Il latino: origini, caratteri e spazio geografico
Il latino è una varietà della famiglia indoeuropea parlata nell’VIII sec. a. C. nella bassa
valle del Tevere e sui Colli Albani. Non era isolato: sulla riva destra del fiume dominava
l’etrusco (lingua non indoeuropea), a nord-est, est e sud altre varietà indoeuropee (varietà
osche verso sud fino alla Campania, alla Lucania e alla costa adriatica, limitate a nord da
quelle umbre, a loro volta limitate a nord da varietà picene); si parlavano varietà celtiche da
Senigallia alle Alpi, limitate a est dal venetico, a nord del quale si parlava il retico (non
indoeuropeo), e a ovest dal ligure (forse indoeuropeo); in Puglia si parlava messapico e in
tutta la parte costiera erano diffuse varietà greche.
Non si deve pensare a queste aree come assolutamente compatte: la variazione diatopica
doveva essere enorme e certamente esistevano dinamiche di contatto interlinguistico
(peraltro attestate).
Il successo del latino dipende dal lento affermarsi del dominio di Roma, ma non ne è
conseguenza diretta, come si vedrà, e è inoltre limitato a est da un costante predominio
culturale del greco. Le varietà latine più basse seguirono ciascuna la propria evoluzione
diacronica che è continuata e continua nelle numerose varietà romanze, standard e non. Le
prime testimonianze letterarie scritte risalgono al X sec. e certamente continuano una
precedente fase dominata dall’oralità.
Nella preistoria processi simili devono essere avvenuti innumerevoli volte, ma questo è
l’unico attestato in fase storica; non per questo motivo risulta tuttavia più facilmente
studiabile: non è possibile affermare, a tal proposito, teorie proposte con certezza
matematica. Bisogna poi rifuggire da facili banalizzazioni di fenomeni, in realtà, complessi:
va anzitutto abbandonata l’idea di una prima latinizzazione, cui sarebbe seguita la
frammentazione romanza, mentre è ben più ragionevole immaginare che l’una e l’altra siano
coesistite.
La conquista dell’Impero
L’estensione del dominio di Roma avviene prevalentemente a partire dalla guerra
tarantica (280-275 a. C.) fino all’età traianea (II sec. d. C.), durante la quale l’Impero
raggiunse la sua massima estensione geografica.
Anche nelle province, il sistema di governo di Roma era perlopiù contraddistinto dal
principio dell’indirect rule: ai popoli che entravano nell’orbita di Roma veniva garantita, a
livello locale, un’autonomia in genere considerevole, rinunciando soltanto a una politica
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estera indipendente. Inoltre, Roma tendeva a schierarsi a favore di popolazioni pacifiche e
contro popolazioni più bellicose o che si dedicavano a razzie. Infine, il modello culturale
offerto da Roma era percepito come particolarmente prestigioso: erano i popoli sottomessi a
ambire all’assimilazione culturale (e linguistica) con Roma, in primo luogo le classi sociali
più elevate. A Roma non era solitamente necessario imporre processi di romanizzazione.
I contatti, all’origine della latinizzazione, tra indigeni e Romani non erano uguali a tutti i
livelli sociali della popolazione. La presenza delle legioni non era generalizzata né
comparabile con quella dei moderni eserciti, dunque i contatti fra soldati e popolazioni
locali erano complessivamente di scarsa rilevanza; sebbene a Roma si fosse formato presto
un ceto di mercanti e spesso essi fossero presenti nelle province già prima della loro
conquista, i contatti con i cittadini romani in senso stretto erano complessivamente limitati,
perchè, fuori dalle città, i contadini avevano contatti soltanto con il mercato locale,
parzialmente gestito da Romani, e con i padroni, indigeni romanizzati o funzionari del fisco
imperiale o a volte della classe senatoria.
