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VIII - Wickham, Economia Altomedievale

Riassunto del saggio "Economia altomedievale" di Chris Wickhma, per lo studio dell'esame di STORIA MEDIEVALE.

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VIII. C. Wickham, “Economia altomedievale”, in Storia medievale, Donzelli, Roma, 1998, pp. 203-226.

Il saggio si propone di analizzare le conseguenze economiche del passaggio dall’Impero romano


d’Occidente al mondo altomedievale. Si registra innanzitutto una fase di impoverimento: dopo il 550, sorsero
pochi edifici monumentali, per giunta piccoli e malfatti; la produzione ceramica era locale; le modalità del
fisco erano rudimentali, rispetto all’apparato fiscale dell’Impero tardoantico, i viaggi sulle lunghe distanze si
fecero più difficili e rari. Come ci sono elementi di rottura col periodo precedente, vi sono però anche
elementi di continuità: l’economia agricola rimase sostanzialmente invariata, i contadini non modificarono i
loro modi di sussistenza e le tecniche produttive, il rapporto proprietari terrieri-affittuari rimase inalterato
fino al periodo carolingio; la ricchezza continuava a basarsi sulla terra e sui suoi prodotti.
Tuttavia, la caduta dell’Impero romano è stata vista spesso come una catastrofe, dal punto di vista morale,
politico ed economico. È stata discussa anche la questione del ruolo delle popolazioni germaniche
nell’impero: sono state un elemento distruttivo o hanno conservato alcuni aspetti dello stato romano che è
piuttosto crollato per una debolezza intrinseca? E che esito ha avuto il loro arrivo su economia, agricoltura,
commercio? Sull’economia altomedievale, vi sono tre posizioni storiografiche, in ognuna delle quali c’è un
quid di verità:
1) Il periodo delle invasioni portò una crisi, dopo la quale l’economia dovette ricominciare da zero,
avendo una ripresa solo in età carolingia;
2) C’è una sostanziale continuità tra economia tardoantica e altomedievale, con un progressivo
indebolimento;
3) Tesi di Pirenne: continuità sostanziale fino al VI secolo, interrotta dalla conquista araba del
Mediterraneo meridionale e orientale.

L’economia dell’impero tardoantico aveva una base agricola. Circa 2000 città avevano il compito di
riscuotere le tasse: la loro base economica era dovuta al fatto che ospitassero le residenze dei proprietari
terrieri, che costituivano anche il ceto di governo cittadino (curiales)1. Il vantaggio derivante dal compito dei
curiales inizia a diminuire, e un segno di ciò sono le loro proteste che si fanno sempre più frequenti.
Il sistema fiscale del governo centrale era molto elaborato, e si fondava sull’annona, una tassa che gravava
sulle popolazioni rurali in base sia all’estensione delle terre sia al numero di contadini presenti su di esse 2,
necessaria per poter mantenere l’esercito, finanziare la burocrazia e nutrire le capitali dell’impero.
Lo spostamento di merci organizzato dallo stato doveva essere più importante degli scambi commerciali
privati: c’era un movimento di prodotti dalle province ricche di grano e facilmente difendibili alle capitali e
agli eserciti sulle frontiere settentrionali e orientali. A lungo si è discusso sull’entità delle attività
commerciali nell’Impero romano: la sua importanza fu sostenuta da Michail Rostovcev, in un’ottica
precapitalistica. Altri storici (Max Weber, Moses Finley) ritenevano invece che l’iniziativa commerciale
fosse marginale, a causa della dominante agraria e della potenza dello stato. È probabile, tuttavia, che il
commercio sia fiorito grazie all’attività economica dello stato, cioè che la circolazione economica tra le
diverse sponde del Mediterraneo, da intendere come circolazione di beni di prima necessità, abbia
incoraggiato anche la circolazione commerciale 3: pensiamo all’Africa, che era sia un importantissimo
granaio sia una produttrice di ceramica fine; di fatto, le navi che trasportavano scorte alimentari potevano
trasportare anche ceramica. Ulteriore prova di ciò è che la crisi dello stato giunse anche a minacciare il
settore commerciale.
Il sistema fiscale ebbe fine con la rottura dell’unità mediterranea causata dalle invasioni barbariche: con i
Vandali, l’Africa smise di versare le tasse all’impero. Le élites occidentali erano oppresse dalle tasse e
iniziavano a cercare modi per evaderle: siccome gli eserciti germanici preferivano ricevere terre per il
proprio sostentamento, c’era bisogno di meno tasse per mantenerli, e può darsi che la prospettiva di versare
meno tasse, anche se bisognava cedere una parte dei terreni, attraesse i proprietari terrieri occidentali. In ogni
caso, il sistema di interdipendenze su cui si reggeva il fisco romano non c’era più.

