività; se si
tronca ogni occupazione può esserci il pericolo di provocare uno
stato di depressione e di avvilimento, o di lasciar il campo agli
inutili e dannosi ripiegamenti (su idee preoccupanti che bisogna
invece cancellare dalla memoria), il pericolo di favorire l'impres-
sione di non aver più la forza per nessun lavoro, neppur per
leggere una pagina di libro. Comunque tutte le cure sono relative:
quel che importa è che siano, in definitiva, vantaggiose. E bisogna
che il direttore spirituale — dando consigli empirici, forse svan-
taggiosi — non invada quello che è specificamente il campo
medico.
II. Occorre poi un'efficace psicoterapia. Questa non consiste
solo nel dare ordini e nell'esiger l'obbedienza. A chi non ha mai
provato lo scrupolo, l'obbedire a consigli benevoli e benefici può
sembrare la cosa più facile del mondo perché la più logica,
perché liberatrice. Ci sono autori di morale e d'ascetica i quali
trattano dello scrupolo solo in chiave d'obbedienza e, diciamo pure,
in modo troppo rigido e semplicistico. Dicono che è l'unica
medicina. In un certo senso è giusto perché quando lo scru-
poloso riesce a seguire con tranquilla sicurezza le direttive del
confessore è già guarito. Ma quest'obbedienza non è solo una
questione morale ed ascetica. È un problema psicologico. Igno-
237
rarlo porta a giudicare come un disobbediente lo scrupoloso che
non segue ciecamente e pacificamente gli ordini del consigliere
spirituale. Bisogna invece aiutarlo a trovare la forza di obbedire.
Perché egli vorrebbe obbedire ma non ci riesce per mancanza
d'energia psichica. Quest'obbedienza a comandi di cui, al mo-
mento, non percepisce la ragione può essergli difatti difficilissima.
Bisogna illuminarlo e persuaderlo che obbedendo non sbaglia per-
ché si conforma alla volontà ed al desiderio di Dio. Quante
volte, per esser ragionevoli, tutti dobbiamo fidarci del giudizio
altrui senza poter renderci conto dei perché. Perciò quella dello
scrupoloso è l'obbedienza d'un uomo libero che si autodetermina
a seguire un consiglio colla coscienza d'agire ragionevolmente.
Ma bisogna che quest'idea non resti astratta, debole, fredda, ma
diventi cosi luminosa ed efficace da infondere nello scrupoloso il
senso della sicurezza: la persuasione che è bene obbedire. Bisogna
che questa persuasione acquisti una carica ed una motivazione psi-
cologica cosi forte da aver il sopravvento sull'idea ossessionante.
Ma non sempre ciò è facile. Ci sono scrupolosi che non vogliono
neppur convincersi d'esser scrupolosi e d'aver bisogno di curarsi
fisicamente e d'obbedire. Vogliono solo ragionare e discutere
(credendo cosi d'arrivar a persuadersi). Ed il confessore ripete
sempre gli stessi argomenti senza nulla concludere.
Bisogna, dunque, chieder allo scrupoloso, l'obbedienza, ma
facilitarla, prima con una sana suggestione e poi abituandolo a
praticare l'autosuggestione.
1. Una benefica suggestione. Questa sarà tanto più efficace
quanto più il direttore spirituale avrà il prestigio d'una non
comune scienza ed esperienza, e d'una autentica virtù. Allora
tanto più facilmente l'ammalato avrà fiducia e crederà alle parole
del medico, anche se non ne percepisce le ragioni.
2. Colla fiducia la confidenza. Per ottenerla, il confessore
userà dolcezza nel tratto. Il Bucceroni gli suggeriva questa prima
norma: « Patiens ac cantate plenus sit, cum scrupulosorum cura
longa sit et ardua, ac miserrima eorum condìtio » (Instit. T. Mor.,
Romae, 1914, I, 1, n. 164). Le misure dure, secche, sbrigative
non sono, in genere, consigliabili appunto perché lo scrupoloso
non è un disobbediente colpevole ma ha bisogno di formarsi l'effi-
cace persuasione che è bene obbedire. Ma ci sono sacerdoti, pur
onesti e laboriosi, che per natura sono impazienti ed insofferenti
di fronte alle piccole debolezze del prossimo, hanno aspetto
238
arcigno, maniere aspre, facilità allo sdegno, al risentimento, ten-
denza a pungere ed umiliare gli altri. Siffatti temperamenti non
sono adatti alla direzione spirituale e, tanto meno, a quella delle
anime scrupolose. Anche costoro però possono acquistare con lo
sforzo e l'esercizio ascetico quanto non possiedono per indole e
spontaneità (cfr. G.M.C., Tratt. per Confess., p. 67).
3. Insieme alla bontà ed alla gentilezza per ottenere che lo
scrupoloso s'apra senza difficoltà, il confessore gli dimostrerà
tutta la sua stima. Riferendosi agli scrupolosi che hanno retta
intenzione, il Godinez non temeva asserire: « Tutti questi scru-
polosi sono buoni e predestinati alla gloria. Perché, come solo
i predestinati entrano nel Purgatorio della vita futura, cosi pure
Dio non dà ordinariamente ai reprobi il Purgatorio degli scrupoli
in questa vita. Altri scrupolosi che divorano peccati mortali e
sollevano scrupoli in inezie, questi sono pazzi piuttosto che
scrupolosi » (M. Godinez, Praxis theologiae mysticae, Paris, 1921,
p. 16).
4. In genere non è il caso di rimproverare lo scrupoloso come
un disubbidiente, né di spaventarlo (per ottenere di forza l'obbe-
dienza) presentandogli il pericolo d'avviarsi, su questa strada,
verso la follia. Pericolo, del resto, infondato perché di rado la
psicastenia, anche negli stadi più avanzati, porta alla demenza.
Né il consigliere sorriderà ironicamente sullo scrupoloso come
su uno strano individuo, mostrando tutta la sua meraviglia perché
dà peso a sottigliezze e futilità (ciò si verifica, di fatto, anche in
uomini intelligentissimi e, d'altronde, equilibratissimi).
5. Bisogna, invece, infondere nel malato la fiducia in se stesso
e nella sua guarigione. La quale è possibile e — come conferma
l'esperienza — si deve ottenere se si usano i mezzi efficaci.
Almeno, si deve riacquistare quel minimo di pace che rende la
vita, se non felice, almeno sopportabile.
6. Presupposto l'uso di queste industrie — allo scopo d'in-
fondere nell'ammalato confidenza e fiducia — come procederà, in
particolare, la cura*? In fondo, tutto si riduce ad ottenere l'obbe-
dienza. Ma non è possibile che il penitente porti ogni fatto e caso
che lo turba al confessore per conoscere le singole decisioni con-
crete. Perciò tutti gli studiosi insegnano che il consigliere dovrà
dare allo scrupoloso alcune norme generali d'azione che egli se-
guirà senza voler ricercarne le ragioni. Queste norme devon essere
239
poche, molto chiare, brevi, adatte ai singoli scrupoli e tali da non
prestarsi ad eccezioni.
Per chi ha tendenza generale allo scrupolo si suggeriscono
queste tre regole a cui il soggetto ricorrerà appena gli si insinua
qualche ansietà o dubbio in materia morale. Prima regola: nel
timore d'aver peccato (nel fare una cosa o nel dirla o nel pensarla)
stia certo di non aver peccato gravemente, a meno che non possa
giurare d'aver chiaramente conosciuto che era peccato mortale e di
aver avuto piena volontà di commetterlo.
Seconda regola: nel timore di peccare facendo o dicendo o
pensando una cosa, agisca liberamente ogni volta che non può
giurare che vi sia peccato.
Terza regola: lo scrupoloso pratichi tutto ciò che può in-
fondere nella sua anima pace, santa letizia e dolce fiducia in
Dio; ed eviti tutto ciò che può mantenere od accrescere i suoi
abituali timori (cfr. G.M.C., Tratt. per Conf., pp. 58-59).
Poi ci sono norme meno universali, relative e adatte a scru-
poli determinati. A chi, ad esempio, ha ansietà circa le Con-
fessioni passate — per temuta mancanza del dolore o dell'in-
tegrità — si può dire che, « se per qualche notevole tempo è
stato solito accedere al sacramento della Penitenza con diligenza
e pietà, deve non pensar più alle colpe passate e non farne più
parola, a meno che non possa giurare di aver commesso certa-
mente quei peccati mortali e di non averli mai scaricati nella
Confessione » (I. Bucceroni, Inst. T. Mor., I, 1, n. 164).
A chi teme di aver aderito a pensieri cattivi (contro la fede,
la carità, la castità) bisogna ricordare che non i cattivi pensieri
ma l'assenso cattivo è peccato; che un brutto pensiero — pura-
mente naturale ed involontario — può esser molto forte e persi-
stente. Il fatto poi vien ingrandito dal timore stesso. Questi
timori vanno quindi disprezzati, se non c'è la certezza d'aver dato
il consenso. « Spesso converrà pure — scrive il Bucceroni —
d'imporre allo scrupoloso d'astenersi dalla Confessione di questi
pensieri, se non è conscio d'avervi acconsentito con tale certezza
da poter immediatamente giurare » {Le). In particolare chi è
solito comunicarsi assai frequentemente o quotidianamente, dovrà
esser distolto dalla previa Confessione.
Ad un sacerdote scrupoloso, alla Messa, nella consacrazione,
bisogna proibire di ripetere alcunché se non è certo come alla
luce del sole d'aver tralasciato una parola essenziale o d'averla
240
sbagliata. La paura che manchi l'intenzione necessaria va sempre
disprezzata: in chi pronuncia le parole è impossibile manchi l'in-
tenzione di consacrare (qualunque sia l'impressione contraria o la
distrazione od il turbamento). Perché venga meno l'intenzione
occorrerebbe che la volontà di dar efficacia alle parole della formula
fosse ritrattata con un atto esplicito. La validità non è compro-
messa dalla distrazione volontaria perché l'intenzione può esser
virtualmente duplice. Non bisogna quindi confondere attenzione
ed intenzione. Del resto, il timore stesso che l'intenzione manchi
è segno che c'è.
Un sacerdote può trovar scrupoli nel suo ministero di con-
fessore. Per esempio, può talora sperimentare l'ansia di non essersi
adoperato abbastanza per scuotere un penitente (della cui disposi-
zione dubita) oppure di non essersi informato sufficientemente
sul suo stato. Ebbene, tenga per regola che, se ha cercato in
qualche modo di eccitare il penitente al dolore ed al proposito
(richiamandogli il pensiero e l'immagine di Gesù morto per i nostri
peccati) poi, superi il dubbio, dia l'assoluzione, affidi il caso alla
misericordia e provvidenza di Dio e non ci pensi più. Tenga
poi per norma che gli è sufficiente conoscere lo stato generale
del penitente. Perciò nelle eventuali interrogazioni sia sobrio,
particolarmente in quelle dirette a conseguire l'integrità circa il
sesto comandamento.
Il direttore spirituale come imporrà queste (e simili) norme?
a) Senza esporne le ragioni ed i motivi. Altrimenti lo scru-
poloso — sottile com'è — ne troverà qualcuno che non gli sembra
valido; ed allora verrà a dubitare del valore della regola stessa.
Ad esempio il confessore non motiverà le sue direttive colla
ragione che il penitente è di coscienza delicata: perché proprio
di questo, forse, lo scrupoloso dubiterà: « sta a vedere se io sono
davvero di coscienza delicata ».
b) Il direttore spirituale darà le risposte e direttive con estre-
ma sicurezza e decisione. Terrà presente la massima: « l'accento di
convinzione è la prima potenza della parola ».
e) Se il penitente mostra qualche timore di non aver suffi-
cientemente specificato 'il suo stato, il confessore lo tranquillizzerà.
Se necessario, farà qualche domanda (che denoterà il suo interes-
samento e la serietà del suo impegno); ma, per dimostrare d'aver
ben capito il caso, non ripeterà l'esposizione fatta dal penitente.
Altrimenti con tutta probabilità ometterà qualche particolare; ed
allora lo scrupoloso, che è esattissimo, si preoccuperà che al con-
241
fessore sia sfuggito qualche elemento necessario per un giudizio
retto.
d) Il confessore, quando si è reso conto che il penitente si
sforza sinceramente d'evitare ciò che dispiace a Dio, non defletterà
dal suo giudizio fondato sulla presunzione. Mostrerà di non dare
assolutamente alcun peso a qualsiasi ansietà del penitente, né ai
motivi che egli può addurre per giustificare il suo turbamento e
le sue preoccupazioni. Per esempio, quando si tratta di pensieri
cattivi, moralisti e psicologi fan presente che alcuni penitenti sono
cosi impressionabili ed impressionati da asserire che potrebbero
giurare d'aver acconsentito. Il confessore sia risoluto: non ne fac-
cia alcun conto e dica che si assume tutta la responsabilità dinanzi
a Dio. Scriveva il Berardi: « Se il penitente cominciasse già a dire
di poter giurare del consenso, il confessore (durante gli scrupoli)
non lo creda, se il soggetto non confessa di aver peccato anche con
azioni esterne » (E. Berardi, Praxis Confessariorum, Bologna, 1891,
II, p. 290).
e) Una volta conosciuto un penitente scrupoloso ed iniziata
una benefica terapia, il confessore farà bene ad indurre anche un
certo monopolio. Lo sconsiglierà di rivolgersi ad altri confessori
che non lo conoscono, o non sono idonei (certuni non sanno
neppure cosa sia lo scrupolo); lo distoglierà dal legger libri di
medicina o trattati riguardanti le questioni morali che lo preoc-
cupano oppure certi scritti terrificanti adatti per anime di coscienza
lassa (che sono la grande maggioranza).
7. Tutti i maestri di spirito suggeriscono che delle regole date
allo scrupoloso e riguardanti la materia che lo turba non si deve
a lui render conto. Ad esempio non si porterà la ragione di questa
norma: « non ritenere d'aver mancato gravemente in pensieri
se non ci sono azioni cattive compiute con piena coscienza
e libertà ». Difatti è probabile che qualche ragione non soddisfi
lo scrupoloso, e quindi non lo tranquillizzi. L'esperienza lo con-
ferma: qualche volta lo scrupoloso stesso preavvisa il confessore
di non esporgli il perché dei suoi consigli.
Però ci sono dei principi generali che si può sempre utilmente
richiamare; che servono a tutti, ma particolarmente agli scru-
polosi, in specie quando non potranno chieder consiglio ma do-
vranno guidarsi da soli facendosi forza con l'autosuggestione. Ad
esempio, terranno presente che il Signore è il Dio della pace: il
turbamento infruttuoso non viene da Lui, ma dal demonio. Nel
242
dubbio, possiamo chiederci quale consiglio ci darebbe il direttore
spirituale che ci conosce, o come comunemente agirebbero gli
uomini onesti. Nel timore di qualche cattivo effetto delle nostre
.$: azioni, si terrà questo principio: dobbiamo attendere agli effetti
'§;•• probabili, non a quelli solo possibili, delle nostre azioni. E, fatto
%i, quanto è richiesto alla nostra provvidenza, affidare il risultato
alla Divina Provvidenza la quale penserà a riparare quanto ci fosse
eventualmente di dannoso. Dio non vuol renderci la vita impos-
;'i sibile, né troppo pesante, obbligandoci ad eccessive precauzioni.
Bisogna poi abituarsi a ben distinguere il giudizio dell'intelletto
da quell'ansietà (propria dello scrupoloso) che non risiede nella
parte superiore dell'anima ma in quella inferiore, affettiva, sen-
sibile. (Però, in pratica, è facile confondere nei nostri atti interni
l'elemento emozionale con quello razionale. Perciò può darsi l'im-
pressione, ad esempio, d'aver perduto la fede e la speranza; di non
aver avuto l'intenzione di consacrare l'Eucaristia pur avendo pro-
nunciato la formula; di aver acconsentito a brutti pensieri).
Questi e simili principi saranno molto utili perché lo scru-
poloso impari a superare, anche da solo, le sue irragionevoli
ansietà.
8. Considerato lo stato dello scrupoloso — perché sia liberato
dalle angustie e conquisti la pace di cui ha diritto — è giusto che
egli sia liberato da certi doveri positivi che, per lui, sarebbero
fonte di inutili ed eccessive preoccupazioni, non volute da Dio.
Pertanto gode di certi privilegi. Ad esempio, non deve mai
ritenersi obbligato a correggere gli altri. Nessun impegno quanto
all'esame di coscienza, prima della Confessione; talora il confes-
sore potrà dirgli che, non solo non manca, ma fa meglio a non
esaminarsi. È scusato anche dall'integrità materiale della Confes-
sione. Il confessore lo tenga presente in modo da usufruire di
questa legittima libertà a favore di se stesso e del penitente. È
stato scritto che se le confessioni delle persone devote devono
esser brevissime, quelle degli scrupolosi arcibrevissime (G.M.C.,
Tratt. per Confess., p. 62). Però anche questo dev'esser applicato
con criterio e con adattamento, secondo i principi della psicologia.
La natura non vuol esser violentata. Scriveva saggiamente il
, Berardi: « Si dà pure come regola di non permettere la con-
; fessione sulla materia degli scrupoli, non solo circa il passato ma
^ anche circa il presente. Ma questa regola è affidata alla prudenza
v del confessore. Non raramente — specie quando si tratta di per-
ii. sone che già da lungo tempo accusano scrupoli, e particolar-
h 243
mente in certe materie che inducono fortemente il pericolo del
consenso — conviene piuttosto che sia ascoltata la confessione
e usata la pazienza » (Praxis Confess., II, p. 290). Certo è bene
condurre il penitente a formarsi la coscienza sicura che, fidan-
dosi della parola del confessore (il quale lo esonera da ulteriore
accusa e prende tutto sulla sua responsabilità) egli si conforma
pienamente alla volontà di Dio e riceve la grazia del sacramento.
Ma non bisogna dimenticare che, in genere, solo gradatamente lo
scrupoloso si forma il giudizio limpido e deciso che è meglio
non accusare ciò che gli premeva accusare: si può dire che quando
si forma questo giudizio — generatore di pace e di tranquillità
— è già sulla via della guarigione. È stato pure scritto che
agli scrupolosi bisogna far capire che « noi confessori dobbiamo
spendere il nostro tempo soprattutto a riconciliare con Dio i po-
veri peccatori » (G.M.C., Tratt. per Conf., p. 62). Ma si deve
pure ricordare che gli scrupolosi sono anime delicate e meritano
ogni cura (entro i limiti della discrezione) come tutti coloro che
aspirano sinceramente alla santità. Inoltre gli scrupoli, se durano
per qualche spazio di tempo, possono esser molto utili per puri-
ficare, far progredire, istruire un'anima. Ma se si protraggono
per lungo tempo possono aver serie conseguenze, non solo per
il fisico, ma anche per lo spirito, perché inducono talora uno
stato di disperazione e, talora, per reazione, l'abbandono d'ogni
aspirazione alla perfezione e forse anche al bene ed alla virtù
(cfr. s. Ignazio, Exerc. Esp., Reglas, Escrupulos, 3a reg., n. 348).
Perciò, al fine di ottenere la guarigione, al confessore è chiesta
molta pazienza e sacrificio.
9. La guarigione sarà, normalmente, graduale, secondo le leg-
gi della natura e della psicologia. Procederà attraverso due stadi.
In un primo, non sarà sufficiente neppure il dare alcune norme
che dovrebbero esser valide per i casi che creano turbamento
allo scrupoloso. Egli avrà bisogno di sentire frequentemente dalla
voce del confessore la parola di conferma che in una determinata
situazione fa bene ad applicare la regola generale ricevuta. Il
fatto stesso di manifestare la propria ansia lo rende cosciente
che essa è irragionevole. Il sentire poi ripetere una norma d'azio-
ne (anche se ben nota) gli dona un senso di persuasione, di deci-
sione e di sicurezza che non riusciva a formarsi da solo. In una
parola, in questo primo stadio ha bisogno della suggestione che
viene da un altro per uscire dal suo cerchio chiuso e vedere la
realtà sotto altra luce.
244
Ma dopo aver per qualche tempo sottoposto al giudizio ed
al consiglio del direttore spirituale le principali situazioni della
sua vita, in un secondo stadio — un po' alla volta — si awierà
a ricuperare il governo di se stesso, avendo fatto tesoro delle
esperienze e delle esplicite rassicurazioni ricevute dal direttore spi-
rituale. In base alla soluzione dei casi datagli, di autorità, dal con-
fessore, saprà da solo risolvere i casi simili. É questo dovrebbe esser
il fine di ogni direzione spirituale: portare il penitente a saper gui-
darsi da solo limitandosi a chieder esplicito consiglio solo per i casi
più difficili ed insoliti. Per gli altri, più comuni, quando dovrà
farsi forza, lo scrupoloso saprà ricorrere all'autosuggestione do-
mandandosi cosa il direttore spirituale gli consiglierebbe in tale
situazione. Quando l'idea autosuggestionante acquista più forza
dell'irragionevole idea ossessionante, allora l'ammalato ha vinto.
Ed ogni vittoria sarà un aumento di gioia, di soddisfazione ed
anche, conseguentemente, di forza psichica che assicura una sem-
pre più completa liberazione. Chi non conosce le leggi della psi-
cologia può credere che lo scrupoloso, per superarsi, basti vo-
glia superarsi ed obbedire. Chi conosce queste malattie sa che
lo psicastenico, oltre alla forza di volontà, ha bisogno di domi-
nare l'idea fissa mediante un'altra idea più forte, ch'egli ha reso
forte mediante la suggestione e l'autosuggestione. Questo potenzia-
mento di forza psichica dovrà esser ottenuto non solo sul piano
psicologico ma anche su quello organico, qualora ci sia — come
d'ordinario — anche uno stato di debolezza fisica. D'altra
parte molti medici, credenti e non credenti, riconoscono il van-
taggio, anche naturale, della Confessione e della direzione spiri-
tuale — saggiamente praticate — nella cura della psicastenia.
245
sforma in un aiuto agli altri. Ma chi ragiona in tal modo di-
mentica che ognuno, perfezionando autenticamente se stesso,
aiuta automaticamente gli altri, più o meno direttamente. E non
ci può esser vera perfezione senza il sacrificio di qualche passione
istintiva.
Certamente a chi tende a ripiegarsi eccessivamente su se
stesso sarà da raccomandare semplicità, rettitudine d'intenzione
e dedizione operosa agli altri. Sarà da suggerire come motivo
della penitenza non solo la ginnastica della propria volontà, la
formazione del carattere, l'acquisto delle abitudini virtuose, ma
l'ideale d'una vita riparatrice per il mondo e per la Chiesa: per
la Chiesa che è santa perché animata dallo Spirito di Dio, ma
è anche peccatrice per la debolezza delle sue membra. Se l'amo-
re per la Chiesa avrà per oggetto questo suo duplice aspetto tean-
drico, sarà un amore fattivo. Fermo però il principio che non
ci può esser amore alla Chiesa ed all'umanità se non c'è vita
interiore e sforzo di personale santificazione; e, d'altra parte,
se c'è vera virtù — cioè amore — non può mancare lo spirito
comunitario (LG, 40). Ma oggi (come è stato scritto) un certo
sociologismo di esteriorità può esser scambiato cori lo spirito
comunitario (AA. VV., La penitenza..., 1968, Milano, Ares, p.
152).
246
3. Né tutti sono chiamati, di fatto, allo stesso grado di san-
tità. C'è per ognuno un disegno divino il quale si attuerà per
opera della grazia. Non senza però la libera corrispondenza della
volontà umana. Se l'uomo manca di generosità piena, il disegno
di Dio potrà realizzarsi su scala ridotta. Anzi, ad ognuno —
dopo qualunque suo rifiuto della grazia — « è per sé possibile,
in qualsiasi punto della vita, sia la salvezza dell'anima sia il con-
seguimento della perfezione; cosi il ladrone in crocex in condizioni
disperate, non solo salvò l'anima ma forse giunse fino alla perfezio-
ne » (L. Hertling, Th. Asc, n. 70). « Com'è vero ch'io vivo,
dice il Signore Dio, io non voglio la morte dell'empio, ma che
l'empio si converta dalla sua condotta e viva» (Ez. 33, 11).
Certo è un mistero l'economia della grazia: mistero di giu-
stizia, di misericordia, di predilezione. Ed è certo che chi cor-
risponde alla grazia attira altre grazie; chi non corrisponde può
rendersi indegno. Ma Dio, volendo la salvezza di tutti, per sé
è disposto a dare la Sua grazia a tutti. Dico « per sé » perché
è anche possibile (senza che venga meno la volontà salvifica uni-
versale di Dio) che l'uomo sia privato della vita e non abbia più
il tempo di convertirsi e di ricevere la grazia. E, per chi vive,
la scelta del bene e del meglio sarà meno facile se non ha cor-
risposto» pel passato, alla grazia, meno facile di quanto sarebbe
se avesse sempre corrisposto. In pratica, ognuno — qualunque
sia il suo passato — conviene non rifletta inutilmente sugli errori
commessi e su quanto, invece, poteva fare, ma si chieda cosa,
al momento, corrisponde alla volontà di Dio, segua la sua co-
scienza; e cosi potrà riparare il passato con la fiducia che Dio
da ogni situazione sa trarre possibilità di santità, oltre che di
salvezza, perché infinitamente provvido e potente.
Questi principi illumineranno il confessore affinché, nella
direzione spirituale, segua la grazia: non esiga da un'anima ciò
che non corrisponde alla volontà di Dio e nel tempo stesso la
sostenga e la incoraggi perché sia docile e pronta agli impulsi
soprannaturali. Compito non sempre facile.
4. Se le anime non sono predestinate tutte allo stesso grado
di santità e se il massimo grado è irraggiungibile, tutte però
devono tendere alla perfezione. E nessun limite devono porre;
nessun grado ulteriore devono escludere (LG, 40). Anzi il cessar
di « tendere al meglio » significherebbe praticamente indietreggia-
re, come insegnano i maestri di vita spirituale. « Il non progredire
247
è un indietreggiare », si dice. Quel « non progredire », per es-
ser esatti, significa cessar di tendere al meglio. Perché non è esclu-
so che, attraverso alterni periodi di crescenza e di rilassamento,
si stabilisca un livello di media nella vita spirituale — comples-
sivamente considerata — di un'anima.
È consigliabile il cercare di conoscere se nella vita della per-
fezione si avanza o si indietreggia o si conservan le posizioni?
Tutti i maestri di vita spirituale rispondono che, se può esser
utile l'esame ed il bilancio circa qualche difetto o virtù parti-
colare, non è opportuno voler sapere se si progredisce o no nella
perfezione globalmente considerata: è meglio abbandonare il ri-
sultato ed il giudizio alla misericordia di Dio e vivere in uno
stato d'umile fiducia (cfr. De Guibert, Th. Spir., 1939, nn. 124-
125).
5. La misura della perfezione è data principalmente dall'amo-
re di Dio (II-II, 184, 1): amore affettivo ed effettivo; essen-
zialmente però la virtù e la perfezione consistono nella carità
interiore (le opere possono venir meno pur essendoci il sincero
desiderio e l'efficace proposito di compierle). Illuminato da questi
principi, il confessore farà capire alle anime pie che la loro per-
fezione, più che in quanto fanno, sta nel modo come lo fanno
e nel motivo per cui lo fanno. Molti si credono esclusi dalla per-
fezione perché chiamati e destinati, in forza delle circostanze, ad
un lavoro molto ordinario. Invece, qualsiasi attività — per quan-
to umile — se non contrasta colla volontà di Dio, può esser
occasione per esercitare nel grado più alto la virtù (LG, 40-41).
Fare le cose comuni, ma non comunemente; farle per un motivo
d'amore, quanto più è possibile attuale, quanto più è possibile
universale, quanto più è possibile intenso: in questo sta la per-
fezione u .
II. Il confessore che vibra d'amore per Dio e per le anime
sa comunicare loro l'ideale della santità — alla quale tutti sono
chiamati e devono tendere —, suscitare questo desiderio e que-
sta tensione. Procederà con tatto ed intuito psicologico.
11
« Praemium essentiale, ad quod tenemur, mensuratur secundum in-
tensionem caritatis, non secundum magnitudinem factorum, quia Deus
magis pensat ex quanto quam quantum fiat » (S. THOM., In IH Sent., d. 29,
q. I, a. 1, ad 2). « Multum facit qui multum diligit. Multum facit qui
rem bene facit. Bene facit qui communitati magis quam suae voluntati
servit» (De Imit. Chr., I, XV).
248
1. Con chi è appena risorto da una vita di peccato potrà
esser più opportuno non usare certe parole forti: « perfezione »,
« santità », « rinuncia », « sacrificio », « mortificazione »... Bisogna
arrivare allo scopo e portare in alto le anime senza, quasi, che
se ne accorgano. Specialmente non si dovrà presentare la pratica
della perfezione con le tinte dell'austerità cupa e desolata: non
c'è nulla di più facile che compiere la volontà di Dio, poiché
la Sua volontà s'identifica con l'impulso interiore dello Spirito.
Santità attuata significa sviluppo pieno della vita. Frutto della
santità è pace e gioia.
Il segreto per condurre insensibilmente un'anima verso la
santità (anche dopo una vita di peccato) è riuscir ad infonderle
la persuasione che ha bisogno della grazia di Dio: far si che abbia
sete dell'acqua che zampilla nella vita eterna e che è comunicata
specialmente mediante i sacramenti. L'incontro, ad esempio, col
confessore con frequenza e periodicità regolari — anche se l'ac-
cusa si riduce a pochi minuti ed a pochi minuti l'esortazione
del sacerdote — servirà a tener viva nel penitente l'aspirazione
all'ideale.
2. Anche coloro che sono già in cammino verso la perfezione
meritano le cure del confessore. Il tempo ad esse dedicato non
è sprecato. Egli non deve ritenere che molto meglio sarebbe oc-
cuparlo nel convertire i lontani. Afferma s. Alfonso: « Vale più
innanzi al Signore un'anima perfetta che mille imperfette » (Pra-
tica del Confessore, IX, 99). Ed in ogni luogo, anche nelle più
piccole parrocchie, il sacerdote trova anime che sono già in un
grado piuttosto elevato di perfezione. Il confessore deve dimo-
strar loro rispetto, usare carità, aiutarle con dedizione. Troverà
in loro forse qualche esagerazione che può irritare come qualcosa
che falsifica la vera religione. Ma sono deviazioni accidentali
che non compromettono la sostanza della loro fede e della loro
rettitudine. Purtroppo c'è qualche sacerdote, piuttosto leggero
ed imprudente, che si permette di stroncarle con aria di disprezzo
e d'ironia. Questo comportamento fa molto dispiacere ai fedeli
e fa molto piacere ai non praticanti perché getta il discredito
sulle anime pie in blocco e sulla pietà stessa (G. Adloff, II confes-
sore direttore, Torino, 1930, p. 137).
Il Reuter suggeriva ai novelli confessori di riconoscere l'au-
tentica pietà delle anime che tendono davvero alla perfezione
da questi indizi: uno spirito d'umilità nell'obbedienza a Dio
249
(e quindi nell'accettazione d'ogni sua provvidenziale disposizione
anche nelle circostanze difficili); ordinariamente una certa qual
gioia nel compiere la divina volontà; non voler guidarsi sempre
da sole, ma saper ricorrere, quand'è prudente, anche al consiglio
altrui, particolarmente del direttore spirituale; una certa superio-
rità spirituale che rifugge dalle meschine vanità mondane (Neo-
confessarius practice praesertim instructus, Ratisbonae, 1906, p.
285).
III. Il progresso verso la santità sarà graduale (per un mi-
racolo della grazia si può diventare eroici istantaneamente, come
avvenne per Saulo a Damasco).
1. Il direttore spirituale moderi la corsa eventualmente trop-
po precipitosa nella quale un neofita fervente ed impulsivo può,
sulle prime, lanciarsi. Le erbe che crescono in fretta non hanno
la stabilità delle piante dalle radici profonde e dalla crescita
lenta. C'è chi si addossa un peso eccessivo d'esercizi spirituali,
pratiche ascetiche e fatiche apostoliche; c'è chi leggendo le vite
dei santi si sente spinto ad imitarli alla lettera. Ma non tutti, per
quanto generosi, possono aver la forza — e neppur la grazia
— per ricopiare quanto essi fecero una volta giunti ad un grado
elevatissimo di virtù e di unione con Dio. Chi non ha discre-
zione ed esperienza può, in seguito, non riuscendo a realizzare
propositi e programmi, gettare dalle spalle tutto questo carico,
cadere nello scoraggiamento, e forse passare all'eccesso opposto
rinunciando addirittura ad ogni sforzo di progresso, dare un addio
all'ideale della perfezione. Con la guida d'un esperto direttore
spirituale ognuno deve, giorno per giorno, compiere quei passi
che sono voluti da Dio e portano infallibilmente — anche se
insensibilmente — verso l'alto. E quand'anche i primi tentativi
andassero a vuoto, né l'anima né il suo direttore spirituale de-
vono perdere l'entusiasmo ed il coraggio di rinnovare gli stessi
propositi con umiltà e con fiducia in Dio.
2. Il consigliere spirituale deve quindi tenersi pronto a risol-
levare le anime pie dallo scoraggiamento (provocato, in genere,
dalle cadute che si credevano ormai scongiurate)'oppure dalla
cessazione delle consolazioni spirituali e del fervore sensibile.
A queste anime bisogna ricordare che Dio guarda più allo sforzo
della volontà che ai risultati ottenuti; che permette le cadute
perché acquistiamo l'umiltà di cui tanto abbiamo bisogno. Nei
santi canonizzati ci furono tutte le virtù in grado eroico: tale
250
santità però non implica una immunità da imperfezioni, peccati
semideliberati, e neppure da ogni peccato veniale deliberato (Her-
tiling, Th. asc, 1944, n. 41). Il direttore spirituale terrà presente
e toccherà con mano che quanto più un'anima si unisce a Dio,
tanto più illuminata dalla grazia, acquista una percezione speri-
mentale — quasi morbosa, si direbbe talora — della sua miseria
e delle sue imperfezioni, di cui prima non s'era accorta. E questa
sensibilità può causare una sofferenza acutissima. Solo la fiducia
— fondata sulla pura fede — salva l'anima, in certi casi, dallo
stato di depressione e d'angoscia. I santi sono sinceri quando
si credono peggiori di qualsiasi altro: quanto più cresce la san-
tità di un'anima, tanto più questa prende coscienza delle grazie ri-
cevute e s'acuisce il senso della sua indegnità di fronte a Dio.
Riguardo alle consolazioni non c'è che da richiamare alle
anime l'economia della grazia. Ne parlano tutti i maestri della
vita interiore. Le consolazioni sono concesse da Dio ai princi-
pianti perché ne hanno bisogno. Sono indice d'uno stato d'im-
maturità e di debolezza. Nello stato d'aridità non si è meno cari
a Dio. Anzi, molto più cari e ricchi di meriti. È, del resto, da
attendersi — anche dal punto di vista naturale psicologico —
che, col passar del tempo si smorzi, in certuni, il fascino di quanto
v'è d'accidentale o d'esteriore nella pietà. Ad esempio, di certe
cerimonie liturgiche. Bisogna aspettarselo. Qualcosa del genere
avviene spesso nel periodo del noviziato per chi ha abbracciato
lo stato religioso. La vita di comunità che per qualcuno, in
un primo tempo, sembrava felice, ad un dato momento può
diventare pesante (specialmente quando la salute fisica sia inde-
bolita). Bisogna non impressionarsi ma ravvivare lo spirito di fede,
concedersi le cure, il riposo necessario alla salute. E continuare
fidenti nonostante si abbia l'impressione che la stessa fede e spe-
ranza siano venute meno. La grazia non mancherà: darà i mezzi
per realizzare la vocazione. Il consigliere spirituale — come una
voce ed uno strumento di Dio — deve sostenere l'anima che si
trova sotto la furia dell'uragano o nell'aridità del deserto.
3. L'altro pericolo — opposto allo scoraggiamento — per
chi vuol percorrere il cammino della perfezione è la fiducia ec-
cessiva in se stesso, ossia la presunzione. Più facile nei princi-
pianti. È occasionata, in genere, dalla mancanza di gravi tenta-
zioni, dall'assenza di tribolazioni (fisiche e psichiche) e dalle
abbondanti consolazioni spirituali e sensibili (cfr. Adloff, Il conf.
dirett., p. 159). Queste consolazioni sono molto utili al progresso
251
spirituale. Anzi è normalmente necessario che, ogni tanto,
ci sia qualche consolazione (grande o piccola) nella vita dello spi-
rito. Chi le disdegna sbaglia in pieno. Quel che si deve evitare
è il ricercarle con troppa sollecitudine. E bisogna sempre tenersi
preparati ad esserne privati. Sono, in genere, di breve durata.
Il consigliere spirituale disporrà l'anima alla fortezza ed alla
santa indifferenza. E siccome la grazia normalmente perfeziona
la natura, bisogna che non trovi nel corpo uno strumento inetto.
Dio può render forte proprio chi è debole, se ciò rientra nei
suoi disegni di salvezza e di misericordia. Ma è pur vero che la
salute fisica ha, nella vita dello spirito, più importanza di quanto
si crede: ad esempio, lo stato d'aridità e di desolazione s'unisce
ordinariamente alla stanchezza e depressione psichica.
IV. Il consigliere spirituale terrà sempre presente e metterà
in pratica la fondamentale distinzione fra perfezione e mezzi di
perfezione. Perfezione significa pratica delle virtù cristiane, spe-
cialmente della carità. L'autentico amore di Dio e del prossimo
si esprimono in una disposizione abituale a compiere in tutto
la volontà di Dio.
Riguardo ai mezzi di perfezione il direttore spirituale saprà
ben distinguere ciò che, di massima, può esser molto utile e ciò
che si deve ritenere necessario. Ad esempio, l'esame di coscienza
particolare (su un determinato difetto più frequente e più spia-
cevole) può essere efficacissimo alla riforma della vita, però
non è in egual grado .idoneo per tutte le anime e per tutte le
materie (Hertling, Th. Asc, 1944, n. 283). Necessaria, perché
si possa dare vera vita interiore, è la preghiera, la vita sacramen-
taria, lo spirito di penitenza e la mortificazione. Ma ciò che ha
solo valore di mezzo andrà applicato e praticato secondo le pos-
sibilità, lo stato, i bisogni concreti d'ogni singola anima.
1. Preghiera. Non basta la orale. Neppure quella liturgica.
Questa è bensì frutto ed alimento della vita interiore ma sup-
pone una spiritualità, almeno in qualche grado, già esistente.
Non può quindi far a meno della preghiera personale e mentale
la quale è preparazione e continuazione dell'orazione liturgica. Il
Concilio Vaticano II afferma esplicitamente: « Il cristiano, ben-
ché chiamato alla preghiera in comune, è sempre tenuto ad en-
trare nella sua stanza per pregare il Padre nel* segreto » (SC,
12). « Secondo l'insegnamento del Concilio — diceva Paolo VI
ai Superiori generali degli Istituti Religiosi, il 25.V.1973 —
252
rettamente e giustamente s'afferma l'importanza e l'utilità della
preghiera fatta dalla comunità. Ma oltre a questa è da coltivarsi
anche quella privata. Per essa il vigore spirituale d'ognuno si
conserva e s'accresce, gli animi si dispongono salutarmente alla
preghiera comune, specialmente a quella liturgica, dalla quale
poi ricevono alimento ed incremento » (OR, 26.V.73, pp. 1-2) u .
In particolare la celebrazione del Sacrificio Eucaristico manchereb-
be della desiderata interiorità qualora celebrante e fedeli non aves-
sero una pietà nutrita nel silenzio e nell'intimità. Il pericolo
non è ipotetico: sacerdoti che sbrigano la Messa in dieci minuti
senza premettere e far seguire alcuna pausa di raccoglimento. So
cosa si risponde: per chi cerca di fare sempre la volontà di Dio
tutta la vita è una preghiera e quindi una preparazione ed un
ringraziamento all'atto principale del culto divino: le nostre
azioni anche se non hanno la stessa dignità oggettiva, non van-
no — come soggettiva attività morale — considerate su piani
diversi. Del resto — si aggiunge — la Messa stessa contiene la
preparazione — orazioni e letture bibliche — ed il ringraziamento
esplicito dopo la Consacrazione (che è l'atto strettamente es-
senziale del Sacrificio).
Ora, non c'è dubbio la continua disposizione a fare in tutto
la volontà di Dio attua l'invito evangelico alla continua pre-
ghiera. È l'abituale unione con Dio: dello studioso che studia in
spirito di preghiera, del mietitore che miete in spirito di pre-
ghiera. È la preghiera latente, animatrice dei nostri pensieri,
dei nostri gesti, delle nostre fatiche. Anche chi non è giunto
allo stato di abituale e consapevole intimità con Dio, propria
della vita contemplativa, può (colle sue forze e l'aiuto della gra-
zia) rivolgere, per qualche istante, frequentemente, il pensiero
a Dio, durante il lavoro; può far si che questo pensiero non si
allontani mai dalla soglia della coscienza ma vi rimanga — sia
pur oscuramente — in forza dell'esplicita intermittente elevazione
a Dio, anche quando l'attenzione chiara si rivolge ad altri oggetti.
Però, nella realtà pratica, è da vedere se sia possibile attuare questo
esercizio della presenza di Dio senza riservare qualche tempo esclu-
sivamente alla preghiera prolungata. Perché non si diffonde nella
12
«Concilio docente, momentum et utilitas praecationis, quae a com-
munitate fit, recte ac merito praedicantur. Sed praeter hanc colenda est
etiam oratio privata, qua cuiusque vigor spiritualis servatur et augetur et
quae ad praecationem communem praesertim liturgicam, animos salubriter
disponit et ab hac ipsa alimoniam et incrementum potest accipere ».
253
vita spirituale se non ciò che già esiste, non perdura virtualmente
se non ciò che era già presente ed operante. In particolare è da
chiedersi se la celebrazione della Messa, senza un qualche espli-
cito raccoglimento, sarà praticamente attenta, devota, calma, edi-
ficante. Non bastano dunque le letture bibliche (che, per diven-
tare preghiere dovrebbero esser anzitutto comprese e poi gustate
e meditate), non basta l'orazione liturgica. Dimostrativo è anche
il fatto di sacerdoti che oggi si dispensano spesso e volentieri
dalla recita dell'Ufficio divino o addirittura si son dispensati una
volta per sempre, per principio.
Per l'intima unione con Dio e per la perfezione della vita
spirituale si ritiene che sia normalmente necessaria anche l'ora-
zione mentale, oltre a quella vocale. Ognuno però sceglierà il
modo che più gli è adatto e fruttuoso secondo le sue disposizioni
e condizioni di vita, secondo il suo temperamento. La grazia scen-
de abbondante nelle anime generose. Conduce ognuno per la sua
via. Il direttore spirituale dovrebbe scoprire questi impulsi e
non imporre a tutti gli stessi schemi e sistemi. Tutti però pos-
sono — in una maniera o nell'altra — praticare una orazione
anche mentale. Ci sono, ad esempio, operai della campagna o
dell'officina i quali non hanno tempo a disposizione per rac-
cogliersi in una prolungata meditazione ma potrebbero — anche
in mezzo alle loro occupazioni — pensare frequentemente a Dio
od a qualche verità della fede: un'orazione mentale praticata
secondo l'istruzione del soggetto e secondo il suo stato di vita,
ma che condurrebbe l'anima a gran passi sulla via della santità.
Manca purtroppo a loro l'assistenza e la guida d'illuminati diret-
tori spirituali (Adloff, Il conf. dirett., pp. 147-148). S. Ignazio
nei suoi « Esercizi Spirituali » propone sette modi d'orazione men-
tale. Fra i quali c'è quello della recita lenta, ritmica, gustata d'una
preghiera vocale; e c'è quello che consiste in una breve rifles-
sione sulle singole parole ed espressioni d'una preghiera (Exerc.
espir., nn. 249-260). Alcuni, dopo una lunga pratica della medita-
zione (a base di riflessioni e propositi determinati) sono in grado
di praticare un'orazione mentale, di semplicità. Il P. Lallemant
fra le tante forme d'orazione mentale consigliava anche quella
che « è un insieme di semplice attenzione alla presenza di Dio
e di meditazione »: « prima d'applicarsi a meditare l'argomento
preparato, ci si mette alla presenza di Dio, senza occuparsi di
nessun altro pensiero distinto, senza eccitare nessun altro senti-
mento se non quello del rispetto e dell'amore per Dio, che ci
254
vien ispirato dalla sua presenza. Si persevera in questa quiete
di spirito finché vi si trova gusto... E nel corso della medita-
zione... si può molto utilmente indugiarsi alquanto in questa sem-
plice attenzione a Dio ». Cosi « ci si prepara a poco a poco alla
contemplazione che è un semplice sguardo a Dio fatto con
amore e rispetto » (La dottrina spirituale, Milano, 1945, pp. 388-
389). Ma la meditazione è la via normale all'orazione mentale
di semplicità ed alla contemplazione (sia essa « acquisita » od
« infusa »): le quali, d'altra parte, non son sempre da temersi
come pericolose illusioni o da credersi come difficilissime, ra-
rissime, quasi impossibili e riservate ai santi canonizzabili. Non
sarà difficile riconoscere se un modo di pregare è, nel caso con-
creto, autentico ed efficace: si guarderà alla sua perseveranza
ed ai suoi frutti. E gli istanti di raccoglimento, lungo il giorno,
diventeranno — man mano che un'anima progredisce nella per-
fezione — sempre più frequenti e (per quanto le occupazioni
lo permettono) prolungati, per realizzare sempre più il senso
della presenza di Dio.
« Sembra — scriveva qualche anno fa un vescovo — che si
preghi meno che in passato. Non se ne trova più il tempo.
L'urgenza sostituisce l'essenziale. Eppure da due o tre anni un
certo numero di cristiani, molti dei quali sono giovani, sentono
sorgere in sé stessi un bisogno di pregare, un richiamo alla pre-
ghiera di cui finora non si aveva conoscenza » (L. A. Elchinger,
Vesc. di Strasburgo, Riflessioni e orientamenti pastorali per la
Quaresima, 1973, OR, 20.IV.1973, pp. 1-2). Perciò ogni confes-
sore e direttore spirituale non si stancherà d'esortare i peni- \
tenti ad esser assidui all'orazione, cercherà d'insegnar l'arte di
pregare, a tutti e specialmente a coloro che hanno abbracciato
uno stato di perfezione e della preghiera dovrebbero essere gli
specialisti. Tutti gli autori d'ascetica distinguono, nella vita spi-
rituale, lo stato d'abituale unione con Dio e gli esercizi di pietà
nei quali un tempo determinato è consacrato unicamente all'ora-
zione, esercizi necessari per ottenere e conservare l'abituale unio-
ne con Dio.
2. Penitenza. Ci sono termini che non fan piacere e — spe-
cialmente oggi — si vorrebbe bandire dal vocabolario ascetico,
perché opprimono: « mortificazione », « rinuncia », « sacrificio ».
Si preferiscono altri che fan piacere: « gioia », « amore », « bon-
tà », « generosità ». Certo il messaggio cristiano è la lieta novella.
Ma la croce non può esser eliminata. Specialmente da chi aspira alla
255
perfezione. Alla virtù eroica è indispensabile la mortificazione,
non solo quella imposta dalle necessarie circostanze della vita, ma
anche quella volontaria, non solo quella interna ma anche quella
esterna e corporale. Non è detto che una determinata soddisfazione
(per sé lecita) sia incompatibile colla santità. Ma è certo che la mor-
tificazione volontaria (in una o l'altra materia) non può mancare.
E particolarmente oggi bisogna ritrovare — come scriveva il ve-
scovo di Strasburgo nella citata lettera pastorale per la Quaresima
del 1973 — la fierezza della rinuncia. Perché la propaganda
commerciale crea bisogni sempre nuovi e ci tenta per portaroi a
spendere sempre di più. Spetta a noi saper discernere ciò che
c'è di puramente artificiale in molti desideri che la società con-
sumistica suscita. Discernere ciò che è ragionevole e ciò che è
eccessivo. Saper dominarci, riuscir a frenare i capricci, a limitare
le spese. Per esser capaci d'osservare sempre la misura necessaria,
occorre, praticamente1, saper rinunciare anche a qualcosa di le-
gittimo.
A tutti coloro che aspirano alla perfezione il confessore-
direttore comunicherà, insieme allo spirito di preghiera, anche lo
spirito della mortificazione. Questo spirito è indiscutibilmente
necessario. Relativa è invece la concreta applicazione e la pratica
effettiva della preghiera e della penitenza. Ma ci sono mortifica-
zioni che possono esser praticate da tutti senza pericoli: saper
sopportare con pazienza e silenzio contrarietà e contrattempi
d'ogni giorno, rinunciare a curiosità pericolose od inutili, prontezza
nel prestarsi — potendo — a chi domanda un atto di carità o
di cortesia, qualche piccola rinuncia nel mangiare e nel bere.
Per chi ha abbracciato lo stato religioso « la perfetta osservanza
delle regole, specialmente circa la vita comune e la povertà,
contiene eminentemente le mortificazioni volontarie richieste
alla perfezione. Di fatto l'esatta (non una qualunque) osservanza
della vita comune non può darsi senza una continua mortifica-
zione, anche esteriore » (Hertling, Th. Asc, n. 49).
Il direttore, in qualche caso, dovrà anche moderare chi all'inizio
della sua fervente conversione ascetica si lanciasse senza discre-
zione nella pratica della penitenza. Se ciò diventasse dannoso
alla salute potrebbe subentrare (senza uno speciale aiuto della
grazia) uno stato d'aridità e di depressione. Ed allora — in chi
non ha ancora una solida formazione spirituale — ci sarebbe il
pericolo dello scoraggiamento e, forse, la tentazione di lasciare
256
tutti gli esercizi della vita spirituale, anche l'orazione (Adloff, Il
conf. diretta p. 151).
I genitori abituino i figli a non aver paura dello sforzo e
del sacrificio. Devono però impartire un'educazione equilibrata:
non negare ai figli ciò che è necessario alla vita del corpo ed al
sollievo dello spirito, ma neppure adottare il sistema di conce-
dere tutto quello che chiedono.
La mortificazione non può esser amata per se stessa. Il di-
rettore spirituale farà capire che tutte le opere di penitenza (co-
me la pratica volontaria della castità perpetua) non sono che
applicazioni d'una scelta fondamentale: seguire generosamente
il Cristo. Non ha valore il soffrire se non è un soffrire per Lui
e con Lui. Solo se c'è questo motivo soprannaturale sarà sen-
tito ed accolto l'invito a vivere una vita che importa delle rinun-
ce; e sarà evitato ogni pericolo di compiacenza e d'amor pro-
prio.
3. Mezzo ed espressione d'una vita spirituale che tende alla
perfezione è il voto: atto di religione, olocausto fatto a Dio me-
diante la consacrazione della persona o dell'attività; consacrazione
che in grado eminente si ha nella promessa di praticare i consigli
evangelici (nella vita religiosa od in modo simile). Questa ma-
teria può interessare il confessore per varie ragioni: anzitutto
perché ci sono penitenti che affermano d'aver fatto un determi-
nato voto ma può esser dubbio che si tratti di vero voto; poi
perché da qualche penitente generoso può esser chiesto il consi-
glio ed il permesso di far qualche voto; infine potrebbe pre-
sentarsi — per chi ha già fatto un voto — la difficoltà d'os-
servarlo.
II CJC (e. 1307 § 1) ne dà questa definizione: promessa
deliberata e libera fatta a Dio d'un bene possibile e migliore
(cfr. S. Th. II-II, q. 88). Promessa: non semplice proposito. In
pratica, poi, neppure chi dichiara d'aver « promesso » offre sem-
pre un criterio sicuro per giudicare che si tratta di vero voto.
Bisognerà chiedere se c'era l'intenzione d'obbligarsi dinanzi a Dio
sotto pena di peccato. E se restasse il dubbio, si deve ritenere
che non era un vero voto.
Bisogna che il confessore eviti sia l'eccesso d'escludere, scon-
sigliare, proibire per principio ogni voto, sia l'eccesso di permet-
terlo con facilità senza ben considerare il soggetto ed il suo
stato spirituale, senza illuminarlo esattamente sul dovere preciso
che si assume: bisogna premunirsi contro ogni complicazione
257
ed incertezza. Ma i voti hanno il loro intrinseco valore e la loro
utilità quando sian emessi dopo debita ponderazione, preghiera,
ricerca della volontà di Dio. Conferiscono ad un atto buono un
merito maggiore; confermano nel bene la volontà dell'uomo che
cosi viene ad imitare l'indefettibile santità di Dio; psicologica-
mente costituiscono — per chi ha sanità ed equilibrio fisici e
psichici — una carica d'entusiasmo per una più fervente ascesi.
Lutero, prima, senza calma riflessione previa, fece il voto di farsi
religioso e lo mantenne; in seguito il riformatore abbandonerà
la vita del convento e condannerà i voti come immorali perché
incompatibili colla libertà. Ma la vera libertà sta nel fare la vo-
lontà di Dio. E se il voto è fatto prudentemente, vuol esser
un'interpretazione dei desideri di Dio circa la vita, la scelta dello
stato, certe azioni buone. Ad esempio, ad un giovane o ad una
giovane che hanno dimostrato di saper dominare le passioni ed
hanno acquisito l'abitudine della castità, non è imprudente per-
mettere il voto temporaneo d'osservarla.
Complessa sarebbe la trattazione sui modi come viene a ces-
sare l'obbligo d'un voto. Si veda il CJC, e. 1307 : 1315. Noto
solo che il voto cessa di sua natura se l'oggetto diventa illecito,
inutile, impossibile (sia per un'assoluta impossibilità sia per un
sopraggiunto grave incomodo non previsto) o quando sarebbe
d'ostacolo ad un maggior bene. Perciò quando diventasse occa-
sione di scrupoli, ansietà, turbamenti non facilmente superati,
allora il voto privato cessa perché non sarebbe più utile ma dan-
noso. Chi per sopraggiunte difficoltà è scusato, ma vuol esser
generoso, può commutare il voto fatto in un altro che gli è più
facile. Lo studio della fede, la partecipazione alla catechesi o a
conferenze religiose, la frequenza ai sacramenti, gli « Esercizi
Spirituali » sostituiscono validamente qualunque voto.
Se si trattasse di casi in cui il voto non cessa di sua natura,
il confessore ha facoltà di dispensare per ottenuta speciale facoltà
o in particolari situazioni: nel tempo del giubileo o in ordine al
matrimonio, quando questo si dovesse contrarre in pericolo di
morte, od in caso di grave e urgente necessità, come quando
« iam omnia sunt parata ad nuptias » e non c'è il tempo per
ricorrere all'Ordinario, oppure, ricorrendo, ci sarebbe pericolo
di violare il segreto (anche non sacramentale) con grave disagio
del penitente. Verificandosi le dette condizioni, anche i confes-
sori possono dispensare da tutti i voti che impediscono il ma-
trimonio ma solo « prò foro interno in actu sacramentalis confessio-
258
nis », e purché si tratti di caso occulto (CJC, e. 1043-1046). Extra
questi casi, il confessore può ricorrere, per la dispensa, a chi ha
il potere, ordinario o delegato, di sciogliere i voti. Questo potere
è concesso, per sé, ai vescovi secondo la parola di Gesù: « Tutto
quello che avrete sciolto sulla terra, sarà sciolto anche in Cielo ».
Ma bisogna distinguere i voti pubblici da quelli privati. Per quelli
pubblici (ricevuti dal legittimo superiore ecclesiastico in nome
della Chiesa), se sono perpetui, solo la S. Sede può concedere la
dispensa; se sono temporanei, hanno tale facoltà i superiori gene-
rali degli istituti religiosi nei quali sono stati emessi. Ci sono
pure due voti privati per i quali la dispensa dev'esser chiesta alla
S. Sede (e. 1309) (extra il caso, come si disse, d'urgente necessità
in ordine al matrimonio): il voto di perfetta e perpetua castità ed
il voto d'entrare in un istituto religioso di voti solenni (purché
questi due voti siano stati emessi assolutamente e dopo compiuto
il diciottesimo anno d'età). Durante il giubileo vien concessa ai
confessori particolare facoltà di dispensare dai voti (anche riservati
alla S. Sede) commutandoli — come è stato detto per l'anno
1975 — con moderazione e prudenza in altre opere buone (« Riv.
Dioces. di Roma », 1974, nn. 9-10, p. 1039).
4. Chi vuol tendere alla perfezione dev'esser aiutato e consi-
gliato circa la sua vita interiore. Però conviene suggerirgli anche
la partecipazione a qualche attività di gruppo (oltre a quella
liturgica). Sarebbe un'illusione il credere che una persona, colla
sola guida del suo direttore spirituale, possa realizzare in grado
non comune, anche nei rapporti sociali, l'ideale della perfezione
cristiana. Fu ed è provvidenziale l'Azione Cattolica. Oggi si pro-
pende a creare piccoli gruppi i cui membri s'animano a vicenda,
con attività idonee, a vivere un cristianesimo autentico, confi-
dando nei carismi dello Spirito. Tuttavia questi gruppi devono
restar aperti gli uni agli altri ed in reale e continua comunione
— di mentalità e d'azione — con chi è posto a capo ed alla guida
di tutta la Chiesa. Certa autonomia che sa di contestazione, non
si vede quanto sia conforme alla volontà dello Spirito.
260
precipitati nella demenza che si prevede insanabile. Se si sta stret-
tamente alla lettera del CJC, e. 754, § 3, il battesimo potrebbe
esser loro amministrato solo in pericolo di morte e se hanno mani-
festato, prima di perdere la ragione, almeno un probabile desi-
derio di ricever, il battesimo. Ma secondo qualche autore, se
l'amenza non fosse continua bisognerebbe bensì aspettare un mo-
mento di lucidità: però in pericolo di morte tutti coloro che son
privi dell'uso di ragione potrebbero essere battezzati sotto condi-
zione anche se nessuna intenzione espressero di farsi cristiani: pre-
vale il principio « sacramenta propter homines », specie in questo
caso di sacramento estremamente necessario.
3. I sacramenti che conferiscono il beneficio della grazia
senza onere speciale {Cresima, Viatico, Unzione degli infermi)
si amministrano senz'altro a coloro che avevano la volontà di vivere
o morire cristianamente ma attualmente non possono manifestare
la loro volontà perché hanno perduto i sensi. Questa regola è
valida di massima. Sarà applicata dal ministro prudentemente se-
condo i vari soggetti e secondo i singoli sacramenti. A chi aveva
ricevuto una qualche istruzione cristiana, ma ora ha perduto la
ragione, conviene conferire anche la Cresima, a meno che non ci
sia forte presunzione che il soggetto non è in stato di grazia.
Un particolare riguardo si richiede per l'Eucaristia: bisogna evi-
tare il pericolo d'irriverenza esteriore perché non viene solo con-
ferita la grazia, ma Cristo stesso in persona; e siccome minore è
la necessità di questo sacramento, perciò quando si trattasse di
una persona che ha perduto i sensi pare si richieda anche una
positiva presunzione che il soggetto l'avrebbe chiesto ed è inter-
namente ben disposto a riceverlo. Sacramenti d'estrema necessità
possono esser per un'anima la Penitenza e l'Unzione degli infermi.
Praticamente non si rifiutano a nessuno di coloro che hanno per-
duto i sensi (neppure a chi avesse rifiutato fino all'ultimo i sacra-
menti). Chi ha perduto i sensi non può più essere qualificato come
impenitente contumace (CJC, e. 942) perché nel frattempo può
esser avvenuto un finale ravvedimento intimo. Se l'amministra-
zione dei sacramenti a chi ha condotto una vita indegna suscitasse
ammirazione negli astanti, il ministro cercherà di togliere tale
impressione con una parola d'istruzione oppure restando solo
per qualche istante col moribondo. Con tali cautele si può dare
l'Olio Santo anche ad un eretico che abbia sempre negato che
l'Unzione degli infermi sia sacramento. Non si deve dimenticare
261
che questo sacramento può esser pili necessario e più utile della
assoluzione: non è infatti dubbia la sua validità pel fatto che
il soggetto non può fare atti esterni di pentimento. Ed anche se
non è arrivato a fare l'atto di contrizione (che lo rimetterebbe
in stato di grazia) ed ha solo l'attrizione dei suoi peccati con la
buona fede, certamente l'Unzione conferisce lo stato di grazia.
Ha come primaria finalità di confortare spiritualmente il malato;
ma secondariamente è istituita anche per togliere i peccati. Doman-
da l'uso della ragione. Ma a chi l'ha raggiunto non è da negarsi
anche se è ancora fanciullo, come raccomandava il decreto « Quam
singulari » e, più recentemente, il I Sinodo Romano, 1960, e. 461.
Sarebbe da amministrarsi anche a coloro che non fossero ancora
stati ammessi alla prima Confessione e Comunione. Se si dubita
del loro uso di ragione l'Unzione si darà sotto condizione. È sba-
gliato credere che i fanciulli non ne abbiano bisogno. Possono
avere le loro colpe (anche se non mortali), le loro tentazioni. Nei
dolori della malattia, nei momenti di paura, di avvilimento e di
tristezza che anch'essi provano (forse abitualmente) saranno soste-
nuti dalla grazia e troveranno colla fede e la speranza immortali
il senso della gioia cristiana. E per ricevere il Viatico basta che
sappiano distinguere il pane eucaristico da quello comune ed
adorarlo (CJC, e. 854), anche se non sono stati ancora istruiti
sui misteri principali della fede.
4. Circa la realtà e l!entità della malattia (a cui è equiparata
la vecchiaia) richiesta per l'Unzione degli infermi, basta il proba-
bile pericolo di morte. Ci sono malattie che possono dirsi gravi
(nevrosi, perdita della vista, artrosi) le quali affliggono oltremodo
ma non inducono alcun pericolo di morte. Ad esempio, non a tutti
i malati che si recano in pellegrinaggio a Lourdes è da ammini-
strare il sacramento. Si richiede « il pericolo » (almeno probabile)
di morte. È questa la direttiva della Chiesa che si legge anche
nella recente Cost. Ap. « Sacram. Unct. Infirm. » di Paolo VI
(30.XI.1972). Ciononostante, secondo qualche teologo, « il fatto
che la Chiesa non conceda l'Olio santo ai sani che vanno verso la
morte (militari, condannati a morte ecc.) e che l'Oriente non esige
dai malati che essi siano in pericolo di morte per conferirlo loro,
sembra chiaramente dimostrare che questo sacramento concerne
i malati in quanto tali, fuori di ogni prospettiva di morte » (Didier,
in « L'Ami du Clergé », 7, 1968, 104). Questa interpretazione
262
però mal s'accorda con recentissime espressioni troppo chiare della
Chiesa13.
Nel nuovo rito è prevista accanto alla celebrazione singola ed
individuale dell'Unzione, anche quella comunitaria che può esser
inserita nella Messa secondo le modalità indicate. Celebrazione che
vuol esser predisposta con cura. Ogni tanto si potrà farlo. « Essa
non soltanto servirà a correggere a poco a poco l'idea che si ha
del sacramento, come se fosse destinato ai soli moribondi, ma
favorirà una partecipazione serena e raccolta in chiara testimonian-
za di fede » (Docum. past. della C.E.I., 12.VII.74, n. 163). Ma
siccome questo sacramento non si può neppure amministrare a
« qualsiasi malato », perciò in un luogo di cura, ospedale, pelle-
grinaggio, si domanderebbe una selezione degli infermi (la quale
importa un giudizio implicito sulla loro malattia nei confronti di
altri non ammessi: giudizio ed annunzio che presumibilmente non
sarà ben accetto neppur alle anime di gran fede). Prima d'un'ope-
razione chirurgica spesso il malato è già attualmente in un qualche
pericolo. Però, anche quando lo si potrebbe fare, non si è soliti
conferire l'Unzione quando si tratta di operazioni facili ed il
pericolo non è effettivamente certo.
5. Sotto debite condizioni, ai malati anche il presbitero può
amministrare la Cresima. Hanno la facoltà i parroci e coloro che
hanno piena cura d'anime, con determinata chiesa, certo territorio
e tutti i doveri e diritti dei parroci. Non possono però delegare
la facoltà (AAS, 38, 1946, 349-356). Maggiori facoltà sono state
concesse nel '47 agli Ordinari dei luoghi soggetti alla S.C. di
P.F. (AAS, 40, 1948, 41) e nel '54 ai Cappellani delle navi (AAS,
46, 1954, 416ss.). Dal '63 tutti i vescovi residenziali possono con-
cedere la facoltà di cresimare ai cappellani di ospedali, case di
cura, orfanotrofi, carceri (quando non sia présente il parroco)
(AAS, 56, 1964, 5-12). La facoltà data dalla Chiesa al sacerdote
(come ministro straordinario) di cresimare vale per i fedeli che si
trovino in pericolo di morte: pericolo che deve apparire certo e
18
E non è conforme al Magistero della Chiesa quanto è suggerito in
una rivista diocesana italiana (XI-XII, 1976): d'iniziare «una nuova prassi
che estenda la celebrazione ai casi di malattia seria che mina la salute
sia sul piano fisico che psicologico ». Cosicché i destinatari dell'Unzione
sarebbero « i battezzati colpiti da malattia grave, che si trovano, cioè, in
uno stato patologico che importa una vera rottura dell'equilibrio vitale,
anche se non vi è pericolo di morte».
263
cosi grave per cui si prevede, umanamente parlando, che seguirà
la morte del malato. Ciò non significa che si debba aspettare
1'« articulus mortis », cioè che la morte sia imminente. Ed evi-
dentemente la Chiesa non può richiedere altro che il prudente
giudizio sullo stato della malattia richiesto: se tale giudizio c'è
stato, la validità del sacramento non è da metter in dubbio nel
caso che il malato avesse a sopravvivere. La Chiesa però vuole che
il vescovo resti il ministro ordinario: perciò domanda che si ricorra
al vescovo diocesano (se è possibile averlo e se non è legittima-
mente impedito) od ad un altro vescovo che possa prestarsi senza
grave incomodo. Il ricorso al vescovo (anche qualora fosse dispo-
nibile) non è però una condizione alla validità, ma solo alla liceità
della cresima conferita dal presbitero. Praticamente i parroci di
città prima di amministrare la Cresima avvertono il loro vescovo, se
è in sede, o qualche altro (come a Roma dove ce ne sono molti).
Naturalmente un parroco avvertirà il vescovo che sia presente nella
sua parrocchia in visita pastorale. Non ricorrerà al vescovo quando
suppone che gli sarebbe di grave incomodo l'accorrere, oppure
quando sia urgente l'amministrazione perché c'è pericolo che il
malato muoia prima che arrivi il vescovo.
6. La categoria di coloro che sono mentalmente infermi fa
sorgere un complesso di questioni (oltre a richiedere particolare
prudenza e carità pastorale).
Coloro che sono completamente e perpetuamente privi dell'uso
di ragione fin dalla nascita sono da equipararsi ai bambini. Si
amministra loro il battesimo (poiché è soprattutto un dono di
Dio) ed in pericolo di morte la Cresima. Per coloro che cadono
nella demenza dopo aver goduto l'uso della ragione, si dovrà,
come norma generale, tener conto dell'intenzione e delle disposi-
zioni che avevano quand'erano sani di mente. Comunque, se sono
moribondi, si dà sempre, almeno sotto condizione, l'assoluzione
e l'Unzione degli infermi (che può esser più utile dell'assoluzione).
Si può amministrar loro anche l'Eucaristia? Per diritto divino
la liceità ci sarebbe se, dalla precedente vita cristiana, si può posi-
tivamente presumere, che abbiano l'implicita intenzione e la dispo-
sizione richiesta. Si suppone sempre che non ci sia pericolo d'irri-
verenza per questo particolare sacramento (che non conferisce solo
la grazia ma comunica l'Autore della grazia). Il CJC non considera
esplicitamente questo caso. Il Rituale Romano sembrerebbe nega-
264
i
I tivo: escluderebbe l'amministrazione dell'Eucaristia, se non nei
f: momenti di lucidità nei quali il soggetto dimostri devozione (T. IV,
l e. I, n. 10). Alcuni autori, però, pensano che, in pericolo di morte,
dopo l'Unzione e l'assoluzione sotto condizione, si possa ammini-
strare il Viatico anche se attualmente non comprendono nulla,
purché non ci sia pericolo di irriverenza e si possa presumere che
l_ sono positivamente disposti a ricevere questo sacramento.
Incertezze circa l'amministrazione dei sacramenti creano pure
certi deficienti, o dubbiamente pazzi, o taluni sordomuti non istrui-
ti nella religione. Nei casi più gravi si dovrà porre la condizione
\ anche quando si amministra loro Battesimo, Cresima e (ogni tanto)
l'assoluzione. In casi meno gravi si cercherà, come regola, di
comporre l'utilità del soggetto e la riverenza al sacramento (nel
| dubbio prevarrà il principio: « sacramenta propter homines »).
I Ogni tanto si assolveranno. In pericolo di morte si darà l'Unzione.
I; Circa la Comunione, dovrebbe essere il confessore che li conosce
a giudicare prudenzialmente quale sarà (oltre che a Pasqua ed in
l pericolo di morte) la ragionevole frequenza: si terrà conto del
l loro grado di discrezione, del desiderio e devozione. Non esiste una
legge precisa: non c'è da esser scrupolosi; basta evitare gli eccessi.
7. Qualche altra nota liturgica e giuridica. Nel '72 {Cost.
Apost. di Paolo VI del 30.XI. 1972) la formula deUVnzione degli
infermi è stata sostituita con questa nuova: « Per istam Sanctam
\- Unctionem et suam piissimam misericordiam adiuvet te Dominus
t gratia Spiritus Sanctì, ut a peccatis liberatum te salvet atque
propitius alleviet ». Le unzioni si faranno solo sulla fronte e sulle'
mani; in caso di necessità è sufficiente un'unica unzione in fronte
; o, se l'infermo si trova in particolare condizione, in un'altra, più
i conveniente, parte del còrpo. La formula non si ripete più ad
\; ogni unzione, ma si pronuncia una volta sola ". Il sacramento si
I può iterare quando sopraggiunge un'altra malattia; nella stessa
• quando si verifica un nuovo pericolo (cioè dopo un imperfetto
| ristabilimento) ed anche quando il pericolo si faccia più grave
I M
| Nella versione italiana edita dalla G E I . ed ufficiale per l'uso li-
| turgico, la formula è stata divisa in due parti: « Per questa santa Un-
f zione e la Sua piissima misericordia ti aiuti il Signore con la grazia dello
£'. Spirito Santo ». R. Amen. « E, liberandoti dai peccati, ti salvi e nella Sua
| bontà ti sollevi». R. Amen. Ed è bene (si legge) far in modo di pronun-
I ziare la prima parte mentre si fa l'unzione sulla fronte e la seconda men-
I tre si fa l'unzione sulle mani (Sacram. dellVnz. e Cura past. degli Infermi,
| Roma, 1974, nn. 23-25).
(AAS, LXV, 1973, 8-9). Passato parecchio tempo (un anno)
ciò si può presumere e, nel dubbio, è da propendere piuttosto
per la iterazione.
8. Ora (AAS, 57, 1965, 409) ogni sacerdote può tenere in
casa l'Olio Santo e portarlo con sé, specialmente quando viaggia
(il consenso dell'Ordinario certo non manca). Ed oggi non è
esagerato un sacerdote che lo avesse sempre con sé. E se lo lascia
in casa, sia in luogo decoroso ma visibile e reperibile (nell'even-
tualità che debba mandarlo a prendere d'urgenza).
9. Anche per la Cresima còl nuovo rito (Paulus VI,
«Const. Ap. » De Sacrar». Confirm., AAS, 63, 1971, 657-664)
una novità nella formula: « N. accipe signaculum doni Spiritus
Sancti »: al cresimato lo stesso Spirito Santo è dato in dono,
come nella Pentecoste, e con questo dono gli è impresso un
« carattere » (signaculum)1S.
10. Nel decreto del '46 è detto che il sacerdote che ammini-
stra la Cresima osservi (se c'è tempo, ovviamente) le disposizioni
disciplinari e liturgiche che si trovano nel CJC e nel Rituale.
Quindi sarebbe anche da nominare il padrino o la madrina. Però
piuttosto che ammettere persone indegne (noti concubinari, donne
di cattiva condotta) è meglio omettere tale nomina, tanto più
che si prevede il decesso del malato. (Per il battesimo « privato »,
amministrato in pericolo di morte, non consta con certezza l'ob-
bligo di nominare il padrino o la madrina).
11. Richiamo le norme riguardanti il digiuno eucaristico per
coloro che sono infermi. Chi è in pericolo di morte non è tenuto
a nessuna legge. Vige poi ancora la concessione di Pio XII (AAS,
49, 1957, 178): « gli ammalati, anche se non degenti, possono
prendere bevande non alcooliche e medicine (sia liquide sia solide)
prima della celebrazione della Messa o della Comunione senza
limite di tempo ». È detto: « quamvis non decumbentes »: perciò
l'indisposizione può essere anche passeggera (indigestione, emi-
crania, insonnia, tosse) — purché questi disturbi non siano leggeri.
« Infermi » sono anche i convalescenti. Ed anche i vecchi (« sene-
ctus ipsa est morbus »). Qualche moralista pensa che si possa
15
Quanto all'imposizione della mano, è stato autorevolmente dichia-
rato che, alla validità, essa è sufficientemente manifestata dalla stessa un-
zione crismatica fatta col pollice della mano (AAS, 64, 1972, 526).
266
ritener « vecchio » — giuridicamente — chi è entrato nel ses-
; santesimo anno d'età. Difatti il CJC, e. 1254, § 2, pone questo
{ limite per la legge del digiuno ecclesiastico penitenziale (che ora
inizia quando il fedele ha compiuto i 14 anni, e non i 7 come
aveva stabilito il CJC, e. 1254, § 1). Certamente osserva lo
spirito, e non solo la lettera, della legge chi tien conto, più che
del numero materiale degli anni, del proprio stato di debolezza
o vigore in cui si trova ad una certa età. Le nuove norme del '73
(AAS, 65, 1973, 264-271) riguardano il limite di tempo entro
il quale gli infermi possono prendere anche cibo o bevande alcoo-
liche (che per i sani è di un'ora). L'astinenza è ridotta a « circa
un quarto d'ora » in favore degli ammalati costretti a stare in
casa di cura od in casa propria, anche se non siano a letto; in
? favore di coloro che avanzati d'età (« aetate provectioribus »)
I sono costretti in casa; in favore delle persone che assistono gli
I ammalati (o gli anziani) e desiderino ricever con essi la Comunione
| e non possono senza incomodo osservare il digiuno di un'ora; in
| favore dei sacerdoti ammalati od avanzati d'età (« aetate provec-
| ti »), anche se non costretti a letto od a casa.
;V 12. Infine ricordiamoci di dare al fedele, in pericolo di morte,
(••' la benedizione apostolica con l'annessa indulgenza plenaria (a nor-
'• ma del e. 468, § 2, del CJC): « Ego, facultate mihi a S. Apost.
I tributa, indulgentiam plenariam et remissionem omnium peccato-
I rum tibi concedo, et benedico te in nomine Patris et Filii et Spiri-
I tus Sancti. Amen ». È da darsi a tutti coloro che hanno raggiunto
È l'uso di ragione (anche se ancora fanciulli) purché abbian dato
I qualche segno di penitenza o, se privi di sensi, si presume l'avreb-
I bero chiesta. Non vien data a coloro che (secondo il nostro umano
I giudizio) si conservano impenitenti. Ha il suo effetto « in articulo
I mortis »: perciò, se è data prima, non è da ripetersi; nella stessa
I malattia è da darsi una volta sola, anche se l'infermo si fosse ripre-
1 so e poi fosse ricaduto nel pericolo di morte. Si dà anche quando
I il pericolo non dipende da malattìa, ad esempio prima d'una
1 battaglia. La Chiesa però concede ugualmente l'indulgenza plena-
1 ria in punto di morte al fedele che non possa esser assistito da
I un sacerdote: basta che sia debitamente disposto ed abbia recitato
1 abitualmente durante la vita qualche preghiera (cfr. Cost. Apost.
1 Indulgentiarum doctrina, norma 18, AAS, 59, 1967, 23). Chi lo
i assiste gli faccia presente questa concessione e lo inviti a con-
I templare con fede il Crocifisso.
I 267
II. Il sacerdote che ha cura d'anime prepara il suo ministero
presso i malati anzitutto illuminando i fedeli. C'è la catechesi
ufficiale, pubblica, programmata. È risultato che dove si è fatta
un'istruzione periodica (semestrale) sull'Unzione degli infermi e
sul Viatico si è visto aumentare il numero delle chiamate al letto
degli infermi (G. De Barros Camara, Comp. di T. Pastor., Roma,
1955, II, p. 146). Poi c'è la catechesi occasionale, privata, spic-
ciola. Si cerchi, in particolare, di togliere il pregiudizio, quasi
superstizioso, che ricevere l'Olio Santo significa la perdita d'ogni
speranza: ciò è in contrasto con tutta la liturgia del sacramento
il quale, oltre a confortare lo spirito, può portare anche dei bene-
fici corporei e restituire la sanità. Tanto più che i due elementi
— spirituale e corporale — si devono considerare come, per loro
natura, sempre connessi. Ciò si deve tener presente « se si vuole
comprendere il segno e la grazia sacramentale dell'Unzióne degli
infermi. La malattia fisica, infatti, aggrava la fragilità spirituale
propria di ogni cristiano, e potrebbe portarlo, senza una speciale
grazia del Signore, alla chiusura egoistica in se stesso, alla ribel-
lione contro la Provvidenza e alla disperazione » {Doc. past. C.E.I.,
n. 140). Ma oggi, secondo una mentalità che rifiuta la presenza e
l'azione del soprannaturale nel mondo, il sollievo corporale e la
guarigione sono attese solo come un effetto della scienza medica:
« l'invocare Dio come "terapeuta", come Colui che può compiere
cose che non sono in potere dell'ingegno umano sembra sconve-
niente e superstizioso a un uomo che tende ormai a considerarsi
unico arbitro del proprio destino » (doc. e, n. 123). Certo non si
deve attendere e pretendere che l'Unzione degli infermi agisca
miracolosamente (quantunque possa fare e di fatto faccia anche
questo). Perciò non è da aspettare, per riceverla, di esser « in
extremis »16. Ma Dio, oltre che con interventi prenaturali, suole
premiare la fede e la buona volontà del malato disponendo e ordi-
nando, colla Sua Provvidenza ordinaria quei mezzi ed aiuti natu-
rali che procureranno all'uomo la guarigione od almeno un con-
forto fisico-psichico.
Si istruiscano i fedeli anche sulla facoltà concessa al parroco (o
16
Perché non è il sacramento dei morenti, ma dei malati (in pericolo,
almeno probabile, di morte). È piuttosto il Viatico il sacramento della
morte, il sacramento che la trasfigura nel mistero del Cristo risor-
to: «fidelis, in suo transitu ex hac vita, corpore Christi roboratur, pi-
gnore resurrectionis munitur» (Istr. Euch. Myst., AAS, 59, 1967, 562).
268
\
a qualche ajtro, se autorizzato) di amministrare la Cresima (sia agli
adulti sia £^ bambini che non hanno ancora l'uso della ragione):
procureranno cosi che possibilmente nessuno sia privato di questo
sacramento c|ie accresce quaggiù la grazia ed in Cielo la gloria
del cristiano. *Ma bisogna che il parroco sia informato e chiamato
per tempo presso l'ammalato. Si spieghi pure ai fedeli come si è
incerti sul moniento esatto in cui l'anima abbandona il corpo, an-
che se il medico ha giudicato che non c'è più nulla da fare.
Perciò chiamino subito il sacerdote anche presso chi è apparente-
mente morto. Ed il sacerdote (si dirà) può amministrare il sacra-
mento dell'Unzione e dare l'assoluzione anche entro lo spazio di
più ore se la perdita dei fenomeni vitali è dovuta ad un fatto
fulmineo o quasi violento (esterno od interno al soggetto); entro
lo spazio di un'ora, circa, se è preceduta da una lenta malattia che
abbia lasciato minori possibilità latenti di resistenza fisica.
III. L'assistenza pastorale ai malati domanda al sacerdote
zelo e spirito di sacrificio. Questa cura rientra nel suo ministero
diretto ed essenziale. « Presbyteri maxime... solliciti sint aegro-
tantium et morientium, eos visitantes et in Domino confortantes »
(PO, 6). Bisognerebbe soprattutto che non mancasse agli infermi
l'opportunità di ricevere frequentemente i sacramenti, secondo la
loro devozione ed il loro desiderio ". Ce ne sono che si lamentano
di esser trascurati. I pastori d'anime si giustificheranno col fatto
che infinite altre occupazioni li assorbono. Occorre però osservare
una gerarchia anche nei ministeri.
1. Il I Sin. Rom. 1960 (e. 463) consiglia che si tenga un
registrino privato nel quale si segnino i malati gravi che ci sono
in parrocchia: accanto si potrà notare se hanno ricevuto o no i
sacramenti, le morti ed anche le guarigioni. Si potranno avere utili
indicazioni sugli effetti corporali dell'Unzione degli infermi: ci
sono parroci che dichiarano di aver toccato con mano casi di
guarigioni quasi miracolose.
2. Quando visita il malato il sacerdote s'introdurrà con tratto
17
Per esempio, anche se un fedele si fosse comunicato in giornata, è
molto consigliabile, se poi è ridotto in fin di vita, che si comunichi di
nuovo (cfr. Istr. Euch. Myst., AAS, 59, 1967, 562). Non si dimentichi poi
l'Istruzione emanata il 15.V.69 dalla Congr. per il Culto divino secondo la
quale è possibile ottenere dall'Ordinario la facoltà di celebrare la Messa
nella casa d'un infermo o d'un anziano impedito a recarsi in chiesa (AAS,
61, 1969, 807-808).
