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Concezioni Dellanima Nel Pensiero Greco Arcaico

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Scuola di

Studi Umanistici
e della Formazione
Corso di Laurea in
Filosofia

Concezioni dell’anima nel


pensiero greco arcaico

Relatore
Prof. Francesco Ademollo
Correlatore
Prof. Alberto Peruzzi

Candidato
Alessandro Volpi

Anno Accademico 2018/2019


Per A. D. V.
Indice

Introduzione ...................................................................................................................... 1
Capitolo I: L’anima di Achille .......................................................................................... 4
Capitolo II: L’anima di Socrate ...................................................................................... 59
Conclusioni ..................................................................................................................... 84

Bibliografia ..................................................................................................................... 89
Introduzione

Il segreto, il miracolo del nascimento avvolge


la prima creazione di attrattive sempre nuove, e quanto
maggiore è il pericolo […] tanto più intenso è il richiamo
W. W. Jaeger, Paideia (1934), p. 9.

Ciò che mi ha spinto nella direzione di questo lavoro non è una passione particolare
per la Grecia antica: quella è arrivata solo in corso d’opera, quasi inaspettatamente. Al
contrario, ciò che ha messo in moto la mia curiosità è l’interesse per la filosofia della
mente contemporanea, in particolare per i problemi legati al dualismo mente-corpo. O,
con un linguaggio un poco meno attuale, dualismo di anima e corpo. Mi era parso, e ne
sono tuttora convinto, che una grossa parte del bagaglio concettuale che sostiene la
visione dualista dell’essere umano sia stata originariamente una creazione del pensiero
greco, e che la nozione di “anima” sia stata protagonista di questa storia. Ma mi ero
anche convinto che fosse esistita agli albori della stessa grecità una visione del mondo
che faceva del tutto a meno del dualismo, o meglio: che non lo conosceva ancora.
Allora, nella speranza di fornire all’attuale dibattito sul dualismo spunti nuovi
indagando sulla sua genesi, ho pensato che sarebbe stato interessante ricostruire la storia
del dualismo attraverso la storia del pensiero greco, rintracciando come, quando e
perché i greci se ne siano fatti “contagiare”.
È all'incirca a questo punto che mi sono reso conto di aver fatto male i miei conti,
rischiando seriamente di peccare di hybris: non avevo idea di quanto potesse essere
vasta la letteratura sulle concezioni greche dell’anima – che da profano immaginavo un
tema di chissà quale novità – e non avevo idea delle difficoltà metodologiche che
l’argomento stesso avrebbe presentato. Questo lavoro è allora il risultato del progressivo
ridimensionamento dei suoi stessi obiettivi iniziali: essi comprendevano un confronto
sistematico tra le posizioni dei greci e la filosofia della mente di oggi, la trattazione
metodica di ogni riferimento al tema dell’anima e del corpo dalla Grecia arcaica al tardo
ellenismo e il raggiungimento di conclusioni definitive sulle dinamiche evolutive del
dualismo in Grecia. Questo programma non è stato affatto abbandonato, ma per esso
occorreranno molto più tempo e molte più competenze di quanto avessi inizialmente
immaginato.
Il presente lavoro è allora un’indagine di carattere propedeutico, il taccuino di
viaggio dell’esplorazione in un territorio che fino a un anno fa mi era quasi
completamente sconosciuto. Tramite esso ho voluto accertarmi che esistano ragioni
convincenti per credere che il dualismo fosse davvero completamente sconosciuto al
greco arcaico, e se davvero sia possibile parlare della “nascita del dualismo” come di
una vicenda tutta interna alla grecità. Le risposte ottenute sono state piuttosto
incoraggianti, come spero sarà chiaro più avanti. Riguardo invece alle dinamiche di
questa “nascita”, tutto fa presumere (come in effetti si sospetta da molto tempo)1 che
l’introduzione del dualismo in Grecia sia avvenuta soprattutto attraverso i nuovi
fenomeni religiosi che si diffusero nel mondo ellenico tra il VII e il V secolo. Tuttavia
c’è ancora molto da fare per raggiungere conclusioni definitive.
Ho articolato questo lavoro in due capitoli, uno dedicato alla “preistoria” del
dualismo greco, uno al suo traguardo finale, cioè il quadro storico e culturale a cavallo
tra V e IV secolo. Analizzando in sequenza la mentalità greca in questi due momenti
distinti della loro storia, ho voluto sottolineare la differenza esistente tra le credenze
psicologico-escatologiche dell’ “uomo omerico” e quelle del greco dell’età classica.
Riguardo alla “preistoria” del dualismo, la scelta di quali testi trattare era obbligata: non
abbiamo molte altre testimonianze dirette della Grecia arcaica se non l’Iliade e
l’Odissea. Il momento storico a cavallo tra V e IV secolo a.C. è stato invece preso in
considerazione perché è solo in questi anni che sono state espresse esplicitamente
concezioni di tipo dualista, perlopiù – ma non esclusivamente – attraverso la filosofia
di Platone.
Nel capitolo I, L’anima di Achille, mi sono quindi occupato dei poemi di Omero, la
testimonianza diretta più antica sulla cultura greca. Dopo aver inquadrato i due poemi
nell’opportuna cornice storica (§§ I.1 – I.2), ho cercato di fornire al lettore una
ricostruzione puntuale della psicologia dell’ “uomo omerico” e della sua visione del
mondo, cercando di scoprire se davvero ai personaggi dell’epica il concetto di anima è

1
Almeno sin da quando Erwin Rohde non iniziò a riflettere sulla differenza tra la psicologia omerica e
quella dei greci successivi (sebbene egli non parlasse esplicitamente di “dualismo”). Vedi Rohde (1894)
vol. I e II.

2
sconosciuto, oppure se davvero non credono di essere costituiti dalla combinazione di
un principio materiale e di uno immateriale. Il metodo seguito è stato quello di
analizzare il vocabolario psicologico del poeta (§§ I.3 – I.10), con particolare enfasi
sulle parole thymos, noos, phrenes e psychē (che ho chiamato ipostasi psicologiche) e
infine sul suo modo di far riferimento al corpo e alle parti del corpo (§ I.12). Rispetto
alle numerose pagine che sono state scritte sull’argomento della “diversità omerica”, di
cui ho offerto una rilettura critica in § I.13, le mie conclusioni sono state conciliatorie: è
vero che esiste una certa diversità psicologica tra noi e i personaggi omerici, ma è pur
vero che gli studiosi si sono lasciati talvolta trascinare troppo oltre dal loro entusiasmo.
Nel capitolo II, L’Anima di Socrate, mi sono invece spostato sul periodo a cavallo tra
il V e il IV secolo. Dopo avere inizialmente fornito un quadro sintetico della psicologia
del Fedone (§ II.1), il dialogo giustamente considerato il “manifesto” del dualismo di
Platone, ho poi cercato di capire (§ II.2) quanto la visione del mondo del filosofo
ateniese rispecchiasse quella dei suoi contemporanei, sia per quanto riguarda i
“colleghi” filosofi e gli uomini di cultura, sia per le persone comuni . Il greco medio
intorno al 400 a.C. era “dualista”? La risposta a questa domanda non è e non può essere
categorica, essendo le testimonianze in nostro possesso insufficienti a dirimere la
questione in maniera definitiva. In ogni caso l’impressione che ho raccolto è che vi
fosse in effetti un certo iato tra il mondo della cultura e quello delle persone comuni; ma
che, nonostante questo, esistessero elementi di novità anche fuori dalle cerchie dei
filosofi. In questo capitolo ho poi affrontato anche la religiosità greca dell’età classica
nei suoi vari aspetti (§ II.3), concentrandomi poi in particolar modo sull’orfismo (§
II.4).
Infine il paragrafo Conclusioni è stato dedicato alle indicazioni per il proseguimento
di questa ricerca, che necessita in primo luogo di essere completata con un’analisi
accurata delle testimonianze “di raccordo” tra Omero e Platone, sia tra i filosofi
presocratici sia tra i poeti, i tragediografi e i (pochi) testi di carattere religioso.

3
Capitolo I

L’anima di Achille

Si possono conquistare i buoi e le pecore grasse,


si possono acquistare i tripodi e le bionde criniere
dei cavalli, ma la vita di un uomo non si può conquistare
ne prendere perché torni indietro, quando è uscita di bocca.[…]
se resto qui a combattere […]
è perduto per me il ritorno, ma avrò gloria immortale:
se invece torno a casa, alla mia patria,
è perduta per me la nobile gloria […].

Iliade, IX 406-415.

Se l’Iliade e l’Odissea sono state inesauribili fonti di interesse letterario, storico e


culturale dall’antichità sino a oggi, è invece una novità relativa allo scorso secolo il
tentativo di leggere Omero come testimonianza puramente antropologica. I meriti
dell’apertura di questo filone di studio, in qualche modo già precorso dal Rohde a fine
del XIX secolo, sono probabilmente in larga parte da attribuirsi a Bruno Snell e al suo
Die Entdeckung des Geistes del 1946.1 Da allora si è tentato a più riprese (e con alterne
fortune) di identificare nei due poemi le tracce di un diverso tipo di essere umano,
differente sia da noi che dai greci dell’età classica. A seconda delle opinioni dei diversi
studiosi che si sono occupati dell’ “uomo omerico”, a questo tipo antropologico sono
stati attribuiti quando un rapporto particolare con la propria corporeità, quando una
visione inusuale del proprio agire in relazione al mondo, quando una diversa attitudine
verso la religione e la mortalità. Ma studiosi ancor più audaci (tra cui lo stesso Snell) si
sono spinti sino al negare che l’uomo omerico possedesse una volontà autonoma, il
concetto di corpo tout court e persino la possibilità di essere cosciente di sé.
Tuttavia noi ci occuperemo principalmente di un’unica caratteristica del tipo d’uomo
raccontato da Omero, ovvero la sua apparente diversità rispetto al modello
antropologico più comune del mondo occidentale, quello in cui l’essere umano

1
Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen.
Edito in Italia col titolo La cultura greca e le origini del pensiero europeo, vedi bibliografia.

4
percepisce sé e i suoi simili nei termini dualisti di anima e corpo. Quello che faremo in
questo capitolo sarà tornare alla fonte, cioè lo stesso testo omerico, per appurare se è
vero che l’Iliade e l’Odissea ci parlano di esseri umani che si concepivano tramite
categorie diverse da quelle dualiste.

§ I.1 Il testo, la “questione omerica” e la datazione


Per prima cosa cerchiamo di capire di quale epoca e di quale cultura ci parlano
esattamente i poemi omerici, e fino a che punto possiamo prenderli come testimonianza
storica. Ciò che si sa per certo su di essi è che il testo che si è trasmesso fino a noi è
essenzialmente quello stabilito dai filologi di Alessandria d’Egitto tra il III e il II secolo
a.C. , insieme alla sua divisione in ventiquattro libri per ciascun poema. Sappiamo
anche che, già alcuni secoli prima di quella data, circolava in Grecia un numero
imprecisato di versioni diverse dell’opera di Omero. Sicuramente, anche questo è certo,
già sin dal VI secolo a.C. (o forse anche dal VII) i due poemi godevano di una
diffusione notevolissima, svolgendo un’importante funzione pedagogica (che
caratterizzerà la paidéia greca per secoli). Essi rappresentavano anche un forte mezzo di
coesione sociale, come ci testimonia il fatto che sin dai tempi di Solone ad Atene se ne
dava pubblica lettura in occasioni particolari, nelle quali addirittura si tenevano concorsi
di poesia:2 c’è infatti chi si è spinto, probabilmente senza esagerare, a chiamare Omero
“la bibbia dei greci”.3 Per questo motivo, e dato che le fonti letterarie del periodo
arcaico sopravvissute fino a noi non abbondano di certo, la speranza di molti studiosi –
condivisa in parte anche qui – è quella di poter prendere la visione del mondo omerica
come pars pro toto per l’intera cultura greca arcaica.
A questo Omero, il leggendario aedo cieco di cui ben sette città greche4 si
contendevano i prestigiosi natali, si è attribuita la paternità di entrambi i poemi sino
circa al XVIII secolo, con alcune eccezioni già nel mondo antico.5 Negli ultimi tre
secoli ci si è invece orientati verso l’interpretazione di Iliade e Odissea come frutto non
di un singolo poeta, ma piuttosto come poemi “open source”, composti e trasmessi –
oralmente, almeno in un primo momento – da una pluralità di aedi itineranti di città in

2
Ad esempio le feste Panatenèe. Cfr. Maddalena (1967) p. 15; West (2001) pp. 18-19.
3
Così ad esempio in Onians (1951) p. 18.
4
La maggior parte delle quali nella Ionia, la costa dell’Asia minore.
5
Senone ed Ellanico, grammatici del III secolo a.C., che già dubitavano che l’autore dell’Iliade
potesse essere lo stesso dell’Odissea. In Maddalena (1967) p. 15.

5
città, dalla Ionia fino all’Attica, generazione dopo generazione. Questi poeti, che
formarono addirittura scuole,6 devono avere, in un certo momento, raccolto un insieme
di leggende (o lontani echi storici di una guerra realmente combattuta) in una forma
quantomeno simile a quella in cui la conosciamo tramite l’Iliade e l’Odissea.7 Né per
l’Iliade né l’Odissea, quindi, c’è più spazio per ipotizzare l’opera di un’unica mente,
meno che mai di un singolo autore per entrambi i poemi.8 Ci è poi giunta notizia che
esistevano altre opere epiche riguardanti il ciclo di Troia, delle quali ci rimane solo
qualche frammento, e che anticamente erano anch’esse attribuite a Omero: il repertorio
leggendario-mitico da cui attingere era insomma molto vasto.
Riguardo alla datazione, i poemi omerici sono stati collocati di volta in volta in punti
diversi di un vasto arco temporale che va dall’ XI al VII secolo a.C. , con una data di
composizione che è tendenzialmente andata col tempo avvicinandosi: se a fine
Ottocento il Leaf ancora sosteneva la datazione di metà XI secolo a.C. ,9 oggi pare
esserci un essenziale consenso sulla metà dell’ VIII secolo, con alcuni eminenti filologi
come il West che collocano la composizione dell’Iliade direttamente tra il 675 e il 625
a.C. .10 In quest’opera assumerò che i due poemi si siano “cristallizzati” in una forma
scritta relativamente stabile non prima della metà dell’ VIII secolo a.C. e non dopo
l’ultimo quarto del VII.11 Va in ogni caso registrato che, nonostante la stesura in forma

6
Ad esempio gli Omeridi di Chio, che si proclamavano discendenti di Omero stesso.
7
Curiosamente, una testimonianza della storicità della figura di questi aedi itineranti nella società
greca arcaica ci è data dai poemi stessi, dato che nell’Odissea si rammentano almeno due cantori
professionisti, Femio e Demodoco, rispettivamente un poeta invitato dai Proci e uno alla corte di Alcinoo.
8
Trovo comunque verosimile, come ammette anche West 2001 p. 5, che – per quanto questo
influirebbe poco sulle nostre conclusioni – possano essere stati effettivamente due singoli poeti, di cui
magari uno di nome Omero, a “cucire” insieme in forma scritta i vari brandelli di narrazioni epiche nella
forma in cui conosciamo oggi i due poemi, partendo dall’ampio materiale che la vulgata della “proto-
Iliade” e “proto-Odissea” offrivano loro. Non tutti però sono concordi nel pensare che ci fosse molta
varietà di diverse “edizioni” dei poemi prima dell’epoca dei filologi alessandrini, ad esempio lo stesso
West (2001) p. 5 scrive: “Apparently each epic was written down only once, or if other versions ever
existed, they disappeare at an early date”. Ad ogni modo, questa mancanza di una precisa paternità non
danneggia lo scopo di chi cerca di ricavare del materiale antropologico dai due poemi: anzi, se il punto di
vista di un solo poeta poteva darci un’immagine parziale del panorama culturale in cui era inserito,
l’ipotesi di molti poeti che cooperavano (o meglio concorrevano) potrebbe addirittura fornire qualche
garanzia di oggettività in più. In ogni caso, continueremo a riferirci a Iliade e odissea come poemi
omerici e al loro autore come Omero: la figura leggendaria dell’aedo è stata comunque di importanza
fondamentale per tutta la Grecità, e il riferirci a lui è il riferirci all’idea che i greci avevano di lui, del
capostipite della loro cultura.
9
Leaf (1892) p. 15.
10
Alla fine di un periodo di rinnovato interesse generale per l’epica e testimoniatoci da ritrovamenti
archeologici. Per questa e la precedente affermazione: West (1995), pp. 203, 205.
11
Una della prime fonti dirette a riguardo è riportata da Cicerone (nel De Oratore, III 157) cioè il
(discusso) fatto che Pisistrato, tiranno di Atene dal 561 al 528 a.C. , avrebbe personalmente ordinato

6
scritta abbia sicuramente fissato per sempre la maggior parte dei versi, si ritiene che
anche dopo quella data (comunque la si collochi) siano state fatte delle aggiunte e
modifiche al testo, che vanno da singole parole fino a interi episodi.12 Come vedremo
più avanti, queste interpolazioni successive possono essere talvolta una spiegazione
plausibile per giustificare la presenza nei poemi di alcuni elementi che appaiono in
contrasto con il contesto generale.13
Infine, riguardo alla datazione relativa dei due poemi, si ritiene di solito che
l’Odissea sia stata composta dopo l’Iliade14 (d’altronde già nell’antichità la prima era
attribuita alla vecchiaia di Omero).15 Appare d’altronde lampante a ogni lettore che
l’Odissea e l’Iliade sono molto diverse, a partire dai temi fino alla struttura compositiva.
Nel corso di questo capitolo e del successivo emergeranno alcune delle ragioni per
collocare l’Odissea dopo l’Iliade, soprattutto riguardo alle pratiche religiose e agli
schemi di credenze che i poemi rivelano.16

§ I.2 L’uomo di Omero17

un’edizione dei poemi, ritenuta da alcuni la base più consistente su cui lavorarono i filologi alessandrini.
Cfr. Zambarbieri (2003) pp. 47-48.
12
Cfr. West (2001) p. 10.
13
Noi ci limiteremo qui a trattare quelle incongruenze (o apparenti tali) che riguardano le sfere delle
credenze sull’aldilà e della psicologia umana. Un esempio di credenza spesso interpretata come
un’aggiunta successiva è il castigo degli ingiusti nell’aldilà (e.g. Iliade III 279-280, vedi § I.11 infra), che
non appare coerente con l’immagine d’insieme che il poeta ci dà del mondo dei morti.
14
Cfr. Knox (1996) p. 23; West (1995) p. 216. È in ogni caso del tutto evidente come la mentalità che
l’Odissea rispecchia sia molto diversa e sicuramente posteriore a quella dell’Iliade.
15
Ad esempio così lo Pseudo-Longino, Del Sublime 9, 12. Ma West (1995) p. 204 ci ricorda che
“ancient notions of Homer's relative or absolute chronology are in fact devoid of probative value”.
16
La storicità dei fatti narrati è invece, ai fini di questo lavoro, scarsamente rilevante: che vi sia stata o
no una guerra tra Achei e Troiani a un certo punto del II millennio a.C., ciò di cui l’Iliade e l’Odissea ci
fanno partecipi è principalmente la cultura imperante al momento in cui sono state fissate in una forma
simile a quella in cui ci sono arrivate (ci è indifferente se questo sia avvenuto già in una fase di
trasmissione orale o se nelle prime versioni scritte, a condizione che da quel momento in poi i poemi non
abbiano subito sostanziali variazioni di struttura e forme del linguaggio). Questo lo possiamo fare,
primariamente, attraverso la forma in cui la storia è raccontata (soprattutto attraverso lo studio del
linguaggio utilizzato, come vedremo tra poco) e la scelta su quali contenuti mettere in risalto a discapito
di altri. D’altronde, se oggi si scrivesse un ciclo epico in versi sulla Guerra dei trent’anni (dal cui inizio,
per inciso, ci separano esattamente quattrocento anni, all’incirca il lasso temporale che i Greci credevano
separare Omero dalla mitica guerra di cui cantava.), per un antropologo del 4500 d.C. quel racconto
sarebbe principalmente una fonte per la nostra cultura, non per conoscere l’Europa seicentesca (ammesso
che nel V millennio vi sia ancora qualcuno per occuparsi di antropologia): certo, l’ambientazione e gli
eventi sarebbero seicenteschi, ma la forma mentis rivelata dall’autore sarebbe la fonte più diretta. Al
massimo, ciò che si otterrebbe è l’immagine che abbiamo del Seicento dal punto di vista del 2018, che è
in primo luogo un’informazione sul nostro tempo, non sul seicento.
17
Come abbiamo stabilito, designeremo così, per semplicità, lo (gli) sconosciuto/i autore/i dei due
poemi; inoltre userò l’espressione l’uomo omerico per parlare della cultura vigente al momento in cui i

7
Per capire se davvero all’uomo omerico erano sconosciute le categorie di anima e
corpo (almeno per come noi le conosciamo), nei prossimi paragrafi analizzeremo nel
dettaglio il linguaggio con il quale il poeta descrive gli esseri umani. Ci saranno
particolarmente utili quei passaggi che informano il lettore sulla psicologia dei
personaggi e sul loro modo di riferirsi a se stessi e agli altri, e ancor più specificamente i
casi dove noi chiameremmo in causa termini come “anima”, “mente” e “corpo”.
Per cominciare, affrontiamo il passo più famoso dell’intero corpus omerico, l’incipit
dell’Iliade:

Μῆνιν ἄειδε, θεά, Πηληϊάδεω Ἀχιλῆος


οὐλομένην, ἣ μυρί᾽ Ἀχαιοῖς ἄλγε᾽ ἔθηκε,
πολλὰς δ᾽ ἰφθίμους ψυχὰς Ἄϊδι προΐαψεν
ἡρώων, αὐτοὺς δὲ ἑλώρια τεῦχε κύνεσσιν
οἰωνοῖσί τε πᾶσι· Διὸς δ᾽ ἐτελείετο βουλή […]

Canta, Musa divina, l’ira di Achille figlio di Peleo,


l’ira rovinosa che portò ai Greci infiniti dolori,
e mandò sottoterra all’Ade molte anime forti
d’eroi, e li lasciò in preda ai cani e a tutti
gli uccelli: così si compiva il volere di Zeus […].18

Eccoci, in appena cinque versi, catapultati in un mondo tanto distante dal nostro,
all’interno del quale ciò che accade – specialmente i grandi avvenimenti come la
favolosa Guerra tra Achei e Troiani – è il compiersi del volere degli dèi, dove si invoca
una certa divinità prima di mettersi a cantare la memoria degli eroi, dove la violenza e la
morte sono all’ordine del giorno. Ma, limitandoci alla nostra ricerca, colpisce la
particolare combinazione di due parole greche tra i versi tre e quattro: “psychàs”
(ψυχάς, accusativo plurale di psychē, una parola che nel greco successivo è di norma
tradotta con “anima”) e “autous” (αὐτούς, qui tradotto come “li”, nel senso di “loro
stessi”). Queste “anime forti d’eroi” sono state spedite da Achille – o meglio, dalla sua
menis (“ira”) – nel mondo sotterraneo dell’aldilà (l’Ade, appunto), mentre l’eroe “lasciò
loro stessi in preda ai cani e a tutti gli uccelli”. Il significato sostanziale di questi versi è

poemi sono stati scritti, e non per il tempo a cui i fatti narrati si riferiscono (quindi, verosimilmente,
parleremo della cultura greca tra l’VIII e il VII sec. a.C.).
18
Iliade, I 1-5.

8
ovviamente molto chiaro: Achille ha vinto tanti valorosi guerrieri, lasciando i loro corpi
a marcire sul campo di battaglia come facile preda degli animali. Tuttavia le espressioni
greche con cui veniamo informati di questi “fatti” suscitano qualche perplessità. Ad
esempio: la morte è presentata come l’allontanarsi dal corpo della psychē, che è
“mandata” in un certo luogo separato (“sottoterra”). Non è questo a stupirci, dato che si
tratta di un’immagine a cui il nostro retroterra cristiano ci ha abituato,19 bensì il fatto
che il cadavere sia indicato come la persona stessa che è morta (come intendere
altrimenti il “loro stessi”?). Quello che ci saremmo aspettati è, mi pare, che la persona
stessa fosse invece identificata con l’anima che se ne vola via, e non col cadavere
rimasto esangue sul campo di battaglia.
Questo passo, come molti altri, potrebbe in effetti rivelare che al tempo in fu fissato
in questa forma, l’essere umano non veniva concepito – almeno per quanto riguarda la
morte – in un modo uguale al nostro, né a quello dei greci successivi. Tuttavia è
altrettanto possibile che ciò che ci colpisce nei due versi in questione non sia altro che
un artefatto dello stile poetico, niente più di una forma retorica: anche questo deve
essere tenuto in considerazione. Per saperne qualcosa di più, non ci resta che entrare nel
vivo di questa ricerca.

§ I.3 Il vocabolario psicologico di Omero


Talvolta ci si imbatte nell’affermazione che i greci, almeno fino a un certo punto
della loro storia, non avevano una singola anima, bensì molte. Dobbiamo però adesso
fare alcune precisazioni su quest’affermazione, che pur essendo corretta rischia di dare
un’immagine erronea di ciò che voglio esprimere. Prima di tutto dovremmo chiederci se
riusciamo a pensare a un individuo dotato di più di un’anima. Abbiamo notizia di
diversi popoli i cui membri sono “pluripsichici”,20 i cui membri credono di possedere

19
Lo dico qui una volta per tutte: affermazioni come questa hanno solo lo scopo di rimarcare
l’importanza che il Cristianesimo ha avuto nella formazione della cultura occidentale, ammesso che le due
cose si possano tenere separate. Com’è ovvio, non è mio interesse (né corrisponderebbe al vero)
presupporre che tutti gli uomini e le donne occidentali siano ferventi cristiani.
20
Conio qui questo termine, insieme alla sua controparte “monopsichico”. In ogni caso con essi non
intendo suggerire che i popoli che credono in più di un’anima siano tutti affetti da disturbi di personalità
multipla (DID o DDI): “psichico” è qui inteso come “riguardante la psychē”, cioè l’anima (a onor del
vero, come spero sarà più chiaro tra poco, non sarebbe nemmeno così fuori luogo parlare per i greci di
“centri decisionali multipli” all’interno del singolo individuo). Esempi di popolazioni contemporanee che
presentano tratti pluripsichici sono ad esempio i Dogon africani, che credono che esistano ben otto anime
diverse per ciascun individuo, o gli indiani Tzeltal in Messico, che credono di possederne addirittura
diciassette. Cfr. Descola (2005), p. 65.

9
più di un’anima ciascuno. Ma non si perde forse il senso di ciò che noi intendiamo per
“anima” se ne moltiplichiamo il numero all’interno del singolo individuo? Molto
probabilmente sì. Mi pare anzi inevitabile che nel passare da una relazione biunivoca
individui-anime (come quella della tradizione cristiana) e una pluralità di relazioni
individuo-anima in ogni singola persona, non ci si riferisca più allo stesso concetto.
Detto altrimenti, le molteplici anime dei greci arcaici (se così vogliamo chiamarle) non
sono anime per come noi intendiamo questo termine. Tanto per cominciare, la stessa
associazione anima-mente-coscienza, piuttosto diffusa tra noi, per questi popoli (greci
arcaici compresi) deve necessariamente saltare o farsi molto complicata: se noi
possiamo dire ad esempio “io sono la mia anima/mente”, un greco del tempo di Omero
non sembra avere né la terminologia né i concetti per esprimere alcunché di simile. In
ogni caso bisogna ricordare che, per quanto riguarda il mondo occidentale, la
trasformazione dalla credenza in tante “anime” a quella in una sola è avvenuta proprio
all’interno della storia greca: se Omero era genuinamente pluripsichico, i greci dell’età
classica sono perlopiù monopsichici (almeno tanto quanto lo siamo noi).
In assenza di trattati di psicologia scritti da contemporanei di Omero, ciò che in
primo luogo permette di sostenere che i greci omerici avessero più di un’anima è che, al
posto di una singola parola per l’italiano anima o mente , per l’inglese soul o mind o per
il tedesco Seele o Geist, il poeta utilizza un’intera “famiglia” di parole psicologiche,21
all’interno della quale le principali sono thymos, psychē, noos, phren (o phrenes),
kradie, menos, ētor, kēr, prapides e stethos. Come sottolineerò in corso d’opera, per
molte di esse non è chiaro se siano il nome di un “organo” (com’è ad esempio per noi il
cuore), di una sua “funzione” (il pompare sangue) o di una certa “capacità” più astratta,
o ancora di un singolo atto o prodotto di quest’ultima (ad esempio, il pensiero di
qualcosa rispetto alla capacità di pensare). O meglio: poiché Omero non ci dà mai prova
di conoscere questi concetti astratti, è del tutto probabile che nel suo greco almeno
alcune di queste parole avessero, dal nostro punto di vista, semplicemente un insieme
indistinto di tali significati. In ogni caso, da questo momento in poi sarà meglio disfarci
di questa terminologia poco chiara usata sin qui: ci riferiremo alle molteplici “anime”
dei greci arcaici solo come ipostasi psicologiche del linguaggio omerico.

21
Così già in Snell (1946) p. 28, che tuttavia si limitava alle più importanti di queste parole: “A
indicare «l'anima » sono usate in Omero particolarmente le parole ψυχή (psychē), θυμός (thymos) e νόος;
(noos)”.

10
Diamo anche risalto, in via introduttiva, ad una caratteristica attribuita spesso al
greco di Omero, ovvero la sua estrema vicinanza al mondo dell’esperienza comune e la
sua scarsità di termini astratti; compensate però da una notevole ricchezza lessicale per
la descrizione di situazioni concrete.22 Noteremo in particolare come molte delle
ipostasi psicologiche che nel greco più tardo saranno impiegate in accezioni
teoreticamente molto sofisticate e astratte (soprattutto per quanto riguarda noos, thymos
e psychē), siano in Omero ancora molto legate alla loro etimologia, che rimanda sempre
alla materialità.23

§ I.4 Il θυμός (thymos)


Abbiamo introdotto il tema dell’uomo omerico presentando il celebre incipit
dell’Iliade, dove si parla delle psychai (anime) degli eroi mandate sotto terra da Achille.
La parola psychē (ψυχή)24 è per l’appunto la traduzione più vicina al nostro “anima” sia
in greco antico che in greco moderno. O almeno questo è ciò che troviamo nella
maggior parte dei casi in un dizionario di greco, come anche nelle traduzioni in lingue
moderne della letteratura greca antica (e nella fattispecie nella traduzione dell’incipit
riportata sopra). Ciò che di solito però viene omesso, com’è inevitabile, è precisare che
la corrispondenza psychē-anima non è corretta in assoluto per tutta la storia della lingua
greca. Non lo è, in particolare, per la Grecia arcaica, dato che la psychē nel greco
dell’Iliade e dell’Odissea ha solo una piccola parte dell’insieme di significati che ha per
noi “anima”: anzi, se dovessimo proprio scegliere una parola nel greco di Omero che
assommi in sé più caratteristiche della nostra anima, la scelta non ricadrebbe forse su

22
Il locus classicus per tale tesi è senz’altro Snell (1946) pp. 19 – 25. Ad esempio così a pagina 20:
“Si è scoperto da tempo che in una lingua relativamente primitiva le forme d'astrazione non sono ancora
sviluppate, ma che in compenso esiste un'abbondanza di definizioni di cose concrete, sperimentabili coi
sensi, che apparirebbero strane in una lingua più progredita”; nelle stesse pagine è anche mostrata, come
esempio, l’estrema ricchezza di lessico che un greco arcaico aveva a sua scelta per descrivere l’atto del
vedere (ben 10 verbi diversi). Cfr. Onians (1951) pp. 13-20. Meriterebbe maggior attenzione il rapporto di
questa tesi con l’ipotesi di Sapir-Whorf o della Relatività linguistica, secondo la quale (in maniera molto
semplicistica) il linguaggio influenza (o determina) la visione del mondo e la cognizione dei parlanti.
Rimando a Peruzzi (2004) pp. 46 – 54 per un’esauriente introduzione all’argomento.
23
E, come osserva von Fritz (1943) p. 79, un motivo di interesse in più è qui che i greci hanno
sviluppato il loro vocabolario filosofico-scientifico senza prestiti di termini da altre lingue, trovandosi
costretti a riadattare termini “comuni” a un significato più complesso. Per una problematizzazione
dell’indagine etimologica, cfr. Stefanelli (2010) pp. 1 -16.
24
Di cui psychas è l’accusativo plurale.

