Materni, Marta - Gerberto D'aurillac e La Mathesis Catalana
Materni, Marta - Gerberto D'aurillac e La Mathesis Catalana
Materni
Dans les dernières années, plusieurs fois on a réalisé un bilan des études liés à la dimension
«scientifique» de l’activité de Gerbert d’Aurillac. La quantité de donnés a surement grandi, et pour
cette raison il est nécessaire de donner un égard à quelque question de méthode. C’est à dire, il faut
élucider la portée des definitions de “texte” et “contexte” gerbertiens, en les projectant sur la toile
de fond du Xème siècle. Une chose est certaine: si l’on évalue les contextes gerbertiens, celui
catalan est encore le plus intéressant, et il nécessite d’ulterieurs approfondissements.
In the last years, various scholars reviewed the studies devoted to the scientific feature of Gerbert
of Aurillac’s intellectual activity. The number of elements has certainly grown up, and, for this
reason, it is necessary to take stock also of some methodological question. That is, we have to
define the specific limits of the definition of the Gerbertian “text” and “context”, projecting them
in the background of the Xth century. A fact is sure: if we consider the Gerbertian contexts, the
Catalan is to this day the more interesting, and it requires further studies.
Essendomi già in precedenza occupata del quadrivium gerbertiano per tracciare un bilancio
(seppur provvisorio) dello stato attuale delle nostre conoscenze in seguito a un cospicuo, ma
estremamente frammentario, incremento delle pubblicazioni nell’ultimo ventennio, 1 vorrei in questa
sede proporre alcune riflessioni di carattere metodologico nonché qualche osservazione sparsa
relativa a problematiche che, in questo campo particolare dell’attività di Gerberto, mi sembrano
ancora aperte e suscettibili di approfondimenti.
Vorrei parlare perciò di quelli che definirei i “testi e contesti” del quadrivium gerbertiano.
Credo infatti che i testi, benché per molti aspetti assai conosciuti, offrano ancora almeno lo spunto
per una riflessione più generale sulle problematiche che si pongono a uno studioso deciso ad
avvicinarsi a opere di natura scientifica.
Per quel che riguarda invece i contesti ne vorrei innanzitutto proporre un concetto che si
potrebbe, e a mio modo di vedere dovrebbe, espandere da un senso stretto – il contesto in cui opera
Gerberto in persona2 – a uno più ampio di contesto in cui operano personaggi a lui strettamente
legati. E questo perché credo che la chiave di volta per la comprensione della figura dell’aquitano
sia il suo essere maestro3 e che, di conseguenza, la comunicazione e la diffusione del sapere
rappresentino il suo primo obiettivo: contesto gerbertiano può dunque essere considerato anche il
contesto dei suoi allievi diretti4 e il contesto in cui le sue opere, o lo spirito delle sue opere, hanno
trovato un’immediata ricezione e hanno fornito l’impulso a ulteriori sviluppi. Se qui si citano i
1
Rimando per questo aspetto a MATERNI 2007 e 2008.
2
Del quale possediamo anche annotazioni manoscritte autografe per le quali rimando a
PASSALACQUA 1990, 1994 e 1996. Recentemente, una nuova acquisizione autografa è stata
presentata da Pasquale Arfé in due comunicazioni: la prima presentata il 6 maggio 2010 a Parigi
(Université Paris-Diderot) in occasione della conferenza organizzata dal Centre d’Histoire des
Sciences et des Philosophies Arabes et Médiévales, «Gerbert d’Aurillac. Science et astronomie
autour de l’an Mil», dal titolo «Un nouvel autographe de Gerbert d’Aurillac: un témoin de sa
classification des sciences»; la seconda presentata a Roma in occasione del convegno «Coelum
Urbis: astri, numeri e lettere al tempo di Silvestro II» presso la Biblioteca Nazionale Centrale di
Roma, dal titolo «Un autografo di Gerberto con la figura de philosophia partibus».
3
In parte resta maestro anche nella sua fondamentale esperienza politica, quella con Ottone III.
“contesti” del quadrivium gerbertiano, sia in senso proprio che ampliato, è perché una delle ragioni
del fascino di Gerberto risiede nella sua biografia, per il fatto di aver “peregrinato” per l’Europa ed
essere entrato in contatto con alcuni punti nevralgici di essa, nevralgici nel senso di particolarmente
vivaci dal punto di vista culturale. Seguire Gerberto nei suoi vari contesti permette perciò di avere
una panoramica direi quasi completa dell’Europa a cavallo del primo millennio: impegnarsi come
storici di Gerberto significa dunque impegnarsi come storici della cultura europea del X secolo.