In passato, si credeva che la fine dell’Impero occidentale coincidesse con la fine del modo di produzione
basato sul lavoro degli schiavi. In realtà, questo sistema di produzione era diffuso, già nell’alto impero, solo
nell’Italia centrale, invece in gran parte della Gallia e dell’Africa la coltivazione era basata sugli affittuari.
Gli affittuari potevano essere liberi o asserviti: entrambi, dal tardo impero in poi, rientrano nella categoria
della servitù più che in quella della schiavitù. Mentre il termine “schiavi” è riservato all’età classica, per l’età
1
Cfr. L. Provero, M. Vallerani, Storia medievale, Milano, 2016, p. 9.
2
Cfr. ibidem.
3
Cfr. op. cit., p. 10.
medievale in genere si usa “servi”: sono sempre uomini non liberi, comprati e venduti come merce, esclusi
da un diretto rapporto col potere regio, ma nel medioevo i servi erano considerati parte della comunità
cristiana, potevano ottenere terre in concessione 4; anche i contadini più dipendenti godevano di una certa
autonomia, perché vivevano con le loro famiglie sulla terra che lavoravano.
Vale la pena soffermarsi sui rapporti sociali nelle campagne. I liberi contadini forse trassero beneficio dalla
crisi del sistema fiscale romano, perché con essa non dovettero più pagare le tasse; all’inizio l’aristocrazia
non si era ancora sostituita allo stato per esercitare il proprio potere su di loro. Forse le élites che
finanziavano edifici costosi o produzioni artigianali erano povere, come ci attesta la povertà della cultura
materiale di questo periodo. Diverse legislazioni mostrano norme relative ai contadini produttori, che quindi
dovevano avere un certo peso politico se venivano promulgate delle leggi per loro. Sempre da queste leggi si
evince che, nei regni romano-germanici, i contadini indipendenti non avevano, almeno in teoria, un signore
che s’interponesse fra loro e il re. Bisogna comunque essere cauti nel ricavare dati sicuri da documenti
giuridici.
Oggi gli storici ritengono che in tutte le società altomedievali coesistessero contadini indipendenti e
aristocratici. Laddove la proprietà terriera era frazionata, proprietari e affittuari dei proprietari vivevano
fianco a fianco, anche perché in fondo avevano assetti familiari simili e seguivano analoghe pratiche
agricole. È importante inoltre dire che non esisteva un confine netto tra contadini e aristocrazia e non
esisteva un termine preciso che definisse l’aristocratico. Gli aristocratici erano soggetti che vestivano
diversamente, mangiavano più carne, guidavano eserciti ed erano strettamente associati al re. Ma
inizialmente, essi non avevano specifici poteri legali associati alla loro posizione sociale. Stando ad alcuni
documenti, la ricchezza del potere aristocratico variava in base al luogo e al tempo. All’inizio del medioevo,
nessuno (tranne i re, e nemmeno tutti) poteva raggiungere il livello di ricchezza dei senatori della tarda
romanità: nell’Italia longobarda e nell’Inghilterra anglosassone l’entità delle fortune aristocratiche sembra
essere stata inferiore. Nel periodo carolingio, i bottini derivanti dalle guerre vittoriose di Carlomagno fecero
diventare i ricchi ancora più ricchi; vi fu l’espansione della proprietà ecclesiastica, e gli abati e i vescovi
arrivarono a controllare territori pari a quelli degli aristocratici. Questa ricchezza creava una maggiore
disponibilità di surplus agricolo, che poteva essere venduto per acquistare merci: s’incoraggiarono gli scambi
e vi fu quindi una crescita economica. Dopo il 900, l’autorità regia s’indebolì e le strutture del potere locale
acquisirono una fisionomia più definita anche dal punto di vista legale, anche con la privatizzazione dei
poteri giudiziari.
Lo sfruttamento delle grandi proprietà terriere durante il periodo tardoromano e altomedievale era fondato
sugli affitti, in denaro e in natura, da versare al proprietario della terra o a un affittuario a sua volta. I
proprietari terrieri intervenivano raramente in modo diretto sui modelli di sfruttamento, limitandosi a
richiedere certi generi di prodotti anziché altri, per commercializzarli. Durante la crisi dell’impero, però, gli
sbocchi commerciali dovettero chiudersi e la produzione era volta solo alla sussistenza: così, l’intervento dei
proprietari dovette diventare ancora più raro nel primissimo periodo del medioevo. Lo sfruttamento agricolo
pure sembra subire un declino nel periodo altomedievale: le terre incolte aumentavano e molti collegano tale
aumento a un calo demografico. Anche in questo caso, però, non dobbiamo adottare una prospettiva
catastrofista: la ricerca oggi ci dà il senso di un declino relativamente moderato della produzione agraria, e la
ridotta pressione demografica coincise con un incremento del pascolo sulle terre incolte, da non mettere in
relazione quindi con la vocazione pastorale dei popoli germanici. Intorno al 700, comunque, si ebbe
un’inversione di tendenza, con un incremento demografico, attestato da opere di disboscamento e
prosciugamento di paludi per estendere le aree coltivate.