11
psychē, bensì sulla parola thymos (θυμός).25 Come vedremo, entrambe le parole (ma
soprattutto la prima) saranno presenti anche nel greco del IV secolo a.C. , ed entrambe
troveranno largo impiego nei dialoghi platonici. Tuttavia a quel punto il loro significato
avrà già subito degli importanti mutamenti. Non scordiamoci la lezione del filologo
alessandrino Aristarco, che già nel III sec. a.C. osservava come larga parte delle parole
più comuni avessero cambiato significato nei secoli che lo separavano da Omero26 (cioè
almeno quattrocento anni circa).
Ma cos’è esattamente il thymos? Leggiamo insieme alcuni passi paradigmatici che ci
introducano all’uso di questo termine. Ad esempio, così Agamennone inveisce contro
Achille (colpevole di aver dichiarato, essendosi offeso, di volersene tornare a casa) nella
contesa iniziale dell’Iliade: “Fuggi, se il tuo thymos ti spinge a questo; io non ti supplico
di rimanere per me”.27 Oppure, nel corso dello scontro tra Deifobo e Merione:
“[Deifobo] scostò da sé lo scudo, temendo nel suo thymos la spada del forte Merione”.28
In entrambi i casi, “thymos” è stato di solito tradotto in italiano con “cuore”, sebbene
con quella parola Omero non indicasse né il cuore né qualsiasi altro organo corporeo
(ma d’altronde non è ciò che intendiamo nemmeno noi, quando rammentiamo “cuore”
in espressioni simili). La traduzione rimane però appropriata, perché si tratta di
esprimere dove la emozioni come la rabbia (nel primo caso) o la paura (nel secondo)
vengono localizzate. In questo caso altre traduzioni appropriate sarebbero state, per il
modo in cui oggi utilizziamo queste parole, animo o spirito (si noti la sottile differenza
tra anima e animo). In certi altri casi avrebbe fatto al caso nostro anche “carattere”.
Quindi, come in italiano29 si parla di solito del cuore come sede privilegiata
dell’emozione (si pensi a espressioni come “dal cuore impavido”, “non aver cuore”, “sei
nel mio cuore”, “cuore spezzato” ecc.), esiste una forte concordanza degli studiosi sul
thymos come sede delle emozioni dell’antropologia omerica.30 Tuttavia la sua funzione

25
Cfr. Long (2015) pp. 25-26. Come riporta anche Bremmer, questa maggiore importanza del thymos
è rivelata anche dal mero numero di occorrenze di questa parola e di psychē nei due poemi: il rapporto è
di 9:3 per il thymos (per altro distorto dall’altissimo numero di occorrenze di “psychē” nei libri XI e
XXIV dell’Odissea). Vedi Bremmer (1983) p. 75.
26
Riportato da Snell (1946) p 19 e Onians (1951) p. 24. Entrambi si riferiscono Karl Lehrs, De
Aristarchi Studiis Homericis, Diss. II, De Aristarchea vocabulorum Homericorum interpretatione, pp. 35.
27
Iliade, I 173-74.
28
Iliade, XIII 163-164
29
Lo stesso tipo di associazione si fa comunemente almeno anche in inglese, spagnolo e francese.
30
Vedi Bremmer (1983) pp. 54-55; Long (2015) pp. 24-29; Dodds (1951) p.57-58; Snell (1946) p.30;
Davis (2011) p. 9. Quest’uso della parola thymos non si limita d’altronde né a Omero ne all’epica: ad
esempio cfr. l’uso di thymos nell’Ode I (Ad Afrodite) di Saffo (VII – VI sec.) Savino (2002) p. 15

12
non si esaurisce qui. Prima di tutto c’è da dire che il thymos non è solo sede, ma è
descritto come causa delle emozioni (“se il tuo thymos ti spinge …” dice Agamennone);
e non solo queste sono causate, ma talvolta anche le azioni stesse degli uomini
(soprattutto quando collegate direttamente a qualche emozione) sono descritte come
aventi origine nel thymos. Sembra, in effetti, che se dobbiamo trovare un concetto di
volontà in Omero,31 esso debba senz’altro avere a che fare col thymos, che agisce come
una “voce interiore” che esorta, muove, motiva o spinge l’eroe all’azione.32 In effetti è
stato spesso notato nel thymos omerico un certo carattere di autonomia rispetto
all’individuo:33 i personaggi ci sono descritti spesso mentre conversano col proprio
thymos,34 quasi si trattasse di una persona separata. Notiamo inoltre en passant come il
thymos sia anche l’ “organo” tramite cui gli indovini greci credevano di ottenere il loro
sapere,35 un tipo di conoscenza che si caratterizza proprio per l’estraneazione del
soggetto dall’informazione “ricevuta”.
Dodds ha correttamente chiamato questi modi di esprimersi dell’uomo omerico un’
“abitudine ad oggettivare gli impulsi emotivi”:36 sembra quindi che il thymos sia, in
questo senso, un’ipostatizzazione del generico impulso all’azione (soprattutto quando
esso coinvolge una forte emozione), ciò a cui noi oggi ci riferiamo quando utilizziamo
la nozione astratta di “volontà”. Al contrario di noi, però, l’uomo omerico non sembra

31
Secondo Bruno Snell e il filone degli studiosi di Omero che lo hanno seguito, all’uomo omerico il
concetto di volontà è completamente sconosciuto. Vedi Snell (1948) p. 51: “In Omero non esiste la
coscienza della spontaneità dello spirito umano, cioè la coscienza che le determinazioni della
volontà e in genere dei moti dell'animo e dei sentimenti abbiano origine nell'uomo stesso”. Gli fa eco
Dodds (1951) p. 63 nota 32: “L’uomo omerico non possiede il concetto di volontà (sviluppatasi con
strano ritardo in Grecia) e perciò non può possedere il concetto di libero arbitrio”. Per una critica molto
efficace di questo tipo di interpretazione, Williams (1993) pp. 31-56. In ogni caso, al di là di ogni
esagerazione da parte di questi studiosi, ritengo comunque che certe espressioni relative al thymos ci
mostrino effettivamente qualcosa di diverso nel modo in cui l’uomo omerico si concepisce.
32
Un altro esempio: “così Achille era spinto dalla furia e dal suo nobile thymos” Iliade, XX 174-5.
33
Così ad esempio in Voigt (citato in Dodds 1951 p. 63 nota 32) “l’uomo non ha ancora nessuna
coscienza della libertà personale e dell’autodecisione”); Dodds (1951) pp. 57-58: “[il thymos] può
definirsi, approssimativamente e in generale, l’organo del sentimento, ma gode di un’indipendenza
incompatibile per noi con la parola organo. […] Il thymos dice all’uomo quando deve mangiare, bere,
uccidere un nemico, gli suggerisce le parole […] quasi fosse un altro uomo”. L’estrema conseguenza
delle precedenti posizioni di Snell e queste di Dodds la si può trovare in autori che hanno negato
completamente la “coscienza” (intesa come coscienza di sé) all’uomo omerico, come ad esempio e
soprattutto Jaynes, nella sua opera di speculazione scientifica The Origin of Consciuousness in the
Breakdown of the Bicameral Mind (1976), dove questi aspetti dell’uomo omerico sono reinterpretati nel
contesto più generale della negazione assoluta dell’autocoscienza all’essere umano “arcaico” (si vedano
pp. 309-315 per quanto riguarda Omero).
34
Così in Onians (1951) p. 13: “Deep reflection is conversation of one’s self with one’s thymos or of
one’s thymos with one’s self”.
35
Onians (1951) pp. 66-67.
36
Dodds (1951) p. 58.

13
avvertire la sua stessa volontà come interamente parte del suo io.37 Ad esempio Omero
descrive così in un passo dell’Odissea (a cui ritorneremo nel prossimo capitolo) il
conflitto interiore di Odisseo, adirato con alcune serve colpevoli di essersi concesse ai
suoi nemici:

[…] e vennero dalla gran sala le donne, che si univano ai Proci […]
si agitò il suo thymos nel caro petto,e molto fu incerto […]
se dare a ciascuna la morte,[…] o lasciare che si unissero ancora ai pretendenti […]
il suo cuore [kradie] latrava. Come una cagna […] così latrava in lui, sdegnato […].38

E dopo questo ritratto dello sdegno di Odisseo, così ricco di pathos, l’eroe finalmente
prende una risoluzione:

E battendosi il petto, redarguiva il suo thymos:


“kradìe [cuore], sopporta! Sopportasti ben altra vergogna […]”.39

Odisseo si può quindi rivolgere direttamente al proprio thymos come fosse un soggetto
indipendente, prima rimproverandolo e poi esortandolo a resistere.40 Ma ci sono casi
ancor più significativi, come quando Zeus dice di aver agito in opposizione a ciò che gli
diceva il suo thymos,41 oppure quando lo stesso Odisseo si dissocia bruscamente dalla

37
Dodds (1951) pp. 57-58 : “L’uomo omerico tende a non sentire il thymos parte dell’io: abitualmente
esso compare come voce interiore indipendente”. Purtroppo non abbiamo qui lo spazio per trattare altri
aspetti della psicologia omerica legati a questo aspetto della dissociazione dell’individuo da alcuni suoi
pensieri e azioni. Rimando allo stesso Dodds (1951) per quanto riguarda l’ate pp. 43-60 (“pazzia parziale
e temporanea, attribuita […] a un’ intervento demoniaco” p. 47), pp. 109-127 per la considerazione della
malattia mentale in Grecia e i vari tipi di estasi (rituale, erotica, poetica, profetica). Tutti questi tipi di
alterazione e dissociazione sono abitualmente interpretati dai greci arcaici come interventi diretti degli
déi, quindi non aventi origine da cause fisiologiche e comunque non da cause endogene all’individuo che
li subisce. Inoltre, come ricorda Stefanelli (2010) p. 126, anche il sonno è percepito come un agente
indipendente dal soggetto.
38
Odissea, XX 15 – 16.
39
Odissea, XX 17 – 18.
40
Platone era evidentemente affezionato a questo passo, tanto che esso è citato sia in Fedone 94 d - e
che in Repubblica III 390 d e IV 441 b - c. Quest’ultimo caso, sicuramente quello in cui la citazione
Omerica ha più importanza nello schema argomentativo di Platone, è un esempio illustre di come non
dobbiamo intendere il thymos omerico. Platone infatti scrive: “Lì Omero, come se si trattasse di due cose
di cui una rimbrotta l’altra, ha chiaramente rappresentato l’elemento razionale che riflette sul meglio e sul
peggio, mentre rimbrotta quello che s’eccita irragionevolmente”. Ma in Omero mancano gli elementi per
pensare a un contrasto netto tra facoltà (o parti dell’anima) razionali e irrazionali, come vorrà invece il
filosofo nella Repubblica. Cfr. Long (2015) pp. 30-31, Williams (1991) pp. 46 – 47.
41
Iliade IV 43 “io ti ho concesso Troia di mia volontà, ma contro il mio thymos”.

14
linea di condotta suggeritagli dal thymos: “Ma cosa mai mi va dicendo il mio
thymos?”.42
Ma cosa intendiamo quando parliamo del thymos come organo? Nel primo verso del
passo sul conflitto interiore di Odisseo, il narratore ci dice che l’eroe sta redarguendo il
suo thymos, mentre invece nel monologo che ci viene riportato l’eroe si riferisce alla sua
kradìe (cuore). Questo non deve però suggerirci che thymos e kradìe siano semplici
sinonimi: Omero ha solo tre parole per indicare l’organo cardiaco, cioè appunto kradìe,
kēr ed ētor.43 Si aggiunga poi che (al pari di thymos) chiamare semplicemente “organo”
ciò che queste parole designano potrebbe non essere del tutto corretto, dato che
anch’esse sono talvolta coinvolte nel provare sentimenti e emozioni.44 In ogni caso
queste parole hanno un ruolo minore nell’economia generale dei due poemi, pertanto
qui le considereremo per semplicità le traduzioni più prossime al nostro “cuore” (inteso
come vero e proprio organo del corpo). Tornando al thymos, non dedurremo comunque
dal precedente passo l’equazione thymos=kradìe, perché il primo non coincide con
alcun organo corporeo preciso, venendoci presentato di volta in volta associato ad
organi diversi (su tutti le phrenes e la kradìe), ma la sua attività appare
inequivocabilmente collegata a quella di cuore e polmoni. Ha osservato bene lo Snell
quando diceva, a proposito di thymos, noos e psychē: “Questi organi dell'anima non si
distinguono sostanzialmente dagli organi del corpo. Anche se vogliamo determinare gli
organi del corpo, dobbiamo passare dall'organo alla funzione […]”.45
Sembra così che il pretendere di applicare a Omero la moderna nozione di organo –
come per noi lo sono ad esempio il cuore, i polmoni e il cervello ma non il pompare
sangue, la respirazione o la mente – sia un anacronismo che dovremmo semplicemente
evitare: sebbene ci siano elementi più vicini alla nostra idea di organo fisico (ad

42
Iliade XI 403-410. Vedi sotto per la citazione estesa dello stesso passo. Questo passo risulta forse
tra i più strani dell’intero corpus omerico, giacché prendendo alla lettera la successione dei pensieri di
Odisseo ne dovremmo dedurre che egli era affetto da un grave disturbo della personalità multipla. Cfr.
l’interpretazione di Dodds (1951) p. 69.
43
Sebbene esse non sembrino essere del tutto equivalenti. Ometto qui un’analisi dettagliata dell’uso di
queste parole, rinviando a Darcus Sullivan (1995) per un sintetico studio dell’argomento in Omero e nella
poesia successiva. Ricordiamoci anche che ogni volta che nominiamo nozioni astratte come “funzione” o
“organo” parlando di Omero, stiamo utilizzando nozioni non appartenenti alla visione del mondo della
Grecia arcaica. L’uso di queste parole è quindi finalizzato al comprendere nei nostri termini la psicologia
dei poemi, e non al darne un resoconto limitandosi agli stessi termini in cui è presentato. Cfr. von Fritz
(1943) p. 81.
44
Bremmer (1983) p. 63.
45
Snell (1946) p. 37.

15
esempio la kradie o le phrenes) e alcuni più lontani, più simili alle funzioni di tali organi
(appunto il thymos, la psychē o il noos), per nessuno di essi possiamo utilizzare il nostro
concetto moderno senza tagliare fuori (o aggiungervi) qualche aspetto. Come infatti
abbiamo visto nella descrizione della rabbia di Odisseo del passo precedente, ci sono
almeno tre momenti distinti del sorgere della sua furia: prima ha visto le donne
amoreggiare con i Proci, poi il suo thymos si è improvvisamente agitato, infine il suo
cuore (qui in senso letterale) ha cominciato a “latrare”, cioè a battere velocemente.46 È
stato il thymos ad agitare il cuore, o meglio: la sua attività è tutt’uno con l’agitazione di
Odisseo, che coinvolge un ampio spettro di aspetti psicosomatici. Il thymos pare di
conseguenza essere un tutt’uno con la vita del corpo: esso è in definitiva la stessa
energia vitale che ci fa muovere, agire e pensare.47 Quest’energia, però, non va intesa
nel senso di principio della vita, o come ciò che primariamente distingue un cadavere da
una persona viva: infatti, come vedremo, in questo senso è psychē, e non thymos, a
subentrare come traduzione di “anima” più corretta. Il thymos è allora, semmai, una
conseguenza del fatto di essere in vita, e non la causa; esso coincide con (quasi) tutte le
caratteristiche dell’essere umano in quanto vivente. In effetti l’etimologia di thymos,
sebbene essa non sia affatto certa, è ritenuta da alcuni collegata all’atto del respirare.48
Non è forse un caso allora che in Omero non solo gli uomini siano dotati di thymos, ma
anche gli animali.49 Come osserva Stefanelli, autrice di uno studio eccezionale sul
vocabolario psicosomatico di Omero, “l’еріtеtо соѕtаntе dі θυµός [..] è ἀγήνωρ, ‘сhе
соnduсе, ѕріngе l’uоmо’. [..] Come dirà in seguito Aristotele, [il thymos] è rіtеnutо lа
саuѕа dеl mоvіmеntо реr glі аnіmаlі”.50

46
A questo proposito sono a mio parere calzanti le considerazioni di Anthony Long e Michael Clarke,
che leggono nella mancanza di opposizione in Omero tra vita mentale e vita del corpo un’estrema
ricchezza espressiva per la descrizione letteraria delle emozioni, ineguagliabile per una letteratura
informata dal dualismo mente-corpo (com’è praticamente il totale della letteratura occidentale). Vedi
Long (2015) p. 28.
47
Per Snell (1946) p. 30 è in primo luogo “ciò che ci fa muovere”. Cfr. Galimberti (1983) p. 49.
48
Come vedremo nel § I.9 sulla psychē, anche questa parola ha secondo molti un’etimologia collegata
al respiro. Bisogna però stare attenti a non confonderle, nonostante questo punto di contatto (per di più
l’etimologia di thymos non è affatto certa). Su questo punto e sull’etimologia rinvio a Bremmer (1983)
pp. 54-56 e a Onians (1951) p. 23. Quest’etimo, che collegherebbe per altro il thymos al latino fumus (e
quindi al nostro fumo), non è un’associazione del tutto indebita per il greco omerico. In effetti, il thymos è
spesso rappresentato come avente sede nel petto (stethos) di una persona (il luogo del respiro), talvolta
associato ad altre parole psicologiche come phren (e phrenes), stethos, etor e kradie, di cui dirò qualcosa
tra poco.
49
Un esempio: Iliade, XVI 469, riferito a un cavallo.
50
Stefanelli (2010) p. 33.

16
Ricollegandoci a quest’ultimo aspetto del thymos omerico, dobbiamo anche
considerare il suo ruolo al momento della morte: è qui che il thymos rivela
maggiormente la sua distanza dal concetto di “anima” platonico-cristiano (semmai
imparentato alla lontana con la psychē omerica): di esso semplicemente si smette di
parlare dopo il trapasso. Non c’è alcuna funzione escatologica legata a questo tipo di
anima51 (né, che io sappia, il thymos è mai stato oggetto coinvolto in qualche culto
religioso, nemmeno in seguito). Il momento della morte, nel caso in cui si parli del
thymos, è descritto o come il moribondo che esala il thymos dalla bocca52 (che ci riporta
all’etimologia del respiro) o come l’azione violenta dell’omicida che strappa il thymos
dall’avversario sconfitto53 (ma quest’ultimo ha più l’aria di essere un espediente
letterario per rafforzare la violenza dell’uccisione). È vero che Omero descrive la morte
sia come allontanamento della psychē (si ricordino le “molte anime forti” dell’incipit
dell’Iliade) sia come allontanamento del thymos (nella maggior parte dei casi), ma non
c’è ragione qui per confondere i due tipi di anima e le loro funzioni: semplicemente
entrambe lasciano il corpo al momento della morte. Potrebbe qui confonderci il fatto
che, in qualche raro caso54 il thymos sia presentato da Omero come l’anima del morto,
ma il fatto che in queste occorrenze si parli sempre di animali che muoiono, e non di
esseri umani, ci può tranquillizzare: non avendo essi una psychē,55 appariva
probabilmente logico che la loro dipartita venisse descritta attraverso l’abbandono del
thymos. Non a caso è proprio in queste occasioni che il poeta si fa sfuggire espressioni
di solito riservate alla psychē come “e il thymos volò via”.

51
C’è in effetti un passo (Iliade VII 131) che sembra mettere in discussione quest’affermazione, in cui
un personaggio si augura che il suo thymos discenda nell’Ade, nel senso che vuole morire. Snell la
considera l’interpolazione di un poeta tardivo (Snell 1946 p. 33), così come Bremmer lo interpreta come
una forma retorica (Bremmer 1983), seguendo Onians (1951) p. 93.
52
Ad esempio in Iliade, XIII 654: “cadde tra le braccia dei compagni esalando il thymos (tradotto
come “l’ultimo respiro”)”.
53
L’uccisione di due nemici da parte di Diomede è descritta così in Iliade, VI 17: “..ad ambedue tolse
il thymos”.
54
Esattamente in Iliade, XVI 469 (morte di un cavallo), XXIII 880 (di una colomba); e in Odissea X
163 (un cervo) , XIX 454 (un cinghiale). Cfr. Snell (1946) p. 33.
55
L’affermazione non è proprio rigorosa: in Omero non è attribuita di norma una psychē agli animali;
essa pare quindi riservata, almeno nella maggior parte dei casi, agli esseri umani (e la “sostituzione” col
thymos nelle descrizioni della morte degli animali rafforza l’idea che il poeta attribuisse loro una psychē
con più reticenza). Questo non appare tuttavia sufficiente per desumerne una visione della natura
spiccatamente antropocentrica, come potrebbe esservi la tentazione, anche perché c’è almeno
un’inequivocabile eccezione (e.g. Odissea, XIV 426, dove viene attribuita la psychē a un animale
sacrificale). Ciò che manca in assoluto è invece l’attribuzione alle psychai animali di una “sopravvivenza”
oltre la morte analoga a quella umana. Cfr. Onians (1951) p. 105.

17
Il thymos fa poi parte anche della descrizione degli svenimenti, come quello di
Andromaca, sposa di Ettore, quando apprende della morte del marito:

“Allora una notte scura le velò gli occhi, e cadde riversa, come esalando la psychē […] quando
rinvenne e tornò nel petto il thymos, disse […]”.56

Il thymos si allontana dunque durante quella che noi chiameremmo perdita di coscienza
(ma non ci è dato sapere dove vada), e poi allo stesso modo “ritorna nel petto” al
risveglio. Il fatto che il thymos abbandoni la persona durante la perdita di coscienza non
fa che rafforzare l’interpretazione del thymos come “energia vitale” o fonte dell’energia
vitale che caratterizza gli animali e gli uomini: assente quella, si giace inerti, come morti
(cioè come avendo esalato la psychē). Si noti in ogni caso che l’esalazione della psychē
è appunto qui solo una similitudine: essa, a differenza del thymos, una volta esalata non
ritorna.
Infine dobbiamo ricordare che il thymos è talvolta coinvolto in attività di tipo
cognitivo, sebbene si tratti sempre di deliberazioni di tipo pratico o nell’effettivo
possesso di conoscenze. Di norma, come vedremo tra poco, sono il noos e le phrenes ad
essere deputate all’intelligenza e alla ponderazione, ma ad esempio Odisseo – incerto
sul da farsi in una situazione rischiosa – si chiede: “Ahimè, che farò? È male se per
paura fuggo davanti alla massa di nemici, peggio se resto solo e vengo preso […]. Ma
cosa mi va dicendo il mio thymos? […]. Questo meditava nel thymos e nelle phrenes”.57

§ I.5 Il νόος (noos)


La parola noos, per come la usa Omero, non è da confondersi con il significato in cui
la stessa parola, translitterata in nous (νοῦς) verrà utilizzata frequentemente nel greco
più tardo: quello astratto di “mente” o “intelligenza”, in un significato analogo al nostro.
È stato messo in dubbio, a partire dal testo stesso dei poemi, che Omero possedesse

56
Iliade, XXII 467 - 475.
57
Iliade, XI 404 - 411. Riassumendo le caratteristiche del thymos omerico, esso è (non in ordine di
importanza): (i) sede e causa di emozioni, sentimenti e desideri; (ii) principio dell’azione umana; (iii) non
è un organo tout court, ma è strettamente collegato all’attività di cuore e polmoni; (iv) fonte dell’energia
che fa vivere (e specialmente muovere) uomini e animali; (v) ciò che non è più presente quando si sviene
(temporaneamente) o quando si muore (per sempre); (vi) ciò con cui (raramente) si delibera su questioni
pratiche; (vii) ciò a cui ci si rivolge al posto di farsi “domande riflessive”.

18
questi concetti astratti (o avesse parole per descriverli). L’unico punto assodato riguardo
al noos di Omero sembra essere che di solito esso ha a che fare con l’ambito della mente
e dell’intellezione: la stessa parola è utilizzata dove noi parleremmo di un “prodotto” o
di un “atto della mente”58 – rispettivamente, come un’idea o l’attività produttiva di
un’idea –, o, più in generale (e a un superiore livello di astrazione), di “mentalità”,
“capacità cognitiva”, “capacità mnemonica”.
I significati di noos privilegiati da Omero sono però quelli meno ampi e astratti,
come ad esempio “piano”, “idea”, “intenzione”. Ad esempio Zeus si rivolge così alla
figlia Atena, che si è lamentata delle sventure di Odisseo: “Figlia mia, che parola ti
sfuggì dal recinto dei denti. Questo noos [piano] non l’hai partorito tu stessa?”.59
Oppure Nausicaa, alla guida di un carro trainato da mule, “le sferzò con noos”,60 cioè le
frustò assennatamente, con in mente il piano di permettere ad Odisseo e alle ancelle di
seguirla a piedi: noos sembra così associato ad una certa pianificazione razionale
rispetto allo scopo, che troviamo applicata in Omero soprattutto in questioni di carattere
pratico. O, ancora, al terzo verso dell’Odissea, ci viene detto che Odisseo “di molti
uomini conobbe le città e i nooi”,61 dove, come è stato notato, bisogna intendere noos
come “mentalità” o “attitudine”.62 E, come nel passo precedente ad uomini diversi sono
attribuiti nooi diversi, la stessa persona può avere un diverso noos a seconda del
momento: “Sciagurato […] non hai capito il noos [piano] del re Agamennone, che
adesso mette alla prova, ma poi punirà i Greci?”63 ammonisce Odisseo; due elementi
che sembrano escludere che con noos si possa indicare semplicemente la mente o
l’intelligenza.
Ma il noos, in quanto capacità cognitiva in generale, può anche essere usato in sensi
abbastanza complessi e astratti, come ad esempio per indicare la capacità di portare alla
mente cose lontane nello spazio e nel tempo, seguendo una famosa similitudine sulla
velocità del pensiero nell’Iliade;64 oppure può essere il luogo metaforico dove si può

58
Snell (1946) p. 35 aggiunge il senso di “avere una chiara rappresentazione di qualcosa”.
59
Odissea, V 23-24. In un senso simile a “piano”, von Fritz 194) p. 83 nomina anche “attenzione” e
“intenzione”.
60
Odissea, VI 320-323.
61
Odissea, I 3.
62
In von Fritz (1943) p. 81. Da notare, come osserva anche il von Fritz, come qui il significato di noos
esuli dall’ambito del solo intelletto.
63
Iliade, II 192.
64
Iliade, XV 80-83 “Come si slancia il noos di un uomo che dopo aver percorso molta terra pensa tra
sé: fossi là, oppure là, e fa molti progetti, così veloce e ansiosa volò la dea Era”. Ma ad esempio il Leaf

19
nascondere un pensiero ad altri (come d’altronde già suggeriva il precedente passo su
Odisseo): “Parla, non tenerlo nascosto nel noos, anch’io lo voglio sapere”65 dice Teti al
figlio Achille, suggerendo che a Omero non fosse del tutto estranea la nozione di uno
spazio mentale privato. Il poeta ci dice poi che anche gli dèi sono dotati di noos, giacché
ci viene detto che “il noos di Zeus è sempre più forte degli uomini”, presumibilmente
nel senso di “capacità intellettiva”.66 Siamo costretti quindi a prendere atto dei diversi
livelli di specificità e astrattezza sui quali può oscillare il significato di noos in Omero.
Come però il thymos, di solito sede dell’emozione e dell’impulso irrazionale, è a
volte sede di conoscenze e ponderazione (vedi § precedente), così anche le funzioni del
noos, di solito intellettuali, talvolta sconfinano nel campo dell’emotività:67 ad esempio
Paride dice di Ettore che “il noos nel suo petto è senza paura”,68 oppure Agamennone
che “gioiva nel noos che i migliori degli Achei contendessero”.69 Sicuramente,
precisiamo questo punto, il noos non si trova in un rapporto di perenne opposizione con
le emozioni, come un certo ideale di razionalità più tardo impiegherà la parola.70
Il noos viene descritto come localizzato nel petto, ma questo è tutto ciò che lo
accomuna a qualcosa di materiale: infatti del noos, al contrario del thymos e della
psychē, non viene mai detto che voli via, esca della bocca o da una ferita, né viene
associato ad un organo corporeo particolare (come il thymos con le phrenes oppure con
l’etor o la kradie).71 Di conseguenza possiamo definire il noos omerico il termine
psicologico più distaccato dalla materialità del corpo, sebbene non abbia il significato
astratto di “mente” tout court che avrà più tardi. Non sono in effetti troppo convinto
che, come afferma lo Snell, il significato di singolo prodotto o atto della mente (ad

(1892) p. 257 sottolinea come questa sia l’unica similitudine o metafora in Omero che abbia come oggetto
il pensiero insieme a Odissea VII 36, facendo presagire che in entrambi i casi si possa trattare di
interpolazioni tarde.
65
Iliade, I 363. Questo tipo di espressione (per altro raro in Omero) ha dato ovviamente da pensare a
coloro che si sono impegnati nel negare all’uomo omerico parte della nostra complessità interiore. Ad
esempio vedi Jaynes (1976) p. 324.
66
O nel senso più ristretto di capacità d’attenzione verso ciò che accade nel mondo, come nota von
Fritz (1943) p. 91.
67
Sebbene anche questo punto sia stato contestato, ad esempio da Joachim Böhme in Die Seele und
das Ich im homerischen Epos (1929), di cui von Fritz (1943) rappresenta un’adeguata confutazione sotto
questo aspetto. Von Fritz sottolinea anche come il vero noein (indubbiamente collegato al sostantivo
noos, sebbene in maniera non limpida) in Omero susciti sempre violente emozioni in chi “guarda”, pp.
85-86.
68
Iliade, III 63. Da Bremmer (1983) p. 57.
69
Odissea, VIII 77-80. Da Bremmer, ivi.
70
Cfr. von Fritz (1943) p. 87.
71
Cfr. Bremmer ivi.

20
esempio un piano, un pensiero) derivi dal significato generale di mente o intelligenza:72
dalle varie occorrenze di noos nei due poemi sembrerebbe più cauto, semmai, ipotizzare
il contrario (ovvero che il noos sia per Omero in primo luogo solo il singolo atto o
prodotto del pensiero e semmai solo secondariamente, per estensione, la facoltà
intellettiva in generale).
Nemmeno sull’etimologia di noos/nous abbiamo certezze. Qualcuno ha tentato di
collegarlo a neomai, “tornare”, altri a neuein, “annuire”, e altri ancora dalla radice snu-,
che sta per “annusare”; tuttavia non ci sono spiegazioni univoche a motivare queste
connessioni.73 È sicuramente più informativo il collegamento con noein, “intendere”,
“penetrare” (e in seguito anche “vedere”),74 rilevato per esempio da Snell, che definisce
quindi il noos “lo spirito [Geist] inteso come sede delle rappresentazioni chiare”, o
anche “quasi un occhio spirituale che vede con chiarezza” (anche Platone, per altro,
assocerà nous ad un occhio spirituale).75 Tuttavia, sebbene la connessione tra noos e
noein sia fuori di dubbio, sono state avanzate ragioni linguistiche che fanno dubitare che
la prima parola possa semplicemente derivare dalla seconda.76
Infine qualcosa sul rapporto del noos con la morte dell’individuo. Il noos non
sembra, nella visione dell’uomo omerico, avere un ruolo specifico nel decesso: non
viene mai rammentato per descrivere il momento della morte, come invece accade per
thymos, psychē e talvolta menos (forse proprio perché poco “immischiato” nella
materia?77), e non è mai rammentato riguardo alle anime dei defunti nell’Ade. Anzi, è
esplicito che le anime nell’oltretomba non abbiano noos, con la notevole eccezione (che
in questo caso conferma davvero la regola) dell’indovino Tiresia: “a lui solo Persefone,
anche da morto, ha concesso il noos, gli altri sono come ombre vaganti”.78 Questo passo
su Tiresia, se non si tratta di un’aggiunta più tarda al poema, ci dimostrerebbe (per

72
Snell (1946) p. 35.
73
Su neomai vedi Bremmer (1983) p. 57. Neuein e snu- sono ad esempio supportati da von Fritz
(1943) p. 92, che privilegia il secondo.
74
Von Fritz (1943) pp. 85-86 offre un’analisi precisa del significato di noein in Omero, ovvero
“comprendere una situazione” o “progettare qualcosa/avere un’intenzione”.
75
Snell (1946) pp. 35-36. Riguardo Platone, in Simposio 219 a; Repubblica 7, 533 d; Teeteto 164 a
(non esplicitamente); Sofista 254 a.
76
In von Fritz (1943).
77
Bremmer (1983) pp. 75-76.
78
Odissea, X 493-5.

21
contrasto) come la perdita del noos nell’aldilà fosse considerata proprio la condizione
usuale dei defunti. Ma torneremo alla descrizione dei morti in § I.10.79

§ I.6 Le φρένες (phrenes)


Rispetto alla triade thymos-noos-psychē, le phrenes omeriche (o, al singolare, phrēn,
φρήν) sono più simili ad un organo corporeo, in maniera simile alle parole “cardiache”
kradìe, ētor e kēr. Anche qui, però, sono associate all’organo corporeo funzioni
intellettive ed emozionali (in misura anzi molto più marcata che per kradìe, ētor e kēr).
Le phrenes hanno anche quello che appare essere un sinonimo,80 prapides, utilizzato più
raramente.
Gli studiosi di Omero sono divisi su quale organo le phrenes designassero di preciso,
se il diaframma o forse i polmoni o magari l’insieme indistinto dei due.81 Vero è che
negli scritti ippocratici (V-IV sec. a.C.) e in Platone si utilizzeranno le phrenes per
indicare il solo diaframma:82 di conseguenza, alla luce di entrambe le informazioni, è
lecito supporre che esse dovessero avere a che fare con la respirazione anche in Omero.
Le phrenes, spesso descritte – abbastanza misteriosamente – come “nere”,83 ci sono
presentate come sedi del pensiero e dell’intelligenza, ma al contempo ci è anche
ricordato che il thymos si trova nelle phrenes: il legame tra phrenes e thymos pare essere
fisiologico, oltre che linguistico (essi appaiono molto spesso associati in formule fisse

79
Riassumendo, il noos assomma in sé le seguenti caratteristiche: (i) È traducibile come prodotto o
atto dell’intelletto, come facoltà mnemonica, capacità intellettiva; (ii) viene perduto al momento della
morte; (iii) talvolta è anche sede di emozioni.
80
Così interpreta Onians (1951) pp. 28-30 , mi pare correttamente. Cfr. Bremmer (1983) p. 62. In ogni
caso, dal contesto d’uso mi pare legittimo considerarli – se non sinonimi – almeno molto vicini nel loro
designatum.
81
Bremmer (1983) p. 62. Non è comunque troppo importante la loro collocazione precisa, dal
momento che sappiamo che vengono tendenzialmente trattate come un organo. Onians è tra quelli che
interpretano le phrenes come i polmoni. In ogni caso ogni designazione è problematica: con quella nel
diaframma, si entra in contrasto con l’immagine delle phrenes come contenitore, come ci sono presentate
talvolta; d’altra parte l’identificazione coi polmoni suscita perplessità perché per tutti gli altri organi
principali la terminologia omerica è rimasta invariata fino ai testi medici del V-IV sec. a.C. . Inoltre
Omero sembra sembra già possedere un’altra parola per i polmoni, pneumon, sebbene essa occorra solo
una volta (in Iliade IV 529). Cfr. Stefanelli (2010) pp. 20-23. Stefanelli esclude l’accezione di polmoni,
affermando che “Фρήν nоn è quіndі а lіvеllо оmеrісо іdеntіfісаbіlе соn un оrgаnо рrесіѕо е ѕоlо соl CH
[Corpus Hippocraticum] eѕѕо іndіvіduеrà еѕрlісіtаmеntе іl dіаfrаmmа” (p. 22).
82
Onians (1951) p. 23. Per Platone: Timeo 70 a.
83
Che esse infatti designino il diaframma o i polmoni, non è immediatamente comprensibile cosa vi
sia di colore così scuro in questi due organi. L’etimologia non ci aiuta, dato che non la consociamo,
sebbene essa debba essere collegata al verbo phroneo (in seguito “pensare”) cfr. Stefanelli (2010) p. 2 e
pp. 23-24

22
del tipo “nel thymos e nelle phrenes”). Nelle (o per mezzo delle) phrenes quindi si
riflette,84 ma ad esempio si può anche, attraverso di esse, provare pietà
(presumibilmente attraverso la mediazione del thymos che vi risiede).85 Inoltre esse sono
ciò che viene persuaso quando qualcuno ci convince a fare qualcosa.86 Queste funzioni
intellettive sembrano sovrapporsi parzialmente a quelle del noos, sebbene sia stato
notato come quest’ultimo sia più legato alla presentazione di immagini (ricordi, una
visione chiara della situazione, fatti futuri) mentre le phrenes alla riflessione su quelle.87
Insieme al thymos, le phrenes sembrano anche avere un ruolo primario nel
“funzionamento” fisiologico dell’uomo omerico, oltre che nei riferimenti alla sua
“interiorità”.88
È poi interessante ricordare, come ha osservato Onians, che le phrenes sono descritte
in Omero e nella letteratura successiva (fino a Platone) come quella parte del corpo
dove primariamente si manifestano gli effetti delle bevande alcoliche. Questo ci
dimostra, dato il forte collegamento tra intossicazione da alcol e alterazione della mente,
quanto fosse radicata l’associazione delle phrenes (che siano esse il diaframma o i
polmoni) con l’attività mentale.89 È sempre Onians, infatti, a notare come anche il
sonno, sia in Omero che successivamente, sia spesso descritto con una serie di metafore
attinenti al liquido, all’atto di versare qualcosa: sonno e ubriachezza – le occasioni più
comuni dove la mente “recede” – sono così entrambi associati ad un liquido che rende
umide le phrenes (per converso, la secchezza delle phrenes avrebbe indicato quindi lo
stato di piena coscienza).90 Non ultimo, è da notarsi che l’affievolirsi della respirazione
durante il sonno rimarca ulteriormente il collegamento con un organo del respiro.91

84
Iliade, X 4 “ponderando molte cose nelle sue phrenes”.
85
Iliade, VIIII 202.
86
Iliade, VI 61 “persuase le phrenes di suo fratello”.
87
Cfr. Bremmer (1983) pp. 61-62; Snell (1946) pp. 34-35.
88
Stefanelli (2010) definisce phrenes “le caldaie del corpo” (p. 51) ma afferma anche che “ Фρήν е
θυµός [..] ѕі роngоnо іnѕіеmе аl сеntrо dеll’uоmо ‘іntеrіоrе’: еѕѕі соѕtіtuіѕсоnо іl nuсlео dі un ѕé lа сuі
іntеrіоrіtà è рrіmа dі tuttо fіѕіса” (p.19).
89
Anche Saffo fa un uso analogo delle phrenes, che sono scosse dall’impulso erotico (Eros) “come
vento sul monte che irrompe entro le querce”. Ciò non ci stupisce, perché anche l’impulso erotico
provoca in certi casi un’alterazione della mente. Frammento 50 in Savino (2002) p. 25.
90
Onians (1951) pp. 31-38.
91
Riassumendo, le phrenes (o prapides) hanno in Omero le seguenti caratteristiche: (i) corrispondono
al diaframma o ai polmoni; (ii) sono la principale sede del pensiero; (iii) sono sede del thymos e, di
conseguenza, di emozioni e sentimenti.