269
soave e procederà con discrezione e tatto. A seconda/ anzitutto,
delle reazioni spirituali del singolo di fronte alla sofferenza: su
alcuni la malattia non incide sensibilmente perché conservano le
loro fondamentali ed abituali disposizioni interiori (che posson
esser di religiosità o di areligiosità o di antireligiqsità); altri nel
dolore trovano l'impulso alla conversione; altri invece mettono
in crisi la loro fede od acuiscono la loro incredulità fino a giun-
gere, talora, alla rivolta contro Dio ed alla bestemmia. Anche con
costoro bisogna aver molta pazienza e comprensione. Non sap-
piamo fino a che punto siano responsabili. L'infermità può esser
un impedimento alla piena deliberazione. Non bisogna perciò
rimproverarli umiliandoli. Dolcemente e gradatamente si cercherà
di condurli alla rassegnazione facendo loro capire che questa è,
per ogni conto, più vantaggiosa della ribellione.
3. Il sacerdote non impressionerà esageratamente ed inutil-
mente il malato. Certi inganni però possono essere spiritualmente
dannosi: qualche ammalato che ha bisogno di ricevere i sacra-
menti, li riceverebbe se chi sta intorno a lui non gli facesse cre-
dere fino all'ultimo che non è ammalato seriamente. E cosi egli
— come dice il I Sin. Rom. 1960, e. 460 — forse non si prepa-
rerà — come potrebbe, nel modo migliore — a fare la volontà
di Dio. Spesso sono i familiari che s'impressionano se lo vedono
ricevere i sacramenti. Il malato ha una specie di « grazia di stato »
per.prendere lucida coscienza e serena consapevolezza della sua
condizione e del suo destino senza funeste illusioni. Il Documento
Pastorale della C.E.I. (12.VII.74) indica come uno dei sintomi
rivelatori della secolarizzazione (che mette in crisi fede e speranza
teologali) lo « sforzo che si compie per nascondere sia all'amma-
lato come alle persone che gli sono vicine qualsiasi segno della
gravità del male e soprattutto della morte » (n. 119). Conseguen-
temente, familiari, personale sanitario ed ospedaliero « tengono
lontano il più possibile quei segni e aiuti della fede, ai quali il
credente ammalato avrebbe diritto » (n. 120). La malattia peri-
colosa e la morte, sono eventi drammatici che devono necessaria-
mente provocare la riflessione sul perché e sul fine dell'esistenza
umana. Ma la visita del sacerdote sarà sempre rasserenante •— sia
perché egli aiuterà a comprendere l'arricchimento spirituale della
malattia e della morte, sia per i soccorsi soprannaturali che può
dare al malato come ministro del Signore, sia per quell'atmosfera
di festosità di cordialità e di fraternità evangelica ed umana che
egli porterà in ogni casa come messaggero di Cristo. Le sue visite
270
saranno frequenti ma brevi (come consigliano i medici). Le sue
parole daranno coraggio e susciteranno speranza: non tradiranno
preoccupazione sulla gravità o l'aggravarsi della malattia né con-
terranno sentenze, in termini specificamente medici, le quali pos-
sono essere oltre che una impertinente ostentazione di compe-
tenza, un motivo al malato per riflettere, fantasticare, impres-
sionarsi. \
4. Quando il malato ha bisogno d'un confessore bisogna, con
delicatezza, dargli la possibilità di avere il sacerdote che più desi-
dererebbe (o meno difficilmente riceverebbe) e non metterlo nella
quasi costrizione d'aprirsi (su fatti che forse stenta a manifestare)
con quell'unico sacerdote che ha la cura d'anime del luogo (o con
un parente proprio).
5. Quando sia chiamato presso un malato, il sacerdote s'in-
formi, prima, chi sia e cosa abbia. Se sente che è grave, prenda
con sé, oltre all'Olio Santo, anche il Viatico, ed eventualmente,
il Crisma.
6. A scanso di rigorismo e di scrupoli si tenga presente che la
Confessione per l'infermo è e dev'essere facilitata (quanto all'esame
di coscienza ed all'accusa) relativamente allo stato del singolo
(che può esser in condizione e difficoltà più o meno grave). Faci-
cilitata pel penitente (che ne ha diritto) e facilitata pel confessore
(che non deve crearsi inesistenti doveri di interrogare su ciò che
il malato non è tenuto a ripensare ed esporre). Con l'aiuto discreto
d'un abile confessore egli potrà, anche se da anni non si confes-
sava, manifestare in pochi minuti sufficientemente lo stato della
sua coscienza. Il confessore deve prepararsi a trovare qualcuno
che — mentre nello stato di sanità fisica si sentiva tranquillo e
non riteneva di dover ripensare al passato — nello stato di ma-
lattia è in preda ai timori: sulle Confessioni precedenti e su altre
questioni di coscienza. In prossimità della morte il ricordo sì fissa
tormentoso sul male fatto (non sul dolore e la confessione di
questi peccati, dolore e confessione che possono esserci stati). Se
non supera questa impressione accasciarne — coll'aiuto della
grazia e del confessore — il malato potrebbe mettersi sulla strada
della disperazione*. E s. Alfonso (Pratica del Confess., App. II,
§ II, 2) afferma che è questa la precipua tentazione dei moribondi.
Il confessore deve sapere che per la debolezza fisico-psichica lo
spirito è esposto a queste impressioni e turbamenti. Sia deciso.
Coi malati non è da comportarsi come coi sani. Hanno bisogno
271
d'un trattamento speciale: da malati. Bisogna tagliar córto ad ogni
loro ansietà. Dio, somma bontà e misericordia, vudle che siano
nella pace. La pace del Suo perdono. La pace e la/gioia dell'in-
contro con Lui. Rivangare il passato significherebbe non finirla
più. Anche perché lo stato di prostrazione (e di mipressionabili-
tà) non permette di percepire e ricordare con chiara obiettività i
fatti che sono causa di agitazione. Evidentemente/non mi riferisco
al caso di peccati certi e certamente non confessati da parte di chi
ha sempre avuto coscienza di non essere in amicizia con Dio.
Questi il malato li confesserà (come può secondo le sue forze) per
riconciliarsi con Dio. E la Confessione allora porterà la liberazione
e lascerà un senso di profondo sollievo. Ma deve restar sempre
una pratica da compiersi con una certa facilità, senza incubi, e con
piena fiducia nella divina misericordia. Talora poi converrà accon-
tentarsi d'una accusa generica (sia nel caso che quella specifica
fosse troppo gravosa, sia nel caso che non potesse essere fatta
segretamente). Si avviserà il malato che la sua Confessione, anche
se generica, è valida, quando c'è l'intimo e generale pentimento
per tutto quanto ci può esser stato di male. Se potrà, si confesserà
specificamente in seguito. Ma conviene prevenire ogni eventuale
dubbio sulla efficacia della Confessione fatta. Tranquillità, sicu-
rezza. E' stato scritto che l'infermo facilmente si turba e difficil-
mente si tranquillizza da solo: tocca al confessore tagliare la
strada alla paura ed allo sgomento. Più che a risvegliare il ricordo
d'un passato (che procura spesso inutili preoccupazioni e turba-
menti allo spirito sensibile e depresso) il malato sarà invitato a
santificare l'attimo presente, le proprie sofferenze. Il confessore
(intra ed extra Confessione) lo esorti quindi a confidare nella
bontà e provvidenza di Dio, ad unirsi spesso a Lui col pensiero e
la preghiera semplice: parteciperà cosi alla passione del Cristo
redentore; riparerà qualche mancanza o sbaglio morale commesso;
acquisterà meriti immensi per sé e per tanti altri. Molte occasioni
di merito sono offerte ad ognuno nel tempo d'una malattia: l'eser-
cizio della pazienza (per quanto possibile), del buon esempio, qual-
che attenzione ai bisogni di altri malati (negli ospedali), qualche
segno di riconoscenza verso coloro che prestano assistenza e cure
(cfr. Ordo poemi., 1973, App. II).
7. Con coloro che dà tanto tempo non avessero ricevuto i
i sacramenti od avessero condotto una vita cattiva, occorre una
speciale delicatezza. Si comincerà con l'inviare un saluto. Si cer-
272
cherà di informarsi indirettamente (prima di fare domanda espli-
cita) se l'ammalato riceverebbe volentieri la visita del sacerdote,
di quel sacerdote che si pensa essergli più gradito. Comunque
si avrà l'avvertenza di farsi annunciare in modo da scegliere il
tempo e l'ora che l'ammalato preferisce. Anzitutto visite di cor-
tesia. Nessuna espressione che non dimostri stima. Non si dirà
a bruciapelo: « è giunto anche per lei il momento di avvicinarsi
di più a Dio »: il malato si offenderebbe pensando di esser giu-
dicato peggiore di quanto sia; forse ne soffrirebbe profondamente.
Riguardo al problema della pratica religiosa ed ai sacramenti,
bisogna tastar il terreno e prender le mosse alla lontana. Si può,
intanto, dire all'ammalato che si prega per lui perché il Signore
gli conceda di star meglio, di sopportare con serenità la malattia:
dalle risposte apparirà se c'è qualche sensibilità ai richiami sopran-
naturali. Quando si troverà la porta aperta si potrà fare un accenno
esplicito a quegli aiuti soprannaturali che conforterebbero l'infer-
mo e possono — gli si dirà — portare anche un miglioramento
delle condizioni di salute. Ancora maggior riguardo avrà il sacer-
dote quando si trattasse di donne notoriamente dedite alla vita
dissipata. Si procurerà che siano prima visitate da qualche altra
persona che sappia, colla sua carità e prudenza, preparare la via
al sacerdote.
8. Il quale, se giunge d'urgenza presso chi ha ormai perduto i
sensi, farà bene, prima di amministrare l'Unzione e l'assoluzione,
a suggerire ad alta voce, con una pia giaculatoria, un atto di fiducia
e d i pentimento (dicendo di esser un sacerdote o quel dato sacer-
dote che l'infermo conosceva bene). Anche se han perduto i sensi
non è escluso che possano intendere: so di qualcuno che, ripre-
sosi, ha dimostrato di ricordare quanto il sacerdote gli aveva detto.
Anche a chi aveva debitamente ricevuto i sacramenti ma persevera
per qualche tempo nello stato di paralisi celebrale, è bene ripe-
tere ogni tanto l'assoluzione sotto condizione (dopo averlo invi-
tato a disporsi) perché nel frattempo potrebbe averne bisogno.
È noto come secondo la tradizionale prassi pastorale si consi-
dera il caso della morte apparente nel quale si amministra condi-
zionatamente gli ultimi sacramenti necessari. Oggi da parte di
taluni questa prassi è contestata e si suggerisce invece « di non
conferire l'unzione a chi sia appena spirato, perché incapace del
tutto a percepire il segno del sacramento » (G. Davanzo, II batte-
simo al neonato si, l'unzione a chi è spirato no?, in « Anime e cor-
273
pi » 59, 1975, 353-354). Ma la questione è se si tratti di chi,
pur essendo giudicato spirato, sia con certezza già morto del tutto.
Qualora non si abbia tale certezza si è sempre tenuto il principio
generale: « sacramenta propter homines »: qualora la morte sia
dubbia non si priverà l'anima d'un probabile, e forse necessario,
aiuto soprannaturale; e non si vede come possa esser proposta
con sicurezza la norma pastorale « di esigere qualche segno di vita
e di disponibilità prima di conferire agli adulti infermi l'unzione
sacra » (ibid., p. 354) 18 .
IV. Ci sono dei suggerimenti pel buon uso delle malattie sui
quali possono utilmente riflettere anche i sani per disporsi a quelli
che sono i problemi, i pericoli, le difficoltà, le tentazioni proprie
dello stato di malattia.
1. Prepararsi a sperimentare che specialmente quando si starà
male non sarà sempre facile conformarsi alla volontà di Dio. Nella
malattia non si deve vedere né solo il caso, né un castigo di Dio,
ma un mezzo da Lui disposto per la nostra elevazione, purifica-
zione e redenzione.
2. Esser convinti che Dio desidera che noi usiamo tutti i
mezzi disponibili per guarire. E conserviamo sempre — per quanto
possibile — ottimismo e speranza. La malattia rappresenta una
forzata sosta ad una stazione; ma poi si riprenderà il viaggio.
Non si ignori che c'è un pessimismo — connesso o conseguente
alla malattia — che talora blocca anche chi è guarito e paralizza
ogni sua attività ed ostacola il ritorno alla vita normale. Si ve-
18
Anche in una rivista diocesana italiana del XI-XII 1976, leggo la
proposta che « al malato che è già in stato di coma, venga conferita l'Un-
zione solo se egli l'aveva già richiesta o almeno se si può presumerne il
desiderio. In caso contrario pare pastoralmente più utile non conferirla,
sia per rispetto alla personalità del malato, sia per logica coerenza con le
finalità del sacramento, sia per togliere l'errata concezione che i fedeli hanno
sul sacramento stesso. Nel caso di persona già morta, i criteri per un
conferimento "sub conditione" dovranno essere anche più restrittivi». È
invece da ritenere che proprio la finalità del sacramento (« sacramenta
propter homines ») e la preoccupazione per la salvezza del malato sugge-
riscono di non privarlo del sacramento: finché consta con certezza od è
probabile ch'egli sia vivo, è sempre possibile che cambi le sue precedenti
disposizioni spirituali ed abbia il bisogno di riconciliarsi con Dio. Non
si manca di rispetto alla sua personalità offrendogli un aiuto forse da lui
invocato.
274
rifica specialmente nei pensionati, anche in persone molto spi-
rituali.
3. Nelle interminabili giornate e nelle notti insonni la fan-
tasia del malato lavora terribilmente. Egli pensa cosa sarebbe e
cosa farebbe se non fosse malato. Ritorna con nostalgia al passato,
di cui non ricorda che le gioie, prevede un avvenire fosco ed
incerto. Pensieri deprimenti che bisognerebbe fugare in un modo
o nell'altro, leggendo un.libro, ascoltando la radio, conversando
con una persona...
4. C'è il pericolo che il malato si concentri troppo sul suo
male e ne faccia l'unico oggetto delle proprie riflessioni e conver-
sazioni. Per quanto le forze lo permettono, cerchi di parlare e
d'interessarsi anche degli altri e d'altri problemi.
5. Certuni son troppo esigenti con chi li assiste (i quali, a
loro volta, specie se infermieri di professione, non sempre la eser-
citano per vero amore cristiano). D'altra parte, il malato non cadrà
nell'avvilimento pensando d'esser un peso per gli altri. Si conforti
ricordando come rientra nell'ordine provvidenziale che alcuni ab-
biano bisogno delle cure e dell'assistenza da parte di altri e diano
a questi l'occasione d'esercitare carità e pazienza. Nella società
anche il malato ha un ruolo; e prezioso.
275
C. Secondo lo « stato di vita » e le « professioni »
1. Prefidanzati e fidanzati
276
zioni ed atti esterni. Questi amoreggiamenti cominciati troppo
presto — anche se, sulle prime, sono o sembrano superiori alla
sensualità — è un'illusione che si conservino tali. Lo saranno, per
qualche tempo, ma non a lungo. La sensibilità quando viene sod-
disfatta liberamente e senza freno ingigantisce. E così inevitabil-
mente porta alla sensualità (anche se il passaggio non è avver-
tito). Quindi in linea di massima le amicizie particolari sensibili
iniziate molto tempo prima del vero fidanzamento, sono da scon-
sigliare. « La dichiarazione di amore tra due adolescenti, fosse
anche soggettivamente sincera — si legge nel Documento che in
questa materia l'Episcopato Lombardo e Triveneto ha pubblicato
in data 2.II.1974 — è da considerarsi per lo meno immatura e
precaria a motivo dell'acerbità del loro sviluppo umano. Perciò
da tale dichiarazione, e più ancora da un formale fidanzamento,
gli adolescenti vanno distolti con diligente opera di convinzione »
(n. 26) {Boll. Eccl. Intera, di Belluno e Feltre, 1974, n. 1, pp. 43-
55). La regola e la raccomandazione vale di massima. Non in modo
assoluto è esclusa la possibilità d'una relazione seria e pura,
piuttosto prematura. Per un giovane durante il servizio militare,
ad esempio, potrebbe esser un sostegno ed un conforto nei mo-
menti difficili, una difesa contro la scatenata dissipazione che tra-
volge la massa. Ma bisognerebbe che la ragazza fosse formatis-
sima e, colla sua forte personalità, esercitasse il suo influsso sul
giovane: un giovane — si suppone — fondamentalmente buono.
E tutto questo non dispensa da quella prudenza e da quelle pre-
cauzioni che sono necessarie anche ai migliori.
277
necessaria l'astinenza, allora ci sarebbe il vuoto. Perciò sono peri-
colosi quei matrimoni nei quali si prevede che mancherà la fu-
sione degli spiriti perché c'è, fra i due, diversità piena di forma-
zione, di cultura, di educazione e solo si guarda alla parte sen-
suale. D'altra parte, in ordine al matrimonio, non basta l'affetto
spirituale. Ci dev'esser pure la simpatia. E fin da principio. Se
non c'è, bisogna troncare senza misericordia, qualunque siano
state le promesse. Pericolosissimi sono i matrimoni combinati solo
per calcolo, ragionamento, volontà: è facile che un uomo, dopo
qualche tempo, per la moglie conservi solo tutto il suo apprezza-
mento di stima e di rispetto ma senta sorgere e svilupparsi in sé
un affetto sensibile e sensuale verso un'altra donna.
Si noti che il primo amore — quand'è vero amore — fra due
giovani in vista del matrimonio comincia con una simpatia fortis-
sima e dolcissima, ma non con la passione propriamente sensuale.
Desiderano stare vicini, aver contatti corporali, non però ancora
sensuali. Per questi, all'inizio, provano una ripugnanza. Ma la
sensibilità crescerà sempre più in intensità e secondo le leggi del
meccanismo fisico-psichico porterà alla sensualità. Siccome non
conoscono questo processo molti si concedono fin da principio
troppe libertà mutue. Sono, specie le giovani, forse in buona fede.
Ma l'amore sensibile condurrà a quello sensuale: altrimenti in
genere non perdura neppure come sensibile ed alla simpatia suc-
cede il tedio, il disgusto, l'avversione, l'antipatia. Il passaggio
dall'amicizia sensibile a quella sensuale avviene insensibilmente.
Ad un dato momento vien meno il primitivo pudore istintivo ed
i due si sentono trascinati dalla passione a compiere atti stretta-
mente sessuali. Dovrebbero esser istruiti e messi in guardia. Ed
una volta istruiti, dovrebbero con l'autocontrollo comportarsi ra-
gionevolmente e volitivamente. Altrimenti sono spiegabili i rap-
porti prematrimoniali.
2. Doti spirituali. Principi morali e religiosi. L'ideale sarebbe
che circa questi principi ci fosse, nei due, 1'« idem velie » 1'« idem
sentire ». Circa i principi necessari, s'intende, perché psicologia e
temperamento posson esser ben diversi: anzi, questa diversità può
apportare una ricchezza ed un completamento reciproci. Ci può
esser sostanziale accordo nella fede e nella religione, ma nel modo
di viverla e praticarla non si deve pretendere l'uniformità: ognuno
deve rispettare la personalità dell'altro, nella quale influiscono
molti fattori, non escluso il sesso stesso.
In fatto di moralità l'ideale sarebbe che i due giovani giun-
278 \
gesserò casti al matrimonio perché il mutuo dono — di spirito e
corpo — fosse totale. Non esiste una moralità per le ragaz2e
diversa e più severa che per gli uomini. Spesso però l'uomo pre-
tende nella fidanzata una integrità fisica, mentre da parte sua non
porta e non crede di esser affatto tenuto a portare alla sua com-
pagna un corpo verginale. Consuetudini e concezioni umane sba-
gliate. Deve una fidanzata rivelare al suo fidanzato di aver per-
duto la verginità in seguito a rapporti con un altro uomo? Non
si può affermare che ci sia stretto dovere perché è un difetto non
sostanziale che è molto gravoso rivelare. A meno che H fidanzato
non esigesse la verginità come condizione per contrarre il matri-
monio; ma ciò non si presume, se non lo dichiara esplicitamente.
In genere, però, si consiglia che la ragazza sia sincera perché siano
evitate spiacevoli sorprese che potrebbero render meno felice il
primo periodo di matrimonio e, forse, tutto il matrimonio. Una
volta contratto il matrimonio è, invece, sconsigliabile che uno ma-
nifesti il proprio passato spiacevole: e se l'altro lo sa, faccia finta
di non saperne niente. Ad una ragazza che chiedesse se, in seguito
ad atti impuri solitari, ha perduto la sua verginità è da rispondere
decisamente e sbrigativamente di no. Comunque, specie per aver
un criterio sulla valutazione morale, non bisogna solo considerare
se c'è stata qualche caduta e sbaglio, sia pur materialmente grave.
Una caduta occasionale, dovuta più che altro ad inesperienza, può
esser stata poi riparata. Ma cosa sarà da aspettarsi da una ragazza
strutturalmente leggera, instabile, facile a passare da un fidanza-
mento (o amoreggiamento) all'altro, senza fede sentita e senza
spirito cristiano, con una pratica religiosa quasi nulla o puramente
superficiale e abitudinaria? È dalla madre che dipende soprattutto
la formazione spirituale dei figli. Simile discorso (tenendo conto
però della diversa psicologia) va fatto anche per l'uomo: occorrerà
un giudizio prudenziale, caso per caso. Qualche giovane non ha
mai fatto questione di principi: è la sua vita che ha avuto un
periodo di smarrimento che egli riconosce ed ha sinceramente
riconosciuto. Però una volta, innamorato d'una ragazza buona
che esercita su lui un forte preponderante influsso, subisce una
trasformazione psichica completa. Tutto quello che pensa, dice,
fa, è messo in relazione colla persona amata. È una liberazione
ed una conversione: ha inizio (per un soggetto fondamentalmente
sano o ricuperabile) una vera vita spirituale: la conversione ama-
toria coincide colla conversione religiosa. Ma altri, ormai avanti
negli anni, che non hanno mai dimostrato alcuna dote di labo-
279
riosità (sulla quale bisogna far molto calcolo), che sono dediti al
vizio (specie se a quello impuro s'unisce anche quello dell'alcooli-
smo), quali speranze possono dare se non c'è la prova d'un lungo
radicale miglioramento? Qualcuna, già avanzata negli anni e ter-
rorizzata di restar zitella, accetta anche un partito simile. Poi
sono dolori.
La Casti Connubii (AAS, 2, 1930, 585-586) porrebbe l'ac-
cordo, dei due, circa la vera religione di Cristo come il primo
requisito per un matrimonio felice. Difatti, anche escluso il peri-
colo d'una influenza funesta, è prevedibile un intimo disagio e
conflitto se uno ha un grande amore verso l'altro ma insieme deve
dissentire da lui in una materia cosi profondamente vitale: vorreb-
be che l'unione spirituale fosse perfetta e soffre che non sia
perfetta. Inoltre, anche quando l'amore autentico assicura una
fedeltà assoluta e perenne, non basta solo questa alla moralità,
alla castità, alla santità coniugale. C'è una legge morale da osser-
vare anche nell'uso del matrimonio. E non facile. Nel fidanza-
mento, ed anche quando iniziano una seria amicizia in vista del
matrimonio, è desiderabile che ognuno sappia come la pensa l'altro
su questo argomento. Meglio discutere e soffrire prima che dopo:
e soffrirebbe una sposa costretta a continua complicità (sia pur
incolpevole) in un disordine sul quale il marito fosse irriducibile.
Altrettanto si dica d'una fidanzata che per principio non volesse
che un paio di figli e cosi costringesse, in partenza, il marito
o ad una astinenza difficilissima o ad un abuso abituale. I metodi
della continenza periodica possono risolvere provvidenzialmente le
difficoltà che dovessero sorgere aumentando il numero dei figli,
ma non è certo l'ideale che ci sia come programma il proposito di
godere le soddisfazioni coniugali e di evitarne le conseguenze ed
i pesi. L'esperienza però insegna che questo è di fatto un problema
gravissimo, anche per coloro che sono onesti, anche per i migliori.
Non basta che si vogliano bene: occorre una grande fede e fiducia
cristiana, una religione vissuta.
Si noti che i pericoli ed i disagi non ci sono solo quando uno
è credente e l'altro non credente ma anche quando appartengono a
religione diversa. Sia la Chiesa cattolica sia quella protestante
sconsigliano i matrimoni misti. I vescovi cattolici, nella loro gran-
de maggioranza, si augurano che permanga l'impedimento di mista
religione (anche se molti hanno chiesto che sia data loro la facol-
tà di dispensare dalla forma canonica del matrimonio che vuole la
presenza del ministro cattolico autorizzato, oltre che di due testi-
280
\
moni). Certo, quando l'incendio è scoppiato sarà difficile spe-
gnerlo: ed allora è meglio che si sposino (colle debite garanzie
e supposti gli altri requisiti morali, spirituali e fisici) piuttosto
che vivano in concubinato. Ma sarà piuttosto la donna, se non ha
una forte personalità, un fermo carattere, una solidissima forma-
zione religiosa, che subirà l'influsso dell'uomo anche in materia
religiosa. Perché la donna per natura è portata a modificare insen-
sibilmente idee, principi, fede, secondo l'orientamento del cuore.
Se ama molto un uomo, e proprio perché lo ama molto, è facile
che sia da lui trascinata tanto ad abbracciare una religione come
a metterla in crisi o in second'ordine.
3. Sufficiente sanità fisica. Il consigliere spirituale avrà chiari
anzitutto i principi morali. Chi avesse una malattia grave deve
— in ordine al coniuge ed in vista dei figli — cercar di curarsi.
Se non riuscisse a curarsi deve avvisare del suo stato l'altra parte.
Ma se questa accetta di sposarsi, non consta con certezza che cessi
nella persona malata il diritto al matrimonio e che abbia l'obbligo
grave di rinunciarvi. Tanto più che per taluni il celibato può esser
difficilissimo e farà sorgere quindi un grave problema di ordine
morale. Si noti che, oggi, i metodi della « continenza periodica »
offrono anche a coloro che sono gravemente tarati per malattie
ereditarie (per esempio mentali) la possibilità di unirsi in ma-
trimonio secondo le loro aspirazioni senza l'incubo di metter a
loro volta al mondo dei figli anormali e deficienti.
La « continenza periodica » non toglie però il pericolo del con-
tagio per l'altra parte (se nella malattia in questione questo pericolo
è asserito dalla scienza medica). Però, a parte lo stretto diritto e
la stretta legge « matrimoniale », può venire il sospetto che, tutto
considerato, un dato matrimonio debba esser sconsigliato. E talo-
ra può esser vivamente sconsigliato nell'interesse stesso di chi
lo desidererebbe. Perché la salute ha più importanza di quello che
spesso si può credere: proprio perché ci possa esser la perfetta
amicizia coniugale, spirituale, sensibile, sensuale. E poi bisogna
pensare anche ai figli: a dar loro una esistenza meno infelice
possibile. Nel caso concreto però è da attendere a tutti gli ele-
menti e aspetti del caso (fisici, psichici, morali). Il sacerdote
quando, richiesto di consiglio, apprende l'esistenza d'una grave
malattia (che in realtà può essere più o meno grave) sarà saggio
se suggerirà all'interessato di rivolgersi ad un medico: un medico
che abbia esperienza, principi morali e religiosi, che sappia, con
281
interessamento, affetto sacerdotale e lucidità, considerare la sin-
gola situazione in tutte le sue circostanze, non solo sotto l'aspetto
fisico ma anche morale; un medico al quale il fidanzato possa
quindi dir tutto, come e più che ad un sacerdote, per avere non
solo un giudizio clinico ma un consiglio concreto, umano e frater-
no per una effettiva decisione. Ad esempio ci sono talune che
hanno onestà, religione, ed anche vigore fisico, ma un tempera-
mento che pare strutturalmente nevrastenico (od isterico). Sarà
un difetto insanabile? Dipende da mancanza di volontà e di forma-
zione morale e spirituale, oppure da una debolezza psichica e
da una irresponsabile incapacità d'autocontrollo? Sta di fatto
che in casa, coi genitori, fanno continuamente scenate; non accol-
gono mai un'osservazione ma rispondono malamente, incapaci di
frenarsi; col fidanzato stesso litigano abitualmente, alle volte
stanno ore ed ore senza far parola. Che cosa sarà in seguito? Una
donna all'uomo non deve servire solo a soddisfare la passione dei
sensi. Deve portare in casa il sole dell'ottimismo, della gioia, della
serenità. Quando il temporale s'annuncia coi suoi brontolìi è chia-
mata ad essere la compagna confortatrice, armata di coraggio e di
speranza incrollabili. Non avrà paura ad avere un figlio di più
perché ha una carica inesauribile di fiducia e di adattamento.
Date le difficoltà dell'esistenza, senza queste doti come è possi-
bile, come può essere felice la vita matrimoniale? Purtroppo
spesso, di fronte a preoccupanti difetti fisico-psichici, i fidanzati
non chiedono un consiglio spassionato. Alle volte lo chiedono, ma
poi non lo seguono. Si lascian trasportare dal cuore o dalla pas-
sione dei sensi. Qualcuno (o qualcuna) dice che l'amore sta nel-
l'unirsi ad una persona anche se malata, anzi proprio perché ma-
lata. Noi non possiamo non ammirare con commozione simili atti
di carità e di dedizione, ma sappiamo che la virtù-guida di ogni
virtù è la prudenza. E non possiamo approvare qualche consigliere
(fra i parroci ad esempio) che, nell'intento di combinare qualche
matrimonio, guarda solo alle doti di ordine religioso e morale.
4. Risorse economiche ed abilità personali (almeno sufficienti)
per mantenere una famiglia, dirigere la vita domestica, educare i
figli. Un giovane, anche se non si è ancora fatta una posizione
sicura, deve dare però garanzie che ha le capaoità e la volontà
energica di svolgere un proficuo lavoro professionale. I primi
tempi di matrimonio possono presentarsi però un po' difficili ed
austeri. Occorre prudenza ma anche un po' di confidenza. Altri-
282
menti, nell'attesa di una sicurissima posizione e d'una vita agiata,
bisognerebbe, per molti, ritardare troppo il matrimonio. Con
sofferenza e pericoli morali. Sono consigliabili — sia dal punto di
vista igienico come dal punto di vista spirituale — i matrimoni
in età piuttosto giovane. E sono sconsigliabili (salvo casi speciali)
i lunghi fidanzamenti. In età giovane: come può essere per la
donna il periodo fra i 18 ed i 23 anni e per l'uomo fra i 23 ed
i 30. Sono pure sconsigliabili i matrimoni contratti troppo presto
o troppo in fretta. Secondo le ultime statistiche aumentano in
Italia i matrimoni di giovani al di sotto dei 18 anni. Ragazze,
anche di 12, 13, 14 anni, che invece di frequentare la scuola
dell'obbligo, sono costrette a sposarsi. Considerando questo feno-
meno i vescovi della Lombardia e della regione Tri veneta, nel
recente documento sopra citato, scrivono: « I l matrimonio nella
prima adolescenza deve essere sempre dissuaso anche nel caso di
gravidanza: la maternità fuori del matrimonio è un male minore
in confronto ad un matrimonio senza garanzie di futuro » (n. 26).
In Italia con la legge deU'8.III.1975t_n. 39, la maggior età è por-
tata dai 21 anni ai 18. E con la legge del 19.V.1975, n. 151 (G.U.
n. 135 del 23.V.75) i minori di età non possono contrarre matri-
monio. Però « il tribunale, su istanza dell'interessato, accertata
la sua maturità psico-fisica e la fondatezza delle ragioni addotte,
sentito il pubblico ministero, i genitori o il tutore, può con decreto
emesso in camera di consiglio ammettere per gravi motivi al
matrimonio chi abbia compiuto i sedici anni » (art. 4 della
nuova legge). È intervenuta cosf una discordanza fra diritto civile
e diritto canonico, il quale (pur consigliando l'età più usuale e più
opportuna) ammette valido il matrimonio se l'uomo ha compiuto
i 16 anni e la donna i 14 (CJC, e. 1067, § 1 e 2) e, previa dispen-
sa, anche ai 14 anni pel giovane ed ai 12 per la giovane. Ci si
augura che tale difficoltà giuridica venga risolta. Sul piano pasto-
rale resta comunque dissuaso un matrimonio contratto solo per
riparare una situazione qual è lo stato di gravidanza della giovane
se tale matrimonio fosse contratto da chi non ha ancora raggiunto
la dovuta maturità psico-fisica. Un vescovo può dunque, per
sé, concedere anche il matrimonio solo religioso (facendo avver-
tire gli interessati che potrebbe non essere trascritto nei registri
dello Stato ed esser quindi privo degli effetti civili). Molti vescovi
però propendono a rifiutare il matrimonio a chi abbia questo
impedimento civile, a meno che non ci sia l'autorizzazione da
parte del tribunale dei minorenni od una previa visita presso un
283
consultorio familiare. Si vuol che sia assicurata nei minorenni la
maturità, specialmente psicologica.
Quanto alla durata del fidanzamento, qualcuno (cfr. J. Leclercq,
Verso una famiglia nuova, Brescia, 1965) pensa che oggi le condi-
zioni di vita, le esigenze della professione e dello studio impedi-
scono spesso un matrimonio prossimo: si sarebbe instaurata per-
tanto una nuova impostazione di rapporti fra fidanzati cosicché si
può ammettere il fidanzamento come uno stato che duri anche anni
senza pericoli. Senza pericoli? Purtroppo l'esperienza smentisce in
pieno questa fiducia. Il fidanzamento, secondo la saggia norma
tradizionale, dovrebbe avere una durata sufficiente alla mutua
conoscenza, necessaria perché la scelta sia matura; ma non una
durata cosi lunga per cui diventi occasione prossima di abusi
prematrimoniali. Ordinariamente nello spazio di un anno, se gli
incontri sono abbastanza frequenti, i due avrebbero tutto il
tempo per conoscersi bene.
IV. Il periodo del fidanzamento occorre per una duplice
finalità: una conoscenza reciproca più intima, necessaria alla
decisione definitiva; e l'unione degli spiriti, preparazione, pre-
supposto, sostegno dell'unione fisica. Le oneste manifestazioni
d'affetto sono giustificate dal fine di favorire il mutuo amore in
ordine al matrimonio. E siccome l'amicizia è anche sensibile,
questi atti saranno accompagnati necessariamente da un piacere
che non è di natura solo spirituale. Ma il confessore, qualora do-
vesse trattare in materia eòi fidanzati, non conviene che dia loro
una esposizione particolareggiata degli atti che sono leciti o no,
sconsigliabili o meno; e neppure che faccia domande sulla fatti-
specie di tali atti. Senza entrare nelle distinzioni dei moralisti (in
teoria esatte) fra sensibilità e sensualità, richiamerà, all'occasione,
il principio morale e la norma generale: nelle visite e negli incon-
tri, non è proibito che si scambino qualche segno d'affetto secondo
la consuetudine dei buoni; con moderazione però e con le debite
precauzioni: soprattutto evitino di star soli in luoghi cosi segreti
da non poter esser visti da nessuno. Ed aggiunga che assoluta-
mente non possono concedersi ciò che è diritto solo dei coniugi. Per
la semplice ragione che il fidanzamento non è il matrimonio ma la
preparazione al matrimonio. Specialmente la fidanzata^ dovrebb'es-
ser vivamente esortata a mostrarsi energica fin da principio: a non
prestarsi a ciò che è apertamente illecito né a permettere certe
libertà pericolose; a riflettere che certi atti che per lei possono
284
non eccitare fortemente la sensualità hanno un effetto diverso
sul giovane, perché uomo e donna non hanno la stessa natura
fisico-psichica in materia sessuale. Più passiva e sensibile alle
impressioni non propriamente sessuali, la ragazza cerca però di
attirare con tutto il suo comportamento il giovane. Di queste
attrattive non prevede le conseguenze (a meno che non sia abile
nel mestiere di conquistatrice). È comprensibile come qualcuna
s'accusi, in confessione, di esser stata — ad un dato momento —
come aggredita contro la sua volontà. Non ha considerato, per
irriflessione o leggerezza, che poteva esser anch'essa la causa
di quanto ora lamenta. La giovane onesta è giustamente superba
della sua integrità fisica e morale. Pensa e dice che nessuno ap-
profitterà di lei. In realtà anche col fidanzato può resister molto,
prima di cedere e darsi. Però se crolla, può esser finita: subentra
in lei talora lo stato psicologico di chi non sa più opporre resi-
stenza alcuna. Si dona completamente all'altro, come se ciò ormai
fosse fatale. Può giungere al punto di lasciare che l'uomo faccia
di lei quello che vuole. Si offre a lui come un campo sperimentale.
Senza, si direbbe, pensare più a sé: difatti, per sua natura, la
donna non è egoista. Ecco perché allora troviamo qualche ragazza
che pratica la religione regolarmente e racconta (anche in Con-
fessione) atti consumati col suo fidanzato come se fossero la cosa
più naturale. Stato psicologico pauroso, perché sembra perduto
il senso morale. Si pensa che se non si fa danno a qualcuno contro
il suo volere, un'azione sia permessa: argomento evidentemente
invalido perché il danno si fa anche se chi lo subisce non ne è,
al momento, conscio, anche se non manifesta la sua volontà con-
traria (come il bimbo prima di nascere, il quale è già persona,
coi suoi inviolabili diritti). E comunque il danno è una conse-
guenza della violazione della legge morale: ed è anzitutto a questa
che bisogna attendere e conformarsi. Non si avrebbe il coraggio
di portare tali giustificazioni se ci fosse il senso di Dio. Ma se
non si guarda più a Lui e non ci si chiede quale sia la Sua
volontà, si arriva a dubitare di tutto, persino della propria identità
e della propria vita. Quindi una giovane intelligente (oltre che
onesta) deve prevedere ciò a cui giungerà se concede troppo al-
l'altro; deve sapere che la prima caduta può essere il primo anello
d'una catena; dev'esser preparata a qualsiasi insidia e tranello:
se il giovane le facesse capire sul serio che ai rapporti sessuali
non può rinunciare e che se non li avrà con lei li dovrà avere
con qualche altra, allora lo lasci pure senza paura di perder chi
285
non dà migliori garanzie morali. E se la maggioranza degli uomini
tenta di suggestionare la donna per anticipare ciò che è loro
lecito solo quando saran sposati, è la donna che dovrebbe non
lasciarsi suggestionare e col suo influsso elevare il tono dei
rapporti. Ma oggi molti pensano che non possono sperimentare
di volersi veramente bene se non hanno anche l'esperienza sessua-
le. Perciò « rivendicano il diritto all'unione sessuale prima del
matrimonio, almeno quando una ferma volontà di sposarsi e
l'affetto, in certo modo già coniugale nell'animo d'entrambi,
invocano quel complemento che essi pensano naturale; e ciò spe-
cialmente ogni qualvolta la celebrazione del matrimonio è impedita
dalle circostanze esterne, o questa intima congiunzione è giudicata
necessaria perché l'amore stesso perduri » (Dich. Pers. Hum.,
29.XII.75, n. 7). Se ciò fosse vero, crollerebbe tutta la morale del
matrimonio, nel cui quadro soltanto è lecito l'atto genitale. A parte
l'incertezza (nonostante propositi ed illusioni) che questi rapporti
prematuri assicurino la stabilità, la fedeltà sincera dell'unione
futura (cfr. Dich. Pers. Hum., n. 7). Ora, come si può conciliare
la frequenza ai sacramenti con siffatta mentalità? E, dal momento
che se ne confessano, è segno che provano un conflitto intimo
nonostante lo sforzo di interpretare in modo personale la legge
morale.
Certe mamme dicono che oggi coi fidanzati bisogna mostrar
fiducia, ricorrere alla persuasione e non ai controlli, e cosi lascia-
no completamente libere le loro figliuole. L'esperienza ammonisce
che non possono esser assolutamente approvate: perché non si può
ciecamente fidarsi neppure dei buoni; e quelli, tra questi, che sono
formatissimi non esigono di stare completamente soli e si per-
mettono solo ciò che gli altri possono vedere, per la ragione che
sono consapevoli del pericolo.
V. Ed il confessore come si comporterà coi fidanzati che si
concedono ciò che è solo un diritto dei coniugati? Quando hanno
rotto i freni e contratta una consuetudine è difficile supporre che
cambino condotta. La situazione assume particolare irregolarità
quando dicono di non poter sposarsi presto, ossia non fra alcuni
mesi. D'altra parte se si tratta di un'occasione di matrimonio so-
stanzialmente buona e se questi abusi prematrimoniali (pur es-
sendo un segno negativo ed un punto scuro) dipendono più che
altro dalla comune debolezza umana e dalla sofferenza pel ritar-
dato matrimonio, anche allora sarà praticamente difficile imporre
286
di troncare tale relazione. A meno che il contegno stesso di uno
dei due (unito ad altri elementi negativi) non faccia sorgere seri
dubbi sulla sua sanità morale. Ma se non mancano le condizioni
e qualità indispensabili ad una scelta e ad un matrimonio pru-
dente, non resta che ammonirli vivamente e gravemente a riparare
lo sbaglio vivendo meglio il periodo del fidanzamento che hanno
davanti. Specialmente alle ragazze si raccomandi l'uso di tutti
i mezzi naturali e soprannaturali: frequenza ai sacramenti, ricorso
ad un saggio confessore stabile dal quale accogliere umilmente i
consigli (e non solo l'assoluzione per poi agire come prima).
Devono pensare, che le benedizioni di Dio sulla loro famiglia e
vita futura possono essere compromesse da una condotta irre-
sponsabile.
VI. Per aiutare i fidanzati a prepararsi con rettitudine, consa-
pevolezza e senso di responsabilità al matrimonio, oggi sono andate
moltiplicandosi le iniziative. « Nella pastorale prematrimoniale
sono ormai diffusi e sperimentati i cosiddetti "corsi per fidan-
zati" che uniscono alla presentazione dei problemi religiosi e
morali del Matrimonio la trattazione dei diversi valori umani della
sessualità; dell'amore e della famiglia. Simili corsi sono da inco-
raggiarsi e da promuoversi su più vasta scala, sia perché provve-
dono ad una avvertita necessità d'informazione e di formazione,
sia perché possono raggiungere una larga parte di persone che si
preparano al Matrimonio. Laddove nemmeno questi corsi fossero
possibili sarà necessario offrire ai singoli fidanzati un maggior
numero di incontri e colloqui pastorali con il sacerdote e con quan-
ti si impegnano più intensamente nella comunità cristiana » (C.E.I.,
Evangelizzazione e sacramento del Matrimonio, 20.VI.1975, n. 82).
Occorre perciò che i futuri sposi si presentino tempestivamente
(un mese circa prima) al parroco per stabilire i documenti neces-
sari, per fissare il giorno dell'esame e dei colloqui. Devono a
norma del CJC, e. 1020, § 2, esser interrogati (anche separata-
mente) perché consti che non ci sono impedimenti, che il loro
consenso è libero, che sono sufficientemente istruiti nella dottri-
na cristiana (il che può essere accertato dalla qualità stessa delle
persone, senza bisogno d'esame). Chi non ha partecipato a corsi
preparatori in comune, verrà opportunamente istruito dal parroco
a norma del e. 1033. Questi incontri potranno protrarsi per più
volte, quante appariranno necessarie. È consigliabile che, appena
i due si presentano per le pratiche richieste e prima dell'esame e
delle istruzioni, il parroco offra loro un opuscolo che contenga
287
l'essenziale che devono sapere, sia circa la dottrina cristiana, sia
circa i doveri e i diritti matrimoniali, i consigli igienici riguardanti
sposi e figli. Di queste brevi « guide » ce ne sono molte. Per
esempio: A. Alessi, Catechismo degli sposi, L.D.C., Torino-Leu-
man; C. Van Agt, Guida al matrimonio (ottimo ma un po' più
ampio), Torino, Boria, via Andorno, 31. Con l'aiuto di uno di
questi catechismi, i fidanzati potranno prepararsi sia all'esame
eventuale sia agli incontri nei quali solleveranno tempestivamente
i loro particolari problemi. La lettura d'un libretto non può però
sostituire l'istruzione. Nella quale saranno messi alla prova, oltre
alla scienza, il senno, la prudenza, il tatto, il garbo, la pazienza, la
sensibilità psicologica d'un pastore. Deve saper adattarsi alle
diverse condizioni delle persone, alla loro cultura, alla loro forma-
zione religiosa. Insisterà sull'affetto vicendevole, sull'impegno di
non separare mai l'esercizio della sessualità dall'amore, sul mutuo
compatimento, sulla completa fedeltà nell'amore. Dirà chiara-
mente che « per sua indole naturale l'istituto del matrimonio e
l'amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione
della prole » (GS, n. 48; 50). Non è pertanto lecito che i coniugi
usino del matrimonio impedendo positivamente la finalità pro-
creatrice. Il sacerdote può accennare anche ai metodi della « con-
tinenza periodica » da praticarsi sotto il controllo d'un medico di
fiducia (che è bene scelgano come medico di famiglia): a questo
metodo (secondo il quale nel ciclo mensile della donna c'è un
periodo di giorni sterili ed un periodo di giorni fecondi) gli sposi
potranno ricorrere quando vedranno prudente, limitare la prole
per ragioni sanitarie od economiche. Il sacerdote, infine, racco-
mandi ai fidanzati che se in seguito si trovassero in straordinarie
difficoltà od avessero bisogno di qualche altra informazione, espon-
gano il loro caso ad un sacerdote dotto e pio, in Confessione o
fuori, in modo da agire sempre con coscienza retta e tranquilla.
2. Coniugati
289
il controllare e moderare secondo ragione l'attività sessuale nel
matrimonio domanda forza e generosità. Spesso è meno difficile
la continenza assoluta di coloro che, scegliendo il celibato santo,
han fatto un taglio netto e contratta l'abitudine della castità per-
fetta. Errore ed illusione di certi giovani: che il matrimonio
risolva del tutto ed automaticamente il problema della purezza.
La debita continenza coniugale può richieder una lotta più aspra
di quella prematrimoniale (talora necessità vuole che i coniugi
vivano qualche tempo lontani uno dall'altro; un marito deve
aver riguardo per la salute della moglie e dei figli, pur vivendo
con lei in continuo contatto e dormendo nello stesso talamo).
Perciò raccomanderemo sempre agli sposati che coltivino una
intensa vita interiore e frequentemente ricorrano alle fonti della
grazia per avere il dominio sugli impulsi istintivi e la fiducia
nella Provvidenza: quella fede che Dio stesso ispira ed insieme
domanda.
Gli atti sessuali incompleti — anche se non ordinati all'at-
to completo — sono legittimati dallo stato stesso coniugale.
(Sostanzialmente diverso il giudizio circa gli atti propriamente
sessuali, anche se incompleti, compiuti intenzionalmente dai fi-
danzati, perché questi sono solo in uno stato di preparazione alla
vita coniugale ed all'attività specificamente sessuale).
Gli atti incompleti corrispondono particolarmente all'indole
ed alla psicologia sessuale della donna. Se guardasse solo a se
stessa — e non alla maternità, al bisogno ed ai diritti dello
sposo — forse la donna si accontenterebbe di questi atti incom-
pleti cosi da esser pienamente soddisfatta e felice e non cercar
altra attività sessuale. L'uomo dovrebbe saperlo, non già per
rinunciare al ragionevole uso completo del matrimonio, ma per
un adattamento ai desideri della moglie. In entrambi, al di sopra
della soddisfazione egoistica, dovrebbe stare l'amore generoso.
Anche nell'uso completo del matrimonio gli atti incompleti
vanno visti specialmente in ordine alla natura della donna. L'uo-
mo può non averne bisogno. In lui l'eccitazione sale subito con
prontezza per subito scendere e cessare, dopo l'atto completo.
Nella donna l'eccitazione è più lenta e più prolungata. Gli atti
incompleti preparatori servono perché l'eccitazione piena si ot-
tenga in entrambi nello stesso tempo. Ciò conferisce alla salute
fisica facendo evitare alla donna un certo sforzo ed, alla fine,
una stanchezza nervosa. Anche di questo il marito dovrebbe te-
ner conto. Un confessore non può entrare in simili particolari:
290
in genere i penitenti non domandano e neppur desiderano che
egli faccia sfoggio di troppo intendimento psicologico in questa
materia. Una qualche discreta nozione però — tenuta in riserva
— sarà utile in argomenti cosi delicati, se non altro perché si
sappia quel che non conviene dire, oppure perché ci si limiti
a tacere senza disapprovare, o perché si dica quella parola che
forse è poco, ma con un'altra ancora, sarebbe troppo.
Gli atti sessuali incompleti sono dunque utili. Talora, forse,
son da dirsi necessari, per evitare l'incontinenza o l'infedeltà,
nel caso in cui non sia possibile o conveniente che i coniugi ab-
biano altri figli. In tale situazione possono ricorrere anche ai
metodi della continenza periodica. Comunque, l'uso incompleto,
può supplire l'uso completo dando agli sposi un'onesta e legit-
tima soddisfazione, anche sensuale. Non illudiamoci però: ciò
suppone capacità di freno, spirito di temperanza. Suppone l'acqui-
sita abitudine alla purezza. Al coniuge non è lecito procurarsi,
con questi atti mutui incompleti, la polluzione separata (a
meno che questa non possa considerarsi come un effetto acci-
dentale, non direttamente inteso, e solo qualche volta conseguente
ad atti compiuti da sposi che non possono o non vogliono, per
buone ragioni, consumare il matrimonio).
Sostanzialmente la castità matrimoniale domanda ai coniugati:
che non si procurino la polluzione separata (e quindi non pra-
tichino l'onanismo) nei loro rapporti sessuali; che osservino la
mutua fedeltà: fedeltà esterna (evitando sia gli atti completi
ad essa contrari, sia le amicizie amorose extramatrimoniali, anche
se non portano ad atti consumati) e fedeltà interna (non asse-
condando neppure il desiderio sensuale adulterino).
2. Il vero amore coniugale, si legge nell'Enciclica « Humanae
vdtae » n. 9, è umano (cioè insieme sensibile e spirituale), totale,
fedele ed esclusivo, fecondo. « Sensibile » è un termine che
può comprendere anche il « sensuale ». In genere l'affetto auten-
tico, all'inizio — appena due si conoscono e nella prima fase
della loro amicizia — è specificamente sensibile (e spirituale)
e non ancora sensuale. In seguito la sensibilità porta anche alla
sensualità. Si dice che tre specie di amicizie debbono unire i
coniugi: la spirituale, la sensibile, la sensuale. Ovviamente non
si tratta di tre attività distinte, indipendenti una dall'altra.
Sono aspetti complementari ed intrinseci d'uno stesso ed unico
amore: l'amore totale. L'affetto spirituale non dovrebb'esser
291
I
raffreddato e minacciato — ma favorito ed accresciuto — dal-
l'affetto sensuale e sensibile (se questo è controllato dalla virtù
della temperanza secondo la legge di Dio e secondo la dignità
umana e cristiana della persona). E lo spirituale deve guidare,
dirigere, illuminare, santificare l'affetto sensibile e la stessa at-
tività sessuale perché conservi sempre la nota della dedizione
e non sia solo godimento ma anche un dono. Un dono che tal-
volta importa sacrificio. Al di sopra d'ogni considerazione inte-
ressata egoistica sta la carità che suggerisce ad ognuno dei due
coniugi di tener conto delle necessità, della natura, dell'indole
dell'altro, e non solo dei propri desideri e dei propri gusti. Ele-
vata e moderata dalla carità, l'attività sessuale dei coniugi non
dev'esser ritenuta solo come una concessione, quasi una tolleranza
concessa dalla morale e dall'ascetica alla natura inferiore, come
se l'ideale di perfezione matrimoniale fosse un amore tutto spi-
rituale o solo spirituale-sensibile. Nell'affetto coniugale le com-
ponenti sensibile e spirituale non vanno concepite come opposte
e contrastanti cori quella sensuale. Perciò non dovrebbero indurre
conflitti interiori. Anzi. L'attività sessuale, per sua natura e per
disposizione divina dovrebbe servire ad esprimere il dono mutuo,
ad alimentare e costantemente approfondire l'affetto spirituale.
Deve però esser esercitata rettamente, con piena sicurezza e se-
renità di coscienza ed in perfetto accordo fra i due coniugi.
Ma col passare degli anni la passione dei sensi può decre-
scere. Avviene allora come una purificazione spirituale dell'amore
coniugale. Purificazione ed elevazione che, del resto, l'anima
femminile opera sempre e per sua natura. Più delicata, tenera,
materna, a poco a poco, insensibilmente suole elevare anche l'altra
anima, la maschile, spesso più debole e superficiale nell'amore,
quasi sempre più grossolana e densa d'istinti. La donna riesce,
amando, a dimenticare anche se stessa. L'uomo cerca più egoi-
sticamente il godimento. La donna sa concepire l'amore stesso
come un servizio. L'uomo vive soprattutto di desideri; la don-
na può vivere anche di ricordi. Hanno una struttura psichica di-
versa. Ma dovrebbero completarsi a vicenda; e.cosi ognuno ve-
drebbe sorgere nell'altra anima una qualche immagine di se stesso.
L'amicizia perfetta (cfr. N. Salvaneschi, Breviario della felicità,
Milano, 1935, pp. 65-80).
3. Il mondo (ed in questa parola comprendo anche — anzi,
in modo tutto speciale — i fidanzati) suol dare ai primissimi
292
anni di matrimonio il nome di « luna di miele ». E cosi i fidan-
zati vanno alle nozze coll'illusione che, col matrimonio, cominci
un'epoca di felicità perfetta. Ma il primo anno della vita-a-due
non è generalmente il più felice e sereno. Anzitutto, la maggior
parte dei giovani si unisce con un concetto errato dell'amore.
Amore che difficilmente può durare se la passione, che spinge
uno verso l'altro, non è basata sulla reciproca stima, sulla mutua
conoscenza morale e spirituale e sulla coscienza d'una missione
da compiere. Le cause per cui il primo anno di matrimonio
riserva agli sposi sorprese spiacevoli, sono varie. I due sessi
hanno caratteri diversi: se l'amore non ha un solido fondamento
spirituale è minacciato da incomprensioni spesso gravi e, talvolta,
insuperabili. La donna è, in genere, romantica, incline alla gelosia,
alla permalosità, imbevuta spesso di false idee correnti che ha
assorbite da certe letture. Va al matrimonio credendolo una con-
tinuazione del periodo idilliaco del fidanzamento (nel quale ha
molto gioco l'infatuazione). L'uomo, anche quello che ama mol-
tissimo la moglie, attende forse con impazienza il termine del
viaggio di nozze per riprendere il suo lavoro. Ecco allora suc-
cedere i primi diverbi. La sposa vorrebbe sentire e vedere che
è in cima ai pensieri del marito, in primo piano, e che tutto
il resto vien dopo. Non pensa che il lavoro del marito esige da
lui gran parte dei suoi pensieri e della sua attività. Il vero amore
dovrebbe suggerirle di non ostacolare, ma anzi di favorire, con
spassionati consigli, le aspirazioni, la vocazione (culturale, ar-
tistica, politica) dell'altro, e di riconoscere ed assecondare lieta-
mente le sue necessità fisiche ed anche ricreative. Chi ama pro-
fondamente e ragionevolmente, non pretende per sé tutto il
suo coniuge. Sia pur col dispiacere della sua lontananza tem-
poranea, lo incoraggia ad assolvere tutti i suoi uffici professionali
ed anche le convenienti prestazioni d'ordine caritatevole e so-
ciale. Si guarda dal fargli perder tempo e rinunciare a giusti in-
teressi spirituali e materiali. Si nota in qualche sposa la tendenza
a troncare e rifiutare per principio tutte le relazioni sociali. Ciò
potrebbe indicare un'eccessiva preoccupazione a coltivare l'unità,
la totalità e l'esclusività dell'amore coniugale. Quest'esagerazione
può indirettamente, presto o tardi, avere le sue conseguenze
dannose. Possono sorgere penosi e pericolosi malintesi. Per evi-
tarli, la sposa dovrebbe persuadersi che la vera, cristiana, dure-
vole intesa col compagno le domanda anche delle rinunce. Da
molte esperienze si può desumere che l'accordo coniugale dipende
293
in massima parte dalla donna. Esistono, sì, delle unioni nelle
quali la moglie è infelice e trascurata. E questo dipende, in mol-
tissimi casi, dall'età troppo giovane degli sposi o, comunque,
dalla loro mancanza di maturazione e formazione. In questi casi
bisognerebbe che avessero la forza e la prudenza di attendere e
curare una migliore preparazione spirituale al matrimonio. Pre-
parazione che porti alla reciproca conoscenza della natura e dei
caratteri. Preparazione che premunisca entrambi contro i peri-
coli e le minacce dell'egoismo. La carità pura è amore di bene-
volenza: fa anche dimenticare 1'« io ». La sposa non attenderà il
compagno che torna dal lavoro solo per avere da lui tenerezze
e parole d'affetto. Anche queste ci dovrebbero essere. Ma — da
parte sua e per prima — gli preparerà un volto sorridente, una
accoglienza lieta, un ambiente in cui, dopo fatiche e preoccupa-
zioni, possa ristorare il corpo, rasserenare il cuore, riposare la
mente.
4. La psicologia insegna che uomo e donna non hanno la
stessa natura, desideri, comportamento in materia di sessualità
(come, del resto, anche in altri campi: diversa natura fisico-psichica
e quindi diversi oggetti d'interesse).
Il marito, in genere, domanda l'atto coniugale completo, cer-
ca la propria soddisfazione sessuale nella donna (più o meno
egoisticamente). La donna è più passiva, si fa cercare, richie-
dere; ma, per sua natura, desidera piuttosto gli atti fisico-affettivi,
preliminari all'atto coniugale. Meno desidera l'atto completo.
Spesso, anzi lo tollera, più che desiderarlo. Se vogliono accordo,
pace e matrimonio felice, ognuno dei due dovrebbe tener conto
della natura dell'altro. L'uomo dovrebbe venir incontro al desi-
derio della donna che cerca soprattutto le manifestazioni dell'af-
fetto (e questo, se capita l'occasione, può delicatamente racco-
mandarlo anche il confessore). Agli uomini, poi, in genere sa-
rebbe da raccomandare un po' di temperanza negli atti sessuali
completi (in pratica, però, è indelicato e non conviene che il con-
fessore entri in questo argomento). L'uomo che ama spiritual-
mente, ha un senso di rispetto per la moglie la quale, colla ma-
ternità, ha i maggiori pesi, almeno diretti ed immediati. Ma ci
sono dei mariti che si comportano nel matrimonio come dei
bruti. Tornano a casa avvinazzati e svegliano la moglie due, tre
volte in una notte. E se essa, per malattia, non può prestarsi
all'atto coniugale secondo natura, vorrebbero si prestasse contro
294
natura in modo indegno. All'uomo — per la sua stessa felicità
— bisognerebbe ricordare il principio della discrezione. Il pia-
cere sensuale (la differenza dell'affetto spirituale che non viene
mai meno e cresce sempre) non muore pel fatto che l'appetito
non è pienamente soddisfatto ma perché è troppo saziato fino
alla nausea. Ma come oi potrà esser temperanza nell'uso del ma-
trimonio in chi non è mai stato abituato a frenare le sue pas-
sioni? È un'ingenuità il credere che per gli impuri il matrimo-
nio risolva il problema morale.
Ma la sposa ha il dovere di rendere il debito quando il
marito lo chiede ragionevolmente. E la donna fa bene ad as-
secondare e soddisfare lo sposo nei suoi bisogni e desideri ses-
suali giusti e decenti. Fa bene anche ad attirarlo con stimoli
sessuali e non deve, per questo, aver scrupoli: l'attività sessuale
non è da trascurarsi (pena, forse, pericolose conseguenze). Per-
ciò una moglie avrà l'accorgimento di curare il suo vestito ed
abbigliamento in quella forma e con quella eleganza che piace
al marito (senza esagerazioni, si capisce, e senza mancare alla
modestia in pubblico): ma ciò importa rinuncia e dono di sé
perché significherà alle volte scegliere e vestire non come piace
a sé ma come piace all'altro. La donna deve anche pensare che
gli stimoli dell'istinto sessuale possono perdurare nell'uomo mol-
to più che in lei. Qualcuna in Confessione racconta d'essere
nauseata e ritrosa all'atto sessuale, d'essersi lamentata col ma-
rito che lo domanda, d'avergli ricordato che, essendo entrambi
ormai vecchi, è ora di finirla di pensare a certe cose. Un tale
comportamento merita un'ammonizione benevola ma grave. Que-
ste donne non pensano che con simile contegno possono creare
pericoli per la vita morale del marito: questi, se non trova nella
moglie le soddisfazioni a cui avrebbe anche diritto, forse le cer-
cherà in altro modo od altrove. Però anche il marito può man-
care se priva la moglie di quelle manifestazioni d'affetto in cui
essa ripone la felicità della vita coniugale. E l'uomo spesso non
se ne rende conto perché giudica in base alla sua natura. Se la
moglie diventa infedele non è perché l'uomo s'astenga dall'atto
coniugale (come può avvenire in un periodo di lunga malattia)
ma perché ci sono piuttosto ragioni e tentazioni d'ordine affet-
tivo, sentimentale. In genere, la moglie, se trova nel marito af-
fetto, non sente il bisogno della vita sessuale propriamente detta.
Quindi, nel caso in cui avesse a darsi ad altri fuori del matri-
monio, il marito potrebbe interrogarsi se non sia stato anche
295
lui occasione di queste crisi, perché non ha compreso la psico-
logia femminile. Ci sono però, sappiam bene, anche altre cause
che spingono la donna all'infedeltà: vanità, aspirazione ad attirare
in tutti i modi qualche uomo di grido; bisogno di danaro o ca-
pricci di spese inutili e lusso. Gravissima responsabilità. Si di-
rebbe che certune sono incoscienti: non capiscono le conseguenze
disastrose d'un atto di debolezza morale per chi ha una famiglia.
5. Marito e moglie devono tener sempre presente che ognuno
dei due ha una sua propria e diversa psicologia, non solo in ma-
teria d'affettività e sessualità, ma anche in tutte le altre espres-
sioni ed aspetti della loro vita morale e spirituale. Si domanda
pertanto mutuo rispetto della personalità e mutuo adattamento.
In tutto. All'uomo, se giudica in base a quello che lui sente, può
sembrar ridicolo quel che per la donna è tutt'altro che indif-
ferente. Se il marito le ricorderà che domani essa compie ormai
trentacinque anni, questo discorso può gettarla in uno stato di
malinconia e depressione. Per lui sarebbe come avvisarlo che, l'in-
domani, il mese ha quel numero di giorni. Perciò l'amicizia co-
niugale è delicatissima ed esigentissima. Bisognerebbe che en-
trambi evitassero tutto ciò che fa dispiacere all'altra parte e
non è necessario dire, rivelare, ricordare. Amare significa non
interrogare neppure quando si può chiaramente intuire i desi-
deri dell'altro. Amare significa comunicare ciò che può far
piacere. Però non bisogna neppur dar troppo peso a qualche
stato d'animo passeggero. L'uomo non si impressionerà per i
cambiamenti d'umore della moglie, tanto più se ne conosce il
temperamento sensibile e suscettibile. Non si turberà se la vede
in una crisi di pianto. Subito dopo la donna passa con tutta fa-
cilità al riso. L'uomo, invece — quando s'impressiona, s'affligge,
si turba — subisce un'alterazione e scossa psichica che suol
esser più profonda e duratura. La donna potrà, la sera, piangere
sconsolata per subito dopo addormentarsi e dormine fino alla
tarda mattinata; l'uomo, se è sensibile, forse passerà una notte
insonne. Bisogna dunque che gli sposi siano anche preparati a
qualche cambiamento d'umore nell'uno o nell'altra. Guai se,
per esempio, uno dei due pensa che l'altro non gli voglia più
bene pel fatto che alle volte trascende. Certamente se questi
difetti non ci fossero sarebbe molto meglio; ed ognuno dei due
dovrebbe far di tutto per vincerli ed eliminarli. Ma, dopo il
fatto, bisogna non darci importanza. Compatirsi e dimenticare.
Cercar di sollevare e distrarre chi pare depresso. Sarebbe contro-
296
producente anche il rilevare un cambiamento d'umore: la moglie,
ad esempio, non dirà al marito: « cos'hai questa sera? ti è andato
male qualche affare, operazione, causa? ». Ognuno s'indispone
maggiormente se gli altri notano il suo turbamento o preoccupa-
zione che, internamente, forse, fa ogni sforzo per superare. Bi-
sognerebbe poi che la donna, di fronte a certe difficoltà (tanto
più se non gravi) vincesse la sua tendenza a drammatizzarle;
e l'uomo, da parte sua — conoscendo la mobilità ed impressio-
nabilità dell'animo femminile — non dovrebbe, per reazione, in-
quietarsi ed irritarsi, ma lasciar perder, come non dette, certe
espressioni esagerate.
Diversità nella natura fisico-psichica dell'uomo e della donna.
E quindi diversità nei loro oggetti d'interesse. Il che domanderà
spesso il sacrificio degli interessi e dei gusti personali. La mo-
glie, quando il marito torna a casa stanco e si mette a leggere
il giornale cerchi di non infastidirlo — per quanto possibile —
procurandogli nuove preoccupazioni domestiche. A tavola si
interessi e gli parli di ciò che gli fa piacere (qualcuno parla
volentieri della sua professione, qualche altro preferisce non pen-
sarci durante i momenti di riposo). Ed il marito, da parte sua,
mostri un po' d'interesse per le cose che sa essere in cima ai pen-
sieri della donna: lavori ed oggetti domestici, vestiti, letture,
qualche attività professionale o da dilettante. La moglie non
s'offenda — quasi fosse dimenticata — se il marito vuol as-
sistere alla televisione, ad una trasmissione di sport che a lei
non interessa; non s'offenda se, dopo cena, va a fare una par-
tita con gli amici. Non gli faccia rimproveri e scene perché guarda
l'orologio, non gli dica che vuol più bene agli amici che a lei.
Sia comprensiva e mostri di riconoscere lietamente che per l'uo-
mo ci vuole anche qualche ragionevole svago. Se essa non si
mostrerà troppo esigente, è probabile che il marito sia sensibile
e riconoscente di fronte a tanta bontà e spontaneamente sacrifichi
ogni altra ricreazione per stare con lei. Insieme al marito e per
far piacere a lui sappia — se necessario — sopportare anche i
parenti del marito coi loro immancabili difetti. È tanto frequente
il caso di suocera e nuora in contrasto. Eppure, siccome la situa-
zione a tre è spesso inevitabile, bisogna che ognuno metta, fin
da principio, ogni sforzo per evitare i dissidi e conservare la pace.
La parte principale sarà chiesta alla giovane sposa perché è dif-
ficile prentedere che una persona anziana cambi punti di vista,
abitudini, mentalità. Sulle prime, dunque, al postò d'una facile
297
felicità sognata, occorrerà anche della sopportazione. Ma poi, in
virtù della fede, della carità, della perseveranza, si stabilirà una
armonia, frutto di comprensione e di adattamento. Ed è una
grande vittoria, per una moglie, riuscir a stabilire nella propria
famiglia un'armonia estesa ad altre persone oltre al marito. Al
quale cosi si eviteranno quegli interni dolorosi dibattiti — causati
da due sentimenti ugualmente forti — dibattiti che possono cam-
biare l'umore abituale e, talora, persino il carattere.
6. Quando un confessore sentirà lamenti e lagnanze da parte
di uno dei coniugi contro l'altro, non sia facile a prestar fede
ed a schierarsi per una parte. Bisognerebbe sentire anche l'altra
campana. Non accresca, dando subito piena ragione, l'ebollizione
interna d'una persona. Ed a tutti i coniugi che vogliono pace e
felicità va ricordato che entrambi dovranno compatirsi a vicenda
nei loro inevitabili difetti. Purtroppo, qualche volta, una moglie
dovrà perdonare al marito se verrà a conoscere qualche isolato
atto materiale d'infedeltà; certi uomini pensano che in ciò è in
gioco solo un bisogno fisiologico (specie quando la moglie non
può prestarsi all'uso del matrimonio): soddisfazione d'un bisogno
compatibile col profondo amore alla propria donna, se non do-
nano anche il cuore ad un'altra persona. Non si può scusarli,
ma essi ragionano cosi ed intimamente possono ben conservare
la fedeltà alla moglie. La quale, di fronte ad una semplice av-
ventura passeggera del marito, farà quasi sempre bene a chiuder
un occhio comportandosi come se non ne sapesse nulla e facendo
di tutto per dare al marito le oneste soddisfazioni sessuali che
desidera. Si domanda alla moglie, in questi casi, autocontrollo ed
umiltà: quel che importa è che le sbandate non si ripetano. Se
invece si trattasse di un marito che si è lasciato conquistare
completamente, con tutta l'anima, da un'altra donna, allora c'è
da metter forse in discussione tutto un « modus vivendi » e
cercar le cause ed i rimedi della nuova grave situazione veri-
ficatasi. Ho fatto il caso dell'infedeltà del marito e taciuto quello
della moglie: non perché sia quasi sempre e solo l'uomo colpe-
vole di questo tradimento. È anche pacifico che entrambi han-
no gli stessi doveri e diritti: l'infedeltà è, per sé, ugualmente
riprovevole nell'uno e nell'altra. Di fatto l'adulterio consumato
dalla moglie assume spesso gravità e conseguenze maggiori, per
un complesso di circostanze accidentali, sia esteriori, sia interiori.
La donna — per la sua stessa psicologia — quando si dà ad un
uomo (se non è per ragioni d'interesse materiale) lo fa per mo-
298
tivo d'affetto: toglie al marito il suo cuore per darlo ad un altro.
Comunque, di fronte a mancanze di fedeltà, la carità sug-
gerisce anzitutto, e soprattutto, che si cerchi di non rompere
l'unità della famiglia; che, lasciando da parte lo stretto diritto,
non si ricorra alle vie legali per ottenere la separazione; che
si compatisca, si perdoni e si dimentichi; che si usino tutti i mezzi
per ricostituire l'unione coniugale affettiva e cosi superare le
tentazioni contrarie. Finché è possibile e c'è speranza, s'intende.
Perché in qualche caso un coniuge può perder ogni freno, come
uno squilibrato ed un irresponsabile, cosi da render per l'altro
insopportabile la convivenza.
7. Se l'infedeltà <— anche quella spirituale è un male grave
e può esser la rovina del matrimonio, c'è pure un difetto oppo-
sto ed è la gelosia. Uno stato di tormento che supera i limiti del
giusto e del normale. Può ben aver origine dal fatto che un
coniuge è stato trascurato dall'altro il quale ha preferito una
terza persona. Alle volte però la gelosia è senza fondamento, uno
stato psichico nel quale la naturale tendenza egoistica può di-
ventare morbosa, una specie d'idea fissa che colpisce ed afflig-
ge un soggetto strutturalmente nervoso. Un'ossessione che fa
vedere in ogni atto del coniuge i sintomi della freddezza, una
minaccia di tradimento. Il geloso soffre indicibilmente, l'altro
s'irriterà tremendamente vedendo interpretata ingiustamente ogni
sua azione. Una situazione che impedisce la pace, porta una ten-
sione (che in qualche caso ha una tragica conclusione).
Bisogna eliminare questo male, combattere questo pericolo.
Se il fenomeno fosse effetto d'uno stato d'esaurimento psichico,
bisogna ricorrere al medico, oltre che al direttore spirituale. Come
pure nel caso che la sofferenza — pur avendo anche una causa
obbiettiva — raggiunga un'intensità superiore alle resistenze fi-
siche d'una persona. Dal punto di vista spirituale, ognuno dei
due agisca apertamente e con semplicità, senza reticenze e sot-
terfugi: nulla si nascondano (eccetto quanto riguarda il segreto
professionale). Allora ci sarà piena fiducia mutua che esclude
ogni sospetto d'infedeltà. E quando c'è il vero ed equilibrato
amore, nessuno dei due pretenderà che l'altro tronchi ogni
preesistente rapporto di convenienza con persone dello stesso o
dell'altro sesso. Pena il creare, un po' alla volta, il deserto intorno
alla famiglia.
D'altra parte né l'uno né l'altro dev'esser troppo sicuro del
299
suo amore. La tentazione può giungere per tutti. E chi comincia
colle piccole concessioni non sa dove può giungere, trascinato
insensibilmente dalla passione che s'ingigantisce ed acceca. Forse,
ad un dato momento dovrà confessare a se stesso: non so spie-
garmi come ciò sia possibile, ma del mio pensiero, del mio cuore,
della mia vita s'è impossessata una terza persona.
IL II problema dei figli e k loro educazione
1. L'amore coniugale è fecondo {Hum. vitae, 9). Però es-
senzialmente e direttamente unisce due persone. Ed il matrimonio
non dovrebb'esser motivato solo da fini che non sono il mutuo
amore degli sposi. Non ha il vero affetto chi cerca e tiene caro
il proprio coniuge solo (dico « solo ») come uno strumento per ave-
re dei figli, continuare la famiglia, o solo per avere una qualsiasi
sistemazione, rinsanguare le proprie condizioni economiche. Simili
finalità (anche se non esclusive) erano abbastanza frequenti ed
influenti specialmente nel passato, anche nei fidanzamenti dei
migliori.
I figli sono una conseguenza dell'amore. Il quale, se non
è prima e soprattutto personale, avrà fragili puntelli. Quando
sopraggiungeranno le difficoltà della vita comune o s'accenderà
in uno dei due una forte attrattiva verso una persona estranea,
allora scoppieranno i dissensi, i bisticci, e, forse, si profilerà il
pericolo d'una separazione.
2. Gli sposi dovranno interrogarsi sul problema dei figli: nu-
mero ed educazione.
Riguardo al numero dei figli, si dice che ci possono essere
due opposti eccessi: uno è quello di considerare la prole come
un peso evitandola per non abbassare il tenore di vita della fami-
glia e per non dover, alla morte, divider troppo i beni ereditari;
l'altro eccesso è di voler una famiglia numerosa, senza conside-
razione e senza discrezione, per una certa qual ambizione. Nelle
nostre regioni europee è molto e molto più frequente il primo
difetto a causa di calcoli troppo umani e per mancanza di fiducia
nella Provvidenza. Pertanto, se in Confessione si dovrà far que-
stione circa questo argomento, sarà normalmente sull'uso delle
pratiche anticoncezionali.
Ci sono sposi che vorrebbero avere un bimbo, ma non pos-
sono o perché sterili o perché è stata loro sconsigliata la procrea-
zione naturale a causa del pericolo d'un'ereditarietà tarata. A
questi — diceva Pio XII in uno dei suoi ultimi discorsi ai me-
300
dici, il 12.IX.58 — « si suggerisce il sistema dell'adozione. Si
constata, in fondo, che questo consiglio è in generale seguito
da felici risultati e rende ai genitori la felicità, la pace, la se-
renità... Sotto l'aspetto religioso bisogna chiedere che dei figli
di cattolici si prendano cura genitori adottivi cattolici; la mag-
gior parte delle volte infatti i genitori finiscono con l'imporre al
loro figlio adottivo la propria religione » (Disc, ai med.t Roma,
Ed. « Orizz. Med. », 1959, pp. 709-710).
3. Neil'educazione, dei figli è da augurarsi che padre e ma-
dre non procedano ognuno per conto proprio, ma di comune
accordo, evitando, per quanto possibile, conflitti e divergenze.
Allora i figli non si sentiranno oggetto di due influssi alternativi,
non saranno messi in imbarazzo e perplessità, nelle loro scelte, da
due direttive diverse. In pratica si domanda che entrambi i
coniugi, sorretti dall'amore e guidati dalla comprensione, guardino
spassionatamente al bene ed al meglio nella formazione dei figli,
e poi procurino di seguire la stessa linea sia nel metodo educativo
sia nei consigli determinati che daranno. Se in una data questione
— che per un figlio può avere un'importanza e conseguenze
decisive — egli ricevesse dai genitori due suggerimenti fra loro
contrastanti, allora potrà consultare un consigliere illuminato e
fare la sua scelta responsabile davanti a Dio preferendo il consiglio
migliore, sia esso quello del padre o quello della madre.
4. Molti sono i problemi dell'educazione sui quali i genitori
dovrebbero riflettere, studiare, esaminarsi. Pochi lo fanno con
serietà e senso di responsabilità.
Hanno anzitutto il dovere del buon esempio.
Dovrebbero anche ripensare all'educazione che essi stessi hanno
ricevuta e chiedersi se sia stata intelligente, indovinata, sufficien-
temente curata.
Occorre equilibrio in tutto. Non accontentare i figli in ogni
loro capriccio; ma neppure stroncare (volendo dominare colla
forza) ogni loro personale iniziativa.
Non preferire uno agli altri. La riuscita negli studi non deve
esser né l'unico né il massimo criterio d'apprezzamento. Talora
avviene che chi (fra i fratelli) ha minore intelligenza, prontezza
d'intuizione, precocità, viene umiliato con odiosi confronti. Si
mostri di stimare soprattutto la bontà, la buona volontà e la
laboriosità.
I genitori orienteranno i figli chiamati a formarsi una famiglia.
301
Ma useranno « il prudente consiglio, che possa esser ascoltato vo-
lentieri. Eviteranno di indurli con coazione diretta o indiretta a
contrarre matrimonio od a scegliere come coniuge una determinata
persona » (GS, 52). Circa la scelta dello stato devono « favorire la
vocazione sacra » (LG, 11). Quindi aiutare a scoprire, e poi asse-
condare, la vocazione autentica del giovane. Non voler quasi im-
porre tradizioni e pregiudizi familiari irragionevoli. Importantissi-
mo e delicatissimo il loro compito in caso d'eventuale vocazione
d'un figlio al sacerdozio od alla vita religiosa. Nessuna pressione
(la quale, pel passato, talora non mancava): il giovane deve con-
servare la massima libertà nella scelta del suo stato. Ma i genitori
possono e devono ben influire positivamente in modo indiretto.
Anzitutto infondendo nei figli un altissimo concetto ed una stima
profonda della vita sacerdotale e religiosa. Poi abituandoli ad un
regime di vita discretamente austero. È perché s'è bandita la parola
«mortificazione» che molti genitori vogliono pochissimi figli; e
per la stessa ragione fra questi pochi le vocazioni sono rare e non
sono favorite. E cosi le missioni mancano di missionari. E le
conversioni diminuiscono (AG, 20).
Bisognerebbe che i genitori sorvegliassero specialmente le
amicizie dei figli. Fin dalle prime, in modo che i giovani s'abituino
ad essere discretamente controllati e saggiamente consigliati in
questo punto. Una certa sorveglianza, poi, occorrerebbe sulle let-
ture e sui cinema che frequentano. Ed anzitutto i genitori non
dovrebbero condurli a vedere spettacoli pericolosi. Ma ci sono
mamme che portano figli e figlie a films segnalati come grave-
mente offensivi della dottrina e della morale cattolica, senza essersi
prima informate della qualità dello spettacolo.
Sarebbe compito anzitutto dei genitori (e non della scuola
pubblica) anche un'opportuna educazione sessuale (o, meglio, alla
castità). Non dovrebbero disinteressarsene del tutto ma prepa-
rarsi a darla tempestivamente, rettamente, discretamente, secondo
il ragionevole bisogno del singolo. Quando il giovane o la giovane
hanno bisogno « ragionevole » di conoscere « i misteri della vita »
l'ignoranza non è più benefica. Per esempio, la ragazza di ieri
andava talora al matrimonio ignorante ed impreparata. Ora — è
stato scritto — « è necessario che la fanciulla conosca, riconosca
e rispetti in se stessa il mistero proprio della donna eterna, di cui
porta nel suo essere il germe e la rassomiglianza. La fanciulla di
domani, a differenza di quella di ieri, non dev'essere un'ignorante
poiché c'è un'immensa differenza fra ignoranza e innocenza ».
302
Ma « sul problema importantissimo della conoscenza della vita, la
scienza non basta. Ci vuole anche una specie di conoscenza del
mistero », Bisogna « far si che la scienza non sia soltanto una
conoscenza tecnica, ma scienza totale, completa, piena; la scienza
che non si limita a conoscere un meccanismo, ma che conosce la
finalità di questo meccanismo, cioè il suo significato profondo »
(J, Guitton, La fanciulla di domani, OR, 18.XII.75). Special-
mente la donna può e deve avere questo senso del mistero. Saprà
allora elevare anche l'uomo al di sopra di se stesso e del proprio
egoismo.
