MICHELE SCHMAUS
INT DUZION
M
|
G,
FRANCHINI I
273
I FOLIGNO
MARIETTI
DOGMA MICHELE SCHMAUS
PROFESSORE ALL'UNIVERSITÀ DI MONACO
CATTOL
DOGMATICA
CATTOLICA
C
MA
I. INTRODUZIONE DIO »
- CREAZIONE
II. DIO REDENTORE - LA MADRE DEL REDENTORE
III/l. LA CHIESA
III/2. LA GRAZIA
IV/l. I SACRAMENTI
IV/2. I NOVISSIMI
V. INDICI
Titolo originale dell'opera
KATHOLISCHE DOGMATIK
Verlag Max Hueber - Miinchen
Edizione italiana a cura
di Natale Bussi
III EDIZIONE
Deb
(20-IV-1966)
Nulla osta: Casale 24-9-1959. - Can. Teol. L. Baiano, Rev. Eccl.
Imprimatur: Casale 30-9-1959. - Mons. M. Debernardis, Vic. Gen.
Proprietà letteraria (20-IV-1966).
PRESENTAZIONE
È vivamente sentita oggi, particolarmente da chi è in cura d'anime o
comunque s'impegna nell'apostolato, l'esigenza dì una esposizione della
dogmatica cattolica che metta maggiormente in luce il valore religioso o
salvifico delle verità rivelate, e sia più rispondente alle esigenze della
predicazione e della vita cristiana nelle sue attuali congiunture.
Ora è concorde giudizio dei competenti che la presente Dogmatica di
Mons. Michele Schmaus, Professore Ordinario di Teologia Dogmatica
nell'Università di Monaco e Socio Ordinario della Pontificia Accademia
Teologica Romana, venga incontro meglio di ogni altra a tali richieste.
Il che deriva dalla sua impostazione, delineata nella prefazione che segue,
dall'ampia utilizzazione delle fonti della rivelazione, specie la Scrittura,
dal fatto di mostrare come la parola di Dio, custodita e dichiarata dalla
Chiesa, risponda alle più vive questioni dell'uomo di oggi.
Questa Dogmatica non intende, come dice espressamente l'Autore, so¬
stituire nessuno dei testi usati nelle scuole di teologia, nè porsi accanto
ad essi come uno dei tanti, ma, presupponendoli tutti, integrarli, non
solo per il fatto che, come già s'è detto, pone in luce il valore soterio-
logico dei dogmi, ma anche per la ricchezza delle citazioni della Bibbia,
dei Padri, dei Concilii, delle Encicliche e degli scrittori religiosi moderni.
Nell'edizione italiana, condotta sulla quinta tedesca, col permesso del¬
l'Autore sono state soppresse alcune pagine di letture, e qua e là, sosti¬
tuite con altre segnate con asterisco. La bibliografia è stata riveduta e
adattata al nostro ambiente. Inutile dire, infine, che la preoccupazione più
viva fu quella di rendere con fedeltà e chiarezza il pensiero dell'Autore.
Si confida che i lettori troveranno in quest'opera un valido aiuto per
approfondire la conoscenza del cristianesimo, per alimentare e irrobu¬
stire la loro fede onde testimoniarla con più forza e vivacità nel mondo
attuale.
Sac. NATALE BUSSI
Insegnante dì Dogmatica nel Seminario di Alba
Dog
Gli indici analitico, onomastico e biblico
relativi ai quattro volumi della Dogmatica
si trovano radunati nel vol. V : Indici.
PREFAZIONE 1
La presa di coscienza di un distacco, talvolta profondo e non senza
gravi conseguenze, della scienza teologica dalla pastorale ha fatto sor¬
gere il problema se non sia il caso di elaborare e coltivare due teologie,
una strettamente scientifica e l'altra cosiddetta della predicazione. La prima
dovrebbe presentare la rivelazione da un punto di vista filosofico e filo¬
logico, mentre la seconda dovrebbe cercare di metterne in luce il valore
salvifico, ponendosi così al servizio della vita.
Per quanto una tale idea possa sembrare affascinante a prima vista,
la sua attuazione sarebbe tuttavia molto pericolosa. Io ho giustificato il
mio rifiuto di una siffatta teologia della predicazione nell'articolo pub¬
blicato nella rivista Die Seelsorge (16, 1938, 1-12) dal titolo: « Brauchen
wir eine Theologie der Verkiindigung? » (C'è bisogno di una teologia
della predicazione?). Qui mi limiterò a quanto segue.
1. - Ogni teologia scientifica dev'essere in certo qual modo teologia
della predicazione, se non vuol incorrere nel pericolo di cessare di essere
teologia scientifica.
a) Comunque si definisca la natura della teologia, essa è sempre
lo studio scientifico della rivelazione attuatasi in Cristo. Ora la rivela¬
zione divina è stata fatta propter nostram salutem. Non è e non intende
essere una pura e semplice comunicazione di notizie, ma vuole operare
la nostra salvezza. Il suo valore salvifico non è quindi accidentale, non
è una finalità estrinseca, ma è essenziale, inscindibile, intrinseco. Pertanto
1 Viene qui riprodotta, nella sua parte sostanziale, la prefazione che l'Autore pre¬
mette al secondo volume della sua opera. Si è ritenuto opportuno tralasciare la prefa¬
zione al primo volume perchè rispecchia prevalentemente l'ambiente tedesco e anche
perchè i concetti fondamentali in essa esposti sono qui ripresi e ampliati.
sufficienza una virtù e non si può ritenere giust
Vat
8 PREFAZIONE
spiega
la scienza che espone la rivelazione non può prescindere da questo suo ult
intrinseco valore e significato, altrimenti ne trascurerebbe un elemento ch
essenziale. Se ciò talvolta di fatto accade, la causa va ricercata nella im¬ sappiam
perfezione insita in tutto ciò che è umano. Ma non si può fare dell'in¬ d
sufficienza una virtù e non si può ritenere giusto e normale quanto di¬ no
pende dall'umana imperfezione. Il Concilio Vaticano ha espressamente teo
affermato che la scienza teologica, nello spiegare i misteri della fede, c
deve mettere in luce il loro nesso con il fine ultimo dell'uomo.
b) Inoltre, nella teologia si parla del Dio che si è manifestato ed è s
divenuto accessibile in Cristo. Ora noi sappiamo che ogni scienza de¬ poss
sume il suo metodo dal suo oggetto. Il metodo del matematico è diverso scientifi
da quello dello storico; il metodo della filosofia non è quello della scienza. p
Ciò è lapalissiano. Se dunque l'oggetto della teologia è Dio, necessaria¬
mente il suo metodo è determinato dal fatto che Dio è proprio Dio. come
Ne deriva che colui che si dedica alla teologia viene a trovarsi in una teolo
situazione diversa da quella di qualsiasi altro studioso. Dio infatti è il prop
Creatore, il Signore, il Salvatore. Non è possibile accostarsi a questo anco
« oggetto », anche quando vien trattato scientificamente, come a qual¬ svolgi
siasi altro. Anche lo studio scientifico non può prescindere dal fatto che Pertan
Dio è Dio, cioè il Signore e Giudice. Quando un teologo prescindesse n
da ciò, la sua sarebbe una teologia del « come se », in contrasto con
l'esigenza metodica fondamentale della vera teologia. Il teologo che vuol conosc
mantenersi oggettivo deve accostarsi al suo proprio oggetto con rispetto, q
amore ed obbedienza, anche se, per dirla ancora una volta, la sua ri¬oggettivam
cerca è scientifica. La teologia è così uno svolgimento della fede stessa, sol
è un determinato modo della vita di fede. Pertanto se un teologo, accet¬ de
tando quel concetto di scienza che dominò nella cultura del secolo
scorso, ma ora felicemente superato, volesse atteggiarsi a indagatore
neutrale, e cercasse di raggiungere una conoscenza « distaccata », egli
dovrebbe rinunciare a quel comportamento, a quell'atteggiamento senza
di cui Dio non può essere conosciuto oggettivamente. Dovrebbe accet¬
tare di conoscere non Dio in quanto tale, ma soltanto il concetto di Dio;
il che sarebbe come dire voler parlare non della realtà, ma semplice-
PREFAZIONE 9
mente del concetto e delle rappresentazioni della realtà medesima. Si
avrebbe quindi una teologia per la quale i concetti, le rappresentazioni
e le parole non sarebbero mezzi per la comprensione della realtà, ma
gli oggetti stessi dell'indagine. In altre parole sarebbe un puro e sem¬
plice nominalismo. Molto probabilmente è proprio qui che va ricercata
la causa della sterilità di alcune correnti teologiche.
c) La teologia parla di Dio rivelatosi in Cristo. Essa è perciò le¬
gata a Cristo, ossia alla testimonianza su Cristo contenuta nella Scrittura
e nella Tradizione, custodita e interpretata dalla Chiesa. In altre parole,
dev'essere cristocentrica, altrimenti cessa di essere teologia cristiana, so¬
prannaturale. Il cristocentrismo non è proprio di una particolare teologia,
ma di ogni teologia. Con ciò non si vuol dire che nell'edificio della teo¬
logia il trattato su Cristo debba costituire la prima pietra, anche se la
cosa sarebbe augurabile. Supposto che ciò avvenga, il principio qui
esposto potrebbe tuttavia essere trascurato quando nei successivi trattati
non si dovesse più parlare di Cristo. Il cristocentrismo della teologia
dogmatica importa che in ciascun trattato e nei singoli punti di dottrina
emerga che si tratta sempre, in certo modo, di Cristo. La dogmatica è
dunque legata al Cristo storico, ad un fatto della storia, non ad un puro
mondo di idee. Ed essa si lega a Cristo vincolandosi alla testimonianza
di lui offertaci dalla Scrittura e dai Padri della Chiesa. L'esposizione di
questa testimonianza ha quindi importanza decisiva, ed è fatta solo im¬
perfettamente se si limita a raccogliere una serie di testi della Scrittura
a mo' di pura registrazione. Dovrebbe invece presentare il divenire, il
modo dell'automanifestazione di Dio, la situazione storica della divina
rivelazione, l'intreccio della rivelazione con i fatti della storia della sal¬
vezza, il contesto di cui fa parte ciascuna delle verità rivelate, la loro
connessione con la totalità della rivelazione. Inoltre dovrebbe mostrare
con quale forza e vitalità, con quale dedizione e disposizione fu testi¬
moniata la rivelazione nell'epoca patristica (ed anche successivamente).
Naturalmente questa testimonianza non può essere sfruttata a fondo.
Nessuna dogmatica può esporla perfettamente in tutta la sua ampiezza,
ma deve limitarsi ad una scelta più o meno grande. Ibrani scelti non
IO PREFAZIONE rinunciar
obbligata
devono soltanto presentare l'accordo su una verità, bensì anche la forza
scie
vitale, che aveva tale verità, e la chiarezza e la decisione con cui fu
s
testimoniata.
Da tutto ciò consegue che la teologia scientifica non può affatto pre¬
Ripeti
scindere dalle esigenze della teologia della predicazione.
son
2. - Per quest'ultima non può rinunciare ad essere una teologia
contro teo
strettamente scientifica, anche se non è obbligata a dare particolare im¬
portanza alla presentazione di un apparato scientifico. Quand'essa ces¬ q
sasse di rispondere alle esigenze del metodo scientifico, cadrebbe ben punt
presto in preda alla corrente irrazionale della vita e dell'esperienza e vit
nell'oscuro fondo dell'emotività personale. Ripetiamo dunque che teolo¬
gia della predicazione e teologia scientifica sono inscindibili, e che la
scienza teologica è sempre in certo qual modo teologia della predicazione,
cioè servizio alla vita di fede.
La presente opera vorrebbe appunto prestare questo servizio in quanto
dà particolare risalto ai tre summenzionati punti di vista e con ciò in¬
tende accorciare la distanza tra la scienza e la vita. Naturalmente questo
non significa affatto un'attenuazione del rigore e della solidità scientifica.
L'AUTORE
INTRODUZIONE
SEZIONE I.
LA TEOLOGIA IN GENERALE
§ 1. Natura e compito della teologia.
I. L'autorivelazione di Dio, fondamento della teologia.
A) Il vocabolo « teologia », d'origine greca, etimologicamente significa
discorso, parola, scienza di Dio.
Il mondo greco romano dell'antichità pagana chiamava teologi quei poeti e
filosofi, che davano una spiegazione mitologica del cosmo. Il filosofo greco Ari¬
stotele equiparava la teologia alla mitologia. Talvolta egli chiama teologia la « filo¬
sofia prima », cioè la metafisica, per distinguerla dalla filosofia naturale e dalla
matematica. Per gli Stoici qualsiasi sforzo verso Dio, sia nel campo mitologico
che filosofico e cultuale, era denominato teologia.
Icristiani solo lentamente e con esitazione, perchè inquinato dalla mitologia
pagana, usarono tale vocabolo per designare i tentativi con cui essi cercavano di
meglio e più profondamente conoscere il Dio vero e vivo svelatosi in Cristo.
All'inizio, lo usarono, invece, alla stessa maniera dei pensatori pagani, per desi¬
gnare le concezioni precristiane di Dio.
L'uso cristiano del nome teologia fu preparato da Clemente Alessandrino e
specialmente da Origene e chiarito e perfezionato da Eusebio di Cesarea. Da
quel momento, tale parola appartenne al patrimonio indiscusso del linguaggio
teologico usato dalla cristianità orientale, pur rimanendo a lungo limitato alla
dottrina riguardante la Trinità; la dottrina concernente il piano salvifico si chia¬
mava, invece, « economia divina ». Nel mondo latino si deve attendere, almeno
così pare, sino ad Abelardo, per trovare il termine teologia nel senso attualmente
inteso. Ciò che noi oggi chiamiamo teologia, per lungo tempo si chiamò « dot¬
trina sacra » (sacra doctrina).
B) Il senso etimologico del vocabolo ci permette di penetrarne il signi¬
ficato reale. Il discorso, la parola sono infatti segno ed espressione della
vita spirituale che tende alla comunione.
presentare se stesso in tutta la profondità ed estension
a
14 INTRODUZIONE qu
Con la parola s'avvera l'incontro personale, poiché, con essa l'uomo svela il suo P
interno e si comunica ad un altro e ciò in varia misura. Chi parla, talvolta, al¬ quand
l'uditore comunica solo l'oggetto del suo sapere; talaltra gli comunica pure i o
suoi desideri e le speranze più intime. Solo di rado riesce a racchiudere nella dischiude
parola l'intimo segreto del proprio io. Ma neppure la parola più appropriata e
più ricca può realizzare questo perfettamente, perchè l'uomo non ha il potere di ch
presentare se stesso in tutta la profondità ed estensione. h
L'io umano comunica parte del proprio sapere solo a quelli, di cui desidera un comuni
allargamento e un arricchimento spirituale. Solo a quelli che lo interessano, egli natur
svela il suo intimo. La parola di chi parla è, perciò, piena d'interesse per colui d
che ode, proprio per il fatto che è sorretta dall'amore. Parimenti, colui che ascolta
può percepire la parola che gli vien rivolta, solo quando si rivolge con attenzione appr
a colui che parla. Altrimenti non s'accorgerà di nulla o almeno non lo capirà ret¬ l'udito
tamente. In modo particolare, la parola che dischiude l'intimo, e perciò adduce de
ima partecipazione alla vita interiore di chi s'esprime, non può essere rettamente
tu
percepita se chi ode non s'accosta con amore a colui che parla.
La parola è quindi espressione di socialità. Essa ha simultaneamente la ten¬
denza e la forza di chiarire e di approfondire la comunione degli individui. Sgorga D
e sfocia in una comunione di vita. L'inclinazione naturale degli uomini a tendere
gli uni verso gli altri, si manifesta nella possibilità d'esprimersi in parole e di h
creare una comunione spirituale.
La tendenza che ha la parola a chiarire e ad approfondire la comunione di¬ ci
viene visibile e percettibile nella risposta, che l'uditore rivolge a chi gli parla. dell'
Nella parola e nella risposta si realizza lo scambio della vita spirituale. D
C) La teologia, parola di Dio, è un discorso tutto particolare. La sin¬ tentare
golarità di questo discorso concerne tanto il suo contenuto quanto la sua
provenienza. Esso tratta di Dio e procede da Dio. L'uomo può parlare
di Dio solo quando Dio, per primo, parla di se stesso all'uomo. L'uomo med
può dire di Dio solo ciò che Dio per primo gli ha detto. Il discorso che mod
l'uomo tiene su Dio è solo una ripetizione di ciò che dapprima e in un p
certo modo Dio stesso ha detto. Il discorso dell'uomo circa Dio presup¬ s
pone la parola di Dio, l'automanifestazione di Dio all'uomo. Per poter
esprime
parlare di Dio, noi dobbiamo esaminare e tentare di chiarire ciò che Dio
bellez
ha svelato di se stesso.
ste
D) Dio di fatto ha parlato all'uomo in due modi essenzialmente di¬
versi e pur tra loro intimamente connessi: mediante l'opera della crea¬
zione e mediante Gesù Cristo (quest'ultimo modo include pure la mani¬
festazione divina dell'Antico Testamento, che preparava Cristo). Noi li
chiamiamo rivelazione naturale e rivelazione soprannaturale.
1. - Con la rivelazione naturale Dio esprime, attraverso il creato, la
sua potenza creatrice, la sua libertà, la sua bellezza, la sua gloria e la sua
maestà. Nel mondo creato, egli manifesta se stesso come in una pallida
§ I. NATURA E COMPITO DELLA TEOLOGIA 15
immagine riflessa dallo specchio, sicché, per mezzo del mondo, diviene
palese all'uomo ciò che di Dio era occulto e l'invisibile diviene visibile
(Rom. 1, 18 s.).
La parola che Dio rivolge all'uomo mediante il creato — compresa la stessa
natura umana — e che noi, per mezzo suo, possiamo percepire, si ode nell'espe¬
rienza religiosa. L'uomo (sia il nostro che l'altrui essere), le cose e gli eventi ci
possono far percepire Dio come colui che opera e domina in tutto, come l'unica
e permanente realtà e potenza, come il bene imperituro, come l'assoluto che vin¬
cola e costringe, come il Diverso, il Santo e l'Occulto. L'esperienza prescientifica
di Dio può essere spiegata, chiarita, fissata e giustificata dalla ragione. È questo
il compito della scienza della religione. L'uomo può procedere nella seguente
maniera. Appena la sua vita spirituale si risveglia, egli si trova dinanzi ad un
mondo che gli è unito in diversi e svariati modi. Egli si sforza di spiegare se
stesso e il mondo in cui vive. Ciò che quindi direttamente gli si presenta sono i
fenomeni, le apparenze delle cose. Da queste gli vien dischiusa l'essenza delle
singole realtà e l'interdipendenza che tutte ricollega. Vien così a conoscere la
loro contingenza e si chiede il perchè esse esistano ed abbiano ad operare. In tal
modo la sua riflessione risale a Dio da cui gli fu offerto il materiale della ricerca
coronata da tanto successo. Quando l'uomo ricollega se stesso e il mondo a Dio,
allora rettamente risponde alla parola che Dio gli rivolge mediante la creazione.
Ma Dio non solo gli offre il materiale attraverso il quale può risalire a lui, ma
gli fornisce pure la ragione con cui egli svolge le sue osservazioni e le sue con¬
clusioni. Pur essa è stata creata da Dio e da lui totalmente dipende; da Dio è
sostenuta e potenziata nell'esercizio delle sue attività. Tuttavia l'uomo sviluppa la
sua intelligenza secondo leggi e possibilità proprie alla sua natura e che furono
fissate da Dio. La ragione conosce infatti per mezzo di una luce che le appartiene,
ma che pur essa è dono di Dio, e procede secondo un modo suo proprio da Dio
inteso.
Ciò che di se stesso Dio non ha manifestato in alcun modo nel mondo, non
può essere percepito dalla ragione con le sue pure forze: trascende le possibilità
conoscitive umane ed è come qualcosa che giace sotto l'onda a una profondità
inaccessibile alla percezione umana. Di più, a chi poggia solo sulle capacità cono¬
scitive dell'intelletto umano, anche la stessa parola espressa da Dio nella crea¬
zione può rimanere inefficace.
Sì, l'uomo può trascurare anche ciò che di se stesso Dio ha reso visibile nella
creazione. Dio nel creato non si accosta a noi con immediato fulgore, ma solo
velatamente. Lo spirito umano può quindi passare oltre senza nemmeno accor¬
gersi di lui, o malamente interpretare la sua parola. Pericolo reso ancor più fa¬
cile dal peccato in cui l'uomo è caduto, dal suo orgoglio, dalla debolezza del suo
intelletto, dall'indolenza del suo cuore. Ne proviene quindi la possibilità che
l'uomo, racchiuso in se stesso e nel mondo, non possa scoprire e pervenire, attra¬
verso la magnificenza degli esseri, alla superiore magnificenza divina, di cui tutto
ciò ch'è terreno è solo figura e similitudine, così da confondere la gloria del creato
con la gloria di Dio (Rom. 1, 23). Di conseguenza la rivelazione naturale di Dio,
per l'uomo concreto, rimane oscura, confusa, piena di enigmi e difficile a com¬
prendersi.
Dio, però, s'è rivolto all'uomo in manie
chi
16 INTRODUZIONE
inesprimib
2. - Quandol'uomo interpreta rettamente la rivelazione « naturale », po
acquista la conoscenza che il proprio io e il mondo non sono qualcosa automanifes
di chiuso in se stesso, ma che, al contrario, tendono a Dio; che l'io ter
incomprensibile
umano possiede per natura una capacità recettiva di Dio e di ciò ch'è
divino. son
Dio, però, s'è rivolto all'uomo in una maniera che trascende la rive¬ p
lazione naturale. Egli ci ha diretto un'altra chiara e limpida parola per
la quale ci ha dischiuso una realtà inesprimibile dai fenomeni che cisopranna
attorniano. In essa egli si comunica con una potenza che supera tutte rivelazione
le
possibilità del creato. Anche questa automanifestazione è però legatasoprannatura
alle
forme e alle possibilità espressive di questa terra; deve anzi essere cosi,
se non vuol divenire un enigma incomprensibile. Dio si palesa mediante
modi, segni, immagini e forme verbali che sono prese dal creato, ma a
cui egli dona un contenuto nuovo, che non può essere reperibile nel eventi
mondo, dove esso non esiste. so
Noi chiamiamo questa rivelazione soprannaturale o rivelazione in nono
senso stretto. Quando parliamo di rivelazione senza alcuna specifica¬ somiglianz
zione, intendiamo indicare quella soprannaturale.
f
3. - La rivelazione soprannaturale si palesa dunque in forme e modi ad
terrestri. Ma non proviene dal mondo. È Dio che nel presentarcela usa la
simili forme, disponendo allo scopo cose, eventi e uomini. Le cose create es
possono servire di segno per la rivelazione soprannaturale, poiché tra Pe
loro e tale rivelazione medesima, sussiste, nonostante la profonda diver¬ la
genza, un certo legame e una certa somiglianza. Quando, ad esempio, forman
Cristo dice d'essere il pane di vita, vuol dire che egli compie, per la ri
vera, unica e imperitura vita dello spirito, una funzione identica a quella natur
del pane per la peritura vita naturale. Egli adempie, per la vita spiri¬
tuale, il medesimo ufficio svolto dal pane per la vita naturale, in misura so
l'anal
però assai più dissimile che simile. Perchè esiste somiglianza egli può
esprimere tale concetto dicendosi « pane ». Per totale deficienza di so¬ so
miglianza non potrebbe invece dire: Io sono la pietra della vita. La na¬
turale attitudine e la funzione del pane formano il presupposto che lo
rende atto a divenire mezzo e strumento di rivelazione soprannaturale.
Noi diciamo perciò che tra la rivelazione naturale e soprannaturale sus¬
siste l'analogia entis, l'analogia dell'essere. Il che significa somiglianza
nella dissomiglianza e dissomiglianza nella somiglianza, con l'accento
posto, però, sulla dissomiglianza. Senza l'analogia entis ci diverrebbe
assolutamente incomprensibile la rivelazione soprannaturale, che utilizza
§ I. NATURA E COMPITO DELLA TEOLOGIA 17
parole umane e segni terreni. Tuttavia ciò che le parole e i segni, uti¬
lizzati come forme comunicative della rivelazione soprannaturale, in fondo
significano, non ci è possibile dedurlo pienamente dal loro significato
naturale, ma solo alla luce della rivelazione soprannaturale. Se non vo¬
gliamo sbagliarci dobbiamo chiederci di continuo quale sia il senso che
l'Iddio rivelante ha ricollegato alla parola umana e ai segni del creato.
Così l'analogia entis diviene analogia fidei. Ma questa poggia su quella
come sul suo fondamento. Di queste cose riparleremo in seguito in modo
più particolareggiato.
4. - Nella rivelazione soprannaturale Dio non agisce, come opera nel
mondo e nel suo corso, mediante le leggi naturali da lui impresse e con¬
servate nelle cose. No! In tale rivelazione egli spezza, in certo senso, le
leggi che garantiscono la sequela degli eventi naturali e della storia
umana, per rivolgersi immediatamente a singoli individui che si sceglie,
a cui fa brillare così luminosamente la sua realtà e che illumina in modo
tale da far loro comprendere, con assoluta certezza e chiarezza, d'aver
udito il verbo divino e di esser obbligati a ritrasmetterlo ad altri. E ciò
comprenderanno sia perchè vedono che tale parola non può esser d'ori¬
gine cosmica, ma divina, sia perchè s'accorgono che i segni accompa¬
gnatori di questa parola ne palesano la provenienza divina.
5. -
L'oggetto della rivelazione soprannaturale è costituito propria¬
mente da tutte quelle verità divine a cui non si può pervenire per mezzo
del creato. In senso più largo include anche affermazioni che, pur non
superando quanto può essere conosciuto attraverso la creazione, chiari¬
ficano, spiegano e rendono certa la stessa conoscenza delle verità naturali.
-
6. Anche se la rivelazione soprannaturale è caratterizzata tanto dal
suo oggetto quanto dalla sua provenienza, l'accento va però posto sulla
seconda caratteristica, cioè sulla sua immediata origine da Dio. Le co¬
gnizioni e le esperienze acquisite mediante la rivelazione soprannaturale,
non provengono dallo spirito interiore di uomini religiosi innamorati di
Dio; non sgorgano dal profondo della loro anima; non derivano dalla
genialità creatrice umana, dall'intuizione, ma da un immediato e gratuito
influsso di Dio sull'uomo. L'uomo diviene così lo strumento per mezzo
del quale Dio parla ed agisce.
7. - Il motivo della rivelazione, sia naturale che soprannaturale, è
l'amore di Dio, e precisamente l'amore per la sua propria gloria. La
2 - schmaus - dogmatica 1.
tripersona
Dio,
INTRODUZIONE
compiacenza, che Dio prova in essa, lo sospinge a effonderla oltre il suo
essere e la sua vita. tenden
Dal motivo emerge il fine, che consiste appunto nel realizzare partecipazione
tale
ste
sua gloria in maniere e forme create. Specialmente il fine della rivela¬
zione soprannaturale consiste nel realizzare in forme finite la più intima C
vita di Dio, che è la vita dell'amore tripersonale. Nella Scrittura questo essen
fine è chiamato Regno di Dio (dominio di Dio, signoria di Dio). contem
La realizzazione della gloria divina in forme finite significa la parteci¬ (Com
pazione ad essa da parte del creato. rivelazione
In tal modo la rivelazione divina, pur tendendo primariamente ad nell'amor
at¬
tuare il regno di Dio mediante la partecipazione delle creature all'intima pu
vita di Dio che è vita d'amore, mira nello stesso tempo al perfeziona¬ rag
mento della vita e della felicità delle creature. Così l'amore, che diciamo all
il movente primo della rivelazione, pur essendo primariamente amore libere
di Dio per la sua propria gloria, diviene contemporaneamente amore per
il creato. In tal senso Tommaso d'Aquino (Comm. in Ioann. 14, 4) dice offerto
che « l'amore è quello che opera la rivelazione dei misteri ». L'automa-
nifestazione di Dio ha la sua radice nell'amore e serve all'amore. Mai p
può venir ritenuta una pura istruzione, un puro insegnamento intellet¬ com
tuale 0 un semplice perfezionamento della ragione. Essa tende sempre
ad effettuare nel creato una partecipazione alla vita divina. La rivela¬ tempo,
zione, senza soffocare affatto le creature libere, ma con pieno rispetto po
della loro libertà, diviene per esse un invito a rivolgersi con piena auto¬ dov
decisione a Dio, all'amore che vien loro offerto. avere
ritenu
8. - Dio si manifesta in svariati modi. (Noi parliamo ora soltanto della strum
rivelazione soprannaturale). Tutti hanno in comune il fatto d'essere qual¬ Ma
cosa di storico. Dio si disvela, intervenendo, con l'azione e la parola,
nella storia umana in un determinato tempo, che si può datare con dello
precisione. Egli si è scelto un determinato popolo, l'ebreo, come stru¬
mento per parlare ed agire. Questo popolo dovrà perciò essere il porta¬ uom
tore della rivelazione divina e non potrà avere una storia come quella
di tutti gli altri popoli. Molte volte ha ritenuto un peso la sua voca¬
zione a servire, per l'umanità intera, da strumento trasmissivo della ri¬
velazione divina e vi si è perciò ribellato. Ma è proprio da questa sua
ribellione al compito affidatogli da Dio, che si comprende come la rive¬
lazione divina non sia stata espressione dello spirito proprio di quel
popolo, bensì un dono dall'alto.
Da questo popolo Dio prescelse alcuni uomini, che in modo speciale
§ I. NATURA E COMPITO DELLA TEOLOGIA 19
dovevano servire da tramite per la sua rivelazione, come ad esempio
Abramo, Mosè e i Profeti.
Il carattere storico della rivelazione divina raggiunse la sua più grande
intensità in Cristo. Poiché in lui Dio, non solo s'è introdotto con la pa¬
rola e l'azione nella storia umana, ma vi è divenuto presente come sog¬
getto operante e parlante.
Dio avrebbe potuto realizzare anche in altro modo la sua rivelazione. Avrebbe
potuto illuminare direttamente ogni singolo individuo. Avrebbe potuto utilizzare,
come strumento di rivelazione, senza alcuna preferenza, le singole comunità na¬
turali costituite dalla creazione, come la famiglia o i singoli popoli, cosicché ogni
individuo mediante la sua introduzione nella famiglia, potesse aver parte alla ri¬
velazione divina. Dio avrebbe potuto scegliersi come strumenti della sua manife¬
stazione personale, i rappresentanti delle singole comunità naturali, come il padre,
la madre, il re. Ma Dio volle, nella sua misteriosa e imperscrutabile sapienza,
seguire un'altra via. Noi possiamo intravederne il motivo nel fatto che, con tale
modo di manifestazione scelto da Dio, l'uomo poteva meglio conoscere la diver¬
genza tra l'ordine naturale e quello soprannaturale, e poteva meglio evitare ogni
confusione tra vita naturale e soprannaturale.
Coloro che furono scelti da Dio come strumenti della rivelazione divina, con¬
servarono la loro natura con le sue particolarità e debolezze. Come Dio si ma¬
nifestò in Cristo nella debolezza di una natura umana, così nella rivelazione
precristiana si espresse secondo le maniere di concepire, le forme mentali, i sen¬
timenti e i modi di esprimersi propri del tempo di coloro che furono scelti a
strumento di rivelazione.
Itrasmettitori della rivelazione conobbero con infallibile certezza che Dio agiva
in loro e parlava loro. Non poterono sottrarsi al compito divino. Spesso cerca¬
rono di resistere. Furono spinti ad azioni e parole a cui, per conto proprio, non
si sarebbero mai decisi. Ma nel medesimo tempo si sentirono ineluttabilmente
obbligati a trasmettere la loro esperienza di Dio.
Per il suo carattere storico la rivelazione si distingue dal mito. Questo
rappresenta, infatti, la personificazione e la divinizzazione di cose e di
eventi naturali, che si ripetono costantemente in un interrotto ricorso
ciclico.
L'automanifestazione storica di Dio si verifica o mediante l'azione,
o mediante la parola, o simultaneamente mediante tutti e due i modi.
a) Quando Dio si manifesta nell'agire, crea lui stesso la storia.
Questa è però diversa da quella prodotta dall'uomo con la propria de¬
cisione libera e responsabile. È storia della salvezza. Le appartengono
perciò quegli eventi che non mirano immediatamente, come quelli della
storia profana, alla fondazione e all'ordinamento della vita politica, cul¬
turale, sociale ed economica, ma che tendono a regolare il rapporto degli
diante gli eventi di questa. Si deve inoltre tene
ne
INTRODUZIONE
lo
20
voluto.
uomini con Dio, alla realizzazione della sovranità divina, della verità e prof
dell'amore, del regno di Dio. Nonostante tale differenza, sussiste tuttavia de
uno stretto legame tra la storia della salvezza e la storia profana. La
prima si svolge in realtà entro la seconda, così da potersi datare me¬ dall'org
diante gli eventi di questa. Si deve inoltre tener presente che, tendendo p
la storia della salvezza a portare gli uomini nel retto rapporto con Dio,
deve conseguentemente far sì che essi nelle loro decisioni storiche ab¬
biano a creare il giusto ordine da Dio voluto. Quindi, benché ad essa Sp
appartengano anche eventi che per la storia profana non presentano alcun
immediato interesse, tuttavia tutta la storia della salvezza presenta una
maggior portata di quella profana, in quanto essa tende a liberare gli non
misericordiosa
artefici della storia profana dal peccato, dall'orgoglio, dall'egoismo, dalla
brama di potenza e dalla ricerca del potere, per condurli alla verità e rifulg
all'amore. oggetto
L'azione di Dio concernente la storia della salvezza non è cieca, ma s
tutta spirituale, realizzata e plasmata dallo Spirito Santo (Ebr. 9, 14).
In essa si palesa lo Spirito di Dio, l'interiorità nascosta di Dio. Da essa
si può vedere e sentire chi e come sia Dio, ma anche chi sia l'uomo. Dio v
infatti si mostra misericordioso non solo e non tanto perchè ce lo dice
lui, quanto piuttosto operando misericordiosamente. L'attività di Dio un'inte
nella storia diviene così un segno in cui rifulgono i pensieri e iun'informazio
senti¬
menti di Dio, in modo da poter essere oggetto di esperienza. comun
b) La seconda maniera della rivelazione storica di Dio è la parola, rive
che egli ispira nell'animo di alcuni strumenti di rivelazione che si è scelti. illu
Per mezzo di essa Dio fa brillare dinanzi agli uomini o una verità uni¬ as
versalmente valida, oppure, come più spesso si verifica, una verità relativa n
alla situazione di un particolare momento. mo
Quando Dio, mediante una visione 0 un'interna illuminazione, comu¬ m
nica una verità eterna, non dona un'informazione che esaurisca in modo pos
sistematico la realtà di cui si parla, ma comunica in quel momento solo d
ciò che, secondo il suo intento, dev'essere rivelato. Altri elementi pos¬ pre
sono rimanere nell'oscurità, per essere forse illuminati un'altra volta. Di
solito la rivelazione non si svolge in modo astratto, slegato dalla situa¬
zione storica del momento. Dio si esprime nell'attualità di una deter¬
minata ora storica. Perciò la situazione del momento vi si rispecchia in¬
timamente. L'illuminazione divina su quella momentanea situazione sto¬
rica dona al portatore della rivelazione la possibilità di giudicare quel¬
l'evento 0 quello stato storico con l'occhio di Dio e quindi in modo
estremamente obiettivo e spassionato e di prendere quelle misure che
§ I. NATURA E COMPITO DELLA TEOLOGIA 21
vanno prese non sulla base di considerazioni umane, ma secondo la ma¬
nifesta volontà di Dio.
La rivelazione non consiste solo nel comunicare una pura conoscenza
di un oggetto finora sconosciuto o inosservato, ma in essa Dio tocca effi¬
cacemente lo spirito e il cuore dell'uomo. La sua parola è una parola
operante. Come l'azione di Dio è così ripiena di spirito da divenire un
segno, così la parola è piena di forza da divenire generatrice di storia.
La rivelazione verbale tende infatti a procurare nell'uditore la parte¬
cipazione alla vita divina. È un invito a ricevere la vita divina, che è
vita di verità e d'amore. La rivelazione obbliga perciò gli uomini, quasi
fosse un comando divino. Caratteristica questa, che si manifesta chia¬
ramente in quei procedimenti in cui Dio per rivelarsi sceglie la forma
precettiva. Come le affermazioni divine dottrinali includono il carattere
di appello e di obbligo, così quelle precettive sono pure rivelazioni della
sua vita intima.
9. - Se vogliamo più concretamente esaminare lo sviluppo storico
della rivelazione di Dio, dobbiamo asserire che ebbe inizio con i primi
due uomini o meglio con Yumanità primitiva che esisteva in Adamo ed
Eva. Gli uomini non poterono dimenticare quasi questa rivelazione, così
come noi non possiamo dimenticare le più forti impressioni della gioventù.
Noi la ritroviamo in molte concezioni religiose sia pure sfigurata, detur¬
pata, rivestita e ricoperta nei modi più vari. In tutte le religioni sono
inclusi elementi tratti dalla manifestazione dei misteri divini compiuta
all'inizio dell'umanità.
Mentre l'umanità andava sempre più scostandosi da lui, Dio si pro¬
digò per ristabilire il suo dominio e per ricondurre nuovamente gli er¬
ranti alla sua propria vita. Questa iniziativa divina si svolse in diversi
gradi. Una svolta decisiva si ebbe con la vocazione di Abramo. Dimorava
costui in Ur della Caldea, in un ambiente culturale saturo di pratiche
e di tendenze religiose. Nello stesso tempo fioriva in India la religiosità
dei Veda con le sue intuizioni ed esigenze metafisiche. Abramo fu invi¬
tato a lasciare la patria ed a ricercarsene una nuova. Dove questa si tro¬
vasse, non gli venne rivelato. Egli dovette così camminare verso l'ignoto,
fiducioso solo nella guida divina e ricercando la terra che il Signore gli
aveva promesso. Alla sua obbedienza stavano ricollegate abbondanti pro¬
messe. Egli doveva divenire il capostipite di un popolo numeroso. Il suo
nome doveva divenir celebre. Da lui dovevano provenire benedizioni
per la terra intera. Non si trattò solo di un semplice invito o di una
stor
22 INTRODUZIONE
semplice promessa verbale, ma ebbe tosto principio una storia che Dio
doveva condurre a termine unitamente ad Abramo. Costui acconsentì uo
u
all'incarico del Signore, abbandonò iluoghi che gli erano familiari e di¬
resse i suoi passi verso l'avvenire. Mediante la parola divina si stabilì
tra Dio e Abramo un patto, che addusse incalcolabili conseguenze al
da
operant
popolo che trasse origine dal grande patriarca, anzi al corso stesso del¬
l'intera storia umana. Sotto l'aspetto della storia della salvezza Abramo
divenne il padre di tutti noi. b
Mezzo millennio più tardi Dio rivolse con nuova urgenza la parola s
della promessa e dell'impegno a Mose, un uomo di quel popolo che de
Abramo aveva generato. Pure a lui fu affidato un compito storico. Men¬ un
tre trovavasi a pascolare i greggi del suocero Jetro sul monte Horeb,
che
gli fu rivolto il divino comando di liberare dall'Egitto il popolo israeli¬ ap
tico. Così in novella maniera divenne operante il patto concluso con dove
Abramo.
Il patto concluso con Mosè divenne così la base per la stipulazione di pe
un'alleanza divina con l'intero popolo ratificata sul monte Sinai. Per essa
fu contemporaneamente creata la fisionomia del popolo scelto da Dio e po
gettata la base della sua storia. Non è questa una storia proveniente dalla
natura stessa di quel popolo, ma una storia che Dio gli ha affidata. Dio
volle crearsi un popolo santo, divino, che gli appartenesse in modo spe¬
ciale. Questo popolo, appartenente a Dio, doveva nel corso della storia i
trasmettere le sue promesse a tutti i popoli e renderle loro accessibili.
inv
Non fu cosa facile il realizzare tale compito per tutto il corso della sua p
storia. Sempre rinacque in questo popolo la tendenza a vivere ed a
crearsi un'esistenza sociale come i restanti popoli della terra. Dio do¬ com
vette perciò suscitare uomini che di continuo richiamassero al proprio
d
dovere quel popolo che, divenuto infedele alla sua missione, tendeva di
continuo ad assorbire la cultura delle nazioni viventi nella sua orbita.
Furono i profeti, di cui l'ultimo fu Giovanni, il Battista. Dio
p
Quando giunse la pienezza dei tempi Dio inviò il suo Figliuolo. Prima
di quel tempo Dio aveva parlato mediante i profeti. Alla fine ci parlò
mediante il suo Figliuolo (Ebr. i, is.).
La rivelazione anticotestamentaria aveva il compito di mostrare il Cristo
e di prepararlo. Egli è infatti il compimento di quanto l'Antico Testa¬
mento contiene.
Per una più profonda conoscenza della rivelazione divina realizzatasi in Cristo,
dobbiamo riflettere a quanto segue. Dall'eternità Dio Padre esprime tutta la ric¬
chezza del suo essere e della sua vita in una parola personale, il Logos, il Figlio
§ I. NATURA E COMPITO DELLA TEOLOGIA 23
suo (cfr. § 86). Questo Verbo, egli in un determinato tempo lo inviò tra di noi,
a salvezza degli uomini. Dio si espresse in certo modo in una natura umana, così
che questa ha la sua sussistenza solo nel divin Verbo personale. Cristo fu perciò
il compimento e il perfezionamento di tutte le rivelazioni divine sia nella sua
comparsa nella storia che nel suo messaggio e nella sua attività sino alla morte
sulla croce, anzi proprio in questa sua umiliazione. Anzi tale compimento secondo
una imperscrutabile legge divina, si verificò proprio nell'oscurità e nel nascon¬
dimento. Le parole che egli espresse erano quelle salutifere che Dio aveva decise
per noi al fine di illuminarci e di chiarire il suo mistero (e quindi anche il mi¬
stero di Cristo), che è quello del regno di Dio e della nostra salvezza (Ef. 3, 4 s.).
Nelle sue parole risuonava formalmente il Verbo personale di Dio, nei limiti
entro cui questo poteva risuonare, secondo il decreto divino, ad orecchie umane
durante il tempo del pellegrinaggio terrestre. L'Io di Cristo era l'Io di Dio.
Mentre egli agiva ed operava, agiva ed operava Iddio. Del suo agire e parlare si
può infatti asserire: così parla ed opera Dio; Dio parla e agisce così come noi
vediamo e udiamo in Cristo. Nelle parole di Cristo è tradotto in lingua umana
l'intimo colloquio divino tra Padre e Figlio. In Cristo noi udiamo la parola che
il Padre rivolge al Figlio e mediante il Figlio agli uomini (Giov. 5, 30; 6, 45).
Siccome la rivelazione dell'Antico Testamento è via che conduce a Cristo, pur
di essa noi possiamo asserire che è manifestazione del Verbo di Dio. Infatti i
profeti sempre introducono il loro dire con la formula: Dio ha parlato. Sono
sempre ritrasmesse agli uditori cose che furono loro comunicate per rivelazione
divina.
La rivelazione verificatasi in Cristo si diversifica da quella anticote-
stamentaria sia per la sua ricchezza, sia anche perchè in essa non solo
si può udire la Parola (Verbo) di Dio, ma si può anche contemplare.
Il Verbo personale di Dio si è incarnato in una natura umana. Esso è
apparso. La visione della folgorante gloria divina è però riservata all'epoca
che avrà inizio dopo il giorno del giudizio. Ma la sua luce segreta può
già sin d'ora essere percepita dal credente sul volto di Cristo (2 Cor. 4, 6).
Giovanni ci assicura d'aver contemplato il fulgore dell'Unigenito del
Padre (Giov. 1, 14). Egli annunzia ciò che ha visto con i propri occhi,
ciò che ha contemplato e udito (1 Giov. 1, 1-3). Quanto potè quivi esser
contemplato, gli angeli stessi son bramosi di vederlo (1 Piet. x, 12). Idi¬
scepoli che hanno visto son dichiarati beati (Mt. 13, 16 s.). In Cristo
è visibile il fulgore di Dio per il fatto che egli è la figura dell'Iddio in¬
visibile (Col. 1, 15), il riflesso della sua gloria e l'impronta della sua es¬
senza (Ebr. 1, 3). Perciò chi vede lui, vede il Padre (Giov. 12, 45;
14, 9 s.). Clemente di Roma scrive ai Corinzi : « Per mezzo suo (di
Cristo) noi vediamo come in uno specchio l'immacolata e sublime sem¬
bianza di Dio » (cap. 36, 2).
10. - Non solo Cristo ci parla, travalicando i secoli, come le altre
da Cristo, il neotestamentario popolo di Dio, o
pop
24 INTRODUZIONE
Chies
personalità storiche del passato, ma anzi, anche dopo la sua ascensione, Cr
è presente in modo misterioso nella Chiesa. Ad essa ha affidato la sua
Paolo
rivelazione, perchè la rendesse accessibile agli uomini sino alla fine dei
secoli. Come nell'Antico Patto Dio aveva scelto il popolo giudaico perchè Cris
trasmettesse la sua rivelazione ad altri, così nel nuovo ordine inaugurato
Chiesa
da Cristo, il neotestamentario popolo di Dio, ossia la società da Cristo rivel
istituita e che consiste nei battezzati d'ogni popolo e nazione, è l'organo ri
della rivelazione avveratasi in Cristo. La Chiesa ne è lo strumento più c
idoneo poiché sta in stretta comunione con Cristo, come il corpo lo è da
con il capo. Essa, infatti, è chiamata da Paolo il corpo di Cristo. Essa salvezz
è permeata, come il nostro corpo dall'anima, dallo Spirito Santo, che mezz
dominava e trasformava l'umana natura di Cristo, e che da lui fu inspi¬ r
rato nella sua Chiesa. Di conseguenza la Chiesa è la mano di Cristo con
incontriam
cui egli di continuo realizza i segni della rivelazione voluta dal Padre,definitivame
ed è la bocca con cui egli, nello Spirito Santo, rivolge agli uomini il mes¬
saggio inteso dal Padre. Così la rivelazione, compiutasi in passato, di¬
D
viene sempre presente nel tempo, in modo da essere udita e vista di
continuo. Isacramenti, parole visibili di salvezza, e la predicazione della
vit
Chiesa, segno udibile di salvezza, sono i mezzi di cui Dio si serve per
rendere attuale sino alla fine del mondo la rivelazione compiutasi un
con
tempo. È perciò nella Chiesa che noi incontriamo Cristo, vivente rivela¬
co
zione di Dio. Tale rivelazione sarà definitivamente compiuta con la se¬
a
conda venuta di Cristo alla fine dei secoli.
m
11. - L'uomo partecipa alla rivelazione di Dio mediante la fede. Con affe
la fede noi rispondiamo affermativamente alla parola che Dio ci ha ri¬ p
indifferen
volta in Cristo. Nella fede noi accogliamo la' vita divina resaci accessibile
nella rivelazione personale di Dio. La risposta affermativa presuppone e Perc
nello stesso tempo crea la comunione vitale con Dio. Nessuno può dare spe
tale risposta senza essere in qualche modo in comunione con Dio. Senza modo
la fede è impossibile intendere pienamente e accogliere in sè la parola de
di Dio. L'incredulo può infatti in qualche modo capire il significato
della rivelazione; ma non può rispondere affermativamente alla realtà
che riluce nella rivelazione. Di più egli non può comprendere appieno
il senso, così come chi odia o chi è indifferente non può cogliere nel
volto di un uomo il suo intimo segreto. Perchè si possa percepire la
realtà della rivelazione occorre di fatto una speciale facoltà visiva.
Tommaso d'Aquino spiega questo fatto nel modo seguente (S. Th., I, q. 12,
a. 4) : Tra la facoltà conoscitiva e il suo oggetto ci dev'essere un intimo rapporto.
§ I. NATURA E COMPITO DELLA TEOLOGIA 25
Ogni facoltà conoscitiva dell'uomo possiede un suo particolare oggetto. Isensi
possono afferrare solo ciò ch'è sensibile, ma non una realtà soprasensibile. L'in¬
telletto umano può comprendere ciò ch'è soprasensibile, ciò che sta dietro il sen¬
sibile (la realtà metafìsica), ossia può penetrare spiritualmente entro le cose. Così
le realtà svelateci dalla rivelazione soprannaturale si trovano al di là delle facoltà
conoscitive dell'uomo. Dinanzi a esse le potenze naturali si trovano nell'identica
situazione di un cieco di fronte a una pittura o di un sordo dinanzi a una sin¬
fonia. Tali realtà sono accessibili immediatamente solo alla scienza di Dio, il
quale, avendo coscienza e comprensione di sè, comprende ed afferma la sua pro¬
pria gloria. Sol quando Dio rende partecipe l'uomo della sua propria conoscenza,
solo allora questi diviene capace di vedere rettamente la realtà svelatagli con la
rivelazione. Questa partecipazione all'autoconoscenza divina crea negli uomini una
nuova facoltà visiva, aggiunta a quella conoscitiva naturale, cosicché l'uomo può
afferrare qualcosa in più di ciò che è possibile alla pura facoltà naturale. Questo
nuovo occhio è costituito dalla grazia della fede, dalla capacità di credere, dalla
luce della fede che Dio accende nello spirito umano.
Cristo, discutendo con i Giudei, confermò quanto sopra dicemmo
quando indicò il motivo per cui non credevano in lui: In essi non c'era
alcun rapporto con Dio, il padre loro era il demonio. Perciò essi non
intuivano e non s'accorgevano del divino ch'era in lui (Giov. 8). Essi
rifiutavano la facoltà visiva che Dio loro presentava e di conseguenza ri¬
manevano ciechi dinanzi alla rivelazione di Dio in Cristo.
Per il suo carattere storico la rivelazione può avvicinarsi agli uomini
che esistono nel mondo e nella storia penetrando nella loro vita quoti¬
diana. Ma tale carattere può parimenti divenire pretesto di scandalo.
L'uomo deve accogliere da un altro uomo, nonostante la sua particola¬
rità e debolezza, la voce di Dio e piegarsi a totale disposizione di un
altro che gli comunica il comando di Dio. Certo chi trasmette la rive¬
lazione divina può renderla credibile come vera parola di Dio sia me¬
diante segni esterni sia mediante note intrinseche alla rivelazione mede¬
sima. Ma all'uomo cosciente di se stesso e spesso tentato di vanagloria
e di autonomia diviene duro il lasciare, nei problemi ultimi più fonda¬
mentali, l'ultima decisiva parola a un suo pari, a uno che forse gli è
contrario per carattere naturale. Tale scandalo si esperimenta in modo
ancor più acuto nella croce di Cristo. Solo chi cessa di considerare se
stesso come norma del vero e del bene, può riconoscere nella Croce di
Cristo la rivelazione di Dio. Senza tale conversione l'uomo vi vede solo
una follia. Soltanto colui che si converte può scoprirvi la nascosta sa¬
pienza di Dio (1 Cor. 1-2).
Solo chi ha gli occhi del cuore illuminati può comprendere a quale
speranza egli sia chiamato e quale sia la ricchezza della sua eredità fra
12. La partecipazione dei credenti, durante
stess
26 INTRODUZIONE s
i santi (Ef. i, 18). Secondo Agostino la fede ha degli occhi con cui per¬ nell
cepisce in qualche modo la verità di ciò che ancora non vede ( Ep. 120
ad Cos., cap. 2, n. 8). Alla luce della fede l'uomo raggiunge la convin¬
zione di quella realtà che gli è tuttora nascosta (Ebr. 11, 1).
rive
12. - La partecipazione dei credenti, durante il loro pellegrinaggio ter¬
reno, alla conoscenza che Dio ha di se stesso, tende a svilupparsi in non
quella visione, in cui l'uomo sta in immediato scambio vitale con l'Iddio
che gli si svela apertamente. reci
La teologia trova appunto il suo posto nello stato intermedio tra la c
pura fede e la visione immediata. tal
senso
II. La teologia, penetrazione spirituale della rivelazione accolta dalla fede. p
1. - La teologia nasce quando icredenti, non contenti d'accettare sem¬ rarame
plicemente la realtà resa loro accessibile dalla rivelazione, vogliono pe¬ quell
netrarla più profondamente e conoscere le reciproche relazioni delle ve¬ S
rità rivelate. Già la semplice fede implica una certa qual intelligenza del essa
suo oggetto. Ma la teologia si distingue da tale intelligenza elementare, spi
sia per la sua più grande penetrazione, sia per il suo ordine sistematico. se
Il vocabolo teologia può essere preso in senso proprio e improprio e il
primo, a sua volta, in senso stretto o in senso più largo. Santo
a) In senso proprio ma largo, oggi raramente usato mentre era dif¬ un
fuso nell'antica Chiesa, si chiama teologia quella conoscenza intellettuale
extrascientifìca e prescientifìca che lo Spirito Santo realizza nei credenti. su
In tal senso la teologia è un carisma. Per essa lo Spirito Santo mostra edific
la sua potenza nel produrre una conoscenza spirituale del mistero di Dio
rivelato in Cristo. Il carisma della teologia è segno che è venuto il regno sen
di Dio, che è regno della verità. amando
Chi in tal modo è preso dallo Spirito Santo vien sospinto a lodare e realiz
a glorificare Dio. La teologia carismatica è un rendimento di grazie. In c
essa lo Spirito Santo adempie la funzione che Cristo gli ha affidata, per
il periodo intercorrente tra la Pentecoste e il suo proprio ritorno alla fine
del mondo (Giov. 16, 17). Essa serve alla edificazione, al conforto e alla
conferma dei credenti in Cristo.
b) Una seconda forma di teologia in senso ancora largo, è costi¬
tuita dagli sforzi con cui il credente, amando, si trasporta nel mistero
di Dio e sulla base di un tocco interiore realizza delle esperienze spiri¬
tuali, che gli permettono una più profonda comprensione del rivelato.
§ I. NATURA E COMPITO DELLA TEOLOGIA 27
c) Una terza forma è infine la teologia scientifica in senso stretto.
È costituita dal lavoro metodico della ragione credente per cogliere nella
sua realtà il mistero di Dio svelatoci in Cristo e asserito nella fede, per
chiarirne il senso intimo e per presentarlo sistematicamente nella sua
organica struttura.
2. -
In senso improprio si può parlare di teologia anche quando si
cerca di esprimere sistematicamente la rivelazione divina avveratasi nella
creazione: è la teologia naturale (chiamata così dal sec. xv). La teologia
in senso proprio è invece dipendente, in tutte e tre le sue forme, dalla
parola rivelata che in Cristo è stata rivolta all'umanità; ossia essa è so¬
prannaturale.
3. -
La teologia scientifica si potrebbe anche chiamare fede che tende
alla conoscenza scientifica (fides quaerens intellectum). Un teologo in
senso stretto può essere solo colui che ascolta fedelmente ed accetta la
parola di Dio, colui che si china obbediente dinanzi alla fede. L'in¬
credulo può bensì accettare la parola della rivelazione e capirne in qual¬
che modo il senso, così come uno studioso di religioni può comprendere
e spiegare la dottrina buddistica, anche se la ritiene falsa. (V'è però la
differenza che quest'ultimo si trova, nella sua ricerca, in una situazione
incomparabilmente più vicina all'oggetto del suo studio che non un teo¬
logo incredulo di fronte alla rivelazione soprannaturale). Tale era la po¬
sizione della teologia razionalista al tempo dell'illuminismo e della teolo¬
gia liberale del cosiddetto metodo storico-critico. A questi teologi non è
possibile vedere le espressioni del cristianesimo come espressioni della
realtà divina e distinguerle dalle leggende e dalle favole. Ad essi rimane
impossibile il rapporto vivente con la realtà trattata. Il che è facile a ve¬
dersi. Come abbiamo già sottolineato, l'automanifestazione di Dio è un
invito all'amore. In essa può penetrare solo colui che le si accosta con
amore, che l'accetta e le si dona. L'amore scopre il suo segreto solo a
colui che è in stato d'amore. Chi si racchiude nell'amore proprio 0 nel¬
l'indifferenza, dinanzi alla rivelazione divina si trova nella posizione di
uno privo di senso musicale dinanzi a una melodia e che oda le note
come uno scroscio disordinato.
4. - La teologia deve utilizzare e rielaborare nei suoi sforzi dì spiega¬
zione le esperienze che l'uomo realizza su questa terra. Così, ad esempio,
per spiegare la frase che Dio è amore, deve analizzare e utilizzare il si¬
gnificato sperimentale della parola amore. Il che è giustificato dal fatto
è stravolto dal dell'uomo, fu t
modo
28 INTRODUZIONE
indebo
che Dio stesso si manifesta utilizzando immagini e figure tratte dalla p
vita quotidiana per trasmetterci quanto ci vuol comunicare. E, in ultima manife
analisi, ciò è reso possibile dal fatto che tanto la creazione, da cui desu¬
miamo le nostre esperienze naturali, quanto la rivelazione provengono corrisponde
da un'unica sorgente, cioè da Dio. Anche se il mondo da Dio creato manifesta
è stato stravolto dal peccato dell'uomo, non fu tuttavia guastato in modo e
tale da non lasciarci trapelare in qualche modo la gloria di Dio. Anche sim
se per il peccato l'intelligenza umana s'è indebolita, non è tuttavia dive¬ analog
nuta così cieca da non poter in alcun modo più comprendere alcunché
della maestà divina. Il fatto che Dio si manifesta con figure e similitu¬ com
dini tratte da eventi e cose di questo mondo, ci conferma che noi non ad
ci inganniamo quando vediamo delle corrispondenze tra il mondo terreno, si
visibile e sperimentabile, e la realtà manifestataci soprannaturalmente.
La rivelazione è certamente tale da renderci edotti che il mondo della
nostra esperienza è assai più dissimile che simile alla realtà di cui essa s'affati
ci parla, e che può parlarsi solo di pura analogia. suggerit
Bisogna quindi andare cauti nell'utilizzare le esperienze della vita quo¬ sist
tidiana come di un aiuto per rendere più comprensibile la rivelazione. costituiscono
Ma chi, con la dovuta cautela e riservatezza, adopera tali esperienze può te
trarne utili spunti per meglio comprendere il significato della rivelazione illus
medesima. ve
co
5. - Il sistema, alla cui elaborazione s'affatica la teologia scientifica, p
non è escogitato arbitrariamente, ma è suggerito dalla rivelazione stessa. intelligenz
Anche se la rivelazione non presenta alcun sistema scientifico, tuttavia i
singoli fatti che essa ci fa conoscere costituiscono un tutto organico e sono h
intimamente connessi tra loro. Compito della teologia è mostrare questa 1
organicità e connessione, indicare il posto e illustrare il significato e il va¬
lore che ciascun fatto e ciascuna verità rivelata vengono ad avere nel tutto. asserzi
Il Concilio Vaticano così definisce questo compito : « La ragione illu¬diventan
minata dalla fede che cerca con premura, con pietà e moderazione, con¬ p
segue, con l'aiuto divino, una qualche intelligenza dei misteri, anche frut¬
tuosissima, sia per l'analogia con quelle cose ch'essa conosce in modo
naturale, sia per il nesso che i singoli misteri hanno tra loro e con l'ul¬
timo fine dell'uomo » (Sess. 3, cap. 4; Denz. 1796). Quando la teologia
si sforza di mettere in luce l'ordine che esiste tra i misteri, riesce a in-
travvedere l'organicità delle sue singole asserzioni con il tutto. Così, ad
esempio, nella trattazione del battesimo diventano visibili come attraverso
un cristallo gli altri misteri, come quelli del peccato, della redenzione,
§ I. NATURA E COMPITO DELLA TEOLOGIA 29
della grazia, della Chiesa, della vita eterna. Ugualmente esponendo una
singola verità rivelata divengono note le relazioni che essa ha con tutte
le altre. Così quando si spiega il sacramento della penitenza appare il
nesso che lo ricollega al battesimo e al giudizio finale.
Siccome la rivelazione è stata fatta per la nostra salvezza e non si dà
rivelazione che non serva a tale scopo, una esposizione scientifica deve
aver riguardo a metter l'accento su questo fatto. Sarebbe una ben monca
trattazione scientifica della rivelazione, quella che non mettesse in ri¬
salto l'intimo rapporto delle singole verità rivelate o del loro complesso
con l'ultimo fine dell'uomo. La teologia cerca infatti di meglio conoscere
Dio, la Verità in persona, poiché tale Verità merita d'esser conosciuta a
prezzo di qualsiasi sforzo.
Ma l'Iddio, alla cui conoscenza la teologia si affatica, è colui che me¬
diante la sua rivelazione vuol instaurare nel mondo il suo regno di san¬
tità e di giustizia, di verità e di amore e in tal modo elargire la salvezza
all'uomo. È quindi obbligo essenziale della teologia, che cerca di cono¬
scere Dio nella sua totalità, quello di mostrare i legami tra il regno di
Dio e la vita spirituale dell'uomo, non già inserendo un trattato sulla
salvezza umana nell'esposizione di ogni singola verità, ma chiarendo il
rapporto della rivelazione divina, del regno di Dio, che in essa si avvera,
con la salvezza dell'uomo.
6. - L'organo con cui la teologia (non carismatica) raggiunge le sue
conoscenze è la ragione che, illuminata dalla fede e perciò fornita di una
nuova facoltà soprannaturale donatale da Dio, cerca, secondo le sue pro¬
prie leggi, di fissare, difendere, penetrare e sistemare le verità rivelate.
La luce naturale della ragione e la luce soprannaturale della fede si con¬
giungono in modo da costituire un tutto organico. L'organo della teo¬
logia non sta nella sola ragione e neppure nella fede soltanto, ma nella
vitale unione di entrambe. Di conseguenza il risultato degli sforzi teo¬
logici sarà tanto più grande quanto più brilleranno le due suddette luci,
quanto più cioè sarà viva la fede e quanto più penetrante sarà la ragione.
Al tempo patristico (Agostino) e nella prima scolastica (Anselmo di Aosta,
Ugo e Riccardo di S. Vittore) si accentuò assai fortemente il fatto che con il
peccato originale fu snervata l'originaria potenza del pensiero umano. La debo¬
lezza razionale nei discendenti di Adamo si mostra al massimo quando si tratta
di conoscere Dio. Il pensiero « puro » dell'uomo decaduto può qui seguire le
rigorose leggi della logica, solo se guarito dalla grazia della fede. Tommaso
d'Aquino indica, come già vedemmo, un fondamento più profondo per la neces¬
sità della fede. Egli ne vede più il valore elevante, che quello medicinale. La fede
dell'intelletto
3° INTRODUZIONE i
arricchisce l'uomo di una nuova facoltà visiva, necessaria a chi vuol percepire i pe
segreti di Dio. La fede crea l'intima corrispondenza del nostro pensiero con la com
rivelazione soprannaturale.
p
La scienza teologica, che il teologo credente acquista con i suoi sforzi, anche
se essa possiede mediante la fede un fondamento soprannaturale, è, nella sua es¬ u
senza, naturale (habitus jundamentaliter supranaturalis, formaliter naturalis). Tut¬ più
tavia quando le cognizioni teologiche pervengono a un teologo dai doni dello tem
Spirito Santo e specialmente da quelli dell'intelletto e della sapienza, si deve Conc
parlare di una conoscenza soprannaturale nella sua intima essenza.
illumin
7. - Per quanto la ragione credente possa penetrare nella rivelazione, guisa
per quanto grandi siano i progressi che essa compie nella conoscenza dei d
segreti divini, questi per tutto il tempo del pellegrinaggio terrestre ri¬ q
mangono sempre in qualche modo nascosti da un velo. Le verità rivelate coper
non possono giammai, anche dalla teologia più profonda, esser mutate fin
in chiare verità razionali. Esse per tutto il tempo della storia umana ri¬
mangono ineluttabilmente verità di fede. Il Concilio Vaticano dice espres¬ (Ses
samente : « Giammai questa (la ragione illuminata dalla fede) si rende
c
idonea a comprendere imisteri alla stessa guisa delle verità che costitui¬ cr
scono il suo oggetto proprio. Infatti i misteri di Dio per loro stessa na¬ modo
tura superano talmente l'intelletto creato, che quantunque insegnati dalla
rivelazione e accolti dalla fede, restano coperti dal velame della fede fond
stessa e involti in una certa specie di caligine, finché noi pellegriniamo in
questa vita mortale lungi dal Signore. Poiché è per fede che noi cam¬
miniamo e non per visione (2 Cor. 5, 6 s.) » (Sess. 3, cap. 4; Denz. 1796).
8. - Non è quindi permessa alla teologia la critica della parola divina. rice
È invece permesso e, talora, anche doveroso, criticare la spiegazione che dalla
gli uomini fanno della parola di Dio e il modo con cui essa viene pro¬ mag
clamata. La premura di conservare incorrotta la rivelazione suggerisce
ed esige ciò; premura che del resto è, in fondo, premura per il regno visio
di Dio, per il regno della verità e dell'amore.
farsen
9. - La teologia è una scienza ecclesiastica per due ragioni:
a) Il teologo riceve l'oggetto delle sue ricerche, ossia la rivelazione
divina, dalla Chiesa. Esso gli viene offerto dalla vita di fede di tutta la
Chiesa. In ciò gioca un ruolo decisivo il magistero. Dal suo insegna¬
mento ordinario e straordinario il teologo può sapere il contenuto della
rivelazione divina. Egli deve farsene una visione orizzontale, un pano¬
rama, in conformità a quanto crede e insegna la Chiesa del suo tempo.
Ma questo non basta ancora. Deve pure farsene una visione verticale 0
§ I. NATURA E COMPITO DELLA TEOLOGIA 31
storica che ricolleghi il presente con gli inizi. Solo così si può scoprire
il pieno significato dell'odierno insegnamento. Solo così si può cono¬
scere tanto il complesso di ciò che la Chiesa insegna, quanto la posizione
dei singoli elementi nel tutto.
b) Il teologo poi tratta la teologia come membro della Chiesa, poiché
egli la può trattare solo come credente in Cristo. La teologia non è affare
privato dei teologi, ma l'espressione della vita di tutta la comunità cri¬
stiana. Per la teologia carismatica, ciò è facile a vedersi. Questa è infatti
l'immediata attività dello Spirito Santo, cuore e anima della Chiesa.
Essa rientra in quei doni carismatici che secondo 1 Cor. 12 servono alla
edificazione del corpo di Cristo. Tutti i carismi di cui parla Paolo sono,
di fatto, donati ai singoli per il servizio della collettività. Ma anche la
teologia scientifica è in un certo senso una manifestazione dello Spirito
Santo operante nella Chiesa, solo che in questo caso lo Spirito Santo si
adatta alle leggi della ragione umana e la utilizza come uno strumento
di azione. Anche la teologia scientifica è perciò espressione della vita
della Chiesa. In essa lo Spirito Santo vivente nella Chiesa opera me¬
diante lo spirito di un singolo credente. Come tutti i carismi stanno al
servizio dell'intera Chiesa, così anche la manifestazione della vita eccle¬
siale, da noi chiamata teologia, sta al servizio della totalità. Per mezzo
di essa l'intera Chiesa raggiunge ima più profonda e comprensiva vi¬
sione di quanto essa crede. Quanto più fedelmente un teologo può esporre
la rivelazione, tanto più l'intera comunità cristiana vede rispecchiata nella
sua opera la propria vita di fede. D'altra parte la teologia può chiarire
e rettificare la conoscenza della fede posseduta dai fedeli.
c) Così diviene visibile la responsabilità del teologo di fronte a
tutta la Chiesa. Egli può adempire rettamente il suo compito per la
Chiesa intera quando si inserisce nel tutto, quando vive nella Chiesa e
con la Chiesa. Egli deve perciò essere pronto a lasciarsi correggere dal
competente magistero gli sbagli in cui fosse incorso. Al contrario la con¬
ferma che la comunità del corpo di Cristo accorda mediante la Chiesa
docente alla scienza teologica, diviene garanzia di verità per quanto vi
è espresso. Si può quindi asserire che la teologia è la penetrazione e
l'esposizione scientifica, riconosciuta come esatta dalla Chiesa, delle ve¬
rità di fede rivelate e conservate vive in lei da Cristo nello Spirito Santo.
ta
32 INTRODUZIONE teo
esposizio
cr
§ 2. Oggetto della teologia. con
Il
1. - Secondo quanto detto sopra, l'oggetto principale della teologia è nel
Dio, non in quanto chiuso nella sua maestà, bensì in quanto si è mani¬ de
festato a noi in Cristo e ha affidato alla Chiesa tale sua rivelazione perchè
la trasmettesse intatta di secolo in secolo. La teologia tratta pure le realtà Che
del creato, le cose e l'uomo. La loro esposizione occupa anzi un posto special
non esiguo nella scienza teologica. Ma delle creature vi si parla solo soprannat
in
quanto stanno in soprannaturale rapporto con Dio, in quanto parteci¬ ste
pano all'essere, alla vita e alla gloria di Dio. Il teologo quindi non con¬ l'oggetto
sidera nessuna cosa nel suo essere in sè, o nelle sue relazioni col resto mod
del cosmo, bensì nel suo rapporto con Dio, derivato sia dalla creazione
sia dalla soprannaturale rivelazione divina. Egli, ad esempio, non si pone,comune
come il filosofo o lo scienziato, la domanda: Che cos'è l'uomo? ma scruta intim
solo i rapporti tra l'uomo e Dio e cerca specialmente di stabilire e chia¬ scola
rire quelli derivanti dalla rivelazione soprannaturale. d
2. - La terminologia scolastica esprime la stessa cosa con la seguente L'od
formula: Dio e il creato costituiscono l'oggetto materiale della teologia;
l'oggetto formale (ossia il suo particolare modo di vedere le cose), se¬ t
condo Tommaso d'Aquino, è Deus sub ratione deitatis (In ISent., prol., rive
q. i, a. 4), cioè Dio non sotto l'aspetto comune di ente (conoscibile dallamanifestat
filosofìa), ma sotto l'aspetto della sua vita intima (deità) conoscibile solo tutto
per rivelazione soprannaturale. Spesso la scolastica primitiva designava sot
come oggetto della teologia Cristo, o l'opera della redenzione, o anche tra
tutto il Cristo, cioè il capo e le membra. L'odierna teologia ha ripreso
tale modo di vedere, che non è impossibile di conciliare con la sentenza diven
di S. Tommaso. Si può infatti dire che la teologia tratta di Dio in tutt
quanto egli per attuare il suo dominio si è rivelato nella creazione e per co
conferire la salvezza all'uomo si è manifestato per mezzo del Cristo
(Giov. 17, 3). La teologia tratta perciò di tutto il reale, e precisamente
tanto di Dio che del creato, ma di questo sotto l'angolo visivo di Dio,
in quanto proviene da Dio e tende a lui. Si tratta quindi di una scienza
teocentrica nel senso più assoluto del vocabolo. Siccome la teologia tratta
di Dio in quanto per mezzo di Cristo è divenuto autore della vita so¬
prannaturale e del suo compimento, essa in tutte le sue espressioni deve
lasciar trasparire tale rapporto con Cristo e con il « regno di Dio » ve¬
nuto con lui.
§ 2. OGGETTO DELLA TEOLOGIA 33
Essa contempla tutto con gli occhi di Dio. Dio è infatti, per il teo¬
logo, l'ultima fonte di conoscenza. La teologia si sforza di realizzare la
conoscenza stessa di Dio quale da lui fu svelata. Essa è una partecipa¬
zione al sapere proprio di Dio. Nel medio evo s'esprimeva tale fatto
asserendo che Dio è il soggetto della teologia.
-
La teologia cerca perciò di vedere Dio come rifulse sul volto di
3.
Cristo ciò ch'è fuori di Dio nel modo con cui Dio stesso ce lo ha
e
dichiarato e spiegato. Questa visione è perciò la più conforme alle cose
e la più attendibile, la più spassionata e la più profonda. Il teologo per
mezzo della fede viene purificato da ogni illusione e fantasticheria del
ragionamento naturale. Cristo, o meglio Dio che nello Spirito Santo gli
parla per mezzo di Cristo, gli apre gli occhi. La teologia si sforza quindi
di presentare non tanto conoscenze interessanti quanto piuttosto impe¬
gnative. Le sue affermazioni sono tanto più sicure quanto meglio tra¬
ducono la stessa rivelazione. Quanto più si scostano dalla rivelazione
ricevuta, tanto più perdono della loro sicurezza. Quanto più nella ricer¬
che teologiche si intromettono riflessioni umane, tanto maggiore diviene
la loro incertezza. La genuina teologia ha il compito di distinguere tra
le verità garantite da Dio stesso, e perciò dotate della massima certezza,
e i tentativi di spiegazione del dato rivelato che sono frutto d'opera
umana, affinchè il lettore o l'uditore non incorra nel pericolo d'identificare
la rivelazione con la sua spiegazione umana e di accostarsi a questa con
una fede che spetta invece soltanto alla rivelazione divina. Cfr. § 4, n. 5.
4. - Siccome la teologia pone Dio, e non l'uomo, al centro delle sue
riflessioni, ne deriva che essa si distingue essenzialmente sia dalla filo¬
sofia della vita ed esistenzialistica, sia da qualsiasi altra scienza. La teo¬
logia non parla solo spesso di Dio, ma in fondo parla sempre di lui.
Il che è valido nonostante il fatto che nella sistematizzazione dogmatica
si concede minor spazio al trattato specifico su Dio e molto di più al trat¬
tato riguardante l'uomo e la sua salvezza. In fondo anche questo tratta
di Dio, poiché è Dio che mediante l'attuazione della sua signoria tra gli
uomini, procura loro la salvezza. Quando la teologia parla della crea¬
zione, dei sacramenti, dei novissimi e della Chiesa, essa sempre parla di
Dio che stabilì e sacramenti e Chiesa e novissimi. E se volessimo espri¬
mere questa cosa fin nella stessa terminologia, non denomineremmo le
singole parti della dogmatica: La creazione, Isacramenti, La Chiesa,
Inovissimi, bensì: Dio creatore, Dio istitutore dei sacramenti, Dio fon¬
datore della Chiesa, Dio consumatore della creazione.
3 - schmaus - dogmatica I.
più importante da raggiunto circa Dio, fu q
INTRODUZIONE
assol
34 aristotel
5. - La teologia, trattando di Dio in quanto si palesa nella storia, si com
distingue essenzialmente e intimamente dalla metafìsica o dottrina del¬ v
l'essere. Questa si occupa infatti dell'essenza delle cose e dell'essenza s
divina in se stessa, e raggiunse la sua più significativa realizzazione con Spint
il pensiero greco, e specialmente con Piatone ed Aristotele. Il risultato acco
più importante da esso raggiunto circa Dio, fu quello di asserire che egli s
è il sommo bene, l'essere e il conoscere assoluto, il motore immobile.
La filosofia greca, specialmente quella aristotelica, non ci presenta un al
Dio che si accosti all'uomo e si metta in comunicazione con lui. Così
non è invece l'Iddio della rivelazione, che è volontà e potenza. Egli si ecclesi
presenta all'uomo come uno che agisce nella storia, come giudice e ac¬ d
cusatore, come salvatore e perfezionatore. Spinto dal suo amore si dona dell'essenz
all'uomo, che credendo a Cristo lo può accogliere. La teologia parla fondamenta
appunto di Dio che si è fatto presente nella storia per donarci la sal¬
vezza. Non è quindi una metafisica in senso aristotelico, anzi non è pur
nemmeno una metafisica soprannaturale. Per alcuni campi speciali della so
teologia ciò è facilmente visibile; si pensi per esempio, alla scienza bi¬ rivela
blica, alla storia della Chiesa, al diritto ecclesiastico. Ma ciò vale pure
per la specialità centrale della teologia, per la dogmatica. Il teologo che a
s'arrestasse esclusivamente alla ricerca dell'essenza soprannaturale, dimen¬ dell'I
ticherebbe o sopprimerebbe ciò ch'è fondamentale nel suo oggetto, ossia diffe
Dio che, con amore, opera per l'uomo. con
c
Di conseguenza la teologia è ben altro che un puro platonismo o un aristote¬ contributo
lismo soprannaturale. Non si vuol però negare o sottovalutare l'importanza del rivela
pensiero aristotelico per la comprensione della rivelazione. Anche se l'ontologiaracchius
aristotelica non è indissolubilmente connessa con la teologia, essa offre tuttaviasopranna
un notevole contributo per una miglior penetrazione del dato rivelato e per una
sua più armonica presentazione. Benché l'ontologia aristotelica sia ricerca dell'es¬ espre
sere e la teologia conoscenza, avuta per fede, dell'Iddio operante in Cristo, la m
prima può tuttavia servire alla seconda in due differenti modi. In primo luogoTommaso
offre all'intelletto e alla ragione credente spunti e considerazioni perchè dalla co¬ teo
noscenza delle azioni di Dio possa pervenire alla conoscenza del suo essere e
della sua essenza. Inoltre può offrire un contributo per la miglior conoscenza
delle figure e delle similitudini con le quali la rivelazione spesso si esprime, fis¬
sando in concetti precisi e chiari ciò che sta racchiuso nelle similitudini bibliche.
Quando l'ontologia greca e la rivelazione soprannaturale s'incontrano, la diret¬
tiva spetta però a quest'ultima. Quindi la dottrina dell'essere offerta dai Greci
non può venire accolta dalla teologia nella sua espressione originaria e genuina
che si ricollega al paganesimo, ossia alla mitologia; ma deve essere sottoposta a
una necessaria trasformazione. In tal modo Tommaso d'Aquino (dopo ima forte
opposizione nel xiii secolo da parte della tendenza teologica ispirata ad Agostino)
creò nella teologia un clima favorevole ad Aristotele.
§ 3- LA teologia come scienza 35
6. - Poiché Dio, e precisamente l'Iddio che si svela nell'amore e agisce
nell'uomo, è oggetto della teologia scientifica, ne deriva che entrano
nel campo proprio di questa scienza anche quegli atteggiamenti con cui
l'uomo va incontro a Dio creatore e salvatore, e cioè la venerazione,
l'obbedienza, la preghiera e l'amore. Il teologo, anche in quanto inda¬
gatore, non può dispensarsene, poiché, pur nella sua ricerca, egli non
può prescindere dal fatto che Dio è davvero Dio. Qualora dimenticasse
questo contegno commetterebbe non solo ima mancanza d'indole mo¬
rale, ma anche uno sbaglio scientifico. Anche se lo scienziato deve, di
fatto, studiare i concetti, di cui ricerca la chiarificazione e l'armonizza¬
zione, non deve tuttavia dimenticare che ai concetti risponde una realtà.
Il teologo con i suoi concetti parla di Dio. Egli potrebbe trascurare il
corrispettivo contegno verso Dio solo quando, distaccando, come i nomi¬
nalisti facevano, i concetti dalla realtà, dimenticasse che non può eserci¬
tarsi a capriccio attorno a dei concetti che invece sono solo dei mezzi con
cui tenta di meglio conoscere Dio.
Quando asseriamo che il teologo, durante la sua ricerca, deve com¬
portarsi religiosamente, non vogliamo sostenére che egli debba sempre
rendere attuale tale contegno, ma che questo lo deve sempre accompa¬
gnare almeno come una disposizione interiore, un abito, una mentalità.
§ 3. La teologia come scienza.
1. - Quando nel secolo xill il sistema filosofico di Aristotele fu cono¬
sciuto in tutta la sua ampiezza e prese ad esercitare un grande fascino
nelle università sia dal punto di vista del metodo che del contenuto,
sorse il problema se la teologia, allora disciplina universitaria dominante
e coltivata con spirito platonico, potesse chiamarsi scienza nel senso
aristotelico e se potesse venir classificata con le altre scienze profane.
2. - Prima che la teoria aristotelica della scienza si diffondesse, tale problema
non si poneva ancora, benché anche per l'innanzi si definisse la teologia come
intelligenza della fede (intellectus ftdei). Secondo l'apostolo Paolo il credente,
ripieno di Spirito Santo, può intendere la sapienza di Dio racchiusa nel mistero
di Cristo. In tal modo egli partecipa alla gnosi ossia alla conoscenza del mistero
di Dio. Gli viene infatti svelato il significato spirituale delle Sacre pagine
(2 Cor. 4, 4). Il mezzo con cui Paolo si sforza di pervenire alla intelligenza
della fede, sta nella ricerca della connessione che le singole verità hanno tra loro
e nella scoperta di similitudini tratte dal campo naturale (i Cor. 15, 12-38).
La convinzione dell'apostolo Paolo rimane fondamentalmente decisiva sino alla
tentativo di conciliarlo con il mondo pagano si verific
Pe
36 INTRODUZIONE pre
approfondim
fine del il secolo. Nel cristianesimo, o meglio in Cristo, si vide solo il fatto che f
esso ci ha dato la salvezza, e si tentò così di meglio comprenderne, chiarirne e cono
difenderne la possibilità. Ma quanto più si convertivano al cristianesimo persone
che avevano familiarità con la filosofìa pagana, tanto più sorse il bisogno di porre d
il cristianesimo a raffronto con tale filosofia e di mostrarlo come il compimento eterno
di tutte le conoscenze veraci del paganesimo. L'apologia del cristianesimo e il Cris
tentativo di conciliarlo con il mondo pagano si verificò su grande scala con Cle¬ Q
mente di Alessandria e specialmente con Origene. Per costoro la fede è l'unica
vera gnosi. La filosofia pagana è solo una scuola preparatoria. Il credente per¬ egl
viene alla verace conoscenza mediante un approfondimento spirituale dei concetti progredis
presentatigli dalla fede. In Occidente questo tentativo fu massimamente e in modo terre
decisivo favorito da Agostino. Secondo questi la conoscenza deve scoprire attra¬ miste
verso la realtà terrena e peritura ciò che è veramente immutabile. La conoscenza sin
di ciò ch'è temporale e transitorio fu da Agostino denominata scienza, mentre c
fu chiamata sapienza la conoscenza di ciò ch'è eterno e permanente. La scienza di
è la preparazione alla sapienza. La conoscenza del Cristo storico conduce, secondo teo
lui, alla visione della sua immutabile natura divina. Quanto più l'uomo si libera co
dalla caducità delle cose terrene, tanto più riesce nel suo sforzo di acquistare la rivelato,
vera conoscenza. In ogni successiva purificazione egli s'avanza di conoscenza in Eg
conoscenza. Ma di rimando quanto più si progredisce nella conoscenza tanto accentuarn
meglio si progredisce nella liberazione da ciò ch'è terreno. raggiuns
Il pensiero d'Agostino che la penetrazione nel mistero di Dio sia condizionata in
alla purità raggiunta dall'uomo o viceversa, dominò sino al xin secolo. Nell'xi se¬ pr
colo prese l'avvio una nuova corrente di pensiero, che raggiunse il vertice con Aris
5. Tommaso d'Aquino. L'innovatore fu Anselmo di Aosta, in cui si congiun¬
gono il passato e l'avvenire. Egli, per primo tra i teologi, tentò di penetrare nel
mistero della rivelazione con motivi razionali, ossia con l'attività della ratio, della n
ragione. Anselmo vuol trovare, per il mistero rivelato, delle « ragioni necessarie ». di
Anche per lui la fede è fondamento d'ogni sapere. Egli non fu affatto un teologo l'intera
razionalista. Ma assai più di Agostino volle accentuarne il motivo razionale. L'ap¬deduzion
plicazione del pensiero razionale in teologia raggiunse il suo punto culminante stess
con l'approfondimento di tutta l'opera aristotelica, iniziato da Alberto Magno e s
portato a termine da S. Tommaso. Sorse allora il problema se la teologia fosse scienz
una scienza nel senso sostenuto dalla filosofia di Aristotele. matema
ricollegata
3. - Che cos'è scienza secondo Aristotele? Scienza è per lui conoscere una cosa scienz
per via di dimostrazione. La dimostrazione consiste nel dedurre una conclusionenessun'alt
da date premesse (principi). Scienza è un sistema di conoscenze raggiunte me¬
diante conclusioni certe, e soggettivamente è l'intera attività che serve al loro
acquisto. Le premesse, i principi da cui per deduzione s'acquistano nuove cono¬
scenze non vengono dimostrati da quella scienza stessa, ma sono ad essa presup¬
posti. Quando non si tratti della filosofia, tali principi sono desunti da una scienza
più elevata, nella quale vengono dimostrati. La scienza che riceve i suoi principi
da un'altra, come, ad esempio, la fisica dalla matematica, si chiama nella termi¬
nologia aristotelica scienza subordinata, o ricollegata a un'altra (scientia subal-
temata). Nasce in tal modo una gerarchia delle scienze. La più eccelsa è la filo¬
sofia, poiché non riceve i suoi principi da nessun'altra disciplina ad essa supe-
§ 3- LA TEOLOGIA COME SCIENZA 37
riore. Iprincipi della filosofia costituiscono gli assiomi supremi che non possono
più esser dimostrati. Il loro valore è garantito dall'esame della ragione. Possono
esser spiegati e difesi per la loro immediata evidenza.
4. - Applicando tale concetto di scienza alla teologia, risulta che essa
ha come ogni altra scienza i suoi principi da cui deduce, a mo' di con¬
clusioni, nuove conoscenze. È quindi scienza in senso aristotelico. Iprin¬
cipi di cui si serve non sono da essa dimostrati, ma presupposti, e in
ciò non si distingue dalle altre scienze. Questi suoi principi sono gli
articoli di fede. Bisogna qui chiarire per un istante cosa sia un articolo
di fede. Tommaso d'Aquino col termine articulus fidei intende verità
immediatamente e formalmente rivelate, che hanno particolare impor¬
tanza per la fede e la sua vita e vengono proclamate dalla Chiesa come
tali. La teologia posteriore ha allargato il concetto dell'articolo di fede,
estendendolo a qualsiasi verità immediatamente e formalmente rivelata
e presentata in qualche modo dalla Chiesa. Il Concilio Vaticano è in ar¬
monia con questo concetto quando afferma che : « È da ritenere con
fede divina e cattolica tutto ciò ch'è contenuto nella parola di Dio sia
scritta che orale e che la Chiesa, sia con una definizione solenne sia con
l'ordinario e universale magistero ci presenta da credere come verità da
Dio rivelata» (Denz. 1792). Gli Atti del concilio aggiungono: «Con
tale dottrina è escluso l'errore di coloro che pretendono asserire che solo
gli articoli di fede definiti formalmente dalla Chiesa sono da accogliere
con fede divina, riducendo in tal modo a un minimo la somma delle
verità di fede » (Collectio Lacensis, voi. VII, 1937, 167).
Il credente conosce gli articoli di fede ascoltando ciò che vien predi¬
cato (auditus fidei). Egli li accoglie e li afferma nella fede.
-
5. Qui sorge appunto una grande difficoltà, provocata dalla essenziale diver¬
genza tra teologia e le altre scienze. Anche le scienze non teologiche presup¬
pongono i loro principi, ma questi tuttavia possono essere dimostrati da una
scienza superiore. Iprimi principi della scienza suprema che è la filosofia, non
sono certo dimostrabili, ma sono di per sè evidenti, luminosi. Cosa avviene al
contrario per i principi della teologia? Essi non possono nè dimostrarsi, nè com¬
prendersi con la ragione, ma possono solo essere accolti dalla fede. Essi non
hanno, per la teologia, quell'intrinseca evidenza che al contrario presentano i su¬
premi principi conoscitivi su cui poggia la filosofia. Perchè potessimo rinvenire
una reale analogia tra la teologia e le scienze profane, dovremmo trovare una
scienza, la quale, come fanno quelle superiori con quelle a loro subordinate, for¬
nisse i principi alla teologia stessa. Ma vi è una tale scienza superiore alla teo¬
logia? Tommaso d'Aquino, risponde affermativamente. È la scienza di Dio e dei
beati. È la conoscenza che Dio stesso ha della realtà. Dio, presenta all'uomo, nella
rivelazione, parte di quella conoscenza che egli direttamente possiede. Questa
principi veri, ingannevoli. Di fronte du
grado
38 INTRODUZIONE al
parte è contenuta negli articoli di fede. La teologia perciò riceve i suoi principi, m
ossia gli articoli di fede, non da una scienza umana, bensì dalla scienza di Dio basando
stesso, ch'è una fonte che trascende ogni realtà e ogni conoscenza terrena. Essa garanti
è quindi una scienza subordinata e concatenata alla scienza di Dio. in
Ci si può tuttavia chiedere se lo spirito umano non si illuda, quando pensa di
poter cogliere con la fede la rivelazione divina. In tal caso la teologia non avrebbe un
principi veri, ma ingannevoli. Di fronte a questo dubbio la ragione umana può
dimostrare la realtà della rivelazione. Essa è in grado di provare che Dio è real¬ i
mente uscito dal suo riserbo per svelare se stesso all'uomo. Tale dimostrazione armo
è compito della teologia fondamentale, che perciò, nel senso letterale del vocabolo, che
è una scienza propedeutica della teologia. Essa può mostrare il valore degli arti¬
coli di fede, dei principi della teologia, non basandosi sulla loro intrinseca evi¬
l'imp
denza, bensì sulle prove o segni con cui Dio li garantisce. In tal modo la teologia comp
non vede i suoi principi in modo diretto bensì solo indirettamente. La differenza riv
essenziale e qualitativa della teologia di fronte a tutte le altre scienze, sta proprio spie
in questo, che essa riceve i suoi primi principi da una fonte trascendente. Co
6. - Ma una volta che la teologia ha ricevuto i suoi principi dalla fede,
allora essa può esercitare la sua funzione in armonia con le altre scienze: dat
dedurre cioè nuove cognizioni dai principi che le sono offerti. Questa rivela
formulazione potrebbe a prima vista dare l'impressione che la teologia del
in quanto scienza possa esercitare il suo compito solo fuori dell'ambito tem
della verità rivelata, mentre all'interno del rivelato non potrebbe fare
nulla. Conseguentemente la fissazione e la spiegazione degli stessi arti¬ Be
coli di fede non sarebbe opera del teologo. Così di fatto è stato inteso dif
talvolta il concetto di teologia presentato da S. Tommaso. Secondo tale Tomm
concezione l'oggetto della teologia sarebbe dato soltanto dalle conclu¬ di
sioni che si possono dedurre dalle verità rivelate. La teologia si ridur¬
rebbe dunque ad essere solo una teologia delle conclusioni. Parecchie
aristote
obiezioni furono mosse, in questi ultimi tempi, a siffatta idea della
teologia.
Vi sta infatti nascosto un grosso abbaglio. Benché nel corso dei secoli p
la teologia delle conclusioni sia sempre stata difesa da questo o da quel
teologo, non è tuttavia il pensiero di S. Tommaso quello di ridurre il qua
compito della teologia al di là di ciò che fu direttamente rivelato. Essa
deve anche spiegare gli stessi articoli di fede.
7. - La teologia, secondo il concetto aristotelico della scienza, ha un
duplice compito da realizzare:
a) Essa, mediante l'esame di ciò che fu proclamato dal magistero
della Chiesa, deve fissare gli articoli di fede. E può adempire bene que¬
sto suo compito se non si limita a ricercare quale sia la proposizione di
§ 3- LA teologia come scienza 39
un articolo di fede in un dato periodo di tempo, sia esso presente che
passato, ma studia e indaga la predicazione della Chiesa attraverso tutti
i tempi, risalendo dall'epoca contemporanea fino alle stesse origini.
b) Essa dagli articoli di fede deve poi dedurre a mo' di conclusioni,
nuove cognizioni. Questa deduzione, che al dir di 5. Tommaso costi¬
tuisce l'essenza della scienza teologica, racchiude, secondo l'opinione più
accreditata, anche lo sviluppo degli articoli di fede, perchè il fedele ne
possa comprendere meglio l'intero valore e significato. Per tale suo com¬
pito il teologo può servirsi di concetti intermediari, derivati dalla rive¬
lazione stessa, oppure può anche utilizzare delle verità solo razionali.
Con tale procedimento pone in chiara luce le verità che sono implicite
nelle verità di fede immediatamente rivelate, arricchendo così le nostre
cognizioni. Le conclusioni raggiunte con il primo modo si possono dire
implicitamente rivelate, mentre quelle ricordate in secondo luogo si pos¬
sono dire virtualmente rivelate.
Parecchie cognizioni raggiunte dai teologi possono quindi, pur esse,
costituire delle verità rivelate. Sono i casi in cui una verità rivelata vien
dedotta dall'altra. Ma non ogni deduzione dai principi di fede entra
sempre a far parte della rivelazione immediata e formale.
Così S. Tommaso d'Aquino, abbinando il nuovo con il vecchio, ha
affermato esser compito della teologia sia la penetrazione del mistero di
fede (intellectus fìdei), sia la deduzione da quello di nuove conoscenze.
8. - Anche se questo concetto di scienza, desunto da Aristotele e svi¬
luppato da S. Tommaso, vale in primo luogo per la teologia speculativa,
esso s'applica tuttavia anche alla teologia storico-positiva ritenuta pur
essa scienza in quanto tende a fissare gli articoli di fede che costituiscono
i principi della conoscenza teologica.
9. - Se però vogliamo applicare alla teologia non il concetto medio¬
evale di scienza, desunto da Aristotele, ma quello moderno, possiamo
dire che, conforme a questo nuovo concetto, scienza è ogni sforzo del¬
l'intelligenza umana circa un determinato oggetto, secondo un metodo
unitario confacente a quell'oggetto, con lo scopo di raggiungere cogni¬
zioni organicamente sistemate e comunicabili ad altri. La teologia è per¬
ciò una scienza almeno per il fatto che si sforza di presentare una spie¬
gazione coerente della rivelazione cristiana. Essa cerca di rispondere alla
domanda: Che cos'è il cristianesimo? Rispondendo a tale interrogativo,
la teologia si sforza di conoscere l'origine e l'essenza del cristianesimo
stesso sia nel complesso che nei singoli suoi aspetti, di conoscerne pure
cristianesi
dell'um
40 INTRODUZIONE
incred
il rapporto con il mondo e la sua storia, e di presentarlo in un sistema scie
organico. In questo senso la teologia soddisfa a tutte le condizioni a cui passato
la scienza deve sottostare. Ma nel medesimo tempo assume un grande
valore per la vita spirituale dell'uomo, perchè molti uomini con entu¬
siasmo professano il cristianesimo da quella chiarito e vogliono vivere da compito
cristiani. In tal modo le indagini sul cristianesimo conducono pure alla qu
ricerca della vita spirituale di gran parte dell'umanità sia del passato che funzion
del presente. In questo senso anche un incredulo può riconoscere alla vocab
teologia il carattere di scienza, anzi di una scienza d'alto rango, se non anche
altro per lo studio dei documenti del passato e di una vivente forza
spirituale. saper
quelle
10. - La teologia adempie, perciò, un compito, a cui anche lo studioso profes
contrario al cristianesimo deve riconoscere la qualità di scienza. Ma essa teol
procede assai più in là di questa sola funzione. La forma di teologia
finora abbozzata (nel senso moderno del vocabolo) può prescindere dal Essa
problema riguardante la verità. Essa può anche accontentarsi di chiarire condiscen
il cristianesimo come una pura manifestazione o fenomeno storico. Per ultima
l'autentica teologia è tuttavia decisivo il sapere se le affermazioni del
ce
cristianesimo si debbano ritenere, come quelle di ogni altra religione,
come pure espressioni spirituali di chi le professa, oppure valide mani¬ uma
festazioni di qualcosa veramente reale. La teologia vede nelle dottrine Perc
del cristianesimo verità reali, in cui Dio stesso svela il suo proprio mi¬ s
stero e il mistero del mondo e dell'uomo. Essa non trae il suo soggetto dipend
dall'osservazione del mondo, ma dalla condiscendenza divina, e l'organo tr
con cui lo apprende è la fede. Perciò, in ultima analisi, la differenza tra part
la teologia e le altre scienze sta nel fatto che la prima ha per oggetto incl
dati soprannaturali apprensibili con infallibile certezza mediante la fede, infat
ma irraggiungibili con la sola intelligenza umana, mentre le altre stu¬ cr
diano dati apprensibili mediante la ragione. Perciò il problema se la teo¬ possibi
logia, non semplicemente come oggetto della storia delle religioni, ma
come vera e propria teologia, sia scienza, dipende dal fatto se il sopran¬
naturale possa essere fonte e oggetto di una trattazione scientifica. Gli
animi si schierano, su questo punto, in due partiti opposti. Chi riconosce
l'Iddio vivente e personale, è naturalmente inclinato a sciogliere il pro¬
blema in modo affermativo. Egli ammette, infatti, la possibilità che Dio
possa rivolgersi direttamente agli uomini, sue creature. Idati storici de¬
pongono a favore del fatto che questa possibilità sia davvero divenuta
realtà concreta. Anzi, uno studioso siffatto vede nella rivelazione una ga-
§ 3- LA teologia come scienza 41
ranzia per i risultati delle indagini teologico-scientifiche. Ogni scienza
ha a che fare con la ricerca della verità. Se il fine di ogni conoscenza
scientifica è la verità, ne deriva che il vincolo del teologo con la rivela¬
zione non è affatto un legame ostile e contrario alla scienza. Non è in¬
fatti altro che la dedizione a Dio, e perciò sottomissione alla verità in
persona. La scienza non è indipendente dalla verità, e tanto meno dalla
verità personificata, che è Dio. Ne deriva che l'uomo, come creatura, è
del tutto dipendente da Dio, il Signore e il Creatore, così da esser tenuto
alla sottomissione e alla obbedienza (Denz. 1789, 18 10).
Di fronte alla verità, che è Dio, gli uomini non possono che accettare
spontaneamente tutto ciò che essa fa loro brillare dinanzi. Il teologo,
nella sua dedizione alla verità personalmente manifestatasi in Cristo, riesce
a cercare e ad apprendere la verità con la libertà necessaria ad ogni pro¬
cedimento scientifico, e senza lasciarsi affatto influenzare da fattori non
scientifici. La libertà opera nella ricerca del significato e della connes¬
sione delle singole verità rivelate, nella loro indagine speculativa, nel¬
l'esposizione del loro sviluppo storico, nella deduzione, dai dati rivelati,
di risposte ai problemi suscitati dal tempo.
Perciò rispondendo affermativamente al quesito se il soprannaturale
possa essere oggetto di scienza, anche la « teologia realizza in tal caso
il concetto di scienza come qualsiasi altra disciplina. Essa trae il proprio
oggetto, il mistero della fede, in modo scientifico dalle sue fonti, e cioè
immediatamente dalla Chiesa e mediatamente dalla S. Scrittura e dalla
Tradizione. Da queste fonti deduce pure in modo scientifico, e con i
mezzi propri alla scienza, nuove conoscenze, cerca di illuminarle razio¬
nalmente e le riunisce in modo scientifico in un sistema unitario » (A. Ra-
dermacher, Die innere Einheit des Glaubens, 1937, 95-96).
11. - La teologia cerca di raggiungere il suo fine, quello cioè di per¬
venire alla conoscenza scientifica della rivelazione, per due vie : primo,
con lo stabilire ciò che costituisce il contenuto della rivelazione, secondo,
col penetrare con l'intelligenza e sistemare questo contenuto stesso. In
quanto realizza il primo compito, si chiama teologia positiva (da ponere);
in quanto realizza il secondo si chiama speculativa. La teologia positiva
dona imo stato scientifico all'auditus fidei, quella speculativa uno stato
scientifico all'intellectus fidei, che si trova pure nella fede più semplice.
a) La teologia positiva cerca di rispondere, con ricerche storico-
filologiche, alla domanda: Qual è la verità rivelata da Dio? A tal fine
può seguire diverse vie. Siccome la rivelazione ci è pervenuta con i pro-
non sappiamo Scrittura,
Ch
INTRODUZIONE
de
42 e
feti dell'antico patto, con Cristo e gli Apostoli, e siccome le loro comu¬ i
nicazioni stanno racchiuse nella S. Scrittura, si potrebbe supporre che e
la teologia positiva debba iniziare il suo studio dalla S. Scrittura. Ma base
su questa via non possiamo procedere con piena sicurezza. Noi, infatti, m
non sappiamo dalla S. Scrittura, bensì dalla Chiesa soltanto, quali siano contemp
i libri che appartengano alla Bibbia. Solo la Chiesa ci testifica l'esten¬
sione del canone. Perciò il punto di partenza della teologia è l'insegna¬ com
mento della Chiesa. Esso è la regola formale e prossima della fede e f
della teologia. La teologia incomincia perciò il suo lavoro scientifico, d
quando riceve dall'insegnamento della Chiesa, e precisamente da quello q
del suo tempo, la rivelazione divina e sulla base di questo insegnamento riv
cerca di stabilire il contenuto della rivelazione medesima. Ma essa non s
può soffermarsi al solo insegnamento contemporaneo della Chiesa, il da
quale talvolta può anche non presentare tutti gli aspetti della rivelazione. P
Certo, esso offre al credente la S. Scrittura come un tutto, ma nel suo
magistero ordinario e quotidiano non presenta formalmente al credente, singo
in tutte le sue particolarità, l'intero contenuto della Bibbia. Il magistero dall'ins
della Chiesa, inoltre, mette in risalto questa o quell'altra verità secondo ri
le esigenze del momento, mentre altre verità rivelate possono essere la¬ tradizio
sciate nell'ombra. Per di più tale insegnamento si presenta rivestito dagli prese
abiti del tempo, dovendo esprimersi in modo da poter essere compresorivelazion
dagli uomini viventi in una determinata epoca. Pertanto è compito della conserva
teologia stabilire tutte le verità religiose nel loro complesso e con il nesso
reciproco e chiarendo pure il valore che le singole verità presentano per teolo
l'insieme. Il che essa fa quando, partendo dall'insegnamento attuale della rivelaz
Chiesa, rivolge il suo sguardo al passato, e, risalendo sino agli albori most
della rivelazione, indaga tutta « la sacra tradizione » in ogni sua mani¬
festazione dal suo primo bagliore al tempo presente. Suo campo d'azione maggior
è, perciò, l'intera testimonianza della rivelazione divina, quale trovasi
nella tradizione e quale da questa fu conservata, intesa, sviluppata e s
chiarita. st
Alla fissazione del contenuto rivelato, la teologia congiunge la ricerca
del nesso, della continuità storica tra la rivelazione e la sua tradizione
e predicazione da parte della Chiesa. Essa mostra che l'attuale insegna¬
mento non presenta altro che quelle realtà che furono sempre attestate
nella Chiesa, anche se ora lo sono con maggior pienezza e con miglior
comprensione.
La teologia usa per questo scopo il metodo storico-filologico. Essa si
serve, come di scienze ausiliari, della scienza storica e linguistica, della
§ 3- LA teologia come scienza 43
scienza delle religioni e delle antichità. Così indaga l'intera tradizione
ecclesiastica, come si presenta nella S. Scrittura, nelle decisioni conciliari,
nelle dottrine dei teologi e nei documenti di fede sia del passato che del
presente.
Siccome la parola di Dio merita ogni fatica, la teologia non si esonera
da qualsiasi sforzo per fissare tale parola. Essa non considera lavoro su¬
perfluo anche le più lunghe ricerche attorno a un singolo vocabolo. La
trascuratezza nel precisare, con qualsiasi possibilità, la parola di Dio, si
tramuta in indifferenza verso Dio. Poiché la parola di Dio è forza sal¬
vifica, anche la teologia storico-filologica che per meglio fissarla si inol¬
trasse nel più lontano dominio del passato, non compirebbe affatto
un'opera estranea alla vita. Da ogni sua indagine essa porta sempre seco
qualcosa di quella potenza salvifica. Il valore della teologia positiva per
la ricerca della rivelazione divina, rende comprensibile che le sue disci¬
pline (Scienza biblica, Storia della Chiesa) siano classificate nella costi¬
tuzione Deus scientiarum Dominus non tra le scienze ausiliari della teo¬
logia bensì tra le discipline fondamentali.
Per l'adeguata attuazione di questo suo compito si esigono tali cono¬
scenze linguistiche e storiche che un teologo, da solo, non lo può rea¬
lizzare. Perciò la teologia positiva necessita del concorso di parecchi
teologi, che, comunicandosi i risultati delle loro ricerche, reciprocamente
si istruiscano e lavorino per il progresso della scienza. Servono, a tale
scopo, le riviste scientifiche, le riunioni, i congressi e le biblioteche.
La teologia positiva si distingue dalla pura ricerca storico-filologica, e
perciò dalla fissazione e dalla interpretazione di un testo profano, per il
fatto che essa è scienza della fede. È la fede che la guida nelle sue fa¬
tiche. La fede è l'occhio del teologo. Con quest'occhio egli può vedere
parecchie cose che sfuggono a uno storico. Per esso egli può percepire
in qualche modo, la continuità tra l'attuale insegnamento della Chiesa
e quello dei primi secoli. Egli può così riconoscere nel passato il germe,
da cui si è sviluppato ciò che venne dopo. Cfr. Enc. Humani generis
(Denz. 3014).
Con un simile procedimento non si introduce affatto nelle testimo¬
nianze del passato, ciò che in esse non sta racchiuso. Il teologo cerca
anzi di studiare il passato con le più rigide regole del metodo storico-
filologico. Tuttavia egli giudica il materiale, che in tal modo mette in
luce, con l'aiuto della fede. Questo materiale gli apporta allora arricchi¬
mento e chiarificazione di quella fede, che egli accetta dall'insegnamento
della Chiesa.
monianze del passato. È la Chiesa che si rend
INTRODUZIONE
in
44
L'indagine della Sacra Tradizione non si fa per provare l'attuale inse¬ gran
gnamento della Chiesa, poiché questo né può né richiede di esser provato iv
con la Scrittura e la Tradizione in senso stretto. Anzi, al contrario, è il
magistero della Chiesa che può interpretare in modo decisivo le testi¬ C
monianze del passato. È la Chiesa che si rende garante sia dell'esten¬ antiscie
sione del canone, cioè dell'ambito della Sacra Scrittura, sia del suo si¬ sottome
gnificato. Essa presenta pure la norma per la interpretazione dei Padri. sottomission
Il teologo non studia, ad esempio, la dottrina di Agostino come lo storico a
per stabilire le convinzioni religiose di un grande genio, ma per cono¬ rice
scere come l'insegnamento della Chiesa nel iv secolo si è espresso in s'a
S. Agostino. autori
Quando il teologo si lega in tal modo alla Chiesa e al suo insegna¬ fondament
mento non procede affatto in maniera antiscientifica. Inchinandosi di¬ragionev
nanzi al magistero ecclesiastico, non si sottomette a un potere estraneo
od ostile alla scienza. Piuttosto, la sottomissione al corpo docente della
Chiesa, è il vero comportamento che s'addice al teologo anche dal lato all
scientifico, poiché è dalla Chiesa che egli riceve la verità rivelata. Di e
conseguenza, mentre egli si lega alla Chiesa s'accosta alla verità, che la riso
Chiesa gli garantisce, come incaricata e autorizzata da Dio, che è la l'auto
stessa verità in persona. La teologia fondamentale dimostra che il vin¬ stes
colo del teologo alla Chiesa è del tutto ragionevole. La teologia può anzi
mostrare che tali vincoli sussistono pure in altre scienze. La stessa scienza penetr
esperienza
storica è, in tal modo, vincolata alle fonti. La scienza giuridica, nell'as-
solvere o nel condannare, è pur essa legata allo stato e alle sue leggi. cerc
Una tensione che sorgesse tra autorità docente e la libertà richiesta dalla qui
iniziativa scientifica, dev'essere ammessa e risolta come l'ineliminabile dal
tensione tra gli individui e la società, tra l'autorità e la libertà. i
La teologia positiva non basta però a se stessa. Da sola correrebbe il ad
rischio di trasformarsi in pura storia o in pura filologia. i
b) La teologia speculativa cerca di penetrare la verità rivelata me¬
diante l'ausilio della filosofia e della esperienza quotidiana. Il che essa dis
realizza con una duplice attività : dapprima cerca, mediante l'analisi della
rivelazione, di approfondirne il significato; quindi si sforza di raggiun¬
gere nuove conoscenze mediante deduzioni dalle singole verità rivelate.
In quest'ultimo procedimento esercitano il loro influsso sia il bisogno che
ha lo spirito umano di penetrare sempre più addentro nella conoscenza,
sia le correnti spirituali e religiose del tempo in cui il teologo svolge il
suo compito.
Come la teologia positiva si serve delle discipline storiche e filolo-
§ 3- LA teologia come scienza 45
giche, così la teologia speculativa chiama in suo aiuto i sistemi filosofici.
Non tutte le filosofie però sono ugualmente adatte a tale scopo.
Sino al medio evo tale aiuto era prestato dalla filosofia platonica;
ma dal tempo di Alberto Magno e di Tommaso d'Aquino ciò fu com¬
piuto dalla filosofia aristotelica, utilizzata dai teologi per rielaborare in¬
tellettualmente la rivelazione. Entrambe le predette filosofie hanno la
loro zona di luce e di ombra.
La filosofia platonica distingue tra l'essere proprio e reale attribuito alle idee
e quello umbratile e improprio che attribuisce al mondo dell'esperienza. In tal
modo essa esalta meravigliosamente la superiorità di Dio su ogni creatura. Tale
atmosfera favorisce, in modo indubbio, la convinzione della caducità e dell'incli¬
nazione al male del creato. Il pericolo della filosofia platonica sta nel fatto che
minaccia di far svanire la realtà e il valore dell'essere creato, in modo che Dio
rischia di essere considerato non solo come colui che realmente è, ma anche come
l'unica realtà davvero esistente. Così la teologia inoltrandosi sul binario platonico,
incorre nel rischio di fondere panteisticamente Dio e le creature. Che tale peri¬
colo si possa superare, ce lo mostra l'altissimo grado della teologia dei Padri,
specialmente quella di S. Agostino.
La filosofia aristotelica anzitutto presenta alla teologia dei concetti netti e pro¬
fondi, e perciò giova assai per la chiara e precisa determinazione del contenuto
rivelato. In secondo luogo, affermando, in contrasto con la filosofia platonica, che
il mondo dell'esperienza ha una sua propria realtà e un suo proprio valore, serve
in modo eccellente a distinguere Dio dal creato e, per riflesso, a distinguere anche
l'ordine naturale dal soprannaturale. Per tale duplice aspetto si mostra superiore
alla filosofia platonica. Il pericolo che essa rappresenta per la teologia è il razio¬
nalismo, il quale si svilupperebbe quando i concetti presentati da Aristotele fos¬
sero dai teologi assunti nel medesimo senso con cui egli li ha usati. Ma il peri¬
colo vien superato perchè i teologi accentuano il loro carattere analogico. Iconcetti
filosofici infatti non vengono usati in teologia nello stesso significato che in filo¬
sofia, ma in un significato analogico, cioè in parte dissimile e in parte simile, con
la prevalenza però della dissimiglianza. L'analogia dei concetti, nel procedimento
teologico, non si verifica come in filosofia, ove si pone un concetto maggiore e uno
minore e se ne deduce una conseguenza, ma per il fatto che la fede utilizza un
concetto filosofico e con il suo aiuto spiega, con maggior pienezza, la verità rive¬
lata. Il concetto assunto dalla fede deve essere dal teologo compreso alla luce
della fede e perciò si inoltra al di là di se stesso, al di là del suo significato na¬
turale, nel regno del mistero.
Non pochi concetti della filosofia aristotelica, per la loro assunzione nel contesto
della fede, vengono meglio approfonditi e raffinati e, di conseguenza, raggiungono
il loro ultimo significato. Questo vale, ad esempio, per i concetti di natura e di
persona.
La teologia speculativa si trova, durante il suo sforzo, di fronte al compito di
ridurre a concetti, e così meglio comprendere, le figure e le similitudini della
Sacra Scrittura. La norma di tale lavoro non proviene da vedute naturali e per¬
sonali, quanto piuttosto dalle stesse figure e similitudini bibliche provenienti par-
logici i metafisici. La teologia deve continuamente
confor
46 INTRODUZIONE giunger
qualo
zialmente da Cristo e perciò del più alto valore. La teologia non può prescindere d
dai concetti se non vuol cessare d'esistere come scienza. Ma nella ricerca di con¬
cetti chiari essa non deve allontanarsi da quanto esprimono le immagini. Non
può semplicemente abbandonarsi alla dinamica dei concetti, allargando indefini¬ a
tamente le sue conoscenze mediante sempre nuove conclusioni come agiscono i
logici o i metafisici. La teologia deve continuamente chiedersi quale sia il signi¬ esse.
ficato preciso di una immagine biblica e perciò conformarsi sempre ad esso senza
indagare, in tutta la sua estensione, il significato che tale concetto possiede nel¬
l'ambito naturale. Così, ad esempio, la teologia giungerebbe a una dottrina incom¬
p
pleta, anzi ad un falso concetto della Chiesa, qualora, poggiando su concetti
puramente sociologici, volesse spiegare le immagini del capo e della vite che la
Bibbia applica a Cristo.
12. - Poiché la teologia non può realizzare alcun esame della rivela¬ del
zione senza le scienze umane che le rendono appunto possibile il suo
compito, sotto tale aspetto è dipendente da esse. Ma è tuttavia superiore an
a tutte per le seguenti ragioni:
a) Per la dignità del suo oggetto (Dio) e per l'importanza che essa p
ha nella vita umana (salvezza). conosce
b) Per il grado di certezza, che poggia su Dio stesso. Anche se la
certezza del teologo si rivela solo nella oscurità della fede, la ragione di
ciò non sta nell'irrazionalità o nella nebulosità della rivelazione, bensì nella
suprema luminosità di Dio e nella debolezza conoscitiva dell'intelletto rive
umano, che può contemplare la luce di Dio ancor meno che non possa so
l'occhio umano fissare lo splendore del sole. Di conseguenza l'uomo, per E
l'incondizionata attendibilità della rivelazione, può affidarsi ad essa con
una sicurezza che non può avere per le conoscenze naturali. La teologia tro
riposa in questa assoluta sicurezza della fede. pellegrina
13. - Siccome la rivelazione contiene misteri, nessuno sforzo teologico discesa
riuscirà mai ad esaurirne il contenuto. Perciò il teologo ha il compito
di far risaltare le realtà rese accessibili dalla rivelazione, senza però mai fe
toccarne il fondo. La teologia non ha quindi solo una funzione conser¬ pass
vativa e tradizionale, bensì anche progressista. Essa è il tentativo sempre propri
nuovo di penetrare scientificamente, mediante la ragione credente, nel
rivelato; è, perciò, sempre sulla breccia per trovare nuove e più ricche
cognizioni. Così partecipa al carattere pellegrinante che è proprio della
Chiesa, nel tempo che intercorre tra la discesa dello Spirito Santo e il
ritorno del Signore. Ciò verso cui di continuo anela, ossia la piena vi¬
sione della realtà divina conosciuta ora per fede, lo potrà, finalmente,
raggiungere solo quando avrà compiuto il passaggio dal tempo all'eter¬
nità. Allora la teologia cesserà d'esistere proprio perchè cesserà la fede
§ 4- TEOLOGIA E VITA 47
per dar luogo alla visione immediata della realtà divina. In certo senso
quindi la teologia è l'inizio e il fondamento della visione celeste ([in-
choatio visionìs). Essa ha perciò carattere escatologico.
§ 4. Teologia e vita.
1. - La teologia è la comprensione ed esposizione scientifica della
realtà resaci accessibile dalla manifestazione che Dio ha fatto di se stesso.
Tale manifestazione ha per fine la realizzazione del regno di Dio e della
nostra salvezza, non già solo l'appagamento della nostra sete di sapere.
Perciò, la teologia, in quanto scienza del mistero divino gratuitamente
svelatoci, è scienza del regno di Dio sulla terra e del mistero salvifico.
Di conseguenza, essa serve tanto alla conoscenza di Dio (scienza spe¬
culativa, teoretica) quanto alla conoscenza e allo sviluppo del suo regno
e all'acquisto della nostra salvezza (scienza pratica). Questi due servizi
sono assolutamente inscindibili tra loro, perchè funzioni di un'unica
scienza teologica. Si riallacciano e si condizionano a vicenda e sono, per¬
ciò, due semplici aspetti di un'una e identica teologia. La teologia resta
così scienza teoretico-speculativa e scienza pratica. Anche se le due fun¬
zioni si possono distinguere l'una dall'altra, in realtà non possono venire
scisse e non è possibile trascurarne una a vantaggio dell'altra.
Vi è, tuttavia, una differenza di grado. La conoscenza di Dio, asso¬
luta verità personale, è di per se stessa degna di valore, anche se non
favorisse la pienezza della vita umana. Di più, poiché il fissare e lo spie¬
gare la realtà rivelata costituisce il fondamento della funzione pratica
della teologia, ne consegue che l'aspetto teoretico della teologia medesima
merita la precedenza. Sarebbe quindi del tutto errato restringere il la¬
voro teologico a mettere in luce il valore di vita della verità, trascurando
il compito principale della ricerca teoretica. Ciò condurrebbe la teologia
all'irrazionalismo e all'agnosticismo e quindi alla morte. Una tale teolo¬
gia farebbe agire Dio, luce sommamente luminosa, in modo indegno della
sua chiarezza e perspicuità, e, nello stesso tempo, in maniera dispotica
verso lo spirito umano, il cui primo diritto e la cui prima esigenza sono
diritto ed esigenza di verità. Ma, d'altra parte, sarebbe pure una teologia
incompleta quella che trascurasse il compito di mostrare la realtà divina
quale valore per il nostro spirito. Il che non può giustamente limitarsi a
semplici applicazioni pratiche o all'aggiunta di corollario, pietatis. In¬
fatti un tal modo di procedere non paleserebbe il fatto che la rivelazione
Questa duplice funzione verrebbe incompresa qualo
teolog
48 INTRODUZIONE consegu
da
è, in se stessa, forza che tende a consolidare il dominio di Dio e a com¬ d
piere la salvezza umana. Se ogni verità naturale è un bene per lo spirito L'attivis
de
umano, tanto più lo si può asserire della verità, che Dio medesimo ha
i
comunicato su se stesso. stucL
Questa duplice funzione verrebbe incompresa qualora la teologia fosse forzata¬ di
mente scissa in scienza astratto-teoretica e in teologia della predicazione al ser¬
vizio immediato della vita. Una siffatta separazione contrasta con l'essenza della
stessa teologia e inoltre avrebbe la funesta conseguenza di dar origine ad una
prati
forma di teologia astratto-teoretica, aliena e remota dalla vita della fede, e, d'altra fede
parte, ad una teologia della vita, la quale, separata dal suo fondamento, che è il Chies
reale rivelato, condurrebbe al soggettivismo. L'attivismo religioso condannato da d
Leone XIII nell'anno 1899 mostra come la rottura degli stretti legami tra la scien¬ magis
tifica conoscenza teologica e la prassi religiosa induca in errore. Cfr. J. De Guibert,
Documenta ecclesiastica christianae perfectionis studium spectantia, Romae 1931;
e
cfr. pure la nota del S. Uffizio contro l'introduzione di nuove devozioni in A. A. S., arricch
1937, 304-305. informazion
2. -
La teologia svolge la sua funzione pratica in due modi: un
a) È attuazione e manifestazione della fede in mezzo alla comunità
pu
cristiana, e quindi ha valore per l'intera Chiesa. È insegnamento della a
fede per la comunità ecclesiastica. Presenta la dottrina cristiana in modo disco
diverso da quello con cui la presenta il magistero ecclesiastico nel suo (Gio
insegnamento solenne e in quello universale e ordinario, perchè ci dà v
Non
la rivelazione scientificamente chiarita e arricchita. p
Che la teologia non si riduca a semplici informazioni e nemmeno abbia un puro q
tono dottrinale, si deduce dal solo fatto che essa è una espressione della vita della dischi
Chiesa, prodotta dallo Spirito Santo. Benché ciò si applichi in modo eminente dunque,
alla teologia carismatica, si può anche riferire, sia pure in tono minore, alla teo¬ Dio
logia scientifica. Anche in essa lo Spirito Santo, anima e cuore della Chiesa,
adempie le funzioni di cui parlò Cristo nel suo discorso di commiato, quando lo
chiamò teste e consolatore, giudice e accusatore (Giov. 16, 7, 13; 15, 26 s.). Nella la
genuina teologia si proclama che lo Spirito Santo è venuto, che perciò il dominio
di Dio, che è dominio d'amore, ha avuto inizio. Non esiste ancora nella sua pie¬realizza
nezza, ma dovrà apparire un giorno in tutta la sua potenza. La teologia partecipa
perciò all'attività dello Spirito Santo, mediante il quale gli uomini sono intro¬
dotti nella verità piena, che è la realtà divina dischiusa a noi, e sono preservati
dall'errore (Giov. 16, 19). La teologia serve, dunque, con la sua stessa esistenza,
alla realizzazione e al compimento del dominio di Dio e, di conseguenza, alla sal¬
vezza degli uomini. È perciò scienza salvifica.
b) La teologia poi, in quanto presenta la rivelazione del mistero
vitale del Dio trino e della nostra destinazione a parteciparvi, è in grado
di stimolare nel modo più efficace la realizzazione della nostra comu¬
nione col Padre celeste, quale viene stabilita in noi, mediante Cristo,
§ 4- TEOLOGIA E VITA 49
nello Spirito Santo. Essa mira perciò a renderci obbedienti alla parola
di Dio, a suscitare la speranza nel compimento della nostra vita in cielo
e ad amare Iddio che si rivolge a noi nella rivelazione.
3. - Essendo la teologia partecipazione alla conoscenza che Dio ha di
se stesso, è, secondo la « Sacra Tradizione », non solo scienza bensì anche
sapienza. Infatti essa vede tutto e valuta ogni cosa alla luce divina, vale
a dire dal più alto e ultimo punto di vista. Di conseguenza possiede una
norma assoluta per ben giudicare cose ed eventi. Può intendere il mondo,
sia nella totalità, sia nei singoli elementi, con gli occhi di Dio. Per il
suo carattere di sapienza divina si distingue da qualsiasi scienza o sa¬
pienza terrena che si muove solo nell'ambito delle realtà terrestri e si
riposa nel creato. Nel primo e secondo capitolo della prima lettera ai
Corinti Paolo oppone alla sapienza dei Greci, la sapienza divina rivela¬
taci mediante lo Spirito. Secondo l'Apostolo, la sapienza aggiunge alla
fede pura l'intelligenza della fede ed è opera dello Spirito Santo. A dif¬
ferenza della vuota sapienza del mondo, la sapienza di Dio è forza e
potenza spirituale.
4. - Per la sua funzione salvifica la teologia è, in certo senso, neces¬
saria, sia nella forma positiva sia in quella speculativa. La prima favo¬
risce la piena conoscenza della rivelazione divina e serve pure a sepa¬
rare dalla rivelazione genuina le invenzioni umane, le dottrine sogget¬
tive, imiti e le favole. La seconda aiuta lo spirito umano nella sua brama
di chiarezza, di profondità e di vastità. Guida i credenti in Cristo a rin¬
venire la retta via in mezzo al dedalo intricato delle opinioni e dottrine
umane. Perciò il primo compito della teologia consiste nel darci accesso
alla verità e poi, in secondo luogo, nell'allontanarci dall'errore. Il giusto
ordine sarebbe rovesciato se il teologo si preoccupasse in primo luogo di
combattere l'errore, oppure se considerasse suo compito principale as¬
sumere un tono polemico nelle dispute fra una scuola teologica e l'altra.
In tal modo non favorirebbe, certo, l'edificazione del corpo di Cristo,
del popolo di Dio, della Chiesa. La teologia si mostra utile e necessaria
in quanto espone e approfondisce la rivelazione divina, rispondendo, me¬
diante la fede, alle necessità dello spirito umano e ai problemi sorti in
un determinato tempo.
5. - La necessità della teologia non può tuttavia essere scambiata con
la necessità della fede. La fede è, per ciascuno, l'indispensabile via di
salvezza. Nella fede noi entriamo in comunione vitale con Dio. La fede
4 - schmaus - dogmatica I.
INTRODUZIONE chiarire
50
pos
f
è perciò principio di salvezza. Come la vita ha la precedenza sulla rifles¬
n
sione circa la vita, così la fede ha la precedenza sulla teologia. Per rag¬ ch
giungere la salvezza, non è necessario che ogni credente diventi un teo¬ rivelazion
logo. Dobbiamo perciò distinguere bene le necessità della fede dalle ne¬ sussis
cessità della teologia. indirizz
ind
Si deve pure far distinzione fra le affermazioni della semplice fede e quelle n
della teologia. Siccome questa si sforza di chiarire scientificamente la fede con i
l'ausilio dei mezzi conoscitivi umani, non può possedere nelle sue affermazioni co
quella certezza che invece hanno le asserzioni di fede. La teologia è tanto più fede
legata alle debolezze umane quanto più si scosta, nella sua interpretazione, dalle
verità immediatamente rivelate. È quindi naturale che nelle questioni su Dio e il
mondo non immediatamente chiarite dalla rivelazione sussistano tra i teologi di¬
verse, anzi opposte opinioni. Tali divergenze sussistono non perchè la fede sia
diversa, ma perchè si utilizzano per chiarirla indirizzi filosofici divergenti e anche
dedizione,
perchè con la fede sussistono diverse esperienze individuali. Le « scuole » teolo¬
giche sono segni di tali indirizzi ed esperienze, che non esistono nella fede stessa,
ma che sono di una grande importanza per la sua interpretazione scientifica. in
Il confondere la fede con la teologia potrebbe condurre alla pericolosa conse¬ ete
guenza d'attribuire obbligatorietà e certezza di fede a opinioni incerte di teologi rafforza
o di far penetrare nella fede l'incertezza che regna nei pareri teologici.
espo
6. - All'obiezione che la teologia mette in pericolo la fede e la vita
religiosa, poiché favorisce il razionalismo e la presunzione, va osservato te
che la vera teologia, sorretta dalla dedizione, dalla venerazione e dal¬ tentazion
l'amore a Cristo e al Padre celeste, conduce all'approfondimento della d
fede, al rafforzamento della carità e alla gioia in Dio. Di essa dice S. Ago¬ pe
stino : « La fede salvifica, che conduce alla eterna beatitudine, è da que¬ seg
sta scienza generata, nutrita, difesa e rafforzata» (De Trinitate, 14, praticamen
1).
um
Non si può tuttavia negare che la teologia sia esposta a molteplici pericoli. Itre e
più importanti sono: teolog
a) Il pericolo della presunzione. Quando un teologo è abituato a giudicare figli
uomini, fatti e cose dall'alto, può sentire la tentazione di ergersi sopra gli uomini c
e le cose, di giudicarli senza alcun riguardo, invece di prestare all'umanità l'umile p
servizio di rendere più accessibile la parola di Dio e la salvezza. Siccome il teo¬
logo tratta sempre della fede obbligante, e deve perciò essere ascoltato, può in¬
correre nel pericolo di esigere di essere sempre seguito e di non ammettere mai
di avere torto. Può quindi accadere che, praticamente, abbia più a cuore la pro¬
pria ragione anziché il regno di Dio e la salvezza umana, e non serva, con obbe¬
dienza, la parola di Dio, ma se ne serva per i suoi esercizi dialettici e il desiderio
di disputa; che perciò confidi di più nella sua teologia e nella sua capacità umana,
che non nella speranza della manifestazione dei figli di Dio (Rom. 8, 19).
b) L'aridità. Il secondo pericolo sta nel fatto che chi si dedica alla teologia
può dimenticare (non in linea di principio, ma praticamente nella sua ricerca
§ 4- TEOLOGIA E VITA 51
scientifica) la caratteristica del suo oggetto, vale a dire che la rivelazione ci è
conferita in vista del regno di Dio e della nostra salvezza, per dedicarsi esclu¬
sivamente alla scienza per se stessa. Il che può condurre a una scienza che di¬
viene rassegna, priva di vita, delle proposizioni teologiche, a far smarrire il teologo
in un dedalo di speculazioni e cavillosità, senza lasciar trapelare nulla della forza
salvifica, della vitalità e del calore che si trovano nella Scrittura e nelle stesse
opere dei Padri. In tal modo l'importanza della Scrittura può essere ridotta, come
al tempo della tarda scolastica, a servire solo come materiale illustrativo, quasi
fosse una pura raccolta di semplici aneddoti ed esempi.
c) L'inesatta semplificazione della vita e la sottovalutazione dell'ordine natu¬
rale. Il teologo che fissa sempre lo sguardo sull'ai di là e sul soprannaturale,
incorre il pericolo di non vedere la pienezza e la varietà della vita umana, di tra¬
scurare i diritti e i valori propri delle cose terrene, dell'ordine culturale, politico,
economico e sociale, e di ogni scienza profana. Il pericolo di sottovalutare o di
sprezzare le conoscenze naturali, le necessità terrene, e i bisogni umani, diviene
concreto nelle armonizzazioni precipitate dei problemi moderni della scienza con
la rivelazione soprannaturale che conducono a un esagerato supernaturalismo o a
una falsa clericalizzazione delle manifestazioni culturali.
La teologia pur essendo tentata da tali pericoli, deve superarli ricordando che
essa ha per compito di giovare alla scienza della parola divina, proclamata dalla
Chiesa, all'avvento del regno di Dio e alla salvezza del genere umano. Essa non è
per nulla nemica della fede, anzi è un aiuto per la sua vigoria e sanità, per la
proclamazione della parola di Dio. La teologia, infatti, fornisce alla predicazione
sicurezza, chiarezza e forza, salvaguardandola dal fanatismo e dall'arbitrio. Perciò,
perfeziona la vita. Come ogni conoscenza scientifica diviene modo di vivere, cosi
anche la scienza teologica costituisce un modo di vivere la vita di fede. Essa è
vita che nasce dalla fede e che sbocca nella fede viva. Gregorio Magno così fa
risaltare il rapporto tra la teologia e il senso della fede: «Non vi è scienza che
non abbia valore alcuno per la pietà e sarebbe pietà del tutto priva di valore
quella che si staccasse totalmente dalla scienza » (Magna moralia in lob, 35, 45;
PL. 75, 547). Pio XI così espone l'interferenza tra teologia e pietà : « La scienza
illumina la pietà, specialmente la scienza sacra, poiché se qualsiasi scienza, cioè
ricerca della verità, eleva la mente, quanto più la scienza del sacerdote, sacra per
l'oggetto, per il fine, per i mezzi di cui dispone! Alla sua volta la pietà retta¬
mente intesa, che è cognizione e culto filiale verso Dio nostro padre, se viene
sinceramente praticata, feconda, illumina, dirige la scienza » (Enchiridion Clerico-
rum, 1938, 781).
7. - La teologia, essendo manifestazione della vita della Chiesa realiz¬
zata dallo Spirito Santo, partecipa alla glorificazione che lo Spirito Santo
arreca a Cristo nel tempo intermedio tra la Pentecoste e la Parusia. Me¬
diante Cristo essa si trasforma in lode al Padre. Siccome la teologia è
possibile soltanto per la fede, e la fede significa comunione di vita con
Cristo, di conseguenza, la teologia partecipa alla glorificazione che Cristo
ha presentato e presenta al Padre (Giov. 17, 1. 4). In tal modo la teo-
teologica
52 INTRODUZIONE
fatico
logia diviene preghiera, in cui il teologo (= il credente che parla di Dio
tem
e cerca di penetrare nella parola di Dio) in comunione con il Logos (Pa¬
alla
rola) fattosi uomo, celebra il Padre (Ef. i, 2), sottomettendosi con fede
P
ubbidiente a lui, e consacrando la sua vita a chiarire la rivelazione. Ilquind
teologo adempie tale funzione di lode non con un particolare atto appo¬ ch
sito, bensì mediante la stessa ricerca teologica, che include il carattere a
della glorificazione divina. de
8. - La teologia deve compiere la sua faticosa indagine e la glorifica¬ s
zione divina ad essa immanente, fino al tempo in cui Cristo apparirà ring
svelato nella sua maestà. Essa tende perciò alla seconda venuta di Cristo.
È un costante richiamo alla Epifania e alla Parusia, cioè alla prima e
seconda venuta di Cristo. Essa include quindi un'impronta escatologica,
come la rivelazione stessa e il popolo di Dio che ne è il portatore. La teo¬
esp
logia, manifestazione della vita della Chiesa, avrà termine con la Chiesa
anch
stessa. Quando Cristo apparirà nel fulgore della sua maestà, allora sarà
medio
inutile ogni richiamo ad essa. La fatica dello spirito umano credente e la
speculativo
lode divina si trasformeranno in visione e ringraziamento immediati.
general
§ 5. Unità e ripartizione della teologia. stor
rifo
1. - Nonostante la molteplicità delle sue espressioni, la teologia è una del
scienza unica. Nella Chiesa antica vi era anche di fatto un'unica disci¬ teolo
plina teologica, la « dottrina sacra ». Nel medio evo, la teologia fu ripar¬ teolo
tita in scienza biblica e in teologia speculativo-sistematica, dando il pri¬
m
mato alla prima. Un'ulteriore disciplina sorse nel xn secolo, quando si
separò il diritto ecclesiastico dal diritto generale. Al tempo della riforma, paro
con lo sviluppo delle scienze filologiche e storiche, comparve la teologia
del
storica, mentre la necessità di opporsi alla riforma diede vita alla teolo¬discipline
gia polemica. Questa si sviluppò al tempo dell'illuminismo, nel xviil se¬ Crist
colo, in apologetica e, nel xix secolo, in teologia fondamentale. Inoltre
nel xviii secolo sorsero pure le discipline teologiche pratiche.
2. - L'unità della teologia, nonostante le molteplici sue discipline, è
garantita dal fatto che, in tutte le sue forme, essa cerca di fissare, chia¬
rire, esporre e riunire sistematicamente la parola di Dio, trasmessaci da
Gesù. Si potrebbe anche dire che l'unità della teologia è garantita dal
suo oggetto formale; infatti tutte le discipline parlano, ciascuna a suo
modo, di Dio manifestatosi per mezzo di Cristo.
§ 5" UNITÀ E RIPARTIZIONE DELLA TEOLOGIA 53
3. - Le varie specializzazioni teologiche si potrebbero raccogliere in
tre gruppi denominati: teologia storica, teologia sistematica e teologia
pratica.
La teologia storica si divide in Scienza Biblica e Storia della Chiesa. La prima
studia la testimonianza della rivelazione divina, la sua storia e il suo contenuto,
quale appare nella S. Scrittura. A tale scopo cerca anzitutto di determinare l'ori¬
gine e le caratteristiche dei singoli libri appartenenti al canone (Introduzione
biblica); quindi esamina il senso dei singoli testi biblici (Esegesi); infine riunisce
in forma sintetica il contenuto della dottrina biblica (Teologia biblica). La storia
della Chiesa studia l'influsso che la rivelazione divina ebbe nel mondo dopo la
morte di Cristo e la trasformazione del mondo per mezzo della parola divina nel
corso dei secoli (regno di Dio nel mondo). La scienza biblica e la storia sono
coadiuvate da un numero considerevole di discipline ausiliari.
La scienza biblica forma l'elemento basilare per il gruppo della teologia siste¬
matica, che si riparte, a sua volta, in Teologia dogmatica, cui va unita la Mistica,
e in Teologia morale, cui si unisce l'Ascetica. La Teologia dogmatica espone in
modo ordinato e sistematico, e conforme al magistero ecclesiastico, le realtà rive¬
lateci nella parola di Dio. La Teologia morale espone in modo scientifico le norme
dell'azione umana contenute nella rivelazione. Mostra quindi quali debbano essere
i sentimenti e l'agire dell'uomo, unito al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito
Santo, affinchè il regno divino si realizzi nel mondo.
Il terzo gruppo, quello della teologia pratica, si suddivide in Liturgia, Diritto
canonico, Teologia pastorale. La Liturgia mostra il modo con cui l'opera reden¬
trice di Cristo è di continuo resa presente nel popolo di Dio, che è la Chiesa,
sino al compimento dei tempi, affinchè i credenti possano entrare in comunione
con Cristo e, mediante lui e con lui, lodare il Padre celeste. Il Diritto canonico
espone l'ordinamento dato da Cristo alla Chiesa e da essa progressivamente svi¬
luppato e completato. La Teologia pastorale tratta l'arte di trasformare gli uomini,
secondo la loro diversa personalità, in figli di Dio e di additare loro la perfezione
finale celeste.
La Teologia fondamentale (Apologetica) precede tutti tre i gruppi. Essa di¬
mostra il fatto della rivelazione provando così che credervi è cosa ragionevole.
DOGM
es
SEZIONE II.
div
res
LA TEOLOGIA DOGMATICA
Chiesa
verit
§ 6. Concetto.
La teologia dogmatica è la penetrazione ed esposizione scientifica delle
verità religiose comunicateci dalla rivelazione divina, garantiteci e presen¬
pre
tateci dalla Chiesa, ossia di quelle realtà che, rese accessibili con la rive¬particolare
lazione di Dio, ci sono testimoniate dalla Chiesa. L'oggetto della ricerca individ
dogmatica è costituito dai dogmi e dalle verità cattoliche. Vediamolo (Le.
subito in particolare. indica
usual
suo
§ 7. Essenza e caratteristiche del dogma. Conci
l
1. - La parola greca dogma fu usata nell'epoca precristiana con diversi signi¬
ficati. Con essa s'indicava un'opinione, una particolare veduta filosofica, una tesi,
un principio, una dottrina, la decisione di un individuo o di una collettività, un te
decreto di Dio, un ordine governativo o un editto (Le. 2, i; Ebr. n,23; Atti 17, 7).
Nel giudaismo ellenistico si adoperò pure per indicare un precetto della legge ve
mosaica (Col. 2, 14. 20; Ef. 2, 15). Queste svariate espressioni costituiscono l'autorità
il
fondamento da cui proviene il significato, oggi usuale in teologia, del vocabolo.
Mentre al tempo patristico, in armonia con il suo uso profano, si chiamava
Cris
dogma la dottrina ecclesiastica in generale, dal Concilio di Trento in poi, specie
dal momento in cui si verificò la separazione tra la teologia morale e quella
dogmatica, il vocabolo dogma assunse il suo odierno significato tecnico.
2. - Dogma, nel senso stretto oggi usato in teologia, è una verità rive¬
lata immediatamente da Dio, che il magistero ecclesiastico stabilisce e
proclama in modo chiaro ed esplicito come verità rivelata da credersi.
Tale verità dev'essere accolta sia per l'autorità di Dio che vi si rivela,
sia per l'autorità della Chiesa fondata da Cristo (fides divina et fides
§ 7" ESSENZA e caratteristiche del dogma
55
catholica). Circa il dogma il Concilio Vaticano dichiara nella Sess. 3,
cap. 3 : « Devono essere credute per fede divina e cattolica tutte quelle
cose che sono contenute nella parola di Dio (rivelazione) scritta 0 tra¬
smessa oralmente, e che la Chiesa, 0 con solenne giudizio, o col suo
ordinario e universale magistero, propone a credere come rivelate da
Dio » (Denz. 1792).
3. - Il dogma è perciò costituito da due elementi essenziali :
a) Rivelazione immediata da parte di Dio, in modo esplicito
(explicite) 0 implicito (implicite). Una verità è rivelata implicitamente
quando è inclusa in un'altra, sicché si mostra chiaramente e distintamente,
nel suo essere e senso proprio, solo mediante la riflessione e l'analisi.
Analizzando una verità complessa nei suoi particolari, essa rifulge in tutta
la sua pienezza. Ciascun dogma si trova perciò in una delle due fonti di
rivelazione: nella S. Scrittura 0 nella Tradizione.
b) Proclamazione, da parte della Chiesa, come verità rivelata ossia
come oggetto di fede, sia mediante una definizione solenne (Concilio
generale 0 definizione ex cathedra) sia mediante il magistero ordinario
e universale (cfr. § 11, e il trattato sulla Chiesa). È ovvio che il conte¬
nuto del magistero ordinario della Chiesa che si esprime nei catechismi
delle singole diocesi, nelle lettere dei vescovi e nelle prediche è ben più
difficile a determinarsi che non il contenuto del suo magistero solenne.
Secondo il can. 1323, n. 3 del Codex Iuris Canonici si devono conside¬
rare dogmi solo quelle verità il cui carattere dogmatico è manifesto. Va
ritenuto dogma soltanto ciò che la Chiesa nel suo insegnamento presenta
chiaramente come verità contenuta nella rivelazione, intendendo obbli¬
gare tutti ifedeli a professarla.
La Chiesa può proporre una verità rivelata come dogma e obbligare
i fedeli a crederla perchè, essendo la continuazione viva di Cristo e l'or¬
gano da lui incaricato di conservare e trasmettere la parola di Dio, è
responsabile che tale parola sia accolta durante l'intero corso della storia
umana sino alla fine dei tempi. Perciò, in ultima analisi, è Dio stesso
che, per bocca della Chiesa, di cui lo Spirito Santo è anima e cuore, e
Cristo il capo, parla a ogni uomo.
Tutta la Chiesa è responsabile della parola di Dio. Ma la Chiesa vive
e crede per mezzo dei singoli membri. Perciò, in certo senso, ogni cre¬
dente in Cristo è autorizzato e obbligato a conservare la rivelazione e a
proclamarla. Ciascuno l'attesta all'altro. Tuttavia il compito della procla¬
mazione decisiva ed infallibile è riservato ai soli detentori del magistero,
una verità che, pur trovandosi nella S. Scrittur
o
56 INTRODUZIONE di
Nè
ed è solo in armonia e sottomissione a quelli che gli altri membri della infa
Chiesa sono responsabili della parola di Dio. È Cristo stesso che ha sta¬ q
bilito tale ordine. stabilita
4. - Non si può parlare di dogma in senso stretto, quando si tratta di m
una verità che, pur trovandosi nella S. Scrittura, e pur essendo ricono¬
sciuta dai fedeli come verità rivelata e quindi obbligatoria a credersi per e
l'autorità di Dio che l'attesta (ftdes divina), di fatto non è ancora stata
proposta dalla Chiesa come verità rivelata. Nè si può chiamare dogma seg
una verità che, pur essendo stata stabilita infallibilmente dalla Chiesa,l'espres
non è contenuta nelle fonti rivelate e viene quindi accettata sull'auto¬sgorgan
rità immediata della Chiesa medesima stabilita da Dio (fides catholica)
e pertanto anche sull'autorità di Dio stesso, ma solo indirettamente in
manifestato
quanto fondamento dell'autorità ecclesiastica. Non è assolutamente trasmiser il
caso di parlare di dogma nell'approvazione ecclesiastica di rivelazioni median
private (cfr. § 23).
5. - Dall'essenza del dogma risultano le seguenti caratteristiche: m
a) Origine divina. Il dogma non è l'espressione ecclesiastica in con¬ e
cetti e parole di esperienze religiose sgorganti dall'intimo dell'uomo.
Contiene invece la rivelazione che Dio col suo diretto intervento ha fatto
di se stesso all'uomo. E Dio si è manifestato, nell'Antico Testamento, testimonia
per mezzo di personaggi scelti, che trasmisero tale rivelazione, come termin
Abramo, Mosè e i Profeti, e da ultimo mediante Cristo che condusse a ling
termine e perfezionò quanto era stato prima detto. Le verità rivelate una
furono comunicate, come già vedemmo, in modo storico, racchiuse in cont
fatti salvifici, sicché si distinguono dal mito e dalla verità filosofica, la Figli
quale è fondata non nella sua origine storica, ma sul valore della cosa visibile
in sé. ter
In quanto dogmi, le verità divine testimoniate dalla Scrittura e dalla con
Tradizione secondo un'espressione e una terminologia propria del tempo, Ne
vengono dalla Chiesa rivestite di un nuovo linguaggio conforme alle mu¬
tate circostanze storiche, quasi incarnate in una nuova espressione. Que¬
sta incarnazione è, in certo qual senso, la continuazione, nel corso della
storia, dell'incarnazione di Cristo. Come il Figlio di Dio è penetrato nella
storia in una natura umana concreta e visibile, così il dogma, che già
prima era garantito dalla rivelazione con una terminologia legata al tempo,
appare ora in nuova espressione linguistica confacente alla nuova cultura
storica e propria a un determinato popolo. Nel dogma, Dio di continuo
si incarna nel mondo umano.
§ 7- ESSENZA e caratteristiche del dogma 57
Il creatore della formulazione dogmatica è, in ultima analisi, lo Spi¬
rito Santo, inviato da Cristo alla sua Chiesa, nella quale opera, invisi¬
bilmente, come personale principio di vita. Come ha concepito, nel seno
di Maria, la natura umana del Figlio di Dio, così nella Chiesa dona
corpo ai dogmi. La Chiesa è perciò lo strumento visibile e in se stesso
attivo dello Spirito Santo. Questi forma i dogmi nella Chiesa e mediante
la Chiesa. Siccome la Chiesa non è organo inanimato dello Spirito Santo,
ma bensì suo strumento vivo, libero e responsabile, essa trae dal suo
essere storico di quel momento, la formulazione del dogma (e di rimando
il suo stato d'essere è nuovamente plasmato dal dogma).
Per l'attività della Chiesa, che si estrinseca nel dogma, si può anche dire che
in esso la Chiesa medesima rende testimonianza a Cristo. Nel dogma il popolo
di Dio confessa la propria fede al suo Signore. È perciò la comunità ecclesiastica
che presta tale testimonianza. Ma non tutti i suoi membri la prestano allo stesso
modo, poiché solo coloro che detengono il magistero sono ufficialmente incaricati
di essa. Perciò la loro parola, secondo l'istituzione di Cristo, esprime in modo
decisivo la fede dell'intero popolo di Dio. Tale loro parola ha perciò un'enorme
ripercussione sui singoli individui. Infatti, come ogni membro della comunità può
esistere e vivere solo quando si intona allo spirito della comunità medesima, così
la testimonianza, che la Chiesa nel magistero rende a Cristo, implica il dovere,
per i singoli, di rivivere la medesima testimonianza in loro stessi. Perciò il dogma
diviene norma di fede. Chi se ne estrania, si pone in disarmonia con la comunità,
si stacca dalla vita della comunità stessa.
Siccome i dogmi, per il loro contenuto, sono comunicazioni divine, è neces¬
sario per accettarli la disponibilità per Dio e quindi l'abbandono dell'orgoglio e
della autosufficienza umana. Provenendo da Dio, essi racchiudono essenzialmente
qualcosa di incomprensibile e di misterioso, poiché Dio è incomprensibile. Ma
d'altra parte non costituiscono qualcosa di ostile o di estraneo alla natura umana,
essendo Dio il creatore e il beatificatore dell'uomo. Benché i dogmi non proven¬
gano né dalla profondità del subcosciente, né dal sentimento, né dall'esperienza,
né dall'intelligenza dell'uomo, tuttavia, appena si dona loro l'assenso, essi diven¬
gono nostro patrimonio spirituale, come se fossero, non norme di fede provenienti
dall'esterno, ma bensì vita proveniente dal nostro intimo liberamente e gioiosa¬
mente accolta.
Idogmi partecipano in qualche modo alla caratteristica di Cristo: sono cioè
anch'essi segni della decisione. Possono addurre scandalo o beatitudine. L'accet¬
tarli è possibile solo nello Spirito Santo. Il credente che, camminando al di là
del puro pensiero e del valore umano, accoglie la rivelazione divina nella fede
operata dallo Spirito Santo, intuisce pure che nei dogmi opera il medesimo Spi¬
rito, che vive e agisce in lui. Egli, perciò, nel dogma ritrova se stesso. Colui che
respinge lo Spirito, che in Cristo si rivolge all'uomo, deve pure scandalizzarsi
del dogma come fecero i Giudei verso di Cristo (cfr. § 145).
b) Contenuto immutabilmente vero. I dogmi non sono solo sim-
rappres
riuscire
58 INTRODUZIONE
T
boli, immagini di Dio, richiami a lui, nè espressioni del sentimento reli¬ essenz
gioso sottoposte a continuo mutamento. Essi sono invece una vera e
propria espressione, benché incompleta, inadeguata e analogica, della mi¬ p
steriosa realtà divina. Perciò presentano un valore perenne e intangibile. c
Poiché Dio si è rivelato in parole e concetti umani e terreni, e poiché
noi dobbiamo per intenderli servirci di rappresentazioni e modi di direpenetrare
egualmente umani, è evidente che non riusciremo mai a comprendere
adeguatamente l'intimo contenuto dei dogmi. Tutti i nostri concetti e
vocaboli, quando si tratta di Dio, che è essenzialmente diverso da noi,
hanno solo un valore analogico. s
L'incarnazione del rivelato nella limpida e precisa forma del dogma sen
avviene per mezzo di chiari concetti umani. Il che tuttavia non significa a
razionalizzazione del rivelato, poiché i concetti utilizzati s'elevano al di no
sopra del loro significato naturale per penetrare nel mistero divino ine¬elaborati,
sauribile dai concetti umani. Ciò diviene ancor più chiaro se riflettiamomedesim
all'occasione che origina i dogmi. Sinora, quasi ogni dogma è sorto per tratt
combattere l'eresia. Il dogma eleva un argine contro l'errore; delimita conoscitivo
antropomorfi
la rivelazione in concetti precisi contro il suo svisamento o la sua ridu¬
zione, dandole così, di fronte all'eresia, un senso inequivocabile. Tut¬ V
tavia nell'ambito fissato dal dogma, permane ancora l'oscurità del mi¬
stero. Se quindi i dogmi vengono presentati, non con immagini e simi¬ 1907
litudini, ma con concetti chiaramente elaborati, ciò serve ad eliminare formulaz
l'errore, e non riduce affatto i dogmi medesimi a verità razionalmente Pe
comprensibili. (Vedi maggiori particolari nel trattato su Dio). p
Secondo queste riflessioni il valore conoscitivo dei dogmi sta di mezzo d
tra la esagerazione razionalistica e antropomorfica e la sottovalutazione av
§
agnostica della conoscenza di Dio. Cfr. Concilio Vaticano, Sess. 3, cap. 4, p
can. 3; Denz. 1818. Enciclica Pascendi dell' 8 settembre 1907; Denz. un
2071 ss. Decreto Lamentabili del 3 luglio 1907; Denz. 2020 ss.
diversi
Se il contenuto dei dogmi è invariabile, la formulazione verbale è invece con¬ primiti
dizionata al tempo e perciò mutabile e perfettibile. Per tale formulazione il magi¬
stero della Chiesa si serve di parole ed espressioni proprie di una determinata
cultura, come ad esempio, nel secolo xvi, il Concilio di Trento rivestì le sue de¬
cisioni con termini della filosofia aristotelica. Nè ciò avviene senza una particolare
disposizione divina. G. A. Móhler (La Simbolica, § 40) giustamente afferma:
« Quando la Chiesa dichiara ed assicura la dottrina primitiva contro le eresie, è
mestieri ch'ella scambi l'espressione apostolica con un'altra più acconcia a preci¬
sare e rintuzzare quel determinato errore, che vuol condannare. Se nella loro
polemica, rappresentando la verità divina sotto diversi punti di vista, neppure gli
stessi Apostoli ne poterono conservare la forma primitiva, con la quale la ricevet-
§ 7- essenza e caratteristiche del dogma 59
tero dal loro Maestro, tanto meno lo potrà la Chiesa alla sua volta. Quando la
dottrina evangelica viene intaccata da un erroneo sistema teologico, e con una
terminologia che gli è propria, come potranno venir escluse, in modo chiaro,
preciso e a tutti comprensibile, quelle false idee, se la Chiesa non prende pro¬
priamente di mira la forma medesima dell'errore, se non espone le sue tesi sotto
un tale aspetto, che sia in relazione con quella veste di cui le antitesi si rico¬
prono, rendendosi così intelligibile a tutti i contemporanei? Si dia un'occhiata
all'origine del simbolo di Nicea, e ne verrà piena luce sul nostro asserto. La forma
è l'umano, il temporale, il transitorio, se in sè sola si consideri, della dottrina ri¬
velata, e potrebbe venir ricambiata con altre mille » (trad. ital. edita a Carmagnola
nel 1852, 344).
Il modo di pensare e di esprimersi proprio di un determinato tempo, con cui
la Chiesa riveste la rivelazione divina, non viene quindi definito con la defini¬
zione di un dogma. Quando il Concilio di Trento insegna che i sacramenti sono
costituiti di materia e forma, non dogmatizza affatto la dottrina aristotelica che
afferma essere la materia e la forma il costitutivo essenziale della sostanza cor¬
porea. Una formulazione di un dogma, dato che non esprime adeguatamente la
realtà del mistero, può « venir migliorata e perfezionata » (Enc. Humani generis;
Denz. 3011). Si può infatti così ragionare: Come il Verbo divino personale si è
estrinsecato nella natura umana, così il Verbo rivelato di Dio si estrinseca nel
linguaggio caratteristico di un tempo. Il linguaggio in cui s'incarna la rivelazione,
viene così santificato e consacrato esso stesso. Il che vale per ogni linguaggio, in
cui il mistero divino sia proclamato. Ma di ogni linguaggio si può anche dire che
esso è solo e sempre uno strumento imperfetto.
Siccome nella formazione di un dogma è la cultura del tempo che offre
l'espressione linguistica, ne consegue essere della massima importanza per la spie¬
gazione scientifica del dogma stesso, lo studio della cultura e specialmente del
linguaggio caratteristico dell'epoca in cui il dogma venne formulato. A tale scopo
bisogna esaminare con accuratezza le discussioni conciliari, che precedettero e
motivarono la formulazione del dogma, come pure gli errori contro i quali esso
fu stabilito.
6. Idogmi vengono di solito ripartiti dal punto di vista della loro
importanza e del loro contenuto. La più rilevante divisione potrebbe es¬
sere quella di dogmi centrali e di dogmi particolari. Anche se ogni dogma
è garantito dall'autorità divina e va accolto con la medesima certezza di
fede, non si deve, tuttavia, disconoscere che l'uno ha maggior impor¬
tanza, per il complesso della rivelazione, dell'altro, così come anche in
un organismo un membro è più importante di un altro. In tal modo la
dottrina di fede riguardante Cristo sta al centro dell'organismo dogma¬
tico, e ad essa si ricollegano, a varia distanza, irestanti dogmi.
7. - Anche se i dogmi contengono verità immutabili e perciò si rife¬
riscono primariamente e in modo immediato alla facoltà conoscitiva del¬
l'uomo, non si esauriscono tuttavia nel conferire notizie e informazioni,
dog
d
6o INTRODUZIONE
ma sono anche nel medesimo tempo attuazione del piano divino sal¬ tem
vifico. Non solo istruiscono l'uomo riguardo alla realtà divina, ma lo la
chiamano e lo invitano a sottomettersi a Dio. Il dogma quindi non porta n
a una supremazia dell'intelletto, e a una repressione dell'amore, ossia
ad una paralisi della vita. Simili effetti sarebbero in contrasto stridente l
con l'intimo significato del dogma stesso. Idogmi, in realtà, non sono dogm
altro che formulazioni, stabilite dalla Chiesa, della manifestazione che
Dio ha fatto di se stesso per nostra salvezza. Essi sono l'espressione, q
formulata nel linguaggio di un determinato tempo, del pensiero e del¬ l'attu
l'azione salvifica di Dio. Servono per la difesa, la preservazione e la pro¬ sen
clamazione della rivelazione divina. Sono una nuova incarnazione della nelle
automanifestazione che Dio ci ha fatto. In loro ci incontriamo con Dio po
che si rivolge a noi nella forma di una parola legata a una determinata Esprime
epoca. È però sempre lui che, mediante il dogma, chiama il suo popolo m
e ogni singolo uomo. sua
i
Per meglio comprendere ciò, si deve considerare quanto segue. Dapprima la dogma
Chiesa possiede i misteri, comunicati da Dio per l'attuazione del suo regno e per u
la nostra salvezza, nella credente dedizione a Dio, senza che debba, per ciò, co¬ difend
noscerli chiaramente in tutto il loro contenuto e nelle loro singole parti. Anche depauperamen
l'uomo possiede la vita, senza averne, per questo, una conoscenza riflessa. Quando op
però sorgono problemi e obbiezioni, la Chiesa deve portare a fuoco, nel suo vero
significato e valore, quella che è la sua fede. Esprime allora il suo credo in pro¬
posizioni precise ed elimina parimenti l'errore, quale minaccia di morte. La pro¬ l'e
clamazione del dogma è, perciò, celebrazione della sua fede in Cristo. Il pericolo a
la obbliga a formulare questa fede in forma chiara e inequivocabile, il che non è
indizio di stanchezza, bensì di forza vitale. Il dogma è quindi espressione della
fede suggellata nella Chiesa dallo Spirito Santo, di una fede che prende chiara res
coscienza di sè, risponde ai nuovi problemi, si difende e si protegge dai pericoli della
incombenti. Esso non è rattrappimento e depauperamento, razionalistico, ma difesa d
della vita, che, senza vincoli e forme, strariperebbe oppure sarebbe minacciata da f
attacchi. l
Al contrario la dottrina erronea (eresia) che si erge contro il dogma, porta alla u
diminuzione della vita, anzi alla morte. Al principio l'eresia può dar l'impressione
di vitalità maggiore che non la stessa ortodossia; può anche stimolare a conoscere
meglio una verità di fede un po' obliata dai credenti, oppure non vissuta in tutta
la sua forza, e così adempire, secondo il volere divino, un'importante funzione per
la Chiesa. Ma di per se stessa porta sempre a un restringimento e a una decur¬
tazione della fede e perciò a un impoverimento della vita. E infatti la caratteri¬
stica dell'eresia è quella di svellere dalla plenitudine della rivelazione una verità,
erigendola ad unico valore. Di conseguenza riduce la fede e la vita religiosa a una
sola parte della verità totale. Così per la trascuranza o la negazione di questa verità
integrale, necessaria alla vita piena, l'eresia provoca un esaurimento e quindi la
morte stessa della vita.
§ 8. LO SVILUPPO DEL DOGMA 6l
8. - Può anche verificarsi il caso in cui uno affermi, in modo pura¬
mente intellettuale, le formule della fede ortodossa, senza alcuno slancio
del cuore e senza forza di volontà. Questa è fede puramente legale, che
poggia più sulla corretta professione della fede e delle formule dogma¬
tiche, che sulla realtà in essa racchiusa. Ma l'aridità e l'induramento
provengono non dal dogma, ma bensì dall'anima.
Noh esiste nessun farmaco infallibile contro siffatto pericolo. Neppur la parola
più vitale può giovare. Tra gli uditori di Cristo vi furono individui che udirono,
ma non sentirono, ossia che non ricevettero nel loro cuore la parola divina. Costoro
furono indotti ad accese diatribe casuistiche e concettuali su formule e lettere,
sulla loro origine da Abramo, senza essere per questo spinti alla conversione.
Anche il dogma della Chiesa può essere usato male in maniera analoga; ma per
sua natura, come manifestazione della vita ecclesiale di fede, tende a difendere
questa vita medesima e ad accenderla continuamente. Nei dogmi vibra la vita del
popolo di Dio, che, senza alcuna riserva e con la completa dedizione di spirito e
di cuore, confessa Cristo come suo Signore, contro tutte le tentazioni e le lusinghe
dell'orgoglio umano. Nell'eterna altalena della vita umana, nell'ondeggiamento del¬
l'errore, il dogma presenta incondizionata stabilità, certezza, sicurezza, e chiarità.
Si può quindi, a conclusione, affermare che, sotto un certo aspetto, i dogmi
sono concretizzazioni dell'amore divino in un duplice senso: dell'amore, cioè, di
Dio verso gli uomini e dell'amore con cui l'uomo risponde a Dio. Dal momento
che la rivelazione è manifestazione dell'amore divino, essa non perde tale im¬
pronta anche quando riceve dalla Chiesa una determinata formulazione. Quando
l'uomo risente i dogmi come un peso, questo dipende o dalla sua pretesa auto¬
sufficienza, per cui rinuncia a partecipare alla gloria di Dio, e quindi a superare
la sua finitezza, oppure dalla ostinazione e pigrizia del suo spirito e del suo cuore.
§ 8. Lo sviluppo del dogma.
1. - Nonostante l'immutabilità del contenuto, i dogmi soggiacciono
anch'essi, in certo senso, alle leggi della vita che si muta continuamente:
alle leggi, cioè, della crescita, della fioritura e della maturazione. Idogmi,
essendo incarnazione o corpo visibile del rivelato, crescono col crescere
della Chiesa, il mistico corpo di Cristo; sono anzi elementi e aspetti di
questo corpo vivificato dallo Spirito Santo.
La rivelazione soprannaturale ha raggiunto il suo apice assoluto in
Cristo e perciò non può più ricevere arricchimento alcuno. Però, se non
è possibile accrescere il contenuto della rivelazione, rimane sempre la
possibilità di penetrare più intimamente la realtà ch'essa ci ha disvelata
e così approfondire maggiormente il mistero divino. In tal modo non è
la rivelazione che progredisce nel credente, ma è il credente che progre-
designare le tappe di questo progresso. Quando
penetrazion
62 INTRODUZIONE
disce nell'intelligenza della rivelazione. E poiché questa ci svela, affinchè
vi possiamo gettare dentro lo sguardo, il mistero di Dio, impenetrabile ragg
ad ogni spirito creato, è logico che l'uomo non possa mai porre un ter¬ co
mine al progresso della sua comprensione e mai ne possa toccare il l
fondo. Isingoli dogmi, definiti in una certa epoca, non fanno altro che Cris
designare le tappe di questo progresso. Quando si parla di sviluppo dei l'u
dogmi, si intende solo la maggior penetrazione della Chiesa nella ri¬
velazione.
2. - Che la manifestazione di Dio abbia raggiunto in Cristo e nel suo
messaggio il suo vertice assoluto è asserto contenuto nella stessa rive¬ testim
lazione. Sia la Bibbia che la Tradizione orale lo testimoniano. com
a) La Scrittura designa l'ora in cui Cristo apparve, come la pie¬ co
nezza dei tempi (Gal. 4, 4; Ef. 1, 10), come l'ultimo tempo (Atti 2, 17; t
i Piet. 1, 20), come la pienezza del tempo (1 Cor. 10, ix). Cristo pro¬
mette agli Apostoli che invierà loro lo Spirito Santo che fi introdurrà in auto
tutto il vero; e chiarirà quanto egli ha loro comunicato, ma che essi raccom
non sempre hanno capito (Giov. 16, 12-15). E questo messaggio essi c
dovranno predicare in tutto il mondo in testimonianza a tutti i popoli; Tim
poi verrà la fine (Mt. 24, 14). Questo è il compito, che Cristo affida agli por
Apostoli. Egli soggiunge anzi che rimarrà con loro sino alla fine del L'u
mondo, sino al termine dei tempi, sino a che tale compito sia terminato
(Mt. 28, 16-20). né
membr
Gli Apostoli si riconoscono i difensori autorizzati, i garanti e i pro¬
clamatori della dottrina loro affidata, e raccomandano ai propri succes¬ d
sori di perseverare fedelmente in tutto ciò che hanno loro trasmesso d
(Gal. 1, 9; Rom. 16, 17; x Tim. 6, 20; 2 Tim. 1, 14). Cristo è il fon¬ att
damento posto da Dio stesso; nessuno può porne un altro; ciascuno può
edificare solo su questo (1 Cor. 3, 10-11). L'umanità non potrà ergersi
al di sopra di Cristo, ma potrà solo crescere sempre più in lui (Ef. 4, pr
11-16). Idiscepoli non possono aggiungere né detrarre nulla al messag¬
olt
gio di Cristo. Colui che occultasse ai membri della comunità alcunché
della rivelazione divina, sarebbe responsabile della loro perdizione (Atti
20, 18-28). Il suo nome verrebbe cancellato dal libro della vita (Apoc.
22, 19). Qualsiasi mutamento del Vangelo attira la maledizione su chi
lo opera (Gal. 1, 8).
b) Nell'epoca patristica venne respinta, specialmente ad opera di
Ireneo, Tertulliano e Vincenzo di Lerino, la pretesa di coloro che si as¬
serivano in possesso di nuove rivelazioni oltre quelle comunicate da
§ 8. LO SVILUPPO DEL DOGMA 63
Cristo agli Apostoli. Secondo Ireneo nella predicazione apostolica non
c'è nulla da migliorare (Adversus haereses, 3, 1). Gli Apostoli hanno
proclamato apertamente in maniera solida e completa ciò che Cristo aveva
loro affidato. Accanto al loro insegnamento pubblico non vi è posto per
una dottrina segreta riservata a spiriti più eletti. Coloro che tentano
qualcosa di simile son detti impostori, seduttori e ipocriti (Adversus
haereses, 3, 15).
Vincenzo di Levino scrive a commento di 1Tim. 6, 21 : « Custodisci il deposito.
E che cosa è il deposito? Un deposito è quanto è stato a te affidato, non quanto
hai trovato; quanto hai ricevuto, non quanto hai escogitato; una cosa che non
dipende da invenzione personale, ma dalla dottrina; non di usurpazione privata,
ma di tradizione pubblica; che è venuta a te, ma che non è stata creata da te;
di cui non sei l'autore, ma il custode; non l'iniziatore, ma un seguace; una cosa
che tu non regoli, ma segui... Quanto è stato affidato, rimanga presso di te, per
essere trasmesso da te. Hai ricevuto oro? Rendi oro. Non voglio che sostituisca
l'una ad altra cosa; non voglio che invece di oro mi presenti impunemente del
piombo o fraudolentemente del rame; non voglio quanto rassomiglia all'oro, ma
oro autentico » (Commonitorium, 22).
3. - Il magistero ecclesiastico riconosce di essere responsabile della
definitiva rivelazione di Dio, oltre la quale non se ne può più attendere
un'altra. Il Concilio Vaticano si esprime in questi termini: « La dottrina
della fede, che Dio ha rivelato, non è stata proposta all'ingegno umano
come un'invenzione filosofica da perfezionare, ma è stata affidata, come
deposito divino, alla Sposa di Cristo, perchè la custodisse fedelmente e
la dichiarasse infallibilmente. Nei sacri dogmi, occorre quindi attenersi
sempre al senso che la santa Madre Chiesa abbia dichiarato una volta,
nè mai si deve recedere da tal senso col pretesto e con le apparenze di
una più alta intelligenza. " Cresca, dunque, molto e fortemente progre¬
disca col susseguirsi delle età e dei secoli, l'intelligenza, la scienza, la
sapienza, tanto del singolo, quanto della massa; di ciascun uomo, quanto
di tutta la Chiesa; ma solamente nel proprio genere, cioè nello stesso
dogma, nello stesso significato e nella stessa sentenza " (Vincenzo di
Levino) » (Sess. 3, cap. 4; Denz. 1800). Un canone del concilio sotto¬
linea l'importanza e la gravità di questa affermazione definendo : « Chiun¬
que osasse dire che in conformità ai progressi della scienza è possibile
dare ai dogmi proposti dalla Chiesa un significato diverso da quello che
ha inteso e intende la Chiesa medesima, sia scomunicato » (Sess. 3, can. 3;
Denz. 1818). Cfr. Denz. 1836, 2021.
In opposizione a questa dottrina s'ergono gli antichi gnostici, gli spi¬
ritualisti medievali, gli spiritisti e i teosofi odierni. Nè riconoscono tutto
recisamente
64 INTRODUZIONE rivelazio
conosc
il valore di tale dottrina quei credenti che tengono in maggior conside¬ fe
razione le reali o supposte rivelazioni private anziché le divine comuni¬ 4
cazioni racchiuse nella S. Scrittura. Cfr. § 23. è
4. - È tuttavia possibile e si dà di fatto uno sviluppo, un progresso
nella conoscenza, nella penetrazione e assimilazione del contenuto im¬ cono
mutabile della rivelazione. Quanto recisamente la Chiesa respinge ogni
umana variazione e deformazione della rivelazione, tanto altamente pro¬ p
clama, come vedemmo, il progresso nella conoscenza e penetrazione della
Commonitorìu
rivelazione medesima, sia da parte dei singoli fedeli che da parte di tutta
la Chiesa (Concilio Vaticano, Sess. 3, cap. 4; Denz. 1800; Enciclica d
Pascendi, Denz. 2079-2080; cfr. 2145). E ciò è quanto insegnano Bibbiareligione
e Padri. dell'
verame
a) La Bibbia invita a crescere nella conoscenza e nella vita della
fede (Col. 1, 6-7; Ef. 4, 13-14). dell'a
b) Nell'epoca patristica la coscienza del progresso dogmatico trovò fortemente
la sua più valida espressione nel Commonitorìum di S. Vincenzo di Le¬ sapie
vino, citato dal Concilio Vaticano. Ch
sign
Così egli scrive nel cap. 23 : « Ma qualcuno può domandare : Non è possibile d
nella Chiesa di Cristo alcun progresso della religione? Certo, bisogna che uno ve loro
ne sia, e grande. Chi mai sarebbe così invidioso dell'uomo e così nemico di Dio, d
da tentare d'opporvisi? Però deve costituire veramente un progresso della fede, vecch
non un'alterazione. La caratteristica del progresso è che ogni cosa si accresca ri¬ ben
manendo identica a se stessa; la caratteristica dell'alterazione è che una cosa si
cambi in un'altra. Cresca, dunque, molto e fortemente progredisca, col susseguirsi dell'adolescen
delle età e dei secoli, l'intelligenza, la scienza, la sapienza, tanto dei singoli quanto de
della massa; di ciascun uomo, quanto di tutta la Chiesa; ma solamente nel pro¬ pr
prio genere, cioè nello stesso dogma, nello stesso significato, nella stessa sentenza.
La religione cristiana deve conformarsi alla legge dei corpi viventi, i quali, nel que
decorso degli anni si sviluppano e assumono le loro giuste proporzioni, pur ri¬ no
manendo identici a quello che erano. C'è una bella diversità tra il fiore della gio¬
vinezza e la decadenza della vecchiaia, eppure ivecchi sono gli stessi individui che Qua
un tempo erano giovani; in quanto si modificano bensì le dimensioni e l'esteriore dovess
dello stesso uomo, ma identica rimane la natura e la persona. Le membra del
fanciullo sono piccole, più grandi quelle dell'adolescente, ma sono sempre le stesse.
Pari di numero sono le membra del bimbo e quelle degli uomini fatti, e se qualche
cosa si mostra solo in età più matura, esisteva già prima germinalmente, cosicché
nulla di nuovo appare nell'attempato che già non si trovasse latente nel fanciullo.
Questa è dunque la regola giusta del progresso, questo l'ordine preciso e splen¬
dido dell'accrescimento: che il numero degli anni non viene a scoprire nell'uomo,
di mano in mano che egli cresce, se non le parti e le forme che la sapienza del
Creatore aveva già prima tracciate nel bambino. Qualora la figura umana dovesse
più tardi assumere un aspetto diverso, oppure dovesse perdere o acquistare nuove
§ 8. LO SVILUPPO DEL DOGMA 65
membra, tutto il corpo cadrebbe in rovina, o diventerebbe mostruoso, o per lo
meno sarebbe indebolito. Conviene perciò che la dottrina cristiana segua nel suo
progresso queste leggi, si rassodi con gli anni, si dilati col tempo, si perfezioni
con l'età, rimanendo però sempre incorrotta e illibata; conviene che in tutte le
sue parti e in tutte le sue dimensioni e, per così dire, in tutte le membra e in
tutti i sensi che gli son propri, sia sviluppata perfettamente, senza subire alcuna
alterazione, alcuna soppressione delle sue caratteristiche, alcuna variazione della
sua natura ».
c) Partendo dalla natura della rivelazione compiutasi in Cristo è
facile capire la ragione e la necessità dello sviluppo dogmatico. La Chiesa
riceve la rivelazione, nella sua forma primitiva, da Cristo. L'amore, che
ella porta al suo Signore, la spinge a comprendere sempre meglio, sotto
ogni aspetto, ciò che le è stato affidato. Tale brama ardente si trasforma
in difesa, quando la Chiesa si accorge di un pericolo che minaccia il
dogma rivelato.
Iprimi discepoli di Cristo, gli Apostoli, introdotti dallo Spirito Santo
in tutta la verità (Giov. 16, 13), possedevano una profonda conoscenza
della rivelazione. Nessuno penetrerà mai così profondamente nel mistero
di Cristo come Paolo. Altri, dopo di lui, potranno meglio conoscere lo
sviluppo, la ripartizione, la storia, l'approfondimento filosofico della ri¬
velazione, il suo rapporto con le religioni, ma nessuno raggiungerà mai
quella conoscenza di Cristo, della quale Paolo tanto si gloria e di cui
ringrazia Iddio (Ef. 3, 1-3). Gli Apostoli, pur avendo raggiunto una così
profonda comprensione del mistero divino svelatosi in Cristo, non pote¬
rono, tuttavia, comunicare in modo adeguato quanto contemplavano e
vivevano per mancanza di parole e di concetti idonei. Di conseguenza la
loro predicazione dovette necessariamente lasciare molte cose nell'ombra.
Può pertanto avvenire sotto la direzione dello Spirito Santo, il quale
muove spiriti e cuori, che nei secoli successivi, quando l'errore svisasse
il mistero, balzino in chiara luce verità rimaste, fino a quel momento,
oscure.
Si potrebbe anche dire: le verità rivelate, che Cristo comunicò e che
gli Apostoli, per suo incarico, predicarono, formano un tutto organico:
sono intimamente legate tra loro e si implicano vicendevolmente. Per¬
tanto ima verità può essere coperta da un'altra, come i petali di un fiore
sono coperti dalla brattea, finché non giunga a svilupparsi pienamente.
In altre parole: una verità, prima creduta solo perchè inclusa o connessa
con un'altra, può, in seguito, essere conosciuta in modo distinto e chiaro.
Così mentre prima era creduta in modo implicito dopo è creduta in
modo esplicito.
5 - schmaus - dogmatica 1.
secondo secolo e la presenta
tare, della fede nel
66 INTRODUZIONE
fe
c
5. - Tale progresso si può paragonare alla crescita di un albero. La consegue
ghianda diviene una quercia. Quest'ultima ha, certo, un aspetto ben di¬ dif
verso da quello della ghianda, e tuttavia esisteva già virtualmente in ava
essa. Nuovi sono l'aspetto e la forma, ma identica la sostanza o natura. fo
Così vi è una bella diversità tra la presentazione, semplice ed elemen¬
tare, della fede nel secondo secolo e la presentazione, ampia e complessa, sussis
della Chiesa d'oggi, eppure la sostanza della fede non è affatto mutata.
E poiché lo sviluppo dogmatico non è ancora chiuso, anzi avrà solo ter¬ d
mine con il giudizio finale, ne viene di conseguenza che, tra un millennio,conside
la presentazione della stessa fede sarà ancor differente da quella attuale. cos
Confrontando lo stadio iniziale con quello avanzato dello sviluppo do¬ partico
gmatico, possiamo dire che, se guardiamo la forma esterna, la diversità
è tanto grande quanto grande è la diversità tra ghianda e quercia; ma vi pe
si trova pure la medesima continuità che sussiste tra il seme e la pianta
sviluppata.
lascia
J. H. Newman paragona lo sviluppo del dogma allo sviluppo della poss
scienza umana. Dapprima lo studioso considera l'oggetto nel suo in¬ d
Anche
sieme. Poi lo scruta nei suoi vari aspetti e così progredisce da una co¬
la
noscenza generale ad una più concreta e particolareggiata. Alla fine rior¬ lo
dina i vari risultati in un tutto organico. Si può pure paragonare lo scoperte
sviluppo dogmatico al processo che da un pensiero fondamentale trae rivela
tutte le conclusioni. l'asse
Il perenne progresso cui la dottrina cattolica lascia adito, nonostante l'invaria¬ sig
bilità del contenuto, offre allo spirito umano tali possibilità di pensiero e di cono¬ qua
scenza, che non si può assolutamente accusare la dottrina dell'immutabilità del
dogma di provocare una paralisi dello spirito. Anche prescindendo dal fatto che d
i rapporti della fede con le scienze profane e con la cultura tengono desta l'atti¬ u
vità dello spirito credente, si può dire che, entro lo stesso campo della rivela¬ tenen
zione, si offrono sempre nuove possibilità di scoperte. Perciò, anche se è impos¬ la
sibile abbinare con l'immutabilità della verità rivelata l'atteggiamento dell'agno¬ frutt
stico che sempre tiene in sospeso il pensiero e l'assenso, non si può affatto asse¬ dogma,
rire che l'accettare un dogma, proclamato una volta per sempre dalla Chiesa, si¬
gnifichi sottomissione a un sistema perennemente sigillato. Anzi ci schiude l'ac¬
cesso a una penetrazione indefinita e continua di quanto la Chiesa, una volta per
sempre, e in modo infallibile, ha definito.
Quando si parla di sviluppo dogmatico, non si deve pensare a un progresso
naturale. Idogmi non crescono come un albero o un fiore. Il loro sviluppo si
può sì paragonare a quello di un organismo, tenendo, tuttavia, conto della di¬
versità. Idogmi nascono d'ordinario dal fatto che la Chiesa, con piena respon¬
sabilità, prende posizione contro l'errore. Sono il frutto dello schierarsi con Cristo.
Quando il magistero ecclesiastico definisce un dogma, significa che la Chiesa, gui-
§ 8. LO SVILUPPO DEL DOGMA 67
data dallo Spirito Santo, presenta la fede in Cristo in modo che possa essere
meglio ascoltata e percepita dagli uomini che vivono in un determinato tempo.
La formazione di un dogma è quindi atto e opera di fede.
6. - Lo sviluppo dei dogmi si compie dal magistero della Chiesa sotto
l'influsso dello Spirito Santo. Come lo sviluppo dell'organismo è diretto
dalle immutabili leggi della natura, così lo sviluppo dogmatico soggiace
all'influsso dello Spirito Santo, anima e principio vitale della Chiesa. Poi¬
ché la mozione dello Spirito Santo non elimina l'iniziativa umana, ma al
contrario la perfeziona, ne deriva che questa ha un'importanza decisiva
per il sorgere di un dogma in un determinato tempo.
Essendo lo Spirito Santo l'anima della Chiesa, ne proviene l'impossibilità che
un dogma, definito dal magistero ecclesiastico, contenga errori. Ma non vi è, per
noi, alcuna garanzia assoluta che la definizione di un nuovo dogma sia opportuna,
cioè conforme alle circostanze del momento di modo che il semplice fedele possa
accettarla con prontezza, senza sforzo, come segno e appello dell'amore di Dio.
Si deve tuttavia aver fiducia nello Spirito Santo, che è l'anima della Chiesa, e
che sa far sorgere i nuovi dogmi quando le circostanze lo esigono.
La scienza teologica e, in parte, anche la pietà stessa preparano le definizioni
dogmatiche. Il cristianesimo non è un sistema scientifico, perciò la teologia ha
solo un valore preparatorio, ma non decisivo, nella fissazione del dogma. Di re¬
gola i dogmi sono stati, sinora, proclamati per assicurare il dato della rivelazione
contro l'irrompere della eresia e non per creare o favorire una determinata devo¬
zione. Il corso dello sviluppo di un dogma è per lo più il seguente. Dapprima
una verità rivelata è oggetto della coscienza di fede della Chiesa che non si è
ancora ripiegata su se stessa colla riflessione. La Chiesa la possiede alla stessa
maniera con cui si possiede la salute quando si sta bene, con spontanea e ingenua
sicurezza. Sorgono poi difficoltà e contraddizioni, e allora l'attività scientifica dei
teologi cerca di eliminare queste e attenuare quelle. Ne derivano così asserzioni
varie, talvolta erronee, che si trascinano, qua e là, a lungo. Alla fine il magistero
ecclesiastico stabilisce ciò che corrisponde realmente alla rivelazione e ciò che
invece è erroneo. Le definizioni ecclesiastiche sono determinate generalmente dal¬
l'eresia, la quale, perciò, ha la sua funzione nel piano di Dio. S. Agostino dice:
« In realtà molte cose che fanno parte della fede cattolica, quando sono impu¬
gnate dall'appassionata irrequietezza degli eretici, vengono, a scopo di difesa, stu¬
diate più attentamente, comprese più chiaramente e predicate con maggior forza.
Così il problema, suscitato da un avversario, si trasforma in occasione per meglio
apprendere la verità » (De civitate Dei, 16, 2).
7. - Da quanto precede appare evidente come la teologia liberale
(specialmente di Ad. von Harnack) e il modernismo che ne segue la
scia (Le Roy, Loisy) interpretino erroneamente lo sviluppo dogmatico.
Secondo i liberali, il messaggio di Cristo originariamente adogmatico, consi¬
stentesolo nell'amore verso il Padre celeste e verso il prossimo, fu rivestito,
La cosiddetta scuola escatologica della teologia
d
68 INTRODUZIONE Enstehun
o
iniziando da Paolo sino al iv secolo, di espressioni e di elementi tratti dalla filo¬ illu
sofia greca e dai misteri del paganesimo, trasformandosi, così, in cristianesimo man
dogmatico. Il dogma, quindi, secondo questa opinione, nel suo concetto e nella sincre
sua costruzione è solo effetto dello spirito greco su terreno evangelico. Si può s
invece dimostrare per ciascun dogma che esso ha, se mai, attinto la veste esterna
dalla filosofia e dalla religione pagana, ma non il suo contenuto spirituale. l'interpretazione
La cosiddetta scuola escatologica della teologia protestante (specialmente mettono
A. Schweitzer) sostiene che la dottrina primitiva del cristianesimo era pura¬ trascura
mente escatologica. Secondo M. Werner (Die Enstehung des Christlichen Dogmas
[L'origine del dogma cristiano], Bern 1941) la fede originaria, rigidamente esca¬
tologica, dopo che l'esperienza le tolse la speranza illusoria della subitanea irru¬ pr
zione del regno di Dio nel suo stadio finale, andò man mano liberandosi dai suoi cultur
elementi costitutivi escatologici. Con l'aiuto del sincretismo ellenistico si attuò la sec
trasformazione dell'originaria attesa escatologica e il suo adattamento a una vita comple
attuabile nel mondo.
Contro tale opinione sta il fatto che l'interpretazione escatologica del cristiane¬
simo primitivo, diviene accettabile solo se si mettono in luce unicamente alcuni
passi neotestamentari, che sembrano favorirla, trascurando o sottovalutando tutti m
gli altri che le sono contrari, anziché utilizzarli tutti e farne la sintesi. Ciò sarà dell'agno
meglio spiegato nell'ultimo volume dell'opera. conoscibilità
Con il vocabolo modernismo si designò, in un primo tempo, il tentativo di se
tener conto, nella teologia, della scienza e della cultura moderna, senza per que¬ u
sto toglier nulla alla fede. Ma dall'inizio del xx secolo il termine fu usato in hann
senso assai più ristretto. Esso designa, nel loro complesso, quei tentativi filosofici
e teologici di spiegare il cristianesimo, i quali sono in completa contraddizione l'inf
con la sua vera essenza e ne annientano i fondamenti. Benché il modernismo non
sia stato esposto sistematicamente da nessuno dei suoi fautori, esso è, tuttavia, unnell'Encic
complesso organico che si può ridurre a sistema. Il modernismo di alcuni teologi
e filosofi cattolici è, in questo senso, l'epigono dell'agnosticismo e del razionalismo
biblico-storico del xix secolo. Respinge la conoscibilità di Dio e di qualsiasi rive¬ orig
lazione soprannaturale, anzi, di ogni rivelazione, nel senso di un'immediata azione l'esp
di Dio sull'uomo; e interpreta il cristianesimo come un prodotto evolutivo origi¬ po
nato da sentimenti religiosi e da esigenze, che hanno la loro origine nel sub¬ do
cosciente (immanenza vitale). co
La Chiesa ha preso più volte posizione contro l'infiltrazione modernistica nel d
cristianesimo : Pio X ha sintetizzato e condannato tali errori nel Decreto Lamen¬
tabili del 3 luglio 1907; Denz. 2001-2065 e nell'Enciclica Pascendi dell'8 settem¬
bre 1907; Denz. 2071-2109. L'anno 1910 il Papa ha prescritto al clero il giura¬
mento antimodernista, Denz. 2145-2147.
Idogmi cristiani, per il modernismo, traggono origine nell'esperienza religiosa
di Cristo. Dal suo intimo senso del divino deriva l'esperienza religiosa dei disce¬
poli. Questa si esprime in concetti e termini che poi il magistero ecclesiastico
fissa in formulazioni imposte a tutta la comunità. Idogmi, perciò, come le stesse
esperienze, sono in continua evoluzione. Hanno il compito di risvegliare ognora
le esperienze che ebbero Cristo e i suoi discepoli, e di chiarirle. Quando, in se¬
guito al mutamento della mentalità e della cultura, non siano più in grado di
realizzare tale ufficio, perdono il diritto di esistere.
§ 9- LE VERITÀ CATTOLICHE QUALI OGGETTO DELLA DOGMATICA 69
Idogmi vengono così intesi in modo puramente immanentistico e vitalistico.
Questa teoria dell'immanenza vitale anzitutto esclude la possibilità che Dio riveli
il suo mistero soprarmaturalmente ossia in un modo che supera, e perciò illumina,
tutte le esperienze religiose e le intuizioni teologiche. Essa, inoltre, non tiene
conto che lo spirito umano non potrà mai creare la figura storica di Cristo, che
è il centro di tutte le verità rivelate e Colui che sostenta e regge la Chiesa. Nulla
può essere staccato da lui, senza che, contemporaneamente, venga falsato.
Nel giuramento antimodernistico è asserito: «Senza alcuna reticenza accetto
la dottrina della fede che, dagli Apostoli, tramite i Padri ortodossi, giunse a noi,
nello stesso senso e significato. Perciò respingo assolutamente l'erronea inven¬
zione dell'evoluzione dei dogmi, per cui questi passano da un senso a un altro
diverso da quello inteso precedentemente dalla Chiesa. Respingo parimenti ogni
errore, che voglia sostituire al deposito divino affidato alla Sposa di Cristo per
essere fedelmente custodito, una invenzione filosofica o una creazione della co¬
scienza umana, formatasi a poco a poco attraverso lo sforzo degli uomini e suscet¬
tibile di essere perfezionata, in avvenire, con progresso indefinito. Tengo pure
per certissimo e sinceramente professo che la fede non è un cieco sentimento
religioso, erompente dalle latebre della subcoscienza sotto la pressione del cuore e
l'impulso della volontà, ma è un vero assenso dell'intelletto ad una verità ricevuta
dall'esterno con l'udito. Con tale assenso noi riteniamo per vero, sull'autorità di
Dio, sommamente verace, ciò che Dio stesso, Essere personale, nostro Creatore
e Signore, ci ha detto, testimoniato e rivelato », Denz. 2145.
Iliberali, con la loro storia dei dogmi, cercano di stabilire la propria tesi dimo¬
strando che i dogmi cristiani rassomigliano, spesso, alle dottrine delle religioni
pagane. Ciò, secondo loro, si può spiegare solo ammettendo che le verità cristiane
sono state prese a prestito da quelle religioni o che sono manifestazioni naturali
di identiche esigenze spirituali. A ciò si deve opporre che la parvenza di parentela
delle concezioni cristiane con quelle non cristiane può sussistere solo finché si
esamina un elemento del cristianesimo preso da solo, mentre scompare quando
lo si considera come parte di un tutto, vale a dire dell'organismo che la rivelazione
ci presenta e di cui Cristo è il centro.
L'esposizione scientifica dello sviluppo dogmatico è compito della storia dei
dogmi.
§ 9. Le verità cattoliche quali oggetto della dogmatica.
Oltre i dogmi sono oggetto dell'insegnamento della Chiesa, quindi
della fede e della dogmatica, anche le cosiddette verità cattoliche. Con
tale denominazione s'intendono quelle verità che, pur non essendo rive¬
late immediatamente da Dio, sono però garantite dalla Chiesa per la
loro stretta connessione con il dato rivelato. Il cattolico sa che il loro
valore non è immediatamente garandto dall'autorità di Dio, ma da
quella della Chiesa, stabilita e sostenuta dall'autorità divina medesima.
Perciò le accetta primariamente in ossequio alla Chiesa, secondariamente
INTRODUZIONE riv
70
rivelate
in ossequio a Dio stesso, perchè proprio per questo ossequio a Dio egli quanto
accetta la Chiesa (fides catholica). qu
Le verità cattoliche si raggruppano come segue:
a) Conclusioni teologiche. Sono così denominate le verità religiose sol
che, mediante la ragione, possiamo dedurre da due premesse rivelate, razi
oppure da una verità rivelata e da un'altra razionale. Le conclusioni stre
teologiche che poggiano su due premesse rivelate, si può dire siano, verità
quanto al contenuto, immediatamente rivelate. L'opera discorsiva del¬ perciò
l'uomo si riduce solo a mettere in luce quanto già si trova nella rivela¬ tuttavia,
zione medesima. Tali conclusioni possono, quindi, essere definite dalla giudic
Chiesa come dogmi. str
Le conclusioni che invece presentano una sola premessa rivelata, men¬ pos
tre l'altra è costituita da un'evidente verità razionale, sono, propriamente potre
parlando, conclusioni teologiche in senso stretto. A queste si applica,
con più precisione, la denominazione di verità cattoliche. Esse sono ri¬ indiss
velate solo virtualmente e non possono perciò essere dogmi nel senso infallibilme
precedentemente spiegato. La Chiesa, tuttavia, le può proclamare infal¬ rivela
libilmente come verità. L'infallibilità nel giudicare le conclusioni teolo¬condannar
giche proviene dal fatto che queste sono in stretto legame con la verità l'a
rivelata per cui, se la Chiesa non avesse la possibilità di giudicarle infal¬
libilmente, la rivelazione medesima non potrebbe nè esser tutelata nè Den
esser feconda per la vita religiosa. ge
b) Verità razionali (verità filosofiche) indissolubilmente connesse con fr
il dogma. La Chiesa può stabilire infallibilmente anche verità filoso¬
fiche che sono necessari presupposti alla rivelazione, come, ad esempio, talme
il valore della ragione umana, o può condannarne altre che sono in stri¬
dente contrasto con il rivelato, per esempio, l'agnosticismo assoluto. In¬ Ro
fatti tra verità razionale e verità rivelata non ci può essere contrarietà c
alcuna (Concilio Vaticano, Sess. 3, cap. 4; Denz. 1798. Can. 2 De fide l
et ratione, Denz. 1817. Cfr. Enc. Humani generis, Denz. 3010-3012). dalla
c) Fatti dogmatici. Dobbiamo distinguere fra quelli nel senso stretto
e quelli nel senso largo della parola. Sono fatti dogmatici in senso largo
quelli che, pur non essendo rivelati, sono talmente connessi con la rive¬
lazione che il loro diniego coinvolgerebbe la negazione di un dogma,
come ad esempio, la venuta di S. Pietro a Roma, la legittimità di un
Papa, la legittimità della convocazione di un concilio.
È, invece, fatto dogmatico in senso stretto l'esistenza di un determi¬
nato senso in un testo dogmatico giudicato dalla Chiesa, come, ad esem-
§ IO. LE FONTI DELLA TEOLOGIA DOGMATICA 71
pio, i « Tre capitoli » nella disputa origenista. La Chiesa, nel fissare il
senso di un testo dogmatico, deve essere necessariamente infallibile, al¬
trimenti i fedeli non sarebbero sufficientemente tutelati contro l'errore
(Constitutio Vineam Domini, Denz. 1350). Il significato che la Chiesa
dà a un determinato passo teologico non vuol dire che in realtà l'autore
avesse proprio intenzione di dire ciò che la Chiesa afferma. Su quello
che volesse dire l'autore la Chiesa non intende prendere posizione al¬
cuna. Essa mette solo in rilievo quel significato che un lettore non pre¬
venuto vi troverebbe con la semplice lettura del testo. La Chiesa, ad
esempio, riprovando parecchie proposizioni tratte dalle opere di Eckhart,
non ha inteso giudicare il senso o l'interpretazione che dava loro questo
mistico, bensì il significato letterale delle frasi da lui usate.
Quando diciamo che i dogmi e le verità cattoliche sono oggetto della dogmatica
non intendiamo limitare l'attività di colui che studia tale disciplina alle verità ri¬
velate esplicitamente presentate dal magistero ecclesiastico. Dato che la Chiesa
garantisce e presenta tanto la Scrittura quanto la Tradizione, è evidente che tutta
la rivelazione in esse contenuta costituisce il campo proprio della dogmatica.
§ 10. Le fonti della teologia dogmatica.
1. - Dopo aver stabilito qual è l'oggetto della teologia dogmatica ci
resta da vedere quali siano le fonti ossia i luoghi da cui essa attinge (loci
theologici).
Per far ciò dobbiamo tener presente che la manifestazione di Dio
ebbe il suo compimento in Cristo; ora noi incontriamo Cristo nella
Chiesa. Egli continua a vivere in essa, come suo capo, e vi sarà sempre
presente sino alla fine dei secoli (Mt. 26, 28). È sempre operante in essa
mediante lo Spirito Santo, che in certo qual modo usa come mano e
come bocca : come mano per isegni (sacramenti) che compie nella Chiesa,
come bocca per le parole che, per mezzo suo, egli esprime. Come Cristo,
nei giorni della vita terrena, rivelava direttamente Dio con la sua pre¬
senza e con la sua parola, così ora, egli, pur essendo tornato all'esistenza
silente del cielo, rimane sempre presente nella Chiesa e, da quando scese
lo Spirito Santo sino al suo secondo ritorno alla fine del mondo, continua
a servirsi di lei come suo strumento, 0 meglio come agente mosso dallo
Spirito Santo, per trasmettere agli uomini, che vivono in questo periodo
intermedio, le comunicazioni divine.
Poiché Cristo, unitamente allo Spirito Santo, continua a vivere sol-
Cristo, magi
Chiesa
72 INTRODUZIONE
tanto nella Chiesa, è evidente che solo in essa potremo trovare la rivela¬
zione o la parola di Dio. Certo, ogni membro in quanto esprime la fede c
comune della Chiesa è, in certo senso, teste della parola divina, ma tale
testimonianza può essere frammista con parecchi errori e deviazioni.
Ecco perchè, in modo del tutto attendibile, noi incontreremo la divina attraverso
rivelazione, compiutasi in Cristo, solo nel magistero della Chiesa, stabi¬ d
lito da Cristo stesso. Il magistero della Chiesa è, perciò, il luogo o la sig
fonte da cui il teologo può ricavare, con piena fiducia, la parola di Dio. Q
riguar
2. - La Chiesa può trasmettere solo quelle comunicazioni divine che o
Cristo le ha affidato; nella sua predicazione è quindi vincolata a testi¬ scritt
moniare ciò che Cristo stesso ha testimoniato intorno a Dio. E poiché Cri
conosciamo la testimonianza di Cristo attraverso quella che gli Apostoli,
illuminati dallo Spirito Santo, ci hanno dato di lui (Giov. 15, 27; Atti
1, 8), ne deriva che esser vincolata a Cristo significa esser vincolata alla
di lui testimonianza, trasmessaci dagli Apostoli. Questa è conservata nellapromess
S. Scrittura e nella Tradizione orale. Al riguardo il Concilio di Trento strume
afferma : « Questo sacro sinodo professa che ogni verità salutare e di¬
sciplina dei costumi è contenuta nei Libri scritti e nelle Tradizioni orali, Chies
che gli Apostoli ricevettero dalla bocca di Cristo 0 che, asserite dagli ap
testimonianza
Apostoli stessi per mozione dello Spirito Santo, giunsero a noi trasmesse
di bocca in bocca » (Sess. 4 dell'8 aprile 1546; Denz. 783. Cfr. Concilio nell'e
Vaticano, Sess. 3, cap. 2; Denz. 1787). n
Nella S. Scrittura lo Spirito Santo, promesso alla Chiesa, depose la S
testimonianza di Cristo, servendosi, come strumenti per questo, di coloro Chies
che furono testimoni oculari del messaggio di Cristo. Nella Tradizione p
orale oggettiva si esprime la fede che la Chiesa, animata dallo Spirito la
Santo, ricevette per mezzo della predicazione apostolica. Benché la Sacra Pa
Scrittura sia, in primo luogo, una testimonianza di Cristo come si aveva In
in un determinato tempo, e precisamente nell'epoca apostolica, tuttavia
viene pure ad essere, per la presentazione che ne fa la Chiesa, una testi¬
monianza continuamente attuale dello Spirito Santo. Mediante la Sacra
Scrittura lo Spirito Santo, presente nella Chiesa quale suo principio di
vita, parla di continuo al popolo di Dio. La parola della Bibbia è un
invito dello Spirito Santo rivolto a colui che la sente o la legge. Si rea¬
lizza in tal modo l'affermazione dell'apostolo Paolo, il quale sostiene che
la fede proviene dall'udito (Rom. 10, 17). Infatti, colui che crede in
Cristo, riceve la S. Scrittura, nella Chiesa, per mezzo della predicazione
ecclesiastica.
§ II. LA CHIESA QUALE FONTE DELLA DOGMATICA 73
La testimonianza di Cristo, conservata nella S. Scrittura e nella Tra¬
dizione orale, viene quindi garantita e presentata dalla Chiesa.
-
3. La teologia dogmatica trova, perciò, il suo oggetto immediata¬
mente nella Chiesa e, per mezzo della Chiesa, nella S. Scrittura e nella
Tradizione orale. Le questioni qui emergenti verranno esaminate solo
in quanto è richiesto dall'introduzione alla teologia dogmatica.
§ 11. La Chiesa quale fonte della dogmatica.
1. - Quando Cristo tornò al Padre, per riapparire visibilmente solo alla
fine del mondo, affidò alla Chiesa le comunicazioni e il mistero di tutta
l'opera salvifica, che egli per incarico del Padre celeste doveva tra¬
smettere agli uomini. Come nell'Antico Testamento il popolo eletto era
stato scelto per essere il portatore della rivelazione divina precristiana e
per servire, in tal modo, alla realizzazione del dominio divino nel mondo,
così nella nuova economia di salvezza, iniziata con il Salvatore, la Chiesa,
il nuovo popolo eletto, voluto da Cristo e formato da ogni razza, stirpe
e nazione, deve rendere sempre attuale, per tutti i secoli, il mistero del¬
l'opera salvifica, affinchè il regno di Dio possa svolgersi nella storia e,
per mezzo suo, gli uomini raggiungano la salvezza.
L'attuazione perenne dell'opera salvifica si realizza nei sacramenti, che
Cristo ha stabilito, ma include anche la perpetua predicazione delle co¬
municazioni divine fatte per il tramite di Cristo medesimo. In tal modo
l'uomo riceve la rivelazione divina dalla predicazione della Chiesa. Da
essa anche il teologo credente attinge ciò che dapprima accoglie sem¬
plicemente con la fede e che poi va, man mano, chiarendo e presentando
con il suo lavoro scientifico.
2. - La Chiesa, nel suo magistero vivente, è fonte immediata e pros¬
sima della fede nonché della scienza riguardante la fede.
Cristo ha affidato il mistero della salvezza a tutta la comunità del po¬
polo di Dio. Ogni membro ad essa appartenente è, perciò, autorizzato e
obbligato a testimoniare quanto Dio ci ha comunicato. La Chiesa e cia¬
scun individuo sono, perciò, sospinti dallo Spirito Santo, cuore ed anima
di tutta la comunità cristiana, a svolgere il compito del testimone di
Cristo. Ma poiché il singolo non perde nè la sua libertà, nè la sua ini¬
ziativa, può darsi che, testimoniando Cristo, abbia a frammischiarvi lo
spirito pernicioso dell'amor proprio e del suo capriccio. Dovendo però
sono scritti nei Sacri Libri canonici e conserva
all
74 INTRODUZIONE
abbia
T
la testimonianza cristiana trasmettere, attraverso i secoli, incorrotta e pura,
3,
la rivelazione divina, Cristo ha trovato il modo di garantire tale integrità
istituendo, nella Chiesa, un magistero vivo infallibile.
ha
3. -
Imisteri divini rivelati da Cristo alla Chiesa sua sposa diletta,
respon
sono scritti nei Sacri Libri canonici e conservati dalla Tradizione orale.
Bibbia e Tradizione appartengono, dunque, alla Chiesa. La Bibbia è il
sp
libro della Chiesa, la quale è la sola che abbia facoltà di intenderlo ret¬
comp
tamente. Di conseguenza la S. Scrittura e la Tradizione sono la regola
mediant
remota della fede (Concilio Vaticano, Sess. 3, cap. 3; Denz. 1798).
popolo
4. -
La Chiesa sa perfettamente che la S. Scrittura è il suo libro, d
poiché racchiude i misteri divini che Cristo ha affidato a lei affinchè li
divulgasse continuamente. Si sente perciò responsabile della presentazioneresponsa
integra e genuina di quei misteri divini che stanno racchiusi nei testi veng
biblici. È sicura che Dio le ha concesso una speciale capacità e autorità C
per poter rettamente svolgere questo suo compito. L'importanza di tale giu
potere e dovere emerge dal fatto che, mediante la predicazione dei mi¬
steri divini che Dio ha affidato al suo popolo e di cui la Bibbia e la cristian
Tradizione orale garantiscono l'autenticità, si deve attuare l'intimo senso sig
della storia umana, l'avvento del regno di Dio e la salvezza delle anime. appar
Nella consapevolezza di questa grave responsabilità, la Chiesa vigila af¬ Sante
finchè il significato della S. Scrittura non venga travisato da chi non ne cons
ha l'incarico o da membri che sbagliano. Il Concilio di Trento così ha Provi
antistitum
stabilito : « Niuno, confidando nel proprio giudizio, ardisca interpretare
la S. Scrittura nelle cose riguardanti la fede e la morale, che sono realtà
indispensabili all'edificio della dottrina cristiana, torcendo la S. Scrit¬ espress
tura a significati suoi propri, contro quel significato che mantenne e semp
mantiene la santa madre Chiesa, a cui appartiene il giudicare intornoaffermav
suf
al vero senso e all'interpretazione delle Sante Scritture, oppure inten¬
la
dendola in modo contrastante all'unanime consenso dei Padri » (Sess. 3, sen
cap. 4; Denz. 1788. Cfr. anche l'Enc. Providentissimus Deus, Denz.
1942 ss.; il Motuproprio Sacrorum antistitum, Denz. 2146; l'Enc. di
Pio XII Divino afflante Spiritu).
5. - La Chiesa, con queste dichiarazioni, ha espresso, in modo chiaro e decisivo,
contro gli errori dei protestanti quella che è sempre stata la sua convinzione.
S. Vincenzo di Levino (Commonitorium, 2) affermava : « Perchè alla norma tratta
dalla S. Scrittura, che in sè è di già completa e sufficiente per tutto, s'aggiunge
l'autorità del giudizio ecclesiastico? Perchè, essendo la S. Scrittura assai profonda,
non potrebbe essere intesa da tutti nel medesimo senso, sicché le sue affermazioni
§ II. LA CHIESA QUALE FONTE DELLA DOGMATICA 75
sarebbero interpretate dai singoli diversamente. Si può anzi pensare che, per questo
motivo, se ne potrebbero trarre tanti significati quanti sono gli uomini. Diversa
è l'interpretazione di Novaziano, diversa quella di Sabellio, altra quella di Do¬
nato, di Ario, di Eunomio e Macedonio, di Fotino e Apollinare, di Prisciiliano e
Gioviniano, di Pelagio, di Celestio e di Nestorio. Perciò, a cagione di così mol¬
teplici e svariati errori, è sommamente necessario che, nella spiegazione dei Pro¬
feti e degli Apostoli, si abbia a seguire la direttiva della Chiesa e il senso catto¬
lico ». Similmente si esprimeva già Ireneo (| 204) contro gli gnostici (Adversus
haereses, 4, 26).
6. - Si presenta qui l'obiezione che la Chiesa, per poter pretendere la facoltà
di testimoniare il carattere ispirato delle S. Scritture e di interpretarne il senso
autentico, va a ricercare, proprio nella Scrittura stessa, la ragione e la base di
questo suo potere. Ne nasce un circolo vizioso: la Chiesa poggia sulla Bibbia e la
Bibbia a sua volta poggia sulla Chiesa.
Dal punto di vista apologetico, si risponde che con la Scrittura, presa quale do¬
cumento puramente storico, si dimostra come la Chiesa sia opera di Dio. Poi,
partendo dalla Chiesa, quale opera di Dio, possiamo assicurarci del carattere di¬
vino della S. Scrittura e intenderne il vero significato. Ma in questo caso sorge
il grave problema del come si possa, da un terreno di conoscenza soltanto natu¬
rale, pervenire alla fede soprannaturale. Ciò verrà studiato nel § 25.
Dal punto di vista della fede, il rapporto vicendevole della Chiesa con la Sacra
Scrittura si può chiarire nel modo seguente: nella Chiesa, testimoniata e dalla
Scrittura e dalla sua stessa esistenza storica, vive la parola di Dio. Nell'insegna¬
mento della Chiesa, inteso sia in senso soggettivo (attività docente) sia in senso
oggettivo (verità insegnate) è all'opera lo Spirito Santo, il quale è pure l'Autore
principale della S. Scrittura. Bibbia e Chiesa sono, quindi, opera dello Spirito
Santo e poggiano l'una e l'altra sulla sua attività. Esse si sostengono e sorreggono
a vicenda, in quanto in tutte e due sta racchiusa la parola di Dio, e pertanto lo
stesso Spirito Santo parla per mezzo loro. La S. Scrittura è la testimonianza degli
Apostoli voluta dallo Spirito Santo; in essa, mediante la testimonianza degli Apo¬
stoli, egli rende testimonianza a Cristo (Giov. 15, 26-27). La Chiesa, guidata dallo
Spirito Santo, suo principio vitale, riconosce nella S. Scrittura, ad essa affidata,
la testimonianza che lo Spirito Santo rende alla Parola di Dio venuta tra noi, che
è Gesù Cristo Signore. Il che essa fa in quanto l'ascolta, l'ubbidisce e proclama.
La S. Scrittura, a sua volta, testimonia la Chiesa come corpo di Cristo. Si po¬
trebbe forse determinare il rapporto che passa fra la Chiesa e la S. Scrittura,
come quello che un fatto ha con la sua documentazione.
7. - Da queste riflessioni risulta pure che la Chiesa, nell'arrogarsi il
diritto di decidere il vero significato della Scrittura, non diviene affatto
superiore alla Bibbia stessa. Non pretende alcun potere che trascenda la
parola di Dio, contenuta nella Bibbia. Non è la Chiesa a conferirle l'au¬
torità che le compete. Infatti la S. Scrittura, come parola di Dio, pos¬
siede per conto suo, una propria sussistenza e un'indipendenza che nep¬
pure la Chiesa può minimamente toccare : « La S. Scrittura, per la sua
di Dio (J. Scheeben, Handbuch der D
pu
76 INTRODUZIONE
an
origine, la sua natura e il suo scopo, è un bene, un dominio che appar¬ vero
tiene a Dio; essa, benché affidata alla Chiesa, rimane pur sempre pro¬ intesa
prietà di Dio, che per mezzo suo vuol far valere nel mondo la sua ve¬
rità, la sua legge di fede e di vita; e tutte le funzioni e i pieni poteri
che la Chiesa ha su questo tesoro, servono solo ad amministrarlo a Spi
nome di Dio » (J. Scheeben, Handbuch der Dogmatik, I, n. 261). pro
l'illuminazion
La Chiesa, perciò, vuol solo conservare la purezza del Vangelo (Denz.
783). Non violenta la Bibbia a piacimento, anzi ne garantisce l'autorità, B
ne trasmette il contenuto e ne spiega il vero senso senza permettere l'
che se ne infiltri uno estraneo. Così va intesa l'espressione di S. Ago¬ ascolta
stino : « Io non crederei al Vangelo, se a ciò non mi movesse l'autoritàSpirito
della Chiesa » (Contra Epistulam fundamenti, 5). tendenze
La Chiesa amministra, con l'aiuto dello Spirito Santo, il divin tesoro
della Scrittura ad essa affidato. Mentre il protestantesimo afferma che
ogni singolo fedele ha in se stesso l'illuminazione e la testimonianza dello s
Spirito Santo per rettamente interpretare la Bibbia, la Chiesa cattolica Vatican
tr
respinge tale opinione. Il credente raggiunge l'infallibile certezza nell'in¬
terpretazione della Scrittura, solo quando ascolta il magistero della Chiesa. i
In lui è però pur sempre all'opera lo Spirito Santo che lo sospinge a
rettamente ascoltare e a combattere le tendenze vanagloriose di una spie¬ anc
gazione personale. ecclesiastico
m
8. - Depositari del magistero ecclesiastico sono il Papa e il Collegiorivelazione.
dei Vescovi uniti al Pontefice (Concilio Vaticano, Sess. 4, cap. 1-4; Denz. lo
1821-1840). Torneremo su questo punto nel trattato sulla Chiesa.
La Chiesa nella sua attività magisteriale è infallibile. L'infallibilità si
basa sull'assistenza dello Spirito Santo che la preserva dall'errore (assi-quando
stentia negativa). Talora si può ammettere anche una positiva azione di obblig
Dio sui depositari del magistero ecclesiastico, perchè, dietro la spinta t
dello Spirito Santo, meglio comprendano e meglio espongano la vastità con
del vero racchiuso nelle fonti della rivelazione. L'assistenza negativa non m
rende superfluo, anzi presuppone il lavorìo e lo sforzo dell'uomo per af¬
ferrare in modo più profondo e più completo il contenuto rivelato.
L'infallibilità, secondo il volere di Cristo, appartiene come inaliena¬
bile carisma di ministero, sia al Papa quando egli, quale supremo mae¬
stro della Chiesa, emette una decisione, obbligatoria per l'intera comu¬
nità cattolica, sulla fede 0 sulla morale, sia a tutto il corpo dei Vescovi
nel loro insieme purché siano in unione con il Papa. Non ha impor¬
tanza se il Collegio dei Vescovi eserciti il suo magistero in modo solenne
§ XI. LA CHIESA QUALE FONTE DELLA DOGMATICA 77
(concilio) o in modo ordinario e universale (predicazione, lettere pastorali,
approvazione di catechismi, vigilanza sull'insegnamento religioso, ecc.).
La ragione intima e profonda dell'infallibilità di cui godono il Papa
e l'episcopato unito a lui, sta nel fatto che la Chiesa è il corpo mistico
di Cristo. Gesù ne è il Capo e lo Spirito Santo, da lui inviato, ne è il
cuore e l'anima. La Chiesa, quindi, nella sua totalità, non può errare
nelle verità di fede come non lo poteva Cristo. Ora il Collegio dei Ve¬
scovi, in unione con il Papa, rappresenta tutta la Chiesa, vale a dire la
totalità delle diocesi, essendo ogni singolo vescovo il centro unitario,
l'autorità di una diocesi particolare. Quindi anche se presi uno per uno
i vescovi non sono infallibili, l'episcopato completo, unito al Papa, è in¬
fallibile.
L'intera Chiesa poi raggiunge la sua espressione e garanzia di unità
nel Papa. Egli è, in certo modo, Cristo che si rende visibile alla totalità
della Chiesa. Di conseguenza nel papato si deve concentrare l'infallibi¬
lità del magistero come in un sol punto: pertanto è qui che l'infallibilità
della Chiesa sta ancorata e si esprime.
Le decisioni dottrinali delle Congregazioni romane non sono infalli¬
bili e irrevocabili, anche se emesse nel nome del Papa e anche se il Papa
le ha approvate in modo solito o speciale; esse non esigono un assenso
di fede, ma impongono solo il dovere di una rispettosa adesione interna.
Quest'ultima potrà essere sospesa soltanto quando una persona sia con¬
vinta, con ragioni sicure e apodittiche, del carattere erroneo della deci¬
sione presa dalla Congregazione (cfr. il caso di Galileo). Però, anche in
questo caso, egli è obbligato al silenzio esterno. Può solo presentare, in
modo conveniente, le sue ragioni all'autorità ecclesiastica.
Anche il porre un libro all'Indice non è un atto del magistero infal¬
libile, ma dell'ufficio pastorale, che condanna un libro per la sua ogget¬
tiva pericolosità nei riguardi della fede.
9. - L'oggetto primario dell'infallibilità è costituito dalle verità for¬
malmente contenute nelle fonti della rivelazione (Denz. 1792). L'infal¬
libilità e la conseguente irrevocabilità delle decisioni dogmatiche della
Chiesa, non vietano, tuttavia, che essa, nel corso dei secoli, possa sta¬
bilire per il medesimo oggetto dottrinale, una formula migliore e più
completa.
L'oggetto secondario è costituito dalle verità cattoliche, intimamente
connesse con le verità rivelate (cfr. § 9), dalle prescrizioni disciplinari
comuni per tutta la Chiesa, dall'approvazione degli Ordini religiosi.
infallibile anche nella canonizzazione dei sant
i
78 INTRODUZIONE
L'infallibilità, che si verifica in entrambi questi due ultimi campi, ri¬
guarda il giudizio dottrinale (judicium doctrinale) sulla conformità tra
una regola di un ordine o una prescrizione disciplinare con la fede e la
morale. Non concerne invece il giudizio pratico sulla loro opportunità Dio,
(iudicium prudentialé). È pure dottrina comune dei teologi che la Chiesa
sia infallibile anche nella canonizzazione dei santi, ossia nel giudizio de¬
finitivo con cui afferma che un uomo si trova in cielo e deve, perciò, af
essere venerato da tutta la Chiesa come santo. Questi punti verranno
precisati maggiormente nel trattato sulla Chiesa.
st
ricon
§ 12. La S. Scrittura, quale parola scrìtta di Dio, garantita dalla Chiesa. morale
ascoltare
1. - La teologia raggiunge la S. Scrittura come parola di Dio mediante
la Chiesa e nella Chiesa. Duns Scoto (t 1308) afferma: «La nostra teo¬
logia non tratta, in realtà, altro se non quello che è contenuto nella oss
Scrittura e quello che può essere tratto dalla S. Scrittura » (Oxoniense,
Libri
prol., q. 2). Pio XII, nella sua Enciclica sugli studi biblici attesta : « In t
questo tesoro, donatole dal cielo, la Chiesa riconosce la fonte preziosis¬
com
sima e la norma divina del dogma e della morale ». Così il teologo, che
riceve la rivelazione dalla Chiesa, deve ascoltare, prima di tutto, la pa¬ Volgata
rola della S. Scrittura che Dio gli rivolge.
vers
2. - Appartengono alla S. Scrittura tutti quei libri che furono dichia¬ pre
rati come canonici dal Concilio di Trento, ossia che vennero ufficial¬ d
traduzione
mente riconosciuti e ammessi nella lista dei Libri Sacri; in altre parole, i
libri dell'Antico e del Nuovo Testamento con tutte le loro parti, come
v'è usanza di leggerli nella Chiesa cattolica e come si trovano nell'antica impedis
Volgata latina (Sess. 4; Denz. 783 s.). trova
Il concilio aggiunse pure che l'antica Volgata, per esser stata in uso Co
nella Chiesa per molti secoli, va ritenuta la versione autentica da usarsi
in tutte le lezioni pubbliche, le dispute, le prediche e le esposizioni,
senza che nessuno la possa respingere. Questo decreto disciplinare vuol
solo affermare che la Volgata è una traduzione sostanzialmente fedele
e che mai si scosta dal testo originale in modo da insegnare un errore,
sia nella fede, sia nei costumi. Il che non impedisce tuttavia, che un sin¬
golo passo, anche riguardante la fede, possa trovarsi nell'originale mentre
manca nella Volgata e viceversa. Cfr. pure il Concilio Vaticano, Sess. 3,
cap. 2; Denz. 1787.
§ 12. LA S. SCRITTURA, QUALE PAROLA SCRITTA DI DIO 79
Circa il senso del decreto del Concilio di Trento si deve riflettere a quanto
segue: «Come motivo fondamentale del decreto, lo stesso Concilio di Trento
adduce il grande vantaggio che la Chiesa ruò ricavare sapendo quale, fra le an¬
tiche versioni latine, allora in uso, debba ritenersi come autentica. Si tratta quindi
di un apprezzamento della Volgata di fronte alle altre versioni latine, esistenti
allora, non del suo rapporto con il testo originale, sia greco che ebraico. Dalle
discussioni che prepararono il canone, emerge che il vocabolo « autentica » vuol
solo indicare che tale versione vale per fornire le prove dei dogmi della Chiesa.
Il decreto riconosce che tra tutte le versioni latine già diffuse ed anche tra quelle
recenti preparate da autori non cattolici, solo la Volgata, per essere da secoli usata,
sia nelle discussioni scientifiche, sia nell'uso liturgico, ha valore dimostrativo per
i dogmi e la morale. Di conseguenza non è proibito dal decreto l'uso, da parte
dei teologi, del testo ebraico o greco, nè questi testi son dichiarati di minor va¬
lore, come sostenitori troppo zelanti e avversari irriducibili del decreto hanno pre¬
teso. Infatti esso non afferma che ogni prova dedotta dalla Volgata sia da ritenersi
una dimostrazione biblica in senso stretto, ma che essa è una dimostrazione biblica
tratta dalle fonti della rivelazione. Il decreto era necessario perchè, essendo il la¬
tino la lingua dell'insegnamento scientifico, dei discorsi ufficiali, le citazioni della
Bibbia, sia nelle lezioni teologiche, sia nelle dispute e nelle prediche dovevano es¬
sere fatte in latino » (F. Stummer, Vulgata in Lexikon fiir Theologie und Kirche;
cfr. lo stesso, Einfiihrung in die lateinische Bibel, 1928).
Tale interpretazione del decreto riguardante la Volgata è confermata dall'En¬
ciclica Divino afflante Spiritu, di Pio XII, la quale afferma che « quell'autenticità
va detta non critica, in prima linea, ma piuttosto giuridica ». Nella stessa Enci¬
clica il Pontefice insiste sull'importanza dello studio dei testi originali : « Al cat¬
tolico interprete, che si accinge all'opera di intendere e spiegare le Divine Scrit¬
ture, già i Padri della Chiesa, e in prima linea S. Agostino, grandemente racco¬
mandavano lo studio delle lingue antiche e il ricorso agli originali (cfr. per es.,
S. Girolamo, Praef. in IV Evang. ad Damasum; PL. 29, 526-527; Agostino, De
Doctr. christ., 2, 16; PL. 34, 42-43). Tuttavia tali erano a quei tempi le condi¬
zioni degli studi, che non molti, e quei medesimi soltanto in grado imperfetto,
possedevano la lingua ebraica. Al medio evo poi, mentre era in sommo fiore la
teologia scolastica, anche la conoscenza del greco era da gran tempo scemata in
Occidente, sicché anche i più grandi Dottori di quel tempo, nello spiegare i Sacri
Libri, non si potevano basare che sulla versione latina della Volgata. Ai giorni
nostri, al contrario, non soltanto la lingua greca, che col Rinascimento risorse,
per così dire, a novella vita, è pressoché familiare a tutti iletterati e studiosi del¬
l'antichità, ma anche dell'ebraico e di altre lingue orientali è diffusa la conoscenza
fra le persone colte. Si ha poi, adesso, tanta abbondanza di mezzi per imparare
quelle lingue, che un interprete della Bibbia, il quale col trascurarle si precluda
da sé la via di giungere ai testi originali, non può sfuggire alla taccia di legge¬
rezza e di ignavia. È certamente dovere dell'esegeta raccogliere con somma cura
e con venerazione quasi afferrare ogni apice anche minimo, che provenga dalla
penna dell'agiografo sotto l'azione del Divino Spirito, affine di penetrarne a fondo
e appieno il pensiero. Perciò seriamente procuri di acquistarsi una perizia ogni
dì maggiore nelle lingue bibliche, e anche nelle altre lingue orientali, e rincalzi
la sua interpretazione con tutti quei sostegni, che fornisce ogni specie di filologia.
D
8o INTRODUZIONE
per
Tutto ciò si studiò già di conseguire S. Girolamo con le cognizioni della sua età, Chiesa
e ad altrettanto mirarono con indefessa applicazione e frutto più che ordinario
non pochi dei grandi esegeti dei secoli xvi e xvii, sebbene allora fosse assai mi¬
nore che adesso la scienza delle lingue. Per ugual via dunque, occorre spiegare autore
quel testo originale, che, per essere immediato prodotto del sacro autore, ha mag¬
giore autorità e maggior peso di qualunque traduzione, antica o moderna che sia, Denz
per quanto ottima » (A. A. S., 1943, 335-336). Cfr. Denz. 2292. Iacob
3. - È dogma di fede che i libri contenuti nel canone sono da rite¬ Lame
nersi canonici e sacri non perchè, elaborati per sola azione umana, siano Scrittura.
stati poscia approvati dall'autorità della Chiesa, nè soltanto perchè con¬ a
tengono la rivelazione senza alcun errore, ma perchè, scritti per ispira¬
zione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore. Concilio Vaticano, Sess. da
3, cap. 2; Denz. 1787. Can. 4 de revelatione, Denz. 1809. Cfr. pure la quale
professione di fede prescritta ai Valdesi, Denz. 421; quella di Michele insegn
Paleologo, Denz. 464; il Decretum pro lacobitis, Denz. 706; Concilio att
di Trento, Sess. 4; Denz. 783; Decreto Lamentabili, Denz. 2009. Do¬ parl
vunque Dio vien detto autore della S. Scrittura. Pur appartenendo a tutta p
la SS. Trinità, il fatto di essere autore si suole attribuire allo Spirito Santo
(viene appropriato ad esso). pa
4. - La realtà dell'ispirazione è garantita da queste decisioni del ma¬ espost
gistero, ossia dalla tradizione vivente, la quale rappresenta l'unione tra s
l'attività magisteriale e l'oggetto del suo insegnamento e quindi lo spirito quanto
di fede che penetra l'intera Chiesa. Infatti attraverso la parola del ma¬intento
gistero ecclesiastico è lo Spirito Santo che parla. Egli attesta perciò, me¬ d
diante la voce della Chiesa, che la Scrittura è parola di Dio e che quindi Apo
Dio ne è l'autore. In altre parole, mediante il magistero della Chiesa, locaratter
Spirito Santo attesta che la Scrittura è sua parola. (Si veda per questo testimonia
punto il rapporto tra Scrittura e Chiesa esposto al § 11).
a) La Bibbia contiene ripetuti accenni al suo carattere divino, iquali al
però acquistano forza probativa solo in quanto la Chiesa garantisce l'au¬ uom
torità della Bibbia medesima. Se, con intento apologetico, si prescinde egli
dalla Chiesa, la Scrittura può utilizzarsi come documento puramente sto¬
rico, per dimostrare che Cristo e i suoi Apostoli sono inviati da Dio,
che essi, in quanto tali, garantiscono il carattere ispirato dei Libri Sacri.
In tal caso è ancora Dio stesso che testimonia in favore della loro ispi¬
razione.
Per l'Antico Testamento, l'ispirazione di alcuni libri 0 parti di libro
si può arguire dal fatto che determinati uomini ricevettero da Dio il
compito di mettere per iscritto quello che egli comunicava loro (Es. 17,
§ 12. LA S. SCRITTURA, QUALE PAROLA SCRITTA DI DIO 8l
14; Deut. 31, 19; Is. 8, 1; Ger. 30, 2; 36, 3; Dan. 12, 4). L'ispirazione
dell'Antico Testamento risulta poi da parecchi passi neotestamentari:
Cristo e gli Apostoli proclamano l'autorità degli scritti veterotestamen¬
tari, affermando che per mezzo loro Dio parla, lo Spirito Santo ci ri¬
volge la sua parola (Mt. 22, 43; Atti 1, 16; 4, 25; Rom. x, 2; 3, 2).
Anche se i passi addotti si riferiscono solo ad alcuni testi dell'Antico
Testamento, essi servono, tuttavia, per dimostrare l'ispirazione di tutti i
libri ritenuti canonici, al tempo di Cristo e degli Apostoli, in quanto a
tutti questi si attribuiva la medesima autorità dei passi citati espressamente
come ispirati (Mt. 5, 18; Le. 24, 44 s.; Giov. 10, 34; Gal. 3, 16). San
Paolo scrive dell'Antico Testamento che: «Ogni Scrittura, ispirata da
Dio, è anche utile per l'istruzione, per la convinzione, per la correzione
e per l'educazione nella giustizia » (2 Tim. 3, 16). Pietro (2 Piet. 1, 20 s.)
afferma : « Sappiate questo innanzitutto, che nessuna profezia della Scrit¬
tura è frutto di interpretazione privata. Infatti, una profezia non fu mai
proferita per volontà d'uomo, ma perchè degli uomini (santi), portati
dallo Spirito Santo, parlarono da parte di Dio ».
L'ispirazione del Nuovo Testamento si può arguire, sia dal fatto che
gli Apostoli ricevettero il dono dello Spirito Santo (Mt. 10, 19; Giov.
14, 26-28), sia dal passo in cui Pietro colloca le lettere di S. Paolo alla
pari delle « altre Scritture », certamente da lui ritenute ispirate (2 Piet.
3, 16). La Scrittura, avendo Dio per autore, è parola di Dio; e lo è
non solo in quelle espressioni che la Scrittura stessa asserisce esser dette
da Dio, ma tutta quanta. Tutto ciò che essa contiene può essere indi¬
cato con la frase : « Dio ha detto » (cfr. per qualche passo dei Salmi
Ebr. 1, 5-12; 1 Cor. 9, 9). S. Paolo attribuisce a Dio tutta la Scrittura
(Gal. 3, 8).
b) L'argomento fondamentale sta però, come abbiamo già accen¬
nato, nella testimonianza della Tradizione ecclesiastica, la quale per¬
mette di stabilire il carattere ispirato di tutto quanto l'Antico e il Nuovo
Testamento, non semplicemente di qualche singola parte. Secondo San
Clemente Romano (1 Cor. 54, 2) le Scritture sono vere perchè ci sono
state donate dallo Spirito Santo (1 Cor. 54, 2). Secondo Atenagora gli
autori sacri hanno espresso, per impulso dello Spirito Santo, ciò che
egli ha loro comunicato, divenendone così gli strumenti (Legatio, 9).
Per Teofilo di Antiochia gli scrittori sacri sono ripieni di Spirito Santo
(Ad Autolycum, 2, io). Secondo Ireneo le Scritture sono perfette perchè
dette dal Verbo di Dio e dal suo Spirito (Adversus haereses, 2, 28, 2).
Per S. Agostino gli Evangelisti, come mano, scrissero quanto Dio, come
6 - schinaus - dogmatica l.
della
82 INTRODUZIONE
capo, dettava (De consensu evangel, i, 35), così che la Scrittura è il
manoscritto di Dio (Enarrationes in Psalm. 144, 17).
-
5. Non si può dimostrare l'ispirazione dei Libri Sacri basandosi sulla u
loro efficacia religiosa sul lettore o sull'elevatezza della loro dottrina. Tu
Tuttavia la illuminazione della mente, la purificazione del cuore e la fer¬ T
mezza del volere che sgorgano dalla lettura della Bibbia, sono tutti indizi anche
a favore della loro origine sovrumana. 189
u
indu
§ 13. Natura dell'ispirazione.
foss
1. - Circa la natura dell'ispirazione manca un insegnamento formale veri
decisivo da parte del magistero ecclesiastico. Tuttavia possiamo farcene ca
un concetto sia dalle decisioni del Concilio di Trento e di quello Vati¬ (Tom
cano, sia dalle dichiarazioni obbligatorie, anche se non infallibili, delle l'in
due Encicliche Providentissimus Deus (a. 1893) e Spiritus Paraclitus p
(a. 1922). L'ispirazione può, quindi, definirsi una immediata mozione fo
di Dio, soprannaturale e carismatica, che indusse gli agiografi a scri¬
vere quello, e solo quello, che Dio voleva fosse scritto, e li guidò ad qu
esprimerlo in modo adatto con infallibile verità. L
2. - Possiamo quindi designare Dio come causa principale del libro
ispirato e l'agiografo come causa strumentale (Tommaso d'Aquino, Quod-scrittore
lib. 7, a. 14). Quest'ultimo mantiene, sotto l'influsso divino, la sua li¬ del
bertà, le sue caratteristiche e la sua coscienza personale. Perciò noi rin¬ p
veniamo nella Bibbia una grande varietà di forme letterarie, originate ebb
dai diversi modi di espressione e di linguaggio propri degli uomini che intrap
servirono a Dio quali strumenti liberi. Ma queste particolarità umane Ma
hanno solo un valore subordinato e secondario. L'elemento decisivo con¬
siste nel fatto che qui è lo Spirito Santo che parla, qualunque sia lo non
strumento umano. È verosimile che lo scrittore sacro fosse consapevole tempo
dell'ispirazione. S'addice meglio alla dignità dell'uomo che questi abbia
coscienza di servire da strumento a Dio, che parla all'umanità. Talora,
però, la Bibbia indica che gli agiografi non ebbero coscienza di questa
cosa. Essi assicurano, all'occasione, d'aver intrapreso, per il loro lavoro,
ricerche come qualsiasi scrittore profano: 2 Mac. 2, 12-32; 15, 38-40;
Le. 1, 1-3.
3. - La conoscenza della verità da scrivere non cade formalmente sotto
l'influsso dell'ispirazione. Logicamente e temporalmente può precedere
§ 14- ESTENSIONE DELL'ISPIRAZIONE 83
l'ispirazione stessa. Può sorgere in modo naturale (percezione sensibile,
riflessione propria, testimonianza altrui) 0 in modo soprannaturale, me¬
diante comunicazione divina (rivelazione). Ispirazione e rivelazione non
costituiscono, quindi, la stessa realtà.
Pertanto quando la Chiesa attesta che la Bibbia è un libro ispirato dallo Spirito
Santo, non vuol affermare che contenga solo rivelazioni divine. Essa contiene pure
delle cose che non provengono da un immediato influsso divino, la cui verità, però,
è garantita dallo Spirito Santo, che le ha ispirate. Non è affatto incompatibile con
il carattere ispirato dei Salmi, pensare che Dio non abbia suggerito immediata¬
mente molte preghiere, ma che, al contrario, siano espressioni di fede e d'amore
del loro autore. E non è nemmeno del tutto escluso dal carattere ispirato di altri
libri dell'Antico Testamento, che qualche insegnamento, anche importante, come
quello della risurrezione dei morti, sia derivato da religioni non bibliche. Lo
Spirito Santo, che ne è l'ispiratore, garantisce la verità di tali dottrine, vale a dire
la loro esenzione da tutti quegli errori cui erano legate nelle presentazioni non
bibliche, ma non la loro immediata provenienza da Dio. Se poi esse siano real¬
mente da ricollegarsi o meno a concezioni religiose non bibliche sarà da giudi¬
carsi non con il fatto dell'ispirazione biblica, bensì con appropriata indagine
scientifica.
4. - È erroneo asserire che l'ispirazione sia da equiparare ad una forte
esperienza interiore che tenda a estrinsecarsi nella parola e nello scritto
(Enc. Pascenti, Denz. 2090; Decreto Lamentabili, Denz. 2010 s.).
§ 14. Estensione dell'ispirazione.
1. -Il Concilio Vaticano dichiara che l'ispirazione si estende a tutti
i libri dell'Antico e del Nuovo Testamento, quali vennero fissati dal
Concilio di Trento, e a tutte le loro parti (Sess. 4, cap. 2; Denz. 1787.
Can. 4 de revelatione, Denz. 1809). Essa non si limita agli insegnamenti
dogmatici e morali, ma riguarda l'intero contenuto della Scrittura. Que¬
sta tesi, benché non esprima una decisione infallibile del magistero ec¬
clesiastico, è però dottrina certa, garantita dalle Encicliche Providentis-
simus Deus e Spiritus Paraclitus.
Nell'ultima, Benedetto XV così si esprime: «L'opinione di alcuni moderni non
si preoccupa affatto di queste prescrizioni e di questi limiti (quelli indicati da
Leone XIII nell'Enc. Providentissimus Deus). Distinguendo nella S. Scrittura un
duplice elemento: uno principale o religioso, e uno secondario o profano, essi
accettano, sì, il fatto che l'ispirazione si riveli in tutte le proposizioni ed in tutte
le parole della Bibbia, ma ne restringono e ne limitano gli effetti, per quanto
presenta, nelle questioni fisiche, storiche e in altre
con
84 INTRODUZIONE
so
riguarda l'immunità dall'errore e l'assoluta veracità, al solo elemento principale for
o religioso. Secondo loro, Dio si preoccupa e insegna personalmente, nella Scrit¬ parlato
tura, solo ciò che riguarda la religione: il resto che ha rapporto con le scienze
profane, ha, per la dottrina rivelata, l'unica utilità di servire da involucro este¬ menzogn
riore alla verità divina. Dio permette solo che esso vi sia e l'abbandona alle de¬ L'app
boli facoltà dell'uomo, dello scrittore. Perciò non vi è nulla di strano se la Bibbia segue
presenta, nelle questioni fìsiche, storiche e in altre di simile argomento, passi
piuttosto frequenti che non è possibile conciliare con gli attuali progressi delle d'error
scienze. sen
Altri sostengono che queste opinioni erronee non sono affatto in contrasto con in
le prescrizioni del Nostro Predecessore: non ha forse Egli dichiarato che, indistinzion
materia di fenomeni naturali, l'autore sacro ha parlato secondo le apparenze este¬ di
riori, suscettibili quindi d'inganno?
Quanto quest'affermazione sia temeraria e menzognera, lo provano manifesta¬
mente i termini stessi del documento pontificio. L'apparenza esteriore delle cose
— ha dichiarato molto saggiamente Leone XIII, seguendo S. Agostino e S. Tom- de
maso d'Aquino — deve essere tenuta in una certa considerazione; ma questo
principio non può suscitare il minimo sospetto d'errore nella S. Scrittura, poiché gr
la sana filosofìa asserisce, come cosa sicura, che i sensi, nella percezione imme¬ am
diata delle cose, oggetto vero di conoscenza, non si ingannano affatto. Inoltre il
Nostro Predecessore, dopo aver negato ogni distinzione e ogni possibilità d'equi¬
voco tra l'elemento principale e quello secondario, dimostra chiaramente il gra¬
vissimo errore di coloro, i quali ritengono che " per giudicare della verità delle
proposizioni bisogna, senza dubbio, ricercare ciò che Dio ha detto, ma più an¬
cora valutare il motivo che lo ha indotto a parlare ". Leone XIII precisa ancora
che l'ispirazione divina è presente in tutte le parti della Bibbia, senza selezione det
né distinzione alcuna, e che è impossibile che anche il minimo errore si sia in¬ ch
trodotto nel testo ispirato. Sarebbe un errore molto grave restringere l'ispirazione
verosimiglian
divina solo a determinate parti della S. Scrittura, o ammettere che l'autore sacro
stesso abbia potuto ingannarsi » (Denz. 2186 s.). letterari
d
-
2. Con tutta probabilità l'ispirazione non si limita al contenuto, ma S
s'estende pure alla redazione verbale.
re
Naturalmente va eliminata l'opinione rabbinica o degli antichi protestanti i e
quali supponevano che Dio avesse formalmente dettato il testo biblico, ridu¬ caratteristiche
cendo così lo scrittore a un semplice amanuense che meccanicamente scriveva
quanto sentiva. Si deve, però, con tutta verosimiglianza supporre un'ispirazione
verbale nel senso che Dio, pur lasciando all'agiografo piena libertà e personalità,
lo indusse a scrivere in una determinata forma letteraria e in un particolare modo
di esprimersi, ponendo così il suo particolare modo di pensare, di giudicare e di
scrivere al servizio del piano salvifico. In tal modo la Scrittura appare tutta opera
di Dio e tutta opera dell'uomo, in quanto l'uomo è strumento in mano a Dio.
Non è l'uomo che parla, ma Dio. Lo Spirito Santo rende testimonianza a Cristo
per mezzo di uomini come Matteo, Marco, Luca, ecc.; egli parla con parole
umane e lega la sua testimonianza alle caratteristiche di un determinato scrit¬
tore, quasi annichilandosi nel mondo limitato di lui.
§ 15- INERRANZA BIBLICA 85
Anche se l'ispirazione verbale, così intesa, non può essere dimostrata dalla
rivelazione, tuttavia si accorda, meglio della semplice ispirazione reale, con
quanto dicono i Padri. A suo favore militano pure considerazioni psicologiche.
Sembra infatti che Dio non possa indurre a scrivere un determinato concetto,
senza, contemporaneamente, influire sull'immagine e la parola da cui il concetto
è indivisibile. Infatti l'uomo, data la sua composizione di anima e di corpo, non
può elaborare un pensiero puro senza l'immaginazione.
3. - Quando si pensa che l'ispirazione non elimina le caratteristiche
dei singoli scrittori sacri, ma anzi si adatta ad esse, si capisce come nella
Bibbia, nonostante l'unicità dell'autore principale, sussistano molteplici
diversità. Il Nuovo Testamento è l'unico Vangelo, l'unico lieto annuncio
di Gesù Cristo, riflesso più volte negli uomini che ce l'hanno trasmesso.
Le differenze si spiegano con le varie individualità dei testimoni.
§ 15. Inerranza biblica.
1. - Ammessa l'ispirazione, ne consegue l'inerranza 0 assenza di er¬
rori nella S. Scrittura. Di fatto ogni affermazione dell'agiografo in virtù
dell'ispirazione è affermazione di Dio stesso, e Dio non può errare. (Enc.
Providentissimus Deus, Denz. 1951; Decreto Lamentabili, Denz. 2011,
2014; Enc. Spiritus Paraclitus). S. Agostino, nell'epistola 82, x, scrive:
« Per ciascun libro della Bibbia, che sia canonico, ho imparato ad avere
una tale attenzione e venerazione da ritenere per certo che in esso l'au¬
tore non ha commesso, scrivendolo, alcun errore. Quando in questi libri
m'imbatto in una espressione che mi sembra contrastare la verità, non
dubito d'ammettere 0 che si tratta di una lezione corrotta 0 che il tra¬
duttore diede una versione inesatta o che la mia intelligenza erra ».
Inerranza non significa, però, assoluta perfezione, nemmeno nel campo
della dottrina e della morale.
2. - Per meglio comprendere che cos'è l'inerranza si deve conside¬
rare quanto segue. L'Autore Sacro cadrebbe in un errore formale qualora,
volendo esprimere una determinata cosa, facesse dichiarazioni contra¬
stanti con questa cosa medesima. Al fine di stabilire quello che intende
dire, occorre considerare attentamente il suo modo di esprimersi, il ge¬
nere letterario, di cui si serve per manifestare il suo pensiero e che certo
non appartiene al contenuto di questo suo pensiero medesimo. Dobbiamo
quindi distinguere tra il contenuto e la forma. Pur essendo, talora, diffì¬
cile fissare il limite di queste due realtà, tuttavia fra loro vi è sempre,
renderti saggio per la salvezza, mediante la fed
utile
86 INTRODUZIONE
l'educazion
sia pure in determinata misura, una distinzione. Quando vogliamo di¬ buona
stinguere nella Bibbia l'oggetto asserito dalla forma espressiva, è dove¬
roso tener conto di quanto segue: la rivelazione avvenne per attuare il
Giovann
regno di Dio e la nostra salvezza. Paolo raccomanda a Timoteo: « Tu... scr
fin da bambino, conosci le Sacre Scritture, le quali hanno il potere di credendo,
renderti saggio per la salvezza, mediante la fede che è in Cristo Gesù.
Ogni Scrittura, ispirata da Dio, (è) anche utile per l'istruzione, per la eccle
convinzione, per la correzione, per l'educazione alla giustizia, affinchè de
perfetto sia l'uomo di Dio, per ogni opera buona ben attrezzato » (2 Tim. nella
nat
3, 15-17). Siccome la salvezza umana concreta si trova in Cristo, si può
applicare alla Scrittura intera quanto Giovanni attesta essere l'intento desc
del suo Vangelo : « Ma queste cose sono scritte affinchè crediate che e
Gesù è il Cristo, Figliuolo di Dio, e, credendo, abbiate nel suo nome la
vita » (Giov. 20, 31). pare
l'incontriam
In ultima istanza compete al magistero ecclesiastico decidere ciò che
è contenuto e ciò che è modo di esprimersi della Bibbia.
La rivelazione soprannaturale contenuta nella Bibbia non ci presenta espressiva,
alcuna spiegazione sull'essenza delle cose naturali. Quando la parola i
scritta di Dio tratta della natura, non ne descrive l'essenza, l'attività 0 nat
i movimenti, bensì la gloria che fu pure ad essa comunicata in Cristo s
e della quale attende la manifestazione (Rom. 8, 18-22; cfr. il trattato l'espre
sulla Creazione e sui Novissimi). Quando pare che la Bibbia descriva ar
l'essenza degli esseri naturali come l'incontriamo in libri profani, dob¬ Th
biamo riflettere che tutto ciò non appartiene al contenuto volontaria¬
mente inteso, bensì solo alla forma espressiva, alla maniera di parlare, popola
e serve a rivestire e a rendere comprensibile il rivelato. Vi si possono, r
quindi, rinvenire espressioni riguardanti la natura che non si armoniz¬
zano con le odierne conclusioni scientifiche sicuramente acquisite, ma stor
che si accordano con le apparenze o con l'espressione popolare di un'e¬ personale
poca, e che perciò non possono costituire un argomento di accusa contro all'uom
l'inerranza biblica (Tommaso d'Aquino, S. Th., I, q. 70, a. 1, ad 3). second
Infatti la manifestazione di Dio, destinata a servire per nostra sal¬
vezza, doveva esserci presentata in veste popolare, perchè potesse venire
intesa e capita anche da noi. La parola della rivelazione divina dovette
estrinsecarsi nell'espressione linguistica adatta alla debolezza umana e
rispondente a forme legate al tempo e alla storia per poter essere intesa
da noi creature, così come il Verbo personale di Dio si manifestò in
forma di servo e divenne in tutto uguale all'uomo (Fil. 2, 7).
Imodi di espressione biblici cadono, secondo quanto abbiamo detto
§ 15- INERRANZA BIBLICA 87
al § 14, sotto l'ispirazione, in quanto sono voluti da Dio come atti ad
esprimere un determinato contenuto (Providentissimus Deus, Denz. 1952;
cfr. i §§ 13 e 14; vedi pure G. Van Noort, De fontibus revelationis,
1920, 35-67). L'agiografo poi può usare tutti quei generi letterari che
non siano inconciliabili con la dignità divina: metafora, parabola, alle¬
goria, ironia, leggenda.
Per quanto riguarda le narrazioni storiche, non vi possiamo applicare
le forme letterarie nello stesso modo che nel campo della natura. Cfr.
l'Enc. Spiritus Paraclitus. Siccome la rivelazione è via a Cristo e traccia
il cammino verso di lui, si deve attribuire ai suoi racconti storici un si¬
gnificato e valore ben diverso da quello attribuito alle descrizioni dei fe¬
nomeni naturali. Essi infatti, ci danno la sicurezza che la rivelazione è
un fatto storico (cfr. § 1). Si può, tuttavia, ammettere, con l'autorevole
appoggio di una decisione della Commissione biblica (23 giugno 1905,
Denz. 1980) e basandosi su argomenti attendibili, che lo scrittore sacro
non intenda darci un trattato di storia in senso stretto, ma bensì por¬
gerci un insegnamento religioso in forma storica. Anche se per parecchi
fatti dobbiamo ammettere che la storia è imperfetta, non le si può, tut¬
tavia, negare l'inerranza che i documenti ecclesiastici le attribuiscono.
« Parlare di tradizione o di esposizione storica popolare, in cui si pro¬
cede con numeri arrotondati, con determinazione approssimativa del
tempo, con relazione di discorsi liberamente redatti o addirittura co¬
struiti, non vuol dire negare la verità del racconto. Per la veracità dello
scritto non è necessario che tutte le singole circostanze siano espresse nel
modo più completo e preciso» (Diekamp, Katholische Dogmatik, I, § 11).
Quando l'autore sacro afferma di citare espressamente uomini non
ispirati 0 fonti profane, non ne deriva alcuna garanzia per la veracità
delle loro asserzioni, bensì solo la sicurezza che in realtà si tratta pro¬
prio di una vera citazione. Ciò, naturalmente, a meno che egli non ap¬
provi quanto riporta. Lo stesso vale per le citazioni implicite, che però
devono essere sostenute solo se vi sono molteplici indizi a favore della
loro esistenza (Denz. 1905, 1979-1980, 1997, 2000, 2012, 2014-28;
Enc. Spiritus Paraclitus).
3. - Il Papa Pio XII, nella sua Enciclica biblica, così sintetizza e luminosamente
precisa i precedenti principi cattolici : « Ed in vero la nostra età, se accumula
nuove questioni e difficoltà, però insieme, grazie a Dio, offre all'esegesi anche
nuovi mezzi e strumenti. Fra questi va messo in speciale rilievo il fatto che i
teologi cattolici, seguitando la dottrina dei Santi Padri e principalmente del Dot¬
tore Angelico e Comune, con maggior precisione e finezza, che non solesse farsi
B
4
88 INTRODUZIONE che
stata
nei secoli andati, hanno esaminata ed esposta la natura dell'ispirazione biblica te
ed i suoi effetti. Partendo nelle loro disquisizioni dal principio che l'agiografo, del
nello scrivere il libro sacro, è organo, ossia strumento dello Spirito Santo, ma e
strumento vivo e dotato di ragione, rettamente osservano che egli, sotto l'azione suprem
divina, talmente fa uso delle sue proprie facoltà e potenze, che dal libro per sua
opera composto tutti possono facilmente raccogliere " l'indole propria di lui e lu
come le sue personali fattezze e il carattere " (cfr. Benedetto XV, Enc. Spiritus parla
Paraclitus, A. A. S., 12, 1920, 390; Ench. Bibl., n. 461). Quindi l'interprete con tutto
ogni diligenza non trascurando quei nuovi lumi che le moderne indagini aves¬ ignoran
sero apportato, procuri di discernere quale sia stata l'indole propria del Sacro d
Autore, quali le condizioni della sua vita, in qual tempo sia vissuto, quali fonti,
scritte ed orali abbia adoperate, di quali forme del dire si avvalga. Cosi potrà sov
più esattamente conoscere chi sia stato l'agiografo, e qual cosa abbia voluto dire ne
nel suo scritto. Nessuno ignora, infatti, che la suprema norma dell'interpretare è parole
ravvisare e stabilire che cosa si proponga di dire lo scrittore, come egregiamente
avverte S. Atanasio: " Qui — come in ogni altro luogo della Scrittura si ha da
fare — deve osservarsi in quale occasione abbia parlato l'Apostolo, chi sia la per¬ dell'ar
sona a cui scrive, per qual motivo le scriva; a tutto ciò si deve attentamente e lett
imparzialmente badare, perchè non ci accada, ignorando tali cose o fraintendendo ant
una per l'altra, di andar lontano dal vero pensiero dell'autore " (Contra Arianos,
1, 54; PG. 26, 123).
Quale poi sia il senso letterale di uno scritto, sovente non è così ovvio nelle pu
parole degli antichi Orientali com'è per esempio, negli scrittori dei nostri tempi. letter
Quel che hanno voluto significare con le loro parole quegli antichi, non va de¬ co
terminato soltanto con le leggi della grammatica o della filologia, o arguito dal a
contesto; l'interprete deve inoltre quasi tornare con la mente a quei remoti se¬ de
coli dell'Oriente, e con l'appoggio della storia, dell'archeologia, dell'etnologia e di L'in
altre scienze, nettamente discernere quali generi letterari abbiano voluto adope¬
rare gli scrittori di quella remota età. Infatti, gli antichi Orientali, per esprimere scrivere
i loro concetti non sempre usarono quelle forme o generi del dire che usiamo preg
noi oggi; ma piuttosto quelle che erano in uso tra le persone dei loro tempi e par
dei loro paesi. Quali esse siano, l'esegeta non lo può stabilire a priori, ma solo giusto
dietro un'accurata ricognizione delle antiche letterature d'Oriente. Su questo Sacri,
punto, negli ultimi decenni, l'indagine, condotta con maggior cura e diligenza, id
ha messo in più chiara luce quali fossero in quelle antiche età le forme del dire appr
adoperate, sia nelle composizioni poetiche, sia nel dettare le leggi o le norme di
vita, sia, infine, nel raccontare i fatti della storia. L'indagine stessa ha pure lumi¬ spec
nosamente assodato che il popolo d'Israele, fra tutte le antiche nazioni d'Oriente,
tenne un posto eminente, straordinario, nello scrivere la storia, sia per l'antichità,
sia per la fedele narrazione degli avvenimenti, pregi che per verità si possono
dedurre dal carisma della divina ispirazione e dal particolare scopo religioso della
storia biblica. Tuttavia, a niuno, che abbia un giusto concetto dell'ispirazione bi¬
blica, farà meraviglia che anche negli Scrittori Sacri, come in tutti gli antichi, si
trovino certe maniere di esporre e di narrare, certi idiotismi, propri specialmente
delle lingue semitiche, certi modi iperbolici ed approssimativi, talora anzi para¬
dossali, che servono a meglio stampar nella mente ciò che si vuol dire. Delle
maniere di parlare, di cui presso gli antichi, specialmente Orientali, servivasi
§ i6. l'uso della s. scrittura 89
l'umano linguaggio per esprimere il pensiero della mente, nessuna va esclusa dai
Libri Sacri, a condizione però che il genere di parlare non ripugni affatto alla
santità di Dio, nè alla verità delle cose. L'aveva già, con il suo solito acume,
osservato l'Angelico Dottore con quelle parole: "Nella Scrittura le cose divine
ci vengono presentate nella maniera che sogliono usare gli uomini " (Comment .
in Epist. ad Hebr., cap. 1, lect. 4). In effetto, come il Verbo sostanziale di Dio
si è fatto simile agli uomini in tutto, " eccettuato il peccato " (Ebr. 4, 15), così,
anche le parole di Dio, espresse in lingua umana, si sono fatte somiglianti al¬
l'umano linguaggio in tutto, eccettuato l'errore. In questo consiste quella con¬
discendenza (ouyxaTàpaai?) del provvido nostro Dio, che già S. Giovanni Cri¬
sostomo, con somme lodi esaltò e più e più volte asseverò trovarsi nei Sacri
Libri (cfr. ad es. In Gen. 1, 4; PG. 53, 34-35, ecc.).
Quindi l'esegeta cattolico, per rispondere agli odierni bisogni degli studi bi¬
blici, nell'esporre la S. Scrittura e nel mostrarla immune da ogni errore, com'è
suo dovere, faccia pure prudente uso di questo mezzo, di ricercare cioè quanto
la forma del dire o il genere letterario adottato dall'agiografo possa condurre alla
retta e genuina interpretazione; e si persuada che in questa parte del suo ufficio
nulla può essere trascurato senza recar gran danno all'esegesi cattolica. Infatti
— per portare solo un esempio — quando taluni presumono rinfacciare ai Sacri
Autori o qualche errore storico o inesattezza nel riferire i fatti, se si guarda ben
da vicino, si trova che si tratta semplicemente di quelle native maniere di dire
o di raccontare, che gli antichi solevano adoperare nel mutuo scambio delle idee
nell'umano consorzio, e che realmente si tenevano lecite nella comune usanza.
Quando, adunque, tali maniere s'incontrano nella divina parola, che per gli
uomini si esprime con linguaggio umano, giustizia vuole che non si taccino
d'errore, come accade in genere nella quotidiana consuetudine. Con l'accennata
conoscenza ed esatta valutazione dei modi ed usi di parlare e di scrivere presso
gli antichi, si potranno sciogliere molte obiezioni sollevate contro la veridicità e
il valore storico delle Divine Scritture; e non meno porterà un tale studio a
una più piena e più luminosa comprensione del pensiero del Sacro Autore »
(A. A. S., 1943, 341-343)-
§ 16. L'uso della S. Scrittura.
1. - Siccome la Scrittura non racchiude la parola dell'uomo, ma bensì
la parola che Dio rivolse all'uomo e affidò alla Chiesa, dobbiamo ammet¬
tere che nei suoi libri e nelle sue singole parti e proposizioni vi si in¬
tende un significato più profondo e più esteso che non quello manife¬
stato dalla pura espressione letterale. Infatti, la teologia cattolica distin¬
gue nella S. Scrittura il senso letterale o della parola e quello spiri¬
tuale o tipico.
S. Tommaso d'Aquino nella Summa Theologica (I, q. 1, a. 10) così afferma:
« L'autore della S. Scrittura è Dio. Ora Iddio ha il potere di usare come eie-
le cose, indicate dalle parole, a loro volta hanno e
com'è
90 INTRODUZIONE l'Antic
glo
menti significativi ed espressivi non solo le parole — il che può esser compiuto seg
anche dall'uomo — bensì le cose stesse. In ogni scienza le parole hanno un loro e
senso determinato, ma questa scienza (della Bibbia) ha la caratteristica d'usare le q
cose stesse, indicate dalle parole, a significare, a loro volta, qualcosa d'altro. Il prefigu
significato che le parole in se stesse hanno e con cui indicano delle cose, è ilfinalmen
senso primo, ossia quello storico o letterale. Il secondo significato è quello che senso
le cose, indicate dalle parole, a loro volta hanno e con cui indicano altre cose;
questo è detto senso spirituale e si poggia, com'è ovvio, sul senso letterale. q
Questo senso spirituale può essere triplice come l'Antica Legge è figura della Nuova
e la Nuova Legge stessa è prefigurazione della gloria futura, così, anche nella Pe
Nuova Legge le cose compiutesi nel Capo sono segni e prefigurazioni di quanto tras
dobbiamo fare noi. Di conseguenza, in quanto gli eventi dell'Antico Testamento
prefigurano il Nuovo, sorge il senso allegorico; in quanto le cose compiutesi in 1-11
Cristo o significanti Cristo sono a loro volta prefigurazione e segno di quel chebiblico
noi dobbiamo fare, sgorga il senso morale; finalmente in quanto significano ciò
che deve compiersi nella gloria eterna, nasce il senso anagogico ».
deve
ecclesiastico
Nella Scrittura stessa si afferma che, oltre quello letterale, vi si trova la
pure un senso spirituale, inteso dallo Spirito Santo durante la l'argomentazio
sua re¬
dazione. È lo Spirito che svela questo senso. Per mezzo di esso la Bibbia
non è un ministero di lettera morta, ma si trasforma in ministero di spi¬ di
rito e di vita (2 Cor. 3, 4-18; 1 Cor. 10, 1-11; Gal. 4, 21-31). di
2. - Il senso spirituale di un passo biblico, pure esso molto impor¬ te
tante, deve poggiare sul senso letterale 0 deve essere garantito da altri fil
passi biblici, oppure dal magistero ecclesiastico e dalla Tradizione della Quanta
Chiesa, affinchè la spiegazione biblica non sia lasciata all'arbitrio dell'ese¬
geta. Secondo S. Tommaso, per l'argomentazione teologica è utilizzabile met
cod
soltanto il senso letterale.
la
Per la spiegazione della Bibbia, è, perciò, di fondamentale importanza s
stabilire prima il senso letterale sulla base di un testo criticamente si¬ O
curo. Per la realizzazione di tale compito il teologo deve saper sfruttare a
tutti imezzi che gli stanno a disposizione, la filologia e la critica testuale. applic
L'Enciclica biblica di Pio XII dichiara : « Quanta importanza si debba annet¬
tere a tale critica, accortamente lo fa intendere S. Agostino, quando, fra i pre¬
cetti da inculcare allo studioso dei Sacri Libri, mette in primo luogo la cura di
procacciarsi un testo corretto. " Ad emendare i codici — così quel chiarissimo
Dottore della Chiesa — deve anzitutto attendere la solerzia di coloro, che bra¬
mano conoscere le Divine Scritture, affinchè gli scorretti cedano il posto agli
emendati " (De Doctr. christ., 2, 21; PL. 34, 46). Oggi poi quest'arte, che suol
chiamarsi critica testuale e nelle edizioni degli autori profani s'impiega con
grande lode e pari frutto, con pieno diritto si applica ai Sacri Libri appunto per
la riverenza dovuta alla parola di Dio. Scopo di essa, infatti, è restituire con
tutta la possibile precisione il Sacro Testo al suo primitivo tenore, purgandolo
§ i6. l'uso della s. scrittura 91
dalle deformazioni introdottesi, dalle manchevolezze dei copisti e liberandolo
dalle glosse e lacune, dalle trasposizioni di parole, dalle ripetizioni e da simili
difetti d'ogni genere, che negli scritti tramandati a mano per molti secoli usano
infiltrarsi. È vero che di tal critica, alcuni decenni or sono, non pochi abusarono
a loro talento, non di rado in guisa che si direbbe abbiano voluto introdurre
nel Sacro Testo i loro preconcetti. Ma oggi appena fa d'uopo dire che quel¬
l'arte ha raggiunta una tale stabilità e sicurezza di norme, che agevolmente se
ne può scoprire l'abuso, e coi progressi conseguiti essa è divenuta un insigne
strumento atto a propagare la divina parola in una forma più accurata e più
pura. Neppure fa bisogno qui ricordare — essendo cosa nota e palese a tutti
gli studiosi della S. Scrittura — in quanto onore abbia tenuto la Chiesa, dai
primi secoli all'età nostra, questi lavori di critica. Oggi, dunque, poiché quest'arte
è giunta a tanta perfezione, è onorifico, benché non sempre facile, ufficio degli
scritturisti procurare con ogni mezzo che quanto prima da parte cattolica si pre¬
parino edizioni dei Sacri Libri, sì nei testi originali, si nelle antiche versioni,
regolate secondo le dette norme; tali cioè che con somma riverenza al Sacro
Testo congiungano un'accurata osservanza di tutte le leggi della critica...
Fornito della conoscenza delle lingue antiche e del corredo della critica, l'ese¬
geta cattolico si applichi a quello che fra tutti i suoi compiti è il più alto, cioè
di trovare ed esporre il genuino pensiero dei Sacri Libri. In ciò fare, gli inter¬
preti abbiano ben presente che la loro massima cura dev'esser quella di giun¬
gere a discernere e precisare quale sia il senso letterale, come suol chiamarsi,
delle parole bibliche. Perciò essi devono con ogni diligenza rintracciare il signi¬
ficato letterale delle parole, giovandosi della cognizione delle lingue, del con¬
testo, del confronto con luoghi simili; cose tutte, donde anche nell'interpreta¬
zione degli scritti profani si suole trarre partito per mettere in limpida luce il
pensiero dell'autore. Icommentatori però della S. Scrittura, non perdendo di
vista che si tratta della parola di Dio ispirata, della quale da Dio stesso fu affi¬
data alla Chiesa la custodia e l'interpretazione, con non minore diligenza ter¬
ranno conto delle spiegazioni e dichiarazioni del magistero ecclesiastico, come
pure delle esposizioni dei Santi Padri, e anche della " analogia della fede " se¬
condo che Leone XIII nell'Enc. Providentissimus Deus con somma sapienza
avvertì (Leone XIII, A.A.S., 13, 345-346; Ench. Bibl., n. 94-96). Particolare
attenzione porranno a non limitarsi — come deploriamo farsi in alcuni com¬
mentari — ad esporre ciò che tocca la storia, l'archeologia, la filologia, e simili
altre materie; siano pure a luogo opportuno tali notizie in quanto possono con¬
tribuire all'esegesi, ma principalmente mettano in vista la dottrina teologica di
ciascun libro o testo intorno alla fede e ai costumi. In tal modo la loro esposi¬
zione non solo gioverà ai professori di teologia nel proporre e provare i dogmi
della fede, ma verrà pure in aiuto dei sacerdoti per la spiegazione della dottrina
cristiana al popolo, e infine tutti i fedeli ne caveranno profìtto per condurre una
vita santa, degna d'un vero cristiano-
Certo, non va escluso dalla S. Scrittura ogni senso spirituale, poiché quello
che nel Vecchio Testamento fu detto o fatto, venne da Dio con somma sapienza
ordinato e disposto in tal modo, che le cose passate prefigurassero le future da
avverarsi nel nuovo Patto di grazia. Perciò l'esegeta, com'è tenuto a ricercare
ed esporre il significato proprio o letterale delle parole inteso ed espresso dal
chissimo della liturgia, nei casi in cui si può re
credere
92 INTRODUZIONE e
Sacro Autore, così la stessa cura deve avere nella ricerca del significato spiri¬ genuino
tuale, purché realmente risulti che Dio ve lo ha posto. Solo Dio, infatti, potè, spec
sia conoscere, sia rivelare, a noi quel significato spirituale. Ora un tal senso ce della
lo insegna e ce lo mostra il Divin Salvatore medesimo nei Santi Vangeli, lo s
professano nel parlare e nello scrivere gli Apostoli, seguendo l'esempio del
Maestro, lo addita la costante tradizione della Chiesa, lo dichiara infine l'anti¬
chissimo uso della liturgia, nei casi in cui si può rettamente applicare il noto segna
principio : " La legge del pregare è legge del credere ". Questo senso spirituale, ciò
da Dio inteso e ordinato, lo scoprano, dunque, e lo espongano gli esegeti catto¬ orato
lici con quella diligenza che richiede la dignità della divina parola; si guardino, p
invece, scrupolosamente dal presentare come genuino senso della Scrittura altri penetra
valori figurativi delle cose. Può ben essere utile, specialmente nella predicazione, sentimen
lumeggiare e raccomandare le cose della fede e della morale cristiana con uso scuo
più largo del Sacro Testo in senso figurato, purché si faccia con moderazione e i
sobrietà; ma non bisogna mai dimenticare che un tal uso delle parole della val
S. Scrittura è ad essa quasi estrinseco ed avventizio, e che soprattutto ai giorni
nostri non va senza pericolo, perchè i fedeli, segnatamente le persone istruite tutt
nelle scienze sia sacre, sia profane, vogliono sapere ciò che Dio ci ha detto nelle
Sacre Lettere, anziché quello che un facondo oratore o scrittore, usando con d
destrezza le parole della Bibbia ne sa cavare. " La parola di Dio, viva ed ope¬ Chiesa
rosa, tagliente più di ogni spada a due tagli, penetrante sino a dividere anima b
e spirito, giunture e midolle, scrutatrice dei sentimenti e dei pensieri " (Ebr. 4, s
12), non ha bisogno, per commuovere i cuori e scuotere gli animi, di artifizi e sp
di accomodamenti umani; le Sacre Pagine, da Dio ispirate, sono per sé ricche acume
di nativo significato; dotate di una forza divina, valgono da sé; adorne di un parola
superbo splendore, da sé brillano e risplendono, se l'interprete con una spie¬ prom
gazione accurata e fedele ne sa trarre alla luce tutti i tesori di sapienza e di anti
prudenza che vi stanno nascosti. della
Per fare questo l'esegeta cattolico potrà valersi del solerte studio di quegli
scritti, nei quali i Santi Padri, i Dottori della Chiesa, gli illustri interpreti delle molt
età passate hanno commentato i Sacri Libri. Essi, benché fossero meno forniti Sc
d'istruzione profana e di scienza delle lingue, che gli scritturisti dei nostri giorni,
però, per l'ufficio da Dio loro dato nella Chiesa, spiccano per un certo soave antichi
intuito delle cose celesti e per un meraviglioso acume di mente, con i quali pe¬ c
netrano. sino all'intimo le profondità della divina parola e traggono alla luce quantoargomenti
può giovare ad illustrare la dottrina di Cristo e a promuovere la santità della vita. un
Fa dispiacere che sì preziosi tesori della cristiana antichità, a non pochi scrittori c
dei nostri tempi, siano mal noti e che i cultori della storia dell'esegesi non ab¬
biano ancora tutto fatto per meglio approfondire e giustamente apprezzare un
punto di tanta importanza. Piacesse a Dio che molti si dessero a ricercare gli
autori e le opere d'interpretazione cattolica della Scrittura e, cavandone le ric¬
chezze quasi immense ivi accumulate, efficacemente concorressero a far sì che
sempre più manifesto si renda quanto quegli antichi hanno penetrato e deluci¬
dato la divina dottrina dei Libri Sacri, di maniera che gli odierni interpreti ne
prendano esempio e ne derivino opportuni argomenti. Così finalmente si attuerà
la felice e feconda fusione della dottrina e soave unzione degli antichi con la
più vasta erudizione e progredita arte dei moderni, il che di certo produrrà nuovi
§ i6. l'uso della s. scrittura 93
frutti nel campo, non mai abbastanza coltivato, nè mai esaurito, delle Divine
Lettere » (A. A. S., 1943, 336-3375 338-340).
Il Papa Pio XII esorta i teologi a non lasciar intentato qualsiasi mezzo che la
scienza delle antichità mette a disposizione per una più completa e chiara cono¬
scenza del pensiero degli Autori Sacri : « Attendano, dunque, i nostri scritturisti
con la dovuta diligenza a questo punto, e nessuna tralascino di quelle nuove
scoperte fatte dalla storia e letteratura antica o dall'archeologia, che sono atte a
far meglio conoscere quale fosse la mentalità degli antichi scrittori, e la loro ma¬
niera ed arte di ragionare, narrare, scrivere. In questa maniera, anche i laici cat¬
tolici sappiano ch'essi non solo gioveranno alla scienza profana, ma renderanno
anche un segnalato servizio alla causa cristiana, se con tutta la convenevole dili¬
genza e applicazione si daranno ad esplorare e indagare le cose dell'antichità, e
concorreranno così, secondo le loro forze, alla soluzione di questioni sinora non
bene chiarite. Infatti, ogni cognizione umana, anche non sacra, ha bensì una sua
innata dignità ed eccellenza — essendo essa una partecipazione finita dell'infinita
conoscenza di Dio — ma ottiene una nuova e più alta dignità e quasi consa¬
crazione, quando si adopera a far brillare di più chiara luce le cose divine »
(A. A. S„ 1943, 344)-
3. - Quando, sulla base del senso letterale, si ricerca accuratamente il
significato spirituale, si può trovarlo con sicurezza in molteplici maniere.
Cristo è l'oggetto della S. Scrittura in modo aperto o nascosto, vale a
dire in senso letterale o spirituale. Tanto l'Antico che il Nuovo Testa¬
mento parlano di lui. La manifestazione di Dio contenuta nell'Antico
Testamento è la preistoria della rivelazione avveratasi in Cristo. Egli è
l'Atteso di tutte le pagine dell'Antico Testamento, che parla di lui come
di uno che deve venire, e ne delinea già in certo modo il corso della
vita. La sua figura getta la sua ombra sull'Antico Testamento, in uno
strano rovesciamento dell'esemplarismo greco e del pensiero naturale,
che conoscono solo l'ombra di un essere già presente. Qui è l'aurora del,
giorno che sta per spuntare (Ebr. io, i; 8, 5; 14; Gal. 3, 16; Col. 2, 17).
L'Antico Testamento, per non esser frainteso, va considerato in senso
messianico. Prepara, predice ed esprime simbolicamente il mistero di
Cristo (Gal. 3). Il Nuovo Testamento, che ne attesta la vita e l'azione,
è, di conseguenza, il compimento dell'Antico.
Ciò risulta chiaramente dal Nuovo Testamento, non solo da qualche
singolo passo ma da tutto il suo complesso. Tanto nel Vangelo di Matteo
che nella lettera di Giacomo e in quella agli Ebrei, questo pensiero è il
filo conduttore dell'esposizione. Tutti i profeti e la legge, sino a Cristo,
lo hanno predetto (Mt. 11, 13). L'Antico Testamento ha proclamato
Cristo e il suo regno; questo tema domina tutti gli scritti nel Nuovo
Testamento. Secondo Marco doveva compiersi quanto si avverò in Cri-
Ai discepoli di Emmaus, Gesù spiega egli stess
INTRODUZIONE
Mo
94 neces
sto, perchè la Scrittura fosse realizzata (Me. 14, 49; 15, 28). Luca ri¬
al
ferisce una parola, uscita dal labbro di Maria, secondo la quale, nell'in¬
carnazione di Cristo, si è manifestata la misericordia di Dio, promessa perco
ai Padri della stirpe di Abramo (Le. 1, 54). In Cristo è apparso colui Aposto
che molti profeti e re hanno desiderato vedere, senza poterlo (Le. 10, 24). pe
Ai discepoli di Emmaus, Gesù spiega egli stesso la Bibbia, mostrando
loro che nelle sue pagine, incominciando da Mosè e da tutti i profeti, dive
si parla ovunque di lui. Dimostra loro la necessità che egli, secondo la 2
parola profetica, così patisse per poter giungere alla gloria (Le. 24, 25-32). av
La via percorsa da Cristo, è, sin dall'inizio, predetta dalla Scrittura
(Le. 22, 37). Il figliuolo dell'uomo la va percorrendo, come sta scritto riconos
(Mt. 14, 25-32). Anche negli Atti degli Apostoli i Profeti testimoniano 4
che colui il quale crede in Cristo, riceverà il perdono dei peccati (Atti testi
10, 43). Paolo stesso può difendersi, presso il re Agrippa, con l'affer¬
mazione che egli, in fondo, non dice cose diverse da quelle che già i poic
profeti avevano predetto (Atti 26, 2; cfr. 17, 2; 28, 23). Pietro proclama,
nella sua predica di Pentecoste, che i profeti avevano preannunciato sia preann
la vita terrena, sia il ritorno del Signore (Atti 3, 19-25). Lo stesso si ve¬ Cris
rifica nel Vangelo di Giovanni. Idiscepoli riconoscono in Cristo il Messia, salvezza
di cui Mosè e i profeti hanno scritto (Giov. 1, 41-45). Cristo stesso pre¬ p
tende essere colui, del quale la Scrittura dà testimonianza (Giov. 5, 39).
Perciò è Mosè stesso che condanna gli increduli Giudei. Se essi prestano deside
fede a Mosè, devono credere anche a Gesù, poiché di lui egli ha scritto delle
(Giov. 5, 45-47). Anche Isaia ha parlato (Giov. 12, 41). scritto
Paolo assicura i Romani che Dio ci ha preannunciato, mediante i pro¬ orm
feti, il Vangelo che ci venne per mezzo di Cristo (Rom. 1, 2). Già la 23-24
legge e i profeti hanno testimoniato la salvezza (Rom. 3, 21). Cristo è parten
il fine stesso della legge (Rom. 10, 4). La legge perciò è il pedagogo che t
conduce a Cristo (Gal. 3, 24), in quanto, dando viva conoscenza del pec¬
cato, mostra l'impotenza umana e suscita il desiderio e l'attesa del Messia
predetto da Cristo. Cristo è la realizzazione delle promesse fatte ai Padri Scr
(Rom. 15, 8). L'Antico Testamento è stato scritto per noi, per la Chiesa,
cioè per il tempo in cui l'età del mondo ha ormai raggiunto il suo cul¬
mine (1 Cor. 10, 11; cfr. 9, 9; Rom. 4, 23-24). L'Antico Testamento
può, perciò, essere inteso rettamente solo partendo da Cristo. È libro di
vita soltanto per colui che lo intende come testimonianza del Cristo
(Giov. 5, 39). L'uomo « spirituale » è l'unico che lo può capire. Sul
cuore dei Giudei è steso, al dire di S. Paolo, un velo; perciò costoro non
possono comprendere il vero senso della S. Scrittura. Non lo capiscono
§ i6. l'uso della s. scrittura 95
perchè non afferrano che la loro storia è fondata da Dio. Quando l'An¬
tico Testamento si separa da Cristo, viene inteso falsamente e si riduce
ad un mito tra tanti altri (2 Cor. 3, 12-18).
Tutto questo è magnificamente espresso nella prima Epistola di Pietro
(1, 10-12): «Intorno a questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti
che pronunciarono i vaticini riguardanti la grazia destinata a voi; essi
scrutavano a quale tempo e a quali circostanze accennasse lo Spirito di
Cristo che era in loro e che attestava in antecedenza le sofferenze desti¬
nate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle. E fu loro rivelato che
non per se stessi, ma per voi avevano la missione di preannunciare quelle
verità che ora vi furono predicate da quelli che, mossi dallo Spirito Santo
mandato dai cielo, vi comunicarono la lieta novella. In queste (verità)
gli angeli (stessi) bramano curvare lo sguardo ».
4. - Quanto sopra deducemmo dalla testimonianza del Vangelo, fu
sempre convinzione intima della Chiesa e perciò elemento della sacra
Tradizione.
Così scrive S. Ireneo (Adversus haereses, 4, 26) : « Quando uno scruta atten¬
tamente le Scritture, vi rinviene la parola di Cristo e la prefigurazione del
Nuovo Patto. Egli è il tesoro nascosto nel campo, ossia in questo mondo. Il campo
infatti è il mondo. E Cristo è nascosto nella Scrittura nel senso che ci vien indi¬
cato mediante tipi e parabole. Perciò non si poteva capire ciò che di lui, come
uomo, era predetto, prima che fosse giunto il pieno compimento, ossia la ve¬
nuta di Cristo... Ogni profezia infatti si presenta agli uomini come enigmatica
e ambigua, prima che si sia verificata. Ma quando è giunto il tempo e la pro¬
fezia si compie, allora le profezie ricevono un significato certo e luminoso.
Perciò la legge è per i Giudei contemporanei che la leggono simile ad un
enigma, poiché essi non hanno la spiegazione di tutto quanto vi si trova e che sta
nella discesa del Figlio di Dio dal cielo. Se è, invece, esaminata dai cristiani,
Cristo diviene il tesoro nascosto nel campo, che per loro si scopre e si dischiude
sulla croce, e che, mentre arricchisce l'intelletto umano, palesa la sapienza di¬
vina, rivela il piano salvifico nei riguardi dell'uomo, predice il regno di Cristo,
assicura l'eredità della santa Gerusalemme e annuncia che l'uomo deve progre¬
dire continuamente nell'amore di Dio, finché vedrà Dio e ascolterà la sua voce ».
Secondo S. Ireneo, dunque, l'Antico Testamento è svalutato, quando in esso e da
esso non si risale a Cristo.
Con la stessa energia Agostino sottolinea la relazione che l'Antico Testamento
ha con Cristo : « Quando udiamo un salmo, una profezia, la legge — ossia ciò
che è stato scritto prima dell'apparizione nella carne del Nostro Signore Gesù
Cristo — tutto il nostro sforzo deve consistere nel vedervi Cristo, nel ricono¬
scervi Cristo » (Enarr. in Psalm. 98, 1). Tutto quanto sta scritto nel Salmo 88,
se si vuol rettamente interpretare, dev'essere riferito a Cristo (De civitate Dei,
17, 9; cfr. l'intero libro 17).
me
profe
96 INTRODUZIONE giudizio
Poiché la Chiesa è la perpetuazione di Cristo, ne consegue che tutto quanto sen
nell'Antico Testamento si riferisce a Cristo, può anche esserle applicato. « Tu
non troverai nulla nei salmi, che non siano la voce di Cristo e della Chiesa, o la
voce di Cristo solo » (Agostino, Enarr. in Psalm. 59, 1). Isalmi ricevono, infatti,
n
il loro vero e proprio significato solo quando si intendono come il libro di pre¬
ghiera di Cristo e della Chiesa. Quanto poco l'Antico Testamento possa essere sim
compreso nel suo vero senso, se non si intende messianicamente, è palese nei (Den
salmi imprecatori, che si capiscono solo come profezie messianiche, ossia pro¬ i
clamazioni profetiche della liberazione e del giudizio divino sopra i Giudei. Il
Cantico dei Cantici ce ne offre un altro esempio. IPadri e i teologi medievali
lo spiegano per lo più come una predizione, in senso figurato, dell'unione fra
cristal
Cristo e la Chiesa. es
rice
5. - Tuttavia le considerazioni precedenti non riducono il carattere
storico dell'Antico Testamento a un semplice simbolo — opinione questa l'autor
qualificata erronea dall'Enc. Humani generis (Denz. 3016) — anzi lo con¬ p
fermano e valorizzano. L'Antico Testamento, inteso storicamente, tra¬ libr
scende se stesso e vale come predizione di ciò che in Cristo raggiunse divin
il suo compimento. Esso diviene come un cristallo trasparente, attraverso intrec
il quale si intravvede la figura di Cristo. Può essere inteso nel suo vero espressione,
ed ultimo significato solo in Cristo, in cui esso ricevette il suo compimento. A
rappo
6. - Il fatto che lo Spirito Santo ne è l'autore e Cristo l'oggetto, ga¬Testamen
rantisce l'unità della S. Scrittura. Non se ne può, quindi, considerare v
isolatamente un singolo passo 0 un singolo libro, ma questo dev'essere
inteso in funzione del tutto. « Nella parola divina racchiusa nella Bibbia
si presenta un'economia, in cui tutto vi è intrecciato, Testamento a Te¬ ragion
stamento, libro a libro, espressione a espressione, in un'analogia che ban¬ C
disce qualsiasi contraddizione » (G. Sòhngen, Analogia fidei, in Catto¬ :
lica, 3, 1934, 4). 5. Agostino sintetizza il rapporto fra i due Testamenti princi
in una formola espressiva: «Il Nuovo Testamento sta nascosto nell'An¬ fatto
tico e l'Antico diviene palese nel Nuovo » (In veteri testamento novum preced
latet, in novo vetus patet: Quaest. in Heptat., 2, 73; cfr. De catechi-
zandis rudibus, 5).
L'unità dei due Testamenti trova la sua ragione più profonda nel fatto
che l'Antico Testamento è una preistoria di Cristo orientata verso la
Croce. Leone Magno così parla ai suoi uditori : « Fra tutte le opere di
misericordia, che Dio ha compiuto fin da principio per la salvezza degli
uomini, niente è più mirabile e sublime del fatto che Cristo fu crocefisso
per il mondo. Tutti i misteri dei secoli precedenti servirono a questo
§ i6. l'uso della s. scrittura 97
sacramento, e tutto ciò che di vario fu stabilito per sacro regolamento in
tante specie di vittime, nei simboli profetici, nelle istituzioni legali, non
fu che un annunzio e una promessa di quello. Cessate le immagini e le
allegorie, ci giova ora credere come già compiuto quel mistero, che
prima giovava credere come da compiersi in futuro » (Sermo 54, 1).
-
7. Quanto all'uso pastorale della Scrittura, Pio XII scrive : « ISacri Libri
non furono dati da Dio agli uomini per soddisfare la loro curiosità o per for¬
nire materia di studio e di ricerche, ma, come insegna l'Apostolo, affinchè questi
divini oracoli ci potessero " istruire a salute per la fede in Gesù Cristo " e per¬
chè " compiuto sia l'uomo di Dio, attrezzato per ogni opera buona " (cfr. 2 Tim.
3, 15. 17). ISacerdoti pertanto, che sono tenuti per uffizio a procurare l'eterna
salute dei fedeli, dopo aver essi medesimi scandagliate con diligente studio le
Sacre Pagine e dopo averle fatte loro sostanza con la preghiera e la medita¬
zione, dispensino col dovuto zelo nelle prediche, nelle omelie e nelle esortazioni
le celesti ricchezze della divina parola; confermino la dottrina cristiana con sen¬
tenze dei. Sacri Libri, e la illustrino con acconci esempi tratti dalla storia sacra
e specialmente dal Vangelo di Nostro Signor Gesù Cristo; e tutto questo —
schivando con attenta cura quei sensi accomodatizi, escogitati da privata fan¬
tasia e stiracchiati da molto lontano, sensi che sono un abuso, anziché l'uso
della divina parola — lo espongano come tale facondia e chiarezza, che i fedeli
non solo si sentano mossi e infervorati a migliorare la propria vita, ma anche
concepiscano una somma venerazione per la Sacra Scrittura. La stessa venera¬
zione i sacri pastori procureranno che cresca e si perfezioni ogni dì più nei fe¬
deli al loro pastorale zelo commessi, incoraggiando tutte quelle imprese d'uomini
apostolici, che portano ad eccitare e fomentare la conoscenza e l'amore dei Sacri
Libri tra i cattolici. Diano dunque il loro favore e il loro appoggio alle pie
società che hanno per fine di propagare tra i fedeli le stampe dei Libri Sacri,
specialmente dei Santi Vangeli, e di adoperarsi con sommo impegno perchè
nelle famiglie cristiane se ne faccia ogni giorno regolarmente la lettura con pietà
e devozione. Raccomandino efficacemente a voce e in pratica, dove lo consente
la liturgia, la Sacra Scrittura tradotta, con l'approvazione dell'autorità ecclesia¬
stica, nelle lingue moderne, e tengano essi lezioni o conferenze scritturali o le
facciano tenere da altri oratori, ben versati nella materia. Iperiodici, che con
tanta lode e tanto frutto si pubblicano nelle varie parti del mondo o per la trat¬
tazione scientifica delle questioni bibliche o per adattarne i risultati al sacro
ministero e a spirituale vantaggio dei fedeli, trovino in ogni sacro pastore chi
con solerte cura li sostiene e li divulga tra i vari ceti e classi del suo gregge.
Tutto questo e quanto altro uno zelo apostolico e un sincero amore della divina
parola saprà trovare di acconcio a quel sublime scopo, si persuadano i sacer¬
doti tutti che sarà per loro un efficace aiuto nella cura delle anime ÿ» (A. A. S.,
1943, 347)-
7 - schmaus - dogmatica I.
agli uomini. La Chiesa stessa non proclama altro
vi
98 INTRODUZIONE s
c
par
§ 17. La Tradizione, parola di Dio orale. modo
1. - Attraverso il magistero della Chiesa è lo Spirito Santo che parla
agli uomini. La Chiesa stessa non proclama altro che l'immutabile parola im
di vita che il Paracleto le comunica, di quella vita che era all'inizio, che la
è apparsa tra di noi, e dalla cui accettazione sgorga l'unione con Dio chiarito
(i Giov. i, 1-4). La Chiesa proclama soltanto ciò che essa stessa ascolta no
e riceve. Lo Spirito Santo le comunica la parola di vita mediante la
S. Scrittura. Ma questa non contiene, in modo completo ed esauriente,
il messaggio da predicare. Accanto a lei sta la Tradizione, che ne è la D
trasmissione orale. de
2. - Il concetto di Tradizione è di grande importanza per ben inten¬ aff
dere la predicazione ecclesiastica della fede e la scienza teologica. Tut¬ op
tavia, fino ad oggi, non è ancora stato chiarito pienamente. La Tradi¬ de
zione si può intendere in due modi, che, se non vengono bene distinti, anch
possono creare malintesi. cost
a) Per sacra Tradizione si può intendere (e questo è il suo senso vetero-testam
ampio) l'intera pienezza della rivelazione che Dio, nell'Antico Patto, hacostituiscono
donato agli uomini e fatto vergare nei libri dell'Antico Testamento, e tr
che Cristo ha poi completata e perfezionata, affidandola agli Apostoli e,
per mezzo loro, alla Chiesa. Da ultimo, per opera dello Spirito Santo, S
essa fu, in parte, messa per iscritto nei libri del Nuovo Testamento. Incomunica
questo senso appartengono alla Tradizione anche i libri della S. Scrit¬ Tradizione
tura. La Tradizione così concepita si dice costitutiva in quanto si con¬ all'epo
sidera negli organi della rivelazione vetero-testamentaria, in Gesù Cristo de
e negli Apostoli che la fondano 0 costituiscono; si dice continuativa 0 espr
dichiarativa se si considera nella Chiesa che la trasmette e la spiega. protestan
b) Con il termine Tradizione in senso stretto, si intendono le
rivelazioni divine che non stanno scritte nella Scrittura, ma che, annun¬
ziate da Cristo e dagli Apostoli, furono comunicate alla Chiesa e da que¬
sta trasmesse di bocca in bocca. La Tradizione in senso largo include
la Tradizione in senso stretto. Anche se all'epoca patristica prevalse il
primo senso, non mancarono, tuttavia, esempi del concetto di Tradizione
intesa in senso stretto. Questo concetto fu espresso in modo chiaro dal
Concilio di Trento contro la dottrina protestante che afferma esser la
Scrittura fonte esclusiva della fede, e fu poi sviluppato dalla teologia
post-tridentina.
§ 17. LA TRADIZIONE, PAROLA DI DIO ORALE 99
3. - Nella Tradizione orale l'elemento oggettivo, cioè il contenuto, è
legato all'elemento soggettivo, ossia all'attività di trasmettere. Entrambi
gli elementi costituiscono un'unità. Come nelle comunità umane, popolo,
famiglia, domina uno spirito che tutti sostiene, e di cui, ad ogni gene¬
razione, sono portatori responsabili gli individui che ne fanno parte, così
anche la comunità soprannaturale del popolo di Dio ha il suo spirito.
Esso non poggia su motivi naturali, come la forza del sangue, la rifles¬
sione o l'esperienza umana, ma viene suscitato dallo Spirito Santo. Cristo,
mediante la creazione di un magistero, ha provveduto affinchè l'attività
dello Spirito Santo non fosse impedita dallo spirito umano, che pur¬
troppo, anche nella Chiesa, tende sempre ad imporsi.
Il concetto di Tradizione ebbe tale significato comprensivo specialmente nel¬
l'antichità cristiana. Allora s'intendeva per Tradizione lo spirito vivo di rivelazione
e di fede, che, accesosi in Cristo, penetrò per mezzo suo negli Apostoli, nei
loro discepoli e da questi nelle comunità, diffondendosi sempre più durante
il corso dei secoli. La Tradizione era in tal modo considerata come vivente unità
tra magistero, verità rivelata e fede vissuta dei fedeli. Lo Spirito Santo realizza
e tiene ognora più vivo questo spirito di rivelazione che Cristo inviò alla Chiesa
e che in essa è sempre presente. Si palesa in tutti i suoi membri, ma special¬
mente in coloro che sono gli esponenti del magistero ecclesiastico. Così Mòhler
descrive la tradizione (Simbolica, § 38): «Che cos'è dunque la Tradizione?
È il senso propriamente cristiano esistente nella Chiesa e che si trasmette me¬
diante l'educazione ecclesiastica. Questo senso non si può pensare disgiunto dal
suo contenuto, dal suo oggetto (le verità rivelate e proposte dal magistero), anzi
è plasmato secondo e per mezzo del suo oggetto, cosicché non è un senso vago
e indefinito, ma determinato e preciso. La Tradizione è la parola di Dio che
di continuo vive nel cuore dei credenti. A questo senso, come senso della tota¬
lità, è affidata la spiegazione della Scrittura. La chiarificazione che, per mezzo
suo, si dà ai problemi dibattuti, è il giudizio della Chiesa e la Chiesa diviene
perciò giudice nei problemi di fede (index controversiarum). La Tradizione in
senso oggettivo è la fede totale della Chiesa espressa, nel corso dei secoli, in
sensibili testimonianze storiche. In tal senso la Tradizione viene comunemente
detta norma, regola dell'interpretazione biblica : regola di fede ». L'attività del
magistero e il contenuto dottrinale costituiscono quindi, nella Tradizione, una
unità vivente, un tutto inscindibile. L'attività di magistero si attua mediante la
trasmissione del tesoro dottrinale, e questo diviene potenza e vita quando è ga¬
rantito, predicato e convalidato dal magistero. - Ai fini della nostra trattazione,
quasi staccando una parte dal tutto, ci limitiamo a considerare la Tradizione
oggettiva.
4. - La Tradizione oggettiva, in senso stretto, è fonte di rivelazione
a sè stante, equivalente alla Scrittura. È dogma di fede definito dal
Concilio di Trento (Sess. 4; Denz. 789) e dal Concilio Vaticano (Sess. 3,
cap. 2; Denz. 1787).
di Cristo. Come avrebbe potuto dirci spiegar
ste
IOO INTRODUZIONE
L'esistenza e il senso della Tradizione si possono ricavare tanto dalla (A
Scrittura che dall'insegnamento patristico. g
A) Non è facile provarli con la Scrittura, argomentando dal fatto che
Cristo stesso nulla ha scritto e, anche agli Apostoli, non ha dato incarico u
di scrivere ma di predicare. In realtà noi non possediamo alcuno scritto
di Cristo. Come avrebbe potuto dirci e spiegarci con scritti e libri chi tutt
sia Dio e che cosa sia l'uomo, quando egli stesso è il Verbo rivelante
venuto a noi dal silenzio divino e pronunciato nel mondo? Egli stesso Essi
e la sua opera sono la parola visibile di Dio (Agostino). Questo Verbo 39
rivela il Padre con la sua sola comparsa tra gli uomini. Nella parola u
pronunciata da Cristo, il Verbo si è per così dire tradotto in lingua 17
umana, così da non essere solo visto ma anche udito. n
Similmente Cristo non ha dato agli Apostoli il compito di scrivere il Cri
vangelo, ma bensì di andare a predicarlo per tutto il mondo. Dal credere dell'insegn
o dal non credere alla predicazione apostolica dipende la salvezza o la s
dannazione (Mt. io, 7; 28, 19; Me. 16, 15). Essi devono essere suoi testi¬
moni in tutto il mondo (Atti 1, 8. 22; 10, 39; 20, 24). Gli Apostoli P
considerano il « ministero della parola » come un imprescindibile dovere e
e perciò lo adempiono premurosamente (Giov. 17, 20; Atti 6, 4; 20, 24).
Paolo si sente inviato a predicare il vangelo e non con sapienza di elo¬ q
quio, affinchè non sia resa vana la croce di Cristo (1 Cor. 1, 17). Egli i
ricorda ai Corinti i principali punti dell'insegnamento loro trasmesso, nos
affinchè non se ne scostino e raggiungano così la salvezza (1 Cor. 15, 1 ss.).
La fede viene dall'udito. La predicazione, che conduce alla salvezza, si Allo
compie per incarico di Cristo (Rom. 10, 17). Perciò anche Paolo loda i e
Corinti che ritengono le tradizioni tali e quali egli le ha loro trasmesse console
(1 Cor. 11, 2. 23); mentre i Tessalonicesi sono invitati a camminare se¬ (
condo i dettami delle dottrine e a ritirarsi da quel fratello che così non favo
facesse (1 Tess. 4, 1; 2 Tess. 3, 6). Mediante il suo vangelo i Tessalo¬ Rom.
nicesi sono chiamati a conseguire la gloria di nostro Signore Gesù Cristo. Col
Per questo essi devono star saldi e attenersi alle tradizioni, che sono state
trasmesse loro sia a voce, sia con lo scritto. Allora nostro Signore Gesù
Cristo e Dio nostro Padre, il quale ci ha amati e ci ha dato consolazione
eterna e una buona speranza di grazia, consolerà i loro cuori e li raf¬
forzerà per ogni buona parola e opera buona (2 Tess. 2, 14-17). Tro¬
viamo ulteriori testimonianze bibliche in favore della Tradizione sul
labbro degli Apostoli nei seguenti passi: Rom. 1, 9; 6, 17; 10, 14s.;
ICor. 3, 4 - 4, 18; 2 Cor. 11, 4; Fil. 4, 9; Col. 2, 6; Ebr. 2, 3: Ef. 3,
4-7; 2 Piet. 1, 16. 21; Giac. 1, 19; 1 Giov. 1. 1.
§ 17- LA TRADIZIONE, PAROLA DI DIO ORALE IOI
Ma tutte queste citazioni non sono affatto una prova indiscutibile e
diretta che esista anche una Tradizione orale postapostolica o che questa
debba avere la precedenza sulla Scrittura.
Anzi, contro l'opinione che pretende rinvenire solo in questi passi
« prove » sufficienti per l'esistenza di una Tradizione orale postaposto¬
lica, si possono addurre le due riflessioni seguenti:
a) Anche se Cristo non ha dato alcun ordine di scrivere, tuttavia lo
Spirito Santo, inviato da Cristo, « lo Spirito di Cristo », ha indotto gli
Apostoli a comporre degli scritti. Si deve quindi ammettere che, anche
secondo l'intenzione di Cristo, dovevano nascere Libri Sacri.
b) La situazione che si verificò con la missione degli Apostoli nel
mondo era singolare e irripetibile: erano testi oculari di colui che essi
testimoniavano (i Giov. i, 1-4; Le. 1,1; Giov. 1, 14; Atti 1, 3; Gal. 1,
15 s.; 1 Cor. 15, 3-8; 2 Piet. 1, 16). Per il predicatore postapostolico
della parola di Dio, non si verifica più tale fatto. La sua testimonianza
presuppone, come fondamento, quella degli Apostoli (Ef. 2, 20); e solo
in quanto si ricollega alla testimonianza dei testi oculari diviene a sua
volta testimonianza di Cristo. Ora questa testimonianza apostolica fu, si
potrebbe dire, conservata per intervento dello Spirito Santo nella Scrit¬
tura. Di conseguenza il legame con la testimonianza degli Apostoli è un
legame con la Scrittura. Ireneo così scrisse (Adversus haereses, 3, pre¬
fazione e cap. 1): « È il Signore che diede agli Apostoli il compito di
predicare il Vangelo. Da essi noi conosciamo la verità, ossia la dottrina
del Figlio di Dio. È a loro che il Signore ha detto: Chi ascolta voi,
ascolta me e chi disprezza voi disprezza me che vi ho mandati. Da nes¬
sun altro, al di fuori degli autori che ci han trasmesso il Vangelo, pos¬
siamo conoscere il piano salvifico di Dio. Ciò che essi dapprima hanno
predicato e, poi, secondo il volere divino, hanno trasmesso per iscritto,
deve costituire per noi il fondamento e la base della nostra fede ». Non
ci è rivelato perchè Dio abbia voluto che gli Apostoli scrivessero quanto
avevano predicato a viva voce. Possiamo tuttavia supporre che ciò sia
avvenuto perchè le generazioni successive potessero possedere inalterata
la testimonianza dei testi oculari nella loro stessa forma letterale, nel par¬
ticolare accento e colore, nella vitalità e forza che gli hanno data. Si
potrebbe in tal modo spiegare meglio perchè gli autori del Nuovo Te¬
stamento mettessero in così netto rilievo il fatto che la loro era una te¬
stimonianza oculare. Non vi fanno eccezione i Vangeli di Marco e di
Luca, poiché sono rispettivamente di origine petrina e paolina.
Da queste osservazioni si può concludere quanto segue. Il fatto che
verificò solo nel postapostolico sulla
102 INTRODUZIONE
sufficientem
Cristo stesso non abbia scritto nulla e non abbia affidato agli Apostoli il a
compito di scrivere, l'essere la stesura del Nuovo Testamento successiva o
alla prima predicazione orale, non ci autorizza a giustificare con certezza comu
assoluta la Tradizione orale. Non si può confondere la predicazione apo¬ su
stolica con la Tradizione orale intesa in senso stretto. Quest'ultima si salut
verificò solo nel tempo postapostolico e sulla base della predicazione Ges
apostolica.
Se dai testi surriferiti non si può sufficientemente legittimare la Tra¬ obb
dizione orale, militano, tuttavia, in suo favore altri passi biblici in cui d
gli Apostoli stessi invitano a una trasmissione orale della parola di Dio man
da essi predicata. Paolo, preoccupato della comunità cristiana, per difen¬ occa
derla dai pericoli che la minacciano scrive al suo discepolo e collabora¬ lo
tore Timoteo : « Abbi (come) modello (le) salutari parole che udisti da
visibilissima
me nella fede e nella carità che è in Cristo Gesù. Il bel deposito custo¬
discilo, mediante lo Spirito Santo che abita in noi » (2 Tim. 1, 13 s.). nel
L'incarico di testimoniare la parola di Dio è obbligatorio. Non c'è alcun
modo di sfuggirvi: «Ti scongiuro al cospetto d'Iddio e di Cristo Gesù,
che deve giudicare vivi e morti e per la manifestazione sua e per il
regno suo : proclama la parola, insisti in ogni occasione opportuna e inop¬ ripie
portuna, convinci, riprendi, esorta, con ogni longanimità e dottrina » ricollegav
(2 Tim. 4, 1 s.). La viva e perenne missione di altri per incarico dei di¬
scepoli degli stessi Apostoli appare visibilissima nella raccomandazione
d
di Paolo: « Tu adunque, figlio mio, rafforzati nella grazia che è in Cristo fa
Gesù, e le cose che udisti da me alla presenza di molti testimoni, tra¬
smettile a uomini fedeli, che saranno capaci anche d'istruire altri » chiun
(2 Tim. 2, 1 s.). a
dev
B) Nell'epoca patristica la Chiesa era ripiena dalla viva coscienza,
a
che la Tradizione, a mo' di un fiume, ricollegava la Chiesa di ogni se¬ piccola,
colo alla predicazione apostolica. ant
d
Significativo è quanto dice Ireneo: « In presenza di tali prove non si può ri¬ a
cercare presso altri la verità. Questa, senza alcuna fatica, si può ricevere dalla
Chiesa. Nella Chiesa gli Apostoli hanno depositato nella forma più completa,
come in una ricca cassaforte, la verità, cosicché chiunque, volendolo, vi potesse
attingere l'acqua della vita. La Chiesa è l'accesso alla vita; gli altri (che non
sono nella Chiesa) sono ladri e briganti. Questi si devono perciò evitare, mentre
tutto ciò che appartiene alla Chiesa va intimamente amato, aggrappandosi, così,
alla Tradizione. Sorge una discussione, anche piccola, in merito a una questione
non chiara? Si deve allora risalire alle Chiese più antiche, in cui hanno operato
gli Apostoli, e da esse attingere la chiara e sicura decisione sul problema di¬
scusso. Anche se gli Apostoli non avessero lasciato alcuno scritto, si dovrebbe
§ 17. LA TRADIZIONE, PAROLA DI DIO ORALE 103
ugualmente seguire l'ordine della Tradizione, consegnata da loro ai capi delle
Chiese. Questo metodo è seguito da molte genti illetterate, che credono in Cristo.
Esse posseggono la salvezza, scritta senza inchiostro e senza carta dallo Spirito
Santo nei loro cuori, e conservano con cura l'antica Tradizione » (Adversus
haereses, 3, 4). Secondo Agostino (De baptismo, 5, 23), molto di ciò che è
osservato da tutta la Chiesa va ritenuto d'origine apostolica, anche se non fu
fissato nello scritto. (Cfr. pure, Vincenzo di Lerino, Commonitorium, 27).
5. Atanasio sottolinea, contro gli eretici, che, interrogando l'antica Tradizione,
si può facilmente raggiungere con piena sicurezza la dottrina e la fede della
Chiesa intera. Questa fede fu predicata dagli Apostoli e conservata dai Padri.