Sembra invece avere avuto un effetto ben più determinante la diffusione del cristianesimo
e degli altri culti orientali: essi solitamente si diffondevano inizialmente entro circoli nei
quali si parlava greco, ma la diffusione in Occidente portò a una diffusione del latino anche
nelle loro pratiche; la tenacia dei missionari cristiani, che diffusero la nuova fede anche ai
margini dell’Impero, contribuì moltissimo all’abbandono della maggior parte delle lingue
preromane. Ciò avvenne tardi, spesso dopo la fine dell’Impero d’Occidente.
L’ipotesi Schuchardt-Gröber
L’ipotesi Schuchardt-Gröber fu formulata inizialmente da Hugo Schuchardt nel 1866 e
ripresa una ventina di anni più tardi da Gustav Gröber; essa ha avuto grande rilevanza,
perché costituisce un primo tentativo di storicizzazione del ‘passaggio’ dal latino alle lingue
romanze. Tale ipotesi faceva coincidere le conquiste di Roma con la latinizzazione:
all’origine di ciascuna varietà romanza ci sarebbe dunque il latino dei primi Romani che si
insediavano nel luogo in cui tale varietà è attestata. Allo Stammbaum schleicheriano, di
matrice biologico-evoluzionista, viene sostituito da Schuchardt un albero nel quale da un
ramo centrale, rappresentato come una linea orizzontale che conduce direttamente dal latino
all’italiano centrale, si separano diversi altri in diversi punti di essa, corrispondenti alla
successione cronologica delle conquiste di Roma.
Il modello oggi appare chiaramente sbagliato, anzitutto proprio perché presuppone che la
latinizzazione segua immediatamente la conquista; esso presuppone inoltre che i rapporti fra
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province e centro e fra provincia e provincia fossero pressoché inesistenti, che il latino del
centro non potesse avere un prestigio tale da influenzare quello parlato nelle province, che
non vi fossero differenze fra latino degli immigrati e latino dei provinciali originariamente
alloglotti.
Tempi e modi della latinizzazione
Il processo di romanizzazione era alquanto complesso. La società romana di età imperiale
presenta un significativo melting pot, ma ben diverso da quello, per esempio, degli Stati
Uniti: i processi di acculturazione riguardava sì gruppi anche ingenti di popolazione, che
tuttavia rimaneva nei propri luoghi d’origine (non si trattava di masse di immigrati).
La latinizzazione costituiva un aspetto non del tutto e non sempre sovrapponibile alla
romanizzazione (si pensi non soltanto al perdurare del prestigio del greco nella pars
Orientis, dove certamente esistevano processi di romanizzazione, ma anche, in Occidente,
alla sopravvivenza dell’albanese e del basco, che certamente continuano lingue preromane).
Il processo muoveva a livello sociale dall’alto al basso, geograficamente dalle città alle
campagne, con differenze da luogo a luogo; esso avveniva spontaneamente, con la finalità
dell’assimilazione a un ‘centro simbolico’, costituito da modi di fare, gusti, sensibilità e
ideali, del potere romano, anche in collocazioni geograficamente periferiche, e non era privo
di tensioni fra forza acculturante e resistenze a essa contrapposte. A tale fenomeno, che Greg
Woods ha definito becoming Romans, Varvaro aggiunge, quale elemento essenziale della
latinizzazione, quello del becoming Christian, poiché a partire dal IV sec. in Occidente il
latino diviene anche lingua del cristianesimo: così si spiega la continuazione della
latinizzazione anche dopo il 476.
Inoltre, sia la romanizzazione sia la latinizzazione erano processi lenti, che
coinvolgevano diverse generazioni, come dimostra l’onomastica attestata nella
documentazione epigrafica provinciale. La latinizzazione, fra i due, era certamente il più
lento, e procedeva differentementea seconda delle diverse condizioni sociali (pare, per
esempio, che fosse più difficile nel caso delle donne): pertanto, devono essere esistiti stadi
sincronici nei quali il latino era usato unicamente dagli strati sociali più alti (nobili e
ecclesiastici), mentre quelli più bassi si servivano di altre varietà e furono latinizzati nel
corso di più generazioni, peraltro senza l’apporto, verso norme linguistiche standard, della
scuola.