Riguardo agli studi ed al lavoro, bisogna certo coltivare nel
fanciullo il senso del dovere: non marini la scuola, stia attento
all'insegnamento, faccia i suoi compiti, prenda passione per qual-
che lettura adatta (passione che nasce solo se si comincia anche
con qualche sforzo a leggere il libro che piace ed interessa). Quindi
i genitori spingeranno ad applicarsi i figli indolenti. Ma special-
mente bisognerebbe suscitare in essi interesse per l'oggetto del
loro studio (o lavoro manuale) e non limitarsi ad imposizioni,
rimproveri, castighi. Ci sono genitori che credono di educare
soprattutto con le busse, talvolta brutalmente. Spesso non è che
manchi la voglia di lavorare: manca o la capacità, o l'attitudine, o
l'amore e l'entusiasmo per un dato genere di studi. Non si sfor-
zerà quindi nessuno ad avviarsi per una professione alla quale
non sente inclinazione. E non si dovrà sovraccaricare di lavoro
spalle ancor tenere né pretendere dei risultati superiori, forse,
alle capacità d'un ragazzo (alcuni hanno un ingegno precoce, pron-
to, intuitivo, altri hanno uno sviluppo intellettuale più ritardato,
sono più lenti e riflessivi). Non si drammatizzerà quindi se un
esame è andato male come se l'esame fosse un criterio assoluto
del sapere od il massimo problema nella vita del fanciullo. Qualche
genitore dà più importanza alla pagella scolastica che alla vita
morale del figlio. Per un esame rimandato lo tormentano tutte le
vacanze. Con metodi troppo severi si può opprimere un'anima che
sta sbocciando alla vita, render infelici i primi anni della vita
cosciente. Impressioni, amari ricordi, sforzi inumani si riflettono
poi su tutta un'esistenza. Certo, bisogna educare il piccolo a saper
rinunciare per qualche tempo al gioco, a star fermo (se possibile)
a scuola od in chiesa. Però non misuriamo condotta, disciplina e
devozione in base al tempo che riesce a star immobile a braccia
conserte o a mani giunte (§econdo la pedagogia di qualche maestro
del passato). Bisogno che ogni fanciullo trovi — in casa e a scuola
303
un ambiente caldo d'affetto, sereno, dove possa sentirsi sicuro,
fiducioso, godere la giusta libertà senza timori e tremori. È
dunque certamente preferibile interessare il ragazzo nei suoi doveri
ed ottenere che compia quello che è bene perché gli piace. Però
è pure sana misura pedagogica, se non basta l'amore, ricorrere a
qualche motivo di timore. Tutto sta usare di questo mezzo con
discrezione. Bisogna evitare ogni eccesso: anche un'educazione
ed un ambiente troppo austeri, senza le. necessarie ricreazioni e
le buone amicizie, possono produrre reazioni pericolose.
I genitori devono interessarsi degli studi dei figli e (nel caso
che non continuino gli studi) del lavoro che intraprendono. Oggi,
diversamente dal passato, non solo i ragazzi, ma anche le ragazze
si orientano giovanissime verso un posto di lavoro. Per sé, niente
da eccepire (se non hanno attitudine allo studio e non c'è necessità
della loro presenza in famiglia): meglio lavorare che oziare. Però
per chi lavora fuori di casa ci sono innumerevoli pericoli. I geni-
tori pertanto non devono disinteressarsene. Non devono preoccu-
parsi soprattutto che una ragazza realizzi il maggior guadagno
possibile, ma che quel dato lavoro non le sia dannoso. Dannoso
per il fisico, quando fosse troppo faticoso od eccessivamente seden-
tario. Dannoso per lo spirito: in certi ambienti s'annida la corru-
zione (che dai dirigenti si propaga ai dipendenti), si fa professione
d'ateismo, si getta in ogni modo il disprezzo sulla religione e sulla
moralità. I figli, dal canto loro, dovrebbero — anche se concor-
rono al sostentamento della famiglia — riflettere sulla propria
inesperienza, prestar fede al prudente consiglio dei genitori e
non affidarsi solo alle proprie vedute ed ai propri impulsi. Noto
in particolare che se i denari o le spese d'una figliuola superano
i limiti dello stipendio, i genitori hanno ragione di nutrire preoc-
cupazione e sospetto che ci siano anche dei guadagni poco puliti.
5. Infine, non si può non accennare ad un gravissimo proble-
ma: il lavoro extradomestico della donna (anche sposata). Oltre
ad una mentalità nuova che proclama l'individualismo e l'emanci-
pazione femminile, ci sono spesso reali necessità economiche che
allontanano la donna dal focolare. Non si discute sul diritto ch'essa
ha ad assumersi uffici che pel passato erano riservati all'uomo.
Non si nega neppure che la donna, lavorando accanto all'uomo
possa contribuire ad un ingentilimento dei costumi, elevare e ren-
dere migliore il suo compagno di lavoro. Però una donna, anche
se — sotto la pressione delle condizioni economiche — è obbligata
304
a cercar lavoro fuori di casa, non deve dimenticare che il suo vero
compito resta sempre quello di sposa e dà madre. Se essa ha diritto
a lavorare fuori di casa, anche il fanciullo ha diritto alle cure di
sua madre (la sola persona dotata da Dio di tutte le qualità per
educare le creature che essa ha dato alla luce). Son troppo fre-
quenti i casi di giovani traviati perché non hanno avuto le cure
d'una madre. A parte tutti i pericoli morali che la donna stessa
trova fuori di casa e che le impongono precauzione continua. Biso-
gnerà poi cercar il modo che sia sentita il meno possibile la sua
lontananza dalla casa cosicché possa sostanzialmente adempiere la
sua missione di sposa e di madre. Si procurerà, ad esempio, che le
ore di lavoro extradomestico coincidano con quelle della scuola
dei figli. Sia fermo che i genitori non potranno mai abdicare al
loro compito educativo lasciando ogni preoccupazione alla scuola
od a terze persone.
3. Nubili
305
matrimonio. Amore e maternità che saranno soprannaturalizzati
dalla fiamma dell'amore divino.
Ma varie sono le situazioni, vari (e qualche volta discutibili)
i motivi che inducono una giovane a rimanere nubile nel mondo
(cf. G. Grimaud, Non-mariées, Paris, 1933).
1. Alcune erano entrate nella vita religiosa, ma la salute fisica
non ha resistito. Tuttavia hanno conservato vivo l'ideale. Pur
uscite dal convento perseverano nella consacrazione del loro cuore
a Dio e nel proposito di conservarsi vergini.
2. Altre avevano la vocazione religiosa, ma hanno trovato in
famiglia un'opposizione inflessibile. Non hanno avuto il coraggio
e creduto opportuno fare un colpo di forza. Hanno atteso giorni
migliori. Ma quando questi son giunti, forse era troppo tardi.
3. Qualche altra non trova un'espressa opposizione a farsi
suora da parte dei genitori. Ma pensa che senza il guadagno che
porta in casa, come frutto del suo lavoro, essi stenterebbero a
vivere. In qualche caso poi uno dei genitori è gravemente amma-
lato, paralizzato o cieco, ed ha bisogno di continua assistenza.
In tali situazioni la giovane pensa che il comandamento: « onora
il padre e la madre » prevalga sul consiglio: « vieni e seguimi ».
E rinuncia alla vita religiosa. Quando si troverà libera da questi
legami e doveri familiari, la giovane potrà realizzare il suo sogno
di vita religiosa. Ma, alle volte, è ormai troppo anziana per entrare
in convento. Non le resta che continuare a vivere sola nella propria
casa.
4. C'è anche la giovane che avrebbe avuto la vocazione, non
alla vita religiosa, ma al matrimonio, però — per le condizioni
familiari — ha sentito l'invito interiore alla rinuncia. È la più
anziana d'una numerosa nidiata di fratelli dei quali l'ultimo è
appena nato. La madre è ammalata e dopo poco muore. La primo-
genita forse è già fidanzata, ma come fa ad abbandonare la fami-
gli ed il padre in lagrime? Coraggiosamente darà l'addio al fidan-
zato per un eroico sacrificio.
5. Alcune non si decidono a sposarsi perché sono spaventate
pensando ai pesi ed alle sofferenze della maternità, agli obblighi
(non facili specie per l'uomo) d'osservare la legge di Dio nell'uso
del matrimonio, alle responsabilità di condurre una famiglia* di
educare (oggi specialmente) dei figli. Certo non esiste, per sé, una
legge che obblighi a sposarsi e ad avere dei figli, tutti, indistinta-
mente, coloro che non scelgono la verginità per il Regno dei
306
Cieli, essendo la moltiplicazione del genere umano in pratica
sufficientemente assicurata. Nel caso concreto sarà da considerare
prudentemente quali siano i motivi ed i propositi di vita che
determinano la rinuncia alla vita coniugale. (Faccio il caso
della donna e non quello dell'uomo la cui situazione è diversa per
tante ragioni). Se fosse per aver tutto il tempo di dedicarsi ad
attività benefiche con tutta l'anima e tutto il cuore — educazio-
ne dei giovani, carità ed assistenza sociale, ricerca scientifica —
non sarebbe da riprovarsi una giovane che sceglie questo stato
(sempre supponendo che sappia conservare la continenza). Ma se
fosse solo per godere la libertà (sia pur onestamente), e non avere
i pesi del matrimonio (sapendo che, in genere, sono maggiori delle
gioie), allora una donna non sceglierebbe certo la via più perfetta:
rifuggirebbe dall'impegnarsi in una professione: quella di sposa o
di madre che rende più meritoria la vita e più facile e più proba-
bile la santificazione. In conclusione, per restare nelle scelte degne
di stima, bisognerà decidersi fra il matrimonio (colle sue gioie e
responsabilità) ed una vita piena di attività che importino fatica
ma forse meno rischi e responsabilità del matrimonio.
6. Ci sono le sfortunate che avrebbero la vocazione al matri-
monio ma mancano delle doti fisiche richieste o d'una salute
sufficiente. Per questo (o per qualche altra ragione) non trovano il
fidanzato che abbia le qualità per renderle felici.
7. Alcune, già fidanzate, sono state private dell'uomo che
amavano — perito in un incidente o in guerra o per malattia
violenta. Ed il dolore della giovane è talora cosi grande che
essa sente la sua vita spezzata. Qualcuna, dopo qualche tempo,
gradatamente riacquista la serenità e rientra nella normalità della
vita, sente il desiderio di sposarsi ed accetta la proposta di qualche
pretendente. Ma molte pensano che sposandosi tradirebbero il
primo uomo che hanno amato con tutto il cuore e restano quindi
nella categoria delle nubili generose.
8. Ci sono anche quelle che non possiedono l'arte di farsi
amare e stimare. Arte difficile che domanda criterio, tatto, sen-
sibilità, sforzo. Si lanciano violentemente all'assalto d'un fidan-
zato ma usano un contegno, ostentano un abbigliamento, tengono
un linguaggio che, invece di conquistare gli uomini migliori, li
lascia quanto meno perplessi. Possono esser ragazze fondamen-
talmente oneste ma non riflettono che col loro modo di fare
provocante suscitano — come donne di malavita — in alcuni
307
tentazioni, mentre non attirano i giovani che hanno seri propositi
di matrimonio. S'illudono e s'ingannano. Vanità e leggerezza più
che altro esteriori: ma che fan pensare sia tale anche l'interiore e
cosi non offrono ai giovani benpensanti garanzie di virtù e di doti
sostanziali. Rischiano di restare nel regno delle nubili, per sempre,
se non mutano condotta.
9. E r i sono le giovani difficili che nessun partito trovano
soddisfacente. Lamentano che il pretendente o non ha qualità
fisiche e spirituali affascinanti, o non ha una professione abba-
stanza degna, o non ha le desiderate virtù e doti morali, od ha
origini troppo modeste (a questo proposito è ben augurabile che
fra i due fidanzati non ci sia troppa diversità di condizione). Se
queste ragazze cercano nel fidanzato quello che è difficilissimo a
trovarsi e pretendono quello che esse stesse forse non possono
offrirgli, finiranno per restar nubili. Dovrebbero prepararsi a cer-
car l'essenziale: amore vero, bontà e principi religiosi e morali,
salute, intelligenza e amore al lavoro che assicurino il manteni-
mento della famiglia: la felicità coniugale domanda questi requi-
siti ma non dipende da altre risorse — come la posizione elevata
e distinta, i molti denari — che sono elementi accidentali.
10. C'è la giovane che ha intrecciato un'amicizia con uno
sposato (forse infelice nel suo matrimonio). Questa relazione che
qualche volta resta solo sentimentale, spesso diventa sessuale,
talora provoca la rottura d'una famiglia, porta al divorzio ed al
matrimonio civile. Se ci- si arresta all'amicizia segreta, questa,
dopo anni, ad un dato momento può venir meno. Il marito può
riavvicinarsi alla moglie. Ed allora la sua amica resterà sola.
Dopo aver spremuto dal suo cuore tutto l'affetto per un uomo, è
quasi certo che non cercherà e non troverà un altro per sposarsi.
11. Qualcuna aveva riposto tutto il suo amore — il primo,
prorompente, ardente — e tutte le sue speranze in un giovane dal
quale aspettava la domanda di matrimonio. Ma un dato giorno,
viene a sapere ch'egli s'è fidanzato con un'altra giovane. La
ragazza delusa cade in un tale abbattimento da ritenersi incapace
d'amare altri. Resterà nubile. Uguale conseguenza può avere la
decisione del giovane di farsi religioso o sacerdote. Ma la decisio-
ne di non più sposarsi da parte d'una tale giovane, che è stata
abbandonata, è una decisione priva di giustificazione e di ragio-
nevolezza. Passato il primo periodo di abbattimento, essa deve
credere che Dio la chiama alla missione di sposa e di madre, fa
308
bene a dimenticare il passato ed a cercare la felicità invece di
chiudersi in amari e sterili rimpianti.
II. Qualunque siano le circostanze che han condotto una
donna a non sposarsi, sia questo suo stato volontario o non vo-
lontario, causato da qualche colpa o da qualche disgrazia, la
nubile, ad un dato momento deve ritenere che la sua condizione
rientra nella volontà di Dio. Alla quale bisogna conformarsi
sforzandosi di santificare questo stato liberamente scelto od im-
posto dalla necessità.
1. Una nubile — specialmente se iscritta ad un Istituto
Secolare di Perfezione — ha più tempo e maggiori mezzi spiri-
tuali che una sposata, per attendere alla propria vita interiore
ed alla propria santificazione.
2. Non mancano tuttavia i pericoli, sia interni, sia esterni.
Non bisognerà meravigliarsi né spaventarsi se sorgeranno delle
tentazioni (anche per chi ha fatto un taglio netto col mondo).
Bisogna stare in stato di continua vigilanza ed in posizione di
difesa perché si son visti cadere anche i cedri del Libano. In
qualche momento l'anima della nubile sarà assalita dalla impe-
tuosa nostalgia d'una famiglia propria, avrà l'impressione do-
lorosa che la sua vita sia inutile e stroncata. Momenti tristi, più
tristi e pericolosi per la signorina ricca che non ha un lavoro
assorbente, ad orario fisso, non ha preoccupazioni materiali che
riempiano la sua vita e la sua giornata.
3. Perciò non si raccomanderà mai abbastanza ad una nu-
bile di esser sempre occupata in lavori che siano impegnativi
e non solo gingilli per passatempo. Tante occasioni si daranno
per le generose prestazioni d'una nubile. Prestazioni ed aposto-
lato che cominceranno dai suoi parenti per poi estendersi ad
altri secondo l'opportunità e le circostanze. Quasi ogni nubile ha
una famiglia con sorelle, fratelli (forse minori); e poi ci sono
le famiglie dei fratelli e delle sorelle dove qualche mamma passa
molte, ore della giornata fuori casa, occupata in fabbrica od in
ufficio. L'aiuto d'una sorella è provvidenziale. Essa saprà la-
vorare nell'ombra, dotata d'una maternità più umile, più timida
della maternità vera, ma tanto soave e commovente. Queste
coadiutrici sono come angeli: sempre presenti ma quasi invisi-
bili. Angeli specialmente di pace perché le famiglie nelle quali
vivono non saranno sempre il soggiorno della pace. Anche nelle
case nelle quali non vi sono grandi motivi di discordia succedono
309
spesso piccoli malintési e screzi. La nubile non entrerà in queste
contese come giudice ma come conciliatrice dei cuori, cercando
di trovare la parola che scusa una dimenticanza, attutisce un ri-
sentimento. Anzitutto e soprattutto starà ben attenta a non far
nascere i malumori, a non mettere in risalto i difetti del marito
o della moglie.
Allora, così occupata, la nubile sentirà che, se è sola, non
è isolata, che la sua vita non è inutile e sterile. Il campo di bene
che si offre — ad ognuno che ha la buona volontà di soccorrere
il prossimo — è vasto quanto il mondo e le occasioni si pre-
senteranno e si moltiplicheranno continuamente.
4. Dicono che ci sono certi difetti propri delle donne che
non si sposano. Difetti, intendiamoci, che possono ben unirsi
a tante virtù. Ad esempio, la tentazione ad insuperbirsi del
proprio stato disprezzando il matrimonio come uno stato inferiore.
Realmente la verginità (scelta per un motivo soprannaturale)
è superiore alla vita coniugale. Ma a questo principio bisogna
aggiungere un dato di fatto: ci sono fra gli sposati anime elette
alla cui santità tutti devono inchinarsi.
Se la donna, in genere, ha un cuore particolarmente sensibile, la
creatura che è sola e priva d'affetti può andar soggetta ad una
ipersensibilità per cui soffre e fa soffrire gli altri. L'ipersensi-
bilità porta tristezze e disuguaglianza d'umore, paralizza lo slan-
cio e l'energia ad operare il bene, fa perder tempo: lascia libero
il corso alla fantasia la quale spazierà nell'irreale, sognerà l'im-
possibile. È necessario un continuo energico autocontrollo.
È anche naturale che nel cuore solitario della donna che non
ha potuto sposarsi s'insinui la tentazione dell'invidia sottile ver-
so l'amica che ha realizzato il suo sogno d'amore, che sembra
felice nel suo nido col marito ed i figli. Se l'invidia è assecondata
può tradursi in espressioni di critica e di maldicenza. Bisogna
reagire ricordando che la maggior parte dell'umanità — anche se
agli altri sembra realizzare, col più invidiabile matrimonio, ogni
suo desiderio — in realtà non attinge che una felicità molto im-
perfetta o, comunque, precaria. Mentre c'è una felicità umana
anche per la donna che non si sposa, qualora sappia organizzare
la sua vita per un ideale di bene e per la gloria di Dio.
5. Una nubile ormai decisa a non sposarsi si guarderà da
tutto quanto può turbare quella pace che ha ormai conquistata
o cerca di conquistare. Ci sono letture che è meglio evitare,
quando siano troppo sentimentali, romantiche, perché snervano
310
l'anima, ridestano rimpianti: una nubile ha bisogno d'vin'anima
virile, e quindi di letture forti, sane, nutrienti. Altrettanto si
dica dei films. Riservatezza, delicatezza, austerità è poi necessaria
nei discorsi delle nubili. Se bisognerà toccare certe piaghe,
lo si faccia (come deve farlo un sacerdote) per necessità e solo a
scopo di bene, evitando ogni compiacenza, ogni curiosità inutile
e soprattutto procurando di non restare invischiati. Ma in certi
ambienti mondani vien fatto di sentire qualche signorina che
parla dei problemi del sesso e del matrimonio con estrema libertà
lasciando in qualche ascoltatore un'impressione sgradevolissima
e penosissima.
È da attendersi che una nubile senta il bisogno di qualche
amicizia. Ma certe amicizie ostacolano la libertà dello spirito,
impediscono il volo dell'anima verso la perfezione. Sono le
amicizie sensibili che generano inquietudine, tolgono la sere-
nità, assorbono e concentrano l'anima nel pensiero continuo
della persona amica, sono le amicizie che reclamano anche il con-
tatto fisico e le esterne manifestazioni d'affetto. Si tenga come
regola che le amicizie it9 persone di sesso diverso non si man-
tengono, per solito, sul piano esclusivamente spirituale: a lungo
andare diventano sensibili e sensuali, almeno se non si tratta di
anime di vera vita interiore e se, una almeno, non possiede un'au-
tentica santità.
6. Per una nubile, dunque, non mancano gli ostacoli lungo
la non facile via della perfezione, alla quale deve credere d'esser
chiamata. Ha perciò bisogno d'una pratica assidua della pre-
ghiera e di una discreta ed equilibrata direzione spirituale. Abbia,
fra il suo programma, anche il proposito d'irradiare la gioia.
Gioia che nasce dalla coscienza di esser un'esistenza non già
fallita ma ricca di risorse interiori utilizzabili a render meno
infelici tante anime ed a raggiunger più facilmente il fine supre-
mo della vita.
4. Vedove
Vedovanza: uno dei più crudeli dolori. Un dolore che, sulle
prime, pare inconsolabile. La perdita del marito sembra stron-
care anche la vita della moglie. Una esistenza si spegne ed
un'altra precipita nella desolazione, fino forse ai confini della
disperazione. La vedovanza è la più grande sventura per una
311
donna, specialmente se giovane (quantunque spesso non sia me-
no cupa l'afflizione d'una vedova anziana). La donna è per na-
tura più debole, ha bisogno di protezione e d'appoggio. La ve-
dova è come l'edera che resta senza l'olmo che la sosteneva.
Sola, senza quel complemento spirituale ed affettivo che le era
un naturale bisogno, talora priva d'una sicurezza e d'un'autono-
mia materiale ed economica. Se ha figli, la sua solitudine è
meno grave, ma sentirà gravare solo su di sé la difficile missione
d'educarli. Ci sono i famigliari ed i parenti: ma, da questi, spesso,
avrà più motivi di sofferenza che aiuti spirituali e materiali.
C'è un'altra ragione — al di sopra d'ogni egoismo ed inte-
resse — che spiega perché la vedovanza sembra stroncare la vita
d'una donna: una ragione inerente alla sua psicologia ed alle
sue aspirazioni naturali. « La donna è alterocentrista, fa centro
cioè del suo piacere, della sua ambizione, non in se stessa, ma
in un'altra persona che essa ama e da cui vuol esser amata...
mentre l'uomo fa centro dei propri piaceri, delle proprie ambizio-
ni in sé » (G. Lombroso, L'anima della donna, I, Bologna, Zani-
chelli, 1926, p. 6).
In questo stato di desolazione le facoltà dell'anima sembrano
paralizzate mentre memoria e fantasia della donna sono avvinte
dai ricordi e dai rimpianti. Nulla di quanto la vita può offrire
serve a consolarla ed a distrarre il suo spirito ma si trasforma
in motivo di malinconia e di turbamento. Solo col passare del
tempo — grande medicina — potrà tornare un po' di sereno.
Ma, qualunque siano le impressioni, una vedova non deve pen-
sare d'aver perduto la fede e la speranza. Tant'è vero che simile
stato di quasi disperazione si verifica talora (per dolori spirituali
od esaurimento nervoso) anche in anime sante le quali — come
dichiarano — anche se potessero farlo, non vorrebbero cambiar
nulla di quanto Dio ha disposto.
I. Nel primo periodo della sua vedovanza, una donna può
sentire la sua anima cosi presa dal ricordo del marito da esser ten-
tata di chiudersi in se stessa, di vivere solo di memorie e di consi-
derarsi ormai incapace d'ogni attività. Anche l'affetto verso i
figli sembra quasi assopito. Non è questo che Dio vuole. Sulle
prime, occorrerà uno sforzo per superare questo stato di para-
lisi spirituale. Ma, col passare del tempo, per una legge di natura,
la vita riprenderà a pulsare colle sue speranze, le sue gioie, i suoi
ideali. La vedova prenderà coscienza che il suo amore per il
compagno che è in Cielo — ed è presente, in spirito, nella sua
312
casa — si dimostra colle opere. Anzitutto (impegnandosi a dare ai
figli una saggia ed accurata educazione. E, passato l'uragano del
primo dolore, la vedova lascerà il posto alla madre.
Ci sono anche motivi di grande consolazione in questa sven-
tura.
1. Anzitutto la fede assicura la vedova d'esser amata da Dio
con un amore di predilezione. Amata ed assistita dalla Sua Prov-
videnza.
La Scrittura mette la vedova sullo stesso piano del pupillo.
Nell'Antico Testamento si legge che Dio ne prendeva le difese
(Deut. 10, 18). « Non nuocerete alla vedova ed al pupillo. Se
farete loro del male, grideranno a me; io udirò il loro grido... »
(Es. 22, 23). E fa dire al profeta: « Non fate torto alla vedova
ed al pupillo, al forestiero ed al povero » (Zac. 7, 10). La legge
ebraica poi voleva che fosse assicurato il sostentamento della
vedova. Come pel levita, cosi pel forestiero, il pupillo, la vedova,
i quali si trovavan dentro le porte, si doveva metter da parte
in tutte le case la decima triennale d'ogni prodotto (Deut. 14,
28-29; 26, 12-13). Ognuno doveva ammetter ai banchetti nelle
feste delle Settimane e delle Capanne, oltre ai figli, agli schiavi,
al Levita, al forestiero, all'orfano, anche la vedova che si tro-
vava dentro le sue porte (Deut. 12, 11-14). Alla mietitura, ognuno
doveva lasciare qualche manipolo di grano dimenticato, non
doveva ripassare la punta ed i rami dell'olivo, e non tornar in-
dietro a racimolare la vigna: questi resti dovevano esser pel fo-
restiero, l'orfano, la vedova (Deut. 24, 17-21).
L'episodio di Eliodoro penetrato nel tempio di Gerusalemme
per ordine del re d'Asia Seleuco, allo scopo d'impossessarsi dei
depositi di grano ivi accumulati, offerti da anime generose e desti-
nati ad alimentare le vedove ed i pupilli, quest'episodio, risol-
tosi colla miracolosa cacciata dal tempio dell'invasore e profa-
natore, dimostra non solo quanto Dio proteggesse il luogo santo,
ma come considerasse sacro il patrimonio delle vedove e dei
pupilli (2 Macc. 3, 1-40).
Quando Giuda Maccabeo con soli seimila uomini vinse l'eser-
cito ultranumeroso di Nicànore, fece molto bottino. Ne destinò
parte « ai mutilati, agli orfani ed alle vedove » (2 Macc. 8, 28).
Nel Nuovo Testamento si legge che « religione pura ed im-
macolata agli occhi di Dio e del Padre è visitare i pupilli e le
vedove nelle loro tribolazioni e non macchiarsi a contatto del
mondo » (Giac. 1, 27).
313
2. A suo conforto, la vedova pensi che se Dio l'ha privata
del marito non è senza un provvido disegno per la santificazione
della sua anima e l'elevazione della sua vita. Si trova ora in uno
stato nel quale le è possibile e più facile praticare molte sublimi
virtù cristiane che non avrebbe avuto l'occasione e lo stimolo
a praticare quando l'affetto umano del marito era cosi totale da
rendere — di fatto ed incoscientemente — meno vivi il biso-
gno e la ricerca di Dio.
3. Altro motivo di conforto per una vedova: l'affetto dei figli
si concentrerà su di lei, mentre anche l'affetto della madre per
i figli si farà più tenero ed attento. Proprio per riguardo verso
i figli, dovrà, talora, specie nei primi tempi, soffocare la pro-
pria tristezza per non opprimere gli altri. Sarà una grande ca-
rità: domanderà forse dell'eroismo. Pensi che i figli hanno diritto
a vivere ed a sperare in un avvenire sereno e felice. La sof-
ferenza della madre vedova non deve oscurare per essi l'auro-
ra che sorge. Procurerà quindi di non gettare troppo a lungo e
troppo pesantemente l'ombra del proprio dolore su chi — figli
e parenti — ha bisogno di riprendere la vita normale. Terrà bensì
vivo nei figli il ricordo del padre, specialmente delle sue virtù
(senza far allusione ai suoi torti e difetti). Ma si adopererà perché
i figli non trovino nella propria casa un'aria di mestizia, un
vuoto deprimente: potrebbero, per reazione, cercare altrove di-
versivi dissipanti e pericolosi.
II. Non parlo di chi, dopo la perdita del coniuge, trova troppo
presto e troppo facilmente la distrazione in ciò che non può
dare un vero e profondo conforto. Mi riferisco a chi, dopo la
prova tremenda, stenta a rialzarsi dal suo stato di abbattimento
per ritornare alla normalità della vita.
1. È consigliabile che una vedova, specialmente se giovane,
si occupi molto. Anzitutto della sua casa e dei suoi figli. Scrive
S. Francesco di Sales: « La vedova che ha figliuoli bisognosi della
sua protezione e guida, principalmente in ciò che riguarda l'anima
e l'assicurazione del loro stato, non può e non deve abbando-
narli in alcuna maniera » (Filotea, Alba, p. 262). Sembrerebbe
ovvio. Ma oggi molte mamme (vedove e non vedove) passano
quasi tutta la giornata fuori casa per ragioni di lavoro (talora
per vera necessità); e si riducono a stare accanto ai figli nel
tempo dei pasti e solo qualche ora della giornata. Quando son
piccoli, si limitano a condurli fin sulla soglia dell'asilo. Quando
314
son più grandi li affidano ad altri, sperando e confidando nella
naturale bontà delle loro creature. La casa rischia di diventare
un albergo. E cosi, succede non raramente che adolescenti —
cresciuti in regime di troppa libertà — ad un dato momento
si lascian travolgere nel vortice del malcostume. Avrebbero bi-
sogno d'una mamma che vivesse, soffrisse, lottasse con loro,
giorno per giorno, ora per ora. Di una mamma che apre volen-
tieri la propria casa ai ragazzi amici dei suoi figli, favorendo e
discretamente sorvegliando questi incontri perché si svolgano
in un'atmosfera di letizia, di semplicità, di spiritualità e di mu-
tuo rispetto. Se ha il tempo e la buona volontà, una vedova deve
aver fiducia di poter supplire, coll'aiuto di Dio e le risorse del
proprio cuore, anche alla parte del marito: secondo un proverbio
giapponese « la famiglia riposa sulla madre ». Certamente l'opera
è ardua, specialmente oggi, nei riguardi sia dei figli maschi, sia
delle ragazze: in questi ultimi decenni i giovani d'ambo i sessi
hanno assunto uno stile di vita, comportamenti ed abitudini
che in un passato, non tanto remoto, erano inconcepibili. Una
madre intelligente e prudente non dovrà né ignorare le esigenze
del suo tempo, né chiudere ingenuamente gli occhi sui pericoli
che minacciano la purezza, la sanità fisica e morale dei giovani
e delle giovani fin dalla loro fanciullezza. Si pensi all'uso cosi
esteso della droga da parte di adolescenti e di preadolescenti.
Questa strada porta facilmente alla delinquenza minorile. Una
vedova che ama veramente e soprannaturalmente i suoi figli, che
ama più la loro anima che il loro corpo, starà dunque in guardia
perché la sua affettività esuberante non la porti alla debolezza.
E saprà evitare anche l'eccesso opposto: un autoritarismo istintivo.
L'educatore troppo severo non è ascoltato.
2. Una giovane vedova dovrà intraprendere forse nuovi rap-
porti con parenti, suoceri, fratelli, cognati. Per quanto possibile,
siano rapporti improntati a cordialità, serenità, pace, concordia
(il che non significa rinuncia ai diritti propri e dei figli). Una
vedova sappia che potrà esercitare una benefica influenza sui pa-
renti perché è in grado d'unire all'innata soavità e delicatezza
femminile, la sua sofferta esperienza. Se dovrà passare dalla casa
propria alla casa d'altri — dei suoceri, per esempio — avrà oc-
casione e necessità di praticare molte virtù e molto controllo su
se stessa: di sopportare gli altri (specialmente gli anziani) coi
loro difetti e le loro manie; d'abituarsi a tacere: cosa difficile,
specie per una donna (S. Francesco di Sales ha scritto d'aver tro-
315
vato nella sua vita molte donne buone ma quasi nessuna che
sapesse tacere).
3. Ad una vedova, dopo l'educazione dei figli ed il governo
della sua casa, s'offrirà la possibilità — specialmente se non ha
bisogno di guadagnarsi, lavorando, i mezzi per vivere — di darsi
ad opere buone ed all'apostolato. Fra le donne che seguivano
Gesù c'erano vedove caste e ferventi di spirito religioso. Al
tempo delle persecuzioni molte vedove fecero delle loro case e
dei loro palazzi, centri del cristianesimo nascente. Più di una,
dopo aver assistito il marito nel martirio, tornava nelle catacombe
per incoraggiare ed aiutare i cristiani. Oggi, il campo dei mali
sociali da curare, delle umane miserie da risollevare, della luce
e della carità da comunicare, è molto vasto e molto vario. Ci
sono persone che, bisognose di consiglio e d'aiuto, possono ri-
ceverlo più efficacemente da una vedova che da una nubile. Per
esempio, giovani cadute, ragazze-madri. Le occasioni per far del
bene non mancano. Non conviene però abbracciar troppo col
rischio di lasciar tutto incompiuto. È meglio specializzarsi in un
determinato ramo d'attività. Le circostanze suggeriranno cos'è
meglio. Tutto sta che una vedova non sd chiuda nei suoi pensieri
e nei suoi personali problemi ma sia disponibile ed aperta
anche ai bisogni degli altri, e, nel tempo stesso, spiritualmente
preparata e corazzata (cfr. M. dal Covolo, Vedova, Roma, 1947,
pp. 318-321).
4. Il lavoro è un diversivo ed un sollievo nel dolore. Una
difesa contro i pericoli dell'ozio. Ma le tentazioni, comunque,
non mancheranno. Una vedova giovane le troverà esternamente,
cioè nell'ambiente; le troverà internamente, cioè nel suo cuore
stesso di donna che si sente sola. Nella maggioranza dei casi una
vedova non può vivere di rendita, lontana dal mondo, nel rac-
coglimento della sua casa. Il lavoro la porta spesso a vivere in
continua promiscuità cogli uomini, in fabbrica, in negozio, in la-
boratorio, in ufficio. Le persone colle quali viene in contatto
non hanno sempre onestà, illibatezza e coscienza scrupolosa.
Prima di accettare un posto di lavoro, una vedova dovrebbe an-
zitutto informarsi circa la serietà o meno dell'ambiente nel quale
verrà a trovarsi. In tutti i casi è da prevedere che i pericoli non
mancheranno. Perciò le occorre — oltre alla preghiera e alla
frequenza ai sacramenti — una continua vigilanza, prudenza,
riservatezza e, all'occasione, fortezza d'animo e volontà decisa.
316
Perché, quando cominciasse a concedere qualche libertà ad un
uomo, difficilmente si arresterebbe sulla cima che porta al pre-
cipizio: relazioni fra impiegate e qualche compagno di lavoro o
capoufficio sono all'ordine del giorno.
Ma il pericolo per una vedova viene anche dall'interno. Il
suo stato di solitudine può farle sentire il bisogno d'un affetto e
portarla a cercare qualche amicizia che riempia il vuoto del suo
cuore. Oppure sarà invitata a ricevere le confidenze ed accettare
l'amicizia d'un uomo sposato che si dice incompreso ed infelice
nel suo matrimonio. Amicizie fra uomo e donna che, dapprima,
possono bensì essere spirituali, ma poi facilmente diventan sen-
sibili e sensuali (perché la comunione degli spiriti, se basta alla
donna, non soddisfa l'uomo). Una amicizia solo spirituale fra per-
sone di diverso sesso — delle quali né l'una né l'altra abbia una
santità distinta — è molto difficile.
Per tutte queste ragioni il pericolo di non osservare la pu-
rezza, per una vedova giovane che vive nel mondo, è grande e
continuo. Forse la castità è più facile per una vergine.
Noto infine che — nonostante tutte le precauzioni e gli
accorgimenti — una vedova potrà essere oggetto di calunnia.
Se in coscienza e davanti a Dio sa di agire in buona fede ed
anche colla debita prudenza, non deve turbarsi: anche i santi
soffrono calunnie.
III. Ho parlato della vedova che rimane (e finché rimane)
in questo stato. Ma si presenta anche il problema: « è meglio
restare nello stato di vedovanza o passare a seconde nozze? ».
1. In linea astratta è senza dubbio più perfetta la vedovanza
quando sia abbracciata per motivi soprannaturali: coltivare mag-
giormente l'unione con Dio, consacrare a Lui la seconda ver-
ginità, conservare il cuore fedele allo sposo, dedicarsi, a tempo
pieno, all'educazione dei figli ed alle opere buone. Allora la
vedova trasforma la rassegnazione in olocausto: offre liberamente
e gioiosamente a Dio un bene legittimo al quale rinuncia: le
gioie d'un altro possibile matrimonio. E per la vedova che, per
un motivo superiore, non si rimarita, diventa più facile la santità
perché può pensare di più a Dio ed al prossimo con spirito
d'amore e d'apostolato.
Anche nell'Antico Testamento la vedova che non si riposava
era venerata come in uno stato di maggiore purezza morale. Si
legge che Giuditta rimase vedova dopo soli tre anni e mezzo di
317
matrimonio. Nonostante la sua rara bellezza preferì restar ve-
dova. È esaltata la sua forza d'animo ed il suo coraggio. Ecco
l'elogio della Scrittura: « Siccome hai operato virilmente ed il
cuor tuo è stato forte, siccome hai amato la castità e, dopo il tuo
marito, non hai conosciuto altro uomo, cosi la mano del Si-
gnore t'ha sorretta e perciò sarai benedetta in eterno » (Giud.
15, 11). Ma questa castità era frutto della preghiera, d'una
vita segnata dall'austerità e passata nel raccoglimento.
Anche presso i pagani la vedova che restava fedele alla me-
moria del marito defunto era degna di venerazione: sulla sua
tomba si scriveva « univira ».
Nel Nuovo Testamento, trattando esplicitamente della ve-
dova, s. Paolo dichiara che, se viene a mancare il marito, è
libera di risposarsi: « Tuttavia — aggiunge — sarà più felice
se resterà cosi secondo il mio consiglio. Credo d'aver anch'io lo
spirito di Dio » (1 Cor. 7, 40). Il Concilio Fiorentino, dopo aver
affermato che una vedova può lecitamente risposarsi anche più
d'una volta se le vien a morire il marito, aggiunge: « Diciamo
tuttavia più degne d'onore quelle che astenendosi da ulteriore
matrimonio, rimangono nella castità, perché riteniamo che la casta
vedovanza è da preferirsi per lode e merito alle nozze, come la
verginità alla vedovanza » (D. S. 1353).
2. Tutto questo come un consiglio e sul piano ideale. In con-
creto, per giudicare se sia consigliabile la vedovanza o le seconde
nozze, bisognerà esaminare prudentemente tutte le circostanze. An-
zitutto, è ovvio che, piuttosto di correre il pericolo prossimo d'ab-
bandonarsi alle leggerezze, di contrarre legami illeciti e scandalosi,
è meglio che una vedova passi alle seconde, ed anche alle terze
nozze. Perciò l'Apostolo scrive: « Ai non sposati... e alle vedove
dico: è bene per essi se rimangono come me. Se però non sanno
serbarsi continenti, si sposino: è meglio infatti sposarsi che bru-
ciare » (1 Cor. 7, 8-9). Meglio dunque passare alle seconde nozze
piuttosto che ardere pel fuoco della concupiscenza e lasciarsi vin-
cere dalla tentazione.
Nella prima lettera a Timoteo, s. Paolo, trattando delle ve-
dove che si consacravano in modo speciale al servizio della Chie-
sa — ad esempio, nell'educazione dei fanciulli, nella cura dei ma-
lati — dice che devono avere non meno di sessantanni, esser state
mogli d'un solo marito, ed aver dato testimonianza di virtù, e di
opere buone (1 Tim. 5, 9-10). Edotto, poi, dall'esperienza di tante
318
giovani vedove che, a quei tempi, colla loro condotta leggera o
scandalosa davano ai nemici della Chiesa occasione di diffamare i
cristiani, s. Paolo aggiunge che a queste bisogna piuttosto imporre
di risposarsi: « voglio che le più giovani si maritino, abbiano figli,
governino una casa, non diano all'avversario alcuna occasione di
maldicenza» (1 Tim. 5, 14).
Occorre dunque prudenza nel prender la decisione (e nel dare
il consiglio) sia di permanere nello stato di vedovanza, sia di pas-
sare ad altre nozze. Più facilmente per l'uomo vedovo (specie se
giovane) si presenterà la convenienza — per un complesso di
ragioni d'ordine sessuale, affettivo, pratico — di risposarsi per
ritrovare una compagna che riempia il vuoto della sua anima,
della sua casa, della sua vita. Ma anche per una donna può esser
meglio — considerata la sua situazione — rimaritarsi, specie se è
giovane e senza figli. La vedovanza perenne è una vocazione, come
la verginità. Ci dev'esser una certa sicurezza di conservarsi, senza
troppe difficoltà, immuni da ogni caduta peccaminosa. Se la soli-
tudine, le tentazioni, le difficoltà e le preoccupazioni, invece di
elevare serenamente lo spirito d'una donna, dovessero inasprirlo
perché la impegnano in una lotta estenuante e non sempre vitto-
riosa, allora ritorna l'avvertimento dell'Apostolo: meglio rispo-
sarsi che bruciare. Per una scelta dello stato bisognerà pertanto
prender in esame il temperamento, le tendenze d'una vedova, la
sua religiosità (più o meno solida e fervente), le sue condizioni
economiche, familiari, ambientali. Si dovrà tener conto anche delle
condizioni della vita moderna, ben diverse da quelle di alcuni
decenni fa. Con tutta probabilità, una vedova, per ragioni
di lavoro, dovrà vivere non ritirata in casa ma in mezzo al mon-
do, a continuo contatto cogli uomini, esposta ad ogni sorta di
pericoli, insidie, seduzioni, tentazioni. Perciò, se lo stato di vedo-
vanza perenne è idealmente più perfetto, sarebbe sbagliato lo
stimar meno chi prende la risoluzione di risposarsi. S. Francesco
di Sales arriva a scrivere: « La vera vedova non deve mai cen-
surare, né biasimare quelle che passano alle seconde, alle terze ed
alle quarte nozze; perché in certi casi Dio dispone cosi per la sua
maggior gloria: e ci conviene aver sempre davanti agli occhi quella
dottrina degli antichi che né la vedovanza né la verginità hanno
in Cielo altro posto, se non quello che è ad esse assegnato dalla
umiltà » (Filotea, Alba, p. 264).
319
3. In qualche caso, l'anima d'una vedova è agitata dal dubbio
e dalla perplessità: possono alternarsi momenti di propensione al
matrimonio e momenti di propensione allo stato di vedovanza. In
questi casi non basta la calma riflessione personale: bisogna ricor-
rere alla preghiera (perché nella scelta dello stato in modo tutto
particolare si manifesta la volontà di Dio) ed anche ad un esperto
consigliere spirituale (cfr. M. dal Covolo, Vedova, pp. 237-242).
4. La vedova che decide di passare a seconde nozze non deve
lasciarsi condurre solo dai sensi o da calcoli umani, ma da una
mente lucida, da un cuore calmo, dalla prudenza cristiana. Nelle
prime nozze si edifica; nelle seconde bisogna ricostruire una esi-
stenza, se non felice, almeno serena e tranquilla, sulle rovine d'un
passato che non può mai esser completamente distrutto e dimen-
ticato. Un passo che richiede quindi una ponderazione ancora mag-
giore (cfr. M. dal Covolo, o.c, pp. 247 ss.). Bisogna che la donna
non si lasci solo conquistare dal fascino esteriore, dalle doti appa-
riscenti e, tanto meno, dalle sole possibilità finanziarie del suo
nuovo compagno nel miraggio d'una vita lussuosa. Motivo predo-
minante e determinante della scelta dev'esser l'affetto che non è
solo passione cieca e travolgente, ma si fonda su un complesso di
doti e di fatti che una vedova ha da cercare e trovare nell'uomo
al quale sta per legarsi. Dovrà studiare il suo carattere, informarsi
del suo passato, dei suoi principi morali e religiosi. E, se ha già
dei figli, saprà con tatto presentar loro la nuova situazione che si
determinerà quando avranno da accogliere un uomo il quale dovrà
esser per loro un secondo padre (si spera provvisto di tutte le
doti). E nell'accettare come padre un estraneo, nel vedersi strap-
pati alla loro casa, è presumibile che essi soffriranno. Se questa
sofferenza fosse troppo grande e se il nuovo matrimonio compro-
mettesse la benefica influenza che la madre godeva sui figli e rom-
pesse la pacifica unione preesistente, allora l'eroismo può sugge-
rire ad una vedova anche la dolorosa rinuncia.
5. Ed una volta contratto il nuovo matrimonio, occorreranno
pure molti riguardi e delicatezze. Ad esempio, nel saper conser-
vare nell'intimo e non manifestare al secondo marito ricordi e
nostalgie del primo matrimonio. Memorie e rimpianti si faranno
vivi all'apparire di qualche nube sul nuovo cielo coniugale. Bi-
sognerà — per conservare pace, speranza e fiducia — gettare un
po' di cenere sul passato. Altrimenti il secondo marito potrebbe
soffrire di gelosia. Tanto più pericolosa in quanto non ha per
320
oggetto una persona vivente ma un fantasma contro il quale non
si può combattere. E l'amore coniugale è sempre esclusivo.
Se una vedova senza figli troverà nelle seconde nozze i figli
del nuovo marito, cercherà di esser per loro una mamma (anche se
in senso pieno una donna lo può esser solo per i propri figli).
Saprà soprattutto conquistarsi i loro cuori con la bontà e la virtù,
prima d'instaurare nuovi metodi d'educazione, i quali possono es-
ser ottimi ma contrastare con le memorie, le tradizioni, le abitudini
della famiglia nella quale i figli sono nati.
Bisogna anche prevedere gli inconvenienti che ci possono es-
sere qualora una vedova abbia dei figli ed anche il suo secondo
marito sia vedovo con figli, o qualora altri figli avessero ad aggiun-
gersi ai già preesistenti (cfr. M. dal Covolo, Vedova, pp. 247-267).
5. Aspiranti al sacerdozio
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che rosee. E non ci consola affatto l'assicurazione di qualcuno
secondo il quale, se aumenteranno i diaconi, i sacerdoti potranno
senza danno diminuire. Solo il sacerdote che vive una vita di
castità, di lavoro, di preghiera, rappresenta ed alimenta efficace-
mente la fiamma dei più puri ideali evangelici nella comunità
cristiana. È stato scritto: « Il Sacerdote si presenti come un uomo
che ha operato una scelta, la più bella, e dimostri di essere con-
tento e soddisfatto. Non si ripeterà mai abbastanza che il Prete
deve essere anzitutto pienamente uomo e che gli stessi valori
sacerdotali vanno presentati al mondo dei giovani e dei fanciulli
in modo simpatico » (C.P.D. di Belluno, Indicazioni per la so-
luzione del problema delle vocazioni, 1973). È esatto. Però non
si può nascondere che in questa scelta è implicata la più grande
rinuncia che eleva il giovane sopra tutti gli altri. Senza impove-
rirlo. Ma per capir questo occorre una fede viva. Bisognerebbe
non concentrare tutti i problemi dello spirito sul sesso, come
fanno tanti e tanti genitori. Bisogna non insinuare nell'animo
dei ragazzi — mediante l'istruzione sessuale pubblica (sostenuta
anche da qualche educatore cattolico) — che cognizioni e vita
sessuale sono un elemento indispensabile per esser pienamente
uomini. In certo clima lo sperare che fiorisca una vocazione è
quasi attendere il miracolo: lo spuntar d'un mazzo di fresca
erba verde sotto il solleone d'agosto dalle pietre senza terra e
senz'acqua.
I. Non sempre il confessore potrà formulare il giudizio posi-
tivo sicuro che un soggetto ha tutte le doti richieste al sacer-
dozio. I (dubbi possono presentarsi specie a chi solo occasional-
mente ascolta la Confessione del penitente. Più elementi di giu-
dizio avrà chi è confessore abituale e direttore spirituale del gio-
vane. Ma anche a questo possono non esser note certe circostanze
riguardanti la condotta del candidato. Siamo quindi cauti nel
dare ai giovani, « in foro interno », assicurazioni perentorie circa
la loro vocazione. Qualche volta capita che il giudizio del diret-
tore spirituale è smentito in pieno dai superiori della comunità
seminaristica che conoscono gli alunni nella loro vita esterna
e nei loro reali difetti. D'altro canto, al confessore — special-
mente se è anche direttore spirituale dell'alunno — possono
esser noti certi fatti intimi e segreti della vita del giovane. Il
quale potrebbe avere una condotta esterna irreprensibile, ma
esser privo della richiesta inclinazione ed attitudine alla vita
sacerdotale o di qualche requisito morale.
322
1. Fra i segni della vocazione ci dev'esser un'inclinazione
alla vita sacerdotale? Non è necessario che il soggetto « senta »
una specie di ispirazione soprannaturale (cfr. J. Lahitton, La vo-
cation sacerdotale, Paris, 1913). Però deve avere una generale
attitudine e la spontanea, libera volontà di farsi sacerdote. In
pratica — dato che non occorre un'ispirazione interna — piò
ancora che il desiderio di diventar sacerdote sarà da considerare
l'attitudine e le qualità spirituali, morali, intellettuali, fisiche
(tenendo in qualche conto anche le condizioni di sanità morale
e fisica, o meno, della famiglia). Insomma vagliare l'elemento
oggettivo più che quello soggettivo ed affettivo. Specialmente
oggi, quando il clima familiare e sociale non favorisce entusiasmi
vocazionali e quindi c'è pericolo che la vocazione sia ostacolata
e che l'elemento soggettivo non sia alimentato, non regga, non
perseveri. Certo, oltre a possedere il fondo di doti richieste,
bisogna che uno voglia liberamente esser prete. Oltre la voca-
zione, occorre la risposta decisa alla chiamata divina. Alle volte
gli indizi d'una vocazione possono esser percepiti dal direttore spi-
rituale prima che dal giovane stesso. Il sacerdote però si guarderà
dal farne troppo presto esplicita proposta al soggetto. Lo guiderà
come se si trattasse di chi ha effettivamente la vocazione e così ve-
drà le reazioni. Se queste sono positive, allora potrà dolcemente
attirare l'attenzione del giovane sulla chiamata divina. C'è qualcuno
che ha realmente la vocazione ma per qualche tempo resiste, pare ne
abbia quasi paura e cerca di convincersi del contrardo. Ha quasi
l'impressione d'esser ghermito dall'angoscia se dirà di si, perché
ha coscienza d'immettersi in un cammino che è pieno di rinunce
(anche se porta alla più alta felicità). Ma, a queste prime ripulse
d'un giovane, non bisogna scoraggiarsi. La grazia ha le sue ore.
Occorre aver pronta la parola affettuosa, illuminante, incorrag-
giante; saper aiutare ognuno con molto tatto, in modo da fa-
vorire quella che è la reale vocazione divina e nel tempo stesso
lasciare all'interessato tutta la libertà di decisione. Ci sono, poi,
dei giovani che danno qualche indizio di vocazione, ma meno
chiara. Questi vanno stimolati ad una più intensa vita interiore,
condizione e garanzia d'ogni scelta generosa e d'ogni chiamata
superiore (cfr. G. Siri, La grazia nell'educazione dei giovani,
Roma, 1941, pp. 67-69).
Vocazione certa; risposta libera. Sia i superiori di disciplina,
sia i direttori spirituali vigilino se, nei singoli soggetti e nelle
singole situazioni, ci siano indizi che facciano dubitare della libertà
323
nella scelta dello stato sacerdotale. Oggi è meno facile che pel
passato il caso di genitori i quali esercitino una pressione morale
perché il figlio che ha iniziato la vita seminaristica si faccia prete
e, se non prosegue, lo trattino come un disertore. Altri, opposti,
condizionamenti saran più probabili (anche se a parole tutti
proclamano la libertà di scegliere la propria professione). Ci sono
genitori che esplicitamente o virtualmente distolgono un figlio
che sente la vocazione sacerdotale o religiosa. Il confessore deve
aiutarlo, sostenerlo, suggerirgli il prudente comportamento.
2. Nel Supplementum della Summa Tbeol. I l i , q. 36, a. 1,
s. Tommaso solleva la questione se, in chi vuol ricevere
l'ordine sacro, si richieda la « bontà della vita ». E rispon-
de che è necessaria « non de necessitate sacramenti », non al-
la validità del sacramento, ma « de necessitate praecepti »: per
precetto divino. Anzi aggiunge (riferendo un testo di s. Dio-
nisio) che, essendo il sacerdote la luce, deve risplendere per la
sua virtù; siccome è chiamato ad esser guida di altri « in divino
omni », non può aver il coraggio di assumersi questo ufficio se
non è « deiformissimus et Deo simillimus ». In quest'esigenza
d'una eminente virtù rientra l'impegno del celibato che la Chiesa
Latina domanda al diacono che vuol farsi sacerdote. Celibato
che è un olocausto: offerta, rinuncia, sublimazione d'un amore
per sé onesto. Rinuncia che facilita l'unione e l'assimilazione
a Dio, puro spirito; ed è espressione dell'amore verso Dio. Difat-
ti la virtù più sublime resta sempre l'amore a Dio, lo zelo per la
Sua gloria, la carità verso il prossimo. E la castità stessa ha il
suo valore nella vita del sacerdote solo come offerta a Dio, come
trasferimento e concentrazione sul piano soprannaturale — Dio
e le anime — di quella capacità e forza d'amore che è un bi-
sogno insopprimibile. Questa castità non significherà allora coi-
bizione, oppressione, frustrazione. E dovrà esser come la risul-
tante di tutte le altre virtù morali (specialmente dello spirito
di preghiera e d'abituale mortificazione). Preghiera anzitutto,
perché il celibato è una grazia speciale e suppone una vocazione
particolare: « non omnes capiunt verbum istud, sed quibus datum
est» (Mt. 19, 11). Ed anche chi vi è chiamato, avrà bisogno
— per perseverare — di praticare tutto un complesso d'esercizi
ascetici: orazione mentale, pietà eucaristica e mariana, frequente
uso della Confessione e ricorso alla direzione spirituale. Sarebbe
sbagliato impostare tutto il problema della vocazione sulla castità,
considerandola isolatamente.
324
In chi s'impegna pel celibato ci dev'esser l'esenzione da
peccati impuri e la previsione di saper osservare la castità. Il
confessore che è anche direttore spirituale, può (e forse lui
solo) venir a conoscere (o dubitare) che un giovane — pur
animato da buona volontà — ha un'eccessiva propensione alla
sensualità. In qualche difficile caso può esser opportuno consi-
gliargli di chiedere il parere d'un medico perito e religioso (può
capitare che un giovane abbia desiderio sincero di farsi sacer-
dote ma sia affetto da una specie di nevrastenia sessuale, la
quale assume espressioni svariatissime). Inoltre è da vedere se
l'inclinazione abituale verso la donna non sia cosi forte da dis-
suadere il celibato. Può darsi che un giovane si conservi (almeno
per il momento) puro — e tutti dovrebbero conservarsi tali fino
al matrimonio — ma abbia una propensione verso la donna
che è incompatibile col celibato perpetuo. E questa spiccata ten-
denza ed attrattiva potrebbe esser non propriamente sessuale,
ma piuttosto affettiva e romantica (a seconda della natura del
giovane). È evidente come un giovane che ha i suoi pensieri ed
immaginazioni incentrati soprattutto sulla donna, non è fatto
né per la vita religiosa né pel sacerdozio. Però, quando ci
sia tale inclinazione, in genere è il giovane stesso che spon-
taneamente s'orienta verso il matrimonio. Evidentemente, non
è necessario — per aver la vocazione — che manchi ogni tendenza
verso l'altro sesso. Qualche tendenza normale (superata però
sempre vittoriosamente e gioiosamente) può esser, anzi, un segno
di vocazione più sicuro che l'assenza attuale d'ogni inclinazione
sessuale (sempre supponendo che ci sia l'altissima stima ed il
desiderio del sacerdozio, il senso ed il gusto della vita interiore,
un'aspirazione all'azione missionaria ed apostolica e tutte le altre
doti richieste).
3. In chi sta per ricever l'ordine sacro al quale è annesso
l'obbligo del celibato è, di massima, necessaria una prova suf-
ficiente della castità. Non c'è un'esplicita legge della Chiesa La-
tina che imponga questo esperimento; esso però è una condizione
ed un'esigenza implicita nell'obbligo stesso del celibato. Assu-
mersi l'impegno della castità perfetta e perpetua senza averne
l'abitudine acquisita, sarebbe una temerarietà. Non si può at-
tendersi, coll'ordinazione, un cambiamento repentino e miraco-
loso. Ordinariamente non ci si libera da un'abitudine se non
gradatamente, in seguito a sforzi e lotte. Chi, senza essersi prima
corretto da qualche vizio grave (specialmente in materia d'im-
325
purità) intendesse, ad esempio, di confessare il suo stato pec-
caminoso e, subito dopo l'assoluzione, ricever il presbiterato, non
sarebbe disposto né a ricever l'ordine sacro né il sacramento
della penitenza (se non propone d'astenersi, almeno per il mo-
mento, dal ricever il presbiterato) (s. Alf., Prat. del Confess.,
e. V, n. 70). E non sarà certo sufficiente l'esperimento positivo
di pochi mesi, passati in seminario dopo il rientro dalle vacanze
(durante le quali l'abitudine cattiva è continuata): l'imminenza
dell'ordinazione può indurre uno stato psicologico d'emergenza
provocando sforzi straordinari. Ma quale garanzia di perseveranza
ci può essere? (cfr. Vermeersch, Th. Mor., I l i , 1948, n. 30).
4. All'atto pratico, che esperimento, quindi, si richiede? Si
possono dare alcune norme orientative:
a) Per chi aspira al sacerdozio (nella Chiesa Latina) e si
trova in trepida situazione morale, la prova — di regola —
dovrà durare più o meno a lungo a seconda del numero delle
colpe, della tendenza alla sensualità, della facilità del soggetto a
cadere. L'esperimento dovrà esser tanto più severo quanto mag-
giore si prevede, nel caso determinato, il pericolo delle ricadute,
dello scandalo (per esempio, di peccati in complicità) e quanto
minori risultano le altre qualità positive (come la pietà). Ora,
l'esperienza insegna che il pericolo delle ricadute è maggiore in
chi ha propensione (con gravi mancanze) verso persone dello
stesso sesso: maggiore pericolo che nel caso di mancanze in com-
plicità (per normale propensione) con persone d'altro sesso. E
queste sono più pericolose dei peccati solitari. L'abitudine della
masturbazione in certuni può cessare — per qualche occasione
— repentinamente e pienamente; in altri può eliminarsi gradata-
mente, in virtù dello sforzo costante e della pazienza. Quindi,
con ragazzi costituzionalmente normali e spiritualmente deboli,
è opportuno, sotto certe condizioni, tentare l'emendazione. Si
farà una prova, la quale dovrà durare, di massima, un anno e
comprendere anche le vacanze passate fuori di seminario. Se c'è
qualche miglioramento si potrà proseguire la prova ancora per
qualche tempo. Se non c'è nessun miglioramento, non è il caso
di far altri tentativi. Meglio un laico fervente che un languido sa-
cerdote (Vermeersch, I I I , n. 30).
b) Perciò, quando si prevede — pef segni chiari offerti
dall'indole naturale, dalle consuetudini contratte, dalle tendenze
(innate od acquisite) — che un candidato non eviterà in futuro
le mancanze contro la castità, è, regolarmente, da dissuadere
326
questa scelta. Non si può né aspettare miracoli né porre sulle
spalle di chi ha una forte sensualità, un peso cosi gravoso che
domanderebbe un continuo eroismo.
e) Si può ipotizzare qualche caso 'in cui il confessore do-
vrebbe negare l'assoluzione a chi pretendesse accedere al dia-
conato, od al presbiterato, od all'episcopato, con speciale inde-
gnità: ad esempio, lasciando prevedere che cadrà ancora con
scandalo altrui, oppure per una vera abitudine solitaria (specie
se le cadute sono molto frequenti) mentre non ha che una tiepida
vita interiore. In casi meno gravi l'accesso agli ordini sacri sarà
da dissuadere.
d) Un confessore occasionale, nel dubbio, dirà (od imporrà)
al penitente che, prima d'impegnarsi pel celibato, stia al giudizio
del suo direttore spirituale.
e) Il caso si farebbe particolarmente penoso se un confessore
« straordinario » venisse a conoscere solo alla vigilia del diaconato
o del sacerdozio che un soggetto penitente non può (per le sue
consuetudini peccaminose) accedere all'ordine sacro. Questo caso
non dovrebbe capitare e si spera non capiti. Ma se l'indegnità
fosse evidente il confessore dovrebbe esser energico.
5. Norme orientative, perché — come già ammoniva Bene-
detto XIV — non c'è una regola generale che in simili casi pos-
sa esser applicata in modo assoluto ed uniforme. Perciò, nel caso
concreto, il confessore terrà presenti alcuni principi direttivi e
poi procurerà di « esaminare diligentemente e di valutare con
calma tutte le circostanze della persona, delle cose e dei casi; e
si ricordi di non aver soltanto l'ufficio di giudice, ma anche
quello di medico » (De Synodo, 1. XI, e. 2, n. 18).
6. Comunque, la prova della castità e della vocazione dovrà
comprendere anche un periodo di tempo passato fuori del se-
minario perché si veda se anche a contatto col mondo il giovane
sappia guidarsi, vincersi, ricorrere ai mezzi per conservarsi puro.
E cosi potrà fare un confronto lucido e consapevole fra quello
a cui rinuncia (il matrimonio che pure è un sacramento che rende
santo l'amore) e quello che sceglie (uno stato più perfetto nel
quale la castità è possibile ma può esigere l'eroismo). Potrà al-
lora sentire di più la sublimità della vocazione. Non è un pre-
cetto, ma un consiglio. Non è esclusione del male, ma una scelta
del meglio. Il giovane dev'esser persuaso che — colla grazia di
Dio e la propria cooperazione — non avrà rimpianti. Se non ha
327
questa fiducia e questa certezza, vuol dire che non ha una voca-
zione sicura. La sua scelta dev'esser liberissima e perciò serena
e senza interiori incertezze. Egli ha un ideale: dare tutto se
stesso — specialmente il cuore — a Cristo. Per questo sacrifica
tutto volentieri. A tal fine è consigliabile che — durante gli
anni di preparazione al sacerdozio — ci sia anche un sufficiente
contatto del giovane colla vita, di modo che non possa dire
d'esser rimasto chiuso in un mondo irreale. Di fronte a tenta-
zioni ed attrattive (inevitabili e necessarie) deve mostrar di sa-
perle superare decisamente ed allegramente; deve constatare e
dar l'impressione che si sente a suo agio nell'ambiente religioso
anziché nei trattenimenti e divertimenti mondani.
7. Oggi questa prova della vocazione è predicata insistente-
mente da molti. Tuttavia osservo che — se è giusto esigere un
maggior approfondimento dello spirito della castità sacerdotale
— non si devono però sottovalutare i pericoli ai quali si può
andar incontro mettendo i giovani a contatto col mondo allo
scopo che la loro scelta sia più matura e più deliberata. Questo
scopo si può ottenere anche usando le dovute precauzioni contro
le tentazioni del mondo.
6. Sacerdoti
329
zia, nell'intimo delle anime, miracoli ne fa continuamente. Cer-
to non si può attendere i miracoli senza usare i mezzi naturali
e soprannaturali per la guarigione. E per la guarigione la dose
del farmaco dev'essere proporzionata alla gravità del male. An-
zitutto bisognerebbe ottener da un sacerdote lo sforzo energico
per riprendere l'assiduo esercizio della preghiera — vocale e
mentale — per la quale la sua anima, arida e dissipata, non
sente più, sulle prime, nessuna attrattiva.
B. Consideriamo, ora, i presbiteri in genere. Il confessore
aiuterà il confratello penitente a risolvere specialmente tre con-
flitti, oggi sentiti in modo particolare dai sacerdoti: il conflitto
fra personalità ed obbedienza; il conflitto fra azione e contempla-
zione; il conflitto fra umanesimo e povertà, fra umanesimo e pe-
nitenza.
I. Personalità ed obbedienza. La vera obbedienza non è an-
zitutto adesione alla cosa comandata (che può esser contraria al
proprio giudizio e desiderio) ma all'autorità: per conseguenza
lo è anche a ciò ch'essa comanda. Gesù non accordò in primo
luogo il suo si alla morte sulla Croce (che, anzi, la sua umana
volontà chiese, se possibile, che le fosse risparmiata) ma al vo-
lere del Padre. Ed aderire ad un'autorità, in quanto derivata
da Dio, è la nobiltà dell'uomo libero perché significa legarsi
a Dio. La grandezza dell'uomo sta in quest'unione, non nella
indipendenza del suo arbitrio personale. La sua personalità uni-
ta a Dio non verrà impoverita ma affermata ed accresciuta.
Perciò il Vaticano II ricorda « fra le virtù che massimamente
sono richieste, al ministero dei presbiteri quella disposizione d'ani-
mo per la quale sono sempre preparati a cercare non la propria
volontà, ma la volontà di Colui che li ha mandati ». E siccome
« il ministero sacerdotale è il ministero della Chiesa stessa, perciò
non può esser adempiuto se non nella comunione gerarchica di
tutto il corpo ». La « carità pastorale » domanda ai presbiteri
« il dono della propria volontà nel servizio di Dio e dei fratelli »;
l'obbedienza « al Sommo Pontefice, al Vescovo, agli altri supe-
riori » (PO, 15). D'altra parte, aggiunge il decreto, questa stessa
carità muove i presbiteri a « cercare prudentemente vie nuove,
nell'esercizio del proprio mandato, per un maggior bene della
Chiesa ». Perciò essi « esporranno con confidenza le proprie ini-
ziative a coloro che esercitano autorevolmente l'ufficio di reg-
330
gere la Chiesa di Dio e saranno sempre preparati a conformarsi
al loro giudizio» (ibid.).
Obbedienza verso chi è al governo della Chiesa. Fra di loro,
i presbiteri sono uniti da una fraternità che si fonda nella stessa
ordinazione sacerdotale (« inter se intima fraternitate sacramen-
tali nectuntur », PO, 8). Questa fraternità si esprime in tutte le
forme che la carità può suggerire secondo i casi concreti. Perciò
« i più anziani accoglieranno veramente come fratelli i più gio-
vani, li aiuteranno nelle prime esperienze e fatiche ministeriali,
cercheranno di comprendere la loro mentalità, anche se diversa
dalla propria, seguiranno con benevolenza le loro iniziative. I
giovani, ugualmente, rispetteranno l'età e l'esperienza degli an-
ziani e con loro studieranno i problemi riguardanti la cura d'ani-
me e volentieri collaboreranno » (PO, 8).
Ma oggi c'è chi pensa che il Vaticano II è superato, in quanto,
se parla dei sacerdoti anche come fratelli ed amici del vescovo
(PO, 7), con troppa insistenza afferma che i vescovi debbono
trattare i sacerdoti come « figli » (LG, 28; CD, 16). Contro
questa concezione s'invoca da certuni un regime collegiale ed una
democratizzazione delle strutture della Chiesa. Ma purtroppo, si
dice, Consigli presbiterali e pastorali non funzionano perché c'è
poca capacità al dialogo e poca generosità a rinunciare ad una
monocrazia vigente da secoli. A costoro si potrebbe far presente
che il regime collegiale importerebbe ai singoli una responsabilità
più pesante dell'obbedienza di chi — dopo aver esposto le sue
ragioni — rimette la decisione al Superiore. Si può anche chie-
dersi se le soluzioni dei problemi approvate dai Consigli dopo
tante discussioni, siano sempre soddisfacenti, e se, pel fatto che
rappresentano l'opinione della maggioranza, siano sempre le più
illuminate. Comunque, il Vaticano II, pur suggerendo ai vescovi
di avere i sacerdoti come fratelli ed amici, d'esser pronti ad ascol-
tarne i pareri, anzi, di consultarli e d'esaminare insieme i pro-
blemi riguardanti i ministeri ed il bene della diocesi, di avere
« una comunione o senato di sacerdoti, rappresentanti il presbi-
terio, che coi suoi consigli possa aiutare efficacemente il ve-
scovo nel governo della diocesi » (PO, 7), d'altra parte lo stesso
Concilio non poteva non raccomandare ai presbiteri di venerare
nel loro vescovo l'autorità di Cristo, d'essere a lui uniti nella
carità e nell'obbedienza: un'obbedienza pur pervasa dallo spi-
rito di collaborazione (PO, 7). Ma se c'è un'autorità legittima
efficiente, non si può aspettarsi che le sue disposizioni con-
331
cordino sempre col giudizio e colla volontà di chi all'autorità
è unito per carità ed obbedienza. Conformarsi all'altrui volontà
è, talora, molto pesante alla natura umana. La fede lo facilita.
332
fare volentieri il ritiro spirituale e di avere in grande stima la
direzione spirituale », {PO, 18). Il Vaticano II parla dei presbiteri
i quali insegnano ai fedeli a partecipare in tal modo alle celebra-
zioni della Sacra Liturgia da attingere « anche in esse » l'orazio-
ne « sincera »: segno d'un pericolo che questa sincera orazione
venga a mancare nelle pratiche comunitarie. « Vorremmo pro-
porre una ... questione — diceva Paolo VI il 13.VI.1973: sap-
piamo pregare? Non mettiamo in dubbio con questa aggressiva
domanda — aggiungeva — la validità, l'efficacia, il successo
della riforma liturgica...; intendiamo piuttosto chiedere se l'uomo
di oggi... sappia ancora cavare dal suo cuore qualche sincero, sia
pure informe, ma vivo e personale colloquio con Dio » {Inse-
gnamenti, T. Vat. XI 1973, pp. 597-98). Il Vaticano II parla
dei presbiteri che guidano i fedeli ad avere « lo spirito di pre-
ghiera sempre più perfetta, da esercitare in tutta la loro vita,
secondo le grazie e le necessità di ciascuno » {PO, 5). Ma i
sacerdoti non potranno dare simili consigli se per primi non li
praticano con impegno e perseveranza.
333
certa gradualità, che la prima importanza dev'esser data alle
Lodi ed ai Vesperi che sono come i cardini della liturgia delle
Ore; che si sia fedeli all'Ufficio della Lettura; e che, per meglio
santificare tutta la giornata, si abbia anche a cuore la recita del-
l'Ora Media e di Compieta. Pertanto alcuni hanno avanzato l'opi-
nione che, almeno per quanto riguarda qualche singola « Ora »,
la recita del breviario sia diventata un consiglio. Senonché è sta-
to autorevolmente affermato che la riforma del breviario « non
ha cambiato l'obbligatorietà tradizionale... Il verbo persolvant
ha lo stesso valore morale di obligatione tenentur del can. 135 ».
La scelta d'una espressione diversa sarebbe motivata solo dal-
l'intento di venir incontro alla « mentalità moderna » che « ama
assecondare più le convinzioni che le imposizioni » (A. Bugnini,
Opportuno ordinamento, OR, 24.XI.1972, p. 2). Di fatto, oggi
non è più tanto facile vedere sacerdoti col breviario in mano.
Neppure in chiesa. Fino a qualche decina d'anni fa si aveva l'im-
pressione che questo libro fosse, per 1'« uomo di Dio » — a
cominciare dal suddiaconato — il compagno inseparabile: lo
si portava sotto braccio o in tasca; si cercava l'edizione secondo
la misura più idonea all'uso — dal grande salterio per la recita
corale o domestica al minuscolo formato che si portava nei viag-
gi e nelle scalate entro il sacco da montagna; lo si recitava do-
vunque, in chiesa davanti al SS. Sacramento o per i viali ed i
sentieri appartati, nel .giardino di ogni istituto religioso; qual-
che volta lo si dimenticava in una panchina dei giardini pub-
blici od in treno ma lo si ritrovava immancabilmente alla più
vicina canonica o stazione ferroviaria. Purtroppo non è solo la
mancanza della visibile recita in luogo pubblico che fa nascere
preoccupanti sospetti. Qualche inchiesta parla chiaro. Un set-
timanale del clero riferiva di recente i risultati d'un sondaggio
operato dalla conferenza episcopale austriaca nel 1971. Si leg-
geva che tra i sacerdoti sopra i 61 anni il 90% recitava l'uf-
ficio regolarmente; il 10% saltuariamente o non quotidia-
namente; tra i giovani (sotto i 32 anni) solo il 18% lo reci-
tava quotidianamente; P82% non ogni giorno. Gli intervistati
(non fedeli alla recita) hanno addotto a loro giustificazione il so-
vraccarico di lavoro e la molteplicità di attività che non lascia nep-
pure il tempo al ministero delle Confessioni ed ai colloqui sulla
fede, al lavoro d'assistenza pastorale ai gruppi, di direzione spiri-
tuale ai singoli. Sono scuse che non meritano neppure risposta.
334
4. Bisogna che il sacerdote sappia unire armoniosamente pre-
ghiera ed azione e cosi superi un certo qual conflitto o senso
di divisione che può provare nella sua vita spirituale: l'impres-
sione d'esser quasi lontano da Dio (a causa di tante occupazioni
disparate e dissipanti), impressione contrastante col bisogno di
esser 1'« homo Dei », tanto vicino a Lui. Ma se è mosso dal de-
siderio della gloria di Dio — cioè dalla carità teologale — al-
lora egli deve aver fede che azione e contemplazione non sono
come divise e giustapposte. La sintesi è offerta: in virtù della
carità; e questo principio d'unificazione della vita sacerdotale è
anche il segreto della sua efficacia. L'azione allora non è solo
santificata, ma santificante. Per la sintesi operata dalla carità la
santificazione del sacerdote è effetto sia della preghiera sia del-
l'attività esterna. S. Tommaso nella II-II, q. 182, a. 3, si chiede
« utrum vita contemplativa impediatur per vitam activam » e
risponde che, da una parte, certamente l'attività esterna può impe-
dire di pensare esplicitamente a Dio; d'altra parte è un vantaggio
e favorisce la stessa contemplazione, quando il lavoro sia ordinato
e sano, in quanto che « quieta le passioni interiori dalle quali
provengono i fantasmi che impediscono la contemplazione ». Il
Vaticano II ai presbiteri i quali « non sine anxietate quaerere
possunt quomodo cum exterioris actionis ratione interiorem vitam
suam ad unitatem componere valeant », ricorda che per ottenere
questa unità non bastano da sole, né l'ordinata organizzazione
esterna delle opere di ministero, né la pratica — per quanto
utile — degli esercizi di pietà... I sacerdoti dovranno << unirsi a
Cristo nel riconoscere la volontà del Padre e nel donare sé stessi
pel gregge loro affidato... Cosi nello stesso esercizio pastorale
della carità troveranno il vincolo di perfezione sacerdotale che
realizza l'unità della vita interiore e dell'attività esteriore » (PO,
14).
335
Collegio Germanico Ungarico — anche si pone fortemente l'accen-
to sulla vita del sacerdote come vita di servizio, sull'esempio di
Cristo "uomo-per gli altri", secondo una felice e ben nota
espressione. Va però precisato che il servizio del sacerdote, che
voglia restare fedele a se stesso, è servizio squisitamente ed
essenzialmente spirituale. Questo oggi occorre ben ricordare, con-
tro le molteplici tendenze a secolarizzare il servizio sacerdotale,
riducendolo ad una funzione prevalentemente filantropica e sociale.
È nell'area delle anime, delle loro relazioni con Dio e dei loro
rapporti interiori con i propri simili, che si qualifica la specifica
funzione del sacerdote cattolico » (Insegnamenti di Paolo VI,
T. Vat. XI, 1973, p. 893). Ministeri principali del sacerdote: evan-
gelizzazione in tutte le forme (è sufficiente la brevissima omelia
domenicale? ed, anche questa, com'è preparata?); amministrazione
dei sacramenti (ci sono sacerdoti che si dolgono perché non trova-
no penitenti presso il confessionale, ma ci sono fedeli che si
lamentano perché non trovano confessori presso i confessionali).
2. Il Vaticano II anzitutto ricorda la soprannaturalità della
missione sacerdotale: « il fine a cui tendono i presbiteri con il
loro ministero e la loro vita è la gloria di Dio Padre in Cristo »
(PO, 2). Poi, secondo le istanze dell'umanesimo, raccomanda loro
quelle virtù « molto utili e molto apprezzate nella società umana,
quali la bontà del cuore, la sincerità, la forza d'animo e la costan-
za, l'assidua osservanza della giustizia, la gentilezza... » (PO, 3).
E su queste virtù un sacerdote (specialmente se di vita attiva ed
in cura d'anime) avrà senza dubbio molta materia e molte occasioni
per interrogarsi.
Ma la virtù-guida sarà sempre la prudenza. Nello stesso eser-
cizio della bontà. Non la prudenza del mondo (che non è virtù)
ma la prudenza soprannaturale; la quale però non trascura gli
umani accorgimenti. Ad esempio, c'è chi vive d'entusiasmo — for-
za potentissima e preziosissima — ma rifugge dalla prudente va-
lutazione delle proprie possibilità, dalla riflessione sulle circostan-
ze e le conseguenze d'una iniziativa. Formula — con sensazionali
dichiarazioni — splendidi programmi ma senza possedere i mezzi
adeguati, e quindi con una certa leggerezza e faciloneria (a cui
può far seguito l'incostanza). È questa, in taluni sacerdoti, una
tendenza caratteristica della loro indole; talora però questa con-
dotta è difesa per principio. La fiducia nella Provvidenza non è
che da ammirarsi, ma, senza speciale e sicura ispirazione, non si
può confidare nei miracoli. Si pensi alla predicazione attuale: c'è
336
chi tiene come regola che, per questo ministero, basta la prepa-
razione remota e la vita fervente (come se lo Spirito suggerisse
ai suoi amici quanto dovranno dire). Ma così, spesso, la predica-
zione — non preparata, non meditata — non riesce o conclude
poco;, talora disgusta. D'altra parte, ci può esser anche la più fatale
delle imprudenze: l'irrisolutezza, l'inadempienza, l'eccessiva esi-
tazione, complessità, perplessità, timidità. Bisogna osservare il
giusto mezzo: né esser troppo sbrigativi né minuziosi. Dare un
po' d'ordine e di gerarchia alle proprie azioni, senza però diventar
schiavi d'un programma fino a riuscir duri e scortesi col prossimo.
Prudenza, dunque, nell'organizzazione del lavoro apostolico, come
ha raccomandato Gesù colla parabola dell'uomo che « coepit
aedificare et non potuit consummare » (Le. 14, 30). C'è un corag-
gio che Dio approva, sostiene, premia; e c'è il falso coraggio di
chi osa senza la debita ponderazione, di chi vive di fantasia: nel
regno della fantasia i progetti si realizzano in un baleno; nell'ordi-
ne della realtà domandano un lavoro lento, faticoso, paziente,
attraverso mille difficoltà prevedibili ed imprevedibili. C'è chi ha
la tendenza a far tutto da solo, a non chieder mai consiglio, col
risultato, spesso, di lasciar poi cadere tutto. Nella sua « Lettera
sulla S. Sede » il Lacordaire affermava che il segreto del prodigio-
so influsso che il Pontificato Romano ha avuto nella storia del
mondo è anzitutto la grazia di Dio, ma che, da parte degli uomini,
ci sono due virtù che illuminano e spiegano questo prestigio ope-
rante: una prudenza insuperabile ed una costanza invincibile (che
mancano a molti politici). Prudenza, per la quale ci si chiede non
solo se un'azione è lecita, ma anche se è opportuna, come s. Ber-
nardo consigliava al suo discepolo, il Pontefice Eugenio I I I :
« primo quidem an liceat, deinde an deceat, postremo an expe-
diat ». La prudenza può suggerire di frenare un gesto di carità,
di cortesia, di benevolenza, che, in sé considerato, sarebbe buono,
ma considerate le circostanze, forse è sconveniente o pericoloso.
Prudenza, ad esempio, nei colloqui, specialmente con persone
d'altro sesso. Come ci ha insegnato Gesù nel suo colloquio colla
samaritana. Tono cordialissimo, gentilissimo (« Dammi da bere »,
Gv. 4, 7), ma, nel tempo stesso, elevatissimo. Un accento che
conquista confidenza e fiducia ed, insieme, venerazione e rispetto,
anzi, fa sentire la presenza di Dio (« Signore, io vedo che tu sei un
profeta », Gv. 4, 19). Saper introdursi con dolcezza e con una
santa abilità, ma aver, come Gesù, la fermezza nei principi e la -
riservatezza nel contegno. Il sacerdote non deve perder tempo a
337
parlare con tutti delle cose proprie, dispiaceri, gioie, malesseri.
C'è chi pensa che, per una efficace direzione spirituale, per dispor-
re gli altri ad aprirsi sinceramente, sia bene che il sacerdote apra
a loro la sua anima. Ma c'è invece da chiedersi se queste confiden-
ze sui propri intimi problemi — come le facili ed acide critiche
sull'operato della gerarchia ecclesiastica — favoriscano la fiducia
che i fedeli devono avere nel rappresentante di Cristo. Uno scrit-
tore d'ascetica suggerisce al sacerdote che incontra qualche anima
femminile (od ha un ministero fra le giovani): « Senz'esser chiuso,
sii riservato. Senz'esser distante, mantieni le distanze » (G. Cour-
tois, A te giovane sacerdote, Milano, 1952, p. 195).
« Bontà di cuore » e « gentilezza » (PO, 3): ad esempio, mode-
rare una certa aggressività — con cui l'uomo d'azione (anche
apostolico) crede di travolgere chi gli ostacola il cammino: colle
belle maniere, senza prender di fronte il prossimo e senza perder
il buon umore, forse raggiungerebbe più efficacemente lo scopo.
Si deve esser fermi nei principi che non permettono cedimenti e
compromessi, ma nel modo di difenderli bisogna toccare il tasto
che meglio dispone l'animo e persuade la mente del singolo interlo-
cutore. Certe mancanze di tatto e certe cocciutaggini, con sfoghi
e scatti (specialmente in questioni di poca importanza) irritano ed
allontanano il popolo quando lo si contraria in ciò a cui è per
tradizione affezionato. Certe imprese azzardate fan poi tanto sof-
frire ed il sacerdote che prende l'iniziativa e chi forse è stato
trascurato (mentre poteva perlomeno essere consultato) e chi vi è
coinvolto.