Le prime osservazioni riguardano dunque i testi. Molto brevemente ricordo cosa si intende
quando si parla di testi la cui autorità è ascrivibile a Gerberto: alcuni scritti contenuti
nell’epistolario riguardanti l’abaco e speculazioni aritmetiche di ascendenza pitagorica filtrate da
Boezio;5 un trattatello sulla misura delle canne dell’organo; 6 un trattato di geometria e un altro testo
geometrico sempre interno all’epistolario;7 infine il “famigerato” trattato sull’astrolabio, 8 che ha
impegnato numerosi studiosi e fatto versare fiumi di inchiostro, talvolta con un certo arroccarsi
sulle proprie posizioni che ha portato a ignorare i dati messi in evidenza da altri, dati che avrebbero
potuto invece, integrandosi, permettere di delineare scenari nuovi.
Prendo spunto da quest’ultimo testo per avanzare la prima riflessione, estendibile anche
all’altro scritto uscito dal campo dell’autorità gerbertiana, cioè la Geometria incerti auctoris,9
riflessione che si riallaccia a quanto detto prima circa il concetto allargato di contesto che vorrei
proporre. Il caso del De utilitatibus è esemplare in quanto ha visto un vero e proprio accanimento
nel cercare di affermare che quelle parole fossero state vergate dalla mano di Gerberto. Al proposito
è necessario innazitutto ribadire due concetti: primo, che quella di Gerberto è sempre e
essenzialmente la figura di un maestro, con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano della
4
Primo fra tutti Bernelino, della cui opera sull’abaco è disponibile una traduzione francese,
BERNELIN 1999.
5
Per l’abaco si tratta dell’ep. 1, o «Libellus de numerorum divisione», e dell’ep. 2, entrambe
indirizzate a Costantino di Fleury, (GERBERT, Lettres scientifiques; recentemente sono apparse
anche due traduzioni italiane delle lettere: una riedizione della traduzione di Panvini Carciotto,
PANVINI 2010, e una ritraduzione curata da Paolo Rossi, ROSSI 2009; al prof. Rossi si deve anche
una traduzione italiana delle Storie di Richero di Reims, ROSSI 2008a, e una biografia romanzata
del nostro personaggio, ROSSI 2008b), intitolate da Bubnov rispettivamente «Regulae de
numerorum abaci rationibus» e «Fragmentum de norma rationis abaci» (BUBNOV 1963). Gli scritti
boeziani sono: tre epistole indirizzate a Costantino contenenti scolia al paragrafo II. 10
dell’Institutio arithmetica (ep. 6, «Hic locus quem quidam invictum esse aestimant sic resolvitur...
») e ai paragrafi II. 2 e IV. 21 dell’Institutio musica (ep.4 e ep. 5); l’ep. 134 al monaco Remigio,
relativa al problema delle proporzioni fra i numeri (GERBERT, Correspondances). Utili video
esemplificativi sull’uso dell’abaco in MAYFIELD 2010; un breve sommario introduttivo su questi
dati in PEKONEN 2000.
6
Il De mensura fistularum o Rogatus a pluribus, edito in SACHS 1970. Sull’argomento si
considerino anche KLINKENBERG 1957, BERNHARD 1989 e PIZZANI 1981.
7
La Geometria Gerberti, edita in BUBNOV 1963, GERBERTUS, Geometria e con traduzione francese
in LEVET 1997 e in ROSSLER 1999. Il secondo testo geometrico è la lettera a Adelboldo di Liegi,
edita in ADELBOLDUS, De ratione e con traduzione francese in GERBERT, Lettres scientifiques.
8
Il De utilitatibus astrolabii, edito in BUBNOV 1963, e recentemente in PUIGVERT I PLANAGUMÁ
2000.
9
Edita con questo titolo in BUBNOV 1963, mentre risulta ancora unita alla Geometria Gerberti
nell’edizione di J. P. Migne. Su questo testo, e le sue relazioni con il più antico corpus astrolabico
(con le conseguenti interferenze con l’ambito gerbertiano che sempre si evidenziano trattando
questo argomento) si considerino le recenti osservazioni contenute in JACQUEMARD 2000.
comunicazione; secondo, (ed è un fatto che conferma l’importanza del primo punto) tranne che nel
caso della Geometria, i suoi testi sono scritti di risposta a una richiesta, sono gli scritti di un maestro
che offre chiarimenti ai dubbi dei suoi allievi o di cultori della materia che si rivolgono a lui come a
una autorità; esemplare in questo senso l’incipit del trattato sulle canne dell’organo: «Rogatus a
pluribus». Di fronte a un personaggio del genere la prima domanda che perciò ci si pone è: rispetto
a quello che si è conservato quanto abbiamo perso? In cosa consisteva ciò che non è stato scritto ma
che i suoi allievi potevano ascoltare dalla sua viva voce? Invece di accanirsi su tradizionali concetti
di autorità – un genere di discussione che fra l’altro ha portato ad atteggiamenti ondivaghi che sono
andati dall’esaltazione di un Gerberto quasi fantascientifico a cui attribuire di tutto a drastici
ridimensionamenti in senso inverso – forse sarebbe più fruttuoso applicare per analogia ai testi
gerbertiani quell’idea di contesto allargato di cui parlavo prima. Potremmo allora parlare di testi
“gerbertiani” nel senso di testi ascrivibili a Gerberto ma anche ai suoi allievi diretti, considerando
fra l’altro la particolarità della figura dello scolastico di Reims, che non è un venerabile Beda chiuso
tutta la vita nel suo monastero e per il quale quindi la scrittura di un testo diventa obiettivo primario,
ma un personaggio con una vita molto più complessa, un personaggio che si è trovato invischiato
nella dimensione politica non certo come osservatore: Gerberto è uno studioso, un efficace
comunicatore del suo sapere, ma non può essere, anche per motivi banalmente pratici, uno scrittore
sistematico; Gerberto non è ancora un intellettuale a tempo pieno, cioè undo di quegli intellettuali di
cui, notoriamente, traccia la storia Jacques Le Goff:
«Quanto in effetti è decisivo nel modello dell’intellettuale medievale è il suo legame con la
città. L’evoluzione scolastica si inserisce nella rivoluzione urbana dei secoli dal X al XIII.
