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La Prima Guerra Mondiale

Il documento descrive lo scenario politico e le tensioni che portarono allo scoppio della Prima Guerra Mondiale in Europa nel 1914. Le principali potenze europee dell'epoca come Germania, Francia, Gran Bretagna e Russia erano in conflitto per motivi territoriali e coloniali. L'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo diede all'Austria-Ungheria il pretesto per dichiarare guerra alla Serbia, trascinando nel conflitto le altre nazioni a causa degli accordi di alleanza preesistenti.

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La Prima Guerra Mondiale

Il documento descrive lo scenario politico e le tensioni che portarono allo scoppio della Prima Guerra Mondiale in Europa nel 1914. Le principali potenze europee dell'epoca come Germania, Francia, Gran Bretagna e Russia erano in conflitto per motivi territoriali e coloniali. L'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo diede all'Austria-Ungheria il pretesto per dichiarare guerra alla Serbia, trascinando nel conflitto le altre nazioni a causa degli accordi di alleanza preesistenti.

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LA PRIMA GUERRA MONDIALE

1. L’Europa alla vigilia della guerra


La Germania e l’antagonismo con Francia e Gran Bretagna - All’inizio del XX secolo lo
scenario politico europeo era tutt’altro che pacifico. Tra le potenze vi erano infatti numerosi motivi
di attrito.
Particolarmente tese erano le relazioni diplomatiche tra Germania e Francia. La sconfitta nella
guerra franco-prussiana (1870) aveva rappresentato per lo Stato francese non solo un grave danno
economico, a causa della pesantissima indennità di guerra e della perdita dell’Alsazia e della
Lorena, ma anche una cocente umiliazione nazionale, e aveva favorito la diffusione tra i francesi
di un marcato sentimento antitedesco e un desiderio di rivalsa, detto revanscismo.
Alla rivalità tra Francia e Germania si aggiungeva quella, sempre crescente, tra impero tedesco e
Gran Bretagna. Il Reich rappresentava ormai una grande potenza industriale; inoltre l’imperatore
Guglielmo II aveva scelto di abbandonare la politica bjsmarckiana dell’equilibrio, sposando un
nuovo corso il cui obiettivo era far primeggiare la Germania tra le potenze mondiali. Con la
cosiddetta Weltpolitik (“politica mondiale”), oltre a creare di un impero coloniale da cui trarre
nuove risorse per sostenere la crescita industriale, il Kaiser ambiva a contendere all’impero
britannico la tradizionale egemonia sui mari. Nell’ultimo decennio del XIX secolo, i tedeschi
avevano pertanto triplicato le spese militari e ingrandito considerevolmente la loro flotta. Ciò,
naturalmente, aveva suscitato allarme nel governo britannico, deciso a conservare a ogni costo il
proprio primato. Il risultato fu una vera e propria corsa agli armamenti, che richiese a entrambi i
paesi sforzi economici ingenti e che si concretizzò nella costruzione di numerose navi corazzate.

La “Polveriera balcanica” - Un altro scenario di contesa fra gli Stati era rappresentato dalla
penisola balcanica, i cui confini erano stati ridisegnati in seguito alle guerre balcaniche
(1912-1913). Nonostante la nascita di nuovi Stati indipendenti dall’Impero ottomano, l’area era
fortemente instabile anche perché si trovava al centro degli interessi dell’Austria-Ungheria e
della Russia. La prima, dopo la sconfitta contro la Germania di Bismarck nel 1866 e la perdita dei
territori italiani al termine delle lotte risorgimentali, aveva scelto di concentrare le proprie forze
proprio nell’area balcanica. La seconda aveva sempre ambito a uno sbocco sul Mediterraneo e per
questo mirava a estendere la sua influenza sui Balcani. Anche l’Italia era parte in causa, poiché
guardava con interesse ai territori del neonato Stato albanese (1912).
Le tensioni erano esacerbate dal sempre più diffuso sentimento nazionalista tra le popolazioni slave
soggette all’Impero austro-ungarico. Tutta l’area balcanica era caratterizzata da un forte pluralismo
etnico, linguistico e religioso, terreno di scontro ideale per i nazionalismi, ma la situazione era
particolarmente incandescente in Bosnia-Erzegovina, che nel 1908, dopo trent’anni di
amministrazione austriaca - secondo quanto fissato dagli accordi del congresso di Berlino (1878) -,
era stata annessa unilateralmente all’Austria-Ungheria. Una parte della popolazione della Bosnia-
Erzegovina era di sentimenti filo-serbi e di fede ortodossa e desiderava porre fine alla dominazione
asburgica per unirsi al confinante Regno di Serbia. L’iniziativa dell’Austria aveva inoltre suscitato
l’irritazione delle altre potenze europee, a eccezione della Germania.

La competizione coloniale - Gli antagonismi fra le potenze non si giocavano soltanto sullo
scacchiere europeo, ma anche sul fronte extraeuropeo della corsa alle colonie. Nei primi anni del
Novecento, gli Stati erano in competizione fra loro per il dominio dei territori asiatici e africani ed
erano giunti in più occasioni a un passo dal conflitto. La rivalità era particolarmente accesa fra le
due maggiori potenze coloniali, Francia e Gran Bretagna, ma gravi attriti si erano verificati anche
tra il governo di Londra e quello russo, interessati alle stesse regioni dell’Asia. Inoltre, le due crisi
marocchine (1905 e 1911) avevano irrigidito ulteriormente i rapporti già molto tesi tra Francia e
Germania e solo con difficoltà i due paesi erano riusciti a scongiurare lo scontro armato.

2. L’Europa in guerra
L’attentato di Sarajevo e l’ultimatum alla Serbia - La scintilla scoppiò il 28 giugno 1914 a
Sarajevo, capitale della Bosnia, quando l’arciduca Francesco Ferdinando, nipote dell’imperatore
d’Austria Francesco Giuseppe e destinato come successore al trono, durante una visita ufficiale fu
assassinato insieme alla moglie da Gavrilo Princip, uno studente diciannovenne serbo-bosniaco
membro dell'associazione nazionalista “Giovane Bosnia”.
La Serbia era da tempo sospettata dagli austriaci di appoggiare organizzazioni terroristiche che
ambivano a unire tutti i popoli slavi del sud in un unico Stato. Per questo motivo il governo
asburgico colse l’occasione dell’assassinio dell’arciduca per eliminare in un colpo il principale
ostacolo alla sua espansione nei Balcani, e inviò al governo serbo un ultimatum, le cui condizioni
erano talmente dure che i serbi, se le avessero accettate, avrebbero di fatto rinunciato alla loro
indipendenza.

