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Appunti Trinita Esonero

Il documento tratta dell'introduzione ad un corso di teologia sulla Trinità. Viene spiegato che la fede cristiana è trinitaria e che Dio si è rivelato come Padre, Figlio e Spirito Santo. Vengono inoltre discusse le differenze tra i diversi significati di monoteismo nella storia delle religioni, nella filosofia greca e nella rivelazione biblica.
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Appunti Trinita Esonero

Il documento tratta dell'introduzione ad un corso di teologia sulla Trinità. Viene spiegato che la fede cristiana è trinitaria e che Dio si è rivelato come Padre, Figlio e Spirito Santo. Vengono inoltre discusse le differenze tra i diversi significati di monoteismo nella storia delle religioni, nella filosofia greca e nella rivelazione biblica.
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mercoledì 10 febbraio 2021

PRIMO SEMESTRE - TRINITÀ

INTRODUZIONE
1. IL SIGNIFICATO E IL LUOGO TEOLOGICO DELLA FEDE IN DIO
TRINITÀ
Il corso vuole essere praticamente un commento al credo. La nostra fede è trinitaria.
Gesù non dice di battezzare nei nomi, ma nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito
Santo. Non sono tre dei, ma uno. Un’unità nella distinzione delle tre persone.
Siamo allora al nucleo centrale e fondativo della nostra fede. Indica anche il verso dove,
il futuro della nostra vita. Verso dove siamo diretti? La Trinità. L’essere con Cristo nel
seno del Padre, nell’unità dello SS.
Si partirà dalla rivelazione, vedendo come Lui si è rivelato, poi come si è compreso nella
chiesa. Infine vedremo come oggi la ricerca interseca le domande moderne.
Questo studio sarà teologico ma non esclude il fatto che anche altri studino Trinità
(filosofia, scienza, fisica…)

1.1 I DUE ASSERTI DELLA FEDE CRISTIANA IN DIO TRINITÀ

Se chiedi alla gente quali sono le verità fondamentali del Cristianesimo troverai i dubbi.
Quasi nessuno dirà come verità fondamentale la Trinità.
—> Il primo assetto: Dio è uno e uno solo —> monoteismo (da disambiguare) (oggi il
monoteismo non è più pacifico. Occhio che il monoteismo cristiano è diverso da islam e
ebraismo)
—> Il secondo assetto: Il nostro Dio è Unico e che come tale è Padre, Figlio e SS (non è
che prima è uno e poi si divide. L’essere Trinità non viene dopo ma connota l’unità. Il
monoteismo nostro allora è totalmente diverso da Islam e Ebraismo) (la distinzione non viene
dopo l’Unità).

1.2 I DIVERSI SIGNIFICATI DEL MONOTEISMO

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Non si può usare il termine monoteismo con ingenuità, pensando che dire un solo Dio sia
una cosa uguale per tutti. Non è indifferente come intendi il termine monoteista. Coda
passa in rassegna tre distinte discipline in cui vi è il monoteismo:
- storia delle religioni,
- filosofia,
- rivelazione ebraica

1.2.1 Secondo la storia delle religioni

Fin dagli albori, non è mai mancata nella storia sociale umana, un riferimento al sacro. La
religione è un fenomeno umano. Ogni cultura ha tematizzato in una forma un rapporto
con un essere trascendente. Nella storia delle religioni del ‘600 si conia il termine
“monoteismo” per opporre a “politeismo” (in realtà il contrario di poli è enoteismo, che
vuol dire uno, mentre si dice “mono”, che significa uno e uno solo).
Coda pone in rassegna le tendenze.
La prima prospettiva dentro la storia delle religioni, ha seguito la teoria darwiniana.
L’evoluzionismo fa passare dalle specie inferiori a superiori, e tale logica si è passata nella
religioni.
Questa teoria si scontra col fatto di dare lettura ideologica hegeliana e di non riconoscere il
coesistere di forme diverse.
Un’altra lettura dice che il monoteismo non sarebbe l’arrivo della religione, ma piuttosto
all’inizio e passerebbe per la degradazione. All’inizio di ogni religione ci sarebbe un
logos/archè, che non è stato mantenuto nella purezza.

Oltre tali due posizioni, si riconosce che ciò che ha dato inizio alle tradizioni monoteiste è
sempre stata un’irruzione del divino nella storia che si rivela ad un popolo. Quindi in
realtà la questione non è solo umana.

1.2.2 Nella filosofia greca

Si può parlare nella filosofia in senso proprio?


Si e no, più no che si… La filosofia greca nasce anche in contestazione della religione
politeista della polis. Sia Platone che Aristotele arridono, ma in realtà usano anche loro il
mito. Entrambi si scostano dal politeismo.
La ricerca dell’archè approda ad un Dio unico?
Platone arriva a porre al principio della scala ascensionale l’Uno, o il Bene, ma l’Uno
Platone vorrebbe porlo all’apice della scala, ma poi il problema della diade, dell’uno-molti
rimane irrisolto.
Aristotele di motori immobili ne ipotizza una per sfera celeste, e quindi o 47 o 55. Ci sono
molti motori immobili in Aristotele.
In entrambi manca l’unicità ma poi manca anche l’essere soggetto di Dio, l’identità

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personale. Manca poi la distinzione chiara di Dio dal mondo. Il concetto di creazione poi è
nuovo del cristianesimo. La materia per i greci è eterna. Solo la creazione Permette di
capire la differenza tra dio e mondo.
I greci non arrivano al monoteismo allora perché Dio non è soggetto.

1.2.3 Nella rivelazione abramitica

È rivelata la questione. Abramo è ritenuto il padre di tutte e tre le grandi religioni. L’evento
imprevedibile della rivelazione di Dio ad Abramo inaugura un evento nuovo. Il monoteismo
biblico si afferma e manifesta nella storia e dentro la storia. Dio si rivela gradualmente
come unico Dio nella vicenda storica di Abramo e dei patriarchi. Non sono verità
estrinseche da me da sapere, ma è dentro la storia dei patriarchi e poi mia. La storicità
entra in modo intrinseco nel monoteismo. Il monoteismo non è una teoria perché non
rimane ferma indipendentemente dalla storia di chi incontra Dio.
Caratteristiche del monoteismo rivelato:
- Dio instaura un dialogo, parla ad Abramo
- alterità di Dio rispetto al mondo. È trascendente. Non è creatura;
- gratuita prossimità all’uomo e al mondo. È trascendenza ma si prende cura. È altro ma è
prossimo;
- signoria universale su mondo e storia e nella creazione;
- nullità degli altri dei. (La consapevolezza monoteista matura piano piano)

1.2.6. Due precisazioni

A) Sul concetto di monoteismo


Bisogna distinguere tra unico e uno. Dio uno e unico sono due
sfumature diverse.
- Unico: significa anzitutto l’esclusione di altri dei per me. Significa di
avere come unico dio Adonai. (Abramo era convinto che gli dei egizi
esistessero, ma lui confessava per se solo Adonai) È l’unico per me, ma
non esclude l’esistenza di altre divinità.
- Uno: Dio, in senso proprio può essere in sè solo uno, in senso
metafisico. A questo concetto Israele arriva dopo l’esilio

B) Sulla logica della rivelazione del Dio Unico e Uno


Il monoteismo rivelato non è un dato di fede acquisito una volta per
tutte dall’inizio. CI vuole tempo perché si comprenda ed è un’evento
che si comprende nella rivelazione progressiva e graduale. Dio
rispetta, nel rapporto di amore, il suo partner. Al bambino non dai la

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bistecca, ma il cibo adeguato alla sua capacità di nutrirsi. Se avesse
detto ad Abramo di amare per i nemici e pregare per i carnefici,
sarebbe stato incomprensibile.
“Io sono colui che sono” Esodo 3, 14.
In N.T. l’io sono, si dischiude come un fiore nell’io sono di Gesù. Gesù
dice io e il Padre siamo uno. Gesù tante volte dice “io sono… la vite,
la luce….”, e la gente si scandalizza del fatto che dice di sè “io sono”.
Dicono che bestemmia perché pretende di avere la stessa identità
personale di Dio.
Io (identità) e il Padre (alterità) siamo uno (unità). Unità e alterità
assieme.
Gesù non riafferma solo il monoteismo dei padri, ma introduce
l’interiorità della vita di Dio. Rimane il monoteismo, ma si apre dal
suo interno nella forma trinitaria.

Ciò implica due importanti conseguenze:


—> Gesù entra a definire il volto di DIo. La sua unità e unicità non si
può più comprendere fuori dal rapporto tra Padre e Figlio nell’unità
dello SS. L’unità di Dio si comprende a partire da ciò che Gesù rivela
sulla vita interna, sul volto, di Dio. Non c’è rivelazione trinitaria s non
in Gesù. Adonai è il Padre suo e loro sono una cosa sola nella Spirito.
Non c’è teologia trinitaria senza cristologia, ma la cristologia non la
abbandoni quando arrivi alla trinitaria. Ogni discorso trinitario ha
radice cristologica e viceversa.
—> noi veniamo gratuitamente introdotti nello Spirito nel rapporto
che Gesù vive con il Padre nell’unità dello Spirito.
Gesù ci rivela la trinità, ma oltre a questo, per il fatto che noi siamo
innestati in Cristo, siamo figli nel Figlio e partecipiamo alla vita
Trinitaria. È un mistero in cui, nel battesimo, sono introdotto.
Indaghiamo un mistero in cui siamo partecipi. In noi vive già lo Spirito
del Padre e da tale partecipazione conosciamo qualcosa della Trinità.
Teologia trinitaria allora la può fare solo un battezzato. Un non-
battezzato può studiare la trinità e capirla meglio, ma non fa
l’esperienza del mistero in cui è introdotto per grazia.
Metodologicamente non si comprende la Trinità da fuori, ma solo
da dentro. La teologia è riflessione sulla fede e quindi solo nella
partecipazione piena si da appieno. La Trinità è mistero effusivo, che
vuole farsi conoscere, e che si conosce entrandoci. Non è un quadro da
ammirare ma un evento in cui entrare.
(C’è grande legame tra la Trinitaria e la partecipazione all’eucarestia,
luogo in cui assumo come chiesa la postura migliore per conoscere

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Dio).