La frattura tra la scuola monastica, riservata ai futuri monaci, e la scuola urbana, in principio
aperta a tutti, compresi gli studenti che resteranno laici, è fondamentale. […] Cittadini, i
nuovi intellettuali sono uomini di mestiere. Come i commercianti sono “venditori di tempo”,
essi sono “venditori di parole”, e come tali devono vincere il cliché tradizionale secondo cui
la scienza, in quanto dono di Dio, non si può vendere». (LE GOFF 1979, p. II)
Da un certo punto di vista è però meno gerbertiana un’opera che concretamente è stata
redatta da chi ha ascoltato in prima persona il suo insegnamento? D’altronde i dati delle ricerche,
quelle legate alla diffusione del più antico corpus astrolabico nell’Occidente latino10 e quelle
relative alle composizioni geometriche prodotte nell’ambito della Lotaringia, 11 sembrano
confermare genesi di questo tipo, legando i testi a dei ben precisi ambienti monastici: quelli cioè in
cui si trovano a operare allievi diretti della scuola di Reims, in primis Fleury e Chartres.
Ciò su cui si dovrebbe insistere a questo punto è una più approfondita ricostruzione, con
date, luoghi e nomi precisi, di questa generazione educata da Gerberto, considerando la classe degli
scolari e il loro maestro come un unicum non nel senso di un annullamento delle individualità
riconoscibili – e che, se individuabili, meritano anche doverosamente di ricevere il loro piccolo
tributo – bensì in quello di una sfumatura del concetto di autore relativamente a questo particolare
personaggio.
10
Si vedano ad es. al proposito BURNETT 1998 e BORST 1989.
11
In particolare in questo ambiente viene prodotta l’importante Seconda Geometria apocrifa
boeziana che mostra debiti nei confronti dell’insegnamento gerbertiano, per la quale si vedano
FOLCKERTS 1970, 2003a e b. La Lotaringia è stata anche teatro, a inizio secolo, di una teoria, poi
confutata, secondo la quale la scienza araba vi avrebbe fatto la sua comparsa prima che in
Catalogna: THOMPSON 1929 e WELBORN 1931 e 1932.
Rimanendo nell’ambito dei testi vorrei proporre una seconda riflessione che nasce
dall’esperienza personale, dalle problematiche che io stessa mi sono trovata ad affrontare
avvicinandomi a questi scritti. La questione di fondo è rappresentata dalla discrepanza esistente tra
la formazione di chi ha composto questi testi e la formazione dello studioso che si impegna a
recepirli oggi. Il problema è particolarmente “grave” nel nostro caso in quanto Gerberto è
sostenitore di un preciso principio, che ha anche ampiamente messo in pratica nella sua scuola: il
principio cioè della perfetta integrazione fra le diverse branche del sapere, che oggi definiremmo
scientifiche e umanistiche o in termini gerbertiani trivium e quadrivium, la cui divisione è però alla
base del nostro sistema educativo almeno a livello di istruzione specializzata. Si sostiene spesso che
non è possibile fare storia della scienza senza una formazione scientifica. Se questa affermazione è
ineccepibile per l’epoca moderna e contemporanea, per un periodo particolare come quello
medievale vorrei però aggiungere a questa affermazione, rendendola per certi versi più drastica
nelle sue conseguenze, che, in epoca precedente all’invenzione della stampa e a tutto quello che
essa implica sul piano della diffusione dei testi, trovo difficile immaginare uno studioso di scienza
che non disponga anche di tutto quell’apparato teorico necessario per avvicinarsi a un mondo in cui
la trasmissione del sapere era così radicalmente differente da quella attuale, e, su un piano più
strettamente contenutistico, un mondo in cui la scienza non si è ancora ritagliata uno spazio di
autonomia intellettuale bensì è connessa in modo radicale con altre componenti di quell’atmosfera
culturale.12
Ora, se volessimo essere quindi molto rigorosi dovremmo dire che il perfetto storico della
scienza medievale dovrebbe avere una preparazione storica in senso stretto e una preparazione
filologica, una preparazione scientifica ma anche una preparazione filosofica e teologica. Direi che
una figura del genere può formarsi solo nel corso di una vita intera di studi; normalmente l’unica
soluzione possibile e praticabile mi sembra quella della disponibilità a un lavoro di strettissima
collaborazione all’interno di un’équipe. Su questi testi non può essere fatto solo un lavoro di
edizione, che fra l’altro sarebbe necessario ampliare regolarmente in un lavoro di traduzione: essi
hanno infatti bisogno di ricchi apparati strumentali, in primo luogo con la creazione di glossari
tecnici e in secondo luogo con l’elaborazione di appendici grafiche o di altra natura che aiutino la
comprensione dei processi descritti. Ma soprattutto è necessario che uno studioso complementare
allo storico, con una preparazione più adatta a cogliere, e in certi casi anche eventualmente a
valorizzare, determinate sfumature, analizzi questi scritti da un punto di vista strettamente tecnico
ed esprima un giudizio. Perché il rischio per l’umanista lasciato a se stesso nell’approccio con
questa tipologia di testo è quello di creare falsi miti, di vedere profondità e complessità là dove c’è
solo un ragionamento farraginoso.