Il latino e le altre lingue dell’Impero
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La latinizzazione determinava altresì, in determinati stadi sincronici, la coesistenza di
lingue differenti. È errato pensare che le province romane siano diventate monolingui
rapidamente e che lo furono sempre del tutto; è altrettanto errato pensare al latino come
lingua assolutamente unitaria.
Gli studiosi di lingue romanze hanno a lungo speculato sulla possibilità di fenomeni di
substrato. Se da un lato è indubbio che il contatto interlinguistico abbia lasciato tracce
notevoli nelle lingue romanze, soprattutto nel caso dei prestiti, è dall’altro opinabile che
fenomeni di sostrato abbiano avuto effetto sul piano della fonetica, della fonologia, della
morfologia o della sintassi del latino. La metodologia del substrato, che risale a Graziadio
Isaia Ascoli (che la formulò nel 1882), non tiene conto del fatto che non è chiara l’effettiva
estensione della lingua di substrato, che è illusorio pensare che si tratti di aree continue e
compatte, che l’area moderna di un fenomeno abitualmente non coincide con quella
medievale di quel fenomeno. Per esempio, il mutamento -MB-, -ND- > -mm-, -nn- in Italia
meridionale non è interpretabile come dipendente da un sostrato osco-umbro, come si è
detto in passato, non soltanto perché esso appare come una normale assimilazione
progressiva totale, ma anche perché se si ammette tale dipendenza, il fenomeno di sostrato
rimane tale unicamente nell’area di origine, mentre la coincidenza di essa con l’area nella
quale il fenomeno è oggi attestato non c’entrerebbe nulla.
La variazione linguistica nel tardo Impero e il latino sub-standard
È errata l’idea del latino come lingua unitaria e unica e coincidente con la norma
standard. È altrettanto errata l’idea di un latino volgare, diffusasi soprattutto dopo il lavoro
sul vocalismo latino di Schuchardt (Vokalismus des Vulgärlateins, 1866-68), dove non si è
fatto altro che accumulare le caratteristiche devianti dalla norma classica, e l’idea che esse
costituissero un’unica varietà coesistente con la norma, in una sorta di situazione di
diglossia.
È chiaro che il latino è stato parlato per un tempo assai lungo, che esistevano situazioni di
diglossia, che la maggior parte dei parlanti latino lo avevano appreso come L2, che
dovevano esistere numerose varietà sub-standard. È altrettanto chiaro che tali varietà sono
piuttosto difficili da definire, dato che appartenevano prevalentemente alla dimensione del
parlato, mentre noi non possiamo che disporre di documenti scritti.
È pertanto necessario non supporre, come si è fatto a lungo, che il latino si sia, a un certo
punto, dopo la fine dell’Impero, frammentato nell’ampia serie di varietà romanze, ma che
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esse continuino ciascuna differenti varietà sub-standard. Tuttavia la documentazione in
nostro possesso non soltanto consente di riconoscere alcuni (e soltanto alcuni) elementi di
variazione diatopica a partire dal solo IV sec., ma anche non permette di ricostruire un
atlante linguistico su modello dei moderni studi dialettologici: non siamo in grado di
definire nulla di omogeneo, sia o non sia corrispondente alle aree delle odierne varietà
romanze. I tratti che permettono la localizzazione di un testo latino del tempo di Carlo
Magno sono ben diversi da quelli da prendere in considerazione per epoche precedenti, per
esempio.
Riusciamo a trovare, fra queste varietà e le varietà romanze future, pochissime
corrispondenze, esclusivamente sul piano lessicale; anche così non è tuttavia possibile
individuare una piena continuità fra queste varietà e le varietà romanze successive.
Il latino sommerso
I fenomeni sub-standard, soprattutto quelli lessicali, si dispongono secondo una diatopia
che risulta sempre più chiara verso la fine dell’Impero e che lo è anche di più
immediatamente dopo.