Il punto 1.3 leggi da solo. Pag 42 a 46.

Poi vai a pag 77

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3. IL METODO E IL RITMO DELLA TEOLOGIA TRINITARIA


Pag 77.

Le questioni di metodo sul trattato

3.1 DALLA DISTINZIONE TRA DE DEO UNO E DE DEO TRINO AL


CRISTOCENTRISMO DELLA RIVELAZIONE

Questo paragrafo fa ripercorrere il modo in cui si è formato il trattato che studiamo e ci


soffermeremo sul ‘900.
Quando nasce il trattato sul mistero di Dio?
I trattati scolastici nascono nelle grandi summae dove tutta la teologia si affronta insieme
senza dividere in ambiti.
Nell’antichità non esisteva la divisione di oggi. La teologia in antichità si faceva per il
pulpito, per la predicazione e non per lo studio. Nel parlare di Trinità anticamente si parlava a
partire dalla scrittura e fino alla scolastica si faceva una trattazione integrale. Si usava la
ragione e la scrittura per far vedere i contenuti della fede. La ragione era usata per mostrare
la ragionevolezza di quanto affermato dalla fede.
Nella scolastica il trattato sulla Trinità si divide in due:
- de deo uno;
- de deo trino.
Due trattati separati, fatti da docenti diversi. Cosa affrontavano?
Nel de deo uno, l’unicità… era di natura filosofica, e mostrava le cose a cui arrivava da sola
la ragione su Dio. La rivelazione non entrava. Sola ragione
Nel de deo trino, a partire dalla rivelazione e dal magistero si faceva vedere come Dio fosse
Padre, Figlio e SS. Erano una lista di citazioni scritturistiche e magistrali poi commentate.

Si perde il fatto che la Trinità rinnova il concetto di monoteismo di cui dicevamo prima. È
una scissione dolorosa. Come se la scrittura non potesse dire nulla sulla ragione. Questa era
la divisione fino al CVII.

3.1.2 Per una rilettura del De Deo di Tommaso d’Aquino

La distinzione tra de deo uno e de deo trino secondo la tradizione l’avrebbe fatta Tommaso.
Lo trovavano nella summa teologiae… noi sfateremo il mito quando si arriva a Tommaso.

3.2 L’«ASSIOMA FONDAMENTALE» DI KARL RAHNER E LA RIARTICOLAZIONE


DI “ECONOMIA” E “TEOLOGIA”

Pag. 89

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La manualistica divisa crolla dopo il CVII.
Uno dei grandi a fare questo è Rahner. Lui ha proposto “assioma fondamentale”, ovvero
l’affermazione fondamentale che va fatta per fare in modo serio teologia trinitaria. Questo è
un punto di non-ritorno per la teologia. Tutti gli autori del tempo hanno fatto una recensione a
questa dichiarazione. Rahner scoperchia il vaso di Pandora e rompe coi due trattati, facendo
crollare un’impostazione che andava avanti da secoli.
Qual è l’assioma fondamentale?
“La Trinità economica è la Trinità immanente, e viceversa”

Economico è letteralmente il modo in cui si dispone la propria casa e le proprie cose. Noi
parliamo di economia della salvezza quando intendiamo il modo in cui la Trinità ha
disposto le cose nella sua casa (mondo) e le ha portate avanti in vista dell’Alleanza. (È la
storia della salvezza. La trinità per come si mostra nella storia).
Immanente è ciò che è stabile, in sè, Dio al di là della sua relazione con il mondo.

Rahner dice che la trinità economica è quella immanente intendendo che la Trinità si è
fatta conoscere per com’è e che non si è fatta conoscere diversamente da ciò che è in sè.
Dio ha comunicato la verità di ciò che lui è in sè. Rahner aggiunge poi “VICEVERSA”. Dire
che la trinità immanente è quella economica ha scatenato molto critiche.
Preso alla lettera la formulazione manda all’aria la formulazione su Dio dei trattati classica (
de deo uno, de deo trino). Prima l’essenza era diversa dal rivelarsi. Il Dio immanente era
filosofia, mentre il dio economico era solo nella storia della salvezza. Rahner dice che il
Padre Figlio e SS non è diverso da ciò che Dio è in sè. Non si dice a noi in un modo ma poi in
sè è altro.
Sul viceversa anche noi abbiamo dei dubbi.

3.2.1 Genesi e significato (dell’assioma)

La genesi è l’irrilevanza pratica e teorica della Trinità nel vissuto cristiano e poi la
separazione tra l’aspetto soteriologico e quello rivelativo. La Pasqua era vista come evento
salvifico e non come evento in cui Dio si rivela. Non si disgiunge l’aspetto economico da
quello immanente. Da quello che Dio fa si capisce chi è. Rahner fa poi due esempi di due
tesi teologiche fino ad allora prese in modo pacifico. Sono punto A e punto B.

A) La questione dell’incarnazione
si enuncia solo. A pag 92-93.
Fino a pochi decenni fa nella teologia cattolica era data per pacifica
una tesi teologica anche se non c’era un pronunciamento del
magistero. Era tesi di Tommaso data poi per sicura. Si diceva che
“qualsiasi delle tre persone divine avrebbe potuto incarnarsi”. Di
diritto potevano incarnarsi anche le altre due anche se di fatto lo ha
fatto uno. È una tesi che dal 1200 al 1960 ritenuta vera è falsa. Se il
Figlio si incarna dice qualcosa di Dio, e che la differenza personale

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si palesa nel modo di agire. Se si incarna la II persona del Figlio, ci
dice qualcosa dell’esistenza eterna del Figlio. Le creature hanno la
postura del figlio perché si ricevono nel tempo, come il figlio che si
riceve da sempre. Nell’incarnarsi chi si incarna? Chi attraverso cui
tutto è creato.

B) La questione delle missioni “ad extra”


Non è una tesi teologica ma dogmatica. Risale al concilio di Firenze
(1400). Quando la trinità opera ad extra (non in sè ma nel mondo) le
opere di Dio sono uno. Non è che il Padre fa una cosa, e il Figlio
un’altro. È Dio che fa. È una tesi vera. Se fossero più opere avremmo
più dei. Rahner fa notare che la tesi è giusta ma fa cogliere che questa
tesi nella sua ermeneutica la teologia non l’abbia interpretata con tutte
le ricchezze (cioè che nell’opera si vede che è comunità di amore
diverse dall’operato di Allah). Il deficit trinitario porta a seguire una
tesi dogmatica giusta ma interpretandola in modo errato. Dio fa
un’opera unica, ma è un’unicità che è comunità.

3.2.2 Recezione critica e riformulazione

A) Le critiche al “viceversa”
Le critiche più feroci sono state sul viceversa. Mentre si deve dire che
la trinità economica è quella immanente non si può dire il contrario.
Ovviamente ciò che noi possiamo conoscere di giusto di Lui perché
Lui c’è l’ha rivelato non può essere tutto ciò che Dio è in sè. La
nostra conoscenza vera è finita ma Lui è infinito.

B) La proposta della Commissione Teologica Internazionale


Lo leggiamo noi. Pag 96
Non è magistero ma è un organismo della congregazione cattolica della
fede. Luogo di teologia più importante della Santa Fede dopo il
magistero.
La CTI ha recepito la provocazione di riportare in centro alla
teologia la Trinità. Prende Rahner, ma prende le distanze dal
viceversa.

3.3 L’EVENTO PASQUALE, ATTO ESCATOLOGICO DELL’AUTOCOMUNICAZIONE


DI DIO TRINITÀ

È sempre metodologico e porta un’altro grande fulcro teologico: la messa a tema dell’evento
pasquale come auto-comunicazione di Dio.
Si dice evento e non mistero. Dice storicità. È atto escatologico, definitivo, totale della
comunicazione di sè di Dio.
Mettere al centro la Pasqua come nucleo dal quale tutto parte ha diverse motivaizioni.

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3.3.1 Le ragioni e le figure
Le cause che hanno spinto il rinnovamento.
- attenzione allo svolgersi effettivo e concreto dello svolgersi della storia della rivelazione.
La Storia ha valore nella rivelazione
- non solo la storia della rivelazione ma soprattutto la storia di Gesù. Grade spessore qui.
- il significato rivelativo della passione e morte e non solo soteriologico.

La centratura pasquale è dovuta a:


- sfida a immagine di Dio posta dalla crisi della onto-teologia e dalla crisi della morte di
Dio. Se cade la filosofia millenaria cade il volto di Dio granitico.
- l’interrogativo bruciante che veniva dalle tragedie del II° conflitto mondiale, dall’olocausto,
dal male in proporzione tale. Cade l’idea astratta e metafisica di Dio che non regge alla prova
della storia.
- Edith Stein, Chiara Lubich, Von Speir, Delbrel…. Donne che reintegrano la pasqua.

3.3.2 I guadagni e le prospettive

Fate voi… pag 104.