Lo scoppio del conflitto e il gioco delle alleanze - L’ultimatum fu quindi respinto e il 28 luglio
1914, esattamente un mese dopo l’attentato, l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia. I
serbi sapevano che, se fosse scoppiato un conflitto, la Russia - che aveva ribadito la sua protezione
nei confronti dello Stato balcanico - sarebbe scesa in campo al loro fianco: ciò accadde
puntualmente quando, pochi giorni dopo, lo zar ordinò la mobilitazione1 dell’esercito.
A partire da quel momento, le alleanze militari trascinarono in guerra un paese dopo l’altro. La
Germania, alleata dell'Impero austro-ungarico, dichiarò guerra alla Russia e alla Francia, che, in
quanto alleata dello zar, aveva già mobilitato le sue truppe. La Gran Bretagna cercò per qualche
giorno di tenersi fuori dal conflitto, ma quando i tedeschi invasero il Belgio, che aveva dichiarato la
propria neutralità e a cui i britannici avevano garantito protezione, anche Londra dovette impugnare
le armi.
Ben presto si definirono due schieramenti contrapposti: da una parte i paesi dell’Intesa, chiamati
anche Alleati (Francia, Gran Bretagna e Russia), dall’altra i cosiddetti Imperi centrali (Germania e
Austria-Ungheria). Al fianco dell’Intesa entrò in guerra anche il Giappone, che ambiva a
impossessarsi delle colonie tedesche in Estremo Oriente. Agli Imperi centrali si aggiunse invece
l’Impero ottomano, che aveva firmato un trattato di alleanza con la Germania. Fu così che il
conflitto fra Impero austro-ungarico e Serbia, per effetto del domino delle alleanze, provocò lo
scoppio di una guerra su scala mondiale.

L’entusiasmo per la guerra - Le dichiarazioni di guerra vennero accolte con favore dalla
popolazione dei paesi belligeranti. I giorni successivi all'inizio del conflitto furono contraddistinti
dall’esaltazione di quel sentimento nazionale che era stato per lungo tempo propagandato dalle
istituzioni scolastiche e statali. Secondo l’ideologia imperialista largamente diffusa in Europa ogni
nazione aveva una “missione storica” da compiere, ovvero ribadire la superiorità della propria
civiltà sulle altre nazioni, anche attraverso l’uso delle armi.
Soprattutto fra i giovani della classe media - e fra gli studenti in particolar modo - si diffuse
l’entusiasmo per la guerra; furono tanti gli uomini che partirono volontariamente per il fronte;
inoltre la maggior parte dei partiti socialisti europei abbandonarono le posizioni del pacifismo
internazionalista - in base alle quali tutte le guerre erano da ripudiare in quanto frutto della
conflittualità tra Stati borghesi - e ad appoggiare i rispettivi governi nella scelta di entrare in guerra.

1Il termine indica l’insieme delle operazioni logistiche inerenti alla chiamata alle armi; un esercito è mobilitato quando
passa dallo stato di pace alla predisposizione alla guerra.
Il fronte occidentale - Consapevole di non poter combattere contemporaneamente su due fronti, lo
Stato maggiore2 tedesco aveva adottato un piano per ottenere la rapida sconfitta dei francesi, prima
che la Russia riuscisse a mobilitare il proprio esercito. Il “piano Schlieffen”, così chiamato dal
generale che lo aveva elaborato, prevedeva di cogliere di sorpresa l’esercito francese con una
manovra di aggiramento delle linee attraverso il Belgio.
Ma inaspettatamente le armate del Reich guidate dal generale von Moltke furono fermate per quasi
due settimane dall’esercito belga, che oppose una strenua resistenza. Malgrado questo, i tedeschi
riuscirono ad avanzare, giungendo a pochi chilometri da Parigi e costringendo le truppe francesi,
guidate dal generale Joffre, a ripiegare. La Francia poté evitare la capitolazione anche grazie al
sostegno dei britannici, riuscendo ad avere la meglio sul nemico nella battaglia della Marna
(settembre 1914) e nella battaglia delle Fiandre (ottobre-novembre 1914). Pertanto i tedeschi,
nonostante l’enorme forza d’urto messa in campo, dovettero indietreggiare fino alla linea tracciata
dai fiumi Aisne e Somme, nel nord della Francia. Fallito in questo modo il piano Schlieffen, quella
tra Francia e Germania si trasformò da guerra di movimento3 in guerra di posizione4.

Il fronte orientale e il fronte medio-orientale - Intanto sul fronte orientale, i russi si scontravano
contemporaneamente con gli austro-ungarici e i tedeschi. Contro i primi ottennero un importante
successo nella battaglia di Leopoli (agosto-settembre 1914), occupando parte della Galizia; al
contrario, il tentativo di penetrare in Prussia si rivelò fallimentare e l’esercito russo fu sconfitto dai
tedeschi guidati dai generali Ludendorff e von Hindenburg sia a Tannenberg (agosto 1914) sia
presso i laghi Masuri (settembre 1914).
Nel 1915 la guerra proseguì senza che nessuno dei due schieramenti riuscisse a prevalere
sull’avversario. L’episodio più significativo fu l’apertura di un nuovo fronte in Medio Oriente. La
Gran Bretagna decise di attaccare l’Impero ottomano che era entrato in guerra a fianco degli Imperi
centrali. L’operazione, che si concentrò sulla penisola di Gallipoli e che vide impegnate anche
truppe australiane, neozelandesi e indiane, non ebbe però successo e le truppe ottomane, guidate dal
comandante Mustafà Kemal, riuscirono a fermare la marina britannica. Anche su questo fronte, il
conflitto si trasformò dunque in una guerra di trincea.

3. Un conflitto nuovo
Una guerra di massa e di trincea - Presto divenne chiaro che la guerra non si sarebbe risolta in
tempi brevi; malgrado ciò, e nonostante le gravi perdite subite da entrambe le parti, tutti i
belligeranti erano decisi ad andare avanti, nella convinzione di poter avere la meglio sul nemico.
Gli Stati europei fecero uso di tutte le risorse a loro disposizione, sia materiali sia umane. Alla fine
della guerra circa 60 milioni di uomini avevano preso parte al conflitto. Per questo motivo la Prima
guerra mondiale è considerata la prima guerra di massa della storia.
La potenza di fuoco delle armi era tale che l’unica possibilità di sopravvivere per i soldati
consisteva nel trincerarsi in posizioni difensive scavate nel terreno, mentre uscire allo scoperto per
attaccare significava sfidare la morte. Nasceva così una nuova, logorante forma di guerra: la guerra
di trincea. Vivere nelle trincee significava combattere non solo col nemico, ma anche con
l’umidità, la sporcizia e le malattie. I soldati trascorrevano le giornate in compagnia di topi,
pidocchi e ogni sorta di parassita; perennemente sottoposti al tiro dei nemici - che si trovavano in
un’altra trincea, spesso a un centinaio di metri - erano quasi impossibilitati a liberarsi di rifiuti ed
escrementi, con cui erano quasi sempre a contatto. Spesso anche i cadaveri restavano per lungo
tempo in prossimità dei cunicoli e delle buche in cui si attestavano le linee di difesa. Queste precarie

2 Il complesso degli ufficiali di vertice delle forze armate di una nazione.


3 Guerra che prevede l’avanzata di almeno uno degli eserciti.
4 Guerra in cui gli eserciti in conflitto rimangono fermi, protetti da barriere di difesa.
condizioni igienico-sanitarie facilitarono dunque il diffondersi di vere e proprie epidemie (di tifo e
di colera, ad esempio).
Su tutti i fronti, gli eserciti contrapposti trascorsero anni inchiodati nelle loro trincee, protette da
reticolati di filo spinato, per poi essere falcidiati in spaventose offensive che permettevano, nel
migliore dei casi, di conquistare pochi chilometri di terreno ridotto a un deserto. Per tutte queste
ragioni l’esperienza della Prima guerra mondiale fu per i combattenti più spaventosa di quella di
tutte le guerre precedenti.