« Bontà di cuore » e « gentilezza ». Avere con tutti, senza far
distinzione di persone — « cavendo a personarum acceptione » —
quella « simplicitas » (di cui parla Benedetto XIV, De Beatificat.
servorum Dei et de Beat. Canoniz., Bononiae, 1744, e. 24) e
quella « humanitas » di cui parla il Vaticano II (PO, 6).
3. Umanesimo significa servirsi, a scopo d'apostolato, di tutti
i mezzi umani che servono alla cultura dello spirito ed al sano
e ragionevole divertimento. Il problema sorge tormentoso quando
questi strumenti di comunicazione sociale trasmettono anche noti-
zie ed immagini dannose o pericolose. Resti fermo: ciò che è male
resta male; non diventa bene per la ragione che è il minor male.
4. Umanesimo pel sacerdote significa dare giusta importanza
(anche se di strumentalità) al fattore « corpo ». Il ritmo febbrile
della vita moderna — con le tensioni e gli esaurimenti di tante
338
/
persone impegnate — ha fatto sentire, più che pel passato, la
funzione che il fisico ha nella stessa vita spirituale. Il sacerdote
pertanto che vuol condurre un'intensa vita d'apostolato e di pre-
ghiera, cura debitamente anche la sua salute. Certi sbandamenti
dipendono più da fattori patologici che da cattiva volontà: qual-
cuno s'è smarrito perché è andato avanti senza una sapiente ed
energica terapia di qualche grave squilibrio fisico e psichico. Oc-
corre dunque, senza cadere in un naturalismo eccessivo, realizzare
una sintesi prudente dell'elemento spirituale e di quello fisico.
Per questo, è richiesta talora una moderazione nelle attività. Il
Vaticano II afferma che i sacerdoti devono avere una « retribu-
zione che consenta loro, ogni anno, un debito e sufficiente periodo
di ferie. Ed i vescovi devono cercare e controllare che questa
possibilità ai sacerdoti non manchi » (PO, 20).
5. Mortificazione. Il discorso su quest'argomento oggi mal
si sopporta. Ma non esiste autentico umanesimo senza mortifica-
zione. La vita moderna poi mette il sacerdote nella necessità d'una
continua vigilanza. Pio XII nell'Esortazione « Menti Nostrae »,
accennando ai tanti pericoli, alla dissolutezza dei costumi pubblici,
alle seduzioni del vizio che oggi con tanta frequenza e facilità
insidiano la castità sacerdotale, rilevava pure « l'eccessiva libertà
nei rapporti fra persone di diverso sesso che alle volte s'introduce
senza debiti riguardi, anche nell'esercizio del suo sacro ministero.
Vigilate e pregate, — raccomandava ai sacerdoti — sempre me-
mori che le vostre mani toccano le realtà più sante. Memori che
siete consacrati a Dio ed a Lui solo dovete servire. L'abito stesso
che portate, in qualche modo vi ricorda che la vostra vita non è
per il mondo ma per Dio » {AAS, 42, 1950, 664).
6. L'intensa attività apostolica d'oggi domanda al sacerdote
temperanza nel vitto (perché, sia in ogni momento, pronto e dispo-
nibile all'azione), temperanza nell'uso del tempo, nelle stesse occu-
pazioni oneste e sante, quali i colloqui.
7. Umanesimo significa non temere d'usare (per falsa povertà
od inerzia) tutti i mezzi in quanto servono al fine supremo (la
gloria di Dio e la salvezza delle anime). Ma questo prudente
umanesimo può e deve unirsi allo spirito di povertà e ad una
reale povertà (relativa alla situazione dei singoli) la quale non
interessa solo i religiosi che ne hanno fatto il voto. Il sacerdote
dev'esser « sibi austerus »: osservare temperanza, moderazione,
semplicità nel suo tenore di vita, nella sua abitazione, nel mezzo
339
di trasporto, evitando ogni lusso non giustificato da un fine
superiore. Testimonierà, coi fatti, che usa dei mezzi umani solo
per la gloria di Dio ed è staccato dalle cose terrene.
8. Ci si augura che sacerdoti e religiosi non mostrino — per
falsa povertà od indolenza — anche nella loro chiesa quella sciat-
teria che, specie oggi, si nota spesso nel loro abito. Pur non
dimenticando il proverbio: « prima le anime e poi il campanile »,
non si può non desiderare che « la casa di preghiera nella quale la
Santissima Eucaristia è celebrata e conservata, nella quale i fedeli
si radunano... sia nitida ed atta alla preghiera ed alle solenni cele-
brazioni sacre » (PO, 5; cfr. SC, 122-127).
9. In ossequio ad un certo umanesimo od alla secolarizzazio-
ne, molti sono tratti ad eliminare dal proprio abito ogni segno
distintivo del loro stato sacerdotale o religioso. Eliminazione che
— sia pur per motivi d'ordine pratico — vorrebbero estendere
anche alle celebrazioni e riti sacri: è stato chiesto all'autorità
competente se sia lecito celebrare la Messa senza i paramenti sacri
o colla sola stola indossata sopra la veste talare o l'abito civile.
E la S.C. per il Culto divino ha risposto che non intende deroga-
re né circa le disposizioni di carattere generale né circa gli indulti
particolari. È stato dato il permesso di celebrare la Messa colla
sola casula chiusa tutt'intorno fino ai talloni e colla stola posta
all'esterno. Ma anche quest'uso è limitato ai casi di necessità e
dev'esser autorizzato su richiesta della Conferenza Episcopale di
ciascun paese (cfr. « Notitiae », 81, 1973, pp. 96 ss.; A. Bugnini,
Celebrare con decoro, OR, 28.VII.1974, p. 2). Con tali disposi-
zioni si vuol mantenere il decoro dei riti, aiutare, anche mediante
i segni esteriori, lo spirito umano ad elevarsi e sentire il mistero
del sacro.
Anche per esser affezionati alla divisa che abbiamo indossato
come segno del nostro ingresso ufficiale nella vita sacerdotale o
religiosa, ci sono validi ed alti motivi. La amiamo perché rappre-
senta — per noi e per gli altri — la nostra consacrazione a Dio;
perché è benedetta; perché ci è stata consegnata dal Vescovo a
nome della Chiesa; perché è continuo richiamo ad una fede intre-
pida di fronte al mondo; perché ci ricorda che tutto è transitorio
e siamo in cammino verso la patria; la amiamo perché ci guada-
gna più rispetto e venerazione da parte di tutti; perché anche se
povera, vecchia, rattoppata (purché pulita) è sempre dignitosa,
sempre bella, sempre elegante; la amiamo perché sappiamo che è
per noi una difesa contro tutti i pericoli del mondo.
340
10. Il presbitero è l'uomo che con eroico olocausto, ha rinun-
ciato « propter Regnum coelorum » a certi valori terrestri, in
primo luogo alle soddisfazioni della vita sessuale. Il suo umanesi-
mo è quindi unito alla rinuncia. La quale non sarà una perdita
(se desiderata e suggerita da Dio con la vocazione) ma un guada-
gno: fonte d'una gioia immensa. Perciò i sacerdoti « per la loro
vocazione e per la loro ordinazione vengono ad esser in certo
modo, segregati in seno al Popolo di Dio. Ma non per rimaner
separati dal Popolo e da ogni persona, ma per poter darsi total-
mente all'opera per la quale il Signore li ha assunti... Testimoni e
dispensatori d'una vita che non è quella terrena, non potrebbero
servire gli uomini, se si estraniassero dalla loro vita, ignari delle
sue condizioni reali » (PO, 3). Proprio in virtù sia d'un sano
umanesimo, sia della stessa rinuncia a qualche umana soddisfa-
zione, il sacerdote acquista una sensibilità spirituale e sopranna-
turale che gli permette di interpretare e pesare (come se l'avesse
vissuta e sofferta) tutta la vita concreta d'un uomo o d'una
donna. Ha scritto un laico: « Quando i laici cristiani hanno vera-
mente incontrato una volta in vita un prete, che ha "compreso",
che è entrato con cuore d'uomo nella loro vita, nelle loro diffi-
coltà, essi non lo possono più dimenticare ». Vogliono però che
rimanga « padre »: non occorre che adotti lo stile cameratesco;
e tanto meno la stessa vita del laico. « Quando io chiamo "padre"
un giovane frate che può esser mio figlio e lo tratto con grande
rispetto, come se la sua età non fosse la sua età d'uomo, ma i
duemila anni della Chiesa, lo faccio anche perché lui fa rinunzie
che io non sarei mai stato capace di fare » (V.C. Rossi, in « Epo-
ca », Febbraio 1970). « Purtroppo — diceva Paolo VI ad un
gruppo di sacerdoti il 26.IX. 1973, viviamo in un momento in cui
da molte parti, in nome di un adeguamento ai tempi che è invece
conformità allo spirito del mondo, si sollevano dubbi e incertezze
sulla vera natura del sacerdote e sulla sua giusta collocazione in
seno alla società. Sacerdoti carissimi... rimanete fedeli alle vostre
scelte, ai vostri sacri impegni, alla vostra irrevocabile consacra-
zione a Dio avvenuta nel giorno della vostra ordinazione » {Inse-
gnamenti, XI, p. 894).
IV. Sul problema del celibato al confessore può capitare di
dover sia discutere sul piano teorico, sia dare qualche consiglio
sul piano pratico a chi è sconvolto dall'uragano e, forse, ha già
preso intimamente la decisione di defezionare. Il celibato importa
341
una difficoltà — si legge nel n. 7 dell'Enciclica « Sacerd. Cae-
libatus » di Paolo VI, 24.VI. 1967 —, difficoltà che spinge taluni
a chiedersi se sia giusto allontanare dal sacerdozio coloro che
avrebbero la vocazione ministeriale senza aver quella della vita
celibe (AAS, 59, 1967, 660). Oggi può darsi che anche qualche
aspirante al sacerdozio si permetta di contestare la disciplina della
Chiesa Latina. Tempo addietro nessuno si sarebbe sognato di far
questione su tale argomento: esser sacerdote significava anzitutto,
pacificamente, rinunciare alla vita coniugale ed impegnarsi ad
osservare la castità esterna ed interna. Realmente, per una persona
che ha normali tendenze, è il più grande sacrificio. Un sacrificio
ed un'offerta fatta a Dio, la quale però è garanzia d'un'abbondan-
za straordinaria di grazie divine pel sacerdote e di carismi pel suo
ministero a vantaggio degli altri. Strettamente parlando, secondo
la morale, non sono peccaminosi i desideri spirituali di ciò che è
proibito solo dal diritto positivo purché sia posta la condizione:
« se non fosse proibito »; perciò, per sé, non sarebbe illecito
avere questa condizionata disposizione di spirito: « mi sposerei se
non fossi sacerdote » (purché non sia una disposizione accom-
pagnata da deliberata concupiscènza). È ovvio però come simile
desiderio possa esser pericoloso; anzi, sarebbe indice (specie se si
trattasse di chi aspira al sacerdozio) d'una mentalità che lascia
perplessi.
1. A chi non è sacerdote e mette in dubbio l'opportunità del
celibato obbligatorio si dovrebbe dire che spetta alla Chiesa rego-
lare colle sue norme la vita dei sacerdoti e stabilire i requisiti al
sacerdozio. A meno che non si neghi l'autorità che il Maestro le
ha conferito. Certamente è Dio che chiama un'anima al sacerdozio
ma nella Chiesa e per mezzo della Chiesa. Ognuno è libero di
fare questa scelta. Se la fa non può non conformarsi alle disposi-
zioni della Chiesa. Chi può esser sicuro di sentirsi chiamato al
sacerdozio, ma non al celibato ed aver il coraggio di metter deci-
samente in dubbio che, circa questo requisito tanto importante, la
volontà di Dio s'identifichi colla volontà della Chiesa?
2. Può anche darsi che qualcuno s'appelli alla Scrittura contro
la legge attuale della Chiesa che impone il celibato ai sacerdoti.
Certamente il celibato non è richiesto dalla natura stessa del
sacerdozio. Paolo parla del vescovo sposato. Ma conosciamo bene
qual è il suo consiglio. E sappiamo quale fu la vita di Gesù; e
quale fu, dopo la chiamata, la vita degli apostoli che — « lasciata
342
ogni cosa »: casa, famiglia, mestiere — « lo seguirono » (Le. 5,
11) per andar incontro, sulla scia del Maestro, ad un destino di
vita e di morte. Comunque, la Chiesa alla quale il credente guarda
per conoscere la sua « mens », è la Chiesa viva d'oggi, la Chiesa
guidata lungo i tempi dallo Spirito. E nessuno può esigere ch'essa,
quando emana (o conserva) una legge, domandi l'approvazione dei
singoli, con metodo democratico. Ma, per esser sinceri ed andar
in fondo, c'è da chiedersi se la battaglia anticelibataria non tradisca
in molti la persuasione che la continenza è impossibile. Eppure,
oltre ai sacerdoti, ci sono molti laici che non possono usare del
matrimonio. La grazia deve dar loro (se fanno il possibile) la
possibilità di conservarsi casti. Sarà difficile, sarà eroico, ma deve
esser possibile. Gli sposati stessi devono osservare la castità
«coniugale», il che significa fedeltà al coniuge, conformità alla
legge di Dio nell'uso del matrimonio, osservanza della continenza
in certi periodi.
3. Il confessore quando accoglie un confratello in crisi e gli
richiama i motivi del celibato procurerà di non inasprirlo con
risposte secche, dure ed umilianti. Bisogna esser pieni di com-
prensione e di tenerezza verso chi, in certi momenti, si trova nel
totale disorientamento, nel buio assoluto, nella perplessità ango-
sciosa: una prova che domanda un coraggio eroico. Il compito del
consigliere spirituale talora è tutt'altro che facile: ha due obbiet-
tivi: ottenere che il sacerdote non ceda alla passione travolgente
dei sensi; e poi — conquista ancora più profonda e più stabile —
ottenere un certo cambiamento di mentalità riguardo a questo
problema. Chi solo si rassegna al suo stato dovrebbe esser con-
dotto ad aderirvi « con grande slancio dell'animo e con tutto il
cuore..., a riconoscere questo prezioso dono concesso dal Padre
e tanto apertamente esaltato dal Cristo » {PO, 16). Il confes-
sore consigli anzitutto al confratello d'attender con fede ed -in
preghiera che passi la tempesta, senza impressionarsi, senza pren-
der decisioni precipitose, senza manifestar imprudentemente ad
altri certi stati d'animo che sogliono esser transitori (dipendono
spesso ed in gran parte dalle condizioni di salute: bisogna che
ritorni un po' di energia che favorisce uno stato di maggior calma
e serenità). Saprà poi con delicatezza ed amore ricordargli ragioni
e fatti che fanno necessariamente riflettere chiunque (a prescin-
dere dalle discussioni teologiche e dalle disposizioni ecclesiastiche):
difficoltà (dirà) ci sono in ogni stato; laici che si sono conservati
343
puri fino al matrimonio, confessano di trovar maggiori difficoltà
a conservare la fedeltà coniugale e l'astinenza (nei periodi in cui
è necessaria o consigliabile agli sposi). È un'illusione credere che
rinunciando al celibato si risolva il problema della purezza: gli
adulteri tanto frequenti e gli abusi matrimoniali fanno pensare
che è più facile osservare e difendere la castità assoluta, per chi
ne ha contratta l'abitudine. S'aggiunga, pel sacerdote, il disagio
e l'imbarazzo di sentire intorno a sé gente la quale (anche se non
ha fede e pratica religiosa) non ama, non approva, stima meno
chi, dopo aver preso un impegno (che lo eleva al di sopra degli
altri) getta le armi e segue la via comune: una bandiera ammainata
per mancanza di maturità. « Anche il matrimonio dei preti? », si
chiedeva Alfredo Oriani. E rispondeva: «... Cristo nasce dalla
Vergine, passa sulla terra senza alcun amore di donna... Dopo di
lui, sulle sue orme, e per le sue parole, il prete ripete ancora la
stessa mediazione celeste... Non può amare, esser marito e padre.
La sua paternità è spirituale, il suo amore deve essere uguale per
tutti... L'amore umano nuoce, quello della famiglia è angusto: è
preferenza, necessaria nella vita, impossibile nella Religione » (17/-
tima carica, Bologna, Cappelli, 1933, p. 174). A quei sacerdoti o
religiosi che propongono il celibato facoltativo appellandosi al
giudizio del popolo di Dio contro l'autorità della Chiesa, bisogna
dire che i loro voti non trovano l'approvazione né da parte del
popolo fedele, né da parte di quello laico, né da parte di chi
conduce una vita lussuriosa.
Anche dal punto di vista delle soddisfazioni naturali e della
felicità personale ci sono molte riserve da fare alla proposta d'un
sacerdozio non celibatario. Chi volesse congiungere sacerdozio e
matrimonio dovrebbe prevedere gli incerti ed aspettarsi le delu-
sioni. La scelta della moglie, anzitutto, presenta tante difficoltà
se si considerano le esigenze che un sacerdote ha, e deve avere,
in forza della sua preparazione intellettuale, morale, spirituale.
S'aggiunga l'arduo problema di conciliare ministero sacerdotale,
vita familiare e professione secolare. Quanto allo stato ed al
senso di solitudine (che figura fra le motivazioni più frequenti
degli anticelibatari) il confessore cercherà d'infondere la ferma
speranza che un accresciuto fervore della vita interiore dissiperà
quest'impressione. È il « mondo » che giudica il sacerdote come
l'uomo della solitudine. Ma il mondo non conosce quale sia la
vita che riempie questa solitudine. « Riconosciamo — scriveva
Paolo VI — che il sacerdote, a causa del celibato santo, è un
344
uomo solo (solitarium). Ma la sua solitudine non ha la vastità e
l'inanità del puro vuoto. È riempita da Dio e dalle ingenti ric-
chezze del suo regno celeste » (Enc. « Sacerd. caelib. », n. 58,
AAS, 59, 1967, 680). In questa solitudine potrà talvolta insinuarsi
una vena di tristezza perché anche il sacerdote conserva la natura
d'uomo, per quanto confortato dalla grazia. Ma sarà una tristezza
superficiale e passeggera: lo consolerà il pensiero che questo sacri-
ficio lo associa alla missione salvifica di Cristo. Se la Chiesa ha
introdotto il celibato pei sacerdoti, certamente l'ha fatto perché
vuol esser sempre più pura, sempre più bella, sempre più santa:
« con la verginità od il celibato osservato per il Regno dei cieli, i
sacerdoti si consacrano a Cristo in maniera nuova ed esimia,
aderiscono più facilmente a lui con un cuore non diviso, si danno
— in Lui e per Lui — più liberamente al servizio di Dio e degli
uomini » {PO, 16).
A chi fa propaganda per il celibato opzionale, il confessore
farà riflettere che questa campagna genera turbamento a tanti
confratelli tra i quali alcuni (sia pur insensibilmente) ne risenti-
rebbero l'influsso, una diminuzione di certezza e d'entusiasmo;
infine, questa umanizzazione del sacerdozio sarà tutt'altro che fa-
vorevole al sorgere delle vocazioni: sono i preti con l'esempio
della loro vita generosa ed eroica che attirano i giovani a prender
la strada che porta senza compromessi alla santità.
Infine, a chi ha fatto prudentemente (dietro consiglio di sagge
persone competenti) la sua scelta del sacerdozio, ma pensasse che,
a lungo andare, il celibato è nocivo alla salute fisica, il confessore
darà una risposta assolutamente tranquillizzante. Ma mi dispenso
dal riferire le testimonianze di autorevoli clinici. Non è l'osservanza
della castità — quando sia motivata da un amore soprannatu-
rale — che, di per sé, porta squilibri nervosi, ma può esser invece
una sopraggiunta debolezza fisica, particolarmente del sistema ner-
voso, che provoca talora maggiori difficoltà nella pratica della
castità.
4. Tentiamo infine una qualche classificazione di sacerdoti
circa questo problema del celibato. Ci sono anzitutto coloro che
si conservano coerenti agli impegni, sia nella vita sia nel pensiero:
castità assoluta, convinzione fermissima che il celibato è il mag-
gior titolo di grandezza per chi è ministro e rappresentante di
Cristo, specialmente nella celebrazione eucaristica. Ma c'è pure
chi afferma di voler esser fedele alla promessa del celibato, però
345
dichiara (e sente il bisogno d'accusarsi) che preferirebbe una
disciplina ecclesiastica nella quale il celibato sia facoltativo e non
obbligatorio. Qualche altro arriva senz'altro a dire che (pur non
sentendosi di venir meno a quanto ha promesso) pensa sarebbe
bene fare anche altre « esperienze » — quelle sessuali — oltre
quella della paternità spirituale. Su questi pensieri e discorsi
sentiranno il bisogno d'aprirsi e d'accusarsi in Confessione. Sono
in uno stato di conflitto: da una parte non sanno decidersi ad
abbracciare con convinzione, gioia, entusiasmo l'impegno che han-
no assunto; dall'altra sentono che questa mancanza di dedizione
generosa non li rende felici. Situazione penosa, per essi e pel
loro confessore. Infine ci può essere il sacerdote che ha pratica-
mente rinunciato al suo impegno di castità. (C'è chi sostiene
— per ragioni intuibili, cioè non spassionatamente — che la mag-
gior parte del clero secolare non pratica il celibato: ma come si
può affermarlo e dimostrarlo?). Certo, chi non è fedele alle sue
promesse non può esser tranquillo. Si sente in uno stato di falsità,
anche umanamente e civilmente. Perciò — per un senso di coe-
renza — la rinuncia al celibato può portare all'abbandono del
sacerdozio. Occorrerebbe dare una mano a chi è caduto, anzitutto
tentando d'ottenere il desiderio, la decisione, lo sforzo supremo
di liberarsi dal legame che lo incatena. Se la defezione dal sacer-
dozio dipendesse da crisi di pensiero bisognerebbe discutere quelle
difficoltà che minacciano la fede d'un sacerdote. Ma dalle inchieste
risulta che solo una minima percentuale (circa 1 su 100) abban-
dona il sacerdozio perché ha perduto la fede. Gli altri lo fanno
perché non si sentono di mantener fede all'impegno del celibato.
In questi intervengono, in concreto, un complesso di cause (come,
del resto, in chi lascia la fede). Spesso nel fisico stesso c'è qualche
squilibrio che sta al fondo della crisi. Perciò chi si sforza, ma non
riesce, a superare la prova, merita sempre comprensione e compa-
timento. E spesso è la donna che cerca con ogni arte di far
cadere il sacerdote. Egli non dovrebbe ignorarlo ma premunirsi.
Non concedersi e non concedere nessuna libertà pericolosa. La
donna è attratta da tutto ciò che può appagare la sua vanità e
leggerezza. Più che stimoli di sensualità sono motivi di estetismo
che la muovono: il nome, la carica, la fama d'una persona, la sua
divisa stessa, specialmente se portata con inappuntabile proprietà,
può indurla a cercarvi la sua preda. D'altra parte i sacerdoti che
si son lasciati travolgere da una passione umana, avevano già
perduto la passione, l'entusiasmo, lo zelo per la loro missione. Il
346
sacerdote, è stato scritto, non sarà vulnerabile da questa tentazione
se non nella misura in cui la sua vocazione non riuscirà più a riem-
pire la sua vita.
Anche al confratello che avesse decisamente defezionato, il
confessore offrirà la sua mano e darà il suo consiglio. Lo aiuterà
a regolare la sua posizione, a trovare una decorosa sistemazione.
Il sacerdote che ha chiesta ed ottenuta la dispensa dal celibato
deve sentire ancora intorno a sé l'affetto della comunità cristiana
e dei confratelli nel sacerdozio. La carità suggerisce che non sia
trattato come un reprobo, uno scomunicato da fuggire, un pub-
blico peccatore. Isolato e malvisto, la sua vita precipiterebbe nella
tristezza e nell'amarezza. Ma non sarà neppur il caso che, quando
gli giungerà la dispensa dal celibato, i compagni d'ordinazione si
riuniscano con lui per una cena d'addio. Non si può esser lieti e
far festa per un abbandono che è una sventura. Anche se, nelle
vie di Dio, non è irreparabile, perché subentrerà un altro ordine
di circostanze provvidenziali. Per la misericordia di Dio e la
buona volontà dell'uomo, lo sbaglio e la mancanza di fedeltà e
generosità non escludono nuove possibilità di vera vita cristiana.
Anzi, di santità. Questo pensiero di fede deve rimanere sempre
nel cuore del sacerdote; e, se venisse meno, bisognerebbe ravvi-
varlo. Ad un dato momento, presa la decisione di contrarre rego-
lare matrimonio, egli dovrà aggrapparsi alla fede sia per non esser
ghermito dall'angoscia degli sterili rimpianti (che impedirebbero
d'intraprendere con entusiasmo la nuova vita, coniugale e profes-
sionale) sia per non perder la stima verso il sacerdozio e l'ammi-
razione verso coloro che hanno il coraggio e la forza di perse-
verarvi.
Ricordo che, extra il pericolo di morte, la Chiesa non permette
al confessore d'assolvere — neppur inducendo il caso urgente
(CJC, e. 2254) — un sacerdote che abbia contratto matrimonio
civile ed asserisce che gli è umanamente impossibile cessar di
convivere con la sua compagna; non si può assolverlo neppur se
promette d'osservare la castità completa (AAS, 28, 1936, 242-
243). Perché possa ricevere l'assoluzione, il sacerdote dovrebbe
dunque prendere una di queste due decisioni: o troncare la rela-
zione e cessare la convivenza con la complice della sua defezione,
o chiedere la dispensa dal celibato e poi contrarre matrimonio
religioso. La Chiesa, in questi ultimi tempi, ha allentato l'intran-
sigenza osservata nel passato, quando era difficilissima persino la
concessione d'accedere (extra il pericolo di morte) ai sacramenti
347
per un sacerdote che avesse contratto iT matrimonio (e fermo
sempre l'obbligo della castità). Oggi colla dispensa — sia pur
concessa caso per caso, debitamente considerato in tutte le sue
circostanze — la Chiesa s'è mostrata madre misericordiosa. Troppo
buona? si chiede qualcuno. Non spetta a noi giudicare ciò che è il
meglio in materia tanto delicata. La dispensa regolarizza — da-
vanti a Dio e davanti alla Chiesa — certe situazioni (ormai uma-
namente irreversibili) e cosi leva l'ostacolo alla pratica sacramen-
taria anche pubblica. Bisognerebbe che la bontà della Chiesa verso
coloro dei quali non si può sperare il ritorno, non favorisse l'eva-
sione d'altri sacerdoti deboli ed ondeggianti. La dispensa dal
celibato va considerata come una misura di ripiego, come il minor
male, perché certamente non edifica, non incoraggia, non stimola
ad una vita di purezza austera, non accresce la stima per la vergi-
nità ed il celibato offerti a Dio: celibato che significa dominio
dello spirito sui sensi, anticipazione della vita futura, azione trion-
fante della grazia, vocazione privilegiata.
7. Vescovi
348
rienza del penitente stesso renderà il confessore cauto e discreto
nei suggerimenti. Cosicché per i vescovi, i quali più dei sacerdoti
vanno soggetti a prove di spirito ed attraversano momenti d'ab-
battimento, si profilerà spesso lo spettro della solitudine: non
avranno vicino qualcuno al quale pienamente aprirsi e tutto con-
fidare per avere una parola d'incoraggiamento, di luce e di
conforto.
2. Strana condizione del vescovo d'oggi. È l'uomo che si
direbbe il più popolare e, forse, è il più solo: il più presente fra
le sue pecore ma che, in realtà, rischia d'esser il più assente dei
pastori della sua diocesi. Le sue visite sono frequenti dovunque,
ma frettolose; e cosi i contatti restano superficiali. Vede tutto, ma
non conosce intimamente nessuno. E cosi non trova il tempo né
di lavorare in profondità per gli altri né d'accumulare energie
spirituali per sé, di sostare in calma nella sua Cappellina, di con-
sultare la sua biblioteca dove una volta aveva tanti amici.
3. Il più solo ed il meno libero fra il clero della diocesi. I
suoi movimenti sono sotto controllo. Il suo orario di vita è noto,
anche nei minimi particolari. La sua casa è di cristallo. Tutti
spiano più dentro che è possibile per vedere se c'è qualche critica
da muovere: se mai ci sian lusso e comodità eccessive oppure
l'abbandono all'indolenza, alla trascuratezza, al disordine, alla
sciatteria.
4. Non è il lavoro che lo spaventa. Spesso è piuttosto la per-
plessità sulla linea migliore da seguire perché ci sono spinte for-
tissime da sinistra e da destra (non mi riferisco ad orientamenti
politici). Come e più che il semplice sacerdote si sentirà agitato
da tormentosi conflitti. Colla grazia di Dio ed il consiglio illumi-
nato potrà e dovrà certo risolverli con decisione. Però lo stato di
tensione forse rimarrà. È inerente al governo. È la croce del
vescovo.
5. Guarda ai suoi sacerdoti con spirito d'umanità, anzi, di
fraternità, più che di autorità. È la prima condizione per poter
esercitare un influsso efficace, ottenere confidenza, affiatamento,
collaborazione. Se, insieme al prestigio, eserciterà il fascino della
bontà, non sarà quasi mai necessario che ricorra allo stretto co-
mando. Scriveva un sacerdote (parroco e docente universitario):
« I rapporti tra vescovi e preti debbono... essere improntati alla
amicizia e alla fiducia. A volte, si ha l'impressione che il sacerdote
sia visto soltanto o, esclusivamente, come operatore pastorale o,
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peggio, come delegato, e tutti gli altri aspetti vengano trascurati.
L'amore di amicizia guarda all'altro nella sua .totalità e globalità,
si interessa di tutti i suoi problemi personali, non solo esteriori
come la salute, i rapporti familiari, le necessità economiche, ma
anche interiori come gli stati d'animo, le aspirazioni, le disillu-
sioni, le difficoltà nelle relazioni con gli altri... Il presbitero, se
sente il vescovo amico, supera più facilmente tante frustrazioni e
incomprensioni che sono il vero male che paralizza energie preziose
e buona volontà... Il sacerdote deve imparare, deve educarsi ad
incontrare nell'amore il proprio vescovo... Questo amore, come
quello di Cristo, sopporta, perdona, scusa, compatisce, condivide.
E quanto anch'essi chiedono al proprio vescovo » (A. Mazzolali,
II vescovo: mio fratello, « Presbyteri », 1973, n. 10, pp. 768-769).
Ma allora pel vescovo può sorgere un conflitto. Da una parte
egli vorrebbe che il suo ministero avesse come regola fondamentale
quella di essere un umile e fraterno servizio (S.C. per i vescovi,
Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi, 1973, n. 32):
lasciar benevolmente a tutti esprimere con libertà la loro opinione,
consultare nelle decisioni gli interessati, promuovere il dialogo e
cosi provocare la collaborazione degli altri. E questo sia per l'af-
fetto che deve nutrire per i suoi sacerdoti sia perché oggi tutti
invocano un clima di maggior libertà e democrazia, l'abbandono
di ogni paternalismo, autoritarismo, burocratismo (Dirett. Ve-
scovi, n. 36). D'altra parte il vescovo sperimenta che per questa
via si spende molto tempo nella discussione e si conclude poco,
gran parte dei partecipanti restan scontenti. Per quanto egli cerchi
di soddisfare le comuni aspirazioni — ad un regime nel quale
decisioni e scelte sian frutto d'una collaborazione di tutti — alla
prova dei fatti toccherà spesso con mano come coloro (sacerdoti e
laici) i quali son chiamati a coadiuvarlo, spesso son molto divisi
nei loro pareri; la maggioranza stessa stenta ad accordarsi; molti
mancano di competenza, d'esperienza, d'equilibrio, di serietà, son
mossi più dal desiderio di novità che dal vero bene spirituale delle
anime. Perciò il vescovo deve conservarsi calmo ed esser deciso:
saprà ascoltare, saprà comprendere poiché — oggi si dice —
ognuno ha il suo carisma; però, in definitiva, l'ultima parola spetta
a lui (Dirett. Vesc, n. 34); ed egli la dirà dopo essersi consigliato
(se lo crede necessario) con qualcuno, particolarmente con chi
esercita l'autorità di metropolita, oppure con qualcuno della sua
o d'altra diocesi che abbia non comune virtù e consumata espe-
rienza. Però tutti devono aver l'impressione che chi decide e
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dirige è il vescovo (e non qualche suo amico). Quindi egli dovrà
conciliare una certa mitezza con la fortezza, una certa arrendevo-
lezza e duttilità (e, diciamo pure, diplomazia) con la prontezza ad
intervenire risolutamente; ma praticare la gentilezza con tutti, la
finezza, la mitezza e la serena dolcezza, la comprensione (special-
mente per le infermità ed i limiti di sacerdoti che hanno meno
energie e meno ingegno di lui), conciliare tutte queste virtù con la
debita energia. Il suo ministero è un servizio umile e fraterno, ma
anche paterno. Ed è, sarà sempre, un governo. Da esercitarsi spe-
cialmente quando dev'esser assicurata l'unità della fede e della mo-
rale, l'unità fra tutti i membri ed i gruppi della chiesa diocesana.
Egli deve sapere che in materia delicata il diffondere certe opinioni
od ipotesi di lavoro significa praticamente comunicare dubbi ed
errori sulla fede e la morale. Oggi da taluni s'invoca un pluralismo
— specie in materia di morale — variante secondo le diverse
Chiese locali. Ma quello che la Chiesa universale ha sempre inse-
gnato come rivelato o conforme al diritto ed alla legge morale
naturali, non può mutare. Solo le formule potranno esser sosti-
tuite con altre più intelligibili dall'uomo d'oggi (purché però nulla
del contenuto oggettivo sia cambiato o perduto). In campo asce-
tico potrà mutare accidentalmente la manifestazione della virtù e
della santità cristiana, non la virtù e la santità.
Un vescovo non può non esser amareggiato alla vista del dis-
senso, della divisione, della contestazione, dell'autolesionismo che
oggi esistono nell'interno stesso della Chiesa. E più grave è il fatto
che ci si appella alla distinzione fra Chiesa istituzionale e Chiesa
carismatica per giustificare le disobbedienze ed un malsano plura-
lismo (Paolo VI, Discorso, 29.VIII.1973, OR, 30.VIII.73, p. 1).
Ebbene, perché siano preparati a questi momenti d'emergenza
« il Concilio Vaticano II ha rammentato nuovamente ai vescovi
l'autorità magisteriale che hanno sempre posseduto. Ad essi tocca
decidere in prima istanza sulle dottrine teologiche, perché sono i
portatori del ministero apostolico. Ma devono anche avere il co-
raggio di designare errore l'errore, eresia l'eresia, affinché i fedeli,
il popolo di Dio, non divengano insicuri e non siano sviati nella
loro fede. I vescovi, quando fanno uso della loro autorità dottri-
nale, non devono temere i mass-media, la cui potenza non è oggi
inferiore a quella della Chiesa di Stato alcuni secoli fa » (H. Jedin,
Teologia e magistero, OR, 13.1.1973, p. 5). Certo, coi singoli,
prima di giungere alle misure punitive ed alla riprovazione pub-
blica, il vescovo tenta d'ottenere colla persuasione il suo scopo:
351
« egli tempestivamente ammonisce coloro che osassero proporre
dottrine discordanti dalla fede e, in caso di mancato ravvedimento,
li priva della facoltà di predicare o di insegnare » (Dirett. Vesc,
n. 65). « È suo dovere e suo diritto nella Chiesa quello di esami-
nare e, se del caso, riprovare e condannare i libri e le riviste nocivi
alla fede o alla morale. Perciò personalmente o per mezzo di altre
persone adatte, egli vigila su libri e riviste che si stampano o si
vendono nel suo territorio ». Fa opportunamente confutare gli
« scritti la cui lettura potrebbe costituire un danno o un pericolo
spirituale per i fedeli... Tuttavia se quegli scritti hanno in diocesi
una larga diffusione, e il pericolo per la fede e la morale è grave
e certo, allora egli ricorre anche alla pubblica riprovazione ». Ma
« non addiviene alla condanna di libri prima di avere per quanto
possibile, informato i loro autori degli errori di cui li si accusa,
e aver loro data ampia possibilità di difendersi anche a mezzo di
altre persone di loro scelta ». Ed « a meno che, in casi particolari,
un grave motivo non consigli di fare diversamente, vengono espo-
ste pubblicamente le ragioni della proibizione dei libri... » (Dirett.
Vesc, n. 73).
Insomma, i vescovi — in materia di fede e di morale — si
preoccupano soprattutto del bene comune delle anime, ma usano,
per quanto possibile, delicatezza e riguardo anche verso i singoli
erranti che recano danno alla comunità.
6. Nelle Visite pastorali alle parrocchie c'è, o almeno c'è stato
in passato, qualche vescovo il quale aveva piuttosto l'aria dell'ispet-
tore che faceva tremare parroci e parrocchiani. Segno di particolare
temperamento e d'una personale mentalità che possono ben coesi-
stere colla santità, anche se non la rendono simpatica. Si legge nel
Direttorio dei Vescovi: « In Visita, come del resto in tutte le cir-
costanze della sua vita, è conveniente che il Vescovo si comporti
verso tutti con semplicità e dolcezza di modi, con bontà e affa-
bilità, dia esempio di pietà, povertà e carità: virtù, che, assieme
alla prudenza, costituiscono la caratteristica dei pastori della
Chiesa e che, soprattutto oggi, sono molto apprezzate » (n. 170).
Egli giungerà in mezzo ai suoi figli come un padre comprensivo
e consolatore ma, insieme, come un trascinatore che trasmette
irresistibilmente il suo slancio apostolico.
7. Nei suoi scritti — rivolti a tutti i suoi diocesani — sarà
consapevole che non è il momento « di elaborare dissertazioni sco-
lastiche » (Dir. Vesc, n. 57). Oggi, poi, si preferiscono lettere
352
pastorali più brevi, ma più frequenti (Dir. Vesc, n. 60). Allo
scopo, occorrerà un'intelligente « scelta degli argomenti », « uno
stile appropriato e conciso », « una forma di linguaggio ispirata
dalla fede che... sia aderente al pensiero della Chiesa e compren-
sivo delle molteplici esigenze dell'uomo d'oggi » (n. 57). Cosi pure
nella predicazione. Il vescovo cercherà di « conoscere bene la
mentalità, le consuetudini, le situazioni, i pericoli, i pregiudizi
delle persone e delle categorie alle quali predica » e di « adattare
continuamente la forma del suo insegnamento alla loro capacità,
alla loro indole, alle loro necessità » (Dirett. Vesc, n. 59). « La
predicazione — avverte il Vaticano II — nelle odierne situazioni
del mondo è diventata non raramente assai difficile... Non basta
esporre in modo generale ed astratto la parola di Dio. Bisogna
applicare la perenne verità dell'evangelo alle concrete circostanze
della vita » (PO, n. 4). A tal fine, si richiederà uno sforzo con-
tinuo. E tempo per prepararsi: per questo, il vescovo affiderà ai
suoi collaboratori fidati il disbrigo di certe pratiche, controlli, con-
teggi, perizie. Anche nelle Visite delle parrocchie lascerà « a pre-
sbiteri idonei, specialmente ai Vicari foranei, il compito di esami-
nare i registri della parrocchia e degli altri Istituti, di ispezionare
i luoghi sacri e la suppellettile, di controllare l'amministrazione
dei beni, in giorni antecedenti o susseguenti alla Visita: cosi egli
potrà dedicare il tempo della Visita piuttosto ai colloqui e ai sacri
ministeri, come ben s'addice alla sua missione di capo, maestro e
pastore della comunità cristiana » (Dir. Vesc, n. 168).
Non c'è dubbio, una certa sorveglianza del vescovo ci dovrà
essere sempre e in tutto. E la sua presenza ed assistenza in certe
occasioni è senz'altro e per molteplici ragioni, utile a lui ed agli
altri. Se ad esempio, presiede qualche esame dei candidati al sa-
cerdozio, conoscerà meglio i suoi futuri collaboratori, si renderà
conto dell'insegnamento che hanno ricevuto e dei frutti che ne
hanno ricavato.
Un vescovo più parla al suo popolo, al suo clero, ai suoi
seminaristi, meglio è. Però siccome tempo e forze sono limitate,
è preferibile che parli quando può farlo bene e preparato, piut-
tosto che spesso, improvvisando e senza lasciare alcuna im-
pressione.
8. Accenno ad un conflitto che può agitare l'animo d'un ve-
scovo: egli vorrebbe soddisfare le richieste di tutti, non smorzare
mai gli entusiasmi, ma, se va un po' a fondo, s'accorge che
insieme all'onestà e suggestività dei programmi, allo zelo delle
353
iniziative, covano personalismi e campanilismi radicati e difficil-
mente sradicargli. Tutti oggi parlano di collegialità, di dimensione
sociale, di spirito comunitario, però, in realtà, ci sono gruppi
— e do a questa parola un senso larghissimo — i quali intendono
autogovernarsi, essere indipendenti, E cosf non progredisce la
vera unità. Bisogna dunque che il vescovo — dopo essersi, se
occorre, consultato ad avere l'appoggio dell'autorità superiore —
prenda in mano con una certa decisione le redini per organizzare
il lavoro. Quante maggiori attività ed iniziative si realizzerebbero
pel bene comune se ci fosse più unione fra le forarne, fra le diocesi,
fra i seminari, fra i sacerdoti ed i religiosi (cf. Dirett. dei Vesc,
n. 53).
9. Altro conflitto: un vescovo dovrebbe vigilare sulla stam-
pa che si pubblica e circola nella sua diocesi e, se necessario, ri-
correre alla proibizione {Dirett. Vesc, n. 65; 73). D'altro canto
si sente come legato perché vede che questi stessi scritti altrove
(dove si potrebbero e si dovrebbero riprovare) sono liberamente
diffusi e venduti nelle librerie cattoliche. Eppure sono libri, di au-
tori ad esempio protestanti, che contengono errori. Comunque, il
vescovo, per quanto sta in lui, seguirà la sua coscienza e le diret-
tive le quali sono chiare {Dir. Vesc, n. 73).
10. Poi ci sono le critiche e le contestazioni. Da parte di
laici e di ecclesiastici. Ci son sempre state e sempre ci saranno.
Se il vescovo — scriveva già s. Pier Damiani — « talvolta crede
bene d'osservare il silenzio, si dice che quando il pastore è muto
il lupo invade il gregge. Parla finalmente? Ci si chiede con quale
diritto questo ciarlone intende imporre silenzio agli altri » (Opusc
XXI, cap. II).
A simili maldicenze egli dev'esser preparato. E non deve farne
conto se non per riflettere una volta di più se mai qualcosa gli
fosse sfuggito degli elementi e dei fatti che deve sapere per fare
con sicurezza le sue scelte che ritiene, spassionatamente, conformi
alla divina volontà. Anche una santa indifferenza, quindi: s'egli
fosse troppo sensibile, la sua vita diventerebbe impossibile. Qua-
lora, ad esempio, in pubblica adunanza, gli fosse mosso qualche
attacco od interrogazione con mancanza di riverenza e di discre-
zione, non si lasci trasportare dall'impulso. Anzi, è meglio che
neppur risponda né discuta ma inviti l'assemblea a proseguire i
suoi lavori.
354
11. Più comprensibile e fondato motivo di tribolazione sono
pel vescovo le defezioni e gli scandali di chi nella sua diocesi e
fra il suo clero vien meno ai suoi voti ed impegni. Di fronte a tali
casi si sentirà talora perplesso sul comportamento migliore da te-
nere e bisognoso della parola illuminante e rassicurante di un
saggio consigliere. Certamente non può essere insensibile. E quan-
to più è santo, tanto più il pastore soffre, sull'esempio di Gesù.
In qualche situazione la sua sofferenza — unita alla consapevo-
lezza dei propri limiti — può raggiungere un grado tale da sug-
gerirgli propositi di rinuncia. Ma chi può influire su di lui, farà
bene a distorglielo da tale decisione quando le energie sono ancora
valide ed il motivo è costituito soltanto dai dispiaceri, dall'impres-
sione d'esser incapace a risolvere un complesso di difficili pro-
blemi, di non esser adatto al suo ufficio, d'esser addirittura un
uomo finito e fallito. Questa stessa consapevolezza delle difficoltà,
unita alla vera umiltà (che è verità) è uno dei segni dell'idoneità
all'ufficio. Il decreto del Vaticano II sul ministero e la vita sacer-
dotale termina con un'esortazione alla fede. Vale soprattutto per
i vescovi, nei loro momenti di crisi interiore. Gesù ha detto: « ab-
biate fiducia in me, io ho vinto il mondo » (Gv. 16, 33). « Con
queste parole non ha promesso alla sua Chiesa la vittoria perfetta
nel tempo presente ». Ed « il disegno di salvezza... non si realizza
che a poco a poco... Tutto è nascosto con Cristo in Dio. Si arriva a
percepirlo colla fede... Il dispensatore dei misteri di Dio può esser
paragonato ad un uomo che usci a seminare nel campo...: "dor-
mirà, si alzerà di notte e di giorno: nel frattempo, il seme germo-
glierà e crescerà mentr'egli non se ne accorge", Me. 4, 2 7 »
(PO, 22).
12. Un servizio spassionato. Perciò quando si tratterà di pren-
der decisioni per nominare ad un ufficio la persona più degna,
meritevole, adatta, userà tutta la ponderazione possibile, pur sa-
pendo che non riuscirà ad accontentare tutti. « Poiché l'abolizione
della legge del concorso nell'assegnazione degli uffici vacanti ha
reso quasi del tutto libero l'intervento del Vescovo, questi agisce
con maggior prudenza onde evitare perfino il sospetto — tanto
deleterio per i rapporti tra Vescovo e presbiterio — che nelle
assegnazioni prevalgano l'arbitrio, il favoritismo, le pressioni in-
debite. Perciò egli chiede in ogni caso il parere di persone sagge
e di quelle che per diritto deve consultare; ma in casi particolari,
udite le persone di cui sopra, può ancora ricorrere al concorso
per esami » (Dirett. Vesc, n. 116).
355
13. Servizio soprattutto spirituale. Tutti devono aver l'im-
pressione che la jprima preoccupazione del vescovo è il bene delle
anime. Perciò, a proposito di richiesta e raccolta d'offerte per la
costruzione d'edifici od altre opere (pur utili alla vita spirituale)
bisognerà evitare « con ogni cura che l'aspetto finanziario pre-
valga su quello pastorale: anzi, agli occhi di tutti deve risplendere
lo spirito di povertà e di fede che è proprio della Chiesa » {Dirett.
Vesc, n. 182). Cosi pure, cercherà di « rendere visibile l'aspetto
spirituale ed apostolico della Visita » alle parrocchie (n. 169).
Provvedere perché tale visita non sia fuoco di paglia, come sarebbe
se si riducesse a « fasto di parole e di attività » (n. 170). Effi-
cacissima preparazione e fonte di frutti duraturi « un corso di
sante missioni popolari, svolte in modo da raggiungere ed interes-
sare all'avvenimento tutte le categorie e tutte le persone, anche le
più lontane dalla vita cristiana » (n. 169).
14. Un servizio spirituale distaccato. In genere, un sacerdote
pio e cosciente, quando gli è proposta la promozione alla pienezza
del sacerdozio ed il governo d'una diocesi, trema e cerca di sot-
trarsi. Ma poi, diventato vescovo, quando s'è affezionato alla sua
diocesi — specialmente se il suo ministero ha avuto successi e
frutti abbondanti — allora, anche se sente ormai sopraggiunta la
vecchiaia, avrà l'impressione che lasciare il suo campo di lavoro
sia come un morire. Forse, da una parte ha l'impressione di poter
ancora lavorare, dall'altra non vede per lui aperti altri campi d'at-
tività. Teme di esser condannato alla vita del pensionato. Invece,
questo è il momento d'aggrapparsi alla fede. Dio non l'abbandona.
Un sacerdote non è mai solo. Ed anche sul piano umano, il Signore
gli preparerà il modo migliore d'impiegare le sue restanti energie.
Perciò quando un amico vero, o chi detiene il governo di tutta
la Chiesa, gli farà capire che è opportuno, pel bene della diocesi,
un cambio di guardia, non avrà neppur un attimo d'esitazione.
8. Religiosi e religiose
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stato, ma mostrano, a quelli che hanno fatto maggiori progressi
spirituali, la bellezza e l'attrattiva dei consigli evangelici, da prati-
carsi nel modo più opportuno per ciascuno (PO, 5). Sarebbe sba-
gliato il sistema d'istradare per principio tutti coloro che deside-
rano vivere il Cristianesimo nella sua perfezione, all'apostolato
laico nel mondo. Sbagliato il non favorire le vocazioni al sacer-
dozio od allo stato religioso (come se questo — come oggi qual-
cuno asserisce — fosse destinato a scomparire). Le vocazioni alla
vita più perfetta vanno favorite « sempre nel rispetto della piena
libertà, sia esterna che interna » dei, singoli (PO, 11). In partico-
lare, « i presbiteri ricordino che i religiosi tutti, uomini e donne,
costituiscono una parte esimia nella casa di Dio: son degni perciò
d'esser curati in modo speciale perché progrediscano spiritualmente
pel bene di tutta la Chiesa » (PO, 6). Tanto pili che, mentre in
epoche passate la vita religiosa si considerava come professione dei
consigli evangelici rivolta solo alla ricerca della perfezione perso-
nale, oggi, specie dopo il Vaticano II, si è affermato l'aspetto mis-
sionario della vita religiosa, sotto i più vari punti di vista: ad
esempio, anche gli istituti di vita contemplativa sono guardati
come fonti di grazie celesti e d'una misteriosa fecondità aposto-
lica per la Chiesa missionaria (cfr. LG, 44).
I. Il sacerdote secolare che sia confessore abituale di penitenti
appartenenti allo stato religioso, dovrà procurarsi una sufficiente
conoscenza della natura e finalità della vita religiosa: conoscerla,
comprenderla, apprezzarla. Il che non è facile per chi non ne
abbia avuto, anche personalmente, almeno un qualche desiderio.
Saprà distinguere tra virtù e voti; fra pratica dei voti ed osser-
vanza delle singole Regole. I voti hanno sempre un oggetto ben
specificato ed inducono un obbligo (grave o leggero). La virtù
invece può od imporre un obbligo o suggerire un semplice con-
siglio. Le Regole, poi, talvolta obbligano, talvolta si limitano a
dare un consiglio (come, ad esempio, ora è diventata regola di
consiglio quella di confessarsi con una certa frequenza: prima era
regola d'obbligo). Ma anche quelle regole che stabiliscono dispo-
sizioni obbliganti, per sé non lo fanno sotto pena di peccato. Il
peccato però potrebbe esserci già, indipendentemente dalla regola,
se il movente della trasgressione fosse di per sé disordinato. È
anche da aggiungere che — pur conservando la giusta libertà di
spirito e la discrezione — chi aspira alla perfezione tien conto
anche dell'esempio edificante, quando si tratta di scegliere il
meglio.
357
II. Utilissima ad un confessore abituale sarebbe inoltre una
qualche cognizione delle Regole e delle Costituzioni particolari
dell'Istituto a cui il penitente appartiene. Ogni Ordine o Congre-
gazione ha un suo spirito, un suo programma, una sua finalità
particolare. È a tutti noto il fermento attualmente in atto negli
istituti religiosi, specie per opera degli elementi giovani che pre-
tendono rinnovamenti per una vita religiosa (essi dicono) « più
autentica ». Ma ogni confessore di anime religiose conoscerà il
decreto « Perfectae caritatis » del Vaticano I I , il quale avverte
che il rinnovamento dev'essere inteso come un « continuo ritorno
alle fonti d'ogni vita cristiana ed allo spirito primitivo degli isti-
tuti » (n. 2). Evidentemente, quando parla di fedeltà allo spirito
delle origini, il Concilio si riferiva agli elementi essenziali dello
spirito primitivo d'un istituto religioso. Realizzazioni concrete,
modi di fare, forme sociali, gesti, consuetudini e via dicendo, tutto
questo può (anzi, deve, per non esser un'astrazione) andar soggetto
a mutamenti ed evoluzioni secondo la varietà dei contesti socio-
culturali degli ambienti e dei tempi. In questo senso nel religioso
e nella religiosa ci dev'esser una certa indifferenza (motivata da
ragioni superiori ed apostoliche). Indifferenza ben diversa da certa
vanità e leggerezza che tradiscono una qualche conformità allo
spirito mondano. Una suora (per far un esempio banale) non si
indisporrà nel cambiare momentaneamente il suo abito tradizionale
col comune grembiule da lavoro, quando questo sia conveniente
per servire il prossimo: però nelle sue intenzioni, gesti, comporta-
mento, non dovrà mai insinuarsi la mondanità, l'esibizione della
propria persona, la ricerca di meschine soddisfazioni ed ambizioni.
L'essenziale dello spirito religioso, proprio di un determinato isti-
tuto, deve rimanere. Una residenza di gesuiti svizzeri — è stato
scritto — ed una residenza di gesuiti brasiliani potranno anche non
assomigliare. A condizione tuttavia che nell'una e nell'altra un
gesuita di passaggio possa dire: « mi ci ritrovo » (cfr. J.M.R. Til-
lard, Per una nuova primavera, Bologna, 1974, pp. 34-35; 45).
Ad esempio, rispetto alla suora del passato, nella suora d'oggi
si nota una trasformazione. È più libera e disinvolta, ha a disposi-
zione un maggior margine di tempo per qualche attività di sua
iniziativa, trova maggiori occasioni di contatti, anche con persone
d'altro sesso. Prima, la religiosa viveva più isolata. Era guidata
più dagli orari e dai superiori. Oggi si vuol abituarla a saper diri-
gersi da sola, ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni ed
a sentire anche la sua corresponsabilità alla vita ed alla sorte della
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comunità in cui vive. Ad esempio, nello stesso periodo di noviziato
si permette (per qualche tempo e solo per la formazione perso-
nale) qualche esperienza apostolica perché si possa sperimentare
come sa comportarsi e reagire a difficoltà e pericoli. Tutto ciò ha
dei vantaggi ma importa anche dei pericoli: perciò occorrerà una
ancor più profonda vita interiore, una più solida formazione, una
maggior consapevolezza e preparazione ad affrontare la realtà e
le insidie del mondo. Il Vaticano II ammonisce che « ogni adatta-
mento alle esigenze del nostro tempo non avrà utilità se non sarà
animato da un rinnovamento spirituale » (PC, 2). È quanto gli
autori d'ascetica hanno sempre insegnato: è sbagliato cedere alla
« mondanità », sia pur col pretesto d'attrarre gli uomini (cfr. L.
Hertling, Tb. Asc, Romae, 1944, n. 76). Si legge nello stesso
decreto sul rinnovamento della vita religiosa (n. 2) che è « un
bene per la Chiesa che gli istituti abbiano una loro peculiare fisio-
nomia ed un loro particolare ruolo »: ciò che pure è sempre stato
insegnato (cfr. Hertling, o.c, n. 84). Nel tempo stesso, nel decreto
conciliare si parla d'un discreto, sano e santo rinnovamento (fermi
restando i principi suaccennati). Si dice che « il tenore di vita, le
forme di preghiera e d'azione s'adatteranno saggiamente alle attuali
condizioni fisiche e psichiche dei religiosi ed anche — prout ab
indole cuiuscumque instituto requiritur — alla necessità dell'apo-
stolato, alle esigenze della cultura, alle circostanze sociali ed econo-
miche... » (n. 3). Un adattamento quindi che non dovrà mai por-
tare ad un rilassamento nell'aspirazione alla perfezione della vita
cristiana. Un adattamento che, da una parte, non impoverisca i
membri d'un istituto, ma, dall'altra parte, accresca i frutti che
esso può produrre nell'ambiente e nel tempo in cui vive. In
realtà tutti invocano (o almeno ammettono) un rinnovamento negli
istituti religiosi, una nuova primavera. Ma devono pure ricono-
scere che l'autunno si prolunga senza fine perché — tolte alcune
eccezioni — si parla, si parla e ci si affaccenda ma in modo incon-
cludente. Si rischia di perdere senza nulla acquistare di sicuro. Ad
esempio, la constatazione che nella vita di molti religiosi la povertà
reale lascia a desiderare ha provocato una reazione contro una
forma di povertà concepita essenzialmente come dipendenza da un
superiore nell'uso dei beni. Lo stesso Concilio Vaticano II afferma
che « non basta esser soggetti ai Superiori nell'uso dei beni, ma
occorre che i religiosi pratichino una povertà esterna ed interna
(re et spiritu sint pauperes) » (PC, n. 13). Alcuni si son spinti
fino ad augurarsi una povertà religiosa che sia effettiva insicurezza
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di vita. La pratica di questa povertà, poi, dovrebbe convertirsi in
soccorso al prossimo bisognoso. Cosicché se, per ipotesi, mancas-
sero i veri poveri, pare a certuni che non avrebbe quasi più senso
la povertà religiosa. Ora, bisogna evitare ogni esagerazione ed
esclusivismo. Anzitutto povertà non significa indigenza. Significa
bensì un'effettiva — anche se relativa — rinuncia a certi beni che
non sono strettamente necessari. Effettiva ma non necessariamente
assoluta (alla stessa virtù eroica si richiede bensi la mortificazione
interna ed esterna, ma non si esige che questo esercizio si pratichi
in tutte le occasioni). La povertà, poi, è una virtù proposta alle
singole persone fisiche: un Istituto religioso, in quanto persona
morale, può possedere molti beni utilizzabili per opere apostoliche;
e l'uso di tutto ciò che serve al miglior servizio di Dio ed alla Sua
maggior gloria non può esser contrario alla povertà. Non è quindi
esatto che solo una povertà che importi insicurezza di vita sia
l'autentica povertà envagelica. Per lo meno bisogna ammettere che
non è questa la sola forma di vera povertà evangelica. Il religioso
che rinuncia alla proprietà dei suoi beni, che dipende da un supe-
riore sia quando si serve dei mezzi terreni sia quando se ne priva,
pratica una vera povertà perché ha il distacco dalle cose create e
lo vive continuamente.
Che abbia una certa sicurezza di ritrovare tutto quanto gli è
necessario, è una giusta ricompensa della rinuncia fatta, secondo
la parola di Cristo stesso: « Non vi è nessuno il quale abbia
lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi
per causa mia e del Vangelo, il quale non riceva ora, nel tempo
presente, il centuplo... » (Me. 10, 29-30). Evidentemente questa
ricompensa centuplicata va intesa soprattutto in senso spirituale.
Ma non è da escludere il senso anche materiale purché i beni spiri-
tuali abbiano la prevalenza e quelli materiali siano considerati come
un sovrappiù. Ed al singolo religioso — anche se ha una certa
sicurezza di vita e, forse, un'abbondanza di beni — è sempre
offerta la possibilità della sua personale mortificazione libera, della
rinuncia a qualcosa da convertire in elemosina (sempre però nella
conformità alla Regola e nella dipendenza dai superiori). Per
questo, il Concilio (PC, 13) nota che non basta la soggezione ai
Superiori nell'uso dei beni ma si invitano i religiosi ad una povertà
di spirito e di fatto. Giacché — per esser esatti — oltre al voto
di povertà, c'è la virtù della povertà la quale ha un campo più
vasto del voto: il voto si può anche, nella sua sostanza ed essenza,
riporre nella dipendenza dai Superiori nell'uso dei beni, e crea
360
sempre un obbligo, almeno lieve. La virtù si estende anche a ciò
che è consigliato e più perfetto. Ma il Concilio ha ritenuto bene
non scendere a questa distinzione e trattare della povertà nella
sua pienezza — cioè come voto e come virtù — perché l'uno e
l'altra rientrano nel consiglio evangelico. Però anche la più gene-
rosa pratica della povertà — intesa come spontanea rinuncia con-
vertita in beneficenza — quando fosse lasciata all'arbitrio del
singolo e sganciata dalla dipendenza ad un Superiore — potrebbe
non esser regolata dalla prudenza. La dipendenza poi tien lontano
ogni pericolo d'amor proprio, esigendo umiltà, conformità alla
prassi comune: c'è merito indubbio nell'adattarsi a quanto sembra
meno perfetto, facendo prevalere sul proprio giudizio e sulla
propria volontà il consiglio di un'altra persona, nella quale si vede
il portavoce di Dio. Perciò la pratica della povertà religiosa avrebbe
la sua ragion d'essere anche se non ci fossero poveri veramente
indigenti. Insomma, dal momento che la pratica dei voti e l'os-
servanza delle Regole quale si ha nella vita religiosa è — secondo
la mente della Chiesa — la via più sicura alla perfezione, un reli-
gioso dovrà esser cauto nell'escogitare altre vie di perfezione
personale col rischio di non aver poi le forze d'osservare quella
che è la regola comune. Certe particolarità e singolarità turbano la
vita della comunità; ed è a vedere se saranno, a lungo andare,
veramente utili alla vita spirituale del singolo, considerata com-
plessivamente 19. Un Superiore, da parte sua, si guarderà dall'im-
porre un regime di austerità e povertà tali che la maggior parte
dei suoi confratelli difficilmente potrebbero praticare. Procurerà
d'evitare i due eccessi opposti: da un canto, una certa avarizia
fatta pesare sugli altri, dall'altro, una eccessiva indulgenza per
quelle forme di « lusso, di lucro eccessivo e di accumulazione di
beni » (PC, 13) che mal si conciliano — nella vita del religioso e
nel giudizio degli altri — collo spirito della povertà evangelica. A
parte i casi di religiosi (o religiose) infermi per i quali devono
19
« Status religiosus continet summam Consiliorum. Ideo fieri potest, ut
Consilia particularia non formaliter requirantur, cum eminenter habeantur.
Velut abrenuntiatione perfetta omnium honorum exteriorum fatta, religiosus
iam non tenetur ad eleemosynam, quae in aliis ad perfectionem indispen-
sabilis est. Ita perfetta observantia regularum, maxime circa vitam com-
munem et paupertatem, eminenter continet mortificationes voluntarias ad
perfectionem requisitas. De facto exacta (non qualiscumque) observantia
vitae communis absque continua mortificatione, etiam exteriore, fieri non
potest » (HERTLING, Tb. Asc, n. 49).
361
esser riservate assidua assistenza e cure senza risparmi, instanca-
bile pazienza, bontà delicatissima (come merita chi ha rinunciato
a tutto ma vive in una famiglia). Comunque — prescindendo dalla
fondatezza o meno di certe critiche — si ha l'impressione che
certuni vogliano contestare e demolire senza poi sostituire qualcosa
di positivo e di migliore: e cioè precisamente senza decidersi ad
una povertà più effettiva, ordinata in modo più reale a comunicare
anche ad altri l'usufrutto di quei beni che un istituto religioso pos-
siede in proprietà (ed in misura talora rilevante, anche se i suoi
membri nulla possiedono in proprietà). E cosf s'invoca una povertà
più genuina, ma in realtà si finisce per svuotarla d'ogni significato
o se ne affida l'interpretazione e la pratica concreta al capriccio
del singolo. È stato scritto che ai nostri tempi è venuta la mania
della povertà predicata da tutti i pulpiti ma praticata realmente
da quasi nessuno dei predicatori.
III. Primo fondamentale problema nel quale è impegnato il
confessore e consigliere di religiosi e religiose: da molti e molte
(dedite, per esempio, all'assistenza dei malati negli ospedali) sen-
tirà continuamente accusare una certa dissipazione, la poca unione
abituale con Dio, per la difficoltà di conciliare un'intensa attività
esteriore con la vita interiore. La difficoltà esiste realmente. Ed il
fatto stesso che un'anima se ne lamenta è segno di sensibilità e
buona volontà (allo stesso modo che la sofferenza di chi pensa
d'aver perso la fède dimostra che non l'ha abbandonata del tutto).
Però il confessore deve illuminare religiosi e religiose ed aiutarli
a superare questa difficoltà. Conflitti e fratture fra azione e con-
templazione non dovrebbero esistere se colla luce della fede si
vede nell'attività esteriore un esercizio della carità teologale, se i
religiosi di vita attiva « anziché esser ostacolati alla santità dalle
cure apostoliche, dai pericoli e dalle tribolazioni, sanno ascendere
piuttosto per mezzo di esse ad una maggiore santità » (LG, 41).
D'altra parte non devono illudersi d'evitare il pericolo delle frat-
ture e d'ottenere l'armonia eliminando i tempi dedicati all'esplicita
contemplazione, all'orazione non solo vocale ma anche mentale:
certe pratiche di pietà, stabilite dalla Regola d'ogni Istituto, de-
vono esser conservate ed osservate, in linea jdi massima, inderoga-
bilmente, perché sono queste che « nutrono e danno slancio » alla
stessa attività esteriore (LG, 41).
IV. Altra questione, riguardante la vita religiosa, sulla quale
oggi si discute: la conformità ad una Regola dev'esser ancora in-
362
tesa rigidamente, od invece la Regola rappresenta solo un orien-
tamentd di massima, che poi, in concreto, ognuno attua secondo
quel, caasma personale che gli è dato dallo Spirito?
È da notare che in questi ultimi tempi quasi tutte le Regole
sono sta|e ritoccate. Come principio generale, s'intende, più che
scendere*'a determinare i dettagli della vita religiosa, d'ottenere
che i mefnbri siano animati dallo spirito che vivifica le disposi-
zioni materiali. Ora, da parte dei giovani (religiosi e religiose) in
genere si auspica una maggior autenticità che pel passato, contro
ogni forma — si dice — di falsità e d'ipocrisia. Penso che, con
simili espressioni, si voglia alludere al fatto che, pel passato,
anche se non si era molto convinti dell'opportunità di una dispo-
sizione, ci si dimostrava però osservanti. Oggi però ci si permet-
tono spinte troppo audaci col pretesto dell'autenticità.
« Questo non lo sento — dice qualcuno — perciò non lo
faccio ». Il termine « sentire » è equivoco: può indicare un'in-
terpretazione quanto mai personale, basata su non si sa qual sen-
timento, ed il pericolo è ovvio. Ciò si riscontra presso i giovani,
mentre gli anziani, in genere, amano di più conservarsi fedeli
alle vecchie Regole.
Confessore, direttore spirituale, predicatore devono riaffer-
mare — pei religiosi ai quali hanno occasione di parlare — la
necessità di stimare ed amare la Regola del loro istituto. Ravvi-
verà il proposito generale d'osservarla. Senza dubbio, la Regola
non ha ragione di fine ma di mezzo (come l'obbedienza stessa). Ci
sono quindi i casi particolari nei quali si può ammettere un'inter-
pretazione piuttosto larga, perché allora si può presumere la li-
cenza del Superiore stesso (s'intende del Superiore ragionevole,
cioè che interpreta rettamente la Regola). Ma il religioso non
dovrebbe prendersi l'arbitrio di derogare abitualmente a qualche
punto della Regola senza prima aver chiesto il consiglio, almeno,
del suo confessore e direttore spirituale. Questi poi sarà prudente
nelle sue risposte. Specie quando, nell'approvare qualche libertà,
si mettesse in contrasto con le disposizioni esplicite del superiore
esterno. A meno che non consti che si ignora la chiara dottrina
morale, ad esempio da parte di una superiora la quale affermasse
che una suora ha un obbligo di coscienza che invece non esiste.
V. Secondo s. Tommaso (II-II, q. 186, a. 8) il più eccellente
fra i tre voti è quello dell'obbedienza. Rappresenta infatti una
totale consacrazione del religioso a Dio al quale offre « la com-
363
pietà rinuncia della propria volontà, come sacrificio di se «tesso »
(PC, 14). Coi voti di povertà e di castità egli dà a Dio ciò che
ha; coll'obbedienza fa dono di ciò che è. Col voto stesso di
povertà s'impegna anzitutto a dipendere nell'uso dei beni, quan-
tunque ciò non basti alla perfezione della virtù evangelica che
dev'esser interna ed esterna se vuol esser partecipazione alla
povertà di Cristo che da ricco si fece povero (PC, 13).
1. Richiamo i principi. La virtù dell'obbedienza ha un campo
più vasto di quello del voto perché questo induce sempre un ob-
bligo, almeno leggero. La virtù, col suo ideale di perfezione evan-
gelica, si estende, oltre ciò che è obbligatorio, anche al consiglio.
Perché sorga un obbligo, pel religioso, in virtù del voto stesso,
bisogna che il Superiore dia un comando chiaro e preciso (a
norma delle Costituzioni) circa quanto riguarda specificamente
lo stato del religioso in quanto tale (non in quanto comune fe-
dele). Ciò consterà se il Superiore usa una formula inequivocabile
(per esempio: « strettamente comando »), colla quale il riferi-
mento al voto è implicito, oppure se fa espresso ricorso al voto.
Occorre insomma che si abbia un precetto formale impartito (im-
plicitamente od esplicitamente) in virtù dell'obbedienza. Perché
poi l'obbligo del voto sia grave anche questo deve constare o
dalle parole chiare del superiore o dalle formalità solenni ri-
chieste per le ammonizioni canoniche (e. 2309, § 2). In pratica,
raramente si presume che il superiore intenda obbligare i suoi
sudditi sotto pena di peccato. E perciò i casi in cui un religioso
pecca direttamente contro il voto d'obbedienza sono rari. Dico:
contro il voto, non contro la virtù. E chi disobbedisce ai comandi
(anche non strettamente precettivi in forza del voto) può man-
care all'osservanza nei riguardi del superiore, alla carità verso la
comunità, all'umiltà. E se lo fa abitualmente, il peccato può
diventar grave per il danno che produce a se stesso ed alla
comunità.
2. A parte le distinzioni dottrinali (su cui i teorici discutono)
in pratica negli istituti religiosi l'esercizio dell'obbedienza crea,
in genere, non lievi difficoltà psicologiche. Ed è naturale. Il
superiore talvolta ha dei difetti che rendono poco accetta la sua
presenza e la sua opera nella comunità. D'altra parte il religioso
sa che deve vedere in lui non l'uomo, ma Dio.' Di qui il conflitto
fra la natura umana e lo spirito di fede. Questo conflitto
porta talora a sofferenze che raggiungono l'eroismo. L'obbedienza
364
può diventare un martirio quotidiano. Il direttore spirituale che
non l'Ha provato può mancare di comprensione: sentirà impa-
zienza nell'ascoltare, ad esempio, religiose che manifestano sempre
gli stesti crucci a proposito di questa virtù, approfittano per
sfogarsi Ama attendono anche una parola confortante e stimolante
per continuare la loro vita altri otto, quindici giorni. Qualcuna
potrà anche lamentarsi dei superiori. In fondo e senza saperlo
dimostrarli voler esser fedele a quanto ha promesso: l'obbedienza
con tutte!le sue difficoltà. Meglio che si apra col confessore che
con estramei o con altri membri della comunità (cfr. G. Adloff,
Il confesfyre direttore, p. 205).
3. Ai Superiori si raccomanda di far amare l'obbedienza;
e — per questo — di « esercitare l'autorità in spirito di servizio
verso i fratelli », di « reggere i sudditi... con rispetto della per-
sona umana facendo si che la loro soggezione sia volontaria ».
E cosi « nell'assolvere i propri compiti e nell'intraprendere inizia-
tive » i membri avranno la sensazione di non esser solo dipen-
denti esecutori di ordini ad occhi chiusi, ma di « cooperare con
un'obbedienza attiva e responsabile » (PC, 14). Occorre dunque
che i Superiori esercitino prudentemente ed amabilmente il loro
ufficio « pur restando ferma la loro autorità di decidere e di
comandare ciò che deve farsi » (ivi). Ma se il suddito, per quanto
si apra, chieda consiglio, esponga il suo parere umilmente, non
trova l'altra parte disposta al colloquio amabile e fraterno, allora
resteranno le freddezze, le distanze, le incomprensioni, al posto
della pace, della fusione dei cuori e della collaborazione.
4. Il confessore — trattando coi penitenti su questo argo-
mento — procurerà che il principio d'autorità sia sempre salvo.
Ma ciò non significa che egli debba chiuder la bocca a chiunque
sente discutere sull'azione dei superiori e chiede consiglio. Nelle
sue risposte non è detto che debba far sempre ricadere il torto
sugli inferiori quando si lamentano dei superiori. I superiori non
sono infallibili. Se è evidente che qualcuno si sbaglia od ha dei
difetti, il confessore lo ammetterà. Ciò su cui non si può pronun-
ciare è la loro intenzione; la quale si deve sempre presumere
che sia retta. Quando il confessore s'accorgesse che tutto dipende
da semplici malintesi, consiglierà al penitente d'aprirsi (per quanto
gli è possibile) col superiore e d'esporre le sue difficoltà per
cercare un'intesa. Il confessore non mostrerà mai d'esser preve-
nuto da altre informazioni. Tanto meno da quelle del superiore
(se mai gli fossero giunte all'orecchio). D'altra parte ricordo come
365
non sia consigliabile che il confessore tenga relazioni epistolari
colle religiose all'insaputa e senza il permesso della superiora.
5. La ripugnanza non toglie nulla alla perfezione ed À merito
dell'obbedienza. Quel che importa è la volontà. Pare ovvio. Ep-
pure bisogna ricordarlo continuamente ai religiosi (e specialmente
alle religiose) che in Confessione lamentano personali/ istintive
resistenze nella pratica di questa virtù. D'altro canto, si| potrebbe
fare l'ipotesi d'un religioso che eseguisse regole, disposizioni, sug-
gerimenti dei superiori per semplice opportunismo, convenienza,
calcolo. Siffatta conformità non avrebbe valore: occorre che il
motivo sia soprannaturale perché si abbia la vera virtù. I religiosi
s'accusano frequentemente di « ragionare » sull'obbedienza. Oggi,
ad esempio, una suora è fornita, in genere, d'una cultura assai
maggiore che pel passato. Ciò importa il problema d'armonizzare
l'autonomia di giudizio con l'obbedienza. Quelle che si accusano
di ragionare sull'obbedienza, suppongono di esser sempre tenute
ad obbedire ciecamente? Bisognerebbe illuminarle (se non lo sono)
distinguendo. Non è proibito cercar di capire il perché di ciò che
è richiesto dall'autorità. Ed il dialogo col superiore — dialogo che
oggi più facilmente è concesso e raccomandato — facilita l'obbe-
dienza: serve al religioso ed al suo superiore a cercare insieme
la volontà di Dio e, forse, a rivedere, modificare, aggiornare
qualche disposizione. E se non si riesce a capire la ragione d'un
ordine? Nel dubbio — secondo il noto principio — la presun-
zione sta a favore del superiore. Tanto più che non sempre egli
ritiene opportuno render conto di tutti i motivi che l'hanno in-
dotto a prender una decisione, a dare una disposizione. Se si tien
presente tutto questo, normalmente chi obbedisce deve aver co-
scienza di non farlo ciecamente ma ragionevolmente. Ragionevol-
mente non solo quanto alla sottomissione della volontà, ma anche
a quella del giudizio. Sbaglierebbe invece chi volesse ragionare
al punto tale da non obbedire finché non arriva ad afferrare ed
approvare i motivi che determinano il superiore. Essenzialmente
l'obbedienza è sottomissione della volontà nella conformità alla
volontà del superiore secondo l'esempio di Gesù: « Padre, se
vuoi, allontana da me questo calice: peraltro si faccia non la mia
volontà, ma la tua » (Le. 22, 42). L'obbedienza è riconoscimento
effettivo della legittima autorità, ma, non implica, per sé, la perce-
zione e l'affermazione positiva della ragione stessa del comando.
E quanto più è motivata dalla pura fede, tanto più è meritoria.
366
Va distinta dunque la sottomissione della volontà dalla sottomis-
sione del giudizio. Perciò se in un caso particolare fosse di solare
evidenzalche il superiore sbaglia, Dio non chiede a nessuno di
rinunciare al suo giudizio. Ciò vale in materia non solo dottri-
nale ma anche disciplinare. Il confessore esorterà però il religioso
a non discutere e a non criticare alla presenza d'altri e con altri
gli ordini pel Superiore.
6. È Ritt'altro che contrario all'obbedienza il fare ai superiori
quelle osservazioni che possono informarli ed illuminarli perché
compiano ini rettamente il loro arduo officio. Anzi, cosi l'obbe-
dienza acquista una nuova perfezione, si fa più autentica, cosciente
e responsaftile. Diventa anche servizio e collaborazione. Al supe-
riore spetterà accogliere di buon animo e far tesoro dei suggeri-
menti ricevuti. Se si sapesse, se avesse fatto chiaramente sapere
che non desidera consigli non richiesti e non ne tien conto, allora
non varrebbe la pena di assumersi l'ingrato onere d'informarlo.
Il confessore, in tali casi, libererà il religioso da inutili disagi e
perditempo. Caso abbastanza frequente: qualche dipendente laico
si lamenta con un religioso (col quale ha più confidenza) perché
il superiore lo retribuisce in misura inadeguata. Se al religioso
sembra che l'operaio abbia le sue buone ragioni, può manifestare
discretamente il suo parere al superiore. Saprà però tenere un
contegno ispirato dalla carità ed insieme dalla prudenza.
VI. La castità.
1. Non si dà distinzione fra materia del voto e materia della
virtù. Il religioso ha promesso di osservare la castità perfetta,
esterna ed interna: perciò se manca alla virtù manca anche al
voto (gravemente o leggermente) e commette quindi anche un
peccato contro la religione.
2. Il Vaticano II raccomanda ai religiosi di « non presumere
delle loro forze, ma di praticare la mortificazione e la custodia dei
sensi. Ed anche di non omettere i mezzi naturali che favoriscono
la salute dello spirito e del corpo. E cosi non si lasceranno im-
pressionare da false dottrine che presentano la continenza perfetta
come impossibile o nociva al perfezionamento dell'uomo... Tutti
inoltre ricordino, specialmente i Superiori, che la castità si potrà
custodire più sicuramente se fra i religiosi, nella vita comune, vige
un vero amore fraterno » {PC, 12).
367
VII. L'amore fraterno: la virtù che, insieme all'obbedienza,
è continuamente messa alla prova nella vita religiosa. Doyrebb'es-
ser il vincolo, l'anima, il frutto, il premio della vita di domunità
(o di gruppo). /
1. Ci saranno sempre antipatie alle quali bisogna e*er supe-
riori. Se il confessore propone ad un penitente di fare una genti-
lezza o di recitare una preghiera proprio per la persola antipa-
tica, non sarà una proposta che sa d'ipocrisia (come qualcuno forse
insinuerà) (cfr. Adloff, o.c, p. 216). È carità autentica, perché
bisogna tener fermo il principio che l'amore essenzialmente con-
siste in un atto della volontà. È sacrificio di sé al vantaggio
degli altri. /
2. Se un religioso viola veramente ed esternamente la carità
verso un altro, normalmente è da suggerire che ripari, od espli-
citamente, chiedendo scusa, oppure virtualmente, praticando solle-
citamente qualche atto particolare di benevolenza e di cortesia
verso la persona offesa. A questa bisognerebbe raccomandare di
superare la sua suscettibilità e di vincere il rancore (Adloff,
p. 216).
3. La vita comune, perché la carità vi fiorisca senza variabi-
lità, domanda ai singoli membri molto spirito di sacrificio, infinita
pazienza nel sopportarsi e compatirsi a vicenda. Ciò che ad uno
piace, all'altro dispiace. Ognuno ha i propri difetti. La sofferenza
è spesso — fra due — causata vicendevolmente: ma l'uno tende
a vedere nella sua vita solo la sofferenza, nell'altro solo le man-
canze che fanno soffrire. Con un duplice pericolo: che uno si
ripieghi su se stesso rodendosi fino all'esaurimento, oppure sparli
dei propri crucci con tutti, appena si presenta l'occasione. A chi
è in pericolo d'urtare in questi scogli, il confessore anzitutto rivol-
gerà l'esortazione d'aprirsi e confidarsi con Dio, di risollevarsi
e confortarsi con motivi di fede. E quando un'anima s'è aperta
col confessore e direttore spirituale (e, se utile, con un'altra
persona prudente della comunità che possa dare un consiglio ed
un aiuto) conviene che eviti i pettegolezzi (con gli altri membri
della comunità e specialmente con gli estranei).
4. La carità e la pace d'una famiglia religiosa è turbata ancora
dallo spirito di critica. E le critiche talvolta si fanno freddamente,
anche senza la ragione di dispiaceri personali. Ora, per la buona
armonia, sarebbe meglio astenersi dall'esaminare e dal giudicare
gli atti altrui (tanto più che non si conosce la particolare situa-
368
zione ori singoli e l'intenzione d'ognuno si deve presumere retta).
In questo senso e per queste ragioni S. Francesco di Sales poteva
scriverei « La carità è tanto lontana dall'andar in cerca del male,
che, a n i , ha timore d'incontrarlo; e quando lo incontra volge
altrove n faccia e lo dissimula; anzi, al primo rumore che ne
sente, chmide gli occhi prima di vederlo, e poi con una santa sem-
plicità erède che quello non fosse male, ma solamente l'ombra o
qualche amtasma del male. Ma se poi non può far a meno di
riconoscerlo per quello che è, subito volge altrove lo sguardo e
cerca di dinenticarne l'immagine » (Filotea, P. I l i , e. 28, p. 217).
Se si voleise intervenire (perché l'errore o il male è evidente) lo
si farà non con le malevole critiche alle spalle altrui, ma con una
benevola parola d'ammonizione (direttamente od indirettamente)
a meno che non si preveda infruttuosa. Anche nella vita di comu- '
nità il fondamento e la garanzia della mutua carità sarà sempre
l'umiltà. Bisogna raccomandare aperture alle vedute altrui, ai loro ;
insegnamenti e suggerimenti, idee larghe, flessibilità pronta al
primo manifestarsi della luce che venga dagli altri (si tratti di
dottrina o di direttive pratiche) anche a costo di sacrificare il
proprio punto di vista: chi non solo lo ammette a denti stretti,
ma gioiosamente vi applaude, ha la carità più pura ed eroica. Il
segreto d'una felice vita comune. Ma come possono vivere in una
comunità, o gruppo, certuni che, piantato un chiodo, non cedono
per principio di fronte a nessuna ragione, e tendono ad imporre
di forza agli altri le proprie idee, contro il parere della maggio-
ranza e senza diritto o gravi motivi?