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PARTE BIBLICA
(Primo Testamento)
3. JHWH, IL DIO UNICO VIVO E VERO (questo super
importante)
3.1 Un sintetico sguardo diacronico
Diacronico vuol dire guardare un fenomeno nel tempo passo per passo. Sintetico è uno
sguardo che tiene per tutto per trovarne le categorie…
Coda dice un sintetico sguardo diacronico. Il monoteismo non è avvenuta di colpo.
Israele è arrivato progressivamente alla fede nel Dio unico.
Ci sono 4 grandi epoche nelle quali matura progressivamente il monoteismo
ebraico.

1) da chiamata di Abramo ai Patriarchi (1850 a.c. - 1250 a.c.)


Questo primo periodo vede una fede non monoteista. Si parla di enoteismo o
monolatria (culto ad uno solo). Abramo Isacco e Giacobbe non escludono che ci
siano altri dei, ma il clan di Abramo ha come Dio JHWH.

2) Esodo da Israele a Canaan (Jhwhismo) (1250 a.c. - )


Il Dio di Abramo manifesta a Mosè il suo nome. Per Mosè è pacifico che gli Egiziani
abbiano il loro Dio, ma Mosè può chiamare Dio per nome.

3) Israele entra nella terra promessa e da nomade diventa sedentario (inizia


monarchia chiesta dal popolo (1050 a.c. circa)
Dal polijhwhismo al monojhwhismo. Prima si rendeva culto ad Adonai in tanti
santuari e luoghi di culto legati alla storia dei patriarchi. Nella monarchia si
centralizza per dare unità al regno e per questo si giunge ad adorare solo sul
monte Sion, a Gerusalemme dove viene costruito il tempio.

4) Dopo l’esilio Babilonese (VI secolo a.c.)


Adonai non è solo l’unico Dio per noi, ma per tutti. Gli altri dei sono legno,
argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Adonai è l’unico creatore di tutti. Gli
idoli delle altre genti non esistono.
Si guadagna questa idea dopo l’esperienza dell’esilio. Uno conto è avere terra, un
conto è giungervi, un conto è esservi esiliati. Ma come mai l’esilio porta all’affermarsi

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del monoteismo assoluto?
Nella mentalità antica tutto ciò che accade è riferito sempre come causa prima
al divino e non esistono le cause seconde. (Es. in guerra vince chi ha le divinità
più forti). Si pensa… Adonai è più forte degli dei egiziani ma meno di quelli
babilonesi. È uno scacco religioso. Nella deportazione sorge il nucleo del
profetismo che dicono che si è andati in esilio non perché Adonai sia debole ma
perché il popolo era stato infedele e aveva peccato. Sono stati adulteri.
Allontanarsi da Dio significa avvicinarsi alla morte.
E perché è così?
Perché gli dei degli altri non esistono, e quindi non si può dire che gli dei degli
altri sono più forti, ma che allora era il popolo che era stato infedele.
Da qui si scrive Esodo e Genesi (si tramandava ma ora scrivono) (se Dio è a origine
del mondo è uno)

3.2 Il doppio livello della nominazione di Dio


C’è una fase più antica, prima che Dio consegnasse il suo nome. (Io sono colui che
sono, JHWH). Prima lo chiamavano col nome comune di Dio “EL”.
El è il corrispettivo del nome comune “dio”. El al singolare o al plurale Eloim.
Dall’esodo in poi dirà Adonai scrivendo JHWH.
MA tutti i popoli antichi dicevano “EL”. Israele per differenziare il suo dio gli accosta degli
aggettivi. Israele vuole dire l’eccellenza del proprio dio rispetto agli altri. Usano il temine
volentieri al plurale maiestatis “ELOIM”.
Alcuni aggettivi sono Dio-altissimo, Dio-onnipotente-della-montagna, dio-eterno.

Dopo Esodo, e l’indicazione del nome questa denominazione cadrà. (Il grido di Gesù di
abbandono… non dice Adonai, ma dice Eli, usa il nome generico di Dio… c’è l’esperienza
di ogni uomo lì, e non solo dei giudeo-cristiani.

3.3 Il Dio di Abramo e dei patriarchi


Qui sono condensati gli elementi centrali con cui Dio si fa conoscere
progressivamente ai patriarchi. In Abramo comincia a disvelarsi.
Sono 7 caratteristiche.
- il Dio di Abramo chiama ad uscire, a camminare nella storia, rompendo con la ciclicità
dell’ordine naturale. È un Dio che crea storia. Quando entra nella vita Abramo crea
una rottura. Da lì non sarà più la stessa cosa. La storia non è più ciclica (modo
antico di vedere) ma è aperta verso il futuro.
- È un Dio che prende l’iniziativa del dialogo. Dio parla e quindi è necessario un
partner con cui parla. Vuole relazione. Tutt’altro che ovvio che un dio avesse parlato ad
un uomo.

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- È un dio che promette, che si impegna per il futuro di Abramo e della discendenza.
Promette discendenza e terra ma promette anche di essere sempre con lui. (Noi
abbiamo in testa un dio che chiede, mentre nell’esperienza dei Patriarchi c’è una
promessa… anche se chiede di andare)
- Il Dio di Abramo rimane misterioso nella storia. C’è e agisce, si fa molto vicino, ma non
è uno come te e rimane trascendente. Conserva tutta l’alterità di fronte al mondo.
- la realtà più significativa è il fatto che si rivela come persona. Si rivela come un
soggetto capace di volontà, passione e amore, al pari di un “io”. Si mostra amico
dell’uomo. È il Dio di Abramo Isacco e Giacobbe. È amico personale nostro.
- il rapporto personale con Abramo si apre ai molti. La prossimità ad Abramo deve
diventare luce per illuminare le genti. Israele è un popolo scelto per dare dio a tutti.
Questo Israele non lo ha mai mandato giù. Non ha mai avuto missionari. È un dio che
vuole darsi a tutti, effusivo e chiederebbe agli ebrei di mediare.
- la risposta adeguata al mostrarsi e al rivelarsi di Dio ad Abramo è la fede. Dio fa
molto per te e a te chiede la fede. Senza il “si” di Abramo, l’alleanza rimane potenzialità.
La rivelazione è piena quando è colta. Se non è colta non è rivelazione. Se nessuno
ascolta non c’è alcuna rivelazione. (La fede non è il tributo da pagare ma ciò che l’uomo
deve fare perché si dia il rapporto)

3.4 Mosè e la rivelazione del Nome


Qui siamo di fronte all’evento fondatore.
L’inizio è Abramo, ma il battesimo della fede di Israele è esodo (non genesi). Qui si
rivela l’origine. L’evento fondatore è l’evento in cui si crea una crepa nel tempo in cui
per un attimo si rivela il voto dell’origine.
La vicenda della consegna del nome a Mosè va inserita in tutta la vicenda dell’esodo. Il
contesto di esodo qual’è?
Il contesto di un popolo che non sa ancora di essere un popolo. Sono un clan, i discendenti
di Giacobbe. Sono gli egiziani che li vedono un popolo pericoloso perché sta aumentando di
numero. Sono schiavi. Dio interviene affidando la missione di liberare il popolo. Segue la
rivelazione, la fuga e poi l’alleanza sul monte Sinai. Una volta liberati sul monte c’è
l’alleanza tra Dio e Israele che diventa popolo proprio qui. L’alleanza sintetica è il
momento di coscienza ufficiale in cui il popolo capisce di essere tale.
Dio a Mosè dice di togliersi i sandali e poi dice che Dio ha udito il lamento, e visto la
sofferenza ed è sceso per liberarlo. L’esodo nasce da Dio che vede la sofferenza e
ascolta il suo popolo. (Ascolto è prima cosa che il verbo incarnato fa). In esodo Dio si
presenta come colui che ha ascoltato e visto e anzitutto le situazioni di sofferenza.
IL PRIMO ASPETTO DI DIO CHE ISRAELE CONOSCE NON È IL FATTO CHE DIO È CREATORE, MA IL FATTO
CHE DIO LIBERA, IN QUANTO DIO SALVA. DIO È IL LIBERATORE. COSÌ CONOSCONO DIO. DIO SI È
MANIFESTATO PER LIBERARCI. L’ESPERIENZA FONDAMENTALE È DIO CHE TI PRENDE NELLA PARTE PIÙ
BASSA IN CUI SEI E TI SALVA E LIBERA. QUESTA È LA PRIMA ESPERIENZA. Non possiamo estrapolare

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la rivelazione del nome di Dio da questo contesto vitale espereienziale e drammatico. Non
è una lezione di metafisica. É dramma.
Per parlare a Mosè Dio gli chiede di togliere i calzari. Mosè si avvicina vedendo un
roveto che non brucia ed è incuriosito. C’è una condizione necessaria per ascoltare
qualcosa di Dio. Non ci si avvicina a Dio come ad uno spettacolo interessante e da
decodificare, ma ci toglie i sandali, cioè togliere ciò che difende da un cammino che
chiede di esporsi. È l’atteggiamento di chi sa che il luogo in cui cammina e santo e
non può calpestarlo.
Riconosci la grazia in cui sei, non è uno spettacolo o qualcosa da possedere.

A Mosè, Dio appare nell’angelo, nella fiamma del roveto e nella parola rivolta a a
Mosè.
L’angelo del Signore è una locuzione che appare spesso in A.T.. è una locuzione per dire
il Signore. Per rispetto alla trascendenza di Dio si dice “angelo del Signore”.
Il simbolo del fuoco è simbolo della santità di Dio. Il Signore è un fuoco divoratore. Se dai
fuoco a qualcosa divora, mentre questo divora ma non consuma. Il contatto con Dio fa
ardere ma non brucia.
È un fuoco che parla dopo che si è fatto vedere in un segno, ma dopo che Lui ha udito.