L’industria e i nuovi armamenti - Combattuta fra grandi potenze industriali, la guerra ebbe l’effetto
di accelerare lo sviluppo di nuove tecnologie, data l’enorme quantità di denaro che ogni governo
spendeva per migliorare l’equipaggiamento del proprio esercito. Il camion, il telefono, la radio, la
motocicletta, l’automobile e l’aeroplano erano stati tutti inventati prima della guerra, ma a partire
dal 1914 il loro impiego al fronte li trasformò in strumenti bellici e dopo la fine della guerra
continuarono a essere largamente presenti nella vita civile.
Le armi, naturalmente, conobbero lo sviluppo più significativo. Il carro armato fu impiegato
massicciamente dai britannici nelle fasi finali del conflitto; un ruolo non trascurabile fu giocato
anche dal sommergibile, utilizzato dai tedeschi, oltre che contro le navi da guerra, anche per
affondare le navi mercantili che rifornivano di materie prime e viveri i paesi nemici.
La guerra fu caratterizzata soprattutto dall’uso di mezzi di distruzione di massa, prodotti nelle
fabbriche in grandi quantità. La mitragliatrice provocò enormi perdite agli attaccanti in ogni
battaglia, ma la principale causa di morte fu l’artiglieria: ogni offensiva era infatti preceduta da un
bombardamento che poteva durare diversi giorni, condotto da migliaia di cannoni.
L’arma più disumana sperimentata sui campi di battaglia furono però i gas. Era anche questo un
frutto dei grandi progressi compiuti prima della guerra dall’industria chimica. Furono i tedeschi a
usare per primi nuvole di gas che soffocavano, ustionavano o accecavano le vittime. Tutti gli altri
eserciti si affrettarono a imitarli e la maschera antigas divenne da allora un accessorio
indispensabile a ogni soldato.

Il “fronte interno” e l’interventismo statale - Parallelamente al fronte militare vero e proprio, che
assorbiva un gran numero di uomini e mezzi, in ciascuno degli Stati impegnati nel conflitto venne a
crearsi un “fronte interno”. Con questa espressione si indicava il fatto che la guerra avrebbe dovuto
essere combattuta e vinta non solo sul campo di battaglia, ma anche all’interno del paese,
potenziando la produzione industriale, mantenendo alto il morale della popolazione civile e
persuadendola con la propaganda ad accettare i sacrifici imposti dalla guerra. Durante gli anni del
conflitto l’industria conobbe una crescita esponenziale nei settori direttamente legati alla
produzione di forniture per gli eserciti (industria meccanica, siderurgica, chimica): la guerra
divenne una sorta di incubatrice per lo sviluppo industriale.
I normali ritmi dell’economia furono stravolti a causa dell’intervento sistematico e pervasivo degli
apparati statali; in tutti i paesi belligeranti, divenne di fondamentale importanza incrementare e
coordinare la produzione per poter disporre delle risorse necessarie a sostenere la guerra. Questo
interventismo comportava per gli Stati un gigantesco sforzo organizzativo e finanziario, da cui
trassero vantaggi soprattutto le grandi industrie: lo Stato diventava infatti il loro principale
committente.

La mobilitazione dei civili - Per mantenere elevati i ritmi di produzione, era necessario non solo
sottoporre la forza lavoro a una disciplina di stampo militare, ma anche sostituire nelle fabbriche la
manodopera richiamata alle armi e impegnata al fronte; anche e soprattutto per questa ragione le
donne entrarono massicciamente a lavorare nelle fabbriche. Tutti i settori industriali avevano
bisogno di personale femminile, ma in particolare quelli legati alla produzione bellica. Oltre che in
fabbrica, le donne sostituirono gli uomini in altre funzioni, persino nelle professioni
tradizionalmente riservate agli uomini e dalle quali erano escluse in quanto in genere non avevano
accesso all’istruzione universitaria.
Ai civili lo Stato richiese di servire la patria anche sottoscrivendo prestiti di guerra, cioè buoni del
tesoro che avrebbero finanziato la prosecuzione delle ostilità; dopo alcuni anni dall’inizio del
conflitto, anche il razionamento dei beni primari e le requisizioni di prodotti agricoli divennero
una consuetudine in molti paesi. Tutte queste iniziative furono portate avanti attraverso una
propaganda ossessiva e con metodi polizieschi.

Una guerra globale - L’andamento del conflitto dimostrò inoltre come la politica e l’economia
fossero divenute ormai globali. I paesi belligeranti controllavano attraverso le colonie gran parte del
mondo; perciò fin dall’inizio si combatté non soltanto in Europa, ma anche in Africa, in Asia e
in Medio Oriente.
I primi due teatri di guerra furono relativamente secondari. Tutte le colonie tedesche - con
l’eccezione dell’Africa orientale tedesca - passarono di mano prima della fine della guerra senza
eccessivi spargimenti di sangue.
Più intricata fu la situazione in Medio Oriente: qui le truppe britanniche si impadronirono di parte
della regione della Mesopotamia, sino ad allora controllata dall’Impero ottomano, e fomentarono le
rivolte antiturche dei nazionalisti arabi.
Un altro aspetto contribuì a rendere il conflitto globale: l’impiego di truppe coloniali. Per le
popolazioni extraeuropee la partecipazione alle operazioni belliche fu sicuramente traumatica, ma
divenne anche l’occasione per acquisire maggiori diritti e consapevolezza del proprio ruolo.
La guerra ebbe ripercussioni sul piano mondiale anche in termini economici. La richiesta continua
di rifornimenti (armi, approvvigionamenti alimentari ecc.) incentivò infatti il decollo dell’industria
in paesi lontani dal teatro principale delle operazioni belliche.