Su di essa è fondata la Chiesa. Chi se ne scosta, non può essere chiamato cri¬
stiano (Epistola 1 ad Serapionem, 28; cfr. pure 33).
C) La riflessione teologica mostra la ragione e la necessità della
tradizione poiché senza di essa non avremmo alcuna sicurezza sul ca¬
none e sull'ispirazione della Scrittura.
« Questa asserzione della Chiesa (riguardante, cioè, la Tradizione orale) ha
un'importanza enorme e comprende, in certo modo, i fondamenti stessi di tutto
il resto. Alle Tradizioni orali appartiene la dottrina del canone e della stessa
ispirazione biblica. In nessuna parte della Bibbia infatti vengono elencati i libri
di cui essa si compone; se, poi, in qualche parte si rinvenisse una simile enu¬
merazione si dovrebbe, prima, mettere in questione la sua autorità. Parimenti
noi raggiungiamo la sicurezza dell'ispirazione biblica mediante la Chiesa. Già da
ciò riluce l'enorme valore che ha l'insegnamento sull'autorità della Chiesa, dal
quale dipendono anche tante altre cose. Ogni cristiano sincero deve attribuire a
una speciale grazia della Provvidenza divina la conservazione degli scritti di un
Apostolo o di qualche discepolo che diede il suo contributo al canone. Ma nel
considerare questo, egli non può astrarre dalla Chiesa cattolica e deve ammet¬
tere, pur senza volerlo, anche se intenzionalmente la combatte, che fu la Chiesa
cattolica quella che il Salvatore ha usato come strumento per conservare nei se¬
coli quei Testi che furono scritti con il suo aiuto » (Mòhler, Simbolica, § 41).
5. - La Chiesa intera, ossia il popolo di Dio, è il mezzo che conserva
la Tradizione intesa in senso stretto. Franzelin, che ha molto contribuito
a dilucidarne il concetto, dà alla Tradizione il nome di coscienza della
fede (conscientia fidei), di senso cattolico, senso ecclesiastico, fede scol¬
pita nei cuori, sapienza non scritta. Egli si guarda però dal pensare che
queste espressioni, tratte dagli scritti patristici, debbano essere abbando¬
nate per il fatto che potrebbero venir fraintese. La Chiesa intera, il po¬
polo di Dio nel suo complesso, è il soggetto della Tradizione orale, ben¬
ché non tutti imembri esercitino il medesimo ufficio. Franzelin aggiunge
infatti : « La coscienza e la professione della fede, in tutta la comunità
dei credenti, sono preservate immuni da errore dallo Spirito di verità
per mezzo dell'autentico magistero della successione apostolica. Anche se
della Tradizione, non è un semplice riflesso del
attivit
104 INTRODUZIONE
ai singoli membri della comunità ecclesiastica e al loro stesso complesso form
non compete l'autorità di insegnare autenticamente, ma solo l'obbligo fed
d'imparare, tuttavia, il senso cattolico e l'accordo di tutto il popolo cri¬
stiano in un dogma di fede si deve ritenere uno dei criteri della Tradi¬ Chie
zione divina » (i2a tesi). Il popolo cristiano, nella sua funzione di organo m
della Tradizione, non è un semplice riflesso del magistero ecclesiastico; ass
è, in senso vero, attivo per conto suo. Tale attività si esprime, per esem¬Tradizion
pio, nella trasmissione della rivelazione da padre in figlio, dagli adulti ai fed
fanciulli, dal maestro allo scolaro e in altre forme consimili. Tommaso vie
d'Aquino parla persino di una successione dei fedeli (S. Th., Ili, q. 25,
a. 3, ad 4). ecc
Siccome l'attività trasmittente dell'intera Chiesa e quella dei singoli
membri è minacciata da continue alterazioni e malintesi, Cristo, con la ecclesia
fondazione del magistero ecclesiastico, ci ha assicurati contro ogni pos¬ di
sibile errore. Il magistero esercita nella Tradizione orale il compito più i
importante. Il suo incarico di conservare la fede derivante dagli Apo¬ traman
stoli, ci garantisce che la Tradizione orale non viene alterata da elementi ess
estranei. La
Poiché la parola decisiva spetta al magistero ecclesiastico, il popolo cri¬ ecclesia
stiano può svolgere appieno e esattamente la sua attività trasmissiva solo de
in unione e dipendenza dal magistero ecclesiastico. Anche se il suo de
compito non si riduce a una pura accettazione di quanto viene predicato comple
dal magistero, non se ne può, tuttavia, rendere indipendente. popolo
L'attività con cui la Chiesa conserva e tramanda la Tradizione orale,
è concettualmente distinta da quella con cui essa proclama e definisce ch
la rivelazione. Praticamente, però, coincidono. La proclamazione e defi¬ è
nizione della fede, da parte del magistero ecclesiastico, hanno una grande framm
importanza per poter conoscere il contenuto della Tradizione orale. Il p
magistero, infatti, è il principio di conoscenza della genuina Tradizione. e
Anche se la sua attività non s'identifica completamente con la Tradi¬ Chies
zione, essendo questa esercitata pure dal popolo cristiano, tuttavia noi perciò
possiamo abbracciare con fiducia e chiarezza il contenuto della Tradi¬
zione medesima solo mediante la presentazione che ce ne fa il magistero
ecclesiastico. Non è facile riconoscere fin dove è genuina la Tradizione
orale del popolo cristiano, poiché in essa si frammischiano, al vero spirito
rivelato, molteplici errori (superstizione, « pietà popolare »). È perciò ne¬
cessario possedere una facoltà di discernimento e una norma sicura, che
sceveri il vero dal falso. Il magistero della Chiesa, con le sue dichiara¬
zioni dottrinali espone autenticamente, e perciò in modo obbligatorio,
§ 18. LE FONTI DELLA TRADIZIONE ORALE IO5
la coscienza della fede vivente nel popolo cristiano che, suscitata dallo
Spirito Santo, è pur sempre esposta al pericolo dell'orgoglio umano. In
tal modo è possibile al fedele riconoscere con sicurezza ciò che è oggetto
della Tradizione orale. Senza siffatta funzione del magistero ecclesiastico
sarebbe impossibile raggiungere tale certezza.
§ 18. Le fonti della Tradizione orale.
1. - La Chiesa oltre a garantirci il canone e l'ispirazione della Scrit¬
tura e a presentarcene, in modo decisivo, il vero significato, ci garan¬
tisce pure il contenuto della Tradizione orale e, con autorità, ce ne spiega
il senso esatto. Tutti ricevono da lei la Tradizione orale, tanto il fedele,
il quale la crede semplicemente, quanto il teologo, che cerca di penetrare
scientificamente l'oggetto della fede. E poiché l'insegnamento attuale della
Chiesa può anche non presentare la totalità della Tradizione, ma solo
una parte, ne deriva che il teologo ha la possibilità e il dovere di stabi¬
lire, con la maggiore completezza possibile, l'oggetto della Tradizione
stessa, indagando l'insegnamento della Chiesa attraverso tutti i secoli.
Irisultati della sua indagine non servono già a dimostrare quello che
la Chiesa attualmente insegna, ma a meglio conoscere la ricchezza di
tutta la rivelazione e a render possibile una più profonda comprensione
dell'attuale insegnamento ecclesiastico, ponendone in luce lo sviluppo
dalle origini fino alla sua forma attuale. Cfr. § 3, n. 11.
Nasce quindi il problema di vedere dove mai i teologi devono cercare
per stabilire la totalità della Tradizione orale.
Per questa ricerca può servire la regola di Vincenzo di Levino, che
così presenta i criteri della Tradizione orale: «Nella Chiesa cattolica si
deve avere somma cura di attenersi a quello che venne ovunque, in ogni
tempo e da tutti creduto, chè veramente e propriamente cattolico è quello
solo che, stando al senso e valore del termine stesso, abbraccia tutto nella
totalità. Il che avviene solo quando noi seguiamo l'universalità, l'anti¬
chità e il consenso generale. Ci atterremo all'universalità confessando
l'unica vera fede esser quella che è professata da tutta la Chiesa su tutta
la terra; all'antichità non discostandoci per nulla dalle verità che noto¬
riamente sono state seguite dai nostri santi predecessori e padri; al con¬
senso seguendo solo quelle decisioni e affermazioni che nell'antichità
sono state accettate da tutti o quasi tutti i sacerdoti e i maestri » (Com-
monitorium, 2). Per la retta utilizzazione di questa regola di Vincenzo dì
2. Chi vuol stabilire l'intero della
Chiesa
io6 INTRODUZIONE
l'ha
Lerino, si deve, però, ammettere che è oggetto della Tradizione, non ricerc
solo ciò che da tutti, sempre e dovunque fu creduto esplicitamente, ma e
anche ciò che lo fu implicitamente, e che il consenso non viene distrutto
da un temporaneo e parziale contrasto. fede
termine
2. - Chi vuol stabilire l'intero contenuto della Tradizione deve neces¬ q
sariamente studiare la testimonianza che la Chiesa tutta ha dato a Cristo l'adesione
dai suoi albori al giorno d'oggi. Siccome essa l'ha oggettivata in inesau¬
ribili maniere, ne deriva che tale lavoro di ricerca non potrà mai essere Tradizio
definitivamente concluso. È perciò impossibile esporre, in modo esau¬ co
riente, l'intero contenuto della Tradizione orale, quale ci viene presen¬ cor
tato dalle testimonianze che ci riferiscono la fede del passato. Anche se rivelazione
la scienza teologica riuscisse a portare a termine tale compito, non po¬ profess
trebbe tuttavia, proprio perchè è scienza, darci quella certezza di cui ha
bisogno l'adesione di fede. L'assenso o l'adesione alla rivelazione, testi¬
ficataci dalla Tradizione orale, non dipende dalla ricerca scientifica. Essorealmente
poggia invece sulla proposizione della Tradizione orale da parte del approf
magistero ecclesiastico, il quale ne espone il contenuto tanto più am¬
piamente quanto più la Chiesa, scorgendo nel corso dei secoli gli svariatiall'inizio,
e infiniti pericoli che minacciano la rivelazione, sente la necessità di tu
meglio chiarire la coscienza della fede che professa e cerca di esprimerla og
in formule precise.
c
3. - La scienza teologica, che intende realmente adempiere al suo com¬ T
pito di ricerca della Tradizione per meglio approfondire e arricchire l'in¬
segnamento attuale della Chiesa, deve indagare le fonti da cui si può un
attingere la Tradizione orale. Anche se, all'inizio, questa era trasmissione sono
puramente orale della fede senza alcuno scritto, tuttavia, nel corso dei se¬
una
coli fu fissata, in svariati modi, in documenti oggettivi, che si chiamano
fonti della Tradizione. Si considerano come tali: le regole di fede (Sim¬ sepa
boli), le decisioni infallibili dei Pontefici e dei concili, le altre decisioni dell
dottrinali della Chiesa, le opere dei Padri e dei Teologi, i catechismi, la
liturgia (riti, libri liturgici, arte sacra, iscrizioni).
Queste fonti, nel loro insieme, possiedono un valore probativo a fa¬
vore della Tradizione apostolica, in quanto sono l'espressione della co¬
stante e comune fede di tutta la Chiesa circa una verità ritenuta rivelata,
e non solo la manifestazione individuale di fede di singole persone cre¬
denti o di un determinato gruppo di fedeli, separati dal complesso della
Chiesa. La più alta testimonianza a favore della Tradizione proviene,
§ 18. LE FONTI DELLA TRADIZIONE ORALE
107
com'è logico, dalle regole di fede e dalle decisioni infallibili del magi¬
stero ecclesiastico, poiché per mezzo loro si manifesta lo spirito della ri¬
velazione e la fede dell'intero popolo di Dio.
4. - Sono Padri della Chiesa gli scrittori cristiani che fiorirono nei
primi sei secoli della Chiesa, al massimo sino all'ottavo secolo, e che si
distinsero per santità, per ortodossia e godono dell'approvazione ecclesia¬
stica. A questi si possono aggiungere, come testi della Tradizione, i co¬
siddetti scrittori ecclesiastici, ossia quei maestri dell'antica Chiesa a cui
manca 0 la santità 0 l'ortodossia e quindi l'approvazione ecclesiastica,
come, ad esempio, Origene. Essi possono venire citati come testi della
Tradizione, ma solo quando le loro affermazioni non si scostano dallo
spirito della rivelazione vivente nell'insieme della Chiesa. È compito della
teologia storica quello di raccogliere le testimonianze dei Padri e degli
scrittori ecclesiastici. In tale indagine è di somma importanza distinguere
accuratamente tra la testimonianza che essi rendono alla Tradizione e le
loro private opinioni teologiche 0 le loro altre idee sia filosofiche che
prescientifiche 0 extrascientifiche. Il valore dei risultati, a cui perviene
la teologia positiva, dipende da questa distinzione. L'autorità teologica
di un Padre vale quanto le prove da lui addotte.
Quando i Padri, come testi della Tradizione, dichiarano all'unanimità
che una dottrina riguardante la fede 0 la morale è verità rivelata, la loro
testimonianza, appunto perchè esprime la fede di tutta la Chiesa, diventa
sicura garanzia della Tradizione apostolica e perciò fonda la certezza di
fede. Non è necessario che il loro accordo sia assoluto; basta che sia
morale. Il che si verifica anche quando iPadri cominciano a testimoniare
unanimemente una verità, per la prima volta, nel momento in cui essa
diviene oggetto di controversia o di più precisa indagine. La stessa cosa
si verifica pure quando molti Padri, in tempi e luoghi diversi, insegnano
chiaramente una verità senza che altri abbiano ad opporvisi. Da ultimo
tale consenso ha luogo anche quando una dottrina è insegnata solo da
pochi Padri, i quali, però, per determinate circostanze, come, ad esem¬
pio, per il loro stretto rapporto con il magistero ecclesiastico, possono
considerarsi come esponenti della Chiesa intera. Tale il caso di Agostino
nella controversia sulla grazia.
La coscienza della fede viene espressa e attestata nel modo più atten¬
dibile mediante il magistero della Chiesa; ne deriva che se esso approva
uno scrittore antico, tale approvazione ha importanza decisiva. Quello
(Denz. 254). Alcuni Padri ricevettero una speci
la
io8 INTRODUZIONE
vo
scrittore diviene così teste attendibile della Tradizione, poiché in lui è
la Chiesa stessa che si rispecchia. Flavian
Sin dal tempo più antico, quando il magistero della Chiesa intendeva Agos
proclamare la fede rivelata si richiamava ai Padri: come ad esempio il
Concilio di Calcedonia (Denz. 148) e il Concilio Lateranense del 649 divina
(Denz. 254). Alcuni Padri ricevettero una speciale approvazione, come p
S. Agostino per la dottrina della grazia (eccetto la dottrina, da lui soste¬ c
nuta verso la fine della sua vita, della limitata volontà salvifica di Dio).
Parecchi testi patristici, come gli anatematismi di Cirillo Alessandrinoinsegnano
(Denz. 113-124), la lettera di Leone Ia Flaviano (Denz. 143-144),insegnamento
al¬
cune proposizioni tratte dalla dottrina di S. Agostino sulla grazia (Denz. epoca
174 ss.), furono citate alla lettera in definizioni infallibili della Chiesa,
esprimenti in modo decisivo la rivelazione divina contenuta nella Bibbia
e nella Tradizione. Di qui emerge la funzione propria dei Padri: essi,
con la loro testimonianza su Cristo, generano di continuo lo spirito della affatica
rivelazione nell'intera Chiesa. Tradizion
co
Quando solo uno o solo alcuni Padri insegnano una dottrina, non fon¬
dano certezza di fede. Tuttavia tale insegnamento ha una certa autorità, dottrin
tanto più forte quanto più il Padre visse in epoca vicina al sorgere della apost
Chiesa e quanto più questi rifulse per santità 0 ricevette, in modo spe¬
ciale, l'approvazione della Chiesa. de
ques
5. - Iteologi, ossia i credenti che si affaticano per approfondire la l'erro
tutta
rivelazione, sono considerati testi della Tradizione, solo in quanto sono
approvati dalla Chiesa. L'unanime e costante consenso dei teologi, du¬ all
rante un lungo tempo, nell'insegnare una dottrina come verità di fede,
è un criterio per conoscere la Tradizione apostolica (Epistola Tuas li- della
benter di Pio IX al vescovo di Monaco, Denz. 1683). E ciò si spiega m
dal fatto che, insegnando i teologi per incarico della Chiesa e con la sua Ch
approvazione, la teologia diviene, già per questo, una manifestazione svariat
della vita dell'intera Chiesa. Di conseguenza l'errore di tutti i teologi du¬ d'Aquin
rante anche un solo secolo sarebbe l'errore di tutta la Chiesa e in tal caso
infrangerebbe l'infallibilità promessa da Cristo alla Chiesa medesima.
Un rafforzamento dell'autorità di un singolo Padre 0 di un singolo
teologo sta nella sua elevazione a Dottore della Chiesa. Con tal titolo
si attesta che la teologia da lui insegnata è, in modo tutto speciale, con¬
forme al senso della rivelazione esistente nella Chiesa.
La Chiesa approvò, particolarmente, in svariate occasioni, dal xiv se¬
colo ad oggi, la dottrina di S. Tommaso d'Aquino. Tuttavia da ciò non
§ 19- RAPPORTI TRA SCRITTURA E TRADIZIONE 109
deriva che tutte le opinioni dottrinali di S. Tommaso siano certe e in¬
discutibili, ma solo che il suo sistema filosofico-teologico corrisponde,
più di qualunque altro, alla coscienza della fede che la Chiesa possiede.
§ 19. Rapporti tra Scrittura e Tradizione.
1. - Scrittura e Tradizione oggettiva in senso stretto sono due fonti
indipendenti della fede, nelle quali è contenuta tutta la rivelazione fatta
da Dio per l'attuazione del suo regno e per la nostra salvezza. Entrambe
si riallacciano alla predicazione apostolica. Nella Scrittura, come già fu
sottolineato, lo Spirito Santo che ne è il principale autore, ha racchiuso
la testimonianza degli Apostoli. Nella Tradizione orale lo spirito vivente
della fede, della rivelazione e suscitato dalla predicazione apostolica,
giunge, attraverso i secoli, sino ai giorni nostri.
La giusta indipendenza della Scrittura non sarebbe salvaguardata, se la si
considerasse come una pura trascrizione o fissazione della Tradizione orale. In tal
modo la Tradizione diverrebbe l'autentica e unica fonte della fede e la Scrit¬
tura verrebbe ridotta ad un semplice stadio o forma, anche perfettissima se si
vuole, della Tradizione medesima. Certo, si può chiamarla una fase della sacra
Tradizione, purché questa la si intenda nel senso largo spesso usato nell'antica
Chiesa. Ma quando la si intende nel senso stretto, che le dà il Concilio di
Trento, secondo cui Bibbia e Tradizione sono due fonti della rivelazione ben
distinte, allora la Scrittura non può più essere ritenuta un'espressione della Tra¬
dizione orale. La Tradizione, in questo senso limitato, è cominciata solo al tempo
in cui già la Scrittura era completa. La rivelazione divina proclamata e testi¬
moniata dalla predicazione apostolica, scomparsi gli Apostoli, scorse attraverso
i secoli in due alvei: la Bibbia e la Tradizione orale.
2. - Entrambe hanno le loro prerogative. La Tradizione ha una certa
preminenza sulla Scrittura perchè ne garantisce l'autorità, in quanto ne
attesta il canone e l'ispirazione. Questa garanzia raggiunge, evidente¬
mente, la sua ultima attendibilità solo quando è espressa dal magistero
della Chiesa. Per quanto siffatta preminenza della Tradizione sia grande
e decisiva, non dobbiamo tuttavia sopravvalutarla a scapito della parola
di Dio divinamente ispirata. Secondo un'espressione pontificia sopra ri¬
ferita, la Scrittura rimane pur sempre la « fonte preziosissima » della ri¬
velazione divina (cfr. § 12, n. x). Il contenuto della Tradizione orale,
per quanto si può stabilire fino ad oggi, supera di ben poco quello della
Scrittura. Infatti, oltre al canone e all'ispirazione, include pure, in modo
dente intento divino.
no INTRODUZIONE unio
abbo
speciale, il battesimo dei fanciulli. Ma anche questi punti sono, in qual¬ Bib
che modo, basati sulla Scrittura. usan
sol
Anche se iLibri Sacri sono soltanto contingenti e occasionali, si deve
tuttavia riflettere che si tratta di contingenza e di occasionalità che fu¬ spirit
rono addotte dallo Spirito Santo secondo il suo piano eterno e con evi¬ insti
dente intento divino. in
d
La preminenza della Tradizione, intesa come unione dell'attività docente e mag
del suo oggetto (tutta la rivelazione), viene così abbozzata da K. Adam : « Essa propria
(la Tradizione orale) è più estesa di questa (la Bibbia) soprattutto perchè ci Aposto
testimonia la ricchezza della vita cultuale, delle usanze religiose e delle istitu¬ siste
zioni che nel Nuovo Testamento sono accennate solo di sfuggita. Ed essa ha 1940,
in sè qualcosa che la Bibbia, qual morta lettera, non possiede ne può possedere,
ciò che ne costituisce la più alta prerogativa: lo spirito vivente della rivelazione, l'ispir
la vitalità del pensiero rivelato, l'istinto di fede (instinctus fidei), il senso della immun
Chiesa (phrònema ecclesiasticòn), che sta nascosto in ogni parola scritta e non
scritta. Questo spirito della rivelazione vive non in documenti morti bensì nel
cuore di quanti credono, risvegliato e diretto dal magistero ecclesiastico sotto la i
guida dello Spirito Santo. Esso è l'eredità più propria, più originale e più pre¬ pa
ziosa della predicazione di Cristo e dei suoi Apostoli. Perchè proprio in esso, co
ogni rivelazione raggiunge la sua unità, la sua sistematicità e il suo profondo
significato » (L'essenza del cattolicesimo, Brescia 1940, 222).
q
Una grande prerogativa della Scrittura è l'ispirazione, il fatto cioè che Spirit
ha Dio come autore principale e quindi è immune da errore; inoltre essa spont
possiede maggiore chiarezza e comprensibilità, maggiore precisione ed
efficacia. È infatti assai più facile determinare il contenuto della Scrit¬ Scrit
tura che non quello della Tradizione. D'altra parte è anche vero che la
stessa Scrittura è, spesso, oscura e difficile a comprendersi perchè rac¬ fo
chiude la testimonianza dei misteri di Dio. È perciò soggetta alle più co
contrastanti e opposte interpretazioni ed esige, quindi, la spiegazione au¬ no
tentica di un giudice guidato dallo stesso Spirito Santo. Nondimeno il
senso essenziale della Scrittura si presenta spontaneamente alla semplice devon
fede che si apre alla rivelazione divina.
Noi, in modo particolare, dobbiamo alla Scrittura la figura della na¬
tura umana di Cristo. Móhler così si esprime al riguardo: « Senza la
Scrittura noi avremmo perduto per sempre la forma propria dei discorsi
di Gesù. Non saremmo mai riusciti a sapere come parlava l'Uomo-Dio,
ed io credo che non potrei più vivere qualora non lo potessi più udire »
(.L'unità nella Chiesa, § 16, n. 8).
Tali prerogative della Scrittura non ci devono, tuttavia, illudere fa¬
cendoci dimenticare che anch'essa parla di Dio in senso analogico, con
§ 20. GRADI DI CERTEZZA TEOLOGICA E CENSURE III
figure e simboli; che anch'essa è una parte di quegli elementi che do¬
vranno poi cedere il passo alla pienezza della manifestazione (i Cor. 13,
9 ss.). Anche la Scrittura, come la Chiesa di cui è il libro, ha carattere
escatologico. Essa quindi, pur contenendo la immutabile parola di Dio,
verrà meno col cessare del tempo. Quando lo Spirito Santo e con lui il
Padre celeste parlerà faccia a faccia con il suo popolo giunto alla pienezza
della vita, non sarà più necessaria la parola scritta.
§ 20. Gradi di certezza teologica e censure.
1. - Gli insegnamenti del magistero ecclesiastico possono assumere vari
gradi di sicurezza, dei quali elenchiamo i più importanti:
a) Propositio de fide (Verità di fede). Sono, oltre ai dogmi, le verità
certamente rivelate ma non ancora presentate dalla Chiesa come tali, e
le « verità cattoliche » definite in modo infallibile dal magistero eccle¬
siastico.
b) Propositio fidei proxima. È quella dottrina che quasi tutti i teo¬
logi ritengono contenuta formalmente nelle fonti della rivelazione, ma
che, tuttavia, non è ancora stata espressamente presentata dalla Chiesa
come verità rivelata.
c) Propositio theologice certa (ad fidem pertinens). È quella propo¬
sizione che è così strettamente connessa con un dogma da riceverne ga¬
ranzia di verità.
d) Sententia communis. È quella proposizione che è ammessa co¬
munemente dai teologi.
2. - Per censura teologica (da distinguersi da quella canonica) si de¬
signa il grado con cui una dottrina si scosta dall'insegnamento della
Chiesa. Le principali censure sono le seguenti:
a) Propositio haeretica. È un'opinione che si oppone direttamente
a un dogma (non va confusa con il peccato di eresia, che include pure
l'adesione ostinata a un'opinione eretica).
L'eresia come dottrina è « una secessione dalla Chiesa di Cristo, con la ten¬
denza a divenire essa stessa una chiesa. È causata da una mancanza di fede
(dubbio) che, staccando una singola verità dall'organismo del deposito rivelato
sfocia poi nella piena increduli!' » (J. Brosch, Das Wesen der Hàresie, 1936,
112). Quindi l'eresia d'ordinario è l'accentuazione così forte di una verità rive¬
lata da escluderne altre ad essa coordinate; ad esempio una tale accentuazione
della divinità di Cristo da escluderne l'umanità o dell'intervento della grazia
pericolo;
consap
112 INTRODUZIONE
nelle nostre azioni da escludere il libero arbitrio. La Chiesa, di solito, respinge
le dottrine eretiche con grande energia, di modo che ogni turbamento genera
uno spostamento di equilibrio nella sua coscienza di fede. Può così sorgere un fide
atteggiamento antignostico, antiariano, antiluterano, antimodernistico. Tuttavia per c
l'azione dello Spirito Santo un siffatto contingente spostamento d'equilibrio, im¬
considerazione
posto dalla necessaria reazione all'eresia, viene sempre superato, anche se talvolta
solo dopo lungo tempo dalla scomparsa del pericolo; e gli elementi di verità,
accentuati unilateralmente dall'eresia, vengono consapevolmente messi al giusto
posto nell'insegnamento della Chiesa, ormai intonati e armonizzati con tutto il
complesso delle verità rivelate (K. Adam, L'essenza del cattolicesimo, ed. cit., 226). se
b) Propositio haeresi proxima. È opinione che si oppone diretta¬
mente a una proposizione prossima alla fede (fidei proxima).
c) Propositio haeresim sapiens. È opinione che in sè potrebbe avere falsa.
anche un retto senso, ma che, in considerazione di tutte le circostanze, Chi
si deve ritenere eretica.
d) Propositio erronea. Proposizione che si oppone a una « verità can
cattolica ».
e) Propositio temeraria. Proposizione che senza alcun valido fonda¬ pura
mento si scosta dalla sentenza comune. formula
La Chiesa può determinare infallibilmente il grado teologico di una quindi
verità e la censura teologica di un'opinione falsa. d
Si deve ritenere giudizio infallibile della Chiesa solo quello da cui, 136-
senza alcun dubbio, risulti che essa intende dare una decisione infallibile. eccl.
Può venire espresso in forma di anatema, di canone, di simbolo, di pro¬ R
fessione di fede. Nella positiva proposizione di una verità cade sotto il
giudizio infallibile della Chiesa soltanto la pura decisione e non la sua
dimostrazione o la sua spiegazione. * La formula anathema sit non san¬
ziona sempre un'eresia vera e propria e quindi non designa sempre la
verità che vuol difendere come verità di fede divina. Cfr. H. Lennerz,
Notulae tridentinae in Gregorianum, 1946, 136-142; R. Favre, Les con- ma
damnations avec anathème, in Bull, de litt. eccl., 1946, 226-241 e 1947, viene
31-48; S. Cartechini, Dall'opinione al dogma, Roma 1953, 54-64. * dogm
§ 21. La fede come principio di conoscenza della dogmatica. • Sua
essenza.
1. - Mediante la fede
noi rispondiamo alla manifestazione di Dio, che,
contenuta nelle fonti della rivelazione, ci viene presentata e garantita
dalla Chiesa. È con la fede che la teologia dogmatica raggiunge l'oggetto
§ 21. LA FEDE COME PRINCIPIO DI CONOSCENZA DELLA DOGMATICA II3
che vuol scientificamente indagare ed esporre. La fede e la ragione illu¬
minata dalla luce della fede, sono, come già vedemmo, i suoi organi di
conoscenza. Perciò in questa nostra introduzione è necessario parlare
della fede in quanto interessa i problemi di cui stiamo trattando qui.
Altre questioni riguardanti la fede, come, ad esempio, la gratuità, la
necessità e il valore salvifico, saranno esaminate in quella parte della
teologia che studia la vita divina in noi. Ulteriori problemi pure con¬
cernenti la fede teologica sono di competenza della teologia fondamen¬
tale e della morale.
2. - Il Concilio Vaticano afferma che la fede è una facoltà (virtù) so¬
prannaturale con cui noi, stimolati e sorretti dalla grazia divina, rite¬
niamo per vera la rivelazione, non perchè con il lume naturale della ra¬
gione penetriamo l'intrinseca verità delle comunicazioni divine, ma per¬
chè mossi dall'autorità stessa di Dio rivelante, che non può ingannarsi
nè indurre in errore (Sess. 3, cap. 3; Denz. 1789). La fede è perciò
l'adesione libera, operata in noi dallo stesso Iddio, verità somma, all'au-
tomanifestazione di questa stessa prima e suprema verità direttamente
inaccessibile alla ragione umana. Quando l'uomo accoglie la Verità per¬
sonale che si manifesta a lui nella rivelazione soprannaturale, egli le si
assoggetta, perchè essa è in grado di esigere la sottomissione del suo
spirito in forza dell'autorità che le è propria. Così Iddio, rivelandosi,
fonda il suo regno come regno della verità nell'uomo. Questi con il suo
sì alla Verità-persona, che si svela a lui, attua il regno di Dio nella storia
umana.
3. - La fede è dono
di Dio, capacità prodotta nello spirito umano dallo
Spirito Santo, epperciò soprannaturale. Solo con una facoltà sopranna¬
turale ci è possibile accogliere la rivelazione soprannaturale, poiché solo
attraverso l'elevazione soprannaturale dello spirito umano può essere sta¬
bilito il giusto rapporto tra la facoltà conoscitiva e l'oggetto conosciuto.
La creatura, nel suo essere naturale, non ha alcuna facoltà atta ad acco¬
gliere la realtà divina svelantesi attraverso la rivelazione soprannaturale.
Si trova in posizione peggiore di un cieco posto dinanzi a una pittura o
di un sordo dinanzi ad una melodia. Con la mozione soprannaturale dello
Spirito Santo le vengono aperti gli occhi perchè possano vedere la realtà
divina. Senza di essa noi potremmo bensì udire il messaggio di Dio che
risuona esternamente ai nostri orecchi, ma non ne potremmo rettamente
intendere il significato e soprattutto, non lo potremmo accogliere come
una testimonianza della realtà (cfr. il trattato sul Battesimo).
8 - schmaus - dogmatica I.
impedirgliene l'accesso. Secondo il linguaggio bi
INTRODUZIONE
profo
114 all
4. - Il messaggio di Dio può essere accolto e affermato solo dall'in¬
telligenza illuminata dal lume della fede. Essa è la facoltà con cui ossia
l'uomo riceve il messaggio di Dio, la parola divina. Dipende però sem¬ de
actus
pre dalla decisione della volontà, anzi di tutto l'io umano di cui la vo¬
lontà è forza fondamentale, accogliere in realtà tale messaggio divino o q
impedirgliene l'accesso. Secondo il linguaggio biblico si può asserire che huius
ciò dipende dal cuore. Quando l'uomo, nel profondo del suo essere per¬
sonale, si piega alla parola di Dio e si accosta alla realtà divina che gli si ri
dischiude nella rivelazione, allora egli esprime il suo assenso mediante p
la facoltà che serve per accogliere il reale, ossia mediante l'intelligenza. s
La fede, vista nel suo esplicarsi nell'intimo dell'anima, non è che un
atto dell'intelletto imperato dalla volontà (actus intellectus a voluntate fe
imperatus; Tommaso d'Aquino, S. Th., II-II, q. 4, a. 2: credere imme¬ m
diate est actus intellectus, quia obiectum huius actus est verum, quod d
proprie pertinet ad intellectum). Si
Quando si asserisce che la fede consiste nel ritenere qualcosa per vero
se ne indica la sua essenza formale. Si deve però riconoscere il carat¬
tere analogico di questa espressione. Solo così si può distinguere la fede
non
dal modo con cui uno scolaro ritiene per vere le notizie d'ordine natu¬ un'ades
rale che gli dà il maestro. Dio, infatti, nella fede, non prende sempli¬ me
cemente il posto di un maestro. Non si deve mai dimenticare che l'in¬
tima struttura della fede soprannaturale è ben diversa dalla « fede » na¬ s
turale basata sul carattere sociale dell'uomo. Si veda più innanzi quello
che diremo dell'intervento della volontà. gara
b
5. - Secondo questa precisazione la fede non è semplicemente un as¬
senso a idee, principi 0 concetti, bensì un'adesione alla realtà personale c
di Dio che si svela a noi in Cristo. E tanto meno è un semplice slancio
del cuore, un fervore di energia psichica, un concentramento di forze cr
volitive, un'esperienza religiosa, un particolare sentimento vitale, benché d
essa possa includere tutto ciò. Le realtà a cui si assente per fede, non 8),
sono visibili, rimangono nell'ombra, ma sono garantite dall'autorità di Dio.
La fede, di cui ci parla la rivelazione, è ben determinata nel suo
contenuto.
a) Ciò risulta chiarissimo nella descrizione che ce ne dà la Scrittura.
Gesù iniziò la sua predicazione con le parole : « È compiuto il tempo e
si avvicina il regno di Dio. Fate penitenza e credete al Vangelo! » (Me.
1, 15). È con la fede che si accoglie la parola di Dio (Le. 9, 12 ss.). La
fede nel Vangelo è fede in Cristo (Le. 18, 8), il Figliuolo di Dio vivo
§ 21. LA FEDE COME PRINCIPIO DI CONOSCENZA DELLA DOGMATICA II5
(Mt. 16, 16). Chi crede in lui, non perirà, ma avrà la vita eterna (Giov.
3, 13-16. 36). Chi crede in lui, l'Inviato dal Padre, compie l'opera di
Dio (Giov. 6, 29). La fede in Cristo, è la sola via per raggiungere la sal¬
vezza e la vita. Di conseguenza lo stato dei contemporanei di Cristo è
disperato, poiché essi, per la loro cecità pavida di luce e la loro malva¬
gità ostile a Dio, non hanno voluto percorrere quest'unica via. Perciò,
moriranno nei loro peccati (Giov. 8, 24). Gesù è la risurrezione e la vita.
Chiunque crede e si affida a lui con fiducia non perirà in eterno, anzi
vivrà, fosse pur morto (Giov. 11, 25 s.). La fede in Cristo racchiude in
sé la fede nella Trinità di Dio, nel cui nome gli Apostoli devono bat¬
tezzare (Mt. 28, 19). La fede nel Vangelo ci ottiene salvezza e salute
(Me. 16, 16).
Alla predicazione di Cristo corrisponde la fede convinta che nasce nei
discepoli. Quando il tesoriere e dignitario della regina degli Etiopi con¬
fessa: «Io credo, che Gesù Cristo è il figlio di Dio », Filippo gli con¬
ferisce il battesimo (Atti 8, 38). Pietro predica in Cesarea: «Di lui te¬
stificano tutti i profeti, che chiunque crede in lui, riceve per il suo nome
la remissione dei peccati » (Atti 10, 43). Paolo e Sila danno la medesima
assicurazione al carceriere di Filippi (Atti 16, 30 ss.). L'intero Vangelo
di Giovanni è stato scritto affinchè il lettore possa credere che Gesù è il
Messia, il Figlio di Dio e mediante tale fede ottenga la vita nel suo
nome (Giov. 20, 31). La fede ci libera dalla pura esistenza terrena e ci
unisce strettamente a Dio : « Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è
generato da Dio, e chiunque ama quegli che generò, ama anche chi è
generato da lui. In questo conosciamo d'amare i figli di Dio, quando
amiamo Iddio e pratichiamo i suoi comandamenti. Infatti l'amore di Dio
consiste in questo, che osserviamo i suoi comandamenti e i comanda¬
menti di lui non sono gravosi, perchè chiunque è generato da Dio, vince
il mondo; e questa è la vittoria che vinse il mondo: la fede nostra. Chi
è mai che vince il mondo, se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? »
(x Giov. 5, 1-5).
Secondo la testimonianza di Paolo « la fede è sostanza di cose spe¬
rate, e argomento di quelle che non si vedono. Riguardo ad essa, buona
testimonianza ricevettero gli antichi. Per fede noi conosciamo che i se¬
coli furono formati per la parola di Dio, di modo che non da cose visi¬
bili è derivato ciò che si vede» (Ebr. 11, 1-3). Mediante la fede acco¬
gliamo il mistero di Cristo che ci redime (Ef. 2, 8), la salvezza in Cristo
Gesù (Rom. 3, 22 ss.). « Chi confessa con la bocca che Cristo è Signore
e crede nel suo cuore che Iddio lo risuscitò da morte, sarà salvo » (Rom.
fede alle favole ai miti. Così scrive Paolo Tim
o
Ii6 INTRODUZIONE
c
io, 8-9). Poiché il mondo con la sua sapienza non conobbe Dio e la di¬ ge
vina sapienza, Dio si compiacque salvare credenti
i mediante la follia l'econom
della predicazione di Cristo Crocefisso (1 Cor. 1, 21-22). La fede in
Cristo è fede nella verità e nella realtà (2 Tess. 2, 13). Ciò appare mag¬ vanilo
giormente palese quando l'incredulo è designato come colui che prestacirconcisi
fede alle favole e ai miti. Così scrive Paolo a Timoteo: « Come ti racco¬ in
mandai quando partivo per la Macedonia, (così ora ti ripeto) di resistere turp
al tuo posto ad Efeso allo scopo di intimare a certuni di non insegnare patristi
dottrine estranee, di non aderire a miti ed a genealogie senza fine. Tali
cose favoriscono contese, piuttosto che l'economia di Dio nella fede »
(1 Tim. 1, 3 s.: cfr. 2 Tim. 3, 8; 4, 4). A Tito sono rivolte le aspre pa¬
role : « Vivono infatti molti insubordinati, vaniloqui e seduttori, special¬ tenden
mente fra quelli che provengono dalla circoncisione: a costoro è neces¬ fon
sario turare la bocca; costoro sono gente che intere famiglie sovvertono no
insegnando ciò che non si deve, per amore di turpe lucro » (Tit. 1, 10-14). Cristologia)
b) Che la fede cristiana, nell'epoca patristica, avesse un contenuto com
ben preciso appare, tra l'altro, dalla formazione dei simboli di fede, dal¬ stare
l'istituzione del catecumenato e dalla istruzione dei catecumeni circa de¬ non
terminate verità. mu
6. - Il suo carattere di grazia e la sua tendenza a Cristo, come a suo d
oggetto proprio, distingue essenzialmente e fondamentalmente la fede G
da ogni altro analogo atteggiamento religioso non cristiano. Come Cristo foi
non è imo dei tanti salvatori (cfr. la Cristologia), così anche la fede cri¬ si
stiana non è una delle solite esperienze 0 comportamenti religiosi, una de
generica religiosità, che potrebbe di per sé stare con i più disparati og¬L'accetta
getti. La fede intesa dal Nuovo Testamento, non è una nozione generale da
che si applichi a molte varietà: cristiana o musulmana, greca antica 0 riv
dal¬
buddistica; essa designa un fatto unico, vale a dire la risposta data comandamen
l'uomo a Dio che si rivela in Cristo. Cfr. R. Guardini, Vom Leben des
Glaubens, 1935, 32 s.; trad, franc. Vie de la foi, Paris 1951, 23-24. insuffici
7. - La fede non è quindi un processo che si svolga unicamente nella
cerchia dell'intelletto, come atto conoscitivo della sfera naturale, quale,
ad esempio, una cognizione scientifica. L'accettare la realtà rivelata non
dipende dalla sua evidenza intrinseca, ma dalla nostra sottomissione
personale a Dio che ci chiama in Cristo. La rivelazione include un ob¬
bligo per l'uomo. « Ora questo è il comandamento di lui : che crediamo
al nome del Figlio suo Gesù Cristo » (1 Giov. 3, 23). Se i Giudei non
raggiunsero la luce, ciò non dipende da insufficienza d'illuminazione ma
§ 21. LA FEDE COME PRINCIPIO DI CONOSCENZA DELLA DOGMATICA 117
bensì dal non aver voluto credere. « Voi andate investigando le Scrit¬
ture, perchè credete di avere in esse la vita eterna: e queste sono quelle
che parlano a favore mio: e non volete venire a me per aver la vita! »
(Giov. 5, 39-40). La fede è obbedienza alla chiamata di Dio (Rom. i, 5;
6, 17; 15, 18), la quale elimina ogni sofisma e ogni amor proprio che
si oppone alla conoscenza della Divinità. Rende schiava l'intelligenza per
l'obbedienza a Cristo (2 Cor. 10, 5 s.). Così la fede diviene comunione
vitale con Cristo e, per mezzo suo, con la Triade augusta. Cfr. la Cri¬
stologia e la dottrina della grazia.
Pur essendo ben determinata nel suo contenuto, la fede, in quanto
viva, non si riduce alla pura accettazione intellettuale delle verità rive¬
late: è un assenso dato a Dio, che a noi si accosta in Cristo, sgorgante
da un'amorevole disposizione verso Dio e sfociante nell'amore a lui.
È la carità che determina il grado della fede. Anche i demoni hanno
fede, priva però d'amore (Giac. 2, 19). Paolo ammette la squallida pos¬
sibilità di una fede capace di trasportare montagne, ma priva di carità.
In tal caso asserisce: « un nulla io sono » (1 Cor. 13, 2). Credere senza
amare è pura legalità e fredda ortodossia, incapace di procurare la salvezza.
La fede genuina, quale ce la descrive il Nuovo Testamento, è un assenso vivo
prestato a Dio. Deve, perciò, includere la rinuncia a una visione puramente
umana del mondo e dell'uomo stesso e l'abbandono di un comportamento esclu¬
sivamente ancorato al terreno. La fede sta quindi in opposizione con il razio¬
nalismo, il positivismo, il naturalismo e l'umanesimo immanentista. Certo, anche
il pensiero contemporaneo va combattendo il razionalismo e il positivismo con
i derivati meccanicisti e il conseguente disprezzo dell'esistenza (Bachofen, Nietz¬
sche, Sorel, Chamberlain, Stefan George). Si tenta, in base all'intuizionismo,
una interpretazione simbolica sia dei misteri del mondo, sia degli intimi e pro¬
fondi legami che uniscono gli uomini di una determinata epoca o cultura con
le ultime ragioni del tutto. Tali tentativi, però, si muovono esclusivamente nel
mondo naturale. Il credente, al contrario, vede che l'uomo non è solo in rap¬
porto con dati e forze terrene. La fede gli mostra molto di più e gli presenta
l'intimo legame gratuito della creatura con il Dio vivente. Poiché essa la con¬
duce a una perfezione umana trascendente le stesse possibilità dell'uomo, ne
deriva che l'assenso dato alla rivelazione soprannaturale diviene affermazione della
gloria e della dignità umana poggiate su Dio. La fede rende possibile e garan¬
tisce all'uomo di conoscere se stesso come partecipante alla gloria di Dio e, in
fine, di realizzare la sua esistenza in modo conforme al suo ultimo destino.
Nella sua dedizione credente a Dio, l'uomo esperimenta ciò che gli manca.
Nello stesso tempo, partecipando alla vita divina, eleva al massimo la sua esi¬
stenza e raggiunge la pienezza di vita. Perciò al cospetto di Dio, e solo al suo
cospetto, egli ritrova il suo vero essere.
La fede è assenso ubbidiente alle manifestazioni che la Triade augusta ha
ii8 INTRODUZIONE
rivolto a tutta l'umanità, perciò possiede, per tutti gli uomini, la medesima
struttura essenziale. Tuttavia il modo di questo assenso è condizionato alle ca¬ as
ratteristiche individuali e sociali dei credenti. La fede ha lo stesso contenuto,
ma non la stessa forma per tutti. Sulle profonde differenze delle singole forme
di fede cfr. R. Guardini, Vom Leben des Glaubens, 1935, 107-127; trad, franc.
ammess
Vie de la foi, Paris 195 1, 73-89.
prim
cons
§ 22. II motivo della fede. v
lu
1. - Il motivo per cui noi diamo il nostro assenso al contenuto della dinanzi
rivelazione, ossia l'oggetto formale della fede, è secondo il Concilio Va¬
ticano, l'autorità di Dio rivelante (Sess. 3, cap. 3; Denz. 1789). Dio è seguiam
teste attendibile, contro il quale non è ammessa replica (Giov. 3, 11;
8, 26). Leone Magno così si esprime nella prima parte del suo settimo assol
discorso natalizio : « Quando cerchiamo di considerare il mistero della la
natività di Cristo, incarnatosi per opera di una vergine, la nostra povera rivelazio
ragione umana brancolante nelle tenebre è ben lungi dal poterlo chiarire. Ne
Ma ogni vana saggezza umana svanisce dinanzi al nostro sguardo illu¬ trasme
minato dalla fede. Dio è nostro mallevadore, a cui noi ci affidiamo con l'auto
fiducia; da Dio proviene la dottrina che seguiamo ». I
della
2. - L'autorità di Dio poggia sulla sua assoluta sovranità che, rive¬ p
landosi, si accosta a noi come la Scienza e la Veridicità in persona. s
Isegni e i miracoli che testimoniano la rivelazione non sono il motivo, c
ma bensì presupposti e condizioni della fede. Nemmeno la Chiesa è mo¬ dell'obbedie
tivo della fede, ma è soltanto colei che ci trasmette e dichiara la rivela¬
zione accolta, in ultima analisi, solo per l'autorità di Dio. La fede si
realizza perciò nel rapporto dell'uomo con Dio. Il credente si sottomette
a Dio da cui è stato chiamato nell'intimo della coscienza. Nessuno gli
riv
può togliere qui la sua responsabilità; nessuno può credere per lui. Dio,
con
il Signore del mondo e degli uomini, con la sua chiamata rivelatrice,
adduce un obbligo all'uomo. È decisivo che chi riceve l'appello della
rivelazione divina, gli dia la risposta dell'obbedienza.
§ 23. Oggetto della fede.
1. - Oggetto della fede divina è ogni verità rivelata da Dio e presen¬
tata dalla Chiesa. Anche se tutte le verità contenute nelle fonti della
§ 24. PREPARAZIONE 0 GIUSTIFICAZIONE DELLA FEDE 119
rivelazione sono garantite allo stesso modo dalla testimonianza divina,
sussiste, tuttavia, un certo ordine nel loro complesso. Centro di ogni
verità rivelata è Cristo. L'ordine oggettivo deve pure rispecchiarsi nella
coscienza dei credenti, per cui ciò che è verità centrale nella rivelazione
deve pure occupare il primo posto nella coscienza di chi crede, senza
correre il pericolo di essere soppiantato e oscurato da qualche realtà
marginale.
2. - Le rivelazioni private non sono oggetto di fede nel senso soprad¬
detto. L'approvazione ecclesiastica garantisce solo che esse non conten¬
gono nulla che sia contrario alla fede e ai costumi e assicura colui che
le accetta di non incorrere nel pericolo di superstizione. Coloro però che
le ricevono e sono certi, mediante segni sicuri che derivano da Dio,
devono accoglierle con fede divina. Secondo Benedetto XIV (De beati-
ficatione et canonizatione servorum Dei, II, 32) l'approvazione delle ri¬
velazioni private non « è altro che il permesso di poterle pubblicare per
edificazione e utilità dei credenti». Cfr. §§ 1 e 8.
§ 24. Preparazione o giustificazione della fede.
In concreto, tante sono le vie per giungere alla fede, quanti gli uomini
viventi. Non è quindi possibile tracciare al riguardo delle regole valide
per tutti. Si possono tuttavia rilevare alcuni punti fissi, entro cui si attua
sempre il sorgere della fede.
1. - In primo luogo occorre asserire che la fede è opera della grazia
e non può essere provocata e generata da alcuna fatica 0 sforzo umano.
Inutile impresa quindi volerla dimostrare. Tuttavia nel caso di persona
nata fuori della Chiesa Romana 0 di un cattolico solo più di nome, la
fede può essere preparata dalla ragione e dalla volontà, e, nel cattolico
credente, giustificata e consolidata. Distinguiamo e separiamo la volontà
dalla ragione, per maggior chiarezza, quantunque di fatto le due facoltà
formino un'unità vivente. La volontà è illuminata dalla ragione, la ragione
è riscaldata dalla volontà.
2. - La preparazione 0 la giustificazione nel campo razionale include
la conoscenza dell'autorità divina, del fatto della rivelazione e della
verità in essa contenuta. Solo chi è giunto alla conoscenza di queste tre
cose è in condizione di poter credere alla realtà che la rivelazione gli
miracoli e le profezie, i quali, dimostrando evide
I20 INTRODUZIONE
ap
dischiude. A sua volta, la conoscenza del fatto della rivelazione consiste
nel sapere che Dio si è manifestato in Gesù Cristo e che noi ritroviamo ste
nella Chiesa la rivelazione avveratasi in Cristo. 9,
Ciò è dimostrato dalla teologia fondamentale (o Apologetica). Il che la
essa fa in quanto presenta e spiega alcuni fatti divini, in primo luogo i
miracoli e le profezie, i quali, dimostrando evidentemente l'onnipotenza una
e la scienza divina, sono segni certissimi, e appropriati all'intelligenza filosofia
di tutti, della divina rivelazione. del
Che i miracoli e le profezie siano segni della verità e della credibilità pro
della rivelazione ci vien spesso asserito dalla stessa Scrittura. (Cfr. Mt. f
fra
9, 1-8; Me. 16, 20; Giov. 2, n; 5, 36; 7, 31; 9, 30-34; 15, 25; 14, 12;
la
15, 24; 20, 30 s.). È quindi Dio stesso, e non la nostra ragione, che di¬ Celsum
mostra in primo luogo la rivelazione. rivela
po
Origene così scrive : « Per la nostra fede vi è una dimostrazione tutta spe¬
ciale che si addice solo a Dio e che supera la filosofia dialettica e la sua prova.
Questa argomentazione Paolo la chiama la prova " dello spirito e della potenza " p
(1 Cor. 2, 4). Prova " dello spirito " a causa delle profezie che sono tali da pro¬
vocare, specialmente nei passi riguardanti Cristo, la fede del lettore. Prova " di
m
potenza" per i miracoli straordinari la cui realtà, fra l'altro, può essere dimo¬ d
strata dalle tracce che sussistono in coloro i quali lasciano dirigere la propria
vita in armonia con il volere divino» (Contra Celsum, 1, 2; PG. 11, 656). Si¬ mirac
milmente Tommaso d'Aquino afferma che la rivelazione non si sostiene sudestinato
prove umane, ma su argomentazioni fornite dalla potenza divina (S. Th., Ili,
q. 43, a. 1).
inte
disponibilit
Imiracoli e le opere divine generano non probabilità, ma certezza.
Questa poggia su prove non matematiche bensì morali, cioè fondate sul¬ s
l'ordine morale ed escludenti ogni ragionevole dubbio. Quando si legge l'uomo
nel Vangelo che Cristo non potè talvolta operare alcun miracolo a motivo favor
dell'incredulità, non si deve inferire che il miracolo poggi sulla fede, ma divin
che esso non è un prodigio da circo destinato a colpire e soggiogare
l'uomo: Dio anzi, anche nei suoi miracoli, intende rispettare la perso¬ razio
nalità umana, presupponendo la sua disponibilità per la fede (cfr. Me.
9, 23).
Circa la dimostrazione basata sui miracoli e sulle profezie, si può os¬
servare che essa è in grado di far uscire l'uomo dalla sua indifferenza e
di dargli la prima spinta per deciderlo a favore della rivelazione, può
accostarlo alla santità della manifestazione divina, ma mai introdurvelo.
Può rendere estrinsecamente credibile l'intima essenza misteriosa della
rivelazione, ma non mostrarne l'intrinseca razionalità; riesce a provare
§ 24. PREPARAZIONE 0 GIUSTIFICAZIONE DELLA FEDE 121
l'obbligo razionale della sua accettazione, ma non è mai capace di ge¬
nerare la fede (motiva credibilitatis et credentitatis). Ed è proprio di
questa accogliere (non comprendere) il contenuto della rivelazione. Imi¬
racoli e le profezie sono quindi semplici preamboli della fede (praeam-
buia fidei), che Dio stesso, tuttavia, ha associato alla rivelazione.
Da quanto abbiamo esposto deriva che l'autorità di Dio rimane
sempre il motivo vero e proprio della fede. Noi crediamo a Dio fon¬
dandoci non sulla dimostrazione della sua credibilità, ma sulla sua au¬
torità, su di lui stesso, sulla sua propria testimonianza. Nessuna prova
è capace di suscitare l'atto di fede, quasi fosse la conclusione di proce¬
dimenti dimostrativi. Alla fede, in ultima analisi, si perviene soltanto
mediante una decisione. E le « prove » a sostegno della rivelazione ser¬
vono solo a mostrarci che tale decisione non è irrazionale e non costi¬
tuisce un salto da un'oscurità in un'altra.
Se, nonostante i miracoli e le profezie, non tutti pervengono alla fede
o si mantengono in essa, deriva che occorre distinguere tra forza dimo¬
strativa e forza persuasiva. Imiracoli non toccano solo la ragione ma
anche la volontà e il cuore. Essi invitano alla penitenza o conversione
(Mt. n, 20-24; I2, 38-42). Chi, con cuore indurito nella colpa, si chiude
dinanzi a Dio, si scandalizza per i miracoli. Essi non solo non lo illumi¬
nano, ma lo accecano una volta di più. Non gli servono da via di sal¬
vezza, ma da strada di perdizione. Gesù stesso proclamò beati coloro
che non si sarebbero scandalizzati dei suoi miracoli (Mt. n, 1-6).
« Il miracolo giova a salvezza soltanto per gli uomini di buona volontà. Il suo
duplice aspetto, di testimonianza o di scandalo, diviene in tal modo visibile.
Chi non si accosta al miracolo volentieri e con cuore disposto, viene scanda¬
lizzato e spinto alla rovina da un segno che provoca contraddizione (Le. 2, 34).
L'uomo che, per usare un'espressione di Cristo, appartiene a " una generazione
cattiva e adultera " (Mt. 12, 39), ha una volontà sì corrotta che, anche dinanzi
al miracolo, non ricerca la gloria di Dio, ma bensì se stesso, sia che intenda
appagare la propria curiosità, sia che voglia esaltare il proprio orgoglio religioso
o la propria alterigia. Chi, come Erode, desidera vedere segni miracolosi sol¬
tanto per appagare il suo gusto spettacolare, costui non riceverà alcuna risposta
da Dio (Le. 23, 8-10). Igenuini segni del Cielo non sono giochi di prestigio,
che tendono solo a dare nell'occhio. Colui che da fariseo o da illuminista vuol
coartare la libertà divina che opera prodigi, entro misure terrene, che sono, per
il fariseo, la conoscenza umana della legge (Mt. 12, 9-14; Me. 3, 1-6; Le. 6, 6-11;
Giov. 9, 16) e, per l'illuminista, il concetto puramente razionale di Dio, è in¬
dotto da ogni segno miracoloso, data la sua cecità di cuore (Me. 3, 5) a un
peggior accecamento » (G. Sohngen, Wunderzeichen und Glaube in Cattolica,
4, 1935, 154-164).
d
122 INTRODUZIONE
d
D'altra
Quanto tale accecamento possa divenire spaventoso appare chiaro
cer
nella decisione del Sinedrio che vuole uccidere Gesù affinchè il popolo
intero non creda in lui a motivo dei suoi miracoli (Giov. ix, 45-50), e disposizione
assassinare Lazzaro, che Cristo aveva risuscitato, poiché molti Giudei si genit
accostavano a lui e gli credevano proprio grazie a questo prodigio (Giov.
vers
12, 9-11).
morale
La prova che la teologia fondamentale trae dai miracoli e dalledell'esistenza,
pro¬
fezie non riesce a convincere tutti gli individui del fatto della rivelazione, dell
e così spingerli a decidersi per la fede. D'altra parte tale spinta a cre¬ fed
dere può provenire da argomenti che sono certamente giusti, ma che
diventano decisivi solo in virtù della disposizione e della psicologia di un cap
determinato individuo: testimonianza dei genitori per i figli, senso di è
sicurezza, soddisfacimento delle aspirazioni verso la verità e la bontà, opp
pienezza di vita nella Chiesa, elevatezza morale, bellezza della liturgia, so
consolazione nella morte, ragione dell'esistenza, ordine sociale, ecc. scie
Per il cattolico che fu dotato nel battesimo della virtù della fede (lumen
fìdeì) e che continuamente attinge la propria fede da quella della Chiesa rive
e la realizza, non vi può essere alcun motivo ragionevole di dubitare
della rivelazione (Concilio Vaticano, Sess. 3, cap. 3; Denz. 1794; can. 6, sv
Denz. 1815). Questo è dogma. Siccome Dio è l'unica fonte sia della div
scienza che della fede, non è possibile esista opposizione alcuna tra fede
e scienza. Contraddizioni apparenti nascono solo 0 da una interpreta¬
zione inesatta della rivelazione o da opinioni scientifiche erronee 0 senza Vatic
fondamento. Esistono, senza dubbio difficoltà e tensioni. Dio, infatti, è esser
un essere ben diverso dal creato, per cui le rivelazioni della sua vita in¬ mettere
tima suonano per noi in modo assai strano e fuori del normale. Tali im
cu
tensioni vanno però combattute ed eliminate; svaniscono man mano che ineren
ci uniformiamo intimamente alla rivelazione divina. Si possono parago¬ in
nare alle tensioni 0 ai contrasti che esistono, quaggiù, in tutti i rap¬straordina
porti umani. s
Secondo il parere di molti teologi il Concilio Vaticano avrebbe espresso come
articolo di fede che per il cattolico non vi può essere motivo non solo oggetti¬
vamente ma anche soggettivamente valido per mettere in dubbio o abbandonare
la fede. Quindi ogni dubbio o perdita della fede implicherebbe sempre colpa
grave, sia che si commetta nel momento stesso in cui si abbandona la fede, sia
anteriormente con la trascuranza dei doveri inerenti alla fede medesima. La
maggioranza dei teologi è però disposta a scusare in qualche modo coloro che,
senza colpa propria, incorrono in difficoltà straordinarie. Esistono infatti casi in
cui cattolici « incolti », per usare il termine di uno schema proposto al Concilio
Vaticano — incolti in religione anche se molto colti nel resto, — essendo privi
§ 24. PREPARAZIONE 0 GIUSTIFICAZIONE DELLA FEDE 123
di adeguata conoscenza dell'essenza del cristianesimo, della sua intima struttura,
del suo significato e scopo, e possedendo solo la conoscenza di elementi isolati
della fede, possono in seguito a circostanze particolari dubitare dell'esistenza
della rivelazione (Granderath, Constitutiones dogmaticae Oecumenici Concilii,
61 ss.). Questo che è ammesso dalla maggior parte dei teologi, potrebbe essere
il vero, senso della decisione conciliare. Ciascuno poi è, infine, obbligato ad agire
secondo la sua coscienza (da formarsi, naturalmente, mediante la rivelazione).
3. - La volontà prepara la fede o la protegge contro i pericoli in du¬
plice modo: richiamando l'intelletto ai motivi di credibilità e rimo¬
vendo gli ostacoli che sul piano della volontà medesima impediscono
l'obbediente sottomissione alla parola di Dio (orgoglio, leggerezza, pas¬
sione, pregiudizio).
Queste due funzioni della volontà si compenetrano fra loro intima¬
mente. L'uomo può tener conto della possibilità di una rivelazione so¬
prannaturale e prestarle attenzione solo quando, pronto a riconoscere
ima realtà superiore alla sua, rinuncia ad essere lui stesso norma del suo
pensiero e del suo agire. Soltanto la disposizione all'incontro con Dio e
il volere che tale incontro abbia luogo ci danno la spinta a gettare lo
sguardo dentro al mistero divino, contenuto nella rivelazione. Tuttavia
la dedizione a Dio, decisione preliminare, a favore della fede, non è una
forza che ci sospinge solo all'inizio del cammino. Essa accompagna e pe¬
netra il pensiero sino a quando non è compiuto l'atto di fede, non solo,
ma anche allora non si ferma e resta unita alla fede come una forza che
tiene la creatura in movimento verso Dio. La voce di Dio diviene per
l'uomo luce e vita nella misura con cui egli è pronto ad accoglierla.
L'amore apre l'occhio a questa luce e vita, alla parola di Dio. Di ri¬
mando, ogni sviluppo della conoscenza dà maggior ampiezza e forza
all'amore.
La volontà è quindi la potenza umana decisiva nella nascita della fede
e nella difesa dai pericoli. La fede può sussistere solo in quanto l'io
umano rinuncia alla propria gloria per donarsi a Dio. Il che non significa
avvilire se stesso, ma ritrovarsi in Dio. Per l'uomo credere in Dio è
anche credere a se stesso, nel proprio io elevato, in Dio, alla gloria della
vita divina.
Che la rettitudine della volontà concorra in modo decisivo al ricono¬
scimento della rivelazione è affermato da Gesù quando dice : « La mia
dottrina non è mia, ma di chi mi ha mandato. Chi vorrà adempiere la
volontà di lui, conoscerà se la dottrina sia di Dio,, ovvero se io parli da
lo incontri. Il sole si rispecchia soltan
INTRODUZIONE
tem
124
chiar
me stesso » (Giov. 7, 16 s.). Chi compie la volontà di Dio, possiede,
grazie alla sua affinità con lui, la capacità di avvertire l'origine divina della d
dottrina di Gesù. Gli uditori di Cristo non l'avvertirono, perchè in essi
non vi era affinità con Dio. « Solo colui che ha nel cuore il desiderio è
costante di compiere la volontà di Dio riesce a riconoscere il divino, Abramo
ovunque lo incontri. Il sole si rispecchia soltanto nel chiaro lago mon¬ lor
tano non increspato da alcuna onda. Il flusso tempestoso delle onde non amma
può raccogliere la sua immagine in modo chiaro e limpido » (F. Till- hann
mann, Das Johannesevangelium, 127). Pur
IGiudei rifiutarono la fede perchè, come ci dice Gesù, non amavano l
Dio, nè ricercavano la gloria di lui, ma bensì la propria (Giov. 5, 41-44).confessa
Essi erano di questo mondo, mentre il Cristo è di lassù (Giov. 8, 23).
Si gloriavano della loro discendenza da Abramo, del sangue libero che
scorreva nelle loro vene, dell'appartenenza alla loro stirpe (Giov. 8, 33-41). m
Di fronte a tale atteggiamento spirituale, ammaestramenti, avvisi e am¬ no
monizioni, come afferma Gesù stesso, non hanno alcun valore. È inutile s
che Cristo continui a istruirli (Giov. 8, 25). Purtroppo il Padre loro non principi
è il Dio del cielo, ma bensì il demonio: ecco la ragione principale per 42
cui i Giudei, pur essendo obbligati a confessare la sua assoluta inno¬
cenza, lo odiano e lo respingono. « Se Dio fosse vostro Padre, certamente che
amereste me, imperocché da Dio sono uscito e sono venuto! perchè non
non sono venuto da me stesso; ma egli mi ha mandato. Per qual cagione adeguass
non intendete voi il mio linguaggio? Perchè non potete soffrire le mie Pro
parole. Voi avete per padre il diavolo, e volete soddisfare ai desideri del Giude
padre vostro: quegli fu omicida fin da principio e non stette nella ve¬
rità : perchè la verità non è in lui » (Giov. 8, 42-44). Tillmann {op. cit., sono
146) così scrive a tal riguardo : « Era, perciò, necessità intrinseca, ba¬ acu
sata sulla disposizione spirituale dei Giudei, che la parola di Cristo suo¬ volon
nasse loro come una lingua sconosciuta, che non potevano capire. Man¬ pos
cava loro la facoltà che li abilitasse e li adeguasse ad accogliere le parole mu
di Gesù, la sua dottrina e la sua verità ». Proprio a motivo di questo
accecamento e indurimento di cuore i Giudei non potevano credere
(Giov. 12, 37-40).
In ultima analisi, fede e incredulità non sono quindi basate, secondo
la Scrittura, sopra una maggiore o minore acutezza mentale, bensì su
disposizioni morali e sulla decisione della volontà. Così, di regola, l'in¬
credulo non può venir convinto (anche se possono essere confutate le
sue opinioni), ma può piegare solo quando muta il cuore. E infine ri-
§ 25. ANALISI DELLA FEDE 125
guardo all'incredulità e alla fede di ciascuno si deve risalire alla impe¬
netrabile e transluminosa oscurità della predestinazione divina (Giov.
12, 37-40).
§ 25. Analisi della fede.
1. - « Analizzare la fede » è ricondurre l'atto di fede, nell'ordine in¬
tellettuale, al suo ultimo e principale fondamento. Si tratta di rispondere
al quesito: perchè credo? A tal quesito, che è uno dei più difficili di
tutta la teologia, si può rispondere: per i motivi di credibilità. Questa
risposta ha però il difetto di far apparire la fede come la conclusione di
un ragionamento, distruggendone in tal modo l'intima essenza. Si può
anche rispondere : per l'autorità di Dio. Ma tosto sorge la difficoltà di
come noi possiamo essere certi dell'autorità di Dio. Tra i tentativi che
si sono escogitati per sciogliere tale problema, basti ricordarne tre.
2. - Iprimi due si accordano nell'ammettere che l'assenso della fede
risulti di un duplice atto, e cioè dell'adesione immediata al motivo di
fede (oggetto formale) e della adesione, che si ha mediante la precedente,
all'oggetto (materiale) della fede, e che inoltre l'assenso a tale oggetto
dipenda dalla percezione del motivo.
a) La prima teoria (sostenuta in modo speciale da Suarez, t 1617), afferma
che l'autorità di Dio, la quale è l'oggetto formale della fede, viene creduta di
per se stessa, immediatamente. Dio nel rivelare una verità fa conoscere che
rivela qualcosa e che è verace. Di conseguenza l'atto di fede è assenso tanto al
fatto della rivelazione e alla veracità di Dio quanto anche a un determinato
contenuto. L'assenso all'autorità di Dio come motivo della fede (cioè alla vera¬
cità di Dio) viene dato immediatamente per se stesso. L'assenso al contenuto
della fede, che nel tempo coincide con quello, ma che logicamente vien dopo,
è ancorato nella fede all'autorità di Dio. È certezza di fede sorretta da altra cer¬
tezza di fede. Il modo secondo cui l'autorità di Dio possa esser creduta per
se stessa, Suarez lo ritiene un mistero.
Questa teoria mette in evidenza il carattere soprannaturale della fede. Ma l'af¬
fermazione che noi crediamo il motivo della fede per se stesso suscita notevoli
difficoltà. Infatti, in materia di fede nessuna verità è accolta per se stessa, ma
per un motivo ad essa estrinseco. La teoria, nel desiderio di far spiccare la so¬
prannaturalità della fede, non ne mette in giusto rilievo il presupposto, la con¬
dizione naturale, la conoscenza dell'attività rivelatrice di Dio.
b) La seconda teoria (sostenuta da de Lugo, f 1660, e Franzelin, f 1885)
si distingue dalla prima in quanto afferma che l'autorità di Dio rivelante non
Contro tale teoria milita l'obiezione che la fede div
126 INTRODUZIONE l'ev
Descart
è oggetto di fede, ma è percepita immediatamente, ossia è di per sè evidente
come i primi principi del pensiero : si percepisce immediatamente che Dio è
verace dalla semplice analisi dei concetti di « Dio » e di « verace », e si perce¬ d
pisce pure immediatamente il fatto della rivelazione nei segni che l'accompa¬
seg
gnano e la confermano (miracoli, azione morale sui credenti). Tale percezione
è soprannaturale, in quanto riceve la sua ultima perfezione dalla grazia. credut
Contro tale teoria milita l'obiezione che la fede diviene in tal modo troppo d
intimamente legata al giudizio umano, facendone così pericolare il carattere so¬ n
prannaturale. Sembra mettere nel campo dogmatico l'evidenza come principio di m
ogni conoscenza della fede, allo stesso modo che Descartes elevò l'evidenza a prin¬
fed
cipio del filosofare.
dell'au
3. - La terza teoria (sostenuta con alcune differenze di particolari pre
specialmente da Newmann e Scheeben) è la seguente: il motivo della e
fede non è di per sè evidente e neppure è creduto, ma è conosciuto per appe
mezzo dei motivi di credibilità. La conoscenza della credibilità tuttavia, penetra
non entra nel motivo della fede. Non sfocia nell'atto di fede, ma lo se
precede. L'atto di tede non è un atto duplice, ma semplice, che si rife¬ fi
risce solo all'oggetto di fede. Il motivo della fede è l'autorità di Dio,
da noi conosciuta, ma non la conoscenza dell'autorità divina. Tale co¬ c
noscenza è solo la condizione necessaria che precede la fede, ma non crede
ciò per cui poniamo la nostra fiducia nell'ultimo e unico motivo di fede: sua
cre
l'autorità stessa di Dio. Si ritira in silenzio, appena ha svolto il compito
di spianare il terreno alla fede; o meglio penetra nell'atto di fede, che m
essa stessa ha preparato senza determinarlo, e serve la fede prestandole S
i suoi occhi. La fede, in se stessa, è dedizione fiduciosa e personale al tr
Padre celeste. tota
Per meglio intendere la cosa occorre tener presente che vi è una duplice fede: pi
la fede scientifica (fides scientifica), quando si crede alle affermazioni di un
teste, perchè si è convinti della sua scienza e della sua veracità; la fede di sem¬
plice autorità (fides simplicis auctoritatis) quando si crede a un teste unicamente dell'uom
per la sua dignità personale di cui si è convinti, per esempio la fede del fan¬
ciullo nella madre. Nel secondo caso fondamento e misura della fede è la di¬ qui
gnità del teste conosciuta, penetrata nella coscienza. Solo questo secondo tipo
di fede, che è l'espressione delle relazioni fiduciose tra Dio e l'uomo, è degno
della Divinità e corrisponde al nostro rapporto di totale dipendenza da lei. Se
credessimo soltanto perchè vediamo le ragioni della credibilità di Dio, crede¬
remmo non tanto a Dio e alla sua parola, quanto piuttosto, in ultima analisi,
al nostro stesso giudizio.
Questa spiegazione, nonostante la sua oscurità, resta pur sempre la più chiara
in quanto prende sul serio sia la dipendenza dell'uomo da Dio, sia la superio¬
rità di Dio sull'uomo. Non si può obiettare che essa sia irrazionale, poiché la
fede resta sempre decisione della volontà libera, quindi nuovo inizio, l'inizio
§ 26. COMPITI DELLA DOGMATICA 127
di una nuova vita in comunione con Dio. Di conseguenza, non può essere
chiarita del tutto razionalmente. Se la fede fosse solo assenso a idee e a sen¬
tenze, si potrebbe sperare di riuscire a svelare con l'intelligenza la sua nascita
e la sua struttura. Ma essa è, soprattutto, incontro personale dell'io umano con
il Tu divino. In ogni rapporto di io a Tu s'insinua alcunché d'imponderabile,
il mistero della persona. L'atto di fede esige essenzialmente il coraggio della
decisione. Chi osa decidersi acquista una certezza, che non dipende da cono¬
scenze precedenti, ma che poggia sull'incontro dell'io con Dio, vale a dire sulla
stessa attuazione della fede.
§ 26. Compiti della dogmatica.
Come abbiamo già visto, la scienza teologica ha una duplice funzione:
una storico-positiva, l'altra filosofico-speculativa. Lo stesso dicasi per la
teologia dogmatica. Perciò chi studia dogmatica, se vuol svolgere com¬
pletamente la sua attività scientifica, deve trattare il suo oggetto sotto due
aspetti :
1. - L'aspetto storico-positivo che, a sua volta, richiede un duplice
compito :
a) La dogmatica deve fissare la rivelazione in base alla dottrina della
Chiesa. Partendo dall'insegnamento della Chiesa a lui contemporanea, il
dogmatico ne ricerca, risalendo tutti i secoli, le varie espressioni e ma¬
nifestazioni. Le decisioni solenni del magistero straordinario e gli inse¬
gnamenti del magistero ordinario devono essere considerate allo stesso
modo, tuttavia le prime si possono documentare con più facilità. Se¬
guendo tale via egli può fissare la dottrina della Chiesa in tutta la sua
estensione, nel suo contesto e nel suo senso preciso.
Per le singole proposizioni o tesi in cui la teologia dogmatica esprime
l'insegnamento della Chiesa è necessario riferire i rispettivi gradi di cer¬
tezza. È indispensabile che tale indicazione sia assai precisa. Infatti, è
l'unico mezzo per distinguere la rivelazione e le verità cattoliche certe
dalle opinioni, dalle spiegazioni teologiche e dalle pie sentenze.
b) La dogmatica deve dimostrare che l'oggetto proclamato e cre¬
duto dalla Chiesa risponde in realtà alla « Sacra Tradizione » ossia alla
S. Scrittura e alla Tradizione orale intesa in senso stretto. Con tale di¬
mostrazione, però, non si accresce nè si rende più sicura la certezza di
fede data dall'insegnamento del magistero ecclesiastico. Infatti, per il
credente, è la Chiesa che in modo decisivo fissa l'esistenza e il valore di
volta volta, che il della fede è disp
128 INTRODUZIONE
Trad
In
una verità rivelata. La dimostrazione tratta dalla Scrittura e dalla Tra¬ che
dizione, a favore della dottrina insegnata dalla Chiesa, serve solo a rav¬ v
vivare, arricchire e completare pienamente l'intero complesso della for
rivelazione. L'esposizione della Scrittura e della Tradizione, che a sua ap
volta il dogmatico attinge dalla Chiesa, gli dà la possibilità di mostrare, insegnam
volta per volta, che il contenuto della fede è dispensatore di vita perchè s
verità scaturita dalla vita stessa. Scrittura e Tradizione sono l'immediata c
manifestazione di fede di uomini uniti a Cristo. Inoltre in essa, e special¬ dell
mente nella Scrittura, opera lo Spirito Santo che chiama a vita sopran¬ interpretazio
naturale. Ma soprattutto la teologia dogmatica vivifica e arricchisce le
decisioni dottrinali del magistero espresse in formule astratte e rigide, storico
mostrando la figura di Cristo, quale veramente appare dalle pagine della espress
S. Scrittura. Fa vedere così che negli insegnamenti del magistero so¬ questa
pravvive e agisce la rivelazione che il Cristo storico, mediante la suadimostrare
apparizione, le sue parole e le sue opere, ci ha comunicato. Mostra che pogg
le attuali espressioni e dichiarazioni dottrinali della Chiesa, anche se con¬ della
dizionate al tempo, sono l'autentica interpretazione della manifestazione
divina storicamente compiutasi in Cristo. Diviene così evidente lo stretto al
legame, anzi il mutuo intreccio del fatto storico della rivelazione con
le dichiarazioni dottrinali della Chiesa, espresse generalmente in ter¬ Ne
mini filosofici. In tal modo si vede (cosa questa che il credente sapevaTestamen
già prima, ma che ora gli è possibile dimostrare) che la dottrina della
Chiesa non è lasciata in balia di uomini, nè poggia, come le altre verità,
su intuizioni umane, bensì sul fatto storico della manifestazione di Dio.
«) Nell'esposizione della « Sacra Tradizione » o deposito della fede, ad
la Scrittura merita il primo posto in confronto alla Tradizione, intesa in
senso stretto. Tuttavia più di un dogma e molte verità cattoliche si pos¬ ora
sono dimostrare solo mediante la Tradizione. Nella dimostrazione scrit¬ s
turale si deve considerare che l'Antico Testamento è solo una prepara¬ t
zione del Nuovo. Come testo dimostrativo vaie la Volgata; tuttavia oc¬ patristic
corre richiamare anche il testo originale. Nella spiegazione della Scrit¬
tura si devono osservare le norme del magistero ecclesiastico che riguar¬
dano l'esegesi scientifica. Itesti biblici vanno addotti nel loro contesto
e possibilmente in modo completo.
[3) Anche l'esposizione della Tradizione orale deve seguire la dot¬
trina della Chiesa. Occorre, ogni volta, indicare se e in qual misura l'in¬
segnamento della Chiesa sia testimoniato da tale Tradizione. Vanno
principalmente addotte le testimonianze patristiche. È però necessario
§ 27. RIPARTIZIONE DELLA DOGMATICA 129
procedere cronologicamente, esaminando volta per volta le caratteristi¬
che e il complesso dottrinale della Tradizione, come anche le congiun¬
ture dell'epoca.
2. - L'aspetto filosofico-speculativo (funzione scolastica della dogma¬
tica). Con l'aiuto della filosofia si può penetrare più a fondo nella verità
rivelata. Pur rimanendo fissa con lo sguardo al carattere storico della ri¬
velazione divina e al suo mistero impenetrabile a ogni creatura, la teo¬
logia dogmatica, con l'uso di concetti filosofici e con analogie tratte dal
campo naturale, cerca di rendere più comprensibili le verità di fede e
di mostrare che le obiezioni, sollevate in nome della ragione contro di
esse, sono insussistenti 0 per lo meno non sono convincenti.
Inoltre si ingegna, traendo delle conclusioni, di giungere a nuove co¬
gnizioni mostrando, in tal modo, tutta la verità e la fecondità della rive¬
lazione. Si sforza di rispondere ai problemi che suscitano in lei i movi¬
menti intellettuali, le conoscenze scientifiche 0 il modo di sentire la
vita propria del suo tempo. Si studia di mostrare, con il confronto delle
singole verità rivelate, il loro intimo rapporto organico. Infine, riunisce
tutte le conoscenze raggiunte dalla ragione illuminata dalla fede in un
sistema unitario.
§ 27. Ripartizione della dogmatica.
La teologia dogmatica, per realizzare i suoi vari compiti, deve pro¬
cedere con ordine. Per questo segue, sia pure con qualche piccola mo¬
difica, dovuta specialmente all'eliminazione della teologia morale, la strut¬
tura della Summa Theologica di S. Tommaso d'Aquino. Siccome la
dogmatica, come qualsiasi altra disciplina teologica, considera in primo
luogo Dio e secondariamente tutte le altre realtà in quanto derivano da
lui e tendono a lui, ne emerge la seguente ripartizione in due grandi
parti :
I. - La prima tratta di Dio che si è manifestato per la sua gloria e la
nostra salvezza, e lo considera tanto nell'unità della natura quanto nella
trinità delle Persone.
II. - La seconda studia il regno di Dio, fondato dalla rivelazione, e
la salvezza umana.
Dio ha creato il mondo come il luogo e lo strumento della sua attività
9 - schmaus - dogmatica I.
da lui nuovamente instaurato, il Signore ha dato
me
130 INTRODUZIONE
avere
rivelatrice, mediante la quale doveva instaurarsi il suo regno e fondarsi
la salvezza delle creature. Egli ha reso l'uomo partecipe della sua vita, c
ma disgraziatamente questi respinse la sovranità di Dio e annientò la
forma di esistenza divina a cui era elevato. In Cristo è stato restaurato ter
il regno e l'ordine divino distrutto. Per la realizzazione del regno di Dio,
da lui nuovamente instaurato, il Signore ha dato origine ad una nuova grand
comunità: il popolo di Dio, la Chiesa, i cui membri, e oltre loro anche
tutti gli uomini di buona volontà, devono avere una forma di esistenza Crist
divina, che, ordinariamente, diviene accessibile nella predicazione della
fede e nei sacramenti, nella parola e nei segni con cui il popolo di Dio Sacra
realizza la sua vita. Tale vita, fondata in Cristo, rimane tuttavia nascostaEscatolog
per l'intero corso della storia umana; ma al termine dei secoli brillerà
in tutta la sua pienezza.
Possiamo quindi suddividere la seconda grande parte come segue:
1. Dio Creatore.
2. Dio Redentore (Persona e opera di Cristo).
3. Dio Santificatore (Chiesa, Grazia, Sacramenti).
4. Dio Consumatore (Novissimi 0 Escatologia).
PARTE PRIMA
DIO UNO E TRINO
§ 28. Significato e ripartizione del trattato di Dio Uno e Trino.
1. - La teologia dogmatica non parla di Dio come la scienza delle re¬
ligioni o la metafisica, le quali si limitano a presentarci intorno a lui
quelle cognizioni che la ragione umana raggiunge con il proprio sforzo.
Come dice ottimamente Pascal, esse ci parlano del « Dio dei filosofi ». La
dogmatica cerca, al contrario, d'esporre la rivelazione del Dio vivente,
quale rifulse sul volto di Cristo (2 Cor. 4, 6), il Verbo Incarnato, e si udì
nella sua predicazione. Supera, perciò, le verità divine raggiunte dalla
ragione umana con semplice conoscenza naturale e nello stesso tempo le
illumina e le conferma.
IPadri della Chiesa hanno espresso chiaramente in diverse occasioni la diffe¬
renza che passa tra il modo naturale e quello soprannaturale di conoscere Dio.
Ireneo di Lione, a questo proposito, si esprime come segue (Adversus haereses,
4, 20, 4) : « La grandezza di Dio è sconosciuta a tutti gli esseri creati da lui.
Nessuno fra gli antichi che ci hanno preceduto e nessuno fra coloro che vivono
oggi ha potuto esplorarne la maestà. Per via d'amore, invece, è conosciuto per
mezzo di colui, tramite il quale egli ha fatto tutto, il suo Verbo, Nostro Signore
Gesù Cristo, che negli ultimi tempi si è fatto uomo tra gli uomini per ricolle¬
gare la fine con il principio, l'uomo con Dio... affinchè l'uomo accogliesse lo
Spirito di Dio e penetrasse nella gloria del Padre ».
Clemente di Roma ricorda ai cristiani di Corinto il dono d'aver potuto cono¬
scere il Dio vivente. Di ciò dobbiamo essere grati a Cristo : « Per mezzo suo
possiamo gettare lo sguardo nelle sfere celesti; per mezzo suo riconosciamo,
come in uno specchio, l'irreprensibile ed eccelso sembiante del Padre. Fu lui
ad aprire gli occhi del nostro cuore, grazie a lui la nostra insipienza ed oscura
ragione è rifiorita alla luce. Per mezzo suo il Signore ha voluto farci assaporare
un po' del sapere immortale » (36, 2). In Cristo siamo chiamati dalle tenebre
alla luce, dall'ignoranza alla gloriosa conoscenza del nome divino. È quindi con¬
veniente ringraziare Iddio che ci ha procurato questa vocazione, affinchè noi,
per continuare ad esprimerci con le parole di Clemente, « avessimo a sperare
nel tuo nome che diede origine a tutto il creato. Poiché tu hai aperto gli occhi
terra, e ti amano in
e
134 P. I. - DIO UNO E TRINO è
all'un
del nostro cuore, affinchè riconoscessimo che tu sei la più eccelsa fra le cose
eccelse, tu che umilii l'alterigia del millantatore, sconvolgi i piani dei gentili,
elevi gli umili e abbassi i superbi. Poiché tu arricchisci o impoverisci e con¬
duci a morte o doni vita, tu, l'unico benefattore dello spirito e Dio di ogni
carne. Tu getti il tuo sguardo negli inferi, scruti ogni opera dell'uomo, salvi nel
Pat
pericolo, dirigi nel dubbio, crei e custodisci ogni spirito, rendi potenti i popoli dottrina
sulla terra, salvi e scegli coloro che ti amano in Cristo Gesù, tuo Figliuolo di¬ in
letto, per mezzo del quale ci hai generati, santificati e onorati » (59, 2 s.). var
Secondo S. Basilio « la via che ci conduce a Dio è quella che partendo dal¬ G
l'unico Spirito, attraverso l'unico Figlio, giunge all'unico Padre » (De Spiritu
Sancto, cap. 18; PG. 32, 154 B). Giovanni Damasceno così afferma: «Per mezzo comune
dello Spirito Santo conosciamo Cristo, e per mezzo di Cristo vediamo il Padre » Cristo.
(Oratio 3, n. 18; PG. 94, 1340 B). spiegar
2. - La rivelazione avvenuta nell'Antico Patto e testimoniata dagli quadro
Scritti veterotestamentari non ha, per la dottrina dogmatica di Dio, un so
valore indipendente, in quanto non è conchiusa in se stessa, ma è desti¬ anda
nata a preparare, con crescente chiarezza in vari stadi storici, la piena
e definitiva rivelazione di Dio, compiutasi in Gesù Cristo. Va quindi trascu
intesa e utilizzata come tale. È opinione comune dei Padri che l'Antico de
Testamento parli con figure e allegorie di Cristo. spirito
Quando la teologia dogmatica cerca di spiegare e presentare il mes¬ d
saggio di Gesù intorno al Dio vivente nel quadro delle decisioni dottri¬ inizialme
nali della Chiesa, percorre il cammino che non solo la Bibbia, ma anche Cristo.
la liturgia indica a tutti coloro che vogliono andare al Padre (per Chri¬ che
stum). rigag
s
3. - Il teologo, trattando di Dio, non può trascurare le cognizioni della
h
storia delle religioni, della filosofia religiosa e della metafisica, già rag¬ de
giunte 0 raggiungibili con le forze dello spirito umano. Esse possono inte
giovare per una più chiara e profonda conoscenza della rivelazione sopran¬
naturale che Dio ha fatto di se stesso, inizialmente nell'Antico Testa¬ con
Inoltre,
mento e in modo completo e definitivo in Cristo.
compres
Per mezzo di loro l'uomo intravvede di già ciò che Dio con voce or flebile, trascen
or forte, con inondazione possente o con piccoli rigagnoli, ci ha comunicato di
sè, mediante le opere del creato, ossia la natura, la storia, le singole cose e il
loro complesso, gli individui e i popoli. Cristo non ha formalmente parlato di
questa manifestazione di Dio avvenuta nel creato e della conoscenza di Dio che
da essa l'uomo può trarne: la presuppone. Si può intendere pienamente ciò che
egli insegna di Dio soltanto allorché si tiene conto della rivelazione e della
conoscibilità naturali di Dio stesso. Senza questa considerazione l'immagine di
Dio che Cristo presenta, rimane incompleta. Inoltre, senza di essa, la rivela¬
zione di Gesù non può essere conosciuta e compresa nella pienezza del suo
contenuto e significato, nella sua luce e forza che trascendono ogni misura umana.
§ 28. SIGNIFICATO E RIPARTIZIONE DEL TRATTATO DI DIO UNO E TRINO I35
L'apporto della conoscenza naturale di Dio è importante sotto tre aspetti:
a) Per determinare l'idea di Dio presentataci da Cristo e distinguerla da
tutto ciò che di Dio stesso può esser conosciuto dall'uomo con le sue proprie
forze. Di fronte all'idea di Dio, acquisita dai filosofi e spesso presentata in
forma di miti, balza evidente la trascendenza di quella cristiana.
b) Per raggiungere un'idea di Dio la più completa possibile. Ciò che Cristo
svela intorno a Dio viene integrato da ciò che proviene dalla conoscenza natu¬
rale, di modo che si ha una rappresentazione di Dio più completa, pur restando
sempre entro i limiti delle possibilità umane.
c) Per una più profonda conoscenza di ciò che Cristo ha rivelato di Dio.
L'idea cristiana di Dio, unendosi ai dati della conoscenza naturale, viene arric¬
chita di tutto ciò che la ragione umana ha potuto conoscere nel corso della
storia e di quanto il mito ha raffigurato. La rivelazione, per esempio, che Dio
è l'Amore, il Salvatore e il Santo, acquista maggior valore quando sappiamo che
il Dio annunciatoci da Cristo, è quello stesso che i filosofi rappresentano come
il Principio di tutto, la Ragione del mondo, l'Assoluto, la Verità e la Bontà, la
Mente e la Volontà assoluta, il Pensiero assoluto, la Bellezza assoluta, il Numi-
noso, il Valore di tutti i valori.
4. -La rivelazione soprannaturale presenta una dottrina di Dio altret¬
tanto poco logicamente ordinata e sistematica quanto la rivelazione na¬
turale. Dio si rivela in quanto interviene nella storia umana e cerca di
realizzare, mediante il popolo che si è scelto, il suo dominio sull'uma¬
nità. La Scrittura testimonia i numerosi interventi di Dio nella storia.
Descrive lo svolgimento dell'azione salvifica attraverso i secoli. Testi¬
monia quindi l'esistenza del Dio vivente, non in quanto informa gli
uomini circa il suo modo di esistere, ma descrivendo il suo operare nella
storia umana. Perciò dalla Scrittura noi rileviamo maggiormente l'agire
di Dio anziché il suo essere. Ma poiché dall'azione traspare la natura,
dall'attività salvifica di Dio possiamo intuire che cosa egli sia in realtà.
Dio, quindi, è quale si è rivelato in Cristo e nelle comunicazioni vetero¬
testamentarie che hanno preceduto e preparato la venuta di Gesù. Nella
figura, nelle parole e nell'azione di Cristo riconosciamo l'essere e le in¬
tenzioni di Dio.
Ora, la teologia dogmatica, a differenza dell'esegesi biblica, cerca di
presentare in modo ordinato e sistematico quello che Dio è in se stesso.
E ciò in stretta unione con le spiegazioni ed espressioni che il magistero
della Chiesa usa per descrivere la manifestazione di Dio, avveratasi in
Cristo. Tuttavia non può dimenticare che noi possiamo conoscere tanto
l'essenza quanto l'esistenza di Dio solo attraverso l'agire divino. Ciò che
la Bibbia direttamente testifica circa Dio, è la sua azione salvifica; il suo
essere generalmente ce lo fa conoscere solo in modo indiretto. La teolo-
agire, cioè dall'opera salvifica. Il Dio che ess
136 P. I. - DIO UNO E TRINO
fì
già dogmatica, quindi, sia per il contenuto quanto per la forma espres¬ semp
siva, deve lasciarsi guidare di continuo dalla viva parola della rivelazione
e tener conto degli eventi salvifici, che essa ci narra e che in essa hanno
luogo. Anche se il suo interesse si rivolge primariamente alla realtà di av
Dio, considerata in se stessa, la teologia non può, tuttavia, separarla dal Di
suo agire, cioè dall'opera salvifica. Il Dio che essa descrive non è tanto poch
Dio in se stesso quanto piuttosto Dio che nel suo amore agisce per darci incerte
la salvezza. Il tenere lo sguardo continuamente fisso sull'attività divina,
preserva la teologia dal pericolo di diventare semplice metafisica sopran¬ d
naturale.
5. - L'esposizione dell'autorivelazione di Dio, avveratasi in Cristo, non del
può assolutamente prescindere dal fatto che il Dio vero e vivo è in tre m
Persone. Benché la rivelazione si limiti non poche volte solo a liberare Dio
la conoscenza naturale di Dio da errori e incertezze, dobbiamo tuttavia Per
notare che la sua importanza principale consiste nel presentare una co¬
noscenza di Dio che trascende ogni possibilità di cognizione naturale. d
Tra le novità che il messaggio di Cristo intorno a Dio ci ha portato, la
Trinità delle persone è la più importante. in
Nella rivelazione precristiana la convinzione della unità di Dio dovette
combattere duramente e a lungo le concezioni mitiche delle molteplici es
divinità del mondo pagano. In Cristo l'unico Dio si rivelò come triper- la
sonale. L'unica natura divina sussiste in tre Persone. Per l'intelligenza
della Trinità è indispensabile pensare che l'unica essenza divina e le tre Di
Persone distinte non si devono concepire come due strati in Dio, acco¬ D
stati sì, ma pur sempre separati e impenetrabili, che corrono paralleli o tr
si sovrappongono. Al contrario, l'unico Dio è in tre Persone e le tre di
Persone sono l'unico Dio. che
Per mettere in luce questa cosa, anche già esteriormente, e superare conseg
così, fin da principio, il pericolo di considerare la Trinità delle persone pensiero
come un'aggiunta complementare all'essenza di Dio, dovremo mutare s
un tantino la ripartizione usuale dei trattati di Dio uno e di Dio Trino.
Seguendo S. Agostino, cercheremo di studiare Dio intrecciando la trat¬
tazione dell'unità della natura con quella della trinità delle Persone.
Così è possibile rimuovere dalla trattazione di Dio quel carattere di
eccessiva sistematicità propria di un pensiero che, partendo da un prin¬
cipio procede diritto fino alle sue ultime conseguenze. In tal modo si
elimina pure il pericolo di separare nel pensiero ciò che nella realtà è
intimamente unito. L'eventuale svantaggio di simile procedimento si
§ 28. SIGNIFICATO E RIPARTIZIONE DEL TRATTATO DI DIO UNO E TRINO I37
può ammettere più facilmente se si pensa che, oltre alla sistematica de¬
rivata dallo spirito di Aristotele, vi è pure un altro modo di procedere
ispirato a S. Agostino e a S. Bonaventura. Agostino non può percorrere
sino in fondo un pensiero una volta iniziato; di continuo deve fermarsi
per seguire nello stesso tempo le altre prospettive che gli si aprono verso
Dio. Dio, per lui, non rappresenta una meta scrutata da lungi e verso
la quale ci si accosta con lungo e faticoso cammino, ma un punto cen¬
trale a cui conducono molte strade. L'uomo muove incontro a Dio da
sempre nuove posizioni di partenza che si possono paragonare ai punti
di una circonferenza o meglio di una spirale.
Per esporre ordinatamente l'automanifestazione soprannaturale di Dio,
possiamo ripartire la materia nel seguente ordine:
I. - Autorivelazione di Dio Uno e Trino circa la sua esistenza.
II. - Autorivelazione di Dio Uno e Trino circa la sua personalità
(Trinità).
III. - Autorivelazione di Dio Uno e Trino circa la pienezza della
sua vita.
U
ESIST
SEZIONE I. Scrit
fac
AUT ORIVELAZIONE DI DIO UNO E TRINO Verb
CIRCA LA SUA ESISTENZA
es
vocab
1. -
Dio ci testimonia la sua esistenza in due modi: primo con la ri¬
velazione gratuita che è contenuta nella S. Scrittura e nella Tradizione; so
secondo mediante la natura, di cui noi stessi facciamo parte. La prima usuale.
term
specie di rivelazione che tocca il vertice nel Verbo personale di Dio fat¬ senso
tosi uomo, possiamo chiamarla rivelazione deila parola. La seconda, che pa
avviene attraverso l'opera della creazione, può essere denominata rivela¬ ques
zione delle opere. trova
Comp
2. - Per la grande diffusione che questi due vocaboli, esserci (dasein) ed esi¬ d
stenza (existenz), hanno nella filosofìa esistenzialista, si deve osservare attenta¬ q
mente che nel nostro contesto questi termini non sono presi in senso esisten¬
zialistico, ma bensì secondo il valore filosofico usuale.
Nel linguaggio della filosofia esistenzialista il termine esserci (dasein) indica i
l'essere dell'uomo, inteso prevalentemente in un senso generico. Infatti essa di¬ no
stingue tra esserci autentico e inautentico. Quando parla di esserci senza alcuna No
determinazione, l'intende in senso inautentico. In questo caso indica l'essere del¬
l'uomo in quanto caduto nel mondo — in cui si trova — e nella massa, in seno
alla quale egli non può condurre vita propria. Compito dell'uomo, secondo tale
filosofia, è quello di pervenire all'esserci autentico, denominato esistenza. L'es¬ sens
serci ha la possibilità di sollevarsi all'esistenza, la quale si conquista quando
l'uomo cerca di pervenire a se stesso, sottraendosi allo stato di caduta nel mondo
e nella massa.
Qui noi adoperiamo ivocaboli esserci ed esistenza in un altro senso, in quello
cioè usato sinora dalla filosofia. Tra i due termini non vi è perciò alcuna diffe¬
renza; significano ambedue la realtà di una cosa. Noi parliamo di esserci o di
esistenza quando intendiamo dire che una cosa non è solo possibile, ma è di
fatto, c'è.
3. - L'esistenza di Dio, intesa in questo senso, è dimostrata dalla ri¬
velazione divina, sia naturale, sia soprannaturale. Tra le due forme di ri-
§ 29- RIVELAZIONE SOPRANNATURALE DELL'ESISTENZA DI DIO I39
velazione vi è uno stretto rapporto. La rivelazione soprannaturale ci
assicura che anche la natura è rivelazione di Dio Creatore. Qui la parola
natura va presa nel senso più vasto del vocabolo, ossia come tutto ciò che
fu creato da Dio, incluso l'uomo, inteso tanto in sè quanto nelle sue ma¬
nifestazioni e nella sua storia, tanto individualmente, quanto socialmente.
In tal modo la rivelazione soprannaturale libera la ragione umana, la quale
cerca di pervenire a Dio con le proprie forze, dall'incertezza e dalla timi¬
dezza che talvolta l'assalgono. Non solo, ma la fortifica nella faticosa e
difficile ascesa verso Dio. La rivelazione naturale offre, da parte sua, a
colui che accoglie la manifestazione soprannaturale di Dio, svariati aiuti
per intendere questa più profondamente.
4. - La nostra risposta alla rivelazione soprannaturale è costituita
dalla fede. In essa, e solo per mezzo suo, raggiungiamo la sicurezza in¬
condizionata che la natura è mezzo con cui Dio ci parla di se stesso, è
sua rivelazione. Chi non crede può non badare alla rivelazione naturale
e perciò negare l'esistenza di Dio, quantunque attestata dalla natura.
5. - Sia nella rivelazione delle opere, quanto in quella della parola,
Dio può manifestarsi soltanto in modo umano, adatto cioè, all'intelligenza
dell'uomo. Ogni rivelazione di Dio è legata al modo umano di pensare
e parlare, a immagini e concetti umani. Nell'esporre la rivelazione divina
dobbiamo, perciò, manifestare ciò che Dio intende dire con parole ed
espressioni umane. Possiamo, quindi, ripartire la dogmatica concernente
l'autorivelazione di Dio Uno e Trino circa la sua esistenza, come segue:
Capitolo I: Rivelazione di Dio circa la sua esistenza.
Capitolo II: Errori circa l'esistenza di Dio e la sua conoscibilità.
Capitolo III: Modo e limiti della conoscenza di Dio.
CAPITOLO I.
RIVELAZIONE DI DIO CIRCA LA SUA ESISTENZA
§ 29. Rivelazione soprannaturale dell'esistenza di Dio e nostra rispo¬
sta: fede in Dio.
1. - Dio esiste. È dogma di fede.
a) L'esistenza di Dio è testimoniata dal fatto della rivelazione so¬
prannaturale sia nell'Antico, sia nel Nuovo Patto. La Chiesa, il popolo
in
p
140 P. I. - DIO UNO E TRINO
com
di Dio, a cui Egli ha affidato la sua propria rivelazione, lo afferma nelle n
professioni di fede. Queste, oltre ad essere un mezzo per l'insegnamento membro
ordinario della Chiesa, sono pure l'espressione della fede dei cristiani. D
Tutte iniziano con l'atto di fede in Dio. La fede in Dio è qui intesa, sia
come convinzione dei credenti nell'esistenza di Dio (credere Deum), sia che
come loro dedizione personale a lui (credere in Deum). Nelle profes¬ del
sioni di fede è la Chiesa come comunità che presenta la sua testimo¬
nianza su Dio. Chi recita il Credo lo recita come membro della comu¬ prof
nità stessa: nell'io che confessa Dio, risuona il noi del popolo cristiano. D
Quando la Chiesa, e in lei ogni singolo membro, professa l'esistenza di quale
Dio, essa non fa che annunciare e glorificare Dio medesimo, e così si
rende manifesto che Dio regna su coloro che lo confessano. Una simile Person
professione di fede non è solo l'affermazione che vi è un Dio, ma anche in
lo strumento e il segno di quel regno divino, del cui avvento « il popolo D
di Dio » è responsabile. l
Il Dio, a cui si rivolge la Chiesa nelle sue professioni di fede, è il Dio
in tre Persone. Essa non può proclamare altro Dio. Con la fede l'uomo Vaticano
ne accoglie la rivelazione soprannaturale, la quale si differenzia dalla co¬ a
noscenza puramente naturale, anche soltanto dal fatto che il Dio che si invi
svela all'uomo della fede è l'Essere in tre Persone. Questo vale, almeno, proposizio
per la completa rivelazione di Dio compiutasi in Cristo. Pertanto nella color
formula: « Io credo in un solo Dio » la parola « Dio » non designa tanto
l'unica natura divina, quanto piuttosto il Padre, la prima Persona divina. sv
b) Il magistero della Chiesa, oltre al suo insegnamento ordinario,
in una decisione solenne del Concilio Vaticano dichiara come dovere
assoluto il credere nell'unico vero Dio : « Se alcuno nega l'unico vero
Dio, Creatore e Signore delle cose visibili e invisibili, sia scomunicato » (Deu
(Sess. 3, can. i; Denz. 1801). Questa proposizione non condanna coloro
che non conoscono l'esistenza di Dio, ma coloro che avendone cogni¬
zione, rifiutano di credere. Racchiude in termini concisi, ma quanto mai e
significativi e pregnanti, ciò che più volte e in svariate maniere, la Scrit¬ s
tura e la Tradizione hanno inculcato.
2. - Nell'Antico Testamento la fede in Dio costituiva la legge fon¬
damentale del Patto tra Dio e gli uomini (Deut. 6, 6-7).
a) Si può descrivere la forza della fede in Dio, propria dell'Antico
Testamento, nel modo seguente: «L'esistenza di Dio è la realtà più
evidente, sempre presupposta, incessantemente espressa, mai negata nè
posta in dubbio. Che Dio non esista lo afferma solo lo stolto (Sai. 14, 1
§ 29. RIVELAZIONE SOPRANNATURALE DELL'ESISTENZA DI DIO 14!
0 53, 2), 0 le donne stolte (Giob. 2, 10); si può sì rinnegarlo e dire
che è un nulla... (Ger. 5, 12). Ma tali espressioni fioriscono solo sulle
labbra delle persone irragionevoli, talmente stolte anzi, da poter essere
definite insolenti e perverse. Tuttavia esse, pur parlando così, non in¬
tendono negare Dio in se stesso, ma solo allontanare da loro il suo giu¬
dizio e rifiutare sottomissione alla sua volontà. Esse mettono in dubbio,
non la sua esistenza, ma solo la sua azione nel mondo. Il peccatore è
trascinato verso un ateismo pratico, non teoretico, il quale è del tutto
ignoto nell'Antico Testamento» (L. Kòhler, Theologie des Alteri Tes¬
taments, 1936, 1).
b) Dio si rivela non dando una semplice notizia della sua esistenza,
quanto piuttosto intervenendo potentemente nella storia e palesandosi
in tal modo come Potenza personale, che non è di questo mondo,
ma dispone di tutte le cose con piena libertà e indipendenza creatrice,
e stabilisce così la storia, i destini e i doveri dell'umanità. Dio fa appello
alla volontà dell'uomo che deve piegarsi obbediente dinanzi a lui. In tal
modo realizza il suo regno nella storia, portando agli uomini salvezza e
redenzione. All'ordine divino nessuno può sfuggire. Chi si ribella pecca,
distrugge se stesso e il mondo. Chi si piega docilmente all'invito di Dio
e, in tal modo realizza il regno divino in questo mondo, fa sua la pro¬
messa che gli assicura aiuto e salvezza, fedeltà e consolazione divina. Così
salva se stesso e il mondo ed esperimenta che Dio è colui il quale vive
e opera con potenza.
Anche dove pare che si tratti di una semplice descrizione dell'essere
divino, come ad es. in Is. 40, 18-31, il vero scopo è di rendere presente
agli uditori la magnificenza e la grandezza di Dio, affinchè lo prendano
sul serio, obbediscano alla sua parola, confidino in lui per ogni necessità.
Ciò a cui la filosofia esistenzialista, specialmente nella forma datale da
Jaspers, mira in tutte le sue affermazioni, ossia a chiamare e aiutare
l'uomo a raggiungere la sua esistenza autentica, si può dire che valga
di tutte le espressioni con cui la Bibbia parla di Dio. Tali espressioni,
quantunque siano anche informative, non si riducono a semplici notizie
sull'essere divino. Sono piuttosto richiami e inviti all'uomo affinchè, sot¬
tomettendosi al dominio di Dio, raggiunga la sua propria autentica
esistenza.
c) Il Dio, che si rivela come Potenza personale è del tutto diverso dall'idea
che l'uomo, non illuminato dalla rivelazione soprannaturale, si forma di Dio
medesimo. Questi chiama Dio l'Assoluto, il Pensiero del pensiero, lo Spirito,
l'Idea, il Sommo Bene, la Volontà assoluta, il Numinoso, il Sacro, il Divino. La
scoperto, nè « creato » dall'uomo. Sono creazioni dello
s
142 P. I. - DIO UNO E TRINO sc
dell'uomo
rivelazione divina trascende di gran lunga tutte queste raffigurazioni e imma¬ 18
gini di Dio derivanti dallo spirito e dal cuore umano, e le invera, in quanto le S
purifica dalle imperfezioni e dagli errori e ne assume, elevandolo, l'aspetto di
verità. sces
d) Il Dio che la rivelazione soprannaturale ci presenta, non può essere nè
scoperto, nè « creato » dall'uomo. Sono creazioni dello spirito umano le divinità fatt
pagane, i miti in cui gli uomini, privi di rivelazione soprannaturale, racchiudono erge
il divino. Questi dèi nacquero quando eventi naturali e forze della natura, intesi qualcos
come divini o numinosi, vennero simboleggiati con sculture di legno o di pietra esperienz
o con atti di culto. Essi sono « creazione » dell'uomo. Non possono, quindi nè u
giovare, nè dare aiuto, perchè sono niente (Is. 40, 18; 44, 10; Ger. 2, 28). Ma
il Dio che, per mezzo dei profeti, si palesa come il Signore e Padrone di ogni p
cosa, come l'onnipotenza personale, non è creazione umana. Non è natodall'esperienzanel
cuore dell'uomo, non proviene dalla terra, ma è sceso dal cielo. Non è, come m
Iside o Osiride, come Marduk o Apollo, come Zeus o Atena, la raffigurazione so
mitica di fatti intesi come numinosi. Del resto, il fatto che l'uomo di continuo da
tenta sfuggire a questo Dio che lo vincola, e cerca ergersi contro di lui, dimostra riserv
chiaramente che Dio va riconosciuto come un qualcosa di non creato dal cuore realt
umano, come un essere in contrasto con le esperienze e le vicende dell'uomo. de
Come apparirebbe Dio se fosse stato creato dal cuore umano, si può vedere nelle avvenimen
raffigurazioni mitiche degli dèi. Qui, l'uomo divinizza se stesso e la natura. Di
e) La tentazione di abbandonare il Dio vivente per le divinità create dallo ste
spirito umano è di continuo alimentata dall'esperienza che l'uomo, amante della na
sua autonomia, non solo si trova con esse a suo agio, ma è anche conquistato dalla dall'u
loro potenza e maestà. Chi crede nella rivelazione soprannaturale, può talvolta pr
restare scosso nel vedere che l'idolatra è capace di « dare alle fiamme il figlio o la luce
figlia » (Deut. 18, 10), di concedersi, senza alcuna riserva, ai suoi idoli. Ciò dimo¬ immanen
stra la potenza che gli dèi hanno sugli uomini. In realtà, tali divinità mitiche non D
sono puri parti della fantasia, ma piuttosto simboli della sete religiosa del cuore Q
umano e delle principali manifestazioni e avvenimenti della natura che l'uomo
sente come numinosa o divina, perchè deriva dal Dio vivente. In esse quindi dè
è condensata la forza primordiale della creazione stessa, quella forza che Dio ac
medesimo ha posto nel creato. Appunto perchè la natura è opera di Dio e in¬ vivente
clude alcunché di divino, può essere divinizzata dall'uomo amante della sua au¬
tonomia. Questi, scorgendo il divino nel fluire del proprio sangue, nella nascita rive
e nella morte, nei grandi eventi della storia, nella luce e nella tenebre, divinizza all'uo
questi fenomeni staccando il divino, in essi immanente, dal suo vincolo con il d
Dio vivente e rendendolo a sè stante, indipendente. Diviene così evidente come
mai le figure mitiche di Dio abbiano tanta potenza. Quando i pagani vincevano
il popolo di Dio, sembrava loro che si trattasse della vittoria delle loro divinità
sul Dio d'Israele. Così sorgeva il dubbio che iloro dèi fossero superiori a Jahvè.
f) La tentazione d'abbandonare il vero Dio per accogliere la concezione mi¬
tica del divino, viene acuita dal fatto che il Dio vivente si manifesta solo in modo
oscuro e velato, sicché, pur scoprendosi, si occulta e resta misterioso nella sua
stessa manifestazione. Per questo carattere della rivelazione, egli può passare
inosservato. Gli idoli, al contrario, si impongono all'uomo e guidano i loro fedeli
alla ricchezza e al trionfo. A coloro che sulle cime dei monti e delle colline e
§ 29. RIVELAZIONE SOPRANNATURALE DELL'ESISTENZA DI DIO I43
sotto ogni albero frondoso, adorano i loro dèi e li celebrano (Deut. 12, 2; Ger.
2, 20), viene elargito in abbondanza latte e miele. Quale sforzo sia necessario per
sostituire alle raffigurazioni mitiche la vera concezione di Dio, offerta dalla rive¬
lazione soprannaturale, appare evidente dall'espressione biblica di un Dio « ge¬
loso » (Deut. 6, 15). L'Antico Testamento, con il paragone della gelosia, del sen¬
timento, cioè, dell'amore divino ferito, esprime tutta la forza d'attrazione che
si sprigiona dai miti allora dominanti.
g) Tuttavia le gravi difficoltà che si frappongono al riconoscimento del Dio
della rivelazione soprannaturale hanno una funzione di prim'ordine. Mostrano
l'origine divina dell'idea di Dio presentataci dall'Antico Testamento, idea che è
qualitativamente diversa da tutte le altre, sia dell'Occidente, sia dell'Oriente.
Se si prende come esempio dell'idea occidentale di Dio, quella greca, ci si
rende subito conto di quanto l'affermazione precedente sia fondata. Per i Greci
gli dèi sono le forme fondamentali del reale, miticamente rivestite. Il mondo
stesso è sentito come qualcosa di divino, specialmente nei suoi gangli più im¬
portanti dove, in certo senso, si condensa la sua forza. Così, ad esempio, l'amore,
Eros, fu divinizzato. Le divinità greche non si presentano come creatrici o for¬
matrici del mondo e degli uomini; non sono padrone di quella realtà che include
ogni realtà, cioè il destino o fato. L'umanità è indipendente di fronte a loro. Dèi
e uomini ebbero vita dalla medesima madre e sono membri organicamente fra
loro legati da un'unica e medesima realtà. Anche gli dèi appartengono al cosmo
e ne rappresentano, in certo qual modo, l'intimo fondo misterioso. L'uomo non
ha alcun Obbligo verso di loro; può anche non adorarli affatto. Quando li prega
agisce in modo illogico; infatti, perchè dovrebbe invocarli? Se essi non si diffe¬
renziano dal mondo, ma son legati al suo ingranaggio, come possono aiutare gli
uomini a liberarsi dalla morsa del destino?
Per gli Orientali, gli dèi e non gli uomini sono i padroni dell'universo e ne
tengono il destino in pugno. L'uomo è responsabile di fronte agli dèi che lo
hanno creato e compenetrano tutta la sua vita. Questo concetto di Dio raggiunge
il culmine nella convinzione che gli dèi sono tutto, mentre l'uomo è nulla. Ne
deriva che vien messo in dubbio lo stesso essere individuale dell'uomo, la sua
libertà, che è l'elemento prerequisito alla responsabilità umana stessa.
Nonostante la differenza così profonda che passa tra la concezione di Dio degli
Occidentali e quella degli Orientali, vi è però un elemento comune, il fatto cioè
che in ambedue Dio è una formazione dell'uomo. Gli dèi quindi portano l'im¬
pronta del loro fattore; in essi l'uomo ha raffigurato se stesso. La divinità in cui
si crede, non proviene da un vero al di là, nè da una sfera che trascende il mondo
della mutevole esperienza, sia interiore che esteriore all'uomo. Anzi appartiene
a tale mondo: è parte di esso ed è della sua stessa natura. Gli dèi sono parti
costitutive del mondo chiuso in se stesso e ne personificano l'elemento numinoso.
In opposizione a tutto questo, il Dio della rivelazione soprannaturale si pre¬
senta come un essere che proviene da una sfera posta al di sopra del mondo e
dell'uomo. Non appartiene alla stessa stoffa dell'universo, non è un nostro pari.
Non presenta caratteristiche umane, perchè non proviene da creazione umana.
Non è parte di questo mondo. Non è fatto a immagine dell'uomo, ma è l'uomo
che è formato a immagine di questo Dio ben diverso dal mondo. Tale conce¬
zione implica che il mondo non è realtà chiusa in se stessa, ma aperta verso Dio
deve considerare un fatto di grande importanza a cu
An
144 P. I. - DIO UNO E TRINO La
contem
da cui si distingue e dipende sotto ogni aspetto. Il concetto soprannaturale di g
Dio trascende tutte le concezioni religiose, sia dell'Occidente, sia dell'Oriente. rifiu
Ciò che in esse vi è di giusto viene incluso nella rivelazione dopo esser stato
liberato da ogni unilateralità e dalle deformazioni che son proprie di ogni con¬ sol
cezione mitica.
h) Chi desidera valutare rettamente la rivelazione soprannaturale di Dio, se
deve considerare un fatto di grande importanza a cui abbiamo di già accennato.rivelazion
La rivelazione soggiace alla legge dell'occultezza. Anche nella sua stessa mani¬ co
festazione Dio rimane un mistero impenetrabile. La divinità che si svela non quan
può essere direttamente percepita, ma si può contemplare solo mediante il lume oscuri
della fede. Questo lume viene comunicato a tutti gli uomini di buona volontà chia
che si dispongono alla rivelazione divina. Ma è rifiutato a coloro che si trince¬ ve
rano in se stessi e così si chiudono definitivamente la via che conduce a Dio. ben
L'uomo che si serra in se stesso contro Dio, non solo trascura la rivelazione di¬ M
vina, ma riceve da essa scandalo. quel
È il peccato che porta l'uomo a trincerarsi in se stesso contro Dio. Così il d
peccatore, pur avendo maggior bisogno della rivelazione divina, per sua colpa, non (Fram
solo diviene cieco nei suoi confronti, ma si ribella contro Dio che gli si svela. manife
Ecco alcuni pensieri di Pascal a proposito di quanto sopra. « Vi è abbastanza nep
chiarezza per illuminare gli eletti e abbastanza oscurità per umiliarli. Vi è abba¬ cerca
stanza oscurità per accecare ireprobi e abbastanza chiarezza per condannarli e ren¬ perf
derli indegni di scusa » (Framm. 578). « È dunque vero che tutto istruisce l'uomo ce
sulla sua condizione, ma bisogna comprenderlo bene; perchè non è vero che fu
tutto riveli Dio, e non è vero che tutto celi Dio. Ma è vero, tutt'insieme, che
egli si cela a quelli che lo tentano, e si svela a quelli che lo cercano, perchè gli veder
uomini sono, tutt'insieme, indegni di Dio e capaci di Dio. Indegni per la loro (Fram
corruzione, capaci per la loro natura primitiva » (Framm. 557). « Non era giusto,
dunque, che egli si mostrasse in una maniera manifestamente divina e assoluta¬
mente capace di convincere tutti gli uomini; ma neppure era giusto che venisse
in una maniera così coperta, che quelli che lo cercassero sinceramente non po¬
tessero conoscerlo. A costoro ha voluto rendersi perfettamente conoscibile. Così,
volendo mostrarsi scopertamente a coloro che lo cercano con tutto il cuore, e trasc
rimaner nascosto a quelli che con tutto il cuore lo fuggono, egli regola la cono¬
incontriamo
scenza di sè, in guisa da dare segni visibili di sè a quelli che lo cercano. Vi è
luce sufficiente per coloro che bramano solo di vedere, ed oscurità sufficiente per
immag
coloro che hanno una disposizione contraria » (Framm. 430). uman
tu
3. - L'autorivelazione soprannaturale di Dio raggiunge il suo vertice
in Cristo.
a) Cristo è, nella sua comparsa, nelle sue opere e nelle sue parole,
la rivelazione di Dio stesso. Egli è tale che trascende la massa del genere
umano. È diverso da tutto ciò che incontriamo nella nostra esperienza,
diverso anche da tutto ciò che possiamo immaginare e scoprire col pen¬
siero. Per mezzo suo penetra nella storia umana una realtà che, intrin¬
secamente e qualitativamente, si diversifica da tutte le altre manifestazioni
§ 29. RIVELAZIONE SOPRANNATURALE DELL'ESISTENZA DI DIO I45
storiche. Con la parola egli stesso dà l'autentica interpretazione e spie¬
gazione del mistero che lo circonda. È stato inviato dal Padre (Giov. 5,
23. 30. 38; 14, 24; 20, 21), viene dall'alto, non dal basso (Giov. 8, 23).
Non parla da se stesso, ma esprime ciò che sente dal Padre (Giov. 5, 30;
14, 10). Compie ciò che vede fare dal Padre (Giov. 5, 19) e ne adempie
il mandato (Giov. 14, 31). Tutta la sua vita è obbedienza al Padre, in
ogni sua decisione ricerca unicamente la volontà del Padre. Per conto
suo non compie nulla. Questa volontà è suo cibo e bevanda, sicché di¬
mentica persino il cibo o la bevanda materiale (Giov. 4, 32). Egli non
conosce altra meta all'infuori della volontà del Padre. È venuto a instau¬
rare nel mondo la volontà e il regno di Dio in luogo della ribellione al
volere divino. Si rivolge al Padre in tutte le ore più dolorose della sua
esistenza, anche in quella amarissima della sua morte. Il mandato che
il Padre gli ha conferito, è quello di salvare il mondo. Egli perciò ha ri¬
cevuto da lui il potere di rimettere i peccati, di vincere malattie e morte.
Per comando del Padre, combatte Satana, il principe di questo mondo,
che si avventa contro di lui, dal primo all'ultimo giorno della sua atti¬
vità. Gesù non ha nulla di comune con il demonio, ne respinge le ten¬
tazioni e apparentemente pare che Satana riporti vittoria, quando riesce
a farlo confìggere in Croce. Ma è proprio da questa « vittoria » che nasce
l'impotenza del demonio. Cristo, in ogni sua azione, adempie la volontà
del Padre e, per questo, lo glorifica. Tutta la sua vita è lode a Dio.
L'intima ragione per cui può così donarsi al Padre, sta nel fatto che
Cristo forma con lui una cosa sola (Giov. 10, 30). Chi vede lui, vede il
Padre (Giov. 14, 9). In tal modo diventa logicamente la via che con¬
duce al Padre (cfr. la Cristologia).
Anche la rivelazione cristiana, come già quella veterotestamentaria,
non si limita a offrire una pura e semplice cognizione dell'esistenza di
Dio: è un invito agli uomini, invito a credere in Dio (Ebr. 6, 1; 11, 6;
Giov. 14, 1), a sperare in lui (Me. 4, 7; 1 Cor. 10, 9; 1 Piet. 1, 21),
a restar saldi di fronte alle sue esigenze (Tit. 3, 8; Giov. 14, 23; Me. 8,
21-27). La semplice cognizione dell'esistenza di Dio, anche i demoni la
possiedono, anch'essi credono e tremano (Giac. 2, 19). La rivelazione
divina non mira a stabilire la semplice credenza, ma a far sì che tutto
l'io umano si rimetta a Dio, manifestatosi in Cristo. Poiché l'amore di
Dio e la sua giustizia si sono come incarnati in lui e divengono così
comprensibili e visibili per noi, è Dio stesso che, per mezzo di Cristo,
ci invita. Con tale mezzo ci chiama a partecipare della sua gloria. Chi
con fede intende e accetta questo invito, si libera dal peccato e dalla
10 - schmaus - dogmatica I.
è pure quella della manifestazione divina median
anzi
146 P. I. - DIO UNO E TRINO
divie
schiavitù demoniaca, raggiunge pace e gioia, ottiene la più elevata forma a
immagina
di esistenza e di pienezza di vita (Rom. 3, 23; 4, 3; Gal. 3, 6; Giov. 14, 1).
b) Benché Dio, per mezzo di Cristo, chiami tutti gli uomini in modo n
percepibile ad ognuno, tuttavia tale richiamo è inteso solo da quelli che i
hanno il cuore disposto. La legge della rivelazione veterotestamentaria, conda
è pure quella della manifestazione divina mediante Cristo: Dio si svela scandal
nell'oscurità e nell'occultamento. In Cristo, anzi, questa legge raggiunge pi
il suo punto culminante. Anche il Dio che diviene visibile in Cristo ri¬ ri
mane pur sempre la divinità nascosta (Deus absconditus: Is. 45, 15). c
Quale uomo poteva, infatti, riuscire ad immaginarsi un Dio che si palesi scandal
nella comune vita umana, anzi, massimamente, nei tormenti e nell'onta
della croce? Chi poteva mai pensare che colui il quale venne citato in d
fosse
giudizio da uomini, e da loro giudicato e condannato, fosse davvero il d
Dio onnipotente? Per questo ne furono scandalizzati i Greci fieri della manifesta
loro saggezza e i Giudei orgogliosi della loro pietà. Solo chi nella fede Ragionam
rinuncia alla propria autosufficienza e cessa di ritenersi norma e misura os
di ogni cosa, può penetrare nella rivelazione, che Dio ci diede di se uo
stesso in Cristo. Gli altri devono patirne scandalo! li
Una particolare forma di scandalo la troviamo in alcuni rappresentanti della necessariame
filosofia esistenzialista. Così Jaspers ritiene che si debba respingere la rivela¬
zione di Cristo, perchè, se questa realmente si fosse avverata, avrebbe privato risp
gli uomini della loro libertà e, conseguentemente, della loro esistenza indivi¬ term
duale. Poiché, se in Cristo si fosse davvero manifestato Dio, l'uomo sarebbe ri¬
masto schiacciato dalla magnificenza divina. Ragionamento, questo, che trascura
il carattere fondamentale di ogni rivelazione divina, ossia la sua occultezza. Dio perduta,
non è entrato nella storia umana per accecare gli uomini con il suo fulgore o
per assordarli con il tuonare della sua potenza! Anzi, la creatura può trascurarlo diventa
ed ergersi contro di lui. Dio vuol salvaguardare la libertà umana e la respon¬
sabilità che ne deriva, per cui non impone necessariamente agli uomini la sua luce
e la sua vita. stim
Questo procedimento permette alla creatura di rispondere negativamente alla ma
manifestazione divina. È possibile, per usare una terminologia esistenzialista, che stab
il carattere oscuro della rivelazione divina permetta a Dio di fare, in certo qual respo
senso, « naufragio » di fronte all'uomo. Poiché quanto più l'amore divino si svela
all'uomo per salvarlo e si accosta alla creatura perduta, pur senza volerla costrin¬
gere, tanto più l'uomo, ergendosi in se stesso contro Dio, può rifiutarsi a que¬
st'amore. Così l'amore, che dovrebbe salvare, diventa, suo malgrado, condanna
per l'uomo ribelle, che si indurisce nel male.
Chi obietta che il carattere oscuro della rivelazione impedisce all'uomo di sal¬
varsi e che perciò essa è senza utilità, ha meno stima dell'uomo di quanto ne
abbia Dio: costui vorrebbe ridurre l'uomo a una macchina che Dio mette in
movimento per raggiungere un fine da lui stesso stabilito, mentre Iddio, al con¬
trario, tratta la creatura come un essere libero e responsabile.
§ 29- RIVELAZIONE SOPRANNATURALE DELL'ESISTENZA DI DIO I47
c) Il Dio che Cristo annuncia è il Padre celeste, la prima Persona
divina. Ogni volta che Cristo parla di Dio, intende riferirsi al Padre, alla
prima Persona, a colui che è anche nostro Padre e non all'unica essenza
divina esistente in tre Persone. In particolare col termine « Padre » non
si intende Dio nell'unità della sua essenza, in quanto ha sentimenti pa¬
terni verso di noi, bensì la prima Persona, da cui Cristo ha ricevuto la
missione e il mandato. L'intero Nuovo Testamento usa la parola «Padre»,
in modo esclusivo, e la parola «Dio», in modo quasi esclusivo, per desi¬
gnare la prima Persona divina. Le scarse eccezioni, in cui la parola « Dio »
assume un altro significato, sono, di regola, facilmente riconoscibili; ne
parleremo nel § 44, n. 5.
Bastano alcuni esempi per illustrare questa affermazione. Poco prima della
condanna a morte, Cristo dice ai discepoli : « In quel giorno domanderete in
mio nome, e non dico che pregherò per voi il Padre, poiché il Padre stesso vi
ama, giacché voi avete amato me e avete creduto che io sono uscito da Dio.
Io sono uscito dal Padre e venuto al mondo; di nuovo lascio il mondo e vado
al Padre » (Giov. 16, 26-28). Il Dio da cui Cristo è uscito, è il Padre, il quale
è Padre di Cristo e Padre nostro, benché in maniera e forza diverse (Mt. 6, 9).
È un'identica. Persona, a cui può essere attribuita tale duplice paternità: «Io
salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro » (Giov. 20, 17). Noi
possiamo partecipare alla figliolanza di Cristo, cosicché suo Padre è pure nostro
Padre. Possiamo, quindi, invocare con il nome di Padre il Dio che ha inviato
il suo Figlio nel mondo (Gal. 4, 4-7; Rom. 8, 14-16). Il principio e la fine di
quasi tutte le lettere paoline affermano la stessa cosa. Si può, quindi ritenere
cèrto che Cristo ha manifestato la realtà di Dio, col testimoniarci, fin dall'inizio,
Dio come un qualcosa di concreto, ossia come la prima Persona divina.
4. - A prima vista potrebbe apparire dubbio che sia possibile possedere la
fede nell'esistenza di Dio, intesa in senso stretto, dato che per credere a Dio
dobbiamo prima sapere che egli esiste e ha parlato (cfr. § 25). Non è un con¬
trosenso che l'esistenza di Dio venga affermata per fede, se già prima è, anzi
deve essere, affermata per ragione? La funzione che la conoscenza naturale di
Dio, secondo il pensiero di Scheeben e Newman, svolge nel nascere della fede,
serve a chiarire questo problema. Come sempre, anche qui tale conoscenza, sia
pure condizionata dalle buone disposizioni della volontà, deve precedere (non
nel tempo, ma logicamente) la fede soprannaturale. Essa non penetra nell'intimo
svolgimento dell'atto di fede, ma si ritrae in silenzio dopo aver presentato Dio.
Compiuto ch'essa abbia tale funzione, sgorga la dedizione fiduciosa e personale
a Dio che si è abbassato fino a noi.
Con ciò si risponde anche alla questione assai discussa nel medio evo, se Dio
possa essere, nello stesso tempo, oggetto di fede e di scienza. Se per scienza
s'intende conoscere e accettare una verità per la sua intrinseca evidenza, non è
possibile che essa coesista con la fede, che è l'assenso, per autorità altrui, a una
verità, in sé non evidente. Tale è il pensiero di S. Tommaso, che adotta il con-
In ogni caso lo studioso che penetra le ragioni natur
148 P. I. - DIO UNO E TRINO
asso
cetto aristotelico di scienza. Ma se per scienza intendiamo anche la conoscenza
avvolta da oscurità, allora essa non è più in contrasto con la fede. Ora ogni semplic
conoscenza riguardante Dio procede nell'oscurità delle immagini e delle ombre;
perciò la fede e la scienza circa Dio possono stare insieme. Questa l'opinione che
sostiene S. Bonaventura il quale si basa sul concetto platonico agostiniano di
scienza, opinione di recente accolta pure da Newman. con
In ogni caso lo studioso che penetra le ragioni naturali in favore dell'esistenza
di Dio, può conciliare la sua fede in Dio, quale la rivelazione soprannaturale
glielo svela, con la sua scienza, poiché il suo assenso di credente si riferisce a
un Tu divino, da cui proviene l'ordine salvifico, assolutamente inaccessibile al della
pensiero umano, mentre la sua scienza considera Dio solo come autore dell'or¬
dine naturale. La fede afferma, quindi, non il semplice « Dio dei filosofi », ma sopranna
il Dio vivente della rivelazione soprannaturale.
§ 30. Rivelazione naturale di Dio e sua conoscibilità mediante la tal
ragione. cie
Pad
obbed
1. - Dio non si rivela soltanto per mezzo della sua parola, ma anche venuto
mediante la natura considerata nel suo proprio essere, valore e fine. le
Natura, qui, in opposizione a quanto è soprannaturale, significa il com¬ tras
plesso delle creature non elevate per grazia. il
sc
Dio stesso, con la sua parola, ci assicura che anche il creato è una sua rivela¬
zione. Cristo infatti ci descrive il mondo in modo tale da designarcelo come il
mondo di Dio. Igigli del campo, gli uccelli del cielo, i passeri sul tetto, la
pioggia scrosciante, il sole luminoso ci parlano del Padre. Il mondo è il mondo
di Dio, che lo ha creato, perciò Cristo, in tutto obbediente al Padre, lo fa rien¬ Signor
trare anch'esso nell'ordine di salvezza che egli è venuto a fondare. Rimane, com'è
naturale, nel suo proprio essere e nella sua propria legge. Cristo non muta le
pietre in pane, come gli suggerisce il tentatore né trasforma lo Stato in Chiesa.
Non cambia l'ordine economico e sociale, né abolisce il matrimonio. Se la natura, Va
ossia il mondo intero è opera di Dio, noi vi possiamo scorgere la luce della maestà d
divina e percepirne la voce.
rivelazione
De
I. Il dogma e sua spiegazione.
2. - L'unico e vero Dio, nostro Creatore e Signore, può essere conosciuto
con certezza col lume naturale della ragione umana mediante le cose create.
È dogma di fede.
a) Tale verità fu definita dal Concilio Vaticano. Per intenderla
bene si deve osservare quanto segue. Il concilio definisce la conoscibilità
naturale di Dio nei canoni relativi alla rivelazione e non in quelli relativi
a Dio creatore dell'universo (3 Sess., can. 1; Denz. 1806). La dottrina
§ 30. RIVELAZIONE DELLA CONOSCIBILITÀ NATURALE DI DIO I49
stabilita dal Concilio Vaticano ha un precedente nella condanna, da parte
di Papa Clemente XI, di una proposizione tratta dalle opere del gianse¬
nista Pascasio Quesnell che negava la naturale conoscibilità di Dio. Costui
insegnava, infatti, che ogni cognizione, anche naturale, di Dio, compresa
quella dei filosofi pagani, non può venire se non dalla grazia divina; e
che senza la grazia non produce se non presunzione, vanagloria e oppo¬
sizione allo stesso Dio, invece che sentimenti di adorazione, di gratitu¬
dine e di amore (Costituzione dogmatica Unigenitus dell'8 sett. 1713;
Denz. 1391). Condannando l'opinione di Quesnell, la Chiesa si fece cu¬
stode e protettrice della ragione umana; lo stesso riprovando il fideismo
di Boutain e il tradizionalismo di Bonnetty. Cfr. § 33.
b) Il Concilio Vaticano afferma la possibilità, non il fatto della conoscenza
naturale di Dio. L'umana ragione possiede, anche senza l'aiuto della grazia, la
capacità di scoprire le vie che conducono a Dio, le quali partono dal creato, a
cui l'uomo stesso appartiene. In altre parole: la ragione umana, in ogni suo
stato storico, e quindi anche dopo il peccato originale, è in grado di ricavare,
dalla considerazione del creato, valide prove per l'esistenza di Dio, contro le
quali non si possono addurre obiezioni decisive.
A tal riguardo il Concilio Vaticano non definisce come l'uomo concreto, in¬
dividuale, che vive nell'attuale piano di salvezza, possa di fatto pervenire alla
convinzione dell'esistenza di Dio. Di conseguenza non sono in contrasto con
l'insegnamento della Chiesa quei teologi i quali affermano che l'uomo in con¬
creto (a differenza dell'uomo in generale), ordinariamente raggiunge tale con¬
vinzione, non per via della pura ragione, ma per quella dell'istruzione ed edu¬
cazione esterna e della grazia interna, quindi vivendo nella comunità religiosa,
inserendosi nella corrente della tradizione. Questa affermazione poggia e sul¬
l'esperienza e sulla considerazione che Dio stesso ha dato all'uomo il compito
di confessare il suo nome, in modo che i figli lo possano ascoltare e ricevere
dai loro padri.
Anche se nessun uomo in concreto dovesse convincersi dell'esistenza di Dio
unicamente per via di conoscenza naturale, la decisione del Concilio Vaticano
conserverebbe ugualmente il suo valore. Infatti, essa sottolinea che, nonostante
il peccato originale, l'uomo nei riguardi di Dio non è divenuto del tutto cieco,
ma ha conservato una intrinseca disposizione o capacità. Questa, anche se do¬
vesse divenire operante solo sotto l'influsso della grazia, presenterebbe pur sem¬
pre un punto di appoggio per l'azione della grazia stessa. L'uomo non viene
mosso come una cosa inerte, quale un pezzo di legno o una pietra. La sua stessa
facoltà intellettuale, sospinta dalla grazia, si mette in movimento verso Dio per
conto suo. L'uomo può riconoscere Dio con la capacità che gli è rimasta; solo
che l'atto conoscitivo prenderebbe l'avvio sotto la mozione della grazia. La pro¬
posizione del Concilio Vaticano costituisce quindi una dichiarazione sullo stato
in cui si trova l'uomo decaduto.
c) L'interpretazione pessimistica che Lutero ha dato dell'uomo, ripresa e
accentuata oggi con forza dai fautori della cosiddetta teologia dialettica (K. Barth,
d) Per giudicare se mai di fatto (quaestio facti) u
i5o P. I. - DIO UNO E TRINO co
d
E. Brunner, Fr. Gogarten, E. Thurneysen) è diametralmente opposta all'insegna¬ S
mento del Concilio Vaticano. e
Secondo costoro, l'uomo è assolutamente incapace di pervenire a Dio per mezzo qu
della ragione. Egli sta piuttosto in contraddizione con Dio e non ha nessuna
via per raggiungerlo partendo dal mondo. Anzi, qualsiasi tentativo in questo d
senso è peccato e arretisce sempre più l'uomo nella colpa. la
d) Per giudicare se mai di fatto (quaestio facti) un uomo, mediante la co¬ d
noscenza naturale, in special modo mediante le prove di Dio, sia giunto ad una realiz
viva convinzione della sua esistenza, si deve pur considerare che nella storia c
umana non esiste uno stato che sia de! tutto privo di grazia. Dio ha cacciato dell
l'uomo dal Paradiso terrestre, ma gli ha promesso il Salvatore. Ora la promessa
(logico-metafisica)
divina non è parola vana, ma verbo pieno di forza e operante. Gli uomini, accoglimento
di
conseguenza, non si possono considerare esseri i quali debbano cercare Dio convi
esclusivamente con le forze naturali senza alcun aiuto della grazia. più
e) Coloro che seguono la precedente corrente, distinguono tra la validità co
della dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio e la sua efficacia psicologica; d
tra la possibilità, che prescinde dall'uomo concreto, di conoscere l'esistenza di c
Dio a partire dal mondo come sua fattura, e la realizzazione di queste possibi¬ Se
lità nello spirito umano preso in concreto, tra la costruzione razionale della comp
teologia naturale e la convinzione religioso-morale dell'uomo. Questa distinzione unica
è fondata, poiché la prova razionale (logico-metafisica) di una cosa, non ne co¬ riman
stituisce ancora il pieno riconoscimento o accoglimento da parte di tutto l'uomo. seco
La scissura tra conoscenza teorico-astratta e convinzione viva e forte si ri¬ ma
scontra già nel campo terrestre, ed emerge tanto più fortemente quanto meno però
una verità si lascia confinare nei limiti della pura conoscenza, per esercitare il
suo influsso sullo sviluppo della nostra vita (cfr. la dottrina teorica e l'effettivo gli
contegno di un filosofo idealista di fronte a un'auto che romba). Ora l'esistenza
di Dio ha un'importanza massima nella nostra vita. Se Dio esiste, l'orizzonte si d
schiude verso la più alta esistenza e la vita la più completa. Se ciò è vero, l'uomo appag
non è irrimediabilmente confinato in un'esistenza unicamente terrena. Se, al con¬ pes
trario, questo non corrisponde a verità, l'uomo rimane chiuso nell'incertezza e non
nei limiti della vita terrena. Nel migliore dei casi, secondo il suggerimento della L'uomo
filosofia esistenzialista, potrà ergere la sua vita al massimo grado di fronte al
muro della morte, dinanzi al quale anch'egli è, però, destinato a naufragare. qual
L'esistenza di Dio significa per l'uomo le più alte possibilità, irraggiungibili sen
nella pura sfera terrena. Nel tempo stesso, però, gli impone maggior respon¬ intim
sabilità e obblighi più impegnativi. Ciò significa che l'uomo non deve più ac¬
contentarsi di una semplice vita terrestre, ma ha il dovere di tendere verso la
vita divina piena di dovizie. Perciò colui che si appaga in se stesso e in questo
mondo, può trovare che l'esistenza di Dio gli è di peso.
Quando ci si chiede se Dio esiste realmente, non si può prescindere dal¬
l'importanza che Dio ha per la vita umana. L'uomo vi è interessato al mas¬
simo grado. Nella risposta, pertanto, non entra solo in campo la ragione, ma
bensì anche la volontà e il sentimento. In certo qual senso, ogni atto conosci¬
tivo coinvolge pure l'attività della volontà e del sentimento, essendo compiuto
dalla persona stessa, cui tutte le facoltà, legate intimamente fra loro, servono
di strumento. Perciò l'uomo conosce solo gli oggetti verso cui nutre simpatia;
§ 30. RIVELAZIONE DELLA CONOSCIBILITÀ NATURALE DI DIO I5I
gli altri non li degna neppure di uno sguardo! Capita, infatti, che noi non ci
accorgiamo neppure se una cosa è presente o meno ai nostri occhi, perchè ci
è del tutto indifferente.
Se ciò vale per la percezione di oggetti insignificanti, tanto più si verifica
quando si tratta della conoscenza di Dio. Ad essa partecipano, in modo più
unico che raro, le forze della volontà e del sentimento. Per giungere alla cono¬
scenza di Dio efficace e viva (Newman direbbe: reale), che non si limiti, cioè,
alla pura conoscenza intellettuale, priva di convinzione concreta, l'uomo neces¬
sita di determinati atteggiamenti spirituali, che i Padri della Chiesa e i teologi
medievali considerano come predisposizioni indispensabili alla vera conoscenza
di Dio. Sono gli atteggiamenti di riverenza, umiltà, purezza e amore (K. Adam).
Se Dio esiste, allora egli è diverso da noi, libero da ogni implicanza in cose
e fluttuazioni terrene, separato da noi da un invalicabile abisso, epperò a noi
vicino, presente nell'intimo del nostro cuore e penetrante sin nelle più recondite
fibre del nostro essere. Noi rispondiamo a Dio, tanto lontano e pur così vicino,
con un atteggiamento di timore amoroso e di amore timoroso, cioè di riverenza,
la quale ci aiuta a scoprire la realtà di Dio e la sua pienezza di valore.
Dio si svela solo ali'umile che, consapevole della propria insufficienza nell'es¬
sere, nel pensiero e nell'azione e del pericolo a cui è continuamente esposto, è
pronto a riconoscere una realtà superiore e ad accettarla come l'unica capace di
aiutarlo e ascoltarlo. Il superbo, invece, divinizza se stesso e diviene perciò cieco
di fronte alla realtà che lo trascende. Nasce così una paradossale situazione : la
conoscenza di Dio, pur essendo massimamente necessaria al peccatore, diviene
per lui più diffìcile che per un altro.
La purezza di cuore con cui l'uomo, libero dall'egoismo, si apre alla realtà,
lo preserva dall'abbandonarsi disordinatamente a cose che non sono Dio e che
non rispondono al suo bene e al suo fine, dall'immergersi nelle realtà sensibili
che lo distolgono dai valori dello spirito. S. Agostino scrive : « Si vede Dio nella
misura in cui si muore al mondo; e nella misura in cui si vive per il mondo,
non si vede Dio » (De Doct. christ., 2, 7).
La forza più intima e misteriosa che spinge gli uomini verso Dio è la nostalgia,
l'amore che Dio stesso ha posto nella nostra natura creandola. Nel trattato sulla
creazione vedremo che l'uomo, perchè fatto da Dio a sua immagine e somiglianza,
ne porta l'intima e indistruttibile impronta. L'origine da Dio è origine dall'amore;
perciò l'uomo ne è intimamente plasmato. Da questo proviene la brama ardente
del cuore umano verso Dio. Il cuore quindi non deve essere inteso come sen¬
timento irrazionale, ma bensì, secondo il pensiero di S. Paolo, Ignazio d'Antio¬
chia, Agostino, Bonaventura, Pascal, Newman, ecc., come una forma di manife¬
stazione dello spirito, come lo spirito cioè in vivente unità con il corpo. Il cuore
è, in questo senso, l'organo con cui l'uomo risponde ad ogni valore, e special¬
mente al valore supremo, Dio.
L'amore interviene in duplice modo nella conoscenza di Dio. Per primo ac¬
costa l'uomo al Tu divino, poi gli apre gli occhi affinchè vedano Dio, il quale
è amore (1 Giov. 4, 8). L'amore può essere compreso solo nell'amore. Chi, di
conseguenza, ne è privo, non può conoscere Dio. L'odio acceca. Chiunque, in¬
vece, ama, è nato da Dio e conosce Dio (1 Giov. 4, 7).
satta spiegazione della S. Scrittura e che solo lo
personale
152 P. I. - DIO UNO E TRINO
II. Fondamento del dogma nella rivelazione.
Testamento
3. - L'affermazione del Concilio Vaticano circa la conoscibilità naturale
di Dio, si può provare con la Scrittura e la Tradizione orale. Un sem¬ di
plice sguardo alla rivelazione mostra che la dottrina del concilio è l'e¬ i
satta spiegazione della S. Scrittura e che solo lo spirito umile, pronto e ven
puro può raggiungere la convinzione personale dell'esistenza di Dio, do
attraverso il creato. Gl
a) Per quanto riguarda la Scrittura possiamo fissare i seguenti punti : 5
I. - Per il credente dell'Antico Testamento la realtà (esistenza) di fo
Dio era così evidente, che tutte le cose e tutti gli eventi servivano per
un incontro con lui. Ogni cosa era trasparenza di Dio. « Il pio lo ricerca de
per essere da lui ascoltato (Sai. 34, 3). Tutti i popoli lo lodano (Sai. 11
117, 1). Fuoco e grandine, neve, nebbia e vento impetuoso, monti e
colline, alberi fruttiferi e cedri, fiere e animali domestici, rettili ed esseri ess
alati celebrano la sua lode (Sai. 148, 8-10). Gli alberi della campagna c
fanno plauso al ritorno del popolo di Dio (Is. 55, 12). Le stelle mattu¬ Theo
tine si rallegrarono tutte insieme quando egli fondò la terra (Giob. 38,
37). Cielo e terra e mare con tutto quel che in essi si muove, sono in¬ com
vitati a dargli lode (Sai. 39, 7). Dal sorgere del sole al suo tramonto venera
il suo nome è grande tra le nazioni (Mal. 1, 11). Quanto più la stesura la
dei Libri Sacri veterotestamentari si fa recente, tanto più forte si sente scri
il mormorio di lode e di gloria a Dio. Ma esso non manca nemmeno
nelle pagine più antiche, e ciascun omaggio è confessione della sempre man
presente certezza che Dio esiste » (Kòhler, Theologie des A. Test., 1 s.). che
Quando, in epoche più recenti, il culto degli idoli si presentò ai cre¬ ven
denti precristiani in duplice maniera, ossia come mitica divinizzazione
cos
delle forze e degli esseri naturali e come venerazione di immagini fatte l'auto
dalla mano dell'uomo, si biasimò severamente la prima forma. Ne leg¬ poten
giamo la condanna nel libro della Sapienza, scritto nel il 0 nel Isecolo pro
a. C. conoscere,
« Sciocchi (per natura) son tutti gli uomini, cui manca la conoscenza di Dio, e
che dai beni visibili non seppero conoscere colui che è, nè dalla considerazione
delle opere riconobbero l'artefice. Ma il fuoco o il vento o l'aer mobile, o la cer¬
chia degli astri, o la gran massa delle acque o il sole e la luna, presero per dèi,
reggitori del mondo. Se rapiti dalla bellezza di tali cose le credettero dèi, pensino
quanto più bello di esse è il loro Signore; giacché l'autore della bellezza creò tutte
quelle cose. Se furon colpiti, invece, dalla loro potenza ed influenza, intendano
da qui, che più potente di loro è colui che le produsse. Poiché dalla gran¬
dezza e dalla bellezza delle creature si può conoscere, per analogia, il loro crea-
§ 3°- RIVELAZIONE DELLA CONOSCIBILITÀ NATURALE DI DIO I53
tore. Tuttavia un piccolo biasimo va a costoro, poiché errano forse, mentre cer¬
cano Dio con brama di trovarlo. Occupandosi infatti delle sue opere, essi fanno
ricerche e si lascian persuadere dall'apparenza, perchè son belle le cose visibili.
D'altra parte neppure essi sono scusabili. Perchè se tanta scienza riuscirono ad
avere, da poter scrutare il mondo, come mai non trovarono più prontamente il
Signore di esso? » (Sap. 13, 1-9; cfr. 2, 15; 12, 24; 13, 10-14. 3°)-
La gioia per la bellezza della natura e la meraviglia o lo stupore di
fronte alla sua forza possono, secondo il testo, condurre l'uomo a Dio.
Nella potenza e nella bellezza del creato si possono intuire la potenza e
la bellezza increate. Ma di fatto non avviene così. Capita anzi che il me¬
raviglioso e lo straordinario, la bellezza e la forza delle creature invece
di condurre gli uomini a Dio, li allontanano da lui e impediscono di ve¬
derlo, riescono a incatenare il cuore umano in modo che non tenti di
oltrepassare la forza e la bellezza visibile, ma si fermi ad esse e le di¬
vinizzi.
Come può avvenire che proprio quei valori che dovrebbero rappresentare la
via verso Dio, si trasformino, per la creatura decaduta, in spinta verso l'idolatria?
Il libro della Sapienza non ce lo dice. Tuttavia con l'aiuto di altri passi biblici,
possiamo rilevare i seguenti motivi, che provengono sia dal mondo, sia dall'uomo.
oc) Il creato non è più la serena rivelazione di Dio, non parla più di lui
con limpida voce. Il peccato, infatti, lo ha votato alla maledizione, svisato e de¬
turpato (Gen. 3, 175 Rom. 8, 13-23). Nasce così la domanda: Può questo mondo
così rovinato essere ancora il mondo di Dio? Dal creato sale percettibile la voce
di un altro padrone, di colui che la Scrittura chiama « il signore dèi mondo » :
la voce di Satana. Tale dominio si manifesta nei sospiri e nei gemiti che sente
S. Paolo, nel pianto e nel lamento percepiti dall'uomo non ancora illuminato
dalla rivelazione (Virgilio: sunt lacrimae rerum).
p) Per di più la forza visiva dell'uomo si è indebolita in conseguenza del
peccato. L'uomo non ha certamente perso ogni capacità di riconoscere Dio, ma
il suo cuore si è ottenebrato, in modo da non poter più vederlo e sentirlo in
modo chiaro. La situazione che il peccato ha provocato, lo mette in pericolo di
non avvertire Dio e di non udirlo.
Che l'uomo, il quale non scorge più Dio nella bellezza e nelle forze naturali,
divinizzi queste si può spiegare col fatto che la natura ha sempre conservato
un'affinità con Dio e che il cuore umano, sia pure ottenebrato, risente tuttora la
bramosia del divino. Il mondo non ha perso la sua profonda numinosità fon¬
data nella sua origine divina, e l'uomo, dal cuore oscurato, può scambiare la
natura, che porta l'impronta di Dio, con Dio stèsso, verso cui anche l'uomo
colpevole tende, in certo qual senso, di continuo.
Secondo il libro della Sapienza, dunque, il creato si presenta come una via
facile per giungere a Dio e la divinizzazione mitica del mondo va attribuita,
non all'impossibilità di conoscerne il Fattore, ma alla cattiva volontà degli uomini.
e quindi costituisce colpa morale.
che la verità prigioniera dell'iniquità; perchè
m
154 P. I. - DIO UNO E TRINO divin
me
II. - Nel Nuovo Testamento S. Paolo riprende il pensiero del libro avend
della Sapienza, e grazie alla venuta di Cristo, che è l'amore divino in¬ v
che
carnatosi nella storia umana, lo svolge con acutezza più profonda.
D
Così si legge nella lettera ai Romani (x, 18-23): «Ecco infatti che l'ira di Dio ret
si manifesta dal cielo contro ogni genere d'empietà e d'ingiustizia degli uomini
che tengono la verità prigioniera dell'iniquità; perchè ciò che di Dio si può co¬
noscere è palese in essi, avendoglielo Iddio stesso manifestato. Sì, gli attributi L'ir
invisibili di lui, l'eterna sua potenza e la sua divinità, fin dalla creazione del pi
mondo si possono intuire, con l'applicazione della mente, attraverso le sue opere. c
Costoro sono dunque senza scusa, perchè, pur avendo conosciuto Iddio, nè gli
diedero gloria, come a Dio, nè gli resero grazie, ma vaneggiarono nei loro ragio¬ de
namenti e il loro cuore insensato s'offuscò. Essi, che pretendevano d'essere sa¬
pienti, diventarono stolti e sostituirono la gloria del Dio immortale con immagini c
di uomini mortali, di uccelli, di quadrupedi e di rettili ». raggiung
Paolo, illuminato dalla rivelazione, proclama in questo passo, che gli
increduli cadono sotto la condanna di Dio. L'ira di Dio li raggiungerà l'inte
e Dio li respingerà in modo che non possano più riconoscerlo. Essi sono Smarri
responsabili della collera divina che si attirano con la loro superbia. Laconoscenz
loro autonomia orgogliosa respinge la verità decisiva, ossia la verità apparterran
di
Dio. Rifiutano di riconoscere il diritto divino di dominio su tutte le crea¬ n
ture. Hanno cattiva volontà. In sè potrebbero conoscere la sapienza di¬
vina, visibile ai cuori puri; potrebbero raggiungere l'invisibile attraverso divi
il visibile. Ma quando l'uomo non prende Dio sul serio e non lo rico¬
nosce come suo Signore e Padrone, allora l'intero essere umano, cuore
e spirito compreso, cade nel disordine. Smarrisce ogni misura e, per a
quanto grandi possano essere le sue conoscenze intellettuali e le sue n
acquisizioni nel campo della civiltà, apparterranno tutte ad un caotico L'ig
mondo di disordine. Di conseguenza, l'uomo non potrà inquadrarle al traspar
loro giusto posto; anzi non saprà neppure quale posto tocchi a lui stesso. cond
A comprova di ciò, lo vediamo abbassarsi a divinizzare persino le bestie natura
che gli sono inferiori! Chi si ribella a Dio per essere autonomo, finisce inseg
per perdere la stessa dignità umana. L'umanità non ha nulla da guada¬ G
gnare negando Dio, anzi cade così in basso, da adorare gli stessi animali.
S. Paolo vede in questo fatto, per prima cosa, non uno sbaglio intellet¬
tuale, bensì la ribellione del cuore umano. L'ignoranza di Dio diviene
un'accusa contro l'uomo stesso, e di qui traspare come l'uomo, a causa
della sua radicale autonomia, cada sotto la condanna di Dio.
S. Paolo parla in due altri passi della naturale conoscibilità di Dio.
Nel suo discorso a Listri (Atti 14, 14-18) insegna agli uditori che Dio,
pur avendo lasciato andare, nel tempo passato, iGentili per la loro strada,
§ 3°- RIVELAZIONE della conoscibilità naturale di dio 155
non li ha lasciati privi della sua testimonianza. Infatti, l'avrebbero po¬
tuto riconoscere nei fenomeni della natura, negli eventi della storia e
nelle esperienze del loro cuore.
La popolazione di Listri, entusiasmata dalla guarigione di uno storpio,
si preparava ad offrire un sacrificio a Paolo e a Barnaba. Idue, che ave¬
vano la missione di estirpare l'idolatria per predicare il messaggio del
Dio vivente, visto ciò, si gettano addolorati in mezzo alla folla cercando
di quietare le masse. Gridano loro che non sono dèi, ma uomini mortali,
soggetti anch'essi alle miserie umane. Sono venuti a predicare il Dio
vivente, diverso per natura da tutti gli uomini. Fino a quel giorno Listri
non lo aveva ancora conosciuto, fino ad allora Dio aveva permesso che
le nazioni andassero per la propria strada, senza comunicare loro la via
della salvezza. Adesso era giunta la loro ora. Tuttavia Dio non era ri¬
masto loro del tutto ignoto fino a quel giorno : « Egli, nel tempo passato,
si era fatto riconoscere attraverso i suoi benefici, mandando dal cielo
piogge e stagioni fruttifere, concedendo nutrimento in abbondanza, em¬
piendo i cuori di letizia ». L'esame attento della natura, della storia e
del proprio cuore, conduce a riconoscere e a sentire Iddio.
S. Paolo attesta qualcosa di simile nel discorso tenuto all'Areopago
di Atene (Atti 17, 22-30). Doveva certo essere un'ora storica quella che
viveva l'Apostolo quando, nella culla stessa della cultura greca, predi¬
cava agli eredi di un passato glorioso il messaggio del Dio vivente. Paolo
esalta dapprima il senso profondamente religioso degli Ateniesi, che si
palesa negli innumerevoli templi, nelle figure artistiche e nelle varie
feste che essi sono soliti celebrare in onore della loro divinità. Come segno
particolare del loro spirito religioso, l'Apostolo ricorda un altare, che ha
visto errando per la città, recante la dicitura: Al Dio ignoto. Tale for¬
mula sintetizza il senso religioso degli Ateniesi per i quali la numino-
sità 0 carattere divino nel mondo è tale che non si esaurisce nelle mol¬
teplici divinità conosciute. Essi, che dovunque intuiscono il divino, sen¬
tono la necessità di altri simboli, oltre ai noti, in cui l'intera numinosità
del reale trovi la sua espressione. Desiderosi di non dimenticare nulla
hanno eretto un altare persino al Dio ignoto! Paolo assicura gli Ateniesi
che sono sulla retta via. Il mondo, in realtà, è tutto dominato dal mi¬
stero di Dio e quando essi credono di intuire qualcosa di simile, non si
ingannano. A loro è, purtroppo, ancora ignota l'origine del carattere nu-
minoso del mondo: proviene dal Dio vivente. La loro ricerca di tale
carattere numinoso è, come spiega Paolo, la ricerca del Dio vivente, di
cui fino a quel giorno hanno ignorato l'esistenza. Eppure avrebbero do-
Dovrebbe sembrar logico che potessimo toccar
P. I. - DIO UNO E TRINO
intim
156 sforzino
vuto riconoscerlo prima. Tutto è, infatti, creato dal Dio vivente e do¬ ciascun
minato dal suo agire e dal suo essere. La storia umana è diretta da lui!
Egli inoltre penetra in ciascuno di noi come la potenza personale che ci attest
forma e ci comprende; è lo spazio personale in cui noi viviamo ed esi¬ ma
stiamo, così come ci muoviamo nell'aria. Sì, noi siamo « sua progenie » ! vo
Dovrebbe sembrar logico che potessimo toccarlo, afferrarlo e sentirlo! serio
Come, infatti, può restare inosservato chi è intimamente presente? È suoWikenhau
volere che gli uomini lo « cerchino e si sforzino di trovarlo come a ta¬
stoni, quantunque egli non sia lontano da ciascuno di noi, poiché ognuno
ha in lui vita, movimento ed essere ». Eppure avviene una cosa strana Nuovo
e curiosa: egli non è riconosciuto! Ma ora, attesta Paolo, Dio stesso vuol di
porre termine a tale ignoranza. Ora egli si manifesta in modo nuovo, c
invita gli uomini ad abbandonare gli idoli per volgersi tutti quanti verso co
lo stesso Dio vivente. Appello, questo, assai serio, in quanto su di essosoprannatur
si
basa il giudizio. Per i due passi cfr. A. Wikenhauser, Gli Atti degli Apo¬ d
stoli, Brescia 1957. nell'unità
Si potrebbe osservare che in questi passi, a differenza del modo di parol
esprimersi, pressoché usuale adottato dal Nuovo Testamento, con la pa¬
rola « Dio » non si intende la prima Persona divina, ma bensì l'essenza sp
stessa di Dio. Effettivamente qui il Testo Sacro ci parla della conoscenza della
divina possibile ai Gentili. Si tratta non della conoscenza di Dio che si a
ottiene per mezzo della rivelazione soprannaturale, ma bensì di quella s
accessibile a qualsiasi uomo mediante l'esame del creato; essa riguarda a
Dio non nella trinità delle Persone, ma nell'unità della sua natura. Tut¬ della
tavia vedremo che, in realtà, anche qui la parola « Dio » serve a desi¬ completam
gnare la prima Persona divina. D
III. - La Tradizione orale ci testimonia spesso che è possibile al¬ tutt
l'uomo conoscere Dio naturalmente. IPadri della Chiesa ripetono, infatti,
la dottrina del libro della Sapienza, della lettera ai Romani e dei discorsi Dio
paolini. Nella coscienza della Chiesa primitiva si delinea anche una no¬
tevole tendenza, non del tutto nuova di fronte ai passi biblici riportati, In
di considerare l'idea di Dio come una dote della natura umana. L'uomo
nasce con essa e non può mai perderla completamente. Ci basti ricordare
due esempi: S. Agostino elenca l'esistenza di Dio nel novero di quelle
verità che non possono mai essere ignote del tutto; Giovanni Damasceno
esprime la convinzione dei Padri, specialmente greci, quando afferma:
« La conoscenza dell'esistenza di Dio fu da Dio stesso radicata fin da
principio nella natura. Ma anche l'intero creato, da lui conservato e di¬
retto, proclama la maestà della natura divina. Inoltre Dio si è fatto co-
§ 3°- RIVELAZIONE DELLA CONOSCIBILITÀ NATURALE DI DIO 157
noscere in modo atto alle nostre capacità d'intendere, prima per mezzo
della legge e dei profeti, poi tramite il suo unigenito Figlio, nostro
Signore e Salvatore, Gesù Cristo » (De fide orthodoxa, lib. 1, c. 1).
Se consideriamo che per l'uomo la sua derivazione da Dio non è solo
un fatto avvenuto una volta nel passato, ma, come vedremo nel trat¬
tato della creazione, è un avvenimento continuo che interessa e impronta
la sua intima essenza, allora si comprende il pensiero patristico: che
l'uomo non può dimenticare del tutto Dio, come non può dimenticare
completamente se stesso; che non può conoscere a fondo il suo proprio
essere senza conoscere, in qualche modo, anche Dio.
III.Conferma della ragione.
4. - La rivelazione della conoscibilità naturale di Dio viene confer¬
mata e giustificata dalla ragione umana. Questa, spinta dalle sue ten¬
denze naturali, tenta incessantemente e con successo di passare oltre se
stessa e il mondo, in un al di là che trascende uomo e natura non solo
in apparenza, ma in modo vero e reale; in un al di là dove si trova Dio,
giustificando così la convinzione della sua esistenza. Ciò ha luogo me¬
diante le prove dell'esistenza di Dio, il cui sviluppo particolareggiato è
oggetto della filosofia.
a) Perciò qui accenniamo solo schematicamente per quali vie la ra¬
gione, fiduciosa nella sua capacità naturale, possa giungere alla certezza
dell'esistenza di Dio. Partendo dall'esperienza della vita ed esistenza
propria ed altrui da una parte, e, dall'altra dalla sensazione e consapevo¬
lezza della propria impotenza e dell'insufficienza di tutte le altre cose,
che ha il suo fondamento assai vicino al nulla (Heidegger), la ragione
umana si apre ad un essere personale assoluto, immutabile, trascen¬
dente, libero da tutti i vincoli delle contingenze terrene (assoluto), che,
in virtù della sua perfezione, possiede tale pienezza d'essere che in lui
l'esistenza si identifica con l'essenza (Atto puro). Dal divenire del mondo
la ragione si apre ad ima causa prima a sè stante, sostegno e fonda¬
mento di tutta la serie delle cause terrene. Dalla magnificenza e dalla
gioia beatificante dei valori quaggiù sperimentabili, la ragione, che,
d'altra parte, ne scopre l'insufficienza e caducità, giunge alla cognizione
di un valore primo (bontà prima, verità prima, bellezza prima). Dalla
finalità e dall'ordine della natura, che, nonostante le molte oscurità, si
possono, tuttavia, stabilire con sicurezza, la ragione ascende ad un primo
essere intelligente. Dal fatto poi della coordinazione tra conoscente e
mondo,
i58 P. I. - DIO UNO E TRINO
valo
qu
conosciuto si può provare che quest'essere intelligente è la ragione
prima, e dalla esperienza di un dovere che si impone alla nostra coscienza
specialment
indipendentemente dal piacere o dal dispiacere, dall'utilità o dal danno, dimostr
si può arguire che esso è la volontà e la santità prima. fatt
Le dimostrazioni dell'esistenza di Dio non partono propriamente dalle lacune
o dalle deficienze della nostra conoscenza del mondo, sicché là dove non arriva dimostrazioni
ancora la nostra scienza ivi poniamo Dio. Esse invece hanno come punto di par¬
tenza l'essere e il valore del mondo stesso, essere e valore considerati, com'è natu¬ oggetto
rale, nella limitatezza loro propria. Non possiamo, quindi, ammettere l'obiezione
che tali prove considerano Dio come un riempitivo, e che perdono quindi sempre
stess
più di valore man mano che la scienza, specialmente quella naturale, riesce a
colmare le nostre lacune. Fondamento delle dimostrazioni di Dio è infatti la è
struttura essenziale del mondo, il quale è così fatto da essere inconcepibile dob
senza Dio.
b) Per la valutazione di tali dimostrazioni è di fondamentale im¬ prove
portanza il fatto che tutte conducono non solo a una realtà che sta al pensator
vertice o all'apice delle mutevoli realtà oggetto dell'esperienza umana, d
ma altresì a un essere personale, ben diverso da tutti gli altri. Se, il un
mondo ci mostra un essere che, nella sua stessa perfezione, include la impor
ragione della sua esistenza e nel tempo stesso è il fondamento dell'esi¬
stenza del mondo, incapace di esistere da sè, dobbiamo ritenere che talemovimento
questo
essere è in tutto diverso dal mondo.
muo
c) Gli elementi di tali dimostrazioni provengono da Platone e da c
Aristotele. Non sembra però che i due pensatori siano riusciti a conce¬
pire chiaramente la radicale distinzione di Dio dal mondo. S. Tommaso p
d'Aquino, nella Summa Theologica, presenta una breve sintesi degli ar¬ atto,
in
gomenti platonici e aristotelici. Il testo più importante dice:
secondo
« Per cinque vie si può provare che Dio esiste. rispe
La prima e la più evidente si desume dal movimento. Infatti, è certo, e si con¬ caldo
stata coi sensi, che alcune cose si muovono in questo mondo. Ora tutto ciò che
si muove è mosso da un altro; poiché niente si muove se non in quanto è in che
potenza rispetto a ciò verso cui si muove; e quello che muove, in tanto muove ste
in quanto è già in atto. Muovere, infatti, non significa altro che addurre una cosa
dalla potenza all'atto. Ma niente può passare dalla potenza all'atto se non per
mezzo di un ente già in atto: così il calore di un atto, come il fuoco, fa sì che la
legna, che è calda in potenza, sia calda in atto, e in tal modo la muove e la
altera. Ora non è possibile che la stessa cosa secondo lo stesso rispetto sia in¬
sieme in atto e in potenza, bensì solamente sotto rispetti diversi. Ciò che, infatti,
è caldo in atto non può nello stesso tempo essere caldo in potenza. È impossibile
che una cosa secondo lo stesso rispetto e nello stesso modo sia movente e mossa
oppure che muova se stessa; perciò tutto quello che si muove bisogna che sia
mosso da un altro. Ma se quest'altro si muove egli stesso, bisogna che anch'esso
§ 3°- RIVELAZIONE della conoscibilità naturale di dio 159
sia mosso da un altro, e questo da altro ancora e così di seguito. Ora, siccome
non si può ammettere un tale processo all'infinito, poiché in tal caso non vi
sarebbe né un primo motore e nemmeno qualche cosa che muova un'altra dal
momento che le cose mosse secondariamente si muovono in tanto in quanto son
mosse da un primo motore (così il bastone si muove, ma solo in quanto è mosso
dalla mano), è dunque necessario addivenire ad un primo motore, che non sia
mosso da alcun altro; e questo tutti intendono essere Dio.
La seconda via si desume dal concetto di causa efficiente. Nel mondo sensibile
troviamo un ordine di cause efficienti. Ma non si trova e non può trovarsi che
una cosa sia causa efficiente di se stessa, poiché in tal caso dovrebbe esistere
prima di se stessa, il che è impossibile. Né si deve pensare a un processo infinito
di cause efficienti, poiché in tutte le cause efficienti ordinate la prima è causa
della media e la media dell'ultima, anche se una o più siano le cause medie.
Ora se si toglie la causa prima si elimina l'effetto : perciò se non vi fosse una
causa prima efficiente, non ci sarebbe né effetto, né causa seconda. Ora se si
volesse procedere all'infinito nelle cause efficienti, non vi sarebbe né una prima
causa efficiente, né un effetto ultimo, né cause efficienti medie, il che è mani¬
festamente falso. È dunque necessaria una prima causa efficiente chiamata da
tutti Dio.
La terza via si desume dalla considerazione del possibile e del necessario. Tro¬
viamo, infatti, che alcune cose sono solo possibili perchè si generano e si cor¬
rompono, e quindi possono essere e non essere. Ora è del tutto impossibile che
tali cose siano sempre state, poiché quello che può non essere, qualche volta
non è. Perciò se tutte le cose possono non essere, ne deriva che un tempo niente
è esistito. Ma se ciò è vero, anche adesso nulla esisterebbe, perchè ciò che non
è viene all'esistenza solo mediante ciò che è. Se dunque nulla fosse esistito, sa¬
rebbe stato impossibile che qualcosa avesse cominciato ad esistere, e così nulla
esisterebbe: il che è manifestamente falso. Quindi non tutti gli enti sono possi¬
bili, e perciò vi deve essere qualcosa di necessario nel reale. Ora tutto ciò che
è necessario o ha la causa della sua necessità fuori di sé o in se stesso. Ma non
si può procedere all'infinito nella ricerca della causa delle cose necessarie, per la
stessa ragione per cui prima si è dovuto escludere il processo all'infinito nelle
cause efficienti. Si deve dunque ammettere un ente che sia necessario per sé e
che non abbia fuori di sé la causa della sua necessità, ma che sia esso stesso
causa della necessità delle altre cose. Questo è l'ente che tutti chiamano Dio.
La quarta via si desume dai gradi che troviamo nelle cose. In queste, infatti,
troviamo che una cosa è migliore, più vera e più nobile di altre. Ma il più e il
meno si possono predicare a diverse cose solo in quanto queste diversamente si
accostano a qualcosa che è massimo : così si dice che una cosa è più calda, quando
più si accosta a ciò che è massimamente caldo. Esiste quindi qualcosa che è ve¬
rissimo, ottimo, nobilissimo e per conseguenza ente nel massimo grado, poiché
In XII I. Metaph. expos., lib. 2, 4, si dice che le cose massimamente vere sono
anche massimamente enti. Ora quel che è massimo in un determinato genere è
causa di tutte le cose che appartengono a tal genere; così il fuoco che è massi¬
mamente caldo, è causa di tutte le cose calde, come si dice nel già citato libro.
Vi deve quindi essere un ente che è la causa di tutti gli enti esistenti, della
bontà e di qualsiasi perfezione. E questo è l'essere che noi chiamiamo Dio.
le
G
i6o P. I. - DIO UNO E TRINO
giunga
La quinta via si desume dal governo del mondo. Noi vediamo, infatti, che al¬
cune cose, del tutto prive di conoscenza, cioè i corpi naturali, operano per un u
fine. Questo si ricava dal fatto che sempre e con gran frequenza operano in un di
determinato modo, appunto per raggiungere ciò che è ottimo. È quindi chiaro che fe
non a caso, bensì intenzionalmente raggiungono un determinato fine. Ora le cose
che non hanno conoscenza, non possono tendere a un fine se non sono guidate
che
da un essere spirituale e intelligente che regola tutte le cose naturali al proprio ci
fine. E questi è Dio » (S. Th., I, q. 2, a. 3; cfr. Contra Gentes, 50, 13).
d) Supposto anche che nessuno mai giunga alla convinzione del¬ a
l'esistenza di Dio esclusivamente per la via di una prova scientifica¬ ov
mente elaborata, tali dimostrazioni conservano ugualmente un grande,
insostituibile valore : esse possono sciogliere le difficoltà e obiezioni sol¬
levate contro l'esistenza di Dio e giustificare la fede di chi vi crede. Nè s
si possono dichiarare superflue, dal momento che noi abbiamo in Cristo dobbiam
la comunicazione del Dio vivente, mentre esse ci conducono solo all'es¬ da
sere assoluto, poiché ci procurano una profonda e comprensiva idea di lat
quella realtà personale, che in Cristo si accosta a noi; ci aiutano a non sodd
prendere tale inaudito evento come qualcosa di ovvio, ma a vederlo nella
sua intima grandezza; ci offrono inoltre i motivi razionali su cui poggia
la fede stessa. n
nostra
Quando si obietta che tali prove dimostrano solo valori 0 realtà im¬
personali senza condurci al Dio vivente, dobbiamo rispondere che esse
ci mostrano Dio sotto diversi aspetti; che solo dal loro complesso nasce propria
la figura completa di Dio, vista sotto tutti i lati; che inoltre la realtà
raggiunta dagli sforzi della ragione umana soddisfa il nostro pensiero persona
indagatore solo se essa è un essere distinto dal mondo, padrone di se pe
stesso e quindi personale. all'o
e) La personalità di Dio balza evidente al nostro sguardo se nella in
ricerca di lui partiamo da un settore della nostra vita che reca in modo indist
particolare l'impronta del personale, ossia quello della socialità umana. decade
La socialità, relazione con un « tu », che è propria della natura dell'uomo,
trova la sua reale spiegazione, pienezza di senso e garanzia solo se l'ul¬
timo « tu » dell'uomo è un Dio eterno e personale a cui tutti i rapporti
sociali terreni si trovano ancorati. Solo in Dio e per mezzo di Dio l'uomo
raggiunge quel disinteresse, quella prontezza all'obbedienza e alla dedi¬
zione, senza di cui la società è perennemente in pericolo. Solo in Dio
il « tu » umano riceve la dignità personale indistruttibile, la quale resta
la stessa immagine sua, anche se l'uomo decade, e perciò va accostato
con amore, rispetto e fiducia.
Naturalmente qui si parla della personalità di Dio in senso generico.
§ 3°- RIVELAZIONE DELLA CONOSCIBILITÀ NATURALE DI DIO l6l
cioè di Dio in quanto è distinto dal mondo e lo trascende. La persona¬
lità divina nel senso della Trinità non può esser conosciuta dalla ragione
senza la rivelazione soprannaturale.
f) Da quando le vie razionali che conducono alla conoscenza di Dio vennero
battute con sempre maggior diffidenza, si è tentato di dimostrare che il senti¬
mento è un mezzo per giungere a lui. Questa via è realmente buona? Se, se¬
condo l'antico senso stretto del vocabolo, si intende per sentimento un partico¬
lare fenomeno dell'affettività, questo non può divenire via che conduce a Dio,
giacché in tal senso manca di valore logico-oggettivo. Se invece lo si prende
nel significato di tendenza radicale dello spirito umano e di desiderio naturale,
può costituire una strada verso Dio e avere una grande importanza.
Infatti, l'uomo, in tutta la vastità e profondità del suo essere, proviene da Dio
e tende a Dio. La sua origine è intimamente determinata da Dio ed essendo in
continua tensione tra Dio e il nulla, si trova come su di un ponte che getta il
suo arco fra la pienezza dell'essere e il non essere. Sarebbe, quindi, strano che
questa sua struttura ontologica non si riflettesse nella sua coscienza. È naturale
che, sia pure debolmente e in modo inconscio, si palesi a mo' di impulso, di
presentimento, di tendenza religiosa. Quest'intima costituzione ontologica negli
uomini retti e sani, si rivela in qualche modo, sia nell'anima che nello spirito.
Questo fatto potrebbe spiegarci nel modo più semplice e chiaro perchè la gran¬
diosità del mondo e della vita umana non acquieti l'uomo, perchè non lo appa¬
ghino la scienza, i successi umani. Che egli trascenda queste cose e si chieda il
senso e la ragione della vita, ricercandone l'ultimo fine e l'ultimo significato si
può spiegare solo con il fatto che il pensiero indagante la ragione del tutto, la
conosce già in qualche modo, sia pur inconscio, nella profondità del suo essere
(Rosenmdller).
Così la disposizione religiosa naturale dell'uomo (il « sentimento » religioso)
è il mezzo per giungere a Dio e il presupposto di ogni dimostrazione di Dio.
Dà la spinta alle fatiche del pensiero e le dirige verso Dio. Tuttavia può anche
indurre l'uomo, irretito dal peccato, in errore, manie o superstizioni. La storia
dovrebbe convincere che l'uomo, pur portando l'impronta dell'origine divina, di
fatto trova con sicurezza il suo vero principio soltanto quando è illuminato dalla
rivelazione del Dio vivente.
Si può, quindi, affermare che la retta, viva e profonda conoscenza della natura
umana, sia individuale che sociale, implica la conoscenza di Dio. Una vera e
piena conoscenza dell'uomo, che non rimanga solo alla superficie dell'io, non è
possibile senza riconoscere Dio. Non si può scandagliare l'uomo nella profondità
del suo essere, senza pensare, in qualche modo, anche a Dio, da cui egli è stato
creato e a cui essenzialmente tende. L'uomo può affermare di amare se stesso
solo per e in Dio. Ogni conoscenza di sè adduce conoscenza di Dio, se non vuol
arrestarsi ai primi passi. E, di rimando, ogni cognizione di Dio è, in certo qual
senso, un incontro con se stesso, un rientrare nel proprio intimo.
Così appare chiaro pure perchè la predicazione dell'esistenza di Dio, con cui
le generazioni precedenti resero noto ai posteri il santo nome di Dio, sia stata
accolta dagli uditori con la massima naturalezza. Tale rivelazione portava a
chiara e distinta conoscenza quanto era già, in certo senso, noto. Conferiva alla
11 - schmaus - dogmatica 1.
che Dio. E poiché solo nell'essere divino l'uom
signi
P. I. - DIO UNO E TRINO
clima
cognizione già esistente di Dio la forma di una conoscenza abbastanza chiara
da rendere possibile la valutazione dei suoi motivi e da poter facilitare una sicura ch
convinzione e una ferma confessione (Rosenmóller). ver
Chi nega Dio o allontana da lui gli occhi, contraddice l'essenziale appartenenza um
dell'uomo a Dio e distrugge lo spirito del suo essere più profondo. Così si spiega
il senso di vuoto, di angoscia, di turbamento, di spaesamento che sentono coloro
che negano Dio. E poiché solo nell'essere divino l'uomo può trovare una sicura d'immutabile
àncora per i suoi rapporti sociali, privarsi di Dio significa altresì esporre al peri¬ Per
colo, anzi far scomparire la coscienza sociale. Di
g) Queste considerazioni ci introducono nel clima del pensiero di S. Ago¬ d
stino e S. Bonaventura. La dimostrazione agostiniana di Dio si può sintetizzare de
così: nella nostra coscienza troviamo delle verità, che hanno i caratteri della ve
immutabilità, dell'eternità e dell'universalità. Tali verità non possono provenire c
dalle cose sensibili e neppure nascere dallo spirito umano poiché non abbiamo ver
alcun potere su di esse, ma le troviamo già presenti e ce ne sentiamo soggetti.
Stanno, quindi, al disopra dello spirito umano. Ciò che scorgiamo al disopra
della nostra mente è qualcosa di eterno, d'immutabile, di necessario, ossia una aspet
realtà che ha in sé tutte le caratteristiche di Dio. Perciò la scoperta della verità c
che trascende l'uomo, implica pure la scoperta di Dio. Il procedimento agosti¬
niano appare come una specie di realismo platonico delle idee. Le verità immu¬ Ao
tabili, eterne e assolute si possono spiegare solo se derivano in noi da un luogo superando
fuori di noi, vale a dire se sono il riflesso di una verità esistente al disopra di conce
noi, sussistente in se stessa. In quanto essa domina, come norma, il nostro pen¬ del
siero, noi giudichiamo tutto alla sua luce. Ora la verità sussistente in se stessa
è appunto Dio. (S. Agostino non conosce una prova cosmologica indipendente, av
ma introduce la bellezza, l'insufficienza, la mutabilità del mondo nella sua pro¬
pria dimostrazione. Se talvolta egli parla di tali aspetti del mondo in modo che e
sembrano a sé stanti, sono pur sempre da intendersi come parti integranti della
dimostrazione tipicamente sua). contemporaneo
Il così detto argomento ontologico di Anselmo di Aosta (t 1109) non si scosta rea
di molto dal pensiero di Agostino. Anselmo, superando l'argomento cosmologico, ne
vuol provare l'esistenza di Dio con l'analisi del concetto stesso di Dio. La no¬ t
zione di Dio, che tutti hanno, è quella d'un essere del quale non si può pensare denominazione
nulla di più grande. Ora un tale essere deve avere l'esistenza. Infatti, se non scolastici.
esistesse, se ne potrebbe pensare uno più grande, avente cioè l'esistenza, non S
solo nel pensiero, ma anche nella realtà. E questo, a sua volta, sarebbe Dio.
Pensare Dio come l'essere il più grande pensabile e pensarlo non esistente è ancora
mettersi in contraddizione con se stesso.
Contro questo argomento Gaunilone, contemporaneo di Anselmo, obietta che
qui ha luogo un salto dall'ordine ideale a quello reale. Espone tale obiezione
nel suo Liber pro insipiente, cui risponde Anselmo nel Contra Gaunilonem. L'o¬
biezione di Gaunilone ripresa da S. Tommaso e, più tardi, da Kant il quale re¬
spinge tutte le prove medievali sotto la denominazione di « ontologiche », fu se¬
guita dalla maggioranza dei filosofi e teologi scolastici. Seguono invece la via di
Anselmo: Bonaventura, Matteo di Acquasparta, Duns Scoto, Leibniz.
Oggi tale « prova » è di nuovo vivamente discussa ed esaminata e nel suo signi¬
ficato e nel suo valore dimostrativo. Ma non si è ancora raggiunta una spiegazione
§ 30- RIVELAZIONE DELLA CONOSCIBILITÀ NATURALE DI DIO 163
soddisfacente. Anche E. Gilson non osa decidere se Anselmo parli da filosofo che
vuol dimostrare razionalmente l'esistenza di Dio, o da teologo già convinto di tale
esistenza, oppure da mistico che aspira all'unione con Dio (Sens et nature de l'ar-
gument de Saint Anselme in Archives d'Histoire doctrinale et littéraire du moyen
àge, 9, 1934, 5-5i)-
La validità dell'argomento anselmiano è connessa con la validità della convin¬
zione, derivante dal platonismo, che la conoscenza è intuizione diretta e imme¬
diata della realtà vera, quella delle idee, anzi unione con essa. Le idee non sono
dei concetti nostri, esistenti nel nostro pensiero e mediante i quali conosciamo
la realtà; no, le idee sono la realtà stessa, da noi intuita, alla quale conoscendo
ci uniamo. Se si ammette ciò, allora l'idea di Dio, quale essere il più grande
pensabile, non è un semplice concetto della nostra mente, ma una realtà spiri¬
tuale che viene intuita. Secondo la dottrina aristotelica della conoscenza come
astrazione, l'argomento, sempre che sia visto solo sotto l'aspetto di dimostrazione
filosofica di Dio, si presenta come un salto ingiustificato dall'ordine concettuale a
quello reale, ed è quindi da respingere. Nel modo più conciso, tale rifiuto si
può legittimare così : anzitutto occorre vedere se il concetto di Dio come « l'es¬
sere il più grande che si possa pensare » è giusto o meno. Anche se tutti gli
uomini sono d'accordo in tale determinazione di Dio, non è ancora con ciò
escluso il pericolo che si tratti di pura creazione dello spirito umano. Come
possiamo asserire che l'umanità, nel fissare tale concetto di Dio, non sia vittima
di una illusione? Secondo la dottrina aristotelica dell'astrazione rimane un'unica
via: quella di mostrare la legittimità di questo concetto di Dio. Il che è possi¬
bile solo mediante le prove di Dio, tratte dalle cose che sono oggetto della nostra
esperienza. Il risultato di tali prove è appunto la nozione di Dio come l'essere
il più grande pensabile; ma qui giunti è davvero inutile prendere proprio la
medesima idea come punto di partenza per una dimostrazione di Dio.
h) Chi rifiuta di donarsi e di sottomettersi a Dio, arriva a distruggere
l'uomo e il mondo, e suscita una vita indegna della creatura umana. Quando
Dio diviene insignificante per l'uomo, allora questi smarrisce la bussola. È questa
una dimostrazione non proprio formale dell'esistenza di Dio, ma assai persua¬
siva. Nietzsche, nel secolo scorso, ha espresso con chiarezza che fa rabbrividire,
il disorientamento che prova l'uomo senza Dio : « Dov'è mai Dio? Noi lo ab¬
biamo ucciso. Noi tutti siamo i suoi assassini... Come abbiamo potuto asciugare
il mare? Chi ci ha dato la spugna per cancellare tutto l'orizzonte? Che abbiamo
mai fatto infrangendo le catene che legavano la terra al sole? In quale direzione
ormai essa si muove? Verso quale meta ci dirigiamo noi? Lungi da ogni sole?
Non precipitiamo di continuo? Indietro, da un lato, in avanti, da tutte le parti?
C'è ancora un alto e un basso? Non vaghiamo noi come attraverso un nulla senza
fine? Non soffia su di noi lo spazio vuoto? Non fa forse più freddo? Non si fa
continuamente notte, sempre più notte?... Dio è morto! e noi lo abbiamo uc¬
ciso!... La grandezza di questo fatto non è troppo vasta per noi? Non dobbiamo
forse noi stessi divenire dèi, per sembrare degni di quella grandezza? Non ci fu
mai un fatto più grande — e chi nascerà dopo di noi apparterrà, grazie a tale
evento, a una storia più eccelsa di quanto sia stata finora qualsiasi storia... Questo
enorme avvenimento è ancora per via, e cammina t> (La gaia scienza, n. 125).
Il disorientamento si verifica nella vita e dello spirito e della volontà e del
a denti stretti e con cuore risoluto, sforzarsi di durar
d
P. I. - DIO UNO E TRINO v
l'angos
sentimento. L'uomo, privo di Dio, diviene preda dell'orgoglio, della menzogna Oppu
e dell'odio. Mentre tenta di liberarsi da lui, cade nella solitudine glaciale e qu
smarrisce il senso della sicurezza. Non trova più il senso ultimo del suo essere è
nel mondo, e, appunto per tale mancanza, vive per il nulla. L'ateo diviene un ga
nichilista e perde la vera personalità. Chi perde Dio, perde se stesso.
L'uomo, in tale situazione disperata e assurda, possiede due possibilità. O può, spe
a denti stretti e con cuore risoluto, sforzarsi di durare in essa. E allora si ac¬ ci
corge che tale sforzo genera vita convulsa, paralisi di tutte le energie causanti stes
libertà e perfezione, e che l'angoscia devasta la sua vita. Anche quando egli si m
narcotizza con il lavoro e il tumulto terreno, l'angoscia continua la sua fatale dig
attività nel più profondo di lui stesso (neurosi). Oppure egli può, dentro questo mat
mondo divenuto assurdo, scegliersi una parte e per questo cercare di costruirsi,
per proprio conto, un valore provvisorio. Il che gli è possibile solo in quanto se
ai valori dello spirito, della volontà e del cuore, garantiti da Dio, sostituisca rap
nuovi valori, una nuova verità, una nuova moralità. Il superuomo di Nietzsche è che
appunto un tentativo del genere. Usurpa ciò che spetta solo a Dio, si eleva a dittatur
un disumano orgoglio e precipita al suolo. La storia ci insegna che il superuomo va
si cambia in bruto e decade al di sotto dell'uomo stesso. ines
La negazione di Dio non solo distrugge il singolo, ma bensì la stessa compa¬ dovreb
gine sociale. Toglie all'uomo la garanzia della sua dignità, e la creatura, privata de
dell'aureola divina, decade al rango di cosa, di « materiale umano ». Come tale
viene trattata e di lei si usa e si abusa. Il pericolo è maggiore in quanto nella ch
società non diretta da Dio, l'uomo è abbandonato a se stesso, in preda alle forze sufficiente
dell'odio e dell'orgoglio. Così diviene un animale rapace. L'umanità degradata
reclama la dittatura, capace di domare gli uomini, che cambiati in bestie feroci,
si combattono e si distruggono a vicenda. La dittatura, a sua volta, provoca la sto
rivoluzione che tenta di scuotere tale schiavitù. Ciò vale anche se la media degli
individui si adatta alla dittatura. Così si sviluppa inesorabilmente il destino. r
La negazione di Dio distrugge la terra che dovrebbe fornire abitazione, nu¬
trimento, vestiario all'uomo; favorisce lo svilupparsi dell'istinto della distruzione. prop
Le cose poi che l'uomo distrugge non si possono più ricuperare perchè si tratta
di un processo irreversibile. Così nasce il pericolo che l'umanità, abbandonato
Dio, non trovi più nel mondo, in misura sufficiente, quanto le necessita per
l'abitazione, il vestiario e il nutrimento.
Queste affermazioni non derivano da meditazioni astratte, ma sono palese¬
mente dimostrate dalla storia. E tale esperienza storica si trasforma in una
prova indiretta a favore di Dio.
L'uomo che vede le cose con gli occhi di Cristo, riconosce che la negazione
di Dio adduce, quale più grave effetto, l'ingresso del demonio nel mondo: qui
è la radice più profonda del carattere distruttivo proprio dell'ateismo.
Secondo le Scritture, dove non regna Dio, regna Satana, il distruttore del
mondo.
§ 3°- RIVELAZIONE DELLA CONOSCIBILITÀ NATURALE DI DIO 165
IV. Ulteriori precisazioni.
5. - La definizione del Concilio Vaticano circa la conoscibilità naturale
di Dio ricevette una spiegazione autentica e una più precisa formula¬
zione dal giuramento antimodernista prescritto da Pio X. Infatti, il con¬
cilio non aveva formalmente definito se la conoscenza dell'esistenza di
Dio sia possibile per via di dimostrazione razionale oppure grazie ad
altri vie come il presentimento, l'intuizione, il postulato della ragione
pratica, ecc., benché dall'analisi delle circostanze immediate, apparisse
chiaro che esso alludeva a vera dimostrazione. Il giuramento contro il
modernismo ha chiarito la cosa in modo formale, affermando che « Dio,
principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto, e quindi anche
dimostrato, in maniera certa dal lume naturale della ragione per mezzo
delle cose create, ossia delle opere visibili della creazione, come la causa
dagli effetti » (Denz. 2145).
La possibilità di dimostrare l'esistenza di Dio, e quindi di conoscerlo
per la via della causalità, è pertanto una verità prossima alla fede. Ben¬
ché il Concilio Vaticano abbia voluto evitare questa più chiara e più
precisa espressione, tuttavia la dottrina della dimostrabilità di Dio era
già stata più volte manifestata espressamente, come nelle dichiarazioni
contro Bautain e Bonnetty (Denz. 1622; 1650) e nella lettera inviata da
papa Pio IX al Vescovo di Monaco di Baviera contro gli errori del teo¬
logo Frohschammer (11 dicembre 1862; Denz. 1670).
Anche nel giuramento antimodernista si tratta della possibilità della
dimostrazione di Dio, non che di fatto questo 0 quello l'abbia a rag¬
giungere in tal modo.
6. -Tanto il Concilio Vaticano, quanto il giuramento antimodernista
non decidono formalmente il modo con cui l'uomo concreto arriva, in
realtà, a convincersi dell'esistenza di Dio. Il Concilio Vaticano, tuttavia,
accenna a tale questione di fatto, quando, dopo aver affermato che la
ragione, con il semplice lume naturale, può conoscere Dio, per mezzo
delle cose create, continua : « Nondimeno piacque alla bontà e alla sa¬
pienza di Dio di rivelare se stesso e gli eterni decreti della sua volontà
all'uomo per un'altra via, quella soprannaturale... Si deve a tale rivela¬
zione se le verità religiose, per sé raggiungibili dalla ragione umana, nelle
presenti condizioni dell'uman genere, si possono conoscere con facilità,
con ferma certezza e senza alcun errore. Tuttavia non è per questa ra¬
gione che la rivelazione si deve dire assolutamente necessaria, ma è tale
originale, dicono che, in la convinzione v
intend
P. I. - DIO UNO E TRINO
la
origin
per il fatto che Dio, nella sua infinita bontà, ha destinato l'uomo a un
fine soprannaturale, ossia a partecipare a beni divini, che superano total¬ es
mente la capacità della mente umana » (Denz. 1786).
neces
Questo testo dimostra che non sono in disaccordo con il Concilio Vaticano quei c
teologi i quali, a motivo della debolezza dello spirito umano prodotta dal peccato alla
originale, dicono che, in concreto, la convinzione viva dell'esistenza di Dio è giubilo
frutto della grazia divina. Il Concilio Vaticano intende solo stabilire che lo spi¬ cono
rito umano, il quale ha per natura la tendenza e la capacità di conoscere Dio, (C
non è stato radicalmente guastato dal peccato originale, anche se a cagione di perc
esso deve lottare, per raggiungere tale conoscenza, contro maggiori difficoltà e mo
ostacoli, superabili solo mediante un rafforzamento esterno della sua energia (cfr. oscurità
il trattato sulla Grazia). te
L'affermazione del Concilio Vaticano circa la necessità relativa della rivelazione a
soprannaturale perchè tutti conoscano con facilità, con ferma certezza e senza
alcun errore le verità religiose per sè accessibili alla ragione naturale, si armo¬ I
nizza, come un'eco lontana, con il grido di giubilo e di riconoscenza che la grand
Chiesa antica eleva a Dio per ringraziarlo della conoscenza che, egli, in Cristo, pro
ci ha dato di sè: «Di quanti doni siamo a lui (Cristo) debitori! Poiché egli teneb
ci ha donato la luce! Cieco era il nostro occhio, perchè noi adoravamo le opere l
dell'uomo e l'intera nostra vita altro non era che morte! Le tenebre ci attornia¬
vano e la nostra pupilla era ripiena di densa oscurità. Divenimmo capaci di ve¬
dere solo quando, per suo volere, rimovemmo le tenebre che ci attorniavano. defi
Fu proprio per mezzo suo che noi, i viventi, non adoriamo più divinità morte,
nè a loro offriamo sacrifici. Fu per mezzo suo che conoscemmo il Padre della
verità » (2 lettera di Clemente ai Corinti, I, 3 ss.). Icristiani conoscono Dio e
credono in lui. Qui si palesa la potenza e la grandezza della sua legge : « Gli della
altri popoli errano e si lasciano sviare quando si prostrano dinanzi agli elementi meglio
del mondo. Vanno a tastoni come in mezzo a tenebre, non volendo riconoscere prod
la verità, e barcollando come ebbri si tirano l'un l'altro e cadono » (Aristide,
Apologia 15, 1s.; cfr. 15, 2; 16, 1 e 6). indispensa
7. - Potrebbe sorgere il dubbio che la definizione della Chiesa sia p
un'ingiustificato intervento nel campo naturale e per di più inutile dal
momento che noi già crediamo. A ciò si può rispondere che Dio nella
sua rivelazione della Parola ci parla pure della sua « rivelazione delle della
opere ». Perciò la prima chiarisce e fissa meglio la seconda. Di più egli
ci svela le conseguenze che il peccato ha prodotto nello spirito umano
e i limiti delle medesime. Inoltre, è indispensabile, per avere un chiaro
concetto della rivelazione soprannaturale, sapere che cosa è naturale. Solo
quando conosciamo bene il naturale, ci riesce più facile conoscere e va¬
lutare, nella sua grandezza, il soprannaturale,
Nè si può accusare la decisione del Concilio Vaticano di razionalismo,
vale a dire, di essere una supervalutazione della ragione umana. Il con-
§ 31. ATEISMO
cilio assicura che anche la ragione ha rapporto con Dio e perciò garan¬
tisce la dignità dello spirito umano, e, in ultima analisi, della stessa per¬
sonalità. Negare all'uomo la possibilità di conoscere Dio, significa ne¬
gargli la capacità essenziale di penetrare profondamente in se stesso, di
agire in modo confacente alla sua stessa essenza intima, di perfezionare,
come si conviene, il suo essere e la sua vita. Per Ireneo l'ignoranza di
Dio equivale alla negazione dell'essere umano stesso (Adversus haere-
ses, 4, 20, 7).
8. - Nè costituisce obiezione alla definizione Vaticana il fatto che, al
di fuori del campo biblico, la ragione umana non ha mai trovato con sicu¬
rezza il cammino che conduce a Dio o il fatto che coloro i quali non
sono illuminati dalla luce della rivelazione soprannaturale, negano la
stessa conoscibilità naturale di Dio. Infatti, le possibilità di un ordine
inferiore (naturale) sono meglio e più facilmente conosciute da coloro
i quali stanno sui gradini dell'ordine superiore (soprannaturale), che non
da quelli che stanno sui gradini dell'inferiore. Anche qui, vale l'assioma
paolino : « Lo spirituale (ossia colui che è illuminato dallo Spirito Santo)
giudica tutto e non è giudicato da alcuno » (i Cor. 2, 15). Giudica anche
le possibilità inerenti alla ragione naturale, che pur rimangono scono¬
sciute a questa medesima.
CAPITOLO II.
ERRORI CIRCA L'ESISTENZA DI DIO
E LA SUA CONOSCIBILITÀ
§ 31. Ateismo.
1. - Se ci occupiamo delle correnti opposte alla dottrina cattolica circa
la conoscenza di Dio, è perchè la verità confrontata con l'errore risalta
in modo più chiaro e più preciso. La prima e più radicale opposizione
consiste nell'ateismo, che può assumere due forme: semplice ignoranza
dell'esistenza di Dio (ateismo negativo), oppure consapevole rifiuto di
ammetterla (ateismo positivo).
2. - Anzitutto possiamo chiederci se una certa qual convinzione del¬
l'esistenza di Dio non sia radicata così istintivamente nello spirito umano
da rendere impossibile l'ateismo.
a
168 P. I. - DIO UNO E TRINO
p
a) Per quanto concerne l'ateismo negativo, la maggioranza dei teo¬ nec
logi ritiene che esso sia impossibile in un uomo adulto pervenuto al¬ di
l'uso normale della sua ragione. Secondo questa opinione, una certa qual og
idea di un essere superiore all'uomo sorge così spontanea e viva in qual¬
siasi mente, sana ed integra, che non è possibile la completa ignoranza d
di Dio in un uomo normalmente sviluppato, anche se il modo di pen¬
sare questo Dio possa essere assai deficiente. l'ateismo
La ragione di ciò sta nel fatto che l'uomo, per la sua intima essenza, ora
è affine a Dio e che tale sua qualità deve necessariamente divenire in d
qualche modo cosciente, almeno sotto forma di presentimento. so
Del resto la storia delle religioni, sino ad oggi non ci ha ancora pre¬ fede
sentato un popolo che, in qualche modo, non creda in uno o più dèi. cas
Ciò dimostra che la coscienza che l'uomo ha di Dio, a meno che non n
sia soffocata violentemente, è inscindibile dalla coscienza che egli ha di talmen
sè e del mondo. Per quanto concerne l'ateismo odierno ci si può chie¬ costr
dere se la facoltà di conoscere Dio non sia ora così alterata da rendere rit
possibile, in realtà, l'esistenza di uomini che, di fatto, ignorano Dio.
b) Può la coscienza di Dio essere così soffocata da far sì che esi¬ a
stano individui i quali possiedano, in buona fede, la convinzione che Dio si
non esiste? In altre parole è possibile il caso dell'ateismo positivo? ancora
È certo che vi sono sistemi filosofici in cui non vi è posto per Dio. l'esposizion
Non è inconcepibile che taluno si infatui talmente dei metodi della pro¬ p
pria scienza, specialmente se naturale, da costruirsi un sistema chiuso e già
ancorato esclusivamente nel mondo; che egli ritenga sbagliato ogni altro qu
metodo diverso dal proprio, che è bensì valido nel campo della sua spe¬
cialità, ma insufficiente per conoscere Dio; che anzi consideri l'idea stessa di
di Dio come un elemento perturbatore del suo sistema. Vi possono quindi quan
essere teorie atee. Ma questo non basta ancora per rispondere alla do¬ s
manda se vi sono uomini atei. Fra l'esposizione astratta e teorica e la tal
convinzione concreta e viva, fra il sistema e la persona che l'ha costruito colui
può esservi conflitto. Il che, come abbiamo già accennato, si può osser¬ raf
vare nella diversità del modo di pensare e di quello di comportarsi di un
filosofo idealista dinanzi al rombo di una auto.
Nemmeno dobbiamo confondere il rifiuto di accogliere un idolo con
la negazione di Dio. Non si è affatto atei quando non si vuole accettare
una concezione di Dio indegna di lui, anche se nel profondo della co¬
scienza è radicata l'erronea convinzione che tale rifiuto fa crollare ogni
idea di Dio medesimo. Così, ad esempio, colui il quale, a causa di una
educazione religiosa sbagliata, ritiene che la raffigurazione di Dio, quale
§ 31. ATEISMO 169
vecchio dalla lunga barba bianca, non ne sia solo un'immagine, ma la
rappresentazione fedele e perciò la respinge, non può dirsi vero e pro¬
prio negatore di Dio; anzi, può darsi che tale rifiuto sia congiunto, in
segreto, all'affermazione del vero Dio. Infatti, ogni progresso della co¬
noscenza di Dio, adduce sempre la distruzione di ciò che è indegno di
lui o imperfetto.
Quantunque l'uomo adulto, giunto al normale sviluppo della sua ra¬
gione, non possa durare a lungo nella vissuta convinzione che Dio non
esiste, tuttavia, di fatto, nella letteratura dell'ultimo secolo, troviamo per¬
sonaggi che, a quanto sembra, negano decisamente l'esistenza di Dio. Si
pensi agli atei dei romanzi di Dostojewski. Non siamo poi in grado di
decidere storicamente se si debba credere ai fautori e ai seguaci della
corrente atea dell'esistenzialismo, i quali affermano di essere convinti del¬
l'inesistenza di Dio, come pure agli aderenti al comunismo ateo, siano
essi capi 0 semplici gregari, i quali fanno la stessa affermazione. Dob¬
biamo, prima di tutto osservare che tali affermazioni nascono dall'in¬
completa conoscenza di se stessi. È significativo l'atteggiamento di Iwan
Karamasow descritto da Dostojewski; egli non nega formalmente l'esi¬
stenza di Dio, piuttosto si ribella contro di lui (cfr. Th. Steinbiichel,
F. M. Dostojewski, 1947, 81).
Secondo i passi biblici precedentemente riportati, l'uomo non può
giungere alla ferma convinzione che Dio non esiste, senza colpa pro¬
pria, consista questa nella stessa negazione di Dio 0 in qualche peccato
precedente di cui tale negazione è la conseguenza.
3. - La negazione di Dio può avere il suo movente ora da parte del¬
l'uomo ora da parte del mondo. Da parte dell'uomo tale movente può
dipendere dalla ragione, dalla volontà e dal sentimento.
a) Per quanto riguarda la ragione, la negazione di Dio è possibile perchè la
realtà divina non si impone in modo sfolgorante all'occhio spirituale dell'uomo,
e per di più quest'occhio è molto indebolito. Dio è piuttosto nascosto nel mondo:
le imperfezioni e le miserie di esso lo velano in modo che egli può passare inos¬
servato (anche se ciò non avviene senza nostra colpa). Il dolore che avvolge tutto
il mondo occulta il volto di Dio. L'uomo può, certo, trovare Dio nell'oscurità
anche con la sola forza visiva del suo spirito, turbato dal peccato, ma vi è il
rischio che egli non lo scorga o perchè non gli presta attenzione o perchè non
lo vuole vedere.
b) Nel campo della volontà e del sentimento possono condurre all'ateismo:
I. L'abbandono all'istinto. Chi è preda del materialismo e sensualismo raf¬
finato o brutale, è cieco a tutto quanto è spirito o trascende l'uomo. A tale ma¬
terialismo distruttore della fede si riallaccia anche l'agire di coloro che si pre-
vertigine, che lo invade quando si accosta all'immensit
di
170 P. I. - DIO UNO E TRINO n
segue
occupano unicamente dell'utilità di una cosa e non del suo valore intrinseco eKierkega
si curano solo del vantaggio o della realtà immediata. Nietzsche combatte costoro
con grande violenza e sarcasmo mordace. inquietudine
II. L'ignavia di cuore o accidia. È un pericolo più impercettibile e perciò
più fatale alla fede. Denota mancanza di magnanimità, di generosità e gioia per
Dio. L'uomo non osa tendere a ciò che è grande. È una specie di angoscianell'instabilità
e di
vertigine, che lo invade quando si accosta all'immensità di Dio, con cui dovrebbe 35,
entrare in relazione. Vorrebbe sfuggire all'obbligo di cose grandi che l'esistenza La
di Dio porta seco; si allontana perciò da lui, per non essere innalzato a tanta
grandezza e superiorità. Nel campo dello spirito segue l'adagio: poco, ma sicuro! I
Vuol essere lasciato in pace a tutti i costi. Kierkegaard chiama tale sentimento Eg
« la disperazione della debolezza ». quan
Tale fuga da Dio genera una strana inquietudine dello spirito, che si rende tutto
palese in discorsi verbosi, nella insaziabile curiosità, nella petulanza irrispettosa, la
nella brama « di uscire dalla rocca dello spirito per riversarsi nella molteplicità l'uomo
delle cose », nell'irrequietezza interiore, nell'instabilità della posizione e delle de¬ viv
cisioni (S. Tommaso d'Aquino, S. Th., II-II, q. 35, a. 4, ad 3; cfr. J. Pieper,
Sulla speranza, Brescia 1953, 31-41; M. Picard, La fuga davanti a Dio, Mi¬ c
lano 1948). una
Fuggire Dio è proprio della coscienza malvagia. Il cattivo lo ritiene un peri¬ dall'
colo e una minaccia e tenta, perciò, di eliminarlo. Egli cerca di illudersi che non
esista. Sotto questo aspetto è assai significativo quanto scrive Nietzsche : « Egliirrequiete
(Dio) doveva morire. Egli vedeva con occhio che tutto vede. Vedeva l'uomo nella ric
sua profondità e nei suoi intimi segreti, in tutta la sua ignominia e vergogna p
nascosta. Il Dio che tutto vedeva, compreso l'uomo, quel Dio doveva morire.
L'uomo non può sopportare che un tale testimone viva » (Così parlò Zarathustra, XI
Milano 1943, 228). pericolo
Ai nostri giorni l'indolenza del cuore o l'accidia, che mette così a repentaglio
la convinzione dell'esistenza di Dio, ha assunto una forma nuova, quella della
completa indifferenza e dell'apatia. Questa nasce dall'impossibilità in cui si trova
il cuore umano nauseato e oltre ogni limite stanco, di sopportare la durezza e biso
il dinamismo della vita quotidiana. Fretta e irrequietezza, fatica e necessità quo¬ so
tidiana rattrappiscono il cuore e lo distolgono dal ricercare i valori dello spiritograndezza
e, soprattutto, Dio. L'uomo, schiavo della tecnica, perde la propria fisionomia
corporale e spirituale, e vaga or qua, or là, secondo l'opinione pubblica. Così è s
diventato incapace di accogliere Dio. Si veda Pio XII, Radiomessaggio natalizio Zarathu
del 1953, nel quale si parla, tra l'altro, del pericolo del tecnicismo per la atteggiamento
vita
spirituale e religiosa.
III. Odio e orgoglio. Questi due atteggiamenti impediscono nel modo più
diretto l'incontro con Dio. L'orgoglioso si chiude in sè, non riconosce altro va¬
lore all'infuori di se medesimo e non ne sente il bisogno, bastando, almeno cosi
si illude, a se stesso. Sente Dio, a cui è giocoforza sottoporsi, come una minaccia
alla dignità e alla libertà umana; si arroga grandezza divina. Così Bakunin può
affermare che Dio dovrebbe essere annientato, se ciò fosse possibile, e Nietzsche
esclamare : « Se ci fossero gli dèi, come potrei io sopportare di non essere un
dio? Dunque gli dèi non esistono » (Così parlò Zarathustra, ed. cit., 68). In Nietz¬
sche appare chiaramente che un siffatto atteggiamento esercita una forza sinistra
§ 31. ATEISMO
sull'uomo. Infatti egli continua : « Io ho tratto la conseguenza, ma ora la con¬
seguenza trae me ». La divinizzazione umana che non sopporta l'esistenza di
Dio, raggiunge, in Nietzsche, la sua forma più espressiva nel superuomo. Questi,
infatti, compie tutte le funzioni che il credente attribuisce a Dio. Giova qui os¬
servare che in alcune forme della filosofia esistenzialista, nonostante che si usi
il termine « trascendenza », si esclude l'esistenza di Dio, poiché egli limiterebbe
l'indipendenza e la libertà umana (Jaspers).
Quanto all'altro atteggiamento, l'odio, esso non è se non la risposta dell'uomo
malvagio, chiuso nell'orgoglio del suo cuore, alla santità e superiorità divina. Dio,
infatti, che è in tutto diverso dall'uomo, accostandosi alla creatura, chiusa in se
stessa, e isolata nella sua autonomia soddisfatta, per obbligarla a vincolarla, pro¬
voca in lei un profondo turbamento. Nasce così un senso di dispiacere che può
salire fino all'opposizione, anzi sino all'odio cieco. Questo è una radicale reazione
contro la santità personale di Dio, una brama di affermare se stesso in opposizione
a lui. Il pieno sviluppo di tale stato d'animo costituisce l'inferno. L'odio che
l'uomo, quaggiù, porta a Dio è solo il preludio di quella piena affermazione de¬
moniaca di se stesso. Rende gli uomini, nel corso della storia, del tutto ciechi
per Dio; è di grado più intenso di ogni altro odio, poiché il valore dell'oggetto
detestato è assai maggiore di tutti gli altri valori. Siccome Dio è per l'uomo il
valore personale più importante, che lo tocca più da vicino, la creatura, per ergersi
contro di lui, deve compiere maggiori sforzi che non per opporsi a qualsiasi
altro valore. Ciò vale in modo tutto particolare dopo la venuta di Cristo, in cui
Dio si è accostato all'uomo corporalmente. La creatura, per difendersi da Dio
che, in Cristo gli si è avvicinato e si è reso visibile, deve compiere sforzi assai
più strenui di quelli che dovevano fare i « senza Dio » dell'Antico Testamento.
L'odio di Dio raggiunge, quindi, nell'epoca cristiana, un'intensità tutta speciale,
ignota e impossibile nei secoli precedenti.
4. - Per quanto concerne le forme concrete dell'ateismo, basta dare
uno sguardo fugace sia all'antichità, sia al tempo moderno.
I. E. Stauffer (in Kittel, III, 121-122) adduce le seguenti forme fondamen¬
tali dell'ateismo apparse entro l'ambiente della fede biblica in Dio:
a) Ateismo pratico dei gretti, dei miopi, dei soddisfatti, dei gaudenti, dei
brutali (contro costoro si scaglia spesso l'Antico Testamento).
b) Secolarizzazione della religione in seguito all'autocrazia dello stato. Tanto
l'Antico quanto il Nuovo Testamento vedono nel culto ufficiale tributato al so¬
vrano, sviluppatosi prima in Oriente e poi a Roma, il vertice della glorificazione
demoniaca e lo biasimano come un furto dell'onore dovuto all'unico Dio.
c) Nell'epoca ellenistica, la fede negli dèi, assorbita dalla credenza nel fato,
assunse, ora l'aspetto eroico-fatalistico, ora quello magico-astrologico.
d) Dissolvimento della fede tradizionale in Dio a causa dell'illuminismo
filosofico.
e) Vacillamento della fede per dubbi religiosi provocati dal contrasto fra la
fede in Dio e l'andamento del mondo, e capaci di condurre alla disperazione
completa.
f) Riparo e ribellione contro la onnipotenza divina. Quando gli imperscru-
spiegazione E noi confessiamo di sì, atei r
172 P. I. - DIO UNO E TRINO ve
insegna
tabili disegni della Provvidenza eclissano tutto e l'uomo non riesce a vedere p
negli eventi del mondo altro che arbitrio e crudeltà, la fede in Dio può cam¬ invidia
biarsi in odio. (Ciò è diverso dalla sfida a Dio, che sgorga dall'orgoglio). Tale vita
odio satanico, che vorrebbe distruggere ogni opera di Dio, ha crocifisso Cristo! cose,
g) Icristiani furono accusati, dai pagani, di essere atei perchè respingevano ch
il politeismo. Il martire Giustino inizia la sua grande apologia con la seguente aver
spiegazione : « E noi confessiamo di essere, sì, atei rispetto a siffatti pretesi dèi, po
ma non rispetto al vero Dio, il Padre della giustizia e della continenza e di tutte ciò
le altre virtù, non tocco da malizia. È lui che noi veneriamo e adoriamo insieme
con il Figlio suo venuto da lui e che ci ha insegnato queste cose; insieme con
lo Spirito Santo che ci ha parlato per mezzo dei profeti; lo onoriamo secondo fomen
ragione e verità e siamo pronti, senza alcuna invidia, a rivelarlo, come ci fu in¬ mon
segnato, a quanti lo desiderano... Bramosi della vita eterna e pura, aneliamo al svilu
consorzio con Dio, Padre e Creatore di tutte le cose, e corriamo alla confessione,
quando il martirio ce lo impone, persuasi e fidenti che tali beni saranno retaggio indietre
di coloro i quali dimostrino a Dio, coi fatti, di averlo seguito e d'aver bramato ch
di vivere presso di lui, là dove il male non ha potere. Questo è ciò che noi
aspettiamo, ciò che abbiamo appreso da Cristo e ciò che insegniamo agli altri »
(Apologia, I, 6 e 8). D
II. Nell'epoca moderna l'ateismo è stato fomentato dalle scoperte e inven¬ dell'infinità
zioni che portarono a una nuova immagine del mondo e anche dal desiderio di km
sempre maggior autonomia che ha cominciato a svilupparsi fin dal Rinascimento. mi
a) In modo del tutto generale si può dire che le scoperte e le invenzioni
proprie dell'epoca moderna fecero ognor più indietreggiare i confini della terra per
e del cosmo: il mondo si è talmente ingrandito che non se ne vedono più i diretta
limiti. È divenuto infinito; è divenuto uno e tutto, sicché in certo qual modo
non vi è più alcuno spazio per Dio. fotograf
Il mondo, divenuto infinito, prende il posto di Dio. Con la sua ricchezza e del
potenza, si afferma come realtà ultima e definitiva. È stata particolarmente l'astro¬ dell'era
nomia a presentare una sbalorditiva idea dell'infinità del mondo. Basta fare un co
esempio: la luce percorre in un secondo 300.000 km.! Se in questo istante un Tal
raggio partisse dalla terra, raggiungerebbe in otto minuti il centro del sole; dopo raffigu
quattro secondi incrocerebbe l'orbita del pianeta più lontano dal sole, Plutone; in mes
quattro anni toccherebbe la più vicina stella fissa, per arrivare in 300-400 anni al¬
l'estremo limite dello spazio che può essere direttamente raggiunto dalla terra L'
con misure astronomiche; dopo un milione di anni arriverebbe alla nebulosa di un'esse
Andromeda. Il raggio che il 18 agosto 1901, fotografato dall'istituto astronomico
di Heidelberg, produsse nella lastra l'immagine della nebulosa di Andromeda,
era partito un milione di anni fa, verso la fine dell'era terziaria, e ci reca, quindi,
l'immagine risalente a quel tempo. Vi sono molti corpi stellari in cielo che di¬
stano da noi centinaia di milioni di anni-luce. Tale mondo così sbalorditiva¬
mente cresciuto, sfugge ad ogni possibilità di raffigurazione!
L'atteggiamento dell'uomo rispetto al mondo, messo al posto di Dio, si può
esprimere come segue. Dapprima il mondo stesso, rivelantesi nella sua prodi¬
giosa grandezza, fu sentito come realtà divina. L'uomo moderno, perduta la
fede nel Dio vivo, vede nella natura stessa un'essenza divina, numinosa. Così
§31. ATEISMO 173
sorge la concezione della natura piena di mistero, onnicreante, santa, ossia del
Dio-natura. Ne sono partigiani, sia purè con profonde diversità, Giordano Bruno,
Spinoza, Goethe, Hòlderlin, Schelling. La religione consiste, per costoro, nel
giusto rapporto con la natura. Ciò che è naturale è santo e pio, ciò che non è
naturale diviene semplicemente delitto. Siccome l'essenza della natura diviniz¬
zata trova la sua espressione nei miti, ne viene che nell'epoca moderna si è risve¬
gliato l'interesse per la mitologia antica, anche se tale epoca non abbia in se
stessa il potere di creare un autentico mito.
In seguito, con il continuo ed enorme sviluppo delle scienze della natura, il
mondo fu visto e sentito in modo assai diverso. Con crescente chiarezza fu rico¬
nosciuto come una grandezza finita e nello stesso tempo l'uomo andò sempre
più perdendo il senso del carattere divino del cosmo. La scienza gli ha insegnato
a considerare i dati e i fatti misurabili e verificabili come l'unica realtà, il senso
del positivo e la fedeltà ai fatti come unica norma. Solo il dato immediato ha
valore (positivismo). Nel corso del xix secolo, il mondo venne concepito in
modo puramente meccanicistico. Ipiù recenti sviluppi della scienza però hanno
abbandonato tale concezione. Cfr. B. Bavink, La scienza sulla via della religione,
Torino 1944; Max Planck, La conoscenza del mondo fisico, Torino 1943.
All'inizio dell'evo moderno, le scoperte e i ritrovati fecero convergere sul
mondo l'amore e la venerazione che il credente riserva a Dio. Con la sua bel¬
lezza e maestà il mondo apparve il supremo valore per l'uomo. La trasforma¬
zione e l'abbellimento della terra che l'uomo, per incarico di Dio (Gen. 2, 5),
doveva curare come suo amministratore, divenne la sua più importante attività.
Scienza, arte e tecnica salirono alle stelle fino a costituire quello che la religione
è per il credente. Goethe affermava : « Chi possiede arte e scienza, possiede reli¬
gione. Chi ne è privo, manca di religione ». Si sperava di poter progredire al¬
l'infinito nel dominio e nella utilizzazione della terra (fede nel progresso). Dalla
cultura e dalla civiltà l'umanità si attendeva un continuo e sempre più alto svi¬
luppo del tenore di vita e di esistenza (fede nell'umanità). Cfr. P. Hazard, La
crisi della coscienza europea, Torino 1946, specie i cap. « La scienza e il pro¬
gresso » e « La felicità sulla terra ».
Nel mondo svuotato di Dio, l'uomo si è assiso in trono quale punto centrale
della vita intellettuale ed etica. Si è considerato ognora più regola e norma, alla
cui stregua tutto deve essere misurato e valutato. Ed usò come norma ora la
ragione, ora la volontà, ora il sentimento. Anzi, l'uomo ha spinto talmente
avanti tale esagerata supervalutazione di se stesso, che nel superuomo di Nietz¬
sche, e in modo diverso nella filosofia esistenzialista di Sartre, può accampare la
pretesa, di essere, in questo mondo vuoto per la « morte » di Dio, creatore di
nuovi valori. Così si ritiene creatore del mondo!
b) In particolare * la negazione di Dio assume oggi due forme più appari¬
scenti, l'ateismo marxista e quello esistenzialista. Sia nell'una che nell'altra forma
Dio « è liquidato come vuoto miraggio di una coscienza ancor rozza e impacciata
nel suo movimento originario. In Marx è chiara ed esplicita l'avvertenza che
l'atteggiamento metafisico porta all'ammissione di Dio: perchè una volta che si
ammettono le « essenze », la loro consistenza di realtà e la conseguente gerarchia
dei valori, è inevitabile il passaggio al Valore assoluto. Questo risulta chiaro fin
dai primi scritti, specialmente a partire da Per la critica alla filosofia di Hegel,
di Dio ». Allora la religione « è la realizzazione fan
re
174 P. I. - DIO UNO E TRINO agisca
att
in cui si trova la nota definizione della religione come « oppio del popolo ». Ri¬
pensando certamente alla teoria di Feuerbach, Marx scrive : « Le prove dell'esi¬ sinis
stenza di Dio non sono che prove dell'esistenza della coscienza umana essen¬ Sa
ziale ». Queste prove son ridotte, secondo lo schema kantiano, alla prova onto¬ Jas
logica e questa a sua volta si risolve per l'uomo nella « coscienza di sè ». Quindi fond
la conclusione salomonica e brutale : « La mancanza di ragione è l'esistenza d
di Dio ». Allora la religione « è la realizzazione fantastica dell'essenza umana, pare
quando all'essenza umana non si lascia la sua vera realtà. La critica alla religione
libera l'uomo dalle illusioni perchè egli pensi, agisca, plasmi la sua realtà, come nel
un uomo divenuto ragionevole, perchè si muova attorno a sè e quindi attorno
al vero suo sole »...
Sfocia nell'ateismo, anche l'esistenzialismo di sinistra contemporaneo: ateismo lette
esplicito e confesso nel panfenomenismo di J. P. Sartre e A. Camus...; ateismo v
implicito nell'esistenzialismo a sfondo kantiano di Jaspers, per il quale Dio è un
concetto-limite; anche Heidegger, mettendo il « fondamento » nel « nulla » non
poteva incontrare l'Assoluto positivo e sussistente del teismo. L'Assoluto a cui
scorag
accennano gli ultimi scritti di Heidegger, non pare soddisfi ancora a nessuno com
degli attributi della trascendenza e della possibilità: lascia però aperta la possi¬ giudi
bilità di una « esperienza » di Dio nella poesia e nella mistica » (C. Fabro, Dio,
Roma 1953, 59-6i). * p
5. - Così Paolo descrive nella seconda lettera ai Corinti (4, 1-4), il mon
mistero dell'incredulità dell'uomo che non vede brillare sul visodell'evange
di
Cristo la maestà di Dio : « Perciò, investiti di questo ministero, in
quanto ci fu usata misericordia, non ci scoraggiamo. Ripudiamo anzi i de
sotterfugi dettati dalla vergogna e, invece di comportarci con astuzia e di de
falsare la parola di Dio, ci affidiamo al giudizio coscienzioso di ogni sicurezz
uomo con la chiara manifestazione della verità, al cospetto di Dio. E se dall'o
anche il nostro evangelo resta velato, è velato per quelli che si perdono,
per quegli infedeli ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente, mez
perchè non vedano brillare la luce dell'evangelo della gloria di Cristo, sogg
immagine di Dio ». Di
6. - Per quanto concerne la confutazione dell'ateismo che nasce dalla de
seduzione della mente e del cuore da parte della grandiosità e bellezza dell'intrins
di ciò che è terrestre, 0 dalla soddisfatta sicurezza della propria esistenza,
o dall'accidia o ignavia, 0 dall'orgoglio e dall'ostinazione, si deve osser¬
vare che non è possibile combatterlo, in primo luogo, con argomenti ra¬
zionali, ma deve essere vinto e curato con mezzi che tocchino il cuore.
Infatti, mente e cuore, vengono scossi e soggiogati non tanto da una
pura dimostrazione teorica dell'esistenza di Dio, pur tuttavia indispen¬
sabile, quanto piuttosto dalla presentazione della sua maestà, della sua
grandezza e bellezza e dalla scoperta dell'intrinseca finitudine, della es-
§ 33- FIDEISMO e tradizionalismo 175
senziale limitatezza delle cose, del finale fallimento della grandezza
umana che si fonda unicamente in se stessa.
§ 32. Agnosticismo.
1. - L'agnosricismc: non nega l'esistenza di Dio, ma ne sostiene l'indimostra¬
bilità. Questa teoria non ammette, infatti, nessuna possibilità di conoscere quanto
supera il campo del sensibile.
L'agnosticismo, in tutte le sue forme, nega il valore ontologico e trascendente
delle prime nozioni e dei primi principi della ragione. Mentre l'agnosticismo
idealista (Kant) scorge in essi soltanto delle forme a priori dello spirito che, nel¬
l'atto del conoscere, vengono applicate al mondo dell'esperienza, l'agnosticismo
positivista li ritiene semplici schemi (nomi) utili per classificare e collegare i fatti
dell'esperienza sia esteriore, sia interiore (= nominalismo). L'agnosticismo porta
alla negazione della conoscibilità di Dio. Se vi sono agnostici convinti della sua
esistenza, la designano come un postulato della ragione pratica (Kant) o la fon¬
dano sul sentimento (Schleiermacher, Ritschl). Per « postulato » Kant intende
un'asserzione teorica, in sè del tutto inconoscibile, esigita da un fatto di ordine
pratico o morale. Il postulato riguardante Dio è così formulato: Noi dobbiamo
realizzare il sommo bene, ossia la santità assoluta e la felicità completa. Ciò è
impossibile senza l'immortalità e senza Dio; perciò ammettiamo l'esistenza di
Dio (fede).
-
2. L'agnosticismo teologico fu respinto dalla definizione del Concilio Vati¬
cano già ricordata (Denz. 1806) e dal giuramento antimodernista (Denz. 2072).
Con ciò non si vuol negare « il potere che hanno la volontà e le disposizioni
dell'animo di aiutare la ragione a raggiungere una conoscenza più certa e più
salda delle verità morali » e religiose, particolarmente dell'esistenza di Dio (En¬
ciclica Humani generis; Denz. 3024).
Una particolare forma di agnosticismo la troviamo nella psicologia del pro¬
fondo, detta « psicologia analitica », di C. G. Jung, secondo cui Die è certamente
la forza più potente dell'uomo, ma rimane oscuro se all'archetipo « Dio » esi¬
stente nelle profondità inconscie dell'io umano corrisponda o no una realtà di¬
vina da esso distinta. Cfr. V. White, Dio e l'inconscio, Milano 1957; R. Hostie,
Du mythe à la religion. La psychologie analytique de C. G. Jung, Paris 1955.
§ 33. Fideismo e Tradizionalismo.
Anche i fideisti e i tradizionalisti, pur poggiando su basi diverse, misconoscono
il valore della ragione.
1. - F. De Lamennais (t 1854 a Parigi) respinge la ragione individuale perchè,
lasciata a se stessa, conduce all'ateismo e quindi all'eliminazione di qualsiasi or¬
dine spirituale, morale e sociale. Secondo tale autore, va sostituita con la ragione
generale o comune dell'umanità, formata da un complesso di principi e credenze
un Sabatier.
176 P. I. - DIO UNO E TRINO 18
d
anteriori ad ogni artificio di ragionamento, risalenti ad una originaria rivelazione m
divina e trasmessi di generazione in generazione per tradizione.
-
2. E. Bautain (t 1867) cerca di sostituire alla ragione generale la parola viva
della Chiesa e della Scrittura. La fede è, quindi, sorgente di ogni cognizione.condannata
La
ragione può solo confermare la verità già conosciuta mediante la fede (fideismo). n
fideismo non ha però nulla a che vedere con il cosiddetto simbolismo di i
Questo
un Sabatier.
dalla
3. - L. De Bonald, filosofo e uomo di stato (t 1840), è il più deciso sostenitore d
del tradizionalismo. Secondo lui, l'uomo ricevette da Dio stesso la parola e con mod
essa concetti fondamentali della religione e della morale. Tale originaria rivela¬
zione si tramanda per tradizione orale. Le stesse opinioni vengono espresse da
A. Bonnetty (f 1879). sos
4. - La dottrina di Lamennais fu condannata dall'Enciclica Singulari astrattame
del
25 giugno 1834 (Denz. 1617). Bautain dovette il 18 novembre 1835 e poi di nuovo ade
l'8 settembre 1840 sottoscrivere una proposizione in cui asseriva che l'esistenza
di Dio può venire dimostrata con certezza (Denz. 1622). Bonnetty firmava l'n
all'eccesso
giugno 1855 quattro proposizioni presentategli dalla Congregazione del S. Uffizio,
la seconda delle quali affermava la dimostrabilità di Dio (Denz. 1650). Anche la religio
definizione del Concilio Vaticano si rivolge, in modo speciale, contro il tradizio¬formaz
nalismo (cfr. § 30, 2). altr
norm
5. - Una forma mitigata di tradizionalismo sostenuta, ad es., da B. Ubaghs
(scuola di Lovanio) nel Belgio e da G. Ventura in Italia, e non condannata dalla spir
Chiesa, sostiene la capacità della ragione, astrattamente presa, di riconoscere Dio,
benché in concreto, senza un'istruzione religiosa adeguata, tale capacità non possa
attuarsi.
6. - Anche se il tradizionalismo esagera all'eccesso il valore alla tradizione, tut¬
tavia dobbiamo riconoscere che l'educazione religiosa e la vita nella comunità
ecclesiastica hanno un enorme influsso nella formazione dell'idea di Dio. Inoltre
Dio stesso ha ordinato gli uomini gli uni agli altri e ha loro imposto il dovere nella
di trasmettere il suo nome ai posteri. La via normale che conduce alla cogni¬
zione di lui è dunque quella che le generazioni più giovani ricevano questaconiata
stessa cognizione dagli avi affinchè la penetrino spiritualmente e la trasformino in nom
possesso intimo. abbiamo
condizion
fuori
§ 34. Ontologismo.
1. - Mentre il fideismo e il tradizionalismo, nella loro lotta contro il raziona¬
lismo, hanno sottovalutato il potere della ragione, l'ontologismo, al contrario, lo
ha esagerato. La parola « ontologismo » fu coniata da V. Gioberti.
2. - Le varie tendenze che passano sotto il nome di ontologismo affermano
unanimemente che noi già in questa vita abbiamo, per natura, una conoscenza
di Dio intuitiva e immediata, la quale è condizione necessaria per tutte le altre
nostre conoscenze intellettuali: tutto ciò che è fuori di Dio lo conosciamo in Dio.
§ 34- ONTOLOGISMO 177
3. - L'ontologismo ha le sue radici in Malebranche (f 1715), ma fu sviluppato
e ridotto a sistema dal filosofo e politico V. Gioberti (f 1852). Per lui i due ordini,
ideale e reale, devono corrispondere fra loro: Dio che è il primo nell'ordine
ontologico, deve pure essere primo nell'ordine logico o della conoscenza. Tuttavia
noi lo vediamo solo in quanto egli, nell'atto della creazione, si rivela come essere
creante. Il decreto del Santo Uffizio del 18 settembre 1861 riprova le proposi¬
zioni ontologiste con il giudizio: «Luto tradi non possunt », ossia è pericoloso
per la fede insegnarle. * « Tiene un posto a parte, da distinguere dall'ontologismo,
la posizione di Rosmini (t 1855) di cui è nota la condanna postuma (Denz. 1891 ss.).
Essa è solidale con la sua complicata dottrina dell'ente ideale del quale trattano
specialmente le prime dieci proposizioni condannate: voleva il Rosmini forse
trovare una via di mezzo tra l'immediatismo teologico dell'ontologismo e il me-
diatismo di S. Tommaso, quasi tentando una sintesi di S. Agostino e Kant, del-
l'apriori kantiano e dell'illuminismo agostiniano » (C. Fabro, Dio, Roma 1953,
103-104). *
4. - L'ontologismo attribuisce all'uomo qui in terra ciò che invece gli è pro¬
messo per l'altra vita. Certo l'uomo desidera vedere Dio senza alcun interme¬
diario. Per questo Mosè lo ha pregato di mostrargli il suo viso (Es. 33, 17 ss.).
Ma la sua richiesta non potè essere esaudita. Infatti, mentre l'uomo è ancora in
terra non può vedere Dio immediatamente. Se la luce e il fulgore divino si pa¬
lesassero direttamente all'occhio umano corporale o spirituale, questo sarebbe
accecato e bruciato. La creatura non potrebbe sopportare la potenza divina, qua¬
lora Dio si svelasse senza intermediari! La maestà di Dio la schiaccerebbe e
l'uomo dovrebbe morire! Nessun mortale vede Dio e resta in vita! Tuttavia il
labbro umano ha continuato a implorare Dio di svelare la sua faccia! Tale pre¬
ghiera risuona nei Salmi (Salm. 16, 15); Filippo chiede a Cristo di mostrargli il
Padre (Giov. 14, 8). Ciò basterebbe. Anche nel campo extrabiblico, poeti e sa¬
pienti sognarono di vedere Iddio. Ma durante la fase terrestre della vita umana
ciò è vietato. Diviene possibile solo dopo la morte, perchè allora l'uomo riceve
nuova forza conoscitiva (cfr. il trattato sui Novissimi).
Colui che crede di poter vedere Dio immediatamente con occhio umano du¬
rante il pellegrinaggio terrestre, abbassa Dio al livello delle creature. Egli lo
rende simile a sè e si avvicina al panteismo. Anche se attribuisce a Dio dimen¬
sioni sovrumane, non ne riconosce tuttavia l'assoluta trascendenza. E proprio per
questa sua trascendenza, che lo fa in tutto diverso da noi, ci è impossibile vederlo
direttamente, com'è impossibile per un cieco la vista della luce e dei colori.
5. - Non ha nulla a che vedere con l'ontologismo la dimostrazione agostiniana
di Dio, anche se Agostino nei suoi primi scritti ha rasentato assai da vicino tale
dottrina.
Neppure è possibile annoverare in questa categoria i sostenitori dell'idea in¬
nata di Dio. Tale opinione è sostenuta da Descartes, Thomassin, Leibniz, Kuhn,
ecc. Il primo asserisce che tale idea è stata creata da Dio con la natura stessa
dell'anima umana.
L'idea innata di Dio è indimostrabile e del tutto superflua. Se noi possediamo
sin dall'infanzia un'idea di Dio, senza alcuna dimostrazione preesistente, ciò non
significa che sia innata, ma solo che con le nostre facoltà e disposizioni, sotto
12 - schmaus - dogmatica I.
partendo dal mondo e dall'io, brilla subito dinanzi a
i78 P. I. - DIO UNO E TRINO
l'influsso dell'educazione e dell'insegnamento e mediante l'osservazione del mondo
e di noi stessi, ce la possiamo formare facilmente e spontaneamente. Si può pro¬
vare la validità di siffatta idea, e distinguerla dalla pura fantasia, dimostrando,
in seguito, la legittimità della sua origine. CONOSC
Quando i Padri della Chiesa parlano di un'idea di Dio innata, vanno intesi
nel senso del sistema platonico, da loro adottato. La realtà dell'esistenza di Dio,
partendo dal mondo e dall'io, brilla subito dinanzi all'uomo giunto alla coscienza
di sè (cfr. § 30). co
ce
della
CAPITOLO III. secondo
MODO E LIMITI DELLA CONOSCENZA DI DIO e
delle
vog
§ 35. La conoscenza soprannaturale di Dio compimento della naturale.
ragio
Le prove di Dio ci portano anzitutto alla certezza della sua esistenza,
ma ci fanno pure intravvedere alcunché della sua essenza (cfr. § 30).
Questa conoscenza naturale di Dio, che secondo la fede è possibile, viene imp
però ampliata e approfondita sostanzialmente e in modo definitivo dalla »
rivelazione soprannaturale: la rivelazione delle opere viene perfezionata con
dalla rivelazione della parola. « Noi non vogliamo rimuovere i limiti valore
eterni e uscire dalla tradizione divina », dice Giovanni Damasceno. Sì,
solo entro la rivelazione tutto quello che la ragione può affermare su Dio,conosce
acquista la sua giusta importanza, il suo vero aspetto e il posto che gli mon
compete. « Perciò, prescindendo da quanto ci è stato asserito 0 rivelato ri
nell'Antico e nel Nuovo Testamento, ci è impossibile dire qualcosa diesclusiv
Dio e soprattutto pensare alcunché su di lui », dichiara nuovamente decisione
lo
stesso Padre. Il che vuol significare: Ogni conoscenza di Dio raggiunge l
il suo vero senso e acquista tutto il suo valore solo alla luce della rive¬
lazione soprannaturale. ci
Si deve soprattutto osservare che la conoscenza naturale, cioè quella
che si deduce dalla considerazione sia del mondo che dell'uomo, sfocia
nell'essere e quindi nell'essenza di Dio; la rivelazione soprannaturale,
invece, in modo speciale, anche se non esclusivo, lo vede nel suo modo
di agire, e quindi nella sua volontà e decisione salvifica, negli atti divini
che adducono salvezza (vede in Dio piuttosto l'aspetto dinamico anziché
quello statico).
Siccome la manifestazione divina gratuita ci palesa il piano salvifico,
§ 2,6. INCOMPRENSIBILITÀ DI DIO 179
la scienza teologica, illuminata dalla fede, risale dall'agire all'essere, for¬
mandosi così esatte nozioni anche riguardo all'essenza divina: per far
ciò utilizza la conoscenza prescientifica e filosofica che si ha di Dio e
che è garantita dalla rivelazione. In ogni modo è necessario fissare bene
i limiti della conoscenza di Dio che ci fornisce sia il creato sia la parola
rivelata.
§ 36. Incomprensibilità di Dio.
Dio per lo spirito creato è incomprensibile e perciò ineffabile. È
dogma di fede.
1. - IlIV Concilio Lateranense chiamò Dio incomprensibile e ineffabile
(Denz. 428); altrettanto ha ripetuto il Concilio Vaticano (Denz. 1782).
a) Ciò significa che la ricchezza del suo essere e l'abisso della sua
vita non possono venir compresi a fondo da nessuna intelligenza creata,
nè essere racchiusi in concetti ed espressi da parola d'uomo. Dio è più
grande del nostro spirito, del nostro cuore (1 Giov. 3, 20) e del nostro
dire. È mistero impenetrabile.
b) Già ogni singolo io umano è mistero. Infatti l'essere personale
che ognuno racchiude in sè e che lo distingue da qualsiasi altro, è qual¬
cosa, in se stesso, di inafferrabile e di incomunicabile. Quanto più un
evento interiore dello spirito è personale, tanto meno può essere comu¬
nicato agli altri. Spesso noi esperimentiamo l'impossibilità di esprimere
a parole 0 a segni le nostre esperienze più intime e che ci colmano di
maggior felicità. Appena tentiamo di esternare ciò che intimamente ci
commuove, subito si trasforma in cosa fredda e vuota. Un uomo, anche
quando si apre ai suoi simili nell'amicizia 0 nell'amore, conserva sempre
un tratto di terreno sacro che nessun altro può e deve calpestare. Anzi,
proprio nei rapporti basati sull'amicizia e sull'amore, diviene maggior¬
mente consapevole del suo mistero incomunicabile, dell'inevitabile oc-
cultezza intima del proprio io di fronte all'altro.
Il mistero della realtà personale e l'incapacità del nostro pensiero e
della nostra parola divengono ancora più visibili quando si tratta di par¬
lare di colui che dirige i fili della storia umana, muove le pedine
del nostro destino, possiede una vita infinitamente più ricca, più
santa e più profonda della nostra, e che invita noi pure a parteciparvi.
Quando lo chiamiamo Dio, pronunciamo una parola che dimostra questa
schiude a un altro solo in quanto egli stesso, co
P. I. - DIO UNO E TRINO
erm
i8o
n
nostra incapacità di parlare di lui. L'abbiamo coniata per non rimanere esistere
completamente muti di fronte a lui. La ragione di tale incapacità sta nel d
fatto che Dio, in modo del tutto proprio, è essere personale. Non lo è
come l'uomo, ma in modo totalmente diverso. Egli si possiede con re¬
gale superiorità e libertà. Egli vive tutto presso di sè e in sè, e si di¬ se
schiude a un altro solo in quanto egli stesso, con libero decreto, si svela. in
la
Il suo essere-in-sè, sua intimità e la sua ermeticità di fronte a chiun¬ incom
que non è lui, trova la sua radice più profonda nel fatto che egli è Trino : panteis
la sua infinita pienezza di vita non può esistere diversamente che in tre viv
centri, in tre Persone. La Trinità personale di Dio, come espressione personal
e forma di esistenza della sua vita infinita, è il suo più profondo, tri
eterno e incomprensibile mistero. all'u
Avremmo un'idea troppo ristretta di Dio se ritenessimo che il suo manifestaz
mistero risiede unicamente nella sua infinità, inesprimibile con parole e Di
concetti umani, finiti. Questa specie di incomprensibilità può averla rivelaz
anche, in certo qual senso, il Dio dei panteisti, ad esempio l'« Uno » Appe
dei neoplatonici. L'incomprensibilità del Dio vivente rivelatoci da Cristo
si basa principalmente nella sua Triade personale e poi, in seconda linea, riv
sull'infinità che si esprime nella sua esistenza tri-personale.
c) Dio, anche se si svela liberamente all'uomo per amore, rimane pe
pur sempre incomprensibile. La sua manifestazione include qualcosa di ch
inafferrabile, anzi, l'impenetrabile mistero di Dio appare in tutta la sua
entità proprio quando Dio, mediante la rivelazione soprannaturale, ri¬
muove un tantino il velo che lo avvolge. Appena permette all'uomo di Scrittu
gettare uno sguardo su di lui e di osservarlo, tosto la creatura diviene Bib
consapevole dell'abisso misterioso di Dio. La rivelazione quindi non eli¬ pa
mina il mistero, anzi lo mette in evidenza. Gli stessi beati del cielo non su
possono comprendere appieno Dio. Proprio perchè è loro permesso di l'amore
contemplarlo direttamente, si rendono conto che egli è incomprensibile. s
Cfr. il trattato sui Novissimi. e
2. -
a) Secondo la testimonianza della Scrittura, Dio si rivela incom¬
prensibile sia nel parlare, sia nell'agire. La Bibbia non insegna solo a
parole che egli è incomprensibile, ma lo fa parlare ed agire in modo
tale che noi lo sentiamo come qualcosa di superiore alla nostra com¬
prensione. Non si dice unicamente che l'amore di Dio è incomprensi¬
bilmente efficace ed intimo, che la sua ira è spaventosa oltre ogni im¬
maginazione, ma l'incomprensibilità dell'amore e dell'ira di Dio si svela
nel suo agire, dall'aver egli dato in balia della morte il suo proprio Fi-
§ 36. INCOMPRENSIBILITÀ DI DIO l8l
glio, nel giudizio terribile che scaglia con forza paurosa contro i gentili
(Rom. 1, 18).
Paolo afferma e predica anch'egli l'incomprensibilità di Dio (1 Tim.
6, 16). Ma le sue parole sono qualche cosa di più del semplice insegna¬
mento: sono contemporaneamente invito a lodare e a celebrare Dio che
al tempo giusto apparirà come Re dei Re e Signore di tutte le genti.
Tale invito avviene in spirito e potenza (1 Cor. 2, 4). Mentre l'Apostolo
predica l'incomprensibilità di Dio, questa si mostra nel fatto che, pro¬
prio durante la predicazione, lo Spirito divino afferra con potenza l'uomo
e gli dà la possibilità di entrare nell'intimo del mistero di Dio.
Secondo la testimonianza, sia dell'Antico sia del Nuovo Testamento,
Dio, con le sue stesse opere si palesa come qualcosa di incomprensibile
e di misterioso, anzi come lo stesso eterno Mistero. Pertanto quando
noi parliamo dell'incomprensibilità divina, pensiamo in primo luogo a
questo Mistero.
I. - L'Antico Testamento attesta che Dio è e agisce in modo tale
che gli uomini se ne stupiscono, se ne meravigliano, l'ammirano, e sono
spauriti al suo cospetto. È meraviglioso e inconcepibile il modo con cui
egli guida il pio e lo difende dai gentili! Appare assai strano e incompren¬
sibile che egli lasci talvolta trionfare i gentili e perire quelli che gli sono
fedeli. Il suo modo di agire è talmente fuori del normale che il pio spesso
se ne scandalizza (Eccli. 11, 22). Non è possibile intravvedere il piano
divino, nè calcolare le sue decisioni (Is. 45, 15; Sal. 89, 47). Sono av¬
volti dal brivido del mistero (Is. 25, 1; Sai. 89, 47; 73; Es. 15, 11).
Non conviene rivolgere domande a Dio, ma soltanto elevargli ringrazia¬
mento e lode. Solo nell'adorazione credente l'uomo trova la soluzione a
tutti i problemi che il mistero di Dio gli presenta.
Ciò appare nel modo più evidente nel libro di Giobbe. Alle requi¬
sitorie che Giobbe, agitato dal dubbio, in apparenza disperato, eleva
contro Dio, Sofar di Naaman risponde : « Puoi tu comprendere i proce¬
dimenti di Dio e giungere fino alla perfezione dell'Onnipotente? Egli è
il più eccelso del cielo! Tu che cosa puoi fare? È più profondo degli
inferi. Tu come puoi conoscere? È più esteso della terra per misura, più
largo del mare! ». Eliu dice: «Ecco Dio è sì grande che non lo com¬
prendiamo » (11, 7-9; 36, 26). Ma nè le esortazioni degli amici, nè il
discorso dell'angelo fanno tacere le rimostranze di Giobbe contro Dio.
Allora Dio stesso entra in scena dalla procella e vieta agli amici i loro
rimproveri. Così, in certo qual modo, dà ragione a Giobbe, ma difende
vere e nella cenere » (42, 3-6).
P. I. - DIO UNO E TRINO
subli
se stesso contro ogni accusa, cosicché, alla fine, Giobbe deve dichiararsi m
vinto e chinarsi dinanzi alla meravigliosa incomprensibilità di Dio (non
esaminandone le vie, ma credendo nel mistero divino : R. Otto) : « Io app
perciò ho parlato insipientemente, e di cose che oltrepassano assai la
mia cognizione ». « Perciò io accuso me stesso, fo penitenza nella pol¬ P
vere e nella cenere » (42, 3-6). l'Onn
Lo stesso Salmista cantando la scienza divina, deve riconoscere: « Trop¬ sov
po meravigliosa è la tua scienza per me; è sublime ed io non posso giun¬
gere ad essa» (Sai. 138, 6). Nel medesimo modo si comporta l'Eccle¬ 29-
siaste quando, per sfuggire ai dubbi contro Dio, si richiama pratica¬
mente al mistero (3, 10-15), cui Pure si appella l'Ecclesiastico: «Po¬
tremmo dir molto ancora e le parole non ci basterebbero; la conclu¬
ve
sione dei discorsi è questa: Egli è in tutto. Per glorificarlo, a che val¬
co
gono mai i nostri sforzi? Perchè egli è l'Onnipotente, al di sopra di
ne
tutte le sue opere. Terribile è il Signore e sovranamente grande, e por¬
tentosa la sua potenza! Celebrando il Signore esaltatelo quanto mai po¬
3-
tete; perchè è maggiore di ogni lode » (43, 29-33; cfr. pure 18, 1-7).
m
II. - Cristo, fondando la nuova era della storia umana, svela il mi¬
stero di Dio in maniera nettamente superiore a tutte le rivelazioni di¬
vine che hanno avuto luogo prima della sua venuta. Tuttavia, anche ora Dio
Dio rimane un mistero! Anzi, la rivelazione completa lo fa apparire an¬ Dio
cora più misterioso di quel che non fosse nelle precedenti manifesta¬ F
zioni. Con decisione libera del suo consiglio, Dio ha reso noto, nella in
pienezza del tempo, il suo mistero (Ef. 1, 3-14; 1 Cor. 2, 7). Lo ha uom
manifestato col mandare il suo Figliolo nel mondo. Cristo è la rivela¬ libera
zione di Dio (cfr. la Cristologia), rivelazione avvolta nel profondo mi¬ espli
stero. sa
a) Il contenuto del mistero eterno di Dio, svelato e pur nascosto d
percepita
in Cristo, si può sintetizzare nel fatto che Dio intende ristabilire il suo
dominio distrutto con il peccato, riunire nel Figlio fattosi uomo, tutto asc
ciò che era stato disgregato, dargli un capo in Cristo e ricondurlo alla
comunione di vita con se stesso. Così gli uomini potranno, grazie al ri¬
stabilito dominio di Dio, raggiungere la liberazione dal peccato e par¬
tecipare alla gloria della vita divina che si esplica nella Triade Personale
(Ef. 1, 5-14; 3, x-13). Il mistero di questa sapienza divina, che, prima
del tempo, ci ha destinati alla gloria di figli di Dio, non poteva essere
pensata da alcuno spirito umano, nè percepita da alcun senso terreno.
« Ciò che occhio mai non vide, nè orecchio ascoltò e quel che nel cuore
§ S6. INCOMPRENSIBILITÀ DI DIO i83
di uomo mai non ascese, questo lo ha preparato per quelli che l'amano »
(1 Cor. 2, 9).
P) La manifestazione del piano eterno dell'economia divina (Ef. 1,
5-14) implica la rivelazione della vita di Dio in tre Persone. Infatti, la
salvezza consiste nel partecipare alla vita propria di Dio, diventando suoi
figli, per mezzo di Cristo nello Spirito Santo, onde possiamo invocarlo
con l'epiteto di « Padre » (Ef. 2, 18; Rom. 8, 1-17. 23-30). Il mistero
della vita divina trinitaria rimase per lungo tempo avvolto da fitti veli,
finché Dio stesso non si degnò di comunicarcelo.
Quando diciamo che la SS. Trinità è mistero di fede, il vocabolo sta
qui a designare, tanto la misteriosa dottrina rivelata della vita divina tri¬
nitaria, quanto la misteriosa realtà di questa vita stessa (cfr. K. Priimm,
« Mysterion » von Paulus bis Origenes in Zeitschrift fiir kath. Theolo-
gie, 61, 1937, 391-425). Senza la rivelazione soprannaturale lo spirito
umano non può conoscere questo mistero. Del resto, quando Dio stesso
ce lo rivela, l'uomo può accogliere questa realtà, ma non riesce a capirla.
L'incomprensibilità di Dio raggiunge qui, il suo più alto punto.
Dio ci comunica il mistero della sua vita trinitaria in duplice modo:
ce la notifica e ce ne fa partecipi. Questi due modi non sono indipen¬
denti fra di loro, ma il verificarsi dell'uno è causa della realizzazione
dell'altro. Senza Cristo né la conosceremmo né vi parteciperemmo (Mt.
11, 27).
La Trinità divina è mistero in senso stretto, vale a dire, realtà del
tutto occulta e nascosta, che senza la rivelazione l'uomo non potrebbe
affatto conoscere. Ciò si può desumere da varie decisioni del magistero
ecclesiastico. La definizione del Concilio Vaticano che nel cristianesimo
vi sono veri e propri misteri, lascia capire che la SS. Trinità è uno di
questi (Sess. 3, can. 1, De fide et ratione, Denz. 18 16; Sess. 3, cap. 1;
Denz. 1795). Lo stesso emerge dal fatto che la Chiesa ha respinto i
vari tentativi di provare razionalmente la Trinità, come quelli di Gun-
ther (Denz. 1655) e di Rosmini (Denz. 1915). Pio IX nel i860 approvò
il Concilio Provinciale di Colonia che, in armonia con S. Tommaso
d'Aquino, affermava l'impossibilità, per la ragione, di giungere con le
sue sole forze a conoscere la SS. Trinità.
La riflessione teologica mostra l'impossibilità di poter conoscere per
via razionale l'esistenza delle tre divine Persone con questo ragiona¬
mento: la nostra conoscenza naturale di Dio deriva dalla considerazione
del creato, che ce lo fa conoscere come sua causa. Ora, le tre Persone
divine, come vedremo, costituiscono per gli esseri creati un unico prin-
Y) Dio ci ha svelato il mistero della sua v
P. I. - DIO UNO E TRINO
misterio
ag
cipio di operazione, dato che esternamente (ad extra) agiscono mediante sogg
l'essenza comune a tutte tre. Per conseguenza le opere divine esterne p
sono comuni alle tre Persone e, a loro volta, ce le fanno conoscere solo profondità
in ciò che hanno di comune, ossia nella loro essenza e non nella loro p
personalità. manifestazione,
Y) Dio ci ha svelato il mistero della sua vita in Cristo. Ma anche de
tale manifestazione è avvenuta in modo misterioso, singolare ed enigma¬ v
tico. Il mistero di Dio non rifulse dinanzi agli occhi umani nella sua agir
gloria abbagliante, ma in forma di servo, soggetto alla vita ordinaria e mist
comune, anzi al dolore e alla morte. Dio non poteva apparire nello sve¬ qua
lato splendore della sua pienezza e profondità, dovendosi rivestire di manifestazio
forme e modi umani, di azioni e parole terrene per manifestarsi all'uomo.
Per di più ha legato questa sua manifestazione, implicante spogliamento l
di se stesso, alla debolezza e all'imperfezione dell'uomo. Proprio in que¬ ed
sto egli appare come l'incomprensibile. Nella vita quotidiana di Cristo, anc
nel suo parlare e tacere, nel suo andare e agire nel suo adirarsi e per¬ Sp
donare, nei suoi dolori e nella sua morte, il mistero di Dio si svela a noi, nel
ma non nella guisa di una cosa occulta che quando si manifesta cessa di l'
esser tale. No! Proprio nella sua manifestazione ci appare chiaro che penetrazione
Dio è un mistero! s
E in questo sta appunto la ragione per cui le masse rimasero stupite su
dalla parola e dai fatti che Cristo pronunciò ed operò, ma tuttavia non ma
compresero il « regno di Dio ». Qui risiede ancora il motivo per cui gli appa
stessi suoi discepoli sino alla discesa dello Spirito Santo non capirono
Cristo e la sua opera. L'occultezza di Dio nel rivelarsi e il modo così p
singolare di palesarsi in Cristo sono tali che l'uomo pieno di sè, fidu¬ unicame
cioso solo nella sua intelligenza e penetrazione, incapace di stimare le
cose che non possa stabilire e chiarire con la sua ragione, derida, quasi psich
stoltezza, la sapienza di Dio e interpreti la sua incomprensibilità come
un non senso. L'oscurità raggiunge poi il massimo nel fatto che gli de
uomini uccisero Gesù Cristo, nel quale era apparsa la gloria divina, quasi l
fosse nemico di Dio. Cfr. i Cor. 1-2.
8) L'incomprensibile mistero di Dio si può conoscere come tale
solo alla luce divina. Lo spirito umano, unicamente se è mosso e illumi¬
nato dallo Spirito Santo, può « conoscere » ciò che Dio ci ha « donato »
(1 Cor. 2, 12). « L'uomo come uomo (0 psichico) non accoglie le cose
dello spirito di Dio: follia, infatti, sono per lui e non può intendere
perchè si giudicano secondo gli insegnamenti dello Spirito. Lo spirituale,
invece, giudica tutto » (1 Cor. 2, 14-15). Solo lui quindi conosce, ma si
§ 36. INCOMPRENSIBILITÀ DI DIO 185
tratta di una conoscenza che gli è comunicata come dono dello Spirito
(Giov. 16, 13; 16, 6-10; 1 Cor. 12, 8) e che può raggiungere grande
forza e vivacità. Così gli Efesini, dalla semplice lettura dell'epistola a
loro diretta, possono vedere in quale grande misura l'apostolo Paolo abbia
ricevuto la comunicazione del mistero di Cristo (Ef. 3, 3-13). Ad essi
Paolo augura che il Dio di Nostro Signore Gesù Cristo, il Padre della
gloria, invii lo spirito della sapienza e della rivelazione affinchè lo pos¬
sano rettamente intendere, e illumini gli occhi della loro intelligenza per
lasciar loro vedere a quale speranza sono chiamati e quanto ricca sia
l'eredità gloriosa dei santi (Ef. 1, 17-18).
Questo « vedere » è vero sapere, la cui certezza supera ogni altra pos¬
sibile alla logica e all'esperienza individuale. È vedere le cose sotto il
raggio di una luce superiore, un conoscere che nasce da una nuova esi¬
stenza, quella dei figli di Dio, ai quali sono palesi i segreti di famiglia
perchè appartengono anch'essi alla famiglia stessa di Dio. Costoro non
vedono più con i loro occhi dell'intelletto, che guida la logica, ma con
gli occhi del cuore (Ef. 2, 18). La fede non viene assorbita nel sapere
razionale: essa è conoscenza nell'inconoscenza, è visione dell'invisibile!
(Ebr. 11, 1). Ogni uomo che nel battesimo è preso dallo Spirito Santo
diviene partecipe di questa conoscenza, la quale cresce nell'uno mag¬
giormente che nell'altro.
e) Ciò nonostante, Dio rimane anche per coloro che lo Spirito Santo
ha illuminati e a cui Cristo ha tolto le bende dagli occhi, l'inafferrabile,
colui che abita una sfera inaccessibile (1 Tim. 16, 6). Paolo, che esalta
Dio per la conoscenza che gli ha elargito, è costretto a riconoscere:
« Adesso, infatti, vediamo per mezzo di uno specchio in enimma, allora
vedremo faccia a faccia; ora conosco parzialmente, allora conoscerò così
come fui conosciuto » (1 Cor. 13, 12). Dio non può svelare interamente
il mistero della propria vita personale, poiché egli non può sacrificare
quello che è in se stesso, l'inviolabilità del suo essere. L'uomo non ha
la possibilità di penetrare nella profondità del mistero personale divino,
poiché non può rapire a Dio il suo segreto. Per fare questo, l'uomo do¬
vrebbe essere anch'egli Dio! Perciò il mistero della sovranità di Dio ri¬
mane impenetrabile sia in quanto mistero salvifico, realizzatosi in Cristo,
sia in quanto mistero della vita divina trinitaria.
A) Circa il mistero salvifico, Paolo afferma : « O abisso della ric¬
chezza e sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i
suoi giudizi, irraggiungibili le sue vie! Chi, infatti, ha conosciuto il pen¬
siero del Signore? O chi gli è stato consigliere? » (Rom. 11, 33 s.). Qui
ragio
186 P. I. - DIO UNO E TRINO
naturalmente
non è già il ragionare, ma bensì l'adorazione silente del mistero di Dio
che acquieta tutti i problemi che turbano l'uomo! Cfr. il trattato sui
teologic
Novissimi.
B) La ragione, anche dopo la rivelazione, non può vedere l'intimo inte
fondamento e l'intrinseca possibilità del mistero trinitario. Tale asser¬ rivelat
zione è suggerita dal Concilio Vaticano (Denz. 1796) secondo cui i mi¬
steri non potranno mai esser compresi dalla ragione anche illuminata dalla proced
fede, nella stessa guisa delle verità naturalmente conoscibili, ma trascen¬ p
dono talmente l'intelletto creato, da rimanere sempre avviluppati dal¬
l'oscurità, finché viviamo su questa terra. div
Ciò emerge pure dal ragionamento teologico il quale ci mostra che
la rivelazione non muta la natura del nostro intelletto e che noi possiamo
comprendere in qualche modo l'oggetto rivelato (qui è la Trinità) solo D
mediante concetti analogici. Così il concetto di « processione » quando si a
applica al campo del creato, implica per il procedente novità di essere, mu¬
tazione e dipendenza; al contrario in Dio la « processione » elimina tutte
queste imperfezioni. Inoltre, ogni produzione, nel creato, presuppone il
dell'im
soggetto che produce; nella « generazione » divina, al contrario, il Padre
ne
è tale per una relazione che segue, logicamente, l'atto generativo. Inoltre, r
nel campo del creato la relazione presuppone i soggetti che stanno in de
rapporto; in Dio, al contrario, li costituisce. Di più, nelle creature, l'es¬
senza si moltiplica con le persone; in Dio, al contrario, rimane una,
nonostante la triade personale. Infine la realtà divina abbraccia, nel me¬ c
desimo tempo, sia l'assoluto che il relativo. del
La nostra risposta alla manifestazione dell'impenetrabile mistero tri¬ f
nitario deve consistere nel ringraziamento e nel rispetto, e ci è possibile do
mediante la grazia che Dio ci dona mentre si rivela a noi. Cfr. le consi¬ verit
derazioni sul fine naturale e soprannaturale della vita nel trattato sulla ste
Creazione. com
Dinanzi a questo mistero, la ragione può : p
1) Mostrare che la Trinità non è in contrasto con il pensiero l'infini
umano. Questo emerge dall'insegnamento del Concilio Vaticano circa
l'armonia tra rivelazione e verità razionali (De fide, cap. 4, Denz. 1797).
Poiché il medesimo Dio rivela i misteri e dona alla ragione la sua ca¬
pacità conoscitiva, una contraddizione tra verità rivelate e verità di ra¬
gione significherebbe contraddizione in Dio stesso.
La ragione adempie a questo suo primo compito quando mostra che
tutte le obiezioni contro la dottrina trinitaria poggiano sull'impossibilità,
per il nostro intelletto, di comprendere l'infinita grandezza di Dio. Per
§ 36. INCOMPRENSIBILITÀ DI DIO 187
questa sua grandezza i concetti con i quali tentiamo di accostarci a lui
sono usati in modo analogico e non con lo stesso valore di quando si
applicano a cose create. Appena dimentichiamo questo fatto e li appli¬
chiamo a Dio nell'identico senso con cui li usiamo per il creato, sorge
l'apparenza di contraddizione. La dottrina trinitaria includerebbe infatti
una contraddizione qualora il concetto di persona vi venisse applicato
nello stesso senso con cui si adopera per l'uomo. In tal modo sarebbe
giustificata l'accus'a di Davide F. Strauss per cui, secondo la dottrina
cristiana della Trinità, tre sarebbe uguale a uno. Ma qui il concetto di
persona si applica a Dio in senso analogico, e quindi l'obiezione non si
regge. Infatti, il « tre » e l'« uno » riguardano aspetti diversi. Tenendo
presente il carattere analogico di tali concetti possiamo sventare qualsiasi
obiezione, poiché, anche se l'unione di un predicato con un soggetto
suona contraddizione nel creato, non ne deriva necessariamente che im¬
plichi pure contraddizione in Dio. Il modo con cui il contenuto, espresso
analogicamente dal nostro concetto, si attui in Dio, ci è sconosciuto;
anzi, a motivo della incomprensibilità di Dio medesimo, deve rimanere
necessariamente tale. Quindi, se incontriamo oscurità e difficoltà, non
dovremmo parlare senz'altro d'impossibilità! La contraddizione sussiste
solo quando predicato e soggetto si escludono a vicenda sotto il mede¬
simo aspetto e non sotto un aspetto diverso. Ora la ragione non può
constatare una siffatta contraddizione nel mistero trinitario.
2) La ragione può inoltre cercare di capire, chiarire e penetrare
l'oggetto della dottrina rivelata riguardante la Trinità. Inoltre può ren¬
derlo più accessibile alla nostra intelligenza mediate analogie e ragioni
di convenienza (cfr. § 52).
Per quanto riguarda il primo punto, la possibilità di tale compito
emerge dal concetto della rivelazione e della fede. La rivelazione sarebbe
del tutto senza scopo qualora le verità che racchiude non potessero es¬
sere comprese nel loro vero significato. Anche la fede che afferma la ve¬
rità rivelata sarebbe in pericolo, sia per la sua sicurezza che per la sua
verità, qualora il contenuto del dogma Trinitario non potesse essere ca¬
pito e presentato nel suo senso esatto. Solo dalla possibilità di intendere
tale dogma nel suo vero significato, nasce la possibilità di respingere le
concezioni errate.
3) Per parlare rettamente del mistero della Trinità, e garantirne
quindi un'esatta esposizione, occorre osservare determinate regole. Si
deve usare solo il singolare per tutti i nomi (Dio, Creatore, Signore)
che significano la natura o l'essenza divina in quanto tale. Va usato, in-
aliu
P. I. - DIO UNO E TRINO
rigua
vece, solo il plurale, o almeno non esclusivamente il singolare, nelle aggiu
espressioni che si riferiscono unicamente alle Persone. Inomi sostantivi P
devono essere usati solo al singolare, mentre gli aggettivi, secondo se es
sono usati aggettivamente o sostantivamente, devono essere adoperati al unit
plurale o al singolare (un eterno, tre persone eterne). Cfr. il simbolo può
Quicumque. Per designare la Trinità si può usare l'espressione trino,
triade, ma non triplice. Inoltre si può dire alius et alius, ma non aliud cu
et aliud poiché quest'ultima espressione riguarda la natura; sta bene a
usare unum, ma non unus (senza altra aggiunta). Queste regole sono m
state elaborate e seguite da Atanasio, Ilario di Poitiers, Agostino. Inomi a
concreti dell'essenza (Dio, Signore) possono essere usati anche per incomprens
de¬
signare le persone e possono perciò venir uniti a predicati « nozionali » gr
(vedi sotto), come : « Dio genera ». Ciò non può applicarsi in alcun modo
ai nomi astratti della natura divina.
b) La frequenza e la commozione con cui al tempo patristico si batt
inculcava l'incomprensibilità di Dio, mostrano, ancora una volta, che non
si tratta di una pura conoscenza speculativa, ma di un interesse fonda¬ soppo can
mentale per la vita e la fede religiosa. « Noi affermiamo un Dio inge¬ ind
nito, eterno, invisibile, immutabile, incomprensibile, percepibile solo con con
l'intelletto e la ragione, circondato in sommo grado di luce e di bellezza, tu
di spirito e di potenza » (Atenagora, Supplica, io). neppu
m
La commozione del credente risuona nelle parole che Cirillo di Gerusalemme sarann
rivolgeva (anno 374) nella sua sesta catechesi ai battezzandi : « Noi non diciamo
di Dio tutto ciò che gli conviene (questo lo conosce lui solo), ma soltanto quello n
che la natura umana afferra e che può essere sopportato dalla nostra debolezza. n
Non possiamo dire chi sia Dio, ma confessiamo candidamente che a noi manca predicando
una cognizione adeguata di lui. Per il teologo è indice di grande sapienza con¬ c
fessare la propria ignoranza! Magnificate, dunque, con me il Signore e celebriamosignificat
assieme il suo nome! Non uno solo lo esalti, ma tutti insieme, perchè se anche questa
fossimo tutti d'accordo in quest'inno di lode, neppure allora faremmo un coro I
degno di lui. Non parlo di noi soli, qui presenti; ma nemmeno se tutte le proporziona
pe¬
corelle della Chiesa cattolica, che sono e che saranno, si riunissero per lodare il
loro pastore, non potrebbero mai magnificarlo come egli merita ».
Gregorio di Nissa riconosce che l'incapacità del nostro pensiero e del nostro
dire è basata sul fatto che Dio è diverso da tutti noi: «Vediamo nell'uomo e
potenza e vita e sapienza. Ma nessuno, predicando queste cose di Dio, vorrà
pensare, fondandosi sulla pura identità dei termini, che Egli abbia l'identica po¬
tenza e vita e sapienza dell'uomo. In noi il significato di questi termini viene li¬
mitato al grado della nostra natura, ed essendo questa corruttibile e debole, breve
è la vita, fragile la potenza e povera la sapienza. Invece nella natura suprema
(Dio) tutto ciò che di essa si predica si proporziona alla grandezza del soggetto
a cui si riferisce (Oratio magna catech., 1).
§ 36. INCOMPRENSIBILITÀ DI DIO 189
Gregorio di Nazianzo celebra la lode di Dio « che è tutta bellezza, anzi si
eleva al di sopra di ogni beltà; che illumina la mente, ma la supera per quanto
essa voli rapida e alta; che, anzi, tanto più si ritrae dallo spirito quanto più
questo lo afferra; che conduce i suoi amici verso il cielo proprio per il fatto che
sfugge e scappa, in certo qual modo, loro di mano » (Oratio 2, 76).
Basilio così inizia la sua omilia (numerata XV nel Migne) sulla fede : « È
proprio della pietà il pensare incessantemente a Dio, e l'anima che lo ama non
se ne sazia mai. Ma il parlare di Dio e del divino è temerario, poiché il nostro
intelletto non è adeguato all'altezza dell'oggetto e, d'altra parte, il nostro dire
può esprimere ciò che si pensa solo in modo oscuro e imperfetto. Se la nostra
capacità d'intendere è troppo piccola per la vastità dell'oggetto e la parola ancora
più imperfetta del giudizio, non sarebbe forse più appropriato racchiudersi nel
silenzio anziché esporre al pericolo, con un linguaggio inadatto, la meravigliosa
dottrina di Dio? Certo, la brama di glorificarlo è innata in tutti gli esseri ra¬
gionevoli, ma il parlare degnamente di Dio è impossibile a tutti nella stessa
misura. L'uno potrà superare l'altro, sforzandosi, nella pietà, ma nessuno è
così cieco e così illuso da supporre di essere pervenuto al grado supremo della
conoscenza divina. Anzi, al contrario, quanto più ci si accorge di crescere nella
conoscenza, tanto più si risente la propria debolezza ».
IPadri sostennero l'impossibilità di comprendere Dio come una verità di fede,
contro l'asserzione degli eunomiani i quali si illudevano di poterlo intuire chia¬
ramente come essere increato, ingenito. Con vero fervore, per non dire con pas¬
sione, Crisostomo si oppone a questa prometeica irruzione nell'essere divino con
il suo scritto concernente la Incomprensibilità di Dio. « Qual è, così apostrofa gli
Eunomiani, la radice di ogni male? L'uomo ha osato dire che egli conosce Dio,
come Dio conosce se stesso. Merita ciò di essere confutato? Merita una prova?
Non è sufficiente accennarvi perchè si manifesti subito tutta la loro empietà?
Simile asserzione è un non senso, un'imperdonabile frenesia, una nuova specie
di empietà. Nessuno ha mai osato pensare tanto e lasciarsi sfuggire dal labbro
qualcosa di simile! Pensa, misero e infelice, chi sei tu e quali cose vuoi indagare
con tanta curiosità: tu che sei uomo osi scrutare Dio?... Dimmi come potrai
scrutare Dio che è senza principio, immutabile, incorporeo, incorruttibile, che è
onnipresente, che sta al di sopra di tutto e che è più eccelso dell'intero creato.
Senti come i profeti hanno filosofato di lui, ascolta e rabbrividisci: egli con uno
sguardo alla terra la fa tremare» {Hom. 2, 3; PG. 48, 711-713). S. Giovanni
riporta pure un'espressione di Paolo : « Egli (Paolo) non dice soltanto che Dio
abita una luce solo inafferrabile, ma bensì del tutto inaccessibile. Inafferrabile è
quello che in qualche modo, sfugge alla formulazione concettuale, ma non alla
ricerca e al problema. Inaccessibile è, invece, ciò che non solo rimane, sin dal
principio, impenetrabile alla possibilità conoscitiva, ma al quale non ci si può
nemmeno accostare. Così il mare in cui il palombaro si tuffa senza poterne scan¬
dagliare il fondo, è inafferrabile. Inaccessibile è invece quello che non si può
né cercare, né rinvenire » {Hom. 3, 2; PG. 48, 720).
Tutte le espressioni di Agostino che si riferiscono a Dio, mostrano la con¬
vinzione della sua incomprensibilità. Per lui chiunque dice di comprendere Dio
mostra di averlo confuso con un idolo (In Psalm. 144, 6). Si può infatti com¬
prendere soltanto quello che non supera la capacità e non si eleva al di sopra
al di lui; si crede di afferrat
comprende
190 P. I. - DIO UNO E TRINO potre
l'essenza
dell'essere umano. È già molto conoscere ciò che Dio non è (De Trinitate, 8, 2). suo
Lo si conosce meglio con il non sapere che con il sapere (De Ordine, 2, 16, 44). in
« Quando parliamo di Dio non c'è da meravigliarsi se non si comprende. Se tu
comprendi, non è Dio. Tale ignoranza è più pia che non una scienza temeraria » tr
(Sermo 117, 3). «Che cosa possiamo dire di Dio? Se si comprende ciò che si Dio
vuol dire di lui, non è Dio; non è lui che si può comprendere, ma è altra
cosa al posto di lui; e se si crede di aver afferrato lui stesso si è zimbello
della fantasia. Egli non è ciò che si può comprendere: è ciò che non si com¬ si
prende. E come voler parlare di ciò che non si potrebbe comprendere? » (Sermo
52, 6). « Il pensiero è più vero della parola, l'essenza divina più vera del nostro m
pensiero » (De Trinitate, 7, 4). Agostino spinge il suo dire fino al punto di non nella
voler neppure chiamare Dio « ineffabile » perchè, in tal modo si violerebbe la
sua ineffabilità (De Doctr. christ., I, 6). Che questa sia solo un'espressione ora¬
toria appare dal fatto che tale ineffabilità divina si trasforma per lui in pungolo
per spingerlo a progredire nella conoscenza di Dio : « Forse che allorquando so
(Dio) è stato trovato si deve ancora cercare? Così in realtà si debbono ricer¬ Nicco
care le cose incomprensibili, perchè non creda di aver nulla trovato, chi ha
potuto vedere quanto sia incomprensibile ciò che si cercava. Ma perchè, dun¬
que, cercare se si comprende che ciò che si cerca è incomprensibile, se comprendere
non
perchè non ci si deve fermare mai, ed è sempre meglio approfittare dell'inda¬ Ago
gine delle cose incomprensibili; migliorandoci nella ricerca di uh bene tanto U
grande, come è quello che cercandolo, lo si trova, e trovandolo, lo si cerca? » que
(De Trinitate, 15, 2). convenien
La convinzione agostiniana che il riconoscere la nostra ignoranza nei con¬
fronti di Dio significhi una docta ignorantia, è sopravvissuta nei secoli e ha pat
lasciato una particolare impronta nell'opera di Niccolò Cusano (De docta igno¬ d
rantia, Bari 1913; trad. it. di P. Rotta, Milano 1929). d
IPadri insegnano pure unanimi l'impossibilità di poter conoscere il mistero
trinitario con forze naturali, di poterne comprendere il contenuto o rimuoverne
d
ogni difficoltà logica (specialmente i Cappadoci e Agostino). Quando alcuni teo¬ distin
logi, all'inizio della scolastica (Anselmo, Abelardo, Ugo e Riccardo di S. Vit¬ d
tore), parlano di ragioni necessarie della Trinità, queste vanno intese nel senso
di una forte accentuazione delle ragioni di convenienza. spin
c) Dalla Scrittura e dall'insegnamento patristico possiamo dunque con
conoscibilit
dedurre che Dio, per la pienezza e la diversità della sua vita dalla nostra,
non può essere afferrato dalla potenza limitata del nostro spirito (ciò fu rispe
chiaramente formulato più tardi da Tommaso d'Aquino). Dio è diverso
da tutto ciò che è terreno, qualitativamente distinto da esso. Questo punto
è assai importante. Dio non è solo il vertice della piramide dell'essere,
ma sta al di là di ogni essere terreno. Possiamo, tuttavia, conoscere qual¬
cosa di lui. Proprio la sua inconoscibilità è spinta e sprone a ricercarlo
sempre di nuovo. Ma è inutile pretendere di conoscerlo appieno.
L'inconoscibilità di Dio nella sua conoscibilità e la conoscibilità nella
inconoscibilità, generano il sentimento del rispetto, ossia dell'amore nel
§ 36. INCOMPRENSIBILITÀ DI DIO 191
timore e del timore nell'amore, il brivido e l'ardore, come dice Agostino
(Confessiones, 7, 10). A Dio non ci si può accostare come al proprio si¬
mile, con goffa confidenza, nè come a cosa importante fin quando ci è
utile, ma trascurabile quando non serve più, bensì solo con fiducia filiale.
Egli è il Dio lontano e vicino, vicino nella sua lontananza e lontano nella
sua vicinanza.
d) Nella liturgia si parla spesso delle opere « mirabili » di Dio che
suscitano il nostro stupore. Così, ad esempio, nella preghiera che il sa¬
cerdote pronuncia quando immette un po' d'acqua nel vino, nelle ora¬
zioni liturgiche del Sabato Santo, e nel Communio del giovedì dopo
Pasqua.
3. - L'incomprensibilità di Dio non si può equiparare all'irrazionalità, in quanto
la parola irrazionale, nonostante le diverse sfumature, designa qualcosa di inac¬
cessibile alla nostra intelligenza o perchè manca di intrinseca intelligibilità o
perchè sta al di sotto dei limiti della nostra capacità intellettiva. Dio è in se
stesso luce e chiarezza, ma noi non possiamo afferrare tanta luminosità. Il mi¬
stero di Dio non inizia a un certo punto, sì da poterlo comprendere fino a quello
stadio. No, Dio è piuttosto, in tutta l'entità e in tutta la pienezza del suo es¬
sere, mistero. Dio non ci rivela una parte del suo essere che in tal modo cessa
di costituire un mistero, mentre l'altra parte non ancora svelata perdura miste¬
riosa per noi: no, Dio non ci può rivelare nulla di sè e noi non possiamo for¬
marci di lui nessuna idea o espressione che non siano permeate di mistero.
Tanto il razionale, quanto l'irrazionale si trovano nello stesso piano dell'essere,
mentre Dio supera sia un campo, sia l'altro. Dio è qualcosa di diverso da tutto
ciò! Questa differenza non può venire racchiusa in nessun concetto e in nessuna
parola. Ciò che si pensa o si dice di Dio è giusto solo quando il pensiero e
l'espressione non eliminano la diversità di Dio. Il mistero divino sta al principio
e al termine della conoscenza di Dio che le creature riescono a possedere. Nes¬
suna grazia divina può rimuoverlo, nè alcuno sforzo umano. Nemmeno il mistico
e il beato del cielo lo possono penetrare, anche se, in certo qual modo, riescono
a gettarvi dentro lo sguardo. Il mistico ci assicura che quanto più si addentra
nella luce di Dio tanto più profonde sono le tenebre in cui penetra. Lo Pseudo¬
Dionigi dichiara : « Potessimo anche noi penetrare in questa tenebra più lumi¬
nosa della luce, e, rinunciando a ogni visione e a ogni conoscenza, potessimo così
vedere che non si può nè vedere nè conoscere colui che è al di là di ogni vi¬
sione e conoscenza! Poiché questa è una visione verace e verace conoscenza, e
per il fatto stesso che si abbandona tutto ciò che esiste si celebra il suressenziale
in modo suressenziale... Infatti alla causa trascendente tutte le cose è conve¬
niente attribuire ed affermare tutto ciò che si dice degli esseri, perchè essa è la
causa di tutti, ma conviene ancor più di negare tutti questi attributi, poiché essa
trascende ogni essere » (Theologia mystica, cap. 2 e cap. 1, 2).
4. - Visto che nessun uomo può conoscere Dio in modo esauriente, anzi non
può nemmeno accogliere nella sua pienezza la conoscenza di Dio resaci accessi-
sull'essere divino, preso in se stesso, o sulla giustiz
maggiormente
192 P. I. - DIO UNO E TRINO influenzato
l'inco
bile dalla rivelazione sia naturale che soprannaturale, ne segue che nelle singole d
coscienze individuali, determinati aspetti della realtà divina assumono maggior
risalto, mentre altri si ritirano nell'ombra. La cosa è di per sè legittima purché
gli aspetti accentuati non vengano intesi, in modo esclusivo, come l'essenza di Dio.
Dio e si cerchi sempre di ordinarli, nei limiti del possibile, nella sintesi totale.
Così ad es., taluni si soffermano maggiormente sulla potenza o sull'attività, altri
sull'essere divino, preso in se stesso, o sulla giustizia o sull'ordine. Il perchè imposs
questo o quest'altro aspetto sia messo maggiormente in luce, dipende dall'indi¬ tratta
vidualità del credente che è, a sua volta, influenzato dalla storia, dalla natura, l'essenz
dall'ambiente e dall'epoca. In tal modo proprio l'incomprensibilità divina mostra o
che la fede in Dio lascia intatti i diritti dell'indole e della personalità di ciascuno.
Dio
nel
§ 37. Conoscenza mediata e analogica di Dio.
o
1. - Abbiamo già sottolineato che ci è impossibile vedere direttamente sensibile
Dio. Ne riparleremo in modo più diffuso trattando del Paradiso. Anche i
nella cosiddetta visione mistica di Dio, l'essenza divina non è vista im¬ diretta
mediatamente. Piuttosto si percepisce l'effetto operato da Dio, presente, seco
in modo particolare, nel mistico. Siccome esso è sentito in modo chiaro
e senza alcun ragionamento come opera di Dio, il mistico ha l'impres¬ direttamente
sione di vedere immediatamente Dio stesso, nella stessa maniera con cui direttamen
nelle nostre percezioni crediamo di vedere un oggetto, mentre in realtà, realtà
lo scorgiamo solo attraverso l'immagine sensibile. Benché durante il pel¬ conosce
legrinaggio terreno l'uomo non possa percepire immediatamente l'essenza uom
di Dio, egli, tuttavia, può sperimentarla direttamente e sentirsi diretta¬
mente alla presenza di Dio. Questo, almeno secondo la dottrina di S. Bo¬ imp
naventura, il quale afferma che nell'esperienza mistica sentiamo imme¬
diatamente Dio, anche se, di fatto, direttamente non lo vediamo. no
ana
2. - Se Dio non può essere visto direttamente, la conoscenza che ne
possiamo avere deve attuarsi per mezzo di realtà che non sono lui stesso,
mediante cose extradivine. Infatti, ogni conoscenza di Dio si raggiunge profez
grazie alle creature, siano queste cose o uomini (presi tanto singolar¬
mente, quanto socialmente: razze, popoli, stati), sia la storia, nella quale
uomini responsabili e liberi lasciano la loro impronta sulla natura.
3. - È dottrina teologica comune, che la nostra conoscenza di Dio,
tanto naturale quanto soprannaturale, sia analogica e mediata.
La Scrittura afferma che noi conosciamo Dio per via di analogia (Sap.
13, 5; Rom. i, 20). Paolo scrive nella prima lettera ai Corinti: «La
carità non viene mai meno; mentre le . profezie svaniranno; le lingue
§ 37" CONOSCENZA MEDIATA E ANALOGICA DI DIO 193
finiranno, la scienza avrà termine. Poiché (solo) in parte conosciamo e
in parte (solo) profetiamo, ma quando verrà la perfezione, l'imperfe¬
zione sarà rimossa. Quand'ero bambino, parlavo da bambino, quando poi
son divenuto uomo, ho smesso quel ch'era da bambino. Adesso infatti
vediamo per mezzo di uno specchio, in enimma, allora vedremo faccia
a faccia; ora io conosco parzialmente, allora conoscerò così come fui co¬
nosciuto » (13, 8-12). Secondo questo passo l'uomo, durante il pellegri¬
naggio terreno, vede Dio mediante le cose terrestri, come attraverso uno
specchio. La vita umana è un camminare nella fede e si distingue es¬
senzialmente dalla futura, che è uno stato di visione. Nella seconda let¬
tera ai Corinti Paolo afferma : « Sì, mentre siamo in questa tenda sospi¬
riamo oppressi, poiché non vorremmo svestircene ma indossare altro su
di essa, affinchè ciò che è mortale sia assorbito dalla vita. E chi proprio
a questo ci ha preparato è Dio, il quale ci ha dato il pegno dello Spi¬
rito. Facendoci sempre coraggio e consci che dimorando in questo corpo
siamo esuli, lontani dal Signore (giacché per fede noi camminiamo, non
per visione), siamo pieni di fiducia e teniamo in maggior conto pere¬
grinar via dal corpo per viaggiare verso il Signore » (5, 4-8).
Il carattere analogico si applica, secondo i passi biblici sopra citati,
tanto alla conoscenza naturale di Dio, quanto alla soprannaturale, vale
a dire tanto a quella che si fonda sulla rivelazione delle opere, quanto a
quella che si fonda sulla rivelazione della parola. Tanto la ricerca filo¬
sofica di Dio, quanto la cognizione che ne abbiamo per fede, portano
l'impronta dell'analogia.
4. - Che la nostra conoscenza è analogica, vuol dire che non cono¬
sciamo Dio nella sua forma propria (per speciem propriam), ma per
mezzo della forma di cose diverse e a un tempo simili a lui (per species
alienas). Dal mondo si può conoscere Dio perchè le creature provengono
da lui, quale loro causa efficiente ed esemplare. Esse sono l'espressione
del pensiero divino, così come l'opera d'arte è l'espressione della vita
interiore dell'artista (cfr. il trattato sulla Creazione). Nella Scrittura si
parla dell'uomo definendolo, in modo particolare, immagine e somiglianza
di Dio. Si deve, tuttavia, osservare che l'intima vita divina non si estrin¬
seca nel creato nel medesimo modo con cui si esplica nell'opera d'arte
la vita intima dell'artista. Questa penetra nella sua opera; Dio, invece,
per quanto concerne la sua vita intima, rimane pur sempre al di fuori
della sua opera, la quale gli è assai più dissimile che simile, proprio per¬
chè egli è essenzialmente diverso da essa (Crisostomo, Gregorio di Na-
13 - schraaus - dogmatica I.
nostri concetti e le nostre espressioni su Dio va
194 P. I. - DIO UNO E TRINO
non
zianzó). Tra Dio e il creato vi è una somiglianza nella dissimiglianza e al
una dissimiglianza nella somiglianza. Proprio perchè Dio crea un'opera
simile a sè, vi imprime, per ciò stesso, la sua essenziale diversità. Somi¬ «
glianza e dissimiglianza non stanno una accanto all'altra, ma si compe¬
netrano reciprocamente, e la seconda soverchia la prima. Perciò tutti i
Sco
nostri concetti e le nostre espressioni su Dio vanno intesi in senso ana¬ Se
logo a quello con cui si applicano alle creature e non in senso univoco. D
Secondo il pensiero di S. Tommaso d'Aquino non possiamo formarci concetti manie
applicabili nel medesimo senso (univoci) a Dio e alle cose create. « Ciò che si
predica di Dio e delle creature non si predica in senso equivoco o univoco, crede
bensì in senso analogico » (Contra Gentes, i, 34). « Dio dà alle creature tutte ca
le perfezioni, e per questo ha con esse somiglianza e dissimiglianza a un tempo » ris
(ivi, I, 29). (astra
Il teologo francescano inglese, Giovanni Duns Scoto (f 1308), che criticò la in
dottrina di S. Tommaso, la pensa diversamente. Secondo la sua opinione, noi t
possiamo parlare con concetti univoci dell'essere di Dio e dell'uomo. Dobbiamo, della
tuttavia, notare che Scoto mette in decisivo rilievo il fatto che l'essere resoci f
presente in un concetto univoco, si avvera in maniera ben diversa in Dio che
nell'uomo. Osservazione, questa, che separa in modo chiaro e distinto l'opinione
scotista da qualsiasi tendenza panteista. Scoto credette di dover insegnare tale so
univocità perchè la nostra conoscenza di Dio non cadesse nell'agnosticismo. cono
Secondo la giusta opinione di S. Tommaso che risale ai Padri, noi nel nostro
concetto di essere non possiamo prescindere (astrarre) così totalmente dalla
realtà che questa, sia divina che umana, non venga in certo qual modo connotata.conoscen
Si tratta, alla fin fine, di un problema filosofico, non teologico. La divergenzadell'afferma
fra
Tommaso e Scoto risiede, quindi, più nella teoria della conoscenza, che nel campo
metafisico-teologico. Ad ogni modo non riguarda la fede stessa, ma piuttosto la
sua spiegazione.
5. - Siccome fra Dio e il creato vi è una somiglianza dissimile, me¬ proprio
diante l'essere delle creature ci è possibile conoscere Dio solo in modo imper
analogico. La teologia (Pseudo-Dionigi, vissuto verso il 500) ha escogi¬ giustizi
tato una triplice via per giungere alla conoscenza di Dio: la via della nell'uomo
negazione (via negationis), la via dell'affermazione (via affirmationis) cre
e la via dell'eminenza (via eminentiae).
a) Con l'affermazione attribuiamo a Dio, benché in modo analo¬
gico, tutte le perfezioni che rinveniamo nelle creature. Noi possiamo
affermare di Dio, secondo il loro senso proprio o formale, quelle per¬
fezioni che non includono necessariamente imperfezioni (perfezioni pure).
Così attribuiamo a Dio la sapienza e la giustizia formalmente, ma sap¬
piamo che esse si avverano in Dio e nell'uomo in modo dissimile e si¬
mile a un tempo. Al contrario, le perfezioni create, che recano il sigillo
§ 37- CONOSCENZA MEDIATA E ANALOGICA DI DIO 195
della loro estrema vicinanza al nulla (perfezioni miste), come ad esempio
la corporeità, non possono venir attribuite a Dio, secondo il loro senso
formale, ma solo in senso improprio e metaforico. Queste perfezioni sono
in Dio solo virtualmente, in quanto egli ne è il creatore.
b) Con la negazione eliminiamo in Dio tutti i difetti, quali limi¬
tatezza, finitezza, contraddizione, propri delle perfezioni create.
c) Queste perfezioni create, se vogliamo attribuirle a Dio, dobbiamo
pensarle come qualcosa di assoluto e di diverso. Esse sono in Dio in
modo sovraeminente e qualitativamente diverso da quello che si avvera
nelle creature.
*A proposito del duplice modo analogico di attribuire a Dio le perfezioni
create C. Journet scrive : « È intuitivo che, per significare Dio, le nozioni umane
dovranno subire una trasformazione profonda, alla quale non tutte sapranno
resistere.
a) Le nozioni che significano delle perfezioni miste, cioè inseparabili da
qualche imperfezione, non potranno convenire propriamente a Dio: tali son le
nozioni di corpo, di passione, di sensibilità, di commozione, di ragion discorsiva.
Così non si potrebbe dire che la divinità ha un corpo nè che l'universo è la sua
espressione necessaria. Sarebbe come introdurre una imperfezione nel seno stesso
di Dio.
Tuttavia codeste nozioni, di cui la lingua è piena, sono adoperate costante¬
mente, con la più grande libertà, a proposito di Dio. Si legge nel Deuteronomio:
« Jahvè tuo Dio è un fuoco divorante, un Dio geloso » (4, 24); e nel cantico di
David : « Jahvè è la mia roccia, la mia fortezza, il mio liberatore; Dio è la mia
rupe dove io trovo asilo » (2 Sam. 2-3). Il salmista sa che « gli occhi di Jahvè
sono sui giusti 2 e che « i suoi orecchi sono attenti alle grida loro » (34, 15).
« La mia mano s'è forse per alcuna maniera accorciata, così ch'io non possa li¬
berarvi? », chiede Jahvè stesso (Is. 50, 2). Nel Genesi, egli si pente : « Sterminerò
sulla faccia della terra gli uomini che ho creati, e gli animali domestici, e i rettili,
e gli uccelli del cielo, perchè io mi pento di averli fatti » (6, 7). San Paolo parla
della sua collera e della sua vendetta : « Non fatevi giustizia da voi stessi, o miei
cari, ma lasciate agire la collera di Dio, perchè sta scritto: A me la vendetta, a
me spetta di retribuire » (Rom. 12, 19). Tutte le immagini, tutta la poesia sono
invitate a parlar di Dio. Che senso ha un tale linguaggio? Occorrerà trasportare
in Dio, attribuire a lui in proprio, la natura del fuoco e della roccia, la vista e
l'udito, la forza del guerriero, la gelosia, il rimpianto, la collera, la vendetta?
Impossibile. L'imperfezione è così essenziale a tali nozioni che, se si tenta di
strappamela, esse non resistono alla prova, si frangono e volano in frantumi. Esse
sono incapaci di giungere fino alle cose divine, spirano sulla soglia, e non v'è
resurrezione per esse.
Ciò nonostante, è pur vero che Dio si comporta verso gli uomini come qual¬
cuno che abbia la vista e l'udito, che s'irriti, che ritorni sulle sue proprie deci¬
sioni, che si vendichi; è vero ch'egli ama Israele come se ne fosse geloso, che
protegge David ancor meglio di una roccia, di una fortezza, di un rifugio.
è precisamente ciò che si vien dicendo: fuoco, roccia,
d
196 P. I. - DIO UNO E TRINO m
Ecco quel che i teologi chiamano l'analogia di proporzionalità impropria o nu
metaforica. È una simiglianza di comportamenti proporzionali, relativi a due co
termini del tutto differenti quanto alla loro natura, ma tra i quali si nota una a
equivalenza dinamica o funzionale. Un tal modo di parlare non mira a dirci mezz
quel ch'è la natura di Dio in proprio. Esso ci dice solamente questo: che vi è, giust
alla radice dell'azione divina e dei suoi effetti, una realtà misteriosa la quale non que
è precisamente ciò che si vien dicendo: fuoco, roccia, gelosia, collera, rimpianto;
la quale sta sopra tutto ciò; alla quale si rinuncia di dare un nome diretto o pure
proprio, contentandosi invece di designarla in un modo indiretto, improprio,
esterno, descrittivo, metaforico — ma già prezioso, ma già fruttuoso, ma già com
benedetto — ; e che essa realtà, pur non essendo nulla di ciò che si è detto, che
agisce, benché per una ragione affatto differente, come se essa fosse appunto
ciò che si è detto. La più commovente di queste analogie è forse quella che atten
Jahvè adopera per rivolgersi al suo popolo, per mezzo del profeta Osea, 2, 19 tutte
e 24 : « Io ti sposerò in eterno. E ti sposerò in giustizia e in giudizio, in beni¬ non
gnità e in compassione. Ti sposerò in fedeltà... E quella che non era l'amata, io cose
la chiamerò l'amata ». qu
(3) Sarà esclusivo privilegio delle perfezioni pure o assolute, di quelle cioè
la cui nozione non implica necessariamente alcunché d'imperfetto, di potere, ma o
attraversando una specie di morte, oltrepassare il come se e il sipario dei com¬ lib
portamenti esterni, per significare direttamente ciò che Dio è in proprio e vera¬ n
mente, ciò ch'egli è in se stesso. in
La prima perfezione che si offra alla nostra attenzione è quella dell'essere. qua
Essa costituisce la stoffa stessa dell'universo e di tutte le differenziazioni di esso, assolut
il fondo misterioso delle cose. Indubbiamente, noi non la troviamo mai realizzata no
allo stato puro: ciò che esiste attorno a noi, son cose particolari, modi di essere
particolari. Ma proviamoci a separare col pensiero questa perfezione da tutte le mome
determinazioni quantitative o qualitative che possono concretamente modificarla. d
Noi vedremo ch'essa non si frantuma sotto i nostri occhi, come avverrebbe, per quan
esempio, della nozione di uomo se prendessimo a liberarla da ogni limitazione. sconfina
Noi arriveremo alla nozione di un essere infinito, non circoscritto, davanti al affirm
quale la nostra intelligenza dovrà cedere, sentendosi incapace di contenerla. Ora, infat
è appunto di questa nozione di essere, esente da qualsiasi limitazione, e portata conve
perciò a uno stato di purezza e di tensione assolute, che Dio s'impadronisce u
quando rivela al suo popolo, per la prima volta, il nome proprio col quale egli nu
desidera di esser nominato: Jahvè, Colui che è. parol
Che cosa avviene della nozione di essere nel momento in cui, cessando di de¬ realizzata
signare le cose concrete che ci circondano, è presa dalla rivelazione per essere
rivolta verso Dio? Essa è ratificata e mantenuta quanto al suo contenuto; e di¬
fatti essa non esce dalla sua linea propria per sconfinare in una linea vicina, per
esempio in quella dell'unità o della bellezza (via affirmationis). Ma essa è rinne¬
gata e distrutta quanto alle sue limitazioni: e infatti, quale noi lo scopriamo
nelle cose che ci circondano, l'essere non può convenire a Dio (via negationis
seu remotionis). Bisogna dunque ch'essa sbocchi a una realizzazione dell'essere
innalzata fino all'assoluto, e perciò completamente nuova, completamente scono¬
sciuta (via eminentiae). L'universo è, Dio è. La parola è la stessa, nei due casi;
e la perfezione significata da questa parola è realizzata, nell'uno e nell'altro caso,
§37- CONOSCENZA MEDIATA E ANALOGICA DI DIO 197
intrinsecamente, veramente, in proprio. Ma queste realizzazioni, delle quali l'una
è infinita e le altre finite, sono essenzialmente differenti e non hanno tra loro
se non somiglianza di proporzione. Dunque l'essere si addice così alle creature
come al Creatore, secondo una analogia di proporzionalità propria...
Tuttavia, la sola perfezione dell'essere non può bastare all'anima che cerca di
dare un nome al suo Dio. Tutte le perfezioni assolute dovranno essere convocate
da lei. O bellezza, o purità, o carità, o amore! Padre, potenza, misericordia!
Unità, santità, giustizia, clemenza! Spirito, luce, vita, dolcezza, pace, beatitudine!
Saggezza e scienza, libertà, gloria, eternità! Nessuna di queste nozioni è superflua.
Esse sono i fiori di un unico mazzo, dicono i multipli aspetti della pienezza
divina, simile a una fonte che trabocca » (C. Journet, Conoscenza e inconoscenza
di Dio, Milano 1947, 14-19, 25). *
6. - L'analogia esistente nel campo naturale tra Dio e il mondo, viene
garantita e precisata dalla rivelazione soprannaturale. Con la fede rag¬
giungiamo la certezza che il mondo, pur essendo dissimile, è simile a
Dio e riceviamo pure non pochi schiarimenti sul come esso gli sia si¬
mile. La dottrina dell'analogia fra Dio e mondo è, quindi, un'afferma¬
zione non solo metafìsica, ma anche strettamente teologica.
7. -
Siccome anche la rivelazione soprannaturale deve utilizzare idee
e linguaggio umano, se ne deduce che anche il suo modo di esprimersi
va inteso analogicamente, ossia secondo il rapporto di somiglianza e dis¬
somiglianza esistente fra il Creatore e le creature. Quando Cristo afferma
che Dio è nostro Padre, noi sappiamo che Dio ha con noi un rapporto
analogo a quello che in una famiglia esiste tra padre e figli.
La S. Scrittura usa con abbondanza il discorso analogico. Si serve con
predilezione di figure e di similitudini per narrarci la rivelazione sopran¬
naturale di Dio. Troviamo, così, specialmente nell'Antico Testamento,
molteplici antropomorfismi. Essi non intendono umanizzare Dio, ma ren¬
derlo più vivo.
-
I. L. Kòhler (Theologie des Alten T estaments, 4-6) spiega tali antropomor¬
fismi nel seguente modo: « 1) Non solo per via di accenni e occasionalmente,
ma in tutte le pagine dell'Antico Testamento e con dovizia di particolari, talora
anche drastici, si parla di Dio come di un uomo. Dio dice (Gen. 1, 3), parla
(Lev. 4, 1), chiama (Lev. 1, 1), sente (Es. 16, 12), vede (Gen. 6, 12), odora
(1 Sam. 26, 19), ride (Sai. 2, 4), fischia (Is. 7, 18). Ha occhi (Am. 9, 4) che
volge sui peccatori, mani con cui li afferra (Am. 9, 2), o che pone sui falsi profeti
(Ez. 13, 9); dita con cui scrive le tavole della legge (Deut. 9, 10); braccio che
spiega con potenza (Ger. 27, 5), che snuda dinanzi ai popoli quando vuol agire con
decisione (Is. 52, 10); orecchie (Is. 22, 14), piedi con cui solleva i nembi come
polvere (Num. I, 3) e a cui non manca lo sgabello (Is. 66, 1); bocca con la quale
ammaestra le nazioni (Ger. 9, 11); labbra che son piene di furore, lingua pari a
fuoco divorante (Is. 30, 27); capo rivestito di difesa (Sai. 60, 9)5 sguardo che
sino al giubilo (Is. 60, 10), allegrezza e letizia (Sof.