Per quanto riguarda la sfera degli scambi, contrariamente a quanto riteneva Pirenne, il commercio dei beni
di lusso continuò senza interruzioni anche con la conquista araba, per la vocazione commerciale degli arabi.
Certo, l’unità commerciale del Mediterraneo si era pressoché dissolta nel VII secolo prima dell’arrivo degli
arabi, ma rimase comunque un commercio interregionale. Le testimonianze di scambi commerciali nei mari
del Nord e in Renania dopo il 700 sono più numerose di quelle che ci sono per il Mediterraneo: infatti, i
punti di maggiore concentrazione della ricchezza agraria (che alimentava, come abbiamo visto, l’attività
commerciale) erano nel Nord. Dalla fine del VII secolo, si assiste a uno sviluppo internazionale degli
scambi: sulle coste del Mare del Nord iniziano a sorgere attivissimi porti (emporia), in cui si concentrava il
traffico di beni di lusso, beni provenienti da Oriente e armi, gioielli e vetro occidentali, ma anche beni di più
ampio consumo (legname, sale, schiavi). Furono i carolingi a contribuire a questa espansione commerciale: i
re, infatti, proteggevano i mercanti e stipulavano accordi commerciali bilaterali. Importante in tal senso fu

4
Cfr. op. cit., p. 89.
anche la riforma monetaria carolingia 5: venne stabilito il pieno controllo regio sulla coniazione, che nel
periodo merovingio era stata di carattere regionale; Carlomagno sostituì l’oro con l’argento in quanto
l’argento poteva essere estratto in diverse regioni occidentali a differenza dell’oro, e questo certo favorì
perlomeno il commercio su vasta scala e quello coi paesi lontani.