4. L’Italia entra in guerra (1915)


Dall’iniziale neutralità al dibattito sull’intervento - Allo scoppio della guerra, il governo italiano
era guidato da Antonio Salandra. Egli, nonostante l’Italia fosse legata all’Austria-Ungheria e alla
Germania dalla Triplice alleanza, aveva inizialmente mantenuto il paese neutrale. La scelta fu resa
possibile dalle modalità con cui l’Austria-Ungheria si era mossa: la Triplice alleanza era un accordo
militare difensivo e gli austro-ungarici non erano stati attaccati; inoltre, Vienna aveva deciso di
dichiarare guerra alla Serbia senza consultare gli italiani. Per questi motivi, Salandra poté sostenere
che l’Italia non aveva alcun obbligo nei confronti dell’alleato.
In un primo momento, la presa di posizione di Salandra trovò l’appoggio della maggioranza degli
italiani. La situazione si complicò quando alcune forze politiche, insieme a una parte consistente
dell’opinione pubblica, iniziarono a fare pressione affinché l’Italia intervenisse nel conflitto, anche
se non a sostegno dell’Austria-Ungheria, bensì delle potenze dell’Intesa. Iniziò così un acceso
dibattito che vide scontrarsi tra loro interventisti, favorevoli alla guerra contro l’eterno nemico
austriaco, e neutralisti, convinti dell’inopportunità dell’intervento italiano.

Due fronti eterogenei - Lo schieramento interventista era molto eterogeneo dal punto di vista
politico. Ne facevano parte innanzitutto i nazionalisti: desiderosi di vedere l’Italia affermarsi come
grande potenza imperialistica, giudicavano gli interessi austro-ungarici in contrasto con quelli
italiani e per questo ritenevano il conflitto inevitabile. Sostenevano la necessità dell’intervento
anche le forze politiche democratiche, per le quali una guerra contro l’Austria-Ungheria avrebbe
consentito all’Italia di conquistare le terre irredente5 (Trento e Trieste) che con il Risorgimento
non erano state annesse al nuovo Stato italiano. A questa motivazione si aggiungeva la convinzione
che una vittoria avrebbe significato la caduta di due imperi autoritari come la Germania e l’Austria-
Ungheria e di conseguenza la liberazione dei popoli che si trovavano sotto il giogo della loro
oppressione. Favorevoli all’intervento erano anche i liberali di orientamento conservatore. Dopo
la prima dichiarazione di neutralità, assunsero questa posizione sia il presidente del Consiglio
Salandra sia il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, sostenuti da quasi tutti gli organi di stampa, in
prima linea il «Corriere della sera» diretto da Luigi Albertini.
Anche lo schieramento neutralista si caratterizzava per una notevole eterogeneità. Contrari
all’intervento erano anzitutto i liberali giolittiani, che ritenevano che l’Italia fosse impreparata a
una guerra e pensavano che mantenere una posizione di neutralità avrebbe assicurato - attraverso
trattative diplomatiche con gli austriaci - l’opportunità di ottenere almeno una parte delle terre
irredente. Contrario al conflitto era anche il mondo cattolico, il cui orientamento pacifista, diffuso
tra i credenti, venne ribadito da papa Benedetto XV: il pontefice espresse la propria posizione
antibellicista in più occasioni e, in una nota del 1917, definì la guerra in corso «l’inutile strage».
L’atteggiamento più risoluto fu, tuttavia, quello dei socialisti italiani che, a differenza di quanto
avvenne negli altri paesi europei, mantennero il loro impegno pacifista. L’unica eccezione di rilievo
fu quella del direttore del giornale socialista «Avanti!», Benito Mussolini. La sua posizione era
sempre stata contraria ai conflitti. Nel mese di ottobre, tuttavia, cambiò radicalmente e
repentinamente linea politica in favore della guerra, tanto che perse l’incarico di direttore del
giornale e fu cacciato dal partito. Mussolini fondò subito un nuovo giornale, «Il Popolo d’Italia»,
dalle cui colonne continuò la propaganda interventista.

L’Italia in guerra - All’interno del Parlamento, i neutralisti erano inizialmente in una posizione
maggioritaria e, se a decidere fosse stata la Camera, l’Italia sarebbe rimasta fuori dal conflitto.
Anche dopo le dimissioni, Giolitti era infatti padrone dell’assemblea e orientava con le sue scelte la
maggioranza dei deputati. Tuttavia il fronte interventista dimostrò un’inaspettata capacità di
mobilitazione delle masse attraverso sempre più frequenti manifestazioni di piazza.
Sullo sfondo di questi contrasti, il governo si mosse su due binari paralleli portando avanti
contemporaneamente trattative con le potenze dell’Intesa e con gli Imperi centrali, per giungere
infine a un patto segreto con Francia, Russia e Gran Bretagna. Firmato il 26 aprile 1915 e noto
come patto di Londra, l’accordo prevedeva l’intervento dell'Italia che, in caso di vittoria, avrebbe
ottenuto il Trentino, l’Alto Adige, Trieste, la Dalmazia settentrionale, alcuni territori albanesi e la
penisola istriana (esclusa la città di Fiume).
Il patto di Londra fu sottoscritto all’insaputa del Parlamento e dell’opinione pubblica, ma il governo
doveva comunque ottenere il consenso parlamentare per poter entrare in guerra. A tal fine, nel corso
del mese di maggio, cercò di orientare gli umori del paese a favore della guerra anche grazie alle
manifestazioni organizzate dagli interventisti, e in particolare dallo scrittore Gabriele D’Annunzio,
che riuscirono a infiammare le folle e a riempire le piazze durante quelle che lo stesso poeta
abruzzese definì le «radiose giornate di maggio». Determinante tuttavia risultò il comportamento
della monarchia: quando Salandra presentò le dimissioni per il mancato sostegno del Parlamento -
che continuava a essere in maggioranza neutralista - all’intervento militare, Vittorio Emanuele III le
respinse e avallò in questo modo la linea interventista del governo. Temendo di contraddire la
Corona e di aprire una grave crisi politica, il Parlamento si piegò e il 20 maggio, con la sola
eccezione dei socialisti, approvò l’entrata in guerra dell’Italia. La dichiarazione di guerra avvenne il
23 maggio e le operazioni militari ebbero inizio il 24 maggio 1915.