(S
198 P. I. - DIO UNO E TRINO gelos
de
volge sereno e benigno verso i suoi devoti (Num. 6, 25) e che se nasconde le n
creature son perdute (Sai. 104, 29); tergo che fa vedere a Mose (Es. 33, 23), (Es.
cuore che si rivolta e viscere che ardono (Os. 11, 8). Come si parla delle sue
membra allo stesso modo di quelle dell'uomo, così si parla pure dei suoi senti¬ tutte
menti e delle sue passioni: accanto agli antropomorfismi appaiono gli antropo- invariab
patismi. Egli prova piacere (Ger. 9, 23), contentezza (Is. 9, 23); gaudio e gioia s
sino al giubilo (Is. 60, 10), allegrezza e letizia (Sof. 3, 17). Sgrida (Is. 17, 13), all'insub
odia (Deut. 12, 31), rigetta (Ger. 14, 19), aborrisce (Sai. 106, 40) e sente nausea
(Lev. 20, 23), soffre (Ger. 7,18) e può divenire geloso: anzi questo è un senti¬
mento caratteristico del suo essere. Mentre gli dèi del pantheon tollerano che i
comportamen
loro devoti invochino altre divinità, il Dio rivelato nell'Antico Testamento, non pig
lo permette affatto. « Io sono un Dio geloso » (Es. 20, 5; Deut. 5, 9). Tale
espressione non si trova in un passo qualsiasi della Bibbia, bensì nel decalogo reg
che ne è la parte più saliente ed è supposta in tutte le altre parti dell'Antico (M
Testamento. Se la gelosia è un sentimento invariabile all'esterno, nell'interno giar
però i suoi sentimenti sono quanto mai mobili. Dio si pente di ciò che ha fatto suoi
(Gen. 6, 6; Giona 3, 10); cede all'ira: dinanzi all'insubordinazione (2 Sam. 24, 1) fr
il suo furore si accende al colmo e il suo zelo si sdegna contro gli ostinati
(Deut. 29, 20). Le cose possono divenirgli un peso tale che egli si stanca di le
sopportarle (Is. 1, 14). Anche l'agire e il comportamento di Dio sono descritti in su
modo francamente antropomorfico. Egli, come il pigiatore, spreme i popoli, sì imma
che il suo abito è del tutto intriso di sangue (Is. 63, 1-6). Cavalca i cieli (Deut. posson
33, 26). Esce da Seir e passa con potenza per le regioni di Edom (Giud. 5, 4),
lascia il suo tempio e calca le sommità della terra (Mi. 1, 3), scende per vedere
la torre di Babele (Gen. n, 5), cammina nel suo giardino alla brezza vespertina antropom
(Gen. 3, 8), schernisce come un eroe omerico i suoi nemici (Sai. 2, 4; 59, 9), t
tende Giuda come un arco e adopera Efraim come freccia (Zac. 9, 13), egli in¬ ep
fatti è un guerriero (Es. 15, 13) e un combattente eroico (Sai. 24, 8). Poiché doc
Osea lo paragona alla tignola e al tarlo (5, 12), al leone e al leoncello (5, 14),
al leone che rugge (n, 10), alla pantera che guata sulla via (13, 7), alla rugiada un'appa
che reca fioritura (14, 6), si potrebbe pensare a immagini istantanee proprie del e
profeta, ma non tutti gli antropomorfismi si possono spiegare così. Essi antropomorfis
non
sono creazioni del momento, ma bensì qualcosa di antico, di usuale e antropomorfism
quindi
caratteristico. defin
2) Non si è ancora scritta la storia degli antropomorfismi dell'Antico Testa¬
mento, la quale poi non interesserebbe gran che la teologia. Infatti, l'uso degli fo
antropomorfismi, nei singoli libri e nelle diverse epoche, appare con una fre¬ urta
quenza quasi invariata. Il fatto più saliente è il documento Elohista che, par¬
lando delle apparizioni di Dio come si trovano nello Jahvista (Gen. 2, 7. 8. 21.
22; 3, 8; 11, 5. 7; 18, 1s.), le sostituisce con un'apparizione notturna e con un
sogno. Il che si armonizza con il carattere elevato e teologicamente rielaborato
dell'Elohista e non vale, ad es., per gli antropomorfismi biblici riguardanti l'ira
e la passione di Dio. Del resto gli antropomorfismi si rinvengono anche nel
Salterio, che nel complesso e nella sua stesura definitiva è assai giovane, e si
moltiplicano nei profeti anche i più tardivi. Se ciò può anche, in parte, spie¬
garsi semplicemente con il fatto che costoro usano forme espressive ormai tra¬
dizionali, sta pure il fatto che tali forme non li urtavano affatto. Gli antropo-
§ 37" CONOSCENZA MEDIATA E ANALOGICA DI DIO 199
morfìsmi perdurano quindi per tutto l'Antico Testamento senza riceverne al¬
cuna spiritualizzazione.
Essi non conoscono nemmeno il raggruppamento in vari tipi divini. L'Antico
Testamento ignora il tipo del Dio saggio, litigioso, ingegnoso, lunatico, amico
dell'uomo o temibile. Tali tipi si intrecciano fra loro secondo le circostanze e
l'utilità del momento. Al posto della rigida standardizzazione, regna l'agile e
mutevole vivacità. Tutto è riferito sempre al medesimo e identico Dio. Ne
consegue una mirabile vivacità di rappresentazione.
3) È qui appunto che si palesa la funzione degli antropomorfismi. Il loro
scopo non è quello di ridurre Dio al grado umano, di umanizzarlo; è di ren¬
derlo invece più accessibile all'uomo. Essi permettono l'incontro tra Dio e
l'uomo e il trovarsi di fronte sul campo della volontà. Presentano Dio come
essere personale e scartano l'errore che egli sia un'idea inerte e astratta o un
principio rigido e fìsso che si erge di fronte all'uomo incrollabile e muto come
un muro. Dio è un essere personale, pieno di volontà, che ci sta di fronte, pronto
a comunicarsi, a punire i peccati, ad esaudire la preghiera della miseria umana,
ad accogliere il pianto dell'uomo pentito. In una parola, è un Dio vivente.
È proprio perchè l'Antico Testamento ne parla in modo antropomorfico che egli
balza vivo e personale dinanzi agli uomini ». Cfr. P. Heinisch, Teologia del
Vecchio Testamento, Torino 1959, 62-64; F- Michaeli, Dieu à l'image de l'hom-
me, Neuchàtel 1950.
II. - Nel Nuovo Testamento non solo si parla di Dio in modo umano, ma
appare il Figlio di Dio stesso in forma corporea. Nell'uomo Gesù, l'Io divino
diviene presente nella storia dell'umanità. Cristo è Dio apparso in questo mondo.
La sua azione e la sua parola sono quindi azione e parola dell'Io divino. La
sua mano è quella di Dio. Vedendo lui, si vede Dio medesimo in forma umana.
Pertanto la manifestazione di Dio avverantesi in Cristo si compie più che mai
per via d'immagine. La predicazione di Gesù partecipa a questo modo della
rivelazione divina : si svolge con figure e similitudini. La sua parola è così la
espressione di chi è egli stesso immagine di Dio.
8. - Se la nostra conoscenza di Dio dipende dalle cose create, avrà
maggiori possibilità quanto più profondamente noi comprenderemo la
natura, l'uomo e la storia. Secondo la testimonianza biblica, ogni essere
ed evento naturale, ogni dato storico e caratteristica umana (età, sesso,
indole), ogni forma del vivere sociale con i suoi molteplici gradi, ogni
aspetto della cultura umana (scienza, educazione, arte, diritto, economia,
tecnica) per coloro che li guardano con occhio illuminato dalla fede e
con spirito elevato, si trasformano in perenne manifestazione di Dio.
La piena conoscenza della rivelazione naturale, come la completa intel¬
ligenza della rivelazione soprannaturale, immutabile nella sua sostanza,
potrà essere raggiunta solo alla fine della storia. Hegel fa giungere Dio,
lo spirito assoluto, alla piena autocoscienza, perciò alla pienezza della
divinità, solo alla sera della storia, poiché, secondo lui, lo sviluppo sto-
di Dio, maggior incremento della Ch
200 P. I. - DIO UNO E TRINO
rico è lo sviluppo della divinità stessa, per cui Dio toccherà il vertice
della sua vita solo con il più elevato progresso dello Stato. Secondo la
dottrina cristiana, invece, è l'umanità, che al termine della storia per¬ solta
verrà alla piena conoscenza di Dio raggiungibile in terra, poiché lo svi¬
all'inafferrab
luppo della natura e della storia apporta una sempre maggiore scoperta presenta
di Dio, e un sempre maggior incremento della Chiesa, il popolo di Dio, forma
a cui è stata affidata la rivelazione divina da penetrare sempre più. È
Cfr. § 8.
9. - Poiché ogni nostro concetto, proprio per il suo contenuto circo¬ conosce
scritto e perciò limitato, ci rappresenta in modo analogico solo una per¬ ne
fezione di Dio e, di conseguenza, ci palesa soltanto un aspetto di lui,
noi possiamo cercare di avvicinarci all'inafferrabile essenza divina con n
molti e sempre nuovi concetti. Tutti ci presentano aspetti analogici di se
Dio. Per quanti concetti e idee ci possiamo formare, non riusciremo mai modernis
tuttavia a raggiungere la visione totale di Dio. È compito della teologia K
di ridurre questi molteplici aspetti ad unità. trascenden
10. - Il carattere analogico della nostra conoscenza naturale e sopran¬ ap
naturale di Dio, ci preserva dal cadere sia nell'antropomorfismo, sia sa
nell'agnosticismo o scetticismo. La nostra fede tiene qui una via di
mezzo tra il simbolismo puro, secondo cui noi non potremmo nulla sa¬
pere di Dio, ma solo additarlo con simboli o segni (rappresentanti del
simbolismo sono, per esempio, il teologo modernista Sabatier e, in modo
alquanto diverso, anche il filosofo esistenzialista K. Jaspers, per il quale
il mondo, si riduce a un cifrario del trascendente) e il panteismo, se¬ dif
condo cui le nostre espressioni circa Dio si applicherebbero in modo Poi
identico a Dio e al mondo, poiché il secondo sarebbe manifestazione o
evoluzione del primo.
Padr
n
§ 38. Inomi divini. esaurien
1. - L'incomprensibilità di Dio solleva la difficile questione se egli
possa o meno venir chiamato con un nome. Poiché, se per la sua in¬
comprensibilità, non può essere racchiuso in un concetto o in una no¬
zione umana, per la medesima ragione non può essere definito con un
nome coniato alla maniera degli uomini. IPadri spesso chiamano Dio
l'Ineffabile. Con ciò vogliono stabilire che nessun nome può propriamente
indicarlo, così da presentarne, in modo esauriente, la natura. Secondo
§ 38- 1 nomi divini 201
S. Agostino, anzi, non potremmo nemmeno dire che Dio è, in senso
stretto, ineffabile, poiché in tal modo, in realtà, gli stiamo dando un
nome. Tuttavia ciò che dicemmo per i nostri concetti concernenti Dio,
vale anche per i nomi con cui tentiamo di designarlo. Questi ci indicano
alcunché di lui, senza poterne esprimere esaurientemente l'essere. Hanno
la funzione di svelare e insieme di velare Dio. Per la conoscenza di Dio
è della più grande importanza attribuirgli prudentemente e rispettosa¬
mente un nome.
2. - Il significato dei nomi divini si può capire con facilità quando
esaminiamo la duplice funzione, individuale e sociale, del nome appli¬
cato all'uomo.
a) Il nome con cui chiamiamo un uomo non è un puro segno, ma, in certo
qual senso, ne rappresenta ed esprime l'essere. Col nome l'uomo manifesta se
stesso nella sua originalità, circoscrive chiaramente la sua figura, prende co¬
scienza di sè e si distingue da tutti gli altri. La funzione rivelatrice del nome si
manifesta, per esempio, nel fatto che Cristo, eleggendo Simone all'apostolato, gli
cambia il nome in quello di Pietro (Le. 6, 13). Lo stesso appare dal fatto che
ogni uomo credente porta scritto in fronte un nome nuovo, che esprime la sua
appartenenza a Dio (Apoc. 3, 12). Ciò che esso significa è naturalmente velato
durante la vita terrena, ma splenderà in piena chiarezza quando, cessato il tempo,
Cristo condurrà nella patria celeste coloro che portano il suo nome. Allora ne
riceveranno uno nuovo che paleserà senza alcun velo la celeste esistenza (Apoc.
14, 1).
b) Il nome riallaccia l'individuo alla società e lo definisce senza possibilità
d'errore di fronte agli occhi altrui. Lo mette in rapporto vivo con il prossimo.
Chi è privo di nome è uno sconosciuto e un senza volto. Finché il nome è
ignoto, l'uomo rimane nelle tenebre. Il senza nome è un dimenticato. Il nome
ha la forza di mettere in luce colui che lo porta, permette di vederlo e parlargli.
Colui che conosce il nome, ha, in certo qual senso, potere su colui che lo porta,
il quale, infatti, sente il proprio nome. Si possono rivolgere al viandante molte
parole: forse egli non le sente affatto; ma presta subito attenzione appena è
chiamato per nome. Il nome gli penetra come un lampo, per cui egli si ferma
nel suo cammino e guarda colui che lo chiama, pronto ad ascoltarlo. Lode o
biasimo, gloria o disprezzo, preghiera o ringraziamento colpiscono l'uomo solo
se sono uniti al suo nome: altrimenti errano nel vuoto!
3. - Tutto ciò vale in modo analogo anche per il nome Dio. Esso è
un mistero. Ci è noto soltanto se Dio medesimo ce lo fa conoscere con
la rivelazione naturale e soprannaturale.
a) Rivelandoci il suo nome, Dio esce dall'oscurità e ci si manifesta.
Nel nome che ci rivela, ci comunica ciò che egli è. Coloro che cono-
loro che conoscono il suo nome e lo possono i
P. I. - DIO UNO E TRINO
In
202
d
scono il suo nome, possono entrare in rapporto con lui, chiamarlo e in¬ il
vocarlo. Dio stesso ci assicura che ascolta chi lo chiama per nome e che
rivolge il suo sguardo all'uomo, quando questi lo implora. È presente
dove si invoca il suo nome. Così Geremia (14, 9) parla a Dio : « Ma tu, D
o Signore, sei in mezzo a noi, il tuo nome è invocato sopra di noi ». Co¬ è
loro che conoscono il suo nome e lo possono invocare, non devono te¬ rima
mere alcuna tribolazione 0 pericolo terreno. Invocando il nome di Dio
essi hanno la certezza che Dio li protegge e li difende (Sai. 90). all'uom
b) Il legame di Dio con il suo nome è il più intimo che si possa dalla
pensare. Dio penetra in certo modo nel suo nome, e questo tiene il D
posto di lui stesso. Di qui si spiegano i passi biblici che riferiscono a
Dio quanto si dice del suo nome. Il nome di Dio è entrato a far parte libert
del linguaggio umano. La rivelazione di esso è una attenuata « incarna¬ m
zione » di Dio, il quale con il suo nome rimane ed opera nella storia
umana. sulla
c) Se il nome rende Dio accessibile all'uomo, la rivelazione di esso
dimostra parimenti quanto egli sia diverso dalla creatura. La rivelazione d
dei nomi divini ci dà la possibilità di invocare Dio, ma non ci conferisce o
alcun potere su di lui. Dio, anche dopo averci donato la conoscenza del e
suo nome, rimane pur sempre, in sovrana libertà, al di sopra dell'uomo. D
Inomi divini non possiedono alcun carattere magico; non conferiscono
all'uomo alcun potere di comandare Dio. La nostra certezza di poter dell
de
invocare Iddio con il suo nome, si fonda sulla promessa di Dio e non spie
sulla forza magica del nome in se stesso. d
d) Il nome di Dio è santo. Nella santità del nome si palesa la san¬ h
tità di Dio, quello che gli è « proprio, intimo, originario e tutto ciò che m
possiamo dire per designare quell'inesprimibile e quell'infinito, che forma n
man
il suo carattere fondamentale » (R. Guardini, Das Gebet des Herr, 60). mediant
A
La santificazione del nome del Signore è una delle esigenze fondamentali del o
cristiano, che ne fa oggetto della prima domanda del Padre Nostro (Mt. 6, 9).
Il senso di questa preghiera richiede una breve spiegazione. Tale santificazione
è opera dell'uomo o di Dio? Nel Padre Nostro chi deve santificare tale nome è
Dio stesso. Si prega, quindi, che Dio faccia ciò che ha già annunciato per bocca
di Ezechiele, quando promette : « E santificherò il mio gran nome » (Ez. 36, 23).
« Secondo l'Antico Testamento Dio santifica il suo nome, egli si mostra come il
Santo sia mediante le sue azioni di grazia, che manifestano la sua potenza, sa¬
pienza e bontà (cfr. Ez. 20, 41), sia anche mediante le sue azioni di giustizia
(cfr. Is. 5, 16; Num. 20, 13; Ez. 28, 22; 38, 16)... Anche nei frequenti passi in
cui si dice che Dio agisce per amor del suo nome o vien pregato perchè agisca,
§ 38- 1 nomi divini 203
il pensiero implicito è sempre che egli santifichi, per questa via, il suo nome, ossia
lo glorifichi. E questo pensiero che è Dio stesso che si santifica, che glorifica
il suo nome, è del tutto preminente nell'Antico Testamento rispetto all'altro, che
cioè il suo nome è santificato dagli uomini ». Se poi ci chiediamo in qual modo
Dio santifichi il suo nome, si deve rispondere che « manifestando apertamente la
sua essenza, Dio si mostra come colui che è santo ed eccelso al di sopra del
mondo. Ma ciò è, nel suo oggetto, la stessa cosa dell'avvento del regno, della
signoria di Dio, e tanto vale dire che la prima domanda è di contenuto equiva¬
lente alla seconda, che la seconda è solo un'illustrazione della prima, o piuttosto
che la santificazione del nome di Dio costituisce " una parte, un aspetto dell'av¬
vento del regno dei cieli " (Greeven). Questa interpretazione escatologica della
prima domanda non la pone soltanto in armonia con le due seguenti, che pure
sono da intendersi in senso escatologico. Anche nell'Antico Testamento, in Eze¬
chiele (20, 41; 28, 22-26; 36, 20 ss.; 38, 16-23; 39j 12-29), la santificazione del
nome di Dio designa sempre l'operato escatologico di Dio » (J. Schmid, L'Evan¬
gelo secondo Matteo, Brescia 1957, 161 s.). La petizione del Padre Nostro, ri¬
guardante la santificazione del nome divino, ha il medesimo valore della pre¬
ghiera di Cristo : « Padre, glorifica il tuo nome » (Giov. 12, 28).
Anche se Dio stesso realizza la santificazione del suo nome, egli la compie,
tuttavia, per mezzo degli uomini, attraverso la storia umana. Gli uomini hanno,
quindi, la responsabilità di far sì che il nome di Dio vi sia celebrato. Siccome
il nome santo sta per il Dio santo, ne consegue che non possiamo usarlo invano,
irragionevolmente, insensatamente o irrispettosamente, ma bensì solo con vene¬
razione e in maniera conforme alla sua santità. Gli uomini glorificano il nome
di Dio, obbedendo ai suoi precetti (Lev. 22, 31-32). Lo profanano con gli sper¬
giuri, l'idolatria, la lussuria e gli altri vizi (Lev. 19, 12; 18, 21; 20, 3; Am. 2, 7).
Il nome di Dio deve essere lodato (Rom. 15, 19; Apoc. 15, 4; Ebr. 13, 15) e
Cristo fa ciò nel modo più sublime. Secondo la Lettera agli Ebrei così Gesù si
rivolge al padre : « Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, in mezzo all'assem¬
blea inneggerò a te » (Ebr. 2, 12).
La responsabilità che compete agli uomini per la santificazione del nome di
Dio è la stessa che essi hanno riguardo alla venuta del suo regno, al riconosci¬
mento della sua signoria. Tale responsabilità grava, in modo particolare, sul popolo
di Dio creato e plasmato da Cristo e quindi su tutti i cristiani.
4. - Poiché non vi è appellativo che possa esprimere esaurientemente
il mistero di Dio, sono necessari molti nomi per rendercelo presente in
modo sempre nuovo. IPadri erano consci di questo fatto e perciò non
solo definivano Dio ineffabile, ma anche l'essere dai molti nomi, l'essere
più ricco di nomi. Tommaso d'Aquino dice: « Siccome noi non pos¬
siamo denominare una cosa se non secondo l'idea che ce ne facciamo
— i nomi sono, infatti, segni delle idee — non ci è possibile denomi¬
nare Dio se non partendo dalle perfezioni, trovate nelle cose che deri¬
vano da lui. E poiché tali perfezioni sono molteplici, occorre chiamare
(<Compendium Theologiae, 24).
204 P. I. - DIO UNO E TRINO parecch
n
Dio con molti nomi. Se potessimo vederne l'essenza, com'è in se stessa, primo
non sarebbe allora necessaria una moltitudine di nomi, ma ne avremmo sa
un'idea semplice com'è semplice la sua essenza. Questo è quanto ci at¬ il
tendiamo nel giorno della nostra gloria, conforme a quelle parole: In
quel giorno il Signore sarà uno e il suo nome sarà uno (Zac. 14, 9) »
b
(1Compendium Theologiae, cap. 24).
p
I. - La Sacra Scrittura ci testifica parecchi nomi con i quali Dio si G
manifestò agli uomini dell'Antico Patto. Tali nomi, pur essendo spesso pronunc
l
filologicamente oscuri, designano tutti, in primo luogo, i rapporti tra Dio
A
e l'uomo fondati sulla creazione e sul piano salvifico. que
a) Anzitutto esaminiamo il nome Jahvè, il quale è, nell'Antico Te¬ l'uso
stamento, il nome proprio di Dio. Jehova
diver
La pronuncia oggi comune di tale vocabolo si basa sulla trascrizione greca, da
in armonia con i papiri di Elefantina, e sui nomi propri veterotestamentari, nei orig
quali la parola Jahvè entra come parte costitutiva. Già assai presto nell'Anticoattribuito
Testamento appare un crescente timore di pronunciare il nome di « Jahvè ». 13
Quando poi si fissò il testo biblico, si introdusse l'usanza di evitarne la pro¬ chie
nuncia per sostituirlo con gli appellativi Elohim o Adonai. IMasoreti, che fis¬ Co
sarono le vocali al testo ebraico, anziché segnare quelle del nome scritto vi ap¬
posero quelle del nome pronunciato secondo l'uso corrente. Così nacque la ma
forma artificiale e filologicamente inesatta di Jehova. J
Circa l'origine del nome le opinioni sono divergenti. Alcuni credono pro¬ 3)
venga dall'Egitto, altri da Babilonia, altri ancora da altre civiltà. Sino ad oggi
però non si è potuto dimostrare che esso tragga origine fuori dell'ebraismo. Ma
se anche ciò fosse vero, la Scrittura gli ha attribuito un contenuto diverso e del Ab
tutto nuovo. La parola si riscontra nell'Esodo 3, 13-15. Qui Mosè, che doveva
la
guidare il suo popolo fuori dall'Egitto, allorché chiede al Dio, che gli era ap¬
parso, il suo nome, si sente rispondere : « Sono Colui che sono... Così dirai ai
fidar
—
figli d'Israele: Io sono (ehje) mi ha mandato a voi... Così dirai: — Jahvèinvocare
(= Egli è), il Dio dei vostri padri... a voi mi ha mandato». Il nome che Mosè han
viene così a conoscere ha due sfumature: Ehje e Jdhve. Sino a quel momento 9;
tale nome era del tutto ignoto (cfr. Gen. 4, 26; 6, 3).
potentemente
Da una simile origine se ne deduce pure il significato. Jahvè è colui
che già si trovava con i Padri, è il Dio di Abramo, di Isacco, di Gia¬
cobbe, è il sempre presente, l'essente (così la versione greca dei LXX
traduce il v. 14), il fedele di cui ci si può fidare. È lì per il suo popolo,
gli è presente, cosicché ognuno lo può invocare tutte le volte che ne ha
bisogno. Mentre gli dèi pagani (mitici) non hanno alcuna esistenza, sono
un «nulla» (1 Sam. 2, 21; Is. 40, 17; 44, 9; 59, 4 ecc.), di Jahvè al
contrario si ha certezza che esiste potentemente. È il potente che forgia
§ 3§- 1 nomi divini 205
i destini, sia dei popoli, sia dei singoli. È il Signore che dona l'essere,
che dirige gli eventi della natura e della storia. ILXX traducono giusta¬
mente il termine Jahvè con Kyrios, e la Volgata con Dominus. Il suo
regno, tuttavia, non ha nulla a che fare con la tirannia. Egli non esercita
alcun celeste imperialismo sui suoi devoti. Il suo dominio è costituito
dalla cura che egli ha verso il suo popolo. Egli conclude, con assoluta
sovranità, un patto con il popolo che si è scelto, patto che, se porta seco
gravi doveri, garantisce, al tempo stesso, ai suoi fedeli gloria e salvezza.
Dio è pronto ad aiutare il popolo della sua alleanza. Per la pienezza di
significato che la parola Jahvè racchiude, si comprende come anche in
epoche tardive, Dio sia stato invocato con tale nome (Os. 1, 9; Deut.
7, 9; Mal. 3, 6; Is. 26, 4), che anzi egli stesso dica al suo popolo: Voi
esperimenterete che io sono Jahvè, ossia il vostro Signore fedele, che
vi assicura scudo e difesa (Ez.). Cfr. W. Forster, Kyrios, in Kittel, III,
1045-1085.
b) Altro nome di Dio è El. Tale vocabolo, presso tutti i Semiti,
eccetto gli Etiopi, significa Dio. Il significato fondamentale è l'idea di
Duce, Signore, Reggitore, Potente. Esso è usato sia per designare il vero
Dio Jahvè, sia le divinità pagane. Quando sta per il vero Dio è per lo
più unito a un epiteto. Il vocabolo Elohim è plurale maiestatico, che
significa la pienezza della potenza e della gloria ed esprime bene il bi¬
sogno che la pietà pratica risente di rendere omaggio alla divinità. Questa
designazione indica che Dio è sentito dagli uomini come una potenza che
essi non hanno mai raggiunto e che riempie tutta la loro coscienza reli¬
giosa, che egli sussiste completamente indipendente dall'uomo. Pertanto
tale designazione non fa risaltare il senso della nostra relazione con Dio,
bensì la meraviglia per la sua sovrana grandezza. Cfr. G. Quell, Theós,
in Kittel, III, 87.
c) La parola Adonai è propriamente un plurale astratto e significa
signoria, sovranità. Il vocabolo indica quindi, in forma intensiva, la so¬
vranità di Dio: Egli è il Signore supremo. ILXX tradussero il termine
con Kyrios. Shaddai indica il Potente, Elion l'Eccelso, Kadosh il Se¬
parato, il Terribile, l'Inaccessibile, il Santo, in quanto Dio, nell'essere,
nel pensiero, nella volontà e nell'agire è totalmente diverso dall'uomo.
II. - Cristo, meglio di ogni rivelazione precristiana, ci ha comunicato
il nome di Dio. Chi « conosce » questo nome ha la vita eterna e sa che
tutto quanto Cristo dice e compie proviene dall'alto (Giov. 17, 3-8). Il
nome di Dio che Cristo ci ha insegnato è quello di Padre (Mt. 6, 9).
novità.
206 P. I. - DIO UNO E TRINO
p
re
Dio è Padre di Gesù e Padre degli uomini. Allo stesso modo di Cristo,
evangelico
sebbene sotto diverso aspetto, gli uomini devono rivolgersi a Dio come ha
al Padre celeste. Infatti, tanto il semplice vocabolo « Padre », quando ch
la frase « Padre nostro » sono la traduzione della parola aramaica Abba min
(Me. 14, 36; Rom. 8, 15; Gal. 4, 6). Tale modo di parlare confidenziale
è una vera novità. limitata
Anche gli dèi del paganesimo vengono chiamati padri dai loro adoratori (cfr.
specialmente « Padre Zeus » = Iupiter), ma nelle religioni pagane tale designa¬
zione ha un senso ben diverso da quello evangelico. Così, ad esempio, gli dèi sig
greci, in una misura ora più accentuata ora meno, han sempre un aspetto demo¬ pa
niaco. Essi non solo sono sempre attenti al culto che loro spetta da parte degli pensier
uomini, ma sono anche gelosi degli uomini che minacciano di valicare i confini con
di potenza e di felicità imposti alla natura umana e possono anche nuocere agli Ge
uomini. D'altro lato anche la loro potenza è limitata, perchè accanto, e anzi al d
disopra di essi, vi è il fato. Ne risulta evidente che fra l'appellativo di « padre » pa
(o di « madre ») che i greci rivolgevano ai loro dèi, e il nome di Padre per Dio ne
nell'Evangelo vi è una profonda differenza. Quelli son detti padre o madre, d
perchè gli uomini sanno di dovere, in ultima analisi, ad essi la vita, e perchè nell'aggiunt
concetto di padre si inserisce anche l'idea della signoria, a cui corrisponde, da
parte dell'uomo, quella di soggezione. Il nome di padre non ha quindi in primo
luogo un valore etico, come nell'Evangelo. Il pensiero che la più intima essenza N
della divinità è amore, e la fiducia filiale che ne consegue, la credente consape¬ prop
volezza del trovar rifugio nelle mani di Dio che Gesù intende insegnare ai suoi
discepoli, sono estranei alla concezione greca della divinità (J. Schmid, L'Evan¬ me
gelo secondo Matteo, ed. cit., 158 s., riportato, in parte, alla lettera).
Il Giudaismo non osava certo rivolgersi a Dio nel tono familiare con cui il m
figlio parla al Padre. « Solo in rari passi tardivi della letteratura rabbinica si
rinviene la parola " Padre " e sempre con l'aggiunta di " nostro re che ac¬ de
centua ancora di più il divario fra Dio e l'uomo. L'aggiunta di Matteo "in sostra
cielo " corrisponde al modo di esprimersi dei Giudei palestinesi del primo secolo Pad
dopo Cristo, per distinguere Dio dai padri terreni. Nelle preghiere, tale aggiunta
poteva essere omessa e, siccome Gesù nella sua propria orazione non la usava, si timo
deve senz'altro ritenere un'addizione matteica. La designazione di Dio come pensiero
" Padre nostro che sei nei cieli " suscitava nella mente dei Giudei il pensiero
che Dio fosse il Padre di tutto il popolo d'Israele, avendo stretto con esso, col
sceglierselo come suo popolo, una relazione quanto mai intima. Il singolo poteva
partecipare a questa intima relazione di figliolanza solo in quanto membro del
popolo eletto. Con Gesù, al contrario, il rapporto della paternità divina è piena¬
mente personale. Scompare cosi del tutto il sostrato nazionale che dominava
l'espressione giudaica. Dio non è più solo il Padre del popolo eletto, bensì
di tutti gli uomini, anzi di ogni singolo uomo. Nella rivelazione dell'Antico Patto
dominava il pensiero di Dio sovrano, cosicché il timor di Dio era l'essenza della
religione veterotestamentaria e giudaica. Tale pensiero non manca di certo, anche
§38-1 nomi divini 207
nella predicazione di Cristo, ma è dominato dall'idea che Dio è Padre e che la
bontà è la sua propria essenza. Per l'uomo, divenuto figlio di Dio, nasce, quindi,
la coscienza della assoluta sicurezza » (J. Schmid, l. c.). Coloro che sono con¬
giunti nello Spirito Santo a Cristo, il Figlio prediletto di Dio, sono anch'essi
figliuoli di Dio e sono autorizzati come lui a chiamarlo Padre (Rom. 15, 16-17).
Sono iniziati al mistero di Dio, come i figli in quello familiare del padre, che è
invece nascosto agli estranei (Giov. 15, 14 s.; ICor. 2, 12-15). Tuttavia devono
sempre ancora sperimentare che il Padre celeste rimane anche per loro un mi¬
stero pieno di enigma. Certo possiamo dire che è amore (1 Giov. 4, 8), ma il
suo amore è ben diverso da quello degli uomini (Rom. 11, 33-36). La rivela¬
zione più confidenziale dei nomi divini non ci fa uscire dal mistero, anzi ci ad¬
dentra. Ci permette di sentirlo in maniera più intima e con forza maggiore a
motivo della vicinanza di Dio, che, pur essendo Padre, continua ad essere il
Kyrios (Signore) e il Basileus (Re).
Per la designazione di Cristo come Kyrios, Logos, Agnus ecc., vedi la Cri¬
stologia.
PERSO
SEZIONE II.
all
AUTORIVELAZIONE DI DIO UNO E TRINO
CIRCA LA SUA PERSONALITÀ riemp
che
u
beat
§ 39. Persona e natura in Dio. risposta
1. - Chi si apre, in obbedienza di fede, alla rivelazione divina, non
solo riconosce che Dio esiste, ma riesce anche a gettare uno sguardo nel semp
mistero del suo essere, cosa, questa, che riempie la vita di luce, di forza
e di gioia. Qual è l'aspetto di quest'essere, che è al di fuori del tempo Di
e dello spazio, e dal quale proviene all'uomo un appello e un richiamo anc
incondizionato, pressante, misterioso e e beatificante? Questa è la do¬
manda a cui dobbiamo ora dare una risposta, considerando qual è il glo
modo di essere di Dio, nella misura in cui ci è reso accessibile dalla ri¬ reg
velazione.
Come lo scopo della rivelazione non è semplicemente quello di comu¬
nicare notizie teoriche circa la divinità, così lo scopo che ci proponiamo a
cercando di presentare il modo di essere di Dio non si riduce semplice¬ son
mente a dire: Dio è così. Questo è certo anche un fine, molto impor¬
viceversa
tante e imprescindibile, della nostra indagine teologica, ma non è l'ul¬
timo. Meta ultima è che l'uomo conosca la gloria di Dio, che si doni profonda
a
lui in adorazione e amore, e così realizzi il regno di Dio e partecipi alla
salvezza.
2. - Per una retta comprensione della realtà divina, comunicataci dalla
rivelazione, è quanto mai importante risalire a Dio, partendo dalle due
fondamentali forme dell'essere creato, che sono la natura e la persona.
Ciò che non è personale è naturale e viceversa.
In nessun campo all'infuori di quello della rivelazione, non si è mai
fatto risaltare chiaramente quanto sia profonda e piena di conseguenze
§ 39- persona e natura in dio 209
per la comprensione dell'uomo e del mondo la distinzione tra natura e
persona. Là dove scompare il modo di pensare e di vivere cristiano, tale
distinzione viene di nuovo trascurata. All'infuori della rivelazione, si ri¬
conosce solo la natura e in tal caso l'uomo viene considerato come un
frammento del cosmo, una parte della natura, sia pure il suo più alto
sviluppo. Solo la rivelazione cristiana è riuscita a presentarci in modo
chiaro la personalità dell'uomo con tutte le sue conseguenze. La fede cri¬
stiana subordina le categorie della natura e della vita a quella della persona.
3. - Natura e persona sono distinte tra loro qualitativamente e non
solo di grado. Volendo ora delineare brevemente tale distinzione, dob¬
biamo subito osservare che qui la parola natura viene usata non in con¬
trapposizione alla « soprannatura », ma bensì alla persona.
I. - Con natura intendiamo tutto ciò che ci circonda, che si presenta
al nostro conoscere e al nostro agire come oggetto 0 strumento: terra,
acqua, pietre, bestie, piante, stelle. Le cose che il vocabolo natura designa
stanno a nostra disposizione e sono proprietà dell'uomo. Non apparten¬
gono a se stesse, ma all'uomo che le possiede e può usarne e anche
abusarne.
Quando chiamiamo natura le cose apersonali, non pensiamo a materia
inerte, priva di qualità, ma bensì ad una realtà dotata di attitudini, di
capacità e di forze, a un centro di attività. La natura è infatti sorgente
di azione e di vita. Tuttavia per quanto potente sia la sua forza crea¬
trice e distruggitrice, essa non sa quello che fa: è cieca. Non realizza
le sue più grandi conquiste con decisione libera. Non è padrona di se
stessa, ma è spinta nel suo agire, soggiace alla legge della necessità.
La natura forma un regno uniforme o ordinato. Le singole cose che
lo compongono sono al tempo stesso simili e dissimili tra loro. Si di¬
stinguono le une dalle altre e sono collegate fra loro; la distinzione può
essere puramente quantitativa e numerica, come quella che esiste, per
esempio, tra due macchine uguali 0 due rotelle di una macchina; in que¬
sto caso una cosa può essere sostituita con un'altra e tutto è di nuovo
in ordine. La distinzione può anche essere qualitativa, in quanto una
cosa possiede una caratteristica speciale che la distingue dalle altre del
medesimo genere e le dona unicità e irripetibilità. Ma anche tale cosa
non ha coscienza di se stessa e deve accontentarsi di esser usata dal¬
l'uomo. E proprio in quanto serve all'uomo realizza appieno il suo
valore.
Quanto più una cosa è ricca di essere tanto più spicca la sua diver-
14 - schmaus - dogmatica 1.
gue essenzialmente. La persona è la forma di
l'essere
2TO P. I. - DIO UNO E TRINO
siti e individualità; al contrario, quanto più le cose sono povere di essere l'ess
e di valore, tanto meno si distinguono le une dalle altre.
b
II. - La seconda forma fondamentale dell'essere è la persona, la
quale si oppone alla natura. E ciò significa che l'essere personale non è ess
a
la più alta creazione, il vertice dell'essere naturale, ma che se ne distin¬
pro
gue essenzialmente. La persona è la forma di essere dello spirito sussi¬
è
stente, che si conosce e si possiede: è l'essere individuale spirituale.
inco
A ) A costituire la persona concorrono, in primo luogo, tre elementi
oggettivi ad essa immanenti : l'essere-in-sè, l'essere-da-sè e l'essere-per-sè.
a) È necessario, prima di tutto, spiegare brevemente questi tre ele¬ ha
menti nel loro contenuto oggettivo. sospin
a) Il primo dà alla persona il fatto di essere sussistente (sostanzia¬ chiam
lità, sussistenza). La persona sta in se stessa; appartiene a se stessa; nonpoiché
è proprietà di un altro, nè lo può essere. È proprietà di se stessa. Quindi,
in certo senso, sta racchiusa in se medesima, è qualcosa di solitario. Sic¬ pri
come la persona appartiene a se stessa è incomunicabile e distinta perfezionamento
da
qualsiasi altra. Di fronte a ogni altro individuo è un essere a sè stante. ess
(3) Il secondo significa che l'io personale ha la capacità di agire da se
stesso, è padrone dei suoi atti. Non è sospinto all'azione come la na¬ pu
tura. La facoltà di agire da se stesso si chiama libertà, la quale è con¬ s
temporaneamente un dono e un peso, poiché rende la persona respon¬
sabile delle sue azioni. di
insostituibile,
y) Il terzo fa sì che la persona agisca prima di tutto per se stessa.
Con la sua azione promuove il perfezionamento del proprio essere. È fine un'altra
a se stessa. Non se ne può, come per gli esseri naturali, usare ed abu¬ d
sare quasi fosse un semplice strumento. Non è possibile adoperarla alla perso
stessa stregua di ciò che è solo materiale. Si può, in certo senso, usare ed l'uomo
abusare solo della sua forza lavorativa o del suo possesso materiale; non
mai della personalità stessa. oggettivamente
Siccome ogni persona è qualitativamente distinta delle altre, ne viene essere
che presenta una realtà unica, insostituibile, incomunicabile. Nessuna ag
persona è la semplice ripetizione di un'altra. Ciascuna ha un proprio
essere, un proprio valore e un proprio senso di irripetibile unicità.
b) Tutti questi elementi dell'essere personale sono, prima di tutto,
dati oggettivi e derivano dal fatto che l'uomo è essere dotato di spirito.
Con lo spirito è dato all'uomo di accogliere e di affermare con consa¬
pevolezza e volontà ciò che oggettivamente appartiene al suo essere.
Ciò significa che l'io si riconosce come essere in sè, da sè e per sè e si
afferma con la volontà come tale di fronte agli altri. Non occorre però
§ 39' PERSONA E NATURA IN DIO 211
che tale conoscenza e volontà siano sempre attuali, poiché la persona è
propriamente costituita dall'essere in sé, da sé e per sé e non già dalla
consapevolezza e affermazione di tali caratteristiche.
La persona quindi non sta negli atti, ma nella realtà che sussiste in
sé, che si possiede e si afferma, che agisce da sé e per sé. Tale realtà
si può chiamare sostanza. Però questa non va tanto intesa come soggetto
di accidenti indeterminato in sé e privo di qualità, capace solo di con¬
durre una ignota esistenza dietro i suoi atti, quanto piuttosto come es¬
sere in sé completo, ordinato essenzialmente ad agire con signorile li¬
bertà e con libera decisione. Nella personalità oggettiva si trova quindi
la ragione dell'agire personale.
L'uomo opera in conformità al suo carattere di persona solo quando
si esercita diuturnamente verso ciò a cui è in sé disposto. In tal modo
raggiunge una personalità sempre più intensa. Così l'uomo agisce in
armonia con il suo « essere in sé », quando si pone di fronte a se stesso,
entra nel suo intimo e si possiede e si afferma. La persona, evidente¬
mente, non esiste perchè opera e si afferma, ma, d'altra parte, non può
essere senza agire e senza affermarsi. Con la sua unità e profondità entra
nell'azione e si esprime. Nel suo operare indipendente, si afferma, si de¬
termina e rimane fedele a se stessa.
La persona acquisterà questo dominio di sé non con un solo atto, ma
bensì con azioni che si ripetono incessantemente. In tal modo essa com¬
prende la sua propria natura e le si uniforma in modo che questa gli
divenga intimo possesso e realizzazione ininterrotta. L'uomo sviluppa la
sua personalità quanto più energicamente, consapevolmente, decisamente
afferma se stesso, penetra nel suo intimo, e vive interiormente. L'« essere
in sé » proprio della persona implica dunque dinamismo e riceve il suo
coronamento morale nell'essere fedele a se stesso.
Dovunque incontriamo una tale padronanza di sé, possiamo parlare
di io. L'io e solo esso ha la capacità di comprendersi, di penetrare nel
proprio intimo e di affermare e proteggere nella sua unicità e insostitui¬
bilità, contro ogni ostacolo e pericolo, lo spazio e il dominio interiore
che gli è proprio, e che deve ognora crearsi di nuovo.
c) L'uomo può penetrare in se stesso, rimanere fedele a sé, valu¬
tare e giudicare da questo centro tutto il restante: ciò ne costituisce la
grandezza e la dignità. Anche l'ultima sua indistruttibilità vi si trova
inclusa. L'acqua può soffocarlo, il fuoco consumarlo, le catene incep¬
parlo, ma ciò nonostante rimane sempre più grande di ogni ostacolo e
trionfa su tutte le potenze distruttive, poiché egli, anche nella morte,
gnifica che egli non sia aperto agli altri. È a
P. I. - DIO UNO E TRINO
mo
212
che
rimane fedele a sè e mantiene il proprio essere. La persona umana è D
più potente del mondo intero!
B) Per la piena conoscenza della persona è necessario riflettere
anche su di un secondo fatto. Finora abbiamo considerato solo la ten¬ q
denza dell'io verso il proprio intimo. Ma l'essere chiuso in sè non si¬ po
gnifica che egli non sia aperto agli altri. È anzi attributo proprio del¬ a
l'essere personale quello di aprirsi verso il mondo, verso i valori, verso
la società. Questo appare logico se si pensa che l'uomo, fatto a immagine
di Dio, è anche riflesso di quell'amore che è Dio stesso (i Giov. 4, 8). valo
Infatti, nel suo intimo nucleo personale egli è amore, il quale si esplica
solo quando l'io trascende se stesso per una realtà che gli è distinta. ne
L'uomo agisce in conformità a se stesso solo quando si apre verso qual¬ costituirlo
cosa di estraneo. Unicamente donandosi, si possiede in modo giusto e (Ge
ragionevole. Egli sussiste in sè, è immanente a se stesso solo nella tra¬ pen
scendenza. intr
L'uomo si dischiude e trascende se stesso in tre direzioni: verso il
mondo con il suo essere materiale e il suo valore spirituale, verso la so¬ vi
cietà e verso Dio. pe
a) Per quanto concerne il dischiudersi nella direzione del mondo, fer
Dio ha voluto disporre il creato e costituirlo in modo tale da servire suo
come abitazione, cibo e vestiario all'uomo (Gen. 1, 26-30). Ma la crea¬
tura ragionevole ha inoltre il compito di penetrare nel mondo con lo d
spirito. Se l'uomo non vuol immiserirsi e intristirsi nel possesso e nel¬ s
l'affermazione di se stesso, deve uscire verso ciò che lo circonda e ac¬manifes
coglierlo in sè. Solo così può pervenire alla vita ricca e piena e realiz¬ c
zare le possibilità che sussistono in lui come persona. L'uomo raggiunge
la forma che gli è essenziale non quando si ferma in sè, ma quando con non
le forze del cuore e dello spirito esce dal suo intimo per riversarsi nel
mondo, senza, naturalmente, perdervisi. vita.
b) Tra gli incontri inevitabili e più gravi di conseguenze vi è quello pass
comunicazione
con il tu umano. L'io è ordinato al tu, alla società. L'umana esistenza
è essenzialmente coesistenza. Il che si manifesta, per esempio, nella fa¬
coltà di parlare propria dell'uomo. Solo nel colloquio, nel dialogo, sia
esso svolto con alta o debole voce, solo nello scambio si attua in modo
profondo la vita umana. Tale osservazione non è solo frutto della fan¬
tasia poetica o creazione dei filosofi romantici! È al contrario giustificata
dalla teologia e dall'esperienza stessa della vita.
c) È necessario compiere un ulteriore passo. L'uomo trova la vera e
propria esistenza non mediante la comunicazione con un altro essere sem-
§ 39- PERSONA E NATURA IN DIO 213
plicemente uguale a lui, nell'uscire da se stesso per penetrare nella società
umana, bensì nel dischiudersi a Dio.
Compito dell'uomo è quindi la fedeltà a se stesso, il dono di sè alla
società, e, in ultimo, a Dio. Non si tratta di due doveri che procedano
di pari passo, ma di un unico obbligo in due direzioni. L'uomo deve
comportarsi in modo che nel preservarsi non si chiuda, ma si doni, e
che, pur uscendo fuori di sè, non si perda, ma si preservi. Non può com¬
piere del tutto tale dovere durante il pellegrinaggio terrestre. Il com¬
pleto attuarsi di questa duplice funzione dell'essere personale avverrà
soltanto in quella pienezza di vita che chiamiamo cielo. In terra l'uomo
agisce in conformità del suo essere se si sforza di ricominciare sempre
da capo tale compito dell'io personale.
C) Per mezzo di un tal modo di agire, conforme al suo essere, la
persona assurge al grado di personalità. La persona tende perciò a dive¬
nire personalità, la quale è la persona stessa formata e perfezionata. Per¬
sona e personalità, dunque, sono tra loro inscindibili. La persona si svi¬
luppa nella personalità e la personalità poggia sulla persona. La persona
non può affermarsi e possedersi come tale se non quando la si pensa
destinata a svilupparsi in personalità. L'uomo è perciò maggiormente
persona, quanto più, con libera responsabilità e con amore, serve il
mondo, la società e Dio, divenendo così personalità.
III. - Per quanto concerne il rapporto tra natura e persona, dobbia¬
mo osservare che tra i due sussiste un legame vivo e contemporaneamente
una reale diversità. La persona foggia e plasma la natura, anche quella
che gli è propria. Utilizza la natura come strumento. L'io vede con gli
occhi, ode con le orecchie, pensa con il cervello, decide con la volontà.
In esso, come nel loro centro vitale, si raccolgono tutte le forze e le
azioni umane. « L'io, ossia la persona, è il principio, il centro e il ter¬
mine di ogni viva manifestazione di vita. È il vero soggetto di ogni
manifestazione vitale, il possessore della natura, della vita ed è perciò
responsabile di tutto ciò che l'uomo compie con azione pienamente
umana. Quando l'io, agendo, non ha coscienza di ciò che fa 0 vi arriva
troppo tardi, come, per esempio, nei moti dell'incosciente o in quelli
riflessi, allora non si può parlare di azione umana. L'io è responsabile
delle azioni compiute coscientemente; e ne riceverà lode o biasimo, ri¬
conoscimento e gloria; l'io, la persona, e nient'altro, è l'oggetto di onore
0 di biasimo. L'io è il portatore dell'essere: ecco quanto di più profondo
e di più grande possiamo attribuirgli! L'autentico atto di essere non si
addice alla natura, ma alla persona. La prima è in funzione della seconda
3). Certamente la nobiltà è co
L
214 P. I. - DIO UNO E TRINO
q
e non viceversa. La natura esiste, solo perchè esiste l'io, è unicamente
anch
possesso dell'io, il mezzo con cui l'io si palesa » (H. Christmann, Le-
bendige Einheit, 1938, 86 s.). la
Persona significa quindi realtà superiore alla natura. « Essa significa prim
quanto di più nobile c'è in tutto l'universo » (Tommaso d'Aquino, S. Th., ragg
I, q. 29, a. 3). Certamente la sua nobiltà è condizionata alle ricchezze espres
s
della natura, che l'io deve foggiare e dominare. La supremazia della per¬ che
sona sulla natura può anche riuscire letale a quest'ultima. La persona esis
ha infatti il potere di distruggere la natura, anche la sua propria, sia spi¬
rituale che materiale. Sostanza
s
4. - Data l'importanza dell'essere personale per la comprensione della realtà, sosta
si capisce come, nella storia della teologia, sin dai primi secoli, si siano fatti tanti in
sforzi per elaborare il concetto di persona. Essi raggiunsero il loro vertice nel ed
XIII secolo. Fin dal rv secolo nacquero alcune espressioni tecniche che sono di s
gran valore per la comprensione della terminologia scolastica. Con essenza (es¬ completa
sentia) si indica la quiddità di una cosa, ossia ciò che entra nella sua definizione. perse
Con sostanza si intende una cosa a cui compete esistere in sè e per sè, e non chiama
in un'altra cosa. Si suole distinguere con Aristotele la sostanza prima e la se¬
conda, la sostanza completa e l'incompleta. Sostanza prima è la sostanza indi¬ individ
vidua; sostanza seconda è il concetto universale di sostanza. Sostanza completa p
è quella non ordinata all'unione con un'altra; sostanza incompleta è, al con¬ su
trario, quella che deve unirsi con un'altra sostanza incompleta in modo da for¬ avendo
mare assieme una sostanza completa, ad es. corpo ed anima nell'uomo. Quando decisione
l'essenza è considerata come principio di attività si chiama, nella definizione pe
scolastica, natura. Una sostanza individuale completa incomunicabile si chiama
ipostasi. Con sussistenza si indica l'inseità, la perseità e l'incomunicabilità di hypostas
ima ipostasi. L'ipostasi dotata di ragione, si chiama persona (un essere sussi¬ te
stente di natura spirituale). Boezio (t circa il 526) dà la seguente definizione fissa
della persona: Persona est rationaiis naturae individua substantia. Per il fatto »
che un'ipostasi è dotata di ragione, se ne arricchisce pure il suo carattere iposta¬ pròsop
tico, in quanto tale ipostasi non solo possiede la sussistenza sul piano ontolo¬
gico, ma anche su quello psicologico-morale avendo coscienza di sè, ossia di
essere in sè e per sè e di agire con libera decisione. L'attuale coscienza di sè
non appartiene, però, al concetto metafisico della persona, basta che ve ne sia vocab
la capacità.
IPadri greci da principio usarono usìa e hypostasis come sinonimi per indi¬
care le tre Persone distinte in Dio, mentre con il termine physis, di solito, ne
indicavano l'essenza unica. ICappadoci (Basilio) fissarono per primi la termino¬
logia e usarono « usia » per l'unica essenza, « ipostasi » per itre soggetti distinti in
Dio (trèis hypostàseis, mia usìa). La parola pròsopon fu evitata di proposito
perchè i sabelliani ne abusavano. Presso i Latini, Tertulliano usò i termini
substantia o natura per indicare l'unica essenza, e persona per indicare i tre
distinti soggetti dell'essenza divina (una substantia, tres personae). Nel tempo
che va da Tertulliano ad Agostino, anche il vocabolo essentia fu, di regola,
§ 39- PERSONA E NATURA IN DIO 215
usato solo per designare l'unica essenza di Dio. Anche se i Latini parlano tal¬
volta di tres substantiae nel senso di tres personae (Agostino), essi intendono
substantìa nel senso del corrispondente vocabolo greco hypostasis che designa
la persona.
Siccome la definizione di Boezio è desunta dal mondo umano, ne viene che
può applicarsi a Dio solo in senso analogico. Quindi il rationalis, non può rife¬
rirsi a Dio nel significato di ragionamento discorsivo. L'essenza divina non è
poi sostanza nel senso che sia soggetto di accidenti. Così anche l'individua non
si applica a Dio come alle creature. Tale termine indica che le persone umane
possiedono la stessa umanità solo specificamente, ma non numericamente, in un
modo particolarmente proprio e perciò imperfetto. Le divine Persone, al con¬
trario, possiedono la medesima essenza numericamente una, nella stessa maniera
e in modo completo. La perfezione infinita dell'unica essenza è anzi la ragione
per cui essa sussiste in tre persone.
Riccardo di S. Vittore cerca di eliminare dal concetto di Boezio ogni difficoltà,
giungendo così alla definizione seguente della persona : persona est intellectualis
essentiae incommunicabilis existentia (l'esistenza incomunicabile dell'essenza spi¬
rituale). Molti teologi dal secolo xiii, specialmente dell'Ordine francescano, ac¬
colsero questa definizione che entrò in aspra competizione con quella di Boezio,
la quale, tuttavia, fu preferita dalla maggior parte dei teologi. La definizione
di Riccardo è assai utile per chiarire quella di Boezio.
5. - La differenza fra natura e persona sussiste anche in Dio?
O meglio, si trova anche in Dio essere personale ed essere impersonale?
Dimostreremo che in Dio non esiste ima realtà apersonale (naturale),
perciò in lui non vi può essere scissione od opposizione tra natura e
persona. Dio è personale al massimo grado. Le proprietà dell'essere
personale non vi si trovano solo in modo più perfetto che nell'uomo,
bensì in modo diverso che raggiunge la più eccelsa perfezione.
Se, con natura, intendiamo non una realtà apersonale, ma bensì la
ricchezza, la pienezza e la potenza dell'essere personale, allora possiamo
parlare, anche per Dio, di una natura e chiamarla essenza e sostanza
di Dio. Noi intendiamo in tal modo la divinità di Dio, l'essere proprio
di Dio, ciò per cui Dio si distingue da tutto ciò che non è divino. L'es¬
senza divina esiste a motivo della sua perfezione alla maniera della per¬
sonalità. È tale che può esistere solo personalmente. E ciò non per cieca
necessità, bensì con la massima libertà. L'essenza divina non può essere
impotente e debole, nè priva di coscienza e di volontà. Non può essere
apersonale. La sua personalità non solo si distingue per vitalità e po¬
tenza del possesso di sè da ogni altra non divina, ma soprattutto perchè
si esplica in una triade personale. L'essenza divina esiste per la sua
straripante pienezza alla maniera di un essere tripersonale. Si possiede
in tre modi realmente distinti.
evitato il pericolo di pensare Dio come se ci f
Divin
216 P. I. - DIO UNO E TRINO
fondam
Per rendere ancor più viva l'importanza della personalità divina, si della
deve, dopo aver parlato della sua esistenza, far subito seguire la tratta¬
zione della sua personalità. Che l'essere personale di Dio esista in tre
persone, deve apparire anche esteriormente ricollegando l'esposizione
ÿ
della Trinità delle persone con quella della personalità di Dio. È così
evitato il pericolo di pensare Dio come se ci fosse in lui una persona o
primordiale, a cui tutte e tre le Persone Divine si debbono poi ricon¬
durre. La personalità di Dio si esplica fondamentalmente nel fatto che
egli si possiede tre volte, ossia nella forma della Triade Personale. s
cos
lu
§ 40. La personalità di Dio. in
pratic
1. - Fuori del mondo biblico Dio si riduce o a un'idea priva di forza viene
(Platone, Aristotele, Neoplatonismo, Hegel) o a un despota che, alla stre¬ i
gua umana, tiene gli uomini in schiavitù.
2. - Nell'ambiente biblico Dio è personale, spirito e forza nello stesso
tempo. Di lui si può asserire tutto ciò che costituisce, come vedemmo, agli
il distintivo della persona, anzi, tutto ciò in lui si realizza con la mas¬ 3
sima intensità. La personalità di Dio non è indicata nella Scrittura in
modo astratto e teorico, ma concreto e pratico, giacché egli ci viene libe
presentato in quanto parla ed agisce e ci viene incontro come persona. chia
promes
a) Nell'Antico Patto, Dio appare come il Signore, che sta al di u
sopra del mondo e domina la storia, crea con libertà sovrana e cielo e condu
terra, dirige gli eventi umani, guida uomini e cose al fine prestabilito.
Come ha stabilito un principio al mondo e agli uomini, così li condurrà popo
al fine già prefisso (Gen. i, i; 2, 4; Me. 13, 39 ss.; Ebr. 1, 2; 11, 3).
Egli intende realizzare il suo regno sul creato e per attuare un tale disegno a
si è scelto un popolo, con il quale, per propria libera iniziativa, ha stabilito un richiam
patto. L'attuazione di questo piano inizia con la chiamata di Abramo. All'obbe¬
dienza del patriarca stanno collegate grandi promesse. Cinque secoli più tardi
Dio rivolge la sua parola con maestà e potenza ad un altro uomo, della discen¬
denza di Abramo, Mose, a cui dà ordine di condurre il popolo d'Israele fuori
dall'Egitto. Il patto già stipulato con Abramo vien ripreso e serve di base per
stabilire la nuova alleanza di Dio con tutto il popolo eletto; il che avviene sul
monte Sinai (Es. 19, 1-6).
Il popolo ebraico, recalcitrante e orgoglioso, violò ripetutamente il Patto san¬
cito da Dio, rinnovando continui tentativi di darsi all'idolatria praticata dai po¬
poli che l'attorniavano. Tuttavia con ripetuti richiami e minacce, venne sempre
ricondotto alla fedeltà. Dio suscitò uomini che si opposero strenuamente alla
§ 4°- LA PERSONALITÀ DI DIO 217
tendenza naturale e alle aspirazioni di mettersi alla pari con gli altri popoli.
Tale funzione fu realizzata, in modo speciale, dai profeti. Essi parlarono, misero
in guardia, minacciarono a nome di Dio il quale, a mezzo loro, ordinava e co¬
mandava. Nelle sue minacce e promesse si mostrò geloso e suscettibile (ad es.
Es. 20, 5), ma anche fedele e soccorrevole. Vuole essere amato da coloro che
ama e si meraviglia assai quando si pone in dubbio il suo esigente rigore. Va
in collera e biasima, punisce e premia, è benefico e misericordioso. Si avvicina
agli uomini o si allontana da loro.
b) In Cristo, Dio si rivela, al massimo grado, come persona. Nel
Verbo Incarnato, l'io divino si rende presente nella storia umana come
soggetto operante, come amore che si prende cura della salvezza del¬
l'uomo. Iddio, entrato a far parte della storia umana, chiama coloro che
sono perduti nel peccato per ricondurli alla sua stessa gloria. Per coloro
che respingono il richiamo divino, l'amore, fattosi palese nella storia
umana, diviene contro suo volere giudice severo. La personalità di Dio
spicca con particolare chiarezza quando Cristo ce lo rivela come nostro
Padre.
Poiché Dio si rivolge all'uomo con amore, l'uomo può rivolgersi a
lui con fede e fiducia, con riconoscenza e preghiera; poiché Dio gli ha
mostrato in Cristo il proprio volto, l'uomo può mirare il viso di Dio e
entrare a colloquio con lui. Può dare del tu a Dio, ha la possibilità
di chiamarlo con il nome proprio di Signore e di Padre. Dio ascolta
l'invocazione al suo nome (Es. 3, 14; Is. 65, 1; Sai. 102, 28; Mt. 6, 9 s.)
e si lascia invocare dall'uomo. Solo i pagani che ne ignorano il nome,
non possono parlare amichevolmente con lui (Sai. 79, 6; Ger. 10, 25).
Al contrario, il credente che lo conosce, può in ogni oscurità rivolgere
a lui gli occhi (Giobbe). Può confidare in lui, che ci garantisce ogni
salvezza, ogni sicurezza e pienezza di vita (Giov. 14, 1-3). L'uomo si
sazia alla vista del suo viso (Sai. 17, 15). Si spaventa, è vero, di fronte
alla sua santità e al mistero incomprensibile dei suoi piani; ma al di
sopra di tutto può rivolgersi a lui come al Padre, donarsi a lui senza al¬
cuna riserva. Cfr. pure § 38 e § 41, ed anche il trattato sulla Creazione,
la Provvidenza e la Grazia.
3. - La vita di fede dell'uomo dipende tutta dal fatto che Dio è
persona. Noi possiamo donarci con fede e amore solo a un essere per¬
sonale e tuttavia diverso da noi, libero da tutti i vincoli della necessità
e delle manchevolezze terrene e tuttavia vicino a noi. Solo di fronte a
lui vi può essere responsabilità; solo da lui possiamo sperare di essere
trasferiti dall'angustia e limitatezza dell'esistenza nella sua gloria e im-
scie
pen
218 P. I. - DIO UNO E TRINO
c
mensità. In un mondo completamente spersonalizzato, ridotto a pura D
cosa, non sorretto da un Dio personale, tutte le porte sono incatenate e Dio
l'uomo vi è imprigionato senza alcuna via di scampo. Non può varcarne ad
le insuperabili muraglie e l'universo intero si trasforma per lui in una la
tetra prigione. Nel mondo senza Dio personale ogni preghiera risuona
avvolg
vana negli spazi immensi di cui ci parla la scienza, ma di cui non pos¬ e
siamo sapere nulla e che ci è impossibile penetrare. L'invocazione re¬ e
spinta dal cielo rabbuiato, torna verso colui che prega, come paurosa divien
eco della sua domanda. Il mondo senza il Dio vivo è ridotto a una
squallida solitudine, priva di speranze! Il Dio personale invece volge
verso di noi il suo sguardo amoroso, ci invita ad opere grandi, ci infonde
l'am
coraggio, ci sprona ai nostri compiti, scuote la nostra accidia e ci aiuta
no
a superare peccati e manchevolezze. Ci avvolge da ogni parte con gli
bontà
occhi del suo cuore, con lo sguardo amoroso ed il potente braccio. Ci
riconosce
sentiamo sicuri, avvolti nell'amore, nel calore e nell'intimità di una po¬
misericordia
tenza senza limiti! Ogni istante di vita diviene incontro con la carità
co
creante di Dio!
dicen
4. - In Dio, data la sua perfetta semplicità e spiritualità, tutto l'esseremiserico
ha carattere intimamente personale. In lui l'amore, la potenza, la giu¬ g
stizia esistono in modo personale. Anche se noi distinguiamo tra loro i
singoli attributi, come l'onnipotenza dalla bontà e dall'amore, la giustizia giorno
dalla misericordia, dobbiamo, tuttavia, riconoscere sempre che l'onnipo¬
tenza e l'amore, la giustizia e la misericordia possiedono un carattere essa
personale unico. Noi possiamo pregare Dio così: Oh Tu, onnipotenza!
Noi possiamo rivolgere la parola all'amore dicendo: Tu, amore! Possiamo
invocarlo con il Salmista: Deus meus, misericordia mea: Alio Dio, mia richiamarc
nece
misericordia. Che lo stesso amore o la stessa giustizia o la stessa onni¬ persona
potenza abbiano carattere personale, ciò supera la nostra immaginazione!
Tuttavia l'uomo è certo di incontrare un giorno l'amore in persona: ciò
sarà nella vita celeste. conosce
5. - Contro la personalità di Dio si obietta che essa implica limitazione, perchè
significa un modo particolare, e quindi limitato, di attuare e sviluppare la pro¬
pria vita spirituale.
Per confutare tale obiezione dobbiamo richiamarci a ciò che è il costitutivo
della persona o della personalità. A noi non è necessario distinguere accurata¬
mente fra questi due concetti, poiché Dio è persona nella forma più alta della
personalità. In lui si avverano i caratteri dell'essere personale dianzi esaminati;
egli è l'essere personale che si realizza in maniera assoluta e perfettissima, in
modo superiore ad ogni nostra esperienza e conoscenza.
§ 4°- LA PERSONALITÀ DI DIO 219
Secondo Sawicki (Das Ideal der Persònlichkeit, 1922) appartiene ad un più
alto grado dello sviluppo della persona umana, non solo la semplice sussistenza
spirituale, il generico possesso di sè, ma anche la grandezza, la libertà, la pa¬
dronanza dello spirito, l'individualità spirituale e l'armonia interiore.
La grandezza dello spirito si esplica in due elementi: potenza e pienezza. La
libertà si attua come indipendenza (opposto: massa umana) e autodetermina¬
zione (modellamento della vita dall'interno, specialmente dalla coscienza, ritorno
dello spirito a se stesso). La padronanza include dominio di sè e del mondo.
Ogni uomo realizza in modo individuale questi tre momenti, ma qui sta il pe¬
ricolo della unilateralità. Possono infatti esistere uomini esclusivamente dinamici
o economici o edonistici o soltanto intellettualisti, volontaristi ed esteti. L'uomo
che si possiede, che perviene a sè e che sfugge al pericolo predetto, porta l'im¬
pronta della semplicità, della limpidezza e dell'armonia. Tali momenti si verifi¬
cano in ogni individuo solo in modo imperfetto. Devono perciò venir completati
da un altro aspetto. Infatti, non vi è essere umano che non stia in rapporto con
un altro. L'affermazione di sè avviene proprio di fronte al prossimo donandosi e
accettando.
Se ora vogliamo formarci un concetto analogo dell'essere personale di Dio,
partendo dalla descrizione della persona umana, ne nasce quanto segue. A Dio
anzitutto s'addice nel modo più alto, anzi assoluto, la grandezza dello spirito, sia
per quanto riguarda la sua potenza, sia per la sua pienezza. Egli è l'essere asso¬
luto proprio in quanto è dinamico. Come sarà chiarito più tardi, è l'essere agente
e l'agire essente. In lui non vi è dominio che non sia agire assoluto. Non vi è
verità o valore che in lui non abbia esistenza o meglio che non sia esistenza.
La libertà e la padronanza spirituale si realizzano in Dio in modo assoluto,
in quanto egli è indipendente da qualsiasi cosa, anzi, da lui tutto dipende. Dal¬
l'assoluta semplicità di Dio, sgorga la sua intima armonia. Tutti questi elementi
della personalità, Dio li possiede in modo assoluto, non limitato, unilaterale e
particolare. Nessuna legge della unilateralità e particolarità che vige in terra ha
valore per lui! L'assoluta pienezza dell'essere esiste con forza d'esistenza asso¬
luta, e si possiede con coscienza luminosamente vigile, con illimitata forza d'amore
e di volere. La ricchezza senza limite della verità e del valore, raccolta in unica
realtà, esiste con assoluto autopossesso e assoluta auto-affermazione. La forza e
la realtà dell'autopossesso sono quindi illimitate come la ricchezza posseduta
nella più profonda intimità ed armonia.
Così si ritrovano in Dio tutti i distintivi essenziali della personalità, però senza
le limitazioni e le imperfezioni umane. In senso definitivo e profondo solo Dio
è essere personale; l'uomo lo è in modo derivato, condizionato e reso possibile
solo mediante l'essere personale di Dio.
Non dobbiamo, in queste nostre considerazioni, dimenticare il carattere ana¬
logico della personalità di Dio. Il possesso di sè si realizza in lui in modo di¬
verso che nell'uomo. La coscienza di sè propria di Dio non è condizionata dal¬
l'opposizione dell'io divino con il non-io creato. Se non distinguessimo ciò, attri¬
buiremmo « a ogni coscienza l'imperfezione e la limitatezza propria della co¬
scienza umana, condizionata al non-io, mentre il concetto d'auto-coscienza in
sè e per sè denota una pura perfezione senza ombre e senza limiti, in modo che
solo attuarsi così. E proprio qui chiaro c
ciò
220 P. I. - DIO UNO E TRINO
dell'
la perfezione così concepita può verificarsi tanto in un modo limitato quanto L
illimitato e del tutto perfetto » (D. Feuling, Katholische Glaubenslehre, 125). trasf
6. - La differenza decisiva della personalità divina di fronte all'umana
sta però nel fatto che essa si attua in tre distinti modi relativi e può
rice
solo attuarsi così. E proprio qui appare chiaro che alla personalità divina unipersonale
non manca il rapporto tra l'io e il tu. Se ciò non esistesse potremmo
chiederci se Dio nell'unicità, che lo priva dell'incontro con il tu, possa D
essere felice 0 almeno infinitamente felice : « La ricchezza immensa di ri
Dio, unico e singolo nella persona, non si trasformerebbe forse contem¬
poraneamente nella povertà e nello squallore più assoluto? A un Dio
signific
unipersonale mancherebbe la cosa più grande e santa, lo scambio mutuo Nell'incontr
in cui, con pari amore, l'io si dona e il tu riceve. È possibile immagi¬ su
nare una simile singolarità nel Dio unipersonale? » (D. Feuling, Katho¬ m
entro
lische Glaubenslehre, 125).
L'incontro dell'io con il tu, non manca in Dio e si realizza nel modo sappiamo
più completo e beatificante. Non dobbiamo ricercarlo nei rapporti fra (super
Dio e il mondo, come se egli fosse divenuto essere personale solo di disti
fronte al mondo. La personalità divina significa superiorità sul mondo che
nell'immutabile affermazione di sè. Nell'incontro con il mondo Dio non person
poteva riversare su di esso come su di un suo pari, il suo amore, nè
distin
poteva parimenti riceverne poiché tra lui e il mondo sussiste una diver¬
rivelazione
sità infinita. Il rapporto tra l'io e il tu sta entro l'essere personale stesso, g
superiore al mondo. Dalla rivelazione sappiamo che l'auto-possesso per¬obiettan
sonale e la personale auto-affermazione (superiorità di Dio sul mondo risvegliarsi
nell'auto-affermazione) si realizzano in tre distinti modi. L'auto-possesso Trinità
cosciente di Dio è di tale forza e vitalità che deve concretarsi in tre i
maniere. L'unico essere di Dio, assoluto, personale e superiore al mondo,
esiste senza ripartizione di se stesso in tre distinti modi relativi che chia¬ es
miamo Padre, Figlio e Spirito. La rivelazione della Trinità divina ci co
aiuta a confutare ragionevolmente l'obiezione già menzionata, che viene person
di frequente mossa dai panteisti. Essi obiettano che all'io corrisponde
necessariamente il tu e nessuno può risvegliarsi al proprio io, se non si
differenzia e distingue dal non-io. Nella Trinità tale distinzione e diffe¬
renziamento si compie, come dimostreremo in seguito, esponendo le
relazioni esistenti in Dio; ima persona in lui non si risveglia alla vita
personale e alla più intima profondità del suo essere personale quando si
incontra, come avviene nelle persone umane, con il tu, ma bensì l'intero
essere personale e l'intera realtà, come persona, dipende dal rapporto
§ 4 I. TRASCENDENZA DI DIO 221
con il tu. Se per ipotesi assurda il Padre cessasse, anche per un solo
istante, di dare del tu al Figlio o allo Spirito Santo, cesserebbe ipso
facto di esistere.
Da questo fatto deriva che ogni attività personale divina, l'andare e il
venire, l'ira e l'amore, si compie sempre dal Padre, mediante il Figlio,
nello Spirito Santo.
Quanto abbiamo detto sulla personalità divina dovrà essere maggior¬
mente approfondito parlando della trascendenza di Dio sul mondo e
della Trinità.
§ 41. Trascendenza di Dio.
1. - Ogni concezione religiosa non cristiana vincola, in certo qual
senso, Dio al mondo e alle sue vicende: Dio o si identifica con il mondo
o è della sua stessa natura. Tutte le religioni non cristiane recano quindi
l'impronta panteistica. Secondo tale concetto, Dio e mondo costituiscono
un unico essere: Dio è uno e tutto (pan).
Il panteismo si presenta sotto diverse forme :
a) Una prima forma intende Dio come unica realtà e il mondo
come una sua manifestazione, senza però che Dio si risolva nel mondo
(panenteismo). Il mondo viene, quindi, spiegato come pura apparenza.
Seguono tale corrente la filosofia indiana e la dottrina di molti filosofi
greci (Eleati: Senofonte, Parmenide, Zenone, Melisso). Altri come Era¬
clito, spiegano il mondo come una manifestazione dello spirito primor¬
diale, che è realtà in perenne movimento.
b) Un'altra forma ritiene il mondo come sviluppo, evoluzione o ir¬
radiazione di Dio, cosicché Dio stesso, mediante lo sviluppo del mondo,
acquista un essere sempre maggiore fino a raggiungere la coscienza (evo¬
luzionismo, emanatismo).
c) Una terza fa di Dio l'intima realtà, l'anima del mondo, come
l'anima nel corpo umano.
Il panteismo è possibile perchè il mondo ha avuto origine da Dio. Da ciò
deriva l'intimo, reale rapporto del mondo con Dio e, conseguentemente, la pre¬
senza di Dio nel creato e in tutte le cose. L'uomo che aderisce al panteismo ha
un senso vivo della profondità numinosa del mondo, del suo rapporto con Dio
e della presenza divina che in esso si manifesta. Ma confonde la realtà che sta
in rapporto con Dio, con Dio stesso. Si potrebbe anche distinguere il panteismo
dal teopanismo, dicendo che il primo riduce tutto a Dio, il secondo riduce
Dio al tutto.
d) Il panteismo raggiunge una forma concreta nel mito. Che questo si fondi
alla debolezza delle sue facoltà spirituali, egli è cad
prov
222 P. r. - DIO UNO E TRINO d
su concezione panteistica appare chiaro spiegandone brevemente l'origine. Poichédell'arcan
deriva da Dio, la natura è pervasa dal numinoso e ha parentela con Dio mede¬ v
simo. La numinosità della natura raggiunge in alcuni punti una intensità par¬ lu
ticolare, soprattutto là ove la natura concentra e manifesta più evidentemente la
sua potenza : nella morte, nella nascita, nella fecondità, nell'amore, nella luce,
nelle tenebre. L'uomo la sente e la scopre mediante il senso religioso. In seguito e
alla debolezza delle sue facoltà spirituali, egli è caduto nel pericolo di vedere il gran
mistero del mondo, senza intuirvi il Dio da cui proviene. se
Quando colui che si rivolge al mondo è ricco di forza inventiva, può dare l'utilità
una forma ben delineata al mistero che vi opera e che vi straripa. Tali raffigu¬ d
razioni non sono altro che manifestazioni dell'arcano del cosmo. L'uomo che le com
crea, penetra nella profondità della sua natura e vi trae i prototipi, le cui im¬ H
magini proietta nelle raffigurazioni del mondo da lui elaborate. Così nascono nel c
cuore umano gli dèi mitici. La natura gli presenta, specie nei luoghi di maggior sperare
concentrazione, il materiale per la creazione di tali divinità. Nasce, in tal modo, che
il Dio dell'amore (Eros), delle tenebre, della luce, ecc. L'uomo può anche rivol¬
gere il suo senso del numinoso direttamente ai grandi esseri della natura, come, pe
ad esempio, al sole. In tal modo questi vengono sentiti come dèi. Altri uomini attratto
non così dotati di potere inventivo, sentono l'utilità che tali raffigurazioni hanno
per la loro propria esperienza; così gli dèi creati dal cuore di un uomo acqui¬
stano valore anche per gli altri, anzi per intiere comunità sociali. Gli dèi mitici
dist
non sono, quindi, una pura creazione fantastica. Hanno una potenza reale: in Vatica
essi rivivono le forze della natura e la potenza del cuore umano. concilio
Chi crede a tali dèi e li adora, non può sperare di liberarsi dalla necessità ess
della natura e dal destino. Essi sono nient'altro che personificazioni della natura
che si muove in un circolo « eterno ». Il dominio degli dèi mitici è soltanto il
cose
dominio della natura. Chi si affida a loro, finisce per cadere sotto il potere della sono
natura ancora più intensamente e di essere attratto con maggior forza nel suo nel
ciclo perpetuo.
2. - Dio è realmente ed essenzialmente distinto dal mondo e ad esso costituisce
trascendente. È dogma di fede. Concilio Vaticano, Sess. 3, cap. 1 (Denz.scomun
1782). Nei canoni 3 e 4 dello stesso concilio si afferma: « Se taluno f
dicesse che una e identica è la sostanza 0 essenza di Dio e di tutte le
(Ele
cose, sia scomunicato. Se dicesse che le cose finite, sia corporee che evolu
spirituali, 0 almeno soltanto le spirituali, sono emanate dalla stessa so¬ im
stanza divina, oppure che l'essenza divina, nel suo manifestarsi ed evol¬
versi diviene tutte le cose; oppure che Dio è l'ente universale, ossia in¬
determinato, il quale, determinandosi costituisce la universalità delle cose,
distinta in generi, specie e individui, sia scomunicato » (Denz. 1803-1804).
Con tali precisazioni vengono escluse tutte le forme di panteismo, sia ma¬
terialista che spiritualista, tanto quello dinamico o statico, secondo cui tutto è
pura manifestazione dell'unica sostanza divina (Eleati, Eraclito, Spinoza e suoi
seguaci, tra cui molti tedeschi); quanto quello evoluzionista, per cui ogni essere
e ogni evento sono lo sviluppo di un principio impersonale del mondo verso
§ 41. TRASCENDENZA DI DIO 223
una forma di esistenza sempre migliore (Hegel, Fichte, Schelling, Schopenhauer);
quanto infine l'emanatismo che vede nel mondo il flusso, l'emanazione di Dio
(neoplatonismo, correnti neoplatoniche medievali, Giordano Bruno).
Il Concilio Vaticano condanna pure le varie forme mitiche le quali non sono
altro che una modificazione del panteismo.
3. - Dio mostra la sua trascendenza sul mondo nella rivelazione so¬
prannaturale.
A) Secondo la Scrittura, vi sono due eventi capitali in cui Dio pe¬
netra talmente nella storia umana, da palesare, in modo indubbio, la
sua distinzione e trascendenza di fronte al mondo.
I. - Il primo è riferito dall'Antico Testamento. È la già ricordata
elezione del popolo d'Israele a fungere da strumento del regno di Dio
nella storia umana. Tutto ciò che la Bibbia veterotestamentaria ci dice
di Dio, si muove attorno a questo cardine.
a) Mediante il patto concluso per iniziativa divina, il popolo eletto
ricevette fisionomia e storia che essenzialmente lo distinguono da tutte
le caratteristiche degli altri popoli allora esistenti e da ogni altra epopea
terrena. Gli Ebrei ricevettero una storia pensata e operata da Dio; fecero
fortuna non grazie alla loro esistenza come nazione, al benessere e alla
sicurezza, all'unità e alla forza, alla conquista di un posto nella storia del
mondo, ma bensì perchè erano proprietà di Dio. Egli aveva voluto crearsi
un popolo santo che gli appartenesse (2 Sam. 7, 24; Sal. 78, 46; 47, 20;
Es. 19, 6; 20, 1-7). Quanto poco la storia di questo popolo preparato
da Dio stesso dipendesse dalla costituzione naturale della stirpe ebraica,
risulta chiaramente dalle continue ribellioni al patto, all'ordine che Dio
aveva stabilito. Il ripetersi incessante delle sue ricadute e la sua tendenza
ad assimilare la cultura dei popoli circostanti, con irelativi miti, dimostra
quale sarebbe stata la sua fisionomia se avesse potuto evolversi su basi
puramente naturali. In questo caso anche Israele si sarebbe plasmato una
cultura mitica, sul tipo di quelle che imperavano in tutto il mondo al
di fuori della rivelazione veterotestamentaria. Le continue ribellioni a Dio
ci palesano chiaramente come la storia, che Dio stesso aveva imposto al
suo popolo fosse da lui ritenuta un peso e non certo l'espressione del
suo proprio essere. Solo un Dio che non è implicato nell'intreccio della
storia, ma che la domina, poteva pretendere un tale svolgersi di vicende
dal popolo che si era scelto.
b) Il dominio divino sul mondo poggia sull'atto creativo. Dio, con
la sua onnipotente parola, ha tratto dal nulla tutte le cose e ne ha stabi¬
lito la durata (Gen. 1, 3-31; Giov. 1, 3). Egli esisteva prima di ogni es-
) Quando il liberamente
e
224 P. I. - DIO UNO E TRINO
dell'oper
sere terreno (Ef. i, 4; Giuda 25; Giov. 8, 58; 17, 5-24; 1 Piet. 1, 20) dev
e sopravvivrà a tutti (Sai. 90 [89], 2; 102 [101], 26; Prov. 8, 22; Giov. D
17, 5-24). Egli è il primo (Is. 41, 4; 44, 6; 48, 2) e l'ultimo (Is. 41, 4;
(A
stabi
44, 6; Apoc. 1, 18; 21, 6; 22, 13). A lui spetta la prima e l'ultima pa¬
c
rola; è principio e fine. Colui che così esiste è l'Onnipotente (Apoc. 21, 6).
c) Quando venne il momento, liberamente fissato, Dio fece sorgere Ap
l'uomo sulla terra, perchè libero la coltivasse e ne avesse cura (Gen. 1, 5
15). Confidò a lui l'ulteriore sviluppo dell'opera creativa. Dominando la prop
terra, l'uomo, con azioni storiche possenti, deve sviluppare anche il suo ca
essere e perfezionarsi. In un secondo tempo, Dio lo chiamerà a rendere c
ragione del suo agire, sia buono, sia cattivo (Apoc. 17, 31). 3
Per tutta la durata del mondo, Dio ha stabilito il suo piano che sarà quan
realizzato a dispetto di tutte le circostanze e contro ogni ostacolo 0 dif¬
ficoltà (1 Cor. 2, 7; Ef. 1, 11; 2, 7; 3, 11; Apoc. 2, 23; Eccli. 23, 20; attrave
Mt. 13, 35; 25, 34; Rom. 9, 11; 2 Piet. 3, 5-10). Nulla può accadere Co
senza che Dio lo abbia stabilito e voluto proprio in quella precisa ma¬ (Sai
niera. Tutto ciò che avviene nel mondo, che capita ad ogni creatura, che qual
l'uomo compie con libera decisione, è Dio che lo opera (Is. 24, 11; nemich
26, 12; 45, 11; Es. 24, 10; Deut. 3, 24; 11, 3-7; Gios. 24, 31; Sai. 66 caparbietà
[65], 3-5; Ger. 50, 25; 51, 10). Anche quando tace, egli continua ad rapa
essere il reggitore supremo delle sorti umane! Anche tacendo agisce. Il nel
silenzio di Dio è efficacemente in opera attraverso le furie dei Gentili e 5-34;
il contegno rivoluzionario dei re terreni. « Colui che abita nei cieli si l'asc
ride di loro e il Signore ne sghignazza » (Sai. 2, 4). de
d) Dio, agendo nella storia, utilizza quali strumenti i poteri della chiam
natura e dei popoli. Incanala le forze nemiche nel suo piano storico,
l'uom
sicché esse, proprio mediante la loro caparbietà antidivina, divengono le gli
esecutrici delle sue decisioni. L'insaziabile rapacità e le titaniche aspira¬ sap
zioni al dominio universale, si trasformano, nelle mani di Dio, in mezzi
per realizzare i suoi piani storici (Is. 10, 5-34; 44, 24-45, 13; Ger. 17, adempiu
5-22; 25, 8-14; Ez. 21, 13-32). L'Assiro è l'ascia, con cui egli disgrossa,
q
la sega con cui taglia; Nabucodònosor, il re del mondo, suo servo; Ciro,
il conquistatore dell'universo, segue la sua chiamata. La vittoria dei Per¬
siani è, in realtà, vittoria di Dio. Non è l'uomo che fa saltare le porte
delle città nemiche, ma bensì Dio il quale gli va dinanzi e le fracassa.
Tutti i trionfatori della storia sono, senza saperlo, suoi messi. Lottano
per raggiungere le proprie mete di dominio e realizzano invece il piano
di Dio. Quando gli esecutori hanno adempiuto il loro mandato sono
anch'essi sottoposti al giudizio. Non hanno quindi il tempo di godere
§ 41. TRASCENDENZA DI DIO 225
dei loro splendidi successi e di trionfare sui vinti, come se fossero i fa¬
voriti dalla Provvidenza divina.
Così la storia è parola di Dio. Mediante le sue opere parla all'uomo.
Nessun malanno può piombare sulla creatura senza che egli lo abbia per¬
messo (Apoc. 6, 11). Solo quando l'Agnello apre il sigillo del libro del
destino, allora le calamità possono precipitare sugli uomini. Ciascuna con¬
duce il mondo al fine stabilito. Con voce tonante Dio permette che i
suoi messaggeri chiamino i portatori di malanni con un quadruplice
« vieni » (Apoc. 6, 3 ss.).
e) Dio non è vincolato alle opere create, ma ne è padrone e giudice.
Sta loro di fronte con l'onnipotenza che gli è naturale. Fa tramontare il
sole sul meriggio e copre la terra di tenebre in pieno giorno (Am. 8, 9).
Fa fondere la montagna sotto i suoi piedi e la terra si muove spaurita
dal suo posto (Is. 13, .13). Imonti tremano, le colline vacillano (Ger.
4, 23). Dio conosce l'uomo, ne scruta il cuore e i sentimenti, ordina e
comanda.
f) Poiché Dio è del tutto diverso dal mondo e trascorre la sua vita
in una trascendenza sublime e di continuo dalla sua inaccessibilità agisce
nell'universo, adduce nel mondo, che vuol riposarsi in se stesso, perenne
inquietudine. Egli fa che l'uomo non trovi la pace in una vita puramente
mondana in cui vorrebbe racchiudersi come autosuffìciente. Lo snida con¬
tinuamente da un'esistenza puramente umana, chiusa in sé.
g) La trascendenza divina nell'Antico Testamento è spesso e chia¬
ramente manifestata da una espressione che anche Cristo nel Nuovo
Patto accoglie, ossia con l'indicazione che Dio è in cielo.
La parola cielo è usata nella Scrittura con diversi significati.
a) Indica, talora, la volta celeste che si stende sulla terra. In tal senso sta
a designare il luogo dove sono le stelle e le nubi. Il cielo, così inteso, forma con
la terra l'insieme della creazione (Gen. 1, 1), ed entra come elemento nella raf¬
figurazione del mondo che ci presenta la S. Scrittura. Tale raffigurazione non
costituisce però un tutto unitario. La Scrittura ne delinea solo singoli tratti, dai
quali emerge che essa coincide con la comune concezione del mondo che ave¬
vano gli antichi. Quando ci chiediamo come i popoli primitivi si raffigurassero il
creato, ci troviamo imbarazzati. Infatti, gli antichi non avevano una concezione del
mondo del tutto uniforme. Solo genericamente possiamo dire che essi credevano
che la terra stesse al centro del creato, che il cielo si stendesse sopra di essa e
che al di sotto si aprisse l'abisso. La terra, secondo tale concezione, era circon¬
data dall'acqua. Parecchie opinioni antiche ritenevano che giacesse tranquilla sul
mare e che il cielo si elevasse in una serie di strati. Nascono così le sfere ce¬
lesti. Tracce di tale concezione le troviamo in espressioni come « terzo cielo » e
« settimo cielo ».
15 - schmaus - dogmatica I.
salire al cielo. Qui si schiude una porta, per esempio,
c
226 P. I. - DIO UNO E TRINO 18
lim
p) Presa in un altro significato, la parola cielo designa l'abitazione di Dio, dimens
lo spazio riservato a lui (Sai. 2, 4; Tob. 20, 12; Mt. 5, 16; 6, 9. 14; Rom. 1, 18); l
il Santuario dell'Altissimo (Sai. n, 4; Mi. 1, 2; Ab. 2, 20; Apoc. 11, 19; 15, 5), contemp
il suo Trono (Sai. n, 4; 20, 7; Is. 66, 1; Ez. 1, 1; Mt. 5, 34; Atti 7, 49). Il cielo n'an
è inteso come abitazione, casa, città di Dio, quando si parla del Signore che si ci
rivolge all'uomo (Gen. n, 5; Sai. 18, 10; Dan. 7, 9. 13), o dell'uomo che vuol a
salire al cielo. Qui si schiude una porta, per esempio, attraverso la quale il veg¬ m
gente Giovanni può guardare in cielo (Apoc. 4, 1). Il cielo si apre quando risuona occulte
la voce di Dio (Mt. 3, 17; Giov. 12, 28; 2 Piet. 1, 18). b
y) Tuttavia Dio non è legato ad un luogo o limitato da uno spazio, quasi com
che la creazione del mondo ne abbia ristretto le dimensioni o lo abbia cacciato da spa
un luogo che prima gli apparteneva. Infatti, benché la Scrittura designi il cielo «
come lo spazio occupato da Dio, testimonia, contemporaneamente, la sua onni¬ m
presenza. Nel Salmo 138, 7-8 è detto : « Dove me n'andrò (lontano) dal tuo spi¬ cie
rito? E dove fuggirò dalla tua faccia? Se salirò nel cielo, là tu sei; se scenderò confron
negli inferi, (anche lì) tu sei presente. Se piglierò le ali sul mattino e mi poserò ele
all'estremità del mare, anche colà mi guiderà la tua mano e mi terrà stretto la a
tua destra. E (se) dico : " Forse le tenebre mi occulteranno ", pur la notte si fa vers
luce ne' miei bagordi. Perchè le tenebre non saran buie per te; e la notte ri¬ lum
splenderà come il giorno: così è l'oscurità per te come luce!». ch
Da ciò rileviamo che la Scrittura adopera il cielo spaziale come un simbolo per sp
esprìmere la maniera dell'esistenza di Dio. La parola « cielo » significa la trascen¬ quo
denza di Dio sul mondo. Non è senza un profondo motivo che la Scrittura de¬ contrasto
signa il modo di essere di Dio con l'immagine del cielo. Intende con ciò espri¬
mere la Maestà divina. Anche qui è utile il confronto con le espressioni che e
usiamo pure nel linguaggio quotidiano per indicare elevatezza e grandezza. Così, antic
ad esempio, quando parliamo di « su » in opposizione a « giù », alludiamo al por¬ pe
tamento eretto dell'uomo, al suo sguardo diretto verso il cielo. Nel linguaggio
mitico, il cielo, che sta sopra la terra, è simbolo del luminoso, della luce, di ciò che
è attivo, in opposizione alla terra, che gli sta sotto e che rappresenta l'oscurità, le
tenebre, ciò che è pesante o passivo. Nel campo spirituale parliamo delle più Str
alte verità, in opposizione ad esperienze e vicende quotidiane, dei più alti valori c
dello spirito, come quelli morali o estetici, in contrasto con quelli della vita este¬ real
riore. In questo senso la Scrittura afferma che Dio è in cielo, che sta al di al
sopra, che è sui monti, per significarci che egli è luce e chiarezza, creatore e per¬ m
petuamente attivo. Così quando usa le concezioni antiche del mondo, se ne serve divien
come di un abito o di una forma propria del tempo, per esprimere il mistero della immutabili,
trascendenza di Dio sul mondo.
8) La differenza qualitativa fra l'essere divino e l'essere creato ha per con¬
seguenza il fatto che Dio e creato non si escludono a vicenda, come se dove c'è
l'uno non vi potesse stare l'altro. Davide Federico Strauss è l'esponente dei na¬
turalisti e filosofi che credettero di aver eliminato, con la moderna concezione
del mondo, il posto di Dio. Per costoro esiste, in realtà, solo ciò che si può ve¬
dere e misurare. L'opinione che Dio non avesse più alcuna possibilità di esistere
raggiunge l'apice nella concezione meccanicista del mondo che si sviluppò nel
xix secolo e all'inizio del xx. L'intero universo diviene, così, un sistema com¬
patto di forza e materia, che segue leggi immutabili, specialmente quelle della
§ 41. TRASCENDENZA DI DIO 227
gravità e dell'inerzia. L'opinione secondo cui, 'ne! mondo completamente svelato
dalla scienza, non vi sarebbe più posto per Dio, ricevette un'espressione appa¬
rentemente scientifica. La materia che si sviluppa in modo fisso è l'unitutto. Que¬
sto errore fondamentale venne contrastato dalla stessa scienza con ulteriori cono¬
scenze e scoperte. Infatti, negli ultimi decenni, essa giunse alla conclusione che
il mondo non può essere puramente meccanico. La scienza può spiegare con le
leggi della meccanica i colori e i moti ondulatori, ma non può dimostrare la con¬
versione del movimento in colore e cioè come risulti da questi moti ondulatori
il blu o il rosso. Nei processi accessibili agli apparecchi e agli esperimenti si
realizzano fenomeni misteriosi irregistrabili da qualsasi strumento e pur tuttavia
reali. Fu specialmente la fisica atomica ad annientare la concezione meccanicista
del mondo. La scienza naturale, oltre e sotto la quantità, ha di nuovo scoperto
la qualità. Il che ha per conseguenza il fatto che molti naturalisti odierni sono
ritornati alla concezione usuale del medio evo e di molti pensatori dell'epoca
moderna, come per esempio Leibniz e Pascal, e ritengono che il mondo è costi¬
tuito da strati fra loro diversi non solo quantitativamente, ma anche qualitativa¬
mente. Simile dottrina è condivisa anche da Nicola Hartmann e da Jaspers. Così
l'odierna scienza e filosofia della natura ci aprono la via all'affermazione della
differenza qualitativa tra Dio e il mondo. Cfr. B. Bavink, La scienza naturale
sulla via della religione, Torino 1944; F. Selvaggi, Problemi della fisica moderna,
Brescia 1953.
II. - La rivelazione nell'Antico Patto era la preistoria di quella che
doveva avverarsi in Cristo. Con ciò perveniamo al secondo avvenimento
capitale che mostra, a chi crede, la trascendenza di Dio sul creato: l'in¬
carnazione del Figlio di Dio.
a) In generale si può dire che la figura di Cristo che gli scritti neo¬
testamentari ci presentano e testimoniano, non potè essere stata creata
dagli autori stessi, ma questi dovettero trovarla, tale e quale, al di fuori
di loro. Specialmente Paolo e Giovanni avrebbero creato tutt'altra fisio¬
nomia di Cristo, essenzialmente diversa da quella che invece balza dai
loro scritti. Giovanni ci avrebbe dato un Gesù fanatico, mosso solo dal-
l'« amore alla causa », ma non dalla dedizione per gli uomini; Paolo
avrebbe abbozzato un Salvatore rivestito di maestà divina. Del resto,
ne parleremo più diffusamente nella Cristologia.
Cristo, secondo il Vangelo di Giovanni, viene dall' « alto », mentre tutti
gli uomini nascono dal « basso » (Giov. 3, 3; 7, 31; 8, 33). Perciò riesce
strano e incomprensibile. Secondo Paolo, Cristo ascende al cielo, poiché
dal cielo era venuto (Ef. 4, 10). Come egli personalmente appartiene
all'alto, così anche la sua opera è missione ricevuta dal Padre. Il suo
messaggio è un messaggio celeste (Giov. 5, 19. 30. 43; 7, 16-18). Il
Cristo ha un compito da eseguire, essenzialmente diverso dai doveri
che si esplicano in terra con mezzi umani. Deve stabilire un regno che
avrebbero l'inventiva ne
228 P. I. - DIO UNO E TRINO
simbolo
imp
non entra affatto in concorrenza con quelli terreni, poiché è ben diverso st
da essi, anzi li permea tutti e raccoglie i suoi sudditi da ogni popolo e Pu
nazione: il regno di Dio. saz
Cristo viene dall'alto, perciò non può essere misurato con norme ter¬ an
rene. Non è personaggio inventato dagli Apostoli, i quali, del resto, non (
avrebbero potuto avere nemmeno l'inventiva necessaria per crearlo. In¬ e
fatti, egli trascende ogni concetto e ogni simbolo rebgioso sonnecchiante
nell'uomo. La sua provenienza dal cielo gli impedisce di intrecciarsi in¬ trascend
dissolubilmente con le vicende terrene della storia umana e di legarsi suo
inevitabilmente alle leggi usuali della natura. Può creare figli di Abramo alle
dalle pietre (Le. 3, 6); con pochi pani può saziare migliaia di persone, risu
ha facoltà di dominare l'acqua e la procella, anzi la stessa morte. Nes¬
suno può impedire la sua opera, né distruggerla (Atti 5, 39; 2 Tim. 2, 9). le
La sua parola significa vita e morte, potenza e impotenza, ricchezza e G
povertà (Le. 12, 20; Rom. 13, 1 s.; 2 Cor. 9, 8; 1 Tim. 6, 17; Giac. 1, 17).
La trascendenza di Dio sul mondo, trascendenza che penetra nella
storia umana mediante Gesù Cristo, tocca il suo apice nella risurrezione ter
di Cristo medesimo. Qui, egli, in opposizione alle divinità mitiche, spezza tras
il ciclo eterno della natura. Mediante la sua risurrezione dai morti, apre Di
una via che ci permette di uscire dalla natura e ci conduce a una vita ferma
non più sottomessa alla legge terrena che è la legge della caducità. Rom
Cristo, come sta scritto nell'Apocalisse di Giovanni, tornerà nuova¬ c
mente dalla sua regione celeste nel mondo, per giudicarlo e trasformarlo
(Apoc. 19, 11 ss.). Lo libererà dalla sua forma passata di esistenza per p
creargli un aspetto di « cielo nuovo » e di « terra nuova », un modo di
esistere indefettibile che il suo stesso corpo trasfigurato prefigura. spera
b) L'uomo risponde alia trascendenza di Dio sulle forze terrene, sui in
poteri, idestini e gli eventi umani con la ferma fiducia in lui: Paolo la d
esprime in modo trionfale nella sua lettera ai Romani (8, 31 s.). Chi crede
in Dio, che Cristo ci ha reso accessibile, ha la certezza di non rimanere ritrov
rinchiuso per sempre nel campo terrestre, ma è sicuro di poter raggiun¬ e
gere la vita imperitura, la quale non sarà mai preda del dolore e della
morte.
La Scrittura testimonia infinite volte la speranza in Dio, dominatore
del mondo. La esprime in molte preghiere o in inviti all'orazione. Essa
dimostra che il credente del Nuovo Patto sa di non essere in balia al
fato cieco.
B) Il medesimo linguaggio biblico si ritrova nei Padri. Anch'essi
utilizzano espressioni cosmologiche quali figure e paragoni della trascen-
§ 41. TRASCENDENZA DI DIO 229
denza divina. Perciò possono anche usare e accostare descrizioni del
mondo che si escludono a vicenda. Tali opposizioni, del resto, non co¬
stituiscono una prova che loro mancasse la concezione unitaria del mondo,
ma testimoniano solo che essi traevano, or qua, or là, i loro dati dalle
idee correnti. L'intento patristico, infatti, non era quello di descrivere la
raffigurazione del mondo; essi intendevano solo trarre, da quelle che esi¬
stevano ai loro tempi, alcuni elementi che a loro sembravano opportuni
per presentare, a mo' di figura, la trascendenza divina. In questo senso
Ireneo dice che Cristo salì in un luogo superceleste (Adversus haereses,
31, 2). Lo stesso dobbiamo pensare dell'abitazione sovraceleste di Dio
che afferma Giustino (Dial, cum Tryph., cap. 56, n. 1). Claudiano Ma-
merto parla espressamente di Dio che trascende cielo e terra. Afferma
che la sua elevatezza al di sopra del cielo non designa alcuna posizione
locale, ma bensì solo la qualità di Dio (De statu animae, 2, cap. 12).
Leone Magno, parlando dell'ascensione di Cristo, dice che il Signore
ascendendo al cielo ha conferito alla natura umana una dignità superiore
alla stessa essenza del cielo.
IPadri esprimono la trascendenza di Dio al di sopra del creato con termini
come: superiore al mondo, al di là del mondo, sopra il cielo, al di là del cielo.
Agostino così sintetizza il pensiero dell'epoca patristica nel suo commento al
Vangelo di Giovanni : « Che disse il Signore a coloro che pensavano in modo
così terreno? Egli così parlò loro : " voi siete dal basso ". Voi, avete gusti ter¬
reni poiché, come le serpi, mangiate la terra. Che significa: voi mangiate la terra?
Voi vi nutrite di cose terrestri, gioite di ciò che è terrestre, non indirizzate il
cuore verso l'alto. " Voi siete dal basso, io sono dall'alto. Voi siete di questo
mondo, io non sono di questo mondo ". Come potrebbe essere del mondo colui
per mezzo del quale fu creato il mondo? Sono dal mondo tutti coloro che fu¬
rono creati dopo il mondo, poiché prima fu il mondo e poi venne l'uomo; ma
Cristo era prima, e dopo fu il mondo. Infatti, prima del mondo era Cristo, prima
di Cristo nulla esisteva: "al principio infatti era il Verbo e mediante esso tutto
fu fatto ". Così egli era dall'alto. Ma da quale alto? Dall'aria? Lungi da noi tale
pensiero: nell'aria volano pure gli uccelli! Forse dal cielo visibile? Niente af¬
fatto: quivi girano le stelle, il sole e la luna. Dagli angeli? Neanche questo do¬
vete pensare. Per lui anche gli angeli furono fatti, poiché per lui tutto fu fatto.
Da quale alto è dunque Cristo? Dal Padre stesso! Nulla è più eccelso di quel
Dio che ha generato il Verbo, parimenti eterno, unigenito, atemporale, per creare,
mediante lui, il tempo. Per comprendere come Cristo è dall'alto devi salire
con il tuo pensiero oltre ogni essere creato, ogni cosa che sempre si muta. Sali
al di sopra di tutto ciò, come vi salì Giovanni, per pervenire a lui: In principio
era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e Dio era il Verbo » (Tract. 38, 4).
C) Nella liturgia spesso si esprime la trascendenza di Dio quando
si prega il Signore e Dio nostro. Nel Gloria la Chiesa canta: « Tu solo
qualità lui proprie le quali si rivela la tr
C
230 P. I. - DIO UNO E TRINO
Aus
Fakiiltà
il Signore, tu solo l'Altissimo ». In modo particolare la liturgia fa ri¬
saltare la diversità fra il vero Dio e tutte le divinità mitiche mediante
numerose aggiunte al vocabolo « Dio », come, per esempio, vero, vivo, trascende
onnipotente. Questi attributi, non solo rivelano qualche caratteristica di¬ pres
vina, ma bensì distinguono Dio in contrasto con gli dèi pagani. Sono dispensa
qualità a lui proprie con le quali si rivela la trascendenza di Dio sopra v
il mito e, di conseguenza, sopra il mondo. Cfr. Fr. Leist, Das Bild u
Gottes nach del Zeugniss der Liturgie in Aus der Theologie der Zeit, esse
pubblicato in Auftrage der theologischen Fakiiltàt Munchen von G. Sòhn-
gen, 1948, 190-216.
4. - Dio è diverso dal mondo, lo trascende in modo assoluto, e tut¬ f
u
tavia, al tempo stesso, gli è intimamente presente come creatore, con¬
pensie
servatore, realizzatore delle sue opere, dispensatore di grazie. La trascen¬ i
denza di Dio, che la rivelazione attesta, non va confusa con la sua lon¬ m
tananza. Dio trascende il mondo in quanto è una realtà qualitativamente viene
ben diversa dall'essenza del creato, pur essendogli nello stesso tempoformula
immanente.
fenomen
La trascendenza nell'immanenza e l'immanenza nella trascendenza possono E
essere illustrate con un esempio tratto dal campo fisico. Dio esiste, nonostante s
le sue qualità ben diverse dal creato, così come una melodia è nel e con ilfenome
movimento delle onde, come il contenuto del pensiero è presente nelle sillabe e
nelle parole. Possiamo sviluppare il primo esempio in questo modo: quando noi con
invitiamo un fisico, completamente privo di gusto musicale, ad esaminare con iimmane
metodi della sua scienza una melodia che gli viene suonata al pianoforte, egli
esprime i risultati della sua ricerca in una formula che prende a prestito dalla D
legge acustica. Dato che egli è, per ipotesi, privo di gusto musicale, crede di C
aver così esaurientemente descritto tutto il fenomeno. Ma si inganna. Ha trala¬
sciato ciò che è più importante: la melodia stessa. Egli doveva trascurarla, poiché
essa non può essere verificata e spiegata con gli strumenti a sua disposizione. panteismo
Eppure la sua realtà è assai più intensa dei fenomeni constatati dal fisico. È di¬
versa da questi fenomeni, diversa dal movimento, dalla lunghezza, dalla eleva¬ abbassam
tezza o profondità delle onde. Essa vive entro e con i fenomeni fisici. Così Dio co
è diverso dal mondo pur essendo in questo immanente al sommo grado. Il pa¬
ragone ha certamente i suoi limiti. Infatti, mentre la melodia dipende dai mo¬
vimenti fisici, e senza di essi non può sussistere, Dio è del tutto indipendente
dal mondo a cui è, tuttavia, intimamente vicino. Cfr. il trattato sulla onnipre¬
senza di Dio e sulla grazia.
5. - Al ragionamento teologico il panteismo appare del tutto insoste¬
nibile per i seguenti motivi:
I. - Anzitutto il panteismo è un abbassamento di Dio in quanto gli
nega personalità e perfezione. Secondo tale concezione Dio è coinvolto
§ 41. TRASCENDENZA DI DIO 231
e impigliato nel divenire e nello sparire delle cose, nel crescere, nel
fiorire e nel maturare, nella morte e nella rinascita della natura. Non
solo opera nello sbocciare dei fiori, nello scroscio dell'acqua, nell'infu-
riare della procella, nella maturazione dei frutti, nel rombo delle mac¬
chine, nella brama per la verità, nell'intimità dell'amore, nel progresso e
nel regresso dei popoli, nella fioritura e nella rovina della civiltà, ma è
tutto ciò. Egli diviene e si perde nelle cose. La pietra che sta sulla via
non è soltanto un richiamo a Dio operante e presente, ma è un'appari¬
zione di Dio stesso. Il battito del cuore non è solo opera sua, ma movi¬
mento della sua vita stessa.
Ciò è particolarmente visibile nella forma più influente di panteismo che è quella
di Hegel. Per lui la storia è solo l'evolversi logico-dialettico di Dio; vita divina
e storia si identificano. Ogni evento è pura fase nel processo della realizzazione
dello spirito nel tempo, del farsi di Dio. Il singolo perde significato e valore
proprio. È semplicemente un momento effimero nello sviluppo temporale del¬
l'Idea.
In questa concezione Dio è legato a tutte le imperfezioni dell'essere sperimen¬
tabile. Il bene e il male, il vero e il falso sono manifestazioni della vita divina, dato
che questa non è altro che il processo evolutivo dell'idea. Schell dice a ragione:
« Uno spirito universale, che non abbia alcuna interiorità e personalità, che tanto
scarso interesse presenta per la verità e il bene, che da millenni, sotto l'aspetto
morale è tutto, nel senso più pieno del vocabolo, che da secoli, in ugual modo,
abita chiese e case di piacere, castelli feudali e capanne di schiavi, sale da convito
e ospedali, congressi di pace e campi di battaglia, per trovare di continuo, in
ognuno di questi luoghi, la sua soddisfazione e gioia, un tale spirito sarebbe
certamente infinita instabilità, ma niente affatto uno spirito » (Gott und Geist,
I> 334)-
L'Iddio dei panteisti non è il Dio vivente, diverso da noi, che ci ama e ci
sostiene. È semplice vocabolo che si può applicare a tutte le cose, concetto atto
ad esprimere tutto, poesia per dare una consacrazione religiosa al mondo, per
trasfigurare la morte. È una spiegazione immaginata per la comodità del mondo e
della nostra vita, oscuro velario teso sull'universo per occultarne le brutture.
Questo Dio è frastuono e fumo, bronzo che risuona, campanello che squilla,
ma non io vivente, bensì qualcosa di morto. È una divinità dalle orbite vuote e
dalle orecchie sorde. Del Dio vero porta solo l'abito, che è considerato la più
preziosa reliquia.
II. - Il panteismo, poi, distruggendo la figura del Dio vivo, annienta
pure la personalità umana. Solo in apparenza le lascia un'ombra di di¬
gnità, in quanto, anziché ritenerla creatura e figlia di Dio, la eleva allo
stesso piano di Dio. Proprio in questa esaltazione l'uomo si distrugge.
Infatti dimentica la realtà e la dignità propria dell'esistenza umana, e
l'essenziale tendenza dell'io isolato a riunirsi in società. Con Dio muore
più misura sicura il il falso, il b
c
232 P. I. - DIO UNO E TRINO
ogni dignità personale dell'uomo; infatti, non vi è, per il suo unico echiarame
insostituibile valore, una fortezza che sia inespugnabile. Egli diviene obiezi
un'onda, pari alle altre, nel mare dell'essere, che ora si innalza, ora spro¬ Ki
d
fonda, come lo vuole l'imperscrutabile destino. Nel mondo panteistico, Tu
privo cioè del Dio vivo e vero, l'uomo perde l'orientamento. Non esiste quiet
più misura sicura per il vero e il falso, per il bene e il male; non vi è nel
più alcun giudice della coscienza. In tal modo crolla l'ultimo fondamento de
del dovere e della moralità. in
prep
Proprio dall'essere personale dell'uomo, chiaramente visto e profondamente ineliminabi
vissuto, furon mosse, fin dal tempo di Hegel, obiezioni sempre più forti controricevetter
il suo panteismo. Sopra tutti va ricordato Severino Kierkegaard (f 1855) che con¬ Kierkegaa
dusse una forte polemica antihegeliana in nome del realismo cristiano. Cfr. d
C. Fabro, Tra Kierkegaard e Marx, Firenze 1954. Tuttavia, questi richiami non un'oppo
riuscirono a scuotere il mondo dalla sua stolta quiete; il mondo, che, in piace¬ libert
vole comodità, viveva nella cultura panteistica e nella sicurezza ottimista, certa d
di sè e sufficiente a se stessa. Ma al divampare della prima guerra mondiale,
quando la società dovette esperimentare e assistere innumerevoli volte alla morte sem
personale del singolo e l'uomo fu costretto a prepararsi individualmente alla individu
morte, quando la sua singolarità si rivelò ineliminabile, allora le obiezioni che il stess
secolo xix aveva mosso contro il panteismo, ricevettero nuova vitalità. Non è per del
puro caso che dopo le due ultime guerre, Kierkegaard ebbe tanti seguaci! Nella
teologia protestante la tendenza dialettica ha così decisamente negato l'identitàtotalment
tra Dio e l'uomo al punto da far sospettare un'opposizione radicale fra l'uno e
l'altro. La filosofia esistenzialista « rivendica la libertà e la dignità del singolo e co
mostra l'inconsistenza del finito e l'impossibilità di trasformarlo nell'infinito » ren
(C. Fabro). l'elim
Il panteismo, mentre riduce il singolo a una semplice manifestazione dell'es¬ inte
sere divino, senza alcun significato e valore individuale, distrugge anche le re¬ co
lazioni sociali dell'uomo, e con ciò la società stessa. Tuttavia, a prima vista, a
sembra che esso soddisfi pienamente la tendenza del singolo alla socialità e che una
dia maggior saldezza alla stessa società, poiché per esso la comunità è tutto, il possono
singolo nulla e poiché inserisce l'individuo totalmente nella comunità medesima nell
legandolo strettamente ad essa. In realtà, invece, il panteismo non realizza af¬
fatto la tendenza sociale del singolo, e nemmeno consolida la società. In primo
luogo perchè, distruggendo completamente l'io, rende impossibile il rapporto
tra l'io e il tu; in secondo luogo perchè, con l'eliminazione dell'io, seppellisce
definitivamente la responsabilità e la capacità di integrarsi nella collettività. La
comunità esige membri a sè stanti, che, in modo conforme alla loro essenza, si
incanalino liberamente al servizio del tutto da essi abbracciato. Nella concezione
panteistica del mondo, la comunità si riduce a una massa dove non vi sono
persone, ma solo pezzi che, a piacimento, si possono scambiare e sostituire.
La trascendente personalità di Dio si esplica nella forma della Trinità della
quale dobbiamo ora trattare.
§ 42- SIGNIFICATO E IMPORTANZA DELLA FEDE NELLA TRINITÀ 233
§ 42. Significato e importanza della fede nella Trinità.
-
1. Il Dio vero e vivo esiste, dunque, in unità e identità intangibile,
ma nello stesso tempo si possiede in tre modi distinti e relativi. In altre
parole, l'unico Dio esiste nella unicità della sua essenza come Padre,
Figlio e Spirito Santo e, quindi, nell'unità di rapporto di tre Persone
distinte.
La Trinità non è affatto accidentale e secondaria nei confronti del¬
l'unità di Dio, Anzi, Dio, proprio in quanto esiste sempre il medesimo
nell'immutabilità eterna, è pure tre volte, differentemente, se stesso.
Parlando propriamente, non possiamo quindi dire: in Dio vi è il Padre,
il Figlio, lo Spirito Santo, ma bensì: Dio è Padre, Figlio e Spirito, op¬
pure: Dio è Trinità. Questo è il modo d'esprimersi che usano, per esem¬
pio, S. Agostino e il Concilio di Toledo (anno 675; Denz. 278).
2. - La Trinità si fonda nella perfezione di Dio; è espressione e segno
della traboccante pienezza della vita divina, della sua infinita intensità e
ricchezza. Mentre la natura, lo spirito e il corpo dell'uomo, la sua po¬
tenza conoscitiva, la sua forza volitiva e la sua sostanza permettono all'io
umano una vita stentata e faticosa, la natura, la sostanza divina è dotata
di vitalità talmente trabocchevole e di capacità conoscitiva e volitiva così
ricche da non potersi affatto accontentare ed esaurire nella vita, nella
conoscenza e nell'amore di un unico io. Si rendono qui necessari tre io,
tre modi di esistenza. Mentre il nostro occhio spirituale e corporale ha
forza visiva solo per un unico io, lo spirito di Dio ne ha per tre. La sua
forza visiva non si esaurirebbe se dovesse servire a un solo io. Lo stesso
dicasi per la sua forza di volontà e d'amore.
La Trinità sgorga, quindi, dalla più profonda radice dell'essere divino.
È talmente necessaria che Dio non sarebbe Dio, se non fosse triperso-
nale, e che — pensiero assurdo, concepibile soltanto perchè a noi rimane
nascosta la realtà divina — anche la stessa unica essenza di Dio cadrebbe
nel nulla qualora la Trinità cessasse di esistere. Siffatta necessità, fon¬
data su tale pienezza divina, non è affatto cieca costrizione, bensì lumi¬
nosa e chiara libertà, poiché Dio si esplica solo nella forma di vita che
gli è conveniente, vale a dire nella Triade personale. Il suo essere, la
sua vita, la sua capacità di conoscere e di amare vengono totalmente ad
esaurirsi nel triplice io, per cui non vi è in Dio alcun dominio aperso¬
nale. In lui tutta la natura, l'essere, la vita, il conoscere, il volere sono
elevati al vertice dell'esistenza personale.
come centro della fede cristiana, non elide ta
triper
234 P. I. - DIO UNO E TRINO
vi
3. - La rivelazione della Trinità di Dio avvenuta in Cristo, eleva in
modo chiaro e inequivocabile il cristianesimo al di sopra di tutte le Verbo
altre religioni, e, entro l'ambito dello stesso cristianesimo, è di impor¬
tanza fondamentale. Tutte le altre realtà rivelate infatti stanno nella s
luce della Trinità o ne portano il sigillo. La stessa posizione di Cristo i
come centro della fede cristiana, non elide tale importanza fondamen¬ nello
tale, dato che entro la ricca realtà del Dio tripersonale Gesù è il sacrario ins
più intimo. Nel Figlio fattosi uomo scorre la vita divina che, per mezzo Spir
suo, ci diviene presente e accessibile. In lui ha luogo la rivelazione della vedere
Trinità divina: l'apparizione storica del Verbo divino, incarnatosi, e comprens
la
parola rivelata che egli rivolge all'umanità, ci fanno conoscere la Tri¬ cond
nità di Dio e ci chiamano ad entrare nella sua intima vita, poiché conduce,il
Figlio di Dio, fattosi uomo, procede da essa e in essa esiste. Egli è stato Se
inviato affinchè ce ne rendesse partecipi e, nello Spirito Santo, ci condu¬ a
cesse al Padre. Così, la fede nella Trinità è inscindibilmente collegata a pr
Cristo. Parimenti la S. Scrittura, in cui lo Spirito Santo depose la testi¬ Verb
monianza su Cristo, ci lascia dovunque vedere che la Trinità di Dio è
stata rivelata perchè avessimo l'esatta comprensione di Gesù e della sua
opera. Una cosa richiama l'altra. Cristo ci conduce al Padre e ce lo ma¬
nifesta. Egli stesso è la via che a lui conduce, ma nella luce del Padre v
diviene pure palese ciò che è Cristo stesso. Se da una parte Cristo è la dal
via che porta al Padre, dall'altra, nessuno può andare a Cristo se il Padre rius
non l'attira (Giov. 6, 44; 14, 6). L'esistenza preumana di Cristo diviene o
comprensibile solo quando si riconosce il Verbo Incarnato nella sua (soprannatural
re¬
lazione intradivina. può
mis
Cristolog
4. - Alla luce della Triade personale divina e solo in essa appare chiara
l'essenza dell'esistenza cristiana. Il senso e il valore della nostra unione
con Cristo, che viene effettuata dalla fede e dal battesimo e si perfeziona
in cielo, rilucono solo quando, con la fede, riusciamo a capire che signi¬ sig
fichi il Verbo Incarnato entro la vita divina, ossia quando crediamo nel lo
Dio Trino. La nostra vita divina (soprannaturale) che poggia sulla nostra
incorporazione a Cristo (Ef. 1, 6), non si può chiarire nella sua gran¬
dezza e profondità, se non si intende quale misteriosa penetrazione nella
pienezza di vita della Trinità (cfr. la Cristologia e il trattato sulla Gra¬
zia. L'intimo mistero dell'esistenza cristiana è quello della nostra parte¬
cipazione allo scambio vitale delle tre Persone divine (Ef. 2, 18).
La rivelazione di questa vita tripersonale significa pure lo svelamento
della ricchezza di Dio; permette di gettare lo sguardo nell'intimità di-
§ 42- SIGNIFICATO E IMPORTANZA DELLA FEDE NELLA TRINITÀ 235
vina ed è perciò prova di particolare amore, di speciale fiducia di Dio
verso l'uomo. È completamente errato il pensare che la rivelazione della
Trinità divina costituisca soltanto un'occasione per mettere alla prova la
nostra fede. Dato che la Trinità è la realtà distintiva e caratteristica della
fede cristiana, si avrebbe indebolimento e svisamento di tale fede stessa,
qualora essa fosse separata dalla vita della fede o dalla predicazione della
salvezza, oppure fosse relegata in un posto secondario. In questo caso,
la rivelazione della Trinità sarebbe ridotta a un inerte tesoro di verità,
di cui si prende bensì conoscenza, ma si conserva come un antico e pre¬
gevole oggetto familiare ormai in disuso e inservibile, privo di qualsiasi
valore per la vita. Il richiamo alla difficoltà del mistero non può giusti¬
ficare un simile atteggiamento poiché esso dimentica che Dio stesso ha
acceso una luce nel cuore del battezzato, mediante la quale egli può
gettare uno sguardo nel mistero divino, riconoscerlo e accoglierlo (Ef.
2, 18).
Quanto l'esistenza cristiana sia plasmata dalla vita tripersonale di Dio
e come solo nella fede in essa possa esser vissuta e compresa, ce lo mo¬
strano la Liturgia della Chiesa e il modo con cui, secondo la Scrittura
e i Padri, la Trinità viene rivelata. Infatti ogni preghiera e sacrificio
della Chiesa sono rivolti al Padre per Cristo nello Spirito Santo; e se¬
condo la Scrittura e la dottrina patristica, Dio ci rivela la sua vita tri-
personale non solo teoricamente, come pura conoscenza da conservare
fedelmente nella memoria, ma concretamente, storicamente, ossia agendo
nell'uomo e con l'uomo. Il Padre manda il Figlio nel mondo affinchè lo
liberi dal peccato e dalla morte; il Figlio torna al Padre e con lui invia
lo Spirito Santo, affinchè introduca gli uomini nella vita di Dio. Le per¬
sone divine non sono, quindi, tanto presentate nel loro essere, quanto
piuttosto nel loro agire salvifico. La Scrittura narra il modo con cui
la Trinità esce dalla sua inaccessibilità per giungere a noi e attrarci nella
sua propria orbita. Non solo si accontenta di narrare, ma nelle sue pa¬
role risuona l'appello potente che la Trinità divina stessa ci rivolge. Me¬
diante tali parole, Cristo ci afferra per condurci al Padre nello Spirito
Santo.
Da ciò appare l'importanza che la fede nella Trinità assume. Chiunque
deliberatamente rifiuta di accogliere la Triade divina, non solo commette
un errore dottrinale, ma distrugge la sua stessa esistenza cristiana.
5. - La Chiesa, respingendo con le decisioni del suo magistero gli er¬
rori trinitari, specialmente quello ariano, non solo ci diede precisazioni
Santo.
da
236 P. I. - DIO UNO E TRINO
posso
intaccava
teoriche, ma ratificò la sua fede nel Dio manifestatosi in Cristo e nella
sua propria intima essenza. Lottò per la sua stessa esistenza che poggia
l'energi
su Cristo, contro gli attacchi distruttori dell'uomo che voleva ergersi a
g
signore. Il mistero più profondo dell'esistenza cristiana è la nascita da compr
Dio che avviene per mezzo della comunione con Cristo nello Spirito del
Santo. d
Ora, solo se Cristo stesso risulta generato dal Padre, come Figlio con¬
mez
sustanziale, coloro che si uniscono a lui possono nascere veramente da
no
Dio e divenire figli di Dio. L'eresia intaccava il nucleo vitale dell'esi¬
s
stenza cristiana; da ciò comprendiamo l'energia e la passione con cui i
all'elleni
credenti del 111 e iv secolo si elevarono contro gli errori antitrinitari. Gre¬
ste
gorio di Nissa narra che non si poteva comprare neppure un pezzo di
contro
pane, nè prendere un bagno, nè cambiare del denaro senza entrare in
discussione sull'essere generato 0 ingenerato del Figlio (Oratio de dei-
tate Filii et Spiritus Sancti; PG. 46, 557 B).
Quando la Chiesa, nel 325, respinse, per mezzo dei Padri del Concilio trin
di Nicea, l'arianesimo, secondo cui il Figlio non sarebbe veramente Dio,
ma solo una creatura del Padre, e formulò la sua condanna nel linguag¬
com
gio del tempo, non cedette per questo all'ellenismo, come pensano molti sua
storici razionalisti del dogma, ma difese se stessa contro il tentativo di c
ellenizzazione soggiacente all'arianesimo, contro lo svuotamento e la se¬
colarizzazione dell'esistenza cristiana. cu
forme
§ 43. Professione ecclesiastica della fede trinitaria. d
q
P
L'importanza della fede nella Trinità ci spiega come mai la Chiesa, popolo di
terzo
Dio, abbia spesso e risolutamente professato la sua credenza nella Triade Per¬
Onnipo
sonale. Riferiamo letteralmente le principali forme con cui essa ha espresso, nel
Sant
corso dei secoli, tale sua fede.
l
1. - La più antica è il simbolo apostolico, la cui forma attuale, risalente al
v secolo, poco differisce dalle sue più antiche forme, fondate nella predicazione
apostolica e sulla formula battesimale (Denz. 6).
« Io credo in Dio Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra; e in
Gesù Cristo, suo unico Figliuolo, nostro Signore, il quale fu concepito di Spirito
Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifìsso, morto e
seppellito; discese all'inferno (= oltretomba), il terzo giorno risuscitò da morte,
salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre Onnipotente, di là ha da venire a
giudicare i vivi ed i morti. Credo nello Spirito Santo, la Santa Chiesa Cattolica,
la comunione dei Santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e
la vita eterna ».
§ 43- PROFESSIONE ecclesiastica della fede trinitaria 237
La forma primitiva di detto simbolo suonava cosi : « Credo nel Padre Onni¬
potente e in Gesù Cristo, nostro Salvatore e nello Spirito Santo il Consolatore,
nella Santa Chiesa e nella remissione dei peccati » (Denz. 1). Questa professione
che proviene dalla formula battesimale mostra che nella Chiesa antica tutto il
contenuto della fede consisteva nella Trinità divina. Le tre Persone non erano
considerate in se stesse, bensì nel loro rapporto con il mondo. Se appare un
quarto articolo (la Chiesa e la remissione dei peccati) esso non va collocato nel
medesimo piano dei primi tre. Infatti, tanto la Chiesa quanto la remissione dei
peccati, appartengono piuttosto allo Spirito Santo, il quale, infatti, palesa la sua
attività nella vita della Chiesa. Tommaso d'Aquino allude a questo rapporto
scrivendo : « Quando si dice nella santa Chiesa cattolica, ciò va inteso nel senso
che la nostra fede si riferisce allo Spirito Santo, che santifica la Chiesa. Si vuol
dire : Credo nello Spirito Santo santificante la sua Chiesa » (S. Th., II-II, q. 1,
a. 9, ad 5). Cfr. B. Altaner, Patrologia, Torino 1952, pp. 27-29 con la biblio¬
grafia quivi riferita; A. Michel, Diet. Théol. Cath., XIV, 2925-39.
2. - La prima formale decisione del magistero ecclesiastico data dalla metà
del in secolo. Quando il vescovo Dionigi d'Alessandria, con una tattica non
troppo felice, combatteva gli errori di Sabellio, Papa Dionigi gli indirizzò una
lettera per mostrargli la vera dottrina. In essa si diceva:
« In seguito mi devo rivolgere a coloro che dividono, che separano, che sop¬
primono il dogma più venerabile della Chiesa di Dio, la monarchia in tre po¬
tenze 0 ipostasi separate ed in tre divinità. Poiché ho appreso che fra quelli che
presso di voi sono catechisti e maestri della dottrina divina ve n'è alcuni che
introducono questa opinione, e che sono, per così dire, diametralmente opposti
al pensiero di Sabellio. La bestemmia propria di lui è di dire che il Figlio è il
Padre e reciprocamente; ma essi predicano in qualche modo tre dèi, dividendo
la santa unità in tre ipostasi estranee tra di loro, del tutto separate. Poiché è
necessario che il Verbo divino sia unito al Dio dell'universo; e bisogna che lo
Spirito Santo abbia in Dio il suo soggiorno e la sua abitazione. Ed è necessario
assolutamente che la santa Trinità sia ricapitolata e ricondotta ad un solo come
al suo vertice, voglio dire il Dio onnipotente dell'universo; giacché scindere e
dividere la monarchia in tre principi è l'insegnamento dell'insensato Marcione,
è una dottrina diabolica e non di coloro che sono veramente discepoli di Cristo
e si compiacciono degli insegnamenti del Salvatore. Poiché essi conoscono bene
la Trinità predicata dalla Scrittura divina, ma (sanno che) né l'Antico né il
Nuovo Testamento non predicano tre dèi...
Non si deve dunque dividere in tre divinità l'ammirabile e divina unità, né
abbassare coll'(idea di) produzione la dignità e la sovrana grandezza del Signore,
ma credere in Dio Padre onnipotente ed in Cristo Gesù suo Figlio e nello
Spirito Santo e (credere) che il Verbo è unito al Dio dell'universo. Poiché egli
dice : " Il Padre ed io siamo una cosa sola "; e : "Io sono nel Padre e il Padre
è in me ". Così si afferma la trinità divina nello stesso tempo che la santa pre¬
dicazione della monarchia » (Denz. 48-51).
3. - Il Concilio di Nicea (a. 325) condannò l'eresia di Ario, secondo cui il
Figlio sarebbe una creatura del Padre, ed espresse così la vera dottrina della
Chiesa : « Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose,
morti. (Crediamo pure) nello Spirito Santo. Coloro,
e
238 P. I. - DIO UNO E TRINO o
mu
visibili ed invisibili; e in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, generato
unigenito dal Padre, ossia dall'essenza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, vero
Dio dal vero Dio; generato, non fatto, consostanziale al Padre, per mezzo del all'anno
quale è stato fatto tutto ciò che è in cielo e in terra; il quale per noi uomini crediam
e per la nostra salvezza è disceso (dal cielo), s'è incarnato e fatto uomo, ha pa¬ inv
tito, è risuscitato il terzo giorno, è salito al cielo e. verrà a giudicare i vivi e i Dio
morti. (Crediamo pure) nello Spirito Santo. Coloro, poi, che asseriscono che vi da
fu un tempo in cui il Figlio di Dio non esisteva; e che prima di essere gene¬ fu
rato non era; e che perciò sia stato fatto dal nulla o da un'altra ipostasi o so¬ n
stanza; o che il Figlio di Dio è creato, variabile, mutevole, costoro siano esclusi genera
dalla Chiesa apostolica e cattolica » (Denz. 54).
qua
4. - Il simbolo di Epifanio, sorto intorno all'anno 374, è un ampliamento e s
una spiegazione del simbolo di Nicea : « Noi crediamo in un unico Dio, Padre s
onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili, e nell'unico Signore pro
Gesù Cristo, Figlio di Dio, generato unigenito da Dio Padre, ossia dalla sostanza Infatti
del Padre, Dio da Dio, luce da luce, vero Dio dal Dio vero; generato, non s
creato, consostanziale al Padre; mediante il quale furon fatte tutte le cose, sia umana
in cielo sia in terra, visibili e invisibili; il quale per noi uomini e per la salvezza Gesù
nostra discese (dal cielo) e si incarnò, cioè, generato per opera dello Spirito salito
Santo dalla Santa e sempre Vergine Maria, si fece uomo, ossia prese la com¬ glo
pleta natura umana, anima, carne, spirito e tutto quanto appartiene all'uomo ad m
eccezione del peccato, e questo senza l'ausilio di seme maschile. Egli non è h
solo sceso ad abitare in un uomo, ma assunse in se stesso la carne creata in una ag
santa unità; non nel modo con cui ha ispirato i profeti e in loro ha parlato e S
agito, ma bensì facendosi vero uomo completo. Infatti " il Verbo si è fatto carne " proced
senza che egli abbia subito un mutamento, o che la sua natura divina si sia mu¬
tata in umana; bensì unendo questa (natura umana) alla sua santa e perfetta
divinità. Unico infatti e non due è il Signore Gesù Cristo; egli è Dio, egli è dive
Signore, egli è Re; egli ha patito, è risorto, è salito al cielo con la sua carne. Sp
Nella gloria siede alla destra del Padre, e verrà in gloria nella sua stessa carne a cattolica
giudicare i vivi e i morti; e il suo regno non avrà mai fine. Noi crediamo pure ricon
nello Spirito Santo, che ha parlato nella legge, che ha predicato nei profeti, che opp
è sceso sulle rive del Giordano, che ha parlato agli Apostoli e che abita nei inte
giusti. Noi crediamo in lui nel senso che egli è lo Spirito Santo, lo Spirito di pe
Dio, lo Spirito perfetto, consolatore, increato, procedente dal Padre e ricevente ques
dal Figlio; in lui noi crediamo... Coloro, invece, che sostengono esserci stato un seg
tempo in cui il Figlio o lo Spirito Santo ancora non esistevano, o che siano stati
tratti dal nulla, oppure da una ipostasi o sostanza diversa (da quella divina), come
coloro che sostengono essere il Figlio di Dio o lo Spirito Santo mutabili e can¬
gianti, costoro sono scomunicati dalla Chiesa cattolica apostolica, nostra e vostra
madre. Noi ripudiamo anche coloro che non riconoscono la risurrezione dei
morti, come pure escludiamo tutte le eresie che si oppongono a questa fede. Sic¬
come voi, diletti, e i vostri figli credete in ciò e intendete adempiere ogni pre¬
cetto che ne deriva, speriamo che vogliate pregare per noi, affinchè anche noi, in
ogni tempo, possiamo essere in comunione con questa fede e osservarne tutti i
precetti. Pregate per noi, voi e tutti coloro che seguendo i comandamenti del
§ 43- PROFESSIONE ECCLESIASTICA DELLA FEDE TRINITARIA 239
Signore, professano questa fede in Cristo Gesù, nostro Signore, per cui e con cui
sia onore al Padre con lo Spirito Santo per tutta l'eternità. Amen » (Denz. 13-14).
5. - Il simbolo di fede Niceno-Costantìnopolitano (anno 391) condanna spe¬
cialmente gli errori riguardanti lo Spirito Santo: «Io credo in un solo Dio,
Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della terra e di tutte le cose visibili e
invisibili; in un solo Signore, Gesù Cristo, Figlio Unigenito di Dio, nato dal
Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, luce da luce, Dio vero dal Dio vero.
Generato, non fatto, consostanziale al Padre; per mezzo del quale tutte le cose
furon fatte; il quale per noi uomini e per la nostra salvezza discese dai cieli.
E s'incarnò da Maria Vergine per opera dello Spirito Santo e si fece uomo. Fu
crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, patì e fu sepolto. E risuscitò il terzo giorno
secondo le Scritture; salì al cielo e siede alla destra del Padre; e tornerà di nuovo
con gloria a giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà mai fine. E (credo)
nello Spirito Santo, Signore e vivificante, che procede dal Padre (e dal Figliuolo),
che deve essere adorato e glorificato insieme con il Padre e il Figlio; che parlò
per bocca dei profeti... » (Denz. 86).
6. - Il Concilio Romano sotto Papa Damaso I(382) condanna anch'esso gli
errori riguardanti lo Spirito Santo:
« 1. Noi scomunichiamo coloro i quali non proclamano, con tutta franchezza,
che egli (cioè lo Spirito Santo) possiede con il Padre e il Figlio un'identica po¬
tenza e sostanza.
2. Scomunichiamo pure coloro che aderiscono all'errore di Sabellio, dicendo
che il Padre e il Figlio sono una stessa ed unica cosa.
3. Scomunichiamo Ario ed Eunomio che con le medesime empietà, sia pure
con parole diverse, affermano che il Figlio e lo Spirito Santo sono creature...
10. Chi non confessa che il Padre è sempre stato e che la stessa cosa si deve
ammettere del Figlio e dello Spirito Santo, è eretico.
11. Chi non confessa che il Figlio è nato dal Padre, cioè dalla divina so¬
stanza di lui, è eretico.
12. Chi non confessa che il Figlio è vero Dio, come il Padre, e che può
tutto e tutto sa e che è uguale al Padre, è eretico.
13. Chi dice che egli (il Figlio) mentre era sulla terra e camminava nella
carne, non era parimenti in cielo con il Padre, è eretico...
16. Chi non confessa che lo Spirito Santo procede propriamente e veramente
dal Padre, come il Figlio, dalla stessa sostanza del Padre ed è vero Dio, è eretico.
17. Chi non confessa che lo Spirito Santo tutto può e tutto conosce e che è
ovunque presente, come il Padre e il Figlio, è eretico.
18. Chi dice che lo Spirito Santo sia una creatura o che sia stato creato me¬
diante il Figlio, è eretico.
19. Chi non confessa che il Padre ha fatto mediante il Figlio e lo Spirito
Santo tutte le cose, visibili e invisibili, è eretico.
20. Chi non confessa che vi è un'unica divinità, potestà, maestà, potenza,
un'unica gloria, dominazione, un unico regno, un'unica volontà e verità del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, è eretico.
21. Chi non confessa tre vere Persone: Padre, Figlio e Spirito Santo, le quali,
uguali fra di loro, vivono sempre, tutto abbracciano il visibile e l'invisibile, tutto
e sappiamo appartenere sia al Padre che al Figlio e a
P
240 P. I. - DIO UNO E TRINO
anche
possono, tutto giudicano, tutto vivificano, tutto creano, tutto conservano, è eretico. Figlio
22. Chi non confessa che ogni creatura deve adorare lo Spirito Santo al d
pari del Padre e del Figlio, è eretico... d
24. Chi, dicendo che il Padre è Dio, che il Figlio è pure Dio e che lo è Sp
egualmente lo Spirito Santo, (li) separa e pretende perciò dire (che vi sono tre)illudendo
dèi e non (un solo) Dio, a motivo dell'unica divinità e potenza, che noi crediamo n
e sappiamo appartenere sia al Padre che al Figlio e allo Spirito Santo; chi, esclu¬ Santo
dendo il Figlio o lo Spirito Santo, dice che solo il Padre si deve chiamare Dio, t
e chi, solo in questa maniera, pensa a un unico Dio, erra nella fede ed è pari ad essen
un Giudeo. Infatti, Dio applica il nome « dèi » anche agli angeli e ai santi tutti,
a motivo della grazia, mentre per il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, a causa deriva
dell'unica e identica divinità, non va usato il nome di « dèi », ma ci viene ordi¬ritrovame
notevolmen
nato e insegnato di designarli con il nome singolare di « Dio ». Infatti, noi siamo
battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e non in quello gra
degli arcangeli o degli angeli, come fanno, illudendosi, i propagatori dell'errore,
giudei o pagani. La salvezza dei cristiani consiste nel credere alla SS. Trinità,
e precisamente al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo; e, battezzati in loro nome, saldo
nell'ammettere, con la fede, senza esitazione, che a tutte e tre le Persone è pro¬ du
pria la vera, unica divinità, potenza, maestà ed essenza » (Denz. 59-82). Dio
sepa
-
7. Il simbolo di fede « atanasiano », non deriva da S. Atanasio. Fu redatto
in lingua latina fra il iv e il vi secolo. Col ritrovamento recente (1940) dell'opu¬ s
scolo Excerpta Vincentii Lerinensis viene notevolmente confermata l'opinione che
vede in Lérins la culla di questo simbolo, che ha grande valore, sia per la chiara
esposizione della fede trinitaria, sia per la dottrina delle due nature in Cristo. Padre
Ecco la parte che riguarda la Trinità: ma
« Chi vuol essere salvo, deve anzitutto star saldo nella fede cattolica; colui
che non la conserva integra e inviolata sarà senza dubbio dannato in eterno. La onnipo
fede cattolica è questa: che adoriamo un unico Dio nella Trinità e la Trinità onn
nell'Unità, senza confondere le persone e senza separare la sostanza. Altra è, in¬
fatti, la persona del Padre, altra quella del Figlio e altra quella dello Spirito Signo
Santo; ma Padre, Figlio e Spirito Santo hanno una sola divinità, un'eguale gloria
e coeterna maestà. Qual è il Padre, tale è il Figlio e lo Spirito Santo. Increato singol
il Padre, increato il Figlio, increato lo Spirito Santo. Immenso il Padre, immenso cattolic
il Figlio, immenso lo Spirito Santo. Eterno il Padre, eterno il Figlio, eterno lo
Spirito Santo. E tuttavia non vi sono tre eterni, ma un solo eterno; come pure cre
non vi sono tre increati nè tre immensi, ma un solo increato e un solo immenso.
Onnipotente il Padre, onnipotente il Figlio e onnipotente lo Spirito Santo, tut¬
tavia non vi sono tre onnipotenti, ma un solo onnipotente. Il Padre è Dio, il
Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio, e tuttavia non vi sono tre Dèi ma un solo
Dio. Signore è il Padre, Signore è il Figlio, e Signore è lo Spirito Santo e tut¬
tavia non vi sono tre Signori ma un Signore solo. Poiché come in nome della
verità cristiana, siamo obbligati a riconoscere singolarmente ogni Persona quale
Dio e Signore, così in nome della religione cattolica siamo proibiti di parlare
di tre Dèi o Signori. Il Padre non è stato fatto da alcuno, nè creato, nè gene¬
rato. Il Figlio è dal solo Padre, ma non fatto nè creato, bensì è da lui generato.
Lo Spirito Santo è dal Padre e dal Figlio, ma non è fatto, nè creato, nè gene-
§ 43- PROFESSIONE ecclesiastica della fede trinitaria 241
rato dal Padre e dal Figlio, ma procede da loro. Vi è dunque un solo Padre,
non tre Padri; un solo Figlio, non tre Figli; un solo Spirito Santo e non tre
Spiriti Santi. E in questa Trinità non vi è nulla che sia prima o venga dopo,
nulla di maggiore o di minore, ma tutte e tre le persone sono coeterne e coe¬
guali sicché in tutto, come già fu detto, va onorata l'Unità nella Trinità e la
Trinità nell'Unità. Chi dunque vuol essere salvo, così deve sentire della Trinità »
(Denz. 39).
8. - Il simbolo del Concilio (XI) di Toledo (a. 675) fu letto all'apertura di
quel piccolo concilio, frequentato da soli diciassette vescovi. È una compilazione
da precedenti professioni ecclesiastiche, specialmente del IV e VI Concilio di
Toledo, da brani di opere di S. Agostino, di Fulgenzio di Ruspe e di altri dot¬
tori della Chiesa. Esprime, in modo assai chiaro, la fede della Chiesa nei due
principali misteri che sono la Trinità e l'Incarnazione:
« Noi confessiamo e crediamo che la santa e ineffabile Trinità, Padre, Figlio
e Spirito Santo, è naturalmente un solo Dio, di una sola sostanza, di una sola
natura come pure di una sola maestà e potenza. Confessiamo che il Padre non è
generato, né creato, bensì ingenerato. Egli, infatti, da cui il Figlio nasce e lo
Spirito Santo procede, non deve ad altri la sua origine, di modo che è lui stesso
la sorgente e l'origine dell'intera divinità. È pure il Padre della sua propria es¬
senza in quanto dalla sua ineffabile essenza genera, in modo inesprimibile, il
Figlio, e lo genera non diverso da se stesso: Dio (genera) Dio, luce (genera) luce.
Da lui quindi deriva " ogni paternità, sia in cielo, sia in terra " (Ef. 3, 15).
Noi confessiamo che il Figlio è nato dalla sostanza del Padre, senza alcun
inizio e prima del tempo, e che però non è stato fatto, poiché né il Padre non
fu mai senza il Figlio, né il Figlio senza il Padre. E tuttavia il Figlio non sta al
Padre come il Padre sta al Figlio poiché non è stato il Padre ad essere generato
dal Figlio, bensì il Figlio dal Padre. Il Figlio è dunque Dio grazie al Padre; il
Padre, invece, è Dio, ma non grazie al Figlio. Padre del Figlio, non è Dio grazie
al Figlio, mentre il Figlio è insieme Figlio del Padre e Dio grazie al Padre, pur
essendo in tutto uguale a Dio Padre poiché non è mai cominciato né cessato di
nascere. È pure di fede che egli ha una sola sostanza col Padre, perciò lo si
chiama pure " consostanziale " (homoousios) al Padre, dal greco in cui " homos "
significa " uno " e " ousìa " sostanza, e le due parole unite equivalgono a " una
sola sostanza ". Si deve infatti credere che il medesimo Figlio non è generato o
nato dal nulla o da un'altra sostanza, ma bensì dal seno del Padre, cioè dalla
sua sostanza. Eterno è dunque il Padre, eterno anche il Figlio. Se il Padre è
sempre stato, sempre ha avuto un Figlio di cui esser Padre: confessiamo, perciò,
che il Figlio è nato dal Padre senza alcun inizio. Né chiamiamo lo stesso Figlio
di Dio, perchè generato dal Padre, una particella della natura (divina) divisa, ma
asseriamo che il Padre integro ha generato un Figlio integro, senza alcuna dimi¬
nuzione o frazionamento, giacché è solo della divinità l'avere un Figlio identico.
Questo Figlio è Figlio di Dio per natura, non per adozione; e si deve credere che
Dio Padre non lo ha generato né per volontà né per necessità, poiché in Dio non
ha luogo necessità, né la volontà previene la sapienza.
Noi crediamo pure che lo Spirito Santo, la terza Persona della Trinità, è lo
stesso identico Dio con il Padre e il Figlio, con loro ha un'unica sostanza e una
16 schmaus - dogmatica I.
santificare la creatura, ma procede parimenti da
f
242 P. I. - DIO UNO E TRINO Fig
F
unica natura. Non è però nè generato, nè creato, ma procede da entrambi e di
entrambi è lo Spirito. Crediamo anche che lo Spirito Santo non è nè ingenerato,
nè generato: se lo dicessimo ingenerato, dovremmo ammettere due Padri e se n
lo dicessimo generato mostreremmo di insegnare due Figli. Nè lo si chiama solo rettament
Spirito del Padre, bensì contemporaneamente Spirito del Padre e del Figlio. c
Esso, infatti, non procede dal Padre nel Figlio e nemmeno procede dal Figlio a a
santificare la creatura, ma procede parimenti da entrambi, dovendo intendersi Pe
come l'amore e la santità di entrambi. La nostra fede insegna pure che lo Spi¬ r
rito Santo fu inviato da ambedue, così come il Figlio è inviato dal Padre. Tut¬ e
tavia non è per questo minore del Padre e del Figlio, (press'a poco) come il F
Figlio confessa di sè, di essere minore del Padre e dello Spirito Santo a causa pa
della carne umana che ha assunto.
Questa è l'esposizione circa la Trinità, la quale non triplice, ma bensì Trinità Pa
si deve chiamare e credere. Non si parla rettamente quando si afferma che nel¬ a
l'unico Dio vi è la Trinità, ma bensì occorre dire che l'unico Dio è Trinità. Nei il
nomi relativi delle persone, il Padre si rapporta al Figlio, il Figlio al Padre e
lo Spirito Santo ad entrambi. Ma mentre le tre Persone sono affermate relativa¬ do
mente si crede una sola natura o sostanza. Pur riconoscendo tre Persone, non
affermiamo tre sostanze, bensì un'unica sostanza e tre Persone. Il Padre è tale
non per rapporto a se stesso, ma per rapporto al Figlio; il Figlio è tale non peronnipo
rapporto a se stesso, ma per rapporto al Padre; parimenti lo Spirito Santo non
è tale per rapporto a se stesso, ma lo è solo per la relazione che ha con il Padre p
e il Figlio; per questo lo si chiama Spirito del Padre e del Figlio. Ma quandocredere
diciamo « Dio », allora non intendiamo riferirci alla relazione con altri, come pres
quella del Padre con il Figlio o del Figlio con il Padre o dello Spirito Santodivinità
con il Padre e il Figlio. « Dio » è detto tale solo riguardo a se stesso. Infatti,
quando ci si interroga su ogni singola persona, dobbiamo rispondere che essa è che
Dio. Si dica dunque singolarmente che il Padre è Dio, che il Figlio è Dio, che
lo Spirito Santo è Dio; nè per questo vi sono tre dèi, bensì un solo unico Dio.
Così, si dice singolarmente che il Padre è onnipotente, che il Figlio è onnipo¬
tente, che lo Spirito Santo è onnipotente, ma con ciò non affermiamo tre onni¬ numera
potenti, bensì un unico Dio onnipotente, come pure un'unica luce, un unicorappor
principio. Dobbiamo, quindi, confessare e credere che ogni singola Persona è
proprio in tutto Dio e che tutte e tre le Persone prese insieme sono un unico Dio.
Esse possiedono l'unica, indivisa e identica divinità, maestà o potenza, la quale quan
(divinità) non si sminuisce nelle singole Persone nè si accresce in tutte e tre sap
unite, poiché non è minore quando si afferma che ogni singola Persona è Dio,
nè maggiore quando si asserisce che tutte e tre le Persone sono Dio.
Questa santa Trinità, che è l'unico vero Dio, nè esclude il numero, nè è com¬
presa da esso. Nelle relazioni delle Persone infatti si scorge il numero, ma nella
sostanza della divinità non trova nulla di numerabile. Dunque (le Persone) in¬
sinuano il numero solo in quanto dicono rapporto vicendevole, e sono senza
numero in quello che sono in se stesse. Infatti a questa santa Trinità rispetto
alla natura, s'addice un nome singolare di tal sorta da non poter essere predicato
delle tre Persone al plurale. Perciò crediamo a quanto dice la Scrittura : " Grande
è il nostro Dio, grande la sua potenza e la sua sapienza che non può essere in¬
dicata con un numero " (Sai. 146, 5).
§ 43- PROFESSIONE ECCLESIASTICA DELLA FEDE TRINITARIA 243
Pur avendo detto che queste tre Persone sono un solo Dio, non si può, tut¬
tavia, dedurre che il Padre sia il Figlio, o che il Figlio sia il Padre o che lo
Spirito Santo sia Padre e Figlio.
Infatti, nè il Padre è il Figlio, nè il Figlio è il Padre come nemmeno lo Spi¬
rito Santo è Padre o Figlio; benché il Padre sia ciò che è il Figlio, il Figlio ciò
che è il Padre e, Padre e Figlio, siano ciò che è lo Spirito Santo, vale a dire
un solo Dio per la loro natura. Quando diciamo che il Padre non è il Figlio, ci
riferiamo alla distinzione delle Persone. Ma quando diciamo che il Padre è ciò
che è il Figlio, che il Figlio è ciò che è il Padre, che lo Spirito Santo è ciò che
sono il Padre e il Figlio, allora ci riferiamo chiaramente alla natura per cui cia¬
scuno di loro è Dio, o all'essenza per la quale essi sono una cosa sola. Distin¬
guiamo, perciò, le Persone, ma non frazioniamo la Divinità.
Riconosciamo dunque la Trinità nella distinzione delle Persone e confessiamo
l'unità nella natura o sostanza. Itre sono, quindi, una sola cosa per la natura,
ma non per la persona.
Nè tuttavia si deve pensare che queste tre Persone siano separabili fra di loro.
Infatti, la nostra fede ci dice che nessuna di esse è esistita o ha operato alcunché
prima delle altre, nessuna dopo le altre, nessuna senza le altre. Sono, infatti,
inseparabili sia nell'essere, sia nell'operare. Noi crediamo, infatti, che fra il Padre
generante e il Figlio generato e lo Spirito Santo procedente non vi sia stato
alcun intervallo di tempo, per cui il Genitore abbia potuto essere prima di colui
che è generato e senza di esso, o che lo Spirito Santo, nel suo procedere, sia
posteriore al Padre e al Figlio. Confessiamo perciò e crediamo che questa santa
Triade è indivisibile e inconfusa. Noi parliamo di tre Persone, secondo la dot¬
trina dei nostri predecessori, affinchè siano riconosciute come tali, ma non
perchè vengano separate. Abbiamo presenti le parole della Sacra Scrittura circa
la Sapienza: "Essa è il riflesso della luce eterna" (Sap. 7, 26). Come osserviamo
che il riflesso sta inscindibilmente congiunto alla luce, così confessiamo che il
Figlio non può essere disgiunto dal Padre. Come dunque non confondiamo
queste tre Persone, possedenti una sola e indivisibile natura, così diciamo che
non sono affatto separabili. La stessa Trinità si è degnata di indicarcelo in modo
evidente, poiché anche nei nomi, con i quali volle fosse conosciuta ogni singola
Persona, ha fatto sì che una Persona non possa esser compresa senza l'altra. Non
si può infatti conoscere il Padre senza il Figlio e non vi è alcun Figlio senza il
Padre. La stessa relazione indicata dai nomi delle Persone ci impedisce di sepa¬
rarle tra di loro, ma al tempo stesso, pur non nominandole insieme, le fa in¬
tendere insieme. Niuno può udire uno di questi nomi senza che, per necessità,
intenda implicitamente la Persona correlativa.
Benché queste tre (Persone) siano una cosa sola e questa cosa sola sia tre (Per¬
sone), rimane tuttavia a ciascuna Persona la sua caratteristica. Al Padre conviene
l'eternità senza nascita, al Figlio l'eternità con la nascita, allo Spirito Santo il
procedere senza nascita dall'eternità» (Denz. 275-281). Cfr. A. Michel, Toledo,
in Diet, de Théol. cath., XV, 1176-1208.
9. - IlIV Concilio generale Lateranense (a. 1215) precisa, principalmente contro
Gioachino da Fiore (1130-1191), la reale identità delle persone divine con la di¬
vina natura :
coetern
credia
244 P. I. - DIO UNO E TRINO suprema
t
« Noi crediamo fermamente e confessiamo con cuore retto che vi è un solo qu
vero Dio, eterno, immenso, immutabile, incomprensibile, onnipotente e ineffa¬ l'esse
bile: Padre, Figlio e Spirito Santo: tre Persone, ma una sola essenza, sostanza
o natura semplicissima. Il Padre non è da nessuno, il Figlio è dal solo Padre e Padre
lo Spirito Santo da entrambi in egual modo : senza alcun inizio, sempre e senza
fine: il Padre generando, il Figlio nascendo e lo Spirito Santo procedendo: i
consostanziali e coeguali e coonnipotenti e coeterni: unico principio di tutte le d
cose... Con l'approvazione del sacro Concilio crediamo e confessiamo, con Pietro cosicc
Lombardo, che vi è una realtà (natura) suprema, incomprensibile e ineffabile, infatt
che è veramente Padre, Figlio e Spirito Santo: le tre Persone insieme e ciascuna
di esse. Quindi in Dio vi è solo trinità e non quaternità. Infatti ciascuna delle superiore
tre Persone è quella realtà, ossia la sostanza, l'essenza, la natura divina, che sola p
è principio di tutte le cose, fuori del quale non ve ne è altro. E questa realtà nè
genera, nè è generata, nè procede; ma è il Padre che genera, il Figlio che è media
generato e lo Spirito Santo che procede, sicché le distinzioni sono delle Persone l'
e l'unità della natura. Benché, dunque, altro sia il Padre, altro il Figlio e altro cessat
lo Spirito Santo, non sono, tuttavia, qualcosa di diverso, ma ciò che è il Padre ha
lo è pure il Figlio e anche lo Spirito Santo, cosicché, secondo la retta fede cat¬ F
tolica, sono creduti consostanziali. Il Padre, infatti, per il fatto che dall'eternità San
genera il Figlio, gli ha conferito, per sua stessa testimonianza, la propria so¬ prega
stanza : " Ciò che il Padre mi ha dato è superiore a tutto " (Giov. io, 29). Ma co
non si può dire che gli abbia conferito solo una parte della propria sostanza ri¬ app
serbandosi l'altra, poiché la sostanza del Padre è indivisibile essendo semplicis¬ pe
sima. E nemmeno si può dire che il Padre, mediante la generazione, abbia tra¬ pass
smesso la sua propria sostanza al Figlio, come se l'avesse data al Figlio in modo (M
da non riserbarla per sé: altrimenti avrebbe cessato d'essere egli stesso sostanza. P
È perciò chiaro che il Figlio, nella sua nascita, ha ricevuto senza diminuzione la mod
sostanza del Padre e che pertanto il Padre e il Figlio possiedono la stessa so¬ di
stanza: e così il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (che da entrambi procede)
sono la stessa realtà. Quando l'eterna Verità prega il Padre per i credenti: "Io
voglio che siano anch'essi una cosa sola in noi, come una cosa sola siamo noi " stabi
(Giov. 17, 22), questa parola " una cosa sola " applicata ai fedeli, s'intende del¬ Trinit
l'unione d'amore nella grazia; ma applicata alle persone divine, richiama l'unità l
d'identità nella natura. Così anche in un altro passo la Verità dice: "Siate all'imperatore
per¬
fetti, come è perfetto il Padre vostro nei cieli" (Mt. 5, 48) e significa: siate per¬ dell'u
fetti mediante la perfezione della grazia, come il Padre celeste è perfetto per la
perfezione della natura; ciascuna cioè a suo modo, poiché tra il creatore e la s
creatura la rassomiglianza non è mai tale che la dissimiglianza non la soverchi »
(Denz. 428-432).
10. - Anche il Concilio di Lione (a. 1274) stabilì una professione di fede che
esprime la dottrina della Chiesa sulla divina Trinità. Il concilio aveva per scopo
la riunione delle Chiese separate d'Oriente con la Chiesa cattolica. Papa Cle¬
mente IV, nell'anno 1267, presentò all'imperatore Michele Paleologo una for¬
mula di fede, che doveva costituire la base dell'unione. Questi fece sapere al
concilio d'esser pronto ad accogliere tale formula, e i suoi inviati si obbligarono
a conservarla. La prima parte di essa contiene, salvo piccole varianti, il testo
§ 43- PROFESSIONE ECCLESIASTICA DELLA FEDE TRINITARIA 245
che, già prima della separazione degli Orientali, era stato inviato da papa
Leone IX a Pietro di Antiochia e che, nelle sue parti principali, risale al v se¬
colo. Il passo riguardante la Trinità suona così:
« Noi crediamo nella santa Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, un solo Dio
onnipotente. (Crediamo) che tutta la divinità è nella Trinità della stessa sostanza
ed essenza, della stessa eternità e potenza; che possiede una sola volontà, una
sola potenza e maestà; che è (l'unico Dio) creatore di tutte le creature, da cui,
in cui e per cui son tutte le cose, in cielo e in terra, visibili e invisibili, cor¬
porali e spirituali. Crediamo pure che ciascuna singola persona della Trinità è
l'unico, vero, completo e perfetto Dio.
Crediamo altresì nel Figlio stesso di Dio, nel Verbo di Dio, che dall'eternità è
generato dal Padre, consostanziale, di pari onnipotenza, in tutto uguale al Padre
nella divinità. Nel tempo egli nacque per opera dello Spirito Santo e dalla sem¬
pre Vergine Maria con un'anima razionale. Egli perciò ha due nascite: una
eterna dal Padre, una temporale dalla madre. Egli è vero Dio e vero uomo, reale
e perfetto in ciascuna natura. Non è Figlio adottivo, nè solo in apparenza, bensì
l'unico e singolo Figlio di Dio esistente in due nature e di due nature, la divina
e l'umana, nella singolarità di una sola persona. Egli, come Dio, non può nè
soffrire nè morire, ma come uomo patì una vera passione della carne per noi e
per la nostra salvezza, morì e fu sepolto. È disceso agl'inferi e il terzo giorno
risuscitò da morte con una vera resurrezione corporale. Quaranta giorni dopo la
resurrezione salì al cielo con il corpo risorto e l'anima, dove siede alla destra di
Dio Padre, di là ha da venire a giudicare ivivi e imorti, per retribuire ciascuno
secondo le opere sue, buone o cattive.
Noi crediamo altresì nello Spirito Santo, vero e perfetto Dio, che procede dal
Padre e dal Figlio e che è in tutto uguale al Padre e al Figlio sia nella sostanza,
sia nell'onnipotenza e nell'eternità. Crediamo a questa santa Trinità, non a tre
dèi, bensì a un solo Dio onnipotente, eterno, invisibile e immutabile » (Denz.
461-463).
Questa formula fu nuovamente prescritta il 1 Agosto 1385 da Papa Urbano VI
ai Greci che ritornavano alla Chiesa Romana.
11. - Il Concilio universale di Firenze, sforzandosi di favorire una nuova riu¬
nione degli Orientali con la Chiesa Romana, prescrisse ai Giacobiti, fedeli della
Chiesa siriaca, una formula di fede sulla cui base dovevano accordarsi coloro che
intendevano rientrare nel gregge Cattolico Romano. Ecco il brano riguardante la
Trinità :
« La santissima Chiesa di Roma, fondata sulla parola di nostro Signore e Sal¬
vatore Gesù Cristo, fermamente crede, professa e proclama un solo vero Dio
onnipotente, immutabile ed eterno, Padre, Figlio e Spirito Santo, Uno nell'es¬
senza, Trino nelle Persone. Il Padre è ingenerato, il Figlio è generato dal Padre,
lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio. Il Padre non è il Figlio o lo
Spirito Santo; il Figlio non è il Padre o lo Spirito Santo; lo Spirito Santo non
è il Padre o il Figlio. Ma il Padre è solo Padre, il Figlio solo Figlio e lo Spirito
Santo solo Spirito Santo. Unicamente il Padre ha generato il Figlio dalla sua
sostanza, solo il Figlio è generato dall'unico Padre, solo lo Spirito Santo pro¬
cede parimenti dal Padre e dal Figlio. Queste tre Persone sono un unico Dio,
246 P. I. - DIO UNO E TRINO "
ma
non tre dèi. Infatti possiedono tutte una sola sostanza, una sola essenza, una p
sola natura, una sola divinità, una sola immensità, una sola eternità; tutto è in Spirit
esse uno, ove non si opponga l'opposizione della relazione. " Per questa unità il Fi
Padre è tutto nel Figlio, tutto nello Spirito Santo; il Figlio è tutto nel Padre, Co
tutto nello Spirito Santo; e lo Spirito Santo è tutto nel Padre, tutto nel Figlio. creato
Nè l'uno precede l'altro quanto all'eternità, o lo avanza quanto a grandezza, o lo
supera quanto a potenza. Senza dubbio è eterno e senza principio il fatto che il e
Figlio riceva la sua origine dal Padre, come pure è eterno e senza principio il de
procedere dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio " (Fulgenzio). Tutto ciò che
il Padre è o possiede, non lo ha da nessun altro ma da se stesso: egli è prin¬
cipio senza principio. Tutto ciò che il Figlio è o possiede, lo ha dal Padre:
egli è principio da un principio. Tutto ciò che lo Spirito Santo è o possiede, lo ha
parimenti dal Padre e dal Figlio. Ma il Padre e il Figlio non sono due principi
dello Spirito Santo, ma bensì un principio unico. Così come il Padre, il Figlio
e lo Spirito Santo non sono tre principi del creato, ma un unico principio »
S
(Denz. 703-704). dalla
neotestamen
12. - L'anno 1555 Papa Paolo IV condannò gli errori trinitari dei Sociniani un
(Denz. 993), e nel 1857 Papa Pio IX riprovò quelli del teologo viennese Antonio pe
Giinther (Denz. 1655). manifestazi
D
rigua
§ 44. La Trinità nella Sacra Scrittura. dagli
dobbiam
Avvertenza preliminare. Per provare con la Sacra Scrittura la rivelazione della stessa
Trinità divina, è quanto mai conveniente partire dalla persona di Cristo. Questa divin
è, infatti, il punto centrale degli scritti neotestamentari (vedere la Cristologia). obblig
Ora, Cristo si palesa come l'impronta di Dio, come una cosa sola con il Padre e,
pur tuttavia distinto da lui; e noi con la fede, con personale dedizione a Cristo,
esprimiamo il nostro assenso a questa sua manifestazione. Il fatto che egli stesso
sia Dio, pur essendo distinto dal Padre, mostra che Dio esiste, sempre il mede¬ preparaz
simo, in due modi distinti. Gli ulteriori eventi riguardanti Cristo come pure la 1
sua esplicita predicazione trasmessa e sviluppata dagli Apostoli, ci fan passare da
questa dualità alla Trinità. Ancor una volta dobbiamo ricordare che la Sacra
se
Scrittura non ci presenta tanto la Trinità in se stessa, quanto piuttosto ci rivela conte
e testimonia l'attività salvifica delle tre Persone divine. Effettivamente la rivela¬ tuttavia
zione della Trinità è un appello di Dio, che ci obbliga ad amarlo e adorarlo per rigida
la sua grande gloria e ad entrare in essa.
I. Nell'Antico Testamento.
Siccome l'Antico Testamento è una preparazione a Cristo, un'ombra
del futuro (1 Cor. 10, 11; Gal. 3, 24; Ebr. 10, 1), occorre osservare due
cose : primo, che esso accenna sì a Cristo, secondo, che d'altra parte
non lo designa chiaramente, sicché, pur contenendo qualche accenno
ad una pluralità in Dio, non ce la rivela tuttavia in modo chiaro.
Nella rivelazione veterotestamentaria la rigida fede nel monoteismo
§ 44- LA trinità nella sacra scrittura 247
è posta talmente in primo piano che non vi rimane posto per quella tri¬
nitaria. A causa del politeismo circostante, occorreva mettere in guardia
i fedeli affinchè la fede nell'unico Dio trionfasse e fosse conservata viva.
Si può tuttavia ammettere che la rivelazione di una verità così fonda¬
mentale, come quella della Trinità divina, non fu senza alcuna prepara¬
zione nell'Antico Testamento. Infatti vi rinveniamo espressioni che, oggi,
dopo essere stati illuminati dalla rivelazione neotestamentaria, possiamo
e dobbiamo intendere come accenni alla Trinità e preparazione alla sua
rivelazione del Nuovo Patto, benché i fedeli ebrei non le abbiano com¬
prese nel loro profondo significato. La preparazione alla rivelazione tri¬
nitaria del Nuovo Testamento non esige necessariamente che negli scritti
veterotestamentari, contenenti la manifestazione precristiana di Dio, si
debbano rinvenire passi in cui si parli, almeno oscuramente, della Tri¬
nità; è sufficiente, che vi si trovino soltanto accenni, prefigurazioni, tipi
o simboli della rivelazione che si sarebbe poi avverata in Cristo.
1. - IPadri generalmente riconoscono un accenno alla Trinità nel fatto che
Dio nella Genesi parla di sè in plurale (Gen. 1, 26; 3, 22; 11, 7). Oggi tuttavia
tale forma si spiega grammaticalmente, in quanto il plurale della parola Elohim
(che in realtà, nonostante la forma plurale, indica l'unico Dio avente in sè la
pienezza della divinità: plurale maiestatis) importa per conseguenza logica e sti¬
listica il plurale del predicato.
2. - IPadri preniceni ritengono che le teofanie dell'Antico Testamento in cui
compare il messo divino, l'angelo di Jahvè, il quale viene talora chiamato egli
stesso Jahvè e che, pur essendone distinto, è in pari tempo, una cosa sola con
lui, siano un accenno alla pluralità personale di Dio. L'Angelo di Jahvè è di
solito inteso come il Logos: questi ha potuto rendersi visibile agli uomini,
mentre il Padre rimane racchiuso nella sua invisibilità. Tale spiegazione fu poi
eliminata da alcuni Padri durante la lotta antiariana perchè poteva prestarsi a
malintesi: se il Logos può apparire all'uomo e il Padre no, ciò potrebbe far pen¬
sare che il Padre sia superiore al Figlio. Secondo Agostino, Dio, e proprio il Dio
tripersonale, si servì di angeli quali intermediari per manifestare la sua presenza;
si tratterebbe quindi di angelofanie.
Manca, quindi, al tempo patristico l'accordo nell'interpretazione dell'» Angelo
di Jahvè ». Questi appare come il messo buono e caritatevole di Dio, anzi come
l'ausilio e la grazia di Dio personificati. In numerosi passi (Gen. 16, 7 ss.; 21,
17 ss.; 22, ri ss.; 31, ir ss.; Es. 3, 2 ss.; Giud. 2, 1 ss.) colui che parla e che
opera viene ora chiamato Dio, ora l'angelo di Dio. Si potrebbe anche pensare
che l'espressione « angelo di Dio » designi Dio stesso in quanto penetra nella
storia umana, e in qualche modo fa sentire all'uomo la sua vicinanza. Pertanto
non si può interpretare tale espressione come un accenno immediato alla plura¬
lità delle persone in Dio.
3. - Particolarmente in tre nozioni dell'Antico Testamento il cristiano, già illu-
Sai. 104, 29 s.; 33, 6; 146, 4; Giob. 12, 10; Ez. 37,
so
24B P. I. - DIO UNO E TRINO Spir
Riem
minato dal Nuovo, può scoprire oltre il monoteismo veterotestamentario un ac¬
cenno alla SS. Trinità: sono quelle dello Spirito, della Sapienza e del Messia. 1-5
a) Lo Spirito viene descritto quale forza divina creatrice o meglio come Dio 1
stesso in quanto opera nell'uomo e nell'universo, nella storia e nella natura. 1
Poiché la forza divina si manifesta specialmente nel donare e conservare la vita, appare
lo spirito è ritenuto come principio della vita medesima (Gen. i, 2; 2, 7; 6, 3; pres
Sai. 104, 29 s.; 33, 6; 146, 4; Giob. 12, 10; Ez. 37, 7-10; 2 Mac. 7, 23). (Nel 143,
Nuovo Testamento è inteso come principio non solo della vita naturale, ma
anche di quella soprannaturale: Giov. 3, 8). Lo Spirito di Dio opera ed agisce
potentemente nella storia (Es. 33, 14-17; Sai. 68). Riempie e dirige in modo par¬ con
ticolare i messaggeri della rivelazione divina, quali Giuseppe, Abramo, Mosè, p
Gedeone ecc. (Gen. 41, 38; Num. 11, 17; Es. 31, 1-5; Giud. 6, 34; 14, 6), spin¬
gendoli a parlare e ad agire (1 Sam. 10, 6; 16, 14; 3 Re 17-19; 22, 22 ss.;
Mich. 2, 7; 3, 8; Os. 9, 7; Ez. 2, 2; 3, 12 ss.; 8, 3; 11, 1ss.). dunqu
Mentre nei predetti passi biblici lo Spirito appare come dispensatore di sin¬ az
goli doni in particolare, in altri, e spesso, vien presentato come principo della impers
santificazione di tutti i credenti (Sai. 51, 12 s.; 143, 10). Egli rinnova i cuori in
(Ez. 36, 26-28). Talvolta è descritto quale principio che opera dall'esterno sul¬ che
l'uomo, tal'altra come principio, che in modo ora transeunte ora permanente a
agisce nell'interno. Spesso appare in connessione con il Messia (Is. 32, 15-18; nuova
41, 1ss.; 42, 1ss.; 61, 1). I suoi doni diverranno proprietà di tutti nel regno
messianico (Ez. 11, 19; 36, 26; 37, 12; 39, 29; Ger. 31, 33; Is. 35, 5-10; Gioe.
2, 28 s.; Zac. 12, 10). piuttost
Nell'Antico Testamento lo Spirito si palesa dunque come forza creativa per la
cui Dio dà vita, salvezza e santità. Segni della sua azione sono le caratteristiche
neotestamenta
di essere qualcosa d'inatteso, di misterioso, di imperscrutabile, che trascende l'a¬ acc
gire umano. E tuttavia agisce in modo che vi è iniziativa e parola, forma e
azione umana. Permea l'essere umano, in modo che l'uomo entri in se stesso,
penetri nel suo intimo, ma, in pari tempo, lo eleva alla sfera stessa di Dio. Gli Giob
dischiude il suo proprio intimo, e gli crea una nuova interiorità, la divina, entro Prove
cui lo attira. en
Il fedele dell'Antico Testamento non ha di certo inteso lo Spirito, così de¬ uomin
scritto, come una vera persona divina. Vi ha piuttosto visto l'unico Dio vivente affer
che domina e signoreggia la natura e la storia con la sua attività che opera nel c
mondo. Però alla luce della rivelazione neotestamentaria i passi, che riguardano anteriorm
lo Spirito di Dio, si possono intendere come un accenno alla terza persona di¬
vina. Infatti la Chiesa recita, per esempio, i salmi 68 e 104 nella liturgia di coll
Pentecoste.
b) La Sapienza ci è presentata nel libro di Giobbe abbastanza chiaramente
come persona (Giob. 28, 12-28). Nel libro dei Proverbi è raffigurata ritta sulla
strada o alla porta attraverso la quale si esce o si entra in città, oppure ai cro¬
cicchi delle vie, per chiamare e invitare a sé gli uomini, imbandir loro lauta mensa
ed elargire beni inestimabili (cap. 8 e 9). Così afferma di sé : « Il Signore mi
possedette qual principio delle sue azioni, innanzi che alcuna cosa facesse, da
principio. Ab aeterno sono stata costituita, anteriormente alla formazione della
terra. Io già ero generata e gli abissi non esistevano e le fonti delle acque non
scaturivano ancora, né i monti ancora sorgevano colla loro grave mole; innanzi
§ 44" LA TRINITÀ nella sacra scrittura 249
i colli fui generata; non aveva ancor fatta la terra nè i fiumi, nè i cardini del
mondo. Quando disponeva i cieli ero presente, quando accerchiava gli abissi nel
giro regolare dei loro confini, quando fissava le atmosfere di sopra e sospendeva
le fonti delle acque, quando segnava in giro al mare il suo confine e poneva un
limite alle acque, affinchè non oltrepassassero le sponde; quando gettava i fon¬
damenti della terra, con lui ero disponendo tutte le cose e mi deliziavo in tutti
quei giorni trastullandomi dinanzi a lui continuamente, trastullandomi nel cer¬
chio della terra e le mie delizie sono lo stare coi figli degli uomini » (8, 22-31).
Chi scorgesse qui qualcosa di più che un semplice rivestimento poetico, sa¬
rebbe disilluso nel vedere che, poco dopo, l'autore parla di madonna Follia e fa
sedere anch'essa sulla porta di casa per invitare i passanti (9, 13). Con colori
ancor più forti la sapienza è tratteggiata come persona nell'Ecclesiastico (24, 3-22).
Nel libro della Sapienza è chiamata riflesso della luce eterna, specchio immaco¬
lato dell'attività divina, immagine della sua bontà, alito della virtù di Dio,
schietto effluvio dell'Onnipotente. Nessuna macchia la può quindi contaminare
(Sap. 7, 25 ss.). In queste descrizioni è assai difficile stabilire fin dove arrivi il
rivestimento poetico e fino a che punto la sapienza si debba intendere come
vera realtà personale. Alla luce della rivelazione neotestamentaria possiamo tut¬
tavia affermare che queste raffigurazioni della Sapienza si riferivano al Logos,
potenza e sapienza personale di Dio. Quand'anche si ammettesse che Paolo abbia
data l'interpretazione autentica di questi testi veterotestamentari concernenti la
sapienza, si deve affermare che sia la lettera, sia il contesto dei relativi passi
paolini non mostrano direttamente che egli interpreti il testo dell'Antico Testa¬
mento nel senso della divinità di Cristo (1 Cor. 1, 24; Col. 1, 15; Ebr. 1, 3).
La rivelazione del Figlio di Dio è pure preparata dalla Parola di Dio che
ricorre spesso nell'Antico Testamento. Essa designa tanto l'agire divino, quanto
il principio e il mezzo di tale sua azione (Gen. 1, 3; Sai. 33, 9; 107, 20; Is. 25,
10 s.; Eccli. 42, 15; 43, 26; Sap. 9, 1; 18, 14). Come Dio parla agli uomini in
quanto crea, così egli crea in quanto parla. Mediante la parola trae dal nulla il
mondo, lo conserva, conduce gli uomini al fine determinato e pronuncia su di
loro il suo giudizio. Della sua parola così dice Dio stesso : « E quale la pioggia
e la neve che scendono dal cielo e non vi fanno ritorno, ma innaffiano la terra
e la fecondano e la fanno germinare, dando seme da seminare e pane da man¬
giare; tale sarà la mia parola; una volta uscita dalla mia bocca non tornerà a
me senza frutto, ma opererà tutto quello che io voglio, e prospererà in quelle
cose per cui l'ho inviata » (Is. 55, 10 s.). Come la parola che conserva il mondo
(Sai. 118, 91; Eccli. 43, 23) sviluppa e forma la storia umana, possa divenire
verbo giudicatore di Dio, appare dal libro della Sapienza (18, 14-18): «Mentre
un tranquillo silenzio avvolgeva ogni cosa, e la notte nel suo celere corso era
giunta a mezzo, l'onnipotente tua parola dal cielo, dal trono regale si slanciò
come fiero guerriero nel mezzo della terra di sterminio, portando qual spada
affilata il tuo irrevocabile decreto, e ritta in piedi riempì ogni cosa di morte, e
toccava il cielo pur poggiando sulla terra. Allora ad un tratto fantasmi di terri¬
bili sogni li spaventarono, e l'incalzarono inaspettati terrori, e gettati chi qua
chi là mezzo morti, rivelavano il motivo per cui morivano ».
c) Il Messia venturo, per mezzo del quale Jahvè salverà il suo popolo, è
chiamato figlio di Davide, servo di Dio, ma anche Signore, Figlio di Dio, Dio
in
Apost
250 P. X. - DIO UNO E TRINO
par
con noi (Sai. 2, 7; Is. 7, 14; 8, 8 ss.; 9, 5; Mich. 5, 1; Dan. 7, 13). Non è tut¬
tavia chiaro, se si identifichi con il Dio unico dell'Antico Testamento, se quindi »
sia Dio o se invece sia distinto da lui. pers
V
II. Nel Nuovo Testamento: Sinottici e Atti. soltan
1. - Nel Nuovo Testamento esamineremo in primo luogo la dottrina
trinitaria dei Sinottici e degli Atti degli Apostoli. luogo
a) Vanno ricordati anzitutto i testi che parlano di pluralità di per¬ Giov
sone. La scena dell'Annunciazione (Le. 1, 35) mostra la dualità se non risuo
la Trinità in Dio. L'Altissimo, la cui « potenza » copre Maria, e il Figlio colomb
di Dio, che nasce da lei sono, certo, due persone. Non è facile invece i
stabilire se lo Spirito Santo che scende sulla Vergine e la potenza del¬
l'Altissimo denotino due persone o siano soltanto una duplice designa¬ su
zione di una sola persona. c
con
Una vera rivelazione della Trinità ha luogo nel battesimo di Gesù
(Mt. 3, 13-17; Me. 1, 9-11; Le. 3, 21 s.; Giov. 1, 32-34). Vi è Cristo Padre
che viene battezzato, il Padre la cui voce risuona dal cielo, e lo Spirito i
Santo che scende su Gesù in forma di colomba. Quanto si verifica nel g
battesimo di Gesù ha significato simbolico per il battesimo cristiano, che, è
per ordine di Cristo, si compie nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo (Mt. 28, 19 s.; cfr. il trattato sul battesimo). Tutte e tre rin
le Persone sono la sorgente della nuova vita comunicata dal battesimo, p
sono la realtà con cui il battezzato entra in contatto e verso cui si pro¬
tende con fede e speranza. Siccome qui, Padre e Figlio e Spirito Santo discep
sono tra loro congiunti da un doppio « e » e indicati, perciò, come tre v
esseri di pari dignità, ne deriva l'indubbia garanzia che esistono tre A
persone: Padre, Figlio e Spirito Santo. Non è assolutamente il caso di 7,
pensare ad una posteriore interpolazione delle parole « Padre, Figlio e
Spirito Santo », giacché il passo trinitario si rinviene in tutti i codici, in S
tutte le versioni e nelle stesse citazioni dei primi secoli. Il fatto che
Eusebio adduce pure un'altra espressione, non è prova in contrario. Se¬
condo Luca (24, 49) Gesù risorto dice ai discepoli : « Ed ecco io mando
su di voi il dono promesso del Padre mio; ma voi restate in questa città
finché siate rivestiti di potenza dall'alto ». Gli Atti degli Apostoli presen¬
tano in vari passi (2, 32 s.; 2, 38 ss.; 5, 31 s.; 7, 55 s.; 10, 38; 11, 15-17)
testimonianze favorevoli alla Trinità di Dio.
b) a) Nella Cristologia vedremo che i Sinottici ci presentano il
Padre e il Figlio, singolarmente presi, come persone divine realmente
distinte tra di loro, pur essendo un unico Dio.
§ 44- LA TRINITÀ NELLA SACRA SCRITTURA 251
P) Per quanto concerne lo Spirito Santo, dobbiamo osservare che,
secondo i sinottici, esso agisce in svariati modi sugli intermediari della
rivelazione e su Cristo stesso: Mt. 1, 18. 20; 3, 11. 16; 4, 1; 12, 18. 28;
12, 31 s.; 28, 19; Me. 1, 8. 10. 12; 3, 29; 13, 11; Le. 1, 15. 35. 41. 67;
2, 26 ss.; 3, 29; 4, 1. 14; 10, 21; 12, 10 ecc. Cristo così parla di lui:
« Per questo vi dico : Ogni peccato e ogni bestemmia sarà perdonata agli
uomini; ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non sarà perdonata.
E chiunque avrà parlato contro il Figliuol dell'uomo, sarà perdonato; ma
a chiunque avrà parlato contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato nè
in questo secolo nè nel futuro » (Mt. 12, 31 s.; Le. 12, 10; Me. 3, 29 s.,
dove la bestemmia contro Gesù è equiparata al peccato contro lo Spirito
Santo). Da queste parole appare evidente la divinità dello Spirito Santo.
Possiamo ammettere a stento che gli uditori di Cristo potessero anche
intenderne il carattere personale. Le parole più espressive riguardanti lo
Spirito Santo, Cristo le rivolge non alle masse, ma bensì al cerchio ri¬
stretto dei discepoli : « Quando poi vi condurranno dinanzi alle sinago¬
ghe e ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi del modo di rispon¬
dere, nè di quel che dovrete dire: perchè lo Spirito Santo, vi insegnerà
in quello stesso momento, ciò che dovrete dire» (Le. 12, 11 s.). Cristo
promise lo Spirito Santo ai discepoli anche prima della sua ascensione
il cielo (Atti 1, 8): mentre Giovanni battezzava solo con acqua, gli Apo¬
stoli sarebbero stati ben presto battezzati nello Spirito Santo. Per la po¬
tenza di questo Spirito avrebbero reso testimonianza al Signore in Ge¬
rusalemme, in Giudea, in Samaria e sino agli estremi confini della terra.
Alla Pentecoste lo Spirito fu realmente inviato a tutta la comunità dei
credenti raccolta in Gerusalemme (Atti 2, 1-5). Egli guida e fa progre¬
dire la Chiesa: è l'attore principale in ogni evento (5, 3. 9. 32; 15, 28).
Sceglie Paolo perchè predichi ai gentili (13, 2-4); gli è compagno invi¬
sibile nel suo lavoro missionario; lo conduce dal campo della messe asia¬
tica in quello europeo (16, 6 s.); gli preannunzia i dolori e le ansietà
della prigionia (20, 22 s.; 21, 10 s.). Poiché lo Spirito Santo è colui che
dirige la Chiesa, la menzogna di Anania e Saffira diviene peccato contro
lo Spirito Santo (5, 3. 9). Si narra di una speciale comunicazione dello
Spirito Santo tanto a Samaria (8, 14-17) quanto a Efeso (19). Ciò che
avviene ad Efeso è molto significativo. Qui Paolo incontra i discepoli di
Giovanni il Battista che non hanno ancora udito parlare dello Spirito
Santo. L'Apostolo non solo lo annuncia, ma lo partecipa loro mediante
l'imposizione delle mani. Negli Atti, lo Spirito Santo è certamente de-
17
252 P. I. - DIO UNO E TRINO
i
scritto in continuazione della concezione veterotestamentaria, come la ha
forza, il dono di Dio, il principio santificante (i, 8; 2, 17 s.; 2, 38; 2, 4; pers
4, 8; 8, 39; 8, 15-19; 9, 17; 10, 44. 47; 13, 9. 52 s.). Tuttavia spesso
l'uno
ha anche tratti chiaramente personali: egli opera in coloro che credono
in Cristo, specialmente negli Apostoli e nei membri più influenti delle
comunità (cfr. 4, 8. 31; 6, 3; 7, 55; 8, 15. 17 s.; 9, 17; 10, 44 s.; 11,
5. 24; 13, 9; 19, 2. 6. 21); è l'ispiratore della Scrittura (1, 16; 4, 25;
Trin
7, 51; 28, 25). Per giudicare rettamente tutti i testi, non dobbiamo di¬
cara
menticare che il vocabolo pneuma (spirito) ha fondamentalmente due
significati: può designare tanto lo spirito personale di Dio, quanto il quanto
dono divino impersonale. E ora si accentua l'uno ora l'altro di questi due Spiri
aspetti. dell'esistenza
paolin
quanto
In S. Paolo.
uom
2. - a) Il seguente testo di Paolo sulla Trinità in generale ci rivela a
entr
come la sua fede e religiosità abbiano un carattere profondamente tri¬
(pneuma)
nitario : « E per lui (Cristo) tanto gli uni quanto gli altri abbiamo libero
accesso al Padre mediante un medesimo Spirito » (Ef. 2, 18). Questo ne
passo che tratteggia la profondità dell'esistenza cristiana, doveva costi¬
tuire la chiave di tutto l'insegnamento paolino sulla Trinità. Solo in
Cristo possiamo unirci a Dio e solo in quanto suoi membri possiamo unione
congiungerci al Padre. Cristo trasforma gli uomini mediante lo Spirito fi
Santo; la nuova vita, quindi, è partecipazione alla vita delle tre Persone C
divine. In colui che, mediante il battesimo, entra in contatto con Cristo, tut
elevato e glorificato, scorre lo Spirito (pneuma) di Cristo che straripa e suggerim
domina ovunque. Lo Spirito Santo che vive nella perpetua dedizione al rip
Padre e al Figlio, anzi è questa dedizione stessa, guida al Padre chiunque
a cui egli è inviato.
La Trinità delle persone e la nostra unione a loro mediante Cristo sott
sono espresse in molti altri passi. Nel saluto finale della lettera ai Co¬ p
rinti si legge : « La grazia del Signore Gesù Cristo e la carità di Dio
e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi » (2 Cor. 13, 13).
Agli Efesini l'Apostolo rivolge questo suggerimento : « Nè inebriatevi
di vino, nel che vi è la dissolutezza, ma siate ripieni dello Spirito Santo,
trattenendovi con salmi, inni, e canti spirituali, cantando e salmodiando
di cuore al Signore, rendendo sempre grazie per tutto, nel nome del
Signore nostro Gesù Cristo, a Dio Padre, sottomettendovi gli uni agli
altri nel timore di Cristo » (Ef. 5, 18-20). Cfr. pure Rom. 1, 1-7; 5, 1-5;
§ 44- LA TRINITÀ NELLA SACRA SCRITTURA 253
8, 3 s.; 8, 8 s.; 8, 11; 8, 16 s. 20-30; 14, 17 s.; 15, 16-19; 15, 30; 1 Cor.
2, 6-16; 6, il; 6, 15-20; 12, 3-6; 2 Cor. 1, 21 s.; 3, 3-6. 10-17; 4> *3 s-5
5, 5-8; 13, 13; Gal. 3, 1-5; 3, 11-14; 4, 6; 5, 21-25; Ef- h 3"I35 L J7;
2, 22; 3, 5-7; 3, 14-17; 4, 4-6; 4, 30-32; 5, 18-20; Fil. 3, 3; Col. 1, 6-8;
i Tess. 1, 6-8; 4, 2-8; 5, 18 s.; 2 Tess. 2, 13 s.; Tit. 3, 4-11; Ebr. 2,
2-4; 6, 4-6; 9, 14; 10, 20-31. Da tutti questi passi risulta evidente che
la Bibbia non si accontenta di notificarci semplicemente che la Trinità
esiste e di farcene riconoscere il fatto, ma bensì intende, attraverso la
comunicazione della vita tripersonale di Dio, spiegare la nostra stessa
esistenza. Il battezzato partecipa a tale vita.
b) La dottrina dell'Apostolo riguardo alla Trinità in particolare
si può raccogliere nei due punti seguenti:
a) Rapporti tra Padre e Figlio (cfr. pure al riguardo il trattato
su Gesù Cristo e quello sulla Chiesa): Cristo è l'immagine di Dio in¬
visibile (2 Cor. 4, 4; Col. 1, 15), il fulgore della sua gloria e l'impronta
della sua sostanza (Ebr. 1, 3). La parola « immagine » non designa solo
l'imitazione di Dio da parte di Cristo; ma significa qualcosa di più.
L'immagine, nel significato usato da Paolo, sta per l'irradiazione, la ma¬
nifestazione visibile d'una realtà invisibile, a cui partecipa, anzi è questa
realtà medesima in quanto si manifesta. Qui, dunque, l'immagine è
eguale alla realtà che rappresenta. Da essa si può vedere ciò che Dio
vuole e fa. Cristo è anche figlio diletto di Dio (Col. 1, 13), il quale esi¬
steva in forma di Dio quando il mondo non era ancora (Fil. 2, 6).
È quindi Dio come il Padre (Rom. 9, 5), che invia lui, suo Figlio, nel
mondo (Gal. 4, 4) per riscattarci dal peccato e donarci la figliolanza
divina. In lui Dio si riconcilia di nuovo con noi e ci accoglie come figli
(Ef. 2, 12-18; Rom. 3, 23 s.; 5, 10; 8, 17; Gal. 3, 26 s.). Mediante la
fede in Cristo noi abbiamo pace con Dio e con nostro Signore Gesù Cristo
medesimo (1 Tess. 1, 1; 2 Tess. 1, 1). Il Cristo, che noi accogliamo
nella fede, esiste in forma gloriosa, e come tale, opera quale capo della
Chiesa, di cui sono membri coloro che credono in lui (Ef. 4, 11-16;
Rom. 12, 5; 1 Cor. 10, 17. 13; Col. 2, 19). Egli è per tutti fonte della
vita, così come il primo Adamo è stato origine del peccato e della morte
(Rom. 5, 12-21; 1 Cor. 15, 22. 45-48). Incorporandosi nella comunità
della Chiesa, il singolo si unisce a Cristo e partecipa alla sua gloria;
esiste « in » Cristo, nella sua sfera operativa, e Cristo esiste « in » lui,
come spesso afferma Paolo. Il Cristo glorificato con la sua possente at¬
tività è il Signore di chi crede in lui (Gal. 2, 19 s.; specialmente Rom.
6, 3-11; cfr. pure Col. 3, 9-11; 1 Cor. 1, 30 s.). Il credente è permeato
tomissione di tutti i credenti a Cristo e di C
254 P. I. - DIO UNO E TRINO
consegnerà
e dominato dall'Io di Cristo. Con la comunione a Cristo diveniamo figliPadre
di Dio, poiché Cristo è l'unigenito naturale di Dio, il quale estende a
Chiesa,
noi perciò, in una certa misura, la sua figliolanza (Rom. 8, 32; 15, 6;
2 Cor. 1, 3; 11, 31; Ef. 1, 3; 2, 10 s.; Col. 1, 3). Come noi apparteniamo (
a Cristo, così Cristo appartiene a Dio (1 Cor. 3, 22 ss.; 11, 3). La sot¬ Cr
tomissione di tutti i credenti a Cristo e di Cristo a Dio, in modo checoncez
Dio sia tutto in tutto, sarà piena e completa dopo il giudizio universalemedia
(1 Cor. 15, 24-27). Allora il Figlio consegnerà con un atto che mai avrà
termine, l'intera creazione rinnovata al Padre, in modo che il regno di med
Dio sussista eternamente. Egli
Cristo non è soltanto il capo della Chiesa, ma egli è anche, sia pure regn
in modo diverso, il capo di tutto il creato (1 Cor. 8, 6; Col. 2, 10). de
Tutto ciò che proviene da Dio, esiste per Cristo e in Cristo. Nella let¬ creaz
tera ai Colossesi Paolo, respingendo le concezioni dualistiche e gnostiche
secondo cui Dio sarebbe irraggiungibile mediante la conoscenza e il culto sian
e potrebbe essere afferrato solo attraverso un intermediario (angelo), lui
presenta in modo inequivocabile la vera mediazione di Cristo e la sua de
superiorità sul mondo. Scrive infatti : « Egli che ci ha sottratti all'im¬ m
pero delle tenebre, e ci ha trasportati nel regno del Figlio dell'amor suo, (
in cui abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Egli è immagine tu
dell'invisibile Dio, il primogenito d'ogni creazione, giacché in lui furono
«primog
create tutte le cose nei cieli e sulla terra, le cose visibili e le invisibili;
siano essi i Troni, siano le Dominazioni, siano i Principati, siano le Po¬creato.
testà. Tutto per mezzo di lui e in vista di lui fu creato; ed egli è avanti
a tutto e il tutto in lui sussiste ed è il capo del corpo, ossia della Chiesa. de
Egli è il principio, e primogenito di tra i morti, affinchè in ogni cosa lett
egli tenga il primato; giacché in lui piacque (al Padre) che abitasse ogniattribuire
l'essenziale
pienezza, e per lui fossero a sé riconciliate tutte le cose, avendole paci¬
ficate per il sangue della croce di lui, sia le cose della terra sia quelle ester
dei cieli » (Col. 1, 13-20). Il vocabolo «primogenito», qui usato, significa rivela
evidentemente che in Cristo tutto fu creato. (Cfr. Giov. 1, 3; inoltre
1 Cor. 8, 6; Ebr. 1, 2; 2, 10; nella lettera ai Rom. 11, 36, ed in quella
agli Ebrei, 2, 10, con le stesse parole viene designato l'ufficio del Padre).
Paolo non intende, nel passo citato della lettera ai Colossesi, sciogliere
un problema cosmologico, ma solo attribuire a Cristo il valore che gli
compete secondo la fede. Per lui l'essenziale è l'attività redentrice di
Cristo! Vede anche il legame del mondo esterno con Cristo sotto questo
aspetto. Il creato intero sospira verso la rivelazione della gloria dei figli
di Dio! (Rom. 8, 20-22; Col. 1, 20). Anche se Cristo è il creatore del
§ 44' LA TRINITÀ nella sagra scrittura 255
mondo, il suo rapporto con il mondo si realizza pienamente però, secondo
l'insegnamento paolino, mediante l'opera redentrice.
Il fatto che tutto fu creato in Cristo e in vista di lui, è incluso nel¬
l'espressione : «Gesù è il Signore» (Rom. 10, 9; 1 Cor. 12, 3). Come
tale è anche giudice (1 Cor. 4, 4 s.; 5, 5; 2 Cor. 1, 14; 1 Tess. 5, 2;
2, 19; 3, 13; 5, 23; 1 Tim. 6, 14), è padrone, a cui tutto appartiene
(Rom. 14, 7-9; 1, 1; 1 Cor. 7, 22; Gal. 1, 10; Ef. 6, 6; Fil. 1, 1;
Col. 4, 12). Direttamente queste ultime espressioni si riferiscono a Cristo
glorificato, ma il suo stato glorioso è solo la manifestazione della sua
eterna gloria divina rimasta sino a quel momento nascosta. Egli si è ab¬
bassato e perciò Dio lo ha elevato (Fil. 2, 9-11; cfr. Rom. 7, 14-25;
8, 6-14). Cristo glorioso è spirito vivificante (1 Cor. 15, 45), possiede
lo Spirito non solo per partecipazione, ma per natura e con pienezza
(2 Cor. 3, 17). Può, di conseguenza, essere vita, sapienza e potenza per
i credenti (1 Cor. 1, 24; Col. 1, 29; 3, 4; Fil. 4, 13).
Paolo, pur tratteggiando così la gloria di Cristo e il suo essere celeste,
ne ricorda altresì le debolezze della carne; ma proprio da tale accenno
balza più luminoso il suo aspetto sovrumano e divino (1 Cor. 2, 8;
Rom. 9, 5; 2 Cor. 4, 6). Paolo spiega il valore riconciliativo della morte
di Gesù mediante la sua divinità (2 Cor. 5, 18-20; Rom. 5, 10 s.;
1 Cor. 6, 20; 7, 23; Gal. 3, 13; 4, 5; 1, 4; Col. 1, 20-22; Ef. 2, 14-16).
Dio ci ha mostrato il suo amore proprio nel sacrificare suo Figlio per
noi (Rom. 5, 8; 8, 32; Gal. 4, 4; 8, 3). Per Cristo tale olocausto è un
abbassamento (2 Cor. 8, 9; Fil. 2, 5-11), dato che a lui appartiene la
gloria divina. Gesù quindi non è divenuto Signore e spirito vivificante
e possente solo dopo la sua risurrezione e ascensione al cielo, ma lo era
già anche prima. Tuttavia con la risurrezione e l'ascensione la gloria di¬
vina che prima era nascosta si è palesata in lui (Fil. 3, 21). Egli la pos¬
siede ora nel modo con cui la godeva prima che il mondo fosse (Giov.
5)-
(3) In molteplici e svariate maniere Paolo descrive lo Spirito Santo.
Egli usa il vocabolo pneuma con significati diversi. Così una volta il ter¬
mine designa una parte costitutiva del complesso corporeo e spirituale
dell'uomo (1 Cor. 2, 11); ma ordinariamente significa la realtà sopran¬
naturale, che è stata partecipata ai discepoli nella Pentecoste. Con ciò si
può intendere tanto un dono impersonale di Dio, quanto una potenza
personale.
Per decidere se Paolo voglia significare l'uno o l'altra, si potrebbe raccogliere
tutti i passi in cui egli usa il termine pneuma; quindi basandosi sul contesto
256 P. I. - DIO UNO E TRINO l'inte
concetto
immediato in cui si trovano, ricavare il significato preciso di ciascun passo, or¬ comples
dinandoli poi secondo la ricchezza del loro contenuto. Ma tale procedimento a
non è sempre possibile. Il vocabolo pneuma esprime infatti un concetto centrale pa
nelle lettere dell'Apostolo, concetto che domina e colorisce tutta la sua testimo¬sessanta
nianza di Cristo. Perciò deve avere un significato preciso e unitario, e tuttavia Padre
ricco di sfumature e polivalente. È quindi inutile fermarsi all'esame dei singoli F
passi. Dal contesto immediato si può di solito trarre solo una parte dell'intero
inscindibile
contenuto. Il passo singolo dà risalto, per lo più, solo a uno dei molti elementi Trini
parziali del concetto generale, senza esaurirne l'intera ricchezza.
Per comprendere i diversi elementi del concetto di pneuma e la loro intima pers
relazione, occorre esaminare la parola nel complesso dell'insegnamento paolino. a
Questo lo troviamo soprattutto là ove l'Apostolo annunzia la redenzione operata s
del Padre mediante Cristo. In tale contesto si parla non solo una o due volte m
dello Spirito Santo, ma bensì cinquanta o sessanta! A lui si allude tutte le volte pe
che il discorso cade sulla redenzione che il Padre ha compiuta per mezzo del su
Figlio. Qui lo Spirito appare come terzo. Padre Figlio e Spirito Santo formano tra
la Trinità, che tuttavia appare quale inscindibile unità. Tutti i passi paolini
che sinora abbiamo addotti per stabilire la Trinità in Dio, testificano che lo l'impers
Spirito Santo è potenza personale operante, pari al Padre e al Figlio: ciò di¬ cristia
mostra la sua personalità. E questo carattere personale per cui lo Spirito è di¬
stinto dal Padre e dal Figlio pur appartenendo a loro, prevale nella complessa
struttura del concetto di pneuma. Perdura sullo sfondo anche quando il voca¬
bolo pneuma appare come dono impersonale. In molti passi non si riesce nem¬
meno a decidere se pneuma va inteso in senso personale oppure come un dono P
gratuito impersonale. Il che si giustifica appieno supponendo che lo stesso Paolo 1
non vi vedesse una reale separazione, per cui, tra il pneuma personale di Dio parte
e il dono che egli conferisce sussiste il più stretto legame. Il concetto di pneuma n
include quindi sia la realtà personale, sia l'impersonale senza che sia possibile sen
scindere l'una dall'altra. Cfr. C. Prumm, Il cristianesimo come novità di vita,
Brescia 1955, 153 ss. ss.).
(Rom
La pienezza dello Spirito Santo fu inviata il giorno di Pentecoste alla 13
comunità cristiana raccolta a Gerusalemme. Paolo testifica l'attività dello nell
Spirito di Dio inviato alla Chiesa (1 Cor. 12) e operante in essa per quan
conformarla a Cristo. Il singolo diviene partecipe dello Spirito Santo in
quanto è membro della Chiesa e lo Spirito non manca ad alcun mem¬cristian
bro. È un dono essenzialmente cristiano; senza di lui nessuno può es¬
sere cristiano (Rom. 8, 9; 1 Cor. 6, 16 ss.). Vivere in Cristo e vivere
nello Spirito è la stessa identica cosa (Rom. 2, 29; 15, 16; 8, 9-11;
1 Cor. 1, 2; 6, 11; 2 Cor. 13, 13; Ef. 1, 13; 3, 4; Gal. 2, 17; Col. 2,
11; Fil. 1, 27; 2, 1; 4, 1). Cristo opera nell'uomo mediante lo Spirito,
è il principio vitale per i battezzati, in quanto dona ad essi lo Spirito
(Ef. 4, 11-16). Lo Spirito produce nel corpo (mistico) di Cristo svariati
doni. Tutti i carismi, che l'esperienza cristiana conosce, provengono da
§ 44- LA TRINITÀ nella sacra scrittura 257
lui (1 Cor. 12, 8-13; cfr. il trattato sulla Grazia e sulla Chiesa). Icri¬
stiani son divenuti « spirituali » (Gal. 6, 1; 1 Cor. 3, 1 ss.). La loro
« spiritualità » ontologica deve essere realizzata sempre più nella con¬
dotta, con uno sforzo continuo, calmo e progressivo (Gal. 5, 22 ss.; 2 Cor.
5, 17; Gal. 6, 15; 1 Cor. 4, 15). La comunicazione dello Spirito sfocia
in una nuova vita, che è libera dal dominio della carne e della lettera,
una vita in Cristo e per Cristo. Questa nuova esistenza misteriosa e na¬
scosta, conoscibile solo per fede, ci è indubbiamente testimoniata dallo
stesso Spirito Santo (2 Cor. 3, 1-3; cfr. 1 Cor. 6, 9 ss.). Segno della
nuova vita è il comportamento nuovo (Rom. 8, 6-11; 1 Cor. 6, 9 ss.;
15, 9 ss.; Gal. 1, 13-16; 5, 9-23; Ef. 1, 17 ss.; 1 Tim. 1, 12-16). Lo
Spirito illumina e fortifica il cristiano abitando in lui, lo muove ad agire,
cosicché egli non è indotto all'azione da una legge esteriore, ma è legge
a se stesso (1 Cor. 2, 4. 10-16; 13, 7; 15, 43 s.; Rom. 8, 14-27; 14, 17;
Fil. 4, 13; 2 Tim. 4, 17; Gal. 3, 5; 1 Tess. 1, 5).
Lo Spirito è dunque il principio donatoci da Cristo, che opera la nuova
vita di unione con lui. Tale vita è già presente, ma in modo tuttora im¬
perfetto, e si protende nella speranza della perfezione. Lo Spirito com¬
pirà la sua opera, quando risusciterà il corpo morto per dargli nuova vita.
Il che s'è già avverato per Cristo, qual primizia (Rom. 6, 8. 22; 8, 6.
10. 22-24; 1 Cor. 15, 43; 2 Cor. 4, 10; 5, 4 s.; Gal. 2, 20; 5, 24 s.;
Col. 3, 4).
Riassumendo possiamo dire che lo Spirito è, nel cristiano, principio di
nuova, vera vita divina; che Cristo, il primogenito tra molti fratelli, pos¬
sedendo lo Spirito senza alcun limite, partecipa a quanti si uniscono a
lui con la fede e con il battesimo i doni dello Spirito che gli apparten¬
gono nella loro pienezza. Senza lo Spirito comunicato dal Cristo non vi
è che peccato e debolezza. L'uomo ripieno di Spirito aderisce così for¬
temente a Cristo da divenire un unico spirito con lui (Rom. 7, 6; 8, 4 ss.;
1 Cor. 6, 17; 2 Cor. 12, 18; Gal. 5, 16-25).
Secondo queste testimonianze lo Spirito è sicuramente principio di¬
vino. In molti passi rimane però problematico se egli sia di più che una
forza impersonale. Tuttavia, a favore del carattere personale, pur pre¬
scindendo dalla già ricordata parificazione con il Padre e il Figlio, mi¬
lita il fatto che anch'egli abita in noi (Rom. 8, 9-11; 1 Cor. 3, 16;
2 Tim. 1, 14) come vi abita Cristo (Rom. 8, 10. 16; 2 Cor. 3, 5; Ef.
3, 17); che noi siamo suo tempio come siamo tempio di Dio; che siamo
giustificati nello Spirito (1 Cor. 6, 11) e in Cristo (Ef. 1, 13); santificati
nello Spirito (Ef. 2, 22) e nel Signore (Ef. 2, 11); che egli geme in noi
17 - schmaus - dogmatica I.
1 Cor. 2, 14; 3, 16; 6, n; 7, 40; 12, 3; 2 Cor. 3,
258 P. I. - DIO UNO E TRINO
espressi
e per noi supplica come fa anche Cristo (Rom. 8, 27. 34); che Dio lo
ha inviato nei nostri cuori come ha mandato il Figlio (Rom. 8, 9-11;
8, 26 s.; Gal. 4, 6; 4, 4; 1 Cor. 6, 19; 3, 16). Egli distribuisce i doni ques
come vuole (1 Cor. 12, 4-11). Nè possiamo intenderlo esclusivamente pe
come attributo di Dio, benché si chiami Spirito di Dio (Rom. 8, 9. 14; pre
1 Cor. 2, 14; 3, 16; 6, 11; 7, 40; 12, 3; 2 Cor. 3, 3; Ef. 3, 16; Fil. 3, 3), ch
spirito del Signore (2 Cor. 3, 17 s.), Spirito di suo Figlio (Gal. 4, 6), Sa
Spirito di Gesù Cristo (Fil. 1, 19). Tali espressioni significano piuttosto lo
che lo Spirito sta inseparato presso il Padre e il Figlio. In particolar
modo è espressa la sua appartenenza al Figlio, di meno l'origine e la ma
missione. Cfr. Gal. 4, 6 e Rom. 8, 15. In questi due passi lo Spirito,
inviato dal Padre, è detto Spirito del Figlio, perchè è colui che ci fa Spir
partecipare alla figliolanza di Cristo. Icristiani prendono parte alla gloria, an
alla potenza, alla santità e alla vita di Cristo che, per la natura divina, ass
possiede tutti questi beni, mediante lo Spirito Santo. uman
Nonostante lo stretto legame che esiste tra lo Spirito e Cristo, non debolezz
dobbiamo tuttavia ridurli ad un'unica persona. Paolo chiama sì Cristo S
la sua vita (Fil. 1, 21; Gal. 2, 20; Col. 3, 44), ma giammai dice la stessa v
cosa dello Spirito. Di Cristo si può asserire che deve prender forma nei
credenti, mentre ciò non è mai detto dello Spirito Santo (Gal. 4, 19).
Quando Paolo, parlando di Cristo risorto, ci annunzia (1 Cor. 15, 45) ma
che è divenuto spirito vivificante, non vuole asserire l'identità di Cristo des
con lo Spirito, ma sottolineare che la natura umana di Cristo, ormai tutta Ve
permeata di Spirito, non ha più alcuna debolezza umana, niente di pe¬ 1,
rituro, ma è diventata organo comunicante lo Spirito ai credenti. Cfr.
F. Prat, La teologia di S. Paolo, Torino 1927, vol. II, 283-285. una
forte
esclusivamente
In S. Giovanni. Tes
3. - L'apostolo Giovanni presenta una ben marcata dottrina trinitaria. l
a) Il prologo al suo Vangelo principia descrivendo l'esistenza di P
Cristo prima del mondo. « In principio era il Verbo (Logos), e il Verbo
era presso Dio, ed era Dio il Verbo » (Giov. 1, 1).
La parola Logos, usata da Giovanni, aveva già una lunga storia. Pur essendo
discussa l'origine del vocabolo, si può dire, con forte verosimiglianza, che Gio¬
vanni non lo trasse in primo luogo ed esclusivamente dalla concezione cosmica
degli gnostici, bensì principalmente dall'Antico Testamento e dalla filosofia
greca. Nel Nuovo Testamento è il concetto di « parola » che conduce al Logos di
Giovanni. Con la parola Dio ha creato il mondo; con la parola lo conserva: essa
è quindi la potenza che lo fa esistere e lo sostiene. Pure tramite la parola Dio
§ 44- LA TRINITÀ NELLA SACRA SCRITTURA 259
penetra nel divenire umano, chiama a sè gli uomini e attua i suoi piani di sal¬
vezza e di storia del mondo. Come la pioggia e la neve cadono dal cielo e non
vi ritornano, senza avere fecondato la terra per dare seme a chi semina e pane
a chi mangia, così la parola che esce dalla bocca di Dio, non vi ritorna senza
frutto, vale a dire, finché non abbia realizzato ciò che egli voleva e ciò per cui
è stata inviata (Is. 55, 10 s.). Con la parola della sua bocca il Re liberatore ca¬
stiga gli empi (Is. 11, 4). Essa è principio di salvezza o di condanna (Sap. 18,
14-19). La parola del Signore è fuoco, martello che spezza le pietre (Ger. 23, 29;
cfr. Ebr. 4, 12), potenza che salva e guarisce (Sap. 16, 12. 26; cfr. Sai. 18. 8 s.).
Il vocabolo « parola » indica la potenza e l'agire di Dio quale potenza e azione
ripiene di spirito. Pertanto la denominazione « Logos » significa appunto che
Cristo è potenza e attività di Dio, piene di spirito, mediante le quali la natura e
la storia sono create e conservate. Da tale schiarimento appare evidente che il
tradurre: In principio era l'azione, non è poi così lontano dal pensiero della
prima frase evangelica, come pensa Faust (Stauffer). In principio era il Verbo,
che è azione.
Nel paganesimo troviamo una seconda corrente di pensiero che conduce al
Logos giovanneo. Iniziata da Eraclito, raggiunge, attraverso Platone e Aristotele,
la filosofia stoica, la filosofia religiosa giudaica, lo gnosticismo e il neo-platonismo.
Da ciò si può già comprendere che nel vocabolo Logos sono riunite svariate
concezioni. Per l'interpretazione del Logos giovanneo, serve massimamente l'uso
stoico del vocabolo. Secondo la filosofia stoica Logos designa la ragione del
mondo, che è onnipresente e si riparte nei singoli uomini, cosicché l'anima in¬
dividuale non è altro che una parte, una frazione, della ragione del mondo. Tale
dottrina non è molto lontana dal pensiero platonico, che in ogni cosa e nell'in¬
sieme dell'universo vede realizzato un senso. Platone scorge il significato delle
singole cose e del mondo complessivamente preso, nel fatto che ogni cosa è
l'espressione di un'idea. Ciascuna cosa rimanda ad una forma trascendente che
in essa si riflette, a un archetipo che in essa si manifesta. Tutte le cose sensibili
non sono che ombre di tali forme archetipe o idee le quali sono la vera realtà.
Tutte le idee sono ricollegate a un'idea madre, che Platone chiama l'idea del bene.
Siffatti pensieri sono presenti nel concetto di Logos. Esso racchiude in sè tutte
le idee e tutti gli archetipi le cui ombre vediamo nelle cose. In esso si palesa a
noi il loro senso, il significato sia del mondo, sia delle singole cose. Così ad
esempio, ciò che pane, vino o acqua significano si realizza, nel suo ultimo senso,
solo nel Logos. Le cose ci presentano solo abbozzi sbiaditi di ciò che, come loro
archetipo, vive nel Logos. Il Logos contiene pure l'immagine di ogni singolo
uomo. Esso è dunque l'idea che Dio ha del mondo. Sotto questo aspetto il ter¬
mine greco Logos si traduce assai bene con « parola ». Infatti nel Logos Dio
esprime il suo pensiero del mondo, come in una parola profonda e comprensiva.
Il Logos racchiude quindi in sè e forza di esistenza e idea del mondo. Tutta
la realtà è sospesa alla potenza creatrice e al pensiero di Dio. Il Logos racchiude
ed esprime azione e idea, potenza e spirito. È l'eterno significato del mondo, che
traluce in tutte le cose e in tutti gli eventi. Così il Logos garantisce l'esistenza
e il senso, la profondità e la forma del mondo sia nel complesso sia nelle sin¬
gole cose. Nei fallimenti e nelle assurdità della storia esso rappresenta l'ultima
garanzia della esistenza e razionalità del mondo e della storia stessa. Durante il
(G
2Ó0 P. I. - DIO UNO E TRINO
prin
corso terrestre della vita umana la potenza creatrice e la ragione delle cose e
nost
dell'uomo rimangono nascoste. Ma un giorno balzeranno vittoriose dalle tenebre Ver
dell'irrazionalità terrestre. La fede nella potenza razionale del Logos trae seco testimo
la forza di superare con l'occhio fìsso alla rivelazione, da cui ci vien svelato l'ul¬
timo significato del mondo e della storia, tutte le oscurità e assurdità dell'esi¬ annunziam
stenza umana.
Giovanni dice di aver visto questo Logos (Giov. i, 14). Nella sua »
prima lettera aggiunge : « Ciò che era da principio, ciò che abbiamo
sentito, ciò che abbiam veduto cogli occhi nostri, ciò che contemplam¬ è
mo, e le mani nostre palparono, intorno al Verbo della vita, — sì, la contemporan
vita si manifestò, e noi abbiam veduto e testimoniamo e annunziamo a l'eva
voi quella eterna vita che era presso il Padre e si manifestò a noi — s'allon
ciò che abbiamo veduto e sentito, lo annunziamo anche a voi, affinchè in
anche voi abbiate comunione con noi. Quanto alla nostra comunione, trascen
essa è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo » (1 Giov. 1, 1-3). L
Giovanni può vedere il Logos che annunzia, perchè questo Logos è m
penetrato nella storia umana. Esso quindi non è una figura mitica come il
i diversi Logoi, in cui credevano i contemporanei di Giovanni, ma una sottolin
figura storica. Nell'usare l'espressione Logos, l'evangelista rivolge, in certo da
senso una specie d'invito al lettore perchè s'allontani dai falsi Logoi per
seguire il vero. Pare voglia dirgli: Ciò che voi intendete con il vocabolo stor
Logos, io l'ho sperimentato, in maniera trascendente ogni vostro pen¬ og
siero, nel Logos che si è incarnato, in Cristo. Il Logos, anzi tutti iLogoi Il
a voi noti derivano dalla riflessione umana sul mondo e il suo mistero; principio
sono quindi creazione dell'uomo. Al contrario il Logos di cui vi do te¬ pr
stimonianza è una realtà storica. Giovanni sottolinea ciò in maniera assai pa
forte, ripetendo, più e più volte, che il Logos, da lui predicato, ha presocomunion
stanza sulla terra con un corpo reale.
Il Logos che lui esperimenta come realtà storica, ha un'esistenza an¬ dist
teriore al tempo. In principio, cioè prima di ogni altro essere della cui l
origine si parla in seguito, il Logos esisteva. Il suo essere risale al di giubila
là dell'esistenza del mondo ed è senza principio.
Di più il Logos è personale. Infatti esisteva prima d'ogni inizio presso
(pros) Dio, stava quindi di fronte a Dio, e, parimenti, proteso col suo
essere verso di lui. Stava con Dio in comunione e in scambio di vita.
Gli compete, quindi, una propria personalità e a un tempo natura di¬
vina. « Chiaramente ed inequivocabilmente distinto e individuato, sus¬
siste nella propria personalità; posto di fronte a lui gli esprime in comu¬
nione beata il tu filiale: Abba, Padre, e giubila dall'eternità. Ecco ciò
§ 44- LA trinità nella sacra scrittura 261
che è, rimane e sempre fu il Verbo nei rapporti al Padre » (Dillensberger).
Anche se il Logos è la forza creatrice e la ragione del mondo e ne
garantisce sia l'esistenza, sia il significato, tuttavia l'intenzione prima
dell'apostolo Giovanni non è quella di presentarci una concezione cosmo¬
logica che spieghi l'universo. Egli intende anzitutto rendere possibile ai
lettori la comunione con il Logos incarnato, invitandoli a donarsi a lui.
Giovanni parla del Logos sotto l'aspetto salvifico. Il Logos, preesistente
al mondo presso Dio e Dio egli stesso, è penetrato nel mondo e nella
storia per illuminare le tenebre e per ricondurre i figli al Padre. Colui
che possiede in sè la vita vuol comunicare agli uomini la sua vita, che
è vita di luce. Com'egli è la vita degli uomini, così ne è pure la luce.
La vita ch'egli dona, è ben diversa da quella che noi esperimentiamo e
che soggiace alla debolezza e alla caducità.
Nel seguito del Vangelo la parola Logos non ricorre più. Al suo posto
appare il termine confidenziale « Figlio », che esprime direttamente la
personalità e ricchezza di vita. Logos ricorre di nuovo nella prima lettera
dell'apostolo Giovanni e nell'Apocalisse. Nel capitolo 19 (vv. 11-13) vi
si narra che Giovanni vide il cielo aperto e uno che gli veniva incontro.
Costui, che si chiama il « Fedele » e il « Verace », giudica e incede con
giustizia, ha occhi fiammeggianti e porta sul capo diverse corone. « Il
suo nome è : Logos (Parola) di Dio ». Questa designazione, che risuona
quale eco del libro della Sapienza, esprime la funzione di giudice che
spetta all'eterno Figlio di Dio. Cfr. Apoc. 1, 16.
Ciò che fu brevemente delineato nel Prologo viene poi sviluppato nel
corso del Vangelo. La parola « Figlio », che sostituisce « Logos », in¬
dica con modi e immagini sempre nuovi, tanto l'essere personale del Si¬
gnore, quanto la sua natura divina, tanto la sua distinzione dal Padre
quanto il suo legame con lui. Il Figlio è anteriore alle più antiche gene¬
razioni, anzi allo stesso mondo. Egli infatti esisteva prima d'ogni cosa
(3, 11-13; 6, 46; 8, 23. 38. 58; 17, 5). Di tutto è debitore al Padre
(5j 36- 23- 275 3> 355 13s 3; 16, 15) ed è nello stesso tempo uno con
il Padre nell'essere e nell'agire. Il Padre è in lui ed egli è nel Padre.
Chi vede il Figlio vede pure il Padre (14, 10 s.; 20, 7. 9; 10, 37; 17, 21).
Cristo è il Signore e Dio (20, 28). La vita eterna è conoscere Dio e colui
che ha inviato: Gesù Cristo (17, 3). L'unità del Padre con il Figlio è
principio e modello dell'unità che devono avere tra loro i cristiani (17,
20-23).
b) Per quanto riguarda lo Spirito Santo possiamo distinguere negli
scritti di Giovanni tre gruppi di passi: quelli che parlano solo di alcuni
psicologico di interiorità contro l'esteriorità. Sig
262 P. I. - DIO UNO E TRINO
un'a
tratti dello Spirito (1-13), quelli che ne testimoniano, in modo indubbio, svela
il carattere personale (14-21) e quelli che descrivono l'attività dello Spi¬ rivelaz
rito donato da Cristo (1 Giov.). battez
a) Dio è spirito, perciò lo si deve adorare in spirito e verità (3, 5-6; 3
e
4, 24; 6, 36). La parola « in spirito » non può essere intesa nel senso
psicologico di interiorità contro l'esteriorità. Significa piuttosto il divino s
fondamento della vera adorazione, quindi un principio soprannaturale. sostituto
L'adorazione in spirito e in verità è quindi, un'adorazione informata dalloconsumazi
Spirito e che si rivolge al Dio che ci fu svelato in Cristo (verità è la stesso
realtà divina divenutaci accessibile nella rivelazione). Lo Spirito riposa disce
su Cristo dopo il suo battesimo e Cristo battezzerà nello Spirito Santo Testamento
(1, 32 s.). Egli ha lo Spirito senza misura (3, 34); ma solo dopo la sua m
glorificazione lo Spirito viene « dispensato » e comunicato ai discepoli Ges
(7, 39). È promesso per il tempo in cui Cristo sarà giunto alla sua gloria perch
(16, 7). Lo Spirito sarà allora il suo sostituto invisibile, renderà pre¬
sente nel popolo di Dio e sino alla consumazione dei secoli la suaconoscerete,
pa¬
rola, la sua opera e la sua persona. Cristo stesso ha promesso tale attività
dello Spirito nel suo discorso d'addio ai discepoli. Spir
P) Fra tutti i passi del Nuovo Testamento, il discorso di commiato
dopo l'ultima cena è quello che descrive nel modo più chiaro il carat¬
tere personale dello Spirito Santo. Infatti Gesù dice : « Io pregherò il verità
Padre ed egli vi darà un altro Paracleto perchè rimanga in eterno con mi
voi, lo Spirito cioè di verità che il mondo non può ricevere, perchè non
lo vede nè lo conosce; ma voi lo conoscerete, perchè dimorerà in voi m
e sarà in voi » (14, 16 s.). « Queste cose vi ho detto mentre mi trovavo rie
ancora in mezzo a voi; ma il Paracleto, lo Spirito Santo che il Padre vi
manderà in mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi suggerirà tutto
ciò che vi ho detto » (14, 25 s.). « Quando poi sarà venuto il Paracleto, pecca
che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità, che procede dal Padre, in
egli renderà testimonianza di me, e voi pure mi renderete testimonianza, giudiz
perchè siete con me fin dal principio » (15, 26 s.). « Ma ora vado a
colui che mi ha mandato; e nessuno di voi mi domanda: Dove vai?
E perchè vi ho detto ciò, la tristezza vi ha riempito il cuore. Tuttavia
io vi dico in verità: È utile che me ne vada, perchè se io non vado,
il Paracleto non verrà a voi; ma se io me ne andrò, ve lo manderò. E
quando sarà venuto, accuserà il mondo di peccato, di giustizia e di giu¬
dizio; di peccato, perchè non hanno creduto in me; di giustizia, perchè
vado al Padre, e non mi vedrete più; di giudizio, perchè il principe di
questo mondo è già giudicato» (16, 5-11).
§ 44- LA trinità nella sacra scrittura 263
Questi passi mostrano che lo Spirito promesso dal Salvatore non è
solo una forza, ma bensì vera persona. Egli continua l'opera di Cristo,
ha un'attività personale propria, è distinto sia dal Padre, sia dal Figlio.
(La stessa struttura grammaticale, per cui, nonostante che pneuma sia
neutro, si usa il maschile ekeinos, favorisce l'interpretazione personale
dello Spirito). Che sia in intima unione col Figlio e tuttavia distinto da
lui emerge dalle espressioni : « Egli prenderà del mio », e « ve lo man¬
derò » (16, 7. 14). Cristo ha adempiuto la sua promessa dopo la risur¬
rezione (20, 21-35).
y) Nella prima lettera, Giovanni attesta che lo Spirito Santo, inviato
da Cristo, testimonia l'incarnazione del Figlio di Dio e la presenza di Dio
nei cristiani : « Chi è mai che vince il mondo, se non chi crede che Gesù
è il Figlio di Dio? Questi è quegli che è venuto con acqua, sangue e
Spirito: Gesù Cristo. Non con l'acqua soltanto ma con l'acqua e col
sangue; e lo Spirito è quegli che rende testimonianza perchè lo Spirito
è verità. Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza (nel cielo:
il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo e questi tre sono una cosa sola; e
tre sono quelli che rendono testimonianza in terra:) lo Spirito, l'acqua
e il sangue; e questi tre sono una cosa sola » (Giov. 5, 5-8). Il passo che
sta tra parentesi, il cosiddetto Comma Iohanneum, è ritenuto spurio.
Apparve per la prima volta in Spagna durante il IV secolo, dall'vin entra
nel testo latino della Bibbia e dal xv nei codici greci. Cfr. la dichiara¬
zione del S. Ufficio del 13 gennaio 1897 con la decisione del 2 giugno
1927 (Denz. 2198). Conserva però il valore di tradizione.
Ciò che Cristo preannuncia dello Spirito Santo nel suo discorso di
addio, qui l'Apostolo prediletto lo mostra compiuto dallo Spirito stesso
(cfr. pure 3, 24; 4, 13), del quale mette pure in chiara luce il carattere
personale, attribuendogli i medesimi uffici di Cristo: nella 1 Giov. 2, 1
Gesù è chiamato il nostro patrocinatore presso il Padre quando avessimo
peccato; in Giov. 14, 16; 15, 7, lo Spirito nostro avvocato.
4. - A conclusione della prova biblica riportiamo un passo della prima
lettera di Pietro : « Pietro, apostolo di Gesù Cristo, agli eletti pellegrini
della diaspora... (eletti) secondo la prescienza di Dio Padre mediante la
santificazione dello Spirito, ad ubbidire e a (ricevere) l'aspersione dal san¬
gue di Gesù Cristo » (1 Piet. 1, 1 s.; 3, 18; 2, 4 s.; 4, 14; Giuda 20-21).
5. - Per la piena comprensione dei testi neotestamentari si deve sem¬
pre tener presente, come già accennato al § 29, che con il termine
« Dio » (= deóc) s'intende, quasi esclusivamente, la prima persona, il
sone 0 della sostanza divina ad essa comune.
grado
264 P. I. - DIO UNO E TRINO
es
Padre. Anche in quei passi in cui sembra indicare il Dio tripersonale, illu
senza alcuna distinzione di persone, una più accurata interpretazione del della
testo palesa sempre che anche lì si intende il Padre. Nel Nuovo Testa¬riservata
mento la parola « Dio » è quasi sempre usata come nome proprio della ch
prima persona divina e non come designazione generale delle tre Per¬ 20;
sone 0 della sostanza divina ad essa comune. Questo non significa che cr
il Figlio e lo Spirito Santo siano Dio in grado inferiore, come suppose g
l'arianismo. Di loro solitamente si parla con espressioni e immagini che modo
ne mostrano la vera divinità e chiaramente illuminano l'unità essenziale prop
delle tre persone. Ma la caratterizzazione della loro essenza divina con crede
il nome « Dio » appare di rado e quasi riservata. Rinveniamo infatti solo »
sei passi in cui la natura divina di Cristo è chiamata « Dio » (Rom. 9, nost
5 s.; Giov. 1, 1; 1, 18; 20, 28; 1 Giov. 5, 20; Tit. 2, 3). Il significato s
di questi passi si può così fissare: Ciò che si crede e si afferma del vero avan
Dio vivente, sostanzialmente diverso da tutti gli idoli pagani, vale pure l
per Cristo. Tale affermazione spicca in modo del tutto particolare in ind
1 Giov. 5, 20, ove si dice che Cristo è proprio di natura divina così divin
come lo è il Dio vero e vivo, già noto ai credenti per mezzo della rive¬ q
lazione vetero-testamentaria. Il termine « Dio » non è usato per desi¬ affe
gnare lo Spirito Santo; il che avvalora la nostra osservazione che esso, solt
quando il contesto non precisa altro, designa sempre la prima persona gener
divina. Anzi possiamo fare un altro passo avanti. Se nel Nuovo Testa¬ Rahne
mento il nome « Dio » è usato per indicare la prima persona divina,
possiamo dedurne che anche la realtà divina indicata con lo stesso nome
nell'Antico Testamento è la prima persona divina, non in quanto è prin¬
cipio del Figlio e dello Spirito Santo, ma in quanto essere divino per¬ rivel
sonale. Nella rivelazione neotestamentaria si afferma di questo Dio vero
e vivo ciò che nell'Antico Testamento era soltanto accennato, ma non
proprio
mai chiaramente espresso; e cioè che egli genera il Figlio e insieme con non
lui fa procedere lo Spirito Santo. Cfr. K. Rahner, Écrits théologiques, I, rap
Bruges 1959, 81-111.
§ 45. Originalità della dottrina trinitaria rivelata di fronte alle triadi
extrabibliche.
La testimonianza biblica circa la Trinità è proprio originale oppure è da con¬
siderarsi come derivazione da dottrine trinitarie non cristiane o come un caso
particolare di una tendenza generale umana a rappresentarsi Dio in forma
ternaria?
§ 45- ORIGINALITÀ DELLA DOTTRINA TRINITARIA RIVELATA 265
I. - Parecchi aderenti alla storia liberale della religione e dei dogmi pensano
che la dottrina trinitaria biblica tragga origine dalle speculazioni ellenistico-
giudaiche. Come esempio si cita Filone, il quale ammette una serie di forze
impersonali intermediarie tra Dio e il mondo, dato che Dio stesso non potrebbe
agire direttamente sulla materia, principio del male.
Contro l'equiparazione della dottrina biblica con la filoniana militano le ra¬
-
gioni seguenti: 1. In Filone, come nelle altre dottrine trinitarie ellenistiche, si
tratta sempre di pura speculazione filosofica, di tentativi per spiegare il mondo
e il male, di miti. La dottrina trinitaria cristiana ci conduce invece a un fatto
storicamente controllabile, anche se raggiungibile, in ultima analisi, soltanto me¬
diante la fede, cioè alla vita e morte di Cristo. La differenza tra le speculazioni
ellenistiche e giudaiche sulla trinità e la dottrina trinitaria cristiana è la mede¬
sima che intercorre tra mito e storia. Gli agiografi cristiani non si sentono crea¬
tori di una dottrina trinitaria, ma bensì solo testimoni d'una realtà trinitaria
dinanzi alla quale essi piegano il capo.
-
2. A questa differenza fondamentale se ne aggiungono altre tre principali
riguardanti il contenuto.
a) Le speculazioni non cristiane sono un tentativo per spiegare l'origine della
materia, che sarebbe la sede del male. Siccome Dio non si poteva contaminare
nel creare la materia, ha avuto bisogno di un intermediario. Ora in Col. 1, 15-18;
Ebr. 1, 1-4; Giov. 1, 1-10 ci viene insegnato appunto che tutto fu creato me¬
diante il Verbo, ma nel tempo stesso viene energicamente affermata la diversità
che passa tra Cristo e tutti gli intermediari mitologici. Gesù, secondo la sua na¬
tura divina, non solo è mediatore della creazione, ma anche creatore. Il Logos
è, con il Padre, l'unico creatore del mondo. Tutto trova in lui consistenza; ciò
che il Padre fa, lo fa parimenti anche il Figlio. Inoltre il problema circa l'origine
della materia è qui d'importanza secondaria; tuttavia viene detto, in modo espli¬
cito, che anche la materia è stata creata dal Padre.
b) Per Filone i mediatori sono gradini da salire per raggiungere Iddio. Ora
è vero che pure Cristo è detto la via, il mediatore di Dio, ma d'altra parte è
anche asserita la sua perfetta unità con il Padre. Chi lo vede, vede il Padre; il
Padre è in lui ed egli è nel Padre. Le diverse espressioni si possono intendere
bene qualora si consideri che, secondo Paolo, Cristo per lo « spirito » è con¬
forme a Dio mentre per la « carne » è figlio di Davide; che, secondo Giovanni,
egli nella sua preesistenza presso Dio, aveva la natura divina, e, fattosi carne,
ha abitato tra noi. Come uomo è la via che conduce a Dio, come Dio egli esiste
dall'eternità.
c) La principale differenza di contenuto consiste in questo: secondo le spe¬
culazioni giudeo-elleniste gli esseri mediatori partecipano solo in parte ridotta
alla divinità del Dio invisibile. Gli scritti neotestamentari affermano invece che
il Figlio è perfettamente uguale al Padre. Tra Padre, Figlio e Spirito Santo vi
è perfetta consustanzialità. E benché il Padre sia la fonte di tutta la divinità,
tuttavia partecipa la sua divina essenza senza divisioni sia al Figlio, sia allo Spi¬
rito Santo.
3. - In particolare poi dobbiamo rilevare che la dottrina neotestamentaria
sullo Spirito Santo non deriva affatto dallo stoicismo. Il pneuma godeva grande
vita dell'uomo, così come il pneuma universale gu
266 P. I. - DIO UNO E TRINO Nuovo
rapprese
favore nelle speculazioni del monismo dinamico-materialista, sostenuto dalla scuola t
stoica. Esso era pensato come un fluido, composto dei due più sottili elementi
del mondo, fuoco e aria, e permeante tutte le cose. Vi è il pneuma universale s
del mondo e il pneuma particolare, derivante da quello, per ogni singola cosa. cr
Il pneuma umano va identificato come la ragione. Si eleva al di sopra della crassa per
materia corporea, senza cessare per questo di essere pur esso materia. Dirige la
vita dell'uomo, così come il pneuma universale guida l'universo. La tendenza c
finalistica del cosmo poggia su tale teoria. co
Tra questo pneuma e quello che attesta il Nuovo Testamento vi è una diver¬ t
genza intrinseca ed essenziale. Lo stoico si rappresenta il pneuma materialmente, Nu
il Nuovo Testamento testifica e proclama la sua totale diversità dalla materia. che
Il primo lo fa coincidere con l'uomo e il cosmo, il secondo lo distingue dal tentativo
mondo e dall'uomo. Il primo è nelle creature, il secondo viene nell'uomo. In¬ dot
fatti è proprio caratteristica essenziale della vita cristiana che lo Spirito Santo
penetri nell'individuo umano come altra realtà personale diversa dalla sua na¬
tura e lo trasformi così in nuova creatura.
Queste particolari differenze poggiano sul fatto che la dottrina cristiana dello
Spirito è completamente legata e improntata al complesso delle dottrine neo¬ l
testamentarie di Dio e del mondo, che sono del tutto diverse dallo stoicismo.
Perciò il significato del concetto pneuma, nel Nuovo Testamento, nonostante add
alcune affinità, è totalmente diverso da quello che gli attribuisce lo stoicismo. Mar
Quando lo gnosticismo, questo gigantesco tentativo di creare una sintesi tra Ahura-Mil
cristianesimo e la cultura ellenistica, mescolò le dottrine stoiche e cristiane sullo Vis
Spirito, la Chiesa riconobbe e sentì immediatamente le idee gnostiche come qual¬
cosa di estraneo e le respinse. Cfr. C. Prumm, Il cristianesimo come novità didobbiam
vita, Brescia 1955, 162-165.
c
-
II. Similmente è insostenibile l'obiezione che la fede trinitaria cristiana siadiverso
solo l'espressione di una tendenza e predilezione della coscienza religiosa per concezion
il numero tre. A dimostrazione di tale fatto si adduce l'esistenza di una triade nell'a
divina presso varie religioni; la babilonese: Ea, Marduk, Gibil oppure Anu, Bel, tro
Ea o ancora Sin, Sama§, Istar; la persiana: Ahura-Mazdà, Mitra, Sraosa, oppure ovu
Mitra, Cautes, Cautopates; l'indiana: Brahma, Visnu, Siva; l'egiziana: Amon, notevo
Ptah, Osiris. d
Anche contro tale interpretazione mitica dobbiamo affermare che nel cristia¬ ch
nesimo ci incontriamo con un fatto preciso anche se, in ultima analisi, cono¬ creator
scibile solo mediante la fede; e che, per di più, il contenuto della dottrina trini¬
personale
taria cristiana è qualcosa di essenzialmente diverso dai miti umani. Nelle dot¬
trine trinitarie extracristiane si tratta di concezioni politeiste, mentre il conte¬
nuto essenziale di quella cristiana, che consiste nell'affermazione di un unico Dio
esistente in tre modi realmente distinti, non si trova in nessun'altra religione.
Anzi proprio il fatto che le concezioni trinitarie ovunque si trovino, eccetto che
nella Bibbia, sono sempre politeiste, è una notevole dimostrazione che non è
stato il semplice pensiero umano a condurre alla dottrina trinitaria cristiana.
La predilezione dei miti per il numero tre va chiarita con il fatto che la na¬
tura e l'uomo stesso portano l'impronta del creatore, che è il Dio tripersonale.
Infatti se Dio è necessariamente una triade personale, ne viene che l'essere creato
§ 46- LA TRINITÀ NELLA FEDE DELLA CHIESA ANTICA 267
nella radice più profonda è trinitario. Siccome ogni cosa creata è partecipazione
all'essere divino, ne deriva che necessariamente deve recare l'impronta trini¬
taria dell'essere che essa rispecchia, sia pure in modo conoscibile solo dal cre¬
dente. Sarebbe strano che qualcosa di simile non penetrasse nella coscienza
umana. Poiché i miti dei popoli sono un oscuro presentimento di quello che è
il mondo e il suo essere profondo recante l'impronta divina, è naturale che fac¬
ciano brillare, sia pure in modo oscuro e velato d'errore, la verità divina. Si può
inoltre supporre che Dio abbia dato ad Adamo ed Eva, progenitori della stirpe
umana, la rivelazione della sua vita trinitaria, rivelazione che non fu mai dimen¬
ticata del tutto. Infatti essa risuona, ora debolmente, ora forte, nei miti dei vari
popoli.
§ 46. La Trinità nella fede della Chiesa antica.
1. - Le più antiche manifestazioni di vita del cristianesimo postbiblico
mostrano che la fede nella Trinità era esplicitamente riconosciuta parte
essenziale della coscienza cristiana, e costituiva una forza intima che
improntava la stessa vita pratica. Spesso le testimonianze trinitarie sono
congiunte con tentativi teologici per meglio chiarire la fede.
a) Indubbia, anche se non ancora sviluppata, la testimonianza dei Padri
apostolici. Nella Didachè (verso la fine del 1 o l'inizio del 11 secolo) si insegna
che il battesimo deve essere conferito nel nome del Padre, del Figlio e dello Spi¬
rito Santo (cap. 7). Clemente Romano così scrive verso la fine del I secolo:
« Non abbiamo noi forse un solo Dio, un solo Cristo e un solo Spirito di grazia
che fu effuso su di noi? » (1 Lettera, 46, 6; cfr. 58, 2). Cristo è il Mediatore, lo
scettro della Maestà divina, il Signore. Ignazio di Antiochia, nel suo viaggio per
Roma, dove avrebbe poi subito il martirio, così scrive ai cristiani di Magnesia:
« Sforzatevi di stare ben saldi nei precetti del Signore e degli Apostoli affinchè
vi riesca felicemente tutto ciò che farete secondo la carne e lo spirito (= opere
temporali e spirituali) nella fede e nella carità, con il Figlio, con il Padre e con
lo Spirito, dall'inizio alla fine, in unione con il vostro degnissimo vescovo e con
la preziosa corona spirituale del vostro collegio presbiterale e con i vostri santi
diaconi. Siate sottoposti al vostro vescovo e gli uni agli altri, come Cristo, in
quanto uomo, lo fu al Padre e come gli Apostoli lo furono a Cristo e al Padre
e allo Spirito, affinchè la vostra unione sia secondo la carne e lo spirito » (13, 1-2).
Agli Efesini così scrive : « Ho saputo che son passati (per Efeso) alcuni, venuti
di laggiù, che erano imbevuti d'una perversa dottrina; ma voi non permetteste
che gettassero il loro seme tra voi, anzi vi turaste le orecchie per non ricevere
la loro semente, ricordandovi che voi siete le pietre del tempio del Padre, pre¬
parate per l'edificio che viene costruito da Dio Padre, innalzate fino alla som¬
mità per mezzo della macchina di Gesù Cristo, che è la croce, con il cavo dello
Spirito Santo » (9, 1).
b) Gli Apologisti tentarono di chiarire il mistero trinitario con l'aiuto della
filosofia pagana. Anche se non sempre vi riuscirono felicemente, la loro testi-
l'univers
268 P. I. - DIO UNO E TRINO f
be
monianza circa la Trinità non è tuttavia pregiudicata. Essi respingono soprat¬ super
tutto l'accusa pagana di ateismo, richiamandosi alla fede nella Trinità. Atena- esemp
gora (li secolo, La supplica per i Cristiani, io) spiega : « Che noi non siamo
atei, l'ho già dimostrato a sufficienza. Infatti noi ammettiamo un solo Dio in¬ Pad
creato, eterno, invisibile, immutabile, incomprensibile, immenso, intelligibile solo (
dalla mente e dalla ragione, circonfuso di una luce, di una beltà, di uno spirito chiedes
e di una potenza ineffabili, dal quale tutto l'universo, per mezzo del Verbo suo, pr
è stato fatto e ordinato ed è governato. Inoltre noi ammettiamo pure il Figlio di Iddi
Dio. Nessuno rida al pensiero che Dio abbia un figlio! Poiché noi sia intorno
a Dio Padre sia intorno al Figlio la pensiamo ben diversamente dai miti dei cr
poeti, che concepiscono gli dèi di ben poco superiori agli uomini: il Figlio di info
Dio è il Verbo (Logos) del Padre, sua idea esemplare e virtù creativa; poiché s'acco
ad immagine di lui e per mezzo di lui tutto è stato fatto, essendo Padre e Figlio principio
una cosa sola. Essendo il Figlio nel Padre e il Padre nel Figlio per l'unità e la Spirito
potenza dello spirito, il Figlio di Dio è il pensiero (Nous) e il Verbo (Logos) del
Padre. Se alcuno, nella sua alta saggezza, mi chiedesse che significhi l'espressione
" Figlio ", risponderò brevemente così : Egli è la prima progenie del Padre, non dimo
già perchè sia stato fatto, chè fin da principio Iddio, mente eterna, aveva in se
stesso il Verbo, o ragione, essendo egli eternamente razionale, ma perchè il Figlio tro
procedette per essere l'idea esemplare e la forza creativa di tutte le cose mate¬ p
riali, che all'inizio esistevano a modo di natura informe e priva di ogni vita, le
più dense frammiste a quelle più leggere. Ciò s'accorda con quanto disse lo Spi¬ stesso
rito profetico : " il Signore mi creò fin dal principio delle sue vie per le opere ".
E, secondo la nostra dottrina, questo stesso Spirito, che si mostrò operante nei mond
profeti, è effluvio di Dio, che deriva da lui e vi ritorna come raggio di sole. oc
Dio
Come dunque si possono confondere con gli atei coloro che riconoscono (èvSiìSetov)
Padre e Dio Figlio e lo Spirito Santo e che ne dimostrano e la potenza nell'unità,procedere
e la distinzione nell'ordine? ».
Una chiara spiegazione della fede trinitaria la troviamo in Teofilo che scrive
così nel suo libro all'amico Autolieo (2, 10) : « In primo luogo i profeti ci inse¬ fa
gnano all'unisono che Dio ha creato l'universo dal nulla. Nessuna cosa infatti è d
della stessa età di Dio, ma egli che è a se stesso il suo proprio mondo, che
non ha bisogno di nulla, che esiste avanti i secoli, ha voluto creare l'uomo, per alt
essere da lui conosciuto, e per lui preparò il mondo. Infatti chi è creato abbi¬ sol
sogna di molte cose, mentre a chi è increato non occorre nulla. Ora Dio generò V
con la sua sapienza il Verbo interiore (év8ià0£Tov), che egli portava racchiuso Qua
nel suo intimo, in quanto lo proferì (fece procedere da se stesso) prima di ogni
cosa. Egli si servì di questo Verbo qual mezzo per le opere che fece e mediante
lui ha fatto tutte le cose. Questo Verbo si chiama " principio " (àpyif) poiché è
principio e signore di tutte le cose che son state fatte per mezzo di lui. Questo
Verbo dunque essendo spirito di Dio e principio di ogni cosa e sapienza e po¬
tenza dell'Altissimo, discendeva nei profeti e per mezzo di essi enunciava ciò
che riguarda la creazione del mondo e di tutte le altre cose. Iprofeti, infatti, non
esistevano ancora quando il mondo fu fatto, ma solamente (esisteva) la sapienza,
che è in lui, la sapienza di Dio e il suo santo Verbo, che è sempre con lui.
Perciò egli, per bocca di Salomone, così parla: Quando preparava il cielo, io ero
con lui... ».
§ 46- LA trinità nella fede della chiesa antica 269
Da Teofilo deriva il termine Triàs, Trinità. Nel capitolo 15 dello stesso libro
dichiara : « Al quarto giorno furono creati i due grandi luminari nel cielo. Dio
conosceva nella sua prescienza i vaneggiamenti degli stolti filosofi che attribui¬
scono a questi astri l'esistenza delle cose terrestri, in modo da prescindere da
Dio. Ma perchè la verità apparisse chiara, le piante e i semi furono creati prima
del sole e della luna. Ciò che è venuto dopo non può essere naturalmente causa
di quanto fu prima. Questi luminari sono tuttavia immagini del grande mi¬
stero. Il sole infatti è figura di Dio, la luna dell'uomo. E come la luce del sole
supera di gran lunga quella della luna, così Dio trascende in modo infinito
l'uomo. E come il sole conserva sempre intatto il suo disco senza diventare più
piccolo, così Dio perdura sempre perfettissimo, ricco com'è di ogni potenza e
intelligenza e sapienza e immortalità e di ogni altra virtù. La luna invece sva¬
nisce ogni mese e in certo qual modo muore, per cui è figura ben adatta al¬
l'uomo. Essa però rinasce, riappare di nuovo, e in questo simboleggia la futura
risurrezione dell'uomo. Nello stesso modo i tre giorni che precedono la creazione
dei due luminari sono immagini della Trinità: di Dio, del suo Verbo e della
sua sapienza. Nel quarto giorno si ha l'immagine dell'uomo, che ha bisogno della
luce, per cui ora vi sono: Dio, Verbo, Sapienza e uomo ».
Giustino Martire (t verso il 165), nella IApologia, 6, difende i cristiani dal¬
l'accusa di ateismo dicendo che essi credono in Dio Padre, nel Figlio e nello
Spirito. Il passo è riportato al § 31, n. 4, I, g. Nella sua IIApologia (cap. 5 e 6)
scrive : « Al Padre dell'universo, perchè ingenerato, non è possibile dare un nome :
dargli un nome equivale ad ammettere uno più antico di lui che abbia imposto
il nome stesso. Le parole Padre, Dio, Creatore, Signore e Padrone non sono af¬
fatto nomi, ma solo appellativi suggeriti dai suoi benefici e dalle sue opere. Ma
il Figlio di lui, che solo è detto Figlio in senso proprio, il Logos, con lui
coesistente prima della creazione, da lui generato, quando in principio per suo
mezzo creò e ordinò l'universo, si chiama Cristo, perchè unto e perchè Dio per
mezzo di lui ordinò tutte le cose, ed è nome che racchiude anch'esso un signi¬
ficato incomprensibile, alla stessa guisa che la parola Dio non è per sè un vero
nome, ma un'idea, innata nell'uomo, di una realtà ineffabile ».
Ireneo (f 202; Adversus haereses, 3, 6, 4) : afferma : « Anch'io ti invoco, Si¬
gnore Dio di Abramo, Dio di Giacobbe e di Israele, tu che sei il Padre di
nostro Signore Gesù Cristo! Dio, che nella grandezza della tua misericordia, ci
hai voluto così bene da farti conoscere a noi; tu che hai creato il cielo e la terra,
tu che sei Signore di tutte le cose, tu il solo vero Dio, al di sopra del quale non
vi è altro Dio, fa' che, mediante nostro Signore Gesù Cristo, lo Spirito Santo
regni in noi! Fa' che chiunque legga questo scritto ti riconosca come l'unico vero
Dio, si rafforzi in te e si allontani da ogni dottrina eretica, empia e sacrilega ».
E più avanti dichiara : « Il nome Cristo implica e colui che unge e colui che vien
unto e l'unzione stessa: è il Padre che unge, è il Figlio che vien unto, nello Spi¬
rito che è l'unzione » (3, 18, 3). Nella Dimostrazione della predicazione apostolica
così scrive : « Questo è il retto ordine della nostra fede, la base dell'edificio e
la sicurezza del cammino: Dio Padre, increato, infinito, invisibile, Dio unico,
creatore dell'universo: questo il primo articolo della nostra fede. E il secondo
articolo è questo: il Verbo di Dio, il Figlio di Dio, Cristo Gesù nostro Signore,
che apparve ai profeti nella forma descritta dai loro oracoli e secondo la deter-
nostra
270 P. I. - DIO UNO E TRINO
Infa
minazione della prescienza del Padre, e mediante il quale tutto fu fatto; egli alla V
fine dei tempi si fece uomo tra gli uomini, per ricapitolare e contenere tutte le re
cose; si rese così visibile e palpabile, per debellare la morte, mostrare la vita e
ristabilire la comunione e la pace tra Dio e l'uomo. E il terzo articolo è questo:
lo Spirito Santo, mediante il quale i Profeti hanno profetato e i nostri Padri Figlio
impararono le cose divine, i giusti camminarono nella via della giustizia. Egli Pa
nella pienezza dei tempi fu diffuso in nuovo modo sull'umanità e su tutta la
terra per rigenerare gli uomini. E perciò nella nostra rigenerazione il battesimo Trinitate,
procede per questi tre articoli, elargendoci in grazia la rinascita in Dio Padre, le
per virtù del Figlio suo, con lo Spirito Santo. Infatti coloro che ricevono lo eterno
Spirito Santo e lo portano in sè, sono condotti al Verbo ossia al Figlio, ed il ma
Figlio li accoglie e li presenta al Padre e il Padre li rende partecipi della sua im¬ o
mortalità. Niuno, senza lo Spirito Santo, può quindi vedere il Figlio, e senza il ness
Figlio andare al Padre; poiché il Figlio è la scienza del Padre, e la scienza del
Figlio è per virtù dello Spirito Santo; ma è il Figlio che impartisce lo Spirito e
secondo il beneplacito del Padre a coloro che il Padre vuole e come vuole »
(i, i, 6 s.). dobbiamo
c) Novaziano da Roma (in secolo; De Trinitate, 31) così si esprime: «Vi C
è dunque Dio Padre fondatore e creatore di tutte le cose, il solo che non co¬ d
nosce origine, invisibile, immenso, immortale, eterno, unico Dio; né vi è cosa
che non dico superi, ma eguagli la sua grandezza, maestà e potenza. Da esso fu
generato... come Figlio il Verbo... Nessun apostolo o profeta ha potuto cono¬
scere il mistero della sua divina e santa nascita, nessun angelo è giunto a sco¬ scriv
prirlo e nessuna creatura lo ha potuto sapere: esso è manifesto solo al Figlio, co
che conosce i misteri del Padre. Il Figlio, dunque, essendo generato dal Padre, dall'alt
è sempre nel Padre. E quando dico " sempre " non sostengo che egli sia senza
nascita; affermo al contrario che è nato. Ma dobbiamo riconoscere che colui che L
è prima di ogni tempo è sempre esistito nel Padre. Chi è prima del tempo non ne
può essere misurato con il tempo... Dio che procede da Dio, e, in quanto Figlio,
forma la seconda persona dopo il Padre; e ciò senza togliere al Padre di essere
l'unico Dio ». Fig
Tertulliano (t dopo il 220) occupa un posto assai importante tra i testimoni Torino
della Trinità anteriori al Concilio di Nicea. Egli scrive nell'opera Adv. Praxeam:
« La relazione del Padre con il Figlio e del Figlio con il Paraclito fa sì che vi è
siano tre strettamente uniti, l'uno procedente dall'altro. E questi tre sono una
sola cosa, ma non uno solo (unum sunt, non unus) » (25). Essi hanno « una sola
b
sostanza, un solo stato e una sola potenza » (2). Il Logos era prima della crea¬ fede
zione del mondo una « res et persona ». Ma solo nell'atto creativo emerse dal
Padre con « natività perfetta », divenendo così Figlio in modo perfetto. Il Padre
ha la pienezza della divinità, il Figlio soltanto una parte. Per questo il Figlio
ha detto: Il Padre è più grande di me (7, 9). Il Figlio emana dal Padre come
il raggio dal sole (13; cfr. Altaner, Patrologia, Torino 1952, 111).
Ipassi addotti mostrano che la Trinità non è una verità che plana al
di sopra dell'uomo senza incidenza nella vita, bensì una realtà che im¬
pronta continuamente tutta l'esistenza del fedele. Del resto come po-
§ 46. LA TRINITÀ NELLA FEDE DELLA CHIESA ANTICA 271
trebbe essere diversamente, se la vita cristiana è nient'altro che comunione
dell'uomo con il Padre, realizzata per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo?
2. - Talvolta nella teologia prenicena, specialmente presso Tertulliano
ed Ippolito, troviamo delle espressioni subordinazionistiche che, circa i
rapporti del Figlio e dello Spirito Santo col Padre, sembrano porre la
seconda e la terza persona in secondo ordine rispetto alla prima (il Padre
è semplicemente invisibile, il Figlio può apparire e rendersi visibile; il
Padre è Dio semplicemente, il Figlio lo è in modo ridotto); oppure si
afferma che la generazione del Figlio è una libera produzione in vista della
creazione del mondo. In questi casi si deve distinguere tra i Padri in
quanto testimoni della rivelazione e iloro tentativi filosofico-teologici di
spiegare la rivelazione medesima. Sotto il primo aspetto tutti insegnano
all'unanimità la fede nelle tre Persone e la loro divinità; sotto il secondo
tentano di conciliare l'unità con la trinità, la distinzione con la egua¬
glianza, cadendo in concezioni ed espressioni oscure e talvolta erronee.
Che le tendenze subordinazioniste stiano nell'ambito della teologia, e
non nella professione di fede, si rileva specialmente dal fatto che esse
sono connesse con la teoria del Logos endiàthetos e di quello proforikòs.
Il Logos, secondo Giustino, Teofilo, Atenagora, Tertulliano e Ippolito,
è nel Padre sin dall'eternità come ragione e sapienza. Al fine della crea¬
zione del mondo viene espresso come persona a sè stante, che procede
da lui, senza però divenire per questo creatura.
Di più la stessa Bibbia, con alcune frasi che riguardano il Logos in¬
carnato (ad esempio: il Padre è maggiore di me), e con la dottrina delle
processioni divine sembra dar credito all'opinione che pone in un certo
sottordine la seconda e la terza persona. In realtà tali espressioni si rife¬
riscono all'umana natura di Cristo, per cui egli è una creatura del Padre,
o testificano che la seconda e la terza persona partecipano con il Padre
alla stessa, identica natura divina a motivo della loro processione dal
Padre. È tuttavia assai difficile esprimere questi concetti in modo tale
da non rasentare l'apparenza di subordinazione.
Tale difficoltà ha la sua più profonda ragione nel carattere di mistero
impenetrabile che presenta la fede trinitaria. La ragione umana non riesce
ad armonizzare l'unità con la trinità, sicché ora uno, ora l'altro elemento
vien posto in evidenza a scapito del secondo. Tanto meno il linguaggio
umano è in grado di esprimere il mistero in modo che il tono non abbia
a dar maggior risalto ora all'unità, ora alla trinità. Tuttavia, anche se
talvolta si mette in primo piano l'unità e tal altra la trinità, non è il caso
subordinazionista, prima che iniz
pa
272 P. I. - DIO UNO E TRINO
accentuarono
di pensare subito a una esposizione ereticale del mistero. L'eresia infatti t
sorge quando si nega formalmente l'unità o la trinità e si insiste esclu¬ arm
sivamente su uso di questi aspetti, ma non quando l'unità e la trinità la
sono presentate od espresse incompletamente. Tale modo incompleto di l'una
concepire la verità e di esprimerla stava alla base della stessa dottrina qu
subordinazionista, prima ancora che avesse inizio la formale eresia del grec
subordinazionismo, sostenuta da Ario (cfr. il paragrafo seguente). quel
I« subordinazionisti » preariani accentuarono solo un modo in sè giu¬ quella
sto di concepire la Trinità. Per capirli bisogna tener conto che lo spiritopresente
umano, incapace di conciliare in perfetta armonia trinità e unità, per
forza deve vedere per primo ora l'unità, ora la trinità lasciando così in
secondo piano, rispettivamente una volta l'una e una volta l'altra. La teo
storia del dogma trinitario ci mostra infatti questa duplicità di aspetti d
e della maniera di considerarli. La teologia greca, specialmente la preni-
cena e, anche dopo il Concilio di Nicea, quella dei Cappadoci, consi¬ gara
dera in primo luogo la Trinità, mentre quella occidentale, il cui espo¬ d
nente principale è S. Agostino, tien presente anzitutto l'unità. L'una l'Antic
partendo dalla Trinità giunge all'unità, l'altra al contrario nauove dal¬ afferm
l'unità per arrivare alla Trinità. Con il nome di teologia greca si suol p
designare la prima corrente, con quello di teologia latina la seconda, int
anche se il punto di vista greco fu sostenuto da occidentali, come Ilario pa
di Poitiers e il latino da greci come Atanasio. La teologia « greca » del trova
dogma trinitario ripone il fondamento e la garanzia dell'unità di Dio nel
Padre, la « latina » nell'unicità della natura divina. Secondo la consi¬ sempr
derazione greca, il Dio unico di cui parla l'Antico Testamento è la prima Sa
persona; di lui nel Nuovo Testamento si afferma che ha un Figlio e che comi
da lui, insieme con il Figlio, procede la terza persona, lo Spirito Santo.
Come abbiamo già detto, questo modo di interpretare la Scrittura ri¬ chiese,
sponde pienamente a quanto troviamo nei passi neotestamentari (cfr.
§ 44). La concezione trinitaria « greca » trova in realtà il suo fonda¬ s
mento nella Scrittura. È anche legittimata dal modo con cui la liturgia, in
di solito, termina le preghiere che, quasi sempre, sono rivolte a Dio on¬
nipotente per mezzo di Cristo nello Spirito Santo.
Quando il subordinazionismo ereticale cominciò a interpretare erro¬
neamente il modo di parlare della Bibbia, fu necessario ricorrere a un
altro fondamento dell'unità trinitaria. Si chiese, allora, aiuto alla filosofia.
Il subordinazionismo, proprio richiamandosi al modo di esprimersi della
Scrittura, affermava che solo il Padre sarebbe semplicemente Dio, men¬
tre il Figlio e lo Spirito Santo lo sarebbero in un grado inferiore. Per
§ 46. LA TRINITÀ NELLA FEDE DELLA CHIESA ANTICA 273
combattere siffatto errore, l'unità di Dio fu filosoficamente fondata con
l'unicità della natura divina. È appunto ciò che si è ingegnata di fare,
in modo speciale, la teologia latina, in quanto tale modo di procedere
rispondeva meglio al pensiero dell'Occidente.
Non è assolutamente il caso di parlare di offuscamento dell'antica co¬
scienza cristiana nelle fede trinitaria, quando, talvolta, singoli Padri non
solo presentano formulazioni incomplete o insolite alla teologia occiden¬
tale, ma esprimono anche dottrine errate, come per esempio il Pastore
di Erma, che identifica lo Spirito con il Figlio. Quanto a Origene è noto
che S. Gerolamo lo accusa di subordinazionismo ; Gregorio Taumaturgo
e Atanasio invece lo riabilitano completamente; lo stesso fanno alcuni
studiosi moderni (Régnon, Prat). A. Ehrhard (Urchirche und Friihkatho-
licismus, 1935, 243) dà il seguente giudizio: «La dottrina di Origene
sul Logos costituisce un notevole progresso sui predecessori; presenta
però due concezioni di cui una sostiene la perfetta divinità del Logos
e del Figlio di Dio, mentre l'altra lo considera come un secondo Dio,
l'intermediario tra il creatore e le creature. Il vescovo Dionigi d'Ales¬
sandria, suo primo discepolo, si decise per la seconda durante la lotta
contro il sabellianismo. Infatti, rispondendo alle domande che gli erano
state presentate dai vescovi della Pentapoli, adoperò espressioni (il Figlio
creatura del Padre) e similitudini (il Figlio si distingue dal Padre come
il ceppo della vite dal vignaiuolo, come il vascello dal suo costruttore),
che gli meritarono, nel 262, l'accusa di eresia presso papa Dionigi (259-
268). Idocumenti di questa controversia andarono purtroppo comple¬
tamente perduti. È però certo che Dionigi alessandrino, rettificò le sue
espressioni e similitudini erronee, e accettò le dichiarazioni del Papa per
cui Padre, Figlio e Spirito Santo costituiscono un'unità (monàs), che
non si deve dividere in tre divinità ». Da Origene derivò il termine
homousios (consustanziale).
3. - In tal modo la decisione del Concilio di Nicea (325), la quale
asserisce che Padre e Figlio sono consustanziali così come quella del
Concilio di Costantinopoli (381) che definisce la consustanzialità del
Padre, del Figlio e dello Spirito, appaiono un progresso logico e una
più chiara formulazione della confessione di fede trinitaria prenicena,
scientificamente non ancora ben chiarita. La prima definizione sconfes¬
sava Ario, secondo il quale il Figlio era una semplice creatura del Padre,
ma non Dio nel vero e preciso senso del vocabolo, e la seconda colpiva
18 - schmaus - dogmatica I.
Trinità ispirasse ogni cosa e fosse ritenuta di vitale
274 P. I. - DIO UNO E TRINO accadu
Santo
Macedonio, il quale asseriva che lo Spirito Santo va ritenuto creatura tuttavi
del Figlio. Si veda il testo della definizione al § 43. fur
Sa
4. -La concezione postnicena della Trinità, assai più progredita della prece¬ q
dente, si può leggere, ad esempio, in un passo di papa Leone Magno (440-461). proprietà
Siccome il brano è tratto da un sermone, possiamo capire quanto la fede nella
Trinità ispirasse ogni cosa e fosse ritenuta di vitale importanza per la salvezza
della creatura. nient
« Sebbene sia stato molto mirabile il fatto accaduto (quello della Pentecoste), s
nè vi sia dubbio che la maestà dello Spirito Santo sia stata presente in quel
concento esultante di tutte le umane favelle, tuttavia nessuno creda che la sua u
sostanza divina sia apparsa in quelle cose, che furono vedute cogli occhi del P
corpo. Infatti la natura invisibile, che lo Spirito Santo ha comune col Padre e a
col Figlio, mostrò con quel simbolo volontario la qualità del suo dono e della m
sua opera, ma trattenne nella sua Deità la proprietà della sua essenza, perchè la qu
vista umana, come non può giungere nè al Padre nè al Figlio, così nemmeno
allo Spirito Santo. prom
Nella Trinità divina niente vi è di dissimile, niente di disuguale. Tutto quello cos
che può pensarsi di quella sostanza, non ammette spartizione di virtù, di gloria venuto
o di eternità. E sebbene, quanto alle proprietà delle persone, il Padre sia distinto
dal Figlio e dallo Spirito Santo, tuttavia non si ha un'altra Deità nè una natura suc
diversa. Infatti, come vi è un Figlio unigenito del Padre, vi è lo Spirito Santo
che è lo Spirito del Padre e del Figlio. E non lo è alla maniera di una qualsiasi mio
creatura, che ha rapporto col Padre e col Figlio; ma egli è vivente e potente
con ambedue, ed è sussistente in sempiterno in quella essenza, che è il Padre appartengo
e il Figlio. P
Avendo il Signore, prima della sua Passione, promesso la venuta dello Spirito mancò
Santo ai suoi discepoli, disse : " Ho ancora molte cose da dirvi, ma per ora sono No
al di sopra della vostra portata. Quando sarà venuto lo Spirito di verità, egli vi que
insegnerà tutta la verità, non vi parlerà in persona propria, ma vi dirà quanto p
ha inteso, e vi annunzierà le cose che dovranno succedere. Egli mi glorificherà, que
perchè prenderà ciò che è mio e ve lo annunzierà. Tutto ciò che ha il Padre è
mio; perciò ho detto che prenderà di ciò che è mio e ve lo annunzierà " (Giov. separ
16, 12-15). D
Non vi sono dunque alcune cose che appartengono al Padre, altre al Figlio, di
altre allo Spirito Santo; ma tutto quello che ha il Padre, lo ha il Figlio e lo ha cer
lo Spirito Santo. Giammai in quella Trinità mancò questa comunanza, perchè ammetton
l'aver tutto è ivi lo stesso che esistere sempre. Non si pensi a tempi, a gradi
o a differenze di sorta. Se nessuno può spiegare quel che è Dio, nessuno ardisca
affermare quel che non è. È più scusabile il non parlare degnamente di quella
Natura ineffabile che asserirne cose false. Tutto quello che le menti pie possono
concepire sulla gloria sempiterna e immutabile del Padre, lo intendano insieme
del Figlio e dello Spirito Santo, senza porre separazioni e differenze. Appunto
noi confessiamo che questa beata Trinità è un solo Dio, perchè nelle tre persone
non vi è diversità alcuna di sostanza, di potenza, di volontà e di operazione.
Se detestiamo gli Ariani, che ammettono una certa distanza tra il Padre e il
Figlio, detestiamo pure i Macedoniani, che ammettono la eguaglianza tra il Padre
§ 47- false concezioni della dottrina trinitaria 275
e il Figlio, ma ritengono che lo Spirito Santo sia di natura inferiore. Non pen¬
sano che in questo modo cadono in quella bestemmia, che non sarà rimessa nè
in questo secolo nè in quello futuro, come dice il Signore : " Chiunque avrà
parlato contro il Figlio dell'uomo sarà perdonato; ma a chiunque avrà sparlato
contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato nè in questo secolo nè nel futuro "
(Mt. 12, 32).
Pertanto chi persevera in questa empietà resta senza perdono, perchè rimuove
da sè colui, per il quale poteva essere assolto; nè potrà mai raggiungere il ri¬
medio del perdono, poiché manca dell'avvocato che lo difenda. Infatti è da lui
che provengono le invocazioni al Padre celeste, le lacrime dei penitenti, i gemiti
dei supplicanti, anzi nessuno può nemmeno dire: Signore Gesù, se non in Spi¬
rito Santo (1 Cor. 12, 3). L'Apostolo ne predica chiarissimamente l'onnipotenza,
che ha comune col Padre e col Figlio, e la unica Divinità, quando dice : " Vi
sono differenze di carismi, ma lo Spirito è uno solo; e differenze di ministeri,
ma il Signore è il medesimo; e differenze di operazioni, ma è lo stesso Dio che
opera ogni cosa in tutti " (ivi, 4-6) » (Sermo 75, 3-5; trad, di A. Puccetti).
§ 47. False concezioni della dottrina trinitaria.
La Trinità di Dio può essere erroneamente intesa in tre maniere:
dando troppo risalto all'unità in modo da rendere irreale la Trinità;
accentuando la Trinità in maniera da minarne l'unità; infine interpre¬
tando la Trinità quale processo evolutivo dell'essere divino pensato come
qualcosa di comune con il mondo. In tutti e tre i casi si tratta di tenta¬
tivi falliti in partenza, con cui si cerca di ridurre la fede nei limiti della
ragione (razionalismo). Effettivamente questi tre errori appaiono, sia pure
con diverse modifiche, nel corso della storia.
1. - Il primo si concreta storicamente nel monarchismo che assume
due aspetti, l'uno dinamico (ebionita), l'altro modalista (patripassiano).
a) Secondo la prima forma sostenuta in modo particolare da Paolo di Samo-
sata (in secolo); il Padre è l'unico Dio, e Cristo è un semplice uomo in cui ha
preso stanza in modo speciale la potenza di Dio. Similmente pensavano i Soci-
niani nel xvi secolo.
b) Per i sostenitori della seconda forma l'unico Dio è Padre, in quanto ri¬
mane invisibile, Figlio, in quanto prese carne umana, patì e morì. Sabellio
(in secolo) che fu il più valido assertore di tale concezione erronea, sostiene
che Padre, Figlio e Spirito Santo non sono tre modi reali di essere di Dio, ma
solo tre semplici manifestazioni, tre funzioni di un unico Dio, il quale si rivela
come Padre nella creazione e nel dare la Legge, come Figlio nella redenzione,
come Spirito nell'opera della santificazione. Kant intende la dottrina trinitaria
cristiana come simbolo della potenza, della sapienza e della bontà di Dio. La
religio
276 P. I. - DIO UNO E TRINO Atanasio
egua
soluzione sabelliana della dottrina trinitaria ebbe grande ripercussione nella teo¬ e
logia protestante per opera di Schleiermacher. essere
mora
2. - Il secondo errore si manifestò anch'esso in due maniere, ossia àv
nel subordinazionismo e nel triteismo. omoiusian
Nice
a) Il subordinazionismo nella sua forma più completa lo incontriamo in d
Ario, uomo assai in vista per la sua condotta religiosa e morale. Nel suo scritto quest
Thalia, conservato frammentariamente da Atanasio, sostiene quanto segue: Il
Figlio non è della stessa sostanza del Padre, nè eguale a lui per natura, nè eterno. è
È una creatura, indubbiamente la prima e la più eccelsa, per mezzo della quale riget
tutte le altre furono create. Egli può anche essere chiamato Dio, non però in n
senso vero e proprio, ma bensì solo in senso morale. Idiscepoli di Ario si ri¬
dussero poi in ariani stretti o anomei (dal greco avóÿoios = dissimile : il Figlio l'aria
è dissimile dal Padre) e in semiariani o omoiusiani (dal greco 6[roio<; = simile).diffonde
L'arianismo fu condannato dal Concilio di Nicea (a. 325). A capo dell'orto¬ d
dossia stavano Eustazio di Antiochia, Marcello di Andra e, particolarmente,
Atanasio. Il concilio, secondo la relazione di quest'ultimo, insegnò che il Figlio Ila
deriva dalla essenza del Padre ed è consustanziale a lui. Il simbolo emerso dal
concilio confessa, nella prima parte, che il Figlio è vero Dio, generato, ma non A
creato, consustanziale al Padre; nella seconda, rigetta la tesi principale di Ario: sosten
vale a dire che il Figlio sia stato tratto dal nulla nel tempo, che sia di una so¬ tal
stanza (hypostasis) o di una essenza (usta) diversa da quella del Padre, che sia s
una creatura variabile e mutevole. Purtroppo l'arianesimo, anche dopo la con¬ Ale
danna del Concilio di Nicea, continuò a diffondersi (si pensi al lamento di
Gerolamo). Per la definitiva vittoria del Concilio di Nicea lottarono, oltre Ata¬ vesc
nasio, i Cappadoci (Basilio il Grande, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa, Ma
Amfilochio di Iconio), Efrem Siro, Ambrogio, Ilario, Girolamo e l'imperatore
Teodosio I. ma
Per quanto riguarda lo Spirito Santo, Ario e gli Ariani di ogni corrente, come Costanti
logico sviluppo del loro subordinazionismo, sostengono che egli è stato creato
dal Figlio. Atanasio si oppone strenuamente a tale eresia nelle quattro lettere co
scritte al vescovo Serapione di Tmuis. Inoltre si schierarono contro di essa Ba¬esprime
silio Magno, Didimo e Ambrogio. Il Sinodo di Alessandria (362) affermò solen¬
nemente che la terza persona della Trinità ha la medesima sostanza e divinità verosim
delle altre due. Caposcuola dell'eresia fu il vescovo Macedonio (Macedonia-
nismo) di Costantinopoli e più tardi il vescovo Maratonio di Nicomedia (morto catechetic
verso il 362). Dopo che altri quattro Sinodi, uno di Alessandria (a. 363) e tre
di Roma (369, 373, 380), si espressero contro il macedonianismo, questo ebbe la
sua più decisiva condanna dal Concilio di Costantinopoli (381), il quale insegnò
che lo Spirito Santo è Signore e vivificatore; che procede dal Padre; che deve
essere adorato e glorificato insieme col Padre e col Figlio e che ha parlato per
mezzo dei profeti. Il concilio, per meglio esprimere questa dottrina, adottò il
simbolo battesimale che il vescovo Epifanio aveva aggiunto in appendice al suo
libro Ancoratus. Tale formula riproduceva verosimilmente l'antica professione di
fede battesimale della chiesa di Gerusalemme. Essa fu riveduta, poco dopo il 362,
dal vescovo gerosolimitano Cirillo a scopo catechetico, secondo i dati del concilio
§ 48- l'unicità di dio in tre persone 277
di Nicea, e completata poi per combattere l'eresia macedoniana. E. Schwartz
pensa però che tale simbolo non esistesse prima.
b) Il primo propugnatore del triteismo è Giovanni Filopono (verso il 550).
Egli, applicando alla Trinità il concetto aristotelico della sostanza (seconda),
giunse ad affermare che le tre divine persone sono tre individui della specie
divina, nello stesso modo con cui tre uomini sono tre persone della specie
umana. Roscellino da Compiègne (f tra il 1123 e il 1125), partendo dalla sua
concezione nominalistica e applicando rigidamente alla Trinità il concetto boe-
ziano di persona, arriva alla conclusione che in Dio le tre persone non sono
una sola « res » ma bensì tre « res », così come tre angeli o tre anime sono tre
« res » (relazione di Anselmo). Questa dottrina fu condannata dal Sinodo di
Soissons (1092). Cedendo al realismo esagerato, Gilbert de la Porrée insegna
che le tre persone sono realmente distinte non solo tra di loro, ma dalla deitas
o divinitas, che è una forma di cui le tre persone sono informate. Tale opinione
è stata condannata dal Concilio di Parigi (1147) e di Reims (1148; cfr. Denz. 389).
L'abate Gioachino da Fiore (t 1202) nel suo scritto De unitate Trinitatis so¬
stiene l'unità collettiva delle tre persone (collectio trium personarum). La sua
dottrina fu riprovata dal IV Concilio Lateranense (Denz. 431 s.).
Anche Antonio Giinther (t 1863), sotto l'influsso hegeliano, aderisce alla con¬
cezione triteistica. Dio, mentre comprende immediatamente se stesso nella sua
sostanza, si oppone alla sua stessa essenza. Poi riunisce insieme i due membri
opposti, ponendo così un terzo elemento (tesi, antitesi, sintesi). Così Dio ha una
triplice esistenza e in lui sussistono tre « io », ossia tre sostanze. Questi tre « io »
sono raccolti in unità formale nella coscienza assoluta di Dio. Il pensiero di
Giinther fu condannato in uno scritto di Pio IX, indirizzato all'arcivescovo Geissel
di Colonia (Denz. 1655).
3. - Nel terzo errore caddero i filosofi idealisti del xix secolo.
Secondo la « filosofia positiva » di Schelling, l'essere assoluto di Dio si svi¬
luppa, attraverso la creazione e la redenzione, in Trinità. Hegel dice che l'Idea
in quanto è in sè è il Padre; in quanto esce da sè è il Figlio; in quanto, nella
coscienza umana, ritorna in sè è lo Spirito. Cfr. § 41 (Panteismo).
La Trinità delle Persone in Dio non ne elimina affatto l'unicità, anzi è il modo
con cui l'unico Dio vivente esiste.
§ 48. L'unicità di Dio in tre persone.
1. - C'è un solo Dio. È dogma di fede. Tale verità è asserita, oltre
che dalle professioni di fede, dal IV Concilio Lateranense (a. 1215) e
dal Concilio Vaticano (Denz. 428; 1782). Contro i molteplici errori an¬
titrinitari si è affermato che le tre persone divine, pur togliendo l'unità
di Dio dalla sua immobilità, non la distruggono affatto. Segnatamente
Yhomousios del Concilio di Nicea, insegnando l'unità di essenza delle
rizzata all'arcivescovo di Colonia Geissel.
278 P. I. - DIO UNO E TRINO
tre persone, ribadisce con ciò stesso l'unicità di Dio. Il IV Concilio vi
Lateranense respinge la semplice unità collettiva delle tre persone di¬
vine sostenuta da Gioachino da Fiore. Anche l'unità collettiva 0 orga¬ m
nica insegnata da Giinther sotto influsso della filosofia hegeliana, venne mondo
biasimata da Pio IX come aliena dalla fede cattolica, nella lettera indi¬ Vec
rizzata all'arcivescovo di Colonia Geissel. D
vero
2. - a) Nell'antico Testamento l'unico vero Dio esigeva, sin dall'ini¬ m
zio, fede e abbandono in tutti i campi della vita. Di fronte alla molte¬ s
plicità degli dèi dell'antico Oriente, che erano in lotta continua tra di d
loro, il primo versetto della Genesi attesta in modo sommamente chiaro posso
e luminoso l'unicità di Dio, creatore del mondo e Signore assoluto della
veterotestamentaria
natura e dell'uomo. Anche se i credenti del Vecchio Patto, a motivo del¬
l'alleanza, erano in special modo « il popolo di Dio » e questi era la loro unico:
divinità, ciò non impediva affatto all'unico vero Dio di proclamarsi Si¬ c
gnore di tutte le nazioni. Iprofeti e salmisti misero in piena evidenza eli
tale fatto. Gli « dèi » fatti dagli uomini, allo scopo di simboleggiare in onora
legno o in pietra o in atti di culto le forze della natura intese come stess
numinose o divine, sono nulla. Essi nè possono giovare, nè riescono
utili (Is. 40, 18 ss.; 44, 6 ss.; Ger. 2, 11).
All'inizio della legislazione veterotestamentaria leggiamo che il dovere attraz
fondamentale sta nel credere in un Dio unico: «Io sono Jahvè, il tuorinnovata
Dio, che ti ho tratto dal paese d'Egitto, dalla casa di servitù » (Es. 20, pr
2 s.; cfr. Deut. 6, 4). In tal modo vengono eliminate tutte le altre di¬
vinità. Solo l'unico vero Dio deve essere onorato, sia nel culto privato, l'unic
sia in quello pubblico. Egli racchiude in se stesso tutto quanto di divino 4
i miti attribuiscono alle molteplici divinità. veterotestamen
La tentazione di cadere nel politeismo che regnava all'intorno, mi¬potenza
nacciò sovente, con la sua grande forza di attrazione, il popolo d'Israele.Testamen
Ma Dio mostrò con potenza, sempre rinnovata e sconcertante, le pre¬ ossia
tese del suo dominio. Con cordoglio e ira i profeti gettarono in faccia regno
agli idolatri la loro infedeltà, quasi avessero violato la fedeltà coniu¬
gale, li richiamarono all'obbedienza verso l'unico vero Dio (Ger. 2, 26)
e ne palesarono la potenza e la grandezza (Is. 40, 28; 26, 13).
Il punto saliente della fede veterotestamentaria nell'unico Dio sta
nell'esperienza che una sola realtà e potenza divina opera nel corso
della storia. La rivelazione dell'Antico Testamento non ci offre anzitutto
un monoteismo teorico, ma bensì pratico; ossia ci presenta il Dio unico
che, nella rivelazione stessa, attua il suo regno, il suo dominio. Egli dà
§ 48. l'unicità di dio in tre persone 279
all'uomo regole assolute per il suo agire concreto (Es. 23, 7), determina
il senso, la norma e il fine della vita. Dio, che esige obbedienza incon¬
dizionata, è sentito dal credente come potenza personale, di fronte a cui
egli è supremamente responsabile. Il monoteismo teorico si ha solo in
un secondo momento. Cfr. W. Eichrodt, Theologie des Alteri Testaments,
1933, I, in.
La potenza e l'energia con cui Dio si scaglia contro le tendenze politeistiche,
possono essere chiarite dai seguenti passi : « A Jahvè appartiene la terra e tutto
ciò che è in essa, il mondo e i suoi abitanti. Poiché egli l'ha fondata sui mari,
e l'ha stabilita sui fiumi » (Sai. 24, 1 s.). « Icieli sono tuoi, tua pure è la terra;
tu hai fondato il mondo e tutto ciò che è in esso. Hai creato il settentrione e
il mezzodì; il Tabor e l'Hermon mandano grida di gioia al tuo nome» (Sai.
89, 12 s.). Esdra così loda il Signore: «Tu, tu solo sei Jahvè! Tu hai fatti i
cieli, i cieli dei cieli e tutto il loro esercito, la terra e tutto ciò che sta sovr'essa,
i mari e tutto ciò ch'è in essi, e tu fai vivere tutte queste cose, e l'esercito dei
cieli ti adora » (Neem. 9, 6). « Ora vedete che io solo son Dio, e che non vi è
altro Dio accanto a me. Io fo morire e vivere, ferisco e risano, e non v'è chi
possa liberare della mia mano. Sì, io alzo la mia mano al cielo e dico: Com'è
vero ch'io vivo in perpetuo, quando aguzzerò la mia folgorante spada e metterò
mano a giudicare, farò vendetta dei miei nemici, e darò ciò che si meritano a
quelli che m'odiano » (Deut. 32, 39-41). « Così parla Jahvè, re d'Israele e suo
redentore, Jahvè degli eserciti: Io sono il primo e sono l'ultimo, e fuori di me
non v'è Dio. Chi, come me, proclama l'avvenire fin da quando fondai questo
popolo antico? Lo dichiari e me lo provi! Lo annunzino essi l'avvenire, e
quel che avverrà! Non vi spaventate, non temete! Non te l'ho io annunziato e
dichiarato da tempo? Voi me ne siete testimoni. Vi è un Dio fuori di me?
Non v'è altra Rocca; io non ne conosco alcuna » (Is. 44, 6-8). « Io sono Jahvè,
e non ve n'è alcun altro; fuori di me non v'è altro Dio! Io t'ho cinto quando
tu non mi conoscevi, perchè dal levante al ponente si riconosca che non v'è
altro Dio fuori di me » (Is. 45, 5 s.). « Poiché così parla Jahvè che ha creato i
cieli, l'Iddio che ha formato la terra, l'ha fatta, l'ha stabilita, non l'ha creata
perchè rimanesse deserta, ma l'ha formata perchè fosse abitata: Io sono Jahvè
e non ve n'è alcun altro. Io non ho parlato in segreto in qualche luogo tene¬
broso della terra; io non ho detto alla progenie di Giacobbe: Cercatemi invano!
Io, Jahvè, parlo con giustizia, predico le cose che son rette. Adunatevi, venite,
accostatevi tutti assieme, voi che siete scampati dalle nazioni! Non hanno intel¬
letto quelli che portano il loro idolo di legno, e pregano un dio che non può
salvare. Annunziatelo, fateli appressare, prendano pure consiglio assieme! Chi
ha predetto queste cose sin dai tempi antichi e l'ha predette da lungo tempo?
Non sono forse io, Jahvè? E non v'è altro Dio fuori di me, un Dio giusto, e
non v'è Salvatore fuori di me. Volgetevi a me e sarete salvi voi, paesi tutti
della terra! Poiché io sono Dio e non ve n'è alcun altro. Per me stesso
io l'ho giurato; è uscita dalla mia bocca una parola di giustizia, e non sarà re¬
vocata: ogni ginocchio si piegherà dinanzi a me, ogni lingua mi presterà giu¬
ramento. Solo in Jahvè, dirà, è la mia giustizia e la mia forza » (Is. 45, 18-24).
solleva le nubi dalle estremità della fa guizzar
diven
280 P. I. - DIO UNO E TRINO
v
« Ma Jahvè è il vero Dio, egli è l'Iddio vivente e il re eterno; per l'ira sua »
trema la terra, e le nazioni non possono reggere dinanzi al suo sdegno. Così
approfondisc
direte loro: Gli dèi che non han fatto i cieli e la terra, spariranno da questa
terra e da sotto questo cielo. Egli con la sua potenza, ha fatto la terra; con la c
sua sapienza ha stabilito fermamente il mondo; con la sua intelligenza ha cristiana
disteso i cieli. Quando fa udire la sua voce scrosciano le acque nel cielo; 14,
solleva le nubi dalle estremità della terra, fa guizzare i lampi per la pioggia e
infa
trae il vento dai suoi tesori; ogni uomo allora diventa stordito, privo di cono¬
scenza, ogni orafo ha vergogna delle sue immagini scolpite; perchè le sue im¬ Co
magini fuse sono una menzogna, e non v'è soffio vitale in loro. Sono vanità, c
lavoro d'inganno; nel giorno del castigo periranno » (Ger. io, 10-15). 10
b) Nel Nuovo Testamento si approfondisce maggiormente la fede po
nell'unico Dio. Si conduce una lotta decisiva contro il politeismo, do¬ moltepli
vunque i predicatori della rivelazione cristiana lo incontrano, sia ad pe
Atene, a Listra 0 a Efeso (Atti 17, 24 s.; 14, 15; 19, 26). Non si fa D
differenza fra culto degli idoli e ateismo; infatti le divinità idolatriche 3
non sono dèi (Gal. 4, 8 s.). Esse sono nulla (1 Cor. 8, 4; 10, 19). L'unico unico
vero Dio disprezza il culto degli idoli, il quale conduce, necessariamente, alt
al dominio delle forze demoniache (1 Cor. 10, 7; Gal. 4, 8; Rom. 1,immagin
23-25; Ef. 2, 2; 1 Cor. 10, 20-22). Benché il politeismo minacci di con¬
tinuo anche i cristiani (2 Cor. 4, 4), i molteplici signori e dèi che esi¬ 17
stono non sono, in realtà, nè dèi nè signori per i cristiani. Per essi vi p
è solo un unico vero Dio (1 Cor. 8, 4 s.): il Dio della rivelazione vete¬ vuo
rotestamentaria (Mt. 15, 31; 1, 68; Me. 12, 39 s.; Atti 3, 13; 5, 30; rappacifica
22, 14; 2 Cor. 6, 16 ecc.). Accanto a tale unico e vero Dio, il cristiano cos
non può avere 0 confessare altra divinità e altro dio; non può ricono¬ 10
scere nè Mammona, nè il ventre, nè immagini idolatre, nè forza uni¬
versale 0 imperatori romani divinizzati (Mt. 6, 24; Le. 12, 19-21; Fil.
(chiam
3, 19; 2 Cor. 6, 16; Gal. 4, 8-11; Me. 12, 17).
La rivelazione della Trinità non mette in pericolo la fede nell'unità
Ireneo
di Dio. Cristo, che apporta tale rivelazione, vuol ristabilire l'obbedienza
tendenza
dell'uomo verso l'unico vero Dio e rappacificarlo con lui. Ci assicura
che tanto lui quanto il Padre sono la stessa cosa (Giov. 10, 30), che il
Padre è in lui e che egli è nel Padre (Giov. 10, 38), di cui è venuto a
stabilire il regno.
3. - All'epoca patristica l'unità di Dio (chiamata spesso col nome di
« monarchia ») venne affermata energicamente di fronte alle interpreta¬
zioni politeistiche, dualistiche e triteiste. Ireneo si è specialmente oppo¬
sto all'antichissima e sempre rinascente tendenza di contrapporre al Dio
§ 48- l'unicità di dio in tre persone 281
buono un Dio cattivo, per spiegare l'origine del male (Adversus haere-
ses, 2, 4).
Anche in Cirillo di Gerusalemme si sente con quanta solerzia ed energia, anzi
con quanta passione, i cristiani confessavano l'unico Dio : « Il demonio non
operò solo tra i gentili. Molti falsi cristiani, che ingiustamente si apppropria-
rono il nome soavissimo di Cristo, hanno osato strappare a Dio, con empietà,
la sua propria opera. Penso agli sciagurati eretici del tutto abbandonati da Dio
che, fìngendo di essere amici di Cristo, in realtà sono suoi nemici. Chi in¬
giuria il Padre di Cristo è infatti nemico anche del Figlio. Costoro hanno la
sfrontatezza di parlare di due dèi, uno buono e l'altro cattivo. O strana cecità!
Se Dio è Dio, è per ciò stesso buono. Se non è buono, come mai potrebbe chia¬
marsi Dio? Appartiene infatti all'essenza di Dio l'essere buono, è proprio di Dio
l'amare gli uomini, il beneficarli, essere onnipotente. Di conseguenza solo una
delle due ipotesi è possibile: o chiamarlo Dio e quindi attribuirgli assieme al
nome anche le operazioni divine, o evitare di dargli tale nome se si vogliono
escludere queste.
Gli eretici non si vergognano di dire che vi sono due dèi, entrambi increati,
di cui uno è la sorgente del bene l'altro del male. Ma se sono entrambi senza
principio, dovrebbero essere pure ugualmente potenti. Come potrebbe in tal caso
la luce tollerare le tenebre? Esistono insieme oppure separati? Non possono esi¬
stere insieme, poiché l'Apostolo si chiede: quale società può esservi tra la luce e
le tenebre? Se non hanno tra loro nulla a che vedere, noi siamo dunque solo
nel regno del Dio unico, e perciò dobbiamo adorare esclusivamente un solo Dio.
È necessario riflettere che, se anche volessimo aderire alle pazze fantasie di questi
eretici, dovremmo ugualmente adorare un solo Dio. Domandiamo pertanto a loro
che cosa pensano del Dio buono! È potente o impotente? Se è potente, come
può aver avuto origine il male contro la sua volontà? Come ha potuto apparire
nel mondo l'essere malvagio contro il suo volere? Se poi Dio è a conoscenza di
ciò, e non riesce a impedirlo, lo si accusa di impotenza; se invece può vietarlo
e non lo fa, lo si fa reo di tradimento. Ecco la loro pazzia! Talvolta dicono che
il Dio cattivo non si intromette in alcun modo nel campo del Dio buono per
quanto riguarda la creazione del mondo, tal altra gliene attribuiscono invece una
quarta parte. Chiamano il Dio buono Padre di Cristo, e con Cristo intendono
il nostro sole. Se dunque, secondo l'insegnamento degli eretici, il mondo è stato
creato dal Dio del male, poiché il sole è nel mondo, come mai il Figlio del Dio
buono, contro il suo volere, può essere schiavo del Dio malvagio? Ci inoltriamo
nel fango, quando parliamo di tale dottrina; lo facciamo però, perchè nessuno
dei presenti possa cadere per ignoranza nella melma degli eretici. So che par¬
lando di questa dottrina macchio me, la mia bocca e le orecchie degli uditori;
ma sta bene sia così. È molto meglio ascoltare le confutazioni delle altrui as¬
surde sentenze, piuttosto che precipitare in esse a capofitto per ignoranza. È
molto meglio che tu conosca il trogolo per odiarlo, piuttosto che precipitarvi
perchè non lo conosci. Molti sono i motivi dell'empietà delle eresie. Quando si
devia dal retto sentiero, quando ci si scosta troppe volte si cade in precipizi »
(Catech., 6).
Giovanni Damasceno così sintetizza il suo insegnamento : « È stato dimostrato
venire; altro Dio è al di fuori di Anc
etern
282 P. X. - DIO UNO E TRINO d
a sufficienza che Dio esiste e che è incomprensibile per essenza. Che vi sia unprincipi
solo Dio e non più dèi è indubbio per coloro che credono nelle divine Scritture.Supponia
Infatti a principio della sua Legge data a Israele Dio afferma : " Io sono il Si¬ dive
gnore Dio tuo, che ti ho tratto dall'Egitto. Non avrai altro Dio fuori di me". tra
E più avanti : " Ascolta Israele, il Signore Dio tuo è l'unico Dio Mediante il pe
profeta Isaia così egli parla : " Io sono Dio dal principio e lo sono anche in av¬ identità
venire; nessun altro Dio è al di fuori di me Anche il Signore Gesù così si com
esprime nel santo Vangelo: "Questa è la vita eterna, che conoscano te, unico
vero Dio Ma per coloro che non credono alla divinità delle sacre Scritture N
faremo le seguenti considerazioni. L'essenza divina è perfetta, nulla le manca r
riguardo a bontà, sapienza, potenza. È senza principio, senza fine ed eternamente s
illimitata, in una parola, in tutto perfetta. Supponiamo di ammettere molte di¬ la
vinità, necessariamente dovremo scorgere delle diversità tra loro, poiché senza ta
differenza non vi è pluralità. Ma se differiscono tra loro, dov'è allora la perfe¬ Dio.
zione? Infatti se uno lascia a desiderare quanto a perfezione di bontà, potenza o
sapienza come può essere Dio? Una totale identità proverebbe ancor più che è
solo un Dio esiste e non molti. Se fossero molti come sarebbe poi possibile che
essi abbiano l'immensità? Infatti dove c'è l'uno non ci può essere l'altro. Inoltre
cristianesi
come potrebbe il mondo essere governato da molti? Non finirebbe forse per soc¬ filos
combere o andare alla rovina dal momento che i reggitori si farebbero certa¬ atti
mente guerra fra loro? Infatti la diversità adduce seco l'opposizione e la lotta. rin
Se si volesse pensare che ciascuno può governare la propria parte senza curarsi cosc
delle altre, dovremmo chiederci chi mai ha creato tale ordine e ha determinato divin
le singole parti. Costui sarebbe davvero l'unico Dio. Uno, perciò, è il vero Dio,
perfetto, immenso, ideatore e creatore, conservatore e reggitore del mondo. Ciò tuo
è anche una necessità di natura in quanto l'unità è fondamento della dualità » conosce
(.De fide orthodoxa, lib. I, cap. 5). de
La credenza nell'unico Dio non era, nel cristianesimo primitivo, semplice con¬ de
siderazione intellettuale o il risultato di studio filosofico, ma bensì confessione mar
senza riserbo e intonazione di tutta la vita. Gli atti dei martiri ci rivelano mi¬ corpo
rabilmente quale peso o profondità avesse. Vi si rinviene sia la gratitudine e la bene
gioia per la rivelazione di un solo Dio, sia la coscienza del profondo distacco Ponte
tra la vera fede e le concezioni pagane della divinità. Così, ad esempio, Poli¬ S
carpo, già legato sulle cataste del rogo, pregava in questa guisa attendendo la
morte : « Signore Iddio, onnipotente, Padre del tuo diletto e benedetto Figlio, S
Gesù Cristo, dal quale noi abbiamo ottenuto conoscenza di te; Dio degli angeli, d
delle potestà, dell'universo e di tutta la schiatta dei giusti che vivono alla tua d
presenza, io ti benedico, perchè mi hai stimato degno di questo giorno e di
quest'ora, e di aver parte, in compagnia dei tuoi martiri, al calice di Cristo Gesù
per la risurrezione a vita eterna, in anima e corpo, nella immortalità del tuo
Santo Spirito... Per questo e per tutti gli altri benefici ti rendo lode e benedi¬
zione e gloria per mezzo dell'eterno e celeste Pontefice Gesù Cristo, Figlio tuo
diletto, per il quale e con il quale in unione allo Spirito Santo a te sia gloria
ora e per l'eternità » (Martyrium Polycarpi, cap. 14). Apollonio dice al suo
giudice, il proconsole Perennio : « Questo nostro Salvatore Gesù Cristo, nato
come uomo in Giudea, in tutto giusto e ripieno di sapienza divina, mosso da
amore degli uomini insegnò a noi chi è il Dio dell'universo... Io speravo, o
§ 48. l'unicità di dio in tre persone 283
proconsole, che queste pie considerazioni s'imponessero a te, e che s'illuminas¬
sero gli occhi delia tua anima, sicché ne traesse buon frutto il tuo cuore, indu¬
cendosi ad adorare Iddio creatore di tutte le cose, a innalzare a lui solo ogni
giorno le tue preghiere con elemosine e opere di carità, come sacrifici incruenti
e puri dinanzi a Dio ». E dopo la condanna a morte risponde : « Ringrazio il
mio Dio, o Perennio proconsole, insieme con tutti quelli che riconoscono il Figlio
suo Gesù Cristo e lo Spirito Santo, per questa tua condanna, che è la mia sal¬
vezza » (S. Colombo, Atti dei martiri, Torino 1928, 104-105).
IPadri identificarono spesso gli idoli pagani con i demoni. Tuttavia, a questo
proposito, si deve osservare che prima della venuta di Cristo le religioni erano
un tentativo per comprendere e chiarire l'intimo mistero del mondo e così pe¬
netrare il problema dell'esistenza. Gli dèi erano gli aspetti fondamentali di esso,
però miticizzati. In loro veniva simboleggiata la magnificenza numinosa o divina
delle molteplici manifestazioni della natura. Erano, in certo qual modo, nell'at¬
tesa di Cristo. Dopo la sua venuta la loro conoscenza doveva facilitare una mag¬
giore intelligenza di Cristo stesso. Ma credere in essi e il tentativo di ridare
loro vita, sono in contrasto con il Dio vivente. Gli idoli, a lui opposti, si tra¬
sformano così in potenze demoniache. Satana, creatura che si è allontanata da
Dio, spinge l'uomo a considerare il mondo come la realtà unica e totale (pre¬
scindendo da Dio) e lo induce ad adorarlo come divino. In tal modo egli diviene
signore e padrone dell'umanità. La molteplicità e l'opposizione delle forme in
cui si presenta il mondo con la sua misteriosa bellezza e potenza, crea per il
cuore umano una costante tentazione verso il panteismo.
4. - Nel mondo extrabiblico raramente si trova il monoteismo. Quello musul¬
mano è sorto sotto l'influsso biblico. Nel mondo indoeuropeo troviamo il mes¬
saggio dualistico di Zarathustra. Costui si sente chiamato dal suo dio Ahura
Mazdà a lottare contro le potenze antidivine il cui capo è Angra Mainyu, il
grande avversario di Ahura Mazdà. Questi due appaiono occasionalmente come
due forze primordiali di pari potenza. La vittoria finale tocca indubbiamente alla
luce. In tal modo, il dualismo storico finisce in un monoteismo escatologico.
-
5. Gli scrittori pagani hanno generalmente difeso il politeismo del mondo
antico con motivi politici. Così Celso (11 secolo) ritiene assurda, in campo poli¬
tico, la fede in un Dio unico. Iculti nazionali sono per lui l'espressione delle
peculiarità nazionali (« le singole parti della terra, in cui i popoli venerano de¬
terminati dèi secondo il costume patrio, verosimilmente già fin da principio sono
state assegnate a distinti governatori e ripartite ordinatamente in diversi regni »).
Chi li attacca si oppone all'impero romano, in cui le particolarità nazionali sono
state fuse nell'unità politica. La lotta contro gli dèi nazionali è perciò un attacco
alla costituzione dell'impero romano stesso. La concezione monoteistica sarebbe
possibile solo se Asiatici, Europei, Libi ed Elleni al pari dei Barbari, disseminati
sino ai confini della terra, si accordassero per un'unica « legge ». Ma chi pensa
a qualcosa di simile, ha la testa nelle nuvole!
Origene, fondandosi su concezioni del suo tempo riguardanti il regno di Dio,
combatte il pensiero precedente sostenendo che le peculiarità nazionali saranno
eliminate alla fine del mondo e che proprio questa definitiva unità che si at-
rom
prima
284 P. I. - DIO UNO E TRINO sovran
Se
tende nel futuro è già preparata con l'unificazione di esse nell'impero romano. monarchia
Cfr. E. Peterson, Der Monotheismus als politìsche Form, 1935. me
E così la questione dell'esistenza di un solo Dio venne ad avere incidenza anche subordinaz
nel campo politico. Con l'unità di Dio si giustificò l'impero romano. In tal modo
l'unità del cielo si armonizzava con quella della terra. L'unità di Dio divenne per
segu
il politico un fondamento, quanto mai gradito, per il regno di Roma. Il pen¬
siero che la concezione monarchica dell'impero romano avesse il suo prototipo
nell'eterna monarchia di Dio stesso, e che la prima fosse solo una proiezione su
dell'eterno nel contingente, indusse non pochi sovrani, con i rispettivi teologi di a
corte, ad accentuare la dottrina dell'unità di Dio. Sembrò loro che la concezione Gli
trinitaria celasse un pericolo per la stessa monarchia. In tal modo giunsero alla po
conclusione che il Padre è Dio in senso stretto, mentre il Figlio è solo Dio in
secondo ordine e subordinato al Padre. Il subordinazionismo ricevette così il suo del
sigillo politico. cose
6. - Politeismo pratico significa affermare e seguire nei diversi campi della fondata
vita, sia comunitaria che individuale, norme diverse che si escludono a vicenda,
oppure elevare realtà di questo mondo a valore supremo. Benché l'antica ido¬
latria sia tramontata, tuttavia il politeismo continua a regnare praticamente anche come
nei più alti gradi culturali dello sviluppo umano. Gli dèi non si chiamarono più,
com'è logico, Apollo o Giove o Zeus o Wotan, ma potere, ricchezza, oro, piacere,
umanità (cfr. § 31). trinita
g
-
7. L'unicità di Dio è il fondamento dell'unità del creato e della storia umana,
anzi della unione universale degli uomini e delle cose tra di loro e, specialmente,mediev
dell'uomo con le cose. Tale unità del mondo, fondata e garantita sulla unicità di Seco
Dio, non è in contrasto con la profonda differenza di grado, anzi l'opposizione
che esiste tra uomini, popoli e periodi storici. lo
8. La teologia spiega in diversi modi come la Trinità delle Persone poich
-
divine non distrugga l'unicità di Dio. e
a) Secondo la spiegazione del dogma trinitario, data particolarmente La
da Agostino, ma anche da parecchi teologi greci del tempo niceno e tosto
postniceno e che trionfò nella teologia medievale, l'unità di Dio è sal¬ unica
vaguardata dall'unicità dell'essenza divina. Secondo questo modo di pen¬ il
sare, si considera prima l'unica natura divina e poi le persone. L'essenza u
sta sul proscenio, le persone nello sfondo. La loro realtà non è per que¬ l'e
sto, nè misconosciuta, nè sminuita. Ma poiché lo spirito umano non
riesce a cogliere in un unico colpo d'occhio essenza e persone, si sof¬
ferma dapprima sull'una e poi sulle altre. La parola Dio, quando non
vi è aggiunta ulteriore determinazione, fa tosto pensare, secondo il pre¬
detto modo d'intendere, all'essenza divina unica che esiste in tre persone.