—————

I racconti di vocazione di solito nella Bibbia hanno un cliché. Mosè è chiamato in


modo diverso da tutte le altre vocazioni..
- iniziativa di Dio
- il chiamato risponde con un’obiezione
- Dio risponde con la sua assistenza. Ti sembra troppo? Tranquillo, sarà con te.
- missione, il mandato
- un segno di conferma (non sempre c’è ma spesso).
Anche Mosè segue questo schema ma nel caso di Mosè non c’è un’obiezione ma 5. È
un tira e molla in cui il chiamato pone tantissime obiezioni. Ogni volta Dio risponde
donando qualcosa di rivelativo di sè. L’eccezione della rivelazione dice la straordinarietà
della missione.

Mosè ha 5 obiezioni:
- chi sono io per andare davanti al faraone?
(Problemi su sè. Mosè è un assassino scappato che è wanted. É uno che nonna radici, che
non ha pace, che si sente un apolide, un senza casa)
- chi sei tu?
(Incerto sono io, ma qual è il tuo nome… il primo problema è l’io, ma poi dio)
- essi non mi crederanno!
(Obiezione su sè, poi Dio, poi altri). Se non crederanno non vale la pena.
- non posso parlare
(era balbuziente, incapace di fare l’oratore, e il Signore gli risponde consegnandogli un

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fratello, Aronne, che parli per lui) (“il fratello per me sarà bocca e il fratello per me sarà
dio, potenza efficace di Dio accanto a me”)
- ti prego, manda un altro
(Il Signore dice “no, voglio te”. Il Signore vuole operare la salvezza con uno strumento
inadatto).

Questo è il contesto.
La rivelazione del nome vuol essere sia etimologica che teologica. Il nome di Dio,
“JHWH” (eie) è legato al verbo “AIA” che è essere, simile al verbo “HAIA” che
significa vivere, esistere, mostrarsi, operare. “EIE” mettere insieme vivere ed essere.
Per gli ebrei qualcosa è perché è vivo. Che qualcuno “è” vuol dire che è vivo e si
mostra, non ci sono le categorie metafisica. “Io sono” significa io sono vivo, mi
mostro, opero.
Sembra allora che JHWH si da tradurre con “egli è”… è un Dio che è all’opera ed è sceso
per liberare. Egli è vivo è presente e si mostra efficace.
“Io sono colui che io sono” diventa “egli è” quando di lui si parla in terza persona.

Nella fase più antica gli ebrei dicevano il nome ma nella fase maccabaica per
rispetto smettono di dire JHWH e iniziano a leggere Adonai.
La Bibbia dei ’70 usa il termine greco Kyryos.
L’ebraico antico non ha le vocali. Il fatto che per tanto tempo non si è detto ha portato a
non sapere più come fosse da pronunciare. I masoreti hanno preso le vocali di Adonai e
lo hanno messo su JHWH e se ne esce Geova. Ma i masoreti non sapevano come
pronunciare. La pronuncia autentica con tutta probabilità è quella conservata dai
samaritani e in altre zone antiche ed è JhWh.
Benedetto XVI dice che i cristiani mai hanno usato il nome JHWH per riferirsi a Dio.

3.4.3 «Questo è il mio nome per sempre»

A. La traduzione dei LXX e la «metafisica dell’esodo»


Quando accostiamo “io sono colui che sono” lo facciamo a partire dalla Bibbia
dei ’70, in una mediazione che pur non essendo fuorviante si allontana dal
significato specifico ebraico.
Io sono colui che sono ha preso valenza molto metafisica. Il greco dei ’70 ha
tradotto ego eimi ohon (io sono l’essente). Letteralmente avrebbe dovuto essere
ego eimi ego.
Io sono l’essente diventa in latino ego sum qui est.
L’io del primo io sono diventa un predicato del secondo participio. “Io sono
l’essente” o “io sono coli che è” hanno fatto leggere nei padri della chiesa che la
rivelazione avrebbe detto in modo chiaro ciò che la filosofia aveva detto un po’.
Dio allora è l’essere per eccellenza.

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“Io sono colui che io sono” può avere valenza metafisica? Certo! Dio
chiaramente è l’essere perfetto in sè e non ha bisogno d’altri, ma questo non è
quello che Dio voleva dire a Mosè. Dio non fa metafisica a Mosè, ma dice di
essere vicino a lui, di essergli prossimo e di essere liberatore.

B. La semantica originaria
La semantica originaria evidenzia l’efficace prossimità di Dio come colui che
vuole liberare Israele e chiede fedeltà e amore. Dio rimane misterioso, ma dice
di voler liberare. In tale contesto di voluta relazione si da il nome.
Il nome andrebbe tradotto “io sono colui che è qui con voi e per voi”. Dire sono,
verbo essere dice l’essere vivo e attivo.
Adonai è colui che siede nell’alto ma al tempo stesso piega i cieli e scende per
portarlo dove scorre latte e miele.

Dio si rivela nel liberare. Questo ti mostra la verità del mio nome.
Il verbo essere è all’imperfetto dovrebbe essere tradotto come “sono colui che
era, è e sarà con voi e per voi”.
Il suo intervenire a tuo favore è stato, lo sono adesso e lo sarò anche nel futuro.
Che Adonai ti sia vicino non vuol dire che perda la sua trascendenza però. C’è un
soggetto “io sono” ed un predicato “io sono”. Io sono colui che io sono rimane
sempre un po’ misterioso. Questo è il movimento del primo testamento: Dio si
svela ma la sua rivelazione è sempre un nuovo velamento. La conoscenza si da,
ma non esaurisce mai il mistero. Mentre ti avvicina ti mostra il suo mistero.
Dio consegna il suo nome perché il popolo si rivolga a lui diversamente dalle
altre divinità. È un nome che è un dono. Se il nome è io ti salvo, è un nome
ricco di prossimità, storia e relazione. Questo dono non si trova in “el” o in
“eloim”. Dio si rende nominabile quando in genesi invece aveva dato la
possibilità all’uomo di dare il nome alle cose.
Dio vuole farsi chiamare per nome dalla sua creatura.

3.4.4 Affidamento, avvento, riconoscimento


Come tutti i chiamati, ad un certo punto Mosè chiede un segno. Mosè chiede un segno della
verità e affidabilità della missione che sta dando. Dio gli dice “quando avrai fatto uscire il
paese dall’Egitto allora mi servirete su questo monte”. Il segno è posticipato. Prima compi
la missione e poi avrai la missione. Il segno non sarà tanto il monte, ma allora vero segno
sarà la fede. L’unica realtà che permette di aprirsi a Dio è la fede. Anche Gesù fa il
miracolo dopo la fede. È l’apertura di credito a Dio che fa vedere la sua opera.
A Mosè Dio chiede una fede prima ed anticipa la fede del suo popolo. (Della tomba di Mosè
non si sa nulla… i rabbini dicono che si sia consumato dalla missione al punto da nono
lasciare nessuna traccia).

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3.4.5 Conseguenze antropologiche e sociali
Studiamo noi.
All’assolutezza a Dio consegue anche l’assolutezza al prossimo. La misericordia che ti è stata
usata per liberarti usala per il fratello.

4. GLI ATTRIBUTI E GLI APPELLATIVI DI JHWH


In esodo vengono date le 10 parole. In genesi c’è scritto “Dio dice” 10 volte. Lì c’è la verità
dell’esistere, il venire al mondo per fare alleanza con Dio. Prima c’è il racconto di
alleanza, poi genesi. Dio da sempre pensa per l’alleanza e quindi crea.

Glia attributi sono le proprietà più proprie di Dio nel suo agire salvifico. Dio quando opera si
fa vedere così. Gli appellativi invece intendono dire chi sia.

4.1 Santità e misericordia

L’endiadi è una figura retorica quando si mettono insieme due appellativi che si
illuminano uno con l’altro.
Dio è santo è misericordioso. Sono due polarità diverse ma non devono mai essere staccate.
“Santo” (kadosh) in ebraico vuol dire “separato da” (la tribù di Levi, non ha preso terra, ma
è stato preso, e separato per il culto). Santità è separare una cosa dal resto per dirne
l’eccellenza.
Dio è per eccellenza santo, è separato, è trascendente. Non è il tuo amichetto.
DA sola questa caratteristica fa pensare ad un Dio lontano. Allora Dio è anche
misericordioso. “Esed” e “rachamin” (il primo maschile e il secondo femminile —>
l’amore di Dio è maschile e femminile). Dio ha esed, ovvero amore di benevolenza,
l’atteggiamento di voler fare bene a qualcuno ed essere fedele. Anche se tu mancherai
rimango fedele. È la virilità/solidità del voler bene. Rachamin dice le viscere della donna
ovvero la parte disposta all’accogliere la vita.
Esed e rachamin dicono vicinanza e prossimità.
Dio è santo e misericordioso. Proprio perché non è come te può essere così misericordioso.
Gli uomini quando vengono traditi spesso non rimangono fedeli.

Leggi capitolo 2,11 Osea

4.2 JHWH è Padre e Sposo

4.2.1 La metafora della paternità

Dio non è padre di Israele nel senso che lo ha generato, ma è metafora.


Come un padre si prende cura del figlio, così Adonai si prende cura di Israele.
Per dire l’amore che Dio ha per noi diciamo come l’amore del padre per il figlio. Ma
l’amore di adonai è perfetto ed ha una misericordia inumana. In Osea 11 Dio si
lamenta del popolo, descrive il rapporto Dio/popolo come un padre col neonato. Ma il
popolo è figlio amato e ingrato. Israele volta le spalle. Dio cosa fa? In italiano c’è scritto
che si commuove, ma in ebraico c’è scritto che Dio fa una capriola, ovvero cambia

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per andare incontro al popolo. Il capitolo finisce con Dio che dice che non verrà con ira
davanti all’ingratitudine perché è Dio e non uomo.