5 L’espressione fa riferimento alle terre abitate da italofoni e che, ancora governate dall’Austria-Ungheria, erano
“irredente”, cioè in attesa di essere liberate.
5. Un sanguinoso biennio di stallo (1915-1916)
Il fronte italo-austriaco - L’entrata in guerra degli italiani costrinse l’Austria-Ungheria a spostare
una parte delle proprie truppe dal fronte orientale a quello meridionale. L’Italia disponeva di un
esercito numeroso, ma non sufficientemente equipaggiato.
Il comandante dell’esercito italiano, Luigi Cadorna, fra il 1915 e il 1917 lanciò ben undici
offensive sul fiume Isonzo, con l’intento di conquistare Trieste; questa serie di attacchi non
conseguì alcun successo, ma in compenso causò centinaia di migliaia di morti e feriti.
Da parte loro, nel maggio 1916 gli austriaci organizzarono la cosiddetta Strafexpedition
(“spedizione punitiva”) contro l’ex alleato traditore, a cui tuttavia gli italiani riuscirono a opporre
resistenza sull’altopiano di Asiago

Il fronte occidentale - All’inizio del 1916 la situazione militare sembrava immobilizzata. I tedeschi
cercarono di sbloccarla attraverso un nuovo attacco sferrato a Verdun, sul fronte occidentale. La
battaglia si rivelò lunghissima (da febbraio a settembre) e comportò un enorme dispiegamento di
forze, ma non vide il risultato auspicato dai tedeschi: i francesi riuscirono infatti a resistere e a
neutralizzare l’offensiva. Parallelamente i britannici organizzarono un nuovo attacco, che ebbe
luogo dalla fine di giugno lungo il fiume Somme; ne scaturì una nuova estenuante battaglia che
durò quattro mesi, anche stavolta senza sortire alcun risultato decisivo per la guerra.
Le due battaglie ebbero un rilievo notevole all’interno del conflitto per le forze impiegate e per
l’altissimo numero di morti: la sola battaglia di Verdun costò 600.000 vittime (tra morti, feriti e
dispersi) tra francesi e tedeschi.

Il fronte orientale e l’allargamento del conflitto - Sul fronte nord-orientale, nel 1915 tedeschi e
austriaci riuscirono a scardinare il fronte russo avanzando di centinaia di chilometri e costringendo,
da quel momento, la Russia sulla difensiva. L’esercito zarista riuscì a guadagnare terreno sul fronte
sud-orientale grazie a un’offensiva che consentì ai russi di avanzare fino ai monti Carpazi. Si trattò
tuttavia di un successo momentaneo: l’attacco fu arginato e l’esercito russo fu progressivamente
ricacciato indietro.
Il conflitto si era nel frattempo esteso, coinvolgendo altri Stati: nel settembre del 1915 la Bulgaria
si era alleata con gli Imperi centrali contribuendo a piegare la resistenza serba, mentre nel 1916 la
Romania si affiancò alle forze dell’Intesa. L’esercito rumeno venne però sconfitto rapidamente
dagli eserciti tedesco e austro-ungarico.

La guerra sui mari - Sin dall’inizio del conflitto, Gran Bretagna e Germania si erano misurate
militarmente anche attraverso le loro flotte, in particolare lungo le rotte atlantiche. Malgrado i
grandi investimenti tedeschi, nel corso dei primi due anni di guerra i britannici erano riusciti a
riaffermare la loro supremazia sui mari, imponendo alla Germania un blocco navale molto efficace,
che impediva agli Imperi centrali di ricevere approvvigionamenti dalle colonie e dai paesi neutrali.
Proprio nel tentativo di cambiare questo rapporto di forza, nel 1916 la flotta tedesca attaccò quella
britannica al largo delle coste danesi: nella battaglia dello Jutland nessuna delle due flotte riuscì
ad avere la meglio, ma la Germania prese definitivamente atto dell’impossibilità di rompere il
blocco navale avversario e abbandonò l’idea di uno scontro aperto. Al contempo, però, intensificò la
guerra sottomarina: dal 1917 i sommergibili tedeschi presero ad affondare indiscriminatamente
tutte le navi, senza operare distinzioni fra navi da guerra, mercantili e imbarcazioni per il trasporto
di passeggeri.

6. La svolta nel conflitto e la sconfitta degli Imperi centrali (1917-1918)


Il logoramento degli eserciti - Dopo quasi tre anni dall’inizio del conflitto, era evidente che
nessuno dei due schieramenti fosse preparato al nuovo tipo di guerra, combattuto principalmente
sulla difensiva: ai vertici militari sembrava impossibile che un attacco ben congegnato e condotto
con forze ingenti potesse fallire. Perciò i generali continuavano a lanciare gigantesche offensive,
impiegando migliaia di cannoni e pagando un altissimo costo umano. Le perdite, apparentemente,
non rappresentavano un problema, a patto che anche il nemico ne subisse di altrettanto consistenti:
l’importante era logorare l’avversario fino a farlo crollare. Ma, a dispetto del miope accanimento
mostrato dagli stati maggiori, la volontà di combattere dei soldati, sfiancati dagli anni di trincea,
cominciava ovunque a vacillare.
Le condizioni in cui i soldati erano costretti a vivere e morire provocarono ribellioni e
ammutinamenti in molti eserciti. La paura che queste ribellioni dessero il via a una rivoluzione
spinse i comandi a soffocarle nel terrore, ordinando fucilazioni fra i soldati. Nell’esercito italiano, il
generale Cadorna, ritenendo i soldati colpevoli di “codardia” di fronte al nemico austriaco, mise in
atto una pratica particolarmente disumana, la cosiddetta “decimazione” ovvero l’esecuzione
sommaria di un soldato estratto a sorte ogni dieci.

La protesta sul fronte interno - Anche sul fronte interno la protesta contro la guerra diventava
sempre più accesa. Le notizie delle continue perdite, oltre a gettare nel lutto milioni di famiglie,
scuotevano il morale delle persone; le condizioni di vita degli operai e delle operaie, costretti a
lavorare nelle fabbriche con orari pesantissimi, erano ormai insostenibili. In paesi come la Russia, la
Germania e l’Austria-Ungheria, che dall’inizio della guerra non potevano più commerciare col resto
del mondo per via del loro isolamento geografico o del blocco navale imposto dagli Alleati,
iniziarono a scarseggiare le risorse, comprese quelle alimentari; anche negli altri paesi, del resto, i
prezzi salivano e il cibo era razionato.
Nel 1917, un po’ in tutta Europa si verificarono perciò scioperi e manifestazioni, ovunque repressi
duramente dalla polizia e dall’esercito.

Gli Stati Uniti entrano in guerra - Il 1917 fu un anno di svolta anche perché, il 6 aprile, gli Stati
Uniti d’America, che erano all’epoca la più grande potenza industriale del mondo, entrarono in
guerra contro la Germania. Il presidente Woodrow Wilson e il Congresso decisero l’intervento a
causa dei continui attacchi alle navi mercantili americane che commerciavano con la Gran Bretagna
da parte dei sommergibili tedeschi. Non solo gli americani consideravano criminali quelle
aggressioni, ma, poiché la loro economia traeva enormi vantaggi proprio dalle forniture di armi e
altri beni ai paesi dell’Intesa, non potevano rischiare che questi traffici venissero interrotti.
L’ingresso in guerra degli Stati Uniti si rivelò decisivo per le sorti del conflitto, anche perché andò a
controbilanciare l’uscita della Russia dalla contesa.