5. Al religioso — secondo il e. 611 del CJC — per sé è
sempre lecito e nessuno può impedire di ricorrere ai superiori
maggiori. Però è da consigliare che se ne astenga quando non
ci siano ragioni serie, vera utilità, ma solo uno sfogo di perso-
nale risentimento.
6. Nocive alla vita comune sono pure certe amicizie parti-
colari fra religiosi. A parte il pericolo della sensibilità e della
sentimentalità, potrebbero creare divisioni ed esser malviste. La
vita comune offre ai singoli il dono ed il calore di tante presenze,
ma domanda anche sacrifici di questo genere: un'intima amicizia
— forse vantaggiosa fra persone che vivono nel mondo (sempre
supposto che non crei pericoli per la purezza) — potrebbe non
esser altrettanto utile e consigliabile pei religiosi che vivono in
comunità (cfr. Adloff, pp. 219-220).
369
V i l i . Altro argomento di cui dovrà talora occuparsi |il con-
fessore dei religiosi e delle religiose sarà costituito dai ldro rap-
porti con persone estranee all'istituto ed alla comunità. Certe
confidenze e certi pettegolezzi (riguardanti la comunità o chi
sta fuori) sono dannosi, oltre che indiscreti. Certe relazioni sono
pericolose. In qualche caso grave, nel quale è chiara l'occasione
prossima di peccato abituale, pel confessore non resta ( altro da
suggerire al penitente (od alla penitente) che la domande ai supe-
riori d'un trasferimento perché i mezzi per render l'occasione, da
prossima, remota, si sono dimostrati, alla prova dei fatti, ineffi-
caci. È inammissibile, specialmente per un religioso, che continui
una vita che è una catena di peccati giustificandoli come un
bisogno insopprimibile.
IX. Molto bene in una comunità potrebbe fare il confes-
sore consigliando saggiamente coloro che vi tengono posti di
responsabilità. Non è frequente però che costoro si manifestino
— in Confessione — come superiori e chiedano consiglio. Spesso
il confessore ode solo le lagnanze degli inferiori. E, da parte sua,
certo non mostrerà di cercare e voler scoprire chi è il superiore;
e se lo riconoscerà, non gli farà capire d'aver ricevuto lamentele
da parte dei membri della comunità. Eviterà ogni invadenza ed
ingerenza indiscreta e controproducente. Indirettamente e quando
gliene è offerta l'occasione, darà al superiore, od alla superiora, le
esortazioni opportune. Riguarderanno specialmente lo spirito di
bontà e di fraternità. Il quale, ad esempio, generalmente sugge-
risce di non ammonire i singoli membri in pubblico, ma in privato,
e sempre con bontà; di scegliere il momento opportuno, quando
la persona da richiamare non è più sotto l'impulso della passione;
di non rivangare i fatti incresciosi e le mancanze già passate e
riparate; di non mostrare diffidenza, pur praticando la vigilanza;
di mettersi volentieri alla pari degli altri, a meno che l'esercizio
stesso delle sue funzioni di superiore non imponga una distinzione
dagli altri membri della comunità... (cfr. Adloff, pp. 221-222).
X. Il decreto della S.C. per i Religiosi delT8.XII.70 stabi-
lisce che « tutte le religiose e le novizie, affinché abbiano a
godere in tale materia della dovuta libertà, possono confessarsi
validamente e lecitamente presso qualsiasi sacerdote approvato
nel territorio per l'ascolto delle confessioni; né per questo è ri-
chiesta una speciale giurisdizione (can. 876) o designazione. Non-
dimeno — aggiunge il decreto — per provvedere meglio al bene
370
delle comunità, si dia ai Monasteri di vita contemplativa, alle case
di formazione ed alle comunità più numerose un confessore ordi-
nario; e* almeno ai predetti monasteri e alle case di formazione,
anche uà confessore straordinario, ma senza alcun obbligò di pre-
sentarsi là essi. Per le altre comunità, se le particolari circostanze
lo consigliano, può esser nominato un confessore ordinario, a
giudizio dell'Ordinario locale, con la previa richiesta o consulta-
zione deljp comunità ». Le suddette prescrizioni « hanno valore
anche per le comunità maschili laicali, in quanto possono essere
loro applicate ».
Il sacerdote che sia confessore abituale d'una comunità di
suore ha da tener sempre presenti certe norme di prudenza. Non
si immischierà in questioni che riguardano la vita esterna delle
religiose. Non scenderà a troppa familiarità con nessuna di esse.
Neppure colla superiora (anche perché le altre suore potrebbero
non vedere di buon occhio simili frequenti contatti confidenziali).
Paternità con tutte, senza però sdolcinatezze. Eviti nelle confes-
sioni la prolissità; osservi piuttosto la brevità, pur conservandosi
disponibile e sollecito quando e quanto sarà necessario. Procuri
di non servirsi mai di quanto sentito in Confessione per fare o
dire qualche cosa, ad esempio colla Superiora, oppure colle stesse
religiose durante la loro confessione. Il riserbo in questo campo
è da usarsi non solo quando bisogna vincere la tentazione della
curiosità, ma anche quando il fine fosse, per sé, buono. Anche su
ciò che il confessore ha appreso fuori dal sacramento è suggeri-
bile il silenzio quando il parlarne potrebbe suscitare il sospetto
(facile specialmente nelle donne) che si tratti di notizie avute
solo dalle Confessioni.
XI. Qualche caso difficile. Il più trepido è quello d'un reli-
gioso o d'una religiosa che ha perduto il coraggio per le difficoltà
e i malanni fisici, oppure per le tentazioni ed i peccati conse-
guenti, e cosf arriva a dubitare della sua vocazione stessa. Un'ani-
ma che si trova in questa situazione ha bisogno d'esser anzitutto
sostenuta ed aiutata a togliere, per quanto possibile, direttamente
gli ostacoli. Qualche volta basta un po' di riposo, di calma, di
distensione. E bisogna ravvivare la fede: la Provvidenza si serve
anche delle difficoltà e delle umane debolezze per maturare e
fortificare una vocazione. Non è però escluso il caso che il con-
fessore stesso dubiti, ad un certo momento, d'una vocazione. Ma
se la persona ha già emesso i voti perpetui, non le farà capire i
371
propri dubbi. Bisogna anzitutto applicare la parola di s. Alfonso:
« Se non sei stato dapprima favorito dalla grazia della vocazione,
cerca d'ottenerla colle tue ferventi preghiere ». (Cit. da Marsot,
Petit tratte des voeux de l'état religieux, Paris, 1920, p. 185).
Altrettanto ed a fortiori per chi è anche sacerdote. Certo, piut-
tosto che continuare una catena di peccati che danna scandalo
e disonorano lo stato religioso e sacerdotale, è meglio — dopo
fatto ogni tentativo, ma senza esito positivo — chiedere la
dispensa.
Quando si trattasse d'un'anima che, già entrata nello stato
religioso, dovrebbe rinnovare i voti ma non perpetui, allora in
qualche caso al confessore può presentarsi il problema di decidere
della vocazione e della scelta dello stato. Darà il suo aiuto, esami-
nerà accuratamente e senza fretta tutte le circostanze e quindi
si pronuncerà. In qualche caso sarà prudente il consiglio di pro-
crastinare la rinnovazione dei voti. Ed, in genere (dopo una ma-
tura riflessione ed un tempo di prova) la situazione si risolverà
quasi naturalmente da sé, in seguito alle prudenti indicazioni, ed
alle opportune interrogazioni del confessore.
XII. Qualche difficile e delicato caso del genere può capitare
anche ad un confessore « straordinario » (sia tale « de iure » o
« de facto »). Anzitutto egli s'informerà se è già stato formulato
un giudizio, in merito, dal confessore ordinario; e, per quanto
possibile, avrà la disposizione di non esserne il censore ma l'aiuto.
Non è però escluso che lo straordinario (specialmente se fornito
di più matura scienza ed esperienza), in qualche caso — dopo
aver ben ponderata ogni circostanza — si senta ispirato a dare
una direttiva diversa da quella data dal confessore ordinario. Sarà
allora deciso perché la penitente (od il penitente) ha bisogno di
formarsi una coscienza certa e tranquilla. Sarà pure conveniente
che soggiunga come la diversa soluzione del caso non deve mera-
vigliare perché i teologi stessi non sempre sono d'accordo quando
non si tratta di questioni dottrinali decisamente risolte dal magi-
stero ecclesiastico.
373
dentemente dal voto: se vien meno al voto commette una man-
canza anche contro la religione, ma non un vero sacrilegio (come,
invece, i sacerdoti della Chiesa Latina ed i religiosi) dato che il
voto non è « pubblico »: il sacrilegio suppone che la Chiesa stessa
consacri a Dio una persona.
Le singole regole, per sé, non obbligano sotto pena di peccato
(come, del resto, neppur quelle dei « religiosi »).
Ogni confessore deve avere almeno una conoscenza generica
circa la natura, la funzione, la finalità degli Istituti Secolari per
poter consigliare — all'occasione — sia chi è già iscritto, sia chi
intende iscriversi ad uno di questi Istituti. Potrà allora considerare
questa vocazione specifica in relazione ad una determinata per-
sona, alla sua indole, alle sue inclinazioni. Potrà ancor meglio
esercitare il suo ufficio se prende informazione anche delle Costi-
tuzioni del singolo Istituto al quale una persona è iscritta o vuol
iscriversi. Perché il suo compito è importante: molti membri di
questi Istituti hanno poche occasioni di ricevere altri aiuti e con-
sigli; si può dire che solo nel direttore spirituale trovano l'alleato
umano per la vittoria sulle tentazioni, la perseveranza nel fervore,
l'ascesa verso la perfezione. I pericoli ed i problemi per chi vuol
convertire in apostolato la sua vita secolare sono infatti maggiori
di quelli che incontra chi vive in una comunità religiosa.
1. Il confessore anzitutto saprà indirizzare a questo stato chi
ne ha l'attitudine. Dalle inclinazioni e doti d'una persona, dalle
circostanze nelle quali è stata posta dalla Provvidenza a vivere
la sua vita, si deve poter riconoscere se ha o no questa vocazione.
È una vocazione speciale. Ben distinta sia dalla vocazione alla vita
contemplativa nel chiostro, sia dalla vocazione di coloro che ab-
bracciano lo stato religioso in un istituto di vita comune « cano-
nica ». A parte gli istituti di vita unicamente contemplativa, gli
altri hanno una regola che cerca un contemperamento equilibrato
fra preghiera ed opere d'apostolato. Ma gli Istituti Secolari hanno
di specifico la consacrazione all'apostolato. Apostolato da eserci-
tarsi non solo nel mondo, ma usando i mezzi offerti dal mondo,
ogni specie d'attività ed ogni professione civile che sono proprie
della vita secolare. Il termine « apostolato » va inteso in senso
quanto mai largo; tanto più che nel consigliare l'aperta azione
apostolica — intesa espressamente e direttamente alla conversione
d'altri alla fede ed alla vita cristiana — « è necessario che siamo
moderati e prudenti. Poiché per l'esercizio dell'apostolato si ri-
374
chiedono doti peculiari ed intime d'animo, oltre ad una data con-
dizione di vita, di cui non tutti godono... » (Pio XII, Discorsi e
Radiomessaggi, XVIII, -p. 491). L'esercizio stesso della profes-
sione — lavoro sia intellettuale sia manuale — compiuto in spirito
di fede e rettitudine morale è un apostolato. Ed in pratica sarà
sufficiente. Almeno in sostanza. Un insegnante, un preside di
scuola, un'ispettrice di colonie estive, un giornalista, un ministro
dello Stato, non hanno che da vivere ed attuare nella loro vita la
sublime preghiera liturgica: « dirigere et santificare, regere et
gubernare dignare, Domine Deus... hodie corda et corpora nostra,
sensus, sermones et actus nostros in lege tua, et in operibus man-
datorum tuorum... ». Si tratta d'impiegare nella professione tutte
le energie, ma purificate e moltiplicate dall'intima e sempre
rinnovata unione con Dio.
In concreto, nella loro attività i membri degli istituti secolari
terranno conto dell'ambiente: se questo fosse ostile, un apostolato
diretto ed esplicito potrebbe esser sconsigliabile. Ma, in realtà,
anche allora l'inefficacia dell'azione apostolica sarebbe solo appa-
rente perché l'influsso benefico nell'ambiente si produce anzitutto
con la testimonianza silenziosa della vita (in questo senso l'apo-
stolato di chi vive nel secolo è spesso simile a quello del contem-
plativo recluso).
Cambiando le circostanze della vita, un professionista dovrà,
forse, ad un dato momento, lasciare il suo lavoro. Però egli
potrà sempre corrispondere pienamente alla sua vocazione di
membro d'Istituto Secolare, anche se non farà più della sua atti-
vità secolare un apostolato. Per lui c'è allora la possibilità di darsi
ad una vita di maggior contemplazione (pel bene proprio e di tutta
la Chiesa), o — se la situazione lo suggerirà — d'un esplicito
apostolato diretto. Siccome nella Chiesa ci sarà sempre bisogno
della testimonianza e dell'annuncio cristiano, si può 'dire che i
membri degli Istituti Secolari corrispondono esemplarmente a
questa esigenza perché la possono realizzare nella maniera più
semplice, più duttile e più snella « come cooperatori nelle varie
forme e modi dell'unico apostolato della Chiesa che deve conti-
nuamente adattarsi alle nuove necessità dei tempi » (AA, 33).
Da quanto detto, occorre un minimo di doti e di requisiti
particolari in chi vuol abbracciare prudentemente questa voca-
zione. È l'istituto stesso che prende informazione e si accerta
dell'idoneità d'un aspirante: della sua età, professione, capacità
di svolgere un certo apostolato, condotta esterna incensurata e
375
fondamentalmente equilibrata. Per certe doti però, solo aprendosi
intimamente col proprio direttore spirituale il soggetto si sentirà
assicurato in questa scelta. Forse solo il confessore conosce che la
pietà del soggetto è davvero solida e provata (superiore ai senti-
mentalismi evanescenti); ch'egli ha l'abitudine all'autocontrollo,
una certa fermezza nelle decisioni prese dopo ragionevole rifles-
sione; che non ha una sensibilità eccessiva e tale da indurre un'abi-
tuale incostanza di carattere; che il temperamento non è segnato
da quelle angolosità ed intransigenze che, anche nel bene, impe-
cjiscono la pacifica collaborazione ed il rispetto per le idee e la
personalità degli altri...
2. Assistenza spirituale. Il confessore ricordi che i membri di
istituti secolari ne hanno bisogno per esser solidamente formati
e preparati alla loro missione. Più bisogno, si direbbe, degli stessi
religiosi che vivono in comune, perché chi vive nel mondo e fa
di tutta la sua vita un apostolato trova più pericoli e più problemi.
Nella guida degli iscritti agli Istituti Secolari — come di tutte le
anime che aspirano alla perfezione — il direttore spirituale cer-
cherà soprattutto di far sentire il bisogno di una sempre più intima
comunione con Dio, ravviverà l'abituale disposizione ad usare
ogni cosa e ad orientare ogni attività alla maggior gloria di Dio
(non è affatto contrario alla povertà il possesso di grandi mezzi
economici quando lo spirito sia distaccato e l'uso del denaro sia
destinato al bene del prossimo).
3. Il direttore spirituale incoraggerà queste persone anche a
segnalarsi — se hanno delle doti — per il loro ingegno oltre che
per operosità. Non trascurino la loro professione (neppur per
darsi ad opere di apostolato): se in essa si faranno stimare, se
acquisteranno un certo prestigio, e specialmente se saranno emi-
nenti, tanto più efficacemente potranno esercitare mediante la
stessa attività secolare, un apostolato, anche se non appariscente.
Stia quindi attento il direttore spirituale a non spingere senza
discrezione i soggetti generosi ad assumersi impegni che possono
esser dispersivi, oppure oppressivi, pur essendo, in sé, lodevolis-
simi. Un uomo non può far bene che un solo mestiere. Se di
questo mestiere vuol fare un apostolato, avrà poco tempo per altre
attività. I membri di questi Istituti sono elementi da usarsi con
coraggio ma con una certa economia. Sono preziosissimi: bisogna
evitare che incarichi e lavoro eccessivi provochino o dispersione
od esaurimento.
376
4. G sono virtù — piccole o grandi — che sembrano spe-
cificamente proprie di chi ha scelto questo stato. Vanno pertanto
continuamente richiamate e suggerite. I membri di Istituti Seco-
lari, concentrando tutti i loro affetti in Dio e nel prossimo, amato
in spirito di servizio, si doneranno con grande semplicità e natu-
ralezza. Bando ad ogni presunzione di porsi come esempio e mo-
dello agli altri. Vivranno immersi e confusi nella massa, senza
la minima ricerca di richiamare su di sé l'attenzione altrui. Anzi,
si mostreranno lieti e pronti ad apprendere quegli insegnamenti
che gli altri potranno offrire col loro pensiero o colla loro vita.
5. Il direttore spirituale dev'esser preparato a trovare, anche
in queste anime elette, momenti di crisi. I quali possono provo-
care dubbi, incertezze sulla perseveranza negli impegni e nella
consacrazione di questa vocazione. Il confessore sia cauto prima
di pronunciarsi. È vero che i vincoli spirituali (che i membri
contraggono coi voti e le promesse) sono giuridicamente tempo-
ranei. Però, spiritualmente, l'intento iniziale era d'una perpetua
donazione a questo ideale. Rinunciarvi sembrerà, forse, pel mo-
mento, una liberazione. Ma bisogna prevedere la possibilità che
poi subentri un vuoto, uno stato di depressione come dopo una
sconfitta. Perciò anzitutto bisogna usare tutti i mezzi per superare
la crisi, tenendo presente che ogni stato (anche quello matrimo-
niale) ha le sue difficoltà ed i suoi problemi spinosi e può riser-
vare delusioni.
6. Quando invece qualcuno, già appartenente ad un Istituto
Secolare, sentisse la vocazione ad uno stato più perfetto — sacer-
dozio, vita religiosa — e chiedesse consiglio al direttore spiri-
tuale, bisogna che questi esamini spassionatamente se la grazia
chiama. Quando ciò constasse, non resta che favorire la voca-
zione: ostacolarla per motivi umani o per il bene particolare di
un istituto o d'una comunità (quale la parrocchia) non sarebbe
certo consigliabile. Il passaggio poi da un Istituto Secolare ad
un altro Istituto Secolare sarà da approvarsi solo se ci sono ragioni
ben precise e ben certe d'apostolato, circostanze obiettive che lo
rendono ovvio; non piccoli motivi, dipendenti, in fondo, dalla
debolezza e variabilità umane.
377
10. Professionisti in genere
378
rientrano anch'esse fra i doveri professionali). Doveri che appar-
tengono alla vocazione d'un uomo considerata concretamente e
globalmente. Doveri che, se compiuti per amore di Dio, santifi-
cano, momento per momento, un'esistenza.
2. In ogni professione onesta — compiendo lavori e servizi
quanto si voglia modesti — si può santificarsi. È un gravissimo
errore — latente in molti spiriti — il credere che una professione
profana sia praticamente un ostacolo alla perfezione cristiana e
che questa sia quasi riservata a chi si ritira dal mondo per consa-
crarsi solo alla preghiera in un chiostro, nell'obbedienza ad una
Regola. Certo per un professionista che ha un margine di libertà,
non mancano pericoli e tentazioni: per esempio, di schivare i
lavori pesanti, difficili e noiosi e scegliere solo i più facili e graditi,
mentre la sua attività dev'esser soprattutto guidata dal senso del
dovere e del meglio. Un insegnante dovrà preparare le sue lezioni
con cura e correggere i compiti con diligenza quando avrebbe la
voglia di occupare il suo tempo in letture piacevoli non attinenti
alla immediata necessità della scuola. Un impiegato non occuperà
troppo tempo a discutere sulle iniziative dell'azienda che non
spettano a lui trascurando il poco simpatico, ma urgente, lavoro
di contabilità. La ragione di tante vocazioni mancate: non ci si
adatta a far bene ciò che è preciso dovere professionale del mo-
mento e si occupa il tempo in attività estranee più attraenti. Una
giovane che intende sposarsi e perde tutto il suo tempo in diverti-
menti inutili, vien meno al preciso dovere di prepararsi alla sua
professione di sposa e di madre. Chi è previdente e diligente nel
rendersi atto ai suoi doveri professionali e fedele nell'eseguirli
troverà continuamente l'occasione per fare qualche sacrificio e
santificarsi. I sacrifici più meritori non sono quelli che cerchiamo
noi stessi ma quelli che Dio pone sul nostro cammino: in questi
non c'è nessuna volontà nostra né amor proprio. Dover dipendere
da un capo che ha un brutto carattere e che forse abusa della sua
autorità; vivere accanto a colleghi e compagni coi quali non c'è
affinità spirituale; saper sopportare con pazienza — senza voler
il male e la vendetta — qualche ingiustizia, ostilità, invidia, o
qualcuno che si fa avanti dando agli altri lo sgambetto. Sono
tutti incidenti e sofferenze della vita quotidiana disposti dalla
Provvidenza per la santificazione del professionista. Non è contro
tale Provvidenza il fare quanto possibile e quanto serve per riven-
dicare il proprio diritto; ma il professionista cristiano non ripara
il male a colpi di violenza che non fanno che aggravarlo e, per
379
quanto possibile, cerca di salvare la fraternità umana. Anche quan-
do si fa valere un diritto v'è sempre occasione per esercitare
l'umiltà e la carità e per offrire a Dio qualche sacrificio.
3. La scelta della professione è molto importante perché
decisiva per tutta la vita e perché è Dio stesso che, volendo l'or-
dine nella vita sociale, assegna ad ognuno una professione. Natu-
ralmente Egli si serve delle cause seconde per manifestare la sua
volontà: occorre dunque un giudizio di prudenza con la luce della
grazia (la quale però non è percepita come tale e non costituisce
quindi un criterio per una scelta). Ci si augura che un ragazzo
abbia fin dai primi anni seguito la voce di Dio che lo invitava a
compiere i suoi doveri di scolaro e di studente: doveri che sono
una preparazione alla futura professione. Non avrà, in genere, dif-
ficoltà a scoprire, man mano che cresce, ciò a cui è destinato. Terrà
conto delle sue doti intellettuali e fisiche, delle sue inclinazioni e
dei suoi desideri (rettamente intesi e ragionevoli), delle circostanze
ambientali, delle condizioni familiari, dell'eventuale esigenza di
guadagnarsi presto il pane, delle particolari prospettive di suc-
cesso. Comunque, non si dovrà prendere come criterio di scelta
solo il maggior guadagno. Alle volte ci sono condizioni indipen-
denti dalla volontà del soggetto — come la situazione della fa-
miglia o le relazioni che la famiglia gode — che aprono al giovane
una strada invece di un'altra. Talora uno si trova nell'occasione
di abbracciare una professione senza averla scelta e dovrà fare di
necessità virtù se il lasciare il certo significasse avventurarsi nel-
l'incerto senza alcuna garanzia ài successo. Oltre al lume della
prudenza, si ricorrerà a qualche saggio consigliere per conoscere
la volontà di Dio. Ma se, ad esempio, una giovane che sognava
di fondare una famiglia, non ha potuto farlo per circostanze
indipendenti dalla sua volontà, non dovrà prendere un atteggia-
mento di rivolta contro la vita, ma cercherà di riempire la sua
esistenza di opere buone e, soprattutto, d'avanzare rapidamente
nel cammino della vita spirituale. Purtroppo spesso avviene che *
noi perdiamo il nostro tempo sognando altre condizioni di vita
e di lavoro, lamentando d'esser le vittime di qualche sbaglio,
nostro o di altri; e pensiamo che saremmo capaci d'ogni sorta di
buone azioni se la nostra vita fosse diversa da quella che è. Ma
si sogna l'impossibile. Il che significa non cpnformarsi alla volontà
di Dio e, cosi, non risolvere il problema della vita.
4. In ogni professione è possibile santificarsi se si lavora per
conformarsi alla volontà di Dio. Non tutte le professioni però
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sono ugualmente meritorie e non tutte rendono ugualmente facile
il conseguimento della perfezione. Una professione è tanto più
meritoria quanto più glorifica Dio. Le professioni che hanno per
oggetto il servizio diretto di Dio — sacerdozio, vita religiosa —
sono più meritorie di quelle profane; quelle che direttamente
sono ordinate ad aiutare il prossimo — per esempio la profes-
sione del medico, dell'insegnante — sono più meritorie di quelle
che direttamente sono ordinate al sostentamento del lavoratore
stesso; per esempio la professione del rurale. Perciò chi ha a
cuore la propria vita spirituale terrà conto (nei limiti delle possi-
bilità) quando sceglie la sua professione, delia maggiore o minore
facilità offerta per conseguire la perfezione cristiana. Non c'è
dubbio che la vita religiosa — la quale importa l'osservanza dei
consigli evangelici — è più meritoria della vita matrimoniale e
rende particolarmente facile — e quindi più probabile — la san-
tificazione. A chi osservasse che non tutti vi sono chiamati e
quindi ci sarebbe un'ingiusta preferenza da parte di Dio verso
pochi eletti, si risponde che Dio dà a tutti la possibilità di sal-
varsi e di santificarsi. Quanto alla concessione di grazie più o
meno abbondanti alle singole anime, Egli ha presente la loro
corrispondenza o meno alle grazie precedenti: la generosa corri-
spondenza attira altre grazie. Comunque, Dio non è tenuto a
dare a tutti grazie particolarmente abbondanti e speciali aiuti.
E bisogna ammettere che c'è un mistero di predilezione divina
nella distribuzione delle grazie. Ed a chi obbiettasse che se la santi-
ficazione in uno stato è più difficile che in un altro, deve, per ciò,
ritenersi anche più meritoria, si deve rispondere che ciò non è,
per sé, vero. Lo sarebbe se, a parità di condizioni, suscitasse (per
le difficoltà da superare) un più intenso amore di Dio. Dico: a
parità di condizioni, perché le professioni — considerate obbietti-
vamente — non glorificano tutte egualmente Dio. E pel fatto che
uno è portato per una sua inclinazione (naturale o soprannaturale)
alla vita religiosa, non è tolto il merito di questa scelta, se corri-
sponde alla volontà di Dio.
381
sioni. Se ci fosse, la vita sociale sarebbe automaticamente e pro-
fondamente trasformata. Invece, in alto come in basso, da parte
di imprenditori e di lavoratori, si vede il lavoro anzitutto come
una fonte di guadagno. Invece, salve le proporzioni, ogni profes-
sionista, nelle soggettive finalità che animano il suo ufficio, do-
vrebbe essere simile al sacerdote. Questi sarebbe giudicato molto
severamente se celebrasse, predicasse, amministrasse i sacramenti
per guadagnare. Eppure ha diritto, perché lavora, ad avere i
mezzi pel suo sostentamento: ed il problema si risolverà da sé;
i mezzi verranno, e supereranno anche lo stretto necessario, ma
non devono esser in cima alle preoccupazioni. Anzitutto la preoc-
cupazione di servire bene Dio ed il prossimo: se ci fosse questa
finalità anche nelle professioni profane, ci sarebbe più unione e
più fraternità fra gli uomini. Il pensiero che tutto quanto abbiamo
— dal patrimonio intellettuale al mobilio di casa, dall'educazione
morale al nutrimento — ci è venuto e ci viene per uno scambio di
uffici professionali, dovrebbe aprire il nostro cuore' a tutti gli
uomini per sentirci legati da amore e gratitudine e stimolati alla
corrispondenza (cfr. J. Viollet, Les devoirs d'état, AMG, Paris,
pp. 48-50; 59-60). Ognuno deve dunque sentirsi unito agli uomini
d'altre professioni perché il lavoro, tutti i lavori, sono mezzi ed
occasioni offerti perché la carità si traduca in atti positivi. Ma,
in particolare, un legame immediato e diretto dovrebbe unire
coloro che esercitano la stessa professione. Carità verso tutti, nono-
stante i loro difetti. Anzi, carità particolare verso coloro che si
sono sviati dal retto sentiero o sono più lontani dalla fede
cristiana. Un professionista non può vivere come se fosse solo
nell'esercizio del suo lavoro. Egli favorirà quindi e praticherà
quelle forme associative che hanno per scopo l'unione ed il mutuo
aiuto degli appartenenti alla stessa professione. Non bisognerebbe
però che il singolo entrasse a far parte di un'associazione o d'un
sindacato solo per motivi egoistici, ma per richiedere — se è
giusto e possibile — migliori condizioni di vita per tutti i membri
di una professione, per far trionfare la -verità, la giustizia, la pace,
sostenere i più deboli, avendo sempre riguardo anche agli altri
raggruppamenti ed alla società presa nel suo insieme: « la pace
sociale non sarà possibile altro che il giorno in cui i sindacati,
pur difendendo gli interessi d'ogni corporazione, saranno preoccu-
pati degli interessi delle altre corporazioni e della collettività
tutt'intera » (J. Viollet, o.c, p. 87).
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11. Chi comanda e chi ubbidisce
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qualità desiderate dall'incarico e di non fare tutto quello che sareb-
be richiesto. L'esercizio d'una autorità è una prova impegnativa,
non un onore di cui vantarsi.
5) Chi comanda dovrà interrogarsi se tien conto degli inte-
ressi legittimi dei dipendenti o si comporta in maniera ingiusta ed
opprimente, mosso dai propri capricci.
6) Può esser anche tentato di fare del proprio posto di coman-
do un gradino per dar la scalata ad altri posti più elevati guardando
solo e tutto coordinando a se stesso ed alle proprie mire.
7) Non è proibito, anzi, di sviluppare al massimo le proprie
possibilità e di far rendere i propri talenti. Però il movente non
dovrebbe esser solo il successo personale ma il maggior bene possi-
bile da realizzare, a gloria di Dio e pel vantaggio del prossimo,
perfezionando il proprio lavoro professionale: per tal fine una
madre si specializzerà sempre più nell'educazione dei figli, un
medico nella cura dei suoi malati.
8) Da deprecarsi l'arrivismo: la smania di arrivare ad un
posto dì comando o di onore a qualunque costo, usando tutti i
mezzi possibili, leciti o meno.
9) C'è il pericolo, per chi esercita l'autorità, d'aver delle ingiu-
stificate preferenze. Preferenze che provocherebbero inevitabil-
mente ribellioni, gelosie, discordie e divisioni fra dipendenti e su-
periori e nei dipendenti tra loro.
10) Il tipo più perfetto di autorità ed ubbidienza si ha,
dicevo, nelle relazioni fra genitori e figli. Perché fra questi il
comando e la sottomissione sono elevati, favoriti e facilitati dal-
l'affetto naturale. Su questo esempio, l'esercizio d'ogni autorità
dovrebbe esser mosso anche dalla carità cristiana. Chi è a capo,
non dovrebbe esser solo preoccupato che l'operaio eseguisca debi-
tamente il suo lavoro; e l'operaio non dovrebbe esser solo interes-
sato all'esecuzione materiale del lavoro necessario. Fra superiore
ed inferiore dovrebbe intercorrere un sincero affetto: senza questo
l'operaio sarà considerato come una macchina e stimato solo per
quanto rende. Ma se il rapporto autorità-obbedienza è vivifi-
cato dal soffio della carità, allora si considererà l'operaio come una
creatura di Dio e si rispetterà la sua dignità di uomo (con tutte le
sue capacità e limiti): non gli si imporrà un lavoro forse eccessivo
o non corrispondente alle sue qualità. Chi dirige lo sosterrà con
l'incoraggiamento, lo apprezzerà, metterà a sua disposizione la
propria intelligenza ed esperienza, procurerà di facilitargli l'adem-
pimento del pesante dovere, di sostenerlo nelle crisi naturali a cui
384
ognuno può andar incontro, di risvegliare o rispettare (come de-
vono fare i genitori) il sentimento della personale responsabilità
e non considerarlo come uno schiavo; cercherà di esercitare l'auto-
rità non pel gusto d'imporre la sua volontà o per partito preso o
per impazienza, ma solo per una esigenza del lavoro da eseguire,
cioè perché la verità ed il bene lo richiedono.
11) Ma vi può esser anche chi omette d'esercitare la debita
autorità per pigrizia, per indifferenza, per motivi umani che non
giustificano il lasciar correre con danno evidente dei singoli e
della comunità. Per esempio, i genitori non possono accontentare
in tutto i loro figli. Certo, nel modo di comandare, si cercherà
d'usare le maniere più accette e meno pesanti, ma chi è alla guida
deve saper dimostrare anche la fermezza, quando è necessario.
Concludendo: l'esercizio dell'autorità esige qualità e virtù,
impone responsabilità tali da diventare un efficacissimo mezzo
di perfezione per chi procura d'esercitarla sull'esempio di Dio
stesso per aiutare e rendere migliori gli altri.
II. Chi ubbidisce
1. L'ubbidienza per eccellenza è quella del « religioso » : fa-
cendo il voto di praticare questa virtù egli rinuncia alla propria
volontà, la rimette nelle mani d'un superiore che rappresenta per
lui Dio stesso. È la massima rinuncia: rinuncia non solo a qual-
che cosa ma a quello che costituisce la parte più preziosa della
persona: la volontà. Ma — sia pur in modo e grado diversi —
praticamente tutti devono ubbidire. E ci sono autorità ben deter-
minate (da quella dei genitori sui figli, a quella dell'impresario
sui suoi operai, dell'insegnante sugli alunni, della padrona di
casa sul personale di servizio). E ci sono autorità che s'impongono
per una ragione non strettamente di diritto ma, per cosi dire,
morale: tale può essere il prestigio d'un operaio anziano che per
capacità ed esperienza va tenuto in considerazione dai giovani
apprendisti: i suoi consigli ed esempi meritano rispetto ed
attenzione.
2. Nella vita professionale ritorna dunque ogni giorno questo
dovere. Tutt'altro che facile. Il laico professionista non ha scelto,
come il religioso, una vita d'ubbidienza: è l'esercizio stesso della
professione che gli impone d'ubbidire a qualcuna. S'aggiunga che
il superiore religioso ha gli stessi ideali dei suoi confratelli, anche
se ci può esser qualche disaccordo nel giudizio su una singola
questione: nella vita professionale chi comanda ha talora menta-
385
lità e convinzioni completamente contrastanti con quelle dei suoi
dipendenti. S'aggiungono difetti personali di carattere, evidenti
odiose preferenze che rendono in genere più penosa l'ubbidienza
nella vita professionale che nella vita religiosa.
3. Perciò chi aspira alla perfezione deve, nelle sofferenze che
l'obbedienza gli procura, non mostrarsi insofferente e ribellarsi,
ma cogliere l'occasione che Dio gli offre per santificarsi nell'eser-
cizio della sua professione. I difetti di chi comanda rendono diffi-
cile l'obbedienza ma non possono dispensare i dipendenti dal
conformarsi alle disposizioni superiori: altrimenti verrebbe meno
ogni ordine ed ogni regola nella vita professionale e sociale.
Bisogna dominare i sentimenti di malcontento e di rivolta pensando
che allora i meriti saranno molto maggiori di quelli che si avreb-
bero nell'aderire agli ordini di chi fosse fornito d'ogni virtù e
s'imponesse per la sua santità affascinante.
387
certezza. S'aggiunge il forte rispetto umano che non sanno vincere
perseverando nella pratica religiosa appresa da piccoli, professan-
do e difendendo, all'occasione, i principi della loro fede e della
morale.
Però, dalle inchieste risulta che, anche nelle fabbriche, gli
operai che sono decisamente atei sono una minoranza. E non sono
molti neppure coloro che prendono una posizione nettamente av-
versa alla Chiesa accusandola, ad esempio, gravemente e seriamente
di parteggiare per i capitalisti. Molti però scivolano verso uno
stato d'indifferenza in materia religiosa — indifferenza che è il
carattere tipico dell'incredulità moderna — e, per l'influsso dei
compagni e dei dirigenti di partito, si allontanano progressiva-
mente dalla Chiesa. Occorrerà aver tatto (soprattutto con coloro
che sono ostili alla religione). Usando il metodo amabile della
persuasione e non quello dell'aspro contraddittorio, si presenterà
spesso l'occasione di correggere molte idee sbagliate. Ricordiamo:
comprensione e bontà con gli erranti; fortezza ed intransigenza
contro l'errore. Anche in chi non nega Dio, manca spesso il vero
concetto cristiano di Dio. Di un Dìo che promette il Suo aiuto,
la Sua Provvidenza purché, però, non ci sforziamo di fare la Sua
volontà (« Cercate prima il Regno di Dio e la Sua giustizia e
tutto questo vi sarà dato di sovrappiù », Mt. 6, 33; Le. 12, 31):
e la Provvidenza sarà tanto maggiore quanto più noi avremo fede
nella Sua assistenza e quanto più questa fede sarà pratica ed effi-
ciente. Spesso, invece, l'uomo pretende che Dio faccia la Sua
parte, ma non s'impegna a fare la propria e bestemmia Dio quando
Egli non è a misura dell'uomo. Manca l'esatta concezione dell'esi-
stenza terrena come d'una prova per giungere ad una vita che non
ha fine: in ordine a questa tutto dovrebbe esser visto e giudicato,
specialmente il dolore da cui Dio intende ricavare la salvezza e la
santificazione delle anime. Egli vuole che ricerchiamo anche il
nostro terreno benessere, sempre però con lo sguardo al fine
ultimo, alla vita eterna.
Errori da correggere circa la persona e la missione di Cristo.
Si sente qualche volta dire che i cristiani e la Chiesa hanno tradito
l'autentico messaggio di Cristo. Il quale sarebbe stato un rivo-
luzionario, ucciso per aver contestato le ingiustizie dell'ordine
costituito. Che si prenda il Cristo come modello è certo augura-
bile, ma bisognerebbe ammettere la Sua divinità e la spiritualità
della Sua dottrina. La Sua azione non si svolge mai direttamente
sul piano sociale e politico, ma sempre su quello soprannaturale.
388
Condanna si l'ingiustizia, ma come ogni altro peccato. Ciò che
lo interessa e lo preoccupa direttamente è la vita e la salvezza
delle anime, contro la falsa religione degli Scribi e Farisei che al
popolo non portavano la liberazione ma l'oppressione. Verso la
legittima autorità civile egli pratica e raccomanda l'obbedienza:
« Rendete... a Cesare quel che è di Cesare: e a Dio quel che è
di Dio » (Mt. 22, 21). Non mostra incuranza per quanto è neces-
sario alla vita presente, ma la suprema aspirazione non dev'esser
per i beni terreni ma per quelli che non periscono: « Cercate pri-
ma di tutto il Regno di Dio ». La Sua missione è per un mondo
migliore, ma anzitutto ed essenzialmente per il mondo dello
spirito.
Errori circa la natura della Chiesa ed il uso compito. La si
accusa di non aver difeso più efficacemente gli interessi dei lavo-
ratori contro la classe borghese sfruttatrice dei poveri. A tal propo-
sito, bisogna tener fermo e far capire qual è la missione propria
e specifica che Cristo ha affidato alla sua Chiesa (intesa come
Collegio Apostolico): questa missione « non è di ordine politico,
economico e sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è di ordine
religioso » (GS, 42). La Chiesa porta alle anime la salvezza e la
vita soprannaturale. Perciò è santa perché ha tutti i mezzi per
santificare le anime (nonostante i difetti dei suoi ministri che re-
stano sempre uomini): ed i frutti di santità non mancano. Impe-
gnarsi sul piano sociale, economico, politico per combattere le
ingiustizie e per incarnare il Regno di Dio nelle realtà terrene spet-
ta ai cristiani laici. Ma anche la loro azione non sempre è stata
quella desiderata. Perciò se il sacerdote si pone sul piano sociale
a discutere di questioni economiche sarà facilmente messo in
difficoltà. Perché non si può misconoscere che, alla fine del secolo
scorso ed agli inizi di questo, il socialismo abbia avuto dei meriti
per il miglioramento delle masse contadine, ad esempio — in
Italia — nell'Emilia e nella Romagna. A prescindere, natural-
mente, dall'infausta azione antireligiosa. Mentre i cattolici hanno
lavorato troppo poco per neutralizzare, coi fatti, la penetrazione e
la propaganda marxista. La quale è cosi riuscita ad instillare nelle
masse operaie l'idea che il comunismo sia l'unico movimento capa-
ce di portare la giustizia nel mondo del lavoro, sia pur con la
forza ed a costo della perdita della libertà.
Ho tentato una qualche esemplificazione sui temi e problemi
religiosi che possono interessare i lavoratori.
389
2. Il sacerdote che esercita un ministero fra gli operai coglierà
le occasioni per un apostolato specificamente sacerdotale: far
del bene spiritualmente e, se opportuno, anche materialmente, ten-
tare discretamente ed intelligentemente un'evangelizzazione nel-
l'intento supremo di comunicare alle anime la vita soprannaturale.
Ma è bene non entri in questioni e lotte fra operai ed imprendito-
ri, schierandosi per gli uni contro gli altri ^. Certo, chi è più debole
e più povero ha più bisogno d'aiuto e per questa ragione, gode la
precedenza e le preferenze del sacerdote. Ma il prete non può fare
il mestatore. Se lo facesse la sua posizione e la sua permanenza
in fabbrica sarebbe precaria perché, da una delle parti, mal tolle-
rata e contrastata. Ci sono pure i preti-operai. Ma anche questi
devono ripensare qual è la loro specifica missione e vocazione.
Dedicarsi, ad esempio, alle turbolenti attività sindacali è cosa
delicata per quanto retta e disinteressata sia l'intenzione: è una
occupazione che sottrae tempo al lavoro che il sacerdote, in
quanto tale, potrebbe svolgere; inoltre egli verrebbe cosi a suppli-
re il laico al quale spetta dare in fabbrica la testimonianza cri-
stiana e, tanto più, svolger l'azione politica e sindacale. Ai sacer-
doti tocca formare cristiani adulti e non sostituirli (rimproveran-
do, magari, alla Chiesa di non aver saputo formarli).
3. Nel trattare cogli operai il sacerdote — sia cappellano di
fabbrica, sia prete-operaio od operaio-prete, sia nell'amministra-
zione del sacramento della Penitenza, sia in occasionali colloqui
— dovrà usare tutti gli accorgimenti per incontrare le simpatie
di questo elemento spesso ostile o malsicuro. Bisogna anzitutto
dimostrargli una stima sincera, considerando la sua condizione:
uno stato di dipendenza quasi assoluta, una sistemazione priva di
sicure garanzie, un lavoro non sempre adeguatamente remunerato
e privo del carattere di personalità ed umanità perché ridotto
quasi a quello d'una macchina. Perciò un operaio che da qualche
sacerdote si vede accolto e considerato con poco riguardo o come
un minorenne — mentre altri più influenti, ricchi ed altolocati
sono oggetto di pronta deferenza e distinta gentilezza — questo
operaio non guarderà certo di buon occhio clero e Chiesa. Non
sopporterà certi atteggiamenti autoritari e paternalistici che si
20
« In extruenda vero christianorum communìtate, Presbyteri numquam
alicui ideologiae vel factioni humanae inserviunt sed, ut ÉvangeUi Prae-
cones et Ecclesiae Pastores, ad Corporis Christi spirituale incrementum con-
sequendum operam impendunt » {PO, 6).
390
notano (o si notavano) presso qualche parroco (specialmente di
campagna o montagna) o presso qualche cappellano militare nei
riguardi dei soldati. Atteggiamenti che l'operaio oggi non tollera
perché è troppo conscio della sua dignità e nobiltà di lavoratore e
dei suoi diritti d'uguaglianza e di solidarietà con tutti gli altri
uomini. Bisogna anche ascoltarlo. Ed andargli incontro con spirito
fraterno, comprensivo, democratico. I mezzi di conversione e
santificazione sono, nella Chiesa, in mano d'uomini: è d'importan-
za decisiva il modo come vengono offerti ai fedeli. Ed il popolo,
che non suol fare molte distinzioni, coinvolge nelle critiche contro
gli uomini anche l'istituzione e la dottrina. Per esempio, non c'è
dubbio che, tanto nelle fabbriche come nelle parrocchie, la fre-
quenza degli operai e del popolo alla Messa festiva dipende molto
dalle qualità del sacerdote celebrante, secondo che è più o meno
santo, prudente od imprudente, amabile od intrattabile, paterno o
dispotico. Si apprezzerà il suo tenore di vita semplice, la povertà
della sua abitazione (non — si noti bene — della Casa del Signo-
re che i santi hanno sempre cercato di abbellire senza lesinare in
spese). Aggiungo che oggi si vede di malocchio il sacerdote che si
circonda e si fa aiutare solo da persone del mondo borghese od
intellettuale.
4. L'operaio che si decide a ricevere il sacramento della
Penitenza, in genere si avvicina al sacerdote (che ancora non
conosce) con un po' di timore ed anche di diffidenza. Il confessore
saprà rompere il ghiaccio portando con cortesia il discorso su
qualche particolare della vita del suo interlocutore: « dove lavora?
è molto gravato? è soddisfatto del suo mestiere? ». Attenzione
però a non sollecitare confidenze in maniera diretta ed indiscreta.
Verranno anche le confidenze, ma a loro tempo e spontaneamente,
nel corso della Confessione stessa. Quel che più preme è ottenere
che giovani, un tempo praticanti, e forse militanti nell'Azione Cat-
tolica, passando dall'ambiente ristretto della famiglia a quello della
fabbrica, non si lascino (dopo un primo periodo di disorienta-
mento) travolgere dalla maggioranza areligiosa e dissipata. Ma il
singolo, quando è isolato, si sente debole. Bisognerebbe che
stringesse amicizia coi migliori: l'unione rende coraggiosi e forti.
Basterebbe un gruppo d'operai cristiani dal comportamento coe-
rente, per far desistere, senza bisogno di prediche, qualche com-
pagno dalla bestemmia e dal turpiloquio. Allo spirito dei buoni si
farà quindi brillare l'ideale della testimonianza cristiana; colla
391
persuasione, senza imposizioni: non devono aver l'impressione
che si chiede loro qualcosa di difficile. La testimonianza sta essen-
zialmente nel buon esempio. Ma per darlo sempre, coraggiosa-
mente, bisogna liberarsi dalla tirannide del rispetto umano. Il
giovane cristiano dovrà quindi esser sostenuto nelle sue difficoltà
psicologiche. Deve trovare nel confessore la parola che lo conforta
e lo conferma nella fede e deve trovare nella frequenza ai sacra-
menti la forza soprannaturale. Senza l'aiuto di questi apostoli
laici l'opera del sacerdote — per quanto intelligente e zelante —
sarà impari al compito, quanto mai arduo, della conversione della
classe operaia: « i primi ed immediati apostoli degli operai devono
esser operai, come industriali e commercianti devono esser gli
apostoli degli industriali e degli uomini di commercio » (Pio XI,
Quadrag. anno, n. 60). L'esperienza lo conferma: « Non c'è cap-
pellano dell'ONARMO od assistente delle ACLI che non si renda
conto dello scarso rendimento del suo agire finché non sia riuscito
a suscitare... nell'ambiente di lavoro un nucleo di lavoratori cat-
tolici » (Toldo, o.c, p. 90). Cosi la massa sarà impercettibil-
mente animata e trasformata dal di dentro, più efficacemente che
dal di fuori, più che dall'opera del sacerdote verso il quale si
nutre, da parte di molti, una certa diffidenza istintiva fatta di
pregiudizi.
Niente di meglio se, oltre alla breve esortazione che si può
rivolgere in Confessione, fosse possibile organizzare, per i miglio-
ri, qualche ritiro o corso d'esercizi spirituali.
5. Il sacerdote deve saper, all'occasione, dire una parola
illuminante qualora qualche operaio facesse un caso di coscienza
a proposito di rivendicazioni di diritti e interessi da parte della
sua categoria. C'è chi personalmente non farebbe questioni perché
s'accontenta della sua situazione, economica; potrà però esser
solidale con altri che percepiscono un salario insufficiente. Ma,
per raggiunger lo scopo, non tutti i mezzi sono leciti. Bisogna
dirlo chiaro. Non si può ridurre il datore di lavoro ad esser vitti-
ma d'una lotta disumana e crudele. Non si può mancargli di defe-
renza. Non si può abusare di quanto è suo. Gli scassinatori oggi
li troviamo ad ogni pie sospinto: dalla fabbrica all'ufficio, dalla
canonica alla Chiesa. Non si può dispensarsi dal lavorare quando
il principale è assente. Il venir meno ai patti ed al contratto stipu-
lato non si giustifica pel fatto che s'invocano, per l'avvenire,
condizioni più eque, appena siano possibili. Quanto agli scioperi,
392
questi praticamente sono decisi dai sindacati. Ogni operaio però,
quando ha da dare il suo nome ad un sindacato, dovrebbe scegliere
quello che gli sembra tutelare meglio le istanze dell'ordine sociale
e morale. Ed ognuno deve conservare la sua personalità, non può
ridursi ad esser un puro strumento, rinunciando alla sua facoltà
di pensare, di giudicare, d'influire sull'opinione pubblica. Quando
lo sciopero fosse giusto non si può approvare il crumiraggio. Ma
quando fosse apertamente motivato da ragioni politiche ed inoppor-
tune (perché i danni prodotti alla comunità non sono giustificati
dai vantaggi sperati da una singola classe) allora l'individuo fa-
rebbe bene ad esprimere presso amici e compagni di lavoro almeno
il suo interno dissenso. Non è facile, all'atto pratico, distinguere
fra scioperi politici e scioperi economici: è certo però che non si
può ammettere una conflittualità permanente che paralizza la conti-
nuità efficiente nell'esercizio dei servizi pubblici: questo è un grave
danno comune difficilmente giustificabile. E si può chiedersi
se in un paese dove ci sono tanti disoccupati o sottoccupati, siano
giuste quelle rivendicazioni che pretendono aumenti di salari (sala-
ri — si suppone — che non siano ingiusti, come non lo sono
quelli di certi impiegati statali). Oltre alla giustizia commutativa
c'è da attendere anche a quella sociale, cioè al bene comune. E
perciò non si può approvare che l'una o l'altra categoria di lavo-
ratori, esercitino, con scioperi continui, una forma di pressione
sul parlamento che è chiamato a legiferare in piena libertà nell'in-
teresse comune.
6. È noto come specialmente gli operai sono sempre sospet-
tosi che Chiesa e sacerdoti s'ingeriscano indebitamente nella poli-
tica. Perciò conviene che il sacerdote ne parli meno che è possibile
e non dia l'impressione che il clero vuol obbligare i credenti a
dare il voto ad un dato partito solo perché si professa e si deno-
mina cristiano. Il compito del sacerdote è essenzialmente di evan-
gelizzare. Indirettamente risalteranno automaticamente le conse-
guenze deleterie di false ideologie e di partiti sovversivi. E chi
vuol capire, capirà. La Chiesa docente, da parte sua, sa come
richiamare ai fedeli i loro doveri di coerenza anche nel campo poli-
tico. Col singolo che, per esempio, crede in buona fede di conciliare
i suoi principi religiosi e la sua pratica religiosa col voto dato al
partito comunista, bisogna agire con prudenza; certo non si può
affermare lecito ciò che è illecito; ed a chi chiede, in confessione,
se si può dare il voto al partito comunista, bisogna rispondere
393
k
chiaramente che ciò è incompatibile colla pratica dei sacramenti.
Ma se qualcuno fosse in buona fede, sarebbe pure pericoloso il
turbarla senza speranza di frutto.
7. Infine, salvi sempre i diritti ed i doveri di giustizia, non
si può non annunciare la morale evangelica che a tutti raccomanda
la discrezione e la temperanza. I più abbienti sono invitati ad
evitare il lusso eccessivo (che provoca le reazioni della classe ope-
raia). Ma anche ai lavoratori bisognerebbe suggerire di saper
privarsi di qualcosa che non è necessario e di esser previdenti per
realizzare qualche risparmio che permetterà un'esistenza futura
più tranquilla e più agiata. Ma simili esortazioni — a ricchi e a
non ricchi — van fatte con discrezione, e, in genere, quando ci
si rivolge alla massa: rivolgerle al singolo potrebbe offenderlo e
provocare amarezza o sdegno.
II. Rurali. Anni addietro esisteva il tipo del rurale coi suoi
caratteri particolarissimi. Oggi va scomparendo, anche se lavora
in campagna.
1. Al confessore s'avvicinerà con timidità, forse col timore
d'esprimersi in modo grottesco ed incomprensibile, sapendo di non
esser persona istruita. Il rurale ha inoltre un complesso d'infe-
riorità di fronte agli operai industriali che, come è noto, preten-
dono d'essere o di giungere alla direzione della vita economica.
Il confessore deve infondergli coraggio, dimostrargli la massima
stima, prender ogni sua parola in seria considerazione, assicurarlo
d'aver tutto compreso, sapendo pure adattarsi al linguaggio dialet-
tale del luogo.
2. In genere il rurale, almeno in certe zone, è (od era) assiduo
alla pratica religiosa, piuttosto esteriore però, tradizionalista, for-
malista, e non senza, talvolta, una qualche nota di superstizione.
Perciò, se dalla campagna si trasferirà in città od emigrerà, è
prevedibile il pericolo che subisca il cattivo influsso senza saper
reagire con fortezza, e cosi smetta, un po' alla volta, ogni pratica
di pietà e di culto. (Per una religione veramente consapevole,
ragionata, personale, servirebbe una catechesi — con eventuale
discussione —, una catechesi che non si riduca alla breve omilià
della Messa).
3. E bisognerebbe abituare il rurale (e l'operaio) a spiritualiz-
zare e soprannaturalizzare il suo lavoro: a non considerarlo solo
come una fonte di guadagno materiale, ma anche come un mezzo
394
— non difficile — d'unione con Dio e di raccoglimento. Neppur
dai migliori si può pretender molte pratiche di pietà. Però ad
ognuno s'offre la possibilità di cercare e vedere Dio presente
dovunque: nella bellezza e nella pace della natura, nelle ore di
solitudine e di silenzio trascorse nel lavoro dei campi. Senso della
presenza di Dio, a cui si unisca qualche brevissimo slancio di
preghiera. Tutto può richiamare pensieri di fede: una chiesetta,
il suono delle campane, 1'« Angelus », un crocifisso all'angolo del
sentiero... Una spiritualità, insegnata e praticata con semplicità,
ma che dovrebbe essere quella "propria del lavoratore che vive in
campagna o nell'officina o viaggia, giorno e notte, per le strade
del mondo.
I I I . Impiegati. Ognuno di essi cercherà d'amare la propria
professione, per quanto monotona, pur senza credersi un intellet-
tuale o l'anima dell'impresa in cui lavora. Solo se animato dalla
passione pel suo ufficio, potrà essere assiduo al lavoro, in buoni
rapporti con superiori e colleghi, pronto e cordiale col pubblico.
1. Dovrà quindi esaminarsi sull'impegno che mette e l'orga-
nizzazione che sa dare al proprio lavoro (essendo spesso libero
dalla sorveglianza dei superiori). Ci può esser, ad esempio, la
tentazione di legger il giornale, di scrivere la propria corrispon-
denza, di fare altri lavori personali durante le ore d'ufficio; di non
metter in ordine i documenti, ma d'accumularli (quasi per dar
l'impressione, d'una attività massacrante); di tirar in lungo il
lavoro (per non saper o non voler organizzarlo) in modo da far
credere alla necessità di ore straordinarie (cfr. Lebret-Suavet,
Ringiovanire l'esame di coscienza, Roma, 1954, pp. 48-50).
2. Rapporti con superiori e colleghi. Verso i superiori: rispet-
to, equità, comprensione, benevolenza. Né adularli nella speranza
di miglior trattamento e promozioni, né demolirli sistematicamente
di fronte agli altri.
Verso i colleghi: stima, solidarietà, aiuto fraterno. Non metter
ostacoli all'avanzamento di giovani capaci e degni; non danneg-
giare per invidia la stima che godono presso i superiori.
Evitare le odiose concorrenze. È da lodare chi, accanto all'in-
dolente ed al pigro, espleta sollecitamente il suo lavoro: bando
però a quella certa vanità di chi vuol ostentare la sua superiorità
sui colleghi. E c'è anche chi si attribuisce il merito del lavoro com-
piuto da qualche subalterno.
395
3. Relazioni col pubblico. L'impiegato deve considerarsi al
servizio e a disposizione (per quanto possibile) del pubblico. Sarà
messa alla prova la sua pazienza e gentilezza nel sobbarcarsi a
qualche sacrificio per accontentare (od almeno per dare un qualche
aiuto) a chi fa una richiesta (forse non del tutto pertinente). C'è
l'impiegato che dà risposte sbrigative, informazioni approssima-
tive, incerte (e forse false) per non darsi la pena di fare qualche
ricerca (cfr. Lebret-Suavet, l.c).
13. Imprenditori
396
ganizzazione professionale e al sindacato, inteso non come un'arma
esclusivamente rivolta ad una guerra difensiva ed offensiva, che
provoca reazioni e rappresaglie, non come una fiumana che dilaga
e divide, ma come un ponte che unisce... Tuttavia... né l'organiz-
zazione professionale e il sindacato, né le commissioni miste, né
il contratto collettivo, né l'arbitrato, né tutte le prescrizioni della
più vigile e progredita legislazione sociale varranno a dare una
piena e duratura concordia e a produrre tutti i loro frutti, se
una provvida e costante azione non interviene ad infondere un
soffio di vita spirituale e morale nella stessa compagine dei rap-
porti economici ». Perciò egli benediceva « con effusione di cuore
l'opera dei Cappellani del lavoro, i quali nelle fabbriche, al di
sopra di ogni partito e alieni da qualsiasi interesse materiale,
portano con Dio la luce di verità e la fiamma di amore che affra-
tella gli animi » (Pio XII, Disc, e Radiomess., VII, pp. 350-351).
Chi in seno alle imprese ha compiti direttivi — ricordava
Pio XII ai partecipanti al I Congresso Intern. Ingegneri, il 9.X.53
— sia consapevole d'aver a dirigere delle persone intelligenti e
libere: ognuna di queste, per quanto umile, si pone — con la
stessa acutezza, anche se in modo meno riflesso — gli stessi pro-
blemi personali che interessano i capi dell'impresa. « Voi amate —
osservava il pontefice — che vi si affidino delle responsabilità,
che vi si lasci la libertà di prendere delle iniziative..., voi deside-
rate superare il quadro puramente professionale, per sviluppare
la vostra personalità tutt'intera... È augurabile che il lavoratore
più modesto vi partecipi progressivamente. Dopo averlo trattato
troppo a lungo come un mezzo di produzione, sfruttabile a vo-
lontà ci si è preoccupati delle condizioni materiali della sua
esistenza. Si riconosce ora che sarebbe ben insufficiente fermarsi
là... Non può bastare di vedere in lui un produttore di beni, ma
bisogna trattarlo come un essere spirituale che il suo lavoro deve
nobilitare e che attende dai suoi capi, più ancora che dai suoi
eguali, la comprensione dei suoi bisogni ed una simpatia veramente
fraterna » (Disc, e Radiom., XV, pp. 387-388).
II. A chi ha un compito di direzione in un'impresa (sia indu-
striale, sia commerciale, sia artigiana) sono richieste particolari
doti, qualità, virtù, corrispondenti ai suoi impegni ed alle sue
responsabilità. Ne elenco qualcuna.
1. Prudenza. Virtù-guida la quale, in ogni opera e nella
organizzazione d'ogni piano di lavoro, muove l'uomo a scegliere
ed usare i mezzi proporzionati al fine. Si presuppone anzitutto che
mezzi e fine siano leciti ed onesti. Poi molte volte sarà da chie-
dersi se, di fatto, questa prudenza ispiratrice sia una prudenza
veramente soprannaturale o solo umana. Ad esempio, chi ha
coscienza delicata e senso di responsabilità avvertirà certi problemi
ed esigenze morali che non riguardano solo i rapporti contrattuali
e l'organizzazione del lavoro. Nello stabilire, disporre e distri-
buire posti, funzioni, incarichi, non si preoccuperà solo che l'ope-
raio abbia la maggior sicurezza ed igiene possibile, ma anche che
siano evitati i pericoli morali (che vengono, ad esempio, da certe
promiscuità o dall'influsso meno buono che un giovane potrebbe
ricevere da un anziano a cui viene affidato).
2. Spirito d'umiltà e carità. Un capo d'impresa considererà
il proprio incarico come un servizio, non come un privilegio. Non
crederà d'esser capace di veder chiaro e decider da solo senza
bisogno del parere d'altri. Ma procurerà, per quanto possibile,
nelle sue decisioni — riguardanti l'ordinamento e l'organizzazione
del lavoro — di accettare di buon animo la partecipazione attiva
alla vita dell'impresa di tutti i suoi collaboratori e dipendenti.
Non c'è dubbio, autorità ed unità di direzione devono esser salve;
ma gli operai non possono neppure esser ridotti a semplici muti
esecutori di ordini, da ricevere in modo assolutamente passivo
senza la minima possibilità di esporre i propri punti di vista e
di fare qualche personale esperienza (cfr. Giov. XXIII, Mater et
Mag.y n. 98). Considero la questione sotto il profilo piuttosto
umano, morale ed ascetico. Non entro a discutere sulla questione
della partecipazione degli operai alla gestione ed agli utili dell'im-
presa. Nella « Gaudium et Spes », n. 68, si legge che « nelle
imprese economiche... — sempre con riguardo ai compiti di cia-
scuno, sia dei proprietari, sia degli imprenditori, sia dei dirigenti,
sia dei lavoratori, e salva la necessaria unità di direzione dell'im-
presa — si promuova (in modo da determinarsi secondo le con-
venienze) l'attiva partecipazione di tutti nella "curatio" dell'im-
presa ». Volutamente si è usato il termine « curatio » desumen-
dolo dal testo latino .della « Quadrigesimo anno » (n. 30) (dove
è espresso l'augurio che gli operai diventino cointeressati o nella
proprietà o nella « curatio » dell'impresa o partecipi in qualche
misura dei guadagni percepiti). Pertanto nella traduzione italiana
non è esatto usare la parola « gestione » che ha un significato
specifico che va oltre quello di « curatio ». Si dovrà usare una
espressione che abbia un significato più generico, come, ad esem-
398
pio, « partecipazione alla vita dell'impresa ». Difatti non è com-
pito della Chiesa formulare (salve le esigenze della giustizia e
della carità) precise indicazioni circa rinnovamenti tecnici o giu-
ridici dell'impresa. Bensì — secondo lo spirito del messaggio
evangelico — d'esortare che l'impresa diventi sempre più una
vera comunità di persone. Comunità nella quale regni fraternità
umana e cristiana. Ma ciò suppone che ognuno — qualunque sia
il suo posto e la sua funzione — pratichi costantemente le virtù
della carità e dell'umiltà (oltre che della giustizia sociale). Per
esempio, a proposito della partecipazione di tutti gli operai agli
utili dell'impresa, è evidente che se in una società industriale a
regime azionario, soltanto pochi (che sono alla direzione) acca-
parreranno tutte le « azioni » (con conseguenti guadagni enormi)
questi dirigenti non si mostrano certo preoccupati del bene co-
mune e delle istanze della giustizia « sociale ». Ed in definitiva
opereranno contro il bene dell'impresa stessa. Perché, non favo-
rendo, anzi impedendo, ciò che potrebbe in qualche modo miglio-
rare le condizioni degli operai, questi naturalmente saranno tentati
d'invocare l'intervento dello Stato e d'auspicare un regime collet-
tivista (senza pensare che, in tale soluzione, rinuncerebbero alla
propria libertà e si fiderebbero d'un potere dittatoriale che sarebbe
inevitabilmente nelle mani di pochi).
3. E per chi ha posti direttivi in un'impresa, tante occasioni
si presenteranno di metter in pratica la giustizia « distributiva ».
La quale non interessava solo i monarchi del passato, ma chiunque,
in una comunità, deve distribuire ed assegnare incarichi ed im-
pegni, oneri ed onori, uffici e vantaggi. E ci può esser la tenta-
zione di lasciarsi guidare da motivi solo personali o d'interesse.
4. Chi ha un compito di vigilanza s'interrogherà se mai tenda
a cadere in uno dei due opposti difetti: da una parte quello di
lasciar correre e trascurare il giusto controllo; dall'altra parte
quello d'esser troppo esigente, pignolo, diffidente.
5. Chi è alla direzione d'un'impresa è ordinariamente assor-
bito in modo eccessivo dal lavoro: occupazioni, preoccupazioni,
contrattempi, impegni, casi e difficoltà da risolvere, pratiche da
sbrigare: tutte cose che non sono sempre fissate e preventivate
(come può esser il lavoro del semplice operaio). Pertanto dovrà
aver l'avvertenza e la forza di volontà di metter una certa regola
ed un ordine nella sua attività, per quanto possibile. Bisogna
riservare il tempo necessario al riposo fisico e mentale, alla vita
399
di famiglia; ed anche alle relazioni sociali; nonché alla propria vita
spirituale e religiosa.
6. Mentre lavorano la materia e la trasfigurano nobilitandola,
gli operai — sia che abbiano compiti piuttosto esecutivi, sia diret-
tivi — corrono il rischio di subire una perdita nella loro perso-
nalità perché obbligati ad un ritmo febbrile, ad una fretta logo-
rante, ad un'abituale tensione che mal permette la serena rifles-
sione. Corrono il rischio di restringere sempre più l'orizzonte
della loro vita spirituale; talora sono costretti ad una quasi asso-
luta solitudine. Nessuna meraviglia se, presto o tardi, insorge-
ranno anche le nevrosi e le malattie professionali.
7. Specialmente chi ha un ufficio di direzione dovrà colti-
varsi anzitutto in quella scienza e cultura tecnica che è specifica
della sua professione, cercando, ad esempio, di conoscere quelle
imprese, industrie, officine ove vi sono introdotti nuovi sistemi,
metodi più progrediti, un'organizzazione più perfetta. Metterà,
nell'impresa, a disposizione degli altri le sue conoscenze cercando
d'istruirli, prepararli, incoraggiarli, imprimendo al loro lavoro un
ritmo d'entusiasmo e di fervore.
8. Mirerà a realizzare cosi il progresso tecnico della propria
impresa, industria, officina, colla prudenza però di non azzardare
spese pericolose che possono compromettere la vita e la stabilità
economica dell'azienda.
9. D'altra parte (come ho già accennato) per chi ha una
professione di carattere commerciale od industriale c'è il pericolo
— come, del resto, per tante altre — di non interessarsi di nulla
all'infuori di ciò che riguarda la propria professione. Il pericolo
di perder ogni amore per la cultura generale e di restringere il
suo cerchio d'interessi intellettuali al proprio lavoro tecnico
e materiale, colla conseguenza non solo di andar incontro all'iso-
lamento, ma anche di subire uno spegnimento d'ideali e d'affetti
umani. Come evasione da un'attività obbligatoria rinchiusa e mo-
notona, molti si rifugiano in un hobby. È un espediente per ossi-
genare, più o meno profondamente, la vita ordinaria. Soprattutto
però bisognerebbe vedere la funzione spirituale del lavoro umano
che non è fine a se stesso. La grande pena del lavoro manuale
— notava Simone Weil — consiste nel fatto che si è costretti allo
sforzo e alla fatica per tante e lunghe ore, solo per esistere. Il
lavoratore che non si propone alcun bene fuorché la nuda esi-
stenza, scende al livello vegetativo. I lavoratori hanno bisogno
400
di poesia più che di pane. Altrimenti « il lavoro è d'una mono-
tonia che condurrebbe facilmente all'abbrutimento, alla dispera-
zione o alla ricerca delle soddisfazioni più grossolane; poiché la
mancanza di finalità che è il guaio d'ogni condizione umana, vi si
mostra troppo visibilmente. L'uomo s'esaurisce nel lavoro per
mangiare, mangia per aver la forza di lavorare, e dopo un anno
di pena tutto è esattamente come al punto di partenza. Egli
lavora in circolo. La monotonia non è sopportabile all'uomo che
mediante un'illuminazione divina » (S. Weil, Pensées sans orare
concernant l'amour de Dieu, Paris, Gallimard, 1962, pp. 19-20).
10. Il capo d'impresa cercherà di promuovere nell'ambiente
di lavoro un clima di famiglia e di fraternità fra tutte le mae-
stranze e gli operai. Il che suppone che si desideri (come è stato
detto) una ragionevole partecipazione dei singoli alle responsa-
bilità ed all'organizzazione dell'impresa, ma la fraternità è qual-
cosa di più. È un frutto squisito dello spirito cristiano e della
fede. Ed è la risultante d'un concorde sforzo di tutti, non solo
di chi ha posti di comando, ma anche di chi non li ha. Nessuno
deve pretender di ricever questo dono senza impegnarsi e darlo
agli altri. È sempre valido ed attuale quanto scriveva Leone XIII
nella « Rerum Novarum ». Chi è a capo non deve tenere gli operai
« mancipiorum loco »: né come macchine, né come strumenti che
hanno solo la funzione d'eseguire i comandi (qualunque siano);
devono invece rispettare in loro la dignità della persona umana e
cristiana: « vereri in eis... dignitatem personae, utique nobilita-
taci ab eo, character christianus qui dicitur ». Per questo sincero
rispetto, il capo sarà attento e sensibile a tutto quanto può esser
superiore alle forze d'un dipendente o non corrispondente alla
sua età o sesso, e sarà preoccupato che l'operaio non sia (a causa
del lavoro) troppo sottratto alila vita familiare od impedito nel-
l'esercizio e sviluppo della sua vita spirituale e religiosa (alla
quale ha diritto perché non è né una bestia né una macchina).
D'altra parte gli operai concorreranno a creare una convivenza
familiare nell'impresa. Perciò — diceva Leone XIII — manter-
ranno fedelmente gli impegni ed eseguiranno integralmente il
loro lavoro. Eviteranno ciò che nuoce all'impresa od è mancanza
di rispetto verso chi la dirige. Si asterranno dalla violenza e da
tutte quelle forme di protesta e rivendicazione che, alla fine,
nuociono all'impresa ed agli operai stessi, ma sono purtroppo
suggerite da chi vuol indurre il disordine e la lotta di classe: da
quelli (secondo l'espressione di Leone XIII) « hominibus flagi-
401
tiosis immodicas spes et promissa ingentia artificiose iactantibus,
quod fere habet poenitentiam inutilem et fortunarum ruinas
consequentes » (Rerum Nov., n. 10).
402
mamma dovrà chiedersi se sia umano l'affidare giorno e notte ad
una ragazza di quindici, sedici anni, bambini che non le permet-
tono neppure di dormire la notte. Anche nella migliore villeggia-
tura una domestica (specie se giovane) ha bisogno delle sue ore
di riposo e di sonno e di non esser messa a dormire in luogo
occupato (o disturbato) fino ad ore piccole per poi, al mattino,
doversi alzare presto (a differenza degli altri). Anche per queste
persone di servizio, come per gli operai, vale quanto scriveva'
Leone XIII: « tantum esse... tribuendum otii (che significa: ri-
poso, distensione, tempo libero) quantum cum viribus compen-
setur labore consumptis; quia detritas usu vires debet cessatio
restituere » (Rerum Nov., p. I l i , n. 26). Qualunque sia il con-
tratto e la retribuzione, ci sono condizioni alle quali non si può
venir meno; condizioni che, se non sono espresse, sono tacite; e
se anche non fossero rivendicate, sarebbe inumano ed immorale
il non ritenerle ed il non osservarle: « neque enim honestum esset
convenire secus, quia nec postulare cuiquam fas est, nec spondere
neglectum officiorum, quae vel Deo vel sibimetipsi hominem
obstringunt » (n. 26). Il che significa che prima e al di sopra
dei doveri verso i padroni ed inerenti al lavoro ci sono i doveri
di carità verso Dio e verso sé stessi.
3. Ai domestici colpiti da non lunga infermità i padroni pre-
steranno le necessarie cure (a casa o all'ospedale) senza nulla de-
trarre dallo stipendio. Questo, almeno per carità e pietà, se la
legge non lo prescrive. Nel caso poi di chi per tanti anni avesse
servito fedelmente, la riconoscenza suggerirà d'esser generosi
anche nel caso di lunga malattia.
4. I padroni devono far di tutto per dare ai domestici il
tempo e la possibilità di adempiere i propri doveri religiosi (il
che molti praticamente non concedono o rendono troppo difficile).
E, soprattutto, non li metteranno, a causa del servizio, nell'occa-
sione prossima di peccato grave.
5. Se avessero al proprio servizio un minorenne, dovrebbero
preoccuparsi anche della sua educazione umana, morale e religiosa
perché, nei suoi riguardi si troverebbero a supplire i genitori.
6. Nel trattamento non useranno quelle odiose ristrettezze le
quali danno ai dipendenti l'impressione di trovarsi tutt'altro che
« in famiglia ». Ci sono padrone che chiudono a chiave ogni
cibo, misurano, ad ogni pasto, il companatico e persino il pane
403
ai domestici. Ciò indispone i dipendenti e finisce per non giovare,
per nessun conto, neppure ai padroni.
IL I domestici, da parte loro, dovranno (come i padroni)
osservare i doveri — leggi e consuetudini — che il contratto di
lavoro importa. Ma, oltre allo stretto dovere, cercheranno di pre-
stare il loro servizio con cura, fedeltà, amore. E procureranno
d'evitare tutto ciò che può turbare la tanto desiderata atmosfera
d'umanità cristiana.
1. Devono anzitutto osservare la giustizia. Non permettersi
neppur la minima appropriazione indebita. Chi è infedele nel poco,
un po' alla volta lo sarà nel molto. Ci son domestici che arroton-
dano a proprio vantaggio il conto della spesa (e persino arrivano
a falsificare conti e fatture). Ci son autisti che si accordano col
meccanico per far pagare al padrone della macchina spese per
guasti inesistenti. Ci son castaidi che vendono qualche pianta
tagliata o generi alimentari, intascando il ricavato, o subaffittano
abusivamente un pezzo di terreno.
Giustizia vuole che si abbia cura della roba dei padroni, non
la si deteriori senza riguardo, non la si butti senza cercar di ripa-
rafia colla scusa che è roba d'altri e roba di gente ricca. Così
per i cibi: un domestico dovrebbe usare l'abituale economia che
usa colla roba propria: non getterà nelle immondizie avanzi che
possono o esser dati ai poveri od esser utilizzati.
Per esser perfetto nella giustizia un domestico occupi bene
il suo tempo. Distribuisca il lavoro per ogni ora della giornata.
Osservi anzitutto l'ordine (quanto tempo perso per cercar oggetti
non collocati al loro posto). Non perda tempo con le lunghe
chiacchiere inutili, non stia inattivo appena vien meno la sorve-
glianza dei padroni. Il tempo è mal impiegato anche quando le
faccende sono sbrigate senza diligenza e senza esattezza. Il dome-
stico conscio dei doveri del suo stato (nel cui adempimento sta
la santità) cerca di perfezionarsi nell'eseguire i suoi servizi (ricor-
rendo ai consigli dei padroni o di persone più anziane ed esperte):
cosi fa opera gradita a Dio e si merita la stima degli uomini.
2. Obbedienza. La perfezione suggerisce che se si discute su
qualche disposizione od ordine dei superiori, lo si faccia in modo
rispettoso ed amabile. Dette le proprie ragioni, bisogna allegra-
mente conformarsi alla volontà di chi in casa sua ha diritto di
comandare (purché non vada contro la legge di Dio). Certo l'ob-
bedienza pronta e sorridente ad estranei, il saper indovinare i loro
404
desideri, non è facile e frequente. Domanda solida formazione e
virtù. Difatti spesso si obbedisce perché costretti, ma con noia,
malumore e mormorazione (dimostrando anche non poca superbia
e presunzione).
Noto che specialmente i domestici minorenni devono obbe-
dire ai loro padroni quando, supplendo i genitori, compiono retta-
mente il loro ufficio d'educatori.
3. Pazienza. Una delle virtù che maggiormente è messa alla
prova per chi serve e deve stare sempre sottomesso. Pazienza nel
sopportare caratteri difficili, persone incontentabili. Pazienza di
fronte ad ordini talvolta contraddittori. Pazienza coi bambini
spesso capricciosi ed esigenti: bisogna correggerli, ma senza col-
lera e non con maniere violente. Pazienza cogli altri domestici
della casa, forse invidiosi ed intenti a metter in cattiva luce qualche
collega presso i padroni.
Insomma, per aver pazienza occorre amore alle persone ed
alla famiglia con cui si vive.
4. Amore. È il segreto e l'ideale per un servizio esemplare.
Considerare come sua la casa dei padroni. Custodirne il buon
nome. Voler bene ai bambini. Non sparlare dei padroni e, se gli
altri domestici lo fanno, cercar di metter pace. Ma per avere
questa carità bisogna compatire, per compatire bisogna pensare
che tutti — padroni e domestici — hanno i loro difetti, e quindi
hanno bisogno d'indulgenza.
La pratica della carità, in una famiglia, è continuamente ri-
chiesta ed ha un campo vastissimo. Chi, ad esempio, in un
momento di malumore o di rancore (sia pur causato da qualche
ragione obiettiva) riferisce fuori casa e dà in pascolo al pubblico
fatti della famiglia, manca, quanto meno, alla delicatezza della
carità. Carità verso compagni e compagne di lavoro: scusare i
difetti, non riportare chiacchiere, pettegolezzi, mancanze ai pa-
droni. Non esser invidiosi, non pretendere d'esser sempre i primi
nella considerazione e nella stima dei padroni. Se qualche collega
sbaglia, consigliarlo con bontà e, se incapace o malato, aiutarlo,
invece di rilevarne le deficienze.
405
15. Insegnanti ed alunni
406
importanza le prime impressioni ed i primi giudizi degli alunni
sul modo com'egli tiene lezione, sulla sua capacità, o meno, di
mantener desta ed attenta la scolaresca, d'ottenere la disciplina.
Pel fatto stesso di non esser ancora conosciuto, l'insegnante incute
alla classe un certo timore ed un istintivo rispetto verso di lui.
Avrà l'arte di saper conservare e sfruttare abilmente questo stato
d'animo. Conserverà un atteggiamento serio e dignitoso, mo-
strando però benevolenza verso tutti (cfr. AA.VV., Vita ed espe-
rienza didattica, Roma, 1939, Studium, pp. 63-64).
Se gli alunni sono tenuti a star attenti alle lezioni ed a fare
i compiti con amore e diligenza, il professore ha il dovere di
preparare le sue lezioni perché riescano attraenti e feconde e
d'assegnare compiti proporzionati alle condizioni e capacità degli
alunni. Non può fidarsi della sua cultura e parlare a braccio, senza
una linea ed un ordine, improvvisando esemplificazioni e diva-
gando secondo l'estro del momento. Non serve ed è, anzi, contro-
producente lo sfiatarsi con un fiume di parole: si stanca chi
parla e si stanca, e finisce per non seguire il discorso, chi ascolta.
Bisogna apprender l'arte della parola calma, misurata, forte e
martellante quand'è necessario.
Non si può esser semplici ripetitori d'un testo: occorre una
personale interpretazione da parte dell'insegnante se si vuol che
la lezione sia gustata anche da coloro che hanno poca attitudine
per quella determinata materia. La lezione migliore non è neppure
la conferenza preparatissima perché i giovani difficilmente la
potrebbero seguire: bisogna conversare guardando negli occhi
tutti gli alunni per vedere se afferrano, per intraprendere, magari,
un breve dialogo con qualcuno. Bisogna preparare la forma d'espo-
sizione adatta all'uditorio, ma, poi, nel corso della lezione, occorre
sensibilità per intuire ciò che va sottolineato, ripetuto, distinto,
ripreso, tralasciato (almeno per il momento). Tutti gli alunni (pel
fatto stesso che sono stati ammessi ad una determinata classe)
devono aver la capacità di seguire una lezione che vi si tiene.
Se alcuni non hanno capito, bisogna ripetere sott'altra forma gli
stessi concetti. La ripetizione, poi, fatta dagli alunni darà modo
di controllare i frutti dell'insegnamento e, nel tempo stesso, di
completare e chiarire quanto già è stato esposto. L'alunno, nella
esposizione di quanto ha appreso, si fermerà forse ad un parti-
colare perché è ciò che meglio ricorda. L'insegnante non lo stron-
chi e non si stizzisca pretendendo di trovare o imporre la propria
407
mentalità: cerchi, invece, dolcemente e gradatamente, di condurre
il giovane dai particolari alla visione d'insieme, dall'accessorio al
principale. Insomma, bisogna, per quanto possibile, procurare
che l'apprendimento avvenga in classe. Non si può rimandare
allo studio personale degli alunni quello che in classe non hanno
compreso. E nella mente di chi non è riuscito a camminare col
professore possono formarsi delle lacune incolmabili che provo-
cano uno stato spirituale di scoraggiamento. L'insegnante promuo-
verà fra gli studenti anche le forme di collaborazione e d'aiuto
reciproco: talvolta un alunno riesce, meglio d'un insegnante estra-
neo, a metter in carreggiata un compagno disorientato.