E facile di qui comprendere come spesso il medio evo si ponesse il
problema se all'essenza, in quanto tale, spetti una propria sussistenza. Si
può rispondere affermativamente in quanto l'essenza esiste al di sopra
§ 48- l'unicità di dio in tre persone 285
del mondo, libera da ogni vicenda di natura e di storia, e quindi ha ca¬
rattere « assoluto ».
La conciliazione tra unità e trinità di Dio secondo il concetto ago¬
stiniano si può esprimere con Tommaso d'Aquino così: L'essenza di¬
vina è di tal sorta che sussiste in tre modi e cioè come Padre, Figlio
e Spirito. Questi modi si possono distinguere tra loro realmente solo se
ciascuno di essi è in certa guisa distinto dall'essenza. E questo è preci¬
samente quello che si verifica. Ciascuno di essi è infatti oggettivamente
la stessa essenza, ma tuttavia è distinto da essa, proprio come un modo
di essere si distingue dalla realtà, di cui è modo. Si può chiamare questa
distinzione virtuale 0 reale-modale 0 formale (Duns Scoto). La reale
identità dei modi di esistere dell'essenza con l'essenza stessa fonda l'u¬
nità di Dio. La loro virtuale distinzione dall'essenza apre la via alla
Trinità reale delle persone. Daremo maggiori schiarimenti trattando delle
relazioni divine.
b) L'antichità cristiana, come già vedemmo, conobbe anche un altro
modo di accordare l'unità di Dio con la Trinità delle persone. Nell'epoca
preagostiniana, specie nella teologia greca, dominava la tendenza di con¬
siderare, in primo luogo, le tre persone e solo in un secondo tempo
l'unità dell'essenza. Ma come la concezione agostiniana non veniva a
menomare la trinità delle persone, così nemmeno la concezione greca
poteva sminuire la realtà dell'unità divina. In tale teologia con la pa¬
rola Dio si designava in primo luogo non l'essenza divina, bensì il
Padre. Mentre la teologia occidentale era motivata da riflessioni filoso¬
fiche, la greca, invece, meglio rispecchiava, anche se non esclusivamente,
la terminologia biblica. Infatti la Bibbia quando parla di Dio, quasi sem¬
pre, come abbiamo già mostrato, intende la prima persona. Nel Padre si
vede la garanzia dell'unicità di Dio, in quanto egli è il principio, la fonte
della Trinità e dona la propria natura divina, senza per questo ripartire
se stesso, al Figlio e allo Spirito.
9. - Di fronte alla tensione tra unità e Trinità in Dio ci si può chiedere se
gli atti della nostra vita di fede fanno capo a Dio uno e trino o alla sola natura
di Dio e a tutte le tre persone ovvero a una sola. Secondo il pensiero occiden¬
tale, astraendo dai tre modi personali con cui Dio esiste, possiamo rivolgerci
nella preghiera all'unica essenza divina. Anche se questa non è una persona,
esiste tuttavia in modo trascendente e sussistente cosicché si può giungere a un
personale incontro tra questa e l'orante. Il fatto di poter prescindere (astrarre)
dalle tre persone divine, lo si deve all'essere la nostra conoscenza di Dio soltanto
mediata. Nella condizione celeste questa forma di preghiera non sarà più possi¬
bile, dato che vedremo Dio immediatamente com'è.
il primogenito molti fratelli (Rom. 8, 29). Noi s
diviene
286 P. I. - DIO UNO E TRINO Figli
Ch
Alla concezione greca risponde invece un altro tipo di preghiera. L'orazione
sale al Padre, mediante Cristo, nello Spirito Santo (cfr. i trattati di Cristo e della o
Grazia). Cristo stesso guida il cristiano verso tale preghiera. Quando Egli ci
svela Dio come nostro Padre, intende la prima persona divina, e non il Dio co
tripersonale in quanto ha sentimenti paterni verso gli uomini. Il Padre di Cristo prop
è identico al padre degli uomini (cfr. i passi biblici del § 44, II, 2 b). Gesù è cristi
il primogenito tra molti fratelli (Rom. 8, 29). Noi siamo destinati a partecipare unitament
alla sua figliolanza e in tal modo il Padre suo diviene nostro Padre (Gal. 4, 4-7). divin
È lo Spirito Santo che realizza tale unità con il Figlio. Avvolge l'uomo, lo rende
membro del corpo mistico di Cristo, ossia della Chiesa, di cui Cristo è capo,
lo rende conforme al Figlio e lo fa così (in modo analogo) anch'esso figlio di quand
Dio. In tal situazione la preghiera è un volger gli occhi, mediante Cristo, nello
Spirito Santo al volto del Padre, un accostarsi a lui, un discorrere con lui.agostinia
Cristo strappa quelli che gli son divenuti a lui conformi dalla meschinità del
mondo e li conduce, conformemente alla sua propria ascensione al cielo, alla Pa
presenza del Padre. Per mezzo del Figlio il cristiano viene introdotto, nella
cerchia degli angeli e dei santi, al Padre; unitamente con il Figlio può presen¬ Sop
tarsi a Dio con la parola « Padre » sul labbro (divina institutione formati aude-liturgiche
mus dicere: Pater noster). esempi
Questo modo di vivere la vita di fede è quindi del tutto informato alla Trinità. rivol
Riceverà il massimo perfezionamento in cielo quando potrà partecipare alla vita m
della Triade augusta che ci verrà allora svelata. dell'ope
Tuttavia non è neppure alieno dalla pietà agostiniana che prese piede in Occi¬ dell'u
dente. Ce lo dimostra per esempio, Anselmo di Aosta nel suo Proslogium,
cap. 23 dove dice: «Questo bene sei Tu, Dio Padre, è il tuo Verbo, cioè il
tuo Figlio... Ed è l'amore unico e comune a Te e al tuo Figliuolo, cioè lo
Spirito Santo, il quale da entrambi procede ». Soprattutto si palesa nella con¬ atto
clusione della maggior parte delle preghiere liturgiche romane. Anche se talvolta,
e specialmente nelle formule più recenti, ad esempio in alcuni inni, si prega il
Dio tripersonale, di solito invece la preghiera è rivolta al Padre mediante Cristo
e nello Spirito Santo. Cfr. A. Stolz, T eologia della mistica, Brescia 1940, 207 ss.
All'unità della natura corrisponde l'unità dell'operazione. Dopo aver parlato Santo
dell'unicità di Dio passiamo quindi a trattare dell'unità delle operazioni divine Figl
esterne.
un'az
§ 49. L'operare divino ad extra come atto unico delle tre divine p
persone.
1. - Ogni opera esterna di Dio è compiuta dalle tre divine persone.
Il Padre agisce per il Verbo nello Spirito Santo. Il Figlio riceve volontà
e agire dal Padre, lo Spirito dal Padre e dal Figlio. Ciononostante l'azione
divina esterna è un atto unico. E ciò non nel senso che Padre, Figlio e
Spirito Santo si accordano tra loro per un'azione comune, ma perchè
agiscono come unico principio. Infatti le tre persone sono distinte solo
§ 49- l'operare divino ad extra come atto unico delle divine persone
287
per le loro opposte relazioni interne. In quello che ogni persona è per
sè, non per le altre due, vale a dire nella natura, esse sono una cosa
sola, l'unico essere divino, il quale è assolutamente senza relazione. Le
relazioni divine riguardano, per così dire, solo l'aspetto interno di Dio,
non quello esterno rivolto al mondo. Come l'essere di Dio è nei riguardi
del mondo, privo di relazione reale, ma assoluto e indipendente, così
deve essere anche il suo agire. Ciò vuol dire che le relazioni interne ri¬
mangono entro la sola sfera divina. Di fronte al mondo, Dio è un unico
principio di operazione. Noi possiamo quindi rivolgerci a lui come a un
unico « tu » operante (cfr. tuttavia § 48).
2. - È quanto esprime il seguente dogma di fede : Le tre persone
divine operano ad extra con un atto unico. Il IV Concilio Lateranense
afferma quanto segue: Padre, Figlio e Spirito Santo sono un unico prin¬
cipio, un unico creatore (Denz. 428).
3. - L'unità di operazione delle prime due persone divine è stata più
volte rivelata da Cristo stesso nel quarto Vangelo (Giov. 5, 17-19; 5, 36;
10, 37 s.; 14, 10). Quando in questi passi si dice che il Figlio non può
compiere nulla da se stesso, ma può fare solo ciò che il Padre gli in¬
segna, non si intende già affermare una distinta partecipazione alla stessa
opera, ma bensì sottolineare, che il Figlio, come per tutto il suo essere,
riceve anche la potenza di agire tramite la generazione dal Padre. Così
pure la Scrittura attesta l'unità di operazione dello Spirito Santo con le
altre due persone. Lo Spirito Santo dispensa icarismi (1 Cor. 12, 4 ss.),
come li dispensa il Padre (Ef. 1, 3 ss.). Nella potenza dello Spirito sono
rimessi i peccati (Giov. 20, 22 s.), come pure nella potenza del Padre
(Le. 11, 4; 23, 34) e del Figlio (Mt. 9, 2).
4. - Agostino deduce l'unità di operazione esterna delle persone divine dal¬
l'unità della natura di Dio e della volontà che si identifica con essa. Cerca di
chiarire tale concetto mediante un paragone tratto dallo spirito umano. Così si
esprime nel Sermone 52 (cap. 7-8) : « O uomo, hai la memoria? Se non l'avessi
come avresti potuto ritenere quanto finora ti dissi? Può darsi che l'abbia di¬
menticato; ma anche solo questa mia parola " dissi tu non potresti ritenerla
senza memoria. Come faresti a sapere che consta di due sillabe, se nell'istante
medesimo in cui io pronuncio la seconda tu avessi dimenticato la prima? Ma
perchè dilungarmi? Perchè affaticarmi e sforzarmi a convincerti? È del tutto evi¬
dente che tu hai memoria. Ora un'altra domanda: Hai l'intelletto? Sì! Se senza
memoria non potresti ritenere la mia parola, senza intelletto non potresti com¬
prendere ciò che hai ritenuto. Grazie all'intelletto tu ti concentri sull'oggetto
che la memoria ritiene, vi rifletti sopra, poi capisci quanto ti è stato detto e
finalmente puoi dire di averlo compreso. In terzo luogo ti chiedo: Hai ritenuto
cui comprendete. Ivostri applausi mi dicono che av
a
288 P. I. - DIO UNO E TRINO
tu
e capito volontariamente?— Ma certo! mi rispondi tu. — Dunque possiedi espres
anche la volontà. Ecco le tre cose che io volevo far intendere al tuo spirito come orecch
al tuo orecchio; esse si trovano tutte e tre in te, tu puoi numerarle, ma non me
separarle. Tre cose dunque: memoria, intelletto e volontà, e nota bene che siintender
enunciano separatamente, ma esse agiscono inseparabilmente. quattr
Dio ci aiuti, come di fatto ci ha già aiutati. E lo vedo bene dal modo con
cui comprendete. Ivostri applausi mi dicono che avete inteso e io nutro fiducia ne
che con la grazia di Dio potrete capire tutto sino alla fine. Mi son proposto di
mostrare tre cose che si enunciano separatamente e che agiscono inseparabil¬ rendi
mente. Io ignoravo ciò che è nel tuo spirito, ma tu me lo hai indicato quando han
pronunciasti il termine: memoria, e questa espressione, questo suono, questo nessun
vocabolo è pervenuto dal tuo spirito al mio orecchio. Prima di parlare infatti
tu riflettevi silenziosamente a ciò che si chiama memoria. Tu lo sapevi e non
me lo avevi ancora detto. Ora per farmelo intendere tu hai pronunciato questa facev
parola: memoria. Io l'ho udita. Ho distinto le quattro sillabe di cui è composta. riten
Si tratta di una parola quadrisillaba, di un nome, un suono che ha raggiunto Gra
il mio orecchio e che ha suscitato qualche cosa nel mio intelletto. Il suono è
svanito, ma la causa e l'effetto del suono restano. Ecco ora la mia domanda:
co
Quando tu pronunci il nome di memoria, ti rendi conto che tale vocabolo si
applica solo alla memoria? le altre due facoltà hanno un nome proprio; l'una dico
infatti si chiama intelletto, l'altra volontà, ma nessuna delle due viene mai detta tuttavia
memoria. Ma per esprimere quest'ultimo nome, per produrre queste quattro sil¬
labe, di qual mezzo ti sei servito? Questo nome che non designa che la memòria e
è stato formato in te dalla memoria stessa che ti faceva ritenere ciò che tu dicevi;
tanto
dall'intelletto che ti faceva comprendere ciò che ritenevi; infine dalla volontà che
ti portava a proferire ciò che tu comprendevi. Grazie al Signore, nostro Dio! l'u
Egli ha aiutato sia me che voi ». i
Anche se i Padri greci designano il Padre come fonte tanto delle per¬
sone divine quanto delle opere esterne e dicono che Egli opera tutto d
mediante il Figlio, nello Spirito Santo, tuttavia mantengono così salda¬
mente l'unità di operazione nelle opere esterne, da dedurre da essa anche o
l'unità della natura. Essi, con il loro modo di esprimersi, intendono solosupposit
indicare che la seconda e la terza persona, tanto nell'essenza quantoprocessione,
nel-
l'agire, hanno origine dal Padre, che perciò l'unità di operazione è inti¬ attr
mamente connessa con le origini divine. Cfr. il trattato sulla Creazione.
5. - Secondo la riflessione teologica l'unità di operazione nelle opere
esterne deriva dall'unità dell'essenza divina e dalla sua semplicità. L'at¬
tività ad extra di Dio non è se non la natura divina in quanto dice re¬
lazione a ciò che è extradivino. Non si può obiettare che le azioni ap¬
partengano alle persone (actiones sunt suppositorum), poiché le tre per¬
sone operano nell'ordine della loro processione, mediante una sola natura
divina realmente identica a ognuna di esse, attraverso un'unica volontà e
uno stesso intelletto divino.
§ 5°- LE missioni 289
§ 50. Le missioni.
Le missioni divine rappresentano un particolare modo dell'agire divino.
1. - Tanto la Scrittura, quanto la Tradizione attestano che vi sono
missioni divine.
a) La Scrittura testimonia sia la missione del Figlio sia quella
dello Spirito Santo. Nel Vangelo di Giovanni (3, 16 s.) leggiamo: « In¬
fatti Dio ha talmente amato il mondo da dare il suo Figliuolo unige¬
nito, affinchè chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
Poiché Dio non ha mandato il Figliuol suo nel mondo per giudicare il
mondo, ma perchè il mondo sia salvato per mezzo di lui ». Nel capi¬
tolo 5 (vers. 23) ci è trasmessa la frase di Cristo : « Chi non onora il
Figliuolo, non onora nemmeno il Padre che l'ha mandato » (cfr. Giov.
5, 36. 38). L'apostolo Paolo scrive ai Galati (4, 4) : « Quando venne
la pienezza del tempo, Dio inviò il Figlio suo fatto da donna, nato sotto
la Legge affinchè redimesse quelli che erano sotto la Legge, perchè noi
ricevessimo l'adozione di figli ».
b) La missione dello Spirito Santo è testimoniata, ad es., dal Van¬
gelo di Luca. Cristo dice nel suo discorso d'addio : « Ecco faccio scendere
su voi la promessa del Padre mio; ma voi restate in questa città finché
siate rivestiti di potenza dell'alto » (Le. 24, 29). Nelle parole di saluto
che Gesù rivolge agli Apostoli, durante l'ultima cena leggiamo : « Io
pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paracleto (consolatore) perchè
rimanga in eterno con voi, lo spirito di verità che il mondo non può
ricevere... Ma il Paracleto (consolatore), che il Padre manderà in mio
nome, v'insegnerà ogni cosa e vi suggerirà tutto ciò che io vi ho detto »
(Giov. 14, 16. 26). E ancora: «Quando poi sarà venuto il Consolatore,
che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità, che procede dal Padre,
egli renderà testimonianza di me » (ivi 1$, 26). Cfr. pure 16, 7; Gal. 4, 6.
2. - Questi passi dimostrano l'esistenza di missioni divine e indicano
inoltre che soltanto il Figlio e lo Spirito Santo furono inviati, mentre
il Padre non è mai stato mandato da alcuno, ma bensì invia gli altri.
La Scrittura dice che il Padre viene all'uomo, mai che sia mandato
(Giov. 14, 23).
3. - Inoltre, i fatti che la Scrittura ci presenta consentono un ulte¬
riore approfondimento delle missioni divine. Con tale termine si in-
19 - schmaus - dogmatica I.
creatura ragionevole, sicché la persona inviata d
290 P. I. - DIO UNO E TRINO
mis
tende il fatto che una persona divina viene comunicata da un'altra, dalla eterna
quale procede, alla creatura razionale.
Alla missione appartengono due elementi essenziali: mo
a) l'origine della persona inviata dalla persona che invia; a
b) la comunicazione della persona inviata da parte dell'inviante alla proc
creatura ragionevole, sicché la persona inviata diviene presente in nuova teolo
maniera nelle creature. viene
Tale spiegazione risale ad Agostino. La missione include dunque il e
concetto di una duplice azione divina, eterna l'una, temporale l'altra.
Attraverso l'azione temporale l'eterna irrompe in certo qual modo nel
dominio del creato. La missione, in certo modo, continua nel mondo comando,
creato la processione che si svolge in grembo a Dio. è
Basandosi sul rapporto esistente tra la processione eterna e la mis¬ divine
sione della persona inviata nel mondo, i teologi occidentali videro nel¬
l'attestazione biblica che lo Spirito Santo viene inviato anche dal Figlio, d'amor
la ragione per dedurre che egli procede pure eternamente anche da lui. decisio
4. - La missione, dato che le divine persone sono perfettamente iden¬ ma
tiche per natura, non comporta alcun comando, consiglio o desiderio del r
mittente nei riguardi dell'inviato. La missione è piuttosto dovuta a un'u¬
nica decisione volitiva delle tre persone divine ed è perfettamente li¬
bera tanto per il mittente quanto per l'inviato. Il Padre manda il Figlio lor
e lo Spirito Santo per libera decisione d'amore. Il Figlio e lo Spirito p
Santo non sono solo d'accordo con tale decisione del Padre, ma la at¬ significar
tuano assieme a lui in quanto la ricevono da lui attivamente. Sono quindi non
mandati in quanto e perchè vogliono essere mandati. La persona inviata Pa
accetta di essere mandata per libera decisione ricevuta dalla persona da sp
cui procede. crea
inv
5. - Siccome le persone divine sono tra loro intimamente unite, la c
missione dell'una include necessariamente la presenza delle due altre. co
La missione non può assolutamente significare una qualsiasi distanza
spaziale o spirituale fra l'una e l'altra. Essa non è che la comunicazione
dell'essere divino tripersonale. In quanto il Padre invia il Figlio e lo
Spirito Santo, Dio si comunica alla creatura spirituale. La missione in¬
fatti non ha per risultato di far entrare la creatura in maggior contatto
con la persona inviata anziché con quella inviarne. Richiama esclusi¬
vamente l'attenzione sul modo con cui essa si compie nell'essere divino,
sull'aspetto intimo con cui l'essere di Dio si comunica.
§ 5°- LE MISSIONI 291
6. - Effetto formale della missione è l'abitazione di Dio personalmente
trino nell'uomo. Essa è comune a tutte e tre le persone; ciascuna è pre¬
sente con pari intensità nelle creature a cui Dio si comunica per mezzo
della missione.
Tuttavia, pur ammettendo che non vi è distinzione tra le divine per¬
sone per quanto concerne il fatto della loro presenza, potremmo chie¬
derci se non si può ammettere una diversità nel modo con cui ciascuna
è presente.
a) IPadri Greci, specialmente Cirillo di Alessandria, e i teologi
moderni, soprattutto nel secolo xix, che subirono il loro influsso, attri¬
buiscono alle persone divine, specie allo Spirito Santo, ima particolare
abitazione conforme al carattere proprio di ciascuna persona. Tra questi
teologi sono da segnalare Cornelio a Lapide (t 1623), Petavio (f 1652),
L. de Thomassin (t 1695), Bernardo De Rossi (t 1775), Carlo Passaglia
(t 1887) e molti dei suoi discepoli: Clemens Schrader, Denzinger, Het¬
tinger, Hergenróther, e specialmente Scheeben; inoltre Scholz, C. M.
Jovene, E. Scholl, H. Ramière, E. Borgianelli, H. Hurter, Th. de Ré-
gnon, Hermann Schell, Constantin Gutberlet, Mons. Waffelaert, ecc.
Nonostante le molteplici divergenze nei particolari, detti teologi si accordano
nell'ammettere quanto segue: l'abitazione di Dio nell'uomo in stato di grazia,
gli garantisce la partecipazione, il possesso dell'essenza divina. Tale partecipa¬
zione è comunicata dallo Spirito Santo. Il Paraclito, secondo la teologia trinitaria
greca, è il termine, il compimento della vita divina trinitaria. Il fiume della vita
divina nasce dal Padre, da lui passa al Figlio e, attraverso il Figlio, si estende
allo Spirito Santo, in cui raggiunge il suo colmo e il suo termine immanente. Lo
Spirito Santo è, in certo senso, il confine, oltre il quale giace il mondo. Perciò
quando la vita divina vuol raggiungere le creature passa attraverso lo Spirito
Santo. Sul fondamento di questa interpretazione greca della Santissima Trinità,
così può concepirsi l'abitazione delle tre persone divine: lo Spirito Santo inviato
dal Padre e dal Figlio raggiunge l'uomo, a cui è mandato, si unisce a lui e gli
comunica il possesso della natura divina che è identica a ciascuna delle tre per¬
sone. A causa del carattere relativo dello Spirito Santo e della sua conseguente
inscindibilità dal Padre e dal Figlio, unirsi a lui vuol dire unirsi pure alle altre
due persone. Effettivamente la missione dello Spirito Santo ha senso solo se
deve condurre le creature da lui possedute al Padre e al Figlio. Il Paraclito
prende possesso dell'uomo a cui è stato inviato, ma solo per conto del Padre e
del Figlio. Qui sta pure il motivo per cui la sua unione con le creature non è
unione ipostatica, come quella che si produce con l'incarnazione del Logos.
Lo Spirito Santo è presente nell'essere umano in modo conforme alla sua
propria caratteristica personale. Lo stesso si verifica per le altre due persone, la
cui presenza è effetto immediato di quella dello Spirito Santo. « La persona in¬
viata appare piuttosto come preinviata, come precorritrice della mandante e
come quella che per prima entra in noi, senza tuttavia realizzare, mediante una
Figlio al Padre. dell
natura
292 P. I. - DIO UNO E TRINO nuovamen
sua particolare attività, l'unione con la mandante, senza divenire mediatrice tra
i due che essa deve unire. Ora è così che noi concepiamo ordinariamente la
sopramenzionati
persona inviata, che Scritture e Padri presentano in modo speciale lo Spirito info
Santo. Secondo i Padri alla missione esterna delle persone divine risponde un
moto, in senso inverso, in quanto lo Spirito Santo con il suo ingresso, la sua persona
permanenza e la sua attività nella nostra anima, ci conduce all'unione con il lo
Figlio e attraverso il Figlio al Padre. Per mezzo della missione o comunicazioneagiscono
dello Spirito Santo, diveniamo partecipi della natura divina, perveniamo alla co¬
munione con il Figlio di Dio, che in noi è nuovamente generato e, per ciò stesso,
nell'abitazion
entriamo in rapporto con suo Padre, che diviene nostro Padre » (Scheeben, c
Imisteri del Cristianesimo, § 31). ve
L'accusa che talora si muove ai sopramenzionati teologi di far abitare nel¬ s
l'anima del cristiano soltanto lo Spirito Santo, è infondata. Secondo essi l'abita¬
zione mediante la missione, si realizza per tutte e tre le persone, ma per ciascuna
nel modo che compete alla sua caratteristica personale.
Imedesimi teologi sono anche convinti che la loro dottrina non è affatto in
contrasto con il dogma che le tre persone agiscono ad extra come unico prin¬
cipio di operazione (cfr. § 49). reciproca
Essi affermano che nella missione e nell'abitazione di Dio nell'uomo non si spe
tratta di un'operazione ad extra nel senso usuale; che inoltre la presenza dellepresenza
tre divine persone, che poggia sulla missione, si verifica per ciascuna con unSecond
unico e identico atto volitivo realizzato da ognuna secondo la propria caratteri¬
accorda
stica personale.
appropria
b) La teologia occidentale, prescindendo dai teologi di gran fama ampia
sopra citati, trascura generalmente il fatto che le divine persone abitano
e agiscono nell'uomo secondo la loro reciproca opposizione. Essa vede
piuttosto nell'abitazione della Trinità una speciale presenza dell'unicasoprannat
essenza divina nella creatura razionale, presenza che compete nel mede¬ d
simo modo a tutte e tre le persone. Secondo la teologia occidentale svilupp
quando la Scrittura e iPadri sembrano accordare allo Spirito Santo una s
speciale presenza, ciò è dovuto ad appropriazione (appropriatici; cfr. s
§ 51). Tale questione verrà sviluppata ampiamente nel trattato sulla mezz
Grazia.
dil
-
7. Lo scopo della missione è soprannaturale. Essa adduce seco,
come già abbiamo detto, una speciale presenza di Dio, superiore a quella
generale in tutte le creature. Serve allo sviluppo del regno di Dio, alla
santificazione e beatitudine dell'uomo. Anche se supera la presenza ge¬
nerale di Dio nel creato, rimane tuttavia al di sotto della presenza che si
avvera nell'incarnazione del Logos. Sta in mezzo, tra la presenza di Dio
che si realizza con l'incarnazione e quella che si verifica nel mondo con
la creazione. È mistero che sfugge alla piena dilucidazione razionale.
§ 5°- LE MISSIONI 293
Spesso i teologi hanno tentato, con grandi sforzi, di rischiarare questo mistero
della presenza divina nell'uomo in stato di grazia. Le spiegazioni date sono
molte. La migliore, seguita anche da S. Tommaso d'Aquino, è la seguente.
L'uomo, in stato di grazia, è ripieno e compenetrato dallo Spirito Santo che lo
congiunge a Cristo e lo conforma a lui. Per mezzo di Cristo l'uomo santificato
viene condotto, nello Spirito Santo, alla presenza del Padre. Dio opera dunque
in lui, in modo che l'uomo venga accolto in seno alla vita che si svolge fra le
tre persone divine, e possa averne parte. Questi processi rimangono in via ordi¬
naria nascosti alla nostra coscienza. Ma ci danno, tuttavia, la possibilità di nuova
conoscenza e di un nuovo amore di Dio e di gustare la felicità divina. Durante
il tempo del nostro pellegrinaggio tale possibilità accordata all'uomo santificato,
non può raggiungere lo sviluppo completo. Si attua tuttavia in modo imperfetto
mediante la fede viva in Dio. Tale stato raggiunge un'intensità tutta speciale
nella « visione di Dio », che talvolta è largita ai mistici. Lo sviluppo completo
però sta nella possibilità, che poggia sulla missione divina, di poter raggiungere
in cielo una speciale comunione con Dio. Il Paradiso consiste infatti nella par¬
tecipazione alla vita che si svolge in seno alle tre persone divine ed è nel tempo
del pellegrinaggio terrestre che tale partecipazione ha inizio.
La dottrina, secondo cui l'uomo in grazia, già durante il pellegrinaggio ter¬
restre, partecipa, sia pure in modo nascosto, alla vita delle tre divine persone,
ha indotto i mistici a ricercare tale vita trinitaria nella profondità dell'anima (ca¬
stello interiore, apice dello Spirito, scintilla dell'anima), per sperimentarla e
prendervi parte (nascita di Dio nell'anima). Cfr. il trattato sulla Grazia.
8. - Si distingue tra missione visibile e invisibile. Visibile è quella in
cui la comunicazione della persona inviata è accompagnata da un segno
sensibile, comprensibile però solo mediante la fede (colomba del batte¬
simo di Cristo, lingue di fuoco durante la Pentecoste significanti la di¬
scesa dello Spirito Santo). Invisibile è quella in cui la persona inviata
si comunica alle creature razionali senza alcun segno visibile, in modo
da essere asserita solo per fede. La missione visibile può, inoltre, essere
sostanziale o accidentale. La prima si verifica nell'incarnazione, la se¬
conda nella discesa dello Spirito Santo in forma di colomba.
9. - La missione raggiunge la sua pienezza nell'Incarnazione. Qui il
Figlio di Dio fu inviato alla natura umana in modo che l'« io » del
Verbo divino divenne l'« io » di tale natura umana, in cui era stato
mandato e si rese presente nella storia dell'umanità. Da allora tutte le
missioni divine si svolgono in modo da congiungerci con Cristo.
10. - Il Figlio di Dio che, con la sua umana natura glorificata, sta in
reale comunione con noi, ci partecipa il suo Spirito, lo Spirito Santo.
Cristo è il portatore, il possessore, il distributore e il mediatore dello
Spirito Santo. Il Paracleto sgorga, in certo senso, dalla natura umana
illumina lo infiamma la luce il s
Contemporaneame
294 P. I. - DIO UNO E TRINO
vi
nell'union
di Cristo glorificata, vale a dire permeata intimamente dallo Spirito Santo;
sgorga da Cristo che è divenuto spirito vivificante (i Cor. 15, 45; cfr.
§ 44 e il trattato sulla Chiesa) e fluisce nei cristiani (Giov. 20, 22; Atti
2, 1 ss.; 4, 8. 25. 31). Così i fedeli divengono il suo tempio (1 Cor. 3,
p
16; 6, 19; 2 Cor. 6, 16). Lo Spirito Santo presente nell'io umano lo
illumina e lo infiamma con la sua luce e il suo calore (S. Ambrogio, C
De Spiritu Sancto, 1, 6, 16). Contemporaneamente e mediante la comu¬
nicazione dello Spirito Santo nasce in noi la vita divina, la grazia santi¬
ficante. Essa ha il suo fondamento nell'unione con Cristo, che viene
stabilita, assicurata e consolidata dallo Spirito Santo (Rom. 5, 5; cfr. dell'opera
il
trattato sulla Grazia). in
Siccome Cristo è capo della Chiesa, si può partecipare al suo Spirito intende
solo mediante la Chiesa, il cui cuore e anima è appunto, secondo Ago¬ alle
stino e Tommaso d'Aquino, lo Spirito Santo. Cfr. il trattato sulla Chiesa.
incontriam
§ 51. Le appropriazioni.
1. - Nonostante l'unità e l'unicità dell'operazione ed extra delle trecapriccio
divine persone, alcune opere sono attribuite in modo particolare all'una
o all'altra. Col nome di appropriazione si intende quel modo di esprimersi ca
con cui alcuni attributi essenziali cornimi alle tre persone divine, op¬ p
pure alcune opere ad extra vengono riferite a una determinata persona.
Questa maniera di parlare che già incontriamo nella Scrittura e negli
scritti patristici, è stata sviluppata e chiarita maggiormente in seguito v
dalla teologia scolastica medievale.
2. - L'appropriazione non avviene a capriccio, ma trova la sua ragione
nella proprietà personale della persona divina a cui un attributo 0 una l'e
azione vengono riferiti. Essa serve quindi a caratterizzare con maggior tes
forza e chiarezza ciascuna persona nelle sue proprietà personali. L'ap¬
propriazione mostra una determinata persona non solo nel suo essere vicendevolm
ma anche nel suo agire. La Scrittura e iPadri usano l'appropriazione in
maniera atta a fornirci una rappresentazione viva delle singole persone
e dei loro rapporti con il mondo.
3. - Le appropriazioni più importanti sono le seguenti: al Padre, quale
sorgente delle altre due persone, si riferisce l'eternità, l'unità, l'onnipo¬
tenza; al Figlio, come Verbo che esprime i tesori della sapienza di Dio,
si attribuisce la sapienza, la verità, la bellezza, l'uguaglianza; allo Spirito
Santo, amore personale che unisce vicendevolmente il Padre e il Figlio,
§ 51. LE APPROPRIAZIONI 295
ossia compimento della vita divina, si addice la bontà, la santità, la feli¬
cità, la beatitudine.
Per quanto concerne l'attività di Dio nel creato, al Padre si attribuisce
la causalità efficiente {ex quo), al Figlio quella esemplare {per quem)
e allo Spirito Santo quella finale {in quo). Cfr. Rom. 11, 36 e la con¬
clusione del canone della Messa. Inoltre al Padre si attribuisce la deci¬
sione e la creazione, al figlio l'esecuzione e la redenzione, allo Spirito
Santo il compimento e la santificazione.
4. - Per comprendere le appropriazioni consideriamo particolarmente
lo Spirito Santo, che è l'attuazione e la manifestazione dell'amore intra-
divino, l'amore personale, il vincolo tra il Padre e il Figlio. Siccome
l'amore di Dio è causa di tutte le opere divine, tanto della creazione,
quanto della redenzione, e poiché le tre persone della SS. Trinità com¬
piono le opere ad extra secondo l'ordine della loro origine, dette opere
vengono a buon diritto riferite allo Spirito Santo. La Sacra Scrittura ci
mostra ciò in molteplici passi. L'amore di Dio, secondo la descrizione
della Bibbia, si raccoglie formalmente nello Spirito Santo e di lì, in virtù
di libera decisione, scorre oltre la sponda divina. Al Paracleto viene at¬
tribuita la formazione della natura umana, in cui il Verbo di Dio fu
inviato (Mt. 1, 18. 20; Le. 1, 35). Cristo fu ripieno di Spirito Santo,
il quale lo dirige (Le. 4, 1. 14. 18 s.; 10, 21). Lo Spirito Santo essendo
lo Spirito di Cristo, è pure lo Spirito della Chiesa, corpo di Cristo. È lui
che distribuisce nella Chiesa gli svariati doni che servono alla vita di lei
(1 Cor. 12, 4). Tommaso d'Aquino osserva che, nei simboli di fede, l'ar¬
ticolo riguardante lo Spirito Santo è seguito da quello concernente la
Chiesa, poiché è lo Spirito che vivifica e unisce la Chiesa medesima
{III Sent., dist. 25, q. 1, ad 2).
Ogni uomo partecipa ai benefici di Cristo in quanto diviene membro
della Chiesa, cioè del popolo di Dio. L'incorporazione ad essa, che ha
luogo mediante la fede e il battesimo, pur essendo opera comune delle
tre divine persone, si attribuisce, tuttavia, allo Spirito Santo. È lui che
conduce gli uomini a Cristo e realizza il rinnovamento e la rinascita del
cristiano (Giov. 14, 12 ss.; 16, 5 ss.; Tito 3, 5). A sua volta l'incorpo¬
razione a Cristo importa una nuova abitazione della SS. Trinità (cfr.
§ 50 e § 49), che viene pure attribuita in modo speciale allo Spirito
Santo. Il Paracleto, mentre è l'anima e il cuore della Chiesa, è pure il
dulcis hospes animae, il nuovo principio vitale dei singoli. È il genera¬
tore e il teste della nostra filiazione divina, il pegno della nostra sai-
(1 Cor. 15,45), ci è pure dato di aver comunio
l'am
296 P. I. - DIO UNO E TRINO
espr
vezza, il garante della nostra risurrezione, è colui che infiamma il nostro peren
cuore! (sequenza ed orazione di Pentecoste). Tutto ciò è racchiuso nella Pa
formula sintetica di Paolo (Ef. 2, 18): «per mezzo di lui (Cristo) e gli n
uni e gli altri abbiamo, in un medesimo Spirito, accesso al Padre ». Men¬ trov
tre diveniamo partecipi del Cristo glorificato, che è spirito vivificante s
(1 Cor. 15,45), ci è pure dato di aver comunione con il suo Spirito, che Cres
è lo Spirito Santo (cfr. § 58). Poiché egli è l'amore che si dona al Padre a
e al Figlio, e quindi, per usare un'ardita espressione di Gregorio Nis- S
seno (Quod non sint tres dii), si trova in perenne movimento (da inten¬
dersi naturalmente come puro atto) verso il Padre e il Figlio, così tutti
quelli che sono a lui uniti vengono immessi nel flusso di questo moto
continuo. Colui che è ripieno di Spirito si trova in perenne movimento
Pr
verso il Padre (movimento che logicamente sfugge alla sua coscienza). invisib
Cfr. il trattato sulla Grazia e quello sulla Cresima.
Talvolta la stessa azione è attribuita ora a Cristo, ora allo Spirito median
Santo. Ciò significa che Cristo opera nello Spirito Santo e lo Spirito dello
fa
Santo per mezzo di Cristo.
A maggior dilucidazione e dimostrazione di quanto è stato detto, pos¬ form
siamo addurre qualche testo patristico. Figlio
qu
Ireneo, nella sua opera Dimostrazione della Predicazione Apostolica (1, 1) egl
scrive : « Vi è un solo Dio, il Padre increato, invisibile, creatore di tutto, nessun
dio sta al disopra di lui e nessun altro al disotto di lui. Dio è un essere ra¬ Spirito
gionevole e perciò ha creato le cose esistenti mediante il Verbo (la ragione). Dio D
è anche spirito e tutto ha ordinato per mezzo dello Spirito, come dice il pro¬ D
feta : " Per la parola del Signore i cieli sono stati fatti e per il suo spirito tutta
la loro forza ". Siccome anche il Verbo crea, ossia realizza corpi e dona essere continuazio
a ciò che nasce, mentre lo Spirito ordina e dà forma alle forze nella loro va¬
rietà, così, ben a ragione, il Verbo è chiamato Figlio e lo Spirito sapienza. Anche De
lo stesso apostolo Paolo accenna a ciò di sfuggita quando dice : " Un Dio, Padre
di tutti che è con tutti e in tutti noi ". Infatti egli è al disopra di tutti come
Padre, è con tutti come Verbo, poiché per mezzo suo il Padre ha tratto ogni quan
cosa all'esistenza, infine abita in noi come Spirito che ci spinge ad invocare d
" Abba Padre " e plasma l'uomo ad immagine di Dio. Lo Spirito ci mostra il
Verbo e perciò i profeti annunziarono il Figlio di Dio, mentre il Verbo fa spi¬
rare lo Spirito e perciò egli stesso è colui che parla per bocca dei profeti e con¬
duce di nuovo gli uomini al Padre ». La continuazione di questo passo si trova
al § 46, 1 b).
Didimo il cieco così scrive nella sua opera De Trinitate (lib. 2, cap. 1):
« Il Padre, nel suo beneplacito, ha preso l'iniziativa (di creare il mondo); l'Uni¬
genito lo ha creato; lo Spirito di Dio santificato, e, con questa santificazione,
compiuto, illuminato, consolidato, vivificato, in quanto egli è tutto in tutti e in
ciascuno, e, per sua bontà, è ricevuto e posseduto da tutti e da ciascuno, senza
§ 51. LE APPROPRIAZIONI 297
per questo esser diviso, spostarsi o mutare. Egli, immutato e indiviso, si dif¬
fonde su tutti gli esseri viventi e, pur preservando la propria purezza da ogni
contaminazione con i corpi, fa brillare tutto in modo divino e dissemina ovun¬
que santità, amore, pace, saggezza, gioia, sicurezza e bontà. Poiché egli deriva
personalmente per la sua origine dal Padre, solo per mezzo suo, Dio Padre,
col quale egli è in cielo, si accosta e si comunica a noi e fissa presso di noi
la sua dimora ».
Basilio dichiara : « Come il tutto è nelle singole parti, così lo Spirito dimora
in ognuno dei membri arricchiti dei suoi doni, i quali, nel loro insieme, formano
tutti, nell'unità dello Spirito, il corpo di Cristo. Come le parti sono nel tutto,
così noi siamo nello Spirito. Poiché tutti siamo stati battezzati in un unico
corpo mediante un unico spirito » (De Spiritu Sancto, 26, 61).
Leone Magno scrive : « Con questa fede, fondata nei nostri cuori, noi cre¬
diamo salutarmente che tutta insieme la Trinità è una potenza unica, una sola
maestà, una sola sostanza, indivisa nell'operare, inseparabile nell'amore, senza
differenza nel potere. Riempie tutto insieme, e insieme contiene tutte le cose.
Quello che è il Padre, lo è anche il Figlio e lo Spirito Santo; né la vera Deità
può essere in niente più grande o più piccola, perchè dobbiamo riconoscerla
nelle tre persone in modo tale, che la Trinità non sia soggetta a solitudine, e
l'eguaglianza delle persone mantenga l'unità.
Assicurata bene questa dottrina della fede, pensiamo ora che quando lo Spi¬
rito Santo, nel giorno della Pentecoste, riempì i discepoli del Signore, non si
ebbe un principio di dono, ma un aumento di elargizione. Infatti i patriarchi,
i profeti, i sacerdoti, e tutti i santi, che vissero nei tempi anteriori, furono cor¬
roborati dalla santificazione del medesimo Spirito. Senza questa grazia non fu
mai istituito sacramento alcuno, né furono celebrati misteri di sorta, cosicché la
virtù dei carismi fu sempre la medesima, sebbene non fosse identica la misura
dei doni.
Gli stessi beati Apostoli non mancarono dello Spirito Santo avanti la Pas¬
sione del Signore, come pure la potenza di questa virtù non era assente dalle
opere del Salvatore. Quando dava ai discepoli la facoltà di guarire le malattie e
di scacciare i demoni, donava certamente gli effetti di quello Spirito, nel quale
egli stesso comandava ai demoni, nonostante l'empia negazione dei Giudei, che
assegnavano al diavolo benefici divini (Le. 10, 19). Questa razza di bestemmia¬
tori si meritò di ricevere dal Signore quella sentenza : " Ogni peccato e ogni
bestemmia saranno perdonati agli uomini; ma la bestemmia contro lo Spirito
non sarà perdonata. E chiunque avrà parlato contro il Figlio dell'uomo, sarà
perdonato, ma a chiunque avrà sparlato contro lo Spirito Santo non sarà perdo¬
nato né in questo secolo né in futuro " (Mt. 12, 31-32).
È dunque chiaro che non si dà remissione dei peccati senza l'invocazione dello
Spirito Santo, e che nessuno può, senza di lui, gemere come si deve, o pregare
come si deve, secondo il detto dell'Apostolo : " Noi non sappiamo che cosa dob¬
biamo dire nelle preghiere per pregare come si deve, ma lo Spirito intercede
per noi con ineffabili sospiri " (Rom. 8, 26); e ancora : " Nessuno può dire :
Signore Gesù, se non in Spirito Santo " (1 Cor. 12, 3). L'esserne dunque privo
è cosa troppo esiziale e mortale, perchè giammai merita perdono chi è abban¬
donato dal suo intercessore.
serbate per quella perfezione, che doveva poi esse
e
298 P. I. - DIO UNO E TRINO ques
d
Perciò tutti quelli che avevano creduto nel Signore Gesù, possedevano già in
infuso dentro di sè lo Spirito Santo. Anche il potere di rimettere i peccati gli h
glorificherà,
Apostoli l'avevano ricevuto allorché il Signore, dopo la sua resurrezione, soffiò
su di essi e disse: "Ricevete lo Spirito Santo; i peccati di coloro ai quali li
avrete rimessi, saranno rimessi; e a chi li avrete ritenuti, saranno ritenuti " parole
(Giov. 20, 22). Ma una grazia maggiore ed una ispirazione più abbondante erano
serbate per quella perfezione, che doveva poi essere conferita ai discepoli, af¬
finchè ricevessero quel che ancora non avevano, e possedessero in grado più av
eccellente quel che avevano già ricevuto. Per questo il Signore diceva : " Ho
ancora molte cose da dirvi, ma per ora sono al disopra della vostra portata. Cristo
Quando sarà venuto lo Spirito di verità, egli vi insegnerà tutta la verità; non rice
vi parlerà in persona propria, ma vi dirà quanto ha inteso e vi annunzierà le dun
cose che dovranno succedere. Egli mi glorificherà, perchè prenderà ciò che è acc
mio e ve lo annunzierà " (Giov. 16, 12-14). sa
Possiamo domandarci come si concilino le parole sopra riportate colle altre,
dette dal Signore nel promettere lo Spirito Santo: "Tutto quello che ho udito pot
dal Padre, ve l'ho reso noto ecc. " (15, 15). Che forse il Signore voleva far S
intendere che aveva una scienza minore, o di avere conosciuto qualcosa dal d
Padre in grado minore che lo Spirito Santo? Ma egli è la Verità, e il Padre col
non può dire niente, senza il Verbo. Perciò Cristo disse dello Spirito Santo: morte
" Egli prenderà ciò che è mio ", perchè quanto riceve lo Spirito, è il Padre che P
lo dà, e il Figlio pure lo dà. Non si introduca dunque altra verità, nè si pre¬ su
dichi una dottrina diversa. Era però necessario accrescere la capacità di chi è
istruito, e moltiplicare la costanza di quell'amore santo, che potesse cacciar fuori
ogni paura, e non temere il furore dei persecutori. In questo senso gli Apostoli de
incominciarono a volere più ardentemente e a potere più efficacemente, dopo mo
che furono riempiti della nuova abbondanza di Spirito Santo, passando dalla il
conoscenza dei precetti divini alla sopportazione dei patimenti. Privi di qual¬ conte
siasi trepidazione in ogni tempesta, calpestando col passo della fede i flutti del ciel
secolo e l'orgoglio del mondo, disprezzando la morte stessa, portarono a tutte le
genti il Vangelo di verità » (Sermo 76, trad, di A. Puccetti). inve
Nel medio evo Riccardo di S. Vittore nella sua opera De Spiritu Sancto siamo
descrive in modo mirabile l'azione dello Spirito negli uomini. S. Tommaso è
d'Aquino la presenta nel modo seguente : « Dopo aver considerato nella Scrit¬ dile
tura gli effetti che Dio opera in noi per mezzo dello Spirito Santo, rimane da l
vedere in qual modo noi per sua virtù siamo mossi verso Dio. E prima di ore
tutto sembra esser massimo segno dell'amicizia il conversare coll'amico. Ora re
l'uomo può conversare con Dio soltanto con la contemplazione di lui come scrisse
l'apostolo Paolo: la nostra conversazione è nei cieli (Fil. 3, 20). Poiché lo Spi¬
rito Santo ci fa amatori di Dio, ne deriva che ci renderà anche contemplatori
di Dio. Per questo l'Apostolo scrive: Noi tutti invece a viso scoperto, la gloria
del Signore riflettendo come in uno specchio, siamo trasformati nella stessa im¬
magine da gloria in gloria, come dal Signore che è Spirito (2 Cor. 3, 18).
È ancora proprio dell'amicizia che ognuno si diletti in compagnia dell'amico,
si rallegri per le sue parole e i suoi atti e trovi in lui conforto contro le ansietà
della vita; per questo noi, massimamente nelle ore angosciose, cerchiamo con¬
solazione presso gli amici. Ora lo Spirito Santo ci rende amici di Dio, fa abitare
§ 51- LE appropriazioni 299
lui in noi e noi in lui; quindi per opera sua troviamo in Dio gioia e consola¬
zione contro tutte le avversità e gli assalti del mondo. Per questo si legge nei
Salmi: Rendimi la gloria della tua salvezza e con nobile spirito confortami
(Sai. 50, 14); e nella lettera ai Romani: il regno di Dio è giustizia e pace e
gioia nello Spirito Santo (Rom. 14, 17). E negli Atti: Così la Chiesa aveva pace,
si edificava e camminava nel timore del Signore, ed era ricolma della consolazione
dello Spirito Santo (Atti 9, 31). Per questo Gesù Cristo ha chiamato lo Spirito
Santo " Paracleto " ossia consolatore : Il Paracleto, lo Spirito Santo ecc. (Giov.
14, 26).
Similmente è proprio dell'amicizia l'accordarsi con l'amico su quanto vuole.
Ora la volontà di Dio ci è stata comunicata mediante i suoi precetti; è quindi
effetto dell'amore verso Dio l'osservanza dei suoi comandamenti: Chi mi ama,
osserva imiei precetti (Giov. 14, 15). Perciò se lo Spirito Santo ci fa amatori di
Dio, da lui stesso siamo spinti in certo modo a osservare i comandanti divini,
secondo la parola dell'Apostolo: Quanti infatti sono mossi dallo Spirito di Dio,
questi sono figli di Dio (Rom. 8, 14).
Si deve inoltre considerare che i figli di Dio sono mossi ad agire dallo Spi¬
rito Santo non come servi, ma bensì come uomini liberi. Siccome libero è colui
che vuole da se stesso (Aristotele, Metafisica, 1, 2; 982 b, 25), noi operiamo li¬
beramente solo ciò che operiamo da noi stessi. E ciò si avvera unicamente per
ciò che facciamo di nostra volontà. Ciò che compiamo contro il nostro volere
non lo facciamo liberamente, ma servilmente, sia che intervenga una violenza
assoluta, come quando tutto il principio dell'azione è esterno, per esempio quando
siamo trascinati a camminare; sia che la violenza sia mescolata alla volontà, come
quando si preferisce fare o patire qualcosa che dispiace per evitare un male
peggiore. Lo Spirito Santo ci inclina ad operare in modo tale da renderci capaci
di volere ciò che operiamo, in quanto ci infonde l'amore di Dio. Ifigli di Dio
sono quindi mossi liberamente dallo Spirito Santo per forza d'amore; non ser¬
vilmente per forza di timore. Perciò l'Apostolo dice: Non riceveste infatti spi¬
rito di servitù per ricadere nel timore, ma riceveste lo spirito di adozione (Rom.
8, 15).
Siccome poi la volontà è rivolta a ciò che è veramente buono, se succede che
per causa della passione o della cattiva abitudine o della cattiva disposizione
l'uomo si allontani da ciò che è veramente buono, allora agisce servilmente,
inquantochè viene mosso da qualcosa di estraneo, se noi consideriamo l'ordine
naturale della volontà; ma se consideriamo l'atto della volontà, quando è incli¬
nata verso il bene apparente, allora essa agisce liberamente allorché segue la sua
passione o l'abitudine cattiva; tuttavia agisce ancora servilmente, se, pur avendo
un tale volere, si astiene da quello che vuole, per il timore della legge contraria.
Quando dunque lo Spirito Santo, mediante l'amore, inclina la volontà verso il
vero bene, a cui è rivolta naturalmente, toglie all'uomo la servitù della passione
e del peccato, per la quale esso agisce da schiavo, contro l'ordine della volontà;
e toglie ancora l'altra servitù, per cui agisce contro voglia secondo la legge,
quasi schiavo della legge, non amico. Per questo l'Apostolo scrive: Dove poi è
lo spirito del Signore, ivi è libertà (2 Cor. 3, 17), e ancora: Se poi siete guidati
dallo Spirito, non siete sotto la legge (Gal. 5, 18). Per questo si dice ancora che
lo Spirito Santo dà morte alle opere della carne, nel senso che mentre la pas-
30o P. I. - DIO UNO E TRINO extra
Trinit
sione carnale ci allontana dal vero bene, lo Spirito Santo si inclina ad esso per ch
amore, in conformità alla parola apostolica: Se con lo Spirito mortificherete le c
opere del corpo, vivrete (Rom. 8, 13) » (Contra Gentes, 4, 22).
l'im
a
attivi
§ 52. La Trinità divina raffigurata nelle creature.
divin
1. - Le tre divine persone operano ad extra come unico principio di cr
azione. Tuttavia, siccome la verità della Trinità divina mostra che l'es¬ teo
sere nella sua più profonda radice è trino, che quindi la Trinità è ne¬ Tria
cessaria all'essere assoluto, si deve ammettere che l'essere in generale, e campo
perciò anche quello creato, deve portare l'impronta trinitaria. Inoltre, medie
proprio perchè la Trinità non è qualcosa di accessorio alla divinità, ma
bensì il suo essere stesso, e perchè la sua attività ad extra, benché unica, dete
si attua secondo l'ordine delle processioni divine, dobbiamo trovare qual¬
che traccia della Triade augusta nelle opere create. e
Basandosi su tale convinzione, iPadri e i teologi medievali cercarono, n
nel creato, tracce ed immagini della SS. Triade. Rinvennero le prime u
negli esseri non ragionevoli, le altre nel campo umano. Tracce e imma¬ tr
gini si distinguono, secondo i teologi medievali, dalla loro minore o albero
maggiore chiarezza ed evidenza. Infatti dalla traccia si deduce il pas¬
saggio di qualcuno, senza tuttavia poterne determinare la figura; nell'im¬
profondamen
magine invece se ne scorge il volto. cos
La grande differenza tra le trinità create e la Trinità divina sta nel leg
fatto che le prime dicono unità di relazione nella diversità dell'essenza, un
mentre la seconda è diversità di relazione in un'unica essenza. (passato
2. a) Ipiù pallidi riflessi della Trinità si trovano nel regno della na¬ vecch
-
tura: sorgente, ruscello, fiume; radice, albero, frutto; luce, splendore,
raggio; pianta, animale, uomo.
b) S. Agostino si addentra profondamente nel campo metafisico, n
quando mostra che l'intima essenza delle cose è costruita sul numero
tre, di modo che la legge trinitaria diviene legge metafisica. Esempi di
tale trinità sono: essere, forma, sussistenza; unità, forma, ordine; unità,
verità, bontà. C'è la trinità del tempo (passato, presente, futuro), la tri¬
nità nello sviluppo (giovinezza, maturità, vecchiaia), la trinità nell'esten¬
sione (massa, numero, peso), ecc.
c) Tuttavia è specialmente l'uomo che, nella sua parte spirituale,
è l'immagine della Triade divina. Agostino, nei suoi quindici libri De
Trinitate, l'ha esposto ampiamente e il medio evo continuò a sviluppare
§ 52- LA trinità divina raffigurata nelle creature 301
le sue considerazioni. Già la conoscenza sensitiva e l'atto con cui si forma
l'immagine portano l'impronta trinitaria (oggetto, visione 0 immagine
dell'oggetto e atto di volontà 0 intenzione che li congiunge). Ma è spe¬
cialmente l'anima spirituale che presenta l'immagine della Triade divina,
attraverso l'unità e la trinità dei suoi atti vitali: mens, notitia, amor;
memoria, intelligentia, voluntas. Tale trinità psicologica ci fa intravve-
dere tanto la diversità delle persone divine e l'unità dell'essenza, quanto
le mutue relazioni e l'immanenza delle persone.
Th. Haecker presenta pure un'altra forma trinitaria, che secondo lui vale solo
per lo spirito umano, e cioè il sentimento, l'intelligenza e la volontà (cfr. il suo
libro: Schopfer und Schópfung, 1934, 135-168). Questi tre elementi stanno tra
loro in ordine pari, sussistono per conto proprio e, pur tuttavia, sono collegati
uno all'altro e si intrecciano e compenetrano fra loro in un'unità superiore. Per
lui il sentimento (piacere o dolore, gioia o sofferenza, amore o odio), come le
innumerevoli sue manifestazioni, sia nella vita umana, sia nella storia dell'uma¬
nità, sta allo stesso livello dell'intelletto e della volontà. Ogni deviazione nel
corso degli eventi umani dipende dal fatto che uno dei tre predetti elementi ha
rovesciato l'ordine in cui doveva trovarsi, cosicché ogni disordine si può riassu¬
mere nelle espressioni : « il sentimento è tutto » (Faust), oppure : « il pensiero
è tutto » (idealismo filosofico, Hegel), o ancora : « la volontà è tutto » (Scho¬
penhauer, Nietzsche).
d) Anche nelle comunità umane naturali (famiglia, nazione) pos¬
siamo riscontrare il sigillo trinitario come pure, in un modo assai più
attenuato, in tutte le forme sociali create dalla volontà dell'uomo. Anzi
è proprio la Trinità divina che, in ultima analisi, rende possibile la defi¬
nitiva e più profonda comprensione delle comunità terrestri.
Ogni triade creata, immagine della divina, è comprensibile però solo
alla luce della rivelazione soprannaturale. Soltanto l'occhio illuminato
dalla fede può rendersi conto che le trinità terrene sono immagini della
divina. Non l'uomo ha foggiato il Dio trino a sua immagine, ma è il
Dio trino che ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza.
3. - Tutte le raffigurazioni naturali della Trinità sono eclissate dal¬
l'immagine soprannaturale che presenta l'uomo in stato di grazia. Men¬
tre per intendere le immagini naturali della triade divina è necessaria la
luce della rivelazione, invece chi potesse penetrare con lo sguardo nel
mistero dell'uomo in stato di grazia, vi scorgerebbe immediatamente il
riflesso della SS. Trinità.
p
302 P. I. - DIO UNO E TRINO
permetton
§ 53. Le produzioni e processioni immanenti in generale. tre
1. - Il credente che intende chiarire la Trinità divina deve, anzitutto, fe
risolvere il problema di come l'unità dell'essenza divina può accordarsi lo
con la trinità delle persone. Lo studio delle processioni divine intende prod
appunto rispondere a tale quesito. s
Dio non ci ha svelato soltanto il fatto della sua vita tripersonale, ma
ci ha pure fornito vari elementi che ci permettono di gettare uno sguardo nell
sulle relazioni vitali che intercorrono tra le tre divine persone. Queste qu
non soltanto sono unite inscindibilmente l'una all'altra, ma si condizio¬
nano vicendevolmente in uno scambio vitale fecondo. Anzi, proprio da
tale scambio, dal mutuo donarsi dipende la loro esistenza. Lo scambio
d
vitale consiste nel fatto che una persona produce l'altra e, di conse¬
guenza, l'una procede dall'altra. In tal modo si può parlare di proces¬
sioni e di produzioni immanenti o intradivine.
immanen
Il fecondo movimento vitale che regna nella SS. Trinità parte dal
Padre, la prima persona, passa al Figlio e quindi alla terza ed ultima
produ
persona, lo Spirito Santo.
2. -
Le processioni divine sono azioni vitali immanenti; restano cioè produ
entro l'essere di Dio e si differenziano quindi dagli altri atti che termi¬ prin
nano ad extra, come per esempio la creazione (actio immanens et actio
transiens). conce
Un esempio di produzione interna, immanente, si ha nel rapporto tra
pensiero e intelligenza. Il pensiero è prodotto dalla intelligenza, ma ri¬ dell'ess
mane in essa e la perfeziona. Esempio di produzione esterna, transeunte
è il rapporto tra genitori e figli. f
È evidente che non si può pensare la produzione divina come movi¬ l'
mento temporale o spaziale, ma solo come principio capace di fondare,un'altra
in Dio, l'ordine di esistenza e di vita.
L'atto della processione divina non va concepito come uno sviluppo
graduale dell'agire di Dio. Esso non scaturisce come accade nelle azioni
creative umane, dall'abisso e dall'oscurità dell'essere, per raggiungere una
forma ben delineata. Neppure la processione va intesa come un gra¬
duale svilupparsi dal germe paterno e materno fino a raggiungere un'esi¬
stenza personale autonoma, come avviene per l'uomo. Essa significa in¬
vece l'origine eterna di una persona da un'altra in un atto d'infinita po-
§ 53" LE PRODUZIONI E PROCESSIONI IMMANENTI IN GENERALE 303
tenza e assoluta immanenza {origo unius ab alio); significa che una per¬
sona è prodotta eternamente da un'altra.
Quando si parla di esser prodotto non si intende qualcosa di passivo,
come avviene per quanto è prodotto nel campo terrestre, sia opera, sia
anche persona umana procreata per generazione, ove si tratta di produ¬
zione esclusivamente passiva. In Dio al contrario la persona è prodotta
in modo che essa accetta la sua origine con la più lucida conoscenza,
l'abbraccia con ardente amore e con gioia purissima. La sua produzione
è perciò vera e reale processione. Si parla, è vero, di processioni passive,
ma si tratta solo di espressioni analogiche, in quanto la processione in Dio
deve, per essere comprensibile all'uomo, presentare delle analogie con
quella passiva delle creature. In Dio la processione puramente passiva è
impossibile, in quanto in lui tutto reca l'impronta dell'actus purus, che
porta in sè la più eccelsa attualità.
Le processioni e le produzioni s'avverano in Dio senza sviluppo tem¬
porale e senza successione. L'esistenza della persona prodotta non è ri¬
sultato di un'azione divina che scorra nel tempo; al contrario le produ¬
zioni e le processioni sono atti eterni, in cui manca il prima e il poi.
-
3. In Dio vi sono processioni immanenti, che costituiscono la ra¬
gione per cui le persone esistono. È dogma di fede.
a) L'esistenza di processioni in Dio è asserita nelle decisioni dottri¬
nali della Chiesa, già riferite. Cfr. il simbolo niceno-costantinopolitano,
e inoltre il IV Concilio Lateranense e il simbolo atanasiano (§ 43).
b) La Scrittura attesta in più passi l'esistenza di processioni e di
produzioni divine. Giov. 15, 26 riferisce le parole di Cristo: «Io vi
manderò dal Padre lo Spirito di verità, che procede dal Padre ». So¬
prattutto i nomi « Padre » e « Figlio » provano che in Dio vi sono pro¬
duzioni e processioni. Con queste denominazioni delle due prime per¬
sone, la produzione del Figlio viene caratterizzata come generazione. Il
passo di Giov. 8, 42, in cui Gesù dice : « Io sono proceduto dal Padre »,
non serve a provare con evidenza e direttamente la processione eterna
del Figlio dal Padre, perchè si riferisce all'incarnazione.
c) Quale testimonianza dell'insegnamento patristico riportiamo il seguente
passo di Giovanni Damasceno (Expositio de fide orth., lib. x, cap. 8) : « Simil¬
mente crediamo nello Spirito Santo, Signore e vivificante, che procede dal
Padre e riposa nel Figlio; che è adorato e glorificato assieme col Padre e col
Figlio, come consostanziale e coeterno; nello Spirito di Dio, retto, principale;
sorgente della sapienza, della vita e della santità; che ha come il Padre e il
Figlio la natura e il nome di Dio; increato, perfetto, creatore, signore di tutto,
sistere tutto, santifica riunisce. Sussiste in una pr
Pos
304 P. I. - DIO UNO E TRINO ing
alc
autore di ogni cosa, onnipotente, infinitamente possente. Domina su tutte le È
creature senza sottostare a nessuna; divinizza senza essere divinizzato; perfeziona esist
senza essere perfezionato; viene partecipato, ma non riceve nulla da altri; san¬ viene
tifica, ma non è santificato; è Paracleto, cioè consolatore, perchè accoglie tutte differ
le preghiere. Eguale in tutto al Padre e al Figlio; procede dal Padre e mediante div
il Figlio viene partecipato e ricevuto da ogni creatura. Crea per se stesso, fa sus¬ S
sistere tutto, santifica e riunisce. Sussiste in una propria ipostasi, senza tuttavia
essere diviso e separato dal Padre e dal Figlio. Possiede tutto ciò che hanno il riceve
Padre e il Figlio, al di fuori delle proprietà di ingenito e di genito. Il Padre, c
infatti, è senza principio, è ingenito, non è da alcuno, ma ha l'essere da sè e av
nulla ha ricevuto da altri di tutto quanto possiede. È anzi il principio e la causa cioè
di tutto ciò che esiste e del modo con cui esiste. Il Figlio ha origine dal Padr
Padre per generazione. Anche lo Spirito Santo viene dal Padre ma non per ge¬ eccettu
nerazione, bensì per processione. Quale sia la differenza tra generazione e pro¬ p
cessione non è possibile saperlo, quantunque tale diversità esista. La generazione senza
del Figlio dal Padre e la processione dello Spirito Santo si avverano tuttavia nel d
medesimo tempo.
Tutto ciò dunque che possiede il Figlio, lo riceve anche lo Spirito Santo dal p
Padre, compreso lo stesso essere. Se il Padre non ci fosse non ci sarebbe nem¬ (ip
meno il Figlio e lo Spirito Santo; se il Padre avesse nulla, niente avrebbero completis
anche Figlio e Spirito Santo: e per il Padre, cioè perchè vi è Padre, vi è il i
Figlio e vi è lo Spirito. Similmente mercè il Padre, cioè perchè l'ha il Padre,
il Figlio e lo Spirito hanno ciò che hanno, eccettuate le proprietà di ingenito, d
di genito, di procedente. È solo grazie a queste proprietà che le tre persone non
divine si distinguono tra loro. Sono distinte, senza separazione però, non per fe
l'essenza ma bensì solo per la nota caratteristica della loro persona, ossia per vie
le proprietà personali. d
Noi diciamo che ognuno dei tre ha una ipostasi perfetta, affinchè non si pensi
una natura completa solo con la riunione di tre (ipostasi) imperfette, ma bensì no
una natura unica, semplice, perfettissima, completissima, sussistente in tre ipo¬ infatt
stasi perfette. Tutto ciò, infatti, che risulta di cose imperfette, è necessariamente nell'a
composto. Una composizione di persone perfette è quindi inconcepibile. Per ipo
questo noi non affermiamo che la natura consta di persone, ma bensì sussiste ip
in persone. Diciamo imperfette quelle cose che non hanno la natura della cosa v
risultante dalla loro composizione. Pietra, legno, ferro, presi nella loro propria co
natura, sono perfetti, ma rispetto alla casa, che viene costruita con tali mate¬ inf
riali, ogni elemento è imperfetto. Infatti nessuno di loro è, per proprio conto,
una casa.
Perfette chiamiamo dunque le ipostasi, perchè non si pensi che nella natura
divina vi sia composizione. La composizione, infatti, è principio di separazione.
Inoltre diciamo che le tre ipostasi sono l'una nell'altra, per non introdurre una
moltitudine o schiera di dèi. Così, essendovi tre ipostasi sappiamo che qui non
vi è composizione e confusione; perchè poi le tre ipostasi hanno una sola iden¬
tica natura, sono l'una nell'altra, hanno una stessa volontà e operazione e infine,
per così dire, uno stesso movimento, veniamo a conoscere che in esse non vi
è alcuna divisione, che vi è un solo Dio. Uno infatti è in verità Dio: il Dio
(= Padre), il Verbo e il suo Spirito ».
§ 53- LE PRODUZIONI e processioni immanenti in generale
305
4. - Anche se l'ultimo fondamento della Trinità personale di Dio sta
nella pienezza di perfezione dell'essenza divina, tuttavia le persone di¬
vine nelle loro processioni vitali non derivano direttamente dall'essenza
divina stessa. Questa, come tale, non è il principio generativo e spirativo
e nemmeno l'essere personale generato o spirato. Questa dottrina espres¬
samente insegnata dal IV Concilio Lateranense, l'anno 1215, in armonia
con Pietro Lombardo, contro le errate opinioni dell'abate Gioachino da
Fiore, è dogma di fede.
Solo la persona produce e procede, ossia è principio e termine di pro¬
cessione. È il Padre che genera il Figlio; sono il Padre e il Figlio che,
come principio unico, spirano lo Spirito Santo; è il Figlio che è gene¬
rato ed è lo Spirito Santo che è spirato.
Il Padre però genera, in quanto possiede l'assoluta pienezza di vita e
di potenza; anzi in quanto è la stessa assoluta pienezza di vita e di po¬
tenza, vale a dire l'essere divino (essentia, substantia). Il principio della
sua attività feconda, sia generazione o spirazione, sta pertanto nella so¬
vrabbondanza della vita divina essenziale, che si identifica con lui. (Si
dice quindi che la natura divina è il principium quo e le persone sono il
principium quod delle processioni).
Siccome solo le persone, come tali, producono e procedono, l'essenza
divina, in quanto tale, non viene moltiplicata. Nonostante il fecondo
processo vitale intradivino, essa permane sempre nella sua unicità. Le
processioni fanno solo sì che essa esista, sempre identica, in tre modi
distinti. Il Padre, possedendo la pienezza essenziale della vita divina,
0 meglio, essendo egli stesso tale vita, produce il Figlio, che è anch'egli
la pienezza di vita divina. La Scrittura dà a questa produzione il nome
di generazione. Padre e Figlio, che sono una e identica essenziale pie¬
nezza di vita divina, producono lo Spirito Santo, che anch'egli è essen¬
ziale pienezza di vita divina. La Scrittura non designa tale processione
con un termine speciale.
Ma poiché l'essenza di Dio è a sé, nessuna persona perde il carattere
dell'aseità, né cessa di essere atto puro (actus purus). Proprio la pienezza
di vita che esiste tanto nel Padre come nel Figlio e nello Spirito Santo,
vale a dire in tre modi personali distinti tra loro, è fondata in se stessa,
implica per ciò stesso di essere « a sé ». Si aggiunga, come già fu sotto¬
lineato, che le stesse persone procedenti, sin dal primo istante della loro
esistenza, 0 meglio, del loro esistere eterno, vedono chiaramente la loro
origine e produzione e l'accettano con gioia, affermando così se stesse,
20 - schmatis - dogmatica I.
pienza da sapienza Dio da Dio Signif
che
306 P. I. - DIO UNO E TRINO
essenza-Fi
con incondizionata forza d'esistenza. Anche in ciò risulta chiaro il loro n
carattere d'essere « a sè ».
esiste
Poiché tanto la persona che produce, quanto quella che procede possie¬
dono la stessa, identica sostanza, rileviamo quanto sono appropriate le
espressioni liturgiche : « essenza da essenza », « luce da luce », « sa¬
pienza da sapienza », « Dio da Dio ». Significano che il Figlio, che si
princip
identifica coll'essenza, procede dal Padre, che è pure identico con l'es¬
senza, sicché è come si dicesse: essenza-Figlio da essenza-Padre ecc.
Si deve solo osservare che l'essenza rimane nella sua assoluta unicità e ness
che si moltiplicano solo i modi del suo esistere. (
principa
5. - Per quanto riguarda il numero delle produzioni e delle proces¬simbo
sioni, emerge dalla Trinità delle persone che ve ne sono solamente due.
Laterane
§ 54. Il Padre come principio senza principio.
Di
1. - La prima persona non procede da nessun'altra, ma è invece prin¬ que
cipio senza principio delle altre due persone (principium sine principio).
Abbiamo già riferiti (§ 43) i testi principali delle decisioni ecclesia¬
stiche, cioè il simbolo « atanasiano », il simbolo del Concilio (XI) di To¬ T
ledo, le precisazioni del IV Concilio Lateranense, che testimoniano que¬
sta dottrina.
Inoltre la prima persona è designata con il nome del Padre. Infatti affe
nel simbolo apostolico si dice : « Credo in Dio Padre onnipotente ». Ve¬ (Gio
ramente il termine Padre rappresenta, in questo caso, anche il rapporto
tra Dio e il mondo, ma da tutto il contesto e specialmente dall'espres¬
i
sione « e in Gesù Cristo suo unico figliuolo » si deduce che designa pure P
la relazione fra la prima persona della SS. Trinità divina e la seconda.
Anzi tale relazione è preponderante.
a) Nella Scrittura la parola Padre è il nome proprio della prima poic
persona. Cristo, nel suo discorso d'addio, afferma: Io ho rivelato il tuo se
nome agli uomini che tu mi hai affidato (Giov. 17, 3). Ora il nome ri¬
velato da Cristo è quello di Padre. È il Padre che Cristo, il Figlio, prega;
è il Padre colui da cui Cristo stesso è stato inviato e che manderà pure
lo Spirito Santo. Nel Nuovo Testamento il Padre celeste appare sempli¬
cemente come Dio. Cfr. § 44.
Nella relazione della prima persona con la seconda si avvera, in modo
perfetto, ciò che la parola Padre designa, poiché la prima persona divina
comunica alla seconda la propria essenza senza moltiplicazione alcuna.
§ 54- IL PADRE come principio senza principio
307
La relazione di Dio con gli uomini prende il nome da quella che la
prima persona ha con la seconda, e benché sia sostanzialmente diffe¬
rente da essa, tuttavia è tale che gli uomini in stato di grazia hanno
anch'essi diritto di chiamarsi figli del Padre celeste, in quanto parteci¬
pano alla figliolanza della seconda persona incarnata, Cristo, il quale è
fratello di coloro che credono in lui. Ogni paternità nel campo umano è
un riflesso dell'eterna paternità di Dio. Nella paternità umana si realizza
in modo incompleto, ciò che si avvera perfettamente nella paternità di¬
vina. Tutte le altre paternità prendono nome da quella di Dio (Ef. 3, 15).
b) Nell'epoca patristica, e specialmente presso i padri greci, riscon¬
triamo assai spesso un modo di esprimersi secondo cui la prima persona
non è solo designata col suo nome proprio di Padre, ma è anche conno¬
tata dal semplice nome Dio; ossia quando si parla di Dio, il pensiero
corre in primo luogo alla prima persona. Chi ignora il nome di Padre
ha, secondo l'insegnamento patristico, una conoscenza assai imperfetta di
Dio. Infatti Cirillo Alessandrino dice : « La piena conoscenza di Dio
non sta solo nel sapere che egli è, ma anche che è Padre e di chi è
Padre e nel conoscere pure lo Spirito Santo. Solo il sapere che esiste
un Dio non segna alcun progresso su coloro che stanno sotto la Legge :
ciò non supera infatti i limiti della sapienza giudaica. E come la Legge
non condusse nulla alla perfezione, ma era solo come pedagogo e non
bastava alla piena formazione della pietà, così offriva pure una cono¬
scenza imperfetta di Dio, in quanto preservava solo dal culto dei falsi
dèi... Ma Nostro Signore Gesù Cristo, perfezionando la Legge mosaica
e portandoci una dottrina più luminosa dei precetti legali, ci ha donato
una conoscenza di Dio che supera ogni altra precedente. Infatti ci ha
svelato che Dio non solo è il Creatore e il Signore dell'universo, ma è
pure Padre » (In Ioann., 1, 2, 7).
2. - Una seconda designazione della prima persona divina sta nella
parola aghennetos. IPadri greci trassero tale termine dalla filosofia pa¬
gana. Esso può indicare tanto « ingenito » quanto « increato ». Ario
l'usava per combattere l'uguaglianza del Figlio con il Padre, spiegando
che, essendo caratteristica del Padre l'essere increato, il Figlio doveva,
necessariamente, essere creato. S. Atanasio rispose che tale vocabolo vale
nel campo della conoscenza naturale e che quindi è meno atto ad espri¬
mere la relazione intratrinitaria. Si può tuttavia usare introducendovi
una distinzione : nel senso di « increato » tale termine si può applicare
tanto al Padre che al Figlio, nel senso di « ingenito » va applicato solo
Un'ulteriore precisazione sta dal fatto che a
P. I. - DIO UNO E TRINO
prim
308 caratteristica
al Padre. ICappadoci, e specialmente Basilio, per primi osservarono che d
il termine aghennetos non risponde alla questione: quid sit res, ma all'al¬ disti
tra: quomodo orto, sit, e che quindi non è nome di natura, ma di per¬ pr
sona. In tal modo il termine aghennetos venne usato a partire dal se¬
colo IV, solo per la prima persona divina. scorg
Un'ulteriore precisazione sta dal fatto che aghennetos (con due nn) fu rinvengo
distinto da aghenetos (con un solo n). Nel primo caso gli si dava il senso spiraz
aghennet
di « ingenito » ed era usato come caratteristica personale del Padre; nel
secondo, significando « increato », passò a designare la qualità divina designa
propria a tutte e tre le persone. Di tale distinzione fece uso Giovanninegativo
Damasceno, come del mezzo più sicuro per preservare la genuinità dellaingenitu
dottrina trinitaria. Insiem
del
IPadri greci neìl'aghennesia del Padre non scorgono solo il fatto che la prima 117
persona divina è senza principio, ma vi rinvengono piuttosto la ragione della Au
sua attività feconda della generazione e della spirazione.
La teologia latina ricevette il termine aghennetos tramite Ilario di Poitiers. P
Egli lo usava ancora nei due sensi di « ingenito » e « increato ». Agostino lo Pa
accoglie da lui e in tale parola vede solo designato il fatto che il Padre non tut
proviene da nessun'altra persona (concetto negativo).
La spiegazione agostiniana del vocabolo ingenitus fu ripresa ed elaborata da dall'
Alberto Magno e da Tommaso d'Aquino. Insieme alla interpretazione d'Ago¬ pri
stino incontriamo, nel medio evo, anche quella della patristica greca, che fu ri¬ Bonaven
presa e sviluppata da Riccardo di S. Vittore (t 1x73), e attraverso Guglielmo di d
Auxerre (f tra il 1231 e il 1237), Guglielmo di Auvergne (t 1249) e Alessandro l'a
di Hales (f 1245), arrivò sino a S. Bonaventura che la valorizzò al massimo. d
Infatti il Dottor Serafico nella innascibilitas del Padre ritiene stia la ragione,
per cui egli produce le altre due persone. Il Padre, per la sua caratteristica
d'ingenito, è la pienezza fontale, il principio di tutta la divinità. Invece di « in-
nascibilità » S. Bonaventura preferisce parlare del primato (primitas) del Padre.
A tale concetto venne accostato quello tratto dall'assioma aristotelico: il prin¬ seconda
cipio di una serie è la ragione di tutta la serie (principium quia primum). È un
caso raro nella storia dello spirito che S. Bonaventura, ispirandosi nel suo pen¬ Qu
siero a S. Agostino, abbia utilizzato, in un punto decisivo della sua teologia, un pro
aiuto che gli proveniva da Aristotele. Secondo l'assioma sopracitato, il Padre,
per la sua primitas fra tre persone, è il principio delle altre due.
§ 55. La generazione del Figlio.
Il Nuovo Testamento ci presenta la seconda persona della SS. Trinità
con inomi di Figlio, Verbo e Immagine. Quello di Figlio però predo¬
mina su tutti gli altri e costituisce il nome proprio della seconda persona
medesima. Pio IV dichiarò contro il Sinodo di Pistoia che « Figlio » e
§ 55- LA generazione del figlio
3°9
non « Logos » è il nominativo principale della seconda persona (Denz.
1597)-
La parola « Figlio », come del resto quella di « Padre », non implica, tuttavia,
che la religione cristiana, come è per quelle pagane, ammetta in Dio differenza
sessuale. Una delle principali diversità tra l'idea cristiana e quella non cristiana
di Dio, sta nel fatto che nella prima manca ogni differenziazione sessuale, mentre
nella seconda accanto al dio maschile vi è una dea e si può così parlare di fi¬
gliolanza. Quando chiamiamo la seconda persona Figlio non intendiamo parlare
di differenziazione di sesso, ma, secondo l'analogia dei rapporti tra Padre e Figlio
nel campo creato, vogliamo solo far risaltare il rapporto d'origine tra la prima e
la seconda persona divina.
1. - La seconda persona procede dal Padre (dalla sostanza del Pa¬
dre) per generazione. È dogma di fede.
a) Attestano tale fatto i simboli. Anche se la forma più antica del
simbolo apostolico conosce solo l'espressione : « e in Gesù Cristo nostro
Salvatore », già ben presto però (il secolo) troviamo le parole : « suo
unico figlio ». Vedere i testi dei simboli riportati al § 43.
b) Nella Scrittura la parola Figlio è usata nella formula battesi¬
male come nome proprio della seconda persona. La denominazione di
Figlio appare anche in quasi tutte le pagine del Nuovo Testamento e
domina tutti gli altri nomi di Cristo. Inoltre la Scrittura designa la pro¬
cessione della seconda persona divina con il termine di generazione.
Giov. 1, 14 ci mostra Cristo quale Unigenito del Padre (così pure
1, 18). Egli è il Figlio unigenito, che Dio ha dato (3, 16). È il Figlio,
di cui Dio dice: Tu sei il mio Figliuolo, oggi io ti ho generato (Sai. 2, 7;
Ebr. 1, 5).
c) IPadri dell'epoca preagostiniana offrono parecchie testimonianze
che non presentano ancora una precisa spiegazione della generazione di¬
vina. Infatti la designano come qualcosa di misterioso, vale a dire un
processo impenetrabile. Tentano tuttavia di chiarirla mediante esempi
tratti dall'esperienza. La loro grande preoccupazione è di presentarla
come un evento eterno, immateriale.
2. - S. Tommaso così chiarisce il concetto di generazione divina :
« In Dio la processione del Verbo è chiamata generazione. Per poterla
meglio capire è bene osservare che il vocabolo generazione può essere
usato in due sensi. Primo, in un senso vago, si applica a tutte le cose ge¬
nerabili e corruttibili; in tal modo la generazione non è altro che muta¬
zione dal non essere all'essere. Secondo, in senso proprio, si applica ai
viventi; in questo senso designa l'origine di un vivente da un altro come
« Non solo il generato è della stessa essenza de
P. I. - assimilat
3io DIO UNO E TRINO
l'uo
da un principio vivente ad esso congiunto. Tale generazione è detta sa
propriamente nascita. Tuttavia non ogni vivente si dice generato, ma, non
Elementa
in senso stretto, solo quello che procede per via di somiglianza » (S. Th.,
I, q. 27, a. 2).
Seguendo la dottrina di S. Tommaso possiamo dunque affermare: Figlio
« Non solo il generato è della stessa essenza del generante, ma la gene¬ del
razione è anche azione essenzialmente assimilativa, che tende per natura de
a produrre un essere simile. Pertanto se l'uomo potesse formare con D
l'arte delle sue mani un altro uomo, ciò non sarebbe affatto generazione, necessi
poiché l'azione dell'artefice per sua natura non tende alla produzione di
un essere simile a lui » (Jos. Gredt, Elementa Philosophiae aristotelico- chiara
thomisticae, I, 1932, 351). se
Quando chiamiamo la produzione del Figlio di Dio generazione, in¬ ide
tendiamo con ciò dire che essa non è atto della libera volontà di Dio, dall'at
al quale il Padre avrebbe anche potuto non decidersi, ma è invece atto
necessario. È essenziale come l'essere stesso di Dio. Non si tratta però di e
una necessità cieca e fatale, ma di una necessità chiara e luminosa, ac¬
cettata dal Padre e dal Figlio e gioiosamente voluta. La generazione è qu
quindi la partecipazione, proveniente da chiara, consapevole e accettata s
necessità, dell'unica, identica essenza a un secondo io, in modo che
questo possieda, come il Padre, la stessa e identica natura. Si distingue l'impre
perciò essenzialmente e intrinsecamente dall'atto creativo, che provienecompim
dalla libera decisione personale di Dio. al
La generazione è eterna, ossia ignora inizio e fine e ogni decorso tem¬ d
porale. È atto unico, assolutamente semplice e sussistente. Non è facile personale
esprimere esattamente a parole la realtà di questo fatto. Se si parla di prossi
generazione al passato (il Padre ha generato), sembra che si tratti di un
fatto che si è svolto in antecedenza e che ora non ha più luogo. Se si Padre
parla al presente (il Padre genera), si ha l'impressione che l'atto genera¬generazi
tivo non abbia ancora raggiunto il suo compimento. Ma è vera l'una e
l'altra cosa. La generazione è sempre giunta al suo compimento, poiché
il frutto è già presente, ma tuttavia avviene di continuo: il Figlio di¬
pende continuamente, nel suo essere personale, dall'atto generativo del
Padre. Quando tuttavia si usa il passato prossimo, che significa un atto
già avveratosi nel tempo, ma che perdura nel presente, si ha la forma
migliore per la generazione del Figlio (il Padre ha generato).
Per una maggiore spiegazione della generazione cfr. il § 96.
§ 56- PADRE E FIGLIO COME UNICO PRINCIPIO DELLO SPIRITO SANTO 3II
§ 56. Padre e Figlio come unico principio dello Spirito Santo.
Lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio come da unico
principio (tanquam ab uno principio) con un'unica spirazione (unica
spiratione). È dogma di fede.
-
1. Pneuma significa spirito, respiro, aria, etere, vento. Siccome il respiro è
segno di vita, il nome della terza persona indica pure la vita, l'anima, il prin¬
cipio vitale. Che questo Spirito sia divino si manifesta dall'epiteto « santo », che
significa diverso dal mondo, appartenente a Dio. Come « Padre » e « Figlio »
sono i nomi propri delle prime due persone, così « Spirito Santo » è quello pro¬
prio della terza. S. Tommaso d'Aquino, in armonia col pensiero agostiniano,
così si esprime al riguardo : « In Dio vi sono due processioni; la seconda però,
quella che avviene per modo d'amore, non ha nome proprio... Quindi anche le
relazioni che ne sorgono mancano di nome proprio... Da ciò deriva che la stessa
persona che procede in questo modo non ha nome proprio. Tuttavia, come per
indicare quelle relazioni furono dall'uso adottati alcuni nomi comuni, cioè " pro¬
cessione " e " spirazione " che propriamente significano più gli atti nozionali che
le relazioni; così per designare la terza persona divina, che procede a modo
d'amore, fu adottato secondo l'uso della Scrittura, il nome di " Spirito Santo ".
Da due ragioni si può dedurre la convenienza di questo nome. La prima è
la comunanza della persona, chiamata " Spirito Santo ". Infatti spiega S. Ago¬
stino : " Poiché lo Spirito Santo è comune alle due altre persone, è chiamato
con denominazioni comuni ad entrambe: difatti anche il Padre è Spirito come
lo è pure il Figlio; anche il Padre è santo e santo è il Figlio ". La seconda ra¬
gione si trova nel significato proprio del nome (di Spirito Santo). Nel mondo
fisico spirito significa impulso, tant'è vero che chiamiamo spirito il fiato e il
vento. Ora è proprio dell'amore muovere e spingere la volontà dell'amante verso
la persona amata. La santità poi viene attribuita a quelle cose che sono ordinate
a Dio. Perciò convenientemente è detta Spirito Santo la persona divina che
procede come l'amore con cui Dio si ama ».
Quale ulteriore delucidazione si può anche addurre la risposta ch'egli dà alla
prima obiezione : « L'espressione " Spirito Santo " è comune a tutta quanta la
SS. Trinità se prendo i due termini distintamente. Perchè con la parola " spi¬
rito" si indica l'immaterialità della sostanza divina: infatti nel mondo fisico spirito
(vento, fiato) è una sostanza invisibile e di minima densità, perciò a tutte le
sostanze immateriali ed invisibili diamo questo nome. Con l'aggettivo " santo "
poi si indica la purezza della bontà divina. Invece, considerando l'espressione
" Spirito Santo ", come una sola parola, la Chiesa, per la ragione già detta, l'ha
adottata per designare una delle tre persone divine, quella che procede secondo
la processione dell'amore » (S. Th., I, q. 36, a. 1).
Il pensiero della teologìa greca è simile, ma con una caratteristica modifica¬
zione. Infatti Agostino e Tommaso, dal fatto che lo Spirito Santo procede dalle
prime due persone, concludono che l'espressione « Spirito Santo », indicante una
qualità essenziale comune al Padre e al Figlio, si appropria della terza. IGreci
trebbe perciò essere una quarta persona. Inoltre la
riversa
312 P. I. - DIO UNO E TRINO indic
pe
al contrario per il fatto che il nome proprio di Spirito Santo si può in qualche pi
modo dire della prima e della seconda persona, concludono alla consostanzialità intim
delle Persone. Per quanto concerne la processione, il nome di « Spirito Santo » compr
non dice loro nulla. Essi vi vedono però vari aspetti che sfuggono alla spiega¬
zione latina. Secondo i Padri greci lo Spirito Santo è il compimento e termine Padre
del movimento della vita divina, che nel Padre ha il suo principio. Non vi po¬ proced
trebbe perciò essere una quarta persona. Inoltre la parola « spirito » esprime
pure che la vita e la potenza divina furono riversate, spirando, sul creato. Lo atanasia
spirito riversatosi sul creato è detto « santo » per indicare che si tratta di potenza L
e di vita divina partecipate alle creature e che perciò queste sono unite con Concili
Dio. L'unione con Dio significa, per il creato, la pienezza della vita. Perciò lo
« Spirito Santo » è il compimento sia della vita intima divina, sia del creato. Nel Profes
suo nome proprio tali funzioni sono entrambe comprese. d
unic
f
2. - Che lo Spirito Santo proceda dal Padre è detto nel simbolo ni- profes
ceno-costantinopolitano (Denz. 86); che proceda a un tempo dal Padre qu
e dal Figlio viene affermato dal simbolo atanasiano (Denz. 89), dal Con¬ gre
cilio di Toledo (Denz. 277), dal IV Concilio Lateranense (Denz. 428), ca
dal Concilio di Lione (Denz. 460), dal Concilio di Firenze (Denz. l'appr
II 691).
negar
Il testo del Concilio di Lione così suona : « Professiamo fedelmente e devota¬ tem
mente che lo Spirito Santo procede eternamente dal Padre e dal Figlio, non com
come da due principi ma come da un principio unico, non mediante due spira-
zioni, bensì per una spirazione unica. Questo ha finora professato, predicato, esp
insegnato, questo fermamente tiene, predica, professa e insegna la sacrosanta
Chiesa Romana, madre e maestra di tutti i fedeli; questa è la sentenza immuta¬ de
bile e vera dei Padri e dei Dottori sia latini sia greci. Ma siccome alcuni per ch
ignoranza della predetta irrefragabile verità sono caduti in diversi errori, noi, che
bramosi di precludere la via a siffatti errori, con l'approvazione del sacro Concilio, es
condanniamo e riproviamo coloro che osassero negare che lo Spirito Santo pro¬ entra
cede eternamente dal Padre e dal Figlio; o che, temerariamente, asserissero che i
lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, come da due distinti principi e Figli
non da un principio unico » (Denz. 460). sec
La Bolla Laetentur coeli del 6 luglio 1439 che espone la dottrina del Concilio Pad
di Firenze, così si esprime per quanto concerne lo Spirito Santo : « Nel nome
della SS. Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, definiamo con l'approvazione S
di questo sacro ed universale Concilio di Firenze che tutti i Cristiani accettino
e credano questa verità di fede, cioè professino che lo Spirito Santo è eterna¬
mente dal Padre e dal Figlio, e ha da loro la sua essenza e il suo essere sussi¬
stente (personalità), e procede eternamente da entrambi come da unico princi¬
pio, con unica spirazione; dichiarando che quando i sacri dottori dicono che lo
Spirito Santo procede dal Padre mediante il Figlio, vogliono solo significare
che anche il Figlio è, secondo i Greci, causa, e, secondo i Latini, principio di
sussistenza dello Spirito Santo, così come lo è il Padre. E siccome tutto quanto
possiede, il Padre lo ha conferito al suo unigenito Figlio generandolo, eccetto
la caratteristica di Padre, ciò stesso che lo Spirito Santo proceda dal Figlio, il
§ 56- PADRE E FIGLIO COME UNICO PRINCIPIO DELLO SPIRITO SANTO 313
Figlio medesimo lo ha eternamente dal Padre, dal quale è altresì eternamente
generato. Definiamo pure che la parola Filioque è solo una spiegazione per
meglio chiarire la verità, e che per necessità delle circostanze fu lecitamente e
ragionevolmente inserita nel simbolo » (Denz. 691).
Se il simbolo niceno-costantinopolitano parla della processione dello Spirito
Santo solo dal Padre e non egualmente dal Figlio, ciò si deve alle ragioni pole¬
miche che provocarono quella professione di fede. Infatti essa mirava a combat¬
tere l'errore macedoniano che negava la divinità dello Spirito Santo. Non vi era
quindi motivo di parlare della processione dello Spirito Santo anche dal Figlio.
Più tardi nel detto simbolo fu aggiunta l'espressione Filioque, ma con ciò il
medesimo simbolo non deviò dal suo senso primitivo, dato che quella parola
vi si armonizza pienamente. L'aggiunta si verificò in Ispagna nel vi secolo, ed
è testimoniata dal III Sinodo di Toledo nell'anno 589; nel secolo ix la troviamo
pure in Francia. Quando, l'anno 808, i monaci del monastero franco sul monte
degli Ulivi a Gerusalemme cantarono nel credo il Filioque furono accusati di
eresia dai confratelli greci. Papa Leone XII dichiarò che la processione dello
Spirito Santo anche dal Figlio, doveva essere oggetto di predicazione, ma che
l'aggiunta di quella formula nel Credo era superflua. Tuttavia dietro preghiera
di Enrico II, Benedetto Vili, nell'anno 1041, la inserì nel simbolo anche a Roma.
È noto come i Greci dissentano dai Latini sul modo della processione dello
Spirito Santo. Non si può tuttavia storicamente affermare che l'aggiunta del
Filioque sia stata considerata avanti lo scisma come motivo di rottura. Fu la
separazione che ha fatto di esso una nuova causa di malintesi.
Per quanto concerne il dovere di credere alla processione dello Spirito Santo
anche dal Figlio, così si esprime Benedetto XIV l'anno 1742 (Bolla Etsi pasto-
ralis) : « Se i Greci sono anch'essi obbligati a credere che lo Spirito Santo pro¬
cede anche dal Figlio, non sono però costretti a pronunciarlo nel simbolo. Tut¬
tavia gli Albanesi di rito greco hanno accolto lodevolmente la consuetudine con¬
traria e noi vogliamo che essa venga mantenuta dagli stessi Albanesi e da tutte
le altre Chiese in cui esiste »,
3. - a) La Scrittura, benché non dica espressamente che lo Spirito
Santo procede anche dal Figlio, l'attesta tuttavia realmente.
Che lo Spirito Santo proceda dal Padre è detto in Gicv. 15, 26; che
proceda anche dal Figlio emerge dai seguenti dati. La terza persona,
come è chiamata Spirito del Padre (Mt. 10, 20), così è pure chiamata
Spirito di Gesù (Atti 16, 7), Spirito di Cristo (Rom. 8, 9; Fil. 1, 19).
Secondo l'insegnamento di S. Giovanni, lo Spirito Santo si trova rispetto
al Figlio nello stesso rapporto che ha con il Padre (Giov. 6, 46; 7, 16;
8, 26. 38; 12, 49; 15, 26; 16, 4; 17, 4; 18, 37). Il Figlio rende testi¬
monianza al Padre e lo Spirito Santo al Figlio; il Figlio onora il Padre
e lo Spirito Santo il Figlio; il Figlio riferisce ciò che ha udito e visto
presso il Padre, lo Spirito Santo ciò che ha udito dal Figlio; il Figlio è
inviato dal Padre, lo Spirito Santo dal Figlio (Giov. 16, 13-15). Se la
Scrittura dice che lo Spirito Santo procede dal Padre (Giov. 15, 26),
P. I. - DIO UNO E TRINO
s
3M
non
ciò non va inteso in senso esclusivo, ma vuole piuttosto significare che de
tutto quanto possiede il Figlio lo ha ricevuto dal Padre, quindi anche c
la spirazione stessa. s
b) IPadri anteniceni non hanno approfondito teologicamente la ri¬nessuna
velazione che riguarda lo Spirito Santo, poiché gli errori allora correnti
richiamavano tutti i loro sforzi sulla relazione esistente tra Padre e Fi¬ pro
glio. Per quanto concerneva la terza persona si limitavano a riprodurre che
i passi biblici relativi. In realtà, anche se non espressamente, troviamo
tuttavia nella teologia alessandrina la dottrina della processione dello Spi¬ d
rito Santo anche dal Figlio. Origene afferma che lo Spirito Santo deve
la sua esistenza al Figlio, e simile concezione si rinviene anche in Ata¬ I
nasio. Egli non dice espressamente in nessuna formula che lo Spirito mo
ragion
Santo procede dal Figlio, tuttavia parla della processione dello Spirito Figlio
Santo in modo tale che quanto afferma in proposito riuscirebbe incom¬ Sa
prensibile, qualora non fosse stato convinto che lo Spirito Santo procede Pa
anche dal Figlio.
Nella terza lettera a Serapione (n. i), Atanasio dichiara : « Il Signore ha in¬ la
fatti detto: Il consolatore non parlerà da se stesso, ma parlerà di ciò che ode,
poiché egli prenderà del mio e ve lo comunicherà. Il Signore lo diede anche ai
suoi discepoli, quando alitò su di loro; e in tal modo, secondo la Scrittura, il F
Padre lo riversò su tutti i viventi. Perciò io a ragione ho parlato e scritto prima dett
del Figlio, affinchè dalla retta conoscenza del Figlio potessimo trarre anche la Quan
vera conoscenza dello Spirito. Infatti lo Spirito Santo si trova verso il Figlio proced
nell'identica posizione in cui il Figlio si trova col Padre. E come dice il Figlio: N
Tutto quanto ha il Padre è mio, così noi possiamo asserire che tutto ciò lo ha niu
pure lo Spirito, mediante il Figlio. E come il Padre si rivolge al Figlio dicendo: abb
Questi è il mio figliuolo diletto in cui ho posta la mia compiacenza, lo stesso
può dirsi dello Spirito Santo nei riguardi del Figlio. Egli (= Padre) infatti inviò, t
come dice l'Apostolo, lo Spirito del suo Figlio nei nostri cuori che lo invoca: (
Abba, Padre! E, cosa veramente notevole, come il Figlio dice: Ciò che è mio
è del Padre, così anche lo Spirito Santo, che è detto appartenere al Figlio, ap¬ consus
partiene al Padre, poiché è il Figlio che dice: Quando verrà il consolatore, che e
vi invierò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli darà testi¬
monianza di me; e Paolo, da parte sua, osserva: Niuno conosce l'essere degli
uomini se non lo Spirito che è nell'uomo; così niuno conosce l'essere di Dio
se non lo Spirito di Dio che è in lui. Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del
mondo, ma lo Spirito che proviene da Dio, perchè possiamo conoscere ciò che
Dio ci ha donato. E in tutta la Scrittura divina tu troverai che lo Spirito Santo
che è detto "del Figlio" è pure detto "di Dio" (= del Padre). Così dunque
se il Figlio a causa della sua propria relazione con il Padre e perchè rampollo
della sua sostanza, non è una creatura, ma è consustanziale al Padre, così anche
lo Spirito Santo non può essere una creatura — ed empio è chiunque lo dice —
§ 56. PADRE E FIGLIO COME UNICO PRINCIPIO DELLO SPIRITO SANTO 315
a causa della sua propria relazione col Figlio, e perchè è dal Figlio che egli è
dato a tutti e perchè quello che egli ha è del Figlio ».
Identico è l'insegnamento dei Cappadoci. Basilio dice che lo Spirito
Santo procede dal Padre mediante il Figlio. Non solo, ma ripudia l'opi¬
nione di Eunomio il quale asserisce che il Padre è l'unica sorgente dello
Spirito Santo. Il Figlio ha tutto quanto in comune con il Padre e la
Scrittura chiama lo Spirito Santo non solo Spirito del Padre, bensì anche
Spirito del Figlio (Contra Eunomium, 2, 34; 3, 1; De Spiritu Sancto,
18, 45). Secondo Gregorio di Nissa l'una (persona) è causa, le altre due
causate. Tuttavia quelle che sono causate non lo sono allo stesso modo,
perchè l'una è causata immediatamente dal Padre, mentre l'altra è cau¬
sata tramite quella che è causata immediatamente (quod non sint tres
dii). Gregorio però fa procedere lo Spirito Santo immediatamente dal
Figlio e mediatamente dal Padre. Epifanio usa nella sua opera Anco-
ratus la formula che lo Spirito Santo deriva dalla sostanza del Padre e
del Figlio, ossia che procede dal Padre e dal Figlio.
Nella teologia occidentale Tertulliano (Adversus Praxeam, 4) afferma
che lo Spirito Santo non procede che dal Padre mediante il Figlio. Ilario
insegna che il Padre e il Figlio sono gli autori (il principio) dello Spi¬
rito Santo (De Trinitate, 2, 29). La dottrina occidentale si esprime chia¬
ramente con Agostino il quale dice che lo Spirito Santo procede da en¬
trambi (ab utroque, non usa ancora filioque). In lui si conclude tutta la
teologia occidentale. La formula filioque apparve, come già dicemmo,
per la prima volta in Spagna.
Tra la teologia agostiniana occidentale e quella greca vi è una certa differenza.
Secondo la concezione greca la Trinità personale si dispiega dal Padre nel Figlio
e, attraverso il Figlio, nello Spirito Santo. Il Figlio perciò svolge l'ufficio di
attivo mediatore (a patre per filium). Il movimento vitale che vi si verifica è un
movimento lineare. Secondo la concezione occidentale Padre e Figlio spirano
(logicamente dopo la generazione e la partecipazione della forza spirativa dal
Padre nel Figlio) in modo egualmente immediato, come unico principio, lo
Spirito Santo. Però Agostino tiene conto della concezione greca affermando che
principalmente (principaliter) il Padre spira lo Spirito Santo, in quanto comu¬
nica al Figlio e la sua sostanza e la vis spirandi Spiritus. Nella concezione
greca viene accentuato con forza il fatto che il Figlio riceve tutto il suo essere
personale, nel quale è pure inclusa la spirazione dello Spirito Santo, dal Padre.
La concezione latina mette invece in forte rilievo che Padre e Figlio producono
(spirano), con azione unica, lo Spirito Santo.
4. - Come la generazione, così anche la spirazione è atto eterno, cioè
fuori del tempo. Non è atto a cui Padre e Figlio si decidano insieme 0
viene moltiplicato, così il Padre è sostan
316 P. I. - DIO UNO E TRINO
identic
che si aggiunga a essi come qualcosa d'accidentale. Anzi coincide con
la persona del Padre e del Figlio e, dato che in Dio non vi è distinzione
reale, con l'essenza divina stessa. Come il Padre è atto generativo, così spirato
è pure atto spirativo; come il Figlio è essere generato, così è pure spi- proces
razione. Però Padre e Figlio sono spirazione in modo che tale atto non c
viene moltiplicato, così come il Padre è sostanza divina e il Figlio lo è s
pure senza che tale sostanza sia perciò stesso moltiplicata. L'atto gene¬
rativo e l'atto spirativo sono realmente identici e virtualmente distinti.
Così, l'essere generato e l'atto spirativo sono realmente identici e solo
virtualmente distinti.
Anche se lo Spirito Santo è l'essere spirato stesso, non lo è però in
P
modo passivo. Egli infatti conosce la sua processione e l'afferma. Sussiste
in quanto è fondato in un unico atto eterno che deriva tanto dal Padre
a
quanto dal Figlio. Egli procede, anzi egli è la sua processione. Per mag¬
giori spiegazioni della spirazione vedi il § 90. u
p
soggetto
re
§ 57. Le relazioni divine. e
1. - Il concetto di relazione, formulato dai Padri nel secolo IV ed ela¬
borato dalla teologia scolastica, ci permette di approfondire la conoscenza vic
estr
della vita divina tripersonale. fam
La parola relazione indica ordine o rapporto di una cosa all'altra. Ogni rela¬ e
zione implica sempre tre elementi: un soggetto (es. padre), un termine (es. figlio), f
un fondamento o ragione, secondo cui il soggetto si riferisce al termine (tra transitorie
padre e figlio la generazione). Essa può essere reale o logica, mutua o non espr
mutua. È puramente logica quando uno dei tre elementi è semplice concetto l'esist
dell'intelletto; reale quando tutti e tre gli elementi sono reali; mutua quando il sostanzia
rapporto tra il soggetto e il termine è reciproco (padre e figlio), non mutua
quando il soggetto è ordinato al termine, ma non viceversa (Dio e il mondo). dogm
Le relazioni che si avverano nel mondo sono estremamente molteplici e varie (Den
e si fondano sui più diversi motivi (nazione, famiglia, vicinanza temporale o divi
spaziale, parentela, amore, amicizia, conoscenza, educazione, discorso, parola,
ecc.). Ogni singola creatura è avvolta in una rete fittissima di relazioni, alcune
essenziali e inabolibili, altre accidentali e transitorie. Così, ad esempio, la rela¬
zione sociale è essenziale per l'uomo. Segno ed espressione di ciò è la facoltà di
parlare, di esprimersi, di conversare. Tuttavia l'esistenza umana non si riduce a
un complesso di relazioni. L'uomo è realtà sostanziale, cui compete essere in sè.
2. - In Dio vi sono relazioni reali. È dogma di fede.
a) Lo afferma il Concilio di Firenze (Denz. 703; cfr. § 43).
Esse sono fondate nelle due processioni divine. La generazione fonda
§ 57- LE relazioni divine 317
la relazione del Padre verso il Figlio e quella del Figlio verso il Padre:
paternità e filiazione. La spirazione dello Spirito Santo fonda la relazione
del Padre e del Figlio verso lo Spirito Santo e quella dello Spirito Santo
verso il Padre e il Figlio. L'unico nome che possiamo dare a queste due
ultime relazioni è quello di spiratio adiva e passiva. Poiché il Padre e il
Figlio sono unico principio spirante, il loro unico atto di spirazione non
fonda due relazioni reali e mutue, ma bensì una sola.
b) La Scrittura non parla espressamente di relazioni reali in Dio,
ma queste sono incluse nelle denominazioni di Padre, Figlio e Spirito.
Dalla spiegazione del significato di questi vocaboli, emerge che il Padre,
il Figlio e lo Spirito hanno un carattere relativo.
c) Tale spiegazione fu intrapresa dai Padri del iv e v secolo.
Il primo accenno di una relazione in Dio lo possiamo rinvenire in una lettera
che Ario e i suoi seguaci scrissero al vescovo Alessandro di Alessandria. Qui è
negato al Figlio il carattere di eternità. Infatti essi dichiaravano che il Figlio
non ha l'essere nel medesimo tempo del Padre, come alcuni dicono delle cose
che sono relative, introducendo così due principi increati (ingeniti), mentre, in
realtà, vi è un principio unico, che domina tutto. Il Figlio deve perciò essere
creatura. Questa allusione alle cose relative è indubbiamente suggerita dalle Ca¬
tegorie di Aristotele, ove si afferma che due esseri relativi si reclamano a vi¬
cenda per cui devono necessariamente esistere nel medesimo tempo (Atanasio,
De Synodis, n. 16; Aristotele, Categorie, 7, 7 b, 15).
Atanasio combatte il pensiero di Ario e dimostra, partendo proprio dal carat¬
tere relativo del Figlio, la sua eternità uguale a quella del Padre. Il nome Figlio
denota, secondo lui, relazione con il Padre. Infatti due enti relativi devono essere
contemporanei e l'uno può essere noto soltanto mediante l'altro. Il Padre non
esiste senza il Figlio nè il Figlio senza il Padre. Anche se Padre e Figlio sono
parimenti eterni non ne deriva necessariamente che vi siano due principi in¬
creati, ma bensì solo uno. L'unità di Dio si basa sul fatto che le persone divine,
distinguendosi realmente tra loro per le relazioni di origine, hanno in comune
un'unica natura divina; più precisamente, sul fatto che l'identica natura del
Padre, mercè le rispettive relazioni di origine, è propria anche al Figlio e allo
Spirito. Così la relazione serve ad Atanasio nella confutazione di Ario e nella
spiegazione dell'unità divina. Egli però non usa ancora la parola relazione; mette
solo in risalto il carattere relativo del Figlio e, in un certo senso, anche quello
dello Spirito Santo. Difatti non era ancora giunto alla conclusione che le per¬
sone sono propriamente costituite dalle relazioni.
Dobbiamo inoltre ricordare la dottrina di Basilio. Egli adoperò il concetto di
relazione come arma possente contro Eunomio, discepolo di Aezio. Secondo
Eunomio Padre e Figlio non potevano essere uguali poiché il Creatore è supe¬
riore alla creatura. Il Padre è increato o ingenito (aghennetos), il Figlio invece
è creato o genito (ghennetos). Essere ingenito o increato è secondo Eunomio ca¬
ratteristica essenziale di Dio. Basilio cercò di confutare questo errore servendosi
del concetto di relazione. Mentre Atanasio dà al termine greco aghennetos il si-
patia per esso, anche perchè non si rinviene nella
dico
3i8 P. I. - DIO UNO E TRINO immedia
c
gnificato di « increato » e perciò lo attribuisce a tutte e tre le persone divine, con
Basilio lo intende solo nel senso di « non essere generato ». Per lui il significato d
è quello di non avere Padre. Riguarda solo l'origine, non l'essenza, denota solo n
un modo di sussistere, non la natura. Perciò non si può dedurre da esso nes¬
suna distinzione di essenza. Dunque i propugnatori dell'errore se ne servono a
torto. Benché non sia pericoloso per la retta fede, tuttavia Basilio non ha sim¬ esig
patia per esso, anche perchè non si rinviene nella Bibbia. Egli preferisce i ter¬ eterno
mini biblici di Padre e Figlio, che di per sé dicono relazione e ci illuminano n
circa l'origine delle persone divine, senza immediatamente dirci nulla né circa
l'essenza di colui che è Padre né circa quella di colui che è Figlio. Il grande senz
errore di Eunomio sta nel confondere l'origine con l'essenza, vale a dire il rela¬ Figlio
tivo con l'assoluto. Le caratteristiche di Padre e di Figlio sono, dunque, basate
sulle relazioni di origine. La distinzione sta solo nel campo delle relazioni, non
in quello dell'essenza.
Poiché Padre e Figlio includono in se stessi la relazione di origine, devono
necessariamente essere ugualmente eterni, l'uno esigendo l'altro. Il Padre non è
Padre senza il Figlio; e dato che il Padre è eterno, eterno deve essere anche il l'un
Figlio. Siccome la distinzione sta nelle relazioni e non nell'essenza, deve esistere,
per quanto concerne l'essenza stessa, parità, unità, anzi identità. Il Padre confe¬ s
risce la sostanza, che gli è propria, al Figlio, senza moltiplicarla, cosicché egli,
Padre, la possiede senza principio, mentre il Figlio la possiede per generazione. l'aiu
Le relazioni non sono permutabili: il Padre non è dal Figlio, ma bensì il Figlio l
dal Padre. ciascuna
Superando lo stesso Atanasio, Basilio usa pure il termine relazione, il quale Mentre
gioca presso di lui un più grande ruolo che non in Atanasio, sia nell'impiego a
polemico, sia nella spiegazione delle proprietà delle singole persone. Anche se le
relazioni sono per Basilio un mezzo per spiegare l'unità di Dio, tuttavia egli basa
tale unità più sul modo della generazione che sul concetto di relazione. Ancheindubbiame
se la generazione avviene per mezzo della natura spirituale e non della volontà,
ciò non autorizza a credere che vi siano due dèi.
dottrin
Anche Gregorio Nazianzeno dimostra, con l'aiuto delle relazioni, contro le med
deformazioni razionalistiche della fede trinitaria, l'eguaglianza delle persone e dottrin
l'identità della natura. Le persone hanno, ciascuna, una sola proprietà relativa. E
Le loro proprietà sono relazioni di origine. Mentre Basilio parla solo espressa¬ term
mente del carattere relativo del Figlio, Gregorio afferma pure il carattere rela¬
tivo dello Spirito Santo.
un'im
spinto
S. Agostino è fra i Padri latini indubbiamente quello che ha trattato
più ampiamente e sistematicamente la dottrina che in Dio vi sono re¬
lazioni reali e che le tre persone sono esse medesime tali relazioni. Nella
teologia occidentale preagostiniana tale dottrina era stata espressa solo
raramente, e Agostino l'ereditò dalla greca. Egli però, a differenza dei
teologi orientali, non usa espressamente il termine relazione, ma la realtà
che esso esprime egli la fa entrare come un'importante parte costitutiva
nella teologia trinitaria. Anch'egli viene spinto dall'eresia ariana ad eia-
§ 57- LE relazioni divine 319
borare il carattere relativo delle persone divine; ma non si ferma nella
polemica, dacché la dottrina di tale carattere relativo diviene per lui un
mezzo efficace per meglio approfondire le proprietà delle persone stesse.
Il concetto di relazione, derivato dalla filosofìa greca, ed elaborato dai
Padri Cappadoci, servì a S. Agostino per spiegare appieno le denomina¬
zioni bibliche di Padre e di Figlio.
3. - La spirazione attiva, pur costituendo una relazione reale del Padre
e del Figlio verso lo Spirito Santo, tuttavia si distingue non realmente
ma solo virtualmente dalla paternità e dalla filiazione, ossia dalla rela¬
zione che unisce il Padre al Figlio e il Figlio al Padre. Tale distinzione
virtuale basta perchè la paternità e la filiazione, nonostante la loro iden¬
tità con la spirazione attiva, possano essere tra loro realmente distinte.
La spirazione attiva unica, pur senza perdere la sua identità, spetta tanto
al Padre, quanto al Figlio, ma in modo diverso: al Padre originaria¬
mente, al Figlio come partecipata per generazione.
Le persone divine sono realmente identiche con le produzioni 0 pro¬
cessioni. Mentre nella creatura sono le azioni che fondano le relazioni,
in Dio, a motivo della sua assoluta semplicità e della sua attualità (actus
purus), le produzioni e le processioni fanno una sola realtà con le rela¬
zioni stesse. L'atto generativo è perciò realmente la relazione del Padre
con il Figlio; l'atto spirativo è la relazione del Padre e del Figlio con
lo Spirito Santo ecc. (È solo per il nostro modo analogico di conoscere
che le processioni fondano le relazioni). Di più le relazioni s'identificano
realmente con l'essenza, pur rimanendo virtualmente distinte; infatti una
distinzione reale urterebbe con la semplicità di Dio. La virtuale, invece,
è necessaria, affinchè le relazioni, nonostante la loro reale identità con
l'essenza divina, possano rimanere realmente distinte tra loro stesse. Certo
la nostra intelligenza umana limitata non può sondare in che modo la
distinzione reale delle relazioni si possa conciliare con la loro reale iden¬
tità con l'unica essenza: ciò fa parte del mistero di Dio!
Iteologi a partire da S. Tommaso d'Aquino, cercano di chiarire questo punto
mediante la dottrina aristotelica della relazione. La relazione è un accidente, e
ogni accidente ha un duplice aspetto: uno generico, comune cioè a tutti gli acci¬
denti, che consiste nell'esistere in un soggetto (esse in); l'altro specifico, cioè
proprio a ciascun accidente, che è il modo speciale con cui esso esiste nel sog¬
getto. Anche la relazione include i due aspetti: il generico e lo specifico. Que¬
st'ultimo però, a differenza di tutti gli altri accidenti, non dice un modo di
inesione nel soggetto, ma dice solo rapporto a un termine (esse ad).
Se applichiamo tali concetti alle relazioni intradivine, ne deriva quanto segue:
relazione s'identifica realmente con l'essenza, in qua
qua
320 P. I. - DIO UNO E TRINO nel
co
l'aspetto generico delle relazioni coincide con la sostanza divina, poiché in Dio ne
non vi può essere un inerire a modo di accidente. Perciò la relazione in Dio diver
non ha un carattere accidentale, ma bensì solo sostanziale. Le relazioni divine ne
hanno quindi un loro proprio essere, sono a sé stanti, sussistenti in se stesse ciò
(ÿrelazioni sussistenti). Secondo il loro aspetto specifico, poi, non dicono qualcosa Pa
di inerente all'essenza, ma semplice rapporto a un termine. Perciò in Dio la Fig
relazione s'identifica realmente con l'essenza, in quanto il suo inerire è l'essenza
stessa; se ne distingue, tuttavia, virtualmente in quanto dice rapporto od ordine co
a un termine, il quale (rapporto) non è incluso nell'essenza. I
Agostino non conosce tale spiegazione. Infatti contro l'obiezione ariana all'annullamen
che il
Figlio è o essere sostanziale o accidentale, e che nel primo caso sarebbe essen¬strappar
zialmente distinto dal Padre e nel secondo gli diverrebbe dissimile, insegna che, a
al di fuori dell'essere sostanziale e accidentale, ne esiste un terzo: il relativo. nom
Secondo lui dobbiamo distinguere nelle persone ciò che esse sono per se stesse d
e ciò che sono, relativamente, i'una per l'altra. Il Padre, in ciò che è per se me¬ medi
desimo, ossia nella natura divina, è identico al Figlio e allo Spirito Santo. Le
persone si distinguono in quanto sono ordinate tra loro.
Non è possibile esprimere in modo perfetto, con concetti e parole umane,
l'identità e la distinzione tra relazione ed essenza. Infatti se si attenua troppo la
distinzione, si va a rischio di arrivare all'annullamento delle persone; se, al con¬
trario, la si accentua troppo si finisce per strappare alle persone divine il loro
carattere divino. Nel medio evo la troppo audace accentuazione delle differenze Con
personali sfociò nell'errore che si ricollega al nome di Gilbert de la Porrée 43)
(1142-1154 vescovo di Poitiers). Secondo costui, la divinità è la forma sostanziale,
che informa le tre persone divine, la entelechia, mediante la quale ciascuna è Dio. c
ess
s
§ 58. Relazioni e persone divine.
Le persone divine sono le relazioni divine sussistenti in se stesse. p
1. - Tale asserzione è garantita dall'XI Concilio di Toledo e special¬
mente dal IV Concilio Lateranense (cfr. § 43). a
Hanno
2. - Anche se la Scrittura ci mostra solo il carattere relativo delle per¬
conseguen
sone divine, senza dirci espressamente che esse sono le relazioni stesse
sussistenti, ciò, tuttavia, si può dedurre dalla spiegazione dei concetti di
Padre, Figlio e Spirito.
3. - La medesima osservazione vale pure per la dottrina patristica.
IPadri dal iv secolo hanno messo in chiaro il carattere relativo delle
persone divine. Tuttavia non sono pervenuti alla conoscenza che le re¬
lazioni costituiscono le persone stesse. Hanno però gettato le basi di
questa dottrina, che appare come la conseguenza logica dei loro scritti.
La differenza tra la concezione greca e la latina lasciò la sua impronta anche
§ 58. RELAZIONI E PERSONE DIVINE 321
nella spiegazione del carattere relativo delle divine persone. ICappadoci nel
complesso della fede trinitaria, che include l'affermazione sia dell'unità, sia della
Trinità divina, guardano in primo luogo la Trinità. Il movimento del pensiero,
con cui cercano di approfondire tale fede, parte dalle persone e dalla loro rela¬
zione di origine. Di qui cercano poi di pervenire all'unità e di stabilirla. Proprio
la relazione di origine è per essi il mezzo per dimostrare l'unità. Infatti il Padre,
che è identico all'essenza divina, partecipa l'essenza, che gli è propria, al Figlio
per generazione, ossia per atto che proviene dall'essenza stessa e non dalla vo¬
lontà. Il Figlio si rivolge a sua volta al Padre, come spiega particolarmente
Gregorio di Nissa, utilizzando un motivo del pensiero neoplatonico. Così la re¬
lazione d'origine diviene mezzo per rendere comprensibile la vita intima delle
persone divine, la quale è movimento dell'una verso l'altra, compenetrazione
dell'una con l'altra. La concezione che i Cappadoci hanno delle relazioni, porta
maggiormente l'impronta della dinamicità che non della staticità.
Agostino utilizza invece più volentieri una concezione statica. Considera più
l'esistenza delle persone divine che non la loro origine. Partendo dall'unità, cerca
di chiarire come questa non sia messa in pericolo dalla Trinità delle persone;
e non è messa in pericolo, perchè le tre persone hanno solo un carattere rela¬
tivo. Così il suo interesse si rivolge maggiormente alla caratteristica intima delle
persone, al loro modo di sussistere, che non al loro reciproco movimento fon¬
dato sulle relazioni di origine.
Il risultato, tuttavia, è identico. Infatti le persone si distinguono per le rela¬
zioni d'origine, che si oppongono realmente tra loro nel grembo della unica es¬
senza, realmente identica a tutte e tre.
4. -
Dalla semplicità divina e dall'aspetto essenziale della persona,
emerge che le tre persone divine non sono altro che le loro opposte re¬
lazioni. Il Padre è perciò paternità e spirazione attiva, il Figlio filiazione
e spirazione attiva, lo Spirito Santo spirazione passiva.
In armonia con quanto è stato detto fin qui circa la vita intima di
Dio, possiamo presentare le proprietà o caratteristiche delle divine per¬
sone nel modo seguente:
a) La prima persona divina genera e spira non nel senso che a
essa, già costituita come persona, si aggiunge l'atto generativo e spira-
tivo come qualcosa di accidentale. Ciò va assolutamente escluso. Il Padre
è anzi egli stesso il suo atto generativo e spirativo. Non possiamo pen¬
sare a un nucleo personale da cui proviene l'atto, produttivo, di pen¬
siero (= generare) ed amore (= spirazione). La prima persona è invece
quest'atto stesso di pensiero e di amore. Questa azione produttiva fonda,
secondo il modo nostro di pensare analogico e legato al tempo, le rela¬
zioni divine. E queste, a loro volta, a causa della semplicità e della pu¬
rissima attualità di Dio, s'identificano con l'atto produttivo del pen¬
siero e dell'amore.
21 - schmaus - dogmatica I.
Poiché la racchiude in stessail
costit
322 P. I. - DIO UNO E TRINO
Come la prima persona è l'atto, fecondo, di pensiero e di amore, così per
è pure la relazione della paternità e della spirazione attiva. La paternità n
è perciò Padre, la spirazione attiva Spiratore. Però la paternità e la spi¬ st
razione non sono semplicemente identiche alla prima persona; questa essere,
consiste nell'essere Padre e Spiratore.
Poiché la persona racchiude in se stessa il carattere di incomunica¬
bilità, ne deriva che il Padre deve essere costituito nel suo essere per¬ Padr
sonale da qualcosa che non appartenga alle altre due persone. Ciò risiede pe
unicamente nella relazione con le altre due persone, l'essere cioè Padre substan
e originaria spirazione attiva. Quanto, invece, nella prima persona non es
indica relazione con le altre, ma esiste per se stesso, è comune a tutte e pate
tre. Costitutivo della prima persona, può essere, quindi, solo la relazione
con il Figlio e con lo Spirito Santo. Ciò che esula da questo campo, perso
non è più incomunicabile e perciò spetta a tutte e tre le persone insieme.
La prima consiste totalmente nell'essere Padre e Spiratore, in altre debba
parole, nel donare l'essenza divina mediante pensiero e amore fecondi. qualco
È l'atto sostanziale e sussistente (actus substantiate) della donazione o la
della relazione sussistente che si fonda su di essa. d
La prima persona non consiste solo nella paternità, ma anche nella ori¬ qualc
ginaria spirazione attiva. Indubbiamente come Padre la prima persona p
è fondata dalla paternità, ma come prima persona dalla paternità e dalla spira
originaria spirazione attiva. Altrimenti sarebbe necessario supporre che
alla personalità già completa del Padre si debba aggiungere la spirazione a
attiva, come proprietà o, almeno, come qualcosa di estrinseco alla sua com
personalità medesima. Quando si comprenda la spirazione nella sua as¬ divin
soluta necessità, non minore della necessità della generazione, non si e
può assolutamente abbassarla al livello di qualcosa d'accidentale. L'atto sostan
dello spirare è così necessario e proprio alla prima persona quanto la s
generazione. Certo, il Padre compie l'atto spirativo con il Figlio, ma lo d
spirazion
compie originariamente, il che significa che non lo riceve da nessun altro,
ma lo possiede in sé e per sé e lo partecipa al Figlio. Tra paternità e oc
spirazione non esiste successione: esse si compenetrano in un indivi¬
sibile eterno presente. La prima persona divina si potrebbe caratteriz¬
zare come il donarsi in un fecondo conoscere e amare. Questo atto del
donarsi è identico con l'essenza, perciò è sostanziale e sussistente.
b) In modo analogo la seconda persona si può determinare come
accettazione dell'essenza divina e trasmissione di essa allo Spirito Santo:
è la relazione della filiazione e della spirazione attiva. Anche qui non
basta pensare alla relazione di filiazione, ma occorre tener presente che
§ 58- RELAZIONI E PERSONE DIVINE 323
anche la spirazione costituisce la seconda persona. La persona del Figlio
consiste nel ricevere l'essenza dal Padre e nel trasmetterla, mediante la
spirazione che compie con il Padre, allo Spirito Santo. Egli consiste,
quindi, nella sua relazione con il Padre e con lo Spirito Santo. Il fatto
di aver in comune con il Padre la relazione verso lo Spirito Santo non
significa che tale relazione non abbia per lui alcun valore personale. Egli,
come il Padre, viene caratterizzato nella sua personalità anche dalla spi¬
razione attiva, con l'unica differenza che la riceve dal Padre.
c) Lo Spirito Santo è la spirazione passiva. Egli consiste totalmente
nel ricevere ed accettare l'essenza divina dal Padre e dal Figlio. Al di
fuori di questa relazione non ha nulla di particolare.
5. - Le tre persone divine sono, dunque, l'una per l'altra e l'una nel¬
l'altra. La loro personalità consiste esclusivamente nell'essere l'una per
l'altra. L'io della prima persona è determinato essenzialmente dalla se¬
conda e dalla terza, quanto quello della terza dalla prima e dalla se¬
conda. Se la prima persona cessasse, per assurdo, anche un solo istante
di pensare al Figlio e allo Spirito Santo, non potrebbe nemmeno più
pensare se stessa. Lo stesso dicasi per la seconda e terza persona.
6. - Per questo le persone divine si differenziano dalla persona umana.
Il concetto di persona include l'essere in sè e per sè. Quanto più una
persona ha in se stessa la ragione e il fine del suo essere, tanto meglio
realizza la sua personalità. Ogni persona creata è perciò sigillata rispetto
agli altri; ma contemporaneamente, fa parte della comunità; e da ultimo,
quale creatura, è essenzialmente ordinata a Dio e con la volontà si
schiude a lui. Sussiste tuttavia, un più intimo nucleo, che sta chiuso a
ogni altro e che anche di fronte a Dio possiede un suo proprio essere e
valore (ambedue naturalmente sono anch'essi dono di Dio).
Le persone divine al contrario consistono nell'essere aperte le une alle
altre. Per loro vale, in modo analogico, ciò che Heidegger sembra as¬
serire per la persona umana. Questa, secondo tale filosofo, sarebbe co¬
stituita dalle relazioni con le cose (intese come strumenti) e con gli altri
uomini. Le persone divine consistono nell'essere l'una con l'altra e l'una
per l'altra.
7. - Le relazioni in Dio ci fanno riconoscere la Trinità quale perfetta
comunione di vita, la quale non si presenta come la somma delle tre
persone — il che sarebbe triteismo — ma bensì come ima realtà corre¬
lativa. Ciascuna delle persone divine o delle relazioni è identica con l'es-
identità le relazioni divine.
ex
324 P. I. - DIO UNO E TRINO
che
senza. E, viceversa, l'essenza è ciascuna delle relazioni divine. L'es¬ co
senza divina che è indipendente, essenzialmente distinta da tutto ciò che seco
è fuori di Dio, sussistente in se stessa e, in questo senso, personale, è
nella sfera divina immanente correlazione. Le relazioni possono sussistere membr
solo nella loro identità con l'essenza e l'essenza può esistere solo nella le
sua identità con le relazioni divine. am
L'indipendenza di Dio da tutto ciò che è extradivino si realizza con i
le relazioni intradivine. Siccome l'essenza, che permane nella sua uni¬ c
cità e identità, può esistere solo nell'identità con relazioni opposte, vale e
a dire come Padre, Figlio e Spirito, noi, secondo il nostro modo ana¬ tuttav
logico di conoscere, possiamo designarla come realtà correlativa, mentre
le persone possono considerarsi come i membri che danno vita e movi¬ l'u
mento alla natura. Si deve solo osservare che le relazioni, le quali si at¬
fo
tuano in un atto fecondo di conoscenza e di amore, sono il dono e l'ac¬
iden
cettazione della essenza permanente nella sua identità. dell'io
Così la vita delle tre persone si presenta come segue: ciascuna si di
dona pienamente alle altre due; vive solo per esse e in esse, nelle quali sig
trova ogni suo senso e scopo. Parimenti, tuttavia, ciascuna conserva, in
unica
piena intangibilità, il proprio io. Infatti tutte e tre sono distinte tra loro divine
in modo incomunicabile. Sì, proprio mentre l'una si dona alle altre, è l'altra
appunto se stessa. Si avvera così la più alta forma di comunione: una
S'aggiu
vita, un amore, una conoscenza sino alla identità dell'essenza e della pers
vita, « colla sola distinzione nello scambio dell'io e del tu ». risposta
La vita comunitaria di Dio è del più alto dinamismo. (Si deve natu¬ rompe,
ralmente escludere da questo vocabolo ogni significato di cambiamento, oppo
successione, stimolo, ma bensì prenderlo unicamente nel senso di inte¬ sorreggon
riorità e potenza della vita). Le persone divine sono solo azione e atti¬ anch
vità. L'una è atto a mo' di donazione, l'altra a mo' di accettazione. opp
Ognuna esiste soltanto in quanto agisce. S'aggiunga che ciascuna è atto, proprio
ma in opposizione con l'agire di ogni altra persona. L'ima è donazione, perso
l'altra è accezione, l'una parola, l'altra risposta. L'opposizione è « ten¬ p
sione » al massimo grado, la quale non rompe, tuttavia, l'armonia della
comunione. Infatti solo in questa tensione opposta le persone possiedono
il loro essere personale. Gli opposti si sorreggono e si condizionano mu-
tualmente. Se tali rapporti si allentassero anche solo un istante, svani¬
rebbe l'essere personale delle persone. Le opposizioni non impediscono
nè sminuiscono le persone. Anzi queste proprio solo grazie ad esse pos¬
sono sviluppare pienamente il loro essere personale.
In tal modo si attuano i due atteggiamenti propri della persona nella
§ 58' RELAZIONI e persone divine
325
società 0 comunità: dono e conservazione di sè. Mediante la dona¬
zione, la persona permette che l'altra partecipi alla sua ricchezza e per¬
ciò esca dal suo ristretto circolo personale e riceva valore che ne com¬
pleta la vita. La donazione tuttavia ha i suoi pericoli: può abbassare la
persona, portarla ad una banale familiarità, anzi ad agire contro la co¬
scienza, a perdersi. Essa va perciò integrata con la conservazione di sè,
che si estrinseca nel mantenersi a sè stante. Ma questa può a sua volta
cadere nel pericolo di condurre all'isolamento, ossia a chiudersi in sè e
a straniarsi dagli altri. Al contrario donazione e conservazione di sè, vi¬
cinanza e lontananza, intimità ed estraneità, confidenza e distanza de¬
vono integrarsi quali due poli, con gioco scambievole, da una parte con
il disinteresse dimentico di sè e dall'altra con pudore rispettoso. Infatti
l'io si arricchisce nella comunità e, di rimando, arricchisce la comunità.
È un mutuo ricevere e un mutuo donare. L'amico può ad esempio evo¬
care un nuovo mondo nello spirito dell'amico, può suscitarvi impensate
forze spirituali, in quanto gli comunica il proprio mondo.
Le persone divine nè si escludono mutualmente per egoismo, nè sa¬
crificano il proprio valore personale. Infatti ogni persona altro non è
che atto di donazione: e con ciò stesso viene bandito ogni insidioso ag¬
guato dell'egoismo. La donazione poi è personale: e con ciò è bandita
ogni minaccia del pericolo di sacrificare se stessa.
8. - Il fatto che le persone divine sono relazioni sussistenti serve a sciogliere
alcune difficoltà. Anzitutto sembra difficile conciliare l'identica perfezione di
ciascuna col fatto che ognuna di esse non possiede la relazione che le è con¬
traria: il Padre, per esempio, non ha la filiazione, il Figlio la paternità. Si ri¬
sponde che le persone non possiedono la relazione che le è opposta, se questa
si considera come puro esse ad, cioè ordine ad altri. Sotto tale aspetto però la
relazione non importa alcuna perfezione nel soggetto e quindi la sua mancanza
non denota mancanza di perfezione. Se invece si considera secondo l'esse in
(inesse), quindi in quanto perfezione del soggetto, essa è identica alla sostanza
divina. Sotto tale aspetto la relazione non indica affatto una qualsiasi perfezione,
ma la perfezione stessa. Ora siccome l'messe di una relazione non dice oppo¬
sizione alcuna a un'altra relazione, così la relazione stessa sotto l'aspetto di esse
in (inesse), ossia sotto il punto di vista della perfezione, è comune alle tre per¬
sone. Perciò tutte possono essere uguali tra loro, per quanto riguarda la perfe¬
zione, non avendo l'una la relazione costitutiva delle altre. Da ciò diviene pure
comprensibile come tutte e tre le persone assieme non possiedano maggiore per¬
fezione di una sola, e come sia da escludersi ogni subordinazione delle persone
originate e ogni supremazia delle persone originanti. Le relazioni nel loro puro
esse ad, cioè in quanto dicono ordine al termine, e perciò riguardo al punto di
vista per cui una persona si oppone alle altre due, non dicono nulla di reale e
non possono quindi fondare nessuna superiorità e nessuna dipendenza. Si com-
generativo del Padre, il quale quindi sembra
c
326 P. I. - DIO UNO E TRINO s
s
prende inoltre perchè la molteplicità delle relazioni non adduce seco moltepli¬ co
cità d'essenza. Rimane però sempre mistero impenetrabile il come possa una amme
sostanza, semplice e numericamente una, essere identica a tre opposte relazioni, Ricc
realmente distinte tra loro. anche
Un'ulteriore difficoltà sta nel fatto che la prima persona è costituita dalla re¬ gen
lazione con la seconda, mentre tale relazione stessa trova origine solo mediante
l'atto generativo del Padre, il quale quindi sembra già esser persona anterior¬
mente e senza esser costituito tale dalla relazione con la seconda persona. Per sus
sciogliere questa difficoltà si può osservare che la successione: soggetto produ¬ ch
cente, generazione, relazione, costituzione valgono solo per il nostro modo di p
concepire, ma che in Dio regna la più assoluta contemporaneità, anzi eternità. e
S. Bonaventura per sciogliere questo problema ammette, continuando così il pen¬
siero patristico greco e specialmente quello di Riccardo da S. Vittore, che la svo
prima persona possiede un essere originario, anche senza la relazione con la d
seconda, il quale poi si completa mediante la generazione. Secondo Scoto la
prima persona ha un essere completo anche prima della (= senza la) relazione relazio
con la seconda.
Il fatto che le persone divine sono relazioni sussistenti, che in conseguenza im
di esse si svolge un perenne scambio vitale, anzi, che la sussistenza stessa delle
persone consiste in questo scambio, rende inoltre più comprensibile come Dio
non abbisogni di alcun rapporto con qualcosa di extradivino, come suppone il
panteismo, per avere coscienza di sè. È vero che la vita umana si perfeziona
nella comunione con gli altri e solo in essa può svolgersi, ma Dio, al contrario
non abbisogna del mondo. Anzi, è essenzialmente diverso da questo e del tutto
indipendente. Dio ha il suo principio e il suo fine esclusivamente in se stesso, riassunta
proprio perchè attua la sua vita nelle mutue relazioni intradivine. La Trinità è
proposizio
il modo in cui Dio esiste essenzialmente distinto e indipendente dal mondo. (D
L'assoluta sussistenza di Dio consiste nella mutua immanenza delle tre Persone.
opposizione
dalla
§ 59. La legge trinitaria fondamentale. p
3
La dottrina delle relazioni, che costituisce il nucleo fondamentale della Ora
teologia trinitaria della scolastica, fu riassunta dal Concilio di Firenze
(4 febbraio 1441) con la seguente proposizione: In Deo omnia sunt quel
unum, ubi non obviat relationis oppositio (Denz. 703). In Dio regna
completa unità, dove non sussiste opposizione relativa. Questa formula
ha una lunga preistoria. Prende le mosse dalla sentenza di S. Gregorio
di Nazianzo: tra le tre persone divine regna piena identità se si eccet¬
tuano le relazioni di origine (Oratio 34; PG. 36, 253 s.; Oratio 20; PG.
35s I073 a-j Oratio 31; PG. 36, 165 b.; Oratio 41; PG. 36, 441 c.),
e in linea diretta perviene a S. Agostino: Dio è assolutamente semplice,
poiché egli è tutto ciò che ha, eccettuato quello che ciascuna persona è
in rapporto con le altre (De civitate Dei, 11, 10). La tesi agostiniana si
§ ÓO. LA MUTUA INABIT AZIONE DELLE TRE PERSONE 327
sviluppa, attraverso Fulgenzio di Ruspe, YXI Concilio di Toledo, An¬
selmo di Aosta e Tommaso d'Aquino, nella formula della Bolla Cantate
Domino, pubblicata nel decreto per i Giacobiti del Concilio di Firenze.
Non esiste pertanto nessuna distinzione reale in tutto ciò che appar¬
tiene alla natura, tra la natura, da una parte, e le processioni, le rela¬
zioni, e le persone dall'altra; nè tra processioni e relazioni, le quali non
siano opposte tra loro; nè tra la spirazione del Padre e la spirazione del
Figlio.
Al contrario vi è distinzione tra generare e essere generato, tra spirare
e essere spirato, tra paternità e filiazione, tra spirazione attiva e passiva,
tra Padre e Figlio, tra Spiratore e Spirato.
La legge fondamentale trinitaria offre una nuova ragione in favore
della processione dello Spirito Santo anche dal Figlio. Se infatti lo
Spirito Santo non procedesse anche dalla seconda persona, non esiste¬
rebbe relazione opposta (relatio opposita) tra lui e il Figlio. Perciò lo
Spirito Santo non potrebbe distinguersi dal Figlio.
§ 60. La mutua inabitazione delle tre persone. ÿ
Le tre persone sono
totalmente l'una nell'altra.
a) È verità di fede, espressa nel decreto per i Giacobiti (Denz. 704).
b) La Scrittura testifica che una persona è nelle altre. Secondo
Giov. 10, 30 Cristo dice: « Io e il Padre siamo una sola cosa». E più
avanti 10, 38 : « Se non volete credere a me, credete alle mie opere,
affinchè sappiate e riconosciate che il Padre è in me e io sono nel Padre ».
Nel sermone d'addio Cristo dice a Filippo : « Filippo, chi vede me, vede
anche il Padre mio. Come dunque puoi dire : " Mostraci il Padre? ". Non
credi tu che io sia nel Padre e il Padre in me? Le parole che io vi
dico, non le dico da me stesso, ma il Padre che è in me compie le ope¬
re » (Giov. 14, 9-10). L'apostolo Paolo nella prima epistola ai Corinti
dichiara : « Chi degli uomini infatti conosce l'intimo degli uomini, se
non lo spirito degli uomini che è in loro? Così anche le cose di Dio
nessuno le ha conosciute se non lo Spirito di Dio» (1 Cor. 2, 11). Il
pensiero dell'Apostolo assume significato solo se lo completiamo suppo¬
nendo che lo Spirito di Dio è in Dio così come lo spirito degli uomini
è negli uomini.
e) IPadri greci (e specialmente Origene, Atanasio, i Cappadoci,
Giovanni Damasceno) chiamano la mutua inabitazione delle divine per-
origin
328 P. I. - DIO UNO E TRINO
differe
sone con il nome di pericoresi. Questo vocabolo è tradotto in di¬ atto
stato
versi modi dai teologi latini: circuitio, immeatio, immansio, ingressio.vicendev
Altra traduzione latina del vocabolo greco è pure il termine circumin- h
cessio, che troviamo in S. Bonaventura e che ha dominato sino al xvi se¬ c
colo. Nel xiii appare il vocabolo circuminsessio, che viene usato spe¬ del
cialmente dai teologi domenicani. La sua origine sembra francese, e si
spiegherebbe col fatto che la c fu pronunciata s. Non si può affermare real
(
che il termine circuminsessio indichi una differenza dottrinale, anche se, alcu
una volta nato, esso apparve perfettamente atto a caratterizzare il modo s
occidentale di concepire la inabitazione vicendevole delle persone. ciascuna,
S. Agostino è stato, tra i Latini, colui che ha espresso in modo più rispetto
profondo la dottrina della pericoresi trinitaria, cercando di illustrarla conconoscent
am
la mutua immanenza delle attività spirituali dell'uomo.
conosciu
Nel De Trinitate così scrive: «In queste tre realtà, quando la mente ama conoscent
e
conosce se stessa, permane la triade dello spirito (mens), dell'amore (amor) e co
della conoscenza (notitia), senza che mescolanza alcuna le confonda benché sin¬ a
golarmente siano ciascuna in se stessa ed ognuna, scambievolmente, nelle altre, h
ciascuna nelle altre due, e le altre due in ciascuna, e tutte in tutte. Infatti lo ama
spirito è di certo in se stesso, poiché proprio rispetto a se stesso, cioè al proprio stessa
essere, si dice spirito, quantunque come conoscente, conosciuto o conoscibile n
dica relazione con la sua conoscenza e in quanto amante, amato o amabile, dica nell
relazione con l'amore con il quale si ama. Anche la conoscenza, pur avendo lo
relazione con lo spirito che conosce o che è conosciuto, si chiama, rispetto a se l'am
stessa, cioè al proprio essere, conosciuta e conoscente: infatti non è sconosciuta e
a se stessa la conoscenza con cui lo spirito stesso conosce. Lo stesso dicasi per nell'amo
l'amore, benché si riferisca allo spirito che ama e al quale quest'amore appar¬
tiene, il quale è per sé e in sé amore (vale a dire ha il proprio essere), poiché
anche l'amore è amato dall'amore, né può essere amato da altro che da se stesso. poiché
Perciò le tre realtà esistono ciascuna in se stessa. Ma sono pure reciproca¬ e
mente l'una nell'altra, poiché lo spirito che ama è nell'amore, l'amore nella co¬ d
noscenza dello spirito che ama e la conoscenza nello spirito che conosce. Ogni e
singola è pure in ciascuna delle altre due poiché lo spirito che si conosce ed re
ama, è nel suo amore e nella sua cognizione; e l'amore dello spirito che ama e
si conosce è nello spirito e nella sua conoscenza; e la conoscenza dello spirito
che si conosce e che si ama è nello spirito e nell'amore suo, poiché conoscendosi
si ama e amandosi si conosce. E perciò anche le altre due realtà sono nelle
singole poiché lo spirito, che si conosce e ama, è con la sua conoscenza nel¬
l'amore e con il suo amore nella conoscenza, poiché anche l'amore stesso e la
conoscenza sono parimenti nello spirito che si ama e conosce. In che modo poi
tutte queste realtà siano in ciascuna, lo abbiamo già detto sopra allorché abbiamo
dimostrato che lo spirito si ama e si conosce tutto, e conosce tutto il suo amore
e ama tutta la sua conoscenza, quando queste tre realtà sono per se stesse per¬
fette. In modo meraviglioso sono quindi inseparabili tra loro, e tuttavia ciascuna
§ 6 1. PROPRIETÀ E NOZIONI DELLE PERSONE DIVINE 329
di loro è sostanza, e assieme sono una sola sostanza o essenza, essendo relative
le une alle altre » (De Trinitate, 9, 5). In un altro passo Agostino dice: « Ognuna
(persona) è in ognuna e tutte in ognuna e ognuna in tutte e tutte in tutte e tutte
sono una cosa sola » (De Trinitate, 6, 10, 12).
Anche qui ci imbattiamo nella differenza usuale tra la concezione tri¬
nitaria greca e la occidentale. Secondo i teologi greci la pericoresi è il
principio da cui si deduce la parità delle persone e l'unità dell'essenza;
per la concezione occidentale, al contrario, è l'unità dell'essenza che sta¬
bilisce la reciproca inabitazione delle persone.
Inoltre i teologi greci pensano anzitutto all'atto della mutua compe¬
netrazione delle persone, al continuo e dinamico scambio vitale, al pe¬
renne divenire (privo naturalmente di qualsiasi mutamento). Continua¬
mente ogni persona, a un tempo, esce da sè e penetra nelle altre. Le
persone sussistono in quanto in ogni istante si donano a vicenda. Non
si può affatto pensare qui ad una successione temporale; in Dio regna
anzi la più pura attualità. La teologia latina invece fissa il suo sguardo
prima di tutto sulla unicità dell'essenza e solo in un secondo tempo si
occupa della compenetrazione delle persone originata dalle relazioni.
Nella concezione greca vien dato maggior rilievo al fatto che la ra¬
gione della compenetrazione sta nella mutua correlazione delle persone.
Le relazioni, è vero, distinguono le persone, ma nello stesso tempo ne
determinano l'intima unità, poiché l'esistenza personale di una è condi¬
zionata dal rapporto che presenta con le altre due. Nessuna può sussi¬
stere senza le altre due.
Tommaso d'Aquino crea anche qui una sintesi tra la concezione la¬
tina e quella greca, quando dà come ragione della reciproca inabitazione
delle persone divine sia l'unità dell'essenza, sia le mutue relazioni, sia
l'origine dell'una dall'altra.
§ 61. Proprietà e nozioni delle persone divine.
Per una migliore conoscenza delle persone divine è bene riferire anche la dot¬
trina della proprietà e delle nozioni stabilita dai Padri Cappadoci e da S. Ago¬
stino e perfezionata dai teologi medievali.
-
1. Con il termine proprietà s'intendono le caratteristiche personali che con¬
vengono soltanto a una persona. Sono quattro: innascibilità (essere ingenerato),
paternità, filiazione, spirazione passiva. Di solito solo le ultime tre sono con¬
siderate proprietà costituenti le persone (proprietates personificae). Tuttavia i
Greci e una buona parte dei teologi medievali, come già abbiamo detto, hanno
atti nozionali e di atti essenziali. Nozionali sono que
spir
330 P. 1. • DIO UNO E TRINO
vi
ritenuto anche l'innascibilità come proprietà costituente la persona. In senso largo essenz
possiamo chiamare proprietà tutto ciò che non è comune alle persone, e quindi a
anche la spirazione attiva.
prop
2. - Con il termine nozioni s'intendono le note distintive che servono a farci
stesse
riconoscere le singole persone divine. Ve ne sono cinque: Innascibilità, pater¬
rapp
nità, filiazione, spirazione attiva e spirazione passiva. Si può anche parlare di
atti nozionali e di atti essenziali. Nozionali sono quelli non comuni alle persone,
perso
come generare, essere generato, spirare, essere spirato. Gli atti nozionali sono
realmente identici a quelli essenziali, così come le relazioni sono identiche al¬
l'essenza divina. Sussiste tuttavia una distinzione virtuale, e questa è sufficiente nozio
perchè ciascuna persona, nonostante l'unicità essenziale, possa compiere un atto
nozionale che non compete alle altre due o almeno a una delle altre due.
3. - Secondo quanto abbiamo detto sopra, le proprietà e le nozioni si identi¬
ficano con le relazioni, anzi sono le relazioni stesse, intese però sotto un parti¬
colare aspetto. Così la paternità, considerata in rapporto al Figlio, si chiama re¬
lazione; considerata come caratteristica esclusiva del Padre, proprietà; considerata
come segno distintivo per riconoscere la prima persona, nozione.
4. - Riassumendo si può dire: in Dio vi è una sola natura, due processioni,
tre persone, quattro relazioni, proprietà e atti nozionali e cinque nozioni.
SEZIONE III.
AUTORIVELAZIONE DI DIO UNO E TRINO
CIRCA LA PIENEZZA DELLA SUA VITA
PROSPETTO E RIPARTIZIONE.
1.- Come forme fondamentali dell'essere si distinguono la natura e la per¬
sona. Per Dio, come abbiamo già visto, tale distinzione si può predicare solo in
modo analogico. Infatti in lui, come meglio chiariremo, non vi è nessuna distin¬
zione reale tra natura e persona, e quindi nessuna realtà puramente naturale.
Ciò nonostante, quando parliamo di Dio, per esprimere il mistero della sua in¬
sondabile ricchezza, in modo umano, nella penuria dei nostri concetti e voca¬
boli, dobbiamo usare tali distinzioni che attingiamo dalla nostra esperienza ter¬
rena. Non potendo afferrare con un solo sguardo ciò che in Dio forma unità
inscindibile, dobbiamo frazionarlo in parti e coglierle una dopo l'altra.
Abbiamo fin qui considerato il modo d'esistere divino : Dio esiste in tre per¬
sone. Rivelandoci ciò egli ci scopre la sublimità e la grandezza, la diversità e
la incomprensibilità del suo essere. Dio è così ricco e inesauribile che può e
deve esistere in modo tripersonale.
Nella rivelazione Dio ci presenta questa sua sovranità e grandezza; si mani¬
festa come il Signore che ci chiama alla sua gloria e ci vincola alla sua ric¬
chezza. Possiamo noi gettare uno sguardo più profondo nella ricchezza e pie¬
nezza traboccante di Dio? Come si presenta una realtà che esige di esistere in
tre modi distinti e relativi per poter esprimersi esaurientemente?
Dalla considerazione del modo tripersonale di esistere di Dio passiamo così
ad esaminare quella realtà, che esiste in tre persone, la natura, l'essenza divina.
Cerchiamo, per così dire, di rappresentarci il contenuto della vita divina tri-
personale.
Prima di tutto e in via generale, possiamo dire che la natura di Dio è vita
spirituale perfetta, assoluta, beatissima, la quale si svolge in una determinata
forma. Essendo vita di Dio, è diversa da tutte le altre, di qualità completamente
speciale e ha una sua struttura del tutto particolare. Isuoi atti sono tra loro
coordinati e intrecciati diversamente da quelli della vita creata. La struttura della
vita divina è diversa da quella di ogni altra vita. Quando parliamo di struttura
intendiamo atti di pensiero, decisioni di volontà, movimenti d'amore, elementi
si svolge, la legge secondo cui viene vissuta.
332 P. I. - DIO UNO E TRINO
ricche
des
costitutivi di un essere, non considerati confusamente, giustapposti o sommati
insieme, ma in quanto s'intrecciano tra loro in un rapporto organico secondo
p
una determinata legge. Ora in Dio non esistono principi di essere od elementi
pie
costitutivi realmente distinti gli uni dagli altri, e quindi non possono nemmeno
intrecciarsi organicamente tra loro. Tuttavia analogicamente possiamo parlare di
que
« struttura », intendendo con tale termine indicare il modo con cui la vita divina
si svolge, la legge secondo cui viene vissuta.
2. - Da quanto detto, per studiare la vita divina sussistente in tre persone è s
necessario considerare due cose: la sua intima ricchezza e la sua struttura. Esa¬ del
mineremo prima quest'ultima, affinchè quando descriveremo gli elementi che con
costituiscono la ricchezza della vita divina, non sia sempre necessario ricordare m
che essi esistono in modo divino, in un modo cioè proprio di Dio. tant
Il continuo riferirsi al modo di esistenza della pienezza della vita divina, in¬ rivelazi
duce a chiedere se anche la personalità di Dio, che abbiamo designata come un
modo di esistenza, non debba essere inclusa in questa parte del trattato onde n
dare maggior sistematicità alla nostra esposizione. corr
In realtà tale ordinamento non sarebbe sbagliato, dato che anche la persona¬ che
lità è un modo in cui esiste la pienezza divina. Ma se fosse inserita qui, la per¬ st
sonalità di Dio sarebbe messa sullo stesso piano dell'eternità, immensità, immu¬
tabilità e degli altri attributi di Dio, che vengono conglobati nel concetto « strut¬ co
tura della pienezza della vita divina ». Ma, in tal modo, come è facile vedere,
si sminuirebbe assai l'importanza della Trinità, tanto più quando si pensi che
questa rappresenta l'elemento distintivo della rivelazione che Dio ha fatto di se g
stesso. Essa quindi vien trattata a parte. E anche facendo così ne risulta un v
sistema, ossia un ordine visibile, in cui una cosa nasce dall'altra e tutto resta c
organicamente unito, ordine che dovrebbe anche corrispondere bene alla materia
trattata e assegnare a ogni singola parte il posto che le conviene.
Inoltre occorre osservare che quanto si chiama struttura della vita divina, si
riferisce non solo alla pienezza della vita spirituale (natura di Dio), ma anche
alla personalità di Dio. Il che è ovvio quando si considera che in Dio persona
e natura non sono realmente distinte tra loro.
Prima di esporre in particolare la struttura e il contenuto della vita divina,
è necessario presentarne brevemente la ricchezza in generale, senza alcuna distin¬
zione tra struttura e contenuto, in modo che quanto verrà esposto appresso appaia
come logico sviluppo di quanto detto prima. Nasce così la seguente ripartizione:
i. la pienezza della vita divina in generale; 2. la sua pienezza in particolare,
cioè sotto l'aspetto della struttura e del contenuto.
§ 62. ESSENZA E ATTRIBUTI DI DIO 333
CAPITOLO I.
LA PIENEZZA DELLA VITA DIVINA IN GENERALE
§ 62. Essenza e attributi di Dio.
I. - Per comprendere esattamente ciò che qui s'intende con l'espres¬
sione « essenza di Dio » è necessario osservare quanto segue : solo ba¬
sandosi su quanto Dio stesso ci ha comunicato nella sua rivelazione so¬
prannaturale e in quella naturale possiamo tentare di rendere accessi¬
bile al nostro spirito la sua inafferrabile e inesauribile essenza. Otte¬
niamo ciò, grazie a molteplicità di concetti, di rappresentazioni e di nomi.
Ora possiamo chiamare essenza fisica di Dio l'insieme delle perfezioni
divine intese con questi nostri concetti, rappresentazioni e nomi. In più
possiamo anche tentare di coordinare logicamente questi attributi divini.
Certo, in Dio stesso non esiste nessuna reale concatenazione per cui una
cosa si ricollega con un'altra o l'una proceda da un'altra, ma bensì una
pienezza sussistente unica. È però possibile chiederci se tra i molti con¬
cetti che, basandosi sulla rivelazione, possiamo e dobbiamo formarci circa
Dio, non ne esista uno che racchiuda in se stesso tutti gli altri; che ci
mostri, quasi di colpo, Dio nella sua quiddità; che lo distingua da tutto
ciò che non è lui. Si tratta di alcunché di simile, quando cerchiamo di
caratterizzare con una parola un uomo, un paese o un pericolo storico.
Tale attributo o concetto fondamentale viene chiamato essenza metafi¬
sica di Dio. Tuttavia non dobbiamo cadere nell'errore di credere che
in Dio possa esistere una vera e propria caratteristica fondamentale,
che sia origine o causa di tutti gli altri attributi; ciò significherebbe che
in lui vi è dipendenza. L'essenza metafisica di Dio è tale solo secondo
il nostro modo analogico di conoscere la realtà divina.
2. - Noi chiamiamo attributi di Dio le perfezioni nelle quali dev'es¬
sere dispiegato il suo essere assoluto, affinchè possa apparire in tutta la
sua pienezza e nella sua infinita ricchezza. In essi noi incontriamo la
perfezione divina assoluta sotto diversi aspetti. Ciascun attributo dice un
nuovo e diverso aspetto dell'essenza divina. È ovvio che non possiamo
conoscere e nominare tutti gli attributi di Dio, ma solo quelli che egli
-
a
334 P. I. - DIO UNO E TRINO cre
Dio
ci manifesta nella sua rivelazione soprannaturale e naturale. Come gli un
stesso
attributi di Dio ci rendono presente l'immensa pienezza dell'essere di¬
intendi
vino, così di rimando, ognuno di essi riceve la sua impronta dell'essere es
divino stesso, ossia dal fatto di essere un attributo di Dio. infatti
e
3. - Gli attributi di Dio si dividono in: t
a) Negativi o positivi a seconda che, nella loro applicazione a Dio, neghino ca
un'imperfezione oppure affermino una perfezione creata. Tuttavia va osservato
che, fondamentalmente, ogni negazione, riferita a Dio, contiene un elemento po¬ Dio
sitivo, come di contro, ogni affermazione include un elemento negativo. Infatti, relazione
asserendo che Dio è infinito, veniamo con ciò stesso ad affermare che è infini¬ co
tamente ricco. Quando diciamo che è buono, intendiamo stabilire che Dio non
lo è come una semplice creatura, bensì a modo di essere infinito.
b) Comunicabili e incomunicabili. Alcuni infatti sono semplicemente inco¬ (
municabili, come per esempio l'aseità. Altri possono essere partecipati anche alle
creature come l'amore o la sapienza. Naturalmente tali attributi possono essereprecisione
comunicati solo in misura corrispondente alla capacità delle creature (cfr. esemp
Gen. i, 26). spirituale
c) Assoluti e relativi. Iprimi convengono a Dio considerato nel suo essere
assoluto; gli altri in quanto considerato in relazione a ciò che è fuori di lui
(creatore, signore). È necessario osservare che noi conosciamo tutti gli attributi
divini solo dalla relazione di Dio con le cose fuori di lui, che ha luogo nella
rivelazione naturale e soprannaturale. p
d) Attributi dell'Essere e attributi dell'attività (attributi di riposo e attri¬ a
buti operativi).
Iprimi possono denominarsi con maggior precisione attributi dell'intima strut¬
tura dell'essere assoluto; vi appartengono, ad esempio, l'aseità e la semplicità.
Isecondi riguardano il contenuto della vita spirituale di Dio, quindi la sua co¬
noscenza, il suo amore ecc. Iprimi si potrebbero anche chiamare intrinsiche
condizioni d'esistenza della vita divina (Scheeben). Nel qual caso si dice, ad
esempio, che l'atto vitale dell'amore esiste in modo infinito, eterno, immenso e
immutabile.
es
L'ultima ripartizione sembra la più adatta per la presentazione ordinata degli app
attributi divini. Essa coincide appunto con quanto abbiamo detto nel paragrafo
precedente. dell'Antic
§ 63. L'essenza metafìsica di Dio.
1. - Se, per il nostro modo di conoscere, esista un attributo divino
fondamentale e quale esso sia, noi possiamo apprenderlo con molta pro¬
babilità dalla rivelazione stessa.
a) Anzitutto dalla testimonianza dell'Antico Testamento. Quando
Dio chiama Mosè per liberare il popolo eletto dalla schiavitù d'Egitto,
§ 63. l'essenza metafisica di dio 335
il condottiero ebreo gli chiede qual è il suo nome per riferirlo ai conna¬
zionali. Agli Ebrei sono note le numerose divinità egiziane e certamente
chiederanno a Mosè, se il Dio che gli ha parlato è uno dei molteplici
numi d'Egitto e quale. È pertanto necessario che egli conosca il suo
nome. Dio risponde che non è uno degli dèi venerati in Egitto, ma bensì
l'antico Dio che da tempo il popolo conosce e che in passato si è già
manifestato ai padri. «Io sono YEhie » (=io sono). E continua: «Così tu
parlerai agli Israeliti: L'/o sono (ehie) mi ha mandato a voi». Aggiunge
poi: «Tu così mi annunzierai agli Israeliti: Jahvè (= l'egli è), il Dio
dei vostri padri, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe mi ha in¬
viato a voi. Questo è il mio nome dall'eternità e la mia denominazione
di generazione in generazione » (Es. 3, 14 ss.). In tale risposta Dio si
mostra come colui che possiede l'esistenza. Per questo si distingue da
tutti gli altri dèi, i quali sono il nulla. Inoltre Dio ci mostra che il po¬
polo conosce la sua esistenza, la sua realtà dalla storia. Infatti colui che
parla a Mosè è quegli che ha concluso il patto con Abramo e che vi è
sempre rimasto fedele. È il Dio che stava con i padri, è sempre il me¬
desimo Dio del patto, quale era al tempo dei padri, e proprio mentre
parla a Mosè egli mostra, con un nuovo atto della provvidenza, la sua
inalterabile fedeltà. Così il nome, pur indicando anzitutto l'immutabile
fedeltà di Dio, tuttavia connota pure l'essere, l'essenza di Dio stesso;
Dio infatti è sempre il medesimo Dio fedele, poiché è immutabile in se
stesso. È se stesso, sempre identico e fedele a se stesso.
A tale determinazione dell'attributo fondamentale di Dio (Es. 3, 14 ss.), pos¬
siamo aggiungere ancora altre testimonianze bibliche.
Isaia (41, 1-5), dopo la calata di Ciro, mette sulle labbra di Dio queste pa¬
role: «Tacciano le isole per ascoltarmi! Si forniscano le genti di nuova forza,
si avanzino e poi argomentino; presentiamoci insieme alla discussione! Chi su¬
scitò dall'Oriente il giusto intimandogli di seguirlo? Darà in sua balìa le genti e
gli assoggetterà i re; li farà tritare come polvere dalla sua spada; li farà sbale¬
strare, come paglia al vento, dalla sua balestra. Li perseguiterà, passerà in pace,
ricalcate orme sotto i suoi piedi non appariranno. Chi ha fatto e chi ha operato
questo, chiamando le generazioni fin da principio? Io il Signore, il primo e l'ul¬
timo sono io ».
Altra volta così Isaia fa esaltare da Dio la sua potenza (43, 10-13) : « Voi siete
miei testimoni, dice il Signore, e il mio servo che ho eletto, affinchè sappiate e
crediate a me e comprendiate che quello sono io. Prima di me non fu formato
alcun Dio, e dopo di me non vi sarà. Sono io, sono il Signore, e non vi è sal¬
vatore fuori di me. Io ho predetto, io ho salvato, io mi son fatto sentire e non
può essere estraneo alcuno di voi: voi mi siete testimoni, dice il Signore, che
io sono Iddio. E io sono sempre stato e non vi è nulla che si sottragga alla mia
cose
336 P. I. - DIO UNO E TRINO no
e
mano e quello che io faccio chi lo potrà disfare?». E ancora (Is. 44, 6-1x): partigian
« Cosi dice il Signore, il re di Israele e il suo redentore, il Signore degli eser¬ pre
citi: Io sono il primo ed io sono l'ultimo e non è Dio fuori di me. Chi è come sedizios
me? Lo proclami e lo dichiari, mi esponga le cose da quando ho costituito i Son
popoli più antichi; le cose avvenire e le future annunzino ad altri. Non temete è
e non vi turbate; io fin d'allora ve le feci sapere e le annunziai, voi mi siete insieme
testimoni: v'ha egli Dio fuori di me, e uno che plasmi e che io non lo conosca? questo?
Iplasmatori d'idoli sono tutti un niente, le loro cose più pregevoli non hanno b
servito loro nulla; essi stessi lo testificano che quelli non vedono e non intendono, sua
a loro propria confusione. Chi ha formato un Dio e ha fuso una statua buona non
a nulla? Sì, tutti coloro che si fanno suoi partigiani saranno confusi, giacché effettua
uomini sono i suoi artefici. Si raccolgano tutti, si presentino, e tremino e siano S
confusi!». Nella sua fedeltà, chiama il suo sedizioso popolo (Is. 48, 12-22):
« Ascoltami o Giacobbe, o Israele che io chiamai! Sono io, io che sono il primo t
e l'ultimo. È la mia mano quella che fondò la terra, è la mia destra che ha fatto
la distesa dei cieli : io li chiamo ed essi tutti insieme si presentano. Radunatevi
tutti voi e ascoltate: Chi di essi predisse mai questo? Il Signore lo ha amato ed
egli farà il volere di lui in Babilonia e sarà il suo braccio contro i Caldei. Io,
io ho parlato e l'ho chiamato, l'ho condotto e la sua impresa è riuscita. Acco¬
statevi a me e udite questo: Io fin dal principio, non ho parlato in occulto; già
da tempo, prima che avvenisse, io ero là per effettuare. Ed ora il Signore Dio divi
mi ha mandato con lo spirito di lui. Così dice il Signore il tuo redentore, il Signore
Santo d'Israele: Io sono il Signore Dio tuo, che t'insegno per il tuo bene, ind
che ti reggo sulla strada che devi percorrere. Avessi tu dato retta ai miei avvisi, azion
la tua pace sarebbe come un fiume e la tua giustizia come i flutti del mare. La traspare
tua discendenza sarebbe stata come l'arena, e come i suoi granelli la progenie
del tuo seno; non sarebbe stato scancellato dinanzi a me il tuo nome. Uscite di medes
Babilonia, fuggite dai Caldei! Con voce di esultanza annunziate la novella: di¬
vulgatela, diffondetela fino agli ultimi confini della terra! Dite: Il Signore ha G
redento Giacobbe suo servo! Non soffrirono la sete nel deserto quando li con¬ E
dusse via; acqua dalla rupe fece scaturire ad essi, divise la roccia e zampillarono al
le acque. Non v'è pace per gli empi, dice il Signore ». terra
Questi passi non ci danno direttamente alcuna indicazione dell'essenza meta¬
fisica di Dio, ma ci testimoniano la sua potente azione nella storia. Sullo sfondo
però di tale azione l'essenza metafisica di Dio traspare chiaramente.
b) Il Nuovo Testamento presenta la medesima dottrina. Così scrive
alle sette Chiese dell'Asia Minore il veggente Giovanni : « Grazia a voi
e pace da colui che è, che era e che verrà... Ecco ch'egli viene con le
nuvole e lo vedrà ogni occhio, anche coloro altresì che lo trafissero, e
faran cordoglio per lui tutte le tribù della terra. Sì, amen! Io son l'alfa
e l'omega, il principio e la fine, dice il Signore Iddio, colui che è e che
era e che viene, l'Onnipotente » (Apoc. x, 4-8 s.). Alla fine dell'Apoca¬
lisse così parla Dio a Giovanni : « Ecco, dice il Signore, ch'io vengo
presto, e la mia mercede è con me, da rendere a ciascuno in conformità
§ 63. l'essenza metafisica di dio 337
del suo operato. Io son l'alfa e l'omega, il primo e l'ultimo, il principio
e la fine » (Apoc. 22, 12-13).
Anche queste testimonianze non riguardano direttamente l'essenza me¬
tafìsica di Dio considerata in se stessa, ma bensì l'azione sovrana di Dio
nella storia. Egli stabilisce l'inizio e la fine degli eventi umani; egli è
l'onnipotente padrone della storia, è colui che dà ad essa il suo signifi¬
cato finale. Ma dall'azione storica di Dio possiamo intravvederne la vita.
Non si può quindi dire nulla di più pregnante di Dio se non che
egli è. La sua essenza consiste nell'essere, inteso come esistenza, realtà,
attualità. Dio è l'essere assoluto, l'atto puro. Anche se tali espressioni
derivano dalla filosofìa greca, tuttavia sono assai atte a rendere la natura
dell'essere divino quale si manifesta nell'agire storico di Dio rivelatoci
dalla Scrittura. L'essenza di Dio sta nel fatto che essa esiste in modo
assoluto; non si attua in quanto le si aggiunge l'esistenza. Anzi la sua
essenza non ha esistenza, ma è esistenza. Non vi è in lui alcuna possi¬
bilità che debba 0 possa passare in atto. In Dio ogni possibilità è essen¬
zialmente e necessariamente attuata. E ogni possibilità concepibile a
mente umana si fonda, in ultima analisi, sulla realtà di Dio. L'essenza
di Dio è quindi l'essere per sè sussistente.
Qualcuno obietta che l'essere, essendo ciò che è più comune e più povero di
contenuto, non può costituire l'attributo distintivo di Dio. Al che si risponde con
una distinzione. L'essere in quanto designa la semplice esistenza, il puro esserci,
conviene a tutte le cose esistenti nel medesimo modo e quindi non può costi¬
tuire la caratteristica della natura divina; ma al contrario in quanto connota la
perfezione o la forza secondo cui le cose esistono, può avere diversi gradi. L'es¬
sere dell'uomo, ad esempio, è superiore a quello dell'animale, anche se a sua
volta è perituro. La forza o perfezione secondo cui una cosa esiste dipende dalla
perfezione della sua natura o quiddità. Ogni ente creato esiste debolmente perchè
ha solo una natura, una perfezione limitata. Dio invece è l'essenza suprema, la
perfezione assoluta e quindi esiste al massimo grado, con tale forza e potenza
che non può non esistere. Il fatto che Dio è lo stesso essere per sè sussistente,
significa pertanto che egli è la perfezione assoluta e, nello stesso tempo, proprio
per questo è esistente in modo assoluto.
Da queste considerazioni deriva che l'« essere » si predica a Dio e alle crea¬
ture in modo analogico, vale a dire simile e nello stesso tempo dissimile.
2. - Nell'epoca patristica Agostino ha designato Dio semplicemente
come l'essere e come tale lo ha anche fortemente sentito. Siffatta deter¬
minazione distingue pure profondamente Dio dalle creature : « Io mi
chiamo è, risponde Dio alla domanda di Mosè » (Sermo 6, 3, 4).
Nella spiegazione al Salmo 101 Agostino dice (Senno 2, 20): «Quando egli
22 - schmaus - dogmatica I.
che lo stesso essere sarebbe il tuo nome, se ogni
nom
338 P. I. - DIO UNO E TRINO C
m
volle svelarsi come il creatore dell'universo, come il Dio degli uomini, come im¬comme
mortale tra i mortali come eterno nel temporale, disse: Io sono colui che sono.
Tu potresti dire: Io sono; chi? Gaio, Lucio o Marco. Potresti tu chiamarti in altro
modo diverso dal tuo nome? Ciò si aspettava anche da Dio. Perciò gli fu chiesto: ess
Come ti chiami? chi mi invia? che cosa devo rispondere a chi me lo chiede?mandò
Io sono, chi? Colui che sono. E dunque questo è il tuo nome? È tutto qui? Forse trovia
che lo stesso essere sarebbe il tuo nome, se ogni altra cosa comparata con te
Bonaventura,
non fosse il non essere? Questo è dunque il tuo nome. Esprimilo meglio ancora: voglia
" Va', disse egli, e così parla ai figli di Israele : Colui che è, mi ha mandato a Vedr
voi. Io sono colui che sono. Colui che è, mi ha mandato a voi ". Ecco questo p
grande è; proprio davvero un grande è ». E commentando il Salmo 121 Agostino in
continua : « Che cosa è " lo stesso " se non ciò che è? Che cosa è ciò che è? Ciò dell'e
che è eterno. Infatti ciò che sempre è altro e altro non è poiché non permane: p
non è del tutto niente, ma nel più alto senso esso non è. E chi è ciò che è,
se non colui che disse a Mosè quando lo mandò : Io sono colui che sono? ».
non-essere
Tale caratteristica fondamentale di Dio la troviamo pure presso Anselmo, il bisogn
secondo S. Agostino, e inoltre in S. Bonaventura, il quale così scrive: «Fissi, p
dunque, lo sguardo nello stesso Essere, chi voglia contemplare i misteri della all'es
Divinità, considerandone l'unità dell'essenza. Vedrà che l'Essere stesso è così atto
certo che non si può pensare che non sia; è così puro che mette in fuga il non¬ atto
essere. Altrettanto dicasi del nulla, il quale mette in fuga l'essere. Quindi, mentre atto
il nulla assoluto non ha assolutamente nulla dell'essere, né dei suoi attributi;
l'essere invece non ha nulla del non-essere, né in potenza né in atto né secondo a
verità né secondo il nostro debole intendere. Ora, poiché il non-essere è priva¬ l'Esser
zione dell'essere, non si può pensare il non-essere, se non si è prima pensato ogni
l'essere. Invece per pensare all'essere non c'è bisogno di pensare ad altro, perchè spiegabi
tutto ciò cui si pensa è o non-essere, o essere in potenza, o essere in atto. Non da
si può pensare al non-essere se non si pensa all'essere; non si può pensare al¬ del
l'essere in potenza se non si pensa all'essere in atto; l'atto puro dell'essere è pur
sempre essere. Tutto ci rimanda all'essere come atto puro: dunque l'essere è ciò che
ch'è pensato per primo dall'intelletto. L'essere atto puro non è un essere parti¬
colare, perchè questo, essendo misto a potenza, è un essere ridotto; non è un com
essere analogo, perchè questo non solo non è in atto, ma non esiste nemmeno. d
Non resta altro che l'essere atto puro sia l'Essere divino. Strana cecità dellasuprem
mente che non conosce ciò che vede prima di ogni altra cosa, senza di cui nulla l'occh
potrebbe conoscere! Questa strana cecità è spiegabile con esempi. Come l'occhio ch
intento a cogliere i vari colori, non vede la luce da cui procedono i colori tutti,
oppure la vede senza accorgersene; così l'occhio della mente nostra, assorto nella
visione degli esseri particolari e universali, non avverte l'esistenza dell'Essere
supremo, ch'è al di là di tutti gli universali e che, presente al pensiero fin dal
primo pensiero, rende possibile tutti i pensieri. L'occhio della nostra mente,
insomma, sta dinanzi all'oggetto evidentissimo, come l'occhio del pipistrello di¬
nanzi alla luce. Abituato all'oscurità degli esseri e dei fantasmi sensibili, quando
gli si presenta dinanzi la luce dell'Essere supremo, gli sembra di non veder
nulla. Non capisce che quella caligine, in cui l'occhio suo abbagliato non scorge
nulla, è invece il fulgore della luce intensissima che illumina la sua mente: allo
§ 63. l'essenza metafisica di dio 339
stesso modo che l'occhio del corpo non è capace di cogliere la luce pura, scevra
da ogni colore e da ogni forma.
Fissa lo sguardo, adunque, per quanto ti riesce, nell'Essere purissimo e t'ac¬
corgerai che non è possibile pensarlo come derivato da altro o dal nulla e perciò
è necessario pensarlo come assolutamente primo. Che cosa potrebbe esistere al
mondo, se quell'Essere non esistesse per sè e da sè? T'accorgerai inoltre che
quell'Essere è affatto scevro dai non-essere e, quindi, non ha avuto mai prin¬
cipio, non avrà mai fine, ma è eterno. T'accorgerai anche che quell'Essere non ha
in sè nulla di estraneo a sè: non è quindi combinato con altri esseri, ma sem¬
plicissimo. T'accorgerai che nulla è in lui di possibile, perchè il possibile ha
sempre in sè qualcosa del non-essere: che quindi è massima attualità. T'accor¬
gerai che nulla gli manca e che perciò è perfettissimo. T'accorgerai, infine, che
quell'Essere non sopporta in sè alcuna diversità da sè: che quindi è assoluta¬
mente uno. Dunque, l'Essere ch'è puro e assoluto, è l'Essere primo eterno
semplicissimo attualissimo perfettissimo e assolutamente uno » (Itinerario della
mente in Dio, cap. 5, 3-4; trad, di L. Stefanini).
3. - Che l'essere per sè sussistente sia l'attributo che esprima per noi
l'intima natura di Dio, che lo distingua da tutte le altre cose e da cui
si possano dedurre tutti gli altri attributi, emerge dalle seguenti osser¬
vazioni :
a) Dio, appunto perchè essere sussistente, si distingue nel modo
più radicale da tutti gli altri enti i quali hanno l'essere partecipato, limi¬
tato, composto di potenza e di atto.
b) Nell'essere incondizionato e illimitato stanno racchiusi tutti gli
altri attributi e si possono da esso dedurre. Infatti l'essere sussistente è
immenso, eterno, onnipresente, trascende spazio e tempo, è immutabile.
Siccome Dio è in sommo grado se stesso, è pura attualità, si possiede
nella massima interiorità, non può essere nulla di materiale. L'essere
per sè sussistente è spirito. Si possiede in quanto si penetra profonda¬
mente (conoscenza) e si afferma (volontà). Siccome Dio è l'essere asso¬
luto (absolutum esse) è anche il sommo bene (summum bonum).
4. - Ne deriva che le seguenti determinazioni dell'essenza metafisica di Dio
sono errate o incomplete:
a) Inominalisti ritengono che l'essenza metafisica di Dio sia costituita dalla
somma di tutte le perfezioni divine. Affiora qui il principio fondamentale della
loro filosofia, che cioè i concetti universali non colgono la realtà, ma sono solo
segni di essa.
b) La scuola di Scoto afferma che l'essenza metafisica consiste nell'infinità
radicale, ossia in quella perfezione che esige l'infinità di tutti gli attributi divini.
c) Alcuni tomisti e Suarez, per meglio caratterizzare la personalità di Dio,
ritengono che l'intellezione sussistente sia la sua essenza metafisica. Kuhn vede
tale essenza nella personalità assoluta. Effettivamente l'essere assoluto adduce il
l'aseità è solo un attributo dell'essere in sè sussiste
340 P. I. - DIO UNO E TRINO He
dogmatic
pericolo di venire inteso come il concetto più povero di contenuto, il più astratto. stesso
Tuttavia in realtà, include in sè l'aspetto dell'essere personale e afferma, anzi, disti
che Dio è se stesso nell'assoluta pienezza e attualità dell'essere. su
d) Molti teologi vedono nell'aseità (essere da sè) l'essenza metafisica di Dio. azione
L'aseità non solo indica che Dio non è da alcun altro, ma anche che non ha
avuto principio e che porta in sè la ragione del suo essere (ratio sui). Ma poiché
l'aseità è solo un attributo dell'essere in sè sussistente, è più esatto non consi¬
derarla quale essenza metafisica di Dio. Schell, per mettere in particolare risalto
l'aspetto positivo dell'aseità, influenzato forse da Hegel e in armonia con Deu-
tinger e Staudenmaier, insegnò, nella sua dogmatica, che Dio è causa sui, at¬
tuazione, posizione di se stesso, che porre se stesso è il suo proprio essere, che
Dio è in quanto pone se medesimo. Egli così, distinguendosi essenzialmente da conce
Hegel, disse che l'autoaffermazione di Dio è il suo stesso essere, che la sua vit
azione è il suo essere e il suo essere la sua azione. Più tardi definì Dio come
attualità o atto di se stesso.
di
§ 64. Valore salvifico dell'essere sussistente quale costitutivo formale de
di Dio. completa
dell'essere
Anche se l'essenza metafisica di Dio, concepita quale essere assoluto, nell'
può a prima vista sembrare qualcosa di poco vitale, ha di fatto un grande p
valore religioso. soltan
1. - Dio sotto questo aspetto appare quale incommensurabile e asso¬ manifestazi
luta pienezza di vita e assoluta perfezione di essere. L'essere di cui si pos
dell'autoaffermazione.
parla qui non è l'astratto e povero concetto dell'essere, bensì una realtà
incapace di maggior perfezionamento e completamento. Ogni essere creato
è una partecipazione, quindi un'eco dell'essere divino. La ricchezza del¬ c
l'essere che noi incontriamo nella natura, nell'uomo e nella storia, ci fa intimo
presentire da lontano la pienezza divina. Le più svariate creazioni della altr
cultura (arte, scienza, diritto ecc.) sono soltanto un richiamo all'incom¬ c
mensurabilità di Dio, una lontana manifestazione, una rivelazione ana¬ perfet
logica delle immense ricchezze che Dio possiede con l'incondizionata c
forza dell'autopossesso e dell'autoaffermazione.
Per questo egli può donarsi pienamente a noi, almeno nel modo in
cui siamo capaci di riceverlo. Un uomo può comunicare se stesso a un
altro e fare che questi penetri nel suo intimo, solo in maniera limitata.
Nessuno può donarsi perfettamente a un altro, sia per gli invalicabili
limiti dell'individualità, sia per la debolezza con cui si possiede. Dio al
contrario è se stesso in un modo così perfetto e si possiede in modo
tale da potersi donare totalmente. Realizza ciò nel dono della grazia,
§ 64. VALORE SALVIFICO DELL'ESSERE ASSOLUTO 341
mediante la quale si dà in possesso ai giusti. Tuttavia il possesso di Dio
in modo perfetto si avrà solo nella visione beatifica, che significa parte¬
cipazione alla tripersonale vita di Dio nella più alta unione d'amore (cfr.
il trattato sul Paradiso). Il possesso delle ricchezze divine può realizzarsi
anche nel breve tempo della vita terrena, sicché il credente, anche nelle
strettezze e tribolazioni esterne, sa di essere in possesso di smisurati tesori.
2. - L'essere divino inoltre a causa dell'assoluta perfezione con cui
esiste, è la maggior sicurezza e la più valida garanzia della nostra pro¬
pria esistenza. Sappiamo ed esperimentiamo di esser minacciati dal nulla
e temiamo il fallimento e il vuoto. Essere creatura significa, secondo
Heidegger, « essere ingorgato nel nulla ». Ma perchè l'uomo è nello
stesso tempo partecipazione dell'essere divino, quindi imparentato con
Dio e ancorato a lui, il credente può esperimentare che la sua esistenza
è garantita in Dio maggiormente di quanto non sia esposta al pericolo.
Nell'inviolabile esistenza di Dio acquistiamo la certezza della nostra
propria consistenza. Agostino, tra i Padri, ha specialmente accentuato tale
concetto. La Scrittura rappresenta la sicurezza dell'uomo ancorato in
Dio, con le immagini dell'abitazione e della città celeste.
3. - Dio, intangibile e inviolabile, è altresì garanzia della dignità e della
grandezza umana (cfr. il trattato sulla Creazione). L'essere divino garan¬
tisce pure lo sviluppo delle possibilità e virtualità delle creature. L'uomo
è essenzialmente un essere che deve svilupparsi e che si deve possedere
sempre più camminando verso Dio. Quanto più egli sviluppa le sue pos¬
sibilità dirigendosi verso di lui, tanto più si arricchisce e si perfeziona.
Tale sviluppo riceve il suo coronamento nel compimento in Dio. In lui
raggiungiamo il nostro vero essere. Che egli perfezioni e completi il
nostro essere, lo sappiamo con certezza perchè è il Perfetto. Egli è la
meta a cui dobbiamo arrivare per raggiungere la nostra perfezione. Solo
perchè egli è perfetto e non può essere toccato da nessun pericolo e da
nessuna minaccia del nulla, abbiamo la fondata speranza del nostro pro¬
prio compimento. Cfr. il trattato sui Novissimi.
4. - Tuttavia la sicurezza e la fiducia derivanti dall'essere ancorati in
Dio, non genera una quiete comoda e paga di se stessa. Infatti il tener
presente che il compimento è in Dio, diviene spinta perenne ad avvi¬
cinarsi sempre maggiormente a lui. Di più, la speranza di tale compi¬
mento preserva la vita dalla disperazione dell'eroismo tragico, dal deca¬
dentismo, pur lasciandoci intravvedere sempre il pericolo di precipitare
coli della lotta per l'esistenza possono solo pro
(Pi
342 P. I. - DIO UNO E TRINO
terrena
nel nulla. Ecco perchè la speranza del cristiano è venata di timore. Lo g
sguardo che si fissa sulle ricchezze di Dio rende tale timore ancora più
doloroso in quanto ci lascia intravvedere l'entità della perdita che dob¬ p
biamo temere. Ci rendiamo così conto che anche le maggiori distruzioni intim
e catastrofi, anche di proporzioni cosmiche, e tutti ipiù spaventosi peri¬ammala
coli della lotta per l'esistenza possono solo provocare una perdita par¬possiede
ziale e terrena, quindi impropriamente tale (Pieper, Sulla speranza, 54). p
« Il cristiano può perdere ogni ricchezza terrena senza divenire per que¬ divie
sto povero, perchè nella vita di Cristo, che gli è donata, possiede la
P
ricchezza di Dio. Egli può aver fame e sete, ma nella vita di Cristo, Le
che lo anima, trova il cibo dell'immortalità; può sentirsi solo, privo di de
patria terrena, ma è sempre, tuttavia, in intima comunione con il Dio divin
trinitario e con i suoi santi. Può essere ammalato, morire e perdere così c
la vita terrena, ma nella sua malattia possiede la forza di Cristo, e la sono
morte è per lui, non perdita, ma guadagno, poiché infatti con lo spe¬ esiston
esistono
gnersi della vita terrena si apre a lui e gli diviene accessibile, senza velo
veramente
alcuno, la sua vita vera, la vita di Cristo » (J. Pinsk, Busse und Liturgie te
in Das liturgische Leben, I, 1934, 51). Cfr. Le. 12, 4-6. L'ineliminabile permanere
timore della perdizione eterna, della perdita della pienezza di Dio (In¬ Sign
ferno), può trasformarsi, grazie all'amore divino, in timore filiale.
Agostino così esprime il fatto che il nostro essere creato trova sicurezza e con¬ sua
sistenza in Dio : « Esaminai le altre cose che sono sotto di te, e vidi che nè Noi
esistono assolutamente, nè assolutamente non esistono; esistono in quanto deri¬ Signore
vano il loro essere da te, e, d'altra parte, non esistono in quanto non sono quello
che sei tu. Quello, infatti, si può dire che veramente è, quello, dico, che immu¬
tabilmente permane. Ora il mio bene consiste nel tenermi stretto a Dio, perchè
se non permarrò in esso, nemmeno potrò permanere in me. Egli invece, perma¬ da
nendo in sè, rinnova tutte le cose: ed è il mio Signore, poiché non ha bisogno
dei miei beni» (Confessiones, 7, n, 17).
p
h
5. -
Tale caratteristica ci svela Dio nella sua totale indipendenza e ci v
mostra pure la nostra dipendenza da lui. Noi rispondiamo con umiltà, incre
amore e timore. Dio ci appare come il Signore, che può disporre della
sua creatura.
6. - Dio è la garanzia per la realizzazione di ogni valore. Ogni es¬
sere ha in sè, a motivo della sua derivazione da Dio, un valore proprio.
Infatti il Creatore ha conferito ad ogni cosa un proprio essere, un proprio
senso, una propria legge. Tutte le creature hanno ricevuto l'impronta
della loro derivazione da lui e della tendenza verso di lui. Così l'essere
creato per la sua partecipazione all'essere increato possiede un partico-
§ 65. essenza fisica di dio 343
lare valore, che risponde alla misura dell'essere che Dio gli ha conferito.
Nello stesso tempo tale valore ci appare come un preludio, un indizio
che ci rimanda a un altro superiore, ossia a Dio.
L'essere divino è anche la norma del valore e del disvalore, del bene
e del male. Diviene così per noi sicura direzione e criterio certo in ogni
sforzo morale.
7. - Dio per il suo essere assoluto si differenzia radicalmente da ogni
creatura, ma nello stesso tempo è presente in ognuna di esse, nel modo
più intimo; è insieme lontano e vicino. Così ogni creatura è salva dal
suo isolamento, pur tuttavia non perdendo il suo essere proprio, non
cessando di essere se stessa. Noi possediamo Dio perchè è in noi, ma,
essendoci infinitamente superiore, dobbiamo di continuo tendere a lui.
Possiamo tendere a lui perchè gli siamo affini, ma non lo possiamo mai
raggiungere appieno, data la sua infinita distanza.
8. - L'essere di Dio non è privo di attività, immobile, morto, ma è
del tutto attivo, sempre in atto (actus purus); è quindi la più pura at¬
tualità. Non vi è nulla in lui che non sia attività la più alta, anzi l'atto
sussistente stesso. L'agire non balza fuori dal suo essere come da un
substrato, ma in lui essere e agire si identificano: agire è essere, essere
è agire. Nella creatura essere e agire possono scindersi; l'essere può ca¬
dere nell'inazione più assoluta e l'agire nella vuota e affannosa fatica.
L'essere che ignora ogni attività e iniziativa e l'agire che non è espres¬
sione dell'essere, ma soltanto pura reazione di nervi, è contrario alla
dignità umana (cfr. il trattato sulla Grazia). Anche se l'essere non si
esprima pienamente nell'azione e l'azione che è pura espressione del¬
l'essere sia una meta, un fine irraggiungibile, tuttavia dobbiamo tendere
sempre più verso tale meta che Dio stesso ci lascia intravvedere.
9. - Lo sguardo teso verso Dio, che è unità di essere e di agire, ci
richiama a raccoglierci sempre maggiormente, ci sottrae alla dissipazione
e alla dispersione. In lui solo ritroviamo l'unità delle varie attività e la
calma in mezzo alle ansie continue che ci opprimono.
§ 65. Essenza fisica di Dio.
La pienezza di Dio contenuta nel suo essere assoluto assume colore
e vita se la esaminiamo, partitamente, nei suoi singoli elementi o attri¬
buti. La somma degli attributi divini, nella terminologia scolastica, prende
il nome di essenza fisica di Dio.
verso gli uomini buono e misericordioso. Al tem
e
344 P. I. - DIO UNO E TRINO
propria
1. - Noi veniamo a conoscerla mediante la rivelazione, che si è attuata d
gradatamente. Nella storia primitiva dell'Antico Testamento Dio si svela obbedi
come il Creatore, da intendersi in senso rigidamente monoteistico, il Si¬ parago
gnore dell'universo e specialmente degli uomini, colui che detta leggi, c
vigila sulla loro osservanza, e punisce ogni trasgressione pur mostrandosi p
verso gli uomini buono e misericordioso. Al tempo di Mosè appare spe¬
cialmente il Dio del patto, il Dio del popolo eletto, su cui regna quale
Signore assoluto, a cui detta una legge propria, esigendo che venga veterotestame
os¬
servata. Si mostra come colui che giudica e difende il suo popolo ma tendon
esige a sua volta di essere servito con obbedienza trepida per quanto
amorosa, cosicché l'allontanarsi da lui è paragonabile alla rottura dei le¬
gami matrimoniali. Il singolo sta in rapporto con Dio, in quanto mem¬ predicazione
bro del suo popolo. Più tardi, per bocca dei profeti, Dio si palesa più
chiaramente che non nell'epoca mosaica quale Dio, uno, giusto, buono, conto
santo, incomprensibile.
Il passaggio dalla rivelazione veterotestamentaria alla definitiva av¬ fat
venne attraverso Cristo Gesù. A Cristo tendono tutte le manifestazioni
precedenti che in lui trovano il loro senso più profondo e la loro piena rivelazio
attuazione. Cristo non solo presenta, ma è egli stesso la più alta e defi¬
nitiva rivelazione di Dio. La sua predicazione è una spiegazione della rigu
rivelazione divina costituita dalla sua persona e dalla sua opera. Alla luce ogn
di tale rivelazione noi possiamo renderci conto di quanto la precedente
sia stata provvisoria e incompleta. L'essenziale contenuto della nuova ri¬ pe
velazione che si attua in Cristo consiste nel fatto che Dio è padre, anzi
amore salvifico. Cfr. la Cristologia. u
d
La concezione di Dio che si trova nella rivelazione si distingue da tutte le adatta
concezioni extrabibliche per due elementi essenziali e decisivi: co
a) Non contiene specificazione di sesso nei riguardi di Dio. Tutte le altre
divinità antiche sono differenziate sessualmente e ogni dio ha a fianco la sua dea. (cfr.
Le medesime forze d'amore che agitano i mortali, travagliano gli dèi omerici, sem
non esclusa la rottura della fede matrimoniale. Il Dio dell'Antico Testamento mi
invece è uno, è individuo di sesso maschile che però non ha a fianco nessuna
donna. È rappresentato in modo indubbio, come uomo, affinchè non siamo
tentati a concepirlo come una cosa, una forza, o un essere impersonale, bensì
ci rendiamo conto che egli ci sta personalmente di fronte. Naturalmente tale
modo d'esprimersi è soltanto un ripiego per adattarsi alla debolezza dell'intel¬
letto umano, non certo una descrizione vera che convenga di fatto alla realtà.
Dio non è un uomo; è semplicemente Dio.
b) Il Dio biblico trascende tutto l'universo (cfr. § 41). Gli dèi dell'antichità
sono legati al mondo. Così, gli dèi greci sono semplicemente le forme fonda¬
mentali della realtà, afferrata o nelle forme del mito (Omero), o in un primo
§ 65. ESSENZA FISICA DI DIO 345
principio unitario, detto archè (fisica ionica), o nell'idea dei filosofi. Ovunque il
Greco scorgeva qualche profondissima realtà o una manifestazione improvvisa e
straordinaria di potenza, non poteva dire altro che: proprio questo, e non già
qualcosa di « totalmente altro », è Dio! Gli dèi non stanno di fronte alla natura
e al mondo come il creatore che è diverso dalle sue creature. L'armonia, la per¬
fezione, la razionalità dell'universo, ecco Dio. Tale è il concetto omerico della
divinità e anche quello della filosofia religiosa posteriore. L'intima struttura e la
sostanza dell'idea greca di Dio è rimasta immutata; soli cambiate soltanto le
forme del divino. Gli dèi non sono un infinito di natura diversa dall'uomo, ma
un infinito della stessa natura (Kleinknecht, in Kittel, Wòrterbuch zum N. T.,
Ili, 68 s.).
2. - La Patristica e la Scolastica rielaborarono i dati biblici circa gli
attributi divini con l'aiuto della filosofìa platonica e aristotelica, sottoli¬
neando in modo speciale la trascendenza, l'eternità, l'incomprensibilità
e la spiritualità.
Il IV Concilio Lateranense, sintetizzando tutti gli sviluppi raggiunti
sino ad allora, descrive Dio come unus solus (est) verus Deus, aeternus,
immensus et incommutabilis, incomprehensibilis, omnipotens et inefjabilis
(Denz. 428: Vi è un solo Dio eterno, immenso immutabile, incompren¬
sibile, onnipotente e ineffabile). Il Vaticano, confutando tutta una serie
di errori, presentò l'essenza divina come segue: « Unum esse Deum ve-
rum et vivum, creatorem ac Dominum caeli et terrae, omnipotentem,
aeternum, immensum, incomprehensibilem, intellectu ac voluntate om-
nique perfectione infinitum; qui cum sit una singularis, simplex omnino
et incommutabilis substantia spiritualis, praedicandus est re et essentia a
mundo distinctus, in se et ex se beatissimus et super omnia, quae prae-
ter ipsum sunt et concipi possunt, ineffabiliter excelsus » (Denz. 1782:
Vi è un solo Dio vero e vivo, creatore e Signore del cielo e della terra,
onnipotente, eterno, immenso, incomprensibile, infinito per intelligenza
e volontà e in ogni perfezione; il quale essendo sostanza spirituale una,
singolare, semplicissima e immutabile, va proclamato realmente ed es¬
senzialmente distinto dal mondo, in sè e da sè beatissimo ed indicibil¬
mente elevato sopra tutto ciò che esiste e si può concepire al di fuori
di lui). Cfr. §§ 20-21.
LA PIENEZZA DELLA VITA DIVINA
346 P. I. - DIO UNO E TRINO
V
essenzialm
CAPITOLO II. Tutti
Di
LA PIENEZZA DELLA VITA DIVINA IN PARTICOLARE
ART. I. - LA STRUTTURA DELLA VITA DIVINA
s
La vita di Dio esistente in tre persone, è essenzialmente semplice, immutabile,
c
eterna, immensa, tutta verità e bontà. Colui che vive in tal modo ha dignità in¬
comparabile e santità che trascende il mondo. Tutti questi attributi danno la essenz
loro impronta al contenuto della vita spirituale di Dio. l'a
assolutamen
§ 66. Semplicità di Dio. na
egl
1. -
Semplice è ciò che non è composto. La semplicità non si oppone
alla molteplicità bensì alla composizione. La composizione è fisica o
metafisica, a seconda che risulta di parti fisiche (il cosmo o i corpi) op¬
pure di elementi metafisici (per esempio essenza ed esistenza, potenza
e atto). In Dio non vi può essere nè l'una nè l'altra di tali composizioni.
e
2. - dogma di fede che Dio è assolutamente semplice. Il IV Con¬sostanza
È
cilio Lateranense dice che Dio « è sostanza o natura del tutto semplice » co
(Denz. 428); e quello Vaticano ripete che egli « è sostanza spirituale
semplicissima » (Denz. 1782).
v
Ess
§ 67. Semplicità metafisica di Dio.
u
1. - Il Dio trino è metafisicamente semplice e quindi in lui non vi è
composizione di essenza e esistenza, di sostanza e accidenti, di facoltà e
attività, di attività e attività (actus et actus); così pure in lui non vi è
nè genere nè specie.
2. - Dio possiede tutte le sue perfezioni in virtù e nella stessa guisa
della sua essenza, perciò come pura attualità. Esse quindi non sono qual¬
cosa che necessariamente 0 accidentalmente si aggiunge all'essenza, nè
sono emanazione di essa. Se tali perfezioni si unissero all'essenza come
un anello al suo supporto, allora esisterebbe il Dio ripartizione, rottura
§ ÓJ. SEMPLICITÀ METAFISICA DI DIO 347
dell'attualità pura, frattura tra attualità dell'essenza e attualità delle per¬
fezioni, ossia, in certo senso, uno spazio non ripieno dall'essere, vuoto. Le
perfezioni, in sè sussistenti, vengono, perciò, a identificarsi con l'essenza
che è atto puro.
E nemmeno è possibile dire che corrono assieme, come l'acque di due
fiumi, chiaramente distinti, fluiscono le une a fianco delle altre, finché
vengono a mischiarsi del tutto. Al contrario, gli attributi formano piut¬
tosto una realtà unica, anzi la medesima realtà, poiché ognuno di essi
riceve l'impronta dell'essere divino.
Poiché ciascun attributo è assoluta ed infinita realtà, libera da ogni
intreccio con il mondo e con tutto ciò che è divenire e storia, poiché non
ha in sè nessuna potenza, ma è puro atto, ne proviene che esso si estende
a tutto il campo della realtà divina, lo compenetra e lo riempie comple¬
tamente sia in ampiezza, sia in profondità. Non esiste quindi realtà di¬
vina che non sia, al tempo stesso, la bontà di Dio. La bontà è quindi
essenzialmente e necessariamente anche la giustizia, l'onnipotenza ecc.
Potremmo anche dire che la bontà è tale da racchiudere in sè tutti gli
altri attributi. Proprio per la sua infinità ogni attributo è ciascun altro.
A causa dell'attualità pura di Dio è anche impossibile distinguere fa¬
coltà e attività (facultas et actus). Così l'amore in lui non è solo capa¬
cità di amare, ma l'attività stessa dell'amare. Il suo amore è actus purus.
Così dicasi delle altre sue attività. Atti e attributi si identificano in lui.
Le sue attività e i suoi attributi si compenetrano così al massimo. Pro¬
priamente non si può dire che essi siano uniti in lui, ma che Dio è la
pienezza dei suoi attributi e delle sue attività ridotte in unità perfettis¬
sima (sull'esistenza e l'essenza vedi § 63).
3. - La Scrittura testimonia tale verità con le parole: Dio è l'amore,
la vita, la verità, la luce, la sapienza.
4. - IPadri esprimono la stessa verità servendosi di un modo di par¬
lare simile a quello della Scrittura.
Ireneo dice : « Egli è semplice e non composto, è identicamente se stesso in
ogni sua parte e nel tutto, poiché egli è tutto intelletto, tutto spirito, tutto pen¬
siero, tutto idea, tutto ragione, tutto udito, tutto occhio, tutto luce, e tutto fonte
di ogni bene. In tal modo conviene parlare di Dio alle anime religiose e pie »
(Adversus haereses, 2, 13).
Agostino dichiara : « Dobbiamo quindi pensare Dio, come possiamo, in quanto
possiamo, buono senza qualità, grande senza quantità, creatore senza necessità,
stante senza sito, ripieno di tutto senza abito, ovunque tutto senza luogo, eterno
senza tempo, che crea il mutabile senza mutare, e di nulla passivo. Chiunque
medesima cosa di tutte queste proprietà. In lui non
ste
348 P. I. - DIO UNO E TRINO :
for
pensa così Iddio, benché non possa ancora trovare che cosa egli sia, si guardi qu
piamente, quanto può, dal pensare di esso quello che non è» (De Trinitate, 5, 1; che
trad. P. Montanari). « Su Dio possiamo creare molteplici espressioni per dire semplic
che esso è grande, buono, sapiente, beato, vero e tutto ciò che degnamente si Dio
può dire di lui. Però la grandezza è identica cosa della sua sapienza..., la sua m
sapienza e grandezza sono la stessa cosa della sua bontà; e la sua verità è la l'esse
medesima cosa di tutte queste proprietà. In lui non è diverso l'essere buono,
l'essere sapiente, l'essere beato, l'essere vero, e lo stesso essere » (ivi, 6, 6). s
Nel libro 6 (cap. 4) della stessa opera si legge : « Questa (l'anima umana) l
non è per se stessa la prudenza, la temperanza, la fortezza o la giustizia, perchè
può essere anima e tuttavia non avere alcuna di queste virtù. Mentre in Dio, ci
essere, è essere forte, giusto, sapiente, e tutto ciò che si può dire della sua sem¬ la
plicissima complessità, o della sua complessa semplicità ». l'anim
Nel libro 15 (cap. 13) si dice: «La scienza di Dio, è la stessa sapienza, la sa¬ b
pienza è la stessa essenza o sostanza. Poiché nella mirabile semplicità della sua c
natura non è altra cosa il sapere, ed altra cosa l'essere, ma il sapere è lo stesso pa
essere ». p
Nel libro 8 (cap. 3) si legge: «E ancora, ascolta se puoi. Tu ami certamente quel
il bene, e buona è la terra, l'altitudine dei monti, l'armonia dei colli e la di¬ ste
stesa dei campi, il podere ameno e fertile, e la casa ben fabbricata, ampia e lu¬ o
minosa, e buoni gli animali, buona l'aria salubre, il cibo sano e adatto alla salute, dell'altro
e buona la sanità senza dolori e stanchezza, buona la faccia dell'uomo armonio¬
samente disposta, ilare e ben colorata, buona l'anima degli amici, la dolcezza questo
della loro compagnia, e la fede del loro amore, e buono l'uomo giusto, buone cerca
le ricchezze, che ci facilitano la vita, buono il cielo col sole e la luna e le stelle, non
buona la santa ubbidienza degli angeli, buona la parola che dolcemente ci am¬ buo
maestra e ci addita la via giusta, buona la poesia per l'armonia dei pensieri e (n
del ritmo. Che più? Buono è questo, e buono è quello; ebbene togli il questo e Og
togli il quello e, se lo puoi, vedrai davanti a te la stessa bontà, cioè Dio, buono dun
di ogni bontà. Né tutti quei beni che ho ricordato, o che si possono ricordare e pot
pensare, potremmo giudicarli l'uno migliore dell'altro se non fosse impressa in c
noi la nozione della stessa bontà, secondo la quale approviamo e scegliamo leconsustan
cose. E così si deve amare Dio, non amando questo o quel bene, ma amando so
la stessa bontà. Il bene dell'anima non si deve cercare sorvolando col giudizio, è
ma aderendo con l'amore, e che cos'è questo se non Dio? Non l'anima buona, arge
o l'angelo buono, o il cielo buono, ma il buono buono ». ci
Nel ventesimo trattato sul Vangelo di Giovanni (n. 4) si legge : « Nell'uomo ciò
una cosa è ciò che è e un'altra ciò che egli può. Ogni uomo che esiste, talvolta
non può ciò che vuole, talvolta invece lo può; dunque una cosa è l'essere e
un'altra il potere. Se fossero la stessa cosa l'uomo potrebbe ciò che vuole. Ma in
Dio non vi è alcuna differenza tra la sostanza che costituisce il suo essere e la
potenza che egli ha di agire; in lui tutto è consustanziale, e la sua potenza è il
suo essere, poiché egli è Dio. Essere e potere non sono dunque in lui due cose
differenti; egli li possiede simultaneamente poiché è l'essere e l'azione ».
« Il tuo oro sarà (in Paradiso) la pace, il tuo argento la pace, i tuoi campi la
pace, la tua vita la pace, il tuo Dio la pace. Tutto ciò che desideri, sarà la pace
per te. Quaggiù il tuo oro non può esserti argento, ciò che è vino non può essere
§ 67. SEMPLICITÀ METAFISICA DI DIO 349
pane per te; ciò che è luce non può essere bevanda: il tuo Dio invece sarà
tutto per te. Sarà tuo nutrimento, e non avrai più fame; tua bevanda, e non
avrai più sete; tua luce, e non sarai più cieco; tuo sostegno, e non sarai più
stanco: Dio tutt'intero ti possiederò tutt'intero. Non patirai strettezze con lui
che tutto possiede: tutto avrai come egli avrà tutto, poiché tu e lui diverrete
una cosa sola, e questa totalità unica l'avrà pur lui che vi possiede » (Enarratio
in Ps. 36, sermo 1, 12).
« Un'ineffabile dolcezza mi afferra quando sento : Buono è il Signore. E dopo
aver considerate e percorse con lo sguardo tutte le cose esteriori; dopo aver com¬
preso che tutte provengono da Dio, qualunque piacere mi procurino, risalgo a
colui che ne è l'autore per comprendere come sia buono il Signore. Ma appena
io penetro in lui, per quanto mi è possibile, lo trovo intimo a me e parimenti
superiore, poiché egli è talmente buono da non abbisognare di queste cose per
essere buono. Perciò, senza di lui, non potrei lodare queste cose, ma, senza di
esse, io trovo che egli è perfetto, che non abbisogna di nulla, che è immutabile,
che non ricerca il bene di nessuno per aumentare, che non teme alcun male che
lo possa menomare. E che dirò ancor di più? Trovo nel creato il cielo buono,
il sole buono, la luna buona, le stelle buone, la terra buona, buoni i vegetali che
nascono sulla terra e si appoggiano alle radici, buoni gli esseri che camminano e
si muovono; buoni i volatili che aleggiano per l'aria o i pesci che nuotano nel¬
l'acqua. Dico pure buono l'uomo: l'uomo buono trae cose buone dal tesoro del
suo cuore (Mt. 12, 35). Dico buono anche l'angelo che per superbia non decadde
e non divenne demonio; ma con l'obbedienza aderisce a Colui che lo ha creato.
Tutte queste cose sono buone, ma tuttavia in unione con i nomi: cielo buono,
angelo buono, uomo buono. Ma quando mi riferisco a Dio, penso che non si
possa dir nulla di meglio che buono. Lo stesso Gesù Cristo che disse: "Uomo
buono disse pure : " Nessuno è buono, se non solo Dio E con ciò non ci
ha forse stimolati a indagare e a distinguere tra il bene che è tale per un altro
bene e il bene che è tale per se stesso? Quanto dunque è buono il bene (= Dio)
dal quale derivano tutte le cose buone! Non troverai una cosa buona che non
tragga da quello la sua bontà. Come questo bene che dona la bontà esiste per
se stesso, così egli ha la sua bontà per se stesso. Non si potrebbe dire delle
opere che egli ha fatte che esse non esistono; e non gli si farebbe ingiuria di¬
cendo che esse non esistono. Perchè le ha fatte, se non esistono? o che cosa
avrebbe fatto, se ciò che ha fatto non esiste? Tutto ciò che ha fatto esiste,
dunque; ma, mettendo a confronto con lui quella che è la sua opera, Dio parlò
come se esistesse egli solo : " Io sono colui che sono " e " Dirai ai figli d'Israele,
colui che è, mi manda a voi ". Non disse : il Signore Dio onnipotente, miseri¬
cordioso, giusto; se ciò avesse detto, sarebbe stato certamente vero. Ma rimossi
tutti questi attributi con cui poteva esser chiamato, rispose che egli si chiamava
" l'essere " e, come se tale fosse il suo nome, assicurò : " Dirai loro, colui che è
mi manda ". Dio infatti è in modo tale che, al suo confronto, gli esseri creati
sono come se non fossero. Se non si paragonano a lui esistono, poiché sono da
lui; ma se si raffrontano con lui non esistono, poiché il vero e l'immutabile
essere è solo Dio. Egli è colui che è, come il bene, fonte di tutti i beni, è il
.
bene in sé » (Enarr in Ps. 134, 4).
Gregorio di Nissa dice : « Conviene ritenere Dio non solo potente, bensì anche
poiché ciò è ingiusto,
perfe
35° P. I. - DIO UNO E TRINO gene
di
giusto e buono e saggio e tutto ciò che a nostro giudizio è perfetto. Di con¬ p
seguenza anche per quanto concerne il piano salvifico, di cui ora ci occupiamo, vi
dobbiamo evitare di mettere in risalto un solo attributo divino, a scapito degli
altri. Non si può affatto parlare di perfezione quando un attributo che viene G
riferito a Dio è considerato come qualcosa di perfetto ma separato da ogni altro. loro
Così la bontà non è veramente tale qualora la si consideri senza la giustizia, la da
sapienza e la potenza, poiché ciò che è ingiusto, insipiente e debole non è
certo vera bontà. Nemmeno la potenza è una perfezione quando la si separa
dalla giustizia e dalla bontà, poiché un siffatto genere di potenza diviene bru¬ son
talità e arbitrio. E ciò vale per tutti gli attributi divini. Se la saggezza non è signi
accompagnata dalla giustizia e la giustizia dalla potenza e dalla bontà, tali
attributi si potrebbero più propriamente chiamare vizio anziché virtù » (Orario
formale
magna catechetica, 20, 1). g
Nel medio evo Gilbert de la Porrée (f 1154) e Gioachino da Fiore (f 1202)
insegnarono che in Dio vi è distinzione reale. Iloro errori vennero condannati
dal Sinodo di Reims (a. 1148; cfr. Denz. 389) e dal IV Concilio Lateranense ognuno
(a. 1215; cfr. Denz. 432).
q
5. - Gli attributi che predichiamo di Dio sono in lui secondo la loro
essenza formale ossia secondo quello che significano, o meglio, Dio è dell'e
ciascun attributo secondo la sua essenza formale. Non esiste però alcuna
distinzione reale tra essenza e attributi. Anzi gli uni si identificano con d
l'altra in una realtà unica. Mos
La pienezza dell'essenza è la ragione per cui noi dobbiamo rappresen¬ solo
tarcela con una molteplicità di concetti, ognuno dei quali significa una uni
determinata perfezione in Dio. E proprio per questo si dice che la di¬ combatte
stinzione tra essenza e attributi è solo virtuale (Tommaso d'Aquino), rivelazione,
e
non penetra in Dio stesso. La ricchezza dell'essenza divina è però il agisce
fondamento da cui provengono i nostri diversi predicati di Dio. m
Non si deve assolutamente asserire che la dottrina della distinzione può
virtuale possa venir confusa con quella di Mose Maimonide (t 1204), nos
secondo cui gli attributi si trovano in Dio solo virtualmente e radical¬ differenza
mente, per cui Dio non sarebbe buono ma unicamente causa del bene. sia
Tale insegnamento che S. Tommaso combatte strenuamente, conduce (eunomia
all'agnosticismo. Anche se Dio nella rivelazione, sia naturale che sopran¬
naturale, si palesa a noi come colui che agisce benevolmente, tuttavia
dai suoi atti possiamo risalire al suo essere in modo da formarcene no¬
zioni ad essi corrispondenti. Tanto meno si può dire, d'altra parte, che
a causa dell'identità fra essenza e attributi, i nostri diversi predicati siano
puri e semplici sinonimi, cosicché la differenza tra i vari attributi di¬
penda unicamente dal nostro pensiero, cioè sia puramente logica senza
alcun fondamento nella realtà divina (eunomiani, nominalisti). Infatti i
§ 67. SEMPLICITÀ METAFISICA DI DIO 351
nomi che diamo a Dio si estendono realmente a lui, e ognuno di essi
ci rappresenta un particolare aspetto del mistero divino.
Com'è possibile che gli attributi siano in Dio formalmente mentre
sono solo virtualmente distinti tra loro? Per rispondere a questa difficoltà
Duns Scoto, continuando un'opinione assai diffusa nell'ordine france¬
scano e forse risalente a S. Agostino, affermò che tra gli attributi divini
vi è una distinzione formale, una distinzione cioè come quella che esiste
tra l'animalità e la razionalità dell'uomo. Tale distinzione è più che vir¬
tuale perchè esiste anteriormente alla considerazione della mente, nè
sarebbe reale poiché l'animalità e la razionalità non sono due realtà di¬
stinte ma solo due distinte formalità di una stessa e identica realtà.
Certo tale dottrina elimina la difficoltà riguardante il modo con cui
gli attributi divini convengono a Dio formalmente, quantunque siano tra
loro distinti soltanto virtualmente, ma incappa in un'altra, questa cioè
che ogni distinzione oggettiva, ossia esistente nell'oggetto stesso, sembra
essere reale e quindi inconciliabile con l'assoluta semplicità divina.
6. - La semplicità divina può essere
esperienza chiamiamo
illustrata con ciò che nel mondo della
nostra totalità. Questa è condizionata da un principio
strutturale interiore: l'unità che stringe ogni singola parte, e appare sensibil¬
mente nella forma. Già il mondo materiale, nel suo complesso, si presenta come
una totalità, un'unità, un ordine, un cosmo. Ma in questo caso l'unità è da in¬
tendersi come rapporto di esseri individuali esistenti ciascuno per conto proprio.
La ricchezza di tale struttura sta nel fatto che racchiude infinite manifestazioni
dell'essere individuale; e il suo difetto consiste nel fatto che la totalità delle cose
è solo una pallida immagine dell'unità divina poiché la sua unità è assai debole.
Non si tratta infatti di un'unità sostanziale, bensì solo di unità di relazione nella
diversità delle sostanze.
L'unità si realizza in un grado più alto nei gruppi di esseri dello stesso genere
o della stessa specie. Tale unità si verifica nella somiglianza dei singoli indi¬
vidui. La più grande realizzazione dell'unità si ottiene solo a prezzo di una
minore ricchezza di essere. Quanto più povero di contenuto diventa l'essere, più
intima diventa l'unità di ogni singolo individuo. Un corpo è anzitutto tale in
base all'omogeneità e alla simmetria delle sue parti. L'unità qui ha una forza
tale che le singole parti non hanno più la possibilità di esistere da sole.
Più profonda di quella dei corpi è l'unità dello spirito, dell'anima. Qui la
maggior unità non si realizza a scapito della ricchezza dell'essere. Infatti l'essere
spirituale è realmente e qualitativamente diverso e più ricco di quello corporeo.
Tuttavia un'unità perfetta non può aver luogo neppure qui, poiché l'essenza dello
spirito è distinta dalle sue facoltà e queste a loro volta lo sono dai loro atti.
Per quanto grande sia l'unità che si può realizzare in tutte queste cose, nei
gruppi o nell'essere individuale, nell'essere corporale o in quello spirituale, vi
è una composizione che attraversa tutto l'essere creato, quella di potenza e di
atto. L'essere finito è in continuo sviluppo, in continuo passaggio dalla potenza
limitato in tutta la pienezza possibile. Deve accosta
ess
352 P. I. - DIO UNO E TRINO creaz
sue
all'atto, e non è come l'essere divino l'attualità stessa. Esistere per la creatura è poiché
« derivare » dall'abisso del nulla e stare sospeso nel nulla, con la possibilità di e
inabissarvisi nuovamente se qualcosa di diverso non lo preservi da tale pericolo p
(cfr. il trattato sulla Creazione). Questo « trovarsi gettato » nel nulla e questo ne
« ingorgamento » nel nulla caratterizza ogni creatura. Anche se l'essere finito è v
stato un giorno « lanciato » fuori dal nulla, tuttavia non possiede il suo essere
perfettament
limitato in tutta la pienezza possibile. Deve accostarsi ognora più alla sua idea,
secondo la quale è stato creato dal nulla : è un « essere in divenire » (Przywara).
L'uomo è la prova più luminosa che l'intera creazione è dominata dalla legge raggiunger
della particolarità, dalla diversità tra l'idea e le sue realizzazioni. Nessun indi¬ però
viduo umano rappresenta la totalità dell'uomo, poiché ognuno è soltanto l'espres¬ que
sione maschile o femminile dell'idea di « uomo », e quindi ciascuno è, fin dal¬
l'inizio, particolarizzato e quasi frazionato. Questa particolarizzazione dell'essere
contempla
deve esprimersi naturalmente anche nel pensiero, nel sentimento e nel carattere. che
Anche nelle stesse espressioni maschili o femminili vi sono diverse modificazioni dell'
sicché non troviamo mai puramente e perfettamente attuato il tipo maschile o la
femminile. P
Anche nel campo delle particolarità delle facoltà, condizionate da quella Bonaventura
del¬
l'essere, si deve cercare in questa vita di raggiungere la maggior unità possibile dec
di pensiero e volontà, del carattere. Tale unità però non arriverà mai ad elimi¬
nare la particolarità del singolo uomo talmente questa è radicata in lui. Anzi Tuttav
sembra il presupposto delle sue più grandi opere. Noi parliamo di uomini di moltep
cervello, di cuore, di volontà, di natura contemplativa o attiva, di artisti nati,
di comandanti, di statisti, di condottieri, ecc. Il che significa che il predominio forma
in un campo speciale si paga con una perdita dell'universalità umana. giovinez
Il predominio di una facoltà può tuttavia, entro la limitata sfera umana, con¬ colorito
durre a una forte compattezza della personalità. Per quelli in cui predomina giunge
il cuore, come, per esempio, Agostino, Bonaventura, Pascal, l'amore è il mezzo temp
da cui nascono e a cui ritornano tutte le loro decisioni. Parimenti è compito d
morale lo sforzarsi verso la ricchezza, la pienezza e la universalità dei valori q
umani nonostante i limiti imposti dall'essere. Tuttavia tale sforzo può condurre che
seco il pericolo della dispersione di forze nel molteplice, dello smembramento e
del ripiegamento personale nell'irrequietezza e nel movimento caotico, di non l'armonia
poter ridurre la ricchezza sotto la legge della forma. pa
Inoltre qui si delinea una differenza tra giovinezza e vecchiaia. La gioventù condur
ha un proprio senso della vita, variopinto, colorito dinamico e gli riesce assai manc
difficile, nel suo perenne girovagare lontano, giungere ad una forma espressiva.
Per contro, quanto più la vita, nel corso del tempo, si ordina, si dispone, si
delimita, tanto maggiormente incorre nel pericolo di divenire sclerotica, rigida,
pedante e schematica. È compito importantissimo quello di dare forma all'esu¬
beranza e all'attività giovanile senza permettere che la vita venga soffocata dal
formalismo, privo di spirito.
Come sia difficile all'uomo raggiungere l'armonia morale, come tutti i suoi
tentativi per arrivarvi siano minacciati dall'umana particolarità, lo mostra il fatto
che l'accentuazione di un'attività morale può condurre a trascurare un altro ob¬
bligo. Così la bontà può divenire debolezza e mancanza di energia, la giustizia
durezza di cuore (summum ius — summa iniuria; fiat iustitia, pereat mundus),
§ 68. SEMPLICITÀ FISICA DI DIO 353
la parsimonia cupidigia, la premura verso gli altri bramosia di dominio sul
prossimo. Infatti Pascal dice : « Quando si vogliono portare le virtù fino agli
estremi, sia da una parte che dall'altra, si presentano dei vizi che si insinuano
in esse inavvertitamente... di guisa che ci si perde nei vizi e non si vedono più
le virtù. Ci si inganna nella perfezione stessa » (Pensieri, n. 357).
La semplicità nella molteplicità, come valore morale, appare il mezzo da cui
l'uomo non si deve allontanare se vuol essere o possedere se stesso. In ultima
analisi, però, l'uomo non può da sè trovare un tale mezzo; lo può raggiungere
solo se si immerge in Dio, o meglio, se Dio stesso diviene per lui mezzo umano
con cui gli si comunica e, in certo modo, gli si rende presente. Ciò avviene tra¬
mite Cristo. Colui che mediante Cristo e nello Spirito Santo viene permeato
da Dio, costui è in realtà uomo semplice e ricco a un tempo, anzi lo è tanto
più quanto più Dio lo domina. Lo stabilirsi nel regno di Dio nell'uomo è il
presupposto dell'unità e della semplicità della personalità umana stessa, la quale
si consolida nella misura con cui cresce in lei il dominio di Dio. Tuttavia anche
qui è necessario fare i conti con gli imprevisti e le ricadute. Il santo stesso che
totalmente riposa in Dio, non è esente dal pericolo di peccare. La semplicità
umana è sempre limitata e minacciata. Ciononostante possiamo dire che quando
la incontriamo nella sua forma più matura ne riconosciamo la grandezza e la
dignità, che si manifesta nella sua schiettezza. Cfr. R. Egenter, Von der Ein-
fachheit, 1947.
Nel campo terrestre la mancanza ineliminabile dell'ultima unità è particolar¬
mente visibile nella frattura che esiste tra moralità e felicità, tra essere e dovere,
tra valore e destino, tra capacità e realizzazione, tra compito e adempimento,
tra sforzo e risultato.
Quando dalle limitatezze e dalle particolarità di ogni unità o totalità terrestre
eleviamo lo sguardo alla semplicità divina, Dio ci appare la pienezza assoluta in
forma unitaria, l'universalità nella più stretta unione e interiorità, l'unità piena,
anzi l'identità stessa di santità e beatitudine, essere e valore, riposo e azione.
In Dio gli attributi, le decisioni e le azioni non sono giustapposti, ma si com¬
penetrano vicendevolmente. Ciò ci assicura che ogni attributo conserva il proprio
luogo e misura, se è possibile parlare di misure nell'infinità divina. In tal modo
la giustizia è essenzialmente buona e la bontà essenzialmente giusta, l'onnipo¬
tenza essenzialmente saggia e la sapienza essenzialmente onnipotente.
§ 68. Semplicità fisica di Dio.
La seconda forma della semplicità divina consiste nella mancanza di
parti fìsiche; se Dio risultasse di tali parti sarebbe corporeo, perituro e
visibile.
1. - La Scrittura insegna esplicitamente la spiritualità
di Dio e la con¬
seguente invisibilità (Es. 33, 20; Giov. 4, 24; Rom. 1, 20-23; 1 Tim. 6,
16; 2 Cor. 3, 17). Le espressioni antropomorfiche vanno intese in senso
23 - schmaus - dogmatica I.
Poiché Dio è spirito non può esistere alcuna
e
354 P. I. - DIO UNO E TRINO
qua
metaforico (cfr. § 37, 7). Nelle teofanie ai patriarchi Dio non è apparso luo
direttamente, ma attraverso il velo di un corpo, formato da lui, e che un'immagi
egli stesso 0 il suo messo (l'angelo) assumevano. La creatura « utilizzata » invisibile
per l'apparizione, non è l'espressione di Dio, ma solo segno della sua allude
vicinanza, indicazione della sua presenza.
Poiché Dio è spirito non può esistere alcuna raffigurazione di lui. Di
Infatti nel Santo dei Santi del tempio non vi era nessuna immagine o di
simbolo di Dio. La proibizione di fabbricare qualsiasi scultura o imma¬ dall'u
gine divina (Deut. 5, 8) riguardava in primo luogo l'idolatria, ma pale¬ p
sava pure un certo timore nel forgiare un'immagine raffigurativa anzi un g
qualsiasi simbolo che riflettesse il Dio invisibile ben diverso da ogni brillant
cosa creata, di cui tutto parla, a cui tutto allude, ma a cui niente può
venire paragonato. La vera ragione per cui la rivelazione veterotesta¬ una
mentaria aveva proibito qualsiasi immagine di Dio, sta nel fatto che gli riguar
Ebrei dovevano essere educati a raffigurarsi la divinità come qualcosa di l'
unico, di spirituale e di personale, distinto dall'universo. Ciò era tanto nello
più difficile in quanto intorno a loro vivevano popoli (egiziani, babilo¬
nesi, assiri, persiani, greci), che li superavano di gran lunga in potenza e de
ricchezza, i quali avevano sviluppato una brillante cultura e arte e reli¬ rich
gioni fascinose, le cui divinità, con il loro culto pieno di tutte le forze «Da
della natura, del senso e dell'arte esercitavano una formidabile tentazione. v
Il Nuovo Testamento presenta a questo riguardo, una differenza. Ac¬ v
centua, è vero, con la stessa energia dell'Antico l'invisibilità della natura
divina : « Dio è spirito » (Giov. 4, 24); ma nello stesso tempo mette in a
luce un altro aspetto. Giovanni proclama ai suoi lettori : « E noi ne ab¬ se
biamo veduta la gloria, gloria uguale a quella dell'Unigenito del Padre, c
pieno di grazia e verità » (Giov. 1, 14). Alla richiesta di Filippo : « Si¬ ind
gnore, mostraci il Padre», Cristo risponde: «Da tanto tempo sono con bont
voi, e non mi avete conosciuto? Filippo chi vede me vede anche il vi
Padre » (Giov. 14, 8). Paolo asserisce che nel volto di Cristo riluce laascoltare.
maestà del Padre (2 Cor. 4, 6). Questi passi si riferiscono a un vedere ossia
sensibile e perciò Dio, in certo senso, è visibile anche all'occhio umano.
Questo, naturalmente, non può vedere Dio in se stesso; riesce però, in
certo qual modo, a distinguere la « divinità » che traluce attraverso il
mondo, così come dal viso di un uomo può indovinare il pensiero in¬
timo, e vedervi impresso il sigillo della sua bontà. Il volto è la finestra
dello spirito. In tal senso l'incarnazione rende visibile, in maniera tutta
speciale, Iddio, che così si può vedere e ascoltare. Tale visione si realizza
naturalmente solo per l'occhio del credente, ossia per l'uomo illuminato
§ 68. SEMPLICITÀ FISICA DI DIO 355
da Dio. Proprio a motivo di questa visibilità di Dio, nel Nuovo Testa¬
mento, se ne ammettono le immagini e le rappresentazioni artistiche.
Cfr. R. Guardini, Les sens et la connaissance de Dieu, Paris 1954.
È necessario mettere in particolare rilievo che le parole di Giovanni
« Dio è spirito » (4, 24) non mirano solo ad accentuare la spiritualità di
Dio di fronte alla materialità, bensì anche qualcosa di essenzialmente
diverso. « Spirito » nel Nuovo Testamento non significa, di solito, solo
opposizione a ciò che è corporeo, bensì a tutto quanto è naturale. Anche
lo spirito unicamente naturale dell'uomo si chiama, in tal senso, « carne ».
Quando si dice di Dio che egli è spirito, si intende con questo espri¬
mere che egli trascende tutto ciò che è terreno con la sua caducità pro¬
veniente dal peccato, e che nel suo amore che si dona liberamente, si
svela a noi, affinchè possiamo partecipare alla sua vita e alla sua gloria.
Per l'uomo pregare Dio « in spirito e verità » significa pertanto non solo
adorarlo con sincerità e rettitudine di cuore, bensì anche invocarlo da
uomo nuovo, nato dalla manifestazione gratuita della Grazia, rigenerato
dallo Spirito Santo, che lo ha reso capace di accedere alla « verità »,
ossia alla realtà di Dio non più chiusa in se stessa, ma svelata.
2. - Nell'epoca patristica la spiritualità di Dio è stata spesso messa in
risalto contro gli Audiani e gli Antropomorfi. Se Tertulliano dice che
Dio è corpo, ciò si può spiegare con il fatto che egli, educato alla scuola
stoica, non aveva potuto raggiungere il vero concetto di sostanza pura¬
mente spirituale. Ma forse usa il termine corpo nel senso largo di sostanza
reale. Agostino fu colui che, in modo del tutto particolare, sentì e co¬
nobbe Dio come essere spirituale personale, e lottò tutta la sua vita per
la spiritualità divina.
3. - Quando si dice che Dio è spirito, si intende asserire che egli è
se stesso con assoluta interiorità, quindi con perfetta conoscenza e per¬
fetto amore di sè. Che la spiritualità di Dio non implichi affatto impo¬
tenza 0 privazione di vita, si spiegherà meglio trattando della pienezza
della vita divina. Dobbiamo guardarci dal pericolo di confonderla con
qualcosa di astratto, di puramente ideale.
4. - La riflessione teologica dimostra la semplicità di Dio, sia fisica,
sia metafisica, nel modo seguente: se in Dio ci fosse composizione si
dovrebbe cercare la causa che unisce insieme e mantiene unite le parti.
Così, ad esempio, la composizione di essenza ed esistenza nell'uomo non
si spiega di per sè, ma solo con una causa esterna all'uomo medesimo.
§ 69. Immutabilità di Dio.
356 P. I. - DIO UNO E TRINO
d
(
Che un uomo esista non dipende infatti dalla sua essenza. Se anche in
Dio vi fosse composizione dovremmo ammettere un essere superiore a
lui che lo spieghi. u
sostanziale
contro
§ 69. Immutabilità di Dio. 41)
s
1. - Dio è assolutamente immutabile. È dogma di fede. Cfr. il IV Con¬ s
cilio Lateranense (Denz. 428) e quello Vaticano (Sess. 3, cap. 1; Denz.
1782). n
La mutazione è passaggio da uno stato di essere a un altro mediante la per¬ be
dita o l'acquisto di una forma accidentale o sostanziale, di una determinazione
accessoria o essenziale. affe
L'affermazione del Concilio Vaticano è rivolta contro il panteismo con la sua Poggia
dottrina dello sviluppo o del divenire di Dio (cfr. § 41). La immutabilità di Dio D
significa che in lui non vi è nessun divenire, nessuno sviluppo, nessun accresci¬
mento, nessuna diminuzione, che quindi è perfetto in sè, sempre in atto, sempre
identico a se stesso. accord
Occorre distinguere fra immutabilità dell'essenza od ontologica e immutabilità ele
delle decisioni o morale. La prima è incondizionata e necessaria, ma tale neces¬ Ma
sità non è un'oscura forza naturale che costringe Dio, bensì qualcosa di luminoso mut
e di conforme alla sua incondizionata essenza, da cui sgorga e con cui anzi si d
identifica. Non significa costrizione o legame, ma è affermata da Dio con piena iden
chiarezza e voluta da lui con felicità completa. Poggia sulla perfezione di Dio,
che è incapace di qualsiasi aumento o diminuzione. Dio afferma la sua perfe¬ Dio
zione essenziale con perenne, identica forza. tuttavia
Le decisioni di Dio che riguardano il creato non sono invece soggette alla legge sta
della necessità. Anche altre decisioni potrebbero accordarsi con l'essenza divina.
La decisione di non creare il mondo oppure di non elevare l'uomo allo stato di
grazia non sarebbe in contrasto con l'essere divino. Ma naturalmente, ogni volta n
che Dio prende una decisione, essa non può più mutare. L'immutabilità delle muta
decisioni, una volta prese, sgorga dalla immutabilità dell'essenza divina stessa,
con cui, a motivo della semplicità divina, esse si identificano. Dio ha preso le 27:
sue libere decisioni da tutta l'eternità, senza inizio, così come egli stesso è eterno
e senza inizio. Perciò va escluso ogni mutamento in Dio anche riguardo alla suc¬ fondas
cessione dei suoi decreti. Questa immutabilità è tuttavia condizionata, in quanto
procede dal libero amore con cui tali decisioni sono state prese.
2. - La Scrittura testimonia l'immutabilità di Dio nell'essere e nelle
intenzioni, per esempio in Num. 23, 19 : « Dio non è come l'uomo che
mentisce; nè come il Figlio dell'uomo che muta. Ha detto: non farà?
ha parlato; non lo eseguirà? », 0 nel Sai. 101, 27 : « Non mi rapire, Dio
mio, nel bel mezzo dei miei dì; di generazione in generazione si sten¬
dono ituoi anni. In principio 0 Signore, tu fondasti la terra e opera delle
§ 69- IMMUTABILITÀ DI DIO 357
tue mani sono i cieli! Essi periranno e tu permani; e tutti come un ve¬
stito si logoreranno, e come un mantello li muterai e saranno mutati;
ma tu sei sempre quello e gli anni tuoi non vengono meno ». « Ma il di¬
segno del Signore in eterno sussiste; i pensieri del suo cuore, di gene¬
razione in generazione» (Sai. 32, 11). «L'efficacia della sua sapienza è
ben stabilita; egli è il medesimo ab eterno; nulla gli si può aggiungere 0
levare, e non ha bisogno d'alcun maestro » (Eccli. 42, 21). Secondo Gia¬
como in Dio, Padre della luce, non vi è mutamento, nè ombra di va¬
riazione (Giac. 1, 17). Paolo delinea, in modo assai profondo, nella let¬
tera ai Romani, l'immutabile fedeltà di Dio. Quando la Scrittura parla
di mutamenti nei sentimenti divini (pentimento, pazienza, ira ecc.) si
esprime in modo metaforico.
3. - IPadri hanno esaltata l'immutabilità divina in opposizione alle
concezioni panteistiche e a quelle dualistiche degli stoici, degli gnostici
e dei manichei.
Origene afferma : « Io penso di aver già risposto abbastanza quando mostrai
come si deve spiegare la Scrittura che parla di una discesa di Dio tra gli uomini.
Per far ciò non è affatto necessario, come ci obietta Celso, che egli muti e passi
dal bene al male, dal bello al brutto, dalla felicità verso l'infelicità o da una si¬
tuazione migliore verso una peggiore. Ma Dio, permanendo immutabile nella sua
essenza, discende fino all'uomo ed entra in relazione con lui solo mediante la
sua provvidenza e la sua volontà salvifica. Questa immutabilità ce la descrive la
Bibbia quando afferma: Tu sei sempre lo stesso, o quando gli fa dire: Io non
mi muto. Diversa è la situazione degli dèi di Epicuro. Essi sono risultanze di
atomi e correrebbero il pericolo di cadere in decomposizione se non combattes¬
sero, con tutte le loro forze, per eliminare gli atomi che minacciano la loro
distruzione. Il Dio degli stoici poi, essendo corporeo, ora è tutto concentrato in
sè, quando avviene la conflagrazione, ora invece si fraziona al massimo, quando
avviene la rinnovazione e nasce il nuovo ordine. Infatti questi filosofi non sono
mai riusciti a scoprire, nel loro studio naturale di Dio, un'essenza che sia del
tutto eterna, semplice, senza composizione di parti e perciò indivisibile » (Contra
Celsum, 4, 14).
Agostino scrive : « Se la ragione non fosse in grado di confutare questi argo¬
menti coi quali gli empi si sforzano di allontanare dalla retta via la semplicità
della nostra pietà per farci vagare con essi, li dovrebbe disprezzare la fede. Ma
si tenga presente che, mediante l'aiuto del Signore nostro Dio, la ragione stessa
infrange questi volubili circoli che la supposizione si crea. Costoro, infatti, vo¬
lendo piuttosto mettersi su false vie, anziché nella vera, errano grandemente,
perchè misurano con la loro mente umana, mutevole e piccina, la mente divina
affatto immutabile, capace di ogni infinità e che numera le innumerevoli cose,
senza aver bisogno di passare da un pensiero all'altro. Ed accade a loro ciò che
dice l'Apostolo : " Paragonando se stessi con se stessi, non intendono " (2 Cor
che prima vi poiché ciò signi
p
353 P. I. - DIO UNO E TRINO agire
n
io, 12). Infatti, poiché tutte le volte che vien loro in mente di fare qualcosa la fat
fanno in base a una nuova decisione (poiché hanno la mente mutevole), pensano e
che anche Dio faccia così. Ma in tal modo pensano, non a Dio, al quale non "
possono pensare, ma a se stessi, in luogo di lui; non paragonano Dio a Dio, e
ma se stessi a se stessi. A noi però non è lecito credere che Iddio sia in un pre
modo quando riposa e in un altro quando opera, quasi che nella sua natura mod
avvenga cosa che prima non vi era, poiché ciò significherebbe mutabilità. Non fossero
si creda dunque che nel riposo divino vi sia ignavia, pigrizia, inerzia, o che nelle co
sue opere vi sia lavoro, sforzo, studio. Egli sa agire riposando e riposare ope¬ ch
rando. Per un'opera nuova può portare un consiglio non nuovo, ma sempiterno,
né incominciò a fare quello che prima non aveva fatto, quasi pentendosi di es¬
sersene per l'innanzi astenuto. Se prima si astenne e poi operò (il che non so dun
come possa comprenderlo l'uomo), il " prima " e il " poi " si verificarono senza lo
dubbio nelle cose che prima non esistevano e poi esistettero. Nessuna volontà
susseguente mutò o distrusse in Dio la volontà precedente, ma con un'unica, tu
medesima, immutabile ed eterna volontà, fece in modo che le cose da lui create
non fossero prima quando non furono, perchè fossero dopo quando incomincia¬ ciò
rono ad essere. Forse volle mostrare mirabilmente con questo a quanti possono l'An
intenderlo, che egli non aveva bisogno delle cose che fece, ma le creò unica¬ p
mente per sua bontà, rimanendo, pur senza di esse, in una non minore beati¬ da
tudine, dall'eternità che non conosce principio » {De civitate Dei, 12, 17). so
Altrove lo stesso Agostino scrive : « Lo chiederò dunque al Signor nostro Gesù n
Cristo, lo chiederò e mi ascolterà. È qui presente, lo credo, non ho dubbio al¬ erano
cuno : egli stesso infatti promise : " Ecco io sono con voi fino alla fine del que
mondo ". O Signore nostro, che significano queste tue parole : " Se credete che
io sono "? Di tutte le cose che tu hai creato c'è forse qualcosa che non è? Forse verame
il cielo non è? Forse la terra? Forse non è tutto ciò che si trova in cielo e inQualunque
terra? Questo uomo stesso cui tu parli non è? E l'Angelo che tu mandi non è?
Se sono dunque tutte queste cose che tu hai create, perchè ti sei riservato, come a
qualcosa di tuo proprio, quell'essere che non hai dato ad altri perchè tu solo alto
fossi? Che è questa espressione che io sento " Io sono colui che sono ", quasi l'essere
tutto il resto non fosse? Perchè sento dire : " Se non credete che io sono "? ciò
Allora quelli che sentivano queste parole non erano? Ma se erano peccatori, qualcos
erano uomini. E allora? Che cosa sia propriamente quest'essere lo dica il maestro andato
divino, lo dica al cuore, nell'intimo, parli di dentro, e lo senta il profondo del¬ corpo
l'animo e lo spirito colga che cosa sia essere veramente: essere significa essere
sempre allo stesso modo senza mutazione. Qualunque cosa, assolutamente tutto
(ho cessato di interrogare, ora comincio a svolgere un ragionamento : voglio dirvi
ciò che mi pare aver udito, e tutto ciò porti gioia al mio orecchio, e, mentre
parlo, anche al vostro), qualunque cosa, di valore alto quanto si voglia, se muta
non è veramente: infatti non c'è veramente l'essere là dove c'è pure il non
essere. Tutto ciò che può mutare diventa infatti ciò che prima non era, si è
verificata una qualche morte; è venuto meno qualcosa che prima c'era, e dopo
non è più. Il colore bruno dei capelli se n'è andato dal capo del vecchio che
ora incanutisce, ed è scomparsa la bellezza nel corpo del vecchio stanco e in¬
curvato dagli anni, è morta l'energia viva nel corpo dell'ammalato, la posizione
§ 69. IMMUTABILITÀ DI DIO 359
ferma in chi cammina, il moto in chi è fermo, lo stare in piedi e il camminare
in chi è seduto, è morto il parlare nella lingua che tace. Su tutto ciò che muta,
e diviene ciò che non era, vedo vita e morte: vita in ciò che è, morte in
ciò che fu. Quando si parla di un morto e si chiede: Dov'è quell'uomo? si ri¬
sponde: Fu. O verità che veramente sei! In tutte le nostre azioni, in tutto il
nostro muoversi, nell'avvicendarsi delle creature tutte io vedo due tempi: il pas¬
sato e il futuro. Cerco il presente ma esso sfugge e non si ferma. Ciò che ho
detto già non è più; ciò che sto per dire non è ancora; ciò che ho fatto non è
più, ciò che sto per fare non è ancora; ciò che ho vissuto ormai non è più, ciò
che ancora devo vivere non è ancora. In tutto il movimento degli esseri trovo
il passato e il futuro: nella verità che permane non trovo il passato e il futuro,
ma solò il presente, e per di più senza mutazione, il presente incorruttibile, il
che non si verifica nelle creature. Osserva il cambiamento delle cose: vedrai il
fu e il sarà; pensa Dio, troverai l'è. Il fu e il sarà non son possibili in lui. Se
dunque anche tu vuoi essere, oltrepassa il tempo. Ma chi lo può fare con le
proprie forze? Ci porti quindi là Colui che disse al Padre: voglio che dove sono
io anch'essi siano con me. Mi pare dunque che, promettendoci di non lasciarci
morire nei nostri peccati, il Signore Gesù Cristo con le parole : " Se non credete
che io sono " abbia voluto dirci nient'altro che questo : " Se non credete che io
sono Dio, morirete nei vostri peccati E disse bene, e sia ringraziato Iddio :
" se non crederete ", invece che " se non comprenderete ". Chi infatti potrebbe
avere una piena comprensione? Forse che, ora che io ho osato parlare e voi
mi sembra abbiate seguito, avete afferrato e compreso pienamente qualcosa di
tanta ineffabilità? Se dunque non comprendi, la fede ti libera. Perciò il Signore
non disse se non comprenderete che io sono, ma disse ciò che era nella nostra
possibilità: "Se non crederete che io sono, morirete nei vostri peccati!"» (In
Ioann., tract. 38, 10).
E continua : « E allora tu riposerai in noi come ora in noi operi; e ogni riposo
sarà il tuo riposo in noi, come le opere nostre sono le tue per mezzo nostro.
Tu, o Signore, operi sempre e sempre riposi; non vedi nel tempo, nè ti muovi
nel tempo, nè riposi nel tempo; e tuttavia tu crei la visione nel tempo, il tempo
stesso e la quiete alla fine del tempo » (Confessiones, 13, 37). « Come tu asso¬
lutamente esisti, così tu solo conosci: tu sei immutabilmente e immutabilmente
conosci e immutabilmente vuoi. La tua essenza sa e vuole immutabilmente, la
tua scienza è e vuole immutabilmente, la tua volontà è e conosce immutabil¬
mente » (ivi, 13, 16). « Vive Dio e vive l'anima; ma la vita di Dio è immutabile,
la vita dell'anima è mutabile. Tutto ciò che costituisce la vita spirituale dell'a¬
nima : intendere, volere con i relativi oggetti, è in Dio immutabile » (In Ioann.,
19, 5, ")•
4. -Le considerazioni precedenti ci mostrano che l'immutabilità di
Dio, in quanto essere puro in sè sussistente, e la sua perfetta semplicità
non sono conciliabili con la mutabilità. Questa si trova solo là dove l'es¬
sere è ancora in potenza, sicché resta possibile un ulteriore sviluppo, 0
dove il soggetto non ha la forza di perseverare nell'essere che possiede e
può quindi correre il pericolo di perderlo.
immutab
altro
360 I». I. - DIO UNO E TRINO
misericordiosiss
5. - L'immutabilità di Dio non significa indifferenza e freddezza per il stab
destino degli uomini, rigidità e mancanza di vita. Difatti nella sapienza m
sta scritto : « La Sapienza è più mobile di ogni moto, e per la sua pu¬ sanno;
rezza penetra e riempie ogni cosa... e in se stessa rimanendo tutto rin¬ riempi
nova » (Sap. 7, 24. 27).
n
Agostino descrive assai bene l'intreccio di immutabilità e di vitalità che si av¬ ch
vera in Dio : « Chi sei, dunque, o mio Dio? Che altro, dimmi, se non il Signore avaro,
Dio? Chi è infatti il Signore o chi è Dio altri che il Dio nostro? O sommo, ot¬ c
timo, potentissimo, onnipotentissimo; misericordiosissimo e giustissimo; lontanis¬ C
simo e presentissimo, o bellissimo o fortissimo, stabile e incomprensibile. Im¬ m
mutabile e muti tutte le cose; non mai nuovo, non mai vecchio e tutto rinnovi par
e a vecchiezza adduci i superbi ed essi non lo sanno; sempre in attività, sempre
in quiete, raccogli e non hai bisogno; porti e riempi e proteggi; crei, nutrisci e
rechi a compimento; cerchi e nulla ti manca. Ami senza passione, sei geloso vanta
senza turbamento, ti penti senza dolore, ti adiri nella tua tranquillità, cangi eg
opere, ma non disegno; riacquisti ciò che trovi e che non avevi mai perduto; c
non mai povero, godi degli acquisti; non mai avaro, eppure esigi a usura; do¬ magg
niamo a te, perchè tu possa rendere, e nessuno ha cosa non tua; paghi i debiti
e non sei debitore; condoni i debiti e nulla perdi. Che è mai quanto ho detto,
dina
Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? Che cosa mai può dire uno quando immutabi
parla di te? Eppure guai a chi tace, perchè di te parlano gli stessi muti » (Con-
fessiones, 1, 4). ed
Non dobbiamo pensare che sarebbe un vantaggio per la nostra dedi¬ e
zione il nostro abbandono in Dio, qualora egli fosse concepito come realiz
qualcuno che soffre, lotta e si sforza con noi; che potremmo più forte¬ valor
mente pentirci, confessarci e credere con maggior fermezza al perdono co
divino qualora Dio si muovesse realmente dinanzi a noi. Tuttavia dob¬
biamo aver presente che Dio non è immutabile come fosse un corpo
morto, bensì lo è come atto sussistente, come attualità che vive (cfr. i
passi surriferiti di S. Agostino). Può mutarsi ed è bisognoso di cambia¬ ve
extradivino
mento solo colui che non realizza con perenne energia tutte le ricchezze
dell'essere e del valore. Ora Dio non solo realizza con assoluta diuturna
potenza, perennemente viva, le dovizie dei valori assoluti, ma egli stesso s
è piuttosto la ricchezza assoluta dei valori, colui che si possiede con
chiarissima coscienza e vivissima forza. Come Dio penetra e abbraccia
con assoluta attività se stesso, essere assoluto, così è presente in tutte
le cose con la sua vigile consapevolezza e il suo amore creativo, in modo
che la loro essenza, esistenza, entità e realtà vengono totalmente stabi¬
lite da lui. Anche tutto ciò che è extradivino e che egli liberamente
vuole, viene stabilito nell'unico atto della sua vita spirituale. Dio non
vede ciò che è fuori di lui semplicemente nei singoli sviluppi, ma nella
§ 69. IMMUTABILITÀ DI DIO 361
sua totalità, nell'unità del suo svolgersi e può pertanto volere il tutto
con il proprio amore creativo. Egli quindi non deve emettere nuove
decisioni secondo le nuove situazioni. Ciò, tuttavia, non significa che i
singoli momenti del divenire non siano stati da lui fissati con chiara
precisione e non li veda nella loro singolarità, nel loro valore o disva¬
lore, che non siano avvolti dal suo amore creativo o dal suo aborri¬
mento, ma solo che in Dio non v'è necessità di nessuna nuova cono¬
scenza e di nessuna nuova decisione, per adattarsi a una situazione nuova
che si avvera fuori di lui. Un tale mutamento sarebbe possibile soltanto
se Dio conoscesse solo isingoli momenti, ma non la totalità del creato,
0 se egli non vedesse le cose nel loro più intimo valore e significato,
ovvero se egli non avesse preso con somma energia e pari potenza le
sue decisioni che si identificano con lui stesso. Pertanto l'opera della re¬
denzione, il nostro pentimento 0 la nostra preghiera non portano alcun
mutamento in Dio. Egli non è come l'uomo soggetto a cambiamento di
umore; al contrario, come meglio si vedrà nel trattato sulla Redenzione,
è sempre rivolto con identica forza di volontà e con chiara visione in¬
tellettiva al bene che è se stesso. Dio che è amore sussistente dice co¬
stante e immutabile volontà di bene. La redenzione è l'opera di questo
amore divino. Come questa fu compiuta, la terra ritornò nuovamente
meritevole di quell'amore divino che abbraccia ogni cosa buona. La mu¬
tazione quindi è tutta e solo da parte della creatura. L'atto della volontà
divina assolutamente semplice e infinitamente ricco si manifesta in modo
diverso a seconda dell'atteggiamento delle creature. Perciò Agostino può
dire : « Se tu cambi, egli cambia » (si mutaris, mutatur; Sermo 22, 6).
Inostri atti di religione, pur non potendo nulla mendicare od ottenere per
forza da Dio, conservano il loro valore nonostante l'immutabilità divina. Dio li
vede sempre come parti della totalità della nostra vita e sono, quindi, in rela¬
zione coi beni che Dio intende comunicarci nel corso della nostra esistenza ter¬
rena. Anche se Dio ci accorda molto, in conseguenza delle nostre preghiere, ciò
non significa che le nostre suppliche abbiano il potere di renderlo più indul¬
gente mentre altrimenti sarebbe stato più severo. Il motivo di ciò sta nel fatto
che Dio non costringe per nulla l'uomo, ma rispetta la sua libertà, e quindi
dona alla creatura solo ciò che questa è preparata a ricevere. La migliore e più
viva preparazione del cuore umano a ricevere i doni che Dio gli accorda, sta
nella preghiera che sale a lui, datore di ogni bene. Pregando e chiedendo a
Dio, l'uomo riconosce la sua limitatezza e debolezza, ma, contemporaneamente
vede la ricchezza infinita e la bontà misericordiosa di Dio da cui attende fidu¬
cioso ciò che da solo non può ottenere. Perciò la supplica si trasforma in gloria
e adorazione per Dio. Dall'eternità egli ha stabilito che tale preghiera fosse il
immutabile piano della storia, vengono esperimenta
divino
362 P. I. - DIO UNO E TRINO rivolge
presupposto per dare, nel tempo, agli uomini i doni riservati ad essi nel suo storic
eterno piano di salvezza. l
L'immutabilità di Dio non è neppure in opposizione con le vive espressionil'occasion
della Bibbia, le quali affermano che egli va e viene, che parla e consola, che
opera e agisce nella storia. Tutti i passi biblici che parlano del venire e dell'an¬
dare divino significano solo che le azioni salvifiche, racchiuse nel suo eterno ed (cfr
immutabile piano della storia, vengono esperimentate dagli uomini nel tempo. nell'uo
Gli eventi salvifici provenienti dall'eterno piano divino, che si innestano nel corsopenetrarv
della storia, sono altrettanti richiami che Dio rivolge all'uomo in ogni sua situa¬
zione storica. Così nonostante l'immutabilità divina, in ogni momento può aver compimen
luogo l'incontro tra il Dio vivente e l'uomo storico. Ma poiché Dio chiama penetrazion
l'uomo come essere libero, senza contrastare la sua libertà, l'uomo può non dar
retta al richiamo divino. Ciò fornisce a Dio l'occasione per agire in modo ancora avverare
più potente sia per l'uomo, sia per il mondo. Il « no » umano di fronte al volere v
divino è certo una provocazione al suo amore, che gli fornisce motivo per un esp
maggior sfoggio d'amore onde salvare l'umanità (cfr. l'espressione: felix culpa). divi
Così, ad esempio, Dio, entrato nel mondo e nell'uomo mediante la creazione, aff
riesce dopo la ribellione della creatura, a penetrarvi ancor più profondamente preced
grazie all'incarnazione e alla redenzione. Al termine della storia umana avverrà,
un'ulteriore manifestazione per condurre a compimento la comunità degli uomini gar
e il mondo intero. Ma anche tale nuova penetrazione di Dio nella storia, a fa¬ n
vore degli uomini, non adduce alcuna mutazione in lui. Infatti, ogni manifesta¬ impegni
zione temporanea di Dio, non fa altro che avverare nel tempo ciò che Dio ha for
deciso dall'eternità in quanto egli, dall'eternità ha visto e vede tutto il corso e co
lo sviluppo della storia. Così, in ogni istante, si esplica quanto in tale momento
preciso deve verificarsi secondo l'eterno piano divino. Ogni nuovo intervento disorientamen
di Dio in favore degli uomini, non significa affatto che egli abbia deciso immuta
un nuovo tentativo di salvezza, visto che i precedenti sono falliti. Va inteso, fuori
piuttosto, come il graduale svolgimento nel tempo di ciò che ab aeterno era stato tal
deciso. Anzi è proprio l'immutabilità divina a garantirci che Dio, nonostante sono
l'attenzione che presta al tutto e alle singole parti, non si smarrisce, come pur¬
troppo avviene all'uomo, se assume soverchi impegni. L'immutabilità divina, che
è l'espressione del suo essere sussistente e della forza creativa del suo amore,
conferisce sicurezza e continuità al nostro incontro con lui. Ci dà la certezza che
egli resta fedele alle decisioni prese, che esiste un essere perfetto verso cui il mis
nostro essere in divenire, liberato dal disorientamento, è incamminato. Agostino,
Né la libertà di Dio contrasta con la sua immutabilità; infatti egli ha preso temporalità
tutte le sue decisioni che riguardano ciò che è fuori di lui, con atto atemporale
di chiarissima visione e di assoluta libertà. Poiché tali decisioni non abbisognano,
anzi non sono capaci di miglioramento alcuno, sono, per ciò stesso, immutabili.
§ 70. Eternità di Dio.
1. - L'eternità si oppone al tempo, il quale è la misura del movimento secondo
un prima e un poi. Il tempo, secondo S. Agostino, è in intimo legame con il
mondo mutabile, creato da Dio, la cui temporalità poggia appunto sulla sua
§ 7°- eternità di dio 363
perenne mutazione. « Quando il mondo venne alla luce, ebbe inizio, con il suo
mutare, il corso del tempo. Prima della creazione è inutile cercare il tempo.
Infatti come sarebbe possibile rinvenire il tempo prima del tempo stesso? Se
non ci fosse alcun mutamento nelle creature, spirituali o corporee, per cui il
futuro nasce, oltre il presente, dal passato, non sussisterebbe nemmeno il tempo.
Il creato non si potrebbe muovere se non esistesse. Perciò il tempo ebbe prin¬
cipio con la creazione come la creazione con il tempo, ma entrambi provengono
da Dio » (Agostino, De genesi ad litteram, 5, 12).
Il tempo è perciò intimamente connesso con la mutazione delle cose, in quanto
ne è la misura, vale a dire, l'ordine del mutamento. La temporalità è inscindi¬
bile dalle cose mutabili e ne costituisce il loro modo d'essere. Siccome il cam¬
biare, il divenire, il perire, il rinnovarsi poggiano sull'interazione delle cose si
può anche dire che il tempo è formato dalle cose che stanno in rapporto di re¬
ciproca azione. Esse costituiscono il tempo mentre, contemporaneamente, esse
stesse sono nel tempo. Certo non tutti i cambiamenti formano il tempo, il quale
è un fiume che ha una determinata direzione, passato, presente, futuro. Il pas¬
'
sato si svolge attraverso il presente verso il futuro, il futuro è reso possibile dal
passato e attraverso il presente. Tale ordine non è invertibile. Dove non esiste
un legame intimo tra ciò che era, è, e sarà, non si può parlare, in senso stretto,
di tempo (Apoc. 10, 6), anche se le creature soggette a tali azioni discontinue,
come forse lo sono gli angeli, sono legate al tempo.
Qui sorge una difficoltà: come ci è possibile rinvenire la misura del tempo,
dal momento che di questi tre elementi il passato non esiste più, il futuro non
si è ancora avverato e il presente sta in un punto indivisibile? Ciò che è al di
fuori del presente o non c'è ancora o non esiste più. Agostino cerca di scio¬
gliere il problema osservando che il passato sopravvive nel ricordo: nel ricor¬
dare lo spirito si rivolge verso il passato; e il futuro è presente nell'anima come
una realtà attesa: nell'aspettare l'anima si protende nel futuro. Questa continua
attenzione dell'anima verso ciò che ancora non esiste o che non è più ci rende
possibile misurare il tempo. Il fatto che l'anima lo possa misurare, ci fa capire
che è, in certo modo, al di sopra di esso. Pur sentendosi strettamente legata al
tempo, tuttavia non lo è in modo tale da esserlo sin nella sua essenza più inti¬
ma, altrimenti non potrebbe erigersi al di sopra di esso per osservarlo e misurarlo.
L'animale invece è completamente legato al tempo, sì che non ha nessuna idea
di esso. Siccome l'eternità è mancanza di qualsiasi mutazione, della ripartizione
in passato, presente, futuro e quindi significa ciò che è tutto insieme, l'anima
s'accosta alla eternità dal momento che può vedere assieme il succedersi delle
cose. Anche se attribuiamo all'anima la misura del tempo, non ne proviene che
esso sia solo alcunché di soggettivo. Infatti le cose temporanee, o meglio il loro
succedersi, sono la ragione per cui lo spirito viene reso attento e si volge alla
realtà ricordandola o attendendola. Lo spirito può confrontare tra loro le sin¬
gole fasi del flusso temporale, perchè esse sono ricollegate tra loro. Il passato
non è ciò che si è semplicemente inabissato nel nulla, il puramente trascorso,
il futuro non è quanto ancora è racchiuso in seno al nulla, ciò che non esiste
in nessun modo. Tutt'altro! Il passato sopravvive come potenza attiva nel pre¬
sente, che, ricevendone la sua impronta, lo rende in certo qual modo tuttora
ossia diviene nostro possesso interiore. Il futuro, d
fortemente
364 P. I. - DIO UNO E TRINO
anch
esistente. In egual maniera, anche il futuro è già preformato nel presente, in cui fu
esso già si trova allo stato di divenire.
Quando affermiamo che il passato agisce come forza in ogni singolo istante dev
della nostra vita e che da esso nasce il futuro, intendiamo dire che noi viviamo esser
realmente del nostro passato e del nostro futuro. La vita acquista sempre più
forza e contenuto man mano che il passato ci accompagna e s'incarna in noi,
ossia diviene nostro possesso interiore. Il futuro, di solito, balza sempre più Includ
chiaro e luminoso, perchè è sempre più fortemente preformato. Certo, passato di
e futuro non adducono soltanto ricchezza ma anche peso. Infatti con la dovizia 52
cresce, durante il nostro pellegrinaggio terrestre, anche la fatica. int
Psicologicamente la tensione tra il passato e il futuro si estrinseca come ri¬
cordo e attesa, ossia speranza, cosicché si può dire che noi necessariamente vi¬
viamo di ricordi e di speranze. Tuttavia non si deve esagerare e affermare che
l'uomo sia solo ricordo e speranza. Egli è un essere sussistente, che ricorda eparticola
spera. Sono quindi da scartarsi quelle dottrine che riducono l'essere dell'uomo
a puro divenire, a pura temporalità.
L'eternità indica mancanza di successione. Include la mancanza di un prin¬
cipio e di una fine ed è un concetto più ricco di aevum o di sempiternitas,
dell'eternità
che denotano solo durata senza fine. Boezio (f 524) definisce l'eternità come
« il perfetto e simultaneo possesso di una vita interminabile » (interminabilis L'eternità
vitae tota simul et perfecta possessio). includ
2. - Dio è eterno. È dogma di fede. d
a) Testimoniano questa dottrina particolarmente il simbolo Qui- vicen
cumque, il IV Concilio Lateranense (Denz. 428) e quello Vaticano inclu
(Sess. 3, cap. 1; Denz. 1782).
b) Per comprendere il dogma dell'eternità divina si deve osservare ass
che l'elemento decisivo dell'eternità non è la mancanza di principio 0
di fine, ciò è la durata senza termini. L'eternità è qualcosa di diverso e motiv
di più della durata interminabile, benché includa anche questa. Afferma, l'eternità
in primo luogo, la concentrazione dell'essere e della vita in un sol punto. ess
Tempo ed eternità si escludono quindi a vicenda (Agostino, In Ioann., t
23, 9). L'espressione « tempo eterno », include contraddizione in se
stessa. In senso più ampio la parola « eterno » è usata anche là dove si
intende parlare solo di durata senza fine 0 assai lunga. Di più la stessa e
forma d'esistenza eterna assume, per il nostro modo di concepire legato
al tempo, l'aspetto di durata senza fine a motivo della sua immutabilità.
Secondo la spiegazione precedente l'eternità di Dio include la man¬
canza di qualsiasi successione sia nel suo essere che nelle sue azioni.
Perciò la sua vita, per noi uomini ancorati nel tempo, appare senza prin¬
cipio e senza fine. Egli non è legato al tempo nel senso che esista una
storia intradivina. Non si può narrare nessuna vicenda della vita intima
di Dio (non esiste alcun mito). Come Signore e creatore di tutto quanto
§ 7°. ETERNITÀ DI DIO 3ÿ5
è extradivino, mediante la sua rivelazione e specialmente grazie alla sua
incarnazione, Dio realizza la storia. Tuttavia la successione storica non
penetra nella vita divina. In Dio non vi è nè passato nè futuro: egli
non vive nè di ricordi, nè di attesa. In lui esiste continuo presente.
Naturalmente queste espressioni riflettono le nostre concezioni tempo¬
rali; non è possibile formarci alcun concetto o rappresentazione dell'e¬
ternità, se non mediante concetti temporali, poiché viviamo nel tempo
in maniera inscindibile. In Dio giovinezza e vecchiaia, principio e fine
s'identificano; egli è sempre giovane ed eternamente vecchio. Forza e
maturità, originalità ed equilibrio si fondono armonicamente. Agostino
dice : « Chi è vecchio come Dio, che è prima di tutte le cose e senza
principio o senza fine? Diventa nuovo per te, quando ritorni, poiché
allontanandoti da lui, tu sei invecchiato » (In Ps. 39, 4).
L'eternità è il modo di essere di Dio. Per mezzo suo egli è essenzial¬
mente e intrinsecamente diverso dalla creatura. L'essenza dell'eternità
significa in fondo solo pienezza smisurata dell'essere e della vita con la
massima semplicità senza alcun divenire 0 accrescimento, senza ripar¬
tirsi nel prima, nell'ora e nel poi.
c) Nella Scrittura si afferma spesso che Dio è senza principio e
senza fine e anche senza alcuna successione per far comprendere la sua
superiorità su tutte le creature. Talvolta, tuttavia, la parola « eterno »
assume soltanto il significato di lunga durata. Abramo invoca sotto il
tamarisco il nome di Dio eterno (Gen. 21, 33). Nel suo canto di vittoria
Mosè esclama: «Il Signore è re in eterno» (Es. 15, 18). Nel cantico
di lode Tobia dice: « Grande sei in eterno, o Signore; in tutti i secoli è
il regno tuo » (Tob. 13, 1). Anche Giobbe allude alla grandezza smisu¬
rata di Dio : « Ecco Dio è grande, vince la nostra scienza, il numero
degli anni suoi non si computa » (Giob. 36, 26). Molto spesso i Sal¬
mi esaltano l'eternità di Dio; per esempio nel Sai. 9, 8 si canta:
« Ma il Signore in eterno sta; ha stabilito per il giudizio il suo trono »;
cfr. Sai. 10, 16; 33, 11. Nel Sai. 90, 1 s. il salmista esclama: « Signore,
rifugio sei stato per noi di generazione in generazione. Prima che imonti
fossero e fosse creata la terra e il mondo, d'eternità in eternità, tu esisti,
0 Dio». Nel Sai. 93, 1-2: «Il Signore regna; di maestà s'è rivestito,
s'è rivestito il Signore di forza, s'è cinto di potenza. Ha consolidato la
terra che non vacilli. Stabilito è il tuo trono sin dai primordi, dall'eterno
Tu sei! ». Cfr. pure Sai. 102, 12. 25-28; 135, 13; 146, 10; Eccli. 18, 1;
39, 20. Così Isaia esalta Iddio : « Erba è tutta la carne e tutta la sua
gloria è come il fiore del campo. L'erba si seccò e il fiore cadde, perchè
dà forza allo stanco, e a coloro che vengono m
P. I. - DIO UNO E TRINO
vengo
366 spera
il soffio del Signore vi passò sopra. Veramente un'erba è il popolo. L'erba a
si seccò e il fiore cadde, ma la parola del Signore nostro resta per sem¬
pre » (Is. 40, 6-8). E seguita (v. 28 e ss.) : « E non capisci? e non inten¬
desti? Il Signore è il Dio eterno, che ha creato i confini della terra; non 58
si spossa mai e non si stanca, e la sua sapienza imperscrutabile. Egli
è 9
dà forza allo stanco, e a coloro che vengono meno raddoppia vigore e d
robustezza. Gli uomini anche in verde età vengono meno e si stancano, (Gi
e i giovani cadono affranti. Ma quelli che sperano nel Signore rinnove¬ pre
ranno le forze, rimetteranno le penne come le aquile, correranno senza mille
fatica, cammineranno senza stancarsi mai » (cfr. Is. 26, 4; 41, 4; 44, 6; ete
Dan. 4, 31; 7, 13 ss.; Mich. 4, 7). e
Per il Nuovo Testamento vedere Giov. 8, 58; 17, 24; Rom. 1, 23; (abitazione
16, 26; 1 Cor. 2, 7; Col. 1, 26; Ef. 1, 4; 3, 9; 1 Tim. 1, 17; 1 Piet. etern
1, 20. Se si usa l'eternità di Dio come misura del tempo, anche un pe¬
n
riodo lunghissimo diviene brevissimo istante (Giov. 16, 16-18); e anche
del futuro più remoto è possibile dire che « presto » verrà (Apoc. 1, 3;
bas
22, 12). Davanti a Dio un giorno è come mille anni e mille anni sono
commentando
come un giorno (2 Piet. 3, 8). Come Dio è eterno, anche i beni divini i
e i suoi doni sono eterni: Le. 16, 9 (dimore eterne); 2 Cor. 4, 17 s. N
(eterno cumulo di gloria); 2 Cor. 5, 1 (abitazione eterna in cielo); 2 Tim. dell'etern
2, 10 (gloria eterna); Apoc. 14, 6 (evangelo eterno); 2 Piet. 1, 11 (regno
l'etern
stato
eterno). Ibeni « eterni » appaiono già presenti nel tempo, ma lo trascen¬ non
dono e brilleranno nella loro piena luce solo alla fine di esso. c
dire
d) Per quanto si riferisce all'epoca patristica basta addurre i seguenti passi cre
di Agostino. NeW'Enchiridion (n. 49), commentando il testo del Salmo 2, 7,
movimenti
scrive : « Dove il giorno non principia con la fine di ieri e non cessa con l'inizio
del domani, quivi sussiste sempre un oggi perenne». Nel De civitate Dei (n, 6)
spiega : « Se la vera differenza del tempo e dell'eternità consiste in questo che no
il tempo non esiste senza mutazione mentre l'eternità va esente da qualsiasi ma
cambiamento, chi non vede che non ci sarebbe stato il tempo se non ci fosse tempo,
qualche creatura i cui movimenti successivi, che non possono esistere simulta¬ vi
neamente, fissano intervalli più lunghi o più corti, cosa questa che costituisce
il tempo? E quindi io non capisco come si possa dire che Dio, essere eterno ed
immutabile, creatore e ordinatore dei tempi, abbia creato il mondo dopo lunghi
intervalli di tempo; a meno che non si dica che, prima della creazione del
mondo, esisteva già qualche creatura i cui movimenti facevano scorrere i tempi.
Ma se le Scritture, infinitamente veraci, dicono che " in principio Dio creò il
cielo e la terra, per farci comprendere che prima non aveva fatto niente, è in¬
dubitabile che il mondo non fu creato nel tempo, ma col tempo. Poiché ciò che
si fa nel tempo si fa dopo e prima qualche tempo, dopo il tempo passato e
prima di quello futuro. Ora, prima del mondo, non vi poteva essere alcun tempo
§ 70. ETERNITÀ DI DIO 367
passato, poiché non v'era nessuna creatura dai cui movimenti nascesse il tempo.
Il mondo fu dunque creato col tempo, poiché il movimento è stato creato col
tempo ». E più avanti scrive : « Come Dio muove le cose temporali senza essere
lui stesso soggetto al movimento del tempo, così egli conosce il tempo con una
cognizione indipendente dal tempo » (ivi, cap. 21).
e) Infine che Dio non sia soggetto al tempo deriva dalla sua es¬
senza che è quella dell'essere assoluto sussistente in sè. Agostino spesso
connette l'essere assoluto di Dio con la sua trascendenza sul tempo.
L'eternità divina sta però in rapporto con il tempo in quanto Dio
è pure creatore del tempo, quindi sua causa esemplare ed efficiente, in
quanto egli è il creatore del mondo che esiste in modo temporale.
Agostino così dice a Dio : « E così col Verbo tuo, teco coeterno, a un tempo
e ab aeterno dici tutte quante le cose che dici, ed è fatto tutto quello che tu
dici sia fatto. Né lo fai altrimenti che dicendolo. E tuttavia non a un tempo e
ab aeterno son fatte tutte le cose che tu fai dicendole. Perchè mai? In qualche
maniera lo capisco, ma non so esprimermi che così: tutto ciò che comincia ad
essere e finisce di essere, comincia ad esistere e finisce di esistere quando si
conosce che deve cominciare o cessare di esistere nella ragione eterna in cui
nulla comincia e nulla finisce» (Confessiones, 11, 7-8).
È però mistero impenetrabile come mai Dio, che vive in modo eterno,
possa concepire, volere, amare, creare e conservare un mondo legato al
tempo.
Alla domanda che cosa abbia fatto Dio prima della creazione, si può
rispondere dicendo solo che egli era egli stesso in un possesso eterno.
Siccome in lui non vi è nè il prima nè il poi, l'inizio e il corso del mondo
non recarono alla sua vita alcun cambiamento. Anzi, in senso stretto,
non ci si può nemmeno chiedere che cosa egli facesse prima e dopo la
creazione del mondo, poiché nell'agire divino non esiste il prima e il poi,
il principio e la fine. Solo la nostra concezione legata al tempo può farsi
una simile domanda. Il modo eterno con cui Dio esiste dovrebbe modi¬
ficare l'interrogativo nella forma seguente: Che cosa fa Dio, che esiste
nella forma dell'eternità senza il mondo, il quale invece esiste in una
forma legata al tempo?
Agostino risponde : « Ma se con fantasia volubile qualcuno va fantasticando
sulle immagini dei tempi passati e si meraviglia che tu, Dio onnipotente e on-
nicreante e onnitenente, artefice del cielo e della terra, sia stato inoperoso per
secoli innumerevoli prima di creare un'opera così grande, apra gli occhi e badi
che la sua meraviglia è fondata sul falso. Difatti com'era possibile che secoli
sanza fine trascorressero, se tu non li avevi creati, mentre sei autore e creatore
steva tempo.
o
368 P. I. - DIO UNO E TRINO ment
28
di tutti i secoli? Potevano esistere tempi da te non creati? O come potevano
trascorrere senza esistere? Se dunque tu sei creatore di tutti i tempi, se esistette perchè
un tempo anteriore alla creazione del cielo e della terra, come si può affermare sopravven
che tu eri inoperoso? Il tempo stesso tu avevi fatto e il tempo non può passare sarann
prima che tu l'abbia fatto. Se poi il tempo non è anteriore al cielo e alla terra, m
perchè si domanda che cosa facevi tu allora? Non esisteva " allora " se non esi¬ ier
steva il tempo. Per altro tu non precedi i tempi; precedi ogni passato con la
grandezza della sempre presente eternità e trascendi ogni futuro perchè è futuro pr
e il futuro una volta arrivato diventerà passato, mentre " tu sei sempre il mede¬ 11,
simo e i tuoi anni non verranno meno " (Sai. 101, 28). Ituoi anni non vanno e par
non vengono; cotesti nostri, invece, vanno e vengono perchè possano venire tutti. pos
Ituoi anni stanno tutti insieme in un punto, perchè sono immobili; quelli contemplazio
che
vanno non sono spinti via da quelli che sopravvengono, perchè non passano; ra
cotesti nostri saranno tutti, quando tutti non saranno più. Ituoi anni sono un mezz
giorno e il tuo giorno non è giorno per giorno, ma è l'oggi, perchè il tuo
" oggi " non cede al domani e non succede al " ieri "; il tuo " oggi " è l'eter¬ dell'essere
nità : e perciò hai generato coeterno colui al quale dicesti " Io oggi ti ho ge¬
nerato " (Sai. no, 16). Tu hai fatti tutti i tempi e prima di tutti itempi tu sei. spinge
E non ci fu tempo senza tempo » (Confessiones, n, 13). no
Dinanzi a Dio, che è semplicità assoluta, ogni parte del tempo creato è pre¬ giunge
sente nella sua totalità, cosicché in lui non vi è posto per l'attesa o il ricordo Dio
delle cose future o passate, bensì solo contemplazione di ciò che è presente. si
(Dio coesiste alle cose). Queste tuttavia stanno in rapporto con l'eternità, ossia vit
con la causa prima di tutte le cause soltanto per mezzo del tempo in cui esistonodell'esiste
(coexsistunt aetemitati sed non totaliter). guardano
f) L'eternità di Dio e la sussistenza dell'essere che essa esprime sono la
ragione per cui i nostri occhi non devono fermarsi ai margini della morte, in com
cui ogni forma di esistenza terrena cade, ma spingersi oltre. Non andiamo in¬
contro al nulla, bensì all'essere eterno di Dio. La nostra fine non è perciò defi¬ megli
nitiva; è solo il modo terrestre d'esistere che giunge al suo termine. Abbiamo
la prospettiva di partecipare alla vita eterna di Dio. La nostra esistenza è un possi
pellegrinaggio verso il compimento in Dio, verso la situazione in cui senza alcuna spe
futura mutazione, parteciperemo svelatamente alla vita eterna di Dio. Perciò chi partecipa
crede in lui ignora la disperazione eroica dell'esistenzialista ateo e la tristezza celest
di Hólderlin: « Gli occhi beati (degli dèi) guardano sereni in una imperitura s'affond
chiarità. Ma la sorte ai mortali destina non trovar pace in verun luogo, mai. p
Scompaiono cadendo ciechi da un'ora nell'altra, com'acqua montana scagliata di tan
rupe in rupe pel corso degli anni verso l'ignoto laggiù » (trad. V. Errante).
La speranza è viceversa il comportamento che meglio s'addice all'uomo durante
il cammino terrestre, in statu viatoris, nel duplice senso che egli si avvicina
sempre più verso la meta e che ancora non la possiede. Cfr. Pieper, Sulla spe¬
ranza; cfr. pure il § 193, II, 3, che tratta della speranza.
Poiché già in questa vita ci è garantita la partecipazione alla vita eterna come
germe che si svilupperà pienamente nello stato celeste, ogni nostra azione non è
peritura, in senso pieno del vocabolo. Essa s'affonda letteralmente nell'eternità
di Dio ove permane nel suo valore, come nostra proprietà. Anzi, quanto più
noi viviamo di Dio e ci consacriamo all'eterno, tanto più cresciamo nella sua
§71- IMMENSITÀ E ONNIPRESENZA DI DIO 369
vita eterna, penetriamo nella sua vita, sussistente in se stessa, e ci raccogliamo
nell'unità al di fuori da ogni smembramento dei compiti di ieri e di oggi.
Perciò la vita non si esaurisce nel perenne darsi alle preoccupazioni e
alle premure dell'ora che passa. Il compito di ogni momento è, anzi, avvolto dal¬
l'eternità divina, in quanto ogni momento è posto da Dio, sgorga dalla sua eter¬
nità per affondare nuovamente in essa. Ciò non significa eliminazione del tempo
con tutti i suoi compiti concreti. Infatti ogni giorno e ogni momento sono
creati da Dio e possiedono perciò un loro senso e valore, anche se talvolta sfug¬
gono alla nostra consapevolezza.
Il fatto che tutti i nostri giorni procedono dall'oggi divino, che Dio è il Si¬
gnore del tempo, suggerisce ad Agostino la seguente considerazione : « Sommo
tu sei e non muti; nè passa in te il dì d'oggi che pure passa in te, perchè in te
sono tutte coteste cose: non avrebbero via per passare, se tu non le contenessi.
" Perchè gli anni tuoi non passano " i tuoi anni sono il dì d'oggi. Oh, quanti
giorni nostri, quanti giorni dei nostri padri passarono per il tuo oggi riceven¬
done la misura e l'esistenza! E ancor oggi altri passeranno e ne avranno misura
ed esistenza. "Tu invece sei sempre il medesimo" e tutte le cose di domani od
oltre e tutte quelle di ieri e del passato tu le farai oggi; tu le hai fatte oggi »
(Confessiones, 6). Fr. Thompson esprime lo stesso concetto nel suo poema
Il veltro del cielo: « Tutto ciò che io ti tolsi io te lo tolsi, —
non per tuo danno,
— ma appunto perchè tu potessi venirlo a cercare nelle mie braccia. Tutto —
ciò che il tuo puerile errore —
immagina perduto, — io l'ho adunato per te a
casa; — sorgi, prendi la mia mano, e vieni! » (trad. F. Olivero).
§ 71. Immensità e onnipresenza di Dio.
1. - Dio è immenso e onnipresente. È dogma di fede. Cfr. il IV Con¬
cilio Lateranense (Denz. 428) e il Concilio Vaticano (Denz. 1782).
Dio, nella stessa maniera con cui trascende ogni successione tempo¬
rale, supera pure ogni determinazione spaziale. Egli è indipendente dal
tempo e dallo spazio: non si spinge dal passato nel futuro attraverso il
presente; e non occupa uno spazio, nè al modo dei corpi che son circo¬
scritti dai limiti del luogo (riempiono lo spazio circumscriptive), nè al
modo degli spiriti che sono limitati a un determinato luogo (si dice che
sono nello spazio definitive). L'immensità, come l'eternità, distingue, per¬
ciò, essenzialmente e intimamente Dio dalle creature legate allo spazio.
Di esso si può dire quanto si è detto del tempo, cioè che è costituito dalle
cose, le quali stanno in rapporto di reciproca azione (interazione). Esse sono
nello spazio e nello stesso tempo lo costituiscono. Mentre l'interazione, che forma
il tempo, si sviluppa, per così dire, in lunghezza, quella che costituisce lo spazio
si svolge invece in larghezza. Come il tempo così lo spazio presuppone una
continuità, una connessione delle variazioni prodotte dall'interazione. Per il tempo
24 - schinaus - dogmatica 1.
è mai luogo, nè onnipresente).
recip
370 P. I. - DIO UNO E TRINO in
u
tale continuità si estende in senso verticale, per lo spazio in senso orizzontale. intera
Strettamente parlando, si può dire solo dei corpi che sono legati allo spazioverticale
perchè solo essi devono compiere un movimento dotato di continuità per spo¬ da
starsi da un luogo all'altro. (In tal senso non si potrebbe affermare che il corpo c
risorto è legato allo spazio, perchè non si muove da un luogo a un altro, ma N
appare improvvisamente or qua or là. Tuttavia anch'esso è legato allo spazio in spa
quanto non è mai senza un luogo, nè onnipresente). Però per il fatto che anche
le cose incorporee create stanno in rapporto di reciproca azione, anch'esse sono, pri
in qualche modo, legate allo spazio. L'immensità in senso proprio è il modo di seconda
essere esclusivo di Dio. Cfr. H. Hengstenberg, Tod und Vollendung, 1938, 22-30. ne
Se la spazialità delle cose si fonda sulla loro interazione in senso orizzontale e accanto
la loro temporalità sull'interazione in senso verticale, allora la prima è determi¬ tante
nata dalla molteplicità delle relazioni, la seconda dalla loro intensità o potenza. ne
E, in senso inverso, a sua volta la spazialità delle cose fonda la ricchezza delle cors
relazioni, e la temporalità, l'intensità o potenza. Nello svolgimento della vita diviene
umana appare chiara e visibile tale differenza tra spazialità e temporalità. Quando
diciamo che una persona vive di più nello spazio e che un'altra vive di piùmassimo
nel tempo, intendiamo con ciò affermare che la prima ama di più i molteplici vita
aspetti e la fluttuante ricchezza della vita, la seconda di più l'intensità di essa. m
La creatura raggiunge la ricchezza della vita, nella pienezza delle relazioni,
stringendo rapporti con quelli che le stanno accanto. L'uomo deve andare verso
i suoi simili per poter arricchire la sua vita di tante cose; ma tuttavia raggiunge nello
potenza e intensità di vita solo quando raccoglie nel suo cuore e possiede inti¬ l'immens
mamente, per mezzo del ricordo, quanto nel corso della vita gli è successo.
Quanto più vive a lungo, tanto più grande diviene questo suo corredo. L'im¬ per
mensità divina significa che la pienezza di Dio non si attua aggiungendo cosa a p
cosa, nè estendendosi, ma concentrandosi al massimo grado. La sua eternità vuol Questa
dire che egli non raggiunge la pienezza della sua vita in gradi successivi, ma che cose
possiede la sua vita medesima perennemente con massima energia. Eternità e p
immensità si concentrano in una realtà unica: Dio possiede la sua pienezza vi¬ a
tale con la massima forza d'esistenza. nell
Per la sua immensità Dio non è circoscritto nello spazio. È illimitato. Il che
non significa, come pensava Newton, che l'immensità divina si identifichi con
l'estensione infinita, ma che Dio proprio per la sua mancanza di estensione non luog
può venir circoscritto da un'estensione qualsiasi, per quanto grande si immagini.
Grazie alla sua immensità ed eternità Dio è tutto presente a se stesso, è total¬
a
mente in se stesso e si possiede pienamente. Questa totale presenza di Dio in sè com
ha per conseguenza la sua presenza in tutte le cose. Tutte, infatti, sono create
da lui e da lui conservate. Siccome egli è tutto presente nella sua azione, ne
deriva che si trova pure tutto là ove agisce, vale a dire in tutte le cose. Dio
abbraccia, sostiene e conserva così il mondo sia nella sua estensione o spazialità,
sia nella sua durata temporale.
L'immensità, il trascendere, cioè, ogni luogo e ogni spazio compete
a Dio, come attributo assoluto anche senza alcun riguardo all'esistenza
reale dello spazio; l'onnipresenza invece gli compete solo come attributo
§ fi. IMMENSITÀ E ONNIPRESENZA DI DIO 371
relativo, ossia in rapporto alle cose create nello spazio. Dio è intima¬
mente presente ad esse (in opposizione al deismo) nonostante la sua es¬
senziale diversità qualitativa (in opposizione al panteismo) e precisa¬
mente come essere che tutto sostiene, potenza che tutto opera, sapienza
che tutto conosce (per essentiam, per potentiam, per praesentiam; Val-
frido Strabene, t 849). In modo tutto speciale Dio è presente nei giusti.
Si tratta qui della presenza della Trinità nella parte più intima del¬
l'uomo, nel castello interiore, nella scintilla, nell'intimo dell'anima (sum-
mum mentis, acies mentis, intimum mentis, scintilla animae). Ciò va
inteso nel senso di scambio vitale delle Tre persone in noi, al quale
l'uomo, reso degno della grazia, è atto a parteciparvi dapprima in modo
nascosto, poi svelato. Quanto si realizza in cielo, svelatamente, avviene
germinalmente nell'uomo in stato di grazia anche durante il suo pelle¬
grinaggio terrestre (cfr. § 41 e § 50 e il trattato sulla Grazia). La pre¬
senza di Dio nella creatura santificata dalla grazia, è conseguenza, quasi
un prolungamento di quella del Figlio di Dio nella natura umana da lui
assunta.
2. - La Bibbia asserisce tanto l'onnipresenza generale di Dio in tutte
le cose quanto la sua abitazione particolare nel giusto. « Dio è con Gia¬
cobbe in Mesopotamia (Gen. 28, 2) ed è l'invisibile testimone delle azioni
umane (Gen. 31, 2), così come è con Giuseppe in terra straniera (Gen.
39, 2) e accompagna Giacobbe in Egitto (Gen. 46, 4). Nè le sfere celesti
nè il tempio di Gerusalemme non possono contenerlo (1 Re 8, 27). Dio
riempie la terra (Ger. 23, 24). Il cielo è il suo trono, la terra lo sgabello
dei suoi piedi (Is. 66, 1); nemmeno nel soggiorno dei morti gli si può
sfuggire (Sai. 139, 8). Egli ci è vicino e lontano (Ger. 23, 23) e i suoi
occhi sono in ogni luogo (Eccli. 15, 3) » (Paffrath, Gott, Herr und Vater,
1932). Cfr. specialmente 2 Cron. 6, 18; Giob. 11, 7-9; 26, 5 s.
Nel Salmo 139, 1-16, si canta: «Signore, tu mi scandagli e mi conosci; tu
di me sai la quiete e il moto, tu penetri da lontano il mio pensiero. Tu vagli
il mio cammino e il mio giacere; ed ogni mio procedere ti è familiare. Invero
non è ancora la parola sulla mia lingua e già tu, o Signore, la conosci tutta.
Di dietro e davanti mi tieni stretto, e mi racchiudi nel tuo pugno. Troppo
stupenda è per me tale scienza, troppo sublime, e non ci arrivo. Dove potrei sot¬
trarmi al tuo spirito, e dove fuggire la tua presenza? Se pur salissi al cielo, ivi
sei tu; se mi appiattassi nell'abisso, eccoti là. Se mi appigliassi ai lembi del¬
l'aurora o abitassi l'estremo occidente, ivi pure mi accompagnerebbe la tua
mano e la tua destra mi coglierebbe. Almeno mi avvolgessero le tenebre e si
facesse notte intorno a me: anche le tenebre non hanno per te oscurità e la
notte brilla come il giorno; quale l'oscurità, tale è la luce, poiché tu hai com-
372 P. I. - DIO UNO E TRINO abbracciand
posto le mie viscere, mi hai formato nel seno di mia madre. Ti ringrazio perchè A
mi hai mirabilmente distinto; stupende sono le opere tue, a me però hai rivolto
somma attenzione. Non ti era occulto il mio essere, che pure fu formato al¬
l'oscuro, fu lavorato nelle profondità della terra. Ituoi occhi vedevano le miericordati
membra informi, che nel tuo libro erano tutte scritte coi giorni in cui dovevano de
formarsi, quando non ne esisteva neppure uno » (trad. Vaccari). Cfr.
Vedi inoltre Eccli. 16, 17-19; nella Sap. 1, 7 si dice: «Lo Spirito del
Signore riempe il mondo, e, tutto abbracciando, ha conoscenza di ogni divi
voce »; Sap. cfr. 8, 1; Is. 43, 1 s.; Am. 9, 2-4.
Nel Nuovo Testamento cfr. Me. 5, 34 ss.; Atti 17, 28 («E non già chia
ch'egli sia lontano da ciascuno di noi, poiché in lui abbiam la vita, il
movimento e l'essere »). Inoltre vanno ricordati tutti i passi in cui Gesùafferman
parla della inabitazione dello Spirito Santo 0 della Trinità 0 quelli in cui
si afferma la presenza di Dio nell'uomo. Cfr. il trattato sulla Grazia,
come pure il § 41.
3. - Nell'epoca patristica l'onnipresenza divina è spesso inculcata perinvocher
suscitare timore del peccato e per sorreggere la speranza nelle tribola¬ l'inv
zioni. Non si può sempre determinare con chiarezza se tale presenza sia me
quella soprannaturale stabilita dalla grazia 0 quella naturale derivante fac
dalla creazione. All'occasione i padri affermano che Dio si trova pure potreb
nell'inferno, senza essere per questo macchiato dal peccato né essere per a
i dannati fonte di felicità. fo
se
Con parole affascinanti Agostino tratteggia nelle Confessiones (1, 2-3) l'im¬
mensità e l'onnipresenza di Dio : « Come invocherò il Dio mio, il Dio e Si¬
gnore mio? Lo chiamerò in me stesso, quando l'invocherò. Ma qual luogo v'è tutt
in me, dove possa venire in me Dio mio, Dio che fece il cielo e la terra? C'è te?
dunque, o Signore mio Dio, qualche parte in me che possa contenerti? Ma terra
forse il cielo e la terra che tu facesti, nei quali facesti anche me, possono con¬
tenerti? O forse dal fatto che senza di te non potrebbe esistere alcuna cosa, de¬ an
riva che ogni essere ti contiene? E allora poiché anch'io esisto, perchè chiedo c
che tu venga in me, io che non sarei, se tu non fossi in me? Chè io non ap¬ no
partengo ancora al regno dei morti; e tuttavia tu sei anche là. Sta scritto: se io
discenderò nel regno dei morti tu sei presente. E dunque io non sarei, o mio
Dio, non sarei in nessun modo, se tu non fossi in me; o piuttosto io non sarei
se non fossi in te, da cui, per cui, in cui sono tutte le cose? Sì, è così, o Si¬
gnore, è così. Dove, allora, ti chiamo, se sono in te? O donde potresti venire in
me. Dove me ne andrò fuori del cielo e della terra perchè possa venire in me
il Dio mio che disse: Io riempio il cielo e la terra? E dunque il cielo e la terra
ti contengono, se tu li riempi? O li riempi e resta ancora in te una parte, poiché
non ti comprendono? E dove riversi quella parte che resta ancora di te, dopo
che hai riempito il cielo e la terra? O invece, tu non puoi essere contenuto, da
nessuna cosa, tu che continui tutto, poiché quello che tu riempi, contenendolo
§ 71. IMMENSITÀ E ONNIPRESENZA DI DIO 373
lo riempi? Non sono, difatti, gli esseri che, come vasi pieni di te, formano la
tua stabilità, perchè anche se si spezzano tu non ti spandi. E quando spandi
tu spandi sopra di noi, non abbassi te, ma noi sollevi, non disperdi te, ma noi
raccogli. Ma tu che riempi di te tutte le cose, le riempi con tutto te stesso? Se
non tutto te possono contenere, contengono di te una parte? E la stessa parte
è contenuta da tutte le cose insieme o da ciascuna una parte, e dalle maggiori,
parte maggiore, dalle minori parte minore? Dunque c'è di te una parte maggiore
e una parte minore? O sei dovunque tutto e nessuna cosa tutto ti contiene? ».
E altrove: «Dio... che rimane sempre, nè si attende che divenga, nè si teme
che venga meno, ma che proprio per il fatto che veramente è, è sempre pre¬
sente » (De ordine, 2, 2).
Giovanni Damasceno dice : « Il luogo corporale è la superficie del (corpo)
contenente immediatamente aderente al (corpo) contenuto. L'aria, ad esempio,
è il contenente, il corpo è il contenuto; ma non tutta l'aria che contiene il corpo
si chiama luogo, bensì solo quella che vi aderisce e lo tocca immediatamente.
Ad ogni modo il contenente non è nel contenuto. Vi è pure un luogo spirituale,
dove si pensa che stia la natura incorporea e spirituale, dove essa è presente e
opera, ed è contenuta non corporalmente, bensì spiritualmente. Essa non ha in¬
fatti alcuna figura per poter essere contenuta a mo' di corpo. Perciò Dio che
è immateriale e illimitato non sta in alcun luogo. Egli stesso è luogo a sè, poiché
egli tutto riempie, tutto trascende e tutto sostiene. Si dice anche che egli sia in
un luogo, ma luogo di Dio si chiama quello in cui egli esercita la sua attività.
Penetra tutto senza, per questo, frammischiarsi con cosa alcuna e partecipa a
tutte le creature la sua operazione secondo l'attitudine e la capacità ricettiva di
ciascuna, cioè secondo la purezza della natura e della volontà. Le cose spirituali
sono più pure delle cose materiali, e i virtuosi più dei malvagi. Di conseguenza
luogo di Dio sarà quello che in maggior misura partecipa all'operazione e alla
grazia divina. Perciò il cielo è il suo trono. In esso infatti vi sono gli angeli, che
compiono la sua volontà e di continuo esaltano la sua grandezza. Questo è il
luogo del suo riposo, mentre la terra è lo sgabello dei suoi piedi. Quaggiù egli
si è mostrato agli uomini con un corpo. Perciò il suo corpo è pure detto il piede
di Dio. Ma anche la Chiesa si chiama luogo di Dio. Infatti essa è stata stabilita
come tempio per cantare le sue lodi, e in essa noi rivolgiamo a lui le nostre
preghiere. Allo stesso modo, luogo di Dio sono quei posti in cui egli si mani¬
festa con la sua attività, sia svolta con il corpo sia senza il corpo. Si deve però
tener conto che Dio è indivisibile, perciò totalmente presente ovunque, e non si
riparte come il corpo in singole membra. Dio è tutto in tutto e tutto sopra
tutto » (De fide orthodoxa, lib. I, cap. 13).
4. - Siccome Dio è presente nella natura, questa cessa di essere per l'uomo
qualcosa di estraneo e freddo. Dovunque riluce il volto dell'amore personale
di Dio. La sua onnipresenza è il fondamento reale per l'incontro di Dio in tutte
le cose, per camminare alla sua presenza, ossia per fissare il cuore (spirito, vo¬
lontà e sentimento) in lui. La vita del Dio tripersonale in noi è il principio
reale dell'esperienza mistica (cfr. il trattato sulla Grazia).
L'io umano è essenzialmente rivolto a un « tu », e finalmente al « tu » divino.
L'uomo, quindi, perviene alla sua vera personalità abbandonandosi a Dio che
s
374 P. I. - DIO UNO E TRINO c
presenz
gli è presente, non concentrandosi in se stesso. Ciò può svolgersi solo in modo popolo
vìvo, quando Dio stesso gli è presente lo aiuta con la grazia. Sì, quanto più Dio
l'onn
opera nell'uomo mediante il suo amore, tanto più questi diviene se stesso, si
riguardan
accosta al prototipo che Dio vede e vuole. La vita che si ottiene da Dio, pre¬
d
sente e operante in noi per grazia, rappresenta l'interiorità nel senso cristiano.
q
La presenza di Dio, ossia quella dell'amore personale sussistente, è la più
ve
sicura garanzia della comunità umana. Tutte le cose sono infatti strette in una
intim
inscindibile unità in quanto Dio è presente in ognuna come amore e causa crea¬
tiva. Un'altra sorta di comunità, ossia soprannaturale, che trascende quella basata
sulla presenza creatrice di Dio, è stabilita dalla presenza, per grazia, della Triade
un
divina nei giusti, i quali costituiscono perciò il popolo di Dio, la Chiesa.
5. - Le affermazioni teologiche sull'immensità e l'onnipresenza divina prescin¬
l'o
dono da qualsiasi interpretazione scientifica riguardante lo spazio e il tempo.
Checché dica di essi la teoria della relatività, Dio è distinto da qualsiasi forma
u
di spazio, poiché egli possiede una natura diversa da quella degli esseri che co¬
stituiscono il mondo dell'esperienza. Perciò non può venir ristretto nella sua esi¬
stenza da un essere diverso da lui, e può essere intimamente presente in ogni
preposizione
essere spaziale, qualunque sia la realtà effettiva dello spazio. Il progresso della
rappo
scienza non può quindi cambiare la dottrina rivelata riguardante l'immensità e
c
l'onnipresenza divina, ma può solo renderci possibile una migliore e più profonda
Ved
conoscenza della rivelazione stessa.
Med
6. - L'onnipresenza di Dio non implica tuttavia l'onnipresenza o multiloca-
zione della natura umana di Cristo glorificata. Né dal modo speciale con cui la
Trinità è presente nell'uomo unito a Cristo, deriva una presenza corporale di
Cristo glorioso. Infatti la Scrittura non asserisce ciò in nessun luogo; quando
parla di esistenza o di abitazione di Cristo « in » noi, non intende una presenza
corporale di Gesù nel battezzato. Con la preposizione « in » vuol solo indicare quant
una relazione del battezzato con Cristo. Questo rapporto perfezionato e appro¬ sua
fondito dalla fede, speranza e carità e dai sacramenti conduce a una viva e gra¬ ontolo
tuita comunione e inabitazione del Padre celeste. Vedi su questo punto l'Enci¬
clica Mystici Corporis del 29 giugno 1943 e la Mediator Dei del 20 settem¬
bre 1947.
1
massima
l
§ 72. La verità di Dio. sol
1. - Qui si parla della verità di Dio solo in quanto costituisce un attributo
assoluto del suo essere, quindi un aspetto della sua pienezza di vita. Verità
equivale, qui, a intelligibilità, razionalità (verità ontologica). Della verità di Dio
in quanto accordo della conoscenza e della parola con il dato conosciuto, si par¬
lerà più tardi.
2. - Dio è luce e nessuna tenebra è in lui (Giov. 1, 5). In lui nessuna zona
occulta, nessun impulso oscuro. In lui brilla la massima luminosità e trasparenza
(Tommaso d'Aquino: maxime cognoscibilis). Dio è la verità personale sussi¬
stente, in quanto l'essere assoluto, che è Dio, non solo si accorda con l'idea di
§ 73- LA bontà di dio 375
Dio (come avviene sempre nella verità ontologica) ma è la sua idea stessa, non
come idea astratta, ma idea quale realtà e persona. Dio è nello stesso tempo la
prima verità, in quanto è la causa esemplare di ogni essere creato, il quale,
perciò, è pieno di senso, di razionalità. Ma ogni creatura è pure un mistero,
perchè lo spirito di Dio, che si palesa in essa, e che è la ragione prima del
mondo e delle cose, è per sè un mistero. Da ciò nasce la possibilità, l'obbligo
e il limite della conoscenza della verità e della scienza. Cfr. il trattato sulla
Creazione.
Qui si trova pure la spiegazione della bramosia che le cose, e specialmente
l'uomo, hanno di essere capite. Ogni essere è avvolto dalla luce che lo compe¬
netra. Principio e fine del mondo è la luce, non le tenebre; il giorno eterno non
la notte senza fine.
Se Dio è vero, deve trascorrere una vita luminosa; essa si attua sotto forma
di Trinità personale. La vita tripersonale di Dio è perciò la più alta espressione
di luminosità e razionalità. Inostri occhi tuttavia non possono penetrare in que¬
sta vita di luce; ci è solo permesso gettare uno sguardo nel mistero di tale pie¬
nezza luminosa. Ciò è espresso nelle parole: Dio è verità. Il che significa che
egli è la suprema realtà intelligibile, che si è dischiusa a noi e resa quindi ac¬
cessibile (cfr. Giov. 14, 6). Così non è facile all'uomo scoprire il significato delle
cose e degli eventi, poiché in essi è presente il mistero di Dio. S'aggiunga che
il peccato l'avvolge di un velo così denso da renderlo difficilmente percepibile.
La sua piena rivelazione avviene nel giudizio universale. Cfr. H. Urs v. Balthasar,
Wahrheit, 1947; trad, francese dal titolo Phénoménologie de la vérité, Paris 1952.
§ 73. La bontà di Dio.
1. - Anche la bontà di Dio è da intendersi qui come un attributo dell'essere
divino, non come comportamento morale.
2. - Die è bontà in quanto per la sua perfezione è tale da poter essere termine
di desiderio. Siccome egli è l'essere assoluto in sè sussistente, è pure il valore
assoluto, la bontà assoluta, il sommo bene (summum bonum), non solo in senso
oggettivo, bensì anche in senso personale. Egli è la bontà in persona. In quanto
abbraccia, amando, la propria bontà è beato. La beatitudine non è solo qualcosa
di accidentale in Dio, ma è Dio stesso. In lui verità, bontà, beatitudine si iden¬
tificano ed esistono come persona, e dato che Dio vive solo come tripersonale,
esse esistono come Padre, Figlio e Spirito Santo. Tutto ciò significa che il prin¬
cipio e il fine del mondo è la beatitudine fatta persona. Non vi è, quindi, un
finale tragico.