La presenza di numerosi tratti comuni a tutte le varietà romanze, attestate sin dai più
antichi documenti scritti, ma non nei testi latini precedenti, fa supporre l’esistenza di usi
percepiti come bassissimi: non è possibile che essi si siano diffusi nelle lingue romanze a
partire dall’VIII-IX sec., considerando l’entità dei contatti fra le varietà di quel tempo.
Adams parla a tal proposito di latino sommerso.
Dal momento che il latino sommerso sarebbe stato una varietà esclusivamente parlata,
non è documentata; poiché le innovazioni sono comuni, si è ritenuto di dover ricostruire una
protolingua, il protoromanzo, secondo il modello della linguistica storico-comparativa
sviluppato nell’indoeuropeistica.
Naturalmente non si può non tener conto dei limiti del classico modello ricostruttivo, che
restituisce non già una lingua concreta, bensì un’astrazione destoricizzata, di cui non sembra
lecito servirsi per un contesto storico, e non preistorico, nel quale cioè la documentazione,
sebbene scarsa, esiste. Il fenomeno della lenizione, per esempio, che si riscontra
compattamente nell’area galloromanza, è poco documentato in età imperiale, mentre in
seguito è sempre più ampiamente presente e tende a concentrarsi proprio in quell’area.
Analoghe considerazioni possono essere fatte per la categoria dell’articolo, assente in latino,
presente invece in tutte le varietà romanze e sempre derivante da ILLE o IPSE: non è
verosimile che si tratti di un’innovazione di una singola varietà romanza, poi trasmessasi a
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tutte le altre. Il protoromanzo inoltre non spiega la concorrenza degli esiti di ILLE e di
IPSE, così come, per esempio, nelle modalità di formazione del futuro.
I fenomeni che è lecito attribuire a questo livello infimo di sub-standard sono soprattutto
la modifica della natura dell’accento, l’assestamento dei sistemi vocalici, la dittongazione
spontanea e metafonetica, le palatalizzazioni, il crollo (parziale) della declinazione, quello
(parziale) del neutro, la formazione di forme verbali perifrastiche (passivi e passati), la
formazione del condizionale; questo elenco, comunque, non si può dire esaustivo e
certamente esistevano fenomeni che non sono stati continuati e sono dunque a noi ignoti.
Essi dovevano essere diffusi ovunque, nel parlato, e senza status. Quando il modello di
riferimento del latino scritto (che non le ammetteva: emergono soltanto raramente nello
scritto, e non prima dell’VIII sec.) si staccò da quello del parlato e si differenziò da area a
area, in alcune regioni (o in tutte) esse furono generalizzate.
Il mondo si restringe
Resta da spiegare come si avvenuto il cambiamento di struttura del sistema comunicativo
che avrebbe fatto diffondere il livello sommerso, per rendere conto della diffusione delle
innovazioni comuni alle varietà romanze.
La spiegazione, risalente agli Umanisti, che vede nelle migrazioni germaniche l’origine
di un ‘imbarbarimento’ del latino è alquanto semplicistica. Esse semmai determinarono un
restringimento degli orizzonti cognitivi e esistenziali: mentre Ammiano Marcellino, nel IV
sec., ha lo scopo di dare una prosecuzione alle Historiae tacitiane, unicamente concentrate,
secondo la tradizione storiografica romana, sulla storia di Roma, soltanto nel secolo
successivo Gregorio di Tours, che pure discendeva da una famiglia di origine senatoria,
scrive un’Historia Francorum che ha il proposito, in linea con la storiografia cristiana tardo-
antica, di contenere la storia universale, ma che in definitiva parla prevalentemente dei
Franchi; nella sua prospettiva, addirittura non è riportato il nome di un rex quidam nel non
distante Kent. Il mondo occidentale nato dal collasso dell’Impero è costituito da un ampio
insieme di realtà politiche e ecclesiastiche di scarsa ampiezza geografica, ormai privo di un
centro quale erano stati, precedentemente, Roma o Milano o Treviri; il centro politico-
amministrativo dell’Impero era anche il luogo dove si usava la lingua di maggior prestigio,
che in quanto tale aveva modo di diffondersi, pur esistendo indubbiamente norme regionali,
mentre ora la norma ideale diventa quella del re, itinerante, o del vescovo, che spesso sono
non romani. La norma precedente viene così ridotta a norma letteraria e il rapporto fra livelli
diastratici viene modificato.