23
§ I.7 Il Mένος (menos)
Il menos rappresenta un discorso a parte, dato che esso non è un vero e proprio
organo corporeo, né qualcosa di paragonabile al thymos o al noos. Esso è più vicino ad
uno stato d’animo di particolare esaltazione92 e può essere tradotto, a seconda dei
contesti, come “furia”, “furore”, “impulso” o “forza”. “E tu smetti il tuo menos [furore],
figlio di Atreo” dice Nestore ad Agamennone durante la lite con Achille.93 Oppure la
furia guerriera di Diomede è così riferita ad Ettore:

Neanche di Achille, […]


che pure dicono figlio di una dea
abbiamo mai avuto tanta paura;
quest’altro [Diomede] infuria
e nessuno può uguagliare il suo menos.94

In quest’ultimo caso, menos è molto simile alla lyssa, il tipo di furia cieca e selvaggia
che descrive sia l’animale rabbioso sia il guerriero invasato dal sangue. Il menos è anche
simile ad una forza che può venire infusa nel thymos, nei momenti di difficoltà (ma può
trovarsi anche nel petto, stethos, o nelle phrenes). Così nell’Odissea: Atena vuole
restituire la forza all’anziano Laerte e così soffia “menos dentro di lui [..]”;95 oppure
nell’Iliade, quando Apollo ascolta le preghiere di Glauco e infonde “menos nel suo
thymos”. 96
L’esempio di Atena dimostrerebbe come il menos fosse considerato una sostanza
gassosa come il respiro, e non a caso Bremmer collega etimologicamente il menos dei
greci all’indiano manas e al persiano manah, termini tutti accomunati dall’associazione
con un certo tipo di respirazione (sebbene l’importanza di queste parole nelle religioni
orientali non sia paragonabile al ruolo modesto che menos ha per i greci).97 Seguendo
quest’etimo, il menos sarebbe quindi facilmente associabile anche al ritmo velocizzato
del respiro in chi è colto dalla rabbia o dal furore.

92
Così in Dodds (1951) pp. 50-51. Dodds procede paragonando il menos ad altri stati d’animo
eccezionali quali l’ate.
93
Iliade, I 282.
94
Iliade, VI 99-101.
95
Odissea, XXIV 520.
96
Iliade, XVI 529.
97
Bremmer (1983) p. 60.

24
Infine, menos è la terza tra le ipostasi psicologiche omeriche ad essere associata alla
descrizione della morte, insieme a thymos (vedi sopra) e a psychē (vedi sotto). Ad
esempio, così è descritta la morte di Pandaro:

[…] cadde dal carro, e sopra di lui tintinnarono le sue armi ornate, splendenti, e s’impennarono i
cavalli veloci: a lui si sciolsero il menos e la psychē.

E anche se menos ha senz’altro un ruolo secondario nella descrizione della morte,


talvolta le anime dei defunti sono descritte come “teste senza menos”,98 espressione
poco intellegibile che era già considerata misteriosa da Aristofane (IV sec. a.C.).99

§ I.8 La ψυχή (psychē)


Ho riservato alla psychē l’ultimo posto di questa breve ricognizione dei vocaboli
psicologici in Omero non perché sia meno “importante” delle altre parole. Al contrario,
affronterò adesso questa parola proprio perché essa – senza dubbio il termine chiave di
tutto questo lavoro – possa poi guidarci alle nostre prossime tappe.
Ho già fatto intendere che nel greco classico psychē rappresenterà una traduzione
quasi esatta del nostro “anima”, e che anche nel greco di Omero questa corrispondenza
non è così scontata. Cerchiamo adesso di capire meglio come viene usato questo
termine – senz’altro il più complesso tra quelli visti finora – nell’Iliade e nell’Odissea.
Potremmo dire che il concetto omerico di psychē sia composto da due aspetti: il
rapporto della psychē con l’essere umano in vita e quello con il deceduto.100
Partiamo dalla vita: psychē non è una parola che Omero usa per descrivere il
quotidiano dell’uomo. Non è sede né di emozioni come il thymos, né di pensiero come il
noos e le phrenes. Che si dorma o si sia svegli, tutto ciò che sappiamo sulla psychē è di
possederne una in quanto esseri umani (infatti gli animali ne sono sprovvisti) e che,

98
Odissea X, 493, 495, 521, 536.
99
Bremmer (1983) p. 84. Riassumendo, il menos di Omero ha le seguenti caratteristiche: (i) non è un
organo né un’anima, bensì piuttosto uno stato d’animo o una condizione psicofisica; (ii) è associato al
furore guerriero e alla forza; (iii) viene perduto al momento della morte; (iv) è anche associato al respiro.
100
Non ritengo di primaria importanza il decidere se la psychē sia più legata all’ambito della morte o a
quello della vita, come ad esempio fa Stefanelli (2010) p. 141 e seguenti (concludendo che il suo dominio
è la vita). D’altronde i due campi sono strettamente collegati, non essendo da escludersi a priori che, ad
esempio, l’associare spesso psychē alla vita possa essere un modo per sottolineare che quando è assente
siamo morti (e viceversa).

25
quando moriremo, essa volerà via e avrà dimora nelle profondità dell’Ade (Ἅιδης,
Háidēs). È già piuttosto chiaro dall’incipit dell’Iliade che se la psychē ci lascia
definitivamente, significa che siamo morti.
Il rapporto dell’uomo vivente con la psychē è chiaramente orientato verso la
principale caratteristica che lo differenzia dagli dèi, la mortalità. Non è fatto da poco
che, fino a Platone, non ci sia un singolo caso in cui la psychē viene attribuita agli
dèi.101 Ci basti sapere che, su trentatré volte in cui la parola psychē è usata nell’Iliade,
ben ventinove hanno direttamente a che fare con l’evitare o l’andare incontro alla morte.
Delle rimanenti occorrenze di psychē, in una Ettore chiede ad Achille di giurare sulla
propria psychē che il suo cadavere venga restituito alle cure paterne (giuramento che,
per inciso, è rifiutato dal Pelìde); in un’altra Achille ci informa che una volta che la
psychē ha passato il “recinto dei denti”, essa non può più tornare indietro; una è
l’occasione dello svenimento di Andromaca (vedi sopra), dove ci viene detto che ella
cadde “come esalando la psychē” (un uso quindi metaforico, per indicare che cadde
come morta).102 Infine abbiamo il caso dello svenimento di Sarpedonte, il caso più sui
generis, perché ci viene detto letteralmente che gli “venne meno la psychē”.103 Tuttavia
non vedo perché anche in questo caso non possa trattarsi di un’espressione metaforica.
Possiamo in ogni caso affermare con convinzione che il rapporto dell’uomo omerico
vivente con la sua psychē si esaurisce essenzialmente nel perderla.

101
Cfr. Davis (2011) p. 8. Per Platone, i passi in cui avviene questa attribuzione (secondo Davis da
leggersi in chiave “ironica”) sono Eutidemo 302d1–302e3, Simposio 195e4–7, Timeo 29d7–30c1 e
40b8–41a6; Fedro 245c.
102
Le occorrenze di psychē nell’Iliade: I.3, 296, 654, 696, VII.330, VIII.123, VIII.315, IX.322,
IX.401, IX.408, XI.333, XI.445, XIII.763, XI518, XVI.453, XVI.505, XVI.625, XVI.856, XXI.569,
XXII.161, XXII.257, XXII.325, XXII.338, XXII.362, XII.467, XXIII.54, XXIII.72, XXIII.100,
XXIII.104, XXIII.106, XXIII.221, XXI168, e XXI754. Questo elenco e le osservazioni precedenti
provengono da Davis (2011), p. 9.
103
Iliade, V 695.

26
§ I.9 La psychē dei vivi
Riguardo all’etimologia di psychē, sembra esservi una forte tendenza tra gli studiosi
verso la derivazione dal verbo psychēin, “respirare”, “soffiare”;104 sebbene, come si
vedrà anche in seguito, ci sia anche chi la collega a psychron, “il freddo”.105 Benché il
collegamento con l’atto del respiro sia senza dubbio il più evidente nell’uso che Omero
ancora fa della parola psychē (vedi sotto), Platone collegava entrambe le etimologie,
quando, nel Cratilo, si esprimeva così attraverso Socrate:

Io penso che quelli che attribuiscono all’anima il nome di psychē abbiano pressappoco stimato
che questa è la parte che quando è presente nel corpo è quella che è cagione di vita per lui,
procurandogli la capacità di respirare (anapnein) e rinfrescandolo (anapsychon) […]106

Anche Aristotele propone un collegamento etimologico simile nel De Anima, quando


afferma, esponendo le teorie sull’anima di alcuni suoi predecessori:

[…] Essi anzi ricavano le loro dottrine dai nomi, alcuni asserendo che l’anima è il caldo, giacché
la parola zen (vivere) deriva da zein (bollire), altri che è il freddo, perché è stata chiamata anima
(psychē) a motivo della respirazione e del raffreddamento (katapsyxis).107

Nonostante qui Aristotele non riveli la sua posizione su queste ipotesi etimologiche, egli
comunque (i) ci dà una conferma che l’etimo di psychē legato al “freddo” era piuttosto
popolare nel periodo classico108 (qui presentato nel quadro più generale di una
dicotomia caldo-freddo);109 e (ii) sottolinea il collegamento della psychē col concetto di
vita: non nella dimensione esistenziale e dell’esperienza soggettiva, bensì come il mero
fatto biologico di “essere in vita”.110

104
Cfr. Bremmer (1983) p. 21-22; Onians (1951) p. 93 ; Snell (1946) p. 279.
105
Ad esempio Vernant (1965) p. 353-4, Stefanelli (2010) p. 170. Vedi anche sotto.
106
Cratilo 399 d. Da notare, però, come poco dopo (399 e-400 b) si proponga un’altra derivazione,
ritenuta da Socrate migliore della precedente.
107
De Anima 405 b 26-30. Cfr. anche Aristotele Resp. 478b, 479а, 479а (da Stefanelli, 2010 p. 145).
108
E, premesso che gli antichi tendevano in generale a ricostruire le etimologie molto liberamente, di
solito gli etimi da loro scelti tendevano ad essere fortemente legati semanticamente alla parola da
derivare. Si tendeva quindi a trovare l’etimo che spiegasse meglio il senso (corrente) di un termine, senza
troppo curarsi della reale evoluzione storica del lemma.
109
Sul valore di questa dicotomia nella psicologia e fisiologia omerica, si veda Stefanelli (2010),
soprattutto le pagine sulle phrenes (pp. 44-89), definite “caldaie del corpo”, e sulla psychē (pp. 189-185)
(vedi infra).
110
Uno degli obiettivi di Aristotele nel De Anima è ricercare se esista una definizione unitaria di
psychē che si adatti a ogni tipo di vivente, dalle piante agli esseri umani. D’altronde, il vivente è

27
Quest’accezione di “vita” – la cui definizione generale è ancora oggi al centro del
dibattito in biologia – era collegata alla parola “psychē” già ai tempi di Omero. A sua
volta, il nostro uso di “vita” (in questo senso limitato) è molto simile a certi aspetti della
psychē omerica: anche noi parliamo talvolta di “giurare sulla nostra vita”, o magari di
“dare la vita”, come facevano Achille ed Ettore con le loro psychai, e – esattamente
come accade in Omero per “psychē” – è difficile sentir parlare di “vita” in questo senso
se non per descrivere il rischio di perderla o il fatto che essa è stata perduta (da qualcun
altro, a meno che non siate residenti dell’Ade).111 D’altronde esiste anche un’altra
espressione italiana molto simile alle espressioni omeriche per la morte, cioè il “venire
lasciati dalla vita” (“La vita lo lasciò..”), come se la vita fosse una sostanza a sé stante
che si allontana da noi; un uso che con molta probabilità non è da spiegarsi, alla sua
origine, diversamente da quello greco arcaico della morte come perdita della psychē .
Adesso che abbiamo tracciato questo confronto tra “psychē”e “vita”, possiamo forse
comprendere meglio un altro aspetto che le accomuna: la psychē di Omero non è
collegata alla personalità dell’individuo durante la vita, non interagisce con l’individuo
come abbiamo visto ad esempio per il thymos. Inoltre (e soprattutto) gli uomini e donne
omerici chiaramente non si identificano con la propria psychē, proprio come noi non ci
identifichiamo con la (nostra) vita intesa come fatto puramente biologico – ammesso
che ci si possa identificare con un fatto. È piuttosto un altro problema da discutere con
cosa essi esattamente si identificassero, in maniera analoga alla nostra tendenza a
identificarci con la mente: forse un’altra delle “anime” di cui abbiamo parlato? Il loro
insieme? Nessuna di queste. Possiamo anticipare già qui che l’uomo si identifica,
almeno mentre vive, con se stesso, cioè con quell’intero atomico che è l’uomo vivente
(ciò che noi descriveremmo, nei nostri termini dualisti, come il composto di anima e
corpo). Ma torneremo al problema dell’identità in seguito.
Bremmer ha osservato come talvolta Omero abbini la perdita della psychē a quella
dell’aion, un termine di solito tradotto come “forza vitale”; associazione che a questo
punto non ci stupisce più di tanto. Dobbiamo in ogni caso registrare come Omero non
avesse un vocabolario perfettamente coerente per parlare della forza vitale (quella forza

semplicemente quel “corpo naturale” che ha la capacità di “nutrirsi da sé, di crescere e di deperire” (De
Anima 412 a 13-15).
111
A dirla tutta, noi parliamo anche di “dare la vita” nel senso di far nascere qualcosa, aspetto che non
mi pare in evidenza in Omero. È appannaggio dei mortali quello di donare la vita?

28
che ci tiene in vita), giacché a volte essa è il thymos, a volte il menos, a volte l’aion e
talvolta persino la psychē.112
Achille ci ha poco fa informato che la psychē non si allontana mai temporaneamente,
come invece fa il thymos: una volta che ci lascia (lascia il “recinto dei denti”), quindi,
essa non può più tornare indietro. Perdere la psychē è, secondo questa opinione, un
perfetto sinonimo della morte. Così, ad esempio, è descritto il trapasso del valoroso
Ettore: “[…] mentre così diceva, la morte (thánatos) lo avvolse: la psychē lasciò le
membra e volò nell’Ade, piangendo il suo destino, lasciando la forza e la
giovinezza”.113 Ma ciò che Achille ci ha detto sembra contraddire ciò che ci viene detto
in altri passi dei poemi, dato che Omero parla talvolta di perdita della psychē durante gli
svenimenti (senza per altro menzionarne mai il ritorno, che si dà ragionevolmente per
scontato),114 come ad esempio nel caso già ricordato di Sarpedonte (vedi sopra).
Sebbene non si possa escludere categoricamente che in questi casi Omero parli
letteralmente di “perdita temporanea della psychē”, l’uso più frequente di psychē
(l’associazione con la morte) farebbe propendere verso un’interpretazione non letterale
di tali descrizioni; usate, quindi, solo per rimarcare che il personaggio svenuto sembra
davvero morto. D’altronde, nel nostro linguaggio quotidiano esistono formule simili,
usate anch’esse in maniera non letterale: ad esempio, sebbene non si dica letteralmente
“la vita mi ha lasciato” se siamo semplicemente svenuti, si adopra usualmente l’iperbole
“sono morto/a” per sottolineare che siamo davvero molto stanchi. Oppure non si
dimentichi il termine “es-anime” (riferibile sia ad uno svenuto che ad un cadavere), che
– benché oramai espressione inusuale – è un calco quasi perfetto del modo di esprimersi
omerico.
Ad ogni modo, consideriamo che non sarebbe poi troppo grave se riscontrassimo una
piccola contraddizione nelle affermazioni di Omero: che la psychē se ne vada solo alla
morte o che si allontani anche durante lo svenimento, il senso di entrambi i casi è che,
ogni qual volta quest’anima si allontana da noi, ci ritroviamo o come morti o morti
letteralmente.
Per altro, analizzando le espressioni greche che Omero sceglie per descrivere questi
svenimenti, troviamo conferme dell’etimologia “respiratoria” di psychē da psychēin: per

112
Cfr. Bremmer (1983) p. 15-16.
113
Iliade, XXII 361-364.
114
Bremmer (1983) p. 13.

29
esempio, nel caso dello svenimento di Andromaca (citato sopra), il verbo utilizzato per
“esalare la psychē” è ekapysse, di solito associato al fumo,115 come al fumo sono
direttamente paragonate talvolta le psychai116 dei morti, come vedremo tra poco.
Infine, dove si trova la psychē nell’uomo vivente? Ciò che Omero dice
esplicitamente è solo da dove l’anima ci lascia: ad esempio la psychē può lasciarci dalla
bocca (il caso che più ci riporta all’etimo),117 da una ferita118 o, più indefinitamente, dal
petto o “dalle membra”.119 Tuttavia non veniamo mai informati esplicitamente su quale
sia la sua collocazione nel corpo dell’uomo durante la vita. Alcuni studiosi120 hanno
tuttavia avanzato l’ipotesi, a mio parere ben fondata nel testo omerico, che la sede della
psychē fosse immaginata nella testa, kephalé (κεφαλή). Una buona ragione a sostegno di
questa tesi è che psychē e “testa” sono usati talvolta intercambiabilmente: per esempio,
la celebre espressione dell’incipit dell’Iliade sul “mandare molte forti psychai all’Ade”
è ripetuta in seguito come “ mandare molte teste [kephalas] forti all’Ade”.121 Si veda
inoltre l’espressione “teste senza menos” che talvolta designa le anime dei defunti (vedi
sopra).122

§ I.10 La psychē dei morti


Adesso che abbiamo introdotto la psychē, la morte dei personaggi omerici può essere
descritta finalmente in tutti e tre i suoi aspetti: la perdita (o dispersione) del menos e del
thymos e l’andarsene nell’Ade della psychē.

115
Bremmer (1983) p. 22.
116
Ad esempio Iliade XXIII 99-104
117
Ad esempio in Iliade, IX 409. Questo elemento, insieme all’etimologia della respirazione e al
contesto, ha fatto supporre a molti che psychē sia primariamente l’ultimo respiro del moribondo.
118
Iliade, XVI 518.
119
Rispettivamente: Iliade, XVI 505 e XVI 856
120
Ad esempio Onians (1951) pp. 95-96 e Bremmer (1983) pp. 15-166. Anche l’importanza attribuita
in Omero allo starnuto, ad esempio in Odissea XVII 539 (e sgg.), è stata letta da Onians (pp. 103 – 105)
come conferma della sua tesi cefalocentrica. Tuttavia lo starnuto coinvolge sì la testa, ma consiste in aria
espulsa violentemente dai polmoni: non è allora detto che sia necessario dare un’importanza particolare al
capo piuttosto che a questi ultimi. In ogni caso la tesi di Onians rimane a mio parere solida.
121
Iliade, XI 55. Da Bremmer (1983) p. 16, che nota anche come un’antica variante dello stesso
incipit reciti proprio “teste” al posto di “anime”.
122
Riassumendo le caratteristiche della psychē omerica finché l’uomo è in vita, (i) essa non si
identifica con “l’essenza della persona”, non interagisce col carattere o con la personalità del vivente; (ii)
la sua presenza nel corpo è condizione necessaria per la vita; (iii) Quando essa abbandona il corpo (dalla
bocca, da una ferita dal petto..), esso rimane esanime. Se lo lascia solo temporaneamente si tratta di
svenimento, se lo lascia definitivamente, di morte; (iv) è probabile che la psychē fosse localizzata
abitualmente nella testa; (v) ha ancora un forte collegamento con la sua etimologia (respiro), è
immaginata come sostanza gassosa.

30
Psychē è però l’unica parola, tra tutte quelle della “famiglia” di ipostasi psicologiche
di Omero, ad essere coinvolta regolarmente anche nella descrizione di ciò che rimane
dell’individuo dopo la morte.123 In effetti finora abbiamo taciuto del destino ultimo
dell’uomo omerico. Cosa vedeva, dunque, l’eroe dell’età arcaica all’estremo orizzonte?
Il mondo in cui i poemi omerici sono ambientati (soprattutto l’Iliade, il racconto di
una guerra) è dominato dalla violenza: rischiare la vita è all’ordine del giorno. Non è
questa la sede per un’analisi approfondita del tipo psicologico dell’eroe. Ci basti il
passo citato all’inizio di questo capitolo, che ripropongo qui di seguito, per avere
un’idea della mentalità imperante tra i personaggi omerici:

Si possono conquistare i buoi e le pecore grasse,


si possono acquistare i tripodi e le bionde criniere
dei cavalli, ma la psychē (vita) di un uomo non si può conquistare
ne prendere perché torni indietro, quando è uscita di bocca.
[…] se resto qui a combattere […]
è perduto per me il ritorno, ma avrò gloria immortale:
se invece torno a casa, alla mia patria,
è perduta per me la nobile gloria […].124

Achille si mostra qui ben conscio di quale sia la sua tragica situazione: da un lato la vita
nella terra natia (Ftia), tranquilla ma anonima (nel caso decidesse di tornarsene a casa);
dall’altro la guerra e l’agognata fama immortale, ma anche il rischio di morire e di veder
“perduto il ritorno” per sempre. Poco importa se Achille aveva – informato del suo
destino dalla madre Teti – la certezza della morte,e questa non costitutiva un semplice
rischio, in caso fosse rimasto a combattere a Troia: ciò toglie poco al pathos della
mortalità che questo monologo esprime così efficacemente (anzi, semmai lo
aumenta).125
Gli esseri umani di Omero sono chiamati brotoi, un termine collegato alla loro
irreparabile mortalità (brotos/βροτός significa “mortale”, “perituro”). Persino nel nome
essi sono contrapposti agli dèi, gli athanatoi (letteralmente: gli “immortali”, da
thànatos, “morte”) o ambrotoi (i “non-perituri”), che non a caso bevono abitualmente il
nettare o l’ambrosia, la bevanda che rende immortali. Per gli uomini, effimere
123
Eccettuato, ricordiamo, il caso di Tiresia, a cui viene attribuito un noos imperituro (vedi supra).
124
Iliade, IX 406-415.
125
Si vedano le belle pagine di Vernant sul tema della “bella morte” dell’eroe, Vernant (1999) pp. 87-
91 “volersi immortali significa, in parte, accettare di perdere la vita prima ancora di averla pienamente
vissuta”.; oltre che alla panoramica generale sulla condizione umana in omero in Vernant (1989) pp. 8 –
14.

31
creature126 continuamente minacciate dalla loro fine inevitabile, c’è un solo modo di
riscattare la propria esistenza dalla morte: la gloria immortale, che si conquista
compiendo gesta eroiche. Achille è perfettamente conscio del dilemma che gli si pone
davanti: gloria che conduce alla morte ma che al contempo rende eterni, oppure una vita
tranquilla e lunga ma finita, condannata all’annichilimento completo al momento della
scomparsa? Così ragiona ad esempio anche Ettore, quando lascia la moglie e il
figlioletto per scendere in battaglia, andando incontro ad un destino già segnato.
Ma torniamo alla nostra psychē: se abbiamo brevemente divagato sul “tipo
psicologico”127 dell’uomo omerico, è stato solo per rimarcare quanto l’esistenza di
questi personaggi manchi delle prospettive consolatorie di “vita immortale dell’anima”,
come ne parleranno, qualche secolo dopo, Platone e in seguito il cristianesimo. Eppure,
si protesterà, abbiamo parlato di un mondo dell’Oltretomba e di un’esistenza dopo la
morte della psychē. Dobbiamo quindi smentire quelle precedenti affermazioni?
Effettivamente alcuni qui hanno visto una sorta di contraddizione: la vita dell’uomo
omerico finisce con la morte o continua nell’Ade sottoforma di psychē? Così per
esempio il Rohde, capostipite di questo tipo di studi:

Ma che segue? Che accade quando la vita fugge per sempre dal corpo esanime? È strano che si sia
potuto affermare recentemente che, in qualche stadio della poesia omerica, appaia la credenza che
la morte ponga fine a tutto e nulla le sopravviva.[…] Si dovrebbe considerare che non può affatto
essere un nulla ciò che può entrare nella tenebrosa profondità [dell’Ade].128

La logica del Rohde è qui difficilmente attaccabile. Se qualcosa permane dell’uomo


dopo la sua morte, quel qualcosa non può essere un semplice nulla. La psychē deve pur
avere una qualche consistenza, una sua propria ontologia. Ma dobbiamo parimenti
registrare che la credenza nella sopravvivenza della psychē non sembra recare alcun
conforto all’uomo omerico. Citerò a questo proposito un passo esemplare: nel libro XI
dell’Odissea, Odisseo evoca i morti attraverso un rito negromantico, al fine di chiedere
consiglio all’anima dell’indovino Tiresia. Incontrata l’anima di Achille, Odisseo cerca

126
A proposito della fragilità umana nella visione del mondo omerica c’è un passo meritatamente
celebre,che merita di essere citato: “Come è la stirpe delle foglie” – dice Glauco a Diomede – “ così
quella degli uomini. Le foglie il vento le riversa per terra,e altre la selva fiorendo ne genera, quando torna
la primavera; così le stirpi degli uomini, una cresce e l’altra declina”. Iliade, VI 146 sgg. .
127
Qui intendo “psicologico” come lo si usa abitualmente al giorno d’oggi.
128
Rohde (1894) vol. I p. 3. (corsivo mio).

32
di consolarlo della sua sorte (“non t’angusti, Achille, la morte”); tuttavia il Pelìde non
sembra persuaso, e risponde:

Non abbellirmi la morte, illustre Odisseo.


Preferirei, infatti, servire da bracciante un altro uomo,
un uomo senza podere e che non avesse molta roba;
piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti.129

Se nemmeno Achille, che (a detta di Odisseo) ha “grande potere anche tra i morti”,130 è
soddisfatto della sua esistenza nell’Ade, non doveva esservi molto di cui confortarsi per
la persona comune all’approssimarsi dell’estrema soglia. Ma in cosa consiste questa
ulteriore esistenza sotterranea (l’Ade è infatti localizzato sottoterra)? Analizzeremo a
questo proposito due passi molto informativi: per il primo, rimaniamo al libro XI
dell’Odissea, quando, bevuto il sangue sacrificale che permette la comunicazione coi
vivi, la psychē della madre di Odisseo descrive così la condizione umana dopo la morte:

[…] la legge dei brotoi [mortali] è questa, quando si muore:


i nervi non reggono più la carne e le ossa,
ma la furia violenta del fuoco ardente131
li disfa, appena il thymos abbandona le bianche ossa

129
Odissea, XI 488-491.
130
Pochi versi sopra, XI 482-486“Nessuno più di te beato, o Achille, in passato e in futuro: prima
infatti, da vivo, ti rendevamo onori di dèi noi Argivi, e ora hai grande potere (mega kratos) tra i morti qui
dimorando”. Omero sta probabilmente usando qui una licenza poetica. Sembra poco coerente con ciò che
sappiamo sull’Ade omerico che le anime di singoli individui, benché eccezionali in vita, possano detenere
qualche forma di potere sulle altre anime o di vigoria fisica (kratos si può tradurre in entrambi i modi).
Come vedremo in seguito, però, questa non è l’unica incoerenza del libro XI dell’Odissea.
131
Mi pare molto probabile che il fuoco in questione sia quello della pira funebre (nel mondo omerico
i morti si bruciano), che avrebbe quindi il ruolo di separare definitivamente la psychē dal soma. Quella del
ricevere gli adeguati riti funebri doveva essere una preoccupazione reale per il greco arcaico, come
testimoniano anche il passo successivo su Patroclo e le richieste dell’anima di Elpenore in Odissea XI 70-
78: era infatti credenza comune che gli spiriti dei morti a cui veniva negato il funerale fossero respinti alle
porte dell’Ade, venendo così intrappolati in un’insopportabile esistenza inframondana. Da qui, ad
esempio, la motivazione per cui Achille non vuole dare al fuoco il cadavere di Ettore (e anzi intende
lasciarlo in pasto ai cani), oppure del comune spauracchio greco della “morte in mare” (Bremmer 1983 p.
90). Cfr. Stefanelli (2010) p. 171 nota 81. Il ruolo del fuoco funebre potrebbe anche avere a che fare col
parallelo recupero di “vita” quando le psychai bevono il sangue (elemento corporeo) e soprattutto con il
fatto che gli ancora non bruciati Patroclo ed Elpenore non hanno bisogno di bere per parlare.
L’importanza della degna sepoltura era ancora viva (almeno tra il popolo) ancora nel IV sec. a.C. , come
ci testimonia Platone in Leggi 855 a, 873 c e 909 c (negazione della sepoltura come pena per alcuni
crimini).

33
e la psychē vagola, volata via come un sogno [oneiros].132

Questa descrizione vuol anzitutto sottolineare la distanza incommensurabile tra la vita


“alla luce”133 (cioè da vivi) e quella nelle tenebre dell’Ade: non appena la psychē si
separa dalle “bianche ossa”, metonimia per il cadavere, la sua consistenza è come quella
di un sogno, mentre il “disfarsi” del corpo (“i nervi non reggono più”) è sia un
riferimento al reale disfacimento del cadavere, sia una metafora per la condizione di
assoluta debolezza e impotenza delle anime dei defunti. La psychē omerica non sarà
forse nulla, ma ciò nonostante (come osservava il Rohde) essa è quasi nulla.
Le anime dei defunti non hanno nemmeno una vera e propria consistenza materiale:
poco prima del passo citato sopra, Odisseo aveva tentato inutilmente di abbracciare la
psychē della madre, ma: “tre volte tentai […], e tre volte mi volò dalle mani simile ad
un’ombra o ad un sogno”.134 Il secondo passo cruciale per la condizione delle anime dei
defunti si trova invece nell’Iliade, quando il fantasma di Patroclo appare di notte ad
Achille, esortandolo a rendere i dovuti onori al suo cadavere, organizzandogli un degno
funerale:

Ed ecco mi venne in sogno la psychē del povero Patroclo,


in tutto uguale a lui nella figura, negli occhi bellissimi, nella voce […].
“Seppelliscimi al più presto, e io passerò le porte dell’Ade,
da cui mi escludono le psychai, simulacri [eidola] dei morti […]”

Achille, commosso dall’apparizione dell’amico fraterno, tenta quindi di abbracciare


questa perfetta replica di Patroclo, ma senza fortuna (come accade ad Odisseo con la
madre):

Così dicendo, [Achille] protendeva le braccia,


ma non lo afferrava: la psychē sparì stridendo
sotto terra, simile a fumo, e Achille si alzò stupito;
batté le mani e disse con gran pena:

132
Odissea, XI 218 - 222. Cfr. il frammento 58 di Saffo, che recita: “E sconosciuta anche tra le case
dell’Ade, andrai qua e là tra oscuri morti svolazzando”: questo tipo di descrizione dell’Ade e dei suoi
“abitanti” non è quindi presente solo in Omero. Savino (2002) p. 26.
133
Così nel verso successivo (223).
134
Odissea, XI 204-208. Ritorna la similitudine col sogno, sulla quale ritorneremo.

34
“Ahimè, resta dunque nella casa dell’Ade
la psychē e il simulacro [eidolon], ma dentro non ci sono più phrenes”.135

La parola chiave è qui proprio eidolon (εἴδωλον), che letteralmente significa


“immagine”, nel senso dell’immagine di qualcosa, e quindi non coincidente con ciò di
cui è l’immagine. La parola, sopra tradotta come “simulacro”, è usata già in Omero in
un significato specifico, quello di “doppio”, “replica”, “copia” qualcosa che appare del
tutto uguale all’originale ma che è sostanzialmente diverso da esso. Quando essa non è
riferita alla psychē di un defunto (si noti infatti che non è mai utilizzata in Omero per
descrivere la psychē dei vivi), è usata per descrivere un tipico stratagemma che le
divinità usano per aiutare i loro protetti umani: creare un loro eidolon, un “sosia”, che
agisca al posto loro e che inganni il nemico.136 Così le psychai dell’Ade omerico si
configurano abbastanza chiaramente come “doppioni dei vivi”, con un’altrettanto chiara
connotazione negativa: il doppione è irrimediabilmente inferiore all’originale, cioè
all’uomo vivente. È infatti solo quest’ultimo, insieme agli dèi, ad essere vero soggetto
dei poemi omerici, giacché dei morti non rimane che un’immagine sbiadita, benché
possa ancora essere designata col nome col quale era conosciuta (“la psychē di
Patroclo”). 137
Tornando al passo della psychē della madre di Odisseo, essa scivola dalle mani del
figlio “simile a un’ombra o ad un sogno”,138 due attributi ricorrenti per le anime dei
morti. Sogno, oneiros (ὄνειρος) sta per l’immagine della persona defunta “come fosse
vista in un sogno” e quindi illusoriamente; un significato non troppo distante da quello
di eidolon.139 Riguardo all’ombra, skia (σκιά), qualcuno ha avanzato l’ipotesi che i
morti siano definiti “come ombre” perché l’ombra fisica dell’uomo vivo si

135
Per questo e il passo precedente, rispettivamente: Iliade XXIII 65-72 e 99-104.
136
Per due casi esemplari, Apollo aiuta così Enea ferito (Iliade, V 450) e atena manda a Penelope un
eidolon che ha fatto a somiglianza della sorella (Odissea, IV 796). Cfr. Bremmer (1983) pp. 79-80.
Lo stesso significato di eidolon è esplorato da Euripide nella sua Elena, dove riprende quel filone
mitico secondo il quale la moglie di Menelao non fosse mai andata a Troia, ma fosse stato inviato con
Paride un suo εἴδωλον creato da Era.
137
Jean-Pierre Vernant ha associato un altro costume greco arcaico a questa “logica del doppione”, di
cui non c’è però menzione in Omero: ovvero il seppellire un kolossòs, statua di pietra grezzamente
scolpita in una figura umana, al posto del cadavere (presumibilmente nel caso il defunto fosse perito
lontano da casa o se ne fossero perse le tracce). Non sono pochi i paralleli tracciabili tra il kolossòs e la
psychē omerica: entrambi impediti nel movimento, entrambi muti, entrambi “freddi”. Ma soprattutto,
entrambi doppi del vivente, irrimediabilmente inferiori a esso. In Vernant (1965) pp. 343-358.
138
Odissea, XI 208-209.
139
Così interpreta ad esempio Onians (1951) p. 95.