Dio è pure la bontà prima o il valore primo. È il sommo bene anche per la
creatura, in quanto è il principio creatore increato e la norma di ogni bontà e
in quanto egli solo può appagare il desiderio infinito della creatura. Dice Ago¬
stino: « Tu ci hai fatto per te e inquieto è il nostro cuore finché non riposi in te »
(Confessiones, 1, 1). Egli è perciò l'ultimo fine. Così spiega Atenagora: « Il mondo
non fu fatto quasi che Dio ne avesse bisogno. Poiché Dio è tutto a se stesso:
luce inaccessibile, bellezza perfettissima, spirito, potenza, ragione » (Supplica per
valore degno d'amore, essere immutabile, perpetua eb
che
376 P. I. - DIO UNO E TRINO un
dall'a
i Cristiani, 16). Il fatto che Dio è il nostro fine ultimo viene spesso da Agostino c
espresso cosi : « Noi dobbiamo godere Dio, ma dobbiamo solo usare le cose ». che
Gregorio di Nissa (Hom. in Beatitud., i, i) : « Chi si deve ritenere veramente quant
beato è Dio stesso. Egli infatti è la beatitudine stessa in quanto è vita pura misura
senza fine, bene infinito, immenso, inesprimibile bellezza, pura grazia, sapienza vo
e forza, luce verace, sorgente di ogni bene, potenza che domina l'universo, unico alcu
valore degno d'amore, essere immutabile, perpetua ebbrezza, felicità eterna, es¬ qua
senza della quale, quand'uno abbia detto tutto ciò che può, non ha ancor detto mal
nulla di ciò che essa merita e richiede. Poiché da una parte non potremo mai
raggiungere tale realtà con il nostro intelletto, e, dall'altra, se anche ne afferras¬
simo alcunché, non saremmo in grado di esprimerlo con parole adeguate ». c
Siccome tutto ciò che è extradivino, sia naturale che soprannaturale, è causato quin
da Dio che è il primo valore, ha tanto di valore quanto ha di essere. Ivalori si es
classificano secondo la loro maggiore o minore misura di essere che fu loro do¬ quanto
nata da Dio. Di qui la scala dei valori. Siccome la volontà divina, che è causa al
creatrice di tutte le cose, non può volere e porre alcun disvalore in sé, ne con¬ mod
segue che tutto ciò che sta al di fuori di Dio, in quanto essere, è buono e va mondo
perciò accettato. Solo perchè l'uomo ha scelto il male, è penetrato nel mondo a
il disvalore. Di fronte al peccato, che è mancanza di bene dovuto, il comporta¬
mento negativo è giustificato e doveroso. tale
Tutte le cose, sia prese singolarmente che nel loro complesso, ricevono da Dio terres
un essere germinale, capace di perfezionamento e quindi la loro bontà definitiva pe
consiste nel raggiungere la forma completa del loro essere, com'è intesa da Dio.
Siccome ogni cosa diviene sempre più perfetta quanto più acquista di essere, il r
suo sviluppo verso una forma più completa equivale allo sviluppo del suo valore. cultura
L'uomo ha il compito di « sviluppare » in questo modo se stesso e nello stesso valo
tempo di plasmare e far progredire le cose del mondo (compito culturale). Così
l'ammettere i singoli valori delle cose non significa appagarsi in essi, ma vuol
essere stimolo a superarli. Ad ogni affermazione del valore d'una cosa è con¬
giunta pure una negazione, la negazione cioè che tale grado di essere sia l'ul¬
timo. Perciò la verace affermazione dei valori terrestri conduce a considerarli
come una diversa partecipazione al valore divino e pertanto ci impedisce di di¬
vinizzarli. de
Lo sguardo rivolto a Dio, supremo valore, ci dà la retta intelligenza della pos¬ chiarezza
sibilità, del dovere e del limite delle creazioni culturali umane. Vedi il trattato p
sulla creazione. Il vero comportamento dinanzi ai valori di questa terra è quello chiarezz
della lode e del ringraziamento a Dio. Cfr. i Prefazi della Messa. so
§ 74. La bellezza di Dio.
1. - Bello, secondo S. Tommaso, è ciò che visto suscita piacere (S. Th., I,
q. 5, a. 4; q. 39, a. 8). La bellezza consiste nella debita proporzione o armo¬
nia delle parti, nell'integrità del tutto, nella chiarezza o splendore della forma.
Dio è la bellezza, poiché, per la sua semplicità, è perfetta armonia e assoluta
pienezza di essere nella massima trasparenza o chiarezza. Perciò la sua vista crea
sommo diletto : « Signore, mio Dio, grande tu sei sovranamente; di gloria e di
§ 74- LA BELLEZZA DI DIO 377
splendore ti sei rivestito, tu che ti avvolgi nella luce come in un manto » (Sai. 103,
1 s.; cfr. pure Sap. 13, 1 s. e i passi citati nel paragrafo precedente di Atenagora
e di S. Gregorio di Nissa).
2. - Dio è bellezza prima. Come la verità e la bontà assoluta e personale sono
principi e fine del mondo, così lo è l'assoluta bellezza personale. Nella creazione
riluce un riflesso della beltà divina. Anche qui è valido il principio che in essa
stanno la ragione e i limiti per affermare qualsiasi bellezza terrestre, la quale è
il riflesso della realtà di Dio, bellezza personale (splendor veritatis). Tutto ciò
che è stato creato da Dio è veramente bello solo mediante Dio. A ciò fa con¬
trasto sia il fatto che la bellezza delle creature è talvolta separata da Dio e divi¬
nizzata, sia la negazione o la riprovazione di essa. Con il peccato la bellezza delle
creature è stata turbata ma non distrutta totalmente. La colpa ha portato solo
condanna e bruttezza. La profanazione del mondo ebbe come conseguenza la sua
deformazione. Ma anche così chi ha buona volontà riesce tuttora a intravvedere
la bellezza divina. Mediante Cristo il mondo ha ricevuto la sua nuova consacra¬
zione e ciò aggiunse all'antico uno splendore nuovo, di altra qualità. Un riflesso
della maestà divina, che riluce sul viso di Cristo, scese sul mondo e, nella glo¬
rificazione della sua natura umana, rifulse, in svelata chiarezza, attraverso le forme
terrestri e le trasformò nella luminosità sua propria. Da quel momento il mondo
sta nella luce del corpo glorioso di Cristo. Solo il cristiano può mirare tanta
bellezza e vedere realmente in ogni cosa un raggio della maestà di Cristo.
3. - Poiché dal viso di Gesù traluce la gloria divina e l'intero mondo è im¬
merso nel suo splendore, esiste un'arte cristiana. Essa non consiste in primo luogo
nella raffigurazione degli oggetti della fede cristiana, bensì nel fatto che nelle cose
si rende visibile la gloria di Cristo. Finché il mondo sussisterà nella sua forma
attuale, ciò potrà avverarsi solo come in un abbozzo. Infatti tutte le cose terrestri
si trovano sulla via che Cristo dovette percorrere per giungere alla gloria, il cam¬
mino della croce. Solo quando questo percorso sarà ultimato potremo incontrarci
con la gloria svelata di Cristo. Fino ad allora essa traluce solo attraverso le cose,
e nello stesso tempo ci rimane nascosta. Perciò nell'arte cristiana gloria e croce
sono ugualmente visibili.
Gli occhi non illuminati dalla fede, vedono nel mondo solo i residui della bel¬
lezza originaria delle cose. Essi non possono comprendere nulla del riflesso di
Cristo, che è di tutt'altra specie. Ma anche la bellezza così intravista è tanto mira¬
bile, che al cuore dell'uomo superbo può sembrare la realtà ultima anziché qual¬
cosa di passeggero che ci fa vedere Dio. Essa può addirittura sviluppare una
forza demoniaca, in quanto può ingannare gli uomini (non senza loro colpa) e
ammaliarli in modo che diventino suoi prigionieri senza più poter guardare oltre
e scorgere Dio (cfr. § 30 s.).
4. - A proposito della bellezza di Dio e delle creature van riferiti alcuni pen¬
sieri di 5. Agostino, che serviranno a illustrare quanto detto sopra : « Da qua¬
lunque parte si rivolga, l'animo umano si ficca tra i dolori, meno che in te; seb¬
bene si attacchi a cose belle fuori di te e fuori di sé, le quali, però, non sareb¬
bero affatto, se non fossero da te. Nascono e muoiono e nascendo cominciano
in certo modo ad essere; poi crescono, giungono a compimento e quindi invec-
Se ti piacciono le anime, amale in Dio, perchè p
378 P. I. - DIO UNO E TRINO d
l
chiano, periscono; non tutte invecchiano, ma tutte periscono. Pertanto quando Ecc
nascono e tendono all'essere, quanto più rapidamente crescono per essere, tanto cuore;
più si affrettano verso il non essere. Tale è la loro legge. Tu hai dato loro questo strin
soltanto... Non essere vana, anima mia, non assordare l'orecchio del tuo cuore
nel tumulto delle tue vanità... Se ti piacciono i corpi, lodane Dio e rivolgi al amate
loro artefice l'amore, perchè nelle cose che ti piacciono tu non sia spiacevole.
Se ti piacciono le anime, amale in Dio, perchè esse pure sono mutevoli e solo Che
in lui fisse acquistano stabilità, altrimenti passano e periscono. Amale dunque dove
in lui e rapisci a lui insieme con te quelle che puoi, dicendo loro : " Amiamolo,
amiamolo ". È lui che ha fatte queste cose e non è lontano. Non le ha create
e poi se ne è andato; ma da lui e in lui esistono. Ecco dove sta, dove si sente ami
il sapore della verità. È nell'intimo del nostro cuore; ma il cuore si allontanò bellezz
da lui. " Tornate, o traviati, al vostro cuore " e stringetevi a colui che vi ha ess
creati. State con lui e sarete stabili, riposate in lui e sarete tranquilli. Dove an¬ fondame
date fra tanti dolori? Dove andate? Il bene che amate viene da lui, ed è buono O
e soave solo in ordine a lui. Ma giustamente diverrà amaro se ingiustamente si
è abbandonato lui amando quello che da lui viene. Che vi giova ancora e sempre
andare per vie difficili e faticose? La pace non è dove la cercate. Voi cercate la
vita e la felicità nel paese della morte: non c'è. Come può trovarsi vita e felicità
dove non c'è neanche la vita?... Questo io non sapevo allora e amavo le bellezze
inferiori andandomene verso l'abisso. Dicevo agli amici: Amiamo noi altro che
il bello? E che cosa è il bello? E che cosa è la bellezza? Che cosa ci attrae e ci de
affeziona alle cose che amiamo? Se non ci fosse in esse grazia e bellezza non ci (dignità
attirerebbero in nessun modo... Ma il punto fondamentale d'una questione così dell'es
importante io non lo scorgevo ancora nella sua arte, Onnipotente, che solo operidell'esser
le meraviglie » (Confessiones, 4, 10.11.12.13.15).
essenza
(cfr
§ 75. Dignità di Dio.
grandez
1. - La dignità di Dio è qui intesa, al pari della verità, bontà e bel¬ tu
lezza, come attributo dell'essere divino (dignità ontologica), non quale pos
comportamento morale, anche se la dignità dell'essere è la base di quella amore
morale. Parliamo di dignità 0 di nobiltà dell'essere, a seconda che questo
è perfetto in sè, verifica appieno la sua essenza e gli compete, quindi, p
il diritto all'interna stima e all'onore esterno (cfr. R. Egenter, Das Edle
und der Christ, Miinchen 1936).
2. -
A Dio spettano dignità, nobiltà, grandezza in modo incondizio¬
nato, poiché egli è l'essere perfettissimo, del tutto in sè, sussistente e
indipendente, quindi essere personale, che si possiede in modo perfetto,
con la più chiara coscienza e il più vivo amore, che ha il diritto alla
stima più assoluta e al rispetto più profondo.
Dio stesso avvolge il suo essere nella stima più profonda ed immuta-
§ 75- dignità di dio 379
bile, la cui norma non è esterna ma interna a lui. Egli è la sua stessa di¬
gnità e la sua stessa stima, che entrambe si identificano in un'unica realtà.
È contemporaneamente la dignità e la grandezza sussistente che si pos¬
siede e si afferma in modo personale. Se per onore e stima delle proprie
dovizie s'intende averne coscienza e responsabilità come pure il ricono¬
scimento di esse da parte di altri, allora Dio è il suo proprio onore, anzi
l'onore personale in sè sussistente.
3. - La dignità di Dio è intangibile e quindi viene ad essere la san¬
tità essenziale. Egli non può infatti rinunciare a se medesimo poiché è
la sua dignità stessa, non può perdere il suo onore, né essere senza onore,
perchè egli non può non essere.
4. - Di fronte al creato la dignità e la grandezza di Dio si presentano come
superiorità, regalità, padronanza, signoria. Il riconoscimento della dignità, invio¬
labilità e santità di Dio da parte delle creature consiste nella incondizionata e
immutabile venerazione e soggezione; in altre parole, nel rispetto (= amore ri¬
spettoso e rispetto amoroso) e nell'adorazione (Hello: « Sulla terra vi è un solo
problema : l'adorazione »). Negando ciò a Dio con la disobbedienza e il disprezzo
ci mettiamo in contrasto con l'intangibile grandezza e santità divina (« offen¬
diamo » Dio; cfr. la dottrina circa il fine della creazione).
5. - Come ogni essere creato partecipa delle verità, della bontà e della bellezza
di Dio, così partecipa pure della sua nobiltà, dignità e grandezza. Per ogni crea¬
tura il grado di dignità corrisponde al grado del suo essere, alla maggior o minor
somiglianza con Dio. Siccome le persone posseggono l'essere in modo più per¬
fetto che non le semplici cose, dalle quali si distinguono qualitativamente per
la loro intima struttura, ne consegue che alla persona compete onore, dignità e
grandezza superiori a quelle dell'essere apersonale. La persona, secondo l'idea e
per volontà di Dio, ha un suo nucleo intangibile e intimo, da cui proviene la
dignità sua propria che deve essere rispettata sia dalla persona stessa sia dagli
altri. Il contrario sarebbe mancanza di dignità e di rispetto. D'altra parte è pa¬
rimenti evidente che la nostra dignità propria può essere capita, affermata e
valutata solo in Dio. Il profondo rispetto e la venerazione per Dio sono la ra¬
dice della stima di noi stessi e degli altri. (Goethe dice che il rispetto di sè è
il supremo comandamento). L'onore, nel senso di dignità interiore e della con¬
sapevolezza di essa come il suo riconoscimento da parte degli altri e il ricono¬
scimento della dignità altrui, poggiano sulla dignità di Dio, ossia si fondano
nell'essere divino perfettissimo, che sussiste da sè, e nella risposta dell'uomo
alla dignità divina medesima. La massima dignità ci spetta a motivo della nostra
unione soprannaturale con Dio, che si verifica mediante la grazia. Cfr. il trat¬
tato sulla Grazia.
6. - La Scrittura tratteggia a magnifici colori la dignità e la maestà
divina, la sua grandezza e sublimità e nello stesso tempo la nostra dove-
oscur
- inter
380 P. I. DIO UNO E TRINO
chi
rosa sottomissione. Cfr., ad esempio, Giob. 38, 1-42, 6; Sai. 29; 98; 104; ch
Eccli. 43; Is. 45. Egli è il Signore di tutto: « Signore è il suo nome »
(Es. 15, 3). La grandezza di Dio è insegnata specialmente in quei passi u
nei quali vien designato come il Signore assoluto di tutte le cose (1 Tim.
v
6, 15).
vivi,
Giobbe esclama (38, 1-20): «Chi è costui che oscura la provvidenza con di¬ occ
scorsi insipienti? Cingiti, qual prode, i lombi; io ti interrogherò, e tu istruiscimi. sott
Dov'eri tu quando io mettevo base alla terra? Dillo, se possiedi tanta intelli¬ ed
genza. Chi fissò le sue dimensioni, se tu lo sai, e chi tese sovr'essa il suo re¬
golo? Sovra qual cosa sono piantati i suoi cardini o chi gettò la sua pietra an¬
golare, mentre facevan concento gli astri del mattino, e plaudivano tutti i figli
di Dio? Chi chiuse con porte il mare, quando eruppe uscendo dal seno materno, tene
quand'io di vapori lo vestivo e lo fasciavo di caligine, quando gli fissai un ter¬ rimetter
mine, gli posi uscio e catenaccio e dissi : " Fin qui verrai e non oltre; e qui
deporrai l'alterigia delle tue onde "? Da che tu vivi, hai comandato mai al¬
l'aurora? Hai all'alba additato il suo posto, perchè occupi i lembi della terra e
ne scacci i malfattori? Si trasforma come la creta sotto il sigillo, e si presenta
come abbigliata. Ai malvagi è sottratta la loro luce, ed è spezzato il braccio al¬
tero. Sei tu giunto fino alle sorgenti del mare, e nel fondo dell'abisso hai tu d
passeggiato? Ti sono forse aperte le porte della morte, e le porte dell'ombra fu¬ della
nerea le hai tu viste? Comprendi tu le spaziosità della terra? Dillo, se sai tuttoqualit
questo. Qual è la via al soggiorno della luce, e le tenebre in che luogo stanno,
sicché tu sappia condurle nel loro dominio e rimetterle sui sentieri della loro
fo
dimora? ». dall'alt
cerchere
dell'ess
§ 76. La santità di Dio. riparlerem
1. - La santità divina è la sintesi e la corona di quanto siamo andati col
descrivendo finora intorno alla « struttura » della vita di Dio. La san¬ scin
tità qui non è intesa in primo luogo come qualità morale, bensì quale
attributo dell'essere, che è, in ultima analisi, il fondamento della santitàdell'essere
morale stessa. È impossibile separare l'una dall'altra. Il concetto di san¬ santo
tità include ambedue le forme. Tuttavia cercheremo ora di studiare in tutt
modo particolare la santità quale attributo dell'essere divino. Della san¬
tità intesa come perfezione morale ne riparleremo trattando della vo¬
lontà divina. Essendo le due forme di santità collegate intimamente tra
loro, anche nella presentazione è impossibile scinderle totalmente. Qui
però si pone l'accento sulla prima.
2. - La santità, in quanto attributo dell'essere divino, è il modo di
esistere di Dio. Quando diciamo che Dio è santo intendiamo esprimere
che è totalmente diverso dalla creatura e da tutto ciò che conosciamo
§ 76. LA SANTITÀ DI DIO 38i
per l'esperienza; che egli trascende l'uomo e le cose; che con la sua
libera azione domina e plasma storia e natura. La diversità di Dio si
esplica in due modi: come maestà inviolabile, inaccessibile anzi minac¬
ciosa e incutente paura, e come potenza attraente, benigna, benedicente,
come giudizio e come grazia, come giustizia e come amore (cfr. R. Otto,
Das Heilige, 1939; Hessen, Das Heilige, 1936). La santità di Dio pro¬
voca nell'uomo timore e amore, tremito e trasporto. Allontana da Dio,
ma, al tempo stesso, avvicina a lui. Tali atteggiamenti e richiami si
uniscono e si rafforzano nell'adorazione, che è l'umana risposta alla
santità divina.
3. - a) Nella rivelazione veterotestamentaria la « santità » appare quale
caratteristica esclusiva di Dio. Essa consiste nella sua assoluta trascen¬
denza su tutto, nella sua completa indipendenza. Non è uno dei tanti
attributi divini, ma è ciò che fa sì che Dio appaia come Dio. Essa com¬
penetra e impronta tutto ciò che si può dire di Dio. Viene espressa so¬
prattutto con l'immagine del trono eccelso di Dio, della dimora di Dio
in cielo.
Come già detto, tali raffigurazioni non affermano un legame di Dio con lo
spazio, bensì solo la sua superiorità su tutto il mondo e significano qualità del¬
l'essenza divina e non quantità. È perciò assolutamente falso e privo di fonda¬
mento il motteggio ingiurioso di Davide Federico Strauss e seguaci, i quali af¬
fermano con disprezzo che Dio, in seguito al progresso delle scienze naturali e
della tecnica ha perduto ormai il suo posto in cielo: l'uomo glielo ha rapito.
L'immagine del cielo esprime la superiorità divina su tutto quanto appartiene
al mondo, cosicché all'uomo è impossibile raggiungerlo o ricercarlo con soli
mezzi puramente scientifici.
La santità di Dio si rivela nell'azione. Nell'agire divino si palesa
colui che supera ogni essere creato, che intimamente ed essenzialmente
se ne distingue, che sta avvolto nel mistero, giudica e dispensa grazia,
colui che gli uomini devono onorare anzi temere, ma contemporanea¬
mente amare. Nulla gli può essere paragonato (Is. 40, 25). Il suo agire
è così distinto da ogni azione umana che l'uomo, ovunque ne scorga
l'impronta nella storia, deve riconoscere e confessare: Dio ha fatto que¬
sto. Con la sua azione si mostra santo, cioè separato dalle creature (Is. 41,
8 ss.), fa vedere che egli è Dio e non uomo, che è il santo in mezzo al
popolo (Os. 11, 9). Il palesarsi della sua santità non è altro che la rive¬
lazione della sua divinità (Is. 40, 25). La santità è il mistero di Dio.
(Is. 45, 15). Il nome di Dio, ossia la sua essenza inaccessibile all'uomo,
è santo (Lev. 20, 3; 32, 2). Quando Dio rivolge la sua parola all'uomo
senza che trascende ogni essere creato. Garantisc
teste
382 P. I. - DIO UNO E TRINO
(Sal. 105, 42), quando egli manda il suo Spirito (Sai. 51, 13; Is. 63,
10-19), ossia quando esce dalla sua inaccessibilità e si rivolge alle crea¬ simil
ture, allora esse si rendono conto di quanto sia santo, e lo riconoscono degno
come colui che giudica e rende felici, che aiuta e salva. Egli giura nel 6
suo nome santo (Am. 4, 2; Sal. 60, 8; 89, 36; 108, 8), nella sua es¬ i
senza che trascende ogni essere creato. Garantisce egli stesso ogni sua profeti
assicurazione. Non può chiamare nessun altro teste perchè al di là di lui stras
non è possibile procedere.
In particolare la santità divina si rivela come amore adorabile e ter¬ in
ribile, che libera e salva. « Chi fra gli dèi è simile a te, Signore? chi è es
simile a te, magnifico in santità, terribile e degno di lode, operatore di sc
prodigi?» (Es. 15, 11; cfr. Sai. 89, 9; 1 Sam. 6, 20; 2 Sam. 6, 6 s.). Dio
Quando Dio rivela la sua presenza, l'uomo trema e impallidisce (Es. 3 e 4).
Isaia scelto da Dio a esercitare il ministero profetico, vede l'Onnipotente s
assiso su' suo trono eccelso e sublime. Il suo strascico riempie il tempio, (Sa
i serafini lo circondavano; ciascun angelo ha sei ali, con due si copre
il viso, con due i piedi e con le altre si libra in volo. L'uno dice al¬
l'altro: Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. L'intera terra è (Is
ripiena della sua gloria. Allora Isaia sente ima scossa che si ripercuote
nel tremito degli architravi! È il contrasto tra Dio e la creatura e crede attr
di morire per il terrore e l'angoscia (Is. 6, 1-6). La maestà di Dio ap¬ d
pare qui messa in intimo rapporto con la sua santità. Dinanzi a Dio 3
santo, l'uomo si prostra per lodarlo e adorarlo (Sai. 98-1-3; e parimenti
Sai. 33, 21; 103, 1; Is. 8, 12 s.; 29, 23). t
Il nome di Dio va mantenuto santo e l'uomo deve prendere Dio sul E
serio. La sua volontà va rispettata e osservata (Is. 29, 21-24; 8, n-13;
Sal. ni, 9; Is. i, 4; 5, 24; 30, 11-15; 48, 17; Ez. 39, 25-29). L'ado¬ mostrandos
razione che compete a Dio non può essere attribuita ad altri, perchè modo
egli solo è santo. L'idolatria è profanazione e disonore di Dio (Deut. 2
6, 4; 23, 18; Ez. 20, 39-41; 36, 22-25; Os. 5, 3; 6, 10; 9, 4). divie
Quando il nome di Dio è profanato egli stesso provvede a santificarlo
di nuovo. Rivela ai popoli la sua santità, la sua trascendenza e intangi¬
bilità, esercitando potenza e dominio (Is. 5, 16; Ez. 20, 41; 28, 22; 25;
26, 23; 28, 16; 39, 21-29; Num. 20, 13; Lev. 10, 3; Es. 29, 43; 22, 32).
Fa sentire alle nazioni la sua santità, mostrandosi come il Signore, che
non deve rendere conto ad alcuno del suo modo di agire, mentre egli
invece giudica l'infedeltà e l'arroganza (Is. 10, 21; 4, 3; 5, 16; 6, 5;
Os. 5, 3; 6, 10; 9, 4). « Il Santo d'Israele » diviene fiamma che brucia
tutto ciò che non è santo e puro (Is. 10, 17).
§ 76- LA SANTITÀ DI DIO 383
Tuttavia i giudizi di Dio sono giudizi di grazia e hanno forza creativa
e vivificante. La santità di Dio si esprime come amore che trasforma
e ricrea. Questa è una delle doti divine maggiormente incomprensibile.
Infatti la santità di Dio racchiude in sè l'amore creativo il quale uccide,
è vero, ma per far risorgere (Os. 6, is.; 14, 9). Dio, grazie alla sua
santità, può ciò che non può alcun uomo, cioè amare la natura non
santa, sicché il contrasto tra Dio e uomo sta proprio in questo amore
che lo rialza. Così nell'amore con cui si accosta all'uomo, Dio mostra
la sua superiorità su lui (cfr. Is. 41, 14; 43, 3. 14; 45, 18 ss.; 47, 4).
Perciò la sua santità non genera solo timore, ma provoca abbandono,
fede, fiducia, amore, e gioia (Sai. 33, 21; 10, 1; Os. 11, 9; 1 Cron. 16,
10. 35; Num. 20, 12 s.; Is. 10, 20; 17, 7; 29, 19; 31, 1; 41, 14-16;
43, 3. 14; Ab. 1, 12). È bestemmia e oltraggio contro il Santo d'Israele
aver maggior fiducia nei proprii mezzi che nella santità divina (2 Re
19, 22; Is. 37, 23).
Se Dio è santo, anche tutto quanto gli appartiene diviene santo: il
tempio, l'altare, il sabbato, il patto, il cielo, gli angeli.
b) Nel Nuovo Testamento Dio non è più chiamato santo così
spesso come nell'Antico. Tuttavia la santità divina domina tutto. Come
espressa testimonianza ricordiamo iseguenti passi. Nell'Apocalisse (4, 8 s.)
risuona l'invocazione dei serafini udita da Isaia, « Santo, santo, santo il
Signore Iddio, l'Onnipotente colui che era ed è e viene! ». La scena si
svolge in cielo, nello spazio che trascende il creato e che Dio si è ri¬
servato, in quel cielo che appartiene esso stesso alla sfera della santità.
Dio viene celebrato come l'Onnipotente, che era, che è e che ha da
venire. Onnipotenza ed eternità sono quindi gli attributi essenziali della
santità. Il Santo vendicherà il sangue dei martiri e se ora egli tace e
lascia che le cose seguano il loro corso, come se egli non esistesse, ciò
significa che prima deve essere completo il numero dei testimoni che si
è scelto (6, 10). Nel Vangelo di Giovanni la santità appare come il mi¬
stero di Dio nella preghiera che Cristo innalza per i suoi discepoli:
« Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che tu mi hai dato »
(17, 11). Maria esaltando nel Magnificat la potenza e la grandezza di
Dio, la sua giustizia, il suo giudizio e la sua eterna fedeltà, inserisce la
professione di fede : « Santo è il tuo nome » (Le. 1, 49). Pietro esorta
i lettori della sua lettera a forgiare la loro vita secondo la santità di
colui che li ha tratti da questo mondo (1 Piet. 1, 15). Nel Padre nostro
il cristiano prega affinchè sia santificato, venerato e adorato il nome di
Dio, vale a dire la sua essenza, l'Io divino che si rivolge a noi.
3, 7; 6, 10). Si chiama pure « il santo servo »
P. I. - DIO UNO E TRINO
che
384 messianica
La santità divina si palesa visibilmente in Cristo, il « Santo di Dio » d
(Me. 1, 24; Le. 4, 35; Giov. 6, 69), colui che appartiene a Dio e che
ci fu inviato da lui. Con tale designazione si vuol indicare che egli viene testimon
dall'alto e non dal basso, che trascende ogni misura umana, ed è pari
a Dio. Tale parola testifica la divinità di Cristo (cfr. Le. 1, 35; Atti era
3, 7; 6, 10). Si chiama pure « il santo servo » di Dio (Atti 3, 14; 2
4, 27. 30). Tale appellativo intende esprimere che egli è stato santificato c
e appartato proprio in vista dell'opera messianica, vale a dire per il sa¬ 2
crificio, anzi che egli stesso è la vittima santa designata per la reden¬ domina
zione dell'umanità (cfr. Ebr. 9). Ro
Lo Spirito Santo che Cristo invia ne testimonia la gloria (Giov. 15, E
26). Egli è santo, perchè è Spirito di Dio e non dell'uomo. (Ro
Lo Spirito Santo ha riempito coloro che si erano radunati a Gerusa¬ c
lemme sì da renderli suoi templi sacri (Atti 4, 27. 30 s.). Ha plasmato
in essi la vita di Cristo. Così è nata una nuova comunità, santificata in perc
Cristo Gesù (1 Cor. 1, 2; 3, 17; Fil. 1, 1; Ef. 2, 21). Essa è santa in m
quanto Dio stesso l'ha separata dal mondo, dominato dal peccato, perchè
l'ha scelta appositamente per sè (1 Piet. 2, 9; Rom. 6; 15, 16; 15, 26; quan
1, 7; 1 Cor. 1, 2; 16, 1; 16, 15; 2 Cor. 8, 4; Ef. 1, 1 ecc.). Santo di¬
viene qui sinonimo di « chiamato », « eletto » (Rom. 1, 7; 1 Cor. 1, 2.
24). Quindi anzitutto santa è la comunità dei credenti, il popolo che 3,
Dio si è scelto, la stirpe del Nuovo Patto, l'erede del popolo di Dio che vittima
esisteva nell'Antico Testamento. E lo è non perchè sia sorta e viva se¬ è
condo le leggi che regolano la storia terrestre, ma perchè è stata pla¬ apparten
smata dal Padre nello Spirito Santo per mezzo di Cristo (1 Piet. 2, 9 s.). T
In lei vi è l'impronta di Cristo. Imembri in quanto appartengono a una confo
comunità santa, sono pure essi santi (Fil. 4, 21). Nel battesimo lo Spi¬ l'appartene
rito Santo li segna con il sigillo di Cristo. Isanti formano una comunità pr
sacrificale creata nell'olocausto di Cristo (Col. 3, 12; Rom. 12, 1; 15, Rom
16). Chi vi appartiene è consacrato come vittima. I« Santi » chiamati 5,
e unti da Dio hanno parte alla gloria divina che è la loro eredità (Ef. 1, complem
18; Col. 1, 12). La santità di coloro che appartengono a Cristo è anzi¬
tutto un attributo, un'impronta dal loro essere. Tale qualità è tuttavia
il fondamento di un nuovo comportamento conforme al loro nuovo es¬
sere. La santità essenziale dell'essere, l'appartenenza a Dio deve espli¬
carsi in un agire informato a Dio. Tuttavia la prima persiste, anche se
il secondo manca (1 Piet. 1, 15 s.; Ef. 4, 12; Rom. 1, 24; 6, 19; 15, 25;
1 Cor. 16, 15. 20; 2 Cor. 8, 4; 9, 1; 13, 12; Ef. 5, 5; 1 Tess. 5, 26 ecc.).
Cfr. il trattato sulla Grazia, e quanto a complemento si dice nel § 97.
§ 77- 010 VIVENTE QUALE VITA SPIRITUALE SUSSISTENTE E PERSONALE 385
ART. II. - IL CONTENUTO DELLA VITA DIVINA
§ 77. Dio vivente, quale vita spirituale sussistente e personale.
1. - Si è parlato fin qui della struttura della vita divina. Ora dobbiamo
vederne il contenuto che consiste principalmente nel fatto che Dio è
Spirito vivente o vita spirituale.
2. - Che Dio sia vivente è dogma di fede (Conc. Vaticano, Sess. 3,
cap. 1; Denz. 1782).
a) Egli si mostra Dio vivo mediante la creazione, la rivelazione so¬
prannaturale, e specialmente con l'incarnazione del suo Figliuolo, nel
quale Dio si rende presente quale parte attiva nella storia umana.
Egli inoltre viene espressamente designato come colui che vive, anzi
come la pienezza della vita stessa, la vita sussistente, la sorgente della
vita. Il Dio vivo parla a gran voce attraverso i fulmini e le nubi del
cielo (Deut. 5, 23). Gli Assiri e i Filistei saranno puniti, perchè sono
stati tanto stolti da disprezzare il Dio vivo (1 Sam. 17, 26. 36; 4 Re 19,
4. 16; Is. 37. 4. 17). La forza bellica e la vittoria che elargisce al po¬
polo eletto palesano la sua vitalità (2 Sam. 22, 47; Sal. 18, 47), come
pure l'aiuto che egli dà in ogni pericolo. Con fiducia possiamo pregare
il Dio vivente e verso lui sospira il nostro cuore (Sai. 42, 3; 84, 3).
Pietro riconosce Cristo quale Figlio del Dio vivo (Mt. 26, 63). Pren¬
dendo il Dio vivo a testimonio, si scongiura Gesù di dire se egli sia ve¬
ramente Figlio di Dio (Mt. 26, 63). Quando a Listra il popolo tentò di
offrire un sacrificio a Paolo e a Barnaba, questi scongiurarono il popolo
di abbandonare le divinità inesistenti e convertirsi al Dio vivo. Egli, come
annuncia Paolo, si mostra vivente attraverso la creazione del cielo, della
terra e di tutto quanto essi contengono; si palesa nella storia inviando
piogge e fertili stagioni, e dando in abbondanza nutrimento e letizia
(Atti 14, 15). Coloro che sono in stato di grazia vengono chiamati figli
del Dio vivo (Rom. 9, 26).
b) Dio è pure il creatore della vita umana. Questa si conserva de¬
cidendosi per lui e aderendo a lui, e si perde rivoltandosi contro di lui.
La morte è l'indice che l'uomo è lontano da Dio (Gen. 2, 7, 17; 3, 19).
Egli è l'unico Padrone della vita e della morte (Deut. 32, 39 s.; Le. 12,
20; 2 Cor. 1, 9; Giac. 4, 15), così come è giudice dei vivi e dei morti
25 - schmaus - dogmatica 1.
63). Senza di lui vi è vita alcuna (Giob. 34
uo
386 P. I. - DIO UNO E TRINO
ritorn
(i Piet. 4, 5; riferito a Cristo, Atti io, 42; 2 Tim. 4, 1). Egli può far
risorgere chi è morto, ridargli nuova vita; anche il Figlio vivifica chi eccelso,
vuole (Giov. 5, 21; Rom. 4, 17). Il passo più espressivo circa la potenza la
creativa della vita divina si legge in Ez. 37, 1-10.
Lo Spirito di Dio è spirito che dona la vita (1 Cor. 15, 45; Giov. 6,
63). Senza di lui non vi è vita alcuna (Giob. 34, 14 s.; 1 Tim. 6, 13).
Le
Quando egli volge altrove la sua faccia gli uomini si conturbano; se
toglie loro il suo spirito vengono meno e ritornano nella polvere (Sai. s
103, 29). Infatti egli è colui che dona ogni vita (Sai. 36, 11). Anche se
vita
tutto il nostro essere è in potere del Dio eccelso, dobbiamo tuttavia ras¬ vita
sicurarci poiché egli non vuole la morte, bensì la vita (Es. 18, 23. 32). luc
c) Mentre la vita dell'uomo è, di continuo, esposta al pericolo e va 1
mantenuta con il nutrimento, anzi, è soltanto morte differita, Dio al Cristo
contrario, possiede la vita senza principio alcuno e in modo tale da non 27;
poterla mai perdere (Deut. 8, 3; Giov. 5, 26; Le. 12, 15). Egli ha vita v
eterna e solo possiede l'immortalità (Apoc. 4, 9 s.; 10, 6; 15, 7; 1 Tim.
6, 16). Anzi, Dio è la vita eterna, ossia la vita imperitura e perfetta risurrezi
(Giov. 5, 26; Atti 14, 15; Giov. 5, 20). La vita divina non è un cieco
agitarsi, 0 un flusso scomposto, bensì santità, luce e amore. Vita, luce e avessimo
amore si identificano in Dio (1 Giov. 1, 5; 4, 15; Giov. 1, 4). cielo,
d) La vita divina è stata palesata da Cristo (2 Tim. 1, 10). Egli
porta seco la vita del Padre (Giov. 5, 25; 6, 27; 1 Giov. 1, 1 s.; 5, n,
20), il quale ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso. Perciò
Cristo è la via, la verità e la vita (Giov. 14, 6). La sua morte corporale bens
non ha toccato affatto la vita divina; la risurrezione è l'espressione del¬
l'inesauribilità di tale vita in lui. Essa dà anche a noi la speranza della vi
comprender
vita eterna. Cristo è venuto affinchè noi avessimo la vita e l'avessimo in l'eni
abbondanza. Dopo l'ascensione di Cristo in cielo, lo Spirito Santo la in¬ S
fonde nei credenti (Giov. 16, 14). Cfr. i trattati su Cristo, sulla Grazia principio
e sulla Morte.
imman
3. - La vita di Dio differisce da quella delle creature e non solo in¬
tensivamente per maggior potenza e durata, bensì anche intrinsecamente.
Grosche tenta di lumeggiare la vita di Dio. « La vita è mistero, che nessuna
ricerca della nostra intelligenza potrà mai comprendere. Nonostante tutti i ten¬
tativi compiuti in questi ultimi anni per svelare l'enigma della vita, dobbiamo
ognora ricorrere, per farcene un'idea, all'analisi di S. Tommaso. Secondo lui,
diciamo vivo un essere che ha in se stesso il principio della propria azione e la
cui azione medesima rimane in lui e lo perfeziona. L'attività vitale è attività
spontanea e immanente. Quanto più l'attività è immanente, tanto maggiore è la
§ 77- 1)10 VIVENTE QUALE VITA SPIRITUALE SUSSISTENTE E PERSONALE 387
vita. Misura della vita è il grado con cui un essere si possiede. La vita si dif¬
fonde quale arco immane nel regno vegetale, animale e umano. La pianta di¬
pende totalmente da quanto la circonda: terra e aria. Dalla sua propria natura
procede solo il modo con cui trasforma la materia in proprio nutrimento. La
bestia invece è maggiormente padrona del suo ambiente. Assai di più lo è
l'uomo. È libero da molti vincoli che tengono invece legati la pianta e l'animale.
Ilimiti che anch'egli non può varcare sono le supreme norme dell'azione e del
pensiero. Entro questi limiti, del resto assai larghi, l'uomo si determina per
proprio conto in forza della sua natura. Quantunque il campo in cui opera, sia
vastissimo, tuttavia l'uomo è anch'egli legato alle realtà e ai valori che sono in¬
dipendenti da lui, i quali anzi, esercitano su di lui la loro padronanza. Entro
questo regno la vita umana si svolge realizzando sempre maggiori perfezioni e
valori. Ma perchè tale vita possa svolgersi è necessario lo scambio con il pros¬
simo; di conseguenza la vita umana è vita sociale. Dove vive l'uomo nasce, ne¬
cessariamente, la comunità. La padronanza e l'affermazione di sè raggiungono
l'apice, consentito alla creatura legata al mondo materiale, proprio nell'uomo.
Al di là di questa vita creata sta la vita divina. Dio rispetto al mondo, è, in
certo senso, « totalmente diverso », e perciò la sua vita non è solo uno stadio più
alto della vita terrena. Egli trascende tutte le cose che noi, nel mondo della
nostra esperienza, chiamiamo viventi e quindi il mistero che avvolge la vita rag¬
giunge in Dio il culmine massimo. Tuttavia la vita che si avvera in terra ci
permette una conoscenza analogica di quella divina. Dio non ha nessuna norma
sopra di sè; si possiede con totale indipendenza e interiorità. Perciò ogni sua
attività procede esclusivamente dal suo interno. Nulla all'esterno può costrin¬
gerlo ad una azione o impedirgliela. Anche l'oggetto a cui egli si volge non gli
proviene dal di fuori; infatti egli è l'oggetto della sua vita, anzi egli è la sua
vita stessa. Non è vita stentata, stanca, o priva di vigore, ma al contrario vita
in piena attività e feconda al massimo grado, sempre vigile, cosciente e beata.
Non sgorga da un substrato cieco e materiale, bensì ogni parte del suo essere,
se così si può dire, è vitale al massimo, anzi è la vita stessa. Si svolge come
vita spirituale, quindi di conoscenza e volontà. E che questa vita spirituale non
conosca languore e fiacchezza emerge in modo stupendo dal fatto della Trinità,
la quale ci mostra che il conoscere e il volere in Dio sono processi vitali di una
fecondità prodigiosa» (Ich glaube, fase. 12, pag. 3 s.).
4. - La vitalità e la fecondità dello spirito divino, che trascendono in modo
assoluto qualsiasi forza vitale della creatura, mostrano che lo spirito non è af¬
fatto nemico della vita, ma che al contrario è la sua più alta espressione e la
sua garanzia più sicura. La filosofia della vita (Nietzsche: Il corpo è più saggio
dello spirito; Bergson, Scheler, Klages, Prinzhorn, Strich ecc.) afferma erronea¬
mente che lo spirito ne sia il nemico fondamentale. Secondo tali filosofi, la vita
è giovinezza, originalità, dinamismo, slancio, creatività, sanità; lo "spirito è al
contrario, stanchezza, torpore paralizzante, senilità. Tale asserzione è giustifica¬
bile solo se per spirito si intenda una ragione avulsa dalla totalità umana che
voglia esprimere e descrivere ogni essere, anche l'uomo, in formule matematiche
o scientifiche. Ma ciò è solo una caricatura o una larva del vero spirito! Esso
non si scinde dall'intero complesso della realtà umana, che include anche corpo,
sfacelo » (Engert, Der Gottesgedanke ini modernen De
388 P. I. - DIO UNO E TRINO
luminos
Ricev
anima e volontà. Anzi dobbiamo asserire il contrario e precisamente: chi si
oppone allo spirito non solo distrugge la vita dello spirito stesso, bensì ogni vita. parlat
Quando lo spirito è privato del suo valore, le forze oscure e ribollenti dell'istinto n
hanno via libera e si scatenano fino a raggiungere il « termine finale dell'orgia, la
dell'estasi demoniaca, del baccanale dionisiaco o di Istar, del furore erotico sino
alla morte, della forza senza luce di pensiero, della ferocia, del satanismo, dello
sfacelo » (Engert, Der Gottesgedanke im modernen Denken, 1923).
tripersonal
5. - La vita di Dio è vita della più luminosa chiarezza e della più
profonda interiorità, è luce, ardore e forza. Riceve la sua impronta dalla su
struttura dell'essere divino di cui abbiamo parlato finora. È quindi sem¬ n
plice, infinita, immutabile, perfetta, beata. Dio non solo ha la vita, ma sen
è la vita in sè sussistente, la vita personale, la vita come essere a sè Dio
e
stante. Anzi egli è vita quale essere tripersonale, vale a dire come Padre,
sap
Figlio e Spirito. Il Dio vivo è il Dio tripersonale. La sua vita è la vita stes
che si attua in tre persone.
Agostino dice : « Ciò che chiamiamo vita in Dio, è la sua stessa essenza o
natura. Dio non vive se non della vita, che è la sua propria essenza. Questa
vita non è, come quella di un albero, ove non vi è nè letto nè senso; nè come
quella dell'animale, che possiede, è vero, i cinque sensi, ma non l'intelletto. La
vita di Dio sente e intende tutto... Così dire che Dio è eterno o immortale, o
incorruttibile, o imperituro indica sempre una stessa e identica cosa; e così pure a
quando si dice che è vivente e intelligente, cioè sapiente. Poiché non ha rice¬ dell'a
vuto la sapienza per cui è sapiente, ma è egli stesso la sapienza. Parimenti
questa vita è la stessa potenza e la stessa bellezza per cui egli è potente e bello »
(De Trinitate, 15, 5).
d
6. - Dio, in quanto è fondamento e sostegno di qualsiasi altra vita, è conside
la vita prima e la vita di ogni vita. Agostino dice nelle Confessiones : ricche
« L'anima è vita dei corpi (migliore è dunque la vita dei corpi e più cons
certa dei corpi stessi), ma tu sei la vita delle anime, la vita delle vite, la
che vivi di te stessa e non ti muti, 0 vita dell'anima mia! » (Confessio¬ consi
nes, 3, 6). c
La vita di Dio si svolge in un unico atto della massima interiorità,
pienezza, forza e fecondità. Noi dobbiamo considerarla sotto diversi aspetti
per poterne afferrare in qualche modo la ricchezza del contenuto. Sic¬
come la vita di Dio è spirituale, possiamo considerarla, conformemente
alle due forme principali secondo cui si svolge la vita del nostro spirito,
come vita di intelligenza e di volontà. Tale considerazione però non deve
tuttavia farci cadere nell'errore madornale di concepire la vita di Dio
§ 78- REALTÀ E PERFEZIONE DELL'INTELLETTO DIVINO 389
come se si svolgesse su due binari separati. Essa è in Dio un solo, unico
atto sussistente che siamo costretti a vedere, ora sotto l'aspetto del co¬
noscere, ora sotto quello del volere e amare.
I. - LA VITA DIVINA QUALE INTELLETTO PERSONALE.
§ 78. Realtà e perfezione dell'intelletto divino.
1. - Il Concilio Vaticano contro la dottrina panteistica, secondo cui
Dio dallo stadio incosciente si evolverebbe nell'uomo allo stadio co¬
sciente, stabilì che Dio possiede intelligenza infinita (Sess. 3, cap. 1;
Denz. 1782).
2. - La Bibbia esalta il sapere divino come cognizione del tutto in¬
comprensibile e misteriosa per la creatura, come comprensione infalli¬
bile che penetra sin nell'intima profondità di ogni essere, come scienza
che abbraccia tutta la realtà. Anna nel suo inno di lode canta il Signore
come il Dio onnisciente, dinanzi al quale debbono tacere « i discorsi
orgogliosi » (1 Sam. 2, 3). Giobbe, descrivendo la trascendenza di Dio,
così parla della sua sapienza (28, 21-27): «Ella è nascosta agli occhi di
tutti iviventi, e pure agli uccelli del cielo è occulta. La rovina e la morte
esclamano: — Solo con le nostre orecchie ne udimmo novella! — Dio
conosce la strada di lei, ed egli sa il suo posto, perchè egli scorge i con¬
fini del mondo, e vede tutto ciò ch'è sotto al cielo. Egli che determinò
ai venti un peso, e stabilì le acque con misura: quando dette alle piogge
una legge ed una strada alle sonanti procelle, allora egli la vide e ma¬
nifestò, la stabilì e investigò ».
Eliu, amico di Giobbe, afferma (34, 21-30): «Poiché gli occhi di lui
son sulle vie degli uomini, e tutti i loro passi egli esamina; non v'è te¬
nebra nè ombra di morte, ove asconder si possano gli operanti il male;
nè è più oltre il poter dell'uomo di comparir davanti a Dio a giudizio.
Egli infrange molti e innumerevoli, e pone degli altri in luogo loro; poi¬
ché conosce le opere loro, e per questo adduce la notte e sono schiac¬
ciati. Come empi ei colpisce ov'è chi contempli, perchè a industria si
allontanarono da lui e nessuna delle sue vie vollero comprendere; cosic¬
ché fecero giungere a lui il grido del meschino, e gli fecero udire la
voce del povero. Se egli infatti concede pace, chi lo condannerà? se
nasconde il suo volto chi può scorgerlo? Sia sulle genti che su tutti gli
mia che facesti nel nè la m
390 P. I. - DIO UNO E TRINO
nomini domina egli che fa regnare il malvagio per i peccati del popolo. t
Ma è specialmente il Salmo (138, 13-18) che esalta l'onniscienza di¬ p
vina : « Perchè tu possiedi imiei reni, m'hai preso su sin dal seno di mia
madre, io celebro te, perchè tremendamente grande ti sei mostrato; mi¬ sa
rabili son le tue opere e l'anima mia ben lo sa. Non t'era occulta la ci
mia ossatura, che tu facesti nel segreto, nè la mia sostanza tessuta nelle
profondità della terra. L'embrione mio videro i tuoi occhi, e nel tuo
libro tutti eran scritti i giorni che si sarebbero formati, e nessuno d'essiracconta
era ancora! Oltremodo pregiati son per me i tuoi amici, 0 Dio, oltre¬ perc
modo forte la loro prevalenza; li conto e son più che l'arena! Mi levo uom
e sono ancora con te ». co
È nelle meraviglie del creato che rifulge la sapienza di Dio (Eccli. 42, rivela
15-26): «Ricorderò le opere del Signore, e ciò che ho veduto raccon¬ s
terò. Per la parola del Signore esistono le sue opere! Il sole lucente si
spande su tutto, e della gloria del Signore è piena l'opera sua. Non s
concesse il Signore neppure ai santi di raccontar tutte le sue meraviglie,
che il Signore onnipotente ha consolidate, perchè stabilì fossero a sua
gloria. L'abisso dell'oceano e il cuore degli uomini egli scruta, e penetra tutt
le loro scaltrezze. Perchè il Signore sa ogni cosa, e osserva i segni de' fro
tempi; annunzia il passato e il futuro, e rivela le tracce delle cose oc¬ assicu
culte. Non gli sfugge nessun pensiero, e non si cela a lui nessuna pa¬ sua
rola. Le magnificenze della sua sapienza egli ha apprestato, egli ch'è è
prima de' secoli e per tutti isecoli: e nulla è stato aggiunto, nulla tolto, nom
e non ha avuto bisogno del consiglio d'alcuno. Quanto amabili son tutte prea
le sue opere! e appena una scintilla se ne può contemplare! Tutte nuove;
queste cose vivono e durano in perpetuo, e tutte in ogni occorrenza ob¬
bediscono a lui Tutte sono appaiate, una di fronte all'altra, e nulla egli divina
ha fatto di manchevole. Di ognuna ha assicurato il bene per mezzo di
dell'altra: e chi si sazierà di contemplar la sua gloria? ». C
La sapienza incondizionata e senza misura è propria della gloria di Null
dall'oscurità
Dio : « Io sono il Signore, questo è il mio nome, la gloria mia non darò
ad altri, nè l'onor mio ai simulacri. Le cose preannunciate ecco che ven¬
gono; ma io ve ne predico ancora delle nuove; avanti che avvengano io
ve le annunzio » (Is. 42, 8 s.).
Ogni considerazione sulla Provvidenza divina finisce nel rispettoso ri¬
conoscimento dell'imperscrutabilità delle vie di Dio, e della profondità
della sua conoscenza (Rom. 11, 33). In Gesù Cristo si trovano i tesori
della sapienza e della scienza (Col. 2, 3). Nulla è nascosto alla scienza
di Dio. Non passa dall'ignoranza e dall'oscurità alla certezza e alla luce.
§ 78- REALTÀ e perfezione dell'intelletto divino 391
« Dio è luce, e in lui non vi è oscurità alcuna » (1 Giov. 1, 5), afferma
Giovanni, usando una terminologia gnostica.
3. - Ipassi biblici riportati non solo affermano l'esistenza della co¬
noscenza divina, ma ce ne descrivono anche la qualità. L'intelletto di¬
vino non deve aprirsi la via in mezzo al groviglio dei fatti, attraverso
l'intreccio delle relazioni, la molteplicità degli aspetti del reale, non ne¬
cessita di trovare la soluzione di un problema per aprirsi il varco verso
un altro. Ogni realtà, nel suo essere più profondo, vale a dire sin nella
sua ultima conoscibilità, sta sotto lo sguardo divino. Il sapere di Dio
non è suscettibile nè di aumento nè di diminuzione; non può affondare
nell'abisso dell'incosciente per poi nuovamente affiorare: Dio lo pos¬
siede sempre completo e in perfetta lucidità. Non esiste oggetto che gli
sia più difficile da comprendersi di un altro. Lo spirito umano, consa¬
pevolmente 0 meno, fa sempre una scelta tra gli oggetti che gli si pre¬
sentano, secondo il suo intimo sentire, i suoi amori e le sue antipatie.
Ne deriva perciò che di ogni oggetto 0 evento l'uomo può veder solo
alcuni aspetti; gli altri, inconsciamente o coscientemente, vengono tra¬
scurati 0 rimossi. Tale cernita, tale visione particolare è impossibile a
Dio. La sua conoscenza è onnicomprensiva, come la sua perfezione.
La conoscenza divina inoltre è atto unico, immutabile e sussistente,
non una successione 0 un insieme di atti. Dio è il suo conoscere. La
conoscenza divina sussiste come essere personale. Poiché solo la persona
può vedere, conoscere e osservare, e Dio è persona esclusivamente nella
forma trinitaria, ne consegue che la conoscenza divina si esplica in modo
che il Padre dona il suo atto conoscitivo al Figlio, e Padre e Figlio in¬
sieme lo trasmettono allo Spirito Santo. L'unico sussistente ed eterno
atto della conoscenza divina si compie perciò ugualmente dal Padre, dal
Figlio e dallo Spirito Santo nell'ordine delle processioni divine.
La conoscenza divina, ricevendo la sua impronta dall'essere di Dio,
che non dipende da nulla che sia fuori di lui, è indipendente da ogni
oggetto esterno a Dio. Non nasce dall'incontro tra Dio e gli oggetti
esterni a lui, come l'atto conoscitivo umano, dove l'intelletto sta di fronte
all'oggetto conoscibile. La conoscenza umana consiste nel ricevere e nel-
l'apprendere una realtà già data. È essenzialmente un procedimento pas¬
sivo a cui non compete, in senso stretto, nessuna forza creativa. Essa
trova i suoi oggetti, non li crea. L'uomo che conosce è attivo, ma solo
nel senso che si volge con attenzione all'oggetto, e conferisce al mate¬
riale conoscitivo, che gli viene presentato dal mondo, quella forma che
trarre
P. I. - DIO UNO E TRINO
pas
392 E
lo rende conoscibile. È creativo solo nel senso che l'intelletto può ri¬ obie
durre a forma intellettuale e concettuale le conoscenze che riceve dalle le
cose. La conoscenza divina è, al contrario, creativa. Dio è atto puro, conosc
senza alcuna potenzialità, azione pura, perciò anche il suo conoscere Dio
non può svolgersi in modo passivo come la conoscenza umana. Non è
assolutamente concepibile che egli possa trarre dagli oggetti conoscibili pos
una specie impressa, mediante la quale egli passa dalla potenza all'atto. esse
Dio conosce le cose nella sua propria essenza. Esse sono il termine della la
sua conoscenza, ma non la determinano (obiectum terminativum, non origina
obiectum determinativum). Dio non conosce le cose perchè queste esi¬ con
stono, ma esse esistono perchè Dio le conosce. « Se non ci fosse il sua
mondo, noi non potremmo conoscerlo; se Dio non lo conoscesse esso
non potrebbe esistere» (Agostino, De civitate Dei, il, io). Dio infatti Id
conosce in se stesso tutte le cose che sono possibili fuori di lui. Egli sa esso
in quali infiniti modi la sua perfezione può essere partecipata. Parimenti
vede in sè quelle possibilità che, di fatto, con la sua volontà, rende real¬
pe
mente esistenti. Ogni cosa quindi esiste originariamente nella mente di
a
Dio, in quanto la sua essenza poggia sulla conoscenza di Dio e la sua fa
esistenza sul volere divino illuminato dalla sua scienza (cfr. la dottrina nunzi
sulla Creazione). ha?
Ha
Agostino (De Trinitate, 15, 13): «Ma forse che Iddio Padre, dal quale è nato
il Verbo, Dio da Dio, nella sua sapienza che è esso stesso, altro apprende per delle
il senso del suo corpo, ed altro per se stesso? Come potrebbe affermare ciò colui appr
che pensa Dio non come animale ragionevole, ma come un essere al di sopra a
di ogni anima razionale, proprio quale può essere pensato da coloro che lo pon¬ annu
gono al di sopra di tutti gli animali e di tutte le anime, benché ancora lo ve¬ cio
dano nello specchio e nell'enigma, e non ancora faccia a faccia com'è? Forse
che Dio Padre ha bisogno di testimoni o di nunzi per conoscere le cose che inse
conosce per se stesso, e non per il corpo che non ha? No certamente. Per sapere
le cose che sa, gli è bastevole la sua perfezione. Ha certamente dei nunzi, cioènecessar
gli angeli, ma non perchè gli annunzino le cose che non sa, non essendovi nulla tut
che esso ignori, ma perchè constatino la verità delle sue opere; e perciò si dice
di loro che alcune le annunciano, non perchè le apprenda lui da loro, ma perchè
essi da lui le apprendono per il suo Verbo senza alcun suono corporeo.
E difatti annunciamo ciò che egli vuole sia annunciato alle persone a cui li
manda, tutto ascoltando da lui per il suo Verbo, cioè trovando nella sua verità
quello che debbono fare, e quando e come debbano annunciarlo. E difatti anche
noi lo preghiamo, nè tuttavia, ciò facendo, gli insegniamo le nostre necessità,
poiché : " Il Padre nostro, dice il suo Verbo, sa ciò che vi occorre anche prima
che glielo domandiate ". Nè queste cose fu necessario che le vedesse nel tempo
per conoscerle, ma le previde perchè preconosce tutte le cose temporali future,
come e quando le avremmo richieste, e quali o no ci avrebbe concesse.
§ 7§- REALTÀ E PERFEZIONE DELL'INTELLETTO DIVINO 393
Tutte le sue creature, spirituali e corporali, non le conosce in quanto sono,
ma sono in quanto egli le conobbe. Davvero che non poteva non sapere ciò
che avrebbe creato. E poiché lo sapeva, perciò lo creò; e non perchè lo creò,
perciò lo seppe. Né altrimenti conobbe le cose create se non perchè erano da
crearsi; quindi la creazione nulla aggiunse alla sua sapienza; ma egli aggiunse
qualche cosa a loro, pur restando come era. Difatti anche nel libro dell'Eccle¬
siastico così è scritto : " Prima d'essere create, tutte le cose eran note al Signore
Iddio, e così pure dopo compiute egli riunirà ogni cosa ". Perciò disse che nulla
è noto, quando è compiuto, in modo diverso da quando non era ancora com¬
piuto. Quindi è certamente grande la differenza che corre tra questa scienza e
la nostra. La scienza di Dio è la stessa sapienza, la sapienza è la stessa sua es¬
senza o sostanza. Poiché nella mirabile semplicità della sua natura, non è altra
cosa il sapere ed altra cosa l'essere, ma il sapere è lo stesso essere, come ab¬
biamo detto nei libri anteriori.
La nostra scienza invece è di molte cose che passano, poiché per noi l'essere
non è la medesima cosa che il sapere, dato che possiamo essere anche igno¬
rando, né sappiamo quello che impariamo da altri. Perciò siccome la nostra
scienza è dissimile dalla scienza di Dio, così anche il nostro verbo, che si ori¬
gina dalla nostra scienza, è dissimile dal Verbo di Dio che nasce dalla stessa
essenza del Padre o dalla sapienza del Padre, o più espressamente ancora dalla
scienza Padre, dalla sapienza Padre ».
E ancora nel libro 15, 7, n. 13 così scrive : « Chi può dunque comprendere
questa sapienza per la quale Dio conosce le cose passate, non come passate, e
quelle future, non come future, o quasi che non essendo ancora aspetti che
siano; ma le passate e le future essendogli tutte presenti al medesimo modo, né
singolarmente le pensa, né pensandole passano da uno stato all'altro, ma con un
medesimo sguardo le abbraccia tutte; chi dunque, ripeto, può comprendere que¬
sta sapienza, quando spesso non riusciamo a comprendere nemmeno la nostra?
Noi possiamo vedere in qualche modo le cose che sono presenti ai nostri sensi
e alla nostra intelligenza, ma quelle che non sono, e che tuttavia furono, le
conosciamo per il ricordo che ne serbiamo. E qualche volta, anche se non con
perfetta certezza, congetturiamo dalle cose passate le future, ma non dalle fu¬
ture le passate. Difatti quando possiamo intuire nel nostro pensiero con certa
chiarezza qualcosa che prossimamente avverrà, ciò lo facciamo, quando è possi¬
bile, con l'aiuto della memoria, la quale di certo non appartiene alle cose che
saranno, ma a quelle che furono. Il che si può esperimentare nei detti e nei
canti che abbiamo imparato a memoria. Se dunque non si prevedesse con la
memoria ciò che seguirà certamente nemmeno lo diremmo. E tuttavia non è la
previdenza che ce lo fa prevedere, bensì la memoria. Dunque, per concludere,
tutto quello che diciamo o che cantiamo non lo proferiamo se non è previsto
o prospettato. E tuttavia quando così facciamo, non diciamo di cantare mediante
la previsione, ma a memoria; e che cosa valga di più in tutto ciò che diciamo
o cantiamo non è la previdenza, ma la memoria.
Abbiamo infatti conosciuto che questa si forma nell'anima nostra, o dall'anima
nostra, e di ciò ne siamo certissimi, ma quanto più attentamente vogliamo osser¬
vare come ciò avvenga tanto più il nostro dire vien meno; perciò anche l'atten¬
zione vien meno dato che la nostra intelligenza non può giungere a qualcosa di
stesso quindi intendo quanto sia mirabile e incompr
intender
394 P. I. - DIO UNO E TRINO ce
chiaro senza l'ausilio della lingua. E crediamo forse che la previdenza di Dio
sia come la nostra memoria e intelligenza? Dio, pensando, non vede le singole
cose, ma in un'eterna e immutabile visione abbraccia tutto ciò che conosce.
Come può questo comprendere l'infermità della nostra mente? In tanta difficoltà
ed angustia dobbiamo gridare all'Iddio vivente: "Troppo meravigliosa è la tua
scienza per me; è sublime e io non posso raggiungerla " (Sai. 138, 6). In me essenzialm
stesso quindi intendo quanto sia mirabile e incomprensibile la tua scienza, con
la quale mi hai fatto, quando non valgo a intendere me stesso che hai fatto.
E tuttavia mi sento spinto dal fuoco del desiderio a cercare sempre la tua faccia »
(traduz. P. Montanari con modificazioni).
p
essenza
§ 79. Varie specie di conoscenza divina. esisten
Pur essendo la conoscenza di Dio essenzialmente semplice, possiamo
tuttavia distinguervi varie specie secondo isuoi diversi oggetti. Ciò serve ripr
a chiarirla maggiormente. d
1. - Conoscenza speculativa e pratica. La prima concerne Dio e le
realtà extradivine, considerate nella loro essenza 0 possibilità; la seconda scie
le cose extradivine considerate nella loro esistenza 0 realizzazione voluta pr
e conosciuta da Dio.
2. - Conoscenza di approvazione e di riprovazione. Oggetto della
prima sono il bene e i buoni (Gen. 1, 31), della seconda il male e i dipen
cattivi (Mt. 7, 23; 25, 12; Le. 13, 25 ss.).
3. - Conoscenza del semplice sapere e scienza di visione (sdentici
simplids intelligence e sdentia visionis). La prima riguarda il possibile,
l'altra il reale.
4. - Conoscenza necessaria e scienza libera. Alla prima si riferiscono
le cose necessarie, alla seconda le cose che dipendono dalla libera volontà
di Dio. Lodovico Molina (t 1600) introdusse un nuovo tipo di cono¬
scenza che sta di mezzo a queste due e che fu appunto perciò detta
sdentia media. Riguarda il futuro condizionato, ossia ciò che non è reale,
ma che potrebbe essere reso tale dalla libera decisione delle creature,
qualora si verificassero determinate condizioni.
§ 80. LA SCIENZA DI DIO COME CONOSCENZA E COMPRENSIONE DI SE STESSO 395
§ 80. La scienza di Dio come conoscenza e comprensione di se stesso.
1. - Il Concilio
Vaticano ha asserito come verità di fede che Dio co¬
nosce e comprende se stesso in modo perfettissimo (Sess. 3, cap. 1;
Denz. 1782-1784).
2. - La conoscenza o coscienza che Dio ha di sè emerge da quanto
si è già detto della sua trascendenza sul mondo e della sua personalità.
Si palesa poi in modo speciale con la rivelazione, la manifestazione che
Dio ci fa di se stesso. Con essa rivolge la parola all'uomo, lo comanda,
lo ammonisce, lo giudica, lo consola e gli dona le sue grazie. Si mani¬
festa inoltre in modo particolarissimo in Cristo, il Verbo personale del
Padre. La conoscenza che Dio ha di sè include pure la coscienza della
propria superiorità e della propria assoluta diversità dal mondo (Giov. 8,
42-47; 15, 18-21; 18, 36).
Le parole di Cristo : « Ogni cosa m'è stata data dal Padre mio; e
nessuno conosce perfettamente il Figlio tranne il Padre e nessuno co¬
nosce perfettamente il Padre tranne il Figlio e colui al quale il Figlio
avrà voluto rivelarlo» (Mt. 11, 27), ci manifestano chiaramente che Dio
non solo si conosce, ma ha di se stesso una comprensione tale che esclude
ogni oscurità e che tale comprensione è riservata a lui solo. Anche nel
Vangelo di Giov. 10, 15 Cristo dice: «Io conosco le mie (pecore) e le
mie conoscono me, come il Padre mi conosce e io conosco il Padre ».
Paolo attribuisce la conoscenza di Dio allo Spirito Santo : « A noi lo
rivelò appunto per lo Spirito, poiché lo Spirito tutto scruta, anche le
profondità di Dio. Chi degli uomini infatti conosce i pensieri dell'uomo,
se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche le cose di Dio nes¬
suno le ha conosciute, tranne lo Spirito di Dio. E noi non abbiamo ri¬
cevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito che è da Dio, affinchè cono¬
sciamo i doni che ci sono stati donati da Dio » (r Cor. 2, 10 ss.).
Da questi passi appare chiaro che Dio attua la sua conoscenza in
modo che il Padre conosca se stesso, il Figlio e lo Spirito Santo; il
Figlio se stesso, il Padre e lo Spirito Santo; lo Spirito Santo se stesso,
il Padre e il Figlio. Anche secondo Aristotele Dio è conoscenza di se
stesso, anzi conoscenza della conoscenza. Però soggetto di tale cono¬
scenza è Dio come soggetto unico, che, nel conoscersi, si rivolge a se
- prim
396 P. I. DIO UNO E TRINO
divin
stesso. Invece, secondo la rivelazione biblica, il soggetto di questa co¬ teo
noscenza è l'unico Dio, che però realizza il suo conoscere come Padre,incomprensib
Figlio e Spirito. La coscienza e la comprensione che Dio ha di sè svani¬essendo
rebbero se ciascuna persona divina non conoscesse se stessa e le altre due. profond
Va inoltre ricordato una seconda, profonda differenza tra l'insegna¬ certez
mento della rivelazione e la dottrina filosofica greca che riguarda la co¬accettar
noscenza di Dio. La Scrittura non mira, in primo luogo, come fa la filo¬ relazion
sofia religiosa greca, a determinare l'essere divino come conoscenza, nep¬ de
pure intende rivelarci in modo puramente teorico che Dio si conosce.
Vuole mostrarci il Dio vivente e incomprensibile che nella sua rivela¬
zione si svela a noi, e Cristo, il quale, essendo colui che vive in comu¬
conoscenza
nione personale con il Padre, ci rivela le profondità di Dio. Così nel testo
di Paolo testé citato si esprime la gioiosa certezza che noi, nello Spirito incom
Santo, siamo resi capaci di conoscere, accettare e amare i doni di sal¬
vezza. Il passo di Giovanni sottolinea la relazione del Padre con il Figlio d
come conoscenza reciproca, che altrove vien descritta quale inabitazione princi
o esser una cosa sola, per spiegare così l'unità tra Cristo e i suoi fedelil'eternità
paro
nella sua più profonda ragione e interiorità.
me
3. - Anche i Padri parlano della conoscenza che Dio ha di se stesso può
per mettere in risalto la sua vita e la sua incomprensibilità per la nostra
conoscenza. poterl
diciamo
Minucio Felice nel suo dialogo Octavius (18, 7-9) dice: «È chiaro come il sole
che Dio, autore di tutte le cose, non ha nè principio nè fine; che a immutabilmente
tutte le
cose dona l'esistenza e per sè solo riserba l'eternità che prima del mondo era imm
mondo a se stesso; che tutto regge con la sua parola, ordina tutto con la sua al
sapienza, tutto perfeziona con la sua potenza. Non lo si può vedere, poiché è que
luce troppo fulgida per il nostro occhio. E ancor meno lo si può toccare, poiché
troppo puro pel nostro tatto. E nemmeno lo si può misurare, perchè superiore
alla nostra intelligenza; infinito, immenso, solo egli può conoscere la sua gran¬ com
dezza. Troppo ristretto è il nostro cuore per poterlo comprendere e, di conse¬
guenza, lo stimiamo degnamente quando lo diciamo inestimabile ». E S. Ago¬
stino: « Come tu assolutamente esisti, così tu solo conosci; tu sei immutabil¬
mente e immutabilmente conosci e immutabilmente vuoi. La tua essenza sa e
vuole immutabilmente, la tua scienza è e vuole immutabilmente, la tua volontà
è e conosce immutabilmente. Nè sembra giusto al tuo cospetto che il modo
con cui si conosce il lume immutabile sia anche quello con cui si conosce l'es¬
sere illuminato e mutabile. Perciò " l'anima mia è come una terra senz'acqua
dinanzi a te " (Sai. 142, 6), perchè come non può illuminarsi da sè, così non
può saziarsi di sè. " In te è la sorgente di vita, come nella tua luce vedremo la
luce " (Sai. 35, 10) » (Confessiones, 13, 16).
§ 8o. LA SCIENZA DI DIO COME CONOSCENZA E COMPRENSIONE DI SE STESSO 397
4. - In Dio coscienza di sè e conoscenza di sè, diversamente da quanto
avviene nell'uomo, si identificano in un atto unico. Dio si conosce nella
sua pienezza assoluta. Mentre la conoscenza umana si attua con l'unione
del soggetto con l'oggetto conosciuto, in Dio regna, al contrario, l'asso¬
luta semplicità, in quanto sia l'oggetto conosciuto, sia il soggetto cono¬
scente sono un'identica realtà. Ne proviene che in Dio la coscienza di
sè, la conoscenza di sè e la comprensione di sè sono la stessa cosa. Per
la sua semplicità assoluta Dio è la conoscenza e la coscienza di sè. Infatti
la coscienza che Dio ha di sè non segue il suo agire, come invece av¬
viene sempre nell'uomo; e neppure può realizzarsi con un atto oscuro
e incosciente (abituale), ma è sempre la massima attualità (Actus purus).
Dio si possiede continuamente con coscienza chiarissima e sempre in
atto. E non passa assolutamente dalla chiara percezione di una fra le
infinite perfezioni, che formano la sua pienezza divina, alla coscienza di
un'altra. Poiché vi è un'unica e identica realtà che è contemporanea¬
mente soggetto e oggetto della conoscenza, ne deriva che Dio com¬
prende la sua essenza con forza conoscitiva sempre vigile e perfettissima.
Il pensiero con cui Dio si conosce è sussistente al massimo, anzi siccome
anch'esso si conosce, diviene anch'egli persona, il Figlio di Dio.
Se l'uomo dovesse di continuo guardare se stesso e restare chiuso in
sè, cadrebbe nel tedio, nella nausea e nella noia. Egli non può mante¬
nersi fermo, nè rimanere a tu per tu con se stesso. Sfugge a se stesso
nel sonno o si disperde nelle cose e nell'attività. Ci vuole, secondo
Agostino, un forte slancio per rientrare in se stessi. L'uomo non può
rimanere solo, a tu per tu con la sua personalità a causa della povertà
del suo essere, della sua impotenza e della sua peccabilità.
Dio tiene fisso il suo sguardo su se stesso in ininterrotta e vigile co¬
scienza e tuttavia, non solo non prova nè noia, nè tedio o nausea, bensì
la più alta felicità. Infatti la sua intelligenza, realtà unica con la sua
conoscibilità, è sempre attiva al massimo grado possibile, cioè con inten¬
sità assoluta, e abbraccia l'infinita ricchezza. Egli si vede come perfezione
assoluta, l'unico valore assoluto. È quindi impossibile che scorga ulte¬
riori oggetti conoscibili e nuovi valori per protendersi verso di essi.
Mentre per l'uomo sarebbe un inferno (inferno = essenzialmente per¬
dita di Dio) il dover rimanere sempre concentrato in sè, per Dio invece
la più alta felicità è il possedersi con piena comprensione. Parimenti per
l'uomo, il cielo sarà appunto il poter partecipare a questa feconda auto¬
conoscenza divina nella visione immediata, con la quale sta strettamente
unito l'amore.
ricevere l'impulso da ciò che gli è esterno. Egli
essenza
398 P. I. - DIO UNO E TRINO
conosc
5. - In conseguenza della sua perfezione Dio è pienamente sufficiente d
a se stesso per conoscersi e comprendersi. In lui la conoscenza non sorge incoscien
dalla contemplazione di ciò che gli sta al di fuori; l'uomo invece solo se
mediante l'incontro con un altro essere impara a distinguersi e a cono¬ visione
scere la propria essenza con i suoi enigmi e abissi. L'Assoluto non puòcompren
ricevere l'impulso da ciò che gli è esterno. Egli agisce per propria forza an
ed esclusivamente in virtù della propria essenza. Questa è la specie in-
telliggibile o idea in cui egli si vede. Si conosce immediatamente in sè
e per se stesso. Ciò si oppone sia alla dottrina di Hegel, per cui Dio si
sviluppa dialetticamente dallo stato di incoscienza a quello di autoco¬
scienza, sia alla dottrina di Giinther (t 1883), secondo cui Dio perviene del
alla piena conoscenza di sè mediante la visione dell'essere e dell'agire
delle creature. Dio, nei riguardi della comprensione di se stesso, non s
deve nulla alla creatura, ma ha in se stesso anche la conoscenza della
creatura stessa. Egli è l'oggetto primario della sua conoscenza, le crea¬
ture costituiscono l'oggetto secondario. c
contraddizio
m
§ 81. La scienza di Dio come conoscenza del mondo.
identifica
Gli oggetti extradivini della scienza di Dio sono il possibile, il reale c
e il futuro condizionato.
fo
1. - Dio conosce il possibile, ossia tutto ciò che non fu, non è e non
sarà, ma che per la sua mancanza di contraddizione interna Dio avrebbe
potuto realizzare sia immediatamente, sia per mezzo di cause seconde
create. me
ma
La possibilità intrinseca (metafisica) che si identifica con la pensabilità di una il
cosa, si fonda nel fatto che Dio conosce i vari modi con cui la sua essenza può re
essere imitata. L'imitabilità analogica, conosciuta da Dio, della sua essenza da
parte di una cosa (idea divina di una cosa) è il fondamento della possibilità
intrinseca della cosa stessa. Poiché l'essenza divina è infinita, sono pure infiniti
i modi con cui le creature possono imitarla in modo analogico sotto i suoi mol¬
teplici aspetti. Perciò la conoscenza che Dio ha delle cose possibili include una
molteplicità infinita. Ciò non significa che egli veda queste cose attraverso una
infinità di atti. Egli le scorge in un atto unico per mezzo del quale egli vede la
propria essenza sia in se stessa, sia nelle infinite maniere con cui i vari esseri
limitati possono imitarla, senza però mai esaurirne il contenuto. Con la possi¬
bilità intrinsica delle cose, Dio vede pure le infinite relazioni possibili delle cose
tra loro.
§ 8 1. LA SCIENZA DI DIO COME CONOSCENZA DEL MONDO 399
La possibilità estrinseca (fisica) delle cose dipende dal fatto che Dio le può
causare. Egli, conoscendo la sua potenza, sa pure di quali cose può essere causa.
Essendo la sua potenza infinita, infinite sono pure tali possibilità.
La Scrittura asserisce che Dio conosce il possibile. Cfr. Sai. 146, 5:
« Grande è il Signore nostro e vasta la sua potenza; della sapienza di
lui non v'è misura »; cfr. Mt. 19, 26; Rom. 4, 17; Eccli. 23, 19.
-
2. È di fede che Dio conosce tutte le cose reali, passate, presenti
e future, specialmente i più reconditi segreti dell'uomo, i moti del suo
pensiero, del suo amore e della sua coscienza e anche le libere deci¬
sioni future. Vedere il Concilio Vaticano, Sess. 3, cap. 1; Denz. 1784.
a) La conoscenza del cuore è particolarmente testimoniata dai se¬
guenti passi biblici. Nel Sai. 7, 9-10, il calunniato dai suoi nemici così
prega : « Giudicami, o Signore, secondo la mia giustizia e innocenza.
Cessi il mal fare degli iniqui, e tu sorreggi il giusto, tu che scruti i
cuori e le viscere, Dio giusto». Nel Sai. 33, 13-15 è detto: «Guarda
il Signore dal cielo, vede tutti i figli di Adamo. Dal seggio del suo
trono egli mira verso tutti gli abitatori della terra; egli che ne ha for¬
mato i cuori tutti, che ne intende ogni azione ». Sai. 90, 8 : « Ti poni
dinanzi le nostre colpe, i nostri atti più segreti alla luce del tuo volto ».
Prov. 15, 11: «L'Abisso e il Baratro sono alla presenza di Dio; quanto
più i cuori degli uomini». Prov. 16, 2: «Tutte le vie dell'uomo sono
a lui manifeste: il Signore pesa gli spiriti». Eccli. 17, 13: «I loro
(degli uomini) andamenti gli (a Dio) stanno sempre davanti, non si pos¬
sono nascondere agli occhi suoi ». Eccli. 39, 19 : « Le opere d'ogni
mortale sono davanti a lui, e nulla è nascosto ai suoi occhi ». Ger. n, 20:
« Ma tu, 0 Signore degli eserciti, che giudichi con giustizia e scruti le
reni e i cuori, fa' ch'io mi vegga rivendicato di loro, perchè a te ho
confidato la mia causa ». Cfr. 17, 10. Il Padre tuo che vede nel segreto
(Mt. 6, 4 e 6, 6). L'uomo può giudicare ingiustamente, ma Dio co¬
nosce i cuori (Le. 16, 15); cfr. pure Atti 1, 24; 15, 8; Rom. 8, 27. Nella
prima lettera di Giovanni (3, 20) leggiamo la consolante affermazione:
« Qualunque cosa ci rimproveri il nostro cuore, Dio è più grande del
nostro cuore, e conosce tutto». Ebr. 4, 13: «Tutto è chiaro e mani¬
festo dinanzi a lui ». Cfr. pure i passi biblici addotti nel § 78.
b) IPadri si richiamano alla scienza di Dio sia per incitare i fe¬
deli all'impegno religioso-morale sia per consolare coloro che sono nel¬
l'afflizione.
avvolge con la sua luce tutta la terra è presente in o
D
400 P. I. - DIO UNO E TRINO t
s
Minucio Felice nel suo dialogo Octavius dice (32, 7-9): «Tu credi che Dio av
nulla sappia delle azioni e dell'attività umana e che dal suo trono celeste non no
possa giungere a tutti e sapere tutto. O uomo, è questo un grave errore e un
inganno. Come può Dio essere lontano, egli che riempie il cielo, la terra intera esercizi
e tutto ciò che sta al di fuori della sfera terrestre? Ovunque egli non solo ci è
vicino, ma è persino dentro di noi. Osserva il sole: si trova in cielo e tuttavia mezz
avvolge con la sua luce tutta la terra è presente in ogni luogo, penetra in tutto abbandona
e nulla può offuscare il suo splendore. Tanto più Dio, che tutto ha creato e
tutto scruta, a cui nulla è nascosto, è presente nelle tenebre, presente nei nostri ciascuno
pensieri stessi che sono altrettante tenebre. Noi non soltanto agiamo sotto il suo uomini,
sguardo, ma viviamo, potrei dire, con lui ». E più avanti (36, 8) dice : « Se ab¬ prova
biamo a patire qualche infermità del corpo questa non è una pena per noi, ma
piuttosto esercizio di combattimento. Il coraggio si fortifica con le afflizioni, e esterior
spesso la sventura è scuola di virtù. Sì, senza esercizio e sforzo si infiacchiscono perc
sia le energie corporali, sia le spirituali. Persino i vostri eroi, che presentate pecca
come esempi, hanno raggiunta la loro fama in mezzo alle sventure. Di più il na
nostro Dio può venirci in aiuto e non ci abbandona, essendo egli stesso ilnecessariamen
Pa¬
drone di tutto, amante dei suoi. Ma nelle avversità scandaglia e prova gli in¬ fron
dividui, nei pericoli soppesa il carattere di ciascuno, sino agli estremi rantoli s
dell'agonia mette alla prova la volontà degli uomini, sicuro che niente gli può mu
sfuggire. Così ci prova con le avversità, come si prova l'oro col fuoco ». que
Tertulliano nel suo libro De Paenitentia (cap. 3) scrive: «Se la debolezza quest
degli uomini non può giudicare che sui fatti esteriori poiché essa non può pe¬
netrare nell'intimo segreto del cuore, non bisogna perciò concludere che noi pos¬ ric
siamo, davanti a Dio, trascurare di pentirci dei peccati della nostra volontà. Dio bontà
vede tutto: nulla di ciò che lo può offendere gli è nascosto. Poiché egli conosce
i nostri più segreti pensieri, ne terrà necessariamente conto nel giudizio che in
pronuncerà. Non si può dissimulare o mentire di fronte a lui che tutto scruta ». nostr
Leone Magno (Sermo 53, 3) dichiara: «Per lo sguardo di Dio, che tutto p
vede, non vi è alcun nascondiglio, non vi sono muri delle pareti; a lui sono L
note non solo le cose fatte o pensate, ma anche quelle che si faranno o pen¬ può
seranno. Questa è la scienza del sommo giudice, questo lo sguardo tremendo, che
penetra tutto ciò che è solido e apre tutto ciò che è segreto. Gli sono chiare le
cose oscure, gli rispondono le mute, il silenzio lo riconosce, e l'anima gli parla sia
senza voce. Nessuno disprezzi la pazienza della bontà di Dio per l'impunità dei ci
suoi peccati ».
S. Agostino afferma che lo sguardo divino penetra in noi ben più in fondo del m
nostro stesso sguardo : « Ciò che è nostro solo il nostro spirito lo conosce. Io in¬
fatti ignoro ciò che tu pensi, né tu conosci ciò che penso io: ciò che pensiamo
nel nostro intimo è qualcosa di unicamente nostro. L'unico testimone del pen¬
siero di un uomo è il suo spirito. " Così nessuno può conoscere ciò che è Dio,
se non lo spirito di Dio ". Come noi ci conosciamo con il nostro spirito, così
Dio si conosce con il suo, ma con la differenza che egli col suo conosce anche
ciò che si avvera in noi, mentre, senza il suo, noi siamo incapaci di sapere ciò
che avviene in lui. Anzi Dio conosce in noi anche ciò che noi stessi ignoriamo
che vi sia. Pietro ignorava infatti la fragilità con cui per ben tre volte avrebbe
tradito Cristo mentre il Maestro glielo predisse. Il malato era ignaro della pro-
§ 8 1. LA SCIENZA DI DIO COME CONOSCENZA DEL MONDO 4OI
pria malattia, ma il medico la conosceva. In noi vi sono certe cose che noi
stessi ignoriamo mentre sono note a Dio (In Ioann., 32, 5). « D'ordinario l'uomo
ignora se stesso; egli non sa ciò di cui è capace e ciò di cui è incapace; ora
presume di se stesso, ora dubita delle sue forze. Viene una tentazione: è il
mezzo di sapere ciò che egli vale e di conoscersi qual è. Dio lo conosceva, ma
egli non si conosceva. Per un senso di fiducia presuntuosa, Pietro credette di
avere ciò che ancora non aveva: pensò di essere assai forte per perseverare fino
alla morte nella fedeltà a Gesù Cristo. In realtà egli ignorava quanto era debole,
ma Dio ben lo sapeva » (In Psalm. 55, 2). Se solo Dio conosce i segreti del
cuore, solo egli deve giudicare gli uomini : « Solo colui che non può ingannarsi
deve fare il discernimento. E chi è che non può ingannarsi? È colui che non
metterà i cattivi a destra e i buoni a sinistra. Quanto a noi uomini, finché siamo
in questa vita, è già tanto difficile conoscere noi stessi; come dunque saremo
così temerari da voler giudicare gli altri? » (In Psalm. 139, 2).
3. - La creatura può designare solo con la parola « previsione » la
scienza con cui Dio conosce le cose che non esistono ancora e i fatti
che non sono ancora avvenuti. Ma in Dio, a motivo della sua eternità,
non può esistere la previsione, quasi che egli stesso dovesse vedere qual¬
cosa di futuro e ne attendesse il compimento. Egli con la sua scienza di
visione abbraccia in un unico atto immutabile l'intera ricchezza del reale
assieme al momento in cui si realizzerà. Agostino nel suo libro De di¬
versis quaestionibus ad Simpl. (2, 2, 2) così scrive : « Che cos'è mai la
previsione di una cosa se non scienza del futuro? Ma che cosa mai è
futuro per Dio che trascende ogni tempo? Infatti se la scienza di Dio
possiede le cose stesse, queste non sono affatto per lui future, bensì pre¬
senti. Perciò in Dio non si può parlare di previsione, bensì solo di
scienza ». E più avanti: « Ciò che prima era previsto diviene poi cono¬
sciuto. Il che significa mutazione e legame con il tempo. Ma Dio, che
è in modo verissimo ed eccelso, non può essere affatto mutabile, nè sog¬
getto ad alcun cambiamento determinato dal tempo ». Ma siccome noi
dobbiamo parlare di Dio secondo la nostra mentalità e terminologia,
ossia dobbiamo parlarne come persone legate al tempo, ne viene che non
possiamo usare anche per Dio stesso altro vocabolo se non quello di
« previsione », di « prescienza ».
La conoscenza delle cose da parte di Dio fonda la loro conoscibilità
da parte delle creature.
4. - Dio conosce infallibilmente le azioni libere future condizionate
delle creature (dottrina teologica certa). Il Catechismo romano (parte 4,
cap. 2, n. 4) insegna che talvolta le nostre preghiere non sono esaudite
26 - schmaus - dogmatica 1.
De infantibus qui praemature abripiuntur, ove
P. I. - DIO UNO E TRINO
c
402
prescien
da Dio, perchè egli conosce che quanto gli chiediamo sarebbe per noi problem
inutile e anche dannoso. d
a) Nella Scrittura i passi: Sam. 23, 7 ss.; Sap. 4, n; Mt. n, 21-
23; Le. 10, 13; 16, 31 attestano questa scienza di Dio.
b) Fra iPadri ne parla, ad esempio, Gregorio di Nissa nel suo libro
De infantibus qui praemature abripiuntur, ove si dice che Dio strappa
presto alla vita alcuni individui perchè il loro corpo sia preservato dai
dolori e la loro anima dai pericoli. La prescienza del futuro condizio¬ divin
nato viene spesso trattata quando sorge il problema del come mai Giuda qualcos
sia stato scelto a divenire apostolo. La scienza divina sarebbe limitata e ch
finita qualora Dio non avesse questa conoscenza e in tal caso diverrebbe l
insicuro e fallibile anche il suo governo.
5;
§ 82. Valore salvifico dell'onniscienza divina.
D
1. - Il valore salvifico dell'onniscienza divina sta nel fatto che lo (
sguardo che Dio volge su di noi non è qualcosa di indifferente, bensì, dèi
come fu spiegato al § 81, è sguardo d'amore che crea e di giudizio che D
punisce. Essere conosciuti da Dio significa nel linguaggio biblico essere c
riconosciuti, amati, curati, scelti da lui. Gen. 1, 31; 18, 19; Es. 33, 12; sopr
Deut. 1, 13-15; Am. 3, 2; Os. 13, 5; Ger. 1, 5; Giob. 31, 6; Prov. 31, Padre
23; 2 Tim. 2, 19 (il Signore conosce quelli che sono suoi); 1 Cor. 8, 3
(ma se uno ama Iddio, egli è riconosciuto da Dio); 13, 12 (allora co¬ div
noscerò così come fui conosciuto); Gal. 4, 8 s. (ma un tempo, ignari di creativa
Dio, serviste a quelli che in realtà non sono dèi; mentre ora avendo co¬conferisce
nosciuto Dio 0 piuttosto essendo conosciuti da Dio, come mai vi rivol¬
gete a quegli elementi deboli e poveri...?). La conoscenza con cui Dio di
abbraccia gli uomini, stabilisce un rapporto soprannaturale tra Dio e la d
creatura. Siccome Dio conosce solo come Padre, Figlio e Spirito Santo, indifferente
ne deriva che l'uomo, mediante la scienza di Dio che lo avvolge, è
esperimentiam
chiamato a partecipare alla tripersonale vita divina. Qui, più che mai,
la scienza di Dio mostra la sua potenza creativa. Agisce, in coloro che
ne sono toccati, anche come luce che conferisce la possibilità di acco¬
gliere e affermare la rivelazione soprannaturale.
-
2. Lo sguardo di Dio ci fa consapevoli di non essere immersi in
una natura senza limiti che nulla sa di noi e della quale noi non sap¬
piamo niente; in una natura fredda e indifferente di fronte al nostro de¬
stino avverso e dinanzi alla quale esperimentiamo solo ansia e terrore.
§ 82. VALORE SALVIFICO DELL'ONNISCIENZA DIVINA 4O3
Pascal dice: « Quando considero la piccola durata della mia vita, inghiottita
nell'eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che io occupo e quello
pur così piccolo che io vedo, inabissato nell'infinita immensità degli spazi che
io ignoro e che mi ignorano, allora provo terrore e mi meraviglio di trovarmi
qui e non altrove, in questo momento e non in un'altra epoca ». « Il silenzio
eterno di questi spazi infiniti mi sgomenta » CPensieri, n. 205, 206).
Lo sguardo perenne e amoroso che Dio ci rivolge, ci permette di
liberarci dall'isolamento e dalla malinconia, ci dà la possibilità di rag¬
giungere la coscienza di essere al sicuro e in pace, ci palesa che la nostra
vita ha peso e valere.
3. - Inoltre, lo sguardo amoroso di Dio risveglia anche le più pro¬
fonde possibilità del nostro essere. È un continuo richiamo, come av¬
viene ogni volta che l'uomo si sente sotto lo sguardo vigile e amoroso
di un suo simile che lo sprona a esplicare tutte le sue energie. Risveglia
in noi il timore di compiere qualcosa di contrario a Dio. Di più il pen¬
siero che Dio ci vede ci induce a esaminarci con chiarezza e senza velo
alcuno, così come Dio ci scorge, e a valutare noi stessi secondo il metro
divino. Ci induce a studiare con semplicità il movente intimo e nascosto
del nostro agire, spesso mascherato da veli e sotterfugi. Solo mediante
la luce divina riusciamo a conoscere veramente noi stessi. Allora il pec¬
cato ci appare in tutta la sua importanza e gravità. Non cerchiamo più
di negarlo o di sminuirne il valore, ma lo lasciamo nella sua vera entità
e così ci rivolgiamo a Dio. Sotto lo sguardo divino, che penetra ogni
cosa in noi, sentiamo tutta la nostra indegnità e i nostri peccati, e così
possiamo liberarcene. Chi sfugge allo sguardo di Dio sfugge a se stesso,
al suo io intimo, alla possibilità di salvezza e di redenzione.
Però noi, in ultima analisi, possiamo guardare noi stessi solo se Dio
ci dà la possibilità di vederci con i suoi stessi occhi, ossia mediante la
fede. D'altra parte lo sguardo divino ci impedisce di giudicare e di va¬
lutare gli altri secondo il loro movente intimo, poiché solo Dio può pe¬
netrare nell'interno di ognuno.
Agostino dice : « E a te, o Signore, i cui occhi vedono a nudo l'abisso del¬
l'umana coscienza, che cosa potrebbe esservi di occulto in me, anche se io non
volessi confessarlo a te? Non farei che nascondere te a me, non me a te. Ora,
intanto, i miei gemiti ti attestano ch'io dispiaccio a me stesso, mentre tu mi
rifulgi, mi piaci, ti fai amare e desiderare, perch'io arrossisca di me, rinunzi a
me e scelga te, non compiacendomi per te e per me se non in te. A te, dun¬
que, o Signore, io sono manifesto, chiunque io sia; e già dissi per che scopo
io mi confessi a te: io lo faccio non già con parole e con le voci della carne,
ma con le parole dell'anima e con le grida del cuore, che l'orecchio tuo ben
non lo senti da me senz'avermelo detto prima tu » (
4°4 P. I. - DIO UNO E TRINO
sguard
conosce. Quando io sono cattivo, confessarmi a te non consiste in altro che nel ta
dispiacere a me stesso; quando invece sono buono, confessarmi a te non è altro s
che non attribuire la bontà a me, perchè tu, Signore, benedici il giusto, ma
prima tu lo giustifichi quando è empio. Pertanto la mia confessione, o Dio mio,possiamo
al tuo cospetto sia tacita e non sia tacita: tace lo strepito, grida l'affetto. Non
segu
dico nulla di vero agli uomini senza che tu prima l'abbia udito da me; e tu
non lo senti da me senz'avermelo detto prima tu » (Confessiones, io, 2). comple
tut
4. -Anche se siamo sempre sotto lo sguardo di Dio, tuttavia non d
nasce in noi un senso di abbattimento come talora accade dinanzi allo con
sguardo umano, perchè il divino non è, come spesso quello della crea¬ a
tura, curioso, cupido, sfavorevole, sprezzante; al contrario è comprensivo, g
amoroso, provvido, consolante, affinchè possiamo solo sotto tale sguardo non
caritatevole comprendere noi stessi. Esso ci segue in ogni singolo evento cer
concreto mentre contempla in tutto il suo complesso la nostra vita. Vede c
avvenimento per avvenimento collegato con tutto l'insieme. La Bibbia l'A
così descrive la forza salvifica e consolatrice della scienza divina nei allo
nostri riguardi : « Da questo (il vero amore) conosceremo d'essere dalla dalla
verità e rassicureremo i nostri cuori dinanzi a lui qualunque cosa ciconservar
rimproveri il nostro cuore, perchè Dio è più grande del nostro cuore cono
e conosce tutto. Diletti, se il nostro cuore non ci rimprovera abbiamo non
sicura fiducia presso Dio. E qualunque cosa cerchiamo, la riceviamo da in
lui perchè osserviamo i suoi comandamenti e ciò che piace a lui fac¬ pie
ciamo » (1 Giov. 3, 19-22). Con tali parole l'Apostolo vuol infondere s
nei figli di Dio la confidenza e la fiducia e allontanare la paura. Anche av
quando il nostro cuore ci accusa, quando dalla sua profondità sale tri¬ (Giov
stezza e dolore, possiamo ugualmente conservare la nostra fiducia. Dio
infatti è superiore allo stesso cuore umano, conosce il suo abisso, le sue
deficienze e le sue debolezze. Dinanzi a lui non abbiamo bisogno nè di lib
scoprirci nè di abbassarci; anzi, siccome sta infinitamente al di sopra
del nostro cuore, possiamo affidarci a lui con piena confidenza. Egli puòcognizion
eliminare peccato, tristezza e dolore in chi gli si affida con amore fidu¬ certez
cioso; così ha fatto con Pietro, il quale dopo averlo rinnegato, si rifugia
nella scienza del Signore e nel suo amore (Giov. 21, 15 ss.).
§ 83. La conoscenza divina del futuro e la libertà umana.
1. - Dio non possiede soltanto una cognizione probabile delle azioni
libere future dell'uomo, bensì un'infallibile certezza. Le vede non in loro
§ 83- LA CONOSCENZA DIVINA DEL FUTURO E LA LIBERTÀ UMANA 405
stesse, ma, in qualche modo, nella sua stessa essenza, poiché, in caso
diverso, dipenderebbe da cose esteriori a lui e cesserebbe perciò d'essere
assoluto.
Anche se Dio conosce in modo infallibile le azioni future dell'uomo
e se queste quindi si avverano infallibilmente, non cessano tuttavia
di essere libere (conclusione dalla verità di fede concernente la libertà
umana: Concilio di Trento, Sess. 6, can. 5; Denz. 815). Infatti la pre¬
scienza divina non è causa delle azioni libere, ma le accompagna sol¬
tanto. Sul vocabolo « prescienza » si ricordi quanto è già stato detto al
§ 81, 3.
Leone Magno nel suo 67° sermone (n. 2) dice: «Tutto ciò che la nequizia
giudaica ha compiuto contro il Signore era già stato predetto da tempo. E le
profezie sono così concepite, come se non riguardassero fatti futuri bensì avve¬
nimenti già trascorsi. Che cosa mai vuole significare un tale modo di esprimersi
se non l'ordine immutabile delle sempiterne disposizioni di Dio, presso il quale
le cose da discernere sono già giudicate, e le future sono già avvenute? Se Dio
infatti conosce in antecedenza le caratteristiche delle nostre azioni e gli effetti di
tutte le volontà, tanto più conoscerà le sue proprie opere. A ragione quindi ha
voluto che si ricordassero come avvenute quelle cose che non potevano assolu¬
tamente non avvenire. Perciò gli Apostoli, pieni di Spirito Santo, mentre soffri¬
vano le minacce e le violenze dei nemici di Cristo dicevano con voce con¬
corde a Dio: "Veramente si sono qui riuniti Ponzio Pilato ed Erode unita¬
mente coi gentili e con tutto il popolo d'Israele contro il tuo servo Gesù per
far tutto quello che la tua mano e il tuo consiglio avevano innanzi determinato
che avvenisse! " (Atti 4, 27 s.). Forse che l'iniquità dei persecutori di Cristo sca¬
turì dal consiglio d. Dio e quel delitto, che è il maggiore di tutti, fu armato dalla
mano preparata di Dio? Mai e poi mai si deve pensare una cosa simile di colui
che è la giustizia stessa! Una profonda differenza, anzi l'opposizione totale sus¬
siste tra quel che fu previsto nella malignità dei Giudei e quel che fu disposto
nella passione di Cristo. La volontà di uccidere e quella di morire non uscirono
dalla stessa origine; e così l'atrocità del misfatto e la pazienza non provennero
da un medesimo spirito. Il Signore non ha forzato la mano dei suoi nemici af¬
finchè lo colpissero, ma ha solo permesso che ciò avvenisse. Pur sapendo quello
che sarebbe accaduto, non costrinse all'azione, sebbene avesse appunto preso un
corpo affinchè ciò accadesse ».
Origene, nella sua opera De Oratione (1, 6) dice : « Se qualcuno si turba al
pensiero che, non potendo la prescienza divina errare circa le nostre azioni, que¬
ste siano perciò sottoposte alla costrizione, deve allontanare tale dubbio, perchè
ciò che Dio conosce necessariamente è che l'uomo sceglie o vuole non necessa¬
riamente o immutabilmente il bene, o se sceglie il male non lo vuole in modo
tale da non poter in seguito ritornare al bene ».
Girolamo nel suo Dialogi contra Pelagianos libri III (3, 6) afferma : « Chie¬
digli come mai abbia scelto Giuda il traditore, e perchè gli abbia affidato la
cassa pur sapendo che era un ladro! Vuoi saperne la ragione? Egli giudica le
giorno del giudizio e della manifestazione della Giu
406 P. I. - DIO UNO E TRINO D
piena
.ose presenti, non le future, e non condanna in base alla sua prescienza, anche
se sa che uno in futuro peccherà; ma è di tale bontà e ineffabile clemenza da
scegliere proprio questo uomo che adesso è buono ai suoi occhi, ma che di¬ inf
verrà cattivo, per dargli così la possibilità di pentirsi e di ravvedersi secondo il og
detto apostolico : " Ignori tu che la bontà divina ti attende a ravvedimento? Ma
e
per la tua durezza di cuore e il tuo sentimento malvagio ti accumuli ira per il
giorno del giudizio e della manifestazione della Giustizia divina, quando cia¬ c
scuno sarà retribuito secondo le sue opere " (Rom. 2, 4-5). E Adamo non ha con
peccato perchè Dio preconosceva il suo fallo, bensì Dio, in forza della sua na¬ fu
tura divina, sapeva in anticipo ciò che egli con piena e libera decisione avrebbe
arb
compiuto ».
c
2. - La necessità della prescienza divina infallibile in rapporto alle
libere decisioni future riguarda soltanto la loro oggettiva verità, in quanto, rigua
per virtù del principio di non contraddizione, esse non possono simul¬ n
taneamente avverarsi e non avverarsi, ma non concerne affatto il modo
con cui si attueranno. Si tratta di necessitas consequens, non di neces- delle
sitas antecedens. Dio prevede le libere azioni future e come necessarie preghiere
e come libere. Agostino dice nel De libero arbitrio (3, 4) : « Come tu
con la memoria non costringi affatto ad essere ciò che è avvenuto, così
Dio con la prescienza non obbliga ad avverarsi quanto, di fatto, si deve rea
verificare ». La scienza infallibile di Dio riguardante le nostre libere
azioni e specialmente il nostro destino eterno, non pregiudica l'energia
ciò
della nostra fatica e del nostro sforzo. Infatti la prescienza divina del quanto
futuro include anche quella delle fatiche e delle lotte umane, dei nostri analogamente
sforzi religiosi e morali, e delle nostre preghiere.
inv
condizio
di
§ 84. Modo con cui Dio conosce i futuri reali e i futuri liberi con¬
dizionati. dell'
Dio, grazie alla sua totale indipendenza da tutto ciò che è extradivino, conosce no
nella sua essenza sia il semplice possibile, in quanto gli sono noti gli infiniti dell'in
modi con cui la sua essenza può essere analogamente imitata dalle creature, sia
il reale, perchè la sua essenza medesima contiene i decreti concernenti la rea¬
lizzazione di ciò che è fuori di lui. Il problema, invece, che riguarda il modo
con cui Dio conosce il futuro reale e quello condizionato, dipendente cioè dalla
libera decisione delle creature, è arduo assai. La difficoltà si ricollega stretta¬
mente alla questione se l'essenza divina sia il mezzo conoscitivo delle azioni li¬
bere future in quanto considerata sotto l'aspetto dell'intelletto o in quanto con¬
siderata sotto quello della volontà. Se rispondiamo sotto l'aspetto intellettivo,
urtiamo contro l'obiezione che l'intelligenza divina non è il fondamento dell'esi¬
stenza, bensì solo della possibilità intrinseca e dell'intelligibilità delle cose. Se
§ 84- MODO CON CUI DIO CONOSCE IFUTURI REALI E LIBERI CONDIZIONATI 4O7
invece propendiamo per l'aspetto volitivo, inceppiamo nella difficoltà di spiegare
come può, in tal caso, ancora sussistere la libertà umana. Il problema non si
può eliminare ricorrendo all'eternità divina. Dio, perchè eterno, è certo presente
a ogni azione umana; per lui non esiste futuro. Tuttavia nasce la difficoltà del
come possa l'essenza divina presente a ogni evento del mondo creato, presentare
alla conoscenza di Dio le azioni umane libere, in quanto queste passano dal non
essere all'essere. Tale questione, che tocca il mistero del nostro eterno destino,
verrà qui trattata brevemente. Per una più ampia indagine rimandiamo al trat¬
tato sulla Grazia.
1. - Esistono due tentativi di soluzione, quello del tomismo che attinge i suoi
supremi principi da S. Tommaso d'Aquino, riceve la prima, chiara formula¬
zione da Duns Scoto (f 1308) e viene perfezionato dal domenicano spagnolo
Domenico Baiiez (t 1604); e quello del molinismo, dal nome del suo fondatore
il teologo gesuita spagnolo Lodovico Molina (f 1600).
Secondo i tomisti nessuna creatura può compiere un atto, sia pure di libera
volontà, senza che vi sia, da parte di Dio, una mozione antecedente, benché solo
in ordine logico e non temporale, mediante la quale essa passa dalla potenza
all'atto (praemotio, praedeterminatio physica). Il che significa in altre parole:
nella cooperazione tra Dio e l'uomo l'iniziativa, la precedenza, l'elemento deci¬
sivo spettano a Dio. Tale premozione è stabilita da Dio con un atto volitivo
eterno e si esplica poi nel tempo.
Dio conosce le azioni libere future nella sua essenza, in quanto questa rac¬
chiude i decreti della volontà divina, i quali stabiliscono di muovere la volontà
creata a determinate azioni. Ifuturi reali sono noti a Dio nei suoi decreti voli¬
tivi incondizionati, i futuri condizionati in quelli soggettivamente (da parte di
Dio) assoluti e oggettivamente condizionati. La teoria tomista riesce a spiegare
nel miglior modo possibile, la sovranità e l'infallibilità della prescienza divina.
Anzi giunge a chiarire come sia possibile una conoscenza delle azioni future
libere. È conoscibile ciò che ha un essere proprio. Ora, poiché le azioni libere
future non hanno essere in sé o nelle loro cause immediate, ne deriva che non
avrebbero alcun essere e quindi non sarebbero conoscibili, se non avessero un
essere nella causa prima. Però presta il fianco alle seguenti gravi difficoltà:
a) Come può Dio preconoscere i peccati, che certo non può volere? Itomisti
rispondono distinguendo nell'atto peccaminoso due aspetti: l'atto in quanto tale,
che è buono perchè essere, e la sua colpevolezza, privatio boni, la quale ap¬
punto perchè mancanza è non essere. Ora Dio preconosce i peccati nel decreto
della sua volontà con il quale mentre muove la creatura all'atto, permette so¬
lamente che sia privo della dovuta rettitudine.
b) Come può conciliarsi la libertà umana con la predeterminazione fisica?
Itomisti rispondono che la volontà, sotto l'influsso della mozione divina, che
precede il suo stesso movimento non temporalmente ma solo logicamente, si
determina da se stessa. Dio muove ogni creatura in modo conforme alla pro¬
pria natura, sicché le creature prive di libertà agiscono necessariamente, e quelle
dotate di libertà agiscono liberamente. Del resto i tomisti confessano che noi
non riusciamo nè a comprendere nè a spiegare la natura e il modo di tale . in-
può operare solo ciò che Dio vuole o permette. La s
408 P. I. - DIO UNO E TRINO
sc
flusso divino. Come Dio differisce completamente dall'uomo, cosi anche la sua
influenza su di noi è ben diversa da quella di un uomo sui suoi simili. scienti
ordinam
2. - Il molinismo respinge, per le predette difficoltà, ogni predeterminazione intend
fisica e i relativi decreti della volontà divina, pur affermando che gli atti umani vision
sono sottoposti al sovrano dominio di Dio, di modo che la libera volontà creata agiranno
può operare solo ciò che Dio vuole o permette. La sovranità divina e la libertà do
umana si concilierebbero nel seguente modo: Dio conosce (logicamente non azion
temporalmente, nel loro ordine intrinseco e non nello svolgimento storico), prima lor
di ogni decreto della sua libera volontà e con la scientia necessaria (simplicis mo
intelligentiae), ciò che le creature libere potrebbero compiere in ogni possibile es
ordinamento del mondo. Indi conosce, con la scientia media, che cosa i singoli qu
esseri liberi deciderebbero di fare in ogni ordinamento possibile del mondo. co
Infine sceglie quale fra i vari ordini possibili intende realizzare. Poggiando su s
tale decisione, riconosce con la scientia libera (visionis), alla luce della scienza vera
media, in che modo le volontà libere create agiranno di fatto.
Il nucleo fondamentale del molinismo sta nella dottrina della scientia media. veri
Essa è la conoscenza con cui Dio prevede le azioni future condizionate in se
stesse, ossia nella loro verità oggettiva, non nella loro causa immediata, perchè sovranit
in tal caso potrebbe averne solo una conoscenza moralmente certa, e neppure la
nei decreti assoluti della sua volontà, perchè non esistono. Il mezzo per cono¬
scere le libere azioni future è l'essenza divina, in quanto presenta la verità og¬ rin
gettiva delle stesse. Di due affermazioni possibili concernenti un'azione futura
(Pietro peccherà - Pietro non peccherà), l'una deve sempre essere vera e l'altra scienz
falsa, anche se ignoriamo quale delle due sia la vera. Una volta che è stabilito pu
che l'una è vera, ne deriva che essa resta tale per tutta l'eternità. Perciò l'es¬ i
senza divina può e deve rivelarne dall'eternità la verità.
La teoria molinista spiega bene la libertà umana e la prescienza divina del sem
peccato. Ma sembra mettere in pericolo la sovranità incondizionata di Dio e libere
l'assoluta indipendenza della scienza divina. Di più la teoria della scienza media
suscita non poche difficoltà. Infatti essa pare priva di un oggetto suo proprio uman
e dà l'impressione di un postulato equivalente alla rinuncia di risolvere intrinse¬
camente il problema. garantir
All'asserzione dei molinisti che Dio, con la scienza media, conosce il futuroesauriente
condizionato nella sua propria verità oggettiva, si può obiettare che le proposi¬ salvif
zioni riguardanti le libere azioni future non sono in sè nè vere nè false, inpossibile
modo assoluto, bensì solo indeterminate e incerte. Fra due proposizioni con¬
traddittorie che riguardano il futuro l'una deve sempre essere vera, ma resta
dubbio quale delle due lo sia. Perciò le azioni libere possono essere conosciute
in precedenza solo nella loro causa. Tale causa, in cui possono essere previste
infallibilmente non può essere la libera volontà umana, ma solo il decreto della
volontà divina.
Anche il molinismo, quantunque sembri garantire maggiormente la libertà
dell'uomo, non riesce a dare una risposta esauriente alla domanda perchè Dio
abbia scelto l'attuale mondo con il suo ordine salvifico, nel quale uno si salva
e l'altro si danna, mentre in un altro mondo possibile, pure previsto dalla scienza
media, ambedue si sarebbero salvati.
§ 85. LA SAPIENZA DI DIO 409
3. Le grandi difficoltà e gli enigmi che ambedue i tentativi di soluzione pre¬
sentano, dimostrano che alla nostra conoscenza analogica sarà sempre impossi¬
bile dare una risposta definitiva a siffatta questione. D'altra parte, è necessario
tener presente che il molinismo si sforza di trovare una soluzione partendo
piuttosto dalla libertà dell'uomo, mentre il tomismo parte piuttosto da Dio, il
che dovrebbe dargli una superiorità sul molinismo. Per quanto riguarda la li¬
bertà umana, va notato che il tomismo ha la chiara coscienza che anch'essa è
qualcosa di creato, perciò di totalmente dipendente da Dio. Nel trattato sulla
Grazia vedremo come il tomismo, rettamente inteso, non solo non mette in pe¬
ricolo la libertà dell'uomo, ma sia anzi in grado di darne una spiegazione.
§ 85. La sapienza di Dio.
1. - Nonostante le sue immense ricchezze la scienza di Dio è ordi¬
nata. Egli ne vede tutti gli oggetti secondo il grado di essere e di valore,
le loro reciproche subordinazioni e le loro più svariate relazioni. Co¬
nosce la propria perfezione nella sua assoluta pienezza; vede e valuta
ogni essere extradivino secondo la somiglianza dissimile che ha con la
perfezione divina. In tal modo l'onniscienza si trasforma in sapienza.
Infatti la sapienza è visione e valutazione della realtà secondo i gradi
gerarchici della perfezione inerente alle cose singole. La sapienza divina
non va intesa quale visione suprema degli esseri esistenti derivante dalla
conoscenza e dall'esperienza delle cose, bensì come conoscenza che fonda
la stessa gerarchia delle cose, quindi creatrice e ordinatrice di tutti gli
esseri. Essa quindi conferisce alle cose la loro natura, il loro ordine in¬
terno ed esterno. Cfr. il trattato sulla Creazione.
2. -
Nei libri sapienziali la sapienza divina viene presentata come
scienza ordinatrice, che impone le sue leggi, educa e governa. Sap. ix,
21; 8, 1. 4; Prov. 3, 19; 8, 22; cfr. pure Sai. 103, 24; Rom. 11, 33.
3. - La sapienza divina differisce dall'umana; essa appare stoltezza a
coloro che sono attaccati al proprio io 0 alla sapienza del mondo. Si è
palesata nel modo più chiaro e nello stesso tempo più incomprensibile
nella croce di Cristo. Questa sapienza di Dio non fu conosciuta dal
mondo, nè dai Greci cercatori di sapienza nè dai Giudei ricercatori di
segni (1 Cor. 1, 21 s.).
La sapienza del mondo, proprio perchè disprezzò la sapienza divina
è stata giudicata sulla croce. Al contrario, la sapienza divina che il
mondo chiama stoltezza, porta ai credenti — per volere del Signore —
salvezza e redenzione (1 Cor. 1-2; 3, 19 s.; 2 Cor. 1, 12).
teolog
4io P. I., - DIO UNO E TRINO in
s
ch
p
§ 86. Fecondità della scienza divina nella generazione del Figlio. 1
te
1. -
La scienza divina palesa la sua potenza e la forza creativa nella rappresen
generazione del Figlio. È infatti dottrina teologica certa, anche se non
dogma di fede, che la processione del Figlio in grembo alla divinità si pa
avvera per via di conoscenza. Base di questa spiegazione della genera¬ giud
ss
zione divina è la parola « Logos » ( Verbum) che Giovanni usa per de¬
pa
signare il Figlio, sia nel suo evangelo, sia nella prima lettera e nell'Apo¬ c
calisse (Giov. i, i; i Giov. i, 1-3; Apoc. 19, 13).
grec
Come già abbiamo detto, la derivazione di tale termine non è ancora stata Logos
chiarita del tutto. Si può pensare che esso rappresenti il confluire del pensiero quindi
veterotestamentario e della filosofia greca. Nell'Antico Testamento troviamo quale
preparazione del vocabolo « Logos » il concetto di « parola » (memra). Per mezzo mond
suo Dio ha creato il mondo; con essa terrà il suo giudizio (Gen. 1; Sai. 118, 91; co
Eccli. 43, 26; Sap. 16, 24 ss.; 18, 14 ss.; Dan. 4, 13 ss.). Con la parola si esplica
la potenza divina che ha dato vita al mondo; nella parola quindi il mondo trova caratte
la sua consistenza. Oltre a quanto gli deriva dalla corrente veterotestamentaria, espressiva
tale vocabolo (« Logos ») risente anche l'influenza di Platone che giunge a Gio¬ f
vanni tramite lo stoicismo. Secondo la filosofia greca Logos indica ragione o cer
idea del mondo e delle singole cose. Perciò il Logos giovanneo include pure il attestav
concetto dell'idea divina del mondo, di cui quindi garantisce tanto il senso stoica
quanto l'esistere, l'essenza e l'esistenza. Pertanto esso racchiude realmente in sè, nel
in modo comprensivo, la relazione fra Dio e il mondo. Tuttavia esprime anche stess
la relazione intradivina che il Figlio, denominato con il termine di Logos, ha logo
con il Padre. L
Giovanni, scegliendo il vocabolo Logos per caratterizzare il Figlio, intendeva
certo conservargli intatta tutta la sua forza espressiva. Tale concetto, assai dif¬ pag
fuso nel mondo ellenistico, sembrava appropriato a facilitare la conoscenza del fr
Figlio di Dio. Tuttavia l'Apostolo non intendeva certo di passare sotto silenzio
le essenziali differenze fra il Logos, che egli attestava, e i molteplici logoi noti sia
ai lettori per la loro provenienza dalla filosofia stoica e ricordati dai predicatori ta
stoici ambulanti. La principale differenza consiste nel fatto che il Logos, di cui
parla Giovanni, è qualcosa di visibile che egli stesso ha visto e udito, a cui,
perciò, compete una certezza storica, mentre i logoi proclamati dalla filosofia
non sono che prodotti del pensiero umano. Inoltre il Logos giovanneo ha un'esi¬
stenza che trascende ogni maniera di essere terrena: vive già prima della crea¬
zione in grembo a Dio. In opposizione ai logoi pagani, il Logos giovanneo è
persona di natura divina, indipendente, che sta di fronte a Dio e vive con lui
nell'unione la più intima.
Il significato verbale di Logos vuole indicare sia la ragione, sia la parola
espressa. Ilettori del Vangelo di Giovanni, usando tale vocabolo nella accezione
§ 86. FECONDITÀ DELLA SCIENZA DIVINA NELLA GENERAZIONE DEL FIGLIO 4II
comune nel mondo non cristiano, intenderanno il Logos divino personale sia
come parola rivelatrice sia come ragione del Padre.
2. - E realmente i Padri hanno spesso paragonato la seconda Persona
della Trinità con la parola umana. Secondo loro, tale raffronto mette in
evidenza l'immaterialità della generazione divina, l'unità e l'indivisibi¬
lità, l'eguaglianza la consostanzialità e nello stesso tempo la distinzione
del Padre e del Figlio. Altri sono stati assai riservati di fronte al con¬
cetto di Logos (Ireneo, per esempio). In ogni modo, tutti si sono sfor¬
zati di purificare tale concetto da ogni imperfezione umana (accidenta¬
lità, caducità, mutabilità).
Nell'epoca patristica per spiegare la seconda persona divina si è usato
pure il concetto di Logos inteso nel senso di ragione. Se il Figlio è la
ragione del Padre, è necessario ed eterno come il Padre, poiché egli non
può sussistere senza la sua ragione. Ireneo respinge tale pensiero, poiché
Dio è ragione pura.
3. - Tertulliano e ancora più Agostino, fondandosi sul termine Logos,
hanno paragonato il Figlio non tanto con la parola esternamente espressa,
quanto piuttosto con il verbo interiore, cioè l'idea. Prima di esprimere
a voce un'idea, noi la esprimiamo a noi stessi, nel silenzio del nostro
spirito. Perciò Agostino la chiama verbo mentale (verbum mentale).
Quando vogliamo comunicare un pensiero, prima lo formiamo in noi
con una parola interiore, la cui espressione visibile e udibile è la parola
parlata. La generazione divina si può in certo qual modo illustrare e
spiegare con l'analogia di questo verbo interno.
La denominazione di Logos data al Figlio di Dio lascia dunque in¬
tendere che la sua processione si verifica nella sfera del pensiero divino.
Come noi, conoscendo, ci formiamo un'idea, così il Padre, con un atto
di conoscenza, produce il Figlio, il Verbo divino immanente. Il Padre
penetra e domina infatti tutta la realtà, il suo essere divino stesso e,
parimenti, tutte le possibilità che esso ha di essere imitato in modo finito.
In tale sguardo, che abbraccia e compenetra ogni cosa, vede cielo e terra.
Ciò che il Padre conosce in simile visione lo esprime in un pensiero pro¬
fondo e comprensivo in cui gli è presente il suo stesso essere divino in¬
sieme con la creatura. Con questo pensiero egli dice a se stesso la gloria
divina sua propria e la grandezza del creato, così come l'uomo con un
pensiero esprime a se stesso quanto è presente al suo spirito. Tale pen¬
siero che il Padre forma ed esprime può quindi anche essere definito
la parola, il verbo, che il Padre scambia con se stesso.
il Padre; in oggetto
soggetto
412 P. I. - DIO UNO E TRINO
Dovremmo qui addentrarci maggiormente onde chiarire meglio, nei
differen
singoli elementi, l'analogia intercorrente tra il pensiero umano e il Verbo
divino al lume della psicologia tomista della conoscenza.
dell'an
Tale analogia diviene particolarmente chiara quando l'oggetto del
U
nostro pensiero è il nostro proprio io. L'io in quanto soggetto che pensa
se stesso, rappresenta il Padre; in quanto oggetto pensato, rappresenta il de
Figlio. L'unità e l'identità dell'io quale soggetto e oggetto del pensiero a
rappresenta l'unità dell'essenza divina.
person
p
4. - Tuttavia non vanno trascurate le differenze tra il Verbo divino c
e la parola umana pronunciata nell'intimo dell'anima. Le più importanti capa
sono tre: s
a) Il verbo umano è fugace e transitorio. Un pensiero elimina l'al¬ trasform
tro. Inostri pensieri salgono dalle profondità dell'incosciente, assumono
la
un aspetto più o meno chiaro, e nuovamente vi affondano. Spesso hanno
troppa poca forza per arricchire la nostra personalità. La parola umana,
che li esprime esteriormente, partecipa alla loro precarietà e, non appena
pronunciata, svanisce come il vento. È logico che tra le molte parole
che l'uomo pronuncia ve ne siano di quelle capaci di restare e, tra que¬
ste, alcune degne di durare perchè hanno in sè valore e pregio. Può
infatti accadere che una parola umana trasformi totalmente colui che
su
l'ascolta; può anche darsi che una parola lasci la sua impronta per tutta
un'epoca e spinga alla creazione di un nuovo mondo e di un diverso
orientamento della vita. Tali parole acquistano risonanza storica e tra¬sopravviv
scendono l'istante in cui sono state pronunciate. Ma ciò che resta, anche c
in queste parole, non è tanto il suono vocale o la forma verbale, bensì u
solo la forza operativa e costruttiva. p
Al contrario il Verbo divino ha una stabilità assoluta. È la più pura p
attualità senza distinzione tra potenza e atto e non può assolutamente stes
perire perchè partecipa all'esistenza divina. La sua esistenza è l'esistenza
assoluta del Padre. Il Verbo quindi nel quale il Padre esprime se stesso
e il mondo, era prima di ogni tempo e sopravviverà al tempo. È eterno.
Il Padre lo pronuncia perennemente. Esiste con forza incondizionata
perchè continuamente formato dal Padre in un atto eterno. Risuona
attraverso ogni spazio e ogni tempo e se non possiamo coglierlo è uni¬
camente perchè siamo privi di orecchie atte a percepirlo. Ma un giorno
avremo tale udito. Nell'esistenza celeste Dio stesso ci darà la possibilità
di percepire il Verbo eterno espresso dal Padre.
b) Alla fragilità del nostro pensiero e della nostra parola s'aggiunge
§ 86. FECONDITÀ DELLA SCIENZA DIVINA NELLA GENERAZIONE DEL FIGLIO 413
la povertà del loro contenuto. In nessun pensiero può essere racchiuso
non solo tutta la realtà, ma nemmeno l'intero contenuto del nostro essere
e del nostro sapere: ciascun pensiero ce ne presenta solo una parte.
Raramente un pensiero è così denso e così forte da farci sentire che in
esso sia espresso il nostro essere: ciò si verifica talvolta in una idea ge¬
niale poetica, artistica o scientifica. È per questo che soffriamo di non
poter esprimere in modo adeguato, con la parola, l'entità del nostro
amore e del nostro pensiero. La parola umana è quindi solo un sem¬
plice cenno del mondo interiore dell'uomo. Colui che ascolta è richia¬
mato a intuire la realtà cui essa accenna; e se non è in grado di affer¬
rarla, anche le parole più dense di significato rimangono vuote per lui.
Totalmente diversa è la cosa per il Logos divino. Il Verbo che Dio
pronunzia non solo ha esistenza indistruttibile, ma possiede pure asso¬
luta pienezza di contenuto. Il Padre contempla con un solo sguardo
d'infinita profondità ed estensione tutta la ricchezza dell'essere ed espri¬
me la sua conoscenza in un unico pensiero di semplicità assoluta e di
incommensurabile pienezza. Non lo forma per rendere presente e ricor¬
dare al suo spirito la realtà conoscibile; il pensiero del Padre è l'esau¬
riente espressione del suo conoscere e la rivelazione interiore del suo
atto di pensare infinito. Tale atto palesa la sua forza e fecondità proprio
nel fatto che dà vita a un pensiero di pari condizione, il quale non
passa, ma dura eternamente, e possiede la medesima perfezione e pie¬
nezza del Padre, che pensa e, pensando, genera.
c) Il Verbo divino non solo ha un'assoluta stabilità, ma è persona.
Sta di fronte al Padre che lo proferisce come essere personale e co¬
sciente. Si rivolge al Padre, lo guarda in volto e risponde alla sua pa¬
rola. Anzi questo suo volgersi al Padre, non è altro che la sua risposta
personale al Padre. In Dio, il Verbo personale è Verbo del Padre, in
quanto il Padre lo esprime, è risposta al Padre in quanto lo contempla.
In Dio quindi vi sono più persone perchè in lui esiste un colloquio e
vi è la comunione del dialogo. In seguito vedremo che Padre e Figlio
fanno procedere da questo loro dialogo lo Spirito Santo, vincolo di
unità. Egli è il suggello mediante cui Padre e Figlio si comprendono
nel loro dialogo, si parlano e si rispondono, palpitano d'uno stesso im¬
menso amore. Il carattere personale del Verbo divino costituisce la sua
più grande divergenza dalla parola umana.
5. - Poiché il Padre non si esprime in una successione di atti cono¬
scitivi, ma vede tutto in un unico atto, ne consegue che dà vita a un
sione del fecondo del Padre, perci
P. I. - DIO UNO E TRINO
Padre
414
vita
unico pensiero, il quale ne rappresenta in modo esauriente tutto il sa¬ l'espres
pere. Tale pensiero ha la stessa forza di esistenza e la stessa ricchezza
di contenuto del conoscere proprio del Padre. E come il conoscere fe¬ o
condo del Padre non è solo un atto, che il Padre pone, ma è il Padre in
stesso e si identifica con l'essere spirituale di Dio, così il Figlio è l'espres¬
per
sione del fecondo conoscere del Padre, e perciò si identifica anch'egli
con l'essere divino. In tal modo tanto il Padre quanto il Figlio sono
l'unica realtà divina, la natura, l'essenza, la vita di Dio, di cui uno è conte
il fecondo soggetto conoscente e l'altro l'espressione del fecondo atto attri
conoscitivo. intradiv
ha
6. - Mentre in questo mondo la generazione o formazione di un pen¬
sua
siero è di solito, quanto a forza percettibile, inferiore alla generazione un
carnale, la generazione divina, al contrario, per forza, vitalità e beati¬
tudine, supera tutte quelle terrene, senza cadere nella loro imperfezione. Padre
co
7. - Per quanto riguarda l'oggetto o il contenuto del fecondo cono¬
d'Aquino
scere divino, esso abbraccia l'essenza e gli attributi di Dio, le persone a
divine, il possibile e il reale. Nel Verbo intradivino è perciò detto tutto con
quanto può essere detto. Oltre ad esso nulla ha la possibilità di essere coni
nè pensato nè detto. Il Verbo, nonostante la sua profondità abissale e la intell
sua vastità, possiede ima chiarezza luminosa e un aspetto ben definito. lu
8. - Che il fecondo atto di pensiero del Padre possa essere chiamato, c
in modo analogico, generazione emerge dalla considerazione che segue. quell
La generazione, secondo S. Tommaso d'Aquino, può definirsi l'origine
di un vivente da un altro principio vivente e ad esso congiunto in so¬ inoltr
miglianza di natura (origo viventis a vivente coniuncto in similitudinemprecisamen
naturae: S. Th., I, q. 27, a. 2). Il vivens coniunctum è dato dal fatto an
che il Padre generante mediante un atto intellettivo, sta in stretto le¬ co
game con l'oggetto pensato, anzi forma con lui un essere identico. Si
può quindi asserire che all'atto di conoscenza, con cui il Padre dà ori¬espressa).
gine al Figlio, s'addice in modo eminente quella che è la prima carat¬
teristica della generazione: la congiunzione del generato col generante.
Perchè vi sia vera generazione occorre inoltre che il generato abbia
la stessa natura del generante e ciò precisamente in virtù della genera¬
zione stessa. Tale nota distintiva si avvera anche quando la genera¬
zione è atto intellettivo. Infatti nel processo conoscitivo possediamo in
noi l'immagine della realtà conosciuta (specie impressa) alla quale lo
spirito conoscente si assimila (specie espressa). Il Padre conoscendosi
§ 86. FECONDITÀ DELLA SCIENZA DIVINA NELLA GENERAZIONE DEL FIGLIO 415
esprime un'immagine uguale a se stesso. Mentre nella generazione delle
creature la somiglianza consiste nel fatto che generante e generato hanno
una natura della medesima specie, in Dio invece la somiglianza tra il
principio divino generante e il prodotto divino generato è così forte che
ambedue possiedono proprio la medesima identica e unica natura divina.
Così la somiglianza in Dio è spinta al massimo grado.
9. - Per questa sua assoluta somiglianza la seconda Persona nella
Scrittura viene pure chiamata immagine (2 Cor. 4, 4; Col. 1, 15) 0
splendore del Padre (Ebr. 1, 3). Il vocabolo immagine nella concezione
ellenistica designa un'irradiazione, una partecipazione reale della cosa
rappresentata, la quale pertanto è resa presente e visibile nell'immagine
stessa. Cristo è così l'espressione personale, perfettamente adeguata, del
Padre (Fil. 2, 6). In tale designazione è pure racchiusa l'idea che in
Gesù diviene palese ciò che Dio è, ciò che vuole e opera (Giov. 12,45;
14, 9). Mentre secondo la dottrina dei Padri Greci, dei teologi fran¬
cescani dipendenti da Riccardo di S. Vittore e della primitiva scuola do¬
menicana, il termine immagine indica non solo la somiglianza riguardo
all'essenza divina ma anche la somiglianza riguardo all'attività spiratrice
(il Figlio spira con il Padre lo Spirito Santo), Agostino, Tommaso d'A¬
quino e tutta la teologia domenicana e non domenicana che ne deriva,
vedono in questo termine solo la somiglianza, prodotta dalla generazione,
con la natura divina.
Siccome il Figlio è l'immagine perfetta del Padre, si comprende come
Gesù abbia detto : « Chi vede me, vede anche il Padre mio » (Giov.
14, 9). In quanto immagine del Padre, viene anche chiamato la beltà
di Dio. Infatti la bellezza proviene dall'unità realizzata per mezzo della
somiglianza, dall'ordine e dalla proporzione. Essa è lo splendore della
realtà divina rappresentata nel Figlio (splendor veritatis). Inoltre il Figlio
è la verità in quanto espressione adeguata dell'essere paterno che in tal
modo ci diviene accessibile.
In quanto l'atto conoscitivo del Padre abbraccia pure tutte le cose
extradivine, il Verbo contiene in sè anche l'idea di tutto quanto è fuori
di Dio.
10. - Dal fatto che il Figlio è il Verbo formato ed espresso dal Padre,
ne proviene che possiamo determinare con precisione le relazioni, ossia
il movimento di mutua dedizione in cui Padre e Figlio stanno l'uno di
fronte all'altro (§ 58). Il Padre si trova, nei riguardi del Figlio, nella
situazione di chi parla. Infatti egli non è solo colui che parla, bensì il
personificati.
a
416 P. I. - DIO UNO E TRINO
d
movimento stesso del parlare, anzi il parlare personificato. Al contrario,
il movimento del Figlio verso il Padre è moto di risposta alla parola del alcun
Padre stesso. Il Figlio è colui che risponde, anzi non è solo il rispon¬ d
dente, bensì il movimento stesso della risposta. Ne deriva che l'esistenza u
del Padre e quella del Figlio sono unicamente il parlare e il rispondere lu
personificati. minima
Ciò che il Padre dice al Figlio è la cosa più alta e più profonda che a
mai possa essere detta. È il mistero di Dio e del mondo. Ciò che il e
Figlio percepisce è quanto di più beatificante e ricco possa mai essere
percepito. Il Padre non nasconde al Figlio alcun mistero e il Verbo è ris
talmente interessato al discorso del Padre, che da esso dipende la sua realt
esistenza stessa. Se il Padre si riservasse anche una minima porzione di colloquio
realtà senza comunicarla, ciò constituirebbe per lui la morte. Se il Figlio m
tralasciasse di interessarsi sia pure a una minima parte del discorso del debole
Padre, tale mancanza d'interesse significherebbe, anche per lui, la morte. s
Dio è amore, perciò il colloquio tra Padre e Figlio è colloquio di potenz
amore. Il Verbo che il Padre pronuncia è verbo d'amore la cui profon¬ risp
dità abissale ha una pienezza incalcolabile. La risposta che il Figlio dà parla
è anch'essa risposta d'amore. Così l'ultima realtà, oltre la quale nulla a
sussiste, è un colloquio d'amore, anzi il colloquio d'amore assoluto. An¬
che se l'ultima realtà viene concepita come il « movimento » di un col¬
loquio d'amore, non ammette con ciò una debolezza della realtà divina. d
Il colloquio può essere scarso e imperfetto nella sfera umana, ma il col¬ è
loquio d'amore che noi chiamiamo Dio ha potenza e ricchezza assoluta, (Giov
poiché il « movimento » di chi parla e di chi risponde ha potere e pie¬
nezza incondizionata. Chi esiste a modo di parlante e di rispondente è es
la pienezza vitale stessa di Dio, l'essenza divina assoluta. esclamar
per
11. - Il Verbo divino, essendo l'espressione e la sintesi delle idee diven
divine nel mondo, è pure la causa esemplare della realtà esteriore a tu
Dio, è l'« arte » del Padre per tutto ciò che è extradivino. Mediante a
il suo «Verbo» il Padre crea l'universo (Giov. i, 3; i Cor. 8, 6;
Col. 1, 16; Ebr. 1, 2), in quanto egli nel « Verbo » ha dinanzi a sé l'im¬
magine e il piano delle cose da crearsi, anzi esprime in se stesso ciò
che vuol creare. Agostino può quindi esclamare : « Non è che Dio
abbia prima ignorato ciò che egli ha realizzato per mezzo del suo Verbo;
no! Egli sapeva ciò che operava, ciò che divenne esisteva già in lui
prima di essere... Prima della loro creazione tutte le cose erano nel
Verbo che le ha fatte; e, dopo esser fatte, sono ancora tutte presenti nel
§ 86. FECONDITÀ DELLA SCIENZA DIVINA NELLA GENERAZIONE DEL FIGLIO 417
medesimo Verbo, ma non allo stesso modo che nel mondo: qui sono
nella propria natura, in cui sono state fatte, là nell'idea dell'eterno ar¬
tista che le ha create» (Agostino, In Psalm. 61, 18). Dio esprime se
stesso nel Figlio; e « si esprime pure su tutte le possibilità dell'essere
creato, su quelle che vuol realizzare e ha già realizzato con la creazione
e sulle possibilità a cui ha negato l'attuazione. Il suo Verbo è la potenza
che realizza tali possibilità, che le sostiene, che, in certo qual senso, pe¬
netra e si incarna nelle realtà create. Esse perciò sono ciò che egli dice
di loro e sussistono perchè egli ne parla con forza creativa» (Th. Soiron,
Das góttliche Wort und die menschliche Sprache in Der katholische
Gedanke, n, 1938, 169-183; il passo citato si legge a pag. 174 s.).
Ciascuna creatura è la realizzazione finita di quel colloquio eterno in
cui il Padre parla col Figlio. Ogni cosa è l'incarnazione creata di una
parola il cui primo accento è risuonato e risuona dal Padre nel Figlio.
L'uomo è l'incarnazione, la realizzazione creata di ima parola che vibra
nella parola infinita, con la quale il Padre si esprime nel Figlio, di una
parola che il Padre ha formato nella parola e secondo la parola che egli
pronuncia nel Figlio, della parola in cui Padre e Figlio si esprimono nello
Spirito Santo da tutta l'eternità. L'uomo è quindi la copia, il ritratto,
anzi, in certo senso, l'apparizione finita del Verbo in cui Dio esiste come
pensante e parlante. Nel trattato sulla Creazione si mostrerà come l'uomo,
quale manifestazione di una parola divina eterna, è stato realizzato dalle
tre persone divine secondo l'ordine della loro origine e mediante un
unico atto. Ciò spiega perchè chi penetra profondamente nel mistero del
mondo vi possa ritrovare tracce dell'azione tripersonale di Dio, che sono
però inconoscibili senza la rivelazione (cfr. Th. Soiron, nell'articolo ci¬
tato). Il Figlio diviene così il Mediatore della creazione (Giov. 1, 1-3).
12. - La riflessione sulle realtà extradivine, che sono frutto del fecondo
conoscere del Padre, ci permette di presentire la ricchezza del Verbo
divino. Infatti tutte le realtà extradivine sono soltanto l'oggetto secon¬
dario della scienza del Padre. D'altra parte il fatto che il Padre, il quale
pensa alle cose e all'uomo, abbia espresso tale pensiero nell'eterno col¬
loquio divino, ci garantisce il significato eterno del mondo, delle sin¬
gole cose che esso racchiude, della storia umana e di ogni individuo. Al
di là di ogni apparente insignificanza 0 assurdità delle cose si staglia il
loro senso eterno che il Padre ha espresso nel Figlio. La fede nel Verbo
eterno di Dio è perciò fede nel significato eterno del mondo e dell'uomo.
Essa trae garanzia dal colloquio d'amore tra Padre e Figlio, porta in
27 - schmaus - dogmatica I.
vero e reale, e vive nella certezza che gior
P. I. - DIO UNO E TRINO
il
ete
sè la forza di persistere contro tutte le assurdità che si presentano a a
prima vista. Chi vive di questa fede, vede al di là e al di sopra di ogni
controsenso il mistero del senso eterno del mondo. Tale senso nel corso conosc
della storia e delle singole esistenze può esser quasi totalmente velato e d
nascosto da eventi insignificanti, tuttavia chi crede sa che esso esiste, attra
vero e reale, e vive nella certezza che un giorno si svelerà. In ogni d
epoca dell'esistenza che si avvicenda attraverso il cozzo delle forme ter¬
restri, Dio stesso svela all'uomo il significato eterno del mondo e della
sua vita, in quanto gli permette di partecipare al colloquio che egli ha l
con il Figlio. pres
Dal fatto che Dio abbraccia con la sua conoscenza feconda e genera¬ dell'atto
trice anche tutto ciò che è extradivino, si può desumere con quale im¬ signific
mensa forza quanto è al di fuori di Dio sia attratto nel dinamismo della pro
vita trinitaria. L'atto fecondo della conoscenza di Dio continua ininter¬ come
rotto; non è un atto avveratosi un giorno e ora finito, un atto che ap¬ ogni
partiene solo più al passato. No, il Verbo silente di Dio risuona di con¬ eg
tinuo per tutti gli spazi dell'umanità. Noi non lo sentiamo perchè non Verbo-Pe
abbiamo un organo capace di percepirne la presenza. Eppure, ad ogni eg
istante, ogni cosa, ogni evento è oggetto dell'atto fecondo di conoscenza rap
del Padre e riceve da quello il suo proprio significato. Attimo per attimo uman
ogni cosa, in quanto esiste idealmente in Dio, procede dal Padre, e come divino
idea, cioè non come fugace pensiero, ma come divina realtà vivente, un
viene deposta nel Figlio. Per cui noi, ad ogni istante, riceviamo dal minacciat
Padre il senso della nostra realtà, in quanto egli ci pensa in un atto
fecondo ed esprime questo pensiero nel Verbo-Persona. Nella mente di¬
vina noi esistiamo nella forma definita in cui egli ci vuole. Vede ogni co
situazione concreta della nostra vita nel suo rapporto con il significato m
del tutto, in quanto egli scorge l'esistenza umana nel suo ordinamento rivelaz
verso il fine stabilito che, secondo il piano divino dobbiamo raggiungere. ch
Per cui in qualsiasi istante la nostra vita ha un suo significato anche l
se talvolta ci rimanga ignoto, anzi sia minacciato dal peccato. In ogni
momento ci troviamo in moto verso il nostro stato finale (cfr. §§ 81 e 82).
13. - Dio rende partecipi gli uomini al suo colloquio interiore anche
in altra maniera assai più vitale. Ciò si avvera mediante la rivelazione
soprannaturale. Iprofeti iniziano tutte le rivelazioni avute da Dio con
l'espressione : « Così parla il Signore ». « Ciò che Dio ha loro comuni¬
cato è divenuto cosciente in essi mediante un linguaggio comprensivo
e percettibile. Il colloquio che Dio, in grembo all'eternità, realizza nel
§ Sy. ESISTENZA E PERFEZIONE DELLA VOLONTÀ DIVINA 419
suo Verbo eterno, si è prolungato in essi, in modo che lo han potuto
cogliere con concetti e parole umane. Così avviene il miracolo: l'uomo
riceve la grazia di poter partecipare al colloquio interiore di Dio, per
mezzo del quale la divinità, oltre la rivelazione naturale, si svela per
grazia. Vale a dire, l'uomo è chiamato, a prender parte al colloquio, in
cui Dio traduce se stesso in linguaggio comprensivo alla creatura e così
le diviene accessibile » (Soiron, l. c.). La rivelazione divina raggiunge il
suo compimento nell'incarnazione del Verbo. Per mezzo del Figlio di
Dio, fatto uomo, risuona, nell'ambito della storia terrena, quella parola
che il Padre scambia con il Figlio nel suo colloquio vivente (cfr. Giov.
5, 30; 6, 45). La parola di Cristo è perciò la traduzione fedele, nella
sfera umana, del colloquio divino eterno. Ciò naturalmente si avvera
solo in modo analogico.
14. - Secondo questa spiegazione risalente nelle sue linee essenziali a
S. Agostino, sviluppata da S. Tommaso, e oggi quasi universalmente
accolta dai teologi, la seconda persona è Figlio perchè essa è Verbo. Nel
Medioevo, tuttavia, esisteva anche un altro modo di spiegare la gene¬
razione. Si paragonava il Figlio con la parola umana; ma si designava la
generazione non come atto intellettivo, bensì come un atto della na¬
tura spirituale senza specificare meglio in quale campo della natura spi¬
rituale avvenisse la generazione. S. Bonaventura, per esempio, accetta
tale concezione. Riccardo di S. Vittore spiega invece la generazione come
un atto d'amore di Dio. Dio è il sommo amore. Ora l'amore esige un
« tu », un'altra persona, poiché nessuno, in senso proprio, può inna¬
morarsi di se stesso. Dunque anche in Dio ci deve essere la pluralità,
un amante e un amato. A suffragio di tale concezione si può anche ad¬
durre un passo biblico: Col. i, 13 («e ci ha trasportati nel regno del
Figlio dell'amor suo »). Lo Spirito Santo, in questa spiegazione, appare
quale condiletto (condilectus) del Padre e del Figlio.
II. - LA VITA DIVINA COME VOLONTÀ PERSONALE.
§ 87. Esistenza e perfezione della volontà divina.
1. - Dio ha una volontà infinitamente perfetta (Concilio Vaticano,
Sess. 3, cap. 1; Denz. 1782). Il Concilio Vaticano definì questa dottrina
contro le concezioni panteistiche che sostengono lo sviluppo e l'evolu-
2. - Nella Scrittura la volontà trascendente di D
salvifi
420 P. I. - DIO UNO E TRINO
Nell'Antico
zione continua della volontà divina. Come contro il panteismo volonta¬ creativa
ristico (Schopenhauer) è stato definito che Dio è dotato di intelligenza, Is.
così di fronte a quello intellettualistico si affermò che egli è dotato di Apo
volontà. Dio non è forza senza luce, ma non è nemmeno luce senza forza. sovrana
2. - Nella Scrittura la volontà trascendente di Dio viene descritta come
potenza, santità, giustizia, bontà, volontà salvifica. Mentre nell'Antico avvera
Testamento si accentua la volontà creatrice, nel Nuovo, al contrario, si
dà maggior rilievo a quella salvifica. Nell'Antico Testamento, ad esem¬ 47
pio, troviamo testimonianze della volontà creativa in Gen. i; Giob. 36, colo
22 - 41, 26; Eccli. 43, 1-26; Sai. 115 (113 b); Is. 41, 5, 7; Sal. 104. Nel
manife
Nuovo se ne parla in 1 Cor. 12, 18; 15, 38; Apoc. 4, u. Però general¬ sua
mente qui si parla della volontà salvifica sovrana e universale (1 Tim.
altr
2, 4). Dio vigila proteggendo i suoi figli (Mt. 6, 10; 7, 21; 12, 50; 18,
nello
d
14; 20, 31). Secondo la sua volontà si è avverato il mistero dell'incar¬
nazione, della redenzione (Ef. 1, 3-14) e quindi essa, proprio in questi inviato
fatti salvifici, ci è divenuta ora palese (Le. 12, 47; Atti 22, 14; Ef. 1, 9; Pad
Col. 1, 27). Ma la potranno ravvisare solo coloro che non si confor¬ che
mano al secolo presente (Rom. 12, 2). Si manifesta potenza autonoma, mon
indipendente, che tutto dispone e mostra la sua sovrana libertà nell'u- compie
sare misericordia agli uni e nell'indurire gli altri (Rom. 9-11). Cristo è
colui che rivela la volontà salvifica di Dio e nello stesso tempo colui chepresupposto
la compie. Egli è pronto ad adempiere il volere del Padre (Mt. 26, 39); l
il suo cibo è fare la volontà di chi lo ha inviato (Giov. 4, 34); tutta la (Rom
1
sua vita consiste nell'essere obbediente al Padre che lo ha mandato
(Giov. 5, 30; 6, 38-40). Quindi anche coloro che gli sono uniti devono afferma:
fare la volontà divina, quella volontà che il mondo disprezza (Ebr. 13, essere
21; Rom. 12, 2; 1 Piet. 4, 2). Colui che compie la volontà divina rive¬
l
lata dal Figlio, si libera da sogni e fantasticherie (Mt. 17, 4; Le. 9, 54). Ch
L'adempimento del volere di Dio è presupposto e conseguenza dell'u¬ c
nione con Cristo (Mt. 12, 50). Il cristiano si lascia guidare dalla vo¬ dall'opera
lontà divina in ogni minimo atto della vita (Rom. 1, 10; 15, 32; 1 Cor.
1, 1; 16, 12; 2 Cor. 1, 1; Ef. 1, 1; 2 Tim. 1, 1; 1 Piet. 3, 17, 4, 19).
-
3. Ireneo nel suo libro Adversus haereses afferma: « Nè la natura di alcuna
cosa creata nè la debolezza della carne possono essere più potenti del volere di
Dio. Non è infatti Dio soggetto alle creature, bensì le creature a Dio. E ogni
cosa serve al suo volere » (lib. 5, cap. 5).
E Agostino in una sua lettera (205, 17) dichiara : « Chi mai potrebbe negare che
Dio opera anche ora ciò che ha creato, dal momento che il Signore dice : " Mio
Padre opera sino ad ora "? Perciò il riposo dall'opera creativa non deve essere
§ 87. ESISTENZA E PERFEZIONE DELLA VOLONTÀ DIVINA 421
inteso come un riposo dal governo delle cose create. Siccome la natura delle cose
è governata dal creatore e tutte le cose nascono nel luogo e nel tempo fissato
secondo il loro ordine, ne consegue che Dio opera tuttora ».
Nel De Trinitate (3, 4) scrive : « Quivi regna la volontà di Dio, che fa ardere
d'infocato amore gli spiriti angelici e i suoi ministri (Sai. 103, 4), uniti nello
spirito da una grande pace e amicizia, e quasi fusi in una sola volontà dal fuoco
della carità, che tutto presiede dall'eccelsa sua sede, come in casa sua, in un
tempio suo, da cui per mezzo dei moti ordinalissimi delle creature spirituali e
materiali si diffonde in ogni luogo, e secondo l'immutabile arbitrio del suo vo¬
lere usa tutte le creature, corporee e incorporee, razionali e irrazionali, sia le
buone per la sua grazia, sia le cattive per la loro volontà.
Ma siccome i corpi rozzi e inferiori sono governati da un ordine di cose su¬
periori e migliori; così ogni corpo è governato dallo spirito razionale; e lo spi¬
rito razionale peccatore, dallo spirito razionale giusto e pio; e lo spirito giusto e
pio dallo stesso Dio, e tutte le creature dal loro Creatore, dal quale, nel quale
e per il quale tutte procedono; perciò la volontà di Dio è la prima e somma
ragione di ogni moto e di ogni specie corporea.
Difatti in questa grande repubblica di tutte le creature, nessuna cosa si fa vi¬
sibilmente e sensibilmente, che non sia comandata o permessa dall'invisibile e
intelligente Imperatore, secondo l'indicibile giustizia dei premi e delle pene,
delle grazie e delle retribuzioni » (traduz. P. Montanari).
4. Icitati passi biblici mostrano che la dottrina riguardante la volontà
di Dio, non deriva dalla filosofia religiosa egiziana 0 dalla speculazione
mitico-metafisica dello gnosticismo, come asserisce E. Benz nel libro
Marius Victorinus und die Entwicklung der abendlàndischen Willens-
metaphysik, 1932. No, secondo la Bibbia Dio è tanto ragione quanto vo¬
lontà (amore). Il Dio della rivelazione si distingue da tutti i miti pro¬
prio per la potenza della volontà che crea la storia. Cfr. §§ 1, 29 e 37.
5. - La volontà di Dio è necessariamente inclusa nella sua spiritualità.
Come l'intelletto divino significa coscienza della propria assoluta pie¬
nezza, così la volontà designa l'affermazione e il possesso di sè dello
spirito assoluto. Mentre la pienezza dell'essere che esiste personalmente,
in quanto si contempla, è l'intelletto divino, in quanto si afferma come
esistente è volontà. Perchè Dio è atto puro vivente e spirituale, è neces¬
sariamente volontà.
5. Tommaso d'Aquino fonda la volontà di Dio nel modo seguente : « In Dio
c'è volontà come c'è intelligenza, essendo la volontà intimamente connessa con
l'intelletto. Infatti come ogni cosa esistente in natura ha l'essere in atto in forza
della sua forma, così ogni intelligenza ha l'intendere in atto mediante la sua
forma intelligibile. Ogni cosa, poi, ha verso la propria forma questo rapporto,
che quando non la possiede, vi tende, e quando la possiede, vi si riposa. Lo
stesso vale per ogni perfezione naturale, che costituisce un bene di natura. E
necessario che in Dio vi è la volontà essen
volere
422 P. X. - DIO UNO E TRINO
questa tendenza al bene negli esseri privi di conoscimento si chiama appetito
naturale. E così anche gli esseri intelligenti hanno una simile inclinazione al
succes
bene appreso mediante una specie intelligibile, in maniera che quando hanno
questo bene, vi si riposano; quando non l'hanno lo ricercano. Questa duplice
Essa
operazione conduce alla volontà. Quindi in ogni essere che ha l'intelletto, c'è immutabil
la volontà, come in ogni essere dotato di senso c'è l'appetito sensitivo. Perciò è virtua
necessario ammettere che in Dio vi è la volontà essendovi l'intelletto. E come la divine
sua intellezione è il suo essere, così lo è il suo volere» (S. Th., I, q. 19, a. 1;
trad, di A. Balducci).
process
che
6. - Come il conoscere, così anche la volontà di Dio, reca l'impronta vo
dell'essere divino. Non è mera facoltà, nè successione di atti, bensì atto che
unico che si identifica con l'essere di Dio. Essa quindi esiste come un div
essere sussistente personale, semplice, immutabile, eterno, che si iden¬ cercare
tifica con l'intelletto stesso (pur essendone virtualmente distinta). Anche c
qui occorre precisare che le tre persone divine realizzano l'unico atto q
di volontà secondo l'ordine interno delle processioni. esclu
La volontà divina è l'essere divino stesso che si afferma e si attesta. ragio
Dio, in quanto essere, è volontà; in quanto è volontà, è essere (non si s
può dire, come per esempio insegnava Plotino, che Dio è perchè si vuole). Dio).
Come il conoscere, così anche la volontà divina è indipendente da s
tutto ciò che è extradivino. Dio non può cercare nè desiderare qualcosa L'amore
di esterno a lui stesso: in lui non c'è amore di concupiscenza. Non può atto
essere indotto, costretto 0 lusingato a volere da quanto esiste al di fuori
di lui. Ogni sua decisione nasce e dipende esclusivamente da lui 0 me¬ assolu
glio, perchè Dio è atto puro, trova la sua ragione esclusivamente sulla ciò
sua essenza, anzi è la sua essenza stessa, da cui si distingue solo virtual¬ p
mente (cfr. la dottrina sulla semplicità di Dio). La volontà divina di¬
co
nanzi a tutto ciò che le è esterno è amore che si dona con piena libertà sp
(amore di beneplacito e di benevolenza). L'amore di Dio è perciò total¬ co
mente creativo, in quanto produce, con libero atto, ogni bene extradivino.
U
7. - Per il fatto che la volontà divina è assolutamente semplice e sus¬
sistente, per nulla motivata 0 determinata da ciò che sta al di fuori di
Dio, consegue che in Dio medesimo non vi possono essere, in senso
stretto, affetti, passioni 0 movimenti sensibili come si riscontrano nel¬
l'uomo (pentimento, odio, tristezza, gelosia, speranza, scoraggiamento,
timore, ira, ecc.). Ciò non significa che Dio conduca una vita fredda,
indifferente, bensì che si devono escludere nei suoi confronti i movi¬
menti umani che sono legati all'imperfezione. Un affetto che nella sua
§ 87. ESISTENZA E PERFEZIONE DELLA VOLONTÀ DIVINA 423
essenza non racchiude nulla d'imperfetto può essere formalmente attri¬
buito a Dio, come ad esempio: amore, gioia, felicità. Naturalmente anche
questi concetti hanno solo un valore analogico. Un sentimento che in¬
clude essenzialmente imperfezione, può essere predicato a Dio in modo
solo virtuale, in quanto la semplice e immutabile volontà divina si pa¬
lesa a noi alla stessa guisa con cui si rivela nell'ambito del creato un
determinato movimento sensibile. La « compassione » di Dio si dimostra,
ad esempio, dal fatto che egli crea per l'uomo immerso nella miseria
la possibilità di potersene liberare. Così si può dire che Dio odia il pec¬
cato nel senso che egli, a causa della santità che si identifica con la sua
essenza, dice « no » al peccato. Anzi l'amore che Dio ha per la sua pro¬
pria bontà è di per sè un « no » al peccato. Si può anche parlare di ira
divina in quanto Dio, a motivo della sua giustizia che si identifica con
la santità, abbandona il peccatore nell'infelicità che consiste nell'essersi
allontanato da lui. Possiamo alludere alla bramosia divina per signifi¬
care che il suo amore, il quale si dona liberamente, è dotato di energia
e potenza speciale.
Se attribuiamo i sentimenti a Dio è perchè ci è impossibile descri¬
vere in altro modo la vita divina. Non si tratta quindi di umanizza¬
zione di Dio quando nella Bibbia, e specialmente nell'Antico Testa¬
mento, si parla di sentimenti divini eccitati. Con tali espressioni la Scrit¬
tura ci vuol presentare un'immagine concreta della vita e della perso¬
nalità divina. Non ci è infatti possibile accostarci alla vita divina se non
mediante analogie umane. In realtà la sempre perenne, semplice ed eterna
volontà di Dio si manifesta all'esterno in modo simile all'uomo agitato
dall'amore, dall'odio, dalla disperazione o dal pentimento (cfr. § 37).
Così S. Agostino spiega l'ira divina : « L'ira di Dio non è una perturbazione
del suo spirito, ma è il giudizio mediante cui vengono puniti i peccati, come il
suo pensare e ripensare non è che la ragione immutabile che egli ha di cam¬
biare le cose. Dio non si pente, come l'uomo, delle sue azioni, poiché in tutte
le cose il suo pensiero è tanto immutabile quanto infallibile la sua prescienza.
Ma se la Scrittura non si servisse di tali espressioni, non si adatterebbe alla ca¬
pacità di tutti gli uomini ai quali vuole essere di istruzione per umiliare i su¬
perbi, spronare i negligenti, esercitare gli studiosi, nutrire i sapienti: non po¬
trebbe fare ciò se per prima non s'inclinasse e non discendesse fino a quelli che
giacciono in terra » (De civitate Dei, 5, 25). Nel libro 9, cap. 5, egli dice che,
parlando dell'ira di Dio, la Scrittura vuole solo indicare l'effetto della sua ven¬
detta, non l'agitazione turbolenta della passione. Lattanzio nella sua opera: De
ira Dei giustifica, contro il concetto di Dio degli Epicurei e degli Stoici, le
espressioni bibliche in cui si parla dell'ira di Dio.
il quale però si esplica in vari modi nel
424 P. I. - DIO UNO E TRINO
pecca
8. - Dalla semplicità del volere divino consegue che gli affetti in Dio, u
che si predichino di lui o formalmente o soltanto virtualmente, non
affe
possono entrare in conflitto tra loro. Non si può scindere, per esempio,
fo
la misericordia dall'ira. E nemmeno può accadere che un sentimento sia
è
sminuito o indebolito da un altro : essi costituiscono in Dio un atto unico,
co
il quale però si esplica in vari modi nel campo extradivino. La miseri¬
am
cordia di Dio è nello stesso tempo giustizia, e ambedue costituiscono
un solo atto. Ma tale atto unico tocca il peccatore indurito in modo
o
ben diverso da colui che, al contrario, si pente umilmente.
gior
9. - Non è sempre facile determinare quale affetto s'addica a Dio for¬
malmente e quale solo virtualmente. La forma fondamentale di tutti gli son
affetti divini è quella dell'amore. Tutto ciò che è contro l'amore è con¬ cui
tro la natura divina; tutto ciò che si accorda con l'amore è conforme n
ad essa. Dio non può quindi rinnegare il suo amore, nè ha bisogno di tal
eccitamenti perchè questo si risvegli (Scheeben). Egli è amore personale tri
sussistente. Agostino esclama : « O eterna verità o amore verace o diletta pr
eternità, tu sei il mio Dio. A te io sospiro giorno e notte » (Confes- Pa
siones, 7, io). proce
Nel Nuovo Testamento Paolo e Giovanni sono i principali assertori co
che Dio è amore, che l'amore è il modo con cui Dio esiste (i Giov. 4, rilie
8. 12). Alla richiesta che cosa sia Dio, Giovanni non si stanca di rispon¬ 35
dere: Dio è amore! Per meglio approfondire tale proposizione occorre L'am
osservare che Dio di cui parla non è l'Essere tripersonale senza distin¬
zione delle persone, ma, come si è visto, la prima persona divina, il
Padre (cfr. § 43). Giovanni perciò definisce il Padre l'amore in persona. o
È questo amore che genera il Figlio e fa procedere lo Spirito Santo. L
È proprio tale concetto che si vuole rendere comprensibile quando di C
continuo e con enfasi gli Apostoli mettono in rilievo che Dio ama Gesù,
il quale è il suo Figliuolo diletto (Giov. 3, 35; 10, 17; Col. 1, 13; all'u
Mt. 3, 17; 12, 18; Me. 1, 11; Le. 3, 22). L'amore di Dio è divenuto
palese in Cristo (1 Giov. 4, 9 s.; Rom. 5, 5. 8; 2 Cor. 13, 11-13; Ef. 1,
4; 2, 4; 3, 19). In lui l'amore è presente come forza che, al di là di
ogni caducità, conduce il mondo alla salvezza ossia al massimo grado
di esistenza e alla pienezza completa della vita. La più autentica mani¬
festazione d'amore si è avverata nella morte di Cristo (Giov. 3, 16; 15,
13; 17, 23; 14, 21 ss.; 1 Giov. 4, 19; Rom. 8, 32). Dio, che è luce e
vita, si rende presente in Gesù e si manifesta all'uomo in forma d'amore.
Ciò significa che noi entriamo in comunione con Dio il quale, in Cristo
§ 88. RIPARTIZIONE DELLA VOLONTÀ DIVINA 425
penetra nella storia umana, nella stessa misura con cui entriamo in co¬
munione con l'amore. Viviamo in lui e siamo nella luce se restiamo
nell'amore (Giov. 15, 9 s.; 1 Giov. 2, 10; 3, 10; 4, 11 s.).
Anche il rivelarsi di Dio come amore soggiace alla legge che vincola tutte le
rivelazioni divine: l'oscurità. Per quanto si sia manifestato chiaramente in Cristo,
tuttavia rimane pur sempre qualcosa di nascosto, a cui si può passare accanto
senza neppure accorgersene. Il velo più fitto, nato dalla colpa e steso dal pec¬
cato, dalle miserie, dalle sofferenze ci impedisce di vedere il volto che Dio ri¬
volge a noi in Cristo. Per quanto l'amore di Dio possa essere profondamente
velato nella storia umana attuale, un giorno splenderà in tutta la sua gloria quale
unica possente realtà. Allora ci apparirà chiaro che anche nella storia Dio era
il Signore nascosto, che guidava e plasmava i destini dell'umanità stessa. Quando
si verificherà lo stato in cui Dio sarà tutto in tutto (1 Cor. 15, 28), allora anche
l'amore sarà completo in ognuno. Quando Dio cesserà di celarsi e apparirà Re
e Signore, ciò significherà che l'amore personale si manifesterà come domina¬
tore di tutte le cose, qual è sempre. Cfr. il trattato sui Novissimi.
Poiché in Dio non sussiste mutabilità alcuna, egli non muta col mutare dei
nostri sentimenti verso di lui. Quando diciamo che Dio, mediante l'opera reden-
tiva di Cristo, si è rappacificato con noi o che, grazie al nostro ravvedimento,
ci risparmia, intendiamo solo asserire che egli è sempre in se stesso perfetto e
felice, rivolto ognora al bene con potenza irremovibile. Il suo amore vuole sem¬
pre con la medesima possente forza il bene. Poiché l'amore creativo vuole solo
ciò che è buono e non altro, ne viene che l'amore salvifico di Dio non tocca
il male, come il raggio solare che non può penetrare in un ambiente circondato
da solide mura e privo di finestre. Ma appena il male si trasforma in bene, al¬
lora è toccato dalla luce amorosa di Dio. Nulla si cambia in lui, il mutamento
avviene solo da parte dell'uomo. Non avvera alcun cambiamento nella dispo¬
sizione di Dio, bensì solo nella volontà dell'uomo. Anzi è proprio l'amore di Dio
a creare tale mutamento. Quando Cristo è apparso sulla terra, in essa brillò
nuovamente l'obbedienza e l'amore verso Dio; e chiunque milita con Gesù splende
nuovamente d'obbedienza e amore e perciò l'amore divino lo abbraccia di nuovo
(cfr. § 69 e il trattato sulla Redenzione). Chi invece disprezza e rifiuta questo
amore, che cerca di trasformarlo, ne subisce l'urto che lo allontana dalla sicu¬
rezza in Dio, dalla partecipazione della vita divina. Per costui l'amore, pur con¬
tro sua voglia, diviene giudizio tremendo.
§ 88. Ripartizione della volontà divina.
La volontà divina è in se stessa del tutto semplice, tuttavia può ri¬
partirsi, secondo il modo analogico della nostra conoscenza, nelle se¬
guenti distinzioni:
1. -
Volontà necessaria e volontà libera. Oggetto della prima è Dio
stesso, della seconda tutto ciò che è fuori di Dio.
426 P. I. - DIO UNO E TRINO
2. -
Volontà antecedente e volontà conseguente. Con la prima Dio Og
vuole un oggetto senza tenere conto della libera decisione della creatura nec
(ad esempio la salvezza dell'uomo). Con la seconda invece lo vuole, ma v
in conformità alla decisione libera delle creature (la salvezza di colui
che realmente si salverà). d
3. - Volontà assoluta e volontà condizionata. Distinzione questa che
di fatto si identifica con la precedente. da
4. - Volontà semplice e volontà ordinata. Oggetto della prima è il
fine inteso in se stesso; della seconda imezzi necessari per tale fine. oss
perm
5. - Volontà efficace e volontà inefficace. La volontà assoluta di Dio
è sempre efficace, la condizionata solo quando la creatura vi coopera
liberamente. Il che non significa che la volontà divina sia resa incapace
di raggiungere il suo fine da un ostacolo che le si frappone, bensì solo ste
che fa dipendere il raggiungimento di tale fine dalla libera cooperazione
di una volontà creata. ama
6. - Voluntas beneplaciti e voluntas signi ossia la volontà intesa in
se stessa e la sua manifestazione mediante la permissione, il consiglio, il pa
comandamento, la proibizione, l'azione.
lib
rivelazi
§ 89. La volontà di Dio come amore di se stesso. umana
Il Concilio Vaticano ha definito che Dio si ama necessariamente (Sess.
3, cap. 5; Denz. 1805).
L'amore che Dio ha di se stesso appare nei passi biblici in cui si af¬ sign
ferma che egli ha creato ogni cosa per se stesso (Prov. 16, 4) e per la cosc
sua gloria (Is. 43, 7). Lo dimostrano anche i libri, sia del Vecchio, sia s
del Nuovo Testamento, secondo i quali la rivelazione ha per scopo prin¬ l'a
cipale di stabilire nel cosmo e nella storia umana il regno di Dio, il suo solta
governo, la sua regalità. E si manifesta pure nel fatto che Cristo invita
gli uomini a cercare in primo luogo il regno di Dio e a lasciare che il
resto passi in second'ordine (Mt. 6, 33).
Poiché l'amore di Dio verso se stesso non significa altro che autopos¬
sesso e autoaffermazione dello spirito divino cosciente di sé, è necessa¬
riamente connesso con la spiritualità di Dio. Egli si afferma con un amore
eguale alla sua assoluta perfezione. Anzi egli è l'amore stesso che si af¬
ferma, si abbraccia e si compenetra; e non soltanto un amore acciden-
§ 9°- FECONDITÀ DELL'AMORE NELLA SPIRAZIONE DELLO SPIRITO SANTO 427
tale, ma è il suo proprio atto d'amore, o, meglio, il suo amore come
atto puro. La necessità con cui Dio si ama non nasce da un impulso
naturale cieco, bensì dalla perfezione della sua essenza stessa che si vede
chiaramente. Non vi è quindi legge o necessità extradivina che costringa
Dio ad affermarsi. Egli si ama in virtù della sua propria perfezione.
Agostino spiega la necessità con cui Dio ama se stesso nella seconda
parte del suo libro sulla Trinità.
§ 90. Fecondità dell'amore divino nella spirazione dello Spirito Santo.
1. Come, in Dio, la conoscenza palesa la sua fecondità nella genera¬
zione del Figlio, così l'amore la manifesta nella spirazione della terza
persona della Trinità.
Ogni creatura risulta composta di essenza ed esistenza. L'esistenza è ciò che
attua l'essenza, ne raccoglie la pienezza in un determinato punto, le dona pre¬
ciso e chiaro aspetto. Penetriamo la nostra essenza con l'atto intellettivo, affer¬
miamo l'esistenza mediante l'atto volitivo. Perciò all'essenza e all'esistenza cor¬
rispondono, nel campo dello spirito, l'intelletto e la volontà o l'amore, che è ap¬
punto l'atto fondamentale della volontà. Questa quindi è essenziale alla strut¬
tura dello spirito umano e il primo essere che la volontà, amando, abbraccia è
appunto il proprio io. All'individualità umana corrisponde il volere se stesso,
l'affermazione di se stesso, il sì amoroso a se medesimo. Alla socievolezza es¬
senziale con il prossimo fa riscontro l'uscire amoroso da sè per penetrare in un
altro, lo schiudersi dell'io per mezzo dell'amore. In questo uscire da sè per
aprirsi ad un altro il proprio io non va affatto perduto, anzi lo si possiede in
modo più profondo e ricco, purché la dignità umana propria non venga distrutta.
Per l'amore umano l'individualità, la limitazione e la distinzione dagli altri, co¬
stituisce una barriera insormontabile.
Se, partendo di qui, cerchiamo di comprendere in modo più profondo
la processione dello Spirito Santo, emerge quanto segue. In Dio è pos¬
sibile distinguere un duplice atto vitale: egli conosce la sua essenza con
piena chiarezza; l'afferma e l'attesta con incondizionata, assoluta forza di
volontà e d'amore. Anzi, la sua comprensione si identifica con la ricchezza
del suo oggetto, così come la volontà con l'esistenza, mentre a loro volta
essenza ed esistenza, comprensione di sè e amore di sè sono una cosa sola.
Secondo il nostro modo analogico di vedere, tra il conoscere e il volere
(o l'amore) di Dio sussiste una distinzione virtuale (cfr. § 76). L'uno
non può essere più perfetto dell'altro. E come il conoscere di Dio, in
quanto esiste nel Padre, è fecondo, così anche il volere (o l'amore) è
fecondo, in quanto esiste nel Padre e nel Figlio.
in quanto mutuamente si abbracciano con infin
e,
428 P. I. - DIO UNO E TRINO
F
2. - È dottrina accettata ormai da quasi tutti i teologi che lo Spirito glie
Santo procede per via di amore. Il Padre e il Figlio, contemplando la possie
propria comune ricchezza, la natura divina, la loro intima unione dovuta
all'unicità dell'essenza, la loro unità reale e viva fondata nella mutua re¬ mostra
lazione di generante e di generato, affermano tale vincolo con pari amore, esc
in quanto mutuamente si abbracciano con infinita tenerezza e forza. Il sec
Padre in certo modo esce totalmente da sè e, senza sminuire la sua
personalità, si dona completamente al Figlio. Il Figlio riceve l'intera pie¬ s'im
nezza dell'essere divino dal Padre e di nuovo gliela ridona, in quanto egli principio.
non l'invidia al Padre, ma al contrario la possiede con gioia beatificante l'uno
insieme a lui e la desidera con pari intensità. Cos
Parlando delle relazioni divine è stato mostrato che il Padre è prima diminu
Persona proprio perchè si dona pienamente, esce da se stesso e penetra
in un altro, si dischiude completamente in un secondo io; che egli perciòcirconda
non possiede la personalità in modo ognor più profondo, come l'uomo fia
che diventa più ricco se si apre all'amore e s'impoverisce se si chiude tene
in se stesso, ma totalmente e fin da principio. La stessa cosa succede d'amo
per il Figlio. Padre e Figlio possono aprirsi l'uno all'altro, proprio perchè
ciascuno si possiede con la più intima forza. Così il dono totale reciproco Fig
del proprio essere non conduce affatto a diminuzione della propria per¬
sonalità. pe
La forza e la tenerezza con cui si circondano, a motivo della loro dop
infinità, non si può paragonare a nessuna fiamma d'amore terrestre. imp
am
Padre e Figlio, abbracciandosi con indicibile tenerezza e con forza inim¬
maginabile, si fondono in un unico fuoco d'amore. l'un
colloqu
a
3. -L'amore reciproco del Padre e del Figlio si distingue da ogni
forma d'affetto terrestre in quanto non è un sentimento fluttuante le per
cui intimità e forza sono costantemente in pericolo, così come l'onda
che muove si solleva per riaffondare subito dopo. È bensì amore sussi¬
stente e necessario, non nel senso di cieco impulso naturale, ma come
necessità chiaramente compresa, accettata e amata con beatitudine im¬
mensa. Mentre Padre e Figlio si volgono l'un verso l'altro in infinito
amore, si parlano e si rispondono in un colloquio d'amore ardentissimo,
ciascuno spira all'altro il suo soffio (spiritus) di amore. Dalla loro unione
sgorga uno spirito d'amore d'infinita forza, perfezione e interiorità. E,
meraviglia fra le meraviglie, l'amore che spira dal Padre e dal Figlio
conosce se stesso, è sussistente e si presenta ad ambedue come un terzo
io: è amore personale.
§ 90. FECONDITÀ DELL'AMORE NELLA SPIRAZIONE DELLO SPIRITO SANTO 429
Anche qui, come nel conoscere divino, è necessario evitare l'idea che
Padre e Figlio si cerchino faticosamente l'un l'altro, si bramino vicen¬
devolmente con passione e, finalmente, si trovino nell'amore. Al con¬
trario essi si possiedono nell'amore più sicuro e beatificante, completa¬
mente scevro di passione. Anzi, il Padre è il suo atto di amore stesso
e ugualmente il Figlio è il suo medesimo atto d'amore. Perciò lo Spi¬
rito Santo è segno, manifestazione, prova e garanzia dell'amore del Padre
verso il Figlio e del Figlio verso il Padre.
Essendo dogma di fede che Padre e Figlio costituiscono un solo prin¬
cipio di spirazione e producono lo Spirito Santo con un unico atto spi-
rativo, si deve ammettere che il reciproco amore del Padre e del Figlio,
la cui fioritura è lo Spirito Santo, è un'unica realtà. A motivo della sem¬
plicità divina tale realtà è parimenti principio di spirazione e atto di
spirazione. Con questa spiegazione si intende asserire che il reciproco
amore del Padre e del Figlio è principio della spirazione (S. Agostino).
Secondo un'altra opinione, sostenuta da S. Tommaso d'Aquino, il prin¬
cipio della spirazione è l'amore che Dio ha di se stesso e che s'infiamma
nel Padre e nel Figlio. Tale concezione avrebbe il potere di rendere an¬
cora più chiara l'idea che Padre e Figlio producono, come unico prin¬
cipio, e in un unico atto spirante, lo Spirito Santo. La prima opinione
dà maggior risalto alla personalità e alla relazione del Padre e del Figlio.
Lo Spirito Santo è qui segno e prova che Padre e Figlio si schiudono
pienamente l'uno all'altro; è conferma della loro unione d'amore. Sul
volto dell'Amore originato dal Padre e dal Figlio, il Padre legge la cer¬
tezza perenne che l'amore del Figlio gli appartiene e il Figlio vi scorge
assoluta sicurezza che l'amore del Padre è sempre suo. Da tale volto il
Padre esperimenta, in perenne accettazione, che il Figlio di continuo gli
si dona e che in ciò trova la sua beatitudine. E il Figlio, da parte sua,
continuando ad accoglierlo, sente che anche il Padre incessantemente
si dà a lui e anch'egli si bea in tale dedizione. Nello Spirito Santo
Padre e Figlio si amano scambievolmente in quanto egli è il loro atto
di amore necessario, pari ad ambedue per perfezione e attualità, sigillo
personale della loro unione d'amore. Lo Spirito Santo è l'intimità, la
tenerezza di Dio, in quanto espressione dell'intimità amorosa del Padre
e del Figlio.
4. - La Scrittura accenna al fatto che lo Spirito Santo procede per
atto di amore, quando ci parla dell'amore divino che egli riversa sulle
creature, e dei doni di grazia che distribuisce (Rom. 5, 5; 1 Cor. 12, 4;
L'undecimo Concilio di Toledo (Denz. 277) s
terza
430 P. I. - DIO UNO E TRINO
2 Cor. i, 22). Tuttavia questi cenni biblici non diedero motivo ai Padri nè
greci e ai Padri latini preagostiniani di spiegare lo Spirito Santo come
amore e la spirazione come atto di amore. Fu Agostino che nel suo generato
libro De Trinitate presentò e studiò a fondo la spirazione quale atto
di amore. chiam
L'undecimo Concilio di Toledo (Denz. 277) spiega la spirazione così:
« Crediamo pure che lo Spirito Santo, la terza persona della Ss. Tri¬ proce
nità è lo stesso identico Dio con il Padre e il Figlio, con loro ha una d
unica sostanza e un'unica natura. Non è però nè generato nè creato, ma
procede da entrambi e di entrambi è lo Spirito. Crediamo anche che lo entramb
Spirito Santo non è nè ingenerato nè generato: se lo dicessimo inge¬
nerato dovremmo ammettere due Padri; e se lo dicessimo generato mo¬ qu
streremmo di insegnare due Figli. Nè lo si chiama solo Spirito del Padre, della
bensì simultaneamente Spirito del Padre e del Figlio. Esso infatti non
procede dal Padre nel Figlio, e nemmeno procede dal Figlio a santifi¬ nel
care le creature, ma procede simultaneamente da entrambi dovendo in¬ così
tendersi come l'amore 0 la santità di ambedue. La nostra fede insegna
pure che lo Spirito Santo fu inviato da entrambi, così come il Figlio è è
inviato dal Padre. Tuttavia non è per questo inferiore al Padre e al quan
Figlio, (press'a poco) come invece il Figlio, il quale afferma di essere in¬ mosso
feriore al Padre e allo Spirito Santo a causa della carne che ha assunto » so
(cfr. § 43). presen
Tommaso d'Aquino spiega la spirazione nel modo seguente. Come n
nell'atto di conoscenza si forma un concetto, così mediante l'amore verso nell'ama
un oggetto nasce un'impronta della cosa amata nell'amante. Come l'og¬ possied
am
getto conosciuto è nel conoscente, in quanto è conosciuto, così anche
l'oggetto amato dev'essere nell'amante in quanto è amato. L'amante, Sp
mediante l'oggetto amato, viene attratto e mosso interiormente. Siccome term
l'oggetto che attrae entra in contatto con il soggetto attratto, è neces¬
sario che l'oggetto amato sia intimamente presente al soggetto che ama. Tuttavi
Ma Dio come conosce se stesso, così ama anche necessariamente se stesso.conoscenza
Perciò Dio è in se stesso come l'amato nell'amante. Questa interiorizza¬
zione non sgorga dal fatto che l'amante possiede in sè l'immagine del¬
l'oggetto amato, ma dal fatto che l'oggetto amato trae a sè l'amante.
Parlando analogicamente potremmo dire: Lo Spirito Santo è il termine
dell'atto d'amore. Come l'atto di conoscenza termina nella produzione di
un'immagine spirituale dell'oggetto conosciuto, così l'atto di volontà 0
dell'amore ha un suo proprio termine. Tuttavia qui non possediamo,
come l'abbiamo per il termine della conoscenza (Verbo), un nome par-
§ 90- FECONDITÀ DELL'AMORE NELLA SPIRAZIONE DELLO SPIRITO SANTO 43 1
ticolare. Dobbiamo quindi designare il termine della volontà col nome
generico di amor, inclinatio, affectio, impulsus (S. Th., I, q. 20, a. 1;
q. 27, a. 4).
Talvolta si spiega l'unione di amore del Padre e del Figlio, sigillato dallo
Spirito Santo, con l'analogia dell'amore che unisce l'uomo e la donna nel ma¬
trimonio e il figlio che è l'estrinsecazione e il suggello di tale amore. Il bimbo
è quindi simbolo dello Spirito Santo, la moglie del Figlio e il marito del Padre.
La diversità sessuale non permette d'usare tale paragone, poiché essa non sus¬
siste in Dio. Tuttavia, nonostante la divergenza essenziale, la generazione del
Figlio, frutto dell'unione intima dell'uomo e della donna, si può paragonare alla
processione dello Spirito Santo mediante l'atto di amore. Se si vuol usare la
famiglia quale simbolo per rendere più comprensibili le processioni in Dio, è
preferibile ricorrere all'analogia sopra addotta che è migliore di quella usata
dallo Scheeben il quale, al contrario, paragona lo Spirito alla donna. (Cfr. l'in¬
segnamento di Riccardo di S. Vittore per spiegare la spirazione dello Spirito
Santo nel § 86, 14).
5. -
La realtà che Padre e Figlio abbracciano con infinito amore è
la stessa che forma l'oggetto del conoscere fecondo di Dio: la divina
essenza, le persone divine, tutto ciò che è fuori di Dio, ossia l'intera
realtà del cielo e della terra.
In maniera particolare va sottolineato che ogni essere reale al di fuori
di Dio è amato dal Padre e dal Figlio nello Spirito Santo. L'amore di¬
vino fecondo è il principio creatore di tutto ciò che è extradivino.
Se ci chiediamo perchè Dio ha creato il mondo, troviamo una sola risposta:
per amore! Anzi per amore di sé! Per meglio comprendere ciò si deve ricordare
che Dio non riceve dal mondo alcun aumento di perfezione o di beatitudine,
anzi che non potrebbe nemmeno ricevere una simile maggiorazione in quanto
egli è felicità assoluta. Come possa realizzare il suo amore verso se stesso nel
creare il mondo, è mistero impenetrabile. Così, in ultima analisi, non possiamo
rispondere alla domanda perchè Dio ha creato il mondo. Ci è solo permesso
asserire che Dio è così rapito nella sua gloria che vuole realizzare una imita¬
zione finita di se stesso, pur non ricavandone alcun incremento di felicità. Se
poi vogliamo far risaltare il carattere tripersonale dell'amore divino, ne nasce il
seguente fatto: il Padre ama il Figlio con tale intensità da essere disposto a
procurargli ogni possibile gioia e felicità. Lo stesso vale per il Figlio. Egli ama
il Padre con tale forza che pensa di donargli tutta la felicità possibile. La me¬
desima cosa dicasi per la relazione del Padre e del Figlio con lo Spirito Santo
e dello Spirito Santo con il Padre e il Figlio. Da tale determinazione interiore
di crearsi a vicenda ogni possibile forma di gioia sgorga il piano della creazione.
Il Padre, per fornire al Figlio una nuova sorgente di gioia ha ideato il piano di
realizzare l'imitazione finita della sua gloria; il Figlio ne accoglie il piano di¬
vino per garantire al Padre una nuova fonte di felicità. Lo stesso concetto si
applica allo Spirito Santo.
inscindibile vincolo,
432 P. I. - DIO UNO E TRINO
Pur ignorando la ragione ultima del mondo, dal momento che ci è impossi¬ regnino
bile rispondere alla questione perchè Dio realizzi l'amore verso se stesso amando
l'universo, possiamo, tuttavia, asserire che il mutuo amore delle tre persone Di
divine è la ragione ultima per cui il mondo esiste. Se dunque l'amore è la non
ragione più profonda del mondo, ne deriva che anche l'universo nella sua più di
intima essenza è formato dall'amore. Diviene così comprensibile perchè tutte le sentireb
cose siano legate tra loro da un inscindibile vincolo, perchè il complesso delle Tuttavia
creature costituisca una totalità organica. Esse sono altrettante manifestazioni an
dell'amore divino! Osservando il mondo quale oggi si presenta al nostro occhio, verso
purtroppo non rileviamo certamente che le realtà siano prodotte dall'amore. Piut¬ capis
tosto abbiamo l'impressione che fra gli uomini regnino la crudeltà e la sete del in
potere, la bramosia di distruzione e di annientamento! La ragione di tutto ciò è di
che ora il mondo non presenta più la forma che Dio ha inteso dargli, bensì
l'aspetto deturpato del volere umano. Se il mondo non porta più il suggello del¬ ne
l'amore ne deriva che l'uomo vi si trova spaesato e disorientato. Se esso avesse perfezion
conservato l'impronta originaria, la creatura si sentirebbe sicura e vi si acclima¬
terebbe facilmente come nella propria Patria. Tuttavia per coloro che hanno la
vista adatta per poterlo notare, il mondo possiede ancora anche oggi una pa¬ realizza
rentela con Dio sufficiente a spingere gli uomini verso di lui e a conservare in c
loro la bramosia di Dio. Parimenti, però, l'uomo capisce che tale desiderio, che V
il mondo suscita e mantiene in lui, non può trovare in terra pieno svolgimento;
perciò, quantunque immerso nel mondo, l'uomo è di continuo spinto ad eva¬ n
derne. Vive nel dolore, perchè ciò che in lui suscita desiderio di pienezza non d
può appagarlo. Tuttavia vive contemporaneamente nella speranza, poiché al di
là del terrestre intravede la possibilità di tale perfezione. È tale fiamma che im¬ nas
pedisce allo scoraggiamento e al dolore di trasformarsi in disperazione! i
L'amore è il principio creativo dell'universo: ciò mostra in modo speciale di
l'intima costituzione essenziale dell'uomo. Egli realizza in pieno il suo vero es¬ ch
sere solo quando vive nell'amore. L'odio contraddice così la più intima essenza connes
dell'uomo, e, logicamente, colui che odia è infelice. Vive in disarmonia con se pe
stesso e, di conseguenza, sente un'intima lacerazione. Infat
Se l'amore umano ha la sua più profonda radice nella natura che proviene nell'am
da Dio, ne consegue che anch'esso è espressione di quello divino. Possiede
quindi dimensione infinita e garanzia indistruttibile.
Tuttavia tale carattere dell'amore umano resta nascosto durante il pellegri¬ cr
naggio terrestre. Esso manifesterà tutta la sua forza intima e la sua grandezza
solo quando diverrà trasparenza perfetta dell'amore divino che rilucerà in esso, feco
quando fiammeggerà nello stato di perfezione piena che chiamiamo paradiso.
Che tutte le cose create trovino consistenza e connessione reciproca nell'amore
divino fecondo diventa ancor più chiaro quando si pensi che tale amore non è
un atto transitorio, bensì permanente ed eterno. Infatti in tal modo ogni essere
extradivino affonda di continuo la sua esistenza nell'amore di Dio, così come ha
di continuo la sua essenza e intelligibilità dall'atto fecondo della conoscenza
divina.
L'amore di Dio sospinge continuamente tutte le creature a crescere, svilup¬
parsi e perfezionarsi sempre più. Segnatamente ogni affetto terreno deve pog¬
giare, essere ancorato e radicato sull'amore divino fecondo, se non vuol trasfor-
§ 90. FECONDITÀ DELL'AMORE NELLA SPIRAZIONE DELLO SPIRITO SANTO 433
marsi in egoismo puro. Cfr. quanto già è stato detto circa l'oggetto della scienza
divina nel § 87; anche i §§ 91-94 e la dottrina sulla creazione.
L'affermare che l'amore fecondo di Dio avvolge tutte e tre le persone divine,
non sta in contrasto con il fatto che il principio della spirazione è costituito dal¬
l'amore mutuo tra Padre e Figlio. Infatti Padre e Figlio si amano proprio come
principio dello Spirito Santo e poiché in nessun modo lo precedono, nell'amarsi
quale principio, amano anche lo Spirito Santo stesso.
6. - La processione dello Spirito Santo per via d'amore e come amore
personale ci permette di comprendere meglio il significato di alcune de¬
nominazioni che gli vengono attribuite nella Scrittura e nella liturgia.
S. Agostino spiega il nome di « Spirito Santo » facendoci osservare che,
essendo egli come amore del Padre e del Figlio comune alle due per¬
sone, è chiamato propriamente con denominazioni comuni ad entrambi:
difatti il Padre è spirito e il Figlio è spirito; il Padre è santo, il Figlio
è santo (De Trinitate, 15, 19). Si potrebbe anche accennare che lo Spi¬
rito è chiamato vita, alito, respiro, poiché è proprio nell'amore che la
vita e le sue energie si manifestano.
J. Scheeben spiega la denominazione « Spirito Santo » in questo modo.
« Per esprimere l'intimità dell'emione di due persone, siam soliti dire che esse
sono uno spirito, un'anima sola; e con ciò intendiamo affermare che in forza
del loro amore, vivono l'una nell'altra e per l'altra: infatti lo spirito per noi è
la vita stessa, perchè questa nel mondo animale si rivela per mezzo del respiro.
Siffatta unità di vita e di spirito ha il suo fondamento in questo, che l'amante
fa tutto per la persona amata come fosse per sé, e sente tutto ciò che quella
soffre e prova, come se lo soffrisse e provasse egli stesso: che quindi, per virtù
d'affetto, l'amante si trasporta nell'amato; il che si chiama estasi dell'amore.
Ma quest'estasi dell'amore, quest'affettuosa unità di vita, per sua natura tende
a divenire reale. Gli amanti cercano realmente di trasfondere l'uno nell'altro la
loro vita, fondendola in una sola. Nell'ordine creato l'espressione più perfetta e
più adeguata di questa tendenza dobbiamo cercarla là dove l'unità d'amore ha
la base più naturale e reale, e dove si manifesta nel modo più puro e più te¬
nero. Il bambino sulle ginocchia della madre che l'ha portato nel proprio cuore,
che gli dette la vita e dal cui petto tutt'ora l'attinge, non estrinseca il suo amore
interno nel modo più vivo coi baci ch'egli stampa sulla bocca della mamma?
E il cuore di madre cosa vorrebbe fare, quando bacia il bambino, se non ina¬
lare, diciamo così, ancora una volta la vita al frutto del suo seno? » (/ misteri
del cristianesimo, trad. Gorlani, 77-78).
E più avanti dice : « Ma ciò che soprattutto profuma questo alito del Padre
e del Figlio con celestiale soavità, ciò che lo rende come aroma prelibato che
si sprigiona dall'infuocato amor divino, è la dignità e la nobiltà altissima delle
due persone che, fondendosi nell'amore più acceso, emettono sospiri dal loro
cuore; è la perfezione e la purezza infinita della fiamma d'amore che divora
queste persone; è, in una parola, la santità delle persone amanti e del loro amore.
Quantunque il Padre e il Figlio siano santi — se non fossero santi non potreb-
28 - schmaus - dogmatica 1
del Figlio, già il Padre il Figlio n
l
434 P. I. - DIO UNO E TRINO
bero produrre alcunché di santo —
o meglio, appunto perchè santi, santo in
u
modo speciale è lo Spirito che spira da essi: egli è il fiore e il profumo della
santità del Padre e del Figlio, come è il fiore e la cima della loro spiritualità. se
A buon diritto, adunque, a lui viene appropriato in un modo tutto speciale il Figlio,
predicato delle altre persone come quella persona che ne rappresenta la santità;
del
anzi viene chiamato perfino sic et simpliciter santità di Dio, santità del Padre
e del Figlio, non già come se il Padre e il Figlio non fossero santi se non in F
grazia di lui, ma perchè ambedue in lui rivelano la loro santità » (Scheeben,impetuo
Imisteri del Cristianesimo, 86-87). l'
Lo Spirito Santo è pure definito dolcezza, felicità del Padre e del
Figlio, pegno, vincolo del loro amore. Ancora una volta dobbiamo rile¬
vare che l'ultimo titolo non va inteso come se lo Spirito Santo costi¬
tuisse egli stesso l'unità del Padre e del Figlio, bensì solo come espres¬ s
sione, rivelazione personale e manifestazione della loro unità. Poiché egli presso
procede dalla fiamma amorosa del Padre e del Figlio, appare talora sotto vien
s
l'aspetto di lingue di fuoco nel vento impetuoso, tal'altra in forma di
pacifica colomba. E poiché rappresenta in Dio l'amore personale, compie uomini
le opere dell'amore nel campo del creato: è la fonte viva dell'amore di con
Dio che si diffonde nelle creature.
Così anche la designazione « dono » diviene più comprensibile. Nella d
sua azione creatrice Dio palesa alle creature il suo amore di cui lo Spi¬ Spirito
rito Santo è appunto la sorgente. Perciò presso i Greci egli viene chia¬ è
mato anche « azione ». Secondo Agostino viene definito dono, perchè
è amore. Il primo dono dell'amore è l'amore stesso. Lo Spirito Santo,
secondo Agostino, è il dono di Dio agli uomini. Egli elimina il pericolo Spesso
di metterlo in una relazione troppo stretta con le creature, minaccian¬ no
done così l'eternità, facendoci presente che lo Spirito Santo, prima di s
venire realmente donato alle creature, è già donabile. Certo l'eternità d
rimane del tutto intangibile quando lo Spirito Santo si intende come
mutuo dono del Padre e del Figlio, in quanto è manifestazione del loro
specialme
reciproco amore; ma non viene negata anche quando col nome dono op
s'intende la missione dello Spirito Santo, nella quale il Dio tripersonale
viene comunicato alle creature (§ 50). Spesso la Scrittura designa lo
Spirito Santo come dono. Ma essa ne parla non nel senso che si rife¬
risce alla vita intima della Trinità, bensì nel significato concernente la
economia della salvezza. Lo Spirito Santo è il dono di Dio agli uomini:
Giov. 7, 38 s. : 4, 7-14; Atti 2, 38; 8, 20; 10, 45. Nello stesso senso i
Padri greci usarono i termini dòron e specialmente doreà o dorema, che
entrambi significano azione del donare. Ogni operare di Dio in rapporto
alla creatura è dono. Ciò verrà esaminato meglio nel trattato sulla Grazia.
§ 90. FECONDITÀ DELL'AMORE NELLA SPIRAZIONE DELLO SPIRITO SANTO 435
La Sequenza di Pentecoste ci offre una stupenda e profonda presentazione
dello Spirito Santo : « Vieni Santo Spirito, emetti dal cielo il raggio della tua
luce. Vieni, o Padre dei poveri, o elargitore di doni. Vieni, o luce dei cuori o
consolatore di tutti, o dolce ospite dell'anima, o dolce refrigerio. Tu nella fatica mi
sei riposo, nella calura dolce refrigerio, nel pianto conforto. O luce beata, riempi
l'intimo dei cuori dei tuoi fedeli. Senza il tuo potente aiuto nulla v'è nell'uomo,
nulla se non peccato. Purifica ciò ch'è sordido, irriga ciò che è arido, sana ciò
che è ferito. Piega ciò che è rigido, riscalda ciò ch'è freddo, drizza ciò che è
storto. Ai tuoi fedeli, che in te confidano, manda il tuo settemplice dono. Con¬
ferisci merito alla virtù, dona una santa fine ed il gaudio perenne ».
Riccardo di S. Vittore spiega la processione dello Spirito Santo in
modo diverso da S. Agostino e dai teologi moderni in genere. Secondo
la sua opinione l'amore perfetto e disinteressato tra due richiede un con¬
diletto. Padre e Figlio non si abbraccerebbero in un amore disinteressato
e puro se si volessero possedere soli. Entrambi vogliono partecipare il
loro amore e la loro felicità a un terzo. Il Padre dona il Figlio e la bea¬
titudine che prova nel Figlio a un terzo. A sua volta il Figlio dona il
Padre e la felicità che il Padre gli procura a un terzo. In tal modo in
Dio vi è un amante, un amato e un condiletto.
Tale spiegazione si trova pure in S. Bonaventura. « Rifletti, adunque, e com¬
prendi che ottimo è semplicemente ciò di cui non si può pensare nulla più
buono. L'ottimo poi non si può pensarlo come non esistente, perchè gli man¬
cherebbe la perfezione dell'esistenza. Infatti è meglio esistere che non esistere.
Da ciò deriva che non si può pensare l'ottimo se non come uno e trino. Se il
bene è diffusivo, il sommo Bene dev'essere sommamente diffusivo. La somma
diffusione non può essere se non attuale e intrinseca, sostanziale e ipostatica,
naturale e volontaria, libera e necessaria, senza nessuna imperfezione.
Non esisterebbe il sommo Bene, se questi non avesse un potere inesauribile
di diffusione, se eternamente non si espandesse generando un'opera attuale - con¬
sustanziale - ipostatica - nobile, con tutti i caratteri, insomma, del generante; se
l'opera non fosse eternamente prodotta in forma di generazione e di spirazione,
coeva coll'eterno principio, amata e amante: Padre, Figlio e Spirito Santo.
Diversamente la diffusione avviene quando Dio genera le creature nel tempo:
qui l'immensa eterna bontà s'espande in minima parte, quasi puntualmente. Nel¬
l'altra diffusione, invece, di cui non se ne può pensare una maggiore, l'essere che
si diffonde comunica all'altro interamente la sua sostanza e la sua natura. Sia in
realtà, che rispetto al nostro modo d'intendere, non potrebbe esistere sommo
Bene se mancasse di questa ultima forma di diffusione.
La Trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ti appare, dunque, ne¬
cessaria, quando riesci a intuire con l'occhio della mente una Bontà suprema,
assolutamente scevra da macchia, atto puro da cui procede un principio d'Amore
che ama liberamente e necessariamente, che si diffonde interamente per natura
e per volontà. Tale Bontà si diffonde nel Verbo ch'esprime ogni verità, nel
Dono che contiene in sè tutti i doni.
media
436 P. I. - DIO UNO E TRINO d
mod
Le tre Persone divine che procedono dalla somma Bontà è necessario siano produz
sommamente comunicanti tra di loro e perciò sommamente consustanziali e per¬
ciò sommamente simili e perciò coeve e perciò coeterne. Da tutti questi attributi
l'am
si deriva l'esigenza che le tre Persone sieno intime l'una all'altra e operanti l'una riconosc
con l'altra nell'indivisibilità della sostanza del potere e dell'azione » (Itinerarium form
mentis in Deum, cap. 6; trad, di L. Stefanini).
7. - La spirazione della terza persona mediante atto di amore getta
luce anche sulla sua processione dal Padre e dal Figlio. Nulla può es¬ process
sere amato se prima non entra, in qualche modo, sotto lo sguardo. Ladifferenza
presenza dell'amato nell'amante ovvero la produzione di un termine del¬
l'amore, ossia la tendenza dell'amante verso l'amato, trova la sua ragione font
sia nel principio amante, sia nell'oggetto riconosciuto degno d'amore, vale Fi
a dire nel concetto o verbo che l'uomo si forma per rappresentare ciò rag
che è degno d'amore. Ora in Dio il Verbo è il Figlio; perciò lo Spirito proced
Santo deve procedere anche dal Figlio. di
In base alle spiegazioni addotte circa la processione dello Spirito Santo, Nell'at
riusciamo anche a chiarire meglio la differenza che passa tra genera¬ dell'og
zione e spirazione. La processione dello Spirito Santo non è generazione intel
(dogma di fede: Simbolo atanasiano). Le fonti della rivelazione chia¬ Spiri
mano generazione solo la prima processione, e Figlio solo la seconda per¬ poich
sona. La riflessione teologica ne può dare la ragione intrinseca, la quale vol
consiste nel fatto che la seconda persona procede per via di conoscenza in
mentre la terza per via d'amore. Nel concetto di generazione è inclusa la generazion
somiglianza del generato con il generante. Nell'atto intellettivo si produce no
precisamente un'immagine o similitudine dell'oggetto conosciuto. Perciò produ
il Figlio, il quale procede dal Padre per atto intellettivo, è simile al Padre
proprio a causa della sua processione. Lo Spirito Santo, invece, non è
simile al Padre in virtù della processione, poiché non è in potere della m
volontà il produrre un'immagine dell'oggetto voluto nel volente. Per tale
ragione la processione dello Spirito Santo non include un elemento, cioè di
la somiglianza, che è essenziale alla generazione. Anche se lo Spirito 5
Santo è in tutto simile al suo principio, lo è non in forza della sua pro¬
cessione, ma solo perchè si tratta di una produzione divina e tutto ciò
che è in Dio è Dio.
§ 91. La volontà di Dio quale amore per il mondo.
Dio vuole e ama tutto ciò che è fuori di lui. È dogma di fede.
Cfr. Concilio Vaticano, Sess. 3, cap. 1 e can. 5; Denz. 1783 e 1805.
§ 91. LA VOLONTÀ DI DIO QUALE AMORE PER IL MONDO 437
1. - La volontà di Dio abbraccia tutte le creature, le quali non preesi¬
stono perchè egli le abbia a volere, ma al contrario son create da lui con
sovranità assoluta. La sua volontà non si fonda sulla realtà extradivina,
bensì questa sulla sua volontà. Dio non vuole una cosa a cagione di
un'altra; tuttavia vuole che una creatura nasca dall'altra, che l'una sia
la causa dell'altra. Anche se la volontà di Dio per quanto riguarda le
creature è senza una causa, non è tuttavia nè cieca, nè irrazionale. L'in¬
tima ragione del suo volere è egli stesso sotto l'aspetto dell'amore e della
sapienza, e non come se la sapienza illuminasse i suoi decreti successivi
o come se l'amore lo spingesse a determinate decisioni. Sapienza, bontà,
volontà si identificano in un unico atto puro. Il volere è quindi la sua
ragione e il suo bene stesso, e perciò il suo stesso principio luminoso
che si conosce e si afferma.
La libertà di Dio riguardo a ciò che è extradivino non significa pos¬
sibilità di decidersi a un determinato atto mediante precedente rifles¬
sione, bensì è la volontà di Dio stessa, eterna, immutabile e identica alla
sua essenza, che, per quanto si riferisce alle creature, poggia esclusiva¬
mente sul suo amore e sulla sua sapienza (non libertas contrarietatis bensì
libertas exercitii et specifìcationis). La libertà di Dio consiste, come spiega
egregiamente Eckhart, nel non avere alcun perchè.
Agostino dice: «Causa di tutto ciò che ha creato è la sua volontà. Tu co¬
struisci una casa perchè, se non la edificassi rimarresti senza riparo. È la neces¬
sità che ti induce a costruire, non la tua libera volontà. Tu ti confezioni un
abito, poiché se non lo facessi rimarresti nudo. Sei quindi indotto a confezio¬
narti una veste dalla necessità, non dalla tua libera volontà. Tu pianti una vigna
sul monte, getti la semente perchè altrimenti resteresti senza nutrimento. In tutto
tu agisci per necessità. Compi ogni cosa perchè necessaria. Dio invece fa tutto
per bontà, egli non ha bisogno di nulla di quanto ha creato. Così dunque egli
ha fatto ciò che ha voluto » (In Psalm. 134, 10).
Per la libertà divina circa la creazione si veda il trattato omonimo.
2. - La volontà divina non è qualcosa di esteriore alle cose: opera e
crea in esse. Guida natura e uomo al proprio fine. Eckhart dice nel Di¬
scorso sull'ammaestramento: « Dio non è il distruttore di un bene, ma
è colui che lo porta a compimento. Dio non annienta la natura ma piut¬
tosto la completa ». In ogni situazione è presente Dio che crea e agisce.
Cfr. il trattato sulla Creazione.
La volontà divina non riguarda solo tutti gli esseri in generale, bensì
si rivolge e si indirizza a ogni singola creatura in tutte le circostanze della
sua esistenza. Si presenta a noi non soltanto come un dovere che ci ob-
peri la situazione cui il fallimento ha dato
438 P. I. - DIO UNO E TRINO
amo
uman
bliga in ogni momento con i suoi compiti concreti e determinati, bensì
come volontà creatrice e plasmatrice che ci fa progredire in ogni situa¬ o
zione umana, morale, spirituale e religiosa. Cfr. la dottrina sulla Grazia. es
Anche se l'uomo viene meno, la volontà divina resta presente in lui
come forza creativa e lo spinge verso una nuova direzione, affinchè su¬
peri la situazione a cui il suo fallimento ha dato origine. persente
suo
3. - La volontà divina per le creature è amore, anzi amore infinito.
Dio crea e opera nella natura e nella vita umana come colui che ama, divin
anzi come l'amore stesso. Il principio primo di ogni realtà è quindi l'a¬ divien
more, anzi l'amore sussistente e operante. Ogni essere e ogni azione sono, dive
ad ogni istante, fondati e sostenuti dall'amore. L'amore di Dio è d'in¬ e
finita intimità e forza. Pe
Dio, amore personale, è intimamente persente nella creatura che ama.
La sua carità abbraccia ogni cosa in tutto il suo essere, in tutte le sue dalla
possibilità di essere amata. La penetra ancora più profondamente del¬ ca
l'amore con cui uno ama se stesso. L'amore divino è quindi la forza uni¬ ben
ficativa più potente, la quale tuttavia non diviene mai sdolcinatura, de¬
bolezza o dabbenaggine. L'amore di Dio è diverso dall'umano. Tende nos
a guidare gli uomini alla gloria, alla grandezza e alla dignità. Opera co¬
stantemente per renderli migliori e più ricchi. Perciò li deve talvolta in¬ d
coraggiare o rendere inquieti e turbare, mentre perennemente li sveglia
conseguenz
e li strappa dalle strettezze dell'orgoglio e dalla sfera terrestre. In tal
modo spesso la via dell'amore si trasforma in cammino doloroso, creato
tuttavia anch'esso dall'amore e proprio per il bene dell'uomo (cfr. il trat¬
tato sulla Provvidenza di Dio).
necessariamente
L'amore divino non è una risposta alla nostra bontà, bensì è esso pe
stesso che la crea. Dio, bontà assoluta, tende a donarsi (bonum est dif-
cre
s
fusivum sui). Come la luce, per sua natura, si diffonde, così anche l'a¬ aman
more di Dio vuole riversarsi liberamente negli altri. Tale concetto, de¬
rivato dal Neoplatonismo, è ricco di conseguenze per comprendere che ricc
cosa sia Dio che secondo il Nuovo Testamento è amore (i Giov. 4, 4).
Non si deve tuttavia dimenticare la differenza essenziale: il Dio neo¬
platonico si diffonde e si riversa necessariamente come la luce del sole,
mentre il Dio del Nuovo Testamento lo fa per decisione libera. Egli
rende partecipe della sua bontà le creature, creando in esse la bontà.
Dio esce in certo senso da se stésso e fa che la sua bontà si espanda. In
lui non succede come nell'uomo, il quale amando esce da sè ma solo
per potervi rientrare più tardi in modo più ricco e più profondo. Dio
§ 92. l'amore di dio verso le creature secondo la scrittura 439
non ammette nè arricchimento, nè approfondimento. Mentre ama se
stesso con forza infinita pari alla sua bontà, vuole rendere partecipi anche
gli altri della sua bontà medesima. Ritrovando in modo limitato la sua
gloria nelle creature volute dal suo amore, egli le ama. Perciò l'amore
verso se stesso e l'amore verso il creato non si escludono a vicenda, ma
si compenetrano in modo profondissimo. Non è possibile rispondere al
perchè Dio attui il suo amore in maniera da rendere partecipi anche le
creature alla sua gloria. Cfr. il trattato sulla Creazione.
Anche se l'amore di Dio è atto assolutamente semplice e sussistente,
si può, tuttavia, asserire che egli non ama nella stessa misura tutte le
creature. Le une sono amate con intensità maggiore, le altre con inten¬
sità minore. Ciò non vuol dire che in Dio esistano vari moti d'amore più
o meno forti, ma solo che egli, con unico atto del suo infinito amore,
trae a sè alcune creature più intimamente, altre meno, fa partecipare le
une meglio delle altre alla sua gloria, comunica ad alcune in maggior
misura il suo essere e la sua vita, e perciò la sua felicità e bontà, che non
alle altre. La differenza dell'amore divino si ripercuote quindi anche
sugli effetti che ne derivano.
La creatura libera ha la possibilità di opporsi all'amore che penetra
nel suo stesso essere e la vuol condurre a una forma più alta di esistenza
e di pienezza vitale. Quando avviene ciò, l'amore disprezzato si trasforma
in giudizio.
L'amore divino verso le creature si estrinseca in svariati modi: be¬
nevolenza, magnanimità, clemenza, affabilità, amicizia, liberalità, miseri¬
cordia.
§ 92. L'amore di Dio verso le creature secondo la Scrittura.
1. - Non è esatto affermare che l'Antico Testamento ci sveli Dio solo
quale padrone assoluto delle creature e la sua rigida giustizia. La rive¬
lazione veterotestamentaria è chiara manifestazione della bontà di Dio,
nonostante che ne accentui maggiormente l'austerità e la giustizia e sia
ben lungi dal raggiungere le altezze sublimi del Nuovo Testamento, che
ne esalta invece in maniera particolare l'amore. L'amore di Dio nel¬
l'Antico Testamento si manifesta in prima linea come amore per la co¬
munità che detiene la rivelazione divina, cioè per il popolo di Dio, e
solo in un secondo momento come amore per le singole persone. Do¬
mina l'idea del Patto che è circoscritto da leggi ben determinate e pre-
in te
u
44° P. I. - DIO UNO E TRINO
r
cise. Ma proprio tale Patto è frutto dell'amore di Dio (Es. 33, 19; 34, 6),
e manifesta l'ordine che egli ha voluto.
G
(
Osea, ad esempio, dipinge meravigliosamente l'intimità, anzi l'ardore
di questo amore (vedere i capitoli 2 e 11). Nel cap. 11, 9 leggiamo: espressione
chin
« No, io non manderò a esecuzione il furore della mia ira... perchè io
sono Dio e non uomo; io sono in mezzo a te santo; io non marcerò
contro le città ». Dio ama, perchè è Dio e non uomo! Il suo amore non
è legato a sentimenti o a esitazioni. Non è la reazione all'amore di un assi
altro e non dipende assolutamente da nessuno. Dio in quanto ama con comp
amore incondizionato si palesa come Dio (cfr. Ger. 12 e 31). Is. 49, 15
paragona l'amore divino a quello di una madre (cfr. 54, 5-8). Dio mette qu
sulle labbra del profeta la seguente espressione confortante (41, 10): prodotta
« Non temere, perocché io sono teco! Non chinate lo sguardo, perchè vo
io sono il tuo Dio, ti ho fortificato, ti ho aiutato, la destra del mio giusto tut
ti ha porto sostegno ». G
Un passo della Sapienza (11, 24-12, 2) ci assicura che l'amore di Diogradatam
non ha alcun limite : « Ma di tutti tu hai compassione, appunto perchè da
tutto puoi: e dissimuli i peccati degli uomini in attesa di penitenza.
Ami invero gli esseri tutti e nulla detesti di quanto hai fatto. Perchè, sing
se avessi odiato una cosa, non l'avresti prodotta nè fatta. E come po¬ (2
trebbe sussistere alcunché se tu non l'avessi voluto? 0 conservarsi ciò
che non fu da te chiamato all'esistenza? Ma tutti gli esseri tu risparmi, 1-11
perchè son tuoi, 0 Signore, amico de' viventi. Giacché lo spirito tuo in¬ fidu
corruttibile è in tutti! Perciò gli erranti gradatamente correggi, e ne' loro pred
falli li avverti e ammonisci, affinchè liberatisi dalla malvagità credano in vicin
te, 0 Signore ».
(61
Quanto l'amore di Dio abbracci anche i singoli individui si può ve¬
dere e sentire nei Salmi: cfr. ad es. Sai. 23 (22), 22; 27, 1-3. 10; 27
(26), 1-3. 10 (« Mi abbandonino pure il padre 0 la madre; chè il Signore pe
mi accoglierà»); Sai. 34 (33), 9; 71 (70), 1-11; 111 (no), 4. Ognuno
può rivolgere lo sguardo a Dio con amore e fiducia, abbandonarsi a lui, più
benché nella preghiera veterotestamentaria predomini la coscienza della
lontananza divina anziché quella della sua vicinanza: Sai. 31 (30); 33
(32); 35 (34); 42 (41); 46 (45); 54 (53); 62 (61); 91 (90); 86 (85); 102
(101); 103 (102), 13 ss.; 121 (120); 123 (122).
L'amore di Dio è presente anche nella notte oscura della sofferenza.
Colui che gli si affida e accetta in suo nome pene e dolori resta sotto¬
posto solo esteriormente e apparentemente al potere ostile. In realtà,
nell'intimo del suo io, esperimenta ancora più forte l'amore divino e
§ 92. l'amore di dio verso le creature secondo la scrittura 441
riceve la vita eterna (Sap. 3, 4-12). L'amore di Dio palesa la sua auten¬
ticità e fecondità creatrice anche nell'accendere e attirare a sè l'amore
umano. Anzi, in ultima analisi, ogni affetto terrestre è opera sua (Deut.
30, 6). Cfr. Th. Paffrath, Goit, Herr und Vater, 1930.
2. - Mentre Dio, nell'Antico Testamento, nonostante la chiara e visi¬
bile rivelazione del suo amore, si mostra soprattutto come Dio dell'or¬
dine e della giustizia, nel Nuovo svela invece la pienezza del suo amore
medesimo. Ovunque qui troviamo quello che dice Giovanni : « Dio è
amore » (1 Giov. 4, 4, 16). Dio esiste come amore personale e avvolge
anche le minime cose del creato (Mt. 6, 25-34).
La parola « Padre » sprigiona una calda corrente d'amore. Secondo
l'ammaestramento di Cristo noi dobbiamo invocare Dio con tale nome
(Mt. 6, 9). Così fra Dio e l'uomo passa il medesimo intimo legame che
unisce il genitore al figlio. Il nome di Padre appare occasionalmente,
anche in altre religioni extrabibliche, ma mai con una forza così impre¬
gnata di fede e di religiosità. Benché già nell'Antico Testamento si trovi
qualche volta, la vita religiosa dell'epoca anteriore a Cristo non è affatto
dominata da tale concetto (cfr. Eccli. 23, 1, 4; 51, 10; Sap. 14, 3). Al
contrario è la rivelazione di Gesù che porta la bontà paterna di Dio
al primo piano nel pensiero di chi prega. Si palesa nella premura con
cui Dio riveste i gigli, nutre gli uccelli del cielo, numera i capelli del
nostro capo (Mt. 6, 25-34; Le. 12, 6. 22-31).
In senso stretto e proprio, Dio non è padre degli uomini perchè li ha
creati e li custodisce, bensì perchè comunica loro, mediante Cristo nello
Spirito Santo, la vita divina (cfr. il trattato sulla Grazia). Il suo amore
ha fatto assai più che non creare il mondo e conservarlo: ha trasformato
l'universo (nel quale lo scintillio originale della gloria di Dio, che do¬
veva rifulgere in ogni cosa era stato offuscato dal peccato) sicché ora
la potenza della colpa è annientata e la gloria di Dio è nuovamente pre¬
sente nel mondo, per quanto in modo misterioso e velato. Essa brillerà
di luce fulgente quando scoccherà l'ora fissata da Dio. Il principio di
esistenza del mondo, così trasformato, è l'amore.
Il cambiamento si avverò con la morte redentrice di Cristo che portò
il condono dei peccati. L'amore di Dio che si dona diviene fatto storico
nell'incarnazione e nel sacrificio di Gesù. Qui esso si palesa nel modo
più grande, più autentico e più visibile. « Ma Dio dimostra la sua ca¬
rità per noi perché mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì
per noi » (Rom. 5, 8). Egli ci sceglie, secondo il suo eterno decreto di
siamo certi dell'amore di Dio, avendocene
coo
442 P. I. - DIO UNO E TRINO
ele
amore, mediante la santificazione dello Spirito e la fede nella verità che
antece
salva, ossia facendoci partecipare alla gloria di nostro Signore Gesù Cristo egl
(2 Tess. 2, 13-17). predes
Uno dei più elevati passi del Nuovo Testamento ci assicura che in giu
tutte le circostanze della vita e della storia, anche le più tragiche, pos¬
dunqu
siamo esser certi dell'amore di Dio, avendocene date tante prove e di¬
mostrazioni: « Sappiamo ancora che Dio fa cooperare tutto al bene di tu
coloro che lo amano, di coloro che sono stati eletti secondo il suo eterno ac
disegno. Poiché quelli che egli conobbe in antecedenza li ha predestinati Cr
a riprodurre l'immagine del Figlio suo onde egli sia primogenito tra un des
gran numero di fratelli; e quelli che ha predestinato, li ha pure chia¬strapparc
mati; e quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; e quelli che ha
giustificato, li ha altresì glorificati. Che cosa dunque concluderemo da ciò? me
Se Dio è per noi chi sarà contro di noi? Colui che non risparmiò nem¬ pr
meno il suo proprio Figlio, ma lo sacrificò per tutti noi, come potrà non la
accordarci con lui tutto il resto? Chi muoverà accuse contro gli eletti di
Dio? Dio, che giustifica? Chi li condannerà? Cristo Gesù, che è morto, potra
0 meglio, è risuscitato? il quale è altresì alla destra di Dio e per di più
Sig
intercede a nostro favore? Chi potrà strapparci dall'amore del Cristo? (Ro
qu
Quale tribolazione, angustia, persecuzione, fame, nudità, pericolo, spada?
Se pur sta scritto: ogni giorno, per te, siamo messi a morte;siamo trat¬ I
tati come pecore da macello, di tutte queste prove trionfiamo appieno, unige
grazie a colui che ci ha amato. Certamente né la morte né la vita, né gli etern
angeli né iprincipati, né il presente né il futuro, né le potenze, né le cose qu
alte 0 profonde, né alcun'altra creatura ci potranno separare dall'amore l
di Dio che ci giunge nel Cristo Gesù, nostro Signore » (Rom. 8, 28-39). Id
La carità di Dio si è riversata nei nostri cuori (Rom. 5, 5). l'a
Nel Vangelo di Giovanni Dio si manifesta quale amore che si dona, c
e garantisce partecipazione alla sua gloria. « Infatti Dio ha talmente s
amato il mondo da dare il suo Figliuolo unigenito, affinchè chiunque
car
crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna » (Giov. 3, 16). « Da
questo noi conosciamo l'amore, dal fatto che quegli la vita sua per noi
sacrificò» (1 Giov. 3, 16). «In questo rifulse l'amore di Dio tra noi:
il proprio Figlio suo, l'unigenito, ha mandato Iddio nel mondo, affinchè
avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l'amore: non noi amammo
Iddio, ma lui amò noi... e mandò il Figlio suo come propiziazione per i
peccati nostri » (1 Giov. 4, 9 s.). L'amore di Dio si palesa a noi nell'amore
di Cristo, il suo Figliuolo prediletto. Nella carità del Verbo Incarnato
l'amore di Dio si rivolge a noi (cfr. Rom. 8, 28 ss.; 1 Giov. 3, 16).
§ 93- DI0 E IL MALE 443
Giovanni nel suo Vangelo (15, 9) riporta le parole di Gesù: « Come il
Padre ha amato me, così io amo voi ». Nella missione di Cristo si mani¬
festa non solo l'amore del Padre per le creature, ma anche quello di
Gesù. L'amore del Padre ci raggiunge attraverso quello di Cristo. « Gesù
sapendo giunta l'ora sua di passare da questo mondo al Padre, poiché
egli aveva amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine »
(Giov. 13, 1).
L'amore divino di cui parla Giovanni è lo stesso che esalta Paolo.
« Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, come per
noi si fece povero pur essendo ricco, affinchè voi siate arricchiti per la
sua povertà » (2 Cor. 8, 9; cfr. pure Ef. 3, 14-19; 5, 25). Cristo è il
nuovo principio di vita che vivifica chi crede in lui : « Or vivo non più
io, ma vive in me Cristo; e la vita che adesso vivo nella carne la vivo
nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e che si è immolato per
me » (Gal. 2, 20). Camminare in questa nuova vita significa dimorare
nell'amore (1 Giov. 4, 16).
Poiché Cristo, anzi l'amore che egli riversa nei nostri cuori, è il nuovo
principio vitale, ne deriva che il comportamento del cristiano deve es¬
sere informato all'amore. Ipiù sublimi slanci di carità verso il prossimo,
di amore (utopistico, fanatico, inconcepibile, in via naturale) verso i ne¬
mici, divengono comprensibili se si applica tale nuovo principio di vita,
anzi più propriamente divengono del tutto naturali. Cfr. Stauffer, Agapao
in Kittel, Wórterbuch zum N. T I, 20-55; L. Moraldi, Dio è amore,
Roma 1953.
§ 93. Dio e il male.
L'assicurazione biblica che Dio è amore diviene quasi incredibile, se
si osservano gli innumerevoli mali che ci circondano. Di fronte al
cumulo di dolori che tormentano l'uomo nel corso della vita è possibile
tuttavia credere che Dio è amore? Tale domanda racchiude in sé un
inscrutabile mistero. La questione del male non può essere sciolta dalla
ragione umana, come ci mostra la stessa storia della filosofia. Igrandi
pensatori hanno sempre visto nel male imo dei principali problemi del¬
l'esistenza umana, e malgrado i loro sforzi non sono riusciti a risol¬
verlo definitivamente. Una simile esperienza ha condotto talvolta a mi¬
sure radicali; ha spinto gli uni a negare Dio (l'ateismo moderno e, so¬
prattutto, il materialismo storico), gli altri il male (filosofia indiana).
completam
l'u
444 P. I. - DIO UNO E TRINO
d
La rivelazione neotestamentaria afferma che è impossibile rispondere neg
ai vari quesiti suscitati dall'esistenza del male con il solo ausilio della gettare
ragione. Giovanni nella sua visione vede il libro della storia sigillato da
sette sigilli, che nessun essere terreno riesce ad aprire. Tuttavia si ap¬
nell'A
prende che esiste una soluzione: la risposta però non viene dalla terra, sofferenz
bensì dal cielo. Il problema è perciò completamente comprensibile solo render
a coloro che sono in Paradiso (Apoc. 5). Finché l'uomo rimane sulla terra, futu
non può capire appieno la risposta che Dio gli dà. Ma la può accogliere d
e asserire mediante la fede in Cristo. Anche negli eventi più tremendi e s
dolorosi della vita gli resta la speranza di gettare uno sguardo nell'avve¬
nire eterno che lo attende. c
Dalla testimonianza che Giovanni ci dà nell'Apocalisse, appare chiaro volere
che la futura visione del mistero della sofferenza umana non solo libe¬ c
rerà il mondo da dolore e lagrime, ma li renderà motivo di lode e rin¬ santità
graziamento a Dio. Nella certezza che in futuro avremo la compren¬impedisce
sione della sofferenza inscindibile dalla storia del mondo e dell'uomo,
riusciamo fin d'ora, pur sentendone il peso, a sopportarlo senza cadere
nella disperazione 0 nell'indifferenza. salv
La dottrina della rivelazione sul male, si può così sintetizzare: divenne,
1. - È dogma di fede che Dio non può volere in alcun modo il male s
morale (peccato). Concilio di Trento, Sess. 6, can. 6 (Denz. 8x6); Sai.
5, 5; Giac. 1, 13. Cfr. quanto detto sulla santità di Dio, §§ 76 e 97.
Dio, per rispetto della libertà, non impedisce alla creatura di rivol¬ D
gersi al male e lo permette sapendo, nella sua sapienza e potenza infi¬ raggiunge
nita, che gli stessi peccati possono diventare a loro volta fonte di bene della
(felix culpa). Come dimostra la storia della salvezza, proprio il peccato all'altra,
che ha sconquassato l'uomo e il mondo divenne, per Dio, nuovo motivo o
di una più alta manifestazione del suo amore salvifico e di offrire così
all'uomo la possibilità di una più grande grazia. Cfr. la dottrina sul pec¬ d
cato originale.
2. - Il dolore (male fisico
e malum poenae) Dio non lo può volere per
se stesso, bensì solo come mezzo per raggiungere un fine superiore. In
sé la sofferenza è legata con la trama stessa della creazione, con la coor¬
dinazione e subordinazione di una cosa all'altra, con l'uso e l'abuso del¬
l'una da parte di un'altra, con la caducità di ogni essere. Ma per un
particolare intervento di Dio il creato avrebbe dovuto essere esente da
tutto ciò. Nel Paradiso terrestre l'ordinamento di ogni creatura rispetto
al tutto, il servizio verso tutte le altre avrebbe dovuto effettuarsi senza
§ 93- DI° E IL male 445
la minima tensione dolorosa e con facilità naturale. L'uomo, soprattutto,
non avrebbe dovuto sperimentare la sofferenza della morte.
Ma l'ordine inteso da Dio fu distrutto dalla opposizione dell'uomo
al volere divino; così ogni dolore si ricollega al peccato originale e alle
sue conseguenze che ci tengono strettamente avvinti (cfr. il trattato sul
Peccato originale). Finché l'uomo mantenne la sua comunione con Dio,
il mondo era penetrato dalla pace divina. Ma appena la creatura tentò
di svincolarsi dal Creatore per crearsi una propria vita indipendente da
Dio, appena si allontanò da lui e dal ponte che si tendeva tra Dio e il
nulla, cadde necessariamente verso il nulla e cominciò a soffrire. La
sofferenza divenne così l'espressione della vicinanza con il nulla e della
lontananza da Dio, che è la vita; divenne un giudizio di Dio sul peccato.
Non è dunque Dio che ha creato la sofferenza, ma la libertà dell'uomo.
Molte sofferenze sono causate dai peccati personali che derivano dalla
colpa originale. Ciò nonostante è grave errore pensare che tutte le soffe¬
renze siano conseguenza del peccato, o indicare una determinata pena
come castigo a un determinato peccato. Cristo esclude un simile modo
di pensare (Giov. 9, 2-4).
Non è possibile spiegare perchè Dio, nonostante preconoscesse le do¬
lorose conseguenze del peccato, lo abbia permesso ugualmente. Si può
solo pensare che la libertà umana è agli occhi di Dio un bene così grande
(partecipazione alla sua sovranità) che non ha voluto privarne la crea¬
tura, nonostante il pericolo che potesse abusarne. Dante dice che la li¬
bertà è « lo maggior don che Dio per sua larghezza / fèsse creando, ed
alla sua bontate / più conformato e quel ch'ei più apprezza » (Par. 5,
19-21).
Inoltre anche il dolore, in virtù dell'onnipotenza e dell'amore divino,
diviene strumento di salvezza e di benedizione. Ciò appare principal¬
mente nella crocifissione di Gesù. Gli orrori della Passione, i patimenti
del Calvario ci svelano tutta la mostruosità abissale del peccato. Ma poi¬
ché nella morte di Cristo il peccato ha perso la sua interiore potenza,
la via della croce si trasforma nella via amorosa di Dio. Dall'istante in
cui l'amore di Dio ha potuto palesarsi in tal maniera, l'uomo ha perso
ogni possibilità di dubitarne.
La vita del cristiano è una vita di comunione con Cristo, quindi il
destino di Gesù deve essere anche il suo. La sofferenza dell'uomo re¬
dento è partecipazione alla sofferenza di Cristo, al suo dolore e alla sua
benedizione.
La redenzione di ogni singolo uomo non si avvera nel fatto che Cristo
nel tormento di ogni singola vita si la
attua
ina
446 P. I. - DIO UNO E TRINO
anch
con la sua morte ha aperto all'uomo la porta del cielo, permettendogli dell'angos
di raggiungerlo attraverso una via comoda e facile. No, essa si compie
perchè ciascun uomo, in comunione con Cristo e secondo il suo esempio,
si sottomette volontariamente alla maledizione che Dio ha pronunciata comu
sul peccato e, in tal modo, lo vince; o meglio perchè nella sofferenza C
e nel tormento di ogni singola vita si attua la forza redentrice dei pa¬ so
timenti di Cristo. Finché sussistono le forme inadeguate di questo mondo dura
in cui Cristo dovette morire, occorre che anche nel corpo, cioè in noi, es
si avveri il mistero della sofferenza e dell'angoscia del capo. Nel patire ritornerà
di coloro che sono uniti a Gesù continua sino alla fine dei secoli il mi¬
stero della Croce.
La sofferenza è quindi il suggello della comunione con Cristo, vivente
nella gloria del Padre, ma che resta sempre il Crocifìsso, ossia colui che Apoc
è stato inchiodato alla Croce. Imembri che sono in comunione con lui
passano attraverso la croce, almeno finché durano le attuali inadeguate m
forme del mondo. La croce non può quindi essere eliminata dal corpo
mistico di Cristo, finché il capo non ritornerà glorioso (cfr. 2 Cor. 4, l'in
7-13; 6, 3-10). sperim
La sofferenza, per colui che con fede accetta l'amore che scende dalla imm
croce, non si trasforma in disperazione, bensì si cambia in lode e pre¬ e
ghiera, pentimento e azione di grazie (cfr. Apoc. 5). La
l'i
3. - Il dolore proprio sotto l'aspetto della morte e delle pene fìsiche ch
e morali che la precedono (segni della morte), è una rivelazione di Dio colpito
in quanto ricorda a chi vive lontano da lui l'incertezza dell'esistenza e d
la povertà della vita e gli fa di continuo sperimentare la caducità, il li¬ cast
mite e la peccabilità del mondo. L'uomo, immemore e minacciato di M
continuo dalla tentazione di adorare se stesso e il mondo, ha bisogno di ravve
questa manifestazione e di questo richiamo. La sofferenza abbraccia così cer
il passato, di cui ogni attimo presente porta l'impronta, e si estende al soffere
futuro come previsione e attesa. Nel dolore che, in qualche modo, è il an
concretarsi della condanna di Dio che ha colpito l'uomo caduto nel pec¬
cato e di cui, secondo gli inscrutabili disegni divini, ognuno deve avere
la sua parte, si palesa in modo analogico il castigo che attende chiunque
si separi dalla vita per irrigidirsi nella colpa. Ma accanto alla sofferenza,
risplende la promessa divina che chi, ravveduto e obbediente, nel
pentimento e nell'espiazione si umilia per cercare Dio, non deve più
temere alcuna sentenza di condanna. La sofferenza ci dà la certezza che
Dio si prende cura di noi, che non ci lascia andare a perdizione, ma ci
§ 93- 010 E IL male 447
conduce, attraverso la valle della morte, alla luce e alla vita. È segno
della presenza di Dio, che è Amore e vuole salvarci. L'aver scelta
la via della sofferenza può trovare la sua ragione nel fatto che Dio
prende l'uomo sul serio, gli fa esperimentare la sorte che il peccato gli
ha meritato, lo tratta come un adulto, responsabile delle proprie deci¬
sioni. Per volere divino attraverso Cristo la via del dolore è diventata
sorgente di vita, che svela l'amore con cui Dio ha decretato la sofferenza.
Essa diviene così richiamo a confidare in lui, a sperare nell'avvenire
eterno che ci ha promesso. L'uomo è capace di tale speranza, perchè
nella fede in Cristo possiede la facoltà visiva atta a percepire, al di là
del presente, la gloria futura. La sofferenza quindi ha il potere di riac¬
cendere continuamente nell'uomo che crede la speranza nella gloria fu¬
tura, nell'avvento definitivo del regno di Dio, della sua sovranità. È un
profondo e oscuro mistero, in cui riluce il fulgore dell'avvenire! Ci im¬
pedisce il beato possesso di questa terra e ci mantiene nell'inquietudine
e nell'attesa. È prova di questo mondo finito e della infinità di Dio, a
cui tutto il nostro essere, volente o nolente, è sottoposto. La sofferenza
ci libera dai vincoli terreni, dall'orgoglio e dall'amore smisurato del pro¬
prio io.
La sofferenza quindi, proprio in quanto condanna con cui Dio pu¬
nisce il peccato, è segno e strumento del suo amore perchè tende a ri¬
condurci alla vera dignità e grandezza, alla libertà e alla gloria. Diviene
così una grande possibilità per l'uomo; è artefice della dignità umana
e preludio della pace. Dio per il mondo ha decretato e deciso la soffe¬
renza affinchè per suo mezzo divenissimo più liberi e più grandi, più
dolci e migliori, più profondi e ripieni di merito, più calmi e pacifici.
Ci è mezzo efficace per acquistare meriti, che, senza di essa, non po¬
tremmo avere. Risveglia le profondità dell'anima, che senza il suo aiuto
non si paleserebbero.
La comprensione di tutte queste cose è possibile solo a colui che esa¬
mina le sofferenze della vita con lo sguardo teso sul futuro, verso un
avvenire che trascende la storia terrestre. Costui vede nella vita a venire
la norma e la misura per l'attuale, che gli appare, allora, quale essa è,
pellegrinaggio verso la futura.
Enrico Susone fa parlare l'Eterna Saggezza così : « Il dolore è, per il mondo,
un avvilimento: ma è dinanzi a me un'infinita dignità! Il dolore spegne la mia
ira e conquista la mia benevolenza. Il dolore mi rende più caro l'uomo, perchè
lo fa più simile a me! Il dolore è un bene nascosto, che nessuno può ripagare:
e se un uomo mi stesse per cento anni inginocchiato dinanzi ad impetrare un
uomini vi sono stati, che erano figli dell'eterna morte
448 P. I. - DIO UNO E TRINO ch
m
benevolo dolore, non se lo meriterebbe! Di un uomo terreno il dolore fa un la
uomo celeste! Il dolore allontana dal mondo e elargisce la mia sicura confidenza! ab
Diminuisce il numero degli amici e accresce la grazia. Bisogna che il mondo di¬ che
sconosca e abbandoni completamente quello che io benevolmente accolgo! È il a
cammino più sicuro e anche il più breve e il più prossimo! Vedi: chi sapessepurgatori
davvero quanto è utile dovrebbe accoglierlo come un degno dono di Dio! Quanti
uomini vi sono stati, che erano figli dell'eterna morte, addormentati di un sonno
profondo, che il dolore ha rinfrescato e spronato ad una buona vita! pur
Il dolore salvaguarda dalle dolorose cadute, fa sì che l'uomo conosca se stesso, no
e sia indulgente verso il suo prossimo! Il dolore mantiene l'anima in umiltà e E
insegna la pazienza, protegge la purezza, apporta la corona dell'eterna beatitu¬ soff
dine. Non vi può esser uomo che dal dolore non abbia avuto del bene, sia esso I
in stato di peccato, o al principio di quella via che ad esso porta, o in perfe¬ compor
zione, come il calore depura il ferro, raffina l'oro, abbellisce le pietre preziose.
Il dolore diminuisce i peccati, abbrevia il purgatorio, dissipa le tentazioni, di¬
scosta i piaceri dei sensi, rinnova lo spirito; e reca sicura fiducia, una pura co¬ dolori
scienza e un animo forte! Esso è bevanda salutare ed erba balsamica, più di tutte d
le erbe del Paradiso. Rende casto il corpo, che pur deve imputridire, e nutre m
invece l'anima, che deve rimaner eterna. L'anima nobile si rinvigorisce nel do¬ p
lore, come la rosa per la dolce rugiada di maggio! Esso rende l'animo saggio e merav
l'uomo esperto! Che cosa sa l'uomo che non ha sofferto? Il dolore è una verga ammirazion
d'amore, una paterna percossa per i miei eletti! Il dolore porta e costringe c
l'uomo verso Dio, gli sia caro o no! Chi si comporta lietamente nel- dolore ha d
sotto di sè la gioia e il dolore, l'amico e il nemico! Quante volte ai nemici che voc
ti digrignavano i denti tu hai imposto un morso di ferro e li hai ridotti all'im¬
potenza colla tua dolce lode e coi tuoi miti dolori! Vorrei piuttosto creare il miracol
dolore dal niente che lasciare i miei amici senza dolore, poiché nel dolore si martir
rinsaldano tutte le virtù, e l'uomo si abbellisce e migliora e si loda Dio. La
pazienza nel dolore è un vivo sacrificio, un dolce profumo del nobile balsamo
dinanzi al suo divino sembiante e risveglia la meraviglia di tutta la schiera ce¬
leste. Non si è mai guardato con tanta ammirazione un cavaliere che si de¬
streggia in un torneo, con quanta la intera schiera celeste guarda un uomo che
sa soffrire. Tutti i Santi hanno pregustato il pasto dell'uomo che soffre, perchè
tutti quanti hanno già prima sofferto, e ad una voce sola van gridando che è
senza veleno ed è salutare bevanda! Dar prova di pazienza nel dolore è cosa d
più grande che far risuscitare i morti o altri miracoli: è la stretta via che mena ne
alla porta del cielo. Il dolore fa compagni dei martiri, porta alla lode, porta alla cura
vittoria contro tutti i nemici » (Il libro dell'eterna saggezza, cap. 13; trad, di
R. Spaini-Pisaneschi).
§ 94. L'amore di Dio come misericordia.
1. - La misericordia è una speciale forma dell'amore divino, quello
cioè che Dio nutre verso la creatura caduta nella colpa e nella miseria.
Non significa la volontà che conserva e ha cura del debole e del misero
§ 94- l'amore di dio come misericordia 449
e nemmeno si deve intendere come compassione o tristezza per il do¬
lore altrui; è invece la volontà efficace di liberare la creatura dalla mi¬
seria e dal male e, specialmente, dal peccato. Inoltre la misericordia di¬
vina non consiste solo nella decisione di portare aiuto, ma include pure
l'intimità dell'amore.
2. - È verità spessissimo attestata dalla rivelazione che Dio è mise¬
ricordioso. L'amore divino, annunciato dalla parola stessa di Dio, ha
pure la forma della misericordia, poiché tende a farci uscire dalla nostra
povertà e strettezza umana, dalla miseria e dal nostro affanno, per per¬
metterci di raggiungere la vera grandezza e dignità, la gloria che ci
aspetta.
a) L'Antico Testamento presenta numerosi insegnamenti sulla mi¬
sericordia divina, anche se in esso la giustizia e il rigore sembrano avere
il predominio. Così Isaia (25, 4) afferma : « Ti sei fatto sostegno del
povero, sostegno del misero nella sua tribolazione, speranza contro la
procella, ombreggio contro l'ardore». Nel Sai. 9, 19 leggiamo: «Non
sempre sarà il povero nell'oblio, la paziente attesa dei miseri non sarà
frustata per sempre ». Cfr. Sai. 12, 6; 35, 10; 46, 6-9. Poveri, vedove
e orfanelli stanno sotto la protezione divina; Dio impone numerosi pre¬
cetti a loro vantaggio: ad es., Es. 22, 20-23; Ger. 7, 5-7; Sai. 82. Iloro
oppressori cadono sotto la minaccia di dure sanzioni: Ger. 5, 26-29; Ez.
16, 49 s.; Am. 8.
La misericordia di Dio si manifesta in modo speciale di fronte ai
peccatori. Assume forma di longanimità, di assicurazione di perdono, di
riguardo alla debolezza del colpevole, di remissione della colpa stessa,
di mitigazione della sua ira. Per esempio Giona 42, Sof. 21, 1 s. parlano
della longanimità divina. Il secondo libro dei Par. 30, 6-9 e Ger. 18,
5-11 ci danno consolanti assicurazioni di perdono. In Michea (7-18-20)
leggiamo : « Qual Dio è simile a te, che togli l'iniquità e passi sopra il
peccato di quei che sono rimasti della tua eredità? Egli non lascerà più
libero corso al suo sdegno; perchè è amante della misericordia. Egli si
rivolgerà e avrà pietà di noi, abrogherà le nostre iniquità e getterà nel
profondo del mare tutti i nostri peccati ». Is. 1, 18: « ...farò che i vostri
peccati, fossero pur come uno scarlatto, diventino bianchi come la neve;
e fossero pur rossi come la porpora, diventino bianchi come la lana ».
Anzi Dio brama la conversione dei peccatori: Ger. 3 e 4; 35, 5; e li ri¬
chiama di continuo a penitenza e ravvedimento: Mal. 3, 7; Zac. 1, 3; Is.
44, 21 s.; 55, 6-9; Os. 14. Anche la sofferenza è pungolo divino alla con-
29 - schmaus - dogmatica I.
6-16; (102), s.
P. I. - DIO UNO E TRINO
della
450 redenzi
versione affinchè l'uomo si ritragga dal peccato e dalla perdizione : Os. 2, quelli
8 s.; Zac. 13, 9; Lam. 5. Dio ha riguardo alla debolezza del peccatore: de
Sai. 78, 38 s.; Sap. 12, 2. 10 s.; Eccli. 18, 8-14; Os. il, 8 s. Per la re¬ manife
missione dei peccati cfr. Is. 54, 6-10; Sal. 32 (31); 51 (52); 130 (129); mis
Tob. 13, 1-10; Eccli. 51. Dio trattiene le sue ire: Is. 48, 9-13; Sal. 77,
6-16; 103 (102), 9 s. Luc
b) La più significativa manifestazione della misericordia divina sta m
nell'incarnazione del Figlio di Dio e nella redenzione. Cristo è venuto per ogn
redimere i peccatori, per cercare e salvare quelli che erano perduti (Le. Aligh
19, 10). Egli porta agli uomini il messaggio del Dio misericordioso e Ge
in tutte le azioni della sua vita pubblica manifesta la misericordia più
squisita. In Le. 6, 36 ci ammonisce : « Siate misericordiosi, come lo è il
vostro Padre nei cieli ». No
La parabola del figliuol prodigo, che S. Luca riporta nel suo Van¬ pe
gelo (15, n-32), è il commovente poema della misericordia divina. E del
resto questo evangelista è quello che, più di ogni altro, mette in rilievo 23
la misericordia del Salvatore, onde Dante Alighieri lo definisce scriba v
mansuetudinis Christi (De Monarchia, 1, 16). Gesù ha compassione della
folla che lo ha seguito nel deserto e non ha da mangiare (Me. 8, 1 ss.). Signo
Prova pena per la vedova che ha perso l'unico figlio (Le. 7, 13). Assi¬ co
cura il perdono ai peccatori (Le. 7, 47 ss.). Non vuol giudicare l'adul¬ s
tera, ma si accontenta di raccomandarle di non peccare più (Giov. 8, 11).
Agonizzante sulla croce, rassicura il colpevole pentito che quel giorno fuo
stesso sarebbe stato con lui in paradiso (Le. 23, 42). Cristo chiama se n
stesso il buon pastore che è pronto a dare la vita per le sue pecorelle
(Giov. 10, 11). de
San Paolo loda Iddio, Padre di nostro Signore Gesù Cristo, come il m
Padre di ogni misericordia e il Dio di tutte le consolazioni (2 Cor. 1, rinnovazio
3).
Egli, ricco di misericordia, ci ha manifestato il suo grande amore richia¬ benede
mandoci, mediante Cristo, dalla morte alla vita (Ef. 2, 4 s.). « Eravamo la
infatti un tempo anche noi insensati, ribelli, fuorviati, asserviti a voglie risu
e piaceri di ogni sorta, viventi nella malizia e nell'invidia, abbominevoli
e in odio gli uni agli altri. Ma quando apparve la benignità e la filantropia
del Salvatore, nostro Dio, non già per mezzo delle opere che compimmo
noi nella giustizia, ma in modo conforme alla sua misericordia, ci salvò me¬
diante un lavacro di rigenerazione e di rinnovazione nello Spirito Santo »
(Tit. 3, 3-5). E S. Pietro scrive : « Sia benedetto il Dio e Padre del
Signore nostro Gesù Cristo, il quale (Dio) per la sua grande misericordia
ci rigenerò a una speranza viva e mediante la risurrezione di Gesù Cristo
§ 95- LA GIUSTIZIA DI DIO 451
dai morti ci rigenerò ad una eredità incorruttibile, immacolata e inalte¬
rabile » (1 Piet. 1, 3). Cfr. pure il trattato sulla Redenzione.
§ 95. La giustizia di Dio.
1. - L'amore che Dio ha per sè è il « sì » infinito che egli dice alla
sua infinita perfezione; l'amore che ha verso le creature è il « sì » che
rivolge, con forza creativa, verso di esse. Il primo corrisponde all'asso¬
luta perfezione e dignità divina; il secondo comunica liberamente la bontà
alle cose. Certo, come già è stato detto, l'amore di Dio in se stésso è
atto unico e semplice, ma si manifesta in vari effetti, in quanto stabi¬
lisce i diversi gradi di essere e perciò anche le svariate perfezioni delle
creature. Ne deriva che l'amore di Dio dà ad ogni cosa, ad ogni essere
ciò che gli conviene e che quindi si attua in forma di giustizia.
2. - È verità rivelata che Dio è infinitamente giusto. La sua giu¬
stizia significa che egli valuta e afferma rettamente il suo infinito valore.
Ciò non vuol dire che per valutarlo lo debba scoprire, ne debba prendere
coscienza, lo debba penetrare. No, la sua perfezione stessa e la corri¬
spondente valutazione costituiscono una stessa e identica realtà: l'essere
personale di Dio. Egli esiste come giustizia, in quanto esiste come va¬
lore personale assoluto che si afferma con fermezza e forza indescrivibile.
Dio non ha alcuna norma 0 legge al di sopra di sè, secondo la quale
giudicare. Egli è legge e norma a se stesso: è legge in persona.
3. - La giustizia divina si manifesta nel mondo come giustizia crea¬
trice, legislativa e rimunerativa.
a) Creatrice in quanto Dio, attraverso la creazione, manifesta in
molteplici irradiazioni limitate e finite il valore assoluto che è egli stesso.
La giustizia di Dio esige che egli nel creato manifesti se stesso, bene
assoluto, in modo che non sussista nulla che non sia manifestazione di
tale bene. Non è tuttavia contrario alla giustizia il fatto che Dio dà a
una creatura un maggiore e a un'altra un minore grado di essere, poiché
egli stabilisce ciò con piena libertà e padronanza. Dio valuta e apprezza
ogni singola cosa, secondo la sua natura e con la massima rettitudine,
poiché tutto è stato stabilito da lui e sussiste per mezzo suo.
b) È giustizia legislativa perchè Dio dà ad ogni cosa quelle potenze
e inclinazioni mediante le quali essa si deve sviluppare fino a raggiungere
l'aspetto definitivo, voluto da Dio; egli stesso ha tracciato alle creature
umana, il disobbedirvi è andar controalla natu
di
452 P. I. - DIO UNO E TRINO
dell'esisten
razionali, sotto forma di precetti, le vie che debbono condurle alla per¬ sp
fezione da lui intesa. Tali comandamenti non sono contrari alla natura per
umana, ma sono un prezioso aiuto per raggiungere il fine naturale e so¬ string
prannaturale che Dio ci ha assegnato con la creazione e con la reden¬ d
zione. Perciò obbedire ad essi significa agire in armonia con la natura da
umana, il disobbedirvi è andar contro alla natura medesima. La legge riguard
di Dio è quindi manifestazione del suo amore, di quella carità che chiama
gli uomini alla pienezza della vita e dell'esistenza. Questo ci spiega la pre
gioia che essa suscita nell'Antico Testamento, specialmente nei Salmi. Le Eg
leggi che Dio, come Signore del mondo, dà per stabilire e conservare il segua
suo dominio, non sono affatto vincoli che stringano e opprimano la vita attri
umana, al contrario sono mezzi di liberazione da ogni miseria e oppres¬ prestazion
sione. Se avviene il contrario ciò dipende dall'alterigia, dall'orgoglio (R
umano e dalla cecità che ne deriva nei riguardi dell'autentica esistenza medic
e della vera vita. Ge
c) La giustizia retributiva fa sì che Dio premii il bene e punisca il Tutt
male (giustizia remunerativa e vendicativa). Egli, nella sua perfezione con
assoluta, ha stabilito che all'azione buona segua il premio e alla cattiva penti
la punizione. In senso proprio non si può attribuire a Dio la giustizia il
commutativa che include l'obbligo di prestazione e di retribuzione, poi¬
ché egli non ha alcun dovere verso chicchessia (Rom. n, 35; x Cor. 4, 7).
Dio punisce il male con pene non solo medicinali (Sociniani, Sattler, giusti
Hermes), ma anche vendicative (Sap. 11, 17; Ger. 32, 18; Rom. 12, 19).
Così si ristabilisce l'ordine rotto dal peccato. Tuttavia Dio potrebbe anche 2
perdonare il peccato senza punirlo (questo contro Anselmo, Tournely, qua
Dieringer), però sempre presupponendo il pentimento (cfr. i trattati sul d
Merito, sulla Redenzione e sui Novissimi. Per il concetto di premio vedi perfezio
il trattato sulla Grazia). Testamen
R
4. - L'Antico Testamento parla della giustizia di Dio specialmente
sotto il suo aspetto di premio e di punizione. Cfr. ad esempio Sai. 1;
11 (10); 50 (49); 75 (74); 78 (77); 94 (93), 20-23; Neem. 9; Is. 15,
16; Sof. 1, 14-18; Ger. 32, 17-19. Anche quando Dio è dipinto come
giudice severo, risulta tuttavia sempre alieno dal capriccio e dall'arbi¬
trio. Misura del suo giudizio è la sua perfezione che egli afferma con
decisione e inflessibilità. Del Nuovo Testamento si possono addurre i
seguenti passi: Giov. 17, 25; Atti 17, 31; Rom. 2, 2; 1 Cor. 4, 5;
2 Cor. 5, 10; 2 Tim. 4, 8.
Se prima di Cristo il senso dell'inflessibile rigore divino primeggia
§ 95- LA GIUSTIZIA DI DIO 453
sull'amore, ciò è spiegabile con l'intento pedagogico e non si deve con¬
cludere che con il passar del tempo Dio sia divenuto più mite e che
l'amore abbia temperato la sua severità. Del resto, anche nell'Antico
Testamento l'amore non fa difetto. Si manifesta anzi in modo tale che
il credente, notandolo, si sente riempire il cuore di gioia. Tuttavia non
raggiunge mai la pienezza e la sublimità che ci rivela il Nuovo Te¬
stamento.
5. - In Dio amore e giustizia non stanno mai in conflitto, nè si eli¬
dono tra loro, ma si compenetrano mutualmente (Sai. 25, 10) in un unico
atto puro. La giustizia di Dio si manifesta come amore in quanto egli
concede la partecipazione alla sua gloria e alla sua perfezione in misura
proporzionata alla bontà dei singoli. L'amore, di riscontro, si palesa in
forma di giustizia in quanto Dio valuta e stima le cose secondo il grado
con cui realizzano la sua bontà. Nell'uomo invece amore e giustizia
non coincidono, perchè noi non ci possediamo così perfettamente da po¬
terci comunicare nel modo conveniente e giusto e perchè non sappiamo
valutare equamente il valore di una cosa 0 di un uomo che ci sta di
fronte in modo da donargli con giustizia il nostro amore.
Dio avvolge ogni creatura con amore infinito e giusto, con infinita forza
e intimità, con giustizia piena d'amore. Trattandoci con giustizia ci ama,
e, amandoci, ci tratta con giustizia. L'amore si manifesta come stima e
rispetto della volontà libera. Dio non costringe nessuno al suo amore.
Lascia a ognuno libera volontà di respingerlo. Certo che fuggire l'amore
divino, ossia ergersi contro Dio, ha conseguenze catastrofiche per l'in¬
dividuo, per la società e per il mondo. Il peccatore si autodistrugge. E
Dio permette che egli nell'infelicità che si è procurata, esperimenti il
controsenso del peccato e della ribellione dell'amore. Agendo così tratta
con giustizia il colpevole. In tal modo si intrecciano in Dio amore e giu¬
stizia. L'amore per chi si apre a lui diviene premio, ma per chi si chiude
diviene, suo malgrado, giustizia che condanna. La giustizia è la forma
dell'amore, l'amore è la forma della giustizia.
L'unione della giustizia e dell'amore trova la sua più alta manifesta¬
zione nella crocifissione di Cristo. Cfr. il trattato della Redenzione.
L'affermare che giustizia e amore in Dio coincidono non è in contraddizione
con l'esistenza dell'inferno. Tale forma di vita è anzi richiesta proprio dall'amore,
che è anche giustizia. Dio non costringe a vita di amore e di adorazione coloro
i quali, per orgoglio e superbia personale, la respingono, perchè non intende in¬
firmare la libertà umana, nè trattare l'uomo come una macchina, bensì quale
essere responsabile del suo agire, poiché ha un'alta opinione della creatura. Per-
g
v
454 P. I. - DIO UNO E TRINO Piuttos
respinge.
ciò quando l'uomo si allontana da Dio, respingendo così il valore o bene asso¬
luto personale, chiude ogni via alla comunicazione dell'amore divino. Se questo
potesse penetrare in lui contro la sua volontà e costringerlo a vita di amore e
di adorazione, ciò diverrebbe per l'uomo indurito nell'orgoglio personale una
tortura indicibile. Dio gli concede quello che egli vuole: una vita di autonomia
radicale! È giusto che l'uomo risenta allora la lontananza da Dio, dall'amore,
come una lacerazione senza speranza, una solitudine glaciale. Malgrado ciò il dan¬ infinit
nato non si pente, non può pentirsi. Preferisce la vita di ribellione a quella di significa
adorazione e ne accetta tutte le conseguenze. Piuttosto che ottenere la pienezza co
di vita a prezzo della sua sottomissione, la respinge. Vedi per maggiori sviluppi
senza
il trattato sull'Inferno.
5
§ 96. Veracità e fedeltà di Dio.
Poich
1. - Il Concilio Vaticano chiama Dio infinitamente verace. (Sess. 3, prom
cr
cap. 3; Denz. 1789; cfr. 1951). Il che significa che Dio quando agisce
e parla, crea e salva, sta sempre in armonia con il suo intimo sentire, è rigu
sempre e ovunque perfettamente sincero senza reticenza nè calcolo di
sorta. Num. 23, 18; Le. 21, 33; Giov. 3, 33; 5, 19; 5, 3°"47; 8> 37 s-i divin
Rom. 3, 4; Tit. 1, 2; Ebr. 3, 18. Tes
32.
2. - È veritàrivelata che Dio è fedele. Poiché Dio crea gli esseri con
potenza assoluta, che stabilisce loro beni e promesse, non può esser di¬ 18
stolto dalle sue decisioni da nessuna forza creata. Esse sono ferme e nonostan
immutabili; Dio non può mutare nei loro riguardi. « Egli non può in¬ in
fatti rinnegare se stesso » (2 Tim. 2, 13).
Tutto l'antico Patto poggia sulla fedeltà divina: Num. 23, 19; Is. 49, no
15; Sal. 33 (32), 4; Rom. 9, 6 ss. Il Nuovo Testamento è l'adempimento es
delle promesse veterotestamentarie: Le. 1, 32. 45. 50. 54s. 68-79; 2, dubitare
n
29-32; Mt. 11, 3-5; Rom. 9-11. Dio conduce a termine l'opera che ha
intrapreso: 1 Cor. 1, 8 s. ; 10, 13; 2 Cor. 1, 18; 1 Tess. 5, 24; 1 Giov. con
1, 9. Egli resta fedele alla sua bontà, nonostante l'infedeltà umana. Ha la
il potere di realizzare i suoi disegni di bontà in ogni situazione (Mt. 24,
23; Ebr. 3, 7 ss.; 4, 1 ss.).
La fedeltà di Dio è il fondamento della nostra speranza incrollabile
e della nostra fiducia. Anche se, talvolta, le esperienze quotidiane e gli
eventi storici sono tali da farci quasi dubitare che Dio sia fedele alla
sua bontà, ciò si spiega con il fatto che noi non riusciamo, su questa
terra, a intuire la connessione di tale bontà con le nostre sofferenze, poi¬
ché noi conosciamo solo frammentariamente la vita e la storia.
§ 97- LA SANTITÀ DI DIO COME ATTRIBUTO DELLA SUA VOLONTÀ 455
§ 97. La santità di Dio come attributo della sua volontà.
1. - Possiamo sintetizzare nella seguente proposizione tutti gli attri¬
buti morali della volontà divina che abbiamo fin qui analizzato: Dio
agisce in modo infinitamente santo, in quanto con incondizionato
amore afferma la sua santa essenza e perciò respinge con incondizio¬
nata potenza tutto ciò che le si oppone. La santità divina è qui intesa
come comportamento morale (cfr. § 76).
La santità di Dio non è qualcosa che egli si procuri con sforzo 0 con
lotta, ma è un atto assoluto, sussistente, eterno e immutabile. Essa è
spontanea e necessaria. È necessaria non nel senso di una cosa naturale,
inevitabile, ma per il fatto che la volontà divina si identifica con la più
chiara visione della sua santa essenza, perfettamente conosciuta e affer¬
mata. La santità divina non è solo un attributo, ma è Dio stesso in quanto
afferma con forza incondizionata la sua santa essenza.
Dio è la santità prima, in quanto ha in sè la ragione della santità ed
è la sorgente di ogni santità creata. Egli non realizza la sua santità adem¬
piendo una legge superiore 0 obbedendo a un dovere che lo obblighi.
Dio è norma e dovere a se stesso. Egli è la sua propria legge e coscienza.
La sua volontà non si oppone alla sua coscienza, nè il suo agire alla
volontà. Azione e dovere, legge e suo adempimento costituiscono ima
unica e identica realtà: Dio stesso. Egli esprime la sua santa essenza
nella sua azione, nell'amore, nella giustizia, nella fedeltà e nella mise¬
ricordia. La sua azione è il suo essere stesso. L'agire santo di Dio è
perciò la sua stessa essenza, in quanto è agire degno di venerazione e di
adorazione.
Perciò santità morale e ontologica si identificano in Dio: la santità
ontologica penetra nell'azione e vi si esprime, anzi è l'agire stesso di Dio;
e la santità morale è espressione del suo essere santo, anzi è proprio tale
essere stesso.
Sarebbe in contrasto con la santità morale di Dio, se egli non espri¬
messe nell'agire la sua santità ontologica, sia non agendo, sia agendo in
maniera contraria a quella che corrisponde alla sua santa essenza. En¬
trambe le cose sono impossibili, poiché Dio è il suo agire stesso. L'agire
in modo difforme alla sua santa essenza equivarrebbe in Dio a non es¬
sere più Dio. Egli è perciò santo perchè opera in conformità con la sua
essenza divina. L'agire di Dio è santo perchè azione di Dio; ma Dio è
si afferma esistente attuando stesso
d
456 P. I. - DIO UNO E TRINO
s
la sua azione stessa; quindi la sua azione è Dio stesso in persona. La
santità divina è attività personale assoluta. trip
Qui dobbiamo ricordare che Dio è personale nella forma trinitaria. q
L'azione, che è Dio stesso, è personale come Padre, Figlio e Spirito stesso
l'espression
Santo. Tale agire personale si rivolge a se stesso, in quanto esso è realtà
santa, e si afferma esistente attuando se stesso. Tale autoaffermazione, della
tale presentarsi a se stesso è la santità morale di Dio, la quale si svolge nell'a
in maniera tale che ciascuna persona afferma se stessa, e, contempora¬ raggiun
neamente afferma le altre due nell'ordine delle processioni divine. uman
Dio è fonte d'ogni santità extradivina in triplice senso: dà alle crea¬
ture razionali la coscienza, dona loro la legge quale norma esterna che
chiarisce il dovere interno, e produce egli stesso la santità nelle creature. perchè
La legge che Dio dà all'uomo non è l'espressione di un capriccio, bensì
della sua santa essenza, è una rivelazione della sua gloria. La moralità
umana consiste quindi, in ultima analisi, nell'armonia tra la creatura e D
l'essenza santa di Dio, armonia che si raggiunge ubbidendo al volere pa
divino. Siccome Dio è apparso nella storia umana in Cristo, ne proviene
che Cristo è l'ideale della santità per l'uomo. q
come
2. -Secondo la Scrittura Dio è Santo, perchè è Dio. suoi
a) Spesso nei passi veterotestamentari che riguardano la santità on¬
tologica di Dio (cfr. § 76) si nota il richiamo a quella morale. La prima pale
infatti racchiude anche la seconda, in quanto Dio è messo non solo in profet
contrasto con le creature, ma anche, in modo particolare, con il peccato. labbra
Egli appare nella Bibbia come la sintesi di ciò che noi chiamiamo per¬ l
fezione morale, mentre è l'opposto di tutto quanto intendiamo con il
nome di peccato. Dio non soccombe all'ira come l'uomo; è indipendente
e libero, padrone delle sue decisioni e dei suoi sentimenti. Il peccatore
sente il suo peccato davanti al Dio santo, che è fuoco divorante. Nella
visione della vocazione di Isaia, Dio gli si palesa come santità ontolo¬ co
gica, ma anche quale santità morale e il profeta si sente perduto. Alla Am
presenza di Dio si riconosce uomo dalle labbra impure! Che si tratti di
impurità morale si deduce dal fatto che le sue labbra vengono purificate
dal fuoco dei carboni ardenti (6, 1-7). Dio è Santo perchè punisce il
peccato e libera dalla colpa (Is. 1, 4; 5, 19. 24; 10, 16. 20; 12, 6; 17, 7;
29, 19; 31, 11 s.; 40, 25; 41, 1; 43, 3. 14; 45, 15. 18 ss.; 47, 4; 49, 7;
51, 5; 54, 5; Ez. 36; 39). La santità divina esige santità nell'uomo,
non solo sotto forma di atto esteriore, bensì come dedizione del cuore
e sentimento intimo (ad es. : Is. 1, 10. 24; Am. 5, 21 s.; Sai. 15). Gli
§ 97- LA SANTITÀ DI DIO COME ATTRIBUTO DELLA SUA VOLONTÀ 457
uomini debbono essere santi perchè Dio è Santo (Lev. n, 14; 19, 2;
20, 26). Egli stesso è legge delle azioni morali. La santità dell'uomo con¬
siste nel manifestare in se stesso la santità di Dio e nell'esserne com¬
pletamente dominato.
b) Il Nuovo Testamento completa la rivelazione della santità divina.
Dovunque si parla della santità ontologica di Dio, si parla pure di quella
morale. Anche là dove si accentua la prima, non si dimentica mai la se¬
conda. Qui si prega il Padre Santo di conservare nel suo nome i disce¬
poli, là si elogia il giusto giudizio divino che colpisce i malvagi; o si
esortano i fedeli a divenire essi pure santi in tutta la loro condotta per
presentarsi dinanzi al Santo dei Santi con azioni degne di lui (Giov. 17,
11-19; Le. 1, 49; Mt. 5, 48; 1 Piet. 1, 15; 3, 13; 4, 6; Giov. 10, 36;
Rom. 7, 1 ss.; 9, 14 ecc.).
Il Nuovo Testamento è la testimonianza continua della lotta che Dio
conduce contro il male per mezzo di Cristo. Gesù stesso è la santità di
Dio fattasi visibile. Egli è l'incarnazione dell'opposizione ai peccati, al¬
l'ingiustizia e alla superbia, alla menzogna e alla ipocrisia, è l'incarna¬
zione dell'amore e della verità. La sua opera annienta il male e instaura
il dominio dell'amore.
La santità dei fedeli è partecipazione alla santità di Dio per mezzo di
Cristo nello Spirito Santo (Ebr. 12, 10). Questi compenetra e riempie i
fedeli, li unisce strettamente a Cristo e li conforma a lui. Cristo stesso
agisce in essi (Gal. 2, 19; Ef. 2, 10) e opera in coloro che gli sono
uniti mediante lo Spirito Santo. Compito del fedele è accogliere l'azione
di Cristo, che si avvera nello Spirito Santo, ed esprimerla nella propria
azione. La moralità cristiana è, quindi, obbedienza a Cristo e allo Spi¬
rito Santo. In ogni lettera Paolo esorta il lettore a vivere secondo lo
Spirito e non secondo la carne. L'Apostolo non intende con ciò che si
abbandoni l'elemento corporeo, bensì solo che si formi e plasmi la vita
corporale-spirituale nello Spirito Santo, nella santità di Dio. In tal modo
la nostra santità, la quale non è altro che manifestazione della santità
divina, diviene glorificazione di Dio. Icomandamenti ci indicano la ma¬
niera con cui la santità di Dio debba essere realizzata nella vita umana
(cfr. il trattato sulla Grazia).
-
3. Nell'epoca patristica, per combattere i miti gnostici e manichei,
si asserì che nella sfera divina non vi è alcunché di oscuro, nessun prin¬
cipio malvagio. IPadri dimostravano che Dio è essenzialmente Santo dal
coscienza ne è il riflesso. Essa illumina persino
s
458 P. I. - DIO UNO E TRINO com
testimonian
fatto che lo Spirito Santo ci santifica. Il male proviene dalla superbia
della libera volontà creata. Cfr. Kittel, Wórterbuch zum N. T ., I, 87 ss.
4. - La santità di Dio è attributo divino che brilla con maggior po¬accostiam
tenza e luminosità sul volto degli esseri spirituali creati. Il giudizio della santità.
coscienza ne è il riflesso. Essa illumina persino il male e mostra la sua no
forza anche nella cattiva coscienza mediante il suo giudizio di condanna, d
e alla fine dei secoli separerà il male dalla comunità umana per mezzo
dell'inferno. Mentre questo è l'eterna testimonianza del male nei riguardi non
della santità divina, il Paradiso ne è lo scintillio senza fine che risplende de
nei beati. Weiger (nella sua opera Mutter des neuen und evigen Bun- c
des, 1936, 53) dice: «Quanto più ci accostiamo a Dio tanto maggior¬
mente ci penetra il sentimento della sua santità. La santità divina è una
realtà, la cui presenza, che lega e scioglie, non può essere annientata
completamente neppure dalla opacità infernale del peccato. Come il rag¬
gio che s'infiltra nella spaccatura di un muro impenetrabile tradisce la c
presenza del sole, anche se la sua vittoria non dura che un secondo, omnip
così avviene ognora anche nell'ordine morale delle cose. Non vi è tempo D
senza questo raggio della santità divina nella coscienza ».
pu
§ 98. La volontà divina come potenza. liturgia
com
1. - In tutti i simboli è espresso il dogma che Dio ha potenza infi¬ l'ess
nita. È vero che nei simboli la parola omnipotens (in greco panto- dalle
cràtor) indica in primo luogo il dominio di Dio su tutto il creato, e
quindi si riferisce all'azione mediante la quale egli stabilisce e conserva
questo suo dominio. Ma dall'azione di Dio si può inferire quell'attributo
del suo essere che noi chiamiamo con il termine di onnipotenza. com
Ciò appare anche nelle orazioni della liturgia. Quando in esse viene rappo
invocato il Deus omnipotens, si pensa a lui come al Signore e Padrone
del mondo. Il titolo omnipotens denomina l'essenza e serve per distin¬
guere il vero Dio dagli idoli, dai falsi dèi, dalle impotenti divinità vene¬
rate dai pagani.
2. - La potenza di Dio non va intesa come capacità di agire, ma si
deve invece identificare con l'essenza divina stessa, considerata come
principio che eseguisce ciò che la volontà comanda e la scienza dirige.
È quindi l'essenza divina, in quanto dice rapporto dinamico con gli es¬
seri creati.
§ 98. la volontà divina come potenza
459
La potenza di Dio è indipendente da ogni cosa fuori di lui, poggia
solo su se stessa ed è illimitata. È infinita sia intensivamente sia estensi¬
vamente. Dio può tutto ciò che è intrinsecamente possibile.
Egli è la potenza prima, in quanto fonte di ogni potere creato. Ne
deriva che la potenza in sè non è cosa malvagia, anzi, quale effetto e
riflesso della divina, è cosa buona, anche se è spesso compromessa dal¬
l'orgoglio e dall'egoismo umano. La potenza di Dio, essendo del tutto
indipendente e incondizionata, è creatrice in senso proprio e assoluto.
Produce l'essere e l'agire delle cose (cfr. il trattato sulla Creazione)
senza il minimo sforzo, spossamento, esaurimento o stanchezza. Essa si
rivela specialmente nel fatto che può conferire potenza anche alle cose
create, rendendole cause.
Dall'onnipotenza divina deriva la sua incondizionata sovranità, il suo
diritto di dominio e il suo potere di governo. Siccome Dio non agisce
sulle cose solo esteriormente, ma penetra signoreggiando nel loro stesso
essere intimo, ne deriva che egli lo domina completamente. Il che ap¬
pare particolarmente nel miracolo (cfr. la teologia fondamentale).
Non può essere oggetto della potenza divina il niente, ciò che è in
sè contraddittorio, ciò che è impensabile. La potenza divina incondizio¬
nata riceve da Dio stesso un vincolo, in quanto egli si decide per un
determinato ordine del mondo. Si dice che in tal modo la potestas ab-
soluta diviene una potestas ordinata. La potenza ordinata è quella che
domina e regge l'attuale ordine del mondo stabilito da Dio.
Il fatto che la sua volontà è incondizionata, non ci autorizza a pen¬
sare ad arbitrio da parte di Dio. La potenza divina s'identifica con la
sua verità, sapienza, santità, giustizia e non può quindi operare in disar¬
monia con tali attributi. Dio è potenza e spirito simultaneamente. Mentre
negli uomini queste due cose si diversificano e spesso il potere si oppone
allo spirito e diviene brutalità, mentre lo spirito si intristisce e perde il
suo valore, in Dio invece la potenza è illuminata dallo spirito e lo spirito
è permeato di potenza. Ciò si manifesta nella rivelazione che si svolge
in forma di parola creatrice di storia e di azione piena di spirito (cfr. § i).
Così Dio, per esempio, non può mentire. Tuttavia se in conseguenza
dell'identità tra amore e potenza, santità e potenza, giustizia e potenza,
non può peccare, non per questo viene sminuito nella sua potenza me¬
desima. L'uomo che può mentire, rubare, imbrogliare, non è in virtù di
questo suo « potere » più potente di Dio. Il peccato è piuttosto segno
della debolezza umana, della sua limitatezza e instabilità. L'uomo pecca,
cioè si volge disordinatamente alle creature, perchè, non pago di se
ricerca di qualche altra che renderl
460 P. I. - DIO UNO E TRINO
ricc
stesso, cerca nel finito il compimento della sua natura. Ma non può str
trovarlo finché lo va cercando in modo sbagliato, ossia difforme dal vo¬
lere di Dio e dalla sua essenza propria, stabilita dal volere divino stesso. d'am
Ma se non risentisse la sua insufficienza, non potrebbe cercarlo nemmeno ma
in modo errato. Dio, al contrario, basta a se stesso. Il suo agire non è dell'ide
ricerca di qualche altra cosa che possa renderlo felice, ma solo espres¬
sione del suo amore, della sua verità, santità e gloria. La sua impossibi¬ estername
lità di peccare deriva dalla grandezza e dalla ricchezza del suo essere. appaio
La potenza divina non è istinto cieco, che stritola le creature e contro fac
il cui capriccio l'uomo debba ergersi in una prometeica affermazione d
di sé. Essa si manifesta, invece, in forma d'amore e diviene principio illumi
della nostra fiducia nel Padre, il quale, con mano ferma guida la nostra san
storia al suo fine beato. Infatti in virtù dell'identità tra potenza, santità, nas
amore e giustizia, tutti questi attributi di Dio sono onnipotenti. All'oc¬ debolez
chio umano che guarda le cose solo esternamente e in modo del tutto contenuto
superficiale, l'amore e la giustizia di Dio appaiono assai deboli. Pare che c
ogni uomo vi si possa opporre con grande facilità. Ma, in realtà ogni cre
evento sta al loro servizio ed è adempimento della santità di Dio. Igno¬
riamo come ciò avvenga, ma il credente, illuminato dallo Spirito Santo,
sa che è così. Tuttavia vi sono ore in cui santità, amore e giustizia ri¬ spe
fulgono in tutta la loro potenza sino allora nascosta, mentre ingiustizia, dominio
odio ed empietà appaiono in tutta la debolezza loro propria. Amore, p
santità, verità, sono, in certo senso, il contenuto della vita che Dio nella
sua potenza attua in modo finito mediante la creazione. La potenza si¬ è
gnifica l'intensità con cui Dio manifesta nel creato la sua gloria e perciò
stabilisce il suo dominio. l'abis
sospe
3. - a) Nell'Antico Testamento si parla spesso e con molta energia in
dell'assoluta potenza di Dio e del suo dominio. Essa si manifesta nella sp
creazione, nei giudizi punitivi, nel guidare i popoli e i singoli uomini, acqu
nella natura e nella storia (Gen. 18, 14; Dan. 4, 31; Giob. 34, 10-18; traball
36, 22. 37; 38, 4-12). In Giobbe (26, 5-14) è detto: «Ecco, sotto le
acque stanno gemendo i giganti e coloro che dimorano con essi; nudi
stanno gl'inferi dinanzi a lui, né (per lui) l'abisso ha copertura alcuna:
stendendo egli il settentrione sul vuoto, e sospendendo la terra sul nulla,
accogliendo le acque nelle sue nubi, sì che insieme non precipitino al
basso. Egli ricopre l'aspetto del suo soglio, spargendo sovr'esso la sua
nuvolaglia; cerchiò un limite attorno alle acque, fino al terminar della
luce con la tenebra. Le colonne dei cieli traballano, restano attonite alla
§ 98. LA VOLONTÀ DIVINA COME POTENZA 461
rampogna di lui. Per la sua forza s'adunarono a un tratto i mari, con la
sua intelligenza egli colpì il superbo. Il soffio di lui rese belli i cieli, e
per l'assistenza della sua mano fu estratto il serpente tortuoso. Ecco,
questa non è che una parte delle sue gesta: e, ascoltando noi appena
un debol sussurro del suo discorso, chi potrà reggere al tuono della sua
grandezza? ».
Cfr. inoltre Sai. 33 (32), 6-9; 114 (113); 147 (146), 15-18; 135 (134),
6s.; 115 (114), 3; Ger. 10, 1-16; 33, 14-16; Eccli. 43.
b) Nel Nuovo Testamento la potenza divina si esplica specialmente
nel salvare e nel santificare gli uomini peccatori: Mt. 19, 26; Me. 14,
36; 10, 27; Le. 1, 37; Ef. 3, 20. Convertire un peccatore in un santo
non richiede certo minor potenza che la creazione stessa del mondo
(Me. 2, 1-12). Cristo esercita l'onnipotenza divina nell'opera della re¬
denzione (Mt. 28, 18; Me. 16, 17 s.; Giov. 1, 3). Egli ha ricevuto ogni
suo potere dal Padre: Giov. 5, 19-22.
In Cristo vediamo che la potenza divina si rivela nella storia come
debolezza. Quando Dio volle entrare nelle vicende umane attraverso
Gesù, depose in certo qual modo, alla porta della storia, la sua potenza
(Guardini) e si rivestì della debolezza umana (Fil. 2, 7). In Cristo egli si
rende così debole da poter essere citato in tribunale, giudicato e condan¬
nato dagli uomini. Ma la potenza di Dio non rimarrà sempre nascosta.
Si rivelerà al termine della storia con tale splendore che gli empi sa¬
ranno da essa perennemente respinti, mentre i fedeli per mezzo suo
raggiungeranno il loro ultimo perfezionamento. Allora essa si rivelerà
eternamente quale onnipotenza della verità e dell'amore!
La sovranità di Dio su di noi è espressa, ad esempio, in Giob. 42,
1-6; Rom. 9, 20 s.; 1 Tim. 6, 15.
4. - Se non si restringe la potenza divina al mondo creato, ma si con¬
sidera anche nella sua manifestazione intradivina, si può dire che non
solo è infinita in se stessa, ma che produce pure effetti infiniti. Il Padre
generando il Figlio gli comunica la sua essenza infinita così che il Figlio
la possiede in identità con lui. Lo stesso vale per la processione dello
Spirito Santo. Tuttavia, in senso proprio, si parla di onnipotenza nelle
operazioni divine ad extra.
A conclusione del trattato di Dio Uno e Trino citiamo due voci sorte nella
Chiesa in tempi e ambienti culturali diversi. Agostino dice nell'ultimo (28) ca¬
pitolo dell'ultimo libro (15) del De Trinitate: « Io mi sono attenuto sin dall'inizio
alla regola della fede; partendo da essa ho cercato, così come mi fu possibile, e
dove
462 P. I. - DIO UNO E TRINO a
compim
secondo il potere che tu mi hai concesso, di cercarti; con la ragione mi sono
ingegnato di vedere ciò che io credevo: ho riflettuto molto, molto mi sono af¬ abba
faticato. Signore, Dio mio, mia speranza unica, ascoltami: che non mi stanchi n
mai di cercarti, ma che sempre ricerchi il tuo volto (Sai. 104, 4). Dà forza di le
cercare, tu che ti lasci trovare, e che hai dato speranza di poterti sempre meglio umilm
riconoscere. Dinanzi a te sta la mia forza e la mia debolezza; conserva la prima qu
e cura la seconda! Dinanzi a te sta la mia scienza e la mia ignoranza: dove tu
mi hai aperto prendimi teco e fammi entrare; dove bai chiuso l'accesso apri se
quando io batto. Possa io ricordare te, conoscere te, amare te! Tutto questo ac¬ de
cresci in me fino a che tu mi abbia donato il compimento ». ess
Taulero in una predica su Is. 60, 1 così diceva : « Essi (gli uomini nobili) la¬
sciano che Dio prepari il loro fondo, e tutti si abbandonano a lui, e in ogni ancor
cosa si spogliano di sè, nelle azioni e nei pensieri, nella gioia e nel dolore, e b
tutte le cose accettano umilmente da Dio, e a lui le riconducono, nella nudità di
di se medesimi, in un volenteroso abbandono, e umilmente si piegano al volere ma
divino. Quello che Dio vuole in tutte le cose: di questo si appagano, sia pace mo
o no... Si compiacciono del volere di Dio in tutte le cose, e per questo tutto il
Spaini-Pisanesch
mondo non potrebbe toglier loro la pace: anche se tutti i diavoli e tutti gli
uomini se lo fossero giurato — non riuscirebbero a derubarli della loro pace. Essi
godono soltanto di Dio e di nessun'altra cosa, ed essi sono in verità illuminati,
poiché in ogni cosa Dio riluce nel fondo di essi, con tutta la sua forza e la sua
purezza, proprio nella tenebra più fonda e con ancor maggiore intensità che in
una luce splendente. Ah, che queste creature sono ben degne d'amore, sopran¬
naturali e divine, che niente fanno senza il volere di Dio, e, si potrebbe quasi
dire, in un certo senso non esistono nemmeno, ma è Dio che vive in loro.
Ah, ch'esse sono degne d'amore! Portano tutto il mondo, e sono nobili colonne
del mondo! » (Sermoni a cura di R. Spaini-Pisaneschi, Firenze 1929, 27-28).
PARTE SECONDA
LA REALTÀ EXTRADIVINA
OGGETTO, LUOGO, STRUMENTO
DELL'ATTIVITÀ SALVIFICA
DI DIO
§ 99. Sguardo di sintesi.
-
1. Nella prima parte ci siamo occupati della rivelazione che Dio ha fatto di
se stesso, rivelazione compiutasi in Cristo, custodita e dichiarata dalla Chiesa.
Dio si manifesta a noi in due modi: mediante le sue opere e mediante le sue
parole, e il secondo modo garantisce e chiarisce il primo (cfr. § 28 s.). Nella ri¬
velazione per mezzo delle opere Dio svela la sua gloria in quanto la lascia tra¬
sparire, cioè l'attua in modo finito nelle sue creature. E queste benché siano
solo un'ombra della sua grandezza ed esprimano in certo qual modo solo l'aspetto
esterno di Dio, tuttavia partecipano veramente alla sua gloria. Con la rivela¬
zione per mezzo delle parole Dio ci svela la sua vita intima, e ciò in duplice
senso: ce ne mostra la natura e ce ne garantisce la partecipazione. Tale rive¬
lazione si attua e può solo attuarsi con modi, parole, immagini, concetti e pro¬
cedimenti conoscitivi umani, poiché la parola di Dio, per essere intesa dal¬
l'uomo, deve, in certo qual senso, estrinsecarsi nella debolezza umana; e rag¬
giungere il suo culmine nella incarnazione personale del Verbo divino (Fil. 2, 7).
Dio penetrando nel mondo da lui creato, lo riempie della sua gloria in modo
nuovo e ben diverso da quanto s'era verificato con la semplice creazione degli
esseri (cfr. §§ 114-1x7).
2. - Poiché Dio si manifesta con la rivelazione delle opere e delle parole, noi
veniamo a conoscere chi egli veramente sia; e poiché ciò si compie nelle forme
di questo mondo, riusciamo pure a sapere che cosa è il mondo, e, in modo par¬
ticolare, che cos'è l'uomo. Il mondo e l'uomo sono realtà per mezzo delle quali
la gloria di Dio si esplica in modo finito. La gloria divina che si palesa nella
rivelazione delle opere viene indagata e presentata dalle scienze umane che stu¬
diano la natura e l'uomo (chimica, fìsica, astronomia, botanica, zoologia, antro¬
pologia, linguistica, filosofìa, ecc.). L'uomo lo sappia o non lo sappia, lo voglia
o non lo voglia, tutte queste fatiche sono pur sempre tentativi per ascoltare e
chiarire la voce di Dio che risuona forte nella natura. Perciò si trasformano auto¬
maticamente in testimonianze della gloria divina.
3. -
La storia testifica che lo spirito umano non è ancora pervenuto con le
sue sole forze a capire il segreto ultimo della natura, quello cioè di essere una
rivelazione del Dio vivente, suo Creatore, da essa distinto (cfr. la dottrina del
30 - schmaus - dogmatica I.
cato del mondo. Certo la rivelazione soprannaturale
della
466 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
significato
Concilio Vaticano sulla necessità morale della rivelazione per queste verità, che son
in sè potrebbero anche essere scoperte mediante il semplice uso della ragione: in
§ 30). La scienza umana che con mezzi puramente naturali donati all'uomo da garanz
Dio con la creazione cerca di sondare la natura che Dio ha creato, è semplice
sapere naturale, reso possibile dalla rivelazione per mezzo delle opere. Ma Dio Che
stesso ha manifestato, con la rivelazione per mezzo delle parole il vero signifi¬ uo
cato del mondo. Certo la rivelazione soprannaturale è essenzialmente qualcosa che
di più e di diverso da una semplice spiegazione della natura, in quanto ci dona natu
la partecipazione all'intima vita tripersonale di Dio e ce ne spiega la meraviglia. c
Ma ci manifesta pure in modo decisivo il significato ultimo della natura e del¬ la
l'uomo, e ci dice precisamente che l'uno e l'altra sono chiamati a realizzare uno ambedu
stato in cui la gloria di Dio deve poter risplendere in tutto il suo fulgore; ce ne
indica la via, ci segnala quali pericoli e quali garanzie possiamo trovare su tale
cammino (cfr. § 27: ripartizione della dogmatica). s
cre
4. - Quando la teologia si pone la domanda: Che cos'è l'uomo? che cos'è il d
mondo? intende chiedersi che cosa siano veramente uomo e mondo sotto l'aspetto D
divino, vale a dire agli occhi di Dio, quindi ciò che essi significano secondo la ess
parola di Dio. Quanto egli dice circa l'uomo e la natura obbliga. Non è un ten¬ del
tativo di spiegazione tra tanti altri, ma è risposta che si impone a tutti, non
soltanto perchè Dio conosce meglio di ogni altro la sua opera, ma perchè egli
è il Padrone della natura e dell'uomo, a cui ambedue devono prestar orecchio.
5. -Così dunque, mentre nella prima parte della dogmatica abbiamo esami¬
nato ciò che Dio ha rivelato di se stesso, nella seconda studieremo Dio in
quanto si manifesta partecipando la sua vita alle creature. È un fatto che Dio
esce da se stesso per creare esseri a cui egli possa donare la partecipazione alla
sua vita. Quando consideriamo l'opera creatrice di Dio non dobbiamo dimen¬
ticare neppure un istante che egli ha creato degli esseri da lui distinti, solo per¬
chè potessero partecipare alla gloria e alla felicità della sua vita tripersonale.
SEZIONE I.
DIO CREATORE
-
1. La teologia risponde al problema che riguarda il mondo e l'uomo, spie¬
gandocene la storia e l'origine, ossia la loro derivazione da Dio. Parla del mondo
e dell'uomo in quanto parla del Dio vivente che li crea, che si piega su di loro,
più precisamente sul nulla e, nel suo grande amore, li chiama all'esistenza. La
teologia non cerca tanto di definire l'essenza delle cose (il che appartiene alla
scienza naturale), quanto piuttosto quale sia il destino delle cose e dell'uomo,
donde vengono e verso che meta tendono. Essa è la spiegazione della rivela¬
zione, la quale è stata fatta unicamente per la nostra salvezza e perciò è essen¬
zialmente scienza della salvezza. La determinazione dell'essenza delle cose inte¬
ressa la teologia solo in quanto è inscindibilmente connessa con la salvezza me¬
desima (ad esempio l'immortalità e la spiritualità dell'anima umana).
2. - La teologia dunque risponde anche alla questione circa la natura del
mondo e dell'uomo, in quanto espone la rivelazione circa l'origine di tutte le
cose da Dio. La materia si può giustamente disporre come segue: primo, realtà
dell'atto creativo di Dio; secondo il suo effetto, ossia le cose create. Circa
l'atto creativo occorre osservare che esso non è un fatto che, avveratosi un
giorno imprecisabile, già da tempo appartiene alla sfera del passato, bensì un
evento che permane di continuo. Inoltre, poiché Dio ha voluto che le cose par¬
tecipassero non solo esternamente alla sua vita, ma anche all'intimità della sua
ricchezza tripersonale, è necessario determinare con cura la differenza tra i due
modi essenziali di essere: naturale e soprannaturale. Per quanto poi concerne
le cose create occorre prima ripartirle secondo il grado del loro valore; poi ve¬
dere come partecipino alla vita intima di Dio e, infine, come tale partecipazione
sia messa in pericolo o addirittura persa.
L'AZIONE CREATRICE D
468 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
PE
EXTRADI
CAPITOLO I.
L'AZIONE CREATRICE DI DIO
SPIEGAZI
lib
ART. I. - DIO, PRINCIPIO PERSONALE
DELLA REALTA' EXTRADIVINA
re
filosof
§ 100. La creazione del mondo. cultura
s
I. - DOGMA E SUA SPIEGAZIONE. nell'esistenza.
int
Dio ha creato il mondo dal nulla, per libero decreto d'amore. È cu
dogma di fede. Qua
1. - Ciò significa che il mondo non è una realtà indipendente, neces¬ vo
saria, spiegabile da sè (natura nel senso filosofico), nè che sia semplice è
palcoscenico o materiale delle creazioni culturali, ma che esso fu cau¬ d
sato da Dio senza alcun presupposto, in tutti i suoi elementi e sotto ogni assolu
aspetto, tanto nell'essenza quanto nell'esistenza. L'espressione « dal nul¬
la », che può facilmente prestarsi a errate interpretazioni, non indica co
che il nulla sia stato la materia primordiale da cui Dio ha tratto il mondo, sem
ma l'assenza di qualsiasi causa extradivina. Quando non esisteva ancora u
nulla il mondo incominciò ad essere nell'ora voluta da Dio, sicché tanto sublime
nella sua essenza, quanto nella sua esistenza, è da attribuirsi esclusiva¬ pa
mente alla onnipotenza della volontà amorosa di Dio.
La creazione del mondo è creazione assoluta, alla quale nulla può c
fare riscontro. Noi parliamo di creazione anche nel campo umano, scien¬ ciò
tifico, artistico, in cui diciamo di creare toni, colori, forme, tuttavia per¬
sino nelle azioni creatrici più eccelse vi è sempre qualcosa che non è
prodotto dal genio ma che già esiste e viene usato come mezzo espres¬
sivo. La potenza creatrice umana più sublime dipende sempre da tali
presupposti, anche se si riducano « solo » alla parola, alla lingua, alla me¬
lodia. Eliminando dall'azione creatrice di Dio tutti questi presupposti,
riusciamo a farcene un'idea analogica. Il suo creare non è lotta con la
materia, non significa dare forma e figura a ciò che ne è privo, non è
§ 100. LA CREAZIONE DEL MONDO 469
soggiogare il caos, ma un libero e sovrano porre nell'esistenza. Dio
chiama le cose dal nulla (occorre anche qui far bene attenzione di non
intendere il termine analogico « nulla » per spazio vuoto in cui Dio
adduce qualche cosa; noi non possiamo parlare che analogicamente del
Dio vivente) e le cose obbedienti alla sua chiamata rispondono facendosi
avanti.
Inoltre non si deve pensare che l'azione creatrice di Dio sia un freddo
e meccanico causare 0 produrre; è assai più: Dio per amore chiama
all'esistenza le cose, e queste gli rispondono andando incontro al suo
amore. In tal modo la creazione si diversifica da ogni qualsiasi altra
causalità. Iconcetti di causa e di azione si possono riferire a Dio, nei
suoi rapporti con il mondo, soltanto in modo analogico. Dio è causa del
mondo in maniera simile a quella con cui ima cosa è causa di un'altra;
ma la dissimiglianza che sussiste tra la « causalità » divina e ogni altra
riscontrabile nel campo creato è assai maggiore della somiglianza. Chi
trascura tale differenza giunge a false concezioni del processo creativo,
il quale è così grandioso da essere per noi profondo e impenetrabile
mistero. È il mistero di Dio che agisce, vuole e ama! (cfr. § 36).
2. - La creazione, nel senso stretto della parola, riguarda solo la pro¬
duzione dei primi elementi del mondo (creazione prima); però anche il
loro successivo sviluppo sotto l'influsso divino si può chiamare in senso
lato creazione (creazione seconda: ornamento, compimento).
3. - La creazione non è un'azione di Dio che sgorghi dall'intimo della
sua essenza e sia distinta da essa. È piuttosto la stessa essenza divina nella
sua relazione causale con le cose extradivine. Alla relazione di sola ra¬
gione (§ 49) da parte di Dio verso le cose, corrisponde la relazione reale
delle cose verso Dio. Dio e Creatore, a causa di questa relazione pog¬
giata sull'amore e sussistente nell'amore, sono uniti intimamente come
da un legame intrinseco.
II. - INTERVENTI DEL MAGISTERO.
1. - Il magistero della Chiesa attesta e garantisce contro ogni dottrina
pagana, che riguarda la formazione del mondo, il fatto della creazione
che la rivelazione soprannaturale ci ha comunicato. Dalla frequenza con
cui tale magistero è intervenuto si deduce quanto sia difficile allo spirito
umano accogliere in modo vivente questo fatto fondamentale per la retta
simile dedizione verso il creatore: ovunque Dio
panteismo)
470 p. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
(d
intelligenza del mondo e dell'uomo. Nelle professioni di fede la dedi¬
zione di sè al Creatore appare quale disposizione fondamentale di chi Par
prega. Le parole « Credo in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo p
e della terra » rivelano l'intrinseca diversità strutturale tra la fede religiosa spiegab
cristiana e la non cristiana. In nessuna religione pagana si rinviene ima pi
simile dedizione verso il creatore: ovunque Dio viene in qualche modo mo
identificato con il mondo (monismo, panteismo) oppure vi è tenuto così D
lontano da rendergli impossibile il penetrarvi (dualismo ontologico). d
Sembra che di continuo lo spirito umano si trovi nel pericolo di ri¬
cadere in uno di questi due errori opposti. Particolarmente dall'umane¬ respi
simo in poi si è sviluppato, in modo sempre più forte, la convinzione qu
che il mondo sia un dato indipendente, spiegabile da sè, senza riferirsi condanna
direzio
a qualcos'altro, e che quindi non sia neppure più il caso di porci il pro¬
Origenist
blema della sua origine. Dinanzi a un tale modo di pensare la Chiesa te
ha proclamato la lontananza e la vicinanza di Dio, la sua imminenza nel
creato e la sua necessaria trascendenza, vale a dire l'unico Dio, il Padre
onnipotente, creatore e signore di tutte le cose, visibili e invisibili.
fatto
2. - Il magistero della Chiesa ha soprattutto respinto il dualismo ontologico, il
che rinasce ognora sotto svariate forme, secondo il quale esisterebbero due prin¬ sistema
cipi: uno buono e l'altro cattivo. Così ha condannato, nel Concilio provinciale sv
di Costantinopoli tenutosi l'anno 543 sotto la direzione del Patriarca Menna, e
forse approvato anche da papa Vigilio, gli Origemsti. Essi, credendo di aderire p
alla dottrina di Origene, avevano creato un sistema teologico-filosofìco nutrito di corp
pensieri platonici e stoici, secondo il quale l'universo si sarebbe sviluppato grazie eb
a principi intrinseci senza che perciò rimanesse alcun posto per una libera azione
creatrice di Dio. Decisiva la proposizione seguente : « Chi afferma o crede che buono
la potenza di Dio sia limitata o che egli abbia fatto solo ciò che potè capire,
sia scomunicato » (Denz. 210). Poco dopo (a. 561) il Sinodo di Bracara (Braga)
nel Portogallo condannava il priscillianesimo, sistema che risaliva a Priscilliano, s
ma che solo dopo la sua morte (a. 385) si era sviluppato sia con tendenze origine
manicheo-gnostiche, sia con principi origenistici che gli servirono forse in molti as
punti per base. Secondo tale sistema il diavolo è il principio della materia e del alcuna
male. L'anima, di natura divina, preesiste nel corpo e viene unita a esso in
scomunicato...
punizione di una sua colpa anteriore. Tali errori ebbero l'importante funzione
di stimolare la Chiesa a dare la giusta valutazione del mondo e del corpo umano,
asserendo con forza che tutto quanto esiste è buono, poiché di origine divina.
In tal modo ogni forma di dualismo ontologico viene respinta come anticristiana.
Eccone i decreti principali : « Chi crede, secondo la dottrina priscilliana o ma¬
nichea, che gli angeli e le anime sono tratte dalla sostanza divina, sia scomu¬
nicato... Chi nega che il diavolo sia stato in origine un angelo buono, creato
da Dio, e che la sua natura sia opera di Dio, ma asserisce, come i manichei e
i priscilliani, che è uscito dalle tenebre senza alcuna creazione e che è anzi il
principio e la sostanza del male, sia scomunicato... Chiunque afferma che il
§ 100. LA CREAZIONE DEL MONDO 47x
diavolo ha creato alcunché del mondo, e che di propria mano invia tuoni, lampi,
tempeste, siccità, come insegna Priscilliano, sia scomunicato... Chiunque afferma
che il corpo umano è opera del diavolo e che la gestazione nel seno materno è
opera di cattivi spiriti, e non crede perciò alla resurrezione del corpo, come
insegna la dottrina manichea e priscilliana, sia scomunicato... Chiunque asserisce
che la creazione della carne non è opera di Dio, bensì dell'angelo cattivo come
insegna la dottrina priscilliana, sia scomunicato » (Denz. 235, 237, 238, 242, 243).
Quando nel medio evo gli Albigesi rinnovarono, a partire dal 1180, gli antichi
errori manichei, anche il paganesimo soffocato tornò a galla. Papa Innocenzo III
nel 1208 condannava la nuova eresia, la quale asseriva che la materia è stata
creata dal nulla da Satana, che Cristo ha solo un corpo apparente ma non reale,
che occorre astenersi dalle carni. La condanna colpì pure i movimenti impa¬
rentati dei Catari e Valdesi, i quali, partendo da un'aspra opposizione alla po¬
tenza esteriore e alla mondanizzazione della Chiesa, erano giunti al disprezzo ere¬
ticale del corpo e della materia. Perciò nella professione di fede, che Innocenzo III
pretendeva da loro, per riaccettarli nella Chiesa, dovevano tra l'altro sottoscri¬
vere quanto segue : « Noi crediamo di cuore e professiamo con la bocca che
l'unico Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, è creatore, fattore, governatore e ordi¬
natore di tutte le cose sia corporee, che spirituali, sia visibili che invisibili. Con¬
fessiamo che l'Antico e il Nuovo Testamento hanno un unico e identico autore:
Dio, che, permanendo nella sua vita tripersonale, tutto ha creato dal nulla »
(Denz. 421).
3. - Il IV Concilio Lateranense stabilisce la verità rivelata per con¬
trobattere gli Albigesi e i Valdesi, i quali opponevano al Dio della luce
il dio delle tenebre, autore della materia e del male. « Unico è il prin¬
cipio di tutto, Creatore di tutte le realtà visibili e invisibili, spirituali e
corporali; il quale per sua virtù onnipotente, al principio del tempo creò
l'una e l'altra creatura, la spirituale e la corporale, cioè l'angelica e la
terrestre e poi l'umana, commista per così dire di spirito e di corpo »
(Denz. 428). Similmente si esprime il Concilio di Lione (Denz. 461).
Il Concilio di Firenze nel suo Decreto per i Giacobiti (bolla Cantate
Domino del 2 febbraio 1442; Denz. 706) dichiara: «La Chiesa fermis¬
simamente proclama che l'unico vero Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo,
è creatore di ogni cosa, sia visibile che invisibile. Quando lo volle egli
nella sua bontà ha tratto all'esistenza tutte le creature, tanto spirituali
che materiali. Esse sono buone, perchè create dal sommo bene, ma sono
però mutabili in quanto tratte dal nulla. La Chiesa insegna che il male
non ha alcuna natura, poiché ogni natura, in quanto natura, è buona ».
4. - L'ultimo e decisivo intervento della Chiesa si ebbe nella terza
sessione del Concilio Vaticano (anno 1870). Qui, in opposizione al ma¬
terialismo e al panteismo del xix secolo, essa dichiara : « L'unico vero
cost
suonan
472 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
Dio per sua bontà e onnipotente virtù, non per accrescere la propria bea¬ asse
titudine nè per acquistare, ma per manifestare la sua perfezione me¬ a
diante i beni che comunica alle creature, con liberissimo consiglio all'ini¬
zio del tempo e in ugual maniera fece dal nulla l'una e l'altra creatura, corporee
la spirituale e la corporale ossia l'angelica e la terrestre, e poi l'umana, divina
che in un certo modo abbraccia entrambe costituita com'è di spirito e di divien
corpo» (Denz. 1783). Irelativi canoni suonano così: «Chiunque nega determ
che l'unico vero Dio è creatore e Signore delle cose visibili e invisibili sia
t
scomunicato. Chiunque non si vergogna di asserire che al di là della ma¬
teria nulla esiste, sia scomunicato. Chiunque afferma che Dio e tutte le d
cose hanno un'unica e identica sostanza 0 essenza, sia scomunicato.
Chiunque dice che le cose finite, sia corporee che spirituali, o almeno
le spirituali sono emanate dalla sostanza divina; o che la divina essenza,
con la sua manifestazione 0 evoluzione, diviene ogni cosa, o, infine, 1801-1805).
che
Dio è l'ente universale e indefinito, che determinandosi costituisce l'uni¬
versalità delle cose distinte in genere, specie e individui, sia scomuni¬
cato. Chiunque non ammette che il mondo e tutte le cose in esso conte¬ S
nute, sia spirituali, sia materiali, sono state da Dio prodotte dal nulla
secondo tutta la loro sostanza; 0 dice che Dio ha creato necessariamente dottr
tutte le cose, come necessariamente ama se stesso, e non con volontà v
libera da ogni necessità, 0 nega che il mondo è stato creato per la gloria
di Dio, sia scomunicato » (Denz. 1801-1805).
di
III. - TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA.
amma
La Sacra Scrittura non presenta una dottrina astratta circa l'origine
del mondo. Essa indica piuttosto in modo vivo e concreto che tutto
quanto esiste proviene da Dio e sussiste per mezzo suo. Il mondo nonosserva
è sempre esistito, nè fu gettato nell'esistenza da un oscuro destino, ma t
fu invece realizzato dal volere onnipotente di Dio.
1. - L'Antico Testamento parla dell'origine del mondo non tanto per
istruirci su di esso, quanto soprattutto per ammaestrarci intorno a Dio. Gli
autori sacri quando affermano che il mondo è fattura di Dio, sono mossi
da duplice intento: mostrare la superiorità del vero Dio vivente su
tutti gli dèi pagani e svelare l'inizio dell'agire divino nella storia.
Per capire questa cosa è necessario osservare quanto segue. Quando
Mosè ebbe incarico da Dio di condurre le tribù d'Israele dalla schia-
§ 100. LA CREAZIONE DEL MONDO 473
vitù egiziana alla terra promessa di Canaan, tanto il Condottiero quanto
il popolo da lui guidato dovevano avere una fiducia illimitata in Dio
che interviene nella storia, fiducia capace di superare tutti i pericoli, a
cui sarebbero andati incontro nel corso dei secoli. Infatti di continuo
poteva sorgere la domanda: chi è questo Dio che penetra così profon¬
damente nella nostra vita? Possiamo affidarci a lui? Il quesito era tanto
naturale quanto più il popolo eletto si vedeva attorniato da nazioni che
lo avevano già minacciato e vinto. Secondo la concezione religiosa del
tempo, ciò poteva lasciar dubitare che gli dèi degli altri popoli fossero
più potenti del Dio d'Israele. Di fronte a tale esperienza, che sembrava
mettere Jahvè in una situazione d'inferiorità rispetto agli dèi stranieri,
era necessario, di continuo, tener desta e rinfrancare la fiducia del vero
Dio vivente.