Nel Primo testamento la caratteristica del padre è centrale, ma a volte gli vengono dati
caratteri anche femminili.

4.2.2 La metafora della sponsalità

È una metafora più tardiva rispetto alla prima. È metafora anche questa. Si sviluppa
nell’esilio e post-esilio. I profeti dicono al popolo che non è vero che dio è debole, ma
che hanno tradito l’alleanza. L’alleanza umana più profonda è il matrimonio. I due
diventano una carne sola. I profeti prendono il matrimonio e ne fanno metafora per
dire che rapporto vuole Adonai col popolo. Israele deve essere una sposa fedele e non
adultera.
(Osea viene mandato a prendere per moglie una prostituta sacra, ma lei scappa e diventa adultera. Dio
manda Osea a riprenderla e lo invita a rimanere fedele. Dio quando dice ad Osea di riprendersi la moglie
adultera al chiama col nome delle donne vergini dicendo in qualche modo che l’amore di Dio rende il
cuore vergine) Quanto è tenace l’amore di Dio! Ridà la verginità a chi lo ha tradito.
Secondo la Bibbia ebraica la vetta più alta è il cantico dei cantici. Il cantico dei cantici è un
poema tra sposo e sposa e coro. Non c’è Dio, ma diventano simbolo di Dio e popolo.

5. LA PRESENZA DI JHWH ALLA STORIA E AL CREATO


Vedremo delle figure mediatrici con cui si cerca di dire la presenza di Adonai nella
storia. Il perno è la presenza perché sta scritto nel nome. Israele vuol dire che Dio è
presente, efficace e fa storia con Israele. È Lui che porta aventi la storia.

5.1 Tra alterità e prossimità

Coda richiama ancora. Qui come quando dicevamo prossimità e alterità. Più dici che è
santo (separato) più è prossimo (misericordioso).

Ci sono due tipi di mediazioni tra Dio e il popolo.


- dall’alto: non sono personali, ma potenze, energie, con cui Israele dice la potenza
attiva di Dio. Sono modalità con cui Dio si rende presente.
- dal basso: sono mediatori o testimoni umani che hanno il compito di dire al popolo
Dio.

Le mediazioni più importanti sono dall’alto perché vengono da DIo. In realtà anche
quelle dal basso dipendono da quelle dall’alto. Tra tutte le mediazioni dall’alto due in
particolare hanno mediazione specifica: la parola e lo spirito.
Parola e Spirito non sono pensate come due persone qui, ma diventano sempre
più importanti. Sono le due esperienze di comunicazione più importanti ovvero la

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parola e l’empatia.
Verso la fine del primo testamento c’è poi un punto esterno: parola/sapienza/spirito
vengono presentati quali come personificati (sapienza 8 —> dove sapienza sembra
qualcuno che ha architettato tutto).
Adesso vedremo alcune figure mediatrici:
- gloria
- spirito
- parola

5.2 La gloria di JHWH

La gloria di dio, in ebraico “cavod” significa pesante. Non solo il peso fisico ma il peso
del valore. Quando dio si manifesta lo fa in un modo che ne dice la grandezza,
eccedenza, il peso. Si dice la santità assoluta percepita dall’uomo.
La gloria è la manifestazione dell’eccellenza di Dio. Dio si mostra con una
manifestazione che fa vedere smisuratezza.
Ad esempio la nube numinosa. Il luogo per eccellenza che è segno della gloria? Il tempio
ma anche Sion. (Samuele quando entra per consacrare il tempio deve uscire perché una nube scende
sul tempio e gli impedisce di vedere. Dio prende possesso. Così anche gli altri sacerdoti successivi quando
entrano mettono l’incenso per ricordare quell’evento)

5.3 Il Soffio o Spirito di JHWH

Dalla protologia al compimento tutto è guidato dallo spirito di Adonai.


Il vocabolo spirito che viene dal “soffiare” è simile al termine anima. Coda fa notare che
tutti i ceppi linguistici più antichi trovano per dire Spirito una semantica vicino al respiro
o al soffio.

5.3.1 L’esperienza dello Spirito nelle religioni

In tutte le religioni si intuisce il fatto che respirare, l’essere in vita, ha a che fare col
sacro. Nelle altre religioni si parla di forza o di divino.
Nel caso di Israele l’esperienza comune del Sacro si colora dei caratteri personali.

5.3.2 Lo Spirito di JHWH

In Israele lo Spirito è di qualcuno, di un soggetto, di Adonai, e non una forza.


Ed è uno spirito che è donato da sempre. “Lo spirito aleggiava sulle acque”. Tutto
è creato ed è mosso nello Spirito. Con lo Spirito Adonai dona la sua forza vitale
alla creazione, agli uomini e poi soprattutto ad Israele per l’alleanza.

5.3.3 Il Messia e l’effusione escatologica dello Spirito

L’energia vivificante che Adonai vuole mettere nel popolo, Israele la pensa
come un’effusione escatologica dello spirito su tutti. Lo spirito si è posato su
Mosè, Elia… alcuni… allora Israele pensa che il compimento della storia

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avverrà con l’effusione dello Spirito su tutti. Allora tutti lo conosceranno non
per la legge ma per una conoscenza interiore. Piano piano matura nella
coscienza di Israele che l’effusione escatologica dello spirito avverrà
attraverso l’opera del messia. Il messia avrà il compito di preparare il popolo in
modo che Adonai possa dare il suo spirito a tutti.

5.4 La Parola e la Sapienza di JHWH

Il sostantivo ebraico “Dabar” è insieme parola e azione. L’ebraico è pratico. Ecco


perché la parola di Adonai è efficace, è performativa, realizza ciò che dice. Quello che dice
lo fa. Quando Dio parla crea la storia della salvezza. Quella che Dio dice al suo popolo
piano piano realizza quello che lui intende.

Tra tutte le parole, la legge, le 10 parole, sono parole di vita. Se osserverai queste parole
mettendole in pratica vivrai.

5.4.3 La Sapienza

La Sapienza è una figura tardiva, che si lega alla cultura greca. Il saggio per la
cultura greca è chi conosce il cammino e sa come andarci. Conosce il fine della vita
e conosce anche la strada per dare buon frutto.

Piano piano la parola (profeti) la legge (sacerdoti) e la sapienza (dei re)


cominciano a confluire nell’ottica del messia. Il messia racchiuderà in sè il meglio
della tradizione profetica, sacerdotale e regale.

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PARTE BIBLICA
(Nuovo Testamento)
Pag 262

Ci concentriamo qui perché il resto è stato fatto in cristologia.


Queste sono le lezioni più importanti del corso. Ciò che diremo è lettura teologica e ha già
valore sistematico.

3. L’EVENTO PASQUALE – ATTO DEL PADRE, DEL FIGLIO E DELLO


SPIRITO SANTO
Evento = qualcosa che accade. Un dramma ovvero un azione mentre è nel suo farsi.
Evento è qualcosa che accade ed è un accadimento denso di significato. Non tutto quello
che succede è un evento.
Atto del Padre, Figlio e SS, un unico “atto” e non atti… Atto al singolare ma di tre
persone. Un atto trinitario.

3.1 Gesù di fronte alla sua passione e morte

La morte per Gesù non arriva come un evento imprevisto. Man mano che Gesù inizia
il ministero pubblico riceve subito le ostilità delle autorità. Man mano che procede i
nemici sono più agguerriti. Gesù se ne rende conto e ad un certo punto si accorge del
disegno di morte che essi hanno per Lui (3 annunci di passione). Gesù capisce che l’esito
del suo ministero sarà tragico.
Gesù si renderà conto piano piano che la morte che preparano per lui è quella di croce, di
coloro che sono lontani da Dio.

3.2 La cena pasquale, chiave interpretativa e segno della nuova alleanza

Senza la cena che fa capire il sacrificio sarebbe cruento ed insensato. L’amore


incondizionato si comprende lì.

3.3 Due criteri di lettura

Noi leggeremo con due prospettive, una cristologica e l’altra trinitaria.


Occorre intrecciare i due punti di vista nel nuovo testamento.
La scena di passione, morte e risurrezione vedono come co-agonisti Padre e SS.
Co-agonismo: lottare assieme.
Leggeremo l’evento pasquale come un co-agonismo.
Una lettura drammatica e co-agonistica dell’evento pasquale.

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(Si dice che i giovani vogliono essere protagonisti della chiesa. Sarebbe narcisismo. Non vogliono che i
preti si tolgano la sedia e prenderla loro. Vogliono stare insieme sul palco. Un figlio vuole meno giochi ma
giocare con papà e mamma. Renderli protagonisti può essere un modo per renderli narcisisti come
facciamo noi e li lasciamo soli. Devi progettare insieme)
Gesù non vuole essere pro-tagonista, il primo che agisce, perché nella trinità non funziona
così, non è che uno agisce se gli viene lasciato spazio.

Tabella a pag. 269


Tutto da qui è diviso in tre momenti:
- passione (amore donarsi)
- morte (silenzio)
- risurrezione

Si vedranno passione morte e risurrezione come atto unico, prima come atto del
Padre poi come atto del Figlio e infine come atto dello Spirito. Noi non possiamo che

distribuire nel tempo ciò che avviene insieme.