Il contesto senza dubbio più affascinante, quello che ha riservato maggiori sorprese negli
ultimi anni e che si pone all’origine di tutta l’esperienza gerbertiana, è sicuramente quello
catalano.13 Se volessimo trovare una formula che riuscisse a caratterizzare immediatamente quello
12
Significativi i titoli di due importanti opere dedicate alla storia della scienza medievale: L.
THORNDIKE, History of magic and experimental science, Columbia University Press, 1923, e E.
GRANT, Le origini medievali della scienza moderna. Il contesto religioso, istituzionale e
intellettuale, Torino, 2001.
13
Si segnala una sommaria bibliografia sull’argomento: MILLÁS VALLICROSA 1931; LEWIS 1965;
BONASSIE 1975 e 1990; ZIMMERMANN 1990, 1997 e 2003; Catalunya 1991; Symposium 1991;
MOLINS – PAU 1993; ZIMMERMANN 1997; Gerbert d’Orlhac 1999; LUCAS 2003; VERNET – PARÉS
2004; CIFUENTES 2006; GOUGUENHEIM 2009, pp. 48-49. E con riferimento specifico al monastero
di Ripoll BEER 1907, MUNDÒ 1978, SAMSO 1991, PUIGVERT 1995 e 2000, Come introduzione alla
problematica della compresenza delle tre cuture – ebraica, musulmana, cristiana – nella Penisola
che è un nodo centrale delle problematiche legate al quadrivium gerbertiano, potremmo utilizzare la
seguente: “da Vich a Reims”, nella quale Vich (o più che Vich tutto il mondo umano e culturale
rispetto al quale assumiamo questa località come simbolo di comodo) rappresenta la tappa
fondamentale nel percorso di formazione di Gerberto, Reims la tappa fondamentale nell’esperienza
di Gerberto maestro. Perché, lo ribadiamo, Gerberto non è mai cultore di quadrivium senza esserne
anche maestro.
L’orientamento del vettore di questo spostamento, da Vich a Reims, dalla terra catalana al
cuore dell’Europa latina, diviene così simbolo, oltre l’esperienza individuale, di una vicenda che ha
segnato la cultura europea, cioè la penetrazione nell’Occidente di lingua latina, attraverso la via
iberica, di quella cultura araba che ingloba in sé quella greca e medio-orientale, e che necessitò però
per venir compresa di essere sottoposta a un sistematico processo di traduzione. “Penisola iberica”,
“cultura araba”, “traduzioni”14: sono tre concetti che in qualsiasi manuale di storia dominano il XII
Iberica è utile far riferimento al volume VANOLI 2006; cito dall’introduzione (p. 12-13): «Non si
tratta solo di mettere in un – impossibile – parallelo ebrei, cristiani e musulmani, si tratta anche e
soprattutto di narrare la storia della loro comunicazione reciproca. E questo per una convenzione
metodologica di fondo: è attraverso tale storia di comunicazione, di scambio culturale (nel senso più
ampio possibile) che questi tre mondi si sono definiti reciprocamente. Quello a cui penso è il
curioso (ma non eccezionale) accidente storico che ha portato ebrei, musulmani e cristiani a
condividere per secoli uno sresso spazio, e il fatto che tale situazione abbia prodotto una serie di
necessità comunicative che hanno contribuito profondamente alla costruzione reciproca delle tre
culture. Cerchiamo però di chiarirci: con questo non sto affatto introducendo una storia della
convivenza andalusa di cristiani, ebrei e musulmani, trascorsa traducendo libri di filosofia e
scambiandosi esperienze mistiche: se una cosa simile è mai esistita (e non credo) è durata una
stagione e ha interessato un gruppo di intellettuali a dir poco esiguo. Quando parlo di relazioni, di
necessità comunicative, penso a qualcosa di ben più pervasivo: alla scrittura e alla traduzione, certo,
ma anche al commercio, ai matrimoni dei tanti di cui non sapremo mai i nomi, ai processi e allo
sforzo di indagare l’anima dell’accusato, persino alla guerra, che in fondo può essere considerata
anche una terribile ma frequentissima forma di comunicazione».