35
trasformerebbe nel suo fantasma da morto, ma non sembra esserci nulla in Omero a
supporto di quest’ipotesi.140 È quindi più cauto ipotizzare che quella dell’ombra sia
semplicemente una similitudine, con lo stesso fine di “sogno” o “idolo”, ovvero
rimarcare quanto l’anima del defunto sia inferiore e non coincidente con l’uomo
vivente, come l’ombra è solo una proiezione della sua figura. Ma potrebbe anche darsi
che qui vi sia sotto qualcosa di importante: infatti, come abbiamo già detto,
un’etimologia alternativa di psychē collegherebbe la parola a psychron, il freddo,141 a
psychos (mancanza di calore) e psychrotes (la qualità dell’esser freddo) oppure (come in
Platone e Aristotele, vedi sopra) a anapsychēin e katapsyxis (raffreddare). Ora, è noto
che l’ombra è usualmente associata al freddo, e l’oscurità era associata dai greci arcaici
ad una sostanza gassosa (e non alla mancanza di luce).142 Non è quindi da escludersi a
priori, essendo la psychē anch’essa descritta come qualcosa di gassoso (simile al
respiro), che si sia qui davanti ad un collegamento etimologico-concettuale più vasto di
quanto i critici di quest’idea abbiano immaginato.143
Adesso possiamo quindi avere un’idea più chiara dell’atteggiamento dell’uomo
omerico verso la mortalità: egli sa che, con la sua fine terrena, tutto ciò che si può
definire vita (qui in senso sia biologico sia esistenziale) avrà una fine irrevocabile. Non
esiste un’escatologia del giorno della resurrezione, né un progetto salvifico al quale
aggrapparsi. Solo la fama che deriva dall’aver cantate le proprie gesta dai poeti può
eternare il nome di un brotos.
Notiamo poi un fatto non meno importante, ovvero l’assenza delle phrenes in questi
simulacri dei vivi, come si lamenta Achille nel passo precedente. È da escludersi qui che
si voglia letteralmente precisare l’assenza del diaframma o dei polmoni nella psychē:

140
Cfr. Bremmer (1983) p. 78 e la sua discussione del lavoro di Hultkrantz.
141
Cfr. Vernant (1965) p. 354. Stefanelli (2010) pp. 139-185 offre una trattazione impareggiabile del
collegamento etimologico di psychē con le sfere semantiche della temperatura e dell’umidità/secchezza.
Così a p. 170 “Lа соnѕеguеnzа ultіmа сhе ѕі рuò trаrrе dаglі еlеmеntі rассоltі fіn quі è сhе ψυχή,
соnfоrmеmеntе аl ѕuо vаlоrе dі nomen actionis іn rарроrtо аl vеrbо ψύχω, рuò еѕѕеrе іntеѕо соmе
‘umіdіtà rіnfrеѕсаntе’ […] Іl fаttо сhе роѕѕа еѕѕеrе аѕѕіmіlаtа аll’оmbrа (σκιά) соnfіgurа ψυχή соmе unа
ѕресіе dі ѕаgоmа, dі silhouette. Vеrоѕіmіlmеntе lа ѕuа соnѕіѕtеnzа è аеrеа, ѕі рrеѕеntа nеllо ѕtаtо fіѕісо
сhе і grесі іndісаvаnо соl tеrmіnе ἀναθυµίασις ‘еѕаlаzіоnе’ е сhе nоі dеfіnіrеmmо gаѕѕоѕо” (corsivo
mio). Sul rapporto dell’anima con l’umidità cfr. Eraclito, DK 22 B 77 “Per le anime è piacere o morte
diventare umide […]”.
142
Così riporta Onians (1951) p. 95.
143
Ad esempio Bremmer (1983) p.78 è scettico sull’associazione dell’ombra fisica all’ “ombra” del
defunto. Ma, come riporta sempre Onians (1951) p. 95, collegamenti tra l’ombra fisica e l’anima dei
defunti si riscontrano in molte culture diverse, ad esempio nell’uso degli scavafossi e becchini cinesi che
si “assicuravano” l’ombra al corpo tramite una fune.

36
l’affermazione apparirebbe ridondante, in quanto la psychē non è il corpo vivente né
contiene o coincide con le phrenes (tutto il residuo corporeo dell’uomo omerico rimane
ben saldo nel nostro mondo come cadavere, e di esso ci occuperemo tra poco). Di
conseguenza il riferimento alle phrenes deve essere necessariamente alla loro funzione
cognitiva, che quindi nei morti non è presente.144 Sappiamo perciò adesso che ai morti
mancano sia il noos che le phrenes, che insieme riassumono la totalità degli “organi”
del pensiero omerici:145 questi eidola sembrano allora davvero mancare in assoluto di
mente, che si parli di capacità di pensare o di coscienza.146
È difficile, tuttavia, immaginare un’esistenza umana priva di intelletto e pensieri:
difatti Omero non lo fa fino in fondo: se da una parte néga ai morti le phrenes e il noos,
dall’altra può permettere al fantasma di Patroclo di comunicare con Achille o alle
psychai dell’Ade con Odisseo (cosa difficile da immaginare senza una mente): il mito e
la credenza, d’altronde, non si costruiscono su basi rigorosamente razionali.147 Tuttavia
bisogna osservare che il fantasma di Patroclo non è ancora entrato nell’Ade148 e che
potrebbe essere proprio questa condizione di “pària dell’Oltretomba” a permettergli di
entrare in contatto col sogno di Achille, comunicare e avanzare richieste. Si noti che in
Odissea XI le psychai149 non possono parlare prima di aver bevuto il sangue delle bestie

144
Ci si è comprensibilmente stupiti del fatto che Achille si lamenti dell’assenza di mente nelle
psychai dei morti quando ha appena parlato con l’anima di Patroclo, tanto che si è supposto che il passo
possa essere un’interpolazione dall’Odissea (dove le anime sono in effetti “senza mente”) o si è tentato di
interpretare quel “phrenes” altrimenti, cioè come se Achille si lamentasse dell’assenza di corporeità nelle
anime utilizzando le phrenes come pars pro toto, senza quindi riferirsi alla mente. Per una panoramica
delle interpretazioni di questo passo rinvio a West (2001) pp. 267-268. Tuttavia la mia opinione è che
Achille si stia effettivamente riferendo alle facoltà mentali (o almeno anche a esse) e che (come in così
tanti altri casi) il poeta qui non si sia reso conto di essere stato poco coerente – o che non gli interessasse
troppo esserlo. Dal tono generale del passo è piuttosto evidente che Achille si lamenta di una mancanza
che le anime hanno rispetto ai vivi, dopo che ha tentato invano di abbracciare l’eidolon dell’amico e dopo
che il fantasma è sparito stridendo. Se l’evento più importante tra i due fosse l’abbraccio tentato, non
sarebbe strano se phrenes fosse pars pro toto per la corporeità assente; tuttavia è parimenti possibile che
lo stridio sia per Achille rivelatorio dell’essere stato ingannato anche sulle facoltà mentali del fantasma
(che la conversazione suggerivano ben presenti): pensava di stare parlando col suo amico come avrebbe
fatto prima che morisse, ma lo sparire stridendo e il negarsi all’abbraccio lo hanno convinto che non era
che un simulacro dalle capacità mentali ridotte o assenti (viene in mente il paragone non propriamente
omerico del rapporto tra la voce registrata sul menù di una segreteria telefonica e la persona che ha
registrato le voci: ci si può ingannare e credere di stare parlando con una persona vera prima di
comprendere il “trucco”).
145
Vedi infra, I.5- I.6.
146
Rohde descrive efficacemente le psychai dei defunti omeriche come “prive di coscienza, o al
massimo dotate di una semi-coscienza crepuscolare”Rohde (1894) p. 10.
147
E Dodds (1951) p. 207 (nota 10) ci mette anche in guardia sul rischio di distorsione che il
pretendere una perfetta coerenza escatologica da un poeta comporta.
148
non avendo ancora ricevuto i débiti onori funebri, vedi supra.
149
eccettuata quella di Tiresia, che ancora è in possesso del suo noos. Vedi supra I.6.

37
che Odisseo ha sacrificato, in virtù del quale esse recuperano temporaneamente la loro
mente e la facoltà di parola.150 Addirittura, pare che il solo avvicinarsi al sangue
sacrificale ridoni alle psychai almeno la capacità di intendimento: Odisseo chiede a
Tiresia come sia possibile che la psychē della madre lo abbia riconosciuto, e l’indovino
risponde “chiunque dei morti tu lasci accostarsi al sangue ti dirà cose vere […]”;151
risposta la cui attinenza al discorso non si spiega se non come l’ho appena interpretata.
Non è insomma così scontato che Omero sia stato incoerente riguardo alla mente dei
morti: potrebbe esservi stata una credenza abbastanza complessa da garantire l’intelletto
ad alcuni defunti e non ad altri senza contraddizioni. Tuttavia le apparenti incoerenze
non finiscono qui, poiché il libro XI non ci informa sulla situazione nell’Ade quando
non c’è nessuno che pratica riti di evocazione delle psychai e gli dà da bere il sangue
sacrificale: a seguire le informazioni che abbiamo raccolto sin qui, dovremmo
probabilmente inferirne che le anime sono come “spente” in assenza di coraggiosi
visitatori viventi; se non che, all’inizio Odissea XXIV, ci viene descritto un dialogo
nell’Ade tra l’anima di Achille e quella di Agamennone (e in questo caso nessun vivente
assiste alla scena). Non credo ci sia modo di conciliare queste due visioni dell’Ade
senza contrasti.
Altri due aspetti che caratterizzano le psychai dei defunti sono il loro peculiare modo
di muoversi e parlare. È ben vero che il fantasma (la psychē) di Patroclo parla con
Achille con una voce identica a quella che aveva da vivo (vedi sopra), ma ci viene
anche detto che “sparì stridendo”.152 Il tema dei morti che non possono parlare
propriamente, ma piuttosto stridono o “squittiscono”, diventerà un topos letterario in
Grecia: già Esiodo per esempio chiama la morte “rapinatrice di voce”,153 mentre un
frammento di Sofocle parla dello “sciame dei morti che ronza”.154 Inoltre anche i morti
del libro XI dell’Odissea, che si accalcano intorno ad Odisseo “con strano gridio”155
non parlano finché non hanno bevuto il sangue rituale, con la sopraccitata eccezione di
150
È stata giustamente data molta importanza a questo fatto. Il sangue, una sostanza fisica associata
spesso alla forza vitale, ridona (sembra temporaneamente) la “mente” alle anime dei morti, come se esse
avessero bisogno di un sostrato materiale per “pensare”. La sete d’altronde caratterizza i defunti in ogni
fase della religiosità greca: le lamelle orfiche ci testimoniano che tutte le anime si trovavano davanti a due
fonti nell’aldilà (Stefanelli, 2010 p. 174), e così anche in Platone ritroviamo le anime abbeverarsi alle
acque della dimenticanza del Lethe (Repubblica, X 621 a-d)
151
Odissea, XI 140-149.
152
Iliade, XXIII 102.
153
Shield 131.
154
Radt 879, Cfr, per questo e il precedente Bremmer (1983) pp. 85-86.
155
Odissea, XI 43 e 633.

38
Elpenore (non ancora sepolto, come Patroclo) e Tiresia. Riguardo al movimento, le
anime paiono “tremare” o “tremolare”, muoversi in maniera costante e ripetitiva. Ad
esempio Circe afferma che le anime dell’Ade sono, eccetto Tiresia, “ombre vaganti”,156
e la psychē della madre di Odisseo descrive il movimento delle anime come un
“tremolare”.157
Che giudizio conclusivo possiamo dare sulla condizione delle anime dei defunti
omeriche? Esse sono ben poco se paragonate all’uomo intero, prima che la morte lo
raggiunga. Se ci si pone attenzione, queste psychai sono caratterizzate in larga parte
solo da aspetti negativi, cioè da mancanze che esse hanno rispetto ai vivi. Tutto
considerato, tornando all’affermazione del Rohde, è pur vero che esse sono qualcosa,
ma è altrettanto evidente quanto poco esse siano: esse sono quasi nulla, mére immagini
dei viventi.158 Non hanno un orizzonte, nemmeno un dantesco contrappasso che dia uno
scopo alla loro condizione.159 Si può parlare quindi per esse di “vita” o di “esistenza” in
senso pieno? Dato l’uso che Omero fa di “psychē” per l’uomo vivente (psychē come
vita, vedi sopra), questa sarebbe già una contradictio in terminis. Come conclude il
Rohde sull’esistenza oltretombale, “esse [le anime] vivono poco più dell’immagine di
un vivo in uno specchio”.160 Come la psychē non aveva niente a che fare con la
personalità dell’individuo finché era in vita (vedi sopra), sembra parimenti non essere in
grado di fornire una sostanziale continuità161 all’esistenza umana dopo la morte.162

156
Odissea, X 495.
157
Odissea, XI 222.
158
Come si è espresso Dodds, “il loro esse è nient’altro che superesse”. (1951) p. 186.
159
Con le eccezioni di alcuni personaggi del mito inseriti tra le anime del libro XI dell’Odissea, come
Tizio, Tantalo e Sisifo (che tuttavia sono rammentati en passant, sembrando così inseriti solo perché
l’incontro di Odisseo con le anime dell’Ade dava la possibilità al poeta di mettere insieme tanti miti
diversi). Odissea, XI 175-196.
160
Rohde (1894) p.11.
161
Non è tuttavia un’assenza totale di continuità: le anime sono pur designate come “l’anima di ..”, e
stando a Odissea XI esse sono riconoscibili tra loro e (quando parlano) si riferiscono a se stesse come
farebbe l’individuo vivo. Come osserva Stefanelli (2010) p. 176, l’elemento che appare più importante al
fine della continuità col vivente è la capacità delle psychai di ricordare la loro vita, almeno quando
bevono sangue. Il punto non è comunque se vi sia e in che grado una continuità logica tra vivente e
anima: la cosa rilevante è che per l’uomo omerico questa continuità non era abbastanza per essere in
alcun modo consolatoria.
162
Riassumendo le caratteristiche della psychē omerica quando la persona è morta: (i) essa vola
nell’Ade, a condizione che il corpo sia cremato (altrimenti la persona morta può riapparire in sogno per
implorare il funerale) ; (ii) la psychē che vola nell’Ade è un mero simulacro (eidolon) della persona in
vita, è solo un’immagine tale e quale al vivente, ma inferiore in ogni aspetto a esso; (iii) Essa non ha
forza, mente, pensiero, giudizio, ricordo, voce e piena libertà di movimento (a meno che non sia evocata
attraverso riti negromantici); (iv) le psychai hanno la stessa consistenza del fumo, se non addirittura
dell’ombra.

39
Alcuni studiosi hanno peraltro ritenuto che la nekyia del libro XI dell’Odissea sia
un’aggiunta più tarda al poema:163 se espurghiamo Omero di questo episodio,
l’importanza generale che egli sembra conferire alle anime dei morti scéma ancora di
più.

§ I.11 Ontologia del sottosuolo


Riguardo al mondo dei morti, esso è designato in Omero e nel resto della letteratura
arcaica con nomi diversi: Ade (Haides, Ἄϊδης, che è anche il nome del suo signore),
come lo abbiamo chiamato finora, ma anche Tartaro (Tartaron, Тάρταρον)164 o Erebo
(Erebos, ἔρεβος).165 Questo luogo – poiché in Grecia esso è sempre descritto come un
luogo materiale – è associato all’oscurità, al freddo e all’umidità,166 e, in accordo con
queste qualità, è di solito immaginato sottoterra. Nel libro XI dell’Odissea, che abbiamo
già rammentato, esso è collocato ai confini del fiume Oceano, presso le terre sempre
avvolte dalla nebbia del popolo dei Cimmerii.167 Più precisamente, secondo le
indicazioni della maga Circe, per parlare con i morti Odisseo dovrà raggiungere un
luogo particolare, una roccia bianca allo sfociare dei due fiumi infernali Cocito e
Piriflegetonte nell’Acheronte.168 Tuttavia non è del tutto chiaro se questo luogo sia già
parte dell’Ade stesso oppure una mera “porta d’accesso” ad esso, o ancora un luogo
privilegiato dove si possono evocare gli spiriti dei morti: Circe dice “va’ tu stesso alle

163
E in effetti l’episodio non è di importanza fondamentale per la trama. Sostiene la posteriorità della
nekyia a esempio Rohde (1894) vol. I pp. 51-55, insieme a quella della “seconda” nekyia del libro XXIV.
Rohde interpreta l’aggiunta nel contesto di una nuova considerazione (già più “vitale” di quella omerica)
della psychē dei morti.
164
Nella letteratura greca il Tartaro oscilla tra essere un sinonimo di Ade ed Erebo e un luogo
separato, dove gli dèi disobbedienti sono rinchiusi. Omero, che utilizza Ade ed Erebo come sinonimi, ci
dice che il Tartaro è un luogo separato, “tanto lontano dall’Ade come la terra dal cielo”, descrivendolo
anche come “buio”, “il più profondo baratro della Terra” e dotato di “porte di ferro e soglia di bronzo”.
Inoltre esso è descritto da Zeus proprio mentre minaccia gli altri dèi di scagliarveli dentro per punizione
(Iliade VIII 13-17). Similmente anche in Esiodo, dove il Tartaro è il luogo di detenzione dei Titani
sconfitti (Teogonia 720). Sulla rilevanza di questi due passi in relazione alla cronologia relativa tra
Omero ed Esiodo, cfr. West (1995) p. 208. Nella letteratura successiva il Tartaro si trasformerà nel luogo
della punizione ultraterrena delle anime dei defunti, come ad esempio sarà in Platone (Fedone, 114 E).
165
Per un panorama generale degli studi etimologici compiuti su questi nomi, vedi Stefanelli (2010)
pp. 172-173.
166
Stefanelli (2010) pp. 170 - 171 legge qui una conferma dell’associazione di psychē al “fresco” e
all’ “umido”: il luogo che ospita la psychē dei morti ha le stesse caratteristiche fisiche della psychē stessa.
167
Odissea, XI 12-16. Cfr. Garland (1985), p. 49: “It was possible to approach Ἄϊδης either by the
land or by the sea, its location being variously described ‘at the bounds of Okeanos’ and ‘beneath the
depths of the earth’ ”. Non pare ragionevole cercare di rendere coerenti queste due informazioni sul luogo
geografico dell’Ade: non c’è necessità di rendere la mitologia sistematica.
168
Odissea, X 507-525.

40
case ammuffite di Ade”,169 e sappiamo che proprio lì sfociano i fiumi infernali; ma una
volta che Odisseo è giunto al luogo indicato, le anime dei defunti appaiono perché
attirate dai sacrifici, e il loro apparire è di solito un “risalire”.170 Odisseo non compie,
quindi, una vera e propria katàbasis (κατάβασις),171 ma solo una nekyia (νέκυια), il rito
di evocazione dei defunti.
In Odissea XXIV abbiamo invece il racconto dello stesso viaggio di Odisseo dal
punto di vista delle anime dei Proci sconfitti, mentre si avvicinano alla loro dimora
finale (questa sì una vera “discesa”). Esse, mentre stridono “come pipistrelli”,172 sono
guidate da Ermes (in funzione di psicopompo)173 per “sentieri ammuffiti”174 (e quindi, a
meno che “sentiero” non sia una metafora, via terra). Vengono qui aggiunti altri due
riferimenti geografici al luogo dell’Ade, poiché le anime, superato il fiume Oceano,
passano le “porte di Helios”175 e il “paese dei sogni” e si ritrovano sul “prato di
asfodelo”176 dove “dimorano le anime”.177
Il mondo dei morti di Omero ha quindi la stessa ontologia di un qualsiasi luogo
fisico, raggiungibile per nave e per terra.178 A sottolineare la quasi nullità che
caratterizza le anime dei defunti, però, anche l’Ade sembra essere caratterizzato più da
mancanze rispetto al mondo dei vivi che da elementi positivi. È addirittura possibile che
Hádēs, (Ἅιδης) sia etimologicamente collegato ad aidès (invisibile), come osserva già
Platone:179 e in una cultura così strettamente legata alla materialità come la grecità

169
Odissea, X 510. Quella delle “case” di Ade è una metonimia ricorrente nella letteratura greca.
170
Stefanelli (2010) p. 172 sulla proposizione ὑπέξ.
171
κατάβασις, letteralmente “discesa”, è il termine greco con il quale si descrivono le (letterali)
discese di un vivente negli inferi, come raccontano i miti di Orfeo ed Eracle o la Commedia di Dante.
172
Odissea, XXIV 6-7.
173
Ψυχοπομπóς, epiteto per la divinità che accompagna le anime nel viaggio verso l’Ade. Tuttavia si
sospetta che Ermes abbia assunto questa funzione solo più tardi, e che il passo sia quindi
un’interpolazione successiva. Cfr. Garland (1985) p. 54.
174
Odissea, XXIV 10.
175
Esiste un suggestivo parallelo tra queste “porte del sole” e la credenza di alcuni popoli polinesiani
che le anime possano passare nel mondo dei morti solo due volte l’anno, quando il sole calante tocca
l’orizzonte e sul mare viene disegnato un sentiero di luce. Solo allora la “porta” è aperta. In de Santillana
(1965) p. 27.
176
L’asfodelo è un fiore associato ricorrentemente dai Greci alla morte. Questo fiore è sospettato però
di essere un’alterazione di una versione più antica del mito, che voleva il “prato di Persefone” un “prato
di cenere” cfr. Stefanelli (2010) p. 172 n. 73. L’asfodelo è già rammentato in Odissea XI 674-5, 716-20.
177
Odissea, XXIV 11-14.
178
Stefanelli (2010) p. 175. “Моndо dеі vіvі е mоndо dеі mоrtі nоn ѕоnо ѕераrаtі dеfіnіtіvаmеntе е ѕі
hаnnо іndісаzіоnі сhіаrе dеllа соntіguіtà еѕіѕtеntе frа еѕѕі”.
179
In Fedone 80 d si sfrutta il collegamento per un gioco di parole, in Cratilo 403 a si menziona
quest’etimo (salvo poi rifiutarlo in 404 b). Cfr. Vernant (1965) p. 354 (che riporta anche come il “casco di
Ade”, il kyne, abbia il potere di conferire l’invisibilità); Stefanelli (2010) p. 171.

41
arcaica, il non essere visibili è molto vicino al non essere,180 e la stessa descrizione
come luogo oscuro pare rafforzare quest’ipotesi.
In Omero non si ha in generale un sistema di punizioni e premi nell’aldilà per la
condotta che si è tenuta in vita, come invece sarà molto comune più avanti.181 Ci
sarebbe forse da chiedersi se in Omero avrebbe senso il punire la psychē del defunto:
può essere punito o premiato un doppio, un sogno o un’ombra? E ammesso che fosse
possibile, sarebbe davvero l’individuo defunto ad essere punito? Tendenzialmente nei
due poemi le anime dei “buoni” e dei “cattivi” se ne vanno in un luogo indifferenziato,
che non è né un luogo di punizione né un luogo confortevole. Ci sono però alcune
eccezioni, come la menzione dei campi Elisi (Elýsion pedíon),182 un luogo di
beatitudine all’estremità della Terra183 che più tardi nella storia dei greci diverrà la meta
finale e il premio di coloro che sono stati giusti in vita.184 Tuttavia – oltre al fatto che
questo passo è sospettato di essere un’interpolazione – in Omero chi è destinato a
questo luogo paradisiaco non ha acquisito il privilegio per la sua “buona condotta”, ma
per essere semplicemente imparentato con gli dèi (come ci viene detto riguardo a
Menelao, genero di Zeus).185 Altri passi alludono ad una “compensazione etica”
nell’aldilà, come i già citati casi dei cosiddetti “grandi peccatori”, che in Odissea XI
sono descritti come puniti severissimamente (Sisifo, Tantalo, Tizio) e su cui abbiamo
già dato un giudizio (vedi sopra);186 ma esistono anche alcuni sporadici accenni a
punizioni ultraterrene sparsi qua e là nel testo.187 Ad ogni modo l’idea generale che

180
Su questo punto cfr. Snell (1946) pp. 20-25; Purves (2015). Toccherà proprio a Platone ribaltare il
valore della dicotomia visibile-invisibile, quando considererà ciò che non si vede con i sensi (tra cui
appunto la psychē) superiore al visibile. Cfr. Fedone 81 a.
181
Per Long (2015) p. 49 non ci sono testimonianze di questa credenza prima del 500 a.C. circa.
182
Note altrove come “Isole dei Beati” o “isole fortunate”. Rohde (1894) vol. 1 pp. 71-87 interpreta
anche questo elemento (“una specie di Walhalla greco”) come un’aggiunta solo successiva al poema,
sintomo di credenze escatologiche che stanno mutando.
183
“Là è facilissima la vita per gli uomini, non c’è tempesta di neve né rigido inverno né pioggia”
Odissea, IV 563-569.
184
Ad esempio così nel mito escatologico del Gorgia di Platone, dove le anime dei defunti vengono
giudicate e mandate alle isole dei beati se giuste, nel Tartaro se peccatrici (Gorgia 523 a-b).
185
Odissea, IV 569. Cfr. sul tema Long (2015) pp. 51-53, che ci riporta come anche in Esiodo manchi
totalmente una dimensione premiale associata alle Isole dei Beati. Pindaro, dal canto suo, collocherà in
tali isole sia chi si è guadagnato il privilegio con le buone azioni (e.g. Cadmo), sia personaggi
“raccomandati” (e.g. Achille, che riposa lì per intercessione della madre). Zambarbieri (2002) p. 327 si
chiede giustamente perché nell’Odissea Achille non dimori alle isole dei beati, ma sia invece nell’Ade.
186
Long (2015) p. 42 è categorico nel considerare questi elementi interpolazioni più tarde, influenzate
da schemi di credenze ancora assenti quando i nuclei fondamentali dei due poemi furono composti.
187
Ad esempio Iliade III 279 “E voi che sotto la terra punite da morti coloro che giurano il falso, siate
testimoni […]”. O ancora in Iliade XIX 258-260 si rammentano “le Erinni che sotto terra puniscono gli
uomini che giurano il falso”. Si noti come in entrambi i casi non si parli di punizione delle psychai dei

42
otteniamo da Omero non è quella di un sistema di retribuzione-compensazione etica
nell’aldilà, né più in generale che il mondo sia nel suo complesso guidato dagli dèi
secondo un ideale di razionalità etica.

§ I.12 L’uomo omerico e il cadavere .


Per completare il nostro quadro di come l’uomo omerico percepiva se stesso, ci
manca ancora un elemento non trascurabile: il corpo. Forse qui qualcuno obietterà che
stiamo applicando a sproposito uno schema rigidamente dualista ad Omero, dato che
finora abbiamo parlato delle diverse anime dell’uomo omerico e adesso ci accingiamo a
parlare del suo corpo. Sebbene vi sia del vero in tale obiezione, è inevitabile che per
presentare una concezione antropologica differente in termini comprensibili, sia
necessario parlare un linguaggio familiare, e per noi quel linguaggio comprende le
categorie di anima e di corpo.
Il dibattito sulla natura del corpo omerico ci terrà impegnati nel prossimo paragrafo,
dove presenterò le controverse tesi di Bruno Snell su questo argomento. Adesso, invece,
ci limiteremo a prendere in esame alcuni passi dei poemi omerici che ci illuminino sul
rapporto dei greci con la loro corporeità al momento della morte e dopo di esso.
Si è già suggerito, nell’analisi dell’incipit dell’Iliade,188 come Omero dia spesso
l’impressione di identificare l’essere umano col cadavere e non con quell’anima (la
psychē) che vola nell’Ade al momento della morte. In quel caso, ad esempio, si diceva
letteralmente che Achille mandò tante anime all’Ade e “lasciò loro stessi in preda ai
cani e a tutti gli uccelli”. Autous (αὐτούς) è il pronome utilizzato in quel caso, e non può
che avere per oggetto i cadaveri (somata nel greco omerico, da soma, σῶμα) delle
vittime di Achille. Ma questo passo non è isolato. Per cominciare, abbiamo i due episodi
in cui il fantasma di un defunto chiede ad un vivo di seppellirlo: abbiamo già parlato
dell’apparizione della psychē di Patroclo,189 che implora l’amico Achille:
“seppelliscimi”; e nel libro XI dell’Odissea anche la psychē di Elpenore (un compagno

defunti, ma degli uomini stessi (anthropous), altro elemento che cozza con le descrizioni usuali dell’Ade.
Su questo passo e il precedente, già il Leaf osservava: “It is the clearest case of a supposed retribution in
the other world for sins committed in this. A few exceptions are only apparent. The punishments of
Tityos, Tantalos, and Sisyphos, in Od. xi. 576-600, for instance, occur in a late passage ; and even these
do not imply that Hades is a place of punishment for common sinners” (1894, pp. 95-96).
188
Supra § I.2.
189
Iliade XXIII 65-72.

43
morto durante il viaggio e mai seppellito) fa la medesima richiesta ad Odisseo: “non mi
lasciare insepolto senza compianto, abbandonandomi […] ma bruciami con tutte le armi
che ho”.190 Come ho già ricordato poc’anzi, Omero ci informa tramite questi passi di
una credenza secondo la quale la psychē del defunto non può andare nell’Ade finché il
corpo (o “la persona stessa”) non viene bruciato sulla pira funebre. Sebbene l’Ade non
ci venga descritto come una condizione particolarmente desiderabile, le anime degli
insepolti implorano gli amici di permettere loro di varcare i fiumi infernali, dai quali,
una volta attraversati, non c’è ritorno. Dobbiamo dedurne che l’esistenza (se così si può
chiamare) come fantasmi o spettri, esclusi dal regno dei morti, sia ancora peggiore di
quella nel regno di Ade.191
Ciò che questi passi suggeriscono è che l’uomo omerico dopo la morte si identificava
col proprio cadavere e non con l’anima che vola nell’Ade – ovvero l’esatto contrario di
ciò che penserà Platone – sebbene, come già notava il Rohde, ci siano eccezioni che
rendono il quadro più complesso.192 Ma come abbiamo osservato che la psychē
dell’uomo in vita non è la sua personalità, così essa non può prendere il posto di
quell’uomo nemmeno nella morte. È allora quasi una conseguenza logica, si potrebbe
dire, il cercare qualcos’altro con cui identificarsi: e cosa rimane, se non il cadavere
(soma)?
Ritengo tuttavia che ci siano anche altre ragioni dietro le auto-identificazioni degli
spettri omerici con il proprio cadavere. Come riporta il Dodds, abbiamo prove
archeologiche193 secondo le quali sin dal neolitico gli abitanti della Grecia (come
d’altronde moltissime altre civiltà) avevano un qualche tipo di credenza nella
sopravvivenza dopo la morte: gli arredi tombali rinvenuti testimoniano come essi
fornissero ai morti cibo, bevande, vestiario e cercassero di soddisfare il desiderio del
cadavere-spettro di essere servito e di divertirsi.194 Addirittura pare che ad Atene lo
spreco di cibo legato alla nutrizione dei cadaveri fosse un problema ancora nel VI

190
Odissea, XI 51 – 80.
191
A voler speculare, potremmo dire che le anime degli insepolti ancora possono parlare e
(presumibilmente) pensare; esse si rendono quindi conto della tristezza del loro destino e per questo
desiderano l’Ade, dove esse perderanno le phrenes e il noos (e con esse ogni capacità d’intendimento).
192
Rohde (1894) vol.1 pp. 5 – 6. Il contro esempio principale è Iliade, XI 260-263, dove ciò che viene
detto scendere nell’Ade è la persona stessa, l’homo totus. Inoltre l’espressione “teste senza menos dei
morti” sembra funzionare come pars pro toto per la persona intera. Cfr. Bremmer (1983) p. 77.
193
Sebbene sia sempre saggio prendere queste ultime con grande cautela: il rischio di interpretare le
fonti distortamente è sempre dietro l’angolo.
194
Dodds (1951) p. 184.

44
secolo a.C., dato che Solone (VII-VI sec. a.C.) e in seguito Demetrio Falereo (IV-III
sec. a.C.) avrebbero promulgato leggi speciali per reprimere questi costumi.195 Secondo
queste fonti, i greci avrebbero quindi, dal periodo arcaico sino a tempi relativamente
avanzati, ritenuto consustanziali il cadavere e lo “spettro” (o in qualsiasi modo si
voglia chiamare la parte dell’uomo che sopravvive alla morte e non è il cadavere).
Quest’importanza atavica conferita ai resti dei defunti, di conseguenza, potrebbe ben
avere influenzato Omero nell’identificazione della persona morta col cadavere. Tuttavia
ciò pone il problema di spiegare come mai, allora, per l’uomo omerico fosse così
importante ricevere gli onori funebri:196 ricorderemo che nei poemi di Omero essi
consistono principalmente nella cremazione, che è proprio la distruzione del cadavere.
Non a caso, sempre secondo Dodds, la prima traccia della distinzione tra spettro e
cadavere in Grecia è proprio da riscontrarsi in Omero, e c’è chi addirittura ha pensato ad
Omero come riformatore religioso sotto questo aspetto.197 Siamo qui davanti ad uno
schema di credenze contraddittorio?
Lo stesso Dodds ci è però parzialmente d’aiuto, informandoci che, sempre secondo
prove archeologiche del VI-IV sec. a.C., la cremazione non escludeva, come ci si
aspetterebbe, la pratica della nutrizione dei cadaveri (si sono trovati in queste tombe veri
e propri tubi per l’alimentazione del defunto cremato).198 In ogni caso i problemi non
sono risolti così facilmente, poiché le anime dei defunti in Omero sembrano desiderare
la cremazione proprio per essere distaccati dal loro corpo e raggiungere la destinazione
finale: come potrebbero quindi essere consustanziali con esso? Il Rohde credeva che la
cremazione servisse a separare l’anima dal corpo, ma si rendeva anche conto di questa
apparente contraddittorietà. Nella sua visione della cultura omerica, essa conteneva
effettivamente degli elementi di contraddizione, generatisi dal sedimentarsi, nel corso
dei secoli, di credenze diverse e non necessariamente coerenti tra loro. D’altronde, come
osservava lo stesso filologo tedesco, “per noi l’unica fonte sicura di conoscenza della
Grecia pre-omerica è Omero stesso”.199 Come possiamo, quindi, tentare di comprendere
Omero senza avere tracce consistenti né della Grecia “muta” che lo ha preceduto, né di

195
Secondo la testimonianza di Cicerone e Plutarco. Vedi Dodds (1951) p. 185 e la nota 9 a p. 207.
196
E, se pensiamo ad esempio all’Antigone di Sofocle, non solo per i greci omerici. Vedi in proposito
anche § I.10, infra.
197
Dodds (1951) p. 184; l’ipotesi è stata avanzata da Zielinski (La guerre à l’outretombe, 1934)
(riportato sempre da Dodds, p. 207 nota 7).
198
Dodds (1951) p. 207 (nota 8).
199
Rohde (1894) pp. 14-15.