3.4 L’evento pasquale atto del Padre

Dobbiamo fare epoché dal nostro modo di considerare la Pasqua di Gesù. La morte di Gesù
sulla croce è il fallimento della vita pubblica. Ogni sua pretesa su di sè e sulla vicinanza del
Padre nella morte trova il fallimento plateale. La morte di Gesù è la sconfessione di quello
che per tre anni aveva detto sul Padre.

3.4.1 La morte di Gesù, compimento del disegno d’amore dell’Abbà

Cosa ci rivela del Padre la passione di Gesù?


Gesù ha interpretato il suo destino, missione e morte come il compimento di un

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disegno di salvezza (annunci di passione, chicco che muore per dar frutto). Gesù ha
sempre interpretato il suo andare verso la morte come il compimento del progetto di
salvezza maturato nel cuore del Padre. Il Padre non vuole la morte del Figlio, ma il
Padre vuole la salvezza nostra. Lui ci vuole rendere figli e questo può avvenire solo
con l’assunzione del peccato da parte del Figlio. Gesù interpreta così il suo morire:
non come il Padre che vuole che lui muoia ma come obbedienza all’intenzione
salvifica del Padre. La morte non è un atto di giustizia vicaria riparativa. Il Padre
non vuole che qualcuno paghi ciò che gli è dovuto. Il Padre consegna il Figlio
come un atto di amore estremo, come manifestazione della misericordia del Padre
sul mondo. Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio per salvarlo. La venuta di
Gesù nel mondo sono letti come un atto di amore che non condanna ma salva. La
sua morte, è interpretata da Gesù come il gesto di consegna del Padre del Figlio al
mondo. Una consegna che il Padre non ritira, che porta fino in fondo, perché li si da la
salvezza che libera gli uomini.

3.4.2 Il silenzio dell’Abbà, attestazione paradossale della sua paternità

Se è vero che il nuovo testamento legge la morte del Figlio come un atto di amore del
Padre, dobbiamo essere onesti con lo scandalo. Un Padre così, quando il Figlio
muore, tace. Il Padre tace. Non dice una parola. Nei vangeli la voce già si era udita.
Non interviene non solo per non impedire al Figlio di morire, (1° scandalo —> non
salva da morte ingiusta), ma oltre a ciò non lo consola. (2° scandalo). Non salva ne
gli dice una parola di conforto.
Dio Padre di fatto abbandona Gesù al suo destino. È un verbo all’attivo. Non è solo
Gesù che si sente abbandonato, ma è il Padre che abbandona. È scandalo. Il Padre
che è solo amore, che è uno con il Figlio lo abbandona attivamente nella morte (cfr
442). San Giovanni della Croce ha affermato per primo questo. Dice che c’è
abbandono attivo.
Gesù rimase anche annichilito nell’anima. Ridotto al nulla. Non solo soffre addolorato.
Essendo lasciato dal Padre senza consolazione e confronto. E lasciato nell’aridità.
Nell’abbandono lì compie la cosa più grande salvando l’umanità. In quei momenti il Padre lo
abbandonò affinché scontasse interamente il debito delle umane colpe e unisse l’uomo con
Dio.

Non si può guardare alla croce come una teorema che funziona tranquillamente.
Noi siamo troppo abituati al mistero della croce. Forse col covid ci accorgiamo di
più che c’è il triduo e la pasqua. Avvertiamo poco il dramma che viene ripresentato.
Il Padre abbandona il Figlio. Perché?
Perché proprio facendo così il Padre si manifesta come Abba. È la massima
rivelazione della paternità di Dio.
La morte di Gesù deve far emergere qualche crepa nel nostro modo ideale di vedere
Dio.
Solo comportandosi così l’Abba si manifesta come Padre. Ma perché diciamo così?

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Il silenzio rivela la paternità non paternalistica. La paternità autorizza e fa
crescere. Il paternalismo è un esercizio di autorità che non fa crescere e fa
dipendere le persone.
Io posso evitare una sofferenza ad una persona che amo, alle volte, non per amore
suo ma per amor mio. Un figlio in una situazione di sofferenza inevitabile, alle
volte vede nel genitore il tentativo di toglierlo dal dolore per non soffrire a propria
volta. È un dolore grande non poter far niente per una persona a cui si vuole bene.
Costoso nell’amore è accettare l’impotenza di impedire all’altro di soffrire.
È sottile togliere la sofferenza all’altro per non soffrire io. Io non accetto di patire e
quindi gli tolgo la responsabilità.
Il Padre nel suo non intervento, nel suo silenzio, si presenta come un Abba e
permette al Figlio di andare fino in fondo, dando fino alla fine il dare la vita. Il
Padre è colui che genera, colui che da tutto senza trattenere nulla.
Ora se il Figlio è in tutto simile al Padre, quando Gesù manifesta di essere Figlio di
un Padre che da tutto senza trattenere nulla?
Quando Gesù da tutto senza trattenere nulla. Così mostra il Padre. Gesù si riceve
tutto, e quelle che vede fare dal Padre lo fa anche Lui.
Se il Padre avesse impedito al Figlio di morire gli avrebbe impedito di dare tutto. Il
Padre dando al mondo il Figlio da tutto ciò che ha. Se il Figlio sulla croce non
perde tutto non sarà identico al Padre. Il Figlio per essere Dio che dona tutto,
doveva perdere il Padre per donare tutto. Gesù perde anche il Padre per poterlo
dare a noi, e il Padre non glielo impedisce. Si da tutto quando si perde tutto.
Gesù arriva alla sua pienezza massima nella morte, dove tutto quello che poteva dare
lo ha dato. Il Padre non si sostituisce e non gli impedisce di vivere anche nella sua
umanità il dare tutto. Il Padre permette al Figlio di dare tutto, e il tutto di Gesù è il
Padre ed è per questo necessario che lo perda.

Padre e Figlio sperimentano la solitudine (non ontologica la relazione rimane), che è


distanza che non nega l’amore ma che fa spazio alla distanza negativa del peccato.

Vedi la gente che fa un anno di missione, che potrebbe sembrare un anno perso, ma lo
ritrovi decuplicato.

L’amore è perdere, è uscita da sè. La resurrezione di Gesù avviene dopo tale morte.
Non sei mai tanto te quando non sei te. Quando ti perdi per l’altro.

3.4.3 La paternità dell’Abbà nella risurrezione del Figlio

3.5 L’evento pasquale atto del Figlio

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3.5.1 La morte di Gesù, espressione della libertà estrema del Figlio

Sicuramente si espone alla passione in obbedienza al disegno del Padre ma non è mai
semplicemente passiva, ma anche attiva. È un’autentica scelta di libertà del figlio:
decide di donare la sua vita: Gv 10,18 “nessuno me la toglie, la offro da me stesso”.

Dentro il disegno malvagio dell’uomo Gesù sta realizzando la sua consegna libera,
questo conferma tutta la sua scelta messianica in cui vuole la salvezza del suo popolo.

“la libera decisione di Gesù è determinato dal rapporto di obbedienza e amore al


padre”

3.5.2 L’affidamento filiale a Dio dell’Abbandonato

La libera decisione di Gesù è determinato dall’amore incondizionato e fedele agli


uomini che si determina nell’amore incondizionato agli uomini. L’amore agli
uomini non è la conseguenza della fedeltà al Padre, ma il modo in cui tale fedeltà
concretamente si da. Sono due facce della stessa medaglia. (Noi alle volte viviamo
l’amore ai fratelli come conseguenza dell’amare Dio, ma Gesù dei due comandamenti
ne ha fatto uno unico!) Gesù dice che non esiste alcun amore più grande che dare la
vita per gli amici. L’amore più grande non è dare l’amore per il Padre ma per gli
amici. Il dare la vita per noi è allora la realizzazione dell’essere uno con il Padre.
Se dare la vita per gli altri è l’unico modo per amare Dio allora non c’è mai scontro
tra le due cose. Amando l’altro amo concretamente Dio. E non uso l’altro per
arrivare a Dio.
Florensky dice che toccare con mano Dio, se è possibile, è possibile solo attraverso
l’animo di un altro: un amico. Io tocco Dio solo nella vita di un altro elevato a
fratello. Dare la vita per il Padre coincide col dare la vita per gli amici. Dio è offerta,
non è mai chiusura, e apre.

A) Il grido dell’abbandono nei Vangeli di Marco e di Matteo

Marco e Matteo si concentrano su “Dio mio, Dio mio, perché mi hai


abbandonato”. Coda dice che tale grido, così enfatizzato può essere
inteso sia in senso teologico oggettivo (significato croce per un ebreo
—> morte per i senza dio, quasi che dio si penta di aver creato, e erano
ritenuti animali) e soggettivo (senso per Gesù —> dal Getsemani Gesù
piomba nella solitudine, abbandonato da tutti. Infine resta solo anche
nel rapporto col Padre. L’Abba diventa Eloi, termine generico). Gesù
si è reso maledizione, che sarebbe spettata a noi, perché si facesse

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benedizione a noi. “Dio lo fece peccato in favore nostro”. Gesù
muore nell’esperienza del non intervento di Dio, che probabilmente
lo stupisce. Vedere che fallisce e che è schernito lo porta a percepire
il non-senso della vita. Il non-senso è peggio della sofferenza che ha
un motivo. A Gesù è tolto anche questo. Perdere tutto può anche
riempire di senso. Può esserci la gioia del dono totale. Gesù sulla
croce perde la perdita. Non ha nemmeno gioia del fatto di donarsi
per qualcuno che cresce. Gesù perde tutto ma senza percepire la
gioia del dono. È privato, abbandonato anche della gioia della
perdita.
Questo e il grido non implica la disperazione. Il Padre rimane il Tu di
Gesù, anche se non lo sente più, anche se non avverte la gioia del
compiere l’obbedienza, del fare la missione. Questa è filialità. Lo
prega. Non smette di rivolgersi a Lui. C’è affidamento senza riserve.