In questo senso nel primo libro di Mosè, la Genesi, si asserisce che
Dio non solo non è più debole degli dèi stranieri, ma che anzi è in¬
comparabilmente più eccelso (Elohim!). Egli è il Signore del cielo e
della terra, poiché ha creato e cielo e terra. Gli altri dèi sono nulla
(Is. 44, 24). Egli invece ha chiamato all'esistenza l'universo e il primo
uomo e con ciò ha dato principio a quella storia che sotto la sua guida
ha raggiunto la fase in cui ora si trovano le tribù d'Israele liberate dal¬
l'Egitto. L'Iddio in cui Israele ha posto la sua fiducia intraprendendo
la peregrinazione del deserto è il creatore del mondo, colui che ha for¬
mato il primo uomo e che ha prescelto Abramo, colui che ha diretto i
padri Isacco e Giacobbe: è il Signore (Jahvè) reggitore di tutto e fe¬
dele. Gli dèi pagani, dinanzi a lui, sono semplici fatture dell'uomo.
In tal modo la testimonianza veterotestamentaria che riguarda l'atti¬
vità creatrice di Dio diviene rivelazione della sua signorìa. Questa pog¬
gia sull'atto creativo di Dio, e si svolge mediante l'azione con cui egli
dirige la storia. La creazione appare quindi come un elemento di questa
signoria, ossia come inizio della storia, la quale include due sfere, l'una
esteriore e l'altra interiore. La prima comprende l'intera storia dell'u¬
manità, la seconda l'epopea salvifica, che si realizza entro la storia uni¬
versale. La testimonianza dell'attività creatrice di Dio, oltre a semplice
rivelazione è pure strumento della signorìa di Dio. Costituisce infatti
un richiamo per l'uomo, affinchè non aspetti redenzione e salvezza dal
suo ingegno 0 dalla sua forza personale, di cui piuttosto deve sentire
i limiti, e affinchè non si ponga al servizio degli dèi stranieri seguendone
il culto seducente, ma si sottometta, con illimitata fiducia, alla guida del
vero Dio.
Disse ancora Dio : " Si faccia il firmamento in m
le
474 P- n- " LA REALTÀ extradivina e l'attività salvifica di dio ciel
a) Ecco il principale testo veterotestamentario su Dio creatore (Gen.i, 1-2, 3): a
« In principio, creò Dio il cielo e la terra. La terra però era informe e vuota,
e sulla faccia dell'abisso eran tenebre, e lo spirito di Dio si librava sulle acque. buon
Disse Dio : " Si faccia la luce E la luce fu. Vide Dio che la luce era buona,
e la divise dalle tenebre. E chiamò giorno la luce, e notte le tenebre. E tra sera pro
e mattina si compì un giorno. c
Disse ancora Dio : " Si faccia il firmamento in mezzo alle acque, e divida ciascun
acque da acque Fece Dio il firmamento, e divise le acque sotto il firmamento
da quelle che erano sopra. Così fu. Dio chiamò cielo il firmamento. E tra sera
e mattina si compì il secondo giorno. firma
Disse poi Dio : " Si radunino in un solo luogo le acque che sono sotto il cielo, g
ed apparisca l'asciutto E così fu. E Dio chiamò terra l'asciutto, e mari la ter
riunione delle acque. E vide Dio che era cosa buona. E disse : " La terra ger¬ ch
mogli erba verdeggiante che faccia il seme, ed alberi fruttiferi che facciano frutti le
secondo il loro genere, ed abbiano in se stessi il proprio seme sopra la terra ". presiede
Così fu fatto. E la terra produsse erba verdeggiante che facesse il seme secondo
il genere suo, ed alberi facenti frutto, aventi ciascuno il seme secondo la pro¬
pria specie. E vide Dio che era cosa buona. E tra sera e mattina si compì il anima
giorno terzo.
Disse poi Dio : " Si facciano dei luminari nel firmamento celeste, e dividano il ac
giorno dalla notte, e contrassegnino le stagioni, e i giorni e gli anni, sicché ri¬ ch
splendano nel firmamento celeste, ed illumino la terra ". Così fu fatto. E fece pop
Dio due luminari grandi: il luminare più grande, che presiedesse al giorno, e il
luminare più piccolo, che presiedesse alla notte; e le stelle. E le pose nel firma¬
mento celeste, perchè lucessero sopra la terra, presiedessero al giorno e alla notte, viven
e dividessero la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona. E tra sera C
e mattina si compì il quarto giorno.
Disse ancora Dio : " Producano le acque vivi animali striscianti, e volanti sopra
la terra, sotto il firmamento celeste E creò Dio i grandi mostri marini, ed e
ogni animale vivente e moventesi, prodotto dalle acque secondo la sua specie,
ed ogni volatile secondo il suo genere. Vide Dio che era una buona cosa e li
benedisse dicendo : " Crescete e moltiplicatevi, e popolate le acque del mare, e
si moltiplichino gli uccelli sopra la terra E tra sera e mattina si compì il
giorno quinto.
Disse pure Dio : " Produca la terra animali viventi nel loro genere, giumenti
e rettili e bestie terrestri secondo la loro specie ". Così fu. E fece Dio gli ani¬ moltipl
mali terrestri secondo le loro specie, ed i giumenti e tutti i rettili terrestri nel
loro genere. E vide Dio che era cosa buona.
E disse : " Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza; e presieda ai
pesci del mare ed ai volatili del cielo ed alle bestie di tutta la terra, e ad ogni
rettile che in terra si muove ".
E creò Iddio l'uomo ad immagine sua;
ad immagine di Dio lo creò;
maschio e femmina li creò.
E li benedisse Dio, dicendo : " Crescete e moltiplicatevi, e popolate la terra,
ed assoggettatevela, e signoreggiate i pesci del mare e i volatili del cielo, e tutti
§ 100. LA CREAZIONE DEL MONDO 475
gli animali che si muovono sulla terra Poi disse : " Ecco, io v'ho dato ogni
erba che fa il seme sopra la terra, e tutti gli alberi che producono in se mede¬
simi i semi del loro genere, acciò vi servano di cibo; ed a tutti gli animali della
terra, e ad ogni volatile dell'aria, e a tutti quelli che si muovono sulla terra e
ne' quali è un'anima vivente (li ho dati) affinchè abbiano da cibarsi E vide
Dio tutte le opere sue, ed erano grandemente buone. E tra sera e mattina si
compì il giorno sesto.
Così furono compiuti i cieli e la terra, ed ogni loro ornamento. E finì Dio al
settimo giorno l'opera da lui creata; e si riposò nel settimo giorno da tutto il
lavoro che aveva fatto. E benedisse il giorno settimo, e lo consacrò, perchè in
esso aveva Dio cessato da ogni opera che aveva creata e fatta ».
Il passo citato nulla conosce delle cosmogonie e teogonie pagane, e perciò
si distingue essenzialmente da tutte le altre narrazioni sulla creazione d'intona¬
zione mitica. In esso ogni realtà cosmica è riferita a Dio : cielo e terra, luce e
tenebre, mari e continenti, piante e animali, uccelli e pesci, sole e luna e stelle.
Con ciò l'agiografo designa l'universo con tutti gli elementi che egli conosce
secondo l'esperienza del tempo. Essi costituiscono infatti i fattori essenziali del
cosmo. Per loro mezzo il mondo rivela la propria grandezza, tant'è vero che
i popoli hanno divinizzato alcuni di questi elementi.
Dinanzi a tale divinizzazione delle cose Mosè afferma che anche le più gran¬
diose, come il sole, le stelle, non sono affatto dèi, bensì solo fattura del vero
Dio, il quale è più possente dello stesso potentissimo sole, più forte del temi¬
bile mare. Egli ha chiamato tutte queste cose all'esistenza con una volontà che
le trascende, con una facilità piena di naturalezza che ignora ogni fatica. Quando
la Scrittura parla di « cielo e di terra » intende indicare con ciò l'universo intero.
b) A un'altra svolta decisiva della storia veterotestamentaria della salvezza
appare il profeta Elia. Il regno settentrionale di Israele era seriamente minac¬
ciato dal culto di Baal che dominava negli stati finitimi della Siria e di Da¬
masco. Gli altari del vero Dio crollavano, mentre le processioni in onore della
divinità straniera, con il suo culto della fertilità, erano assai più solenni e fa¬
stose di quelle in onore del vero Dio. Il re Achab « prese per moglie Jezabel,
figlia di Etbaal re dei Sidoni, e andò a servire Baal adorandolo. Eresse infatti
a Baal un altare nel tempio di Baal che gli aveva edificato in Samaria. Achab
fece pure un'asera. E Achab più di tutti i re d'Israele che furono prima di lui,
continuò ad agire in modo da irritare il Signore, Dio di Israele » (i Re 16, 31-33).
Allora apparve il profeta Elia suscitato da Dio, e proclamò il giudizio punitivo
divino : « Viva il Signore, Dio di Israele al cui servizio io sto : in questi anni
non cadrà nè rugiada nè pioggia, se non quando lo dirò io » (1 Re 17, 1). La
siccità provocò carestia e morte nella regione. Nel terzo anno della carestia Elia
pretese dal popolo una decisione : « Avvicinatosi a tutto il popolo disse : " Fino
a quando starete a barcollare tra due contrari? Se il Signore è Dio seguitelo,
ma se lo è Baal andategli dietro ". E il popolo non gli seppe rispondere nulla.
Ed Elia riprese a dire al popolo : " Io solo sono rimasto dei profeti del Signore,
mentre i profeti di Baal sono quattrocentocinquanta; orbene dateci due gio¬
venchi, e questi si scelgano per loro un giovenco, lo facciano a pezzi e lo pon¬
gano sulla legna, senza però appiccarvi il fuoco. Voi invocherete il nome del
vostro dio, mentre io invocherò il nome del Signore. Quel Dio che darà ascolto
476 p. II. - la realtà extradivina e l'attività salvifica di dio o
voc
per mezzo del fuoco, sia lui Dio E tutto il popolo così rispose: " Ben detto! sino
Ed Elia disse ai profeti di Baal : " Sceglietevi un giovenco e siate voi, perchè
numerosi, i primi ad agire. Invocate il nome del vostro dio, ma non appiccate o
il fuoco Ed essi presero il giovenco (ch'egli aveva dato loro), lo prepararono
e poi invocarono il nome di Baal dal mattino sino a mezzogiorno dicendo: "Accostatevi!
" Baal, rispondici! Ma non veniva alcuna voce nè risposta alcuna. Ed essi
danzavano piegando il ginocchio davanti all'altare che avevano costruito. A mez¬ t
zogiorno Elia incominciò a burlarsi di loro dicendo : " Gridate più forte, poiché no
egli è certo l'iddio! Ma forse è occupato o ha da fare o è in viaggio: forse dorme
e si sveglierà! ". Ed essi si misero a gridare con voce più forte e a farsi inci¬ la
sioni, secondo il loro costume, con spade e lance sino a sprizzar sangue. Passato q
che fu mezzogiorno essi continuarono a smaniare fino al tempo in cui si doveva Soggiuns
offrire l'oblazione. Non venne tuttavia alcuna voce o risposta alcuna, nè vi fu con
chi desse retta. l'acq
Allora Elia disse a tutto il popolo: "Accostatevi!". E tutto il popolo gli si
avvicinò. Egli poi rimise in piedi l'altare del Signore ch'era stato demolito. Elial'oblazione
infatti prese dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei figli di Giacobbe Isac
al quale il Signore aveva parlato dicendo : " Il tuo nome sarà Israele "j e con le serv
pietre eresse un altare al nome, del Signore, e fece intorno all'altare un fosso e
misurante circa due sea di frumento; accatastò poi la legna, fece a pezzi il gio¬
venco e lo pose sopra la legna. E disse : " Empite quattro brocche di acqua e l'o
versatela sopra la vittima e sopra la legna ". Soggiunse poi : " Fate ciò una se¬ T
conda volta!" e lo fecero una seconda volta. E continuò: "Ancora una terza esclama
volta! ". E lo fecero per la terza volta, così che l'acqua scorreva attorno all'al¬"Pigliate
tare. Persino il fossato egli riempì d'acqua.
Giunto il tempo in cui si doveva offrire l'oblazione vespertina, il profeta Elia
s'avvicinò e disse : " Signore, Dio d'Abramo, di Isacco e di Israele, manifesta po
oggi in Israele che tu sei Dio, che io sono tuo servo, e che per tuo comando p
ho compiuto queste cose. Esaudiscimi, o Signore, esaudiscimi affinchè questo mes
popolo comprenda che tu, o Signore, sei Dio e che sei tu a convertire il loro
cuore ". E cadde il fuoco del Signore che consumò l'olocausto, la legna, le pietre
e la polvere, e prosciugò l'acqua ch'era nel fossato. Tutto il popolo, avendo ve¬
duto questo, si prostrò con la faccia per terra esclamando: "È Jahvè che è Dio! dal
È Jahvè che è Dio!". Ed Elia disse loro: "Pigliate i profeti di Baal, non ne cond
scampi neppur uno! ". Quelli li presero ed Elia li trascinò al torrente Cison, ec
dove li sgozzò. dirotta
Poi Elia disse ad Achab : " Risali, mangia e bevi poiché già si ode lo scroscio E
d'abbondante pioggia ". Achab risalì per mangiare e per bere, mentre Elia, rag¬
giunta la cima del Carmelo, si gettò per terra, e messasi la faccia tra le ginoc¬
chia, disse al suo servo: "Va' a guardare dalla parte del mare". E quello, dopo
essere andato a guardare, disse : " Non c'è nulla ". Ed Elia disse : " Ritornaci
sette volte!". Ed il servo vi ritornò sette volte, e la settima disse: "Ecco, una
piccola nuvoletta, pari al palmo d'una mano, sale dal mare ". Disse allora Elia :
" Orsù, di' ad Achab : ' Attacca i cavalli e fatti condurre giù perchè la pioggia
torrenziale non ti sorprenda ' ". Ed in un baleno ecco che il cielo s'oscurò di
nubi, si scatenò il vento e cadde una pioggia dirotta. Achab salito sul carro se
ne andò a Jezrael. E la mano del Signore fu sopra Elia, che strettosi i fianchi,
§ 100. LA CREAZIONE DEL MONDO 477
corse dinanzi ad Achab fino all'ingresso di Jezrael » (i Re 18, 21-46). Qui Dio
si palesa come il Padrone della natura, di cui dispone secondo la sua volontà
e la fa servire al suo piano salvifico.
c) Simili testimonianze le ritroviamo pure negli scritti profetici. Iprofeti
avevano il compito di ricondurre il popolo, caduto in errore, al vero Dio vi¬
vente. Tale mansione include la perdita di ogni fiducia negli idoli e la procla¬
mazione della trascendente potenza del vero Dio. Verso il 760 a. C. il profeta
Amos, oriundo dal regno meridionale, così ammonisce il popolo del regno set¬
tentrionale dedito al culto sensuale di Baal e di Astarte : « Colui che fece le
Pleiadi e Orione, e cambia in chiarezza mattutina il buio, e fa oscurare il giorno
in notte; raduna le acque del mare, e le spande sulla superficie della terra; si
chiama Signore » (Am. 5, 8). Mentre gli dèi sono connessi con il divenire del
mondo, il Dio di Israele è al di sopra delle stelle, trascende il ritmo del giorno
e della notte, supera il limite marcato tra acqua e terra. Egli non è limitato da
confini terreni. Penetra tanto il cielo quanto l'abisso più profondo della terra.
Niuno e nulla gli si può sottrarre. « Poiché ecco : colui che forma le montagne
e crea il vento, e mostra all'uomo qual è il suo pensiero; fa l'aurora e le tenebre,
e cammina sulla sommità della terra; Signore, Dio degli eserciti è il suo nome »
(Am. 4, 13). È Adonai il Signore degli eserciti colui che tocca la terra, sì che
essa si fonde e si rattristano tutti quelli che vi abitano, e si solleva come il Nilo
tutta quanta e si riabbassa come il fiume d'Egitto che costruisce nei cieli il suo
soglio e la sua volta sulla terra bassa, che raccoglie le acque del mare e le versa
sulla faccia della terra : Jahvè è il suo nome » (Am. 9, 5-6). Che sono dinanzi
a lui' gli dèi? « Ascoltate la parola che il Signore vi rivolge, o casa di Israele.
Così dice il Signore: La condotta delle genti non imparate e non abbiate paura
dei segni del cielo, chè le genti hanno di essi paura. Poiché lo Spavento dei
popoli è un nulla, non è altro che un legno tagliato nel bosco, opera delle mani
di uno che lavora con l'ascia. Di argento e di oro lo si adorna, con chiodi e con
martelli si assicura, affinchè non si muova. Gli idoli sono come uno spauracchio
in un cocomeraio, non possono parlare. Bisogna portarli perchè non camminano.
Non temeteli, perchè non possono nuocere, come non è in loro potere fare il
bene.
Non sono come te, o Signore, tu sei grande e grande è il tuo nome nella sua
potenza. Chi non ti temerà, Re delle nazioni? perchè tua è la gloria, e tu sei
degno di rispetto fra tutti i sapienti delle nazioni, ed in tutti i loro regni non
vi è uno simile a te.
Ma costoro tutti insieme sono stupidi e sciocchi; dottrina vana la loro: si
tratta di un legno. Argento battuto e laminato, portato da Tarsis, ed oro di
Ofir, opera di artefice e di mano di orefice, di porpora e di scarlatto è la loro
veste, sono tutti lavoro di abili artefici.
Il Signore, invece, è il vero Dio, egli è Dio della vita e re eterno; al suo
sdegno trema la terra, i popoli non resistono al suo furore. Così direte loro:
" Idèi che non hanno fatto il cielo e la terra scompariranno dalla terra e di
sotto il cielo ".
Egli ha formato la terra con la sua potenza, ha fissato il mondo con la sua
sapienza, con la sua intelligenza ha disteso i cieli. Al rombo della sua voce ru¬
moreggiano le acque nel cielo. Egli fa ascendere le nubi dall'estremità della terra,
Nella seconda parte di Isaia, nel cosiddetto deut
Prepar
478 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO ch
cavo
egli produce folgori per la pioggia e manda fuori il vento dai suoi ripostigli. so
Rimane inebetito ogni uomo senza comprendere; resta confuso ogni orafo pei
le sue statuette, perchè è menzogna quello che egli ha fuso senza soffio vitale. c
Esse sono vanità, opere ridicole; al tempo del loro castigo periranno. A loro non istru
somiglia la Porzione di Giacobbe chè egli ha formato ogni cosa. Israele è la mostrata
tribù della sua eredità, Signore degli eserciti è il suo nome! » (Ger. io, 1-16). sec
Nella seconda parte di Isaia, nel cosiddetto deutero-Isaia, Dio promette algranellini
popolo oppresso la libertà e il ritorno in patria. Prepara egli stesso ogni cosa ser¬ anim
vendosi dei re terreni che sono al suo servizio e che domina, poiché egli è il l
Signore della terra. « Chi è che ha misurato nel cavo della mano le acque, e ha nie
calcolato colla spanna la distesa dei cieli? Chi è che sostiene con tré dita la mole quale
della terra! che pesò sulla bilancia i monti, e i colli sulla stadera? Chi ha pre¬ l
stato aiuto allo spirito del Signore; e chi gli ha dato consiglio e gli ha insegnato? L'art
Con chi si è egli consultato, e chi è che l'abbia istruito e gli abbia indicata la me
via della giustizia, e insegnata la scienza, e mostrata la strada della prudenza? inten
Ecco che le nazioni sono come le gocce d'una secchia e contano quanto un
pulviscolo nelle bilance; le isole sono come granellini di polvere. Il Libano non abitatori
offrirebbe sufficiente legna pel fuoco, e i suoi animali non basterebbero per co
fargli un degno olocausto. Tutte le genti dinanzi a lui sono come se non fos¬ an
sero: una cosa che non conta nulla, un niente di niente. radica
A chi dunque rassomigliereste Iddio? e con quale immagine lo rappresente¬ port
reste? E come mai, una statua ha fuso il fabbro, e l'orefice ne ha foggiata una Le
d'oro battuto, e di lamina d'argento l'argentiere? L'artefice intelligente scelse un fa
pezzo di legno forte e incorruttibile, e s'ingegna di mettere in piedi un simulacro grandezz
che non si muova! e voi non capite! e voi non intendete! E non è stato mani¬ indie
festato a voi fin da principio? Non ve lo fa palese la fondazione della terra? Israele
Colui che siede sopra l'orbe della terra, i cui abitatori sono per lui come locuste, ragioni?
che stende i cieli come tenue velame e li dispiega come un padiglione per abi¬ i
tare. Che riduce al nulla gli scrutatori dei segreti e annienta i giudici della terra. imp
Non ancora il loro tronco è piantato, seminato, radicato in terra, che di repenteraddoppia
passa col suo soffio e inaridiscono, e il turbine li porta via come paglia. E a chi stanca
mi avete assomigliato e uguagliato, dice il Santo? Levate in alto i vostri occhirinnovera
e vedete chi mai creò tutte quelle cose lassù? Egli fa uscire per ordine le loro cam
schiere, le chiama tutte per nome; e per la grandezza della sua potenza, della l'oceano!
sua forza e della sua virtù, neppure una rimane indietro. firm
Perchè dici tu, o Giacobbe, e affermi tu o Israele : " Non è noto al Signore ter
lo stato mio, il mio Dio non bada alle mie ragioni? ". E non capisci? e non parte
intendesti? il Signore è il Dio eterno, che ha creato i confini della terra; non si
spossa mai e non si stanca, e la sua sapienza è imperscrutabile. Egli dà forza
allo stanco e a coloro che vengono meno raddoppia vigore e robustezza. Gli
uomini anche in verde età vengono meno e si stancano, e i giovani cadono af¬
franti. Ma quelli che sperano nel Signore rinnoveranno le forze, rimetteranno
le penne come le aquile correranno senza fatica, cammineranno senza stancarsi
mai » (Is. 40, 12-31). Quanto è gigantesco l'oceano! Eppure Dio tiene le sue
acque nel cavo della mano. Quanto smisurato è il firmamento, tuttavia Iddio lo
abbraccia con una spanna. Misura la sabbia della terra, delle spiagge e del de¬
serto con un moggio, vale a dire con la terza parte di un efa che gli Ebrei
§ 100. LA CREAZIONE DEL MONDO 479
chiamavano « sea ». Non ha bisogno di altro. Le cime più eccelse dei monti
sono come un granello di sabbia nella sua mano. Ipopoli più potenti che hanno
creato la storia sono per lui la goccia d'acqua, che senza essere notata cade dalla
secchia colma. Tutti gli alberi della terra e tutti gli animali dell'universo non
bastano per offrirgli un sacrifìcio degno di lui. Solo da Dio può venire la sal¬
vezza, poiché egli solo ha la forza di salvare. « Così parla il Signore : " Le fa¬
tiche dell'Egitto, e le merci dell'Etiopia, e i Sabei, uomini dall'alta statura, pas¬
seranno a te e saranno tuoi; dietro di te cammineranno legati colle ritorte, e ti
adoreranno e ti diranno supplichevoli: — Solo in te c'è Iddio, e fuori di te non
c'è altro Dio — ". Veramente un Dio nascosto sei tu, o Dio d'Israele, Salvatore!
Sono rimasti confusi e svergognati, andarono collo scorno tutti ugualmente gli
artefici degli idoli bugiardi. Israele è stato salvato dal Signore con salute eterna;
non sarete confusi nè arrossirete per tutti i secoli.
Perchè così dice il Signore che ha creato i cieli, quel Dio che ha plasmato la
terra, che l'ha fatta e le ha dato forme e non l'ha lasciata nel caos, formandola
per essere abitata : " Io sono il Signore e non ve ne ha altro. Io non ho parlato
in occulto in qualche luogo oscuro della terra; non ho detto alla stirpe di Gia¬
cobbe: Voi mi cercherete invano, io, il Signore che insegno la giustizia e predico
la rettitudine!
Radunatevi e venite e appressatevi tutti insieme, o scampati di mezzo alle
genti: quelli che portano le loro sculture di legno e pregano un Dio che non
può salvare, non capiscono nulla. E voi annunziate loro, avvicinateli e conferite
insieme: chi mai fece udir questo ab antico e sin d'allora l'ha predetto? non
sono io forse, io, il Signore e altro Dio non v'ha fuori di me? Dio giusto e chi
salvi non c'è fuori di me. Rivolgetevi a me da tutte l'estremità della terra e
sarete salvi, perchè sono io Iddio, e non ve ne ha altro.
L'ho giurato per me stesso, parola di giustizia che uscirà dalla mia bocca e
non tornerà indietro, che a me si piegherà ogni ginocchio, e ogni lingua pro¬
fesserà fede ". Sì, nel Signore, dirà, è la mia giustizia e il mio impero. Verranno
a lui e saranno confusi tutti quelli che gli si oppongono. Nel Signore sarà giu¬
stificata e glorificata tutta la stirpe d'Israele » (Is. 45, 14-25). Similmente in
Bar. 6, 60 ss.
In modo altrettanto espressivo Michea ed Habacuc celebrano il dominio di¬
vino sulla natura e la fedele ubbidienza dell'universo a Dio. « Iddio verrà dal¬
l'Austro, e il Santo dal monte di Faran. La sua gloria copre i cieli e della sua
lode è piena la terra. Il suo splendore è come la luce; ha raggi nelle mani: ivi
egli asconde la sua potenza. Davanti alla sua faccia incede la morte, esce il dia¬
volo dinanzi ai passi suoi. Ristette e squadrò la terra, guardò e le nazioni si di¬
leguarono, e le montagne secolari si squarciarono, s'inchinarono le vette del
mondo sotto i suoi passi ricalcanti i sentieri eterni. In tribolazione ho veduto
le tende di Etiopia, sconvolti i padiglioni della terra di Madian. Forse contro i
fiumi sei adirato, o Signore? Contro i fiumi è il tuo sdegno? O contro il mare
la tua collera, quando ascendi i tuoi destrieri e le tue quadrighe di salvezza?
Brandisci l'arco tuo a guarentigia dei giuramenti che tu hai prestato alle tribù.
Tu fendi i fiumi della terra? Ti hanno visto i monti ed hanno gemuto, un ro¬
vescio d'acque passò; l'abisso mandò la sua voce e allungò le sue mani la pro¬
fondità. Il sole e la luna si arrestarono nei loro penetrali; avanzano alla luce delle
ai tuoi cavalli, nel limo delle profonde. U
E
48O P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
Perc
tue saette, al lampeggiare della tua asta sfolgorante. Tu calchi la terra nel tuo fallir
disdegno, sbigottisci nel tuo furore le genti. Tu sei uscito alla salvezza del tuo nell
popolo, alla salvezza insieme col tuo Unto. Tu hai percosso il capo della casa n
dell'empio, mettesti a nudo le fondamenta fino al collo. Hai maledetto gli scettri co
suoi, il capo dei loro guerrieri irrompenti come un turbine per disperdermi, 1
esultanti come chi divora il povero nascostamente. Hai aperto una strada nel
mare ai tuoi cavalli, nel limo delle acque profonde. Udii, e si conturbarono le Signo
mie viscere; mi tremarono le labbra a quella voce! Entri pure nelle ossa mie sce
la carie, e brulichi sotto di me: affinchè nel giorno dell'angustia in riposo mi suoi
ritrovi, affinchè salga al preparato popolo nostro. Perchè il fico più non fiorirà
e la vigna non germoglierà; il prodotto dell'olivo fallirà, e i coltivatori non por¬
teranno cibo; sarà strappata all'ovile la greggia e nelle stalle più non sarà l'ar¬ i
mento. Ma io mi rallegrerò nel Signore ed esulterò nel Dio della mia salvezza. cocchio
Il Signore Dio è la mia forza, mi renderà i piedi come quelli dei cervi, e mi guizzant
farà camminare sulle alture » (Ab. 3, 3-19). Michea 1, 2-4 così scrive : « Ascol¬ L'Abisso,
tate tutti, o popoli: faccia attenzione la terra, e quei che la riempiono, e il Si¬ fuggono;
gnore Dio venga a testificare contro di voi, il Signore dal suo tempio santo. post
Perchè ecco il Signore che uscirà dal suo luogo, e scenderà calcando le sommità tornerann
della terra. E le montagne si scioglieranno sotto i suoi passi, e le valli si distem¬ Abb
preranno come cera al fuoco, come acque colanti giù per i dirupi ». g
d) In modo altrettanto vivo i Salmi celebrano il creatore. Salmo 104 (103), d
2-26: «T'allindi di luce come d'un manto! Stendi i cieli come cortina; inca¬ l'er
stelli sull'acque le loro altane. Fai le nubi tuo cocchio, incedi sull'ali del vento. allie
Fai tuoi araldi i venti, tuoi ministri il fuoco guizzante. Fondi la terra sui suoi dell'uo
fondamenti; non vacillerà in eterno giammai! L'Abisso, qual veste, la copre; sovra qu
i monti ristanno le acque. Al tuo rabbuffo fuggono; al fragore del tuo tuono (s
paventano. Salgono i monti, scendono le valli, al posto che fissasti per esse. Un sole
limite hai posto che non varcheranno; non torneranno a coprire la terra. Fai fier
erompere le fonti nei rivi; tra i monti scorrono: Abbeverano tutte le fiere dei Sp
campi; (vi) estinguono le zebre la loro sete. Lungh'essi gli uccelli dei cieli si posano; all'o
fra le fronde trillano. Irrori i monti dalle tue altane; dallo " stillar dei tuoi cieli " Signor
si sazia la terra. Fai germinare fieno ai giumenti; l'erba al(le bestie dai) lavoro m
dell'uomo. Per trarre pane dal suolo; e vino che allieta il cuore dell'uomo. Per Iv
rendere splendidi i volti, e pane che il cuore dell'uomo sostenta. Si saziano le (
piante divine; i cedri del Libano che piantò. Sui quali gli uccelli nidificano; e su
la " pia " che dimora sui cipressi. Imonti eccelsi (sono) per i cervi; le rocce m
rifugio agli iraci. Fece la luna per le stagioni; il sole conobbe il suo tramonto. in
Adagi le tenebre, si fa notte; in essa striscia ogni fiera di selva. Ileoncelli che
ruggono a preda, e a chiedere a Dio il loro pasto. Spunta il sole, si ritraggono;
e ai loro covili s'acquattano. Esce (allora) l'uomo all'opera sua; e alla sua fatica
fino a sera. Quanto grandi sono le opere tue, Signore; tutte in sapienza le hai
fatte, ripiena è la terra delle tue creature! Codesto mare grande e disteso; ivi
son rettili senza numero : animali piccoli e grandi. Ivi le navi se ne vanno : il
Leviatan che plasmasti a sollazzo... ». Nel Salmo 135 (134), 5-7 si legge: « Io so
(bene) che grande è il Signore: e il Signore nostro su tutti gli dèi. Tutto quello
che volle il Signore creò; nei cieli e sulla terra, nei mari e in tutti gli abissi. Fa
salire le nubi dagli estremi della terra; le folgori in pioggia converte; trae il
§ 100. LA CREAZIONE DEL MONDO 48I
vento dai suoi ricetti ». Cfr. Sai. 19 (18), 1-7; 33 (32), 6-7. Da lui cielo e terra,
mare e tutto ciò che in esso si trova furono creati, così pensa il salmista. Infatti
nessuno e niente può con lui gareggiare: Sai. 146 (145), 6.
e) Appena il popolo ebraico entra, dopo Alessandro Magno, in contatto con
l'ellenismo dove vige un grande sincretismo religioso, ecco immediatamente gli
scrittori della Sapienza e dell'Ecclesiastico che lo mettono in guardia contro i
pericoli del panteismo e dell'ateismo (vedi i testi della Sapienza al § 30). Ecco
quanto si legge nell'Ecclesiastico (42, 15 -
43, 37) : « Ricorderò le opere del Si¬
gnore, e ciò che ho veduto racconterò. Per la parola del Signore esistono le sue
opere! Il sole lucente si spande su tutto, e della gloria del Signore è piena
l'opera sua. Non concesse il Signore (neppure) ai santi di raccontar tutte le sue
meraviglie, che il Signore onnipotente ha consolidate, perchè stabilì fossero a sua
gloria. L'abisso (dell'oceano) e il cuore degli uomini egli scruta, e penetra le
loro scaltrezze. Perchè il Signore sa ogni cosa e osserva i segni de' tempi: an¬
nunzia il passato e il futuro, e rivela le tracce delle cose occulte. Non gli sfugge
nessun pensiero, e non si cela a lui nessuna parola. Le magnificenze della sua
sapienza egli ha apprestato, egli ch'è prima de' secoli e per (tutti) i secoli: e
nulla è stato aggiunto, nulla tolto, e non ha avuto bisogno del consiglio d'alcuno.
Quanto amabili son tutte le sue opere! e appena una scintilla se ne può contem¬
plare! Tutte queste cose vivono e durano in perpetuo, e tutte in ogni occorrenza
obbediscono a lui. Tutte sono appaiate, una di fronte all'altra, e nulla egli ha
fatto di manchevole. Di ognuno ha assicurato il bene (per mezzo dell'altra): e
chi si sazierà di contemplar la sua gloria? — Bellezza dell'empireo è il (limpido)
firmamento, e l'aspetto del cielo è visione di gloria. Il sole col suo apparire an¬
nunzia alla levata (il giorno); ammirabile strumento, opera dell'Altissimo! Nel
mezzogiorno brucia la terra, e dinanzi al suo ardore chi può reggere? (C'è) chi
attizza la fornace per i lavori a fuoco: tre volte tanto il sole infoca i monti!
Soffia vampe di fuoco, e col fulgor de' suoi raggi accieca gli occhi. Grande è il
Signore che l'ha creato, e al comando di lui esso accelera il corso. E anche la
luna (appare) ognora a suo tempo, indice delle stagioni e segnale perpetuo. Dalla
luna (si ha) l'indicazione de' giorni festivi : è un luminare che decresce (arrivato)
alla pienezza. Il mese è (chiamato) dal suo nome: essa cresce meravigliosamente
nel suo mutarsi. Essa è la fiaccola dell'accampamento nelle (regioni) superne;
fulgida brilla nel firmamento del cielo. La bellezza del cielo è lo splendor delle
stelle: lassù dall'alto il Signore illumina il mondo. Ai cenni del Santo stanno esse
pronte al comando, e non si spossano nelle loro vigilie. Mira l'arco(baleno) e
benedici colui che l'ha fatto: è molto bello nel suo splendore. Esso cinge il
cielo col suo cerchio fulgente; le mani dell'Altissimo l'hanno disteso. Col suo
comando (Iddio) fa precipitar la neve, e scaglia veloci le folgori del suo giudizio.
Perciò si aprono i serbatoi, e volan fuori le nuvole come uccelli. Con la sua
maestà condensa le nuvole, e son spezzate le pietre della grandine. Al suo ap¬
parire si scuoton le montagne, e al voler di lui soffia lo scirocco. Il fragor del
suo tuono percuote la terra (e si scatena) l'uragano aquilonare e il turbinio del
vento. Come uccelli che volano giù a posarsi, egli sparge la neve, e come lo¬
custe che si buttano a terra essa discende. L'occhio ammira la bellezza del suo
candore, e del suo fioccar si turba il cuore. La brina egli spande come sale sulla
terra, e ghiacciata che sia, divien come punte di triboli. Soffia il freddo vento
31 - schmaus - dogmatica 1.
coli: e all'udirli co' nostri orecchi restiamo stupiti:
d
482 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
no
aquilonare, e si gela l'acqua in ghiaccio : sopra ogni massa d'acque esso si
stende, e come d'una corazza si riveste l'acqua. E inaridisce (Iddio) i monti e s
abbrucia il deserto, e dissecca la verzura come fuoco. Rimedio a tutto (ciò) è il porten
pronto apparir d'una nuvola, e la rugiada sopravveniente ricrea dall'ardore; a una pe
parola di lui tace il vento. Conforme al suo proposito domò l'oceano profondo, Benedice
e ci piantò ti Signore le isole. Quei che navigano il mare, ne raccontano i peri¬ Esaltate
coli: e all'udirli co' nostri orecchi restiamo stupiti: ivi son creature strane e mai
meravigliose, varietà di bestie d'ogni sorta e la razza de' mostri. Per lui fu assi¬ c
curato (a ogni essere) la mèta del suo viaggio, e per la sua parola fu costituita poi
ogni cosa. Potremmo dir molto (ancora) e le parole non ci basterebbero; la con¬ e
clusione de' discorsi (è questa) : " Egli è in tutto ". Per gloriarlo, che valgon
mai i nostri sforzi? Poiché egli è Onnipotente, al di sopra di tutte le sue opere. s'i
Terribile è il Signore e sovranamente grande, e portentosa la sua potenza. Cele¬
brando il Signore, (esaltatelo) quanto mai potete; perchè egli sopravanzerà an¬ h
cora, e meravigliosa è la sua magnificenza. Benedicendo il Signore esaltatelo
quanto potete: perchè è maggiore d'ogni lode. Esaltatelo, moltiplicate le (vostre)
forze; non vi stancate chè non (lo) raggiungerete mai. Chi lo ha veduto e può salve
darne notizia? e chi lo celebrerà mai a seconda di ciò che egli è ab aeterno? mond
Molte cose nascoste ci sono maggiori di queste: poiché poco è quel che noi La
vediamo delle opere sue. E tutto ha fatto il Signore, e a chi parimenti opera dà fin
la sapienza ».
f) Nel libro dei Maccabei, per la prima volta, s'incontra l'espressione crea¬
zione dal nulla (7, 28). La madre incoraggia il figlio minore affinchè non tema
il boia e sia pronto a morire ricordandogli che Dio ha creato dal nulla e cielo
e terra. Nessuno può sfuggire alla sua mano. co
g) Se l'Antico Testamento presenta la creazione del mondo come il prin¬ neotestamenta
cipio della storia e, specialmente di quella della salvezza, che si svolge in seno de
alla storia stessa, anche l'accenno alla fine del mondo, a cui tutte le vicende de
umane aspirano, testifica la creazione dell'universo. La potenza creatrice di Dio
avvolge tutti i tempi per dominarli e forgiarli, per finalizzarli e portarli a com¬
pimento. Verrà un giorno in cui il mondo, creato da Dio, diverrà nuovo cielo e
nuova terra. Di ciò parla per primo Isaia (65, 17) e per ultimo l'Apocalisse di dal
Giovanni (21 e 22). Cfr. la dottrina sui Novissimi. preg
2. - Il fatto che Dio è creatore e Signore costituisce pure un punto tu
fondamentale nella rivelazione neotestamentaria. Se gli scritti nel
Nuovo Testamento non parlano diffusamente della creazione, ciò è do¬ le
vuto al fatto che essi presuppongono la base della rivelazione veterote¬
stamentaria e costruiscono su di essa. Ifedeli sono chiamati a riporre
la loro fiducia nel Dio onnipotente e Signore supremo dell'universo.
Quando Pietro e Giovanni, lasciati liberi dal Sinedrio, possono tor¬
nare dai loro seguaci, a voce unanime così pregano: « Signore, tu sei
colui che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che sono in
essi, tu, mediante lo Spirito Santo, per bocca del padre nostro e tuo
servo David, hai detto : " Perchè fremettero le genti, e i popoli han
§ 100. LA CREAZIONE DEL MONDO 483
meditate cose vane? Ire della terra si presentarono, e i principi si son
radunati insieme contro al Signore e contro al suo Cristo E vera¬
mente, in questa città si son radunati Erode e Ponzio Pilato, insieme
con iGentili e con tutto il popolo di Israele, contro il santo tuo Figliuolo
Gesù, che tu hai consacrato! Essi han fatto quel che la tua mano e il
tuo consiglio decretò si facesse. E adesso, Signore, tieni presenti le loro
minacce, e concedi ai tuoi servi d'annunziar la tua parola con tutta fran¬
chezza, mentre tu stendi la mano a risanare e operar segni e prodigi
per mezzo del nome del santo tuo Figlio Gesù » (Atti 4, 24-30). In
questa preghiera si manifesta la certezza che Dio, quale creatore del
cielo e della terra ha potere sul cuore degli uomini e sulla natura. Il
vero Dio si contraddistingue dagli idoli proprio perchè egli è il crea¬
tore del cielo e della terra, del mare e di tutto ciò che esiste nell'universo
(Atti 14, 15).
L'angelo del Signore, che Giovanni vede ascendere al cielo, giurò per
il Dio vivente, creatore del cielo e di quanto in esso si contiene, della
terra e di quanto su di essa si trova, del mare e di quanto in esso sus¬
siste, che al momento prefissato si sarebbe svolto il mistero di Dio
(Apoc. 10, 5-7).
Dio quale creatore del cielo e della terra, è il Padrone di tutte que¬
ste cose, che costituiscono il suo dominio (Mt. 11, 25; Le. 10, 21;
Atti 17, 24; Apoc. 11, 4-13). Per questo egli dispone delle cose e degli
uomini. Questi appartengono infatti a lui e sono obbligati a ubbidirgli
(Mt. 6, 26-34; I][3 25)- La sua trascendenza si rivela proprio nel fatto
che le sue azioni non sono ima reazione al comportamento dell'uomo.
Egli fa che il suo sole risplenda tanto sui buoni quanto sui cattivi e fa
piovere tanto sui giusti quanto sugli ingiusti (Mt. 5, 45). Paolo molti¬
plica i termini di relazione per sottolineare la mancanza di ogni presup¬
posto nell'atto creatore di Dio. Nessuno gli fece da consigliere. Anzi:
« Da lui e per lui e a lui ogni cosa. A lui la gloria dei secoli » (Rom.
11, 35 ss.).
Siccome Dio è creatore e Signore delle cose e degli uomini, ne è
pure il giudice: « Se siete trattati ignominiosamente per il nome di
Cristo, sarete beati, poiché l'onore, la gloria e la virtù di Dio e lo spi¬
rito di lui riposa su di voi. Nessuno di voi soffra come omicida, 0 ladro,
0 maldicente, 0 insidiatore del bene altrui. Se poi (soffre) come cri¬
stiano, non se ne vergogni; ma dia gloria a Dio per tal nome. Perchè
ormai è tempo che cominci il giudizio della casa di Dio. E se (co¬
mincia) prima da noi: quale sarà la fine di coloro che non ubbidiscono
di in evidenza la rea
dell
484 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO s
al Vangelo di Dio? E se il giusto a stento sarà salvato, dove compari¬ creazione
ranno l'empio e il peccatore? Perciò anche quelli che soffrono secondo q
la volontà di Dio, raccomandino le loro anime al Creatore fedele, prati¬
cando il bene » (1 Piet. 4, 14-19).
Sia l'Antico sia il Nuovo Testamento, quando parlano della creazione, p
non cercano tanto di metterne in evidenza la realtà, quanto piuttosto di l'universo
accentuare il fatto che l'universo è il teatro della storia della salvezza,
ossia il campo d'azione in cui si svolge l'opera salvifica di Dio. Paolo e
Giovanni dipingono il mondo come la creazione deturpata dal peccato,
che era quindi sotto il giudizio di Dio, ma nel quale è apparso il Cristo,
il Salvatore. Egli ristabilisce il dominio di Dio sulla terra e così ricon¬ PATRIST
duce il creato al Padre. Coloro che credono in lui, cioè i santi che co¬
stituiscono la sua Chiesa, non appartengono più al mondo, bensì al fu
regno di Dio. Verrà un giorno in cui l'universo, trasformato sostanzial¬ Inoltre
mente, paleserà la gloria di Dio sotto la forma di un nuovo cielo e di divin
una nuova terra.
l
Tu
IV. - TESTIMONIANZE PATRISTICHE. c
spazio
d
All'epoca patristica la realtà della creazione fu difesa contro ogni ten¬ delle
tativo d'infiltrazione gnostica 0 manichea. Inoltre si è chiarita la grande o
differenza tra la creazione umana e quella divina. è
scr
Efrem Siro così dice nel suo primo discorso sulla fede (n. 25 s.): «Tu non volont
comprendi le cose visibili e come pretendi di capire le invisibili? Stai come una S
povera creatura, mentre sua è tutta la creazione. Tu sei soltanto in un luogo, sa
mentre egli è più esteso di ogni spazio. Dove vuoi cercare colui che nessun li¬ il
mite può rinchiudere? Ecco, in questo piccolo spazio il tuo intelletto non può a
vagare qua o là. Guarda solo ciò che sta al di sotto del cielo, prova la tua acu¬ al
tezza mentale di fronte alle cose visibili, parla delle sorgenti, di questi tesori tu
aperti e inesauribili. Sono esse generate dal nulla o provengono da qualcosa? sec
Se sono generate da un serbatoio allora il creatore è povero, poiché anche lui
come l'uomo deve provvedere di qualcosa i suoi scrigni. Ma non è il creatore
che è povero, bensì l'uomo sofistico. La sua volontà è lo scrigno contenente
ogni tesoro; poiché ha origine dal nulla ogni cosa. Se l'acqua dovesse di con¬
tinuo tornare al luogo di origine, allora il creatore sarebbe soltanto superiore al¬
l'uomo per abilità artistica. Ma per la sua volontà il creatore è grande; poiché
la sua volontà è il suo agire. Egli non sottostà ad alcuna arte, che gli mostri
prima ciò che deve fare; essa non può insegnare al suo creatore come debba
creare. Nessuna arte comanda a quella volontà che tutto crea. Un artista è come
uno schiavo legato al giogo dell'arte; non lavora secondo la sua volontà, ma è
§ 100. LA CREAZIONI; DEL MONDO 485
sottoposto all'arte. Vive nell'incertezza, poiché lavora niente come vuole. Ora
lo vuole ed ora non lo vuole. L'arte gli viene in aiuto per trarlo d'impaccio.
Il creatore al contrario non è sottomesso a nulla, ma egli stesso crea l'arte che
sorregge l'uomo. Se Dio fosse egli pure soggetto ad esso, sarebbe pari all'uomo.
E se anche gli fosse superiore per arte sarebbe, tuttavia, sempre inferiore alla
sua- divinità. Ma se Dio è veramente Dio, allora il suo volere domina tutto.
L'uomo crea da qualche cosa, ma Dio crea dal nulla ».
Basilio nella seconda omelia Sull'Exaemeron (n. 2) scrive : « Essi affermano
che la materia è naturalmente invisibile e informe, sprovvista per definizione di
qualità, priva di ogni figura e apparenza; che l'Artefice la prese, la rivestì, con¬
formemente alla sua idea, di una forma, l'ordinò, dando così origine alle cose
visibili. Ma se la materia è increata deriva anzitutto che essa possiede una di¬
gnità pari a quella di Dio e merita quindi onori divini. Ora non si può pen¬
sare cosa più empia che porre tale materia senza qualità, senza figura, l'estrema
indeterminazione, la bruttezza informe (per usare le loro stesse parole) allo stesso
grado del sapiente, potente e mirabile ordinatore e creatore dell'universo. Inol¬
tre, se la materia è tale da essere capace di esaurire tutta la scienza di Dio, essi,
in certo modo, vengono a mettere in parallelo la sostanza della materia mede¬
sima con l'insondabile potenza di Dio, poiché basterebbe da sola a misurare
tutta l'intelligenza divina! Se poi affermano che la materia è incapace di rispon¬
dere all'azione di Dio, questa loro asserzione sarebbe una bestemmia ancor più
stravagante, poiché, proprio per difetto della materia stessa, Dio vedrebbe la sua
azione e la sua potenza limitate nella realizzazione delle sue proprie opere. —
Ciò che li ha ingannati è la povertà e piccolezza della natura umana. Presso di
noi infatti, ogni arte si limita a forgiare una materia, come il ferro per il fabbro
o il legno per il falegname. E in questi casi abbiamo la materia che vien lavo¬
rata, l'idea o la forma che si intende dare alla materia e l'opera che risulta dalla
loro sintesi. Proprio così, secondo loro, si dovrebbe pensare la creazione: la
forma del mondo sarebbe data da Dio, ma la materia sarebbe presupposta al¬
l'azione creatrice e quindi il mondo sarebbe un composto che ha in sé il suo
essere, avendo ricevuto da Dio solo la sua figura o forma. Perciò rifiutano a
Dio d'aver presieduto alla organizzazione degli esseri, e pretendono che egli
abbia portato, come in un banchetto per sottoscrizione, la sua piccola quota alla
genesi delle cose. Si vede che, per la debolezza del loro ragionamento, non son
capaci di elevarsi all'altezza della verità.... Effettivamente Dio, quando non esi¬
steva ancora nulla di ciò che ora noi vediamo, aveva progettato e deciso di trarre
all'esistenza ciò che ancora non era. Contemporaneamente egli concepì quale
doveva essere il mondo e produsse la forma e la materia insieme unite... L'in¬
sieme del mondo poi, composto di parti dissimili, fu da lui legato strettamente
con una legge di indissolubile amicizia, in una comunione e armonia tali che
gli esseri più lontani gli uni dagli altri appaiono uniti dalla medesima simpatia.
Che dunque rinuncino alle loro mitiche invenzioni costoro che pretendono, con
la loro debole ragione, di misurare una potenza inaccessibile alla nostra mente e
inesprimibile con le nostre parole ».
Agostino così scrive nelle Confessiones: « Ma in che modo tu hai fatto il cielo
e la terra, e qual è questa macchina tanto grandiosa dell'opera tua? Non come
l'artefice umano che forma un corpo da un altro corpo, secondo l'arbitrio del-
l'ingegno da intendere l'arte vedere interio
l'uomo
486 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO c
e
l'anima che vuole improntare in un modo qualunque l'idea veduta in se stessa
con l'occhio interiore. E donde deriva questa possibilità, se non da te che l'hai
fatto? Essa imprime la sua idea a una cosa che già esiste e possiede l'essere,
come ad esempio alla pietra, alla terra, al legno, all'oro e simili. Donde queste esisti
cose avrebbero l'esistenza se tu non le avessi create? Tu hai dato all'artefice il facesti
corpo; tu l'anima che comanda alle membra, tu la materia per fare qualche la¬
voro, tu l'ingegno da intendere l'arte e vedere interiormente l'opera da eseguire
fuori; tu i sensi corporei per mezzo dei quali l'uomo trasmette dall'animo alla
materia ciò che opera... Ti lodino queste cose come creatore di tutto, ma in che
modo tu le fai? in che modo Tu hai fatto il cielo e la terra? Non certamente
nel cielo e sulla terra hai fatto l'universo, perchè non c'era dove farlo, prima che
gli fosse fatto l'essere; nè avevi tra mano nulla con cui fare il cielo e la terra, ve
perchè dove avresti potuto prendere una cosa da te non fatta per far qualche garant
lavoro? Che cosa difatti esiste se non perchè tu esisti? Dunque tu parlasti e le
cose furono fatte ed è nella tua parola che le facesti » (Confessiones, i, n, 5);
interced
cfr. pure Agostino, In Ioann. tract. 42, 10.
180
inc
V. - IL DOGMA DELLA CREAZIONE E LA RAGIONE. ragi
1. - La ragione umana può raggiungere la verità che Dio è creatore. mon
Si può anzi dire che la rivelazione stessa garantisce che la ragione può
riconoscere il rapporto di creazione che intercede tra Dio e il mondo.
Anche se il Concilio Vaticano non volle parlare espressamente della co¬ d
noscibilità della creazione dal nulla (Denz. 1806), tuttavia quando af¬
fermò la conoscibilità naturale di Dio dovette includervi in qualche modo
anche quella. In tal modo la fede assicura la ragione di non esser vittima d
di illusione quando pensa di poter dimostrare che il mondo è creato. muta
L'interpretazione, garantitaci dalla fede, del mondo come opera e mani¬ devon
festazione di Dio (analogia fìdei) include in sè la conoscenza razionale pe
della creazione (analogia entis). pro
Secondo S. Tommaso d'Aquino, la ragione da sola può stabilire con D
certezza il fatto della creazione (S. Th., I, q. 44, a. 1; q. 45, a. 2; la
q. 61, a. 1). Tutte le cose esistenti nel mondo, il mondo stesso nel suo
insieme, per la loro limitatezza di natura e di esistenza, per la loro
finitezza qualitativa e temporale, per la loro mutabilità, mostrano di pos¬
sedere l'essere solo per partecipazione. Lo devono quindi, in ultima ana¬
lisi, aver ricevuto da un ente che lo possieda per la sua stessa essenza.
Dio è appunto l'essere in sè sussistente. Le prove per dimostrare l'esi¬
stenza di Dio ci conducono infatti a riconoscere Dio come la causa prima
assoluta, l'atto primo assoluto, l'intelligenza e la volontà assolute. Dio è
§ 100. LA CREAZIONE DEL MONDO 487
il suo stesso essere, è perciò anche l'unico essere che esista per se stesso.
Pertanto tutto ciò che è extradivino deve provenire da Dio (cfr. § 30).
2. - Non c'è dubbio che, al di fuori della rivelazione biblica, nessuna
filosofia o dottrina religiosa ha scoperto il vero concetto di creazione,
come è pure certo che nessuna filosofia 0 sistema religioso, al di fuori
del cristianesimo, ha espresso in modo verace la trascendenza di Dio.
Occorre qui ricordare come il Concilio Vaticano ha dichiarato che alla
rivelazione soprannaturale è pure dovuto che quanto delle cose divine
non è per sè inaccessibile alla ragione, anche nella presente condizione
del genere umano, possa essere conosciuto da tutti facilmente con ferma
certezza e senza errore (Denz. 1786).
Fuori del campo biblico il rapporto tra Dio e il mondo è stato spiegato o in
modo dualistico o in modo monistico. Le concezioni dualistiche (sistema reli¬
gioso persiano, filosofia platonica, manicheismo, gnosticismo, Albigesi, Catari ecc.)
oppongono al Dio della luce un principio sussistente malvagio e tenebroso, che,
di solito, viene inteso come materia cattiva del mondo. Iloro aderenti stanno
palesemente sotto un'impressione così forte dell'imperfezione e della peccamino¬
sità del mondo, da non volerne incolpare Dio. Sistemi questi che cercano di spie¬
gare il male del mondo, senza doverne rendere Dio responsabile. Il male as¬
sume qui una realtà così accentuata da farne niente di meno che un principio
simile a Dio. Tuttavia è certo che alla fine il Dio della luce finirà per debellare
il male.
Al contrario i monisti, identificando il mondo e Dio, finiscono col trascurare
la limitatezza e la imperfezione del mondo. Giungono così a spiegare il peccato
come pura ombra estetica del bene (Hegel) oppure a ritenere il male stesso
(potenza, crudeltà) divino per la sua bellezza e potenza demoniache (Nietzsche).
Mentre i dualisti respingono Dio in una lontananza irraggiungibile, i monisti
al contrario lo intrecciano e lo legano alle cose del mondo e al corso di esse.
Nella sua forma d'espressione religiosa, il monismo afferma la divinità del mondo
e così giunge al panteismo e alla mitologia, la quale non è altro che una deter¬
minata concezione panteistica. Si attribuisce infatti ciò che è santo, numinoso,
misterioso e divino allo stesso mondo, a cui gli uomini si volgono in atto di
culto (interpretazione magica del mondo). La mitologia è qualcosa di ben diverso
e tutt'altro che semplice interpretazione meccanica del mondo; non è solo un dato
comprensibile e penetrabile razionalmente, ma è piuttosto un mistero. Qualcosa
di aterrestre e di sovraterrestre, di acosmico e di supercosmico, che si sente e
si afferma nel mondo (religione naturale). Può, pertanto, sorgere la coscienza viva
di una potenza religiosa impersonale, di una energia numinosa che tutto permea,
o di un'anima universale che si rivela in ogni cosa. L'uomo viene così colpito
da timore e da speranza. Il mondo degli dèi nasce specialmente quando l'espe¬
rienza religiosa si trova di fronte a qualche fenomeno cosmico particolarmente
potente (ad esempio: cielo, sole, luna, luce, notte, morte). Quando un uomo di
grande sensibilità, un veggente, raffigura e proclama una tale numinosità, in
s
488 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
es
quello stesso istante si crea in lui il dio. Allora l'uomo diviene il creatore di dio.
La sua forza creativa sgorga naturalmente dall'esperienza che la natura è avvolta ide
dal mistero. Questa esperienza è varia secondo i popoli e le età. Per questo gli continuo
dèi mutano di continuo e possono vivere solo un dato periodo. Con il variare
dell'esperienza umana, anch'essi, frutto di un'immaginazione dell'uomo, devono
cambiare senza posa. contrast
esc
3. - La difficoltà del concetto di creazione sta nel fatto che è im¬ e
possibile farci l'idea sia di un inizio assoluto, essendo ogni nostro conservazion
pen¬
siero legato al tempo, sia del nulla (Schelling: il nulla è da tempo la
indietr
croce dell'intelletto). Il tentativo di farci tale idea non raggiunge mai il secon
suo scopo ed è possibile se neghiamo di continuo gli oggetti della nostra d
esperienza.
Con la dottrina della creazione non sta in contrasto la legge della conserva¬
zione della materia e dell'energia. Essa riguarda esclusivamente la materia già i
esistente e non concerne affatto il momento in cui essa venne all'esistenza. La presen
scienza naturale considera la legge della conservazione al pari delle altre leggi
della natura, come gli ultimi limiti, oltre i quali non è possibile risalire. Il dogma
second
della creazione, invece, ci riconduce ancora più indietro; ci dà ragione di queste di
stesse leggi. L'opinione dell'esistenzialismo ateo, secondo cui il mondo proviene fo
dal nulla (fu proiettato dal nulla, in quanto il nulla diviene ogni cosa), negando 1
l'esistenza di un creatore, contraddice al principio di causalità.
4. - La rivelazione che riguarda l'origine di tutte le cose dal nulla
per volere di Dio onnipotente, non significa che il mondo sia stato creato Gene
così come oggi esiste o come può esserci presentato dalla scienza natu¬
rale. Può invece accordarsi con la dottrina secondo cui il mondo ha rag¬ de
giunto lo stadio attuale attraverso lo sviluppo di pochi elementi iniziali, de
da cui derivano tutte le attuali svariatissime forme, secondo le regole isp
stabilite da Dio. Per l'origine dell'uomo cfr. § 125.
qu
§ 101. Chiarificazioni sul racconto della Genesi. ri
1. - Chi vuol comprendere e penetrare le descrizioni con cui la Ge¬
nesi ci presenta il fatto della creazione (opera dei sei giorni, esamerone),
deve ricordare che tutta la Sacra Scrittura è ispirata (§ 14), ma non è
al servizio della nostra conoscenza scientifica bensì della nostra sal¬
vezza. Le affermazioni della Bibbia concernenti le scienze naturali non
sono insegnamenti riguardanti i problemi di queste scienze, bensì solo
il corpo 0 l'abito con cui si rivestono le verità rivelate. Rientrano perciò
§ 101. CHIARIFICAZIONI SUL RACCONTO DELLA GENESI 489
nella presentazione letteraria. Lo scrittore sacro doveva servirsi di espres¬
sioni che fossero adatte e comprensibili ai suoi contemporanei. Altri¬
menti il suo lavoro sarebbe stato inutile e senza senso. Se egli inten¬
deva adoperare gli esempi e le cose naturali per rivestire e dar corpo,
in certo qual modo, al contenuto del suo insegnamento religioso, doveva
pur esprimersi secondo la mentalità del suo tempo. La Parola di Dio
per essere capita doveva estrinsecarsi in forme letterarie rispondenti a
una determinata situazione storica. Gli agiografi, come del resto anche
gli antichi scrittori cristiani, dovettero utilizzare la concezione cosmica
degli antichi per testificare la derivazione dell'universo da Dio. Questa
testimonianza è perciò indipendente da quella raffigurazione cosmica
del mondo. Essa quindi con la scomparsa, dell'antica concezione del
cosmo, non ha affatto perso il suo valore. Il mondo, in qualunque modo
sia concepito, sia alla stregua degli antichi, sia alla maniera degli scien¬
ziati moderni da Galileo a Keplero, a Newton, a Planck, a Einstein e a
Heinsenberg, deriva pur sempre da Dio. Per l'antica concezione del
mondo cfr. § 41.
L'ispirazione della S. Scrittura che ci ricorda l'atto creativo di Dio,
non è al servizio dell'antica concezione cosmica, che pure ha durato così
a lungo. L'ispirazione esige, infatti, che la forma espressiva riproduca
rettamente il contenuto religioso incluso, ma non che il modo in cui
tale contenuto è presentato risponda esattamente alle esigenze scientifiche
(cfr. §§ 13-15). Così correntemente, per descrivere un determinato even¬
to, noi parliamo di sorgere e calare del sole. Tuttavia nessuno ci accusa
di falso quantunque tal modo di esprimersi non concordi in realtà con i
dati scientifici che rivelano invece un movimento della terra attorno al
sole. Il modo con cui la scienza chiama le cose non è nè definitivo, nè
il solo possibile. Accanto e, in certo senso, parzialmente al di sopra di
esso stanno le lingue, che dominano le cose secondo il loro rapporto
con l'uomo. Nella Bibbia non è sempre possibile determinare, a propo¬
sito dei singoli particolari, dove finisca la forma espressiva e dove co¬
minci il contenuto vero. Al riguardo il giudizio decisivo spetta al ma¬
gistero ecclesiastico.
L'Autore Sacro vuole dunque indicare, mediante i sei giorni della
creazione, che Dio è il creatore di tutte le cose. Per rendere vivo il più
possibile tale fatto della creazione, sia nel suo valore fecondo, sia nella
sua vasta realtà, l'agiografo elenca tutto ciò che sta sotto la sua espe¬
rienza e quella del lettore, riferendolo a Dio.
quanto, piuttosto, le riflessioni teologiche. Sarebb
va
490 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO generalmen
teolog
L'aver poi delineato l'opera di Dio in sei giorni è dovuto, in modo
speciale, a ragioni liturgiche che vedremo in seguito.
2. - Se i sei giorni della creazione si devono ritenere un rivestimento
letterario, allora servono a chiarirli non tanto le spiegazioni scientifiche,
quanto, piuttosto, le riflessioni teologiche. Sarebbe infatti blasfemo asse¬ S.
rire che Dio, creando l'uomo, ha agito come il vasaio con la creta. L'ese¬ i
gesi antica e medievale aveva accolto generalmente, anche se non esclu¬
(M
sivamente, l'interpretazione letterale. Se la teologia l'ha ora abbandonata
dall'Arcivescov
lo ha fatto basandosi sul principio fondamentale che la Bibbia non è al segu
servizio delle scienze profane, bensì solo della nostra salvezza. Le co¬ Dio
gnizioni scientifiche dell'evo moderno sono state solo l'occasione che ha con
fatto sfruttare tale principio. impressione
a
3. - Per quanto riguarda i Padri, ha ragione S. Tommaso quando dice concettua
che essi attestano il fatto della creazione, ma non il modo con cui avvenne.spirituali,
e
Lo Handbuch der religiòsen Gegenwartsfragen (Manuale dei problemi reli¬ impr
giosi attuali) (pp. 266-270), pubblicato dall'Arcivescovo Corrado Gròber, pensa prof
di poter spiegare la nostra questione nel modo seguente : « Il fenomeno del¬ altissim
l'ispirazione deve essere così inteso: lo Spirito di Dio suscita direttamente nello continua
spirito dell'uomo un'impressione senza parole e concetti... Lo spirito umano,
mosso così da quello divino, elabora questa impressione nella sua maniera umana, imma
cioè con le sue facoltà spirituali collegate nella loro azione alla cooperazione col Idd
cervello. La elabora non solo logicamente e concettualmente, cioè solamente col Ez
suo intelletto, bensì con tutte le sue forze spirituali, con la sua memoria, con eg
la sua facoltà immaginativa, con tutto il sentimento, e per di più nel modo che immag
gli è personalmente proprio. Spesse volte questa impressione provocata da Dio q
è così forte già di per se stessa, specialmente nei profeti, che l'uomo interessato quell
è posto immediatamente in una condizione di altissima eccitazione. Certamente
tutta l'elaborazione si svolge sotto l'influenza continuata dello Spirito Santo. Lacontempor
conseguenza di tutto ciò è che l'autore influenzato da Dio esprime, fin dove può p
essere espresso in modo umano, con concetti, immagini, sentimenti e parole delicat
quanto Iddio intende dire agli uomini. Se, per es., Iddio vuol porre innanzi agli non
occhi del popolo di Israele, per mezzo del profeta Ezechiele, quale peccato esso
abbia commesso a causa della sua apostasia, allora egli fa sì che nell'animo del
profeta, e nel modo suddetto, siano suscitate immagini perfettamente aderenti
al suo tempo ed alle sue caratteristiche personali, quali (cap. 16) quella della
trovatella raccolta da Dio e fatta sua, oppure quella dell'adultera (ibid.) che
s'avvia a diventare una prostituta offrendosi al primo veniente, ecc. Questi pen¬
sieri ed immagini fanno tuttavia risonare contemporaneamente nell'animo del
profeta tutta la gamma del sentimento, dalla più profonda compassione alla
stridente esplosione di collera, dall'amore più delicato e suadente al sarcasmo
più tagliente. L'eterno Iddio, lo Spirito perfetto, non può provare anelito d'a¬
more, nè erompere nella collera, nè sfogare la sua delusione con la mordace
§ 101. CHIARIFICAZIONI SUL RACCONTO DELLA GENESI 491
ironia. Ma esprimendo tutto ciò attraverso i profeti egli ha manifestato al suo
popolo e nella sua lingua ciò che esso ha commesso contro di lui e quel che
egli dovette pensare e sentire, espresso proprio nello stesso modo che se fosse
stato pensato e sentito da un uomo.
L'ispirazione non è quindi lo stesso che la Rivelazione. Molto spesso però
l'ispirazione racchiude in sè la Rivelazione. È però da negare assolutamente che
essa sia sempre Rivelazione. Infatti è frequentissimo il caso che lo Spirito Santo
induca l'autore a scrivere o manifestare quanto costui ha assunto attraverso vie
naturali, per esempio da relazioni storiche. Ora sarebbe strano aspettarsi che lo
Spirito Santo, trattandosi di cose della scienza profana, la cui conoscenza non
ha interesse religioso veruno, riveli e comunichi all'agiografo quelle conoscenze
che sovrastano di gran lunga il sapere del tempo e la cui scoperta sarà probabil¬
mente il compito dell'indagine dei millenni futuri. In queste cose Iddio lascia
che gli uomini si esprimano con le idee relative ai loro tempi ("Il sole si fermò",
Gios. io, 13), senza far loro presente che esse non sono oggettivamente giuste.
Quanto ora detto non vale solamente per le questioni puramente scientifiche.
Succede molto spesso che nei Libri storici l'agiografo accoglie nella sua narra¬
zione, con o senza menzione nel nome, altre notizie a lui giunte parte per iscritto,
parte oralmente (in questi ultimi casi si ha citatio implicita), senza preoccuparsi
di andare a vedere sotto quale aspetto possono essere incomplete o pur'anche
sbagliate (cfr. p. es. la Genealogia di Gen. 5). È chiaro che qui non era neces¬
sario che lo Spirito Santo rendesse edotto l'autore sul preciso valore ogget¬
tivo delle cose, in quanto ciò per lo scopo religioso dello scritto non aveva im¬
portanza alcuna. Infatti il fine dello Spirito Santo è religioso e nient'affatto di
ordine scientifico-profano. Così pure troviamo molto spesso nell'Antico Testa¬
mento, specie nei libri più antichi, delle narrazioni con un nucleo storico parti¬
colarmente importante per la storia della Rivelazione, le quali però o sono nar¬
rate dallo stesso autore nella lingua poetica orientale, o furono da questi scoperte
in una forma narrativa tradizionale. Un'attenta lettura di queste narrazioni per¬
mette di scoprirne, da tutta l'impostazione dell'esposizione, il senso esatto. E
dunque se si volessero prendere sempre le narrazioni storiche alla lettera, molto
spesso ne risulterebbero rappresentazioni indegne e non dogmatiche di Dio.
Sant'Agostino (De genesi ad litteram, 6, 12) ci ha già avvertiti di questo fatto :
Iddio non ha impastato con mani umane del fango per farne un corpo, così come
fanno i bambini che d'inverno costruiscono i pupazzi di neve, soffiandovi " dopo
di ciò lo spirito della vita nel naso". E neppure Iddio lavorò per sei giorni di se¬
guito, come fa l'uomo, riposandosi al settimo. Anzi egli non lavorò affatto, bensì
creò per mezzo della sua parola onnipotente, la cui virtù è così infinita da far
esistere una realtà esterna a Dio senza che vi sia una relazione reale dell'agente
verso l'effetto. Per conseguenza risulta chiaro che la narrazione della Creazione è
una narrazione improntata al modo umano di lavorare, il cui scopo fu di spie¬
gare chiaramente ai figli di Israele che tutto quel che esiste, anche il sole e le
stelle e il mare e il Nilo, dagli Egizi e da altri pagani adorati come dèi, altro
non sono che creature dell'unico, vero ed eterno Iddio, chiamate all'esistenza
dal nulla per opera della sua parola onnipotente. Nello stesso modo noi dob¬
biamo interpretare i capitoli successivi, che trattano della storia primitiva del¬
l'uomo. Indubbiamente vi è un nucleo storico descritto in forma popolare, forma
statabili, anche quando ci porti ad rappresen
s
492 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO sto
il
che nasconde e custodisce in se stessa verità teologiche e profondamente umane. Gia
Ciò è provato dal colore generale di queste narrazioni, che mostrano la loro ori¬ co
gine in epoche culturali completamente diverse. il
Così pure possiamo e dobbiamo indubbiamente riconoscere che una narrazione autor
ha colore leggendario non solo quando la sua interpretazione strettamente sto¬
rica porti ad una contraddizione insuperabile con avvenimenti storicamente con¬ religioso
statabili, ma anche quando ci porti ad una rappresentazione di Dio insostenibile sceg
ed indegna. Dobbiamo poi ancora osservare quanto segue: anche quando l'agio¬ com
grafo riferisce con proprie parole reali avvenimenti storici, egli usa spesso lo stile u
e la forma quali si usavano nel suo tempo e presso il suo popolo e che oggi an¬ in
cora è usato in Oriente, come pure in Cina e nel Giappone. Ed anche a questo quello
proposito è necessario osservare come non fosse compito dello Spirito Santo narr
quello di guidare la penna all'autore in modo che il suo stile si confacesse alla dell
stringatezza e precisione narrativa dei moderni autori occidentali. Egli lo lasciò ch
narrare così come la sua vena meglio lo portava, ma in modo che dal complesso dialog
della narrazione risultasse chiaro il concetto religioso da tramandare... Così, se remo
l'autore del Nuovo Testamento ha la libertà di scegliere, ordinare e accentuare Ma
i fatti storici in corrispondenza del suo fine e compito particolare, lo Spirito
Santo assicura allo scrittore dell'Antico Testamento un'ampiezza ancor maggiore ques
alla sua libertà narrativa, in quanto quest'ultimo in generale non ha lo scopo i
preciso di narrare della vera storia, ma bensì quello di servirsi di un avveni¬
mento o di una figura storica per attaccarvi una narrazione religiosa e morale o dall
una composizione poetica. In tal modo il libro della Sapienza di Salomone è come
uno scritto didattico ispirato del tardo giudaismo, che pone in bocca al re Sa¬ contenut
lomone quanto esso insegna; e Giobbe è un dialogo filosofico-religioso, allac¬
ciato alla figura storica di un giusto dei tempi remoti. inizia
A questo punto si potrebbe forse esclamare: Ma allora nella lettura della c
Bibbia non si può affermare con certezza quel che è stretta verità storica e quel ge
che non lo è! Noi rispondiamo: È vero, poiché questo non è il compito che le c
spetta. Dal punto di vista religioso è perfettamente indifferente che la figura di senza
Tobia sia una leggenda oppure una realtà storica. Noi dobbiamo prendere la p
Sacra Scrittura così com'è stata scritta ed intesa dallo Spirito Santo: non come l'autore,
un moderno manuale di storia, anzi neppure come un'opera di consultazione
teologica, bensì come un libro vivente, il cui contenuto totale, anche là ove tratta
di storia profana, ha come scopo ultimo di suscitare, di promuovere la vita reli¬ ispira
giosa. Tutti i singoli libri della Sacra Scrittura, iniziando da quelli di Mosè fino questo
a quelli dei Re in modo particolare, manifestano chiaramente questo intendi¬
mento, sia per la scelta della materia, che per il genere dell'esposizione.
E dunque, l'insegnamento dogmatico della Chiesa circa l'inerranza della Sacra
Scrittura, che cioè l'agiografo scrive la verità senza alcun errore non solo nei
confronti dei concetti religiosi, ma anche di quelli profani, deve essere giusta¬
mente intesa nel modo seguente: Quando l'autore, sia che dichiari espressa¬
mente con parole, sia che lasci intendere dal senso globale del suo scritto che
il fatto così è stato e non altrimenti, così dev'essere inteso e non altrimenti, in
questo caso si deve essere certi che lo Spirito ispiratore ha mantenuto immune
da ogni errore quest'affermazione positiva. In questo caso il fatto storico ci è
raccontato senza errore. Il ricercare dove e quando si tratta di questo caso, è
§ IO I. CHIARIFICAZIONI SUL RACCONTO DELLA GENESI 493
compito scientifico dello studio delle Sacre Scritture. Comunque la decisione
ultima spetta sempre al Magistero ecclesiastico ».
Per completare quanto sopra vedere i §§ 13-14 e soprattutto l'Encicl. Divino
afflante Spiritu di Pio XII.
4. - Nel corso dei secoli sono sorti numerosi tentativi di spiegare il racconto
genesiaco della creazione secondo i principi suddetti. Meritano di essere ricor¬
dati tre tentativi principali: la spiegazione letterale, la periodistica, e l'ideale.
a) La spiegazione letterale tenta di sciogliere le difficoltà scientifiche, affer¬
mando che gli strati geologici son dovuti a catastrofi, come ad esempio il diluvio
biblico (teoria del diluvio) o sono il resto di una precedente creazione (teoria
restituzionistica). Gen. 1, 2 alluderebbe a un mondo distrutto, di cui si descrive
nei versetti successivi la ricostruzione.
Alla prima ipotesi si oppone la profondità degli strati geologici e il fatto che
nelle ere arcaiche manca qualsiasi traccia umana. Di più è anche in contrasto con
il racconto del quarto giorno (creazione del sole, della luna e delle stelle). La se¬
conda teoria non corrisponde ai dati geologici e per di più introduce senza alcun
motivo nel racconto, tra il v. 1 e 2 della Genesi, la completa creazione di un"
mondo, e, rispettivamente, lo sfacelo del primo universo.
b) La spiegazione periodistica afferma che i giorni della Genesi rispondono
a una durata di tempo imprecisa e cerca di armonizzare questi periodi con le
ere geologiche.
Contro questa interpretazione sta il fatto che il biblico iom (giorno) non si
può intendere nel senso di periodo, poiché è specificato dalla « sera » e dal
« mattino » (si veda particolarmente Gen. 1, 4-5). Inoltre non si accorda con le
ere geologiche, poiché non è possibile trovare alcun fondamento che ci per¬
metta di ripartire in sei gli strati terrestri.
c) La spiegazione ideale ci insegna che il racconto genesiaco sulla creazione
non segue un ordine storico, ma semplicemente logico. L'Autore Sacro ha distinti
nell'opera creativa sei momenti logici, e li ha rivestiti con la figura di sei giorni.
Il racconto biblico non intende insegnarci se Dio abbia creato il mondo • in un
istante, o in alcuni giorni, o in lunghi periodi di tempo. Nelle diverse spiega¬
zioni gli autori seguono teorie proprie. Taluni spiegano che l'intero racconto ge¬
nesiaco è un'allegoria o un rivestimento poetico; altri che ha lo scopo di santi¬
ficare, con il ricordo della creazione, i giorni della settimana e di rammentare il
riposo sabbatico (teoria liturgica); altri ancora che l'agiografo ha utilizzato rac¬
conti popolari, per meglio far comprendere che Dio è creatore di tutto e che il
sabato è il giorno che egli ha santificato (Lagrange). Altri ancora vedono nel
racconto genesiaco una serie di visioni con cui Dio comunica ad Adamo il fatto
della creazione; né mancano coloro che affermano che qui la Bibbia ha riesumato
e rielaborato antichi miti, diffusi tra gli Orientali dell'epoca (Gunkel). Al tempo
patristico Clemente di Alessandria, Origene, Atanasio e specialmente Agostino
hanno più o meno accolto interpretazioni idealistiche.
Tutte queste forme della teoria idealistica, eccetto l'ultima, non sono mai state
condannate dalla Chiesa. Si deve riconoscere solo in modo generale il carattere
storico di Gen. 1-3, e specialmente nei punti che toccano le basi della religione
cristiana, come ad esempio: la creazione dell'universo fatta da Dio all'inizio del
tempo; la peculiare creazione dell'uomo, la formazione della prima donna dal
Suhard sulla storicità dei primi capitoli della Genesi
s
494 P- n- ÿ
LA REALTÀ extradivina e l'attività salvifica di dio d
de
primo uomo; l'unità del genere umano; la felicità originale dei protoparenti nello conte
stato di giustizia, d'immortalità, e d'integrità; l'ordine dato da Dio al primo acco
uomo per provarne l'obbedienza; la trasgressione, per istigazione del demonio, pres
del comando divino; la perdita che ne deriva dello stato primitivo di innocenza de
e la promessa del Salvatore. Questa è la decisione della Commissione Biblica del studi
30 giugno 1909 (Denz. 2121 ss.). * La Pont. Comm. Biblica, nella lettera al Card. hann
Suhard sulla storicità dei primi capitoli della Genesi (27 marzo 1948), spiegando l
il senso del termine « storico », conviene che non si tratti di storia nel senso
classico e moderno della parola. E aggiunge : « Col dichiarare a priori che quei non
racconti con contengono storia nel senso moderno della parola, si lascerebbe fa¬ mezzo
cilmente intendere che essi in nessun modo ne contengono; mentre di fatto ri¬ i
feriscono in un linguaggio semplice e figurato, acconcio all'intelligenza di una ri
umanità non progredita, le verità fondamentali presupposte all'economia delia per
salvezza, in pari tempo che la descrizione popolare delle origini del genere umano precisamente
e del popolo eletto. Esorta inoltre all' " attento studio di tutti i problemi lette¬
rari, scientifici, storici, culturali e religiosi " che hanno connessione col racconto
biblico, e dichiara che " nel frattempo va praticata la pazienza, che è prudenza
e saggezza della vita " » (Denz. 3002). *
Notiamo infine che il magistero della Chiesa non è in contrasto con l'affer¬
mazione che un mito sia stato utilizzato quale mezzo espressivo della rivelazione
divina, conservata nella Bibbia. Lo scrittore sacro, ispirato dallo Spirito Santo,
poteva servirsi anche di una concezione mitica per rivestire la rivelazione, come
ad esempio ha fatto l'apostolo Giovanni usando, per parlare del Figlio di Dio,
in
la parola Logos, d'origine ellenistica e precisamente tratta dalle categorie gno¬
stiche. Il contenuto proviene bensì da Dio, ma Dio si estrinseca in maniera ri¬
spondente alla concezione umana. l'essere
intellig
t
§ 102. Le idee divine. la
ana
Dio ha creato il mondo secondo un piano e in conformità a idee eterne. preso
È dottrina teologica certa. manifestazion
pote
1. - Il piano 0 idea divina del mondo è l'essere divino stesso, in quanto que
imitabile da realtà extradivine (mundus intelligibilis, causa exemplaris).
L'essenza divina è il prototipo e la norma di tutte le creature. Il piano
di Dio è eterno, immutabile e semplice come la sua essenza. Ogni cosa
creata rispecchia la gloria di Dio in modo analogico, sotto un aspetto
particolare. È un pensiero di Dio che ha preso forma, apparendo nello
spazio e nel tempo. Il mondo è la manifestazione finita di Dio, il quale
palesa nelle cose la sua maestà, bellezza e potenza. Egli in certo modo
esprime in esse la propria essenza, cosicché questa per mezzo loro viene
a manifestarsi, anche se velatamente.
§ 102. LE IDEE DIVINE 495
Nonostante la molteplicità delle cose, le idee esemplari si riducono
in Dio a una realtà unica. Si può parlare soltanto di molteplicità di
idee in quanto l'essenza divina, in sè infinita, viene rappresentata in
molti modi dalle cose finite, le quali la imitano e così divengono imma¬
gini e vestigia di Dio. Il mondo diviene in tal modo l'indice di Dio.
Qualcosa che ce lo addita: il messaggero divino.
Non si deve tuttavia dimenticare che le cose sono soltanto imitazioni
analogiche di Dio. Egli non si esprime totalmente in esse, come fa l'ar¬
tista nella sua opera, ma rimane sempre infinitamente trascendente (cfr.
§ 37). Le cose secondo il loro essere ideale sia prese singolarmente, sia
nel loro complesso, trovano in Dio la loro forma ben tracciata sin dal¬
l'eternità.
2. - La Bibbia ci insegna che Dio ha creato tutto con sapienza: cfr.
Is. 40, 44; Sal. 104 (103), 24; Prov. 3, 19; 8, 27; e specialmente ci
dice che ha fatto l'uomo a sua immagine e somiglianza (Gen. 1, 26).
La sapienza « è l'artefice di ogni cosa » (Sap. 7, 21).
La prova più evidente sta nel termine Logos. In questo vocabolo,
come già detto (§ 86), si unisce il concetto veterotestamentario di « pa¬
rola » e la dottrina greca, specialmente platonico-stoica, delle idee. Nel
Logos il Padre ha formato il suo eterno piano della creazione, la sua
eterna idea del mondo è quella delle singole cose. Il Logos racchiude
la concezione divina dell'universo. È il riflesso reale dell'idea che il
Padre ha del mondo, il prototipo dell'universo intero e delle singole
realtà che lo costituiscono (cfr. per un esame più profondo il § 86).
3. - Nell'epoca patristica, Agostino ha rielaborato la dottrina plato¬
nica delle idee in senso cristiano. Mentre, secondo Platone le idee esem¬
plari delle cose, sono realtà sussistenti, con Agostino diventano idee di
Dio. Poiché il Padre vede la imitabilità della sua essenza nella cono¬
scenza feconda, con cui genera il Figlio, ne proviene che le idee trovano
la loro espressione comprensiva nel Figlio da lui generato (Logos). Per
questo Agostino descrive il Figlio come il pensiero artistico (ars) di Dio,
il quale è l'artista creatore. Un accenno a ciò Agostino lo rinviene nel
prologo al Vangelo di Giovanni (1, 4): ciò che è stato fatto, era vita
in lui (così Agostino segna la punteggiatura della frase). Perciò tutte le
cose hanno un essere eterno e increato in Dio, in quanto esistono
idealmente in lui.
La dottrina delle idee cristianizzata da Agostino diviene patrimonio
inalienabile della teologia cristiana (cfr. in modo speciale l'esemplarismo
4. - Dalla dottrina dell'idea divina del mondo
496 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO uom
co
di S. Bonaventura). Serve per conoscere più profondamente il rapporto comple
un'ide
tra Dio e il mondo: le idee costituiscono il ponte tra l'essere infinito e
l'
il finito. Inoltre chiariscono che la creazione presuppone il processo vi¬ m
tale nel grembo stesso di Dio.
de
4. - Dalla dottrina dell'idea divina del mondo derivano le seguenti conse¬ l
guenze importanti: cer
a) Ogni cosa, e specialmente ogni singolo uomo, ci rivela un determinatoinfruttuo
aspetto di Dio, cosicché dall'insieme di tutte le cose del mondo, sì varie e sì vi
diverse, possiamo formarci un'immagine più completa di Dio medesimo. s
b) Ogni cosa, in quanto realizzazione di un'idea divina, ha una dignità l'irrazionalità
e
un valore. La dignità che le compete è appunto l'intrinseca giustificazione del appa
suo essere (Guardini). Quanto più è grande tanto maggiori sono il suo diritto ad
esistere e la sua forza di esistenza. ne
c) Il senso e la conoscibilità del mondo e dei suoi singoli membri sono Sin
pure basati e garantiti dal fatto che tutte le cose e l'universo intero sono la rea¬
lizzazione del pensiero divino. Nel mondo, in certo senso, sta « investito » dell'essere
lo
spirito di Dio. Non è dunque un tentativo infruttuoso per l'uomo il cercare di all'uo
conoscere, penetrare e dominare il mondo in cui vive. Non si può pertanto so¬ len
stenere l'irrazionalismo radicale e il nichilismo che si oppongono a questo modo intellet
di vedere, affermando l'inconoscibilità e l'irrazionalità di tutti gli esseri. Cfr. § 72.
Certo il contenuto spirituale del mondo non appare subito così evidente, e sicondurrà
scopre solo con fatica e con sforzo non comune. Anzi, dopo il peccato, si è si
ancora oscurato maggiormente. Tuttavia apparirà nel suo pieno fulgore quandoilluminaz
Dio onnipotente creerà nuovi cieli e nuova terra. Sino a quel momento gli sforzi un'u
conoscitivi dell'uomo sono semplici tentativi, che si rinnovano continuamente,
per rimuovere il velo che copre il senso dell'essere. Il credere che nel mondo
vi è il pensiero di Dio è un invito persistente all'uomo affinchè non si fermi in
questa sua fatica, anche se il progresso è assai lento. A differenza del pagano, fatto
che non ha nessuna garanzia nel suo sforzo intellettuale, il fedele che cerca di Osse
penetrare spiritualmente il mondo ha fin dall'inizio la certezza che il suo tenta¬ d
tivo non è un lavoro di Sisifo, ma che lo condurrà ad un esito in questa vita
provvisorio e nell'altra completo. In tal modo gli si chiarisce anche ciò che nel¬ m
l'ambito della storia sembra opporsi a tale illuminazione e penetrazione. conoscenza,
d) Se tutte le idee divine formano tra loro un'unità e sono realmente iden¬ me
tiche in Dio, differenziandosi solo virtualmente (cfr. per tale espressione il § 67),
ne deriva che anche l'assieme delle cose forma un tutto organico, un universo,
un cosmo.
e) L'importanza che assume per l'uomo il fatto di essere l'attuazione di un
pensiero divino, verrà dimostrata più avanti. Osserviamo soltanto che, essendo
anch'egli la realizzazione temporale di una idea divina, vive in rapporto con
tutte le altre cose. Così è stato disposto perchè la sua esistenza sia coesistenza
con tutto il resto del creato. Egli realizza in vari modi questo legame con tutte
le altre cose. Essendo creatura dotata di conoscenza, una delle forme sue proprie
d'incontro con gli altri esseri è la conoscenza, mentre l'amore è la forma più
alta, più intima, più impegnativa.
§ 103- l'atto creativo visto in dio 497
f) L'idea che Dio ha delle cose, coinvolge l'intero processo evolutivo, dal
primo germe sino all'ultima forma futura di ogni singolo essere. La struttura
finale che, secondo la concezione divina, sarà raggiunta dal mondo intero, è
espressa nella S. Scrittura sia del Nuovo che dell'Antico Testamento con le parole
« nuovo cielo e nuova terra ». Nel nuovo cielo e sulla nuova terra ogni singola
cosa avrà forma rispondente al mondo rinnovellato. L'uomo raggiunge la forma
definitiva che Dio gli ha destinato, quando, con libera decisione, sceglie di sot¬
toporsi alla sua volontà. Quanto più l'uomo informa l'esistenza al volere divino,
tanto più si accosta all'idea, identica a Dio, del suo proprio essere e della sua
vita, tanto più diviene se stesso. Più si mette in contrasto con Dio, più si op¬
pone alla propria idea, al suo prototipo e quindi alla sua vera essenza. Allonta¬
narsi da Dio significa, inevitabilmente, decadere dalla propria vera natura.
g) L'uomo si accosta a Dio per mezzo di Cristo, in cui il Logos, cioè la causa
esemplare del mondo, è divenuta realtà storica. Ciò significa tanto unione a Dio
e all'idea, identica a lui, nella sua propria essenza, quanto unione a Cristo. L'ac¬
costarsi a Dio si realizza perciò per la via dell'imitazione di Cristo.
h) Così diviene comprensibile come la dedizione al prossimo sia dedizione
a Cristo. Infatti in ogni creatura si palesa, in certo senso, Cristo, l'eterno esem¬
plare di ogni singolo uomo. Perciò ogni uomo, anche se con molte alterazioni e
nonostante la sua autonomia, rispecchia il volto di Cristo, sicché l'incontro con
un nostro simile è l'incontro con Cristo (cfr. Mt. 25, 34-46).
i) Siccome nel Logos sono racchiuse anche le idee del buono, del vero, del
bello, e quindi dei valori, l'aspirazione alla bellezza, alla verità, alla bontà è un
donarsi al Logos e poiché egli ci è stato reso accessibile nella figura storica di
Cristo, è un donarsi al Figlio di Dio incarnato, crocefisso, risorto e vivente nella
gloria del Padre.
§ 103. L'atto creativo visto in Dio.
1. - L'atto creativo è compiuto dalle tre Persone divine, come da
un principio unico. È dogma di fede. Si veda il IV Concilio Latera-
nense (Denz. 428; cfr. § 99) e il Decreto per i Giacobiti (Denz. 706).
Cfr. pure la dottrina sull'attività di Dio ad extra (§ 49). Ciò non sta in
contrasto col fatto che l'atto creativo si compie secondo l'ordine inte¬
riore a Dio ossia secondo le processioni e relazioni intradivine.
2. - a) "L'Antico Testamento insinua la cosa, ripetendo continuamente
che Dio crea mediante la parola, dirige la storia con la parola, per
mezzo della parola giudica (Is. n, 4; 55, 10 ss.; Sap. 16, 24 ss.; 18,
14 ss.; Eccli. 43, 26; cfr. § 86). Per quanto riguarda il primo punto,
Dio crea in quanto parla (Gen. 1, 1 ss.); comanda e l'intera creazione
balza fuori dal nulla (Giudit. 16, 14; cfr. 9, 6). Icieli furon creati dalla
parola di Dio e un soffio di sua bocca li ornò tutti. Egli disse e fu fatto,
32 - schmaus - dogmatica I.
Dio medesimo, tuttavia il credente del Nuovo
498 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
(cfr.
comandò e fu creata ogni cosa (Sai. 33 [32], 6, 8 ss.; cfr. Sai. 118 inglob
[117]» 89). o
ste
Anche se il modo di esprimersi veterotestamentario circa la parola di
Dio, non contiene alcuna rivelazione formale del Logos personale, cioè
della seconda Persona divina, ma presenta solo l'agire onnipotente di
Dio medesimo, tuttavia il credente del Nuovo Patto, alla luce della ri¬ Figlio
velazione neotestamentaria, può vedere nella « parola » dell'Antico Te¬ la
stamento un'allusione al Logos personale (cfr. § 44). Ciò che significa
co
la « parola » veterotestamentaria viene inglobato e chiarito nel Logos
del Nuovo Testamento. Il Logos è la forza onnipotente per mezzo di F
cui il Padre ha creato tutte le cose e, nello stesso tempo, è l'idea eterna
che Dio ha del mondo. L'esistenza e il senso del mondo sono garantitipersona
nel Logos. Cfr. per questo duplice significato del Logos il § 86. dott
Tuttavia non si deve asserire che il Figlio, in quanto parola eterna del
del Padre, stia in rapporto più intimo con la creazione di quanto lo è pe
il Padre medesimo. Entrambi costituiscono con lo Spirito Santo l'unico personal
principio del mondo. Ma la volontà creatrice, con la quale le cose sono
evocate dal nulla, deve passare dal Padre nel Figlio, poiché il Padre nonpariment
può pensare nulla, nè compiere cosa alcuna senza il Figlio (Giov. 5,
17- 1:9-36). Egli possiede il suo essere personale solo nella beata e bea¬
Con
tificante comunione con il Figlio (cfr. la dottrina delle relazioni divine
nel § 58). E di rimando il Figlio, senza del quale il Padre non può Sp
pensare, amare e agire, riceve la facoltà di pensare, di amare, di agire riguard
dal Padre. A lui deve il suo essere personale e il suo operare : « In Fig
verità, in verità io vi dico, il Figlio non può fare nulla da sè, ma solo San
quello che vede fare dal Padre lo fa parimenti il Figlio » (Giov. 5, 19).pensiero,
b) Proseguendo vediamo che nell'Antico Testamento anche lo Spi¬ tra
rito è collegato alla creazione. Cfr. § 44. Con questa parola si esprime ric
solo una relazione particolare di Dio con il mondo. Ma alla luce del Figlio
Nuovo Testamento si può scorgere nello «Spirito» veterotestamentario menta
un'anticipazione della piena rivelazione riguardo allo Spirito Santo. Così Figlio
illuminati, si può asserire che il Padre e il Figlio non possono possedere
alcunché da soli, nè agire senza lo Spirito Santo. Le tre Persone divine
hanno, anzi, una sola, essenza, un solo pensiero, un amore e un agire solo.
Si diversificano unicamente per lo scambio tra l'Io e il Tu, ossia per il
rapporto personale. Perciò lo Spirito Santo riceve necessariamente l'idea
del mondo della quale è espressione il Figlio, dal Padre e dal Figlio.
Il Figlio la riceve per via di processo mentale fecondo, la cui espres¬
sione è il secondo Io divino, che è il Figlio stesso. Lo Spirito Santo
§ 103- l'atto creativo visto in dio 499
la riceve per via di vincolo amoroso fecondo tra Padre e Figlio del
quale (vincolo) è egli stesso sigillo. Mentre è proprio dell'essenza della
generazione, come fecondo pensare del Padre, che il Figlio, in quanto
espressione del pensiero paterno, abbracci anche le cose del mondo, allo
Spirito invece solo per il modo con cui procede, ossia per spirazione
come atto d'amore, non spetta senz'altro necessariamente il ricevere
anche l'idea del mondo del Padre e del Figlio. Il Figlio essendo espres¬
sione del pensiero paterno possiede l'idea del mondo che ha il Padre
proprio in ragione del suo modo di procedere, sicché la S. Scrittura
può affermare del Figlio stesso, ma non dello Spirito Santo, che per
mezzo di lui le cose sono state fatte.
Si può formulare tutto questo nel seguente modo: l'unico Dio esi¬
stente come Padre, Figlio e Spirito Santo, ha una determinata idea del
mondo, tanto nel suo complesso come per ogni singola cosa.
c) Si deve inoltre osservare che il Padre non solo ha un'eterna
idea del mondo, ma anche un'eterna volontà di esso, in altre parole
un amore eterno per il mondo. Come il Padre dona al Figlio la sua
idea del mondo, così gli dona pure il suo amore del mondo. Il figlio
riceve dal Padre l'atto d'amore con il quale egli si inabissa nel Padre
e quindi anche l'amore che abbraccia le creature. Padre e Figlio si
stringono tra loro in un atto amoroso infinito; e con il loro amore, in
cui si donano a vicenda, abbracciano pure tutte le creature. Ora mani¬
festazione, attuazione, sigillo dell'amore tra Padre e Figlio è appunto lo
Spirito Santo (cfr. § 90). Anche il mondo quindi è imbevuto dell'amore
di cui lo Spirito Santo è il sigillo. Quest'amore è amore creante; è l'a¬
morosa volontà creatrice di Dio. Se il mondo è avvolto dall'amore del
Padre e del Figlio, necessariamente anche l'amore personale, lo Spirito
Santo, deve abbracciare il mondo. Nell'amore che egli riceve dal Padre
e dal Figlio, nel quale egli si dona al Padre e al Figlio, nell'amore che
è egli stesso, è incluso pure l'amore verso il mondo. Come le cose hanno
un essere eterno, ideale espresso nel Figlio, così, nonostante la loro
temporalità, sono eternamente avvolte dall'amore di Dio che fluisce nello
Spirito Santo. Il Figlio deve al Padre il suo amore per le cose. Lo Spi¬
rito Santo lo deve al Padre e al Figlio per spirazione.
Si può perciò dire: Il Padre crea il mondo mediante il Figlio nello
Spirito Santo. Nello Spirito Santo in quanto in lui l'amore creatore che
è il principio del mondo trova il suo sigillo intradivino; mediante il
Figlio in quanto l'amore creatore del Padre vien dato al Figlio, e me-
zione speciale con il mondo.
500 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
essen
diante lui comunicato allo Spirito Santo; inoltre in quanto nel Figlio P
l'idea divina del mondo riceve la sua espressione intradivina.
Come il Figlio non ha una relazione particolare con la creazione che tale
manchi al Padre e allo Spirito Santo, così, sotto un altro aspetto, nem¬ dell
meno lo Spirito Santo, a preferenza del Padre e del Figlio, ha una rela¬
esternamen
zione speciale con il mondo. un
intim
d) Quanto sopra si può anche esprimere così: Dio, che esiste come Padre, da
Figlio e Spirito Santo, crea il mondo. Oppure essendo Dio luce e amore si può a
dire che l'amore efficace, luminoso, esistente come Padre, Figlio e Spirito Santo, D
crea le cose secondo l'amorevole piano espresso dal Padre nel Figlio e trasmesso
poi dal Padre e dal Figlio allo Spirito Santo. Così da una parte si salva l'unità
dell'operazione divina, dall'altra si chiarisce come tale operazione si strutturi nellal'import
vita extradivina. Per tuia più facile intelligenza della cosa può giovare il consi¬natural
derare l'unica e indivisa attività divina esternamente e internamente. Se l'atto
creativo si osserva dal di fuori appare allora come un atto singolo, semplice, pro¬
m
cedente dall'amore. Ma se lo si osserva nel suo intimo vi si possono riscontrare ess
i tre gradini in cui si ripartisce. Si muove cioè dal Padre attraverso il Figlio crea
verso lo Spirito Santo e da lui torna nuovamente al Padre, scorre poi come un ne
fiume d'amore (in seguito a un libero decreto di Dio) al di là della sponda di¬ t
vina per riempire il nulla.
spirito
3. - In tal modo si chiarisce pure l'importante e difficile problema
che riguarda la distinzione tra ordine naturale e supematurale. Per il
fatto che il Dio tripersonale crea il mondo mediante un atto creativo
semplice e unico, le creature non possono essere una chiara rivelazione u
della Trinità divina. Ma poiché colui che crea è il Dio tripersonale, lo
spirito, illuminato dalla fede, potrà scoprire nel mondo alcune tracce o re
ombre della triade personale divina. Il volto tripersonale di Dio rilucedell'essenz
attraverso le cose così lievemente che lo spirito creato non se ne accorge
a meno che Dio stesso non lo risvegli e, in certo senso, lo istruisca. risultare,
È come qualcuno che cammina dietro a una tela; se non è illuminato, le
lo spettatore può anche non vederlo, ma se la luce lo colpisce allora poss
ne scorge l'ombra che passa. Così lo spirito umano, illuminato da Dio, in
può vedere dietro le cose i profili oscuri del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo. Però l'aspetto esteriore delle realtà create ci rivela sem¬
plicemente la grandezza e la maestà dell'essenza divina.
Se noi invece chiediamo aiuto all'idea della profonda ed intima realtà
divina, possiamo dire che essa ci fa risultare, nella creazione, l'aspetto
esteriore della gloria divina, ci mostra che le cose sono chiamate nel¬
l'atrio esteriore dell'amore di Dio e che possono esserne la manifesta¬
zione. Ci accorgiamo anzi che contengono indizi della profonda vita
§ 103- l'atto creativo visto in dio 501
interiore del Dio tripersonale. Tuttavia legge tale accenni solo colui che
ne è stato istruito da Dio stesso. In realtà Dio ha creato il mondo per¬
chè partecipasse alla sua beatitudine tripersonale, non restasse sempli¬
cemente nell'« atrio esterno » dell'amore divino. La rivelazione lo dice
espressamente. Dio, infatti, ha elevato l'universo « soprannaturalmente ».
Cfr. §§ 114-117 sul rapporto tra ordine naturale e soprannaturale.
4. - La S. Scrittura, la parola di Dio scritta, testimonia ancora una
ulteriore relazione del mondo con il Verbo personale di Dio; il legame
che nasce dall'incarnazione del Figlio di Dio. È indifferente sapere se
il Figlio di Dio si è incarnato solo per liberare il mondo caduto nella
colpa, 0 se invece si sarebbe incarnato lo stesso anche se il mondo
avesse ignorato il peccato (cfr. il trattato sulla Redenzione). Infatti Dio,
nell'attuale ordine reale di salvezza, ha voluto l'incarnazione del Figlio
sin dall'eternità e, siccome nel mondo che egli ha creato ciò che è infe¬
riore deve servire a ciò che è superiore, l'incarnazione è il coronamento
di tutte le opere divine. È l'ultima luminosa parola che Dio ha pronun¬
ziato nel mondo. Tutte le parole che il Padre ha pronunziato prima
nella rivelazione sia naturale che soprannaturale, sono racchiuse e chia¬
rite nel verbo conclusivo: Cristo. In vista di lui sono state espresse.
Il Padre enuncia nel mondo tutte le parole precedenti attraverso il Figlio,
nello Spirito Santo. Poiché sono state pronunziate solo in vista della
finale, sarebbero rimaste inespresse se il Verbo conclusivo non fosse stato
pronunziato. In altri termini, Dio non si sarebbe deciso a pronunziare le
parole precedenti, se non avesse stabilito in anticipo di pronunziare anche
l'ultima. Così tutte le cose hanno, come anche noi, la loro esistenza per
mezzo del solo Signore Gesù Cristo e in vista di lui (1 Cor. 8, 6).
È evidente che l'Apostolo intende qui parlare del Cristo storico, che,
glorificato, continua a esistere nella sua Chiesa (cfr. la Cristologia).
È da notare che Paolo parla dell'esistenza, ossia di un dato naturale.
Il nostro esistere trova la sua ragione in Cristo, poiché noi dobbiamo
esistere solo come creature chiamate in Cristo alla salvezza e alla san¬
tificazione. « Ci ha sottratti all'impero delle tenebre, e ci ha trasportati
nel regno del Figlio dell'amor suo, in cui abbiamo la redenzione, la
remissione dei peccati. Egli è immagine dell'invisibile Dio, giacché in
lui furon create tutte le cose nei cieli e sulla terra, le cose visibili e le
invisibili; siano i Troni, siano le Dominazioni, siano i Principati, siano le
Podestà. Tutto per mezzo di lui e in vista di lui fu creato; ed egli è
alle creature come il sole in mezzo ai pianeti, co
m
502 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
ri
avanti a tutto e il tutto in lui sussiste» (Col. i, 13-17; cfr. pure Ebr. rig
1, 1-3. 10).
n
Il mondo perciò non è in ultima analisi ordinato a se stesso, in un
ordine a sè stante e pienamente autonomo. Il suo ordine di fatto è con¬
globato in quell'ordine il cui fondamento è Cristo. « Cristo sta in mezzo ha
alle creature come il sole in mezzo ai pianeti, come il cuore della crea¬ la
zione, comunicando luce, vita e moto a tutte le membra, e facendo loro
da centro di gravità, perchè in lui e per lui riposino in seno a Dio. l'un
Stando all'apparenza, nella vita pratica, noi riguardiamo il sole come Morcelliana
una risorsa destinata unicamente alla prosperità della terra; allo stesso
modo siamo soliti considerare il Cristo come il nostro aiuto e liberatore n
mandatoci da Dio, come il nostro Gesù, da cui tutto abbiamo da spe¬ stat
rare. Però, con l'andare del tempo la scienza ha mostrato che non è la solo
terra che attrae il sole, ma è il sole che attrae la terra; così la teologia 19-
scientifica, per comprendere tutta l'importanza di Cristo deve giungere a 117
considerarlo come il centro di gravità di tutto l'universo » (G. Scheeben, p
Imisteri del cristianesimo, § 64, ed. Morcelliana, 1949, 318). triperson
Si può e si deve distinguere accuratamente tra l'ordine naturale e l'o
soprannaturale. Tuttavia in realtà i due ordini non si possono scindere.
Poiché Cristo è colui per il quale il mondo è stato creato, ne deriva che
l'universo raggiunge il suo pieno senso finale solo quando in esso appare dice
affa
visibile la gloria nascosta di Cristo (Rom. 8, 19-22). Si veda la dottrina crea
dell'ordine naturale e soprannaturale (§§ 114-117) e la Cristologia. l
Sp
5. - Spesso nell'epoca patristica, specie nella polemica contro gli gno¬ N
stici e gli ariani, vien detto che il Dio tripersonale ha creato il mondo c
con un unico atto creativo svolgentesi secondo l'ordine delle processioni
interne. cond
presenz
Atanasio nella terza Ep. ad Serapionem (n. 5) dice : « Secondo queste testi¬ sant
monianze bibliche è chiaro che lo Spirito non è affatto una creatura, ma che ipòstasi
egli interviene nell'atto creatore. Infatti il Padre crea tutto mediante il Logos princip
nello Spirito, poiché dove vi è il Logos, quivi è pure lo Spirito, e le cose create
mediante il Logos ricevono la forza di essere dallo Spirito attraverso il Logos ».
Basilio (De Spiritu Sancto 16, 38) così scrive : « Nella creazione di essi (gli
angeli) io penso a una causa fontale, il Padre, a una causa producente, il Figlio,
a una perfezionante, lo Spirito Santo, di modo che gli spiriti servitori hanno
potuto sussistere per la volontà del Padre, essere condotti all'esistenza mediante
l'attività del Figlio ed essere resi perfetti dalla presenza dello Spirito Santo. La
perfezione degli angeli consiste infatti nella loro santità e perseveranza in tale
stato. Ma nessuno pensi che io ammetta tre ipòstasi-principi e che sia imper¬
fetta l'azione del Figlio. Esiste un solo, unico principio di ciò che è, il quale
§ 104- DIO TRINO, UNICO CREATORE DEL MONDO 503
crea per mezzo del Figlio e perfeziona nello Spirito. Nè l'azione del Padre che
opera in tutto, è imperfetta; nè l'attività creatrice del Figlio, anche se non è
perfezionata dallo Spirito, è difettosa; poiché il Padre avrebbe potuto far senza
del Figlio creando con la sua sola volontà, ma egli vuole creare mediante il
Figlio; similmente il Figlio non aveva bisogno di aiuto per agire secondo la ras¬
somiglianza del Padre, ma volle, egli pure, perfezionare mediante lo Spirito
Santo ».
Giovanni Damasceno nel De fide orthodoxa (lib. 1, cap. 12) cosi si esprime :
« Se penso al rapporto scambievole delle Persone, il Padre mi appare come un
sole sopraessenziale, sorgente del bene, abisso di essenza, di ragione, di sapienza,
di forza, di luce, di divinità, sorgente generante e producente del bene che vi
è nascosto. È anche mente, abisso di ragione, generatore del Verbo e produttore,
mediante il Verbo, dello Spirito rivelatore. Per dirla brevemente sappiamo che
solo il Figlio è la ragione, la sapienza, la potenza, e la volontà del Padre è
l'unica forza anteriore alla creazione delle cose, è persona perfetta che procede
da altra altrettanto perfetta, come ben sa egli stesso, che è e si chiama Figlio.
Lo Spirito è la potenza rivelante che svela quanto sta nascosto nella divinità,
procede dal Padre, mediante il Figlio, e non per un atto generativo. Perciò è
anche colui che completa tutte le cose create ». Si veda anche Ireneo, Adversus
haereses, lib. 5, cap. 18, n. 2; Agostino, In loann., 20, n. 8.
§ 104. Dio Trino, unico creatore del mondo.
1. - Dio è la causa unica ed immediata dell'essere extradivino. È
dogma di fede. Vedere il IV Concilio Lateranense (Denz. 428). Nes¬
suna creatura può infatti porre un atto veramente creativo.
2. - Isaia così fa parlare Iddio : « Io sono il Signore che faccio tutte
le cose, che solo distendo i cieli, fondo la terra, e nessuno è con me »
(44, 24). Tutte le cose son opera sua: «Fonte della sapienza è la pa¬
rola di Dio lassù e le sue vie sono i comandamenti eterni. La radice
della sapienza a chi mai fu rivelata? e i suoi accorgimenti chi li conobbe?
La cognizione della sapienza a chi fu manifestata? Le molteplici sue vie
chi può intenderle? Uno solo è l'Altissimo, il creatore onnipotente, il re
potente e terribile oltremodo, che siede sul suo trono, Iddio dominatore.
Egli la creò con il suo santo spirito, e la vide, la calcolò, la misurò, e
la diffuse su tutte le sue opere e su ogni vivente, a seconda del suo
dono, e la elargì a coloro che lo amano » (Eccli. 1, 5-10).
3. -IPadri dall'attività creatrice di Cristo, testimoniata dalla Scrit¬
tura, dimostrano che egli sta al di là del creato, che non fa parte della
serie delle creature, anche se posto al vertice sommo di essa, come asse¬
riscono gli Ariani, ma che appartiene bensì alla sfera divina.
all'esistenza atomo. Per effettu
l'essere
504 P. n. - la realtà extradivina e l'attività salvifica di dio
u
4. - La ragione per cui nessuna creatura è capace di porre un atto l'esser
veramente creativo si può esporre come segue. La creazione è un'azione p
puramente spirituale della volontà, più precisamente dell'amore, azione e
indipendente da ogni presupposto materiale. La volontà delle creature, h
anche la più forte e possente, l'amore più profondo, non possono evo¬ en
care all'esistenza neppure un atomo. Per effettuare ciò la creatura do¬ Nessuno
vrebbe possedere forza infinita. Il nulla e l'essere non sono realtà quan¬
titativamente diverse, ma separate tra loro da un abisso infinito. Solo D
l'onnipotente può valicare la distanza tra l'essere e il non essere. Solo
la parola di Dio, che è in se stessa spirito e potenza, può, in quanto sempr
onnipotente, evocare dal nulla le cose. L'uomo elevi finché vuole la sua poss
voce nello spazio immenso, il suo grido non ha il potere di evocarvi
ciò che non esiste. Ogni forza creata muove entro l'ambito delle leggi vol
e dei dati naturali che Dio ha stabilito. Nessuno lo può spezzare né in
realtà né in sogno o con la fantasia. Il potere della creatura si riduce
cre
solo a mutare la forma della realtà creata da Dio. L'uomo può rima¬
ess
neggiare le cose create, dare ima raffigurazione artistica del mondo in
anch
parole 0 con il colore, in tono 0 in forma, sempre però legata alla realtà
attuata da Dio. Qui stanno le meravigliose possibilità artistiche di ogni
creazione umana. Per tale azione creatrice, che presuppone però l'atto
creativo di Dio, che anzi dipende ed è stata voluta da lui, il mondo si la
anch
presenta come un campo di possibilità illimitate.
processo
La
5. - Dio non può nemmeno utilizzare la creatura come strumento l'obbli
dì creazione. Egli non può conferire a un essere creato la sua forzafedelmente
creatrice, poiché in tal caso dovrebbe dargli anche la forza di volontà e
d'amore infinita.
Tuttavia la creatura può, in piena dipendenza da lui, partecipare in modo sing
finito all'atto creativo di Dio, lo può mediante il lavoro, l'arte, le produzioni m
dello spirito e del corpo. In tal modo partecipa anche alla beatitudine di Dio,
poiché, in conseguenza dell'identità di ogni processo vitale, in Dio attività e altre
beatitudine si identificano con lui (cfr. §§ 66-68). La Genesi (1, 28-30) ci dice
che Dio con la capacità ha conferito all'uomo l'obbligo di lavorare per la tra¬
sformazione della terra. Egli deve custodire fedelmente il mondo quale opera di
Dio, scoprire e utilizzare le leggi naturali e svilupparsi culturalmente (cfr. § 125).
Dio ha infatti deposto in ogni cosa le forze creative che, in dipendenza da lui,
attuano il progresso. Le singole cose sono concatenate tra loro e si condizionano
mutualmente. Dio le ha create non come esseri singoli, indipendenti tra loro,
ma come unità relazionale, ordinata, che si attua nel mutuo rapporto delle cose,
in un complesso unitario. È essenziale alla creazione divina che le cose si con¬
dizionino a vicenda e siano causa le une alle altre. Ciò avviene per volere
§ 105- VALORE SALVIFICO DEL DOGMA DELLA CREAZIONE 505
creatore di Dio. L'intreccio causale delle cose è il modo con cui Dio realizza
l'ordine nel complesso cosmico e in tutti gli eventi naturali.
6. - È pure dovuto alla volontà creatrice di Dio che le cose si siano
sviluppate da uno stato iniziale a quello attuale, e continuino a svilup¬
parsi in futuro : Dio non ha creato il mondo in uno stato già definitivo,
ma come un qualcosa che diviene continuamente.
Il mondo è un « divenire », un cammino verso lo stato definitivo inteso da
Dio. La dottrina evoluzionistica, quando sia ben intesa, non contrasta con la
creazione, è, anzi, quella che meglio le si adatta. La rivelazione asserisce soltanto
il fatto che Dio ha creato il mondo. Lo sviluppo non procede dal basso, ma dal¬
l'alto, da Dio stesso. Sul modo, e specialmente sui gradini evolutivi con cui Dio
ha chiamato all'esistenza il mondo attuale nulla ci è stato detto. Si deve soste¬
nere che Dio ha creato pochi germi originali dotati di energie per lo sviluppo
successivo, e che ha pure creato con atto speciale lo spirito, il quale per la pro¬
pria differenza qualitativa è irriducibile alla materia. Per il resto sta alla filosofia
e alla scienza naturale il decidere quale grado di verità compete alla teoria evo¬
luzionista. La dottrina dell'evoluzione non fa altro che mettere in chiara luce la
potenza e la saggezza divina. Solo Dio ha forza sufficiente per creare degli esseri
che sono anche essi, in certo senso, dotati di forza creativa. Cfr. Agostino, De
genesi ad litteram, 5, 23; De Trinitate, 3, 9, 16. Sul valore metafisico e religioso
delle « ragioni seminali » di S. Agostino si veda: E. Gilson, Introduction à l'étude
de S. Augustin, Paris 1929, 261-263.
§ 105. Valore salvifico del dogma della creazione.
I. - RAZIONALITÀ DEL MONDO E SUA SICUREZZA IN DIO.
1. - La dottrina che tutte le cose sono create da Dio, provengono
dalla sua intelligenza e dal suo amore, garantisce sia la loro essenza,
razionalità e dignità, grandezza e nobiltà, sia la loro esistenza. Le crea¬
ture partecipano all'essere divino, alla sua maestà, grandezza, dignità,
bellezza e stabilità. Brillano della luce di Dio e ardono del suo amore.
Siccome le creature poggiano in Dio, hanno una smisurata profon¬
dità. Non si possono conoscere sino al fondo di questo abisso anche se,
come realizzazione del pensiero divino, sono intelligibili fin nella loro
profondità più recondita.
Per il fatto che le cose non sono dati ultimi, ma realtà dipendenti da
Dio, non perdono nulla nè del loro valore nè della loro forza. Anzi, in
quanto sono realizzazioni finite della gloria divina, avvolte dall'amore
chiama divino, in realtà lo ridu
c
506 P. ri. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
infinito di Dio che le custodisce, sostenute dalla sua onnipotenza e fe¬ con
deltà, divengono esse stesse gloriose e imperturbabili al pari di Dio gra
medesimo. Al contrario, chi vuole che il mondo sia fondato su se stesso,
lo priva della gloria che gli proviene da Dio e della sicurezza di esi¬
stenza, che Dio solo gli garantisce. Egli lo eleva solo apparentemente, dell'involuzion
in quanto lo chiama divino, ma in realtà lo riduce a una piccolezza in¬ so
significante. Quando il cammino verso Dio è chiuso, allora uomini e
cose restano imprigionati nel ciclo degli eventi naturali e realizzano la
meschina esistenza che tutti per esperienza conosciamo. Se Dio è ri¬ infini
mosso dal mondo, questo viene privato della grandezza infinita di Dio, imm
che è l'ultima e vera profondità delle cose. individu
La storia dimostra che ovunque il mondo non è più considerato come sia
fondato in Dio, sorge il pericolo dell'involuzione, sia degli esseri, sia
del loro valore. L'idealismo filosofico, valuta soltanto le essenze sopra¬ dal
storiche, trascura l'unicità, l'individualità legata al tempo e soprattutto e
la persona con la sua storicità e il suo destino. Le cose diventano sol¬ a
tanto onde schiumose nel mare dell'essere infinito (cfr. § 41). Al con¬
trario l'esistenzialismo ripudia le essenze immutabili delle cose e si
preoccupa solo dell'esistenza dei singoli individui. Sembra che lo spi¬
rito umano, senza la luce della rivelazione, sia di continuo tentato o DEL
di sminuire la realtà delle cose, 0 di abolire la loro essenza e distrug¬
gerne così la natura. Solo chi è illuminato dalla rivelazione riesce ad garan
abbinare le due cose. Il fatto poi, che essenza ed esistenza si debbano d
ricondurre a Dio in modo diverso, testimonia a favore della loro reale qualitat
distinzione nelle cose.
pe
II. - FINITEZZA E FRAGILITÀ DEL MONDO. rite
non
2. - Come l'origine degli esseri da Dio garantisce e assicura la loro e
med
grandezza, così la loro evocazione dal nulla ne determina la limitatezza,
la debolezza, la finitezza quantitativa e qualitativa, la caducità, la fra¬
gilità, la tendenza verso la morte. Il mondo e le cose hanno un'esistenza
precaria, e sono di continuo posti in questione.
La stessa scienza, oggi, ci offre non pochi aiuti per comprendere la finitezza
del mondo. Nell'antica civiltà greca il mondo era ritenuto finito perchè sentito
come ordinato e comprensibile. Se fosse infinito non sarebbe comprensibile; e
l'incomprensibile era ritenuto impossibile. Tolomeo ed Aristotele espressero in
forma scientifica questa concezione, accettata dal medio evo, che fondò la fini-
§ 105- VALORE SALVIFICO DEL DOGMA DELLA CREAZIONE
507
tezza del mondo sul suo carattere di creazione di Dio. Nel secolo xv Nicolò di
Cusa affermò che il mondo è infinito, intendendo l'infinità come molteplicità
spazialmente illimitata delle cose concrete, finite. E proprio tale infinitezza, così
intesa, fu ritenuta come immagine del Dio infinito. Giordano Bruno eguagliò il
mondo infinito a Dio stesso, cosicché al mondo fu attribuito quello splendore
sino allora dato a Dio solo. Con lo sviluppo scientifico dell'epoca moderna questo
splendore scomparve ed il mondo venne considerato come un sistema infinito di
fenomeni retti da leggi concatenate l'una con l'altra ed infrangibili. Mentre Ke¬
plero considerava questo mondo infinito ancora come un richiamo a Dio, mentre
Newton vedeva nelle lacune del processo universale, non ancora spiegate dalla
scienza del suo tempo, la ragione dell'esistenza di Dio, Laplace credette di poter
sostenere che l'c ipotesi » di Dio non servisse più all'interpretazione del mondo,
poiché il processo universale poteva esser reso intelligibile unicamente e defini¬
tivamente in base alle sue proprie leggi. Se in base a questa interpretazione il
mondo veniva ad essere definitivamente spogliato da ogni attributo divino, gli
rimaneva tuttavia il fascino dell'infinità. La fede nel mondo infinito si sostituì
alla fede in Dio. Con tale fede si legò strettamente la fede nel progresso, per
nulla spiegabile con argomenti razionali, ma soltanto in base ad un determinato
sentimento.
La scienza è oggi ritornata, attraverso vie disparate, alla convinzione che il
mondo sia finito. Però la concezione moderna si distingue nettamente, se non
proprio radicalmente, da quella dell'antichità e del medio evo. Infatti l'epoca
moderna conosce ormai la massa gigantesca del mondo. Ci sia concesso di esporre
brevemente alcuni dati. Il diametro della nostra terra è di Km. 12.756. La luna
dista da noi circa trenta volte questa distanza, mentre il sole è lontano più di
diecimila volte tale misura, e precisamente circa 150 milioni di chilometri. La
luce percorre questa distanza in 8 minuti circa. Attorno al sole ruotano dei pia¬
neti, uno di questi è la Terra. La luce del sole raggiunge il più lontano di questi
pianeti, Plutone, in circa 6 ore. Tutti gli altri pianeti sono composti pressoché
degli stessi elementi che formano la Terra, hanno la stessa struttura e sono privi
di luce propria. Viceversa il sole è un immane globo incandescente. Il suo dia¬
metro misura 1.390.900 chilometri.
Le stelle fisse sono corpi celesti simili al sole. Esse sono composte degli stessi
elementi chimici che formano il sole e la Terra. La stella fissa più vicina a noi,
la Proxima Centauri, dista 40 bilioni di chilometri da noi. Ciò vuol dire 4 anni
luce, intendendosi per anno luce una distanza percorsa dalla luce in un anno
alla velocità di 300.000 chilometri al secondo. Tutta l'innumerevole quantità di
stelle visibili fa parte di un grande sistema, quello della Via Lattea, che come
un'enorme disco ruota nel cielo. Il suo diametro maggiore misura 100.000 anni
luce. Al centro il disco presenta un rigonfiamento avente un diametro di circa
15.000 anni luce. Racchiude all'incirca 50 miliardi di astri brillanti per luce pro¬
pria e un'altrettanto grande massa di corpi celesti oscuri, i quali sono sparsi
nello spazio come polvere o gas. Il nostro sole si trova in una posizione perife¬
rica della Via Lattea.
Nel cielo poi si scorgono piccole macchie nebulose, le cosiddette nebulose spi¬
rali, le quali sono enormi ammassi di stelle che possono essere paragonati ad
altrettanti sistemi come la Via Lattea. La più famosa di esse, la nebulosa di
inco
c
508 P. IX. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
illusioni.
Andromeda, dista da noi circa 700.000 anni luce. La più lontana che sia stata un
scoperta sinora dai nostri telescopi, dista circa 500 milioni di anni luce. Quando verame
la luce, da noi fotografata, emanò da essa, la terra si trovava nei suoi primi d
stati geologici. Il numero delle nebulose che oggi ci è dato poter osservare, può (meta
essere valutato all'incirca in 100 milioni. Secondo le più recenti valutazioni l'uni¬
verso avrebbe un raggio di 6 miliardi di anni luce. visi
Per quanto tali misure ci sembrino enormi ed incomprensibili, tuttavia para¬ Astro
gonato all'infinità di Dio il nostro universo è meno che una goccia d'acqua di
fronte al mare. La considerazione della limitatezza del mondo, straordinariamente d
grande, conduce allo sfatamento di tutte le illusioni. La vera intelligenza del mond
mondo, che non si lascia inebriare dalla fantasia di una falsa infinità, è sobria e
oggettiva e rende a Dio l'onore che egli solo è veramente l'infinito, mentre tutto
il resto è limitato, finito. Nell'inafferrabile grandezza del mondo finito si rispec¬
chia l'infinità di Dio. Se Dio è qualitativamente (metafisicamente) infinito, è lo¬ non
gico che il mondo sia incomprensibilmente grande quantitativamente (fisica¬nemmeno
mente). Vedi il Discorso di Pio XII sulla nuova visione scientifica del mondo dell'attu
tenutp ai partecipanti del Congresso mondiale di Astronomia (7 settembre 1952).
3. - Con la sicurezza che proviene dal fatto della creazione, non sta qu
in contrasto l'insicurezza e la caducità del mondo e delle singole cose. desi
La sicurezza e l'insicurezza appartengono infatti a forme 0 a stati d'es¬ anz
sere diversi. Il fatto che Dio vuole il mondo garantisce la sicurezza
della sua esistenza, poiché tale volere divino non può essere minacciato da
da nessuna forza extradivina e non può nemmeno essere revocato da Dio. vis
Ciò tuttavia non garantisce la perennità dell'attuale modo con cui una promess
realtà 0 lo stesso mondo intero esistono. Anzi Dio stesso ha stabilito la
una forma di esistenza del tutto diversa da quella che ora appartiene fed
alla storia umana, la quale (forma) viene designata con l'espressione e
« nuovi cieli e nuova terra ». Essa si avvererà anzi proprio con la distru¬ che
zione dell'attuale forma di essere. Ci è ignoto quando tale trasforma¬
zione si realizzerà, però essa può avverarsi da un momento all'altro. pro
Il modo di esistere storico, temporaneo, ora visibile, è necessariamente peric
instabile. Proprio mediante la fede nella promessa divina che ci assicura d
un'altra forma di esistenza vien tenuta desta la coscienza della insop¬ v
primibile insicurezza. Ma questa, nella stessa fede, può essere superata.
Certo ciò richiede un grande sforzo del cuore e della volontà. Il desi¬
derio di sicurezza è così profondo nell'uomo che egli cerca, in qualsiasi
modo, di garantirsi contro tutti i pericoli della vita, a costo di grandi
fatiche e di costanti esercizi, prima d'essere pronto ad accogliere l'in¬
sicurezza di questo mondo. Ci riesce senza pericolo per l'anima quando
ripone la propria fiducia nella sicurezza finale divina. Anzi, quanto più
grande è il pericolo nel campo esteriore della vita, tanto più si sente
§ 105- VALORE SALVIFICO DEL DOGMA DELLA CREAZIONE 509
chiamato a cercare la sicurezza ultima là dove solo si può trovare, ossia
nell'amore onnipotente di Dio. Perciò crescono nello stesso rapporto
insicurezza temporale e sicurezza finale.
4. - Il peccato accresce l'insicurezza di questa vita, poiché per esso
il mondo, già soggetto alla caducità per il suo carattere creaturale, viene
consegnato al nulla. In particolare l'uomo, con il suo peccato all'inizio
della storia umana, ha evocato la morte (cfr. § 136). Quanto più si ac¬
cumulano e si rafforzano i peccati, tanto più Dio, con lo svolgimento
delle cose di questo mondo, fa sperimentare agli uomini l'incertezza
dell'esistenza. Esperienza questa che è richiamo a ricercare la vera si¬
curezza in Dio.
La fede si diversifica dalla filosofia esistenzialista proprio per la fiducia
nella certezza finale ancorata in Dio. Ambedue vedono chiaramente i
pericoli che minacciano la vita. La filosofia esistenzialista cerca tuttavia
di sopportarli con coraggio deciso. Vede nella minaccia dell'esistenza, il
dovere di rafforzarla ad ogni istante, sempre con maggiore intensità,
poiché ogni minuto significa compimento. Un simile tentativo di domi¬
nare l'insicurezza, conduce però alla paralisi della fiducia, alla superten-
sione della risolutezza e di conseguenza allo spasimo. E ciò senza risul¬
tato, poiché spesso la morte mette improvvisamente e prematuramente
fine alla vita senza che questa sia riuscita a svolgere le sue possibilità.
D'altra parte, non di rado, gli sforzi anche più intensi e meglio conce¬
piti dall'uomo rimangono senza esito e si esplicano irrazionalmente. Chi
tenta di eliminare l'incertezza della vita senza la base rassicurante del¬
l'amore creativo di Dio, vede alla fine drizzarsi dinanzi il tetro oriz¬
zonte del nichilismo e dell'irrazionalità.
La fede in Dio creatore, anche in mezzo all'immensità dell'universo
e al quotidiano infrangersi dell'esistenza, dà invece all'uomo coscienza
di sicurezza e lo libera dalla glaciale solitudine e dalla disperazione (cfr.
§ 82 e 91 s.). In tal modo il credente, pur avendo la consapevolezza
chiara dell'abisso in cui l'esistenza si svolge, possiede serena fiducia.
E. Newman scrive sulla finitezza del mondo quanto segue : « Partendo, quindi,
dall'esistenza d'un Dio (della quale, come ho detto, sono altrettanto certo quanto
lo sono della mia propria esistenza, quantunque, quando cerco di dare una
forma logica ai motivi di tale certezza, mi trovi in difficoltà per farlo in un modo
ed in una forma che mi soddisfino) rivolgo lo sguardo fuor di me stesso al
mondo degli uomini, e mi si presenta uno spettacolo che mi riempie di indi¬
cibile tristezza. Il mondo sembra in pieno contrasto con quella verità di cui l'es¬
sere mio è così pieno; e l'effetto che esso produce su di me è quindi necessa-
così chiaramente nella mia coscienza nel mio cuor
510 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITA SALVIFICA DI DIO
de
riamente così sconcertante come se vi leggessi la negazione della mia stessa esi¬l'inverno
stenza. Se guardassi in uno specchio e non vi vedessi la mia faccia, proverei la de
stessa specie di sensazione che ora mi prende, quando guardo questo mondo n
vivente, affaccendato, e non vi trovo alcun riflesso del suo Creatore. Questa, per
me, è una di quelle grandi difficoltà che presenta questa verità fondamentale, s
assoluta, cui mi sono riferito or ora. Se non fosse per questa voce che parla
così chiaramente nella mia coscienza e nel mio cuore, io diventerei ateo, o pan¬ is
teista, o politeista quando guardo il mondo. Parlo soltanto per me; e sono ben
lontano dal negare la forza reale degli argomenti per l'esistenza di Dio, tratti
dai fatti generali della società umana e dal corso della storia; ma questi non mi quelle
riscaldano, non m'illuminano; non tolgono l'inverno della mia desolazione, non elem
fanno germogliare le gemme e crescere le foglie del mio cuore e non rallegrano i
la mia natura spirituale. La visione del mondo non è altro che il libro del disillusion
profeta, pieno " di lamenti, di gemiti, di dolore ". men
Considerando il mondo in lungo e in largo, la sua storia mutevole, le molte corruzio
razze degli uomini, i loro primordi, le loro fortune, la loro reciproca alienazione, uman
i loro conflitti; e poi le loro maniere, abitudini, istituzioni, forme di culto; le
dell'Apostol
loro imprese, le loro peregrinazioni, i loro successi e le loro conquiste fortuite, spett
l'impotente concludersi di cose longeve, le tracce così deboli ed intermittentiprofond
d'un disegno superiore, l'evoluzione cieca di quelle che poi si rivelano grandi
forze o verità, il progresso delle cose, quasi da elementi irragionevoli, non verso
cause finali, la grandezza e la piccolezza dell'uomo, i suoi alti ideali, la sua breve
durata, il velo steso sul suo avvenire, le disillusioni della vita, la sconfitta del p
bene, il trionfo del male, dolore fisico, angoscia mentale, la prevalenza e l'inten¬ m
sità del peccato, le idolatrie pervadenti, le corruzioni, l'irreligione triste e senza i
speranza, quella condizione di tutta la specie umana, così spaventosamente ep¬ p
pure esattamente descritta nelle parole dell'Apostolo : " senza speranza e senza è
Dio nel mondo ", tutto questo costituisce uno spettacolo che stordisce e fa rab¬
brividire; infligge alla mente il senso d'un profondo mistero che sorpassa ogni esser
soluzione umana. pos
Che cosa si può dire su questo fatto che strazia il cuore e sbalordisce la ra¬ com
gione? Posso solamente rispondere che o non c'è Creatore, oppure questa so¬ chia
cietà vivente degli uomini è, nel vero senso della parola, respinta dalla sua pre¬
senza. Se vedessi un ragazzo sano di corpo o di mente che porta i segni d'un 268-27
,
animo nobile, lanciato nel mondo senza mezzi, incapace di dire da dove è
venuto, quale sia il suo luogo di nascita e la sua parentela, concluderei che c'è
qualche mistero connesso con la sua storia e che è uno di cui, per una ragione
o l'altra, i genitori si vergognano. E così ragiono sul mondo: se c'è un Dio,
dato che c'è un Dio, la razza umana deve essere implicata dalle origini in
qualche terribile calamità. Essa si trova fuori di posto rispetto ai disegni del suo
Creatore. Questo è un fatto, un fatto così vero come quello della sua esistenza;
e così la dottrina di quel che teologicamente si chiama peccato originale diventa
per me quasi altrettanto certa quanto l'esistenza del mondo e l'esistenza di Dio »
(Apologia pro vita sua, cap. V, Roma 1956, 268-270).
§ 105- VALORE SALVIFICO DEL DOGMA DELLA CREAZIONE 511
III. - RAPPORTO DI DIO COL MONDO E DEL MONDO CON DIO.
5. - Se Dio è creatore dell'universo, questo dipende totalmente da
lui: egli ne è il Signore. E ciò non solo in senso terreno, per cui noi
possediamo una cosa in modo da disporne a piacimento, e nemmeno
sotto l'aspetto di predominio per cui si impone ad altri il proprio vo¬
lere. Il dominio di Dio concerne l'intima costituzione dell'essere e pe¬
netra nel mistero più interno e recondito di ogni cosa. Dio ne usa,
tuttavia, senza togliere alla creatura, pur potendolo, l'essere e la pro¬
prietà che le competono. Nel miracolo sospende, è vero, l'usuale modo
di agire di un essere, ma per dargli nuova forza e un altro indirizzo.
Similmente nel processo della rivelazione supernaturale, Dio, trascen¬
dendo l'esigenza naturale, si rivolge immediatamente alla coscienza del¬
l'uomo. Ma di solito Dio realizza il suo dominio nel e mediante il corso
della natura stessa (cfr. § 75 e 104). Nè si deve temere che la supre¬
mazia divina costituisca un pericolo per il mondo e il suo sviluppo. Che
Dio non eserciti il suo dominio per distruggere, ce lo assicura egli stesso.
Il mondo intero e tutte le cose sono di suo gradimento. Egli non distrug¬
gerà il cielo e la terra, ma li trasformerà soltanto (cfr. § 112).
Al dominio divino corrispon.'.e l'obbedienza della creatura. Le cose
infraumane obbediscono a Dio in quanto seguono le leggi naturali, sta¬
bilite per loro, e nella rivelazione e nel miracolo gli servono da stru¬
menti per trasmettere un messaggio non appartenente a questo mondo.
L'uomo invece, gli obbedisce rispondendo direttamente alla chiamata
divina, con decisione personale e con responsabilità piena. L'obbedienza
non è affatto un comportamento indegno dell'uomo, bensì uno stato
che risponde perfettamente al suo essere e alla sua natura. È la ribel¬
lione invece che contrasta con la natura umana plasmata da Dio. Essa
è quindi una ferita inferta all'essere umano ed anche la sua distru¬
zione (cfr. § 31). L'uomo, creato da Dio e perciò appartenente a lui,
agisce in modo conforme alla sua natura e realizza appieno il suo essere
solo nel donarsi a Dio, nell'adorazione e nell'offerta del sacrifìcio.
Poiché Dio è Signore dell'uomo e questi gli appartiene, la natura del¬
l'uomo è aperta a Dio. Egli può quindi parlare intimamente all'uomo,
anzi entrare in lui, a meno che l'uomo, con gesto autodistruttivo, non
gli chiuda il proprio io. Quando Dio parla all'uomo nel suo intimo,
conversa con lui e lo chiama, tale voce non gli è affatto estranea. Infatti
Dio può quindi essere chiamata toccata
- LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
d
512 P. IX.
compiment
questa chiamata viene da quello stesso cuore che lo ha tratto dal nulla,
che ha evocato il mondo all'esistenza. Siccome la natura umana ha pec¬
cato e l'uomo tende a chiudersi in se stesso per opporsi a Dio, può
capitare che la chiamata divina appaia come qualcosa di estraneo (Giov.
i, il). In realtà, la persona che è libera dal peccato sta aperta di fronte gra
a Dio e può quindi essere chiamata e toccata da lui senza essere messa nella
in pericolo. Anzi, per mezzo delle parole e delle operazioni divine che l'io
egli accetta e accoglie in sè, o meglio, grazie alla venuta di Dio stesso chi
nel suo cuore, l'uomo raggiunge il compimento e il perfezionamento di op
se stesso. La creatura possiede, come si dice, la potentia oboedientialis, media
ossia la possibilità di ricevere l'azione divina con docile subordinazione v
(SS 114-117)- d
Tale capacità si è realizzata in massimo grado nella Incarnazione del m
Figlio, con la quale Dio penetra talmente nella natura umana da esserneprocess
non solo il Signore sovrano, ma l'io stesso, l'io di tutto ciò che la natura de
umana opera. In modo meno alto e meno chiaro, ma pur sempre reale no
e percettibile, Dio chiama gli uomini con le opere della sua provvidenza ob
(cfr. §§ 112 e 113) e più palesemente mediante la rivelazione sopran¬
naturale e il dono della luce e della vita che ci vengono dalla fede. A colui fronte
cui la rivelazione fa sentire la propria voce, diviene chiaro che in essa og
parla une che ha il potere, che si tratta di un messaggio che viene « dal¬ fio
l'alto », che sotto forme, atti, segni e processi conoscitivi è Dio stesso cono
che si afferma. Nasce così per lui l'obbligo dell'obbedienza e gli diviene pu
chiaro che la fede nel Dio che si rivela non significa primariamente s
commozione, scuotimento, esperienza, bensì obbedienza. l'at
s
6. - Altri sentimenti della creatura di fronte al creatore sono ricono¬ n
scenza e amore. Il mondo è dono di Dio: ogni cosa che vediamo è un
dobbiamo
regalo che egli ci manda, le meraviglie delle fioriture, delle crescite, delle
maturazioni di cui il mondo è pieno, della conoscenza e dell'amore, sono grazia
tutti doni divini. Si possono chiamare sia pure in senso largo, grazie. un'opera
Agostino, nella sua lettera a papa Innocenzo scrive (PL. 33, 767): « Si
può quindi senza difficoltà chiamare grazia l'atto per cui noi siamo stati
creati, grazia il fatto di essere qualcosa, non solo qualcosa come un ca¬
davere privo di vita, 0 come un albero che non sente, 0 come un ani¬
male incapace di ragionare, ma uomini dotati di vita, di sentimento, di
ragione. E per un sì grande beneficio dobbiamo ringraziare il nostro crea¬
tore. Possiamo ben chiamare tutto ciò grazia, per il fatto che non ci
venne conferito come ricompensa di un'opera buona compiuta in ante-
§ 105- VALORE SALVIFICO DEL DOGMA DELLA CREAZIONE 513
cedenza, ma ci fu elargito unicamente per bontà gratuita di Dio » (qui
si accenna alla differenza intima fra questa grazia e quella soprannaturale
donata all'uomo). Il sentimento di tale gratuità avvolge l'uomo quando,
in certi momenti, viene colpito dalla bellezza della natura o da una in¬
venzione della civiltà umana o dall'incontro con un altro uomo. E non solo
ciò che circonda l'uomo è dono di Dio, ma lo è pure egli stesso.
L'uomo risponde con la riconoscenza ai regali gratuiti del Creatore.
(Vedi i prefazi della Messa in cui si invita l'uomo al perenne ringra¬
ziamento verso Dio). Contro tali sentimenti di riconoscenza si erge la
presunzione stolta di coloro che attribuiscono tutto a sè senza voler ve¬
dere il dono divino. È qui opportuno fare due osservazioni. Prima:
Idoni di Dio sono anche doveri. Colui che sente e riconosce di aver
ricevuto gratuitamente una cosa da Dio, per il fatto che ammette il vo¬
lere divino è assai più obbligato nei suoi riguardi che non chi invece la
concepisce soltanto come un semplice gradino nel ciclo eterno della na¬
tura. Anzi, quanto più alta, nobile e degna di valore è la cosa, tanto
più stretto è il dovere che nasce verso di essa dal volere di Dio. Se¬
conda: Tutti i doni divini sono segno del suo amore. Egli non ce li
offre come colui che fa l'elemosina al mendicante importuno, ossia con
mancanza di partecipazione interiore, e, anzi, con una certa contrarietà.
Con il dono Dio ci regala pure il suo amore. Ogni amore va contrac¬
cambiato in egual misura. In tal modo l'accettazione del dono divino
che sgorga ed è sorretto dall'amore, significa che anche l'uomo, da parte
sua, deve amorosamente donarsi a Dio. Mentre l'uomo comprende e
afferma che le cose del mondo sono un regalo di Dio e un segno del
suo amore, realizza uno scambio amorevole tra sè e Dio. Nè questo
sminuisce la dignità umana, ma al contrario la fa erompere dal suo
nucleo intimo e dalla sua potenza vitale più segreta. Cfr. la dottrina
sulla Grazia.
7. - L'origine dell'universo da Dio conferisce alle cose la loro im¬
pronta intima e permanente. È indelebilmente scolpito nella loro es¬
senza che provengono da Dio. Come il volto di un uomo porta l'im¬
pronta della sua discendenza dai suoi genitori, così tutte le cose portano
il segno indelebile della loro origine da Dio, segno così profondo da
costituire la loro intima essenza, la legge della loro natura. Perciò in
ogni natura vi è deposto qualcosa della santità, verità, amore e felicità
di Dio. Perciò deriva pure la brama degli esseri spirituali verso la san¬
tità, la verità, l'amore e la beatitudine; sete che sgorgando dalla loro
33 - schmaus - dogmatica I.
dalla fede definisce l'uomo anim
- L'ATTIVITÀ suf
514 P- IX. LA REALTÀ EXTRADIVINA E SALVIFICA DI DIO
real
essenza stessa, che proviene da Dio, non può essere mai estinta del p
tutto. definiz
Chi vuole dare una definizione profonda ed esauriente di una cosa penetra
non deve trascurarne l'impronta interiore, la parentela con Dio, che si co
basa sulla sua derivazione da lui e ne è come il sigillo. Chi è illumi¬ p
nato dalla fede e definisce l'uomo come un animale ragionevole, anche attua
se non erra, non dà tuttavia una definizione sufficientemente profonda. n
In simile maniera chi intende precisare la realtà extradivina non per¬ esaur
sonale, deve ricordarne la relazione con Dio e la parentela che ne sgorga. ma
Tuttavia dobbiamo riconoscere che tale definizione dell'essenza delle profondità
cose, trascendendo la nostra esperienza, penetra nel mistero e diviene quan
perciò in certo senso inesprimibile. Infatti ogni cosa, perchè e in quanto e
porta l'impronta di Dio, diviene un mistero e partecipa in certo modo All'oppo
al mistero di Dio. In ognuna è presente e attuale il mistero divino. Il medio
che non significa che la cosa non sia razionale nel suo intimo più pro¬
fondo, ma solo che noi non riusciamo ad esaurire tale razionalità. Af¬
fermare ciò non è già scoraggiare la ragione, ma al contrario, invitarla rag
a grandi sforzi per mettere in luce la profondità misteriosa delle cose. tr
Il mistero le circonda tanto più densamente quanto più sono importanti,
nobili e pure. Perciò più le cose sono eccelse e grandiose, più difficile creato
è all'uomo poter comprenderle e amarle. All'opposto le cose volgari, vi¬ parentela
sibili e materiali sono quelle che all'uomo medio sembrano avere mag¬ pi
gior valore.
8. -
La parentela delle cose con Dio è la ragione per cui Paolo af¬ mis
ferma che in questo mondo si può vedere la traccia di Dio (Atti 17, possono
22-31). Lo spirito umano è capace di discernere l'impronta divina nelle num
cose perchè anch'esso è imparentato con il creatore. Esso quindi scopre
la parentela di Dio nelle cose come parentela con se stesso. Simil¬ ass
mente si capisce perchè il peccato renda tanto più difficile la conoscenza
di Dio. Chi si allontana spiritualmente da Dio e quindi agisce contro razionalismo
di lui, indebolisce la sua possibilità di scoprire e riconoscere le tracce
divine. D'altra parte il legame con Dio e il mistero che ne deriva è la
ragione per cui le cose e l'uomo stesso possono essere divinizzate. Si
intuisce, è vero, il loro carattere misterioso e numinoso, ma staccandolo
da Dio a cui esso si riferisce, perchè proveniente da lui. Il mondo, origi¬
nato da Dio, vien trasformato in qualcosa di assoluto. Ciò nonostante la
mitologia è sempre una concezione più profonda della natura che non la
dottrina razionalista. Mentre per il razionalismo è valido solo ciò che
§ 105- VALORE SALVIFICO DEL DOGMA DELLA CREAZIONE 515
si può percepire e afferrare, quanto è certo e si può comprendere, il
mito, al contrario, scopre nel mondo qualcosa di profondamente mi¬
sterioso, anche se lo interpreta poi erroneamente.
9. - La creatura per la sua origine da Dio, che resta impressa inde¬
lebilmente fin nel suo intimo, è posta in relazione infrangibile con lui.
Alla sua origine da Dio risponde il suo tendere a Dio. Ogni creatura è
protesa verso Dio in forza della sua intima essenza; non esiste in se
stessa, ma per Dio. Per darne una definizione esauriente bisognerebbe
includervi anche la sua relazione permanente con Dio. In questo senso
si può dire che l'uomo sia un animai orans, quando non si intenda ciò
come atto, ma come tendenza a trascendersi, ossia tendenza verso Dio.
Se lo spirito creato vuol rettamente comprendersi e valutarsi, se de¬
sidera agire in armonia con il suo essere stesso, deve operare conforme
a tale suo carattere, sia nell'intelletto, sia nella volontà. Alla tendenza
verso Dio, al semplice esistere per lui, risponde il rivolgersi a lui sia
con la conoscenza, sia coll'amore. Quando l'uomo si dirige verso il suo
Creatore con piena decisione e responsabilità, agisce in conformità al
suo essere, e ne raggiunge la pienezza totale. Opera diversamente? Al¬
lora si oppone alla sua stessa natura, corre il pericolo di distruggere non
tanto il corpo quanto lo spirito, benché di rimando, annientando la parte
spirituale, distrugga anche la corporale. Il cammino che conduce l'uomo
a se stesso, alla propria profondità, passa attraverso l'immensità divina.
La creatura ritrova se stessa non in sé, bensì in Dio. Finché non si ri¬
conosce in lui, la tendenza dell'essere verso Dio fa nascere irrequie¬
tezza di coscienza e di cuore.
Un'espressione di questa irrequietezza verso Dio è la malinconia. Non è una
creazione di filosofi o di poeti, ma è un sentimento che sgorga dalle cose stesse
(Sunt lacrimae rerum, Virgilio). Dante parla della « grande tristezza » che nasce
dall'esistenza stessa. La malinconia è il bisogno di perfezione e di bene infinito,
eterno e assoluto, nelle forme sia dell'amore, sia del bello, la scontentezza vee¬
mente del finito, il sentimento vivo della propria caducità. La tendenza fonda¬
mentale dell'uomo, sia verso la rovina, sia verso la perfezione, la rovina con la
scomparsa della forma di esistenza corporale e temporanea, la perfezione con il
raggiungimento della vita imperitura, rivestono nella malinconia una coloritura
speciale e stanno, tra loro, in doloroso contrasto. La tristezza o malinconia è
l'espressione del fatto che esistiamo come esseri limitati, ma tendenti verso Dio,
il quale si mostra come amore e bellezza illimitata. È testimonianza che depone
a favore della caducità nostra e dell'universo, mentre testimonia l'infinità divina.
L'irrequietezza porta di continuo l'uomo a trascendere se stesso, per salire verso
Dio che la sua natura attesta ad ogni istante. Tale inquietudine non si placa
riconosce più Dio (vedere al riguardo il § 31).
516 p. II. - la realtà extradivina e l'attività salvifica di dio
asp
se l'uomo si accontenta di penetrare semplicemente nella natura; negli uomini o Trini
nel destino. Poiché in tal caso la creatura non trascende affatto se stessa, es¬ giu
sendo la natura e l'uomo allo stesso livello. Egli cessa infatti di perfezionarsi
quando non ricerca la propria perfezione in Dio. avrebbe
Una forma speciale di irrequietezza è l'angoscia che opprime l'uomo incapace
entro
di individuare il valore ultimo della vita, dal momento che non conosce o non
riconosce più Dio (vedere al riguardo il § 31). essa
s
10. - Il rapporto tra uomo e Dio assume un aspetto speciale se si pensa de
che la creatura umana è l'immagine della Trinità divina. Questo fatto in
non l'avremmo mai potuto intendere nel suo giusto valore se Dio stesso autocomu
non ce l'avesse chiarito con la sua rivelazione. Noi lo conosciamo solo Cristo
mediante la fede. Questo rapporto non avrebbe raggiunto il suo pieno
sviluppo se Dio non avesse attirato l'uomo entro la sua stessa vita tri-
personale, in modo da renderlo partecipe di essa, secondo la misura da anz
lui stesso stabilita e donata. L'uomo trova il suo valore ultimo e più esist
profondo nell'essere essenzialmente immagine della Trinità di Dio (cfr. n
§ 104). Nel « Tu » divino riconosce se stesso, in quanto Dio gli si co¬ tendon
munica in modo soprannaturale. Tale autocomunicazione divina si av¬
vera in Gesù Cristo e per mezzo di Gesù Cristo (cfr. §§ 1x4-117).
Nel rapporto della creatura con Dio sta pure incluso il suo rapporto
con Gesù Cristo. Nel piano creativo di Dio è compresa l'incarnazione creato
del figlio di Dio. Tutta la restante creazione anzi è voluta in vista della sogg
natura umana del Verbo. Da lui e per lui esiste l'universo intero (cfr. sottomes
§ 103). Tutte le creature quindi, lo sappiano 0 non lo sappiano, portano d
il segno di Cristo, sono sottoposte a lui, tendono a lui e raggiungono
il loro proprio perfezionamento solo per mezzo suo. Che tutta la crea¬ dogli
zione tenda verso questo suo compimento che consiste nel partecipare
alla gloria di Cristo e quindi alla Trinità divina, ce lo assicura S. Paolo:
« Poiché l'ansiosa aspettativa del mondo creato attende la manifesta¬ nuovo
zione dei figli di Dio. Alla vanità infatti fu soggetta la creatura, non di
buon grado ma per causa di chi l'ha sottomessa; nella speranza che i
anch'essa creatura sarà affrancata dalla servitù della corruzione e (per¬
verrà) alla libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che la
natura geme tutta quanta e soffre quasi la doglia del parto » (Rom. 8,
19-22).
L'intera creazione raggiungerà la sua forma definitiva solo quando,
liberata dalla caducità, sarà trasformata in nuovo cielo e terra nuova; in
quello stato cioè, di cui è tipo Cristo risorto e glorificato, stato in cui
« Dio sarà tutto in tutti » (1 Cor. 15, 28). Cfr. il trattato sui Novissimi.
§ 105- VALORE SALVIFICO DEL DOGMA DELLA CREAZIONE 517
IV. - IL RETTO COMPORTAMENTO DELL'UOMO VERSO IL MONDO.
11. - La fede nella creazione infine è anche il motivo per compor¬
tarsi rettamente verso le cose del mondo e verso l'uomo.
a) Chi crede che l'universo è l'espressione della conoscenza divina
creatrice, crede pure nella sua razionalità, anche se questa non è com¬
presa dall'intelligenza umana. Similmente, essendo il mondo manifesta¬
zione dell'amore di Dio, bisogna pure credere alla sua bontà, e quindi
affermarla ed amarla. L'amore di Dio, causa delle cose, ne determina
pure il loro reciproco rapporto. Come le idee divine, prototipo e norma
delle esse, formano nello spirito di Dio una realtà unica e semplice, così
anche le cose, pur essendo distinte per la loro sostanza, costituiscono
un tutto unitario. Nonostante la loro molteplicità e opposizione, formano
un tutto armonico. Ciascuna partecipa all'esistenza delle altre. Anche
l'uomo prende parte all'essere di tutte le cose. Il suo essere è essere
nel mondo e coesistere con l'uomo. Partecipa all'essere di ogni cosa, se¬
condo le sue caratteristiche, ossia mediante la conoscenza, l'amore e
l'azione.
L'amore specialmente è l'atto più caratteristico della sua unità con
il creato. Esso, infatti, non è indeterminato e generico. Come Dio ha
voluto le singole cose secondo un preciso essere proprio, così il nostro
amore deve abbracciare cose e uomini nella loro concretezza. Il che
significa che noi dobbiamo valorizzare il loro essere proprio, voluto da
Dio, non imporre forme e fini ad esso contrari, ma bensì aiutarlo a
raggiungere la forma intesa da Dio. Un tal amore presuppone che si
vedano le cose e gli uomini nella fisionomia vista e intesa da Dio, e che
quindi i nostri occhi non siano intorbidati da desideri egoistici o ego¬
centrici. In tal modo restiamo preservati dal pericolo di costruirci un
mondo fantastico secondo le nostre brame, un mondo d'illusione, di
sogni e di chimere. Noi impariamo a vedere e ad amare cose e uomini
di questo mondo nella loro realtà, in conformità al loro essere e alla
loro natura, in modo verace e senza veli, precisamente con gli occhi
stessi di Dio. Volgiamo così il nostro affetto non ad un mondo fallace,
bensì all'universo qual è realmente, nel quale viviamo e lavoriamo, pian¬
giamo e godiamo, all'uomo concreto quale lo incontriamo.
La spassionatezza dello sguardo e del cuore di fronte alle cose e al¬
l'uomo non significa, tuttavia, indifferenza o freddezza. Infatti il credente
da Dio lo fa apparire ogni volta che
518 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E LJATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
q
sa che è responsabile delle realtà che sono nel mondo, come il figlio lo pr
è dell'eredità familiare. Gli nasce così una sobrietà che si nutre e si essi
forma nell'amore che Dio ha verso le cose e in quello che l'uomo sente a
per Dio (sobria ebrietas). Rivolge alle cose le cure che l'amministratore ne
saggio ha per il podere affidatogli. Il credere che cose e uomini ven¬ ogn
gono da Dio ce lo fa apparire ogni volta che li incontriamo come una strapparg
realtà sempre nuova, e ci impedisce di vederli solo sotto l'aspetto usuale fon
e abitudinario, anche se l'incontro con essi è quotidiano.
Siccome le cose e gli uomini hanno una profondità immensa e sono
un mistero impenetrabile, l'amore verso di essi è sempre unito al timore.
Il rapporto tra cose e uomini è un misto di accostamento; è amore che u
si sviluppa nel timore e timore che si svolge nell'amore; in altre parole è impre
rispetto. Ogni cosa, e in modo particolare ogni individuo, ha un mistero tutto
proprio, che nessuno ha il diritto di strappargli, nemmeno nell'amore e
nell'amicizia, che quando sono autentici si fondano appunto sul rispettonaturali
di tale mistero. Se si oltrepassa la barriera del rispetto, amicizia e amore de
muoiono. Il vero rispetto poggia sul fatto che ogni incontro con la cosaincontriamo
e con l'uomo, si riduce, in ùltima analisi, a un incontro con Dio che sacrifici
liberamente si manifesta nelle cose e negli uomini. In ciò consiste la Poi
preziosità degli esseri più comuni e delle imprese più normali. Il legame
con Dio fa divenire straordinario anche tutto quanto è semplicemente
usuale. Il rispetto per la creatura si trasforma in rispetto per Dio. Altri¬ L'uo
menti si degenera nella fantasmagoria naturalistica o panteistica. Ciò si m
ricollega al fatto che noi siamo responsabili della preziosità e del valore
che Dio ha conferito alle cose che incontriamo nel nostro cammino.
L'amore si esplica nel dono e nel sacrificio. È per mezzo loro che ch
manifesta la sua forza e la sua interiorità. Poiché l'intimo nucleo dell'io dedi
umano reca l'impronta dell'amore divino, e l'uomo può esistere solo Crist
quando trascende se stesso, nella vita umana sono essenzialmente e ne¬ pi
cessariamente inclusi dedizione e sacrificio. L'uomo non diviene se stesso vi
affermandosi o chiudendosi dinanzi al « tu », ma bensì donandosi (nella n
famiglia, nella nazione, nella Chiesa). In tal modo attua il suo essere
che gli fu largito da Dio, e, in ultima analisi, adempie la volontà divina.
Il prodigarsi per la comunità e il sacrificio che ne deriva, sono quindi
dedizione a Dio. Il più alto aspetto della dedizione umana, anzi univer¬
sale, si è avverato nella crocifissione di Cristo. In essa si sintetizza il
sacrificio del mondo che sale al suo vertice più sublime. L'immolazione
di Cristo sta al centro dell'universo e delle vicende cosmiche. Ogni sa¬
crificio ne è partecipazione. La dedizione non è né diminuzione né
§ 105- VALORE SALVIFICO DEL DOGMA DELLA CREAZIONE 519
abdicazione a se stesso; lo abbiamo già ampiamente illustrato parlando
dello scambio vitale che si attua nell'intimità divina (§ 58; cfr. la dot¬
trina sulla Grazia).
b) L'amore verso le cose non significa collocare in esse la felicità
ultima. Infatti, tutte le creature ci additano Dio e ci inducono a tra¬
scenderle. Se le amiamo secondo il loro vero essere e non con occhio
cupido, dobbiamo amare il loro valore indicativo che presentano di Dio.
L'amore delle cose, in altre parole, non si arresta ad esse e nemmeno
prende lo spunto da esse per considerare l'amore di Dio, ma le trascende
per raggiungere Dio, presente nelle cose. Non basta: il credente sa che
il mondo della nostra esperienza, con le sue forme attuali, non ha ancora
raggiunto il suo modo definitivo di esistere, quantunqué questo sia pre¬
figurato e iniziato nel corpo glorioso di Cristo. Il mondo procede verso
uno stato in cui parteciperà alla gloria del Salvatore glorioso. L'amore
con cui il credente avvolge il mondo, include anche tale fatto. Esso
brama che l'universo venga liberato dall'aspetto attuale, inadeguato per
rivestire la forma del Cristo risorto. Non può perciò smarrirsi nella figura
attuale del mondo, ma tende necessariamente al compimento futuro, e
quindi ha carattere escatologico.
Purtroppo nel mondo decaduto è possibile che la creatura ammalii
l'uomo, in modo che questi non riesca più a risalire da essa a Dio.
Quanto più una cosa è gloriosa e grande, potente, bella e ricca, tanto
maggiore diventa il pericolo. Abbiamo già visto come tale scoglio s'in¬
contri anche per quanto riguarda l'aspetto numinoso del mondo, ossia
proprio per il fatto che esso ha parentela con Dio.
c) Non solo colui che divinizza le cose, ma anche colui che le
disprezza, ne abusa 0 ne smarrisce il vero senso. Il fatto che Dio ci rapi¬
sce di continuo le cose e le persone più care, non curandosi della nostra
volontà, bensì secondo il suo beneplacito, ci protegge sia dalla loro divi¬
nizzazione, sia dall'abuso. Così le conquistiamo in un senso ben più alto.
« Il morire al mondo, dove di continuo dobbiamo assistere secondo il
beneplacito divino alla scomparsa di tanti esseri amati, è il comporta¬
mento essenziale del cristiano » (Hengstenberg). Tale distacco dalle cose
non si deve tuttavia scambiare con la negazione buddistica. Non sgorga
dall'odio per il mondo, bensì dall'amore. Nasce, nel cristiano, dal desi¬
derio di non abusare delle cose in modo sgradevole a Dio, e quindi
contrario alla loro natura stessa e significa, in realtà, amore puro. Il di¬
stacco ci unisce a loro nel modo più retto. Molti pensano che si per¬
venga a Dio solo mediante il più completo distacco dalle cose. Altri,
creazione ci previene dall'ammettere beat
520 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
c
con tale rinunzia, intendono testimoniare di continuo che Dio è supe¬ co
riore al mondo, al corpo e all'anima. Non abbandonano le cose come fo
il buddista che le tiene in nessun conto e le disprezza, bensì perchè ne dista
conoscono il valore puramente relativo, fondato sul fatto che traggono confes
la loro origine da Dio. Tale abbandono è quindi sacrifìcio. La fede nella
creazione ci previene dall'ammettere una beatitudine cosmica, indipen¬
dente da Dio, e una falsa beatitudine divina, che svalorizza il mondo.
Il battesimo vincola con una certa forza il cristiano al distacco dalle e
forme di questo mondo. Infligge all'esistenza cosmica e a quella limitata volont
nello spazio e nel tempo un colpo mortale e fonda in tal modo la par¬
tecipazione alla vita gloriosa di Cristo. Il distacco amoroso dalle forme
usuali di questo mondo diviene quindi confessione della vita gloriosa (De
di Cristo. Vedere ulteriori considerazioni al § 125. 1783
nella
§ 106. Eternità della volontà creatrice di Dio e temporalità del mondo. sono
rispo
Dio creò il mondo con atto eterno di volontà, ma gli diede esistenza e
temporale. È dogma di fede. s
gene
1. - Vedere il IV Concilio Lateranense (Denz. 428; cfr. § 52) e il l
Concilio Vaticano (Sess. 3, cap. 1; Denz. 1783; cfr. Denz. 3017; i testi abbi
del magistero sono riferiti al § 100, II).
Tra le proposizioni di Eckhart, condannate nella costituzione In agro domi- all'e
nico (27 marzo 1329) e tratte dalle opere, vi sono le seguenti : « Interrogato ch
perchè Dio non avesse creato prima il mondo, rispose che Dio non potè creare pro
prima il mondo perchè nulla può agire prima di esistere; appena Dio fu, creò
il mondo. Si può anche concedere che il mondo sia eterno. Nello stesso mo¬
mento in cui Dio esistette, contemporaneamente generò il Figlio a sè coeterno ed
esso
eguale in tutto, e creò il mondo » (Denz. 501-503; le proposizioni sono condan¬
nate nel loro senso obbiettivo; ciò che Eckhart abbia voluto realmente dire non
è stato precisato dalla condanna).
m
La temporalità del mondo si contrappone all'eternità di Dio (cfr. § 70).
Include l'interazione delle cose e il divenire che in essa si fonda. Inte¬
razione e divenire costituiscono il tempo e procedono di pari passo con
esso. Il tempo determina il ritmo e il corso del divenire. Un aspetto
della temporalità del mondo è il fatto che esso ha avuto un principio e
avrà fine.
2. - La Scrittura parla di inizio assoluto del mondo (Gen. 1, 1 - 2. 4).
Dio già esisteva quando ancora non vi era il mondo: Sai. 90 (89), 2;
§ IOÓ. ATTO CREATORE ETERNO E TEMPORALITÀ DEL MONDO 52I
102 (101), 26; Prov. 8, 22 ss. Cristo è preesistito all'essere stesso del
mondo (Giov. 17, 5-24). Prima ancora che il mondo fosse, il Padre ci
ha eletti in Cristo, perchè fossimo santi e immacolati al suo cospetto
(Ef. 1, 4).
3. -
Nell'epoca patristica la temporalità del mondo fu opposta alla
generazione eterna del Figlio di Dio. E in pari tempo fu affermato che
la volontà divina creatrice è eterna.
Basilio così scrive nella sua prima omelia In Exaemeron (nn. 2-3) : « L'essere
beato, la bontà inesauribile, l'oggetto amabile da ogni creatura razionale, la bel¬
lezza agognabile, il principio di ogni cosa, la fonte della vita, la luce dello spi¬
rito, la sapienza ineffabile (Dio), è colui che all'inizio creò il cielo e la terra.
Non pensare o uomo, che le cose siano senza principio; e se i corpi in cielo si
muovono in circolo in modo che tu non puoi conoscerne facilmente il principio,
non ritenere tuttavia senza principio la natura dei corpi che si muovono in cir¬
colo! Infatti il circolo, figura piana circoscritta soltanto da una linea, sfugge alla
nostra conoscenza sensibile la quale non può scorgere dove incominci e dove
termini; ma tuttavia non possiamo ritenerlo senza principio. Al contrario: dob¬
biamo pur sempre ammettere che esso ebbe principio da qualcuno, che partendo
da un centro l'ha formato con un determinato raggio. Non devi quindi, per il
fatto che i corpi moventesi in cerchio seguono un loro binario circolare nono¬
stante il loro progredire continuo e regolare, cadere nell'errore di ritenere il
mondo senza principio e senza fine ».
Ambrogio così scrive nell'Exaemeron (lib. 1, cap. 3, n. 10) : « Udendo poi
tanti oracoli, i quali attestano che il mondo fu fatto da Dio, tu non devi più
crederlo senza principio, col pretesto che il mondo si dice fatto come una sfera,
nella quale non pare esistere principio alcuno, o col pretesto simile che quando
tuona tutte le cose intorno ne rimbombano sì che non è facile capire dove il
tuono cominci o dove finisca, essendo impossibile percepire sensibilmente l'inizio
di una figura circolare: col pretesto, cioè, che è impossibile trovare donde co¬
minci una sfera, come pure il punto dove comincia o dove finisce il mensile oscu¬
rarsi del disco lunare. Infatti, anche se tu non Io percepisci, non per questo è men
vero che esso comincia e che finirà un giorno. Anche se tracci tu stesso un cir¬
colo con dell'inchiostro o con lo stilo e lo giri da un centro col compasso, non
ti sarà più facile vedere cogli occhi o ricordare con la mente, sull'indizio di qual¬
che discontinuità, il luogo dove hai cominciato e dove hai finito: e tuttavia tu
medesimo puoi testimoniarti e di avere cominciato e di avere finito. Perchè, se
anche vien meno in questi casi la percezione del senso, non vien meno la verità
del fatto. Inoltre ciò che ha principio ha anche fine, e ciò che ha fine è certo
che ebbe principio » (trad, di E. Pasteris).
Isidoro di Siviglia nel suo libro De Summo Bono, scrive : « Prima che il
mondo esistesse, il tempo non era, poiché esso è creazione di Dio ed ebbe inizio
quando cominciò il mondo. Il tempo non ha estensione spaziale, poiché nell'at¬
timo in cui giunge sfugge. Pertanto nelle cose non vi è durata di tempo, dato
che le creature rapidamente mutano. E un secolo, un anno, un mese, un giorno,
Si veda anche Agostino, De civitate Dei, n, 6,
522 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO creatore,
c
un'ora non sono affatto un tempo, poiché siccome queste cose risultano dal¬ eterno
l'unione di particelle che continuamente sfuggono, come si può dire uno ciò che
non si verifica simultaneamente? E dove troviamo noi i tre elementi del tempo: volontà,
passato, presente, futuro? Solo nella nostra anima, poiché in essa noi ricordiamo il
il passato, vediamo il presente e attendiamo il futuro. Ma in Dio non è così, in mome
lui è tutto presente » (lib. I, cap. 7; PL. 83, 548). mo
Si veda anche Agostino, De civitate Dei, n, 6, testo riportato al § 70, 2 d).
tem
4. - L'eternità del volere divino creatore, che si identifica con la quello
realtà stessa dell'essenza divina, non implica che il mondo stesso debba
essere eterno. Infatti nell'atto creatore eterno è anche voluta la tem¬ in
poralità del mondo. Dio, con la sua volontà, non ha determinato solo mon
il fatto dell'esistenza del mondo, ma anche il modo, quello cioè di es¬ te
sere legato al tempo e allo spazio. « Nel momento in cui Dio attua, con mon
la sua volontà onnipotente, l'idea eterna del mondo, il quale in quest'idea
era solo possibile, s'avverò il principio del tempo e del mondo. Duplice
è quindi l'inizio posto nella creazione: quello del mondo e quello del l'impronta
tempo. È inizio del tempo in quanto è inizio del mondo in cui, perchè
finito, noi riconosciamo pure il tempo. Ed è inizio del mondo in quanto non
inizio del tempo perchè la temporalità del mondo è pure la sua finitezza.
È perciò impossibile separare il mondo dal tempo, come è impossibile Dogmati
separare il tempo dal mondo. Il mondo è mondo per mezzo del tempo,riconos
e il tempo è tempo per mezzo del mondo. A entrambi Dio ha dato l'etern
inizio con la creazione. Ambedue cominciarono ad esistere insieme e l'uno dem
è perchè è l'altro, perciò l'uno reca l'impronta dell'altro. A motivo del Aristo
mondo il tempo è finito, a motivo del tempo il mondo è universo finito im
e mutevole. Senza il mondo come creatura non sarebbe affatto esistito il
Bonaventura,
tempo, e senza il tempo non sarebbe nemmeno potuto esistere il mondo » contr
(F. A. Staudenmaier, Die christliche Dogmatik, III, 1848, 122 s.). possibi
5. - L'umanità extrabiblica non ha riconosciuto chiaramente la tem¬ temporale
poralità del mondo. Platone ammette l'eternità della materia oscura, prov
subordinata e recalcitrante, alla quale il demiurgo 0 il costruttore di de
questo mondo ha dato la forma attuale; Aristotele anch'egli afferma che
la materia è sempre esistita e che il motore immobile l'ha messa in mo¬
vimento dall'eternità. Alberto e Bonaventura, nel medio evo, pensano
che l'idea di un mondo eterno implichi contraddizione. Tommaso d'A¬
quino, per allontanare dalla fede ogni possibilità di disprezzo da parte
degli increduli, asserisce che l'inizio temporale del mondo è una verità
rivelata, ma non una verità che si possa provare con certezza dalla ra¬
gione. Secondo il suo parere, l'affermazione dell'eternità del mondo, non
§ 106. ATTO CREATORE ETERNO E TEMPORALITÀ DEL MONDO 523
può essere oppugnata partendo dall'essenza della creatura, la quale dice
solo dipendenza da Dio, ma non alcun rapporto col tempo. Suarez af¬
ferma giustamente che una simile concezione potrebbe essere accolta
solamente per un mondo supertemporale, esente da mutabilità, non per
il nostro concreto e mutabile. Il problema sta semplicemente nel fatto
di vedere se un mondo immutabile non sia una formale contraddizione
intrinseca, se mondo e tempo non siano di necessità inscindibilmente
uniti tra loro.
6. - Sull'età del mondo la rivelazione non ci dice nulla. Non oppone
quindi difficoltà al fatto che la terra sia vecchia di parecchi milioni di
anni, o come pretende la scienza naturale odierna, ne abbia alcuni mi¬
liardi (cfr. § 100).
* Circa l'età del mondo e della terra, Pio XII, nel discorso : L'esistenza di Dio
alla luce della scienza naturale moderna, sulla base dei più recenti dati scien¬
tifici, dice:
« Per citare qualche cifra, la quale non altro pretende che di esprimere un
ordine di grandezza nel designare l'alba del nostro universo, cioè il suo prin¬
cipio nel tempo, la scienza dispone di parecchie vie, l'una dall'altra abbastanza
indipendente, eppure convergenti, che brevemente indichiamo:
1) Il distanziamento delle nebulose spirali o galassie. - L'esame di numerose
nebulose spirali, eseguito specialmente da Edwin E. Hubble nel Mount Wilson
Observatory, portò al significante risultato — per quanto temperato da riserve —
che questi lontani sistemi di galassie tendono a distanziarsi l'una dall'altra con
tanta velocità che l'intervallo tra due tali nebulose spirali in circa 1300 milioni
di anni si raddoppia. Se si guarda indietro il tempo di questo processo dell' " Ex¬
panding Universe ", risulta che da uno a dieci miliardi di anni fa la materia di
tutte le nebulose spirali si trovava compressa in uno spazio relativamente ristretto,
allorché i processi cosmici ebbero principio.
2) L'età della crosta solida della terra. - Per calcolare l'età delle sostanze
originarie radioattive, si desumono dati molto approssimativi dalla trasmutazione
dell'isotopo dell'uranio 238 in un isotopo di piombo (RaG), dell'uranio 235 in
attimo D (AcD) e dell'isotopo di torio 232 in torio D (ThD). La massa d'elio,
che con ciò si forma, può servire da controllo. Per tal via risulterebbe che l'età
media dei minerali più antichi è al massimo di 5 miliardi di anni.
3) L'età dei meteoriti. - Il precedente metodo applicato ai meteoriti, per cal¬
colare la loro età, ha dato all'incirca la medesima cifra di 5 miliardi di anni.
Risultato questo che acquista speciale importanza dal momento che oggi si am¬
mette generalmente da tutti l'origine interstellare dei meteoriti.
4) La stabilità dei sistemi di stelle doppie e degli ammassi di stelle. - Le
oscillazioni della gravitazione dentro questi sistemi, come l'attrito delle maree,
restringono di nuovo la loro stabilità entro i termini da 5 fino a 10 miliardi
di anni.
Se queste cifre possono muovere a stupore, tuttavia anche al più semplice dei
(A.A.S., 1952, 39-4°)-*
P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
essere
regge.
credenti non arrecano un concetto nuovo e diverso da quello appreso dalle prime
vale a dire l'inizio delle cose nel tempo. n
parole della Genesi : " In principio
A quelle parole esse danno un'espressione concreta e quasi matematica, mentre
un conforto di più ne scaturisce per coloro che con l'Apostolo condividono la stes
stima verso quella Scrittura, divinamente ispirata, la quale è sempre utile ad di
docendum, ad arguendum, ad corripiendum, ad erudiendum (2 Tim. 3, 16) »
(A.A.S., 1952, 39-4°)-*
53-
f
7. - L'obbiezione che Dio non può essere stato inoperoso e quindi
dev'essere sempre stato creatore non si regge. Dio, infatti, anche prima
c
della creazione, non è mai stato inattivo. Egli non ha bisogno del mondo
m
per dare un oggetto al suo agire, nè esso gli sarebbe sufficiente a causa
da
della sua immensità infinita. Dio è in se stesso atto puro, così come è
m
anche pienezza dell'essere. L'eterna attività di Dio si manifesta al mas¬
e
simo nelle produzioni intradivine (cfr. §§ 53-56; 86; 90). Vedere la ri¬
mutazion
sposta di S. Agostino alla questione che cosa faceva Dio prima di creare
al § 70.
finito
8. -
La creazione nel tempo è un mistero che ci viene garantito dalla
rivelazione e mostrato anche dalla ragione. Il mistero impenetrabile della
temporalità del mondo, voluto esternamente da Dio, non sta nel fatto che Dio
egli con una volontà senza inizio voglia un mondo con inizio, ma nel
fatto del come mai egli, con volontà eterna e immutabile, possa volere do
un mondo temporale, sottoposto alla mutazione e in continuo divenire. condanna
In ultima analisi tale domanda si riconduce al quesito: come può un
Dio infinito pensare e volere un mondo finito? 1
§ 107. Libertà della volontà creatrice di Dio.
(13
Dio creò il mondo con piena libertà. È dogma di fede. v
1. - A questo proposito vedere la condanna di Abelardo (Denz. 374), §
il Decreto pei Giacobiti (Denz. 706), il Breve di Pio IX al Card. Geissel
di Colonia sulla dottrina di Giinther (Denz. 1655), il Concilio Vaticano
(Sess. 3, cap. 1; Denz. 1783 e anche il can. 5 sopra Dio), e la condanna
di Rosmini (Denz. 1908).
2. - Per i passi biblici vedere Sai. 135 (134), 5; 9, 4-24. Dio stabi¬
lisce tutto secondo il consiglio della propria volontà (Ef. 1, 11). Cfr. il
trattato sulla Libertà della volontà divina al § 87.
§ 107- LIBERTÀ DELLA VOLONTÀ CREATRICE DI DIO 525
3. - La libertà riguarda tanto il fatto della creazione del mondo
quanto anche la scelta di un determinato mondo. Dio non ha avuto per
far ciò nessuna costrizione esterna, perchè esiste in piena indipendenza,
nè alcuna necessità interiore, perchè è sommamente perfetto e beato.
Dio non abbisognava del mondo per avere coscienza di sè, per raggiun¬
gere la sua perfezione o per possedere un oggetto su cui agire, poiché
egli è eterno atto puro, vive di una perfettissima vita intima (cfr. la
dottrina trinitaria, specialmente la parte riguardante le relazioni intra-
divine). La creatura, a motivo del suo essere povero, limitato e ristretto,
necessita per il suo perfezionamento di un continuo stimolo esterno.
Lasciata a se stessa risentirebbe una noia paralizzante, un tedio mortale
(cfr. § 106). Dio, al contrario, per l'immensurabile pienezza della sua
essenza, non può avere alcuna brama verso una perfezione che gli venga
comunicata dal di fuori. Nè si può dire che, non potendo la sua bontà
restare incomunicata e la sua onnipotenza restare inattiva, Dio, neces¬
sariamente, debba creare. Perchè se è vero che per natura la bontà deve
comunicarsi e la potenza agire, è pur vero che ciò in Dio si compie sin
dall'eternità, e continua a compiersi in modo esauriente nelle processioni
divine interne. Nella creazione, anzi, ciò non avrebbe potuto compiersi
in modo adeguato.
4. - L'ottimismo assoluto, quale fu proclamato da Abelardo, Male¬
branche, Leibniz, costituisce una limitazione della libera volontà crea¬
trice di Dio. Nella creazione Dio manifesta la sua bontà, bellezza e bea¬
titudine in modo finito. La sua libera volontà sola decide sul grado e
sulla maniera di questa manifestazione, senza che nulla possa determi¬
narla. Quando Leibniz afferma che Dio, per la sua sapienza e volontà
è obbligato a creare il migliore dei mondi possibili, parte dall'errata con¬
cezione che Dio, nella creazione, debba agire secondo tutte le possibi¬
lità che essa gli offriva, che egli fosse obbligato a dare il meglio che
poteva produrre. Nelle creature, a motivo della loro capacità di sviluppo
e perfezione, sarebbe incomprensibile lasciare il meglio per scegliere il
meno. La creatura, infatti, con il suo perfezionamento cresce di continuo
verso un bene maggiore. Ma Dio non può ricevere perfezionamento da
alcun bene, per quanto grande esso sia. Un mondo senza imperfezione
è inoltre impossibile, poiché se ne può sempre pensare uno migliore,
sino a quando non sia perfetto in modo divino.
Il mistero del perchè Dio non abbia creato un mondo migliore di
quello attuale si può forse spiegare alquanto con le seguenti conside-
quando si asserisce che Dio si estrinseca nel fini
az
526 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO Dio
razioni. La creazione del mondo significa estrinsecazione di Dio nel ogn
finito. Mentre Dio crea il mondo, svela, in certo senso, la propria gloria, ricchez
e, in pari tempo, necessariamente la nasconde. Non può quindi in alcun po
modo palesarsi nel creato, se non occultando contemporaneamente se pie
stesso (cfr. § 37, 63 s.). E questo è proprio ciò che si intende dire poss
nemmeno
quando si asserisce che Dio si estrinseca nel finito. Egli, in certo senso,
discende in ciò che è limitato. Ora tutte le azioni divine ricevono la
loro legge intima e formale dalla infinità di Dio. Anche nell'automani- n
festazione egli opera come infinito e supera ogni concezione e aspetta¬ esser
tiva limitate. Egli si prodiga, getta la sua ricchezza a piene mani. Nella
creatura ciò sarebbe stoltezza, in quanto essa possiede soltanto una ric¬ ne
chezza limitata. Per Dio, invece, è segno di pienezza inesauribile. Egli T
può agire in tal modo unicamente perchè possiede una ricchezza tale se
da non potersi, non dico esaurire, ma nemmeno sminuire anche solo in es
minima parte. s
Così Dio può immergersi nelle tenebre e nell'impurità, perchè nè stessa
la sua purezza nè la sua maestà possono esserne minimamente intac¬ c
cate. Egli si possiede totalmente, assolutamente, in modo da non poter nell'im
perdere nulla, perciò può abbassare se stesso nella fragilità della crea¬ dalla
tura umana sino a subire la morte in croce. Tale abbassamento nella e
debolezza creata, che in realtà egli si è assunta senza sminuire realmente su
se stesso, avviene affinchè noi non dobbiamo essere annientati dinanzi
alla sua maestà e grandezza infinita, affinchè ci sia dato davvero di cre¬impedisce
dere alla possibilità di partecipare alla sua stessa vita, dal momento che ta
egli si presenta a noi in modo vivo, ci parla, ci minaccia, ci perdona, um
ci ama. Dio si è, in certo modo, nascosto nell'imperfetto per poter get¬ pu
tare un ponte sulla voragine che lo separa dalla creatura anche la più l'univers
perfetta, per non atterrirla dinanzi all'amore e alla fiducia che deve
nutrire per il Fattore supremo (cfr. la dottrina sulla Redenzione). Dio si
manifesta per amore, e per amore si cela.
Nascondendo la sua gloria non le impedisce tuttavia di svelarsi in
qualche modo. L'automanifestazione di Dio è tale che anche in essa se
ne svela la gloria. Se nessun occhio 0 cuore umano è capace di acco¬
gliere il dolore e le lacrime del mondo, non può neppure abbracciare
tutta la bellezza e la gloria di Dio che l'universo palesa. Cfr. A. Roz-
wardowski, De optimismo universali secundum S. Thomam in Grego-
rianum, 1936, 254 ss.
§. 108. IL MOTIVO PER CUI DIO HA CREATO IL MONDO 527
§ 108. Il motivo per cui Dio ha creato il mondo.
1. -Dio è del tutto indipendente, perfetto e beato; non può quindi
proporsi, con la creazione, un accrescimento o un perfezionamento en-
titativo, morale e intellettuale. Egli infatti, come già osservammo, non
è spinto o necessitato a creare nè da un bene esterno nè da deficienza
interiore. La ragione per cui Dio crea sta incondizionatamente e unica¬
mente in se stesso. Egli crea perchè vuol creare. Di lui si può dire:
vuole perchè vuole. Egli manifesta la gioia per la sua bontà e l'amore
per la sua perfezione (§ 89), comunicando la sua bontà e la sua perfe¬
zione in modo finito ad esseri distinti da sè.
Il fatto che l'amore divino si esplica come Padre, Figlio e Spirito Santo auto¬
rizza inoltre le seguenti considerazioni. Dio si ama in quanto il Padre ama il
Figlio e lo Spirito Santo, il Figlio ama il Padre e lo Spirito Santo e lo Spirito
Santo ama il Padre e il Figlio. L'amore con cui il Padre ama il Figlio non solo
gli auspica la felicità e la beatitudine del proprio amore paterno, ma anche
l'amore di altri. Il che, in primo luogo è appunto l'amore dello Spirito Santo.
Ma il Padre desidera ancora che la fiamma della bontà del Figlio irradi al di
fuori della sfera divina. Gli auspica la felicità di poter far fluire il suo amore
non solo entro il campo della divinità, bensì anche fuori di esso. In tal modo
progetta la realtà extradivina allo scopo che il Figlio la ami e riversi il suo
amore su di essa. Questo piano del mondo concepito dall'amore del Padre verso
il Figlio, egli lo comunica al Verbo nella generazione, e questi lo riceve per
volere paterno. In altre parole il Figlio auspica al Padre quanto il Padre augura
a lui. Padre e Figlio comunicano, nella spirazione, questo piano allo Spirito
Santo, e gli augurano ciò che ambedue si auspicano a vicenda. Lo Spirito Santo
accetta tale piano e, nello stesso modo con cui i due lo amano, attua egli pure
il proprio amore verso il Padre e il Figlio. In tal modo il procèsso amoroso è
completo. A questo punto trabocca al di fuori della sfera e del mare d'amore
divino per riversarsi, quando Dio lo vuole, nella realtà extradivina. Certo anche
se Dio non manifestasse in tal modo la sua gioia e il suo amore per la propria
bontà e perfezione, non per questo sarebbero minori. Ma nel suo imperscru¬
tabile volere egli ha deciso di esplicare il suo amore riversandolo anche al di
fuori di se stesso. Ci è impossibile capire perchè Dio abbia voluto così. Infatti
la realtà che il mondo esiste è mistero impenetrabile dell'impenetrabile amore
divino.
2. - Il motivo per cui Dio ha creato il mondo è l'amore con cui
egli ama se stesso e che liberamente volle manifestarsi nei beni comu¬
nicati alle creature. È dogma di fede. Concilio Vaticano, Sess. 3, cap. 1;
Denz. 1783.
se tu non l'avessi voluto? o conservarsi ciò che
cos
528 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L"'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
gi
3. - La Sapienza testimonia che il motivo per cui Dio ha creato il
mondo consiste nella sua incondizionata volontà d'amore : « Ma di tutti più
tu hai compassione (appunto) perchè tutto puoi: Ami invero gli esseri mio
tutti, e nulla abomini di quanto hai fatto. Perchè se avessi odiato una
cosa, non l'avresti prodotta nè fatta. E come potrebbe sussistere alcunché
se tu non l'avessi voluto? o conservarsi ciò che non fu da te chiamato ch'io
perc
(all'esistenza)? » (Sap. il, 24-26). «Tutte le cose il Signore ha operato
per se stesso; ed anche l'empio per il cattivo giorno » (Prov. 16, 4). Si m
veda pure Rom. n, 35; Apoc. 1, 8. m
e
4. - Agostino nel suo libro Confessiones più e più volte afferma che l'amore Eppur
di Dio avvolge ogni creatura : « Invoco te, Dio mio, misericordia mia, che mi h
hai creato e nella mia dimenticanza di te non mi hai dimenticato. Invoco te io
nella mia anima da te preparata ad accoglierti con il desiderio che le ispiri. Ora mi
ch'io t'invoco non abbandonarmi, tu che prima ch'io t'invocassi mi hai preve¬ perch
nuto con insistenza frequente di molti richiami perchè udissi di lontano e mi
rivolgessi e invocassi te che chiamavi, chiamavi. Tu, infatti, o Signore, hai can¬ da
cellato tutte le mie colpe per non retribuire alle mie mani l'opera che avevo fatto bon
allontanandomi da te, e hai prevenuto tutti i miei meriti per retribuire l'opera pot
delle tue mani con cui mi avevi fatto. Prima che io esistessi tu eri ed io invece Che
non ero; e così non potevo ricevere l'essere. Eppure eccomi, io esisto per la m
tua bontà che prevenne, facendo tutto ciò che in me hai fatto e la materia donde
tu mi hai tratto. Tu non avevi bisogno di me ed io non sono un bene tale da s
poter essere giovamento tuo, o Signore mio, Dio mio. Ed io ti servo non per
alleviare quasi la tua stanchezza nell'operare, o perchè senza il mio ossequio sia quella
diminuito il tuo potere. Non sei come la terra; se non ti coltivo tu non resti dip
incolto. Debbo servirti e onorarti per aver bene da te, da cui ho l'essere per
ricevere bene » (13, 1). « Dalla pienezza della sua bontà trae sussistenza la crea¬ pure
tura, bene che a te non poteva giovare e che non poteva esserti uguale, ma che, m
potendo essere fatto da te, non doveva mancare. Che merito ebbero verso di tedisordinat
il cielo e la terra che tu creasti in principio? Che merito ebbero la natura spi¬ esistend
rituale e quella corporale da essere create da te nella tua sapienza, dipendenti da d
essa anche solo abbozzate ed informi, ciascuna nel suo genere spirituale e cor¬ esi
poreo, così vaganti nella indeterminazione e in una lontanissima dissomiglianza pe
da te; quella spirituale, informe, superiore a quella formata, corporea; quella t
corporea formata, superiore al nulla assoluto? E la dipendenza del tuo Verbo era
tale che nella loro informità solo per mezzo di esso potevano essere ricondotte
alla tua unità ed essere formate ed esistere sia pure informi, se non potevano
resistere neanche a questo modo senza di te? Che merito ebbe la materia cor¬
porea per esistere anche solo così informe e disordinata? Non esisterebbe neanche
a questo modo, se non l'avessi fatta tu: non esistendo non poteva avere presso
di te il merito per esistere » (ivi, 13, 2). « Che cosa, dunque, sarebbe mancato al
bene che tu sei a te stesso, se questi esseri non esistessero affatto o restassero
informi, giacché tu non li hai fatti per bisogno, ma per pienezza della tua bontà,
riducendoli ai limiti d'una forma, ma non perchè la tua felicità fosse colmata da
§ Io8. IL MOTIVO PER CUI DIO HA CREATO IL MONDO 529
essi? Perfetto, ti dispiace la loro imperfezione, ma in modo che tu li renda per¬
fetti e così ti piacciano, non già che tu imperfetto debba ricevere perfezione da
loro. Lo Spirito tuo buono s'aggirava sulle acque, non già ad essere portato come
volesse ivi riposare, poiché quando di alcuni esseri si dice che lo Spirito tuo
buono in essi riposa, è esso che li fa riposare in sé. Era la tua volontà che s'ag¬
girava incorruttibile, incommutabile, autosufficiente sulla vita da te creata, per la
quale vivere non è vivere felicemente, perchè vive anche, fluttuando nella sua
oscurità, a cui rimane da volgersi a colui dal quale fu creata per vivere e vivere
sempre più da presso alla fonte della vita, per vedere la luce nel suo lume e in
essa nobilitarsi, illuminarsi, godere » (ivi, 13, 4).
5. - Se ci atteniamo all'espressione letterale del Concilio Vaticano,
non è possibile asserire propriamente che Dio, realizzando la creazione
abbia avuto un motivo principale e uno secondario, vale a dire l'amore
a se stesso e l'amore verso le creature. No. Dio ha avuto un motivo solo:
l'amore verso la sua propria perfezione. E questo egli ha voluto mani¬
festare in modo imperscrutabile per noi, riflettendo la sua bontà nella
possibilità di creature limitate, cosicché la sua gloria risplendesse anche
fuori dalla sua vita intima e il suo amore potesse riversarsi sulle sponde
dell'essere extradivino. Dio attuando in misura creata la sua gloria, ri¬
trova sempre parimenti se stesso nel campo extradivino. Perciò il suo
amore verso la propria perfezione si estende anche sopra tale sfera.
6. - Il provenire da Dio conferisce alle cose la loro impronta intima
(§ 105), e poiché la loro derivazione è provenienza dell'amore, ne de¬
riva che il carattere più profondo delle cose sta nell'amore. Negli es¬
seri apersonali tale carattere si esplica come unità e connessione. Nello
spirito creato fa sì che la stessa intima essenza della persona sia amore.
È per questo che l'uomo tende verso un « tu » a cui consacrarsi, in ul¬
tima analisi verso il « tu » divino, ed è naturalmente socievole. E al
contrario è pure per questo che l'orgoglio, l'esclusione, il chiudersi in
sé di fronte al « tu » sono atteggiamenti distruttivi della personalità. Lo
stato infernale consiste appunto nel fatto che il dannato vive solo per sé,
definitivamente lontano da Dio che è tutto amore. Staccato così dal¬
l'Amore personale non è più capace di amare, si trova nell'isolamento
perenne e nello struggimento intimo che deriva proprio da questa sua
incapacità di poter amare (cfr. § 92).
7. - Contro la provenienza del mondo dalla volontà amorosa di Dio non serve
obiettare che in esso esiste il male sia fisico sia morale (cfr. su questo argo¬
mento più ampie spiegazioni ai §§ 93 e 113). La fede in Dio è più che suffi¬
ciente ad eliminare tale difficoltà.
Per quanto concerne il male morale che sembra avere sì gran potenza nel
34 - schmaus - dogmatica 1.
anche da altri. L'Amore personale crea gli esseri ex
pecc
530 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO int
pr
mondo, seguendo le tracce della scuola scotista, si potrebbe rispondere così: l'incarnazion
l'amore che Dio nutre per la sua perfezione gli ha permesso di penetrare nel brilla
nulla, diremmo, con Hello, di visitarlo, per diffondervi in modo finito la sua pecca
gloria. Lo spirito creato può e deve riconoscere e amare la gloria di Dio che si di
presenta, sia nella natura, sia in se stesso (cfr. i paragrafi seguenti). L'amore che ind
Dio ha per la propria perfezione, con l'atto creativo, fa sì che essa sia amata
anche da altri. L'Amore personale crea gli esseri extradivini affinchè anche dal¬ c
l'abisso del nulla essi possano riceverlo. Ora il peccato sembra frustare tale in¬ risp
tervento divino, in quanto è, nella sua essenza intima, soltanto odio di Dio. ma
Tuttavia dobbiamo riflettere che Dio Padre, già prima del peccato, aveva in¬ c
trodotto nel piano divino della creazione l'incarnazione del Figlio suo (cfr. § 103). ma
Nel cuore del Verbo incarnato Dio Padre vide brillare la fiamma dell'amore, la
quale supera col suo splendore tutto l'odio dei peccatori ed è capace di bruciare
nel suo fuoco il loro livore. Così in realtà il piano divino non è stato frustrato e
bellezz
l'odio che Dio ha scorto nell'universo non lo ha indotto ad astenersi dal creare. d
In modo più generale si può rispondere così: Dio ha creato un mondo in cui
il peccato è possibile perchè vuole conferire alle creature la partecipazione ai
suoi attributi divini, alla sua vita intima in modo rispondente alla loro natura di
esseri dotati di libertà. L'uomo non è un automa, ma deve realizzare la sua vita
liberamente. Dio, in certo qual modo, rischia la creatura libera perchè egli,
amante della libertà, vede in questa un bene del massimo valore. È tuttavia un
per
mistero impenetrabile perchè Dio non abbia creata fin dall'inizio una creatura
perfetta in modo che non abusasse della libertà.
pecca
8. - La natura, nonostante la sua allettante bellezza e magnificenza non poche ed
volte si rivela nemica dell'uomo e quindi qualcosa di difficilmente riferibile al¬ giudizi
l'amore divino. Si mostra sovente piena di malizia e ostilità. Come può, mal¬ s
grado ciò, provenire da Dio? induce
a) Dobbiamo anzitutto tener conto che l'amore divino è assai diverso dal¬
l'umano. Dio non brama la nostra felicità in questa vita, legata allo spazio e al
tempo, ma vuol piuttosto renderci partecipi della sua gloria. È proprio per
questo che scuote l'uomo dalle comodità terrene, perchè non si perda nelle cose
create e si adagi in esse tranquillo e contento.
b) Inoltre sul mondo è stesa l'ombra del peccato e della sua maledizione.
Di qui nasce l'ostilità della natura verso l'uomo ed è proprio in ciò che essa
diviene strumento dell'amore divino. Anche il giudizio di maledizione del creato
che Dio ha scagliato e scaglia contro l'uomo, è pur sempre, come tutti i giudizi
divini, giudizio della sua grazia: è quello che induce l'uomo a ravvedersi!
§ 109- IL FINE DELLA CREAZIONE 531
§ 109. Il fine della creazione.
I. - GLORIA DI DIO.
1. - Se il cosmo è frutto dell'amore di Dio, di quel reciproco vincolo
amoroso che avvolge le tre persone divine, si deve dedurre che esso è
opera degna di tale amore. L'amore con cui il Padre ama il Figlio, e
nel quale è stato concepito anche il piano del mondo, raggiunge il suo
scopo solo se il mondo è capace di accogliere l'amore del Figlio e di
renderglielo. Il che avviene solo se l'universo realizza, sia pure in modo
finito, la perfezione divina. Solo quando Dio ritrovi riflessa nel mondo
la propria perfezione, che ama d'infinito amore, potrà guardarlo con
gioia e amarlo. Effettivamente il cosmo originato nell'amore divino è
propriamente un'attuazione e una manifestazione, sia pur limitata, della
sua perfezione: è rivelazione di Dio.
La stessa cosa si può anche esprimere col termine Regno di Dio.
Il creato serve alla signoria di Dio ((3aaiXeta OeoiS). È una rivelazione
della gloria di Dio, perchè egli lo domina. Dio realizza nel mondo, da
lui dominato, la propria gloria, in modo che esso lo riconosce quale suo
signore e padrone.
In senso proprio l'espressione « Regno di Dio » designa quel dominio
di Dio che ebbe inizio quando egli, con la vocazione di Abramo, è in¬
tervenuto concretamente nella storia umana per portare la salvezza degli
uomini. Tale regno troverà la sua più completa espressione allorché avrà
raggiunto lo stato particolare che la Bibbia designa con i termini «nuovo
cielo e nuova terra».
A. Gloria di Dio sotto l'aspetto oggettivo.
2. - Il mondo è stato creato per la gloria di Dio. È dogma di fede.
Il Concilio Vaticano dichiara : « Dio, per sua bontà e virtù onnipotente,
con liberissima decisione e non per aumentare la sua felicità, nè per
acquistare, bensì per manifestare la sua perfezione nei beni che comparti¬
sce alle creature, creò dal nulla, al principio del tempo, l'una e l'altra crea¬
tura... » (Denz. 1783). E nel can. 5 dice: « Se qualcuno... nega che il mondo
sia stato creato per la gloria di Dio, sia scomunicato » (Denz. 1805).
propria che Dio ha concepito per lei e le ha d
su
532 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
3. - Il creato rivela la gloria di Dio in quanto vi partecipa, in quanto r
è attuazione limitata di tale gloria nel campo extradivino. Ogni cosa è
rappresentazione e immagine della grandezza, dignità, profondità e pie¬ s
nezza del Dio vivente. Ogni cosa proclama la gloria di Dio (gloria su
externa). E lo fa perchè ognuna ha pure una dignità e perfezione de
propria che Dio ha concepito per lei e le ha donato (cfr. il trattato su
Dio). E quanto più la creatura è elevata nel suo essere, tanto maggior¬ ch
mente riesce a svelarci Dio. La sua gloria è quindi attestazione della termin
gloria di Dio. Nella sua grandezza e bellezza rifulge la grandezza e lo ma
splendore divino (Rom. i, 20). Il
Come si vedrà in seguito (§ no), la misura secondo cui una creatura espre
rivela la gloria di Dio non dipende solo dalla sua consistenza ontologica, quan
ma anche dal posto che occupa nella storia della salvezza ossia nell'or¬ g
dine soprannaturale.
La rivelazione della perfezione divina si chiama il fine della crea¬
zione, più precisamente il fine primario. Il termine fine non deve far pen¬ un
sare ad una estrinseca destinazione delle cose, ma piuttosto alla loro stessa amabilità
determinazione essenziale e intimo significato. Il fine di cui qui si parla, belle
la creatura lo realizza proprio in quanto è espressione dell'amore divino. cu
Le cose rivelano la perfezione divina in quanto possiedono una perfe¬ p
zione propria. Ne deriva che il loro servire alla gloria di Dio non significa pot
partecipazion
affatto schiavitù o servitù, bensì soltanto fedeltà alla loro stessa natura. In
a
quanto esistono e sono così e non diversamente, cantano la gloria di Dio.
Siccome egli è pure il Signore che si palesa in un fiume d'amore, ne deriva deve
che le cose non solo inneggiano alla sua amabilità, ma anche alla sua temi- sussis
bilità; non solo esaltano il fulgore della sua bellezza, ma ci palesano pure autoglorifìc
la sua altezza e potenza, capace di spaurire il cuore umano. vertic
Va particolarmente sottolineato che anche il potere terreno è manife¬ Co
stazione di Dio, della sua onnipotenza. Tale potere è quindi qualcosa di as
buono in se stesso, anzi, essendo partecipazione alla incondizionata so¬ diffìc
vranità e libertà divina, può divenire mezzo atto a rivelarci, in modo
particolarmente efficace, Dio stesso. Non si deve tuttavia dimenticare che
nel mondo attuale, deturpato dal peccato, sussiste il pericolo incombente
di attuare, con tale potere, la propria autoglorificazione, in contrasto con
Dio. Anzi essa può qui assurgere a un vertice altrimenti impossibile.
È sempre vero che corruptio optimi pessima. Colui che è salito sulla più
alta vetta, quando inizia a cadere precipita assai più in basso di chi,
invece, sta sopra una bassa collina. È ben difficile che l'uomo, posto in
alto, riesca a sfuggire a tale pericolo.
§ 109- IL FINE DELLA CREAZIONE
533
4. - Si deve inoltre osservare che le creature non sono solo rivela¬
zione ma anche occultamento di Dio, il quale non può palesarsi nel
creato nello stesso modo con cui l'artista umano manifesta il proprio
intimo nell'opera sua. La natura può rivelarci solo l'aspetto, per così
dire, esteriore di Dio, e per di più appena per accenni. Anche se il
mondo è stato fatto a immagine e somiglianza di lui, tuttavia la disso¬
miglianza soverchia di molto la somiglianza (cfr. § 37). Cosa questa che
si accresce vieppiù a motivo del peccato. Si può ancora ragionevolmente
riferire a Dio un mondo che a causa dell'uomo è divenuto così pieno di
miseria, di dolore, di oscurità, di tenebre e di irrazionalità? (cfr. testo di
Newman, § 105). È tutt'altro che facile incontrare oggi Dio nelle cose
di questo mondo! È anzi divenuto un compito così arduo che diffìcil¬
mente la creatura riesce a intravvedere il volto divino attraverso tanti
velami e oscuramenti. Non basta più aver l'occhio penetrante, ci vuole
anche un cuore predisposto da Dio (cfr. § 30), e forza spirituale infusa
da lui. È come chi, stando al telefono, non riesce a udire la voce del¬
l'amico a causa del frastuono che si fa intorno.
5. - Le singole cose, secondo il loro essere proprio, rivelano Dio in
modo diverso. Le creature irrazionali lo manifestano soltanto mediante
la loro esistenza e perfezione (rivelazione « naturale »). Ma tale rivela¬
zione sarebbe inutile qualora non vi fosse una creatura cui annunziarla,
se mancasse l'essere razionale, lo spirito che ha facoltà di accogliere e
trasmettere la lode della natura. La natura creata rimanda quindi allo
spirito creato, che costituisce il coronamento della creazione. In questo
senso si può dire che il mondo è stato attuato da Dio per l'uomo e a
motivo dell'uomo. È per mezzo dell'universo che la creatura umana co¬
nosce la grandezza, potenza, sapienza, dignità di Dio. Infatti, quando
più l'intelletto scandaglia la smisurata dimensione cosmica, tanto più gli
si palesa l'inafferrabile mistero di Dio.
6. - Può l'uomo comprendere, durante il pellegrinaggio terrestre, una gran¬
dezza così smisurata come quella dell'universo? Dobbiamo riconoscere che di
fatto egli non può esaurirla e, di conseguenza, non riesce nemmeno a penetrare
totalmente la gloria divina che vi si nasconde. Per quanto indaghi l'universo,
esso gli appare pur sempre smisurato. Ciò non è forse in contrasto con l'affer¬
mazione che il mondo è stato creato per l'uomo? Come lo può essere se egli
non riesce a conoscere appieno la gloria divina che il cosmo racchiude e se con
la sola intelligenza non comprenderà mai l'universo?
Al riguardo è necessario notare quanto segue: a) L'uomo dal momento che
non possiede forza a sufficienza per sondare tutto il mistero dell'universo, viene
naturalmente sospinto a pensare alla grandezza di Dio che trascende il mondo.
di fronte alla grandiosità cosmica. Infatti, esse
riesce
534 P- IX- - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L*ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO trascend
cos
Nell'incomprensibilità dell'universo l'uomo rinviene l'espressione simbolica di
un'altra ancora maggiore: l'incomprensibilità di Dio. Sentendosi un punto im¬ ri
percettibile nell'immensa vastità cosmica, è indotto a considerare la propria limi¬ dign
tatezza e a inchinarsi dinanzi alla sublimità di Dio. In pari tempo alla vista del¬
l'immensità divina e della propria limitatezza, capisce meglio la bontà di Dio e
si abbassa sino a lui. E viene cosi a rendersi conto anche della propria dignità pe
di fronte alla grandiosità cosmica. Infatti, pur essendo dinanzi a un mondo esisten
quantitativamente incomprensibile, tuttavia egli riesce a penetrarvi grazie al suo per
spirito. In tal modo diviene conscio della sua trascendenza sul mondo e si sente
spinto a lodare Dio, che lo ha posto in una sfera così alta di fronte all'universo.l'universo
Capisce che anche la stessa esistenza è puro dono di Dio e comprende che l'at¬completam
teggiamento che meglio gli si confà, è quello del ringraziamento e della lode. d
Diviene maggiormente consapevole della propria dignità, se pensa che Dio si èrivelazion
incarnato nell'uomo mentre non si è unito al resto del mondo, nonostante la
superiorità quantitativa. intimamente
b) Se l'uomo non può, durante la vita terrena, penetrare a fondo nell'enigma E
dell'universo, vi riuscirà, invece, nella forma di esistenza che avrà luogo dopo ladetermina
morte corporea. L'universo è abbastanza grande per svelargli, nella vita ultra¬ delle
terrena, sempre nuovi aspetti di Dio che sino allora gli erano rimasti ignoti.
c) Si potrebbe anche aggiungere che l'universo, pur conservando dei lati t
incompresi all'uomo, di fatto non trascende completamente il puro spirito creato, completa
in quanto gli angeli possono mirarvi quella gloria di Dio che rimane nascosta Ess
all'uomo. In tal modo il mondo serve quale rivelazione della gloria di Dio anche odi
per gli angeli. Una simile opinione si può accogliere facilmente se si pensa che de
il mondo e gli angeli sono legati tra loro intimamente. Schell scrive al riguardo: nell'u
« Gli angeli sono praticamente cittadini del mondo. Essi indagano l'universo, le cu
leggi e le relazioni delle cose, perseguono determinati interessi nel mondo, sia compito
per lottare contro il male, sia nella realizzazione delle opere buone. Sono i pro¬
tettori dei popoli e i custodi dei singoli uomini, sono i messaggeri che Dio invia
all'umanità e gli interpreti dell'uomo dinanzi al trono della maestà divina. in
Non possiedono sin dall'inizio la conoscenza completa, ma acquistano man mano c
sempre nuove esperienze dalla storia del mondo. Essi sono intimamente toccati D
dagli eventi, s'accendono, s'infiammano, amano e odiano, s'affrettano e combat¬ ann
tono, si oppongono e si affaticano, si consultano e deliberano sul mondo e sulla ag
storia dei popoli (Dan. 4), appaiono e agiscono nell'universo, si scambiano inse¬obbiettare
gnamenti e incarichi, sono condizionati al luogo in cui operano, hanno pure una sia
decisione storica e in base a questa il loro compito temporale e la loro storia es
sino al giorno del giudizio. Sono dunque cittadini del grande regno di Dio »
(Katholische Dogmatik, 1890, vol. II, 199).
d) Ammesso che non solo sulla terra ma anche in altri corpi celesti vi siano
degli esseri dotati di ragione, possiamo aggiungere che in tali parti del cosmo
potrebbe essere visibile un aspetto della gloria di Dio che al contrario sfugge
agli abitanti della terra. In tal modo la creazione annuncerebbe la gloria di Dio
all'uomo in terra, ai beati in cielo (santi e angeli) e agli abitanti degli altri pianeti.
Contro l'esistenza di tali esseri si può obbiettare che le cognizioni fisiche
odierne sembrano escludere che in altre stelle vi siano condizioni tali da ren¬
dere possibile la vita simile alla terrena. Ciò non esclude che un tempo, negli
§ 109- IL FINE DELLA CREAZIONE 535
altri pianeti, abbiano potuto esistere esseri viventi o che questo abbia a succe¬
dere in avvenire. Che il mondo sia particolarmente ordinato all'uomo, si deve
concludere con verosimiglianza dal fatto che esso nelle sue forme è tanto più
ricco e vario quanto più gli si avvicina, mentre diviene man mano povero e
monotono quanto più si allontana da lui. Cfr. D. Grasso, La teologia e la plu¬
ralità dei mondi abitati in Civiltà Cattolica, 1952, IV, 255-265.
7. - Le scienze naturali e le ricerche scientifiche riescono con ogni nuovo
progresso a svelarci un nuovo aspetto di Dio. Leone XIII nell'Enciclica Aeterni
Patris (1879) esorta a incrementare lo studio delle scienze profane. Similmente
Pio XII in alcuni suoi discorsi. Specialmente l'arte sia con la parola, sia con il
tono o con la forma riesce a dar voce alla natura muta, la quale non è, come
l'uomo, una rivelazione a « immagine e somiglianza » di Dio. L'arte riesce così
a farle svelare il suo mistero e riesce a ciò semplicemente per il fatto che è arte.
Si comprende di qui perchè i poeti, anche al di fuori del campo cristiano, si
possano definire « ripieni di Dio ». Con la loro opera svincolano la natura dalla
sua pesantezza e grevezza e ce la mostrano quale trasparenza di Dio. * « Gli ar¬
tisti sono in qualche modo interpreti delle infinite perfezioni di Dio, e partico¬
larmente della sua bellezza e armonia. La funzione di ogni arte sta infatti nel-
l'infrangere il recinto angusto e angoscioso del finito in cui l'uomo è immerso,
finché vive quaggiù, e nell'aprire come una finestra al suo spirito anelante verso
l'infinito » (Pio XII, Discorso agli espositori della VI Quadriennale Romana,
tenuto l'8 aprile 1952). *
8. -
La creazione serve pure alla gloria di Dio, in quanto è strumento per
attuare la sua volontà. Esseri e forze naturali sono al servizio di Dio, sono mes¬
saggeri e realizzatori del volere divino (Staudenmaier). È precisamente in questo
che la natura acquista il suo significato più profondo per la storia umana.
B. Gloria di Dio sotto l'aspetto soggettivo.
9. - Ciò che la natura compie con il suo semplice esistere (fine ogget¬
tivo), tanto meglio quanto più ricco è il suo essere e quanto più lo
spirito creato ode la sua voce, lo spirito creato deve attuarlo per conto
suo intenzionalmente (fine soggettivo della creazione). Da una parte lo
spirito creato è anch' egli al pari della natura irragionevole, rivelazione
della spiritualità e libertà divina, della sua potenza e maestà. È per se
stesso rivelazione di Dio. Ma d'altra parte deve essere conscio di questo
suo stato e riconoscere in se stesso, rintracciare ed esaltare nella sua pro¬
pria persona la gloria di Dio. Idoni della creazione diventano per lui
sorgente di dovere. Le regalie divine sono obblighi per l'uomo: egli ha
il dovere di servire, lodare e glorificare Dio per tutta la sua vita.
Tale compito conferisce alla storia umana il suo dinamismo più alto
e fecondo. Di continuo deve chiedersi se l'uomo è creato per la gloria
sarà
i
536 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
come
mondana, ossia per la propria esaltazione, o, al contrario, per la gloria ador
di Dio. Si tratta qui del significato ultimo del mondo, e su questo punto D
si scatenano oggi le lotte più tremende che mai abbiano avuto luogo
nella storia umana. pensi
L'adorazione è pertanto il più alto compito che la creatura ha nei inscin
riguardi di Dio. Non vi è mai stato nè vi sarà mai tempo o situazione
in cui tale atteggiamento dell'animo non sia il principale dovere del¬ al
l'uomo. Nell'adorazione egli riconosce Dio come l'incondizionato Signore a
e Padrone della vita e della storia. L'uomo adorante è artefice del regno p
di Dio che si avanza per causa sua. Chi adora Dio è servitore del regno
divino. Anzi, per essere più precisi, Dio stesso attua per mezzo dei suoi p
adoratori la sua regalità sul mondo. Se pensiamo che Dio è santità,
verità e amore personificati in una unità inscindibile, dobbiamo ricono¬ mondo
scere che il suo regno è l'avvento della santità, della verità e dell'amore. c
Ecco perchè chi dedica la propria esistenza all'adorazione di Dio non
compie un gesto contrario alla vita o estraneo al mondo. L'avvento del¬ co
l'amore e della verità significa infatti salvezza per l'universo, in quanto
esso può sussistere solo in Dio, verità e amore, mentre lungi da lui fini¬
sce col precipitare del caos (cfr. la dottrina sul peccato originale). Di più pe
l'uomo, proprio nell'adorazione, riceve la forza e l'impulso per le azioni
comunità.
più feconde, destinate a far sviluppare il mondo secondo il volere divino. D
È proprio dall'adempiere o meno tale dovere che al mondo proviene la sobbarcars
salvezza o la rovina. ciò
Dio
Data l'importanza di questo compito, si capisce come Dio stesso intervenga in Pa
vari modi per esigerne la soddisfazione. Il dolore è precisamente una delle ma¬ no
niere in cui Dio colpisce i suoi amanti. Perciò esso diviene enigmatico agli in¬ creatur
creduli e misterioso ai credenti, pur non essendo per questi ultimi del tutto in¬ las
comprensibile. L'uomo deve infatti adempiere il suo dovere non solo come unità
singola, bensì anche come membro della comunità. Quando in una comunità
questo o quello trascurano il compito di adorare Dio, ne nasce per gli altri il na
dovere di raddoppiare le loro forze onde sobbarcarsi anche il compito del col¬
pevole, cosicché si attui in modo completo tutto ciò che deve venir realizzato.
Il dolore ci dà appunto la possibilità di offrire a Dio l'onore che si merita anche
a nome degli altri e di riconoscerlo come nostro Padrone. Nella sofferenza in¬
fatti egli lega e stringe a sé l'uomo in modo che non possa più muoversi a suo
piacimento; è quindi un richiamo affinchè la creatura si lasci vincolare da Dio.
Chi presta orecchio a tale invito e l'accetta, chi si lascia vincolare da Dio perchè
egli è un Padrone giusto, costui rende al Creatore l'onore che gli spetta e ri¬
nuncia a quella autosufficienza in cui il peccatore si trincera, a dispetto del¬
l'onore che deve a Dio. tin tale comportamento naturalmente è possibile solo
in Cristo e per mezzo di Cristo.
§ 109- IL FINE DELLA CREAZIONE 537
C. Aspetto cristologico della creazione.
10. - a) La più ricca rivelazione (oggettiva) di Dio e la sua più alta
glorificazione è il Figlio di Dio fatto uomo. Per mezzo suo veniamo a
sapere più da vicino chi è Dio. Tutte le manifestazioni divine che si
avverano nella natura possono indurci nell'errore. Ogni nostra conce¬
zione di Dio attinta alla natura dev'essere corretta dalla rivelazione che
si attua in Cristo. Se qualcosa in noi si erge contro Dio, che Cristo ci
rivela, ciò è un segno che tradisce la nostra impotenza a riconoscere
Dio, così com'egli si palesa, mentre vogliamo foggiarcene uno a nostro
talento. La gloria di Dio riluce nell'essere e nella vita, e in modo assai
più vivo e grande nella passione, nella morte, nella risurrezione e ascen¬
sione di Cristo, e nella Chiesa che è la continuazione di Gesù Cristo.
Il Cristo glorificato raggiunge il vertice della glorificazione oggettiva
di Dio, perchè è per mezzo della sua natura umana glorificata che la
santità, la verità, l'amore di Dio traspaiono con infinita lucentezza e
splendore, come attraverso un cristallo. In essa diventa visibile quale
sarà l'aspetto definitivo del regno di Dio. Il Signore glorificato è il punto
centrale della creazione, tutto compenetrato da Dio, dalla sua luce e dal
suo ardore.
La gloria di Dio che si manifesta in Cristo, durante la sua vita ter¬
rena e specialmente nel suo stato glorioso, si perpetua nella Chiesa, sia
pure in modo nascosto e velato, ma pur sempre reale. E qui lo possono
facilmente scorgere coloro che hanno occhi adatti, ossia i credenti. La
Chiesa diviene, sotto questo aspetto, la gloria di Dio, la quale si mostra,
sia pure velatamente, lungo i secoli.
Tale gloria riluce con forza attraverso l'oscurità della storia nel mi¬
stero della Chiesa, ossia nella predicazione della parola di Dio, nella
amministrazione dei sacramenti e nella sua azione storica. Soprattutto
risplende nelle sue sofferenze, che sono come la partecipazione al sa¬
crificio della Croce di Cristo, nelle quali la Chiesa si manifesta come il
corpo mistico di Gesù « crocifisso ». È infatti Dio stesso che per mezzo
della predicazione e dei sacramenti attua la santificazione degli uomini.
È lui che usando la Chiesa come uno strumento opera nella storia umana
e vi realizza il suo regno. Dal momento che Dio usa la Chiesa quale
mezzo per l'avvento della sua regalità, essa diviene contemporaneamente
il suo regno stesso, in modo che chiunque la vede con l'occhio della
fede, scorge in essa il campo della regalità divina. Specialmente nei sa-
risplendere in il fulgore la maestà div
tut
538 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
trasmutat
cramenti si palesa la maestà di Dio, in quanto rendono presente la maestà
morte e la resurrezione di Cristo. Essi sono quindi segni della santità elevata
e dell'amore di Dio, della sua giustizia e misericordia. offerta
La Chiesa e la creazione intera, che partecipa alla gloria di Cristo,
attendono l'ora in cui l'uomo, in stato di grazia, e la natura faranno riser
risplendere in tutto il suo fulgore la maestà divina, che ora è nascosta
in essi. In quel momento Dio si paleserà in tutta la sua gloria alla co¬
scienza umana, cosicché, attraverso il trasmutato corpo dell'uomo e la
trasmutata materia cosmica, tralucerà la maestà divina. Allora potremo Dio
scorgere a quale gloria e dignità Dio ha elevata la sua creatura. continuas
b) Per mezzo di Cristo viene pure offerta a Dio la più alta ado¬ pe
razione (glorificazione soggettiva). Gesù Cristo infatti nella sua morte che
in Croce si è dato al Padre senza alcuna riserva e lo ha riconosciuto mandato
come padrone del modo. In tal modo è stato definitivamente stabilito,
assicurato il regno di Dio, anche se non ha ancora raggiunto il suo ch
aspetto definitivo. in
Cristo ha avuto cura perchè il regno di Dio da lui fondato, regno sacramentale
della santità, della verità e dell'amore, continuasse nel corso dei secoli, obbedie
sino a raggiungere il suo compimento. Ecco perciò la Chiesa, che è il rilu
nuovo popolo di Dio, erede del giudaico, e che costituisce il corpo mi¬ o
stico di Cristo. La Chiesa ha infatti il mandato di offrire a Dio, sino Cris
alla fine del tempo, la gloria che gli compete e di riconoscere, predicare continu
ed esaltare intenzionalmente la gloria divina che in essa sta oggettiva¬ la
mente incarnata. La Chiesa attua tale compito in vari modi, ma special¬ nella
mente con la predicazione, l'azione sacramentale o il culto, vale a dire oggett
quando, con intelligenza, con amore e obbedienza si serve di quelle glorifica
forme che Cristo le ha affidato e nelle quali riluce la gloria di Dio. Nel soggetti
culto essa continua l'adorazione che Gesù ha offerto al Padre. Infatti
nei sacramenti la morte e la risurrezione di Cristo sono sempre presenti lun
nella Chiesa, in modo che essa possa di continuo unirsi all'azione e ai dos
sentimenti del Signore. Così il suo amore e la sua obbedienza, la sua
oblazione e la sua adorazione acquistano, nella Chiesa, sempre nuovo
vigore. In tal modo tutto il culto come è oggettiva rappresentazione del
sacrificio di Cristo in Croce, e quindi glorificazione oggettiva di Dio,
così ne costituisce pure la glorificazione soggettiva. In modo particolare
nel culto eucaristico la glorificazione raggiunge il suo più alto vertice.
E infatti nella Messa si loda Iddio con una lunga serie di passi espli¬
citi, come il Gloria, il Prefazio, il Sanctus, la dossologia, la preghiera che
§ 109- IL FINE DELLA CREAZIONE 539
viene detta dopo l'elevazione del calice consacrato. Per mezzo di Cristo
il creato intero loda il Padre, perchè Cristo è capo dell'universo.
L'umanità gloriosa presterà a Dio il più alto culto di adorazione,
quando, nel nuovo cielo e nella nuova terra, raccolta attorno a Cristo
darà a Dio la gloria che gli compete con atto eterno, affinchè egli sia
tutto in tutti (i Cor. 15, 28). Allora si avvererà la forma perfetta del
regno divino che Cristo ha iniziato e garantito e che la Chiesa ha diffuso
attraverso tutta la terra.
D. Il fine della creazione nella Scrittura e nei Padri.
11. - La Scrittura indica lo scopo della creazione in tutti quei passi
in cui afferma che la natura, la storia, specialmente quella della salvezza,
sono ripieni della gloria divina: cfr. Num. 24, 21; Is. 6, 3; 40, 5;
Sal. 57 (56), 6; Ab. 2, 14; Eccli. 42, 16. Inoltre invita la natura e gli
uomini a lodare Dio per le sue opere meravigliose. Alcuni esempi ser¬
viranno a dimostrarlo.
Sai. 145 (144): «T'esalto, Dio mio, o re; e voglio benedire il tuo Nome in
eterno e sempre. Ogni giorno ti voglio benedire e lodare il tuo Nome in eterno
e sempre. Grande è il Signore e assai degno di lode; e la sua grandezza è inson¬
dabile. Età ad età glorifica le opere tue; e le tue gesta annunciano. Lo splendore
glorioso della tua maestà dichiarano; ' e ' le tue meraviglie proclamano. E la po¬
tenza delle tue azioni tremende affermano; e i tuoi fatti grandiosi vogliono nar¬
rare. La memoria della molta tua bontà proclamano; e la tua giustizia cantano.
Pietoso e misericordioso è il Signore; tardo all'ira e grande di grazia. Buono è il
Signore per tutti; e le sue misericordie sovrastano tutte le opere sue.
Ti lodano, o Signore, tutte le tue creature; e i tuoi fedeli ti benedicono. La
gloria del tuo regno affermano; e le tue gesta dichiarano. Per annunciare ai figli
degli uomini le ' tue ' gesta; e la gloria maestosa del ' tuo ' regno. Il tuo regno
è un regno di tutti i secoli; e il tuo dominio (va) di età in età.
" Fedele è il Signore in tutti i suoi detti; e santo in tutte le opere sue ". Sor¬
regge il Signore tutti i cadenti; raddrizza tutti i ricurvi. Gli occhi di tutti in
te sperano; e tu somministri il loro cibo a suo tempo. Apri la tua mano e
sazi ogni vivente a piacere. Giusto è il Signore in tutte le sue vie; e pio in
tutte le opere sue. Vicino è il Signore a tutti coloro che l'invocano; a quanti
l'invocano in sincerità. Il volere di quelli che lo temono fa; e il loro grido ascolta
e li salva. Custodisce il Signore tutti quelli che lo amano; e tutti gli empi di¬
strugge. La laude del Signore effonde la mia bocca; e benedica ogni carne il
suo Nome santo in eterno e sempre ».
Sai. 146 (145): «Loda, anima mia, il Signore! Loderò il Signore finché vivo;
Inneggerò al Dio mio finché sono. Non vogliate confidare nei principi; in figlio
d'uomo che non dispone di scampo. Esce il suo spirito e torna alla sua terra;
degli empi
d
540 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
i
in quel giorno tramontano i suoi piani. Felice quegli cui il Dio di Giacobbe è suo Fis
aiuto; la sua speme è nel Signore, Dio suo. Creatore dei cieli e della terra; del nostro
mare e di quanto v'è in essi. Che custodisce la verità in eterno; fa giustizia agli
S
oppressi. Dà pane ai famelici; il Signore affranca i prigionieri.
Il Signore apre (gli occhi ai) ciechi; il Signore raddrizza i ricurvi. Il Signore no
protegge gli stranieri; l'orfano e la vedova conforta. Il Signore ama i giusti; ma
germogli
la via degli empi sovverte.
ch
Regnerà il Signore in eterno; il tuo Dio, Sionne, d'età in età ».
s'a
Sai. 147 (146) : « Lodate il Signore, chè buono è il canto al Dio nostro, chè
decorosa è la laude! Edifica Gerusalemme il Signore; i dispersi d'Israele raduna. D
Guarisce i cuori affranti e fascia loro le piaghe. Fissa il numero delle stelle;
tutte per nome le chiama. Grande è il Dio nostro, di grande forza; la sua sazia
intelligenza non ha misura. Conforta gli umili il Signore; abbassa gli empi l
fino a terra.
Cantate il Signore con laude; inneggiate al Dio nostro con la cetra. Copre i i
cieli di nubi; prepara alla terra la pioggia; fa germogliare sui monti il fieno... Dà pre
alle bestie il loro alimento; agli implumi del corvo che gridano. Non nella forza es
del cavallo si compiace; non nei popliti dell'uomo s'appaga. Si diletta il Signore ne
in coloro che lo temono; in quelli che anelano alla sua bontà. Lodatel
Glorifica, Gerusalemme, il Signore; loda il tuo Dio, o Sionne. Poiché raf¬ a
forzò le stanghe delle tue porte; ha benedetto i tuoi figli dentro di te. Dispone cre
nei tuoi confini la pace; di pingue frumento ti sazia. Manda il suo verbo alla
terra; rapida corre la sua parola. Dà la neve come lana; la brina come cenere abis
sparge. Fa scendere i ghiaccioli a frustoli; di fronte al suo gelo chi può resi¬ Mo
stere? Manda il suo verbo e li scioglie; fa soffiare il suo vento e scorrono le ret
acque. Annuncia i suoi detti a Giacobbe; i suoi precetti e giudizi ad Israele. te
Non fece così a ogni nazione; e i suoi giudizi ad essi non ' manifestò ' ». d
Sai. 148: «Lodate il Signore dai cieli, lodatelo nelle altezze! Lodatelo, 0 voi te
tutti angeli suoi; lodatelo, schiere sue tutte! Lodatelo, sole e luna; lodatelo, 0
stelle tutte fulgenti! Lodatelo, cieli dei cieli; l'acque al disopra dei cieli! Lodino
il Nome del Signore; poiché egli ordinò e furon creati. E li stabilì per sempre
nu
nei secoli; un ordine diede che non passerà. fig
Lodate il Signore dalla terra: mostri e tutti gli abissi! Fuoco e grandine, neve timpano
e fumo; vento e bufera, esecutore del suo verbo. Monti e tutti i colli; alberi da
ado
frutto e tutti i cedri. Le fiere e tutti gli animali; rettili e uccelli alati. Re della qua
terra e popoli tutti; principi e giudici tutti della terra. Igiovani ed anche le
vergini; i vecchi con gli infanti. Lodino il Nome del Signore; poiché è esal¬
tato il suo Nome, sol esso. La sua maestà è sulla terra e nei cieli; ed innalzò
la potenza del popolo suo. Lode per tutti i suoi pii; per i figli d'Israele, popolo
che è a lui vicino ».
Sai. 149 (148) : « Cantate al Signore un cantico nuovo; la sua lode nell'adu¬
nanza dei pii! S'allieti Israele nel suo Fattore; i figli di Sion esultino nel re
loro. Lodino il suo Nome nella danza; con timpano e cetra inneggino a lui.
Poiché si compiace il Signore nel popolo suo; adorna gli umili di vittoria.
Trionfino i pii nella gloria; esultino nei loro ' quartieri '. Esaltazioni di Dio
(siano) nella lor bocca; e spada a due tagli nelle lor mani. Per far vendetta fra
§ 109- IL FINE DELLA CREAZIONE 541
le nazioni; punizioni tra i popoli. Per legare i re loro in catene; i loro grandi
in manette di ferro. Per eseguire su di loro la sentenza scritta; (avvenimento di)
gloria per tutti i suoi pii ».
Sai. 150 : « Lodate Iddio nel suo santuario, lodatelo nel firmamento della sua
potenza. Lodatelo per l'opre sue potenti; lodatelo ' nella ' molta sua grandezza!
Lodatelo a suon di corno; lodatelo con arpa e cetra. Lodatelo con timpano e
danza; lodatelo con (strumenti a) corde e cennamella. Lodatelo con i cembali
chiassosi; lodatelo con i cembali squillanti. Quanto respira, lodi Jahvè! ».
Così Davide cantò nel suo inno di ringraziamento : « Lodate il Signore e
invocate il suo nome, fate conoscere tra i popoli le opere sue. Cantate a lui
e intonate a lui dei salmi, e narrate tutte le sue meraviglie. Lodate il suo santo
nome, gioisca il cuore di chi cerca il Signore. Cercate il Signore e la sua forza,
cercate sempre la sua faccia. Ricordatevi delle meraviglie che egli ha fatto, dei
suoi prodigi e dei giudizi della sua bocca. O voi, schiatta d'Israele, suo servo,
o figlioli di Giacobbe eletti suoi! Egli è il Signore Dio nostro: i suoi giudizi
(si esercitano) su tutta la terra. Ricordatevi sempre del suo patto, della parola
che ha comandata per mille generazioni, (dell'alleanza) che contrasse con Abra¬
mo, e del giuramento di lui con Isacco. Lo costituì come un precetto per
Giacobbe, e come un patto sempiterno per Israele, dicendo : " Io ti darò la
terra di Canaan come porzione della nostra eredità Essi eran pochi di nu¬
mero, pochi e forestieri nel paese. E se ne andavan da nazione in nazione e
da un regno ad un altro popolo. Non permise ad alcuno di opprimerli, anzi
castigò i re a cagione di essi. Non toccate i miei unti, e non fate del male ai
miei profeti. Cantate al Signore (abitanti di) tutta la terra, annunciate di giorno
in giorno la sua salvezza; narrate tra le genti la sua gloria, tra tutti i popoli
le sue meraviglie. Poiché il Signore è grande, degno di infinita lode e terri¬
bile sopra tutti gli dèi. Poiché tutti gli dèi delle genti sono idoli, ma il Signore
ha fatto i cieli. La lode e la magnificenza dinanzi a lui, la fortezza e il gaudio
nella sua dimora. Famiglie di popoli rendete al Signore, rendete al Signore
gloria e impero. Date al Signore la gloria (dovuta) al suo nome, e adorate il
Signore coi sacri ornamenti. Si commuova dinanzi a lui tutta la terra; egli ha
fondato il mondo nella sua stabilità; i cieli esultino e la terra sia nell'allegrezza,
e si dica fra le nazioni : " Il Signore regna Risuoni il mare e tutto ciò che
è in esso; esultino le campagne e tutto ciò che esse contengono. Gli alberi della
foresta canteranno lodi dinanzi al Signore, perchè venne a giudicare la terra.
Lodate il Signore, poiché egli è buono, perchè la sua misericordia dura in per¬
petuo. E dite : " Salvaci, o Dio salvatore nostro riuniscici e toglici dalle na¬
zioni, affinchè lodiamo il tuo santo nome e godiamo cantando le tue lodi. Be¬
nedetto il Signore Dio d'Israele, dall'eternità fino all'eternità; e tutto il popolo
gridi : — Amen — e (canti) un inno al Signore " » (1 Cron. 16, 8-36).
E altrove così il Re salmista prega il Signore : « Benedetto sei tu, o Signore
Dio d'Israele, Padre nostro di eternità in eternità. Tua è, o Signore, la magni¬
ficenza, la potenza, la gloria e la vittoria; tua è la lode, poiché tutte le cose
che sono in cielo e in terra sono tue. Tuo, o Signore, è il regno, e tu sei sopra
tutti i principi. Tue sono le ricchezze e tua è la gloria; tu domini sopra tutto
e nelle tue mani sta la virtù e la potenza, nelle tue mani la grandezza e l'im-
irraggiungibili le vie! " Chi infatti ha conosciuto
d
542 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
pero di tutte le cose. Ora, Iddio nostro, ti lodiamo ed esaltiamo il tuo nome bene
glorioso » (i Cron. 29, 10-13). La lode dei tre fanciulli nella fornace accesa i
(Dan. 3, 52-90) risuona di accenti che ritroviamo nel « Cantico delle Creature »
di S. Francesco d'Assisi. m
Nel Nuovo Testamento Paolo esclama : « O Abisso della ricchezza e della a
sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e su
irraggiungibili le sue vie! " Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore? sangue
o chi gli è stato consigliere? ". O chi fu il primo a dargli, sì da essere contrac¬ largo
cambiato? Poiché da lui e per lui e a lui ogni cosa. A lui la gloria nei secoli. vo
Amen» (Rom. ix, 33-36; cfr. Gal. 1, 3s.). E altrove: «Benedetto Iddio e Padre trad
del Signore nostro Gesù Cristo, il quale ci ha benedetti con ogni benedizione n
spirituale, celeste, in Cristo, in quanto ci ha eletti in lui, prima della fonda¬ Cris
zione del mondo, a esser santi e irreprensibili al suo cospetto, per amore pro
avendoci predestinati a esser figli suoi adottivi per mezzo di Gesù Cristo, se¬
condo la benignità del suo volere, sì che ciò torni a lode della gloriosa mani¬ Cristo
festazione della grazia sua, di cui ci fece dono nel suo diletto Figliuolo. In lui
noi abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue, la remissione dei peccati ricchez
secondo la ricchezza della sua grazia, di cui fu largo a noi in ogni sapienza e corro
prudenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà secondo la benignità me
sua, volontà che egli aveva in sé prestabilita, per tradurla in atto nella pienezza comp
dei tempi; e (il mistero consiste in questo): cioè nell'instaurare tutte le cose
in Cristo, sia le cose celesti sia le terrestri. In Cristo nel quale siamo anche affi
stati fatti eredi noi, predestinati a ciò secondo il proposito di chi tutto agisce al
secondo il consiglio della propria volontà, sì che noi riusciamo a lode della sua n
gloria; noi che fin da prima abbiamo sperato in Cristo » (Ef. x, 3-12). Dio vuole ne
rendere partecipi alla sua gloria tutti i battezzati in modo che anch'essi diven¬
gano gloriosi. « Affinchè dia a voi, secondo la ricchezza della sua gloria, di es¬
sere per mezzo dello Spirito di lui fortemente corroborati nell'uomo interiore, pe
e faccia sì che Cristo dimori nei vostri cuori per mezzo della fede, e voi radi¬
cati e fortificati in amore, siate resi capaci di comprendere con tutti i santi, nu
qual sia la larghezza e la lunghezza e l'altezza e la profondità, e intendere t
quest'amore di Cristo che sorpassa ogni scienza, affinchè siate ripieni di tutta su
la pienezza di Dio. E a lui che può far tutto, ben al di là di quel che noi do¬ In
mandiamo o pensiamo, secondo la virtù che opera in noi, a lui, sia la gloria della
Chiesa, e in Cristo Gesù, per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli. Amen »
(Ef. 3, 16-21). possib
grandezz
12. - Secondo i Padri Dio ha creato l'universo per proclamare la sua gloria
e bontà. Così, ad esempio, Sant'Efrem Siro scrive (Madrascè, 28) : « Dio ha
palesato la sua potenza creatrice traendo tutto dal nulla; ma ha parimenti ma¬
nifestato la sapienza delle sue ricchezze in quanto tutto ha adornato, ordinato
e abbellito e cinto di corona. Ha pure espressa la sua bontà, creando dal nulla
le creature belle e dandole in dono ad Adamo. Infatti, sino all'apparire del
primo uomo esse erano tutte belle e solo per colpa sua si deturparono ».
Cirillo di Gerusalemme (Catech., 9, n. 2) dice : « Gli occhi carnali non pos¬
sono contemplare la natura divina. È tuttavia possibile risalire dal creato alla
potenza di Dio. Salomone afferma : " nella grandezza e bellezza del creato è
§ 109- IL FINE DELLA CREAZIONE 543
possibile mirarvi come in uno specchio e analogicamente, il loro Fattore Non
dice solo nelle creature si può vedere il creatore, ma aggiunge espressamente
in maniera " analogica Dio infatti appare sempre più grande, quanto più
l'uomo penetra la natura ».
13. - Il Cantico delle Creature di S. Francesco d'Assisi, cosi suona:
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so le laude, la gloria e l'onore e onne benedizione:
a te solu, Altissimu, se confano,
e nullu omu ene dignu Te mentovare.
Laudato si', mi Signore, cum tucte le tue creature,
spezialmente messer lu frate Sole,
lu quale jorna e allumini noi per lui;
e ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimu, porta significazione.
Laudatu si', mi Signore, per sòra Luna e le Stelle;
in celu l'ai formate clarite e preziose e belle.
Laudatu si', mi Signore, per frate Ventu,
e per aere e nùbilo e sereno e onne tempu,
per lo quale a le tue creature dai sustentamentu.
Laudatu si', mi Signore, per sor' Aqua,
la quale è multo utile, e umele, e preziosa e casta.
Laudatu si', mi Signore, per frate Focu,
per lu quale n'allumini la nocte;
e ellu è bellu, e iocundu, e robustoso e forte.
Laudatu si', mi Signore, per sòra nostra matre Terra,
la quale ne sustenta e governa,
e produce diversi fructi, e coloriti fiori e erba.
Laudatu si', mi Signore, per quilli che perdonano per lo tuo amore
e sostengono infirmitate e tribulazione.
Beati quilli che le sosterranno in pace,
ca da Te, Altissimu, sirano incoronati!
Laudatu si', mi Signore, per sòra nostra Morte corporale,
da la quale nullu omo vivente pò scampare.
Guai a quilli che morranno in peccato mortale!
Beati quilli che se trovarà ne le tue sanctissime voluntati;
ca la morte secunda non li poterà far male!
Laudate e benedicete lu mi Signore e rengraziate
e servite a Lui cun grande umilitate.
II. - SALVEZZA E FELICITÀ DELLE CREATURE.
1. - Il creato, annunziando e servendo alla gloria di Dio, afferma e
conferma la propria gloria e perfezione e rinviene la felicità che si
basa su di esse. Mentre serve alla gloria di Dio, lavora per la propria
divin
p- n- LA REALTÀ extradivina e l'attività salvifica di dio
l'uom
544 ÿ
Di
dignità e benessere i quali derivano da essa. Adorando Dio, la creatura a
raggiunge la gloria propria; servendo al suo onore procura il suo me¬ il
desimo onore. Solo nel servizio di Dio l'uomo ottiene la salvezza. Se sul
cerca solo se stesso si rovina. L'uomo, per la sua origine da Dio, reca d
impresso il sigillo divino. Di conseguenza può rettamente capirsi e af¬ s
fermarsi solo quando afferma tale impronta divina che reca in lui e con se
essa lo stesso Dio vivente; in altre parole, l'uomo afferma se stesso pro¬
prio mentre si china obbediente dinanzi a Dio. Poiché in tale stato rifi
di sottomissione egli agisce in modo consono alla sua essenza, mentre
quando disprezza Dio egli si ribella, tradisce il suo essere stesso. L'in¬ in
sulto rivolto a Dio è disprezzo che ricade sulla dignità umana stessa. c
La felicità delle creature è il fine secondario della creazione.
L'uomo raggiunge il suo compimento e la sua perfezione, ossia una dell
vita davvero ricca, non quando si chiude in se stesso, ma quando esce obbedient
fuori di sé, si abbandona per donarsi a Dio, quando, in altre parole, die
trascende se stesso. Ma nel peccato, che è rifiuto a Dio, distrugge se affer
stesso. Con la colpa nega che Dio è Signore e Padrone, ma contempo¬ sua
raneamente afferma la nullità del suo più intimo nucleo personale, Chiunqu
poiché questo esiste solo per la sua relazione con Dio, da cui ha ori¬ causa
gine e a cui tende.
2. - Cristo è il fondamento e l'esemplare dell'esistenza umana. Di lui
Paolo dice : « Umiliò se stesso, fattosi obbediente sino alla morte, e allaglorificazio
morte di croce. Perciò Iddio lo esaltò, e gli diede il nome che è sopra p
ogni nome » (Fil. 2, 8). L'evangelista Luca afferma : « Non doveva forse
il Cristo patire tali cose e così entrare nella sua gloria? » (Le. 24, 26), a
e nel Vangelo di S. Matteo si legge : « Chiunque terrà da conto la sua di
vita, la perderà, e chi l'avrà perduta per causa mia, la ritroverà » (cfr. pi
pure la Cristologia e il trattato sulla Grazia). d
conserv
3. -Dal rinascimento in poi si andò sempre più diffondendo l'opinione che n
porre il fine ultimo della creazione nella glorificazione di Dio, significa smi¬ se
nuire la dignità della creatura, specialmente della personalità umana, e defor¬
mare l'essenza stessa di Dio. Non la divinità, bensì l'uomo è lo scopo per cui
il mondo fu creato; tutto tende alla perfezione e felicità dell'essere umano.
Hermes (t 1831) sotto l'influsso di Kant, Fichte e altri, ma anche in armonia
con alcune correnti interne alla teologia cattolica di quel tempo, ha conferito
al concetto sopra enunciato, la forma espressiva più chiara. La sua teologia,
dominata dall'illuminismo, parte dal pensiero della dignità umana. La stima di
se stesso, la pura e semplice manifestazione e conservazione della dignità umana
è, per lui, il precetto più alto e impegnativo della nostra essenza ed esistenza
di esseri ragionevoli. Ne segue che l'uomo è fine a se stesso ed è costretto dalla
§ no. l'ordine graduale del creato 545
sua ragione ad ammettere che anche Dio lo ha voluto tale. Il concetto dell'an¬
tica teologia, la quale riteneva che l'universo fosse stato creato per la gloria
di Dio, diviene, di conseguenza, del tutto insostenibile. L'uomo è, al contrario,
l'essere per cui Dio ha creato il mondo, e l'unico scopo dell'universo visibile
è quello di procurare la felicità morale all'uomo, che è il padrone di tutto.
Secondo Giinther per Dio sarebbe vanità aver creato l'universo per la propria
gloria.
Questi modi di vedere hanno il difetto di dimenticare che la dignità umana
è pur sempre una dignità creata e che quindi può essere capita e conservata solo
in quanto fondata da Dio e dipendente da lui. L'essere personale dell'uomo è
intimamente radicato nell'intelligenza e nell'amore divino (cfr. § 105), ed è
proprio della sua natura essere immagine di Dio. Perverrà alla perfezione to¬
tale del suo essere solo quando si comporterà in armonia con questa immagine
divina. Ogni tentativo di staccarsi da Dio per erigere la propria dignità perso¬
nale, indipendentemente da lui, è comportamento contrastante con il proprio
essere, violenza alla natura umana stessa, con la conseguente umiliazione.
La storia moderna ne è appunto la conferma. Quanto più l'uomo volle pren¬
dere in mano il suo destino e credere esclusivamente a se stesso, quanto più
ha cercato di rendersi pari a Dio, anzi di fare a meno di Dio, con una libertà
sfrenata, tanto maggiormente ha perso la propria libertà, nonostante l'accresci¬
mento delle forze umane e i progressi della scienza e della tecnica in ogni
campo. Uno degli aspetti più tragici di questa situazione è che l'uomo è diven¬
tato una semplice rotella di una macchina immensa che gli rapisce personalità
ed essere. E proprio qui il tentativo di affermare e conquistare l'individualità
umana, separandola da Dio, viene ridotto all'assurdo. Ma un altro aspetto è la
terribile solitudine in cui è caduto l'uomo senza Dio. In un mondo sconsacrato
l'uomo si vede circondato dalla fredda indifferenza delle cose e dal loro silenzio
di pietra.
In realtà chi serve Dio, non solo non seppellisce la propria dignità umana,
ma piuttosto la rende possibile e sicura. Quanto più l'uomo, agendo in confor¬
mità con il suo essere, riconosce la gloria di Dio, tanto più si accosta alla
propria perfezione. La persona umana si può capire e affermare solo quando
ci si unisce alla persona di Dio.
E quanto più l'uomo si affatica per l'avvento del regno di Dio nel mondo,
tanto più garantisce al mondo medesimo la sua giusta forma e il retto ordine.
Egli sarà pienamente homo faber e homo oeconomìcus, solo quando diverrà
veramente homo orans. L'uomo che vuol agire come faber e oeconomìcus
senza essere parimenti orans, seppellisce non solo la propria vita, ma anche il
mondo intero.
§ 110. L'ordine graduale del creato.
1. - Dalla dottrina del fine della creazione emerge l'ordine gerar¬
chico delle cose, anche quello delle attività o professioni umane. Il va-
35 - schmaus - dogmatica 1.
include l'inferiore, aggiungendovi nuo
546 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
d
lore sia degli esseri, sia delle azioni, va valutato secondo il grado, mag¬ vota
giore e minore, con cui rivelano la gloria divina. n
La nostra esperienza ci mostra che l'universo è ripartito in strati e 11
precisamente tre: l'esse, il vivere, e l'intelligere: quello dell'essere inor¬ ogn
ganico, quello della vita, e quello dello spirito. Ogni grado superiore na
include l'inferiore, pur aggiungendovi una nuova qualità di essere. Ne att
nasce così la connessione delle singole parti e la loro diversità. Igradi es
superiori degli esseri rivelano caratteristiche di Dio che non si mani¬ Cris
festano in altri, posti in gradini inferiori e votati al loro servizio. creazio
Tutti i gradi dell'essere che noi troviamo nel creato sono sorpassati certo
dalla realtà detta «soprannaturale» (cfr. § 114). Mediante questa Dio rivela
svela la sua gloria in modo da trascendere ogni rivelazione divina, che ind
possiamo raggiungere per mezzo degli esseri naturali. Supera per valore gradi
e preziosità tutte le realtà naturali anche se attualmente esiste in questo glori
mondo solo in modo assai precario. Ne sono espressione, per esempio, i in
sacramenti, la Chiesa e la natura umana di Cristo.
2. - Riflettendo sul significato della creazione dobbiamo riconoscere inorganic
che il tutto, cioè la collettività, ha un certo primato sull'individuo,
poiché nella totalità la gloria di Dio si rivela meglio che nel singolo.
Questo evidentemente, quando si tratta di individui che posseggono lopartecip
stesso grado di essere. Infatti, in caso di gradi diversi, il singolo di ca¬ gerarc
tegoria superiore lascia trapelare maggior gloria divina, e con potenza v
assai più intensa, di tutto il complesso degli individui che appartengono ma
al grado qualitativamente inferiore. Così, ad esempio, un solo essere della
vivente è più ricco di tutto il mondo inorganico. L'uomo, poi, grazie al ess
suo essere personale, trascende tutta la natura, benché questa, quantita¬ punto
tivamente, gli sia di gran lunga superiore.
3. - Poiché in ultima analisi solo la partecipazione alla gloria di Dio um
può servire di criterio per stabilire la gerarchia degli esseri, sarebbe
errato desumere tale gerarchia dal punto di vista dell'essenza naturale nel
delle cose, ossia dal fatto che una creatura è materiale 0 spirituale. Sotto
tale aspetto gli angeli starebbero al vertice della scala. Essi, infatti, sono
massimamente vicini a Dio grazie al loro essere privo di materia ed
esclusivamente spirituale. Ma con questo punto di vista interferisce un
altro, poiché è effettivamente Cristo che sta al vertice dell'universo
(Col. 1, 16). Egli, nonostante la sua natura umana, trascende gli angeli.
La ragione risiede nel fatto che l'umanità di Cristo racchiude la mas¬
sima rivelazione di Dio che si sia avverata nella storia. Infatti, tale na-
§ no. l'ordine graduale del creato 547
tura nello Spirito Santo è introdotta nel connubio amoroso che ricol¬
lega Padre e Figlio. In essa la gloria divina si palesa in modo così su¬
blime che Cristo può dire a Filippo : « Chi vede me, vede anche il
Padre mio » (Giov. 14, 9), e Giovanni può asserire di aver veduto
brillare in lui la gloria della divinità (Giov. 1, 14).
Cristo è il mediatore e la via verso il Padre. Di coseguenza la vici¬
nanza a lui supera qualsiasi altro modo con cui l'uomo e le cose pos¬
sono svelare la gloria divina secondo il loro grado di essere. Pertanto
in ultima analisi, la dignità di una creatura è condizionata alla sua unione
a Cristo. Quanto più un essere si accosta a lui, tanto più vede riful¬
gere nella sua stessa natura quella gloria divina e quel fulgore di verità
e di amore che Giovanni ha visto brillare sul volto di Cristo. Dinanzi
alla dignità creata dalla comunione con Cristo, recede qualsiasi dignità
che dipenda dalla natura degli esseri.
E l'uomo unito a Cristo, prende coscienza di questa realtà: afferma
ed ama la sua comunione con il Capo e si sforza di partecipare anche ai
sentimenti di Gesù. Si erge perciò al di sopra del suo stato puramente
umano e, mediante la fede, la speranza e la carità, raggiunge un grado
che supera tutti i gradi naturali dell'esistenza. In ogni cristiano divenuto
per opera dello Spirito Santo manifestazione speciale del Padre celeste,
si svela, nell'essere e nella vita, la penetrante potenza della verità e del¬
l'amore la quale è Dio stesso. Il cristiano riconosce Dio che è amore e
verità, per suo Padrone. In lui si attua di conseguenza il regno divino,
che così progredisce. Contemporaneamente il significato del mondo ac¬
quista forza particolare. Perciò l'uomo unito a Cristo, per dignità del¬
l'essere e anche del sentire, trascende ogni altra creatura, nella misura
con cui entra coscientemente in comunione con Cristo.
4. - In base al fine della creazione si può anche stabilire una gerar¬
chia nelle professioni e nei compiti umani. È necessario distinguere qui
tra contenuto oggettivo e intenzione personale. Oggettivamente sono più
alte le attività che svelano la gloria divina in modo più vivo e chiaro.
Riguardo all'intenzione personale ha maggior valore quell'attività che,
attuando il fine intrinseco al suo oggetto, viene riferita e ordinata più
espressamente a Dio. Naturalmente sarebbe rovesciato tale ordinamento
(« la buona intenzione ») se si trascura il fine 0 senso intrinseco, e perciò
messovi da Dio, di tali attività 0 cose. Un tale agire significherebbe,
infatti, che l'uomo intende eseguire la volontà divina proprio mentre la
trascura, vale a dire dimenticando gli ordini che Dio stesso ha stabilito
de
reli
548 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
religio
(famiglia, popolo, stato) e le leggi naturali che egli ha fissato. In tale crea
senso dovremmo biasimare la carità di colui che dà qualcosa al povero che
non per venire incontro alla sua necessità, e così adempiere la volontà In
divina, ma con l'intento esclusivo o principale di vincolare il povero alla gloria
Chiesa e di garantire la salvezza della propria anima, ovvero una certa appare
arte religiosa che trascura le leggi intrinseche dell'opera artistica e quindi verità
volute da Dio, cercando di ottenere effetti religiosi, unicamente con la anz
rappresentazione di soggetti attinenti alla religione. storia
5. - Se norma valutativa per gli esseri creati è il grado secondo cui
ent
partecipano alla gloria divina, ne deriva che il loro culmine non è
il Cristo storico, bensì il Cristo glorificato. In Gesù glorioso si palesa,
al massimo grado, la partecipazione alla gloria divina che è possibile defin
realizzare nella sfera del creato. Cristo appare circonfuso dallo splen¬ nuo
dore dell'amore divino e dalla luce della verità sì da divenire anch'egli
tutto fulgore e splendore. L'intera umanità, anzi il mondo tutto, devono
la
essere trasfigurati a immagine sua. La storia umana e lo sviluppo
cosmico tendono verso tale stato, in cui Dio penetrerà profondamente
in tutto il creato e farà sì che dal mondo, entrato ormai in comunione
GOVER
con lui, erompa il fulgore della sua verità e il fuoco del suo amore.
Perciò il creato raggiungerà la sua forma definitiva solo dopo l'esistenza
terrestre, quando appariranno nuovi cieli e nuova terra. E qui la società
dei beati raccolta nello Spirito Santo attorno a Cristo, davanti alla faccia
del Padre, vivrà vita di verità e di amore, la quale raggiungerà quel¬ lor
l'altezza che Dio aveva stabilito all'inizio della sua creazione. C
21.
mond
ART. II. - CONSERVAZIONE E GOVERNO DEL MONDO mantiene
es
c' § 111. Conservazione del mondo. immediatamente
Dio conserva di continuo le cose nella loro esistenza. È dogma di
fede, oggetto del magistero ordinario della Chiesa. Cfr. anche Denz.
1784; Catechismo romano, p. I, cap. 2, n. 21.
1. - L'azione con cui Dio conserva il mondo non è solo la non di¬
struzione di esso, ma un influsso che mantiene le cose nell'esistenza. Si
esplica sia mediatamente, in quanto Dio, ad esempio, crea le condizioni
atte all'esistenza dell'uomo, sia immediatamente in quanto egli regge le
cose stesse. La conservazione si realizza, anche mediatamente, in quanto
§ III. CONSERVAZIONE DEL MONDO 549
Dìo vuole che le cose, nel loro essere concreto, si condizionino e reg¬
gano a vicenda.
2. - a) NellMnù'co Testamento Dio si rivela come colui che tutela
non solo il mondo nel suo insieme, bensì anche le singole cose più pic¬
cole e oscure. Egli è Signore del tempo. Sta quindi in sua mano il
momento in cui una creatura deve apparire, esistere e svanire. Ci dà
pioggia, frutti, e cibo al tempo giusto (Ger. 5, 24; Deut. 11, 14 ss.;
Sai. 145, 15). Igiorni e gli anni, l'estate e l'inverno, il giorno e la notte
il sole che regna di giorno, e la luna e le stelle che rischiarano la notte
provengono da lui e gli ubbidiscono (Sai. 74, 16 ss. 136, 8 s.). È il pa¬
drone della vita, distrugge e vivifica a suo piacimento (1 Sai. 2, 6).
Lo spirito del Signore riempie la terra e tutto quanto essa abbraccia
(Sap. 1, 7). Nulla potrebbe esistere, se Dio non lo volesse, niente du¬
rerebbe nell'esistenza se il suo spirito imperituro non fosse in ogni cosa.
L'amore di Dio verso tutte le creature è la ragione per cui non possono
perire (Sap. 11, 24-16).
b) Nel Nuovo Testamento Gesù, accusato dai Farisei di violare
il sabato, risponde che pure Dio, suo Padre, lavora sempre, anche di
sabbato. Il Padre, infatti, dopo aver ultimata la creazione al settimo
giorno, non si chiude in stato di quiete assoluta. Come conservatore e
guida del mondo esercita ima continua azione creatrice. Di qui Cristo
conclude che anch'egli ha il dovere e il diritto di operare (Giov. 5, 17).
Nella lettera ai Colossesi Paolo dice che l'universo ha in Cristo, primo¬
genito della creazione, la sua consistenza, poiché in lui fu creato tutto
ciò che esiste, sia in cielo, sia in terra (Col. 1, 16).
3. - Nell'epoca patristica si è spesso asserito, in base a Giov. 5, 17,
che il riposo sabbatico non significava affatto per Dio cessazione della
sua attività.
Agostino scrive a Cosenzio : « Quando tu ti chiedi se le singole membra dei
corpi siano formate da Dio creatore, non devi provare alcuna difficoltà se com¬
prendi, almeno come è possibile all'intelligenza umana, la potenza dell'agire
divino. Come possiamo infatti negare che anche ora Dio abbia a realizzare
tutto ciò che è creato, dal momento che il Signore dice : " Il Padre mio opera
sino ad ora " ? Perciò il riposo del settimo giorno va inteso come la cessazione
del creare, ma non come la cessazione del conservare e reggere ciò che è stato
creato. Siccome anche la natura è diretta dal creatore, e si svolge a suo tempo
nell'ordine e nel luogo voluto da Dio, dobbiamo ammettere che Dio opera tut¬
tora. Se Dio non plasmasse anche le parti singole dei corpi, come potrebbe
stare scritto : " Prima che ti formassi nel seno materno, io già ti conoscevo "?,
p
550 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO Egli
form
come si potrebbe capire che " Dio riveste anche l'erba dei campi che oggi è e e
domani scompare "? È possibile ammettere che Dio riveste l'erba dei campi e
non forma le parti dei corpi? Quando il Vangelo dice che Dio riveste, non
il
parla di un ordine stabilito all'inizio della creazione, ma di un'operazione pre¬ dip
sente » (Ep. 205, cap. 3, n. 17). Cfr. pure: De genesi ad litteram, 4, 12; De vera signific
religione, 22; Soliloquio, lib. 1, cap. 1, n. 4. Tomm
4. - Chi analizza l'essenza della creazione può senz'altro dedurre la conse
conservazione del mondo da parte di Dio. Egli non ha creato l'universo
solo nella sua essenza, ma anche nella sua forma di esistenza, nella sua necessari
limitatezza spaziale e temporale. Gli esseri extradivini dipendono da
Dio anche per la loro temporalità, ossia per il loro essere che si svolge la
nel passato, nel presente e nel futuro. La dipendenza del mondo per e
quanto concerne il suo corso temporale significa, da parte di Dio, con¬ essenza
tinua creazione, ossia conservazione. S. Tommaso d'Aquino stabilisce
(S. Th., I, q. 104, a. 1) la necessità della conservazione di tutto ciò che
è extradivino con il seguente ragionamento. Ciascun effetto dipende
dalla sua causa, in quanto tale. Come necessariamente il divenire di una
cosa si arresta quando cessa di agire la causa che lo produce, così vien c
meno anche l'essere quando cessa di operare la causa che produce que¬ perseverar
sto stesso essere. Ora ogni cosa riceve il suo essere, come tale, da Dio,
poiché solo Dio esiste in virtù della sua essenza, mentre le cose esistonoun'attiv
solo in quanto partecipano all'essere divino e sono quindi contingenti. an
Siccome le cose extradivine perseverano nella loro contingenza in ogni
istante del loro essere, ne deriva che in tutti i momenti della loro esi¬conserv
stenza, come nel primo apparire, non possono sussistere senza l'influsso è
positivo divino. Siccome l'influsso positivo con cui Dio conserva la conservazio
creatura non può essere altro che il perseverare di quell'influsso che ne no
ha causato l'esistenza, ne deriva che l'attività creatrice si identifica con
quella conservatrice. Trattasi invero di un'attività identica che si diver¬
conservatri
sifica solo per il fatto che si rivolge a esseri ancora inesistenti o a esseri mond
che già esistono. eg
È quindi falso il deismo, per cui la conservazione è solo qualcosa di
negativo, ossia l'assenza della distruzione. Ma è altrettanto inesatta l'opi¬
nione di coloro che considerano la conservazione degli esseri come una
nuova creazione (Bayle, t 1706). No! Essa non è altro che creazione
/ continuata.
5. - Dio, cessando la sua azione conservatrice, potrebbe lasciar rica¬
dere nel nulla, da cui furono evocati, il mondo con tutti gli esseri che
contiene, compresi gli spiriti creati. Tuttavia egli ci assicura che ciò non
§ III. CONSERVAZIONE DEL MONDO 551
avverrà mai. Dio non revocherà affatto il suo verbo creatore, anzi non
solo non cancellerà il suo immenso disegno, secondo cui ha creato l'uni¬
verso, ma lo ha rafforzato maggiormente dopo che l'uomo è caduto nella
colpa. L'incarnazione del Verbo, infatti, significa il secondo impegno
che Dio si è assunto dopo che l'uomo ha peccato. Per mezzo di Cristo
il cosmo è liberato intimamente dalla forza del male e dalla distruzione
che aveva meritato. Dio prende il mondo così seriamente da non lasciarlo
andare in rovina e cadere nel caos. Dal momento che Dio ha deciso di
conservare gli esseri, a motivo della sua immutabilità, non si può ritrarre.
« Passa una generazione e ne succede un'altra, la terra sussiste sempre »
(Eccli. 1, 4). Tutto ciò che Dio compie persevera in eterno. Gli uomini
non ne hanno il dominio assoluto, non possono nulla aggiungervi, nè
nulla togliervi. Dio agisce così perchè gli uomini lo temano (Eccli. 3, 14).
Dio conserva gli esseri personali nel loro singolo essere individuale;
non così quelli materiali e apersonali, che conserva nel complesso totale
della materia ed energia. Anzi singolarmente li lascia talvolta distruggere
sia da leggi che egli stesso ha introdotto nella natura, sia dalla distru¬
zione che operano gli uomini.
Tuttavia a un dato momento il mondo intero andrà in rovina. Il corso del
cosmo infatti non può durare sempre secondo lo stato odierno, il quale tende
verso una fine. Tale fine non significa distruzione totale del cielo e della terra,
bensì la fine del loro attuale modo di esistenza, di questa loro forma peritura.
Cieli e terra passeranno (Mt. 24, 35), in quanto sa -"'ino mutati in « nuovo
cielo e nuova terra » (Apoc. 21, 1ss.). Questa « novità » è anzi già in atto,
sia pure velatamente. Ebbe inizio con l'incarnazione del Figlio di Dio; si
manifestò nelle grandi opere che egli ha compiuto; si attuò come esemplare
nella sua risurrezione, e rimane presente nei sacramenti. Tuttavia non è ancora
visibile e l'istante in cui si svelerà ci resta ignoto. Infatti non si attuerà al ter¬
mine di un naturale sviluppo cosmico, ma si svolgerà inaspettatamente, quando
meno lo pensiamo, mentre l'attività umana è in pieno sviluppo. Forse quando
la notte dell'umana disperazione sarà al suo culmine, allora, inopinatamente,
verrà il Cristo e il mondo sarà mutato (cfr, il trattato sui Novissimi). Questo
sarà il terzo e ultimo intervento divino. Allora il creato assumerà l'aspetto che
Dio aveva inteso al momento in cui volle iniziare il mondo. L'attuale stato
cosmico è transitorio. Nell'ora stabilita da Dio il mondo, liberato definitiva¬
mente da ogni maledizione che la colpa umana gli aveva attirato, raggiungerà
la perfezione che Dio ha iniziata in Cristo, e, ripieno della gloria divina, diverrà
trasparenza di essa.
La dottrina che Dio conserva il mondo non si trasforma quindi in
un incoraggiamento alla quiete che si bea e si adagia nel finito, alla
felicità terrena. Si intende rettamente soltanto al lume della rivelazione,
ris
consegue
552 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E LJATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
n
secondo cui il mondo sarà mutato, il che può avvenire tanto a distanza nie
di milioni d'anni, quanto nell'attimo che immediatamente segue il pre¬
sente. Dipende tutto dalla libera e imperscrutabile volontà divina! Stando
parlando
così le cose, sia il mondo, sia la nostra esistenza, sono del tutto incerti D
per quanto concerne la forma attuale (cfr. Wunst, Ungewissheit und
Wagnis, 1937; traduz. italiana: Incertezza e rischio, Brescia 1946). In¬ c
certezza assai più profonda e pregna di conseguenze che non la minaccia tu
proveniente dal mondo stesso. Contro di essa nulla possono la saggezza tos
e la previdenza umana, poiché queste sono niente di fronte all'onnipo¬ gli
tenza divina. suo
cade
6. - La filosofia di Heidegger, pur non parlando della creazione, illumina
chiaramente il dogma dell'attività conservatrice di Dio. Per questo filosofo il fi
nulla è compagno perenne dell'essere. Di continuo tenta di inghiottirlo e tra¬ nell'inc
scinarlo nella sua tetra oscurità, e un giorno infine ci riuscirà. In queste affer¬ e
mazioni risuona l'eco di una rivelazione per cui tutti gli esseri sono sempre intim
sospesi sull'abisso del nulla e vi precipiterebbero tosto, qualora Dio non li sor¬ di
reggesse. Ma mentre tale filosofia non ci dà alcuna luce sulla notte del nulla,nell'esser
la rivelazione, al contrario, afferma che Dio attira gli esseri, di continuo minac¬ Eg
ciati dal nulla, nel regno chiaro e luminoso del suo amore. Perciò il cristiano,incertezza
dinanzi alla incertezza dell'esistenza, non deve cadere nell'angoscia della filo¬
sofia esistenzialista heideggeriana, e nemmeno nella disperazione con cui l'eroe
cerca di soffocare tale ansietà, ma adagiarsi nella fiduciosa certezza che esiste
un amore divino, il quale lo attende anche nell'incerto groviglio della storia
spontan
umana, e gli viene incontro. L'estrema certezza elimina in tal modo ogni a
dubbio, irrequietezza e pericolo dell'oggi. Chi è intimamente incerto e branco¬ con
lante si rasserena pensando all'amore onnipotente di Dio. Anzi, quanto più ri¬ percepia
sente nel proprio intimo la fragilità insita nell'essere attuale, tanto più speri¬
menta, in modo vivo, la sicurezza finale in Dio. Egli quindi, rispondendo alla
sua chiamata, può portar seco la propria incertezza, senza per questo cadere
nella disperazione o nel nichilismo. so
ogn
7. - Gli atteggiamenti che sgorgano spontaneamente dalla fede nel¬ ne
l'azione creatrice di Dio (umiltà, gratitudine, amore, adorazione, dedi¬ c
zione: cfr. § 105), vengono approfonditi e consolidati dalla fede nella
sua attività conservatrice. In tale fede percepiamo che Dio ci è a un
tempo vicino e lontano.
8. - Dal momento che ogni creatura esiste solo per il fatto della crea¬
zione e conservazione divina, ogni cosa e ogni uomo diviene per noi
un incontro con Dio. Ogni essere si mostra, nella sua qualità concreta,
manifestazione di Dio, l'amore personificato che lo sorregge. Proprio
§ 112. DIPENDENZA DELL'AZIONE CREATA DA DIO 553
nell'istante in cui noi c'imbattiamo in un uomo o in una cosa, essi bal¬
zano fuori dall'abisso del divino amore.
Poiché tutte le realtà create di minuto in minuto sgorgano dall'amore
di Dio che le crea continuamente, sono in perenne movimento. Per esse
si avvera in senso proprio l'esistere (ex-sistere = stare da). Sussistono
in quanto procedono, vengono ad esistere da Dio (sistunt ex Deo, ossia
extra Deum, ossia ex nihilo per Deum). La loro esistenza è un proce¬
dere dall'abisso amoroso di Dio. Il mondo è quindi in perenne movi¬
mento e ciò nella sua stessa radice più profonda. Tale fatto appare evi¬
dente se si prendono in considerazione le scoperte naturali per cui il
macrocosmo e il microcosmo (la configurazione dell'atomo) sono in con¬
tinuo rapidissimo movimento, da cui, anzi, appare che la materia è sem¬
plicemente condensazione dell'energia. In questo carattere della natura
si può vedere un riflesso della continua processione del mondo da Dio,
nella quale si realizza l'esistenza attuale.
Si riesce allora a comprendere meglio che ogni essere tende a Dio,
che nelle creature spirituali tale tendenza si estrinseca nella dedizione
a lui e che il loro nucleo personale, il centro, è appunto l'amore (cfr.
§ 108).
9. - Dio attua la conservazione del mondo, come del resto la crea¬
zione, secondo l'ordine delle processioni e delle relazioni divine. Il
Padre conserva il mondo per mezzo del Figlio nello Spirito Santo, per
quanto la conservazione sia alle volte attribuita al Figlio. Perciò l'in¬
contro con Dio conservatore del mondo è incontro col Dio trino. Am¬
maestrati dalla rivelazione della Trinità divina, noi possiamo vedere nelle
cose e negli uomini un itinerario che, mediante il Figlio e nello Spirito
Santo ci conduce al Padre. Ma per percorrere effettivamente questo iti¬
nerario occorre accogliere Gesù Cristo, la via che conduce al Padre, il
mediatore che per primo ha reso accessibile tale strada alla creatura.
Cfr. Ef. 2, 18.
§ 112. Dipendenza dell'azione creata da Dio.
Ogni azione creata dipende da Dio come agente principale. È dot¬
trina certa e comune.
1. - La cooperazione divina non si esaurisce solo nel fatto che Dio
dà forza e possibilità di agire. Non è semplice influsso estrinseco e mo-
essa un'altra. No, l'azione è tutta di Dio e tutta
q
554 P- II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
cr
rale rivolto alla creatura mediante suggerimenti, consigli o minacce, ma divin
bensì un porre l'azione stessa. Dio attua l'azione dell'uomo, fa sì che c
agisca. Come principale agente e cooperatore è intimamente presente se
nella creatura che agisce, tuttavia non dobbiamo immaginare il rapporto
tra Dio e la creatura come se egli compisse una parte dell'azione ed
essa un'altra. No, l'azione è tutta di Dio e tutta della creatura. L'atti¬nell'essere,
vità della creatura non rende affatto superflua quella di Dio. Infatti la c
mozione divina è necessaria perchè un essere creato non può agire sesussistente
non in forza di essa. Di rimando l'attività divina non rende superfluo chiam
e vano l'agire della creatura, la quale è davvero causa efficiente anche se Pe
agisce in forza della mozione divina: è causa seconda dipendente dalla e
causa prima. Nefl'agire creato è Dio che agisce e vi si esprime. Anche l'uo
se Dio poteva fare tutto da solo, tuttavia nella sua bontà volle che le ch
creature fossero simili a lui, non solo nell'essere, ma anche nefl'agire, e che
volle che, mediante il loro essere, lo rivelassero come Essere sussistente super
e mediante il loro agire come Azione sussistente. servo
L'agire divino, che sostiene l'azione creata, si chiama « cooperazione » di Dio co
con l'uomo, in seguito a una tradizione secolare. Per evitare ogni interpreta¬ della
zione erronea del termine è necessario precisare che esso è usato solo in senso
analogico. Infatti, se noi usassimo qui tale termine nel significato usuale dei
nostri rapporti sociali, dovremmo concludere che l'uomo è l'agente principale, Tradizione
mentre Dio è solo il secondario. Un esempio può chiarire meglio il concetto. co
Se due persone viaggiano assieme possiamo dire che imo accompagna l'altro popoli
quando l'inferiore funge da accompagnatore al superiore. Non si può invece
dire che il superiore accompagna l'inferiore. Il servo viaggia con il padrone,
(Es.
non il padrone con il servo. Sarebbe quindi meno inesatto dire che l'uomo libro
coopera con Dio, anziché asserire che Dio coopera con l'uomo. L'azione divina vita
è assolutamente indispensabile perchè l'azione della creatura abbia inizio e v
perseveri. dell
2. - Generalmente la Scrittura e la Tradizione testimoniano l'attività
le
5
« cooperatrice » di Dio, unitamente a quella conservatrice. Dio attua,
secondo l'Antico Testamento, la storia dei popoli e gli avvenimenti quo¬ suo
tidiani che costituiscono la vita del singolo (Es. 24, 10; Deut. 3, 24;
11, 3-7; Gios. 24, 31; Sai. 66, 3-5; tutto il libro di Tobia; Is. 45, 11;
Ger. 50, 25; 51, 10). Ciò che avviene nella vita di un uomo è sempre
Dio che lo compie (Is. 26, 12). Egli dà sia la vita, sia la morte. Solo
il credente vede negli eventi della natura e della storia la volontà di¬
vina, che attua il giudizio e dona salvezza (Is. 5, 12; 22, 11; 28, 23).
Nei Salmi si legge sovente che Dio rialza dal letto ammalati già votati
alla morte e rende giustizia al pio contro i suoi nemici. « Ciò che la
§ 112. DIPENDENZA DELL'AZIONE CREATA DA DIO 555
moglie, i figli, gli amici o i nemici mi fanno, ciò che l'uomo opera nei
miei confronti, sia di bene che di male, è Dio che lo compie » (Kittel,
Worterbuch zum N. T., II, 637 s. : articolo épyov).
L'agire divino di cui parla Cristo in Giov. 5, 17 riguarda sia gli es¬
seri sia la loro attività. San Paolo : « Dio produce in voi e il volere e
l'agire con buona volontà » (Fil. 2, 13).
Anche se la Bibbia afferma che tutte le azioni delle creature sono
opera di Dio, mai vi leggiamo che siano ridotte a semplice apparenza.
Anche le creature agiscono realmente. C'è l'azione di Dio e quella delle
creature, ma la Scrittura, che si limita a presentare cose e fatti in modo
concreto e pratico, non dice come si armonizzino tra loro. Per quanto
riguarda l'agire delle cose infraumane si accentua così fortemente l'at¬
tività divina, che sembra venir eliminata l'azione della causa seconda.
Talora la stessa cosa avviene per quanto concerne le azioni dell'uomo,
sì da far dubitare che vi sia ancora posto per la libertà umana. Dio « fa
sì che Absalom non segua il consiglio di Achitòfel perchè possa acca-
dergli del male; permette che Roboamo respinga il popolo supplicante;
incita Davide a cominciare il censimento del popolo. Sembra sia lui a
indurre Saul a ergersi ostilmente contro Davide, a rendere duro il cuore
del Faraone, di Sehon e in genere di tutti i cananei. Manda i suoi pro¬
feti con questo incarico: Indurisci il cuore di questo popolo, acceca i
loro occhi, chiudi le loro orecchie, affinchè non vedano, non ascoltino e
non ottengano salvezza. Versa un sonno profondo sopra il suo popolo
e indurisce il loro cuore» (Eichrodt, Theologie des Alt. Test., II, 93).
« Una derivazione d'acqua è il cuore dei re in mano di Dio; egli lo
piega a tutto ciò che vuole » (Prov. 21, 1).
Tali passi perderebbero gran parte del loro valore se li intendessimo
come semplice permissione divina. Dio attua in realtà, tutte le decisioni
umane, tuttavia, secondo la Bibbia, l'uomo rimane responsabile delle
proprie azioni. Dio non gli toglie la responsabilità. Infatti i moniti e gli
avvertimenti profetici suppongono la libertà dell'uomo. Dinanzi a lui
sta la vita 0 la morte; ha ciò che sceglie (Deut. 30,15-19; Eccli. 15,
14-20). Inoltre la rivelazione veterotestamentaria perseguita senza posa
e acerbamente il peccato, mettendo così in vivo risalto il profondo
mistero della colpa. Esso consiste nel fatto che l'uomo, opera di Dio,
pur potendo esistere solo per merito suo, gli si volge volontariamente
contro. Egli è e agisce solo perchè Dio lo avvolge con il suo amore, ciò
nonostante tenta di negare, senza precipitare nel nulla, il principio che
lo sorregge, la forza personale per cui opera. Il suo odio è negazione di
turale, ma tutte sono un movimento verso o co
compie
556 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO com
Dio, e tuttavia può odiare solo per forza divina. Il peccatore si trova può
quindi in atroce contraddizione con se stesso. inc
Che la Bibbia non trascuri la libertà umana, appare soprattutto nei
passi in cui parla della salvezza, la quale, in fondo, interessa ogni azionenell'ordin
dello spirito creato, poiché nessuna è neutrale riguardo al fine superna- sullo
turale, ma tutte sono un movimento verso o contro esso. La salvezza si libera.
ottiene appunto mediante le azioni che compie la nostra natura, infor¬ qualcos
mata dalla grazia. Ora dalla cooperazione e compenetrazione dell'azione dial
divina e umana sul piano soprannaturale, si può logicamente dedurre la al
cooperazione e compenetrazione dell'attività increata e creata anche in affermazio
campo naturale. dell'evangel
Per quanto riguarda l'azione divina nell'ordine soprannaturale si può all'o
asserire quanto segue : « Lo Spirito agisce sullo spirito rispettandone la paro
spontaneità dell'intelletto e della volontà libera. La comunicazionenell'obbedienza,
dello
Spirito nel nuovo Testamento è sempre qualcosa di eminentemente per¬ gra
sonale, da intendersi secondo l'analogia del dialogo, non secondo quella dell'esis
della causalità. La fede è responso, risposta alla parola di Dio, vale a siam
dire un atto personale: è conoscenza, affermazione, fiducia, obbedienza». vocabolo
Secondo S. Paolo il modo d'operare dell'evangelo sta nel fatto che « esso
afferra il pensiero di ognuno per incatenarlo all'obbedienza verso Cristo ».
L'essere afferrati da Dio mediante la sua parola, è indubbiamente sua acq
grazia. Ma egli ci fa prigionieri nell'obbedienza, nella nostra obbedienza. nostri
La decisione avviene sì nella sua parola di grazia, ma anche nel nostro co
atto di obbedienza. Se il rinnovamento dell'esistenza dev'essere presen¬ c
tato con l'analogia di un fatto in cui noi siamo puramente passivi, la coro
rinascita va tuttavia presentata con un vocabolo che rappresenti l'attività vers
la più alta: conversione. Certo, la parabola del seme che cresce sponta¬
neamente corrisponde a tale mistero, ma non vi risponde meno la pa¬ colu
rabola del mercante che vende tutto pur di acquistare la perla preziosa. su
Certo, la salvezza non dipende solo dai nostri sì e dal nostro correre, dic
tuttavia si legge: operate la vostra salvezza con timore e con tremore! vin
Procuratevi la vita eterna alla quale siete stati chiamati! Combattete per
la buona causa della fede! « Nessuno sarà coronato se prima non avrà
legittimamente combattuto. Io mi protendo verso la meta al fine di po¬
terla afferrare dopo che sono stato afferrato da Cristo. Egli è il Re che
prepara il banchetto, egli solo. Ma guai a colui che ha una macchia e
non porta l'abito nuziale! ». Cfr. la dottrina sulla grazia.
3. Agostino nel suo In Ioann. tract. 8, n. 2 dice: «Il miracolo di Nostro
Signore Gesù Cristo, con cui cambiò l'acqua in vino, non fa meraviglia a co-
§ 112. DIPENDENZA DELL'AZIONE CREATA DA DIO 557
loro che sanno che è stato un Dio a compierlo. Infatti colui che in quel giorno
di nozze mutò in vino l'acqua di cui, per suo ordine, erano state riempite sei
idrie, è lo stesso che ogni anno compie un prodigio simile nella vite. Infatti
come l'acqua versata nelle idrie dai servi fu, per opera del Signore, mutata in
vino, così si trasforma in vino l'acqua che le nubi rovesciano per opera del
medesimo Signore. Ma noi non ci meravigliamo più di ciò, perchè si avvera
tutti gli anni. La ripetizione fa scomparire la meraviglia. Eppure tale trasfor¬
mazione merita più attenzione di quella che avvenne nel contenuto delle idrie.
Chi infatti può osservare le opere con cui Dio regge e governa tutto il mondo,
senza stupire ed esser sopraffatto dalla meraviglia? Chi considera la forza di
un semplice granello di qualsiasi semente, vi rinviene qualcosa di così gran¬
dioso da provarne quasi spavento. Solo perchè l'uomo, intento ad altre cose,
ha smarrito la consapevolezza di tale grandiosità e non loda più il Signore, Dio
ha voluto compiere alcunché di straordinario per attrarre l'attenzione umana
e indurla a lodare Iddio. Un morto è risorto. Gli uomini se ne meravigliano,
eppure ogni giorno nascono vite nuove! Se riflettiamo è fatto ancora più me¬
raviglioso dare la vita a chi prima non esisteva, che risuscitare uno il quale
esisteva prima. Eppure il medesimo Dio, Padre di nostro Signore Gesù Cristo,
compie tutto ciò mediante il suo Verbo e regge quanto ha creato. Le prime
meraviglie Dio le ha operate mediante il Verbo, che è Dio presso di lui; le
successive mediante lo stesso Verbo che si è incarnato e divenuto uomo al pari
di noi. Se ci meravigliamo per quanto è accaduto per mezzo di Gesù uomo dob¬
biamo anche meravigliarci di ciò che ha avuto luogo mediante Gesù Dio. Per
mezzo di Gesù Dio furono creati cielo e terra, il mare e ogni astro del fir¬
mamento, la ricchezza della terra e la fecondità degli oceani, insomma tutto
ciò che sta dinanzi ai nostri occhi. Noi vediamo ciò, e quando è in noi il suo
Spirito desideriamo lodarne l'artefice, senza rivolgerci alla creatura e staccarci
così dal creatore, senza posare lo sguardo sulle opere e volgere le spalle all'ar¬
tista che le ha volute ».
4. - La ragione illuminata dalla fede può provare che Dio opera in
ogni agire delle creature. Tutto ciò che è essere deve avere la sua ori¬
gine nell'essere assoluto: Dio. Ora ogni azione ha un suo essere distinto
da quello del soggetto e dalla potenza da cui proviene. Di più la crea¬
tura è nella sua totalità, dipendente da Dio, quindi anche nel suo agire.
Tale dipendenza significa appunto che Dio sostiene ogni azione delle
creature così come ne sostiene l'essere. Senza quest'intervento di Dio
sarebbe impossibile ogni attività creata, proprio perchè essa è tale. Chi
affermasse che l'azione della creatura si attua anche senza l'attività di¬
vina, verrebbe ad asserire che l'essere creato nell'istante in cui agisce
non dipende da Dio, che quindi non è più creatura.
La ragione per cui non si può constatare la cooperazione di Dio, sta nel
fatto che l'agire divino si armonizza con le leggi naturali stabilite da lui e la
libertà umana; che quindi si nasconde dietro e dentro tutti gli avvenimenti e
nanza di Dio, del nostro permanente legame con lu
spiegare
558 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E l'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
lib
le azioni che possiamo conoscere; e infine che a noi manca la facoltà atta a cr
percepire l'azione divina più di quanto chi è negato alla musica è privo della caratte
capacità necessaria ad intendere una melodia. Dio, infatti, è essenzialmente di¬
verso dalle creature.
la
La fede nella cooperazione divina in tutti gli eventi e in tutte le azioni,
oltre risvegliare la fiducia e la rassegnazione alimenta la coscienza della vici¬ Dio
nanza di Dio, del nostro permanente legame con lui, ci dà confidenza, energia dobbia
e coraggio in ogni nostra azione, sprona a spiegare tutte le nostre capacità. a
5. - La mozione divina non elimina la libertà delle creature. Dio, son
infatti, si adatta alla natura dell'uomo che ha creato. Egli induce le crea¬accresce
ture ad agire secondo la loro propria caratteristica, facendo sì che le de
cose della natura agiscano necessariamente e le creature libere libera¬
mente. Non si deve infatti dimenticare che la libertà umana è libertà uomo.
creata, ossia libertà dipendente in tutto da Dio. Non si può quindi at¬ nel
tuare senza essere sorretta da lui. Non dobbiamo cadere nell'errore di su
rappresentarci il rapporto tra Dio e l'uomo alla stregua di quello che D
sussiste tra un individuo e l'altro. Qui vi sono due sole possibilità: o
due si accordano per agire insieme e accrescere così le loro forze, op¬ è
pure l'uno sottomette l'altro privandolo così della libertà e utilizzandolo a
come uno strumento. Il rapporto tra Dio e l'uomo è invece diverso, d
poiché Dio è ben diverso da qualsiasi uomo. Avvolge nel suo amore
creatore l'essere e l'agire di ogni creatura, nell'intima radice dell'essere, Dio
del pensiero e della volontà. Cfr. il trattato sulla Grazia.
Pur cooperando con l'azione di ogni uomo, Dio non è tuttavia respon¬
sabile del peccato della creatura. Nell'azione peccaminosa bisogna di¬ movim
stinguere l'azione come tale, ossia in quanto è un'entità, e la mancanza d
ca
di bontà. In quanto l'azione è un'entità viene attuata da Dio, quale causa
trasfo
principale. Il fatto poi che, in seguito ad una deviazione, tale azione non rice
tenda verso Dio, ma al contrario si scosti da lui e sia priva di bontà, mo
non dipende da Dio, bensì dalla creatura. Dio permette che tale man¬
canza si avveri, senza produrla egli stesso.
in
A. Gratry scrive nella sua opera La filosofìa del Credo : « Imovimenti della
nostra volontà vengono da Dio, come ogni movimento, di qualunque ordine
esso sia. "Dio opera in tutto ciò che opera" dice S. Tommaso d'Aquino.
Dunque anche nella volontà. Egli vi opera come causa prima; dà il primo im¬
pulso. Ma l'uomo libero dirige l'impulso e trasforma il movimento. Noi ve¬
diamo macchine che trasformano il movimento ricevuto, che cambiano un mo¬
vimento alternativo in movimento rotativo, un movimento rettilineo in movi¬
mento obliquo, un movimento qualunque nel suo contrario. È ciò che fa, con
più forte ragione, la volontà libera dell'uomo. E non è forse vero che ogni
giorno ciascuno di noi cambia gli impulsi divini in movimenti falsi e disordi-
§ 112. DIPENDENZA DELL'AZIONE CREATA DA DIO 559
nati, l'impulso del coraggio in forza di collera, lo slancio del cuore in ritorno
di egoismo, il nobile amore in passione vile, ogni gusto in sensualità, e la sete
di gloria eterna in orgoglio e vanità? Non è dunque in questo senso che la
Santa Scrittura insegna che " lo spirito di Dio agisce secondo la perversità del
perverso ", " che noi inghiottiamo i doni di Dio nella nostra concupiscenza
e che Geremia esclamava: " Il Verbo, il Cristo che ci vivifica, è prigioniero della
nostra iniquità"? Dio dà la vita, la produce in noi con la sua presenza e noi
ne abusiamo, come quelle piante che cambiano in veleno le benedizioni del
sole. Dio è amore, Dio ha voluto creare esseri capaci di amarlo. Per amare bi¬
sogna essere liberi. L'amore è libero o non è. Ci volevano dunque al mondo
degli esseri liberi, se si voleva nel mondo l'amore. Senza libertà la creazione
sarebbe stata fisica, muta, inerte e insensibile, ma non morale, ma non intelli¬
gente; senza libertà la creazione sarebbe stata senza cuore, senza spirito, senza
viscere; per conseguenza senza scopo e senza bellezza. Era necessaria dunque
la libertà. Ma che cosa è la libertà? È il potere reale e assoluto di volere o di
non volere, di amare o di non amare, di amare o di odiare. Essa è distrutta
se Dio trionfa necessariamente e malgrado noi. Ma noi siamo Uberi, noi pos¬
siamo dire a Dio sì o no. La libertà del cuore dell'uomo è tale (e poiché esiste
è bene che sia tale) che essa può respingere per sempre il cuore di Dio. Il
Concilio di Trento ha formulato il dogma che l'uomo può sempre resistere a
Dio, e rigettare la grazia di Dio. Senza di ciò l'uomo non avrebbe potuto es¬
sere libero e il concilio doveva dichiarare la libertà contro il fanatismo di
Lutero. Sì, noi ci moviamo tra i due limiti estremi che pone S. Agostino:
" L'amore di noi fino al disprezzo di Dio; l'amore di Dio fino al disprezzo di
noi Tale è dunque la grandezza della creazione libera uscita dalle mani di
Dio! Il Padre degli uomini ci ha amati abbastanza per crearci, sapendo che
egli avrebbe dovuto sollecitare il nostro amore, senza potere sempre ottenerlo »
(trad, di M. Angeli, Siena 1936, 34-36).
6. - Circa il modo con cui si esplica l'attività universale divina, sor¬
gono delle difficoltà, particolarmente nel caso in cui essa si riferisca alle
azioni libere delle creature. Si tratta cioè di vedere se Dio causa l'azione
stessa della creatura, 0 se invece sorregge solo l'azione già posta per
iniziativa della medesima (concursus praevius, oppure simultaneus). Esi¬
stono due risposte, quella dei Tomisti e quella dei Molinisti. Nel trat¬
tato sulla Grazia daremo la spiegazione precisa dei due sistemi. Qui
bastano le seguenti considerazioni.
a) ITomisti insegnano che Dio non solo conserva le forze libere e neces¬
sarie degli agenti creati, ma con il suo influsso le fa passare dalla potenza al¬
l'atto. Nessuna potenza può passare all'atto, senza una particolare mozione di
Dio. Se l'azione delle creature non è possibile senza l'immediata cooperazione
divina, anche l'inizio stesso dell'azione non può aver luogo senza immediato
influsso di Dio. Questo precede l'agire delle creature, non temporalmente ma
ontologicamente, ossia per intrinseca virtù e importanza (praemotio). L'inizia¬
tiva divina ha il primato su quella creata. Come Dio è al di sopra delle crea-
natio). L'influsso che l'uomo riceve da Dio è per
infallibil
560 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
assolu
ture per creaturale
il suo essere, così le trascende anche per l'agire. Ogni iniziativa creata
è avvolta e attuata da quella divina. L'esistere dell'iniziativa umana è esclusi¬
vamente frutto della mozione divina. L'influsso di Dio, che fa passare la po¬ concilia
tenza nell'atto, si esercita su tutto lo svolgimento dell'azione. La « coopera¬
zione » divina è predeterminante, poiché Dio non solo dà a una potenza la
spinta ad agire, ma la muove anzi in una determinata direzione (praedetermi- pr
natio). L'influsso che l'uomo riceve da Dio è per se stesso e intrinsecamente
efficace, in modo che l'effetto inteso segue infallibilmente. all'a
La dottrina tomista sviluppa assai logicamente il principio della causalità all'u
prima e universale di Dio e della rispettiva assoluta dipendenza delle creature s
da lui. Essa prende sul serio il carattere creaturale di tutti gli esseri, per cui
in ogni istante essi sono dipendenti dal creatore. Tuttavia le si erge contro all'a
una difficoltà insormontabile. Come si può conciliare la libertà umana con la c
predeterminazione divina? Come si può in tal caso non dire che Dio è l'autoresimultan
del peccato? molin
b) Per tali ragioni i Molinisti respingono la predeterminazione e si accon¬
tentano di sostenere una semplice « cooperazione » divina simultanea all'azione d
umana. Dio e l'uomo stanno di fronte l'uno all'altro, come due collaboratori ma
che devono attuare una libera azione. Dio offre all'uomo la mano, l'uomo stringe deci
quella di Dio, e così le due mani, per iniziativa, sia di Dio sia dell'uomo, at¬ su
tuano l'azione. In altre parole la volontà umana si determina essa stessa ad
agire. Presupposto il passaggio dalla potenza all'atto, previsto da Dio con la
scientia media, ma operato dalla volontà umana con le sue sole forze, inter¬l'essenz
viene la cooperazione divina, che è così simultanea temporalmente, ma po¬ realtà,
steriore in quanto a ordine logico. Parecchi molinisti distinguono tra coopera¬ da
zione offerta e quella accordata. Dio offre il suo aiuto alla volontà. Per l'in¬ ch
flusso che le viene così presentato la volontà può determinarsi a piacimento ed movi
agire in questo o quel modo. Dio offre la sua mano all'uomo. Egli può affer¬ determ
rarla o meno. Quando l'uomo, in seguito a decisione personale, stende egli dire
pure la mano per afferrare la divina, Dio pone la sua mano in quella dell'uomo. quanto
In tal modo si compie l'azione progettata. sareb
La teoria molinista ha il vantaggio di garantire meglio la libertà umana, ma l'ess
non sembra che rispetti sufficientemente l'essenziale dipendenza di tutte le te
azioni da Dio. L'azione ha una sua propria realtà, un suo essere e, di conse¬ disti
guenza, deve, come ogni altro essere, venir posta dall'essere assoluto che è Dio, sim
altrimenti sembra esser costretti ad ammettere che una creatura può creare.
Alcuni molinisti insegnano che Dio mette in movimento la volontà solo gene¬ l'uo
ricamente, senza per questo dirigerla in una determinata via. Ora è impossibile
che la mozione divina non abbia all'inizio una direzione e che questa le venga
conferita solo per volere della creatura. Per quanto riguarda l'obbiezione moli¬
nista che, in caso di predeterminazione Dio sarebbe autore del peccato, dob¬
biamo osservare che i tomisti distinguono tra l'essere dell'azione e la sua de¬
ficienza di bontà (cfr. § 84). Del resto anche la teoria molinista evita tale sco¬
glio solo ricorrendo anch'essa alla medesima distinzione, poiché Dio offre il
suo concorso anche per il peccato (concursus simultaneus). All'accusa che i
tomisti negano la libertà umana si può rispondere che Dio muove ogni essere
in conformità della sua natura. Muove perciò l'uomo in modo da rispettarne
§ 113- GOVERNO DEL MONDO E PROVVIDENZA 561
la libertà. La mozione divina non toglie la libertà ma attua azioni libere. È anzi
necessaria perchè la volontà, in potenza, possa esplicare atti conformi alla sua
natura libera.
c) Le difficoltà in cui incorrono entrambe le soluzioni quando cercano di
armonizzare la libertà dell'uomo e la suprema causalità divina, mostrano che
stiamo di fronte a un mistero del tutto insolubile. Non vi è una risposta che
elimini ogni difficoltà. Dove il Tomismo lascia tenebre, il Molinismo porta luce,
ma di rimando, dove il Molinismo è oscuro, il Tomismo reca chiarezza diffusa.
Cfr. §§ 83 e 84.
§ 113. Governo del mondo e Provvidenza.
1. - Con il nome di Provvidenza, in senso largo, si designa la cura che in
genere Dio ha di tutto il creato; in senso stretto, si intende l'influsso con cui
Dio conduce le singole cose al loro fine. Il secondo significato include un du¬
plice elemento : l'ordine preconosciuto e prestabilito sin dall'eternità dalla
mente divina, secondo cui le cose devono essere condotte a un determinato fine;
e l'attività divina che conduce a compimento il disegno voluto. Il primo aspetto
si chiama provvidenza in senso stretto, il secondo si chiama governo del mondo.
Si suole parlare di provvidenza generale e speciale. La prima riguarda le
realtà cosmiche nel loro complesso e nei singoli elementi, la seconda gli esseri
razionali, e soprattutto le creature destinate alla beatitudine, gli organi della ri¬
velazione e la Chiesa. Oltre a ciò si distingue la provvidenza ordinaria e la
straordinaria. Quest'ultima appare quando s'infrange l'ordine usuale della na¬
tura e nell'ordine della grazia. Inoltre la provvidenza può essere mediata e im¬
mediata.
I. - IL DOGMA E IL SUO FONDAMENTO.
2. - Dio conserva e regge tutte le creature con la sua provvidenza.
È dogma di fede. Vedere Concilio Vaticano, Sess. 3, cap. 1; Denz. 1784.
Cfr. anche Denz. 239 (Sinodo di Braga 561 contro le varie forme di
fatalismo); Denz. 421 (professione di fede contro i Valdesi); Denz. 586,
606 ss. (contro Wicleff); Denz. 1702 (Sillabo di Pio IX).
3. - Nell'Antico Testamento Dio si rivela come il Re del creato,
l'autore della storia, il padrone di ogni evento. Il suo dominio sulla na¬
tura porta salvezza, protezione e benedizione all'uomo. Il suo agire è
certo misterioso per la creatura umana, non di rado incomprensibile e
tremendo. Cfr. § 38, e i passi tratti da Giob. 38 e 42; cfr. Giob. 36,
27-37, 24- mezzo a tutte le bufere della natura Dio è la rocca su cui
si può saldamente edificare. Sai. 46, 2-10 : « Iddio è per noi rifugio e
36 - schmaus - dogmatica I.
santa delle dimore dell'Altissimo. Iddio è nel s
5Ó2 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO Signore
presidio; valido aiuto si mostrò nelle distrette, perciò non temeremo se m
si stravolge la terra; se si scrollano i monti nel seno dei mari. Mug¬ le
ghino e spumeggino (pure) le acque loro; tremino i monti al suo ri¬
gonfio. Il Signore delle schiere è con noi; è rocca per noi il Dio di Orac
Giacobbe. V'è un fiume, i suoi canali allietano la città di Dio; la più p
santa delle dimore dell'Altissimo. Iddio è nel suo mezzo, non vacillerà; oltrepa
l'aiuta Iddio dal primo mattino. Fremettero le genti, si scossero i regni; m
emise il suo grido, si scosse la terra. Il Signore delle schiere è con noi,
è rocca per noi il Dio di Giacobbe. Venite, mirate le gesta di Dio: il c
quale opera desolazione nel paese, fa cessare le guerre fino all'estremità e
della terra. L'arco spezza e rompe la lancia e gli "scudi" arde nel fuoco».riguardan
Ger. 5, 22 : « Voi non mi temerete? — Oracolo del Signore. — Del n
mio volto voi non tremerete? Eppure io ho posto la sabbia per limite s
del mare, barriera eterna, che esso non oltrepasserà mai; esso si agita cors
ma non prevale, le sue onde rumoreggiano, ma non la sormontano ».
Dio forgia la storia, egli è Re degli eventi e dei tempi. Non senza um
motivo gran parte dell'Antico Testamento è costituito da libri storici, guid
e anche nelle altre parti spesso si accenna agli eventi che Iddio ha com¬ re
piuto in passato 0 alle promesse che riguardano il futuro. La potenza p
con cui egli domina la storia si palesa pure nella scelta di coloro che uman
devono trasmettere la sua rivelazione. Sono strumenti per mezzo dei v
quali egli introduce determinati fatti nel corso degli eventi. Dio an¬ pu
nienta continuamente le aspettative umane del suo popolo e le sue spe¬
ranze terrene, perchè non attenda in modo umano e terreno la salvezza sta
bramata (ad es. Gen. 20; 26; Es. 2). Dio guida la vita dei popoli. Da aff
lui ricevono benedizioni ed egli li chiama al rendiconto finale (Gen. 49, sua
10; Deut. 4, 19). Ogni popolo, nelle visioni profetiche, ha il suo com¬
pito storico. Ognuno adempie nella storia umana un ruolo suo proprio. e
Un popolo, nelle mani di Dio, può divenire verga per un altro (lo as¬
seriscono spesso Geremia ed Ezechiele; cfr. pure Am. 1 e 2). d
Ad Isaia fu dato di « manifestare il piano divino mentre il popolo a
assiro invasore stava annientando i vecchi staterelli dell'antico Oriente
per erigervi il suo impero colossale, ed egli afferma tale « piano divino
proprio mentre l'Assiro sta compiendo la sua opera paurosamente di-
struggitrice » (Eichrodt). E per Isaia la chiave di tutti quegli eventi sta
nel divenire del regno di Dio, regno di pace e di giustizia (Is. 2, 2-4;
sul concetto del regno di Dio cfr. il trattato sulla Chiesa). Il profeta
vede come Dio conduca la storia verso il fine da lui voluto, scorge bril¬
lare come meteora luminosa la figura di Ciro a cui il Signore dona una
§ 113- GOVERNO DEL MONDO E PROVVIDENZA 563
vittoria strepitosa e per mezzo del quale fa maturare i tempi (Is. 45,
1 ss). Anche i nemici stessi di Dio non possono far altro che servire
ai piani divini (Ez. 38, 40).
Daniele loda Dio come il Signore della storia. Così egli prega (Dan.
2, 20 ss.) : « Sia il nome di Dio lodato di eternità in eternità, chè sa¬
pienza e fortezza a lui appartengono. Egli è che muta i tempi e le stagioni,
depone i re e ricostituisce i re; dà la sapienza ai sapienti e l'intelligenza
a coloro che intendono. Egli è che svela ciò che è riposto e ascoso, co¬
nosce ciò che sta nelle tenebre — e la luce abita presso di lui ». Se¬
condo lo stesso Daniele la storia si ripartisce in grandi epoche. Il fine cui
tende tutta la storia divina presentataci dall'Antico Testamento è Gesù
Cristo, come fu già sottolineato (§ 99). La stessa creazione del mondo
vien descritta come l'inizio di un movimento tendente a Cristo. Dio
raggiunge questo scopo anche in mezzo a tutte le infedeltà, agli errori,
le cadute, l'idolatria di coloro che erano i custodi della sua rivelazione.
Anzi, anche quando gli uomini vogliono allontanarsi da lui, servono ai
suoi intenti. Pur offendendolo con il male, coscienti 0 ignari, sono co¬
stretti tuttavia a eseguire il piano salvifico di Dio.
Il più chiaro e terribile esempio ne è, nel Nuovo Testamento, Caifa.
Come profeta, ossia come proclamatore del messaggio salvifico, afferma
essere meglio la morte di un uomo piuttosto che la rovina del popolo
intero. Egli con ragioni politiche cerca di legittimare la condanna a
morte di Cristo. Ma lo Spirito Santo che si serve di lui come d'uno
strumento, gli fa pronunciare parole a cui sta imito ben altro signifi¬
cato. Caifa come profeta commette un delitto inqualificabile, eppure Dio
si serve del suo atroce misfatto per attuare la salvezza (Giov. n, 49-52).