45
quella che lo ascoltava? Dobbiamo, in questo caso, limitarci a registrare ciò che Omero
ci dice, comprese (e soprattutto) le contraddizioni, che ci informano sulla varietà di
credenze e costumi sedimentate in una singola opera.
L’uomo omerico, dopo morto, può allora identificarsi sia col proprio cadavere, sia
con la sua psychē.200 Se l’idea più evidente dall’atteggiamento generale dei poemi (cioè
quello di svalutare la “vita” nell’aldilà) è forse la prima, è del tutto possibile che
credenze alternative (più antiche o più moderne) abbiano lasciato la loro traccia nei
poemi (soprattutto considerando che essi sono, nella forma in cui ci sono stati trasmessi,
solo la cristallizzazione in forma scritta di secoli di tradizione orale).
Ci sono altri due aspetti che sembrano entrare in contraddizione tra loro: come
osservava Rohde,201 da una parte pare che i greci di Omero non praticassero alcun
“culto delle anime dei defunti” (fatto, questo, coerente con l’idea di quasi nullità della
psychē del defunto che i poemi esprimono);202 dall’altra abbiamo il grandioso fasto del
funerale di Patroclo (Iliade, libro XXIII), orchestrato in pompa magna dall’amico
Achille – addirittura con sacrifici umani – per onorare il defunto ed esaudire la richiesta
che il suo fantasma gli aveva espresso in sogno (“seppelliscimi”): un rito e una quantità
di sacrifici del genere farebbero presupporre, al contrario, un forte culto delle anime (del
quale si avrà traccia in Grecia in tempi più tardi). Rohde leggeva già qui il sovrapporsi
di schemi di credenze diversi e non coerenti tra loro, ipotizzando che prima di Omero
potesse essere stato vivo in Grecia o in qualche sua parte un culto delle anime poi
parzialmente dimenticato. D’altronde chi dovrebbe essere il destinatario dell’ecatombe
sacrificale che Achille organizza a Patroclo (Iliade XXIII 164-200), se non Patroclo
stesso? Ma se, dopo bruciato, di lui rimarranno solo un mucchio di cenere e ossa e la
sua psychē, quale delle due sarà Patroclo? Se optiamo per la seconda opzione, allora la
psychē non pare più così insignificante. D’altra parte, come osserva Bremmer, si può

200
Per esempio in tutti i casi in cui l’anima di un defunto si riferisce a lui stesso in Odissea XI e
XXIV. Lo stesso Elpenore, che dice “bruciami” e “non lasciarmi insepolto” (XI 70-75), da una parte
certamente rafforza la tesi della consustanzialità spettro-cadavere; dall’altra sta comunque parlando in
prima persona del suo cadavere (ma non parla il cadavere, bensì lui, cioè la sua psychē!). Non si ha
comunque mai l’impressione che la psychē che parla si dissoci in alcun modo dall’individuo che era una
volta e dai suoi ricordi.
201
Rohde (1894) pp. 12 - 15.
202
In stridente contrasto con gli usi della Grecia successiva. Ad esempio ad Atene nel V secolo a.C.
era di fondamentale importanza visitare le tombe dei propri cari defunti ed erano inoltre ufficialmente
riconosciute alcune feste annuali in onore dei defunti. Vedi Garland (1985) p. 104, Rohde (1894) vol. 1,
pp. 219-230.

46
continuare a praticare riti funebri in una certa maniera anche quando le credenze
sovrannaturali che motivavano questi riti non sono più conosciute o ritenute vere.203
Mi sono riservato in coda a questo paragrafo il passo più difficoltoso che riguarda le
psychai dei morti, che tuttavia ha a che fare con l’ambiguità dell’identificazione
personale dopo la morte constatata finora. Il passo appartiene ancora ad Odissea, XI:

Scorsi dopo di lui [Sisifo] la possanza di Eracle,


l’eidolon: lui stesso [autos] insieme agli dèi immortali gioisce [..].204

Sembra che qui il poeta abbia voluto conciliare negli stessi versi due versioni diverse e
contraddittorie del mito. Eracle si trova insomma nell’Ade o insieme agli immortali? In
realtà non è incoerente per l’uso che Omero fa di eidolon quello di porlo in un luogo
diverso dalla persona stessa: d’altronde ne è appunto il “mero simulacro”. Nonostante
ciò Eracle sembra godere di un trattamento diverso dagli altri defunti: di lui, solo
l’eidolon è nell’Ade; per gli altri, l’eidolon è tutto ciò che rimane di loro.205 Ma
sembrerebbe anche che, vista l’usuale connotazione negativa di eidolon, quello
sull’Olimpo fosse il vero Eracle, come interpretava ad esempio anche Plotino.206 La mia
opinione è che qui il poeta stia rompendo di proposito lo schema di credenze sull’aldilà
in cui si era mosso fino a quel punto del libro XI, proprio per sottolineare l’eccezionalità
del caso di Eracle. Sotto questa luce, non è nemmeno detto che questo passo rappresenti
un’eccezione a quanto abbiamo detto finora: il chiaro disvalore dell’eidolon di Eracle

203
Bremmer (1983) p. 73. Potrebbe essere tracciato un paragone proprio con i nostri riti funebri,
celebrati perlopiù sempre tradizionalmente in un’età dove le credenze in un aldilà cristianizzante sono
sempre più deboli. Riassumendo le caratteristiche principali del rapporto dei greci omerici col cadavere:
(i) è frequente l’associazione della persona morta col proprio cadavere (e non con l’anima che vola
all’Ade); (ii) il principale esempio di riti funebri nei poemi omerici è il funerale principesco di Patroclo,
che mostra una grandissima prodigalità di offerte, sacrifici e giochi funebri; (iii) non abbiamo altre tracce
di alcun “culto delle anime” in Omero; (iv) abbiamo tracce archeologiche di pratiche di nutrizione dei
defunti che testimonierebbero che lo spettro era ritenuto consustanziale col cadavere; (v) è probabile che
le credenze che ci appaiono come contraddittorie in Omero siano frutto di una secolare sedimentazione di
idee diverse e non coerenti durante la “costruzione” dei poemi.
204
Odissea XI 601-604.
205
L’interpretazione del passo deve avere a che fare col fatto che Eracle era comunemente ritenuto
semidivino: è quindi in un certo modo lecito aspettarsi che entrambe le sue nature trovino la loro
collocazione naturale dopo la morte dell’individuo (l’ombra della parte umana dell’eroe nell’Ade, il “vero
Eracle” – o l’Eracle più degno di nota –, quello divino, sull’Olimpo). Viene però allora da chiedersi come
mai al povero Achille non sia riservato alcun riguardo del genere: non era anche lui semidivino?
206
Enneadi I, I, 12. Cfr. Sorabji (2006) pp. 100-104: sia Plotino che Plutarco di Cheronea,
interpretando (discutibilmente) il passo come un’allegoria platonica, identificano in questo passo l’anima
di Eracle con l’eidolon, mentre ciò che è con gli dèi col suo intelletto.

47
rispetto a lui stesso può anche confermarci l’idea che le psychai dell’Ade sono ben poca
cosa rispetto all’uomo stesso quando era in vita. Ma questo caso è anche una possibile
testimonianza di un processo evolutivo della cultura greca, all’interno del quale molti
elementi antropologici ed escatologici stanno progressivamente cambiando (e in
rapporto al quale Omero non si situa né all’inizio né alla fine).

§ I.13 Bruno Snell e i suoi critici: il corpo dell’uomo omerico


Qual era il rapporto del greco arcaico con il suo corpo? Ma prima ancora: il greco
arcaico aveva un corpo? La questione, apparentemente pacifica, divide gli studiosi da
circa tre quarti di secolo. Precisamente, il dibattito è stato aperto dalle tesi che Bruno
Snell, uno dei più grandi filologi classici dello scorso secolo, presentò nel 1946 nel suo
Die Entdeckung des Geistes. Lo Snell, riprendendo un dato filologico già noto ad
Aristarco,207 sottolineò come Omero faccia un uso della parola soma (σῶμα) – che nel
greco più tardo corrisponderà univocamente al nostro “corpo” – molto ristretto: come ho
anticipato, il soma omerico non è il corpo dell’essere umano vivente, ma solo il
cadavere, cioè il corpo senza vita.208 Snell aggiunse un’altra tesi, ancor più forte della
prima: ovvero, che in Omero non solo si usi la parola soma in un significato molto
limitato, ma che la lingua omerica manchi in assoluto di un vocabolo per designare il
corpo della persona vivente. E, secondo Snell, senza la parola non può darsi nemmeno
il concetto.
Ciò che Snell sosteneva non era che Omero avesse evitato sistematicamente di
riferirsi al corpo umano: al contrario, il vocabolario anatomico di Omero è
incredibilmente ricco, come vedremo tra poco. D’altronde come sarebbe stato possibile
scrivere i sanguinosissimi 15.696 versi dell’Iliade, ambientata prevalentemente sul
campo di battaglia, senza una tale ricchezza? Essa non sarebbe stata lo stesso poema
senza le descrizioni dettagliate di orribili ferite, di mutilazioni e dei movimenti del
combattimento. La tesi dello Snell era piuttosto che ad Omero mancasse del tutto il
termine per descrivere il corpo dell’uomo vivente nella totalità dei suoi aspetti, e da ciò
deduceva anche l’assenza del concetto di esso:

207
Supra § I.1
208
Snell (1946) p. 24.

48
Naturalmente gli uomini omerici hanno avuto anch'essi un corpo come i Greci dell'epoca più tarda, ma
non lo sentivano come «corpo», bensì come insieme di membra. Si può dunque anche dire che i Greci
omerici non avevano ancora un corpo nel vero senso della parola: corpo, σῶμα, è un'interpretazione
tardiva di quello che inizialmente veniva concepito come […] « membra », e Omero infatti parla
sempre di agili gambe, di mobili ginocchia, di forti braccia, poiché queste membra rappresentano per
lui una cosa viva, ciò che colpisce l'occhio.209

Questa tesi era supportata da un certa visione che Snell aveva della cultura omerica –
considerata sotto diversi aspetti “primitiva” – insieme ad alcune assunzioni linguistiche
oggi considerate quantomeno azzardate: una su tutte, quella secondo cui se una lingua
non ha alcuna parola per descrivere un concetto, il popolo che la parla non ha il
concetto il questione, sic et simpliciter.210
Negli ultimi settant’anni, i simpatizzanti di Snell hanno variamente modificato le sue
tesi per resistere agli attacchi dell’ampio stuolo di critici che esse si sono create;211
tuttavia, è rimasta un punto fermo dello “snellismo” la negazione del concetto di corpo
per la Grecia omerica, a cui fa da contraltare il fatto assodato che nella Grecia classica
quel concetto sarà invece presente, in una forma molto simile a quella che abbiamo del
212
“corpo” ancora oggi. Prima di presentare le critiche principali a queste tesi,
cerchiamo di capire meglio cosa esattamente Snell suggerisse qui riguardo all’uomo
omerico. Ad Aristarco era già chiaro che il soma omerico aveva avuto uno slittamento
semantico dall’età arcaica al periodo classico, ma credeva che la parola demas (δέμας)
fosse un’adeguata traduzione di “corpo” nel greco omerico. Se non che, come notò
Snell, benché demas sia effettivamente il termine che più si approssima al nostro
“corpo” nel greco arcaico, essa viene utilizzata nei due poemi solo all’interno di
comparazioni di grandezza o somiglianza tra corpi diversi (e in forme grammaticali
specifiche), quindi nel senso di “statura” o “corporatura”:

209
Snell (1946) p. 28, corsivo mio.
210
Snell (1946) p. 24: “se essi non avevano un verbo per esprimere questa funzione, ciò significa che
non ne avevano neppure il senso [..]”. In seguito ci riferiremo a quest’ipotesi come “ipotesi linguistica di
Snell”.
211
Tra i critici, più o meno severi, ricordiamo (per aspetti diversi): Renehan (1979); Bremmer (1983)
pp. 66-67; Williams (1993) pp. 13-21, 31-42; Long (2015) pp. 13-35. Tra i difensori ricordiamo Christian
Voigt e Julian Jaynes (1976), Galimberti (1983).
212
Cfr. Holmes (2010) pp. 6-8; Bremmer (1983) pp. 66-68.

49
Aristarco pensava che demas fosse, per Omero, il corpo vivente […]. Ma demas è tuttavia un ben
povero sostituto della parola «corpo»: esso si trova soltanto all'accusativo di relazione. Significa «di
figura», «di statura», ed è quindi limitato a poche espressioni come essere piccolo o grande,
rassomigliare a qualcuno e cosi via.213

Secondo Snell, dunque, in Omero possiamo trovare espressioni come “il suo demas
assomigliava a quello di un dio”,214 ma non si sarebbe mai potuto dire che, ad esempio,
“io non sono meramente presente al mio corpo come un nocchiero lo è al suo vascello,
bensì gli sono congiunto quanto mai strettamente [...]”:215 Omero non poteva, secondo
questa tesi, dire “il mio corpo” in quanto contrapposto ad un “io” ad esso non
coincidente. Un fenomenologo novecentesco avrebbe spiegato questa tesi dicendo che
Omero non considerava l’essere doppio del corpo, “a due fogli”,216 che ci è dato sia
come oggetto tra gli oggetti (quindi come Körper, cadavere, corpo-cosa, corpo
sensibile), sia come oggetto privilegiato, come Nullpunkt, “punto zero” della percezione
e, in virtù di tale privilegio, come corpo vivente (Leib), corpo che non solo è sensibile
(nel senso in cui si può sentire coi sensi), ma è allo stesso tempo senziente (è lui stesso a
sentirsi).
Omero aveva anche altre parole per aspetti particolari del “corpo”, che ricorderemo
velocemente. Ad esempio chros (χρώς), letteralmente “pelle”, che indica il corpo in
quanto alla sua superficie, al suo limite: Omero avrebbe quindi detto “la spada penetrò
nel suo chros”, oppure “si lavò il chros nel fiume”.217 Oppure i plurali guia (γυῖα) e
melea (μέληα), che indicano le membra nel loro insieme, ma che secondo Snell non
formano un’unità (il corpo), bensì solo una pluralità irriducibile di elementi (che, punto
quanto mai controverso,218 egli credeva di riscontrare anche nell’arte greca del periodo
arcaico, dove le giunture tra le parti del corpo sono estremamente evidenti).219

213
Snell (1946) p. 24.
214
Snell (1946) p. 24.
215
Descartes (1641), sesta meditazione, p. 133. Ho inserito questa citazione poiché mi pare faccia
intendere il senso di corpo vivo che secondo Snell mancava a Omero. Tuttavia mi trovo messo in un certo
imbarazzo dal fatto che Snell non fornisca alcun esempio di proposizione che Omero non avrebbe potuto
esprimere per mancanza di un termine e di un concetto per il corpo vivo.
216
Così Merleau-Ponty ne Il visibile e l’invisibile (1964) p. 274.
217
Esempi di Snell, p. 25. Χρώς non significa pelle in quanto organo del corpo – che è invece derma,
(δέρμα), la pelle “in quanto staccabile” – ma solamente come nozione di limite spaziale del proprio
“corpo”.
218
Per una critica, Renehan (1979) p. 272.
219
Snell (1946) pp. 25-26. Cfr. Galimberti (1983) pp. 45-46.

50
Insomma, molte parole per tanti aspetti diversi del riferimento alla corporeità, ma
nessuna che li assommi tutti insieme.
Snell ebbe l’intuizione di mettere in parallelo la (supposta) assenza di un concetto di
“corpo” nei greci omerici con quella di un concetto unitario di “anima”. Come anche
noi dovremmo esserci ormai convinti, infatti,

Anche per «anima» e «spirito» manca a Omero la parola corrispondente. Psychē, la parola che è
usata per «anima» nel greco più tardo, non ha in origine niente a che fare con l'anima pensante e
senziente. In Omero psychē è soltanto l'anima in quanto essa «anima» l'uomo, cioè lo tiene in vita.220

Prima di presentare alcune delle critiche più serie che sono state rivolte allo
“snellismo”, tentiamo di riassumere la posizione di Snell in alcuni punti essenziali: (i)
Se una lingua manca di una parola, essa manca anche del concetto corrispondente; (ii)
Omero non usa la parola soma se non per denotare il cadavere; (iii) I greci omerici non
avevano una parola per esprimere l’unità del corpo vivente; (iv) Dunque i greci omerici
mancavano del concetto di corpo vivente (o semplicemente di “corpo”).
Il problema più evidente, a mio giudizio, è che Snell non era disposto a leggere la
mancanza di questi concetti (supposto che avesse ragione su di essa) come una mera
diversità dal nostro modo di pensare (e come spero invece di averla presentata io): egli
vedeva in questo campo una manifesta inferiorità dell’uomo greco rispetto al moderno.
Snell appare convinto che solo un dualismo di stampo cartesiano sia in grado di rendere
conto a dovere della nostra esperienza di esseri umani, come ha osservato Bernard
Williams: il problema fondamentale di questo atteggiamento “progressista” nei riguardi
dell’antichità è che spesso capita di rimproverare agli antichi la mancanza di concetti
che, a ben vedere, non sono così chiari nemmeno a noi. 221 Ad esempio, gli stessi critici
“progressisti” della grecità rimproverano all’uomo omerico la mancanza di concetti di
volontà e libertà analoghi ai nostri (di questo parleremo brevemente più avanti), senza
però accorgersi di quanto sia difficile avere un’idea di quale sia per noi la vera natura di
queste nozioni.222 L’ovvio rischio del leggere gli antichi secondo una teleologia decisa
arbitrariamente, cioè secondo l’idea che i concetti che reputiamo “moderni” abbiano il

220
Snell (1946) p. 28.
221
Williams (1993) pp. 32-45.
222
Cfr. Williams (1993) pp. 12-13.

51
loro sviluppo e lento progredire tra le pieghe della Storia, è quello di compromettere la
nostra oggettività; è, in definitiva, un cercare nel passato qualcosa che ci abbiamo messo
noi.
Ma anche la tesi iii è stata attaccata altrettanto duramente, ad esempio da Robert
Renehan, che ha mostrato come non sia affatto scontato che l’Iliade e l’Odissea,
nonostante la loro pur ragguardevole estensione, forniscano abbastanza materiale per un
argumentum e silentio di questa portata.223 Un poeta può aver evitato una parola
semplicemente perché non ha avuto occasione di utilizzarla, e non necessariamente
perché non ne aveva una adatta (a fortiori, non necessariamente perché gli mancava il
concetto). Consideriamo poi che in poesia si danno vincoli metrici che tendono a
favorire l’uso di certe parole ed espressioni rispetto ad altre, magari perfetti sinonimi di
quelle utilizzate.
Esistono altre serie obiezioni alle tesi dello Snell, persino sullo stesso terreno
filologico. Ad esempio sempre Robert Renehan224 ha raccolto una serie di obiezioni alla
tesi ii, che serve allo Snell come supporto alle sue tesi Premettendo che mi paiono dati
incontrovertibili che (a) soma sia una parola di importanza minore in Omero (almeno
rispetto all’uso successivo della parola) e (b) in Omero soma significhi (almeno)
prevalentemente cadavere; ricorderò qui i due casi più ambigui discussi da Renehan (ad
ogni modo, un controllo su ogni utilizzo di “soma” nei due poemi non sarebbe
un’impresa insormontabile, dato che in Omero ci sono solo otto occorrenze della parola
soma).225 Ad esempio, nel libro XII dell’Odissea, durante l’inquietante descrizione dello
Stretto di Messina, appare un “somata” (plurale di soma) in un contesto poco chiaro:
“da lì non scampò nessuna nave d’eroi, che vi capitò, ma le onde del mare e i turbini del
fuoco funesto trascinarono legni di navi e somata di uomini in mucchio”.226 Il secondo
passo ambiguo lo troviamo invece nell’Iliade, in una metafora naturalistica: “Menelao
[…] gioì come il leone affamato che incontra il soma grande di una bestia […] e lo
divora avidamente”.227 Mi pare doveroso osservare che in entrambi i casi non ci siano
chiare occorrenze di soma come corpo vivente, se pure rimanga aperta questa

223
Renehan (1993) p. 274.
224
Sempre in Renehan (1979).
225
Precisamente: Iliade III 23 (a mio giudizio la meno chiara di tutte), VII 79, XVIII 181, XX 342,
XXIII 169; Odissea, XI 53, XII 67, XIV 187. Da Renehan (1979) p. 272.
226
Odissea, XII 65-67.
227
Iliade, III 21-26.

52
possibilità. È stato osservato228 che i “somata di uomini a mucchi” del primo passo
saranno stati difficilmente già tutti morti istantaneamente dopo un naufragio; tuttavia
ritengo forzato assumere solo per questo che qui Omero faccia un uso particolare di
soma: d’altronde quello che si vuole esprimere è, mi pare, che questi “mucchi” di
uomini (se non sono già morti) sono destinati alla morte, mentre tutto il discorso ha
l’obiettivo di sottolineare l’enorme rischio che lo stretto rappresenta per l’equipaggio di
Odisseo. Il secondo passo è invece più problematico: è ben vero che la metafora si
presta bene all’interpretazione secondo cui il leone affamato trova un mega soma, una
grande carcassa d’animale, e la divora; tuttavia la metafora stessa è da riferirsi a
Menelao (il leone) che scorge Paride (che è vivo e vegeto) e trama tremenda vendetta.
In ogni caso, come ho detto, non si tratta di argomenti decisive, e lo stesso Renehan
conclude con un “non licet”.229
Un controesempio a Snell (e ad Aristarco) sull’uso di soma che dovremmo prendere
più seriamente è il modo in cui la parola appare in Esiodo, Le opere e i giorni:230

In quei momenti indossa a difesa del soma, te lo consiglio,


un morbido mantello e una lunga tunica […]
avviluppati in quello, perché rabbrividendo e tremando,
non ti si rizzino i peli lungo il soma.231

Non c’è bisogno che sottolinei come in entrambe le occorrenze di soma in questo passo,
esso non possa assolutamente significare cadavere. Sembra proprio, anzi, che si parli
proprio di quella nozione di corpo che Snell negava all’uomo greco arcaico. Si noti
inoltre come nel passo niente suggerisca che si stia usando soma in un’accezione
inusuale. Inoltre Esiodo non può essere molto lontano nel tempo da Omero: sebbene di
solito, sin dal mondo greco, si collochi l’aedo cieco prima di Esiodo, Martin West ha
fatto notare come questo sia vero solo dal IV sec. a.C. in avanti, mentre in precedenza
era Esiodo ad essere considerato il più antico.232 La questione della datazione relativa
dei due poeti non è ad oggi completamente risolta, ma – come osserva giustamente

228
Renehan (1979) p. 272.
229
Cioè “non è chiaro”. Renehan (1979) p. 273.
230
Sempre in Renehan (1979) p. 276.
231
Le opere e i giorni, 536 – 540.
232
West (1995) p. 1. Ovviamente con i nomi propri ci riferiamo qui agli anonimi poeti che hanno
composto le opere “di” Esiodo e “di” Omero.

53
Renehan – se Esiodo non viene addirittura prima di Omero,233 non può seguirlo di
molto.234 E se Esiodo aveva già una nozione di corpo vivo e già lo chiamava soma come
i greci più tardi, sembra proprio che l’applicazione della tesi iii sia del tutto arbitraria.
Bernard Williams è un altro feroce critico di Snell, sia per quanto riguarda l’unità del
corpo vivente sia per le tesi snelliane sull’assenza del concetto di volontà in Omero.235
Riguardo l’unità del corpo, la critica di Williams si incentra sul richiamo al “buon
senso” di ogni lettore di Omero riguardo al trarre conclusioni di radicale distanza
psicologica tra noi e il greco arcaico:236 “ogni lettore dell’Iliade sa che questo non può
essere vero”.237 Williams critica, oltre che l’implausibilità che qualche essere umano
possa mai essersi pensato come “a pezzi”, il pregiudizio snelliano che il dualismo
anima-corpo sia l’unica maniera efficace di descrivere l’essere umano: siccome Omero
non era dualista, Snell ne ha voluto dedurre che non poteva avere la nostra stessa
complessità psicologica. Un appunto interessante dello studioso inglese e che
dovremmo tenere in considerazione è che, sebbene ci siano fatti linguistici che in
qualche modo supportano Snell sulla mancata unità del corpo vivente (vedi sopra), egli
non ha considerato strano il fatto che il cadavere ci fosse invece sempre presentato come
intero. Williams porta come esempio il passo in cui Priamo si interroga così sulla sorte
del cadavere del figlio Ettore, su cui Achille ha sfogato la sua ira: “[chissà] se ancora
presso le navi è il figlio mio, o, fatto a pezzi, Achille lo ha già gettato alle cagne”.238
“Nel volere che il corpo di Ettore sia intatto”, commenta Williams, “Priamo vuole che
Ettore sia come da vivo”.239 L’unità del cadavere non può quindi comparire dal niente al
momento del decesso: è molto più ragionevole che essa fosse ben presente anche nel
corpo vivo, in quanto “unità di Ettore”.
Ciò che il passo di Esiodo dimostra è, senza dubbio, che la tesi iii di Snell va in
qualche modo indebolita. Per esempio, considerando la collocazione tradizionale dei
natali dei due poeti (Omero a Chio, isola di fronte alla costa Turca, Esiodo in Beozia, al
233
Questa per esempio è la tesi dello stesso West, che non è isolato.
234
Renehan (1979) p. 276.
235
Supra § I.4.
236
Per altro Williams (p. 32) sottolinea correttamente come parlare di “uomo omerico” invece che di
“personaggi omerici” sia già una sorta di petitio principiis da parte di questi studiosi “progressisti”: essi
vogliono trovare un tipo d’uomo diverso. Io tuttavia continuerò a usare quest’espressione, proprio perché
il mio scopo è il mostrare che ci sono in effetti aspetti psicologici per cui oggi siamo effettivamente
diversi dal greco arcaico (sebbene non tanto diversi come Snell pensava).
237
Williams (1993) p. 33.
238
Iliade XXIV 405-410. In Williams (1993) p. 33.
239
Williams (1993) p. 34.

54
centro della penisola ellenica), è possibile che coloro che diffusero queste “voci”
intendessero riflettere una qualche verità storica sulle zone di origine dei poemi di
Omero ed Esiodo: è lecito aspettarsi che i poeti dietro alla Teogonia parlassero un
dialetto240 greco diverso da quelli dietro all’Iliade e l’Odissea; ed è del tutto possibile
che questi dialetti abbiano fatto uso e dato un’importanza diversa ad una parola come
soma. Ma sembra meno dispendioso immaginare che, come osserva sempre West,
semplicemente ad Omero non sia capitata l’occasione di usare soma nel senso di corpo
vivo:241 pare quindi che in questo caso ci sia spinti troppo audacemente nel trarre
conclusioni antropologiche da dati linguistici.242 Ciò che possiamo affermare con
relativa sicurezza è che (a) Omero usa soma solo o prevalentemente nel senso di
cadavere; e che (b) questo non ci autorizza a dedurre l’assenza assoluta di una parola (e
a fortiori di un concetto) per la totalità del corpo vivo nel greco dei tempi omerico-
esiodei. Da a e b sembra lecito, al massimo, ipotizzare che (c) nel greco dell’ VIII-VII
sec. a.C. soma richiami principalmente il corpo nel suo aspetto solamente fisico, cioè
corpo non in quanto “vissuto” da un “io” al suo interno, Körper ma non Leib.

§ I.14 Conclusioni sull’antropologia omerica.


Non è detto, nonostante quanto appena affermato, che l’apporto di Snell a questo
dibattito debba essere reso nullo. Trovo anzi che esso, sia per i suoi aspetti più brillanti
sia nelle sue conclusioni più controverse, debba ancora essere il punto di partenza per

240
In realtà la situazione non è così semplice, dato che il greco omerico non consiste in un singolo
dialetto, ma di una lingua letteraria frutto della mescolanza di dialetti diversi, che nessuno ha mai
realmente parlato. Ciò nonostante non è a priori escludibile che la differenza tra Omero ed Esiodo
sull’uso di soma non sia riconducibile a una qualche differenza geografica dei poeti che hanno composto
e fissato per iscritto le “loro” opere. Per una panoramica sugli studi linguistici, soprattutto nella
comparazione tra Omero ed Esiodo, rimando a West (1995) p. 205.
241
West, Hesiod: Works and Days, p. 295 v. 340, che critica Snell offrendo un controesempio dove
soma=corpo vivo in Archiloco (VII sec. a.C.). L’opinione di West è che Omero non abbia semplicemente
avuto l’occasione di utilizzare soma come corpo vivo, occasione invece che hanno avuto Esiodo e
Archiloco.
242
D’altronde non ci si può lamentare: una volta fornite idee così affascinanti ai filosofi, essi vi
ronzeranno intorno per secoli; è troppo pretendere che le abbandonino, anche quando è ormai quasi certo
che quelle idee sono sbagliate. Ecco come anche grandi studiosi come Galimberti e Vernant possono
ancora permettersi di ignorare deliberatamente questi contro argomenti e di accettare come
incontrovertibili le tesi Snelliane sull’assenza del concetto di corpo e sul corpo come mero insieme di
membra e non come unità; estendendo poi, altrettanto problematicamente, la portata di queste
considerazioni da Omero a tutti i greci arcaici. Vedi Galimberti (1983) pp. 46 - 47 e Vernant (1989) pp. 4
– 6 (ma non sono isolati).

55
questo tipo di discussione (come per esempio testimonia il recente lavoro di Brooke
Holmes sulla genesi del concetto di “corpo” all’interno della grecità).243
Notiamo come le critiche a Snell si basino perlopiù su fatti puramente linguistici: è
tutta questione di lessico. Sebbene reputi questo atteggiamento uno strumento al quale
non si può rinunciare nello studio degli antichi (d’altronde, nella presentazione dei
vocaboli psicologici in Omero non ho fatto niente di diverso),244 ritengo anche
necessaria l’integrazione delle informazioni che ci giungono non solo dalla “nuda”
lingua, ma anche da ciò che ci viene raccontato, da come ci viene raccontato e da quali
temi hanno ricevuto più peso rispetto agli altri. Snell, a giudicare dall’insieme della sua
opera del 1946, era mosso più da queste ultime “fonti” che dalla sola osservazione del
lessico: quella, a mio parere, venne dopo e a conferma delle idee che egli si era fatto sul
mondo omerico. Egli commise anche grossi errori, ma quello era il metodo giusto.
In § I.10 ho mostrato come l’interesse dell’uomo omerico sia inequivocabilmente
concentrato sulla vita, in conseguenza dell’amara e onnipresente coscienza della
mortalità, così viva nei greci arcaici. L’uomo omerico non ha la consolazione della
credenza che la sua anima andrà in paradiso e godrà di una vita beata, proprio perché
non ha i presupposti per sostenere quella credenza; egli (eroe semidivino o semplice
contadino) teme sinceramente la morte, e la sua vita è regolata da quel timore. Per certi
versi, la condizione dell’uomo omerico somiglia quindi alla nostra, a quella dell’uomo
occidentale dopo che la prospettiva di ogni possibile “salvezza” ultraterrena si è
allontanata, via via che, secolarizzandoci sempre più, ci siamo spinti lontano da tali
credenze. Ciò che invece ci differenzia dai nostri più antichi progenitori culturali è il
fatto che noi veniamo da due millenni e mezzo durante i quali abbiamo pensato noi
stessi come esseri composti di due entità, l’anima e il corpo; mentre i greci arcaici
mostrano invece, tramite Omero, di essere ancora ben lontani da una tale visione del
mondo. Noi non possiamo ad oggi, cresciuti all’ombra del dualismo, fare a meno di
pensarci secondo queste categorie,245 e – purtroppo per noi – il dualismo in assenza di

243
Holmes (2010), The Symptom and the Subject, che prende le mosse (sebbene criticamente) da
Snell.
244
Supra §§ I.3 - I.10.
245
Ciò non vuole negare gli innumerevoli tentativi di spiegare la mente da un punto di vista
strettamente materialistico, proliferati a partire dallo scorso secolo (con alcuni illustri predecessori nello
stesso mondo Greco). Anzi, l’interesse che dimostriamo per queste teorie scientifiche è quasi una riprova
del nostro coinvolgimento profondo in uno schema dualista: proprio per via di questo c’è bisogno di
scienziati e filosofi che si impegnino nel confutare questo pregiudizio culturale.

56
una solida “escatologia della salvezza” lascia inermi davanti al nulla della morte. I greci
arcaici, come noi – e forse di più – avevano piena coscienza di questo destino di morte
assoluta. È vero, essi pensavano che ci fosse un mondo sotterraneo ad attenderli alla
morte, ma erano davvero loro ad essere attesi da Ade e Persefone? O piuttosto un mèro
simulacro, una pallida replica della loro identità? Alla luce di quanto visto finora, la
seconda possibilità sembra più aderente al testo omerico, a meno di tutte le eccezioni
che abbiamo analizzato. Essi erano innocenti rispetto al dualismo, che avrebbero
conosciuto solo in seguito, e la mancanza di prospettive “migliori” – cioè un’esistenza
disincarnata dopo la vita – permetteva loro di accettare più serenamente le conseguenze
escatologiche del non concepirsi come anime slegate da questo mondo: dopo la morte
c’era sì il nulla – o meglio, l’Ade omerico (come abbiamo visto,un quasi nulla) – ma
questa era la natura delle cose: inutile opporsi. Come ebbero a dire alcuni tra gli stessi
greci (qualche secolo dopo), non è il non avere che rende l’uomo infelice, bensì il
credere di poter avere qualcosa che non si ha: i greci di Omero non potevano soffrire
per la mancanza di prospettive salvifiche che presupponevano il dualismo; noi invece,
purtroppo, ne siamo maestri.
Snell, è vero, ebbe poco riguardo verso i greci, considerandoli in un certo senso
inferiori solo perché ancora non pensavano come noi; tuttavia egli aveva piena ragione
sul fatto che in Omero non ci viene presentato un essere umano “anfibio”, ma uno ben
ancorato alla vita del corpo, al punto di essere tutt’uno con essa. E aveva ragione sul
fatto che, in un lasso di tempo relativamente breve, questo sarebbe cambiato. Al di là
della teleologia “superba” che viziava la sua analisi, egli ha scorto una solida diversità
nell’uomo omerico. Ha sottolineato come non esistesse un’anima unitaria, qualcosa che
assommasse in sé “tutto il senso dell’umano”, opposta ad un corpo. Alla luce delle
giuste critiche che gli sono state sollevate (vedi sopra), è probabile che egli si sia stato
precipitoso nell’attribuire ad Omero la mancanza di una nozione di corpo unitaria.
Tuttavia anche lì egli ha sollevato problemi importanti, che prendono vita da solidi fatti
filologici.
Anthony Long ha recentemente utilizzato per l’umanità omerica la formula “identità
psicosomatiche”.246 Il termine, si capisce, si riferisce all’unità di psychē e di soma, di
anima e corpo, che rende l’uomo omerico diverso dall’uomo greco del IV sec. a.C. (e

246
Long (2015) pp. 14-35.

57
da noi). Redfield ha detto la stessa cosa quando scriveva che nell’eroe epico “l’io
interiore non è altro che l’io organico”.247 La formula di Long, invece, nonostante voglia
sottolineare esattamente ciò che sto qui cercando di mostrare, non è del tutto felice:
riconoscersi in un’identità psico-somatica significa, alla lettera, considerare la propria
anima o mente un tutt’uno col proprio corpo, in contrasto con un dualismo à la Platone,
che riconosce nell’anima il “vero uomo” e nel corpo solo un veicolo (“come un
nocchiero lo è al suo vascello”). Ma Omero non intendeva “anima” e “corpo” come ne
parliamo noi, ammesso che li intendesse in assoluto. Siamo sicuri allora che questa
formula di Long non descriva meglio noi che l’uomo omerico, del quale dovremmo
sottolineare al contrario l’ignoranza assoluta di questi concetti?

247
Cito da Vernant (1989) p. 6 nota 9. L’opera di Redfield a cui si fa riferimento è l’articolo Le
sentiment homérique du Moi (1985). Ma Redfield tocca qui, oltre il tema dell’identità intesa come “ciò
con cui mi riconosco”, l’ancor più spinoso (e tuttavia correlato) tema della coscienza di sé, di cui abbiamo
accennato nel § I.4.