14
Il quadro comunemente accettato, nonostante le rettifiche e i ridimensionamenti – e ben
sintetizzato dalle affermazioni di Alain de Libera (“Che gli “arabi” abbiano giocato un ruolo
determinante nella formazione dell’identità culturale dell’Europa [è una cosa] che non è possibile
discutere, a meno di non voler negare l’evidenza”, cito da GOUGUENHEIM 2009, p. 11) – è stato
recentemente “sconvolto” in modo radicale dalle tesi sostenute da Sylvain Gouguenheim nel suo
Aristotes au Mont-Saint-Michel. Les racines grecques de l’Europe chrétienne (che aveva un
precedente in VIOLA 1967). Il testo è da leggere con attenzione e senza pregiudizi, valutando con
onestà intellettuale i dati che obbiettivamente offre alla nostra attenzione; senza quei pregiudizi in
senso opposto e quella vena polemica (e radicalista) che forse affiora nelle pagine conclusive
dell’opera (e che cito per sintetizzare lo spirito di questa tesi): «La storia delle traduzioni dei testi
della cultura greca è stata al centro del nostro studio. Quasi tutte queste opere furono tradotte dal
greco al siriaco, poi dal siriaco all’arabo, dai cristiani occidentali. Dal canto loro, gli europei si sono
messi progressivamente alla ricerca di questi testi senza che nessuno concedesse loro un sapere che
si sono procurati da sé. La grande epoca delle traduzioni cominciò all’inizio del XII secolo,
direttamente dal greco al latino, prima che alcuni dotti andassero a tradurre le versioni arabe in
Spagna o in Sicilia. Nel XIII secolo si procedette a traduzioni complementari e a una revisione
generale dei testi. I musulmani colti avevano dunque un “debito” (il termine, che ha una
connotazione morale, è poco soddisfacente) nei confronti dei traduttori siriaci; allo stesso mondo il
mondo europeo, che era in debito anche verso i propri eruditi, cristiani o ebrei, che tradussero dal
greco e fecero lo sforzo di imparare l’arabo. Al di fuori della circolazione di testi antichi tradotti,
gli scambi culturali tra l’Islam e la cristianità furono minimi. Dall’Islam in quanto religione, la
civiltà europea non ha preso in prestito nulla, né riferimenti testuali, né argomenti teologici. Lo
stesso vale per l’ambito politico o giuridico, poiché l’Europa rimase fedele al proprio diritto o ai
secolo, il secolo delle traduzioni toledane, del grande exploit toledano secondo alcuni, mentre altri
restano più cauti, ridimensionando questo vecchio mito che pure resiste fermamente
nell’immaginario storico comune15 e che Arthur Pym stigmatizza lapidariamente, richiamando al
contempo però elementi geografici particolarmente interessanti per la nostra prospettiva:
«Toledo is a strong and eminently useful myth [...] As for translation specifically into Latin,
there is some evidence of activity in the ninth century, and much more for eleventh century
work in Catalonia. The only way anyone can say translation began at the beginning of the
twelfth century is to limite “our country to Castile [...] To say it all started with the conquest
of Toledo is to overlook the initial twelfth-century work carried out in northern Spain, in
Taragona, in the region of Lagrana, and in Barcelona, where the translators were mostly
non-Hispanics, often Jews. To bring all this down to Toledo is further to affirm a nationality
centred history.» (PYM 1996, p. 499)
«[Per quel che riguarda Raimondo] More worrying, documentary evidence of his interest in
translations is limited to just one preface to just one translation. Indeed, he seems to have
been rather more interested in money and power than in any cultural virtue [...] And if one
still wants to insist that Raimundus “brought together a team of translators”, one should not
overlook the fact that he was directly preceded by Peter the Venerable, who organised the
team that rendered the Qur’an into Latin in 1142. The Archbishop of Toledo was perhaps
merely imitating strategies elaborated by the abbot of Cluny.» (PYM 1996, p. 452)
Quel che è sicuro è il fatto che, con il XII secolo, tanto nel campo della scienza che in
quello della filosofia il percorso evolutivo della cultura europea arrivi a un punto di svolta; al
riguardo non si potrebbero avanzare certo dubbi o rettifiche.
Credo che spesso, sull’equilibrata ricostruzione della reale figura di Gerberto dal punto di
vista “scientifico”, abbia pesato un certo pregiudizio: il sospetto (giustificato per alcuni versi se si
pensa a tanta ingenua celebrazione ottocentesca, ma oggi non più giustificabile; rinfocolato tuttavia
in altro senso dalla tendenza ancora viva ad ammantare di “zolfo” la vicenda gerbertiana 16) che,
esaltando la singolarità di questo personaggio, si cercasse, caricando un solo uomo di responsabilità
storiche decisamente insostenibili, di incarnare in un individuo il momento iniziale di un complesso
processo storico, retrodatando contemporaneamente tutto il quadro storico di almeno un secolo e
mezzo. Attribuire o negare l’autorità di Gerberto rispetto ad alcuni testi è diventato così un modo
per affermare, più o meno trionfanti, la liceità o meno dell’attribuzione a Gerberto di conoscenze
estranee alla tradizione latina.