Le grandi proprietà erano spesso molto frammentate, distribuite tra decine o centinaia di appezzamenti:
questa situazione, conseguenza del sistema successorio romano che assegnava una uguale parte di eredità a
tutti i figli, si nota in particolare in Italia. In Gallia centrosettentrionale, invece, i documenti (sec. VI-IX)
attestano spesso proprietà più concentrate e omogenee, con grandi tenute sotto il controllo di un potente o di
una chiesa. Tenute bipartite, divise in un dominicum e in un massaricium, si registrano per la prima volta in
Gallia nel periodo merovingio. Tale sistema, di cui non sono ancora chiare le origini, certamente non risale al
mondo romano, perché divenne comune solo dopo la metà dell’VIII sec.
Il modello curtense6, a lungo considerato come il sistema agrario medievale per eccellenza in quanto è
quello più documentato nelle fonti, ebbe in realtà una diffusione molto limitata nel tempo e nello spazio: si
concentrò infatti in Gallia (dove le curtes erano chiamate villae), in Inghilterra, in Italia del nord. Molte
informazioni sulle curtes le ricaviamo dai polittici, registri che riportano la consistenza delle proprietà,
elenchi dettagliati di affitti e servizi, e dimostrano il forte interesse dei proprietari terrieri per la gestione
delle loro proprietà in tutti gli aspetti (l’intervento del signore nella gestione economica delle curtes si
diffuse durante il XI secolo). Forse alla base della redazione di polittici, insoliti in un periodo di scarsa
documentazione, ci fu una precisa volontà del re.
Gli affittuari dovevano prestare lavoro sul dominicum per due o tre giorni a settimana, e qualche volta,
come remunerazione, ricevevano del cibo. I contadini dipendenti potevano essere liberi o non liberi. I servi
svolgevano in genere più corvées dei liberi e pagavano affitti meno alti. Tra i liberi, però, c’erano alcuni che
prestavano servizi che sembrano indicare uno status più elevato, testimoniato anche dall’affitto versato in
denaro. La differenza fra libero e non libero era comunque sfumata, perché avvenivano matrimoni tra i
membri delle due categorie e perché non era raro trovare un libero che svolgeva lavoro su un manso servile e
viceversa7. Questo era un elemento di confusione che generava ulteriori divisioni e processi di cessione in
affitto di mansi, e diede adito a una parziale crisi del sistema.
In altre zone d’Europa, c’era un modello di proprietà terriera più frammentato, con una struttura centrale
più debole e concessionari che pagavano solo gli affitti fornendo di tanto in tanto qualche servizio. È
comunque da notare che anche all’interno dell’area di diffusione del modello curtense c’erano significative
differenze nell’organizzazione delle terre fra dominicum e massaricium, nelle tipologie di coltivazione, nei
rapporti fra liberi e non liberi e negli affitti e nelle prestazioni di lavoro. Insomma, quello curtense non fu
mai un modello unico di organizzazione delle proprietà terriere imposto dall’alto.
Tuttavia, il Capitulare de Villis dava molta importanza all’autosufficienza, perché tutto poteva essere
prodotto all’interno dell’azienda: sulla scia di ciò, molti storici hanno sviluppato la tesi secondo la quale in
questo periodo non esisteva commercio, sostenendo che la ripresa economica sarebbe avvenuta in un
secondo momento; in altri termini, tenendo conto di quelle che potevano essere le inadeguatezze
tecnologiche del sistema curtense, esso serviva solo a fornire le materie prime per i consumi degli
aristocratici (tesi di Georges Duby). In realtà, il sistema curtense è stato vittima di una rappresentazione
negativa che altri storici hanno cercato di contrastare: sulla scorta anche di dati archeologici, storici come
Cinzio Violante e Pierre Toubert hanno dimostrato come le curtes fossero centri di produzione che
rispondevano alla domanda di beni proveniente dall’aristocrazia e dal clero, ma che contribuivano anche ai
traffici, incrementando il commercio, perché i signori, accumulando ricchezza, potevano vendere e
comprare. Quindi, la produttività del sistema curtense era orientata alla commercializzazione.