58
Capitolo II

L’anima di Socrate

Una volta composto il tutto, lo divise in tante anime


quanti sono gli astri e attribuì ogni anima ad ogni astro;
e postele come su un carro, mostrò loro la natura
dell’universo e rivelò loro le leggi del fato.

Platone, Timeo 41 d-e

§ II.1 Il Fedone come manifesto del platonismo


Nella seconda metà del secolo di maggior splendore della polis di Atene,1 tra le sue
strade non doveva essere raro imbattersi in quel singolare personaggio che fu Socrate. Il
Fedone,2 un dialogo del discepolo Platone, ci parla delle sue ultime ore di vita, prima
che l’ “uomo più saggio di Grecia” si dia la morte bevendo la proverbiale cicuta. In
questa sede dal personaggio Socrate viene espressa una visione dell’essere umano e del
suo destino oltre la morte completamente diversa da quella che abbiamo tratto da
Omero: sulla soglia dell’esecuzione della condanna, circondato dagli amici ben più
mesti di lui, egli si professa felice di morire, poiché speranzoso di trovare nell’aldilà
“divinità savie e buone” e di poter infine intrattenersi con i grandi uomini del passato.3
Prendendo le mosse proprio dal Fedone, cercheremo adesso di dare un quadro molto
sintetico della visione platonica dell’uomo, dell’anima e dell’aldilà.
La novità più grande rispetto ad Omero la troviamo nella postulazione di due entità
che insieme formano la creatura vivente mentre vive, nettamente distinte sul piano
ontologico: l’anima (psychē) e il corpo (soma). Questo dualismo di anima e corpo, già
così lontano dalla visione del mondo omerica, è poi totalmente sbilanciato, sul piano del
1
Ovvero il V secolo a.C., durante il quale i Persiani furono definitivamente respinti, regalando alla
Grecia un trentennio di pace e prosperità durato pressappoco fino allo scoppio della Guerra del
Peloponneso (431 a.C.), destinata a sconvolgere gli equilibri della penisola e soprattutto quelli interni alla
polis di Atene. Estrema conseguenza dell’instabilità politico-ideologica successiva alla sconfitta ateniese
fu anche la condanna a morte di Socrate del 399 a.C.
2
Significativamente conosciuto nell’antichità come Sull’anima, come attestato da Diogene Laerzio,
III.58.
3
Fedone 63 b - c.

59
valore, dalla parte della psychē: in questo atteggiamento “puritano”4 è solo quest’ultima
ad essere degna di attenzione, mentre il corpo è disprezzato (e addirittura definito un
male).5 L’anima è “simile al divino”, “immortale”, “intelligente”,6 mentre il corpo è per
essa un turpe carcere7 dal quale bisogna liberarsi al più presto: e infatti, come per il
detenuto che abbia finalmente scontato la sua pena, per l’anima la vera felicità arriva
solo quando si sia liberata della sua prigione, ovvero nell’Ade, dopo il decesso.8
Come in Omero, la morte (thanatos) comporta ancora nel Fedone la separazione
della psychē e del soma.9 Socrate può così chiedere retoricamente agli amici:

“riteniamo che [la morte] sia altro che non una separazione della psychē dal soma? E che esser morto
non sia altro che questo: da un lato, l’essere il soma, separatosi dalla psychē , da sé solo, e dall’altro,
l’essere la psychē , separatasi dal soma, da sé sola?”.10

Ma se in Omero eravamo in difficoltà nel capire se, sia in vita che dopo la morte,
l’individuo si identificava con il corpo (o il cadavere) oppure con l’anima (“incarnata” o
già volata nell’Ade),11 nel Fedone non c’è alcun dubbio: l’individuo, vivo o morto che
sia, insieme alla sua personalità, la sua coscienza e la memoria,12 è la sua anima.13 Il

4
Ripropongo qui l’espressione di Dodds (1951), che mi pare fortunata.
5
Fedone 66 b. In 66 c - d si arriva addirittura ad alludere al corpo – cioè allo stato di incarnazione in
cui ci troviamo da vivi – come la radice di tutto il male del mondo (guerre, tumulti ecc.). Si ritrova qui
quella tipica ambivalenza delle dicotomie platoniche (ad esempio, appunto, anima/corporeità, oppure
visibile/invisibile, conoscenza/opinione ecc.) messa bene in luce da B. Williams (1993) pp. 178-180: se
da una parte il filosofo pone tra i due termini un contrasto tra realtà e apparenza – quasi negando, quindi,
che l’elemento “apparente” propriamente sia (nel nostro caso il corpo) –, dall’altra ci mette in guardia
verso le tentazioni o le illusioni dello stesso elemento “apparente”, attribuendogli una potenza pericolosa.
6
Fedone 81 a.
7
Fedone 83 e.
8
Ma all’interno del corpus platonico troviamo anche una destinazione finale alternativa: come
suggerito dal passo del Timeo in epigrafe a questo capitolo, in quel dialogo le anime sono destinate “agli
astri”, a rimarcare la loro origine divina e la loro incontestabile superiorità con la Terra, il mondo della
corruttibilità e della precarietà. Cfr. anche Timeo 41 c (“e accoglieteli di nuovo alla loro morte”).
9
Supra, § I.8.
10
Fedone 64 c. Cfr. Gorgia 524 b: “La morte, io ritengo, non è altro che lo scioglimento della psychē
dal soma”. Cfr. Gallop (1975) pp. 86-87. Si noti che in Platone non viene meno la funzione di psychē
come principio della vita: “Allora la psychē, qualunque cosa occupi, entra portandovi sempre la vita
(zoé)” Fedone 105 c - d; questa funzione viene piuttosto inglobata in un insieme più largo e articolato.
Cfr. Cratilo 399; Rep. I 353 d - e.
11
Supra § I. 12.
12
Sulla memoria in questo contesto cfr. Sorabji (2006) pp. 100. Nella reincarnazione platonica le
anime che rinascono in un nuovo corpo hanno la memoria delle vite precedenti totalmente o parzialmente
cancellata (vedi e.g. Rep. X 621 a - b): per i problemi filosofici che questo pone, Sorabji (2006) pp. 105 –
109 (si può parlare della stessa persona o della stessa anima se la memoria viene persa? Cosa funge allora
da vettore dell’identità personale?). Si noti comunque che, seguendo ad esempio alla lettera il mito
escatologico della Repubblica (X 621 a - b e sgg.), le anime perdono la memoria “per accidente” (ovvero

60
corpo è solo un involucro materiale, che non ci appartiene essenzialmente: a riprova di
questo, Socrate difende nel Fedone (e altrove)14 la credenza nella metempsicosi: le
psychai, che sono immortali, dopo un certo periodo dalla morte si reincarnano in un
nuovo vivente, essere umano o animale.15
Ciò che rende un essere umano tale, insomma, il “vero uomo”16 dentro quell’insieme
di psychē e soma che compone l’apparenza visibile di noi uomini e donne, è la sola
psychē. Platone collega però questa preminenza “logica” ad almeno altri due elementi
che caratterizzano l’anima come superiore al corpo: uno è di tipo morale, l’altro

perché bevono l’acqua del fiume Lete) e non semplicemente in quanto anime disincarnate (anzi, in 620 a
è esplicitamente ricordato che la memoria della vita passata è la base della scelta della nuova vita).
Attenendoci al mito della Repubblica, quindi, le anime conservano la memoria (altrimenti non potrebbero
perderla prima di reincarnarsi). Nel Fedone la base per questa tesi è più esigua, ma ricordiamo comunque
il passo 113 d – 144 b, nel quale le anime dei peccatori devono chiedere perdono alle anime delle loro
vittime per essere tratte dalla punizione del Tartaro: se né le vittime né i colpevoli ricordassero le loro vite
precedenti, quello della punizione ultraterrena sarebbe un “gioco” piuttosto sterile.
13
Cfr. Alcibiade I 130 b 3-5 “[...] resta, o che l’uomo non sia niente, o, se è qualcosa, che esso risulti
essere nient’altro che la psychē”. Poco importa se l’Alcibiade I sia un dialogo apocrifo, come si è talvolta
ritenuto, o meno: anche in altri dialoghi Platone ci fa intendere frequentemente che questa è la sua
credenza più intima sull’essenza dell’umano. Cfr. Burnet (1916) p. 12. Come si spiega altrimenti l’uso
della prima persona in passi come Fedone 63 b-c? Cfr. Sorabji (2006) p. 116. Sebbene Platone non ce ne
parli mai esplicitamente, ho usato il termine “coscienza” per indicare la continuità dell’esperienza
soggettiva che Platone sembra indicare tra persona vivente e anima dopo la morte; o, detto più
semplicemente: secondo Platone, se io ora muoio, nell’istante successivo mi riconoscerò subito come
sempre io, nonostante sia ormai passato dall’essere un vivente all’essere una psychē disincarnata. Sebbene
il Fedone non dica molto al riguardo, Cfr. il passo sul risveglio di Er dalla morte in Rep. 621 b. Vernant
(1963) p. 120 compie un’analisi molto convincente del rapporto tra la psychē platonica e la coscienza,
mettendone a nudo l’intrinseca problematicità: Socrate è la sua psychē, ma al contempo quell’anima sarà
stata qualcun altro (e.g. Pitagora) prima di Socrate (e sarà altri individui dopo di lui), ed è quantomeno
problematico dire che Pitagora e Socrate sono lo stesso individuo, come per qualsiasi altra coppia di
individui “storicamente” distinti. L’anima sembra essere veramente se stessa solo nel momento in cui non
è incarnata.
14
Nel Fedone Socrate offre ai suoi amici una vera e propria dimostrazione di questa teoria, con
l’obiettivo di mostrare che essa è pressappoco una “necessità logica” (70 c – 72 e). Negli altri dialoghi
che la rammentano significativamente (cioè Rep. X 614 a – 621 d, Fedro 246 c – d, Timeo 41 c – 42 e)
non mi sembra invece altrettanto chiaro se la reincarnazione vada presa “alla lettera” o piuttosto
interpretata in chiave allegorica; dubbio che si iscrive nel problema più generale dello statuto del mito in
Platone. Talvolta alcune osservazioni dei personaggi fanno pensare che si tratti di quest’ultimo caso (ad
esempio, nello stesso Fedone alla fine del racconto mitico Socrate esclama: “certo, ostinarsi a sostenere
che le cose stiano proprio così come le ho descritte, non si addice a uomo che abbia senno”, 114 b. Cfr.
anche il “discorso verosimile” in Timeo 30 b). Tuttavia nel caso della metempsicosi possiamo essere
relativamente tranquilli: non abbiamo motivo di non prenderla alla lettera, giacché viene (i) dimostrata
nel Fedone e (ii) mai esplicitamente detta “allegorica” in altri dialoghi.
15
In Omero la psychē era di solito appannaggio solo degli esseri umani (con eccezioni, cfr. supra §
I.4), mentre in Platone tutti gli animali sembrano possederla come gli uomini. Il senso in cui ne sono in
possesso, comunque, rimane secondario e solo derivato dal fatto che le psychai degli uomini defunti
possono scegliere di reincarnarsi in forme non umane, come in Rep. X 618 a – 621 d; oppure talvolta la
reincarnazione animale è una punizione divina per i misfatti compiuti in vita, Fedone 82 b - c. Il problema
esposto nella nota precedente diventa a questo proposito ancora più significativo.
16
Cfr. Repubblica IX 589 a-b sull’ “uomo interiore” (qui esplicitamente simboleggiante la razionalità)
che esercita il suo dominio sull’ “individuo umano”. Cfr. Sorabji (2006) pp. 116 - 117.

61
epistemologico, e in Platone non è possibile tenerli rigorosamente separati. Partiamo dal
primo. Abbiamo osservato in Omero un generale disinteresse per l’etica, almeno per
come siamo abituati a concepirla noi: sia riguardo alla descrizione del modo in cui gli
dèi influenzano le vicende mortali (cioè con completa arbitrarietà, senza scrupoli
morali), sia per quanto riguarda l’assenza, nella descrizione omerica dell’aldilà, di un
sistema di premi e punizioni per chi ha condotto una vita giusta o ingiusta.17 Il
personaggio Socrate afferma invece di avere “piena speranza che per i morti ci sia
qualcosa, e che questo, come si dice già dai tempi antichi,18 sia qualcosa di molto
migliore per i buoni che non per i cattivi”.19 Qui si mescola a quello morale l’elemento
epistemologico: Socrate, invece di spiegarci chi siano questi “buoni”, si premura
piuttosto di definire l’attitudine del filosofo (philosophos), cioè colui che vive nel
disprezzo di ciò che di superfluo l’avere un corpo comporta (i piaceri del mangiare, del
bere e del sesso, l’interesse per l’eleganza e il lusso)20 e che invece si dedica
esclusivamente alla ricerca della verità. Quest’ultima, però, l’amante della sapienza la
avvicina solo quando la sua psychē si raccoglie il più possibile “sola in se stessa”,
“rompendo il contatto e la comunanza col soma nella misura in cui può”;21 poiché i
sensi corporei – che il nostro temporaneo stato di incarnazione ci garantisce, nostro
malgrado – non sono “sicuri né chiari”.22 Ed ecco che un ideale filosofico, un
“programma di ricerca”, si unisce e si fa tutt’uno con un ideale etico:23 il filosofo (cioè
la sua psychē) troverà la verità solo dopo la morte, quando non ci sarà più un corpo a
distrarlo dal suo scopo con i piaceri, i dolori,24 i desideri, le malattie, le emozioni;25 e

17
Supra § I.11. Questo vale soprattutto per l’Iliade, dove d’altronde gli dèi intervengono anche con
maggior frequenza nelle vicende umane. Come ha affermato Williams (1993) pp. 48 – 49, ai personaggi
omerici manca una distinzione tra motivazioni morali e non morali, sia che si tratti di dèi che di uomini;
nonostante Dodds (1951) pp. 74 – 75 legga già in Omero i primi segni di una progressiva moralizzazione
degli dèi. In effetti, come nota a p. 75, già nell’Odissea Zeus ha funzioni morali sconosciute al poeta
dell’Iliade (ad esempio “protegge i supplici”).
18
Il riferimento qui – come anche sopra, quando paragonava il corpo a una prigione – pare essere alle
dottrine orfiche, di cui diremo qualcosa tra poco, cfr. infra § II.3. Cfr. Reale (2017), nota 46.
19
Fedone 64 c; cfr. anche 72 d-e e 81 d. Egualmente presente è il tema del giudizio delle psychai dopo
la morte, presenza costante dei miti escatologici del corpus platonico; vedi Fedone 107 d; Rep. X 614 c;
Gorgia 523 a - 524 a; Fedro 249 a.
20
Fedone 64 d.
21
Fedone 65 c - d.
22
E quindi inaffidabili e inutili nella ricerca del vero. Fedone 65 a - b.
23
Sulle’essenza della filosofia di Platone come pratica spirituale, cfr. Hadot (1995) pp. 56-75.
24
Definiti “chiodi” che fissano l’anima al corpo. Fedone 83 d.
25
Questa è anche, per inciso, la ragione ultima per cui Socrate può morire felice: se il filosofo
desidera raggiungere la verità (aletheia) e questa si raggiunge tanto meglio quanto ci si distacca dal corpo,
sarebbe del tutto incoerente (“ridicolo” dice Socrate) che il filosofo tema poi la morte, lo stato di massima

62
questo “programma” sembra essere, oltre che un buon modo di fare filosofia, anche un
esempio paradigmatico di una vita giusta in senso morale-religioso.
Come conseguenza di questo pastiche tra filosofia e valori etici, Platone (almeno del
Fedone) guarda alla corporeità e al mondo sensibile in termini prettamente negativi, sia
in termini di conoscenza – corpo come ostacolo o distrazione per la ricerca del vero26 –
che in termini morali – corpo fonte del male del mondo, fonte di “impurità” alla quale
bisogna cercare rimedio.27
Senz’altro Platone si rifà qui almeno in parte alle dottrine religiose dette misteri,
come d’altronde fa ammettere esplicitamente a Socrate.28 In generale in questo insieme
eterogeneo di dottrine si predicava la necessità di una purificazione (katharsis)
dell’anima dalla contaminazione causata dal corpo, al fine di evitare un aldilà di
dannazione e conquistarsi invece la beatitudine ultraterrena.29
L’aspetto della psychē platonica che permette di tenere insieme l’elemento etico con
quello filosofico è l’intelligenza (phronesis). In Omero, come abbiamo visto, la parola
“psychē” non era in alcun modo collegata al pensiero o l’intelletto.30 Platone invece
richiama questo attributo della sua psychē a più riprese,31 facendoci talvolta addirittura
intendere che la razionalità costituisca la stessa essenza della psychē,32 e che quindi, una
volta disincarnata, l’anima consista in “puro sguardo razionale”.33 O, in altri termini,
che anima e mente siano la stessa cosa.34

lontananza della psychē da ogni forma di corporeità. La filosofia si configura quindi come melete
thanatou, “esercizio di morte”, ovvero come pratica ascetica di distacco dalla corporeità durante la vita
stessa.
26
Cfr. Fedone 65 b – d.
27
Si pensi ancora all’associazione del corpo col carcere in Fedone 62 b, o ancor più esplicitamente in
Fedone 66 b – d.
28
Per il Fedone, un esempio su tutti è il passo 69 b – d. Riguardo agli altri dialoghi, affermazioni
analoghe non mancano, ad esempio in Menone 81 a – b, Apologia 40 c, Repubblica II 363 c, Gorgia 493
a – c, Cratilo 400 c, probabilmente Leggi 959 b.
29
Vedi infra § II. 3.
30
C’erano semmai altre parole collegate all’intelletto: noos, phrenes e talvolta thymos. Vedi supra, §§
I.4-I.9.
31
E.g. Fedone 81 a.
32
Questo è però un punto controverso, dato che il filosofo non lo dice esplicitamente. Oltre al passo
sull’ “uomo interiore” citato prima (Rep. IX 589 a - b), altri passi come Rep. X 611 b – 612 a oppure
Timeo 69 c farebbero intendere la doppia equazione psychē=io=razionalità. Cfr. Sorabji (2006) pp. 117-
118. D’altronde, che la razionalità sia una caratteristica molto importante per l’uomo sembra abbastanza
diffuso nel milieu intellettuale greco del IV sec. a.C. .
33
Rep. X 611 c – 612 a.
34
Cfr. Broadie (2001) pp. 301 – 302. Inoltre, come osserva la stessa studiosa, la “confusione” nel
Fedone sussiste anche tra la psychē come “ciò che anima il corpo” (animator) e come “ciò che pensa”.
Ma come poi si osserva, questa “confusione” è la teoria dell’anima del Fedone: prendere o lasciare.

63
Nel corso della sua vita filosofica, Platone non ha professato ovunque e con la stessa
forza lo schema dualista del Fedone. Nei dialoghi giovanili, ad esempio, la
diseguaglianza di valore tra anima e corpo non era così marcata;35 mentre in altri
dialoghi considerati più tardi, come la Repubblica o il Timeo, il quadro psicologico si fa
assai più complicato.36 Ciò nonostante, l’opera di Platone è pervasa nella sua interezza
dalle idee che fanno sfondo al Fedone, ovvero la credenza in un principio divino detto
psychē, in sé immortale e puramente razionale, coincidente con la persona stessa;
insieme allo screditamento della corporeità e del mondo sensibile. Così infatti nelle
Leggi, notoriamente l’ultima opera del filosofo: “quando si muore i corpi dei morti sono
come delle immagini, mentre la vera essenza di ciascuno di noi, che è immortale e
chiamiamo psychē, se ne va presso altri dèi a render conto […]”.37

§ II.2 Il vocabolario psicologico tra V e IV sec. a.C.


In questo paragrafo confronteremo il vocabolario psicologico di Platone con quello
dei contemporanei suoi e di Socrate.38 Iniziamo dalla coppia psychē-soma: quanto si
somigliano l’uso filosofico che Platone fa di questi termini e quello della gente comune
che viveva intorno a lui?
35
Cfr. Long (2015) pp. 66-87 sul trattamento meno duro riservato al corpo nell’Apologia, nel Gorgia,
e nel Critone. “Nel corso della sua argomentazione [nel Fedone], Socrate tratta il corpo e l’anima in
maniera sensibilmente differente rispetto al Gorgia. Là, senza collocare uno al di sopra dell’altro, aveva
presentato corpo e anima in parallelo, non considerandoli né buoni né cattivi. Ora, nel Fedone, Socrate
enfatizza il contrasto tra corpo e anima nel modo più radicale […]” p. 82. È un esempio di un trattamento
meno “duro” e più “paritario” verso il soma anche la lapidaria osservazione in Cratilo 399 d: “dell’uomo
noi dunque diciamo parte psychē ed parte soma”, dove mancano ulteriori caratterizzazioni per screditare il
secondo elemento.
36
Nella Repubblica il Socrate personaggio presenta un modello dell’anima articolato: essa è divisa
cioè in tre parti o facoltà, ovvero la razionale, l’appetitiva e l’ “animosa”; cfr. Timeo 70 a – 71 b. Gli
elementi di contaminazione che nel Fedone erano attribuiti alla corporeità, nella Repubblica vengono
riassorbiti all’interno dell’anima (ovvero delle due parti “inferiori”, quella appetitiva e quella animosa).
Tuttavia, come hanno notato in molti, sembra che Platone ci suggerisca (in Rep. X 611 a-e) che l’anima
presenti questa struttura articolata solo nel suo presente stato di incarnazione, mentre invece l’ “amore di
sapere” pare configurarsi come l’attributo principale nello stato disincarnato. La distanza dal Fedone non
sarebbe quindi in questo caso troppo grande. In ogni caso il mito della biga alata del Fedro (246 a e sgg.)
pare contraddire questa conclusione, attribuendo degli elementi di contaminazione all’anima anche nello
stato disincarnato.
37
Leggi 959 a – b. Si noti anche l’affermazione che viene poco dopo (959 c): “[non bisogna rovinarsi
per i funerali] ritenendo [..] che quella massa di carne che viene sepolta sia un proprio familiare, mentre
[invece] si deve pensare che quel figlio o quel fratello [..] se ne va dopo aver percorso e terminato il suo
destino”; da confrontarsi con la celebre battuta di Socrate alla fine del Fedone, in risposta alla domanda
“Come dobbiamo seppellirti?”: “Come volete – disse – se pure mi prenderete e io non vi scapperò”
(Fedone 115 c). Dal Fedone alle Leggi Platone non ha quindi cambiato la visione di fondo dell’anima
coincidente con la persona e il corpo mero “ammasso di carne”.
38
Quindi a cavallo tra V e IV secolo a.C. : Socrate nacque intorno al 470 a.C. e morì nel 399, Platone
nacque intorno al 428 e morì nel 346 circa.

64
Abbiamo osservato come in Omero tra psychē e soma esistesse già un forte legame
concettuale: le due parole erano accomunate dal descrivere i due diversi tipi di
“residuo” che si originano dalla morte di un essere umano (psychē come pallido e
debole “residuo spirituale”, soma principalmente come cadavere).39 Tra i tempi di
Omero e il V sec. a.C. entrambi i termini cambiarono il loro significato, rimanendo
tuttavia associati l’un l’altro. Adesso non sono più uniti solo nella descrizione della
morte, ma anche di quella della vita: dal tardo V secolo in poi,40 possiamo ormai
ragionevolmente tradurre psychē e soma con i nostri concetti di “anima” e “corpo”.
Tuttavia, sebbene tale traduzione sia qui senz’altro molto più accurata di quanto lo
sarebbe stata applicata ad Omero, non possiamo ancora parlare di una corrispondenza
perfetta del soma col nostro “corpo” e della psychē con l’ “anima”, soprattutto per
quanto riguarda il linguaggio comune. Come è stato ben osservato, in generale “nel V
secolo la terminologia psicologica dell’uomo medio, come suole avvenire, era assai
confusa”.41 A riprova di questa tesi, sappiamo che psychē e soma erano talvolta (almeno
in attico, e solo in certi contesti) del tutto intercambiabili: entrambe le parole potevano
infatti essere usate per indicare la “vita” in generale (ancora, come in Omero, in senso
biologico) o la “persona” nell’insieme dei suoi aspetti.42 Soma aveva sì anche il
significato più specifico di “corpo” – inteso sia come “corpo vivente” che come
“cadavere” –43 mentre la psychē non aveva alcuna associazione con la corporeità. Ma al
di là di questo, colpisce il fatto che, se ci si limita all’uso comune, tra psychē e soma
non sussisteva quel forte attrito concettuale che Platone ci presenta nel Fedone:44
l’anima non era qualcosa di tanto diverso dal corpo, né tra i due termini c’era alcuna
39
Su psychē cfr. supra Cfr. infra §§ I.12 – 14.§ I.10-14, di cui questa formula è un’inevitabile
semplificazione. Si tenga conto anche delle dovute precisazioni sul significato di soma in Omero infra §
I.12.
40
In effetti fino al greco dei giorni nostri, senza soluzione di continuità.
41
Dodds (1951) p. 186, corsivo mio. Cfr. Long (2015) pp. 64-65. D’altronde anche noi nel linguaggio
psicologico comune non siamo terminologicamente rigorosi come quando scriviamo un trattato di
filosofia della mente.
42
Dodds (1951) pp. 185-197. Ad esempio, l’ateniese medio può dire, indifferentemente, “lottare per la
propria psychē” o “per il proprio soma” (agonizesthai peri tes psyches/ peri tou somatos) dove noi
diremmo “lottare per la propria vita”.
43
Long (2015) p. 65. Si noti come anche in italiano utilizziamo spesso “corpo” in entrambi questi
significati, pur parallelamente all’uso della parola “cadavere”. Questo a differenza, ad esempio, del
tedesco (Leib e Körper) e dell’inglese (body e corpse), che utilizzano più raramente lo stesso termine per
indicare entrambe le cose.
44
Anzi: il fatto che Socrate debba profondersi in un’accurata giustificazione della sua affermazione “il
filosofo desidera morire” (che lascia inizialmente interdetti i presenti, Fedone 62 c-d) ci testimonia,
semmai, che all’uomo comune giunge nuova qualsiasi forma di pratica “ascetica” che presupponga un
contrasto tra anima e corpo.

65
contrapposizione di valore; né, infine, era implicito che l’uomo dovesse dedicarsi alla
cura dell’anima disprezzando i bisogni e desideri del corpo. Tuttavia Platone non si è
inventato di sana pianta l’importanza psicologica della psychē: tra Omero e il V-IV
secolo a.C. è effettivamente avvenuta l’associazione tra questa parola e la personalità
dell’individuo. Anche nel linguaggio quotidiano psychē ha ormai assunto almeno una
parte di ciò che noi intendiamo con le espressioni “coscienza”, “io”, anche se non si
tratta della coscienza “intellettualizzata” del Fedone, bensì più di un “io emozionale”,45
per certi versi simile al thymos di Omero. Non spetta alla psychē di ragionare
speculativamente: è semmai ancora “nous”, come in Omero, ad essere la parola
associata a questa funzione, oppure “gnome”.46 Psychē è infatti ritenuta la sede delle
passioni, delle emozioni e degli appetiti animali, uso testimoniato già dai poeti
Semonide (che parla di “gioie della psychē” non avendo certo in mente l’attività
teoretica)47 e Anacreonte (che dice all’amato “Tu sei il padrone della mia psychē”, dove
noi probabilmente diremmo “cuore”).48 Un ateniese di metà V secolo potrà allora dire di
identificarsi con la propria psychē, ma non sottintenderà con quest’affermazione di non
avere niente a che fare col proprio soma, come farebbe invece Platone: se c’è una forma
di dualismo già diffusa tra la gente comune, essa non si articola ancora in termini di
un’esplicita contrapposizione anima contro corpo (o “spirito” contro “materia”). In
conclusione, intendendo psychē in questi termini, nel linguaggio comune l’opposizione
binaria psychē-soma di Platone semplicemente non sussiste, o risulta molto meno netta.
Al di fuori della filosofia platonico-socratica non è diffusa neanche l’idea della
superiorità della psychē sul soma. Di una supposta superiorità “morale” non abbiamo
alcuna traccia (se non per certi gruppi religiosi);49 e non spetta alla psychē di comandare
sul soma – né in senso descrittivo né in senso normativo – come invece si diceva nel
Fedone. Per l’ateniese del V-IV secolo, poi, la parola psychē non possiede nemmeno
quella sfumatura religiosa o sovrannaturale che ha per noi la parola anima: in generale,
infatti, nel periodo classico la religiosità greca non ha ancora la natura di una “religione

45
Dodds (1951) p. 187.
46
Dodds (1951) p. 187. Addirittura è manifestato talvolta un esplicito contrasto tra l’emotività della
psychē e la “fredda” razionalità, come in Sofocle, Antigone, 176 e 707 - 708; Euripide, Alcesti 108.
Sull’uso di gnome cfr. Snell (1943) p. 40.
47
Da Dodds (1951) p. 186. Semonide visse tra il VII e il VI secolo.
48
Da Dodds (1951) p. 186 - 187. Anacreonte visse tra il VI e il V sec. a.C. e proveniva dalla Ionia,
dove secondo Dodds (p. 186) avvenne la prima associazione di psychē alla personalità dell’uomo.
49
Vedi § successivo.

66
dell’anima”, né nel senso di un’opposizione “puritana” dell’anima al corpo, né come
preparazione e purificazione dell’anima in vista di un’esistenza incorporea oltre la
morte.50 Psychē non doveva davvero avere la sia pur minima connotazione di “mistero”,
se Senofonte suggeriva candidamente agli sprovvisti di immaginazione anche questa
parola tra i nomi per il proprio cane.51
Nonostante i numerosi dialoghi che hanno per tema l’anima, Platone (complici i suoi
interessi principalmente metafisici) non ci ha spiegato ovunque se, come e quanto la
psychē interagisca col funzionamento fisico del corpo.52 In ogni caso non vedo il motivo
per non assumere che anche lui partecipasse dell’opinione più comune ai suoi tempi,
cioè che la psychē equivalesse alla vita dell’essere umano: semmai è a questa funzione
che egli può aggiungere poi la razionalità come prima caratteristica dell’anima.53 Come
ci ricorderemo, anche per Omero (cfr. infra § I.9) psychē equivale alla vita in senso
biologico, la zoé (ζωή), cioè il fatto empirico di “essere in vita” ed essere in grado di
rimanerci nel breve termine. Nel V e IV sec. però si associano a questo senso della
psychē omerica anche le funzioni di “centro” del funzionamento della “macchina”
umana,54 che il poeta assegnava invece alle phrenes e al thymos (cfr. infra §§ I.4, I.6).
Nel De Anima, nella rassegna delle teorie psicologiche dei filosofi precedenti, Aristotele
diagnostica entrambi questi aspetti (psychē=vita e psychē=centro fisiologico) come
tratti comuni delle opinioni altrui riportate. Il primo aspetto è sempre dato per sottinteso
nell’intera filosofia aristotelica, dal momento che per parlare del “vivente” egli usa
sempre la parola empsychos (letteralmente “dotato di psychē”), contrapposto a ciò che

50
Ci sono però eccezioni molto rilevanti, vedi sotto.
51
Cynegeticus 7,5. Riportato da Dodds (1951) pp. 209 nota 26. Si ricordi, oltretutto, che anche
Senofonte fu allievo di Socrate. Tuttavia non è certo che il Cynegeticus (“caccia col cane”) sia un’opera
originale. Che la psychē del tempo di Socrate avesse invece qualche sfumatura di soprannaturalità lo
sosteneva ad esempio Burnet (1916), ma quest’opinione sembra essere caduta in discredito.
52
Con la notevole eccezione di Timeo 44 d e sgg, dove Platone lascia intendere che è nella testa
(kephalé) che risiede l’anima (almeno la parte razionale), e in conseguenza di ciò, essa diviene “la parte
più divina che domina, in noi, su tutte le altre”. Precedentemente (43 a – d) e successivamente (45 a sgg.)
fornisce alcune indicazioni della fisiologia della percezione.
53
In Cratilo 399 d sembra confermare questa ipotesi, quando parla dell’etimologia “respiratoria” e
“rinfrescante” di “psychē” e il suo essere “cagione di vita” per il soma (che sebbene siano riportate come
opinioni altrui, non sembrano essere rigettate dall’autore). Poco dopo (400 a – b) viene anche proposta
una spiegazione etimologica di psychē, ancor “più affidabile” secondo Socrate (e non per moderni
studiosi di etimologia, cfr. infra § I.9), cioè psychē come ciò che “tiene insieme” (echein) e “sostiene”
(ochein) la natura (physis) di tutto il soma. In entrambi i casi Platone sembra sottoscrivere che la psychē
sia il “centro della vita” dell’uomo: senza di essa il corpo “cade in rovina e muore” (399 d).
54
La similitudine è però piuttosto anacronistica.

67
invece è inanimato, apsychos (“senza psychē”).55 È proprio questo il motivo per cui il
filosofo non vedeva niente di strano nell’attribuire una psychē alle piante, dal momento
che semplicemente esse partecipano della zoé. Riguardo al secondo aspetto, la psychē
come centro fisiologico, Aristotele trae la seguente conclusione dall’analisi dei
predecessori:

si può dire che tutti definiscono la psychē in base a tre caratteristiche: il movimento [kinesis], la
sensazione [aisthesis] e l’incorporeità.56

Qui Aristotele intende dire che è opinione comune che l’anima sia ciò che permette il
movimento e la sensazione, le caratteristiche che specialmente “distinguono l’essere
animato dall’inanimato”,57 e pare che questo avvenga con l’anima nella parte (anche)
della causa efficiente.58
Una parola sulla collocazione della psychē nel corpo: mentre quella omerica non
aveva (e non aveva motivo di avere) un’esatta collocazione nel corpo,59 in età classica la
psychē è di solito ritenuta avere sede nel sangue o nel cuore,60 sebbene nel V sec. a.C.
comincino ad affacciarsi al panorama “scientifico” greco alcune concezioni
encefalocentriche dell’essere umano.61

55
A partire da De Anima 403 b 25. Cfr. Miller (1999) p. 309. La nostra coppia concettuale animato-
inanimato è proprio un calco esatto di questo modo di esprimersi greco, attraverso il latino animatus e
anima (e si noti come una parola tanto comune come “animale”nasconda allora una visione del mondo
analoga a quella qui in esame).
56
De Anima 405 b 10 – 15. Tralasciamo qui di parlare del terzo elemento, l’incorporeità (to
asomatos), limitandoci a osservare come una tale precisazione sarebbe stata probabilmente
incomprensibile per un lettore greco dei tempi di Omero.
57
De Anima 403 b 25 – 30.
58
Almeno questa è l’impressione che ottengo da tutto il successivo riassunto delle opinioni dei
predecessori, a partire da quello degli atomisti Democrito e Leucippo, De Anima 404 a (e sgg.).
59
Nonostante Onians (1951) pp. 95 e sgg. abbia insistito che la collocazione esistesse, e fosse nella
testa. Cfr. Platone, Timeo 44 d.
60
Credenza che Aristotele incorpora nella sua teoria della fisiologia animale, vedi Della giovinezza e
della vecchiaia 469 b 4 – 7: “se l’animale è definito dal possesso dell’anima sensitiva, necessariamente
negli animali [..] questo principio risiede nel cuore e in quelli privi di sangue nella parte analoga”. Inoltre
quando cede il cuore la vita è finita: “quando si raffredda questa parte, è la distruzione completa”, giacché
“dipende di lì per tutti il principio del calore e della psychē, che in queste parti è come se fosse posta sul
fuoco”. Cfr. Frampton (1991).
61
Vedi Manuli-Vegetti (2009) pp. 20-23, 41-72. L’influenza di queste nuove idee è testimoniata
anche in Platone, ad esempio in Fedone 96 b. Il fatto che il dibattito antico sulla sede della psychē sia
descritto in termini di concezioni “emato-cardiocentriche” (con centro nel sangue o nel cuore) o
“encefalocentriche” (nel cervello) denuncia già il fatto che la psychē è il nuovo (cfr. supra § I.8) “centro
fisiologico” del vivente.