Le conseguenze dell’uscita della Russia dalla guerra - L’evento più significativo del 1917 fu però
l’uscita della Russia dalla guerra a causa di ben due rivoluzioni: la prima, nel mese di febbraio,
determinò la caduta dell’impero zarista e la sua trasformazione in una repubblica liberale; la
seconda, nell’ottobre 1917, portò al potere i bolscevichi di Lenin, il quale mantenne
immediatamente la promessa di giungere a una rapida pace.
L’uscita di scena dei russi e il conseguente disimpegno dal fronte orientale diedero a Germania e
Austria-Ungheria la possibilità di impiegare le proprie forze su altri fronti. In particolare, essi
approfittarono della nuova situazione per sferrare un’offensiva sul fronte italiano. Il 24 ottobre
1917, la battaglia di Caporetto, che prende il nome da un piccolo villaggio sull’Isonzo (oggi in
Slovenia), fu un disastro per gli italiani: circa 300.000 soldati (quasi un centesimo dell’intera
popolazione italiana dell’epoca) caddero prigionieri e i superstiti si ritirarono nel caos più totale per
oltre cento chilometri, permettendo al nemico di avanzare e occupare ampie regioni del Friuli e del
Veneto.
Il Piave e Vittorio Veneto - Nell’estate del 1918 gli austro-ungarici concentrarono tutte le loro forze
sul fronte italiano per un attacco decisivo. La speranza era che l’esercito nemico, dopo Caporetto,
non avrebbe resistito e che l’Italia avrebbe chiesto un armistizio. Avvenne, invece, il contrario.
Dopo la disfatta, il generale Cadorna, che continuava a imputare la responsabilità dell’accaduto alla
presunta viltà dei soldati italiani, era stato sostituito con Armando Diaz, dai metodi più moderni e
più umani. L’attacco austriaco sul fiume Piave, dove si era disposta la nuova linea difensiva
italiana, fu stroncato e, nell’autunno 1918, gli italiani passarono al contrattacco.
L'offensiva, scattata a ottobre, passò alla storia come battaglia di Vittorio Veneto. L’azione si
concentrò nella zona tra il fiume Piave e il Monte Grappa. La resistenza austriaca fu breve: dietro il
fronte, la coesione interna all’impero stava venendo meno: i diversi popoli soggetti agli Asburgo
avevano capito che la sconfitta avrebbe portato loro l’indipendenza. Inseguendo un nemico allo
sbando gli italiani catturarono mezzo milione di prigionieri, presero Trento e Trieste, e continuarono
l’avanzata, occupando anche territori abitati da popolazioni di lingua non italiana, con l’obiettivo di
acquisire und posizione di maggior forza in vista delle future trattative di pace. In questa situazione,
il 4 novembre 1918 il comando austriaco firmò l’armistizio.

La sconfitta della Germania - I tedeschi, a loro volta, sin dalla primavera del 1918 avevano
tentato una serie di attacchi a ovest, sfruttando la disponibilità delle truppe che non erano più
impegnate sul fronte orientale. Le offensive inizialmente ebbero successo, ma vennero alla fine
contenute dalla resistenza degli Alleati, i quali, ormai rafforzati dal potente esercito americano,
passarono al contrattacco: sconfitto nella battaglia di Amiens (8-12 agosto), l’esercito tedesco,
affamato e demoralizzato, non poté far altro che ritirarsi dalla Francia occupata, lasciando in mano
al nemico numerosi prigionieri.
In Germania anche la popolazione civile era oramai ridotta alla fame e diede vita a una rivolta, cui
si unirono molti soldati: il 9 novembre l’imperatore Guglielmo II dovette fuggire in Olanda e il
nuovo governo, dopo aver proclamato la costituzione di una repubblica, firmò l’armistizio l’11
novembre 1918.

7. I trattati di pace (1918-1923)


Il trattato di Brest-Litovsk - Il primo trattato di pace fu stipulato tra gli Imperi centrali e la Russia a
Brest-Litovsk il 3 marzo 1918, quando il conflitto era ancora in corso. Per i russi si trattò di una
pace onerosa, che li vide perdere ampi territori, tra cui l’Ucraina (ambita dagli Imperi centrali per i
suoi campi di grano e le sue risorse minerarie), la Polonia, i paesi baltici e la Finlandia. A parte
l’Ucraina, che di lì a poco sarebbe tornata sotto il controllo dell’Unione bolscevica, gli altri Stati
sarebbero divenuti indipendenti. Alle perdite territoriali per la Russia si aggiunse l’obbligo di
pagare alla Germania e all’Austria-Ungheria un’indennità di 6 miliardi di marchi.

La fine degli imperi europei - Una volta terminata la guerra anche sugli altri fronti, i vincitori si
trovarono dinanzi al compito di organizzare la fisionomia geopolitica di un’Europa completamente
mutata. La prima conseguenza della guerra fu infatti lo smantellamento di quattro grandi imperi:
quello russo era già crollato nel 1917, sprofondato nella rivoluzione e nella guerra civile; l’Impero
austro-ungarico, che seppure in forme differenti esisteva da più di mille anni, scomparve per
sempre; la Germania dovette rinunciare a molti territori e fu trasformata in repubblica; l’Impero
ottomano, infine, si dissolse definitivamente dopo una storia centenaria di convivenza multietnica.

Un nuovo diritto internazionale - Il problema di come intervenire nel continente europeo per
evitare nuovi conflitti era già stato affrontato dal presidente statunitense Wilson nel gennaio 1918,
quando i combattimenti erano ancora in corso. Egli espose il suo punto di vista in un documento
articolato in quattordici punti e basato fondamentalmente su due principi: da un lato
l’affermazione della libertà di commercio tra le nazioni, dunque la graduale eliminazione dei dazi
e delle barriere doganali, così da mantenere la pace anche sul piano economico e non solo militare,
evitando di cadere nella spirale del protezionismo; dall’altro l’affermazione del diritto di
autodeterminazione dei popoli, che implicava la libertà di ogni nazionalità di scegliere come
governarsi e che delegittimava l’idea del dominio di alcuni popoli su altri. Se applicato, questo
principio avrebbe dovuto garantire la tutela di tutte le minoranze, etniche, linguistiche o religiose
che fossero: ma il principio di autodeterminazione dei popoli rimase molto spesso un semplice
enunciato e non si tradusse sempre in realtà quando durante i trattati di pace si trattò di ridisegnare i
confini territoriali dell’Europa. Il progetto di Wilson si proponeva come obiettivo esplicito
l’eliminazione di tutte le guerre e l’ultimo dei “Quattordici punti” indicava quale strumento adatto a
renderlo realizzabile la costituzione di un’organizzazione internazionale, la Società delle Nazioni:
questa avrebbe dovuto riunire tutti i paesi del mondo e, grazie a negoziati diplomatici trasparenti,
avrebbe reso possibile dirimere le controversie tra gli Stati senza ricorrere all’uso delle armi.
All’idea, sino ad allora dominante, per cui la pace era raggiungibile solo attraverso un equilibrio di
forze tra le potenze (cioè attraverso una politica di alleanze) veniva a sostituirsi una concezione
nuova dei rapporti internazionali, da gestire attraverso un’organizzazione permanente di Stati con
una funzione giuridica. La Società delle Nazioni trovò effettiva realizzazione a partire dal 1919,
ma non riuscì mai ad assolvere il compito per cui era stata creata. Il primo motivo era che, non
disponendo di una forza militare, non era in grado di imporre la sua autorità, se non minacciando
punizioni economiche, le sanzioni, che si sarebbero rivelate nella maggior parte dei casi inefficaci.
Inoltre la Società delle Nazioni fu messa in difficoltà sia dalla decisione iniziale di escludere la
Repubblica sovietica nata in Russia e la Germania sconfitta, sia dal nuovo orientamento della
politica americana: gli Stati Uniti infatti non solo non entrarono a far parte dell’organizzazione ma,
dopo la fine del mandato di Wilson nel 1921, tornarono a perseguire una linea politica isolazionista.