3. Il primo obbiettivo dell'insegnamento è la formazione in-
tellettuale dello studente: bisogna ricorrere a tutti i mezzi idonei
per far amare la verità e stimolare il desiderio di conoscerla. Ma,
insieme alla formazione intellettuale, bisogna dare al giovane
l'educazione morale: suscitare la buona volontà contro ogni indi-
sciplina e pigrizia. Mezzo potentissimo: l'entusiasmo. E l'inse-
gnante che è appassionato cultore e docente della sua materia
accende irresistibile negli allievi l'entusiasmo, qualunque sia la
materia. Non basta coltivare l'intelligenza ed infondere chiare e
profonde persuasioni; non basta educare la volontà e predicare il
senso del dovere. Bisogna far leva sul sentimento. Occorre che
il giovane s'appassioni per i problemi e senta il bisogno di cercarne
la soluzione. E per appassionarsi deve percepire l'interesse vitale
e le conseguenze pratiche delle questioni. Se non ama la filosofia
è perché non ha ancora sentito intimamente e personalmente che
il problema della vita è il problema decisivo il quale dev'esser
risolto indeclinabilmente perché lo spirito è inquieto e vuole la
luce, va mendicando una parola di certezza sul suo supremo de-
stino. Il giovane non s'entusiasma per schemi e sistemi che non
hanno relazione colla sua vita. Nell'insegnante non cerca solo
l'erudito ma l'uomo del suo tempo. Più che sistemi vuole ideali
ed esempi affascinanti da imitare (anche se, poi, di fatto, non
potrà che lontanamente ricopiarli). Gli ideali che sente di più
sono quelli della libertà, dell'amore, della fraternità, dell'ugua-
glianza. Il giovane, in genere, tende ad essere un rivoluzionario.
Ed è bene coltivare in lui il rivoluzionario: ma quello sano e
santo. Bisogna fargli capire che la più grande e vera rivoluzione
è il cristianesimo: rivoluzione del diritto contro la violenza, della
povertà contro la ricchezza, della debolezza contro la potenza e
408
la prepotenza, della verità contro la menzogna la quale riempie
libri e giornali, vola sulle onde dell'etere e penetra dovunque
(AA.W., Responsabilità della cattedra, Roma, 1944, Studium,
pp. 86-87). Il sentimento, da solo, è cieco. È l'intelligenza che
deve guidarlo e tutto illuminare. Possono sopraggiungere crisi di
dubbio e di scetticismo (specialmente in materia di fede) che si
supereranno solo da chi ha maturato solide convinzioni. Bisogna
che l'insegnante mostri d'avere, ed infonda negli allievi, il culto
della verità. Nulla si deve affrettatamente affermare (per vanità
o leggerezza o faziosità impulsiva) se non si è certi che è vero.
Se necessario, si rettificherà umilmente quanto detto. Ed anche
nel far appello al sentimento bisogna esser sobri e discreti. Son
poche le cose che lo meritano sul serio. Se si sciupa in ciò che non
lo merita ci si scredita o si rischia di far prediche noiose (AA.W.,
Vita ed esperienza didattica, pp. 9-11).
4. La disciplina. Bisogna usare il metodo di prevenire ed im-
pedire il disordine prima che sia necessario intervenire per repri-
merlo. Nella scuola deve regnare il principio dell'amore, non del
timore. Raramente dovrebb'esser necessario il richiamo, l'ammo-
nizione (e sempre fatta con dignità e compostezza). Le misure
dure e forti non sono da escludersi assolutamente ma da riservarsi
ai casi veramente eccezionali. Talora non è necessario il rimpro-
vero esplicito. Basta far capire d'aver udito e visto, è sufficiente
uno sguardo od un attimo di silenzio. Né bisogna esagerare nel
pretendere una serietà ed un silenzio superiori alla capacità degli
alunni. I giovani han bisogno d'allegria. Non conviene reagire con
un duro e pungente rimprovero ad ogni spontanea ilarità: meglio,
qualche volta, prendervi parte, con discrezione.
5. Soprattutto l'esempio. Anche in quei giorni nei quali ci
si sente mal disposti — fisicamente o spiritualmente — bisogne-
rebbe, quando si entra in scuola, dimenticare sé stessi. Ed evitare
i contrastanti cambiamenti d'umore: il passare dall'allegria smo-
data (di cui molti approfitteranno per concedersi una libertà
sfrenata) alla repressione severa mediante una sfuriata scompo-
sta e, forse, ingiusta. L'insegnante che si comporta in questo
modo, può, in fondo, sbagliare per ingenua bontà, ma disorienta,
quanto meno, la scolaresca. E, se vuol esser rispettato, dimostri
agli stessi alunni rispetto, riguardo, stima: li tratti con una certa
signorilità evitando ogni parola umiliante. Tenga conto che i di-
scepoli sono già in una condizione di subordinazione e di debo-
409
lezza: vanno quindi rispettati e (fino ad un certo punto) compa-
titi. I giovani sono esigenti e, talora, suscettibili: una parola
inopportuna che offenda qualcuno, può alienare per sempre il
suo animo (AA.VV., Responsab. della cattedra, p. 65).
6. Giustizia, imparzialità, misericordia. Al di sopra d'ogni
simpatia od antipatia, d'ogni speranza di tornaconto, di favori,
d'appoggi, contro ogni sentimento di rancore, d'ira, di vendetta,
bisogna trattare tutti con un giudizio obbiettivo e spassionato. E
bisogna dare senza attendere gratitudine, dare senza ostentazione
e senza amari lamenti, senz'atteggiarsi a vittime od a persone
incomprese, dare allegramente e disinteressatamente, come se si
trattasse della cosa più naturale.
Giustizia e misericordia: si integrano, non si distruggono a
vicenda. La misericordia è espressione d'un giudizio più maturo
che tien conto non solo del rigore della legge ma anche dell'uma-
na debolezza.
In modo particolare dovrà l'insegnante interrogarsi sul modo
come esamina i candidati. Gli esami sono una tribolazione, ma
conservano la loro importanza. Segnano le tappe ed il termine
della carriera scolastica d'uno studente. Possono esser decisivi per
tutta la sua vita avvenire. Bisogna distinguer bene il colloquio
d'esame dalle ordinarie interrogazioni che si tengono lungo l'anno.
Queste possono esser fatte con una certa severità e minuziosità.
Hanno lo scopo d'accertare se gli alunni studiano, se la lezione
è riuscita efficace, ed offrono l'occasione per chiarire qualche
punto che può esser rimasto oscuro. Nell'esame bisogna tener
presente che l'alunno non ricorda molte nozioni che pur ha
appreso; che può avere qualche momentanea amnesia; che, in
genere, si trova in uno stato d'eccitazione anormale. Perciò bisogna
anzitutto che l'esaminatore lo accolga con un aspetto benevolo
ed incoraggiante e con un tratto cortese. Lo incoraggi, special-
mente se lo vede ansioso e timoroso. Non mostri di dar troppa
importanza — e, tanto meno, d'indignarsi — se, ad una prima
domanda, per quanto elementare, l'alunno appare incerto. La
situazione potrebbe precipitare, l'esaminando bloccarsi e disorien-
tarsi completamente. L'insegnante, più che scoprire quello che il
candidato non sa, procuri di trarre alla luce quello che sa, con
abilità e metodo socratico. Più che giudice, si senta artista degli
spiriti. Certo non si può pretendere che la buona volontà del-
l'esaminatore supplisca al vuoto dell'esaminando.
Infine l'esame orale dovrebbe restare sempre uri colloquio
410
vivo. Perciò l'esaminatore cercherà, per quanto possibile, di non
lasciarsi mai prendere dalla stanchezza fisica e morale e di non
ridursi a ripetere meccanicamente le stesse domande (cfr. AA.W.,
Vita ed esperienza didattica, pp. 69-74).
7. Famiglia e scuola devono formare l'uomo completo: quindi
è non solo utile, ma necessaria una mutua informazione ed una
espressa collaborazione. Ma molti genitori non si curano d'aver
rapporti con i singoli professori. E ci son professori che rifuggono
dal fastidio di trattare coi genitori degli alunni: dovrebbero inve-
ce invitarli. E poi trattarli tutti colla stessa stima, rispetto, defe-
renza, senza far distinzione fra persone d'alto rango (alle quali si
può chiedere qualche favore) ed umile gente del popolo. Questi
incontri non saranno tempo perduto per l'insegnante che, rag-
guagliato a dovere, dovrà forse modificare qualche suo giudizio.
Alle volte risulterà che lo scarso rendimento del ragazzo non
dipende solo da mancanza di buona volontà ma da altre cause:
talora emergerà la necessità di curare la salute fisica. Gli alunni,
alle volte, più che coi genitori, si aprono con qualche insegnante
che ispira loro confidenza e fiducia. Questi avrà cosi modo di
dare ai genitori qualche discreto suggerimento sulle attitudini e
la vocazione del loro figliuolo. In qualche caso in cui sono in
ritardo o deficienti le capacità intellettuali del ragazzo, l'insegnante
dovrà assumersi l'ingrato compito di avvisare con delicatezza i
genitori che è opportuno pel soggetto ripetere una classe, oppure
dire chiaramente che egli non è fatto per proseguire gli studi ma
potrà riuscire molto bene in un altro lavoro professionale (cf.
AA.W., Responsab. della cattedra, pp. 45-51).
8. Una questione particolare o particolarmente delicata che
interessa anche la scuola. « All'insegnante s'impone la massima
cautela nell'accennare ad argomenti sessuali: egli deve parlare
con semplicità e franchezza di ogni fatto della vita, proporzionata-
mente all'età e alla preparazione morale degli alunni, ma deve
evitare qualsiasi istruzione sessuale specialmente di fronte alla
collettività degli alunni. Anche di fronte al singolo alunno l'inse-
gnante soddisfacendo con sobrietà alle sue domande, farà bene a
indirizzarlo a chi per natura è più adatto a tale educazione: ai
genitori o al confessore » (F. Montanari, in: AA.W., Responsa-
bilità della cattedra, pp. 8-9). Perché la Chiesa non potrà approva-
re un'educazione sessuale — fisico-anatòmica — fatta pubblica-
mente; e tanto meno che ai fanciulli delle scuole elementari si
illustri con disegni sulla lavagna gli organi sessuali ed il rapporto
411
sessuale (non son casi ipotetici). L'istruzione sessuale dev'esser
data al singolo che ne ha bisogno e secondo il suo bisogno. Ed,
anzitutto e soprattutto deve avere come finalità l'educazione alla
castità (cf. Pio XI, De Christiana iuventae educatione, 31.XII.1929,
AAS, 22, 1930, 71; S. Off. Decret. de «educatione sexuali »,
21.111.1931, AAS, 23, 1931, 118-119).
II. Gli alunni. Dovrebbero vedere negli insegnanti laboriosi,
retti, buoni (anche se giustamente severi) i rappresentanti dei geni-
tori e di Dio, e, come tali, riverirli ed obbedirli.
1. Molti giovani sono cresciuti colla mentalità secondo la
quale, nell'esame di coscienza, si debba solo interrogarsi sulle ora-
zioni quotidiane, la Messa festiva, gli atti impuri: una religione ed
una morale che non investono tutta la vita. Ma — come, per
l'adulto, gli impegni della professione — cosi pel ragazzo uno dei
principali doveri è lo studio, in scuola e fuori di scuola. Deve
prenderne coscienza e non considerarsi del tutto libero ed indipen-
dente di fronte ai suoi educatori. Non sia solo l'interesse che tiene
in cattedra il maestro e. non sia solo la forza d'una disciplina
esterna che tiene fermo al banco lo scolaro. Pensino, certi stu-
denti, che dovranno pentirsi — ma troppo tardi — d'aver passato
tante ore di scuola in ozio od in letture estranee senza star attenti
alle lezioni dei professori (o di taluni professori). È pacifico che la
scuola pubblica rende poco, sia perché le classi sono troppo nume-
rose, sia perché gli alunni non sanno approfittarne. È stato osser-
vato che dopo otto anni di latino un giovane esce dal liceo senza
saper la lingua, cioè senza esser in grado di leggerla e di
capirla. Mentre con tre ore settimanali di lezioni private in una
lingua moderna, dopo un anno si arrangia già a parlarla. Risultato
che non si ottiene dopo quattro anni di scuola pubblica. Ciò
significa che gran numero delle ore di scuola va perduto. Di dieci
ore di lezione, il singolo alunno ne assimilerà, al massimo, due
(cfr. AA.VV., Vita ed esperienza didattica, p. 51). Vuol dire che
nelle altre ore non s'impegna: e cosi, o si distrae senza pensarci
o si distrae volendo distrarsi per non far niente o per far altre
letture; pensa che, quando il professore spiega, non occorre appli-
carsi a seguirlo perché c'è il testo, e quando un compagno vien
interrogato, oiò interessa lui solo. Insomma, tante ore passate in
scuola, ma senza lavorare.
2. Oggi, nell'educazione, si preferisce il metodo basato piut-
tosto sulla comprensione, l'affetto, la persuasione, il colloquio
franco ed aperto dei genitori con i figli e dei maestri con gli
412
alunni. È una reazione a metodi del passato caratteristicamente
autoritari. E, di fatto, se molti giovani respingono i loro educa-
tori, è perché sono stati, in precedenza, o respinti (cioè trascu-
rati) o maltrattati o male educati. Però non dovrebbero varcar
i limiti, compromettere il principio d'autorità, spingersi fino alle
mancanze di riguardo. Non è frequente il caso d'uno studente che,
a tu per tu con un professore, gli manchi di rispetto e l'offenda.
Capita, invece, spesso che, uniti in massa, gli studenti — ragazzi,
adolescenti, giovani — diventino addirittura crudeli verso un loro
insegnante, e verso lo stesso capo dell'istituto, entrando in vio-
lente discussioni fino all'apostrofe ed all'insulto. Non sarà pro-
prio per cattivo animo, mancherà la riflessione e la piena deli-
berazione. Ma l'esame di coscienza deve servire appunto a pren-
der coscienza che certi comportamenti sono sconvenienti, ingiusti,
ridicoli. Gli studenti devono pure riflettere su certi giudizi spietati
che frequentemente (anche quelli che passano per i migliori sotto
ogni punto di vista) si permettono sui difetti e sulle deficienze di
qualche insegnante; giudizi espressi fra di loro od a terze persone;
giudizi formulati con maggior o minor serietà, si sa bene, ma
che, pronunciati con assoluta decisione e sicurezza, testimonie-
rebbero piuttosto l'ignoranza (oltre la presunzione) di chi li
proferisce.
3. Bisogna riconoscere che oggi la scuola attraversa un mo-
mento difficile e non è la pacifica palestra dello spirito. Molti
studenti intelligenti e volenterosi, per esempio fra gli universitari,
sono sconcertati. Vedono i compagni — di sinistra o di destra —
che ricorrono alla violenza per far valere contestazioini e rivendi-
cazioni. Chi vorrebbe lavorare e non perder del tempo prezioso
guarda dalla finestra quel che succede. Avrebbe bisogno di so-
stegno, di una direttiva chiara, d'un consiglio prudente.
414
richieste vi si sentirà al suo posto (cfr. L. Génin, Per te, sorella
infermiera, e per la tua formazione morale, Torino, 1936, p. 21).
Di queste doti la natura ha arricchito più la donna che l'uomo
(perciò le infermiere sono più numerose degli infermieri). Pio XII,
nel citato discorso, dopo aver detto che questa professione « sup-
pone qualità non ordinarie », accennava alle seguenti: « una
solida formazione specifica, vale a dire cognizioni tecniche seria-
mente acquistate e costantemente tenute a giorno, una agilità
d'intelligenza capace di acquisire incessantemente nuove reazioni,
di applicare nuovi metodi, di utilizzare nuovi strumenti e medi-
cinali »; « un temperamento calmo, ordinato, attento, coscien-
zioso. L'infermiere deve essere padrone di se stesso; a un gesto
brusco, ecco un nuovo dolore per il malato; il medico non potreb-
be più essere tranquillo; il malato avrebbe paura di lui. Egli deve
mantenere la sua calma dinanzi ai lamenti o alle domande irra-
gionevoli del malato, di fronte a crisi impreviste »; diligenza:
« deve, prevedere e preparare a tempo tutto il necessario, talvolta
cosi complicato, per la cura dell'infermo; non deve nulla dimen-
ticare, deve osservare tutte le precauzioni dell'igiene e della
prudenza. Deve essere fedele all'orario prescritto, esatto nelle
dosi da somministrare; osservatore vigile, per segnalare al medico
le reazioni del malato e i sintomi che la sua esperienza gli permette
di rilevare; attento agli ordini ricevuti e pronto a eseguirli »;
« un tatto discreto e modesto, sensibile e fino, che sappia intuire
le sofferenze e i desideri del malato, ciò che si deve e ciò che
non si deve dire. Pieno di tatto anche verso il medico, di cui deve
rispettare l'autorità; verso i suoi colleghi, infermieri e infermiere,
particolarmente verso i più giovani, che non deve mai mettere
nell'imbarazzo o nella confusione, ma essere al contrario sempre
pronto ad aiutare »; « una dedizione completa al malato, sia ricco
o sia povero, sia simpatico o sia sgradevole. L'infermiere non è
come un impiegato di un ufficio, che può andarsene senza inquie-
tudini all'ora fissata. Vi sono casi urgenti, giornate sovraccariche
di lavoro, durante le quali non è possibile interruzione o riposo »;
pazienza: « alcuni sono capaci di un grande sforzo straordinario
di tempo in tempo, ma si stancano e si irritano dinanzi ai piccoli
fastidi che quotidianamente si ripetono »; riservatezza: l'infer-
miere « deve strettamente osservare il segreto professionale. Mai
non possono essere da lui rivelate le cose dette dal malato in
confidenza o nel delirio, nulla che possa nuocere alla sua reputa-
zione o arrecar danno alla sua famiglia. Ma vi sono anche virtù
415
più elevate...: il rispetto verso il malato, la veracità e la fermezza
morale. Rispetto verso colui, che talvolta viene a perdere molto
di ciò che rende l'uomo rispettabile, il coraggio, la serenità, la
lucidità... Veracità nei riguardi dei medici, dei malati e delle loro
famiglie, i quali debbono poter fidarsi della parola dell'infermiere.
Ne va talvolta non solo della salute del corpo, ma anche dell'ani-
ma » se è ritardata con reticenze la preparazione dell'infermo al
passaggio per l'eternità... « Infine fermezza morale, specialmente
quando si tratta della legge divina » (Pio XII, Discorsi ai medici,
pp. 189-190).
Alle suore ospedaliere, in particolare, in occasione del loro
I Convegno Nazionale, Pio XII, il 25.IV.1957, raccomandava
di aver (oltre alle indispensabili nozioni tecniche relative ai nuovi
metodi di cura, strumenti, medicinali) « tenerezza materna davan-
ti alle mille sofferenze, che... chiedono conforto ed aiuto; ...dolce
fermezza di fronte a intemperanze o indiscrete richieste dei ma-
lati; ...un ritmo dinamico di vita, e, al tempo stesso, una costante
calma che... fa dominare gli avvenimenti. Vi è bisogno — diceva —
di una prontezza che non vi trovi mai impreparate, anche nei
casi più imprevisti e più improvvisi; vi occorre pazienza serena,
gioiosa, un saper prevedere e provvedere, che nulla dimentica e
nulla trascura » (Pio XII, Discorsi ai medici, p. 585).
Specialmente l'assistenza ai malati nervosi e mentali esige
un'opera generosa e delicatissima ma altrettanto preziosissima. In
questo campo la scienza terapeutica ha compiuto progressi sor-
prendenti. Per questa ragione e per un sempre maggior rispetto
per la persona umana si tende sempre più a creare per l'amma-
lato un ambiente in cui goda di tutti i suoi diritti e (nei limiti delle
possibilità e della sicurezza) anche della sua libertà. Interessa ora,
oltre alla cura specificamente medica, l'assistenza spirituale di cui
questi malati hanno, più di altri, bisogno. Non sono soltanto « i
farmaci esterni che li guariscono » ma anche « l'accostamento di
spiriti sani ed armoniosi, che valgano a restituire ad essi una vi-
sione serena ed amichevole del mondo e della vita » (Pio XII
alle Infermiere e Assistenti Sanitarie il 1.X.1953, in: Pio XII,
Discorsi ai medici, p. 282). All'infermiere è chiesto dì « creare
intorno al malato un'aura serena e di amichevole fiducia. Ma chi
può ottenere ciò, se non chi vive già per sé in serenità e nella
armonia delle proprie facoltà?... Solo l'esercizio esimio delle virtù
cristiane produce l'interiore serenità e quel temperato ottimismo,
che spontaneamente si riverberano negli altri e sono il miglior
416
aiuto che possa esser offerto ad un malato di mente. Essi gli
fanno dimenticare facilmente le infauste circostanze di vita, che
hanno concorso a determinare l'infermità... » {l.c. pp. 283-284).
2. Come in tutte le vocazioni, la scelta di questa professione
(anche se prudente e munita di garanzie) non è che l'inizio d'un
lavorio e d'un esercizio di virtù che non terminerà mai. E solo
un'autentica religiosità interiore ed il motivo dell'amore di Dio
assicurerà che non s'intiepidisca il primitivo fervore di spontaneo
umanitarismo. Per l'abitudine a trattare coi malati, l'infermiere
può perder la delicatezza e la prontezza della sua sensibilità spi-
rituale; la pazienza, messa continuamente alla prova, può, a lungo
andare, venir meno; al missionario succederà forse il mestierante
che nel prossimo sofferente vede piuttosto delle cose che delle
persone (nelle quali è sempre presente Gesù).
L'infermiera verrà inoltre continuamente a contatto con un
mondo triviale nei modi e nelle parole. Col suo contegno superiore
dovrà esser di edificazione e di ammonimento. Con le persone
antipatiche ci sarà la naturale tendenza alla trascuratezza ed alla
sgarbatezza; con quelle simpatiche c'è il pericolo della leggerezza
e della troppa familiarità. Occorrerà un continuo sforzo per
praticare l'imparzialità, la quale può esser compromessa da ragioni
di affettività e di venalità (sia pur leggera). Ci sono poi i giorni
brutti, d'inesplicabile malumore (spesso dipende da indisposizio-
ne fisica) nei quali è richiesto uno sforzo di volontà ed un eserci-
zio di virtù ancor maggiori. « È certo — diceva Pio XII nel discor-
so agli Infermieri ed alle Infermiere, il 21.V.1952 — che voi non
sarete in grado di rimanere pari al vostro ufficio e ai vostri
obblighi, se non potrete disporre di energie morali derivanti e
nutrite da una fede viva e profonda. Se voi concepite e praticate
il vostro lavoro unicamente come un impiego, onorevole si, ma
puramente umano, senza attingere alle fonti specialmente eucari-
stiche la fortezza cristiana, voi non varrete, a lungo andare, a
mantenervi fedeli ai vostri doveri. Voi avete infatti nella vostra
vita tanti sacrifici da compiere, tanti pericoli da superare, che vi
sarebbe impossibile, senza l'aiuto soprannaturale, di trionfare
costantemente della debolezza umana » (Pio XII, Discorsi ai medi-
ci, p. 190). Ed ai Sanitari ed al personale degli Ospedali di Napoli
l'I 1.XI.55, ricordava: « Senza dubbio la partecipazione alle altrui
pene, la commiserazione che si mostra all'afflitto, esigono un
grande oblio di sé; obbligano a desistere da ogni indifferenza e
da una certa insensibilità, che affievolisce a poco a poco la viva-
417
cita delle reazioni dinanzi a uno spettacolo doloroso, ma sempre
simile » (Pio XII, Discorsi ai medici, p. 415).
3. Nonostante la carica interiore continuamente rinnovata per
aver sempre la prontezza, la premura e la gentilezza, per vedere
in tutti l'immagine del Cristo, l'infermiere deve pure prepararsi a
non trovare sempre nel malato riconoscenza, bensì, alle volte,
lagnanze e parole ingiuste; mancanza non solo di pazienza nel sop-
portare il suo male, ma anche di bontà e di dolcezza verso chi lo
assiste. L'infermiere penserà che chi soffre ha un certo diritto di
lamentarsi e di essere scontento; chi sta bene è invitato dalla carità
a sopportarlo, a sostenerlo, ad incoraggiarlo e confortarlo nei suoi
dolori, a delicatamente elevarlo.
4. La disposizione costante al compatimento degli altri sup-
pone una grande forza d'animo e di volontà. L'infermiere deve
sapere che per rinforzare tale sua volontà, mezzo efficacissimo è
non solo la viva fede personale ma anche una ragionevole cura della
propria salute. Quando l'organismo è debilitato difficilmente segue
i comanda dello spirito. Noi tutti ammiriamo gli uomini dalla
volontà energica; ma, se andiamo a fondo, troviamo che, in
genere, hanno a loro servizio un corpo sano e vigoroso. Questo in
via ordinaria e senza voler tutto ridurre al piano naturale, senza
negare i miracoli della grazia che opera meraviglie in corpi fragili:
anche allora però — tolti i casi eccezionali — almeno il sistema
nervoso è fornito d'una sanità e d'una energia normale.
5. Anche gli infermieri sono tenuti al « segreto professionale »,
la cui rivelazione (fatta senza giusta causa, o per proprio od altrui
profitto, con danno di altri) costituisce, secondo il codice penale
italiano (a. 622), un delitto punibile. E per un infermiere il segre-
to professionale ha per oggetto la causa e la natura della malattia
e dell'operazione, le cure fatte, le cause della morte. È al medico
che spetta la denuncia delle malattie infettive. Ad ognuno che gli
volesse strappare qualche notizia indiscreta, l'infermiere risponde-
rà evasivamente: « sono infermiere e non posso parlare ». Il se-
greto dev'esser osservato con tutti. Anche col malato. Ci sono
poi confidenze, o notizie comunque riservate, che l'infermiere può
aver ricevuto dal malato, dai suoi familiari o dal medico, e sulle
quali deve saper osservare il segreto. Specialmente per chi è per
natura incline alla curiosità od alla loquacità, ci sarà, nel contatto
coi numerosi malati, una continua occasione di mortificarsi. Biso-
gnerà trovare il giusto mezzo: né un poco umano silenzio né
un eccessivo discorrere.
418
6. Dote necessaria per l'infermiere: organizzare il proprio
lavoro ed osservare l'ordine. Essere attento e premuroso ma non
sofistico ed eccessivamente meticoloso; fedele ma non inquieto.
7. Perché tutto funzioni a dovere occorre obbedienza, disci-
plina, osservanza del regolamento. È naturale che per eseguire
con più entusiasmo gli ordini, l'infermiere abbia interesse a capir-
ne (per quanto è possibile) la motivazione. Tentazioni frequenti,
specie negli infermieri e nelle infemiere più navigati ed abili: la
presunzione, la saccenteria, lo spirito critico. Di fronte agli errori
(tutti possono sbagliare) dei superiori — in particolare dei medi-
ci — occorre delicatezza: far finta di non aver visto, e, se neces-
sario, aiutare la memoria del superiore, ma con delicatezza cosic-
ché possibilmente non s'accorga del sommesso suggerimento. Per
un infermiere capace e zelante sarà facile la tentazione di man-
care (nei contatti coi medici o i colleghi) alla prudenza e discre-
zione. « In genere — diceva Pio XII nel suo Radiomessaggio alla
Conferenza mondiale cattolica della Sanità il 27 .VII .58 — è dif-
ficile accogliere il punto di vista degli altri...; neppure è agevole
ammettere che una persona più giovane, nonostante la sua minore
esperienza, possa avere idee più feconde. Inoltre le abitudini di
lavoro e le consuetudini rendono penoso ogni tentativo di cam-
biamento, ogni revisione di metodo... Per esempio, un'infermiera
sarà tentata a fare difficoltà, quando vede applicare in un ospedale
una cura diversa da quella che ha visto praticare nel corso dei
suoi studi da un tale grande specialista... ». In questa situazione
cercherà di fare quanto sta in lei per ottenere che si usino i
metodi ed i mezzi più idonei alla terapia ed all'igiene, ma evitando
« suscettibilità, impazienza, desiderio di prevalere, intolleranza
della disciplina » (Pio XII, Discorsi ai medici, p. 668).
8. « Fermezza morale, specialmente quando si tratta della
legge divina » (Pio XII, Disc, ai med., p. 190). Quando, ad un
infermiere capitasse il caso d'esser chiamato ad aiutare un medico
che compie su di un malato un'operazione illecita, bisognerà — per
un giudizio prudenziale sulla liceità o meno della cooperazione —
esaminare se sì verificano le condizioni del principio del duplice
effetto. Compiere direttamente (dietro ordine del medico od insie-
me al medico) un'azione che ha una intrinseca finalità immorale
— ad esempio, praticare un'iniezione mortifera — non è lecito.
Se la cooperazione non è immediata ma mediata (più o meno pros-
sima, più o meno remota) bisognerà prudentemente considerare
419
tutte le circostanze per giudicare se c'è una causa proporzionata
giustificante.
9. In modo particolare l'assistenza agli ammalati domanda il
continuo esercizio di quelle che si chiamano piccole virtù (ma
suppongono le grandi): discrezione, delicatezza, fine educazione,
buon umore, saper tacere, e non ribattere aspramente, ad una
parola che sembra ingiusta. Anche colle compagne di lavoro
un'infermiera può aver frequente occasione di scontrarsi. Bisogna
far di tutto per vivere in pace, in buona armonia ed amicizia con
tutte. Senza intimità, ma in pacifici rapporti di cortesia. E verso
le ultime arrivate o le inferiori non deve manifestarsi alcun spirito
d'alterigia.
10. Con l'ammalato bisogna avere molti accorgimenti perché
osserva tutti i particolari ed è sensibilissimo: si sente in uno stato
d'inferiorità e d'impotenza; può aver sempre l'impressione d'esser
di peso a chi lo cura. Non bisogna minimamente mostrare disistima,
mancanza di riguardo, disinteresse per lui, né ribrezzo o preoccu-
pazione per la sua malattia. Si dovrebbe far in modo che egli si
trovasse meglio che a casa propria. Fargli capire che il suo stato
è per lui una dignità altissima e per chi lo assiste un onore ed una
gioia. E perché non abbia la sensazione dell'isolamento, l'infer-
miere gli darà l'impressione d'attendere a lui solo; altrettanto farà
con tutti gii altri cosicché nessuno si senta trascurato e pensi che
qualche altro è oggetto di particolari, ingiustificate, attenzioni. Si
stenta a veder possibile una continua assistenza agli ammalati per
chi non ha abitualmente la dote del buon umore e dell'allegria. È
stato scritto che ci sono nel mondo uomini che hanno il dono di tro-
vare dappertutto la gioia e di lasciarla sempre dappertutto. La se-
minano tutt'intorno, senza pensarci. È quanto si desidera nelle pro-
fessioni più difficili e pesanti, come quella d'infermiere. Perché
l'ammalato entra nell'ospedale o nella clinica con una grande ma-
linconia nell'anima. Le prime impressioni sono decisive. I risultati
sanitari di certe cliniche (in particolare di quelle attrezzate per
chi ha bisogno di riposo e di cura per esaurimenti) dipende in
gran parte dal clima spirituale sereno, dalle doti morali dei medici,
dalle qualità e dalle virtù del personale — suore, infermieri, in-
fermiere. Purtroppo spesso avviene che in qualche casa di cura,
dopo il periodo iniziale (per così dire, eroico) subentra un anda-
mento piuttosto fiacco: ci si accontenta di fare il necessario ma si
trascurano quelle piccole attenzioni e prestazioni che, insieme alle
420
cure radicali, registravano successi mirabili, guarigioni felicissime,
lasciavano nei malati le migliori impressioni e ricordi.
11. Un'infermiera che esercita la sua missione con spirito
veramente cristiano, che frequenta i sacramenti, che sa unirsi a
Dìo colla preghiera frequente — anche se semplicissima — du-
rante il suo stesso lavoro, questa infermiera esercita un benefico
influsso (sia pur inavvertito) anche sull'anima dei malati. Rispette-
rà la libertà di tutti (e per questo, non sarà mai abbastanza cauta),
rifuggirà ogni forma di proselitismo (come sarebbe il condi-
zionare una più cordiale assistenza alla conversione ed alla pratica
religiosa del malato). Ma se irradierà la sua vita interiore, se dirà
prudentemente la parola buona quando l'occasione lo richiede o
permette, allora può ben credere che molti ammalati, venuti al-
l'ospedale per cercare la guarigione fisica, troveranno anche quella
morale (cfr. Génin, o.c, p. 109).
12. Chi vuol esercitare con diligenza, prontezza e letizia questa
impegnativa professione deve curare anche la sua salute ed esser
regolato in tutto particolarmente nel sonno e nei pasti. Di fronte
alla offerta di incarichi che sono superiori alle sue forze e capa-
cità, dovrà avere l'umiltà e la prudenza di non accettarli.
13. Un'infermiera dev'esser preparata a trovare anche nei luo-
ghi di sofferenza l'insidia del Nemico. Qualche assistente o stu-
dente di medicina, porterà la nota allegra della sua esuberante
giovinezza. Ma si può arrivare alle familiarità. L'infermiera deve
conservare il suo contegno disinvolto ma dignitoso e riservato che
le assicuri il rispetto da parte di tutti.
17. Ostetriche
421
rifiuterà anzitutto « ogni cooperazione immotale ». Con chi farà
ricorso a lei per impedire la procreazione e la conservazione d'una
nuova vita senza alcun riguardo ai precetti dell'ordine morale, si
« esige un calmo, ma categorico "no" ». (Pio XII alle Congressi-
ste dell'U.C.I. Ostetriche, il 29X51, in: Pio XII, Discorsi ai
medici, pp. 157-158; 161-162). Perciò quando si tratti di aborto
diretto terapeutico, un'ostetrica non può dare la sua cooperazione
al medico, quando questa cooperazione sia immediata nell'inter-
vento chirurgico. Quando la cooperazione fosse remota, vale la
regola ricordata per infermieri ed infermiere: bisogna conside-
rare prudentemente tutte le circostanze, secondo il principio del
duplice effetto (o, meglio, della cooperazione). A parte la que-
stione soggettiva della buona fede, obbiettivamente per giustifi-
care la cooperazione — anche solo mediata — all'aborto terapeu-
tico, ci dovrebbero essere ragioni tanto più gravi quanto meno le
condizioni fisiche della madre lo richiedono come unica soluzione
per la sua salvezza. Ora, a proposito dei rarissimi casi tragici nei
quali la continuazione della gravidanza metterebbe in pericolo
gravissimo la vita della madre, oggi si deve dire che, su questo
punto, scienza e morale si sono cosi avvicinate da concordare:
anche nei casi più gravi sono offerti mezzi clinici che permettono
di portare la gestazione fino al limite minimo di vitalità del bam-
bino, cosicché la soluzione si potrà avere con un parto « pre-
maturo » (ma non « immaturo » che significherebbe la morte del
bimbo). Purtroppo potrà darsi ancora il caso del medico che ricor-
re al sistema più sbrigativo e più semplice (per provvedere alla
salute della madre) o per scarsa competenza o per carenza imme-
diata di adeguati mezzi terapeutici moderni. Quanto più ingiusti-
ficati e deteriori fossero i motivi degli interventi abortivi, quanto
maggiore fosse la diffusione e la facilità con cui si praticano, tanto
più s'imporrebbe, ripeto, un'energica opposizione da parte dei
cattolici, medici, ostetriche, infermiere. Allora costoro sono chia-
mati — a costo di qualche svantaggio economico.— ad un'aperta
e coraggiosa testimonianza dei propri (e per tutti validi) principi
morali, ad una resistenza efficace, rifiutando di prestare qualsiasi
cooperazione, sia pur mediata, sia pur remota; ed anche d'assi-
stere alle pratiche abortive. Perciò in seguito alla decisione della
Suprema Corte degli Stati Uniti d'America del 22.1.1973 (che ha
liberalizzato le leggi del Texas e della Georgia sull'aborto) il Co-
mitato Episcopale degli U.S.A., Pll.IV.1973, ha dato alcune diret-
tive e per gli ospedali cattolici (che non potranno neppure mettere
422
a disposizione, per questi interventi, le proprie attrezzature ed il
proprio personale) e per il personale sanitario cattolico che, in
linea di massima, non può neppur assistere a queste pratiche e,
nei casi speciali, dovrebbe sottoporre i problemi della propria
coscienza al confessore.
2. L'ostetrica dovrà rispettare i limiti imposti dalla legge
stessa alle sue prestazioni (cfr. Decr. del Ministero dell'Interno,
26.V.1940, n. 1364). Non invaderà quindi il campo riservato ai
medici, sia per correttezza personale sia per non rischiare tenta-
tivi pericolosi. La legge civile stabilisce che l'ostetrica richieda
l'intervento del medico quando avverte che il parto non procede
in modo del tutto normale (D.M. 11.X.1940, a. 10).
3. Ha anch'essa l'obbligo naturale del segreto professionale,
sia riguardo alle confidenze ricevute, sia riguardo a quanto vien
a conoscere nell'esercizio ed a ragione della sua professione. La
legge (D.M. 26.V.1940, n. 1364, art. 10) stabilisce che l'oste-
trica annoti subito nei rispettivi registri ogni parto ed aborto al
quale abbia assistito. Però il contenuto dei registri deve rimanere
segreto. Appunto perché tenuta al segreto professionale, non è
lecito, in caso d'illegittima gravidanza, avvisare i parenti della
gestante (od il parroco) neppure a scopo di bene. Può farlo se
si tratta d'una minorenne o se la ragazza chiede essa stessa che
l'ostetrica faccia da mediatrice per ottenerle, presso altri, com-
prensione, soccorso, sistemazione. Ugualmente, quando, nel caso
di fidanzati, venisse a conoscere che uno dei due è affetto da
malattie che sconsigliano il matrimonio, non può permettersi
d'avvisare l'altra parte. Ricorderà invece alla persona malata che
ha il dovere, prima, di curarsi, o di rinunciare al matrimonio o,
almeno, d'avvisare l'altra parte, se questa non è al corrente di
tale malattia grave. Per esser esatti, bisogna distinguere ciò che
l'ostetrica viene a conoscere per ragione della sua professione e
ciò che viene a conoscere in occasione dell'esercizio della sua
professione. Questo, per sé, strettamente non rientra nell'oggetto
del segreto professionale. In pratica però, è buona norma osser-
vare, per quanto possibile, il silenzio e la riservatezza; a meno
che la carità stessa non suggerisca d'informare una persona su
una notizia che essa ha necessità di sapere, cioè non può ignorare
senza suo danno: informarla, ma con cautela, di modo che il se-
greto non sia rivelato più di quanto lo richiede il motivo urgente.
4. L'ostetrica può esercitare un vero, continuo, preziosissimo
apostolato.
423
a) Comunicherà « anche ad altri — come diceva Pio XII nel
citato discorso del 29.X.51 — la conoscenza, la stima e il rispetto
della vita umana... »; ne prenderà, « al bisogno, arditamente la
difesa » e proteggerà, quando è necessario ed in suo potere, « la
indifesa, ancora nascosta vita del bambino » (Discorsi ai medici,
p. 158).
b) L'apostolato dell'ostetrica si dirigerà « però soprattutto
alla madre ». « Meno con le parole » che con tutta la sua « ma-
niera di essere e di agire » saprà « far gustare alla giovane madre-
la grandezza, la bellezza, la nobiltà di quella vita, che si desta, si
forma e vive nel suo seno, che da lei nasce, che ella porta nelle
sue braccia e nutrisce al suo petto » (p. 59).
e) Rivolgerà poi le sue « cure delicate a dissipare i precon-
cetti, le varie apprensioni o i pretesti pusillanimi, ad allonta-
nare, per quanto... è possibile, gli ostacoli anche esteriori, che
possono rendere penosa l'accettazione della maternità » (Pio XII,
Disc, ai med., p. 162). Avrà occasione di dissuadere, in partico-
lare, qualche ragazza dall'interruzione della gravidanza. Farà ca-
pire con dolcezza persuasiva che la creatura è un dono di Dio,
anche se conseguenza d'un fallo giovanile. Ma questo fallo può
esser redento quando si accoglie il dono di Dio e si supera il
primo abbattimento: la grazia di Dio ricompenserà donando il
suo conforto e facendo seguire al dolore la gioia della vita.
5. L'ostetrica di fermi principi religiosi e morali e di delicata
coscienza, sentirà spesso il bisogno di chiedere consiglio al sacer-
dote (senza però venir meno al segreto professionale). Diventerà
anche sua collaboratrice specialmente nell'amministrazione dei
battesimi. Avrà coscienza della « grande importanza di provvedere
al battesimo di un bambino, privo di qualsiasi uso di ragione e
che si trova in grave pericolo o dinanzi a morte sicura. Senza
dubbio questo dovere lega in primo luogo i genitori; ma in casi
di urgenza, quando non vi è tempo da perdere o non è possibile
di chiamare un sacerdote » spetta all'ostetrica questo sublime e
caritatevole officio che rientra nell'apostolato attivo della sua pro-
fessione (Pio XII, Disc, ai med., pp. 160-161). Deve quindi cono-
scere chiaramente quali sono le condizioni richieste per ammini-
strare validamente e lecitamente il battesimo. L'adulto deve aver
espressa la seria volontà di riceverlo; però, se, nell'imminenza della
morte avesse già perso i sensi e fosse, almeno probabilmente,
ancor vivo, si può amministrarglielo sotto condizione, anche se non
424
lo ha chiesto. Ai bambini non si può amministrare il battesimo se
entrambi i genitori sono contrari, a meno che il piccolo non « versi
in tale pericolo di vita cosicché prudentemente si prevede che
morrà prima di raggiungere l'uso di ragione » (CJC, e. 750): ed
anche in tal caso è evidentemente necessaria la riservatezza e la
prudenza perché siano evitate eventuali reazioni ed odiosità. Dei
battesimi l'ostetrica avvertirà poi il parroco. Meglio sarebbe se
quando conferisce il sacramento, ci fossero due testimoni, od al-
meno uno, cosicché si possa provare con certezza il fatto. L'am-
ministrazione privata del battesimo è semplicissima ma bisogna
conoscerla, a scanso di perplessità o dubbi conseguenti. Si versa
l'acqua sul capo pronunciando le parole: Io ti battezzo nel nome
del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Abluzione e pro-
nuncia delle parole siano contemporanee (almeno nel senso che
non si termini l'una senza aver cominciata l'altra) perché un inter-
vallo fra le due azioni metterebbe in dubbio la validità del sacra-
mento, per mancanza d'unità fra materia e forma.
Nel caso di parto laborioso che induce pericolo di vita pel
bimbo, se questi emette il capo si battezzi sul capo: il sacramento
è senz'altro valido, e quindi se poi verrà alla luce vivo non sarà
da ribattezzarsi; se emette un membro si battezzerà sotto condi-
zione: e l'amministrazione del sacramento sarà poi da ripetersi
sotto condizione {CJC, e. 746).
6. Ogni essere umano nato anzitempo — se probabilmente è
vivo — dev'esser battezzato, per quanto recente sia la conce-
zione (anche se è un embrione che non presenta ancora la forma
d'uomo) (e. 747). Dunque solo nel caso che con certezza sia
morto si ometterà il battesimo. Questa disposizione della Chiesa
è valida qualunque sia il momento in cui di fatto Dio infonde
l'anima spirituale. Comunque il CJC sembra supporre l'anima-
zione immediata, dottrina verso la quale oggi propende la mag-
gioranza degli autori cattolici (animazione immediata, s'intende,
del seme destinato a maturare, svilupparsi e formare l'essere
umano, non di tutti i germi che possono essersi incontrati con gli
ovuli ma si disperderanno). Mancano di solido fondamento (S.
Off. 18.11.1958, AAS, 50, 1958, 114) le teorie di alcuni moderni
che negano l'esistenza del Limbo, assicurano la visione beatifi-
cante anche ai bimbi morti senza battesimo ed ammettono una
opzione finale concessa a tutti anche dopo la morte.
425
7. Ai nati anzitempo il battesimo evidentemente non è da
conferire sopra le membrane. Però il romperle a contatto dell'aria
sarebbe pericoloso. Bisogna quindi immergere il feto nell'acqua
tiepida, lasciar uscire il liquido amniotico, rompere delicatamente
con le dita le membrane. Nell'acqua che cosi è entrata e l'ha
avvolto, lo si muoverà un po' ed intanto si pronuncerà la for-
mula; dopo di che lo si estrarrà dall'acqua.
8. Se c'è pericolo che il bimbo muoia prima di nascere, può
esser praticato il battesimo intrauterino (e. 746). Regolarmente
potrà farlo il medico o la levatrice esperta. Siccome in tale batte-
simo viene a mancare la certezza della validità, bisogna ribattez-
zare il bimbo che dovesse nascere.
9. Anche i parti deformi devono esser sempre battezzati
(e. 748). A meno che non sia certo che son privi di vita.
18. Medici
426
\
lieo... Egli guadagna la fiducia del malato e della famiglia...,
acquista su di loro e sulla popolazione del luogo un influsso pro-
fèndo e volentieri accettato » (Pio XII ai partecipanti al Con-
gresso dei Medici Condotti, il 18.IX.50, o.c, p. 142). I cosiddetti
« medici di famiglia », poi, « conoscono non solo le vicende pato-
logiche degli individui appartenenti a generazioni successive, ma
anche gli aspetti spirituali, ideologici e, per cosi dire, "carattero-
logici'' di ciascuna casata »: essi sono « in grado di valutare
l'uomo nella sua propria natura di anima e di corpo coesistenti
nel composto umano e soggetti a reciproca influenza » (Pio XII,
I Corsi Aggiorn. Med. Condotti, 4.X.53, o.c, pp. 286-287). Ma
è il medico profondamente cristiano che in modo tutto partico-
lare potrà portare « alla camera del malato, al tavolo operatorio
qualche cosa della carità di Dio, dell'amore e della tenerezza di
Cristo, grande Medico dell'anima e del corpo» (Pio XII ai Chi-
rurgi, 13.11.45, o.c, p. 63): egli vedrà nel malato «il Cristo del
Calvario » mentre il malato troverà nel medico « il Cristo com-
passionevole » (Pio XII, o.c, p. 281).
Il medico che ha la viva e continua coscienza d'essersi consa-
crato ad un ideale cosi eccelso non avrà neppure il tempo per
abbassarsi a meschine preoccupazioni, per esempio a denigrare
(come purtroppo avviene) i propri colleghi, per sopraffarli e farsi
strada.
Professione, dunque, degnissima, delicata ed altrettanto impe-
gnativa. Domanda bontà di cuore, diligenza e prudenza, continuo
aggiornamento, fermo possesso di chiari principi morali, serietà
e rettitudine nel comportamento e nei contatti, saggio dispendio
delle energie fisiche, igienico tenore di vita. Su tutte queste
qualità s'interrogherà il medico che voglia esercitare santamente
la sua professione.
I. Bontà di cuore. Cominciamo da questa che è la prima virtù
da esercitarsi (prima e durante la cura): il segreto di felici risul-
tati e della guarigione stessa del malato.
1. Diventar medici significa abbracciare una missione a ser-
vizio dei sofferenti e degli infelici, fratelli in Cristo. Chi non ha
un cuore sensibile che sa amare e compatire, è inconcepibile che
la scelga: La bontà e la tenerezza crescono cogli anni, a contatto
della sofferenza, ma in genere non si acquistano, non si creano,
se mancano germinalmente.
427
2. Bontà perché ogni malato ha bisogno d'esser sostenuto non
solo fisicamente, ma soprattutto moralmente. E questo è piti
difficile della cura medica (la quale può esser procurata solo
materialmente). Nessuno, ad esempio, dovrebb'esser umiliato
come un malato immaginario. Il medico dovrebbe sempre tener
presente che « l'influenza personale » ch'egli « è capace di eserci-
tare sul malato non ha minore importanza od utilità » delle cono-
scenze ed esperienze acquisite. Ma questa influenza del medico è
proporzionata alla confidenza ed alla stima che il malato ripone
in lui: egli « vuol essere compreso dal suo medico; ha bisogno di
avere grande fiducia in lui, per ritrarre dalle sue cure un profitto
fisico e psichico » e di trovare « presso di lui tutto quello che
cerca spontaneamente o coscientemente: comprensione, conforto,
sensazione di sicurezza » (Pio XII, IV Congr. U. Med. Latina,
7.IV.55, o.c, p. 384).
3. Il medico ha un campo immenso anche per un vero apo-
stolato. Ha la possibilità di dare qualche privato consiglio, discreto
ma efficacissimo, autorevolissimo, tanto più efficace quanto mag-
giore è la stima e la fiducia che riscuote per la sua scienza e retti-
tudine: consiglio per preservare o distogliere il malato dal vizio
(alcool, sesso, droga, fumo). Consta che qualche volta — se manca
l'esplicito richiamo alla legge morale — le parole del medico pos-
sono esser anche fraintese: molto spesso, ad esempio, le donne
quando sentono da un medico religioso la raccomandazione di
usare un certo « riguardo » circa nuove gravidanze, la intendono
ben volentieri come un comprensivo suggerimento a ricorrere al-
l'onanismo od alle pratiche anticoncezionali. C'è tanta ignoranza
e materialità anche nei buoni.
Bontà del medico anche quando non può approvare o conce-
dere ciò che la sua coscienza di cristiano giudica illecito. Per
esempio di fronte alla richiesta d'aborto diretto non defletterà
dai suoi principi morali, però il suo comportamento sarà umano:
mostrerà d'esser sensibile a certi stati d'animo ed a certe situa-
zioni. Non si accontenterà di richiamare la norma etica con
freddezza, severità e distacco. Nel dialogo, colla madre e col
padre del nascituro tenterà d'esercitare una benefica persuasione
e, diciamo pure, una sana suggestione (tanto più valida quanto
maggiore è il suo personale prestigio). Specialmente quando si
troverà di fronte al caso d'una ragazza che, in seguito ad illeciti
rapporti, è destinata ad esser madre, ma teme di perder la sua
buona fama, di non poter più sposarsi. In questi casi la parola
428
pel medico può esser più efficace di quella d'un sacerdote. Egli
terrà presente e farà presente alla giovane, tentata d'abortire,
<bme per evitare un certo trauma psicologico, può andar incontro
ap un altro trauma psicologico: perché uccide il suo senso di
rqaternità; il rimorso dell'aborto procuratosi può gettarla nella
dìfcperazione. (In Giappone e Svezia — i primi paesi nei quali è
stato legalizzato l'aborto — c'è il più alto numero di suicidi)21.
Certe ragazze hanno quindi bisogno d'una parola che rischiari il
loro orizzonte ed infonda coraggio: se riceveranno dalle mani di
Dio il frutto del peccato, se saranno generose, Dio perdonerà loro
e le aiuterà aprendo strade insperate e dando l'occasione d'acqui-
stare meriti immensi, nonostante lo sbaglio commesso. Comun-
que, è sempre meglio esser con Lui nelle difficoltà che ricercare
la via più facile allontanandosi da Lui.
II. Diligenza e prudenza. Di fronte al caso d'un malato —
specialmente se grave ed in pericolo di vita — si domandano al
medico un complesso di doti e di virtù. Egli deve anzitutto ren-
dersi conto dello stato obbiettivo del paziente (in modo da poter
conoscere fin da principio la natura del male, e, d'altra parte,
non esagerarne la gravità ed il grado d'incurabilità). Una volta
scoperto con certezza il male (ad esempio la presenza d'un cancro)
egli deve procedere con prontezza e decisione. Ma prima di appli-
care i mezzi terapeutici più efficaci, per tentare la guarigione, oc-
corre che il medico curante con intelligenza e prudenza (non solo
cliniche) « consideri l'uomo nella sua integrità, nell'unità della
sua persona, vale a dire non solamente il suo stato fisico, ma
anche la sua psicologia, il suo ideale morale e spirituale e il posto
che egli occupa nel suo ambiente sociale. Quali saranno le conse-
guenze pratiche degli interventi che egli si propone? In quale
misura gli è permesso di rischiare una grave operazione perico-
21
II prof. C. Trabucchi, in un recente articolo, riferisce le sue espe-
rienze dopo quaranta anni di esercizio di psichiatria, circa la « psicosi da
aborto » e circa i danni psichici della mentalità abortiva della donna. Si
noti che i quadri della psicosi compaiono, di solito, a distanza dall'evento
abortivo. Nello stesso articolo si afferma decisamente, in base all'esperien-
za, che per le malate mentali la gravidanza normalmente protratta ed il
parto possono avere qualche effetto, sia di peggioramento, sia di migliora-
mento, ma comunque di scarsa entità. Nessuna poi delle cure di cui di-
spone la moderna psichiatria trova reale impedimento nella gravidanza
(C. TRABUCCHI, Aspetti psicologici della interruzione volontaria della gra-
vidanza, «Riflessi», Milano, 28, 1976, n. 4, pp. 159-165).
429
Iosa e che comporta importanti sacrifici? Quale beneficio ne ricai
vera il malato? Invece di imporgli infermità gravi e permanente
che lo ridurranno ad una inattività quasi totale, non sarebbe
meglio che egli continuasse a lavorare fin tanto che il male glielo
permetta? Qualche volta, al contrario, il desiderio di alleviare il
dolore, di prolungare un po' la vita, di apportare un indispensa-
bile conforto, autorizzerà trattamenti onerosi, il cui esito non
lascia molte speranze. In ogni caso s'impone al medico un'appro-
fondita riflessione, una vera meditazione, in cui i fattori d'ordine
umano entreranno nel totale più degli altri » (Pio XII, Ai rap-
presentanti dell'Unione Internazionale contro il Cancro, 19.Vili.
56, o.c, pp. 497-499).
III. Studio
1. La cura, per quanto generosa ed assorbente dei malati,
non dovrebbe portare il medico a tralasciare del tutto lo studio:
egli ha continuamente bisogno d'aggiornarsi sui progressi della
sua scienza, le ricerche, le scoperte ed i farmaci nuovi. Con la
laurea non è diventato medico ma ha cominciato ad esserlo: avrà
continuamente da perfezionare il suo sapere, come la sua vita di
cristiano. Mezzi: « la lettura di opere e di riviste scientifiche, la
partecipazione a congressi e corsi accademici, le conversazioni coi
colleghi e le consultazioni presso i professori delle Facoltà di
medicina. Questo costante studio di perfezionamento obbliga il
medico esercente, in quanto gli è praticamente possibile e viene
richiesto dal bene dei malati e della comunità » (Pio XII, al-
PU.I.M.B. di «San Luca», 12.XI.44, o.c, p. 54). Ad esempio,
ogni medico dovrebbe sapere ed esser convinto che oggi, in caso
di pericolosa gravidanza, la salvezza della madre si può procurare
con cure efficaci senza bisogno di ricorrere al cosiddetto aborto
terapeutico, il quale può esser, anzi, nocivo alla madre, alla sua
futura gravidanza (oltre che alla sanità pubblica). Mancando le
indicazioni di ordine fisiologico, si cerca ora di giustificare l'aborto
come una necessità per evitare qualche trauma d'ordine psicologico.
Per un medico, poi, che non conosce — o non si impegna a pra-
ticare — le cure razionali alla madre gravida ammalata, sarà più
sbrigativo ricorrere all'aborto terapeutico col salvacondotto del-
l'autorizzazione legale. Ma dal punto di vista della legge morale
e del diritto naturale resta sempre illecito l'aborto diretto, sia
terapeutico (inteso a proteggere la vita della madre) sia eugenetico
(motivato dalla volontà di non metter al mondo un bimbo tarato).
430
E non è tolta l'illiceità di questa soppressione della vita pel fatto
4he la legge (come quella approvata dal Consiglio Nazionale Au-
striaco, in vigore dal 1. gennaio 1975) ammettesse l'aborto (ese-
guito da un medico e previa consultazione medica) solo entro i
pLmi tre mesi dall'inizio della gestazione n.
\ 2. Quella scienza generale — nella quale il medico cerca con-
tinuamente di coltivarsi — dovrà esser applicata alle singole
situazioni. Ed allora, quando si tratterà di prender una determi-
nazione, egli sentirà la responsabilità anzitutto di studiare atten-
tamente il caso. Il chirurgo, prima dell'intervento, si domanderà:
« l'operazione apparisce necessaria? quali pericoli essa presenta,
ma, d'altra parte, a quali disavventure esporrebbe l'astensione? E
ancora: il momento è opportuno? conviene differire, o invece
bisogna affrettarsi e agire rapidamente? correre i rischi dell'ur-
genza, ovvero quelli dell'indugio? Quale contegno tenere nel
consulto coi medici curanti? Ognuno, infatti, ha la sua parola da
dire; soprattutto in casi di problemi complessi, i pareri possono
essere discordi; e allora ciascuno, pur sostenendo la propria opinio-
ne, può rendersi conto della fondatezza delle ragioni degli altri.
Quando però ha tutto ben considerato (compreso il carattere
morale dell'atto), il chirurgo non deve più esitare, ma, anche
dopo aver formato coscienziosamente e debitamente il suo giudi-
zio, gli rimane ancora un ufficio assai delicato da compiere. Senza
dubbio è suo obbligo di far conoscere l'utilità o la necessità del-
l'operazione, come anche di indicare le incertezze che spesso per-
mangono; ma fino a qual punto deve egli semplicemente sugge-
rire ovvero consigliare o insistere, presso il malato e la sua fami-
glia? Come illuminarli lealmente, pur usando i dovuti riguardi e
rispettando la loro libertà? » (Pio XII, Ai partecipanti al Congr.
Internai, di Chirurgia, 20.V.48, o.c, p. 96). Delicatezza, pru-
denza, umanità, autocontrollo: virtù caratteristiche del chirurgo
ideale. Aggiungeva Pio XII: « Durante l'intervento... voi vi met-
tete all'opera con tutto il vostro cuore, ma in guisa che questo vi
sia veramente di aiuto; ora esso non vi sarà di sostegno che se,
pur essendo profondamente sensibile, saprà al tempo stesso mante-
nervi in una imperturbabile calma. Se vi mancasse la sensibilità,
«
22
Un medico convinto dell'immoralità dell'aborto ha perciò il dovere
ed il diritto di non praticarlo, neppur quello terapeutico autorizzato dal-
lo Stato. Il quale deve rispettare l'obbiezione di coscienza in questa ma-
teria. Né esiste un diritto della collettività in quanto tale che possa ob-
bligare il medico ad agire contro la sua coscienza.
431
voi non fareste che esercitare un mestiere; se vi mancasse la calma/
il vostro turbamento, rendendo meno ferma la vostra mano, rischie/
rebbe di compromettere l'esito dell'operazione, e forse anche ]k
vita del paziente. Questo dramma intimo, nel fondo dell'anima
vostra, si rinnova ogni giorno, talora più volte al giorno, ccjn
maggiore o minor intensità... Dramma che, a lungo andare, logora
un uomo di coscienza e di cuore, ma che dà alla vostra professione
il suo carattere sacro » (p. 97). Terminata l'operazione, diceva
Pio XII ai chirurgi, non tutto è finito. Ci sono alee, pericoli, incon-
venienti « alcuni di breve durata, altri gravi e talvolta mortali,
che conseguono ogni atto operativo cruento. Perciò voi vigilate
il corso della febbre, l'acceleramento o il rallentamento dei battiti
del polso. Rimosso il pericolo di complicazioni, voi seguite atten-
tamente il progresso della guarigione... » (pp. 97-98). Compiuta
la sua opera, cosa dovrà aspettarsi il chirurgo? Gratitudine o cri-
tiche e rimproveri? Dipende dal risultato dell'operazione il quale
può esser felice o meno soddisfacente, indipendentemente dall'abi-
lità, dalla prudenza, dalle cure del medico (perché talora il male
è troppo grave o già troppo avanzato). Perciò egli dovrà esser
preparato a trovare sia la riconoscenza cordiale sia l'ingratitudine.
Ma se la sua responsabilità è al coperto dinanzi a Dio ed alla
coscienza, il chirurgo non dovrà lasciarsi turbare o inasprire per
la ingratitudine degli uomini (pur non potendo esser insensibile)
(ivi, p. 98).
3. Conoscenza della filosofia morale e della teologia morale.
Una qualche istruzione ed aggiornamento anche in queste mate-
rie è prerichiesto al medico se si vuole ch'egli si conformi poi con
fedeltà e coerenza pratica ai principi della morale. « La persona
del medico con tutta la sua attività — diceva Pio XII agli scien-
ziati dell'U.LM.B. « S. Luca », il 12.XI.44 — si muovono co-
stantemente nell'ambito dell'ordine morale e sotto l'impero delle
sue leggi. In nessuna dichiarazione, in nessun consiglio, in nes-
sun provvedimento, in nessun intervento, il medico può trovarsi
al di fuori del terreno della morale, svincolato e indipendente dai
principi fondamentali dell'etica e della religione » (Pio XII, Di-
scorsi ai medici, p. 49). « Il medico serio e competente, spesso,
con una specie d'intuizione spontanea vedrà la liceità morale del-
l'azione che si accinge a compiere e agirà secondo la propria
coscienza. Ma possono presentarsi azioni in cui egli non ha questa
sicurezza, in cui può darsi veda o creda di vedere con certezza
432
i contrario; in cuixdubita ed esita tra il sì e il no » (Pio XII,
Ai partecipanti al t Congr. d'Istopat. del sist. nerv., 14.IX.52,
or., p. 193). A proposito d'interventi, pratiche, cure mediche
cHe possono esser in conflitto con qualche legge, Pio XII distin-
gueva (parlando ai partecipanti al XIII Congr. I. di Psicologia
applicata, il 10.IV.58): azioni che violano solo le norme d'una
legge positiva (ad esempio, civile) ma, in sé, non sono contro
la legge morale naturale; azioni immorali in sé stesse (come
quando l'uomo sottomette le sue facoltà razionali agli istinti in-
feriori): « quando l'applicazione dei tests o della psicanalisi o di
qualsiasi altro metodo arriva a questo punto, diviene immorale e
deve essere rifiutata senza discussione ». Naturalmente spetta alla
coscienza dello psicologo « determinare, nei casi particolari, quali
comportamenti sono in tal modo da rigettarsi »; poi ci sono le
azioni immorali « per difetto di diritto in chi le pone »: ad esem-
pio l'uso della narcoanalisi (interrogatorio d'un soggetto che è
sotto l'azione d'una sostanza ipnotica — « siero della verità » —
iniettatagli allo scopo che riveli notizie che altrimenti non rivele-
rebbe) oppure l'uso di strumenti registranti le manifestazioni
somatiche che accompagnano certe attitudini emotive di chi, ad
esempio, proferisce menzogne coscienti (delle quali si può così
avere un'indicazione indiretta); infine ci sono azioni che possono
esser « immorali a causa del pericolo al quale espongono senza
motivo proporzionato »: « pericolo morale per l'individuo o la
comunità, sia circa i beni personali del corpo, della vita, della
reputazione, dei costumi, sia circa i beni materiali ». Bisogna
tener presente il principio morale: il rischio è permesso « a con-
dizione che sia giustificato da un motivo proporzionato all'im-
portanza dei beni minacciati e all'imminenza del pericolo che
incombe su di essi » (Pio XII, Disc, ai med., pp. 640-642).
4. Il medico dovrebbe non solo conoscere le discussioni e le
relative soluzioni della teologia morale — sulle importanti que-
stioni mediche, ma anche saper render conto (a sé ed agli altri)
delle rette soluzioni morali; e non appellarsi soltanto all'autorità:
« così dice la Chiesa ». Se si tratta di legge morale naturale, questa
esiste prima ancora della Chiesa e del suo magistero. Ad esempio,
è a tutti noto che l'accelerazione del parto è lecita nel caso di diffi-
cile gravidanza. Ma perché ed a quali condizioni? Bisogna applicare
il principio del duplice effetto (che dev'esser conosciuto bene). Per-
ché l'azione che provoca il parto anticipato non abbia di per sé
una finalità intrinseca immorale, bisogna che sia almeno probabile
433
la vita del bambino fuori della madre (altrimenti si ha l'espul/
sione del feto « immaturo », cioè l'aborto); poi — siccome a
crea un pericolo reale per la vita del bimbo — occorre ci sija
una causa proporzionatamente grave da parte o del bimbo o della
madre; e bisogna usare tutti i mezzi perché sia evitato, più epe
possibile, il pericolo della morte del neonato: bisognerebbe fosse
messo subito nell'interno dell'incubatrice, soprattutto per evitare
che il corpo si raffreddi (e qui c'è un problema pratico: occorre
autoambulanza con apparecchiature speciali e con a bordo un
medico).
Purtroppo si nota, anche in medici religiosi, una debole forma-
zione in materia morale, e specialmente filosofica, ed una menta-
lità caratteristicamente empirica. Giudicano la moralità o immo-
ralità del loro comportamento solo in base all'intenzione, alla
coscienza, oppure agli effetti (a seconda, ad esempio, che il male
conseguente un intervento chirurgico è maggiore o minore); non
considerano la finalità intrinseca dell'azione, la legge obbiettiva:
ragionano, per esempio, così: « procurando l'aborto non si intende
uccidere il bimbo, ma salvare la madre »; « se morissero entrambi
sarebbe un male maggiore ». Invece, secondo la legge morale, la
vita dell'uomo « è intangibile, ed è quindi illecito ogni atto ten-
dente direttamente a distruggerla, sia che tale distruzione venga
intesa come fine o soltanto come un mezzo al fine, sia che si tratti
di vita embrionale, o nel suo pieno sviluppo, ovvero giunta ormai
al suo termine » (Pio XII all'U.I.M.B. di « S. Luca », 12.XI.44,
o.c.y p. 51). «Ci sono indicazioni mediche nelle quali la legge
civile autorizza l'aborto; dunque sarebbe una responsabilità non
servirsi di tale diritto esponendo a pericolo mortale la madre ».
È un'altra giustificazione che si adduce. Però se la legge autorizza,
non obbliga. Il medico non è tenuto, può rifiutarsi a ciò che la
legge di Dio non gli permette. Ed in coscienza può stare tranquillo
in fatto di responsabilità di fronte agli uomini, checché ne dicano.
Si domanda dunque una coscienza lucida ed una retta applicazione
dei principi morali. Specialmente del principio del duplice effetto
e della cooperazione: « Se — precisava Pio XII alle « Assoc.
Famiglie numerose », il 26.XI.51 — la salvezza della vita della
futura madre, indipendentemente dal suo stato di gravidanza,
richiedesse urgentemente un atto chirurgico, o altra applicazione
terapeutica, che avrebbe come conseguenza accessoria, in nessun
modo voluta né intesa, ma inevitabile, la morte del feto, un
tale atto non potrebbe più dirsi un diretto attentato alla vita
434
Innocente. In queste condizioni l'operazione può essere lecita, come
altri simili interventi medici, sempre che si tratti di un bene di
aj[to valore, qual è la vita, e non sia possibile di rimandarla dopo
la^ nascita del bambino, né di ricorrere ad altro efficace rimedio »
(oic., p. 179). Altro esempio: ci sono medici che stentano a
capire che è diverso il caso d'una sposa che per curare una malattia
prende la pillola che/ sospende l'ovulazione, ed il caso d'una che
la prende quando (sia pur su indicazione medica) non è deside-
rabile un altro concepimento troppo vicino al precedente. In
questo secondo caso l'uso della pillola è direttamente ordinata ad
impedire il concepimento e solo indirettamente ad evitare possi-
bili disagi per la salute della madre. Pio XII, parlando ai parte-
cipanti al VII Congr. Intern. di Ematologia il 12.IX.58, aveva
fatto una chiara distinzione circa l'uso, da parte d'una donna
maritata, di pillole che impediscono l'ovulazione (e quindi la fe-
condazione): « se la donna prende questo medicamento, non in
vista d'impedire il concepimento, ma unicamente su consiglio del
medico, come un rimedio necessario per una malattia dell'utero
: o dell'organismo, essa provoca una sterilizzazione indiretta, che è
| permessa secondo il principio generale delle azioni a duplice effetto.
Ma si provoca una sterilizzazione diretta, e perciò illecita, quando
' si arresta l'ovulazione per preservare l'utero, e l'organismo dalle
;• conseguenze d'una gravidanza ch'esso non può sopportare. Alcuni
| moralisti pretendono che sia permesso prendere medicamenti in
!? questo caso, ma a torto. Bisogna respingere egualmente l'opinione
| di molti medici e moralisti, che ne permettono l'uso, quando una
I indicazione medica rende indesiderabile un concepimento troppo
| vicino, o in altri casi simili...; in questi l'impiego di medicamenti
f ha come scopo d'impedire il concepimento impedendo l'ovula-
| zione; si tratta dunque di sterilizzazione diretta ». Considerava poi
I il caso di chi usasse di preservativi per arrestare la trasmissione di
li un'ereditarietà difettosa. E diceva che alcuni vorrebbero giustifi-
I cario considerandolo come un male minore della procreazione di
| bambini tarati. Ma rispondeva che « il cristianesimo ha seguito e
I continua a seguire una tradizione diversa » secondo il principio
I morale esposto in modo solenne da Pio XI nella sua enciclica
1 « Casti Connubii » AAS, 22, 1930, 559-560). Non vale dunque,
p diceva Pio XII, appellarsi al principio: licet corrigere defectus
W naturae, perché bisogna vedere in qual modo si corregge il difetto
I naturale e guardarsi dal violare altri principi di moralità (Disc.
w. ai med.t pp. 706-708). Al motivo d'impedire un male maggiore
435
(altrimenti umanamente inevitabile) sarà lecito appellarsi per giu-
stificare un'azione non intrinsecamente cattiva la quale può as-
sumere una moralità diversa cambiando le circostanze. Per esem-
pio, l'uso degli stupefacenti a solo scopo di piacere è illecito per
il pericolo dell'assuefazione e dei gravi danni conseguenti. Ma
l'uso di piccole dosi da parte di chi avesse già contratto l'abitudine
e si sente nell'impossibilità di troncarla da un momento all'altro,
va giudicato con comprensione. Potrebbe, anzi, esser dannoso
il sottrarre ad un morfinomane all'improvviso e del tutto lo stupe-
facente. Il medico quindi esaminerà prudentemente la dose che è
opportuno somministrargli procurando, tutto considerato, il minor
male del paziente.
Ma per il principio morale secondo il quale un fine onesto
non giustifica un atto disonesto, ad un medico non è lecito sugge-
rire, a chi dubita della propria capacità generativa, di ottenere
mediante masturbazione lo sperma da esaminare (come già dichia-
rò il S. Officio il 2.VIII.1929, AAS, 21, 1929, 490) perché la
masturbazione è un atto contro natura, cioè intrinsecamente cat-
tivo. « Altra cosa è — diceva Pio XII ai partecipanti al Congres-
so della S.I. di Urologia 8.X.53, o.c, p. 296) — se il medico
preleva lo sperma dall'organismo in un'altra maniera lecita, nel
caso che ciò fosse realmente possibile, o se, senza intervenire, egli
riceve dall'interessato la materia da esaminare. Egli non è re-
sponsabile degli atti altrui, mentre l'esame e l'utilizzazione dei
suoi dati non sono moralmente reprensibili ».
I farmacisti dovranno particolarmente tener presenti i principi
morali sulla cooperazione. Non è loro lecito vendere strumenti
o farmaci che servono solo ad impedire la concezione (detti anche
preservativi o profilattici) o a procurare l'aborto, neppur se chi li
chiede è in buona fede, perché, in pratica non c'è causa propor-
zionata giustificante (anche se la vendita è una cooperazione solo
mediata al male e non un'azione intrinsecamente cattiva). « Qual-
che volta — diceva Pio XII ai partecipanti al Convegno Intern.
dei Farmacisti Catt. il 2.XI.50 — voi dovete lottare contro le
richieste, le pressioni e le esigenze di certi clienti che ricorrono a
voi per farvi complici dei loro delittuosi disegni. Ma voi sapete
che, quando un prodotto per sua natura e nell'intenzione del
cliente è indubbiamente destinato a un fine colpevole, non importa
sotto qual pretesto o quale sollecitazione, non potete accettare di
partecipare a questi attentati contro la vita o l'integrità dell'indi-
viduo, contro la propagazione o la sanità corporale e mentale del-
436
l'umanità » (Disc, ai mei., p. 140). (In Italia, di fatto, molti
farmacisti vendono, anzi mettono a disposizione del pubblico, gli
strumenti anticoncezionali, essendo stata, entro certi limiti, abro-
gata la legge di Pubblica Sicurezza, art. 112, che vietava il com-
mercio dei mezzi rivolti ad impedire la procreazione. Ma, al di
sopra della legge civile c'è la legge morale naturale). Quando si
tratta di farmaci che possono avere anche un uso lecito (per esem-
pio di pillole sterilizzanti) un farmacista coscienzioso li venderà
solo dietro ricetta del medico (il quale, a sua volta, starà alla
morale: precetterà il farmaco se c'è una malattia per la cui cura
è indicato).
In base ai suddetti principi si risponde alla questione se sia
lecito somministrare al paziente farmaci antidolorifici, in forti
dosi, che possono provocare una qualche accelerazione della morte.
Pio XII accennò al problema rispondendo, in un discorso ai medi-
ci il 24.11.57, a tre quesiti propostigli sull'analgesia. Distinse
(quando il narcotico accorciasse la vita) « l'eutanasia diretta »
(cioè la somministrazione d'una sostanza indicata a provocare
od affrettare la morte) e l'abbreviamento della vita che non ha
con la narcosi un nesso causale diretto ma ne è effetto indiretto
perché la narcosi è usata « unicamente » per « evitare al paziente
dolori insopportabili, per esempio nel caso di cancri inoperabili o
di malattie inguaribili ». In tal caso l'abbreviamento della vita
può esser giustificato da ragione proporzionata se lo stato attuale
della scienza — diceva il Pontefice — non permette di ottenere lo
stesso risultato con l'uso di altri mezzi (che non hanno l'effetto
d'abbreviare la vita) e se nell'uso del narcotico non si superano i
limiti di quello che è praticamente necessario {Disc, ai medici,
pp. 579-580).
Al medico può esser chiesto di eseguire quanto una persona
ha detto o scritto fra le sue ultime volontà, intendo dire di prati-
cargli una puntura o qualche altra operazione che assicuri la morte
prima della sepoltura. I parenti di chi ha lasciato questa disposi-
zione possono esser turbati ed incerti, oppure chiedere essi stessi
questo atto. È lecito? Finché è probabile che la morte sia solo
apparente non è permessa tale azione perché tenderebbe a soppri-
mere una probabile vita. Ma se il medico è del tutto certo che
la morte è avvenuta, non si vede perché sia illecito che il medico
pratichi una puntura letale per soddisfare la volontà d'un defunto
o per tranquillizzare i suoi parenti.
Altro principio che il chirurgo applica continuamente e deve
437
saper applicare debitamente è il cosiddetto « principio della tota-
lità », « in virtù del quale ogni organo particolare è subordinato
all'insieme del corpo e deve ad esso sottomettersi in caso di con-
flitto ». Ad esempio « è certamente possibile che un organo sano,
con la sua funzionalità normale, eserciti su di un organo malato
un'azione nociva tale da aggravare il male con le sue ripercussioni
su tutto il corpo. Può darsi pure che l'asportazione di un organo
sano e l'arresto della sua normale funzionalità tolga al male, al
cancro per esempio, il suo terreno di accrescimento, o, in ogni caso,
alteri essenzialmente le sue condizioni d'esistenza. Se non si dispo-
ne di alcun altro mezzo, l'intervento chirurgico sull'organo sano
è permesso ih ambedue i casi ». Cosi Pio XII ai partecipanti al
XXVI Congr. della S. Ital. di Urologia, 8.X.53 (o.c, pp. 289-290).
Il Pontefice considerava poi il caso in cui, per complicazioni gine-
cologiche, si estirpassero alla donna gli ovidotti sani o si rendes-
sero incapaci di funzionare per prevenire una nuova gravidanza
e i gravi pericoli che potrebbero forse derivare per la salute o per
la vita stessa della madre, pericoli causati da altri organi — come
i reni, il cuore, i polmoni — ma che si aggravano in caso di
gravidanza. Ma qui ci si richiamerebbe erratamente al principio
della totalità perché il pericolo non proviene dagli ovidotti ma, in
definitiva, dalla libera attività sessuale. Pertanto « le condizioni
che permettono di disporre d'una parte in favore del tutto, in
virtù del principio di totalità, mancano » (o.c, pp. 290-291). Questi
casi (nei quali una nuova gravidanza si presenta pericolosa ma non
son permessi né questo né altri mezzi ordinati ad impedire la
fecondazione) sono certamente pietosi perché — specialmente
per sposi giovani — possono importare sacrifici anche eroici (d'una
continenza « periodica » o completa). Solo la grazia di Dio può
dar la forza d'una perseverante fedeltà alla legge morale.
Secondo Pio XII il trapianto d'un organo da uomo (vivo) ad
uomo non sarebbe mai lecito perché l'uomo non è proprietario
indipendente del suo corpo ma solo usufruttuario e deve farne
l'uso conforme ai fini della natura. Solo quando fosse necessaria
al bene totale del proprio organismo, sarebbe lecita ad una perso-
na la mutilazione d'un suo organo. Il movente della carità non
giustificherebbe quindi la donazione d'un organo perché il dona-
tore disporrebbe d'un bene non personale senz'averne il diritto.
Si potrebbe addurre la ragione che (similmente alle membra
rispetto all'organismo) gli individui possono considerarsi parti e
membra di quest'organismo che è l'umanità: ma questa ragione
438
Secondo il Pontefice non vale perché fra membra ed organismo
d'un individuo c'è un'unione fisica e le membra sono talmente
assorbite dal tutto da non avere alcuna indipendenza, non esisto-
no che per l'organismo e non hanno altro fine che il suo. Gli
uomini invece hanno una unione solo morale fra di loro: c'è dun-
que una differenza essenziale fra questi due tipi d'organismi. Né,
secondo Pio XII, questa essenziale differenza è tolta pel fatto
che nella comunità cristiana ogni individuo è membro del Corpo
Mistico: pur in questa interiore soprannaturale comunione e con-
giunzione, ogni individuo conserva la propria sussistenza e perso-
nalità, ciò che non godono le membra d'un corpo fisico che sono
unicamente destinate al bene di tutto l'organismo (cfr. Disc, ai
partecip. all'VIII Assemblea dell'Ass. Med. Mond. 30.IX.54,
o.c, pp. 359-360; Disc. all'Ai. Donatori della Cornea, 14.V.56,
o.c, pp. 460-462). Ciononostante possiamo ritenere che la Chiesa
non si sia ancora ufficialmente pronunciata sulla questione. E
l'opinione dei teologi che ammettono la liceità del trapianto resta
(almeno per la loro autorità) probabile (cfr. A. Van Kol, Tb. Mor.,
Herder, 1968, I, pp. 686-688, con gli scritti, ivi citati, « prò » e
« contro »). Giacché — si noti bene — nessun moralista ritiene
permesso un trapianto che sacrifichi l'integrità sostanziale del
donatore sopprimendo totalmente un organo od una funzione,
ma alcuni non riprovano l'asportazione di un organo gemellare
— rene, occhio, ovaia — appunto perché il donatore rimane anco-
ra con uno e non perde una funzione organica. In pratica, dunque,
non si devono inquietare coloro che spontaneamente offrono un
organo per salvare altre persone. Anzi, una volta ammessa la licei-
tà del trapianto, bisogna logicamente affermare che chi si sacrifica
cosi per il prossimo compie un atto eroico di carità. Naturalmente,
all'atto pratico, per giudicare la moralità e convenienza concreta
d'un trapianto bisogna attendere a tutte le circostanze: per
esempio se lo stesso effetto non si possa ottenere prelevando la
cornea, da un morto subito dopo il suo decesso; c'è da conside-
rare il danno che il donatore può subire nella sua vita, attività,
doveri verso altre persone, il risultato prevedibile dell'operazione
e lo stato del donatario. Su ciò il medico illuminerà le due persone
interessate di modo che prendano la decisione, sotto ogni aspetto,
più consigliabile.
5. Il medico che conosce sufficientemente la teologia morale,
saprà ben distinguere il consiglio dal precetto. L'uso d'un diritto,
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oppure di certi medicinali, alle volte può esser sconsigliabile: il
che non significa però assolutamente illecito dal punto di vista
morale. Occorre pertanto discrezione; e per esser discreti, biso-
gna sapere qual è l'esatta soluzione dei vari problemi. Ad esempio,
a fidanzati può essere sconsigliato un determinato matrimonio (si
veda quanto fu detto sopra trattando di questa categoria di peni-
tenti); a certi coniugati può esser sconsigliato l'uso del matrimonio
qualora fossero affetti da gravi malattie contagiose od ereditarie.
Però — precisava Pio XII ai partecipanti al I Simposio Intern.
di Genetica Med. il 7.IX.53 — « sconsigliare non è interdire. Ci
possono essere altri motivi, soprattutto morali e di ordine perso-
nale che s'impongono fino a tal punto da autorizzare a contrarre
e a usare del matrimonio anche nelle circostanze indicate », cioè
anche chi è sicuramente affetto da gravi mah' ereditari. (Disc, ai
med., pp. 269-270). Ed in uno dei suoi ultimi discorsi ai medici
— il 12.IX.58 — ritornava sull'argomento e spiegava: « Il matri-
monio è uno dei diritti fondamentali e intangibili della persona
umana. Se si stenta talvolta a capire il punto di vista generoso
della Chiesa, è perché si perde troppo facilmente d'occhio il pre-
supposto che Pio XI esponeva nell'enciclica Casti Connubii sul
matrimonio: gli uomini sono generati non anzitutto e soprattutto
per questa terra e per la vita temporale, ma per il cielo e l'eternità.