68
Tirando le somme di questo confronto possiamo quindi affermare che (rispetto agli
usi omerici) la novità più notevole del V sec. è che si parla di psychē in termini molto
simili a quelli in cui noi parliamo di “io” (o “anima”), intesi come “personalità”, “io
emozionale”; la differenza più notevole rispetto a Platone è invece l’assenza di
un’opposizione “puritana” anima-corpo e la mancata associazione della psychē alla
ragione (e anzi talvolta in contrasto con essa).
Se è vero che le testimonianze in nostro possesso non ci danno un quadro molto
coerente delle credenze antropologico-psicologiche del greco medio, non si vuole però
nemmeno suggerire che Platone fosse una voce completamente isolata quando chiamava
la psychē “divina” e disprezzava il soma, o quando attribuiva alla prima la facoltà di
comandare sul secondo (ancora: sia in senso normativo che descrittivo). Quando Socrate
esortava a “prendersi cura della propria psychē”,62 esisteva già un pubblico che avrebbe
condiviso il suo pensiero o che almeno avrebbe compreso l’affermazione, sebbene esso
non coincidesse con la maggioranza dei greci. Ad esempio il retore Isocrate,
contemporaneo di Platone, ci dice che

si ammette comunemente che la nostra natura è composta del soma e della psychē; di questi due
elementi nessuno potrebbe negare che la psychē sia, per natura, più atta a comandare e di
maggior pregio, poiché è suo compito deliberare […] mentre è compito del soma eseguire le
decisioni della psychē”.63

Secondo Isocrate, allora, il dualismo e il comando della psychē sul soma erano ben
radicati nella visione del mondo del suo tempo. Il resto delle testimonianze induce a
credere, in effetti, che con quel “comunemente” il retore non si riferisse a tutti i suoi
contemporanei, ma che piuttosto parlasse agli intellettuali, oppure che stesse
esagerando la diffusione di un esplicito dualismo psychē-soma per dare enfasi
all’affermazione. Però che almeno l’élite intellettuale (compresi i poeti e i

62
Nell’Apologia di Socrate (29 d – 30 b) Platone mette in bocca al maestro le parole “io infatti vado
in giro senza fare nient’altro se non persuadervi […] a non prendervi cura né del soma né della ricchezza
prima e così tanto come della psychē”. Non possiamo problematizzare qui la cosiddetta “questione
socratica” sulla vera dottrina del Socrate storico. Ci limitiamo a osservare come sia molto probabile che
almeno una buona parte delle dottrine che Platone attribuisce al Socrate personaggio, soprattutto nei
dialoghi giovanili, avesse qualche riscontro nelle opinioni del maestro.
63
Isocrate, Antidosi 180. Da Long (2015) p. 63. Qui abbiamo sia una concezione di sfondo dualista,
sia l’elogio della psychē , sia infine l’attribuzione della facoltà deliberativa (almeno per quanto riguarda la
deliberazione in senso strettamente pratico).

69
drammaturghi) considerasse ormai una verità assodata che l’uomo fosse composto di
psychē e soma, ci è testimoniato anche da Gorgia,64 che nell’Elogio di Elena ci offre in
assoluto il primo esempio di un uso sistematico della dicotomia psychē-soma per parlare
della natura umana.65 In Gorgia, tuttavia, è la psychē a ritrovarsi subordinata al soma,
dal momento che “il più forte comanda, il più debole obbedisce”.66 Sia in Isocrate che in
Gorgia la psychē è riconosciuta come sede della facoltà deliberativa; nel secondo, però,
contra Isocrate e Platone, ce ne viene dato un ritratto di debolezza ed estrema fallibilità:
la psychē di Gorgia è in balìa dell’attrazione erotica, schiava della ricerca del bello d
estremamente suscettibile alla forza persuasiva del discorso ben fatto, è insomma la
pedina di un gioco che può influenzare solo in minima parte. Un modo di intendere
psychē, quindi, più simile al thymos omerico che all’anima egèmone e divina di Platone.
C’era quindi, tra V e IV secolo, un dibattito (limitato al mondo intellettuale) sul valore
relativo di anime e corpi, sebbene essi fossero d’accordo sia nel concepire l’uomo in
termini dualistici, sia nell’attribuire alla psychē la facoltà deliberativa e l’intelligenza.67
È proprio questa la nozione di anima – cioè psychē come vita o come ciò che assomma
tutti gli aspetti dell’essere umano, ma al contempo anche come la parte migliore,
l’essenza dell’uomo, nonché ciò che pensa, delibera e comanda sul corpo – che
giungerà a noi quasi immutata, principalmente attraverso il pensiero cristiano.68

§ II.3 La religiosità greca nell’età classica.


È difficile compendiare in poche parole un’immagine esaustiva del rapporto tra greci
e la religione, di qualsiasi epoca si tratti. D’altronde prima dell’avvento del
cristianesimo il mondo ellenico non ebbe mai un’autorità religiosa centrale o un insieme
di scritture sacre che permettessero la formazione di un credo “nazionale” uniforme. È

64
Quello storico, contemporaneo di Socrate, e non il personaggio dell’omonimo dialogo platonico.
65
Vedi Long (2015) p. 70.
66
Gorgia, Encomio di Elena 6. Da Long (2015) p. 71. Cfr. la nota relativa all’ambivalenza delle
dicotomie platoniche supra § II.1.
67
Secondo Long (2015) pp. 72-74 lo Zeitgeist dell’epoca è tutto sommato più vicino alla posizione di
Gorgia che a quelle di Platone e Isocrate, ovvero più verso la debolezza e la dipendenza della psychē che
verso il ruolo di comando e deliberazione indipendente.
68
Cfr. Davis (2011) p. 9. Furono gli evangelisti stessi a introdurre la parola “psychē” nel nascente
vocabolario cristiano, utilizzandola di solito nel medesimo significato dei filosofi greci, come possiamo
osservare in Bullinger (1999), appendix 110, pp. 153 – 154: “psychē [..] occurs 105 times [nel Nuovo
Testamento, nda], and is rendered ‘soul’ 58 times, ‘life’ 40 times, ‘mind’ three times, and ‘hearth’,
‘heartily’, ‘us’ and ‘you’ once each”.

70
in primo luogo questa la complicazione che rende difficile una ricostruzione precisa:
semplicemente non esiste un’opinione greca in fatto di religione, ma solo un insieme
confuso di credenze talora contraddittorie.69 Tuttavia, come si diceva nel paragrafo
precedente, riguardo alla religiosità greca all’altezza del V sec. a.C. possiamo affermare
che essa non dava, in generale, grande importanza all’anima. Il culto “ufficiale” degli
dèi Olimpici, spesso quasi indistinto dagli organismi “statali” della polis,70 ovvero la
forma di religiosità più diffusa (e più nota ai posteri), con i suoi sacrifici, i templi e le
preghiere è sì una dimensione essenziale del quotidiano dell’uomo greco,71 ma non è
rivolto alla “salvezza dell’anima” in questo o nell’altro mondo, né esistono concetti
come “peccato” e “redenzione”.72 Sebbene nel V secolo gli déi siano ormai stati
investiti di un certo valore etico,73 l’ideale di giustizia che essi rappresentano è ancora
rivolto a questo mondo, non all’altro.74 In questo senso Platone non rispecchia, nei suoi
miti escatologici e nelle sue dottrine psicologiche, lo Zeitgeist religioso dei suoi
contemporanei. Ciò nonostante, è possibile ottenere qualche informazione sulle
credenze dei contemporanei da Platone stesso: ad esempio nel Fedone Cebete –
inizialmente scettico sulla tesi dell’immortalità della psychē presentata da Socrate – si
esprime così riguardo alle credenze della gente comune:

69
Parafrasando Dodds (1951) p. 230.
70
Cfr. Nilsson (1949) pp. 189 – 192.
71
La dimensione del sacro (hieron) non si limita però per il greco comune al solo culto olimpico
“ufficiale”. Si tengano in considerazione, in proposito, le seguenti parole del Dodds (1973) p. 151 : “Yet I
have a feeling that a picnic at the local shrine of Pan [...] probably meant more to the average countryman,
even in Attica, than the grand ceremonies of the official religion. The ordinary Greek, like the ordinary
Italian, has inclined throughout history to regard the High Gods as too remote and too awe-inspiring to be
the object of direct appeal in the petty troubles of human life”. Credo che il paragone con la religiosità
popolare italiana sia in effetti calzante, sebbene meriti senz’altro maggiore sviluppo.
72
Cfr. Dodds (1973) p. 140.
73
Cioè fossero divenuti determinazioni del giusto, buono e onesto, parafrasando Snell (1943) p. 66.
Come già osservato alla nota 17, Dodds (1951) pp. 75 – 76 legge segni di una progressiva moralizzazione
della divinità già nel passaggio tra Iliade e Odissea, seguendone poi lo sviluppo in Esiodo, Eschilo e
Solone; il Nilsson (1949) pp. 186 - 187 dava una lettura analoga delle aggiunte più tarde alle Opere e i
Giorni. La moralizzazione del divino assume allora in Grecia un carattere di progressivo sviluppo
diacronico, culminato con l’avvento del cristianesimo.
74
Nella Grecia classica il culto ha ancora, di solito, un forte carattere strumentale: si prega o si compie
un sacrificio al fine di ottenere o evitare qualcosa (nel più generale dei casi, per prevenire lo scontento
del dio). Dodds (1973) p. 146 rintraccia qui un’analogia tra la religiosità greca classica e il ciclo di ansie e
“ringraziamenti” tipici della primitiva religiosità rurale (d’altronde il collegamento tra vita rurale e
religione in Grecia è attestato anche per i culti misterici di Eleusi e il dionisismo, vedi sotto). Osserviamo
anche come non ci sia spazio per un rapporto di philìa tra mortali e divini, come ricorda anche Aristotele
in Etica Nicomachea, 1159 a 4: la disparità è troppo grande.

71
Quanto alla psychē, la gente è molto incredula, teme che, quand’ella si sia distaccata dal soma,
non esista più in alcun luogo […] temono cioè che nell’atto medesimo in cui essa si distacca dal
soma e ne esce, subito come soffio (pneuma) o fumo si dissipi e voli via, e così non esista più da
nessuna parte.75

Troviamo la stessa credenza popolare espressa ancor più esplicitamente in Fedone, 80


d: “ebbene: la nostra psychē […] appena si allontana dal soma si dissipa e si annienta
immediatamente, come dice la maggior parte della gente?”.76 Allo stesso modo mi pare
che Platone ritenga essere opinione comune – o almeno dei personaggi del dialogo – che
il cadavere sia la stessa persona morta: altrimenti l’ironia di Socrate in Fedone 115 c
non si spiegherebbe.77 D’altronde sappiamo anche da altre fonti che tra il V e il IV sec.
il tipico funerale greco è un insieme elaborato di usi e cerimonie molto importante per la
vita della comunità, nel quale l’oggetto-cadavere ha il ruolo di indiscusso
protagonista.78 Inoltre era considerato un dovere morale basilare quello di curarsi dei
propri morti, con attenzioni analoghe a quelle che si hanno verso i vivi infermi
(addirittura fornendogli cibo direttamente nella tomba).79 Nemmeno Eraclito, quindi,
rispecchiava l’atteggiamento greco comune quando esortava, circa un secolo prima di
Platone, a “gettare via i cadaveri più che il letame”. E tuttavia, se già il filosofo di Efeso

75
Fedone 70 a - b.
76
Quanto credito dobbiamo dare a Platone quando espone le credenze popolari più diffuse? C’è da
osservare come il presentare queste ultime in totale opposizione con le teorie esposte nel Fedone potrebbe
rappresentare, almeno in parte, un espediente argomentativo. Tuttavia non vedo il motivo per cui il
filosofo avrebbe dovuto inventarsi di sana pianta queste credenze, che forse però ha riportato in maniera
più “radicale” di come le avrebbe esposte l’uomo della strada. C’è inoltre da considerare notevole caso di
Apologia 40 c – 41 c, sul quale torneremo nell’ultimo paragrafo di questo capitolo.
77
Vedi supra § II.1 (“In qual modo dobbiamo seppellirti? Come volete – disse – se pure mi prenderete
e io non vi scapperò”). Tutte queste citazioni platoniche si inseriscono nell’idea generale che il filosofo ci
dà riguardo alla maggior parte dei suoi contemporanei, cioè che fossero praticamente atei.
78
Potrà sembrare tautologico affermare l’importanza del corpo in un funerale. Tuttavia non tutti i
popoli conferiscono la stessa rilevanza al “trattamento” del cadavere. I greci erano sicuramente tra quelli
che reputavano il destino del cadavere di centrale importanza (si ricordino l’Antigone di Sofocle e le
implorazioni dei fantasmi degli insepolti in Omero). Sul funerale greco Garland (1985) pp. 21 - 30. Come
esempio di una minore cura del cadavere (per motivazioni religiose e ambientali) possiamo citare i riti
funebri di esposizione del cadavere (Lushizang) in caverne o foreste della tradizione Buddhista cinese.
Cfr. Schopen (1997) pp. 204-237.
79
Come abbiamo già visto in § I.12. Dodds (1973) p. 152 sostiene che questo tipo di usanze hanno
avuto una sostanziale continuità in Grecia dal Neolitico in poi, sino addirittura a oggi. Non si creda poi
che questo atteggiamento di gran cura verso il cadavere già sepolto sia molto comune: ad esempio, anche
nella superstizione del Medioevo cristiano (che, si ricordi, è la religione della “resurrezione nei corpi”) un
tale trattamento sarebbe risultato inedito. E non ci si faccia sviare dal cadavere del santo che diventa
oggetto sacro e magico: la reliquia ha poteri che derivano sì dall’intercessione del santo, ma di per sé essa
non è il santo, e non necessita di essere nutrita e curata (addirittura, anzi, il cadavere viene fatto a pezzi
per par condicio, e quindi distribuito in tutta Europa).

72
parlava così, dovrà esserci pur stato qualche tratto nella cultura greca – più o meno
esposto alla luce del sole – a fare da base per questo tipo di atteggiamento.80
Possiamo notare alcune assonanze delle credenze dell’uomo comune del V secolo
con l’escatologia omerica,81 ricordandoci che, come vuole una tesi abbastanza comune
tra gli studiosi della Grecia classica, il greco medio riceveva una parte molto rilevante
della sua formazione culturale (in ogni campo) dalla lettura o l’ascolto di Omero.82
Sebbene il poeta non parlasse di “annullamento totale” della psychē alla morte (come
invece si fa qui, almeno secondo Platone), abbiamo pur concluso83 che l’esistenza
dell’anima nell’Ade era, nei due poemi, un quasi nulla, e quindi non troppo distante
dalle aspettative ultraterrene del greco medio del V secolo. Ma, col notare questa
somiglianza, non possiamo tuttavia ignorare che tra il “nulla” e il “quasi nulla”
intercorre comunque una differenza importante. Omero sembra allora configurarsi sia
come testimonianza di una certa tradizione culturale “materialista”, sia come voce dello
stesso superamento progressivo di questa tradizione, che sarà ultimato soprattutto tra
alcuni intellettuali del V - IV sec. , da Socrate in avanti.84
Per trovare una qualche forma di interesse specificatamente religioso per la psychē,
dobbiamo piuttosto guardare a quei culti alternativi a quello “ufficiale” degli Olimpi,
definiti in generale culti misterici. Gli studiosi si sono spesso scontrati su quale

80
DK 22 B 96. Sulle usanze funebri vedi supra § I.12. Vedi anche Dodds (1951) p. 185; cfr. Platone,
Leggi 959 a – c.
81
Cfr. il passo sopra dal Fedone (70 a) e sgg. quando Cebete chiede conferma da una parte della
sopravvivenza, dall’altra del fatto che la psychē del defunto conservi “potere e intelligenza” (dynamis e
phronesis): si ricordi che le anime dei defunti nell’epica erano caratterizzate dall’assenza di questi. Lo
stesso tipo di dubbio è espresso, in forma più sofisticata, nella presentazione della teoria della psychē-
harmonia in Fedone 85 e - 86 d.
82
Ad esempio, cfr. Burnet (1916) p. 16: “After all, the Athenians were brought up on Homer, and
their everyday working beliefs were derived from that source. Besides, Homer was already beginning to
be interprete allegorically, and the prevailing notion in the time of Socrates certainly was that the souls of
the dead were absorbed by the upper air, just as their bodies were by the earth”. All’interno di questa
lettura allegorica (della quale però Burnet non ci fornisce testimonianze), quindi, i greci del periodo
classico avrebbero pensato che quando raccontava di quell’aldilà così inconsistente (e insoddisfacente),
Omero intendesse dire attraverso una metafora che nell’aldilà non c’è proprio niente. Quello sulla lettura
allegorica è in effetti un punto interessante: non è infrequente che in questo periodo autori coltivati
attribuiscano anacronisticamente a Omero teorie filosofiche piuttosto complesse, vedi e.g. le sopraccitate
citazioni omeriche del Fedone e della Repubblica (supra § I.4), cfr. Platone, Teeteto 152 e; Aristotele, De
Anima, 404 a 25-30. Cfr. però anche Dodds (1973) pp. 143 -144, che espone alcune perplessità sul
prendere Omero come base per la religiosità greca classica.
83
Vedi supra § I.10-12
84
Questa era una delle tesi di fondo del Rohde, già espressa in Rohde (1894) vol.1 pp. 5 – 15. È in
effetti importante ricordare che Omero rappresenta (sia per noi sia per i greci classici) l’inizio di una
tradizione solo perché non abbiamo testimonianze cronologicamente precedenti: è quindi del tutto
possibile (se non altamente probabile) che nel processo di “dualizzazione” delle credenze religiose,
Omero sia già una figura di transizione, e non il punto d’inizio assoluto.

73
fenomeno religioso considerare come il più esemplare dello “spirito” greco, se quello
olimpico o quello “misterico”. Di questi culti Vernant ha dato un quadro molto lucido e
sintetico, distinguendo tre “tipi ideali” di essi: i misteri, il dionisismo e l’orfismo, tra i
quali spesso si fa indebitamente confusione e che non presentano lo stesso livello di
“spiritualità”.85 Vediamone dunque le caratteristiche principali.86
I misteri87 rimangono spesso ai margini della religiosità civica ufficiale, ma non ne
sono totalmente esclusi. Quelli sui quali abbiamo più informazioni sono senz’altro
quelli di Eleusi (in Attica, a circa trenta chilometri da Atene: infatti per gli ateniesi
erano semplicemente ta mysteria, i misteri),88 attestati sin dal VI secolo a.C.89 e
incentrati sulle figure di Demetra e Kore-Persefone. Ma Eleusi è solo l’esempio più
famoso di questo tipo di religiosità, diffusa in tutto il mondo greco, e talvolta oltre: per
esempio nel caso dell’isola di Samotracia, la cui popolazione non era considerata
“greca” dai greci, ma i cui “misteri” erano sicuramente conosciuti ad Atene nel V
secolo.90 I misteri eleusini erano riconosciuti ufficialmente dalla polis di Atene,91 il che
fa pensare che non presentassero, tutto sommato, una visione radicalmente “eretica”
rispetto al culto ufficiale. Per di più a ricevere l’iniziazione, prima o poi, era la
maggioranza degli ateniesi (in senso lato, compresi schiavi e donne, e anche qualche
straniero); non si trattava quindi certo di un gruppo religioso troppo elitario.92 A Eleusi i
mystai (iniziati) non andavano d’altronde per ricevere un preciso insegnamento
esoterico, ma per “provare emozioni [o soffrire] ed essere messi in certe disposizioni”,
come riporta Aristotele.93 L’iniziato non doveva poi darsi all’ascetismo e divenire uno

85
Vernant (2003) pp. 41 – 53. Cfr. Burkert (1987) p. 3.
86
Per l’orfismo, vedi § successivo.
87
Burkert (1987) p. 5 elenca, all’interno di un panorama più vasto, cinque culti misterici tra i più
importanti: “the mysteries of Eleusis, the Dionysiac or Bacchic mysteries, the mysteries of Meter, those
of Isis, and those of Mithras”. Tuttavia ritengo, con Vernant (vedi sotto), che il dionisismo sia
effettivamente un fenomeno da considerasi a part, sia che con esso si indichi il culto “civico” di Dioniso,
sia per quanto riguarda l’associazione tra Dioniso e orfismo. Vedi p. 8 sull’etimo di mysteria.
88
Burkert (1985) p. 276.
89
Burkert (1987) p. 2.
90
Come ci testimonia Erodoto in Storie, 2.51, “i misteri dei Cabiri”, “celebrati dai Samotraci” ( a cui,
sulla base di questo testo, pare che lo storico fosse stato anch’egli iniziato). È sempre Erodoto a riportarci
il nome col quale i greci riconoscevano i samotraci, cioè “Pelasgi”.
91
Tanto che l’arconte-re era ufficialmente incaricato di celebrare i “Grandi Misteri”. Vernant (2003)
p. 43.
92
Burkert (1985) p. 285.
93
Vernant (2003), p. 43. D’altronde, come afferma Dodds (1973) pp. 148 – 149, nei riti eleusini le
nozioni di magia e religione non erano del tutto distinte. Che il messaggio “dottrinale” dovesse essere
assente o molto scarno ce lo testimoniano anche le origini del culto eleusino, che secondo Dodds “were
rooted in agriculural magic”.

74
stilita: dopo le cerimonie misteriche, che avevano per i più cadenza annuale, egli
tornava alle sue occupazioni abituali, cittadino come tanti. Col vantaggio, però, di
sentirsi rinnovato interiormente dall’esperienza “mistica” vissuta a Eleusi. Non ci è dato
di conoscere molti dettagli sul percorso iniziatico del candidato attraverso gli orgia (i
riti segreti) d’Eleusi. L’iniziazione (telete)94 era aperta a tutti, senza considerare la
classe sociale di appartenenza, ma era poi imposto il silenzio assoluto su ciò che
accadeva all’interno del santuario. Di solito si ritiene, anche dalle sfumature ctonie
tradizionalmente associate alle divinità sulle quali il culto è incentrato,95 che esso avesse
in qualche modo a che fare col destino dei morti nell’Ade. Il genere di pratiche religiose
esemplificato da Eleusi non è però associato a una concezione dell’anima radicalmente
nuova: piuttosto, essi promettevano un’esistenza dell’aldilà un poco meno cupa di
quella omerica, e non è detto che per questo fosse necessario inventarsi una nuova idea
di psychē.96 In generale, quindi, i misteri eleusini e i culti analoghi sparsi per la Grecia
classica non furono promotori di una radicale riforma religiosa; tuttavia la loro
impostazione, almeno nel periodo classico (sul quale abbiamo più informazioni), rivela
un interesse nuovo per il soddisfacimento individuale e l’esorcizzazione della paura
della morte.97
Il culto di Dioniso98 presenta aspetti di somiglianza sia con i misteri sia col culto
cittadino degli olimpi, del quale in un certo senso era parte integrante. In misura
maggiore dei misteri eleusini (e dei loro analoghi lontano dall’Attica), ad esempio, le
festività cittadine e rurali di Dioniso erano assorbite – almeno nell’età classica –
all’interno del culto ufficiale: esse facevano parte del calendario come le festività per
qualsiasi altra divinità, ed esistevano dei gruppi clericali istituiti appositamente per
celebrazione dei riti dionisiaci.99 Quello che mi preme è tenere separato questo

94
Burkert (1987) p. 9: “A word family that largely overlaps with mysteria is telein, to accomplish, to
celebrate, to initiate; telete, festival, ritual, initiation; telestes initiation priest; telesterion, initiation hall,
and so forth”.
95
Si ricordi il mito del ratto di Persefone da parte di Ade e la conseguente disperazione della madre,
Demetra.
96
Cfr. Burnet (1916) p. 16.
97
Burkert (1985) p. 277.
98
Contrariamente a quanto si è pensato – come ad esempio il Rohde (1894), vol. 2 pp. 1–55, che lo
credeva di recente importazione dalla Tracia – si sa oggi che esso ha radici molto più antiche in Grecia.
Cfr. Burkert (1985) p. 165.
99
Vernant (2003) pp. 45 - 46. Esistevano collegi e congregazioni religiose ufficiali per il culto di
Dioniso, come quello femminile delle Thyadi, che si recavano ogni tre anni sul Parnaso per farvi le
Baccanti (agendo tuttavia sempre in nome della polis). Associazioni dionisiache private sono un
fenomeno solo più tardo, di cui il V secolo non ha memoria (p. 45). Tra i riti dionisiaci ricordiamo quello

75
fenomeno religioso dall’orfismo, che è invece ciò a cui ci si riferisce di solito quando si
parla di “misteri bacchici” o “dionisiaci”.100 Il culto di Dioniso – dio dell’estasi,
dell’ebbrezza e promotore dell’ “oblio di sé” e del ricongiungimento con l’altro e la
natura101 – non aveva inoltre una dottrina da diffondere alle masse, al contrario
dell’orfismo (semmai, al posto di una “teoria”, l’importante era la stessa prassi rituale).
Nonostante il carattere “statale”, comunque, nel culto del dio non viene mai meno
quell’irriducibile carattere di eversività (sociale e psicologica) che tanto affascinò il
giovane Nietzsche. Non si può associare al culto degli altri dèi olimpici, nemmeno però
a quei fenomeni religiosi “paralleli” come sono (in parte) i misteri eleusini: si tratta,
invece, di una celebrazione entusiasta della rottura dell’ordine, che si tratti di quello
sociale o di quello interno all’individuo, oppure di quello della natura. Purtroppo qui
non possiamo, per ragioni di spazio, approfondire oltre il tema del dionisismo. Dovremo
limitarci a sottolineare che, nonostante si tratti della celebrazione del sovvertimento
delle categorie usuali (uomo e bestia, maschio e femmina, qui e là, dio e mortale, io e
l’altro, comico e tragico, vivo e morto ecc.), esso non abbia direttamente a che fare con
l’annuncio di una “sorte migliore nell’Aldilà”.102 Non si tratta nemmeno di un
messaggio ascetico di rinuncia: l’evasione che Dioniso promette, se ce n’è una, è
totalmente immanente al nostro mondo. È quindi un aspetto separato del dio il fatto che
sia anch’egli talvolta associato alla morte e all’Ade.103

§ II. 4 L’orfismo
L’orfismo dell’età classica è contrapposto agli altri culti misterici e al dionisismo per
la sua forma propriamente dottrinale, sebbene non consistesse in un sistema uniforme e

sparagmos, il dilaniamento a mani nude di una creatura vivente, e dell’omophagia, cioè il consumo di
carne cruda, dipinti entrambi così vivamente nelle Baccanti di Euripide.
100
Vedi § seguente. La confusione che si fa spesso tra orfismo, dionisismo, misteri bacchici (o
dionisiaci) e “misteri” tout court è d’altronde una caratteristica di questo campo di studi classici sin dai
suoi esordi nel XIX secolo. Cfr. Graf – Johnston (2007) p. 54. Ma sebbene non appaia possibile stabilire i
confini tra orfismo e misteri bacchici, che possono quindi essere considerati tutt’uno (cfr. Burkert, 1987,
pp. 35 e sgg.), ciò che mi preme è separare gli aspetti “istituzionali” del culto di Dioniso dal resto dei
fenomeni religiosi collegati alla divinità.
101
Parafrasando le pagine di Nietzsche ne La Nascita della Tragedia (1872), pp. 16 – 28.
102
Vernant (2003) pp. 45.
103
Ad esempio alle Antesterie, tra le più antiche festività in onore di Dioniso in Grecia, erano
associate superstizioni sul ritorno dall’Ade dei morti. Cfr. Dodds (1973) p. 148; Graf – Johnston (2007) p.
73. Anche Eraclito (a cavallo tra VI e V sec.) afferma che “Ade è lo stesso di Dioniso” (DK 22 B 15).

76
coerente di credenze, né dipendesse da un’autorità religiosa o una scrittura sacra unica.
Esso è molto probabilmente più recente delle altre due forme di religiosità che abbiamo
trattato sopra, giacché si inizia ad aver traccia di testimonianze orfiche – per esempio
del mito sullo sparagmos di Dioniso, vedi sotto – tra la fine del VI e l’inizio del V
secolo, e non è quindi affatto da escludersi che l’orfismo possa aver ereditato alcuni
elementi da forme di religiosità precedenti, come i misteri eleusini.104 Riguardo alla
diffusione dell’orfismo, è normalmente ritenuto che in nessuna epoca esso sia stato
esteso a più che una minoranza della popolazione,105 sebbene la presenza del culto
orfico sia stata riconosciuta in un’area geografica molto estesa, dalla Ionia fino a Roma.
Di orfismo e della sua portata riformatrice sulla religiosità greca si parla dall’antichità,
ma è dal XIX secolo in avanti che il dibattito si è particolarmente acceso, complice una
serie ininterrotta di scoperte archeologiche che ci ha regalato informazioni sino ad allora
inedite, soprattutto sotto forma di iscrizioni funerarie – sulle cosiddette lamellae aureae
– rinvenute in Grecia e in Italia.106 Sempre l’archeologia attesta la circolazione di poemi
a tema religioso107 già nel V e nel IV secolo, che nell’antichità erano attribuiti
acriticamente quando al leggendario poeta Orfeo, quando a suo figlio – o, secondo
alcuni, il suo maestro – Museo. Tra questi testi esistevano sicuramente alcune teogonie
in versi, probabilmente già note ad alcuni filosofi presocratici (ad esempio Pitagora ed
Empedocle) e ad alcuni poeti (su tutti Pindaro).108 Tali teogonie erano contraddistinte,
in generale, dall’antiteticità rispetto all’impostazione della Teogonia esiodea:
quest’ultima narrava il percorso dal chaos primordiale all’ordine del kosmos, quelle
orfiche, invece, il processo inverso di degradazione dell’ordine primigenio. L’esistenza
di una tale base testuale, sebbene non controllata dall’autorità di una “chiesa” centrale, è

104
Cfr. Graf – Johnston (2007) pp. 66 – 93, che parla del processo di formazione dell’orfismo come di
un bricolage di elementi mitico-escatologici preesistenti (p. 91).
105
Dodds (1973) p. 143.
106
Cfr. Dodds (1973) p. 49, pp. 196 - 205. Per una panoramica dell’evoluzione storica di questo
dibattito, specialmente in rapporto alle scoperte archeologiche, si veda Graf – Johnston (2007) pp. 50 –
65.
107
Graf – Johnston (2007) p. 65 sul ritrovamento del papiro di Derveni (circa 330 a.C.), che contiene
una sorta di commento filosofico della fine del V secolo, riferito a un poema teogonico, probabilmente
orfico, ancor più antico. Ma non si può certo parlare di poemi sacri, giacché non esisteva ancora una vera
e propria distinzione tra opere sacre e profane (che nascerà solo all’interno del mondo cristiano). Cfr.
Dodds (1973) p. 143.
108
Che Pindaro fosse considerato una testimonianza riguardo all’orfismo già nel V-IV sec. ce lo dice
anche Platone, in Menone 81 a – b.

77
già una grande novità nel panorama religioso greco, che si affidava interamente
all’immediatezza del rituale e del racconto mitico trasmesso oralmente.
Sono attribuibili con una certa sicurezza agli Orfici almeno cinque dottrine
fondamentali: (i) che il corpo (soma) è carcere dell’anima (psychē); (ii) bisogna porre
alcune limitazioni alla propria dieta per evitare la contaminazione;109 (iii) che è possibile
purificarsi dal peccato con mezzi rituali;110 (iv) Che a seconda del grado di purezza
raggiunta in vita, il destino nell’Ade sarà più o meno benevolo. (v) che le psychai si
reincarnano in nuovi viventi dopo la morte (metempsicosi).111
È a queste dottrine, insieme forse a quelle pitagoriche,112 che Platone si riferisce ogni
qual volta cita l’autorità di “coloro che istituirono i misteri”,113 ed è verosimile che sia

109
L’astensione dal consumo di carne è associata alla “dieta orfica” da Platone in Leggi 782 c
(“evitare di nutrirsi di esseri empsychon [animati]”, ma ci sono altre fonti, ad esempio in Euripide,
Ippolito 952. Ma c’erano anche altre limitazioni alla dieta all’interno del bios Orphikos (vita orfica), ad
esempio pare fosse proibito il consumo di fagioli e di uova. Cfr. Burkert (1985) p. 300. È infine possibile
che fosse vietato anche il vino, cfr. infra nota 111 e, al di fuori della dieta, fossero anche prescritte alcune
forme di astensione sessuale (almeno secondo Burkert, che giustifica l’affermazione rifacendosi alla
misoginia di Orfeo e Ippolito: il collegamento appare però molto debole). Cfr. Mikalson (2010) pp. 67 –
68.
110
Sin qui sto qui parafrasando Dodds (1951) p. 197. Per il collegamento tra purificazione e memoria,
vedi Vernant (1963) pp. 106 - 111.
111
Non esistono testimonianze dirette di questa credenza in autori classici, ma, come nota bene Dodds
(1951) p. 197 essa si può inferire con una certa sicurezza dalla i (e, aggiungerei, dalla ii). Si noti
ovviamente che la metempsicosi ha per gli orfici (come per Platone e per la religione Hindu) un valore
negativo: essa non è un dono consolatorio, ma una punizione.
112
D’altronde come osservava Dodds (1951) p. 197, le nostre conoscenze sull’orfismo non ci
permettono di trarre una netta linea di demarcazione con le dottrine del Pitagorismo, con il quale gli
aspetti di somiglianza sono molteplici. In ogni caso sul rapporto pitagorismo-Platone rimando alla
discussione in Burkert (1972) pp. 83 – 96.
113
Vedi supra § II.1. In Fedone 69 c - d questi antichi sapienti avrebbero rivelato che “chi arriva
nell’Ade senza essere iniziato e senza essersi purificato giacerà in mezzo al fango”, mentre chi ha invece
adempiuto alla purificazione “abiterà con gli dèi”. Sempre in Fedone 69 c - d ci viene riportato il detto
orfico “i portatori di ferule [gli iniziati, nda] sono molti, ma i Bacchi [coloro che vivono davvero nello
spirito dell’orfismo, nda] sono pochi”, il che testimonia probabilmente come il percorso dell’orfismo non
fosse alla portata di tutti e comportasse probabilmente una trasformazione profonda dell’individuo.
Oppure in 62 b: “Quello che viene espresso a proposito dei misteri, che noi uomini siamo come in una
specie di carcere […]”. Anche in Gorgia 493 a – c si allude al dottrina orfica del corpo-carcere, qui nella
versione corpo = tomba, che si basa sul gioco di parole soma (corpo) = sema (tomba); il motto è qui citato
nel contesto del ribaltamento tra vita e morte (“io ho sentito dire, infatti, da sapienti che noi ora siamo
morti”). Lo stesso motto lo ritroviamo in Cratilo 400 c, dove si collega anche l’altro significato di sema
(segno): “alcuni dicono che esso [il soma] è il sema [tomba o segno] dell’anima, in quanto l’anima
(psychē) vi sta riposta in questa vita presente. E siccome l’anima segnala attraverso il corpo ciò che vuole
significare, anche per questa ragione è giusto chiamarlo sema [segno]” e continua: “mi pare che questo
nome glielo abbiano messo quelli del seguito di Orfeo, poiché l’anima paga lo scotto di quelle colpe che
deve pagare e che abbia questo involucro, a immagine d’un carcere, per essere salvata”. Le “colpe” sono
con ogni probabilità da riferirsi al mito orfico sull’origine dell’uomo, vedi sotto. Si vedano anche Gorgia
525 a; Fedone 81e, 82 e (“considerare gli esseri come attraverso una prigione”). Infine Timeo 44 c utilizza
un linguaggio presumibilmente orfico riguardo all’ “educazione della psychē”.