Una più precisa ricostruzione del contesto permetterebbe allora di chiarire cosa sia
storicamente corretto, e quindi possibile, ricercare nei testi di Gerberto. Siamo grosso modo
nell’ultimo quarto del X secolo: non possiamo obiettivamente trovare un’esposizione sistematica e
cosciente delle discipline secondo modalità che, non c’è dubbio, saranno possibili solo fra un secolo
e mezzo. Ma l’epoca è talmente precoce che forse non possiamo nemmeno aspettarci ancora
propri quadri istituzionali. Diversi chierici europei ripresero dai dotti, arabi o persiani, musulmani,
ebrei e cristiani, commenti filologici, la cui influenza fu reale, nonostante fossero passati attraverso
filtri e adattamenti. Ma anche grazie ai commenti di Avicenna e Averroè, nessuno può affermare
che nozioni specifiche della lingua araba o concetti propri dell’Islam siano stati portatori della
rivoluzione culturale dei secoli XII e XIII.» (GOUGUENHEIM 2009, pp. 214-215; i corsivi sono
miei).
Un utile sommario degli elementi della storia “tradizionale” in GRANT 2001, pp. 32-52;
LIBERA 2004, pp. 344-350 e ALVAR 2010, pp. 55-63.
15
Si vedano al proposito PALENCIA 1937; FOZ 1987; PYM 1996.
16
Significativamente, ancora nel 2010 si può leggere un titolo di questo tenore: D. A. STELMIC,
L’enigma del papa mago. Storia del mistero di Gerberto d’Aurillac nonché papa Silvestro II, nelle
cronache di Lantelmo, monaco cluniacense, Viterbo 2010.
l’impiego di un linguaggio nuovo, per cui credo che non sia corretto liquidare il problema solo
evidenziando che negli scritti sicuramente autentici di Gerberto non vi sono termini arabi. Tanto più
che, accanto alla precocità cronologica, si deve tenere conto di un altro elemento già ricordato: la
burrascosità delle vicende della biografia gerbertiana che gli impediscono di dedicarsi allo studio
notte e giorno. Non vi sono dubbi nell’attribuzione alcuni decenni dopo del trattato sulla
composizione dell’astrolabio a Ermanno di Reichenau,17 il quale giustamente impiega anche tutto
un linguaggio nuovo infarcito di arabismi: ma lo permettono i tempi e lo permette la sua vita; a
quell’altezza cronologica è storicamente corretto aspettarsi “quel” tipo di testo, sia a livello
contenutistico che formale, e valutare quindi testi coevi secondo “quei” parametri. Ma è altrettanto
corretto immaginare nell’ultimo quarto del X secolo, da parte fra l’altro di un personaggio che ha un
contatto con questa nuova realtà ma non un rapporto continuativo, un testo latino che presenti le
medesime caratteristiche?
Cerchiamo allora di definire con più esattezza questo contesto catalano. Ho già sottolineato
che Vich è stata un po’ una scelta di comodo dal momento che Richero individua Attone di Vich
come mentore di Gerberto, ma è ormai chiaro che la cerchia delle frequentazioni dell’aquinate in
terra catalana fosse ben più ampia, includendo in primo luogo i nomi di Garin de Cuxà e di Miro
Bonfill, a cui dobbiamo aggiungere quello di Lupito di Barcellona, un nome a cui non è possibile
ancora attribuire una fisionomia storica soddisfacente. 18 A lungo si è discusso se Miro potesse
essere o no maestro di Gerberto; l’archeologia in questo caso ci soccorre con la doppia iscrizione
“Miro-Gerbertus” dell’architrave di Elna, ampiamente illustrata dal prof. Nuvolone,19 suggestiva
testimonianza al tempo stesso di un legame umano e, se ce ne fosse stato bisogno, dell’effettivo
realizzarsi di un viaggio che è divenuto tanto leggendario. Il chiarificarsi del paesaggio storico-
culturale catalano permette anche l’emergere di ulteriori conferme e ipotesi: così David Juste, nel
suo studio introduttivo all’edizione degli Alchendreana,20 un corpus astrologico latino che attinge
ampiamente all’astrologia araba, attribuisce proprio a Miro Bonfill il nucleo più antico di questa
raccolta, avanzando a questo punto una nuova ipotesi circa l’identificazione di quel misterioso liber
de astrologia di cui, nel 984, Gerberto fa richiesta a Lupito. Senza offrire alcuna prova significativa,
ma non per questo con minore sicurezza, si è sostenuta a lungo l’idea che si trattasse di un trattato
sull’astrolabio, considerando che nella storia di Gerberto non sembra mai esserci un’attenzione
verso quegli aspetti della “cultura delle stelle” che rientrano nel campo dell’astrologia; ma Juste al
riguardo propone di non leggere un equivoco in quell’uso del termine astrologia, citando tutta una
serie di altri indizi, interni all’epistolario, che sembrano comprovare la conoscenza del corpus
alchandreano da parte dell’aquitano:21 in fondo Gerberto è figlio del suo tempo.