Questo principio essenziale sembra estraneo alle preoccupazioni
dell'eugenetica. Tuttavia è giusto; ed è anche il solo pienamente
valido. Pio XI affermava ancora, nella stessa enciclica, che non
si ha il diritto d'impedire ad alcuno di sposarsi o di usare d'un
matrimonio legittimamente contratto, anche quando, a dispetto
di tutti i tentativi, la coppia è incapace d'avere bambini sani... »
(AAS, 22, 1930, 564-565). Ed al quesito propostogli: « se dopo
il matrimonio si constata la presenza del male mediterraneo nei
due sposi, è lecito sconsigliare la prole? », Pio XII rispondeva:
« Si può loro sconsigliare di avere la prole, ma non si può loro
proibire ». Ed accennava alla posizione della Chiesa ed ai mezzi
leciti che essa può suggerire (quando si sconsigli la prole): conti-
nenza perfetta, metodo Ogino-Knaus, adozione d'un bambino
{Disc, ai med., pp. 711-712). Difatti (come dicevo) sconsigliare la
prole non può significare l'approvazione ed il suggerimento di
mezzi che obbiettivamente violano l'ordine della natura.
Un altro campo nel quale bisogna chiaramente distinguere ciò
che è lecito e ciò che sarebbe, in certi casi, il meglio consigliabile,
è quello dei farmaci antidolorifici (usati o somministrati). Non
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c'è dubbio, è più perfetto sopportare generosamente il dolore, ma
non è illecito il lenirlo e, se ci sono motivi (per esempio, di lavoro)
può essere necessario e consigliabile. Per chi è in fin di vita è,
per sé, più perfetto prolungare il tempo utile all'acquisto dei meriti
senza ricorrere a sedativi che indirettamente provochino una qual-
che accelerazione della morte. Però ciò non è illecito. E (se c'è
causa proporzionata) non è proibito usare sostanze che comporti-
no la perdita momentanea dell'uso della ragione (come comune-
mente avviene per le operazioni chirurgiche dolorose). Discutono
se ciò sia lecito nel caso d'un moribondo che si prevede non
ricupererà più l'uso della ragione. Ora, se la sua anima è unita a
Dio, non consta che gli sia assolutamente proibito lenire il dolore
con la perdita forse definitiva della coscienza. Difatti non siamo
|: tenuti ad acquistare il massimo possibile di meriti. Tanto più che
i dolori atroci possono diventare anche una prova pericolosa ed
\ una tentazione. Il Signore destinandoci ai dolori di questa vita
| non ha affatto inteso di proibirci l'uso dei mezzi atti a lenirli.
f- Ad Eva disse che avrebbe partorito nel dolore (Gen. 3, 16), ad
Adamo che con il sudore della sua faccia avrebbe mangiato pane
l: (Gen. 3, 19): preannunciò quindi la sofferenza come un destino
| della natura umana decaduta; ma Dio non intendeva, con questo,
I proibire i mezzi per ridurre la fatica ed alleviare il dolore. Il
I medico, da parte sua, se è veramente cristiano, oltre che coscien-
I zioso, penserà (prima di somministrare una narcosi che può impe-
1 dire al malato di riprender conoscenza prima della morte) ad
I invitarlo « egli stesso o meglio ancora per mezzo di altri, a com-
I piere prima i suoi doveri ». Comunque, se il malato persiste nel
l chiedere la narcosi per cui esistano seri motivi, il medico può
I consentirvi perché non si tratta di azione intrinsecamente cattiva,
| che tenda direttamente ad abbreviare la vita (cfr. Pio XII ai
I partecipanti al Simposio di anestesiologia, 24.11.57, Disc, ai Med.,
pp. 578-79). Il medico saprà dunque dire la sua parola di consi-
l gHo, secondo i singoli casi, mostrandosi però consapevole che il
consiglio riguardante ciò che è meglio, non è, per sé, obbligatorio;
, talora — ma non sempre — è preferibile a ciò che strettamente è
i lecito. Perciò userà sempre discrezione e delicatezza tenendo pre-
sente — cosa ovvia in astratto ma non sempre ricordata di fatto —
» che non tutti i pazienti hanno la stessa forza d'animo, lo stesso
coraggio, le stesse energie psichiche. Ad esempio, nel parto ordi-
. nario sarebbe meglio che la madre rinunciasse ad ogni anestesia,
É anche locale: meglio dal punto di vista sia igienico, sia ascetico.
'i 441
In tal senso una benevola parola di incoraggiamento sarà sempre
utile perché nella donna partoriente, talora, più che il dolore, c'è
la paura: e la paura ingrandisce il dolore. Ci sono però soggetti
molto sensibili, emotivi, nervosi, eccessivamente impressionabili,
donne che hanno la fobia del parto: in tali casi, concretamente,
può esser meglio l'uso della narcosi (purché ci sia il controllo del
medico). Dal punto di vista tecnico ed igienico si preferisce
riservare l'anestesia generale (con perdita della coscienza) solo ai
parti operativi. Ma dal punto di vista morale pare che i teologi
siano larghi: una forte maggioranza la ritiene lecita anche nel
parto normale purché il medico sia favorevole e vigili su ogni
eventuale effetto dannoso. Dico lecita; non dico consigliabile.
Anche circa l'uso di certi mezzi che possono essere utili
alla guarigione di un malato, bisogna distinguere quello che è
obbligatorio e quello che è consigliabile. Sta il principio morale
che — sia per noi sia nei riguardi degli altri ai quali carità ci
lega — siamo obbligati ad usare solo i mezzi ordinari per la
guarigione, non quelli straordinari (fra i quali rientrano, in genere,
gli interventi chirurgici). Il medico non dimenticherà questo
principio quando indicherà cure, operazioni, medicinali. Eviterà
ogni indiscrezione: altro è proporre e suggerire, altro imporre e
farne un obbligo di coscienza. C'è poi qualcuno che ha sempre
lo scrupolo di non aver fatto abbastanza per tentare la salvezza
d'un familiare ammalato. Bisogna tranquillizzarlo e liberarlo da
questo irrazionale senso di obbligo e di colpa.
IV. La religione nella professione del medico cattolico
1. Quando un malato è in pericolo di morte il medico
cattolico saprà darne avviso discreto a qualcuno (o al malato
stesso o, se prudenza vuole, a qualche altro che possa inte-
ressarsi e provvedere con tatto) in modo che non sia privato dei
sacramenti chi potrebbe riceverli. In certi casi difficili — anzi,
abitualmente — quando il malato è in pericolo, il medico preoc-
cupato della salute delle anime oltre che dei corpi, sentirà na-
turalmente il bisogno di consultarsi e collaborare col sacerdote.
2. Lui stesso può esser chiamato ad amministrare il sacra-
mento che fa cristiani ed apre alle anime le porte dell'eterna
beatitudine: il battesimo. Deve saper non solo far battezzare
ma, se necessario, prestarsi anche come ministro, al pari d'ogni
altro cristiano (anzi, d'ogni altro uomo perché ognuno ammini-
stra validamente il battesimo purché intenda fare ciò che fa la
442
Chiesa, versi l'acqua sul capo o sulla fronte e pronunci le parole
della formula: « io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio
e dello Spirito Santo »). L'opera del medico, come ministro del
sacramento, può esser richiesta, specialmente in certi casi diffi-
cili. Ad esempio, quando, per grande difficoltà del parto, ci fosse
grave pericolo che il bimbo muoia per asfissia, il medico può e
dev'esser esperto a praticare il battesimo intrauterino (battesimo
che, se il bimbo dovesse nascere vivo, sarebbe d# ripetere sotto
condizione) (CJC, e. 746, § 5).
V. Rettitudine e serietà
1. Il medico eviterà ogni preferenza, ogni cedimento — per
motivi di guadagno o di simpatia — di fronte all'illecito. A tutti
le stesse cure e lo stesso servizio, la stessa cordialità e disponi-
bilità: né sgarbate asprezze né pericolose debolezze. Si trova
perciò nella necessità continua di controllare i suoi affetti ed
istinti. L'esercizio della sua professione può offrirgli continue oc-
casioni di peccato se manca l'amore soprannaturale del prossimo
e la preoccupazione di ridonargli generosamente salute e felicità.
2. Esperienza insegna che anche nel personale di servizio —
in ospedale od in ambulatorio privato — è frequentissimo, per
non dire fatale, che il medico trovi tentazioni, non sempre facil-
mente superabili. Alle volte si cede e Io scandalo diventa pub-
blico. Altre volte una relazione si conclude col matrimonio (non
sempre felice se i due sono di condizione, cultura, educazione com-
pletamente diversa).
3. Dovere del segreto professionale (sia per i medici che per
i farmacisti). Purtroppo alcuni, pur ottimi e religiosi, si permet-
tono (per semplice loquacità e senza nessuna ragione giustificante)
allusioni ai propri malati od alle loro malattie (cosa che il cliente
non intenderebbe affatto permettere, sia che il medico manifesti
reali e serie malattie, sia che, scherzando, le giudichi malattie
immaginarie). Si noti, osservava Pio XII parlando all'U.I. Med.
Biol. « S. Luca », il 12.IX.44, che il segreto professionale « deve
servire e serve non solo all'interesse privato, ma più ancora al
comune vantaggio. Anche in questo campo possono sorgere con-
flitti fra il bene privato ed il pubblico, ovvero fra i diversi ele-
menti e aspetti dello stesso bene pubblico; conflitti nei quali può
riuscire talora estremamente difficile di misurare e pesare giusta-
mente il prò e il contro fra le ragioni di parlare e di tacere ».
443
Le norme etiche in proposito « affermano nettamente, soprattutto
all'interesse del bene comune, l'obbligo del medico di mantenere
il segreto professionale, non riconoscono però ad esso un valore
assoluto; non sarebbe infatti confacente allo stesso bene comune,
se quel segreto dovesse essere posto al servizio del delitto o
della frode » (Disc, ai med., p. 53).
4. Al malato, il medico dovrà dire la verità sul suo male,
se è interrogato? Per esser esatti ed anche positivi, penso che
non debba farsi scrupolo pel fatto che le sue parole, prese alla
lettera, nascondono quel che pensa o addirittura significano il
contrario. Tutti sanno che simili risposte, considerate situazio-
nalmente (cioè proferite da un medico) possono esser prese come
restrizioni mentali. Si può chiedersi piuttosto se il malato abbia
diritto di conoscere la verità (e tutti i moralisti dicono che se
una persona ha diritto di conoscere la verità non si può fargli
credere il contrario). Ora, astrattamente si: il malato, ricorrendo
al medico, anzitutto lo fa per sapere il suo male; questo è
dunque implicito in quella specie di contratto che si stipula
fra professionista e cliente. Però, in concreto, il dovere di soddi-
sfare un diritto suppone sempre che la domanda sia ragionevole:
quindi se la conoscenza della verità fosse dannosa all'interessato,
non ci sarebbe dovere di manifestargliela. Anzi, ci sono dei casi,
diceva Pio XII nel discorso citato, nei quali il medico « non può
manifestare crudamente tutta la verità, specialmente quando sa
che il malato non avrebbe la fòrza di sopportarla » (Disc, ai med.,
p. 53). Però il medico cristiano pensa anche al bene spirituale
del malato. Se questi fosse cullato in una sicurezza illusoria, quando
non c'è più speranza, potrebbe rimandare (fino ad omettere) la
sua doverosa preparazione alla morte (o.c, p. 53).
5. Problema particolarmente delicato: la concordata asten-
sione dei sanitari dal lavoro, come protesta per le disagiate con-
dizioni materiali ed il turbamento psicologico a cui la classe
medica — specie le giovani leve — si trova esposta. Da una parte
la Costituzione italiana concede ai professionisti il diritto di ricor-
rere allo sciopero come a strumento per sostenere le proprie
giuste rivendicazioni, dall'altra parte la Costituzione medesima
riconosce ad ogni cittadino il diritto alla salute garantendogli
ogni mezzo idoneo alla sua salvaguardia. Non c'è dubbio che
l'astensione dal lavoro da parte del medico comporta sfavorevoli
impressioni e ripercussioni nel malato, sul piano fisico e psicolo-
444
gico: il medico ha una missione la quale deve ispirare senza
riserve la sua attività e collocarla ad un livello non paragona-
bile a quello d'un qualsiasi prestatore d'opera. D'altro canto, se
c'è una carenza legislativa ed un'inefficienza da parte di chi è
responsabile in sede governativa, anche questo va lamentato e
denunziato. Ma bisognerebbe prevenire — mediante altri stru-
menti offerti dalla legge — il ricorso ai mezzi estremi di lotta che
sono dannosi all'ordine ed al benessere della comunità.
VI. Razionale tenore di vita
1. Alcuni medici sono talmente presi dalla loro attività pro-
fessionale da non trovar più il tempo per la vita di famiglia. Bi-
sognerebbe conciliare l'una con l'altra. Il lavoro non deve ecce-
dere fino a dover sacrificare i pasti ed il riposo necessari. Altri-
menti, un po' alla volta, verrebbe minacciato anche il buon umore,
la serenità del professionista nell'esercizio della sua attività; con
danno proprio e degli altri.
2. Per esser sempre disponibile e per dare l'esempio di
quanto raccomanda agli altri, il medico eviterà ogni altro eccesso,
per esempio nel mangiare e nel bere. Purtroppo anche fra i sani-
tari si trova qualche padre Zappata che predica bene e razzola
male. Ciò sembrerebbe impossibile se non sapessimo anche che,
in certi casi, sono tanto complesse le situazioni e molteplici le
scusanti.
19. Giuristi
445
2. Per l'avvocato — civilista o penalista — c'è il pericolo di
sovraccaricarsi di pratiche (per una certa naturale tendenza all'ar-
rivismo ed alla concorrenza). Ciò costituisce un'insidia alla dili-
genza nel lavoro, può compromettere l'esito delle pratiche stesse
(oltre che la salute fisica del legale). Egli deve mettersi nella di-
sposizione di attendere ad ogni pratica come se fosse l'unica e l'ul-
tima, in modo da concentrarvi con calma tutte le sue energie intel-
lettuali e fisiche. Appena s'insinua l'ansia e la tensione perché
sente d'esser impari agli impegni assunti, bisogna porvi rimedio:
indirizzare i clienti ad altri colleghi o chiedere la loro collabo-
razione.
3. Cerchi di prestarsi, per tutti coloro che a lui si rivolgono,
con eguale premura, cortesia, giustizia, equità.
4. Sia pur per una certa leggerezza, e non per malizia, si
danno professionisti che mancano al segreto d'ufficio. Nessun ob-
bligo c'è invece se da parte del cliente che si confida è evidente
la frode e l'intento di danneggiare o tradire un terzo innocente.
5. Non sempre il legale è tenuto a dire tutta la verità, né
può farlo. Penso che la situazione stessa e la sua professione d'av-
vocato fanno rientrare certe sue risposte e dichiarazioni fra le
lecite restrizioni mentali (press'a poco come può negare di sapere
una notizia chi l'ha ricevuta sotto forma di segreto: non la sa
— si sottintende — di scienza comunicabile). Il confessore può
sempre suggerire la regola generale: comportarsi come fanno gli
altri onesti professionisti.
6. Inutile dire che il reo può sempre, per diritto naturale,
negare d'aver commesso il delitto (anche in tal caso si ha una
restrizione mentale giustificata dalla sua stessa condizione di
imputato). Ed altrettanto può fare l'avvocato che parla in nome
dell'imputato e lo difende in un processo penale. Ciò sarebbe
lecito anche se venisse cosi accusato un terzo innocente. Purché
però il suo danno sia solo indiretto ed accidentalmente occasio-
nato. Non possono il reo (ed il suo avvocato) accusare diretta-
mente un incolpevole per salvare il colpevole. L'avvocato civi-
lista poi, se ha il culto della giustizia, rifiuterà una causa aperta-
mente ingiusta, il patrocinio d'una rivendicazione evidentemente
infondata. E quando si tratti di liti nelle quali ci sono ragioni
a favore d'una parte e ragioni a favore dell'altra, dirà sincera-
mente al cliente il suo parere sull'esito della controversia. Di
massima, suggerirà (e darà il suo aiuto per ottenere) una equa
446
composizione piuttosto che una causa di dubbio risultato. I pro-
cedimenti legali possono esser dannosi ad entrambe le parti con-
tendenti. A parte gli strascichi sul piano spirituale: rotture, odi,
contrasti infiniti. In questo senso è saggio il proverbio: « meglio
una magra composizione che una grassa sentenza ».
7. L'avvocato deve vivere la sua professione con un certo
senso di ottimismo (altrimenti la vita diventerebbe impossibile, \
come, del resto, per tante altre professioni delicate). Da una parte \
non può essere uno spregiudicato che usa cinicamente tutti i
mezzi pur di arrivare al fine, come purtroppo talora ci si permette:
dietro lauto compenso si possono ottenere perizie false e testimo-
nianze false e cosi procurare la sentenza desiderata. Un legale co-
scienzioso non può, neppure appellandosi ad un'eventuale legge
civile, patrocinare una causa che sa essere, per diritto naturale,
apertamente ingiusta o disonesta. D'altra parte non deve imma-
ginare e temere che per esercitare con successo la sua professione
sia necessario rinunciare alla propria onestà. La sua professione
non è intrinsecamente disonesta e non lo obbliga ad agire disone-
stamente. Egli deve saper superare i dannosi conflitti psicologici:
conservare la disposizione fondamentale alla probità ed alla lealtà
ed, insieme, usare tutti gli accorgimenti, ed anche le sottigliezze,
utili agli interessi del proprio cliente; egli saprà pure lucidamente
distinguere ciò che è giudicato normale e lecito nella sua profes-
sione (ad esempio certe convenzionali risposte con cui ha diritto
di nascondere la verità) da ciò che non è giustificato dalla pro-
fessione stessa, ma oggetto di una sua libera scelta (per esempio
il patrocinare la causa d'un divorzista). E se una risposta (per
nascondere la verità) può essere ritenuta una lecita restrizione
mentale, si potrà pure — se siamo logici e coerenti — confer-
marla col giuramento, qualora questo fosse richiesto. Si applica il
principio del duplice effetto. La rettitudine, dunque, è raccoman-
data all'avvocato. Ma egli deve anche disprezzare lo scrupolo e la
perplessità, vincendo la tendenza all'indecisione. Deve esser pre-
parato a constatare anche qualche suo sbaglio (che capita ad ogni
professionista) senza cadere nella sfiducia e nella depressione. Un
passo sbagliato, deve invece trasformarsi in motivo d'umiltà ed in
fonte d'esperienza per l'avvenire e (se è il caso) in propositi di
maggior ponderazione e diligenza. Bisogna vincere quel senso di
pessimismo che può subentrare quando, dopo tanta fatica di ri-
cerche, si vede le proprie conclusioni smentite dai fatti (infelice-
mente ignorati o sottovalutati). Ogni avvocato si terrà preparato
447
ad accettare la propria vita professionale come un'alternativa di
vittorie e di sconfitte. Di fronte alla sentenza definitiva del magi-
strato che proclama la verità (per quanto dolorosa) all'avvocato
non resta che accettarla a farla accettare dal suo cliente: soprat-
tutto egli è l'uomo della verità (anche se, nel processo penale, gli
è sempre concesso difendere l'imputato).
8. A risolvere certe situazioni, tranquillizzare la sua coscienza
e certificare le sue decisioni e prestazioni, il legale dovrà appli-
care spesso il principio del duplice effetto. L'azione, per sua in-
trinseca finalità, non deve esser direttamente ordinata al male (né
come a fine né come a mezzo); l'intenzione del soggetto dev'esser
retta e ci deve esser una causa proporzionata per permetter l'ef-
fetto cattivo. Questo principio, ben conosciuto e rettamente ap-
plicato, conforterà certe coscienze sensibili e delicate di profes-
sionisti. È impossibile che dall'attività, anche onesta e giustifica-
tissima, sia sempre esclusa la conseguenza indiretta di qualche ef-
fetto spiacevole ed indesiderato. E questo principio sembra par-
ticolarmente interessante la professione del giurista nel suo mol-
teplice esercizio: accettazione di certe cause (con il pericolo e la
conseguenza che qualche innocente venga danneggiato se l'avvo-
cato riesce a difendere efficacemente l'imputato), atti e dichiara-
zioni notarili, sentenze giudiziali... All'atto pratico, solo la pru-
denza del professionista unita alla sua rettitudine, giudicherà se
esiste o no la ragione proporzionata per porre un'azione che ha
anche un effetto cattivo; e la delicatezza di coscienza suggerirà
pure (a parte ciò che è strettamente lecito od illecito) anche quello
che è il meglio secondo l'ideale della perfezione cristiana.
9. Nei consigli e nell'aiuto che dà ai suoi clienti in materia
di giustizia, il legale distinguerà bene la stretta giustizia commu-
tativa (la quale regola i rapporti fra persona e persona) e la giu-
stizia legale o sociale. Quindi allorché si tratterà di sfuggire (senza
usare mezzi illeciti) ad una pena per un reato, o ad una multa,
di cercare, nelle notifiche, una riduzione d'oneri fiscali e di tasse
(spesso enormi) egli potrà cooperare col suo cliente usando le
solite astuzie e restrizioni mentali. Se è alle prime armi, un legale
potrà, quando è incerto, ricorrere al criterio pratico di confor-
marsi alla prassi di colleghi più anziani, esperti, onesti, religiosi.
Lo potrà tranquillizzare anche il pensiero che lo Stato ha i mezzi
di ottenere, in un modo o nell'altro, dai cittadini le prestazioni
richieste od equamente dovute.
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10. Ma un legale trova pure nella sua professione l'occasione
per confermare o suggerire in modo positivo (anche se delicato)
— a chi si confida o chiede consiglio — certi valori morali forse
dimenticati. Si pensi a certi atti come i testamenti ed i contratti
(che rientrano nelle specifiche mansioni del notariato). \
11. Gli uomini della magistratura e della polizia giudiziaria,
quanto più saranno retti e sensibili, tanto più avranno a soffrire
perché saranno come lacerati da un inevitabile conflitto: da una.
parte devono conformarsi alla legge e giudicare in base alle prove,
dall'altra non possono ignorare quanto misteriosa sia la respon-
sabilità del singolo: solo Dio la conosce. Certo la necessità di
colpire con qualche punizione i trasgressori dell'ordine, se non
altro in vista del bene comune, è compatibile colla disposizione a
vedere in ogni giudicabile un fratello infelice che, forse per igno-
ranza e debolezza, si è lasciato travolgere dalla passione o trasci-
nare al male, ed ha bisogno di comprensione, compassione ed
aiuto per risollevarsi e redimersi. Bisogna evitare sia quella seve-
rità di giudizio interiore che si esprime nell'implacabile condanna
e non vede che la colpa senza attenuanti, sia quel fatalismo morale
che discolpa ogni reo come un tarato, o, quanto meno, un essere
che è determinato nel suo volere dalla sua stessa struttura fi-
siologica.
12. È necessario che l'uomo di legge tenga sempre vivo l'ideale
che lo ha spinto a scegliere questa professione. Qualora il motivo
della sua attività diventasse solo l'interesse personale, egli degra-
derebbe la professione e non vi troverebbe più le pure soddisfa-
zioni dello spirito. Deve vederla come una missione a servizio
dell'umanità sofferente. Tante persone battono alla porta del suo
studio pallide, perplesse, tremanti. Per tutte egli può trovare la
parola che ridona la fiducia. Implicitamente egli promuoverà il
bene comune, il trionfo della giustizia; però è indiscussa, sotto un
certo aspetto, la priorità di rispetto per la persona singola. Ciò
vale pel giurista come pel sacerdote al quale il giurista viene imme-
diatamente dopo (cfr. G. Pasquariello, Principi di etica nelle pro-
fessioni giuridiche, Roma, 1943, p. 71).
13. Nonostante l'apparenza, fra gli uomini di legge c'è meno
rivalità e più simpatici rapporti che fra i colleghi di qualche altra
professione, come quella medica. Il giovane legale deve formare
in sé una disposizione psicologica piuttosto particolare nei con-
fronti dei suoi colleghi: a scontri vivaci, ad arringhe dal tono ag-
449
gressivo devono subentrare, con naturalezza abituale, gli incontri
sul piano dell'amicizia umana improntati ad una superiore cor-
dialità. Si può esser insieme e contraddittori ed amici e collabo-
ratori (Pasquariello, o.c, p. 74).
14. Per quanto riguarda in particolare il giudice esiste la
classica questione se egli debba sempre agire « secundum acta et
probata » oppure, in qualche caso, secondo il suo personale con-
vincimento. Bisogna distinguere tra cause civili e cause penali.
Nelle cause civili, quando si tratta di dimostrare dei fatti (sui
quali fondare un diritto) questi esigono delle prove. E la legge
può stabilire che qualche prova, anche se valida, come la testi-
monianza di parenti dell'interessato, non serva (affinché, in or-
dine al bene comune, sia esclusa ogni possibile parzialità). Quando
il dubbio riguardasse il diritto, in un determinato caso, ed en-
trambe le parti avessero press'a poco uguale probabilità a loro
favore, è consigliabile che il giudice le inviti a venire ad una
pacifica composizione: ci sarà minor responsabilità per lui e più
vantaggio per entrambe le parti, sotto ogni riguardo. Se però
non accettassero l'intesa amichevole ma preferissero la sentenza
che dirima la controversia, allora il giudice la può proferire se-
condo la libertà concessagli dal diritto naturale e da quello civile.
Si pronuncerà naturalmente a favore della parte che ha titoli più
probabili di diritto. Cosi pure in una controversia circa il diritto
di proprietà su una cosa, applicherà il principio « la presunzione
sta per chi la possiede di fatto », a meno che l'altro non presenti
ragioni notevolmente più forti, perché allora la soluzione del caso
non è del tutto chiara.
In una causa penale è evidente che il giudice non può con-
dannare chi solo per scienza privata sa esser reo ma non perché
è risultato tale per dimostrazione basata sulle prove richieste. E
se per scienza privata sapesse esser innocente chi stesse per esser
condannato in base a fatti che sembrano costituire un complesso
di indizi evidenti e sono invece dovuti a pura combinazione
casuale, ed in base a testimonianze reali ma non vere, non sin-
cere? In tale caso si avrebbero delle prove che figurano valide
ma in realtà non lo sono per un qualche errore o insincerità
sempre possibile fra gli uomini. Ora, sul comportamento doveroso
del giudice si discute fra i teorici del diritto. C'è chi, in linea di
massima, propende per la sentenza giudiziale corrispondente alle
prove (perché sia scongiurato ogni pericolo d'illusioni a cui è
esposto il libero convincimento). Ad altri la condanna d'un inno-
450
cente pare assolutamente contraria al diritto della persona e quindi
intrinsecamente cattiva. Data la discussione, al giudice è lasciata
una zona di libertà. È evidente però che egli userà tutti i mezzi
per salvare l'innocente quando il suo convincimento è fondato,
sicuro, deciso. Non sempre però può agire liberamente (quando,
ad esempio, il giudizio spettasse anche ai giurati); se il giudizio
fosse collegiale cercherà il mezzo più efficace per ottenere aie
l'innocente sia salvo. Se non gli è data la possibilità di salvarlo
procurerà almeno che gli sia inflitta la minor pena.
15. Fondamentale dovere del giudice è l'imparzialità e l'in-
dipendenza da ogni influsso politico poiché egli è « soggetto sol-
tanto alla legge» (Costituzione Ital., art. 101). Non sono man-
cati i magistrati capaci di barattare la loro indipendenza con un
tornaconto personale; come, del resto, non son mancati quelli che
non si sono piegati di fronte a nessuna intimidazione ed hanno
difeso fino in fondo la loro libertà di giudizio (cfr. M. D'Addio,
Politica e Magistratura, Milano, 1966, doc. n. 24).
20. Commercianti
451
Provvidenza e servono a render più ordinata, spedita e sicura la
prassi delle contrattazioni e degli scambi, contro i rischi o le
immobilizzazioni a cui kT smercio dei prodotti potrebbe andar
incontro. Quindi la professione dei commercianti è una profes-
sione « d'alto valore morale » diceva Pio XII il 5.IX.53 ai parte-
cipanti al XXVII Corso economico della Società Internazionale
per l'insegnamento commerciale (Disc, e Radiom., Ed. Vat., XV,
p. 275); una professione che « rende un vero servizio >• ai clienti.
Una professione pertanto onorevole, degna di rispetto e sopran-
naturalmente meritoria se si sa vederla nella sua alta finalità di
servizio sociale e non solo come un mezzo di lucro. Certo non sarà
facile per il commerciante che non abbia una profonda vita inte-
riore, avere questa visione superiore della propria professione
poiché il mondo del commercio è quanto mai dissipante, tutto
dominato dalla pubblicità e dall'esteriorità che non favoriscono
certo le calme riflessioni ed elevazioni dello spirito. S'aggiunga
(più che in qualche altra professione) l'occasione (talora facile) di
forti guadagni, e quindi il miraggio, la brama, la tensione per rea-
lizzarli. Sarà necessario uscire, ogni tanto, dal frastuono e dal
vortice del mondo degli affari, sospendere la giostra dei numeri,
delle macchine e delle calcolatrici per ricuperare o ravvivare il
senso d'altre realtà che corrono il rischio d'esser dimenticate per
sempre. Ma, oltre ad esser dissipante per lo spirito, di fatto la
professione del commerciante si presta quanto mai, sul piano della
giustizia, alle frodi, di brogli, agli inganni, alle irregolarità. E su
questa realtà pratica diamo atto ai moralisti medioevali. Ma questi
sono disordini che provengono dal cattivo esercizio che gli uomini
fanno del commercio e non da un'intrinseca immoralità della stessa
attività commerciale. Perciò il commerciante deve formarsi una
coscienza sicura in modo da distinguere nettamente il lecito dall'il-
lecito. Senza ignorare che certi comportamenti possono non costi-
tuire un reato per violazione della stretta giustizia commutativa
o della legge ma non esser conformi alla carità ed ai postulati
della giustizia sociale (perché, oltre al rapporto giuridico privato
che intercorre fra persona e persona c'è anche il bene comune da
considerare). Formarsi una coscienza sicura e non avere (come
certuni dicono) la persuasione (forse subconscia) che, per eserci-
tare efficacemente il commercio, bisogna liberarsi dagli scrupoli
morali. No. Bisogna avere l'esatta percezione di ciò che è certa-
mente immorale e di ciò che può esserlo solo apparentemente.
Certe dichiarazioni e risposte (con cui, per esempio, si nascondono
452
i difetti della merce) vanno giudicate situazionalmente. Proferite
fra commercianti, sensali, mercanti, possono aver l'apparenza della
frode, però è un linguaggio reciprocamente capito e non creduto;
proferite di fronte ad un semplice, ingenuo, ignorante, ad un
ragazzo — cioè a chi non è del mestiere e ripone nel commerciante
tutta la sua fiducia — possono essere un vero inganno. Lo terrà
presente anche chi, ad esempio un banchiere o un finanziere, con-
siglia una persona che desidera e chiede di fare un buon investi-
mento di danaro. Altro esempio: un commerciante, in base ai
principi etici, saprà giudicare che altra è la valutazione morale
sull'operato di un editore che lancia sul mercato stampa nociva,
ed altra quella d'un semplice operaio di tipografia. I principi da
applicarsi sono quelli della cooperazione e del duplice effetto.
I. Dopo quanto ho premesso circa la moralità della profes-
sione del commerciante, richiamo alcune norme orientative gene-
rali, sia pel penitente sia pel confessore che dovesse consigliarlo
in questa materia.
1. Bisogna attendere non solo alle esigenze del diritto morale
naturale, ma anche alla legge civile. La quale, quando, in materia
di giustizia commutativa, conferma od applica in modo determi-
nato ed al caso concreto lo stesso diritto naturale, allora obbliga
sostanzialmente in coscienza, anche prima della sentenza del giu-
dice. Se invece la legge civile restringesse il diritto naturale (ad
esempio ritenendo invalido, per mancanza d'una pura formalità,
un contratto che, per sé, è certamente valido secondo il diritto
naturale), allora l'obbligo (giustificato da un motivo di bene co-
mune e d'ordine pubblico) ci sarebbe solo dopo la sentenza del
giudice. E se la parte che ha il favore della legge intendesse « agi-
re » per far valere il suo diritto, è ovvia la convenienza che l'altra
parte eviti un procedimento giudiziario il cui esito è scontato.
2. Il confessore cercherà d'avere una sufficiente conoscenza
del diritto civile, quale — un tempo — era fornita dalla scuola
di teologia morale. Oggi l'importante trattato sui contratti da
parte di molti docenti disinvoltamente si ignora e si omette. Ma
qualche conoscenza del codice civile servirà al confessore se non
altro perché dubiti sulla soluzione di qualche caso difficile che gli
è presentato e non dia risposte affrettate ed errate per ignoranza
e con leggerezza. Non si arrogherà tuttavia il compito di consu-
lente legale. Se la soluzione del caso non è chiarissima e sempli-
453
rissima, è sempre bene, per la parte giuridica, consigliare l'inte-
ressato a rivolgersi ad un perito in diritto o commercio.
3. Per la parte morale, in certi casi, bisogna pure andar adagio
a pronunciarsi, sia perché qualche volta la situazione è complessa
(e non si può, li per li, esaminare e pesare tutti gli aspetti e le
circostanze) sia perché bisognerebbe sentire anche l'altra cam-
pana. Perciò il confessore, se non si sentisse di dare, sul momento,
una risposta sicura, può intanto assolvere il penitente che è di-
sposto a fare quanto, in base alla legge, il confessore gli dichia-
rerà doveroso.
4. In genere — e specialmente nei casi intricati o dubbi —
conviene che, sia il confessore, sia il legale, sia il consulente com-
mercialista, cerchino di persuadere l'amichevole composizione fra
le due parti in contesa. Per tante ragioni. Cosi, quando si tratta
di risolvere certi dissesti finanziari e fallimenti, si tenterà la via
conciliativa.
5. Con chi vanta certi diritti non ovvi, il confessore sia cauto
nell'affermare stretti obblighi di giustizia dell'altra parte, e tanto
meno nel permettere occulte compensazioni. Ad esempio, a pro-
posito di donazioni, bisogna distinguer bene il proposito dalla
promessa. Il proposito (anche se espresso) non vincola la libertà,
non induce nessun obbligo e si può sempre mutare. La semplice
promessa, in sé, astrattamente considerata, induce solo un obbligo
in virtù della fedeltà, un obbligo leggero. Potrebbe indurre un
obbligo di giustizia (e nell'altra parte un diritto ed allora indur-
rebbe un vero contratto unilaterale) ma ciò non si presume pel
solo fatto che uno promette qualcosa: occorrono particolari circo-
stanze che accertino l'intenzione del promettente d'obbligarsi per
giustizia, come sarebbe una dichiarazione fatta con speciale solen-
nità per iscritto od alla presenza di testimoni. Potrebbe obbligare
per giustizia una promessa rimuneratoria fatta ad una persona,
ad esempio, per lavori straordinari non sufficientemente retribuiti.
Ma anche in tali casi il confessore consigli che chi vanta diritti
(perché crede di non esser stato sufficientemente compensato)
avanzi le sue richieste con garbo e pacificamente. Le occulte com-
pensazioni, poi, sono sempre pericolose.
II. Obblighi particolari riguardanti la professione del com-
merciante.
1. S. Alfonso {Pratica del Conf., n. 55) propone come primo
punto su cui il « negoziante » dovrà interrogarsi la questione: « se
454
ha imbrogliato nel peso e nella misura ». Difatti questo sarebbe i
un grave abuso, una prassi che i compratori mai presumono, che
ripugna, che rende odioso il venditore. /
2. Nel contratto di compra-vendita c'è poi la questione spi-
nosa dei difetti, o vizi, della merce. Se sono sostanziali — come
quando la materia fosse completamente diversa da quella richiesta,
oppure nociva od inutile all'uso a cui è destinata od al fine mani-
festato dal compratore — allora il contratto sarebbe per diritto
naturale nullo e per diritto civile (CCI, aa. 1490-1495) rescindi-
bile. Può essere che i difetti, anche se non proprio sostanziali,
siano tali da diminuire notevolmente il valore — e quindi il
giusto prezzo — della cosa: il venditore ha allora il dovere di
manifestarli, almeno se è interrogato e se sono occulti e non
facilmente riconoscibili, pena il diritto del compratore alla re-
scissione del contratto (secondo il diritto naturale e secondo il
diritto civile italiano). Questo in linea di stretto diritto rivendi-
cabile dal compratore. Ma un venditore onesto cerca di comporre
in modo equo, gli interessi propri e quelli del compratore, specie
quando questi fosse un ingenuo, un ignorante in materia di con-
tratti, un ragazzo mandato dai genitori o dal padrone, un com-
pratore che dichiara di affidarsi alla lealtà del venditore.
3. Altra questione interessante venditori e rivenditori è quella
del prezzo giusto. S. Alfonso la poneva come secondo punto su
cui un negoziante deve interrogarsi: « se ha venduto più del prezzo
supremo, specialmente nel dar la roba a credenza (ad creditum),
quando le persone erano sicure e non v'era suo danno » (Pratica
del Conf., 55). Oggi però si ritiene lecito il vendere a maggior
prezzo la merce quando si concorda di dilazionare il pagamento,
perché questa dilazione è un mutuo (implicito) dal quale è lecito
ottenere un lucro moderato che non può quindi esser qualificato
come usura propriamente detta, cioè illecita.
Il discorso sul giusto prezzo sarebbe lungo ed altrettanto at-
tuale. È da premettere che, anche se la legge civile (CCI, a. 1474)
permette nelle contrattazioni la libertà di prezzo (salva la facoltà
di rescissione da parte di chi è vittima di violenza o dolo, aa. 1434;
1439), non per questo si deve ritenersi liberi dalle esigenze della,
legge morale naturale. Per certi generi o determinate prestazioni
(dai medici ai tassisti) od in particolari tempi d'emergenza, c'è, in
qualche paese, il prezzo « legale ». Dal momento che il legislatore
si decide a non lasciare la determinazione del prezzo all'arbitrio
455
dei privati, si deve presumere che abbia esaminato bene la situa-
zione. Senonché « calmiere » e « tariffe » sono sempre osservate
come dovrebbero essere? A parte qualche caso eccezionale: ad
esempio, in tempo di guerra non si poteva condannare qualche
contadino che nel vendere qualche prodotto della sua campagna
chiedeva un po' di più del prezzo di calmiere per poter compe-
rare qualche altro genere necessario (un po' di cuoio per le scarpe)
che non si trovava sul mercato. Ma non si poteva non riprovare
chi, pur possedendo mezzi economici in grand'abbondanza, faceva
il mercato nero, vendeva a prezzi elevati prendendo pel collo i
bisognosi.
Quando non è determinato il prezzo legale bisogna attenersi
a quello « di mercato », detto anche « comune » (perché comune-
mente vien stimato come giusto). Ha però un notevole aggio per-
ché per la stessa merce e nello stesso luogo e tempo, ci può esser
un prezzo « massimo », « medio » e « minimo ». Difatti una
determinazione matematica non è possibile, tanto più se la merce
non è proprio la stessa, anche se sembra la stessa. Evidentemente
negli alimenti comuni e nelle cose necessarie è ammissibile una
minore oscillazione fra prezzo massimo e prezzo minimo. Se il
venditore eccedesse notevolmente il prezzo massimo e mettesse il
compratore nella pratica necessità di fare simile contratto (o,
viceversa, i compratori mettessero il venditore nella necessità di
scendere notevolmente sotto il prezzo minimo) allora il contratto
sarebbe ingiusto e la parte lesa avrebbe diritto ad essere reinte-
grata. Se, ad esempio, al mercato, i compratori, d'accordo coi sen-
sali, facessero credere al venditore che una bestia è finita e da
macello ed il proprietario la cedesse ad un prezzo notevolmente
inferiore al minimo, allora il contratto sarebbe nullo per diritto
naturale; sarebbe rescindibile secondo il diritto civile se si di-
mostra che l'errore del venditore è stato causato dolosamente dal
compratore.
Nel caso dei rivenditori, se è giusto che essi smercino la roba
ad un prezzo superiore a quello secondo il quale l'hanno acqui-
stata dal produttore (o dal venditore all'ingrosso) quello che in
definitiva si richiede è la discrezione. La quale non sempre è
osservata. Ci sono rivenditori di frutta che la comperano in cam-
pagna (ove qualche anno c'è sovrabbondanza) ad un prezzo irri-
sorio e poi la vendono in città ad un prezzo altissimo a gente che
è nella pratica necessità di comperarla.
Il prezzo può esser alzato oltre il limite quando il venditore
456
non alienerebbe il mobile o l'immobile, perché ha per esso spe-
ciale affezione ed il prezzo maggiorato è consapevolmente e
pacificamente concordato tra i due contraenti. La vendita spon-
tanea, invece, svaluta la merce (in caso di morte, fallimenti, tra-
slochi, liquidazioni, aste). Carità però può suggerire di osservare
anche in tali situazioni da parte dei compratori, una certa discre-
zione: di non sfruttare, ad esempio, con proprio vantaggio ecces-
sivo, lo stato di necessità di chi è caduto nella povertà, in seguito
ad un infortunio finanziario.
Come la dilazione del pagamento cosi l'anticipo possono inci-
dere sul prezzo della merce.
Quando non esiste né il prezzo legale né quello comune per-
ché si tratta di roba usata od estremamente rara o molto preziosa,
allora è lecito il prezzo « convenzionale ». Nel quale c'è più li-
bertà. Ma la libertà, anche in tal caso, ha un limite imposto
dalla ragionevolezza. Soprattutto non è lecito abusare dell'igno-
ranza dei semplici carpendo, a prezzo apertamente inadeguato,
qualche loro oggetto di valore od antico, od opere d'arte che cer-
tamente potranno esser rivendute ad intenditori secondo un prez-
zo di gran lunga superiore.
Alle volte, anche per oggetti che hanno un prezzo comune,
capita che il rivenditore approfitta della buona fede del com-
pratore (specie di turisti stranieri) per alzare il prezzo e realiz-
zare cosi qualche guadagno straordinario. Si giustificano dicendo
che altrimenti non si vive, bisogna chiuder bottega perché si
vende poco. Siccome il rivenditore non è vero rappresentante
della Casa produttrice (dal quale ha comperato gli articoli) perciò,
tutto considerato, se ci sono motivi seri per effettuare questo
rialzo di prezzi, non si potrà condannarlo. Neppure approveremo,
però, positivamente siffatti sistemi per non indurre il pericolo
che taluni superino, senza più scrupoli, i limiti della discrezione.
I rivenditori devono esaminarsi sul ritardo eventuale (ed
alle volte sistematico) nel pagare i fornitori.
4. S. Alfonso (Prat. del Conf., n. 57) fa il caso d'un « sen-
sale » e d'una « venditrice », cioè di coloro che ricevono dai pa-
droni qualcosa da vendere (servi, castaidi, commissionari agenti)
e si domanda se possano tenere per sé quanto, nell'affare che
sono riusciti a realizzare, supera il prezzo-base che il mandante
ha fissato come accettabile. E risponde che non è lecito (eviden-
temente, a meno che il padrone non l'abbia espressamente con-
cesso): non è lecito, secondo il santo, neppure se il padrone
457
aveva determinato il prezzo che desiderava, perché con questa
determinazione dichiarava di non accettare che la merce fosse
venduta ad un prezzo inferiore e non già che l'avanzo eventuale
poteva tenerselo il sensale. Si può eccettuare il caso in cui il man-
datario abbia usato diligenza e fatica straordinaria, recandosi in
un luogo più lontano, con relative spese speciali: allora secondo
s. Alfonso potrà trattenersi non tutto l'avanzo ma ciò che cor-
risponde alla sua fatica e spese straordinarie. Comunque queste
occulte compensazioni, anche se possono considerarsi come una
equa retribuzione, non sono esenti da qualche pericolo: se il
padrone venisse a conoscere l'operato del suo mandatario potreb-
be giudicarlo non di buon occhio perché non limpido ed aperto.
Chi è incaricato da un'impresa di fare acquisti di una merce
può preferire quella ditta dalla quale riceve una mancia. Ma è
assolutamente immorale concordare col fornitore ed usare il si-
stema della doppia « fattura » che permette all'agente dell'im-
presa d'intascare sistematicamente uno sconto e di nasconderlo
al suo principale. Tanto più che una ditta che si presta a questi
espedienti, lo fa spesso per smerciare prodotti più scarti di quelli
forniti da altre ditte. Ma imbrogli di questo genere se ne fan
molti nel commercio. C'è qualche autista che arriva ad accordarsi
col meccanico per far credere al suo padrone che la macchina
aveva dei guasti gravi, di fatto inesistenti.
5. Questioni possono sorgere (da considerarsi e risolversi non
solo in base alla legge civile ma anche sotto il profilo morale) in
seguito alla svalutazione monetaria, la quale incide nei contratti
di prestito, nelle locazioni, nei vitalizi e via dicendo. Bisognerà
esaminare caso per caso con senso umano e cristiano e risolverlo
alla luce dell'equità e della discrezione, di modo che né l'una
né l'altra parte abbia a subire un sacrificio eccessivo ed esser la
sola sacrificata. Ipotizziamo il caso d'un inquilino che è commer-
ciante e nuota nell'abbondanza e si limita a pagare al proprietario
(il quale forse stenta a vivere, per un complesso di circostanze
sfavorevoli) un miserabile canone di affitto: di fronte alla legge
sarà a posto ed al sicuro, ma equità e carità gli possono sug-
gerire una discreta generosità.
6. Penso non sia inutile l'invito ad interrogarci sul ri-
tardo (tanto frequente) nel saldare le « fatture » a privati com-
mercianti i quali non possono valersi, come lo Stato, del diritto
di tassare chi è in mora. E fra parentesi ricordo che, siccome
anche il semplice prestito d'un oggetto è una specie dd contratto,
458
ognuno può chiedersi se ha l'abitudine di conservare troppo a
lungo ciò che ha ricevuto, fino, forse, a dimenticarsi di restituirlo.
7. Per concludere mi rifaccio a quanto ho detto all'inizio:
quella del commercio è una professione che si presta ai com-
promessi colle esigenze della giustizia: « ...occorre oggi una
grande fermezza di principio ed energia di volontà per resistere
alla diabolica tentazione del facile guadagno che specula igno-
bilmente sulle necessità del prossimo, piuttosto che guadagnare
la vita col sudore della fronte » (Pio XII, Disc, e Radiom., Vili,
p. 305). Ebbene, al commerciante cristiano bisogna additare una
vetta più alta che al semplice uomo onesto. Egli deve vedere la
sua professione come esecuzione della volontà di Dio e collabo-
razione all'opera della Provvidenza nel mondo. Cercherà allora
non solo di non mancare in quello che è strettamente necessario;
non si chiederà solo se il suo agire è una violazione della giu-
stizia, se è peccato grave o leggero. Ma cercherà di curare i propri
affari con diligenza, esercitando la vita soprannaturale ed i doni
dello Spirito Santo, interpretando, per quanto è possibile, anche
i desideri di Dio e tendendo cosi verso la santità.
21. Commercialisti
460
G. Pasquariello, II commercialista, Roma, Studium, 1946, pp. 84-
86).
3. Deve esercitare la sua professione con la giusta equilibra-
ta diligenza (proporzionata all'importanza delle singole pratiche).
Accettare incarichi che siano superiori alle proprie forze è dan-
noso in tutti i sensi. E nessuna pratica sbrigata con precipitazione
lascerà soddisfatti.
4. Come il confessore, così il consulente commercialista di-
mostrerà prudenza ed umiltà (che non compromette, anzi, la sti-
ma che gode) se, di fronte ad un caso della cui soluzione dubita,
si prenderà tempo per riflettere e dare poi una risposta chiara
e sicura. Perciò (sarebbe inutile il dirlo) non si affiderà mai solo
al suo intuito personale per risolvere i casi complessi: s'infor-
merà accuratamente (se non l'ha fatto) su quanto insegnano in
materia i più stimati autori e (se resta qualche dubbio) chiederà
cosa ne pensano altri commercialisti suoi colleghi.
5. Diligenza, ordine, esattezza: piccole virtù quanto mai
apprezzate in questa professione. C'è, ad esempio, chi ha l'abitu-
dine di farsi sempre aspettare, di non esser mai puntuale agli
appuntamenti, di intervenir al colloquio senza aver preparato
con cura la materia della discussione.
6. Il commercialista può esser tentato di tirar in lungo le
pratiche assunte affettando che abbiano più importanza di quanto
in realtà hanno.
7. Come tutti gli altri professionisti, si interrogherà sui rap-
porti che ha coi colleghi. C'è chi ha la tendenza a giudicare sempre
ingiustamente (e quindi poco onestamente) l'operato degli altri
per discreditarli. Coi più giovani, con coloro che sono alle prime
armi, l'anziano esperto può fare molto del bene. Cercherà d'infon-
dere in loro una giusta idea della professione senza pessimismi
deprimenti (propri di chi non ha goduto successi professionali
ed ha perso ogni illusione); all'occasione, li aiuterà con qualche
consiglio che sia carico di prudenza ed, insieme, d'entusiasmo.
8. Ha il dovere del segreto d'ufficio (come i medici, gli
avvocati, i notai, le ostetriche ed i professionisti in genere). A
meno che (secondo i soliti principi della morale che regolano
l'osservanza del segreto) non sia necessario rivelare qualche
notizia per evitare un grave danno alla comunità o ad un tèrzo
oppure al proprio cliente interessato od a se stesso.
461
9. Importante — sotto l'aspetto sia della morale sia della
stima che è necessaria al professionista — è la questione del-
l'equo compenso. Bisogna anzitutto attendere alle tariffe ed a
quanto è stabilito e permesso dalla legge la quale a sua volta
— mi riferisco all'Italia — dà come regola che si deve consi-
derare la complessità, l'importanza, la delicatezza del lavoro pre-
stato, le responsabilità che esso ha importato e l'utilità che il
cliente ne ha avuto.
Ci può esser la tentazione di cumulare prestazioni su presta-
zioni senza necessità o di protrarre delle pratiche quando ben
poco (o nulla) è possibile fare a vantaggio del cliente. Come
per i medici, gli avvocati, i notai ed ogni altro professionista,
carità vuole che il povero sia aiutato gratuitamente (e non, per
questo, con minore interessamento ed impegno). D'altra parte,
se al povero non si può chiedere quello che sarebbe giusto, ma
meno o nulla, non è neppur giusto che a chi è abbiente il pro-
fessionista chieda — per rifarsi — compensi apertamente supe-
riori al giusto. Del resto, qualora cedesse alla tentazione di avan-
zare pretese e richieste esagerate, danneggerebbe seriamente se
stesso e la sua professione: perderebbe la fiducia di cui gode.
22. Politici
462
'•l'i*
463
ziative... Al che s'unisce, naturalmente, la consuetudine (abba-
stanza comune) di prometter molto (anche cose che sono impos-
sibili o contraddittorie) per poi non mantenere nulla o ben poco.
Al politico è richiesta capacità d'adattamento ed insieme fer-
mezza e continuità, sangue freddo nei momenti difficili e nelle
situazioni gravi...
5. Comportamento in materia di religione e rapporti colla
Chiesa. Il politico cristiano accetta l'intervento della Chiesa nel
campo morale e spirituale che a lei spettano. È edificante il suo
esempio se egli saprà riconoscere apertamente la sua fede ed
invocare, in qualche occasione, pubblicamente, Dio (cosa che,
da noi, pochissimi fanno). D'altra parte c'è anche il pericolo di
strumentalizzare religione e Chiesa ai propri fini politici.
6. Ad un dato momento, il politico può sentire, da parte
della sua coscienza, il suggerimento di ritirarsi dalla scena, al
pari d'un capo di Stato, d'un pastore d'anime. Ciò può significare
un sacrificio, dal punto di vista economico ed affettivo. Ma è
meglio che la decisione (quand'è opportuna) parta dall'interessato.
Per il bene comune. Ed anche per evitare qualche probabile umi-
liazione personale (cf. Lebret-Suavet, Ringiovanire l'esame di
coscienza, pp. 104-108).
23. Giornalisti
465
prendere ed apprezzare la sua missione specifica. E (va detto
subito) i giornalisti cattolici dovranno andar spesso contro cor-
rente. Ma « si guardino dal venir meno alla verità né, sotto colore
di evitar l'offesa degli avversari, la attenuino o la dissimulino »
(Pio XI, ibid.y p. 61). Oggi, ad esempio, anche in campo teolo-
gico e morale, certe verità sembra non siano più « di moda ».
Anzi, proprio quelli che seguono un certo modernismo, pare eser-
citino nella stampa una specie di dittatura. Il giornalista cattolico
non deve aver rispetto umano, né deve temere di far la figura
del superato. Riferisca e scriva ciò che, secondo la sua coscienza,
giudica esser non solo interessante ed attraente ma utile e be-
nefico ai lettori. Ciò che, dunque, gli è « indispensabile in primo
luogo — ammoniva Pio XII — è il carattere. Il carattere, cioè
semplicemente l'amore profondo e l'inalterabile rispetto dell'or-
dine divino che abbraccia ed anima tutti i domini della vita;
amore e rispetto che il giornalista cattolico non deve accontentarsi
di sentire e di nutrire nel segreto del suo cuore, ma che deve
coltivare in quello dei suoi lettori » (Disc, e Radiom., X, p. 369).
2. Culto dunque della verità e fermezza in materia dottri-
nale. Rispetto poi per la verità nella comunicazione di notizie.
« Chiunque vuol mettersi lealmente al servizio dell'opinione
pubblica... deve interdirsi assolutamente ogni menzogna... ». Con
questa disposizione di spirito e di volontà reagirà efficacemente
contro il clima di guèrra. Ma dove la pretesa opinione pubblica
è dettata ed imposta, per amore o per forza, e « cessa di funzio-
nare liberamente, è là che la pace è in pericolo » (Pio XII, Disc.
e Radiom., X, 371).
In un giornale trovano ospitalità articoli dottrinali (più o
meno profondi), notizie, qualche illustrazione e la pubblicità (alle
volte abbondantissima). L'elemento che più interessa i lettori
ordinari è costituito dalle notizie. La loro comunicazione deve,
nel suo contenuto, corrispondere sempre alla verità e, se lo per-
mettono le superiori esigenze della giustizia e della carità, sia
integra (IM, n. 5). Dunque il dovere di rispettare la verità è
incondizionato; il dovere dell'integrità è condizionato. Difatti la
dignità della vita cristana, i diritti della giustizia e dell'amore
prevalgono su quelli alla (e della) informazione (si pensi alle
notizie e commenti di certi fatti scandalosi). È essenzialmente
diverso, dal punto di vista morale, il non dire tutta la verità
(cioè tacere) ed il dire ciò che non è la verità (cioè alterarla af-
fermando il falso). Del resto — anche prescindendo dai postulati
466
morali — il dire tutta la verità è, spesso, praticamente impossibile,
perché il tempo stesso non consente di avere tutte le desiderate
informazioni che potrebbero servire a precisazione e conferma.
S'aggiunga che, fra tutte le notizie che gli arrivano, il giornalista,
praticamente, fa sempre una certa selezione: riferisce ciò che
ritiene più importante. Ma l'obbiettività (in quanto esclude
la comunicazione di notizie non vere), questa dev'esser osser-
vata assolutamente. Si deve fare tutto il possibile per realizzare
quest'ideale. Ma, ad esempio, chi diffonde voci infondate per su-
scitare nei lettori la curiosità e cosi favorire la distribuzione al
pubblico del giornale, deve riflettere che in materie delicate
— come la religione e la morale — una notizia (anche se
lanciata facendo riserve sulla sua attendibilità) può generare
in chi l'apprende un certo turbamento o disagio interiore. Ad
esempio, qualche anno fa, alcuni giornali diffusero la notizia
che la Santa Sede avrebbe avuto in animo di modificare l'ob-
bligo, pei fedeli, di confessarsi almeno una volta all'anno, ridu-
cendolo ad una semplice raccomandazione. Notizia che i com-
petenti uffici della S. Sede sono stati autorizzati a dichiarare
priva di fondamento (OR, Precisazione, 16-17.IV.1973). In que-
sto momento, nel quale, da parte di molti fedeli, il sacramento
della Penitenza è trascurato, bisogna guardarsi dal portare a
conoscenza di chi è dottrinalmente impreparato (e quindi psi-
cologicamente influenzabile) ciò che si è solo « sentito dire »
e ciò che è solo un'« ipotesi di lavoro » dei teologi d'oggi.
Talora il giornalista — che ha poco tempo a sua disposi-
zione per controllare il fondamento d'una notizia — si troverà
in uno stato d'incertezza: se tace, manca d'arricchire (come,
forse pensa, è suo compito) la cronaca del giornale; se parla,
può esercitare un influsso non benefico sull'opinione pubblica,
provocando in taluni la reazione, in altri la non retta compia-
cenza. Nei casi perplessi nei quali ci sia un prò ed un contro
tanto per il tacere come per il parlare, lo scrittore (che si sup-
pone sensibile ai suggerimenti morali) dovrà decidere secondo
la sua coscienza: ed il criterio per la miglior opzione non può
esser solo un motivo naturale o commerciale, il successo del
giornalista o del suo giornale. In ogni caso, se circa un fatto
non c'è certezza il lettore dovrà esserne chiaramente avvisato.
Certe notizie, poi, anche se comunicate come dubbie, non man-
cano d'aver un influsso sull'opinione dei lettori. Si dirà, a que-
sto proposito, che, nella società umana, i singoli hanno diritto
467
all'informazione; quindi il giornalista ha il dovere ed il diritto
di fornire ogni notizia purché la qualifichi per quel che vale:
o come certa, o come probabile, o semplicemente come una dice-
ria, una indiscrezione, un sospetto. Però, come dice il Decreto
« Inter mirifica », n. 5, il diritto all'informazione è relativo: ha
per oggetto « quanto, secondo le rispettive condizioni, si addice
alle persone, sia singole, sia associate ». Nella GS, n. 59 è detto
solo che l'uomo, « nel rispetto dell'ordine morale e della comune
utilità » ha diritto di « esser informato secondo verità degli av-
venimenti pubblici ». E si cita la « Pacem in terris » ove pure
si legge che « ogni essere umano... ha il diritto ad essere infor-
mato secondo verità degli avvenimenti pubblici » (AAS, 55, 1963,
260). Pertanto YIM, mentre riconosce il diritto alla informazione,
afferma pure le debite restrizioni poiché « non ogni cognizione
giova » (IM, 5) e tanto meno è necessaria (cfr. E. Baragli,
L'Inter mirifica, Roma, 1969, p. 336).
Qualcuno forse osserverà che le notizie riferite dai giornalisti
sono recepite dai lettóri col beneficio dell'inventario, per prin-
cipio. Si possono quindi classificare fra le cosiddette « restrizioni
mentali »; non vai la pena di sopprawalutare la responsabilità
dei giornalisti (quando, s'intende, si limitano alla cronaca e non
fanno apprezzamenti). Ma anche questa giustificazione non è del
tutto valida. C'è troppa gente la quale pensa che tutto quanto
ha l'onore d'esser stampato, abbia almeno un fondo di verità.
Inoltre un influsso, subconscio almeno, c'è anche nei lettori più
intelligenti. Infine, ammesso che certe notizie si possano valutare
come restrizioni mentali — alle quali si può dare solo il valore
della probabilità — bisognerebbe che avessero per oggetto una
materia moralmente indifferente che non reca danno ai lettori.
Il discorso ai giornalisti offre l'occasione di dire una parola
ai lettori. Anch'essi devono accogliere le notizie del giornale
con un giudizio equilibratamente critico e non con assoluta pas-
sività e cieca fede. Non possono pretendere che il giornale dia
più di quello che può dare. Non devono credere che tutto quanto
il giornale riferisce sia vero, ma neppure pensare sempre e per
principio che non sia vero e non contenga del vero. Possono
riflettere, controllare, confrontare, e cosi dare anche la loro col-
laborazione al servizio d'informazione (E. Lucatello, Il giornale
e la società, Estratto da « Promozione Sociale », 1974, nn. 7-8,
p. 10).
468
I 3. Il giornalista ha il dovere di rettificare le notizie inesatte
I che avesse eventualmente comunicato e possono recar danno o
I dispiacere a qualcuno. Se ha ricevuto notizie in via confidenziale
| da persona che non vuole rivelarsi perché teme pregiudizievoli
l conseguenze, il giornalista dovrà, di massima, osservare il segreto
professionale ed assumersi tutta la responsabilità dell'informazione
che giudica opportuno e sicuro comunicare.
| 4. E non tutto ciò che corrisponde a verità è consigliabile
sia scritto e diffuso. « Non ogni cognizione giova » (IM, 5). Il
giornalista ha diritto ad attingere notizie e a comunicarle —
' e, d'altra parte, il pubblico ha diritto di conoscerle — purché
però siano notizie di vero interesse. E per esser di vero inte-
resse, devono portare un'utilità e non un danno al singolo od
; alla comunità. Perciò la stessa legge civile proibisce la divulga-
zione di certe notizie nocive ai beni superiori della comunità.
Comunque, anche qualora non si verificano gli estremi del di-
vieto legale, il giornalista rifletterà da quale persona vien letto
il giornale (o la rivista) e quali riflessi può avere una informazione
od una postilla nella quale lo scrittore espone il suo commento
e la sua personale interpretazione. Non tutto ciò che si può
scrivere per un periodico riservato, ad esempio, a moralisti e
medici, può esser stampato su un settimanale che vien letto da
tutti, o su un giornale che vien portato quotidianamente in casa
d'una famiglia e va in mano anche a ragazzi ed a tanti che sono
mossi solo dalla curiosità malsana. Un medico giornalista che tiene
« tribuna » con chi lo interpella mediante un giornale od un
settimanale, dovrà considerare che le sue risposte non saranno
lette solo dagli interroganti, ma da innumerevoli altri; e dovrà
chiedersi quali impressioni susciteranno, quali interpretazioni
provocheranno, quali applicazioni potranno suggerire a molti let-
tori.
È naturale che il giornalista cerchi di scegliere gli argomenti
e le notizie che sono più attuali ed interessanti. E, per questo,
gli occorre intuizione, sensibilità, contatto col pubblico, cono-
scenza delle idee, delle tendenze, delle istanze degli uomini del
suo tempo. Ma ciò non può significare che egli si lasci solo tra-
sportare dalle correnti: ha pure il compito di formare la men-
talità dei lettori. E non sempre — se ha la coscienza della sua
missione — potrà riscuotere la loro approvazione ed accontentare
il loro gusto. È naturale che si senta spinto alla caccia delle no-
tizie sensazionali e piccanti, delle dichiarazioni clamorose, delle
469
inattese prese di posizione (ad esempio, in campo cattolico da
parte di qualche teologo o moralista). Tutte notizie che servono
mirabilmente per la diffusione del giornale. Bisogna però riflet-
tere sugli effetti di certe informazioni ammannite al pubblico
senza l'accurata contropartita della dottrina vera e delle sue ra-
gioni. Ad esempio, quando a proposito di divorzio o di aborto
ci si limitasse a richiamar l'attenzione su certi casi pietosi o sulla
legislazione e prassi vigenti in altri paesi, i lettori che considerano
le questioni morali in modo piuttosto empirico o sotto l'impulso
del sentimento più che alla luce della ragione, resteranno im-
pressionati. Il far della problematica senza dare una risposta ed
una soluzione conclusiva chiara, può suscitare interessamento,
ma esser anche un sistema insensibilmente corrosivo per la fede
e la moralità dei lettori. Fa più male degli atteggiamenti d'aper-
to contrasto e d'attacco diretto alla religione perché, in questo
caso, lo scrittore prende una netta posizione personale e dichiara
subito il suo intento; il lettore è cosi avvertito e chiamato ad
una scelta immediata. Il pericolo maggiore è che chi legge abi-
tualmente certe opinioni, cambi insensibilmente mentalità o s'in-
cammini verso il dubbio sistematico o il relativismo generale. Si
dirà che, in ossequio alla libertà d'opinione — anche in materia
di religione — ogni giornalista può riferire qualsiasi notizia ed
i lettori hanno sempre la facoltà di giudicarla come vogliono.
Ammettiamo pure, ma, proprio per rispetto dei lettori — che
non sono tutti informati sulle ragioni prò e contro una tesi —
il giornalista dovrebbe portar a conoscenza di chi legge, non solo
le obbiezioni che si possono muovere alla dottrina cattolica, ma
anche le risposte che alle obbiezioni sono state date o si possono
dare. Perciò, giova ripeterlo, il giornalista, anche se non pronun-
cia il suo giudizio d'approvazione ma solo riferisce l'opinione
d'altri, può suscitare nei lettori confusione e disorientamento.
Ed in realtà, anche nella Chiesa, da persone non prive d'autorità
e scienza, vengono talora proposte teorie (od ipotesi di lavoro,
che dir si voglia) le quali si distaccano dalla dottrina sempre
insegnata dal Magistero. Non si possono portar a conoscenza della
gente non istruita senza dichiarare espressamente la loro devia-
zione dalla linea tradizionale.
5. Il retto esercizio del diritto all'informazione richiede poi
che la comunicazione « sia presentata in modo onesto e conve-
niente » (IM, 5). Il modo come un fatto viene narrato ha enorme
importanza! Si può riferire una notizia mostrando od una certa
470
compiacenza, od, invece, netta disapprovazione. Alle volte, però,
anche solo il far noto un fatto può esser dannoso (la stessa legge
civile proibisce la divulgazione di notizie nocive per i beni supe-
riori della comunità); e lo stesso soffermarsi sui particolari fa
supporre, in certe materie delicate, una qualche compiacenza da
parte dello scrittore. « Esprimere il male non è male quando
torna a bene; tacerlo è dovere, quando dal solo fatto di esprimerlo
ne deriva un'esaltazione » (E. Lucatello, Giornalismo, in: « Diz.
di T. Mor. », 1968, p. 727). E non si dimentichi che l'emozione
suscitata nei lettori dipende — più che dal fatto riferito —
da quella impressionante ricostruzione e descrizione che è un'abi-
lità propria del giornalista (come del narratore in genere). Si
può, ad esempio, per destare interesse nel pubblico, esser tentati
di romanzare anche un fatto di cronaca nera. La fantasia lo ar-
ricchisce con sensazionali colpi di luce: alla mente suggestionabile
di taluni — specialmente di giovani — un atto di delinquenza
finisce per apparire quasi come un'avventura affascinante. A tale
proposito è pericoloso descrivere i metodi e le tecniche usate
dai criminali, specialmente nelle pubblicazioni destinate agli ado-
lescenti. Chi poi riferisce particolari, modi, ambienti segreti del
malcostume e della malavita, deve sapere che fra i lettori c'è
chi desidera esser informato per fare le sue esperienze. Come
ci sono donne di malaffare che desiderano d'esser intervistate
per acquistare popolarità e farsi pubblicità. Nella descrizione dei
misfatti occorre prudenza e discrezione anche al fine di non ali-
mentare l'odio negli interessati: odio che porta spesso alla ven-
detta. S'aggiunga che l'indagare su certi particolari intimi della
vita d'un delinquente (che è spesso ed, in gran parte, anche un
disgraziato) o dei suoi famigliari, può esser contrario al rispetto
dovuto alla dignità d'ogni persona umana (cfr. E. Lucatello, Gior-
nalismo a misura dell'uomo, Roma, Studium, 1974, p. 80).
6. Chiari principi ed equilibrate direttive anche riguardo alla
polemica. È evidente che va evitato tutto quanto è contrario alla
carità, cade nella volgarità o sa di pettegolezzo. Chi vuol metter
in luce la verità discutendo con chi la ignora o la combatte,
deve aver per scopo di persuadere il suo interlocutore e non di
metterlo colle spalle al muro per umiliarlo pubblicamente. D'al-
tra parte, oggi — in ossequio al pluralismo, alla libertà d'opinio-
ne, di religione, di coscienza — c'è chi vorrebbe bandire ogni
polemica ed ogni forma d'apologetica contro chi male giudica o
male interpreta la dottrina autentica insegnata dall'unica e vera
471
Chiesa di Cristo. Ma non si dimentichi che una sana polemica c'è
sempre stata nella Chiesa ed il primo forte polemista fu Cristo
stesso. Sono utili e necessari gli incontri ma anche gli scontri se
si vuole che la verità sia conosciuta e difesa. Perciò i giornalisti
« qualora sia il caso di contraddire qualcuno, sappiano si con-
futare gli errori ed opporsi alla pravità dei malintenzionati, ma
si mostrino animati da rettitudine e soprattutto mossi dalla carità »
(Pio XI, Enc. Rerum Omnium, AAS, 15, 1923, 61).
24. Militari
474
sione sistematica, quasi per principio, d'ogni pratica religiosa fino
a che non ritornano alla loro patria ed alla loro parrocchia. E non
ci si illuda che l'abbandono delle celebrazioni liturgiche sia com-
pensato e supplito dalla preghiera individuale: vivono del tutto
fuori di sé; non conoscono vita interiore ma solo affari e realtà
materiali. Come possono dirsi cristiani?
3. La bestemmia. Chi, la sera, in qualche città (specialmente
.dell'Alta Italia) s'incontra con gruppi di soldati in libera uscita li
sentirà infiorare ogni discorso con bestemmie a freddo. E quando
se ne confessano non possono addurre scusa alcuna. Macché sca-
rica necessaria in un momento di rabbia: bestemmiano sempre.
Riconoscono che quando sono a casa non lo fanno; dicono che
durante il servizio militare è inevitabile perché è una vita bestiale
e perché cosi fan tutti. Scuse che non son neppur da prender
in considerazione. Ne sono intimamente persuasi essi stessi. Bi-
sogna semplicemente e gravemente ammonirli che — oltre ad
offendere Dio e privarsi delle Sue benedizioni pel presente e pel
futuro — danno scandalo, mancano di civiltà e di rispetto verso
il prossimo. Una vergogna. Ed « in foro externo » meriterebbero
qualche buona lezione. Ma la legge penale e la disciplina militare
non sono applicate con il debito rigore. Solo qualche comandante
ha carattere coerente ed energico.
25. Emigranti
477
4. Nel momento d'abbandonare la patria, l'emigrante forse si
fa forza e supera il dolore del distacco col miraggio d'un migliore
avvenire. Ma quando si sentirà esule, lontano dalla sua terra, dalla
sua casa, dai suoi parenti ed amici, allora nel suo cuore proverà
forse un'irresistibile nostalgia. Specialmente in certe brutte gior-
nate, in momenti di difficoltà e d'ansia per sé e per i suoi. In
queste ore tristi avrebbe bisogno di sentir « vicino chi ne com-
prenda a pieno le pene, ne ristori le forze, ne sollevi colla voce
del sangue lo spirito abbattuto » (dalla preghiera di Pio XII alla
Madonna degli emigranti).
5. Perciò è augurabile che i nostri emigranti si organizzino
formando delle « Famiglie », per tenersi uniti alla patria e fra
loro, per aiutarsi a vicenda, per continuar a parlare la propria
lingua. Capiteranno occasioni nelle quali l'emigrante ha bisogno
d'una parola decisa e sicura e d'un consiglio fraterno. Non sia
ingenuo. Con coloro che non conosce a fondo sia cortese; ma
non si fidi di nessuno perché c'è sempre chi approfitta della sem-
plicità del nostro emigrante per truffarlo.
6. Un ministero preziosissimo svolgono i missionari cattolici
degli emigranti, riunendoli per annunciar loro (nella lingua ma-
terna) la Parola di Dio, per celebrare l'Eucaristia. Un missionario
zelante può diventare la guida, il consigliere, il padre spirituale de-
gli emigranti esercitando un influsso grandissimo. La lettera encicli-
ca « Exul familia », del 1952, vuole che sia designato un sacerdote
italiano in tutti i centri di lavoro dove si trova raggruppato un
notevole numero d'italiani. Questi sacerdoti possono battezzare,
ammettere alla prima Comunione, celebrare matrimoni.
7. A proposito di matrimoni, si tenga presente che la Chiesa
tollera i matrimoni misti ma li sconsiglia (come li sconsigliano gli
stessi pastori protestanti). Riferisco una particolare constatazione
circa i matrimoni misti che si contraggono in Svizzera: delle tante
ragazze della mia provincia veneta bellunese che hanno sposato
protestanti, molte conducono vita infelice, nessuna è proprio con-
tenta. Constatazione, questa, dei missionari e degli svizzeri stessi.
8. L'emigrante dovrebbe esser preparato ed istruito sugli in-
numerevoli pericoli che incontrerà per le vie del mondo. Spe-
cialmente alle giovani è necessario usare ogni prudenza e stare
sempre all'erta e sulla difensiva. I pericoli cominciano col viaggio
d'andata. Non dovrebbero intrecciare conversazione con persone
compagne di viaggio, se sconosciute, e specie se uomini. Non in-
478
formare nessuno sulla loro destinazione e non cambiare direzione,
itinerario, ora di partenza per nessun motivo. Nelle stazioni in cui
scendono — se non sono attese ed accolte da qualche persona
parente o conosciuta e se hanno bisogno d'informazioni — osser-
vino se è a disposizione un'incaricata dell'Opera « La protezione
della Giovane ». La riconosceranno da una fascia bianco-gialla che
porta al braccio sinistro. Da essa avranno ogni consiglio ed indi-
cazione sicura, anche per poter, eventualmente, passare la notte
e consumare i pasti.
Molte giovani si allontanano da casa quasi sospirando di
poter prendersi un po' di libertà e di conoscere il mondo. Portano
tesori — prestanza fisica, semplicità, purezza — che vanno difesi
con estrema vigilanza. Con la semplicità delle colombe e la pru-
denza dei serpenti. Perché i nemici ed i ladri — specialmente
oggi — sono sempre in agguato. È tutta una rete d'impreviste
tentazioni che le avvolgerà per imprigionarle. Sentiranno elogiare
la loro bellezza: dapprima arrossiranno, poi si compiaceranno. Nei
negozi da parte dei fornitori, negli uffici da parte degli impiegati,
in casa da parte degli operai coi quali vengono in contatto, si
vedranno adocchiate, sentiranno frasi a doppio senso. Dapprima
soffriranno di fronte a questi fatti. Poi, senz'accorgersi, si lasce-
ranno prendere dalla vanità e da tante altre insidie e, cosi, saranno
travolte dalla corrente, mentre, contemporaneamente, si raffred-
deranno nella pratica religiosa. Le famiglie nelle quali lavorano
non vedono in esse un'anima ed un cuore, ma solo uno strumento
di lavoro da sfruttare. Avrebbero bisogno di qualcuno — un
prudente sacerdote — che, nel momento del pericolo morale e
spirituale, dia loro un aiuto, un consiglio saggio, una mano
amorosa che le sostenga.
9. C'è anche il fenomeno — diciamo pure il dramma — dei
rientri forzati, in seguito a fallimento, crisi economiche generali,
interventi dell'autorità statale che restituisce l'emigrante al suo
paese d'origine. Se l'emigrazione è un fatto sempre negativo,
pieno di rischi e di pericoli, immaginiamoci cosa provano coloro
che (magari dopo 20-30 anni di vita all'estero) sono costretti a
fare il viaggio del ritorno. Tornano al proprio paese, ma trovano
spesso freddezza, indifferenza, se non ostilità. Trovano difficoltà
d'inserimento, nella ricerca d'un posto di lavoro e d'una abita-
zione. I giovani, nati in altri paesi — e quindi con mentalità ed
usanze diverse dalle nostre — vanno incontro a sofferenze nello
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sforzo di adattamento nelle scuole e nella società. Ebbene, tutti
coloro che hanno possibilità ed occasione di farlo, devono sentire
il bisogno di dare una mano a questi emigranti che ritornano,
d'aiutarli in tutti i modi, e soprattutto d'aprire loro il cuore con
un sorriso di carità e di fraternità cristiana.
26. Sacristi
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forse, non ne ascolta mai: per ima ragione o l'altra approfitta
della predica per assentarsi e ritornare — orologio alla mano e
orecchie agli altoparlanti — appena è finita. La Messa spesso
l'ascolta a pezzi e quasi sempre in stato di tensione e distrazione:
deve star attento a chi celebra e a chi partecipa alla celebrazione
perché tutto si svolga ordinatamente e tempestivamente; deve
raccogliere le elemosine... I sacramenti li frequenta poco perché
dal parroco o dagli altri sacerdoti coi quali tratta ogni giorno
preferisce non confessarsi (ed è giusto). Ma il male è che quando
si comincia a rimandare Confessione e Comunione e si perde
l'abitudine di riceverle periodicamente è facile cadere in una certa
indolenza e non decidersi mai, neppure quando capiterebbe l'occa-
sione buona di qualche sacerdote estraneo, di qualche missionario
o predicatore. Avviene per l'anima come pel corpo: se si lascia
lo stomaco troppo a digiuno, se non si osserva un certo orario
nei pasti, si perde la vitalità, si perde anche l'appetito del cibo;
se si rinuncia al sonno all'ora normale si stenterà a prenderlo
anche se la stanchezza cresce, anche se il bisogno di riposo diventa
estremo.
3. La mancanza di fede e di pratica religiosa spiega tanti
comportamenti disgustanti. Viso scuro, risposte aspre; rifiuto a
chi chiede la Comunione in ora o momento scomodi. Mancanza di
pazienza e di autocontrollo. Poco compatimento (con l'aggiunta,
forse, di qualche scapaccione) nel trattare coi fanciulli che ven-
gono per servire all'altare e talvolta si comportan con vivacità
e spensieratezza (come tutti ci siamo comportati a quell'età):
vivacità, segno di sanità fisica e spirituale. Ma certi sacrestani e
certe perpetue — per non aver fastidi — possono creare il deserto
intorno al parroco. Non hanno una fede che fa loro scorgere la
preziosità delle anime; mentre soprattutto importa che queste non
si allontanino e non si perdano.
Noto fra parentesi che non è solo fra i laici secolari, ma anche
fra i religiosi che si trovano sacristi i quali lasciano a desiderare.
Scontrosi, lunatici, senza rispetto per i sacerdoti: si saluta e non
rispondono, si rivolge loro la parola, si chiede qualcosa e rispon-
dono seccati voltando la schiena... In sacrestia bisognerebbe tro-
vare persone che abbiano un po' di educazione, ancor prima
che di pietà.
« Problema difficile. Si stenta già — sento dirmi dai par-
roci — a trovarlo un sacrestano. Ci vuol altro a pretendere che
abbia le doti del sacrestano ideale! ». Sì, però bisognerebbe anzi-
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tutto aver la cura di individuare qualcuno che « potrebbe » esser
idoneo; poi — prima di nominarlo — cercar d'istruirlo e di for-
marlo avvisandolo che, per intanto, si prova per vedere come si
troverà. E, quando fosse sufficientemente formato, allora nomi-
narlo. Ed anche dopo nominato, non tralasciare, per quanto possi-
bile, il lavoro di assistenza spirituale per un perfezionamento con-
tinuo della persona e delle sue prestazioni.
4. C'è anche il sacrestano che, quando si decide ad aprire la
sua anima ad un confessore di passaggio, gli dà del filo da torcere.
L'occasione fa l'uomo ladro. Non è improbabile che qualcuno ceda
alla tentazione di sottrarre nascostamente elemosine o qualche
altro oggetto che vien usato o consumato in chiesa. Quando se ne
confessa addurrà forse le sue ragioni scusanti. Se realmente la
paga fosse inadeguata si potrebbe pensare anche ad una tollera-
bile compensazione occulta. Ma ci sono parecchi « ma ». Intanto,
non si può ammettere che uno si dichiari contento del salario che
riceve, e che poi si arrangi sotto banco. Se si trovasse nella neces-
sità, anzitutto dovrebbe manifestare il suo stato e caso a chi può
provvedere. Se non ottiene ricorra più in alto: c'è un vescovo al
quale deve premere che le istanze della giustizia sian soddisfatte
anzitutto nell'ambito della sua Chiesa locale e, soprattutto, nell'in-
terno del tempio di Dio.
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Parte terza
PENITENZA E CONVERSIONE CONTINUA
1. La confessione frequente
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opera buona, atta a suscitare il fervore della carità o a produrre
l'infusione della grazia: si ha allora un atto virtuale di penitenza
(circa i veniali) — dice s. Tommaso (III, q. 87, a. 1): « puta
cum aliquis hoc modo fertur secundum affectum in Deum et res
divinas, ut quidquid sibi occurreret quod eum ab hoc motu retar-
daret, displiceret ei, et doleret se commisisse, etiamsi actu de
ilio non cogitaret ».
2. Le conclusioni pratiche ed ascetiche dovrebbero esser ovvie
e, per tutti, indiscutibili. Eppure capita di sentire qualche peni-
tente il quale riferisce d'aver avuto dal confessore il consiglio di
non confessarsi tanto frequentemente. Questo consiglio non è con-
forme alle costanti direttive e raccomandazioni del Magistero.
Nel Catechismo Romano c'è al proposito una pagina lumino-
sissima e profondissima. Si legge che la Confessione è « il modo
più facile con cui il Signore clementissimo ha provveduto alla
comune salvezza degli uomini »; che nella Confessione i penitenti
aprono il loro animo « ad un amico prudente e fedele che può
aiutarli con la sua opera e col suo consiglio »; un uomo che è
« Vicario di Cristo Signore », che è « obbligato da una legge seve-
rissima ad osservare il segreto ». Il penitente ha un salvacondotto
che gli facilita la Confessione di qualsiasi peccato, presso qualsiasi
confessore. Nella Confessione — continua il Catechismo — il
penitente trova « le medicine preparate che hanno una forza so-
prannaturale non solo per guarire la malattia presente ma altresì
per premunire l'anima contro le facili ricadute nello stesso genere
di malattia o di vizio ». (Si allude qui alla grazia « sacramentale »
propria del Sacramento). Per tali ragioni il Catechismo conclude
decisamente: « nient'altro sperimentiamo tanto vantaggioso alla
riforma della vita come la confessione frequente » (Padova,
1930, p. 235).