Un altro dibattito molto importante riguarda la città altomedievale. La rete delle città rimase in piedi,
trasformandosi in rete di centri episcopali.
Bisogna distinguere le città in quanto centri istituzionali e in quanto centri economici. Come sedi
istituzionali, le civitates/municipia del periodo romano sopravvissero ovunque, ereditando e mantenendo le
loro funzioni episcopali. Come centri economici, ovvero centri urbani definiti per via di una certa
concentrazione demografica e una differenza dell’attività economica rispetto alla campagna, le città non
esistevano ovunque all’inizio del medioevo: infatti, molte sedi episcopali erano solo spazi vuoti, con qualche
rovina.
5
Cfr. op. cit., p. 94.
6
Per il sistema curtense, cfr. op. cit., pp. 87-94.
7
Cfr. op. cit., p. 89.
Alcuni storici hanno a lungo sostenuto che nell’alto medioevo non ci fu alcuna forma di continuità urbana
perché dopo la fine dell’impero non esisteva più alcuna attività commerciale. Ma nel periodo romano le città
non erano mai state centri prevalentemente commerciali, bensì punti di riferimento della proprietà terriera: è
chiaro allora che il destino delle città appare legato alle scelte di residenza dei proprietari terrieri, i quali in
età postromana decisero di trasferirsi in campagna. Infatti, non dovevano più occuparsi della riscossione
delle tasse, che era stata un’attività redditizia per loro e li costringeva a rimanere in città. Diversi autori di V-
VI secolo (Sidonio Apollinare, Cassiodoro) lamentano dell’abbandono delle città da parte dei proprietari
terrieri.
Quello della crisi urbana è diventato un vero e proprio dibattito storiografico. Ci sono senza dubbio alcuni
segni di una continuità urbana, evidente soprattutto in Italia: i re longobardi avevano la loro sede a Pavia e i
loro duchi risiedevano nelle città; da narrazioni politiche e vari documenti risulta che molti proprietari terrieri
e artigiani risiedessero nei centri urbani; in molte città dell’Italia è sopravvissuta quasi perfettamente la
pianta quadrata romana; le chiese dell’VIII secolo sorgevano spesso nelle città.
Negli anni Ottanta, invece, gli archeologi urbani (tra gli altri G. Pietro Brogiolo) hanno sostenuto che, dal
punto di vista materiale, non c’erano segni di sopravvivenza delle città, quanto piuttosto di crisi urbana: in
alcune città sono state trovate abitazioni in legno, o abitazioni in pietra fatte però di materiali riusati, e con
una struttura molto più semplice rispetto alla complessità delle abitazioni romane.
Negli anni Novanta si è cercato di trovare una sintesi tra le due posizioni. La continuità urbana è attestata, ma
non per tutte le città e non per l’intero territorio delle città (per esempio il settore orientale di Brescia fu
abbandonato, ma la parte occidentale rimase un centro urbano). Possiamo dire che le fonti archeologiche
attestano un generale impoverimento dei centri urbani in Italia, Africa e Gallia, mentre le attestazioni di
continuità urbana, seppur a un livello più basso, riguardano le città più ricche dell’ex impero occidentale.
È bene dire che si verificò anche una trasformazione della topografia cittadina. Il centro della città non era
più il foro, le cui costruzioni pagane monumentali decaddero, ma la zona intorno al complesso della
cattedrale, che normalmente si trovava al margine della città, e i palazzi dei duchi e dei re. Interi settori della
città furono abbandonati e in alcune città cambiò anche la configurazione stradale: l’equilibrio dello spazio
urbano si spostò e trovava adesso il suo centro nella cattedrale, o sviluppava più centri diversi con spazi vuoti
tra loro (“città ad isole”). Questa tendenza subì un’inversione dal 750 circa, con il progressivo ritorno, in
alcune zone, di strutture più monumentali e articolate.

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