Ma se sul piano contenutistico questo dato toglie qualcosa, o meglio toglie qualcosa di ciò
che vorremmo, per altri versi ci fornisce molte conferme: il legame con Miro in primo luogo (e a
questo punto dovremmo mettere insieme più dati per delineare meglio questo personaggio e il
mondo che lo circonda), ma anche la certezza dell’esistenza, già a quest’altezza cronologica, di un
canale fra mondo arabo e mondo latino al quale anche Gerberto ha avuto accesso. Siamo solo agli
inizi e la possibilità provata di un contatto credo sia per certi aspetti ancora più importante del
contenuto culturale in transito fra i due mondi.
In questa terra catalana ci troviamo quindi di fronte a una costellazione di iniziative sparse:
la costituzione del corpus alchandreano che Juste ha legato all’iniziativa di Miro; la costituzione del
17
BERGMANN 1980.
18
Per maggiori informazioni su questi personaggi rimando ai miei contributi citati a nota 1.
19
NUVOLONE 2005, 2007 e 2008.
20
JUSTE 2000 e 2007.
21
Juste avanza anche l’ipotesi (JUSTE 2007, pp. 263-265) di poter far risalire a Gerberto l’archetipo
degli Alchandreana del ramo della Lotaringia, del tutto indipendente dal ramo francese: in entrambe
le copie (Vaticano, BAV, Barb. lat. 92 e Vat. lat. 3101) i testi degli Alchandreana sono associati
con quelli del corpus astrolabico e con gli scritti geometrici di Gerberto.
corpus astrolabico come ha illustrato Zuccato; 22 l’esistenza nel ms. Paris, BNF, lat. 7412, di alcune
righe che rappresentano la traduzione (la prima) latina del capitolo iniziale del Planispherium di
Tolomeo, individuate da Kunitzsch; la realizzazione dell’astrolabio Destombes o astrolabio
carolingio, che ormai si concorda nell’attribuire al terzo o ultimo quarto del X secolo.23
Ma sottolineiamo ancora: si tratta di dati sparsi e, sembra, legati a iniziative individuali. Ciò
che emerge con sufficiente chiarezza è che all’epoca del viaggio di Gerberto le biblioteche dei
monasteri da lui probabilmente frequentati non contenevano particolari tesori scientifici, ma
soprattutto non contenevano testi estranei rispetto al patrimonio latino di qualsiasi altra biblioteca
del continente.24 L’educazione di Gerberto si gioca allora non, o meglio non solo, non nei suoi
aspetti più particolari, nelle sale delle biblioteche monastiche bensì nell’ambito delle frequentazioni
di alcuni personaggi che intrapresero personali percorsi di studio. Uscendo dall’ambito
dell’istituzionale ci troviamo allora, purtroppo, di fronte a un mondo che in parte ci sfugge del tutto:
in assenza di scoperte documentarie in loco i testi gerbertiani ci forniscono solo i nomi già citati; ma
erano gli unici? In parte è molto difficile da ricostruire in quanto, non potendo parlare di biblioteche
monastiche, dovremo riferirci a biblioteche “private”, e qui il terreno della ricostruzione si fa
decisamente impervio.25
Questo il mondo della formazione giovanile di Gerberto, un mondo ai suoi inizi, con tutte le
incertezze, le lacune, le strade percorse e poi abbandonate, le incomprensioni che lo possono
caratterizzare. Se questo è il retroterra, il contesto, di cosa allora andare alla ricerca nei testi e nei
metodi di Gerberto? Di piccole “distorsioni” della struttura, che resta basilarmente e
preponderantemente latina.
E piccole “distorsioni” ci sono. Sorvolo sulle nove notas dell’abaco che sono ormai un dato
pienamente acquisito ma ricordo due dati rinvenuti nelle pubblicazioni più recenti che mi hanno
particolarmente colpito: per quel che riguarda la Geometria, testo costantemente liquidato come
pedissequo calco di un manuale da agrimensore latino, Jean Guillaumin 26 ha individuato
un’interessantissima “distorsione” nella definizione dell’angolo piano, dove accanto alla
tradizionale formula latina, due rette che convergono in un punto, se ne affianca una seconda che
definisce l’angolo come spazio ed è concettualmente del tutto aliena dalla tradizione latina;
nell’ambito delle sfere, Zuccato27 ha messo in evidenza nella quarta sfera l’esistenza di un anello
esterno definibile come circolo dell’orizzonte, un particolare tecnico che rappresenta una costante
nei globi di fattura islamica è ma sconosciuto al mondo latino. Per quel che riguarda le sfere,
aggiungerei, sarebbe poi interessante a questo punto saperne di più sui metodi di insegnamento
nelle scuole catalane: questo gusto di Gerberto per l’impiego nell’insegnamento di modelli ma
anche di rudimentali strumenti che servissero per l’osservazione, un gusto che si ripercuote anche al
di là dell’ambito preso in esame se pensiamo alla tavola per l’apprendimento della retorica, nasce
spontaneamente in Gerberto o è il retaggio dell’esperienza giovanile? Una “distorsione” anch’essa?