B) L’affidamento al Padre nel racconto evangelico di Luca

Gesù è abbandonato ma si affida di nuovo senza riserve. Gesù sente


l’azzeramento dell’origine. Il Padre che è l’origine di Gesù tace.
Anche la Madre Maria tace sulla croce. Gesù è abbandonato sia
nell’origine eterna che temporale. La differenza sta nel fatto che è
Gesù ad abbandonare attivamente la madre. Questo è il modo di
Gesù di permettere alla madre di essere completamente unita a Lui,
in quanto da abbandonata, perde anche lei il suo tutto che è Gesù.
Il pensiero greco non accetterebbe che un abbandonato si affidi, ma
Gesù è Dio e non sottostà al PNC.
Nel vangelo di Luca, la misericordia, l’affidamento di Gesù al Padre
misericordioso è centrale in Luca. Sulla croce Gesù chiede
misericordia al padre per i crocifissori… È così vera del Padre
misericordioso raccontata nelle parabole che il padre perdona ai
crocifissori, che il figliol prodigo che chiede perdono dalla croce è
perdonato.
Gesù all’inizio del vangelo di Luca a 12 anni dice “perché mi
cercavate? Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre?” E
alla fine rimette lo Spirito, nelle mani del Padre. L’inclusione è data
dal fatto che il Padre è il suo tutto.
C’è reale affidamento.

C) “Gesù abbandonato è la fede”

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Chiara Lubich dice, in clima di scolastica, negli anni ’40, “Gesù
abbandonato è la fede”. Mette insieme abbandono e affidamento. In
tempo in cui fede era assenso dell’intelletto a verità rivelate.

(Pag 505 testo C. Lubich)


Se la natura umana è abbandonata non è che la natura divina va
avanti indisturbata, perché l’unione provoca la persona di Gesù a
sentirsi abbandonata. Gesù abita totalmente l’unità, ma se l’umano
sperimenta il vuoto, la persona lo sente, anche se ontologicamente
rimane unito. Unito ma distinto, distinto-distante. In tale distanza c’è
il carico dell’abbandono negativo che è il nostro peccato con cui noi
neghiamo attivamente Dio. Padre e Figlio si distanziano al punto da
portare dentro tutto il peso dell’umanità peccatrice.

(pag.509. testo C.Lubich)


Gesù abbandonato è la pupilla dell’occhio di Dio sul mondo. Un vuoto
attraverso cui Dio vede il mondo. Ma è anche la finestra dell’umanità
attraverso cui si vede Dio.

3.5.3 La risurrezione di Gesù, epifania della sua figliolanza

Gesù mostra di essere veramente Figlio. Il centurione dice che quel morire preciso lì
porta a riconoscere che Gesù era il Figlio di Dio. Nel grido il centurione lo riconosce.
Il grido di abbandono è rivelativo dell’identità del Figlio e di Dio Abba. Gesù pur
essendo figlio imparò l’obbedienza da ciò che patì. Gesù guadagna nella sua
maturità il pieno dispiegamento dell’essere Figlio. Di pienezza in pienezza. E nella
morte c’è il fino alla fine.
Gesù è il Figlio perché si è manifestato fin nella morte come colui che non ha
trattenuto nulla, esattamente come ha visto fare dal Padre. Gesù ama fino alla fine
e per questo risorge, perché amare fino ala fine è la vita vera. L’amare fino alla
fine è la cifra dell’essere… altro che la gettatezza o l’essere-per-la-morte.

La resurrezione è tutta opera del Padre o è anche opera del Figlio?


È sia l’una che l’altra.
La risurrezione è opera del Padre. Ma è anche opera del Figlio. Gesù è resuscitato
dal Padre ma si può dire che anche il Figlio dia la vita e se la riprenda.
Il padre da tutto senza trattenere al Figlio. Il Figlio tutto restituisce al padre. Il Padre
da al Figlio di avere in sè la vita. Il Figlio ha ricevuto di avere in sè la vita. Gesù ha
in sè la vita e può riprendersela perché lo riceve dal Padre. Ma non è in seconda
battuta. È divino dare come ricevere. È divino il Padre che ridona e il Figlio che la
riprende.
La resurrezione è allora sia opera del Padre che del Figlio.

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Il figlio offre realmente la vita e proprio così la riprende. Non fa finta. L’amore che
più perdi più hai è lo SS.

3.6 L’evento pasquale atto dello Spirito

Come si rivela lo SS nell’evento pasquale?

3.6.1 La consegna di Gesù nello Spirito

Nei racconti evangelici l’azione e la presenza dello Spirito è molto presente,


soprattutto nei racconti di resurrezione. Lo Spirito si vede come dono del risorto (il
risorto subito già a Pasqua soffia lo Spirito), ma possiamo dire che se lo SS è il
vincolo/relazione tra Padre e Figlio, nella sua decisione di compiere al volontà del
Padre e la nostra salvezza, in Gesù tale decisione è spinta dallo Spirito. In tutti i
grandi momenti della vita di Gesù c’è lo Spirito che sospinge. (Vedi tentazioni
deserto).
È lo spirito che dall’interno muove la volontà di Gesù ad accogliere la volontà del
Padre. Non che Gesù non voglia, ma ispira. (Noi siamo liberi per amare di più —>
se amo sono libero… una libertà che vuole autorealizzarsi, fuori dell’amore non è
libertà. Dio è libero perché è amore). Lo Spirito da dentro spinge Gesù all’amore del
dare la vita fino alla fine (eb 9,14).
Lo Spirito santo è l’anima dell’anima di Gesù. È il centro eccentrico di Gesù. È
l’amore del Padre che riposa in Gesù. È lo SS che muove l’umanità di Gesù e lo
spinge al gesto di dedizione incondizionata. Lo SS plasma e sostiene la libertà di
Gesù nella passione.

3.6.2 La sete dello Spirito

Nella morte/passione normalmente non si trova il lemma “Spirito Santo”.


Quando si parla di SS si nota che è sempre più nascosto e difficile da definire rispetto
a Padre e Figlio. Questo nascondimento dice qualcosa di chi Lui è. Nascondimento è
una delle caratteristiche della III persona della Trinità. Non è solo un limite di
comprensione nostra, ma è proprio Lui che si nasconde.
Se il Figlio non avverte il Padre, allora lo Spirito che è il legame, in quel momento
sta trattenendo la sua luce. Anche lo Spirito vive la kenosi nell’amore. (Lo Spirito
prega in noi con gemiti inesprimibili). Se Gesù si sente abbandonato, vuol dire che
lo Spirito che è il soffio di amore che Gesù sente sempre del Padre, allora lo Spirito
si è ritirato vivendo una kenosi. Questa presenza/assenza dello Spirito sembra che sia
celata dal vangelo di Giovanni “ho sete” (sempre salmo 22). Nel contesto della
teologia giovannea la sete rimanda alla simbologia dell’acqua (Gv 4 Samaritana…
posso darti l’acqua viva / GV 7 chi ha sete venga a me, fiumi di acqua viva
sgorgheranno). Giovanni presenta lo Spirito come l’acqua che Gesù può dare. È
paradosso… come può la sorgente dell’acqua avere sete?

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Gesù realmente abbandonato, nello Spirito vede la ritiratezza. Lo Spirito non fa
sentire il Padre. Diventa un canale vuoto. Gesù ha sete perché in quel momento Gesù
sta perdendo tutto.
Gesù non è mai stato così unito al Padre come nell’abbandono, perché più perdi più
sei. Lo Spirito nell’abbandono è come una corda che si tende e tiene uniti Padre e
Figlio, che permette a Gesù di assumere il peccato facendo la scelta massima di
amore.

3.6.3 Il Crocifisso/Risorto fonte dello Spirito

Lo Spirito nella resurrezione è effuso alla comunità. Il messia avrebbe profuso lo


Spirito all comunità escatologica secondo le profezie. L’effusione dello Spirito di
tutti Giovanni la pone già nell’ultima cena. Giovanni pone morte resurrezione e
Pentecoste nello stesso evento. Giovanni mostra che anche quando mostra il morire di
Gesù, da già valenza pneumatologica. A) Il significato teologico dello “spirare” di
Gesù

B) L’effusione dello Spirito “nuova creazione”

Gesù nel morire, in Giovanni, non dice “spirò”, ma dice “chinato il capo, consegnò
lo Spirito”. Il verbo paradidomi, consegnare diventa tradizione. Con il consegnare lo
Spirito intende dire che consegna lo Spirito Santo al Padre, ma anche a noi tramite
Giovanni e Maria. Gesù non consegna al Padre o a noi, ma ad entrambi. Il Figlio ci
da di essere figli donandoci la relazione con il Padre. Ma chi è la relazione con il
Padre? Lo Spirito! E così ci rende capaci di diventare suoi figli.
Questa effusione dello Spirito è una nuova creazione.
Adesso la prima creazione si comprende: in vista dell’alleanza. L’alleanza, ovvero il
rapporto tra l’umanità e Dio è tale solo con la Pasqua, in quanto l’uomo è abilitato
a corrispondere alla volontà di Dio, perché dall’interno gli è dato quell’amore che è
più forte di ogni peccato. Come può una creatura limitata corrispondere
perfettamente all’alleanza con Dio che è infinito?
Perché con la Pasqua, l’uomo può amare Dio con lo stesso amore che Dio ama noi.
L’amore con cui il Padre ama il figlio e il figlio ama il padre è messo anche in noi.
Ciò che accade tra Padre e Figlio accade anche tra noi e il Padre.
Questo implica il cambiamento dell’amore verso i fratelli. Tra due battezzati, l’amore
con cui si amano è lo stesso amore di Dio. Amo il fratello con lo stesso amore con cui
il Padre ama il Figlio. (Rm 8 —> capitolo più bello su SS).