Ciò che Dio vuole, deve avverarsi (Giudit. 9, 5). Ciò che egli non
vuole, non si avvera mai (Is. 7, 7). Contro di lui non può ergersi deci¬
sione umana (Is. 8, 10). Chi insorge contro Dio è come la sega che si
vantasse contro chi la maneggia, 0 il bastone che volesse brandire chi
lo alza (Is. 10, 15). Di continuo il messaggio profetico accenna al giorno
in cui apparirà il Cristo, in cui passato e futuro raggiungeranno la loro
unità. La genealogia di Cristo, nel Vangelo di Matteo (1, 1-17) e di
Luca (3, 23-38) è la prova neotestamentaria che l'intera storia precri¬
stiana tendeva a lui e che la stessa creazione dell'uomo all'inizio va con¬
siderata come un evento che si completa in Cristo.
Dio ha cura anche dei singoli esseri, come può rendersene conto il
fedele che si abbandona a lui. Dio penetra nella vita dell'uomo, lo guida
giorni della vita umana (ivi 14, 5) : « Dal Sign
su
564 P- II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
e lo conduce, in modo che questi gli possa essere riconoscente e porre
h
in lui la propria fiducia. Non vi è posto per il caso inteso in senso stretto,
per la potenza demoniaca arbitraria a sè stante che aveva un significato 45
così rilevante in tutte le religioni finitime. Secondo Geremia la vita intera l'auto
è avvolta dalla cura amorevole del Signore (1, 5). Egli fissa i mesi e i vengon
giorni della vita umana (ivi 14, 5): «Dal Signore sono diretti i passi
dell'uomo; chi degli uomini può conoscere la sua via? » (Prov. 20, 24).
Anche gli eventi oscuri e misteriosi della vita vengono da lui. « Sono fa
io il Signore e non c'è nessun altro; non vi ha Dio fuori di me... io
che formo la luce e creo le tenebre, che faccio la pace e creo il male; cupa
io sono il Signore, che fa tutto questo » (Is. 45, 5-7). « O succede una vincastro
av
sciagura in città, senza che il Signore ne sia l'autore? » (Am. 3, 6). « Beni Grazia
e mah, vita e morte, povertà e ricchezza vengono dal Signore » (Eccli. p
11, 14).
g
Il Salmista esprime la sua esperienza pregando : « Il Signore è il mio Pa¬ traboc
store, nulla mi potrà mancare! In verdi pascoli mi fa riposare, sovr'acque tran¬ lo
quille mi guida; l'anima mia ristora. Mi guida per i sentieri della giustizia, per
il suo Nome. Anche se dovessi andare per valle cupa, non temerei alcun male, tu
poiché tu sei meco. Il tuo bastone e il tuo vincastro, essi mi danno conforto. cin
Mi prepari davanti una mensa, di fronte ai miei avversari. Mi ungi d'olio il giub
capo, il mio calice è colmo. Oh, mi seguono Grazia e Bontà tutti i giorni di S
mia vita. E mia dimora sarà là casa del Signore, per la distesa dei giorni »
(Sai. 23). Nell'inno di lode per la fine dell'anno, il Salmista esalta le be¬ uomin
nedizioni divine : « E s'agitano i popoli, e temono gli abitanti i confini delle tut
terre, per i tuoi prodigi. Visiti la terra e la fai traboccare; l'arricchisci copiosa¬
mente. Il canale divino è rigonfio d'acqua: prepari loro biade, perchè così l'hai raddrizz
preparata. Isuoi solchi irrighi, eguagli le zolle; con scrosci l'ammolli; ne bene¬ a
dici i germogli. Coroni l'annata con la tua bontà, i tuoi sentieri stillano pingue¬ in
dine. Stillano i pascoli della steppa; di letizia si cingono i colli. Si vestono i coloro
prati di greggi; e le valli si coprono di grano. Oh giubilano e cantano » (Sai. 65, l
9-14; cfr. Sai. 92; 103; 139; 6, 24). « Ti lodano, o Signore, tutte le tue crea¬
ture; i tuoi fedeli ti benedicono. La gloria del tuo regno affermano; e le tue b
gesta dichiarano. Per annunciare ai figli degli uomini le tue gesta; e la gloria 10.
maestosa del tuo regno. Il tuo regno è un regno di tutti i secoli, e il tuo dominio
va di età in età. Fedele è il Signore in tutti i suoi detti; e santo in tutte le
opere sue. Sorregge il Signore tutti i cadenti; raddrizza tutti i ricurvi. Gli occhi
di tutti in te sperano; e tu somministri loro il cibo a suo tempo. Apri la mano
e sazi ogni vivente a piacere. Giusto è il Signore in tutte le sue vie; e pio in
tutte le opere sue. Vicino è il Signore a tutti coloro che l'invocano; a quanti
l'invocano con sincerità. Fa il volere di quelli che lo temono; e il loro grido
ascolta e li salva. Custodisce il Signore tutti quelli che lo amano; e tutti gli
empi distrugge. La laude del Signore effonde la mia bocca e benedice ogni carne
il suo nome santo in eterno e sempre » (Sai. 145, 10. 21).
§ 113- GOVERNO DEL MONDO E PROVVIDENZA 565
Da questi passi risulta evidente che anche la sofferenza è visita di
Dio. È medicina divina e perciò segno del divin amore.
Elifaz lo spiega a Giobbe (5, 17-26): «Beato l'uomo che da Dio è corretto!
la riprensione del Signore tu dunque non spregiare! Poiché egli ferisce e pur
medica, percuote e pur le sue mani guariscono. In sei angustie egli ti salverà e
nella settima non ti toccherà il male: nella fame ti libererà dalla morte, e nella
mischia dal potere della spada, dal flagello della lingua calunniatrice sarai ce¬
lato, né temerai della calamità, se venga; della desolazione e carestia ti farai
beffe, delle fiere della terra non avrai paura; pur dalle pietre dei campi tu
trarrai vantaggio, e le fiere della terra saranno in pace con te. Proverai che la
tua tenda gode di pace, e visitando la tua dimora non troverai mancanza. Pro¬
verai pure che la tua prole s'accresce, e la tua progenie sarà come l'erba della
terra. Giungerai in decrepitezza alla tomba, come racchiudesti la bica del grano
a suo tempo ». Giobbe esperimentò quanto inconcepibili fossero le vie di Dio.
Solo il tenere lo sguardo alla incomprensibilità di Dio lo salvò dal cadere nella
disperazione (cfr. § 48). « Eppure ci provasti o Dio, ci saggiasti come si saggia
l'argento. Ci facesti cadere nella rete, stringesti nella stretta i nostri fianchi.
Facesti cavalcare gente sul nostro capo, passammo per fuoco e per acqua, ma
poi ci traesti a refrigerio » (Sai. 66, 10-12). « Con severità mi punì il Signore,
ma alla morte non mi consegnò » (Sai. 118, 18). « Prima che fossi umiliato io
erravo, ma ora il tuo detto osservo» (Sai. 119, 67). «Buon per me che fui
umiliato perchè imparassi i tuoi decreti » (ivi, v. 71). Come Giobbe, anche l'Ec¬
clesiaste davanti a tutte le sofferenze del mondo continua ad esaltare l'incom¬
prensibilità dei decreti divini. Egli infatti è il più forte. Con Dio non si può
tener giudizio (6, 10). « Chi mai parlò e si avverò la sua parola senza che il
Signore l'avesse comandato? Dalla bocca dell'Altissimo non procedono forse le
sventure e il bene? Perchè si rammarica un uomo finché vive? un uomo per
i castighi dei suoi peccati? Innalziamo il nostro cuore su le nostre mani fino
a Dio nei cieli » (Lam. 3, 37-41).
•ÿ*>4. - Similmente il Nuovo Testamento ci assicura che Dio è l'artefice
'
della storia, sia intesa nel suo complesso, sia come destino dei singoli
uomini. Paolo afferma nel suo discorso tenuto nell'areopago ateniese,
che tutta la serie degli eventi precristiani tendeva a Cristo (Atti 17,
22-31; cfr. 14, 15-17) e Cristo ci attesta che ogni direttiva e realizza¬
zione divina è informata alla bontà del Padre. Dio vuole il bene degli
uomini e ha cura di loro anche nei minimi eventi, 0 in quei moti che
sfuggono al loro stesso controllo.
-ÿL'uomo deve stare tranquillo e sereno, pensando che un Dio onni¬
potente, il quale è suo Padre, ha cura di lui. « Non siate troppo solle¬
citi per la vostra vita, di quel che mangerete e berrete, nè per il vostro
corpo, di quel di cui vi vestirete. La vita non vale più del nutrimento
e il corpo più del vestito? Osservate gli uccelli dell'aria, che non semi-
Salomone, il splendore,
566 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
maggio
nano, non mietono e non raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro dunque
celeste li nutre. Ora non siete voi molto di più di essi? E chi di voi, b
a forza di pensarci su, può aggiungere un cubito alla propria statura? ciò
E perchè darvi tanta pena per il vestito? Considerate come crescono i
gigli del campo; essi non lavorano e non filano. Tuttavia vi dico che p
neppur Salomone, con tutto il suo splendore, fu mai vestito come uno se
di essi. Se dunque Dio riveste così l'erba del campo, che oggi è e do¬ L
mani vien buttata nel forno, quanto a maggior ragione vestirà voi, o Non
uomini di poca fede! Non vogliate dunque preoccuparvi, dicendo : possono
— Cosa mangeremo? — oppure — Che cosa berremo? —
o di che ve¬
dic
stiremo? — Sono i Gentili che cercan tutto ciò, mentre il Padre vostro
Ep
sa che n'avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia
e tutto il resto vi sarà dato per giunta. Non preoccupatevi dunque per fino
il domani, poiché il domani sarà sollecito di se stesso. A ciascun giorno vale
basta il suo affanno» (Mt. 6, 25-34; cfr. Le. 12, 22-31; 11, 1-4).
« Ora a voi che siete miei amici dico : — Non abbiate paura di coloro Pietro
che uccidono il corpo, e dopo ciò non possono fare nulla di più; ma io (1
vi mostrerò chi dobbiate temere: temete colui che, dopo aver ucciso, ha n
il potere di gettarvi nella Geenna — ; sì, vi dico: Temete colui. Cinque premur
passeri non si vendono forse per due assi? Eppure nemmeno uno solo Per
di questi è dimenticato davanti a Dio; anzi fino i capelli del vostro capo Me
son tutti contati. Non temete dunque; voi valete più di molti passeri »
(Le. 12, 4-7).
A ciò corrisponde l'ammonimento di Pietro : « Ogni vostra angustia de
gettatela in lui, che si prende cura di voi » (1 Piet. 5, 7). Il Signore è vita
vicino, non bisogna dunque preoccuparsi di nulla (Fil. 4, 5-6). Non è par
però sempre possibile esperimentare la premura divina; in ultima ana¬ terre
lisi ne siamo certi solo mediante la fede. Pertanto dubitare di Dio è
segno di fede incerta e debole (Mt. 8, 23-27; Me. 4, 35-41; Le. 8, 22-25). Padron
p
Provvidenza divina e sicurezza umana secondo il N. T. ma
Dalle precedenti considerazioni possiamo dedurre che la rivelazione
della Provvidenza non va confusa con una vita tranquilla e priva d'af¬
fanni. Il Dio provvidente, di cui Cristo ci parla, non è il « buon Dio »
paragonabile all'agire di un tenero padre terreno, il quale, dopo pres¬
sioni più 0 meno forti, accontenta i desideri e i capricci dei figli. Dio è
Padre, ma rimane contemporaneamente Padrone e Signore. È colui che
vuol condurre i propri figli alla sua gloria e perciò intende liberarli sia
pure attraverso dolori e tormento da ogni male che si oppone a tale
§ 113- GOVERNO DEL MONDO E PROVVIDENZA
567
intento. È il Signore che chiama gli uomini a percorrere vie ardue e
faticose che conducono alla grandezza, vale a dire alla bontà del Padre.
Il suo scopo non è quello di procurar loro un'esistenza tranquilla su
questa terra, bensì di condurli alla perfezione. La sua Provvidenza tende
a garantire in mezzo agli uomini il regno di Dio, ossia la regalità divina.
La dottrina di Cristo che riguarda la Provvidenza divina, si sintetizza
nella frase scultoria : « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia
e tutte le altre cose vi saranno date in sovrappiù » (Mt. 6, 33).
Il regno di Dio è quello che, in ultima analisi, ci fa comprendere
chiaramente le vie della Provvidenza divina. Cristo inizia la sua pre¬
dicazione assicurando gli uditori che il regno di Dio si sta avvicinando
(Mt. 4, 17). La regalità divina sugli uomini comincia ora a svolgersi in
modo assai diverso da quello con cui si era svolta sino ad allora. Dio
sta dando alla vita umana forma differente da quella dei tempi passati.
Il Regno di Dio sta per apparire in quanto egli pone un nuovo principio
per il mondo e l'umanità: Cristo. In lui è penetrato nel mondo il regno
di Dio. Mediante il Verbo fatto carne l'intera creazione verrà sottoposta
alla regalità divina. Tutti gli uomini saranno accolti nel regno di Dio
che si avvera con la vita, la morte e la risurrezione di Cristo sino a che
egli sarà tutto in tutto e il suo regno avrà così raggiunto la sua forma
ultima e definitiva.
Il regno di Dio penetra negli uomini quando essi si piegano verso di
lui con amore. Contro tale regalità si erge il peccato, il quale si mani¬
festa nella stoltezza con cui l'uomo respinge la parola di Dio, nella de¬
bolezza con cui cede alla persecuzione e nella bramosia con cui cerca
i godimenti terreni. Tutto il processo cosmico tende a far trionfare
definitivamente il regno divino. Tale vittoria si effettuerà nel giorno del
giudizio, quando i figli di Dio e i malvagi verranno per sempre separati
gli uni dagli altri. Sino a quel momento lo sviluppo dell'umanità non
avrà raggiunto un grado tale per cui il bene sia sempre più forte e il
male sempre più debole. Per ora invece bene e male lottano con alterna
vicenda. Anzi proprio negli ultimi giorni del mondo il male dispiegherà
la sua massima potenza venefica. Ma proprio mentre le tenebre del pec¬
cato sembreranno divenire più dense e la notte della disperazione più
profonda, Cristo apparirà per attuare il regno eterno di Dio e svelarlo
nel suo fulgore. Allora si attuerà quello stato in cui l'amore di Dio bril¬
lerà di tutta la sua luce, senza più essere nascosto sotto veli terrestri.
Con gli occhi fissi a questo miraggio Giovanni così prega in nome di
568 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
tutta la Chiesa : « Vieni Signore Gesù » (Apoc. 22, 20). La storia intera cib
è in movimento verso di lui. La Provvidenza divina è perciò un'azione per
di Dio che avrà fine col tempo. d
È dunque Dio colui che dirige la vita dei popoli, della Chiesa e dei sicurezza
singoli sia nel loro intreccio, sia negli eventi quotidiani. Egli fa sì che sicurezza
ognuno raggiunga lo stato, che deve realizzare secondo il volere divino. qu
Dio dà all'uomo, che con tutte le sue forze tende al regno di Dio, instabili
ogni cosa di cui abbisogna. Nemmeno l'uomo sa ciò che gli è neces¬
sario, ma Dio lo conosce. Sotto ivocaboli di cibo, bevanda, vesti, non si terre
devono intendere soltanto i mezzi necessari per la vita naturale umana, divina
bensì anche quanto occorre per la perfezione dell'uomo. Quali siano,costituiscan
la
creatura non è in grado di fissarli con sicurezza.
La Provvidenza non significa affatto sicurezza per l'uomo nei riguardi
di tutto ciò che è terreno, al contrario in questo mondo regna una am
grande incertezza. Ma anche in questa instabilità l'uomo poggia fidente
sulla potenza divina che lo protegge (Rom. 8, 28-39). Al contrario non fuga
gli è possibile trovare sicurezza nei poteri terreni, perchè a ogni istante
possono venire annientati dalla potenza divina, anzi in certi momenti nell'intr
devono essere sommersi affinchè non costituiscano un pericolo per la insospettato
sal¬
vezza umana. Le vie provvidenziali rimangono perciò avvolte da oscu¬ d
rità misteriose, non le possiamo nè esaminare nè controllare. Sono in¬ qua
cluse nel mistero salvifico di Dio. Possiamo ammettere la Provvidenza D'improvvis
divina solo mediante la fede, ma non vederla in atto. Solo in certi istanti
speciali ci è permesso gettare uno sguardo fugace in tale mistero, affin¬possibilit
chè possiamo averne come il presentimento e percepirne una minima tali
traccia. « In certi momenti vediamo che nell'intreccio degli eventi umani f
sorge improvvisamente un rapporto insospettato oppure che a turbare i r
piani, da noi divisati, nasce un impedimento da cui appare chiaro che avreb
essi sottostanno ad un ordine superiore, nel quale tutte le nostre prece¬ góttl
denti speranze vengono realizzate. D'improvviso mani invisibili si so¬
vrappongono sulle nostre mani e le riempiono di doni superiori a ogni
aspettativa umana, i quali ci offrono la possibilità di realizzare piani che
mai avremmo potuto immaginare. Oppure tali invisibili mani ci rapi¬
scono i beni che noi avevamo più cari e che formavano quasi tutta la
nostra vita. Tuttavia, più tardi, dobbiamo poi riconoscere che se queste
possibilità fossero rimaste in mano nostra avrebbero procurato la nostra
rovina » (H. Ed. Hengstenberg, Von der góttlichen Vorsehung, 1940,
20 s.).
§ 113- GOVERNO DEL MONDO E PROVVIDENZA 569
5. - Tra i Padri parecchi scrissero sulla Provvidenza. Vanno segnalati:
Lattanzio (t dopo il 317), Salviano di Marsilia (t dopo il 480), Gregorio
di Nissa (t verso il 408), Eusebio di Cesarea (t verso il 430), Teodoreto
di Ciro (t nel 458), Giovanni Crisostomo (t 407). Agostino nel De civi-
tate Dei asserisce che tutte le prove, sia del popolo giudaico, sia del
romano erano volute dalla Provvidenza divina.
Ecco alcuni testi: Giovanni Crisostomo nell'Omelia 13, 5 sul Vangelo di
S. Matteo scrive : « Dio non punisce tutti i colpevoli su questa terra perchè
tu non abbia a perdere la fede nella risurrezione e nel giudizio, dal momento
che già in questa vita gli uomini sono stati chiamati al rendiconto. D'altra
parte però non permette nemmeno che tutti muoiano senza espiare affinchè tu
non pensi che in questo mondo non esiste la Provvidenza. Perciò egli punisce
e non punisce. Quando punisce mostra che esiste un al di là in cui saranno
citati a giudizio coloro che su questa terra non furono puniti, quando non
punisce risveglia invece la convinzione che dopo morte ci attende il suo giu¬
dizio severo. Se non si curasse di noi non si preoccuperebbe di punire nessuno,
nè di fare alcunché di buono. Ora invece tu vedi che egli ha distesi per te a
mo' di tenda i cieli, ha creato il sole, ha fatto la terra e riunito le acque del
mare, ha creato l'aria, ha tracciato il corso della luna, ha fissato le stagioni del¬
l'anno e a tutte le cose ha stabilito un preciso percorso da seguire. Sostiene la
nostra stessa natura, gli animali che strisciano o che camminano, gli uccelli,
i pesci che guizzano nei laghi, nelle sorgenti, nei fiumi, le bestie che vivono
sui monti, nelle valli, nelle case, che stanno nell'aria e sulla terra, le piante
e i germogli, gli alberi, siano nobili o comuni, fruttiferi o meno, in una parola
tutto ciò che la mano divina infaticabile ha prodotto. Egli conserva tutto ciò
per mantenere la nostra vita e per metterlo al nostro servizio, non solo in ma¬
niera sufficiente, bensì con pienezza piuttosto prodiga. E quando tu consideri
l'immensa serie di esseri di cui te ne ho ricordato solo una minima parte, puoi
pensare che colui il quale ha creato tutte queste grandi e magnifiche cose per
il tuo vantaggio, possa poi dimenticarti nell'istante fatale e lasciarti morire come
un asino o un porco? E dopo averti donato la grazia della vera religione, me¬
diante la quale sei stato reso pari a un angelo, potrà forse Iddio non più cu¬
rarsi di te e delle tue molteplici preoccupazioni? Come è possibile pensare ciò?
Sì, anche se noi tacessimo incomincerebbero a parlare le pietre stesse, tal¬
mente tutto questo è evidente e più chiaro della stessa luce solare! ».
Giovanni Damasceno, nel suo libro De fide orthod., così parla della Prov¬
videnza (lib. 2, cap. 29) : « Provvidenza si chiama la cura che Dio rivolge a
tutti gli esseri esistenti. O in altre parole, Provvidenza è la volontà di Dio che
accorda a tutte le creature la direzione conveniente. Colui che ha creati gli es¬
seri e chi a loro provvede deve essere un identico Iddio. Non sarebbe infatti
conveniente nè consentaneo che quegli il quale provvede fosse diverso da colui
che crea. Mancherebbe infatti all'uno la forza di creare e all'altro quella di con¬
servare e di provvedere. Dio è creatore e provvidente : la sua forza creatrice,
conservatrice e provvidente non è che la sua buona volontà... Dio solo è per
natura buono e saggio. Appunto perchè è buono provvede alle cose. Infatti chi
quello, vario Spesso che
lo
570 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
n
non provvede ai suoi non è buono. Anche gli uomini e gli esseri irragionevoli crocifissione
hanno cura dei loro piccini, e chi non se ne occupa è biasimato. Siccome Dio a
è anche saggio, ne viene che ha la miglior cura possibile di tutti gli esseri esi¬ es
stenti... La sua provvidenza si esplica sia con la volontà di beneplacito, sia con a
volontà permissiva. Con volontà di beneplacito Dio si rivolge a tutto ciò che Lazzaro
è sotto ogni aspetto buono; con volontà permissiva invece, vuole ora questo ora uno
quello, ma sotto vario aspetto. Spesso permette che anche i buoni siano preda lo
delle disgrazie e delle prove, perchè in tal modo la loro virtù si palesi agli altri; u
così nel caso di Giobbe. Talvolta permette che si avveri una cosa iniqua, af¬
finchè proprio per mezzo di un'azione riprovevole nasca qualcosa di grande e Dio,
di meraviglioso, come per esempio dalla crocifissione di Cristo la salvezza degli pia
uomini. Altre volte anche i buoni devono soffrire affinchè non perdano il loro idea
buon volere o perchè la virtù possa rifulgere in essi con la massima lumino¬
sità; come avvenne per Paolo; oppure perchè gli altri al vedere la loro situa¬ suo
zione restino ammaestrati, come nel caso di Lazzaro e del ricco Epulone. So¬ m
vente Dio permette un male al fine di evitarne imo peggiore. Prendi un uomo s
orgoglioso della sua virtù e delle sue opere: Dio lo lascia cadere nel peccato, me
affinchè venga così a conoscere la sua debolezza, si umilii, e si ravveda... ».
individu
6. - La riflessione teologica mostra che Dio, avendo creato il mondo
per un determinato scopo, deve averne un piano in mente e deve go¬
vernarlo verso il fine stabilito. Dio ha una idea eterna di questo scopo PROV
e dell'ordinamento di tutti gli esseri per il suo raggiungimento. Di più
per il fatto che tutto causa e conosce, deve muovere saggiamente ogni
cosa verso il fine predeterminato. Dio attua il suo piano nei riguardi del
mondo, sia direttamente, sia indirettamente mediante le creature stesse libere
(leggi naturali, capacità spirituali degli individui, influsso di altri, deter¬ rin
minazioni fortuite, comunità religiose e civili).
mond
sempl
II. - FINE DELLA DIVINA PROVVIDENZA. su
7. -
Il fine inteso dal governo di Dio sarà infallibilmente raggiunto, sott
ma noi ne ignoriamo le vie (cfr. sopra n. 4). su
Attraverso tutti i possibili intrecci delle libere volontà create la storia Dic
umana cammina, attraverso le distruzioni e i rinnovamenti il corso della
natura si muove accostandosi sempre più al fine ultimo. Anche il diavolo,
che la Bibbia chiama principe di questo mondo, è dominato da Dio a
cui nessuno può andare contro: egli è un semplice strumento nelle mani
divine e, per quanto si rifiuti, deve servire ai suoi piani. Non esiste fato
superiore a cui Dio debba ineluttabilmente sottoporre i suoi piani, nes¬
suna legge a cui egli debba sottostare. Fissa i suoi progetti con decisione
pienamente libera : li vuole perchè li vuole. Dice la Scrittura : « Poiché
§ 113- GOVERNO DEL MONDO E PROVVIDENZA 571
tu facesti quelle cose dapprima e altre ne pensasti dopo e quel che tu
volesti fu fatto. Poiché tutte le vie ti sono aperte, e nella tua provvi¬
denza hai posti i tuoi giudizi » (Giudit. 9, 4-5). Dio può testimoniare
di se stesso : « Ripensate a ciò e confondetevi, rientrate in voi stessi,
0 prevaricatori! Ricordate le memorie dei secoli passati e vedrete che
io sono Iddio e non vi è altro Dio fuori di me, né che sia compatibile
a me; io che annuncio le cose dall'inizio alla fine, e innanzi tempo
quello che ancora non è avvenuto; io che dico: fermo starà il mio
consiglio e ogni mia volontà sarà adempiuta; io che dall'Oriente chiamo
il volatile e da terre lontane l'uomo, strumento della mia volontà;
io ho parlato e ridurrò a effetto; ho creato un disegno e lo farò » (Is.
46, 8-11).
III. - IL FATALISMO.
8. - L'epoca patristica combattè strenuamente la superstizione astro¬
logica con Gregorio di Nissa, Diodoro di Tarso e Agostino. Non sono
le stelle che stanno al di sopra di Dio, ma è il Dio della luce che do¬
mina le stelle. Ciò non sta in opposizione con il fatto che tra i movi¬
menti dei corpi astrali e il destino degli uomini vi sia una certa qual
corrispondenza (cfr. § 125, 129). È anzi assai verosimile visto lo stretto
legame che esiste fra uomo e cosmo. Tuttavia questo fatto non toglie
la libertà umana.
Poiché ogni cosa è guidata da Dio, non vi è posto per il caso in senso
assoluto. Si può parlare di caso solo nel senso che si avverano talora
fatti inaspettati e inimmaginabili per noi che ignoriamo il piano divino
(cfr. § 125, 129).
9. - Nonostante la sua immutabilità, il disegno divino è intimamente
diverso dalla ineluttabilità delle leggi naturali con il loro stesso con¬
catenamento di causa ed effetto. Si diversifica altresì dal rigido destino
0 fato che in modo misterioso fissa all'individuo un compito in rapporto
all'universo e inesorabilmente lo conduce a compimento. Dinanzi a
questo cieco districarsi della sorte, resta possibile solo la disperazione
eroica. Chi crede nella Provvidenza si sente invece nelle mani di un
padre onnipotente che lo ama, che si rivolge teneramente a lui e lo con¬
duce alla salvezza, sia pure in mezzo a duri e aspri eventi. Dio che è
amore, prende nelle sue mani forti e benevoli la sorte degli uomini.
Perciò la vita non sfocia nella distruzione, non dura solo per la fama
acquisita 0 per la perpetuazione dei figli, ma si sviluppa in un maggior
divin
D
572 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
funzio
perfezionamento, in seno alla ricchezza di Dio. La morte è la distru¬ c
zione di ciò che è meschino e caduco e l'inizio di vita nuova e doviziosa. L
ada
v
IV. - IMPEGNO UMANO. ver
10. - L'immutabilità della provvidenza divina non significa affatto
eliminazione di ogni attività umana, come se Dio facesse tutto lui. Non og
va intesa come un apparato più o meno funzionante, una garanzia del¬
l'essere contro i pericoli e le sorprese, in modo che non esista più rischio tu
e non vi sia più posto per decisioni personali. La fede nella Provvidenza
non è un cuscino di piume in cui ci si può adagiare comodamente. Essa presentano
c'insegna piuttosto che nel mondo non hanno valore solo le leggi fisiche
o psicologiche, scientificamente indagabili e verificabili, che in esso non indifferen
freddamente
si può parlare soltanto di una infinita forza di esistenza, la quale fissa i
compiti e i destini di ognuno. Al contrario ogni evento è opera di un
amore incomprensibile, o meglio di uno che ci ama, anzi dell'Amore avve
stesso in persona. Tale amore si manifesta in tutti gli eventi e si rivolge salve
a noi in ogni circostanza, ci chiama e ci attira a sè. Le cose e gli uomini, riluc
con cui abbiamo a che fare, non si presentano a noi arbitrariamente o in
per puro caso fortuito. In un mondo privo di Provvidenza può esistere insign
un ordine, il quale però sovrasta con indifferenza al destino dei singoli q
esseri, così come le stelle guardano freddamente la terra o come il mare tendon
ritorna in quieto silenzio sul vascello che ha inghiottito. Nell'universo
invece, guidato dalla Provvidenza, nessun avvenimento, per quanto pic¬ Tu
colo, avviene senza esser indirizzato alla salvezza, senza trarre origine divinità
da un amore personale. In ogni episodio riluce il volto di tale amore.
Chi crede nella Provvidenza vive in perenne incontro con la divinità, la u
quale gli si presenta persino nei fatti più insignificanti della vita di ogni proprio
giorno. Essi trascendono così la loro banalità quotidiana poiché proven¬ ment
gono dall'ai di là di ciò che è comune e tendono a ritornarvi. In questo risp
incontro con Dio, che variamente perfeziona ogni uomo, il mondo si
trasforma e diviene intrinsecamente nuovo. Tutto è mezzo, occasione,
spinta per un maggior incontro con la divinità.
11. - In tal modo la Provvidenza diviene un continuo impegno per
gli uomini. Dio agisce nella vita umana, proprio mentre richiama l'uomo
a se stesso. Egli parla allo spirito umano, mentre lo spinge ad agire per
conto suo. La Provvidenza include quindi la risposta dell'uomo alla chia¬
mata che Dio gli fa sentire. Poiché la sua voce raggiunge irecessi umani
§ 113- GOVERNO DEL MONDO E PROVVIDENZA 573
più intimi, ne consegue che nessuno può chiamare la creatura ad atti¬
vità così profonde come Dio. Quindi l'immutabilità della Provvidenza
divina non solo non rende superfluo l'agire umano, ma piuttosto gii con¬
ferisce valore, forza, obbligo, fiducia e direzione.
12. - La Provvidenza non diminuisce il valore della preghiera di do¬
manda. Nel disegno provvidenziale divino sta inclusa anche la volontà
di concederci molte cose solo se le chiediamo. Ciò non perchè noi si
possa in qualche modo influire sulla decisione divina, ma perchè siamo
indotti a riconoscere la supremazia di Dio su di noi e a rafforzare la
nostra fiducia in lui. La preghiera di domanda non significa affatto che
noi per i primi dobbiamo rendere noto a Dio ciò che ci necessita o che
siano i nostri sforzi ad indurlo a compiere ciò che altrimenti non fa¬
rebbe. Nè hanno importanza, quando preghiamo, la bellezza o la mag¬
gior o minor quantità di parole, bensì il nostro atteggiamento di fronte
a Dio. Pregando noi veniamo ad affermare che Dio ha ritenuto degno
di amore il mondo, che tutto serve alla nostra salvezza e coopera per
meglio rinsaldare il vincolo tra il creatore e la creatura, che ogni cosa
o evento è messaggero e strumento della volontà salvifica di Dio nei
nostri riguardi. La preghiera significa riconoscere la nostra volontà di
crescere nell'amore di Dio, che tra noi e lui non esiste il rapporto che
vi è fra causa ed effetto naturali, ma regna bensì la relazione viva
dell'io con il Tu. Un simile atteggiamento davanti a Dio è solo possi¬
bile quando siamo sicuri che egli si volge a noi, quando dalla fede nella
Provvidenza deriva la certezza che egli è nostro Padre. Tale rivelazione
viene non tanto dalle cose di questo mondo, quanto dalla parola rive¬
latrice che si esplica in modo massimamente vivo e operante in Cristo.
Egli stesso è del resto il segno più lampante e visibile della divina Prov¬
videnza. Cfr. R. Guardini, Introduzione alla preghiera, Brescia 1948,
72 ss.; J. M. Nielen, Gebet und Gottesdienst im Neuen Testament, 1937.
V. - LA PROVVIDENZA E IL MALE.
13. - Anche il male sottostà al governo divino.
a) Il male fisico è vincolato al carattere creaturale del mondo. Ciò
che è finito si esaurisce necessariamente nel corso della sua attività e si
consuma proprio perchè è tale. Non può rinnegare la sua vicinanza con
il nulla, ossia con la morte e la distruzione. Inoltre, dove esiste l'ordine
vi sono cose inferiori e cose superiori, per cui le prime servono alle se-
singo
p- IL - LA REALTÀ extradivina e l'attività gr
574 salvifica di dio
conde, e talora possono essere usate sino all'abuso. La morte delle une con
è vita delle altre. La sofferenza del singolo serve talvolta al benessere morte
della comunità. Se Dio voleva costruire un mondo ordinato, un cosmo mo
non un caos, era necessario che anche il male fisico fosse incluso nel di
suo volere. Certo non nel senso che egli abbia voluto il male per se i
stesso, ma sotto l'aspetto che il male del singolo deve servire al bene c
di tutti e costituire così la base di un più alto grado di esistenza proprio dell'
per quelle stesse creature colpite dal male. c
Come si vedrà più avanti, in origine Dio con uno speciale intervento Dio
aveva eliminato per l'uomo il dolore e la morte, cosa questa che si ri¬ memb
fletteva, in certo modo, anche sul resto del mondo. Ma per colpa del
peccato l'uomo perdette tale stato primitivo di grazia. Si deve quindi suo
ascrivere alla colpa la reale situazione odierna in cui il mondo è caduto
nella sofferenza legata al suo stato limitato di creatura. Morte e dolore tutto
sono divenuti così sintomi della lontananza dell'umanità da Dio. Ma in risurre
Cristo gli uomini vengono di nuovo messi in comunione con lui. Se la
sofferenza, che è segno della lontananza da Dio, rimane, possiamo ben pass
dire che il dolore della Chiesa e dei suoi membri è il compimento della tutt
passione di Cristo. Come Cristo ha raggiunto il suo completamento nella tris
Chiesa, così la croce di Gesù raggiunge il suo perfezionamento nella q
croce della Chiesa medesima. Perciò la croce rimarrà presente nell'u¬ dom
manità sino a quando vi si manifesterà in tutto il suo fulgore la gloria
di Cristo. Nell'intervallo che passa tra la risurrezione di Cristo e il suo vecchio
ritorno glorioso la croce serve: i° a rivelare la santità di Dio e la pre¬ li
varicazione dell'uomo; 2° a ricordarci il fosco passato da cui l'umanità fu li¬ stra
berata in Cristo; 30 a sospingerci ad impiegare tutte le nostre forze nel pre¬ u
sente; 40 a metterci in guardia dinanzi alle tristi possibilità del futuro. da
Specialmente per quanto riguarda il primo e quarto punto il cristiano, qu
mediante il battesimo, viene liberato dal dominio del mondo e della (apo
carne e inserito in Cristo (Rom. 6, 2-12; Gal. 2, 20), che è pertanto il passivam
fondamento vitale del battezzato. Ma il vecchio principio, costituito dal Acce
modo e dalla carne, è tutt'ora all'opera. Per liberarci dalle sue insidie
Dio c'invia la sofferenza. Pezzo per pezzo strappa il nostro io, finché
la morte ci libererà da ogni legame terreno e umano per trasformare la
nostra vita in un'esistenza tutta permeata dall'amore divino. Ciò ci
mostra che la sofferenza è sopportabile solo quando la si prende come
sacrificio di offerta a Dio e per gli uomini (apostolato della sofferenza),
ma non certo quando la si accetta solo passivamente, come può fare lo
stoico e il buddista, o si cerca di sfuggirla. Accettata cristianamente non
§ 113- GOVERNO DEL MONDO E PROVVIDENZA 575
perde la sua durezza, ma acquista nuovo valore. Chi soffre trova un
punto in cui può dirsi padrone del proprio dolore. In comunione con
Cristo, con lo sguardo rivolto alla sua croce passata e alla gloria futura,
può sopportare la sofferenza del presente. Mediante la fede acquista la
certezza che la vera vita sta nel futuro, al di là della morte e tiene
l'occhio fìsso a Cristo glorioso, il quale di tale vita è causa esemplare
(cfr. § in e il trattato sulla Cristologia e la Grazia).
b) Il male morale, ossia il peccato, Dio non lo vuole nè in se stesso
nè come mezzo per raggiungere il fine (cfr. § 97), però lo permette,
ossia non lo impedisce, in quanto ha dato agli uomini la libertà e anche
perchè dalla colpa sa trarre un bene (rivelazione della sua giustizia e
misericordia, prova dei buoni, castigo dei cattivi mediante il peccato
proprio 0 quello altrui). Non dobbiamo dimenticare, come abbiamo già
osservato al § 112, che spesso nella Scrittura la partecipazione divina
al peccato non è indicata con una semplice permissione, bensì come una
spinta con cui Dio muove l'uomo ad un'azione che include in sè pec¬
cato (cfr. § 211). Se vogliamo prendere questi passi nel loro crudo si¬
gnificato, senza volerli interpretare con la preoccupazione di salvare la
santità divina, dobbiamo ammettere che, secondo la Bibbia, Dio induce
l'uomo ad agire, pur non togliendogli la responsabilità delle proprie
azioni. La Scrittura ci presenta i due fatti senza tentarne l'accordo e
anche noi non dobbiamo eliminare nessuno dei due estremi.
A coloro che si chiedono come mai Dio, pur prevedendone l'abuso, abbia
ugualmente concesso all'uomo la libertà, occorre rispondere che tra tutti i beni
naturali, da lui creati, la libertà è indubbiamente il massimo. Essa infatti dà
alla creatura la partecipazione alla padronanza di Dio. Egli ha voluto arric¬
chire l'uomo del massimo dono possibile nella sfera naturale, nonostante il pe¬
ricolo che ne abusasse, e causasse così la propria infelicità e rovina (cfr. § 108).
La ragione per cui Dio gli ha concesso la libertà, senza impedirgli che ne abu¬
sasse, rientra nel grande impenetrabile mistero del come mai Dio abbia creato
questo mondo con la sua innumerevole schiera di peccati. Dio avrebbe certa¬
mente potuto darci un'altra forma di libertà in cui la colpa non ci fosse, dal
momento che l'uso della libertà non è necessariamente connesso con il suo abuso
ossia con il peccato. Non si può infatti affermare che un mondo con il peccato
e con questa o con quella colpa, sia migliore di un mondo senza peccato, o
senza determinati peccati. Vedremo più avanti che la perfezione celestiale esclude
il peccato, pur lasciando all'uomo la massima libertà. Il problema rientra dun¬
que nell'altro più generale: perchè Dio non ha creato subito l'uomo nello stato
di perfezione invece che in quello d'imperfezione (cfr. la dottrina del peccato
originale). Una tale domanda può solo sperare di ottenere risposta dalla Bontà
e dalla sapienza divina oltre il confine di questa vita.
astu
576 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
c) La Bibbia chiama il regno del dolore e del peccato il dominio
di Satana. Il diavolo è il dio di questo mondo (2 Cor. 4, 4), il signore ve
delle potenze dell'aria (Ef. 2, 2). Cristo ne ha tuttavia spezzato il po¬ n
tere. Gli uomini che vivono in comunione con Cristo sono sottratti al¬ Perciò
l'impero delle tenebre (Col. 1, 13). In Cristo trovano forza sufficiente malign
per opporsi agli intrighi demoniaci (Ef. 6, 11). Ma il nemico può tut- Ta
t'ora mettere in pericolo i battezzati e agire astutamente contro di loro. soggiacere
Ha tale facoltà, ma solo in quanto Dio glielo permette. Egli è infatti u
Signore, anche di Satana, dominatore di questo mondo. Il demonio può g
tutt'ora angustiare e affliggere gli uomini, ma verrà il giorno in cui sarà fiduc
definitivamente imbrigliato. Contro la divinità non può nulla. Dio è il
perno attorno a cui si sviluppa la storia. Perciò anche la lotta del cri¬ eg
stiano contro le potenze e le forze del maligno, deve essere piena di 1
fiducia in colui che è l'unico vero Signore. Tale fiducia non può ab¬ d
bandonarlo nemmeno se egli dovesse soggiacere esternamente al tene¬ cui
broso potere satanico. « Anche se il nostro uomo esteriore si disfà, s
l'uomo interiore però si rinnova di giorno in giorno » (2 Cor. 4, 16). m
an
Nessuna espressione biblica esprime tale fiducia, trionfante anche in
anche
mezzo alle lacrime e dinanzi alla distruzione e all'annientamento totale, media
quanto le parole di Giobbe : « Quand'anche egli mi uccidesse, in lui nell'Eccle
spererò» (13, 15 secondo la Volgata; cfr. Le. 12, 4 s.; Sai. 23, 4). sta
osse
Agostino, nella sua opera De civitate Dei, 11, 18, dice tra l'altro: : «Dio non »
avrebbe creato, per tacere dell'uomo, l'angelo di cui prevedeva la futura mal¬
vagità, se non avesse saputo che anch'egli sarebbe servito al bene dei buoni e op
quindi anche alla bellezza del creato, nel medesimo modo con cui il discorso di¬ natu
viene più elegante e forbito mediante l'uso delle antitesi... Come tali contrap¬
posizioni servono alla bellezza dello stile, così anche alla bellezza dell'universo
giovano le opposizioni dei contrari espresse non mediante vocaboli, ma mediante
le cose. Tal concetto è chiaramente indicato nell'Ecclesiastico dove si legge : Di
fronte al male sta il bene, e di fronte alla morte sta la vita; così di fronte al
giusto sta il peccatore. E in tal maniera tu puoi osservare tutte le opere dell'Al¬
tissimo : stanno a due a due, l'una di fronte all'altra ». mec
14. - Contro la divina Provvidenza non si oppongono, quali difficoltà
insuperabili, nè i dissidi tra il mondo della natura e quello dello spirito,
nè la disuguale ripartizione dei beni terrestri, nè la disgiunzione in questa
vita tra moralità e felicità, tra le azioni e il loro riconoscimento, tra suc¬
cesso e fatica.
a) Si veda quanto è stato detto sopra al n. 10 di questo paragrafo. La Prov¬
videnza non è da confondersi con un apparato meccanico in funzione, ma va
§ 113- GOVERNO DEL MONDO E PROVVIDENZA 577
intesa come un continuo richiamo dell'amore di Dio e a un duraturo incontro
con esso. Vi è certamente un abisso invalicabile tra il bene e il male, una dif¬
ferenza immensa tra giusto e peccatore; ma solo Dio la conosce. Si deve osser¬
vare che non fu il fariseo a tornare a casa giustificato, bensì il pubblicano che
tutti ritenevano peccatore, e anch'egli si stimava tale. Il cristiano non deve ce¬
dere alla tentazione di adontarsi quando sente che Gesù si assideva a tavola con
i peccatori e mangiava con loro, quando vede la Chiesa amare anche l'ultimo e
peggiore dei suoi membri, quando il Padre accoglie il figliuol prodigo che ri¬
torna a casa pentito (Le. 15, 29 ss.). Il cristiano supera tale risentimento se è
consapevole che tutti gli uomini sono peccatori (Mt. 9, 12; Le. 19, 10).
b) Se spesso i beni terrestri (potenza, ricchezza, ecc.) toccano a coloro che
sono religiosamente e moralmente inferiori, ciò può derivare dal fatto che sono
un compenso a quel poco di bene che anche essi fanno o un richiamo dell'amore
che, per mezzo loro, vuol attirarli a sè. Possono anche essere una punizione in
quanto gli empi, con l'abuso della potenza e delle ricchezze, vengono a intricarsi
sempre più nei loro legami terrestri (Atti 14, 16). Quando Dio colpisce il buono
con la sofferenza, ciò può voler significare che egli intende correggerne i difetti,
spronarne l'amore, rafforzarne le virtù e moltiplicarne i meriti (cfr. § 93). Inoltre
va tenuto conto che il destino finale dell'uomo non si avvera in questa vita, bensì
nella futura. Anzi proprio il fatto che spesso i cattivi stanno bene e i buoni male,
ci induce a ricercare la soluzione dell'enigma del governo divino nella rivelazione
ultraterrena, nel regno celeste, dove la tensione di questa vita sarà risolta. La
storia è un cammino verso tale mèta.
15. - Siccome Dio opera di continuo, sia pure in modo velato, nel
corso del tempo, ne deriva che l'intera storia è perenne manifestazione
di Dio. Mentre per Hegel essa si riduce a un ininterrotto divenire di Dio,
per la rivelazione è il diuturno agire di Dio e, per ciò stesso, la sua ma¬
nifestazione. Ma anche qui vige la medesima legge che riscontriamo in
ogni rivelazione divina. Dio si nasconde proprio mentre si svela e quanto
più potentemente si manifesta, tanto più profondamente si occulta. Egli
si è manifestato al massimo grado nella crocifissione di Cristo, e pur
tuttavia non vi è occultamento maggiore di quello, per cui l'incredulo
proprio di fronte a tale atto può sorridere beffardamente (1 Cor. 1, 23).
Mentre Dio si svela si vela, in certo senso, nella debolezza umana. Ciò
che Paolo attesta del Figlio di Dio, del Verbo personale del Padre che
si rende visibile esternamente, vale per ogni parola e per ogni opera
divina (Fil. 2, 7). Dio, per rivelarsi all'uomo, deve esprimersi in modo
umano, secondo ipensieri, le concezioni e il parlare degli uomini. Quando
lo Spirito Santo induce un uomo a scrivere un libro canonico, si am¬
manta della debolezza e della manchevolezza umana. Egli che opera per
addurre l'umanità al nuovo modo di essere, che si è realizzato con la
morte di Cristo, si manifesta mediante la debolezza umana, di cui la
37 - schmaus - dogmatica I.
l'umano ci è impossibile districare i fili ch
578 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
storia della Chiesa, in parecchie pagine, ci presenta un'immagine assai
fosca. Negli eventi terreni non vi è esperienza evidente di Dio. Non
possiamo asserire con matematica sicurezza che nella storiaSOPRANNATURAL
universale
vi è il dito di Dio in modo talmente palese da poter dire: qui si trova
Dio e qui no. La storia è un continuo intreccio tra l'agire divino e
l'umano e ci è impossibile districare i fili che formano questo nodo
all'esisten
complicato. La rivelazione di Dio nella storia è un perenne barlume cre¬
puscolare senza meriggio. u
pienezz
I
ART. III. - ELEVAZIONE SOPRANNATURALE DELLA CREAZIONE sua
che
§ 114. Concetto di soprannaturale. potev
di
1. - Dio ha chiamato le creature all'esistenza, perchè partecipassero
alla sua vita intima. Ha dato loro un essere e una potenza operativa pro¬ c
pria, ma in modo che raggiungessero la pienezza ultima solo nella parte¬ dall'amor
cipazione alla sua perfettissima vita trinitaria. Il suo intento, creando, è belle
stato quello di far brillare nelle creature la sua vita tripersonale, di pro¬ Dio
curare che in esse si stabilisse il suo regno che è il regno dell'amore e limi
della verità. In tal modo le sue creature potevano raggiungere una ric¬ manife
chezza vitale insuperabile e una sicurezza di esistenza indistruttibile,
ossia, in altre parole, acquistare la salvezza. s
a) Per una più profonda intelligenza del creato è necessario distin¬ la
guere la natura delle creature donata dall'amore di Dio, con la loro re¬
lativa destinazione a partecipare alla sua bellezza e potenza, dalla loro d
destinazione alla vita divina tripersonale. Dio creando si rivela (§ i),
mostra la sua gloria, attuandola in modo limitato, nella sfera extradi¬ occhiata,
vina. Gli esseri, in tal modo, sono una manifestazione della sua gran¬ Di
dezza, a cui partecipano in modo finito. Ciò che si manifesta di Dio ma
per mezzo del creato è solo la sua potenza, la sua divinità (Rom. i, 20);
è solo per così dire l'aspetto esteriore, non la sua vita intima. In lui
naturalmente non esiste un aspetto esteriore e uno interiore. Siamo noi
purtroppo che possiamo e dobbiamo parlare della semplicissima realtà
divina come se risultasse di parti e di gradi. Non essendoci possibile
abbracciarla tutta con una semplice occhiata, ci è giocoforza riguar¬
darla sotto vari aspetti. La vita interiore di Dio, il mutuo rapporto tri-
personale che si svolge in essa, non ci viene manifestato in nessun modo
dal creato. La rivelazione che le opere di Dio ci donano, ossia la rivela-
§ 114- CONCETTO DI SOPRANNATURALE 579
zione naturale, non ci svela affatto in modo chiaro quest'intimo mistero
divino, il quale ci resta ignoto.
Dio non è come l'artista umano che quasi s'incarna nella sua opera,
si svela attraverso ad essa e ivi racchiude il suo sentimento più intimo
e la sua esperienza più profonda. Quanto più l'opera artistica è felice,
tanto maggiormente l'osservatore vi vede rispecchiata ed espressa la vita
interiore dell'artista. Ma la vita intima di Dio rimane, al contrario, al
di fuori della creazione. A stento ritroviamo ima traccia oscura della sua
esistenza tripersonale, a stento vi intravediamo il suo carattere di dona¬
tore di grazia e la sua potenza redentrice. Tuttavia anche in tal modo
sussiste sempre un legame intimo e reale tra Dio e le creature. Egli
infatti vive in mezzo a loro, le chiama, in certo senso le introduce nel
vestibolo esteriore della sua vita. Parla con loro, ma alla guisa di un uomo
che, abbandonato il cerchio degli amici, si mette in comunione con estra¬
nei i quali hanno altre abitudini e concezioni di vita. Può dimostrare
loro la propria fedeltà e il desiderio d'aiutarli, ma finché non si aprirà
a loro con la più intima confidenza, resterà sempre un estraneo per i
suoi nuovi colleghi.
Le cose, in quanto sono create e conservate, partecipano all'essere di¬
vino, godono però solo della partecipazione alla vita esteriore di Dio.
Certo anche ciò è assai glorioso ed eleva gli esseri a grandezza eccelsa
e a nobiltà sublime. Tuttavia ineluttabilmente essi rimangono, pur sem¬
pre, qualcosa di estraneo per Dio. Anche l'amore divino appare loro
dubbioso, in quanto le creature sono avvolte nella spietatezza brutale
della « natura » guastata dal peccato.
b) L'insieme degli esseri creati da Dio, i quali, pur rimanendo es¬
senzialmente distinti da lui, lo additano come causa prima, esprimen¬
done parzialmente la bellezza, potenza e grandezza, si chiama « natura »,
secondo il vocabolo coniato nel medio evo.
Talvolta si suole distinguere la natura dallo spirito e dalla cultura,
intendendo per natura il mondo inferiore all'uomo, per spirito l'uomo
stesso, in quanto dotato di intelligenza e libertà, per cultura o civiltà
tutto ciò che l'uomo produce col suo spirito e con le sue mani. Ora nel
concetto teologico di natura, in quanto questa si distingue dal sopran¬
naturale è incluso tutto ciò. Natura in questo ampio senso si chiama non
solo la totalità del mondo, ma anche l'essere individuale. Si parla poi
della natura di ogni singola cosa, intendendo con ciò l'essenza di un
essere in quanto è principio da cui scaturiscono e le sue proprietà e le
sue operazioni.
d) S. Paolo chiama l'intero ambito dell'ordine n
terminologia
- d
580 X'. II. LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
nell'intreccio
carne
c) Naturale è di conseguenza tutto ciò che 0 costituisce l'essenza San
di una cosa, 0 scaturisce da essa: proprietà, potenze, attività ed effetti, c
0 che è necessario 0 utile alla sua espansione, al suo sviluppo o perfe¬concetto
zionamento. dell'uom
d) S. Paolo chiama l'intero ambito dell'ordine naturale derivato dalla crea¬
zione divina « regno della carne ». Tale terminologia non vuole indicare ciò chesoprann
è sensibile di fronte allo spirituale, ma piuttosto designare lo stato dell'uomo
u
lasciato alle sue sole forze, e avviluppato nell'intreccio del mondo, in altre parole:
teologi
l'esistenza mondana. In contrapposizione alla « carne » non sta l'esistenza domi¬
Historiq
nata dallo spirito, bensì la vita ripiena di Spirito Santo, radicata in un principio
vo
ultracosmico, ossia in Cristo. La vita « naturale », « carnale » significa quindi per
lui la vita dominata dal peccato. Per lui il concetto di « carnale » non riguarda
sia
l'essenza metafisica, ma la situazione storica dell'uomo. Il punto di vista onto¬
sopra
logico esula dal suo interesse.
desi
2. - E passiamo così al concetto di soprannaturale.
a) Il termine « soprannaturale » ha compiuto un lungo cammino prima di
raggiungere il senso che ha ora assunto nella teologia cattolica. Si cfr. su ciò lo C
studio di H. de Lubac, Surnaturel. Etudes Historiques, 1946. Eccone le tappe disc
più salienti. Il punto di partenza è costituito dai vocaboli greci: Hypercosmos, compimen
hyperphyes, hyperouranios e simili che troviamo nella filosofia greca (stoica, m
platonica, neoplatonica) con significato sia locale, sia qualitativo. Localmente vo¬ po
gliono indicare la dimora degli dèi, posta al di sopra della terra, nei vari strati, signifi
più 0 meno eccelsi, dei cieli. Qualitativamente designano la misteriosa essenza al
delle varie divinità. Anche la Bibbia e la letteratura patristica usano tali termini
e altri simili nei due sensi. Tuttavia predomina il senso qualitativo. Spesso il 564-5
significato locale è soltanto l'espressione simbolica per designare la differenza Nazianzo,
essenziale e qualitativa tra Dio e il mondo (§ 41). Ciò appare chiaramente nelle supermun
parole di San Paolo (Ef. 4, 10) : « Quegli che è disceso è lo stesso che è salito
al di sopra dei cieli tutti, per portare a compimento ogni cosa ». Nello stesso significato
senso Gesù Cristo afferma che egli viene dall'alto mentre gli Ebrei, che non lo primo
vogliono udire, sono dal basso e perciò non lo possono capire (Giov. 8, 23). divino.
IPadri sovente determinano con chiarezza il significato simbolico delle espres¬ do
sioni locali. Così Origene attesta che chi si eleva al di sopra di tutto ciò che è deriv
materiale, compresi gli stessi cieli, si incontra con l'essere divino, eterno, im¬ uccell
menso e atemporale (In Ioann. 19, 9; PG. 14, 564-568; cfr. In Cantìcum 1, 2).
Similmente parlano Atanasio, Gregorio di Nazianzo, Gregorio Nisseno. Il latino
tradusse i vocaboli greci con i termini: supermundialis, supermundanus, ultra
mundum, extra mundum, superior mundo, supemus. Anche questi termini, come
i greci a cui corrispondono, assumono un significato sia parziale che qualitativo.
Il secondo significato primeggia pure qui. Il primo divenne anche per i latini
simbolo della trascendenza, cioè dell'essere divino. Così Claudiano Mamerto
(f verso il 474) biasimava coloro che pensavano di dover salire in alto per meglio
accostarsi alla dimora di Dio. Qual vantaggio deriverebbe all'uomo, si chiede
ironicamente, se potesse far concorrenza agli uccelli! (De Statu animae, 2, 12).
§ 114- CONCETTO DI SOPRANNATURALE 58i
Leone Magno spiega (predica sull'Ascensione del Signore) che Cristo, quando
salì sulle nuvole, superò qualsiasi dignità e grandezza dell'essere creato. Per Ago¬
stino cfr. In Ioannem tract. 38, 4 (§ 41, n. 3 B).
Talvolta incontriamo pure l'espressione parà physin e rispettivamente praeter
o contra naturam. Ma essa ha l'identico valore di hyper physin, super naturam
e generalmente allude a qualcosa fuori dell'ordinario.
La realtà designata con tali formule è in primo luogo Dio, poi la grazia divina
con tutti i doni che ne derivano. Dio trascende il campo della nostra esperienza.
Di conseguenza come sinonimi di sopracosmico, sopraceleste, vengono usati i
termini sopraspaziale, sopratemporale, eterno, invisibile, misterioso, soprasustan-
ziale. Espressioni come quest'ultima vennero largamente usate per la prima volta
nel libro dello Pseudo-Dionigi Areopagita, che subì notevoli influssi neoplatonici.
Dio è infatti il Sopraesistente, il Soprasostanziale (hyperon, hyperousios, hyper-
ousiotes, hyperousiomenos, ecc.) o, secondo il latino, ultra substantiam. - Gio¬
vanni Scoto Eriugena (Jn opuscula sacra Boethii) : Ultra substantiam, id est
hyperousios est deus..., id est quae excedat omnem substantiam. Nell'opera De
Divisione naturae (lib. 1, 14; PL. 122, 406 D) dichiara: Nam qui dicit: super-
essentialis est, non quid est dicit, sed quid non est; dicit enim essentiam non
esse, sed plus quam essentiam. Perciò Dio è chiamato Sopraessenza, Sopran-
natura.
A tutte queste antiche espressioni manca ancora il valore che noi attribuiamo
oggi ai termini di « soprannatura » e « soprannaturale ». Significavano però già
tutta la trascendenza divina, ed erano perciò atti ad assumere il valore che noi
ora diamo loro.
Il che vale pure per il termine « supernaturalis », che divenne poi la formula
tecnica. La parola appare per la prima volta nel vi secolo e verosimilmente in
una traduzione della lettera 19 di S. Isidoro da Pelusio compiuta dal diacono
Rustico. Leggiamo infatti : Eum vero qui homo est divina et supernaturalia
quaedam loqui, summae praesumptionis est. Ilduino e Giovanni Scoto Eriu¬
gena, traducendo l'opera dello Pseudo-Dionigi Areopagita, diedero al vocabolo
una posizione sicura della terminologia teologica dell'Occidente. Entrambi usa¬
rono il termine « supernaturalis » insieme ai termini superexcellens, superessen-
tialis, supersubstantialis, e col medesimo loro significato. Scoto Eriugena usa il
termine supernaturalis con i suoi derivati anche nelle opere sue proprie. Se ne
serve per designare sia la trascendente vita di Dio, sia la partecipazione umana
a tale vita divina stessa. Con l'incarnazione il Dio sopraessenziale e sopranna¬
turale è penetrato nella nostra natura e in tal modo ciò che è soprannaturale è
divenuto naturale. Di contro mediante Cristo l'uomo viene posto in uno stato
d'excellentia supernaturalis. La divinizzazione dell'uomo si realizza per inefja-
bilis et supernaturalis gratia di Dio. Per mezzo di Cristo l'uomo può salire a
Dio supernaturaliter et superessentialiter. Quand'egli è rinnovato in Cristo s'eleva
a Dio trascendendo tutto il creato. Il dono della grazia non si avvera entro i
limiti della natura creata, non si esplica nemmeno in virtù di forza naturale, ma
adduce delle potenze adatte che sono superessentialiter et ultra omnes creatas
naturales rationes.
Tuttavia ci vollero quattro o cinque secoli prima che il vocabolo « superna¬
turalis » divenisse di dominio comune. Nel xu secolo si usava ancora raramente.
presso
termin
582 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO chiama
Lo incontriamo per esempio in Ugo di S. Vittore che nel\'Expositio in hierar- U
chiam caelestem, 1, 4 (PL. 175, 1002) dice: Quae sunt inefjabilia et superessen- s
tialia et supernaturalia omni creaturae... Quae divinitati naturaliter insunt, quo-
niam ex ipsa sunt, et supernaturaliter quoniam idem cum ipsa sunt: ... quod ded
enim semper inest, naturaliter est; quod autem idem est, supernaturale est. Al
contrario Anselmo di Aosta e Bernardo di Chiaravalle non usano affatto tale voca¬
chiamat
bolo. Generalmente non si rinviene neppure presso i sommisti e i sentenziari d
del xii secolo. Con S. Tommaso d'Aquino il termine si diffonde come espres¬ n
sione tecnica per designare ciò che la teologia chiama « soprannaturale » in senso chiama
stretto. Il magistero della Chiesa lo usa per la prima volta l'anno 1567 nella pro¬
posizione 21 e 23 della Bolla di Pio V contro Baio. Una dottrina sistematica del
soprannaturale fu elaborata dalla teologia solo nella seconda metà del xix secolo.
vit
appa
b) Dalla storia del termine possiamo dedurne il significato reale,
che così può essere sintetizzato: Dio ha chiamato la natura ad una forma non
di esistenza soprannaturale. Possiamo anche dire: egli ha riversato il
chiamandole
soprannaturale nella natura. Dio ha introdotto nell'intimo del suo amore
e della sua vita la creatura che aveva chiamato dal nulla con la sua f
onnipotenza, conducendola ai margini del suo amore e della sua inti¬ de
mità. Le ha concesso di partecipare alla sua vita intima che era rimasta sp
invisibile e nascosta allorché la creatura è apparsa dal nulla. Le ha sve¬ rivela
lato se stesso, il suo proprio intimo. Solo qui si può parlare, in senso acce
stretto, di automanifestazione divina. Dio non solo ha donato l'essere
alle creature ma ha loro comunicato se stesso in duplice modo: mani¬ Cri
festando loro la sua vita intima e chiamandole, mediante il Verbo, at¬ vi
traverso a cui si è rivelato, a prender parte, fiduciosamente, ai misteri
della sua vita divina tripersonale. La parola della sua rivelazione non è trasc
priva di forza e di efficacia; racchiude in sé spirito e potenza. La crea¬ co
tura risponde a Dio che si comunica e si rivela, accogliendo con fede la dal
vita divina. La vita intima di Dio diviene accessibile in Cristo. Chiun¬
que vuol accogliere con la fede la vita di Dio, può solo farlo per mezzo svilup
di Cristo. La manifestazione che, tramite Cristo, Dio ha dato di se tutte
stesso costituisce il mondo soprannaturale. La vita in Cristo e con Cristo chiamat
è il modo di essere soprannaturale.
Soprannaturale è quindi tutto ciò che trascende l'essenza, le forze,
le esigenze della natura, ossia ciò che non costituisce un elemento es¬
senziale della natura; ciò che non deriva dall'essenza, dalle capacità,
potenze, proprietà e attività della natura; ciò che non è necessario 0
conveniente alla sua conservazione, al suo sviluppo 0 compimento e che
non è incluso nella cultura, ma trascende tutte queste possibilità. Come
Dio a causa del suo immenso amore ha chiamato liberamente la creatura
§ 114- CONCETTO DI SOPRANNATURALE 583
dal nulla, così egli sempre per amore, la invita a penetrare nella sua
stessa vita intima. E poiché qui il suo amore si manifesta in modo assai
più profondo, il concetto di soprannaturale include, di conseguenza, an¬
che quello di grazia, di gratuità, di dono libero. La teologia dice che il
soprannaturale è un dono indebito aggiunto alla natura per perfezio¬
narla (supernaturale est donum naturae indebitum et superadditum).
c) Il soprannaturale inteso in questo senso non può affatto venir
confuso con il sopranormale (chiaroveggenza, telepatia 0 altre forze
occulte), l'anormale, il soprasensibile, lo spirituale. Tutti questi concetti
rimangono nel campo naturale. Nel linguaggio non teologico si usa spesso
il vocabolo « soprannaturale » in tal senso. Talora viene anche usato per
designare il divino. Ma chi vuol comprendere bene il cristianesimo deve
dare grande importanza alla distinzione tra Dio creatore della natura
(l'ordine naturale) e Dio largitore della grazia (l'ordine soprannaturale).
d) Il soprannaturale in senso stretto consiste nella partecipazione
della creatura alla vita intima di Dio. In senso largo si chiama sopran¬
naturale anche ogni attività e processo in cui la creatura, pur non es¬
sendo chiamata alla vita tripersonale di Dio, viene afferrata in modo
straordinario dalla divinità pur rimanendo nell'ambito dell'ordine natu¬
rale. In questo caso il soprannaturale si identifica con l'insolito, lo stra¬
ordinario, con la differenza però che qui il carattere di straordinarietà
è dovuto non all'uomo ma a un particolare e immediato intervento di¬
vino. Questo soprannaturale si chiama pure preternaturale o sopranna¬
turale relativo, mentre quello in senso stretto si chiama semplicemente
soprannaturale 0 soprannaturale assoluto. Il preternaturale riguarda de¬
terminati esseri 0 eventi (come i miracoli), mentre il soprannaturale as¬
soluto concerne l'intero ordine della creazione. Ciò, infatti, che è pre¬
ternaturale per una creatura, per esempio la parola per gli animali, è
invece naturale per altro essere. Il soprannaturale è invece naturale solo
per Dio e non può esserlo affatto per qualsiasi creatura. Nel campo della
conoscenza il soprannaturale è sovrarazionale. Il sovrarazionale è quindi
una parte del soprannaturale. Designa « ciò che per la pienezza del suo
essere e per la potenza della sua forza trascende ogni forza conoscitiva
finita e in modo particolare la forza razionale dell'uomo » (Brugger).
e) Da quanto esposto risulta che il termine « soprannaturale » designa ciò
che la Bibbia e i Padri chiamano spirituale (preso nel senso di ciò che proviene
dallo Spirito Santo; non spirituale inteso come intellettuale, immateriale), ce¬
leste, angelico. Paolo esprime tale concetto con le espressioni : « Cristo in noi »,
« noi in Cristo », o « con Cristo ». Nel tardo medio evo veniva usata la parola
soprannaturale sussistente in situata al d
dalla
584 P- II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
J.
l'es
cristiforme. Il ritorno a siffatta antica terminologia potrebbe liberarci da non gra
poche idee inesatte legate al termine soprannaturale. Forse il significato di tale d
termine potrebbe essere reso assai bene con la parola « cristiano », purché si divie
lasciasse a questo vocabolo il suo senso esatto. ricche
Anche il termine « soprannatura » coniato per la priva volta da Scheeben non
è del tutto senza inconvenienti. Evoca a prima vista il concetto di una realtà
soprannaturale sussistente in se stessa e situata al di là della natura; ovvero di
una realtà che si edifica sul fondamento offerto dalla natura. Un precedente la¬
tino del termine di Scheeben si trova però già in J. M. Ripalda (t 1648). Tale
so
vocabolo era usato nel medio evo per designare l'essenza trascendente di Dio,
ma non la vita soprannaturale che egli ha donato gratuitamente all'uomo. Tauler disti
lo adopera una volta per indicare la natura elevata dalla grazia nel Libro della occorre
Eterna Sapienza 2, 24, ove dice: così la natura diviene ora soprannatura. Oggi realtà
con la parola soprannatura indichiamo tutta la ricchezza, tutto il complesso del
soprannaturale.
diventerebbe
§ 115. Connessione tra l'ordine naturale e soprannaturale. (D
d
1. - Da quanto detto sopra emerge la distinzione e la connessione Vatica
tra naturale e soprannaturale. Anzitutto occorre distinguerli chiaramente cam
e con forza, affermando la loro propria realtà ed evitando di confon¬ so
derne i confini, il che porterebbe 0 a svalutare il naturale 0 a negare il e
soprannaturale. Ma in pari tempo, va stabilito il fatto e il modo della loro dottrina
connessione, altrimenti fede e vita diventerebbero due cose indipendenti secoli
l'ima dall'altra, senza legame alcuno. Pio IX (Denz. 1671) accentua la Tu
necessaria connessione che, secondo il volere divino, esiste tra il natu¬
rale e il soprannaturale, mentre il Concilio Vaticano combatte invece ognidell'ordin
sorta di confusione tra natura e grazia. Nel campo extradivino esiste un esistere
ordine unico, che è in pari tempo naturale e soprannaturale: ossia l'or¬ suo
dine naturale elevato soprannaturalmente. Non esiste alcuna natura senza Tr.
questa elevazione soprannaturale. Cfr. la dottrina della Redenzione.
2. - Dio non ha deciso nel corso dei secoli di perfezionare l'ordine
naturale infondendogli forze soprannaturali. Tutt'altro! Sin dall'inizio il
piano creativo è stato indirizzato all'elevazione soprannaturale della na¬
tura. Cristo è il principio di esistenza dell'ordine soprannaturale, perciò
la creazione sin dal primo istante del suo esistere si trova nell'attesa della
figliolanza divina che le è stata promessa nel suo primogenito. Il disegno
creativo divino è perciò cristocentrico (W. Tr. Hahn, Das Mitsterben
und Mitaujerstehen mit Christus bei Paulus [Morire e risorgere con
Cristo secondo Paolo], 1937, 86).
§ 115- CONNESSIONE TRA L'ORDINE NATURALE E SOPRANNATURALE 585
Anzi Dio nel suo piano creatore ha voluto in primo luogo l'ordine
soprannaturale e solo in sottordine quello naturale. Tutto ciò che è
extradivino serve solo alla manifestazione della gloria divina. Ora la
realtà soprannaturale svela la gloria di Dio in modo assai più ricco della
natura. Infatti quest'ultima ci può mostrare solo, per così dire, l'esterno
di Dio, mentre la prima ce ne manifesta l'intima vita interiore. Ciò che
è maggiore è logicamente oggetto di amore più vivo, più intimo e più
potentemente creativo di quanto lo sia ciò che è inferiore. (Tuttavia
anche l'« inferiore » possiede una altezza smisurata). Ora se tutto quanto
è extradivino Dio lo ha voluto come una unità in cui l'inferiore serve al
superiore, in cui esiste l'ordine superiore e un ordine inferiore, ne de¬
riva logicamente che Dio non può aver voluto il soprannaturale in sot¬
tordine al naturale, ma bensì il naturale in relazione al soprannaturale.
Dio ha infatti creato ciò che è naturale in vista del soprannaturale e non
il soprannaturale in vista del naturale.
3. - Poiché il mondo soprannaturale si sintetizza in Cristo, ne deriva
che Dio ha creato il cosmo in vista di Cristo e non la natura umana
di Cristo in vista del mondo. Vedremo più avanti che Dio ha creato il
mondo a motivo di Cristo che si completa nella Chiesa (§ 167 a). Gesù
risorto e glorificato è il fine ultimo per cui Dio agisce, l'ideale supremo
a cui devono tendere sia l'uomo, sia la natura, e perciò Dio nella crea¬
zione ha inteso in primo luogo il « nuovo cielo » e la « nuova terra »
il cui centro è appunto Cristo risorto. Poiché lo stesso Cristo glorifi¬
cato, la cui gloria riluce come attraverso il cristallo nel creato che si ri¬
collega a lui, è la più completa manifestazione della regalità divina, pos¬
siamo affermare che Dio come primo oggetto del suo volere ha inteso
ciò che i profeti e i sinottici chiamano: regno, signoria, dominio di Dio.
L'attuale eone con la figura peritura del mondo è stato deciso e voluto
in vista dell'eone futuro che addurrà la forma definitiva e completa del
dominio divino. Sin dalla creazione del cosmo Dio ci ha predestinati in
Cristo, perchè fossimo santi e senza macchia (Ef. 1, 4). Icieli nuovi e
la terra nuova sono la promessa finale a cui parteciperemo. Dio ha creato
la natura per avere un luogo in cui riversare la propria vita. Egli creò
degli esseri con natura e attività propria, affinchè esistesse qualcuno che
potesse essere invitato a partecipare ai suoi misteri intimi. La natura è
quindi voluta da Dio come presupposto al soprannaturale. La prece¬
denza strettamente intesa, spetta quindi al soprannaturale che possiede
presentare il soprannaturale nelle categorie del
586 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO forme
un valore intrinseco assai più alto del naturale. Qui si intende la parola
« più alto » anche nel senso di diverso : più alto ontologicamente. acciden
4. - Ne consegue che il soprannaturale non è una sostanza nuova, l
ma solo un modo nuovo di esistere della sostanza naturale. Se volessimo
presentare il soprannaturale nelle categorie dell'essere stabilite da Ari¬racchiud
stotele, dovremmo designarlo come accidente. È logico che il vocabolo
« accidente » che Aristotele usava per le forme dell'essere naturale, puòrelazione
venir applicato al soprannaturale solo in modo analogico (§ 37). Non è D
il caso di temere che la denominazione di « accidente » sminuisca la nu
realtà soprannaturale. Infatti se l'essere accidentale sta al di sotto della infatt
sostanza, il soprannaturale per la pienezza e la potenza di essere cambiamento
tra¬
scende ogni natura anche la più ricca e la più potente. so
conformando
L'« accidentalità » del soprannaturale racchiude in sè due cose : nuovo
rapporto e nuovo stato di essere (nuova unione e nuova somiglianza con
Dio). Il soprannaturale è anzitutto una relazione. La natura, mediante il affa
soprannaturale, entra in nuova relazione con Dio, essendo chiamata a n
prender parte alla sua vita intima. Questo nuovo rapporto poi costi¬ peric
tuisce una realtà assai profonda. Adduce infatti nella natura delle mu¬ natu
tazioni che i Padri paragonarono al cambiamento che si verifica nel ferro
reso incandescente 0 nell'albero innestato. Il soprannaturale dà forma e nuovo
figura; domina e penetra la natura, conformandola a se stesso. l
5. - In tal modo appare chiaramente che se il soprannaturale si « ag¬ a
giunge » alla natura, questa non ne viene affatto sminuita 0 distrutta, natura
ma anzi è sempre maggiormente rimossa dal nulla per venire condotta princip
verso una forma d'essere meno esposta al pericolo del nulla, perchè più genere,
vicina a Dio, che è pienezza di essere. La natura è così condotta al di che
là dell'ambito naturale. Ma si tratta sempre di natura che viene elevata.
Perdura, ma è mutata, trasformata in un nuovo modo di essere. i
La scolastica dice: la grazia non distrugge la natura, ma la presup¬ c
pone, la eleva e la perfeziona, trasferendola al di sopra del suo essere sopran
naturale, in un mondo ben diverso dalla natura e che compete solo al¬
l'essenza divina. L'importanza di questi principi generali appare chiara
quando non si parla più della natura in genere, bensì di un determinato
essere in concreto. Significa, per esempio, che la grazia presuppone la
natura dell'uomo, della donna, del fanciullo, le caratteristiche razziali
del tedesco, dello slavo, del latino, e in essa infonde la realtà sopran¬
naturale. Eleva e muta tale natura concreta, che viene attuata e con¬
dotta con le sue caratteristiche nel regno soprannaturale, senza per que-
§ 115- CONNESSIONE TRA L'ORDINE NATURALE E SOPRANNATURALE 587
sto essere distrutta. È afferrata da Cristo e introdotta nella sua vita. Se
le caratteristiche personali rimangono, devono aver modo di esplicarsi
anche nel campo soprannaturale. Il ragazzo, l'uomo maturo, la donna,
il tedesco o l'italiano si muovono quindi diversamente nel regno sopran¬
naturale.
Per affermare ciò possiamo richiamarci a quanto S. Tommaso d'Aquino dice
della fede soprannaturale. Secondo lui il conosciuto è nel conoscente secondo il
modo del conoscente. Ciò vale non solo per la conoscenza naturale, ma anche
per quella soprannaturale che ci dà la fede. La vita della grazia di ciascun uomo
porta così l'impronta delle caratteristiche individuali, dell'età, del sesso, dell'ere¬
ditarietà, della razza, ecc. Negare ciò sarebbe misconoscere la natura che è pur
sempre opera di Dio; nè questo è contrario all'unità della fede. Con tali rifles¬
sioni vogliamo soltanto affermare che ognuno accoglie la realtà unica, che si di¬
schiude a noi nella rivelazione soprannaturale, in modo individuale. Ciascun
uomo infatti riceve in se stesso, secondo la immaginazione, percezione e sensi¬
bilità propria, l'automanifestazione di Dio che è unica per tutti. Per altre no¬
zioni a completamento vedi il trattato sulla Fede (§ 190) e sulla Chiesa (§ 171,
IV); cfr. §§ 24 e 63.
L'assioma scolastico riferito sopra può essere inteso in duplice senso. In primo
luogo significa che la natura è il presupposto logico e metafisico per il sopran¬
naturale. La grazia ha bisogno della natura come suo soggetto. La natura rimane
natura anche sotto l'influenza del soprannaturale. L'uomo divinizzato rimane
uomo e come tale è trasformato per mezzo della grazia. In un secondo luogo
si può intendere nel senso che la grazia si inserisce armonicamente nella natura,
che si adatta ad essa e che, conseguentemente, tra natura e soprannaturale non
solo non v'è alcuna opposizione, ma esiste corrispondenza e armonia. Mentre
l'assioma inteso nel primo senso è perfettamente esatto, per quel che riguarda
il secondo senso occorrono invece alcune restrizioni e precisazioni. È infatti una
falsa interpretazione semipelagiana il pensare che una natura più nobile e mi¬
gliore costituisca un presupposto più favorevole per la grazia, che dunque la
natura debba essere curata il più possibile per poter ricevere al massimo l'azione
della grazia, e che all'incontro una natura debole, cattiva o malaticcia sia una
condizione più sfavorevole per la grazia medesima. Tale interpretazione, con¬
dotta alle conseguenze estreme, ci porta direttamente ad urta prassi ed a una
teoria naturalistica. Anche se una natura indebolita è spesso un presupposto sfa¬
vorevole per l'azione della grazia, tuttavia non può da questo fatto derivare un
principio assoluto. V'è una certa indipendenza del soprannaturale dai presupposti
naturali, quali il vigore corporale e la salute o l'acume intellettuale, anzi persino
dalla forza naturale della volontà. La maturità dell'unione con Cristo non pre¬
suppone necessariamente una maturità della vita naturale.
Un breve scorcio storico giova a comprendere meglio l'assioma scolastico. Al¬
l'epoca patristica tale assioma era sconosciuto, anche se i Padri elaborarono tutti
quegli elementi, da cui esso fu poi formato nel medio evo. Troviamo per la prima
volta la distinzione tra naturale e soprannaturale in Ireneo. Il naturale è da lui
definito con la parola eikon (immagine) e il soprannaturale col termine ho-
occasione della discussione sugli Angeli, Basilio dice
pe
588 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO pur
us
moiosis (somiglianza). L'immagine presuppone la somiglianza e viene da questa attrave
perfezionata. Atanasio sviluppa tale pensiero. Secondo lui il Logos si è fattoGregorio
uomo, affinchè l'uomo fosse divinizzato. Ma per il fatto che riceviamo lo Spirito
Santo noi non perdiamo la nostra natura. Il potere di diventare figli di Dio,
comunicatoci dall'incarnazione del Logos, è interpretato da Atanasio come capa¬
cità di ricevere Dio. Una spiegazione ulteriore fu apportata dai Cappadoci. In in
occasione della discussione sugli Angeli, Basilio dice che essi ricevettero contem¬ v
poraneamente con la loro natura anche la santità, per mezzo dello Spirito Santo. rapporto
Primo tra tutti egli sostiene per il mondo dei puri spiriti l'armonia tra i doni car
naturali e soprannaturali. Gregorio di Nazianzo usa la parola « compimento » in
come espressione tecnica per la divinizzazione attraverso la grazia. Il compimento
è il mutamento di tutto l'uomo. Secondo Gregorio di Nissa Dio ha conferito n
alla natura con la prima nascita la somiglianza con se stesso. La natura umana
non viene alterata con la grazia del Battesimo. La grazia si adatta alla natura.
IPadri latini intesero la grazia molto più, anche se non esclusivamente, come a
un aiuto ed un rafforzamento delle virtù morali indebolite dell'uomo. Agostino presuppos
sottolinea che la libertà rimasta al peccatore non viene soppressa dalla grazia,
soprannaturale
bensì rafforzata. Egli esprime come segue il rapporto tra natura e grazia. È pro¬ esse
prio della natura dell'uomo poter avere fede e carità; ma aver fede e carità è Confes
proprio della grazia. Questa tesi ebbe una grande influenza nel medio evo.
La tradizione greca fu proseguita da Cirillo di Alessandria. Secondo lui la na
virtù dello Spirito Santo dà il compimento alla natura, il quale compimento dichi
non distrugge la natura, ma la trasforma. L'uomo così trasformato conserva la
sua propria vita. svilup
Lo Pseudo-Dionigi Areopagita ha per il nostro assioma un'importanza fonda¬ d
mentale. Egli accentua che la natura è presupposto del soprannaturale e che
esiste una proporzione tra natura e soprannaturale. L'ordine della grazia non Scri
perturba la natura. La grazia è ricevuta da ogni essere nel modo che gli si confà. riconosci
Egli ebbe grande influenza su Massimo il Confessore e Giovanni Damasceno. neo
Secondo Massimo il Confessore la grazia non può agire mancando la ricettività l'interpretazio
della natura, d'altra parte solo la grazia rende la natura perfetta. Si noti il pro¬
gresso da lui compiuto nella terminologia. Egli dichiara: la grazia non è senza la tem
natura. s
Dando ora uno sguardo retrospettivo allo sviluppo fin qui raggiunto, pos¬ e
siamo dire che i Padri sostengono sia la ricettività della natura per il sopranna¬ natura
turale, sia l'analogia tra natura e grazia. La prima affermazione è in fondo una gr
da
verità rivelata testimoniata direttamente nella Scrittura. La seconda nasce quest'ultim
considerazioni speculative, soprattutto dal riconoscimento dell'unità della storia
del mondo, ed anche dalla filosofia platonica e neoplatonica. IPadri però non
diedero alcuna assicurazione contro l'interpretazione semipelagiana di questa
dottrina.
Nella Prescolastica non troviamo per lungo tempo alcuna netta distinzione
tra la grazia che sana semplicemente la natura nel suo essere e quella che eleva
la natura al di sopra del suo livello (gratia sanans e gratia elevans). Solo Filippo
il Cancelliere riconobbe la sproporzione tra naturale e gratuito (A. Landgraf).
Troviamo la dottrina dell'armonia tra natura e grazia in Ugo di San Vittore
ed in Pietro Lombardo. Per mezzo di quest'ultimo essa divenne convinzione
§ 115- CONNESSIONE TRA L'ORDINE NATURALE E SOPRANNATURALE 589
generale della Scolastica, nonostante qualche esitazione sorta qua e là. In Gu¬
glielmo di Auvergne troviamo la frase: la Grazia non distrugge la natura, bensì
la perfeziona. A questo punto dunque l'assioma è espresso chiaramente. Tut¬
tavia esso non è ancora applicato in modo generale.
Secondo Alberto Magno noi siamo naturalmente ricettivi della grazia. Questa
apporta la perfezione alla natura. Grazia e natura sono generalmente sintoniz¬
zate l'una all'altra. Bonaventura insegna, influenzato dallo Pseudo-Dionigi, l'ar¬
monia e l'analogia tra natura e grazia. E frequentemente dichiara: la grazia non
elimina la natura. Essa la perfeziona e la consolida. La grazia presuppone la
natura. L'ordine nella grazia presuppone l'ordine nella natura. Tuttavia Bona¬
ventura non apporta una spiegazione più precisa od una limitazione del prin¬
cipio dell'armonia tra i due regni.
Il progresso decisivo è compiuto da Tommaso d'Aquino. Egli dichiara in tutte
le sue opere che la natura è presupposto del soprannaturale. Non intende affatto
l'assioma nel senso di una armonia tra natura e grazia, anche se effettivamente
egli sia convinto in un certo senso di questa armonia. Secondo lui la natura è
la sostanza a cui inerisce l'accidente del soprannaturale. In particolare, la cono¬
scenza naturale è la condizione e non la causa della fede. Idoni della grazia
e della gloria non sono dati in base alla disposizione naturale. Nel periodo im¬
mediatamente dopo S. Tommaso, il nostro principio non compare troppo so¬
vente. Esso viene usato largamente nella polemica sulla grazia. Nella formula¬
zione odierna è espresso da Molina (t 1600) nel modo seguente: gratia non tollit
naturam, sed supponit et perficit earn. Nell'applicazione egli sorpassa Tommaso,
in quanto similmente a Bonaventura vi vede l'espressione dell'adattamento della
grazia alla natura. Suarez (f 1617) è tradizionalista nella sua applicazione. Egli
spiega infatti che la grazia presuppone la natura. La natura può essere senza la
grazia, ma non questa senza la natura. Effettivamente esse sono associate. Suarez
non applica il principio nel senso dell'armonia tra grazia e natura, benché in¬
segni tale armonia. Un certo ruolo gioca l'assioma del dibattito tra Baio e Gian-
senio. La formula dell'armonia tra grazia e natura compare sempre più chiara¬
mente nel susseguirsi dei tempi ma venne sempre sostenuta con cautela.
Il nome più caratteristico della Scuola tomistica di quel tempo è Gotti (f 1742).
Egli afferma che la grazia non distrugge la natura, che invece viene infusa in
essa in un modo che si confà, e che ne eleva e perfeziona il modo di agire. Se
dunque Dio dà la grazia in relazione e secondo la capacità ricettiva della natura,
ciò vuol dire che questa è soltanto condizione remota e materiale della grazia
medesima.
Nella teologia dell'illuminismo il nostro assioma è usato soprattutto da Gio¬
vanni von Kuhn, ma con un significato pericoloso per il soprannaturale. Egli
parla di una grande indipendenza della natura e considera il soprannaturale prin¬
cipalmente come un perfezionamento etico-morale dell'uomo. A questo propo¬
sito cita, richiamandosi a Tommaso, il principio: Gratia non tollit naturam, sed
supponit et perficit. Da questa interpretazione del principio, la quale misconosce
la vera natura del soprannaturale, deriva in seguito la sua applicazione semipela-
giana. Contrapponendosi a Kuhn hanno assicurato l'esatta interpretazione del prin¬
cipio Schaezler e specialmente Scheeben. Egli vi scorge la dottrina della natura
quale presupposto per la grazia, e non quella dell'armonia tra natura e grazia.
rire alle sue mancanze. Di fronte ad una sopravva
della
590 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO croc
cert
Di fronte all'interpretazione naturalistica della frase gratia supponit naturam, tuttavi
interpretazione che cerca di giustificare tutte le cure della natura con l'assioma teoria
e scusa la trascuratezza verso il soprannaturale con la natura debole, si sostenne assi
nuovamente la relativa indipendenza della soprannatura dalla natura e soprat¬
tutto la trascendenza del soprannaturale sui fini terreno-naturali. Non è compito
soprannatu
del soprannaturale di completare la natura nel suo campo specifico o di soppe¬ Qua
rire alle sue mancanze. Di fronte ad una sopravvalutazione delle basi naturali S
della grazia dev'essere affermato che la grazia della Croce — ed ogni grazia è im
grazia della Croce — presuppone una natura crocifìssa, e dunque, sacrificata.
Benché non si possa designare come principio certo la tesi che la grazia della
Croce si adatta solo ad una natura crocifissa, tuttavia occorre approfondire l'opi¬
n
nione dell'armonia tra grazia e natura con la teoria dell'armonia tra grazia della
Croce e natura crocifissa. Comunque il nostro assioma non afferma affatto che m
la grazia sia un surrogato della natura in caso di sue manchevolezze, e d'altra poten
parte sostiene che la natura, mediante la soprannatura, ritrova in un piano supe¬ in
riore ciò che le è rifiutato nel campo naturale. Quanto sopra segue lo studio di ques
J. B. Beumer, S. I., Gratia supponit naturam, in Scholastik, 20, 1939, 381-406, p
535-552. Per l'ultimo problema è particolarmente importante: J. Pascher, Theo-
logie des Kreuzes (Munster-Miinchen 1948). raggiunge
c
6. - Il soprannaturale può essere infuso nella natura solo da Dio, sg
e non può mai esser prodotto dalla natura medesima. Nessuno sforzo solo
umano, nessuno sprazzo di genialità 0 di potenza può riuscire a ciò. La
creatura ha un limite invalicabile e non può innalzarsi al di sopra della
una
terra; per quanto si elevi resta sempre in questo mondo. Il soprannatu¬ cose
rale non è solo il più alto vertice 0 il più potente concentramento di
quanto è naturale. Non è possibile raggiungerlo anche toccando la più e
alta vetta che esista nel mondo! Esso, nei confronti del cosmo è un in
essere del tutto nuovo, e non può perciò sgorgare dalla terra stessa. (
sopranna
Non è possibile che venga dal basso, ma solo dall'ai di là del mondo, p
dall'alto (Mt. 16, 17; Giov. 8, 23). Dio solo può crearlo. la
Dobbiamo ricordare a tale proposito ancora una volta che Dio con la crea¬
zione, fondando semplicemente la natura delle cose e dell'uomo, li ha fatti en¬
trare solo nell'atrio esteriore del suo amore, senza possibilità di penetrare oltre.
Secondo la comune dottrina odierna non vi può essere alcun adito all'interno.
La creatura pur concentrando tutta la sua forza, invano si affanna per raggiun¬
gere da sola il soprannaturale; non vi arriverà mai! (cfr. § 202). Non esiste ponte
fra la forma di esistenza naturale e quella soprannaturale. Il modo di essere so¬
prannaturale è creazione nuova. La creatura può penetrare nel regno interiore
del divino amore solo quando qualcuno le apre la porta, ma non può da sola
forzare il varco di tale regno. Il soprannaturale è perciò puramente grazia. È
grazia che Dio riveli alla creatura la sua vita intima ed è inoltre grazia che gliene
faccia parte.
§ 115- CONNESSIONE TRA L'ORDINE NATURALE E SOPRANNATURALE 591
7. - Anche se non vi è sentiero che conduca dalla natura all'esistenza
soprannaturale, esiste però una via che dalla vita intima di Dio conduce
alla natura, la strada della gratuita condiscendenza divina. La natura
non può crearsi una forma di esistenza soprannaturale, ma può acco¬
gliere in sè il soprannaturale prodotto da Dio, in quanto come creatura,
dipende totalmente da lui. Ogni elemento del suo essere è contrasse¬
gnato da tale dipendenza ineliminabile. La natura non esiste in se stessa,
non è autonoma, nè autarchica, non basta a se medesima. Si spiega di¬
nanzi a Dio, esiste solo in quanto tende a lui, e in lui soltanto giunge
al suo compimento. L'uomo, per la sua stessa essenza, è homo orans;
la sua natura lo porta a trascendersi. L'uomo trascende infinitamente
l'uomo (Pascal). In lui mai vi è riposo nè pace se non quando raggiunge
Dio (Agostino, Confessiones, i, i). La natura (in modo speciale lo spi¬
rito creato) è aperta dinanzi a Dio e quindi può essere da lui influen¬
zata senza per questo straniarsi da se stessa. Anzi a motivo del suo ca¬
rattere naturale e della sua conseguente dipendenza da Dio, è obbligata
ad accogliere le mozioni divine e possiede quindi una capacità di obbe¬
dienza che ha ricevuto da lui. Nella natura quindi, è insita una potenza
obedienziale nei riguardi di Dio, ossia la capacità di obbedirgli e di ser¬
virlo. Tale capacità non è alcunché di estrinseco e di accidentale, ma
qualcosa di radicato nella sua stessa essenza intima, e costituisce in certo
qual modo il punto di inserzione della natura nei confronti del sopran¬
naturale.
8. - È assai discusso il problema se la natura abbia solo la capacità re¬
cettiva del soprannaturale o se, al contrario, sia positivamente ordinata
ad esso.
Secondo l'opinione più diffusa, essa è soltanto un « substrato passivo »
della grazia. Per la sua essenza non è ordinata al soprannaturale ma solo
al perfezionamento naturale in Dio, tuttavia, grazie alla potenza obe¬
dienziale, è capace di accogliere in sè l'influsso divino soprannaturale.
La natura con il suo ordinamento ad una comunione naturale con Dio
ci appare così una realtà chiusa in sè.
Secondo altri invece la natura, a motivo della sua origine divina, è
atta a entrare soprannaturalmente in comunione con Dio, ossia a par¬
tecipare alla vita tripersonale divina. Lo spirito umano, poiché è stato
fatto ad immagine e somiglianza di Dio, è naturalmente rivolto al so¬
prannaturale e porta seco una speciale capacità per la elevazione e l'illu¬
minazione soprannaturale, la quale (capacità) però non è affatto una
da Dio tripersonale (§ 103), ne porta le tracce
592 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
v
potenza positiva. Questo ordinamento della basta assoluta¬
natura non
cre
mente ad attuare la sua comunione soprannaturale con Dio. È sempre
atto di grazia il fatto che Dio doni alla natura il compimento finale a so
cui essa tende. uni
Tale seconda opinione merita la preferenza. La natura è stata creata l'es
da Dio tripersonale (§ 103), ne porta le tracce, e perciò è ordinata a lui.
Questa opinione rende inoltre comprensibile il fatto che la natura, in¬concep
trodotta nella vita tripersonale di Dio, non viene violentata, bensì per¬ su
fezionata. Fa meglio risaltare il rapporto e la compenetrazione del natu¬ natura
rale e del soprannaturale nell'ordine unico creato da Dio, senza tuttavia ricolle
eliminare il carattere specifico della realtà soprannaturale. I sostenitori
di entrambe le teorie si appellano tanto gli uni quanto gli altri a S. Tom¬
maso d'Aquino. Ma non è facile stabilire l'esatto pensiero dell'Angelico confo
a questo proposito.
In ogni modo qualsiasi maniera di concepire il rapporto tra sopran¬
naturale e naturale ha i suoi vantaggi e i suoi pericoli. La prima opi¬ sopra
nione, se spinta, porta a concepire la natura e il soprannaturale come
due realtà poste l'una accanto all'altra e ricollegate solo meccanicamente, fron
rischiando di farci credere che la natura è già di per sè qualcosa di com¬ p
pleto e di perfetto nel suo campo. Invece la seconda opinione, spinta ai d
suoi estremi, ci fa correre il pericolo di confondere i limiti che separano u
il naturale dal soprannaturale e di giungere a una confusione dei due me
campi. Dal momento che lo sviluppo odierno ha condotto, in quasi tutte v
le attività della vita, a ima scissione dal soprannaturale, non è proprio il
caso di accentuare la prima opinione (cfr. § 190). Non dobbiamo per¬ sopranna
tanto esagerare la passività della natura di fronte al soprannaturale. Anche arrive
naturale
se esso le adduce qualcosa di nuovo, non le porta tuttavia nulla di estra¬
neo, e tanto meno le fa violenza. La natura, di fronte al soprannaturale,
non si trova nella medesima situazione di una persona priva di ogni apert
talento musicale dinanzi ad una bellissima melodia: non riesce a capirne in
nulla. La natura possiede invece la facoltà verso il soprannaturale, ma rich
solo in quanto lo può accogliere qualora le venga comunicato. In tal
modo viene ad essere permeata dal soprannaturale, anzi raggiunge una
esistenza soprannaturale. Altrimenti si arriverebbe a una semplice so¬
vrapposizione del soprannaturale sul naturale.
9. - Tanto nell'uomo che nell'angelo, aperti verso Dio per la potenza
obedienziale, il soprannaturale non fluisce in modo puramente fisico,
come si pensa nel sistema gnostico, ma richiede che essi si preparino
§ 115- CONNESSIONE TRA L'ORDINE NATURALE E SOPRANNATURALE 593
liberamente a riceverlo. Però anche questa preparazione è frutto della
grazia. L'elevazione soprannaturale non è quindi un processo fisico, ma
è azione personale e stato che ne deriva, ossia relazione creata dall'uomo
verso Dio.
L'elevazione soprannaturale dell'uomo si ripercuote anche nella natura
irrazionale (Rom. 8, 19-22), che ha pure subito il contraccolpo della
maledizione caduta sull'umanità.
10. Benché la natura non porti in sé nessun germe del soprannatu¬
rale e, perciò, non lo possa mai raggiungere in virtù dei suoi sforzi e dei
suoi progressi culturali, tuttavia Dio, sin dal principio, l'ha creata e de¬
stinata all'esistenza soprannaturale. Come abbiamo già accennato, essa
non potrà mai svilupparsi completamente se non nell'incontro con il
« Tu » divino. In altre parole, la natura, per decisione che sgorga dal¬
l'abisso dell'amore divino, deve raggiungere il suo pieno compimento solo
in Dio, posseduto in modo soprannaturale. Se non raggiunge tale fine,
ossia non arriva al cielo, allora non le è neppure possibile il compimento
naturale. Essa non può ottenere la sua perfezione fermandosi sul vesti¬
bolo dell'amore e della gloria di Dio, ma soltanto penetrando nell'inti¬
mo della sua vita tripersonale. Se colpevolmente non perviene alla mèta
soprannaturale, fallisce anche nel suo stesso fine naturale. Non si tratta
qui di varie vette, di cui una è più eccelsa dell'altra, in modo che chi
non arriva alla più alta può accontentarsi di raggiungere la sottostante.
La natura giunge alla sua perfezione solo quando, trascendendo se stessa,
si erge verso Dio. E Dio lo si può raggiungere solo come tripersonale.
Egli è il Signore delle creature, spetta dunque a lui solo determinare
in che modo la natura possa toccare la sua perfezione. La creatura non
può muovergli alcuna critica.
Se la creatura, rifiutando l'obbedienza a Dio, non penetra nella vita
tripersonale divina, allora la sua potenza obedienziale, che ne è l'intima
profondità, rimane inadempita creando in essa un vuoto incolmabile.
Dove manca il soprannaturale, la natura non riceve nemmeno lo stato
che le compete naturalmente. Sussiste, ma non è perfetta, poiché se ne
sta lungi da ciò che la deve portare a compimento (Tommaso D'Aquino,
De veritate, q. 27, a. 6). Poiché la mancanza di tale compimento è
straordinariamente grave, ne deriva che si può designare come stato di
perdizione o dannazione, che raggiunge il suo acme nell'inferno. Ma,
paradosso terribile, anche la natura incompleta e non elevata soprannatu-
18 - schmaus - dogmatica 1.
att
594 p- n- - LA REALTÀ extradivina e l'attività salvifica di dio
Talmente rimane pur sempre qualcosa di degno e di nobile. Talesoprannaturale
nobiltà
non può esserle rapita nemmeno nello stato infernale, dove la natura
rimane definitivamente allontanata dal compimento che la vita trinitaria
di Dio le dona. Per la sorte di chi è lungi da Dio vedere §§ 30, 31, 136. s
q
pales
§ 116. L'ordine soprannaturale nella sua attuazione storica.
con
straordin
1. - Il fatto della rivelazione soprannaturale di Dio si prova mediante
segni caratteristici: i miracoli e le profezie. Le azioni straordinarie e s
miracolose, di cui parlano sia l'Antico sia il Nuovo Testamento, sono
la dimostrazione dell'agire di un « Io » che sta al di là e al di sopra
del mondo, il segno tangibile per mezzo del quale l'inviato di Dio non regno
viene confuso con il falso profeta, ma si palesa nella sua vera qualità di r
messaggero divino. Tanto l'Antico quanto il Nuovo Testamento consi¬ Chi
derano tali manifestazioni di potenza come contrassegni della rivelazione d
soprannaturale. Imiracoli e le opere straordinarie che accompagnano la
rivelazione soprannaturale, non possono certo svelarcene l'intimo mistero, ria
ma solo attestarne la realtà.
diverse
pro
2. - Come momenti di sviluppo del regno soprannaturale si devono in
annoverare lo stato primitivo paradisiaco, la rivelazione veterotestamen¬ Purtro
taria, l'incarnazione del Figlio di Dio, la Chiesa, di cui egli è Capo e
nella quale vive di continuo, la santificazione degli uomini (la vita divina come
in noi) e il compimento, sia del mondo, sia della storia umana, realiz¬ p
zabile solo dopo il giudizio finale. Si può riassumere tutto questo con po
l'espressione: il regno di Dio nelle sue diverse fasi. p
Sullo stato primitivo ci soffermeremo di proposito parlando dell'uomo. dell'all
Esso consiste in una unione con Dio che per intimità e potenza trascende
di molto il rapporto Creatore-creatura. Purtroppo il peccato ha annien¬riconquistar
tato tale unione soprannaturale con Dio (cfr. lo studio sul peccato ori¬
ginale), senza però distruggere la natura come tale. Essa infatti non ha
perso alcun elemento essenziale. Tuttavia la perdita dello stato sopran¬
naturale significa l'infelicità della natura, poiché avendo rinunziato al
fine celeste, a cui Dio l'aveva destinata, non può più raggiungere la sua
perfezione ultima. Espressione esteriore dell'allontanamento da Dio sono
sia la morte punitiva, sia i vari tormenti che accompagnano l'uomo de¬
caduto. Gli uomini non possono riconquistare con le proprie forze la
vita soprannaturale perduta.
§ Il6. l'ordine soprannaturale nella sua attuazione storica 595
3. - Non è facile decidere se l'umanità decaduta dovette vivere in uno
stato completamente privo di grazia, se quindi vi fu uno stato naturale
non permeato in nessun modo dalla grazia. Gran parte dei teologi odierni
accoglie tale opinione. Ma se si pensa che Dio ha promesso la reden¬
zione subito dopo la caduta del primo uomo —
promessa che non è pa¬
rola vuota o priva di forza — si può anche sostenere che la grazia ac¬
compagnò l'uomo sempre e dovunque (cfr. il trattato sulla Grazia).
Ad ogni modo la natura umana, sia lasciata alle sole sue forze, sia
aiutata da grazie medicinali, anche se impiega tutte le sue forze, potrà
solo raggiungere un certo grado di perfezione terrestre, ma non mai ol¬
trepassarla. Ha solo la possibilità di sforzarsi a raggiungere un ordine
che rimane nella sfera dell'umano e del creato. Tuttavia anche in ciò
non potrà toccare il culmine poiché la perfezione ultima della natura è
raggiungibile solo soprannaturalmente. Con ciò non intendiamo negare
che lo sforzo di colui che soggiace al peccato possa ottenere un risul¬
tato quanto mai significativo e raggiungere una grandezza umana assai
notevole.
Tommaso d'Aquino distingue un duplice bisogno di compimento da parte
delle forze naturali: l'uno che trascende tutta la natura umana, l'altro che eccede
solo una singola facoltà. La capacità di imporsi la temperanza trascende, per
esempio, la possibilità dell'appetito concupiscibile. Solo la ragione può domi¬
nare l'impeto di tale appetito. La ragione da parte sua tende naturalmente al
bene che le è conveniente. Ed è contro la sua natura operare non secondo ra¬
gione e peccare. Se volontariamente si attacca al peccato e continua in esso, nasce
in lei come una seconda natura.
La ragione può esercitare in certo modo il suo dominio sulle potenze inferiori,
poiché riesce a imprimere su di esse il suo sigillo. Con l'educazione, l'abitudine,
l'autocontrollo, la consacrazione della vita a scopi alti, può nascere, per così
dire, una seconda natura, in cui gli appetiti inferiori si sottomettono alla legge
morale, che lo spirito crea. L'uomo, come dice Pascal, si può creare in un mondo
perduto un certo qual ordine. Ci riesce solo a prezzo di un notevole di¬
spendio di forza spirituale. Può produrre opere straordinarie e diffondere così
chiara luce nell'esistenza umana. Pascal lo paragona ad uno che, trovandosi in
una situazione senza via di uscita della quale non gli è possibile mutare le basi,
vi si adatta e si crea un ordine disperato. Il filosofo francese è convinto, al pari
di S. Tommaso, che l'abitudine e l'educazione hanno una grande importanza
per creare un tale ordine nel mondo completamente asservito al peccato (Pen¬
sieri, fr. 252). Il Dottor Angelico scrive in proposito : « L'opera meritoria si di¬
stingue dalla non meritoria non per ciò che si compie, ma dal come lo si adem¬
pie (non distat in quid agere sed in qualiter agere). Infatti non vi è niente che
un uomo compia con merito e per amore, che un altro non possa compiere o
volere senza merito » (De veritate, q. 24, a. 1, ad 2). Dovunque e in ogni tempo
che
596 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
attes
sono esistiti uomini saggi e nobili che hanno raggiunto un altissimo livello di poten
virtù morale. Tuttavia è necessario continuare ad affermare che tutti gli sforzi
peccato
puramente umani non potranno mai condurre veramente a Dio, poiché incol¬ Mosè
mabile è l'abisso che separa l'uomo da lui. Cfr. § 140.
lu
4. - Dio, per pura misericordia ci ha ridonato, in Gesù Cristo, l'esi¬d'Israe
stenza soprannaturale, ossia la vita divina che era già stata concessa al¬ patria
l'uomo, ma poi perduta. La venuta di Cristo è stata lungamente prepa¬ d
rata mediante la rivelazione precristiana, attestata dagli scritti veterote¬ diveng
stamentari. Dio è intervenuto con la sua potenza nella storia umana per nazioni.
ristabilirvi il suo dominio che l'uomo peccatore aveva sconvolto. Primapolitici
chiama Abramo e, vari secoli più tardi, Mosè e li destina a strumenti
della sua azione salvifica. Mosè riceve da lui il compito di liberare e egli
condurre nella terra promessa le tribù d'Israele, la progenie di Abramo sec
a cui Dio aveva ordinato di lasciare la patria in Caldea, e che ora, in div
gran parte, giaceva in schiavitù nella terra del Faraone. In tal modo, conformit
per intervento divino, le tribù d'Israele divengono un popolo con parti¬ trascu
colari compiti nei riguardi delle altre nazioni. Devono servire non par¬ p
richiam
ticolari interessi nazionali, economici, politici, militari, culturali, bensì
solo proclamare e attuare il dominio divino nel mondo. A tale scopo
Dio stipula con essi un patto, e diviene egli stesso il Signore dell'Al¬resipisc
leanza. Fissa personalmente l'ordinamento secondo cui il popolo eletto I
da lui plasmato deve vivere. Così il patto diviene ordinamento divino. pu
Spesso è duro per Israele vivere in conformità con gli obblighi assunti tempo
e continuamente notiamo la tendenza a trascurare tali doveri per vivere po
all'unisono con i popoli vicini, la cui cultura poggia su di una religione viene
mitica. Ma per mezzo dei profeti Dio richiama di continuo ai suoi ob¬ divin
blighi il popolo recalcitrante.
Per ricondurlo, dopo l'infedeltà, alla resipiscenza permette che sia col¬ si
pito dalle catastrofi nazionali le più terribili. Iprofeti hanno il compito tua,
di annunziare che esse sono semplicemente punizioni divine per costrin¬ tuoi,
tuo
gere Israele a ravvedersi. Ma, in pari tempo, dovevano promettere il
favore e la misericordia divina qualora il popolo eletto si convertisse.
Così Dio continua il suo dominio, che viene definitivamente garantito
nel mondo ad opera di Cristo. Tale agire divino, entro le vicende umane,
prende il nome di storia della salvezza.
L'Antico Testamento ce ne presenta già tratti significativi, come nel Deut. 4,
9-40 : « Custodisci dunque te stesso e l'anima tua, con ogni sollecitudine. Non
dimenticar le cose che hai viste con gli occhi tuoi, e non t'escano dal cuore in
tutto il tempo della tua vita. Le insegnerai ai tuoi figli e nipoti, cominciando
§ Il6. l'ordine soprannaturale nella sua attuazione storica 597
dal giorno nel quale stetti davanti al Signore Dio tuo in Horeb e il Signore
parlò a me e disse: — Convoca il popolo alla mia presenza, acciò odano le mie
parole, imparino ad aver timore di me sinché vivranno sulla terra, e l'insegnino
ai loro figliuoli. — Allora vi avanzaste fino alle radici del monte che mandava
fiamme sino al cielo: e v'erano tenebre e nubi e nebbia. Ed il Signore parlò a
voi di mezzo al fuoco. Voi udiste il suono delle sue parole, ma non vedeste
punto il suo aspetto. Egli vi fece noto il suo patto che vi comandò d'osservare,
e i dieci comandamenti da lui scritti in due tavole di pietra. Ed a me comandò
in quell'occasione d'insegnarvi le regole e la legge che dovevate osservare nella
terra che voi possederete.
Custodite dunque con ogni cura le anime vostre. Quando il Signore vi parlò
di mezzo al fuoco sull'Horeb, voi non vedeste figura alcuna; affinchè sedotti non
vi faceste figura o immagine alcuna di uomo o di donna, di nessuno degli ani¬
mali che stanno sulla terra, né degli uccelli che volano pel cielo; né dei rettili
che si muovono sulla terra, né dei pesci che vivono nelle acque sotto la terra.
Levando gli occhi al cielo, e vedendo ivi il sole, la luna e tutti gli astri, non
ti lasciar sedurre, non li adorare, non prestar culto a cose che il Signore, Dio
tuo, ha create in servigio di tutte le genti che stanno sotto il cielo. Voi poi,
il Signore vi prese e vi cavò dalla ferrea fornace dell'Egitto, per far di voi il
popolo erede suo, come oggi siete.
Sdegnato con me il Signore pei vostri discorsi, giurò che io non passerei il
Giordano, e non entrerei nella terra fertilissima che darà a voi. Ecco, io morirò
in questo luogo, e non passerò il Giordano; voi lo passerete, e diverrete padroni
di un'ottima terra. Guarda di non mai scordarti del patto del Signore Dio tuo,
da lui stretto con te, e di non farti immagine scolpita di quelle cose che il Si¬
gnore t'ha proibite; perchè il Signore Dio tuo è un fuoco che consuma è un
Dio geloso.
Se avrete figli e nipoti, ed abiterete nella terra (promessa), e sedotti vi farete
qualche immagine, peccando contro il Signore Dio vostro in modo da provo¬
carne la collera, io chiamo oggi a testimoni il cielo e la terra, che presto verrete
meno sulla terra che, passato il Giordano, siete per avere in possesso. Non v'abi¬
terete lungo tempo, ma il Signore vi distruggerà, vi disperderà fra tutte le genti,
e pochi rimarrete in mezzo alle nazioni fra le quali il Signore è per condurvi.
Voi servirete agli dèi fabbricati dalla mano degli uomini, a pezzi di legno e di
pietra che non veggono nè odono, nè prendono cibo, nè hanno odorato. Se però
in quei luoghi tu cercherai il Signore Dio tuo, lo ritroverai; purché tu lo cerchi
con tutto il cuore, nell'amarezza dell'anima tua (pentita). E quando t'abbiano
colpito tutti i castighi ch'io t'ho predetto, all'ultimo ritornerai al Signore Dio
tuo, e ascolterai la sua voce; perchè il Signore Dio tuo è un Dio misericordioso;
non t'abbandonerà, nè ti sterminerà totalmente, nè si dimenticherà del patto giu¬
rato coi padri tuoi.
Informati degli antichi tempi, che ti hanno preceduto, sin da quando il Signore
creò l'uomo sulla terra, e domanda se da un capo all'altro di sotto il cielo sia mai
accaduta questa cosa, o sia mai saputo che un popolo abbia udito la voce di
Dio parlargli di mezzo al fuoco, come udisti tu, e pure sei vivo; se Dio ha mai
usato di scender a scegliersi di fra le nazioni un popolo per mezzo di prove,
prodigi e portenti, con battaglie, con mano forte, con braccio potente e spa-
nanzi a te nazioni numerosissime e più forti di te, per
dunque
598 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
comandame
ventose visioni: tutte cose che il Signore Dio vostro ha operato per voi in Egitto lu
sotto i vostri occhi, affinchè tu sapessi che è lui Signore il vero Dio, e non ve
n'è altri fuori di lui. Egli dal cielo ti fece sentir la sua voce per ammaestrarti,
in terra ti fece vedere il fuoco suo grande, e di mezzo al fuoco tu udisti le sue mez
parole. Egli amò i tuoi padri, ed elesse la loro discendenza. Te poi condusse u
via dall'Egitto, andando avanti a te con la forza sua grande, per abbattere di¬
nanzi a te nazioni numerosissime e più forti di te, per introdurti nella loro terra, div
e dartela in possessione come ora vedi. Sappi dunque oggi, e ripensalo in cuor sen
tuo, che il Signore è il vero Dio, nel cielo in alto e nella terra in basso, e non natur
ve n'è altri. Osserva i suoi precetti, ed i comandamenti ch'io ti do, acciò bene disperato,
venga a te ed ai tuoi figli dopo di te, e tu rimanga lungo tempo nella terra che
ricondotto
il Signore Dio tuo ti darà ».
la
L'umanità viene riconciliata con Dio per mezzo di Cristo, suo Figlio con
il quale si unisce così intimamente alla natura umana da far sì che essa
sussista solo più nell'io personale del Verbo divino. Questo è il vincolo risusc
massimo che può esistere tra Dio e l'uomo, senza che la natura umana
venga distrutta. In Cristo il cerchio della natura, entro il quale l'uma¬ cristallo
nità si affatica a costruire un ordine disperato, viene spezzato e tutto al
l'universo, non solo l'umanità, vien ricondotto a Dio. Sicché adesso dell'am
ognuno ha la possibilità di unirsi a Cristo con la fede e partecipare alla F
sua figliolanza, cioè alla relazione che egli ha con il Padre. Il Cristo con ne
il quale entriamo in unione, come membra di un corpo al capo, è il
Signore glorificato, colui che fu crocefisso, risuscitò e salì al cielo. È quel Spiri
Gesù la cui natura umana è stata permeata e dominata dallo Spirito i
Santo in modo da rispecchiare come un cristallo la divinità rimasta na¬
scosta sino alla sua risurrezione e ascensione al cielo. È appunto nello salve
Spirito Santo, ossia nella manifestazione dell'amore che sussiste nell'in¬ essi
timità personale della vita divina tra Padre e Figlio, vale a dire nell'a¬ risurre
more personificato, che il Figlio ha inviato nei nostri cuori, che noi i
diveniamo membra di Cristo, perciò figli del Padre, e abbiamo così Cr
accesso al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo (Ef. 2, 18). ne
Il luogo in cui Cristo, capo della Chiesa, ci invia lo Spirito Santo è ind
appunto la Chiesa stessa, di cui il Paracleto è anima e cuore. Isacra¬
menti della Chiesa ci rendono presente la salvezza che accogliamo con
la fede in Cristo. Entrando, per mezzo di essi, a contatto con Cristo
stesso e con i suoi fatti salvifici (morte e risurrezione), veniamo trasfor¬
mati, cioè uniti e conformati a lui; entriamo in comunione con lui e
diventiamo vive immagini di lui, offertosi in Croce per noi e ora glo¬
rioso. Ciò si avvera in modo tutto particolare nei sacramenti che ci im¬
primono il sigillo di Cristo, la sua impronta indelebile. Ma in maniera
§ Il6. l'ordine soprannaturale nella sua attuazione storica 599
generale qualsiasi sacramento adduce una certa somiglianza con Cristo.
L'incorporazione in lui fa sì che possiamo essere permeati dallo Spirito
Santo e venire illuminati e compenetrati dalla gloria della vita triperso-
nale divina (grazia « santificante »).
Chi è unito in tal modo a Cristo riceve da lui la forza che gli è ne¬
cessaria per adempiere isuoi doveri religiosi e morali, nella stessa guisa
in cui nella vite la linfa passa di continuo dal ceppo ai tralci.
5. - Tale è lo stato della vita soprannaturale. Non significa nè in
primo luogo nè esclusivamente solo il « possesso » della grazia « santi¬
ficante ». In primo luogo significa intima conformazione a Cristo me¬
diante l'assimilazione a lui. Di qui nasce la partecipazione alla vita in¬
tima di Dio e la trasformazione interiore della nostra esistenza. Lo stato
soprannaturale racchiude quindi in sè un nuovo modo di essere, e un
nuovo rapporto con Cristo e con la Ss. Trinità. Si tratta di rapporto
personale, e non di semplice modificazione ontologica. Nel trattato sulla
Grazia esamineremo meglio la questione.
Cristo non ha lasciato semplicemente dietro di sè « tesori » da amministrare
o eredità da accrescere come un ricco qualunque. (Il termine biblico « tesoro »
non può essere sostituito col termine moderno « capitale di grazia ». Esso po¬
trebbe indicare un possesso scisso da Cristo, e far pensare l'acquisto di tale bene
come la semplice trasmissione materiale di» un capitale, facilitando così la con¬
cezione profana e secolarizzata della grazia. Non si può dire tuttavia che il vo¬
cabolo precapitalistico « tesoro » conduca direttamente a un siffatto malinteso.
Tale termine sta a indicare la ricchezza della natura da cui Cristo ha desunto i
suoi paragoni, anzi egli se ne è servito per raffigurare la realtà di un'altra na¬
tura, il cui carattere intimo è « totalmente diverso » : la realtà supernaturale.
Perciò tale paragone conserva il valore che Gesù gli ha conferito, non già a caso,
ma proprio per la ragione che esso era adatto a servire da immagine di una realtà
inesprimibile). Cristo rimane sempre il padrone, colui che liberamente distri¬
buisce i suoi doni, sia pure per mezzo di strumenti visibili nella Chiesa: quegli
che attrae a sè in comunione vivente coloro i quali ha chiamato e che gli ri¬
spondono. La cosa si può, più precisamente, esprimere così: il Padre celeste per
mezzo di Cristo adduce il suo regno nello Spirito Santo e in tal modo reca la
salvezza al mondo, usando però come strumento la Chiesa, novello popolo di Dio.
Tanto meno il soprannaturale va concepito come un semplice supplemento di
forza conferito all'uomo affinchè egli possa compiere, per mezzo suo, azioni
prima impossibili o, per lo meno, assai diffìcili. È vero che la grazia ci dà anche
una facilità interiore al compimento del bene, tuttavia se si accentua esclusiva¬
mente tale carattere sanante della grazia si corre facilmente il rischio di conce¬
pirla come una semplice forza, utile a consolidare la natura nelle sue qualità
specifiche. In tal caso si perverrebbe a una concezione puramente naturalistica
della grazia stessa.
il Dio tripersonale; è modo di qual
mod
600 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
at
Una concezione puramente medicinale del soprannaturale finirebbe per far intende
dubitare della grazia stessa, specialmente quando in cristiani, che ricevono so¬
vente i sacramenti, mancano gli effetti sperati, o quando tra non cristiani si tro¬ assim
vano individui nobili e retti. La grazia attuale non deve occupare il primo posto p
nella coscienza credente. Il modo di esistere soprannaturale è anzitutto una
nuova relazione con Cristo per mezzo del quale l'uomo entra in contatto con un'istituz
il Dio tripersonale; è un nuovo modo di essere qualitativo, e, solo secondaria¬ tesor
mente, è aiuto ad agire rettamente, a operare nel modo soprannaturale, che avrà
il suo « logico » compimento in cielo.
Se il soprannaturale viene inteso nella maniera attenuata e diminuita sopra
soprannaturale
esposta, allora i sacramenti non si possono più intendere come la ri-presentazione
della salvezza operata da Cristo, come luoghi in cui avviene la nostra incorpo¬
razione a lui, come i segni efficaci della nostra assimilazione con il Salvatore,
il quale si offrì per noi alla morte in croce, ma solo più come i mezzi per acqui¬ dell'u
stare la grazia che aiuti la nostra debolezza. Non si vede più la Chiesa come
corpo mistico di Cristo, bensì solo più come un'istituzione che raggruppa coloro ope
i quali sono incaricati e autorizzati a distribuire i tesori lasciati dal suo fondatore.
az
a
material
§ 117. Unità della natura e del soprannaturale nella storia della sal¬
trascen
vezza.
che
1. - Cristo è il principio e il prototipo dell'unità che lega sopranna¬ vincolo
turale e naturale. In lui la natura umana è stata totalmente attratta nella
vita divina, e in modo tale che tutte le sue opere e i suoi atti sono di¬
venuti agire dell'io divino. In tal modo ogni azione di Cristo è azione
salvifica. Non solo la sua passione e morte, ma anche il suo peregrinare, si
la sua parola, il suo silenzio, ogni atto materiale. Tutte queste, infatti,
non sono state semplici azioni umane, ma trascendendo la pura umanità, Qu
sono state introdotte nella sfera divina. L'io che compiva tutto ciò era l'e
un io divino. Tuttavia nonostante il suo vincolo con il Verbo personale serve
di Dio, la natura umana non ha perduto nulla del suo essere proprio, avreb
della sua essenza o delle sue proprietà o della libertà. Non è stata as¬
sorbita dal divino. rifiuta
Dio non ha abolito nessuna legge, sia fisica sia biologica propria della
natura umana, anzi ognuna di esse ha servito al Logos come di stru¬
mento terrestre, per esplicare la sua attività. Questi ha compiuto la re¬
denzione nelle forme in cui di solito si svolge l'esistenza umana. La na¬
tura umana lo ha servito come l'inferiore serve al superiore, senza di¬
sciogliersi e scomparire nella divinità. Ciò avrebbe voluto dire, da parte
di Cristo, la distruzione della prima creazione, il regno del Padre, ed
egli non ha mai fatto nulla di simile. Si è rifiutato di cambiare le pietre
§ 117- UNITÀ TRA NATURALE E SOPRANNATURALE NELLA STORIA SALVIFICA 60I
in pane, benché ne avesse il potere e fosse digiuno da quaranta giorni.
Non ha eliminato il matrimonio, ma lo ha santificato. Il creato, il regno
del Padre, deve continuare a sussistere con tutte le sue leggi. Esso non
sarà distrutto, ma trasformato e glorificato. Tanto meno, d'altra parte,
il divino viene ridotto a ciò che è umano. Cristo non pone la sua po¬
tenza al servizio delle cose terrene. Cfr. §§ 147 e 152.
2. - Cristo è dunque l'esemplare e la norma di ogni unione tra na¬
turale e soprannaturale. In primo luogo la natura non può e non deve
svanire nel soprannaturale. Essa viene elevata ad un nuovo modo di
esistenza, ma non distrutta. Il soprannaturale è il lievito che nobilita e
trasfigura la natura, senza però assorbirla. Il regno del Padre viene ac¬
colto nel regno del Figlio, pur conservando tutte le sue leggi e pro¬
prietà, che permangono insieme alla storia, alla cultura, alla scienza, alla
filosofia, all'arte, allo stato e al popolo. L'integralismo diffuso al prin¬
cipio del secolo, era minacciato, in molti suoi fautori, dal pericolo di
avvilire eccessivamente la natura in modo monofisitico, anche se di fronte
ad una superesaltazione del naturale, accolta anche da parecchi cristiani,
avesse il vantaggio di mettere meglio in risalto il soprannaturale.
Chi esalta il soprannaturale a scapito della natura, solo apparente¬
mente si illude di essere più pio di un altro. In realtà mette in pericolo
il soprannaturale stesso considerandolo come qualcosa di naturale. Infatti
se non vi è più la natura non potrà più esistere neppure un di sopra
e un al di là della natura medesima. In questo caso l'ai di là stesso di¬
viene un di qua. Comprendiamo allora perchè la Chiesa primitiva ha
combattuto con tanta energia ogni svuotamento della natura umana di
Cristo, come pure la svalutazione della natura propugnata dagli gnostici
e dai manichei. Ciò avveniva per desiderio di conservare il soprannatu¬
rale incolume e scevro di ogni infiltrazione. La natura continua dunque
a esistere con tutte le sue leggi, ma tuttavia a rimanere al suo posto. La
cultura non deve trasformarsi in culto, né lo stato in Chiesa, la filosofia
non può cambiarsi in fede né la storia umana in storia salvifica.
Qualsiasi teoria 0 prassi che troppo riduca il campo della natura prende
il nome di soprannaturalismo. Talvolta però con tale vocabolo si intende
indicare semplicemente l'esistenza dell'ordine soprannaturale.
La differenza tra la Storia sacra e la storia profana può essere spiegata nel
modo seguente. Allorché Dio stesso irruppe nella storia per scegliere tra i po¬
poli Israele ed affidargli un compito più importante e trascendente tutti i pure
importanti compiti terrestri precedenti, egli non ha affatto revocato i compiti
ordine iniziale, anche dalle
qua
602 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO abitab
comba
terrestri da lui stesso affidati ai popoli. Egli stesso ordinò all'uomo di sottomet¬
tere la terra, cioè di forgiarla e trasformarla in modo da ricavarne il necessario g
alla vita e di sentirsi di casa su questa terra da lui così trasformata e su di pr
essa di moltiplicarsi e di difendersi. L'uomo adempie a questo compito divino sogg
nella sua azione storica. Quanto seriamente Iddio consideri questo compito del¬ l'iniziativ
l'azione storica dell'uomo, che tenta di dare al mondo la giusta forma, lo si vede
non soltanto dal suo ordine iniziale, ma anche dalle domande che egli porrà
alla fine della storia umana. Egli chiederà allora quale contributo ogni uomo l
avrà dato per trasformare il mondo e renderlo abitabile, fruttifero, libero e si¬
curo, quale contributo cioè ognuno avrà dato a combattere la fame, la mancanzainseriscono
di abitazioni, la malattia e la servitù. Nell'interno di questa storia umana posta la
in moto da un comando di Dio e terminante in un giudizio divino, Dio stesso perciò,
innestò la Storia Sacra. Essa differisce dalla storia profana per il soggetto, per
il suo intimo significato, per il suo fine. Il suo soggetto è, diversamente dalla sa
storia profana, Dio stesso. È Dio che prende l'iniziativa ed utilizza l'uomo, che Regn
non può sottrarsi al suo comando, come strumento. Il significato intimo è la D
fondazione e l'edificazione del Regno di Dio. Il suo scopo è il nuovo cielo e dell
la nuova terra, cioè la nuova era, la quale sostituirà l'attuale, l'era della morte, d
e già ora agisce in essa. La Storia Sacra si realizza tuttavia secondo le forme Quan
della storia profana, in avvenimenti che si inseriscono negli avvenimenti profani sens
e che possono essere datati con essi. Essa trascende la storia umana ed insieme persona
la illumina dall'interno con luce di Dio. Esiste perciò, malgrado la profonda di¬ St
versità, un'intima correlazione. Nell'interno di questo tutto la preminenza è per qu
la Storia Sacra. Essa agisce dall'interno mutando, santificando e salvando. Al¬ t
lorché la Storia Sacra realizza tra gli uomini il Regno di Dio, che è regno di
verità e di amore, essa realizza pure il dominio di Dio nella storia, trasforma
gli uomini che ne sono i realizzatori, in amanti della verità ed in servi del¬ na
l'amore. Quanto più gli uomini si aprono all'azione di Dio nella Storia Sacra, se
tanto meglio per essi procede la storia profana. Quanto più essi la precludono
tanto più i loro tentativi di dominare e dare un senso alla storia profana riu¬
n
sciranno vani. Infatti ove Dio, verità ed amore personale, non domina, dominano em
le forze distruttrici dell'inferno. Chi si chiude alla Storia Sacra e riconosce dell'universo
ed
afferma solo quella profana, diventa l'affossatore di questa storia medesima. Lasupernatu
relazione tra le due storie è dunque molto intima, e tuttavia l'una non si iden¬ de
tifica con l'altra.
Dio,
3. - È certo che in ultima analisi anche la natura serve e deve ser¬ qu
vire al soprannaturale. (Ciò non può essere semplicemente scambiato
con il servizio alla Chiesa). Infatti la natura è nel regno di Cristo ed è
permeata dalle grazie e dalle forze salutari che emanano da colui il quale
è Capo, non solo della Chiesa, ma dell'universo intero.
La natura sta al servizio mediato del supernaturale anzitutto in quanto
segue le leggi intrinseche che le sono state dettate. Queste non sono
forse l'espressione della volontà creatrice di Dio, di quel volere paterno
il cui adempimento è il cibo di Gesù? L'arte quindi, ad esempio, non è
§ 117- UNITÀ TRA NATURALE E SOPRANNATURALE NELLA STORIA SALVIFICA 603
cristiana per il solo fatto che tratta soggetti religiosi, ma lo è soprattutto
perchè cerca di seguire icanoni di bellezza stabiliti da Dio. In tal modo
fa rifulgere, nel mondo deformato dal peccato e rinnovato in Cristo, il
volto di Dio-Padre, che nel Figlio fatto uomo svela il suo mistero. Così
entra al servizio del regno di Cristo, di colui che è venuto su questa
terra per portare la vera vita, la quale consiste nel conoscere Dio e il
suo Inviato, Gesù Cristo. Così la natura adempie al suo compito di
condurre a Dio.
Tuttavia essa rende al soprannaturale anche un altro servizio assai più
immediato. « Serve per spiegarlo, svilupparlo, dargli forma e ordine
tanto nel campo della conoscenza quanto in quello del volere e del¬
l'agire. Così la ricerca filosofica, storica e psicologica sta al servizio della
conoscenza della rivelazione e della scienza teologica. Ciò avviene anche
quando si utilizzano valori e forme giuridiche per l'ordinamento della
vita religiosa e per costruire il diritto ecclesiastico. La stessa cosa si av¬
vera nella liturgia, nell'arte della Chiesa, nella pedagogia e nell'educa¬
zione religiosa. Se ciò non ha luogo, se in nome di un cristianesimo
« puro » e « religioso » si combatte la ricerca teologica scientifica, l'a¬
zione liturgica, l'ordinamento giuridico, la scienza pedagogica o l'asce¬
tismo, allora anche la vita religiosa languisce e diviene anemica e ma¬
lata » (Guardini, Gedanken iiber das Verh'dltnis von Christentum und
Kultur in Unterscheidung des Christlichen, 1935, 197). Se la natura
non servisse il soprannaturale, esso si muoverebbe in uno spazio vuoto,
irreale e privo di vita. Si può anzi affermare, in certo senso, che più
la natura è buona, tanto più eccellente è il servizio che rende al sopran¬
naturale. Se l'uomo possiede una natura nobile, riflessiva, retta, capace
di amare e di donarsi, diviene soprannaturalmente eccelso quando acco¬
glie in sè il soprannaturale. Al contrario il soprannaturale non può mu¬
tare in uomo nobile e libero l'individuo di indole ignobile, bassa e me¬
schina.
4. - Proprio dall'importanza che la natura ha nel servizio del sopran¬
naturale nascono pericoli notevoli. Essa può, infatti, dimenticando di
essere serva, ergersi a padrona e sovvertire l'ordine soprannaturale. Tale
pericolo aumenta per il fatto che la natura è un dato immediato, che
possiamo sperimentare facilmente, che è, per così dire, a portata di
mano, mentre il soprannaturale è al di là della natura, è di per se stesso
incomprensibile, e di conseguenza maggiormente esposto al pericolo di
esser frainteso e travisato. Tale minaccia appare concreta quando con-
faber
ch
- LA realtà extradivina e l'attività di
6c>4 P. II- salvifica di dio
statiamo che la filosofia intende soverchiare la fede, la dialettica la ri¬ su
predom
velazione, Aristotele Paolo, la filologia la teologia, la storia profana l'epo¬ torn
pea della Chiesa, l'atto morale la celebrazione del culto, l'azione la con¬ non
templazione, l'impiego la pietà, l'organizzazione l'amore, l'apparato la servizi
vita, l'homo faber l'homo orans. La precedenza, peggio ancora, l'esclu¬
sività della natura a danno del supernaturale, che viene recesso se non cos
escluso del tutto, è semplicemente una forma di naturalismo.
l'Apocalis
ostaco
C'è dunque il pericolo che la cultura con la sua supremazia tenti di assorbire
ed eliminare il soprannaturale. Se la natura predomina, anche ciò che non è dell'infe
santo riesce a penetrare nel santuario. In tal caso tornano a regnare idoli e de¬ r
moni, che il soprannaturale ha già sconfitto, ma non annientato, e che ognora in
tentano di costringere il soprannaturale al loro servizio. Di conseguenza occorre eg
di continuo purificare il santuario. Come Cristo ai suoi tempi scacciò con la motiv
frusta e con viso irato i profanatori del tempio, così attraverso i flagelli e le Te
bufere che cadono sul mondo cerca perennemente di usare le cose create quali Giu
strumenti purificatori (cfr. i libri profetici e l'Apocalisse). Noi vediamo che più s
la natura si eleva, tanto maggiormente diviene ostacolo per ciò che è assai più c
alto di lei, ossia il soprannaturale. impedi
Il superiore è infatti continuo turbamento dell'inferiore, anche se esso è un natura
qualcosa di molto grande. Quando, per esempio, un riformatore vuol migliorare svalu
uno stato sociale stabile è obbligato a scomodare e inquietare tutto ciò che con no
tale stato è nato e cresciuto, anche se l'ordine che egli propugna è migliore del sopran
precedente. Da ogni parte nascono sempre mille motivi per opporsi al nuovo or¬ rivest
dinamento. Ad esempio si legge negli scritti di S. Teresa l'opposizione del Go¬ su
vernatore d'Avila all'erezione del monastero di S. Giuseppe e la difesa del do¬ B
menicano Bafiez (S. Teresa, Opere, Milano 1932, 435 ss.). Il soprannaturale turba I
di continuo la natura, spezza sempre il suo cerchio chiuso, pone in luce la sua r
provvisorietà. Perennemente ci addita Dio e ci impedisce di costruirci un ordine
ristretto alla sfera terrestre. Pur nobilitando la natura, ce la mostra in se stessa
come qualcosa di perituro e di caduco. Non la svaluta affatto, ma afferma che fe
la forma attuale di esistere puramente « naturale » non è definitiva. Paolo aveva natura
sott'occhio la subordinazione del naturale al soprannaturale quando scriveva: rad
« Spogliatevi dell'uomo antico coll'opere sue, e rivestite il nuovo che si rinno-
vella in modo riconoscibile secondo l'immagine del suo creatore, dove non è più
Gentile nè Giudeo, circoncisione e incirconcisione, Barbaro o Scita, schiavo o
libero, ma tutto e in tutti è Cristo» (Col. 3, 9-11). Il medesimo concetto della
supremazia del soprannaturale di fronte al naturale ritorna nell'Epistola ai Ga-
lati : « Difatti siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù; quanti siete
stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non vi è più Giudeo nè
Greco, non vi è schiavo nè libero, non maschio o femmina, ma tutti voi siete
uno solo in Cristo Gesù » (3, 26-28). L'essere naturale, quale si manifesta nelle
varietà nazionali o sociali, è eclissato dal chiarore radioso dell'essere e della vita
soprannaturale che l'uomo acquista in Cristo.
§117- UNITÀ TRA NATURALE E SOPRANNATURALE NELLA STORIA SALVIFICA 605
Il perfezionamento finale, che consiste nella trasfigurazione della na¬
tura, non avverrà dice Paolo ai Romani, per mezzo della scienza o della
tecnica, bensì per opera dello Spirito Santo (Rom. 8, 19 ss.). La natura
si ribella a questo sconvolgimento e vuole stare tranquilla. Ciò tanto più
oggi che la natura attuale non è pura, non è monda di colpa, poiché è
caduta nel peccato, vale a dire si trova in contrasto con Dio. La pigrizia
e l'orgoglio, che secondo Pascal sono i due peccati capitali dell'uomo, si
oppongono con la massima energia al mutamento che il soprannaturale
vuole introdurre. La natura non vuol essere trasformata, ma ripetere
eternamente il suo ciclo. Di conseguenza il soprannaturale esercita pure
un'azione stimolante.
5. - Non dobbiamo, quindi, esagerare i servigi che la natura rende al
soprannaturale. Sovente non sono scevri di pericolo e mai sono indispen¬
sabili, per quanto grande sia il loro valore. Il Vangelo possiede in se
stesso sufficiente potenza salvifica per coloro che vi credono (Rom. 1, 16).
« La religione non ha bisogno di cultura, per far brillare la sua luce.
Non riceve lume dalla cultura, dalla scienza, dallo stato, dalla politica.
Per la religione sarebbe segno di debolezza il doversi appoggiare al fa¬
vore dello Stato per esplicare il proprio compito... Anche la tecnica
organizzativa fallisce dinanzi alla religione, poiché non riuscirà, di per
sé, a raggiungere le anime » (Landmesser, Die Eigengesetzlichkeit der
Kultursachgebiete, 1926).
6. - Il soprannaturale non può esaurirsi e convertirsi nel naturale.
Serve a consolidare il regno di Dio e la salvezza che ne deriva al mondo,
ma non ha compiti speciali da svolgere nel campo della natura, della
cultura 0 nell'ambito terrestre. Non ci è stato dato per renderci possibile,
anzitutto, un sistema filosofico, una cultura, ovvero per farci produrre
un'opera artistica... Naturalmente il cristiano, unito a Cristo, deve lavo¬
rare per ricostruire e riformare il mondo. In ogni suo atto deve sforzarsi
di rendere l'universo simile a un cristallo attraverso cui si veda Dio,
deve lavorare perchè nel mondo risplenda visibilmente il fulgore della
gloria divina. In tal modo adempie il suo compito di homo faber nello
stesso tempo che è homo orans. Così riesce a costruire l'ordine vero non
soltanto illusorio, a creare la cultura reale, non semplicemente apparente,
in quanto i suoi sforzi sono in armonia con le leggi stabilite da Dio e
con la volontà divina la quale intende salvare il mondo, rovinato dalla
colpa. Così nascono la cultura, l'arte, la società e lo stato cristiani.
contrasto con la costituzione del mondo guidata dal
d
6o6 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO riducendo
7. - A questo punto si presenta il problema di vedere se esistono forme e ripu
manifestazioni culturali, economiche e sociali che il cristiano debba attuare af¬ forme
finchè il mondo si sottometta a Dio nella preghiera, nell'amore, ossia si lasci a
dirigere da lui. In altre parole, esistono determinate forme di cui si possa dire modo
che sono le uniche in armonia con la rivelazione cristiana? A tale domanda va
risposto negativamente. Certo possiamo asserire che ve ne sono talune in netto pre
contrasto con la costituzione del mondo guidata dallo spirito soprannaturale. Si soprann
tratta delle manifestazioni di vita culturale in cui la dignità umana non trova più l
posto, che distruggono la libertà dell'uomo riducendolo ad essere il semplice in¬
granaggio di una macchina, che fanno dell'umanità un termitaio. Annientano la Solo
dignità dell'uomo, perchè prima di tutto hanno ripudiato Dio, tutore e vindicecompleta
della libertà umana. Se possiamo dire che tali forme sono in contrasto con una pene
autentica civiltà umana, non possiamo, al contrario, affermare che ve ne esistano
altre le quali rispecchino il soprannaturale in modo esauriente e definitivo. stori
L'ordine soprannaturale è completamente diverso dal naturale, perciò non totalmentevi
può essere alcuna espressione terrestre capace di presentarlo in modo adeguato.
Inoltre la natura si rivolta spesso contro il soprannaturale. Solo in Cristo essa tras
è permeata e compenetrata totalmente da ciò che la supera. Ma anche trasformazione
in lui,
ciò è avvenuto in modo pieno e totale solo dopo la morte, ossia dopo la distru¬ o
zione della forma attuale di esistenza terrestre. Solo Gesù, risorto e glorificato, oper
presenta, in forma creata, la raffigurazione completa del soprannaturale. Egli è infa
quindi il prototipo su cui deve modellarsi ogni penetrazione della realtà sopran¬ ricond
naturale della natura.
Da ciò si rivela chiaramente che durante la storia terrestre non può esistere cosmica
forma espressiva la quale faccia rifulgere totalmente il soprannaturale. Durante
il pellegrinaggio terreno, prima che il regno di Dio splenda in tutta la sua luce, possib
non può avverarsi che la natura sia pienamente trasformata dalle forze sopran¬ della
naturali. Nè dobbiamo attenderci una trasformazione in continuo progresso; non almeno
abbiamo alcuna promessa divina in merito. Anzi, ogni forma che l'uomo dona idea
all'universo è condannata alla morte. Anche le opere più stabili di quaggiù re¬ cristia
cano l'impronta della caducità. Quanto è terreno infatti è soggetto al potere della
croce, la quale afferra ogni forma attuale per ricondurla nel suo abisso, esoprannaturale
con¬
temporaneamente metterla sotto l'egida del futuro. Cristo alla fine della storia Archeolog
umana distruggerà completamente la forma cosmica attuale. Non esiste quindi
configurazione terrestre definitiva ed eterna. form
Da tali considerazioni si deduce che non è possibile parlare, in stretto senso tu
della parola, della cultura, dell'arte, dello stato, della filosofia o visione cristiana
del mondo (da non confondersi con la fede), almeno in quanto ci si riferisce a
cultura, arte, filosofia in concreto e non al loro ideale. La stessa cultura medie¬
vale non può essere definita come la cultura cristiana. Si può solo parlare di
una cultura cristiana, in quanto si tratta puramente di un tentativo, coronato da
successo, per configurare la natura al soprannaturale. Si veda Pio XII, Discorso
all'Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell'Arte
in Roma, in A.A.S., 1956, 210-216.
Anche se l'uomo non riuscirà mai a trovare forme e strutture che manife¬
stino il soprannaturale nella sua totalità, gli resta tuttavia la possibilità e l'ob¬
bligo di tentare sempre nuove vie per ricercare le forme migliori e più adatte
§ 117- UNITÀ TRA NATURALE E SOPRANNATURALE NELLA STORIA SALVIFICA 607
(cfr. §§ 125 e 217). Resta aperto alla riflessione umana l'infinito campo di ricerca
per forgiare un mondo, in cui il soprannaturale divenga operante al massimo,
e che perciò serva più efficacemente al regno di Dio e alla salvezza dell'uomo.
Il giudizio su ciò resta pur sempre legato a situazioni particolari, perciò ne
deriva che l'uomo, in questo, può essere soggetto a errori inevitabili. Anzi può
accadere che tra coloro che lavorano seriamente per l'avvento del regno di Dio
e la salvezza dell'umanità, vi sia diversità o anche contrasto di opinioni circa la
migliore forma di stato, la migliore sistemazione economica, il miglior ordina¬
mento sociale. Può pure accadere, per esempio, che una forma, considerata la
migliore in una determinata epoca per realizzare l'avvento del regno divino e,
di conseguenza la salvezza umana, possa, in seguito, a causa di mutate situazioni,
divenire un ostacolo per tali scopi; che proprio quanto prima appariva indispen¬
sabile divenga, più tardi, qualche cosa di antiquato e superato. Anzi può verifi¬
carsi che coloro i quali intendono compiere un nuovo tentativo si mettano de¬
cisamente in contrasto con i tutori dell'ordine vecchio, prima che il nuovo abbia
dato prova del suo reale valore. Tale tensione non ha nulla di sterile purché i
difensori di ambedue le correnti siano mossi unicamente dal desiderio di verità
e di amore. Sarebbe fatale il voler identificare una data cultura, una forma so¬
ciale o una determinata vita politica con il cristianesimo e volerle sostenere ri¬
chiamandosi continuamente ad esso. Qualsiasi manifestazione culturale non può
essere altro che un semplice tentativo per realizzare, in questo mondo, la signoria
divina e per portare la salvezza all'uomo, o meglio per plasmare una società più
buona, la quale sia veramente l'espressione del regno di Dio e divenga, in tal
modo, strumento di redenzione per i suoi membri.
8. - L'uomo, per quanto si sforzi, non riuscirà mai a raggiungere un
risultato definitivo. Non è possibile costituire su questa terra il regno
di Dio perfetto, finché noi viviamo la vita mortale. Tuttavia anche il
mondo avrà la sua parte nel regno celeste. Il credente ne è certo perchè
Gesù l'ha promesso. Il mondo assumerà il suo aspetto definitivo solo
dopo la sua esistenza storica. Qualsiasi sforzo è semplicemente il simbolo
di ciò che Dio stesso produrrà nel mondo con un atto di trasformazione
cosmica. Tutti questi tentativi troveranno il loro compimento al termine
della cultura umana, quando Dio « sarà tutto in tutti » e creerà nuovi
cieli e nuova terra. Essi hanno quindi un carattere escatologico. Se i
nuovi cieli e la nuova terra potessero ancora essere designati come una
forma di cultura, dovremmo dire che essi rappresentano la vera cultura
cristiana. Ma è impossibile parlare qui di cultura, poiché essa è solo il
prodotto dello sforzo umano, mentre allora sarà Dio stesso che trasfor¬
merà ogni cosa con un suo intervento diretto.
9. - Il soprannaturale può trasformare la natura solo in quanto ne
spezza l'amor proprio, ossia l'egoismo. Perciò è logicamente necessario
correggere la frase: il soprannaturale non distrugge la natura, ma la
la nella la spo
come
6o8 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
perfeziona. Questa proposizione, così com'è, si può applicare soltanto indubbiamen
ad una natura integra che volontariamente si sottopone e ubbidisce a Poic
dall'esperienz
Dio, ma siffatta natura non esiste più dopo il peccato originale. Pertanto
se osserviamo la natura, quale ora storicamente esiste, deturpata dalla
colpa d'origine, la proposizione va rettificata. Il soprannaturale non di¬ d
strugge la natura, nella sua essenza, ma la spoglia dell'amor proprio e pi
della tendenza all'autosufficienza. La pota come fa il giardiniere con lademoniac
pianta per nobilitarla, la mutila e la recide come il boscaiolo per rendere il spieta
terreno fruttifero. La natura prende indubbiamente qualcosa, ma per gua¬
dagnare alcunché di meglio e di più ricco. Poiché ciò che perde è per¬ div
cepito dall'intelligenza, dal senso, dall'esperienza, mentre ciò che gua¬ grand
dagna è percepito solo dalla fede, la perdita è sentita in modo più vivo dal
del guadagno. Ciò a cui rinuncia può essere davvero qualcosa di bello
e di grande e può apparire ancor più bello e più grande se valutato con anc
il metro terreno. Vi è una bellezza demoniaca che crea un incanto.
Nietzsche esalta la crudeltà e l'oppressione spietata di chi si erge a super¬ man
uomo nel mondo. Ora il regno dell'io umano è annientato dal sopranna¬ cie
turale. Malgrado ciò tuttavia l'uomo non diviene né più piccino, né Cristo
aumenta la sua miseria bensì acquista in grandezza, poiché, liberandosisoprannaturale
dai limiti della vita umana, viene attratto dalla pienezza della divina. sofferen
Ma tale elevarsi è percepibile solo mediante la fede. La penetrazione umana.
del soprannaturale nella natura può attuarsi ancora in un modo più pro¬ ben
fondo. Cristo stesso parla della possibilità che il naturale venga sacrifi¬
cato all'interesse del soprannaturale. Se la mano o l'occhio è motivo di
peccato, va mozzata o cavato. Il regno dei cieli esige violenza; ne è la
massima dimostrazione la crocifissione di Cristo. In essa la natura viene
totalmente sacrificata, affinchè il soprannaturale conquisti il mondo in¬ CREAT
tero. Anzi con tale accettazione della sofferenza e della morte Cristo
attua la trasfigurazione della sua natura umana. Così ogni specie di cul¬ d
tura viene posta sotto il giudizio e sotto la benedizione della Croce. sopran
gl
CAPITOLO II.
GLI ESSERI CREATI
Quanto fin qui detto in generale circa l'origine degli esseri da Dio, la loro
ordinazione a lui, la loro elevazione all'ordine soprannaturale, dobbiamo ora ap¬
plicarlo a due gruppi di creature: i puri spiriti, gli angeli; e quelle composte
§ Il8. ESISTENZA DEGLI ANGELI 609
di spirito e materia, gli uomini. Per quanto riguarda gli esseri inanimati, esclu¬
sivamente materiali, non faremo una trattazione speciale; ciò che di essi inte¬
ressa la teologia sarà esaminato studiando il corpo umano. Il che si giustifica
quando si pensi che essi partecipano al suo destino. E ancora una volta va no¬
tato che qui non si tratta tanto dell'essenza degli esseri in quanto tale, quanto
piuttosto del loro rapporto con Dio, della loro origine da lui e della loro desti¬
nazione a lui, quindi della loro salvezza o meno.
ART. I. - GLI ANGELI
§ 118. Esistenza degli angeli.
1. -
Dio ha creato gli angeli. È dogma di fede definito dal IV Con¬
cilio Lateranense (Denz. 428) e dal Concilio Vaticano (Sess. 3, cap. 1;
Denz. 1783).
2. - a) Neil' Antico Testamento gli esseri celesti che noi chiamiamo
angeli, sono denominati inviati, messaggeri, spiriti, figli di Dio (= facenti
parte della famiglia divina), sentinelle, abitanti del cielo, schiere celesti.
In certo senso costituiscono la corte di Dio il quale li invia all'uomo,
servendosene come di strumenti per attuare la storia della salvezza.
Quando Dio caccia l'uomo dal paradiso terrestre, pone due cherubini
a guardia con la spada fiammeggiante affinchè impediscano la via che
conduce all'albero della vita (Gen. 3, 24). L'angelo del Signore dà ad
Agar l'ordine di tornare indietro (Gen. 16, 7 ss.). Due messaggeri ce¬
lesti accompagnano il Signore quando annuncia ad Abramo la distru¬
zione di Sodoma e Gomorra (Gen. 18), e conducono Lot fuori delle città
che stavano per soccombere. Accecano coloro che tentano di entrare nella
casa di Lot, di modo che non ne trovino la porta. Essi hanno avuto da
Dio l'incarico di distruggere le due città a motivo dei loro peccati
(Gen. 19). L'angelo del Signore chiama Abramo dal cielo perchè desista
dal sacrificare il suo unico figlio (Gen. 22, 11 s.). Giacobbe vede in sogno
angeli che scendono e salgono dalla terra al cielo (Gen. 28, 12). Dopo
la sua riconciliazione con Labano, vede le schiere celesti, l'« esercito di
Dio » (Gen. 32, 2 s.). L'angelo del Signore appare a Mosè di mezzo al
roveto ardente (Es. 3, 2). Accompagna Israele per custodirlo durante
l'esodo dall'Egitto (Es. 14, 19). Dio infatti aveva promesso che avrebbe
mandato innanzi un suo messaggero, finché il popolo eletto non avesse
raggiunto la meta (Es. 23, 20-23). L'angelo del Signore che viene in-
39 - schmaus - dogmatica 1.
profetargli la nascita di Sansone (Giud. ss.
610 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
misterioso
D
contro a Balaam porta la spada sguainata (Num. 22, 22 ss.) Giosuè, di¬ rip
nanzi a Gerico vede uno spirito celeste con la lama in pugno che si pre¬ n
senta come inviato del Signore e lo incoraggia a prendere la città (Gios.
a
5, 13 ss.). L'angelo accusa Israele per la sua infedeltà e gli annuncia il
Gezabel,
castigo divino (Giud. 2, 1 ss.). Chiama Gedeone (Giud. 6, ilss.) per a
profetargli la nascita di Sansone (Giud. 13, 3 ss.). Invitato a dichiarare il S
proprio nome, risponde che «esso è misterioso» (Giud. 13, 18). L'an¬ Sig
gelo punisce il popolo a causa dell'orgoglio di Davide. Appena Dio gli L
ordina di porre termine al castigo, tosto esso ripone nel fodero la spada 3-
vendicatrice (2 Sam. 24, 16 s.). In 3 Re, 18 si narra che un angelo, per naz
ordine di Dio, può comunicare un messaggio a un profeta. Un celeste c
inviato appare a Elia mentre fugge da Gezabel, lo sveglia e lo rifocilla Giuda
affinchè possa percorrere la lunga strada che ancora gli rimane (3 Re difendon
19, 5 ss.). Gli ordina poi di presentare al re di Samaria il messaggio pu¬
infuocati
nitivo di Dio (4 Re 1, 3 ss.). L'angelo del Signore annienta le truppe
del re assiro Sennacherib (4 Re 19, 35- 37). L'arcangelo Raffaele ac¬ fort
compagna in viaggio il giovane Tobia (Tob. 3-12). ange
Durante la lotta maccabaica per la libertà nazionale, i nemici vedono
Gerusalemm
giungere dal cielo cinque cavalieri splendidi su cavalli dalle briglie d'oro,
che si mettono alla testa delle schiere di Giuda Maccabeo. Anzi due si d'oro
pongono ai fianchi del condottiero e lo difendono con la loro armaturaglorifican
dai colpi nemici, mentre gettano dardi infuocati sulle schiere avversarie,
che accecate, confuse e stordite vengono vinte (2 Mac. 10, 29 s.). Quando m
i Maccabei apprendono che Lisia assedia le fortezze, con il popolo im¬ cele
plorano il Signore affinchè invii loro un angelo a salvarli, poi impu¬ av
gnate per primi le armi incoraggiano gli altri a sfidare il pericolo. Si
mettono in marcia e nei pressi di Gerusalemme appare loro un cava¬ D
liere vestito di bianco, che brandendo armi d'oro si mette alla testa delle
schiere giudaiche. Allora tutti assieme glorificano Dio misericordioso e
si sentono talmente ripieni di coraggio da essere pronti a combattere non
solo uomini, ma anche belve le più feroci e mura corazzate di ferro. p
Avanzano in formazione da battaglia con il celeste compagno d'armi in¬
viato dalla bontà del Signore. Come leoni si avventano contro i nemici
e li annientano (2 Mac. 11, 6 ss.).
Il libro di Giobbe descrive come i figli di Dio si presentano dinanzi
al Signore (1, 6) e come giubilano nell'istante in cui egli crea e stabi¬
lisce la terra (38, 7). Isaia contempla i serafini che ritti dinanzi a Dio
cantano: Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti! La terra intera
è tutta ripiena della sua maestà. Il grido è così possente che tutto trema!
§ 118. ESISTENZA DEGLI ANGELI 6ll
Un di loro purifica le labbra del profeta con un carbone acceso (6, iss.).
Ezechiele scorge in una nuvola solcata da guizzi infocati e turbinante al
tempestoso vento settentrionale, alcuni esseri dall'aspetto indescrivibile
detti cherubini (i, 5-25). L'angelo del Signore scende nella fornace ar¬
dente e scosta le fiamme in modo da salvare i tre che vi erano stati get¬
tati (Dan. 3, 49; cfr. 6, 23). Daniele ha anch'egli una grandiosa visione
angelica. Un giorno, presso la riva del Tigri, gli appare un uomo vestito
di lino, cinto da una fascia d'oro finissimo. La sua persona sembrava
di crisolito, la faccia mandava lampi, gli occhi apparivano come faci ac¬
cese, le braccia e i piedi scintillavano come metallo incandescente, il
suono della voce assomigliava al rumore di una moltitudine. Un brivido
di terrore coglie Daniele, ma l'angelo lo calma con parole confortevoli
e gli profetizza la storia del suo popolo (10, 4-21). È l'alato messaggero
di Dio che trasporta Abacuc a Babilonia perchè conforti e sostenga
Daniele nella fossa dei leoni (Dan. 14, 32 ss.). Il libro di Daniele riporta
anche nomi di angeli: Gabriele (9, 21), Michele (10, 13. 21; 12, 1).
Nella visione di Zaccaria sull'avvento del regno di Dio gli angeli sono
chiamati strumenti e servi di Dio (1, 8 ss.). Uno di loro gli spiega il
significato della visione.
b) Questa sintesi mostra che nell'epoca postesilica la credenza negli
angeli è molto più diffusa che non nei secoli precedenti. È quindi ovvio
il chiedersi quali rapporti la dottrina biblica su tali spiriti abbia con
quella babilonese e persiana. Sembra che essa abbia subito un forte
sviluppo grazie al contatto con le concezioni babilonesi. E nulla ci vieta
di ammettere tale influsso. Tuttavia occorre osservare che le concezioni
angeliche extrabibliche con tutta probabilità derivano da un nucleo pri¬
mitivo, il quale a sua volta proviene dalla rivelazione primordiale. Tale
rivelazione, purtroppo, nel corso dei secoli, fu contaminata da innume¬
revoli credenze superstiziose, fantastiche e mitiche. Tuttavia, i credenti
potevano, anche senza nuova illuminazione divina, rintracciare in tali cre¬
denze quanto di vero contenevano circa gli angeli e così arricchire la
loro fede (cfr. § 13). Inoltre non dobbiamo dimenticare che, nonostante
la somiglianza apparente, fra fede biblica e extrabiblica sussiste una dif¬
ferenza essenziale per cui è impossibile accostare le due concezioni. L'una
è del tutto immune dal groviglio della superstizione che invece irretisce
l'altra. Gli esseri angelici, che costituiscono la corte divina, sono per la
Bibbia semplici creature infinitamente al di sotto della divinità. L'an¬
gelo extrabiblico invece è anch'esso essere divino. Secondo la rivelazione
nella solitudine della che di preced
uom
612 p. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO Gia
azzopp
veterotestamentaria l'uomo ha da fare con Dio e solo con lui (Kòhler, sile
Theologie des A. T., 147).
sco
Nella Bibbia si parla spesso dell'« Angelo del Signore » (cfr. § 44). Non è fa¬ Giac
cile spiegare chi egli sia realmente. Gen. 32, 22-32 descrive in modo altamente d
drammatico la sua comparsa e la sua azione. Giacobbe, preso da incubo e da tuttav
paura, nella solitudine della notte che di poco precedeva il suo incontro con il tem
fratello Esaù, è improvvisamente afferrato da un uomo e lotta con lui sino al un
mattino. L'avversario sconosciuto non può vincere Giacobbe nè può liberarsene. esting
Ma un semplice tocco della sua mano basta per azzoppare il patriarca. Non vuole stesso
rivelare il suo nome che deve restare avvolto dal silenzio. Anzi egli stesso dà in
un nuovo nome a Giacobbe e ne rivela la ragione: «Tu hai combattuto con
Dio perciò potrai pure vincere gli uomini ». Lo sconosciuto si chiama Dio e
mostra la sua forza sovrumana rendendo zoppo Giacobbe, e questo è il senti¬ angeli
mento di Giacobbe il quale quando ritorna in sè, dopo l'angoscia mortale di vist
quell'ora terribile, esclama: « Ho visto Dio e pur tuttavia ho avuto salva la vita ».
Gabriele,
Il fatto poi che lo sconosciuto si presenta in pari tempo come debole, va spie¬
gato come segue. Dio rivolgendosi all'uomo, che è una creatura libera, trattiene,
reca
in certo senso, la sua potenza, affinchè essa non estingua la libertà umana. Così 2
dunque l'angelo del Signore non è altro che Dio stesso in quanto penetra e guida s
il corso della storia. Cfr. R. Guardini, Der Engel, in Schildgenossen, 17, 1938, cel
295-299; Kittel, Wòrterbuch zum N. T., I, 76.
pia
3. - Anche nel Nuovo Testamento gli angeli si prodigano per l'av¬ a
vento del regno di Dio. Essi gioiscono alla vista del ravvedimento dei E
peccatori (Le. 15, 7. 10). L'arcangelo Gabriele, predice la nascita e la (M
missione di Giovanni Battista (Le. 1, 11-20), e reca a Maria l'annunzio che qua
è destinata a divenire Madre di Dio (Le. 1, 26-28). Un angelo tran¬ de
quillizza Giuseppe per quanto è avvenuto nel seno di Maria ad opera libera
dello Spirito Santo (Mt. 1, 20-25). Il messo celeste annuncia ai pastori potuto
la nascita di Cristo. La schiera angelica sulla pianura di Betlemme loda p
Iddio per la sua benignità (Le. 2, 9-15). Un angelo avverte in sogno
Giuseppe di fuggire con Maria e il neonato in Egitto e lo avvisa di tor¬ me
nare in patria quando il pericolo è scomparso (Mt. 2, 13. 19 s.). Gli an¬annunziano
geli servono Cristo, dopo che ebbe digiunato quaranta giorni nel deserto ange
(Me. 1, 13; Mt. 4, 11). Il Padre, a richiesta del Figlio, avrebbe potuto
inviare oltre dodici legioni angeliche per liberarlo dalle vessazioni sul
monte degli Olivi. Ma allora come avrebbe potuto adempiersi la S. Scrit¬
tura? (Mt. 26, 53). Un messo celeste appare per consolare Cristo du¬
rante l'agonia mortale del Getsemani (Le. 22, 43). Quando le donne
trovano vuoto il sepolcro di Cristo e ne sono meravigliate, i due uomini
seduti sulla soglia in vesti splendenti annunziano loro la risurrezione del
Maestro (Le. 24, 1-7) e Giovanni li chiama angeli (Giov. 20, 12).
§ XI 8. ESISTENZA DEGLI ANGELI 613
Due uomini biancovestiti appaiono agli Apostoli che continuano a fis¬
sare la nube che ha nascosto ai loro occhi Cristo asceso al cielo, e annun¬
ziano loro il suo ritorno (Atti 1, 10 s.). Un angelo apre nottetempo la
porta della prigione in cui stavano rinchiusi per ordine del Sommo sa¬
cerdote gli Apostoli, e ordina loro di entrare nel tempio e annunziare al
popolo le parole di vita (Atti 5, 18-20). Un altro invia Filippo sulla
strada che scende da Gerusalemme a Gaza per farlo incontrare con il
tesoriere della regina Candace e convertirlo (Atti 8, 26). L'angelo di Dio
comanda al centurione Cornelio di chiamare Pietro e di farsi dire da lui
ciò che deve fare (Atti 10, 3-7); appare a Pietro in prigione, e tutta la
cella è ripiena del suo splendore; le catene cadono dalle mani del pri¬
gioniero e l'angelo gli comanda di seguirlo, mentre le porte si aprono da
sole. Così passano senza difficoltà dinanzi alle guardie stesse (Atti 12,
6-11). Quando Paolo, condotto prigioniero a Roma, è in balia della ter¬
ribile tempesta che si è scatenata nei pressi di Creta, ecco apparirgli un
angelo che lo tranquillizza dicendogli: Non temere! Tu comparirai di¬
nanzi all'imperatore (Atti 27, 21-24). Paolo scongiura Timoteo per Dio,
Gesù e gli angeli eletti di comportarsi, nella sua carica, senza preven¬
zione e parzialità (1 Tim. 5, 21).
Schiere innumerevoli di angeli appartengono alla Gerusalemme ce¬
leste, all'assemblea dei giusti (Ebr. 12, 22-24). Ingente è la moltitudine
degli angeli, dei quali ci parla Giovanni nell'Apocalisse. Per mezzo del
suo angelo Gesù Cristo annunzia allo stesso Giovanni ciò che deve suc¬
cedere tra breve, per consolare ifedeli nelle loro prove (1, 1). Dinanzi al
libro sigillato l'angelo possente grida con voce stentorea: Chi è degno
di aprire il libro e sciogliere i suoi sigilli? (5, 2). Nessuno lo poteva, nè
in cielo, nè in terra, al di fuori dell'agnello ch'è stato sacrificato. Come
Giovanni guarda, ode intorno al trono di Dio la voce d'una moltitudine
di angeli : « il loro numero è miriadi di miriadi che cantano con voce
chiara: " Degno è l'agnello che è stato sgozzato di ricever la potenza
e la ricchezza e la sapienza e la forza e l'onore e la gloria e la bene¬
dizione ". E ogni creatura ch'è nel cielo e sulla terra e sotto la terra e
sul mare e tutte le cose in essi contenute, udii che dicevano : " A colui
che siede sul trono e all'agnello, la benedizione e l'onore e la gloria e
il potere per i secoli de' secoli"» (5, 11-13). Quattro angeli ai quattro
angoli della terra trattengono i venti (7, 1). Sette stanno dinanzi al Si¬
gnore con le trombe e quando vi danno fiato avvengono sulla terra di¬
sastri spaventosi (8, 1-11, 15). Un altro preso un turibolo d'oro lo riem¬
pie di fuoco e lo versa sulla terra (8, 5). Giovanni vede un angelo forte
terr
im
ÓI4 P. H. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
q
scendere dal cielo; è ravvolto in una nuvola, l'arcobaleno sta sul suo
capo, il volto splende come sole, i piedi come colonne di fuoco; la sua d
voce è ruggito di leoni (io, 1-3). Scorge inoltre Michele e le sue schiere 2
combattere contro il dragone e i suoi compagni, il quale altro non è
che l'antico serpente, il demonio, Satana in persona, colui che seduce il come
mondo intero ed è stato precipitato sulla terra assieme ai suoi angeli sembra
(12, 7-13). Benché combatta Cristo, non può impedirne la vittoria finale. asserire
Tutti gli angeli faranno corona al Signore quando verrà a giudicare su
i vivi e i morti (Me. 8, 38; Me. 16, 27; 25, 31). Il Figlio dell'uomo se
invierà le sue schiere per raccogliere, al suono delle trombe, gli eletti dai n
quattro angoli della terra (Mt. 13, 39. 41. 49; 24, 31; Me. 13, 27). ange
let
4. - La Scrittura ci presenta gli angeli come esseri reali e personali. m
Anche se il modo con cui ne parla non sembra escludere un certo qual [L'an
carattere mitologico, possiamo tuttavia asserire che essa vuole, con ciò,
sottolineare unicamente la loro trascendenza sull'uomo. È infatti impos¬
sibile parlare qui di pura mitologia, per il semplicissimo fatto che la che
Bibbia considera gli angeli come creature, e non come esseri simili 0 rivelazi
pari a Dio. In ciò sta la differenza tra gli angeli, come ce li presenta la umana
Scrittura, e quelli che incontriamo in molta letteratura moderna (ad es. qual
in Hòlderlin e in Rilke), ricaduta nel puro mitologismo (R. Guardini,
Der Engel in Dantes Gòttlicher Komodie [L'angelo nella Divina Com¬ manche
media di Dante], Leipzig 1937, 4° s-)- rende
5. - L'esistenza degli angeli è mistero, che lo spirito umano non
avrebbe potuto scoprire da solo senza la rivelazione; tuttavia essa appare
conveniente anche alla semplice ragione umana. Infatti la creazione ci
appare come una costruzione a gradini, la quale sale dalla creatura pu¬
ramente materiale a quella materiale-spirituale fino a quella invisibile e se
spirituale. Se gli angeli non esistessero, mancherebbe nello stato attuale Ambe
del creato una data forma di essere. Ciò renderebbe necessaria un'altra n
creazione. Cfr. tuttavia § no.
§ 119. La natura degli angeli.
1. - Per la letteratura e l'arte degli ultimi secoli gli angeli sono dive¬
nuti qualcosa di debole e di equivoco. « Ambedue li raffigurano come
esseri leggiadri, vezzosi, carini e piccoli, per non parlare della equivo-
§ 119. LA natura degli angeli
615
cità del barocco e del rococò e tanto meno della devozione industrializ¬
zata » (R. Guardini, Der Engel in Dantes Góttlicher Komódìe, 33-38).
In realtà gli angeli sono esseri misteriosi, potenti, che trascendono
ogni misura umana, in grado di addurre timore e terrore. Il primo
sentimento che suscita la comparsa dell'angelo è la paura. Difatti comincia
spesso il suo discorso con le parole: non temere! L'uomo non riesce a
sopportarne la vista. Così l'angelo deve rassicurare Zaccaria quando gli
appare per profetizzargli la nascita di Giovanni (Le. 1, 11-13), Maria
allorché le annunzia l'incarnazione del Figlio di Dio (Le. 1, 26-38), i
pastori nella campagna di Bedemme (Le. 2, 9 s.), le donne, a cui appare
con volto sfavillante il mattino di Pasqua (Mt. 28, 2-5).
Le raffigurazioni simboliche che la Bibbia ci dà degli angeli ci fanno
capire che essi sono superiori agli uomini e a quanto questi possono
comprendere ed afferrare (cfr. specialmente Dan. 10, 4-31; Is. 6, 1 ss.).
Ezechiele (1, 4-14) così tratteggia la natura sovrumana degli angeli : « E vidi
un vento tempestoso venire dal nord: una grande nube e fuoco avvolgentesi
che emetteva bagliori tutto intorno. In mezzo ad esso qualcosa splendeva come
l'elettro. Al suo centro apparve la sagoma di quattro esseri viventi; ecco il loro
aspetto: avevano sembianza umana. Ciascuno con quattro fattezze e quattro ali.
Iloro piedi eran dritti e la pianta dei loro piedi come quella del vitello: rilu-
cevan come bronzo terso. Avevan mani di uomo sotto le ali, ai quattro lati, tutti
e quattro avevan le proprie fattezze e le proprie ali. Queste si congiungevan l'una
con l'altra. Procedendo non si voltavano, ciascuno si moveva dritto innanzi a sè.
Quanto alla somiglianza dei loro aspetti, tutti e quattro avevano: fattezze umane,
fattezze di leone alla loro destra, fattezze di toro alla loro sinistra e fattezze di
aquila. Le ali erano spiegate verso l'alto; ciascuno ne aveva due che si congiun¬
gevan con le altre e due che coprivano i loro corpi. Procedevan ciascuno dritto
dinanzi a sè; andavan là dove lo spirito li sospingeva; procedendo non si volta¬
vano. Tra quegli esseri si vedevan come dei carboni ardenti che bruciavano a
mo' di fiaccole. Questo fuoco si muoveva tra gli esseri: rifulgeva ed emetteva
bagliori. Gli esseri andavano e tornavan come folgore ».
Per comprendere tale descrizione bisogna tener conto che si tratta di una visio¬
ne. Il profeta tenta di descrivere nel miglior modo possibile ciò che gli è incom¬
prensibile e misterioso. Sempre nuove figure hanno l'ufficio di esprimere ciò che
non si può nè udire nè palesare. Per mezzo di un cumulo di forme cerca di
dipingere l'essere immenso e la forza smisurata degli angeli i quali appaiono in
tutta la loro potenza e maestà. Chi cercasse di raccogliere i singoli elementi per
trarne una figura sintetica e completa, non interpreterebbe esattamente la de¬
scrizione. Ivari tratti, qui descritti, non vanno intesi come parti d'un tutto com¬
pleto in sè, bensì solo come mezzi espressivi per sottolineare la natura angelica
che trascende ogni concezione umana (cfr. pure Is. 6, 1-7; Apoc. 4 e 5; 14,
6-15, 8).
p
c
6l6 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
venu
Gli angeli dell'Antico Testamento assumono di preferenza il sem¬
biante del combattente o del lottatore. Quando Giacobbe dopo la sua predic
riconciliazione con Labano vede l'angelo, lo chiama : « esercito di Dio » l'a
(Gen. 32, 1 s.). Il messo celeste che appare a Giosuè dinanzi alle mura
di Gerico, dice di essere il condottiero delle schiere divine (Gios. 5,
mitigato,
13 ss.). L'angelo che si palesa a Daniele e gli profetizza i destini del suo
popolo, gli comunica che per ventun giorni ha combattuto contro il prin¬
cipe angelico del regno persiano. Ora gli è venuto in aiuto Michele, uno uomo,
dei più grandi condottieri delle schiere celesti il quale continua afiammeggiante
com¬
battere contro il persiano, mentre egli predice a Daniele gli avveni¬ so
menti futuri. Poi tornerà a combattere contro l'angelo dei Persiani (Dan. sim
10, 13 s.). Sono
Anche se nel Nuovo Testamento l'aspetto terribile e talvolta quasi
selvaggio degli angeli si è non poco mitigato, tuttavia essi conservano
la loro potenza sovrumana e il loro carattere combattivo (Mt. 26, $3).
dalla
Anche quando appaiono in sembiante di uomo, conservano sempre qual¬
cosa di sovrumano: hanno viso fiammeggiante, rifulgono di maestà di¬
Vaticano)
vina, i loro vestiti sono splendenti come il sole. Notevole il fatto che
trionfanti
appaiono solo sempre come uomini, il che simboleggia la loro forza e
pi
il carattere pubblico del loro intervento. Sono indice della potenza an¬
a
gelica i nomi di « Dominazioni », « Principati » e « Potestà » (Rom. 8,
q
38; Ef. 6, 12; cfr. 2 Piet. 2, 11).
2. - Gli angeli sono liberi dal legame e dalla pesantezza della materia. l'influ
Allorché appaiono assumono aspetto corporeo, tuttavia è di fede (vedere filosof
il IV Concilio Lateranense e quello Vaticano) che essi sono di natura sia
spirituale. Quando i discepoli tornano trionfanti dalla missione che hanno d
Tom
compiuto per volere di Cristo, e riferiscono, pieni di letizia, che persino
i demoni sono stati sottomessi, Gesù li incita a non rallegrarsi tanto per sp
il fatto di aver soggiogati gli spiriti del male quanto perchè i loro trascendendol
nomi
sono scritti in cielo (Le. 10, 17-20; cfr. 9, 39; Ebr. 1, 14). all'interazione
Diversi Padri, tra cui anche Agostino, sotto l'influsso di qualche passo biblico
(Gen. 6, 2; Sai. 104, 4), ma ancor più della filosofia platonica e stoica, opina¬
rono che gli angeli potessero possedere un corpo sia pure sottile, aereo e invisi¬
bile. Identica fu l'opinione medievale che seguì le direttive agostiniane. Tuttavia
altri Padri, e nel medio evo principalmente S. Tommaso, difesero la pura spi¬
ritualità angelica senza alcun rivestimento corporeo, benché sottilissimo. S. Tom¬
maso parla di forma sussistente. Grazie alla loro spiritualità gli angeli non sono
legati allo spazio e al tempo, pur non trascendendoli come nel caso di Dio. Sic¬
come il tempo e lo spazio sono legati all'interazione delle cose, ne consegue che
§ 1X9- LA NATURA DEGLI ANGELI 617
anche gli angeli nonostante la loro incorporeità vi appartengono in certo qua!
modo (cfr. §§ 70 e 71).
Come l'anima umana sono presenti soltanto in un determinato luogo, ma to¬
talmente in tutto il luogo e in ogni parte di esso. Quanto sia grande la sfera
della presenza angelica, non possiamo saperlo. Gli angeli possono rendersi pre¬
senti da un luogo all'altro con incredibile rapidità, movendosi in un batter d'oc¬
chio. La Bibbia allude a ciò quando li raffigura con le ali. Gli angeli volano,
hanno la forza di attraversare gli spazi e penetrare nell'immensità. La loro so¬
stanza non è sottoposta a mutamento, e in ciò trascendono il tempo.
Mutano tuttavia per quanto concerne il conoscere e il volere. Grazie
all'elevata spiritualità il loro conoscere è vasto e penetrante. La loro vita
conoscitiva si distingue dall'umana come la percezione di uno stupido
differisce dall'intuizione del genio. Ezechiele esprime tale loro cono¬
scenza raffigurandoli con il viso rivolto a tutti i lati (Ez. 1, 6 ss.). Imol¬
teplici occhi indicano la loro capacità di penetrazione e di comprensione
(Apoc. 4, 6-8). Quando Cristo dice che nemmeno gli angeli conoscono
la data del giudizio finale, vuole significare che anche per essi la cono¬
scenza ha un limite, ma, in pari tempo, accentuarne l'ampiezza (Mt.
24, 36).
Tuttavia gli angeli non conoscono i pensieri altrui. L'intimo dell'uomo,
e specialmente quello che egli pensa, sfugge al loro sguardo. Nè, tanto
meno, riescono a penetrare l'immensità divina che è nota soltanto allo
Spirito Santo. Benché gli angeli ignorino i pensieri reconditi dell'uomo,
a meno di una speciale rivelazione divina, e particolarmente non pos¬
sano penetrare nel cuore umano che racchiude tutto il mistero della per¬
sona, tuttavia riescono ad acquistarsi nuove conoscenze dalla storia in
cui l'uomo esprime i suoi pensieri e desideri. Gli angeli, sia buoni che
cattivi, apprendono qualcosa di nuovo da una parola, da un libro, da
un'opera. Il medio evo si è soffermato a lungo sul modo della cono¬
scenza angelica. La rivelazione non ci dice nulla sulla natura della cono¬
scenza puramente spirituale. La S. Scrittura attribuisce tuttavia un lin¬
guaggio agli angeli, il quale consiste nella scambievole comunicazione
dei loro pensieri con atto libero di volontà (Is. 6, 3; Dan. 8, 16 ss.;
1 Cor. 13, 1).
Alla vasta scienza angelica risponde volontà libera e possente. Grazie
alla penetrazione di tutti gli eventi acutamente valutati, e alla loro po¬
tenza volitiva, gli angeli, senza esitazione alcuna e senza lunghe rifles¬
sioni, prendono istantaneamente decisioni irrevocabili. Possono agire sui
corpi creati (Is. 37, 36; Mt. 28, 2) e, solo mediatamente, sullo spirito
umano (Mt. 2, 13; Giov. 13, 2), in quanto adducono oggetti sensibili
6l8 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
che lo eccitano oppure sono in grado di provocare nelle cose mutazionitotalmen
e così presentare determinati oggetti alla facoltà percettiva, o anche in
solo
quanto, influendo direttamente sugli organi, producono illusioni sensi¬
equ
Signore?
bili. Possono esercitare il loro influsso sulla volontà sia attraverso la co¬
noscenza sia mediante un'influenza diretta sulle passioni.
s
D
3. - Tuttavia la potenza degli angeli non va esagerata: non è affatto indipende
qualcosa di divino. Di fronte a Dio non hanno potere alcuno, sono sem¬ volo
plici creature, e come tali dipendono totalmente da lui sia nell'essere ang
che nell'agire, e possono quindi compiere solo quello che Dio vuole.
Anche la santità degli angeli non può venir equiparata alla divina. « In¬ fede
vero, chi nelle nubi può paragonarsi al Signore? s'assimila al Signore tra Co
i figli divini? Iddio terribile nel consiglio dei santi; grande e tremendo eccel
su quanti l'attorniano » (Sai. 89 [88], 7 s.). Di fronte a Dio gli angeli d
non hanno nessuna forza personale indipendente, anzi son completa¬ solo
mente protesi ad attuare e realizzare la sua volontà (Sai. 103, 20 s.).
affer
Come tutte le altre creature anche gli angeli sono stati creati per alt
Cristo, che è il loro capo e il Signore (Col. 1, 16). A chi non vede ciò, (C
gli angeli costituiscono un pericolo per la fede, poiché rubano il posto
che compete solo a Cristo (Rom. 8, 38). A Colossi serpeggiava l'eresia
che considerava Dio come essere talmente eccelso da non potersi abbas¬ contrar
sare sino all'uomo né da essere raggiungibile da parte della creatura. Il cre
rapporto tra uomo e Dio diviene possibile solo attraverso la mediazione
o
angelica. Si tratta di gente gonfiata, come afferma duramente Paolo, di d
creature carnali che si vanno cercando un altro mediatore e un altro
capo diverso da quello che abbiamo in Cristo (Col. 2, 18 s.). Per quanto
gli angeli siano elevati, Gesù sta pur sempre al di sopra di loro. Essi
formano soltanto la corte divina, sono servi e strumenti di Dio, come angel
il vento, il fuoco, la folgore. Cristo, al contrario, è Signore e re (Ebr.
1, 5 ss.). Paolo sembra voglia inculcare nei credenti la convinzione che
deg
la grandezza e la maestà degli angeli non deve offuscare quella di Cristo, teng
né la mediazione angelica sostituirsi a quella del Verbo Incarnato. Cfr.
Kittel, Worterbuch zum N. T I, 72-86.
§ 120. Elevazione soprannaturale degli angeli.
1. - La descrizione che la S. Scrittura fa degli angeli raggiunge il suo
più vero e pieno significato solo quando si tenga presente che essi non
§ 120. ELEVAZIONE SOPRANNATURALE DEGLI ANGELI 619
sono soltanto semplici puri spiriti, bensì spiriti penetrati dallo Spirito
Santo e introdotti nell'intimità della vita tripersonale divina (cfr. § 114).
2. - La rivelazione vuole affermare questo fatto quando attesta che gli
angeli stanno alla presenza di Dio e ne contemplano il volto (Is. 6, 2;
Dan. 7, 10; Mt. 18, 10). A loro è permesso l'accesso nell'impenetrabi¬
lità divina nella quale il veggente Giovanni potè gettare uno sguardo fu¬
gace quando gliene furono aperte le porte (Apoc. 4, 1). Gli angeli sono
la corte divina (Giob. 1, 6), stanno in stretta relazione con Dio; appar¬
tengono a lui, sono figli di Dio (Giob. 1, 6; Sai. 29 [28], 1; 89 [88], 7),
sono santi (Sai. 89, 6).
-
3. Secondo l'Apocalisse di Giovanni (4 e 5) gli angeli offrono a Dio
un culto perenne (cfr. pure Sai. 103 [102], 20; Is. 6), il quale si esplica
con il canto del trisagio, con inni di vittoria e testi di salmi (Apoc. 19, 6).
Neil'Apoc. 4, 4-11 leggiamo: «E intorno al trono (vidi altri) venti¬
quattro troni, e sui troni ventiquattro vecchi seduti, ravvolti in bianche
vesti, e sulle lor teste corone d'oro. E dal trono uscivano lampi e voci
e tuoni, e sette lampade di fuoco (stavano) accese di faccia al trono, che
sono i sette spiriti di Dio. E di faccia al trono (c'era) come un mare di
vetro, simile a cristallo, e in mezzo al trono e intorno al trono quattro
animali pieni d'occhi davanti e di dietro. E il primo animale (era) simile
a un leone, e il secondo animale simile a un vitello, e il terzo animale
con la faccia come d'uomo, e il quarto animale simile ad aquila volante.
E i quattro animali avevano ognuno sei ali, e all'intorno e al di dentro
son pieni d'occhi, e non si davan posa giorno e notte dicendo : " Santo,
santo, santo il Signore Iddio, l'Onnipotente, colui che era, ed è, e viene!".
E ogni qual volta quegli animali davan gloria e onore e ringraziamento
a colui che sedeva sul trono, al Vivente per i secoli de' secoli, si prostra¬
vano i ventiquattro vecchi al cospetto di colui che sedeva sul trono, e
adoravano il Vivente per i secoli de' secoli, e gettavano le loro corone
davanti al trono, dicendo : " Degno sei tu, 0 Signore e Dio nostro, di
ricever la gloria e l'onore e la potenza, perchè tu creasti tutte le cose,
e per la tua volontà ebbero l'essere e furono create " ».
Anche i prefazi del Messale romano e il Te Deum riportano il tri-
sagio angelico. Gli angeli esistono solo in quanto si dedicano a lodare
Iddio; la loro essenza è adorazione, la loro esistenza lode a Dio nella
visione amorosa di lui.
E. Peterson così descrive la natura degli angeli : « Ipuri spiriti che pur sono
essenzialmente rivolti a Dio, non sono però soltanto esseri che stiano come pie-
fenomeno consiste l'essenza propria di questi ange
al
620 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
trificati in muta adorazione dinanzi a Dio. La loro caratteristica essenziale non compo
consiste nello stare, ma nel muoversi, nel batter delle ali, descritti per primo da c
Isaia con inaudita potenza; e a questo batter d'ali, a questo coprirsi con le ali ca
i piedi — tanto significativo nel suo ricco simbolismo — corrisponde una de¬ effon
terminata forma dell'effondersi in parola, in grido, nel canto del « Santo, santo, san
santo », in altre parole, in questo effondersi e fluire in parola e canto, in questo
fenomeno consiste l'essenza propria di questi angeli. Non se ne deduca però
— quasi pensando il mondo degli angeli analogo alla forma di essere umano perfez —
che venga scelta una parte degli angeli a cui sia affidato il compito di cantar compi
qualcosa dinanzi a Dio. Questo sarebbe infatti un concetto inaccettabile, e in¬ 89
comprensibile riuscirebbe l'idea di un simile comportamento per tutta l'eternità.
c
Si tratta in realtà di tutt'altro; cioè non di angeli che siano anzitutto e astratta¬
mente " angeli " in un senso generico, e che poi cantino per soprappiù, bensì di solame
angeli i quali in tanto sono tali in quanto si effondono, nel modo che abbiam intim
descritto, nella glorificazione del " santo, santo, santo " » (Il libro degli angeli, sa
trad. ital. di R. Giachino, 64-65). d
4. - Gli angeli raggiungono la propria perfezione lodando Dio. In essiStefano
si realizza quello stato di soprannaturale compimento che noi chiamiamo appa
paradiso (cfr. il trattato sui Novissimi; Sai. 89, 6; Ebr. 12, 22; 1 Tim. glor
Ge
5, 21). La loro beatitudine si accresce nel corso della storia salvifica,
non in quanto a sostanza, la quale sta solamente nella visione amorosa
di Dio e nella partecipazione alla sua vita intima, bensì accidentalmente,Domina
poiché divengono loro noti sempre nuovi atti salvifici di Dio (Le. 15, 10; r
Ef. 3, 10). La loro perfezione è l'esemplare della perfezione sopranna¬
turale dell'uomo. Quando sul volto di Stefano brillò la maestà divina,
tutti ne furono affascinati, e il suo viso apparve simile a quello di un
angelo (Atti 6, 15). Tuttavia anche tale gloria angelica ha i suoi li¬
miti: Sai. 89, 6-8; Giob. 4, 18. Cirillo di Gerusalemme dice nelle sue
Catech., 6 : « Gli angeli lo (il Padre) vedono quanto sono capaci e gli son
arcangeli come possono; e i Troni e le Dominazioni in forma più eccelsa p
dei primi, tuttavia infinitamente meno della realtà. Uno solo ha la vi¬ altr
sione precisa e completa della realtà assieme al Figlio : lo Spirito Santo ». p
indic
§ 121. Numero e distinzione degli angeli.
Secondo le allusioni bibliche gli angeli sono innumerevoli (Dan. 7,
10; Mt. 26, 53; Ebr. 12, 22). Manca ogni possibilità per stabilirne il
numero esatto. Sono diversi gli uni dagli altri, e formano assieme una
gerarchia con determinati gradi. Sul come però queste differenze va¬
dano intese, abbiamo nella Bibbia poche indicazioni assai vaghe.
§ 122. GLI ANGELI NELLA STORIA DELLA SALVEZZA Ó2I
L'Antico Testamento nomina i Cherubini (Gen. 3, 24; Ez. 10, 3) e i
Serafini (Is. 6, 2 ss.). Il Nuovo parla dei Troni, delle Potestà, dei Prin¬
cipati, delle Virtù e delle Dominazioni (Rom. 8, 38, Col. 1, 16; Ef. 1,
21; 3, 10).
Alcuni Padri parlano di nove cori, che lo Pseudo-Dionigi raggruppa
in tre gerarchie. Riguardo alla distinzione degli angeli, S. Tommaso
d'Aquino asserisce che ciascuno, essendo privo di materia e conseguen¬
temente di ogni principio di individualizzazione, costituisce una specie
a sè. Altri asseriscono che il mondo angelico si divide in diverse specie,
ciascuna delle quali riunisce in sè diversi individui (Alessandro di Hales,
Bonaventura, Duns Scoto).
Chi studia gli angeli deve tener conto di ciò che scriveva Agostino:
« A tutti questi problemi rispondano quelli che son capaci, purché pos¬
sano provare le loro affermazioni. Per me preferisco confessare la mia
ignoranza... Quando si sollevano questi problemi e ciascuno li risolve
come può con ipotesi, non inutilmente si esercita l'ingegno, purché la
discussione resti moderata e si eviti l'errore di quelli che credono sapere
ciò che non sanno. Che necessità vi è, infatti, di negare 0 di affermare
cose che possono essere ignorate senza colpa? » (Enchiridion, 15, 58 e 59).
§ 122. Gli angeli nella storia della salvezza.
1. -L'esistenza degli angeli, come qualunque altra verità sopranna¬
turale, non ci è stata rivelata con lo scopo di completare la nostra cono¬
scenza del cosmo, bensì in vista della nostra salvezza. Negli angeli ci
vien mostrato fino a quale punto il nostro attuale modo di esistere si
dovrà trasformare per inabissarci nell'amore divino. Inoltre l'uomo viene
a conoscere che egli stesso, come parte della creazione, sta in intimo rap¬
porto vitale con loro, così come ogni creatura è perennemente vincolata
a un'altra, e, tramite questa, a tutto il resto del creato. Ciò significa che
gli angeli esercitano su noi influsso sanante e santificante: appartengono
non solo a Dio, bensì anche agli uomini.
2. - Gli angeli collaborano all'edificazione del regno di Dio, al suo
consolidamento, progresso e compimento. Michele combatte contro i
dragoni e li precipita dal cielo (Apoc. 12, 7 s.). Gli angeli mentre in
paradiso compiono il volere divino (Mt. 6, 10) e si prodigano nell'amore
di Dio (§ 120), proclamano e attuano nel creato la sua gloria e regalità
la salvezza (2, 9), gli angeli solament
o
622 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
P
e guidano, in tal modo, gli uomini verso la salvezza. Nella lettera aglicollabora
Ebrei il servizio a favore di coloro che devono ereditare la salvezza ca¬ subo
ratterizza il compito angelico (i, 14).
Tuttavia esiste una differenza essenziale tra l'opera salvifica di Cristo visibil
e quella dell'angelo. Mentre Gesù, come Figlio di Dio, stabilisce e crea
la salvezza (2, 10; 5, 9), gli angeli sono solamente docili strumenti della svinc
volontà salvifica divina. Vengono inviati or qua or là per favorire la sal¬ partecip
vezza dell'uomo (Ebr. 1, 14; cfr. Sai. 91, 11). Per questo sono stretta¬ collaborazio
mente collegati a Cristo; infatti possono collaborare solo a quella salvezza p
che è in lui. L'inscindibile rapporto e la loro subordinazione a Cristo sono volontà
affermati chiaramente nella lettera ai Colossesi 1, 16; qui si dice che tutto del
ciò che sta in cielo e in terra, ogni realtà visibile e invisibile, troni, si¬ funz
gnorie, principati, dominazioni, sono stati creati in Cristo (vedere anche
2, 10; cfr. § 103). Non è quindi possibile svincolare gli angeli da tale
appartenenza al Redentore. Essi quindi partecipano pure alla sua mis¬ esse
sione. Nell'Antico Testamento la loro collaborazione alla salvezza umana
è stata preludio di quella che si sarebbe avverata più tardi in Cristo. Come te
messi ubbidienti di Dio ne adempivano la volontà tenendo desta nel po¬ d
polo eletto la brama di salvezza e la coscienza della peccaminosità umana. tuttav
Nel Nuovo Testamento la loro attività è in funzione di Cristo e al suo S'a
servizio. Pro
docili
3. - In particolare l'attività angelica può essere così tratteggiata: visibi
a) Secondo l'Antico Testamento essi sono i messaggeri benefici e Tob
possenti della volontà salvifica di Dio e, in pari tempo, validi combattenti
che debellano i nemici e gli avversari di Dio e degli uomini a lui uniti. cos
Cfr. i passi addotti nel § 118. Gli angeli tuttavia, non possono recare
nessun aiuto che sia di per se stesso salvifico. S'accontentano di eseguire i
in silenzio e sollecitamente i comandi divini. Pronti alla sua parola e al 9
suo cenno (Sai. 103, 20), sono strumenti docili della sua volontà (Sai.
89, 7-9; Giob. 4, 18; 15, 15). Appaiono visibilmente, ora sotto sem¬
bianza di uomini (ad esempio Gen. 19, 1 ss.; Tob. 5, 4 ss.), ora in forma
che trascende l'aspetto umano, vale a dire come esseri luminosi in vesti
splendide, rilucenti come il sole; e lasciano così trapelare il fulgore di
Dio; cfr. ipassi cià citati nel § 118.
b) Siccome gli angeli sono i messaggeri e i mallevadori della bontà
e del favore divino (2 Sam. 14, 17; 1 Sam. 29, 9), possiamo avere piena
fiducia in essi. Tutelano la vita sia fisica, sia spirituale (Gen. 24, 7;
Tob. 5, 17; Giud. 13, 20; Dan. 9, 49. 6. 23; Zac. 3, 6). Favoriscono
§ 122. GLI ANGELI NELLA STORIA DELLA SALVEZZA 623
l'uomo presso Dio; gli offrono le nostre preghiere e intercedono per noi
(Tob. 12, 12; Giob. 5, 1; 33, 23; Prov. 16, 14). Per incarico e in nome
di Dio puniscono coloro che si oppongono a lui e avversano la salvezza
umana. Quantunque gli angeli vindici e distruttori abbiano un compito
non salvifico, tuttavia non sono certo cattivi come Satana, nè lavorano
per rovinare l'uomo. Eseguono solo gli ordini di Dio, in perfetta ar¬
monia con il suo volere (Sai. 35, 5; Es. 12, 23; Ez. 9).
c) Prima di Cristo gli angeli sono stati i messi che preannunciavano
e suscitavano la brama del regno di Dio; dopo la sua comparsa diven¬
gono gli strumenti di tale regno che appare con Cristo medesimo. An¬
ch'essi partecipano al mistero salvifico, penetrato nel mondo con l'incar¬
nazione di Cristo (Ef. 3, 10), e non ne sono che gli ambasciatori e gli
strumenti. Del resto anche Cristo, il Redentore inviato dal Padre, è
ambasciatore e mediatore dell'amore divino. Ma per la sua unicità lo è
in modo meraviglioso, singolare, infinitamente al di sopra di tutti gli
angeli. Questi, secondo Paolo (Ebr. 1, 4-14), gli sono sottoposti e sotto¬
stanno totalmente al governo divino. È Dio che stabilisce il loro compito
e il modo in cui devono eseguirlo. Gli angeli devono piegare il ginocchio
davanti a Cristo!
Come il Verbo Incarnato è incomparabilmente superiore a loro, così
anche la salvezza che ci reca trascende immensamente quella che gli an¬
geli hanno annunziata nell'Antico Testamento. Senza dubbio anche l'an¬
nunzio salvifico che gli angeli fecero nell'Antico Patto era vincolante
(Gal. 3, 19). Ma in Cristo la salvezza ha raggiunto il suo apice, per cui
ne consegue maggior dovere e maggior responsabilità. Gli angeli non
hanno assicurato la gloria dell'universo, che Cristo invece garantisce
anche se non è ancora suonata l'ora della sua piena manifestazione. Tut¬
tavia vi è stato un momento in cui Cristo, soggiacendo alla morte, si è
abbassato al di sotto degli angeli; ma questa umiliazione era la via sta¬
bilita dal Padre per raggiungere la glorificazione. Ora noi viviamo nel
tempo che sta tra due poli: l'umiliazione di Cristo seguita dalla sua glo¬
rificazione e la manifestazione visibile della sua regalità (Ebr. 2, 1-5).
Il mistero di Cristo eclissa quindi gli angeli; anch'essi sono vincolati alla sua
rivelazione e non vi possono aggiungere e sottrarre la minima cosa. L'intangibi¬
lità del mistero di Cristo è tale che un angelo il quale volesse modificarvi al¬
cunché cadrebbe immediatamente sotto anatema (Gal. 1, 8). La gloria di tale
mistero è tanta che persino i cori angelici ne sono estasiati (1 Piet. 1, 12). Chiun¬
que si pone al servizio di Cristo diviene spettacolo non solo per l'uomo, bensì
sottoposti potestà e virtù » (1 Piet. 3, 22).
so
624 p- IL - LA REALTÀ extradivina e l'attività salvifica di dio C
rap
per gli angeli stessi (i Cor. 4, 9); l'unione a Cristo è decisiva per la salvezza. all'inca
Coloro che l'hanno raggiunta, ossia i santi, giudicheranno persino gli angeli sottoline
(1 Cor. 6, 3), ossia Dio li porrà al di sopra degli angeli, in grado di conoscere abbr
la loro bontà e la loro malizia e di riconoscere la giustezza del giudizio divino.
Nessuna lingua angelica può giovare se manca l'amore di Cristo (1 Cor. 13, 1), dell'as
cfr. § 119. «Cristo è alla destra di Dio dopo essere salito al Cielo: a lui sono s
sottoposti potestà e virtù » (1 Piet. 3, 22). inte
Per quanto gli angeli siano infinitamente al di sotto di Cristo, vivono pur se
sempre in quel mondo da cui anch'egli proviene. Con il Logos scendono dal ta
cielo e lo servono sulla terra, lo attorniano come rappresentanti del mondo ce¬
leste (Giov. 1, 51). Con la loro partecipazione all'incarnazione, agli eventi della
vita di Cristo, alla sua passione e morte, ne sottolineano la provenienza celeste
(Giov. 8, 23) e il significato della sua opera che abbraccia cielo e terra. In par¬ dife
ticolare gli angeli sono gli annunziatori, i testimoni e gli attori secondari del¬ Ch
l'incarnazione, della nascita, della risurrezione, dell'ascensione e del giudizio di mo
Cristo. Quantunque gli angeli lo accompagnino, non si può tuttavia asserire che riferi
l'intero corso dell'esistenza terrena di Cristo sia intessuta di apparizioni ange¬
liturgiche
liche. Icelesti messaggeri stanno piuttosto, come servi ubbidienti, ai margini
della sua vita e della sua missione salvifica : solo di tanto in tanto fanno la loro b
comparsa. dic
consacrato
4. - a) Come gli angeli hanno servito e difeso Cristo, così proteg¬
gono e difendono il suo corpo mistico, la Chiesa. Le stanno accanto circondano
nelle sue vicende, le trasmettono gli ordini, i moniti e le consolazioni di
Dio (cfr. i passi degli Atti degli Apostoli riferiti nel § 118), e parteci¬
pano al suo culto. Secondo le preghiere liturgiche hanno parte 0, almeno,
sono presenti ai riti, quali, per esempio, il battesimo, l'eucaristia, il i
matrimonio. L'armeno Giovanni Mandukaniz dice : « Ignori tu che nel¬ sin
l'istante in cui il sacramento viene consacrato sull'altare, si aprono i
cieli e vi scende Cristo, dimentichi che in quel momento le schiere an¬ tribunal
geliche volano dal cielo sulla terra e circondano l'altare dove vi è il sa¬ all'arca
cramento del Signore e che tutto viene ripieno di Spirito Santo? » (Bi- preghie
bliothek der Kirchenvàter, II, 226). tratt
b) L'aiuto che in genere gli angeli danno alla Chiesa si estende a Inf
tutte le sue parti, le diocesi, le parrocchie e i singoli fedeli. È verità
rivelata che ogni cristiano, vale a dire ogni singolo membro del corpo
mistico di Cristo, ha il suo angelo custode, il quale innalza a Dio le
sue preghiere, e l'accompagna dinanzi al tribunale divino. (Generalmente
i Padri attribuiscono quest'ultima azione all'arcangelo Michele). Quando
l'ancella riferì ai cristiani, radunati in preghiera, che chi batteva alla
porta era Pietro, dapprima pensarono che si trattasse del suo angelo an¬
ziché dell'Apostolo in persona (Atti 12, 15). Infatti per la loro fede era
§ 122. GLI ANGELI NELLA STORIA DELLA SALVEZZA 625
ovvio che Pietro avesse un angelo custode il quale poteva assumere il
suo sembiante e la sua voce.
Il passo biblico che espressamente ci parla dell'angelo custode è quello
di Mt. 18, 1-10: «In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù
dicendogli : " Chi è il più grande nel regno de' cieli? E Gesù, chia¬
mato un fanciullino lo pose in mezzo a loro, disse : " In verità vi
e
dico: se voi non vi cambierete e non diventerete come i pargoli non
entrerete nel regno de' cieli. Chi dunque si farà piccolo come questo
fanciullo, sarà il più grande nel regno de' cieli. E chi riceve un fanciullo
come questo in nome mio, riceve me. Ma chi avrà scandalizzato uno
di questi piccini che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse
appesa al collo una macina da mulino e fosse sommerso nel profondo del
mare. Guai al mondo per causa degli scandali! È necessario infatti che
avvengano scandali, guai però all'uomo per causa del quale avviene lo
scandalo!... Guardatevi dal disprezzare alcuno di questi piccoli, poiché
vi dico che i loro angeli, nei cieli, vedono continuamente il volto del
Padre mio, che è nei cieli " ».
Gesù ai discepoli che disputano per accaparrarsi i primi posti nel regno
dei cieli spiega che per entrarvi è necessario farsi piccoli come i bambini. Ifan¬
ciulli sono ingenui e fiduciosi, perchè ignorano la malizia della vita e la diffi¬
denza con cui gli uomini si guardano tra loro. Quantunque tale fiducia li renda
inermi di fronte agli uomini, tuttavia non sono indifesi. Guai a chi con intento
malvagio o corruttore s'accosta a un fanciullo! Non si trova di fronte una crea¬
tura priva di aiuto, bensì alla potenza del suo angelo. Il custode che protegge il
bimbo contempla infatti il volto di Dio; è unito a lui, all'onnipotenza santa e
alla santità onnipossente di Dio. Uno scandalo dato a un fanciullo è insulto ri¬
volto alla santità e alla potenza divina! Guai a chi osa dare simili scandali!
« L'angelo tace. Visibilmente non accade nulla. La tua casa non prende fuoco,
i tuoi affari non peggiorano; la tua automobile non si sfascia. Ma ogni cosa è
registrata a tuo carico dall'onniscienza divina, e un giorno saprai quale nemico
ti sei creato, quando ti si rizzerà dinanzi l'angelo custode del fanciullo che hai
rovinato! » (R. Guardini, Der Engel, in Die Schildgenossen, 17, 1938, 300-303.
Sarebbe un abbassare l'angelo ritenerlo un semplice spettatore celeste.
No! Egli, durante la vita terrena, ha il compito di condurre alla salvezza
l'uomo che gli è affidato, lungo i sentieri che Dio stesso ha tracciato i
quali passano attraverso la sofferenza e la morte. L'angelo custode pre¬
serva la creatura dalla sofferenza, ma soltanto in quanto ciò può giovare
alla sua salvezza.
Dalla Bibbia rileviamo che Dio ha messo al fianco di ciascun uomo
40 - schmaus - dogmatica I.
stode rappresenta, dinanzi a Dio, il popolo nella
riconosce
626 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
un angelo, quale suo messaggero e custode del suo amore. Tale opinione
guerr
è oggi comune, tra i teologi. vis
Tuttavia possiamo tentare di asserire qualche cosa di più. Anche i d'accor
popoli hanno un angelo protettore. Infatti ciascun popolo forma un de
com
tutto omogeneo con caratteristiche e fisionomia propria. L'angelo cu¬
stode rappresenta, dinanzi a Dio, il popolo nella sua totalità, intercede ese
per lui nelle sue preghiere, lo aiuta a riconoscere e a eseguire il com¬ simbo
pito che gli è stato affidato nella storia umana, cerca di preservarlo daimessagg
pericoli che lo minacciano e lo aiuta nelle guerre giuste: Deut. 32, 8; angelica
Eccl. 17, 14 e specialmente Dan. 10. Nella visione dell'arcangelo Ga¬ parzialm
briele, il profeta viene a sapere che egli, d'accordo con il principe degli Dio.
angeli Michele, ha combattuto con l'angelo dei Persiani e dei Greci. g
Siccome si tratta di visione è inutile ricercare come mai sia possibile una p
a
colluttazione tra angeli che cercano tutti di eseguire la volontà divina
che è unica. La lotta degli angeli è solo il simbolo della guerra tra i po¬testimonian
poli, alla quale assistevano pure i due messaggeri celesti. Se volessimo
spiegare ancora più a fondo tale lotta angelica, potremmo dire che il Sig
compito del popolo che gli è affidato è parzialmente sconosciuto all'an¬ p
Oration
gelo, il quale brama conoscere il volere di Dio. Il profeta descrive ap¬ l'ang
punto al riguardo, per mezzo di una lotta tra gli angeli, tale desiderio vent
angelico di conoscere la volontà divina circa il popolo che gli è affidato.
Cfr. S. Tommaso d'Aquino, S. Th., I, q. 113, a. 8. parole
lo
c) Quanto ai Padri riportiamo solo due testimonianze. Origene dice : « È na¬
turale che quando ima folla si raccoglie per lodare Cristo in modo retto, gli de
angeli stiano presenti nel luogo in cui si teme il Signore e a fianco dell'uomo Basil
a loro affidato. In tal modo dove si raduna gente pia ci sono due comunità caele
oranti: quella umana e quella angelica» (De Oratione, p. 3, cap. 31, n. 5; cfr. Pèr
pure De principiis, 3, 6). Secondo Dan. 10, 13 l'angelo apparso a Daniele gli
dice : « L'angelo dei Persiani mi si oppose per ventun giorni, allora Michele,
uno dei più grandi principi, venne in mio soccorso ». T eodoreto di Ciro, nel il
suo commento a Daniele, osserva : « Da queste parole rileviamo che ognuno di
noi è stato affidato ad un angelo che lo protegge, lo difende e lo libera dalle 98
insidie demoniache. L'arcangelo ha invece il compito di custodire i popoli ». Si
vedano pure per la dottrina degli angeli custodi dei popoli Gregorio di Na-
zianzo, Orario, 28, 31; Poemata dogm., 7, 23 ss.; Basilio, In Isaiam, 10, 240; Gi¬
rolamo, In Daniel, io, 13; Pseudo-Dionigi, De caelesti hierarchia, 10, 4. Cfr.
J. Daniélou, Les anges et leur mission d'après les Pères de l'Église, 1951.
d) Alle premure che gli angeli hanno per noi, l'uomo deve corri¬
spondere con venerazione e preghiera. Cfr. il VII Concilio di Nicea
(Denz. 302) e il Tridentino (Sess. 25; Denz. 984 ss.). Spesso la liturgia
§ 123- LA CADUTA DEGLI ANGELI: L'ESISTENZA DEGLI SPIRITI CATTIVI 627
invoca gli angeli sia genericamente, sia individualmente. (Vedi l'inno dei
vesperi e alle lodi per la festa degli angeli custodi). Nell'offertorio della
Messa dei defunti si legge : « Signore Gesù Cristo, Re della gloria, li-
oera le anime di tutti i fedeli defunti dalle pene dell'inferno e dal pro¬
fondo abisso; scampale dalle fauci del leone, onde il tartaro non le ingoi,
onde non cadan nelle tenebre, ma il santo alfiere Michele le conduca
nella Luce santa ».
§ 123. La caduta degli angeli: l'esistenza degli spiriti cattivi.
1. - Non tutti gli angeli vennero fatti partecipi della perfezione so¬
prannaturale a cui eran destinati: alcuni peccarono e furono condan¬
nati all'eterna dannazione. È dogma di fede; cfr. il IV Concilio Late-
ranense (Denz. 428-429).
2. - Pietro nella sua seconda Epistola (2, 4) testimonia il peccato di
una parte degli angeli. Egli allude al giudizio, con la punizione, destinato
ai falsi profeti. Questi non possono cullarsi nella speranza di evaderlo,
dal momento che Dio non lo ha risparmiato nemmeno agli angeli ribelli,
anzi li ha precipitati nell'inferno, nell'abisso tenebroso, in attesa di quello
finale. Qualche cosa di simile lo leggiamo nella lettera di Giuda (v. 6),
dove gli angeli caduti sono portati come prova del giudizio punitivo di
Dio. « Gli angeli che non conservarono la loro dignità, ma abbandona¬
rono la propria dimora, (il Signore) li ha detenuti in custodia per il
giudizio del gran giorno, avvinti in catene eterne, nelle tenebre ». Se¬
condo questi passi pare che agli angeli colpevoli sia riservato un duplice
giudizio : uno subito, dopo la loro colpa, il secondo definitivo, alla fine de
mondo. Anche Giov. 8, 44 testimonia il peccato degli angeli, colpiti
dalla giustizia divina. Il demonio non ha camminato nella verità, ossia
non ha osservato l'ordine che Dio aveva disposto conforme all'essere
delle cose. Il punto essenziale di questo passo è che Satana è un angelo
decaduto. Tuttavia il peccato non ha annientato la dignità che gli com¬
pete come creatura di Dio. Persino l'arcangelo Michele che lo precipitò
dal cielo (Apoc. 12, 7 s.), non osò ingiuriarlo (Giuda, vv. 8-10).
3. - Se una parte degli angeli cadde in colpa, ciò dimostra che essi
hanno la capacità di peccare.
beatifica, egli divenne impeccabile. Secondo la dottr
gli
628 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO natu
necessaria
Secondo la dottrina patristica e dei teologi medievali essi sarebbero peccabili soprann
per natura. Certo, per la loro stessa essenza sono ordinati alla visione di Dio, trascen
ma questa doveva esser loro concessa, in realtà, solo come effetto di un atto di
volontà. Ma la volontà, essendo libera, ha la possibilità di decisione errata.
L'angelo poteva, infatti, cercare la perfezione o in se stesso o in Dio solo come ognu
autore della natura. Unicamente mediante la grazia, specialmente con la visione un
beatifica, egli divenne impeccabile. Secondo la dottrina dei teologi moderni, e La
specialmente dei seguaci del domenicano Banez, gli angeli per la loro essenza nell'o
stessa sono impeccabili, in quanto ordinati per natura solo ad una felicità na¬
comin
turale in Dio, vi tendono naturalmente e necessariamente. Divennero peccabili
solo nell'atto in cui furono elevati all'ordine soprannaturale. Qui infatti la loro 4)
volontà, dovendosi decidere per un fine che trascendeva le esigenze della loro u
natura, poteva prendere una risoluzione erronea. d
Tuttavia qualunque sia l'opinione che ognuno segue, tutti devono ancora,
ammettere che gli angeli furono sottoposti a una prova riguardo al cui gloria
genere e durata, però, non sappiamo nulla. La rivelazione, al riguardo, semplice
non ha che accenni. Se il peccato consiste nell'orgoglio (Eccl. io, 12 s.), sop
va concluso che anche quello del demonio cominciò con un atto di super¬ v
bia. Nella seconda lettera ai Tessalonicesi (2, 4), Paolo dice che colui il ring
quale, con potere satanico, tenta di sedurre gli uomini, « si innalza sopra gi
tutto quello che è chiamato Dio ». Il peccato di Satana consiste dunque
l
nell'avere trascurato di tener conto, 0 più ancora, negato la propria dipen¬ pe
denza da Dio perchè accecato dalla propria gloria. Egli è giunto al punto d
di rifiutarsi di ammettere il suo stato di semplice creatura, 0 per lo meno, della
di non voler riconoscere che la perfezione soprannaturale, che Dio gli l
aveva largito, era un dono. Il demonio non ha voluto ammettere di aver intima
ricevuto qualche cosa perchè non intendeva ringraziare l'amore che do¬ ne
nava. La lotta senza quartiere che Satana ha giurato a Cristo e alla sua 3
opera salvifica potrebbe anche far pensare che la sua ribellione sia con¬ Azaze
sistita nel non voler ammettere di essere, per creazione, vincolato a
Cristo e di dover riconoscere in lui, nel Figlio di Dio incarnato e perciò signif
divenuto uomo, il centro del creato, il capo della creazione stessa. tro
4. - La conseguenza del peccato angelico è l'esistenza paradossale di
creature che per la loro stessa inclinazione intima tendono al male. L'An¬
tico Testamento testimonia l'esistenza di tali nemici giurati di ogni bene
in quattro passi principali: Giob. 1, 6 ss.; Zac. 3, 1ss.; Sap. 2, 4 e Lev.
16, 7 ss. Nel Lev. 16, 6 ss. si parla di Azazel. La Bibbia lo descrive
come un capro espiatorio su cui sono gettati, in rito simbolico, i pec¬
cati del popolo d'Israele. Ciò non sta a significare solo la remozione
delle colpe, ma anche il luogo dove esse si trovano dall'eternità, ossia
§ 123- LA CADUTA DEGLI ANGELI: L'ESISTENZA DEGLI SPIRITI CATTIVI 629
presso Azazel, che va identificato con Satana. Non dimostrano invece
l'esistenza del demonio i seguenti passi che di solito si citano non a
proposito: i Sam. 16, 14 s.; 16, 23; 18, 10; 19, 9; 3 Re 22, 19-23;
1 Cron. 21, 1. Cfr. H. Kaupel, Die Dàmonen im Alten Testament, 1930.
Nei libri ispirati si respingono e si combattono le credenze superstiziose e po¬
polari sui demoni. Essi condannano per es. il sacrificio ai Seirim, ossia agli spa¬
ventosi spiriti infernali dall'aspetto di capri di cui era imbevuta la credenza dei
popoli finitimi. Proibiscono al popolo di offrire sacrifici ai demoni, ai falsi dèi,
e anche alle divinità sconosciute e che di continuo divengono di moda (Deut.
32, 17; cfr. 2 Cron. n, 15). Non è chiaro se tale proibizione intendeva riferirsi
agli spiriti cattivi o se invece alludeva agli dèi pagani : in ogni modo la prima
interpretazione pare la più probabile. Idemoni danzanti, con sembiante di capro,
che si rinvengono nelle città sepolte appartengono alla superstizione popolare che
tentava di invadere il campo rivelato. Anche la demoniaca Lilith e simili genie
di esseri malvagi appartengono alla medesima tendenza superstiziosa (Is. 13, 21;
34, 12-14). Gli idoli a cui i pagani offrono sacrifici, secondo il Sai. 106 (105), 37,
parrebbero far parte di tali spiriti del male.
È dubbio che il libro di Tobia testimoni veramente l'esistenza di Satana. Qui
si raccontano le vicende della figlia di Raguele, la quale era stata colpita da un
grave malanno. Si era sposata sette volte, e ogni volta le era morto il marito
nella notte nuziale. La colpa di tali infortuni viene gettata sul demone Asmodeo,
a cui si attribuisce l'uccisione dei sette mariti. L'angelo Raffaele ne spezza il
potere (3, 8; 6, 8 ss.; 12, 3. 14). È sorprendente che qui Asmodeo venga chia¬
mato demonio. Infatti nell'Antico Testamento tale appellativo era riservato esclu¬
sivamente ai demoni pagani che la Bibbia avversava. L'angelo ribelle viene sem¬
pre chiamato Satana ed è causa di male spirituale: Asmodeo invece non è ca¬
gione di ciò bensì di un infortunio fisico. È pure altresì significativo il fatto che
le persone, le più vicine all'interessato, non sapessero che la morte improvvisa
dei sette uomini era dovuta all'intervento demoniaco. Con tutta probabilità si
trattava di semplice diceria la quale attribuiva tale infortunio al diavolo. Tali
osservazioni ci permettono di supporre che nel libro di Tobia, sotto il nome di
Asmodeo si intendesse alludere alla credenza superstiziosa sui demoni che per¬
meava tutto il pensiero di allora. Qui la Bibbia, in modo semplice e impressio¬
nante vuole insegnare al popolo eletto, attraverso un esempio, che non sono as¬
solutamente da temere questi spiriti del male pagani, ma che occorre riporre la
propria fiducia nella protezione divina. Gli Ebrei avevano bisogno di tale am¬
monimento, poiché vivendo in cattività a Babilonia, si trovavano continuamente
esposti al pericolo di cadere in tale errore. Se si accetta tale interpretazione non
si può più addurre il libro di Tobia come prova a favore dell'esistenza degli
angeli ribelli. Cfr. M. Schumpp, Das Buch Tobias, 1933, LXXXI-LXXXVII.
5. - UAntico Testamento non ci dà alcun schiarimento riguardo al
numero dei demoni. Sembra, anzi, che in tutte le sue pagine si parli
di uno solo: Satana. Quando la Bibbia allude alla schiera di Satana, in¬
tende riferirsi agli uomini cattivi. Da ciò risulta chiaro che la credenza
di il pio patriarca, tuttavia lo svolgimen
63O P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
d
nei demoni non è un punto fondamentale della fede veterotestamentaria. D'dmon
Le malattie e le disgrazie non vengono attribuite ai demoni, che l'uomo relig
dovrebbe propiziarsi per mezzo della magia, bensì considerate come credenza
prove che il Dio vero e vivo invia alle sue creature. Anche nel libro os
di Giobbe, quantunque si dica che Satana ha ricevuto da Dio il potere senti
di provare il pio patriarca, tuttavia lo svolgimento del racconto dimostra
che è Dio stesso a volere la prova. Qui appare chiara l'enorme diversità
che esisteva tra la credenza veterotestamentaria degli spiriti e quella del¬ (Beelz
l'ambiente extra biblico. H. Kaupel (Die Dàmonen im Alten Testament, 7
92), dopo profonde ricerche afferma : « La religione veterotestamentaria Circ
non è influenzata nè dal culto nè dalla credenza sui demoni. Le proibi¬ Tuttav
zioni del culto demoniaco e gli altri precetti da osservarsi, erano, in realtà,
la semplice manifestazione di un intimo sentimento che avversava il
pensiero e la pratica pagana ».
diavolo
6. - Nel Nuovo Testamento si parla invece esplicitamente del regno contr
di Satana. In cima a tutti sta Beelzebub (Beelzebul), il principe dei de¬
moni (Mt. 25, 41; 2 Cor. 12, 7; Apoc. 12, 7; Mt. 12, 24). Idiavoli
costituiscono un'intera legione (Me. 5, 9). Circa la proporzione nume¬
ess
rica tra demoni e angeli non si sa nulla. Tuttavia è diffìcilmente conci¬ a
liabile con l'amore e la dignità del Creatore, il pensare che possano esi¬
stere più angeli ribelli che buoni. pot
lontan
7. - La rivelazione dell'esistenza del diavolo, quale creatura divina dem
indurita nell'odio contro Dio e che si erge contro di lui, differisce essen¬ trasform
zialmente da tutte le altre concezioni religiose e profane concernenti i o
demoni.
i
La credenza popolare greca vedeva nei demoni esseri dotati di potenza sovru¬
mana (il più delle volte considerati come spiriti di antenati defunti), capricciosipersonific
ed enimmatici, che operavano in determinati luoghi solitari, in tempi stabiliti e
in particolari eventi paurosi della natura. Erano potenze che l'uomo, mediante dell
riti magici, poteva dominare o almeno tenere lontane. La filosofia greca, supe¬ anch'egl
rando tali concezioni popolari, ha bensì ridotto i demoni a forze che sottostanno
alla potenza divina, ma è stata obbligata a trasformarli in esseri intermedi tra
Dio e l'uomo. L'essere demoniaco però non sta in opposizione a Dio, anzi, in
certo qual modo, viene equiparato a lui.
Gli apocrifi giudaici sviluppano ampiamente le idee superstiziose circa gli
spiriti cattivi.
Nella religione persiana il Maligno è la personificazione di un potere natu¬
rale. L'opposizione tra bene e male attraversa tutto l'essere. Ahura-Mazdà (Or-
muzd), il dio buono, vive dall'eternità nel regno della luce, mentre l'avversario,
Angra Manju (Ahriman) regna eternamente anch'egli, sul mondo delle tenebre.
§ 123- LA CADUTA DEGLI ANGELI: L'ESISTENZA DEGLI SPIRITI CATTIVI 63 1
Ahura-Mazda, che per la sua onniscienza conosce il regno del suo avversarie
crea dapprima un mondo perfetto nel cielo dove gli esseri vissero lungamente
in stato puramente spirituale. Angra Manju, vedendone la luce, decise di di¬
struggerla, e a tale scopo suscita dall'abisso innumerevoli demoni a cui proi¬
bisce di prestare obbedienza ad Ahura-Mazda e, aiutato da loro, muove guerra
al suo avversario. Questi però riesce per 3000 anni ad atterrire il dio delle te¬
nebre. Finalmente questi si decide a risollevarsi e a dichiarargli nuovamente
guerra. Crea per tale scopo gli spiriti malvagi, che sono la causa non solo di
ogni sciagura, bensì anche del peccato e del male. La lotta fra il dio buono e
lo spirito delle tenebre si svolge per tutto il corso della storia, tuttavia nella bat¬
taglia finale Ahura-Mazdà vincerà con azioni sacrificali e precipiterà l'avversario
nell'abisso, annientandolo così per sempre. Riguardo alle differenze tra questa
dottrina e l'insegnamento biblico vedi H. Kaupel nel libro citato, pp. 112-113.
8. - IPadri hanno messo in risalto il fatto che Satana non è un prin¬
cipio primo del male e nemmeno una potenza cattiva primordiale, bensì
una creatura di Dio decaduta.
Basilio nell'Omelia « Che Dio non è autore dei mali » (n. 8) dice : « Gabriele
è un angelo che sta ininterrottamente alla presenza di Dio. Satana lo era an-
ch'egli, ma perdette il posto che occupava. Il primo rimase in cielo per libera
decisione, mentre il secondo per altrettanto libera scelta precipitò nell'inferno.
Anche Gabriele avrebbe potuto divenire disubbidiente, mentre Satana poteva
mantenersi fedele. L'amore illimitato che l'uno ha per Dio lo ha preservato,
mentre l'aver abbandonato Dio meritò all'altro la condanna. Il male consiste
infatti nell'allontanarsi da Dio... Il demonio è malvagio perchè consapevolmente
e liberamente si è deciso per il male, non perchè la sua natura sia contraria al
bene. Per quale ragione ci combatte? Unicamente perchè essendo colmo di mal¬
vagità, porta in sè il tarlo dell'invidia, che lo rode e non può sopportare la
nostra gloria. Non potendo tollerare la nostra vita felice nel paradiso terrestre,
con raggiri e astuzia ha fatto peccare l'uomo e ha suscitato in lui la medesima
brama che fu causa della sua rovina: divenire simile a Dio. Infatti gli promise
la parità con Dio purché mangiasse il frutto proibito ». Gregorio di Nazianzo
(.Sermo 6, nn. 12 e 13) dice : « Di poi vengono le prime creature di Dio, quelle
che stanno attorno a lui, cioè le potenze angeliche e celesti, le quali ricevendo
per prime la Superna Luce, e illuminate dal verbo della verità, sono anch'esse
luce e raggi della luce perfetta... Quell'angelo che osò suscitare la ribellione, in¬
nalzarsi al di sopra della propria dignità, ergersi contro l'onnipotenza di Dio,
e, come dice il profeta, bramare una sede al di sopra delle nubi, fu punito come
meritava la sua impudenza. Fu condannato alle tenebre invece che alla luce,
ovvero per meglio esprimersi, divenne egli stesso tenebra ».
Agostino (De civitate Dei, 12, 1) scrive : « È fuori dubbio che le inclinazioni
contrarie degli angeli buoni e cattivi non dipendono dalla differenza della loro
natura e del loro principio, perchè gli uni e gli altri sono opera di Dio autore
e creatore buono di tutte le sostanze, ma dalla diversità della loro volontà e
dei loro desideri. Gli uni costantemente uniti al bene comune di tutti, che è
Dio stesso, permangono nella sua eternità, verità e carità; gli altri compiacen-
ri
632 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO Confessione
s
dosi del proprio potere, come se fossero a se stessi il loro proprio bene, decli¬
narono dalle altezze del bene sommo, comune a tutti, verso il bene proprio e n
preferendo il fasto della superbia alla eccelsa eternità, l'astuzia della vanità alla nemme
certezza della verità, e odiose particolarità alla mutua carità, divennero superbi,
invidiosi, ingannatori. La causa dunque della beatitudine degli uni è la loro
unione con Dio; la causa della infelicità degli altri è la loro separazione da Dio.
Perciò se si domanda perchè quelli sono felici, si risponde giustamente: perchè
sono uniti a Dio; e perchè questi sono infelici, si risponde ancora rettamente :
perchè si allontanarono da Dio ». E nelle Confessiones (13, 8) aggiunge : « Anche que
con la miserevole inquietudine che infondi negli spiriti che tralignano e rive¬ mede
lano le loro tenebre prive della veste della luce, tu dimostri a sufficienza quanto
grande sia la creatura razionale da te creata, a cui nulla che sia da meno di te è
gli
bastevole a dare la pace e la felicità, e perciò nemmeno essa a se stessa ».
imp
§ 124. Il demonio nella storia della salvezza. individu
1. - Il demonio odia Dio, anzi vive di questo suo odio per Dio. In mond
altre parole, detestando il bene personale medesimo, non può più amare peccar
cosa o individuo alcuno. Così odia pure l'uomo, in quanto odia in lui Dio, ult
creatore e santifìcatore. Tenta di strappargli gli uomini, cercando di con¬
D
durli a uno stato di indipendenza da lui e implacabilmente combatte il
regno e il dominio divino nel mondo. Non si tratta di una potenza risa
malvagia impersonale, bensì di essere individuale, il cui sentimento in¬ rela
timo è cattivo e che vuole il male per il male.
Il peccato ha fatto il suo ingresso nel mondo per opera di un uomo, co
e poiché tale uomo è stato indotto a peccare dall'invidia del diavolo
(Rom. 5, 12; Sap. 2, 24), ne consegue, in ultima analisi, che fu colpapossibi
del demonio se il peccato si è manifestato. Dalla disubbidienza a Dio de
è derivata la morte con tutto il suo corteo di mah. Ogni peccato ha la Il
sua radice ultima nella colpa originale e risale, perciò, alla seduzione fattura
demoniaca. Ciascun peccatore è quindi in relazione con Satana, e cede mon
al primo seduttore.
Chi pecca si trova quindi nella schiera di coloro che odiano Dio, alla
cui testa sta Satana. Cessa di sottomettersi al Creatore, cade in suo po¬
tere. Per l'uomo non vi è altra scelta possibile: sottomettersi a Dio o
inchinarsi a Satana; 0 servi di Dio 0 servi del demonio! « Uno rimane
schiavo di cui l'ha vinto » (2 Piet. 2, 19). Il diavolo considera i pec¬
catori come esseri simili a lui e di sua fattura. È il Signore della terra
colpevole (Ef. 2, 1 s.), il principe di questo mondo (Giov. 12, 31; 14, 30;
16, 11), anzi il dio di questo secolo (2 Cor. 4, 4). Ha potere su ogni
§ 124- IL DEMONIO NELLA STORIA DELLA SALVEZZA 633
popolo e nazione (Apoc. 12, 7); è dominatore del mondo in cui v'è
peccato, morte, male, quindi del mondo della disunione, dell'infelicità,
dell'odio, dell'irrazionalità, dell'ingiustizia (Ebr. 2, 14); sono suoi figli le
creature delle tenebre e dell'orgoglio (1 Giov. 3, 8. 10; Giov. 8, 12).
Il Concilio di Trento ha parlato del regno di Satana sul mondo pec¬
catore trattando del peccato originale e della giustificazione (V e VI sess.;
Denz. 788, 793). Benché si dica che egli è « signore » di questo mondo,
dobbiamo tuttavia star bene attenti a non ritenerlo alla stessa stregua di
Dio. Dio e il demonio non stanno di fronte sul medesimo piano. Infatti
anche Satana è creatura, perciò sottoposto al Creatore. Dio è dunque
padrone anche di questo « signore ».
2. - Nell'Antico Testamento si trovano particolarmente quattro casi
in cui si manifesta la lotta demoniaca contro Dio e l'uomo.
Il libro di Giobbe è quello dell'Antico Testamento che meglio descrive Sa¬
tana. Nell'adunanza riferita nei capitoli 1 e 2, Dio si interessa al suo servo
Giobbe e tesse le più alte lodi della sua pietà. Satana, anch'egli presente, con¬
sidera la pietà di Giobbe come un pruno nell'occhio, e chiede di poterla mettere
alla prova. Dio gli permette soltanto di rovinare al suo beniamino averi e salute.
Il diavolo si mette immediatamente all'opera; ma nel testo le prove di Giobbe
paiono essere opera di Dio. Che Satana abbia potuto avere un colloquio con la
divinità è semplice licenza poetica. L'essenziale sta nel fatto che il demonio
tenta di far apparire falsa la pietà di Giobbe. Dio deve quindi provarla. Le ca¬
lamità sono mezzo che potrebbero provocarne la ribellione e smascherarlo: se
ciò dovesse avvenire, il giudizio di Dio si paleserebbe allora falso, poiché ciò che
era giudicata pietà altro non era se non raffinato amor proprio. Il diavolo appare
qui nemico di Dio e perciò anche nemico dell'uomo legato al suo Creatore.
Mentre nel libro di Giobbe Satana cerca di rovinare la virtù del protagonista,
in Zaccaria 3, 1ss. si sforza d'impedire la riconciliazione dei colpevoli. Il sommo
pontefice Giosuè, quale rappresentante della comunità infedele, è dinanzi al¬
l'angelo del Signore in misere vesti. Alla sua destra sta Satana per fargli oppo¬
sizione. La comunità secondo il comando divino deve essere purificata; dimostra
ciò in modo visibile Giosuè indossando paramenti festivi. Satana tenta di im¬
pedirlo, ma Dio lo riprende e riammette nelle sue grazie la comunità pecca¬
trice. Il demonio qui si mostra in contrasto con Dio misericordioso e santifi¬
cante, si palesa ostile al popolo eletto, al sacerdozio, a coloro i quali Dio vuole
perdonare. Tuttavia appare evidente che il potere divino è assai superiore a
quello di Satana, il quale nulla può contro il rimprovero del Signore.
Il libro della Sapienza, alludendo ai primordi della storia umana, dice : « Dio
creò l'uomo per l'immortalità, e lo fece immagine della sua propria natura; ma
per invidia del diavolo entrò nel mondo la morte, e ne fanno l'esperienza quelli
del suo partito » (2, 23). Questo passo spiega il capo 3 della Genesi, il quale
parla di un serpente, ossia di una potenza malvagia extraumana, che sedusse
l'uomo. Tale modo di agire infatti supera le possibilità comuni di un animale.
qualcosa di vero frammisto al falso. L'esito della
634 p- n- " LA REALTA extradivina e l'attività salvifica di dio mal
nutr
Infatti dietro il serpente sta l'essere tentatore il quale per natura, tendenza e coscie
carattere va equiparato a Satana. È colui che cagiona intrigo e diffidenza. Mentre diavol
il comando divino dice espressamente che l'uomo deve astenersi solo dal man¬ ani
giare il frutto dell'albero del bene e del male, egli insinua che tale ordine im¬
plica la proibizione di toccare qualsiasi frutto del paradiso terrestre. Tende il
suo intrigo con la menzogna; infatti mente in modo tale che vi sia sempre
qualcosa di vero frammisto al falso. L'esito della sua bugia si basa soprat¬ del
tutto proprio su questo; calunnia Dio asserendo che egli ha impedito ad Adamo
ed Eva di cibarsi di tale frutto solo con intento malizioso e orgoglioso. Con pa¬
role astute piene di doppio senso, afferma che, nutrendosi di tale frutto, i loro
occhi si sarebbero aperti e suscita nella loro coscienza l'impressione che in tal lotta
modo sarebbero divenuti pari a Dio. Che il diavolo venga rappresentato sotto bru
l'aspetto di un serpente, nasce dal fatto che tale animale è il più atto a simbo¬ Crist
leggiare l'astuzia e la scaltrezza del seduttore. 8
3. - a) La lotta del demonio contro il regno di Dio, contro il suo do¬ diavo
minio sul mondo, contro l'amore e la fede dell'uomo, diviene tanto più ch
forte e temibile quanto più s'avvicina l'ora in cui il regno di Dio malvag
deve penetrare nella storia con l'avvento di Cristo. A partire dall'in¬ su
carnazione del Verbo tale guerra diviene lotta personale contro Cristo.
Con astuzia, accortezza, menzogna e forza brutale Satana ha cercato di Mt.
annientare il Redentore e la sua opera. Ma Cristo, il quale era venuto per logica
distruggere le opere del diavolo (i Giov. 3, 8), non gli ha mai ceduto
neppure per un istante (Giov. 14, 30). Il diavolo perciò è rimasto scon¬ Sata
fitto dalla sola sua venuta (Giov. 16, 11); sa che per lui è scoccata l'ora
della rovina (Me. 1, 23-28). Gli spiriti malvagi non ignorano il signifi¬ ar
cato della venuta di Cristo e sospettano il suo vero essere; intuiscono
che la sua presenza significa la fine di quanto è impuro e peccaminosopubblic
(Me. 1, 34. 39; 3, 11 s.; 5, 1-12; 7, 24-30; Mt. 8, 16; 8, 28-34; 9, 32 s.;
15, 21-28; Le. 6, 18). Gesù non vuole, logicamente, che la sua dignità S
e missione siano annunziate dallo spirito del male, nè permette che ilquaranta
demonio dica di conoscerlo (Me. 1, 34); Satana sa perfettamente che di
s
esiste un Dio solo e ne freme (Giac. 2, 19).
co
Gli spiriti malvagi cercano dapprima di arrestare il regno di Dio,
tentando di rendere Cristo infedele alla sua missione. Quando Gesù
va nel deserto per prepararsi alla vita pubblica, il tentatore lo accosta
per tentarlo (Me. 1, 12 s.).
Nella prima tentazione (Mt. 4, 3 s.; Le. 4, 3 s.) Satana cerca di trarre partito
dalla situazione in cui Cristo si trova dopo quaranta giorni di digiuno. « Sei tu
Figlio di Dio? ebbene comanda a queste pietre di divenire pane ». L'allettamento
non sta nel fatto che Cristo possa così calmare la sua fame, infatti la soddisfa¬
zione delle necessità fìsiche non costituisce mai colpa. Consisteva invece nel-
§ 124- IL DEMONIO NELLA STORIA DELLA SALVEZZA 635
l'utilizzare a vantaggio materiale di se medesimo un potere che gli era stato af¬
fidato affinchè se ne servisse per la salvezza dell'umanità. Ciò avrebbe signifi¬
cato abusarne per venire in aiuto di se stesso. Cristo, nella sua risposta, rifiuta
di mettere la sua missione al servizio di scopi materiali. La parola di Dio, pro¬
clama egli, ha la precedenza su qualsiasi scopo terreno.
Nella seconda tentazione il diavolo suggerisce a Gesù un miracolo suggestivo
(Mt. 4, 5-7; Le. 4, 9-13): si getti dal pinnacolo del tempio e, soggiunge il
demonio facendo sue le parole della Bibbia, Dio comanderà ai suoi angeli di so¬
stenerlo. Lo Spirito cattivo prende spunto dalla parola divina, cita versetti della
Bibbia, ma unicamente con lo scopo di distogliere Cristo dall'essere fedele a Dio.
Così Gesù avrebbe dovuto mostrarsi al popolo in maniera spettacolosa e catti¬
varsene la simpatia. La seduzione consiste nel fatto che Satana utilizzando una
frase della Bibbia, si presenta a Cristo sotto la veste di essere apparentemente
pio. Cerca di mostrargli una via più facile e più rapida per ottenere che gli spet¬
tatori, accorsi a contemplare il prodigio, accogliessero meglio e più rapidamente
la sua messianità. Ma anche questa volta Cristo rifiuta dicendo : « Sta scritto :
Non tenterai il tuo Dio ». Qualora fosse stato seguito il suggerimento di Satana,
lo spettatore non sarebbe stato convinto, bensì soggiogato e sbalordito, e questa
non era la maniera giusta per condurre le anime alla vera conversione, la quale
ha luogo solo mediante atti di ravvedimento e penitenza compiuti con piena
libertà e responsabilità.
Nella terza tentazione (Mt. 4, 8-11; Le. 4, 5-8) il diavolo mostra a Cristo
tutti i regni del mondo e il loro splendore e gli garantisce il possesso di tutte
queste cose purché si prostri e lo adori. Mentre Satana dapprima si mostra sotto
l'apparenza dell'essere pio, ora al contrario getta la maschera e appare come
padrone della terra. Quest'ultima tentazione è quella che più delle altre mette
Cristo in contrasto con la sua missione. Egli infatti non è stato inviato nel
mondo per stabilirvi un impero terreno splendente e maestoso. Il suo regno non
è di questa terra (Giov. 18, 36). È facile quindi comprendere la pronta parata
di Cristo all'udire di Satana. Gesù non può certo pensare di attuare il Regno di
Dio mediante forze terrestri, nè tanto meno immaginare di trasformarlo in un
impero di questo mondo, rimpiazzando così Dio con la sua creazione, anzi con
il diavolo!
Solo un'altra volta Cristo rintuzza con la medesima forza la tentazione, e
precisamente quando Pietro cerca di impedire l'attuarsi della passione, ossia del
cammino stabilito dal Padre per la sua glorificazione e la salvezza umana (Mt.
16, 23). Allora anche a Pietro risponde, come già aveva fatto al demonio: Va'
lungi da me, Satana!
Cristo vince così le tentazioni che miravano a stravolgere radical¬
mente la sua missione; ma la lotta contro la forza del male continua
durante tutta la sua vita terrena. In fondo la sconfitta del demonio è
già decisa; Satana, come folgore, è già caduto dal cielo! (Le. 10, 17 s.).
L'ora in cui egli sarà colpito è scoccata (Giov. 12, 31). Anzi, il giudizio
su di lui ha ormai avuto luogo (Giov. 16, 11). Anche i discepoli di
L'uso di sim
pa
636 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
(
Cristo, che partecipano alla sua missione, possono vincere, nel suo nome,
i demoni (Me. 3, 15; 6, 7. 13; Mt. 10, 1. 8). Cristo, inviando i dodici demoni
e conferendo loro il potere sugli spiriti immondi, ha voluto significare m
che non vi è predicazione del regno di Dio senza tale potere, nè tale all'ope
potere senza la predicazione che lo spiega (E. Lohmeyer, Das Evange- m
lium des Markus, 1937, 113). L'uso di un simile potere non è tuttaviademonio!
un segno della propria salvezza (Le. 10, 20); parecchi spiriti si possono miseria,
cacciare soltanto con il digiuno e la preghiera (Me. 9, 29; Mt. 17, 21; raggiung
Le. 9, 40).
b) La distruzione dell'ordine, che il demonio cerca di produrre, non
si limita soltanto al campo spirituale, ma si manifesta anche in quello ne
materiale e fisico. Cristo vede il maligno all'opera non soltanto nell'odio, pro
nell'orgoglio, nella menzogna, ma anche nelle malattie. Certo non ogni grida
malanno fisico è effetto immediato del demonio! Ma il fatto che sussista po
un mondo, in cui regna la malattia e la miseria, è frutto della seduzione Si
di Satana. Il suo dominio sugli uomini raggiunge il massimo nella pos¬ irrigidi
sessione. Qui l'agire e il volere umani vengono paralizzati; l'uomo cade d
in preda a forze estranee che vogliono la sua rovina e talvolta lo tra¬ L'indem
scinano alla sua stessa distruzione. E proprio nell'incontro con l'indemo¬ Dimora
niato, in cui il diavolo dimora come in casa propria, Gesù si scontra di¬ fe
rettamente con il nemico. Questi resiste, grida e supplica. Ma Cristo I
comanda agli spiriti malvagi ed essi fuggono, poiché sono costretti a ob¬ diavolo
bedire a chi è più possente di loro. Gesù è il Signore dinanzi a cui ogni m
creatura deve piegarsi, anche la peccatrice irrigidita nell'odio contro di lui.
La più spettacolare e paurosa descrizione della lotta demoniaca dell'indemo
si
legge in Marco 5, 1-20 (Le. 8, 26-39). L'indemoniato di Gerasa è l'im¬ po
magine visibile della paura e del terrore. Dimora nei sepolcri, e non può Da
venir rinchiuso nemmeno con forti catene di ferro. Notte e giorno vive to
nelle caverne, grida e si percuote con pietre. Il suo tenor di vita è in¬ diavo
dice dell'arte con cui agisce Satana. Il diavolo allontana da Dio e la
lontananza dal Creatore significa caduta in un modo di esistere indegno an
della creatura umana. Chi s'allontana da Dio si scosta dalla sorgente
della vita; ne è simbolo il vagare dell'indemoniato nei sepolcri. Non
solo, ma si allontana anche dalla società, che poggia su Dio, e perciò si
trova in isolamento profondo (cfr. P. Schutz, Das Evangelium den Men-
schen von heute erzàhlt, 1939). Il demonio tormenta barbaramente il
povero cittadino di Gerasa, anzi non un diavolo solo, bensì un'intera
legione. Ora tale uomo sta di fronte a Gesù ed ecco che la baldanza de¬
moniaca diviene impotente! Idemoni devono andarsene e, in segno della
§ 124- IL DEMONIO NELLA STORIA DELLA SALVEZZA 637
loro impurità, finiscono in un branco di porci. Davanti a Cristo quanto
è impuro deve cedere il passo. « Quando un uomo forte, bene armato
sta a guardia del suo palazzo, ciò che egli possiede è al sicuro. Ma se
un altro, più forte di lui, lo assale e lo vince, gli toglie tutte le armi, in
cui poneva fidanza, e ne dà via le spoglie » (Le. 11, 22 s. : cfr. Me. 7,
24-30; Mt. 8, 32-34; 8, 16; 12, 22-37; Le. 4, 41; 8, 2; 16, 9; 13, 10-17).
Non si può concepire la vittoria sul demonio come il naturale sopravvento
del più forte sul più debole, della potenza fisica sull'impotenza fisica, bensì
esclusivamente come il trionfo del bene sul male, dell'amore sull'odio. L'odio,
l'impurità, l'orgoglio svaniscono nel fuoco dell'amore e nella luce della purezza:
il sole fuga le tenebre! Cristo, con la massima dedizione possibile, con ogni
fremito del suo cuore, si erge contro colui, il quale con tutta la passione del¬
l'anima cerca il male. Si è voluto interpretare l'agire di Cristo come un adatta¬
mento alle convinzioni popolari dell'epoca o come segno di conoscenza medica
difettosa. In realtà la possessione diabolica dà luogo a manifestazioni identiche
a determinate malattie. Con mezzi puramente naturali, non è possibile stabilire
limiti precisi tra possessione diabolica e male fisico, come non si può mai af¬
fermare con sicurezza se un uomo sia o meno indemoniato basandosi solamente
su considerazioni naturali. Ma il credente prende Cristo come norma del suo
pensiero e del suo giudizio. E se gli torna assai difficile stabilire, di primo ac¬
chito, se vi sia o meno intervento demoniaco, nel caso pratico sottopone il suo
giudizio a quello di Gesù, il quale è la base del suo essere, del suo intendere
e del suo giudicare non solo naturale, ma anche soprannaturale. Non è assolu¬
tamente possibile parlare qui di adattamento, da parte di Cristo alla mitologia
demoniaca del tempo, poiché la lotta contro Satana fa parte della sua attività
fondamentale ed è inscindibilmente intrecciata con la sua vita. Cristo più e più
volte ha ripetuto che è venuto non soltanto per predicare la buona novella,
mostrare la via, portare nuova vita, bensì anche spezzare la potenza che osa er¬
gersi contro Dio. Il prendere sul serio o meno il racconto della sconfitta di Sa¬
tana, dipende dal fatto di prestare o non prestare fede a Cristo stesso. Cfr.
R. Guardini, Il Signore, trad, di F. Forni, Milano 1950, 101-106.
c) Se Gesù è l'implacabile avversario e vincitore del diavolo, ne
deriva che contro lui lottano tutti i servi del demonio. Satana ha sulla
terra molti alleati. Gli Scribi e i Farisei con tutti i loro seguaci devono
respingere Cristo perchè sono figli del diavolo (Giov. 8, 44), il quale
semina l'incredulità nei loro cuori, e indurisce il loro sentimento. Sì, egli,
il padre della menzogna (Giov. 8, 44) acceca e svia il loro spirito a un
punto tale che essi scorgono un demonio in Cristo, e considerano le
sue parole come demoniache e antidivine (Giov. 7, 20). A Gesù che
condanna i loro peccati e l'esteriorità della loro religione, si proclama
vita e salvezza loro, i Giudei lanciano l'accusa di essere indemoniato!
(Giov. 4, 48. 52). Per ciò non permettono che lo si ascolti (Giov. 10, 20).
appare dal fatto che i Giudei interpretarono la vittoria
638 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E LJATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO allor
tanto
È proprio il culmine della menzogna satanica cercare di mostrare la necessità David?
di opporsi, per volere divino, a Cristo come se ciò fosse conseguenza dell'ordine per
rivelato e inteso da Dio. Così il demonio tenta di farsi difensore e vigile cu¬ pensie
stode della santa e divina rivelazione. A quale profonda perversione del senti¬
mento umano possa spingere Satana, a quale sinistra possibilità di scandalizzarsi egl
di Cristo sia esposto chi non sta nell'amore, ma si lascia dominare dal maligno, sca
appare dal fatto che i Giudei interpretarono la vittoria di Gesù su Satana, come figliuo
frutto di un tacito accordo con lui! o
Matteo 12, 22-32 narra ; « Gli fu presentato allora un indemoniato cieco e O
muto; e lo guarì in modo che parlava e vedeva; tanto che il popolo tutto, pieno m
di meraviglia diceva: Non è costui il figlio di David? Ma i Farisei, udendo ciò,
osservavano: Costui non caccia i demoni se non per opera di Beelzebub, prin¬ dispe
cipe dei demoni. Gesù, che conosceva i loro pensieri, disse loro: Ogni regno agl
diviso in se stesso, sarà devastato; e ogni città o casa divisa contro se stessa non avr
potrà reggere. Se dunque Satana scaccia Satana, egli è diviso contro se stesso; parla
come dunque potrà durare il suo regno? E se io scaccio i demoni in nome di futuro
Beelzebub, in nome di chi li scacciano i vostri figliuoli? Per questo essi saranno c
i vostri giudici. Se invece io scaccio i demoni per opera dello spirito di Dio, a
vuol dire che il regno di Dio è giunto fino a voi. Oppure come può uno en¬ pazzi
trare nella casa dell'uomo forte e portargli via le masserizie, senza prima aver d
legato l'uomo forte? Allora soltanto potrà spogliargli la casa. Chi non è con me
è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde. Per questo vi dico: ne
— Ogni peccato e ogni bestemmia sarà perdonata agli uomini; ma la bestemmia d
contro lo Spirito non sarà perdonata. E chiunque avrà parlato contro il Figliuol conversione
dell'uomo, sarà perdonato; ma a chiunque avrà parlato contro lo Spirito Santo, dell'astuzia
non sarà perdonato nè in questo secolo nè nel futuro ». adem
Gesù sottolinea qui la sua inimicizia implacabile contro Satana; non vi può Farise
essere via d'intesa fra loro. Se i Farisei non se ne accorgono, è frutto del loro d
accecamento e della loro stoltezza. Infatti è da pazzi non vedere l'inconciliabile
opposizione che esiste fra il regno di Dio e quello di Satana. Se alcuno chiama d
malvagio, impuro o addirittura demoniaco l'amore di Dio che emana da Cristo, c
la bontà divina che si rivela in lui e non tollera, nella sua vicinanza, alcunché Satana
di male, anzi lo costringe alla fuga, questi palesa di essere talmente indurito
nel male da rendere vana ogni speranza di conversione. Cfr. anche Me. 3, 22-30;
Le. 11, 14-23; Mt. 9, 34. L'estremo limite dell'astuzia e dell'ottenebramento spi¬
rituale è il far apparire Cristo, sceso in terra per adempiere la volontà del Padre,
come il seguace di Satana! Così gli Scribi e i Farisei, autorevoli rappresentanti potenza
di quel popolo, il quale era stato sino ad allora il depositario della rivelazione
divina, destinata a completarsi in Cristo, partecipano alla sua condanna a morte
(cfr. Giov. 8 con 11, 50). Cristo può venir crocifisso dagli uomini, ma sotto tale
pauroso evento se ne nasconde un altro! Gli attori che stanno alla ribalta sono
semplicemente burattini mossi da un altro. È Satana, il quale, sino dall'inizio
assassino e mendace (Giov. 8, 44), conduce Giuda Iscariota a tradire Cristo!
(Le. 22, 3; Giov. 13, 27; 6, 70).
d) Con la morte di Gesù pare che Satana sia finalmente riuscito a
stabilire e rafforzare per sempre la sua potenza. Invece è proprio tale
§ 124- IL DEMONIO NELLA STORIA DELLA SALVEZZA 639
morte a segnare la sua sconfitta definitiva! Cristo accetta l'immolazione
in Croce e l'offre a Dio come sacrificio espiatorio. Nell'imperscrutabile
connubio di libertà e necessità, la sua morte volontariamente accettata
diviene libera manifestazione del suo amore. Così l'amore trionfa sul¬
l'odio! Tale morte segna il limite estremo dell'amore di Cristo per Dio
e gli uomini (Giov. 13, 1; Le. 23, 34), il quale non si manifesta nel
fuggire la croce, bensì nell'accettarla liberamente. Come Cristo non si è
mai lasciato smuovere di un sol passo dalla missione che si era accollata,
così non ha mai opposto odio all'odio, potere al potere, inganno e ma¬
lizia all'astuzia e alla scaltrezza. La croce di Gesù risplende per il ful¬
gore dell'amore vittorioso! Cfr. la dottrina ddla Redenzione.
Così il regno di Dio si è stabilito con Cristo. Il demonio da quel mo¬
mento è divenuto il condottiero di un esercito in rotta. « Egli (Dio) can¬
cellò il chirografo contro di noi delle disposizioni che erano a noi con¬
trarie, e lo levò di mezzo inchiodandolo alla croce; e spogliati i Princi¬
pati e le Podestà, li trascinò alla gogna, trionfando di loro per mezzo di
Cristo » (Col. 2, 14 s.). « Poiché dunque i figliuoli partecipano del san¬
gue e della carne, anch'egli ugualmente ne ebbe parte, affinchè per mezzo
della morte annientasse colui che ha il potere della morte, cioè il dia¬
volo, e liberasse tutti quelli che, per paura della morte, durante tutto il
loro vivere erano soggetti a schiavitù » (Ebr. 2, 14 s.). Tuttavia il de¬
monio può ancora tentare di distruggere l'opera di Cristo; ma il suo
potere è efficace solo in quanto la cattiva volontà dell'uomo gli presta
mano. È impotente di fronte al cuore ancorato nell'amore, nella verità
e nell'umiltà! Egli può ancora, per mezzo di complici umani, mettere
in pericolo coloro che sono legati a Dio e può anche cercare di impe¬
dire, nei singoli uomini e in intere comunità umane, i frutti che sgor¬
gano dall'opera di Cristo, provocando lo scandalo in lui. E siccome l'opera
del Redentore sopravvive nella Chiesa, il tentativo di annientare Cristo
si traduce in lotta contro la Chiesa. Il demonio cerca sia di ostacolarla
all'interno, tentando 0 di renderla infedele alla sua missione che consiste
nel predicare la parola di Dio e nel conferire i sacramenti, destinati a
salvare le anime (pericolo più grave di tutti; cfr. la dottrina sulla Chiesa),
0 di indurla a compierla fidando più nei mezzi terreni che nella potenza
intrinseca dell'evangelo (Rom. 1, 16); sia tormentandola all'esterno, af¬
finchè non possa realizzare i suoi scopi.
e) Nel Nuovo Testamento appaiono esempi di entrambi i tipi di
lotta. Il diavolo acceca gli uomini perchè non vedano la luce del van¬
gelo, il quale ci narra la gloria di Cristo, e non possano così giungere
Spirito Santo, forz
d'o
64O P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO mai
alla fede (2 Cor. 4, 3 s.). L'incredulità è alleanza con il diavolo, come Signore
la fede significa unione a Cristo (2 Cor. 6, 14-16). Dietro i culti pagani tem
sta il demonio; partecipare ad essi significa entrare in comunione con ch
lui (1 Cor. 10, 20; cfr. Apoc. 9, 20). Barjesus, il mago e falso profeta am
giudeo, cerca di dissuadere il governatore di Cipro dall'accettare la fede. s
Paolo, ripieno di Spirito Santo, smaschera la forza demoniaca che agisce me
in lui : « O tu che sei pieno d'ogni frode e d'ogni malizia, figliuol del accolga
diavolo, nemico d'ogni giustizia, non finirai mai di sovvertire le vie di¬
ritte del Signore? Or ecco, la mano del Signore è sopra di te; e sarai scaccia
cieco, senza poter vedere il sole per un certo tempo. D'un subito egli si attorn
trovò in fitte tenebre, e, brancolando, cercava chi lo menasse per mano.
Allora il proconsole, veduto il fatto, credette, ammirando la dottrina del n
Signore » (Atti 13, 10-12). Il diavolo viene e strappa il seme della pa¬ 5
rola di Dio dal cuore umano, affinchè non vi metta radice e porti frutto. cuo
Chiude all'uomo l'intelletto perchè non accolga il Verbo del Signore 42-45).
(Mt. 13, 19; Me. 4, 15; Le. 8, 12). Anzi egli cerca continuamente di sono
ritornare nel cuore di coloro che l'hanno scacciato. È l'avversario che di (
continuo si aggira, come leone ruggente, attorno alla preda nella spe¬ uom
ranza di poterla inghiottire (1 Piet. 5, 8). cup
Paolo teme che Satana tenti i Tessalonicesi nella fede così come ha Tenta
impedito a lui di tornare fra loro (1 Tess. 3, 5; 2, 18). Il demonio è Chiesa
sempre pronto a seminare la zizzania nel cuore dell'uomo (Mt. 13,
37-39) e a riprendervi dimora (Mt. 12, 42-45). Le dottrine false sono spir
opera sua (2 Tim. 2, 26) e i falsi profeti sono suoi servi (2 Cor. 11,
13 s.). Egli induce Anania e Saffira a mentire (Atti 5, 3); cerca di tur¬
pe
bare i matrimoni (1 Cor. 7, 5), traviare gli uomini (1 Tim. 5, 15) e di
indurli alla superbia (1 Tim. 3, 6 s.), alla cupidigia (1 Tim. 6, 8) e ave
all'odio (1 Giov. 3, 10; 2 Cor. 2, 10 s.). Tenta di mettere al vaglio gli m
apostoli (Le. 22, 31) e di sollevare nella Chiesa divisioni e malcontenti co
(Rom. 16, 20). Suscita inimicizie e ira (2 Cor. 2, 11; Ef. 4, 27). Paolo com
stesso sperimenta la lotta fra vita carnale e spirituale, che nasce da Sa¬ ch'egl
tana (2 Cor. 12, 7). Il modo con cui procede è sempre il medesimo:
« La venuta di costui (l'iniquo) avrà luogo per opera di Satana, con
ogni potenza e segni e prodigi bugiardi, e con tutti gli inganni dell'in¬
giustizia per quelli che periranno per non aver accolto l'amore della
verità in maniera da salvarsi. E per questo manderà loro Iddio forza
d'inganni sì che credano alla menzogna, siano condannati quelli che non
hanno creduto alla verità e anzi si son compiaciuti dell'ingiustizia »
(2 Tess. 2, 9-11). Paolo scrive ai Corinti ch'egli non vuol dar tregua ai
§ 124- IL DEMONIO NELLA STORIA DELLA SALVEZZA 64I
suoi calunniatori nè permettere che possano dir male di lui. Essi sono ar¬
tisti nell'arte del cavillo! « Coloro sono infatti falsi apostoli, operai frau¬
dolenti trasformatisi in apostoli di Cristo. E non c'è da meravigliarsene:
lo stesso Satana infatti si trasforma in angelo di luce. Non è dunque
gran cosa se i ministri suoi si trasformano in ministri di giustizia »
(2 Cor. 11, 13-15).
Anche il cristiano quindi soggiace agli attacchi e agli assalti del dia¬
volo. Non solo deve lottare contro il male, che è insito nella libertà
umana, 0 che da lei può derivare, o contro le tendenze maligne, triste
eredità dei peccati individuali e dell'intera umanità, ma anche contro
l'essere che vuole quanto è contrario a Dio e il male per se stesso. Egli
deve tener conto di tale potenza mostruosa e combatterla (Ef. 6, 11) con
le sole forze della preghiera e della vigilanza (1 Piet. 5, 8 ss.). Gli oc¬
corrono perciò i carismi dello Spirito Santo che gli permettano di di¬
scernere gli spiriti e vedere se ciascuno è luminoso messaggero di Dio
ovvero manifestazione satanica, se si tratta di verità santificante 0 di
inganno menzognero (1 Cor. 12, 10). L'aspetto e l'azione del Santo e
del demonio talvolta possono venir scambiati.
L'estremo sforzo di Satana si scatenerà alla fine del tempo. Avrà al¬
lora il permesso di elevare una specie di regno ingannevole e fugace. Al¬
lora si prodigherà con tale squisita arte di inganno che persino i buoni
stenteranno a mantenersi immuni da tanta seduzione (1 Tim. 4, 1; Apoc.
12; 16, 13 s.; 19, 20). Ma nel bel mezzo di tale regno effimero, come
folgore, apparirà Cristo dal cielo per porre fine al regno di Satana (Apoc.
20, 11 - 21, 1 ss.). Dio emetterà il suo giudizio e il maligno non potrà
esimersi (Mt. 25, 41). Anche se dovranno ancora passare secoli su se¬
coli, l'evento con cui il Dio della pace annienta Satana, di fronte al¬
l'eternità divina si avvererà « ben presto » (Rom. 16, 20). Cfr. la dottrina
sul ritorno di Cristo.
/) Nonostante tali considerazioni dobbiamo tuttavia affermare che,
secondo il Nuovo Testamento, il demonio non ha una parte importante
nella vita del cristiano. Chi crede in Cristo è esente dalla sua schiavitù.
Paolo scrive agli Efesini : « E voi pure ha fatto rivivere, che eravate
morti per i vostri falli e i vostri peccati, nei quali una volta vi siete ab¬
bandonati secondo l'andazzo di questo mondo, secondo il principe delle
podestà dell'aria, quello spirito che ora agisce tra i figli della incredulità.
Tra questi ci siamo aggirati anche noi tutti, nelle cupidigie della nostra
carne, seguendo i capricci della carne e del pensiero, ed eravamo per
natura figli d'ira come gli altri. E Iddio, ricco di misericordia, per il
41 - schmaus - dogmatica I.
per
2
642 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
P
grande amore che ci portava pur essendo noi morti per le nostre colpe, demo
ci richiamò a vita in Cristo — per sua grazia siete stati salvati » (Ef. 2, in
1-5); cfr. Atti 5, 16; 8, 7; 16, 16-19; 26, 18. Il cristiano quindi non qua
deve vivere nella paura del demonio, il quale nulla può contro di lui se la
egli stesso non gli dà appiglio (Ef. 4, 27). Chi cammina nella fede e Worte
nell'umiltà è invincibile (Giac. 4, 7). Anzi per il cristiano il demonio
stesso è strumento di salvezza (1 Cor. 5, 5; 2 Cor. 12, 7). Luminose
l'idea
come squilli di tromba risuonano le parole di Paolo, il quale in sublime
come
inno di vittoria canta che nessuna potenza demoniaca riuscirà mai a se¬
pararlo da Cristo (Rom. 8, 38 s.). Chi crede in Gesù è figlio del Padre
S
celeste che lo difende, appartiene a colui il quale è signore onnipotente
diviene
di tutti i demoni. Tenendo fisso l'occhio a lui la paura di Satana si tra¬
pas
sforma in perenne indifferenza (Kittel, Wórterbuch zum N. T., II,
16-20). «
oper
4. -Al tempo dei Padri spesso affiorò l'idea che Satana fu sorpreso Quest
quando la sua vittoria apparente si mostrò come una sconfitta definitiva. tem
a
Agostino osservava che il diavolo è paragonato al leone, non per la sua
col
forza, ma unicamente per la solerte vigilanza (Sermo 263). IPadri, alla in
considerazione che chi è unito a Cristo diviene invincibile, aggiungono del
tuttavia il monito di non cedere a Satana il passo con il peccato. d
affe
Nel Pastore di Erma (settimo precetto) si legge: «Temi il Signore, soggiunse co
l'angelo della penitenza, e osservane i precetti; operando così diverrai forte in s
ogni tua azione, che riuscirà sempre lodevole. Questo è il timore che devi nu¬ M
trire per giungere alla salvezza. Non devi affatto temere il diavolo. Temendo il
Signore, debellerai il nemico, poiché egli non avrà alcun potere su di te. Non è
deve certo temersi chi non ha potere, ma bensì colui nel quale questo potere
ineffabilmente risplende. Chi, infatti, ha potenza incute timore, chi non l'ha atroc
viene noncurato da tutti. Abbi paura delle opere del demonio, poiché esse sono salvezz
malvage. Se temi il Signore, temerai pure le opere del demonio e non le farai, n
ma anzi le odierai ». E nel 12° precetto (n. 6) si afferma che niuno deve temere co
le minacce del diavolo, poiché costui è senza forza come i muscoli di un morto. promet
Giovanni Crisostomo dice nella Omelia 13, 4 sul Vangelo di S. Matteo:
« Cosa dobbiamo fare dunque in queste circostanze? Mai prestar fede al diavolo,
mai ascoltarlo, e, quanto maggiore è la sua opera di persuasione, con altrettanta
decisione dobbiamo volgergli le spalle. Infatti egli è riuscito a far cadere Eva
ed a procurarle il massimo danno, proprio col darle le maggiori speranze. È un
nemico implacabile ed ha intrapreso una guerra atroce contro di noi. Tanto noi
siamo pensierosi ed impegnati per la nostra salvezza, altrettanto egli lo è per
la nostra dannazione. Cacciamolo dunque lungi da noi, non solo a parole, ma
coi fatti, e non facciamo mai nulla di quanto ci consiglia: soltanto allora noi
faremo tutto ciò che piace a Dio. Il diavolo promette molto, ma non per dar-
§ 124- IL DEMONIO NELLA STORIA DELLA SALVEZZA 643
celo, bensì per togliercelo. Egli ci promette una parte della sua preda, solo per
riuscire a derubarci del Regno dei Cieli con la sua giustizia. Sciorina ai nostri
occhi i tesori della nostra terra come lacci e reti, perchè desidera depredarci
sia dei tesori della terra sia di quelli celesti. Talvolta ci vuol far ricchi, affinchè
non possediamo più nulla nel Regno dei Cieli. E quando non gli riesce di
derubarci dell'eredità celeste per mezzo della ricchezza, egli tenta di raggiun¬
gere lo scopo attraverso il cammino opposto: quello della povertà. Così egli
fece con Giobbe. Visto infatti che non gli riusciva di trascinarlo in peccato con
la ricchezza, lo trascinò nella estrema miseria con la speranza di poterlo così
costringere al male. V'è forse qualcosa di più folle? Infatti colui che è capace
di non abusare della ricchezza sopporterà con maggior coraggio e serenità le
prove della miseria. Colui che non lega il suo cuore a quanto possiede, non
si lascerà attrarre dalla bramosia di possedere ciò che non ha. Così anche il
santo Giobbe si comportò in tal modo. E possiamo dire che la gloria maggiore
gli viene dalla sua povertà. Il nemico gli potè togliere i suoi averi, ma non sol¬
tanto non gli riuscì di sottrargli il suo amore per Dio che, anzi, raggiunse lo
scopo opposto, di rafforzarglielo; mentre lo spogliava di tutto, egli rifulse di una
ricchezza molto maggiore. E dunque anche il diavolo fu da ultimo sconcertato;
poiché quante più ferite gli inferiva, tanto maggiore egli vide farsi la resistenza
di Giobbe ai suoi mah consigli. Dopo che ebbe usato ogni mezzo e tentata ogni
via senza ottenere il benché minimo risultato, ricorse allora alla sua antica arma,
cioè alla donna, e sotto l'apparenza della compassione dipinse in toni strazianti
l'infelicità di quest'ultima e, col falso scopo di liberarlo dal suo dolore, suggerì
a Giobbe il noto consiglio pervertitore. Ma anche in questo modo non riuscì
nell'intento. L'uomo meraviglioso riconobbe l'astuzia demoniaca e con grande
saggezza ridusse al silenzio la donna, per bocca della quale parlava il demonio...
E il diavolo ancor oggi opera nello stesso modo: indossa la maschera della com¬
passione mentre ci inocula consigli pervertitori, i quali operano peggio del ve¬
leno. Questa infatti è la sua maniera: lusingare per danneggiarci; viceversa il
biasimarci per farci del bene è opera di Dio ».
Leone Magno (Sermo 48, n. 2) scrive: «In questa unità dei santi nella quale
si ha lo stesso amore, la stessa carità, lo stesso sentimento, non vi è luogo per
i superbi, gli invidiosi e gli avari. Tutto quello che è o vanagloria, o ira cru¬
dele, o lascivia lussuriosa, non lo concepiamo nella società di Cristo, ma in quella
del diavolo, e lo escludiamo dalle sedi della pietà. Ne freme l'avversario del¬
l'innocenza, il nemico della pace; e siccome egli non stette fermo nella verità
(Giov. 18, 44), ma perse per la sua superbia tutta la gloria della sua natura,
ora si duole che l'uomo venga riparato dalla misericordia di Dio, e introdotto
in quella felicità, che gli sfuggì. Nessuna meraviglia, se l'autore del peccato è
tormentato dalla probità di chi agisce rettamente; anche tra gli uomini si trova
a volte chi imita le opere di questo maligno. Cosa dolorosa! Molti si crucciano
per i beni altrui, e siccome sanno che i vizi dispiacciono alle virtù, ecco che si
armano di odio contro quelli, dei quali non seguono gli esempi. Ma i servi di
Dio e i discepoli della verità amano anche chi è dissimile da loro, e dichiarano
guerra piuttosto ai vizi che agli uomini " non rendendo a nessuno male per
male " (Rom. 12, 17), ma sempre bramando l'emenda dei peccatori ».
l'esterno. L'indemoniato è responsabile delle azi
è
644 p- n- " LA REALTÀ extradivina e l'attività salvifica di dio c
5. - La teologia nel corso dei secoli ha fatto profonde riflessioni sull'essenza
e le forme della possessione diabolica. Anche nella forma peggiore di posses¬ l
sione demoniaca il diavolo non può esercitare un dominio immediato sullo spi¬ st
rito dell'uomo o formare una unità personale con lui. Può agire sullo spirito solo
raccomanda
attraverso il corpo e gli organi fisici, senza però aver la possibilità di unirsi al m
corpo in modo così inscindibile come l'anima. Riesce a muoverlo solo dal¬ giudica
l'esterno. L'indemoniato non è responsabile delle azioni che il diavolo fa com¬ nell'u
piere senza o contro la sua volontà. La possessione è sempre effetto di peccato,
specialmente della colpa originale, ma non è detto che sia indice o castigo di m
peccati commessi dall'individuo posseduto: è una prova che il Signore per¬
mette come tante altre! da
Per quanto concerne l'esistenza di tale fenomeno, la Chiesa lo ammette come sull'esi
si deduce anche dalle preghiere (esorcismi) che ha stabilite per questi frangenti. non
Riguardo poi al caso singolo, è sempre raccomandabile grande circospezione e s
prudenza. Molte malattie, infatti, si manifestano in maniera assai simile alla pos¬
continuame
sessione e solo in pochissimi casi è possibile giudicare senza tema di smentita. positiv
Conosciamo ancora troppo poco le forze insite nell'uomo per poter raggiungere poss
certezze matematiche. Del resto molti fatti che una volta si attribuivano all'in¬
flusso demoniaco oggi si spiegano perfettamente in maniera naturale. L'assoluta
sicurezza che dietro la malattia si celi il demonio, ci può venire solo dalla rive¬
lazione, e i casi narrati dai vangeli sono garantiti da Cristo. La leggerezza con
cui talvolta si traggono conclusioni precipitate sull'esistenza di indemoniati CREATURA
pos¬
sono esporre la fede al ridicolo. L'autentica fede non ha bisogno nè desidera le
garanzie o le testimonianze, che possono fornire gli spiriti malvagi! Chi è unito
a Cristo trova nella cattiveria, che esplode continuamente dall'uomo con enigma¬
tica e cruda brutalità, motivi assai più seri e positivi per credere all'esistenza e
all'azione di spiriti malvagi che non quelli che possono trarsi da problematici Dio
casi di possessione diabolica. dall'iniz
su
che
s
ART. II. - L'UOMO, CREATURA DI DIO salvezza
sal
ogget
§ 125. Dio principio e fine dell'uomo. n
voless
1. - Quanto fu detto circa l'azione creatrice di Dio acquista la sua più grande s
importanza se riferito all'uomo. E giova, fin dall'inizio, sottolineare che la que¬
stione dell'origine dell'uomo interessa non solo il suo passato, ma anche il suo
presente e il suo futuro. In altre parole il fatto che l'uomo derivi da Dio de¬
termina pure ciò che l'uomo è di fronte a Dio e, soprattutto, ciò a cui è de¬
stinato: la vita eterna presso Dio, ossia la salvezza. La questione dell'origine
umana è quindi anche questione concernente la salvezza! Ciò che non sta in
rapporto con la felicità finale non può essere oggetto di fede o di riflessione
teologica, per quanto grande sia la sua importanza nel campo filosofico e biolo¬
gico. La teologia tradirebbe il suo compito se volesse immischiarsi in questioni
mediche, filosofiche o biologiche; d'altra parte però, se medicina e biologia, pog-
§ 125- DIO PRINCIPIO E FINE DELL'UOMO 645
giando esclusivamente sui metodi loro propri, intendessero definire, in modo
decisivo e in ultima istanza, che cosa è l'uomo, toglierebbero alla teologia la sua
ragione di essere.
2. - La rivelazione ci dice che cos'è l'uomo, non già trattando della
sua natura in modo astratto e sistematico, ma narrandoci la storia, che
Dio attua nell'uomo e con l'uomo per stabilire la sua signoria su di lui.
Del primo uomo, che appare in un determinato momento storico, ci
narra l'origine e il fine, e con ciò intende anche manifestarci la prove¬
nienza e la destinazione di ogni uomo che nel primo trova la sua ragione
di essere.
Quanto la Scrittura concepisca l'uomo storicamente, vedendo già nel¬
l'origine l'orientamento verso il futuro e facendo nascere questo all'ori¬
gine, lo dimostra la genealogia di Cristo descritta da Luca (3, 23-38).
Risalendo da generazione in generazione, da secolo in secolo giunge al¬
l'ultima scoscesa salita: Adamo che procede da Dio. Dio attua la storia,
da lui ideata, con l'uomo nel mondo. L'uomo è membro dell'universo;
tuttavia la rivelazione ce lo presenta come un signore che si erge al di
sopra del mondo.
La Chiesa per esprimere l'appartenenza dell'uomo all'universo e con-
texnporaneamente la sua trascendenza su di esso, dice che Dio, autore
dell'essere puramente spirituale e di quello puramente materiale, ha pure
creato l'uomo, che sta nel mezzo e unisce in sè lo spirito e la materia.
Vedere il IV Concilio Lateranense (Denz. 428) e il Concilio Vaticano
(Denz. 1728).
La creazione dell'uomo, secondo la testimonianza biblica, è il coro¬
namento e il compimento dell'opera creatrice divina. Essa presuppone
la produzione di tutti gli altri esseri, i quali raggiungono per mezzo suo
il loro pieno significato e la loro stessa unità (cfr. § 105, 2). L'uomo
presuppone la materia sia inerte, sia vivente: terra e acqua, aria e fuoco,
minerali, piante e animali. La presuppone come condizione della sua
vita sia fisica, sia spirituale affinchè possa conoscere, volere e creare. La
terra è il luogo, lo strumento, l'oggetto della sua riflessione, del suo vo¬
lere e della sua produzione artistica. La creazione dell'uomo è preceduta
anche dall'esistenza dei puri spiriti e altresì dalla caduta dell'angelo, dal
quale l'uomo doveva esser tentato e provato nel suo amore verso Dio.
Cfr. Th. Haecker, Che cos'è l'uomo, Alba 1955, P- I21-
646 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO spirit
è
diment
I. - CREAZIONE DI ADAMO. S
3. - L'Antico Testamento descrive la creazione dell'uomo come un do
avvenimento di grande portata per tutto il resto del creato. La terra era su
già stata tratta dal nulla, ma non vi era ancora nessuno che la potesse s
coltivare e far progredire. « Formò dunque il Signore Dio l'uomo dal tale
fango della terra e gl'inspirò in faccia lo spirito della vita, l'uomo di¬ (Giob
venne persona vivente » (Gen. 2, 7). L'uomo è tratto dalla polvere (si¬ somiglianz
milmente in Sap. 9, 15; 7, 1). Non può dimenticare questa sua origine, s
che impronta il suo presente e il suo futuro. Sua eredità sono caducità ra
e morte; come nasce dalla terra, così alla terra dovrà tornare (Gen. 3, 19). conte
È sì fragile che scompare appena Dio ritrae il suo alito (Giob. 34, 14 s.). corpo
Isuoi piani falliscono se Dio volge altrove lo sguardo: Sai. 90 (89), 3; genes
affer
104 (103), 29; 146 (145), 4. Di fronte a tale suo carattere effìmero
sente maggiormente la trascendenza divina (Giob. 4, 19), e si staglia an¬ d
cora più grandiosa la dignità della sua somiglianza con Dio. spiegaz
Per la valutazione della narrazione biblica sulla creazione dell'uomo terr
si veda il § 101. Agostino distingue, tra la rappresentazione artìstica,
raffigurativa e poetica del racconto e il suo contenuto oggettivo, che pro¬
viene da Dio. « Che Dio abbia con mani corporee plasmato l'uomoDELL'EVOLUZI
dal
fango della terra, è credenza infantile » (De genesi ad litteram, 6, 12, 20). rac
Con tale espressione la Bibbia intende solo affermare in maniera imma¬
ginosa e colorita, che anche l'uomo proviene da Dio. Tale racconto è qu
infatti comprensibile, senza bisogno di spiegazioni, perchè è conforme
all'esperienza, la quale ci mostra che con la terra si modellano forme e l'uom
figure. (da
svo
II. - DOTTRINA DELL'EVOLUZIONE.
l'insegnam
4. - È assai dibattuto il problema se con il racconto biblico è concilia¬ marg
bile la dottrina dell'evoluzione. de
Per poter dare una risposta esauriente su tale questione occorre distinguere
trale varie interpretazioni di detta dottrina.
A. La sua forma più radicale ritiene che l'uomo sia frutto naturale della
madre terra, dotata di fecondità e forza creativa (darwinismo, neodarwinismo).
È il prodotto finale di uno sviluppo il quale si svolge dall'ameba primordiale
sino al vertice umano secondo determinate leggi.
Tale dottrina è in netto contrasto con l'insegnamento biblico, secondo cui
l'uomo proviene da Dio. Essa non lascia alcun margine all'azione creatrice di¬
vina, anzi la sostituisce interamente con l'attività della natura creante. Elimina
§ 125- DIO PRINCIPIO E FINE DELL'UOMO 647
così anche ogni distinzione tra l'uomo e la bestia, privando il primo della scin¬
tilla spirituale. In tal modo non rispetta la dignità della persona umana, ma la
concatena alla natura, sicché diviene un piccolo ingranaggio di una gigantesca
macchina, che può essere usato e cambiato a piacimento.
Sovente i seguaci del darwinismo e del neodarwinismo palesano un'evidente
avversione alla dottrina della rivelazione circa l'origine dell'uomo e alla sua diver¬
sità qualitativa dall'animale. Le dimostrazioni che adducono, appaiono, non di
rado, frutto della brama di dimostrare che l'uomo non è creato da Dio e che
non può essere diverso dagli animali. Simile desiderio dà al darwinismo una
forza penetrativa che non merita, se si considerano solo gli argomenti che esso
adduce.
Simili fautori, del resto, trascendono i limiti della scienza. Infatti il sapere
naturale può stabilire e raggruppare in un tutto organico solo i fatti dimostrabili
con metodi puramente scientifici. Sbaglia perciò se, oltrepassando ciò che è con¬
statabile con i suoi metodi scientifici, intendesse usarli per conoscere l'intera
realtà. Se la scienza naturale cerca di ricondurre alla causa ultima i fatti da lei
stabiliti, esce dal proprio campo specifico per invadere quello della filosofia o
della teologia, e se non vuole incorrere in tale accusa deve lasciarne la valuta¬
zione a tali discipline. La scienza naturale con i mezzi di conoscenza che le
competono, non può chiarire che cosa sia la vita, donde provenga, donde attinga
la forza di sviluppo e direttiva e perchè mai l'evoluzione abbia condotto all'uomo
e si sia fermata a lui. Tanto meno può spiegare l'origine e l'essenza dello spirito.
Anche se riesce a darci una descrizione completa che chiarisca esaurientemente
la conformazione e la natura del cervello, strumento del pensiero, ciò non basta
ancora a spiegare il destarsi dello spirito.
Parecchi teologi protestanti hanno creduto di potere accettare la dottrina evo¬
luzionistica anche in una forma così radicale. In parte tale fatto si spiega con
la teoria della doppia verità, cioè della scissione tra fede e scienza. L'una infatti
può affermare ciò che è negato dall'altra e viceversa. Il credere che Dio ha
creato l'uomo non esclude, secondo tale ipotesi, la dottrina darwinistica. Altri
aderenti al neodarwinismo, meno radicali, credono che il racconto biblico non
voglia testimoniare il fatto storico riguardante l'origine dell'uomo, bensì soltanto
un richiamo alla responsabilità umana di fronte a Dio.
B. L'evoluzionismo mitigato è conciliabile secondo la maggioranza dei teo¬
logi cattolici odierni con l'insegnamento biblico. Esso si distingue dal radicale, di
cui abbiamo parlato, per i seguenti tre punti: riconosce che la volontà divina
sta al principio di tutto il corso evolutivo, al cui vertice finale si trova l'uomo.
Ammette che tale evoluzione riguarda solo il corpo, ma non l'anima, la quale
viene creata immediatamente da Dio. Infine afferma che tutti gli uomini deri¬
vano da una sola coppia primordiale.
1. - Secondo tale interpretazione il racconto biblico sulla creazione dell'uomo
asserisce un vero intervento storico di Dio, il quale riguarda la prima comparsa
dell'umanità sulla terra e non soltanto il rapporto dell'uomo con la divinità.
Tuttavia non spiega gli avvenimenti fisici e biologici, che, accanto a tale inter¬
vento divino, si sono svolti, nè descrive le cause seconde delle quali Dio, causa
prima, si è servito. Infatti l'intento biblico non è quello di spiegare scientifica-
alcun interesse. Infatti, secondo la Bibbia, l'uomo è
na
648 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO l'as
que
mente com'è avvenuto il fatto, bensì solamente di porre in risalto la derivazione com
dell'uomo da Dio, e pertanto ciò che significhi Dio per l'uomo e quale sia il rap¬ comp
porto che l'uomo deve avere con lui. L'interpretazione protestante sopra ricor¬ u
data, ha ragione quando dice che il fatto della creazione ci è narrato solo per
chiarirci il vero rapporto che lega l'umanità al Creatore, ma si sbaglia e trascura riv
un punto fondamentale, quando pensa che l'origine storica dell'uomo non abbia asserisco
alcun interesse. Infatti, secondo la Bibbia, l'uomo è responsabile verso il suo chiaris
Creatore perchè ha avuto origine da lui. Il Genesi narra la creazione dell'uomo
per stabilire il suo rapporto con Dio, quindi sotto l'aspetto della salvezza umana. umano
Ma la testimonianza della salvezza umana include quella della via della salvezza, l'alte
del suo inizio e del suo fine. Infatti la salvezza si compie nella storia che ha un rivel
principio e un fine. Chi prescinde dalla prima comparsa dell'uomo sulla terra,
accetta un modo di pensare astorico e perde quindi un elemento essenziale della e
testimonianza biblica. Simile maniera di interpretare l'uomo prescindendo dalla n
storia, si rifà più all'ontologia greca che non alla rivelazione biblica.
2. - Ifautori dell'evoluzionismo mitigato asseriscono che la S. Scrittura, pur q
affermando l'origine dell'uomo da Dio, non ne chiarisce tuttavia il modo. Se la
forma del racconto biblico è solo veste letteraria, è indifferente ammettere che special
la materia che Dio usò per formare il corpo umano fosse vivente o meno, se vivificante,
cioè si fosse già sviluppata sino a raggiungere l'altezza dell'animale o se in¬ corpo
vece fosse ancora in uno stadio inferiore. La rivelazione non favorisce tale materia.
evoluzionismo, ma neppure vi si oppone. indir
L'anima non può evidentemente in alcun modo esser considerata come uno
sviluppo del principio di vita animale. Il Gen. 2, 7 non ci lascia nessun dubbio sar
al riguardo. Afferma espressamente che l'alito vitale, segno di vita, ci fu largito che
direttamente da Dio. Non è possibile interpretare questo dato in senso lette¬
rale; significa solo che Dio agì in modo da rendere vivente l'uomo e che talepossibilità
animazione è da riferirsi unicamente al suo speciale intervento. Ciò sarebbe vi
chiaro solo ammettendo che il principio vivificante, secondo la testimonianza orma
della Scrittura, è una realtà che differisce dal corpo. Una realtà di tal genere Aloi
non potrebbe avere il suo fondamento nella materia. Così il racconto di come sicu
Dio ha infuso vita all'uomo sarebbe una prova indiretta che l'anima non può
provenire da un principio animalesco. La differenza specifica dell'anima, il suo esiste
essere qualitativamente diverso dalla materia, che saranno provati con altri ar¬ tutt
gomenti filosofici e teologici, stanno a significare che essa non si è sviluppata cos
dall'anima di un animale. l'u
3. - Per quanto concerne non solo la possibilità di derivazione dell'uomo divers
dalla bestia, ma il fatto stesso di tale discendenza, vi son teologi, che, pur am¬
mettendo le limitazioni predette, lo ritengono ormai per dimostrato (ad es.
B. Wasmann, N. Peters, Goettsberger, Gutberlet, Alois Schmitt, Sawicki, Adam,
Ruschkamp ecc.). Alcuni lo affermano con molta sicurezza, ma talvolta entrano
in gioco fattori apologetici. Sin al secolo xix quasi tutti i teologi accoglievano
il racconto del Genesi alla lettera: infatti non esistevano ragioni plausibili per
scostarsene. S. Agostino ne dà una spiegazione tutta particolare. Con spirito
platonico-stoico-alessandrino afferma che l'intero cosmo creato da Dio si svi¬
luppò da germi primitivi. In ciò va incluso anche l'uomo, per il suo elemento
materiale. Tale idea è tuttavia essenzialmente diversa dal pensiero evoluzioni-
§ 125- DIO PRINCIPIO E FINE DELL'UOMO 649
stico moderno, in quanto Agostino non asserisce che una specie derivi dal¬
l'altra, ma soltanto che tutte si sono sviluppate in terra a partire dalle specie
primordiali, create simultaneamente da Dio.
Rispetto all'evoluzionismo mitigato altri teologi cattolici affermano che esso
viene meno ai veri postulati della dottrina evoluzionistica, senza portare alcuna
soluzione. Ci si chiede, in primo luogo, se l'intervento divino nel creare l'anima
non abbia una ripercussione tale sul corpo da far sì che non sia più possibile
parlare di evoluzione vera e propria. L'anima è forma sostanziale del corpo e
questo, proprio perchè plasmato dall'anima che è spirituale, deve essere diverso
da quello animale, nonostante l'innegabile parentela. Sembra perciò che la bestia
non possa elevarsi per gradi sino a un'altezza tale da rendere possibile la crea¬
zione dell'anima e l'animazione del corpo senza alterarlo profondamente. Se
dunque non è ammissibile la formazione del corpo umano senza lo speciale
intervento di Dio, non vi è alcun aumento di mistero nel pensare che egli, nella
sua onnipotenza, abbia usato per plasmarlo solo materia inorganica o scarsa¬
mente sviluppata, anziché un corpo già evoluto.
Iteologi che di fronte all'evoluzionismo umano assumono un atteggiamento
negativo o esitante (non in base alla Bibbia, ma alla riflessione teologica), pos¬
sono utilizzare anche le forti ragioni che oggi anche in campo scientifico si op¬
pongono alla derivazione dell'uomo dall'animale.
a) Per esempio, un argomento importante che si adduce per la derivazione
belluina del corpo umano cade in un circolo vizioso. L'uso del fuoco viene
usato per distinguere, in modo sicuro, l'uomo dall'animale. Ora, si dice, esso
ha fatto sì che l'evoluzione giungesse alla ominazione. L'errore logico di tale
argomentazione è evidente; l'uso del fuoco, quale agire spirituale, presuppone
già una differenza essenziale e non può quindi venir addotto come punto di
partenza per stabilirla. La questione riguarda piuttosto come si sia giunti a
questa scoperta.
b) Al medesimo, errato ragionamento conduce la pretesa aprioristica di
molti fautori del neodarwinismo i quali asseriscono che il problema riguardante
la derivazione o meno dell'uomo dall'animale, deve essere trattato unicamente
con il metodo della scienza escludendo la filosofia e la teologia. Qui, invece di
una oggettiva considerazione, ci viene offerta la dittatura di un metodo che è
appropriato in determinati casi, ma non vale per ogni campo della realtà.
c) Inoltre i teologi contrari alla dottrina evoluzionistica, mettono in ri¬
salto che oggi non pochi naturalisti si oppongono anch'essi all'evoluzionismo ge¬
nerale e lo ammettono solo entro il « tipo » o la « classe » sistematica e ricono¬
scono diversi gruppi originari distinti senza ricollegarli in armonico sistema filo¬
genetico. Di più oggi le somiglianze morfologiche che sovente, in passato, erano
state usate come prova di parentela della specie, non si interpretano più nel
medesimo modo. Infatti le omologie tra specie diverse non significano neces¬
sariamente la loro dipendenza genetica, ma si possono benissimo spiegare come
convergenze in diverse fasi di sviluppo secondo cui ciò che è indifferenziato e
comune va differenziandosi e specializzandosi. Di più tali somiglianze sono molto
più comprensibili alla luce della fede, la quale ammette la creazione del mondo
per opera di Dio. Infatti è un'unica e medesima divinità che nelle singole parti
e nel suo insieme ha effettuato tutto il piano creativo.
Ma tali affermazioni non hanno nulla di apodittico! No
65O P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO defin
dell'evolu
cL) Anche la cosiddetta prova embriologica non pare decisiva a questi teo¬ in
logi. Secondo questa l'uomo nel suo sviluppo embrionale passa attraverso vari indiffere
stadi i quali si possono comprendere soltanto come eredità di predecessori strut¬ g
turalmente diversi, più o meno distanti; stadi quindi che rappresentano come una pas
ripetizione di gradi di sviluppo sui quali determinati predecessori si sono arre¬ differenz
stati nella loro vita. L'ontogenesi, si dice, è la ricapitolazione della filogenesi. bin
Ma tali affermazioni non hanno nulla di apodittico! Non si riesce infatti a com¬ s
prendere perchè lo sviluppo ontogenetico sia già, fin da principio, destinato a all
trascendere quegli stadi di evoluzione, la cui fase definitiva viene invocata come similitud
spiegazione. Inoltre le spiegazioni dei teorici dell'evoluzione non sono nè suffi¬ ne
cienti nè necessarie a chiarire i fatti suddetti. Qui è in gioco soprattutto il prin¬ lor
cipio di sviluppo che conduce da un elemento indifferenziato e non specializzato risult
a uno differenziato e specializzato. Perciò il piccolo germe umano da una cel¬ temp
lula microscopica e microscopicamente differenziata passa attraverso stadi di svi¬ comp
luppo per raggiungere quelli più completi e differenziati, presentando così pa¬ anelli
ralleli con sviluppi di germi similari che seguono binari affini. È quindi com¬ I
prensibile che gli stadi embrionali dell'uomo siano simili a quelli embrionali con
dell'animale, anzi tanto più simili quanto più vicini all'inizio del processo. Tut¬ d
tavia quanto può apparentemente presentare similitudine nella forma, durante p
il processo evolutivo, può essere già assai dissimile nel suo principio, come di¬ tutt'o
mostra il particolare fine diverso a cui tendono nel loro sviluppo. N
e) La dimostrazione paleontologica non dà risultati migliori. Grande è il co
dissenso che regna ancora oggi sulla successione temporale dei vari tipi e sul dop
momento preciso in cui l'uomo ha fatto la sua comparsa sulla terra. Di più ri
sinora la paleontologia non è riuscita a scovare gli anelli di congiunzione tra i sin¬
goli tipi. In tutti questi punti si creano forme fittizie. Ifossili che affiorano man
mano sempre più numerosi, ci mostrano è vero il continuo sviluppo universale, Bi
ma solo entro i limiti di uno stesso tipo organico e di un medesimo piano co¬
struttivo. Ma gli anelli di congiunzione, le forme di passaggio, che stiano a di¬
mostrare l'evoluzione da una forma all'altra sono tutt'ora mancanti: i vari tipi
si sviluppano parallelamente senza aspetti intermedi. Nel corso della preistoria de
i tipi esistenti si sono mutati più e più volte, ma conservando sempre il loro
essere e mostrandosi l'uno accanto all'altro o l'uno dopo l'altro. Molti appaiono formazione
come realtà nuove senza che sia dimostrabile il loro riallacciarsi agli sforzi pre¬
cedenti. 3
Nello stato attuale delle cose è prudente attendere che nuove scoperte con¬ ch
fermino o meno il problema lasciato aperto dalla Bibbia circa la derivazione vien
dell'uomo dall'animale.
f) Anche le decisioni della Chiesa si muovono in questa direzione.
C. La Pontificia Commissione biblica nella sua decisione del 30 luglio 1909
tra i punti dei primi capitoli genesiaci da intendersi letteralmente elenca i se¬
guenti: la creazione speciale dell'uomo, la formazione della prima donna dal
primo uomo, l'unità del genere umano (Denz. 2123). In occasione dell'apertura
dell'Accademia Pontificia delle scienze Pio XII il 30 novembre 1941 disse:
« Dall'uomo soltanto poteva venire un altro uomo che lo chiamasse padre e
progenitore; e l'aiuto dato da Dio al primo uomo viene pure da lui ed è carne
§ 125- DIO PRINCIPIO E FINE DELL'UOMO 65 1
della sua carne, formata in compagna, che ha nome dall'uomo, perchè da lui
è stata tratta (Gen. 2, 23). In cima alla scala dei viventi l'uomo, dotato di una
anima spirituale, fu da Dio collocato principe e sovrano del regno animale. Le
molteplici ricerche sia della paleontologia che della biologia e della morfologia
su altri problemi riguardanti le origini dell'uomo non hanno finora apportato
nulla di positivamente chiaro e certo. Non rimane quindi che lasciare all'avve¬
nire la risposta al quesito, se un giorno la scienza, illuminata e guidata dalla ri¬
velazione, potrà dare sicuri e definitivi risultati sopra un argomento così impor¬
tante » (A. A. S., 1941, 506).
* E nell'Enciclica Humani generis lo stesso Pontefice scrive: « Il magistero della
Chiesa non proibisce che, in conformità dell'attuale stato delle scienze e della
teologia sia oggetto di ricerche e di discussioni, da parte dei competenti in tutti
e due i campi, la dottrina dell'evoluzionismo, in quanto cioè essa fa ricerche
sull'origine del corpo umano, che proverrebbe da materia organica preesistente
(la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create immediata¬
mente da Dio). Però questo deve essere fatto in tale modo che le ragioni delle
due opinioni, cioè di quella favorevole e di quella contraria all'evoluzionismo,
siano ponderate e giudicate con la necessaria serietà, moderazione e misura e
purché tutti siano pronti a sottostare al giudizio della Chiesa, alla quale Cristo
ha affidato l'ufficio di interpretare autenticamente la S. Scrittura e di difendere
i dogmi della fede. Però alcuni oltrepassano questa libertà di discussione, agendo
in modo come fosse dimostrata già, con totale certezza, la stessa origine del corpo
umano dalla materia organica preesistente, valendosi di dati indiziali finora rac¬
colti e di ragionamenti basati sui medesimi indizi; e ciò come se nelle fonti
della divina Rivelazione non vi fosse nulla che esiga in questa materia la più
grande moderazione e cautela » (Denz. 3027). *
D. Per quanto poi concerne l'anima non si può certo pensare che
derivi dal principio vitale animale. Vedi quanto già detto su Gen. 2, 7;
per tutta la questione cfr. J. Goettsberger, Adam und Eva, 1910.
III. - CREAZIONE DI EVA.
5. - Il racconto sulla creazione dell'uomo continua narrando la for¬
mazione di Eva, la prima donna (Gen. 2, 18-25). « Dio, il Signore,
disse: Non è buono per l'uomo essere così solo. Voglio creargli un aiuto
che sia simile a lui » (Gen. 2, 18). Dio vuole togliere l'uomo dal suo
isolamento; l'unione con lui dunque non era sufficiente per liberarlo dal
sentimento naturale della solitudine: Dio stesso lo conferma! Perciò si
pone all'opera. Secondo il racconto biblico, in un primo tentativo di to¬
glierlo dall'isolamento, crea gli animali e li conduce ad Adamo per ve¬
dere se egli ne trovasse uno adatto a sè, capace di trarlo dalla solitudine
e di soddisfare la sua brama. Adamo dà il suo giudizio col dare un nome
a ogni animale, il nome infatti ne esprime la natura. Se quanto è stato
Iddio, il fargli compiere dei tentativi d
donn
652 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
anch'ess
creato ha il compito di aiutare il primo uomo, ciò deve venire espresso riu
anche nel nome. Egli dà un nome proprio a ogni animale, ma il nome Di
che Dio voleva sentire, e nel quale Adamo doveva esprimere il suo giu¬
dizio di aver trovato un compagno, non sgorga dal labbro del primo a
uomo. « Adamo non trovò alcun aiuto simile a sè ». Non è in certo modo
negare Iddio, il fargli compiere dei tentativi destinati a fallire, per in¬ a
durlo a giungere alla creazione della prima donna? Niente affatto! Anche
la creazione degli animali è opera sua, anch'essi rientrano nel piano di¬ deg
vino e non sono quindi abbozzi divini mal riusciti. Inoltre tutto ciò è s
narrato in funzione della creazione umana. Dio, accondiscendendo alla m
mentalità dell'uomo, nell'ispirare tale racconto ha voluto in certo senso l'u
sottomettere la sua opera al giudizio umano, affinchè egli comprendesse delle
che il completamento, verso cui anelava, non gli poteva provenire dalall'uomo
campo animale, bensì soltanto da un essere appositamente creato per di
aiutarlo e completarlo. ch
Questa è la ragione per cui la creazione degli animali viene così de¬ ess
scritta nel racconto ispirato, il quale intende sottolineare, in modo inci¬ abband
sivo, che la donna non è inferiore all'uomo, ma deve stargli a fianco. c
« Allora il Signore Iddio fece scendere sopra l'uomo un sonno profondo,
e quando si fu addormentato gli tolse una delle costole; e saldò la carne creat
in suo luogo. Poi con la costola tolta all'uomo il Signore Iddio formò varie
una donna e la condusse dall'uomo, e l'uomo disse: Questa è carne della
mia carne e osso delle mie ossa; questa si chiamerà donna perchè fu poich
tratta dall'uomo » (Gen. 2, 21-23). H nuovo essere è quindi la copia e il na
complemento dell'uomo. « Perciò l'uomo abbandonerà il padre e la madre de
per unirsi alla sua donna e formare così una carne sola » (Gen. 2, 24; m
cfr. anche Gen. 29, 14; 37, 27; Giud. 9, 2). La donna appartiene al¬ i
l'uomo. Ambedue sono ordinati tra loro, creati diversi affinchè possano
completarsi e rappresentare insieme le varie espressioni dell'umano. c
L'uomo o la donna senza il compagno o la compagna sono privi di no
un valore umano e si cercano a vicenda poiché entrambi sono manife¬
stazioni e realizzazioni complementari della natura umana. L'uomo fin
dall'inizio conobbe la diversità e la finalità dei sessi; il matrimonio e
l'atto coniugale non sono assolutamente colpa, ma l'espressione della vo¬
lontà divina. Per maggiori spiegazioni vedere il trattato sul Sacramento
del Matrimonio.
Nel Nuovo Testamento si ricorda il fatto che la donna deriva dal¬
l'uomo, ma per sottolineare che anch'egli non è indipendente da lei.
§ 125- DIO PRINCIPIO E FINE DELL'UOMO 653
« Perchè se la donna è stata tratta dall'uomo, anche l'uomo nasce dalla
donna e tutto viene da Dio» (1 Cor. 11, 7-12; cfr. 1 Tim. 2, 14). La
Pontificia Commissione Biblica, nel suo decreto del 30 giugno 1909,
ha incluso, tra i dati che devono essere intesi in senso storico, anche la
formazione della prima donna dal primo uomo (cfr. Goettsberger, Adam
und Eva, 1910, 22-30).
Irapporti fra uomo e donna e la verginità, accettata per ragioni so¬
prannaturali, verranno trattati nella parte che riguarda i Sacramenti del¬
l'Ordine e del Matrimonio.
IV. - L'UOMO IMMAGINE DI DIO.
6. - Il Gen. 1, 26 s. raggiunge il vertice della rivelazione sull'origine
dell'uomo con le parole: «E Dio disse: Facciamo l'uomo a nostra im¬
magine e somiglianza; e presieda ai pesci del mare, e ai volatili del cielo
ed alle bestie di tutta la terra, e ad ogni rettile che in terra si muove.