Un’altra formula significativa per inquadrare il quadrivium gerbertiano potrebbe essere
quella di “Gerberto scienziato-maestro”: lungo sarebbe il discorso sulla pedagogia dell’aquitano.
22
ZUCCATO 2005; ma si veda anche KUNITZSCH 1998.
23
KUNITZSCH 1993 e 1994.
24
Citiamo qualche titolo utile per comprendere il contenuto di queste biblioteche: LLAURO 1927-
1928; JUNIYENT 1963; MARTÍNEZ GÁZQUEZ 1991; ALTURO Y PERUCHO 1996.
25
Significativo il titolo dello studio A. PLADEVALL I FONT, Entorn a l’estada de Gerbert a
Catalunya (967-970). L’existéncia de biblioteques privades perdudes, in Gerbert d’Orlhac 1999,
pp. 651-663.
26
GUILLAUMIN 2000.
27
ZUCCATO 2005 e 2010.
Oppure potremmo parlare anche di un quadrivium che è al tempo stesso autonomo e inserito in una
precisa visione del sapere direi quasi teleologiga: esso è un dentello della chiave che dischiude la
comprensione del mondo, e dell’Altissimo.28 Ma parlando di questo percorso da Vich a Reims,
come si è visto, si caratterizza l’insegnamento scientifico di Gerberto soprattutto come qualcosa di
antico e nuovo allo stesso tempo: sostanzialmente come qualcosa di problematico.
Come interpretare dunque alla fine questo quadrivium gerbertiano, una volta effettuata una
breve ricognizione tra “testi e contesti”, viaggiando da “Vich a Reims”? La vicenda delle cifre arabe
che entrano (o a questo punto forse più correttamente dovremmo dire ri-entrano) nel mondo
occidentale tramite Leonardo Fibonacci è emblematica: per certi aspetti quella gerbertiana è
un’eredità che languisce nel giro di una generazione, quella dei primi abacisti. Se si riuscisse a
chiarire meglio il quadro in relazione all’astrolabio e alla Geometria incerti auctoris, che appare
ormai strettamente legata al corpus astrolabico, probabilmente la figura di Gerberto si imporrebbe
con più chiarezza come quella di un individuo che ha aperto un canale di comunicazione: in realtà
infatti più che sul piano strettamente contenutistico il lascito maggiore in questo senso resta
certamente quello del modello organizzativo della scuola di Reims. Se però esuliamo da un discorso
di eredità, quella di Gerberto è in primo luogo testimonianza di una grande individualità, e forse,
superati certi trionfalismi ottocenteschi biografo-centrici, chiariti ormai nelle loro linee
fondamentali i processi storici dell’età di mezzo, possiamo tornare alle grandi individualità e
volgere lo sguardo anche ai percorsi interrotti della storia, agli esperimenti falliti o riusciti solo in
parte, per quel che permettevano le circostanze; e Gerberto cultore di quadrivium è tutto questo, una
grande individualità, un percorso interrotto e poi ripreso, un esperimento prematuro.
In secondo luogo l’esperienza catalana di Gerberto diviene testimonianza di un fatto:
l’importanza delle zone di confine, delle zone cerniera in cui sono presenti comunità di minoranza
portatrici di diversità culturali; e la Catalogna in questo senso è esemplare nel suo stesso nome dato
che viene definita Marca Hispanica. La riconosciuta vivacità culturale di quest’ambiente permette,
nel nostro caso, di recuperare e dare sostanza al dato leggendario: la storia di Gerberto non è una
storia di negromanti, di incursioni nel cuore della Spagna musulmana a contatto con maestri arabi,
di congegni magici,29 ma effettivamente forse c’è una ragione per cui tanto si è insistito su questo
viaggio. “Quel” periodo di formazione giovanile sembra essere l’elemento che determina una
diversità di Gerberto rispetto ad altri grandi sapienti del suo tempo. È allora da queste realtà, per
affrontare le quali credo sia necessario porsi in ambito umanistico in un’ottica di complessa
interdisciplinarietà, impegnandosi ad abbattere i confini tradizionali delle proprie discipline di
competenza, superando in primo luogo nella propria formazione la distinzione fra orientalisti e
medievisti europei, che possono venire dati che schiudano allo storico prospettive nuove e
permettano nuove connessioni chiarificatrici del processo storico. E in questo l’esperienza di
Gerberto diviene esemplare.
Marta Materni
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