La conferenza di Parigi - I rappresentanti dei paesi vincitori si riunirono a Parigi il 18 gennaio


1919 per negoziare il nuovo assetto dell’Europa. Oltre al presidente americano Wilson, ne furono
protagonisti il francese Georges Clemenceau e l’inglese David Lloyd George, mentre Vittorio
Emanuele Orlando, presidente del Consiglio italiano, ebbe un ruolo di secondo piano e non riuscì
a ottenere le compensazioni territoriali richieste. Occorsero molti mesi di discussioni diplomatiche
per arrivare a un accordo. Coerentemente con i “Quattordici punti”, Wilson avrebbe voluto un
trattato di pace “senza vincitori”, non troppo oneroso, cioè, per i paesi sconfitti, ma le altre potenze
vincitrici riuscirono a imporre una pace punitiva, nella ferma volontà di far pagare alla Germania e
ai suoi alleati il costo della guerra.

Il trattato di Versailles - La questione della Germania trovò soluzione nel trattato di Versailles,
firmato il 28 giugno 1919. Oltre alla restituzione dell’Alsazia e della Lorena alla Francia e alla
smilitarizzazione della regione della Renania, i tedeschi furono costretti a concedere alla Polonia -
ricostituita come Stato indipendente dopo più di cento anni - un corridoio territoriale fino a
Danzica, sul mar Baltico, che di fatto separava la Prussia orientale dagli altri territori tedeschi. Le
colonie africane della Germania vennero affidate alla Francia e alla Gran Bretagna, mentre quelle
asiatiche vennero cedute al Giappone. Ai tedeschi venne proibito anche di possedere una flotta e
un’aviazione militare; si concesse loro di mantenere un esercito numericamente ridotto al solo
scopo di reprimere un’eventuale rivoluzione. Infine, la Germania fu obbligata a pagare un’enorme
somma come riparazione per i danni provocati durante la guerra e a riconoscere di essere stata
responsabile dello scoppio del conflitto.

I trattati di Saint-Germain e del Trianon - La questione dell’Impero austro-ungarico fu risolta


invece col trattato di Saint-Germain, sottoscritto il 10 settembre 1919 con l’Austria, e con
quello del Trianon (4 giugno 1920), che regolò i rapporti con l’Ungheria. Oltre alla costituzione di
due Stati indipendenti e distinti, quello austriaco e quello ungherese, videro la luce la
Cecoslovacchia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (che nel 1929 cambiò denominazione in
Regno di Iugoslavia), organismi statali nuovi al cui interno convivevano popolazioni di nazionalità
diverse. Il Trentino, l’Alto Adige e Trieste vennero assegnati all’Italia, cui fu invece negata -
contrariamente a quanto stabilito dal patto di Londra - gran parte della Dalmazia.

Il trattato di Sèvres - La “questione orientale” si risolse il 10 agosto 1920 con il trattato di Sèvres,
con cui venne stabilito lo smembramento dell’Impero ottomano, ridotto alla sola penisola anatolica.
Il Medio Oriente finì sotto il controllo di Francia e Gran Bretagna: alla prima furono assegnati come
mandati Siria, Libano e Cipro, alla seconda Iraq, Palestina e Transgiordania.
Il trattato prevedeva inoltre la nascita di uno Stato autonomo armeno e la cessione alla Grecia
della Tracia occidentale e di alcune aree costiere dell’Egeo, tra cui la città di Smirne. Queste e altre
clausole estremamente punitive furono accettate passivamente dal sultano e suscitarono perciò la
ferma opposizione dei nazionalisti turchi, che lo destituirono e diedero vita a un governo
d’opposizione con sede ad Ankara. A guidarlo vi era il generale Mustafà Kemal, già distintosi nella
battaglia di Gallipoli, il quale nel 1922 sconfisse i greci, che avevano approfittato della situazione
per occupare, oltre a Smirne, altre aree della penisola anatolica.

Il trattato di Losanna e la nascita della Turchia - Questi successi permisero a Kemal di ottenere la
revisione del trattato di Sèvres: un nuovo accordo, firmato a Losanna nel 1923, sancì il
riconoscimento della Repubblica di Turchia, nata dalle ceneri dell’Impero ottomano, a cui venne
confermata la piena sovranità sulla penisola anatolica. L’accordo fissò anche uno scambio di
popolazioni fra Grecia e Turchia: le minoranze dei due paesi dovettero abbandonare i territori in cui
erano sempre vissute.
Kemal fu poi soprannominato Atatürk, cioè “Padre dei turchi”, e avviò un processo che avrebbe
portato la Turchia a trasformarsi in uno Stato laico sul modello di quelli europei. Venne abolita la
poligamia e vietato l’uso del velo; fu introdotta l’istruzione elementare obbligatoria gratuita e
furono adottati l’alfabeto latino e il calendario gregoriano.
Il genocidio degli armeni - La persecuzione della popolazione armena risaliva a prima della guerra
e più precisamente all’ascesa dei Giovani Turchi alla guida del paese, nel 1908. Il movimento dei
Giovani Turchi era nato con l’ambizioso obiettivo di superare le divisioni fra le diverse nazionalità,
che dalla fine dell’Ottocento avevano contribuito non poco a indebolire l’Impero ottomano; tuttavia,
la loro azione di governo fu ispirata a un marcato nazionalismo: il turco fu dichiarato l’unica
lingua ufficiale dell’impero e le richieste delle minoranze nazionali (greci, armeni, curdi, arabi)
furono duramente respinte. Dopo le guerre balcaniche del 1912-1913, che avevano privato
l’Impero ottomano di quasi tutti i territori europei, quella armena divenne la maggiore comunità non
musulmana. Gli armeni aspiravano da tempo all’indipendenza e potevano contare sul sostegno di
una grande potenza cristiana come la Russia.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale, l’Impero ottomano era guidato dalla frangia più
estremista dei Giovani Turchi. Nel 1915, il timore che gli armeni tradissero l’impero per passare
dalla parte dei nemici russi convinse il governo a risolvere definitivamente la “questione armena”.
In una prima fase furono uccisi i soldati arruolati nell’esercito e tutti gli intellettuali armeni.
Successivamente una legge stabilì che le comunità armene della Turchia venissero deportate nelle
regioni della Siria e della Mesopotamia. Per le condizioni in cui avvennero, le deportazioni si
tradussero di fatto in un’operazione di sterminio: su un totale di circa 1.800.000 armeni ne
morirono almeno 1.200.000 portando di fatto all’annientamento di un’intera comunità. Nel 1973 la
Commissione per i diritti umani dell’ONU definì quello armeno come il primo genocidio6 del XX
secolo, ma ancora oggi il governo turco rifiuta di riconoscere questa definizione, mettendo in
dubbio persino il fatto che sia avvenuto.