Pio XII nella « Mystici Corporis » accenna ad « alcuni » i
quali « asseriscono che non è da dar tanta importanza alla Con-
fessione frequente delle mancanze veniali perché (dicono) meglio
converrebbe alla remissione di queste colpe quella confessione
generale che ogni giorno la Sposa di Cristo — coi suoi figli a sé
congiunti nel Signore — fa per mezzo dei sacerdoti che stanno
per ascendere all'altare di Dio ». Che ci siano « bensì molte e som-
mamente lodevoli maniere » per espiare questi peccati, è pacifico.
Però — afferma l'enciclica — l'uso della Confessione frequente
anche per i veniali è stato « indotto dalla Chiesa non senza l'ispi-
486
razione dello Spirito Santo ». Ed aggiunge: « Riflettano dunque
quelli che fra le file del giovane clero attenuano od estinguono la
stima per la confessione frequente. Sappiano che intraprendono
un'opera aliena allo spirito di Cristo e funestissima al Corpo Mi-
stico del nostro Salvatore » (AAS, 35, 1943, 235). Stanno a pro-
varlo con inconfutabile evidenza i frutti dell'ascetica dei nuovi
maestri.
Il Vaticano II nel decreto sul ministero e la vita sacerdotale
afferma che « i ministri della grazia sacramentale s'uniscono inti-
mamente a Cristo Salvatore e Pastore ricevendo fruttuosamente
i sacramenti: specialmente con l'atto frequente della Penitenza
sacramentale: quest'azione — preparata dal quotidiano esame di
coscienza — quanto mai favorisce la necessaria conversione del
cuore all'amore verso il Padre delle misericordie » (PO, 18).
Il « Direttorio liturgico-pastorale », edito dalla CEI nel 1967,
ritorna a raccomandare la frequenza alla Confessione specialmente
nei tempi liturgici penitenziali. Se è opportuno (sia per la comu-
nità che per i ministri) che ci sia anche un orario perché i fedeli
sappiano quando possono trovare il confessore in chiesa, però
parroco e coadiutori dovranno essere sempre disponibili.
Nelle recenti disposizioni della S.C. dei Religiosi (8.XII. 1970)
sull'uso e l'amministrazione della Penitenza, si raccomanda che i
religiosi, « solleciti della propria unione con Dio, si sforzino d'ac-
costarsi al sacramento della Penitenza frequentemente, cioè due
volte al mese. A loro volta i Superiori curino di promuoverne la
frequenza e provvedano perché i membri possano confessarsi
almeno ogni due settimane, ed anche più spesso, se lo deside-
rano ». Nel CJC (e. 595) si leggeva che i Superiori devono curare
che tutti i religiosi s'accostino al sacramento della Penitenza al-
meno una volta alla settimana. Apparentemente c'è quindi una
riduzione e quanto alla forza di questa disposizione e quanto alla
materia, cioè alla frequenza della Confessione. Prima si riteneva
una regola d'obbligo (e per questo il superiore poteva vigilare ed
intervenire perché fosse osservata). Però (come tutte le regole
in quanto tali) non era, per sé, obbligatoria sotto pena di peccato.
Ora è regola di consiglio: quindi affidata alla responsabilità del
singolo. Comunque sostanzialmente non c'è differenza: resta
sempre il consiglio della Confessione frequente; niente di meglio
se anche più frequente che due volte al mese.
In un documento pastorale in data 11 marzo 1972 la CEI
ritorna sull'argomento della Confessione frequente. « Sempre in
487
ordine alla conversione, la misericordia del Padre ha affidato alla
Chiesa un particolare strumento di riconciliazione, di grazia e di
vigore spirituale: il sacramento della Penitenza. Vivace e per
molti aspetti positiva è la problematica esistente in Italia intorno
alla Penitenza. Nella ricerca teologico-pastorale relativa a questo
sacramento, pur tra non poche incertezze, vanno emergendo orien-
tamenti validi: l'accento più vivo sulla dimensione comunitaria
del peccato e della riconcializione sacramentale, sulla conversione
interiore quale traguardo primario della penitenza, sulle celebra-
zioni penitenziali come efficace preparazione alla confessione e
all'assoluzione. Si deve tuttavia rilevare che l'accesso alla confes-
sione sacramentale, soprattutto da parte dei giovani e degli adole-
scenti, si va facendo più raro. E maggiormente addolora che la
gravità di questo fenomeno sembra non avvertita anche da educa-
tori cristiani, sacerdoti compresi » (OR, 25.111.1974, p. 4).
La S.C. per la Dottrina della Fede nelle « Norme circa l'asso-
luzione sacramentale in forma collettiva » (AAS, 64, 1972, 510-
514) ammonisce i sacerdoti che « non si permettano di dissuadere
i fedeli dalla pratica della Confessione frequente o di "devozione".
Al contrario mettano in luce i suoi abbondanti frutti per la vita
cristiana ». E si cita il monito di Pio XII nell'Enciclica Mystici
Corporis. Si raccomanda quindi ai presbiteri « di mostrarsi sempre
disposti ad ascoltare le confessioni, tutte le volte che i fedeli
ragionevolmente lo domanderanno ». Ed aggiunge due motivi, uno
interiore, l'altro esteriore: « bisogna assolutamente evitare che la
Confessione individuale sia riservata ai solo peccati gravi: ciò
priverebbe i fedeli del frutto ottimo della Confessione; e poi nuo-
cerebbe alla fama di coloro che si accostano singolarmente al sacra-
mento » (n. XII).
Nel Docum. Past. della C.E.I. del 12.VII.1974 si ritorna su
questo problema « bisognoso di chiarificazione »: la frequenza al
sacramento. Si nota che « specialmente fra i giovani si va diffon-
dendo l'uso di stare per lungo tempo lontani dalla Confessione,
accostandosi ugualmente all'Eucaristia; altre persone invece non
fanno la Comunione senza essersi ogni volta prima confessate. Le
disuguaglianze in merito, nel pensiero e nella prassi dei fedeli,
anche impegnati, trovano quasi sempre la loro origine nella
diversità di opinioni su un punto di tanta importanza » (n. 28).
In questa analisi del comportamento religioso circa la Confessione,
e sulle cause, il Documento aggiunge che « stanno inoltre diffon-
dendosi esperienze di revisione di vita comunitaria, che sembrano
488
sostituire la celebrazione del sacramento o sminuirne l'importanza
e il valore » (n. 29). Si esortano quindi in particolare <c Vescovi,
sacerdoti, religiosi, religiose e anime comunque consacrate al ser-
vizio di Dio e dei fratelli » a ravvivare di continuo lo spirito di
penitenza « nella pratica frequente del sacramento » (n. 109). E
se nei fedeli si lamenta la poca frequenza, d'altra parte il citato
Documento rileva che « dall'inchiesta socio-religiosa promossa
dalla C.E.I. risulta piuttosto frequente la difficoltà di trovare
sacerdoti, che pur essendo liberi da altri impegni pastorali, si
prestino per le confessioni. È stata inoltre segnalata la grande
difficoltà di un dialogo tranquillo e sereno fra sacerdote e peni-
tente. Per questo e per altri motivi, derivanti da discutibili impo-
stazioni teologiche, si nota in alcuni sacerdoti stanchezza e sfi-
ducia nell'esercizio di questo ministero loro proprio della ricon-
ciliazione » (n. 25). E infine alcuni suggerimenti di pedagogia
pastorale: « un orario opportunamente prefissato, in base alle pos-
sibilità concrete dei fedeli: un orario nel quale i fedeli troveranno
certamente il sacerdote disponibile » (n. 93); il luogo della cele-
brazione sia dignitoso e funzionale (n. 94): insomma si cercherà
di curare — nella normativa del tempo, del luogo e del modo della
celebrazione — tutto quanto può facilitare l'accesso dei fedeli
al sacramento (possibilmente fuori della celebrazione della Messa),
tutto quanto può far apprezzare l'importanza insostituibile, nella
vita spirituale, di questo mezzo, far sentire ai penitenti la verità
e la dignità di questa celebrazione: « tutto, dall'abito liturgico del
confessore all'atteggiamento in genere di sacerdoti e fedeli, deve
essere rispettoso dell'azione sacramentale » (n. 94).
E « poiché rimane per tutti obbligatorio il ricorso almeno
annuale al sacramento della Penitenza, che viene a coincidere abi-
tualmente con la Comunione pasquale, ne deve essere particolar-
mente curata la celebrazione; se preparata con impegno, scaglio-
nata nel tempo ed eventualmente distinta per categorie o gruppi
di fedeli, la Confessione annuale potrà svolgersi con dignità e
calma... Le celebrazioni comunitarie della Penitenza, fissate in
qualche feria quaresimale o in prossimità del Triduo pasquale,
sembrano la forma pastoralmente più valida per meglio distribuire
nel tempo e più adeguatamente celebrare con frutto le Confes-
sioni annuali » (n. 110). Queste celebrazioni si potranno tenere
molto opportunamente anche « in occasione delle grandi feste sia
della Chiesa universale che di quella locale » (n. 111). E perché i
singoli fedeli abbiano sempre la possibilità di confessarsi quando
489
10 desiderano « è auspicabile che almeno nelle città più ricche di
luoghi sacri e più dotate di clero, venga designata una chiesa in
cui i fedeli trovino abitualmente comodità di celebrazioni e di sa-
cerdoti » (n. 113).
Nella lettera (firmata dal Card. Villot) che Paolo VI ha fatto
pervenire alla XXVI Settim. Lit. Naz. (OR, 27.VIII.1975,
p. 1) si legge: « C'è purtroppo chi tiene in poco conto la Con-
fessione frequente: ma non è questo il pensiero della Chiesa. An-
che il nuovo rito raccomanda la Confessione frequente, presen-
tandola come rinnovato impegno di accrescere la grazia del Bat-
tesimo, e come occasione e stimolo per conformarsi più in-
timamente a Cristo, e per rendersi sempre più docili alla voce dello
Spirito; anzi, come il Sommo Pontefice ha sottolineato nella
sua Esortazione Apostolica sulla gioia cristiana, la Confessione
frequente resta una sorgente privilegiata di santità, di pace e
di gioia (AAS, 67, 1975, p. 312) ».
Ma naturalmente i sacerdoti non potranno esser con entu-
siasmo disponibili alle Confessioni dei fedeli se non praticano
per primi, con sincera convinzione, la frequenza al sacramento.
Nella dichiarazione finale del gruppo di lingua francese, al III
Sinodo dei Vescovi — ottobre 1971 — c'era, fra l'altro, questa
forte affermazione: « Senza essere un monaco, il sacerdote deve
sforzarsi di vìvere in una adesione senza riserve al Signore.
L'intimità con il Cristo è a prezzo d'un costante controllo del
cuore e dei sensi. L'esame di coscienza si rivela dunque indispen-
sabile, come una regolare frequenza del sacramento della pe-
nitenza ».
3. Ma a queste ed a tante altre ufficiali ed indiscutibili
dichiarazioni del Magistero, alcuni sembrano attendere ben poco.
11 fatto più grave è che oggi la minor frequenza alla Confes-
sione non è solo dovuta a soggettivi timori, superficialità, tra-
scuratezza, ignoranza, dei penitenti singoli, ma è difesa da scrittori
che si distaccano da tutta la tradizione della Chiesa. I quali
credono di aver argomento di ordine teologico, morale, ascetico,
pratico, per affermare che « la frequenza alle confessioni può
opportunamente diminuire » (AA.VV., La penitenza..., o.c,
p. 118). A questa conclusione può giungere chi pensa che, in
morale, non è tanto da considerare i singoli atti peccaminosi,
ma la opzione fondamentale, o disposizione abituale che dir
si voglia. Come in un film non son tanto le singole immagini
che han valore, quanto il senso del film intero. Ad una morale
490
degli atti si sostituirebbe cosi una morale della disposizione:
ed è soprattutto il regresso nella disposizione morale abituale,
dicono, che va esaminato. Però è difficile giudicare quale influsso
abbiano i singoli atti cattivi nelle disposizioni fondamentali. Per
vedere se si regredisce realmente occorrerà una considerazione a
distanza, di quando in quando. Quindi, si conclude, non è il caso
di confessarsi tanto spesso dei singoli atti (cfr. Orientamenti per
un rinnovamento della pratica penitenziale, a cura della Comm.
Dottr. della Confer. Ep. e Past. Làturg. del Belgio, trad. it. LDC,
1974, pp. 14 ss.).
Ma questo ragionamento è sbagliato e nelle premesse e
nella conclusione. Come è per gli atti buoni che cresce la gra-
zia santificante, cosi è per gii atti cattivi che essa si spegne od
almeno diminuisce la vita dello spirito. È poi dalla ripetizione
degli atti che si formano le abitudini. Pertanto è pienamente
giustificato l'esaminarsi, il pentirsi, il proporre, il fare la Con-
fessione di atti che, altrimenti, ripetuti, porterebbero agli stati
ed alle disposizioni cattive.
Motivi psicologici e pratici che possono influire nella rarefa-
zione delle confessioni. E umiliante raccontare ad un altro uo-
mo le proprie intime miserie. Per questo al posto della Con-
fessione individuale, si preferirebbe quella comunitaria generica.
Certamente la Confessione costituisce un atto d'umiltà, ma è
anche una liberazione se il confessore, oltre ad esercitare la
funzione di giudice è consapevole di rappresentare il Padre che
accoglie il figliol prodigo e di rappresentare il Cristo che salva
l'adultera dalla pena della lapidazione e la indirizza sulla via
della redenzione. Del resto, a chi ritenesse che l'uomo moderno
non sopporti più una mediazione sacerdotale nei suoi rapporti
con Dio e vorrebbe una Penitenza ridotta all'interiorità, si deve
rispondere che l'uomo non è solo spirito e quindi, se veramente
pentito, sente il bisogno — per un desiderio della natura —
di manifestare il suo stesso sentimento a qualcuno dal quale
attende una rassicurante parola di conferma e di conforto: « sta
tranquillo, sei perdonato, il peccato è distrutto ». Perciò non
bisogna ridurre la Confessione ad una pratica esteriore, buro-
cratica, ma neppure soddisfarebbe l'uomo una Penitenza ridot-
ta solo ad un atto del cuore. Dio, istituendo il sacramento, è
venuto incontro alla natura dell'uomo ed ha facilitato la remis-
sione dei peccati. Ma — si obbietta ancora — se non umiliante,
è monotono raccontare sempre le stesse mancanze al confessore,
491
A questo proposito bisogna dire che chi credesse di voler tro-
vare sempre qualcosa di nuovo per evitare la monotonia, non
avrebbe capito che la vita morale cristiana domanda praticamente
all'uomo proprio il coraggio di ripetere sempre gli stessi propo-
siti, instancabilmente.
Ma — si ribatte — non bastano i propositi. E l'esperienza
attesta la carenza di quei frutti che si dovrebbero sperare dalla
Confessione frequente. E la ragione -*- si dice — è che questi
penitenti, sapendo di aver a disposizione un facile mezzo per otte-
nere il perdono, s'impegnano meno nella lotta contro il peccato.
Meglio sarebbe quindi (concludono) insistere sull'importanza della
penitenza come virtù, anziché sulla pratica del sacramento. Ma
anzitutto è da respingere l'accusa che coloro i quali hanno l'abi-
tudine alla Confessione frequente sono come tutti gli altri.
Sia pur gradatamente, sono in via di miglioramento; se non
altro, evitano di diventare peggiori; se non altro, conservano
il senso del peccato (ed è già molto, specialmente oggi). Rica-
dono nel peccato? Ebbene: ciò avviene semplicemente perché
fragile è la natura umana e libera è la volontà. Nel momento
in cui si confessa, il penitente propone di non peccare. Il suo
proposito (si presume) è sincero. Quando pecca sa che è incoe-
rente e si procura il suo male: mistero della debolezza e della
libertà umana. Ma nella Confessione l'inesauribile bontà di Dio
ci aiuta a risollevarci: mistero del peccato umano e della risur-
rezione soprannaturale. Ma per risorgere è necessaria la grazia:
la grazia preveniente invita il peccatore a risorgere e, mediante
di Sacramento, opera l'effettiva risurrezione nel modo piti sicuro
e più facile. Da inchieste condotte recentemente sull'argomento
risulta che specialmente i giovani riconoscono sinceramente l'effi-
cacia insostituibile della Confessione privata e della direzione
spirituale; e son d'accordo che se quest'efficacia vien meno è
solo perché ricorrono al sacramento troppo irregolarmente, cam-
biando ogni volta confessore. Parlo di giovani che han fatto una
qualche esperienza personale della vita cristiana, dei pericoli che
la minacciano; e di quei giovani che spontaneamente parlano di
quanto pensano, senza le prevenzioni inoculate da qualche mo-
ralista odierno.
La Penitenza poi, come virtù — se implica fede, speranza,
amore di Dio — toglie il peccato, senza dubbio. Nulla di meglio
se ancor prima dell'assoluzione si producono queste abituali
disposizioni. Ma sarà facile questa conversione intima senza il
492
sacramento? Avverrà quanto prima? Avverrà immediatamente
dopo il peccato? Il sacramento resta il mezzo più facile per la
trasformazione interiore. Più facile e più efficace perché ristabi-
lisce tutto l'apparato soprannaturale appena c'è il minimo di do-
lore richiesto ad ottenere il frutto. Si sentirà indotto ad una vita
di penitenza chi non ha l'aiuto della Confessione e della Co-
munione?
« Ma son sempre le stesse quattro vecchie — dice qualcuno;
hanno altri mezzi per ottenere la remissione dei peccati veniali;
abituiamole a non disturbare il confessore, a disporsi meglio
all'Eucaristia... ». Per farla corta e non ripetere tutte le ragioni
già addotte, a coloro che portano siffatte giustificazioni si deve
rispondere semplicemente: ognuno che chiede ragionevolmente
di confessarsi ne ha il diritto; ed il confessore deve prestarsi
perché i penitenti ricavino il frutto proprio di questo sacramento
(e non rimandarlo ad un altro sacramento). Si obbietta ancora:
« sono per lo più fanciulle e fanciulli i quali, o vengono a con-
fessarsi come vanno a giocare, oppure trovano nella Confessione
l'occasione per sviluppare in sé un'ansia morbosa del peccato ».
Ma non è giusto generalizzare sulla mancanza di consapevolezza
dei fanciulli nella loro pratica sacramentale. Anche se non lo di-
mostrano, essi sono permeabili dalla parola di Dio. La fobia
della colpa e lo scrupolo, poi, sono una eccezione. Ed il con-
fessore saprà curare questi stati e trattare debitamente qualche
soggetto ipersensibile. Non offre anche questo rimedio la pra-
tica sacramentale se il confessore è intelligente ed esperto? I
fanciulli devono piuttosto esser accuratamente istruiti, ma non
privati della Confessione. Devono aver in merito idee giuste:
conservino il santo timore del peccato cosicché né ritengano su-
perflua la Confessione né siano ghermiti da incubi irragionevoli,
ad esempio circa la sufficienza dell'accusa, la gravità di ciò che
grave non è, i peccati veniali dimenticati... « Ma — s'insiste —
che vantaggio psicologico può dare l'amministrazione d'un sacra-
mento ridotta (come il più delle volte) ad una formula sbrigati-
va? ». Sarebbe da chiedersi: e chi l'ha ridotta ad una formula
sbrigativa? I penitenti, la Chiesa, oppure certi confessori? Sta il
fatto che i penitenti si lamentano proprio di questi confessori
sbrigativi. Quando trovano un confessore che s'interessa della loro
vita spirituale non lo lasciano più.
Si può concludere mestamente che se continuerà (od aumen-
terà) questa rarefazione delle Confessioni, anche le Comunioni
493
diminuiranno. Ed anche la santificazione del giorno festivo sarà
meno sentita e praticata. Perché — osservava Jungmann — Do-
menica ed Eucaristia appartengono l'una all'altra. La Messa è
in prima linea fatta per la Domenica, e la Domenica trova il
suo pieno senso nella Messa. Nere previsioni fantastiche? Ci
sono fatti e indizi concreti. Qualche anno fa giunse da Bonn la
notizia che l'Ufficio Centrale della Pastorale per i giovani aveva
domandato alla Conferenza Episcopale Germanica di prendere
posizione in merito alla Messa domenicale per i giovani e di
permettere di sostituirla con una celebrazione ecumenica della
Parola. Pensavano di poter soddisfare cosi all'obbligo della Messa
e della santificazione della festa. Il card. Doepfner, quale pre-
sidente della Conferenza episcopale, rispose che non si possono
diminuire gli obblighi e le esigenze della fede, sacrificandoli
alle tendenze del nostro tempo. Vi sono buone speranze nella
gioventù cattolica, ma la fede viene minacciata dal pericolo di
riduzione a traguardi esclusivamente terreni. La Messa dome-
nicale non è soltanto un obbligo ma una necessità per nutrire
la vita della fede. Tanto meno le eventuali celebrazioni ecume-
niche della Parola in riunioni di fine settimana possono sostituire
la celebrazione eucaristica domenicale (OR, 26-27.XI.1973,
p. 2). Si è facili a criticare il passato, in particolare la prassi
della Confessione prima della Comunione in giorno di festa, da
parte di chi non aveva forse peccati gravi certi. Ora, può darsi
— è stato osservato — che i nostri padri non avessero idee
teologiche profonde e quei grandi motivi della santificazione
della Domenica (richiamati dall'ultimo Concilio). Però « la Do-
menica e le altri feste rimanevano i punti salienti della vita spi-
rituale della stessa comunità; i sacramenti erano maggiormente
frequentati, l'istruzione catechetica era impartita con vero amore »
(P. Felici, Questo è il giorno che ha fatto il Signore, OR,
1-2.X.1973).
494
molti casi, si deve dire che è mezzo necessario per vincere il
peccato grave, perché altri mezzi altrettanto efficaci ed altrettanto
facili non si danno. Specie per i giovani: perché si liberino da
certe catene del vizio e, anzitutto, perché sappiano resistere alle
passioni e non ne diventino schiavi. Confessione e direzione spi-
rituale sono, poi, connesse perché nessuno come il confessore
abituale può conoscere i bisogni spirituali di un'anima che vuol
esser guidata.
Tutti i maestri d'ascetica consigliano che (tolti i casi di neces-
sità o d'evidente utilità) la direzione spirituale sia fatta a voce
e non per iscritto; e che, in genere, il sacerdote — se deve scri-
vere — si limiti a dare alle sue lettere il carattere d'una risposta,
per quanto possibile breve, completa (senza riferimenti ad altre
sue lettere). Nella corrispondenza tra Vincenzo de' Paoli e Luisa
de Marillac abbiamo l'esempio di riscontri scritti al margine o
alla fine della stessa lettera che il santo aveva ricevuta. Sant'Igna-
zio, nel dicembre del 1542 — dopo aver, come al solito, ben
ponderato vantaggi e pericoli — dava ai membri del suo Or-
dine precise direttive in materia di corrispondenza. Faceva notare
che è cosa delicatissima. Quanto raccomandava lo metteva per
primo in pratica. La sua corrispondenza con donne è molto scarsa M
(a differenza di quella di s. Francesco di Sales con la Chantal).
Usava la massima diligenza curando non già lo stile ma la so-
stanza: l'esattezza e la chiarezza del pensiero. Dunque, di norma,
direzione spirituale a voce. E per le donne è senz'altro meglio
— per molteplici ragioni — che, di massima, sia data brevemente
in confessionale in occasione della loro Confessione. È sufficiente
ed efficacissima. Purché, evidentemente, abbia una certa perio-
dicità. Ma non solo le donne, anche gli uomini devono vedere
e trovare nel confessore, oltre al ministro della grazia, anche il
consigliere per una vita più fervorosa, « l'amico prudente e
fedele » (come si esprime il Catechismo Romano, p. 235). Al-
lora faranno con frequenza la loro Confessione sacramentale.
Certo la direzione spirituale non è il motivo primario per il
quale è consigliata la Confessione frequente. Ma non si può
neppure ammettere incondizionatamente quanto è stato scritto:
che i vantaggi della direzione spirituale « possono essere per-
23
Delle quasi 7.000 lettere che scrisse, 89 sono indirizzate a donne
(cfr. H. Rahner, Ignazio di Loyola e le donne del suo tempo, Milano,
1968, p. 743).
495
seguiti con maggior efficacia fuori del confessionale » (AA. W . ,
La penitenza..., o. e, p. 120).
La direzione spirituale oggi è messa sotto accusa insieme alla
Confessione. Nel modo come sono state praticate finora — si
dice — avevano assunto un'indebita importanza. Si finiva per
nascondere ciò che costituisce la parte preminente del rito sa-
cramentale: l'azione del Cristo riconciliatore. E si dimenticava
(e si faceva dimenticare) l'interiore istinto dello Spirito: la prima
guida delle anime. Queste critiche però sono esattamente con-
trarie a quelle che lamentano la poca importanza che si sarebbe
data all'opus operantis per tutto attendere dall'opus operatum.
Simili contraddizioni fanno pensare quanto validi siano i fon-
damenti dell'odierna contestazione in questa materia. È da dire
invece che ogni sacramento vuole una collaborazione dell'uomo
colla grazia: tutto ciò che aiuta la corrispondenza umana va
apprezzato; fra questi mezzi c'è la direzione spirituale, pruden-
temente praticata: con attenzione all'inizio ispiratrice della grazia
e con rispetto della personalità umana. Ciò importa un trattamen-
to diverso da anima ad anima. Non si può, come il vasaio, dare
una formazione a stampo. Il lavoro del direttore spirituale deve
svolgersi in spirito di collaborazione e senso di corresponsabilità.
Non entriamo ad analizzare a fondo questioni accademiche:
se la direzione spirituale sia o no necessaria alla perfezione; se
si debba o no obbedienza al direttore spirituale. Vi accenniamo
soltanto.
I. La necessità assoluta non consta: non mancano altri mezzi
specialmente quando la direzione spirituale venisse a mancare
per ragioni indipendenti dalla volontà umana: « Come si son
santificati innumerevoli solitari nelle grotte e nei deserti, senz'al-
tri direttori che gli uccelli e le piante?... Quando il direttore
manca, non manca Dio... Egli non può rifiutarsi a chi lo cerca
con tutto il cuore » (Sant'Alfonso, Lettere, I, Lilla, 1888-98,
p. 188). Ma è pure certa l'estrema utilità della direzione spirituale
per un'anima che può avere a sua disposizione un consigliere
pio, dotto, equilibrato, sperimentato. Ed è sbagliato il pensare
che ne abbiano bisogno specialmente i caratteri deboli, timidi,
incerti. Forse ne avrebbero più bisogno i forti, i coraggiosi, i
decisi. Appunto perché sono coloro che si fidano troppo di sé.
Cosi pure coloro che sono chiamati a comandare (o sono fatti,
come si dice, per comandare) dovrebbero spesso ricorrere ad un
illuminato e sereno consigliere. San Bonaventura in un punto
496
dell'opuscolo « De sex alis Seraphim » ha cercato di enumerare
tutte le virtù che sarebbero necessarie perché uno possa ritenere
di non aver bisogno d'un maestro (virtù quali una scienza tale
da non errare in ciò che è necessario sapere, un empito di fervente
devozione, un amore per il bene che faccia quasi naturalmente
aborrire da ogni male, l'umiltà in tutto, la stabilità). Ma con-
clude: « siccome è difficile trovare simili anime, perciò a pochi
conviene vivere senza il giogo dell'obbedienza. Perciò è neces-
sario che anche coloro che sono al governo di altri, siano essi
pure — per poter agire meglio, più cautamente — guidati da
qualcuno, fino al sommo Pontefice di tutti che — vicario di
Cristo — è capo di tutta la Chiesa militante » (Opera omnia,
V i l i , Quaracchi, 1898, p. 132). Scriveva Pio XII nell'Esorta-
zione Apostolica « Menti nostrae » del 23.IX.1950, ai sacerdoti:
« E qui... riteniamo opportuno rivolgervi un'esortazione: entrando
e progredendo nel cammino della vita spirituale non vi fidate
troppo di voi stessi, ma con animo umile e docile, ricevete con-
siglio e domandate aiuto da chi con saggia direzione può guidare
l'anima vostra, può preavvisarvi degli imminenti pericoli, sug-
gerirvi gli idonei rimedi ed in tutte le difficoltà insorgenti dal-
l'interno e dall'esterno, può condurvi rettamente ed avviarvi a
perfezione ogni giorno maggiore... Senza queste prudenti guide
dello spirito, in via ordinaria (plerumque) è difficilissimo asse-
condare in modo retto gli impulsi superiori dello Spirito Santo e
della grazia divina » (AAS, 42, 1950, 674). Ci sono poi circo-
stanze speciali nelle quali un uomo umile e di buon senso sponta-
neamente ricorre al consiglio d'una persona assennata. Quando
attraversa momenti di prova e di sofferenza acuta (anche per
disgrazie naturali): non è secondo l'economia della Provvidenza
che si attenda solo il suo diretto intervento e si trascurino i
mezzi umani. Quando si tratta di scegliere uno stato di perfezione
(come potrebbe esser per un sacerdote la vita religiosa); quando,
nella vigna del Signore, un operaio intraprende un'opera difficile
a cui gli pare di sentirsi chiamato; quando un sacerdote avesse
in animo di concorrere ad un ufficio, avere una carica che può
riservargli sorprese e rischi; per un pastore d'anime, prima di
prender una decisione che può esser utile ma anche disgustare
ed allontanare molti parrocchiani; prima di reagire rispondendo
pubblicamente ad una critica: atto che può esser tanto vantaggioso
come svantaggioso.
Nel decreto del Vaticano II sul sacerdozio si afferma esser
497
estremamente utile una diligente e prudente direzione spirituale
per il discernimento e la preparazione di coloro che sono chia-
mati al sacerdozio {PO, 11).
Anche negli ordini religiosi (dove pur ci sono altre guide e
tanti aiuti) l'opera del direttore spirituale non potrà mai essere pie-
namente sostituita. Il CJC (e. 891) proibisce espressamente al sa-
cerdote il quale sia maestro dei novizi, di ricevere la loro sacra-
mentale Confessione (eccetto casi particolari per gravi ed urgenti
ragioni). D'altro canto novizi e novizie non sono tenuti a manife-
stare lo stato intimo della loro coscienza (peccati, passioni, cat-
tive inclinazioni) al maestro o alla maestra di noviziato: e que-
sti non possono indurli né direttamente né indirettamente a tale
rivelazione. Perciò il direttore spirituale conserva il suo ruolo
importante e decisivo, nell'istituto, con un ministero che altri non
possono sempre efficacemente e liberamente praticare. Con que-
sta funzione egli collabora coi superiori esterni alla preparazione
e formazione dei religiosi.
Da una direzione spirituale illuminata riceveranno immensa
utilità tanto gli indotti come gli intellettuali, tanto chi è agli
inizi come chi è avanti nella via della perfezione, tanto gli anziani
(pur maturi d'esperienza) come i giovani (i quali hanno ancora
da ricevere una sana formazione spirituale ed, insieme, stanno
per fare scelte impegnative e decisive).
II. Circa il dovere, o meno, di seguire le direttive del diret-
tore spirituale, non si vede quale titolo egli possa avere per
esigere una vera obbedienza. S'intende, in quanto è solo diret-
tore spirituale: in quanto confessore può e deve esigere che il
penitente non rifiuti di compiere ciò che è richiesto ed implicito
nella stessa volontà sincera di conversione. Però, il confessore,
anche come direttore spirituale, va tenuto in particolare stima
qualora abbia doti di dottrina e saggezza: i suoi consigli meritano
una particolare considerazione. Ma circa un singolo determinato
consiglio, il dovere di seguirlo non viene direttamente dall'autorità
del direttore spirituale, ma dalla intrinseca saggezza del consiglio
stesso. Se una data azione s'impone, quest'obbligo ci sarebbe
anche senza la parola del direttore spirituale. Questa non è sta-
ta che un mezzo, offerto dall'ordinaria Provvidenza, per cono-
scere il meglio. Per il restante, ognuno deve conservare sempre
la sua libertà. Quindi, se non ha ragioni per metter in discussione
il consiglio ricevuto, l'anima di buona volontà lo seguirà, come
segue la luce ogni sincero cercatore della verità. Nel dubbio, può
498
ben presumere che il direttore, se è dotto, ben informato del
caso e spassionato, abbia percezione e giudizio più di lei. Ma
ci possono anche esser certe circostanze che al consigliere sfug-
gono e certi fatti intimi che egli (per la sua mentalità e le sue
ristrette esperienze) stenta a capire e solo l'anima interessata
conosce e sperimenta. Il suo consiglio potrebbe allora non essere
attuabile, o non il più giusto. Chiedere un'obbedienza cieca sarebbe
pretendere un dovere e un legame che non esistono. E potrebbe
significare anche una comoda dispensa da ogni giudizio perso-
nale responsabile. In effetti, l'ultima decisione è riservata al
soggetto (dopo serena riflessione sui consigli ricevuti e sulle pro-
prie possibilità). Ci sono dei casi nei quali (si dice) una obbe-
dienza cieca è la via migliore, perché l'anima si trova in parti-
colari difficoltà psicologiche, quale uno stato di ansia e perples-
sità che non le permette una chiara e calma apprensione della
realtà. È il caso degli scrupolosi. Ma sono misure d'eccezione. E
da usarsi in materia limitata.
499
prontamente. Per chi ha già fatto la scelta dello stato, gli Eser-
cizi servono a dare una direzione, un orientamento ed un ordine
migliore allo stato già abbracciato, per sempre più conformarsi
alla volontà di Dio. In questa volontà di Dio rientra anche la
scelta della professione. Abbracciare un lavoro professionale è,
per molti, doveroso; per tutti coloro che ne hanno le risorse, è
certamente un mezzo di perfezione. La scelta va fatta in seguito
ad un esame e ad un giudizio prudenziale, attendendo a tutte le
circostanze dalle quali può emergere la volontà divina. Special-
mente i giovani, dunque, avrebbero bisogno d'un consigliere;
prima nelle loro scelte, decisive, alcune, per tutta la vita — scelta
dello stato, della professione, della fidanzata o del fidanzato —
e poi nei primi incerti passi della loro carriera professionale.
2. Nel campo più direttamente religioso ed ascetico, l'opera
del direttore spirituale mirerà ad insegnare l'arte della preghiera
ed a formare anime oranti. Orazione personale: non solo quindi
pubblica, liturgica, biblica, ma anche privata; non solo orale, ma
anche mentale (sia dettata dal cuore, sia suggerita da un libro
o dalla parola viva di un predicatore). L'orazione mentale pre-
para la via a quella liturgica per poi fondersi con questa, gu-
starla, ricavarne i migliori frutti. Il confessore fervente ed intel-
ligente sa, con una brevissima direzione spirituale, insegnare a
certi penitenti ben disposti l'arte di meditare. Gradatamente
e dolcemente, senza che se ne accorgano. Potrà dapprima suscitare
il bisogno d'attingere qualche stimolante pensiero ad un libro
adatto (ma oggi è facile indicarlo e trovarlo?) e suggerire di leg-
gerlo lentamente, per alcuni minuti, soffermandosi su ciò che fa
più impressione, su ciò che più interessa la vita del soggetto.
Questo è un avvio ed un modo di meditare. Ce ne sono altri. S.
Ignazio nella quarta settimana degli « Esercizi Spirituali » (nn.
238-260) suggerisce tre metodi d'orazione mentale. Il primo si
può chiamare meditazione — esame (o esame meditato) ed ha
per oggetto la propria vita coi suoi doveri e le sue mancanze.
Metodo facile, adatto sia a coloro che sono principianti, sia a
coloro che sono molto esercitati nella vita spirituale. Il secondo
metodo consiste nel considerare il significato d'ogni parola d'una
preghiera — come il « Pater noster », 1'« Anima Christi », il
« Suscipe Domine » — ed arrestarsi in questa considerazione fin-
ché vi si trovano significati, applicazioni, gusto e consolazione spi-
rituali. Il terzo metodo d'orazione mentale consiste semplice-
mente nella recita lenta d'una preghiera riflettendo « fra un respiro
500
e l'altro, soprattutto al significato di tale parola, od alla persona
a cui è rivolta o alla meschinità di se stesso od alla differenza
fra tanta altezza e tanta bassezza propria » (Ex. Esp., n. 258).
A tutti poi, anche se non sono capaci di applicare l'intelletto e
fare ragionamenti, si può suggerire la pratica del semplice e
brevissimo sguardo a Dio. « Non vi chiedo già — scriveva santa
Teresa d'Avila, rivolgendosi alle sue consorelle religiose — di
concentrarvi tutte su di Lui, di formare alti e magnifici concetti
ed applicare la mente a profonde e sublimi considerazioni. Vi
chiedo solo che Lo guardiate. E chi vi può impedire di volgere
su di Lui gli occhi della vostra anima sia pure per un istante
se non potete di più? » (Camino de la perfección, e. XXVI, 3).
Ed altrove: « Voglio dire — secondo la mia debole capacità —
in che consista la sostanza dell'orazione perfetta. Mi sono incon-
trata con alcune anime che credevano consistesse tutta nell'eser-
cizio dell'intelletto... Non voglio dire... che non sia una grande
grazia di Dio poter meditare continuamente sulle sue opere... ».
Ma aggiungeva che non tutte le anime « sono atte di loro natura
ad applicarvisi, mentre tutte le anime sono capaci di amare/;
L'anima non è il pensiero e la volontà non è governata dall'im-
maginazione — il che per essa sarebbe grave sventura... Il pro-
fitto dell'anima non consiste nel molto pensare ma nel molto
amare » (Fundaciones, e. V, 2). Questi consigli hanno una par-
ticolare attualità perché oggi affiora il pericolo non già che si
abbiano idee sbagliate sull'orazione mentale ma che addirittura
non la si conosca e non la si pratichi più. Mentre è offerta a
tutti coloro che tendono alla perfezione. Oggi c'è il pericolo non
che ci si rinchiuda nella meditazione intellettualistica, ma che
la preghiera vocale, comunitaria, liturgica e le letture bibliche
(fatte in modo piuttosto superficiale) non lascino posto sufficiente
alla calma riflessione personale, al pensiero ed al senso della
presenza di Dio che i santi cercano di avere quanto più fre-
quente e prolungato è possibile. Ed anche oggi possiamo e dob-
biamo suggerire ai fedeli questo senso della presenza di Dio.
Non solo quando tutt'intorno è silenzio, ma anche quando si
è immersi nel frastuono della città e pigiati fra sconosciuti. Pro-
prio allora si può sentire il bisogno di Dio perché — osservava
uno scrittore francese — nel silenzio siamo ancora spesso con
noi stessi e con le nostre fantasticherie, mentre nel rumore è
impossibile ritrovarsi.
L'orazione mentale, quando sia prolungata e distribuita (con
501
un certo orario) nell'arco d'una o più giornate diventerà il co-
siddetto « Ritiro » o i cosiddetti « Esercizi Spirituali ». Nessuno
(neppur oggi) può negare la loro utilità. Però, ai nostri giorni,
si tende a vederli non tanto come un incontro nella solitudine
e nel silenzio — dell'anima sola con Dio solo — quanto piut-
tosto come una sosta in un osservatorio per captare più distin-
tamente le voci degli uomini e del mondo, per prepararsi a com-
prenderli ed aiutarli. Perché questo — è stato scritto — è « il
modo con cui Dio si manifesta comunemente oggi agli uomini:
attraverso gli uomini ed il mondo... Crediamo che la solitudine
ed il deserto continuino ad esser un luogo privilegiato per l'in-
contro con Dio, ma non possiamo dimenticare il significato del
deserto per gli uomini della nostra generazione: non è fuga dal
mondo, ma una prospettiva nuova del mondo. Non è castigo,
ma un privilegio. Non è un fine ma un "passaggio" » (L. Gon-
zales, Attualità di S. Ignazio, OR, 8.VII.1970, p. 6). Non credo
che questa sia l'interpretazione obbiettiva ed autentica che per-
metta di entrare nel vero spirito degli Esercizi ignaziani; e non
credo sia « questa la strada per poter giudicare della sua attua-
lità ». Il primo fine degli Esercizi Spirituali è la ricerca di Dio
e della sua gloria. Non già, direttamente, la preparazione all'in-
contro e al dialogo con gli uomini, bensì « lodare, riverire, servire
Dio » e cosi « salvare la propria anima »; « tutte le altre cose »
« sono create per l'uomo e per aiutarlo al conseguimento del fine
pel quale è creato » (Ex. Esp., 23). Specialmente oggi troppi
hanno bisogno d'apprender di nuovo il silenzio, il raccoglimento,
l'ascolto della Parola. Bisogna far rinascere il grande desiderio
della preghiera.
3. Formare anime oranti ed insegnar loro la via dell'ascesi
mediante l'esercizio della penitenza praticata secondo le circostan-
ze, le possibilità, i desideri di Dio riguardo ad una determinata
persona. Ma, per questo, è necessario avere il sano ed obbiettivo
senso del peccato. Il che suppone il senso vivo del Dio vero.
Altrimenti si eluderà il faticoso esercizio della riforma personale
e della purificazione interiore; ed, invece di parlare anche della
Croce, si parlerà solo di Risurrezione, spezzando cosi l'unità del
Mistero pasquale.
Ci sono anche le anime generose. E queste, oltre alle puri-
ficazioni « attive » (scelte liberamente) dovranno sopportare an-
che prove e purificazioni « passive » (che Dio dispone con la
Sua Provvidenza o agendo direttamente o permettendole). Il
502
confessore avvicina necessariamente qualche anima che si eleva
ad un grado non comune di perfezione. Per queste qualche prova
non mancherà: « omnino concedendum vide tur nullam animam
ad gradum perfectionis paulo altiorem, etiam extra viam proprie
contemplativam, ascendere quin aliqua huiusmodi interna pro-
batione a Deo passive purificetur hoc vel ilio modo » (J. De
Guibert, Th. Spir. Asc. et Myst., Roma, 1939, p. 376). In tali
circostanze il bisogno d'una direzione spirituale sarà particolar-
mente sentito. E proprio allora si desidera un consigliere spiri-
tuale che sia un uomo di Dio e conosca ed intuisca l'azione di
Dio nelle anime.
503
CONCLUSIONI
504
sore? Perché il singolo vuole la parola che fa per lui e non
gli può esser detta da chi propone un comunitario esame di
coscienza. E non sarà più facile la conversione con l'aiuto del
sacramento della Penitenza che senza? Dobbiamo esser pratici e
positivi. Non si può chiuder gli occhi di fronte ad un triplice
pericolo: o che ci si accosti all'Eucaristia senza il dovuto rispet-
to, o che la si frequenti meno, o che, comunque, si trascuri la
Confessione, confidando che l'Eucaristia stessa perdoni i pec-
cati. Ora, la Chiesa ha ripetutamente dichiarato, per mezzo di
autorevoli voci, il suo pensiero: « tutta la comunità cristiana
è... chiamata a ritornare con gioia e con impegnata frequenza
a questa fonte sacramentale dell'uomo nuovo in Cristo Risorto »
(Doc. Past. C.E.I. 12.VII.74, n. 117).
2. Pare poi che non sia da dar troppa importanza alle cri-
tiche mosse al fatto di Confessioni sbrigate come un lasciapas-
sare per la Comunione. In fin dei conti non son tutti i sacra-
menti ordinati all'Eucaristia? Si risponde, da certuni, che basta
lo siano « in voto ». Si, ma tanto più augurabile se lo sono
anche « in re ». Tutto sta che la Confessione — fatta prima
della Comunione — non si riduca ad un atto affrettato, mate-
riale e meccanico. Ma affinché non sia cosi, perché non si potrà
far affidamento sulla catechesi alla massa e sulla direzione spi-
rituale dei singoli?
3. « Il sacramento della Riconciliazione è... il dono pasquale
dello Spirito Santo, alitato dal Signore sugli Apostoli per la
remissione dei peccati » (Doc. Past. C.E.I. 12.VII.74, n. 117).
È Lui che per primo muove l'anima a pentirsi e convertirsi. E
la Sua azione è generatrice di gioia e di pace. Di quella pace
che il Risorto ha augurato agli Apostoli quando ha istituito
il sacramento della Confessione (Gv. 20, 23). Dio desidera
che questo sia un divino strumento di liberazione e di con-
solazione per le anime. È quanto Jiirgen Moltmann, nel suo
libro: La Chiesa nella forza dello Spirito, Brescia, Queriniana,
1976, mostra di non aver capito perché — come protestante
— non l'ha sperimentato. Egli afferma che è assurdo esigere
che questo sacramento — che spesso tortura le anime — sia
ricevuto prima dell'Eucaristia che è una celebrazione gioiosa.
Scrive: « Nella cena del Signore non si pratica una disciplina
ecclesiastica ma si celebra, innanzitutto e soprattutto, la pre-
senza liberatrice del Signore crocifisso. In molte chiese, invece,
505
l'ammissione alla comunione viene praticamente congiunta con
la scomunica degli altri, fino al punto in cui non si può accedere
all'eucaristia se non è stata prima accertata la propria dignità o
indegnità. Il problema dell'ammissione alla cena diventa spesso
angoscioso. Prima della celebrazione ci si confessa, dunque, e
si ottiene l'assoluzione; in tal modo si riesce a conciliare l'aperto,
preveniente invito di Cristo con le disposizioni giuridiche e
condizioni morali per l'ammissione al sacramento. Quel convivio
di Cristo che nei primi tempi si celebrava con tanta gioia ora
si tramuta, purtroppo, in un convito di penitenza, cui si parte-
cipa con cuore contrito e compunto. Nessuna meraviglia, allora,
se tante persone si scomunicano da sé stesse e se anche dei
cristiani seri provano vergogna nelPaccostarsi al banchetto. La
legalità moralistica distorce il genuino carattere evangelico del
sacramento... » (pp. 322-323). Certo, chi sa di aver il cuore
macchiato di qualche colpa grave deve, per disciplina ecclesiastica,
premettere la Confessione alla Comunione perché al convito eu-
caristico bisogna accedere con l'anima purificata: « chiunque
mangerà e berrà il calice del Signore indegnamente, sarà reo
del Corpo e del Sangue del Signore » (1 Cor. 11, 27). Difatti
non si tratta solo di un rito commemorativo: il pane ed il vino
diventano il Corpo ed il Sangue di Cristo. La Sua presenza non
è solo simbolica e mistica, ma reale e sacrificale. Però la Con-
fessione — cancellando il peccato nel modo più facile e più
sicuro e conferendo la grazia santificante e sacramentale —
porta proprio la pace che permette una gioiosa partecipazione
al banchetto ed una unione felice con l'Agnello Immacolato. Lo
confermano tutti coloro che praticano questo sacramento peni-
tenziale. Lo confermano con espressioni singolarmente significa-
tive i convertiti al cattolicismo. R. H. Benson nella narrazione
del suo viaggio spirituale raccontava che — quand'era ancora
anglicano — alla vigilia di ricevere gli Ordini, si decise a fare
la sua confessione presso un prete anglicano. « La gioia che
segui — scrive — fu semplicemente indescrivibile. Io andai in
una specie di estasi» (Confessions of a convert,.London, 1920,
p. 38). G. K. Chesterton, convertito dall'Anglo-cattolicismo, così
scriveva a proposito del sacramento della Penitenza: « Quando
la gente vuol sapere da me (o da qualsiasi altro, veramente):
"perché vi siete unito alla Chiesa di Roma?", la prima essenziale
risposta anche se in parte incompleta, è: "per liberarmi dai miei
506
peccati". Perché nessun altro sistema religioso esiste il quale pre-
tenda davvero di portare agli uomini la liberazione dai peccati...
Quando un cattolico ritorna dalla confessione, entra ancora, ve-
ramente, per definizione, nell'alba della sua vita iniziale e guarda
con occhi nuovi... In quell'angolo oscuro ed in quel breve rito
Dio lo ha veramente rifatto a Sua immagine » (Autobiography,
London, 1937, p. 329). La « confessione è la fine della pura
solitudine e della segretezza» (ivi, p. 341). « I l Sacramento
della Penitenza dà una nuova vita e riconcilia un uomo con ogni
vivente » (ivi, p. 303). Spesso si nota come prima del passo
decisivo (che, il più delle volte, s'esprime e si concretizza appunto
nella Confessione) i convertiti sono agitati dal timore di non
aver la forza di praticare gli impegni della fede cattolica. E
perciò molti rimandano la decisione. Così fu per Agostino. Ma,
subito dopo la Confessione l'anima è invasa da una gioia (difficil-
mente riducibile ad un fenomeno puramente naturale) e sente,
con suo stupore, l'inclinazione e la forza di fare una qualche
rinuncia che le sembrava impossibile. Scriveva una anonima con-
vertita — dopo aver narrato il suo passato di « peccatrice »:
« ... dovevo rompere una relazione che mi legava da alcuni anni.
Una volontà che non era la mia mi dava forza ed una certezza
assoluta che ciò era necessario... Volevo riconciliarmi con Dio;
questa idea sola mi avvinceva. Non mi illudevo sulle difficoltà
di questa confessione. Giacché ho condotto per venticinque anni
una vita libera da ogni pregiudizio mondano e sociale, se non
morale. Ma a quel momento la speranza di questa riconciliazione
era troppo grande per farmi indietreggiare... Preparai con cura
la mia confessione. Non potevo dubitare che la gioia conosciuta
in quella notte (gioia nel pianto della contrizione e gioia della
comunione che seguì) era l'introduzione ad una esistenza così
del tutto nuova... Come esprimere la ricchezza inesauribile dei
Sacramenti e della Comunione? Bisogna esser al di dentro della
grazia per comprendere la serenità e la luce ch'essa procura »
(J'ai rencontré le Dieu vivant, Paris, 1952, pp. 297-298). Maria
Meyer-Sevenich, germanica, 9Ì converti, durante l'ultima guer-
ra mondiale, dal comunismo alla fede cattolica che aveva ab-
bandonato circa vent'anni prima. Così descrisse gli effetti pro-
dotti nel suo spirito dalla Confessione generale e dalla Comu-
nione: « Sei mesi dopo feci la confessione generale ed il sabato
di Passione ricevetti dopo tanti anni il Corpo del Signore...
507
Mi sentii colmare da una pace indescrivibile, quella stessa pace
che avevo pregustato per anni ogni volta che mettevo piede in
una chiesa cattolica » (B. Schafer, Hanno sentito la voce, Mi-
lano, 1950, p. 75).
Bisogna però notare che se la Confessione deve per sé por-
tare all'anima il dono della pace, questa pace è quella profonda;
non necessariamente quella sensibile. Anzi, alle volte, per cause
accidentali — contrattempi irritanti, indisposizioni fisiche o psi-
chiche — ci può esser qualche turbamento contemporaneamente
al dono della grazia. Ma, superati questi disturbi, la gioia e la
tranquillità non si faranno attendere perché sono il frutto na-
turale della Confessione.
4. Confessore e penitente debbono collaborare con Dio.
Confessori disponibili e, per santità di vita, credibili, mossi
dallo Spirito; confessori dei quali i penitenti possano dire: « Ge-
sù... anche noi l'abbiamo qualche volta riconosciuto... Nei suoi
sacerdoti, molto spesso... Al cristiano che ha l'abitudine... di
inginocchiarsi a caso nei confessionali, è accaduto più volte d'udi-
re la parola inaspettata, folgorante; di ricevere all'improvviso
da uno sconosciuto dolce ed umile di cuore... il dono d'una
tenerezza divina, una consolazione che non era dell'uomo » (F.
Mauriac, Vie de Jesus, Paris, Mammarion, 1936, p. 278).
Da parte dei fedeli si domanda una grande stima di questo sa-
cramento, la preghiera costante allo Spirito che guidi, illumini,
purifichi; si domanda un intelligente e discreto, serio e sereno
esame di coscienza sui doveri comuni a tutti i cristiani e su
quelli specifici del proprio stato. Coll'aiuto di Dio e del confes-
sore il singolo conoscerà « la via da seguire per rispondere ge-
nerosamente all'appello del Signore » (C.E.I., o. e, n. 115).
Nell'udienza del 23 marzo 1977 Paolo VI anzitutto richia-
mava che, almeno una volta all'anno, il ricever il sacramento
della Penitenza « è una legge grave della Chiesa tuttora vigente;
una legge difficile, ma quanto mai salutare, sapiente e libera-
trice»: «...il sacramento della Penitenza... si definisce subito
il sacramento della risurrezione delle anime morte, il sacramento
delle anime redivive, il sacramento della vita, della pace, della
gioia ». Mentre, senza questo mezzo soprannaturale, « un'onesta
e obbiettiva indagine sopra le radici interiori dell'umano operare
conclude ad uno sconsolato e perfino disperato pessimismo circa
l'inettitudine dell'uomo alla virtù autentica e stabile ». Purtroppo,
508
aggiungeva il Pontefice, « dobbiamo... notare una certa pro-
gressiva inosservanza di questa prassi sacramentale, con molte-
plici e notevoli recessioni nella fedeltà e nella vivacità della vita
cristiana e della consapevolezza della vita ecclesiale. E ciò con
gravi apprensioni in chiunque, ministro o semplice fedele che
sia, ami la realtà mistico-sociologica del mistero della nostra
inserzione in Cristo, il mistero della grazia, il mistero della nostra
salvezza ». Perciò rivolgeva un'esortazione ai ministri del sacra-
mento ed un'esortazione ai fedeli tutti. Ai ministri del sacra-
mento perché diano « all'esercizio pastorale ch'esso autorizza e
conforta, l'importanza ch'esso reclama, la stima, il culto, lo spi-
rito di sapienza e di sacrificio ch'esso si merita: è la Confessione
il sacramento terapeutico per eccellenza, il sacramento pedagogico
per la formazione cristiana a tutti i livelli » (cfr. « Seminarium ».
n. 3, 1973). Ai Fedeli il Papa raccomandava di « sgombrare il
proprio animo da ogni diffidenza che la vigente disciplina sa-
cramentale può suscitare per il suo pratico esercizio. Se oggi la
Chiesa autorizza, in certi casi particolari, l'assoluzione collettiva,
ricordino che questa autorizzazione ha carattere eccezionale, non
dispensa dalla confessione personale, e non li vuole privare del-
l'esperienza, dei vantaggi, del merito di essa: scuola di sapienza
morale, la confessione educa la mente a discernere il bene dal
male; palestra di energia spirituale, essa allena la volontà alla
coerenza, alla virtù positiva, al dovere difficile; dialogo sulla
perfezione cristiana, essa aiuta a scoprire le vocazioni proprie
delle singole anime e a corroborarne i propositi per la fe-
deltà e per il progresso verso la santificazione, propria ed altrui »
(OR, 24.111.1977).
509
INDICE ALFABETICO DELLE PRINCIPALI MATERIE
Abitudinari 182-183
Significato del termine, La purezza virtù cardine e
220-221 risultante, 184-185; mez-
L'assoluzione degli —, 221 zi, 185-187
Problemi per gli —, 221- Indole del giovane e della
222 giovane: problemi relati-
Abusi e sanzioni, 144-146 vi, 187-189
Accusa dei peccati La scelta dello stato, 189-
Esame di coscienza, 77-79 193
Eventuali interrogazioni da La scelta della professione,
parte del confessore, 75- 193
77 Adulti
Con gli impreparati e gli Uomo e donna si distinguo-
ignoranti, 80-82 no anche nel modo di
Adolescenti e giovani confessarsi, 194-196
Psicologia degli —, 167- I vecchi, 196
170 Comportamento del confes-
Caratteri propri dei due ses- sore, 196-197
si, 170-171 Come guidare i penitenti
I problemi degli —: la fe- sulla via della perfezione,
de, 171-175 198
I problemi della giustizia e Alunni
della solidarietà, 175-176 Studio; attenzione e lavoro
Obbiezioni contro il magi- in scuola, 412
stero e l'azione della Rispetto agli insegnanti,
Chiesa circa il problema 412-413
sociale, 176-182 Disorientamento odierno
II problema del rapporto nella scuola, 413
fra autorità e libertà, Ammalati e morenti
511
I sacramenti a chi ha perdu- caso di divorziati, 131-
to i sensi, 260 134
Intenzione e requisiti per Attrizione
ricevere i vari sacramen- Unita al sacramento ottiene
ti, 260-261 immediatamente la gra-
Soggetto dell'Unzione, 262- zia, 134-137
263 Autorità
Amministrazione della Cre- Qualità e virtù in chi la
sima: facoltà, 263-264 esercita, 383-385
Infermi di mente, 264-265 Azione con duplice effetto,
64-65
Nuove formule, 265-266
Digiuno eucaristico, 266- Bestemmia, 86-87
267
Benedizione Apostolica, 267 Carcerati
Catechesi sulla malattia, Influsso dell'ambiente car-
268-269 cerario sul detenuto, 222-
Assistenza pastorale ai ma- 223
lati, 269-271 Struttura psicologica dei —,
La Confessione dei malati, 223
271-272 La pratica religiosa dei —,
Malati difficili, 272-273 223-224
Sulla morte apparente, 273- Carità
274 7 opere di misericordia, 105
Sul buon uso della malattia, Circostanze dell'atto morale,
274-275 61-62
Amore di Dio, 86-87 Commercialisti
Amore del prossimo (e di sé Servizio e missione di bene:
stessi), 87-88 qualità richieste, 459-460
« Amplexus reservatus », 116 La giustizia e la buona fede,
Anomalie sessuali, 110-112 460
Assoluzione Diligenza e prudenza, 461
Quale giudizio sulle dispo- Rapporti coi colleghi, 461
sizioni del penitente si Segreto professionale, 461
richiede nel confessore Equo compenso, 462
per concedere 1'—, 129- Commercianti
130 Moralità e pericoli di que-
Penitenti disposti, non di- sta professione, 451-453
sposti, dubbiamente di- Generali norme orientative
sposti (oggi), 130-131 in materia, 453-454
Assoluzione e sacramenti in Casi particolari di morale
512
nel commercio, 454-459 la scelta dello stato, 302;
Il commerciante onesto e le amicizie, 302; oppor-
cristiano, 459 tuna educazione sessuale,
Confessionali, 31-32 302; infondere l'amore
Confessione pel lavoro, 303-304; inte-
Necessità, 33-38, 504-505 ressarsi del lavoro dei fi-
— specifica, 75 gli fuori casa, 304
— « generale » (prudenza Il lavoro extradomestico
del confessore), 79-80 della donna, 304-305
Rarefazione delle confessio- Continenza periodica (Metodi
ni: cause, 19-23, 509 vari), 116
Apportatrice di pace, 505-508 Cooperazione al male
Confessore Mediata od immediata (ona-
Doti: scienza, 54-55; pru- nismo, divorzio) : lecita
denza, 55-56; cuore od illecita, 65-68
(compassione, compren- Coscienza
sione, amore), 56-59; ze- Da correggersi o meno, 68-
lo, 59-60 70
Il — maestro, 72-73
Coniugati Direzione spirituale
Su cosa devono interrogarsi, Oggi, sotto accusa, 494-496
288-289 È necessaria?, 496-498
Castità e santità di questo C'è obbligo d'obbedire al
stato, 289-290 direttore spirituale?, 498-
Castità richiesta, 291 499
Amore spirituale, sensibile, Oggetto della —: la scelta
sensuale, 291-292 dello stato e della pro-
Per una vita felice, 292-294 fessione, 499-500; inse-
Diversità di natura fra l'uo- gnare l'arte della preghie-
mo e la donna in materia ra, 500-502; guidare nel-
di sessualità e in altri la pratica della penitenza,
campi, 294-296 502-503
Comprensione e riguardi Divorziati
mutui, 296-298 Assoluzione e sacramenti
Prudenza in caso d'infedel- Cfr. Assoluzione
tà, 298-299 Dolore e proposito
La gelosia, 299-300 Disposizioni del penitente,
Il problema dei figli, 300 esortazioni del confesso-
Il sistema dell'adozione, re, 120-121
300-301 Senza fretta, 122
L'educazione dei figli, 301; Il confessore rettifica idee
513
inesatte sul dolore ed il Un aiuto ed un amico, 150-
proposito, 123-124 151
Cosa implica il proposito ri- La Prima Confessione ben
chiesto, 124 preparata, 152-153
Proposito e promessa, 124- Senso del peccato e peccato
127 grave nel fanciullo, oggi,
L'autentico dolore dei pec- 153-155; 158
cati, 125-126 L'età della discrezione e 1'
Proporre motivi di penti- obbligo di confessarsi e
mento adatti al singolo comunicarsi, 154-155
penitente, 127-129 La Prima Confessione non
Domestici si rimandi a dopo la Pri-
Cfr. Padroni ma Comunione, 155-156
Celebrazione non sacramen-
Emigranti tale e sacramentale della
Confessione, 158-159
— temporaneamente, 475 L'età più opportuna per la
Danni spirituali, 475-476 Prima Comunione, 159
Precauzioni e rimedi, 476- Catechesi dei — prima della
477 Confessione (amore verso
— permanentemente, 477 Dio ed il prossimo, pre-
Prudenza, 477 ghiera, peccato...), 159-
Difficoltà, 478 164
La formazione di « Fami- Accorgimenti nell'atto della
glie », 478 Confessione, 164
Il missionario degli emi- Esortazioni dopo l'accusa,
granti, 478 156-166
I matrimoni misti, 478
Pericoli specie per le gio- Farmacisti
vani, 478-479 Casi di cooperazione (p. es.
I rientri forzati, 479-480 nella vendita di strumen-
Esame di coscienza ti antifecondativi), 436-
Traccia secondo il metodo 437
migliore, 82-83 Cfr. Medici
Eucaristia Fede
— e remissione dei peccati, Crisi e sue cause, 82-83
36-38 Difficoltà, tentazioni e dub-
bi di —, 84-85
Fanciulli Apparente disperazione, 85
Instabilità e ricadute nel Surrogati della fede e della
peccato, 150 speranza (droga), 86
514
Fidanzati Culto della verità e non del-
Amicizie prima del fidanza- la moda, 465-466
mento, 276-277 Notizie vere ed integre (se
Requisiti alla scelta pruden- giustizia e carità permet-
te: amore pienamente tono), 466
umano (spirituale e sen- Prudenza nell'annuncio di
sibile), 277-278; doti spi- notizie dubbie, 467-468
rituali (principi religiosi Rettifica di notizie inesatte,
e morali), 278-281; sani- 469
tà fisica, 281-282; risor- Non tutto ciò che è vero
se economiche ed abilità giova, 469
personali, 282-283 Pericoli nel riferir ipotesi
Età consigliata pel matrimo- in materia religiosa, 470
nio, 283 Presentare i fatti in modo
Durata del fidanzamento, conveniente, 470-471
284 Una sana polemica, 471-472
Finalità del fidanzamento; Giuristi
condotta dei —, 284-286 Studio assiduo, 445
Relazioni prematrimoniali, Discrezione nell'assumere
286-287 pratiche, 446
Corsi di preparazione al ma- Il segreto d'ufficio, 446
trimonio, 287 I — devono dire la verità?,
Fine dell'atto morale 446-447
Non giustifica un mezzo di- Vittorie e sconfitte: ottimi-
sonesto, 63 smo, 447
Fortezza, 106-107 Uso del principio del du-
Frequenza della (Confessione) plice effetto, 448
Principi teologici, 485-486 Problemi riguardanti magi-
Documenti del magistero, stratura e polizia, 449
486-490 A servizio dell'umanità sof-
Obbiezioni contro la —, ferente, 449
490-494 II giudice. Prove e convin-
Furto cimento personale, 450-
Materia grave e leggera, 98- 451
99 Giurisdizione (pel confessore),
46-49
Giornalisti Giustizia
Libertà di stampa e postu- La — nell'accusa peniten-
lati etici, 464-465 ziale, 94-96
Necessità d'una cultura reli- Grazia sacramentale (della
giosa nei —, 465 Confessione), 38
515
Impiegati Come formare dei testimo-
Impegno nel lavoro, 395 ni cristiani, 391-392
Rapporti con superiori e Cosa suggerire in caso di
colleghi, 395 contestazioni, rivendica-
Relazioni col pubblico, 396 zioni, scioperi, 392-393
Imprenditori Come comportarsi in mate-
Non devono preoccuparsi ria politica, 393-394
solo della questione tec- Infermieri ed infermiere
nica ed economica, 396- C'è bisogno di —, 413-414
397 Ma devono possedere par-
Non devono ridurre ogni ticolari doti, 414-418
ideale al lavoro materia- Il segreto professionale,
le, 400 418
Doti e virtù richieste nei Obbedienza, disciplina,
dirigenti, 397-400 umiltà, 419
Nell'impresa si desidera un In caso di cooperazione ad
clima di fraternità e di operazioni illecite, 419-
famiglia, 401-402 420
Imputabilità dell'atto umano Buon umore, attenzioni,
420-421
Prudenza del confessore nel Possono esercitare un bene-
giudicare la responsabili- fico influsso sulla vita
tà di un'azione disonesta, interiore del malato, 421
70-71 Pericoli morali, 421
Industriali (operai)
Pericoli della fabbrica, 386 Insegnanti
Una specie di sacerdozio,
Carenza di pratica religiosa 406
degli —, 386-387 Preparazione remota e pros-
Come avvicinarli, 387 sima, 406-407
Influsso dei compagni non Formazione intellettuale de-
religiosi, 387 gli alunni, 407-408
Gli atei (una minoranza), Interrogazioni e colloqui,
388 407-408
Indifferenza religiosa, 388 Educazione della volontà e
Errori circa la persona di del sentimento, 408-409
Cristo, 388-389 La disciplina, 409
Errori circa la Chiesa, 389 L'esempio, 409
L'apostolato del sacerdote, Giustizia, imparzialità, mi-
390 sericordia (esami), 410-
Come incontrare la simpa- 411
tia dell'operaio, 390-391 Rapporti coi genitori, 411
516
In materia sessuale, 411- rale e del caso concreto),
412 430-432
Intemperanza Conoscenza ed applicazione
Semplici mancanze di gola dei principi della morale,
ed uso d'alcoolici, stupe- 432-442
facenti, droghe, 107 Azioni proibite dalla legge
Istituti secolari civile, azioni in sé im-
Natura, finalità, 372-374 morali, azioni illecite per
Il confessore sappia indiriz- difetto di diritto in chi
zarvi chi vi è chiamato, le pone, 432-433
374 Parto prematuro e parto
Consacrazione all'apostola- immaturo, 433-434
to, doti, requisiti, 374- Aborto diretto e aborto in-
376 diretto, 434-435
Assistenza spirituale agli Uso di preparati inibitori
iscritti, 376 dell'ovulazione, 435
Non suggerire troppe attivi-
Esame dello sperma, 436
tà ai membri degli —,
376 Somministrazione di farma-
Virtù specificamente pro- ci antidolorifici con acce-
prie dei membri degli —, lerazione della morte,
377 437
Momenti di crisi, 377 Puntura letale secondo la
Il passaggio ad uno stato volontà del defunto, 437
più perfetto, 377 Asportazione d'un organo
per la sanità dell'organi-
Legge naturale smo, 438
Immutabilità, 62 Trapianto di organo da un
vivente, 438-439
Medici Precetto e consiglio (p.e. a
Dignità di questa professio- non contrarre matrimo-
ne, 426-427 nio), 439-442
Doti richieste, 427-428 Mezzi obbligatori e mezzi
Occasioni d'apostolato, 428- consigliati alla guarigio-
429 ne, 442
Fermezza nei principi ed La religione nella professio-
umanità colle persone, ne del medico, 442-443
428-429 Serietà nel comportamento,
Prudenza nelle decisioni, 443
429-430 Il segreto professionale,
Studio (della scienza gene- 443
517
I — devono dire la verità cessaria, continua o non
al malato?, 444 continua, 209-211
Astensione dei sanitari dal Applicazione dei principi;
lavoro, 444-445 aiuto del confessore, 211-
Razionale tenore di vita dei 213
—, 445 Assoluzione degli occasiona-
Militari ri, 213
Periodo di crisi religiosa e Difficoltà con certi occasio-
morale, 472 nari, 214-216
Aiuti spirituali, cappellano Occulta compensazione, 103
militare, confessore stabi- Oggetto dell'atto morale, 61
le, 473 Omosessualità, 111-112
Contro la dissipazione mo- Orazione (quotidiana)
rale, 473-474 Oggetto dell'esame di co-
La pratica religiosa; il ri- scienza, 91
spetto umano, 474-475 Ordine oggettivo ed O. sog-
La bestemmia, 475 gettivo della moralità
Moralità: ordine obbiettivo Confusioni da evitarsi, 60-
61-68 61; 71-73
Ostetriche
Nubili Principi morali nella coo-
Motivi per cui alcune resta- perazione ad operazioni
no in tale stato, 305-309 illecite, 421-423
Come santificare questo sta- Non devono invadere il
to, 309-310 campo del medico, 423
Difetti e pericoli propri Il segreto professionale,
delle —, 310-311 423
Apostolato per la protezio-
Obbedienza (chi comanda e ne della vita, 423-424
chi obbedisce) Amministrazione del batte-
Esempio: la famiglia, 383 simo, 424-426
Chi comanda, 383-385
Chi ubbidisce, 385 Pastorale pratica della Confes-
Mezzo di santificazione, sione
386 Sua necessità, 17-18
Occasionari Padroni (e domestici)
Casi scabrosi: prudenza e Per un clima veramente fa-
zelo del confessore, 207- miliare, 402
209 Doveri ed attenzioni dei pa-
Nozioni e principi: occasio- droni, 402-404
ne prossima, libera o ne- Virtù richieste ai domestici:
518
giustizia, obbedienza, pa- Professionisti in genere
zienza, amore, 404-405 Motivi per cui è consiglia-
Peccato bile impegnarsi in una
Mortale, grave, veniale?, professione, 378-379
34-36 Ogni professione offre il
— ed opzione fondamenta- modo di santificarsi, 379-
le, 34 380
— ed intenzione d'offender La scelta della professione,
Dio, 35-36 380
Peccatori in via di conver- Professioni più o meno me-
sione ritorie e santificanti,
Per la perseveranza della 380-381
conversione, 205-206 La professione vista anzitut-
Pericoli: scoraggiamento e to come un servizio, 381-
scrupoli, 206-207 382
Penitenza (o soddisfazione) Prostitute
Necessità, 137 In Italia, oggi, 224-225
Qualità, 137-140 Caratteri tipici, 227-228
Perfezione (aspiranti alla) Infelici vicende e misere si-
Critiche odierne all'ascesi fi- tuazioni, 225-226
nora praticata, 245-246 Difficoltà di redenzione,
Principi teologici, 246-248 226-227
Guidare le anime alla —, Di fronte alla religione ed
248-250 al sacerdote, 228
Pericoli nella via della —, Come aiutarle a risorgere,
250-252 229
— e mezzi di —, 252 Prudenza, 92-94
La preghiera (vocale e men-
tale), 252-255 Recidivi
La penitenza, 255-257 Significato del termine, 216
I voti, 257-259 Segni di dolore richiesti nei
Politici —, 216-217
Dovere dello studio, 462 Prudente condotta del con-
Rettitudine nell'azione po- fessore, oggi, 217-218
litica, 462-463 Direzione spirituale dei —,
Giustizia, equità, bontà, 463 219-220
Operosità, onesta strategia, Religione
463-464 Legalismo nelle accuse dei
Rapporti colla Chiesa e penitenti, 88
comportamento in mate- Precetto festivo non osser-
ria di religione, 464 vato, 88-91
519
Religiosi e religiose In materia non grave, 103-
Stato di perfezione: scelta 105
da favorire, 356-357 Riparazione
Virtù, voti, regole, 357 Quando c'è il dovere della
Rinnovamento della vita re- — per un danno provo-
ligiosa, 358-359 cato, 100-101
Esempio attuale del rinno- — di danni spirituali (di-
vamento: la pratica della vorzio), 105-106
povertà, 359-362 Riservati (casi), 49-54
Rito nuovo della Penitenza,
Vita attiva ed unione con
Dio, 362 27-33
Cosa rappresentano le Re- Rurali
Come trattare con questi
gole?, 362
penitenti, 394
L'obbedienza: principi e Religiosità piuttosto esterio-
difficoltà pratiche, 363- re, 394
365 Per una spiritualità propria
Il confessore coi penitenti dei —, 394-395
che s'accusano sull'obbe-
dienza, 365-367
Collaborazione dei religiosi Sacerdoti
Ferventi, mediocri, dissipa-
coi loro superiori, 367
ti, 329
La castità, 367
Personalità ed obbedienza,
L'amore fraterno (fonda- 330-332
mento, applicazioni, de- Azione e contemplazione,
viazioni), 368-369 332
Relazioni dei religiosi con Orazione liturgica e menta-
persone estranee, 370 le, 332-335
Confessori delle religiose Umanesimo e mortificazio-
(facoltà attuali), 370-371 ne, 335-340
In caso di dubbio sulla vo- Il problema del celibato,
cazione, 371-372 341-348
Restituzione Sacerdozio (aspiranti al)
Radici, 96 Il problema delle vocazioni,
Cause scusanti, 97 oggi, 321
Ammonizione (fruttuosa od Giudizio sulla vocazione:
infruttuosa), 97; 101-102 direttore spirituale e su-
In seguito a cooperazione periori del seminario,
ingiusta, 98 322
Modo di far la restituzione, I segni della vocazione, 323
102-103 Grazia, corrispondenza, di-
520
rezione spirituale, 323- Le specie morali dei pecca-
325 ti impuri, 110
Castità: prova necessaria, Anomalie sessuali, 110-111
325-328 Come interrogare i vari pe-
Sacramento della Penitenza ed nitenti sul —, 109-110;
atti del penitente 112-113
Efficacia, 27-28 Coi coniugati onanisti, 113-
Sacristi 116
Vicini all'altare, non sem- Istruzioni e consigli alle va-
pre uniti a Dio, 480 rie classi di penitenti,
Mancanza d'una vera pra- 117-119
tica religiosa, 480-481 Norme morali e culture di-
Conseguenti difetti di com- verse, 119-120.
portamento, 481 Sigillo sacramentale
Bisogno di formazione spiri- Violazione propriamente
tuale, 481 detta (diretta o indiret-
Casi scabrosi, 482 ta) ed « uso di notizie »
Scrupolosi (avute in Confessione)
Scrupolo e coscienza delica- con gravame o senza gra-
ta, 232-233 vame del penitente, 140-
Sintomi, 233-234 142
Cause, 234 Sanzioni per proteggere il
Psicologia dello scrupolo, segreto sacramentale e la
235-237 dignità del sacramento,
La guarigione: cura fisica 143-144
e psicoterapia, 237-238
Suggestione ed autosugge- Tiepidezza
stione, 242, 245
Nozione esatta, 229-230
Norme generali d'azione,
239-243 Anime alle quali interessa
Privilegi degli —, 243-244 tale questione, 230-231
Guarigione graduale, 244- Segni della —, 231
245 Conseguenze della —, 232
Sesto comandamento Rimedi contro la —, 232
Consigli al confessore no- Timidi e reticenti
vello, 17-18 Penitenti reticenti, oggi,
Senso retto e senso morbo- 199-200
so della colpa nei peni- Specialmente nei peccati
tenti, 23, 109 contro il VI, il V, il VII
Difficoltà dei penitenti ad comandamento, 200
accusarsi sul —, 109 Specialmente tra le persone
521
rozze, le donne, i fanciul- Vescovi
li, 200-201 Una croce pesante, 348
Come incoraggiare questi Solitudine spirituale, 349
penitenti (indirettamente Sacrificio della libertà, 349
o direttamente), 201-203 Rapporti coi sacerdoti, 349-
Prudenti interventi del con- 350
fessore per completare od Servizio e governo, 349-
aiutare l'accusa, 203-205 350; 353-354
Prudente e deciso uso del-
Urgenza (per assolvere dai ca- l'autorità magisteriale,
351-352
si riservati), 50-51
Facoltà d'assolvere dai ca-
si riservati, 51-52
Vedove Visite pastorali, 352
Una grande sventura, 311- Lettere pastorali, 352-353
312 La predicazione, 353
Il primo periodo di desola- La presenza, 353
zione, 312-313 Vigilanza sulla stampa pe-
Motivi di conforto, 313-314 ricolosa, 354
Consigli per superare peri- Di fronte a critiche e con-
coli e prove, 314-317 testazioni, 354
Vedovanza o seconde noz- Nel caso di defezioni di sa-
ze?, 317 cerdoti, 355
Seconde nozze: prudenza Ministero spirituale ed ope-
nella decisione, 320 re materiali, 356
Il nuovo matrimonio, 320- Il momento di lasciare il
321 governo, 356
522
INDICE ALFABETICO DEGLI AUTORI CITATI
523
Orientamenti per un rinno- Hamel, 72
vamento della pratica pe- Hansemann, 157
nitenziale, 20, 21, 23, 28, Hàring B., 71
491 Hertling, 247, 251, 252, 256,
Coudreau, 167 359, 361, 499
Courtois, 338
Ignazio di Loyola (S.), 244,
D'Addio, 451 254, 495, 500, 502
Dal Covolo M., 316, 320, 321
Da Kempen (De Imit. Ch.),
248 Jedin, 351
Damiani (S.P.), 354 Jungmann, 494
Davanzo, 273
De Barros Camara, 268 Ketteler, 178
De Guibert, 190, 248, 503
Didier, 262
Lacordaire, 337
Lagrange, 126
Elchinger, 255 Lahitton, 323
Lallemant, 254
Felici P., 494 Lebret-Suavet, 15, 395, 396,
Francesco di Sales (S.), 314, 464
319, 369, 495 Leclercq J., 284
Frassinetti, 13, 60, 110, 142, Lefort, 168
150, 165, 202, 231 Leonardo da P. Maurizio (S.),
Frumento 159 9, 81, 82, 214
Fulton J. Sheen, 182 Leone XIII, 178, 401, 403
Lessius, 73
Galot, 157 Lombroso G., 312
Garbelli, 225 Lucatello, 468, 471
Génin, 415, 421 *Luzi G., 16
Giordanini, 11, 17, 56, 184
Giovanni XXIII, 23, 180, 398 Marsot, 372
Godinez, 239 Marx, 178, 182
Gonzales, 502 Mauriac, 508
Grazioli, 15, 149 Mazzoleni, 350
Green J., 108 Mercier, 150, 183
Gregorio Papa (S.), 206 Merkelbach, 7, 15
Grimaud, 306 Meyer-Sevenich, 507
Guitton, 192, 303 Moltmann, 505
Guzzetti, 196 Montalbetti, 45
524
Navarrus, 126 Rossiello, 15
525
SOMMARIO
PREFAZIONE » 7
INTRODUZIONE » 19
Parte prima
EFFICACIA DEL SACRAMENTO. COOPERAZIONE DEL PE-
NITENTE E DEL CONFESSORE » 2 5
Parte seconda
CATEGORIE DI PENITENTI » 147
528
4. Vedove pag. 311
5. Aspiranti al sacerdozio » 321
6. Sacerdoti » 328
7. Vescovi » 348
8. Religiosi e religiose » 356
9. Membri d'Istituti Secolari . . . . » 372
10. Professionisti in genere » 378
11. Chi comanda e chi ubbidisce . . . 3 383
12. Operai, rurali, impiegati . . . . » 386
13. Imprenditori » 396
14. Padroni e domestici » 402
15. Insegnanti ed alunni » 406
16. Infermieri e infermiere » 413
17. Ostetriche » 421
18. Medici » 426
19. Giuristi » 445
20. Commercianti » 451
21. Commercialisti » 459
22. Politici » 462
23. Giornalisti » 464
24. Militari » 472
25. Emigranti » 475
26. Sacristi » 480
Parte terza
PENITENZA E CONVERSIONE CONTINUA . . . . » 483
CONCLUSIONI » 504
529
9276 - TIPOGRAFIA CITTÀ NUOVA DELLA PAMOM - W - g J l g g
00165 ROMA - LARGO CRISTINA DI SVEZIA, 17 - TEL. 5813475/82
Nella metà del frivolo settecento, un uomo d'eccezionale santità e
cultura, Alfonso de' Liguori, pubblicava a Napoli, fra le tante sue
opere teologiche ed ascetiche, un piccolo libro destinato particolar-
mente ai novelli confessori. L'autore guardò sempre con predi lezione
a questo frutto del suo ingegno e della sua esperienza e volle fosse
aggiunto a tutte le edizioni della sua «Teologia Morale» dal 1755 in
poi. Egli intendeva richiamare ai confessori le doti che devono posse-
dere, in specie la prudenza pratica per applicare intelligentemente i
principi morali ai singoli casi, rifuggendo sia dall'astrattismo e dalla
problematica sterile, sia dalla casistica senza respiro e senza ade-
renza alla vita. Esaminava quindi alcune categorie di penitenti per
mostrare, a titolo d'esemplificazione, quale dev'esser la condotta del
confessore di fronte allo stato ed alle esigenze infinitamente varie
delle anime. Ed infine aggiungeva preziosi consigli per guidare anche
le persone «spirituali» sulle vie dell'ascetica e della mistica.
L'Autore del presente volume segue questa traccia rivedendo, aggior-
nando, sviluppando le singole questioni in conformità ai progressi
della Teologia Morale e delle scienze affini, quali la psicologia, l'antro-
pologia, la sociologia, e secondo le più recenti direttive del magistero
ecclesiastico. In modo particolare sono considerate numerose cate-
gorie di penitenti perché, nella preparazione al sacramento della Ricon-
ciliazione, ognuno sia invitato a riflettere non solo sui doveri comuni
ad ogni cristiano, ma anche su quelli specifici del proprio stato. Il libro
è dunque destinato tanto ai confessori quanto ai penitenti.