78
stato influenzato, forse attraverso Socrate, dalle dottrine e dai miti orfici nella sua
concezione della superiorità dell’anima sul corpo e nei suoi propri miti escatologici.114
Non è comunque un caso che dionisismo e orfismo siano spesso confusi,115 la figura
di Dioniso (in questo contesto detto talvolta “Zagreo” o “Dioniso Ctonio”)116 gioca
anche qui – sebbene in chiave diversa – un ruolo fondamentale, soprattutto nel mito
dello smembramento (sparagmòs) del dio da parte dei Titani, insieme al racconto
antropogonico della nascita della razza umana dai resti di questi ultimi, inceneriti per
punizione da Zeus.117 Proprio questo mito, analogamente a quello biblico del peccato
originale,118 giustifica sul piano mitologico-religioso la necessità per l’essere umano di
purificarsi dalla colpa che ha acquisito nascendo. Infatti, avendo i Titani non solo
smembrato, ma anche divorato Dioniso, permane nella loro discendenza (l’intero genere
umano) oltre alla colpa anche un “residuo divino” che offre all’uomo la possibilità di
salvarsi dalla punizione eterna del ciclo della reincarnazione. Oltretutto, essendo
Dioniso risorto dopo lo smembramento, la “particella dionisiaca” in noi diventa anche
simbolo allegorico di rinascita a nuova vita: non tanto a una nuova esistenza terrena
all’interno del ciclo delle rinascite, ma la nuova, più vera vita che la psychē degli

114
Holmes (2017) pp. 25-26. Cfr. Vernant (1963) pp. 106 – 7. Ma si tenga anche conto della critica
che Platone fa in Repubblica II 364 a – 365 a per bocca di Adimanto verso i “ciarlatani e indovini” che
vendono ai ricchi l’espiazione dalle proprie colpe – commesse da loro stessi o ereditate – tramite
“sacrifici e incantesimi”, e che “citano una grande serie di libri di Museo e di Orfeo”. Platone,
considerando le affermazioni ben più benevole verso “Museo e il figlio suo” poche righe sopra (363 c),
deve qui star criticando ciò che percepiva come una strumentalizzazione e banalizzazione delle teorie
orfiche. Ma ci informa anche che esistevano figure pseudo religiose che vendevano i loro rituali per
denaro, e che probabilmente Platone non era l’unico a guardarli con sospetto. Per un atteggiamento
altrettanto critico almeno verso certe manifestazioni dell’orfismo, Euripide, Ippolito 952 – 4. Cfr. Burkert
(1985) p. 296.
115
Sulle associazioni tra orfismo, misteri Eleusini e Dioniso già nel V secolo, vedi Vernant (1963) p.
51-52. Tuttavia secondo Vernant “tali accostamenti non sono decisivi” (p. 51).
116
Graf – Johnston (2007) p. 54.
117
È in realtà un punto dibattuto se il mito risalga veramente al VI sec. (o addirittura a tempi più
antichi) o sia invece non più tardo del III sec. a.C. Il Wilamowitz (1931), vol. II p. 193 sostenne ad
esempio che non si trattava che di un’invenzione ellenistica (Dodds 1951 pp. 203-204). Tuttavia, come
osserva il Dodds (pp. 203-204), sembrano esistere riferimenti a questo mito in Pindaro (fr. 127 b Maehler)
e in Platone (Leggi 701 d) – oltre che nei rituali dionisiaci dello sparagmos e dell’omophagia –, il che fa
ragionevolmente supporre che Wilamowitz si sbagliasse, e che il mito fosse effettivamente conosciuto già
nel VI-V sec. a.C. Anche studiosi contemporanei come la Johnston sembrano concordare con Dodds su
una datazione non più recente del primo V sec. a.C. (Graf – Johnston 2007, pp. 66 – 70).
118
Cfr. Genesi 3,1 – 3,24. Un’altra analogia si trova nelle Upanishad indiane (Dodds 1951 p. 205).
Sembra che sia una caratteristica comune di ogni “puritanesimo”, per usare il linguaggio del Dodds,
quella di essere collegato al mitèma della contaminazione originaria. Ovviamente le suggestive analogie
con la religione ebraico-cristiana non si fermano qui, a partire dal parallelo tra la passione e la
resurrezione di Cristo col mito dello sparagmos di Dioniso.

79
orpheotelestai trova dopo la morte. È in ogni caso da riferirsi sempre a questo mito
l’“antico dolore” del frammento di Pindaro che recita:

Di chi accetta il riscatto dell’antico dolore, di essi Persefone indietro ridà al sole di sopra le anime
da cui crescono nobili re e uomini sommi per forza impetuosa e sapienza […].119

La psychē orfica e l’orfismo in generale sono quindi, almeno rispetto alle nostre
conoscenze attuali, una novità epocale in Grecia: solo all’interno di questo singolare
connubio tra antropogonia, antropologia ed escatologia120 viene ad articolarsi una
visione così radicalmente nuova dell’essere umano e del suo destino rispetto al quadro
che ci ha lasciato Omero. Nonostante quanto appena detto, tuttavia, bisogna sottolineare
anche che la psychē dell’orfismo rimane diversa da quella platonica. In primo luogo, la
psychē orfica mantiene un’irriducibile distanza “logica” dall’individuo: non è veramente
l’iniziato stesso a godere della compagnia divina nell’aldilà, ma la sua psychē, e in
questo caso essa non corrisponde alla coscienza dell’individuo come in Platone.121 Non
a caso Empedocle, sul quale si ritiene l’influenza orfica sia stata forte, non chiama
questa sostanza indistruttibile psychē, ma daimon;122 un termine utilizzato di solito per
potenze divine, che allude alla presenza di una potenza estranea all’individuo animato.
Inoltre alla psychē orfica manca totalmente il collegamento con la razionalità: non è
intelligenza né è descritta come intelligente, e nell’aldilà le anime non contemplano le
idee imperiture; anzi, Platone stesso descrive l’escatologia orfica in antitesi col suo
ideale di raggiungimento del vero sapere nell’aldilà, quando afferma che per gli orfici la
beatitudine consiste in un eterno stato di ebbrezza.123

119
Pindaro, fr. 133 Maehler, per il cui commento si veda Cannatà Fera (1990) pp. 219 (e sgg.).
Persefone era la madre di Dioniso, nato dal rapporto incestuoso con Zeus (suo padre), almeno in questa
versione delle origini del dio. Cfr. Burkert (1985) p. 340 sui possibili riferimenti di Platone e di Aristotele
al mito (Aristotele, frammento 60).
120
Graf – Johnston (2007) pp. 92 – 93.
121
Su questo punto torneremo nel prossimo capitolo. La fonte più ovvia per quest’affermazione è il
frammento 131 b di Pindaro.
122
Vedi Dodds (1951) p. 201, sebbene vada osservato che Empedocle si riferisce al daimon in prima
persona, cfr. DK 31 B 115 e 117.
123
Repubblica II 363 c- e: “Museo e il figlio suo concedono [..] ai giusti beni ancora più splendidi: nel
loro racconto li menano nell’Ade, li fanno giacere a mensa [..] e da allora per sempre li fanno vivere
inghirlandati [simbolo dell’iniziazione misterica, nda] ed ebbri, ritenendo un’ebbrezza eterna il più bel
premio per la virtù”. Si osservi però che in Leggi 672 d si illude a una leggenda (non condivisa dal
personaggio dell’Ateniese, e quindi probabilmente nemmeno da Platone) secondo la quale il vino e
l’ebbrezza sono una punizione che Dioniso avrebbe assegnato all’uomo, “per vendetta, per farci
impazzire”. Il riferimento parrebbe essere ancora al mito antropogonico dello sparagmos del dio, ma

80
Infine, qualche parola sulla credenza nella reincarnazione, detta anche trasmigrazione
delle anime o metempsychosis (μετεμψύχωσις): le iscrizioni funerarie orfiche124 in
nostro possesso ci testimoniano che la rinascita era una dottrina presa seriamente dagli
adepti. In esse si parla di un “ciclo (kyklos) di affanni pesanti e pene”125 dal quale ci si
vuole liberare e si danno istruzioni all’anima del defunto per trovare la giusta via
nell’aldilà (proprio attraverso le lamellae). Tuttavia, come osserva Burkert, le fonti più
antiche non attestano esplicitamente una credenza nella reincarnazione, ma solo nella
preesistenza dell’anima rispetto al presente stato di incarnazione.126 Nella visione dello
studioso tedesco, allora, la dottrina della trasmigrazione non è antica quanto l’orfismo,
ed è stata introdotta solo in un momento successivo.127

§ II. 5 Conclusioni sul rapporto tra Platone e il suo tempo


Tiriamo quindi le somme di questo capitolo, precisando quale sia il rapporto tra la
psicologia di Platone e le credenze popolari del suo tempo. Abbiamo ormai capito che la
visione del mondo del comune abitante dell’Attica (e della Grecia in generale) non
coincide con quella del coevo contesto intellettuale. Dovremo porci separatamente le
domande su quanto Platone rispecchiava le idee del popolo e quelle dei suoi “colleghi”
intellettuali.
In che misura possiamo affermare, in definitiva, che dai tempi di Omero all’età
classica la Grecia ha visto nascere il dualismo anima-corpo? Per quanto riguarda
l’uomo comune, non lo possiamo dire con la stessa forza con cui attribuiamo una tale
visione a Platone: come ci ha testimoniato lui stesso,128 in questo senso viene da
pensare che dal tempo di Omero alla fine del V secolo la concezione di fondo
dell’essere umano non sia cambiata poi molto. Un’autentica nascita del dualismo è

allora l’ebbrezza sarebbe considerata negativamente dagli orfici. Quindi delle due una: o Platone in uno
dei due casi non ci riporta fedelmente l’atteggiamento orfico riguardo all’ebbrezza, oppure c’erano
effettivamente due atteggiamenti diversi all’interno delle dottrine orfiche (si noti che se davvero gli orfici
si astenevano dal vino, questo rimarcherebbe la loro distanza dal comune culto di Dioniso).
124
Cfr. DK 1 B 17-22; Graf – Johnston (2007) pp. 1 – 49.
125
Cfr. DK 1 B 18, 20. Riporto di seguito il testo del fr. 20, da una lamella orfica rinvenuta nel sito di
Turii, “Ma, una volta che la psyche abbia lasciato la luce del sole, prendi a destra, ove devi, la via che
serba tutti i beni. Rallegrati, patendo il patimento che prima mai patisti: dio divenisti, da uomo; capretto
nel latte cadesti. Rallegrati, rallegrati, avanzando sulla destra e per i prati sacri e i boschi di Persefone”.
126
Burkert (1972) p. 126.
127
Burkert (1972) p. 133. Burkert pensa al pitagorismo o a un’influenza orientale per spiegare questa
novità.
128
Vedi § precedente.

81
allora da riferirsi, soprattutto se vogliamo parlare di una conquista consapevole, solo ad
alcune élites intellettuali e a gruppi religiosi eterodossi (e talvolta entrambe le cose
insieme). Non c’è modo di stabilire con certezza fino a che punto il dualismo avesse
conquistato sotterraneamente la popolazione greca, o quale parte di essa: le
testimonianze che abbiamo sono quelle di uomini colti, filosofi o letterati come Platone,
Pindaro ed Euripide,129 oppure sono riferite a fenomeni religiosi di cui non ci è dato
conoscere l’esatto grado di diffusione. Una delle poche testimonianze esplicite sulla
mentalità della persona comune ci è data però da Platone stesso, quando, nell’Apologia
di Socrate, fa dire al maestro:

La morte è infatti una di queste due cose: o è come non esser nulla, e il morto non ha alcuna
consapevolezza di nulla, oppure, secondo quel che si dice, la morte è un cambiamento e, per così dire,
una migrazione della psychē da questa sede quaggiù verso un altro luogo.130

Socrate prosegue il discorso mostrando come in entrambi i casi la morte non sia un
male, ma al contrario un bene molto desiderabile. Tuttavia qui il fatto veramente
interessante è che Socrate sembra offrirci una panoramica completa e sincera delle
credenze escatologiche dei suoi contemporanei: essi si dividono in chi crede che la
morte sia nulla, come ci era già stato fatto capire nel Fedone, e in coloro che hanno fede
in una “migrazione dell’anima” – e qui il riferimento all’orfismo pare evidente. Ma
allora, scegliendo di accompagnare l’espressione con “secondo ciò che si dice”, Socrate
sembra suggerirci, attraverso Platone, che l’escatologia orfica fosse più diffusa di
quanto ci era sembrato finora. E quel tipo di escatologia presuppone una soggiacente
antropologia di stampo dualista.

129
Per quest’ultimo si veda ad esempio il già citato Ippolito 952 – 4: “fatti pure grande e spaccia la tua
dieta vegetariana, mettiti sotto il patrocinio di Orfeo e baccheggia, inchinandoti a tutti quei libri che sono
solo fumo”. Troviamo qui conferma l’elemento del vegetarianismo, l’associazione Dioniso - orfismo (il
termine “baccheggiare”) e l’attestazione dell’esistenza di materiale testuale di matrice specificatamente
orfica.
130
Apologia, 40 c. Da notare come a proposito di questo dialogo, che è di solito riconosciuto come tra
i più antichi di Platone, sia lecito aspettarsi che l’influenza delle autentiche dottrine del Socrate storico
fosse ancora molto forte, con una probabilità di conseguenza minore che esse abbiano qui subito grandi
distorsioni. Trattandosi poi del racconto di un avvenimento pubblico verificatosi recentemente, è
ragionevole aspettarsi che Platone non abbia potuto inventarsi di sana pianta il discorso di Socrate, e
anche lo stesso fatto che il passo non rispecchi la solita visione di Platone fa presumere che si tratti
davvero di una testimonianza socratica. C’è insomma una buona probabilità che questa affermazione sia
affidabile per comprendere la psicologia escatologica di questo periodo, e non strumentalizzata a fini
argomentativi da Platone.

82
Lo sfondo culturale che ci è testimoniato dalle opere di Platone, in ogni caso, mostra
come una concezione dualista non implichi di per sé la credenza nell’immortalità
dell’anima, né alcuna forma di “puritanesimo” o ascetismo. Il Socrate semi-storico
dell’Apologia, ad esempio, parla dell’uomo in termini chiaramente dualisti, ma è aperto
a entrambe le possibilità escatologiche, ovvero l’annullamento o l’immortalità. Si tenga
poi in conto che nella testimonianza di Senofonte (che scrisse anch’egli un’Apologia sul
processo al filosofo ateniese), Socrate si professa sì felice di morire, ma “solo” per non
dover subire le angustie della vecchiaia, e non perché ha una fede illimitata in
un’escatologia della beatitudine di stampo orfico.131 Se c’è invece qualcosa su cui
possiamo contare con relativa sicurezza è il fatto che, dal punto di vista del linguaggio
filosofico, dopo Socrate deve essere stato difficoltoso parlare dell’essere umano in
termini diversi da quelli dualisti di anima e corpo: da Platone ai cosiddetti “Socratici
minori”, fino poi agli Stoici e agli Epicurei, passando per Aristotele, tutti accettarono
questo modo di vedere l’essere umano. Essi, è vero, mostrarono tutti riserve più o meno
forti sul dualismo ontologico di Platone, ma esso non è affatto necessario per tenere in
piedi una generale visione antropologica dualista, né è l’unica forma di dualismo
possibile.132
Alla luce di quanto visto finora, si comprenderà come non sia possibile trarre una
conclusione netta sul rapporto delle dottrine platoniche e la Weltanschauung dei
contemporanei. Il fatto che non conosciamo l’esatta diffusione dell’orfismo tra le masse
ci impedisce di essere categorici. Ma se il mondo degli intellettuali e degli artisti
comincia qui a esprimersi con un nuovo linguaggio, è fortemente dubitabile che questo
non rispecchiasse nemmeno in minima parte la visione dell’uomo comune; abbiamo
però altrettanti motivi per credere che le idee del mondo della cultura non coincidessero
tout court con quelle del popolo. Non ci rimane, quindi, che affidarci cautamente a una
conclusione conciliatoria: i greci del V e IV secolo non condividevano tutti credenze
antropologico-escatologiche come quelle di Platone e dell’orfismo (e molto

131
Vedi Burnet (1916) p. 10. D’altronde anche nel Fedone si accenna a questo tratto del carattere
“razionalista” di Socrate, quando Platone fa pronunciare al maestro un discorso sulla sopravvivenza che
suona molto simile alla scommessa Pascaliana sull’esistenza di Dio (91 b). D’altronde non dimentichiamo
che Socrate non è lontano dal cosiddetto “illuminismo greco”, e non è certo un santone o un sacerdote.
Riguardo all’ “illuminismo”, cioè quello spirito razionalista e tendenzialmente scettico verso le credenze
tradizionali che si diffuse dalla Ionia al resto della Grecia tra VI e V sec. ; cfr. Dodds (1951) p. 230,
Jaeger (1934) p. 733
132
Su questo punto cfr. Long (2015) pp. 86-87,

83
probabilmente queste erano estranee alla maggioranza di loro); tuttavia essi non erano
nemmeno rimasti ancorati alla visione del mondo omerica: già le variazioni nell’uso del
vocabolario psicologico comune (vedi supra § II.2) lo attestano. Non possiamo che
concludere, insomma, che a cavallo tra V e IV secolo la cultura greca era (riguardo a
questi temi) in una situazione di grande confusione. Sarebbe quindi opportuno
esaminare l’ipotesi che questa condizione possa essere stata la conseguenza o il sintomo
di un più vasto fenomeno di mutamento culturale, religioso e sociale.

84
Conclusioni

Questa ricerca non potrà dirsi conclusa se non sarà completata da almeno un altro
capitolo, che prenda in esame le testimonianze principali sul tema dell’anima e del
dualismo tra il periodo arcaico e quello classico. Questo capitolo dovrebbe inoltre
avanzare una teoria per spiegare come e perché i greci hanno pensato bene di “diventare
dualisti” a un certo punto della loro storia. Questo capitolo era in effetti in progetto, ma
Ananke si è dimostrata inflessibile, e per varie ragioni non ho potuto fare a meno di
rimandare questa sezione conclusiva a un lavoro futuro.
In questo paragrafo finale mi limiterò a indicare sommariamente le direzioni
principali nelle quali questa ricerca necessita di uno sviluppo ulteriore. Alcune di queste
sono state già percorse da eminenti studiosi della grecità, altre invece sono perlopiù vie
inesplorate.
Testimonianze dalla filosofia presocratica. In primo luogo è necessario raccogliere
quante più testimonianze è possibile in relazione al periodo tra Omero e Platone. Tra i
filosofi presocratici che sono di particolare interesse per il tema della genesi del
dualismo in Grecia ci sono Eraclito, Empedocle,1 Epicarmo, Anassagora, Democrito e
Leucippo. Ma non sono da sottovalutare figure apparentemente minori, che conosciamo
soprattutto indirettamente, come Epimenide di Cnosso e Ferecide di Siro. Un interesse
analogo è rappresentato dalle Storie di Erodoto, soprattutto per gli accenni alla
provenienza straniera della credenza nella reincarnazione in Grecia.2
Testimonianze dalla poesia e il teatro. In § I.13 abbiamo già chiamato in causa la
testimonianza antropologica di Esiodo, ma i poemi esiodei meritano una considerazione
ancora maggiore, in particolar modo il mito dell’età dell’oro nelle Opere e i Giorni3 e le
sue implicazioni escatologiche. Bisogna poi soprattutto riprendere in mano tutto il
corpus della poesia lirica, soprattutto nelle figure di Saffo, Anacreonte, Archiloco, e

1
Empedocle merita sicuramente uno spazio privilegiato, dato che la sua figura poliedrica non è
esauribile con la definizione di filosofo: egli – per sua stessa ammissione – era anche “uomo di dio”,
poeta, guaritore miracoloso e profeta. Se davvero l’innovazione dell’anima greca è passata prima dalla
sfera religiosa e solo in seguito al pensiero filosofico, è legittimo ricercare in Empedocle una
testimonianza di questo passaggio
2
Storie, II. 123.
3
Le Opere e i Giorni, 109 (e sgg.). Gli uomini della prima generazione, quella dell’oro, divenivano
alla morte “daimones propizi, che stanno sulla terra, custodi dei mortali”.

85
Simonide.4 Uno spazio a parte deve spettare ovviamente a Pindaro: è stato in effetti un
suo frammento a ispirare Rohde nell’aprire questo filone di studi.5 Ovviamente non ci si
deve aspettare che questi autori ci parlino esplicitamente di dualismo: lo studio da
compiervi deve essere dello stesso tenore di quello fatto su Omero nel capitolo I, ovvero
mirato a dedurre informazioni psicologiche dal linguaggio. Lo stesso vale per la
drammaturgia, che offre, al pari dell’epica e della lirica, un’altra fonte di informazioni
rilevante sulla psicologia dei greci.
Sviluppo degli studi interculturali. Un aspetto molto interessante della storia del
dualismo in Grecia è che esso sembra avere almeno un altro notevolissimo analogo
nella storia del pensiero ebraico. Infatti anche all’interno della successione diacronica
dei libri dell’Antico Testamento pare potersi rilevare un progressivo “potenziamento”
della vecchia nozione di anima della tradizione ebraica, la nefes, nella stessa direzione
dualista della letteratura greca tra Omero e Platone.6 Non è poi da escludere che esistano
altre analogie inesplorate con altri popoli, più o meno lontani dai greci. Il conoscere la
stessa storia raccontata da altre voci non potrebbe che accrescere la nostra comprensione
della sua versione greca e delle generali dinamiche di instaurazione della visione del
mondo dualista.
Le teorie preesistenti sull’origine del dualismo in Grecia. Per sviluppare una teoria
convincente che spieghi cos’è stato a far scattare il cambiamento tra Omero e Platone,
bisognerà in primo luogo affrontare criticamente le maggiori teorie che appartengono
già al dibattito. Esse si dividono essenzialmente in due tipi: c’è chi ha rintracciato la
radice del cambiamento in un’influenza di credenze e costumi religiosi stranieri e chi
invece si è concentrato sui non indifferenti cambiamenti che la società greca ha subito
tra l’ VIII e il IV secolo (la diffusione del modello della polis, la democrazia, la

4
Un’ottima guida per un tale lavoro è senz’altro Snell (1946) pp. 87 – 100, che ha individuato nella
poesia lirica un segno inequivocabile della “nascita dell’individuo” in Grecia: con la lirica per la prima
volta i poeti “ci dicono il loro nome, parlano di sé e si fanno conoscere come individui” (p. 89).
5
Ovvero il frammento 131, citato in Rohde (1894) vol. I p. 7: “Segue la morte possente il corpo di
tutti, ma rimane un’eidolon della vita, ancora vivo; perché solo questo viene dagli dèi: dorme quando le
membra agiscono, ma mostra in molti sogni a quelli che dormono l’assegnazione di gioie e dolori in
futuro” (trad. Cannatà Fera 1990). Secondo il Rohde il frammento è una chiara testimonianza
dell’evoluzione del concetto di anima da Omero a Pindaro.
6
Uno studio di questo tenore è contenuto ad esempio in Galimberti (1979) pp. 85 - 111 e (1983) pp.
57 – 68. Spunti molto interessanti potrebbero essere regalati ad esempio dal passo Maccabei II 7, la prima
attestazione veterotestamentaria della credenza nella rinascita, oppure la visione “dualista” di Ezechiele
37. È stata anche avanzata la teoria che gli israeliti non possedessero il concetto di individuo, al pari di
quanto si sospetta per i greci arcaici, cfr. Robinson (1981).

86
colonizzazione del Mediterraneo per citare i più evidenti). Nella prima classe ricade lo
stesso Rohde, che per primo parlò di “una goccia di sangue estraneo nelle vene dei
greci”,7 seguito poi da Dodds.8 Nella fattispecie quest’ultimo ha ipotizzato un’influenza
decisiva sulla Grecia arcaica da parte della “cultura sciamanica”, che sarebbe avvenuta
attraverso la Scizia. Se le opinioni del Rohde sono ormai obsolete, la teoria di Dodds –
pur tenendo conto dei notevoli ridimensionamenti che ha subito –9 ha ancora il merito di
porre il giusto accento sulla quella costellazione di figure “sciamaniche” che ha
popolato la Grecia arcaica, da Pitagora sino a Empedocle, passando per Aristea di
Proconneso e Abari. Altri studiosi, probabilmente ispirati dal lavoro di Walter Burkert,
hanno guardato invece al Vicino Oriente antico per l’influenza decisiva. Quest’opinione
oggi sembra essere molto accreditata.10 La seconda classe di teorie, quella
“sociologica”, si è concentrata sulla “nascita” del concetto di individuo in Grecia. Essa,
anticipata da Bruno Snell, è stata riformulata ad esempio da Jan Bremmer. 11 In realtà
non credo affatto che ci sia bisogno di scegliere a quale classe di teorie sia opportuno
affiancarsi: esse non si escludono a vicenda. Anzi, la mia opinione è che alla nascita del
dualismo ci siano in effetti credenze religiose di provenienza straniera, ma che queste
abbiano trovato terreno fertile tra i greci proprio perché si adattavano bene alle nuove
esigenze spirituali di un ordinamento sociale in evoluzione. Ogni tentativo di spiegare
questo fenomeno che non guardi a entrambi gli aspetti è destinato all’incompletezza.
Maggiore sviluppo di una teoria sociologica. È necessario approfondire
ulteriormente il rapporto tra l’evoluzione della società greca e l’emergenza del
dualismo. È ad esempio opinione piuttosto diffusa12 che il vivere comunitario della polis

7
Citato in Dodds (1951) p. 188. Rohde riconduceva questa goccia estranea – probabilmente
influenzato anche dall’amico Nietzsche – al “culto di Dioniso” e ai suoi aspetti orgiastici, estatici e
allucinatori. Secondo lo studioso tedesco questo culto, dai tratti tanto diversi dai costumi religiosi greci,
fu importato “improvvisamente” dalla Tracia, all’incirca la moderna Bulgaria. Cfr. Rohde (1986) vol. II
p. 353 e sgg.
8
Espressa in Dodds (1951), The Greeks and the Irrational pp. 183 – 205. Essa aveva le sue radici in
un articolo del classicista svizzero Karl Meuli, Meuli (1935).
9
Cfr. soprattutto Bremmer (1983) pp. 24 - 53 e Burkert (1972) pp. 120 - 165.
10
L’opera più influente in questo campo di studi è probabilmente The Orientalizing Revolution: Near
eastern influence on Greek culture in the early archaic age di Burkert (1992). Il tedesco guarda
soprattutto alla Siria-Assiria come punto focale degli scambi tra greci e orientali, che sarebbero avvenuti
in corrispondenza dell’VIII secolo. Cfr. Horstmanshoff e Stol (2004), Holmes (2010) pp. 23 – 24.
11
Snell (1946) pp. 88 – 100, Bremmer (1983) pp. 65 – 66.
12
Cfr. ad esempio Snell (1946) pp. 226 – 300 per la “genealogia della morale” greca, che passa dal
buono come utile omerico al buono come virtuoso, pio e di Socrate. O cfr. la riflessione doddsiana sul
passaggio da una “società della vergogna” ad una “società della colpa”, Dodds (1951) pp. 71 – 93, con le
dovute precisazioni di Williams (1993) pp. 1 – 6,

87
(soprattutto in democrazia) abbia influito sui costumi morali dei greci, rendendoli più
sensibili all’uguaglianza e rendendo la loro coscienza morale più autonoma. È anche
facilmente desumibile che questo abbia facilitato il diffondersi di credenze
escatologiche che premiassero i giusti e punissero gli ingiusti dopo la morte, qualora
alla legislazione della polis sfuggisse qualche ingiustizia (e il pensare alla
sopravvivenza fuori dal proprio corpo presuppone necessariamente una qualche almeno
rozza forma di dualismo). Tutti questi spunti meritano di essere integrati e sviluppati in
una teoria unitaria. Per fare questo è tuttavia necessario compiere ulteriori ricerche su
altri aspetti che qui ho solo sfiorato, sui quali secondo alcuni l’uomo omerico e il greco
dell’età classica divergono: ad esempio è vitale capire se davvero al primo mancava il
concetto di volontà autonoma o addirittura non era cosciente come lo siamo noi.13
La genesi dell’anima attraverso quella del corpo. Una teoria che merita di essere
valutata a parte è quella di Brooke Holmes,14 che invece di concentrarsi sullo sviluppo
della nozione di anima ha posto l’accento su quella di corpo. Secondo la studiosa, che
raccoglie alcuni spunti già presenti in Snell,15 il “corpo fisico” nasce in Grecia solo
intorno al V secolo, come conseguenza del crescente interesse naturalistico e dei
progressi in campo medico, ed è solo come risultato di ciò che è nata anche una
parallela nozione dualista di anima.
Voglio infine aggiungere qualche parola su una riflessione che è stata
inaspettatamente catalizzata dalla stesura di questo lavoro. Sospettavo già che esistesse
qualche connessione tra il “modello” che scegliamo per descrivere noi stessi e la nostra
percezione dei problemi cosiddetti “esistenziali”, in primis quello del rapporto
dell’individuo con la propria mortalità: il nostro atteggiamento emotivo verso la morte
varia a seconda di come la definiamo, e questo non può che dipendere dall’ontologia
dell’essere umano nella quale crediamo.16 Viceversa, i miei bisogni “spirituali” (ad
esempio la paura dell’annullamento, oppure il desiderio di una retribuzione morale
ultraterrena) influenzeranno l’adozione della credenza in un certo tipo di rapporto
13
Rispettivamente in Snell (1946) pp. e Jaynes (1976) pp. 307 – 350. Non ritengo che le critiche di
Williams (1993) pp. 31 – 56 contro Snell e p. 57 contro Jaynes siano del tutto definitive, nonostante
sollevino problematicità rilevanti.
14
Holmes (2010) The Symptom and the Subject. Cfr. pp. 1 – 40 per un’esposizione generale della
teoria.
15
Snell (1946) pp. 19 – 47 per l’assenza della nozione di corpo in Omero (cfr. infra §§ I.12 – 13).
16
Ad esempio, se sono un materialista eliminativista come i coniugi Churchland, Daniel Dennet e – in
un certo senso – Odisseo e Achille, guarderò alla mia fine con una certa attitudine, mentre invece se sono
un dualista come il Socrate platonico, Agostino o Cartesio il mio atteggiamento sarà diverso.

88
anima-corpo. L’occuparmi di questa ricerca non ha fatto altro che convincermi ancora
di più della forza di questo collegamento: i greci sembrano aver cominciato a parlare di
dualismo anima-corpo proprio in relazione a bisogni di tipo spirituale e solo in una fase
successiva essi lo avrebbero poi recuperato all’interno della speculazione filosofica. È
principalmente in nome di questa connessione tra antropologia ed escatologia che ho
scelto di dedicare molto spazio alle credenze ultraterrene dei greci, sia arcaici che
classici, e parimenti credo che un’attenzione ancora maggiore alla sfera della morte nel
pensiero antico gioverebbe sia a uno sviluppo futuro di questa ricerca, sia alla filosofia
contemporanea in generale. D’altronde perché non recuperare l’insegnamento della
filosofia greca, cioè l’accompagnare la teoresi alla tensione verso l’eudaimonia? Non
credo affatto che, ad esempio, l’occuparsi del rapporto dei personaggi omerici con la
morte sia solo una ricerca fine a se stessa: se davvero “il mondo moderno è stato una
creazione europea guidata dal passato greco”,17 non vedo perché non dovremmo
rintracciare gli antenati delle nostre presenti ansie e angosce spirituali nell’eredità greca,
insieme forse a nuovi modi per conviverci.

17
Williams (1993), p. 11.

89
90
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Desidero ricordare tutti quanti mi hanno aiutato, consigliato e supportato durante la preparazione e la
stesura di questo lavoro.
In primo luogo devo ringraziare il mio relatore, prof. Francesco Ademollo, che ha seguito passo per
passo l’evoluzione di questa ricerca, sopportando stoicamente ogni mio cambio di programma, la mia
testardaggine e la mia patologica disorganizzazione; ma che soprattutto non mi ha mai risparmiato le sue
critiche, senza le quali questo lavoro avrebbe falle ben più vaste di quelle che già contiene. Ma devo
anche ringraziarlo, a livello personale, per avermi ispirato con la rara passione che mette nel suo lavoro, e
che spero mi abbia almeno in parte contagiato.
Ringrazio il mio correlatore, prof. Alberto Peruzzi, che ha abbracciato da subito il mio progetto anche
se il tema non rientra nei suoi interessi principali, e che mi ha motivato a evitare di compiacermi in un
linguaggio pomposo e poco chiaro e a prendere i problemi “di petto”. Voglio anche aggiungere che
ringrazio entrambi i miei relatori per aver accettato senza remore questo lavoro come tesi di una laurea in
Filosofia, senza che esso si presti a essere categorizzato come “tesi di Filosofia” più di quanto non sia al
contempo di Filologia classica, Antropologia culturale o di Storia delle Idee.
Non posso fare a meno di ringraziare anche Máté Herner della LMU di Monaco di Baviera, che ha
fornito un aiuto fondamentale nel raccogliere il materiale per questa ricerca e che ha speso su di me molto
più tempo di quanto gli fosse dovuto.
Voglio poi rivolgere un ringraziamento a tutti gli amici che hanno dato un contributo a questa ricerca,
sia consigliandomi sui problemi specifici che ho incontrato strada facendo, sia non permettendomi di
sviluppare un rapporto troppo morboso con la tastiera del mio computer e i miei libri. Una menzione
speciale spetta a Niccolò Bacci, la cui passione per la filosofia non smette mai di stupirmi e ispirarmi.
Un grazie alla mia famiglia, che non mi ha mai fatto mancare supporto e affetto, e soprattutto per
essere riusciti a tollerarmi così a lungo. Devo ringraziare in maniera particolare Adriana per essere stata
fin dall’inizio attivamente partecipe alla scrittura di questa tesi, consigliandomi e leggendo ogni mia
bozza.
Infine grazie a Vittoria, che oltre all’aiuto che mi ha fornito nella stesura di questa ricerca ha anche
(incredibilmente) continuato a sopportarmi fino a ora: se fossi un greco antico – ma non più antico del V
secolo a.C.! – la mia psychē apparterrebbe a te.

Alessandro Volpi,
Pistoia 03/07/2018

τὸν δ’ ἐπιπλάζοντ’ ἄνεμοι φέροιεν


καἱ μελέδωναι

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