(Una madre che da la vita per la sua creatura non è ami così tanto madre. Dare la vita
sua per la sua creatura è logica dell’amore, non del mondo. Quando mi svuoto mi sto
riempiendo)

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3.7 L’evento pasquale, evento trinitario

4. LA FEDE TRINITARIA DELLA COMUNITÀ APOSTOLICA


4.2 Le formule trinitarie e gli inni cristologici nell’epistolario paolino

4.2.1 Le formule trinitarie

4.3 L’identità dello Spirito Santo in Paolo e in Luca

4.4.2 Lo Spirito nei “detti del Paraclito”

4.4.3 L’esser-uno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo

4.4 La teo-logia giovannea

4.4.1 Il Figlio-Logos nel Prologo

A) Il Figlio unigenito

B) Un’originale semantica del Logos

C) Una triplice novità

4.4.2 Lo Spirito nei “detti del Paraclito”

4.4.3 L’esser-uno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo

A) La missione del Figlio e dello Spirito

B) La reciproca glorificazione

C) “Dio è agape” (1 Gv 4, 8.16)

D) “Affinché siano uno come io e te” (Gv 17)

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PARTE STORICA
(c’è tanto e da memorizzare)

2. IL PERIODO PRE-NICENO: LA TRINITÀ VISSUTA E CONFESSATA NELLA CHIESA


2.2.1 Ireneo di Lione e la critica risolutiva alla gnosi
2.2.2 Tertulliano e l’invenzione del linguaggio trinitario
2.3 Due soluzioni non pertinenti
2.3.1 Il monarchianesimo
2.3.2 Il subordinazionismo
3. DA NICEA AL FILIOQUE: TRINITAS IN EXCELSIS
3.1 I Concili cristologici e trinitari del IV e V secolo
3.1.2 Il concilio di Costantinopoli I
3.1.3 In sintesi
3.2 La teologia trinitaria dei Padri Cappadoci
3.2.1 Basilio Magno: la distinzione tra oÙs…a e ÙpÒstasi
3.2.2 Gregorio di Nazianzo: l’unità indivisibile dell’oÙs…a e i caratteri
distintivi delle ÙpÒstasi
3.2.3 Gregorio Nisseno: il “che cos’è” dell’essenza e il “come è” delle
persone
3.3 La teologia trinitaria di sant’Agostino
3.3.1 La portata storica e teologica del De Trinitate
3.3.2 L’itinerario agostiniano verso Dio
3.3.3 Il metodo teologico
3.3.4 La dottrina delle relazioni
3.3.5 Il “luogo” della Trinità: l’amore reciproco e l’uomo interiore
3.3.6 L’apertura al futuro: l’essere di Dio è amore
3.4 La teologia trinitaria tra Oriente e Occidente e la questione del Filioque
3.4.1 Due diversi modelli di teologia trinitaria
A) Primato dell’economia e/o dell’ontologia?
B) Schema lineare e/o schema circolare?
C) Lo Spirito Santo: l’estremo e/o l’intimo di Dio?
I Concili di Toledo
6° Concilio di Toledo 638
11° Concilio di Toledo 675
3.4.2. La genesi e i termini della disputa intorno al Filioque
3.4.3. Il Filioque dai Concili del medioevo ai tentativi falliti di unione
3.4.4. Prospettive attuali di riconciliazione
3.5 Il concetto greco di “pericoresi” e quello latino di “circuminc/sessio”
3.5.1 La dottrina di San Giovanni Damasceno

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3.5.3 La Scolastica medievale
3.5.4 Il significato teologico
4. LA SCOLASTICA MEDIEVALE
4.1 Riccardo di San Vittore e la ripresa della via caritatis di Agostino
4.1.1 «Fides quaerens intellectum»
4.1.2 L’intuizione del “condilectus”
4.1.3 Un nuovo concetto di persona
4.2 Tommaso d’Aquino: la Trinità luce suprema dell’intelligenza dell’essere
4.2.2 L’ispirazione carismatica e le opere di Tommaso
4.2.3 Il superamento del neoplatonismo, la metafisica di Aristotele e il
trascendentale “aliud”
4.2.4 L’Esse per se subsistens e la creazione
4.2.5 Analogia psicologica e processioni
4.2.6 Le persone come relationes subsistentes
4.2.7 Trinità e creazione
4.2.8 Una contemplazione che accende il desiderio e l’attesa
4.3. Francesco d’Assisi e il cristocentrismo trinitario della tradizione
francescana
4.3.1. Francesco e la via del Crocifisso
4.3.2. Il cristocentrismo trinitario di Bonaventura
a) La novità dell’esperienza di Francesco come chiave della teo-
logia
b) Cristo come “medium” universale
c) L’anticipazione di “un nuovo stato della rivelazione”
5. L’EPOCA MODERNA: LA TRINITÀ A PARTIRE DALLA CROCE E DALLA STORIA
5.2.2. La theologia crucis di Lutero
5.4.1. La promessa mancata di Hegel
a) Una duplice novità: il non-essere come chiave del transito dalla
sostanza al soggetto
b) L’istanza ineludibile e il fatale fraintendimento

PARTE SISTEMATICA

1. IL NOVECENTO TEOLOGICO E LA TRINITÀ. PROSPETTIVE E QUESTIONI (lasciato


alla lettura degli studenti)
1.1 L’accesso alla Trinità
1.2 La Trinità: verità antropo-logica e/o teo-logica?
1.3 La dinamica trinitaria della fede e l’istanza di una nuova ontologia
1.4 L’ontologia trinitaria sprigionata dalle viscere della rivelazione
1.5 La creazione nella logica dell’incarnazione, l’incarnazione nella logica
della Trinità
2. L’ONTOLOGIA DELLA NATURA E DELLA PERSONA
2.1. Il linguaggio della sostanza/natura
2.2. Il linguaggio della ipostasi/persona
2.2.1. L’epoca antica
a) Nella dottrina trinitaria
b) In cristologia
c) In antropologia

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2.2.2. L’epoca moderna
a) L’uomo come soggetto
2.2.3. Nuovi orizzonti
3. PER UNA RIPRESA DELL’ONTOLOGIA DELL’UNITÀ E DELLA TRINITÀ
3.1. Le soluzioni classiche: nella teologia latina e in quella greca
3.1.1. Nella teologia occidentale
3.1.2. Nella teologia orientale
3.2. La crisi del Novecento e le nuove proposte
3.2.1. L’orizzonte della soggettività
3.2.2. L’orizzonte della comunione
3.3. Per una ripresa della questione
3.3.4. La pista tracciata da von Balthasar
3.3.5. In sintesi
4. L’UNITÀ E LA TRINITÀ DI DIO NELLA LOGICA DELLA RIVELAZIONE
4.1. Sul significato biblico dell’unicità e dell’unità di Dio
4.2. Unità relazionale, inclusiva ed effusiva
4.3. Il duplice linguaggio dell’unità di/in Dio
5. L’UNITÀ E LA TRINITÀ DI DIO NEL RITMO DI UN’ONTOLOGIA TRINITARIA
5.1. L’orizzonte dell’ontologia trinitaria
5.1.1. Un compito decisivo per il pensiero
5.1.2. Sul concetto di ontologia trinitaria
5.1.3. Sul rapporto tra rivelazione e ontologia
5.1.4. Una duplice prospettiva, soggettiva e oggettiva
5.1.5. Sul luogo cristologico di un’ontologia trinitaria della persona
5.2. Dalla relazione sussistente alla reciprocità trinitaria
5.2.1. La relazione tra le Persone divine
5.2.2. Analogia psicologica e analogia interpersonale
5.2.3. La dinamica agapica della reciprocità
5.2.4. Una reciprocità reciprocante e trinitaria
5.3. Il non-essere positivo dell’amore
5.3.1. I Greci: non-essere assoluto e non-essere relativo
5.3.2. Agostino: la predicazione del non-essere “in divinis”
5.3.3. Dal non-essere relativo al non-essere relazionale
6. PADRE, FIGLIO, SPIRITO SANTO1
6.1 Il Padre
6.1.1 Nell’economia
Paternità di Dio: evidenza della storia di Gesù
Paternità di Dio: non una metafora arcaica ma verità dell’evento di
Gesù Cristo
6.1.2 Nella vita immanente
Il Padre: principio dell’unità
Il Padre: l’origine è la donazione, reale e totale
Il Padre: protos e eschatos
6.1.3 Conseguenze
Paternità di Dio e ricettività filiale
La Paternità come donazione infinita e la menzogna del peccato
6.3 Lo Spirito Santo

1 Integrazione scritta al testo. Verrà fornita dal docente durante il corso.

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Un’identità nascosta e complessa
6.3.1 Nell’economia
La vita terrena di Gesù sotto il segno dello Spirito
Lo Spirito Santo nell’evento pasquale
Il rapporto tra Gesù e lo Spirito nel NT: l’unzione
A-priori pneumatologico della cristologia e a-priori cristologico della
pneumatologia
6.3.2 Nella vita immanente
La riflessione dogmatica dei primi secoli
La processione (spirazione) dello Spirito
La questione del Filioque
Il proprium personale dello Spirito Santo: un’identità-relazione
Lo Spirito Santo Amore-Dono
6.3.3 Conseguenze
La dimensione pneumatologica della fede
Due luoghi pneumatologici paradigmatici: l’epiclesi eucaristica e
l’intersoggettività

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