8. Oltre i trattati: le eredità della guerra


Un’Europa imbarbarita dalla violenza - Anche dopo la fine della guerra, l’Europa era ben lontana
dall’essere un continente pacificato. La Grande Guerra aveva lasciato molte eredità negative. Per
quattro anni gli Stati europei si erano combattuti con una violenza e una crudeltà senza precedenti e
milioni di giovani si erano abituati a uccidere, mentre la propaganda, spesso menzognera, fanatica e
nazionalista, aveva imbarbarito la vita politica. Durante il conflitto, la radicalizzazione della
violenza fu tale da coinvolgere anche i civili.

Un’economia da ricostruire - Con la fine della guerra, eserciti di centinaia di migliaia di soldati
vennero smobilitati e milioni di uomini tornarono a casa con il problema di reinserirsi nella vita
civile. Molti erano feriti e mutilati e, potendo contare solo su modeste pensioni di guerra, si
trovarono nella difficile condizione di non sapere come sostentarsi. Anche chi tornò incolume dal
fronte dovette affrontare una durissima crisi economica. La produzione industriale durante gli anni
del conflitto aveva raggiunto ritmi elevatissimi, ma era stata pesantemente indirizzata dalle
commesse belliche statali. Pertanto, quando la domanda di armi cessò, non fu facile per le industrie
convertire in tempi rapidi la propria produzione in altri beni necessari alla popolazione. Si verificò
così una generalizzata fase di recessione che colpì anche alcuni dei paesi vincitori, come Francia,
Gran Bretagna e Italia, e determinò un aumento del tasso di disoccupazione.
Durante la guerra, inoltre, gli Stati avevano provveduto a calmierare i prezzi dei generi di prima
necessità; con la pace, questi provvedimenti furono abbandonati, con il risultato di produrre un
immediato aumento dell’inflazione e quindi del costo della vita. L’aumento dei prezzi colpì
soprattutto due categorie: i contadini e i ceti medi. Molti contadini scelsero perciò di abbandonare
le campagne per cercare fortuna in città, confidando nei salari migliori offerti dall’industria; non
tutti, però, poterono essere assorbiti in questo settore. I ceti medi, invece, a differenza degli operai,
che attraverso proteste e scioperi riuscirono a rinegoziare i loro stipendi, videro ridursi il potere
d’acquisto dei loro salari, inadeguati all’inflazione crescente.

Un’epidemia micidiale: la “spagnola” - Tra l’estate e l’inverno del 1918, quando il conflitto era
ancora in corso, iniziò a diffondersi un’epidemia influenzale di origine virale estremamente
aggressiva che fu definita “spagnola”7: chi veniva colpito andava incontro a bronchiti,
broncopolmoniti, pleuriti e altre patologie respiratorie i cui esiti erano spesso nefasti. Alcune
congiunture agevolarono la propagazione del contagio: anzitutto le condizioni di particolare
debilitazione dei soldati, provati dalla malnutrizione e dalla permanenza nelle trincee; anche i
grandi assembramenti creati dalla concentrazione degli eserciti e le scarse condizioni igieniche
all’interno delle trincee favorirono la rapida diffusione; infine, lo spostamento di grandi masse
umane attraverso mezzi di trasporto veloci come navi e treni.
Il risultato fu che in meno di un anno la “spagnola” raggiunse ogni angolo del globo. Secondo
alcune stime, a causa dell’epidemia, che esaurì i suoi effetti nel 1920, morirono in tutto il mondo 50
milioni di persone: una cifra enorme (i morti causati dalla Grande Guerra erano stati circa 13
milioni).

6 Nel diritto internazionale indica gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo
nazionale, etnico o religioso.
7 Il virus che colpì il mondo tra il 1918 e il 1920 è noto come influenza spagnola per via del fatto che in Spagna -
rimasta neutrale durante la Prima guerra mondiale - la stampa, non sottoposta alla censura, diede ampio risalto
all’epidemia. Questo contribuì a diffondere la falsa idea che il fenomeno epidemico avesse avuto origine in Spagna.
Il nuovo ruolo sociale femminile - Fra le conseguenze sociali positive prodotte in modo diretto o
indiretto dalla guerra, vi fu l’accelerazione del processo di emancipazione femminile. Durante il
conflitto le donne avevano svolto una serie di funzioni indispensabili affinché l’economia e la
società civile non si fermassero, ricoprendo ruoli considerati sino a quel momento di esclusivo
appannaggio maschile. Le donne svolsero non soltanto comuni attività lavorative, ma anche
mansioni più specializzate, come l’assistenza medica ai feriti.
L’impegno femminile a tutto campo ebbe delle fondamentali ripercussioni. In primo luogo consentì
alle donne di uscire dalle mura domestiche e operare all’interno di una cerchia sociale più vasta
rispetto a quella ristretta della famiglia. In secondo luogo l’idea di un’inferiorità e dell’incapacità
naturale della donna nello svolgere certi tipi di professioni subì un duro colpo.
L’immagine tradizionale femminile, insomma, entrò in crisi. Non fu più possibile rappresentare le
donne esclusivamente come madri, mogli e figlie necessariamente subordinate alla volontà dei
capifamiglia; nello stesso tempo, il ruolo dominante del maschio venne a poco a poco scalzato.
L’aver raggiunto una piena indipendenza economica e l’aver acquisito la consapevolezza delle
proprie capacità, indusse un numero sempre crescente di donne a rifiutare di obbedire passivamente
alle regole della società maschilista e a lottare per una maggiore considerazione e autonomia.
Anche il movimento per il suffragio femminile ne uscì rafforzato: in alcuni paesi una delle prime
riforme del dopoguerra fu appunto la concessione del voto alle donne.

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