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Tale processo di restringimento degli orizzonti trova piena corrispondenza nel
restringimento delle reti commerciali interregionali, in relazione a un generale collasso
economico.
Il sistema comunicativo dell’Impero, comunque tutt’altro che omogeneo, presupponeva,
per rimanere in vita, l’esistenza di contatti fra membri provenienti da diverse zone
dell’Impero, dunque il mantenimento del sistema politico-amministrativo e socio-
economico: con il suo collasso, collassò anch’esso, se non a livelli sociali particolarmente
elitari.
Le nuove identità
Il crollo del sistema comunicativo del tardo Impero dunque diede origine a
un’amplissima frammentazione, con il trionfo del più ristretto localismo.
Tale localismo costituisce tuttavia il punto di partenza per la formazione di nuove
aggregazioni. Se pure è vero che si può realisticamente parlare di un continuum dialettale
dalla costa atlantica del Portogallo a Trieste, è altrettanto vero che a volte non è possibile
parlare di continuum (per esempio fra Saragozza e Llèida), bensì di non
intercomprensibilità. Nel complesso, si può dire che in generale un certo grado di
consapevolezza identitaria più ampia del solo contesto locale è sempre esistita: ciò
spiegherebbe la presenza di tratti sopraregionali nei testi romanzi dei primi secoli (per
esempio sao invece di saccio nel Placito capuano).
C’è dunque buona ragione di ritenere che le varietà romanze altomedievali fossero sentite
come riducibili a un numero limitato, la cui area non era estesa al solo villaggio, che veniva
dunque inserito entro un contesto geografico più ampio, con la possibilità di accettare tratti
non locali.
Lettura logografica e nuove grafie
Si è supposto che la scrittura del latino medievale fosse logografica, cosicché una pagina
di Gregorio di Tours sarebbe stata letta in lingua d’oïl a Tours e in una varietà italoromanza
a Montecassino; sarebbe stata la cd. riforma carolingia a imporre un official spoken standard
grossomodo coincidente con il latino classico. Ciò è chiaramente privo di qualsiasi prova e
anche difficile da dimostrare: non si tratta che di una mera ipotesi.
Come è indimostrabile che la riforma carolingia abbia ‘inventato’ il latino medievale
(come sarebbe stato possibile, per esempio, interpretare laudatur come è lodato oppure est
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loué?) è altrettanto indimostrabile l’’invenzione’ delle lingue romanze attraverso
l’’invenzione’ della loro grafia.
La scrittura viene appresa in relazione a una determinata lingua: nel caso dei primi testi in
lingue romanze, il modello grafico era indubbiamente il latino. Le rese grafiche di molti
fonemi, per esempio le consonanti palatali, assenti in latino, erano però problematiche e
vennero rese secondo modalità diverse, facendo inevitabilmente riferimento ai soli grafemi
a disposizione: in Italia /λ/ viene reso <l, ll, lli, lg, lh, lhy, lgl, lgli, gl, gli>. Tale straordinario
polimorfismo non è affatto limitato a pochi casi. È chiaro che se le lingue romanze fossero
state ‘inventate’ dall’alto attraverso l’’invenzione’ delle grafie corrispondenti gli esiti
sarebbero ben diversi. La stabilizzazione delle grafie ha invece richiesto secoli, fino
all’intervento dei grammatici e dei tipografi; in tal caso ha avuto un certo peso la volontà di
distinguersi dai vicini (i Castigliani scrivono <ñ>, i Portoghesi <nh>, i Catalani <ny>).
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