E creò Iddio l'uomo ad immagine sua; ad immagine di Dio lo creò;
maschio e femmina li creò ».
a) Nel campo extrabiblico esistono solo cenni isolati e fugaci di
questa profonda definizione dell'uomo. Dio stesso dovette rivelare al¬
l'uomo la sua più alta e importante caratteristica che gli ha comunicato,
in modo che fosse indotto a conoscerla, senza peraltro dimenticare la sua
condizione di creatura. E se nè l'Antico nè il Nuovo Testamento non
ribadiscono spesso con esplicite parole tale dignità, tuttavia essa è sottin¬
tesa in tutte le altre affermazioni bibliche. È poi accentuata in particolar
modo quando si mostra che tutto il corso della storia umana sta in vi¬
vente unione col primo uomo. All'inizio della storia sta, come segno in¬
dicatore verso il futuro, la scritta: « Quando Dio creò l'uomo lo fece so¬
migliante a Dio; maschio e femmina li creò, e li benedisse e li chiamò
Uomo allorché furono creati » (Gen. 5, 1 s.). Una generazione ha tra¬
smesso all'altra la somiglianza con Dio (Gen. 5, 3). Questa è la più grande
eredità che un padre passa al figlio, un bene che va stimato più di ogni
altro.
b) La somiglianza con Dio conferisce all'uomo dignità e inviolabi¬
lità; lo riveste della grandezza divina e lo eleva al di sopra dell'intero
creato. Per essa l'uomo diviene la manifestazione di Dio sulla terra. Gli
animali possono superarlo in forza e snellezza, le stelle soffocarlo con
la loro immane grandiosità, ma l'uomo supera tutte queste cose per la
sua grandezza spirituale.
e il vendicatore. Quando contemplo i tuoi cieli, ope
d
654 P- n- " LA REALTÀ extradivina e l'attività salvifica di dio l'hai
s
Il salmista, dinanzi alle meraviglie del cielo stellato e alla gloria della natura, a
si sofferma a contemplare la piccolezza dell'uomo; questo di fronte a tanta gran¬ d
diosità può ancora essere chiamato il coronamento dell'universo? Ecco la sua ri¬ mira
sposta: « Jahvè, Signor Nostro, quanto è mirabile il tuo Nome per tutta la terra! Settanta
Il cui splendore s'estende sovra i cieli. Dalla bocca dei pargoli e dei lattanti hai riporta
fondato la tua forza, a causa dei tuoi avversari; per ridurre al silenzio il nemico eb
e il vendicatore. Quando contemplo i tuoi cieli, opera delle tue dita; la luna e c
le stelle che tu hai fissato; che (mai) è l'uomo (mi dico) da ricordarti di lui; e gua
il figlio dell'uomo da interessarti di lui? Anzi l'hai reso di poco da meno di S
Dio; di gloria e decoro l'hai coronato. L'hai fatto signore delle opere delle tue nel
mani; tutto hai posto sotto i suoi piedi: pecore e armenti tutti quanti; financo un
gli animali di steppa. Gli uccelli dei cieli, e i pesci del mare, che corrono i sen¬ tutto
tieri dei mari. Jahvè, Signor Nostro, quanto è mirabile il tuo Nome per tutta
la terra! » (Sai. 8). La traduzione greca dei Settanta, la latina della Volgata, la
siriaca della Peshitta e l'aramaica del Talmud riportano il versetto 6 così: «Lo manifestaz
hai fatto di poco da meno degli angeli ». Il testo ebraico, tuttavia, rifacendosi a offe
Gen. i, 26 dice : « Lo hai fatto di poco da meno che un Elohim », ossia non
molto inferiore all'essere divino. Quando l'uomo guarda se stesso o un suo si¬
mile, vede più di sè medesimo o del suo prossimo. Se non è cieco, ma veggente, lu
scorge in lui Dio per quanto egli può palesarsi nell'uomo e rilucere sul volto crea
umano. Se guarda se stesso, vede poco da meno di un Dio. Egli scorge infatti, in c
sè riflessa l'immagine di lui, non Dio stesso in tutto il fulgore della sua gloria
diretta.
immagi
L'uomo, essendo l'immagine e la manifestazione di Dio nel mondo, quanto
partecipa alla inviolabile maestà divina. Chi offende l'uomo, offende Dio; divina
chi attenta all'immagine di Dio, deve scontarlo con la vita : « Chiunque d
versi sangue umano, sarà versato il sangue di lui, perchè l'uomo è stato
fatto ad immagine di Dio » (Gen. 9, 6). La creatura ha l'obbligo di cam¬
minare degnamente, secondo la dignità che le compete, quale immagine del
di Dio (Giac. 3, 9). la
L'attestazione che l'uomo è creato a immagine di Dio assume pieno
valore quando la si armonizza con tutto quanto la Bibbia ci dice sulla evide
trascendenza, l'inaccessibilità e la maestà divina nei riguardi del mondo. polve
L'uomo, terra e cenere, dovrebbe venir meno dinanzi alla santità divina, sua
ciononostante è immagine di Dio! Qui dignità e indegnità, grandezza e
miseria, altezza e bassezza coesistono, senza che l'una debba scom¬
parire a vantaggio dell'altra. Il mistero dell'uomo attira il nostro
sguardo proprio perchè da una parte include la vicinanza a Dio, dall'al¬
tra la vicinanza alla terra. Il mistero dell'uomo è partecipazione a quello
di Dio. Il libro dell'Ecclesiastico mette in evidenza sia la maestà divina
che rifulge nell'uomo, sia la caducità della polvere, sua origine : « Il Si¬
gnore creò l'uomo dalla terra, e lo formò a sua immagine, e lo fa ritor-
§ 125- DIO PRINCIPIO E FINE DELL'UOMO 655
nare alla terra, e secondo la sua natura lo rivestì di forza. Un numero di
giorni e un tempo gli assegnò, e gli diè potere sulle cose che son sulla
terra. Infuse il timore di lui in ogni carne, ed egli ebbe impero sulle
bestie e sui volatili. Gli creò un aiuto simile a lui, e diede loro il giu¬
dizio e la lingua e gli occhi, e li riempì del sapere dell'intelligenza, creò
per essi la scienza dello spirito. E di senno riempì il cuor loro, e il bene
e il male fece loro conoscere. Mise l'occhio suo nei loro cuori per mo¬
strare ad essi la magnificenza delle sue opere, perchè celebrino il (suo)
santo nome, e si glorino delle meraviglie di lui, e raccontino la magni¬
ficenza delle sue opere. Diede loro inoltre la scienza, e li fece eredi
della legge di vita. Un patto eterno stabilì con loro, e la sua giustizia e
i suoi comandamenti significò ad essi. E gli splendori della sua gloria
vide l'occhio loro, e la maestà della sua voce udiron le loro orecchie.
E disse loro: guardatevi da ogni iniquità» (Eccli. 17, 1-11).
c) La somiglianza dell'uomo con Dio è indelebile; riluce sempre
anche sul viso di chi è intristito nel peccato e sulla fisonomia anche la
più squallida (Gen. 5, 1; 9, 6; x Cor. 15, 45; Giac. 3, 9).
Quantunque ci sia difficile capire come mai un uomo miserabile nel
corpo e nell'anima possa trascendere non solo l'animale più nobile, ma
anche l'universo intero, ciò è tuttavia evidente all'occhio della fede. Anche
nel dannato che giace all'inferno, ridotto a un brandello, di uomo riluce
pur tuttavia un raggio della dignità divina. Anzi è proprio questo che
accresce il suo tormento, in quanto egli vede ciò che avrebbe potuto
essere e che cosa invece è in realtà.
Uomo e donna recano l'impronta di Dio nel medesimo modo (Gen.
5, 1). Paolo anche quando dice che l'uomo è immagine di Dio, e la
donna immagine dell'uomo (1 Cor. 11, 7-12) non intende affatto con
tali parole mettere in dubbio la somiglianza di Dio che esiste nella
donna, e tanto meno asserire che sia meno marcata. Vuol solo alludere
al modo con cui tale somiglianza le è stata data; infatti la donna è im¬
magine di Dio in quanto è immagine dell'uomo, che Dio ha creato a
propria immagine.
d) Gesù Cristo è l'essere in cui tale somiglianza raggiunse il suo
vertice. In lui si palesa storicamente l'eterna immagine del Padre celeste
attuata nell'atto eterno generativo, cioè il Logos, il Figlio di Dio che
rifulge nella figura umana di Cristo come attraverso uno specchio. Si
può dire, nel pieno senso della parola, che in Cristo Dio è apparso nel
mondo. Chi contempla Gesù contempla Dio, perchè vede un essere umano
il cui io è quello del Logos divino, l'eterna immagine del Padre celeste.
riva che la somiglianza con Dio racchiude in
Pad
656 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
i
In questa eterna immagine del Padre è pure racchiusa l'idea divina del
mondo, che Dio ha attuata nel creato, facendo si che ogni essere, e, in vo
modo tutto speciale, ogni uomo sia una partecipazione di quell'eterna divin
immagine che è l'eterno Figlio del Padre celeste. Siccome poi questa
eterna divina immagine in Cristo entrò nello spazio e nel tempo, ne de¬
co
riva che la somiglianza con Dio racchiude in se la conformità a Cristo.
Anzi la presenza dell'eterna immagine del Padre nella sfera terrestre ha da
avuto proprio lo scopo di far sì che l'uomo, il quale per una profonda
deturpazione, non vedeva più in sè l'immagine di Dio, la vedesse risplen¬
dere in un punto della storia umana e così volgendosi ad essa, potesse
ritornare ad essere una schietta immagine divina. Il peccatore, per mezzo cro
di Cristo e in Cristo, riacquista la somiglianza con Dio gravemente alte¬ peccato
rata. La conformità a Cristo significa, per il colpevole, ritornare a essere un
vera immagine di Dio.
Evidentemente, anche in Cristo, non ci è dato di contemplare, nel suo an
nonostante
pieno fulgore, il sembiante divino. Infatti in lui esso è rivestito delle
forme periture terrene; nel Verbo Incarnato l'eterna immagine appare dila
come il servo di Dio. Il Logos si esteriorizza sotto la figura caduca del¬
l'uomo e si annichilisce sino alla morte in croce. Proprio in ciò si ma¬ debo
nifesta la profonda umiliazione a cui il peccato ha sottoposto l'immagine g
divina. La potenza del male l'ha ridotta a un punto tale, che la stessa
eterna immagine si presenta sotto l'aspetto di un povero essere privo dimaestà
forza, grondante sangue, coronato di spine, annientato dalla morte. Maglorioso
il cristiano scorge anche in questo, nonostante tutto, la gloria di Dio! manifesta
Egli sa contemplare nel Cristo crocifìsso e dilaniato dalle ferite l'appari¬ prod
zione di Dio.
La gloria divina viene così velata dalle debolezze umane, ma la morte c
ha squarciato tale velame. In Cristo risorto e glorioso, l'eterna immagine t
di Dio si svela di nuovo in forma creata, ci palesa l'aspetto dell'uomo el
che si lascia permeare totalmente dalla maestà di Dio senza che l'oppo¬ co
sizione umana possa trattenerlo. Cristo glorioso è l'immagine perfetta di vien
Dio, poiché in lui la gloria divina si manifesta svelatamente con potenza
sovrana. Qui la perfetta sovranità di Dio produce la perfetta immagine
divina nel creato.
Quanto già si effettuò in Cristo, l'essere, cioè, perfetta immagine di
Dio, è promessa che spetta a ogni uomo. In tal modo la creazione del¬
l'uomo a somiglianza divina, per quanto lo elevi al di sopra di tutte le
creature, non è che un semplice inizio; il compimento è ancora di là
da venire! Ci è promesso in futuro, e ci viene garantito da quanto già
§ 125- DIO PRINCIPIO E FINE DELL'UOMO 657
si è attuato in Cristo glorioso. Tra l'inizio e la fine si verificano le per¬
turbazioni prodotte dal peccato e il ripristino dell'immagine ideale, che
ha luogo in Cristo e per Cristo, il quale segna un nuovo inizio.
e) « La Chiesa per lungo tempo non ha prestato attenzione particolare al
passo genesiaco in cui si dice che l'uomo è stato fatto a immagine e somiglianza
di Dio (Gen. 1, 26). In principio il concetto " immagine " venne inteso nel senso
di ciò che è specificamente umano (intelletto, libertà, posizione speciale del¬
l'uomo).
La gnosi per la prima ha spinto l'uomo a considerare meglio il fatto di essere
immagine divina. Gli gnostici videro in Gen. 1, 26 un punto di appoggio del loro
dualismo ed emanatismo platonico. Anche Ireneo si rifà a tale corrente quando
distingue tra immagine (eikon) e somiglianza (homoiosis). La loro distinzione
fondamentale degli uomini in Ilici, Psichici, e Pneumatci essi la riallacciavano
alla somiglianza divina di cui parla il Gen. 1, 26. L'immagine riguarda l'uomo
ilico (materiale), mentre la somiglianza si riferisce allo psichico. L'ilico sta, è
vero, vicino a Dio, ma non è di pari essenza, egli è soltanto un essere animato
sensibilmente. Tra gli psichici distingue ancora fra coloro che possiedono il
pneuma come semplice strumento e quelli che, al contrario, lo hanno come pro¬
prietà. Per lo psichico lo spirito consiste solo in una grazia data per l'uso,
mentre per il pneumatico rappresenta una capacità naturale. Perciò egli non
può perderlo mentre il primo può smarrirlo. Ipneumatici sono salvi anche senza
essere legati alla legge morale, vale a dire vengono assunti nel Pleroma, poiché
non sono le opere che guidano nel Pleroma, ma il seme dello Spirito, il quale
conduce a compimento e al perfezionamento coloro che sono capaci di sviluppo
(Adversus haereses, lib. I, cap. 6, 4). Gli psichici, al contrario, possono essere
salvati solo mediante leggi psichiche, conformi alla loro vita.
Ireneo, per primo nella letteratura cristiana, condusse la teologia a riflettere
sull'importanza che ha la somiglianza dell'uomo con Dio. L'elemento più im¬
portante e caratteristico della sua dottrina consiste nella distinzione tra somi¬
glianza (similitudo) e immagine (imago) che entra con lui, in tale forma, nella
letteratura cristiana. L'immagine è qualcosa che appartiene all'uomo sin dall'ini¬
zio, un non so che di indelebile e perciò di naturale, che, come tale, è co¬
mune a tutti. Nel senso stretto di somiglianza a Dio comprende ragione e libertà,
nel senso di somiglianza al Logos include l'intera natura fisica e spirituale del¬
l'uomo, con particolare risalto alla parte visibile.
" Il secondo elemento, la somiglianza, l'homoiosis, la similitudo con Dio, è
dono divino, non dovuto alla natura, conferito immediatamente all'anima, ma
che interessa anche il corpo. Ne è causa efficiente lo Spirito divino, che abita
nell'uomo, e formalmente è uno spirito intimo all'uomo, una nuova natura spi¬
rituale che lo assimila alla natura divina, e gli conferisce l'essere e la vita di
figlio adottivo di Dio. La santità che conferisce tale somiglianza con Dio è qual¬
cosa di effettivo, non semplice disposizione o destinazione. Adamo l'ha posse¬
duta non solo come individuo, bensì come rappresentante dell'umanità e l'ha
perduta sotto ambedue gli aspetti con il peccato nel Paradiso terrestre... Ireneo
espone la somiglianza soprannaturale che Adamo ha smarrito e che Cristo ha
42 - schmaus - dogmatica I.
He
658 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO è
somig
ripristinato in modo che la sua identificazione con la grazia santificante non crea una
nessuna seria difficoltà " (A. Struker).
Anche Agostino riprende la distinzione tradizionale tra immagine e somi¬rassomigl
glianza. Egli motiva tale distinzione con il fatto che la Bibbia mette i due termini è
uno accanto all'altro. Se avessero essi dovuto indicare la stessa cosa, sarebbe ba¬
stato un vocabolo solo. Inoltre Agostino conosce il senso tradizionale di questa agostiniana,
distinzione, ma verso il 419 nelle Quaestiones in Heptateuchum non fa più che
una distinzione puramente formale dei due concetti, opponendosi in certo senso inve
alla concezione tradizionale. Per lui la somiglianza è più generica, mentre l'im¬
magine è più specifica. Ogni immagine implica somiglianza, ma non ogni somi¬ an
glianza è immagine. A questa è proprio di essere ima impronta del modello, una l'imma
copia immediata di ciò che essa rappresenta. " Ogni immagine è simile a ciò di avvicina
cui essa è immagine, ma non tutto quanto rassomiglia ad altro è per ciò stesso assomig
sua immagine... Si ha l'immagine solo quando vi è l'impronta di una cosa " dell'im
(De gen. ad litteram imperfectus lib., 16, 57). per
S. Tommaso accoglie l'interpretazione agostiniana, e anche per lui la somi¬ pre
glianza è qualcosa di più generico dell'immagine. Cerca anzi di determinare particola
meglio ciò che nell'uomo è immagine e ciò che, invece, rappresenta somiglianza
con Dio. Quanto è immagine si trova nello spirito, mentre il fisico può avere hann
soltanto somiglianza. Tuttavia S. Tommaso cerca anche di giustificare ciò che imp
ha asserito Ireneo. E così ragiona: Anche se l'immagine possiede tutti gli ele¬ s
menti del tipo o modello essa può tuttavia avvicinarvisi sempre più ed espri¬ ordine
merlo meglio. Infatti parliamo di ritratti che assomigliano più o meno alla per¬ lo
sona raffigurata. Questa particolare perfezione dell'immagine può essere indicata
con il termine di somiglianza (similitudo). Perciò per Tommaso questo vocabolo T
indica, in primo luogo la somiglianza, in quanto preambolo od elemento gene¬
rico dell'immagine, e in secondo luogo una particolare perfezione dell'immagine Augus
(S. Th., I, q. 93, a. 9).
Ma tanto S. Tommaso quanto S. Agostino hanno trascurato la distinzione
d
propria di S. Ireneo, per cui somiglianza indica impronta soprannaturale e im¬
magine impronta divina naturale. Con il termine similitudo S. Tommaso in¬ u
tende pure qualsiasi somiglianza con Dio di ordine naturale. Gli angeli come p
spiriti hanno anch'essi somiglianza con Dio, ma la loro, sia pure in campo sola¬ D
mente naturale, è maggiore dell'umana, perchè il loro spirito, anche naturalmente, rive
è più perfetto di quello dell'uomo » (Die Deutsche Thomas-Ausgabe, VII, 328-
l'imm
330. Commento di A. Hoffmann alla S. Th., I, q. 93, a. 9; cfr. M. Schmaus,
Die psychologische Trinitàtslehre des heiligen Augustinus, Mùnster 1927). rifulg
/) In che cosa si può rilevare l'immagine di Dio nell'uomo? Qual è
l'elemento umano in cui Dio si vede come in uno specchio? Egli, l'invi¬
sibile, l'incomprensibile e l'inafferrabile non può assolutamente essere
riprodotto. Quando parliamo di immagine di Dio, intendiamo alludere
solo al riflesso del suo essere divino, a una rivelazione o manifestazione
della sua essenza. È evidente che l'uomo è l'immagine di Dio, in quanto
partecipa alla sua gloria e in quanto essa rifulge in lui. Se poi ci chie-
§ 125- DIO PRINCIPIO E FINE DELL'UOMO 659
diamo precisamente in quale parte speciale dell'uomo tale fulgore divino
risplenda, non troviamo nel racconto genesiaco una risposta adeguata.
La Bibbia contempla l'uomo nel suo complesso e afferma che egli è
tutto riflesso di Dio. L'immagine divina rifulge in primo luogo nello
spirito, ma anche in qualche modo nel corpo, nella materia, in quanto
Dio, con lo spirito, ha pure creato l'intero essere umano a sua immagine.
Nell'aspetto corporeo riluce il riflesso dello spirito fatto a somiglianza
divina! Quando Cristo dice: Chi vede me, vede il Padre (Giov. 14, 9)
intende riferirsi alla sua figura fisica e visibile. Anche Paolo allude all'ap¬
parizione corporale di Cristo, quando dice d'aver visto risplendere in lui
la gloria di Dio (2 Cor. 4, 6). Il corpo rispecchia dunque lo splendore
di Dio! È evidente che la luce, insolita per questo mondo, che rifulge sul
volto dell'uomo, viene scorta solo da chi ha fede. Il corpo umano è come
ogni altra cosa creata un velame di Dio. Dio può svelarsi in esso sola¬
mente rivestendosi delle debolezze di una creatura. Il velamento di Dio
è stato fortemente intensificato dal peccato. Cristo, nella sua opera sal¬
vifica, ha nuovamente reso al volto umano la gloria divina, ma in modo
che solo il cristiano sia in grado di scorgerla e lasciandola, purtroppo,
esposta ai continui assalti del peccato (cfr. § 68). L'essere umano è quindi
tutto immagine di Dio, ma grazie allo spirito. Tommaso dice: «È na¬
turale all'anima di essere unita al corpo » (De unitate intellectus). « Sic¬
come l'anima è solo parte della natura umana, non ha la perfezione della
sua natura se non quando è unita al corpo » (De spir. creat., 2 ad 5).
« L'anima unita al corpo si assimila di più a Dio che non separata, per¬
chè solo nell'unione col corpo possiede più perfettamente la sua natura.
Ogni cosa infatti in tanto si assimila a Dio in quanto è perfetta, anche
se la perfezione di Dio e quella delle creature non sono della stessa
maniera » (De potentia, q. 5, a. 10, ad 5).
Tale somiglianza non è solo qualcosa di esteriore al nostro io, ma
piuttosto permea e colorisce tutto l'essere umano. L'uomo esiste solo
come immagine di Dio.
Se ci chiediamo quali siano i tratti divini che rifulgono nell'essere
umano, possiamo rispondere che sono tutti quelli che emergono dal rac¬
conto della creazione: la sublimità, la trascendenza sul mondo, la po¬
tenza, l'autonomia della volontà e quindi la personalità di Dio. Tali
lineamenti appaiono nell'uomo in quanto Dio glie li ha donati; perciò
la sua somiglianza con lui, secondo la Bibbia, si trova nella personalità
dell'uomo, nella sua capacità di conoscersi e autodeterminarsi (cfr.
mondo (essere nell'universo) finalmente Dio
66o P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
sono
cre
Eichrodt, Theologie des Alteri Testaments, II, 1935, 62). Per la sua pr
dignità personale l'uomo si diversifica da tutto il resto del creato. La in
persona, di fronte alla natura, è caratterizzata, da una parte, dal fatto che conform
è in sè, che è responsabile di sè, che è fine a se stessa, dall'altra parte, esplic
dalla trascendenza. Tale trascendenza è ordinazione al « tu » (società), al mede
mondo (essere nell'universo) e finalmente a Dio (l'uomo trascende infi¬ pote
nitamente l'uomo). Tutti questi elementi sono ontologici, riguardano
l'essere. Ma all'essere corrisponde l'azione. La creatura, dotata di dignità a
personale, deve quindi vivere consacrando la propria vita al prossimo, ad
al mondo e a Dio. Per il fatto che l'uomo è in sè, possiede se stesso,
deve vivere nella fedeltà a se stesso, in conformità alla sua natura che
proviene da Dio. La fedeltà a se stesso si esplica nella consacrazione di aberra
sè a Dio e alla società. Nella fedeltà a se medesimo l'uomo sviluppa e gliel
conserva il proprio essere; così diviene più potente di tutta la restante p
creazione. Può venir ucciso, ma nessuno potrà mai annientarlo, poiché nemmen
niente può strapparlo al proprio io, alla fedeltà a se stesso. Nessuna po¬
tenza terrestre è capace di costringere l'uomo ad agire contro la sua co¬ m
scienza e quindi a distruggersi. Solo egli stesso può indursi a compiere, uma
nei riguardi di se stesso, tale opera demolitrice. Nemmeno Dio annienta della
l'io umano. Infatti anche se l'uomo in una aberrazione della vera fedeltàcomplesso
a se stesso, vuol ergersi contro Dio, egli non glielo proibisce. Così l'uomo
è, in certo senso, ancora più potente di Dio, poiché il Creatore vuole dall'att
che sia libero e non gli toglie tale libertà, nemmeno quando l'usa in modo
fatale. Cristo
Ciascun uomo è un essere che si attua in un modo unico e irripetibile. m
Nessuno è semplice esemplare della specie umana; quindi nessuno può p
essere rimpiazzato da altri, nel vero senso della parola. Ciascuno ha il t
suo posto e una funzione propria nel complesso della storia umana: se pens
dovesse mancare un qualsiasi individuo, anche il più insignificante, il pe
corso dell'epopea umana sarebbe diverso dall'attuale. Anche se ciò non
appare palese a chi considera superficialmente il corso delle vicende
umane, risulta evidente al cristiano a cui Cristo ha aperti gli occhi per
poter scrutare la profondità e l'ultimo senso del mondo e della sua storia.
Per quanto la personalità umana sia decisiva per una vera conoscenza
dell'uomo e per una retta condotta della vita, tuttavia essa rimase sco¬
nosciuta al di fuori del campo biblico. Nel pensiero greco, per esempio,
l'uomo è solo un frammento della natura. La persona è subordinata alla
natura e non questa alla persona.
§ 125- DIO PRINCIPIO E FINE DELL'UOMO 661
La somiglianza dell'uomo con Dio, testimoniata dal racconto della
creazione, proprio perchè non è circoscritta chiaramente, è abbastanza
ampia perchè la possiamo pensare in modo ancor più pieno e più ricco.
Effettivamente è il Nuovo Testamento che ci testifica la meravigliosa pie¬
nezza di dovizie incluse nella somiglianza con Dio, che l'uomo ha go¬
duto nei primordi dell'umanità: Adamo riluceva della gloria della vita
divina tripersonale! Cfr. la dottrina del peccato originale. L'uomo, es¬
sendo stato creato a immagine di Dio, ci addita l'alto e ci indica Dio.
L'affinità divina che lo informa e lo avvolge, lo eleva vicino a Dio e al di
sopra di tutte le altre cose. Siccome la grandezza umana consiste nella
sua somiglianza con Dio, ne deriva che osservando l'uomo possiamo co¬
noscere ciò che è Dio. Tuttavia il peccato ha oscurato l'immagine divina
che l'uomo porta impressa in sè. Nell'uomo colpevole le tracce divine
possono essere decifrate soltanto con sforzo e fatica improba; il pecca¬
tore ha sostituito l'immagine di Dio con la figura di animali (Rom. i, 23).
Tuttavia sul suo viso restano ancora impresse le tracce di Dio, anche se
traviate e nascoste. Il riflesso divino rifulge nuovamente nella sua pu¬
rezza integra e in tutto il suo fulgore sul volto di Cristo, l'immagine del
Padre (Ebr. 10, 1). In lui si palesa ciò che l'uomo è, vuole e compie.
L'uomo, la cui immagine divina è stata danneggiata, deve conformarsi
all'immagine di Cristo (Rom. 8, 29).
7. - Nell'epoca patristica si sottolineò sovente che l'uomo è immagine
di Dio, sia per la sua struttura fisica, sia per l'essere spirituale. È sopra¬
tutto lo spirito umano che lascia trapelare qualcosa del mistero imper¬
scrutabile di Dio. S. Agostino ci mostra che il nostro spirito è imma¬
gine della vita tripersonale di Dio. Vedere § 36 e § 52. La Grazia rende
ancora più fulgida tale somiglianza con lui.
Sceglieremo tra i moltissimi i seguenti testi. In essi è espressa la meraviglia
e la riconoscenza per l'atto meraviglioso di Dio, mai abbastanza lodato, con cui
egli ci trasse dal nulla formandoci a sua immagine e somiglianza.
Gregorio di Nissa dice nell'opera De opificio hominis: « Quando il regno fu
pronto, avvenne la proclamazione del re. Quando dunque il Creatore dell'uni¬
verso ebbe costruito con infinita magnificenza un palazzo reale per il futuro re
— la terra... ed il mare ed il cielo incurvantesi su essa come un tetto, — dopo
che ebbe effuso per tutto il palazzo ricchi tesori di ogni genere — ... piante e
erbe e tutto quel che vive e si muove..., oro ed argento e pietre preziose... —
e tutto questo in quantità immensa confidò al grembo della terra, come in una
regale camera del tesoro, — allora fece egli comparire l'uomo sulla terra, come
è creato senza che preceda alcuna deliberazione, e
p
ven
662 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO fa
mare,
contemplatore e signore di tante meraviglie, acciocché godendole acquistasse la manifesta
conoscenza di colui che tutto ha profuso, e dalla bellezza e grandezza della crea¬
zione sentisse l'indicibile e indescrivibile potenza del Creatore. Dio disse: Fac¬ fa
ciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza: e presieda ai pesci del mare e il
agli animali della terra, a tutto il mondo (cfr. Gen. i, 26). O meraviglia! Il sole n
è creato senza che preceda alcuna deliberazione, e così il cielo, a cui tuttavia c
nessun'altra cosa creata è paragonabile. Una breve paroletta li introduce nell'esi¬ e
stenza, e questa parola non esprime né donde vengano, né come, né nulla di d
simile. E così pure ciascuna cosa in particolare è fatta esistere per mezzo di una
semplice paroletta: l'etere, le stelle, l'aria, il mare, gli animali, le piante. Solo
per la creazione dell'uomo il Creatore si manifesta pensieroso: appronta dap¬ d
prima la materia di cui dovrà consistere l'uomo, lo conforma alla bellezza di un tutta
archetipo, poi, secondo il fine per il quale l'ha fatto, gli compone una natura Spirito
conveniente e adatta alle attività umane, secondo il piano che si era proposto... de
Il supremo Artista ha veramente dotato la nostra natura per regnare. Le prero¬ dic
gative dell'anima e persino il comportamento del corpo mostrano che l'uomo è
nato per regnare. Infatti l'anima manifesta la sua elevatezza e dignità regali su
tutte le comuni bassezze, perchè è indipendente e decide di se stessa con libera
volontà. E questo di chi è proprio, se non di un re?... Invece della porpora completamen
è
rivestito della virtù, il più regale di qualsiasi abito; invece che su di uno scettro sguard
egli s'appoggia all'immortalità spirituale ed invece del diadema regale è adornato
dalla corona della giustizia. Così egli appare in tutta la sua dignità regale, quale a
copia fedele della Bellezza increata... Dio è Spirito e Ragione... Tu porti in te rang
ragione e spirito, quale imitazione dello Spirito, del Pensiero sussistente. Dio è
inoltre l'amore e la sorgente dell'amore, infatti... dice Giovanni : " L'amore viene dis
da Dio " e " Dio è amore " (1 Giov. 4, 7 s.). E il Creatore della nostra natura
ha pure messo in noi questo carattere, poiché " in ciò tutti vi dovranno ricono¬
scere che siete i miei discepoli, se vi amerete l'un l'altro " (Giov. 13, 35). Dun¬
que se l'amore è assente la copia è... completamente sfigurata... La statura del¬ anco
l'uomo è eretta, tesa verso il cielo, con lo sguardo rivolto verso l'alto. Anche
questo atteggiamento lo rende atto al comando e manifesta dignità regale. Se Io
soltanto l'uomo è così fatto, mentre il corpo degli altri animali è piegato verso il
suolo, ciò mostra chiaramente la differenza di rango tra lui e quelli che sono c
sottoposti alla sua signoria e libertà » (cc. 2-8).
Agostino, parlando dell'uomo dice: «Tu ti distingui dalle bestie per l'in¬ in
telletto. Non ti pavoneggiare per alcun'altra cosa. Consideri qualcosa di buono
la tua forza? ma ecco che puoi essere superato da un animale. La tua agilità ti de
inorgoglisce? ecco che le mosche sono più agili di te. Ti ritieni qualcosa per la
tua bellezza? ecco che una piuma di pavone è ancor più bella di te. Perchè mai
tu sei più nobile di loro? Per l'immagine di Dio. Dove si trova l'immagine di
Dio? nello spirito, nell'intelletto » (Tract. 3 in Ioann., n. 4). Che la mente
umana sia un riflesso della Trinità è spiegato nel De Trinitate, 7-15.
Giovanni Damasceno (De fide orthodoxa, lib. 2, cap. 12) scrive : « Iddio con le
sue mani creò l'uomo nella sua natura visibile e invisibile, a sua immagine e
somiglianza. Infatti nel corpo modellato di terra introdusse, col suo soffio, l'a¬
nima razionale dotata d'intelligenza: ciò che noi chiamiamo immagine divina.
Perciò col termine immagine si indica la forza dell'intelligenza e la libera vo-
§ 125- Dio PRINCIPIO E FINE DELL'UOMO 663
lontà; con somiglianza si indica invece la somiglianza con Dio nella virtù, nei
limiti, naturalmente, della possibilità della creatura. — Iddio pertanto creò
l'uomo innocente, retto, buono, immune da tristezza ed affanni, adorno di ogni
virtù, splendente di ogni bene, quasi un piccolo mondo nel grande universo,
come un angelo, composto però, capace anch'egli di adorare, in quanto l'uomo
conosce e contempla le creature visibili e scruta quanto afferra con l'intelligenza,
re sulla terra, suddito al re del cielo, terreno e celeste, mortale ed immortale,
conoscibile con gli occhi e con lo spirito, molto alto e molto basso, spirito e
carne, spirito perchè possa ricevere la grazia, carne perchè ne possa essere cor¬
retta la superbia, spirito perchè duri e lodi colui che lo ha dotato di sì alti be¬
nefici, carne perchè soffra e soffrendo accetti la correzione e, mentre è tentato
di lasciarsi prendere dall'orgoglio della grandezza, si corregga; vivente quaggiù
secondo un disegno provvidenziale, ma in cammino verso un'altra vita, e, ciò
che costituisce il compimento del mistero, dotato di vita divina in quanto la sua
anima è orientata a Dio, non nel senso che sia assorbita dalla sostanza divina,
ma nel senso che partecipa della luce e dello splendore della divinità. —
inoltre creò l'uomo immune, per natura, dal peccato e dotato di volontà libera:
Dio
immune, dico, dal peccato non perchè non sia capace di peccato (solo Dio infatti
non può peccare), ma perchè il fatto del peccato si verificò non per necessità di
natura, ma per scelta di volontà: l'uomo cioè, benché mediante la grazia divina
potesse perseverare e progredire nel bene, poteva anche d'altra parte, permet¬
tendolo Iddio, con la sua libera scelta allontanarsi dalla virtù e cadere nel vizio.
Infatti non si potrebbe attribuire alla virtù ciò che noi facessimo contro la nostra
volontà. — L'anima poi è una sostanza vivente, semplice ed incorporea, invisi¬
bile, immortale, dotata di ragione e di intelligenza, con a sua disposizione un
corpo dotato di organi, a cui dà la vita, la forza di crescere, di generare, con la
mente non distinta da sè come se fosse un'altra cosa (la mente infatti non è che
una nobilissima parte dell'anima: ciò che sono gli occhi per il corpo è la mente
per l'anima), dotata di liberamente decidere, volere ed agire, capace di mutare
nella sua volontà, in quanto è creata. E tutto ciò ha ottenuto dal Creatore dal
quale dipese e che esistesse e che fosse così com'è ».
8. - La sovranità
dell'uomo sull'universo è conseguenza, secondo il
raccontobiblico della creazione, della somiglianza con Dio. Essendo im¬
magine di Dio, è il suo rappresentante sulla terra.
Così narra la Bibbia : « Iddio disse poi : Produca la terra animali viventi nel
loro genere, giumenti e rettili e bestie terrestri secondo la loro specie. Così fu.
E fece Dio gli animali terrestri secondo le loro specie, ed i giumenti e tutti i
rettili terrestri nel loro genere. E vide Dio che era cosa buona. E disse : Fac¬
ciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza; e presieda ai pesci del mare ed
ai volatili del cielo ed alle bestie di tutta la terra, e ad ogni rettile che in terra
si muove. E creò Iddio l'uomo ad immagine sua; ad immagine di Dio lo creò;
maschio e femmina li creò. E li benedisse Dio, dicendo: Crescete e moltiplica¬
tevi, e popolate la terra, ed assoggettatevela, e signoreggiate i pesci del mare e
ivolatili del cielo, e tutti gli animali che si muovono sulla terra. Poi disse: Ecco,
Cor. Atti 26; Giac. 7).
664 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO perfez
è
io v'ho dato ogni erba che fa il seme sopra la terra, e tutti gli alberi che pro¬ grand
ducono in se medesimo i semi del loro genere, acciò vi servano di cibo; ed a
tutti gli animali della terra, ed a ogni volatile dell'aria e a tutti quelli che si
muovono sulla terra e ne' quali è un'anima vivente (li ho dati) affinchè abbiano f
da cibarsi. Così fu fatto. E vide Dio tutte le opere sue, ed erano grandemente cr
buone. E tra sera e mattino si compì il giorno sesto » (Gen. r, 24-31; cfr. 2, 15 ss.; materia
19 ss.; 1 Cor. n, 3 ss.; Atti 17, 26; Giac. 3, 7). rivelazi
a) Da tale passo risulta che Dio non ha dato al mondo il suo aspetto defi¬ l'obblig
nitivo, bensì ha lasciato all'uomo il compito di perfezionarlo. Egli dunque deve crea
condurre a termine ciò che il Creatore ha iniziato; ciò è segno della grande fiducia vo
che Dio ha riposto in lui. L'uomo quindi ha una grande responsabilità per quanto so
riguarda il perfezionamento del mondo. d
b) L'uomo è stato posto sulla terra come re del creato. Dio gli ha ordinato ha
di vivere come si confà al padrone, dandogli piena facoltà e incarico di utiliz¬ sostentamento
zare il mondo come suo strumento. La terra è stata creata per l'uomo (Is. 45, 1);
deve produrre quanto occorre al suo benessere materiale e rivelare ai suo spirito im
la gloria di Dio. L'uomo deve accogliere tale rivelazione e prestare la sua voce
al creato perchè canti il suo inno di lode. Ha l'obbligo di riconoscere la meravi¬
gliosa opera di Dio nella creazione e lodarne il creatore (cfr. §§ 30 e 105). Al
corpo la terra deve dare cibo, vestito, abitazione; è volere divino che l'uomo non l'ec
viva senza mangiare, senza coprirsi, senza un tetto sotto cui riposarsi. Deve la¬
vorare la terra per potersi espandere; la coltivazione del suolo è presupposto alla n
moltiplicazione del genere umano che Dio stesso ha ordinato. In tal modo la
terra potrà dare ciò che è necessario al sostentamento dell'umanità, cresciuta di G
numero. sempre
L'uomo mentre coltiva il suolo, gli dà la propria impronta; in tal modo, come cos
egli reca in sè quella di Dio, così la terra porta in sè quella dell'uomo, il suo crea
signore. domin
Coltivare il suolo è obbedienza al comando divino; l'uomo svolge in tal modo giudich
il suo compito verso il mondo. È in certo senso, l'economo di Dio, non il pro¬ e
prietario assoluto della terra di cui Dio è il vero e assoluto padrone. Perciò e
l'uomo non può trattare il mondo come vuole, anzi ne è responsabile di fronte g
al Creatore : è contemporaneamente homo faber e homo orans. Che sia un m
faber si può vedere, per esempio, in Giob. 28 e nel Gen. 4, 17-22. Non può esi¬ de
stere l'uno senza l'altro e la precedenza spetta sempre all'orans. edificare
Nel libro della Sapienza il rapporto fra i due è così descritto: «Dio dei miei imitaz
padri e Signore di misericordia, tu che tutto hai creato con la tua parola, e con sapienza
la tua sapienza hai formato l'uomo, perchè egli domini sulle creature fatte da te,
e regga il mondo con equità e giustizia, e giudichi con rettitudine d'animo;
dammi la sapienza ch'è assisa presso il tuo trono, e non mi rigettar dal (nu¬
mero dei) tuoi figliuoli. Perchè tuo schiavo io sono e figliuolo d'una tua serva,
uomo debole e di vita breve, e troppo inesperto in giudizio e nelle leggi. Fosse
pur perfetto uno tra i figliuoli degli uomini, se gli manca la sapienza che vien
da te, sarà contato per nulla. Tu m'hai scelto re del tuo popolo e giudice dei
tuoi figliuoli e figliuole. M'hai ordinato di edificare un tempio sul tuo santo
monte e un altare nella città della tua dimora, imitazione del tabernacolo santo
che ti preparasti da principio. Con te è la tua sapienza, che conosce le tue opere,
§ 125- DIO PRINCIPIO E FINE DELL'UOMO 665
ed era presente quando facevi il mondo, e sa ciò che piace agli occhi tuoi e
quel ch'è retto secondo i tuoi comandamenti » (Sap. 9, 1-9).
c) L'uomo deve per volere divino regnare sulla terra; perciò ogni situazione
umana in cui egli non appare padrone ma schiavo, è non solo infelicità, ma
colpa. Infatti Dio vuole gli uomini liberi e non schiavi. Predilige la libertà e
riprova la servitù. La schiavitù umana sia verso lo stato o la macchina, il denaro
o qualunque altra cosa, contrasta con la volontà divina ed è segno ed espres¬
sione del peccato.
d) Quando l'uomo in conseguenza della prima colpa, si è staccato da Dio
e si è trasformato in homo faber senza restare homo orans, ebbe inizio uno svi¬
luppo che tende sempre più a sottometterlo alla terra, di cui invece egli dovrebbe
restare padrone. Cristo ha iniziato la sua opera di liberazione, che raggiungerà
il compimento allorché sorgeranno nuovi cieli e nuova terra. Ha assunto in sé la
schiavitù, che l'uomo si era procurata con il peccato, ha voluto partecipare al
triste destino umano per poterlo rinnovare. Ha sopportata la fame, il freddo, il
vento e la pioggia, non ha avuto un sasso su cui posare il capo: privazioni che,
secondo il piano primitivo di Dio, l'umanità non avrebbe mai dovuto subire!
Ma proprio cosi Cristo ha soffocata la forza del peccato e nella sua risurrezione
si è liberato da tale schiavitù! Allora è divenuto il Kyrios, il Signore che il
mondo intero deve servire! La vita errabonda si tramutò in sicurezza di esistenza
completa, la fame in pienezza di vita, la nudità in gloria del Padre! Così il
Verbo incarnato si è rivelato vero re! Chiunque si unisce a lui va incontro a
un destino simile al suo. Nei miracoli di Cristo (la moltiplicazione dei pani, il
cambiamento dell'acqua in vino, il camminare sulle acque, ecc.) si può intrav-
vedere il futuro, vale a dire lo stato in cui il mondo intero sarà al servizio del¬
l'uomo perfetto, il quale apparirà come suo vero re.
e) Così la trasformazione e l'abbellimento del mondo, di cui ha incaricato
l'uomo fin dal suo apparire nel mondo, si ricollega con il compimento finale del
mondo medesimo. Ogni trasformazione della terra, tra l'inizio e la fine, è un
avanzare verso la forma definitiva, che Dio stesso addurrà al momento stabilito
(cfr. il trattato sui Novissimi e il § 217).
f) La somiglianza con Dio deve quindi estrinsecarsi nel creare, ossia nella
partecipazione all'azione creatrice di Dio. Nel Testo Sacro leggiamo che l'opera
di Dio è « buona assai ». Tale espressione si addice e si estende anche all'opera
che l'uomo è destinato a svolgere e che è partecipazione alla creazione divina.
« Si riconosce così che a ogni uomo spetta il medesimo compito, che la bene¬
dizione divina stessa ha proclamato: sottomettere la terra e regnare su tutte le
creature! Giustamente si può affermare che queste poche parole racchiudono
l'intero programma della storia del genere umano e della sua cultura; e tanto
più in quanto il valore morale del lavoro non è escluso, bensì compreso. Infatti
la ripartizione dell'opera creatrice di Dio in una settimana conclusa con un
giorno di riposo, che Dio ordina all'uomo di osservare strettamente lungo i se¬
coli a venire (Gen. 2, 1-3), già di per sé significa che l'uomo non è fatto per
una vita di delizioso e ozioso piacere, come narrano tanti miti sul tempo pri¬
mordiale dell'umanità, ma per sviluppare in un fecondo lavoro le sue energie e
facoltà e in tal modo divenire immagine dell'attività creatrice di Dio e trovare
la sua pace » (Eichrodt, op. cit., II, 64 s.).
L'uomo, anche di fronte al lavoro, deve sapersi
fie
666 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO p
La Bibbia ci addita il lavoro come attività voluta da Dio, non come maledi¬ conseguenza
zione o compito proprio degli schiavi, quale spesso lo definivano gli antichi. Se può
oggi il lavoro richiede tanta fatica e difficoltà per dare i suoi frutti, ciò dipende v
dal peccato (si veda lo studio sul peccato originale). Il giorno di riposo dal la¬ dev
voro impedisce all'uomo di esserne talmente assorbito e sfruttato da divenirne
schiavo, e gli mantiene la libertà di rallegrarsi, al pari di Dio, del proprio ope¬ qua
rare. L'uomo, anche di fronte al lavoro, deve sapersi comportare da re, non da
schiavo. Dio stesso ha deposto nel cuore umano la fierezza per l'affinità con Dio
e l'umiltà per il legame alla terra: di qui sgorga la preghiera del Salmo ottavo.
9. -Altra conseguenza, anzi la conseguenza principale, dell'affinità pas
fra l'uomo e Dio consiste nel fatto che egli può parlare alla creatura e pu
questa è obbligata non solo ad ascoltare la sua voce, ma anche a rispon¬ oran
dergli. L'uomo, sotto la sua responsabilità, deve prestar orecchio, ap¬ creato
prendere e assecondare la parola di Dio, il quale tiene rivolti gli occhi c
sul cuore umano (Sai. 8, 5; Eccli. 17, 8; Atti 1, 24). Dio si è creato stesso
nell'uomo un « tu » terreno e ha stabilito se medesimo come « Tu » in
finale per lui. Vuol entrare in colloquio con la creatura e questa può e
deve rispondere. La differenza essenziale che passa tra l'uomo e tutto il
resto del mondo visibile, sta nel fatto che egli può parlare a Dio, mentre
nessun animale ha tale facoltà. Come homo orans l'uomo ha un signifi¬
cato suo proprio, che lo pone al centro del creato. Egli, nel suo colloquio
con Dio, deve esaltarne la maestà e il fulgore che risplendono in tutto
il creato e ringraziare di ciò il Creatore stesso (cfr. § 217; Stauffer, vete
Theologie des N. T., 43 s.). Il luogo proprio in cui l'uomo ode la voce 600
divina è la coscienza. verosimi
crite
§ 126. Età del genere umano. alcu
al
La Bibbia non fìssa l'epoca in cui l'uomo ha fatto la sua prima com¬ dete
parsa sulla terra. In riguardo alle genealogie veterotestamentarie, secondodiscussion
cui l'uomo sarebbe comparso dal 4000 al 6000 a. C., occorre osser¬ esa
vare quanto si è già detto al § 101. È verosimile che gli autori ispirati
non abbiano inteso darci un racconto storico preciso, bensì piuttosto
un quadro artistico, il quale segue tutt'altri criteri che quelli di una sto¬
riografìa scientifica. Inoltre essi non dànno alcuna garanzia per le date
che avessero desunte da altre fonti. Perciò alla teologia non occorre
impegnarsi per sostenere che l'uomo ha una determinata età più o meno
recente, nè le è necessario intavolare discussioni in merito con gli stu¬
diosi di scienze naturali. Se costoro talvolta esagerano nella valutazione
§ 127- l'uomo nel suo essere spirituale incarnato 667
del tempo, cià può anche essere influenzato dal desiderio di trovare uno
spazio sufficiente alla realizzazione dell'evoluzione umana dall'animale
primitivo, e per lasciare campo agli anelli di congiunzione che sinora non
si sono ancora rinvenuti. Va pur osservato che la teologia trascurando
la valutazione dell'età umana, non si mostra, per questo, infedele ai suoi
principi, ma segue piuttosto il metodo che le è proprio e le leggi sue
particolari, anzi, impara ad usarle meglio. In tal modo anche il progresso
della scienza può porgerle aiuto (cfr. § 101). Se il problema dell'età
umana non ha grande importanza per il singolo individuo, assume invece
maggior valore nei riguardi della storia salvifica. Quanto più lunga è
l'epoca che precede Cristo, tanto più comprensiva è la preparazione alla
venuta del Redentore e tanto maggiore ne diviene l'importanza per tutta
la storia.
La scienza, fino ad oggi, non ha ancora potuto darci dati positivi si¬
curi; tuttavia si può già asserire che l'uomo è esistito e ha lottato nelle
varie epoche glaciali, per cui la sua comparsa è ben più remota di quanto
si ritenesse fino a qualche tempo fa. Cfr. V. Marcozzi, L'uomo nello
spazio e nel tempo, Milano 1953, 267-284.
§ 127. L'uomo, creatura di Dio, nel suo essere spirituale incarnato.
I. - LA CONOSCENZA DELLA NATURA DELL'UOMO.
1. - La conoscenza della natura dell'uomo interessa fede e teologia,
solo in quanto Dio ha rivolto la parola a tale creatura, concedendole la
possibilità d'accoglierla 0 di respingerla e di procurarsi così salvezza 0
rovina. Nè gli animali, nè le piante possono ascoltare la voce divina:
solo l'uomo! La creatura che ha la capacità di rispondere a Dio, di ac¬
coglierlo 0 respingerlo, deve essere necessariamente diversa dall'albero
e dalla bestia. Infatti l'uomo si diversifica da loro per la sua anima
spirituale. Il corpo lo ricollega ai regni minerale, vegetale, animale,
sicché egli è immagine del mondo e rispecchia in se stesso il cosmo.
Tommaso d'Aquino afferma: «L'uomo possiede spirito, sensi e forza
fisica, e queste cose, secondo il disegno della provvidenza divina, sono
in lui ordinate scambievolmente a somiglianza di quell'ordine che si
trova nell'universo » (Contra Gent., 3, 8 1).
Corpo e anima sono i due elementi essenziali che formano la na¬
tura umana. Si intrecciano in un'unica realtà vivente, spirituale e fisica,
dienza o disobbedienza umana, quando narra il
nell
668 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
form
che noi chiamiamo uomo. La Bibbia parla assai spesso di tali elementi, d
non analizzando dettagliatamente la costituzione umana come si suole e
fare in una trattazione filosofica, ma incidentalmente quando tratteggia respons
l'origine dell'uomo, la sua responsabilità storica, la quale gli deriva dal¬ corpo
l'essere corporeo e spirituale, quando ricorda le conseguenze dell'obbe¬ p
dienza o disobbedienza umana, quando narra il dialogo che avviene tra man
l'uomo e Dio e la storia che il Creatore attua nell'umanità. L'intima strut¬
tura dell'uomo emerge dal fatto che Dio ha formato un corpo e in esso anima
ha infuso l'alito di vita. Quando Cristo parla del fatto che l'io umano solo
completo è sottoposto a Dio, parla di anima e di corpo come dei due anima
elementi che ne formano la totalità. La responsabilità dell'uomo, nei ri¬ anche
guardi di Dio, si esplica in ambedue. Il corpo lega l'uomo alla storia, corp
alla natura e lo costringe a seguirne il corso; può perire senza che per Spiri
questo l'io venga distrutto. Solo Dio può mandare in perdizione tutto rivelaz
l'uomo, corpo ed anima (Mt. io, 28).
Se talvolta la Scrittura parla di corpo, anima e spirito, non vuol di¬
stinguere tre parti della natura umana, ma solo mettere in risalto, con
termini diversi, diverse funzioni dell'unica anima spirituale (ad es. 1 Tess. 15);
5, 23; Ebr. 4, 12). La parola spirito è anche usata nella Bibbia non s.).
per indicare l'anima, in contrapposizione al corpo, bensì la natura umana mu
elevata soprannaturalmente per opera dello Spirito Santo. Di solito, però,
con il termine « spirito » la dottrina della rivelazione indica la parte spi¬ pensier
rituale di cui risulta composta la natura umana. (
G
2. - La Bibbia dice che lo spirito conferisce la vita. Può donarlo Dio 7;
solo il quale è la vita stessa (Gen. 6, 17; 7, 15); appena egli lo richiama, 5
il corpo muore (Gen. 7, 22 s.; Giob. 34, 14 s.). L'uomo vive finché c'è
l'anima (2 Sam. 1, 9); se l'anima se ne va, muore (Gen. 35, 18). Anzi Nell'ani
l'anima stessa è chiamata vita (Sai. 22, 21; 33, 19; Me. 8, 35; Mt. 16, 86
25; Le. 9, 24). L'anima è il principio del pensiero e della conoscenza, del [3
volere e dell'agire, del sentire e del percepire (Is. 11, 2; Deut. 34, 9); l'acqu
risente pace e quiete (Sai. 86, 4; 94 [93], 19; Ger. 6, 16; Lam. 3, 17),
desiderio e amore (Sai. 63 [62], 2; Cant. 1, 7; 3, 1), tristezza e dolore
(Giob. 27, 2; Sai. 42 [41], 6 s., 12; 43 [42], 5 ecc.), odio e disprezzo
(Is. 1, 14; Sal. 11, 5; Ger. 15, 1; Ez. 2$, 15; 36, 5), nausea e fastidio
(Giob. 10, 1; Ger. 6, 8; Ez. 23, 17 s.). Nell'anima sta la brama di Dio;
essa può elevarsi fino a lui (Sai. 35 [24], 1; 86 [85], 4; 143 [142], 8);
sperare in lui contro ogni speranza (Sai. 33 [32], 20; 130 [129], 5 s.),
anelare verso di lui come l'assetato verso l'acqua (Sai. 42, 2S.; 63 [62],
§ 127- l'uomo nel suo essere spirituale incarnato 669
2; 84 [83], 3; 119 [118], 81; 143 [142], 6). Dio la consola ed essa in
lui gioisce e si riposa (Sai. 34 [33], 3; 35 [34], 9; 62 [61], 2; 63 [62],
9; 103 [102], 1 s.; 104 [103], 1. 35; Is. 61, 10).
II. - PROPRIETÀ ESSENZIALI DELL'ANIMA.
3. - Da questi passi si può riconoscere l'essenza intima dell'anima.
La rivelazione ci manifesta la sua sostanzialità, spiritualità e indivi¬
dualità.
I. - L'anima non si identifica con la materia, non è il fiore più bello
0 il frutto più prezioso di rapporti o processi materiali, nè l'espressione
e derivazione di movimenti terreni. Il Gen. 2, 7 differenzia, senza lasciar
dubbio, il corpo dal suo principio vitale. Anche la Sapienza parla di di¬
versità tra l'anima e il corpo (Sap. 9, 15); la prima è distinta dal secondo
e si eleva al di sopra di lui. Ha sussistenza propria, e lo dimostra il
semplice fatto che la distruzione del corpo non adduce di per sè quella
dell'anima (Mt. 10, 28).
La Chiesa ha accennato più volte alla sostanzialità dell'anima al fine
di una giusta comprensione di Cristo. Poiché egli ha assunto in sè la
vera natura umana completa, ne deriva che in lui si trovano tre so¬
stanze: la natura divina, l'anima e il corpo (XI Concilio di Toledo,
Denz. 284; XV Concilio di Toledo, Denz. 295).
III. - SPIRITUALITÀ DELL'ANIMA.
II. - a) Se l'anima non trae la sua origine dal corpo e non perisce
con lui, ne deriva che è di natura diversa dal corpo. Essa sta su un
piano più alto che quello del corpo. Non c'è continuità tra materia e
spirito. Sono su piani diversi: si raggiunge l'anima solo con un salto
che dal campo materiale ci faccia balzare in quello spirituale. Per indi¬
care la natura propria dell'anima diciamo che essa è spirito, che è un
essere spirituale.
Certo è difficile, dato il nostro modo di conoscere legato ai sensi, farci l'idea
di una realtà puramente spirituale. E la difficoltà si accresce per il fatto che
spesso l'uomo ama le cose visibili e si attacca ad esse in modo da credere che
siano l'unica realtà. Per conoscere lo spirito ci vuole quindi un grande sforzo e
una purezza spirituale non comune. Agostino porta come ragione della miscono-
scenza dello spirito l'immersione dell'anima nelle cose materiali: «Tanta è la
forza dell'amore con cui ha pensate tali cose, che gli restano apprese quasi come
un glutine, e non la lasciano anche quando in qualche modo cerca di ritornare
è proprio la immondizia, poiché si sforza
allor
67O P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO com
aggiu
a se stessa. E poiché queste cose che ha amato per mezzo del senso della carne sono
sono materiali ed esterne, e tanta è la famigliarità che ha con esse che non può che
liberarsene, né trasportarle nel suo interno come in un luogo di natura incor¬
porea, perciò si impadronisce delle loro immagini fatte da se stessa in se me¬ allorch
desima. Di qui nasce il guaio che non potendosi separare da queste immagini,
non può nemmeno vedersi sola. Gli si attaccarono come amoroso glutine, e questa a
è proprio la sua immondizia, poiché mentre si sforza di pensarsi sola, crede di
essere quello senza del quale non può pensarsi. E allorquando gli viene coman¬ assen
dato di conoscere se medesima, non deve cercarsi come se fosse detratta da se
stessa, ma deve sfrondare da sé ciò che gli si è aggiunto. Essa è interiore, non
solo rispetto alle cose sensibili che manifestamente sono fuori, ma anche rispetto
alle immagini, che in parte sono anche nell'anima che hanno le bestie, benché che
manchi loro l'intelligenza che è propria della mente. Quindi la mente essendo tra
interiore, in qualche modo esce da sé medesima allorché mostra l'affetto del suo
amore per questi molteplici vestigi intenzionali. Iquali vestigi si imprimono nella movim
memoria, per mezzo dei corpi esterni, in modo che, anche quando questi man¬ conoscere
cano, restano presenti le loro immagini in coloro che le pensano. Quindi la mente
co
conosca dunque se stessa e non si cerchi come assente, ma coll'intensità della
volontà, con la quale andava per altri luoghi, ritorni in se stessa, e si pensi. dell'a
E così vedrà che mai ha lasciato di amarsi, come mai ha lasciato di conoscersi, tend
ma che, amando altre cose con esse si è confusa e in qualche modo concretata, costituir
e così di più cose formandone una sola, credette che fossero una sola realtà no
quelle che erano diverse » (De Trinitate, 10, 5 e 7; trad. Montanari).
ossia
Lo spirito 0 l'anima ha un suo proprio movimento, una sua propria Sec
vita che si esplica in vari modi, come conoscere, volere, amare. Tom¬ ten
maso dice : « Il reale ha un duplice rapporto con l'anima. Il primo in
quanto il reale stesso è nell'anima a modo dell'anima e non secondo il
proprio essere; il secondo in quanto l'anima tende verso la realtà, così C
come esiste in sè. Una cosa può perciò costituire duplice oggetto per N
l'anima: dapprima in quanto esiste nell'anima, non secondo il suo essere rag
proprio, ma nel modo che compete all'anima, ossia in maniera spirituale : afferma
e questo è il conoscibile in quanto conoscibile. Secondariamente un essere
è oggetto dell'anima in quanto essa inclina e tende ad esso secondo il sp
modo in cui l'essere stesso si trova nella realtà. E questo è l'appetibile sape
in quanto appetibile (De veritate, q. 22, a. 10).
b) L'ottavo concilio ecumenico (il IV di Costantinopoli) tenutosi
l'anno 869 e 870 (Denz. 338) insegna che sia il Nuovo sia l'Antico Te¬
stamento asseriscono l'esistenza di un'anima ragionevole e intellettuale
nell'uomo e che tale realtà è sempre stata affermata dai Padri e dai dot¬
tori della Chiesa ripieni di luce divina.
Infatti nella 1 Cor. 2, 11 Paolo paragona lo spirito dell'uomo a quello
di Dio. Come soltanto lo spirito umano può sapere ciò che avviene nel-
§ 127- l'uomo nel suo essere spirituale incarnato 671
l'uomo, così solo lo spirito divino riesce a penetrare nell'intimità di Dio.
Lo spirito divino è Dio in se stesso, è l'intimità divina; in esso Dio te¬
stifica se stesso. Lo spirito umano è l'intimo dell'uomo in cui egli trova
se stesso e si possiede. Conoscere il proprio spirito significa per l'uomo
penetrare nel suo sacrario intimo, raggiungere finalmente il proprio io.
La Chiesa, confutando il tradizionalismo, asserisce che l'uomo ha la pos¬
sibilità di penetrare in se stesso, e conoscere così, mediante la ragione,
la spiritualità dell'anima. Cfr. M. Grabmann, Die Grundgedanken des
heiligen Augustinus iXber die Seele und Gott, 1929.
La differenza qualitativa dell'anima e la sua indipendenza di fronte al corpo
si palesa nella vita e nell'azione. S. Tommaso d'Aquino nella Summa contra
Gent. (4, 11) descrive i gradi degli esseri, la posizione dello spirito nell'uni¬
verso e la sua superiorità su tutte le cose nel modo seguente: «Secondo la di¬
versità della natura (nelle cose) si hanno diversi modi di emanazione; e quanto
pili alta e perfetta è una natura, tanto più intimo è quello che da essa emana.
Osserviamo gli esseri creati. Fra tutti stanno all'infimo posto i corpi inani¬
mati, le cui emanazioni non sono che azioni reciproche degli uni sugli altri...
Dopo i corpi inanimati vengono subito le piante, nelle quali vi è già un'emana¬
zione interiore, per il fatto che il succo intimo forma il seme, e quel seme, get¬
tato in terra, ridona la pianta. È questo il primo grado della vita, poiché i vi¬
venti sono quegli esseri che si muovono da se stessi ad agire, mentre quelli
che sono del tutto privi di vita non possono fare che influire sugli altri corpi
esteriori; nelle piante invece si ha questo indizio di vita: che quanto sta in
esse muove qualche forma.
Però la vita delle piante è imperfetta, perchè, sebbene l'emanazione proceda
dall'interno, tuttavia l'effetto prodotto esce a poco a poco dall'interno, e infine
è del tutto estrinseco. Infatti il succo dell'albero produce prima il fiore, poi il
frutto, che è fuori della corteccia del ramo, sebbene congiunto a lui; quando poi
il frutto è maturo, si stacca del tutto, e, caduto in terra, comincia a riprodurre
la pianta, per la forza del seme. Riflettendo attentamente vediamo che il primo
principio di questa emanazione incomincia dall'esterno, poiché il succo vitale
dell'albero è tratto, mediante le radici, dalla terra, da cui prende alimento la
pianta.
Sopra le piante si trova un grado più alto di vita negli esseri dotati di anima
sensitiva, la cui attività emanativa, sebbene cominci dall'esterno, pure si compie
nell'interno dell'animale; e quanto è maggiore l'emanazione, tanto più profondo
e intimo è il suo effetto. Infatti l'oggetto sensibile produce la sua impressione
nei sensi esterni (dell'animale), dai quali passa nell'immaginazione, e di 11 nel
tesoro della memoria. Ma in ognuno di questi processi, tanto il principio come
il termine appartengono a diversi soggetti (cioè sono distinti), poiché nessuna
potenza sensitiva si ripiega (totalmente) su se stessa. È però tanto più alto il
grado della vita animale di quello della vita vegetativa, quanto più intimo è lo
svolgimento della sua operazione; ma non è del tutto perfetto, perchè l'emana¬
zione passa sempre da un soggetto all'altro.
non partendo da un principio esteriore, ma per mezzo
sebb
672 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO iden
Il grado supremo e perfetto della vita si ha nell'intelletto, che si piega total¬ dunque
mente su se stesso e può intendere se stesso. Ma son vari i gradi anche nella Pucce
vita intellettiva; perchè l'intelletto umano, sebbene possa conoscere se stesso, p
tuttavia prende dall'esterno il principio della sua cognizione, non essendo possi¬
bile intendere senza l'aiuto dell'immaginazione sensibile. Negli angeli è più per¬ T
fetta la vita intellettuale, perchè il loro intelletto arriva a conoscere se stesso o
non partendo da un principio esteriore, ma per mezzo di se stesso. Tuttavia la sull
loro vita non giunge all'ultima perfezione, perchè sebbene sia del tutto interno esisto
il loro pensiero, tuttavia questo penisero non si identifica colla loro sostanza, sorger
non essendo in essi identico l'essere all'intendere. procede
La suprema perfezione della vita appartiene dunque a Dio, in cui non vi è L
distinzione tra essere e intendere » (trad, di A. Puccetti). q
Grazie al suo spirito l'uomo è superiore non solo per grado ma per essenza e
all'animale anche il più evoluto. Tale trascendenza umana viene esposta da ave
J. Pieper, il quale, utilizza, secondo lo spirito di S. Tommaso d'Aquino, alcuni relaz
dati chiariti e stabiliti dalla filosofia esistenzialistica odierna. L'uomo vive nel compr
mondo; ciò è per lui cosa essenziale. Ma lo stare sulla terra non significa sol¬ cam
tanto che accanto a lui, con lui e attorno a lui esistono altri esseri, bensì che estes
egli è in relazione con loro. Una relazione può sorgere solo dove esiste già un
nucleo interiore, un centro dinamico da cui procede l'agire e verso il quale ricerch
tutto quanto si riceve o si patisce viene ricondotto. L'« interiorità » è la capa¬
cità che ha un essere di aver relazioni e di mettere qualche altra cosa in rap¬ po
porto con se stesso. Il « mondo » in cui quest'essere esiste è il campo delle re¬ total
lazioni. Solo l'essere capace di tali relazioni, può avere un mondo. Possederlo balza
significa essere centro e disporre di un campo di relazioni. « Quanto più grande d
è l'interiorità di un essere, ossia più è ricca e comprensiva la sua capacità di
relazione, tanto maggiore è la dimensione del suo campo di relazioni: in altre accogliere
parole più l'essere è elevato tanto maggiore e più esteso è l'ambito del suo uni¬ »
verso ». Al mondo minerale si sovrappone il vegetale e a questo l'animale che ha
è ancora molto limitato. La bestia secondo le ricerche di Jacob von Uexkùll, inte
non si accorge di tutti gli oggetti visibili, ma solo di quelli che servono per la
sua vita... L'uomo, al contrario, ha la capacità di porsi in rapporto con tutto partecipazione
l'universo, la sua facoltà di relazione riguarda la totalità dell'essere. Non è an¬ da
corato e fissato in un determinato spazio, ma può balzare da ciò che lo circonda pro
verso il mondo intero. Egli ha tale capacità in virtù del suo spirito. Lo spirito form
può definirsi l'essere che ha il potere di attrarre in sè l'intero universo come conosc
oggetto di sua conoscenza. Possiamo quindi accogliere la dottrina di Aristotele p
secondo cui « l'anima è in certo senso tutte le cose ». S. Tommaso spiega la
cosa nel modo seguente : « Le creature intellettuali hanno maggiore affinità col
tutto che non le altre nature, poiché ogni sostanza intellettuale è in certo modo
tutto in quanto che col suo intelletto abbraccia tutto l'ente; mentre ogni altra
sostanza particolare possiede soltanto una partecipazione dell'ente » (Contra Gen-
tes, 3, 112). « Gli esseri conoscitivi si distinguono dagli esseri non conoscitivi
in questo, che i non conoscitivi non hanno che la propria forma; mentre quelli
dotati di conoscenza sono fatti per avere anche la forma delle altre cose, giacché
in chi conosce si trova l'immagine dell'oggetto conosciuto. Quindi è chiaro che
la natura degli esseri non conoscitivi è più ristretta e più limitata; mentre quella
§ 127- l'uomo nel suo essere spirituale incarnato 673
dei conoscitivi è di maggior ampiezza ed estensione. Per tal motivo il Filosofo
dice che " l'anima è in certo modo tutte le cose " » (S. Th., I, q. 14, a. 1).
Pascal parla della infinita distanza che esiste tra lo spirito e il mondo mate¬
riale (e anche tra lo spirito e il mondo soprannaturale) in questi termini : « Tutti
i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi regni, non valgono il più pic¬
colo intelletto, poiché questo conosce tutto ciò, e se stesso; e i corpi, nulla. Tutti
i corpi insieme e tutti gli intelletti insieme, e tutti i loro prodotti, non valgono
il più piccolo movimento di carità. Ciò appartiene a un ordine infinitamente più
elevato. Da tutti i corpi insieme, non si riuscirebbe a far scaturire un piccolo
pensiero: ciò è impossibile, e di un altro ordine. Da tutti i corpi e gli intelletti,
non si potrebbe trarre un movimento di vera carità: ciò è impossibile, e di un
altro ordine, soprannaturale » (Pensieri, trad. V. E. Alfieri, fram. 793). E nel
frammento 348 scrive : « Non già dallo spazio io devo ricevere la mia dignità,
ma dall'uso ben regolato del mio pensiero. Non acquisterei nulla di più a pos¬
sedere terre; con lo spazio, l'universo mi comprende in sé e m'inghiotte come
un punto; col pensiero, io lo comprendo ».
c) Il conoscere, il volere e l'amare, attività essenziali dello spirito,
sono protesi verso l'oggetto, consista questo nelle cose esteriori, oppure
nello spirito stesso. L'attività dello spirito non è un giocare a vuoto;
non è pensare e amare per il solo desiderio di pensare e di amare. Lo
spirito conosce e ama qualcosa: il suo conoscere, volere e amare si ri¬
volgono a un oggetto, da cui tali atti vengono provocati e ricevono di¬
rezione e maniera. In queste tre azioni: conoscere, amare, volere, lo
spirito si trascende e introduce in se stesso gli esseri esistenti al di
fuori di lui, ricevendone pienezza e gioia intima. Con il conoscere spazia
nell'immenso campo della verità, con l'amore si unisce al « tu », con
il volere può attuare il bene. Cfr. Ph. Bòhner, Vom Adel des Menschen-
geistes, 1936.
IV. - LA LIBERTÀ DELL'UOMO.
III. - a) Alla ricchezza dello spirito umano appartiene pure la
libertà, la quale è il modo con cui esso opera e vive. È particolarmente
nella libertà che si manifesta la diversità dell'anima dal corpo. Dio ha
creato l'uomo libero. Nei trattati sul peccato originale e sulla grazia ve¬
dremo meglio i cambiamenti che la libertà umana subisce sia a causa
dell'uno sia dell'altra. Non vi è stato dell'esistenza in cui l'uomo sia del
tutto privo di libertà.
Naturalmente essa, in ogni situazione della vita, è permeata e com¬
penetrata di necessità. L'uomo può esplicare la sua libertà soltanto nello
spazio in cui è posto; non dipende da lui essere in un luogo piuttosto
43 - schmaus - dogmatica I.
prima che iniziasse la vita. Tutte queste cos
674 p- n- - LA REALTÀ extradivina e l'attività salvifica di dio
che in un altro; ciò dipende dai suoi genitori e da coloro che hanno for¬
giato la storia sino al momento della sua comparsa. Da questa sua origine vo
è stabilita l'appartenenza a una determinata famiglia, a un particolare fis
popolo, a una certa situazione storica, a un luogo specifico. L'uomo non in
ha in ciò potere di scelta, perchè si tratta di cose fissate e preordinate
prima che iniziasse la sua vita. Tutte queste cose, in ultima analisi, sono
state stabilite da Dio. Cfr. §§ 83 e 213-215. oltre
La vita dell'individuo non è condizionata solo dall'ambiente, ma anche N
dal modo particolare con cui egli attua la natura umana, dall'acutezza del morire
suo pensiero, dalla forza e tendenza della sua volontà, dalla sua sensibi¬ vecch
lità più 0 meno acuta e dalla sua costituzione fìsica. Anche in ciò l'uomo a
non può prendere alcuna decisione personale: in tutti questi fattori entra
in gioco solo la nascita; sono elementi che trova deposti nella culla e che propria
non può assolutamente ricusare. allor
Anzi la limitazione della libertà va ancora oltre. L'uomo è vincolato alla ch
natura esteriore dal corpo che ne è membro. Non gli è quindi possibile
non stancarsi mai, non ammalarsi e non morire; è costretto a subire gli esiston
stimoli della fame 0 della sete. Malattia, vecchiaia, morte, provano che a
l'uomo è sottoposto alle leggi naturali. È legato ai processi biologici, fisici l
e chimici, senza potersene esimere. Di fronte ad essi è libero solo al¬
lorché, vivendo in modo confacente alla propria dignità umana, si lascia
penetrare dallo spirito, guidare dal senno; allora tali processi si distin¬ immediato
guono da quelli sottoposti alle medesime leggi, che si avverano nel campo
animale. tu
Accanto ed entro gli eventi naturali esistono tuttavia azioni libere. m
L'uomo, pur essendo inscindibilmente vincolato ad ordinamenti non creati
da lui, ma prestabiliti per lui, ha tuttavia in sè la chiara e viva coscienza in
di essere assai di più che un semplice pezzo della natura, che sem¬
plice parte 0 sede di fenomeni naturali; sa di rappresentare un essere costrizio
sussistente e padrone di sè. È un dato immediato della sua coscienza che Grec
egli ha facoltà di stabilire un inizio, di scegliere tra il fare e il non fare,
tra l'agire in questa o in quella maniera. Egli tuttavia non deve operare
in modo capriccioso, prescindendo da qualsiasi motivo, senza un fine.
b) L'uomo opera per dei motivi, di cui il più importante è il desi¬
derio di felicità, il quale è qualcosa di innato in lui. L'uomo tende verso
la perfezione e la felicità, così come la pianta si slancia verso la luce.
Tuttavia sente che tale tendenza non è costrizione quasi fosse necessità
o schiavitù, ma è potere che lo beatifica. IGreci osservavano che la pre¬
potenza dell'amore, « questo re che domina dèi e uomini mortali », non
§ 127- l'uomo nel suo essere spirituale incarnato 67$
è affatto servitù, bensì beatitudine. Altri motivi non possono costringere
l'uomo, lo toccano solo nella misura e nel grado con cui egli segue la
sua nostalgia di perfezione e di felicità.
La ragione presenta alla volontà motivi che militano a favore di questa
0 quella azione, ma la volontà può accettarli o ripudiarli, renderli efficaci
o trascurarli. Può quindi ergersi al di sopra di essi. Il suo modo di agire
non dipende, in ultima analisi, dai motivi vagliati e presentati dalla ra¬
gione, bensì da lei stessa. La decisione della volontà non è il frutto ne¬
cessario dei motivi ad essa proposti. Se la volontà vi fosse sottoposta in¬
condizionatamente perderebbe la propria libertà. S. Tommaso scrive:
« La volontà è padrona delle proprie azioni più di quanto non lo sia
l'intelletto, il quale è necessitato dalla verità delle cose. E quindi l'uomo
è definito buono o cattivo secondo le azioni della sua volontà, poiché
queste sono veramente sue, stanno in suo potere: e non secondo gli atti
dell'intelletto, dei quali non è padrone » {Sent., II, dist. 7, 2a ad 2).
Il modo con cui l'uomo agisce è quindi causato, in ultima analisi,
non dall'intelligenza, bensì dal volere. Egli domina i motivi del suo agi¬
re: vuole, perchè vuole. Tali riflessioni potrebbero farci concludere che
l'uomo è massimamente libero, quando rifiuta di prendere in conside¬
razione i motivi che la ragione gli espone e sta di fronte a essi uno stato
di completa indifferenza quale, ad esempio, predicavano in passato gli
stoici e oggi i buddisti. In questo caso si cadrebbe nel pericolo di con¬
fondere la libertà con il capriccio! La vera, la degna libertà dell'uomo,
si esplica con l'agire razionale, con l'attuare qualcosa che abbia valore.
Né per questo si muta l'ideale della sancta indifferentia, la quale esclude
solo i motivi egoistici, per accettare quelli veramente validi in quanto
informati dall'amore di Dio.
L'uomo può anche attuare ed esperimentare la propria libertà in altro
modo. Per comprenderlo, è necessario osservare che l'uomo si sente pri¬
gioniero quando non può agire in modo conforme alla sua natura, né
svolgerne la facoltà. Ciò gli appare restrizione, legame, inceppo. Si sente
Ubero invece quando nella sua azione può esprimere se stesso. E pro¬
prio ciò è per lui la massima manifestazione di Ubertà, e non ha bisogno
di farsi violenza alcuna per agire così. Egli può immergersi totalmente
nella sua azione; il suo intimo, in tal modo, riesce a manifestarsi ed
esplicarsi. Questa libertà spirituale si attua in maniera perfetta soltanto
nei beati in cielo e, in grado massimo, in Dio. Tuttavia, in modo em¬
brionale ed imperfetto, si esplica pure nell'uomo durante il pellegrinag¬
gio terrestre. Manca invece totalmente ai dannati nell'inferno. Siccome il
viene sentito dall'uomo costr
676 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
si
peccato include contraddizione con l'essenza umana, questa forma di li¬
bertà non può essere attuata, in modo autentico, nelle azioni peccaminose. anzi
Essa può essere espressa in questa frase: Io agisco così, perchè non occor
posso fare diversamente. Questo non potere, quando si fonda sulla stessa de
natura umana ch'è formata da Dio, e non è semplice cattiva concupi¬ cos
scenza, viene sentito dall'uomo non come costrizione, bensì proprio come ass
liberazione. E lo sente tale perchè in questo modo egli può agire nella d
maniera a cui il suo intimo lo sospinge. Qui si rivela che l'uomo è effet¬ libert
tivamente padrone di se stesso. dipend
La libertà, in questo secondo senso, è anzitutto una possibilità: per¬
chè possa giungere alla sua attuazione, occorre grande sforzo ed eser¬ del
cizio. L'uomo per godere di questa libertà deve liberarsi dagli impulsi acc
che lo dominano e non abbandonarsi alle cose esteriori. Realizzare sif¬
fatta libertà è compito veramente duro; è assai più comodo e piacevole de
agire lasciandosi condurre dagli impulsi e dall'opinione pubblica. Ciò La
spiega la paura dell'uomo di fronte alla libertà: l'ansia per l'obbligo di
decidere e per la responsabilità che ne dipende. È quindi comprensibile sceg
che gli uomini amino più il capriccio che non la libertà, che preferiscano sviluppa
l'ordine alla libertà autentica. L'esercizio della vera libertà, in questa attuar
condizione, è perciò atto di virtù. Solo chi accetta di lottare per lei, rag¬ d
giunge il vero essere e la propria vita. Non
c ) Inoltre l'azione libera dell'uomo non deve essere semplice giuoco distrugg
di libertà: ciò è della massima importanza. La vera, genuina, libera de¬
terminazione non è quella che porta l'uomo a scegliere qualcosa per il un
puro gusto di scegliere, bensì quella che sceglie il giusto, ossia ilcompimento
bene
conveniente alla sua natura, il quale, sviluppando il suo essere, lo con¬ libe
duce a Dio. L'uomo ha la capacità di attuare il bene, perciò lo deve be
compiere. Con il vero concetto di libertà e della responsabilità che ne
deriva, sta in contrasto l'agire per agire. Non tutte le azioni ci rendono Cris
felici, ma solo le giuste; le errate sono distruggitrici. L'uomo ha l'obbligo s
di fare il bene.
D'altra parte la creatura è stata creata in uno stato imperfetto che può
svilupparsi e perfezionarsi con il compimento del dovere (cfr. lo studio
sul peccato originale); ne deriva che alla libertà umana è congiunta la
possibilità di non essere usata sempre per il bene, ma anche per il male.
L'uomo può abusare della libertà peccando contro l'intento di Dio il
quale glie l'ha donata. La redenzione in Cristo però adduce la libertà
che significa esenzione dal peccato e vita in santità e giustizia. « Per la
libertà Cristo ci ha resi liberi » (Gal. 5, 1), ossia ci ha dato la libertà
§ 127• l'uomo nel suo essere spirituale incarnato 677
vivente, che si esplica nel bene, in modo conforme a Dio e alla natura
umana, che egli ha creato. La grazia di Cristo genera e rende viva la
vera libertà, mentre distrugge e annienta la colpa. Cfr. il trattato sulla
Grazia.
d) È quindi chiaro che la libertà, come ogni altra attività dello spi¬
rito, raggiunge la sua più alta forma allorché l'io umano si dona a Dio.
Il conoscere, il volere e l'amare dell'uomo sono una partecipazione al¬
l'essere spirituale di Dio. Per il suo spirito, l'uomo è immagine, im¬
pronta di Dio, ha affinità con lui. Perciò lo spirito è la facoltà con la
quale l'uomo può accogliere Dio, anche se non può comprenderlo.
« L'immagine di Dio, che egli reca in sé, è così potente da farlo aderire
a colui di cui è immagine... E quando egli aderisce totalmente a lui,
diviene un solo spirito con lui. Lo testimonia l'Apostolo dicendo: Chi
aderisce al Signore, forma un solo spirito con lui (1 Cor. 6, 17). Ciò av¬
viene nel senso che lo spirito umano può partecipare a quella natura, ve¬
rità e santità, ma non in quello che Dio possa crescere nella sua natura,
santità e verità. L'uomo, aderendo beatamente a quella natura, potrà
trascorrere una vita immutabile e vedere immutabilmente in essa tutto
ciò che egli vede» (Agostino, De Trinitate, 14, 14). Possiede tale fa¬
coltà soltanto l'immagine di Dio, soprannaturalmente informata dallo
Spirito Santo (Giov. 1, 12: cfr. il trattato sulla Grazia). Solo per mezzo
del Paracleto lo spirito umano perviene a quel compimento e a quella
perfezione che consistono nel partecipare alla vita trinitaria di Dio.
Quando l'io umano per orgoglio e sufficienza si chiude allo Spirito
Santo, allora, in pari tempo, decade dall'intimo nucleo del proprio spi¬
rito. Agostino dice : « Abbandonando colui che le è superiore, per il
quale solo può conservare la sua forza per godere della sua luce, l'anima
diviene impotente e tenebrosa, scivola infelicemente verso le cose che le
sono assai inferiori, vien soggiogata da amori che non sa vincere e da
errori che non sa vedere » (ivi).
La Scrittura chiama « carne » lo spirito umano non elevato dallo Spi¬
rito Santo (Rom. 8, 5-8; 1 Cor. 1, 26; 2 Cor. 11, 18; Gal. 5, 17. 19;
6, 9). Lo spirito è lo strumento con il quale l'uomo cerca Dio ed è
pure il luogo in cui egli trova colui il quale è verità, bene e amore per¬
sonale. « Salire a Dio significa entrare in se stesso, non solo per pene¬
trarvi, me per trascenderlo nel proprio intimo. Chi intimamente penetra
in se stesso, e, attraversandosi, si eleva al di sopra di se medesimo, costui
veramente sale a Dio » (Ugo di S. Vittore, De arrha animae, in M. Grab-
mann, Die Grundgedanken des heiligen Augustinus iiber Seele und Gott,
nè luce dello più intensa
con
678 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
div
1929, 72). « Ammonito da quella lettura a ritornare in me stesso — scrive l'o
S. Agostino — entrai, te duce, nel mio intimo: e lo potei fare perchè perch
tu ti eri fatto il mio aiuto. Entrai e vidi con gli occhi dell'anima, qua¬ cre
lunque fossero, vidi al di sopra di essi e al di sopra della mia intelligenza
una luce immutabile, non questa luce comune e accessibile ad ogni carne, v
nè una luce dello stesso genere, ma più intensa, quasi che essa chiara 10
chiara si facesse smagliante e tutto riempisse con la sua immensità. Non
era una luce come questa, ma diversa, molto diversa da tutte le nostre
luci e stava sopra la mia intelligenza non come l'olio sull'acqua, nè come
il cielo sopra la terra; ma più alto ancora, perchè essa mi aveva creato,dell'anima
ed io ero inferiore, perchè da essa ero stato creato. Chi conosce la ve¬ L'an
rità, conosce quella luce e chi conosce quella luce conosce l'eternità. manifestazione
L'amore è quello che lo fa conoscere. O eterna verità, 0 vera carità, cara uo
eternità, tu sei il mio Dio » (Confessiones, 7, 10). p
V. - INDIVIDUALITÀ.
IV. - La responsabilità e la libertà dell'anima in ciascun uomo sono la
in stretto rapporto con la sua individualità. L'anima individuale non è vengon
particella di un'anima universale, manifestazione 0 riflesso di un'anima vien
comune a tutti gli uomini. L'anima di ciascun uomo è distinta e diversa a
da quella degli altri. Il magistero della Chiesa, per controbattere l'affer¬ (c
mazione di un'anima universale comune a tutti, nel V Concilio Latera-
nense (XVIII concilio ecumenico) il 19 dicembre 15 13 definì l'individua¬
lità dell'anima (Denz. 738). seco
Nella Bibbia la distinzione e la personalità, la differenza e la indivi¬ div
dualità inalienabile di ogni anima spirituale, vengono indicate con gli attri¬ nessun
buti « mia » e « sua ». Anzi la parola anima viene spesso qui usata per
indicare l'individuo umano, l'io. Le formule, anima « mia » e « tua »
stanno per i pronomi personali «io» e «tu» (cfr. Gen. 14, 21; 49, 6; magg
Deut. 24, 6; 10, 22; Ger. 3, n; 2, 34; $2, 29 s.; Is. 3, 9; Sal. 3, 3;
11, I; 35, 7; 88, 4; 120, 6; 142, 5; Giob. 14, 22 ecc.). Se il termine
anima designa l'io umano, ne consegue che, secondo la rivelazione, non
solo un'anima è distinta dall'altra, ma altresì diversa così come il volto
di ciascun uomo non è eguale a quello di nessun altro. Anzi se l'indivi¬
dualità umana è condizionata più dall'anima che dal corpo, ne consegue
che la diversità spirituale è assai più importante della fisica, la quale in
fin dei conti, non fa altro che palesarla con maggiore evidenza. Ciascuna
§ 127- l'uomo nel suo essere spirituale incarnato 679
per la sua diversità è qualcosa di unico, di irripetibile, non un caso tra
i molti!
Nella controversia antiaverroistica del secolo xm, numerosi dottori fra
cui S. Tommaso d'Aquino, Alberto Magno, Riccardo di Middletown,
Pietro di Tarantasia, S. Bonaventura, hanno affermato energicamente tale
dottrina della individualità delle singole anime, sia pure adducendo ra¬
gioni diverse. Dio stesso crea ogni anima con le sue diversità proprie,
ognuna adatta al corpo che i genitori hanno generato, ordinata ad unirsi
con esso. Perciò l'individualità delle anime è determinata mediatamente
dal corpo. Cfr. Sertillanges, La filosofia di S. Tommaso d'Aquino, trad.
it., Roma 1957, 73-82.
Ogni anima esprime in modo nuovo e irripetibile l'unica idea divina dello
spirito umano. « Nel suo concetto specifico la natura umana è ovunque la stessa :
ma quest'una ed identica natura umana si manifesta in ogni singolo uomo con
una particolarità distintiva, la quale ha le sue radici nella particolare dotazione
divina. Contrassegnato da doti speciali, ogni uomo fa la sua comparsa nel
mondo come essere particolare; la natura umana ha assunto in lui una forma
che non ha riscontro in nessun altro. E dunque ogni uomo è nello stesso tempo
un nuovo essere umano. La peculiarità che si fonda nelle doti particolari non è
un elemento, quale potrebbe essere una singolarità che si manifesta in cose sin¬
gole, bensì è qualcosa la quale permea tutto l'uomo e che alle sue manifesta¬
zioni, alle sue opinioni, alle sue idee, ai suoi sentimenti, inclinazioni, desideri ed
ispirazioni conferisce una certa determinazione, un certo tono, un certo orienta¬
mento, un certo impulso ed affetto, una certa perseveranza e saldezza, insomma
un determinato carattere. L'individualità dunque sarebbe quella forma partico¬
lare, nella quale la vita di ogni singolo uomo si riassume in un'entità indivisi¬
bile con tutte le sue virtù, possibilità ed attività, secondo un principio indivi¬
duale, promanante da Dio, e si distingue da tutti gli altri, si conosce, si sente
e si vuole nell'unità di questa natura indivisibile e in questo modo individuale
realizza ed esprime l'idea universale della natura umana » (Staudenmaier, Die
christliche Dogmatìk, III, 1838, 382). Nelle diversità delle anime si manifesta
la varietà dei compiti dell'uomo, come pure l'infinita pienezza e la ricchezza
incommensurabile dei doni spirituali, che si estrinsecano nelle molteplici forme
dello spirito umano. « E questa pienezza e questa ricchezza sono tanto grandi,
che esse non si esauriscono nè nell'umanità vivente in un determinato spazio,
nè nella sua successione nel tempo. Per questo motivo la storia porta sulle sue
scene sempre nuove personalità, le quali sono sempre nettamente distinte dalle
precedenti, anche in quei casi in cui pare esservi una certa rassomiglianza. La na¬
tura individuale di un uomo è un elemento il quale prima di essere non fu
mai e, quando è passato, non tornerà mai più » (Staudenmaier, op. cit., 385).
Evidentemente la differenza e l'affinità fra le anime è più o meno
grande. Gli appartenenti a una stessa famiglia, a un medesimo popolo,
V. Ultima caratteristica dell'anima è l'imm
an
680 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
a un'identica razza sono tra loro, sia per corpo, sia per anima, più affini si
e capaci quindi di costituire un tutto armonico. indub
in
VI. - IMMORTALITÀ. i
V. - Ultima caratteristica dell'anima è l'immortalità. La rivelazione e
ci assicura che un giorno tutto l'io umano, anima e corpo, vivrà im¬ ritornere
mortalmente. Anzi la risurrezione della carne, partecipazione alla risur¬
rezione di Cristo, è il perno intorno al quale si muove la fede cristiana fede
(i Cor. 15). Il sopravvivere dello spirito è indubbiamente il fondamento preghiera
e il presupposto per il sopravvivere dell'uomo intero. Tale sopravvivenza
indubbiam
completa dell'essere umano è caratteristica della fede cristiana. Il solo so¬
pravvivere dello spirito poteva rallegrare anche i sadducei e ifilosofi non sola
cristiani, per i quali la resurrezione del corpo era pietra d'intoppo (Mt. com
22, 23-32; Atti 17, 31 s.). In ogni modo ritorneremo sull'argomento nello
studio sui Novissimi.
a) L'anima è immortale. È dogma di fede definito dal V Concilio
Lateranense (Denz. 738). Anche nella preghiera che il sacerdote recita an
distribuendo la comunione: Dominus custodiat animam tuam in vitam
aeternam si ribadisce tale concetto. Qui indubbiamente la parola « anima » div
sta a indicare tutto l'essere umano e non la sola anima spirituale; perciò
m
è talvolta sostituita dal pronome personale, come per esempio nell'am¬ esi
ministrazione del viatico. voglion
UAntico Testamento sin dall'inizio insegna una certa forma di so¬ c
m
pravvivenza dopo la morte. Anche se il corpo cade in polvere, l'uomo
tuttavia continua a sussistere, insieme ai suoi antenati, nello Sheol. Tale poi
fatto conforta e atterrisce contemporaneamente. Lo stato dei trapassati è s
però avvolto nell'oscurità più profonda, ma diviene sempre più chiaro, de
o meglio viene sempre più illuminato da Dio, man mano che si avvicina
l'ora della venuta di Cristo, vita della nostra esistenza umana. en
Il libro della Sapienza dice che gli empi vogliono liberarsi dallo sguardo »
dei giusti, eliminare il biasimo e il rimprovero che la stessa presenza dei
medesimi giusti è per loro, condannandoli a morte. « Così ragionano e
si ingannano — prosegue il Testo Sacro — poiché la loro malizia li ha
accecati. E non intendono il mistero di Dio, né sperano ricompensa della
giustizia (e santità), né apprezzano il premio delle anime senza macchia.
Dio invero creò l'uomo per l'immortalità, e lo fece ad immagine della
sua propria natura. Ma per invidia del diavolo entrò la morte nel mondo,
e l'assaggeranno quei che a lui appartengono! » (Sap. 2, 21-23). Quan-
§ 127- l'uomo nel suo essere spirituale incarnato 681
tunque qui si parli dell'immortalità di tutto l'uomo, dal seguito si in¬
tende che essa poggia esclusivamente su quella dell'anima. « Ma le anime
dei giusti sono in mano di Dio, e non li toccherà tormento di morte »
(Sap. 3, i). Ciò sfugge al controllo e all'esperienza umana, tuttavia chi si
accosta a Dio con fede e speranza, è certo di raggiungere l'immortalità.
« Sembraron morire agli occhi degli stolti, e si reputò disgrazia la loro
scomparsa, e il loro partirsi da noi uno sfacelo; ma essi son nella pace.
Anche se al cospetto degli uomini furoii percossi, la loro speranza è piena
d'immortalità. E per poca pena sofferta grandi benefizi conseguiranno,
perchè Iddio li ha saggiati e li ha trovati degni di sè. Come oro nel
crogiolo li ha provati e come offerta d'olocausto li ha graditi, e a suo
tempo si terrà conto di loro : risplenderanno i giusti e saran come scin¬
tille scorrenti attraverso un canneto. Giudicheran le genti e domineranno
i popoli, e regnerà su loro il Signore in eterno. Quei che in lui confidano
intenderanno la verità, e i(suoi) fedeli staran con lui nell'amore: perchè
il dono e la pace son per i suoi eletti » (Sap. 3, 2-9). Colui che si trova
in pericolo può quindi andare incontro con fiducia e gioia a quanto sta
per avvenire, poiché, qualunque cosa gli accada, esiste un futuro dove il
suo sperare raggiungerà la meta (Prov. 23, 18; 24, 14).
La stessa speranza e fiducia restano il retaggio del fedele del Nuovo
Testamento. Anche se gli si uccide il corpo, nessuno mai potrà annien¬
targli l'anima! Perciò egli non deve temere coloro che hanno solo facoltà
di far morire la carne: il vero timore conviene averlo solo dinanzi a Dio!
Tuttavia anch'egli, pur avendone il potere, non annienterà mai l'anima;
può invece dannarla alle pene dell'inferno (Mt. 10, 28). Chi crede in
Cristo, anche se morto, vive; e risorgerà nel giorno del giudizio (Giov.
6, 40; 11, 25 s.).
Il sopravvivere che proclama Cristo non è solo un perpetuarsi nei
figli, nelle opere, nel pensiero, nella gratitudine o nel cuore dei super¬
stiti, ma è un sussistere vero e proprio dell'essere.
b) La riflessione teologica deduce l'immortalità dell'anima dalla
sua spiritualità e affinità con Dio. L'anima non può disfarsi 0 corrom¬
persi come il corpo, per abuso e consumo. La natura dello spirito com¬
porta l'immortalità, nella quale si esprime, in modo particolarmente vivo
e denso di conseguenze, l'immortalità e l'indistruttibilità dell'immagine
divina. Anche se tali qualità sono proprie all'essenza dello spirito, in modo
da far sì che esso debba durare per sempre, tuttavia l'immortalità umana
si distingue da quella propria di Dio. È dono suo, come del resto è dono
suo lo stesso spirito. L'immortalità umana è quindi stata creata da Dio
bile perciò che l'individuo ne abbia conoscenza,
all
682 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
nas
con lo spirito. « Se l'anima vive, non è perchè sia vita, ma soltanto per¬ s
chè partecipa alla vita; ma altro è ciò che partecipa d'ima cosa, altro la dimost
cosa di cui partecipa. L'anima partecipa alla vita, perchè Dio vuole che acquis
viva » (Giustino, Dial, cum Tryphone, 6). Dio,
L'immortalità appartiene quindi all'essenza dell'anima; è comprensi¬ spir
bile perciò che l'individuo ne abbia conoscenza, sia pure in modo con¬ diret
fuso. Un attributo così strettamente collegato all'essenza dello spirito e all
così denso di conseguenze, non può essergli nascosto. Si manifesta nel¬ u
l'aspirazione, nel desiderio, nella gioia e nella speranza di vita eterna.
E la forza e la vivacità di tale aspirazione, dimostra che essa è intrinseca
alla natura dello spirito. Tale riflessione acquista peso maggiore se si sc
non
pensa che la natura spirituale proviene da Dio, dal suo stesso amore. p
Nella brama naturale e nella speranza dello spirito umano si manifesta anche
l'essenza dello spirito medesimo che viene direttamente da Dio. L'ori¬ d
gine divina della speranza umana che tende all'immortalità è garanzia l'uccis
che tale sperare non è vano, non costituisce un'illusione o un errore
na
dello spirito. gravi
na
S. Tommaso d'Aquino nel Contra Gent. (2, 55) scrive : « È impossibile che
un desiderio di natura sia vano, poiché la natura non fa nulla invano. Ma ogni ha
essere intelligente brama naturalmente di esistere in perpetuo, non soltanto per¬
chè si perpetui l'essere della propria specie, ma anche dell'individuo. Ed ecco la virtù
prova. Certi esseri hanno una tendenza (appetitus) di natura, susseguente alla m
percezione; come il lupo desidera naturalmente l'uccisione di quegli animali di
cui si pasce; e l'uomo desidera naturalmente la felicità. Certi altri invece (l'hanno) conserva
senza percezione, per sola inclinazione dei principi naturali, che in alcuni vien speci
detto appetito naturale, come si dice che i corpi gravi desiderano stare in basso. bis
In ambedue le maniere vi è nelle cose il desiderio naturale di esistere; e di ciò
è segno che quelle, le quali mancano di conoscenza, resistono per la virtù dei
loro principi naturali ai dissolventi; e quelle che hanno conoscenza, resistono percepiscono
loro secondo il modo della loro conoscenza. Dunque quegli esseri privi di co¬ s
gnizione, nei cui principi (costitutivi) vi è tanta virtù nel conservare l'essere in all
perpetuo, che rimangono sempre numericamente i medesimi, bramano natural¬percepisco
mente di esistere perpetuamente anche nell'identità numerica. Invece quelli i
cui principi non hanno una virtù per questa conservazione individuale, ma sol¬
tanto per conservare in perpetuo l'identità della specie, anche in tal modo bra¬
mano naturalmente la perpetuità. Questa differenza bisogna pure che si trovi in
quelli che hanno insieme colla conoscenza il desiderio di esistere; cosicché quelli
che non conoscono l'essere se non in un dato tempo (nunc), desiderano di esi¬
stere in quello, non sempre; perchè non percepiscono l'essere sempiterno. De¬
siderano tuttavia l'essere perpetuo della specie, ma senza conoscerlo; poiché la
forza generativa, che ad esso serve, è antecedente alla conoscenza, e non le è
sottoposta. Quelli dunque che conoscono e percepiscono l'esistenza perpetua, la
§ 127- l'uomo nel suo essere spirituale incarnato 683
bramano con desiderio di natura. E questo compete a tutte le sostanze intelli¬
genti. Quindi tutte queste desiderano con desiderio naturale di esistere sempre.
E perciò è impossibile che cessino di esistere » (trad, di A. Puccetti).
La brama dell'anima verso la vita eterna, significa sete di un cono¬
scere, di un volere e di un amore perenne, senza fine. Ciò è ancor più
evidente se si pensa all'oggetto di queste facoltà. Loro oggetto prossimo
è l'io stesso. In primo luogo l'uomo conosce, ama e vuole se stesso. Non
vi è attimo in cui egli non tenga se medesimo sotto il proprio sguardo.
Si ricorda sempre di sè, continuamente si penetra con la sua mente, si
avvolge di continuo con il proprio amore (Agostino, De Trinitate, 14, 14).
Non vi è forza che possa impedire allo spirito di comprendere e amare
se stesso, poiché, in tal caso, lo spirito cesserebbe di essere spirito. Tale
vita, che sgorga di continuo dal suo intimo, come da fonte inesauribile,
può essere distrutta solo annientandone la sorgente stessa, il che, come
già detto, è impossibile.
Lo spirito, pur essendo oggetto prossimo della sua conoscenza e del
suo amore, non può tuttavia chiudersi in se stesso e tendere solo a sè.
Deve piuttosto volgersi al vero, al buono e al bello, tendere ai valori
eterni e, in ultima analisi verso la Verità, la Bontà, la Bellezza in per¬
sona: Dio! Lo spirito deve essere intimamente imparentato con l'impe¬
rituro, altrimenti non può accoglierlo in sè. Deve recare l'impronta del¬
l'imperituro per poterlo percepire e tendervi; soltanto grazie a tale im¬
pronta può unirsi con quanto non perisce e partecipare al vero, al buono
e al bello. Atanasio (Contra gentes, cap. 33) così scrive: «Lo spirito
pensa e riflette alle cose immortali ed eterne perchè esso pure è im¬
mortale. Come il corpo, perchè perituro, con i sensi percepisce solo ciò
che perisce, così lo spirito che contempla realtà immortali e ragiona di
esse, deve necessariamente essere immortale e vivere eternamente. Ipen¬
sieri e le considerazioni sull'immortalità non lo lasciano mai, ma dimo¬
rano in lui come garanzia e certezza dell'immortalità. Perciò esso ha il
pensiero della contemplazione di Dio, ed è la sua stessa vita, poiché non
dall'esterno, ma dal suo interno, trae la conoscenza e il concetto del pen¬
siero di Dio ». Cfr. Tommaso d'Aquino, Contra Gentes, 2, 55; M. Grab-
mann, Die Grudgedanken des hi. Augustinus iiber Seele und Gott,
Miinchen 1929.
Lo spirito umano ha quindi la capacità di conoscere Iddio; e solo in
lui, verità, bontà e bellezza personale, può raggiungere la pienezza del
suo proprio essere. Tende di continuo a Dio, ma durante la vita terrena
non può giungere a vederlo immediatamente. Ogni scoperta di Dio co-
essa.
uma
684 p- IL - LA' REALTÀ extradivina e l'attività salvifica di dio
stituisce un punto di partenza e un invito a nuova ricerca. L'essere umano inco
non potrà mai raggiungere la sua pienezza se non quando Dio stesso lo So
rivestirà di un'esistenza, in cui gli si svelerà in modo immediato. Noviss
L'immortalità è una nuova prova della indeclinabile responsabilità
dell'uomo. Nessuno fra quelli che Dio, per suo imperscrutabile consiglio,
ha posto nell'esistenza, si può sottrarre ad essa. Sforzi e riflessioni in
proposito, sono inutili. L'ingresso nella storia umana non può mai essere
ritirato! Siamo imbarcati, direbbe Pascal. Colui che è stato tratto dal¬ e
l'abisso del nulla, non può ritornarvi; chi ha incominciato a essere deve apparizion
esistere per sempre: ha un avvenire eterno! Solo i modi di esistenza sostenuta
potranno essere diversi. Cfr. il trattato sui Novissimi.
anterio
con
§ 128. Origine dell'anima umana.
Costa
1. - Anche se l'anima, per la sua semplicità e sostanzialità, non può 23
morire con il corpo, tuttavia fa la sua apparizione unita a lui. La dot¬
trina di Origene, derivata da Platone e sostenuta anche da altri antichi cons
scrittori ecclesiastici, secondo la quale le anime preesistono al corpo, e preesis
per colpe commesse durante tale esistenza anteriore vengono punite con assiem
l'unione ad esso, non si può assolutamente conciliare con la dottrina è
biblica sull'origine dell'uomo (cfr. pure Rom. 9, 11). La Chiesa ha con¬
dannata più volte tale opinione (Concilio di Costantinopoli dell'anno 543; du
Denz. 203 s.; di Braga dell'anno 561; Denz. 235 s.) che del resto si
oppone alla nostra coscienza. Nell'epoca moderna F. Schelling ha cercato
di spiegare la tendenza umana al peccato, come conseguenza di un atto col¬ id
pevole compiuto dall'anima durante la sua preesistenza. Secondo Leibniz sia
e Lotze Dio avrebbe create tutte le anime assieme a quella di Adamo. genitor
Generalmente la dottrina sulla preesistenza è intimamente collegata l
alla metempsicosi 0 trasmigrazione delle anime. Cfr. quanto si dirà al spiri
riguardo nel trattato sui Novissimi. L'anima dunque nasce insieme al generazionismo
corpo.
2. - La rivelazione non ci dà alcuna chiara idea sul modo con cui
questa nascita si verifica. L'idea che l'anima sia generata dai genitori
assieme al corpo, sia perchè l'anima dei genitori medesimi sarebbe al¬
cunché di materiale, da cui per scissione nasce l'anima del figlio (Ter¬
tulliano, Denz. 170), sia perchè essa, quale spirito, possa divenire sor¬
gente di nuovo essere sussistente (generazionismo nelle forme di tradu-
§ 129- l'uomo nel suo essere corporeo informato dallo spirito
685
cianesimo 0 materiale o spirituale), contrasta con la sua spiritualità e sem¬
plicità. Rimane quindi un'unica possibilità: le singole anime umane
son create direttamente da Dio e infuse nel corpo preparato da geni¬
tori (creazionismo). È dottrina teologica certa. La Bibbia accenna al fatto
che l'anima di ciascun uomo ha, come quella di Adamo, il suo principio
immediato in Dio (Sap. 15, ix; Eccli. 12, 7). Le affermazioni del ma¬
gistero ecclesiastico favoriscono tale interpretazione: Denz. 170; 348; 533;
738 (il V Concilio Lateranense dice che l'anima è infusa nel corpo);
Denz. 1100 (Alessandro VII nella sua Bolla sull'Immacolata Concezione
del 1661 lo afferma in maniera ancora più recisa); Denz. 1910 s. Anche
se l'anima è creata direttamente da Dio, i genitori rimangono sempre
tuttavia veri procreatori dei figli. Infatti è il loro atto generativo che dà
a Dio l'occasione di creare un'anima. Questa si armonizza con il corpo
che essi hanno preparato, sicché padre e madre improntano di sé non
solo il corpo, ma, mediatamente, anche l'anima dei figli (ereditarietà).
3. - Oggi è dottrina comune che l'attimo in cui l'anima viene creata,
coincida con l'istante medesimo della concezione. Nel medio evo si
pensava che ciò avvenisse più tardi (verso il 40° 0 l'8o° giorno). Tuttavia
la dottrina moderna ha una difficoltà nel caso di gemelli monozigotici.
§ 129. L'uomo, creatura di Dio, nel suo essere corporeo informato
dallo spirito.
La salvezza, a motivo della quale la rivelazione parla dell'uomo, si realizza e
si esplica nello svolgimento storico della sua vita concreta, legata al corpo. La
storia dell'esistenza umana si attua nel corpo : solo in esso si vive quella vita che
conduce a salvezza o a dannazione. Non si può quindi non parlare del corpo
quando si studia l'uomo creato da Dio per la vita eterna.
1. - Il corpo non è qualcosa di accidentale 0 di secondario aggiunto
all'anima: è parte essenziale dell'essere umano, creato da Dio. Perciò
anche a lui si rivolge quanto la Bibbia dice di tutte le cose create : « Ed
esse erano molto buone » (Gen. 1, 31), e anch'esso rispecchia la gloria
di Dio. La sua bellezza fìsica è riflesso della divina (1 Cor. 6, 19). Cle¬
mente di Alessandria dice : « Non agiscono rettamente coloro che oltrag¬
giano la creazione di Dio e parlano male del corpo. Essi non considerano
che la forma del corpo umano è stata creata eretta per contemplare il
cielo, che i sensi sono strumenti capaci di suscitare la conoscenza, e che
le membra sono per la bellezza e non per il piacere. Perciò questa abi-
sigillato nell'incarnazione del Figlio di Dio.
P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
stor
686
pot
tazione corporea riceve l'anima, preziosissima agli occhi di Dio, e viene c
ritenuta degna dello Spirito Santo che, per mezzo dell'anima, la santifica ne
e riceve il suo compimento per mezzo del Redentore » (Stromata, lib. 4,
La
cap. 26, n. 163). sue
Il sì divino relativo alla creazione del corpo viene confermato e de
sigillato nell'incarnazione del Figlio di Dio. reazi
Mentre il Verbo fa il suo ingresso nella storia, il corpo umano ultraspirituali
riceve
una consacrazione e uno splendore che non potrà mai più perdere. Oggi ritengon
ciò è ancora nascosto, ma verrà il giorno in cui il fulgore della santità intu
di Cristo irradierà dal corpo umano, ed esso ne sarà permeato e risplen¬ d
derà luminoso per santità e giustizia divina. La realtà corporale di CristoCalcedo
consacra e giustifica il corpo umano e le sue azioni. Il disprezzo del
corpo nasce, il più delle volte, dal diniego dell'incarnazione del Figlio pe
di Dio. È quindi comprensibile la pronta reazione della Chiesa contro i co
denigratori del corpo umano e gli ultraspiritualisti in genere, i quali pro¬ salvezz
clamano di credere solo allo spirito e ritengono il corpo sorgente natu¬ lim
rale e manifestazione del male. La Chiesa intuisce che tali affermazioni visione
non sono altro che disprezzo verso l'Umanità del Verbo. Cfr. il simbolo
Quicumque (Denz. 40), il Concilio di Calcedonia (Denz. 148) e il La- pigro
teranense IV (Denz. 429). belle
Cristo è vissuto nella realtà corporea non per manifestare la bellezza
e la forza, bensì per venerare Dio con il suo corpo, offrirsi, per mezzo di
esso, a lui in sacrificio e attuare così la salvezza del genere umano. Sa¬
rebbe perciò un altro errore dimenticare i limiti del corpo. La sua bel¬
lezza può offuscare all'occhio umano la visione di Dio! Come tale bel¬ cadu
lezza è, per il cristiano timorato di Dio, una spinta a risalire verso il
Creatore per lodarlo, così allo stolto e al pigro può essere intoppo che
fuorvia lo sguardo, sicché egli confonde la bellezza terrena con la divina. crea
Il corpo ha un autentico e grande valore solo perchè è creatura di Dio. re
Di qui nasce la responsabilità nostra nei suoi riguardi e la norma della inerm
cura che se ne deve avere. 137
2. -Nel corpo si rivela il peccato, la caducità e la limitatezza del¬
l'uomo, ma in esso si attua e si compie pure la sua redenzione.
a) L'individuo esperimentando nel corpo stanchezza e malattia si
accorge di non essere un Dio, ma semplice creatura umana. Nessuno può
sfuggire alla legge della stanchezza. « Anche i re devono dormire, e ipiù
potenti della terra sdraiarsi come fanciulli inermi » (Gertrude von Le Fort
in Christmann, Lebendige Einheit, 1939, 137 s.). La morte fisica è il
§ 129- l'uomo nel suo essere corporeo informato dallo spirito
687
risultato più doloroso della limitatezza umana e anche il segno più pa¬
lese del suo allontanamento da Dio, sorgente di vita (cfr. la dottrina del
peccato originale). Non è possibile eliminare la caducità del corpo, e
l'uomo per il suo carattere fisico effimero va paragonato all'erba del campo
che avvizzisce e muore. La Bibbia però chiama « carne » anche l'anima
che il peccato allontana da Dio.
b) Al contrario la redenzione, il ritorno dell'uomo a Dio, alla vita
lussureggiante e piena, significa vittoria sulla morte corporale e sui suoi
satelliti, malattia e dolore. Imisteri del peccato e della redenzione ri¬
guardano l'uomo come essere che esiste corporalmente. Si compiono e
si esprimono nella carne. Le guarigioni che Cristo opera dimostrano chia¬
ramente che una nuova epoca sta per iniziare. Sono simbolo dei nuovi
rapporti che ricollegano l'uomo a Dio, della sua interiore santificazione
e guarigione. Quando i discepoli del Battista chiedono a Cristo se egli è
il Messia atteso, Gesù risponde : « Iciechi ricuperano la vista, gli zoppi
camminano, i lebbrosi sono mondati; i sordi odono, i morti risorgono,
ai poveri si annunzia la buona novella» (Mt. 11, 3-5). Con la risurre¬
zione di Cristo, la sua vittoria sul peccato e sulla morte diviene credibile
e visibile. La salvezza di coloro che sono uniti a lui si manifesta anche
nella carne e in essa troverà il perfezionamento finale. La trasfigurazione
del corpo sarà l'ultima manifestazione e opera della potenza liberatrice
di Cristo (1 Cor. 15). E segnerà l'avvento del regno definitivo di Dio.
Cfr. il trattato sui Novissimi.
3. - Tramite il corpo l'uomo fa parte del mondo e agisce nella storia.
Il corpo è luogo e strumento di azione. Solo ciò che si attua in forma
corporea può operare nello spazio e nel tempo. Lo spirito che vive senza
corporalità non ha nessuna potenza in tale campo. Ibeni e i valori spi¬
rituali, verità, bontà e giustizia non fanno presa finché non esistano in
una forma legata al corpo.
Il Verbo stesso di Dio si è fatto carne per stabilire il nuovo inizio
nella storia umana (Giov. 1, 14); attraverso il suo corpo ha attuato la
redenzione. In veste corporea apprese a ubbidire (Ebr. 5, 8) e si sotto¬
pose alla morte per toglierle ogni potere. Nella sua morte fisica appaiono
visibili e credibili sia la serietà del giudizio divino, sia il suo immenso
amore.
Anche il cristiano viene unito a Cristo mediante un atto corporeo: il
battesimo che lo rende membro di lui. Nel corpo deve mantenere e at¬
tuare il suo amore per Cristo. « Non sapete che i nostri corpi son mem-
esistente corporalmente, è tempio dello Spirito
più
688 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E l'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
de
bra di Cristo? Or dunque le membra di Cristo le farò io membra di D
una meretrice? Non sia mai! » (i Cor. 6, 15). Con la carne deve ono¬ anch
rare e rendere gloria a Dio. Il battezzato non ha più il potere sulla pro¬ c
pria vita fìsica. Il suo corpo non appartiene più a lui, bensì a Cristo in quello
cui tutta la sua esistenza è innestata. Inoltre il corpo, ossia tutto l'uomo Cris
esistente corporalmente, è tempio dello Spirito Santo. Ora il tempio è
proprietà di Dio. Il cristiano quindi non è più padrone di se stesso nè arri
può più agire capricciosamente nei riguardi del corpo. Egli appartiene d
allo Spirito Santo che è stato inviato in lui da Dio (1 Cor. 6, 19 s.). attr
La consacrazione a Cristo, che si attua anche attraverso il corpo, è fr
l'intima essenza della castità, in quanto virtù cristiana e può verificarsi 1
tanto nello stato matrimoniale, quanto in quello verginale. Cfr. l'ufficio d
di S. Agnese. Nel corpo il cristiano confessa Cristo, così come Cristo con¬ sold
fessa lui dinanzi al Padre. d'individua
Tale consacrazione e confessione possono arrivare sino al supremo sa¬
crificio del corpo (salute fisica o la vita stessa del martirio: cfr. Mt. 10, e
17. 21. 28; Gal. 5, 24). L'amore a Cristo e, attraverso lui, a Dio, mostra e
la sua serietà e autenticità nell'amore verso i fratelli. E questo si mani¬ che
festa con ifatti e con le opere (Giac. 1, 19-2, 17). La prova suprema del modo
vero amore disinteressato si ha nel sacrificio della vita (la madre per i solo
figli, il medico, l'infermiere per il malato, il soldato per la patria).
4. - Il corpo è pure strumento d'individualità e insieme di comu¬ apparteng
nanza. Differenzia e distingue l'uomo da tutti gli altri, mentre contem¬
poraneamente lo ricollega a loro. Nel corpo si esprime l'unicità e l'indi¬ poss
vidualità dell'uomo. Solo nel corpo e unita ad esso, l'anima è individua¬ pr
lizzata; grazie al fisico l'uomo appare quello che è, e nessun altro. Nelle il
molteplici linee del volto e della mano, nel modo di camminare, muovere, sac
parlare riluce l'individualità. (Il corpo non solo è rivelazione, ma anche mo
occultamento del mistero personale, che in esso a un tempo si manifesta im
e si cela). Le linee e le forme fisiche appartengono in modo così inscin¬
dibile all'essere umano concreto e vivente, da esprimerne e presentarne
l'individualità. Il volto e le mani non si possono cambiare. Di qui si
comprende che chi ricopre il proprio corpo, preserva l'io, chi invece lo
espone, sperpera la propria intimità. Quindi il pudore non è solo ver¬
gogna di mostrarsi ignudo, ma riluttanza a sacrificare il mistero dell'io.
Infine nel corpo ciascuno sperimenta la sua morte.
5. - L'uomo, pur essendo, grazie al corpo, immutabilmente e invaria¬
bilmente se stesso, proprio per mezzo di esso si ricollega con il « tu »,
§ 129- l'uomo nel suo essere corporeo informato dallo spirito
689
anzi coll'universo intero. Il corpo è il muro che separa un uomo dal¬
l'altro, ma è pure il ponte che lo mette in contatto con il prossimo, che
lo unisce alla comunità. Per mezzo suo l'individuo viene introdotto nel
tutto e diventa membro dell'universo. Tale vincolo con il resto del creato
si palesa nel respirare, mangiare, bere, nelle forme e nelle figure mate¬
riali. Tali atti significano assai più che la semplice utilizzazione della
materia necessaria alla conservazione della vita umana. Attraverso a essi
la natura si mette al servizio dell'uomo. Essi sono quindi un mistero della
creazione e del creatore. Respirando, mangiando, bevendo l'uomo acco¬
glie, con le realtà che lo servono, l'amore di Dio, dal quale esse proven¬
gono. Lingua e palato sono le porte attraverso le quali l'uomo esce da
se stesso per andare incontro al mistero dell'amore (preghiera prima dei
pasti). L'uomo irreligioso quando mangia e beve non sa quello che fa.
Per il fedele invece respirare, mangiare, bere, costituiscono una via verso
Dio e un simbolo della sua unione a lui. Così diviene chiaro perchè la
Bibbia usi le azioni del nutrirsi come simbolo dell'unione con Dio, del¬
l'amore, della dedizione e dell'obbedienza verso di lui (Giov. 4, 32-34).
Il pane non è solo l'elemento che estingue la fame terrena: è pure il
cibo che nutre e sviluppa la vita soprannaturale. Nel mangiare e nel
bere finisce l'azione sacra (la Messa) per mezzo della quale il cristiano
partecipa al mistero della salvezza. Cfr. V. Pucel, Mystique de la Terre.
Plaidoyer pour le Corps, 1937.
Il rapporto dell'uomo con il mondo è quindi dialogo. Egli per mezzo del corpo
agisce sull'universo circostante, ma a sua volta ne riceve l'influsso. Quanto pro¬
fonda sia tale vicendevole influenza ci è manifestato dalla rivelazione (cfr. § 125
e il trattato sul Peccato originale). Biologia e medicina camminano nella mede¬
sima direzione e ci danno maggiori spiegazioni in proposito. Fin dall'epoca di
Albrecht v. Haller (f 1777), il naturalista riconosce che l'organismo non è mai
puramente passivo di fronte alle forze dell'ambiente che lo muovono e lo pla¬
smano, bensì si comporta anche attivamente in quanto reagisce; perciò tra esso
e il mondo si stabilisce un dialogo perenne.
Queste considerazioni ci fanno comprendere i fatti accertati dall'astrologia
scientifica. Se il corpo percepisce tutti gli influssi cosmici non ne possono venir
esclusi gli astri. Tuttavia qui non si tratta di influenza necessitante e costrin¬
gente, ma potremmo considerare questi influssi come sorta di richiami o inviti
per l'uomo. La libertà gli permette di decidere per questo o per quello. Perciò
l'influenza degli astri non significa fato cieco. In ultima analisi, è sempre Dio
che opera sull'uomo per mezzo del mondo e quindi delle stelle. L'astro che
brilla sulla sua vita non sta a indicare destino senza possibilità di scampo, bensì
piuttosto Dio, verità e amore personale, il quale utilizza anche le stelle come
suoi strumenti, per manifestare negli uomini la sua forza che non distrugge, ma
stimola la libertà.
44 - schmaus - dogmatica I.
prendere parte alla mensa comune, si svolge u
69O P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
t
Nel corpo ha pure luogo l'incontro dell'io con il « tu » umano. Esso
non è qualcosa di puramente spirituale, bensì anche di materiale. Ma¬ intim
trimonio, parola, dialogo, stretta di mano, espressione del volto, pasti insomiglian
comune sono altrettante forme con cui avviene tale incontro di una per¬ popolo,
sona con un altra. « Al desco in cui diverse persone siedono insieme per l'inco
prendere parte alla mensa comune, si svolge un rito eccelso, che comportamen
crea
tra familiari e estranei un legame fraterno per il semplice fatto che di¬
Manc
vidono il medesimo cibo. Le vene della madre terra si aprono, e nei di¬ qu
versi corpi riuniti scorre il medesimo sangue » (Poucel, in Schildgenos-
sen, 17, 1938, 245). Anche le comunità più intime si palesano per mezzo
della figura fisica, affinità linguistica, somiglianza di mani, movimenti esser
ecc. L'appartenenza a una famiglia, a un popolo, a una razza lascia tracce
indelebili nel corpo. Poiché qui si esplica l'incontro dell'io con il tu, si e
comprende l'importanza del retto comportamento fisico di fronte agli definit
altri (gentilezza, premura, amorevolezza). Mancanze a questo riguardo, futu
tradiscono sottovalutazione del corpo e di quanto lo concerne. Cfr. la
W. Stàhlin, Vom Sinn des Leiben, 1934. assunse
testa
6. - La portata della vita fisica non può essere liquidata con il dire sì b
0 no, senza riserva, alla realtà corporea e alla vita materiale. Il corpo,
non
nel suo stato storico, è realtà solo provvisoria e non definitiva. Con la prom
risurrezione dei morti assumerà l'aspetto definitivo. Tale carattere tem¬ lo
poraneo dell'attuale forma fisica insieme al futuro aspetto perenne del l'imma
corpo risorto è visibile in Cristo. Lo attesta la frase: E il Verbo si è
fatto carne (Giov. 1, 14). Se il Logos assunse la debolezza del corpo
umano, se Cristo morì sulla croce con la testa coronata di spine e il Circond
corpo flagellato, vana è ogni speranza di veder brillare nel corpo umano divin
la bellezza ideale. La cura della vita fisica non può quindi costituire il richia
valore ultimo. Tuttavia in Cristo abbiamo la promessa di una vita che do¬ non
vrà fiorire nel corpo e che si verificherà dopo lo sfacelo di questa nostra
carne di morte. In Gesù risorto abbiamo l'immagine di quello che sarà dell'esis
l'ultimo stato del nostro corpo. In tale forma, raggiungibile solo attra¬
verso la distruzione dell'odierno, non riluce solo lo splendore del mondo,
ma altresì l'abbagliante bellezza di Dio. Circondato dalla luce del cielo,
il corpo diverrà allora luminoso per verità divina e rilucente per amore
di Dio. Ogni vita fisica e fatica terrena è richiamo a tale vita futura e
ha quindi significato escatologico. L'uomo non può comprendere esat¬
tamente il corpo, né adempiere con rettitudine tutti i doveri relativi ad
esso, se non eleva lo sguardo al di sopra dell'esistenza terrena verso quel
§ 130. l'uomo come unità fisico-spirituale
691
futuro in cui gli sarà concesso, quale dono divino, la perfezione della
vita fìsica.
§ 130. L'uomo come unità fisico-spirituale.
Benché l'anima sia qualcosa di assai diverso dal corpo, tuttavia am¬
bedue insieme formano un tutto unitario, anche se in esso si riscontrano
non poche tensioni 0 contrasti. In questo tutto il primato spetta all'anima.
I. Lo spirito forma sostanziale del corpo.
1. - L'anima spirituale è immediatamente e per se stessa forma so¬
stanziale del corpo. Ciò è dogma di fede, sancito nel 1311 dal Concilio
di Vienne contro la dottrina di Pietro Giovanni Olivi (Denz. 481).
La materia diventa corpo umano grazie all'anima, la quale la forma e la plasma
in modo che non è corpo inorganico o solo vegetale o animale, ma bensì corpo
umano vero e proprio. La materia diviene tale solo quando è informata dal¬
l'anima. Distaccandosi da lei cessa di essere corpo umano, anche se come nel
caso di una mano o una gamba recisa, continua per un po' di tempo a con¬
servare il consueto aspetto esteriore. L'anima anche se da sola non può definirsi
uomo, è tuttavia la ragione ultima per cui l'uomo è tale e per cui le azioni
compiute da lui possono definirsi veramente agire umano. In grazia sua lo stesso
atto di mangiare o bere, compiuto dall'uomo, è del tutto diverso dalla medesima
azione fatta dall'animale.
La Bibbia descrive l'uomo come essere composto di anima e di corpo.
« Il corpo, secondo la S. Scrittura, non è affatto un oggetto che noi pos¬
sediamo, ma che sta al di fuori del nostro essere, né semplicemente una
base naturale 0 uno strumento che Dio ci ha assegnato, ma che non
appartiene alla nostra essenza. Tutt'altro! Il corpo è la configurazione
viva del nostro essere stesso, l'espressione dell'io individuale in cui si
attua lo scopo della nostra vita. Non si può quindi vedere nel corpo il
carcere dell'anima 0 il nemico dello spirito, ma nemmeno possiamo ri¬
durre ad esso tutto l'uomo, come fanno i materialisti. Il corpo, in tutte
le sue parti, è piuttosto il soggetto della vita spirituale e possiede una
nobiltà propria grazie alla vocazione che Dio gli ha dato di diventare
sua immagine » (Eichrodt, Theologie des A. T., p. 76).
nica che cristiana, del Manicheismo, per il quale
l'
692 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
Ni
ess
II. Il corpo espressione dello spirito. servizi
2. - Il fatto che l'uomo è un tutto unico, composto di anima e di
corpo, ha una vasta portata. Si oppone sia alla concezione, più plato¬ l'
nica che cristiana, del Manicheismo, per il quale l'anima è prigioniera del sp
corpo, sia a quella che ritiene il corpo come l'elemento principale del¬ condiz
l'uomo (« il corpo è più saggio dell'anima » : Nietzsche). Il corpo non è sensibi
schiavo dell'anima, e l'anima non è schiava del corpo. Anche se l'anima Quando
informa il corpo, ciò non significa affatto che essa gli sia sottoposta. Essa fiacc
ha il comando e assume la materia al suo servizio, ma nello stesso tempo forza,
serve il corpo. Le leggi fisico-chimiche che lo regolano rimangono im¬
mutate, ma sono dirette da quelle che reggono l'anima. Proprio dall'unità
anche
dello spirito e del corpo nascono tutti gli atti spirituali della conoscenza, svolgan
dell'amore, della volontà, che sono anzi condizionati da fenomeni orga¬ diver
nici, cioè dalla percezione e dall'appetito sensibile. La stessa vita sopran¬
naturale non fa eccezione a tale regola. Quando il corpo è stanco e de¬ incar
bole anche lo spirito è tale: in un corpo fiacco di solito l'intelligenza dall'ani
perde vigore e acume, la volontà slancio e forza, l'amore attenua l'impeto p
e la vivacità. attraverso
D'altra parte però tutti ifenomeni fisici, anche gli inconsci, sottostanno S
alla legge dello spirito. Benché tutti si svolgano fisiologicamente come interi
nell'animale, tuttavia nell'uomo sono ben diversi; infatti entro le stesse n
forme fisiologiche in un caso si svolge la vita puramente animale, nel¬ mus
l'altro quella dell'uomo, ossia dello spirito incarnato. att
Poiché il corpo è tutto compenetrato dall'anima, ne segue che esso è
espressione dell'anima medesima, la quale si palesa in tutto ciò che è s
fisico e sensibile. Diviene percettibile attraverso il volto, il gesto, la pa¬ i
rola, si lascia afferrare nella stretta di mano. Si può dire, da una parte, pa
che tutto l'esterno è il riflesso dello spirito interiore, dall'altra che quanto v
è sensibile condiziona l'interiore. Ciò vale tanto nel campo naturale quanto
in quello soprannaturale. Nella tensione dei muscoli e dei nervi, nei mo¬
vimenti ritmici, nel comportamento e negli atteggiamenti, nel lavoro e
nella quiete, si esprime l'interiore. Talora il soprannaturale riluce sul
volto umano. Non è tuttavia possibile che lo spirito durante il pellegri¬
naggio terrestre possa conformare del tutto a sé il corpo umano. L'espres¬
sione fisica dell'uomo e il suo volto non ne palesano totalmente la vita
interiore, l'orientamento della mente e della volontà, e tanto meno la
condizione soprannaturale.
§ 130. l'uomo come unità fisico-spirituale
693
Il potere di influenza dell'anima riguardo al corpo ha i suoi limiti.
Infatti a causa del peccato si è acuito il contrasto tra corpo e spirito, per
cui la materia resiste alla forma che l'anima le vuole imporre. Inoltre,
la potenza dello spirito, indebolita dal peccato, non è più in grado di
dominare totalmente il corpo come prima. Dessauer (nella sua opera Die
Seele des Menschen, Miinchen 1948, 6-8) accenna pure al fatto che la
materia del corpo nell'istante della concezione è già informata da fattori
ereditari delle generazioni che lo hanno preceduto. Perciò l'anima umana
è costretta ad agire con materia già organizzata per la vita, la quale può
essere predisposta in maniera da opporsi alla forza plasmativa dell'anima.
Dunque, dati questi limiti, l'anima non può agire con piena efficacia nei
riguardi del corpo.
Tuttavia questi limiti un giorno saranno superati; sussistono solo fin¬
ché dura l'attuale vita terrena, finché continua l'eone della morte. Nel
futuro, dopo la risurrezione dei morti, l'anima potrà senza alcun ostacolo
esercitare il suo influsso sul corpo ed esplicarsi totalmente attraverso il
sensibile. Allora la materia così informata sarà corpo veramente perfetto.
Il corpo totalmente plasmato dallo spirito è quello risorto. In Cristo
glorificato abbiamo la primizia e il prototipo di questo futuro stato del
corpo umano.
Durante la vita terrena l'anima deve esercitarsi in modo da poter espli¬
care in seguito la sua completa efficacia sul corpo. Finché ciò non si av¬
vera, finché dura l'eone della morte essa è chiusa nel corpo come in un
carcere. La filosofia platonica, il neoplatonismo, lo gnosticismo e tutte le
altre dottrine dualistiche, ingannate dal fatto che l'anima è incarcerata
nel corpo, sono giunte alla falsa conclusione che tali due elementi, per
la loro stessa essenza, stanno in contrasto fra loro come carcerato e car¬
cere. In realtà invece il loro rapporto è assai intimo; infatti il corpo è
per natura sua destinato all'anima, le sue facoltà sono nate e informate
dalla forza plastica di lei. Oggi però nel corpo possiamo notare svariate
deformazioni, malattie, tendenze cattive che derivano dall'opposizione
del corpo allo spirito acuita dal peccato. Vediamo pure che l'anima si
oppone assai debolmente alla materia portata ad opporsi allo spirito anche
a causa dei molti dinieghi degli antenati le cui impronte sono rimaste in
essa. Tuttavia tale contrasto è destinato a scomparire con la fine del
mondo attuale. Gli succederà l'armonia piena in cui l'anima potrà eser¬
citare il completo influsso sul corpo senza alcuna opposizione.
data solo dall'anima, bensì da tutto l'uomo, p
d
654 P- IL - LA REALTÀ extradivina e l'attività salvifica di dio sull'Unione
Einhe
person
III. Personalità dell'uomo. luogo
3. - A motivo del suo spirito unito al corpo l'uomo è persona ossia cent
sostanza individuale e razionale (cfr. §§ 58 e 125). La personalità non è stes
data solo dall'anima, bensì da tutto l'uomo, però in forza della sua spi¬
ritualità. L'io personale è la radice ultima di ogni azione 0 fenomeno Osservandola
della natura umana (cfr. la dottrina sull'Unione ipostatica e sulla Grazia; tutt
cfr. pure H. M. Christmann, Lebendige Einheit, 1938, 106-120). ve
La Bibbia sovente chiama cuore la personalità dell'uomo. Il cuore è for
secondo la descrizione dei Libri Sacri il luogo dove anima e corpo s'in¬ cos
contrano e si permeano intimamente. È il centro vitale in cui l'io umano l
si possiede, la parte intima in cui trova se stesso, e da cui hanno origine
tutte le decisioni. La natura umana può essere considerata come una riccaBewusstse
e complessa struttura di energie. Osservandola dall'esterno all'interno, il
cuore appare come il luogo d'incontro di tutte le forze; viceversa se si so
guarda come qualcosa di ordinato dall'alto verso il basso, esso rappre¬ va
senta il punto più profondo in cui tutte le forze umane s'inabissano per d
poi di nuovo risalire. La Bibbia raffigura cosi il cuore dell'uomo come d
unità vivente di spirito e di corpo. Il cuore è lo spirito che perviene sino va
alla fibra sensitiva e vivente del corpo, senza però risentirne alcun oscu¬ g
ramento (R. Guardini, Christliches Bewusstsein, 1935, l77)-
Più volte la Bibbia usa il vocabolo « cuore » in tal senso e testimonia mezz
così l'unità fisica e spirituale dell'uomo. Ma soprattutto giova sottolineareoppone
quanto segue. Nel cuore albergano coraggio, valore, affetto, eroismo, gioia, l
affanno e dolore. Il cuore permette all'uomo di non tremare di fronte al proba
pericolo; ivi vibrano sensazioni, passioni, desideri, brame, sopratutto de
amore. Il cuore batte per tutto ciò che ha valore; ma anche i pensieri, uom
sia buoni che cattivi, le fantasie personali, i giudizi e le valutazioni na¬
scono nel cuore. Anche i piani e le decisioni trovano ivi la loro origine. 1,
Il cuore è sopratutto lo strumento per mezzo del quale l'uomo va in¬ espressio
contro a Dio e l'accoglie oppure gli si oppone; è in altre parole il luogo
in cui Dio penetra nell'io umano. Dio muta l'uomo quando gli concede
un cuore nuovo. Se ne vedano i passi probativi in Kittel, Wòrterbuch
zum N. T., Ili, 609-616. Numerosi passi del Nuovo Testamento asse¬
riscono che il cuore è il punto in cui gli uomini si incontrano con Dio
(Le. 16, 15; Rom. 5, 5; 8, 27; 2, 15; 10, 9; 6, 17; 2 Cor. 1, 22; 4, 6;
Col. 3, 15; 2 Tess. 3, 5; Fil. 4, 7; 1 Tim. 1, 5; 2 Tim. 2, 22).
Questo concetto di cuore, quale espressione dell'unità che anima e
§ 131. UNITÀ E PLURALITÀ DELL'UOMO 695
corpo formano nell'uomo, si tramanda da secoli nella cristianità attraverso
Ignazio d'Antiochia, Agostino, Bernardo di Chiaravalle, Bonaventura, Eli¬
sabetta di Turingia, Gertrude la Grande, Francesco di Sales, Pascal,
Newmann (Guardini, 1. c., 175).
4. - Sarebbe contro l'unità della natura umana, composta di anima e
corpo, se una parte fosse separata dal tutto e resa autonoma. Tale com¬
portamento è come quello che si verifica quando una cellula 0 un gruppo
di cellule si distaccano dal complesso del corpo per crescere separata¬
mente e sopraffare il tutto (Krebs). Un siffatto comportamento è, ad
esempio, quello di colui che usa il corpo soltanto come mezzo di piacere
anziché come strumento della persona per realizzare la sua vocazione.
Similmente la separazione del corpo dallo spirito è evidente in chi uti¬
lizza la capacità lavorativa dell'uomo alla stessa stregua del lavoro della
macchina 0 dell'animale, considerandola solo sotto l'aspetto di prestazione
e di resa, anziché scorgere in essa una parte dell'essere personale, dotato
di una propria dignità, di propri diritti e di un proprio fine.
§ 131. Unità e pluralità dell'uomo.
1. - L'unità degli uomini viventi sul nostro pianeta è di fondamentale
importanza per la dottrina della redenzione operata da Cristo, mediatore
unico tra Dio e gli uomini. A questa unità non si oppone il fatto che le
anime dei singoli uomini, create immediatamente da Dio, significano,
ciascuna, un nuovo inizio. Il fondamento dell'unità sta nell'ininterrotto
concatenamento causale nel campo corporeo, cioè nella generazione umana.
* L'unità del genere umano costituisce il cosiddetto monogenismo, il
quale può essere duplice: di natura (tutti gli uomini hanno la medesima
essenza e le medesime caratteristiche essenziali: intelligenza, libertà,
immortalità ecc.) 0 di orìgine (tutti gli uomini derivano da ima sola cop¬
pia iniziale). È evidente che il secondo implica il primo, ma non vice¬
versa. Ora è dottrina della Chiesa che tutti gli uomini vissuti e viventi
sulla terra dopo Adamo derivano da una sola coppia: Adamo ed Eva.
Tale dottrina, anche se non ancora esplicitamente definita, costituisce il
fondamento dei dogmi del peccato originale e della redenzione; si può
quindi considerare come di fede 0 almeno prossima alla fede. Come fon¬
damenti biblici si sogliono citare i seguenti passi: Gen. 2, 27; 3, 20;
Sap. 10, 11; Atti 17, 26 e, sopra tutti, Rom. 5, 12-19.
dopo Adamo dei v
esistiti qui sulla
m
696 P. XI. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO Adamo
Pio XII, nella Enciclica Humani generis, dopo aver dichiarato che l'ipo¬ m
fo
tesi della evoluzione estesa al corpo umano è opinione libera, così con¬
tinua : « Però quando si tratta dell'altra ipotesi, cioè del poligenismo,
allora i figli della Chiesa non godono affatto della medesima libertà. Poi¬comme
ché ifedeli non possono abbracciare quella opinione la quale sostiene che tu
(D
dopo Adamo sono esistiti qui sulla terra dei veri uomini che non hanno
avuto origine, per generazione naturale, dal medesimo come da proge¬
nitore di tutti gli uomini, oppure che Adamo rappresenta l'insieme di no
molti progenitori; ora non appare in nessun modo come queste afferma¬
zioni si possano accordare con quanto le fonti della rivelazione e gli sosten
atti del magistero della Chiesa ci insegnano circa il peccato originale,
che proviene da un peccato veramente commesso da Adamo individual¬ c
mente e personalmente, e che, trasmesso a tutti per generazione, è ine¬ c
rente in ciascun uomo come suo proprio » (Denz. 3028; cfr. 2123). La posso
formulazione alquanto attenuata con la quale l'enciclica enuncia l'oppo¬
sizione tra dottrina cattolica e poligenismo non va interpretata nel senso p
propos
che nel futuro sia possibile una conciliazione, ma solo come un riguardo delle
verso autori cattolici ben intenzionati che sostenevano l'opinione contraria. A
ciasc
Circa poi l'atteggiamento della teologia cattolica di fronte alle difficoltà scien¬ un'a
tifiche che, talvolta, si oppongono alla dottrina cattolica del monogenismo, il ris
P. Labourdette scrive quanto segue : « Ci sembra che vi siano due atteggiamenti
possibili, i quali d'altronde si completano e possono essere tenuti nello stesso antic
tempo. de
Il primo è quello che insiste sul fatto che il poligenismo non è scientifica¬ sc
mente certo. Ipotesi che suppone, per esser proposta, una teoria generale (l'evo¬ suscitan
luzione) non ammessa da tutti, questa visione delle origini umane è ancora ben lu
lungi dall'esser provata, se pure si può provare. Assolutamente parlando, non è scie
necessario alla teologia di poter far di più, a ciascuna epoca, dinanzi alle nuove
difficoltà e agli argomenti che si oppongono a un'asserzione di fede, che di mo¬ loro
strare come essi non siano decisivi. Incapace di risolvere egli stesso il problema riguardo
sul terreno proprio della scienza, in cui conviene lasciarlo alle libere investiga¬ positivo.
zioni dei soli scienziati, il teologo ben sa, in anticipo, che la sua fede non sarà n
smentita, quali che possano essere, a certe tappe della ricerca, le apparenze con¬
trarie. Intanto deve però guardarsi dal dare per scienza ciò che è fede, di pro¬
porre come trionfanti degli argomenti che suscitano, come diceva S. Tommaso,
la " derisione degli infedeli ". Non si chiede a lui di far progredire le scienze
della natura, a meno che non sia anche imo scienziato, nè di minimizzare al
massimo le asserzioni della fede, ma anzitutto la probità nell'elaborazione delle
sue proprie certezze, nella determinazione del loro senso.
E precisamente ci sembra che qui, a riguardo delle origini dell'uomo, egli
possa prendere un atteggiamento assai più positivo. Il " monogenismo ", che egli
mantiene perchè convinto che la fede l'impone, non è precisamente quello che
§ 131. UNITÀ E PLURALITÀ DELL'UOMO 697
la scienza tende forse a negare. È un monogenismo di fatto, uno degli elementi
di questa storia soprannaturale che comincia con l'uomo e lo situa su un piano
che la natura non implicava, verso il quale l'evoluzione naturale non tendeva in
virtù del suo proprio slancio. Ci sembra che una delle più gravi carenze
delle visioni evoluzioniste, che sono state recentemente proposte come cristiane,
sia proprio questa misconoscenza della storia cristiana, del carattere non solo im¬
previsto, ma assolutamente libero e trascendente per rapporto alle orientazioni
naturali, delle iniziative divine che hanno stabilito il piano della vocazione so¬
prannaturale e della salvezza, e che ne fanno un'economia di cui le sole ragioni
ultime sono nella liberissima disposizione di Dio. Certo, queste visioni evoluzio¬
niste parlano esse pure di storia, e tendono precisamente a rappresentare lo
sviluppo della vita come una storia il cui corso è sovente contrariato dal gioco
delle circostanze e i cui successi sono inizialmente imprevisti. Ma questa storia
è di tutt'altra natura, essendo in definitiva ancora " storia naturale La storia
assume una dimensione tutta diversa e un altro senso quand'essa arriva all'uomo,
dotato di libertà propriamente detta, e soprattutto quando arriva alle libere di¬
sposizioni dell'economia dei disegni divini. Porre la storia umana, e soprattutto
la storia divina dell'umanità, nella linea dell'evoluzione naturale del mondo, si¬
gnifica ridurla allo sviluppo delle virtualità naturali, assoggettarla alle leggi che
reggono l'evoluzione della vita. È vero che l'evoluzione della vita, sia individuale
sia comune, rassomiglia un po' alla storia d'un essere libero, poiché essa implica
già la spontaneità, l'imprevisto delle reazioni al corso contingente delle circo¬
stanze e al loro capriccio; ma ciò nondimeno resta tutt'altra. Difatto la storia
dell'umanità è cominciata per mezzo di un'iniziativa divina incommensurabile a
tutto ciò che l'evoluzione della vita implicava; essa è stata condotta da Dio fino
all'avvenimento dominante dell'Incarnazione redentrice; ed è ancora orientata da
Dio verso l'avvenimento finale, non esigito dalla natura come tale, del ritorno del
Figlio di Dio, cioè della Parusia.
Al contrario, il poligenismo, verso il quale le scienze della natura forse incli¬
nano, non può indicare se non ciò a cui tendeva l'evoluzione naturale. E quan¬
d'anche si provasse un giorno che la vita si è sviluppata per evoluzione fino al
corpo dell'uomo inclusivamente, che anzi il meccanismo proprio di questa evo¬
luzione implicava il poligenismo o anche l'ologenesi, e che proprio in questo
modo sono apparse sulla terra le specie inferiori all'uomo, noi saremmo ricono¬
scenti alla scienza per tali progressi nelle nostre cognizioni, ma aggiungeremmo
subito: per l'uomo di fatto le cose avvennero diversamente. Si tratta qui di un
avvenimento, di un fatto singolare, che sfugge di per sè alle scienze della natura
e che non potrebbe aver lasciato che tracce storiche. La scienza come tale non
s'interessa che di gruppi, di leggi, di curve evolutive. Essa potrà mostrare che
l'evoluzione tendeva normalmente a un altro tipo di genesi per la specie umana,
che essa ha prodotto molteplici saggi di ominizzazione; essa non può mostrare che
Dio, nella sua sovrana libertà, agendo al disopra dell'orientazione della natura,
precisamente perchè inaugurava un mondo che non deriva dalla natura, perchè
inaugurava una storia soprannaturale, non è intervenuto a far sì che l'uomo ve¬
nisse al mondo in un altro modo.
Se apparteneva alla economia dei disegni divini, come ci insegna la fede, che
l'umanità elevata fin dalle origini alla vita soprannaturale, dovesse dapprima es-
av
698 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
liberamente
l'um
sere ricapitolata nel suo primo padre come nel principio dal quale si sarebbe co¬ so
municata la giustizia originale, poi, avendo questo primo padre peccato, si trovi noi
ricapitolata in lui come nel primo peccatore per essere in seguito, per misericor¬ qu
dia più gratuita ancora, ricapitolata nel Cristo redentore, secondo Adamo, le nostra
scienze della natura non hanno nulla a che vedere con tutto questo, giacché esso s
supera totalmente il loro ambito e sfugge alle loro indagini. Esse potranno dire: da
la legge normale dell'evoluzione dei viventi è di avvenire per poligenesi e non soprannat
per ologenesi ed è effettivamente questa la legge che ha presieduto all'apparizione co
delle diverse specie viventi. Ma che Dio liberamente sia intervenuto per fondare 195
in mezzo a un " cespuglio " di ominidi tutta l'umanità storica sopra una sola
coppia originaria, egli solo sa se è vero ed egli solo, in mancanza di qualsiasi
testimonio e documento, poteva rivelarcelo. Ora noi crediamo che egli l'ha rive¬ ne
lato e possiamo concludere semplicemente che su questo punto delle nostre ori¬ ne
gini la nostra fede è più affermativa che la nostra scienza. Che i tentativipersonalità
di
ominizzazione, nella prospettiva accennata dianzi, siano stati molteplici è senza
dubbio un fatto, ma l'intervento di Dio, che ha dato a un tempo l'anima spiri¬
tuale e la vita soprannaturale, una vita soprannaturale inserita in una storia, dell
non ha raggiunto effettivamente che una sola coppia » (M. Labourdette, Le tu
péché originel et les origines de l'homme, Paris 1953, 162-165). * ch
profon
2. - L'unità del genere umano si esprime nel carattere socievole del¬
l'uomo. La socievolezza è talmente insita nell'uomo da costituirne un pa
carattere primordiale, al pari della personalità. Non si aggiunge come soc
qualcosa di superfluo alla natura umana, ma è piuttosto realtà essenziale. com
L'uomo esiste soltanto in quanto membro della società, in rapportomanifestare
con
un altro; è io solo perchè può rivolgersi al tu. Il rapporto con il pros¬ prin
simo avvolge l'intimo essere umano, è realtà che si palesa all'esterno, ma intimame
che tocca la creatura nel suo intimo più profondo. L'uomo può essere se quan
stesso solo in quanto esce da sè; ciò si palesa, tra l'altro, nella facoltà di
parlare. Egli solo nel Creato sa far uso della parola e ciò manifesta nella è
maniera più luminosa il fatto che l'uomo è socievole e vincolato alla co¬ p
munità. È l'unico a possedere la capacità di comunicare agli altri i propri L'e
pensieri, mentre gli animali possono manifestare solo genericamente iloro ord
impulsi (Tommaso d'Aquino, De regimine principum, lib. I, cap. 1).
L'individuo umano pur trovandosi intimamente legato alla comunità,
non ne è, tuttavia, assorbito. Anche in quanto socievole conserva pur
sempre l'essere proprio e il proprio valore (in opposizione all'indivi¬
dualismo e al collettivismo). La società non è un essere sostanziale, di
cui gli individui siano manifestazioni. Essa è piuttosto, per usare la ter¬
minologia aristotelica, un essere accidentale. L'essenza della società con¬
siste nell'essere una relazione, un'unità di ordine; nessuna esistenza so-
§ 131. UNITÀ E PLURALITÀ DELL'UOMO 699
stanziale è predicabile per essa. Con questa precisazione essa non smi¬
nuisce nè la propria realtà nè il suo profondo significato.
Itermini « sostanza » e « accidente » si riferiscono solo al modo di esistere,
ma non alla realtà o quiddità di ciò che queste parole designano. La socialità,
anche se non è sostanza, ha una tale realtà e forza da informare e caratterizzare
profondamente i singoli uomini. Anche la grazia appartiene alla sfera dell'acci¬
dente e pur tuttavia diversifica chi la possiede da chi ne è privo, come il cielo
si differenzia dall'inferno. La comunità non essendo ente sostanziale, esiste solo
nei membri e per mezzo loro, cosicché essi, in quanto tali, a loro volta esistono
solo nella comunità e mediante la comunità. Ipartecipanti non sono assorbiti
gli uni dagli altri, ma piuttosto ricollegati tra loro come se appartenessero gli
uni agli altri. Non coesistono soltanto, come individuo accanto a individuo, ma
si intrecciano, si aiutano e vivono gli imi per gli altri. L'essere proprio e la di¬
gnità che compete al singolo non è distrutta dalla comunità, la quale, a sua volta,
possiede un essere e un valore proprio che trascende il membro individuale.
Perciò l'individuo con tutto ciò che è e ha, si trova vincolato alla comunità.
Rapportandosi liberamente e consapevolmente alla società egli sviluppa il suo pro¬
prio essere. Andando incontro a questo suo dovere finisce con il vulnerare il suo
stesso essere proprio. Ciascuno deve rispettare la società, ma la società per conto
suo deve guidare ognuno alla piena perfezione del suo essere proprio.
3. - Tra le comunità in cui la natura umana mostra il suo carattere
essenzialmente sociale, ricordiamo la matrimoniale e la nazionale. L'uomo
è stato preordinato sin dall'inizio alla comunità matrimoniale che perciò
corrisponde alla sua costituzione essenziale e non è affatto prodotto del
peccato. Ciò fu già chiarito e ne riparleremo nel trattato sui sacramenti.
Anche la comunità nazionale, basata sulla stirpe, sulla storia e sul terri¬
torio non è assolutamente frutto del peccato 0 della legge. Qui si attua
una condizione umana originariamente creata da Dio e un destino ad¬
dotto dalla potenza divina e dalla sua provvidenza operante nella storia.
Sin dall'inizio dell'epopea umana (Gen. 1, 28) Dio diede agli uomini il com¬
pito di moltiplicarsi e di popolare la terra. Essi dopo la colpa attuarono ciò scin¬
dendosi in gruppi e in popoli parlanti lingue diverse. Tre volte questo fatto è
indicato in Gen. io. Ciò diviene ancor più probativo se si considera che poco
prima (Gen. 9, 7) Dio aveva ripetuto all'uomo il comando, già dato (Gen. 1, 28),
di diffondersi per tutta la terra, stabilendo, per di più, un patto con lui e bene¬
dicendolo. Perciò la ripartizione dell'umanità in varie lingue, tribù e popoli ri¬
sponde al piano divino, alla missione che egli ha stabilita per lui e alla sua be¬
nedizione. Non è affatto semplice conseguenza del naturale accrescimento umano:
anzi fu necessario lo speciale intervento di Dio affinchè l'umanità pervenisse alla
ripartizione, voluta da lui. Prima essa possedeva una sola lingua per tutta la
terra e avrebbe desiderato rimanere sempre cosi. Essa aveva un senso gregario
così forte da non volere dividersi ma rimanere tutta insieme. Segno e ricordo di
tale unità doveva essere la torre e la città che l'uomo divisò di costruire per tale
la separazione dell
700 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
il
scopo. Così egli si sarebbe opposto al piano divino, il quale invece voleva il
disseminarsi e la ripartizione dell'umanità in popoli e razze. Tale piano umano sicc
era del resto in contrasto con il volere divino e lo si rileva dal fatto che inclu¬ o
deva una torre così alta da toccare il cielo; la quale doveva essere l'espressione d
della coscienza umana, che conscia della sua potenza si ribellava a Dio. Ma egli
frustrò il tentativo di stabilire un collettivismo oppressivo della stessa naturaparticolare
umana e attuò con mano possente la separazione dell'umanità. Ogni popolo ha un l
suo mandato speciale, una sua particolare missione storica, che gli fu affidata da popol
Dio. Il popolo che, coscientemente o meno, rifiuta di adempiere la sua missione c
storica, si erge contro la volontà di Dio e ripete il gesto di ribellione dell'uma¬
nità primitiva che osò opporsi alla ripartizione e alla distinzione umana. Ma form
possiamo fare un passo avanti e affermare che, siccome Dio attua tutto ciò che
compie secondo l'idea divina, ne deriva che anche ogni popolo è la realizzazione
di un'idea di Dio. Anch'esso è figlio di Dio pieno di vigore e di vitalità, perchè fra
nato dal pensiero creativo di Dio stesso, che lo ha voluto. Ogni popolo, come il l
singolo essere, risponde a una eterna e particolare idea divina. E quanto più p
ricca è tale idea, tanto più nobile è il popolo che l'attua. La sua essenziale ori¬
gine divina si palesa anche dal fatto che ogni popolo tende a Dio; non ne esiste
infatti uno solo privo completamente di fede e di culto. Cfr. § 105, n. 5.
de
Dio con un diretto intervento storico formò un popolo vincolato a
lui in modo speciale, Israele, che ha avuto un compito diverso da quello per
di tutti gli altri. Doveva, infatti, instaurare fra gli uomini la regalità di 10
Dio, proclamare il nome santo e addurre così la salvezza alle nazioni.
La Chiesa è l'erede del popolo eletto, è il « popolo di Dio » del Nuovo rifles
Testamento.
Come tutta la creazione sta sotto il sigillo del Verbo incarnato, così es
anche i popoli vivono non solo nell'ambito della creazione, ma anche consacrazion
in
quello della redenzione. Cristo è promogenito di ogni creatura e imma¬
gine dell'universo. Tutto fu creato in lui e per lui (Col. 1, 16 s.). Egli è popol
il capo di ogni Principato e Podestà (Col. 2, 10). Perciò l'universo è per¬
vaso dalla potenza redentrice di Cristo (Rom. 8, 19-22). Quindi su ogni c
creatura, collettività comprese, è sceso un riflesso dello splendore divino. in
Ogni popolo gode così di ima santificazione e consacrazione superiore a
quella del singolo membro, e possiede un essere proprio caratteristico
che trascende l'individuale. Tale consacrazione e santificazione partico¬
lare (che naturalmente per ora resta nascosta e percepibile solo agli occhi
del credente) è la ragione per cui anche ipopoli possono entrare nel regno
di Dio senza perdere 0 mettere in pericolo la loro nota distintiva voluta
dal Creatore. In realtà anche i popoli sono chiamati a salvezza. La re¬
denzione raggiunge i singoli uomini divisi in territori, lingue, stirpi e
genti (Is. 2, 4; 55, 4 s.; Mt. 24, 9. 14; 25, 32; 28, 19; Me. 11, 17;
§ 132. l'elevazione soprannaturale dell'umanità in ADAMO ED EVA 701
13, 10; Le. 21, 24; 24, 47; Rom. 15, ios.; Gal. 3, 8; Apoc. 5, 9; 10,
11; 11, 9; 13, 7; 14, 6). Anche se il vocabolo greco ethnos nel Nuovo
Testamento non ha sempre il significato di « popolo », ma spesso indica
invece i « gentili » 0 « pagani », tuttavia nei passi citati ha veramente il
senso di nazione e popolo (cfr. l'articolo Ethnos di Bertram e K. L. Schmidt
in Kittel, Wórterbuch zum N. T., II, 362-369). Nel Sacramentario Ge-
lasiano si legge la supplica : « Ascolta, o Signore, le nostre preghiere,
affinchè in ogni popolo si avveri il compimento predetto nel tuo vangelo;
fa che prenda possesso della pienezza che gli è stata annunziata mediante
l'attestazione della verità ». Cfr. la Cristologia e la dottrina riguardante
i Novissimi.
Anche i popoli sono realtà temporali che finiscono con il tempo. Non
sopravvivono, come tali, nè in cielo, nè all'inferno (E. Peterson, Der Mo-
notheismus als politisches Problem, 1935, 63-87), ma rimarranno però in
ambedue i luoghi come eterno ricordo. Poiché nulla di ciò che è stato
creato verrà distrutto, ma solo trasformato, ne deriva che le caratteri¬
stiche di razza rimarranno sia nel beato, sia nel dannato alla stessa stregua
con cui sopravviveranno i contrassegni maschili e femminili. Cfr. Apoc.
7, 9 e il trattato sui Novissimi.
L'umanità vivente nel « nuovo cielo » e sulla « nuova terra » sarà una
comunità formata da ogni tribù, popolo, nazione, però senza le distin¬
zioni razziali 0 nazionali che si verificano ora. Ogni tentativo che si sforzi,
nel corso della storia terrena, di unire l'umanità al disopra delle distin¬
zioni di popoli 0 di classe è un preludio del nuovo cielo e della nuova
terra; tuttavia tale sforzo di anticipare il futuro non si può avverare com¬
pletamente. In ogni modo siffatti tentativi sono una testimonianza della
profonda nostalgia umana. La promessa di un nuovo cielo e di una
nuova terra con una umanità priva di classi, ci assicura che la brama in¬
tima dell'uomo sarà finalmente appagata se non nella vita terrena, in
quella che ci attende al di là del tempo. L'umanità non più divisa in po¬
poli e lingue è realtà trascendente che vediamo raffigurata simbolicamente
nel « popolo di Dio ».
§ 132. L'elevazione soprannaturale dell'umanità in Adamo ed Eva.
La creazione dell'uomo mirava in ultima analisi alla sua felicità so¬
prannaturale, che consiste nella partecipazione alla tripersonale vita di
Dio. Ciò trascende l'essenza della natura umana. Questa fu creata da Dio
702 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
perchè esistesse un luogo in cui egli potesse effondere la pienezza della p
sua vita tripersonale (§ 115). Effettivamente i primi uomini non sono si
esistiti nel puro stato di natura, bensì in condizione soprannaturale e spi¬ tratte
rituale. Nel complesso di questo stato soprannaturale si possono distin¬ de
guere i seguenti aspetti: ste
ripo
è
I. Doni soprannaturali in senso stretto. in
A. - Iprogenitori, prima del peccato, erano partecipi della vita di¬ sospin
vina (grazia santificante). È dogma di fede. Il significato di questa tesi
sarà spiegato in tutto il suo valore quando tratteremo della vita divina che
in noi, ossia della Grazia. Cfr. pure quanto già detto nei §§ 114- 117. cont
a) Il Concilio di Trento ha parlato in uno stesso decreto dello stato
di giustizia originale e della sua perdita. Lo riportiamo integralmente: ri
« Perchè la nostra fede cattolica, senza la quale è impossibile piacere a
Dio (Ebr. 11, 6) abbia a sussistere nella sua integrità e illibatezza, e giu
perchè il popolo cristiano non debba essere sospinto or qua or là da ogni
vento di dottrina (Ef. 4, 14) — avendo l'antico serpente, perenne ne¬ uom
mico del genere umano, tra i moltissimi mali che turbano la Chiesa di imm
Dio in questi giorni, suscitato vecchi e nuovi contrasti sul peccato origi¬ ch
nale e il suo rimedio — il sacrosanto Concilio di Trento, legittimamente
congregato nello Spirito Santo,... desideroso di richiamare gli erranti e m
confermare i dubbiosi, seguendo le testimonianze delle S. Scritture, dei 1
Padri e dei legittimi concili e il consenso e il giudizio della Chiesa, sta¬ corp
bilisce, confessa e dichiara quanto segue:
1. Chiunque non confessi che il primo uomo Adamo, avendo tra¬
Adam
sgredito nel paradiso il precetto di Dio, perse immediatamente la santità sol
e la giustizia nella quale era stato costituito e che incorse, per tale sua ch
prevaricazione, nell'ira e nell'indignazione divina e perciò nella morte, p
che Dio gli aveva prima comminata, e con la morte nella schiavitù di sco
colui che nella morte ebbe poi l'impero (Ebr. 2, 14), ossia del diavolo, e so
che per quella colpa, tutto Adamo secondo il corpo e l'anima fu mutato
in peggio, sia scomunicato.
2. Chiunque asserisce che il peccato di Adamo nocque a lui solo e
non alla sua discendenza; e che egli ha perso soltanto per sè e non per
noi la giustizia e la santità ricevute da Dio; e che, diventato peccatore,
trasfuse nel genere umano soltanto la morte e la pena del corpo, ma non
anche il peccato, che è morte dell'anima, sia scomunicato; perchè con¬
traddice all'Apostolo il quale afferma: "Per un sol uomo il peccato entrò
§ 132. l'elevazione soprannaturale dell'umanità in ADAMO ED EVA 703
nel mondo e per il peccato la morte, e in tal modo la morte si è estesa
su tutti gli uomini, poiché in lui tutti peccarono " (Rom. 5, 12).
3. Chiunque afferma che questo peccato di Adamo, che è imo per
origine e, trasfuso in tutti per propagazione, non per imitazione, è ine¬
rente in ognuno come proprio, si può togliere 0 per la forza della natura
o per qualche altro rimedio che non sia il merito dell'unico mediatore
Gesù Cristo nostro Signore, il quale ci ha riconciliati con Dio, mediante
il suo sangue prezioso divenendo per noi giustizia, santificazione e re¬
denzione (1 Cor. x, 30), oppure nega che tale merito di Cristo sia appli¬
cato tanto agli adulti quanto ai bambini per mezzo del battesimo, debi¬
tamente conferito, sia scomunicato. Infatti " non v'è altro nome sotto il
cielo dato agli uomini in virtù del quale possiamo essere salvati " (Atti
4, 12). Per questo quella voce: " Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che
toglie i peccati del mondo " (Giov. 1, 29), e : " Voi tutti che siete stati
battezzati, avete rivestito Cristo " (Gal. 3, 27).
4. Chiunque nega che i bambini da poco usciti dal seno delle madri
debbano essere battezzati, anche se figli di genitori cristiani, oppure dice
che sono battezzati per la remissione dei peccati, ma che essi nulla con¬
traggono della colpa originale di Adamo che abbia bisogno di essere
espiato col lavacro della rigenerazione per conseguire la vita eterna, dal
che seguirebbe che la forma del Battesimo in remissione dei peccati sa¬
rebbe falsa in loro, sia scomunicato. Infatti ciò che Paolo afferma: "Per
un sol uomo il peccato entrò nel mondo, e per il peccato la morte, e così
la morte si è estesa a tutti gli uomini, perchè in lui tutti peccarono "
(Rom. 5, 12) non può essere inteso in modo diverso dall'interpretazione
che la Chiesa cattolica sparsa in tutto il mondo gli ha sempre dato. Per
questa regola di fede ricevuta dalla tradizione apostolica, anche i bimbi
che non hanno ancora potuto commettere alcuna colpa personale si bat¬
tezzano veramente per la remissione dei peccati, perchè in essi sia puri¬
ficato con la rigenerazione quello che con la generazione hanno contratto.
" Se uno non sarà rinato d'acqua e di Spirito non potrà entrare nel regno
di Dio " (Giov. 3, 5).
5. Chiunque nega che per la grazia di nostro Signore Gesù Cristo,
conferita nel battesimo, venga tolto il peccato originale, 0 anche afferma
che non si toglie tutto ciò che ha vera e propria ragione di peccato, ma
solo si cancella 0 non viene imputato, sia scomunicato. In quelli che sono
rinati Dio non trova alcun motivo di odio, poiché non vi è dannazione per
coloro che grazie al battesimo furono sepolti insieme a Cristo nella morte
(Rom. 6, 4), per coloro che non camminano secondo la carne (Rom. 8, 1),
loro ingresso in cielo. Questo sacrosanto
0
nè
704 P. XI. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
median
ma avendo svestito l'uomo vecchio e rivestito il nuovo, creato secondo ricev
Dio (Ef. 4, 22 ss., Col. 3, 9), son divenuti i suoi figli diletti, innocenti,l'Apostolo
immacolati, puri e senza macchia, eredi di Dio e coeredi di Cristo (Rom. s
8, 17), in modo che per loro non vi è più ragione alcuna che ritardi il ve
loro ingresso in cielo. Questo sacrosanto concilio confessa e sente che pec
rimane tuttavia nei battezzati la concupiscenza, 0 fomite, la quale ci è scomunica
lasciata per la lotta e non può quindi nuocere nè danneggiare colui che creazione
non vi acconsente, ma virilmente pugna mediante la grazia di Gesù uo
Cristo. E chi avrà combattuto legittimamente riceverà la corona (2 Tim.
2, 5). Questa concupiscenza che talvolta l'Apostolo chiama peccato (Rom.
Sp
6, 12), l'attuale sacrosanto concilio nega che la santa Chiesa abbia mai rimas
inteso che nei rigenerati fosse peccato in senso vero e proprio, ma chia¬ opi
masi peccato soltanto in quanto proviene dal peccato e al peccato con¬ all
duce. Chiunque afferma il contrario sia scomunicato ». distin
b) Poiché l'intento originario della creazione era diretto all'eleva¬
zione soprannaturale, si deve ritenere che gli uomini divennero subito
partecipi della vita soprannaturale, senza sottostare ad alcuna prova. L'esi¬ supern
stenza dell'uomo era, sin dall'inizio, ripiena di Spirito. Nella storia non esp
si è mai avverato uno stato in cui l'uomo sia rimasto affidato alle sue sole paradi
forze naturali sia fisiche che spirituali. (È solo opinione di pochi teologiamichevole
che Adamo ed Eva, prima della loro elevazione allo stato soprannaturale, d
abbiano dovuto subire una prova). Certo la distinzione tra ordine natu¬ che
rale e soprannaturale rende idealmente possibile una separazione del¬ Tu
l'uno dall'altro, però si deve ritenere che di fatto non si è mai avuto un l'elevazio
ordine puramente naturale, scisso da quello supernaturale.
c) ~HÓY Antico Testamento la rivelazione esprime sensibilmente Io
1909)
stato del primo uomo con l'immagine del paradiso terrestre, in cui la
p
vita di Adamo era tutta un fiducioso e amichevole rapporto a Dio (Gen. d
1, 26-31; 2, 5-25), in cui l'uomo onorato e stimato dal Creatore (Sai. 8, 5), p
viveva in uno stato di sicurezza e di rettitudine che non può essere com¬
parato con l'esistenza posteriore (Eccli. 7, 29). Tuttavia l'Antico Testa¬
mento non ci testifica in modo decisivo l'elevazione soprannaturale del¬
l'uomo.
La Pontificia Commissione Biblica (30 giugno 1909) ritiene che il racconto
del paradiso è storico quando riferisce la felicità dei progenitori nello stato di
giustizia, di integrità e d'immortalità; il precetto dato da Dio all'uomo per pro¬
varne l'obbedienza; la trasgressione di questo precetto per istigazione del diavolo
sotto specie di serpente; la perdita dello stato di felicità e la promessa del futuro
redentore (Denz. 2133). Tuttavia non andrebbe contro il decreto della Commis-
§ 132. l'elevazione soprannaturale dell'umanità in ADAMO ED EVA 705
sione chi pensasse che il paradiso non è un luogo ma un simbolo. Iteologi però
lo intendono di solito come un luogo determinato; in ogni modo ne è indiffe¬
rente sia per la teologia, sia per la fede, l'ubicazione materiale.
d) Il Nuovo Testamento è invece decisivo. Ci mostra tutta la pie¬
nezza della vita divina dei progenitori, mettendola in rapporto con l'opera
salvifica di Cristo. Lo stato primitivo, sia antecedente sia conseguente al
peccato, non è narrato per se stesso, ma per una giusta intelligenza di
Cristo, l'amore di Dio manifestatosi corporalmente nel mondo del pec¬
cato. Gesù riconduce al Padre gli uomini perduti; pone un nuovo prin¬
cipio, e crea una nuova situazione per il mondo. Egli restaura lo stato
che regnava prima del peccato, cioè quello dell'uomo santificato, anzi lo
stabilisce nella sua pienezza. È di somma importanza il fatto che nel
Nuovo Testamento non si parli mai del peccato, senza soggiungere che
esso ormai è dominato da Cristo. L'annunzio evangelico non consiste nel
dire che esiste il peccato, bensì che il peccato è vinto. Il lieto annunzio
della distruzione del peccato richiama già da sè lo stato primitivo del¬
l'umanità, allorché il peccato non esisteva ancora. La miseria del peccato
non si trova in primo piano, bensì la santità, la giustizia, la pace, la gioia
e l'intimità con Dio (Rom. 5, 12-21; X Cor. 15, 21 s. 45). In Cristo
tutto è ridivenuto nuovo, ma la novità che egli adduce è quella che già
esisteva anticamente e che andò smarrita con il peccato.
e) IPadri accentuano soprattutto la grande libertà in cui viveva il
primo uomo. Ma sin dal tempo di Ireneo con maggior chiarezza e più
profonda conoscenza della fede venne asserito che il primo uomo non
era solo l'immagine naturale di Dio, bensì la somiglianza soprannaturale,
in cui brillava lo splendore della vita divina. Riportiamo solo due testi.
Macario nella sua Homilia XII così afferma: « Domanda : Adamo ha perso sia
l'immagine che gli era naturale, sia quella celestiale. Possedeva egli dunque, per
il fatto che fu partecipe dell'immagine celeste, anche lo Spirito Santo? Risposta:
Finché il Verbo di Dio dimorò in lui, ed egli osservò il comando divino, posse¬
deva tutto. Il Logos era per lui eredità, indumento e veste luminosa; gli era
maestro e lo istruiva perchè desse il nome alle cose. E Adamo le chiamò cielo,
sole, luna, terra, uccelli, animali, alberi. Come veniva ammaestrato, così impo¬
neva loro il nome. Domanda: Aveva egli il senso e la partecipazione dello Spi¬
rito Santo? Risposta: Il Logos che stava con lui, era tutto per lui: conoscenza,
senso, eredità e disciplina. Che dice Giovanni del Logos? " In principio era il
Verbo ". Tu dunque vedi come il Verbo era tutto. Adamo anche esternamente
era ricoperto di maestà. Non dobbiamo quindi meravigliarci nel leggere: essi
erano nudi. Infatti Adamo ed Eva non vedevano affatto la reciproca nudità;
solo dopo il peccato si accorsero di essere nudi e se ne vergognarono ».
Giovanni di Damasco nel De fide orthodoxa, dice : « L'Albero della vita era
45 - schmaus - dogmatica I.
Qu
su
706 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO a
com
un albero che donava la vita, o del quale solo i degni della vita e non soggetti dolc
alla morte potevano mangiare. Alcuni pensano che il paradiso debba essere in¬ unione
teso materialmente, altri spiritualmente. Per conto mio l'interpreto come segue: m
risultando l'uomo composto di materia e spirito, credo che anche il tempio ec¬ a
celso, detto paradiso, vada inteso sia materialmente, sia spiritualmente. Esso sussiste»
aveva un duplice aspetto. L'uomo infatti, in quanto al corpo, viveva in un luogo
eccelso e superiore, per bellezza, a qualsiasi altro. Quanto all'anima si trovava vita
in un posto più sublime e ancor più meraviglioso, superiore ad ogni paragone,
poiché aveva Dio, dimorante in lui, per suo tempio, anzi per suo splendido ve¬ infa
stimento, rivestito com'era della grazia divina. Qui, come un angelo, godeva della
divina contemplazione, e si pasceva del suo frutto dolcissimo che a buon diritto
fu chiamato l'Albero della vita. Infatti la dolce unione con Dio conferisce a chi
la gusta una vita che non può essere distrutta dalla morte. Ciò è proprio sot¬
tinteso nella espressione: Tu potrai mangiare di ogni albero del paradiso. Infatti
Dio stesso è tutto; in lui e per lui ogni cosa sussiste» (lib. II, cap. n). dalla
Anche se i progenitori partecipavano alla vita divina ed erano lumi¬ def
nosi e risplendenti per la luce e l'ardore di Dio, tuttavia queste meravi¬ esperien
glie erano loro nascoste. Essi camminavano infatti per fede e non per prete
visione. um
un
imm
II. Doni preternaturali. i
B. - Dall'unione soprannaturale con Dio e dalla somiglianza che l'uomo appar
primitivo aveva con lui, per volere divino, defluì sulla natura umana c
una perfezione trascendente ogni nostra esperienza: sono questi i doni st
soprannaturali in senso largo, ossia doni preternaturali. Cfr. § 114. 2,
Ciò che ora è soltanto promessa per la natura umana, è esistito in realtà g
ai primordi del genere umano, sia pure per un tempo brevissimo. La
natura umana, fisica e spirituale, fu fatta a immagine di Dio; ciò ebbe st
per la parte corporea un'importanza eccezionale in quanto era immagine der
di Dio in senso tutto particolare. In essa apparve la gloria divina, in rico
modo che vi si poteva vedere rispecchiato, in certo modo, Dio stesso. p
Anche se nei progenitori non si rifletteva nella stessa maniera in cui ap¬ del
pare sul volto di Cristo (cfr. 1 Tim. 2, 5; Tit. 2, 11), era pur sempre in
certo modo visibile, senza che si richiedesse un grande sforzo per ravvi¬
sarla. L'unione del primo uomo a Dio, era tale che lo rendeva, sia nel¬
l'anima sia nel corpo, manifestazione di Dio stesso. Siccome anche il
corpo partecipava a tale fulgore divino, ne derivava che, pur essendo
nudo, non era causa di rossore. Dio stesso lo ricopriva con il suo splen¬
dore e così rivestito della gloria divina non poteva esperimentare nè
malattia, nè dolore, nè soggiacere al terrore della morte.
§ 132. l'elevazione soprannaturale dell'umanità in ADAMO ED EVA 707
La Bibbia nulla dice sulla conformazione esteriore dell'uomo primi¬
tivo, in pieno stato di grazia. Attesta soltanto che egli era unito intima¬
mente a Dio. Anche la scienza ci sa dire ben poco sull'aspetto esteriore
di Adamo. Cfr. J. Pinsk, Menschheitsgestaltung in Adam und in Christus
in Der kath. Gedanke, 12, 1939, 3-13.
1. - Il primo uomo godeva anzitutto dell'immortalità fisica. Anch'egli
possedeva una vita, che, secondo il corso naturale, avrebbe dovuto finire
con la morte, perchè vita creata e quindi limitata e soggetta alla legge
dell'esaurimento. Ma per particolare disposizione divina tale esaurimento
non si sarebbe verificato. Adamo non si trovava nello stato di non posse
mori, ma di posse non mori. L'immortalità era segno, prova e deriva¬
zione del contatto intimo che l'uomo aveva con Dio, sorgente di Vita.
Per la sua vicinanza a lui egli non poteva essere riassorbito dal nulla.
Senza questa frattura intermedia che noi chiamiamo morte, egli sarebbe
un giorno passato allo stato di corpo glorioso, il quale oggi si può rag¬
giungere soltanto dopo essere passati attraverso la potenza trasforma¬
trice della morte.
a) Questa immortalità corporale fu definita come dogma di fede dal
Concilio di Cartagine del 418: « Chiunque afferma che Adamo, il primo
uomo, è stato creato mortale, in modo che, avesse o no peccato, sarebbe
stato costretto a morire non per causa del peccato, ma per necessità di
natura, sia scomunicato » (Denz. 101). Confrontare pure l'affermazione
già riportata dal Concilio di Trento.
b) La Bibbia attesta l'immortalità del primo uomo, quando asse¬
risce che la morte gli venne minacciata quale conseguenza del peccato.
Se Adamo fosse rimasto obbediente a Dio, non sarebbe caduto sotto i
colpi della morte (Gen. 2, 17; 3, 19. 22). «Poiché Dio non ha fatto la
morte, nè gode che periscano i vivi. Infatti egli ha creato ogni cosa
perchè esistesse, e salubri sono le produzioni del mondo, nè c'è in esse
alcun veleno mortifero, nè il dominio di morte è sulla terra » (Sap. 1,
13 s.). Solo per invidia del diavolo la morte ha fatto il suo ingresso nel
mondo (Sap. 2, 24). Prima del peccato non vi era alcuna morte, e non
c'era necessità di morire (Rom. 5, 12; 1 Cor. 15, 22).
c) L'epoca patristica ha affermato con calore l'immortalità fisica del primo
uomo, garanzia ed espressione del vincolo che lo ricollega a Dio. Teofilo d'An¬
tiochia, così dice nel suo scritto Ad Autolycum: « Dobbiamo asserire che l'uomo
è stato creato mortale per natura? Niente affatto. Diremo allora che è immortale?
Neppure questo. Possiamo ammettere che non è nè l'uno nè l'altro? Neppure.
L'uomo non fu creato per sua natura nè mortale nè immortale. Se Dio lo avesse
della divenendo, così, artefice della propria mort
s
708 p. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO n
Infa
creato immortale sin dall'inizio, lo avrebbe fatto un dio; se lo avesse, al contrario, morte,
creato mortale, egli stesso sarebbe stato responsabile della sua morte. Dio non vita
lo ha creato nè mortale nè immortale, bensì gli ha dato la capacità di decidere ch
da solo per uno stato o per l'altro. Se l'uomo obbediva al precetto divino che dop
gli garantiva l'immortalità, allora tale stato gli sarebbe stato concesso in dono;
se invece, disobbedendo, si ribellava a lui da solo si sarebbe posto dalla parte c
della morte, divenendo, così, artefice della propria mortalità. Dio ha infatti creato
l'uomo libero e capace di autodecisione. Ciò che è stato rimosso a motivo di
leggerezza e di disobbedienza, Dio lo concederà di nuovo come dono miseri¬ divennero
cordioso, qualora l'uomo gli si accosti ubbidiente. Infatti come la creatura rivol¬
tandosi contro il Signore è divenuta preda della morte, così può, se vuole, sotto¬ Logos,
porsi obbediente a Dio, e in tal modo ereditare la vita eterna. Egli infatti ci ha non
donata la sua legge e i suoi santi precetti in modo che, osservandoli, chiunque
possa raggiungere la salvezza e divenire capace, dopo la risurrezione, di vita s
immutabile » (2, 24). pe
S. Atanasio in Oratio de incarnatione Verbi, n. 5, così dice : « Dio non solo da
ci ha creati dal nulla, ma mediante la grazia del suo Logos ci ha donato pure e
la vita divina. Ma siccome gli uomini, per seduzione diabolica, si allontanarono c
dalle cose eterne per rivolgersi alle caduche, divennero gli autori della loro pro¬
pria morte. Certo, essi per natura erano mortali; ma sarebbero stati sottratti a do
questa sorte naturale per la partecipazione del Logos, se fossero rimasti buoni. vita
A motivo del Logos, che sarebbe rimasto in loro, non sarebbero stati colpiti da
morte naturale ». viene
S. Basilio nella Omelia Dio non è autore dei mali scrive : « Dio dunque creò c
il corpo, non le malattie; così creò l'anima, non il peccato. E tuttavia l'anima, le
decaduta dalla sua condizione naturale, è corrotta dal vizio. Qual era all'inizio pesante
per l'anima il suo grande bène? Essere unita a Dio e a lui rimanere congiunta p
nell'amore. Allontanatasi dall'amore di Dio, essa fu colpita da molteplici infer¬
mità e difetti. E perchè mai l'anima è così capace di male? In quanto possiede rall
il libero arbitrio, com'è ben consono ad una natura dotata di ragione. Libera da am
ogni costrizione necessitante, ricevuta da Dio una vita libera e a sua completa condiz
disposizione, dato che fu creata ad immagine di Dio, l'anima conosce il bene e dop
la sua felicità: e pur mentre contempla il bene e viene afferrata dalla gioia delle
realtà dello spirito, ha la possibilità, da una parte, di conservare la vita che le è sentir
naturale, dall'altra, di allontanarsi dal bene. E questo le accade allorquando, quasi e
sazia della felicità e della gioia, presa come da pesantezza e da torpore, lascia le pref
altezze e si abbandona alla carne per desiderio di bassi piaceri. — All'inizio Adamo
era su, in alto, non spazialmente, ma con lo spirito, allorché, appena ricevuta
l'anima, innalzato lo sguardo al cielo, vivamente rallegrato dalla visione delle
realtà che lo circondavano, fu preso soprattutto da amore per Colui che questi
benefici gli aveva donato, e che, ponendolo in condizione di godere della vita
eterna, lo aveva posto tra le delizie del paradiso, e dopo avergli dato, come agli
angeli, una posizione di preminenza e di privilegio, lo rendeva partecipe, con gli
arcangeli, dello stesso cibo spirituale, e capace di sentire la voce di Dio. Ciò no¬
nostante, benché prediletto da Dio, dopo aver avuto e provato tutti i suoi doni,
ripieno di questi benefici, quasi sazio e nauseato, preferì alla bellezza dello spi¬
rito ciò che gli occhi carnali videro piacevole e. bello, e la sazietà del ventre ri-
§ 132. l'elevazione soprannaturale dell'umanità in ADAMO ED EVA 709
tenne preferibile alle gioie dello spirito. Perciò subito cacciato dal paradiso, fu
privato di quella vita di gioia, divenuto cattivo non per necessità naturale ma per
sua propria insipienza. Peccò dunque per cattiva volontà, ma con il peccato morì.
Conseguenza infatti del peccato è la morte. Quanto più si allontanava dallo spi¬
rito, tanto più si avvicinava alla morte. Dio infatti è la vita, e privazione di vita
significa morte. Perciò Adamo, allontanandosi da Dio, cercò da se stesso la morte,
secondo il detto del Salmo : " Coloro che da te si allontanano periranno ". Co¬
sicché non fu Dio a creare la morte, ma noi con atto di volontà perversa l'ab¬
biamo fatta venire. E permise che noi ci disgregassimo per i motivi già prece¬
dentemente riferiti, affinchè non rimanessimo in un perenne stato di infermità ».
S. Agostino nel De gen. ad litt., lib. 6, cap. 25, n. 36 afferma : « Il corpo
dell'uomo prima del peccato poteva dirsi mortale sotto un aspetto e immortale
sotto un altro. Mortale poiché poteva morire e immortale perchè poteva non
morire. Altro è infatti non poter morire, com'è per alcuni esseri che Dio ha
creati immortali; altro è potere non morire, come nel caso dell'immortalità del
primo uomo, la quale gli era conferita dall'uso dell'albero della vita, ma non
scaturiva dalla sua stessa natura. Ma da questo albero fu cacciato appena ebbe
peccato; così potè morire colui il quale, se non avesse peccato, avrebbe potuto
non morire. Egli era quindi mortale per la natura del suo essere fisico e mate¬
riale, ma immortale per gratuito dono di Dio ».
2. - È pure dottrina comune, benché non ancora esplicitamente defi¬
nita dal magistero ecclesiastico, che il primo uomo fosse esente dai con¬
trassegni della morte, ossia dai dolori e dalle sofferenze. Il dolore è
un sintomo della possibilità che l'uomo ha di morire, è come un anticipo
della morte nella vita, un indice della limitatezza ed esauribilità della
forza vitale. Il dolore nacque nell'uomo dopo il peccato allorché fu sotto¬
posto alla maledizione divina (Gen. 3, 16 ss.). Agostino dice nel De civi-
tate Dei: « Così, nel paradiso, l'uomo viveva come voleva, finché vo¬
leva solo ciò che Dio aveva comandato. Viveva godendo Dio, per il quale
bene era buono egli stesso: viveva senza alcun bisogno, avendo sempre
in suo potere il vivere. V'era il cibo, perchè non sentisse fame, v'era la
bevanda perchè non sentisse sete. V'era il legno della vita, affinchè non
perisse per vecchiezza. Nessun germe di corruzione nel corpo o dal
corpo molestava i suoi sensi. Non temeva nessuna malattia nell'interno,
nessuna offesa nell'esterno. Perfetta sanità nella carne, perfetta tranquil¬
lità nell'anima. Come nel paradiso non v'era né caldo, né freddo, così
in colui che l'abitava non v'era nessun disturbo della sua buona volontà
per cupidigia 0 per timore. Nessuna tristezza, nessuna gioia vana: un
gaudio verace proveniva, senza intermissione, da Dio, verso il quale ar¬
deva la carità procedente da un cuore puro, da una coscienza buona e
da una fede non simulata. La società dei coniugi era sincera, per onesto
l'universo extraumano fu colpito dalla maledizione
alla
7X0 P. XI. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO ce
amore, concorde la vigilanza della mente e del corpo, l'osservanza del mutazion
comandamento senza sforzo » (14, 26). extra
3. - La Bibbia testimonia che anche il mondo nella sua realtà pro¬ da
fonda prima del peccato era diverso da quello che divenne dopo. Anche domina
l'universo extraumano fu colpito dalla maledizione divina provocata dal
peccato di Adamo (Gen. 3, 16-19) e sottoposto alla vanità per causa del¬ prima
l'uomo (Rom. 8, 20). Tale maledizione non fu certo inefficace, e deve natu
perciò aver provocato uno stato prima inesistente. Non è tuttavia possi¬ soste
bile determinare con precisione dove tale mutazione si sia avverata (cfr. all'ag
§ 136). Si può supporre che anche nel campo extraumano dovesse prima
regnare una certa esenzione dalla sofferenza e dal dolore; nè con ciò oss
contrasta l'affermazione biblica che l'uomo dominava gli animali (Gen. o
1, 26. 28). Il pensiero che prima della colpa non regnasse la sofferenza
non deve farci concludere erroneamente che prima del peccato tutti gli e
animali fossero erbivori, e che la loro stessa natura sia stata mutata a rappor
causa della colpa. Non si può certo addurre a sostegno di tale asserzione Tomm
la frase biblica che il lupo dimorerà assieme all'agnello! Essa è solo un pe
simbolo della pace che avrà inizio con il regno di Dio, quando, cioè, la
regalità divina farà il suo ingresso nel mondo, ossia negli ultimi giorni. st
Si può tuttavia affermare che prima della colpa ogni creatura si prodi¬ scrit
gava con naturalezza al tutto. prim
Si potrebbe anche dire che lo stato astrofisico e geofìsico non è mu¬ b
tato nella sua essenza intima, bensì nel suo rapporto con l'uomo. Anche i
prima della caduta, al dire di Agostino e di Tommaso, la terra produ¬ ave
ceva cardi e spine, ma non erano cardi e spine per l'uomo (De gen. ad
litt., 3, 18; S. Th., II-II, q. 164, a. 2). an
4. - Tra i beni che possedeva Adamo nello stato di integrità origi¬ nom
nale, si trovava pure il dono della scienza. Gli scrittori medievali estesero a
assai tale scienza. La Bibbia testimonia che i primi uomini non furono pro
messi al mondo come fanciulli privi di soccorso e bisognosi d'aiuto, senza que
conoscere nulla, ma che essi, al contrario, erano in certo modo guidati
da un sicuro istinto verso il compito che Dio aveva loro affidato e co¬
noscevano il modo con cui dovevano adempierlo. Che Adamo avesse la
capacità di giudicare se stesso, il suo ufficio e anche l'ambiente che lo
circondava, lo si deduce dal fatto che diede il nome agli animali. Se ha
saputo conferire a ognuno il nome conveniente e adatto alla sua natura,
è segno che aveva la possibilità di conoscere la profonda differenza tra il
proprio essere e quello degli animali. Scienza questa, che egli non do-
§ 132. l'elevazione soprannaturale dell'umanità in ADAMO ED EVA 711
vette acquistare con sforzo faticoso, ma che, essendogli quasi connatu¬
rale, gli era stata infusa da Dio. Naturalmente egli non gli conferì una
sapienza che trascendesse il compito che doveva realizzare. Dal momento
che ogni minima conoscenza ci costa tanta fatica, non dobbiamo ritenere
come piccola cosa il dono di una simile scienza infusa. « Era ben equo
che l'uomo ricevesse all'inizio un aiuto più forte finché il suo intelletto
non si fosse sviluppato, ed egli non avesse accresciuto i suoi talenti, sco¬
prendo le arti e gli strumenti con cui poter condurre vita indipendente,
e così far senza di quella tutela iniziale conferitagli perchè meglio po¬
tesse svolgere i suoi doveri » (Origene, Contra Celsum, 4, 80).
5. - Di grande importanza per la vita etico-religiosa era l'immunità
dalla concupiscenza disordinata. Con il nome di concupiscenza si in¬
tende quel desiderio sensibile e spirituale che sgorga spontaneo in noi,
precedendo la riflessione e la libera decisione della volontà e che anzi
talora li ostacola. Questa tendenza creata da Dio con la natura stessa
fisico-spirituale dell'uomo, non è di per sé qualcosa di cattivo, ma in
quanto può ostacolare la libera decisione, diviene fonte di gravi pericoli
per l'uomo. Infatti, opponendosi all'impulso morale che ci spinge al bene,
può essere sorgente di grandi mali. Il primo uomo era libero da siffatta
concupiscenza sicché non solo in lui non vi era alcuna inclinazione al
male, ma anche nessun desiderio che precedesse la sua libera decisione,
creandogli delle difficoltà. Cfr. Fr. Lakner in Zeitschrift jiir kath. Theo-
logie, 61, 1937, 436-441.
La dottrina secondo cui Adamo era immune dalla concupiscenza non
è dogma di fede, ma verità prossima alla fede.
L'immunità dalla concupiscenza non significa assenza di ogni deside¬
rio e passione, ma solo immunità dalla brama sregolata, che si erge con¬
tro la ragione 0 per lo meno si sottrae ad essa. Iprimi uomini godevano
della natura e di se stessi, anche del loro corpo. Ma la loro sensibilità
era regolata dallo spirito, e gli stava sottoposta senza alcuna fatica. Tale
immunità dalla concupiscenza significava pure che il loro spirito non era
indotto a ribellarsi a Dio, anzi era l'espressione della completa armonia
tra spirito e corpo, tra l'uomo e Dio. La creatura ripiena di Spirito Santo
era esente da contraddizione, tensione e divisione. Non vi era alcuna
rottura 0 screpolatura nel suo essere, non gli occorreva sforzo per re¬
spingere qualsiasi germe di ribellione: ciò avveniva spontaneamente!
E nemmeno gli era necessario un continuo e faticoso sforzo per schie¬
rarsi dalla parte di Dio; la dedizione a lui nell'amore e nella obbedienza
Quest
- LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
col
712 P. II.
st
si realizzava con una facilità che riempiva l'uomo di gioia divina. Egli
viveva con Dio in intimità serena e fiduciosa. La vicinanza alla divinità ci
non produceva in lui quella paura, quel terrore che dopo il peccato sem¬ esse
pre suscita anche nell'uomo più giusto e più santo. terra
La pace con Dio e la perfetta armonia tra corpo e spirito si riversava prim
pure nei rapporti dell'uomo con la natura. Questa non aveva nulla di ocea
pauroso o di ostile. Tuttavia tale mancanza di colpa e di sforzo morale s
non va inteso nel senso di vita debole, insulsa, stanca e priva di forza in
o di gioia. Tutt'altro! Il primo uomo possedeva la forza illimitata di
gioire, di conoscere, e di amare. Solo i beati in cielo possono superarla. co
Ogni istante della sua vita, ogni fibra del suo essere era ripiena di vitanell'opposizi
rigurgitante. L'amore per Dio e quello per la terra non erano affatto in pe
contrasto. Dio è gioia e carità personale e i primi uomini, intimamente m
uniti a lui, possedevano un io immerso in un oceano di beatitudine e di de
ha
felicità. Così erano perfetti e retti, sia nell'anima, sia nel corpo (avevano concu
il donum rectitudinis vel integritatis). Tuttavia, in ultima analisi, il loro
stato resta per noi un grande mistero.
carne
Si potrebbe tentare anche un'altra spiegazione della concupiscenza disordinata. è
Quella data comunemente sembra radicata nell'opposizione tra spirito e corpo, a
tra ragione e sensibilità, che è una caratteristica del pensiero greco. La rivela¬ d
zione non giustifica l'opinione di tale pensiero che il male abbia la sua radice p
nella sfera del senso. Il Concilio di Trento ha bensì detto che la concupiscenza e
proviene dal peccato e conduce ad esso, ma non ne ha data alcuna definizione. s
In particolare, non ha sostenuto la dottrina che la concupiscenza sia fondata nel
dualismo metafisico di spirito e di senso. Secondo la Scrittura la tendenza al
peccato propria dell'uomo è radicata non nel dualismo metafisico, ma in quello
afferm
storico-saivifico. Forse la dottrina di Paolo sulla carne spiega meglio la cosa.
L'Apostolo intende per uomo carnale non solo chi è soggetto ai piaceri del n
senso, ma chi segue il proprio egoismo. L'inclinazione al male proviene, secondo
la sua dottrina, da tutto l'uomo, non solo da una parte di esso. La concupiscenza
disordinata consisterebbe perciò nel fatto che l'uomo porta in sè l'inclinazione qu
di ribellarsi a Dio e rendersi indipendente da lui. Così essa non sta nel dualismo
di spirito e di senso, ma in quello della ricerca di se stesso e della subordina¬
zione a Dio.
6. - La teologia vede una prova di tutte le affermazioni precedenti nelle
parole della Bibbia la quale dice che la nudità non causava alcun ros¬
sore ai primi uomini (Gen. 2, 25). Certo il campo sessuale non è l'unico
in cui la concupiscenza si possa esercitare, ma è indubbiamente quello
in cui si palesa con maggior intensità. Ora se questo settore della vita
umana, intimamente collegato con tutti gli altri, era ordinato, discipli-
§ 132. l'elevazione soprannaturale dell'umanità in ADAMO ED EVA 713
nato e retto, si può arguire che tutto il testo lo fosse altrettanto e ancor
più. Non è possibile ricondurre la mancanza di rossore di Adamo all'igno¬
ranza del fanciullo, 0 alla insensibilità dell'animale. Iprimi uomini cono¬
scevano già sin dall'inizio della creazione la ragione del sesso e la loro
diversità dalla bestia (Gen. 2, 18-25). Nelle lettere paoline troviamo una
ulteriore dimostrazione biblica. Qui la concupiscenza sta in diretto le¬
game con la colpa. Prima del peccato e senza di esso non esisteva (Rom.
7, 11-20). Il Concilio di Trento aggiunge al riguardo che la concupi¬
scenza proviene dal peccato e induce al peccato (Sess. 5, Can. 5; Denz.
792). Il problema se il racconto biblico vada inteso letteralmente 0 meno
lo abbiamo già discusso al § 101.
III. Gratuità dei doni soprannaturali e preternaturali.
C. - Tutti questi doni non erano parti costitutive della natura umana,
ma, conferiti ad essa gratuitamente da Dio, la penetravano, la trasforma¬
vano interiormente, la elevavano e perfezionavano. Ciò è stato dichiarato
dalla Chiesa contro la dottrina di Baio, Giansenio e Quesnel (Denz. 2021;
1026; 1078; 1385; 1516-1517). L'uomo sarebbe stato uomo anche se
Dio l'avesse creato oppure lasciato senza tali doni (Denz. 1055). Ciò vale
specialmente per l'immunità dalla concupiscenza, ed è facile capirlo.
L'uomo è composto di due parti, corpo e anima: ne conseguono leggi
proprie ad ambedue ed è naturale che in lui vi sia tensione e divisione.
Similmente è comprensibile che ima creatura, dotata di una personalità
libera e responsabile spinga l'amore di sè fino alla infatuazione del suo
proprio io, che essa si affermi non donandosi, ma chiudendosi in sè.
È infatti difficile per la creatura raggiungere quell'equilibrio nel quale pur
rimanendo se stessa si dona all'altro, sia questi uomo 0 Dio.
Adamo ed Eva ebbero da Dio la grazia di non risentire il peso della
natura. Questa libertà era quindi per loro un dono inerente alla loro
natura ma nello stesso tempo trascendente. Anche se la natura dell'uomo
va distinta dalla soprannatura, tuttavia si deve fare ben attenzione a non
separare l'una dall'altra. In realtà l'uomo, quale era nel piano divino,
ossia come Dio nel suo amore smisurato lo aveva voluto, doveva essere
destinato a vivere nell'ordine soprannaturale. Si può, in certo senso, dire
che per il primo uomo l'elevazione alla vita soprannaturale era qualcosa
di naturale. Dobbiamo intendere in tal modo le frasi dei primi cristiani,
le quali affermano che l'elevazione soprannaturale dell'uomo era naturale
e innaturale la privazione di essa.
nità tutta che allora era rappresentata solo da Adam
di
714 P- II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO vit
padre
IV. Il soprannaturale come dono ereditario. d
D. - Il primo uomo ricevette i doni soprannaturali e preternaturali L'um
come un bene ereditario, ossia trasmissibile. Dio volle donarli all'uma¬preternatura
nità tutta che allora era rappresentata solo da Adamo ed Eva. Mediante
la generazione essi li avrebbero trasmessi ai loro discendenti; questa sa¬
rebbe stata strumento per perpetuare non solo la vita naturale, ma anche
la soprannaturale ricevuta gratuitamente. Mediante la generazione, quasi
fosse un sacramento, si sarebbe trasmesso, di padre in figlio, lo stato so¬
prannaturale donato all'uomo. Il primitivo piano divino non potè venir disubbid
attuato per colpa della disobbedienza umana. L'umanità in Adamo ed
T
Eva si ribellò a Dio, perdette i doni preternaturali e soprannaturali e 4
tentò di crearsi una vita senza Dio.
du
d
§ 133. II peccato di Adamo e di Eva.
co
meraviglio
Adamo ed Eva peccarono gravemente disubbidendo a un comando
impegnat
divino. È dogma di fede definito dal Concilio di Trento (testo riportato
a
all'inizio del § 132), dal Concilio di Cartagine del 418 (Denz. 101) e dal
così
secondo Concilio di Orange (Denz. 174).
S
1. - a) La Bibbia non dice quanto tempo sia durata la vita di comu¬ l
nione intima con Dio e di dominio sull'universo, durante la quale l'esi¬ ric
stenza dell'uomo era serena unione d'amore e continua gioia creativa. g
Anzitutto si deve pensare che a doni tanto meravigliosi, conferiti all'uomo, gia
dovessero corrispondere doveri altrettanto impegnativi. Ogni dono di Dio
infatti suscita per l'uomo un dovere. Dio diede all'uomo un ordine al c
fine di renderlo vieppiù cosciente che la vita così liberamente ricevuta
in dono includeva in sè obbligo e responsabilità. Stabilì mi precetto af¬ natura
finchè l'uomo ricordasse il suo stato di creatura, la sua derivazione da
Dio e il suo legame con lui, e di continuo fosse richiamato a sviluppare
consapevolmente la sua esistenza, arricchita dalla grazia. Secondo il Ge¬
nesi il precetto così suona: «D'ogni albero del giardino puoi mangiare;
ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non mangiarne,
perchè il giorno che tu ne mangiassi, moriresti di certo » (Gen. 2, 16 s.).
b) Per intendere rettamente tale comando bisogna riflettere che siccome i
primi uomini vivevano in comunione intima con la natura creata da Dio, e quindi
§ 133- IL PECCATO DI ADAMO E DI EVA 715
facilmente si adattavano alla volontà divina che si esprimeva attraverso le leggi
della natura medesima, Dio volle dare loro un precetto che superasse la legge
naturale affinchè, per mezzo di esso, potessero continuamente sentire il richiamo
della regalità e della gloria divina, riconoscerle. Per mezzo di questo comando
Dio si rivelò Signore e Padrone in modo da trascendere qualsiasi rivelazione, data
mediante le creature, e rivelandosi diede un ordine che obbligava l'uomo all'ub¬
bidienza. Il precetto serviva per far ricordare Dio e indicare il cammino che
conduceva a lui. In tal modo l'umanità doveva essere salva dalla tentazione di
accontentarsi del dominio sulla natura, di volgere lo sguardo solo alla terra, di
perdere così il gusto di Dio e smarrire il fine, la sua perfezione stessa. Il co¬
mando divino, proprio perchè svela e sottolinea la supremazia divina, era un
segno palese dell'amore di Dio, di quell'amore che previene, custodisce e pro¬
tegge l'uomo dal pericolo di esagerare la sua grandezza personale.
c) Non è molto chiaro come mai il primo uomo potesse essere soggetto a
tentazione. Tuttavia dobbiamo tener conto che Adamo, quantunque legato a
Dio, doveva pur sempre camminare nella fede, e non nella visione. Infatti per
colui che vede immediatamente Dio non vi è più pericolo nè di tentazione, nè
di peccato! Vivere nella fede, significa stare nell'oscurità. La vita di fede è una
vita che deve crescere, maturare mediante una sempre più generosa dedizione
di sè, quindi nella lotta per ottenere una conoscenza più profonda di Dio e le¬
game d'amore con lui ognora più intimo (cfr. la Mariologia). L'uomo che vive
nella fede afferma una realtà occulta che è certo di avere di fronte, alla quale
si avvicina sempre più e che spera un giorno di possedere nella sua bellezza
finalmente svelata.
Il fedele quindi vive di speranza; non ristà, ma si protende. Si muove in con¬
tinuo lavorio infaticabile, spingendosi verso la realtà che deve venire. La lotta e
la tendenza verso Dio dovevano perciò far parte anche della vita del primo uomo,
il quale era anch'egli costretto a cercare Dio sempre e di continuo. Anche Adamo,
nonostante la sua integrità e impassibilità, si sentiva essere incompleto e tendeva
intensamente verso qualcuno. Quanto egli, nonostante l'intimo legame con Dio,
fosse lontano dal perfezionamento ultimo, appare nel confronto con la posizione
che la natura umana di Cristo risorto e glorificato ha raggiunto. Solo in Gesù,
vincitore della morte, la natura tocca finalmente la perfezione finale e definitiva
che Dio, dall'eternità, aveva predisposto e inteso. La creazione di Adamo era il
primo passo verso tale perfezione ultima della natura umana: era inizio, non
termine!
d) Rimane tuttavia insondabile mistero perchè Dio abbia dato inizio alla
storia con Adamo integro sì, ma non ancora del tutto perfetto e quindi peccabile,
e non invece con un uomo che fosse già in possesso del suo ultimo compimento
in Cristo. Proprio per la mancanza di questa ultima perfezione l'uomo, quan¬
tunque intimamente unito a Dio ed esente dalla concupiscenza sregolata, aveva
la possibilità di tentare un appagamento del suo inestinguibile desiderio, del suo
insaziato amore in modo sbagliato, e quindi di peccare (cfr. § 144). La peccabi¬
lità del nostro progenitore basata sullo stato di fede, poteva condurre a colpa
soltanto quando il suo cuore si fosse deciso contro Dio. In realtà Dio aveva dato
all'uomo una duplice possibilità: optare per il bene o decidersi per il male. Dio
non voleva avere dei servi, degli schiavi o degli strumenti ciechi, bensì dei figli
sariamente legata con la libertà. Dio stesso è la libertà
d
716 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
perfezion
liberi. Perciò diede all'uomo il più alto e il più pericoloso dei doni che avesse che
potuto conferirgli nel campo naturale: la libertà. Egli in certo senso ha voluto subito
concedergli il bene più alto, sempre nell'ordine naturale, che potesse essere con¬ ter
ferito alle creature: la partecipazione alla propria signoria! In realtà il dono si
palesò troppo grande e chi lo ricevette troppo meschino per esso! Ma ancora una d
volta (cfr. § 127) dobbiamo sottolineare che la possibilità di peccare non è neces¬ Q
sariamente legata con la libertà. Dio stesso è la libertà personale, e tuttavia non no
può commettere colpa. Ibeati in cielo vivono in stato di massima libertà, quan¬
tunque non possano peccare. Tale possibilità si ricollega alla libertà solo in quelle nell'uo
creature che non hanno ancora raggiunto la perfezione finale in Dio. Quindi de
chiedersi perchè Dio abbia dato all'uomo la libertà che poteva tendere al male, rimanev
equivale a domandarsi perchè mai egli non abbia subito creato l'uomo nella per¬ attuasse
fezione definitiva. A questo problema, durante la vita terrena, non si può rispon¬
dere in modo esauriente.
e) Secondo la testimonianza biblica l'uomo, ricco di doni così eccelsi, non su
si sarebbe deciso da solo a ergersi contro il suo Dio. Questi gli appariva come ch
una realtà talmente dominatrice e perfezionante che non avrebbe mai osato tra¬
sgredirne il precetto e tentare di innalzarsi fino a lui se la tentazione non gli
an
fosse venuta dall'esterno. Certo sonnecchiavano nell'uomo le possibilità di op¬ ver
porsi all'autorità di Dio, ma finché non fossero state destate dal di fuori, l'auto¬ C
rità divina e la intangibilità del suo comando rimanevano indiscusse. Una po¬ pr
tenza esteriore doveva agire sull'uomo perchè si attuassero le possibilità del male r
che erano in lui.
gene
/) La Bibbia racconta in modo semplice e suggestivo come il pec¬ de
cato è entrato nel mondo, che cosa esso è e che cosa produce (Gen. fru
3, 1-7). Il serpente era il più astuto di tutti gli animali; parlò alla donna s
e iniziò così il suo dialogo insidiatore : « È poi vero che Dio vi ha detto inquieta
di non mangiare d'alcun albero del giardino? ». Chiede una spiegazione, l'idea
ma la sua domanda è una esagerazione. Un precetto così universale d
avrebbe effettivamente menomato l'uomo. Eva risponde con ardore e s
fierezza che Dio non ha dato un ordine del genere. Vi è però una pic¬ l
cola limitazione : « Possiamo mangiare i frutti degli alberi del giardino, uo
ma Dio ci disse di non toccare nè mangiare il frutto dell'albero che sta ord
in mezzo al giardino, per non dover morire ». Il serpente col suo primo
intervento non riesce a turbare Eva nè a inquietarla, tuttavia raggiunge
lo scopo di far penetrare nella sua coscienza l'idea che si tratta di libertà
pur sempre limitata. La donna sente il vincolo di tale comando e qui
si attacca l'astuto : « No, non morirete, anzi Dio sa che se ne mangiaste,
i vostri occhi si apriranno e diventerete simili a lui, conoscendo il bene
e il male ». Il serpente insinua nel cuore degli uomini la diffidenza per
Dio, per la sua bontà e per la serietà del suo ordine. Li induce a pen¬
sare che tale precetto non provenga dalla cura con cui Dio segue l'uomo,
§ 133- IL PECCATO di adamo e DI EVA 717
bensì sia frutto di orgoglio e di alterigia personale: il Creatore tenta di
privare gli uomini di qualche cosa. Essi verrebbero ad acquistare un ac¬
crescimento opponendosi al suo volere. Otterrebbero vita più ricca e più
piena, anzi addirittura grandezza e gloria divina! Raggiungerebbero così
una conoscenza che Dio, invidioso e malevolo, vuol tenere solo per sè.
Quindi non è più degno di fede nè buono! Quando l'autorità di Dio fu
così minata, e allorché ritrasse lo sguardo dalla pienezza della vita divina,
Eva osservò che « i frutti dell'albero erano buoni a mangiarsi e piacevoli
a vedersi ». Sovente li aveva già contemplati, però mai come ora. Ne è
incantata! E pazzamente, attraverso tali frutti, spera di divenire sapiente
al pari di Dio. « Ella prese allora dei frutti e ne mangiò ». L'uomo, che
le stava al fianco prese anch'egli parte a tale misfatto, senza pronunciare
motto. Cfr. l'articolo à(x<xpTàv&) in Kittel, Worterbuch zum N. T., I,
282-288.
2. - Riguardo al valore del racconto, saremmo fuori strada se voles¬
simo vedervi soltanto una spiegazione mitica della universale peccabilità
umana. Qui, in forma figurata si descrive un vero fatto storico. La Com¬
missione biblica afferma, sia pure senza il sigillo dell'infallibilità, che tra
i fatti storici da riconoscersi nei primi capitoli genesiaci vanno pure an¬
noverati il precetto dato da Dio all'uomo per provarne l'obbedienza e
la trasgressione di questo precetto per l'istigazione del diavolo in forma
di serpente (Denz. 2123).
Non si può tuttavia precisare di qual genere fosse il comando e quale
effettivamente sia stato il vero atto esterno della colpa. Alcuni ese¬
geti pensano che si trattasse di peccato sessuale, non perchè tale azione
fosse in sè proibita 0 peccaminosa, ma perchè compiuta prima del tempo
fissato da Dio 0 con intenzione contrastante con il divino volere. Tut¬
tavia per quante ragioni si possano addurre, sopratutto dal campo della
religione comparata, in favore di questa spiegazione, essa è difficilmente
conciliabile con quello che la Bibbia dice circa i rapporti dell'uomo e
della donna. Con la maggior verosimiglianza si può affermare che il primo
peccato non fu affatto colpa sessuale.
Per quanto poi riguarda l'atto interno, si deve ammettere che il primo
uomo fu indotto a diffidare di Dio dal serpente. Sotto tale veste si na¬
scondeva Satana il quale fu colui che volle rovinare i piani divini e per¬
dere l'uomo. La creatura non credette più alla parola di Dio, e il ser¬
pente gli insinuò nel cuore il desiderio di divenire simile alla divinità.
Tuttavia non dobbiamo certo supporre che Adamo pensasse con ciò di
di dimostrare che l'ubbidienza la
in
718 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
eliminare la differenza che passava tra Dio e la sua natura creata. Ciò qualcos
sarebbe stato in contrasto con il cumulo dei doni spirituali di cui era co
fornito. È più verosimile pensare che egli bramasse o di procacciarsi una Di
vita indipendente da Dio o di raggiungere l'unione ultima con Dio, e la p
perfezione che essa racchiude, con i mezzi propri. In ogni caso, il ser¬
pente cerca di dimostrare che l'ubbidienza e la sottomissione a Dio è quale
estremamente stupida, e in tal modo tenta di indurre l'uomo a trascu¬
rare la parola divina. L'uomo diverrà signore e padrone di se stesso; a anche
lui nessuno potrà domandare contezza di qualcosa; non accetterà consigli L'incredulità
da nessuno; sarà capace di costruirsi per suo conto la propria vita e di p
tenere in pugno il proprio destino; sarà come Dio per quel che riguarda p
l'ambito della sua vita. Perciò gli elementi del peccato primitivo sono: s
incredulità, superbia, disubbidienza. superbi
La radice del peccato è l'incredulità, la quale è semplicemente un no e
detto a Dio per orgoglio. Che la colpa primitiva sia un complesso di in¬ adu
credulità, alterigia e disubbidienza emerge anche dal fatto che la Bibbia supe
dipinge così il peccato in genere. L'incredulità infatti è la colpa che radi
conduce gli uomini alla morte e ve li lascia. Il peccato, secondo l'Eccle¬ lor
siastico, è alterigia e autoglorificazione : « Il principio della superbia a
umana (è) l'apostatar dal Signore, poiché dal suo creatore si allontana cancell
il cuore di lui. Il principio invero della superbia è il peccato, e chi a co
questa s'attiene, riboccherà di abominazioni, ed essa l'abbatterà per sem¬ uom
pre. Perciò il Signore coprì di ignominia le adunanze dei malvagi, e li P
sterminò sino in fondo. Itroni dei principi superbi distrusse il Signore, ne
e fece sedere al loro posto i mansueti. Le radici delle nazioni superbe è
estirpò il Signore, e piantò gli uomini al posto loro. Le regioni delle genti Gi
mise a soqquadro il Signore, e le rovinò sino alle fondamenta. Ne de¬ D
vastò parecchie e disperse gli abitanti, e cancellò la memoria loro dalla de
terra. La memoria dei superbi dissipò Iddio, e conservò la memoria degli 1
umili di sentimento. Non fu creata per gli uomini la superbia, né l'ira¬ (E
condia per inati di donna » (Eccli. io, 14-22). Perciò sono specialmente q
iricchi e i potenti che con più facilità cadono nel peccato (Eccli. 23, 27;
Mt. 19, 23-26). Il peccato è mancanza di legge; è disubbidienza (1 Giov.
3, 4; 5, 17), opposizione alla volontà divina (1 Giov. 3, 8). Pertanto nella
sua realtà più profonda è un avvenimento tra Dio e l'uomo e non solo
un fatto nel campo morale. È empietà, un no detto a Dio, la volontà di
essere indipendente, contro 0 senza Dio (Le. 15, 18. 21: parabola del
figliuol prodigo). È prostrarsi dinanzi agli idoli (Ez. 16, 41), insulto verso
Dio, ostilità contro di lui (Giob. 42, 7). Per questo il peccato è cosa
§ 133- IL PECCATO di adamo E DI EVA 719
demoniaca (1 Giov. 3, 8; Giov. 8, 34). Cfr. P. Heinisch, Das Buch
Genesis, 1930, 111-123.
3. - Qui si pone un piccolo problema accessorio. L'uomo desiderò una
compagna che alleviasse la sua solitudine. Come mai ella divenne la sua
seduttrice, tentatrice e pervertitrice? Perchè il serpente si rivolse dap¬
prima a Eva? Non perchè fosse più debole dell'uomo e perciò più fa¬
cilmente seducibile, bensì perchè il peccato della donna, che nasce da
una profondità più arcana di quello dell'uomo, ricollega in maniera più
profonda tutto il creato alla colpa. (A ciò non si oppone il fatto che il
peccato di Adamo e non quello di Eva sia stato il peccato originale). La
donna, per il suo intimo legame con il creato, compie ogni sua azione
con una dedizione di sè più profonda dell'uomo, e quindi costituisce un
pericolo più grande per il compagno di quello che egli a sua volta può
essere per la donna. Il pensiero del demonio fu assai astuto quando
pensò e preferì indurre alla colpa la donna anziché l'uomo! Se l'universo
tende essenzialmente a donarsi a Dio, tale tendenza si manifesta in modo
assai più chiaro e luminoso nella donna, la quale possiede un essere spe¬
cialmente destinato a darsi agli altri. Se ella non adempie più tale sua
missione, ma cerca unicamente se stessa, allora il mistero dell'universo
si offusca e viene distrutto il senso intimo del mondo.
« Solo da questo punto di partenza si capisce la caduta di lei, ossia la figura
di Eva: caduta che non deve venir interpretata come frutto dell'antitesi tra lo
spirituale e il sensuale. La caduta della donna non è soltanto il decadere della
creatura sulla terra, ma anche il decadere della terra medesima, in quanto que¬
sta, elemento femmineo, significa umile aspettativa. La cacciata dal Paradiso ter¬
restre non si riconnette tanto alla tentazione del dolce frutto, quanto alle parole:
" Voi sarete come Iddio ", antitetiche al " fiat " della Vergine. È perchè il pec¬
cato originale avvenne nella sfera religiosa che esso significa in un senso più
profondo la caduta della donna; ossia non perchè fu Eva a prendere per prima
il pomo, ma perchè in quanto donna lo colse. Fu la sostanza femminea del creato
che decadde, perciò decadde la sua essenza religiosa; e perciò la Bibbia attri¬
buisce ad Eva e non ad Adamo la maggior colpa.
Non è quindi esatto dire che Eva fu più suscettibile alla caduta perchè più
debole. La storia biblica della seduzione mostra chiaramente come Eva fosse la
più forte e superiore all'uomo. L'uomo, cosmicamente considerato, è evidente¬
mente forte, ma la donna lo è in profondità. Ogni qualvolta essa venne depressa,
ciò accadde non perchè fosse debole, ma perchè riconosciuta potente si faceva
temibile — e con ragione — giacché nel momento in cui la forza predominante
non vuol sacrificarsi, ma tiranneggiare, si prepara infallantemente una catastrofe.
Tra le poche e oscure nozioni pervenuteci circa la lotta intorno al matriarcato
decadente, è ancor sensibile il brivido di terrore dinnanzi al potere della donna:
720 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO de
Kleis
all'estrema offerta corrisponde qui l'estrema ricusa. Questa linea rappresenta il l
lato negativo del mistero metafisico della donna. Appunto perchè ella nella to¬ sec
talità del suo significato e della sua essenza, non soltanto è fatta per l'offerta, fondo
ma incarna la potenzialità medesima di dedizione del cosmo, la sua ricusa si¬ il
gnifica qualcosa di demoniaco, e infatti viene così sentita. Eva non personificò tan
mai il male in sè — infatti l'angelo la precedette nel peccato — ma condividerappresen
col demonio il potere di corrompere seducendo. La seduzione è capriccio, ossia continuamen
il contrario della dedizione. Come il peccato angelico è più terribile dell'umano, ne
così la colpa della donna è più terribile di quella dell'uomo. Il suo dramma è anche
poeticamente raffigurato nella "Pentesilea " del Kleist. Anche nelle figurazioni affida
della Medusa, delle Erinni, l'antico mito rispecchia l'orrore che desta la donna umana
colpevole; e ancor la credenza nelle streghe dei secoli cristiani, ch'ebbe tante dell'um
tragiche conseguenze nei singoli casi, non è in fondo che la giustificazione del d
medesimo orrore suscitato dalla donna che tradisce il suo destino metafisico. Se brute
oggi la colpa femminile non ci fa più fremere di tanto sdegno, lo si deve solo um
alla grande volgarità con la quale essa vien rappresentata empiricamente; poiché r
è ovvio che la storia del peccato si ripete continuamente. In senso lato la donna missio
è sempre colpevole di ogni caduta non solo perchè nel suo grembo si sviluppano (
gli esseri che nascono predisposti alla colpa, ma anche perchè ogni caduta, com¬
presa quella dell'uomo, avviene nella sfera a lei affidata in modo particolare.
La donna caduta sta al principio della storia umana ed anche alla fine di tutta
la storia. La figura essenzialmente apocalittica dell'umanità non è l'uomo; anzi
è caratteristico degli " ultimi tempi " lo scomparire del maschio, poiché non gli
è più dato di comandare virilmente alle potenze brute della distruzione. L'Apo¬
calisse non indica neppure l'Anticristo in aspetto umano, ma come " bestia che coppia
vien su dall'abisso ". La figura apocalittica umana riconoscibile nell'Apocalisse v
è la donna. Solo la donna che ha tradito la sua missione può rappresentare quel¬
gius
l'assoluta sterilità del mondo che ne genera la fine » (G. von Le Fort, La donna
eterna, Milano 1942, 32-35).
sottomissione
§ 134. Le conseguenze del peccato di Adamo ed Eva.
foglie
L'allontanamento da Dio della prima coppia umana produsse tosto Sign
gravi conseguenze. Il Tridentino (Denz. 788, vedine il testo al § 132) A
enumera le seguenti: Perdita della santità e giustizia originaria, ira e in¬ alberi
dignazione di Dio, morte fisica e sottomissione al demonio, deteriora¬
mento del corpo e dell'anima.
1. - La Bibbia narra : « E s'aprirono gli occhi ad ambedue. Ed avendo
conosciuto d'esser nudi, intrecciarono delle foglie di fico, e se ne fecero
delle cinture. Ed avendo udito la voce del Signore Dio che passeggiava
nel paradiso nell'aura vespertina, si nascosero, Adamo e la moglie sua,
dalla faccia del Signore Dio in mezzo agli alberi del paradiso. Il Signore
§ 134- LE conseguenze del peccato di ADAMO ED EVA 721
Dio chiamò Adamo, e gli disse: " Dove sei? Il quale rispose: "Ho
udito la tua voce nel paradiso; ho avuto paura, essendo nudo, e mi son
nascosto A cui disse : " E chi t'ha fatto conoscere d'esser nudo, se non
hai mangiato dell'albero del quale t'avevo comandato di non mangiare?
Rispose Adamo : " La donna che mi desti a compagna, m'ha dato di quel
frutto, e ne ho mangiato Disse il Signore Dio alla donna : " Perchè
hai fatto ciò? La quale rispose : " Il serpente m'ha ingannata, ed ho
"
mangiato » (Gen. 3, 7-13).
Adamo ed Eva dalla trasgressione del comandamento divino, si atten¬
devano arricchimento e perfezionamento della propria vita, anzi parità
con Dio. Invece perdettero in tal modo unione e somiglianza a Dio e,
con ciò, tutte le grandi ricchezze che possedevano. Furono ricacciati nel¬
l'indigenza dell'umanità abbandonata a se stessa. Avevano bramato di
raggiungere la conoscenza divina e, in realtà, aprirono gli occhi ma per
conoscere ben altro da quanto avevano sperato. Videro di essere nudi. Lo
splendore divino che ricopriva il loro corpo era ormai scomparso, nulla
più rivestiva il mistero del loro essere umano. Così si trovavano ignudi
l'uno dinanzi all'altro e se ne vergognarono. Per tale ragione intreccia¬
rono foglie di fico e si coprirono. Era un ben misero tentativo per sosti¬
tuire l'abito paradisiaco, un atto maldestro di ricoprire, mediante cose
terrene, il mistero del proprio io. Prima non si nascondevano nulla tra
di loro poiché il loro corpo, e anche il mistero dell'essere personale che
si svelava attraverso ad esso, veniva ricoperto da Dio stesso con la gloria
divina. L'innocenza rispettiva poggiava su quella comune nei riguardi di
Dio. Erano sicuri e disinvolti. Ma con la coscienza di aver peccato contro
Dio, nasce la vergogna tra loro. Sentono la legge della carne nel loro
corpo, conoscono ciò che avevano bramato di sapere: il bene e il male.
Ma tale conoscenza è dolorosa perchè si sentono peccatori e perciò si
trovano a disagio quando Dio li accosta. Non possono più sopportarne nè
lo sguardo, nè la voce. Cercano quindi di fuggire l'occhio di colui a cui
nessuno può sottrarsi. Hanno paura quando ne sentono il fruscio tra gli
alberi del giardino, perchè sanno di essere colpevoli. L'alterigia con cui
avevano cercato di ergersi contro di lui, si cambia in terrore per la sua
santità.
Dinanzi a Dio che li giudica e li interroga il dominio su loro stessi
viene meno. Tentano di accusarsi a vicenda. Adamo getta la colpa sulla
donna, anzi la sua risposta suona come un rimprovero a Dio stesso : « La
donna che mi hai messa al fianco, fu essa a darmi del frutto che ho man¬
giato ». Eva a sua volta, cerca di gettare la colpa sul serpente. L'uomo
46 - schmaus - dogmatica I.
Molt
722 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
fig
tenta così di respingere la responsabilità della colpa, ma tanto Adamo ad
quanto Eva e il serpente sono colpiti dalla condanna : « Allora disse il mangi
Signore Iddio al serpente : " Poiché hai fatto questo, sarai maledetto fra
tutti gli animali e le bestie della terra; striscerai sul tuo ventre, e mangerai i
terra in tutti igiorni della tua vita. Porrò inimicizia fra te e la donna, fra
la stirpe tua e la stirpe di lei; essa ti schiaccerà il capo, e tu insidierai il tu
suo calcagno Disse ancora alla donna : " Moltiplicherò i tuoi travagli p
ed i tuoi parti; partorirai tra i dolori i tuoi figli, sarai sotto la potestà
del marito, ed egli ti dominerà Disse poi ad Adamo : " Poiché hai
ascoltato la voce della tua donna, ed hai mangiato del frutto del quale l'allont
t'avevo comandato di non mangiare, maledetta la terra del tuo lavoro; ener
tra le fatiche ne ricaverai il nutrimento in tutti i giorni della tua vita: ti
germoglierà triboli e spine, e mangerai l'erba della terra. Col sudore essere,
terra
della tua fronte ti procaccerai il pane, sinché tu ritorni alla terra dalla
quale sei stato cavato; perchè polvere sei, ed in polvere tornerai"» (Gen. mancan
3, 14-19).
soddisfazione
gr
2. - Il primo uomo sentì sensibilmente l'allontanamento da Dio come Tale
il discostarsi dalla sorgente di quiete e di energia, dalla fonte di pace pa
e d'amore, dalla pienezza della vita e dalla sicurezza dell'esistenza.
Così nacque la divisione nel suo proprio essere, il contrasto tra l'io e il conda
tu, tra l'uomo e le bestie, tra l'uomo e la terra. Adamo ed Eva furono p
lasciati in balia alla fame, alla nudità, alla mancanza di tetto. L'uomo che manif
si scosta da Dio non trova più né soddisfazione umana, né dignità. Ri¬
fiuto a Dio significa rifiuto alla dignità e alla grandezza umana. Chi re¬ dev
spinge Dio rinnega pure il proprio essere. Tale allontanamento da Dio,
fonte e sorgente di vita, si palesa in modo pauroso nella morte (Gen. rito
3j 19). mog
In fondo è stato l'uomo stesso che si è condannato a morire. Dio ma¬
nifesta nella sua condanna ciò che la creatura per conto suo si era pro¬ p
cacciata. Nella sottomissione alla morte si manifesta in modo chiaro che il
l'uomo scostandosi da Dio non può più vivere, ma deve soggiacere alla
morte. Con la fatica e i dolori della sua vita deve espiare il suo peccato.
Ciò che l'uomo ha perduto, lo ha perduto per sempre. È stato scacciato
dal paradiso terrestre e non potrà mai più ritornarvi. Infatti il Genesi
continua (3, 20-24) : « E Adamo mise alla moglie sua il nome di Eva,
essendo ella madre di tutti i viventi. Fece anche il Signore Dio ad Adamo
ed alla sua moglie vesti di pelli, e ne li ricoprì; poi disse: " Ecco, Adamo
è divenuto uno di noi, e conosce il bene ed il male; ch'ei non abbia a
§ 135- IL peccato originale: sua essenza ed esistenza 723
stendere la mano e prendere anche dall'albero della vita, e mangiare, e
vivere in eterno! Ed il Signore Dio lo mandò fuori dal paradiso di
delizia, acciò lavorasse la terra dalla quale fu cavato. Scacciò Adamo, e
pose a guardia del paradiso di delizia un cherubino con una spada fiam¬
meggiante e roteante, per custodire la via dell'albero della vita ».
L'Autore sacro con espressioni immaginose e simboliche, tratte dal¬
l'ambiente in cui viveva, afferma che ormai l'uomo ha perduto per sem¬
pre la vita tranquilla, serena, piena e sicura. Il cherubino è essere più
nobile di lui e indica la presenza divina. È il custode del possesso divino:
nessuno, non autorizzato, può mettervi piede. La « spada fiammeggiante »
è il simbolo dell'ira divina punitiva, del giudizio vendicatore (cfr. Is.
34, 5; Is. 46, 10; Sof. 2, 12; Ez. 21, 13 s.). Il fuoco è segno della vici¬
nanza di Dio, il quale è, in pari tempo, giudizio e grazia (cfr. Zacc. 2, 9;
Gen. 3, 2).
3. - La Bibbia narrando la cacciata dell'uomo dal paradiso terrestre,
vuol mostrarci che lontano da Dio l'uomo cade nella miseria e va ramingo
senza patria. Secondo diverse affermazioni patristiche Dio però conce¬
dette al primo uomo la grazia del ravvedimento. Siamo autorizzati a pen¬
sare che Adamo ed Eva, mediante la penitenza, abbiano potuto raggiun¬
gere la salvezza che il loro orgoglio aveva ripudiato. Dio non ha scacciato
completamente, senza speranza, l'umanità dal suo cospetto; lo rivelano
le profetiche parole con cui confortò i nostri progenitori, la dilazione
della morte, e la preparazione di abiti migliori di quelli che l'uomo
avrebbe potuto procurarsi da sè.
§ 135. Il peccato originale: sua essenza ed esistenza.
Il peccato originale ha importanza notevole per la fede, poiché entra
nella struttura dell'esistenza umana. La colpa commessa ai primordi del¬
l'umanità non è rimasta infatti un fatto sporadico, bensì realtà perenne¬
mente attuale. È come forza che ognora suggella, plasma e determina
il corso della storia, e non semplice gesto che ha avuto luogo una volta
all'inizio del genere umano. Ha, perciò, importanza storica universale. In
quell'atto peccaminoso si svolse un mistero, quello dell'umanità pecca¬
trice. Era, è vero, la colpa della prima coppia umana, di cui questa doveva
rendere conto, ma, tramite suo, anche l'umanità si è allontanata da Dio.
Infatti, all'epoca del primo peccato, essa esisteva soltanto nelle persone
dell'aver rifiutato Dio. Lo stato
ribellione
724 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
di Adamo e di Eva. Ribellandosi costoro a Dio, con decisione personale, pecc
era l'intero genere umano che prendeva parte a tale ribellione; perciò fatta
tutti caddero nella colpa. Da quell'istante l'umanità esiste solo nello stato c
di allontanamento, di assenza da Dio e tale situazione l'accompagna in m
tutti itempi. La sua natura sarà anche in futuro ciò che divenne in quel II
momento a causa dell'aver rifiutato Dio. Lo stato di caduta che si è av¬ Conci
verato, in conseguenza di quella prima ribellione, è ciò che chiamiamo 1
peccato originale.
Esiste un peccato originale, ossia un peccato che è passato da
Adamo a tutti isuoi discendenti, eccezione fatta per la Vergine Maria.
Tale peccato è un vero peccato, anche se non consiste in un atto, ma
solo in uno stato. Si trova in ogni uomo a motivo della sua discen¬ senso
denza da Adamo. È dogma di fede. Si veda il II Concilio di Milevi con¬ p
fermato da papa Innocenzo I; e ancora il Concilio di Cartagine (Denz.
102), il II Concilio di Orange del 529 (Denz. 174 s.) e il Concilio di
Trento citato al § 132.
l'ess
san
I. Essenza del peccato originale. Cristo
A. - Per ben comprendere la portata e il senso del dogma è di somma l'esiste
importanza chiarire con esattezza l'essenza del peccato originale. ten
San
1. - Al riguardo le decisioni della Chiesa e la rivelazione non ci danno rigener
una precisa spiegazione, tuttavia dal confronto con lo stato dell'uomo nella
esente dal peccato d'origine, si può arguirne l'essenza. La mancanza del triper
peccato originale rappresenta un'esistenza di santità e giustizia, la par¬ Tuttav
tecipazione alla vita e alla gloria stessa di Cristo, il prendere parte alla div
tripersonale vita divina, l'amicizia con Dio, l'esistenza nostra « in Cristo », Dio
e quella di Cristo « in noi », la possibilità di tendere al Padre, la quale e
si attua per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo. Tutte queste realtà d
mancano nell'uomo colpevole non ancora rigenerato. Il peccato originale
è quindi lo stato in cui l'uomo non si trova nella giustizia e nella santità,
non partecipa alla vita e alla gloria del Dio tripersonale, quantunque egli
rimanga, in quanto creatura, unito a lui. Tuttavia non può, in nessun
modo, essere sotto la protezione dell'amore divino. Persino il dannato
non riesce a sottrarsi al sostegno che gli dà Dio. Anch'egli è conservato
da lui nella sua rivolta definitiva e irrevocabile e nella privazione e l'iso¬
lamento che ne deriva: così vive in un mondo di contraddizioni.
All'uomo macchiato della colpa originale non manca quindi ogni vin-
§ 135- IL PECCATO originale: sua essenza ed esistenza 725
colo con Dio, bensì quell'unico legame che significa partecipazione alla
vita tripersonale. Esiste, per così dire, al margine esteriore e non entro
la vita intima di Dio: gli manca, in altre parole, l'unione soprannaturale.
Non ha ingresso all'abisso amoroso di Dio, che si attua nelle tre persone
divine e gli manca quindi « la grazia santificante ». L'assenza di siffatta
unione non va esagerata sino a vedervi la privazione di qualsiasi vincolo
con Dio, ma nemmeno sottovalutata eccessivamente consolandosi con
l'unione naturale che l'uomo peccatore conserva pur sempre con lui. Per
disposizione divina è solo l'unione soprannaturale che può beatificarci:
senza di essa non avremo nè quiete, nè riposo. Solo per mezzo suo
l'uomo può raggiungere lo stato celeste. La mancanza di tale unione per
colui che sta all'inferno rappresenta la perdita massima, il supremo tor¬
mento in quanto nessuna creatura ivi può ancora illudersi sulla sua vera
situazione. Dio solo può disporre il modo con cui noi riusciamo a unirci
a lui per la nostra salvezza. Egli ha voluto che l'uomo gli fosse unito per
via soprannaturale, perciò la mancanza di questa unione è peccaminosa
in quanto si trova in contrasto con il disegno divino.
Pertanto il peccato originale, non è un'azione peccaminosa, bensì solo
stato peccaminoso in cui si è cristallizzato il peccato del primo uomo.
È sconvolgimento dell'unione soprannaturale che la vita dovrebbe avere.
È stato di privazione di Dio, nel quale l'esistenza umana si trova senza
la vita soprannaturale divina.
Tale spiegazione della natura del peccato originale, sostenuta oggi dalla mag¬
gior parte dei teologi (opinio communior) ebbe inizio da S. Anselmo di Aosta (per
cui il peccato originale è la colpevole mancanza di giustizia originale che da
Adamo si estese all'umanità intera) e venne sviluppata da Tommaso d'Aquino ed
elaborata sempre più chiaramente dalla teologia posttridentina, ispiratasi alla dot¬
trina di tale concilio circa la giustificazione. Essa può anche richiamarsi alla dot¬
trina dei Padri greci. Questi infatti hanno sempre messo in rilievo soprattutto la
privazione dello Spirito Santo e della grazia divinizzante. IPadri latini, e spe¬
cialmente Agostino, accentuano invece la concupiscenza. Giustamente 5. Ago¬
stino è stato inteso nel senso che secondo lui nel non battezzato, per il suo le¬
game con Adamo, la concupiscenza viene ascritta a colpa e in essa si vede il
peccato originale, mentre la concupiscenza che rimane anche in chi ha ricevuto
il battesimo non è più peccato degno di condanna, ma impedisce il pieno svol¬
gimento dell'amore divino. Tuttavia anche in Agostino troviamo passi in cui egli
condivide l'opinione comune oggi alla maggior parte dei teologi.
Sotto l'influsso della tradizione agostiniana Girolamo Seripando, generale degli
Agostiniani, ha affermato, al Concilio di Trento, che l'essenza del peccato ori¬
ginale sta nella concupiscenza. Secondo la sua tesi, la concupiscenza può sotto
un certo aspetto (aliqua ratione) essere chiamata peccato, pur non potendo essere
merosi peccati individuali è sgradita a Dio e assume
immu
p
726 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
disordin
detta tale nel significato preciso del termine. Essa è conseguenza e punizione del come
primo peccato e diviene, nel contempo, causa e radice di innumerevoli altre colpe. p
Per la sua stessa esistenza, che si manifesta in molti movimenti e impulsi invo- c
lontarii, impedisce il perfetto adempimento della legge. Essa non è, come altre mer
conseguenze del peccato originale, solo pena, ma come fonte e incentivo di nu¬
merosi peccati individuali è sgradita a Dio e assume perciò il carattere di pec¬ peccato
cato. Lo prova anche il fatto che Cristo ne fu immune. Il motivo per cui Dio propr
odia la concupiscenza sta in ciò che essa è radice permanente di molti peccati
individuali, e non una semplice potenza naturale in sè indifferente, come altre 8,
insegnate nel concilio. Essa è nell'uomo un disordine non voluto da Dio e si Crist
esplica come tendenza verso gli istinti più bassi, come ostacolo alla mozione dello do
Spirito Santo. Perciò costituisce uno dei massimi pericoli anche per il giusto, der
costringendolo a spiegare tutte le sue energie per combattere il male e impe¬
dendogli di dedicarsi vigorosamente alle opere meritevoli. Seripando differisce
essenzialmente da Lutero e da Calvino perchè egli, diversamente da loro, non pe
ritiene che la concupiscenza sia in se stessa peccato. Il Concilio di Trento haoriginale
stabilito che essa non è peccato in senso vero e proprio. Il battesimo, secondo la materia
decisione dello stesso concilio, elimina tutto ciò che ha « vera e propria ragione
di peccato » (Denz. 792). E ci si richiama a Rom. 8, 1 dove è detto che non vi
è più condanna per coloro che sono in Gesù Cristo. Anche se Paolo chiama m
peccato la concupiscenza (Rom. 7, 17. 20), ciò è dovuto al fatto che essa, pur co
non essendo peccato nel senso stretto della parola, deriva dal peccato e al peccato
induce. (Denz. 792). H. Jedin, Girolamo Seripando, I, Wùrzburg 1937, 355-358.
opp
Parecchi teologi tentano di giustificare la dottrina agostiniana dicendo che la
concupiscenza, pur non costituendo l'essenza del peccato originale, ne sarebbe
tuttavia un elemento essenziale. Il peccato originale consisterebbe formalmente na
nella mancanza della grazia santificante, ma materialmente nella concupiscenza un'a
disordinata. Questa concezione, sostenuta anche da S. Tommaso, presenta una
certa probabilità. La concupiscenza appartiene così all'essenza di ciò che noi
v
chiamiamo peccato originale. Però tale elemento materiale riceve l'aspetto di
peccato solo perchè si trova nell'uomo in stato di colpevole lontananza da Dio.
2. - Al peccato originale, così inteso, si oppone ogni concezione che natur
vede in esso o qualcosa di più oppure qualcosa di meno di una semplice malvag
carenza 0 mancanza. In altre parole, circa la natura del peccato originale
vi è una tendenza che erra per eccesso, e un'altra che erra per difetto.
Errano per eccesso quelli che immaginano tale peccato come una specie
di germe malvagio o di materia peccaminosa e velenosa intima all'uomo.
In questo caso il peccato non starebbe in una mancanza concernente il
rapporto con Dio della natura umana, buona nella sua intima essenza
perchè derivata da lui, ma starebbe nella natura umana stessa. Questa,
in quanto tale, sarebbe intrinsecamente malvagia. Tutto quanto non è
Dio, per il semplice fatto di non essere tale, sarebbe in contrasto con
lui e peccaminoso.
§ 135- IL PECCATO ORIGINALE: SUA ESSENZA ED ESISTENZA
727
Secondo molti protestanti e cattolici, questa sarebbe la dottrina di Lutero.
Nell'uomo quindi non resta più alcun posto per la confidenza e la fiducia in
Dio. Svaniscono tutte le possibilità di conoscerlo e di amare ciò che è santo.
L'uomo non può più decidersi per Dio e riceverne la sua parola. Può solo essere
cacciato lungi da lui come si getta via un sasso o un rifiuto. L'uomo decaduto
è rovinato intimamente, malvagio, egoista e ricercatore di se stesso. Non è più
libero di tendere al bene, ma è spinto ineluttabilmente verso il male. È divorato
da concupiscenza sfrenata, che Lutero sovente identifica con la sessuale.
Secondo un'altra interpretazione del pensiero luterano, il riformatore non ri¬
fiuta all'uomo la capacità di operare il bene e di vivere rettamente nello stato
attuale di remozione da Dio, ma soltanto la capacità di operare il bene salvifico;
Lutero non fa che dipingere, in modo forte e incisivo, l'incapacità dell'uomo,
schiavo del peccato originale, di salvare se stesso. Non nega che egli, per grazia
e misericordia divina, possa anche essere attivo, ma osserva che anche l'attività
umana è attività donata da Dio, suscitata da lui. In questo senso si deve inten¬
dere il fatto che chi è soggetto al peccato originale si comporta solo in maniera
passiva (mere passive se habet). La proposizione del Concilio di Trento (Sess. 6,
can. 4; Denz. 814) che condanna la dottrina, la quale afferma che l'uomo col¬
pevole di peccato originale velut inanime quoddam nihil agere mereque passive
se habere, non colpisce, secondo questa interpretazione di Lutero, la dottrina del
riformatore, anche se materialmente la frase suddetta appare nelle sue opere.
Che Lutero sia stato e sia tuttora inteso erroneamente dipenderebbe dal fatto
che la sua dottrina non è esposta in un insegnamento elaborato e sistemato,
bensì soltanto in confessioni religiose. Cfr. H. v. Campenhausen, Luther. Die
Hauptschriften, Berlino (senza data); E. Schlink, Theologie der Lutherischen
Bekenntnis-Schriften, 1940.
Non si allontana troppo dalla prima interpretazione luterana la dot¬
trina di coloro che vedono già il peccato nell'essere individuale stesso.
Annientare la colpa per costoro equivale ad eliminare l'isolamento dell'in¬
dividuo per immergersi nell'universale che è Dio. La volontà del parti¬
colare sarebbe perciò espressione naturale ed essenziale dell'essere indi¬
viduale e solitario. Il peccato non consisterebbe nella libera decisione
responsabile, nella separazione da Dio che essa porta seco, bensì nell'es¬
sere finito e limitato in se stesso. L'esistenza è già per conto suo peccato
(.Beader, Schelling e, sotto un'altra forma, anche Heidegger).
3. - Se la concezione sopra esposta pecca per eccesso, altri invece
peccano per difetto e sottovalutano il peccato originale. Secondo i soste¬
nitori di questa seconda opinione, esso non è qualcosa di interno e ine¬
rente all'uomo, ma consiste solamente nell'influenza del cattivo esempio
dato da Adamo. Questa dottrina vede l'atto colpevole di Adamo sem¬
plicemente in se stesso, e trascura il mistero che esso racchiude. Il mo¬
naco inglese Pelagio, di moralità eccezionale, giudicava secondo la sua
p
728 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
persona
esperienza la situazione comune dell'uomo. Secondo lui l'individuo non soprann
è generato in stato di allontanamento da Dio; anche dopo il peccato di d
tut
Adamo si trova essenzialmente nelle medesima posizione che prima.
Salvezza e dannazione dipendono esclusivamente dalla decisione perso¬ cosic
nale di ogni singolo. Il pelagianesimo, permanente tentazione di confi¬ delete
dare nella bontà naturale dell'uomo, dimentica che la salvezza è dono co
soprannaturale, largitoci da Dio, che essa non può assolutamente essere
raggiunta o sostituita dai nostri sforzi personali; che questi diventano specialment
salutari solo, quando il nostro io è elevato soprannaturalmente; che quindi Trento,
gli eventi decisivi sono operati da Dio stesso al di sotto della soglia della de
at
nostra coscienza. Il pelagianismo sopravvive in tutte quelle concezioni che
ritengono la natura umana intatta e buona, cosicché ogni colpa va impu¬continuerebbe
tata alla cattiva educazione e all'influsso deleterio dell'ambiente in cui adamitica.
l'individuo vive. Una forma radicale di tali concezioni ci è presentata
da Rousseau; cfr. il trattato sulla Grazia.
Anche la dottrina di quei teologi, specialmente di alcuni dalla scuola
l'esi
scotista che presero parte al Concilio di Trento, i quali pensano il pec¬
cato originale come la continuazione morale dell'atto di Adamo, sotto¬
valuta il peccato originale medesimo. Come atto storico il peccato di Testament
Adamo è ormai passato; tuttavia continuerebbe moralmente in quanto alt
Dio lo imputa a tutta la discendenza adamitica. rilu
n
colpev
II. Esistenza del peccato originale.
B. - Chiaritane la natura, studiamone ora l'esistenza. p
1. - Il peccato originale ha inizio in ciascun uomo nell'attimo in cui
questi principia ad esistere. L'Antico Testamento parla in modo chiaro so
della colpevolezza di tutti gli uomini, ma non altrettanto del peccato ori¬ Pe
ginale. Solo di fronte alla gloria divina che riluce in Cristo appare in la
tutta la profondità la colpevolezza dell'uomo, nato da Adamo. Anche gra
Gesù afferma che tutti gli uomini sono colpevoli, senza però riferirsi lib
direttamente al peccato originale.
Le affermazioni del magistero ecclesiastico poggiano principalmente
sulla descrizione dello stato che, secondo Paolo, gli uomini raggiungono
per mezzo di Cristo (Lettera ai Romani). Qui sono pure descritte le te¬
nebre in cui viveva l'umanità precristiana. Per intendere esattamente
quanto Paolo afferma dobbiamo ricordare che la prima e l'ultima parola
dell'Apostolo sono un elogio all'amore e alla grazia divina. L'accenno al
peccato è congiunto al ringraziamento per la liberazione da esso. Paolo
§ 135- IL peccato originale: sua essenza ed esistenza 729
ne parla solo perchè da tale premessa appaia ancora più luminosa la va¬
stità dell'amore divino. La sua testimonianza sul peccato è tutta circon¬
fusa di letizia e di ringraziamento per il fatto che l'uomo è stato tratto
da un simile abisso tenebroso, che ora contempla come un baratro spa¬
ventoso da cui è stato liberato.
Ecco il testo paolino : « Ma Dio dimostra la sua carità per noi, poiché
mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per noi. Molto più,
dunque, giustificati ora col sangue suo, per lui saremo salvi dall'ira. Di¬
fatti se, pur essendo nemici, fummo riconciliati con Dio per la morte
del Figlio suo, tanto più, riconciliati, saremo salvi nella vita di lui. Non
solo, ma ci gloriamo ancora in Dio per il Signor nostro Gesù Cristo, per
cui ricevemmo, in questo tempo, la riconciliazione. Pertanto, come per
opera di un solo uomo il peccato entrò nel mondo e per il peccato la
morte, e in tal modo la morte passò in tutti gli uomini, perchè tutti pec¬
carono; poiché sino alla Legge, infatti, la colpa c'era nel mondo; ma una
colpa non si imputa se non c'è una legge; eppure regnò la morte da Ada¬
mo a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della
trasgressione di Adamo, il quale è figura di chi doveva venire. Ma non
come il fallo, così anche il dono benevolo. Se infatti per il fatto di uno
solo morirono i molti, molto più la benignità di Dio e il dono, che si ha
nella grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, sui molti abbondò. Nè il
dono è come nel caso di quell'unico che peccò, poiché la sentenza por¬
tata su un solo finì a condanna, il dono grazioso invece da molti falli
(finì) a giustificazione. Se infatti con il fallo di un solo la morte regnò
per colpa del solo, molto più quelli che ricevono l'abbondanza della
grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per il solo Gesù
Cristo. Dunque come per il fallo di uno, su tutti gli uomini venne la
condanna, così anche per l'atto di giustizia di uno solo si perviene per
tutti gli uomini a giustificazione di vita. Poiché come per la disubbi¬
dienza di un unico uomo, i molti furono costituiti peccatori, così anche
per l'ubbidienza di un solo, giusti saranno costituiti i molti. La Legge
poi subentrò perchè abbondasse il peccato, ma dove abbondò il peccato,
sovrabbondò la grazia, affinchè come regnò il peccato nella morte, così
anche la grazia regnasse per la giustizia e vita eterna, per Gesù Cristo
Signore nostro » (Rom. 5, 8-21).
Il nucleo di tale parallelo tra Adamo e Cristo — raffronto che del
resto non manca di altri esempi in passi biblici — si può così delineare:
l'Apostolo vuole mostrare la superiorità della nuova vita creata da Cristo
dinanzi alla morte che regnava sovrana prima del Messia. Il suo intento
abbiamo ottenuto la salvezza. In Cristo gli uom
P. II. - I.A REALTÀ EXTRADIVINA E l'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
gius
730
de
precipuo è quello di proclamare la salvezza che Cristo ha garantito; in or
lui ci sono donate vita e grazia. Per radicare nei lettori la convinzione rovi
della salvezza che Gesù ci procura, Paolo stabilisce un paragone tra (
l'opera salvifica di Cristo e quella rovinosa di Adamo. Mentre per causa
del nostro progenitore piombò sul mondo la rovina, grazie al Redentore a
abbiamo ottenuto la salvezza. In Cristo gli uomini sono stati rappacifi¬
cati con Dio, partecipano alla santità e alla giustizia e sono convogliati in
nel torrente di vita che sgorga da lui. Il regno del peccato e della morte coglie
sono finiti: il dominio di tali forze malefiche è ormai stroncato. Prima di attiva
Cristo tutti gli uomini ne erano preda; e la rovina di cui Adamo fu la cor
causa era ben nota ai credenti veterotestamentari (ad es. Gen. 3; Sai. 50, s
7; Giob. 14, 4). dell'uom
Del resto la teologia giudaica contemporanea all'Apostolo condivideva
tale persuasione. Il peccato, per opera del primo uomo era divenuto po¬ I
tenza tirannica che si era introdotta nel mondo insieme alla sua dispotica mediant
e temibile compagna, la morte, la quale coglieva ogni singolo uomo. passo
« Paolo parla del peccato come di persona attiva e di forza demoniaca. decadenza
Esso è penetrato nel mondo con un pauroso corteo (5, 12), regna sugli
uomini (5, 21) mediante la morte, a cui tutti sono sottoposti (3, 9) e vincolat
venduti (7, 14). Si è stabilito nella carne dell'uomo non redento (6, 12), g
dimora in lui (7, 17. 20), ha i suoi ordinamenti tenebrosi, la sua legge Ad
(7, 23. 25). La morte ne è lo stipendio (6, 23). Il peccato reca continuo so
danno all'uomo (7, 8), inganna e uccide mediante la legge, in sè santa, è
di Mosè (7, 11. 13)» (Kuss, commento al passo). m
Come mai l'uomo è giunto a simile decadenza, è caduto così profon¬ prepar
damente in balia del male? Non per colpa dei peccati individuali, ma A
per l'azione di Adamo. Tutti sono come vincolati a tale colpa adamitica Adam
e perciò sono divenuti peccatori. La teologia giudaica contemporanea è
pensava diversamente: pur facendo risalire ad Adamo l'infelicità umana, da
sosteneva che ciascun uomo era responsabile solo delle sue mancanze im
personali. Nell'Apocalisse di Baruch (I, 54, 15) è detto: «Infatti, anche Rom
se Adamo ha peccato per primo e ha recato la morte a tutti, nondimeno
di coloro che sono nati da lui ciascuno si prepara il supplizio da venire
e ciascuno sceglie anche le glorie future. Poiché Adamo è solo causa (di
rovina) per se stesso, ma ciascuno di noi è Adamo per se stesso » (cfr.
pure 4 Esd. 3, 25 s.; 7, 45-48). Anche Paolo è convinto che tutti gli
uomini hanno peccato. Ma la morte deriva solo da Adamo. Tutti gli altri
uomini sono condannati a morire, solo perchè implicati nel peccato del
progenitore. La traduzione della Volgata di Rom. 5, 12 con le parole
§ 135- IL peccato originale: sua essenza ed esistenza 731
in quo = nel quale (Adamo) tutti hanno peccato, afferma direttamente
che ogni uomo ha avuto parte immediata nel peccato adamitico. Ora
però prevale la convinzione che il greco è<p'&> non vada inteso in senso
relativo bensì come causale e quindi debba tradursi: perchè tutti hanno
peccato. In tal senso Paolo in Rom. 5, 12 non parlerebbe espressamente
del peccato originale. Tuttavia dal contesto si deduce con indiscutibile
chiarezza che tutti gli uomini hanno peccato in Adamo. La morte, se¬
condo Paolo, è conseguenza del peccato, e perciò manifesta la colpevo¬
lezza dell'uomo. Ora essa è regnata già prima della legge mosaica al¬
lorché non esisteva punizione per il peccato individuale. Infatti non si
conosceva ancora la legge che condannava a morte! Inoltre devono morire
anche i giusti di tutte le epoche; perciò la morte deve essere la conse¬
guenza di un altro delitto. Se non è causata dalla colpa personale, deve
essere il castigo per qualcosa di ereditario, un peccato di origine. Tutti
gli uomini sono perciò peccatori in quanto tutti hanno partecipato al pec¬
cato di Adamo e in conseguenza del loro stato colpevole sono tutti con¬
dannati a morte.
La Legge non ha fatto altro che accrescere vieppiù la colpevolezza
umana. Essa è in se stessa cosa buona, giusta, santa (Rom. 7, 12 s.); ma
rende ancora più palese lo stato peccaminoso di coloro che le sono sot¬
toposti. Infatti di non poche azioni, la colpevolezza che prima non era
nota, diviene manifesta a causa della legge. Di più essa con i suoi mol¬
teplici precetti e comandi, irrigidisce ancora di più l'inclinazione umana
verso la disubbidienza, in modo che non solo nuovi, ma anche vecchi
peccati ritornano con rinnovato vigore. Cfr. J. Sickenberger e Kuss, com¬
mento al passo; J. Bonsirven, Exégèse rabbinique et exégèse paulinienne,
Paris 1939; Idem, Il giudaismo palestinese al tempo di Gesù Cristo, trad.
ital., Torino 1950; Idem, Les idées juives au temps du Notre Seigneur,
Paris 1934; H. Strack-P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament
aus Talmud und Midrasch, III, Mùnchen 1926, 226-229.
2. - Dalla ricchissima letteratura patristica spigoleremo solo qualche passo
più saliente.
Origene (In Leviticum, hom. 8, 3) dice : « Ciascuna anima, che nasce nella
carne, è macchiata dal sudiciume del peccato e della malvagità... Ecco la ragione
per cui la Chiesa che conferisce il battesimo per la remissione dei peccati, se¬
condo la sua consuetudine, battezza anche i bambini. Se infatti non ci fosse in
essi bisogno di remissione e di indulgenza, non ci sarebbe affatto motivo per
conferire loro la grazia del battesimo ».
Agostino nel suo scritto Contra Iulianum (2, 10) ha potuto richiamarsi alla
tradizione della Chiesa : « Isanti preti e interpreti ben noti della Bibbia, Ireneo,
trovava nella Chiesa. Quanto insegnarono lo insegno pu
732 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO sapien
pe
Cipriano, Ilario, Ambrogio, Gregorio, Innocenzo, Giovanni (Crisostomo), a cui inv
va pure aggiunto il prete Girolamo — che pur non essendo ancora morto io inat
voglio ricordare ugualmente — sono del parere che la legge del peccato origi¬ du
nale è comune a tutti gli uomini per la loro origine. Ad essa nessuno scampa
se non colui che la Vergine ha concepito al di fuori della legge del peccato che infa
è in conflitto con quella dello spirito. Essi hanno stabilito quanto già prima si e
trovava nella Chiesa. Quanto insegnarono lo insegno pure io; ciò che essi hanno natura;
ricevuto dai Padri, lo hanno trasmesso ai figli ». uma
Gregorio Nisseno scrive: « Dio il Verbo, che è sapienza e potenza... ha creato c
la natura umana, non spinto da alcuna necessità, ma per la sovrabbondanza del s
suo amore. La sua luce infatti non doveva restare invisibile, nè la sua gloria fac
senza testimone, nè la sua bontà senza profitto, nè inattive tutte le altre qualità di
di cui s'ammanta ai nostri occhi la natura divina. Se dunque l'uomo è chiamato
all'esistenza per prendere parte ai beni di Dio, egli è necessariamente atto, per di
la sua costituzione, a partecipare a tali beni. Come infatti l'occhio partecipa alla divina
luce, grazie ai principi luminosi che gli sono insiti, e attira a sè, in virtù di t
questo potere innato, ciò che ha la medesima natura; così occorreva che una affermazio
certa affinità col divino fosse immessa nella natura umana, per ispirarle, in virtù pensa
di questa corrispondenza, il desiderio di accostarsi a colui al quale è apparen¬
tata... Perciò l'uomo fu dotato di vita, di ragione, di sapienza e di tutti i van¬ to
taggi veramente divini, affinchè ciascuno di essi gli facesse nascere il desiderio ques
di Dio. Ma tra i vantaggi divini c'è anche l'eternità e di conseguenza la struttura vit
della nostra natura non doveva esserne priva, ma avere in sè il principio dell'im¬ con
mortalità, perchè questa dote innata le permettesse di conoscere ciò che le è l'uomo
superiore e le conferisse il desiderio dell'eternità divina. — È quanto ci mostra principio
il racconto della creazione, con una frase che abbraccia tutto, dicendo che l'uomo desideri
fu fatto a immagine di Dio... Ma forse questa affermazione può essere contestata più
da chi considera la nostra condizione attuale, e pensa di convincere di errore L'uomo
questo discorso, facendo valere che l'uomo di oggi, ben lungi dal possedere n
questi beni, si presenta a noi in una situazione quasi totalmente opposta. Dov'è div
di fatto questo carattere divino dell'uomo? dov'è questa assenza di sofferenza co
fisica? dov'è quest'eternità? La brevità della nostra vita, il dolore, la caducità, condiz
tutte le malattie fisiche e morali... tutto ciò sembra contrastare in pieno quanto oscurità
sopradetto... Il fatto è che colui che ha creato l'uomo per farlo partecipare ai l'inv
suoi beni e che ha deposto nella sua umanità il principio di ogni bellezza, perchè a
ciascuna di queste disposizioni orientasse il suo desiderio verso l'attributo divino
corrispondente, non volle privarlo del più bello e più prezioso di questi beni,
e cioè quello di essere indipendente e libero... L'uomo fatto in tutto ad imma¬
gine di Dio doveva evidentemente possedere nella sua natura una volontà libera
e indipendente, dimodoché la partecipazione ai beni divini fosse il premio della
virtù. — Ma donde viene, chiederai tu, che l'uomo così onorato da tanti e sì
nobili privilegi, si trovi oggi in una ben triste condizione?... Come colui che
chiude le palpebre in pieno sole non vede che oscurità, così il diavolo per aver
chiuso gli occhi al bene concepì il male e conobbe l'invidia... E come un masso
staccato dalla montagna per il proprio peso precipita a valle, così egli staccatosi
dal bene e inclinatosi verso il male, trasportato dal suo proprio movimento e per
così dire dal. suo peso raggiunse l'ultimo grado della perversità. La facoltà di
§ 136. CONSEGUENZE DEL PECCATO ORIGINALE 733
pensare che egli aveva ricevuto dal creatore per cooperare con lui a comunicare
il bene, la fece servire ai suoi malvagi disegni e fu così che con la frode ingannò
l'uomo, persuadendolo a divenire il carnefice di se stesso, a suicidarsi... Inocu¬
lando il vizio nella volontà libera dell'uomo il Maligno ha causato l'estinzione
e l'oscuramento dei beni divini. E mancando questi, sottentrano tutti i mali
opposti. Ora alla vita si oppone la morte, alla forza la debolezza, alla benedizione
la maledizione, al candore la vergogna... Ecco perchè il genere umano è immerso
nei mali presenti, si trova in una triste condizione » (Oratio magna catechetica,
5, 4-11; 6, 7-11).
3. - Secondo la descrizione di Paolo, l'umanità è
stata allontanata da
Dio soltanto per colpa di Adamo. Se avesse peccato Eva sola, il peccato
originale non sarebbe esistito. La ragione sta nel fatto che all'inizio fu
creato prima Adamo e poi Eva e che perciò, in un certo momento, l'uma¬
nità tutta che da lui sarebbe derivata, stava racchiusa e contenuta nella
sua persona.
§ 136. Conseguenze del peccato originale.
Le conseguenze del peccato originale vanno accuratamente distinte
dalla sua essenza. Per il peccato di origine tutto l'uomo fu mutato in
peggio, deteriorato (in deterius commutatus). Così il Concilio di Orange
(Denz. 174) e il testo del Concilio di Trento, riportato al § 132.
L'uomo peccatore non è più manifestazione di Dio, come lo era prima
della colpa, cosicché non è più possibile intravvedere in lui Dio mede¬
simo. Tale deterioramento secondo la teologia scolastica comprende due
cose: la perdita dei doni soprannaturali e la ferita delle facoltà natu¬
rali stesse dell'uomo.
1. - La perdita dei doni soprannaturali, include la mancanza della
vita divina, della somiglianza soprannaturale con Dio e di tutte quelle cose
e quei beni soprannaturali che l'accompagnano (grazia santificante, virtù
divine, grazie attuali che Dio dà copiosamente e misericordiosamente ai
suoi amici; vedi trattato sulla Grazia), inoltre la mancanza dei doni pre¬
ternaturali di cui godeva la natura umana prima del peccato (esenzione
dalla morte, dalla sofferenza, dalla concupiscenza sregolata).
a) Benché la mancanza della vita divina, ossia la morte spirituale,
sia stata testé designata come essenza del peccato di origine, tuttavia si
può anche considerare una sua conseguenza penale. In quanto essa im¬
porta allontanamento dell'uomo da Dio costituisce l'essenza della colpa
originale; in quanto rappresenta l'abbandono con cui Dio, a sua volta,
vuole ricondurlo allo stato di santità di giustizia
p- II- LJATTIVITÀ SALVIFICA
un'esis
734 " LA REALTÀ EXTRADIVINA E DI DIO
risponde all'allontanarsi dell'uomo da lui, ossia in quanto rappresenta par
il no di Dio che segue al no dell'uomo, è pena e castigo. Nella Bibbia il
« no » che Dio dice all'uomo è definito ira divina. L'uomo privo della a
grazia è figlio della collera di Dio (Ef. 2, 3). Ira che certo non può mai sempr
essere disgiunta dall'amore, che respinge l'uomo colpevole, ma solo perchè sottopo
vuole ricondurlo allo stato di santità e di giustizia (Rom. 11, 32). È l'ira inc
dell'amore, la quale non tollera nell'uomo un'esistenza miserabile e me¬ quanto
schina, sapendolo destinato alla pienezza di vita. sono
Il colpevole vive in stato di abbandono da parte del Creatore. Paolo
designa la vita dell'uomo trascorsa lungi da Dio col nome di vita nella
carne. Colui che vuole vivere in se stesso senza appoggiarsi a Dio, cade b
in balia delle forze tenebrose che regnano sempre là dove non impera peccato
lo Spirito Santo. Lungi da Dio, l'uomo è sottoposto a passioni selvagge di
e distruggitrici, che lo gettano or qua or là. Le inclinazioni cattive, triste rin
retaggio del peccato, fanno intuire all'uomo quanto grande sia la sua mi¬ 11
seria e rovina. Le colpe che egli commette sono espressione e manife¬ I
stazione dello stato peccaminoso in cui egli giace sin dalla nascita. v
Tanto V Antico, quanto il Nuovo Testamento ci descrivono a foschi
tratti la miseria dell'uomo peccatore che giace in balia della colpa. Cristo c
non fa valere la distinzione tra giusti e peccatori (Me. 2, 17). Anche
coloro che si proclamano giusti, hanno bisogno di salvezza. Esistono solo labbr
uomini caduti e bisognosi di redenzione. « Dio rinserrò tutti nella disub¬ i
bidienza per usare a tutti misericordia» (Rom. 11, 32). Tutti peccarono d
e sono privi della gloria di Dio (Rom. 3, 23). Il vanto è escluso per (R
qualsiasi uomo (3, 27). « Come sta scritto : Non vi sono giusti, neppure :
uno! Non vi è chi intenda, non vi è chi cerchi Dio. Tutti traviarono, ingius
tutti insieme caddero nella corruzione; non vi è chi faccia il bene, (non ch
ce n'è) nemmeno uno; sepolcro aperto è la loro gola, colla lingua ten¬ l
dono inganni. Veleno di aspidi sotto le loro labbra. La bocca loro è ri¬ m
piena di maledizione e di amarezza. Veloci sono i loro piedi per spargere pot
sangue. Sterminio e miseria nelle loro vie, e via di pace non conobbero. Dio
Non vi è timor di Dio innanzi agli occhi loro » (Rom. 3, 10-18).
L'Apostolo Paolo entra persino nei particolari : « Infatti l'ira di Dio
si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia degli uomini che
soffocano la verità nell'iniquità; giacché quel che di Dio si può co¬
noscere è manifesto in mezzo a loro, chè Iddio lo ha loro manifestato:
infatti quanto è invisibile di lui la creatura del mondo discopre con la
mente attraverso le opere, anche l'eterna sua potenza e divinità, sì che
sono inescusabili, appunto perchè, conosciuto Dio, non lo glorificarono
§ 136. CONSEGUENZE DEL PECCATO ORIGINALE 735
come Dio, nè gli resero grazie, ma vaneggiarono nel loro pensare e fu
avvolto di tenebre l'insensato loro cuore. Spacciandosi per sapienti, di¬
vennero stolti, e mutarono la gloria dell'incorruttibile Iddio nella ripro¬
duzione di una immagine d'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi
e di rettili. Perciò Dio li abbandonò alle brame dei loro cuori, all'im¬
purità, perchè fossero disonorati i loro corpi; essi che barattarono la
verità di Dio con la menzogna, e prestarono adorazione e culto alla
creatura preferendola al Creatore — che sia benedetto per sempre. Amen!
Per questo Dio li abbandonò a passioni infami, poiché le loro donne
tramutarono il rapporto naturale in quello contro natura; parimenti an¬
che i maschi, lasciato il rapporto naturale con la donna, si accesero di
libidine gli uni verso gli altri, operando atti turpi maschi con maschi e
ricevendo in se stessi la ricompensa che si conveniva alla loro aberra¬
zione. E siccome disdegnarono di conservare la vera conoscenza di Dio,
Dio li abbandonò a spregevole istinto, a fare ciò che non si deve; riboc¬
canti di ogni iniquità, malizia, cupidigia, malvagità, sono pieni di invi¬
dia, di omicidio, di contesa, d'inganno, di malignità; sono sussurroni,
maldicenti, aborriti da Dio, insolenti, arroganti, millantatori, inventori
del male, ribelli ai genitori, insensati, infidi, disamorati, senza miseri¬
cordia. Pur avendo ben conosciuto il giusto decreto di Dio che chi com¬
mette tali cose è degno di morte, non solo le fanno, ma approvano pure
chi le fa » (Rom. 1, 18-32).
Se questa è la situazione, è chiaro che tutti debbono ricevere la giusti¬
ficazione gratuitamente per mezzo del sacrificio di Gesù (Rom. 3, 24).
Il giudizio che allontana l'uomo da Dio, lo spinge sempre più lungi da
lui. Le aspirazioni della carne, ossia quelle che nascono dall'uomo lungi
da Dio, sono ostili: non possono nè vogliono sottomettersi alla sua legge.
Chi è nella carne, non può piacere a Dio (Rom. 8, 6. 7). « Ora, sono
chiare le opere della carne, quali sono: fornicazione, impurità, dissolu¬
tezza, idolatria, magia, inimicizia, contesa, gelosia, ire, brighe, divisioni,
sètte, invidie, ubriachezze, gozzoviglie, e altre cose simili, riguardo alle
quali io vi prevengo, come vi ho già prevenuto: quelli che operano tali
cose non avranno in eredità il regno di Dio » (Gal. 5, 19-21). L'Apo¬
stolo si rallegra gioiosamente perchè Dio gli ha tolto il peso dell'esistenza
carnale : « Quando infatti eravamo nella carne, le passioni peccaminose,
ridestate per la Legge, agivano nelle nostre membra per portare frutti
alla morte » (Rom. 7, 5). La peccaminosità pone l'uomo irredento sotto
lo scettro di Satana, che è il re di questo mondo. Cfr. § 124.
crescere smisuratamente a scapito delle altre, in
rattrappisca
736 P. II. LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
un
b) Ilno con cui l'uomo risponde a Dio rappresenta pure un rifiuto che profon
egli fa a se stesso e alla compagine sociale. La contraddizione penetra compon
in lui ed egli si trova diviso in sè, nel suo intimo. L'unità della sua na¬ p
tura è distrutta. Le tensioni del suo essere possono raggiungere un'entità dell'uomo
tale da spezzarne l'armonia, cosicché nell'individuo alcune forze possono dom
crescere smisuratamente a scapito delle altre, in modo che ora quelle m
dello spirito ora quelle della carne si rattrappiscano e si irrigidiscano, nell'uom
oppure si ergano in modo anormale. Tutte le unilateralità e le aberra¬
zioni umane trovano qui il loro germe più profondo. Sentimento, cono¬ male
scenza, amore, vita fisica e spirituale non si compongono più in una unità in
armonica. Le brame dei sensi balzano fuori da profondità oscure e si Legg
scagliano contro la ragione e la volontà dell'uomo. Sono sempre pronte Perc
a scagliarsi contro lo spirito per sopraffarlo e dominarlo (concupiscenza
sregolata). La concupiscenza non è un peccato, ma la dolorosa conse¬
guenza della colpa stessa. Perdura anche nell'uomo redento, quale con¬ f
tinuo richiamo allo stato di rovina e di miseria da cui è stato tratto.
L'uomo conosce il bene e tuttavia compie il male, verso cui la concu¬ me
piscenza lo spinge. Vuol camminare verso Dio e invece non riesce a star
lontano dal peccato. « Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, mentre vorr
io sono carnale, venduto in potere del peccato. Perchè quel che io faccio, Co
non lo so davvero; non faccio quello che voglio, ma faccio quello che so
odio. Ora, se quel che non voglio questo faccio, io sono d'accordo che Dio
la Legge è buona. Ma allora, non sono più io a far questo, ma il pec¬
cato che abita in me. Giacché io so che il bene non abita in me, cioè pe
nella mia carne: il volere infatti il bene sta a me, ma il praticarlo, no. co
Perchè non faccio quel che voglio, cioè il bene, ma quel che non vo¬ spe
glio, cioè il male. E se io faccio quel che non vorrei, non sono più io a
commetterlo, ma il peccato che abita in me. Constato dunque questa
legge in me quando voglio fare il bene: che solo il male è alla mia te
portata. Mi compiaccio infatti della Legge di Dio seguendo l'uomo in¬
teriore. Ma nelle mie membra vedo un'altra legge che lotta con la legge somiglianz
della mente; e mi rende schiavo della Legge del peccato che è nelle mie
membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo fonte di morte? »
(Rom. 7, 14-24). In se stesso l'uomo non ha speranza alcuna di poter
essere liberato da tale suo sdoppiamento (1 Tess. 4, 13). Vi è però una
via che viene da Dio: Gesù Cristo (Rom. 7, 25).
c) La lontananza da Dio appare tragica e terribile nella morte e
nella sofferenza. L'esteriore dell'uomo si è mutato in tal modo che il suo
corpo non è più plasmato dall'unione e somiglianza con Dio che prima
§ 136. CONSEGUENZE DEL PECCATO ORIGINALE 737
dominavano tutto l'uomo. La morte fisica è segno ed espressione della
spirituale, della mancanza di grazia, del giudizio con cui Dio bolla il
peccatore. È il marchio indelebile che ricorda la maledizione toccata al¬
l'uomo per essersi scostato da Dio, sorgente di vita (cfr. il trattato sui
Novissimi). Perciò il colpevole è schiavo del dominio della morte e del
suo satellite: la sofferenza, che di continuo si manifesta nell'individuo
sotto forma di tentazione, smarrimento, oscuramento dello spirito e del¬
l'anima, dubbio, errore, malattia, dolore, decadimento delle forze vitali,
sete e privazioni di ogni genere, schiavitù, ingiurie, omicidi, ingiustizie,
menzogne, infedeltà, guerre. Ecco lo stato in cui ora vive l'umanità per
causa del peccato originale, il quale rende penosa sia la vita individuale,
sia la sociale!
Anche l'angoscia rivela che noi siamo in balia della sofferenza. Heidegger af¬
ferma giustamente che l'uomo è vincolato all'angoscia, che gli rappresenta la
caducità del suo essere ancorato nel nulla e nella morte. Chi crede nel peccato
originale e nelle sue conseguenze, intende l'angoscia come l'esperienza dell'insi¬
curezza dell'esistenza, che nella sua radice più profonda è staccata da Dio. L'an¬
goscia è la risposta del cuore umano alla perdizione, e quindi non è possibile
superarla con motivi e mezzi di ordine razionale. Va accettata e sopportata nella
vita umana come qualsiasi altra sofferenza. L'uomo redento in Cristo e liberato
dal peccato originale, deve soggiacere ugualmente alla morte, al dolore, all'an¬
goscia che fanno parte della sua esistenza. Tuttavia vede tali miserie non tanto
come strumenti dell'ira divina, sia pure mitigata dall'amore, quanto segni di tale
amore stesso, quantunque compenetrato di giustizia. In alcuni uomini pare che
l'esperienza della derelizione umana si condensi con potenza particolare; essi sof¬
frono al posto di altri, e questo in molti non giunge neanche a consapevolezza o
per scarsità di spirito, o perchè travolti dall'amore di Dio. Cfr. D. G. von le
Fort, L'ultima al patibolo; G. Bernanos, Dialoghi delle carmelitane; Feuling,
Katholische Glaubenslehre, 1937, 319.
d) La situazione umana si inasprisce ancora di più se consideriamo
che l'uomo deve lottare non solo contro forze tenebrose interne, ma anche
contro il mondo da coltivare e custodire, il quale gli è divenuto ostile
perchè anch'esso sotto il peso della maledizione divina.
L'uomo è il destino del mondo e perciò questo è direttamente coinvolto nella
storia umana. Se l'uomo precipita, anche l'intera vita cosmica subisce una cata¬
strofe. Il giudizio di condanna che Dio ha emesso contro l'uomo si estende anche
al mondo creato per lui: lo dimostrano i passi biblici del Genesi riportati al
§ 134. Tuttavia non dobbiamo concludere, da quanto detto, che prima del pec¬
cato umano non esistesse nel mondo nè la morte, nè la sofferenza. Solo l'uomo
aveva la promessa di non morire. Anche per lui però la forma paradisiaca di
vita terrena doveva cessare un giorno per dar luogo alla celestiale. Ma tale fine
non avrebbe dovuto avverarsi nello spasimo della morte bensì attraverso un
47 - schmaus - dogmatica I.
non umani nel Paradiso terrestre rimane sempre qualco
era
738 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO Adamo
orbita
processo indolore di trasformazione. La rivelazione non ci dice che anche gli signific
esseri viventi infraumani sarebbero stati esenti dal dolore e dalla morte. Anche l'uom
nel Paradiso terrestre gli animali dovevano pure vivere gli uni per mezzo degli morte
altri. Quindi non è necessario concludere che il peccato abbia cambiato l'intera momento,
struttura cosmica, cosicché gli stessi animali, per causa della colpa, siano dive¬ terres
nuti da erbivori, carnivori. Certo il modo con cui si svolgeva la vita degli esseri a
non umani nel Paradiso terrestre rimane sempre qualcosa di misterioso; tuttavia
la Bibbia, se non ci attesta che il mondo infraumano era esente dalla morte e dal paradiso
dolore, garantisce in ogni modo, che il rifiuto di Adamo è suonato condanna per caducit
tutto l'universo. L'uomo ha trascinato nella sua orbita il mondo che con lui è venne
stato cacciato da Dio. E tale allontanamento ha significato anche per esso priva¬ l
zione di pace, di vita, di ordine e di luce. Con l'uomo anche l'intero universo perpetran
cadde nel lutto, nelle tenebre, nella lotta e nella morte, la quale raggiunse così grido
una virulenza che prima non aveva. Da quel momento, infatti, andò unita a uno (G
spasimo che di fatto non esisteva nel Paradiso terrestre. Spesso, specialmente affinchè
quando appare prima del tempo, sembra non avere alcun senso o legame con che
l'insieme della natura.
Gli animali furono cacciati con l'uomo dal paradiso terrestre. Dolori e stragi
furono, da allora in poi, il retaggio della natura; caducità e labilità il sigillo della 39
nuova situazione cosmica. L'ordine del mondo ne venne turbato. La pioggia non so
cade più solo nella stagione dovuta, la vegetazione languisce, la terra trema; co
piange le nefandezze e le prepotenze che si perpetrano ogni giorno sulla sua 18-22)
superficie. La lode delle creature è sopraffatta dal grido di angoscia che la terra adegu
eleva per il sangue versato e che deve inghiottire (Gen. 4, xo; Giob. 38, 41; aspettat
Sai. 146 [147], 9). Innalza il suo grido a Dio affinchè mandi il suo aiuto e la in
sua misericordia. Raccoglie le invocazioni di coloro che continuano a essere as¬
sassinati e le unisce al grido di Abele. Anche Cristo nel contrasto tra uomo e del
creato, nello sconvolgimento dell'universo, nel crescere dei cardi e dei rovi vede infat
la manifestazione del peccato (Mt. 13, 25-30; Me. 4, 39).
L'Apostolo Paolo è colui che indubbiamente ha sottolineato in maniera più che
chiara lo stretto legame che passa fra il destino del cosmo e la decisione pecca¬ noto
minosa dell'uomo. Nella lettera ai Romani (8, 18-22) scrive: «Ritengo infatti per
che le sofferenze del tempo presente non sono adeguate alla gloria futura che comportamen
dev'essere manifestata in noi. Poiché l'ansiosa aspettativa del mondo creato at¬ com
tende la manifestazione dei figli di Dio. Alla vanità infatti fu soggetta la crea¬ prom
tura, non di buon grado, ma per riguardo a Chi l'ha sottomessa nella speranza, sottop
chè anch'essa creatura sarà affrancata dalla servitù della corruzione e (perverrà)
alla libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che la natura è insieme
in gemito e nella doglia del parto sino ad ora ».
Se Paolo dice « sappiamo infatti », ciò dimostra che la rovina penetrata nel
cosmo causa del peccato adamitico è qualcosa di noto e che tutti riconoscono.
L'universo è caduto preda di un triste destino e ciò per libera volontà dell'uomo,
il quale ne porta la responsabilità. Il suo comportamento peccaminoso ha intro¬
dotto nel mondo la caducità, il che non significa — come già detto — che prima
non esistesse già la morte. L'uomo solo aveva la promessa di non morire, ma
non il mondo che lo circondava, il quale era già sottoposto a tale legge. Ma al¬
lora la morte aveva ben altro valore! Significava solo il modo e la misura con
§ 136. CONSEGUENZE DEL PECCATO ORIGINALE 739
cui un essere si donava amorevolmente a un altro, sino ad annientare l'essere
e la vita propria.
Con la colpa fu introdotta nel mondo quella morte che è l'immagine sensibile
ed espressiva del peccato e che perciò è priva di senso e di valore allo sguardo
dell'uomo che non sa del peccato (Rom. 5, 12). Ora regna nella natura come
legge inflessibile e onnipresente; la caducità è il simbolo che ormai raffigura il
mondo. Dovunque l'uomo volga lo sguardo scorge solo sempre labilità e corru¬
zione. Tutto assume un aspetto melanconico e anche ciò che è bello deve mo¬
rire (Schiller). Il creato non è più immagine di vita imperitura, nè può garantirla
all'uomo. Dal mondo nasce vita consacrata alla morte e tutte le opere umane co¬
struite con materiale cosmico, edificano un regno perituro. Tuttavia anche queste
opere, destinate a essere preda della rovina, richiedono grande fatica. La natura
si sottopone solo malvolentieri all'uomo, il quale nel suo operare incontra con¬
tinua resistenza. Deve strappare alla terra avara ciò di cui abbisogna. E così,
dopo la colpa, anche il lavoro ha assunto nuovo aspetto : pur rimanendo come
prima partecipazione alla gioia creativa di Dio, è ora accompagnato da fatica e
tormenti, seguito da insuccesso e stanchezza. Resta sempre dono e mandato
divino, ma l'uomo è costretto a compierlo in una situazione assai più dura di
prima. Dio è sempre il Dio del mondo, ma di un universo in cui più non si
distingue con chiarezza la voce divina (cfr. § 30). Il rifiuto della natura, nei ri¬
guardi dell'uomo, è qualcosa di ancora più fatale. Dopo la maledizione, che Dio
le ha lanciato, essa è dominata dall'orrore e dal raccapriccio, dalla malignità e
dall'irrazionalità, dall'imbroglio, dal raggiro e dalla seduzione. Nei miti di spiriti
cattivi che dimorano tra gli alberi o vagano nell'aria, pronti ad ammaliare e
danneggiare gli uomini, si esprime un'oscura coscienza dello stato attuale della
natura. Sembra che una forza magica pervada ogni cosa per incantare le creature
e allontanarle così sempre più da se stesse e da Dio.
Di conseguenza l'uomo, che volge lo sguardo verso la natura risente da ogni
parte il nulla bramoso di ricondurre nel tetro abisso tutte le cose che Dio ha
evocate. Chi si lascia guidare solo da lei, incorre nel rischio gravissimo di ca¬
dere nel nichilismo. Un giorno la natura al comando di Dio si leverà contro
l'uomo e nella distruzione che gli infliggerà a motivo della sua empietà, ne ma¬
nifesterà lo stato di caducità (Apoc. 6; 8; n; 15, 16).
Il destino del mondo non è tuttavia quello di essere preda definitiva della
morte, perciò esso la sopporta di malavoglia e compie i più svariati sforzi per
liberarsene. Di continuo si agita per raggiungere lo stato definitivo. Quando fio¬
risce e matura, o si dispiega nel corso della sua storia, non fa che ripetere i ten¬
tativi di rinnovamento per raggiungere la forma finale, esente dall'attuale male¬
dizione. Anche i più svariati tentativi umani per dare culturalmente un nuovo
assetto alla terra, sono semplici abbozzi del definitivo stato cosmico. Anch'essi
però non possono raggiungere lo scopo finale; e restano solo prove. Tuttavia i
loro successi temporanei sono di grande valore perchè recano l'impronta della
transitorietà, e sono immagini dell'assetto cosmico che Dio stesso addurrà. Storia
e cosmo tendono a questo stato definitivo, perciò, nonostante tutti gli insuccessi,
tanto l'uomo quanto il mondo non possono cessare dai continui tentativi di
giungere allo stato che loro spetta. Questo è il motivo per cui Paolo parla di
gemiti che la natura leva verso la redenzione.
alla storia del così prende parte a qu
740 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
Se l'uomo da solo non riesce a liberarsi dalla sua caducità, tanto meno la na¬ teo
tura giunge, per forza propria, a disfarsi del suo carattere di labilità. Tuttavia effett
anche per essa tale stato avrà termine, non per evoluzione propria immanente, umane
bensì per puro dono divino : è promessa di Dio! Infatti mediante Cristo anche espr
il mondo extraumano sarà liberato dalla corruzione. La tendenza verso questa
liberazione è detta dall'Apostolo gemito. La natura infatti, come ha partecipato
alla storia del peccato umano, così prende parte a quella della redenzione, ma ta
è solo e sempre attraverso l'uomo che essa raggiunge tale meta. fidu
o
2. - Secondo la convinzione comune dei teologi, a tale rovina, già pos
tanto gravosa, si aggiunge ancora un altro effetto deleterio del peccato
originale: la ferita delle potenze naturali umane. abbia
Il magistero ecclesiastico non ha ancora espresso nessuna decisione vo
vincolante sulla dimensione di tale ferita. Entro i limiti da esso fissati, f
vengono sostenuti diversi modi di pensare che talvolta giungono a con¬ d
clusioni contrastanti. Si passa da una grande fiducia a una profonda sfi¬ natu
ducia nelle capacità dell'uomo dopo la caduta originale. La prima cor¬ stat
rente è soprattutto rappresentata dai teologi posttridentini che vogliono pe
così combattere le esagerazioni dei protestanti. Molto discussa la que¬ no
stione se effettivamente il peccato originale abbia intaccato e indebolito più
intrinsecamente le capacità di conoscere, di volere e di amare. Gran
parte dei teologi rispondono negativamente. La ferita delle capacità na¬ teo
turali umane, secondo costoro, è solo alcunché di estrinseco e si riduce st
alla privazione dei doni preternaturali. La natura dell'uomo decaduto sub
sembra paragonabile alla situazione di chi è stato arricchito con grandi caus
doni, ma poi, in seguito a un incidente, li ha perduti. Costui si trova in scom
una situazione assai più triste del povero che non fu mai ricco. Infatti dell'a
lo punge non solo lo stato presente, ma ben più amaramente il ricordo at
di quanto ha perduto. e
Ma si può procedere oltre questa dottrina teologica e affermare che, facoltà
se anche i poteri naturali dell'uomo non sono stati intrinsecamente smi¬ or
nuiti dal peccato originale, possono tuttavia subire danni notevoli, dai a
peccati personali che da quello derivano. Per causa di essi il corpo, stru¬
mento dello spirito, può subire così grave scompiglio da paralizzare le
facoltà spirituali del conoscere, del volere e dell'amare. Il peccato, rifiuto
di Dio e dell'essere intimo dell'uomo stesso, atto contro Dio e contro
l'uomo, può umiliare l'io umano sino al delirio e alla stoltezza.
Un altro aspetto della ferita inflitta alle facoltà umane lo constatiamo
nel fatto che esse sono distolte dal loro giusto ordine, l'intelligenza verso
la verità, la volontà verso il bene, la facoltà di amare verso il « tu » sia
§ 136. CONSEGUENZE DEL PECCATO ORIGINALE 741
divino, sia umano. Soltanto più con sforzo l'uomo decaduto riesce a di¬
rigersi verso la verità, e specialmente verso colui che la personifica: Dio,
e viene aiutato in ciò mediante l'istruzione e l'educazione. Deve scuo¬
tere la pigrizia per tendere al bene e, sopratutto, al bene personale che
è Dio, e per questo gli è necessaria la guida di un'autorità che l'aiuti a
superare le difficoltà. Di continuo deve rinunciare a se stesso per poter
andare incontro al « tu » umano e, finalmente, accostarsi al Tu divino,
che è amore personale.
3. - Per quanto penose siano le conseguenze del peccato originale e
per quanto grande sia il dolore dei fedeli sul peccato e la miseria del¬
l'umanità, non si deve tuttavia esagerare il decadimento della natura
umana. Ilimiti di tale decadimento sono stati stabiliti dal magistero
ecclesiastico più e più volte, sia nel Concilio di Trento, sia posterior¬
mente, proprio per combattere le esagerazioni della dottrina luterana.
L'uomo, anche dopo la colpa originale, non ha perso la possibilità di
orientarsi verso Dio. Può ancora sempre percepire, attraverso il creato,
le sommesse voci divine (possibilità naturale di conoscere Dio; cfr. § 30).
Così pure gli è possibile operare ancora qualcosa di buono moralmente.
Può ricevere la chiamata divina e risponderle con libera decisione. Anche
se la Bibbia afferma con forza che ogni atto di amore, di fede e di spe¬
ranza è opera di Dio, fa pure risuonare il suo « guai a voi » contro tutti
coloro che respingono l'appello del Signore. Tommaso d'Aquino è del
parere che anche nel mondo, deformato dal peccato originale, è pur
sempre possibile instaurare un certo ordine, mediante l'educazione e la
consuetudine (cfr. § 109, II, 3). Contro iGiansenisti la Chiesa ha espres¬
samente affermato che non tutte le opere degli infedeli sono peccato
(Denz. 1298). A ciò sembra opporsi la dichiarazione emessa dal Con¬
cilio di Orange nell'anno $26, secondo cui l'uomo non ha niente di suo
se non menzogna e peccato (Denz. 195). Effettivamente però tale deci¬
sione non afferma che tutte le opere, compiute dall'uomo decaduto,
siano intrinsecamente cattive e importino un sempre nuovo atto di in¬
subordinazione a Dio, ma che, essendo esse azioni di creatura umana
priva di vita soprannaturale, non sono ordinate soprannaturalmente a
Dio, e restano di conseguenza senza il valore ultimo e definitivo. In altre
parole non sono salutari. L'uomo nello stato di peccato originale non
può, senza la grazia, compiere azioni che abbiano valore per la salvezza.
Anche se l'uomo non ha perso, a motivo del peccato originale, ogni
capacità di fare atti moralmente buoni, è tuttavia sempre dubbio se, di
negativamente. Anche se la maledizione divina è
Rede
742 P. II. - LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
santificarlo.
fatto, con le sole sue forze e senza alcun aiuto divino, riesca a indiriz¬ di
zarsi verso Dio (s'intende, in modo non salvifico). Cfr. il trattato sulla sgorgan
Grazia e il § 30. Tale problema si ricollega a un altro, e cioè se per e
l'uomo non fu mai necessario costruirsi un ordine in uno stato total¬ avv
mente privo dell'aiuto e della grazia divina. A ciò si deve rispondere
negativamente. Anche se la maledizione divina è piombata sull'umanità,
tuttavia vi rifulge sempre la promessa del Redentore. L'ira di Dio ha
colpito l'uomo, ma solo per salvarlo e santificarlo. Il mondo, al cui piano originale
originario appartiene l'incarnazione del Figlio di Dio (Col. 1, 16; cfr. p
§ 103), possiede sempre un punto da cui sgorgano forze benefiche. Non consegu
è preda assoluta del peccato e neppure è mai esistito in uno stato di pie
pura colpa. Il Padre celeste ha continuato ad avvolgere il mondo colpe¬ quasi
vole con il suo sguardo amoroso, poiché in esso vedeva il luogo in cui
suo Figlio sarebbe vissuto e morto. donde
4. - È possibile dimostrare il peccato originale con riflessioni ed espe¬ af
rienze umane? No certo! Esso è un mistero, un puro dato di fede! Tut¬ nello
tavia nessuno può non avvertirne le sue conseguenze e tutti si rendono sia
conto che il mondo attuale e l'uomo stesso son pieni di disordine. Risen¬ fin
tiamo nel nostro intimo la contraddizione, quasi che due anime ci vi¬ mali
brino in petto. Si può accettare questo stato di cose semplicemente meno
come destino irrimediabile, senza chiederci donde venga e perchè esista. s
Possiamo anche tentare di dominare la vita con il pessimismo eroico 0 m
di dimenticare il tristo destino godendo senza affanni e senza preoccu¬
pazioni di quei piaceri che l'esistenza, anche nello stato attuale, ci offre. nasco
Si può anche sperare che la miseria di oggi sia eliminata domani dal uman
progresso sempre crescente della civiltà: e se finora non è ancora stato seg
possibile sopprimere completamente i nostri mah, ciò non vuol dire che
non lo si possa fare in un domani più o meno vicino. Tale speranza
dovrebbe però unirsi con quella che un giorno si possano eliminare de¬ so
finitivamente nell'uomo tutti i sentimenti di malvagità, odio, gelosia, se
egoismo, fonti perenni di infelicità e di rovina. Ma, di fronte a tutto
ciò, la rivelazione ci mostra invece l'origine nascosta, da cui sgorga ogni
genere di infelicità che tormenta il genere umano. È frutto della ribel¬
lione dell'uomo a Dio! Il disordine visibile è segno di quello non visi¬
bile; l'infrazione della legge che regola la vita individuale e sociale è
conseguenza della distruzione della vita divina nell'uomo. Secondo la
rivelazione, il disordine esterno sarà eliminato solo quando cesserà l'in¬
terno; l'uomo perverrà alla unità armonica con se stesso e con la società
§ 136. CONSEGUENZE DEL PECCATO ORIGINALE 743
solo quando avrà nuovamente raggiunto l'armonia con Dio. In realtà il
mondo è stato di nuovo santificato in Cristo, in quanto egli lo ricon¬
dusse nuovamente al Padre. Cristo è il germe di vita che è stato deposto
nel mondo; è seme, per adesso, non ancora visibile. Ma verrà l'ora in
cui tutto sarà mutato e il mondo tornerà a brillare di quella gloria che
ebbe al primo giorno, l'ora in cui di nuovo rifulgerà nell'universo la
bellezza primitiva della creazione.
Il peccato originale, anche se non può essere dimostrato con rifles¬
sioni puramente razionali, elimina tuttavia il problema del perchè il
mondo, proveniente dall'amore di Dio, si trovi in balia del male e sia
così ripieno di sofferenze tanto crudeli. La dottrina della colpa di ori¬
gine è l'unica che possa spiegare e chiarire tale mistero che tutti consta¬
tano con i propri occhi.
Pascal dice : « Certo nulla ci urta più rudemente di questa dottrina; e tuttavia
senza questo mistero, il più incomprensibile di tutti, noi siamo incomprensibili
a noi stessi. Il nodo della nostra condizione prende i suoi giri e i suoi intrighi
in questo abisso; di guisa che l'uomo è più inconcepibile senza questo mistero
di quanto questo mistero non sia inconcepibile per l'uomo... Esistono due verità
di fede egualmente costanti: l'una, che l'uomo nello stato della creazione o in
quello della grazia è elevato al di sopra di tutta la natura, reso come simile a
Dio e partecipe della sua divinità; l'altra, che nello stato della corruzione e del
peccato egli è decaduto da quella condizione e fatto simile alle bestie » (Pensieri,
fram. 434).
La dottrina del peccato originale, secondo Pascal, è quella che riesce
a darci una ragione tanto della grandezza quanto della miseria del¬
l'uomo. Essa non può venir scissa dalla dottrina della redenzione. Se
volessimo dividerle daremmo origine a una idea dell'uomo che contrasta
con la rivelazione, poiché mette in luce solo la miseria umana. L'uomo
esiste, ma come essere redento dal peccato. Quando lo Spirito Santo ci
rivela attraverso Paolo il disastro che il peccato originale ha operato, lo
fa esclusivamente per spiegarci meglio la grandezza dei doni che Cristo
ci ha regalato. La rivelazione del peccato originale è solo il fondo oscuro
del quadro in cui brilla in piena luce la redenzione. Non è possibile par¬
lare di peccato originale senza riferirci a Cristo. Si falsa il vero non solo
quando si prende al rovescio, ma anche se si vuole separarlo dall'ordine
in cui è stato posto. Ogni verità ha un luogo da cui non può essere ri¬
mossa senza cadere nel pericolo di cambiarsi in errore. L'uomo si trova
nella condizione del naufrago che, scampato ai flutti, si rallegra per la
vita che gli è stata resa. Indubbiamente porta ancora le tracce della lotta
d
744 P- IL " LA REALTÀ extradivina e l'attività salvifica di dio
passata, ma ciò serve a fargli maggiormente gustare la felicità raggiunta.
Così il trattato del peccato originale s'intreccia con quello della reden¬
zione. Solo in essa la colpa adamitica riceve il suo significato più com¬ generazi
pleto. È unicamente perchè tutto non può essere detto in una sola volta Conc
che separiamo gli elementi di cui risulta composta la realtà dell'uomo re¬
dento, il quale esiste solo nel mondo santificato da Cristo.
cap
§ 137. Trasmissione del peccato originale.
Il peccato originale si trasmette con la generazione naturale. È dogma tutti
a
di fede: Concilio di Cartagine (Denz. 102), Concilio di Trento, Sess. 5,
can. 3 (Denz. 790).
Kath
1. - Adamo perdette la vita divina come capo dell'umanità, e così tanto
ha trascinato tutta la natura umana nel peccato. Ogni uomo quindi di¬ simbol
viene peccatore in quanto discende da Adamo e possiede la medesima deg
natura umana. Fondamento per la ereditarietà del peccato è l'unità della P
vita fisica 0 corporale, che ricollega assieme tutti gli esseri umani. Ma soprannat
la trasmissione di tale vita ha luogo in terra solo attraverso l'unione fisica i
dei sessi che si chiama generazione (Feuling, Katholische Glaubenslehre, sic
312). ha
Gli uomini, per volere divino, sono uniti tanto nel bene quanto nel trasmissione
male. La solidarietà naturale è presupposto, simbolo e immagine di quella l
soprannaturale. Come ognuno è responsabile degli altri sul piano natu¬ soltan
rale, così lo è anche su quello soprannaturale. Per volere divino il se¬ um
condo poggia sul primo. Anche se il soprannaturale è essenzialmente pur
tutt'altra cosa dal naturale, tuttavia gli è così intimamente unito che Perc
non vi può esistere soprannaturale a sè stante, sicché i valori naturali si lo
ricollegano anche ai soprannaturali. Dio stesso ha voluto tale intreccio. i
Tuttavia non è possibile concepire la trasmissione ereditaria del peccato dell'uomo,
come un processo naturale per mezzo del quale la colpa passi, in certo
modo, dai genitori nei figli. Essa significa soltanto che ogni essere, il
quale per generazione è ricollegato al genere umano quale discendente
di Adamo, incomincia a esistere con una vita puramente naturale, senza
possedere la soprannaturale, voluta da Dio. Perciò i genitori non sono
affatto la causa del peccato originale, come non lo è il processo genera¬
tivo, il quale anzi sfocia in qualcosa di buono: il sorgere di un nuovo
essere! Neppure Dio, che crea l'anima dell'uomo, è la causa della colpa
§ 136. CONSEGUENZE DEL PECCATO ORIGINALE 745
originale. Egli dà vita a un essere che, nella sua intima natura, è buono.
L'unica causa del peccato originale, ossia della mancanza dell'unione so¬
prannaturale con Dio, è l'ingresso di questa creatura nella schiera degli
uomini, ossia in quella serie genealogica, il cui capo è Adamo, colui che
ha perduto la vita divina.
2. - Il peccato di origine è appunto la mancanza di tale vita, e col¬
pisce nella medesima misura tutti gli uomini, per cui è essenzialmente
identico in ogni individuo. Tuttavia si esplica in misura varia. Infatti le
conseguenze del peccato originale sono svariatissime e molteplici. Cono¬
sciamo i « figli della luce » e i « figli delle tenebre ». « Noi infatti ve¬
diamo gli uomini divisi in due grandi categorie: gli uomini della gioia,
dell'armonia, della bontà semplice e, per così dire, naturale, della fiducia
cordiale e serena; — e gli uomini del dolore, che sembrano creati per far
soffrire sè e gli altri, sui quali fin dal giorno della nascita sembra gra¬
vare un triste destino, gli uomini delle ambizioni e dei desideri sfrenati,
gli uomini del dubbio, della corruzione e della negazione. E se noi an¬
diamo a ricercare le sorgenti più profonde di queste disposizioni, c'in¬
contriamo in ferrei destini, che hanno plasmato e modellato questi uomini,
spesso ancor prima che uscissero dal grembo materno, come il torvo e
selvaggio Esaù; noi troviamo spesso complicazioni e grovigli di casi spesso
ridicoli, più spesso assurdi e deplorevoli, che si accumulano sulla trama
della vita di questi uomini. E quando finalmente noi vogliamo stabilire
un punto atto a spiegare l'origine della colpa e il mistero di una vita
perversa, allora ci appare manifesto che si tratta di una colpa insignifi¬
cante 0 di una apparenza di colpa, di un bisogno isolato o di un desi¬
derio inconsulto piuttosto che di un peccato, di una ristrettezza della
mente piuttosto che di una perversione della volontà » (Lippert, Credo,
trad. Corsini, 251).
Come spiegare la varietà degli uomini, per cui alcuni sembrano essere
poco 0 nulla toccati dalle conseguenze del peccato originale, mentre altri
paiono trascinati in un abisso tenebroso senza fine? Per gli uni la vita
scorre moralmente e spiritualmente tranquilla, almeno all'esterno, e tra¬
smette luce e calore inesauribile; per gli altri, invece ogni atto della vita
è greve e arido e vanno così seminando gelo e freddezza. Questo problema
si ricollega, in ultima analisi, all'altro gravissimo che riguarda la prede¬
stinazione divina e su cui grava un mistero impenetrabile alla nostra po¬
chezza umana (cfr. su ciò il trattato sulla Grazia). Tuttavia non dob¬
biamo dimenticare che gli effetti della colpa di origine sono appesantiti,
che rimane con noi. Si radicano profondamente ne
- Qua
746 P. II. LA REALTÀ EXTRADIVINA E L'ATTIVITÀ SALVIFICA DI DIO
orig
sia nel corpo, sia nell'anima, dai peccati individuali. Gli sconvolgimenti
che talvolta riscontriamo nei singoli sono quindi da riferirsi sia alle man¬ anim
canze personali, sia alla radice di ogni colpa che sta nel peccato di ori¬ i
gine. Gli avvenimenti buoni e cattivi, che hanno luogo nell'uomo non l
c
possono venir paragonati al viandante che passa oltre, bensì all'ospite
che rimane con noi. Si radicano profondamente nell'individuo e il corpo, fisich
così segnato, si trasmette dal padre al figlio. Quando il sigillo del male incapa
ha bollato profondamente la carne allora dà origine a tutte le inclina¬ s
zioni sensuali, ai moti dell'animo, alle tendenze al peccato che cercano di tr
attrarre in questo regno tenebroso anche le anime create da Dio. c
Con questo non vogliamo certo asserire che il peccato sia una cosa un'ac
naturale. L'uomo è sempre capace di decidersi liberamente per o con¬ Quando
tro di esso. Ma chi vuole respingere il male è costretto a compiere un stati
lavorio assai penoso. Anzi talvolta le forze fisiche contrarie allo spirito
possono irretirlo in modo tale da renderlo incapace di vedere dove è il serv
bene e dove il male. L'uomo si riduce così allo stato di fanciullo impo¬ u
tente. Tuttavia non possiamo affermare che i tristi effetti dell'eredita¬ T
rietà possano chiarire completamente l'enigma che avvolge la trasmis¬ p
sione del peccato di origine. Sarebbe gettare un'accusa troppo grave con¬ individu
tro le generazioni che ci hanno preceduto! Quando gli Apostoli chiedono e
a Gesù a proposito del cieco nato, se sono stati i suoi genitori o egli fi
stesso ad aver peccato, il Maestro risponde: « Nè lui nè i suoi genitori ». o
La cecità di quell'uomo doveva piuttosto servire alla gloria di Dio coloro
(Giov. 9, 2 s.). È Dio stesso che stabilisce per un uomo una vita più efficacem
dura, mentre per un altro la vuole più facile. Tuttavia nessuno riceve
una croce più pesante di quella che le sue spalle possano portare! Inoltre
va tenuto conto che la distinzione degli individui in uomini di luce e
di tenebre non equivale alla divisione fra eletti e dannati. Noi non ab¬
biamo alcuna esperienza a proposito del destino finale. A Dio solo com¬
pete di giudicare la schiera di coloro che paiono opporsi a lui, così come
egli solo è in grado di vagliare il cuore di coloro in cui sembra che lo
spirito di santità e di giustizia operi più efficacemente.